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Massimo Licari

Paralleli

EEE-book

Massimo Licari, Paralleli © Massimo Licari

Prima edizione: ottobre 2012

Edizioni Esordienti E-book

ISBN: 9788866901020

Foto di copertina: © Elisabetta Malacrida Gaeta Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

A Sabrina, compagna di tante vite

1 - L’inizio

Ho messo ordine negli appunti che ho preso in queste settimane più per me che per altro. Avevo bisogno di far chiarezza e ricostruire questa storia che ha dell’incredibile. Alla fine ne è venuto fuori un racconto che magari un giorno trasformerò in libro. Stefano l’ha letto e ha aggiunto diversi particolari che non ricordavo più, correggendo anche la forma, che ora è più scorrevole. Il nostro rapporto si è approfondito molto, e non poteva andare diversamente, visto quello che abbiamo ato insieme.

L’ho conosciuto un giorno di dicembre, quattro mesi fa. Paolo, mio amico d’infanzia, mi aveva parlato di una nuova libreria dalle parti di Siziano, un paese a sud di Milano, che vendeva libri e articoli esoterici. La Nuova Era. Lui è un apionato di astrologia, ufologia e di tutto ciò che va oltre la scienza ufficiale e, nel corso degli anni, ha contagiato anche me. Il mistero, la spiritualità e l’esoterismo mi affascinano molto, anche se mi sono sempre tenuto alla larga da cose che non posso padroneggiare. Già, perché mi piace avere il controllo della mia vita. Dirlo adesso sembra ridicolo, visto quello che poi è successo. Ma andiamo con ordine, cominciando dal principio. Un sabato d’inizio dicembre decisi di andare alla libreria Nuova Era. Telefonai la mattina a Paolo per chiedergli se voleva venire con me. Mi disse che non sapeva se era libero. Stava aspettando la telefonata di una sua amica con la quale avrebbe trascorso qualche ora. Era single, anche se in quel periodo frequentava molte ragazze. Dopo una relazione durata diversi anni e finita improvvisamente, era alla ricerca del “vero

amore”, che avrebbe cambiato la sua vita. Rimanemmo d’accordo che ci saremmo risentiti dopo pranzo. Verso le due dissi a Serena, mia moglie, che sarei andato a fare un giro in una nuova libreria esoterica. “Vai pure” mi disse. “Sai che quelle cose non mi interessano.” “Che cosa pensi di fare?” chiesi. “Magari telefono a Daniela ed esco con lei a farmi un giro a Milano.” Finii di prepararmi, la salutai e uscii da casa. Salii in macchina e presi il cellulare per chiamare Paolo. Mi sarebbe piaciuto are il resto della giornata con lui. Era l’unico amico intimo che avevo. Sapeva cose che non avevo mai raccontato nemmeno a Serena. E poi andare in libreria con lui era sempre piacevole. Guardavamo insieme i libri negli scaffali e li commentavamo. Ne sapeva sempre più di me, e difficilmente non aveva qualcosa da dire su un libro o un autore. Leggeva di tutto e mi raccontava un sacco di aneddoti che ascoltavo volentieri. Selezionai il numero tra le ultime chiamate e aspettai che rispondesse. “Ciao Marco” mi salutò. “Non posso venire con te oggi. Mi ha appena chiamato Elisabetta e sarà da me tra un’ora. Facciamo un’altra volta.” “Elisabetta” dissi pensieroso. “Una nuova fiamma?” “La conosco da poco. Non ne ho parlato prima per scaramanzia, ma penso sia quella giusta.” “Beh, te lo auguro con tutto il cuore. Ho perso il conto di tutte le ragazze con le quali sei uscito.” “Spiritoso. Non sono mica un playboy!” “Probabilmente no, ma ne hai conosciute più tu da quando Antonella ti ha lasciato che io in tutta la mia vita.”

“Sì, ma questa volta è diverso. Credo che con Elisabetta funzionerà.” “Vedremo. Allora in libreria ci vado da solo. Mi spiace.” “Anche a me. Poi mi racconterai le tue impressioni.” “D’accordo. Ci sentiamo, magari domani.” “Ok. Ciao.” Così avviai la macchina e uscii dal parcheggio. Da dove abitavo, in provincia di Milano, avevo tre quarti d’ora di strada da fare. Avrei preso la Milano - Genova fino alla tangenziale e sarei uscito sulla statale Val Tidone. Da lì mi rimanevano una decina di chilometri. Non mi è mai pesato guidare, anche in macchina da solo. Ho messo il cd di Buddha Bar, e mi sono avviato. Non avevo un obiettivo preciso o un libro da comprare. Volevo curiosare un po’, vedere che libri c’erano, se c’erano oggetti particolari e scoprire se il proprietario era un tipo simpatico. Percorsi la strada con calma, per gustarmi il viaggio, guardandomi intorno e beandomi con la mia musica. Non ricordo a cosa pensai lungo la strada. Ho tentato di rivivere molte volte quel pomeriggio in queste settimane, perché tutto è cominciato allora, ma non sono riuscito a ricordare nulla di particolare. Probabilmente lasciai vagare la mente senza una meta precisa. Arrivai a Siziano verso le tre. Paolo mi aveva detto che il negozio era abbastanza grande, con decine di scaffali pieni di libri. Non aveva esagerato. Quando entrai, mi guardai intorno soddisfatto. Calcolai che, solo per vedere le copertine, avrei trascorso lì le successive due ore. Ma avevo il pomeriggio tutto per me. Fantastico.

Stefano era il proprietario della Nuova Era. Un ragazzone dalla faccia simpatica, occhi azzurri e sguardo pulito. Un filo di barba incorniciava il suo viso rotondo, e i capelli, raccolti in una coda, arrivavano fino alle spalle. Indossava dei pantaloni indiani, con il cavallo molto basso, fino quasi al ginocchio, e molto larghi. Non era grasso, solo un po’ abbondante. Pensai, con una certa civetteria, che probabilmente si vestiva così per nascondere le sue forme. Anche la maglia era molto larga, in tema con i pantaloni. L’insieme era gradevole e il suo sorriso accattivante. Aveva modi gentili e molto femminili. Pensai subito che fosse omosessuale, ma la cosa non mi creava nessun problema. Dopo avermi salutato, tornò alle sue cose, risparmiandomi la domanda di rito dei negozianti: “Posso esserle d’aiuto?” Lo ringraziai silenziosamente, e cominciai a curiosare tra i libri. Era una situazione perfetta. Musica soffusa, profumo d’incenso e nessuno che ti metteva fretta per comprare qualcosa a tutti i costi. ai dall’astrologia alla medianità e poi puntai sulla religione e sulle pratiche spiritiche. Libri di Sai Baba, del Dalai Lama, di Osho. Libri sulle apparizioni mariane, sugli ufo, sui cristalli e i colori. Decisi che ci sarei tornato regolarmente e l’avrei consigliata a qualche amico che, come me, amava il mistero e la spiritualità. Alle sei, puntai con decisione sull’oggettistica. Anche in questo caso c’era solo da sbizzarrirsi. Candele, incensi, qualche sfera di cristallo, tanti minerali e qualche statuetta. Fu lì che, improvvisamente, la vidi. Era una medaglietta rotonda, color oro, con una collana a maglie strette, anche lei dorata.

Unico esemplare. Mi viene da pensare oggi che fosse stata lei a chiamarmi, ma non saprei spiegare questa sensazione, perlomeno, non razionalmente. Il mondo spirituale, e con questa definizione mi riferisco a qualsiasi cosa non appartenga alla sfera del materiale, è inconsistente, sottile, spesso non comprensibile. Tutti parlano di energie, di attrazioni a livello eterico. La verità è che sono tutte definizioni sostanzialmente vuote. Non si possono spiegare o insegnare. Provate a chiedere a qualcuno che dice di avere questa sensibilità di spiegarvi come funziona, che cosa sente esattamente. Vi racconterà tante belle descrizioni, ma alla fine sarete sempre insoddisfatti: se non le hai sperimentate, non puoi capirle. Beh, io non sentii nulla. Non ci fu una voce o un soffio sul viso, un bagliore o qualsiasi altra cosa. Però il mio sguardo cadde proprio su quella scatoletta apparentemente insignificante, un po’ defilata rispetto a tutte le altre cose che c’erano su quel bancone. Presi in mano la medaglietta e la guardai attentamente. Aveva uno strano disegno inciso, che non avevo mai visto prima. Sembrava un fascio di legni che tagliava in obliquo la medaglietta. Al centro, una corda le teneva insieme. La voltai e lessi la scritta: “Vitae Parallelae.” Ancora una volta, non saprei spiegare perché mi avvicinai a Stefano e gli chiesi che cos’era. “A dirti la verità, non so che cosa rappresenti quel disegno e la scritta dietro” mi disse. “L’ho trovata insieme a tutto quello che mi hanno spedito dall’India il mese scorso.” “È d’oro?” chiesi. “Non so rispondere nemmeno a questa domanda. Di solito l’oro è marchiato, mentre sulla medaglietta non c’è niente del genere. D’altra parte viene dall’India, e probabilmente è stata fatta in qualche villaggio sperduto. Potrebbe essere d’oro

come potrebbe essere una patacca.” “Beh, quanto costa?” “Sarò onesto con te. Non c’era nemmeno nella bolla che accompagnava la merce che mi hanno spedito. Forse è finita insieme al resto per sbaglio o forse era un omaggio, non so. Ne ho trovata una sola. Ti propongo un affare. Se fai un acquisto di almeno quaranta euro, te la puoi prendere. Omaggio.” “Omaggio?” “A me non è costata nulla, quindi non vedo perché dovrei fartela pagare. È su quel bancone da quasi un mese e tu sei il primo che l’ha vista. Se fai acquisti per quaranta euro, io ci guadagno e anche tu, prendendoti un omaggio. Così torni.” “Onestà per onestà: sarei tornato comunque. Mi piace questo negozio. Hai davvero un sacco di cose affascinanti.” “Grazie.” Allungò la mano e mi disse: “Io sono Stefano.” “E io sono Marco. Piacere.” La stretta era insieme vigorosa e delicata. Mi piacque. “Bene, Marco. Penso che qui non ci sia che l’imbarazzo della scelta, non credo che farai molta fatica a raggiungere i quaranta euro.” “Credo proprio che tu abbia ragione. Ho già visto diverse cose che m’interessano. Sono sicuro che alla fine mi porterò via la medaglietta.” Così feci di nuovo un giro e presi tre libri su cui avevo messo gli occhi. Il totale era di quarantacinque euro. Stefano mise tutto dentro un sacchetto e mi diede la scatolina. “Ecco il tuo omaggio” mi disse. “Spero di rivederti presto.” “Contaci” gli dissi mentre gli stringevo ancora la mano. “A presto.” Uscii, misi il sacchetto sul sedile accanto al mio e presi la scatolina con la medaglietta. La aprii e la osservai meglio.

“Vite parallele” pensai “chissà che cosa significa.” Un’altra cosa che non saprei spiegare in questo momento è il motivo per cui decisi di indossarla. Non so, sembrò un gesto così naturale, la logica conseguenza di aver preso quel ciondolo. “Se non è d’oro, probabilmente diventerà nera” pensai. “Per quello che l’ho pagata, non credo sia un problema.” E così mi avviai verso casa, con i miei libri e la mia medaglietta nuova. Se avessi saputo quello che mi aspettava, l’avrei comunque indossata? Sarò sincero, non lo so. Sono successe molte cose, anche pesanti, ma ho imparato tanto in queste ultime settimane. Forse dovrò pormi questa domanda quando questa storia sarà finita, anche se in realtà non so se finirà mai. In ogni caso, ormai è troppo tardi per chiederselo o per tornare indietro. Arrivai a casa verso le sette e trenta. Serena non era ancora tornata. Misi i libri sul comodino e presi il cellulare per chiamarla. Volevo sentire dov’era e se stava tornando. Rispose al quinto squillo, quando stavo per mettere giù. “Ciao. Mi sono appena messa in macchina per tornare a casa. Penso che sarò lì verso le otto.” “Se vuoi, andiamo a mangiare una pizza” proposi. “Sì, dai, non ho voglia di rimanere chiusa in casa questa sera.” “Bene. Quando sei qui vicino, chiamami, così esco e ti raggiungo in macchina.” Era un periodo un po’ turbolento per lei. La vedevo spesso nervosa e, quando le chiedevo come mai, rispondeva che aveva alcuni problemi al lavoro. Non mi aveva mai spiegato di cosa si trattasse.

Anche la nostra vita sessuale ne aveva risentito. Non se la sentiva. Spesso si metteva a letto e si girava dalla sua parte, dandomi la schiena, e io non la forzavo. erà, mi dicevo. Andammo in pizzeria e devo dire che fu una serata piacevole. Parlammo della mia giornata e della sua. Mi disse di essere stata in giro per negozi in centro a Milano con Daniela e di aver ato qualche ora tranquillamente. Avevano programmato di uscire anche l’indomani, domenica, fin dalla mattina. Avrebbero pranzato insieme e sarebbero andate al cinema. Che cosa potevo fare? Costringerla a rimanere a casa? Potevo tentare di farla sentire in colpa dicendole che mi avrebbe fatto are la domenica da solo? In vita mia non ho mai costretto nessuno a stare con me. Ho sempre pensato che ciascuno deve essere libero di scegliere con chi stare e quando. Tutto molto bello, molto saggio. Quando le cose prendono una brutta piega, però, ti domandi se hai fatto bene a comportarti in quel modo, o se avresti dovuto agire diversamente. Me lo sarei chiesto innumerevoli volte da lì a poco tempo. Ma in quel momento ero ancora pieno delle mie teorie, della mia saggezza da quattro soldi. ‘E poi’ ripetei a me stesso ‘lei sta attraversando un periodo difficile.’ Pensai che lasciarla libera di trascorrere qualche ora con la sua amica non potesse farle che bene. Così le dissi che mi sarei organizzato per il giorno dopo tenendo conto solo di me, magari cominciando a leggere i libri che avevo comprato quel pomeriggio. Mi ricordai della medaglietta che avevo indossato e gliela feci vedere.

“Carina” mi disse. “Che cosa significa la scritta che c’è dietro?” “È scritta in latino. In italiano sarebbe vite parallele, ma non so che cosa significhi. Anche Stefano, il proprietario della Nuova Era, non ha saputo darmi spiegazioni.” “È d’oro?” “Non credo, ma non lo so. Avrò una risposta se diventa nera rimanendo a contatto con la pelle. Visto che non ho speso un centesimo per averla, non sarà un gran danno.” Poi il discorso prese una piega diversa, e la medaglietta tornò a riposare sul petto. Tornammo a casa verso le dieci e mezzo. Lei decise di farsi una doccia, anche se era già tardi. Pensai che potesse essere il preludio a un po’ di sano sesso. Ne avevo voglia; direi anche bisogno. Così mi sistemai un po’, spruzzandomi del profumo e pregustando il piacere di poter accarezzare il suo corpo nudo dopo un’astinenza di diverse settimane. Mi misi a letto e, in attesa di lei, presi in mano uno dei libri appena acquistati: L’energia delle forme pensiero. Lessi qualcosa ma distrattamente, perché continuavo a immaginare quello che avremmo fatto io e lei tra qualche minuto. Ero eccitato, soprattutto mentalmente. Dopo venti minuti lei arrivò. Per smorzare qualsiasi mia velleità fu sufficiente quello che disse: “Finalmente a letto. Sono stanchissima e non vedo l’ora di dormire.” Probabilmente aveva anche scelto con cura l’abbigliamento da indossare per l’occasione: un enorme pigiamone, nel quale qualsiasi forma del suo corpo si perdeva nella stoffa. Così tutta la carica erotica che avevo accumulato sarebbe rimasta dov’era.

Non era giusto, ma non volevo costringerla. “Buona notte” mi disse. Spense la sua luce e si girò dandomi la schiena. “Buona notte” risposi mestamente. Continuai a leggere per un altro quarto d’ora, sforzandomi di soffocare la delusione. Provai ad accarezzarla, quasi con noncuranza mentre leggevo, sperando che potesse suscitarle qualche sensazione, magari qualche brivido. Credo che avrei ottenuto lo stesso effetto se avessi accarezzato un cuscino. Rinunciai del tutto quando il suo respiro divenne pesante. Spensi anche la mia luce e mi rilassai, cercando di svuotare la mente. Scivolai lentamente nel sonno e sognai.

2 - La tradisco

Non ricordo di aver mai fatto prima di allora sogni in terza persona. Solitamente, quando riuscivo a ricordare qualcosa, era tutto in prima persona. Non saprei dire se è normale o no, ma fino a quel momento era stato così. Sogni piacevoli, strani, eccitanti, orribili. Ma tutto sempre vissuto da me, dentro il mio corpo, dal mio punto di vista. Quella notte, invece, sognai di me in modo diverso. Potevo vedermi, come se fossi stato lo spettatore di un film. Quello che c’era su quello schermo virtuale ero io: il mio viso, la mia voce, il mio corpo. Soprattutto, i pensieri e le sensazioni. A differenza di quello che accade in un film, i pensieri di quell’altro me, arrivavano in qualche modo nella mia mente, a volte confusi, a volte molto chiari. Invece le sensazioni arrivavano forti e chiare. Una carezza data a lui era come se fosse stata data a me. Il gusto del caffè amaro che lui beveva, lo sentivo in bocca anch’io. Non avevo alcun controllo su quell’alter ego. Era sicuramente una persona separata da me, che agiva e pensava in modo autonomo. Non sapevo che cosa avrebbe fatto, a meno che lui non lo pensasse prima. So che può sembrare complicato, ma che cosa è stato semplice da quel momento in poi? Nulla. Non so bene ancora oggi se riferirmi a quel me stesso in prima o in terza persona. Rileggendo i miei appunti mi sono reso conto che a volte ho descritto le situazioni come se non mi riguardassero, altre volte come se le avessi vissute proprio io. Ho deciso di lasciare tutto com’è: mi è sembrato più genuino e reale. Comunque, eccomi lì, pronto per uscire da casa, come tutte le mattine, per andare al lavoro. Salutai Serena con un bacio, e uscii dalla porta della mia villetta, per raggiungere la macchina. Beh, quella su cui salii, non era proprio la

mia auto. Io ho un SUV della Volvo, mentre in quel sogno guidavo una BMW serie 3. Una differenza trascurabile? Forse. Avrei imparato presto che le differenze hanno la loro importanza, altroché. Nella mia vita reale, lavoro a Milano e mi occupo di informatica. Gestisco il sistema informativo di un’azienda di componenti elettronici. Non è un lavoro particolarmente eccitante, però mi piace e mi consente di gestire la giornata con una discreta autonomia. Anche Serena lavora a Milano. Lei è impiegata nella filiale di una banca. Solitamente io esco prima, per non perdere tempo in coda e perché dalle sette di mattina in poi, quando l’antifurto dell’ufficio si stacca automaticamente, posso iniziare. Andare a lavoro presto mi permette di leggere la posta, di fare le mie ricerche su Internet e anche di studiare, in modo da essere costantemente aggiornato, cosa che non avrei il tempo di fare durante il giorno, quando il telefono squilla continuamente o sono costretto a intervenire di persona per risolvere qualche problema. Così, vidi l’altro me stesso che dava un bacio a Serena e che usciva da casa. Salì sulla BMW e si diresse verso la tangenziale. Mentre ero in macchina, presi il cellulare e feci il numero di Bruno, un mio collega. “Ciao Marco” mi salutò subito lui. “Ciao Bruno. Ti disturbo a quest’ora?” “No, mi stavo preparando per uscire di casa.” “Senti, volevo chiederti un favore. Questa mattina devo accompagnare mia moglie dal medico per una visita di controllo. Nulla di particolare, ma sai come sono le donne. Soprattutto quando la visita è ginecologica.” “Non ti preoccupare, io penso di essere in ufficio per le otto.” “Grazie. Credo che io arriverò nel primo pomeriggio.”

“Ok. Allora non ti aspetto per pranzo.” “No, mangerò qualcosa con Serena prima di arrivare.” “D’accordo, ci vediamo oggi pomeriggio. Ciao.” Bene. Così nel mio sogno ero un bugiardo. Avevo appena salutato Serena dicendole che ci saremmo visti la sera e, subito dopo, avevo raccontato una bufala al mio collega. Lo stavo condannando mentre vivevo quella scena, perché non ho mai sopportato le menzogne. Sono sempre stato sincero con Serena e con tutte le altre persone che contano qualcosa nella mia vita, a costo di essere troppo schietto. Da quell’altro me stesso, di contro, arrivava tranquillità, nonostante la bugia che aveva appena detto. Due bugie, in realtà, una a Serena e una a Bruno. Improvvisamente, mi attraversò la mente l’immagine di Daniela, la migliore amica di Serena. Daniela che sorride, Daniela che scherza, Daniela completamente nuda su un letto che allunga le braccia verso di me. Rimasi colpito da quell’immagine che non potevo spiegare in nessun modo. Evidentemente il mio io sulla BMW aveva pensato a lei in quei termini, e quelle immagini mi erano arrivate alla velocità della luce. Io non avevo mai visto Daniela nuda. A dirla tutta, la conoscevo appena, perché ho sempre lasciato che Serena avesse il suo rapporto personale con lei. È una sua amica e io non c’entro nulla. Penso di aver trascorso con lei quattro o cinque ore complessivamente nei cinque anni di matrimonio con mia moglie, e sempre in occasioni in cui eravamo usciti in compagnia con tante altre persone. Squillò il cellulare e risposi. “Ciao Marco. Posso parlare tranquillamente?” disse una voce di donna. “Sì, sono in macchina e ho appena detto a Bruno che questa mattina non sarò in ufficio.” “Ti amo per questo, lo sai?”

“Certo che lo so. Come tu sai che non posso più fare a meno di te.” “Allora ci vediamo al solito posto?” “Sì, penso che tra mezz’ora sarò lì.” “Allora a tra poco.” “Non vedo l’ora” disse il mio alter ego, e chiuse la comunicazione. Io non sono un santo e le belle donne mi piacciono. Ammetto che qualche volta ho anche indugiato con lo sguardo su qualche ragazza, ma non ho mai tradito mia moglie. Non è semplicemente una questione morale o di correttezza, ma anche di coerenza. Nel momento in cui mi rendessi conto di provare qualcosa per un’altra donna, dovrei ammettere che il mio matrimonio non funziona più. E a quel punto che cosa rimarrei a fare con Serena? Non abbiamo figli. Inizialmente è stata una scelta. C’era il mio lavoro, la mia carriera e anche quella di Serena. Poi, quando abbiamo deciso che potevamo provare ad allargare la famiglia, non ci siamo riusciti. Onestamente, non abbiamo vissuto con angoscia questa situazione. Io e lei siamo stati bene insieme sin dal primo giorno, senza bisogno di altri stimoli se non noi stessi. Non avere bambini ti lascia libero di poter gestire la tua vita come vuoi, o come meglio puoi. Se la nostra relazione non funzionasse più, avremmo il solo problema di capire come impostare il nostro futuro. Così ho sempre pensato, beandomi della nostra presunta maturità. Ma anche su questo mi sarei dovuto ricredere. Comunque, procediamo con ordine. Quel mio io che viaggiava in BMW, tradiva la moglie e stava andando da qualche parte per incontrare la sua amante.

Come un vecchio guardone, osservavo dall’alto la situazione, con il vantaggio di poter anche vivere in prima persona quello che sarebbe successo. La BMW entrò in tangenziale ovest, direzione Bologna. Accesi la radio che era sintonizzata su RMC, la radio che ascolto sempre. Arrivato all’altezza dell’autostrada Genova - Milano, svoltai in direzione Genova. Non sapevo dove sarei andato, perché non arrivavano pensieri che mi fero capire. Come mi capitava spesso, viaggiavo con calma, godendomi il viaggio, e le sensazioni e i pensieri che arrivavano trasmettevano solo quello. A un chilometro da Binasco, rallentai e mi spostai sulla destra. La mia destinazione, evidentemente, era da quelle parti. Presi la rampa per uscire e arrivai al casello. Subito fuori dall’autostrada, girai a sinistra, verso Binasco. Prima di arrivare alla rotonda della statale 35, Milano - Pavia, girai ancora a sinistra, percorrendo una strada secondaria. Ancora sinistra e dritto per qualche centinaio di metri. Mi fermai sulla destra in attesa di qualcosa o qualcuno. Guardai sulla sinistra e vidi una ragazza che era uscita dalla sua auto e stava attraversando la strada diretta alla mia BMW. Aprì lo sportello e si sedette accanto a me. Daniela. Le emozioni che sentii arrivare furono travolgenti. ione, felicità, eccitazione. Lei si chinò verso di me e mi baciò. Sentii distintamente la sua lingua guizzare e giocare con la mia.

“Finalmente” mi sentii dire. “Quanto è ato dall’ultima volta?” chiese lei. “Mi sembra una vita. Non me lo ricordo più.” “Dai, sono contenta di sentirtelo dire, ma è stato solo tre giorni fa.” “Avevo ragione allora, è ata una vita!” esclamai. Lei rise. Era bella, certo. Ma Serena non aveva nulla da invidiarle. Perché lo stavo facendo? Non lo so, ma stava succedendo. Misi la freccia a sinistra e ripresi la strada, solo per duecento metri, la distanza che ci separava dal Visconteo Motel. La reception era un gabbiotto stile casello autostradale, solo tenuto meglio e piuttosto appariscente. Mi avvicinai con la macchina, salutai e misi la patente nel cassettino aperto. Prima ancora di prendere il documento, il tizio sorrise e mi disse: “Buon giorno, signor Castelli.” Evidentemente, ero un cliente abituale. Prese nota degli estremi del documento e me lo restituì insieme con la chiave della stanza 133. Ringraziai e mi avviai verso la nostra alcova. Parcheggiai davanti all’ingresso della camera, protetto da sguardi indiscreti da alte siepi. Daniela scese dall’auto e si avviò verso la scaletta che portava alla camera. Si entrava direttamente nella stanza, senza are per un corridoio. Tutto studiato per evitare l’imbarazzo dei clienti fedifraghi di trovarsi faccia a faccia con altri frequentatori di quel rifugio del sesso. La raggiunsi, inserii la chiave nella toppa e aprii la porta. Era sicuramente più grande di una normale stanza d’albergo. Sulla destra c’era il

letto, probabilmente un due piazze e mezzo. A sinistra un mobile bar con due sportelli, che aprii per controllare. Oltre a lattine di bibite e bottigliette di liquori, c’era anche una bomboletta di panna spray e un barattolo di Nutella. Non avevo esperienze in merito, almeno non nella mia vita reale, ma penso non servissero per fare colazione. Sul mobile una televisione led da cinquanta pollici. Il foglietto che era stato lasciato accanto elencava i canali disponibili, di cui una decina erano pornografici. Fare sesso guardando altri che lo stanno facendo in TV evidentemente è molto eccitante per alcuni. Andai a controllare il bagno. Doccia, asciugamani, due accappatoi e una vasca idromassaggio doppia. Sul bordo della vasca c’erano due bagnoschiuma con aromi orientali, shampoo e crema idratante. Tornai in camera e vidi Daniela che, nel frattempo, si era tolta il cappotto e stava sistemando le sue cose. Controllai il cassetto del comò che era appoggiato alla parete accanto al letto. Crema lubrificante, preservativi normali e al sapore di frutti di bosco. Un servizio completo, pensai. “Tutto come il solito” pensò il mio alter ego. Chiusi il cassetto e mi tolsi il cappotto. “Vieni, amore mio” sussurrò Daniela. Mi avvicinai e si avvinghiò a me, baciandomi profondamente. Sentii i brividi corrermi sulla schiena, propagarsi sulla pancia e scendere giù fino a solleticare la zona inguinale. Mi allontanò e cominciò a sfilarsi il maglione, restando con una canottiera di seta nera. Sfilò la gonna a tubo rivelando una guêpière che reggeva calze velate nere.

Un perizoma in tinta completava quell’immagine tremendamente sensuale. Mi sentii dire: “Sei bellissima.” Lo era davvero, ma io che osservavo provavo imbarazzo e vergogna. Non ero abituato a quegli spettacoli e a quelle situazioni. Girò su se stessa per farmi godere la vista del suo corpo e mi disse: “Sono tutta per te”. Cominciai a sfilare la cravatta, che buttai a terra, a togliere la giacca e la camicia. In brevissimo tempo rimasi solo con gli slip. Mi avvicinai a lei e la baciai sul collo. Aveva un profumo intenso, speziato, inebriante. Il suo seno premeva sul mio corpo mentre la abbracciavo. “Ti amo e ti desidero” mi disse. “Anch’io. Non posso più fare a meno di te” le sussurrai in un orecchio. “Vorrei poterti avere ogni volta che mi viene voglia.” “Lo so. È così anche per me. Non riesco più a stare con lei.” “Amore, non voglio che questo diventi un problema” mi disse allontanandosi un po’. “Non voglio spingerti a lasciare Serena. Forse dovremmo lasciar perdere. Del resto lei è anche la mia migliore amica. Faccio fatica a tenerle nascosta questa situazione.” “Tu non mi stai spingendo a far nulla” dissi io. “Il nostro amore è cresciuto fino a riempire la mia e la tua vita. Non riesco a immaginarmi senza di te. Non possiamo stare lontani nemmeno due giorni senza star male.” “Sono solo tre mesi che ci frequentiamo.” “Sì, ma è come se ti conoscessi da sempre. Sei sempre presente nei miei pensieri. A volte i colleghi mi sorprendono imbambolato a fissare il vuoto. In realtà sto pensando a te, a noi. Come faccio ad andare avanti in questa situazione?” “Allora forse è meglio che lasciamo perdere” disse Daniela.

“Allora forse è meglio che io prenda una decisione” ribattei io. “Devo parlare con Serena. Devo dirle che non posso più stare con lei.” “Non puoi dirle di me. La uccideresti.” “Non voglio farle del male. Le dirò che sono un po’ in crisi, che ho bisogno di prendermi del tempo per riflettere, per stare da solo. E poi la lascerò.” “Non farmi sentire in colpa. Non voglio che la nostra storia sia segnata dalla fine del tuo matrimonio.” “Non è colpa tua e non è nemmeno mia. È semplicemente successo, e noi non possiamo farci nulla. Siamo stati travolti da questo sentimento. Innamorarsi non è una colpa.” “Nemmeno se ti innamori del marito della tua amica?” “Non mi sei venuta a cercare e nemmeno io. È successo tutto per caso. È stato il destino, il karma, l’universo, non lo so. Non possiamo sentirci in colpa perché ci amiamo. Abbiamo gli stessi sentimenti. Possiamo opporci a tutto questo? Io credo di no.” “Ho bisogno che mi abbracci adesso, che mi stai vicino.” La abbracciai, come avrei fatto con un amico in crisi. Rimanemmo per un po’ così, immobili, stretti l’uno all’altra. Poi la scostai con dolcezza e la baciai sulle labbra. Ben presto quel bacio divenne molto più apionato. Cominciai ad accarezzarle la schiena e il sedere. Poi le sfilai la canottiera. La spinsi verso il letto mentre cominciavo a sentire la pressione dell’eccitazione sugli slip. Mi sdraiai accanto a lei e le tolsi il reggiseno. Accarezzai il suo seno sodo e cominciai a baciarla sul collo, sul petto, sul seno. Lei gemeva piano, mentre con le mani scendevo accarezzandole i fianchi e le gambe. Con inaspettata abilità, slacciai la guêpière al primo colpo. Cominciai a sfilarle le calze a velo, con lentezza, per rendere ancora più eccitante l’atmosfera. Poi le

sfilai il perizoma, lasciandola completamente nuda. Mi sdraiai accanto a lei continuando a baciarla e ad accarezzarla. Con un movimento improvviso, lei mi fece sdraiare, abbassò i miei slip e cominciò a baciarmi il membro, che era diventato un sasso. La guardavo mentre s’impegnava a fondo in quell’attività e sentivo crescere dentro di me l’eccitazione. Si fermò per un istante e mi disse: “Adesso voglio farti godere fino in fondo. Poi ti dedicherai a me.” Riprese a baciarmi, ad accarezzarmi e aumentò il ritmo. Sentivo che non sarei durato a lungo. Era una situazione pazzesca. Stavo guardando la scena dall’alto, come se fosse stato un film pornografico e sentivo tutte le sensazioni di quell’io che vedevo. Mi sentii ansimare sempre più pesantemente mentre cresceva la pressione del piacere. Poi, improvvisamente, fu come il prorompere di un lago che ha rotto una diga. Con un gemito profondo ebbi un orgasmo incredibile, come non avevo mai sperimentato prima. Brividi da accapponare la pelle partivano dalla cute e scendevano lungo la spina dorsale fino alla punta dei piedi. E mi svegliai. Aprii gli occhi, incapace di capire dov’ero. Poi, un briciolo di lucidità cominciò a farsi strada. Ero nel mio letto, nella mia camera. Mi girai e vidi Serena che dormiva profondamente. Mi sentivo strano. Mi toccai e scoprii che ero bagnato. Ero venuto nel sonno. Per fortuna Serena non si era svegliata.

Non credo ci sia nulla di male a fare sogni erotici, ma quello mi aveva turbato e non poco. Non avevo certo voglia di parlarne con lei. Mi alzai piano e controllai il letto. Fortunatamente non era bagnato. Guardai la sveglia. Le cinque. Decisi di farmi una doccia, tanto ormai non sarei più riuscito a prendere sonno. Tolsi la medaglietta e la appoggiai sul ripiano dello specchio, in modo che non si bagnasse e non diventasse nera prima del tempo. Feci una lunga doccia, rimanendo sotto l’acqua calda molto più di quanto facevo solitamente. Daniela. Avrei potuto capire di più un sogno nel quale la protagonista fosse stata Isabella, una mia collega. La vedevo tutti i giorni, era una bella ragazza, poteva anche starci. Anche sca o forse, tutt’al più, Manuela. Daniela, proprio non me lo aspettavo. L’ultima volta che l’avevo vista era stato due mesi prima, giusto il tempo di salutarla prima che andasse via con Serena. Non avevo mai pensato a lei in termini sessuali. Non perché non mi pie, ma semplicemente perché non era mai successo. Forse quel sogno era dovuto al fatto che Serena mi aveva parlato della sua giornata con lei e che sarebbero uscite insieme anche il giorno dopo. Molto probabilmente anche l’astinenza sessuale aveva giocato un ruolo importante in quel sogno. Ma alla fine, che importanza aveva? “Si tratta solo di un sogno” pensai ingenuamente. Mentre indossavo l’accappatoio, decisi di non pensarci più. Avevo fatto un sogno strano, che mi aveva dato sensazioni così forti da avere un orgasmo. Va bene. E allora? Era inutile pensarci più del dovuto.

Andai in cucina per farmi un caffè. Presi il mio iPad per dare un’occhiata al giornale, e cominciai la mia giornata un’ora prima dell’orario di un giorno di lavoro e con almeno tre ore di anticipo rispetto a una domenica normale. In fondo, era un giorno come tutti gli altri, pensai.

3 - È finita

Lessi tutto il sito del Corriere della Sera, bevendo caffè americano. Verso le nove sentii Serena che si alzava e si faceva una doccia. Non venne in cucina fino alle dieci, quando vestita, truccata e pronta per uscire, arrivò giusto a salutarmi. “Come fai a bere questa schifezza?” mi chiese dopo aver assaggiato il mio caffè. “È caffè americano, molto diluito” dissi. “Sembra un tè di caffè” disse lei con un’espressione schifata che mi fece sorridere. “Tieniti pure la tua americanata. Io esco e mi vado a bere un caffè italiano al bar” disse lei. “A che ora torni?” “Non lo so. Daniela ha preparato un programma molto intenso per oggi. Conoscendola, questa sera tornerò distrutta.” “Quindi anche stasera ti metterai a dormire non appena toccherai il letto” dissi, non riuscendo a nascondere un po’ d’irritazione. “Hai qualcosa da dirmi?” chiese lei in tono seccato. “No, stavo scherzando. Sai che non ti forzo a far nulla.” “Va bene, allora. Discorso chiuso. Adesso esco. Ci vediamo questa sera.” Uscì senza darmi nemmeno un bacio. ‘Discorso chiuso’ aveva sentenziato. ‘Va bene’ avevo pensato. ‘Ciao’ avevo silenziosamente detto alle sue spalle mentre usciva. Ero irritato per la situazione, ed ero convinto di aver ragione.

Probabilmente la mia battuta era stata troppo acida, o forse avevo toccato un nervo scoperto. Avrei voluto che capisse che mi mancava da morire, ma avevo sbagliato il modo di dirglielo. Stavo agendo bene? Avrei dovuto essere più duro? O forse avrei dovuto farla sentire in colpa? Pregarla? Non sapevo cosa fare. Il nostro rapporto era un po’ in crisi, ma speravo ancora che potesse cambiare qualcosa. E restavo in attesa di chissà che. Ero convinto che non dipendesse da me e che da solo non avrei potuto far nulla. Oggi ragionerei in modo diverso. Ma non si torna indietro. Il resto della domenica trascorse lentamente, segnato da quel momento di tensione. Mangiai qualcosa a mezzogiorno, giusto per tappare il buco. Quando sei da solo, l’aspetto piacevole del mangiare si affievolisce, lasciando solo il bisogno di nutrirsi. Dicono sia la seconda cosa piacevole della vita, ma, secondo me, mangiare da soli è come fare sesso da soli. Nel primo pomeriggio provai a chiamare Paolo. Mi sarebbe piaciuto are qualche ora con lui. Non rispose al telefono. “Probabilmente è ancora con la sua amica Elisabetta”, pensai. Guardai un po’ di televisione e mi addormentai come un vecchio sul divano, cullato dai discorsi idioti delle trasmissioni della domenica pomeriggio. Mi svegliai verso le cinque. Di Serena nessuna notizia. Avrei voluto chiamarla, anche solo per sentire la sua voce, ma non volevo starle addosso. “Se avesse voluto chiamarmi” pensai “l’avrebbe fatto. Evidentemente è ancora arrabbiata.”

