NOSTRA SIGNORA ELETTRICA
di Alessandro Reale
Copyright © 2013 Alessandro Reale
SMASHWORDS EDITION
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Probabilmente un uomo del medioevo rimarrebbe sorpreso di fronte al nostro concetto di “guardare attraverso” qualcosa. Per lui è la realtà che ci guarda
attraverso lo spazio, che ci scruta, ed è per mezzo della contemplazione che ci immergiamo nella luce divina, piuttosto che guardandola. Marshall McLuhan (La Galassia Gutemberg)
Il reale non può sorare il modello, di cui non è che l’alibi. L’immaginario era l’alibi del reale, in un mondo dominato dal principio di realtà. Oggi è il reale che è diventato l’alibi del modello, in un universo retto dal principio di simulazione. Jean Baudrillard (Il Delitto Perfetto)
Non temo niente e non mi pento di niente, non ho materia di cui pentirmi e non so di che cosa mi debba pentire. Avete forse più timore voi nel pronunciare questa sentenza che io nel riceverla. Giordano Bruno
Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla dolce indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, e che lo ero ancora. Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida di odio. Albert Camus (Lo Straniero)
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Colonna sonora. Ringraziamenti e citazioni. L’ascolto di questi brani musicali durante la lettura rende merito ad essa e
compiace lo spirito:
A Tratti - C.S.I. Tu Menti - CC Depressione Caspica- CC Sonica - Marlene Kuntz Fuoco Su Di Te - Marlene Kuntz Vedrai - La Crus Io sono uno - Bleach Io se fossi Dio - Giorgio Gaber .
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NOSTRA SIGNORA ELETTRICA
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Quando si tratta di fare una scelta io non la prendo. Sono fatto così: evito le responsabilità. Perlomeno finché non sono costretto non prendo nessuna decisione. Questo ha i suoi pro e i suoi contro: mantengo per quanto possibile le mie abitudini e le mie convinzioni, non mi smuovo troppo dalla mia apatia: vivo, per quanto possibile, tranquillo. Questo è il lato positivo. Il lato negativo è che le situazioni, intanto, vanno avanti da sole, senza interpellarmi, continuano ad esserci e si evolvono: quello che ti fa male ti fa sempre più male, ed arrivi ad un punto che sei costretto a prenderla una decisione, per forza. E se l’avessi fatto prima sarebbe stato meglio, avrei avuto più possibilità, meno problemi, magari c’era ancora la possibilità di fare scelte positive, favorevoli al mio benessere. Arrangiarsi all’ultimo momento significa, spesso, scegliere tra il peggio e il meno peggio e invece di migliorare le cose, ci si mette una toppa, al massimo, si continua uguale o peggio, per non finire nel baratro. Un eccesso di ottimismo, scegliendo l’inerzia perché si vede il bicchiere mezzo pieno, impedisce di prendere il toro per le corna, quando è necessario. Ma quando è necessario? Non è semplice capirlo. Non è semplice prendere delle decisioni o non prenderle. Poi le decisioni, prendere il toro per le corna, affrontare di petto il proprio destino, sono gesti tragici per uomini eroici. Io non voglio, non ho mai voluto, essere un eroe, ne tanto meno tragico. Ogni tanto mi piacerebbe sorridere, non come un idiota ma con leggerezza. Una cosa difficile, lo ammetto. Quindi eccomi qui. In questo casino dove mi sono cacciato da solo, cercando sempre di evitarli i casini. Non mi crederebbe nessuno. Mi prenderebbe proprio per un idiota e non potrei dargli torto. Che faccio? Sono arrivato al punto, proprio quello, in cui devo prendere una decisione. Tra il peggio e il meno peggio. C’è gente là fuori, bussano e chiedono cosa sta succedendo. Ancora non ho risposto ma devo farlo. I documenti dove li ho messi? Sono quattro volte che svuoto la valigia ma niente. L’ho lasciati a casa. Però ho la tessera della palestra, quella sì. Ma si può essere così idioti? Mai mettere un idiota nelle giuste condizioni per fare casino. Il caso è spietato. Vabbè, facciamo così: mi prendo questi, tanto a te non servono più, ci metto la foto della palestra e speriamo bene. Ecco, ma guarda che bello!
Ci mancava solo questa! Da ridere o da piangere: è uguale. Farò la mia figura, non posso certo fare il difficile, prendiamo quello che capita. Sì, un attimo. Vengo. A posto. Speriamo bene. Ma guarda te che mi tocca fare. Le pasticche: un paio d’ansiolitici mi servono proprio. L’acqua ce l’ho: con la scarpinata che mi sono fatto per prenderla almeno a qualcosa è servita. A posto. Bene. Adesso calma. Vengo. Sì, sì: apro! Aiutatemi! Aiutatemi, vi prego! Non ci crede? Guardi lei! Ma chi se lo aspettava?
I
Era quasi sera. Soltanto qualche rantolo della giornata appena finita alla solita maniera ancora lumeggiava in fondo al cielo scolorito. La pioggia leggera di fine estate, fastidiosa e maleodorante, concimava l’asfalto disidratato. Don Aurelio Tognazzi raggiunse di corsa l’edicola per ripararsi dall’acqua, l’unica edicola di un paese dove non succedeva mai niente. Un’edicola che non aveva quasi niente a parte i maggiori quotidiani, stava sul bordo di una strada del centro a trecento metri dalla parrocchia, l’edicolante era sempre mezzo addormentato oppure troppo sveglio, quasi agitato. Era colpa dei turni massacranti che era costretto a fare. Non aveva nessuno che gli desse il cambio, l’edicola era di famiglia e il padre aveva anche la farmacia, così lui, oltre ad alzarsi alle cinque e chiudere bottega alle nove di sera, era costretto a chiedere di guardargli il chiosco al barista di fronte, quando doveva andare in bagno, quello del bar. Si capiva che quindi era un poco stralunato, anzi lo era anche troppo poco. Qualsiasi cosa gli si chiedesse, che non fosse un quotidiano, lui rispondeva che non ce l’aveva, anche se, cercando un poco negli espositori, si trovava quasi sicuramente, magari del mese ato ma c’era, se era un periodico. La persona davanti ad Aurelio aveva trovato Famiglia Cristiana, non si sa di quale anno, e la stava pagando. Era un uomo in completo grigio, camicia bianca, faccia vuota. Quando ebbe finito fu il turno di Aurelio che chiese una copia del Manifesto. L’uomo di Famiglia Cristiana stava andando via ma si trattenne e lui ne sentiva lo sguardo sulla schiena. Pagò ed andò verso casa, la sagrestia, ma l’uomo lo chiamò: - Scusi, padre. Permette? Si fermò e si fece raggiungere. Erano ad un paio di metri dall’edicola, sotto la
pioggia. - Dica. Posso esserle utile? - Sorrise con fatica, la pioggia gli dava fastidio e voleva tornare a casa. - Buonasera. Mi scusi se la disturbo. - Aveva la faccia vuota ma sembrava una persona normale. - Ma lei, con rispetto e senza provocazione, legge Il Manifesto? - Certo. Non ho pregiudizi, bisogna ascoltare anche chi non la pensa come noi. E dialogare. Non trova? L’Osservatore Romano l’ho preso stamattina e ci ho trovato tutte le giuste cose che mi aspettavo di trovarci, adesso ascolta anche l’altra campana. Magari ci trovo anche delle cose interessanti, perché no? - Bello da parte sua. Anche io ho comprato Famiglia Cristiana ma sono ateo, sa? - Bello da parte sua. - Aurelio voleva andare a casa. Ogni goccia di pioggia fredda aumentava la sua insofferenza e faticava a scegliere le parole. - Voglio capire. - Perché non viene a messa allora? Non l’ho mai vista alla funzione. È del paese? - Sì, ci sono nato e cresciuto. Ma la messa non mi interessa: sono ateo, glielo ho detto. - Allora perché compra Famiglia Cristiana? Cosa vuole capire? - Ha ragione. Ma... Vede, voglio capire come la pensate... M’è successa una cosa fastidiosa assai. Le spiego: mio figlio fa la terza elementare, è un bravo bambino, studioso, apionato di storia e di scienza... - Era una confessione? Aurelio era zuppo d’acqua avrebbe dato qualsiasi cosa per scappare a casa, l’edicolante stava chiudendo il suo gabbiotto, bestemmiando. - ... l’altro giorno torna a casa tutto contento: ha preso ottimo alla revisione, adesso le chiamano così le interrogazioni, di religione. - Non è contento? - No. Lui ha qualche parente che lo indottrina con figurine di santi e madonne come fossero pokemoon, io lascio fare anche se non ritengo giusto convincerlo
