Carmine Carbone NOTTE Lettere Animate Editore
Isbn: 978-88-6882-157-9
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a Lei, che mi fa sentire vivo a Loro, che mi hanno dato la vita alla Vita, che mi ha accolto tra le sue braccia e mi fa ardere dentro
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Era una di quelle sere in cui guardando il cielo potevi sentirti talmente piccolo da capire quanto immenso fosse l’universo e quanto indifferente fosse che tu sia lì in quell’attimo. Ma c’eri. La luna era così grande e intensa che illuminava tutto intorno e, lì intorno, le stelle sembravano brillare su un manto blu scuro. Riuscivi a scorgere il luccicare degli astri su tutto ciò che era liquido o metallo: la pozza d’acqua che calpestavo, le auto che percorrevano la strada ad alta velocità, il grande parabrezza dell’autobus e soprattutto le acque del fiume che rendevano il tutto irreale. Dalla sopraelevata Continental (così chiamavano la strada principale) quel fiume brillante sembrava un fulmine che squarciava il cemento della città. Era un normale lunedì sera. Normale per me, che vedevo la normalità della vita con occhi un po’ diversi da tutti gli altri. Per molti il lunedì sera era rientrare a casa stanchi dopo il primo giorno settimanale di lavoro, era andare al bar con gli amici per una birra e due chiacchiere su cosa aveva fatto la squadra di calcio del cuore il giorno prima, era andare al cinema con persone conosciute il weekend trascorso. Non per me. Per me era la sera in cui avevo ritirato i vestiti e la coperta puliti all’associazione. Il lunedì e il giovedì: ritiro masserizie. Come potevo dimenticarlo; erano dieci anni che trascorrevo così quei giorni della settimana. Di solito di notte dormivo in piazza dietro il mercato, ma il lunedì sera si
radunava il Comitato di Quartiere, allora mi spostavo altrove. Amavo le rive del fiume e, con una serata così bella non mi sarei perso l’occasione. Godevo poco della vita, ma apprezzavo la bellezza della natura, mi faceva sentire libero da tutto, libero dalla vita quotidiana, libero dalla mia condizione, libero di non sentirmi diverso e spesso discriminato, libero di non dover specificare alle persone che chiamarmi barbone o senza fissa dimora m’infastidiva e, che preferivo “clochard”. Mi dava un senso d’importanza, o meglio, tra gli altri termini sembrava fosse il più elegante. Da quel punto del fiume, vicino al ponte dove trovavo riparo, potevo scorgere il meglio della città: la parte moderna con grattacieli e edifici sempre illuminati; la parte antica con i monumenti e le bandiere sui tetti che ricordavano e inneggiavano vite e momenti ati; la parte di città che definivo “tranquilla”, dove in tutte le case le luci erano spente dalle undici di sera in poi, dove tutti dormivano e, gli unici rumori che sentivi erano quelli degli animali randagi che scavavano tra la spazzatura o quelli di qualche mio socio di associazione che preparava la sistemazione per la notte; la parte che definivo “caotica”, dove potevi vivere 24 ore su 24, locali, bar, ristoranti, club e casinò. Bazzicavo molto quella zona, soprattutto il martedì, il sabato e la domenica. Il martedì il MAGIK ti offriva musica jazz di livello e quel cassone della spazzatura sul retro era un posto in prima fila, praticamente se guardavi attraverso la piccola presa d’aria riuscivi a vedere che numero di scarpe portavano i musicisti sul palco. Il sabato al CLOY potevi gustare musica etnica; lo scorso sabato dal tetto ho ascoltato musica afro e ho ballato per tre ore, saltando avanti e indietro come se fossi una scimmia, grazie anche a quel cartone di vinello rosso di qualche zona della Francia. La domenica al GRUNGE potevi apprezzare il meglio della musica rock, dai vecchi classici ai nuovi generi. Lì grazie a Luigi, il cuoco italiano della piccola cucina, oltre ad accomodarmi tra i lavelli, riuscivo ad assaporare qualche piatto prelibato. Non che in associazione si mangiasse male, ma era raro vederti offrire lasagne, maccheroni e vini italiani.
Tuttavia ero lì non per il cibo ma per la musica. La mia ione: la musica. Ecco! La musica era un’altra cosa che apprezzavo. La bellezza della natura e la musica.
2
La mia ione e la mia rovina. La musica. Come potevo non amarla. Tutto ciò che avevo fatto da bambino e da ragazzo era suonare una chitarra. Ero fra i più bravi chitarristi emergenti in circolazione, anzi, a dire di molti il più bravo, e soprattutto a dire di Jesse, Tom e Faith, con cui suonavo dall’età di undici anni. Eravamo cresciuti nello stesso orfanatrofio e quel Natale, di cui non ricordo l’anno, i regali che ci avevano donato avrebbero cambiato la nostra vita. Una chitarra, una batteria e un basso donati dallo STUDIO RECORDER lì nei pressi. Fu come se il nostro destino, il nostro avvenire, ci avesse preso per mano e indirizzato per la via prescelta: la Musica. D’altronde non avevamo programmi o progetti migliori. Da quel Natale sino alla nostra maggiore età ci dedicammo alla nostra ione. Suonavamo ovunque ci fosse la possibilità, avevamo molto tempo per farlo, quel tempo chiamato Vita. Avevamo lasciato gli studi e andavamo nelle scuole solo per suonare alle loro feste organizzate. La chitarra era diventata la mia arte. Eravamo molto apprezzati nel panorama locale e venivamo spesso invitati a suonare nei vari club del paese.
Avevamo la voglia di sfondare e di raggiungere, un giorno, un livello importante. Avevamo progetti. Per la prima volta potevamo programmare e immaginare il nostro futuro. Ormai avevamo i mezzi per farlo. Divenuti maggiorenni lasciammo l’orfanatrofio, volevamo seguire il nostro ego. Ci spostavamo in giro per i vari festival musicali. Eravamo dei nomadi alla ricerca di nuove sinfonie e note. Non dovevamo preoccuparci di cosa ci lasciavamo alle spalle. Eravamo uniti come fratelli e in più con gli anni avevo trovato l’amore. L’amore per lei, la nostra cantante. Faith. Era la cosa più bella che avessi mai provato e ci sentivamo indivisibili, la musica ci avrebbe unito per sempre. Una primavera decidemmo di partecipare a un concorso regionale di nuovi talenti dove stravincemmo senza alcun dubbio. Vincemmo degli strumenti nuovi e un bel po’ di soldi. Ci sentivamo i padroni del mondo. Con decisione unanime decidemmo di comprare, con i soldi del premio vinto, un camper per poter viaggiare e spostarci senza problemi. Tutto era perfetto. Con le serate in giro per il Paese riuscivamo a guadagnarci da vivere e a conservare un fondo per uno spostamento radicale. Sognavamo il Nord dell’Antico Mondo e in quella primavera decidemmo di andarci. Quella scelta, quella decisione, stavolta nostra e non del Destino, ci cambierà la vita. Per sempre.
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Avevo recuperato durante il giorno alcuni scatoloni di mobili; sul lato vi era uno slogan “Componi la tua casa”. Cavolo! Oltre ai mobili anche gli scatoli sembravano componibili. Riuscii ad attrezzare un comodo letto su quella panchina. Per me valeva più di quell’attico a Rose Hills, il quartiere ricco. Da lì non si riusciva a vedere l’alba come, tra qualche ora, l’avrei vista io. Mentre contemplavo fiero il mio regale letto, vidi al di là del fiume, sull’altra sponda, Markus rientrare nel suo covo, come lo definiva lui stesso. Markus era un clochard come me. Era russo e lo chiamavano Mr.Vodka perché la sua faccia era identica a quella sulla bottiglia della vodka, ma lui odiava quel nome perché era astemio. Un russo astemio! Che strano! Sarebbe stato più facile trovare cento denari a terra in strada che un altro russo astemio. Era un tipo solitario, ma buono, e non so perché ma a me voleva bene. Era molto vecchio. Probabilmente non lo era, ma i tanti anni in strada lo facevano sembrare. Amava i cani; girava in città con molti di loro al seguito; li trattava come figli, trascurava se stesso per il loro benessere. Il suo covo era un vecchio locale di scarico sulle rive del fiume, si diceva in giro che lì vivesse con cento cani o più. Lo salutai urlando il suo nome, ricambiò alzando il braccio e facendo abbaiare i suoi figli.
Tornai a distendermi su quella panchina e fissavo il manto blu che mi sovrastava. Era una dolce ninna nanna che mi dondolava, era stupendo addormentarsi quella notte. Ma non sapevo il perché... Non ricordo se fossi già addormentato ma fui distratto da un rumore. Un fruscio continuo che nonostante la stanchezza non riuscivo a trascurare e che avrei dovuto far sparire per tornare a dormire. Quel fastidioso rumore non era altro che un foglio di giornale impigliato al piede della mia panchina. Con stizza e sollievo lo presi. Erano le pagine 4 e 5 del FREE NEWS, un giornale gratuito che trovavi in città, nelle metro, sui bus o per strada. Era un giornale stracolmo di notizie, dalla politica allo sport, dai quiz ai cruciverba, dalle scommesse agli annunci. Spesso li usavo come fazzoletti ma quella sera, quelle pagine m’incuriosirono e in più il sonno era ormai spezzato. Iniziai a leggerlo. La pagina 4 era quella della cronaca cittadina, le problematiche in città c’erano, ma, d’altronde, come ovunque in tutto il Paese. Questa città non era peggiore delle altre, ma questo era un mio pensiero, ed essendo ai margini della società, percepivo in modo accentuato il bene e il male della vita quotidiana. Non capisco a volte come la gente giudicasse così male la propria città, i mezzi di trasporto in ritardo, le file negli uffici, i parcheggi introvabili, il traffico che ti snerva. Cioè, capisco che siano dei disagi, ma come possono pesare così tanto nella loro vita? Per me i problemi erano trovare un telo plastificato in caso di pioggia, stare attento ai controlli sui bus e metro perché giravo senza biglietto, sperare di trovare sempre il cibo all’associazione e svegliarmi ogni giorno senza aver avuto problemi con qualche drogato o ubriaco che mi molestava.
Capisco anche però che tutto ciò se non lo vivi nemmeno lo consideri. Beh, era come se io mi preoccui del prezzo del petrolio e della benzina, dei mutui alle stelle, delle tasse che t’impongono. «Diavolo! Sono un clochard, ci sarà pure qualche vantaggio» pensavo autoconvincendomi.
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Ero lì su quella panchina disteso. Disteso a leggere in posizione supina. Lo ero anche quel giorno. Quel giorno lontano. Quel giorno lontano in cui tutto cambiò. Ero disteso sulla mia cuccetta del camper. Leggevo alcuni spartiti che Tom mi aveva consigliato. Percorrevamo non so quale strada di montagna e Jesse era alla guida, come il suo solito. Era un buon guidatore ma non so cosa avvenne quel giorno. L’ultimo istante che ricordo è quello sbalzo dal finestrino, all’improvviso fui scaraventato fuori in strada senza nemmeno rendermene conto. Da alcuni racconti che sono riuscito a recuperare al mio risveglio dal coma, circa nove mesi dopo, venni a sapere che il camper aveva sbandato ed era caduto da un dirupo. Mi ero salvato perché imprudentemente ero disteso sulla cuccetta con il finestrino laterale aperto e in curva ero sbalzato fuori senza però precipitare. Mi avevano ritrovato privo di sensi qualche ora dopo. Avevo perso le persone care, il mio amore e la mia ione in un colpo solo. Non avevo più la mia vita e non potevo ripartire da ciò che sapevo fare, suonare la chitarra.