Non avevo più voglia di leggere, così presi l’iPad e vagai un po’ su Internet, giusto per scacciare la noia che cominciava a serpeggiare. Verso le sette il cellulare squillò. Serena. “Ciao amore, come stai?” chiesi. “Bene. Siamo ancora in giro. Pensavamo di mangiare qualcosa al ristorante cinese prima di tornare. Tu cosa stai facendo?” “Stavo annoiandomi in attesa che chiamassi.” “Perché non sei andato a farti un giro?” “Perché da solo non mi piace. E di andare in libreria non ne avevo voglia.” “Beh, la giornata è stata bella per essere dicembre. Secondo me hai fatto male a non uscire.” “Forse hai ragione. Pensavo che saresti arrivata prima. Avremmo potuto fare qualcosa insieme.” “Te lo avevo detto che sarei stata impegnata tutto il giorno.” “Sì, me lo avevi detto.” “Te la sei presa per questa mattina?” Si era resa conto di avermi risposto male. Bene, ero contento. Vorremmo sempre essere trattati con amore e rispetto da chi sta con noi, ma in certi momenti ci accontentiamo che l’altra si renda conto di comportarsi come una che si pulisce i piedi sulla tua faccia. Se non riesci a impedirglielo, non ti rimane che sperare che se ne renda conto. Non si scà, ma che almeno si senta in colpa! Riusciamo a diventare degli emeriti idioti, e non ci rendiamo conto di essere caduti così in basso che quando ci seppelliranno dovranno scavare all’insù. “No, non sono arrabbiato” dissi con un tono che se lei avesse ascoltato col cuore avrebbe capito subito essere falso come una moneta da tre euro. “Meglio così” disse lei asciutta.

“A che ora arrivi?” “Non lo so. Tu fai pure le tue cose. Mettiti a letto senza aspettarmi. Voglio godermi questa giornata fino in fondo.” “Spero che non sarà così tutte le domeniche.” “Hai deciso di farmi sentire in colpa?” chiese lei con tono risentito. E poi, senza aspettare la mia risposta, aggiunse “Ci vediamo.” La comunicazione si chiuse con un secco click. Mi sentivo un po’ stranito. Ancora una volta il suo tono era stato duro, quasi spietato. Dov’era finita la ragazza solare che avevo conosciuto? L’amante dolce e apionata che avevo sposato? Assente nel nostro rapporto, assente dal punto di vista sessuale, assente fisicamente. Stava succedendo qualcosa? Si era stancata di me? C’era qualcun altro? “Ma no, dai, non farti venire le paranoie” dissi a me stesso. “È solo un periodo un po’ così. Vedrai che erà e tutto tornerà normale. Anzi, meglio.” Illuso imbecille. Credo che lei sia rientrata verso l’una, quella sera. Dormivo, ma percepii che entrava nel letto. Non aveva nemmeno la luce, per non svegliarmi. Non voleva disturbarmi? O non voleva essere disturbata? Si girò subito dalla sua parte e non si mosse più. Quella piccola frazione di lucidità scomparve subito e ripresi a dormire. Non ricordo che cosa sognai. Forse nulla. Si dice che tutti sognino. Quindi, cosa più probabile, dimenticai tutto.

La mattina mi alzai come sempre e cominciai a prepararmi per andare in ufficio. Verso le sette ero pronto per uscire. Stranamente Serena era ancora a letto. Forse, essendo rientrata tardi, non aveva sentito la sveglia, che di solito suonava verso le sette meno un quarto. Non l’avevo sentita nemmeno io. “Magari ieri sera ha dimenticato di inserirla” pensai. Mi affacciai in camera e la chiamai a bassa voce. “Serena, tesoro, sono già le sette. È ora che ti alzi.” “Mmmmh” mugugnò lei. “Oggi entro due ore dopo e ho deciso di prendermela comoda. Vai pure. Buona giornata.” Si girò dall’altra parte e ricominciò a dormire. Invidiavo questa sua peculiarità. Era capace di dormire in qualsiasi situazione e in qualsiasi posto. Riusciva a prendere sonno nel giro di pochissimi minuti. L’avevo presa in giro diverse volte, anche se in fondo la consideravo fortunata. Uscii da casa e andai in ufficio. Un giorno come tanti altri. Finii di lavorare verso le sette di sera. Ero un po’ stanco. Quel giorno avevamo avuto diversi problemi con i server di produzione che ci avevano interamente assorbito. Uno dei miei compiti era impedire che le linee di produzione fossero costrette a fermarsi per colpa del sistema informativo. Una situazione del genere sarebbe finita immediatamente sul tavolo dell’amministratore delegato, che si sarebbe domandato perché mi pagava lo stipendio se non ero in grado di far funzionare i computer. Volevo evitare a tutti i costi di dover rispondere a una domanda del genere. Così mi ero impegnato a fondo con i ragazzi per far funzionare tutto nonostante le bizze dei sistemi.

Senza rendermene conto, quando avevamo finito, erano ate da poco le sei. Dopo aver rimesso in ordine la mia scrivania ed essermi assicurato ancora una volta che la situazione era tornata stabile, decisi che potevo tornarmene a casa. Fuori era buio. “Esco all’alba e torno al tramonto” mi dissi mentre salivo in macchina. Durante la giornata non avevo nemmeno fatto in tempo a pensare di chiamare Serena. Non lo facevo mai durante il suo orario di lavoro, ma a volte, dopo le cinque, una telefonata la facevo. La chiamai a casa, ma non rispose nessuno. “Strano, non è ancora tornata” mi stupii. Alle cinque e mezzo al più tardi, lei era a casa. Ora erano le sette e qualche minuto. Provai sul cellulare. Squillò una decina di volte, ma lei non rispose. Stavo cominciando a chiedermi se fosse successo qualcosa, quando sentii il bip di un sms. Guardai. Serena. Aprii il messaggio. “Vorrei parlare un po’ con te. Ci vediamo al Nikola's pub.” Non sono mai stato il tipo da sensazioni o premonizioni. Però non ci voleva molto a capire che quel messaggio non lasciava presagire nulla di buono. Provai a chiamarla per cominciare subito a parlare, ma lei non rispose. Non amo vivere nell’incertezza, questo l’ho già detto. Ma nulla è in grado di destabilizzarmi maggiormente di una situazione che mi riguarda per la quale non ho informazioni e che non posso in nessun modo controllare.

Il Nikola’s era una pizzeria e birreria a Rozzano, dove andavamo qualche volta a prendere un aperitivo con qualche stuzzichino. I gestori erano persone simpatiche e lì si poteva trascorrere qualche ora serenamente. Dentro di me pregai di non dover associare da quel momento in poi quel pub a una situazione negativa. Non che m’importasse per il locale in sé. Avevo paura per me, per quello che mi avrebbe detto. Pensai a mille cose. Forse era stata una giornata pesante anche per lei e aveva bisogno di sfogarsi davanti a una birra. Mi aveva detto di avere qualche problema, forse era scoppiata una grana. Magari con il suo capo, con il quale non aveva un rapporto idilliaco. Forse mi voleva dire che aveva bisogno di stare un po’ da sola. Non mi sarei stupito per una richiesta del genere. La sua irritabilità e intolleranza stavano crescendo sempre più. Non volevo restare da solo, ma avrei accettato anche quella situazione se fosse servita a farla star bene, permettendole di tornare quella di sempre. Arrivai al Nikola’s il più rapidamente possibile. Parcheggiai nelle vicinanze e mi avviai verso il locale. La vidi seduta a un tavolino fuori, che fumava una sigaretta. Lei non fumava. Almeno, aveva smesso da quando avevamo deciso di vivere insieme. “È un sacrificio, ma lo faccio volentieri per te e per noi” aveva detto a suo tempo. “E poi ci permetterà di mettere via qualche soldino in più e di farmi are la tosse.” Evidentemente quello che doveva dirmi la innervosiva parecchio, al punto da non preoccuparsi della tosse o dei soldi. Cominciai ad avere paura e a prepararmi al peggio. Oggi penso che prepararsi al peggio sia una trovata imbecille di qualche idiota

che non ha capito nulla dalla vita. Non siamo mai preparati per quello che accadrà, perché sarà sempre qualcosa di molto più pesante di quello che temevamo. Mi avvicinai, la salutai e feci per darle un bacio. Mi bloccò subito stendendo il braccio e mettendomi la mano aperta sul petto. “Siediti, per favore, ho bisogno di parlarti” disse. Il suo tono non mi piaceva. Era deciso, freddo, implacabile. Mi sedetti con un crescente senso di angoscia. “Cos’è successo?” le chiesi immediatamente. “Ho bisogno che mi lasci parlare. Per favore, se vuoi chiedermi qualcosa fallo alla fine. È già difficile così. Va bene?” “Va bene” mormorai. “In questo periodo sono stata… assente. Forse il termine giusto è proprio questo: assente. Non so perché sia successo e in realtà non so nemmeno quando sia cominciato. Mi sono resa conto a un certo punto che non ti sentivo più. Inizialmente ho pensato fosse colpa tua, ed ero arrabbiata con te. Poi mi sono resa conto che il problema era solo mio. Non riuscivo più a essere felice con te. Non so che cosa sia successo, ma la nostra vita insieme ha cominciato a pesarmi. Ogni volta che dovevo tornare a casa, mi sentivo appesantita come se avessi portato un macigno enorme sulle spalle. Tentavo di essere quella di sempre, ma diventava giorno dopo giorno più difficile. Ti ho sempre amato, con tutta me stessa, e non volevo farti del male. Ho pensato che probabilmente si trattava di una crisi eggera. La crisi del settimo anno in anticipo. E ho deciso di aspettare che asse, senza dirti nulla.

Un giorno ha telefonato a casa Paolo, che voleva parlare con te. Appena mi ha sentito, ha capito che c’era qualcosa che non andava. Quel ragazzo ha una sensibilità straordinaria, credo che lo sappia anche tu. Io avevo bisogno di sfogarmi, di parlare con qualcuno, e così gli ho raccontato quello che mi stava succedendo. Mi ha ascoltato senza dire una parola e poi mi ha chiesto se volevo parlarne con lui di persona. Ho pensato fosse una buona idea, perché lui ci conosce da sempre ed è un tuo amico intimo. Non avrei avuto il problema di parlare con un estraneo. Voi due siete amici da quando avevate dieci anni. Sa tutto di te e di noi. Guardando la situazione dall’esterno, poteva darmi qualche suggerimento o farmi ragionare in modo diverso. Non volevo farti venire strane idee, così ti dissi che sarei uscita con Daniela. Non so come sia potuto succedere, ma quella sera, dopo aver parlato e pianto per tre ore, mi ritrovai nelle sue braccia. Non avevo intenzione di fare nulla di male, ma alla fine successe. Era settembre, tre mesi fa. Da allora è stato un crescendo e ben presto mi sono resa conto di non poter più fare a meno di lui. La stessa cosa è successa a Paolo. È stato travolgente, totalizzante. Mi spiace, ma ti lascio. Avevo pensato di dirti che volevo stare un po’ per conto mio, riflettere, cercare di capire che cosa mi stava succedendo, perché non volevo farti soffrire. Credimi, è sempre stata la mia preoccupazione più grande. Poi ho pensato che se avessi affrontato questa situazione così, la prima persona che avresti sentito era Paolo, e avrei messo lui in difficoltà. Lui ti vuole bene come a un fratello. Non volevo metterlo in condizione di mentirti e di far finta di nulla. Cosa potevo fare? Ci ho pensato a lungo e credo che la cosa migliore sia farla finita qui subito, senza darti altre illusioni.

Mi rendo conto che questo è un colpo duro per te, ma non posso davvero farci nulla. Non è colpa tua. E non è nemmeno colpa mia o di Paolo. È semplicemente successo, e non possiamo farci nulla. Siamo stati travolti dalla situazione. Innamorarsi non è una colpa. Lui vorrebbe restarti amico. So che in questo momento questa richiesta ti sembrerà assurda, ma mi ha pregato di dirtelo e io vorrei che tu ci riuscissi. Anch’io vorrei rimanerti amica. Amica come non sono mai riuscita a esserlo in questi anni. Perché sono stata amante, moglie, complice, ma mai amica. So che in questo momento è dura per te, ma erà. Tutto a. Meglio una brutta verità che una bella bugia. Siamo sempre stati d’accordo su questo. Ecco. Ho finito. Adesso puoi parlare tu.” Non so che faccia avessi in quel momento. Probabilmente impallidii, perché mi osservò con un po’ di preoccupazione e mi chiese se volevo qualcosa da bere. Effettivamente mi girava la testa. Meno male che ero seduto! Serena e Paolo. Ma guarda un po’. Le cose quadravano. Chissà perché ogni volta che lei usciva con Daniela, Paolo non era disponibile. Adesso avevo la spiegazione di quella strana coincidenza di cui non mi ero nemmeno reso conto. Certo, quando le cose sono successe, siamo tutti bravi a dire: “Avrei potuto pensarci prima. La soluzione l’avevo sotto gli occhi.” In realtà, non sapevo nemmeno di avere un problema, figuriamoci se avrei potuto trovare la soluzione.

Lei mi fissò e mi chiese: “Non hai nulla da dirmi? Da chiedermi?” In quel momento non avevo nulla. La testa era vuota e faceva male. Probabilmente il cervello aveva subito un restringimento e ora galleggiava dentro quell’enorme spazio vuoto del mio cranio, sbattendo a destra e a sinistra. Cercai di farmi forza. Deglutii con fatica. “Vorrei che ne parlassimo con calma” dissi con voce rotta. “Andiamo a casa e continuiamo il discorso. Vorrei cercare di capire meglio. Magari possiamo trovare una soluzione diversa. Non voglio buttare via cinque anni così.” “No” rispose lei con decisione. “Qui non si tratta di ragionare e vedere se si può fare qualcosa. Questa non è una malattia che si può tentare di curare. Questa è una scelta di vita che ho deciso di fare. Non te ne ho parlato per decidere insieme con te. La mia decisione l’ho presa. Mi sembrava corretto dirtelo a voce, e l’ho fatto. Apprezzalo. Per il resto, non ci puoi fare nulla. Sono una persona libera e decido per me, assumendomi tutte le responsabilità del caso. Non voglio crearti altre difficoltà. Continua a stare in casa nostra. Prenditi il tempo che ti serve per decidere se vuoi tenerla e darmi la metà del suo valore o se vuoi venderla e dividere con me il ricavato. Io mi trasferisco da Paolo, questa stessa sera. Oggi pomeriggio ho liberato gli armadi da tutte le mie cose. Adesso hai un sacco di spazio. Stacci tutto il tempo che occorre e fammi sapere. Non cambierò il numero di cellulare, quindi sai dove trovarmi.” Detto questo, si allontanò. Non ebbi nemmeno la forza di tentare di fermarla. La vidi avvicinarsi a un’auto che era posteggiata a qualche decina di metri, e salirci sopra, dal lato eggero.

Guardai meglio e vidi che era la macchina di Paolo. Era stato lì tutto il tempo a guardarci, mentre lei mi pugnalava a morte. Sentii il sangue ribollire ma, non so come, riuscii a mantenere la calma. Lo shock era stato così violento che se mi fossi alzato in quel momento, mi avrebbero sicuramente ceduto le gambe. Li seguii con lo sguardo mentre andavano via, come se la cosa non mi riguardasse. E in effetti, da quel momento in poi non mi avrebbe più riguardato. Avrei spaccato tutto se quello non fosse stato il Nikola’s e se i gestori fossero stati persone diverse. Invece entrai nel pub e ordinai uno Sbagliato. “Ciao caro” mi salutò allegramente da dietro il bancone Gatto, come lo chiamavano tutti. “Ho visto Serena lì fuori. Preparo qualcosa anche per lei?” mi chiese. “No, è dovuta andar via” risposi laconicamente. Presi lo Sbagliato che mi aveva preparato, alzai il bicchiere al cielo e dissi ad alta voce: “Brindo ai veri amici.” Volevo essere sarcastico in quel momento, ma nessuno dei presenti capì la mia allusione a Paolo. E come avrebbero potuto? Qualcuno alzò il bicchiere e ripeté: “Ai veri amici” e mi guardò sorridendo. Mi sedetti a uno dei tavoli e rimasi lì a fissare il bicchiere. Dopo qualche minuto arrivò Pina, la moglie di Gatto, e si avvicinò a me. “Tutto bene?” mi chiese, mettendo una mano sul braccio. Dovevo avere una faccia da funerale, e lei aveva capito che qualcosa non andava. Non potei fare a meno di osservare che tutti si rendevano conto che qualcosa non funzionava con un semplice sguardo, e tutti erano pronti a fare la loro parte. L’unico che non si era reso conto di quanto stava succedendo in casa sua ero io.

O meglio, avevo capito che c’era un problema, ma non ero stato in grado di affrontare la situazione. Ero rimasto ad aspettare inutilmente che le cose si rimettessero a posto da sole. “Qualche problema con Serena” dissi, cercando di minimizzare senza offenderla con una bugia che sarebbe stata fin troppo evidente. “Spero nulla di serio” disse lei, empatica come sempre. “Se vuoi parlarne, mi siedo e mi racconti” disse guardandomi dritto negli occhi. Questo era il motivo per cui amavo quel locale e i ragazzi che lo gestivano: ti facevano sentire a tuo agio. Se eri felice, si rallegravano con te. Se eri un po’ giù di corda, tentavano di farti sorridere. E se andava da schifo, come a me in quel momento, ti facevano capire che ti avrebbero ascoltato, senza quella smania di sapere a tutti i costi i fatti tuoi. Mi seccava dover associare il locale alla situazione drammatica che c’era appena stata. ‘Il Nikola’s, dove lei mi ha mollato’. “Alla fine, erà anche questa” mi dissi. “Non ti preoccupare, sono cose che possono succedere quando due persone vivono insieme da tanti anni. Tra qualche giorno sarà tutto ato” dissi a Pina. Sì, tra qualche giorno. Ci credevo davvero? Cercai di consolarmi pensando che tra loro non sarebbe durata più di un mese. Conoscevo sia Serena sia Paolo. Io e lui eravamo simili e lei non era una donna facile. Anche lui avrebbe sofferto e alla fine si sarebbero lasciati. Pensai anche che, a questo punto, dare un taglio netto era la cosa migliore, visto come aveva funzionato il nostro rapporto negli ultimi mesi. Non voleva più tornare indietro? Bene. Ero certo che prima o poi avrebbe bussato di nuovo alla mia porta, e a quel punto io non ci sarei stato. Avrei trovato presto una ragazza che l’avrebbe sostituita e sarei tornato a sorridere. Anzi, avrei fatto finta di tornare insieme a lei e l’avrei mollata subito dopo. Pan per focaccia. O meglio, mi sarei dato alla pazza gioia. Non avrei cercato una storia seria, ma me la sarei goduta alla grande.

In realtà, avevo paura di patire la sua mancanza perché dentro di me si stava rafforzando la convinzione che non sarebbe tornata indietro. Non sono mai stato negativo per partito preso. Ho sempre pensato di essere una persona realista. In quel momento, però, la sensazione prevalente era negativa. Avevo perso qualcosa di importante, lo sapevo, ma non me ne rendevo ancora pienamente conto. Quello che provavo in quel momento era un misto di tristezza, delusione e umiliazione ma c’era anche il desiderio di vendicarmi per quello che avevo subito. E il riscatto migliore, pensavo, era quello di dimenticarla e in fretta, possibilmente trovando una sostituta. Oggi, dopo aver elaborato il lutto della sua perdita, so che la fine di una relazione a attraverso la fase di accettazione della situazione. Non serve tentare di riscattarsi o vendicarsi. È necessario tornare a star bene con se stessi prima di pensare a una nuova storia d’amore. Diversamente, si fanno solo danni, a sé e agli altri, che diventano vittime del nostro malessere. Finii il primo Sbagliato e ne ordinai un altro. Non volevo pensare, e quello mi era sembrato un buon sistema. Bevvi cinque bicchieri di quel miscuglio super alcolico nell’ora che seguì. Girava tutto quando decisi che ne avevo abbastanza. Pagai e uscii, per tornare a casa. Mentre mi stavo avviando verso la macchina, cercando di mantenermi stabile non senza fatica, Gatto uscì sulla soglia del Nikola’s. “Marco!” chiamò. “Se mi dai un minuto, ti accompagno io a casa. Preferisco rivederti qui domani sera piuttosto che venire a trovarti in ospedale.” “Lascia stare, sono quindici chilometri. Ci arrivo piano piano” dissi cercando di sembrare più sobrio di quello che in realtà ero. “Sì, certo” rispose lui. “L’unico modo in cui ti lascerei andare a casa è a piedi. E forse nemmeno così.” “Uomo di poca fede” gli dissi scherzando.

Avrei potuto rifiutare? Forse sì. Ma credo sia stato meglio così. Salii nella sua macchina, e lui si mise alla guida. Mi disse che avrei potuto recuperare la mia auto il giorno dopo, facendomi accompagnare da Serena. “Sì, Serena” dissi semplicemente. Ci avviammo. Dopo un chilometro gli chiesi di accostare. Scesi e vomitai gran parte di quello che avevo nello stomaco. Erano solo liquidi. Alcolici. Ripartimmo. Quando arrivammo a casa, l’avevo fatto fermare altre due volte. La prima era servita per finire di svuotare lo stomaco. La seconda solo per farmi piegare in due dal dolore e dalla nausea. “Mettiti a letto” mi disse lasciandomi davanti al portone di casa. “Non andrò a farmi un giro, promesso” risposi con gli occhi che mi bruciavano ma con un minimo di lucidità in più. Buttare fuori tutto mi aveva fatto bene. Entrai in casa e mi guardai intorno. Apparentemente non sembrava cambiato nulla. Andai in cucina e tutto era in ordine, come sempre. Il mio bagno era come l’avevo lasciato la mattina. Andai nel bagno che usava lei. Entrai quasi in punta di piedi, come se stessi violando uno spazio sacro. Era in ordine, troppo in ordine. Mancavano tutte le sue cose. Aprii gli sportelli del mobiletto. Vuoti. Uscii con un senso di angoscia che mi serrava lo stomaco.

Andai in camera e aprii l’armadio. La mia metà era uguale a sempre. La sua era vuota. A quel punto, per la prima volta quella sera, mi resi conto che quella casa era tremendamente vuota. Che la mia vita si era improvvisamente svuotata. “Non è giusto” mormorai. Cominciarono a scendere copiose lacrime di dolore. Mi buttai sul letto così com’ero e piansi. Dio, quanto piansi quella sera. Bagnai il cuscino. E dopo tanto piangere, mi addormentai esausto, senza nemmeno togliere le scarpe. Era iniziata la mia vita da single.

4 - Dodici rosso

Dormii profondamente, perso nei fumi dell’alcol. Anche di quella notte non ricordo nulla. La mattina la sveglia suonò alle sei, fedele e puntuale. La spensi. Feci per alzarmi e la testa cominciò a ronzare come un alveare impazzito. Un alveare che sembrava pesare duecento chili. Mi trascinai in bagno ancora barcollante, facendo fatica a star dritto. Trovai del Moment nella cassetta dei medicinali e ingoiai due pastiglie. Tornai in camera e mi sedetti sul bordo del letto, aspettando che il ronzio e il peso diminuissero. In qualche momento della notte dovevo essermi svegliato, perché avevo tolto i vestiti che ora giacevano a terra in un angolo della camera. Dopo cinque minuti, la pressione allentò la sua morsa e cominciarono a riaffiorare i primi pensieri e i primi ricordi. Serena. Ripercorsi mentalmente quello che mi aveva detto, la freddezza con cui mi aveva comunicato le sue intenzioni. Mi aveva scritto di voler parlare con me, in realtà era stato un discorso a senso unico, e alla fine mi aveva presentato il conto senza altra possibilità che firmare per accettazione. Poi c’era stato l’alcol. Tanto alcol. E Gatto, sempre pronto a farsi in quattro per me. Ricordai anche parte del viaggio di ritorno, con lui che mi prendeva in giro per sdrammatizzare il momento. Che cosa gli avevo detto? Gli avevo confidato quello che era successo poco prima con Serena? Buio assoluto. Quella parte della serata era assente all’appello. Dovevo aver vomitato tutto, perché sentivo lo stomaco vuoto che bruciava, irritato per l’alcol ingurgitato. Forse mi avrebbe fatto bene mettere qualcosa sotto i denti, ma il solo pensiero di mangiare, mi faceva venir voglia di

vomitare di nuovo. Mi ricordai della mia macchina, che era rimasta parcheggiata accanto al pub. Come avrei fatto ad andare a lavorare? Mi alzai a fatica, ma un po’ più stabile di prima e mi guardai allo specchio. Quello che vidi mi convinse di lasciar stare il lavoro per quel giorno. Pensai che alla fine era meglio così: avrei avuto il tempo per cominciare a calarmi nella mia nuova situazione e razionalizzare quello che era successo. Tornai a sedere sul bordo del letto. Meglio aspettare ancora qualche minuto seduto. Il peso alla testa era stato sostituito dal peso al cuore. Sentivo che la mia vita in quel momento non aveva più gran senso. Mi scossi rapidamente. Non volevo cedere all’autocommiserazione. Dovevo reagire, guardare avanti. “Come prima cosa, devo telefonare a Bruno per avvisarlo che non andrò in ufficio questa mattina” pensai. “Anzi, forse è meglio se mi prendo direttamente tutto il giorno di ferie.” Presi il telefono sul comodino e chiamai. Mentre gli dicevo che non sarei andato a lavoro, ebbi una forte sensazione di déjà vu. Avevo già vissuto quel momento? No. L’avevo sognato! Pensai che la vita era davvero strana. Due notti prima avevo sognato di tradire Serena con la sua migliore amica, il giorno dopo lei mi aveva informato che mi stava tradendo con il mio migliore amico. E ora chiamavo Bruno per dirgli che non sarei andato in ufficio, come nel mio sogno. In questo caso, però, non c’era nessuna ragazza ad aspettarmi per una piacevole sosta in un motel. Anzi, la mia ragazza, mia moglie, cazzo!, in questo momento forse se la stava sando con il mio migliore amico. Bastardi!

Cacciai quei pensieri, perché non mi avrebbero portato a nulla. Alla fine, la mia parte razionale viene sempre fuori. Insomma, un sogno e una situazione reale. Speculari. Sarebbe stato un ottimo argomento di discussione con uno psicologo, ma ora avevo problemi molto più pratici da affrontare. Dovevo prendere delle decisioni importanti, che avrebbero condizionato la mia vita. Però, quel pensiero continuava caparbiamente a rimanere nella mente. E se fosse stata una sorta di premonizione? Del resto, erano argomenti su cui avevo discusso molte volte con Paolo. Già, Paolo. E Serena. Ancora quel peso al cuore che si trasformò rapidamente in una fitta allo stomaco che mi fece piegare in due. Avevo voglia di vomitare, ma non avevo nulla nello stomaco da buttare fuori. Così mi sdraiai mettendomi in posizione fetale, sperando che la fitta si affievolisse. Dopo qualche minuto, il dolore fisico cessò. Non quello emotivo, ma avrei dovuto farci l’abitudine. Mi spogliai e andai a fare una doccia calda, sperando che con l’acqua scorresse via anche l’angoscia che mi avvolgeva. Quando uscii, stavo meglio. Mi avvicinai allo specchio per vedere se tutto l’alcol che avevo bevuto la sera prima aveva lasciato tracce. Vidi uno spettacolo migliore rispetto a prima. Abbassai lo sguardo e vidi il ciondolo. L’avevo completamente dimenticato da quando l’avevo tolto per fare la doccia domenica mattina.

Lo indossai senza pensarci troppo, come se fosse stato un gesto abituale. Mi vestii e cominciai a sistemare le mie cose. Ero deciso a non lasciarmi andare allo sconforto. Serena era andata via. C’era molto più posto per me e i miei vestiti. Cominciai ad allargarmi, occupando spazi che fino a quel momento erano stati solo suoi. Non avrei lasciato ripiani e cassetti vuoti. Dovevo riempire nuovamente la mia vita e decisi di cominciare dalla casa, risistemando tutto. Impegnai così tutta la mattina e buona parte del pomeriggio. Verso le sei decisi che avevo fatto un buon lavoro. Ora potevo uscire per andarmi a riprendere la macchina. Presi il pullman per Rozzano e arrivai nei pressi del Nikola’s verso le sette. Volevo ringraziare Gatto per la sua gentilezza e così entrai nel pub. “Ciao caro” mi salutò allegramente. “Volevo ringraziarti per ieri sera” gli dissi. “Ma figurati. Gli amici a che servono se non in queste situazioni?” Pensai fosse meglio fermarmi lì a mangiare qualcosa. Perlomeno sarei stato in compagnia per qualche ora. Mi sedetti al tavolo e ordinai una pizza con il prosciutto crudo. Gatto venne a sedersi con me, lasciando sua moglie Pina a badare ai clienti. Parlammo di quello che mi era successo, e fu un bene. Scoprii che la sera precedente avevo tentato di raccontare qualcosa, ma ero troppo confuso dall’alcol e dal dolore per riuscire a fare un discorso coerente. Avevo inveito contro Serena, poi avevo detto che mi mancava da morire, per tornare a insultarla un minuto dopo. E quante ne avevo dette su Paolo! Gatto mi disse che se solo un decimo di quello che gli avevo mandato fosse arrivato a segno, lo avrebbero ricoverato in rianimazione con scarse possibilità di

cavarsela. L’argomento era pesante e Gatto lo affrontava con il sorriso sulla bocca e con la saggezza di uomo cresciuto per strada. Mi fece bene parlare con lui. Riuscì a risollevare un po’ il mio spirito e il mio morale. Trovarmi improvvisamente senza moglie e senza il mio migliore amico era stato un colpo molto duro. Mi resi conto, però, che c’erano altre persone su cui potevo contare, e che parlare delle proprie difficoltà era una cura davvero portentosa. Non c’erano state grandi considerazioni o argomentazioni filosofiche. Non c’era stata la saggezza che tutti pensano di avere quando devono consigliare la vita altrui. C’era stata comprensione. Semplice, genuina comprensione. E questo era stato un balsamo davvero efficace per il mio spirito. Tornai a casa in pace. Non sarebbe durata molto, me ne rendevo conto. Ma quando la vita diventa difficile, va vissuta un po’ alla volta. Giorno dopo giorno. E se un giorno è troppo, la devi vivere ora per ora. In quel momento stavo abbastanza bene, e questo mi doveva bastare. Mi misi a letto verso le dieci. Non avevo voglia di leggere, così spensi la luce e ben presto scivolai nel sonno. Quella notte sognai ancora me stesso. Sempre con quella modalità strana, da spettatore di un film. Vidi me stesso uscire da casa. La mia casa. Fuori era buio. Guardai l’orologio. Le nove di sera. Non c’era nessuna Serena da salutare e nemmeno una Daniela.

Salii in macchina, che questa volta era una Audi, e partii. Sapevo molto bene dove andare. In realtà lo sapeva quell’altro io che guidava a velocità sostenuta verso l’autostrada. A me arrivava solo parte dei suoi pensieri. Presi l’autostrada verso Milano e, ben presto, svoltai sulla tangenziale ovest, in direzione Bologna. Proseguii poi sulla tangenziale est. Uscii a Cascina Gobba, dirigendomi verso Milano sulla via Padova. Dopo qualche centinaio di metri rallentai e cominciai a cercare un posto dove parcheggiare. Lo trovai vicino a un bar che stava chiudendo, ma non era quella la mia meta. Attraversai la strada e tornai indietro per qualche decina di metri. Mi fermai di fronte a un locale di strip-tease che pubblicizzava le performance di Jessica, il Pussy Cat. La ragazza era decisamente appariscente, con seni grossi come pompelmi e capelli biondi platinati. Ero andato a vedere uno spettacolino sexy? Non potevo far altro che aspettare e vedere. Salutai il buttafuori ed entrai nello stretto corridoio che portava dentro il locale. Sulla destra c’era il gabbiotto della biglietteria. All’interno un tipo mi guardò fisso senza dire nulla. “Mi ha invitato Sergio” dissi. “Entra pure” rispose lui. Ero un cliente abituale? Evidentemente sì. Non mi piaceva molto quella situazione. Ero in sostanza un guardone al quadrato: osservavo il mio io come un guardone e lui era andato a vedere uno spogliarello, come un guardone sporcaccione. E poi gli strip-tease non mi

piacevano. Invece che eccitarmi, provavo tristezza per quelle ragazze che si dimenavano a ritmo di musica e lasciavano cadere biancheria intima sul palco. Spettacoli patetici per vecchi bavosi. Mi sedetti su una poltroncina laterale a sinistra del palco senza nemmeno togliere il cappotto. Mi guardai intorno e vidi altre sei o sette persone. Erano dispersi nella platea, che avrà potuto contenere un centinaio di spettatori, tutti molto defilati, distanti tra loro quel tanto che bastava per assicurarsi la privacy. Lo spettacolo non era ancora iniziato. Guardai l’orologio: le dieci. Le luci si spensero soffusamente e la tenda sul palco si aprì. C’era uno sgabello rotondo al centro, illuminato dai fari di scena. Entrò una ragazza, vestita da infermiera, con tanto di occhiali e cappellino con la croce rossa sulla testa. Uno dei simboli sessuali per eccellenza: l’infermiera sexy. Penso che questo simbolo sia superato solamente dalla suora sexy, che evoca in sé il gusto della massima trasgressione. Non era la Jessica pubblicizzata dal cartellone, ma non era niente male. Cominciò una musica lenta e ritmata e la ragazza si esibì in un balletto provocante. Tolse il cappellino, che buttò sul palco, e cominciò a slacciare lentamente il grembiule, lasciando intravedere una guêpière che reggeva calze velate bianche. Vidi aprirsi una porta sulla sinistra, a metà platea, e uscire un tizio, che venne nella mia direzione. Indossava un maglione girocollo grigio su pantaloni neri. Non aveva una bella faccia, e uno così, onestamente, lo avrei evitato volentieri. Si avvicinò, si chinò e mi sussurrò all’orecchio: “Sergio vuol sapere che cosa fai.” “Credo che mi farò un giro” risposi.

“Andiamo” disse lui di rimando. Di per sé era un discorso senza senso, ma probabilmente era una specie codice, perché mi alzai e lo seguii. Entrammo da quella porta a metà platea in una stanza quadrata. A destra c’era una scrivania, dietro la quale c’era un altro tipo non meno inquietante di quello che mi era venuto a chiamare. Sulla sinistra c’erano alcuni attaccapanni, con parecchi cappotti e giubbotti appesi. Mi tolsi il cappotto e lo appesi in uno dei pochi posti liberi. Il tipo che mi aveva accompagnato fin lì aprì una porta e fece segno di accomodarmi. Questa volta non mi fece strada, né mi seguì. C’era un piccolo corridoio con una scala che scendeva da qualche parte e, come la stanza dove c’erano quei due, era completamente silenzioso. ‘Isolamento acustico’ pensai io, mentre il mio alter ego aveva pensieri molto confusi e rapidi, difficili da interpretare. Scesi la prima rampa debolmente illuminata, e imboccai la seconda, sempre più giù, evidentemente sicuro del fatto mio. In fondo alle scale c’era una porta chiusa. Misi la mano sulla maniglia e aprii. Fui immediatamente investito dal rumore di molte persone che parlano e ridono. Musica in sottofondo, e quel suono tipico delle roulette, con la pallina impazzita che gira tra le scanalature numerate. Ero entrato in un casinò clandestino. Mi guardai intorno e mi sentii perfettamente a mio agio in quell’ambiente. Il locale era un enorme parallelepipedo, di almeno venti metri di lunghezza per altrettanti di larghezza. Il soffitto, a dispetto del fatto che eravamo sotto terra, era molto alto, almeno cinque metri. Costatai ancora che l’isolamento acustico era eccellente, perché da fuori non si sentiva assolutamente nulla. Le pareti erano scure, forse sul blu, con poche luci che rischiaravano l’ambiente. Erano, invece, ben illuminati i tavoli da gioco. Mi spostai sulla destra, dove c’era un piccolo bar, e ordinai uno scotch.

Mi girai con la schiena appoggiata al bancone, e mi guardai intorno. Sentivo benissimo il calore del liquore che scendeva nello stomaco e la soddisfazione di essere lì. Ogni tanto qualcuno mi guardava e mi sorrideva. Gli rispondevo con un cenno della mano. Ecco di cos’ero cliente abituale, non di uno squallido locale di strip-tease, ma di una bisca clandestina. A differenza dei casinò ufficiali, lì non c’era la necessità di vestire con giacca e cravatta. Di ragazze non ce n’erano molte, forse quattro o cinque in tutto, ma sentivo che al mio alter ego non importava un granché. Io ero lì per giocare, di questo ero sicuro. In alcuni tavoli giocavano a poker, poi c’erano almeno due roulette e due tavoli per lo chemin de fer e per il black jack. Ai lati di quel locale c’erano anche diverse slot machine elettroniche. A cosa avrebbe giocato quel mio io? Finii lo scotch e feci un cenno al barista, che si avvicinò. “Mi cambi mille euro?” gli chiesi. “Certo” rispose con un sorriso. Presi il portafogli dalla tasca del pantalone e tirai fuori cinque biglietti da duecento euro. Mi diede cento fiche verdi, con un bel dieci scritto al centro, dentro un contenitore di plastica nera simile al porta monete delle banche. Ringraziai e mi avviai verso i tavoli. Diedi un’occhiata a quelli che giocavano a poker. La tensione si poteva tagliare a fette. Su uno di quei tavoli si giocava pesante. Feci un rapido calcolo e mi resi

conto che sul banco in quel momento c’erano ventimila euro o forse più. “Stasera Sergio gioca duro” sentii distintamente nella mia testa. Conoscevo uno dei quattro giocatori, ma non capii quale, visto che nessuno di loro sollevò gli occhi dalle carte. ai al tavolo dello chemin de fer. Cerano una decina di persone che osservavano il gioco e altri che scommettevano. Andai oltre. Evidentemente quel gioco non mi interessava. Diverse persone giocavano con le slot ai lati del locale. Ogni tanto qualcuno vinceva, perché si sentiva il rumore di gettoni che cadevano nella bocca di ferro che c’era davanti alla macchinetta. Arrivai alla roulette. La pallina stava girando e intorno al tavolo c’erano cinque persone. “Ventidue nero” disse il croupier. Anche lui non rispettava la forma: era un ragazzone in maniche di camicia, senza papillon. Qualcuno vinse, qualcuno perse, solite cose. Rimasi a guardare la pallina girare altre tre volte. Uscì il trentaquattro rosso, il diciotto rosso e il venti nero. Poi, feci la mia puntata. Misi tre gettoni sul rosso. Aspettai che la pallina si fermasse e persi: dieci nero. Misi altri tre gettoni sul pari. Dopo qualche minuto la pallina si fermò: trenta rosso. Il croupier mise sul tavolo altri tre gettoni e spinse i miei insieme ai suoi verso di me. Ero tornato alla pari.