di cose di cui dovrebbe interrogarsi, in coscienza propria, quando sarà più grande, quando avrà gli elementi e la forza intellettuale di farlo. Adesso è troppo malleabile, troppo fragile, per difendersi da certa muffa, È facile prendersela con i più piccoli. Ma finora ho lasciato fare, per quieto vivere e, soprattutto, per non creare confusione in lui, per farlo stare sereno. - Beh, un ottimo a religione non sarà un grande problema, no? C’è tempo per prendere voti peggiori. - Sorrise Aurelio. - Certo, certo. Non è il voto il problema. Ma lui da grande vuole fare il paleontologo, capisce? - Credo di no. - Vede, la revisione consisteva in questa domanda: “Chi ha creato la terra? Dio o la Scienza?”. La risposta esatta, naturalmente, era: “Dio!”. Dico: si può porre una domanda del genere in questi termini? Ad un bambino di otto anni? Ho chiesto a mio figlio: “Quindi la Scienza era la risposta sbagliata?” e lui ha risposto di sì. Che doveva rispondere? Di questo antagonismo medievale che nega il darwinismo e tutto quello che ci si può spiegare con la sana ragione non ne potete proprio fare a meno? Eppure esistono anche illuminati scienziati di estrazione cattolica. Perché quello che dite voi è giusto e gli altri hanno sempre torto? Non potete rispettare le opinioni degli altri? Neanche quando sono scientificamente provate, almeno secondo l’intelletto umano? Ma poi a me neanche mi interessa di stare a questionare con voi, mi importa solo di mio figlio, quello sì. Lui vuole fare il paleontologo, la paleontologia è una scienza e i dinosauri li studia la scienza: non ne ho trovato spiegazione nelle sacre scritture. Mio figlio deve seguire le sue ioni, da grande deve fare quello che desidera e, soprattutto, adesso, non me lo devono rincoglionire. Ora che devo fare? are al contrattacco? Fargli leggere Marx? Gambizzare la maestra? - Abbia fede nell’intelligenza di suo figlio: saprà difendersi da solo. A quell’età possono essere molto più forti di quanto noi immaginiamo. Anche se a volte piangono non è detto che siano così deboli, anzi. Lei cosa gli ha risposto? Non credo proprio che sia stato zitto. - Sono un apionato di fotografia, in particolare mi piace fotografare la scultura, mi piacciono i forti contrasti della luce sul marmo. Di una cosa devo ringraziarvi, lo ammetto: se non ci fosse stati voi a sovvenzionare gli artisti, nel
corso della storia, tanti capolavori non sarebbero potuti nascere. Comunque: l’altro giorno siamo stati a Roma e siamo andati a fotografare la statua di Giordano Bruno in Piazza Campo de Fiori. L’unica piazza del centro storico di Roma dove non c’è una chiesa. La risposta a mio figlio è stata di andare a prendere quelle fotografie e gli ho detto: Sai chi era questo signore? Era uno che diceva, tanto tempo fa, che la terra è rotonda, ma il Papa diceva che era piatta. Non erano d’accordo, litigavano, e il Papa, per avere ragione lui, sai cos’ha fatto? Ha preso Giordano Bruno e l’ha ucciso. L’ha bruciato in piazza davanti a tutti, per far vedere che aveva ragione lui. In quella piazza dove ora c’è la statua, messa dopo, quando si sono accorti che aveva ragione lui, Giordano Bruno, non il Papa, per ricordarlo a tutti. E sai chi l’ha detto a tutti che la terra è rotonda? La Scienza. Mio figlio ha fatto cenno di sì con la testa, non so cosa pensasse, a volte ha un’espressione indecifrabile: dev’essere la sua coscienza che cresce. Pioveva. Aurelio era sempre più zuppo, nervoso, e voleva tornare a casa. Rispose: - Se fossimo in confessionale avrei, avremmo, il segreto che ci obbliga a non rivelare a nessuno ciò che si è detto fra noi, ma io, essendo un messaggero di Dio, sono, per così dire, in servizio ventiquattr’ore su ventiquattro. Quindi è come se lo fossimo. - Rimane tra noi, certo. - Ebbene, figliolo, che Dio ti benedica. Meglio di così! E si allontanò di corsa, senza salutare. L’uomo dalla faccia vuota sorrideva tornando alla sua auto e buttò Famiglia Cristiana nel cestino dei rifiuti. Aurelio, tornato in canonica, mise ad asciugare l’abito talare sul termosifone, fece una doccia e si mise a letto. S’impose di non pensare a niente e ci riuscì dormendo profondamente fino alla mattina.
II
Attorno al basamento di marmo una poltiglia di frammenti di porcellana opalescenti, bifronte: l’interno bianco e l’esterno color pastello. Blu ceruleo e rosso pompeiano. Rosa santo di Madonna. Un guscio rotto di simulacro andato perduto. Dentro, naturalmente, non c’era niente. Tutto qua? La gente aveva
riposto per quarant’anni speranza e fede in un guscio vuoto? Un’immagine del nulla. Avevano sperato in un’assenza autoreferenziale. Adoratori di lumache, neanche: di case di lumaca abbandonate. Non avevano sperato nella Madonna che quell’oggetto avrebbe dovuto rappresentare, ma adorato quell’oggetto, rappresentazione del nulla. La statua del niente, la presenza assente della Madonna. Il simulacro aveva preso il posto della Madonna, della speranza, della fede, della realtà. Il nulla aveva sostituito tutto questo. E si poteva toccare. Ci si potevano accendere sotto i lumicini. E adesso s’era rotta. I cocci per terra. Il nulla sparpagliato dappertutto. Non c’era più niente. Aurelio rifece il giro della chiesa alla ricerca di qualcosa che gli fosse sfuggito. La chiesa aveva sette file di panche nella navata centrale, in quelle laterali tre nicchie ospitavano ognuna una statua. Prima erano sei, ora, naturalmente, erano cinque, in fondo l’altare, dietro di esso la sagrestia. Di tutte le sculture solo Nostra Signora Elettrica era vero oggetto di culto per i fedeli. Le altre difficilmente erano prese sul serio. Nella navata di destra, partendo dall’altare verso l’uscita: San Cristoforo, scultura lignea del XVII secolo con un braccio amputato, il volto stralunato e rigido, tipo un turista che atterra a Helsinki ma aveva il biglietto per Rio de Janeiro. Poi Santa Cristina, travertino del XX secolo, di un’artista contemporaneo ancora in vita, il cui curriculum era un mistero. Stilizzata, sintesi della forma nell’elevazione della materia, una noia mortale somigliante ad un fusto di cherosene d’uso domestico. Infine San Giovanni, XVII secolo, autore sconosciuto, buona resa plastica, sguardo intenso e comionevole, bellino, quello che t’aspetti, scontato. Nella navata sinistra, sempre partendo dall’altare: Sant’Ignazio, altra scultura lignea, dello stesso autore di S. Cristoforo, questa integra ma il risultato non cambiava. Poi lo scempio. Il Grande Vuoto. Lì, proprio lì in mezzo, c’era Nostra Signora Elettrica, ed ora il nulla. All’ultimo nicchia, vicino l’entrata, c’era Santa Lucia: non aveva braccia, senza mezza testa, un marmo corroso e antico, molto antico. Alcuni eretici sostenevano addirittura del IV secolo a.C.: avrebbe significato che non era un santo ma magari un imperatore romano, un’ancella del culto del Dio Pan, un dono degli extraterrestri ad un remoto popolo di scimmie. Doveva far rifare Nostra Signora Elettrica. E doveva ripensare lo spazio scenico. Tanto quei cinque mostri, se disposti meglio, potevano avere un impatto visivo decente, non significavano niente neanche quelli, quindi stavano pari, non cambiava niente, almeno fino a quando non sarebbe arrivata una statua nuova. Doveva farsi aiutare da qualcuno. Avrebbe chiamato Erminio. Erminio faceva poche domande, era una persona generosa, aveva una forza straordinaria ed era sempre disponibile. Un poco nervoso e polemico ma una brava persona. Avrebbe dovuto
spiegargli tutto, lui ancora non sapeva niente. Nessuno sapeva quello che era successo. Avrebbe dovuto spiegare a lui. Avrebbe dovuto spiegare a tutti. Che disastro.