Mi ero risvegliato in quella stanza dalle pareti azzurre, in quel letto d’ospedale, con una grossa cicatrice sul volto, con il braccio destro che aveva perso parte della mobilità e senza il pollice, l’indice e il dito medio della mano sinistra. Ricordo i giorni in quel letto, disteso tra quelle lenzuola a cercare di ricollegare quei momenti dopo il risveglio a quella vita spensierata e gioiosa che ormai mi sembrava sconosciuta. Era come se tutto in me fosse cancellato ed ero sempre più consapevole di dover ricostruire un nuovo avvenire. Che strana sensazione! Ero ignaro di ciò che mi era e mi sarebbe successo, vedevo intorno a me individui sconosciuti vestiti di bianco, parlare in modo per me incomprensibile sia per il linguaggio a me sconosciuto sia per il trauma che avevo subito. Non riuscivo a focalizzare me stesso e la mia posizione nel mondo. Era una condizione che in quell’istante mi accorsi e mi ricordai di aver già provato. Erano i primi ricordi di me bambino. Riuscivo appena a ricordare quella tenda azzurra e le pareti blu piene di disegni: era la stanza dell’orfanatrofio. Quei dottori mi ricordavano il personale dell’orfanatrofio, Paul, Joe e Beth, anzi zia Beth, la direttrice, per noi bambini era e sarà sempre una zia. Prima di quei ricordi non ho nulla, ignoravo tutto il mio principio, le mie radici, eventuali miei parenti. Così come ignoravo dell’incidente. Nessuno sapeva di preciso cosa fosse successo, Faith, Jesse e Tom erano stati ritrovati morti tra le lamiere del camper ed io avevo perso i sensi prima ancora di capire ciò che accadeva. Non sono riuscito a vivere quel aggio, quel distacco da tutto ciò che avevo.
Mi apparteneva perché c'era chi me lo raccontava dopo il mio risveglio. Mi piaceva pensarlo come io e ragazzi avevamo immaginato la vita e la morte. Vivere era la ricerca della sinfonia perfetta e quindi la morte era il suo raggiungimento. I ragazzi l’avevano prematuramente raggiunta, ma non io. Non era ancora il momento. Tuttavia nella mia condizione non avrei potuto continuare a vivere la musica come avrei voluto per la mia vita. Ormai avevo dei segni indelebili e degli handicap sul mio corpo che me lo vietavano. Tutto ciò mi scoraggiava e mi deprimeva ma sapevo che comunque dovevo reagire e andare avanti. Partecipavo attivamente alle cure e al programma di recupero dell’ospedale. Incontravo anche psicologi che mi davano “o e aiuto”, così loro lo chiamavano mentre io lo chiamavo “salvezza”. Ricordo con grande affetto Lucy, senza di lei forse non mi sarei nemmeno nutrito in quelle settimane di riabilitazione; era lì al mio fianco e cercava di sorreggermi mentalmente, eppure non sapeva nulla di me, del mio ato. Aveva un faccione paffuto pieno di rughe con un sorriso stampato e occhialini coperti da un ciuffo di capelli color argento; era così che immaginavo una nonna. Era lì, fasciata nel suo camice bianco a chiedermi di ritornare alla vita, di impegnarmi in questo. Per lei ero al principio di un nuovo inizio ma per me in alcuni momenti ero all’inizio della fine. La mia stanza era l’ultima del corridoio, situata a un piano alto perché dalla finestra vedevo perfettamente i nidi di quegli uccelli che tanto mi rallegravano, li
immaginavo come delle note musicali mentre volavano nello spartito azzurro che per me era il cielo. Quelle notti nemmeno dormivo, pensavo che avevo già dormito troppo nei nove mesi precedenti e così me ne stavo sveglio a ripetere costantemente i miei esercizi fisici. Volevo tornare a una vita indipendente quanto prima. Non so di preciso quanto tempo ho trascorso in ospedale, ma ricordo il momento che ne sono uscito, quel distacco. Quel giorno all’uscita m’immaginavo come un corridore sulla linea di partenza, pronto a dare inizio al suo sprint, alla sua corsa, alla sua vita. Era il giorno della rinascita. Quel giorno sono rinato... barbone. Oops! Scusate clochard.
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A centro pagina di quel foglio di giornale vi era un articolo con un titolo a grandi caratteri: “ANCORA FURTI NELLE VILLE”. Sapevamo tutti che in città il problema dei furti in abitazione preoccupava sempre più. Il loro numero era aumentato in modo spropositato nell’ultimo anno. La Polizia aveva stimato una percentuale, in base agli arresti effettuati, degli autori di questi furti. Quella percentuale era stata pubblicata sul giornale confermando e aumentando il malumore nei cittadini. Al primo posto con il 70% c’erano gli zingari. La popolazione ormai aveva il dito puntato contro di loro, nutrivano odio e disprezzo nei loro confronti, ma come biasimare gente che si vedeva privata dei loro oggetti, dei loro affetti; gente che sentiva violato il proprio domicilio, la propria intimità. Anch’io mi arrabbiavo se qualcuno occupava i miei scatoloni per la notte o cercava di impossessarsi del mio cibo. Il senso umano di possesso ci tiene in allerta e odiamo essere violati nelle nostre cose. Potevo capire il concetto, ma colpevolizzare e generalizzare non mi piaceva e non ne sarei stato nemmeno capace. Per me gli zingari erano Mircea e Constantin. Li avevo conosciuti al mio arrivo in città e spesso li incontravo in fila in mensa, all’associazione. A volte avevamo anche pranzato allo stesso tavolo.
Erano due cugini, o due fratelli, non lo sapevano di preciso nemmeno loro, ma erano fantastici. Dicevano di venire dalla Transilvania, la terra di Dracula e dei vampiri, solo che loro al posto del sangue scolavano vino rosso. Raccontavano storie pazzesche, dicevano che essere uno zingaro è uno status, avevano una lingua e delle usanze tutte loro. Affermavano di essere ricchi, di avere proprietà e oro. Nelle loro “baraccopoli” avevano di tutto: dai bar dove servivano alcolici fatti in casa, ai casinò. Giocavano a dadi ogni sera e scommettevano 1000 denari o più. Vivevano in strada per scelta, ma erano ricchi. Mi piacevano le loro storie, mi facevano evadere con la mente dal mondo. Lì apprezzavo per questo, mi rendevano felice perché immaginavo anch’io di essere un privilegiato. Privilegiato nel senso che ero io a scegliere la mia condizione, la mia posizione nella società e nella vita. Decidevo io ciò che volevo essere. Ero ricco tuttavia vivevo in strada. Per scelta. Mia scelta. Mia libera scelta. Amavo il loro senso di scelta alla povertà e non l’obbligo alla povertà. Ecco chi era, per me, lo zingaro.
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Sul lato della pagina vi era un articolo che affrontava il problema delle nuove droghe in città. Droghe sintetiche e acide di provenienza asiatica. Gli adolescenti, spesso minorenni, le consumavano in maniera eccessiva per i loro effetti immediati e il loro basso costo. Aveva destato così tanto scalpore e indignazione che la gente e i genitori sembravano preoccuparsi solo di queste nuove droghe, non pensando che fino ad allora, e comunque, anche in mancanza di queste, i giovani avevano fatto e facevano un uso spropositato delle comuni droghe presenti in città già da molti decenni. Della loro comparsa la popolazione accusava la comunità cinese. Non era detto comunque che la produzione e lo spaccio di queste droghe dell’est fosse in mano ai cinesi. Era come affermare che la cocaina era spacciata dai soli colombiani e la marijuana dai soli afghani. Era assurdo. Per me il cinese era Xiao, proprietario di quel ristorante di prestigio in centro. Era un tipo molto curioso, mi sembrava il maestro di arti marziali della serie TV, solo che era più scuro in volto per i troppi centri abbronzanti che frequentava. E i suoi muscoli non erano frutto dei tanti allenamenti in palestra, ma dei molti anni trascorsi al porto a scaricare navi e a una leggera alimentazione a base di pesce. Spesso lo andavo a trovare al suo ristorante e lui mi offriva quei piatti che sapeva piacermi: toast di gamberi e ravioli al vapore con salsa agrodolce. Sapeva perfino che odiavo gli “involtini primavera”.
Ero un clochard ma avevo ancora il palato fino, anche se ovviamente spesso mangiavo ciò che mi veniva concesso. Xiao mi raccontava della vita che si era costruito lontano da casa, lontano dal suo Paese. Come me aveva sogni di creazione. Ce l’aveva fatta con tanti sacrifici e rinunce. Mi parlava dei tanti periodi brutti, dei lavori massacranti, dei problemi di un orientale che viveva in una società occidentale. Ma mi parlava anche delle sue gioie, della famiglia che si era creato, del locale che aveva comprato, del sogno che aveva intrapreso e realizzato. Era un esempio per me. Un esempio positivo e unico. Dedizione per il lavoro, rispetto per la cultura e le usanze, gentilezza e cortesia per il prossimo. Tradizioni asiatiche in tutt’altro mondo. Questo era, per me, un cinese.
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Sul fondo della pagina 4 del giornale, in un piccolo articolo, si continuava a dibattere dei problemi delle Forze di Polizia. In città c’erano stati alcuni episodi di violenza e corruzione e ciò aveva trasmesso molta diffidenza e aveva portato a un senso di autoprotezione e anarchia. Ero del tutto contrariato per queste accuse nei confronti di chi ci tutelava e ci proteggeva anche se ero consapevole che qualche agente avesse potuto commettere degli errori. Ma chi non li commetteva? Li commetteva il barbone, lo zingaro, il cinese e anche il poliziotto. Ma anche il panettiere, il dottore, la maestra e il prete. Insomma la gente. Tutti. Conoscevo bene la Polizia in città, o meglio loro mi conoscevano. Avevo vissuto episodi spiacevoli con loro. Ricordo una sera che si avvicinarono a me con fare minaccioso, puntandomi pistole e torce in faccia, chiedendomi di identificarmi. Mi spaventai a morte, ma come potevo non capirli. Dovevano individuare e controllare un uomo che dormiva in un sottotetto abbandonato. Mi ero riparato per la fredda notte, ma qualcuno li aveva avvisati che un uomo strano e sospetto si era introdotto in uno stabile comunale. Come non poter capire che il loro fare minaccioso era un fare protettivo? Protettivo per la loro incolumità e protettivo per le loro famiglie e figli.
Quanti poliziotti hanno perso la vita per mano di delinquenti che li hanno strappati ai loro cari? Chi non avrebbe diffidenza di un uomo vestito di nero e fradicio nelle tenebre della notte? Li capivo. Ed era per questo che ero sempre pronto e felice di collaborare con loro. Sempre. In più Moris era un bravo ragazzo. Sapevo che il suo nome era Moris, ma in realtà lo chiamavo Signor Agente, anche se lui, che aveva quasi la mia età mi costringeva sempre a chiamarlo per nome. Di solito quando pattugliava di notte sapeva dove mi accampavo e di tanto in tanto mi veniva a trovare per conoscere le ultime novità della strada. Tra noi clochard le notizie giravano più veloci che in internet. Spesso mi portava bevande calde e cornetti al cioccolato di quel forno dietro l’angolo. Anche se non chiedevo mai nulla, lui mi donava qualche denaro. Lo reputavo un amico, mi raccontava dei suoi problemi e della sua famiglia. Era gentile. Lo rispettavo come rispettavo tutta la Polizia, per il loro impegno e il loro sacrificio. A differenza di molti cittadini ero fiero di loro. Li vedevo sempre in giro di notte e pensavo: «Cavolo! Stanotte ci siamo solo noi clochard, i delinquenti e i poliziotti, mentre tutti se ne stanno in casa, a letto, al caldo.» Questo mi faceva sentire vicino a loro. Questo era, per me, un poliziotto.