Lasciai girare la pallina altre due volte, senza puntare nulla. Uscirono prima il sei nero e dopo lo zero. A quel punto feci la mia scommessa. Misi tutto il mio gruzzolo sul dodici rosso. Ero un temerario in quel sogno. Puntare tutto su un numero era davvero una scommessa ardita. Le probabilità di vincita sono di poco inferiori al tre per cento, visto che ci sono trentacinque numeri possibili. Non so perché, ma ero assolutamente sicuro di me. Anche altri misero le loro fiche sul tabellone, ma la mia puntata aveva monopolizzato l’attenzione di tutti. Vidi qualcuno che dava una pacca al fianco di qualcun altro, per fargli vedere la pazzia che stavo commettendo. Nel giro di pochissimo, si erano aggiunte almeno una decina di persone intorno al tavolo per vedere come sarebbe andata a finire. Il croupier diede una spinta alla ruota della roulette che cominciò a girare. Poi, lanciò la pallina in senso contrario rispetto al movimento della ruota numerata. La pallina cominciò a girare velocemente, mentre la ruota con i numeri proseguiva la sua corsa. Sentivo una calma davvero impressionante. Era come se quella giocata l’avesse fatta qualcun altro. Per me che guardavo, era ovviamente così. Ma la calma proveniva da quel mio alter ego che aveva puntato i mille euro sul dodici rosso. Io non ero così nella vita reale. Ero stato al casinò solo una volta, e ricordo con quanti tentennamenti avevo giocato i miei cinquanta euro. E alla fine ero tornato a casa con cinquanta euro in meno.

Non ero mai riuscito a capire come fero quelli che si giocavano tutto ai casinò. Ne conoscevo almeno due così. Tipi che quando arrivavano, prima di entrare andavano a fare il pieno, per essere sicuri di poter tornare indietro nel caso in cui fosse andata male. E andava male spesso, per quanto ne sapevo. La pallina, nel frattempo, perdeva di velocità, e alla fine cominciò a rimbalzare tra le scanalature numerate. Quattro, cinque rimbalzi, e si fermò. Dodici rosso. Incredibile. Fui investito da una sensazione di euforia incontenibile. Tutti si voltarono a guardare me e qualcuno lanciò anche un urlo di giubilo. Avevo appena vinto settantamila euro. In un casinò ufficiale il numero unico solitamente è pagato trentasette volte la posta giocata. In quel caso la quota era raddoppiata. Forse era uno stratagemma per attirare clienti e fargli accettare il rischio di avere problemi con la polizia. Rischi, ma se vinci ne vale la pena. “Fantastico!” mi sentii urlare. “Complimenti” disse il croupier. Un paio di quelli che erano al tavolo si avvicinarono e mi diedero una pacca sulla spalla. “Che fortuna!” esclamò uno di questi. “Bravo!” disse quell’altro, come se fosse dipeso dalla mia abilità. Ancora qualche pacca sulle spalle, e mi svegliai. Guardai la sveglia sul comodino. Le tre e mezzo. Ero sudato, ma non avevo voglia di alzarmi.

Istintivamente allungai il braccio alla mia destra, alla ricerca di un contatto con Serena. Invece sentii solo il freddo del posto vuoto. Lei non c’era. Mi scossi, confuso e infastidito, e poi ricordai perché il suo posto era vuoto. Sentii lo sconforto che cominciava a farsi strada. Non ne avevo voglia, ma mi alzai lo stesso: mi era completamente ato il sonno. Mi cambiai e decisi che la doccia l’avrei fatta alla solita ora. Non volevo darla vinta alla mia tensione. Mi sarei fatto qualcosa di caldo e sarei tornato a letto. Andai in cucina e misi a scaldare dell’acqua. Il tè non era indicato, quindi scelsi una tisana alla frutta. Una di quelle che beveva sempre lei, e che non si era portata via. Decisi di buttar via quel pensiero, altrimenti non avrei risolto nulla nemmeno con un sonnifero. E così mi concentrai sul sogno che avevo appena fatto. Era la seconda volta che mi succedeva di sognare in quel modo strano. La prima era stata tutto sommato piacevole: avevo avuto anche un orgasmo! Anche quel sogno era stato piacevole. Avevo vinto un bel gruzzolo, e Dio solo sa quanto mi avrebbero fatto comodo quei soldi nella mia vita reale, visto che ora avrei dovuto far tutto da solo. Ripensai a quello che mi era venuto in mente quella mattina: avevo sognato di tradire Serena e in qualche modo era successo qualcosa che riguardava lo stesso argomento: il tradimento. Solo che era successo al contrario. E se quei sogni strani fossero davvero delle premonizioni? Beh, se funzionavano al contrario, avrei perso una bella somma, cosa che non mi piaceva nemmeno un po’. Sicuramente non al gioco. Quello non faceva per me.

‘Ma poi’ pensai ‘alla fine sono solo teorie che stanno nella mia testa’. Non avevo mai avuto premonizioni in vita mia, e quelle di cui avevo sentito parlare erano così clamorose che puzzavano di falso lontano un miglio. Tutti erano in grado di citare almeno un avvenimento che gli era capitato collegandolo con qualcosa che avevano sentito o sognato. Ma esistevano anche le coincidenze, e quelle non erano solitamente tenute in considerazione dai sostenitori della preveggenza. Non avrei risolto nulla continuando così. Avrei potuto pensarci per il resto della notte e anche del giorno dopo e non sarei comunque arrivato a nulla. Bevvi la tisana e decisi di tornare a letto. Mi misi sotto il piumone cercando di rilassarmi svuotando la mente. Poi, un pensiero mi colpì improvviso. C’era un modo per sapere se quei sogni significavano davvero qualcosa. Rischiavo di fare la figura dell’imbecille, ma volevo affrontare la questione di petto, per chiuderla definitivamente. O per cominciare ad avere paura davvero. L’avrei fatto quella sera stessa, dopo il lavoro. Sorrisi al pensiero, e contemporaneamente mi dissi che sarei stato un cretino se avessi seguito quella follia. Ma non volevo restare così, nel dubbio. L’avrei fatto costi quel che costi. Mi girai soddisfatto della mia decisione e presi sonno quasi subito. Non ci furono altri sogni.

5 - Il casinò

Mi svegliai alle sei. Avevo la mente un po’ annebbiata, ma ricordavo molto bene il sogno fatto quella notte. E anche la decisione che avevo preso. Mi alzai e andai in bagno. Mi sbarbai, mi tolsi la medaglietta e feci una doccia. Dopo essermi asciugato rimisi la medaglietta e mi spostai in camera. Mentre mi vestivo, con la lucidità del giorno, pensai che quello che avevo in mente era pazzesco. Poi cambiai ancora idea, dicendomi che alla fine avrei rischiato una brutta figura e basta. Almeno avrei zittito definitivamente quella parte di me che continuava ad attribuire significati improbabili ai miei sogni. Andai in ufficio e mi concentrai sulle cose che dovevo fare. Per fortuna, il lavoro mi assorbiva completamente. Senza nemmeno rendermene conto, arrivarono le sei di sera e uscii. Tornai verso casa. Mi era venuta la tentazione di are dal Nikola’s, ma non volevo esagerare. Dovevo imparare a misurare diversamente le mie risorse. Ora c’era un solo stipendio su cui contare. Era trascorso solo un giorno da che Serena era andata via. Stavo male a pensarci, ma mi sforzavo di credere che andasse già meglio. Per non cedere alla disperazione, a volte, ti illudi di essere forte, che stai già superando il problema. Oggi so che non è così. Le ferite hanno bisogno di tempo per guarire e la pazienza è lo strumento principale per lasciarle cicatrizzare. Quella sera, però, mentre tornavo, pensavo che in fondo non ci stavo poi male in quella casa da solo, anche se c’erano tanti ricordi che mi facevano soffrire. Cinque anni ati a stretto contatto con una persona lasciano segni molto marcati e l’ambiente assorbe la presenza di chi ci vive.

L’alternativa era vendere e andare a vivere da un’altra parte. Quello, però, non era un buon momento per il mercato immobiliare, e poi non sarebbe cambiato molto dal punto di vista economico. Avrei comunque dovuto fare un mutuo, e affrontare una serie di spese in più, come quella del trasloco, del notaio e tutto il resto. Credevo ancora di poter riuscire a rimanere lì. Se avessi cambiato, avrei puntato logicamente su una casa più piccola, ma non volevo rimanere da solo. A trentacinque anni ero deciso a ricostruire la mia vita il più in fretta possibile. Un monolocale era da scartare. Sarebbe stata una resa alla mia condizione di single. Se fossi riuscito a trovare un accordo con Serena, non mi sarei svenato per pagarle subito la metà della casa. Del resto lei era andata a vivere da Paolo e, probabilmente, non aveva esigenze immediate di comprare qualcosa. C’era tutto il tempo del mondo per saldarla. Con questo in mente, decisi di mangiare a casa. Avevo ancora qualcosa in frigorifero e potevo far a meno di spendere soldi. Parcheggiai vicino al cancello, come facevo tutte le sere. Mentre entravo, pensai che a questo punto avrei potuto mettere la macchina nel box. Fino a quel momento, avevo lasciato che lo usasse lei. Ora era libero. Scacciai i primissimi pensieri di autocommiserazione che volevano affacciarsi e mi preparai qualcosa di semplice: carne in scatola e mais. Accesi la televisione e mangiai guardando il telegiornale. Quando finii, lavai il piatto, le posate e misi tutto a posto. Guardai l’ora: le otto. Che dovevo fare? Seguire quel pensiero folle che avevo avuto o lasciar stare? In casa c’era una cassaforte dentro l’armadio della camera, con dentro dei soldi in contanti per eventuali emergenze. Avevo già controllato il giorno prima, risistemando le mie cose per non lasciare spazi liberi, e avevo contato mille euro in banconote da duecento. Aprii la cassaforte e rimasi a guardarli indeciso. Nella mia situazione non potevo permettermi il lusso di buttare via mille euro. Però,

pensai, avrei potuto vincerne molti di più se il sogno si fosse avverato. E con quei soldi in tasca avrei fatto un sacco di cose. Con un impeto improvviso li presi tutti e li misi in tasca. Non sapevo ancora se avrei giocato o no, ma non mi sarebbe costato nulla portarmeli dietro. Aspettai le nove e uscii. Salii in macchina e mi diressi verso l’autostrada. Girai sulla tangenziale ovest e poi percorsi la est, rifacendo il percorso della notte prima. Uscii a Cascina Gobba e presi la via Padova. Quando arrivai vicino il posto dove nel mio sogno c’era il Pussy Cat, rallentai e cominciai a guardare le insegne dei negozi che c’erano dall’altra parte della strada. Ed eccolo lì. Il Pussy Cat esisteva davvero! Questo pensiero fece accelerare un po’ il cuore, ma cercai subito di soffocare quell’emozione pensando che alla fine potevo aver visto qualche volta di sfuggita quel locale, senza memorizzarlo, e poi sognarlo. Erano anni che non avo da quella via. Chissà da quanto tempo c’era il Pussy Cat. Sicuramente l’avevo visto in ato e me n’ero dimenticato. Parcheggiai, attraversai la strada e mi avviai verso il locale. Arrivai e vidi il cartellone. Pubblicizzava le performance di Jessica. Quando vidi la ragazza bionda del manifesto con le tette grosse come pompelmi, non riuscii a trattenere un sussulto. Una coincidenza? Qualcuno aveva detto che una coincidenza può capitare. Quando diventano due, la faccenda si fa sospetta. Se sono tre, allora ci troviamo di fronte a un fatto.

Quella era la seconda. O forse solo la prima? Se il locale l’avevo visto in ato, dimenticandomene, ritrovarlo qui non poteva essere considerata una coincidenza. Ero abbastanza sicuro di non averlo mai notato prima, anche se la mente può giocare brutti scherzi. E mai come in quel periodo avevo dubbi sulla mia mente, visto i sogni che stavo facendo. Guardai l’orologio. Le dieci meno un quarto. Decisi di seguire fino in fondo quella follia e m’incamminai per far are quel quarto d’ora che mancava alle dieci. Alle dieci meno un minuto, salutai il buttafuori e mi avviai verso l’ingresso. “Adesso faccio una figura del cazzo” pensai. Mi preparai alla reazione del tipo che stava nel gabbiotto, mi avvicinai e dissi: “Mi ha invitato Sergio.” Quello mi guardò dritto in faccia. Probabilmente divenni paonazzo, perché sentii il calore diffondersi sulle guance e risalire fino alle orecchie. Poi mi disse: “Entra pure.” Sarei voluto svenire. Mi girava la testa, ma non volevo darlo a vedere. Entrai, appoggiandomi con una mano alla parete, perché le gambe mi tremavano. Con il fiato in gola, andai a sedermi sulla sinistra, come avevo fatto qualche ora prima nel mio sogno. Anche nella realtà c’erano poche persone sparse nella platea. Credo però che sia un classico di quei posti dove i guardoni frustrati ano qualche ora riempiendosi gli occhi con spettacoli che nessuna donna gli ha mai fatto vedere da vicino. Aspettai qualche minuto e le luci si spensero. Uscì l’infermiera sexy del mio sogno e poi il tizio dalla porta laterale verso metà platea.

Venne verso di me, si abbassò e sussurrò: “Sergio vuol sapere che cosa fai.” Feci fatica a deglutire. Oggi sembra facile ricordare tutto quello che avvenne quella sera, come se fosse normale, ma non era normale e io ero così emozionato da far fatica a respirare. “Credo che mi farò un giro” gli risposi. “Andiamo” mi disse lui. Il cuore stava impazzendo, penso sia arrivato a centoventi battiti il minuto. Lasciai il cappotto nell’attaccapanni e ripercorsi la strada che conoscevo bene per raggiungere il casinò. Era tutto al posto giusto, ogni cosa. Mancava solo il saluto di qualcuno dei giocatori presenti nel locale. Del resto, nel sogno ero un cliente abituale, mentre nella vita reale era la prima volta che mettevo piede lì. Ero andato in quella bisca per avere conferme, e le avevo avute. Sarei potuto andar via, ma non avrei mai saputo fino a che punto quello che avevo sognato aveva un riscontro nella mia vita reale. Per esempio, sarebbero usciti gli stessi numeri che avevo sognato? O, come nel sogno del tradimento, le cose si sarebbero verificate al contrario? Ma che cosa significava, nel caso dei numeri, il contrario? Ventuno al posto di dodici? Avevo tante domande e volevo tutte le risposte possibili. Decisi di rimanere e di vedere con i miei occhi. Era la prima volta che mettevo piede lì, sicuramente mi avrebbero tenuto d’occhio. Conoscevo i codici per entrare, ma non credo fosse un segreto così impenetrabile. Pensai che la cosa migliore da fare per dare meno nell’occhio fosse giocare un po’ di fiche. Nel mio sogno i soldi me li aveva cambiati il barista. Decisi di continuare a fidarmi, così andai al bancone del bar e ordinai uno scotch. Dopo averlo trangugiato, e vi assicuro che ne avevo davvero bisogno, cambiai mille euro in fiche. Mi sono chiesto diverse volte nei giorni successivi perché cambiai tutti i soldi. Lo feci senza pensarci, come se fosse stata la cosa più ovvia. In quel momento non volevo certo giocarmeli tutti, non potevo

permettermelo. Avevo deciso di fare qualche puntata, ma avevo cambiato tutto il mio gruzzolo, non saprei dire perché. Sbirciai i tavoli da poker, quello dello chemin de fer, e mi avviai risoluto verso la roulette. Per rispondere alle mie domande, avrei dovuto ricordare la sequenza di numeri del sogno e confrontarla con quelli che sarebbero usciti davvero. Se la memoria non mi tradiva, il primo era il ventidue nero. In quel momento ero solamente curioso, volevo verificare la mia teoria e basta. Come nel mio sogno, quando arrivai al tavolo, la pallina girava. Qualche istante dopo si fermò. “Ventidue nero, pari” disse il croupier. “Ci siamo” pensai. Il numero coincideva. A quanto pare, la realtà stava proponendo qualcosa che era avvenuto nella mia mente durante il sonno. Tutto nello stesso modo. La teoria del sogno premonitore al contrario, non sembrava più reggere di fronte a quella evidenza. Credo fu in quel momento che pensai per la prima volta che se avessi puntato qualcosa, avrei potuto vincere dei soldi. Era ancora troppo presto per dirlo. La coincidenza di un solo numero non era sufficiente. Dovevo avere pazienza. Non avevo molti lanci a disposizione: ne avevo sognati una decina prima di svegliarmi dopo aver vinto tutti quei soldi. Pensai che se avessi agito con calma, sarebbero bastati per aiutarmi a capire come funzionava e magari per puntare qualcosa. La sequenza che avevo sognato, prevedeva per questo turno il trentaquattro rosso. Il croupier lanciò la pallina, che schizzò veloce. Non riuscivo a rimanere distaccato. Avevo il fiato corto mentre aspettavo che la pallina si fermasse. Non era un libro, era la mia vita, e quello che stava succedendo lo vivevo proprio io. La pallina rallentò e cominciò a saltare tra le scanalature della roulette. Si fermò.

Trentaquattro rosso. Un tuffo al cuore: anche in questo caso il numero coincideva con quello che avevo sognato. Sembrava proprio che la sequenza fosse la stessa. Lo ricordo molto bene: mi dissi in quel momento che sarei stato un idiota a non approfittare di quello che sapevo. Conoscevo tutti i numeri che sarebbero usciti. Che problema c’era a scommettere qualcosa? Non avrei fatto del male a nessuno. Anzi, avrei verificato se con le mie puntate ero in grado di modificare la realtà. “La mia non è avidità” mentii a me stesso “ma bisogno di capire.” Così puntai cento euro sul rosso, mettendo i dieci gettoni sul tabellone. Nel sogno era uscito il diciotto, rosso appunto. La pallina fu lanciata per la terza volta. Questa volta l’emozione era rincarata dalla puntata che avevo fatto. Dopo diversi giri, rallentò e alla fine si fermò del tutto. Trattenni il fiato. “Diciotto, rosso, pari” disse il croupier. I miei cento euro erano appena raddoppiati. Era stato facile e anche piacevole. A quel punto mi sarei dovuto fermare. Avevo avuto la dimostrazione che la sequenza era la stessa del sogno, avevo puntato e vinto qualche cosa, verificando sperimentalmente che le mie azioni non modificavano la realtà. Che cosa volevo di più? Volevo i soldi. Era come trovarsi in un giardino dove sono disseminate migliaia di monete d’oro. Potresti fermarti quando hai le mani e le tasche piene. Però le monete sono lì, tra l’erba. Le guardi e pensi: “Ne prendo ancora qualcuna, poi basta.” E continui a raccoglierle, mettendole dappertutto, incapace di fermarti. Vorresti avere mille tasche ove infilarle, per non lasciarne nemmeno una. Senza rendermene conto, stavo provando quelle stesse emozioni. Ero

improvvisamente diventato avido. Volevo di più, anzi, smaniavo al pensiero di tutto quello che avrei potuto raccogliere. Contai cento euro e li misi sul venti nero, che sarebbe stato il prossimo a uscire. Ero emozionato ma non rischiavo nulla. Ero pronto a raccogliere. La pallina fu lanciata per la quarta volta. Dopo diversi rimbalzi, si fermò come previsto sul venti nero. Avevo appena vinto settanta volte la posta, ossia settemila euro. Esultai. Tra quelli che erano a quel tavolo, qualcuno si lasciò andare a un’esclamazione di sorpresa e qualcun altro fece una smorfia per la mia fortuna sfacciata. Settemila euro erano stati una bella emozione ma nulla di paragonabile a quella che avevo vissuto la notte prima quando ne avevo vinti settantamila. Non ero soddisfatto. Il prossimo numero a uscire sarebbe stato il dieci nero. Misi cento euro sul dieci nero, come se fosse stata la cosa più normale da fare. A quel punto, avevo già le mani e le tasche piene di monete d’oro, ma nel campo ce n’erano così tante! Uno spreco lasciarle a terra. L’avidità mi offuscava la mente e il cuore. Qualcuno notò la mia puntata, perché vidi che dava un colpetto sul fianco del vicino indicando me. Non me ne curai: avevo altro cui pensare. Il croupier lanciò la pallina per l’ennesima volta. Diversi rimbalzi dopo, si piantò nella scanalatura del dieci. Altri settemila euro per me. Esultai ancora una volta, alzando addirittura un pugno al cielo, come se avessi appena compiuto uno sforzo sovrumano e quella fosse stata la giusta ricompensa. La torre di fiche era cresciuta un bel po’.

Mancavano quattro numeri, poi avrei dovuto smettere per forza. Mi venne la pazza idea di realizzare i soldi che mi sarebbero serviti per la casa. Vincere centomila euro sarebbe stato l’ideale: avrei liquidato Serena senza dover fare un altro mutuo, e avrei pagato tutte le altre spese di contorno. “Bella idea!” pensai scioccamente. Feci un rapido calcolo. Se avessi puntato trecentocinquanta euro a giocata, ne avrei realizzati centomila in quattro turni, e me ne sarei tornato a casa, felice e contento. Puntai i trecentocinquanta sul trenta rosso. Era il numero che nel mio sogno mi aveva consentito di ritornare a pari dopo aver perso i tre gettoni nel tiro precedente. Il croupier lanciò la pallina dopo aver avviato la roulette. Dopo diversi giri, la pallina cominciò a rimbalzare tra le scanalature, finché non si fermò del tutto. Trenta rosso. Ventiquattromila cinquecento euro. “Urrà!” urlai senza ritegno. “Complimenti” disse il croupier, avvicinando le fiche alla mia postazione. Inevitabilmente, le mie vincite avevano richiamato l’attenzione di altri giocatori, che si erano avvicinati al tavolo. Erano tutti curiosi di sapere che cosa avrei fatto. Non li avrei delusi. Il prossimo numero sarebbe stato il sei nero. Sistemai le fiche sul tabellone e feci finta di incrociare le dita. Tutti gli altri finirono di puntare e aspettarono che il croupier lanciasse la pallina. Dopo una serie di giri e di rimbalzi, prevedibilmente, almeno per me, si posizionò sul sei. Udii distintamente un’esclamazione di stupore nelle persone che avevano assistito al miracolo. Altri ventiquattromila cinquecento euro che si aggiungevano al mio capitale.

Ero arrivato oltre i cinquantamila euro, ma non ero ancora sazio. Quando sistemai trecento cinquanta euro sul numero zero, vidi con la coda dell’occhio un tipo piuttosto robusto che si avvicinò al tavolo. Non l’avevo notato prima, nonostante fosse grosso come un armadio. Mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, ma non avevo ancora capito bene cosa. Fu in quel momento che una lampadina si accese nella mia testa: probabilmente quell’energumeno era un dipendente della bisca e lo avevano mandato a controllare che cosa stava succedendo. Avevo azzeccato troppi numeri. Che stupido! Non avevo pensato che tutte quelle vincite consecutive avrebbero destato dei sospetti. Mi ero dimenticato dove mi trovavo. Tutti quei soldi che avevo vinto, li stavo prelevando dalle tasche di qualche malavitoso che gestiva quel locale. Non mi avrebbe permesso di andar via con centomila dei suoi preziosi euro. “Forse è meglio che mi fermi” dissi tentando di recuperare le fiche che avevo sistemato sul tabellone in corrispondenza dello zero. “No, no, lasci pure tutto com’è. Vediamo se è ancora fortunato” disse l’armadio alla mia destra, impedendomi di raccogliere la mia giocata. Il suo tono era gentile, ma l’espressione dei suoi occhi faceva capire molto bene che non stava chiedendo nulla. Dovevo stare fermo e aspettare. Cominciai a sudare copiosamente. Sapevo già come sarebbe andato a finire quel giro di roulette. Non sapevo come sarebbe andata a finire per me. Il croupier lanciò la pallina che cominciò a girare velocemente. Girò per un po’, saltellò e finì sullo zero. Ci furono altre esclamazioni di stupore tra gli spettatori del tavolo, che nel frattempo erano diventati una ventina. Il tipo allungò una mano e mi disse: “Complimenti davvero. Ha indovinato anche questa volta. Prenda la sua vincita.” Il croupier con viso cupo stava spingendo verso di me tutte le fiche che avevo vinto. Avrei voluto perdere tutto, ma ormai era tardi.

“Penso che mi fermerò qui” mormorai lentamente. “Ma no, perché non continua a giocare?” chiese il tipo alla mia destra. “Lei è così fortunato che sarebbe un vero peccato non approfittarne.” “No, meglio che smetta ora. Si è fatto tardi” dissi sempre più angosciato. Penso che se avessi puntato la metà di quello che avevo vinto su un numero perdente, forse me la sarei cavata. Ma avevo raccolto le monete d’oro e non volevo rinunciarci. Che idiota! Raccolsi tutte le fiche e mi allontanai dal tavolo della roulette. Volevo cambiarle in fretta per scappare da quel posto. Andai verso il bar. Sgomento notai che il tipo grosso come un armadio, mi stava alle calcagna. “Posso cambiare le fiche?” chiesi al barista. “Non voglio sfidare oltre la fortuna” aggiunsi, come se avessi bisogno di giustificarmi. “Non posso cambiare tutti quei gettoni” rispose lui. “Deve andare in ufficio. È lì in fondo sulla destra” aggiunse indicandomi il lato opposto del locale. “Venga, l’accompagno io”, disse l’energumeno che mi aveva seguito fin lì. Se mi fosse stato possibile scappare mollando lì tutto, lo avrei fatto più che volentieri. Purtroppo non c’era via di scampo. Mi fece segno di seguirlo ed era fin troppo chiaro che non avevo scelta. Mi rassegnai al mio destino e lo seguii. Entrammo nell’ufficio in fondo alla sala. Appena dentro, mi resi conto che quel posto non aveva nulla da invidiare ai casinò: c’erano una decina di monitor che riprendevano in tempo reale quello che avveniva sui tavoli da gioco. Tre persone li controllavano costantemente. Si avvicinò un tipo vestito con giacca e cravatta. Sorrideva, ma guardandolo in faccia avrei preferito che non lo fe. Allungò la mano e mi disse: “Io sono Sergio, il direttore di questo posto.”

Strinsi la sua mano, non sapendo se stavo facendo un errore. Non avevo idea di come avrei dovuto comportarmi. “Venga con me in ufficio, parleremo più tranquillamente” mi disse e si avviò. L’armadio ci seguì anche se non era stato invitato. Si sedette su una poltrona enorme in pelle nera. La scrivania era di legno pregiato, occupata solo da un sottomano di cuoio. Mi fece segno di accomodarmi. L’energumeno rimase in piedi dietro di me. Non potei non notare che la mia posizione era più in basso della sua. Si sporse sulla scrivania, in modo da far pesare ulteriormente la differenza tra la sua posizione e la mia e fece un sorriso di circostanza. “Voglio essere diretto, così perdiamo meno tempo tutti quanti” disse. “Dimmi come hai fatto. Hai vinto cinque volte di seguito, prendendo quattro numeri secchi. Secondo me sei d’accordo con Giancarlo, il croupier. Sto sbagliando?” “Giancarlo?” ripetei come un mentecatto. “Non mi far perdere tempo” disse lui alzando la voce. “Come hai fatto a prendere tutte quelle puntate? Quelli che vengono qui la prima volta, li osservo io personalmente. Non hai sbagliato un colpo. O sei un indovino, o qualcuno ti regge il gioco. Dato che c’è uno solo che tira la pallina, a chi devo pensare se non a quel figlio di puttana di Giancarlo?” “Non conosco Giancarlo. Se è il croupier, è la prima volta che lo vedo in vita mia. Sono stato fortunato. Ho vinto, ma avrei potuto perdere.” “Invece hai vinto. Se non ho sbagliato i conti, sei arrivato a settantacinquemila euro. Nessuno, e sottolineo nessuno, ha mai vinto una cifra del genere con cinque puntate alla roulette senza sbagliarne una. Hai indovinato il colore al primo lancio e poi quattro numeri di seguito. Se ne avessi azzeccato uno non ci avrei pensato. Può succedere. Già con due numeri, la cosa avrebbe puzzato un po’. Quattro numeri sono uno sfottò. Chi volevate prendere per il culo, damerino? Avevate intenzione di far saltare il banco? Quanto hai promesso a Giancarlo?” “Non so di che cosa stia parlando” dissi con un tono che avrei voluto fosse più sicuro, ma che invece puzzava di paura.

“Non ho tempo da perdere con te” disse lui con faccia schifata. “Se fosse successo quattro o cinque anni fa, a quest’ora saresti già in fondo al Naviglio, con delle belle scarpe di cemento. Adesso, invece, dobbiamo evitare di fare casino. Pago una tonnellata di euro alle persone giuste per stare tranquillo, non voglio rovinarmi la piazza per gente come voi. Lascia sul tavolo le tue fiche e vattene via. Al tuo compare ci penso io questa sera. Penso sia evidente che non voglio rivedere la tua faccia nel mio locale. Sono stato chiaro?” “Sì” riuscii a dire con un filo di voce. Il discorso per lui era finito, si alzò e uscì dalla stanza. Il tipo che mi aveva scortato nell’ufficio, fece segno di lasciare sulla scrivania il porta fiche. Poi mi fece alzare, mi prese sotto braccio e mi accompagnò verso l’uscita. Mi evitò l’imbarazzo di essere buttato fuori di fronte a tutti. O più probabilmente fu discreto per evitare che i giocatori pensassero che in quel locale non si potesse vincere. Si fermò subito fuori dall’ufficio e mi fece cenno di andar via. Attraversai la sala da gioco con lui che mi guardava le spalle. Salii le scale e tornai di sopra. Ero stato uno stupido. Dovevo ringraziare il mio angelo custode per essermela cavata tutto sommato bene. Ci avevo rimesso tutti i soldi vinti e avevo perso anche i miei mille iniziali, ma sarebbe potuto andare peggio. Molto peggio. Mi ero lasciato trasportare dall’avidità. Volevo quei soldi e mi ero illuso di poterli avere facilmente. Ormai era inutile piangerci su. In ogni caso, decisi che non avrei messo più piede in nessun locale del genere. Non facevano per me. I tipi che stavano di guardia al guardaroba mi stavano aspettando con il mio cappotto in mano. Me lo arono senza dire nulla. Meglio così, per quella sera ne avevo abbastanza. Rientrai nel Pussy Cat. In quel momento, si stava esibendo Jessica, la bionda platinata del cartellone. Indossava solo un reggiseno rosso e un perizoma in tinta. Si dimenava sul palco nel tentativo di apparire provocante. Lo spettacolo mi dava il voltastomaco.

Uscii mesto per strada e mi diressi alla macchina. Decisi di attraversare Milano invece che riprendere la tangenziale. Perlomeno avrei visto un po’ di movimento. Mentre percorrevo la circonvallazione, vidi una ragazza sul marciapiedi che si prostituiva. Nonostante fe piuttosto freddo, aveva una minigonna che le lasciava scoperto gran parte del culo. Inevitabilmente pensai che non facevo sesso da più di tre mesi. All’inizio, con Serena, fare l’amore era stato esaltante. C’eravamo conosciuti a una festa di amici, entrambi avevamo bevuto un po’ troppo e alla fine c’eravamo chiusi nel bagno. Quella era stata la prima volta che l’avevamo fatto. Sulla lavatrice, a casa di Beatrice. Da quella sera avevamo cominciato a frequentarci regolarmente. La nostra era un’attrazione quasi magnetica. È chimica, diceva sempre Serena. In quel periodo non riuscivamo a stare insieme senza finire per fare l’amore. Eravamo scatenati. Lo facevamo ovunque capitasse. Nel bagno di un cinema, sul balcone di casa sua, nella mia macchina, nella vasca da bagno. Quella non era l’unica cosa che ci legava, perché parlavamo per ore: della nostra vita prima di conoscerci, dei posti che avevamo visitato, del nostro lavoro. Avevamo anche tanti interessi in comune: la lettura, il cinema, i viaggi. L’unica cosa che non condividevamo era il mio interesse per l’esoterismo e per la spiritualità. Lei era una donna molto pratica, che doveva toccare con mano per capire e credere. Agnostica per definizione e incredula per scelta. A parte quell’aspetto, per il resto avevamo la stessa visione della vita. Sposarci non era stata semplicemente una logica conseguenza dello stare insieme. Lo volevamo davvero, con tutte le nostre forze. Ci amavamo molto e ci sentivamo tremendamente attratti l’uno dall’altra.

E ora lei mi aveva lasciato per il mio migliore amico. Come possono cambiare le cose nella vita. Sapevo che pensando così mi facevo solo del male, ma non potevo continuare a eludere una domanda fondamentale: avrei potuto fare qualcosa per evitarlo? Se non avessi accettato ivamente il suo progressivo allontanamento, sarebbe cambiato qualcosa? Probabilmente no. Lei aveva detto che era stata colpa sua. Era andata in crisi, e non mi aveva detto nulla. Io, d’altra parte, non ci avevo dato peso. Invece che starle vicino, l’avevo lasciata da sola, pensando che con il tempo tutto si aggiustasse da sé. Negli ultimi giorni avevo notato una particolare freddezza nei miei confronti e una durezza che non avevo mai sperimentato prima, ma anche questi elementi li avevo sottovalutati. E poi, Paolo, il mio migliore amico. Neanche lui mi aveva detto nulla. Si era inventato la storia di quella Elisabetta che non esisteva. Perché? Non voleva farmi del male? Credeva davvero che non avrei sofferto? Che cosa pensava, di poter andare avanti così, a tradire la mia fiducia, la mia amicizia scopandosi mia moglie senza dirmi nulla? La loro storia era iniziata a settembre, da quello che aveva detto lei. Ripercorsi quei tre mesi per calcolare quante volte ci eravamo visti io e lui. Forse una decina di volte, forse di più. Era stato con me facendo finta di nulla. Che razza di amico era? Inevitabilmente cresceva la rabbia pensando a quello che era successo. Il suo comportamento non era stato protettivo nei miei confronti. Era stato semplicemente un vigliacco, che non aveva avuto il coraggio di assumersi le sue responsabilità. Quella era la verità nuda e cruda. E voleva che rimanessimo amici? Con quelle premesse? Che scomparisse dalla mia vista, altro che amicizia!

“Ti vuole bene come un fratello” aveva detto lei. Certo, come Caino voleva bene ad Abele. Come potevo giudicare Serena? Non avevo una risposta a questa domanda. Quello che era successo con Paolo sarebbe potuto accadere con un’altra persona. Anche lei, però, non si era comportata lealmente con me. Mi aveva tradito per tre mesi senza dire nulla. E alla fine se n’era andata, da un giorno all’altro. Ero arrabbiato con entrambi. Pensai che la rabbia era un ottimo stato d’animo per affrontare quella situazione, perché mi aiutava a reagire. Volevo dimostrare a quei due che potevo vivere bene anche senza di loro. C’erano tante cose pratiche da risolvere con lei e la prima di queste riguardava la casa. Avrei dovuto chiamarla per parlarne, ma non mi sentivo ancora pronto. Non volevo in nessun modo mostrarle la mia sofferenza. Non volevo la sua pietà, e nemmeno quella di Paolo. Lo avrei fatto più avanti, quando sarei stato meglio. Nel frattempo, con questi pensieri in testa, ero arrivato a casa. Guardai l’orologio. L’una del mattino. “Domani mattina sarà dura alzarsi” pensai. Mi feci una tisana calda, cominciando ad apprezzare quel rito serale, e mi misi a letto. Ero ancora troppo nervoso per dormire, così presi un libro e lessi qualche pagina. Alla fine spensi la luce e cercai di rilassarmi, come facevo sempre, svuotando la mente. Mi addormentai qualche minuto dopo.

Avrei sognato anche quella notte?

6 - L’incidente

Il mio alter ego si preparò per uscire da casa verso le sette, per andare in ufficio. Prima di uscire, entrò in camera dove c’era una persona che dormiva. Scostò con delicatezza la coperta che le copriva il viso e diede un bacio lieve sulla guancia di quella donna. Riuscii a vederla in viso: era Serena. Ero presente a quella scena come sempre, spettatore di un film che si svolgeva davanti ai miei occhi. L’emozione che provai in quel momento mi fece capire ancora una volta quanto mi mancava. Fu un istante di grandissima intensità, come un batticuore improvviso. Non potei fare a meno di notare che anche quel mio io ebbe una reazione simile. L’avevo trasmessa io o era una sua emozione spontanea? Non ero in grado di rispondere. Sinceramente, in quel momento non me lo chiesi nemmeno, ero rapito dal viso di Serena, dalla dolcezza della sua espressione. Era bella come non mai, radiosa, felice. Aprì leggermente gli occhi e sorrise, ancora assonnata. Sentii distintamente le emozioni che mi arrivavano direttamente al cuore: felicità, ione, amore. Non avevo dubbi sulla provenienza: venivano da quel mio alter ego che stavo sognando. Lei fece per tirarsi su, ma lui la bloccò con un altro bacio. “Stai giù, non alzarti” le disse “È ancora presto, e non devi andare da nessuna parte.” Lei sorrise ancora.

“Vengo ad accompagnarti alla porta” disse con quel bel viso pieno di sonno. “No, non ce n’è bisogno. Fa freddo ed è meglio se rimani ancora per un po’ sotto le coperte. E poi, devi pensare anche a lui o a lei” disse quel mio io. Allungò la mano sotto la coperta e le accarezzò la pancia. Con quel modo strano in cui mi arrivavano le sensazioni, potei sentire distintamente anch’io che era gonfia. Era incinta. Serena incinta. Lei sorrise. Aveva quella dolcezza in viso che solo una donna che aspetta un bambino riesce ad avere. E quella voglia di sorridere sempre, che trasmette la gioia che ha nel cuore. Dev’essere una sensazione meravigliosa. Una creatura sta crescendo dentro di te, giorno dopo giorno. Ami quel cucciolo prima ancora di sapere se sarà maschio o femmina, se sarà biondo o bruno, se sarà bellissimo e se avrà il vostro odore sulla pelle. Sentivo l’amore farsi strada prepotente anche dentro di me. Arrivava da quell’altro me stesso che accarezzava piano la pancia di Serena. La baciò con dolcezza e l’aiutò a sistemarsi, rimboccandole le coperte. La salutò e uscì. La macchina in questo sogno era una Subaru. Mi avviai verso l’ufficio, ascoltando RMC. Ero felice, e lo sentivo molto bene. Mi arrivarono immagini di bambini appena nati, lettini, stanzette colorate di rosa o di azzurro. Il mio alter ego stava pensando a come sarebbe cambiata la sua vita dopo la nascita del bambino. Che belle sensazioni. Non avevo tempo per invidiarlo. Ero troppo impegnato a godermele anch’io. Arrivai vicino alla ditta e parcheggiai l’auto.