III
- È venuta giù così, all’improvviso. Non è una cosa normale, lei lo sa? - Me ne rendo conto. Ma le cose prima o poi vengono giù. Le statue, come tutte le cose, non sono eterne: durano più degli uomini ma hanno una fine anche loro. Anche il Colosseo non è più quello di una volta. Ce n’erano tanti altri di cui non è rimasto niente, magari erano anche più belli, forse il Colosseo era lo stadio di riserva, il Flaminio della situazione. - Divertente. La cosa ti mette di buon umore? - No, assolutamente. Ho divagato. Chiedo scusa. Semplicemente non so come possa essere successo. - Cominciamo daccapo. - Ok. - Mi esponga i fatti, prego. - Stamattina, saranno state le sei, sono entrato in chiesa e ho trovato la statua in mille pezzi. - C’erano segni d’effrazione? I resti della statua erano nella nicchia oppure altrove? Qualcuno può avere provato a spostarla e l’ha rotta? Non ha sentito rumori sospetti o altro la notte? - Non c’era nessun segno d’effrazione. Non mi pare che qualcuno abbia provato ad entrare, ma deve evidentemente averlo fatto. Ho aperto la porta comunicante con la sagrestia con le chiavi, anche il portone principale era chiuso a chiave, le finestre erano chiuse ed integre. Durante la notte non ho sentito rumori, solo
delle voci in strada, non troppo vicine, però. - Che tipo di voci? Parlavano? Litigavano? Urlavano? Quanto erano lontane? Si è preoccupato? - No, non mi sono preoccupato: mi pare stessero litigando, ma erano abbastanza lontane, tanto da non ritenerlo un mio problema. Avevo molto sonno, saranno state le tre o le quattro di notte ed ho continuato a dormire. - Nei giorni precedenti è successo qualcosa di strano, di insolito? Qualcosa che possa avere una connessione con quanto accaduto? - Non mi pare. Non credo. - Ci pensi su. E se le viene in mente qualcosa, anche piccoli dubbi, mi venga a riferire. Ha dai sospetti? - Sospetti? - Sì, sospetti! Chi pensa possa averlo fatto? - Chi potrebbe volere la distruzione della statua di Nostra Signora Elettrica? - Esattamente. - Ovviamente nessuno. - Ovviamente. Il commissario Poletti Spada rimase a fissare Don Aurelio Tognazzi in silenzio. Lo sguardo intenso, l’iride blu elettrica. Un completo color seppia che sarebbe stato male a chiunque ma a lui stava bene, ne faceva una persona rispettabile ma umana. Uno con cui hai voglia di parlare e confidarti, anche se lasciava l’amarezza, ad Aurelio, che lui non faceva altrettanto, non si confidava, non si apriva, così gli pareva, non quanto lui almeno. Aveva l’impressione che per guadagnarsi la sua fiducia bisognasse lavorare. Tanto. E non è detto che poteva bastare. Lo sguardo di Poletti Spada si mosse di pochissimo, dal volto di Aurelio appena sopra la sua spalla, a sinistra, in direzione della porta del suo ufficio. Succedeva così quando si annoiava, o non aveva niente da dire, o aveva da fare, o tutte le cose assieme. Aurelio capì che era ora di andare.
- Penso sia ora. Ho parecchie cose da sistemare con questa disgrazia. - Certo, ti capisco. Si tenga a disposizione e non lasci il paese. - E dove vuoi che vada? - E che ne so io? Sei strano, tu!- Sorrise per la prima volta. - Me la spieghi una cosa? Perché si chiama .., si chiamava, Nostra Signora Elettrica? - Non lo sai? Tu? Il parroco del paese? - Sono qui da poco. - Potevi informarti. Dovevi documentarti. - Mi vergognavo a chiedere. - E facevi bene! Intendevo dire PRIMA di venire qui. - Hai ragione. C’è la wi-fi al bar: cerco su internet. Poletti Spada sospirò grosso, sguardo tondo e accondiscendente. - Lascia perdere. Vedi, negli anni sessanta, quando c’erano tanti comunisti e tanti cattolici, e spesso erano le stesse persone, succedevano quelle cose buffe alla Peppone e Don Camillo. Litigi senza motivi seri, come adesso quando si parla di calcio. Solo per far parte di una squadra. La popolazione era composta quasi esclusivamente da operai delle fabbriche qui attorno. Per far contenti tutti, PCI e Clero, e per evitare troppi scioperi, per non far perdere fedeli al parroco, si decise di mettere nella chiesa che tu ora governi una nuova statua. La statua di Nostra Signora Elettrica. Tributo alla fede cattolica e tributo alla fede nel progresso. Furono tutti contenti: il parroco aveva una statua nuova, i fedeli rimanevano fedeli, i comunisti avevano la santificazione della forza operaia. Vissero tutti felici e contenti, più o meno. Fino ad oggi. - Mi sembri scettico. - No. Ho da fare.
Aurelio si alzò, andò a stringergli la mano e si avvio alla porta. - Ho tanto da fare anch’io. Ci si vede. - E falla rifare. - Rifare? - Certo. Fanne fare una nuova. Uguale o diversa, come ti pare. Basta che ci metti qualcosa in quella nicchia della chiesa. Vuoi cancellare la memoria storica del paese? - Non ci avevo ancora pensato. Hai ragione. Provvederò. Uscì dall’ufficio del commissario Poletti Spada, al terzo piano del commissariato di Polizia. Non prese l’ascensore. La tromba delle scale, per arrivare fuori, sembrava più profonda del solito, interminabile. Pensava al caldo che faceva fuori. In quel momento stava male ma presto sarebbe stato peggio.
IV
Erminio entrò dal portone principale e lo fece sbattere forte nel richiuderlo. Erminio era uno che parlava poco e aveva gesti essenziali, non era mai scortese, grande e grosso, barba rossa sotto gli occhi verdi e vispi, la carnagione rossiccia, un volto che ispirava calore umano per sbaglio: non era un tipo molto socievole, era solo curioso ed intelligente. - Porca boia! - Il primo commento sulla caduta di Nostra Signora Elettrica. Cominciava una nuova vita. Aurelio gli andò incontro, lui era rimasto fermo esattamente nel mezzo della chiesa, davanti l’altare, dietro il portone, a destra il luogo del misfatto, a sinistra Santa Cristina. Fissava Aurelio che accelerò il o verso di lui, quasi volesse rifugiarsi nelle sue braccia forzute e piangere. Poi, a pensarci bene, gli sarebbe bastato scavalcarlo, prendere l’uscita e non tornare mai più. Quando lo raggiunse, l’altro confermò la sua sorpresa: - Che cazzo è successo qui?