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La pagina 5 del giornale era quella riservata ai vari annunci, quelli di lavoro, quelli di compravendita, quelli personali, cosa che non m’interessava. Avevo stracciato la pagina e la stavo arrotolando a forma di palla per lanciarla nel cestino della spazzatura lì di fianco, quando il mio sguardo fu attirato da un annuncio. Vi era una foto di una bambina , avrà avuto 6-7- anni, sorridente e felice, stringeva a sé un cane enorme. Era uno di quei cani da neve con un occhio azzurro e uno marrone e portava una vistosa medaglietta al collare. L’annuncio diceva “VI PREGO AIUTATEMI! CHIUNQUE RITROVI O ABBIA NOTIZIE DI LUCKY PUO’ CONTATTARMI...(e vi erano l’indirizzo e il recapito telefonico)...OFFRO RICOMPENSA DI 2000 DENARI.” 2000 denari! Wow!!! Era una somma pazzesca. Pensare che in 10 anni di strada avevo trovato al massimo 50 denari! Tuttavia era difficile rintracciare un cane dopo alcuni giorni dalla scomparsa, soprattutto in questa città enorme. Eppure da quel momento non riuscivo a non pensare a quella bambina e alla sua richiesta di aiuto. Soffriva per aver perso all’improvviso ciò che amava, il suo compagno di giochi. Doveva aver subito un trauma, un distacco forzato. Sapevo benissimo cosa provava, il distacco forzato da ciò che ami. Era ciò che mi angosciava da molti anni.
Ero intento in questi pensieri quando all’improvviso sentii abbaiare dal covo di Markus e in quell’istante mi venne un’idea. Chi se non Mr. Vodka avrebbe potuto darmi un’indicazione su dove potesse essere Lucky? Conosceva o almeno aveva visto molti dei cani in città poiché spesso si aggirava nei parchi dove la gente li portava. Magari lo aveva visto. Che idea! Non so che ore fossero, ma la notte era ancora lunga. I taxi e i bus erano ancora in marcia lungo la Continental. Ripiegai gli scatoli, li nascosi dietro un cespuglio così li avrei ritrovati all’ occorrenza e m’incamminai custodendo la pagina di giornale nella tasca del cappotto.
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M’incamminai lungo la banchina del fiume, lo scorrere dell’acqua era un suono così bello, era un suono continuo e limpido, riuscivo a percepire la freschezza di quelle acque e le pietre che si scontravano sul fondale. Quello scorrere infinito fu interrotto da alcune voci e grida; alzai lo sguardo e notai alcune persone sul ponte. Non feci tanto caso a loro fin quando, risalendo la scalinata me li ritrovai di fronte a pochi metri. Lì nei pressi era posteggiata un’enorme auto bianca. Era davvero enorme, tipo una limousine, ma sportiva. Non riuscivo a capire quante persone ci fossero perché entravano e uscivano dal portellone posteriore della vettura, sembravano una decina. Ridevano, urlavano e brindavano. Sembrava un party itinerante. Sentivo che parlavano tra loro ma l’attenzione era rivolta a lei, forse la festeggiata, una ragazza sui vent’anni fasciata da un micro abitino di colore rosa. Aveva gioielli dello stesso colore dei capelli ed era truccata come una star, ma chissà, forse lo era. I ragazzi intorno a lei ronzavano come api impazzite attorno al miele e lei era così fiera di quelle attenzioni. Tra una battuta e l’altra si fermò, si girò con tono di comando verso l’uomo in smoking nero e disse: «Prendi la mia borsetta! Ma attento è firmata e se la rovini devi rinunciare al tuo stipendio per ripagarmela!»
Rimasi sconvolto ma l’uomo obbedì immediatamente, corse all’auto e la prese dal vano portaoggetti. Gliela consegnò e si allontanò velocemente arretrando senza darle le spalle. Lei era lì ai margini del ponte tra gli amici, aprì la borsetta e prese dal suo interno uno specchietto, lo portò al viso e si specchiò. Nel specchiarsi intravide con lo sguardo la mia sagoma e sussultò spaventata. In quell’attimo lo specchietto le cadde dalle mani rotolando a terra verso di me. Non per favore né per galanteria, ma mi chinai e lo raccolsi. Feci due i verso di lei che mi guardava in modo sbigottito, non so se scioccata o spaventata, poi quando le dissi «Tieni, non si è rotto!» lei sbottò rispondendo stizzita «E dovrei riprenderlo? L’hai toccato con le tue mani sudice e sporche. Tienilo pure e ritieniti fortunato, c’è gente che pagherebbe per avere qualcosa di Miss Violet». E in quel momento non mi diede il tempo di rispondere che richiamò i suoi amici alla macchina come un comandante raduna le sue truppe gridando: «Andiamo ragazzi che Miss Violet ha tutta la notte per festeggiare!» Salirono sull’auto che partì velocemente. Rimasi lì fermo per qualche istante provando un senso di pena per quella ragazza. Pensavo a come fosse possibile che una ragazza così giovane fosse così arrogante e spietata. L’arroganza e la superbia erano gli ideali che la vita di strada mi aveva insegnato a evitare e odiare. Ideali contrari a quelli che avevo coltivato e raccolto negli anni: la fiducia, il rispetto, il sacrificio, la fede, il senso d’aiuto. Avevo imparato, e avevo la certezza, che vivere senza questi ideali avrebbe
portato alla distruzione. E in quella ragazza vedevo la distruzione.
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Ero lì immobile e tra le mani mi ritrovai quello specchietto; aveva la forma di una conchiglia di colore rosa e sul fronte erano incise le lettere M e V, iniziali del nome di quella ragazza. Avrei tanto voluto lanciarlo nel fiume, e lo stavo davvero facendo, ma non so perché alla fine ci ripensai. Lo strinsi nelle mani e lo aprii. Mi specchiai ma era talmente piccolo che riuscivo a vedere solo piccoli dettagli del mio volto. Quel volto. Il mio viso era cambiato notevolmente negli anni, per chi vive in strada è difficile preservare il proprio aspetto. Non conoscevo il motivo ma, ogni volta, la prima cosa che guardavo del mio viso era quell’enorme cicatrice che partiva dalla fronte, attraversava l’occhio e arrivava allo zigomo sinistro. Era come se inconsciamente quella cicatrice mi ricordasse il mio ato, il mio incidente, il mio presente e la mia condizione. Il mio naso portava i segni delle battaglie in strada e la barba nascondeva il mio profilo ingannando, molti, sulla mia età. I miei capelli scuri e mossi sembravano ammorbidire la mia testa e i miei occhi erano quelli che avevo già ai tempi dell’orfanatrofio. Da bambino, ricordavo che zia Beth mi diceva che avevo degli occhi bellissimi ed enormi. Ancora lo erano.
Riuscivo a vederci dentro. Vedevo nel mio inconscio e sentivo in essi, i dolori e le gioie della vita trascorsa. Guardavo in quello specchietto rosa e vedevo me bambino riflesso alla finestra della stanza dell’orfanatrofio mentre ammiravo il mondo fuori, quel mondo che allora non conoscevo, quelle strade senza mete che ancora non avevo esplorato. Ricordavo me bambino riflesso alla vetrina del negozio di cioccolata. Ricordavo che entravo e mentre zia Beth comprava qualcosa, m’infilavo qualche cioccolatino in tasca e correvo fuori a mangiarli nel cortile con Jesse, Tom e Faith . Ricordavo me bambino riflesso nell’acquasantiera della cappella dell’orfanatrofio. Ricordavo che ogni volta che Padre James trovava una barchetta di carta galleggiarci dentro veniva sempre a richiamarmi e mi trascinava per le orecchie sull’altare a pregare. Ricordavo me ragazzo riflesso sul piatto della batteria di Tom. Ricordavo che alla fine di ogni canzone ci volevo un mio assolo di chitarra e, puntualmente, lui dava una bella picchiata su quel piatto. Ricordavo me ragazzo riflesso negli occhiali da sole a forma di stella di Faith. Ricordavo che quando la baciavo e portava quegli occhiali, mi pungeva sempre il viso con le sue punte. Ricordavo me inerme riflesso nel pannello metallico del respiratore in ospedale. Ricordavo che lo odiavo. Odiavo pensare di vivere respirando attraverso una macchina. Mi faceva sentire così fragile. Ricordavo me spaesato riflesso al bancone della mensa dell’associazione. Ricordavo che vedevo la mia sagoma in fila insieme ad altri barboni e mi sembravamo un esercito di cloni, un esercito di corpi vuoti.
Ma ora avevo capito che non era così. Vedevo me riflesso in quello specchietto rosa e vedevo riflesso il volto di un uomo che era vivo, un uomo che viveva, un uomo con un forte senso della vita e dei valori. Vedevo me riflesso in quello specchietto e vedevo quanto povero fosse l’animo di molte persone, tra cui lei. Miss Violet.
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Lo sfrecciare delle auto in strada mi riportò a quella sera, ai miei intenti. Riposi lo specchietto in tasca e continuai a percorrere il ponte, scesi le scale e mi avvicinai al covo di Markus, ricordavo a me stesso di chiamarlo così quando l’avrei incontrato e non Mr. Vodka per evitare qualsiasi tipo di incomprensione. L’ingresso del covo era chiuso da una porta; non era altro che una rete di un vecchio letto tenuta in posizione verticale con alcune catene. Senza nemmeno che lo chiamassi vidi che s’incamminò verso di me seguito da due enormi cani che sembrava lo scortassero. Si era accorto subito della mia presenza. Mi riconobbe e mi fece un cenno con la testa, poi ne fece un altro ai suoi cani in segno di arretrare. Si avvicinò e mi porse la mano. Era enorme e dura, le sue dita erano come ferro e la sua presa come una morsa. «Cosa è successo?» mi chiese con voce stupita. «Voglio chiederti alcune informazioni su un cane!» risposi. Rimase alquanto meravigliato poiché in altre circostanze mi ero rivolto a lui per solo aiuti e consigli. Tuttavia era contento che non avessi problemi e mi accolse nel suo covo molto rasserenato. Quel covo era uno stanzone interrato ricavato da un vecchio scarico del fiume. All’interno aveva un tavolo, un divano che aveva recuperato negli anni e un
mobile-scaffale che aveva creato con vecchie tavole di legno e di ferro arrugginite. Intorno i sui cani dormivano, giocavano e controllavano i miei comportamenti. Sicuramente non avevano mai visto qualcuno lì, che non fosse Markus. Si accomodò sul divano e m’invitò a farlo accanto a lui. Ero tanto affascinato e curioso che scrutavo ogni cosa all’interno di quella stanza, aveva moltissimi vecchi oggetti che aveva trovato negli anni in strada. Si accorse della mia curiosità e mi disse che molti di quegli oggetti li aveva trovati lungo le rive del fiume e che non potevo nemmeno immaginare quante cose trascinavano con sé quelle acque irrequiete. In quell’attimo provai a pensare a cosa si sarebbe potuto trovare nel fiume ma Markus m’interruppe chiedendomi del cane e allora gli mostrai quell’annuncio sul giornale. Senza nemmeno leggere l’articolo, ma solo vedendo la foto esclamò: «Il cane del clown!» «Il cane del clown?!» borbottai. Specificò che quello era il cane che aveva visto insieme a un clown che faceva spettacoli in centro, tra i tavolini di un bar all’aperto. Bingo! Ero riuscito a rintracciare il cane, ora dovevo solo trovarlo. Spiegai il tutto a Markus e lui rispose che non sapeva se lo avessi trovato ancora lì, mi raccontò che lo aveva incontrato il giorno prima al parco e che ci aveva parlato per un po’. Era una ragazza greca, artista di strada, che girava di città in città per intrattenere e portare un po’ di allegria e felicità tra la gente. Pensai però che di sicuro la avrei trovata ancora in città, dato che in quel periodo era pieno di turisti e gli show di intrattenimento di certo non mancavano.
Dovevo affrettarmi, la notte era ancora lunga e magari avrei potuto trovarla subito. Feci uno scatto per alzarmi dal divano che insospettì i cani; mi puntarono con lo sguardo, ma Markus fece un cenno col braccio e loro tornarono sereni a dormire ai suoi piedi. Salutai Mr. Vodka e uscii dal covo. Ero così intento a ricordare gli oggetti che Markus custodiva che nemmeno mi accorsi di stare già percorrendo la strada.