Scesi, presi lo zaino con il computer dal sedile posteriore, e mi girai per attraversare la strada e raggiungere l’ufficio. Vidi molto bene quello che successe. Avevo un punto di vista privilegiato. Un’auto girò nella via. Non andava particolarmente veloce, ma il guidatore era distratto perché stava litigando al telefono. L’altro me stesso non si accorse di nulla e continuò ad attraversare la corsia. Quando il guidatore girò lo sguardo sulla strada era troppo tardi: era ormai addosso al mio alter ego. L’urto fu piuttosto duro e anch’io che osservavo lo sentii bene, visto che condividevo con lui le belle ma anche le brutte e dolorose sensazioni. Mi colpì sul fianco destro e mi fece fare un volo di tre o quattro metri. Sentii una fitta di dolore alle costole e al bacino. Cadendo strisciai sull’asfalto con la parte sinistra del corpo. Il viso si graffiò profondamente, così come il braccio e la mano. Penso che il mio alter ego svenne, perché anche io ebbi una reazione molto simile alla perdita di sensi. Dopo un po’, riuscii ad aprire gli occhi. I dolori erano parecchio forti. Il tizio che mi aveva investito perlomeno aveva avuto la bontà di fermarsi a soccorrermi. Lo vidi bene in viso. Era spaventato, direi terrorizzato e aveva ancora il telefono in mano. Disse a chiunque c’era dall’altra parte che ne avrebbero parlato dopo. Chiuse seccamente la comunicazione e chiamò un’ambulanza. Poi si chinò su di me e mi chiese: “Come sta? Riesce a sentirmi?” Lo guardai e non dissi nulla. Ero troppo impegnato a star male. Avevo dolori dappertutto. “Mi dispiace” cominciò quello. “Non l’ho vista. È sbucato fuori all’improvviso.” Qualche ante si avvicinò per vedere che cos’era successo. In queste situazioni, di solito, le persone hanno due motivazioni diverse: c’è chi

vuole essere d’aiuto e chi, invece, è lì per godersi lo spettacolo. Il tipo che mi aveva investito era così spaventato che sentiva il bisogno di continuare a parlare. Come un oratore improvvisato di fronte a un pubblico di curiosi continuò a giustificarsi: “Me lo sono trovato di fronte all’improvviso. Forse è sbucato da dietro una macchina, non so. Non mi era mai successo prima. Non andavo nemmeno a cinquanta.” Dopo qualche minuto si era radunata una piccola folla intorno a me. Giacevo immobile a terra, bloccato dai dolori e tutti mi guardavano come se fossi stato una scimmia dentro la gabbia. I più intraprendenti volevano sapere dove sentivo male, se potevo sentirli, se riuscivo a muovere le gambe. Io mi limitavo a soffrire. Poi arrivò un tipo che cominciò a spingere via quelli che si erano avvicinati troppo, urlando: “Spostatevi, lasciatelo respirare.” Finalmente sentii l’urlo della sirena dell’ambulanza. Arrivò velocemente e frenò con uno stridio di pneumatici. Scesero immediatamente tre soccorritori che si avvicinarono per vedere quale fosse la situazione. Mi fecero le stesse domande che mi avevano ripetuto non so quante volte: dove mi faceva male, se potevo muovere le gambe e altro ancora. Poi decisero di portarmi via senza spostarmi. Presero una barella a cucchiaio, la aprirono, la posizionarono e la chio sotto di me. Dopo di che la chio, fissando il collo con una cinghia e un collare, ancorati alla barella stessa. Ero completamente bloccato. Si misero uno ai piedi e uno alla testa, contarono fino a tre e mi sollevarono. Sono sicuro che cercarono di strattonarmi il meno possibile, ma oscillai un po’, quel tanto che bastò per far partire una fitta dolorosissima al costato. Svenni di nuovo. E io mi svegliai. Ero in un bagno di sudore.

Guardai l’ora. Le tre. Dovevo cambiarmi, ma avevo anche bisogno di dormire. Mi ero messo a letto da appena un’ora e mezzo. Mi alzai e cambiai la maglietta. Se fossi tornato a letto subito, forse avrei potuto riprendere sonno. Decisi che era la cosa migliore da fare. Mi misi nell’altra parte del letto, dove dormiva Serena, perché il mio era umido di sudore. Volevo dormire, ma cominciai a guardare il soffitto ripensando al sogno che avevo appena fatto. L’incidente era stato terribile, ma non era quello a cui pensavo. Serena che aspettava un bambino. Godetti ancora le sensazioni che avevo vissuto. Era stato bellissimo quel momento intimo con lei, accarezzarle il pancione. E la sua espressione, quanta felicità che emanava il suo viso ancora assonnato. Avevo pensato fino a quel momento che non essere riusciti ad avere un bambino non fosse stato così importante per la nostra relazione. Ma ora che avevo vissuto quelle sensazioni… Beh, era un pezzo importante della mia vita che mancava. Avrei dovuto dire della nostra vita. Forse la crisi di Serena era stata favorita dall’impossibilità di avere un bimbo. Dopo quella esperienza, anche se era stato solo un sogno, mi resi conto che per lei doveva essere stato ancora più difficile rassegnarsi al fatto che non avremmo avuto figli. Non avevamo mai approfondito il problema per capire se dipendesse da me o da lei. Soprattutto, io non avevo mai spinto più di tanto per tentare di fare qualcosa. Ero stato ivo, anche in quel caso. Avevo sbagliato. Non avevo mai pensato che potesse essere così importante, e superficialmente avevo archiviato l’argomento con un’alzata di spalle. Invece la sensazione di diventare padre era stata bellissima.

Quel sogno aveva ribaltato le mie certezze, l’illusione di aver capito tutto della vita. Dolorosamente ammisi a me stesso che non avevo capito nulla. Mi era ato completamente il sonno. Mi rassegnai e mi alzai. Pensai di farmi un’altra tisana. Magari mi avrebbe permesso di dormire ancora un po’. E invece tirai fuori l’iPad e cominciai a gironzolare su Internet, bevendo caffè. Alle sei ne avevo abbastanza. Era ora di prepararsi per uscire. Mi feci una doccia e cominciai a vestirmi. Uscii, salii in macchina e mi avviai verso l’ufficio. Ero un po’ intontito per la notte persa, ma con qualche caffè in più forse sarei riuscito a rimanere sveglio durante la giornata. Appena uscito dalla tangenziale squillò il cellulare. Guardai il numero ed ebbi un tuffo al cuore. Era Serena. La prima reazione fu di lasciarlo squillare senza rispondere. Poi mi resi conto che mi sarei pentito se non avessi preso la telefonata, e certamente avrei continuato a pensare tutto il giorno a quello che voleva dirmi, formulando mille ipotesi più o meno fantasiose. Magari era successo qualcosa. O forse avevo cominciato a mancarle. Del resto, eravamo stati più di cinque anni insieme. Come si fa a cancellare cinque anni in un attimo? E poi c’era quel sogno, che mi aveva lasciato una sensazione di tenerezza infinita per lei. La verità era che la amavo profondamente e mi mancava da morire. Pensai che

forse si era pentita per la sua decisione e mi telefonava per tastare il terreno. Così risposi. “Ciao, sono io” disse lei. “Come stai?” “Mmmh, cerco di andare avanti. Tu come stai?” “Bene. Non voglio farti perdere tempo. Ti ho chiamato perché ho bisogno di sapere che cos’hai intenzione di fare per la casa.” “Mi avevi detto che mi avresti dato il tempo di decidere con calma” dissi, un po’ deluso per il motivo che l’aveva spinta a chiamarmi e un po’ irritato per questa novità. “Sì, lo so, l’avevo detto, ma le cose cambiano. Abbiamo bisogno di sistemarci in modo diverso. La casa di Paolo è piccola e scomoda. Vorremmo prenderci qualcosa di più grande, perciò ho bisogno di realizzare prima possibile.” “Fammi capire” le dissi irritato. “Te ne esci senza nessun preavviso dicendomi che mi stavi tradendo da tre mesi e per di più con il mio migliore amico, svuoti la casa di tutte le tue cose, mi lasci come un cane che è stato buttato fuori da un’auto in tangenziale e ora mi vieni a dire che hai fretta di realizzare? Ma come cazzo ragioni?” “Senti, Marco, non mettere in mezzo cose che non c’entrano. Se ti ho lasciato, è stato per i motivi che sai bene. Questo non c’entra nulla con la casa. Se ci pensi, non sei tu il cane che è stato lasciato in tangenziale. Sono io quella fuori. A te è rimasta la casa.” “Cosa cazzo stai dicendo?” le urlai. “La casa di cui stai parlando, fino alla settimana scorsa era la NOSTRA casa, e tu eri MIA moglie!” “Smettila di comportarti come un bambino isterico cui è stato tolto il giocattolino” urlò lei. “Qui stiamo parlando di soldi. Tanti soldi. Quella casa è tua quanto mia. Se t’interessa tenerla, accomodati, altrimenti la facciamo valutare e la mettiamo in vendita.” Ero furioso.

E pensare che mi ero illuso che si fosse pentita di quello che aveva fatto. Avevo ammesso con me stesso, non senza fatica, che la amavo e che sentivo la sua mancanza. E invece lei chiamava per i soldi, per sistemarsi meglio con il suo nuovo amore. Brutta stronza. E quel bastardo di Paolo. Sicuramente ne avevano parlato. Lei non era il tipo da prendere queste iniziative senza dire nulla. Ne avevano parlato e lui magari le aveva detto: “Buona idea tesoro.” Figlio di puttana! “Sei davvero una stronza!” le urlai al telefono con quanta voce avevo. Girai nella via del mio ufficio furente, con il telefono in mano, e feci appena in tempo a vedere qualcuno che stava attraversando la strada mentre arrivavo. Lo presi in pieno. Fece un volo di qualche metro e atterrò sull’asfalto. Rimasi inebetito a guardare quello che avevo combinato. Scesi dalla macchina con il telefono ancora in mano e Serena che urlava qualcosa. Mi avvicinai al tipo che avevo investito e mi resi conto che non si muoveva. Ero incapace di qualsiasi reazione. Lo guardavo inebetito pensando che forse l’avevo ammazzato. Poi aprì gli occhi. Serena stava ancora urlando qualcosa al cellulare. Le dissi seccamente “Ne parleremo in un altro momento” e chiusi la comunicazione. Dovevo chiamare un’ambulanza. Cominciò ad arrivare qualche ante a vedere che cos’era successo. Mi chinai verso il tizio riverso sull’asfalto e gli chiesi “Come sta? Riesce a sentirmi?” Lui scostò il braccio che fino a quel momento gli aveva coperto il viso e mi guardò. Credo che il mio cuore perse un colpo. O forse più di uno.

Quello che era a terra in quel momento era lo stesso tizio che mi aveva investito nel mio sogno. Malconcio, dolorante, ma era certamente lui. Cominciò a girarmi la testa. Mi allontanai un po’ e mi appoggiai a un’auto che era parcheggiata lì vicino. Volevo fuggire, scomparire, trovarmi in un batter d’occhi su un altro pianeta. Tutto pur di non essere lì in quel momento, in quella situazione folle. Diverse persone circondavano ora il ferito. Uno di loro cominciò ad allontanarli dicendo “Spostatevi, lasciatelo respirare.” Ancora una volta stava succedendo qualcosa che avevo sognato, e questa volta di nuovo al contrario. Arrivò l’ambulanza, scesero tre soccorritori e, nel giro di pochi minuti, portarono via il tizio con una barella a cucchiaio. Avrei potuto dire quello che sarebbe successo prima ancora che accadesse, perché l’avevo già vissuto, anche se da un punto di vista diverso. Era qualcosa di sconvolgente. Non ebbi più tempo per pensarci, perché arrivò una pattuglia dei vigili urbani per i rilievi del caso. Ero sicuro che mi avrebbero ritirato la patente. Sapevo che se c’era un ferito, di solito lo facevano. Invece, non me la ritirarono, almeno, non subito. Scrissero un verbale piuttosto corposo e mi dissero che mi avrebbero fatto sapere come sarebbe andata a finire. Quando fui libero di andar via, erano ate le dodici e mezzo. Avevo già chiamato Bruno dicendogli che non sarei andato a lavorare per quel giorno. Decisi di andare a vedere come stava il tizio che avevo investito. Avevo sentito quelli dell’ambulanza che informavano la loro centrale che lo avrebbero portato al San Raffaele, così andai lì. Alla reception ci volle più di un quarto d’ora per capire chi era la persona che volevo visitare. Quella mattina c’erano stati altri due incidenti e io non avevo la minima idea di come si chiamasse il ferito. Alla fine, lo individuarono e mi diedero le indicazioni per andare da lui. Entrai nella stanza e vidi che gli avevano ingessato una gamba, fasciato la mano

e bendato anche il viso. Sapevo che doveva avere dolori tremendi anche al fianco e al costato, visto che avevo vissuto in prima persona quello stesso incidente nel mio sogno. Aprì gli occhi, mi vide e disse semplicemente: “Buon giorno.” “Mi spiace, le sono venuto addosso” gli dissi, pieno di vergogna. “Me ne sono accorto.” “Non le racconterò storielle. È stata colpa mia. Solo mia. Ero distratto, stavo litigando al telefono e non mi sono accorto che lei stava attraversando.” “Non si dovrebbe stare al telefono mentre si guida.” “Ha ragione, mi vergogno tremendamente per quello che è successo.” “Poteva andare peggio.” “Sì, ma avrei anche potuto evitare che succedesse, se solo fossi stato più attento. I vigili urbani hanno preso tutti i miei dati e ho già chiamato l’assicurazione. Spero che non ci siano problemi per il pagamento dei danni che ha subìto.” “Sì, lo spero, anche se in questo momento ho altri problemi.” “Immagino. È successo anche a me… un po’ di tempo fa, di essere investito, ed è stato molto doloroso. Credo di averla colpita su un fianco e forse di averle rotto anche qualche costola.” “Direi che la sua descrizione vince il primo premio per precisione.” “Già. Ho una specie di… istinto. Sono venuto per vedere come sta e per scusarmi di persona per quello che è successo. Non voglio stancarla oltre. Volevo che sapesse che non tenterò in nessun modo di evitare le mie responsabilità. Le faccio i miei auguri. E mi scusi ancora.” Uscii dalla stanza e mi diressi verso l’uscita. Stavo male e mi sentivo a pezzi. Che cosa mi stava succedendo? Avevo sempre detestato la monotonia e mi sforzavo di rendere la mia vita

movimentata e interessante. Ma quello che stava succedendo, andava oltre ogni limite. Era come se tutto quello che avevo vissuto fino a quel momento stesse andando a pezzi, e un folletto dispettoso si fosse divertito a spargerli su una superficie sconfinata. Dovevo riflettere con calma, ma avevo anche bisogno di dormire. Decisi di chiamare Bruno. “Ciao Marco. Come stai?” mi chiese premuroso. “Hai una domanda di riserva?” “Scusami. Com’è andata a finire? Come sta la persona che hai investito?” “Credo che mi ritireranno la patente, e forse è meglio così. È un periodo davvero pesante e strano. Il tizio che ho investito ha qualche osso rotto ed è ricoverato al San Raffaele. Sono andato a trovarlo un quarto d’ora fa.” “Poteva andar peggio.” “Sì, penso di sì. Stavo litigando con quella stronza di Serena al cellulare, e non mi sono accorto che quello stava attraversando la strada. L’ho preso in pieno. Poteva rimanerci secco, e a quel punto, mi avresti portato le arance in cella.” “Meno male che non è successo.” “Volevo chiederti se per qualche giorno puoi fare a meno di me” gli dissi. “Sì, non dovrebbero esserci problemi.” “Mi faresti davvero una cortesia. Ho bisogno di fermarmi e di staccare per un po’. Magari mi prendo una o due settimane di ferie.” “Non ci sono problemi. Io sono qui.” “Ti ringrazio, Bruno. Poi vedrò di sdebitarmi.” “Ma figurati, non ci pensare nemmeno. Cerca di riprenderti.” “Ok. Grazie ancora. Se hai bisogno, chiamami.”

Chiusi la comunicazione. Erano le tre del pomeriggio, e avevo un po’ di giorni per tentare di rimettere ordine nella mia vita. Mi diressi verso casa. Avevo bisogno di farmi una doccia e di mettermi a dormire un po’. Al resto avrei pensato dopo.

7 - Paolo e Serena

Quando finii di asciugarmi, dopo la doccia, erano le cinque e mezzo del pomeriggio. Non avevo nulla da fare e nessuno da sentire, solo un gran bisogno di dormire. Così m’infilai sotto il piumone e svuotai completamente la mente. Non volevo pensare a nulla che mi avrebbe potuto impedire di riuscirci per qualche ora. Mi addormentai dopo pochissimi minuti. Mi svegliai verso le nove di sera. Non avevo sogni da ricordare, ma avevo fame. Il pranzo lo avevo saltato ed era ata anche l’ora di cena. Aprii il frigorifero e decisi di prendere una busta di bresaola. Volevo mangiare qualcosa di leggero per rimettermi a letto velocemente e recuperare gran parte delle ore di sonno che avevo perso in quelle ultime notti. Accesi la televisione e mangiai guardando un film che avevo già visto una decina di volte. Non volevo pensare a nulla: aspettavo che il sonno mi permettesse di tornare a dormire, rimandando tutto il resto all’indomani mattina. Finii con il guardare tutto il film, fino verso le undici. Andai in bagno per lavarmi i denti e vidi la medaglietta abbandonata sul ripiano dello specchio. L’avevo tolta per fare la doccia e l’avevo dimenticata lì. La indossai senza pensarci. Mi lavai i denti e tornai a letto. Non riuscii a evitare di pensare a quello che era successo durante il giorno. Avevo quasi ammazzato un tizio per litigare con quella stronza di Serena. La rabbia per quello che aveva detto, per il tono che aveva usato e lo spavento per aver investito quella persona, mi avevano fatto perdere di vista una cosa molto importante.

Quell’incidente lo avevo già vissuto nel mio sogno la notte precedente. Era già il terzo sogno che mi mostrava una situazione che poi avveniva nella realtà. In due, le cose erano successe al contrario. In quello del casinò, invece, le cose avevano funzionato nello stesso modo, almeno fino a quando non mi avevano sbattuto fuori. A questo punto non sapevo bene cosa pensare. C’era una relazione tra i sogni e la realtà, ma non capivo quale. Premonizioni al contrario? Allora non avrebbe avuto senso quello che era successo al casinò, anche se alla fine avevo perso dei soldi, che invece nel sogno avevo vinto. Il risultato finale poteva confermare l’ipotesi, ma il modo era stato completamente diverso. Non avevo perduto giocando, come sarebbe logico nel caso di una premonizione al contrario. Li avevo persi a causa della mia stupida avidità. Rimaneva la domanda principale: come ci si comporta in questi casi? Sogni qualcosa di tremendo, e poi ti chiudi in casa per non correre il rischio che si realizzi? E se sogni qualcosa di bellissimo? Esci di corsa per andare a raccogliere il risultato? Se sono premonizioni al contrario, ti dovresti comportare in modo esattamente opposto. E se rimani tappato in casa per un giorno, che accade quello successivo? Si realizzerà ugualmente o non vale più? Comunque, il risultato complessivo non era stato per niente positivo. Dopo il primo sogno, Serena era andata via con Paolo. Con il secondo avevo perso dei soldi, e con il terzo avevo rischiato di ammazzare una persona. C’era una relazione tra tutti questi sogni? Non mi veniva in mente nulla. Erano comparsi all’improvviso. Non avevo mai vissuto situazioni in terza persona, e non era mai accaduto che nella realtà si realizzasse qualcosa che avevo sognato. La domanda poteva sembrare oziosa, ma non più di tanto. Se non avessi fatto quei sogni, le cose che erano successe sarebbero accadute ugualmente?

Cioè, ero stato in grado per qualche misterioso motivo di vedere prima quello che sarebbe successo, anche se a volte al contrario, o avevo trasformato in cose reali i miei sogni, con il risultato finale invertito? Brancolavo nel buio. Mi resi conto che avrei potuto continuare a fare congetture senza arrivare a nulla per tutta la notte, e non ne avevo voglia. A quel punto un pensiero improvviso mi colpì come un ceffone in pieno viso: i miei sogni erano cominciati dopo aver visitato la Nuova Era. Non era un vero e proprio collegamento e non chiariva nulla dei sogni. Però era un punto da cui partire. Sarei stato a casa per una o due settimane e ne avrei potuto approfittare per tornarci e parlarne con Stefano. Mi era sembrata una persona molto aperta mentalmente. Uno che gestisce un negozio del genere deve per forza avere una mente in grado di prendere in considerazione anche le teorie più improbabili. Forse mi sarebbe stato d’aiuto. In ogni caso, sentivo il bisogno di parlare di quello che mi stava succedendo con qualcuno che non scoppiasse a ridere o che non chiamasse la neurodeliri. Ci sarei andato la mattina successiva, con comodo, verso le dieci. Probabilmente a quell’ora la libreria non era molto frequentata. Anche se era sembrato un tipo disponibile, non penso che mi avrebbe dedicato del tempo se avesse avuto la coda alla cassa. Soddisfatto della mia decisione, spensi la luce e mi girai su un lato per dormire. Adesso potevo davvero rilassarmi e scivolare nel sonno. Mi addormentai quasi immediatamente. Nel mio sogno ero in macchina diretto verso Milano. Non sapevo dove sarei andato. Quello che mi arrivava era rabbia. Una folle rabbia. Si materializzarono alcune immagini di Serena e Paolo. Ero furioso con loro. Un sogno che aveva a che fare con la situazione che avevo vissuto? Probabile. Del resto, spesso sogniamo situazioni che derivano dal contesto reale

della nostra vita. Quando svoltai a destra, diretto verso Basiglio, capii che mi stavo dirigendo a casa di Paolo. Aveva un piccolo appartamento nella parte nuova di Basiglio, quella che in pompa magna era stata chiamata Milano 3. Percorsi la stradina che attraversava i campi accanto a un deposito di carburanti a quasi cento chilometri all’ora. Volevo arrivare in fretta. Non sapevo che cosa avesse scatenato la rabbia incontenibile che mi pervadeva in quel momento. I pensieri mi arrivavano in modo disordinato, come lampi improvvisi in una notte d’estate. Mi arrivarono le immagini di una litigata furiosa con Serena al telefono, poi ricordai la voce di Paolo che mi parlava e cercava di calmarmi. Qual era stato l’argomento scatenante? Non ne avevo idea. Il mio alter ego che stavo sognando non ci pensava. Era arrabbiato, ma non potevo sapere più di quello che mi arrivava dalla sua mente. Superai Basiglio vecchio a centocinquanta all’ora e svoltai alla prima rotonda a destra. Rallentai e girai a sinistra nel parcheggio. Era giorno pieno, anche se il cielo coperto rendeva l’atmosfera cupa. Scesi dalla macchina, una Focus, e mi diressi velocemente verso la fila di ingressi del palazzo a sinistra. La porta a vetri del primo civico era aperta. Entrai e mi diressi spedito verso l’ascensore, che aspettava solo me. Pigiai sul tasto quattro. Le porte automatiche si chio e cominciò il breve viaggio che mi avrebbe portato al piano. Appena arrivato, piombai sul piccolo pianerottolo. Mi diressi verso destra e suonai il camlo di quell’appartamento. Sentii un leggero trambusto dietro la porta. Qualcuno mi aveva visto attraverso lo spioncino e stava parlando sottovoce con qualcun altro. Non dovetti fare un grande sforzo di fantasia a immaginare Paolo che stava avvisando Serena del

mio arrivo. Fecero finta di non essere a casa. Riuscii a sentire distintamente uno dei due che faceva “Shhhh” per zittire quell’altro. Suonai ancora una volta, indugiando di più. Nessuna reazione. Mi attaccai al camlo per oltre trenta secondi, indifferente al fatto che qualche inquilino di quel pianerottolo forse mi stava spiando per capire che cosa succedeva. Alla fine si arresero. Paolo, con voce incerta che tradiva il nervosismo, mi chiese: “Che cosa sei venuto a fare qui, Marco?” “Voglio parlarvi. A te e a lei” risposi cercando il più possibile di mantenere il controllo. “È meglio se torni a casa. Sei troppo nervoso. Non ti apro.” Senza il minimo preavviso diedi un pugno alla porta. Il boato probabilmente lo fece sussultare. “Aprimi!” urlai. “Se non te ne vai, chiamo la polizia” disse lui sempre più impaurito. “Se mi apri, parliamo, altrimenti ti giuro che sfondo la porta. E se mi porti a questo, avrai bisogno anche di un’ambulanza.” “Marco, cerca di ragionare.” “Bene. Sono qui per ragionare. Apri quella porta. Guarda, mi sposto indietro, così possiamo parlare.” Feci un paio di i indietro verso il centro del pianerottolo. Sentii che confabulavano, indecisi sul da farsi.

“Sto aspettando, ma non aspetterò ancora per molto” dissi con rabbia. Sentii il rumore della catenella di sicurezza, che permetteva di aprire uno spiraglio bloccando la porta. Seguì il rumore della serratura che girava una, due, tre volte, e la porta si aprì di qualche centimetro. Paolo mise il naso accanto alla fessura e guardò impaurito verso di me. “Che cosa vuoi, Marco?” chiese con un filo di voce, deglutendo nervosamente. “Voglio parlare” urlai. Con uno scatto in avanti diedi un colpo alla porta con le braccia tese, cercando di usare tutta la forza che avevo in corpo e tutto il mio peso. Fisicamente, non sono esattamente un fuscello. Peso poco più di cento chili per un metro e ottantacinque. Il colpo fu violentissimo e il risultato devastante. Non sfondai la porta perché era rinforzata, ma il colpo fu talmente forte che scardinò la catenella di sicurezza. La porta si spalancò improvvisamente e colpì in faccia Paolo, che cadde all’indietro. Serena urlò e scappò via. Mi avventai su lui, che era a terra a pancia in su e cominciai a tempestarlo di pugni. Lo colpii in viso tre o quattro volte, spaccandogli il naso e le labbra. Poi cominciai a colpirlo allo stomaco, sul petto, sul collo. Un pugno dopo l’altro, metodicamente, crudelmente. Lui gemeva a ogni colpo. Il viso si riempì di sangue e cominciò a sanguinare anche dalle orecchie. Non mi fermavo. Ero una belva infuriata. Colpivo e colpivo ancora. Fino a quando lui non reagì più. Era svenuto? L’avevo ucciso? Non so

rispondere a queste domande. Quello che invece mi investì con forza fu il pensiero di andare a prendere Serena. La sentivo piangere in un’altra stanza. Mi alzai con i pugni serrati e sanguinanti. Non le avrei parlato, non avrei tentato di convincerla a tornare. Mi sarei fatto giustizia. Mi avviai deciso verso la stanza da cui provenivano i singhiozzi. E mi svegliai. Tremavo e sudavo freddo. Per fortuna mi ero svegliato. Era stato sconvolgente vedere Paolo ridotto in quel modo. Ancora di più sapere che ero stato io. Mi alzai ancora tremante, con la sensazione dei colpi inferti sulle nocche. Guardai l’ora. Le tre del mattino. Mi cambiai e andai in cucina. Avevo la bocca asciutta. Bevvi quattro bicchieri d’acqua uno dietro l’altro e mi sedetti al tavolo, spossato. E adesso che cosa sarebbe successo nella mia vita reale? Paolo mi avrebbe pestato a morte? Mi sembrava molto improbabile. Non era il tipo. E poi era più basso di me, più esile. Se la teoria delle premonizioni al contrario era esatta, sarei stato picchiato da lui, se invece si trattava di premonizioni classiche, lo avrei picchiato io. Entrambe le situazioni mi sembravano assurde in quel momento. Per quanta rabbia potessi avere nei loro confronti, non sarei arrivato a mettergli le mani addosso. Cos’era meglio fare a questo punto? Tapparmi in casa fino a che non avessi fatto un altro sogno che annullava il precedente? Ero confuso, pieno di domande e senza una risposta. Volevo qualcosa da bere. Ero indeciso tra un bicchiere di brandy e una tisana.

Scelsi il brandy. Ne misi una dose generosa in un bicchiere e ne bevvi metà in un solo sorso. Dopo qualche minuto sentii le guance che cominciavano a formicolare e le orecchie che erano diventate calde. Ottima cosa. Avrei sicuramente dormito se mi stordivo con l’alcol. Finii quel che restava nel bicchiere e mi avviai verso la camera. Spensi la luce e mi addormentai. Ero di nuovo in macchina, in direzione Milano. Arrivava ancora rabbia. Si materializzarono le immagini di Serena e Paolo e sentii di nuovo la furia salire. Stavo rifacendo lo stesso sogno? Con quel minimo di coscienza che mi rimaneva in quella condizione, sperai di no. Era stato già troppo vivere la violenza una volta, due sarebbe stato insostenibile. Sperai con forza di svegliarmi, di riuscire a emergere da quel sogno, ma non sapevo come fare. Ero in trappola. Rifeci il percorso che avevo fatto nel precedente sogno. Svoltai a destra diretto a Basiglio, percorsi come un pazzo quel chilometro di stradine in mezzo ai campi, attraversai la parte vecchia del paese e parcheggiai nello stesso posto. Combattevo con una miriade di emozioni. C’erano quelle che arrivavano da quel mio io, impegnato a vivere quella situazione, e quelle che riuscivano ad affacciarsi alla mia coscienza e che mi appartenevano. Volevo resistere, tornare a casa, interrompere quella sequenza di avvenimenti che di lì a poco si sarebbe verificata. Volevo disperatamente svegliarmi. E poi, contemporaneamente, mi arrivavano quei pensieri violenti, quella sete di vendetta. La voglia di farmi giustizia per tutto quello che ero stato costretto a subire. Scesi dalla macchina, una Citroen C4, e mi diressi velocemente verso la fila di ingressi del palazzo a sinistra. Anche questa volta la porta a vetri era aperta. Entrai, salii sull’ascensore, che

ovviamente, aspettava a porte aperte, e schiacciai il bottone del quarto piano. Entrai nel pianerottolo e mi diressi verso la porta a destra. Suonai il camlo. Udii il trambusto che avevo già sentito e qualcuno che parlava sottovoce cercando di non farsi sentire. Sentii uno “Shhhh” per far tacere i rumori che avrebbero tradito la loro presenza. Riprovai ancora una volta, con più insistenza. Non ci fu alcuna reazione. Suonai la terza volta, rimanendo attaccato al camlo. Fu uno squillo lungo, insistente. Paolo, a quel punto, disse: “Che cosa sei venuto a fare qui, Marco?” Cresceva l’angoscia man mano che quel terribile film si ripeteva su quello schermo privilegiato. Mi sentii dire: “Voglio parlarvi. A te e a lei”, con quel nervosismo che, sapevo bene, non presagiva nulla di buono. “È meglio se torni a casa. Sei troppo nervoso. Non ti apro.” Diedi quel pugno alla porta, inaspettato per loro, già vissuto da me. Dopo il boato, un urlo: “Aprimi!” “Se non te ne vai, chiamo la polizia” disse lui, come da copione. “Se mi apri, parliamo, altrimenti ti giuro che sfondo la porta. E se mi porti a questo, avrai bisogno anche di un’ambulanza.” “Marco, cerca di ragionare.” “Bene. Sono qui per ragionare. Apri quella porta. Guarda, mi sposto indietro, così possiamo parlare.” Feci un paio di i indietro verso il centro del pianerottolo.

Sentii che confabulavano, indecisi sul da farsi. Avrei voluto urlare di non aprire quella porta, di chiamare la polizia, perché ero impazzito e stavo per commettere qualcosa di molto brutto. “Sto aspettando, ma non aspetterò ancora per molto” disse il mio alter ego. Ecco il rumore della catenella di sicurezza. Ecco il rumore della serratura che girava una, due, tre volte, e alla fine la porta si aprì di qualche centimetro. Esattamente nello stesso modo di prima, Paolo mise il naso accanto alla fessura e mi guardò impaurito. “Che cosa vuoi, Marco?” chiese con un filo di voce, deglutendo nervosamente. “Voglio parlare” urlai. Con uno scatto in avanti diedi un colpo alla porta con le braccia tese, cercando di usare tutta la forza e tutto il mio peso. Il colpo fu violentissimo e il risultato devastante. La catenella di sicurezza non si scardinò, e la porta non si aprì. Avevo colpito con una violenza e con una forza incredibili, ma la catena aveva resistito. A causa della spinta che avevo impresso, le braccia si piegarono e sbattei con la faccia contro la porta. Sentii un dolore fortissimo al naso e caddi a terra con la schiena contro il pavimento del pianerottolo. Istintivamente mi toccai e mi resi conto che il naso era storto e sanguinante. Si era rotto. Sentivo qualcosa che colava in gola mentre guardavo la mano piena di sangue. Con un gesto improvviso, Paolo aprì la porta e si avventò su di me. Che cosa stava succedendo? Questo non era il sogno che avevo vissuto e che si stava riproponendo. Era una situazione diversa.

Paolo cominciò a darmi pugni in faccia. Ero così stupito, che non feci nulla per ripararmi, e ne presi diversi sulla mascella e in pieno volto. Era più piccolo ed esile di me, ma picchiava duro. Riuscii a vedere, mentre lui continuava a picchiare, che era uscita anche Serena. Non si era rifugiata in un’altra stanza a piangere impaurita, ma aveva un’espressione dura, determinata. Si avvicinò velocemente con qualcosa in mano. Era una mazza da baseball. Mi diede un colpo violento alla testa e tutto cominciò a girare vorticosamente. Prima di perdere i sensi riuscii a sentire lei che diceva: “E adesso chiamiamo la polizia.” Svenni. E io mi svegliai di soprassalto. Che dire? Ho già ripetuto numerose volte nel corso di questo racconto di come mi svegliavo sconvolto, stordito, bagnato di sudore. Pensate che questa volta fosse diverso? Mi alzai frastornato. Il colpo alla testa non l’avevo preso io (comunque me ne sincerai toccandomi nel punto in cui era calata la mazza) ma mi sentivo comunque stordito. Guardai l’ora. Le cinque del mattino. Questa volta avevo davvero finito di dormire. Desiderai con tutto me stesso di smettere di dormire per il resto della mia vita. Andai a farmi un caffè. Pensai che avrei avuto bisogno di almeno due caffettiere per star meglio.

Dovevo parlare con qualcuno di quello che mi stava succedendo. Forse stavo impazzendo. O forse la tensione nervosa di quei giorni si stava scaricando sulla parte inconscia della mia mente. Volevo andare a parlare con Stefano. Non sapevo perché sentissi questa spinta, ma in qualche modo ero convinto che lui mi avrebbe aiutato. E se non ci fosse riuscito, parlarne mi avrebbe fatto comunque bene. Avrei accolto qualsiasi suggerimento mi avesse dato. Se mi avesse consigliato di andare da un medico o da uno psichiatra, ci sarei andato. Cosa mi aspettava quel giorno? Riflettei per un istante, e mi resi conto che qualsiasi teoria fosse valida, potevo uscire tranquillamente. Il secondo sogno, si era in qualche modo compensato con il primo. Quindi, se la mia logica non era sbagliata, cosa sulla quale non avrei scommesso un euro, non sarebbe successo proprio nulla. Tutta la violenza che avevo scaricato su Paolo, lui l’aveva riversata su me nel secondo sogno. Non avevo certezze di nessun tipo, ma qualcosa dentro di me era sicuro che fosse così. Andai in bagno per prepararmi a uscire. La meta di quella mattina era Siziano, la Nuova Era.

8 - Paralleli

Arrivai a Siziano verso le dieci e mezzo. La Nuova Era apriva alle 9,30, quindi potevo entrare. Stefano era intento a scrivere appoggiato al bancone, accanto al registratore di cassa. “Ciao Stefano, ti ricordi di me?” chiesi allungando la mano verso di lui. “Ciao, ma certo. Ti ho dato quella medaglietta come omaggio fedeltà. E infatti eccoti qui” rispose lui stringendo con calore la mia mano. “Già. Sono qui, però, non per comprare qualcosa, ma per parlare con te. Vorrei raccontarti quello che mi sta succedendo da qualche giorno a questa parte.” “Immagino che avrà a che fare con me, perché altrimenti non saresti qui.” “In realtà non so se ha davvero a che fare con te. Tutto però è cominciato dopo essere stato qui.” “Va bene. In questo momento non ho impegni che non possano aspettare, quindi direi di metterci comodi.” Vicino l’ingresso, c’erano due poltrone e un tavolino a disposizione di chi voleva dare un’occhiata a un libro prima di decidere se acquistarlo o meno. Ci sedemmo e cominciai a raccontargli dei miei sogni strani e di quello che poi succedeva il giorno successivo. Mi presi il tempo necessario, descrivendogli tutti i dettagli che mi erano rimasti impressi. Lui ascoltò con attenzione. Mi interruppe solo due volte, per chiedermi qualche chiarimento. “Molto interessante” disse alla fine del mio racconto. “Sembrerebbe che i tuoi sogni non siano semplicemente frutto dell’attività onirica, ma viaggi in altre dimensioni o realtà parallele alla nostra.”

“Perché dici questo?” chiesi. “Perché se fossero semplici sogni, riconosceresti le situazioni, i contesti, le persone. Invece, da quello che mi hai raccontato, sei stato colto alla sprovvista diverse volte. Viaggiavi verso destinazioni che tu non conoscevi, ma che il tuo alter ego che stavi sognando conosceva bene. Non sapevi che cosa avrebbe fatto quell’altro prima di vederlo con i tuoi occhi. Una vera e propria separazione in due persone distinte. Di solito non si sogna così. Secondo me, sei riuscito a varcare la soglia di qualche universo parallelo.” “Universo parallelo” pensai. “Vite parallele!” esclamai. Mi si accese una lampadina: la medaglietta. Me la sfilai e gliela feci vedere. “Guarda, e leggi la scritta dietro.” “Mhhhh” fece lui. “Vite parallele. Molto interessante.” E a quel punto, fare il collegamento fu cosa da nulla. “Ho cominciato a fare questi sogni strani dopo aver indossato questa medaglietta!” esclamai. “Ne sei certo?” mi chiese. “Credo di sì. Non posso darti la certezza al cento per cento, ma sono abbastanza sicuro.” “Potrei fare una prova” continuai, esaltandomi all’idea. “Questa sera non la indosso e vediamo cosa succede. Domani sera la indosserò e vedremo se cambia qualcosa.” “Potrebbe essere una buona idea, e ci darebbe una risposta piuttosto attendibile. Bravo!” “Però, che cosa significa?” chiesi. “Che ci sono tante vite parallele con altri me stesso che vivono nello stesso mio tempo?”