Non si voltava verso la seconda nicchia della navata di destra, non indicava: era un’assenza eccessiva per poterla osservare. - Stamane sono sceso per preparare la funzione ed ho trovato tutto così, in mille pezzi. - È entrato qualcuno di notte? - No. Cioè, sicuramente sì. Ma era tutto chiuso. Il portone, la porta della sagrestia, le finestre. Non ho sentito nessun rumore, non ho trovato nient’altro di rotto, di manomesso. Tutto in ordine. Tutto a posto. Erminio si volse, andò da San Giovanni, gli girò attorno, scomparve dietro la nicchia. Si sentì un rumore secco, di vecchia porta che si apre, e un fascio di luce polveroso avvolse il santo come un incendio improvviso. Aveva aperto una piccola porta di legno, alta circa mezzo metro, che si trovava lì dietro la nicchia, nascosta da San Giovanni. Aurelio non l’aveva mai vista. - Sono ati da qui: era aperta. - Disse Erminio inespressivo. - E questa cos’è? - La Porta della Zingara. Non lo sapevi? - No. Non lo sapevo proprio. - Come fai a non saperlo? - A che serve? - C’è sempre stata. In ato dev’essere servita a qualcosa, adesso non serve più a niente. O magari ad entrare e fracassare una statua. Un senso adesso può averlo ma se me lo chiedevi ieri non ce l’aveva proprio. - Quindi sono ati da qui. - Non è detto. Era aperta, ma non è detto che qualcuno sia ato da qui. - E chi l’ha rotta la statua? - Magari sono ati da un’altra parte. O s’è rotta da sola: un cedimento
strutturale, una scossa di terremoto. Ti sei informato all’Istituto Geografico? E poi che cambia? - Che significa? - Cambia poco trovare il colpevole. Bisogna trovare il rimedio. Che si fa adesso? - Giusto. Che si fa adesso? Il Commissario dice di rifare la statua per non far agitare i fedeli. - E te lo fai dire dal Commissario? Te lo dovrebbe dire il Vescovo. Comunque ha ragione. Uguale uguale? - Me lo dirà anche il Vescovo quando avrò trovato il coraggio di dirglielo. Il Commissario mi ha lasciato libera scelta. - Prima bisogna trovare qualcuno che la faccia. Magari ci consiglia lui. - Vedremo. Ora però dobbiamo sistemare qui. - Do una ramazzata? - Sì, grazie Erminio. E metti tutti i cocci in una sacca che la nascondiamo: i fedeli non devono trovare neanche un frammento o potrebbero ferirsi. - Nella carne e nello spirito. - Fai lo spiritoso? - Scusami. Non volevo. - Non era male. Di solito non ti riescono le battute. Nelle difficoltà si vedono gli uomini veri. - Infame. Dobbiamo risistemare tutto, nascondere l’assenza di Nostra Signora Elettrica. - Cioè? - Sfruttare lo spazio scenico. Annullare, o almeno limitare, l’assenza eccessiva.
- Potresti farmi capire? - Spostiamo le altre statue e lasciamo vuota la nicchia in fondo a destra, vicino l’altare, lì ci mettiamo il banco di libricini e volantini vari. Valorizziamo le statue rimaste e mascheriamo l’assenza di quella che non c’è più: sarà un colpo meno fatale. Adesso lasciami dare una pulita che poi cominciamo. Tu siediti lì e stai buono per un po’. Prima, però, devi leggere una cosa che ho buttato giù stanotte. - Devo proprio? Non mi pare il momento. - Non è mai il momento. Ma devi essere riconoscente per l’aiuto che ti do. Niente è gratis, niente è a posto. - Ok. Ti ascolto, figliolo. Vuoi il confessionale? - No, grazie. Mi rende nervoso. Erminio gli porse un foglio piegato in quattro, scritto al computer. - Ma così su due colonne? Non si capisce un cazzo. - Perché su una si capirebbe? - Non essere polemico. - Non sono polemico, sono analitico. - Appunto. L’analisi è la polemica tra lo spirito e la materia. - Poi ne riparliamo. Adesso leggi, per favore.
CITAXIO Nella luce Nei contrasti forti Ode e citazioni
che appianano le coscienze e placano gli umori In questo luogo di melma e sentori nei sedimenti intercutanei nelle intersezioni neuroniche Frammenti d’eterno e quotidiano fuori da tempo e spazio Un salto più in là Niente elettricità Ne posso fare a meno Niente consumo Faccio senza Un salto più in là fuori da tempo e spazio Adoro le mie necessità che sublimano Adoro i miei privati bisogni con o senza medicine con o senza terapia Ode e citazioni mi elevo cadendo a piombo nel meccanico intersecarsi
di granito e metallo di traversi travertini di gomme bruciate Dissezioni anatomiche di simulacri scultorei Totem iconici atemporali nella luce nei contrasti forti fuori da tempo e spazio Fortificarsi costruisco la mia triste eternità bevo alcolici per restare lucido lucido la vista e le sinapsi per restare cieco lubrifico sedimenti intercutanei lubrifico intersezioni neuroniche Non ripetersi Un’elevazione Una rottamazione Una prece A norma di legge Esente da tributo Per grazia ricevuta
Ode e Citazione In Memore Ode e Citazione Non citarsi dimenticarsi di se stessi Ode e Citazione Non citarsi C’è ancora qualcos’altro dimenticarsi qualcos’altro
- Interessante. Adatto al momento. Hai avuto una premonizione? Perché gomme bruciate? - Ci stava bene. Sai, al campo nomadi vicino casa mia le bruciano sempre, tutte le sere. Loro non mi danno fastidio ma quella puzza sì: mi rimane in testa, pesante, e la devo digerire, risputare fuori. - Lavoraci su, è interessante. - Sto scrivendo un romanzo. Ispirato ad uno che non m’è piaciuto per niente. - Di cosa parla? - Della Madonna. Della sua rappresentazione. Una rappresentazione del nulla che diviene realtà. Una realtà del nulla. Perché tutti si affannano nel rappresentare il divino, si affannano a definirne l’immagine ma nessuno parla di un divino che non c’è. Se ci fosse non avrebbe bisogno di costruirsi un’immagine, neanche conto terzi. Ma la realtà è un’illusione e la sua rappresentazione diventa autoreferenziale. Un nulla che rappresenta se stesso, privo di senso, insopportabile.
- Non è che sei stato tu a combinare questo casino? Magari per fare pubblicità al tuo libro? Perché, invece, non scrivi qualcosa di tuo? - Perché non ho nulla da dire. Non cambierebbe molto, alla fine. - Sarebbe più originale, almeno. - Pensi davvero che si possa scrivere qualcosa di nuovo? - In effetti ... Fatica sprecata? - Fatica sprecata. E poi a chi vuoi che interessi qualcosa di nuovo? Copiare è l’unica possibilità. Anche tu, non dici forse sempre le stesse cose? Sono millenni che voi preti ci leggete sempre lo stesso libro. Neanche lo sforzo di cambiare qualcosa: che ne so, il titolo o gli autori. Mistificare qualcosa, confondere le idee. Niente. Siete così ripetitivi e sempre uguali, e non potrebbe essere altrimenti ... - Dovremmo chiarirle le idee, non confonderle. - Allora perché bisogna interpretare i testi sacri? Capire le parabole? Ditele chiare e tonde le cose, no? Una volta per tutte. - Cerchiamo di far capire, non d’imporre qualcosa. - E com’è che non ci si capisce una cippa? Spiegatevi meglio. Poi se uno scrive su due colonne gli rompete le palle. - Ma falla finita. Io non sono quello che tu credi che io sia. - Se è per questo neanche io sono quello che credo di essere ma non facciamo confusione. È scorretto, soprattutto da parte tua. - Perché non scrivi un ebook? Almeno non sprechi la carta. - L’ebook è l’anticamera del nazismo. Si scarica a pagamento ma non puoi copiarlo in un altro lettore che non sia il tuo. Quindi non posso prestare un libro a nessuno, altrimenti è reato. La copia pirata è reato, prestare un libro è reato, chi non ha i soldi per comprare un libro non può leggere perché non gli si possono neanche prestare i libri. Un giorno la Finanza brucerà in piazza gli ebook pirata
sequestrati, come facevano i nazisti con i libri proibiti. Nazismo. La cultura deve essere libera e i libri io li presto a chi mi pare.