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Il centro della città era uno scintillio di luci, il bagliore non mi permetteva più di vedere il cielo stellato che poco prima mi sovrastava. Luci, suoni, grida, risate. Era un mix di vita. C’erano alcuni box illuminati che vendevano cibi di luoghi sperduti e altri che vendevano oggetti artigianali. Le vie erano uno scorrere di persone e pian piano che mi avvicinavo alla piazza notavo vari artisti che animavano la serata e intrattenevano i anti. C’era chi dipingeva autoritratti, chi invece dipingeva caricature, c’era chi ballava musica da strada e chi, come quella ballerina di tango, che danzava da sola avvinghiata a un’asta di colore rosso. Incredibile! Quell’asta sembrava muoversi come un ballerino di tango argentino. Non avevo idea di dove trovare di preciso quel clown quindi mi avvicinai al barista che era al mio fianco e gli chiesi se lo avesse mai notato e lui, impegnato a servire due diversi drink, mi rispose che nei giorni scorsi lo aveva visto proprio tra i tavolini del bar ma non quella sera. In un qual modo avevo notizie concrete della presenza del clown quindi ripresi a percorrere la strada fiducioso di trovarlo. Poco dopo mi accorsi di una folla al margine dell’enorme piazza, da lontano sembrava pulsare a causa del suo movimento ripetitivo e ritmato e mi meravigliai nel vedere a quell’ora della notte molti bambini che accorrevano e s’intrufolavano dentro per raggiungere la prima fila. Raggiunsi la folla ma non avevo intenzione di mescolarmi all’interno quindi la aggirai e mi fermai, oltre una siepe, alle spalle dell’artista, come se stessi dietro al palco di un teatro riuscendo a vedere e apprezzare le espressioni estasiate e
increduli dei volti del pubblico. Lo applaudiva ininterrottamente e anch’io fui molto preso e affascinato dall’esibizione tanto che, il fatto di aver trovato quel clown che cercavo non mi scompose. In realtà non era il solito clown. Il solito clown era quello che faceva scherzi con trombette, spruzzava acqua da fiori di plastica e rompeva palloncini colorati, invece questo si esibiva con il fuoco, lanciava sfere e catene infuocate. Se Mr. Vodka non mi avesse detto che era una donna non sarei mai riuscito a capirlo. Aveva un corpo androgino e lo spettacolo e il costume che indossava lo rendevano anonimo. Aveva il volto truccato di bianco, labbra rosse e occhi sfumati con l’azzurro, dello stesso azzurro delle pupille. I lunghi capelli erano raccolti in alto e coperti da un grazioso mini cappello di colore nero. Indossava una tuta nera con enormi cerchi colorati e si muoveva in modo deciso e sinuoso tra le coreografie che le scie di fuoco creavano. Era uno spettacolo davvero avvincente. Di sicuro era da un po’ che andava avanti nella performance perché mi accorsi, nei pochi istanti che rimaneva ferma, che aveva il fiatone e il volto sudato. Dava tutta se stessa allo show, di sicuro il freddo che era calato non la fermava. Al termine dello spettacolo la folla si concentrò intorno a un cestino di colore giallo lasciando all’interno monete e banconote. Molte persone si avvicinarono per congratularsi e lei, benché sfinita, donava a tutti un bellissimo sorriso, forse non capendo nemmeno cosa le stessero dicendo.
Pensai davvero che fu un successo, d’altronde il cesto era colmo di soldi e intorno, a terra vi erano molte altre monete. Arretrai di qualche metro poiché non avevo monete da lasciarle e comunque se le avessi avute, devo essere sincero, non credo che gliele avrei lasciate. Però i miei complimenti sì, quelli glieli avrei fatti volentieri. E successivamente lo feci. Lo feci quando la folla si diradò, dopo qualche minuto. Mi avvicinai e le dissi «Complimenti! Spettacolo eccezionale!» Lei, il clown, era seduta sul gradino dell’aiuola e alzò lo sguardo sorridendomi. Fui colpito dal suo sorriso, quasi mai alla prima vista di un clochard la gente sorride, di solito è intimorita o indifferente, oppure il sorriso compare sul volto quando hanno focalizzato bene la persona e si sono accertati della sua pacatezza. Non so perché ma molti sono intimoriti dai clochard credendoli invadenti e pericolosi. Lei era serena e non mi rispose ma quel sorriso valeva come un grazie enorme. Rimasi lì davanti a lei mentre beveva e si rinfrescava il volto e la testa, bagnandosi i capelli che aveva liberato dal cappellino. Aveva lunghi capelli nero corvino. «Come ti chiami?» le chiesi. «Ebe!» rispose prontamente. «E’ un nome greco?» domandai. «Sì, è il nome del Dio della giovinezza, significa gioventù» mi spiego. Stette un istante poi mi chiese «Che ne sai che è greco?» Avrei potuto vantarmi di conoscere la mitologia greca o di studiare il significato
dei nomi, ma fui sincero dicendole che ero lì grazie a Markus, che aveva conosciuto il giorno prima al parco. Mi chiese perché fossi lì da lei, ma lo fece in un modo e con un tono di voce che mi lasciava intendere che non le importasse nulla del motivo, ma che nemmeno le dispie, semplicemente era compiaciuta dalla presenza di qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
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Non le risposi subito. Non c’era un motivo particolare, forse la situazione e comunque la conversazione si spostò su altri temi. Conosceva la lingua che parlavo e aveva un simpatico accento. Le chiesi di dov’era e lei mi disse un nome di una città che non avevo mai sentito. Vedendo la mia faccia scoppiò a ridere e disse che il nome greco della sua città non lo conosceva nessuno ma, sentendo il nome pronunciato nella mia lingua sobbalzai affermando «Ah, certo che la conosco!» O meglio la conoscevo per nome, importanza, ma non c’ero mai stato. Da alcune fotografie e cartoline ricordo che aveva uno stupendo lungomare dove al centro dominava una torre di pietra sulla quale sventolava una enorme bandiera greca. Lei disse che quel posto era speciale e che lo amava. Amava starsene seduta sulla banchina del lungomare con in piedi a penzoloni sull’acqua che s’infrangeva sulla città. Disse che lì la gente era felice e anche lei lo era. Anche lei lo era, adesso. Quest'ultima parola mi fece capire che aveva avuto dei problemi ed era stata infelice e che ora, nel momento in cui eravamo uno di fronte all’altra, aveva superato tutto. Ma perché era stata infelice? Nonostante la curiosità non glielo chiesi ma lei continuava a ribadire che amava la sua città ma che lì era infelice e incompresa.
E’ per questo che girava il vecchio continente senza una meta precisa. Mi disse che la sua meta era la felicità e l' aveva raggiunta dopo tante sofferenze. Sofferenze che erano nate da forti contrasti con la famiglia a causa del suo essere. Che aveva il suo essere di così sbagliato? Era una ragazza che emanava gioia e allegria e che sembrava tanto bella quanto intelligente. A quelle mie considerazioni iniziò un lungo monologo che sentii incredulo e coinvolto. Alla sua nascita, ventidue anni prima, il padre e la madre lo chiamarono Kostas, come il nonno, d’altronde era il primo nipote maschio. Il padre, vecchio marinaio del porto della sua città, ne andava così fiero che ne parlava con una luce negli occhi a tutti i mozzi e pescatori che incontrava. La sua gioia e fierezza in quel figlio amato durò molti anni, fino quasi all’adolescenza. Non ci fu un episodio in particolare benché si notasse la sua propensione per il mondo femminile. Da bambino amava truccarsi come le amiche di scuola, solo che mentre tutte imitavano principesse e dive, lui si limitava a truccarsi da clown, appunto. I vestiti di carnevale per lui non erano i soliti supereroi o cowboy ma clown e maschere, erano gli unici che indossava con piacere e con i quali non poteva violare la virilità del padre. La madre sapeva tutto, capiva tutto e lo amava più di ogni cosa. I vicini di casa e i compagni di classe iniziarono a deriderlo e insultarlo quando a quattordici anni rifiutò i complimenti e i baci di una coetanea. Fu la fine dell’idillio con il padre e la fine della sua vita apparente. A sedici anni confessò ai suoi genitori di voler cambiare vita e di voler assumere i comportamenti e le abitudini che in fondo già sentiva suoi.
Aveva un corpo che non accettava, soprattutto quel suo mutarsi: i peli, la barba, la voce roca. Iniziò a chiudersi in se stesso non uscendo mai e quando proprio doveva, si copriva con tute larghissime e mantelli e non parlava quasi mai. Un giorno il padre lo picchiò violentemente e lo insultò con termini crudi e offensivi. Il mondo crollò sulle sue spalle. L’unica cosa che voleva era essere felice e vivere la sua vita, quella che sentiva realmente di vivere. La svolta a quella sua condizione arrivò quando conobbe gli acrobati di un circo itinerante che si trovava in città. Gli presentarono tutto il gruppo di circensi e lo accettarono per quello che era e capì che la donna barbuta e l’uomo nano non erano solo fenomeni da baraccone, ma delle bellissime persone, come in fondo anche lui si sentiva. Gli proposero di seguirli per una tournée in altre città e paesi e lui accettò con il pieno favore dei genitori. La madre sapeva che in quel modo lui avrebbe vissuto libero, lontano da tutte le malelingue e il padre felice di non dover sopportare quotidianamente il peso di ciò che non accettava davanti ai suoi occhi. Quella tournée fu per il clown il cambiamento da lui a lei. Kostas diventò Ebe. I corti capelli arruffati diventarono una lunga e folta chioma, gli ormoni addolcirono la sua voce e i suoi lineamenti, già esili e femminili. Le operazioni la aiutarono a completare quella metamorfosi che aveva sempre desiderato. Ora il suo essere era in simbiosi con il suo corpo. La sua autostima crebbe a tal punto da farla sentire soddisfatta e serena.
Tre anni dopo tornò nella sua città, ma fu soltanto per un breve momento. Lo fece anche perché il padre stava male e aveva chiesto di lei. Voleva vederla. La vide e pianse. Pianse e l’abbracciò. L’abbracciò e le disse che l’amava. L’amava come sempre aveva fatto.
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Riprese il viaggio verso nuove destinazioni e la sua felicità la portò in strada tra le persone, alle quali donava allegria e stupore con i suoi spettacoli. Era felice. Felice come lo era quando mi parlava. Non credevo fosse possibile che Ebe fosse stato Kostas. Aveva delle mani bellissime e curate, uno sguardo dolcissimo e gli occhi pieni di luce come se fosse una ragazzina durante la prima cotta verso un giovane uomo. «Tu come mi vedi?» mi chiese. Mi chiese ciò come a voler sentire come apparisse agli occhi di una persona conosciuta da meno di un’ora. «Felice!» risposi senza evitare. Mi sorrise e mi abbracciò calorosamente. A quel punto il suo monologo era terminato e la conversazione ci aveva dato una giusta confidenza. Iniziò a raccogliere i suoi attrezzi e le chiesi se potessi darle una mano. Non rifiutò e mi indicò un borsone dove riporre il tutto. Raccolse i soldi racimolati e li infilò distrattamente nella tasca del borsone, non curandosi molto di custodirli correttamente. Fossi stato in lei avrei ragionato a lungo su dove conservare quel “bottino”, non per mancanza di fiducia o per paura di chissà cosa, ma solo per rispetto alle persone che me lo avevano donato.
Si infilò una giacca sulla tuta e afferrò il borsone. Mi chiese cosa avessi intenzione di fare, qual era il mio programma della notte. Poi mi invitò «Posso offrirti una birra?» «Dovrei chiederti una cosa?» ribalzai una domanda senza aver risposto. Mi guardò incuriosita. «Dov’è il cane che ieri era con te al parco?» aggiunsi. Fece un cenno di incomprensione quindi le mostrai la foto sulla pagina del giornale che tirai fuori dalla tasca. «Ah! Zeus! Il Re degli Dei!» puntualizzò decisa. «Il Re degli Dei?!”» esclamai stupito. «Sì, il cane...» (pausa) «si chiama Zeus» mi spiegò. A quel punto le dissi che il cane si chiamava Lucky, anche se il nome Zeus che gli aveva dato mi piaceva molto. Le raccontai che quel cane si era smarrito qualche giorno prima gettando la sua padroncina nello sconforto. Le mostrai l’articolo del giornale puntualizzando sulla ricompensa proposta come per invogliarla a darmi una risposta e indicarmi dove fosse il cane. Avrei diviso con lei l’eventuale ricompensa. Questo è indubbio. «E’ al furgone! Mi sta aspettando. Andiamo.» Si stava già incamminando mentre proferì la frase. Dietro l’angolo c’era un vicolo chiuso e in fondo era parcheggiato un furgone anni ’60, di colore rosso con il tetto bianco e con grossi fari rotondi. Mi spiegò con entusiasmo che lo aveva modificato in modo tale da avere un letto sul retro e che era il mezzo con cui attraversava il Vecchio Continente.