“È un’ipotesi che spiegherebbe quello che hai sognato. La scienza ufficiale non contempla questa possibilità, perché non c’è modo di provarla sperimentalmente. Stiamo varcando decisamente la soglia della fantascienza. “Immagino. Lasciamo per un attimo da parte la scienza ufficiale. Se dovessi raccontare le cose che ti ho detto a qualcuno di loro, mi ritroverei con la camicia di forza nel giro di qualche minuto. Mi interessa saperne di più sulle ipotesi di universi paralleli con altri me stesso. Questo vorrebbe dire che ci sono miei alter ego che vivono le stesse cose che vivo io qui, nella mia realtà?” “Non esattamente. I tuoi sogni ti hanno portato in realtà dove ci sono altri te stesso che sembra vivano una vita molto simile alla tua, ma non si tratta delle stesse situazioni. Sembrano realtà indipendenti tra loro, che hanno avuto un inizio molto simile, forse uguale, ma poi si sono evolute in modo diverso. È come se tutti i tuoi alter ego possano prendere decisioni diverse da quelle che hai preso tu, e di conseguenza ci siano risultati diversi.” “Aspetta un attimo” dissi un po’ confuso. “Ho bisogno di riepilogare per capire meglio. Se fosse come dici tu, questa medaglietta mi avrebbe permesso di essere catapultato in altre realtà che hanno alcuni punti in comune con questa e altri no. Giusto?” “Direi di sì” rispose lui. “Ma perché quello che accade in quelle realtà si ribalta nella mia?” “Questa è una cosa che ho trovato davvero impressionante. È un po’ come se ci fosse un karma trasversale.” “karma trasversale?” gli chiesi. “Sai cos’è il karma?” “Più o meno… Secondo alcune filosofie orientali, è il risultato di qualcosa che abbiamo fatto in vite precedenti. Se sono stato malvagio, subirò le conseguenze della mia malvagità, magari nascendo in una vita futura sotto forma di mosca, o di zanzara.” “Uhmm, può essere una buona base di partenza” disse lui serafico. “Ci sono molti modi di definire il karma, ma non voglio farti adesso una lezione di

filosofia orientale. Diciamo che il karma è il frutto delle nostre azioni. Se sono una persona litigiosa, prima o poi raccoglierò il frutto di questo mio atteggiamento e qualcuno mi picchierà, o io picchierò qualcuno. Questa è un’estrema semplificazione, perché secondo le filosofie orientali, il karma si estende su più vite. Quindi il frutto delle mie azioni potrei raccoglierlo in una qualche vita futura. Ovviamente il presupposto è credere alla reincarnazione e che non esauriamo tutto solo in questa vita. A volte è semplice capire che quello che ci succede è la diretta conseguenza di qualcos’altro. Ad esempio, vado con una prostituta e mi prendo una malattia. Tradisco mia moglie: lei mi lascerà o mi tradirà con un altro. Altre volte è più difficile capire, specialmente quando la causa risale a tanto tempo prima, addirittura a qualche vita ata. Riesco a spiegarmi?” “Sì, anche se faccio un po’ di fatica a capire la filosofia orientale. È molto distante dalla nostra cultura.” “Non credere che quello che ti ho detto sia una prerogativa della cultura orientale. Anche se molti non lo sanno, l’insegnamento del karma è contenuto anche nel Nuovo Testamento. L’apostolo Paolo, nella sua lettera ai Galati, aveva accennato a questa legge dicendo che quello che l’uomo avrà seminato, quello pure mieterà. Questo è il karma.” “Insomma” dissi a quel punto “il karma è l’arma di Dio per stabilire la giustizia. Siamo ripagati per le azioni che compiamo.” “Dio, gli Dei, l’universo, dipende da come concepisci il Divino. Per come la penso io, è più un concetto legato all’equilibrio. A ogni azione corrisponde una reazione, o un risultato. In questo modo viene mantenuto l’equilibrio nell’universo, o, se preferisci, la giustizia. La cosa particolare è che il meccanismo del karma è sempre stato visto in senso verticale. Le mie esperienze, le mie azioni, me le porto dietro vita dopo vita. Sono mie, riguardano me. Quello che mi hai raccontato, però, sembra essere un karma che non si tramanda di vita in vita, ma che agisce attraverso una serie di vite parallele in universi coesistenti.” “Che senso ha?” chiesi. “Se io compio un’azione, ricevo il frutto o la conseguenza di quello che ho fatto. Ma in questo caso si tratta di persone diverse. Sono sempre io, ma sono altri me, separati, non comunicanti. A che

serve?” “Le filosofie orientali non ci possono aiutare. L’unico modo in cui il karma funziona, dal loro punto di vista, è verticalmente, di vita in vita. Qui ci troviamo in una situazione diversa. Il karma funziona orizzontalmente. Se io tradisco mia moglie in questa realtà, in una realtà parallela mia moglie tradisce me. Tutto questo ha senso se a un certo punto ci sarà una riunificazione di tutti i me stesso che sono sparsi nelle diverse realtà, in modo che quel me stesso, alla fine unico, racchiuda in sé tutto il sapere che ha accumulato in tante vite, non vissute nel corso del tempo, ma contemporaneamente.” “Impressionante” fu quello che semplicemente fui in grado di dire. “Sì, è affascinante” continuò lui “l’esperienza di centinaia o forse migliaia di vite condensata nel tempo di una sola vita. È uno sviluppo straordinario.” “E la medaglietta, secondo te, che c’entra? È lei che ha causato tutto questo?” “Non credo. Se fosse stato causato dalla medaglietta, sarebbe successo solo a te. Ma tu mi hai raccontato di persone che vivono in questa realtà e che contemporaneamente sono presenti in altre realtà. Loro non hanno la medaglietta, eppure esistono. Secondo me, quel ciondolo in realtà è un portale. Chi lo indossa, può aprirlo e are attraverso altre realtà parallele. Non mi stupirei che ci fosse anche il modo di poter are fisicamente in un universo parallelo.” “Spiegati meglio.” “Nei tuoi sogni, la tua possibilità di interagire con le realtà degli altri universi erano minime. Mi hai detto di aver sentito le sensazioni che vivevano gli altri te, di aver provato le stesse emozioni, gli stessi pensieri. Ma eri solo uno spettatore ivo. Subivi quel che succedeva, incapace anche solo di svegliarti. Secondo me esiste un modo per poter are davvero in un’altra realtà e vivere in prima persona in quell’universo.” “E che succede se incontro un altro me?” “Non lo so. Magari vi annullate, come hanno ipotizzato diversi scrittori che hanno scritto dei viaggi nel tempo. Magari non succede nulla.”

“Sta diventando molto complicato. Ho bisogno di pensarci su.” “Comincia a fare quella prova che mi dicevi. Non indossare il ciondolo questa sera, e vedi che cosa succede. Poi lo indosserai nuovamente domani.” “D’accordo. Ti farò sapere.” “Aspetterò tue notizie. Sono davvero affascinato da quello che mi hai raccontato.” “Mi farò sentire, o meglio, tornerò a trovarti.” Ci scambiammo i numeri di telefono, ci salutammo e mi avviai per tornare a casa. Ero confuso in quel momento. Stefano mi aveva dato una serie di informazioni che facevo fatica a contenere nella mente. Mi sembrava tutto così strano. Universi paralleli, o multiversi. Avevo bisogno di alleggerire la mente. Guardai l’orologio. Mezzogiorno. “Quasi quasi vado a mangiare qualcosa al Nikola’s” pensai. Così tornai da Gatto e Pina. Come sempre, mi coccolarono lo spirito e mi aiutarono a sgonfiare la tensione che avevo in corpo e nella mente. Chiacchierammo di sciocchezze e di cose serie. Mi chiesero di Serena, e mi consolarono definendo assurdo il suo comportamento e la sua richiesta di sistemare immediatamente la questione della casa. Insomma, mi fecero sentire a mio agio. Tornai a casa nel primo pomeriggio, rinfrancato e anche più rilassato. Ripensai a tutto quello che ci eravamo detti con Stefano la mattina e mi venne in mente un piccolo particolare che mi era sfuggito. Quando avevo sognato di Serena incinta, avevo avuto un tuffo al cuore. Anche quel mio io aveva sussultato, come se avesse sentito la mia emozione. Forse quello che aveva detto Stefano sul portale che avrebbe potuto permettermi di

entrare in un universo parallelo era vero. In quel momento non ero stato un semplice spettatore ivo. La mia reazione aveva superato i confini dei due universi. Non avrei avuto nessuna risposta a questa ipotesi, né da Stefano né da nessun altro. Dovevo solo fare delle prove. La prima prova mi aspettava quella stessa sera: non avrei indossato la medaglietta. Ero davvero curioso di sapere che cosa sarebbe successo, ossia, se non avrei sognato nulla, visto che non c’era il ciondolo. Per non sbagliare, decisi di toglierlo subito e l’appoggiai sul comodino. Avevo tutto il pomeriggio davanti a me. Decisi che avrei cercato di impegnarlo bene. Tirai fuori il mio Mac e cominciai a scrivere questa storia. Volevo essere certo di non tralasciare nulla, e se non avessi scritto degli appunti, probabilmente con il tempo avrei cominciato a perdere i pezzi. Quando finii, erano le otto e mezzo di sera. Avevo scritto venti pagine tra appunti e considerazioni. Feci qualcosa da mangiare e finii sul divano a guardare un po’ di televisione. Alle nove e mezzo entrai nel letto. Ben presto avrei avuto una conferma della teoria degli universi paralleli. Cominciai a rigirarmi, incapace di prendere sonno. Ero nervoso. Cercai di analizzare il perché e mi resi conto che, alla fine, non sarei riuscito comunque ad avere risposte definitive. Una notte senza medaglietta era troppo poco. Avrei potuto non sognare nulla, ma forse sarebbe successo anche con il ciondolo al collo. Poi pensai che la dimostrazione funzionava anche al contrario. Se avessi comunque sognato, avrei avuto conferma che quella teoria non reggeva. Certo, sarei stato punto e a capo, ma almeno avrei potuto escludere la medaglietta. Quel pensiero mi permise di rilassarmi. Cominciai ad assopirmi, e, infine, presi sonno davvero. Mi svegliai la mattina verso le sette.

Dopo qualche minuto realizzai che non dovevo andare a lavorare, quindi me la presi comoda. Rimasi sotto il piumone a godere di quel fantastico momento che c’è tra il sonno e la veglia. Alle otto, mi svegliai completamente. Mi sforzai di pensare se avevo sognato qualcosa, ma non c’era nessun ricordo. Mi alzai e andai in bagno. Dopo un bel caffè, accesi il Mac per annotare il risultato dell’esperimento. Era un punto di partenza. Non incontrovertibile, ma avevo bisogno di partire da qualche parte. Decisi che non avevo di meglio, quindi andava bene fissare quell’ipotesi. Quella sera avrei fatto l’esperimento opposto: dormire con quella medaglietta. Andai in camera da letto e recuperai il ciondolo, che indossai subito. Mi rimisi davanti al computer e annotai la mia decisione. Rimasi per qualche minuto fermo davanti allo schermo pieno dei miei appunti. Tutto quello che stava succedendo, era molto strano e temevo di perdere del tutto la razionalità. Avevo riletto quanto avevo scritto e avevo riflettuto su tutta quella storia. Forse mi stavo allontanando dalla realtà con quei pensieri. Questo fu quello che pensai allora. Chiusi il computer e decisi di farmi un altro caffè. Il mio obiettivo era a diverse ore di distanza, ma non volevo buttare via quella giornata aspettando semplicemente che arrivasse la sera. Ne avrei approfittato per cominciare a fare i piani per risolvere il problema della casa. Dovevo provare a sentire qualche agenzia immobiliare per capire con loro quale poteva essere il valore della mia villetta. Poi sarei dovuto andare in banca per sapere che cosa comportava fare un mutuo e se sarei riuscito a sostenere quella spesa da solo. Avevo diverse cose da fare.

Mi preparai e uscii diretto all’immobiliare Casabella.

9 - L’esperimento

Fu una giornata piena di attività. Arrivai a sera senza nemmeno rendermi conto del tempo che era ato. Rientrai verso le sette e mezzo. Le notizie che avevo raccolto erano confortanti. La casa poteva avere un valore compreso tra i centoottantamila e i duecentoventimila euro. Avrei proposto a Serena la via di mezzo: duecentomila, in modo da chiedere un mutuo per centomila euro. La rata sarebbe stata intorno ai settecento euro al mese, impegnativa, ma non impossibile. Ero di buon umore, perché intravedevo una via d’uscita che non mi avrebbe messo troppo alle strette. Dovevo chiamarla, ma in quel momento non ne avevo voglia. L’avrei fatto nei giorni successivi. Per pagare e per morire c’è sempre tempo, dice un detto popolare. Se lei aveva fretta, io non ne avevo per nulla. Avrebbe aspettato i miei tempi. Del resto se n’era andata lei, che portasse un po’ di pazienza! Mangiai e mi misi a guardare un film. Dopo mezz’ora, cominciò a venirmi sonno. La televisione ha sempre avuto un effetto soporifero su me. Spensi e mi misi a letto. Era la prova della verità, ma cercai di non pensarci, per evitare di innervosirmi. Ci misi un po’ a dormire, ma alla fine ci riuscii. E sognai. Vidi me stesso uscire da casa e salire in macchina. Partii diretto verso Milano. Presi la tangenziale ovest in direzione Bologna e

proseguii fino all’uscita Val Tidone. Era la strada per andare alla Nuova Era, ma come sempre non potevo saperlo se il mio alter ego non ci pensava esplicitamente. Dovevo aspettare come lo spettatore impotente di un film. Arrivai a Siziano dopo poco tempo. Scesi dall’auto ed entrai nella libreria. Mi avvicinai al bancone dove Stefano stava scrivendo qualcosa e cominciai a urlargli contro. “Che cosa mi hai fatto, bastardo?” “Ehi, ma chi sei?” chiese lui, un po’ allarmato per il tono con cui gli avevo urlato contro. “Non ti ricordi di me?” chiesi con tono provocatorio. “Da quando sono venuto qui, non ho più pace. Sogno continuamente situazioni assurde. Non riesco più a distinguere la realtà dalla fantasia. È colpa tua!” gli urlai come un ossesso. “Cosa vuoi da me?” chiese lui. “Non ti ho fatto nulla. Mi ricordo solo vagamente di te. Hai comperato qualche libro e ti ho fatto anche un omaggio. Che stai dicendo?” “Mi hai fatto qualcosa. Non so cosa e non so perché, ma mi hai fatto qualcosa.” Mentre gli urlavo queste parole, girai intorno al bancone e cominciai a spintonarlo. “Sei uno stregone, un mago bastardo e frocio che mi ha buttato addosso qualcosa!” “Sei impazzito” urlò lui. “Se non te ne vai, chiamo la polizia.” “Ti faccio vedere io” dissi. E gli diedi una gran spinta. Lui perse l’equilibrio e inciampò nello sgabello che aveva dietro di sé. Cadde pesantemente all’indietro e picchiò con la testa contro uno scaffale pieno di libri. Lo scaffale era appoggiato alla vetrina del negozio che crollò con un boato. I vetri gli piombarono addosso, insieme allo scaffale e a tutti i libri. Guardai la scena di devastazione che avevo appena fatto, mi girai e uscii in fretta dal negozio. Ripresi la macchina e filai via a tutta velocità.

Non so come, ma quel sogno, o quell’universo, svanì improvvisamente. Succedeva sempre così quando mi svegliavo, ma quella volta non accadde. Continuai a sognare. Vidi me stesso uscire da casa e salire in macchina. Partii diretto verso Milano. Presi la tangenziale ovest in direzione Bologna e proseguii fino all’uscita Val Tidone. Stava succedendo di nuovo? Ancora una volta avrei sognato due situazioni simili com’era accaduto nel sogno di Serena e Paolo? Arrivai a Siziano dopo poco tempo. Scesi dall’auto ed entrai nella libreria. Mi avvicinai al bancone dove Stefano stava scrivendo qualcosa. Io che assistevo al ripetersi di quella scena, mi preparai a nuove urla e imprecazioni. “Ciao Stefano” disse il mio alter ego. “Ciao, che bello rivederti” rispose lui con un grande sorriso. Girò intorno al bancone e venne verso di me per abbracciarmi. Restammo così, per un po’, poi tenendomi una mano sulle spalle mi condusse verso l’angolo lettura vicino l’ingresso della libreria. Ci sedemmo. Accese un bastoncino di incenso e lo posizionò sul portaincensi in legno che era appoggiato sul tavolino. “Raccontami come va” mi disse. “Dimmi di Serena.” Anche quella realtà svanì improvvisamente. Vidi me stesso uscire da casa e salire in macchina. Partii diretto verso Milano. Presi la tangenziale ovest in direzione Bologna e proseguii fino all’uscita Val Tidone. Per la terza volta stavo ripercorrendo quella strada. Arrivai a Siziano dopo poco tempo. Scesi dall’auto ed entrai nella libreria. Mi avvicinai al bancone dove Stefano stava scrivendo qualcosa e cominciai a urlargli contro.

“Che cosa mi hai fatto, bastardo?” “Ehi, ma chi sei?” chiese lui un po’ allarmato per il tono con cui gli avevo urlato contro. “Non ti ricordi di me?” chiesi con tono provocatorio. “Da quando sono venuto qui, non ho più pace. Sogno continuamente situazioni assurde. Non riesco più a distinguere la realtà dalla fantasia. È colpa tua!” gli urlai come un ossesso. “Adesso mi hai davvero rotto le scatole” disse lui. “Non sopporto quelli che mi urlano addosso.” Si avvicinò rapidamente a quel me stesso che aveva urlato e con uno spintone lo buttò a terra. Poi, si abbassò su di lui, lo prese per il bavero del giubbotto e cominciò a trascinarlo verso l’ingresso. Aprì la porta e, con inaspettata forza, lo buttò fuori sul marciapiedi. “Non provare a mettere più piede qui dentro” gli disse senza urlare, ma con un tono così cattivo da mettere paura. “La prossima volta non sarò così tenero.” Detto questo, si voltò e rientrò nel negozio. Ancora una volta svanì tutto senza che mi svegliassi. Uscii da casa. In questa realtà non abitavo nella mia villetta, ma in un grosso casermone, come ce ne sono tanti nei quartieri popolari. Mi ero fermato davanti al portone di ingresso per guardarmi intorno. Aveva nevicato e lo strato bianco aveva coperto ogni cosa. Ne doveva essere caduta tanta, forse più di trenta centimetri. Sentii distintamente il pensiero infastidito di dover liberare la macchina da tutta quella neve. Mi avviai cercando di ricordare dove l’avevo parcheggiata. Appena mi allontanai dal portone, sentii un rumore simile a un tonfo. Poteva essere stato qualcosa che era caduto sulla neve, o forse qualcuno aveva lanciato una palla di neve. Girai lo sguardo a destra e sinistra, ma non vidi nulla. Stavo per riprendere il cammino verso il parcheggio quando un ammasso di neve, caduto dal tetto, mi investì in pieno. Come succedeva nei miei sogni, riuscii a vedere tutto come uno spettatore, provando le stesse sensazioni di quel me stesso che osservavo. Il colpo fu tremendo. Non so quanto pesava quel blocco di neve. Il palazzo dal quale ero uscito probabilmente aveva una decina di piani, quindi quel blocco

aveva preso una bella velocità. Il dolore al collo fu enorme, ma quello che mi agghiacciò fu il rumore di ossa spezzate. Si era rotto qualcosa, forse il collo, o la spina dorsale, non saprei dire. So che persi i sensi immediatamente. Il sogno si spense, come un televisore cui si stacca la spina. Restai nel buio più completo per qualche istante e infine riemersi nella mia realtà. Sveglio, finalmente! Mi alzai e guardai la sveglia che segnava le cinque di mattina. Come al solito ero in un bagno di sudore, con una tremenda tensione addosso che mi serrava lo stomaco. Tolsi il ciondolo, lo guardai e lo lasciai cadere sul comodino. Mi feci una lunga doccia, che mi aiutò a ridurre il senso di angoscia per quello che avevo vissuto. Preparai un caffè e riflettei sui miei sogni. Era la seconda volta che ero catapultato da una realtà all’altra senza svegliarmi. Prima avevo colpito Stefano, e probabilmente gli avevo fatto molto male. Poi lo avevo abbracciato. Poi lui aveva colpito me. Infine un cumulo di neve mi aveva seppellito, forse uccidendomi o ferendomi seriamente. Equilibrio universale, karma, occhio per occhio. I conti tornavano. La teoria di Stefano, vista così, sembrava davvero avere un senso. Questa volta il risultato di un’azione violenta non si era ripercosso nel mio universo, altrimenti all’ospedale o all’obitorio ci sarei finito io. Ci era comunque finito un altro me stesso, vittima inconsapevole del ‘karma trasversale’, come lo aveva chiamato Stefano. Male chiama altro male. Non volevo però continuare a subire le conseguenze di quello che facevano altri me stessi nei loro universi. Dovevo fare qualcosa. Ma cosa? Stefano aveva accennato alla possibilità di interagire con le altre realtà e non

rimanere solo uno spettatore ivo. Dipendeva solo da me, ma non sapevo da che parte cominciare. Se anche ci fossi riuscito, cosa avrei fatto? Potevo diventare la guardia del corpo di tutti i me stessi per evitare che fero sciocchezze? Non era davvero possibile. Decisi di tornare da Stefano. Avevo bisogno di confrontarmi con lui. Conosceva la situazione e se non mi aveva preso per pazzo la prima volta, mi avrebbe ascoltato anche questa. L’uomo è portato a credere a innumerevoli cose nel tentativo di capire i perché della vita e della morte. Molti credono in un Dio che regola la vita di tutti gli esseri viventi, altri credono in un non meglio specificato universo intelligente, che fa le veci di Dio e agisce attraverso il destino. Poi ci sono gli Dei, i Buddha, e così via. Di universi paralleli parlano solo gli scrittori di fantascienza. Avrei potuto raccontare a qualcun altro la mia esperienza? Di quello che avevo sognato e che mi aveva fatto scontrare con quella realtà? No. Tutte le persone che conoscevo mi avrebbero consigliato di parlare con uno psichiatra e mi avrebbero evitato per timore del pazzo furioso. Rimaneva Stefano. Per fortuna. Cominciai a prepararmi. Volevo essere a Siziano per le dieci, quindi potevo fare con comodo. Non indossai il ciondolo, che lasciai sul comodino. Quelle cinque ore arono lentamente, ma alla fine giunse il momento di uscire. Entrai nella Nuova Era alle dieci e mezzo. “Ciao Stefano” esordii.

“Oh, Marco, ciao. Come stai? Com’è andato il tuo esperimento?” “Sono venuto a parlarti proprio di questo. L’esperimento credo abbia confermato la nostra teoria. L’altro ieri notte non ho indossato il ciondolo e non ho sognato. Di per sé potrebbe non voler dire nulla. Ieri sera, invece, ho indossato il ciondolo e questa notte ho fatto ben quattro sogni che mi hanno portato in altrettante realtà diverse.” “Beh, direi che è un bel risultato, non trovi?” “Sì, se non fosse che non stiamo parlando di una teoria che alla fine mi ha dato un po’ di cultura in più. Qui si tratta della mia vita. Probabilmente della nostra, perché ci siamo in mezzo tutti. Siamo alla mercé di quello che possono fare altre persone in altre realtà che con le loro azioni decidono la nostra sopravvivenza, il nostro successo o insuccesso. Questa notte ho sognato un me stesso che ti colpiva. Non so che cosa ti sia successo in quella realtà, ma credo di averti fatto male. Nel secondo sogno, invece, ci siamo abbracciati come due amici di lunga data e abbiamo cominciato a parlare. Poi ho sognato che tu mi colpivi e mi buttavi fuori dal negozio. Infine, a un me stesso gli è piombato sulla testa un blocco di neve da una casa di almeno dieci piani. Se non è morto, sicuramente non se la erà bene.” “Hai fatto sogni piuttosto forti, direi. Forse non a caso.” “Che cosa vuoi dire?” “Ho fatto delle ricerche e ho trovato informazioni interessanti. Prima, però, vorrei puntualizzare una cosa, se me lo permetti. Non siamo alla mercé di altre persone. In realtà, siamo alla mercé di noi stessi. Anche se sono in altre realtà, si tratta sempre di altre persone che alla fine siamo noi. Siamo noi la causa dei nostri mali o del nostro bene. E poi, se ci pensi bene, è così la nostra vita. Non sappiamo mai che cosa ci capiterà e perché. Anche se la storia delle realtà parallele non fosse vera, che cosa cambierebbe? Vivi la tua vita tranquillamente, e improvvisamente ti capita qualcosa che la sconvolge. C’è chi parla di destino, chi di karma. Ma alla fine, una vera e propria spiegazione non l’abbiamo.” “Non me ne parlare, ne so qualcosa. Fino a un mese fa ero convinto di avere tutto dalla vita. Un bel lavoro, una bella casa, una moglie deliziosa. E poi la mia realtà ha cominciato a sgretolarsi.”

“Quel ciondolo non ha fatto succedere le cose. Ti ha solo permesso di capire perché. Senza ciondolo, sarebbero accadute ugualmente, ma non ne capiresti il motivo. Forse staresti qui a lamentarti di Dio o del destino.” “Probabile. Ma dimmi, che cosa hai scoperto?” “Come ti dicevo, ho fatto delle ricerche. Ho trovato dei libri interessanti e delle informazioni su Internet. La teoria degli universi paralleli è più diffusa di quello che pensavo. Secondo quello che ho letto, gli universi possono reggersi solo attraverso l’equilibrio. Immagina una grande bacinella piena di acqua. Se butti un sasso, magari abbastanza grosso, si crea uno squilibrio, che si propaga come un’onda che parte dal punto dove il sasso ha toccato l’acqua, creando uno spostamento sia sulla superficie che in profondità. Onde si propagano fino al limite, che nel nostro esempio è rappresentato dalle pareti della bacinella. Ci sarà gran movimento, anche intorno al sasso, fino a che l’acqua troverà di nuovo un equilibrio. La stessa cosa accade nelle realtà parallele. Un’azione è in grado di generare un turbamento che come un’onda si propaga tra gli universi verso il limite estremo. C’è grande movimento fino a che non si tornerà a una situazione di equilibrio. Quello che hai visto è il modo in cui funziona la realtà. A ogni azione, corrisponde una reazione, o una serie di azioni diverse. Lo scopo è di tornare all’equilibrio iniziale dopo il turbamento che ha dato origine al movimento. Se poi ci sono altre azioni, altri sassi, queste creano a loro volta reazioni che si propagheranno, in un movimento continuo.” “È incredibile”, dissi. “Sembra un gran casino.” “Sì, un gran casino. Tutto quello che succede, genera un’onda di propagazione che turba l’equilibrio. Ogni avvenimento ha un punto e un momento preciso di inizio. Poi si espande a tutto il resto degli universi. Tu ci sei entrato dentro” disse con entusiasmo. “Hai visto questo meccanismo funzionare davvero. È la

conferma della teoria delle stringhe, degli universi paralleli.” “Beh, è una conferma per noi, non certo dal punto di vista scientifico. Io li ho vissuti e tu credi a quello che ti ho raccontato. Non c’è però un dato oggettivo. Alla fine, io ho solo fatto dei sogni. Come faccio a dimostrare che li ho davvero sognati? E se anche ci riuscissi, rimangono dei sogni, che per tutti sono solo un parto della mente. Per una persona qualsiasi, che differenza fa leggere un libro di fantascienza e sentire il racconto dei miei sogni?” Stefano rimase pensieroso per un po’ a fissare il vuoto. “Forse hai ragione. Per me è la conferma di una teoria affascinante. Ma quanti la penseranno così?” disse alla fine. “Temo pochi” risposi un po’ scoraggiato. “E poi” continuai “a che serve nella nostra vita di tutti i giorni sapere che le cose funzionano in questo modo?” “Beh, è la risposta a tante domande!” “Sì, ma è come se qualcuno venisse a dirci che ha sognato Dio e ha capito come funziona il mondo. Lo ascolti e puoi crederci oppure no. Praticamente non cambia nulla, è solo una questione di fede. Ce l’hai oppure no.” “Sarà come dici. In questo momento, però, sono davvero contento, perché abbiamo la conferma di una teoria che è stata ipotizzata sulla carta e mai dimostrata.” Rimase qualche istante assorto a fissare il nulla. Poi, con un’idea improvvisa disse: “Ti voglio fare una proposta. La Nuova Era, oltre a vendere libri, organizza conferenze alle quali partecipano tante persone. E se organizzassi una conferenza sugli universi paralleli? Io potrei parlare della parte teorica con tutte le sue sfaccettature. Tu potresti raccontare la tua esperienza. Che ne dici?” “Ci devo pensare. In questo momento ho delle situazioni molto pratiche da sistemare con una certa urgenza.” “Beh, pensaci. Tanto sarebbe tra due o tre mesi. Prima di allora ho programmato molte altre conferenze. Avremo tutto il tempo che serve per preparare il materiale e io ti darò una mano molto volentieri. Promettimi che ci penserai davvero.”

“Va bene” promisi. Restai con lui ancora per un po’, poi decisi di tornare a casa. In realtà, non avevo molta voglia di raccontare in pubblico la mia esperienza. Fino a quel momento avevo considerato i miei sogni una cosa solo mia, intima. Non li raccontavo nemmeno a Serena, almeno, non tutti. Parlarne a un mucchio di persone era come aprire la porta di una stanza piena di cose mie e far entrare chiunque a fare valutazioni. E poi, sinceramente, vivevo quella situazione con una certa angoscia. Non ero pronto per diventare il testimone vivente di una teoria che stava tra la fantascienza e la New Age. C’era comunque una domanda che fino a quel momento avevo evitato accuratamente: che cosa dovevo fare? In parte quella domanda era inutile, perché non pensavo di essere in grado di fare qualcosa. Ero stato uno spettatore ivo fino a quel momento, e non credevo fosse possibile fare altro. E poi, volevo davvero continuare a spiare quello che facevano i miei alter ego in altre realtà? A vivere con angoscia al pensiero che quello che facevano sarebbe ricaduto sulla mia testa? Non avevo risposte a tutte queste domande. Appena tornai a casa, tirai fuori il computer, rilessi quello che avevo scritto fino a quel momento e cominciai ad aggiungere tutto il resto, sogni, fatti, ipotesi, pensieri. Più lo rileggevo, più mi sembrava un racconto di fantascienza. Rimasi a osservare i miei appunti per un tempo indefinito. Quando mi riscossi, il pallido sole che aveva ravvivato il giorno stava lasciando posto alle ombre della sera, che in inverno non è molto diversa dalla notte. Chiusi il computer e andai in cucina. Avrei fatto anche a meno di mangiare, ma

non volevo perdere il rispetto per me stesso, che in quel momento era appeso a un filo molto sottile. Nello stesso modo in cui mi ero imposto di rifare il letto tutte le mattine, avevo deciso di mangiare regolarmente tutti i giorni. Il confine tra il dolore per la perdita di Serena e l’autocommiserazione era molto labile. Se mi fossi lasciato andare, avrei continuato a piangermi addosso, saltando i pasti, lasciando la casa in disordine, non avendo più cura di me. Non me lo potevo permettere. Quel minimo di amor proprio che mi era rimasto, me lo impediva. Aprii una busta di insalata, ci buttai dentro una scatoletta di tonno, del mais, e preparai così la mia cena. Mangiai lentamente, cercando di alleggerire i pensieri, con la consapevolezza che prima o poi sarei dovuto andare a dormire. Che cosa dovevo fare con il ciondolo? Lasciarlo sul comodino, facendo finta che non esistesse o indossarlo sapendo che il varco verso gli altri universi si sarebbe aperto di nuovo? Mi spaventava l’idea di vedere qualcosa che avrebbe potuto ripercuotersi sulla mia vita. Mi spaventava di più, però, non sapere nulla. Andai in camera e lo presi in mano. Lo guardai. Sembrava molto più pesante di quanto non fosse in realtà. Mi sentii come Frodo del Signore degli Anelli, con un peso da portare molto più grande di lui. Come Frodo, però, non volevo arrendermi, lasciarmi andare. “Sia quel che sia, lo indosso” pensai. Mi infilai sotto il piumone e rimasi a guardare il soffitto. Ero nervoso, perché negarlo? Cercai di svuotare la mente. È una tecnica che mi ha sempre aiutato nei momenti difficili, quando i pensieri rischiano di pasticciare la realtà, facendola aggrovigliare su se stessa. Chiusi gli occhi e respirai profondamente, cercando di rallentare anche il battito del cuore.

Scivolare nel sonno fu semplice e automatico.

10 - Un mondo alla fine

Le immagini cominciarono a comporsi lentamente, come se avessi messo gradualmente a fuoco una fotografia. C’era una città davanti a me, dal profilo conosciuto: Milano. Come sempre la prospettiva era di uno spettatore, ma questa volta non vidi dove fosse il me stesso che occupava quel tempo e quello spazio. Piuttosto, era un volo silenzioso che mi permetteva di vedere la mia città dall’alto. Da subito colsi alcuni particolari che mi diedero la sensazione di qualcosa di sbagliato. C’era un po’ di gente che camminava nelle vie ma pochissime automobili. “Non può essere Milano” pensai “ci sono poche macchine. Anche se fosse domenica, ne circolerebbero di più.” Lì, però, c’era il Duomo, e quella era la torre Velasca. Si trattava sicuramente di Milano. In un altro universo, in una realtà alternativa. Poi, sempre volando, cominciai ad avvicinarmi e vidi altri particolari. I negozi erano perlopiù devastati. Vetrine infrante, fumo nero, fiamme che si levavano pigramente. Gli autori di quella devastazione non si vedevano. Tutto era in stato di abbandono. Macchine, moto e biciclette giacevano dove capitava. Le persone che camminavano non si preoccupavano di occupare i marciapiedi. Camminavano in mezzo alle strade, ai giardini, alle aiuole. Osservai con più attenzione e mi resi conto che non era un vero e proprio camminare. Era come se barcollassero, spingendosi a fatica, loro malgrado, senza alcuna meta precisa. Non ero il comandante del mio volo, ma solo un misero spettatore, costretto a

subire i capricci di chi guidava quella visita. Come intuendo il mio disagio, il volo divenne radente, consentendomi di vedere molto più da vicino tutte quelle persone che vagavano tra le vie della città. Sembravano morti viventi. Lo sguardo allucinato, la pelle piena di macchie e ferite sanguinolente. Non c’erano scene di violenza. Se fosse stato un film di Dario Argento, avrebbero cominciato a mangiarsi tra loro. Invece si limitavano a vagare, come animali morenti che cercano un posto dove porre fine alla loro agonia. “Sono malati.” Questo pensiero attraversò improvvisamente la mia mente. Sembrava il modo in cui gli altri me stessi solitamente inviavano i loro pensieri e le loro emozioni. Ma non vidi nessun alter ego lì intorno in quel momento. Volando tra le vie della città, mi resi conto che tutti quelli che avevo visto erano ridotti nello stesso modo. Scorsi qualcuno accasciato a terra, sconfitto dalla malattia. Nessuno sembrava occuparsi dei caduti. Né per infierire, né per soccorrerli. Il mio pilota decise di farmi vedere il centro della città. Piazza del Duomo era invasa dai piccioni, come sempre. Non si vedevano, però, le comitive di turisti che solitamente affollano il sagrato. Nessuno vendeva cibo per gli uccelli, nessuno faceva una fotografia. Anche lì decine di persone vagavano senza meta, perlopiù trascinandosi a fatica. Il portone del Duomo si aprì leggermente e qualcuno sgattaiolò fuori. A differenza degli altri, non sembrava malato. Attraversò il sagrato velocemente, diretto verso piazza Cordusio. Sembrava che nessuno si preoccue di lui. Era piuttosto lui a evitare loro. Non erano zombie pronti a mangiarselo, erano malati che avrebbero potuto contagiarlo. Non so dove quel tizio fosse diretto. C’erano sicuramente altri come lui, ancora sani, perché il portone della chiesa si chiuse subito dopo la sua uscita. Forse

tornava a casa, o forse era in cerca di provviste. Non lo saprò mai. La sensazione dominante era di angoscia, un’angoscia infinita. Credo che siano pochi quelli che non hanno mai visto un film sugli zombie o uno che narra della devastazione di un mondo in rovina. The day after, 2012, o simili. Poi ci sono i videogiochi. Tanti sono ambientati in scenari post atomici, mondi popolati da mostri e creature orribili. Tutte quelle immagini, in un certo qual modo, ci hanno anestetizzato. I ragazzi parlano di sparatorie, uccisioni, combattimenti come se fossimo tutti in guerra. La realtà, però, è diversa. È sempre diversa. Quando sei immerso in uno scenario da incubo, che potrebbe essere tranquillamente rappresentato su uno schermo gigante o in un videogioco, ma sei lucidamente consapevole di essere vivo e reale, e quello che ti circonda è vero, ti resta solo l’angoscia. Avevo voglia di accucciarmi in un angolo e chiudermi in me stesso. Volevo svegliarmi, ma non sapevo come fare. Il mio volo, che fino a qual momento era sembrato una gita panoramica, si stabilizzò verso una direzione precisa. Tanti particolari intorno a me li riconoscevo, perché coincidevano con la città che vivo quotidianamente nella mia realtà, da sveglio. Altri erano sconosciuti. Quel grande edificio che vidi avvicinarsi sempre più, però, mi sembrava di riconoscerlo. Era un ospedale. Il San Paolo di Milano. A quanto pare, ero diretto proprio lì. Invece che schiantarmi contro la facciata, non so come ai attraverso cemento, mattoni e ferro, e mi materializzai in una stanza occupata da un solo letto. L’uomo che era sdraiato su quel letto sembrava allo stremo delle forze. Respirava a fatica. Avrebbe avuto bisogno di ossigeno forse, ma non c’era nessuno ad accudirlo.