V
Gennaro McKeinze. Sul citofono era scritto così. Nome improbabile. L’unica casa in fondo alla salita, verso il cimitero. Una ex casa cantoniera ridipinta di viola cinabro con le imposte verdi. Tetto in pergolato. Aurelio suonò e il cancello si aprì all’istante, senza risposta. Entrò urlando “buongiorno”, venne solo un grosso Labrador marrone, si addentrò nella veranda, il cane gli si avventò addosso per lavargli la faccia con una lingua rasposa, i suoi occhi tondi erano la cosa più felice e bella che vedeva da tempo. Gli venne voglia di rapirlo e scappare via, ma riuscì a rimanere in piedi e si infilò oltre la porta di casa, che era socchiusa. Il cane non lo seguì. Si ritrovò in un salottino arredato da sedie di vimini e cuscini variopinti. Faceva un fresco gradevole, c’era un condizionatore silenzioso sulla parete più lontana. Era pieno di librerie, immense fino al soffitto, piene di volumi che erano stati letti, non erano lì per arredamento. La luce era poca, filtrata da pesanti tendaggi, abituatosi al cambio di luminosità scorse Gennaro che lo studiava di nascosto, seduto su una sedia in fondo, questi, vistosi riconosciuto, si alzò e gli venne incontro. Era un uomo di piccola taglia, carnagione pallida nordeuropea, capelli biondi corti e ben pettinati, occhiali con montatura impalpabile, camicia celeste con sottili righe bianche, pantaloni bianchi di lino, sandali infradito artigianali. Se non fosse stato per quelli l’avrebbe preso per un funzionario della Deutsche Bank, non l’artista che t’aspetti. L’abito non fa il monaco, le menti del Bauhaus non dovevano essere molto diversi nell’aspetto. Un artista non deve necessariamente avere un aspetto trasandato od estroverso, Gennaro sembrava una persona razionale e padrona di se. Per scolpire la Nostra Signora Elettrica ci volevano i nervi saldi, pensò Aurelio. - Buongiorno, Don Aurelio. L’aspettavo. Mi scuso per Tobia: socializza troppo e mantiene, inspiegabilmente, un atteggiamento molto infantile per la sua età. Ormai è vecchio e continua a comportarsi come un bambino. - Non gliene voglia. - Rispose Aurelio. - Sono in molti a fare così in età
avanzata: è un bene, in fondo. - Certo. Si preferisce l’illusione della gioia alla disperazione della realtà. Non dovrebbe esserci né l’una, né l’altra. Basterebbe annientarsi, come è naturale che sia. Difficile per gli uomini ma da un cane mi aspetto di più. Posso offrirle un caffè? Si accomodi, prego. Aurelio gli si sedette davanti. Erano separati da un tavolino di vimini dove erano ammucchiate, in geometria confusa, diverse pubblicazioni: National Geographic, Heidegger, Daredevil “La cupola”, Quattroruote, Tommaso d’Aquino “Le Opere”, Alessandro Bergonzoni “Le balene restino sedute”, e altro. - I dettagli risultano per contrasto. - Continuava Gennaro. - Anche gli errori grammaticali sono più visibili in una sintassi perfetta. - Scusi? - La vedo incuriosita dalle cose che sto leggendo, si chiederà il perché di letture così diverse. Ho bisogno di leggerle tutte assieme: mi interessano i dettagli, le crepe che emergono involontarie dalle superfici che vogliono essere coerenti e perfette. È lì che si rivela la verità. Contro la volontà. Bisogna stare attenti ma senza prendere niente sul serio. Rilassarsi. Pensare ad altro. Anche quando si è concentrati su qualcosa. Soprattutto quando si legge. Tanto più la lettura è impegnativa, direi. Leggere Schopenhauer pensando a Capitan America. Astrarre Tex secondo una visione gestaltica. - Certo, certo. La capisco. - Non era pronto. Non era preparato. Doveva mettersi sulla difensiva, anche se probabilmente era la cosa peggiore. - Naturalmente non mi riferivo al testo di Tommaso d’Aquino. - Sorrise Gennaro. - Non vorrei urtarla. È un ottimo testo. Meritevole. - Si figuri. Non sono così stupido da risentirmi, può considerare quel testo come vuole e non potrei controbattere: non l’ho nemmeno letto. - Non l’ha letto? - Gli occhi di Gennaro, piccoli, grigi e trasparenti, un Hasky praticamente, sgranarono leggermente. - Ha fatto bene: meglio lasciarsi proteggere dalla propria spontaneità. Si può correre il rischio di essere autentici. - Come Tobia?
- Sì, come Tobia. Ma ne vada orgoglioso: Tobia è un essere splendido, la massima evoluzione dei mammiferi quando capiscono che è arrivato il momento di fermarsi. Uno status stabile. L’impossibile fermo immagine della condizione ideale. Come il volo d’angelo del Martin Pescatore: un movimento talmente veloce che sembra una situazione di staticità. Un tramonto perfetto al cinema. Di un minuto. 24 frames al secondo per 140 immagini che danno la sensazione della felice quiete. Se non ci si annoia, se si è consapevoli che non c’è niente dopo, che è un’illusione e niente di più, allora si può sopravvivere. - Lei l’ha visto “l’Odio” di Kassowitz? - No, non mi pare. Dovrei? - Penso di no. È un bel film ma per me l’importante è che non l’abbia visto. Come si trova qui? Lavora tranquillo? - Sì. Non mi disturba nessuno: sono fortunato. Quando poi voglio uscire e socializzare il paese è a due i. Anche se mi capita sempre più raramente e me ne rimprovero: bisogna mantenere il contatto con la realtà e con gli altri altrimenti si rischia di sbagliare realtà, quale che sia. Si rimproverava come si fe i complimenti da solo, pensava Aurelio. - Quindi si ritiene felice così? - Felicità è una parola impegnativa, ed estremamente soggettiva. Dicendole che sono felice non le descriverei alcunché, sarebbe quasi impossibile non fraintendermi. Diciamo che sono soddisfatto. La soddisfazione è molto personale in quanto i propri bisogni non necessariamente coincidono con quelli degli altri, né debbono farlo. La vita è bella perché è varia e io sono un uomo fortunato. Grazie a Dio. - Abbozzò un sorriso più largo del primo. - Lei è in grazia di Dio. Si vede e la cosa mi felicita. - Può essere. Ma io non credo in Dio, non mi chieda troppo. Mi piace l’espressione “in grazia di Dio”: è così perdutamente poetica, musicale. È quasi un’espressione antiquata: col mutare dei tempi si sta perdendo l’eleganza di certe forme verbali... - Fece una pausa. - Mi perdoni: sto parlando come un vecchio trombone. Non sarà mica venuto a portarmi il verbo del Signore, caro Aurelio? Sorrise ancora, con grazia.