Attraversare il Vecchio Continente. Che ricordo.
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Ricordavo ancora quell’istante in cui mi trovai fuori l’ospedale, il cancello enorme si chiuse dietro di me e davanti c’era il lungo viale alberato che conduceva alla strada provinciale. Le chiome degli alberi riflettevano il cielo nuvoloso brillando d’argento; tempo prima avevo sentito, senza ricordare da chi, che ciò era segno di pioggia imminente. Infatti non terminai di percorrere il viale che il cielo iniziò a tuonare. Di certo non era così che avevo immaginato il giorno delle mie dimissioni forse perché avevo sempre visto gli altri pazienti dimessi con un sorriso stampato sul volto, con i loro denti che riflettevano i forti e caldi raggi di sole mentre gli amici e parenti li accoglievano a braccia aperte fuori quell’enorme cancello, donandogli torte, dolci e fiori. Io invece ero solo e quel clima di certo non mi aiutava. Tuttavia quando arrivai all’incrocio della strada provinciale mi resi conto di ritrovarmi tra la gente, le auto, i rumori della città e quell’aria che sapeva di vita. Non ne ero sicuro ma quella che provai era felicità o quantomeno il sentimento più gioioso e stimolante che avessi provato negli ultimi tempi. La felicità di tornare a scontrarmi con la dura quotidianità e la felicità di mettermi alla prova in una nuova realtà anche se cruda e ardua. Dovevo ripartire da zero, distaccarmi dall’assistenza che l’ospedale mi aveva fornito per oltre due inverni, non so di preciso quanto tempo fossi rimasto in ospedale ma comunque ricordavo bene i due Natale trascorsi li e il costume di Babbo Natale che avevo indossato per i bambini del 2° Reparto un anno e per quelli del Reparto Degenza l’altro.
Dopo tutto quel tempo rinchiuso e “protetto” dovevo riappropriarmi della mia esistenza. Ma non fu facile. Anzi, ripensandoci, fu difficilissimo. Durante il ricovero avevo messo da parte un po’ di denari aiutando la mensa dell’ospedale nella distribuzione dei pasti ai reparti, ma comunque una somma irrisoria che mi avrebbe sostenuto per circa un mese. L’ospedale si trovava in un paesino molto piccolo e nonostante i miei buoni propositi non riuscii ad ambientarmi e a trovare neanche un piccolo lavoro per sostentarmi, oltre a causa del mio fisico ancora precario per la lunga degenza anche per la poca fiducia che gli abitanti del posto davano a uno straniero menomato, dato che così mi vedevano. Inoltre il piccolo centro di ricovero dove alloggiavo mi avvisò della prossima chiusura per mancanza di fondi, quindi fui costretto a spostarmi nella cittadina situata nella vallata adiacente. Anche lì tentai di trovare un’occupazione ma le uniche attività che funzionavano erano le falegnamerie che distribuivano legno in tutta la regione. Ovviamente quel lavoro manuale e fisico non si addiceva alle mie braccia e mani storpiate, quindi capii immediatamente che era del tutto inutile anche tentare. Fu però il aggio in quel posto che mi avrebbe portato poi nella metropoli dove ancora vagavo. Il capostazione della piccola ferrovia un giorno mi presentò suo cugino che lavorava in un’ azienda di trasporti nazionali e internazionali. Guidava un enorme tir e trasportava lunghi tronchi di albero nel nord del Continente. Si chiamava Luc e aveva lunghi capelli e baffi neri. Sembrava un cantante heavy-metal vestito grunge con jeans usurati, scarpe di tela colorate con una stella laterale, camicia a quadri indossata aperta su una t-
shirt e berretto sportivo con stampato il nome della società per cui lavorava. La mia richiesta di aggio fu ben accolta, anzi per lui la mia presenza durante il viaggio era un’inaspettata compagnia e un’inaspettata promessa di pasti gratis fino al mio arrivo. Avevo saputo che la metropoli offriva molte occasioni e inoltre, dopo quell’importante e recente evento storico, la sua ripresa economica l’aveva portata a essere moderna, all’avanguardia e multiculturale. C’erano molte associazioni a cui potevo appoggiarmi e magari avrei potuto trovare qualcosa di interessante e adatto alle mie possibilità e alla mia condizione.
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Il suo tir era un mezzo gigante, i dettagli e la cura dei particolari della motrice erano segno del suo orgoglio. Frontale lucido, disegni aerografati e luci psichedeliche erano il suo biglietto da visita da mostrare agli specchietti retrovisori dei veicoli davanti. Il suo posto guida era una poltrona in pelle nera e la plancia sembrava una consolle comandi di una navicella spaziale del futuro. Questo era ciò che pensavo da ignorante in materia. Tuttavia era davvero incredibile per me che un veicolo potesse avere comandi di auto-pressione degli pneumatici, sensori di frenata e sensori di parcheggio. Inoltre la cabina era anche fornita di due comodi letti a castello per riposarsi durante le soste. Il viaggio iniziò dopo una lunga attesa per il carico dei tronchi, cosa che a me aveva già stancato. Durante tale operazione i discorsi di Luc mi avevano già riempito la testa e temevo che sarebbero stati insopportabili da reggere una volta in viaggio. Con mio stupore constatai che durante la marcia era molto serio e diligente e del tutto preso dalla guida e dalla sicurezza. Ricordo che attraversammo una vecchia frontiera inattiva, mi spiegò che qualche tempo prima era come un tappo alla circolazione di 6/7 ore, tempo che impiegavano i veicoli in attesa dei controlli doganali. Potevo solo immaginare quelle carreggiate come colonne interminabili di tir e camion poiché in quel momento l’accesso era libero e pochi veicoli erano in marcia a causa del freddo e del ghiaccio. La sosta per cena fu in una locanda che sembrava un ritrovo di vecchi amici
poiché Luc salutò tutti calorosamente e malgrado i vari inviti a sederci a tavoli occupati da strambi tipi, si volle accomodare solo con me a un tavolino ai margini della sala. Era davvero contento di farmi provare la famosa bistecca ai funghi di quel posto, ed io, da una lato ero felice di quella prelibatezza, dall’altro mi pesava dover pagare così tanto per un pasto. Per fortuna Luc insistette per pagare in quanto “ero suo ospite” e gli ospiti non pagano mai. In realtà, poco dopo, all’uscita mi disse che le spese del viaggio, compresi i pasti, sarebbero stati rimborsati dalla società e nemmeno gli avrebbero fatto problemi perché era davvero fattibile che un “affamato” come lui avesse cenato con due bisteccone e due bibite. Dopo la cena ci fermammo per la notte nell’area di sosta lì nei pressi, Luc posteggiò il tir e appena arrivati abbassò il vetro del finestrino e salutò il suo collega di fianco che ricambiò augurandogli una buon riposo. All’alba quando appena sveglio mi guardai intorno, rimasi colpito dallo scenario surreale che si presentava dinanzi: la luce del giorno nuovo era così affascinante, peccato che tutti i veicoli erano in moto pronti a partire e un nuvolone di smog grigio e sporco si alzava al cielo incupendo l’alba in quell’area di sosta. La partenza fu come una processione programmata, ognuno sapeva quando muoversi e immettersi sulla strada. Dinanzi a noi le montagne si aprivano lasciando intravedere i paesaggi di quella nuova terra. Distese coperte di fiori rossi e viola e nemmeno un segno della presenza dell’uomo, né un edificio, né un casale, né una strada sterrata. Nulla. Solo dopo poco si potevano distinguere in lontananza le grosse eliche della centrale eolica che sembravano piccole girandole d’acciaio su un manto colorato. Fui molto sorpreso nel vedere che il aggio da uno Stato all’altro era simboleggiato solo da due bandiere che sventolavano ai lati della carreggiata e
che se non ci avessi fatto caso nemmeno me ne sarei reso conto. Mancava poco all’arrivo alla metropoli e in me sentivo già fremere la voglia e il timore. Quasi arrivati ricordo che Luc disse che era stato un piacere per lui attraversare il Vecchio Continente in mia compagnia. Attraversare il Vecchio Continente. Che ricordo.
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Sul retro del furgone Ebe aveva montato un gazebo e lo aveva recintato con delle pareti di canne creando uno spazio vivibile dove faceva colazione e dove si rilassava la sera prima di addormentarsi. Di fianco la sedia a sdraio notai subito Lucky accucciato e come vide Ebe si alzò avvicinandosi con fare giocoso. Sembrava gioire alla sua padrona benché fosse con lei da pochi giorni. Ebe lo accarezzò in modo vigoroso e lo abbracciò stringendolo a sé e Lucky sembrò apprezzare. Poi si concentrò su di me annusandomi insistentemente. Ero pulito essendomi lavato in associazione ma sicuramente sentiva l'odore dei cani di Markus. «Allora?! Ecco Zeus...scusa Lucky» mi disse. Non risposi ma sorrisi lasciando intendere che confermavo che si trattasse proprio di Lucky. «Quindi? Cosa facciamo adesso?» domandò. Risposi che comunque era notte fonda e quindi era tardi per riportarlo a casa, ma lei affermò con tono sicuro che sarebbe stato molto scenico e teatrale riportarlo ai proprietari a quell'ora. Descrisse quella scena con precisione. «Immagina che loro dormono e sentono suonare la porta, vedi accendere la luce in corridoio e, dopo qualche istante, un uomo assonnato e stordito ti apre la porta, sbarrando gli occhi appena vede il suo cane. Poi inizia a ringraziarti con devozione trattandoti come il suo eroe!»
Effettivamente la scena era plateale ma non avevo proprio voglia di disturbarli nel cuore della notte, quindi le proposi di presentarsi ai proprietari al posto mio. Purtroppo la cosa non le interessava, pensava solo ad andare a dormire dato che sarebbe ripartita la mattina appena sveglia. Dal suo borsone tirò fuori una corda di colore rosso e la legò al collare di Lucky come se fosse un guinzaglio. Mi disse di volermi fare un regalo per ricambiare la mia cordiale e piacevole compagnia quindi si diresse con il cane fuori la via. La seguii e una volta sulla strada fermò un taxi in transito. «Ecco ti regalo un aggio fino a destinazione così farai presto e riporterai la felicità ai proprietari di Lucky!» Questa frase fu accompagnata da un abbraccio e da alcune raccomandazioni e auguri del tipo: «Bada a te stesso», «Ti auguro il meglio», «Sta attento» e cosa che mi stupì «Sei un brav'uomo». Non ricordo bene se o cosa le risposi, ero tanto assorto ad apprezzare quella frase che mi trovai già nel taxi con Lucky accanto e il suo volto con un enorme sorriso oltre il vetro della portiera. Poi si affacciò verso il tassista e gli consegnò dei soldi invitandolo ad accompagnarmi dove volessi. L'auto partì e la sua figura scomparve subito nell'oscurità della notte.
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«Dove la porto, Signore?» chiese il tassista. Tentai di prendere l’annuncio del giornale dalla tasca ma Lucky era talmente incuriosito che freneticamente si spostava da un finestrino all’altro non curandosi di me seduto. Il tassista in modo cortese mi raccomandò di tenerlo calmo e fermo. Inizialmente gli mostrai la foto della padroncina sul giornale come a volergli dire «Fai il bravo, ti riporto a casa da lei!» ma ovviamente era un cane e non un bambino, quindi istintivamente tentò di mordere la pagina. Dopo qualche istante senza motivo, così come si era scatenato, si calmò e si accucciò a terra, ai miei piedi. In quel preciso istante l’auto rallentò, si accostò sulla destra e si fermò. «Allora? Dove andiamo, Signore?» fece il tassista. Gli mostrai l’indirizzo sull’annuncio e lui, facendo un cenno con la testa riprese la marcia. Era un uomo di mezza età e all’apparenza mi ricordava un attore di quei film muti del dopoguerra. «Lei è un attore?» mi sfuggì senza pensarci e senza controllo. L’uomo dopo una risata scoppiettante esclamò «Un attore?!AHAHAHAH… Certo e quest’auto è un set cinematografico!» «Mi scusi per la mia stupidità» fu la mia apologia. «Lei non è stupido! Altrimenti non andrebbe a quest’ora della notte a riconsegnare un cane smarrito ai proprietari» puntualizzò.