Il mio pilota mi permise di avvicinarmi di più. I lineamenti erano familiari. Guardandolo meglio, ebbi la terribile conferma che mi trovavo davanti al mio alter ego di quella realtà. Il viso era profondamente segnato dalle ferite e dalle macchie scure di quella malattia sconosciuta. Giaceva appoggiato a due o tre cuscini che non erano più stati cambiati da chissà quanto tempo. Lo copriva una coperta fino allo stomaco. Una semplice maglietta bianca lasciava scoperte le braccia e il collo, anch’essi profondamente segnati dal male. Sulla maglietta spiccava una medaglietta. Osservai con più attenzione e la riconobbi. Era uguale alla mia! Stesso disegno, stessa fattura. Anche in questa realtà, esisteva un ciondolo simile al mio. Mi venne in mente che anche i miei alter ego che erano andati da Stefano a urlargli contro avevano parlato di strani sogni. Forse anche loro avevano la mia stessa medaglietta e avevano fatto esperienze simili alla mia. Non ero riuscito a vedere il ciondolo nel loro caso. Ora avevo di fronte la prova che in quella realtà un altro me stesso aveva una medaglietta uguale alla mia. L’uomo aveva gli occhi chiusi. Se non fosse stato per il respiro affannoso, avrei pensato di essere arrivato troppo tardi e di trovarmi di fronte a un cadavere. Probabilmente era esausto perché sembrava fare un’enorme fatica anche solo per respirare. Provai un misto di pena e angoscia guardandolo. La sua espressione, comunque, era serena. Stava morendo, ma era tranquillo. L’angoscia lasciò il posto alla curiosità. “Ciao Marco.” Quel saluto proruppe nella mente chiaro, pulito, anche se affaticato. Pensai che quel me stesso mi avesse parlato, ma non aveva aperto la bocca ed

era rimasto con gli occhi chiusi. Forse avevo capito male. Non si stava rivolgendo a me. Come faceva a vedermi? Nessuno degli altri alter ego incontrati fino a quel momento mi aveva percepito. Ricevevo i loro pensieri, ma loro non percepivano i miei e non si rendevano conto della mia presenza. Dovevo rispondere? E come? Parlandogli? “Non serve, possiamo comunicare usando solo la mente.” Quel pensiero era arrivato come gli altri, ma era chiaramente una risposta alle domande che mi stavo ponendo in quel momento. Era la prima volta che succedeva: un altro me stesso che sapeva di me e che comunicava. Non avendo mai avuto la possibilità di interagire con i personaggi dei miei sogni, ero titubante e silenzioso. “Posso sentirti, sai?” mi disse. “Se pensi qualcosa con l’intenzione di farlo giungere a me, posso sentirti come se avessi pronunciato quelle parole con la bocca.” Lo guardai stupito. Poi mi resi conto che lo stupore e la meraviglia erano le emozioni prevalenti da qualche notte a questa parte. “Forse anche lui può vedermi” pensai, e decisi di cominciare da lì. “Tu puoi vedermi?” gli chiesi titubante. “Sì, nello stesso modo in cui tu vedi me. Diciamo che ho un po’ più di esperienza, e riesco ad aprire il portale rimanendo sveglio. È sufficiente concentrarmi, con una tecnica molto simile alla meditazione.” Avevo decine di domande che cominciavano ad affollare la mente. “Che cosa ti è successo?” “Sono stato contagiato da una specie di virus, come altri milioni di persone. È nato da una modifica genetica che aveva l’obiettivo di curare la vecchiaia.” “La vecchiaia non è una malattia” dissi pensieroso. “Dipende da quale punto di vista la vedi” rispose lui. “Una malattia ha un effetto

debilitante sul fisico, ne riduce le funzionalità, ne compromette il normale funzionamento. Una malattia grave può condurti alla morte. La vecchiaia fa le stesse cose. Non siamo abituati a considerarla così perché è un processo molto lungo, che impiega anni per arrivare a termine, contrariamente alla maggior parte delle malattie che hanno un decorso breve. Se ci pensi, non c’è differenza tra la vecchiaia e una malattia grave. Impiega più tempo, ma funziona nello stesso modo.” “Ho sempre pensato che la vecchiaia sia un processo naturale” ribattei poco convinto. “Solo perché colpisce tutti gli esseri viventi? Solo perché è ineluttabile? Non è sufficiente. Sai come funziona?” “Per quello che so, si tratta di una degenerazione progressiva delle nostre cellule. Fino a una certa età, il ricambio cellulare garantisce la giovinezza. Poi il ricambio non avviene più con la stessa velocità, e le cellule cominciano a invecchiare.” “Sì, grossomodo funziona così. Ma non è così semplice. Potrei domandarti come mai a un certo punto il ricambio non avviene più con la stessa velocità. Che cosa succede?” “Non lo so” dovetti ammettere. “Ti ho fatto questa domanda, ma neanche io conosco fino in fondo la risposta. E non la conoscono nemmeno quelli che si occupano da anni del fenomeno. Sono stati fatti diversi studi per tentare di dare delle risposte, fino a quando, qualche anno fa, hanno scoperto una proteina che sembrava responsabile dell’invecchiamento, la proteina Sirtuin. Gli studi hanno dimostrato che il Sirtuin è implicato nel processo di invecchiamento e la sua regolazione è in grado di migliorare la resistenza allo stress, l'efficienza energetica e prontezza di riflessi durante situazioni a basso contenuto calorico. Hanno provato a somministrare dosi extra di Sirtuin e hanno riscontrato che si riusciva a ‘aggiustare’ il DNA danneggiato dall’età, rallentando di fatto l’invecchiamento dal 24% al 46%, ossia si invecchiava con una velocità inferiore.

Però questa non era la soluzione al problema. L’uomo punta da sempre alla vita eterna. Le religioni sono nate per spiegare perché si muore e hanno tentato di dare all’uomo la speranza di vita eterna. In oriente si realizza con il ciclo di reincarnazioni. Una vita dopo l’altra, fino a quando si raggiunge l’illuminazione. E anche a quel punto non c’è la morte, ma una condizione di vita eterna che non si può comprendere, il Nirvana. In occidente, la vita eterna si realizza con la sopravvivenza di una parte di noi, l’anima. Il dato comune è il rifiuto della morte intesa come cessazione dell’individualità, della personalità. Non riuscendo a impedire la morte del corpo, la speranza di vita eterna è stata trasferita a una parte di noi non visibile, chiamata anima, sé superiore, vero io, e così via. Gli occidentali, però, sono pragmatici e non si accontentano di affidare alla fede la loro vita eterna. Vogliono riuscirci qui e adesso. Possibilmente senza nemmeno lo sforzo di dover agire in un certo modo piuttosto che in un altro, come invece vorrebbero le religioni. Con una pastiglia, posso risolvere i miei problemi. Così, diverse industrie farmaceutiche hanno deciso di cominciare la corsa verso la creazione della pastiglia della vita eterna. Dietro, ovviamente, non c’è solo la voglia di vincere la sfida della vita senza fine. Ci sono in gioco miliardi di euro. L’azienda che ha scoperto per prima la pastiglia per risolvere il problema dell’impotenza maschile, ha fatto introiti per miliardi di dollari. Quanto potrebbe guadagnare l’azienda che scoprisse la pastiglia della vita eterna? Prova a immaginare. Non sono i costi di produzione che determinano il prezzo del medicinale. È la richiesta a determinarlo. Il costo di produzione del Viagra si aggira intorno ai due dollari a pastiglia, comprendendo tutte le spese per la ricerca che sono state fatte. In farmacia è

stato venduto a dieci dollari a pastiglia per anni. Pensa ai profitti che hanno realizzato. Una cura che sia in grado di farti vivere di più, molto di più, quanto costerebbe? Non spenderesti cento dollari per una pastiglia in grado di allungarti la vita anche solo di dieci anni? La ricerca è iniziata sia negli Stati Uniti che in Italia. Gli italiani, però, eccellono quando si tratta di creatività e inventiva. La Zeta Farmaceutica è una società di Milano che ha impiegato moltissime risorse per la ricerca. Nei loro laboratori si cominciò a modificare il Sirtuin, con risultati interessanti. Dopo la sperimentazione in provetta, si cominciò con gli animali. Tutto sembrava funzionare per il meglio. Sui topi trattati con il Sirtuin modificato si ottennero rallentamenti nel processo di invecchiamento fino al 50%. Un uomo che reagisse al trattamento nello stesso modo potrebbe vivere fino a centoventi anni. Non furono rilevati effetti collaterali. Dopo un anno e mezzo di prove tutte positive, si decise di are alla sperimentazione sull’uomo. La famosa fase uno. Selezionarono un piccolo gruppo di persone tra i volontari iscritti al loro programma di ricerca. Si trattava di un programma internazionale, perché era importante valutare se la componente razziale poteva incidere sui risultati. Le persone selezionate erano cinquanta. I volontari possono avere diverse motivazioni: sono malati a cui le cure tradizionali non hanno fatto effetto, o hanno parenti ammalati e vogliono fare qualcosa di concreto per loro o sono semplicemente persone che decidono di usare il loro corpo per il progresso scientifico. Questo in teoria. Nella realtà, molti lo fanno per soldi. In Italia è vietato pagare chi decide di sottoporsi alla sperimentazione, ma in un modo o nell’altro, hanno sempre trovato un modo per pagare i volontari. In questo caso la selezione fu fatta dalla Zeta International, che ha sede in Polonia. A differenza di altre sperimentazioni che sono mirate a curare delle patologie

specifiche, qui si trattava di capire come la proteina modificata agiva nel rallentamento del processo di invecchiamento. Quindi erano necessarie persone assolutamente sane. Ai volontari fu proposto un ‘rimborso spese’ di venticinquemila euro. Furono selezionati cinque italiani e quarantacinque persone che provenivano da altre nazioni dell’europa dell’Est, Asia, America del sud e quattro statunitensi. Il primo ciclo di somministrazione del Sirtuin modificato produsse risultati che furono definiti interessanti. Non c’erano effetti collaterali, anche a distanza di mesi, e si era osservato un rallentamento nel processo di invecchiamento che fu definito significativo. Ma non era abbastanza. Quello che era stato prodotto era più efficace del Gerovital, ma la Zeta voleva qualcosa di straordinario. A quel punto decisero di procedere con modifiche più spinte. Fino allora, la ricerca era costata parecchio. Le modifiche che apportarono avrebbero dovuto far ripartire daccapo la sperimentazione, prima in laboratorio, poi con gli animali e infine con gli esseri umani. Però non c’era tempo. La Zeta temeva di arrivare tardi. C’erano altre aziende che stavano conducendo le stesse ricerche, e loro avevano paura che arrivassero prima. Una simile evenienza avrebbe fatto perdere alla Zeta milioni di euro. Così, fecero le modifiche e arono direttamente alla somministrazione su cavie umane. Non si aspettavano quello che accadde poi. Il gruppo di persone che aveva ricevuto il Sirtuin ulteriormente modificato inizialmente non manifestò alcun problema. La sperimentazione prevedeva un mese di permanenza dei volontari nelle strutture della casa farmaceutica, poi avrebbero dovuto ripresentarsi a intervalli di un mese per il primo anno. Nel secondo mese dalla prima somministrazione, cominciarono a manifestarsi i primi segni del male. La modifica introdotta scatenò una reazione a catena che si propagò in modo simile a un virus. I sintomi inizialmente erano abbastanza banali, e furono

tragicamente sottovalutati: febbre, spossamento, ingrossamento dei linfonodi. Poteva essere un’influenza come tante altre. Il protocollo di sperimentazione prevede che, in caso di problemi di qualsiasi tipo, i volontari siano immediatamente presi in cura dal personale medico dell’azienda che ha fatto i test. Sono loro, però, a doversi presentare, a meno che il problema non venga rilevato in occasione dei controlli programmati. Dei cinquanta volontari, solo cinque chiesero di essere visitati dai medici della Zeta. Gli altri si rivolsero ai loro medici di base. Nessuno dichiara volentieri di essersi sottoposto a una sperimentazione, soprattutto quando ha firmato decine di documenti che impongono l’assoluto riserbo su qualsiasi aspetto abbia a che fare con la cura. Così, quelli che andarono dal loro medico descrissero sintomi che non erano strani di per sé, e nessuno accennò, alla cura cui era stato sottoposto. I medici di base liquidarono la cosa come una normale febbre di tipo virale, mentre i medici della Zeta fecero bene il loro lavoro, imponendo il soggiorno obbligatorio per i cinque che si erano presentati da loro. Dopo venti giorni di febbre che non rispondeva ad alcun trattamento, i ricercatori della Zeta capirono che c’era qualcosa che non andava. Si era notato un leggero ingrossamento della milza e del fegato, ed erano stati osservati alcuni problemi renali. Nonostante questo, non erano stati adottati i protocolli previsti per le malattie infettive, semplicemente perché non si aspettavano un virus. I quarantacinque volontari che non si erano presentati, continuarono la loro vita come se niente fosse. Avevano una leggera febbre costante, si sentivano sempre stanchi, ma tiravano avanti. Trenta giorni dopo i primi sintomi, comparvero improvvisamente brividi intensi e prolungati cui seguirono febbre a quaranta, malessere intenso, emicrania, dolori muscolari e vomito. Tutto questo durò per una settimana, al termine della quale ci fu un apparente miglioramento dello stato generale. Era solo apparenza, perché dopo pochi giorni cominciarono a manifestarsi delle eruzioni cutanee, dapprima sul viso, poi

sull’intero corpo. Contemporaneamente, furono attaccate anche le strutture interne: gola, vie respiratorie, apparato digerente e cervello. Dopo tre giorni, le eruzioni cutanee si trasformarono in vescicole, e dopo altri tre giorni in vere e proprie piaghe. I tessuti interessati dalle piaghe andarono in necrosi, determinando infezioni gravissime alla cute e agli organi interni. Essendo colpito anche il cervello, la persona malata manifestava inizialmente sintomi molto simili alla demenza senile. Successivamente, il malato diventava una sorta di vegetale dal punto di vista mentale, pur continuando a essere in grado di stare in piedi e muoversi in modo più o meno normale. Prima di venire da me, ti ho fatto fare un piccolo giro turistico per la città. Hai visto con i tuoi occhi il risultato del virus. Tutte quelle persone che vagano per le strade di Milano senza nemmeno sapere più chi sono, da dove vengono e dove stanno andando. Tutto questo è iniziato sei mesi fa. Solo sei mesi per arrivare a questo punto.” “È terribile” riuscii a dire, sentendo i brividi dietro la schiena. “L’infezione è cominciata contemporaneamente in diversi paesi, perché i volontari provenivano da tanti posti diversi. Quelli che erano all’interno delle strutture mediche della Zeta, che, come ti ho detto prima, non aveva preso misure di contenimento, trasmisero il virus al personale medico e paramedico. Quelli che erano a casa loro, lo trasmisero ad amici e parenti. Visto il lungo periodo di incubazione, quando si resero conto della gravità della situazione, era già troppo tardi. La nostra è una società progredita, ma anche molto vulnerabile. In poche ore, con una spesa limitata, puoi raggiungere qualsiasi località del mondo. La Zeta ha tentato di arginare il problema diramando un allarme contaminazione. È iniziata la ricerca di tutti i membri del gruppo di volontari, dapprima in modo assolutamente riservato. Non volevano che scoppiasse il panico. Ne hanno trovati quasi i due terzi.

Peccato che il gruppo di volontari fosse composto da cinquanta persone e quindi ne mancavano diciannove all’appello. Troppi, per continuare la ricerca in segreto. A quel punto hanno reso pubblico l’allarme, cercando di minimizzare il pericolo e sottolineando la necessità di sottoporsi ad appropriate terapie per curare gli effetti collaterali del farmaco sperimentale. Stavano bluffando, perché non c’erano terapie. Ma che altro avrebbero potuto fare? Dopo l’allarme pubblico, dei diciannove mancanti, se ne sono presentati cinque. Gli altri sono semplicemente spariti dalla circolazione. Forse erano spaventati, forse non sono stati raggiunti dalle comunicazioni diramate. Non si saprà mai quello che davvero accadde. Anche se si fossero presentati tutti, comunque, non sarebbe servito a nulla. Era troppo tardi. Dopo due mesi si sono manifestati i primi casi di persone contagiate che non facevano parte del gruppo di volontari. Si trattava perlopiù di familiari e parenti. C’erano, però, anche persone che non avevano avuto apparentemente alcun contatto con i malati iniziali. Dopo aver verificato l’assenza di legami con il gruppo di volontari, hanno allargato il perimetro di ricerca, e la scoperta è stata terrificante. Qualcuno era stato contagiato perché era nello stesso aereo o nello stesso treno del malato, qualcun altro era nello stesso bar o ristorante. Di un buon numero di contagiati si sapeva solo che da un momento all’altro avevano cominciato a manifestare i segni della malattia. Ben presto il numero di persone colpite è salito vertiginosamente.” “È così virulento?” chiesi sempre più angosciato. “Sì, è molto virulento. Come ti dicevo, la nostra è una società molto vulnerabile. Pensa a un malato contagioso dentro una metropolitana affollata. Quanti di quei eggeri saranno contagiati? Se fosse anche un piccolo numero, questi prenderebbero la metropolitana nei giorni successivi, contagiando a loro volta altri. E così via. È una progressione molto più che logaritmica.” “Mi dispiace” dissi con semplicità. “Non basta” mi disse lui, spiazzandomi con quell’affermazione.

“Che cosa vuol dire che non basta?” chiesi. “Non so che cosa succederà a questo mondo. Dovrei meglio dire a questa realtà. La contaminazione si espande e, da quello che ho visto, potrebbe portare all’estinzione del genere umano. Mi spiace, ma non posso far nulla. Non posso nemmeno aiutare me stesso. Come vedi, anche io sono stato contagiato. Ma se sei qui in questo momento, c’è un motivo preciso. Ho scoperto il portale molto prima di te. Credo che siano ati cinque anni. È stato per caso, com’è successo a te. C’è Stefano anche qui. Un po’ diverso da quello della tua realtà, ma sono differenze marginali. Ho avuto la medaglietta da lui, e ho cominciato a viaggiare tra gli universi paralleli tanto tempo fa. All’inizio ero come te, spaurito, incapace di controllare i miei viaggi. Con il tempo e con l’aiuto di Stefano, ho capito come potevo are nelle realtà parallele mantenendo il pieno controllo. È stata una vera e propria svolta, perché in questo modo ero io a decidere dove andare e quando tornare. Ho imparato anche a interagire con le altre realtà, come sto facendo con te.” Lo guardai stupito e ammirato allo stesso tempo. “È incredibile. Sei stato davvero bravo” dissi. “Non dimenticare che io sono te e tu sei me, anche se apparentemente siamo due entità diverse. È difficile da spiegare. È un concetto che si fonde con la filosofia e con la comprensione della vera realtà, che è talmente grande e complessa da risultare quasi impenetrabile. Alla fine ci saresti arrivato anche tu. Ti ho solo anticipato.” “Faccio fatica a seguirti” dissi. “Io e te siamo come gocce d’acqua che provengono dalla stessa fonte. Immagina una nuvola, una grande nuvola. Si creano le condizioni perché si sciolga in pioggia. Ciascuna goccia di quella nuvola cadrà in un punto preciso della terra. Ogni goccia ha avuto un suo inizio, una sua storia e una sua fine, perché è caduta in un luogo diverso dalle altre. Alla fine tutte quelle gocce evaporeranno e si riuniranno in una nuova nuvola, e porteranno con loro le loro storie. Così, ogni Marco Castelli ha una propria vita, apparentemente slegata da quella

degli altri. Siamo precipitati in punti diversi della terra, ossia in realtà diverse e parallele. Dal nostro punto di vista siamo unici, padroni della nostra esistenza, ma non è così. Proveniamo dalla stessa fonte e lì siamo diretti. Le nostre vite sono strettamente collegate tra loro. Non voglio complicarti troppo le cose in questo momento. Avrai il tempo di capire da solo come funziona davvero. Per ora, accontentati di sapere che non sono solo le nostre vite a essere collegate, ma quelle di tutti gli esseri viventi che abitano il nostro mondo. Il tuo mondo, il mio, e tutti gli altri.” Ci fu un momento di silenzio. Evidentemente faceva fatica a parlarmi, ma non potevo sapere quanto sforzo gli costasse. Era ammalato e probabilmente sarebbe morto o impazzito tra non molto tempo. Potevo cogliere questo senso di urgenza dal modo in cui tentava di trasferirmi quello che aveva compreso, ma non sapevo ancora che cosa avrei potuto fare io per lui. “Quante realtà ci sono?” chiesi. Mi pentii quasi subito di quella domanda. Era sciocca, perché nasceva dalla mia curiosità e non serviva a nulla. Lui mi stava parlando di estinzione della razza umana, di concetti universali e io mi lasciavo andare alle curiosità, come se fossimo stati seduti di fronte a un caminetto con un bicchiere di brandy in mano impegnati in un’amena conversazione. Lui, però, alla fine, ero io, e poteva capirmi meglio di chiunque altro. Così, con sforzo, riprese a parlare. “Io sono riuscito a visitare un centinaio di realtà parallele, ma non so quante ce ne siano. Anche perché il portale funziona individualmente. Posso andare nelle realtà dove vive un altro me stesso. Non posso sapere se in qualche luogo sono già morto, o forse non sono nemmeno nato. In tutte le realtà che ho visitato c’era sempre un Marco vivo, presente. Molte cose che oggi so, le ho imparate dalla mia esperienza diretta, molte altre le ho scoperte leggendo libri, parlando con maestri in ogni luogo della terra. C’è una cosa importante che devi sapere. Ci sono due punti di vista dai quali puoi partire per capire. Fino a ora, quello che ti ho detto parte dal nostro punto di vista.

Se allarghi il punto di vista, la realtà è la somma di tante piccole realtà a sé stanti. Piccole se raffrontate con quella globale. In questo momento, anche se sei qui con me, tu vivi nel tuo universo. Contemporaneamente ci sono altri noi stessi che stanno vivendo nei loro. Ci sono tanti mondi dove noi non ci siamo. Perché non siamo riusciti a nascere, perché la vita si è sviluppata in modo diverso, perché magari siamo già morti. Ogni cosa ha un inizio e una successiva propagazione. Gli universi sono paralleli, perché coesistono e sono molto simili. Ma c’è una piccola sfasatura temporale tra loro, che funziona come una molla: a volte è più lunga e a volte è cortissima. Un evento accade sempre in un punto preciso e si propaga immediatamente nelle altre realtà parallele dopo pochi istanti o dopo un tempo più lungo. Cercherò di spiegarti in modo più semplice. ò lo stesso esempio che ti ha fatto Stefano. È una cara persona, tienilo da conto. Supponiamo che lanci un sasso al centro di uno stagno. Nel punto preciso dove il sasso tocca l’acqua, ha origine un’increspatura che poi si propaga a tutto lo stagno.” “Ricordo perfettamente l’esempio” esclamai. “Bene”, riprese lui. “Funziona così anche per ogni evento che accade nelle diverse realtà. Quando nasco, c’è un punto preciso nell’universo fatto di innumerevoli realtà parallele dove questo accade per la prima volta. Quell’evento comincia a spandersi negli altri universi, dandomi la possibilità di nascere anche in tanti altri luoghi. La velocità della propagazione non mi è chiara. Ho capito che ci sono eventi che si diffondono immediatamente e altri che invece impiegano un po’ più di tempo. La propagazione avviene comunque, ma la realizzazione è legata alle condizioni che ci sono in ciascun piano di esistenza. Nasco per la prima volta nella realtà uno e creo un’onda che mi permette di nascere anche nella due, tre, quattro, e così via. Poi, però, perché la mia nascita si realizzi concretamente, occorrono le condizioni giuste, che non sempre esistono in ciascun piano di esistenza. Se nella due mia madre si ammala e

muore, lì non posso nascere. Nella cinquanta, potrei ammalarmi subito dopo la nascita e morire. Voglio dire, il potenziale c’è, ma la realizzazione dipende dalle condizioni del luogo ove dovrei nascere. Così è stato anche per l’origine della vita. Nelle nostre realtà si è sviluppata grazie a quelle precise componenti che ci permettono di sopravvivere. In altri posti, il sole è collassato, e non esiste una Terra abitata. In altri, le condizioni sono completamente diverse. Magari c’è una vita basata sull’anidride carbonica e l’ammoniaca e non sull’ossigeno e l’acqua. Non ho mai visto niente di simile, però sono sicuro che ci siano anche queste altre realtà. L’intero sistema si basa sul principio dell’equilibrio, e questo lo hai capito anche tu. Ogni cosa che facciamo, determina una conseguenza. Questa conseguenza può essere propagata in tutte le altre realtà o può compensarsi con una sola di queste, secondo l’importanza dell’evento e chi l’ha generato. Se mi faccio un taglio a una mano, è un fatto di scarsa importanza, un sasso piccolo buttato nello stagno. Si compenserà in un’altra realtà. Se invece uccido qualcuno, creo un’onda molto grande, che può essere compensata da un altro evento di pari entità in una realtà parallela o da tanti avvenimenti di minore importanza in diversi universi. Hai visto gli effetti pratici anche tu. Uno di noi ha tradito la moglie. Per te è stato un sogno, ma quell’evento c’è stato davvero in una realtà diversa dalla tua. La conseguenza di quel tradimento si è propagata nella tua realtà e lì è stato compensato da una situazione esattamente opposta, che ha rimesso tutto in equilibrio. Quella bolla che si è creata poteva generare eventi più modesti che si sarebbero estesi in due o tre altri universi.

Il punto preciso da cui è partita l’onda principale è quello che determina tutti gli altri eventi generati di conseguenza negli universi paralleli. È il centro dello stagno per quell’evento specifico. Se io sono nato per la prima volta nella realtà cinque, quello è il punto d’inizio del me stesso per tutti gli universi. È il centro dello stagno per l’evento ‘nascita di me’. È un evento importante e l’onda si estenderà sino ai suoi confini. Gli altri me stessi nasceranno anche negli altri universi, ma con quel leggero sfasamento di cui ti parlavo e come conseguenza della mia nascita nella realtà cinque. Ogni cosa che mi accade nella realtà cinque, ha un impatto maggiore rispetto a quanto può accadere nelle altre realtà. Se muore il me stesso della realtà due, ad esempio, quell’onda potrebbe propagarsi in altri due o tre universi. È un evento ai confini dello stagno. Quando muore il me stesso della realtà cinque, il primo, il centro dello stagno, si determina un evento destinato a propagarsi fino ai confini. In breve, moriranno tutti i me stesso presenti negli altri universi paralleli.” A quel punto ci fu un altro momento di silenzio. Non so si era fermato per riprendere fiato o per farmi digerire quello che aveva detto. Rimasi immobile, assorto nel tentativo di assimilare il tutto. Poi le domande ricominciarono a premere. “Fammi capire” esordii “faccio un esempio. Se io sono il primo che sposa Serena, questo evento si propaga in tutte le altre realtà?” “Se tu sei il numero uno, potenzialmente sì. Se invece sei il risultato della propagazione del primo Marco, quell’evento si compenserà in uno o due universi diversi, ma non in tutti. Il Marco che ha tradito sua moglie, non è il primo. Così, quell’evento si è compensato con la tua realtà. In altri mondi, Marco è ancora sposato con Serena. In altri non l’ha nemmeno conosciuta. Dipende tutto da dove ha origine quell’avvenimento.” “Ma come si concilia quello che mi stai dicendo con il concetto di universi paralleli?” chiesi. “Se sono paralleli, le cose dovrebbero accadere nello stesso modo e nello stesso tempo.” “Non è così. Sono realtà parallele proprio perché le cose che accadono in una

realtà sono destinate a propagarsi ad altre realtà, ma con tempi e modi che possono differire. Il tradimento di quel nostro alter ego in uno degli universi dove siamo presenti, ad esempio, si è propagato al tuo universo, ma non nello stesso istante. È sempre così, c’è uno spazio temporale nella propagazione. Non importa se poco o tanto, ma a del tempo. Non avviene tutto contemporaneamente.” “Questo significa però che la nostra vita è segnata. Non da un destino, da Dio, ma da quello che fanno gli altri me stessi di altre realtà parallele alla mia.” “Non proprio. Ogni avvenimento crea una potenziale compensazione. Non è detto che quella situazione si compensi con la tua realtà. Nello stesso modo, non tutto quello che fai è il risultato di qualcosa che è successo da altre parti. Alcune cose nascono da te e si propagheranno in altri universi. Anche chi è al centro dello stagno, il primo nato, subisce gli effetti della legge della compensazione, come tutti gli altri. Mi rendo conto che è difficile da capire e purtroppo non ho tutto il tempo che vorrei per spiegarti. Questa maledetta malattia sta progredendo velocemente e faccio sempre più fatica a concentrarmi. Per tentare di semplificare, fai conto che il numero uno, il primo nato, faccia qualcosa. Nel suo caso, visto che è il numero uno, quello che fa avrà un valore alto, supponiamo dieci. Gli altri a loro volta fanno cose destinate a compensarsi in altre realtà, ma nel loro caso avranno un valore minore, supponiamo cinque, giusto per dare dei numeri. Un evento a valore cinque si compensa più facilmente, magari in un solo piano di esistenza. Un evento a valore dieci si propaga molto di più. Allo stesso modo, contano le cose che si fanno. Nascita e morte hanno più peso rispetto a qualsiasi altra cosa. Un omicidio crea un’onda maggiore di una rissa, ad esempio. E poi cambia il tipo di compensazione a seconda che un fatto sia positivo o negativo.” “In che senso un evento positivo o negativo?” non potei fare a meno di chiedere. Mi aveva detto di avere poco tempo, ma volevo capire. “Nelle diverse realtà, come in ciascuna di esse, il bene genera altro bene, il male altro male. A volte il bene può compensare il male, anche se si tratta di cose diverse. Tu dai un pugno a qualcuno e questo genera un’onda negativa. Da

un’altra parte, un altro te stesso fa del bene a qualcuno e quell’azione compensa il tuo pugno, senza bisogno di altro. Altre volte il male è compensato con altro male, come nel caso del tuo tradimento. Il bene, invece, genera sempre e comunque bene.” “È davvero complicato” dissi. “Sì. Ho dedicato praticamente quasi tutti i giorni negli ultimi due anni per tentare di capire come funziona. Ma non sei qui per questo.” Improvvisamente ebbi un’illuminazione. Se lui era il numero uno, tra breve sarei morto anch’io e anche tutti gli altri alter ego in ogni luogo. “Tu sei il numero uno?” chiesi, temendo la risposta che mi avrebbe dato. “No” disse con decisione. Tirai un sospiro di sollievo. “Se io fossi il primo, non ti avrei nemmeno fatto venire qui. Che senso avrebbe avuto? Per comunicarti di fare le ultime cose prima di morire? No, non sono il primo, non sono il centro dello stagno. Devo dirti sinceramente che non mi dispiace nemmeno poi molto andarmene. Potrei dirti che sono contento di tornare a casa. Se fossi stato il primo, sarei ancora più contento, perché significherebbe riunire tutti gli altri con le loro esperienze di vita. Pensa: cento o chissà quanti me stessi, che hanno vissuto ogni istante della loro vita e che si riuniscono in uno solo. È come aver avuto la possibilità di vivere tantissime esistenze diverse e ricordarle tutte. Una grande ricchezza.” Il suo ragionamento non faceva una grinza, ma, sinceramente, non mi sentivo ancora pronto a ‘tornare a casa’, come diceva lui. Avevo ancora delle cose da fare e non volevo rinunciarci. “E allora perché sono qui?” chiesi.

“Perché quello che stiamo rischiando non è semplicemente la fine di tutti i Marco nelle diverse realtà. Quello che stiamo rischiando è la fine della vita in tutte le realtà.”

11 - Realtà adiacenti

Quello che era stato un leggero senso di sollievo nell’aver saputo che lui non era il numero uno era stato spazzato via immediatamente da quell’affermazione. “Cosa vuoi dire?” chiesi con angoscia. “La vita ha avuto un preciso inizio in un punto dei multiversi esistenti. Poi si è sviluppata. In tantissimi posti in un modo molto simile a quello che puoi vedere nel tuo mondo. In altre realtà, in modi così diversi che non possiamo nemmeno capire. Il punto di origine della vita è nel tuo mondo.” “Accidenti” esclamai. “Beh, se fosse stata nel tuo mondo, sarebbero guai seri.” “Non ti illudere. La Zeta Farmaceutica esiste anche nella tua realtà. E, indovina? Stanno facendo le stesse ricerche che hanno fatto qui.” Mi sentii gelare. Quella situazione di devastazione e morte poteva in breve riproporsi anche nel mio mondo. E non solo nel mio. “Ma se la vita ha avuto origine nella realtà che vivo io, significa che…” Mi interruppe. “Bravo! Hai capito bene. Significa che la vita potrebbe aver fine in tutti gli universi. L’estinzione dell’umanità nel mio mondo genererà sicuramente un’onda molto grande, destinata a ripercuotersi in tantissime realtà. Ma se questo accadesse nel tuo universo, la catastrofe sarebbe molto più grave.” La sensazione fu simile a una mazzata. Rimasi attonito. “Ma io che cosa posso fare?” chiesi, sentendomi del tutto inadeguato di fronte allo scenario che mi stava prospettando.

“Non lo so che cosa riuscirai a fare” disse lui “ma devi tentare.” Il suo respiro cominciava a diventare ancora più difficoltoso. Guardai quell’uomo che giaceva sul lettino. Soffriva e si vedeva. Però era deciso a portare a termine quell’ultimo compito che si era dato. E solo io potevo capire fino in fondo quella sua caparbietà. “Ho fatto delle ricerche e Stefano mi ha aiutato. Fino a tre settimane fa Internet funzionava ancora egregiamente e la corrente elettrica era distribuita regolarmente. È incredibile con quale velocità le cose si deteriorino. In questo momento Internet comincia a non essere raggiungibile e la corrente elettrica arriva solo ogni tanto. Non penso che durerà ancora per molto. È il caos, destinato solo a peggiorare. L’allarme che era stato lanciato ci ha permesso di individuare abbastanza facilmente la Zeta Farmaceutica come punto zero della propagazione del virus. È stato un po’ più difficile scoprire le altre cose, ma siamo persone che non mollano facilmente. Siamo riusciti a sapere che il direttore della ricerca e della sperimentazione si chiamava Gianfranco Rivetti. Siamo andati a trovarlo e siamo riusciti a sapere gran parte delle cose che ti ho raccontato. Ci siamo resi conto che un avvenimento di questa portata si sarebbe propagato in tante altre realtà. Non si tratta di un semplice sassolino. Qui è in gioco l’intera umanità di tutti gli universi paralleli. È come buttare una montagna in uno stagno. Purtroppo per noi, la mia e la tua realtà sono piuttosto adiacenti, per quanto sia complicato parlare di vicino e lontano su un piano che va oltre l’universo stesso, e questo rende più probabile che anche il tuo piano di esistenza sia contagiato da quanto è successo qui. Il tuo mondo, però, è anche il centro dello stagno. Se succede lì… bum! Saltano tutte le realtà parallele. Stefano ha pensato di usare il portale per far comunicare i due universi. Voleva far incontrare Rivetti con il responsabile della ricerca nel tuo mondo. Abbiamo fatto alcuni tentativi, poi Gianfranco ha cominciato a manifestare i primi sintomi della malattia. Probabilmente lui ha contagiato anche me. Stefano sembrava immune al virus e ha continuato fino alla fine. Mentre si

trovava nel laboratorio di Rivetti, c’è stata un’esplosione. Forse qualcuno ha voluto vendicarsi contro la Zeta o forse è stato semplicemente un incidente. Il dato di fatto è che lì è saltato tutto in aria, compreso Stefano. Il male è progredito velocemente su di me. Non mi resta più molto tempo. A questo punto rimani tu. Sei l’ultima carta che possiamo giocare in questa partita. Mi spiace metterti sulle spalle questa responsabilità, ma non ho altre possibilità. Gianfranco Rivetti, in questa realtà, era il direttore della ricerca. Qui abita a Milano, in Corso Sempione diciotto. Ci sono molte probabilità che le cose coincidano anche nella tua realtà, visto che siamo adiacenti. Devi fermarlo.” “Ma come faccio?” chiesi sopraffatto dalla difficoltà del compito che mi stava affidando. “Non lo so. Non sono nemmeno certo che le informazioni che ti ho dato corrispondano nella tua realtà. Non abbiamo fatto in tempo a verificarlo. Posso solo sperarlo. Magari nella tua realtà il direttore della ricerca è un altro o magari abita da un’altra parte. Non posso saperlo. Stefano stava tentando di avere queste informazioni facendo parlare il Rivetti della mia realtà con il tuo, ma è morto prima di potermi dire qualsiasi altra cosa. Avrei voluto avere le informazioni giuste prima di farti venire qui, ma non c’è stato il tempo. Io sono arrivato alla fine. Probabilmente non andrò avanti più di qualche ora. Spero solo che l’oblio della mente mi risparmi la sofferenza del corpo.” “Non so se riuscirò a farlo. Non te la prendere, ma non so se ci riuscirò” dissi. “Non devi scusarti, non ti ho chiesto di farlo per me” rispose lui. “Io, comunque vada, qui ho finito. Torno a casa. Lo farai per te e per tutti gli altri uomini nelle altre realtà. È pesante sentirsi questa responsabilità sulle spalle, lo so. Ma non ci sono altre possibilità.”