- Dio me ne scampi. Gennaro rise di gusto. - Lei è un bel tipo, mi piace. Non si prende troppo sul serio e questa è una dote preziosa e rara. - Prese un biscotto e lo masticò nel più assoluto silenzio. Nel mentre ò l’ombrellaio, ma non c’erano donne con ombrelli rotti e coltelli da affilare nei paraggi. Da affilare c’era la capacità di persuasione di Aurelio, completamente spuntata, concava. Avrebbe voluto chiamarlo lui l’ombrellaio: magari avrebbe convinto Gennaro. L’artista adesso era assolutamente serio, con gli occhi di ghiaccio. - So perché è venuto, Erminio mi ha già riferito. - La voce era profonda e accondiscendente. La voce di un prete. Aurelio pensò che gli avrebbe fatto comodo avere una voce così. - Ma la mia risposta è no. Decisamente no. Silenzio. Forte e pesante. L’ombrellaio era andato via. Nessuno si intrometteva in quel silenzio denso, d’inchiostro. I due uomini si fissavano, uno con uno sguardo trasparente, di cristallo, con velature e trasparenze in cui vedere tutto e nulla, l’altro con lo sguardo di un vuoto diverso, come si fosse appena svegliato. - Posso chiederle il motivo? Proprio non vuole aiutarci? Vuole lasciare senza statua i fedeli? Lo so che può sembrarle stupido, ma la gente ha bisogno delle sue immagini, delle sue icone. Gli da un senso di sicurezza, di appartenenza, gli fa bene. - Capisco. Ma mi permetto di essere egoista e non ipocrita. Non è bello tirarsi fuori ma a volte è l’unica possibilità per non mentire. - Porse un sigaro ad Aurelio e se ne riaccese uno che stava spento sul bordo del portacenere sul tavolino. L’altro lo ringraziò e accese il suo. Il sapore del sigaro gli riempì il palato, morbido e pastoso. - Posso chiederle di spiegarmi? - Certo. Mi vede lì? In alto, accanto alla litografia del mio caro amico Valcareggi? Indicò la parete accanto al caminetto. Quattro oggetti appesi in fila. Da destra: un paesaggio marino, tramonto rosso infuocato. Una tela densa e materica, del sapore della roccia e dei fossili. La litografia del Valcareggi, leggera, sottile, delicata, amara, un pigmento freddo ed amorevole come una Bic delle scuole medie. Infine la foto indicata: un tizio in bermuda hawaiana, maglietta dei Metallica, capelli lunghi color di paglia, pelle rosso gambero bruciata dal sole,
espressione dura e rabbiosa, come gli avessero appena rubato la chitarra. Poteva essere il chitarrista di un gruppo basco indipendentista, con brame terroriste, o un camionista australiano neonazista. In entrambi i casi sembrava avere le idee confuse. Ma era lui, era proprio Gennaro McKeinze. Vent’anni prima, più o meno. - Sì, ero proprio io, tanto tempo fa, quando arrivai in paese. Ero arrabbiato e avevo bisogno di soldi, mi arrangiavo dipingendo paesaggi e ritratti, ho una buona tecnica di base e i lavori piacquero, tanto da vendere con continuità e potermi permettere una stanza in affitto, pasti regolari, la simpatia della gente. Era tutto quello di cui avevo bisogno. Diventai l’artista locale, quasi un’attrazione turistica. La cosa era abbastanza buffa ma li lasciai fare perché avevo bisogno d’affetto e di sostentamento. Un giorno sentirono il bisogno di far andare d’accordo comunisti e cattolici, all’epoca si litigava per quello come oggi si litiga per il calcio, ogni tempo ha i suoi miti. Decisero che ci voleva una paccottiglia iconica che desse sicurezza ad entrambi e che li avvicinasse, come quando gioca la nazionale. Il commissario Poletti Spada venne a propormi il lavoro. Propormi. Era scontato che accettassi: ero l’artista di paese, anzi l’artigiano, non mi davo grandi arie. Non volevo certo attirarmi antipatie rifiutando quel lavoro, e non avevo motivo di rifiutarlo: era lavoro, soldi. E mi sarei fatto voler ancora più bene. - Perché venne il commissario? Perché non il parroco? Oppure il sindaco? - Giusto. Ma erano entrambi contrari. Cioè, lo volevano entrambi ma dovevano essere contrari: per ruolo istituzionale. Il sindaco doveva rimanere comunista, troppo comunista per occuparsi di una statua religiosa. Il parroco doveva rimanere cattolico, troppo cattolico per permettere al mito del progresso elettrico di entrare in chiesa. Questa è politica. L’idea fu del commissario e lui la portò avanti fino in fondo, anche lui per ruolo istituzionale: doveva mantenere l’ordine pubblico. Ma il parroco e il sindaco lo ringraziarono assai: fece loro un favore non da poco. È un brava persona Poletti Spada, pragmatico e intelligente. Feci quella statua con un sentimento religioso prossimo alla zero e senza nessuna fiducia nel sol dell’avvenire. Senza nessun interesse per il “significato” dell’opera d’arte: non era un’opera d’arte. Lo ripeto: ero un artigiano, erano solo soldi che guadagnavo onestamente, e non era poco. Mi dava soddisfazione verificare la buona prova della mia tecnica plastica, certo, ma della Madonna dell’Elettricità non me ne poteva fregare di meno.
- E non potrebbe farne un’altra con lo stesso spirito, per così dire? - Impossibile. Per una serie di motivi. Primo: la tecnica mi è andata a noia. Non mi interessa evolvermi, mi sono evoluto abbastanza, anche troppo, anche di più. Secondo: non sono uno scultore, non lo sono mai stato. Sono un pittore. Accettai quel lavoro per i motivi che le ho detto e per una sfida con me stesso: volevo dimostrarmi, esagerando, di essere capace anche come scultore, senza averne le basi, le conoscenze specifiche. Quella scultura fu assai apprezzata ma era una fetecchia. Brutta e sconclusionata, peggio di quanto avrebbe potuto fare un qualsiasi studente di primo anno del corso di scultura all’Accademia di Belle Arti. Sono contento che sia andata in frantumi. - Non è che è stato lei, no? Comunque per me era bellissima. - De gustibus ... ma si fidi: successivamente ho avuto modo di studiare ed approfondire il concetto di “scultura” e mi sono reso conto che quella roba non c’entrava niente. Non offenda il suo gusto estetico: era brutta, improponibile. Si fidi. Per fare cose credibili ci vuole studio, disciplina, abnegazione, tattica. Non si inventa niente di nuovo ma bisogna rimescolare le cose con criterio e coerenza. Mi ripugna usare queste parole ma si rende necessario: ci vuole un progetto, un percorso, una ricerca. Insomma, tutti quei termini da cruciverba che trova nelle recensioni dei critici d’arte. - Non posso proprio convincerla? Corromperla? Lo so che adesso è un artista affermato, che non ha bisogno di soldi. Ma per gola? Una cassa di sigari cubani? Vini californiani? Tele di lino fatte a mano da artigiani toscani? La raccolta completa di Playboy dal 1970 al 1982? Una mostra alle scuderie del Quirinale? Sorrise Aurelio. Anche Gennaro, sinceramente divertito. - Lei è proprio un bel tipo. Accetterei solo perché mi è simpatico. Ma non mi è possibile, come le ho detto, per sincerità con me e con gli altri, per non prendere in giro nessuno. Ora ho la mia visione delle cose, quelle parolacce che le dicevo, e la esprimo con la pittura. Non posso più lavorare come allora. - E se ne fe una diversa, coerente con la sua poetica attuale? - Beh, allora ce l’ha già in chiesa. - Sorrise pacato.- È già al suo posto: Il vuoto. Il nulla. L’immagine, la rappresentazione nei tempi moderni: il nulla vestito di niente. Solo così potrei rifare Nostra Signora Elettrica: non facendola. Anzi, l’ho
già fatta. Le mando la fattura? - Le sue tele sono così? Vuote? - No. Ma le ripeto: non sono uno scultore. Le mie tele occorrono di un lungo discorso che magari l’annoierebbe. - Non credo. Mi piace parlare con lei. Ma adesso ho molte cose da fare e devo andare, se le fa piacere tornerò a trovarla e l’ascolterò volentieri. Mi piacerebbe vederle queste tele. Non ne ha qui in soggiorno? - No, mi distraggono. Sono tutte al piano di sotto, nello studio. - Si alzò e tese la mano sorridente e cordiale, come un impiegato della Deutsche Bank spiacente di non aver potuto concedere un mutuo. - Ma torni. Mi farebbe davvero piacere. Lei è un buon ascoltatore, d’altronde con il lavoro che fa non potrebbe essere altrimenti. Aurelio gli strinse la mano non sapendo se sentirsi offeso da quest’ultima affermazione ma Gennaro McKeinze gli stava simpatico e non gli importava granché se lo trattava male. - Non se ne esce. - Concluse come una supplica. - Non se ne esce. - Sorrise Gennaro. Mentre usciva l’altro lo richiamò un’ultima volta: - Mi scusi per la piccola bugia. “L’odio” l’ho visto ma non deve preoccuparsi: io sono dalla sua parte. Tobia l’accompagnò fino al paese e poi tornò indietro, salutandolo con uno sguardo meraviglioso, poi scomparve sulla strada del ritorno a casa. Aurelio avrebbe voluto ancora un altro po’ della sua compagnia. L’aria era calda e umida, odore di gomme bruciate veniva dal campo nomadi e lo stomaco gli si piegava dentro con un dolore sottile. C’era molto da lavorare.