«E lei come sa di Lucky?» chiesi stupito. E lui, spiegandolo come se stesse recitando in un film, mi disse che tra una corsa e l’altra il tassista medio o mangia o legge, e lui era uno di quelli che legge di tutto, giornali, quotidiani, riviste e anche libri, se interessanti. «Se mangiassi sempre tra una corsa e l’altra non entrerei più nemmeno in auto» specificò. «Quindi anche a lei non sembra strano che lo stia riportando a quest’ora? E se stanno dormendo? Potrei disturbarli?» sembrava volessi conferme sulla mia azione. Il tassista sistemò lo specchietto retrovisore in modo da guardarmi in faccia e ciò confermò la mia prima impressione, i suoi occhi mi ricordavano per la loro espressività e profondità quelli di un attore, ma forse erano così per gli anni ati alla guida, infatti essendo limitato nella gestualità del corpo, aveva sviluppato nelle conversazioni con i clienti un vero e proprio linguaggio espressivo. «Guardi che è lei che sta facendo un favore a loro e non viceversa» mi ammonì. E pensai che era vero, ma la ricompensa non metteva tutto alla pari? «E inoltre non creda che la notte sia solo riposo, silenzio e staticità. Io la credevo così fino a 35 anni fa, quando ho iniziato a fare questo lavoro» esclamò. Gli chiesi «In che senso?», però lo feci pensando tra me e me che se faceva questo lavoro da 35 anni, era un uomo oltre la mezza età e che nonostante il lavoro sedentario e logorante stesse davvero bene. A differenza io sembravo più grande ma la cosa non mi stupiva. «Nel senso che se stesse una notte con me in questo taxi si renderebbe conto che non c’è differenza tra giorno e notte e che la gente esce, va a lavoro, torna a casa, viaggia, visita la città, piange, ride, mangia, beve, festeggia, insomma, vive non curandosi della luna o del sole.» mi spiegò tutto d'un fiato. «Davvero posso?» esclamai.
«Può cosa?» fece dubbioso. «Essere con lei una notte intera e vedere tutto ciò» gli proposi. E lui guardandomi sbigottito allungò il braccio al vano portaoggetti del veicolo e, una volta aperto, prese dall’interno un libro; dalle pagine estrasse un bigliettino da visita usato a mo’ di segnalibro. Me lo consegnò invitandomi a chiamarlo al numero telefonico indicato. «E’ un libro che sta leggendo?» domandai. «Questo? Sì sì» affermò mostrandomi la copertina. Lessi il titolo “Notte” e chiesi «Le piace?» Rispose deciso «Sì! E’ davvero interessante. E’ di una autore italiano emergente». Lo ripose nel vano portaoggetti e proseguì nella guida. Il taxi percorreva una strada poco illuminata e la foschia della notte sfumava i contorni della città in un tenue grigiastro e solo se attento potevo scorgere i colori diversi e vivaci delle case e il colore rossastro dei tetti. Era un quartiere residenziale dove non ero mai stato poiché privo di negozi e uffici. Le strade erano pulite e pochissime auto erano in sosta lungo le ville. «Eccoci a destinazione» disse fermando la vettura.
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Il tassista mi augurò buona fortuna ed io gli sorrisi nervosamente. Era il momento di scendere dall’auto, di percorrere il vialetto di ciottoli grigi e di suonare a quella porta bianca e lucida con grossi maniglioni color argento. In quegli attimi preparavo nella mia mente le frasi da proferire e l’atteggiamento da assumere ma tutte le mie intenzioni svanirono non appena aprii la portiera del taxi poiché Lucky partì di scatto, correndo e abbaiando verso la porta. Era tornato finalmente a casa. Provai a rincorrerlo ma nello stesso momento fui trattenuto dalla voglia di risalire in taxi e chiedere all’attore di ingranare la marcia e andare via, allontanandoci quanto prima da quel posto. Ma era troppo tardi. Nemmeno una attimo e si accese una luce al primo piano della casa, poi una al piano inferiore fino a un’altra nell’atrio dietro quella porta bianca e lucida, come se seguissero qualcuno che si dirigeva ad aprirla. Il cane era così eccitato che saltava e roteava su sé stesso e non appena la porta si aprì si infilò dentro. Un uomo lo accolse, sorpreso, tra le sue braccia e mentre lo accarezzava rivolse il suo sguardo verso di me. Era uno sguardo assonnato ma felice. Era un uomo sulla cinquantina, distinto, con capelli e barba brizzolati, con aria molto formale nonostante il pigiama a righe blu e celesti e le pantofole di color grigio scuro. «Oh mio Dio, dove lo hai trovato?» esordì con tali parole ma non mi diede nemmeno il tempo di rispondere che continuò «Grazie infinitamente! Grazie
mille! Non sa cosa ha fatto. E’ stupendo». Disse ciò con un volto di meraviglia misto a gioia, che quasi mi commosse. Non risposi per timore di interrompere quell’attimo di felicità così speciale. L’uomo si voltò verso la grande scalinata che si intravedeva in fondo a quell’atrio, alle sue spalle, e urlò «Margareth! Jacqueline! Presto scendete! Un eroe ci ha riportato Lucky!» «No, Signore! Non sono un eroe!» esclamai. E lui «Oh certo che lo è! Si fidi. Se ne accorgerà non appena mia figlia Margareth la ringrazierà. Per lei sarà un eroe. Lucky è tutto per lei». Margareth doveva essere la bambina sull’annuncio, la figlia di quell’uomo. Si sentì un gran frastuono mentre vedevo quattro gambe scendere all’impazzata quelle scale di legno. La bambina urlava di gioia e non appena vide Lucky correrle incontro scoppiò in lacrime. Lo abbraccio qualche istante e poi corse verso di me «Grazie signore! Grazie, grazie, grazie…ti voglio bene». Aveva lunghi capelli neri e il volto gonfio, forse per il sonno o forse per le lacrime che scendevano. Aveva un sorriso incredibile, puro e ingenuo, come solo i bambini possono avere. Quel sorriso stampatomi in faccia fu per me già una grossa ricompensa. Nel frattempo una signora arrivò tra le braccia di quell’uomo dicendo «Che bello! E’ qui! E’ tornato!». Era una donna molto fine ed elegante, coetanea all’uomo; aveva indossato una vestaglia rosa con pizzi e merletti perlati e aveva raccolto i capelli in un grosso fermaglio d’oro a forma di piuma.
«Grazie infinitamente, signore! La prego si accomodi siamo felici e lieti di offrirle qualcosa» mi invitò facendo un cenno con la mano che mi indicava di accomodarmi dentro. «Ma no, la ringrazio signora, non c’è bisogno» era l’unica frase che riuscii a proferire nonostante, in fondo, non la pensassi veramente. «Ma scherza, noi la ringraziamo…Su si accomodi che fa freddo!» e venne a me, prendendomi il braccio e accomodandomi all’interno della casa. E a quel punto il marito: «Ma certo si accomodi!» e nel mentre richiudeva la porta diedi uno sguardo alla strada, dove il taxi non c’era più. «Io sono Brando e questa e mia moglie Jacqueline» si presentò stringendomi la mano. Poi la bambina mi prese la mano sinistra «Ciao sono Margareth! Tu come ti chiami?» Lunga pausa. «Come ti chiami?» ripeté Margareth mentre i genitori mi guardavano sorridenti in attesa. «Beh!... Io mi chiamo Dave! Il mio nome è Dave!» svelai.
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«Cosa hai fatto alla mano Dave? Alle tue dita?» la bambina si accorse della mia mano sinistra. «Avevo fame e le ho mangiate grigliate con ketchup e maionese!» esclamai sorridendo. Lei scoppiò in una grossa risata ma Jacqueline la rimproverò «Non essere scortese Margareth!» «Si figuri, non c’è problema» le dissi. Ci accomodammo a un grosso tavolo al centro di una sala accogliente e calda, mi chiesero cosa gradissi, se avessi fame, se volessi un caffè o del latte. Mi sentivo costretto a non rifiutare così chiesi un tè caldo e Jacqueline andò in cucina a prepararlo. Nel frattempo Margareth scappò verso la sua camera con Lucky. «Margareth non farlo salire sul letto, non sappiamo cosa ha fatto e dove è stato, dobbiamo lavarlo» disse Brando a proposito del cane. «E’ stato bene» puntualizzai brevemente. «Grazie davvero, ci hai reso felici, Dave!» mi ringraziò ancora. «Posso chiamarti Dave? Vero? Darti del tu?» mi chiese. «Ma certo» non c’era nemmeno bisogno che rispondessi anche perché non ricordavo nemmeno da quanto tempo non venivo chiamato per nome e la cosa mi rese felice. Brando sembrava un uomo buono, era lì seduto al mio fianco e mi guardava incuriosito ma era un uomo vissuto, sveglio e per nulla ingenuo, infatti capì
subito la mia condizione. Mi chiese come ero finito per strada, come mai non vivevo sotto un tetto, cosa mi fosse successo e comunque specificò che mi reputava una persona speciale solo per il fatto di aver riportato Lucky a casa. Non era impaurito da quel barbone con i capelli arruffati e la faccia segnata dalla fatica. E nemmeno Jacqueline lo era. Mi pose la tazza di tè davanti consigliandomi di lasciarlo raffreddare qualche istante perché era bollente. Non sapeva però che avrei voluto berlo subito per scaldarmi dal freddo e dall’umidità della notte, ma per cortesia non lo feci, accennando un sorriso al suo consiglio. Portò al tavolo anche un piatto di biscotti a forma di cuore specificando con entusiasmo e orgoglio che li aveva fatti lei il pomeriggio prima. I minuti che trascorsi a bere lentamente quel tè bollente e a gustare quei biscotti fatti in casa furono i minuti che per sommi capi dedicai al racconto della mia vita, non entrando comunque in dettagli poco precisi e comprensibili. Le loro facce erano meravigliate e quasi commosse quando sobbalzarono all’ingresso di Margareth nella sala. Afferrò un biscotto e rivolgendosi a me disse: «Dave, vieni a vedere la mia stanza!» Fissai i suoi genitori che mi guardavano come per dire «Su dai, non puoi dire di no a una bambina.» Così mi alzai e seguii Margareth verso le scale. Era una scalinata antica in legno in stile neoclassico, ma recuperata in modo fantastico con numerosi inserti e decorazioni, che costeggiava una parete piena di foto di famiglia. Foto di Brando davanti all’ingresso di un college, un istituto di letteratura; Brando insieme a un gruppo di giovani con dei cappelli da laureandi; Brando
sorridente su una barca con un grosso pesce tra le braccia; Brando in un ufficio, seduto a una grossa scrivania con una targa che riportava “DR. BRANDO MEYER - DIRETTORE”; foto di Jacqueline da giovane seduta su una terrazza sul mare con un abito bianco e un grosso cappello nero che le copriva mezzo viso, sorridente e spensierato; Jacqueline vestita con un completo rosso da cheerleader; Jacqueline in sella a un cavallo bianco con una tuta da fantino nera e rossa; Jacqueline ad alcune premiazioni di gare di equitazione; e poi foto di Margareth neonata nella culla; Margareth con un grosso salvagente al mare; a tavola con la faccia e le mani sporche di cioccolata e anche la sua foto con Lucky, la stessa pubblicata sul giornale per l’annuncio. Ingenuamente mi fermai e senza pensarci tirai fuori dalla tasca il ritaglio di giornale ponendo la foto dell’annuncio vicino alla foto originale. «Sì è la stessa!» disse Margareth «E’ la mia foto preferita!». «Non preoccuparti avrai quella ricompensa, te la merito tutta!» esclamò Brando. «No no, non è per quello» mi intimidii. «Dai vieni Dave, ecco la stanza» Margareth era così felice di mostrarmi quella stanza che sembrava un regno incantato. Pareti con carta da parati che rappresentavano un immenso prato fiorito con un laghetto e piccole cascate. «Visto che bella, l’ha stampata il mio papà!» disse fiera di suo padre. «Stampata?!» esclamai dubbioso. «Sì stampata nella mia tipografia» disse Brando, che ci aveva raggiunto nella stanza. Sì perché Brando dirigeva un’importante tipografia in città che aveva fondato dopo aver lasciato la cattedra di Letteratura Antica di un’Università molto rinomata. E lo aveva fatto perché era il suo sogno. Aprire una tipografia. Almeno era quello che mi aveva detto nella stanza di Margareth.