Mi sorrise. Quell’uomo che stava esalando gli ultimi respiri mi sorrise. “Se riuscirai a farlo” continuò con grande fatica “sarà una grandissima soddisfazione. Forse nessuno lo saprà mai, ma tu avrai salvato l’umanità di chissà quante realtà. È un compito difficile, e sinceramente sono contento che non sia capitato a me. Ma sono contento che sia capitato al me che ho di fronte in questo momento. Puoi farcela. Credici, vedrai che sarà più facile.” Rimasi di fronte a lui in silenzio. Non sapevo più cosa dire. Era inutile schermirmi. La differenza tra il tentare di farlo o lasciare che le cose fero il loro corso avrebbe significato la differenza tra la possibilità di continuare a vivere o la certezza di morire. Un pensiero mi attraversò la mente improvvisamente. Non riuscii a resistere e glielo chiesi. “In questa realtà, tu sei sposato con Serena? La stessa Serena che c’è nella mia realtà?” Non aprì gli occhi e continuò a respirare a fatica. Forse non aveva sentito la mia domanda, o forse era troppo spossato per rispondere. Invece fece un altro sorriso. Un debole, triste sorriso. “No. In questo piano di esistenza io stavo insieme a Stefano. Da dieci anni.” La realtà intorno a me cominciò a sfocare lentamente ma inesorabilmente. Gli oggetti, la stanza, l’uomo sofferente di fronte a me cominciarono a perdere la consistenza che avevano avuto sino a quel momento. I colori si mischiarono e cominciò a ruotare tutto. Piombai nel buio e mi svegliai nel mio letto. Se non avessi fatto quell’esperienza altre volte, avrei accantonato il tutto come un brutto sogno. Ma sapevo molto bene che non era un sogno. Capii solo in quel momento che quello che avevo sognato le altre volte era stato necessario per riuscire ad accettare il compito che mi era stato dato.

Mi assalirono mille dubbi. Ce l’avrei fatta a portare a termine la missione che mi era stata affidata? Aveva un senso logico tutto quello che stava succedendo? Magari la mia mente era semplicemente collassata per tutte le tensioni accumulate. Ero impazzito, e quello era il frutto della mia follia. Anche ammettendo che fosse tutto reale – come in realtà temevo – che cosa avrei fatto? Avrei cercato quel tizio, come si chiamava? Sì, Gianfranco Rivetti, e gli avrei detto ‘Sa, deve sospendere la ricerca che sta facendo. Ho fatto un sogno…’ No, impossibile. Non potevo certo agire così. Un tentativo del genere sarebbe finito due minuti dopo averlo fatto, con una pattuglia della polizia e tante spiegazioni impossibili da dare. Cosa dovevo fare? Avevo bisogno di raccogliere le idee. Guardai la sveglia. Le tre del mattino. Complimenti, ero sveglio come se fossero le dieci. Per di più era domenica. Mi alzai e decisi di fare una doccia. Lasciai il ciondolo sul comodino. L’idea di avere un portale appeso al collo non mi piaceva più molto. Aprii l’acqua calda e lasciai che il vapore annebbiasse il box doccia. Poi entrai e mi misi sotto l’acqua a occhi chiusi. Speravo che mi si schiarisse la mente con un’illuminazione, e invece nulla, solo acqua sulla testa e sul corpo. Accesi il computer e scrissi gli appunti di quest’ultima notte. A questo punto rimaneva la sola realtà intorno a me, che non avrei potuto raccontare, ma che avrei dovuto vivere.

Cominciai a fare alcune ricerche con Google. La Zeta Farmaceutica, come aveva accennato quell’altro Marco, esisteva anche qui. Perlomeno c’era un punto da cui iniziare. Il sito Internet indicava la sede a Milano, in viale Zara 133. C’era poi uno stabilimento a Bergamo, uno a Crotone e uno in Croazia. E se a Milano ci fosse stata solo la sede legale? Sarei dovuto andare a Bergamo, o forse a Crotone, per non parlare della Croazia. Soprattutto, se in questa realtà Rivetti non esisteva? Magari il direttore della ricerca non era lui. Magari qui le cose potevano aver preso una piega completamente diversa e il Rivetti era semplicemente un centralinista. Mi riscossi. Inutile pormi delle domande per le quali non avevo alcuna risposta. Meglio darsi una mossa e tentare di capire com’era la situazione. Feci altre ricerche, sul Sirtuin, sulla Zeta Farmaceutica, sulle dinamiche della vecchiaia e i tentativi di risolvere il problema. Poi inserii “Gianfranco Rivetti” nel motore di ricerca Google. Esistevano oltre 370.000 corrispondenze. Sapevo che molte rimandavano alla stessa pagina, ma mi aspettavo qualcosa meno. Le prime mi riportavano a Facebook, Twitter, Waatp, People e altri siti social. Provai a curiosare, ma non avevo elementi per capire se quel Gianfranco Rivetti era quello che cercavo. Poi trovai un riferimento a Linkedin. Si tratta di un sito che consente di entrare in contatto con altre persone nel mondo del lavoro. Se almeno uno dei tre Rivetti che erano presenti fosse stato dipendente della Zeta, la ricerca avrebbe avuto successo. Il primo era un dipendente pubblico, alle Poste Italiane. Il secondo invece sembrava corrispondere a quello che stavo cercando. Nelle indicazioni sul datore di lavoro era riportata la Zeta Farmaceutica. La qualifica di Rivetti era “Ricercatore.” Non c’era alcuna fotografia e, prevedibilmente, non c’erano riferimenti telefonici o altro che mi permettesse di andare a cercarlo.

Continuai con gli altri riferimenti, ma non trovai nulla di interessante. Dopo tre ore ate al computer decisi di fermarmi per fare il punto della situazione. A mio favore potevo elencare questi elementi: - la Zeta Farmaceutica esisteva anche nella mia realtà; - anche in questa realtà si stavano conducendo esperimenti per ridurre la velocità dell’invecchiamento; - Gianfranco Rivetti esisteva anche qui, era un ricercatore e lavorava alla Zeta. Di contro, gli elementi negativi erano: - non esisteva nessun riferimento che collegasse la Zeta alle ricerche sull’invecchiamento. Dovevo fidarmi di quello che mi aveva detto il mio alter ego; - non avevo elementi per collegare il Rivetti alla ricerca; - non sapevo nemmeno che faccia avesse; - se anche tutti gli elementi avessero avuto una corrispondenza con la mia realtà, non avevo minimamente idea di come affrontare la cosa. Ero piuttosto scoraggiato. Soprattutto, sentivo il fortissimo bisogno di confrontarmi con Stefano. Avrei potuto chiamarlo, ma preferivo vederlo di persona. Sapevo che la libreria non chiudeva la domenica e a quel punto si erano fatte le otto. Uscii da casa e mi avviai. Mi guardai intorno. Dopo aver visto la devastazione dell’universo parallelo che avevo visitato nella notte, il mio mondo mi sembrava un paradiso. In realtà era lo schifo di sempre, inquinato, rumoroso, caotico, anche se nei giorni festivi era un po’ meglio. Ma nulla di paragonabile a quello che avevo vissuto. Le immagini della notte cominciarono a sbiadire e presto mi ritrovai a chiedermi se stavo facendo la cosa giusta. In fondo, chi pensavo di essere per fermare un

eventuale cataclisma nel mio mondo? Chi mi aveva nominato difensore dell’umanità? L’altro Marco era molto più avanti di me nella conoscenza della realtà, e mi era sembrato molto sereno nell’affrontare la morte. Era preoccupato per la sopravvivenza di tutti gli universi paralleli, non per la sua imminente morte. Avrei potuto abbracciare quel punto di vista e lasciar perdere questa pazzia. Ma sarei stato in pace con me stesso? In qualche modo avrei condannato il mio mondo a morte. Se poi era vero quello che mi aveva detto il mio alter ego, avrei condannato innumerevoli mondi a morte. D’altra parte, non avevo nessuna certezza di poter cambiare gli eventi. Alla fine, tutto poteva andare a finire sempre nello stesso modo. Però avrei avuto la coscienza a posto. Grande risultato? Forse no, ma pensai che era abbastanza per me. Arrivai a Siziano ed entrai nella Nuova Era. Stefano era al bancone, impegnato come sempre a scrivere in un quaderno. “Ciao Marco, come stai?” mi chiese non appena alzò gli occhi. “Ciao Stefano. Ho bisogno di parlarti” gli dissi senza tanti preamboli. “È successo qualcosa?” “Non ancora” risposi in modo enigmatico. Ci sedemmo e gli raccontai tutto quello che era successo nella notte e quello che avevo scoperto con le mie ricerche. “Che idea ti sei fatto di questa storia?” mi chiese. “Che cosa pensi di fare?” “Bella domanda. Non è che per caso ne hai una di riserva?” gli chiesi a mia volta. “Onestamente non so cosa dire” rispose piuttosto sconsolato. “Non puoi presentarti da quel tizio, ammettendo che sia davvero lui quello da cercare, e raccontargli quello che hai detto a me. Ti prenderebbe per pazzo.”

“Infatti” concordai. “Ma devo fare qualcosa. Non posso lasciare che questo mondo e tutti gli altri vadano incontro alla distruzione senza far nulla. Il problema è che non so cosa fare.” Rimanemmo in silenzio per un po’, fissando il vuoto davanti a noi, incapaci di trovare una qualsiasi soluzione. “Credo sia utile procedere per gradi” disse improvvisamente Stefano come riscuotendosi dall’apparente torpore nel quale era caduto. “Come?” chiesi. “Prima di tutto è necessario avere la certezza che quel tizio sia quello che abbiamo bisogno di contattare.” Mi piaceva il plurale che aveva usato Stefano. ‘Abbiamo bisogno di contattare’ aveva detto. Segno che si sentiva anche lui coinvolto, e questo mi dava un certo sollievo. L’idea di dover fare tutto da solo mi pesava terribilmente. Mi diedi mentalmente una pacca sulla spalla per la decisione che avevo preso di parlare con lui. “Hai detto di aver trovato un riferimento su Linkedin” proseguì lui. “Sì. Gianfranco Rivetti, ricercatore che lavora alla Zeta Farmaceutica.” “Però non c’è una fotografia e non ci sono riferimenti dove andare a cercarlo.” “Esatto” confermai. “Hai provato a fare una ricerca per numeri di telefono?” “Sinceramente no. Non sono sicuro nemmeno che viva a Milano” dissi. “Va bene. Cominciamo da lì. Vieni con me. Nell’ufficio che c’è sul retro, ho un computer connesso a Internet. Proviamo a vedere che cosa salta fuori.” Stefano si avviò verso il fondo del negozio. C’era una porta con un cartello che diceva ‘Vietato l’ingresso’. Aprì la porta su una stanzetta ingombra di raccoglitori e documenti. Sulla

scrivania, accanto a diversi faldoni aperti, c’era un computer. Sistemò una seconda sedia di fronte al monitor e aprì il sito delle Pagine Bianche. Digitò ‘Rivetti Gianfranco’ e ‘Milano’ nel motore di ricerca. Il sistema restituì tre riferimenti. Due erano di Milano, uno di Monza. “Solo tre” disse con entusiasmo Stefano. “Non male” aggiunse. In effetti, tre nomi non era male. Si trattava ora di capire chi di questi era quello che cercavamo. “Che facciamo, li chiamiamo?” chiesi. “E cosa gli dici?” rispose di rimando lui. “Lascia fare a me. C’è un telefono qui?” “Sì, ma non ti consiglio di usarlo. Se viene visualizzato il numero da cui chiami, lasci una traccia che forse in questo momento è meglio evitare.” “Hai ragione. ò il cellulare impostandolo in modo che il mio numero non sia visualizzato.” Mi feci dettare il primo numero di telefono di quella brevissima lista. Il telefono squillò tre volte, poi rispose la voce di una donna probabilmente non più giovane. “Pronto?” chiese. “Parlo con la famiglia Rivetti?” chiesi. “Sì, mi dica.” “Il signor Gianfranco è in casa?” “No, è uscito a fare una eggiata.”

Stavo improvvisando, senza un’idea precisa di come impostare quella telefonata. La signora sembrava essere anziana. Poteva essere la madre o la moglie. In quest’ultimo caso, o il Rivetti era ormai alla pensione, o non era la persona giusta. Seguii la mia intuizione. “Mi scusi se glielo chiedo. Sto cercando un Gianfranco Rivetti che lavora in una industria farmaceutica. Ho fatto il numero giusto?” chiesi con cortesia. “Ah, no. Mio marito è in pensione da dieci anni” mi disse lei. “Allora ho sbagliato numero” dissi subito. “Mi scusi per il disturbo.” Chiusi la linea. “Primo tentativo fallito” dissi. “Non era lui?” mi chiese. “No. Il marito è in pensione da dieci anni. iamo al secondo numero.” Composi il numero sulla tastiera e aspettai che qualcuno rispondesse. Dopo cinque squilli sentii un’altra voce di donna piuttosto trafelata. “Parlo con la signora Rivetti?” chiesi. “Sì, sono io. Lei chi è?” “Buon giorno signora. Suo marito Gianfranco è in casa?” “Gianfranco non è mio marito. È mio figlio, e in questo momento è al lavoro. Scusi, ma chi lo desidera?” chiese sospettosa. “Non si allarmi, signora” dissi cercando di tranquillizzarla. “Solo una cosa banale. Un’auto mi ha urtato uscendo dal parcheggio venerdì pomeriggio. Un signore mi ha detto che il guidatore era appena uscito dalla Zeta Farmaceutica e mi ha dato un numero di targa che l’ACI mi ha detto appartenere a un certo Gianfranco Rivetti. Mi chiedevo se per caso poteva essere suo figlio.” “No, no” si affrettò a dire lei. “Mio figlio lavora fuori Milano, al Centro Commerciale. Si è sbagliato sicuramente. Pensi che lavora anche oggi.”

“Mi scusi signora. Proverò con qualche altro numero di telefono. Grazie comunque.” “Si figuri” disse lei e chiuse il telefono. Anche il secondo tentativo era andato a vuoto. Rimaneva il Rivetti di Monza. Chiamai pieno di speranza. “Pronto” rispose una voce maschile. Ero stato davvero fortunato. Tre telefonate tre risposte. Questo era probabilmente il tizio che stavamo cercando. L’idea che mi era venuta lì per lì della macchina tamponata mi sembrava buona, quindi riprovai con la stessa scusa. “Mi scusi se la disturbo. Parlo con Gianfranco Rivetti?” “Si, sono io. Mi dica” disse lui. “Venerdì pomeriggio un’auto mi ha tamponato uscendo dal parcheggio. Un signore che era presente ha preso il numero di targa. Ho chiamato la motorizzazione e…” “Mi scusi, la interrompo subito” disse lui bloccando il mio racconto. “Non sono io. Io non ho la macchina.” Sentii un gelo sulla schiena. Non era lui! “Mi scusi se l’ho disturbata” dissi mestamente. “Prego” disse asciutto e chiuse la comunicazione. “Siamo al punto di partenza” dissi sconsolato. “Tre numeri di telefono e non è nessuno di loro.” “Accidenti!” esclamò Stefano. “E adesso che facciamo?” Rimasi assorto per un po’. Poi un’idea si affacciò improvvisa. “Vai su Gmail” dissi a Stefano. “Dove?” chiese.

“Sul portale di posta elettronica Gmail” ribadii risoluto. “Www punto Gmail punto com” gli dettai. “Ecco fatto.” “Adesso clicca in alto il tasto ‘crea ’. Metti come nome Luca e come cognome Sardelli. Per le altre informazioni, inventa qualcosa.” Dopo cinque minuti avevamo creato l’indirizzo di posta elettronica [email protected]. “Adesso lascia fare a me” dissi. Mi posizionai davanti alla tastiera ed entrai sul sito Linkedin. Cercai ‘Gianfranco Rivetti’, indicando anche ‘Zeta Farmaceutica’ come datore di lavoro in modo da restringere la ricerca. Trovai il riferimento che cercavo. Per inviare un messaggio di posta elettronica tramite Linkedin dovevo prima iscrivermi. Compilai tutti i campi con le informazioni di Luca Sardelli. Come azienda presso la quale lavora indicai ‘Punto Recruitment.” Mi collegai con quel profilo e cercai nuovamente ‘Gianfranco Rivetti’ e ‘Zeta Farmaceutica’. Trovai subito quello che cercavo. Cliccai il tasto ‘Invia messaggio’ e scrissi una breve email: “Buon giorno. Sono Luca Sardelli, responsabile per la ricerca di personale per il settore farmaceutico. Un’azienda nostra cliente, leader di mercato, sta cercando un ricercatore per i propri laboratori. Sarei felice di poter valutare anche la sua candidatura. Può inviarmi il suo curriculum vitae? Le sarei grato se potesse anche includere una sua fotografia. La ringrazio e le porgo distinti saluti.” Cliccai il tasto invia. “Geniale” disse Stefano. “Banale” ribattei io. “Spero ci caschi.” “Beh, a me è sembrata un’idea geniale.”

“Sono tecniche di ingegneria sociale” dissi. “Social engineering in inglese. Devi far credere a qualcuno di essere qualcun altro per avere le informazioni che ti interessano.” “E adesso?” chiese lui. “Adesso aspettiamo e vediamo che cosa succede.” Rimasi lì con Stefano per un’altra ora. Lui mi chiese di raccontare di nuovo quello che avevo visto in sogno. Non gli avevo detto della rivelazione che mi aveva fatto il mio alter ego di quella realtà, che lui e lo Stefano di lì erano partner. Sono sempre stato eterosessuale, anche se non ho mai avuto alcun pregiudizio per gli omosessuali. Quella rivelazione, però, mi aveva in qualche modo colpito. Mi resi conto che guardavo Stefano con occhi diversi. Era davvero un bel ragazzo, anche se continuavo a rimanere sicuramente attratto dalle donne. Ma era come se si fosse aperta una nuova possibilità, fino a quel momento inesplorata, sconosciuta. Arrivai a casa nel primo pomeriggio. Accesi il computer, scrissi gli appunti della giornata e andai a controllare la posta elettronica di Luca Sardelli. Era troppo presto, lo sapevo. Se ci fosse cascato e mi avesse mandato il suo curriculum, l’avrebbe fatto sicuramente fuori dall’orario di lavoro, da casa sua. Non si risponde a offerte di lavoro dal proprio ufficio. Si possono creare situazioni imbarazzanti. Se era sposato, con dei figli, probabilmente la domenica avrebbe avuto altre cose da fare più che are del tempo sul computer. Mi avrebbe risposto l’indomani sera o martedì. Forse non avrebbe risposto mai. La casella di posta elettronica era inesorabilmente vuota. Decisi di fare altro per distrarmi. Le ore arono lentamente, mentre cercavo di tenere la mente occupata con le pulizie di casa, un po’ di televisione e un libro.

Verso mezzanotte decisi di mettermi a letto. Prima però, pensai di fare l’ultimo tentativo del giorno. Entrai nella casella di posta elettronica e trovai un messaggio. Il mittente era Gianfranco Rivetti. Il cuore mancò un colpo per l’emozione. Il trucco aveva funzionato. Esultai dentro di me. Aprii il curriculum allegato e potei vedere il viso della persona che cercavo. C’erano anche tutte le informazioni che mi servivano: indirizzo, numero di cellulare, posta elettronica e, soprattutto, le informazioni sulle sue attività. L’attività in corso era ‘Direttore ricerca laboratorio proteine’. Bingo! Stefano ne sarebbe stato entusiasta. Chiusi il computer dopo aver letto almeno tre volte le informazioni personali di Rivetti e mi misi a letto. Il ciondolo era sul comodino e decisi che lì sarebbe rimasto. Perlomeno fino a quando non avrei deciso come procedere. Avevo esultato per il trucco della ricerca di personale che era riuscito, ma mi rendevo conto che la parte davvero difficile era ancora davanti, non dietro di me. Avrei dovuto parlare con lui e convincerlo del pericolo che si celava dietro le ricerche che la Zeta stava facendo. Ci sarei riuscito? Inutile tormentarmi. Non avevo risposte. Restai a guardare il soffitto per non so quanto tempo prima di scivolare nel sonno. Un sonno senza sogni, per fortuna.

12 - Le spie

Arrivai da Stefano verso le dieci del mattino. Le serrande erano chiuse. Era aperta a metà solo quella della porta di ingresso. Mi avvicinai e lessi il cartello che avvisava che il lunedì mattina la libreria era chiusa per riposo. Riapriva alle tre del pomeriggio. Guardai attraverso la vetrina e vidi Stefano al bancone, come un giorno qualsiasi. Mi abbassai per entrare. La porta era aperta e la camla appesa tintinnò. “È chiuso” urlò Stefano senza alzare lo sguardo. “Sono io” gli dissi. “Marco! Vieni, vieni. Ci sono novità?” Gli feci vedere, con orgoglio, il curriculum di Gianfranco Rivetti. Adesso veniva la parte difficile: come avvicinarlo e, soprattutto, cosa dirgli. Stefano voleva essere della partita. Sarebbe venuto anche lui. Mi commossi un po’ per la sua determinazione a non lasciarmi solo, anche se non glielo feci vedere. Dovevamo prima studiare i suoi movimenti, in modo da capire quale sarebbe stato il momento migliore per parlargli. Nel curriculum era scritto che abitava a Ponte Sesto, vicino Milano, in zona sud. Tornammo al computer nella stanzetta sul retro. Usando Google Maps riuscimmo a identificare la casa dove abitava. Si trattava di una villetta a schiera. Attivai la funzionalità chiamata street view e potemmo vedere una bella fotografia del cancello di ingresso. A questo punto non avremmo avuto dubbi su cosa cercare. Decidemmo di andare subito a Ponte Sesto. A quell’ora facilmente lui sarebbe

stato in azienda, ma fare una visita forse ci avrebbe permesso di avere qualche altra informazione. Stefano attaccò un cartello alla vetrina che diceva che la libreria era chiusa per malattia del proprietario e che avrebbe aperto non appena possibile. Ci avviammo verso Ponte Sesto. Da Siziano erano una ventina di chilometri. Durante il viaggio regnò il silenzio tra noi. C’era tensione, comprensibilmente, e questo faceva are la voglia di chiacchierare. Ci dovevamo muovere come investigatori privati senza però avere nessuna esperienza in merito. Non avevo mai fatto delle indagini, un appostamento, un inseguimento. Probabilmente nemmeno Stefano. Teoricamente erano cose semplici da fare. Lui non ci conosceva e, anche vedendoci, non avrebbe sospettato nulla. Dovevamo solamente avere l’accortezza di non dare nell’occhio. In ogni caso, quella mattina ci saremmo limitati a fare un giro per vedere la casa dove abitava. Arrivammo verso mezzogiorno. Le villette sorgevano nella zona esterna del paese. Era un complesso di una decina di abitazioni a due piani. Dalla strada principale si accedeva a una via privata piuttosto stretta, dove due macchine avrebbero fatto fatica a are contemporaneamente. C’erano una serie di cassonetti per la pattumiera subito sulla destra, che riducevano ulteriormente lo spazio a disposizione. La stradina privata sembrava più una grossa ciclabile, anche perché lì vicino c’era un parcheggio piuttosto ampio, che probabilmente era usato dai condomini. Avevo sempre considerato le villette a schiera una sorta di palazzo sdraiato su un fianco, con appartamenti stretti e alti, attaccati l’uno all’altro, e quelle case confermavano questa sensazione. L’unica differenza era quel pezzettino di giardino che avevano nella parte anteriore, quasi un contentino, giusto per illudersi di abitare in villa. Il civico che cercavamo era la villetta di testa a destra. Quella aveva un pezzo di giardino un po’ più grande, che girava intorno all’abitazione.

Lasciammo la macchina nel parcheggio davanti alle case e ci avvicinammo a piedi, guardandoci intorno, come farebbe un potenziale acquirente. Il giardino del Rivetti era ben tenuto. Erba inglese, corta, curata. Non c’erano cani e non c’erano nemmeno giochi per bambini. Una siepe di bosso assicurava un minimo di privacy. L’unica personalizzazione che vidi era il nome sul citofono accanto al cancello di ingresso. Per il resto non c’era nulla appeso alla porta o nel piccolo porticato che racchiudeva una grande finestra, probabilmente quella del soggiorno. Le persiane erano chiuse, segno che in quel momento non c’era nessuno in casa. Per il resto, non c’era nulla che potesse darci qualche indicazione in più. Decidemmo di andare a mangiare qualcosa lì vicino, poi ci saremmo messi in macchina ad aspettare che il tipo tornasse dal lavoro. Volevamo capire se viveva da solo o con qualcuno e l’unico modo era appostarci e aspettare. Alle tre del pomeriggio parcheggiammo di fronte all’ingresso di casa Rivetti, a una quindicina di metri dal cancello. Stefano reclinò il sedile e si mise a dormicchiare. Nei film, quando vedi i poliziotti appostati, ti risparmiano la noia dell’attesa. Dopo qualche istante succede sempre qualcosa. Nella realtà, invece, trascorsero diverse ore e quel tempo sembrò infinito. Mi venne la tentazione di abbassare anche il mio sedile, ma temevo di addormentarmi e di lasciarmi sfuggire il rientro a casa di Rivetti. Immaginavo che non sarebbe tornato prima delle sei, ma non mi aspettavo che arrivasse quasi alle otto. A partire dalle quattro del pomeriggio, cominciò un movimento di persone. Diverse donne uscirono da casa e vi tornarono mezz’ora dopo con i figli per mano. Poi, dalle cinque e mezzo, cominciarono a rientrare quelli che tornavano dal lavoro. Ogni macchina che parcheggiava mi faceva balzare sull’attenti. Conoscevo il viso di Gianfranco grazie alla fotografia del curriculum, ma cominciava a far buio e temevo di lasciarmelo sfuggire. Alle sette il flusso di persone finì. Chi doveva rientrare era già a casa. Il nostro

uomo no. Cominciai a temere che non sarebbe tornato. Magari era rimasto in azienda, o forse era uscito a cena con qualche collega. Mancavano cinque minuti alle otto quando entrò nel parcheggio un’Audi grigia. L’auto si fermò accanto alla nostra. Istintivamente sia io che Stefano cercammo di farci piccoli per non essere visti, ma nessuno fece caso a noi. Gianfranco Rivetti scese dal posto accanto al guidatore. Salutò con un cenno il tipo che l’aveva accompagnato e si avviò deciso verso l’ingresso di casa. Quello alla guida non sembrava un collega gentile, ma, piuttosto, un autista. Aspettò fino a che Rivetti non entrò in casa e poi ripartì. Il fatto che ci fosse un autista che lo riaccompagnava rendeva le cose più difficili, perché sicuramente sarebbe intervenuto nel caso in cui alcuni sconosciuti si fossero avvicinati. Evidentemente era una persona importante per la sua azienda. Se lo riaccompagnavano la sera, probabilmente lo venivano a prendere la mattina, cosa che escludeva la possibilità di avvicinarlo a casa. Ne parlai con Stefano e anche lui fu della stessa idea. Restavano due possibilità: tentare di avvicinarlo sul posto di lavoro, magari all’uscita nella pausa, o provare a casa sua nel fine settimana. “Direi che è meglio aspettare questo fine settimana” disse Stefano. “Sono d’accordo, anche se il tempo a e il disastro potrebbe scoppiare da un momento all’altro.” Tornammo a Siziano. Lungo il tragitto discutemmo di come affrontare l’argomento con Rivetti. “Secondo me” disse Stefano, “sarebbe meglio essere diretti. So che è pazzesco

parlare di universi paralleli, di realtà coesistenti, ma qualsiasi altra spiegazione sarebbe inverosimile nello stesso modo.” “E poi” concordai “questa storia delle ricerche sul Sirtuin, come potrei esserne a conoscenza? Solitamente le aziende farmaceutiche sono molto gelose di quello che fanno. Spendono milioni che sarebbero buttati via dalla finestra nel caso in cui qualche concorrente si appropriasse di informazioni riservate.” “Probabilmente, il solo fatto che hai queste informazioni lo spingerà a darti ascolto.” “Lo spero” conclusi. Il resto del viaggio lo ammo ciascuno assorto nei propri pensieri. Lasciai Stefano davanti al suo negozio e tornai a casa. Non potevamo che aspettare fino a sabato, sperando che nel frattempo non succedesse qualcosa. Stare a casa per cinque giorni senza nulla da fare era troppo rischioso per la mia emotività. La scoperta degli universi paralleli mi aveva totalmente assorbito, ma rimanere inattivo mi esponeva al rischio di cadere nel baratro dello sconforto per quello che era successo con Serena. Decisi che sarei tornato in ufficio. Perlomeno il lavoro mi avrebbe impegnato per gran parte della giornata. E poi la sera c’era sempre il Nikola’s pub che mi avrebbe aiutato a non pensare. Mi tirai un po’ su col morale. Il compito che avevo davanti era tremendamente complicato, e non ci sarebbe stato nessuno ad applaudirmi. Ma ne valeva la pena. Di questo non ebbi mai alcun dubbio. Appena tornato a casa, mi feci qualcosa da mangiare e poi mi infilai subito a letto. Il ciondolo era lì che mi guardava. Non mi feci influenzare e lo lasciai dov’era. Non me la sentivo di fare un altro viaggio. Ci sarebbe stato tutto il tempo dopo. Se fossi riuscito a fermare il disastro che incombeva. Sprofondai quasi subito in un sonno profondo.

13 - Il nostro uomo

Sabato mattina, nove e trenta. Io e Stefano siamo davanti la casa del nostro uomo da quasi due ore. Verso le otto e mezzo hanno aperto le persiane. Mi è sembrato di riconoscere il viso dell’uomo, ma probabilmente sono condizionato dalla convinzione che in quella casa non abiti nessun altro. Fa freddo, ma abbiamo deciso di non accendere il motore per riscaldare l’abitacolo. Avremmo un po’ di calore, ma richiameremmo troppo l’attenzione, cosa che non possiamo permetterci. Abbiamo riato diverse volte quello che dovrò dire. Stefano mi accompagnerà ma resterà in disparte, per non preoccuparlo eccessivamente. Spero che esca questa mattina, perché are qui l’intera giornata mi spaventa. La temperatura dentro l’abitacolo è solo leggermente più alta di quella esterna, e ogni respiro forma una nuvola di condensa. Non abbiamo molta voglia di parlare. C’è la tensione dell’attesa, di quello che dovrò dire, di come reagirà il nostro uomo. Alle dieci e dieci si apre la porta di ingresso, esce Rivetti e la richiude a chiave. Si volta e s’incammina per il breve vialetto fino al cancello. Apre, esce e richiude anche quello dietro di sé. Si avvia verso il parcheggio, nella nostra direzione. È arrivato il momento. Il nostro momento. Il mio momento. Esco dalla macchina e Stefano fa la stessa cosa. Lui rimane vicino lo sportello chiuso, mentre io mi avvio verso Rivetti. Lui mi guarda per un istante, poi volge lo sguardo verso quella che probabilmente è la sua automobile. Mi avvicino affrettando il o per fermarlo prima che arrivi alla macchina.

“Mi scusi” gli dico. Lui si volta e mi fissa. Non mi ha mai visto prima d’ora. Nel suo sguardo si mischiano curiosità e diffidenza. Si ferma rimanendo a guardarmi mentre mi avvicino. “Mi dica.” “Avrei bisogno di parlare con lei un minuto.” “Guardi, se vuole rifilarmi una rivista religiosa o qualcosa del genere, le dico già che non mi interessa.” “No, nulla del genere” gli dico immediatamente. “Ho bisogno di parlare con lei della ricerca che state facendo sul Sirtuin.” Appena pronuncio quel nome, lui ha una reazione immediata. Con un balzo raggiunge la sua automobile e mi urla: “Non ho nulla da dire. Sono informazioni riservate. Non so chi è lei e non voglio nemmeno saperlo.” Apre lo sportello, s’infila in macchina e richiude mettendo la sicura. Infila le chiavi nel cruscotto mentre mi avvicino al finestrino. Busso sul vetro mentre il motore si avvia. Lui mi urla da dentro che non ha niente da dire. Gli faccio il gesto di concedermi un solo minuto. Lui rifiuta nettamente, ingrana la retromarcia ed esce dal parcheggio facendo fischiare le ruote. Rimango a osservarlo andar via a gran velocità. E adesso che faccio? Stefano si avvicina e mi mette una mano sulla spalla. “È andata male” mi dice mestamente. “Direi proprio di si” gli rispondo. “Voglio comunque fare un altro tentativo

quando torna. Andiamo in macchina ad aspettare. Proverò a chiedergli di ascoltarmi solo per qualche minuto.” “A questo punto credo che non ci sia nulla da perdere.” Torniamo in macchina e ci mettiamo in attesa. Visto che il nostro uomo è andato via, possiamo accendere il motore per scaldarci un po’. Il tempo a e non succede nulla. Verso le dodici e mezzo vediamo arrivare la BMW di Rivetti. Si ferma appena dentro il parcheggio e si guarda intorno. Probabilmente riconosce la mia auto, perché fa manovra, gira l’automobile e riparte di nuovo. Non sono nemmeno riuscito a scendere dalla macchina. “Credo che a questo punto non si possa fare più nulla” mi dice Stefano. “Appena ha riconosciuto la macchina, è volato via.” “E allora andiamo a parcheggiare da un’altra parte” m’intestardisco. Ci spostiamo dall’altra parte del parcheggio, cercando di mettere la macchina in una posizione che non sia visibile per chi entra. Aspettiamo ancora, tremando per il freddo. Verso le tre del pomeriggio, arriva un BMW X5 con quattro persone a bordo. Parcheggiano e rimangono in macchina a chiacchierare e a bere qualche lattina. Anche se siamo piuttosto distanti da loro, si sente distintamente la musica dell’autoradio. a ancora mezz’ora e vediamo arrivare la BMW di Rivetti. “Rimani in macchina” dico a Stefano. “Se vado da solo, probabilmente riuscirò a parlargli.” Esco cercando di non farmi vedere. o tra le macchine, sforzandomi di frapporre tra lui e me alberi, auto, furgoni. Arrivo a qualche metro dalla sua macchina. Probabilmente non mi ha visto. Spegne il motore e apre lo sportello.

Esce, richiude lo sportello e a quel punto con due balzi sono da lui. “Mi lasci parlare solo un minuto, la prego” gli dico con il tono più rassicurante che mi consente quella situazione assurda. Lui si volta e fa un salto per lo spavento. Non mi aveva visto. Ho il fiatone, ma cerco ugualmente di calmare il respiro per non agitarlo di più di quanto già non sia. “Che cosa vuole?” mi chiede seccamente. “Lei è Gianfranco Rivetti, direttore per la ricerca sul Sirtuin” gli dico tutto d’un fiato. “Sono qui solo per chiederle di fermare la sua ricerca.” “Lei come fa ad avere queste informazioni?” mi chiede molto seccato. “È una lunga storia, ma se mi concede qualche minuto, tenterò di raccontargliela” gli dico quasi supplicandolo. “Credo proprio che ci sia bisogno di una spiegazione” dice lui. Non mi sembra vero. Improvvisamente il suo tono è cambiato e da ostile sembra diventato più accondiscendente. Finalmente avrò la possibilità di spiegargli le cose, anche se penso che non sarà una eggiata. “Allora” comincio. Lui sposta lo sguardo da me a un punto alle mie spalle, di nuovo a me e poi ancora alle mie spalle. Istintivamente mi volto giusto in tempo per vedere i quattro del BMW X5 che sono a un metro da me. Alzo le mani in un gesto di resa che evidentemente non è capito, visto il pugno che mi colpisce in pieno volto. La botta è stata violenta e ho avuto la sensazione che il cervello rimbalzasse dentro la scatola cranica. Se non fossi in questo posto e in questa situazione, potrei ironizzare sul mio cervellino che rimbalza in tutto quello spazio vuoto. Sento un sapore metallico in bocca e mi porto una mano alle labbra. Quando la guardo, mi rendo conto che è piena di sangue.

“Fermi!” imploro, ma non serve a nulla. Mi arriva uno sganassone da destra che mi fa voltare la faccia. Poi, mi sento afferrare alle spalle e mi rendo conto confusamente che due di questi gorilla mi stanno spingendo verso il loro SUV. Oltre al dolore, il pugno a freddo e lo schiaffo successivo hanno il potere di annientare qualsiasi resistenza. Sono ferito e umiliato, incapace di reagire. Mi caricano in macchina, facendomi salire dietro e bloccandomi uno a destra e l’altro a sinistra. Il tipo alla guida accende il motore e parte a razzo. La testa mi ronza e gli occhi sono annebbiati. Con quel briciolo di razionalità che mi rimane, penso a Stefano che è ancora nel parcheggio. Perlomeno non ha preso botte. Buon per lui, non per me. “Dove mi state portando?” chiedo cercando di mettere un minimo di dignità nel tono della voce. In realtà mi viene da piangere, ma credo che non servirebbe a nulla se non a umiliarmi di nuovo. I tizi in macchina non rispondono. Continuano come se non avessi nemmeno aperto bocca. Probabilmente sono pagati per picchiare, non per dare spiegazioni. Filiamo a tutta velocità verso Milano, almeno, così mi sembra. Poi, invece, giriamo verso la tangenziale. Non ho idea del guaio nel quale mi sono cacciato, ma temo che possa andare solo peggio. Potrei protestare dicendogli che questo è un rapimento bello e buono. Sinceramente credo che servirebbe solo a prendere qualche altra botta, e per oggi ne ho fatto il pieno. Dalla tangenziale ovest iamo alla est, sempre a velocità sostenuta. Poi svoltiamo in direzione Como. Altro casello. Svoltiamo sulla Torino - Venezia, tornando indietro verso Milano.

Prima uscita, e continuiamo verso la città. Imbocchiamo viale Fulvio Testi. Comincio a capire: siamo diretti verso viale Zara, dove c’è la sede della Zeta Farmaceutica. Non ho idea delle intenzioni di queste persone. Forse dovrei avere più paura di quanta ne ho in questo momento, ma l’avvilimento per la situazione supera anche quella. Arriviamo in Viale Zara e svoltiamo in una traversa sulla sinistra. Giriamo intorno a un grosso edificio e ci fermiamo nei pressi di una porta carraia, che comincia ad aprirsi. Dopo qualche istante, c’è lo spazio sufficiente per are e per scendere in un parcheggio sotterraneo. Il parcheggio è grande e vuoto. Lo percorriamo tutto e ci fermiamo nei pressi di una porta di metallo. Ci sono altre due macchine posteggiate, non ho idea se siano lì per me o per che cosa. I quattro aprono gli sportelli contemporaneamente e scendono. Il tipo di sinistra mi prende sotto un’ascella e mi aiuta a smontare dall’auto. Ci avviamo tutti e cinque verso la porta di metallo, che l’autista apre con una chiave elettronica. Dietro la porta c’è un ascensore che attende. Non c’è molto da scegliere: un solo bottone con una freccia verso l’alto. Il tragitto non è molto lungo, anche se mi sembra che il tempo proceda a rallentatore. Quando le porte si aprono, davanti a noi c’è un salone che sa molto di reception. Lo attraversiamo e prendiamo un altro ascensore, diretti al terzo piano. Percorriamo un breve corridoio ed entriamo in una stanza al cui tavolo sono sedute tre persone. Appena entriamo, si alzano in piedi. “Buon giorno” dice il primo. “Sono Angelo Cremona, direttore generale della Zeta Farmaceutica.”