VI
All’entrata del paese c’era la piazza principale, con una grande fontana di granito antico, al centro della vasca un tritone dalla faccia severa sparpagliava acqua.
Con veemenza nei giorni di festa, nei giorni normali con discrezione, fino a diventare muto ed asciutto nei giorni trascurabili. La piazza era a circa cinquecento metri dalla chiesa di Don Aurelio. Il municipio, l’alimentari dei fratelli Sezzi e dirimpetto il Bar Farina, le panchine tutt’attorno alla fontana. Aurelio ci veniva spesso a sedersi, per ascoltare lo zampillio dell’acqua che, a prescindere dalla pressione, lo rilassava e gli permetteva di pensare a ruota libera. Stava aspettando il commissario Poletti Spada. Se gli aveva dato appuntamento lì voleva parlargli in maniera informale, altrimenti lo avrebbe convocato in commissariato, quindi poteva sentirsi tranquillo. La Zia Pinuccia gli si sedette accanto, non l’aveva sentita arrivare, quasi dal nulla la sua massa scura era apparsa accanto a lui. Quella era la prova del fuoco: sicuramente lei sapeva già, lei sapeva sempre tutto. La Zia Pinuccia, ultraottantenne, tonda e rugosa nei suoi abiti scuri, era la fedele più devota della parrocchia, non si perdeva una funzione. Quando Aurelio arrivò in paese, sarebbe stata comprensibile una certa diffidenza da parte sua, abituata al vecchio parroco da trent’anni, invece l’aveva accettato subito dimostrando un’elasticità mentale insospettabile per una persona della sua età e del suo carattere. Forse la sua era una fede incrollabile nella divina provvidenza più che nelle persone: il Signore non poteva che mandargli un buon parroco. Perché avrebbe dovuto punirla con un cretino se lei era sempre stata una fedele devota? - Buona giornata, Zia Pinuccia. Come va? Lei rimase in silenzio. Un assoluto silenzio che più durava e più faceva rumore. Le sue rughe erano di pietra, inavvicinabili. Non aveva problemi di udito, anche considerando l’età ci sentiva benissimo. Non aveva risposto e basta. Aurelio decise di non pensarci e si riconcentrò sugli zampilli del tritone. Guardò l’orologio: le 9.35. Poletti Spada era in ritardo, sarebbe stato felice se avesse potuto approfittare ancora di qualche attimo di quiete, ma non poteva più con la Zia Pinuccia seduta accanto. Era intontito con lo sguardo fisso sulle lancette dell’orologio del municipio che riflettevano la luce del sole come due lame affilate. Erano ati dodici minuti di fragoroso silenzio, fu allora che lei profferì: - Sciagura a voi. - Come? Scusi? - Sciagura a voi, Don Aurelio. Lo sapevo che non avreste portato niente di
buono. - Ho fatto qualcosa che l’ha turbata? - Non mi prenda in giro, sa benissimo di cosa sto parlando. La Nostra Signora Elettrica è crollato giù. Per colpa sua, mio caro. Dovrebbe avere almeno il buon senso di chiedere scusa, raccogliere le sue cose e andarsene via. Lontano e per sempre. - Non ho potuto fare niente per evitare l’accaduto. Ho trovato la statua di Nostra Signora Elettrica in mille pezzi l’altra mattina. Qualcuno deve essere entrato in chiesa di notte e ha commesso l’atto di vandalismo senza che me ne accorgessi. Il commissario Poletti Spada sta indagando e ho grande fiducia in lui. Sono sicuro che riuscirà a trovare i colpevoli. Se pensa che sia stata una mia negligenza a provocare l’accaduto non è così, signora. È un fatto inconcepibile che non mi sarei mai aspettato, non avevo motivi di prendere particolari misure di sicurezze. - Non c’è nessun colpevole da cercare. Quell’imbecille di Poletti Spada non troverà nessuno perché non c’è nessuno da trovare. Quello che è successo è giustizia divina. Nostra Signora Elettrica non ce l’ha fatta a sopportare la tua presenza e se n’è andata. Tutto qui. Non si può affidare compiti delicati a giovani incapaci. Forse la colpa è del vescovo che t’ha mandato qui. Sta di fatto che tu qui non c’entri niente e Nostra Signora Elettrica non ha retto, è andata in frantumi. - Mi dispiace che la pensi così. Speravo di essermi guadagnato un po’ della sua fiducia, presuntuosamente. Le chiedo scusa. - Non devi chiedermi scusa se sei un imbecille. E non mi sei mai piaciuto, ti stavo solo studiando. Magari porti solo scalogna. Devi solo sparire. Andare a fare danno da un’altra parte. Fatti vedere da un esorcista, ma bravo, non come te. Si alzò lentamente, col fruscio di vetro dei suoi abiti millenari, s’incammino e prese la via: un punto nero sempre più piccolo in fondo alla strada, stridulo ed acuminato. L’avrebbe uccisa. Le ò accanto la figura, meravigliosa gli parve per la prima volta, del commissario Poletti Spada. Se mezz’ora prima lo attendeva con preoccupazione, ora lo vedeva come gli americani che entrano a Roma: libertà, speranza e
modernità. Un poliziotto cinquantenne pseudofascista. Riempì l’ombra maligna lasciata sulla panchina dalla Zia Pinuccia. Portava un completo beige, aveva la barba appena fatta e l’odore fresco dell’acqua di colonia. Era un atto di purificazione: quello era un brav’uomo e Aurelio gliene era riconoscente. Si accese una sigaretta. - Come va? - Potrebbe andare meglio. - Capisco. Ho visto Zia Pinuccia, le hai parlato? Abituatici: su di te si è abbattuta una fathma paesana e io, con tutti i poteri conferitemi dalla legge, non posso fare niente per proteggerti. - Bene. Mi rincuora. - L’ancestrale vince sul giuridico. L’uomo è figlio dei propri geni atavici prima che dei decreti legislativi. - Detto da te mi rassicura. Lo sai che il fumo fa male? - Non cominciamo a rompere i coglioni. - Ho letto che in una città dell’Australia hanno vietato il consumo di tabacco a tutti i nati dopo il 2000. - Che stronzata. È vietato fumare ai minorenni in tutto il mondo, che io sappia. - Non hai capito. Chi è nato dopo il 2000 non potrà fumare neanche quando sarà maggiorenne, per tutta la vita? - Fammi capire, fra qualche anno chi ha quarant’anni, in quella strana città, potrà fumare in faccia a chi ne ha diciannove e quell’altro no? E se si accende una sigaretta commette reato? Lui sì e il quarantenne no? Reato in base all’età anche se tutti maggiorenni? A scaglioni come la pensione? Casomai i giovani li si dovrebbe aiutare, non provocare. Quanti anni ha il cretino che ha fatto questa legge? - Lo fanno come opera di dissuasione, come deterrente. Come le armi nucleari. Non è che vogliono bombardare, lo fanno per mettere paura.