Il suo sogno. Come io sognavo di suonare in giro per il mondo.
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Erano due giorni che vagavo lì intorno, davanti allo scarico merci di un mobilificio, dove Luc ed io ci eravamo salutati. Non mi ero spostato di molto poiché quello mi sembrava un luogo sicuro. Fino ad allora non avevo parlato più con nessuno, nemmeno con i frati del convento dove avevo dormito. Quella mattina però, gli operai del mobilificio mi fermarono e mi chiesero cosa fi lì ma io non avevo saputo rispondere e loro, infastiditi, mi allontanarono. Il panettiere della bottega dove avevo comprato da mangiare mi aveva detto che quella era una zona industriale e che il centro città distava una decina di chilometri e che la lunga Continental mi avrebbe portato lì. Così mi incamminai. La Continental era una strada a tre corsie per senso di marcia e quel tratto fuori città era a percorrenza veloce e quindi molto pericolosa per i pedoni. Sicuramente era vietato il transito pedonale ma era l’unico modo per addentrarmi in città. Era un bel po’ che camminavo sotto il sole e per fortuna nei pressi vi era un’area di servizio quindi mi fermai, andai in bagno e mi rinfrescai il viso, le braccia e la testa. Appena uscito notai un furgone cassonato pieno di vecchio ferro arrugginito e ai suoi lati due uomini che lo raccoglievano e lo caricavano sul cassone. Mi avvinai a loro incuriosito e li salutai, ma loro non parlavano la mia lingua. In qualche modo gli feci capire di voler andare in città e attraverso i miei gesti avevo lasciato intendere di volermi sedere sul cassone.
Loro sorrisero e mi aprirono la sponda lasciandomi salire, poi indicando i loro volti proferirono i loro nomi: Mircea e Constantin. Io mi limitai a rispondere con un grazie. Fu in quell’occasione che conobbi i due zingari ma solo successivamente, forse due o tre anni dopo, riuscimmo a scambiare qualche parola, quando imparai la lingua locale. Appena terminata la Continental loro accostarono, io scesi e dopo esserci salutati, si allontanarono in una via stretta tra gli alberi di un parco. Davanti a me c’erano enormi palazzi che si riflettevano sulle acque del fiume. Si sentiva un enorme ronzio di voci e auto in corsa. Quella era la città. Mi sedetti sul muretto che costeggiava le rive del fiume e cercai di pensare quale fosse la prima cosa da fare, ma qualche minuto dopo sentii un clacson chiamarmi ripetutamente. Erano Mircea e Constantin, avevano capito che non avevo posti precisi da raggiungere e quindi mi invitarono a risalire sul furgone, ormai scarico di ferro. Lo feci e partimmo verso le vie della città. Arrivammo davanti all’associazione e qui in fila ad aspettare il pranzo c’erano una ventina di persone. Persone che poi avrei rivisto quotidianamente. La situazione mi sconsolava ma purtroppo era necessaria. In fila non riuscivo a capire nulla di ciò che tutti dicevano, mi sembrava parlassero mille lingue diverse, ma fu in quel momento che sentii afferrarmi il braccio «Questo cappotto è nuovo e pulito!» esclamò quell’uomo nella mia lingua. Io tentennai nel rispondere ma lo feci dicendo che anche io lì ero nuovo.
Così lui tra il sospettoso e l’indifferente mi strinse la mano e si presentò. All’ingresso del locale mensa c’era un ufficio e l’uomo mi spiegò che avrei dovuto registrarmi compilando un modulo con i miei dati personali e che successivamente mi sarebbe stato rilasciato un tesserino personale. Terminato l’iter burocratico ci avvicinammo ai banchi e le signore addette alla distribuzione ci servirono un pasto, sorridenti per tutto il tempo. Era un ambiente molto pulito e cortese. Ci sedemmo a uno dei grossi tavoli e prima di iniziare a mangiare ringraziai quell’uomo per il suo aiuto «Grazie Markus!» Durante il pranzo Markus mi raccontò di sé e mi pose molte domande su come fossi arrivato lì e su cosa intendessi fare. Spiegai le mie intenzioni di iniziare una nuova vita e ripartire pian piano, cercando un lavoro, per non trovarmi in quella mensa anche la settimana dopo. In realtà arono settimane, mesi e anni. Markus, quel giorno, fu breve e coinciso, spietato e chiaro «Non sarà facile per te.» In effetti mi spiegò che sarebbe stato quasi impossibile trovare lavoro a breve, perché ancor prima di iscrivermi all’ufficio di collocamento avrei dovuto attestare al municipio la mia residenza e la mia conoscenza della lingua locale. Nella mia condizione quelli erano requisiti impossibili da ottenere. Ecco perché le mie aspettative rimasero tali e le settimane divennero mesi e anni. Usciti dalla mensa Markus raggiunse i suoi cani legati a un albero e mi salutò dicendo: «Cerca di essere più invisibile possibile, resta sempre ai margini della società, solo così la tua presenza non infastidirà la gente.» E nel mentre si allontanava si voltò «Ah, ci vediamo qui per cena...stasera». Nella mia testa queste parole rimbombavano come un petardo esploso in una pentola; continuavo a ripetere «qui per cena, per colazione, per pranzo e ancora
cena, colazione e pranzo» all'infinito.
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La tipografia di Brando era una vecchia fabbrica di birra che si trovava a est della città. L'aveva comprata a un asta fallimentare del tribunale facendo un ottimo affare. Aveva lasciato il suo incarico all'università e si era impegnato e dedicato pienamente alla ristrutturazione di quel fabbricato pieno di storia. Aveva recuperato molte parti originali facendolo diventare oltre che molto produttivo anche molto affascinante e attraente. Infatti organizzava tour al suo interno, anche di classi studentesche e universitarie, dove mostrava gli antichi fasti della storica produzione di birra e i progetti e i nuovi orizzonti che apriva la sua tipografia. Il lavoro fu subito producente grazie anche ai legami e alla sua fama negli istituti d'istruzione e accademici della città, che oltre a richiedere visite guidate, prenotavano stampe e ristampe di materiale cartaceo. Almeno così Brando mi descrisse la sua tipografia, lì, nella stanza di Margareth. Tutto ciò mentre la bambina era così eccitata nel mostrarmi la sua collezione di bambole e i suoi numerosi vestiti nella cabina-armadio. E proprio in quell'enorme cabina-armadio notai quel poster gigantesco che riempiva mezza parete. Era lei. Aveva i capelli più corti e di un tono più scuri ma forse erano solo bagnati dal sudore che le provocava la fatica di quel palco che calcava in quel concerto. Indossava un tutù rosa con leggings color argento.
Aveva in mano un microfono di swarovski e alle sue spalle si notavano due coriste, due donne di colore vestite come damigelle a un matrimonio , anche loro sudatissime. Sulla base del poster era riportato il suo nome “MISS VIOLET”. «Ti piace? E' una foto che abbiamo fatto al concerto e stampato in tipografia!» esclamò Margareth. «Davvero?» balbettai io. «Sì, mamma mi ha portato al concerto di Miss Violet per il mio ottavo compleanno. E' stato il mio primo concerto. E' stato stupendo!» rispose lei. «Lei allora ti piace tanto?» la mia sembrò una domanda tanto retorica quanto scontata e stupida. A quel punto Brando scoppiò in una risata e disse che Miss Violet era l'idolo di tutte le ragazzine e teenagers e che dovevo aggiornarmi in tema di musica. Ma io ero contento del mio bagaglio musicale e di apprezzare i veri artisti della storia della musica. Ma non dissi nulla, ammiccando goffamente. In quel momento senza pensarci estrassi dalla tasca lo specchietto e lo mostrai a Margareth dicendo: «Questo è di Miss Violet. Ma non è un gadget, è proprio il suo... personale». Lei rimase con gli occhi sbarrati e increduli e benché allungò le mani non riuscì nemmeno a toccarlo, come se fosse qualcosa di talmente fragile o una preziosa reliquia. «Ma... ma come l'hai avuto?» domandò emozionata. In quell'istante avrei potuto raccontare la verità sul suo arrogante e scorbutico idolo, forse infrangendo un suo mito, ma non lo feci, dicendole che fu proprio Miss Violet a regalarmelo insieme ad alcuni denari all'uscita di un albergo, in centro, dove alloggiava. All'uscita, tra fotografi e fan, era ata dinanzi a me che ero seduto sul ciglio del marciapiede e si era avvicinata in modo caritatevole e gentile facendomi
questo regalo. «Lo sapevo che era anche tanto buona. E' fantastica!» urlò Margareth. «Senti Margareth, te lo regalo. Tienilo tu e custodiscilo con cura. E ricorda di essere sempre brava e gentile nella vita, come Miss Violet. Aiuta sempre il tuo prossimo se puoi» le dissi ciò accovacciandomi davanti a lei e ponendo lo specchietto tra le sue mani. «Grazie mille, lo farò... davvero!» lo promise abbracciandomi, poi scappò di corsa e saltò sul letto ad ammirare e coccolare lo specchietto. Brando mi diede una pacca sulla spalla e mi ringraziò dicendo che riportando Lucky a casa e regalandole quello specchietto avevo reso Margareth la bambina più felice al mondo.
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Tornammo al piano di sotto e Jacqueline si avvicinò a Brando sussurrandogli qualcosa nell'orecchio, poi lui si voltò verso di me e mi disse «Dave ora rilassati un po', va in bagno e fatti una doccia calda. Lascia questi vestiti sporchi , lì troverai abiti puliti e un accappatoio». «Non serve, davvero» risposi. «Dai, è il minimo. Ci teniamo davvero. E poi ora devo fare qualche telefonata, dopo dobbiamo parlare di una cosa importante» puntualizzò. Mi accompagnò nel bagno e uscendo era già al telefono con un certo Martin. Fu una doccia davvero rilassante durante la quale provai a immaginare di cosa volesse parlarmi Brando. Era un bagno di servizio molto lussuoso, con doppi lavandini, una doccia larghissima e una vasca jacuzzi al centro. Sulle mensole c'erano in bella vista una vasta gamma di saponi, sali profumati e creme. Mi infilai in un morbidissimo accappatoio, mi asciugai i capelli, li tirai indietro con un po' di gel al cocco e usai una crema alla vaniglia massaggiandola sul mio viso. La pelle da dura e secca diventò morbida ed elastica lasciandomi un senso di freschezza talmente forte che quasi mi fece lacrimare gli occhi. Posi i vestiti sporchi in un sacchetto e indossai quelli puliti che Jacqueline aveva lasciato sullo sgabello di fianco alla doccia: un jeans, una camicia bleu, un maglioncino color verde militare, calzini a righe e scarpe antipioggia. Uscii dal bagno e vidi che Brando e Jacqueline mi aspettavano sorridenti seduti al grosso tavolo della sala.