“Io sono Mario Ferrara, direttore della sicurezza” dice il secondo. “Sono il commissario Dante Frigerio” dice il terzo “del reparto Prevenzione Crimini della Polizia di Stato.” Un commissario. Perlomeno non farò una brutta fine, penso con sollievo. “Cosa le è successo?” chiede il commissario indicando la mia faccia. Probabilmente sono sporco di sangue, ma non ho la possibilità di verificare. Sento solo un gran gonfiore alle labbra. “Commissario, sono stato io. Il signore qui ha avuto una reazione nei confronti del Dottor Rivetti e ho tentato di fermarlo” dice uno degli energumeni che mi hanno prelevato al parcheggio. Mi giro a guardarlo, stupito per quell’affermazione. Quel che vedo su quel volto, però, mi fa desistere dal protestare. Decido di non complicare ulteriormente la mia situazione. “Ferrara, si era detto niente violenza” dice il commissario rivolto al capo della sicurezza. Sono qui in veste ufficiosa e non vorrei trovarmi ad avere a che fare con una denuncia per violenza e rapimento.” Ferrara guarda i suoi uomini con espressione interrogativa, aspettandosi delle spiegazioni. “Glielo assicuro, capo, il signore è venuto con noi spontaneamente” risponde il tipo. “Pensavo che stesse aggredendo il dottor Rivetti e l’ho bloccato. Il colpo è stato del tutto involontario. Mi sono già scusato.” Sono stupito per la piega che ha preso la situazione, ma la presenza del commissario mi tranquillizza. Ho avuto paura per la mia vita, devo ammetterlo. Se racconto quello che è successo metto nei guai quei tipi, e, sinceramente, non mi dispiacerebbe. Mi chiedo però se vale la pena prendermi questa soddisfazione e rischiare di trovarmeli di fronte in qualche vicolo deserto. Non credo che dimenticherebbero la mia faccia. Non sono un temerario e decido di lasciar stare le soddisfazioni personali. Mi sono cacciato in un guaio, ormai è chiaro, meglio non complicare la situazione. “Commissario” dico “sono sicuro che questo signore ha agito per proteggere il

dottor Rivetti. È stata colpa mia.” Fisso il gorilla negli occhi. “Ti lascio stare, ma tu lascia stare me” cerco di trasmettergli mentalmente. Quello mi guarda e fa un leggero sorriso. Non so se il messaggio è arrivato a destinazione, ma perlomeno non ci saranno ritorsioni. “Va bene, va bene, lasciamo stare” dice il commissario. “Si sieda, signor...?” “Castelli, Marco Castelli.” “Bene. Si sieda, signor Castelli.” “Grazie ragazzi” dice Ferrara, il capo della sicurezza. “Potete andare.” I quattro escono dalla stanza chiudendo con delicatezza la porta. “Allora, signor Castelli” esordisce il direttore generale della Zeta “questa mattina lei ha avvicinato un nostro ricercatore, il dottor Rivetti, che lei conosceva per nome, nonostante lui abbia affermato di non averla mai vista prima, e ha accennato ad alcune ricerche di carattere riservato che la nostra azienda sta conducendo. Vorremmo sapere come ha avuto queste informazioni e per chi lavora.” Tutti mi fissano aspettandosi un nome, qualche giustificazione che spieghi come faccio a sapere del Sirtuin. Questa è la situazione che avrei voluto evitare a tutti i costi, e invece mi ci trovo completamente immerso. Non so cosa dire. Devo raccontare la verità? Forse sarebbe la strada più semplice, anche se sono sicuro che non mi crederanno. Non ci crederei nemmeno io. “Allora, signor Castelli?” incalza il commissario. “Non c’è nessun informatore. Io lavoro come responsabile informatico in un’azienda di componenti elettronici. Sono un apionato di biologia e ricerca sul DNA.” “Questo non spiega come fa a sapere delle ricerche che la nostra azienda sta svolgendo sul Sirtuin” ribatte il capo della sicurezza. “Lei sa che in Italia il reato di spionaggio industriale è severamente punito?” chiede il commissario.

“Non mi occupo di spionaggio industriale. Sono un informatico. Potete controllare.” “Controlleremo, non si preoccupi” ribatte il commissario. “Credo però che farebbe bene a dirci tutto. Semplificherebbe le cose, migliorerebbe la sua posizione e ne terrà conto anche il giudice.” “Il giudice?” chiedo incredulo. “Gliel’ho già detto, lo spionaggio industriale è un reato, punibile con la reclusione da cinque a dieci anni.” Dal mezzo sorriso soddisfatto del commissario capisco che devo essere sbiancato. Voleva farmi paura e ci è riuscito. Peccato che non abbia una storia per lui. Perlomeno, non quella che lui si aspetta. Decido che non ho altra strada se non dire la verità. Non ho mai subìto un interrogatorio in vita mia, ma ho letto che ti tengono sotto torchio per ore e ore. Devi ripetere la tua versione all’infinito, fino a quando crolli. Se m’invento qualcosa, sono sicuro che mi contraddirò o che alla fine non reggerò. “So che potrà sembrare incredibile” esordisco “ma ho fatto un sogno. Ho sognato del Sirtuin, della ricerca della Zeta Farmaceutica, del dottor Rivetti. Nel mio sogno, l’esperimento andava male e si generava un’anomalia che infettava tutta l’umanità.” “Interessante” dice a mezza voce tra sé e sé il direttore. “Si rende conto che la sua posizione si aggrava se continua a rifiutarsi di dirci tutto quello che sa?” chiede il commissario, evidentemente innervosito dalla mia storia che considera un parto di fantasia. “Ma io non so altro. Lo giuro. Ho sognato che venivano condotti esperimenti sul Sirtuin che determinavano una anomalia che produceva effetti devastanti sull’uomo. Nel mio sogno milioni di persone venivano infettate ed erano destinate a una terribile agonia che culminava con la morte. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che la Zeta Farmaceutica che avevo sognato esiste davvero e anche il dottor Rivetti. Non sono nemmeno sicuro che sia lui il

direttore della ricerca sul Sirtuin. L’ho avvicinato perché volevo chiederglielo e volevo metterlo in guardia sul pericolo che stiamo correndo tutti.” “Così lei non è una spia ma un eroe” dice ironicamente il capo della sicurezza. Il direttore continua a essere assorto. Fissa un punto indefinito davanti a sé. È come se si fosse estraniato da quella conversazione. “Senta, visto il suo atteggiamento di rifiuto, non mi resta che portarla al commissariato per ulteriori indagini” dice il commissario. “Chiamo una pattuglia e la faccio accompagnare” prosegue. “Al commissariato potrà fare due telefonate, una al suo avvocato, se ne ha uno, e una alla sua famiglia. Le consiglio di informarli che quasi sicuramente sarà trattenuto per qualche giorno.” Sento il viso caldo. Probabilmente sono diventato rosso. Non è rabbia, è paura. Non posso essere arrabbiato per la loro reazione. Che cosa avrei fatto al posto loro? Quasi certamente sarei arrivato alle loro stesse conclusioni: non voglio collaborare. Mi sono inventato la storiella del sogno per coprire la realtà. Lo spionaggio industriale è molto remunerativo. Questi signori penseranno che qualcuno mi ha riempito di soldi al punto da farmi accettare anche una possibile incriminazione. Credo che implorare o continuare a sostenere la mia versione dei fatti per convincerli sia inutile, così decido di starmene zitto. Il commissario esce dalla stanza con il cellulare in mano. Starà chiamando la pattuglia. Il direttore si alza e mi fissa. “La saluto, signor Castelli. Mi creda, è stato interessante fare la sua conoscenza.” Esce anche lui dalla stanza. Rimane il capo della sicurezza, che mi fissa con aria torva. Forse spera ancora di convincermi a dire la verità. La verità che vuole sentirsi dire. Il suo atteggiamento è comprensibile. Lui è il capo della sicurezza della Zeta. Se

c’è un buco nelle procedure, chi finisce sulla gogna è lui. Vorrebbe sentirsi dire che non sono stati sottratti documenti o archivi con informazioni sensibili per colpa di qualche errore o superficialità. Vorrebbe sapere chi è il dipendente corrotto che ha ato le informazioni e che l’ha fatto per soldi. Se qualcuno si introduce negli archivi, ne risponde lui. Se qualcuno va a parlare in giro di cose riservate, lui non c’entra nulla. Ne esce pulito. Dopo qualche istante, il commissario rientra nella stanza. “La pattuglia sarà qui tra cinque minuti. Ferrara, ci accompagna all’uscita?” “Certamente” dice lui prontamente. Ci alziamo e percorriamo la strada che porta verso l’uscita. Questa volta il giro è diverso. Sono entrato dal garage e uscirò dalla porta principale. Senza onori o saluti, ma con una scorta di Polizia. Quando arriviamo all’ingresso, ci fermiamo davanti alle porte di uscita. Qui funziona come nelle banche. Una prima porta consente l’ingresso in uno cubicolo chiuso. Quando questa si chiude, consente alla seconda di aprirsi. Il tutto corredato di vetri antiproiettile, telecamere e lettori di badge. Anche se il vetro antiproiettile falsa tutti i colori spostandoli sull’arancione, posso vedere fuori. Il sole è ormai tramontato. A dicembre la notte arriva in fretta. Sono le cinque e mezzo del pomeriggio, ma se fosse mezzanotte non cambierebbe nulla. Un bagliore intermittente blu indica che la pattuglia è arrivata. Il commissario stringe la mano al capo della sicurezza. “Ciao Mario. Ci vediamo.” “Ciao Dante” risponde lui. “Grazie di tutto.”

Evidentemente si conoscono bene. Magari il capo della sicurezza prima era un poliziotto. Poi ha pensato bene di dare più lustro al suo lavoro aggiungendo parecchi euro allo stipendio da fame della polizia. Si apre la prima porta, entriamo nel gabbiotto e si apre immediatamente anche la seconda porta che dà sull’esterno. Il privilegio di avere il capo della sicurezza come portiere: uscita rapida. Accanto allo sportello posteriore dell’Alfa, c’è un poliziotto in attesa. “Buona sera commissario” dice ossequioso. “Buona sera Ferretti” risponde lui. Mi fanno sedere accanto a un poliziotto che era rimasto seduto in macchina. A fianco si siede l’altro poliziotto, lasciando il posto davanti al commissario. “Che cosa succederà adesso?” chiedo non appena la volante parte. “Prima di tutto cercheremo di capire chi è lei veramente”, risponde il commissario. “Poi ci dovrà spiegare per bene i fatti. Come sono andati davvero. E poi il resto dipenderà dalla denuncia che farà la Zeta Farmaceutica. Le assicuro che non è uno scherzo.” “Sono già abbastanza spaventato, commissario. Non c’è bisogno che tenti di spaventarmi ancora di più. Non ho fatto nulla di male, se non quel sogno assurdo. E mi sono già ampiamente pentito di aver seguito il mio istinto.” Non c’è altro da dirsi. Il resto del viaggio prosegue in silenzio. Arriviamo al commissariato. Prevedo che sarà una lunga, faticosa serata.

14 - Rivelazione

Il mio orologio fa le undici e trenta della sera quando esco dal commissariato. Mi hanno interrogato a lungo, facendomi ripetere il racconto per decine di volte. Sono spossato, ma anche perplesso. Pochi minuti fa il commissario è entrato nella stanza nella quale mi stavano interrogando due poliziotti. “Ragazzi, fine della storia. La Zeta ha ritirato tutte le accuse. Signor Castelli, è libero di tornarsene a casa.” Non ho avuto nemmeno il coraggio di chiedere spiegazioni. Avevo paura che ci ripensassero. Ho preso le mie cose e sono uscito. A duecento metri c’è un posteggio di taxi. Per fortuna ce ne sono tre anche a quest’ora. Salgo sul primo e gli do l’indirizzo di casa. A mezzanotte e un quarto entro finalmente a casa. Il primo pensiero è chiamare Stefano. È tardi, ma credo che in questo momento sia in ansia per me. Prendo il telefono e compongo il numero del suo cellulare. “Ciao Stefano, sono Marco.” “Marco! Dove sei? Che cos’è successo? Sono stato tanto in pena per te. Non sapevo se rimanere lì ad aspettarti o se tornare a casa. Alla fine, dopo un’ora, ho deciso di tornarmene con la tua macchina. L’ho messa nel box. Ho tirato fuori la mia e…” “Wow, Stefano, piano, piano. Non è stato un pomeriggio semplice. Sono un po’ frastornato.” “Scusami. È che ero davvero angosciato. Quando ti ho visto entrare nella macchina di quei tizi non sapevo cosa fare. Volevo chiamare la polizia, ma poi ho pensato che sarebbe stato difficile spiegare quello che era successo.”

“Hai fatto bene a non chiamare nessuno e anche a tornartene a casa.” “Vuoi che venga lì da te?” “No, stai tranquillo. Sto bene. Sono solo molto stanco.” “Dai, raccontami che cos’è successo.” Nei dieci minuti successivi gli racconto tutto quello che mi è successo da quando sono salito sulla macchina dei quattro fino a quando sono rientrato a casa. “Secondo te, perché hanno ritirato le accuse?” mi chiede Stefano. “Sinceramente non lo so. Forse mi hanno creduto. Forse hanno capito che non sono una spia. Non lo so. E quando mi hanno detto che potevo andarmene, non mi sono preso la briga di chiederglielo.” “Il problema, però, resta. Stanno facendo esperimenti sul Sirtuin e da un momento all’altro potrebbe scoppiare la tragedia.” “Sì, ma ormai non possiamo più farci nulla. Rivetti non è avvicinabile e non possiamo certo andare alla Zeta.” “Non ci resta che stare a vedere quello che succederà.” “Credo proprio di sì.” Dopo qualche altra chiacchiera, chiudo e mi metto a letto. Ho voglia di terminare questa terribile giornata. Per fortuna domani è domenica. Non credo avrei retto a una giornata di lavoro. Mi addormento subito.

Sono ati alcuni giorni. Con Stefano si è creato un rapporto molto stretto. Ci sentiamo un paio di volte al giorno. Non riuscirò mai a considerarlo qualcosa di più che un amico. In questa realtà mi piacciono le donne. Non ci posso fare nulla.

Nonostante questo, lui è una persona deliziosa e piacevole. Verso le due del pomeriggio squilla il cellulare. Numero sconosciuto. Rispondo. “Pronto?” “Buon giorno. Il signor Castelli?” “Sono io.” “Sono Rivetti. Gianfranco Rivetti. Si ricorda di me?” “E come potrei dimenticarmene? Certo che mi ricordo di lei.” “Mi spiace per quello che è successo settimana scorsa, ma non sapevo con chi avevo a che fare. Vorrei chiederle un favore. Possiamo vederci questa sera, verso le sette? Possiamo prenderci un aperitivo. Dalle sue parti, se preferisce.” “Conosco un pub dalle parti di Rozzano. Si chiama Nikola’s. Se vuole, ci vediamo lì.” “Sì, mi dica dove si trova esattamente, e sarò lì alle sette in punto.” “Posso far venire anche un mio amico? È a conoscenza di tutto e mi ha aiutato a… trovarla.” “Se è il ragazzo che era con lei sabato scorso, va bene.” Gli do l’indirizzo del Nikola’s e ci salutiamo. Chiamo Stefano e gli dico di farsi trovare al pub per le sette di questa sera. Ci sono ancora cinque ore. Mi concentro sul lavoro, così da evitare domande inutili.

Alle sette e cinque parcheggio davanti al Nikola’s. Sono stato fortunato: c’era un posto libero che sembrava aspettare solo me.

Appena esco dalla macchina, vedo con la coda dell’occhio Stefano che arriva. Probabilmente mi stava aspettando da qualche parte. Attendo che arrivi accanto alla mia auto. “Ciao Marco” mi dice sorridente. “Ciao Stefano.” Mi abbraccia con affetto. È fatto così. Sa come la penso, e rispetta le mie scelte, ma ha bisogno di stringersi a me ogni volta che ci vediamo. È una stretta dolce e intensa, che dura quanto basta per trasmettere il calore dell’amicizia che è nata tra noi. Mi guarda dritto negli occhi, sorridendo. Se solo non fossi così fissato con le donne… “Il nostro uomo è già arrivato?” chiede lui. “Non lo so. Andiamo a vedere.” Mentre ci avviciniamo, vediamo Rivetti seduto a un tavolino sotto il tendone. Ha già ordinato qualcosa da bere, e, nella migliore tradizione del Nikola’s, ha davanti a sé un piatto con tranci di pizza, rotolini di prosciutto e salame piccante. “Buona sera Rivetti” esordisco allungando la mano. “Buona sera” risponde lui alzandosi e dandomi la mano. “Può chiamarmi Gianfranco, se vuole.” “Allora direi che possiamo anche darci del tu, così facciamo prima” dice Stefano. “Io sono Stefano, piacere.” Ci sediamo. La nostra curiosità è evidente, perché entrambi lo guardiamo senza dire nulla. “Prendete qualcosa da bere?” chiede Gianfranco. “Volentieri” risponde per entrambi Stefano. “Faccio io” dico “così ne approfitto per salutare i miei amici.” Entro e abbraccio sia Gatto che Pina. Ordino due birre Super, medie. Penso sia il

caso di mettere un po’ di alcol in corpo. Torno al tavolo e mi siedo. “Allora” esordisce Gianfranco “vi ho chiesto di venire perché avevo bisogno di parlare con qualcuno e ho pensato che foste le uniche persone con cui farlo.” “L’altro giorno non la pensavi nello stesso modo” gli ribatte Stefano un po’ piccato. “Mi spiace. Mi sono già scusato con il tuo amico e chiedo scusa anche a te. Nel mio lavoro, la sicurezza è un aspetto importante. Qualsiasi fuga di informazioni può costare alla mia azienda milioni di euro. La ricerca sul Sirtuin, fino a oggi, è costata venti milioni di euro. Capirete che ci siamo preoccupati molto quando Marco è arrivato dicendomi che voleva parlarmi proprio di quella proteina. Vorrei comunque informarvi che sono stato io a chiedere al direttore generale di ritirare qualsiasi accusa nei confronti di Marco.” “Va bene. Accettiamo le scuse” gli dico. “Perché siamo qui?” chiede Stefano. “Volevo confrontarmi con voi. Non posso darvi dettagli sulla ricerca che sta conducendo il mio team, ma non credo vi stupirete sapendo che effettivamente stiamo lavorando sul Sirtuin. Due settimane fa, più o meno, mi è successa una cosa strana. Una mattina mi sono svegliato, ho spento la sveglia e mi sono riaddormentato. Non mi succede mai. In vent’anni di lavoro è la prima volta che mi riaddormento in quel modo. Sono praticamente crollato di botto. Ripensandoci oggi, penso addirittura di essere svenuto. Sono rimasto in quella condizione per mezz’ora, ma è come se avessi vissuto un’esperienza durata diverse ore. Ho sognato, o forse ho avuto delle visioni, non saprei dire. Erano immagini vivide, reali, diverse da qualsiasi sogno abbia mai fatto. Mi sono ritrovato in una città. Era Milano, ma non era questa città. Quasi tutte le cose erano al loro posto, ma non le persone. Ovunque c’erano devastazione e

abbandono. Le poche macchine che giravano correvano a folle velocità, senza preoccuparsi di chi era a piedi. Ho visto un’auto guidata da una donna che ha investito tre persone come se niente fosse. Quelli sono stati presi in pieno e sono stati sbalzati via come birilli senza un urlo, un gemito. C’era sangue dappertutto. Ovunque guardassi c’erano negozi bruciati, vetrine spaccate. Sembrava in corso una guerra, ma senza combattenti. È stato come essere lo spettatore di un film in 3D. Camminavo per le strade di quella città come un turista. Osservavo ogni cosa, ma le persone non mi vedevano. Mi avano accanto senza rendersi conto che ero lì. Molte di loro erano nude come vermi. Avevano macchie su tutto il corpo. E quello sguardo allucinato. Tremendo. Sembrava un film girato dopo lo scoppio di una bomba nucleare. A terra c’erano diverse persone. Alcune erano state uccise, perché avevano ferite da cui era uscita una quantità incredibile di sangue. Altre erano semplicemente morte. Almeno, così sembrava, perché non si muovevano più. Non potevo decidere dove andare. Ero solo uno spettatore cui veniva fatta fare una gita turistica. Dopo aver girato per diverse vie del centro di Milano, mi sono ritrovato in quella che doveva essere stata la mia azienda. Era stata devastata. Non c’era più nulla di intero lì dentro. Non era semplicemente abbandonata. Qualcuno aveva distrutto ogni cosa. Sono arrivato nel laboratorio di ricerca nel quale lavoro con i miei colleghi. Anche quello era stato completamente distrutto. Lì c’era un uomo riverso a terra. Inizialmente sembrava morto. Poi ho scoperto che era ancora vivo, anche se conciato male. La mia visita sembrava finita in quel posto, perché non potevo più spostarmi da

lì. Ho aspettato non so per quanto tempo senza poter far nulla. L’uomo a terra ogni tanto si muoveva e si lamentava. Per il resto non succedeva nulla. Poi si è aperta una porta ed è entrata una persona. Non ci crederete, ma quella persona era uguale a Stefano. Sembrava proprio lui. Immagina che flash ho avuto settimana scorsa quando sei piombato vicino a casa mia e ho visto in lontananza il tuo amico, che somigliava terribilmente alla persona che avevo visto in quella visione la settimana prima. Comunque, entra quella persona nel laboratorio, si avvicina al tizio che è a terra e lo volta, in modo che possa vedere il suo viso. Ero io. È stato uno shock. Quello ero davvero io. Era… forse dovrei dire ero… non so. Che casino! Comunque, ero pieno di lividi, come se qualcuno mi avesse picchiato fino a farmi quasi morire. Ed ero malato. C’erano anche delle macchie sulla mia pelle. Scure, come se fosse stato vaiolo. In qualche punto si erano aperte delle piaghe che lasciavano vedere la carne aperta. Non sanguinavano. Qualcuna si era infettata. Altre sembravano appena formate, di un rosso porpora che mi fa venire i brividi solo a pensarci. Insomma, quel tizio, Stefano, lo volta e poi si avvicina alla scrivania. Sono sicuro che mi vedesse. O che sapesse che io ero lì. Non so perché, ma da come si muoveva, avevo questa netta sensazione. In tutta la devastazione del laboratorio, c’era un computer portatile che si era salvato. Lui si avvicina alla scrivania, apre il computer e fa partire una presentazione. Non so chi l’ha fatta, ma chiunque sia stato sapeva bene che cos’era successo e perché. L’origine di tutto quello che stava accadendo, era legato alla ricerca sul Sirtuin. Ho avuto la possibilità di studiare le modifiche che erano state fatte, le reazioni del DNA e le conseguenze. È stato scioccante, perché tutto coincideva con quello che stiamo facendo anche noi qui. Ho capito subito che c’era un elemento di cui non avevamo tenuto conto nelle nostre ricerche.

Non posso scendere nei particolari, perché dovrei dire delle cose che sono coperte da segreto industriale. E poi sarebbe un discorso così tecnico che non so nemmeno se possa essere compreso appieno da una persona non addetta ai lavori. Senza offesa, ma le informazioni che mi sono state date su di voi mi fanno pensare che non siate esperti di genetica.” “Avete preso informazioni su di noi?” interrompe Stefano, quasi offeso per quella violazione della nostra privacy. “Sì. L’ufficio sicurezza della mia azienda ha chiesto informazioni alla polizia e penso che abbia fatto delle ricerche autonome. Mi spiace, ma ci sono in ballo interessi troppo grandi intorno a questa ricerca.” “Vai avanti” gli dico. “Tanto non cambia nulla.” “Però a me dà fastidio che qualcuno abbia sbirciato nella mia vita senza il mio permesso” ribadisce Stefano. “Pensi davvero di poter mantenere qualche segreto?” gli chiedo. “È sufficiente che ti colleghi con un computer a Internet e quello che fai è disponibile a chiunque abbia voglia di guardarci dentro. Hai il cellulare? Pensi che se qualcuno volesse sapere dove sei in questo momento non ci riuscirebbe? E che dire delle intercettazioni telefoniche?” “Va bene, va bene” esclama lui con tono esasperato. “Lasciamo perdere. Vai avanti, Gianfranco.” “Ragazzi, sono sinceramente dispiaciuto per tutto questo. Permettetemi di dire, comunque, che vi ci siete ficcati voi in questa storia. Prima della settimana scorsa avevo fatto un sogno strano, ma non sapevo nemmeno della vostra esistenza. Siete stati voi a venire da me.” “D’accordo” gli dico. “Non te ne facciamo una colpa. Vai avanti.” “Dov’ero rimasto? Sì, alla presentazione che ho visto. Insomma, mi è stato mostrato con precisione il perché di quello che era successo.

Alla fine della presentazione, Stefano chiude il computer e lo infila in uno zainetto. Quella è stata l’ultima cosa che ha fatto. C’è stata un’esplosione nel laboratorio. Non so che cosa sia successo a quell’uomo, perché quell’esplosione mi ha fatto tornare a questa realtà. Mi sono svegliato improvvisamente. Ero nel mio letto, sudato come se avessi fatto una sauna. C’è voluto un po’ per riprendermi. A differenza dei sogni normali, quello era stampato nella mente, come il ricordo di qualcosa che potevo aver fatto o vissuto il giorno prima. Non sapevo se quello che avevo visto fosse reale o solo il frutto della mia mente. Ero confuso, spaventato, ma a quel punto, mi era stato messo un tarlo in mente. Dovevo controllare se quello che mi era stato fatto vedere era vero, perché se così fosse stato, il rischio di combinare un pasticcio era enorme. Quel giorno, in laboratorio, ho fatto diverse prove. Non c’è voluto molto per capire che tutto corrispondeva. Stavamo per sganciare una bomba atomica senza rendercene conto. Ho sospeso immediatamente la sperimentazione e fatto ricominciare la ricerca. È stato come ripartire daccapo. Per fortuna non da zero. Ho dovuto informare la direzione generale della mia azienda. È stata una riunione un po’ movimentata. Inizialmente non volevano credere che quello che avevo scoperto mi era stato rivelato da una sorta di visione. Quando hanno visto il risultato delle mie ricerche, hanno dovuto accettare il fatto che eravamo seduti su una bomba senza saperlo. Non è stato facile, ma hanno condiviso le mie conclusioni. E poi siete arrivati voi. Inizialmente ho pensato che potesse esserci un problema con un’azienda concorrente. Nel settore farmaceutico le corporation arrivano a farsi delle vere e proprie guerre per il controllo del mercato.

Le ricerche costano troppo, durano anni e a volte non portano a nulla. È molto più rimunerativo pagare qualcuno per essere avvantaggiati. Vi ho detto che la mia azienda ha speso fino a oggi circa venti milioni di euro. Se fossimo dei pirati, sarebbe più remunerativo darne dieci a qualcuno per farsi are informazioni. Si saltano tanti aggi, si risparmiano tempo e denaro. Noi abbiamo dei protocolli di sicurezza molto precisi. Se qualcuno ci fa capire di essere interessato al nostro lavoro, abbiamo il dovere di informare immediatamente la sicurezza. E così ho fatto. Il lunedì successivo al nostro incontro ho parlato con il direttore generale della mia azienda, che mi ha raccontato quello che Marco aveva detto. Il sogno, il mondo devastato e tutte le altre cose di cui ha parlato. La sicurezza aveva fatto delle indagini il giorno stesso che avete tentato di fermarmi, e ha confermato che Marco era solo un informatico per una azienda elettronica. Quindi niente rischi per le informazioni sulle ricerche, niente concorrenza. Le accuse sono state ritirate il sabato stesso. Il capo della sicurezza avrebbe voluto lasciare Marco in cella fino a lunedì, ma per fortuna il direttore generale ha pensato che sarebbe stata una inutile e sciocca vendetta. Il resto lo conoscete. Quello che ora vorrei sapere da voi, è come ci siete arrivati. Avete avuto un’esperienza simile alla mia?” Rimaniamo in silenzio per un po’, con la domanda di Gianfranco che aleggia tra noi. Poi, comincio il mio racconto. Lui è stato sincero con noi. Perlomeno, ho avuto questa sensazione. Così gli racconto tutto, senza tralasciare alcun particolare. Andiamo avanti a parlare per altre due ore.

Oltre ai fatti in se stessi, ci sono tanti aspetti umani, emotivi, che hanno il loro peso, la loro importanza. Quando ci salutiamo, si sono fatte le dieci. Ci hanno fatto compagnia almeno tre birre e altrettanti piatti di pizza. Non so perché, ma da questa sera credo di avere un amico in più. In un modo strano, imprevedibile, abbiamo condiviso esperienze che non potremo raccontare a chiunque, e questo ci lega in modo indissolubile.

15 - La fine

Termino i miei appunti questa sera, due settimane dopo aver incontrato Gianfranco. Non ha senso andare avanti, anche perché da qui in poi diventerebbe solo il diario di un single che fa di tutto per non lasciarsi travolgere dagli avvenimenti. In queste due settimane ci siamo ritrovati altre quattro volte. Credo che Gianfranco provi una simpatia spiccata per Stefano. Non siamo così intimi da chiedergli com’è messo lui dal punto di vista dei gusti sessuali, ma non mi stupirei nello scoprire che tra loro è nato un rapporto un po’ più profondo di una semplice amicizia. Mi sono sembrati felici di essersi trovati. Buon per loro. Io, nel frattempo, ho continuato a tentare di gestire i casini della mia vita. Ho trovato un accordo con Serena per la casa: la venderemo. Ho capito che è meglio anche per me ricominciare daccapo, e la casa è un elemento che mi legava troppo al ato. Sono stato fortunato, perché ho trovato una sistemazione a Rozzano, vicino al Nikola’s. Sarà più facile gestire la solitudine di questo periodo con i miei amici. Non ho più provato a indossare il ciondolo. È lì che mi aspetta. So che alla fine lo farò, ma non mi sento ancora pronto. In questo momento penso che sia meglio prendere dalla vita quello che arriva, senza andare avanti con il timore che arrivi qualcosa come risultato di quello che può essere successo in qualche altra realtà. E senza pormi il problema che quello che faccio possa influire su altri me stessi da qualche altra parte. È stata un’avventura che potrei definire a lieto fine.

Ho ancora tempo avanti a me. Non so quanto, ma non me ne preoccupo. Avevo bisogno di raccontare questa storia. Essere arrivato fin qui me l’ha confermato. Se un giorno qualcuno avrà la possibilità di leggere questo manoscritto, considererà questo racconto fantascienza. Ma va bene così. Penso sia molto meglio credere di essere i soli padroni del nostro destino. Non credo sia necessario aggiungere qualcosa. Da ora in poi, c’è la mia vita, e quella me la tengo per me.

Milano, febbraio – agosto 2012

Qualche nota tecnica e ringraziamenti

L’idea degli universi paralleli non è nuova, e, soprattutto, non è solo fantascientifica. Ci sono diversi studi “seri” che ne parlano. La teoria più conosciuta è quella delle stringhe. Si ipotizza che materia e energia, spazio e tempo siano la manifestazione di entità fisiche sottostanti, le cosiddette stringhe, che vibrano in dieci dimensioni nello spazio-tempo e che formano le particelle che originano gli atomi. Secondo questa teoria esistono qualcosa come un uno seguito da cinquecento zeri di universi, ognuno con le proprie leggi fisiche. Gli universi sono paralleli perché occupano lo stesso spazio-tempo, non perché accadano cose simili. Questa teoria non contempla la possibilità che in un universo parallelo ci sia un altro me stesso che fa cose simili a quelle che faccio io. Altri autori hanno invece ipotizzato questa possibilità. Si sconfina però nel campo della fantascienza. Letture interessanti possono essere fatte su Wikipedia e cercando con un motore di ricerca le parole chiave: realtà parallele, multiverso.

http://it.wikipedia.org/wiki/Dimensione_parallela http://it.wikipedia.org/wiki/Multiverso http://fringeitalia.forumfree.it/?t=44630623 http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/11_agosto_04/multiverso-traccebolle_e15d86c2-be7c-11e0-aa43-16a8e9a1d0c7.shtml

Anche per quanto riguarda il karma ci sono innumerevoli approfondimenti che possono essere fatti con un semplice motore di ricerca. Non penso sia necessario indicare qualche riferimento qui, perché sarebbe estremamente riduttivo rispetto a un argomento così profondo.

La dottrina del karma trae spunto da filosofie molto antiche, come i Veda, le Upanisad, Induismo, Janismo, Buddhismo, e così via. Nella cultura Vedica questo termine ha a che fare con i riti religiosi che venivano officiati dai Bramini. Il karma era considerato come un contenitore che raccoglieva le azioni religiose di ogni persona in vista di una sua vita futura. L’attenzione era posta soprattutto sulla correttezza dei riti religiosi che la persona faceva compiere ai Bramini. Tanti riti e sacrifici fatti bene, potevano dare una rinascita molto più favorevole, ad esempio, in una casta superiore o addirittura in un mondo spirituale. Pochi riti, avrebbero dato pochi risultati. Con le Upanisad, l’attenzione viene spostata dalla ritualità alla condotta della persona. Una buona condotta avrebbe portato a benefici nella vita presente o in quelle future. Una vita ascetica, avrebbe consentito una rinascita nella via degli dei. Quindi, gli scritti sacri affermano che l’uomo modella il suo futuro come potrebbe fare un orefice con un oggetto prezioso. Il buddismo segue questo modello, ponendo al centro dell’attenzione il comportamento delle persone. Un comportamento volontario non virtuoso genererà malessere in questa stessa vita o in quelle future, così come, al contrario, un comportamento virtuoso genererà risultati positivi in questa, nella prossima o in una futura vita. Le nostre azioni producono semi del karma, non risultati o frutti, che germoglieranno quando ci saranno le condizioni giuste. Potrebbe essere in questa vita o in una prossima. Quando il karma si manifesta, il seme produce frutto, e porta a termine il suo potenziale. Se nel corso di questa vita non accade, quel seme del karma continua a seguirmi, vita dopo vita. Il problema è che se produrrà il suo frutto in una vita futura, non avrò alcuna memoria di quello che ho fatto, così sarò costretto a subire il risultato di qualcosa accaduto in ato senza ricordare nulla. In quella vita potrei essere una persona onesta che non ha mai rubato uno spillo, eppure subire un furto perché in una mia vita ata ho fatto un’azione che ha creato quel karma. È inevitabile: prima o poi il seme produce il frutto. Io sono d’accordo con quanto dice Stefano in questo racconto: il karma non è solo una questione di giustizia, ma soprattutto una questione di equilibrio

universale e di ricchezza dal punto di vista esperienziale, per noi stessi e per l’Universo . Tutti noi siamo qui con uno scopo preciso: vivere la nostra vita per accumulare esperienza. Ciascuno di noi è unico. Le sensazioni che provo quando mangio un gelato al cioccolato, sono solo mie. Se mangi lo stesso gelato anche tu, proverai altre sensazioni, probabilmente piacevoli se il gelato al cioccolato ti piace, ma diverse dalle mie. Le nostre esperienze ci arricchiscono e nello stesso tempo, permettono anche all’Universo di essere più ricco. Per valere però, devono essere il più possibile complete. Se devo fare l’esperienza ‘schiaffo’, per completarla avrò bisogno di provare le sensazioni che derivano dal dare uno schiaffo e dal riceverlo. Solo così è completa. In questo modo ho sia equilibrio sia completezza e posso are oltre. Stessa cosa con l’esperienza ‘omicidio’. Uccido una persona, dovrò a mia volta essere ucciso per completare l’esperienza e per ristabilire l’equilibrio. Meglio se verrò ucciso dalla stessa persona che io ho ucciso in una vita precedente. L’Universo è ricco di tutte le nostre esperienze e la vita dovrebbe essere vissuta così: un modo per fare esperienza. A volte piacevoli, a volte pesanti. Una persona un giorno mi disse: alla fine di ogni giornata dovremmo dedicare qualche minuto per pensare a ciò che abbiamo imparato e vissuto in quel giorno. Se ci dovessimo rendere conto che non abbiamo aggiunto nulla alla nostra vita e alla nostra esperienza, dovremmo ammettere di aver sprecato una giornata. In realtà, nulla è sprecato. Dobbiamo solo esserne consapevoli.

Approfitto di questo spazio per qualche ringraziamento. Vorrei ringraziare prima di tutti il “Rifugio degli Esordienti” (http://www.danaelibri.it/rifugio/rifugio.asp). È un sito dedicato a quelli come me: scrittori esordienti, pieno di consigli molto pratici e utili. Un servizio davvero prezioso è quello della lettura incrociata, gestito da Piera Rossotti. A lei va senz’altro un grande ringraziamento, insieme al coordinatore del gruppo Fantascienza, Sauro Nieddu, molto disponibile e gentile e a tutto il

gruppo di lavoro. Gli altri ringraziamenti sono più… personali. Grazie Sabrina, mia compagna di vita, per la tua pazienza e perché sopporti le tante ore che o al computer. Grazie Elisabetta, per la fotografia di copertina e per il tuo entusiasmo. Un pensiero va anche a Erika, sco, Simone, Michele, Lorenzo e Luca: siete presenze importantissime nella mia vita. Anche tu, Valentina. Mi manca la tua presenza fisica ma sei sempre nel mio cuore (e non solo nel mio). Qualcuno citato nel libro esiste davvero: Franco e Pina. Grazie anche a loro per avermi regalato bei momenti davanti a una birra e una pizza ai bei tempi del Nikola’s Pub.

Nota biografica

Massimo Licari, classe 1962, vive vicino Milano e da anni si occupa di informatica. Scrivere è una ione che parte da lontano e che l’ha accompagnato in tutti questi anni. Affascinato dalla scienza e dalla cultura orientale, buddhista non ortodosso e libero pensatore.

Indice

1 - L’inizio

2 - La tradisco

3 - È finita

4 - Dodici rosso

5 - Il casinò

6 - L’incidente

7 - Paolo e Serena

8 - Paralleli

9 - L’esperimento

10 - Un mondo alla fine

11 - Realtà adiacenti

12 - Le spie

13 - Il nostro uomo

14 - Rivelazione

15 - La fine

Qualche nota tecnica e ringraziamenti

Nota biografica

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