Jacqueline fece un gesto accomodante, scostando la sedia dal tavolo, invitandomi a sedere. «Hai fatto tanto per noi stasera!» iniziò lei «e soprattutto per nostra figlia!». Avrei voluto risponderle dicendo che non avevo fatto molto in realtà, anche perché a quell'ora sarei stato ancora a dormire in uno scatolone sulle sponde del fiume. Non feci in tempo, quando Brando prese la parola e dopo innumerevoli ringraziamenti iniziò il suo monologo. «Ascolta Dave, vorremmo ripagare ciò che hai fatto, che è davvero tanto per noi, con una proposta importante che spero tu voglia accettare. Ho sentito Martin, il guardiano notturno della tipografia, nonché mio carissimo amico. E' da qualche mese che mi chiede di lasciarlo andare a godersi la pensione dopo i suoi 40 anni di lavoro ed io ho temporeggiato promettendogli che lo avessi fatto quando avrei trovato la persona giusta. Beh! L'ho chiamato avvertendolo che forse da lunedì prossimo sarebbe stato libero perché ho trovato la persona giusta. Questa persona però ancora non mi ha confermato di accettare il posto, in quanto non gli ho ancora parlato. Ma ora lo sto facendo». Proferì quest'ultima frase guardandomi intensamente e sorridendomi. In quell'istante sentii come un bruciore dentro e scoppiai in lacrime senza riuscire a parlare, né rispondere, né tantomeno ringraziare, come avrei dovuto e voluto. Ero così incredulo e Brando capì il mio stato d'animo alzandosi e venendomi incontro mentre Jacqueline mi sorreggeva il braccio come a tenermi per non farmi cadere dalla sedia. Mi sollevò e mi abbracciò e solo in quel momento lo ringraziai ancora in lacrime dicendo che era davvero troppo.
Ma per lui non era troppo, anzi, continuò felice nella sua proposta. Un contratto di lavoro di 40 ore settimanali come guardiano notturno in tipografia, comprensivo di assistenza sanitaria e assicurazione sulla vita e inoltre la possibilità di alloggiare nel monolocale arredato che era stato ricavato dal vecchio locale espositivo di birra della storica fabbrica. Alla mia risposta positiva realizzai che davanti a me si apriva una nuova vita. Avrei potuto ricominciare da zero e reinventare ancora una volta la mia esistenza ed ero così sopraffatto da questo pensiero che non ricordo nemmeno le altre parole che Brando e Jacqueline mi dissero nei successivi 15 minuti. Riuscii solo a comprendere che quella mattina sarei dovuto andare alla tipografia per firmare alcuni documenti per le pratiche burocratiche e la registrazione al collocamento e che dal lunedì seguente avrei iniziato già a lavorare con turno 00:00/08:00.
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Avevo detto loro che sarei arrivato puntuale all'appuntamento delle ore 10:00 in tipografia ma che ora avevo alcune cose da fare: ringraziare Markus, salutare gli amici, racimolare la mia poca roba dalle varie cassette all'associazione, alla stazione ferroviaria e alla mensa. In realtà volevo anche andare via e restare da solo a gustarmi quella sensazione di serenità e felicità che provavo dentro e che volevo vivermi al 100%. Quella sensazione che quasi non ricordavo di aver provato dopo quel regalo di Natale in orfanatrofio, dopo la vittoria al Festival estivo, dopo il primo bacio a Faith. Margareth corse, con Lucky al seguito, a salutarmi sulla porta promettendomi di rivederci presto. Jacqueline mi abbracciò ringraziandomi ancora e Brando mi strinse la mano amichevolmente. La porta si aprì e quel percorso inverso, dalla grande porta bianca e lucida con i grossi maniglioni color argento a quel vialetto con ciottoli grigi, sembrava simbolicamente il punto di svolta. Era come un salto col bungee jumping: dopo la lunga e incerta caduta, arrivi a quel punto che l'elastico ti tiene stretto e ti riporta su. Così per me era quel percorso adesso. Dove avevo visto sparire quel taxi nell'oscurità della notte poco prima, ora vi era la tenue luce di inizio alba che illuminava il confine con caldi e fosforescenti raggi del sole. Brando mi fermò invitandomi a seguirlo nel garage dove avevano posto due auto, un SUV di colore bianco e una citycar di colore rosso. Si infilò tra le due auto e poco dopo uscì trascinando una bicicletta da strada. «Prendi questa! Così almeno sono sicuro che non arriverai tardi in tipografia!»
esclamò. Lo guardai un po' stranito borbottando: «E' tanto che non vado in bicicletta.» «Su andiamo, non si dimentica come si va in bicicletta» mi rimproverò sorridendo «ah mi raccomando, indossa questo k-way che c'è ancora umidità e non puoi ammalarti i primi giorni di lavoro». Sorrisi e mi infilai il k-way grigio che mi consegnò avendo cura a chiuderlo fino al collo, poi salii in bicicletta e rimasi un attimo bloccato, come impaurito. Mi toccai il naso e in particolare la gobba cicatrizzata che mi storpiava il viso. «Non mi dire che ti sei rotto il naso cadendo da una bicicletta?» mi domandò Brando. Dovette chiederlo tre volte prima di ottenere la mia risposta «Beh?! sì sì... esatto. Cadendo da una bicicletta». A quel punto si mise a ridere tra il divertito e l'incredulo e mi raccomandò di fare attenzione. Partii iniziando con grosse pedalate poiché la via era in salita e, mentre mi allontanavo, mi voltai a salutarli.
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Una volta girato l'angolo mi fermai e riguardai la bicicletta. Non ero mai caduto da una bicicletta rompendomi il naso. Ripensando a ciò che accadde l'ultima volta che ci ero salito sopra, feci un sorriso amaro e ricominciai a pedalare lungo quella via residenziale con tutta la forza che avevo, anzi, che avevo ritrovato quella mattina. Anche quell'ultima volta, qualche anno prima, pedalavo così velocemente ma anche agitatamente. Ero in sella a quella bici, correvo e avevo già il naso rotto e sanguinante; sentivo il sangue in bocca e in gola e cercavo di correre quanto più potevo tenendo la testa all'indietro perché il sangue sgorgava copiosamente e scorreva dal mento al petto e alle braccia. Ricordo che qualche minuto prima ero seduto su una panchina nel parco centrale della città e stavo leggendo “NEVE” di Maxence Fermine, regalatomi dalla cuoca della mensa perché a suo dire «E' stupendo! Devi leggerlo!» e aveva ragione. Ero così assorto nella lettura che non avevo nemmeno visto arrivare quei quattro giovani con la testa rasata, bianchi cadaverici, con giacche di pelle piene di spuntoni e spille di ferro. Uno di loro arrivò alle mie spalle bloccandomi allo schienale della panchina tirandomi per la gola, un altro di fronte a me pronunciò una frase, ma nella concitazione non capii il significato, e poi mi colpì con un pugno trasversale, così forte che mi fece volare via il libro dalle mani e mi fece piegare su me stesso. Poi tutti insieme iniziarono a colpirmi ai fianchi e in testa ripetutamente.
Tentai di svincolarmi ma la panchina limitava i miei movimenti quindi mi gettai a terra tentando di chiudermi a riccio ma quei quattro mostri iniziarono a colpirmi violentemente con i piedi, sferrando fortissimi calci, uno dei quali mi colpì in pieno volto. Sentii frantumarsi cartilagine e osso nasale e percepii subito quel sapore di sangue misto terra arrivare fino in gola e quasi soffocarmi. Iniziai a implorarli di lasciarmi stare ma non si fermarono. Anzi la vista del sangue sembrava caricarli ancora di più, infatti uno di loro mi prese per i capelli tirandoli così forte da sollevarmi in piedi e fu in quell'istante che notai, qualche metro alle loro spalle, una bicicletta di colore giallo con un cestino bianco. Istintivamente sferrai una testata alla cieca che colpì in faccia uno dei quattro, che cadde all' indietro urlando di dolore e rabbia. Nel momento in cui gli altri prestarono attenzione al loro complice accasciato, corsi verso la bicicletta, montai in sella con un salto e iniziai a pedalare vorticosamente e nervosamente. Sentii per alcuni metri i quattro rincorrermi con brutalità e ferocia come nella caccia alla volpe i segugi seguono la loro povera preda destinata al sacrificio. Ma io non volevo essere preda e così senza mai voltarmi indietro pedalai per circa dieci minuti e una volta sicuro di essere troppo distante per essere raggiunto, rallentai la pedalata e la marcia. Fu solo allora che mi accorsi del sangue sulle braccia e sul petto, che tentai di asciugare con la felpa. Sempre continuando a pedalare infilai la mano nella tasca destra della felpa in cerca di un fazzoletto o di un pezzo di carta per tamponare il naso spaccato e sanguinante. Quella era stata la mia ultima volta in bicicletta.
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Come quell'ultima volta in bicicletta fu spontaneo portare la mia mano al naso e poi alla tasca destra, in questo caso del k-way grigio di Brando e, con mio stupore, mi ritrovai tra le dita un mazzetto di fogli. Senza arrestare la marcia diedi un veloce sguardo alla strada e non vidi niente e nessuno. Ero solo in quella via che mi immetteva al curvone prima del grande ponte di ferro bianco, pietra miliare dell'ingegneria cittadina. Abbassai lo sguardo e vidi la mia mano uscire dalla tasca e tirare fuori un biglietto con un mazzetto di banconote. Un grosso mazzetto. Il biglietto riportava la scritta in stampatello: “GRAZIE MILLE DAVE PER AVERCI RIPORTATO LUCKY. BRANDO, JACQUELINE E MARGARETH”. Rimasi sbigottito e, dopo aver ricontrollato la strada dinanzi a me ed essermi accorto che quasi finito il curvone non vedevo nessuno all'inizio del ponte, con le dita della mano iniziai a sfogliare le banconote che erano ordinate per taglio: 50, 50, 50, 50, 100, 100, 100 e tre banconote enormi da 500 denari... totale 2000 denari. La ricompensa. Non avevo mai visto tutti quei soldi, così in quell'istante mi soffermai sulla banconota da 500 denari. Incredibile. Fu solo allora che sentii una musica assordante che sembrava avvicinarsi e poco dopo il clacson di un'auto che iniziò a suonare continuo e allarmante. Alzai lo sguardo dalle banconote e vidi un'autovettura di colore nero arrivarmi dritto in faccia. Poi l'impatto e il frastuono.
Poi il volo e il silenzio. Poi un nuovo impatto, questa volta a terra, e il silenzio. Infine il dolore e il silenzio. La schiena era poggiata sull'asfalto freddo e umido, intorno a me arrivarono alcune persone, la loro bocca sembrava proferire frasi ma io non sentivo nulla e i loro corpi, che distinguevo sfocatamente in sagome grigie e indifferenti, si agitavano freneticamente. L'unica cosa che riuscivo a vedere chiaramente era quel punto luminoso in cielo proprio sulla mia testa. Un brillante nel cielo color giallo-arancio durante l'alba. Era il pianeta Venere, visibile solo al tramonto e all'alba. Uno spettacolo stupendo, sembrava pulsare davanti a me, come se mi stesse facendo un cenno, come se mi stesse chiamando a sé ed io sembravo davvero avvicinarmi. Arrivai così vicino che tutto fu luce. Poi in un istante tutto buio. E quello fu l'ultimo istante di quella notte. Fu l'ultimo istante di quella vita. Fu come un salto col bungee jumping solo che, alla fine della lunga e incerta caduta, l'elastico ti tiene stretto ma non ti riporta su, sembra solo che lo faccia e tu resti lì col fiato sospeso finché si spezza lasciandoti precipitare sul fondo. Ed è buio.
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Il giorno dopo il FREE NEWS e tutta la stampa parlava di un tremendo e tragico incidente che aveva coinvolto la star del momento, Miss Violet. L'auto su cui viaggiava la notte prima aveva investito un senza fissa dimora, ubriaco o smemorato, che circolava in bicicletta al centro della carreggiata di una strada ad alto scorrimento. L'uomo era deceduto, ma lei, il suo staff e alcuni amici, a bordo della limosine di colore nero di ritorno da un party, stavano bene nonostante il forte shock e la paura. Questo per la felicità dei migliaia di fan accorsi fuori la sala convegni della clinica dove era ricoverata per accertamenti, e da dove aveva rasserenato tutti con una commovente conferenza stampa.