- E se poi questo tizio nato nel 2000 quando sarà maggiorenne s’accende una sigaretta? E continua a fumare anche se i vigili cercano di impedirglielo? Che succede? Lo mandano in galera? - Non lo so. - Bene. Mettiamo che, secondo logica, chi commette un reato ed è recidivo debba andare in galera. Quindi tanti nuovi amici, magari detenuti per omicidio, strage, truffa, che l’aiuteranno a smettere di fumare. Magari gli insegneranno attività più divertenti, oppure lo sodomizzeranno soltanto. Niente male. Chi si fa una canna, che fanno? Lo gasano? - Non esagerare. Non penso che si possa andare in galera per così poco. Magari gli fanno solo una multa. - Allora tutto torna. È come da noi. È come è sempre stato. - Cioè? - Si crea profitto di Stato su un’abitudine che l’uomo ha sempre avuto, dalla notte dei tempi. È una fathma come quella della Zia Pinuccia. Le tasse su un pacchetto di sigarette già ci sono, poi pure la multa. Chi ha i soldi se ne sbatte, tanto neanche si accorge di quanto spende e le multe neanche le paga perché in genere o è residente all’estero, ha tutto intestato alla moglie o e si è costituito come Società a Responsabilità Limitata. Chi è un poveraccio paga di più per fumare, s’incazza e fuma di più. E spende di più. Il solito circolo vizioso. - Non mi aspettavo questa tua presa di posizione. Un commissario di Polizia che fa discorsi strani, quasi irriverenti. - Sorrise ironico Aurelio. - Se fosse un’occasione pubblica, se le mie opinioni fossero richieste in forma ufficiale, direi solo di ripensare a cosa successe col proibizionismo negli Stati Uniti. Tutti bevevano di più e la criminalità organizzata faceva affari d’oro. Questo le permise di aumentare il volume di affari e rafforzare le altre attività illegali, come la prostituzione, l’usura e via dicendo. Come tutore della legge mi interessa, quindi, che non vengano prese iniziative che possano contribuire a rafforzare la criminalità organizzata. Ecco cosa direi. - Ma il fumo fa male.
- Ti riferisci alle emissioni di carbonio? Ai veleni che sprigioniamo tutti i giorni nell’aria? Fanno male, molto male. Quindi chiudiamo le fabbriche e vietiamo le automobili. Ma le industrie, i produttori di automobili, quelli di petrolio, si incazzerebbero assai e i governanti non possono certo renderseli nemici. Fortunatamente le multinazionali del tabacco sono ancora abbastanza forti e non succederà niente di particolare. È la solita bufala giornalistica, anche se è vera. Ogni tanto una bugia deve divenire realtà affinché la realtà possa rimanere credibile. - Come vanno le indagini? - Nulla di nuovo. Sto raccogliendo una lista di sospettati ma non ho elementi per incriminare nessuno. Tu che mi dici? - C’è una porticina, dietro San Giovanni, nella navata di centro a destra, che era aperta. Probabilmente sono ati di lì. Non ne sapevo niente, me l’ha fatta notare Erminio ieri. - Non sapevi della botola della zingara? Ma da dove vieni? - Non lo so neanche io. Lui rise. - Hai parlato col vescovo? Non l’aveva ancora fatto. Doveva farlo purtroppo. - Non ancora. Prenderò un appuntamento con lui. Ho parlato con Gennaro McKeinze, però. Non ne vuole sapere. - Me l’aspettavo. Ormai si crede un grande artista. - Ne troverò un altro. Ho un lista di artisti locali. - Mentì - Andrò a cercarli. - Ti vengo a trovare per questa storia della botola della zingara. Ci si vede. Si alzò, accendendosi un’altra sigaretta. Magari era un anarchico, anche pericoloso. Prese la sua strada e scomparve in fondo alla via. Il vescovo, grande, nero e medievale. Quel pensiero atterriva Aurelio: sapeva di dovergli andare a rendere conto. Una cornacchia urlò e lo fece sentire stupido.
VII
Erminio percorse il breve tratto che separava la sua abitazione, un amorevole casale di campagna, dal campo nomadi insediato sotto il cavalcavia dell’autostrada. Su una superficie di circa ottocento metri quadri stavano ammassate roulotte, salottini all’aperto, lavanderie improvvisate, sciami di ragazzini urlanti, Mercedes di vari modelli, polli, cani e anche un tapiro. Il classico campo nomadi caotico, non troppo pulito, vociante, vivo. Il capo era Mirko, un omone grosso e peloso, con folti baffi grigi e zazzera impomatata. L’imbiancarsi di baffi e capelli era importante: altrimenti si poteva scambiarlo per un ventenne, invece era un uomo fatto e saggio, a modo suo. Un capo. Intelligente e carismatico. E non aveva la forza di un ventenne, ma quella di un toro, anche due. Erminio si era messo il completo mimetico, non lo usava per cacciare ma per andare ad osservare gli animali, che adorava e a cui non avrebbe mai fatto del male. Lo metteva anche quando doveva fare lavori pesanti. E quando era arrabbiato. Aveva anche la sua sacca di iuta dove teneva quaderno, penne e matite. Quella mattina era arrabbiato. Molto. L’espressione non era la solita, lontana e un po’ intontita: era rossastro, quasi cinabro, in mano portava il falcetto per tagliare l’erba. Andò dritto alla roulotte di Mirko che conosceva bene, e più che bussare tirò un paio di pugni alla porta di lamiera. Senza aspettare quasi niente “bussò” altre tre volte. Una voce femminile urlò qualcosa in una lingua che lui non conosceva e la porta si aprì. Una giovane di circa trent’anni, molto bella, lo squadrò con sorpresa, cambiò espressione dal familiare/incazzato al diffidente/sorpreso. - Tu chi sei? Che vuoi? - Mjra, sono Erminio, ci siamo visti mille volte. Chiamami Mirko: devo parlargli. - Rispose lui con un ringhio. - Tu non chiedi per favore a casa tua? - A casa mia. Non sono a casa mia, e neanche tu. Lei si allontanò all’interno, salutandolo: - ‘fanculo!
Un paio di urla sue e di una voce maschile impastata dal sonno e Mirko emerse dal buio, riempiendo tutta la porticina con la sua sagoma massiccia. Indossava un paio di pantaloncini da footing senza tasche color magenta, ciabatte infradito, torso nudo e sudato, anche l’adipe che gli avvolgeva la pancia pareva scolpito nel marmo. - Erminio, amico mio! Come mai così presto? Come stai? Vuoi un bicchiere di vodka? - Sono le undici del mattino, non è presto. E se è presto non si beve vodka. Fa male. Mirko mise a fuoco lo sguardo, fissando Erminio ebbe la consapevolezza di qualcosa che già sapeva. Sapeva cosa voleva Erminio ma non smise di sorridere, si fece meno euforico e più comprensivo, condiscendente. Poteva sembrare un prete, ortodosso magari. Uscì dalla roulotte e fece cenno ad Erminio di seguirlo. - Andiamo, facciamo una eggiata. Scusa se ti ho offerto vodka: per me un ospite è sacro ma ho finito il caffè, Mjra deve ancora andare a fare spesa. - Uno sguardo veloce al falcetto in mano di Erminio. - Cosa ci fai con il falcetto? Vuoi aiutarmi per il campo da calcio dei ragazzi? Mirko sapeva e vedeva tutto. Erminio virò il suo rossore da furioso a vergogna e mise il falcetto nella sacca di iuta. La rabbia stava scemando, aumentava l’impaccio e l’incapacità di esprimersi correttamente. Aveva molte parole in testa, pieno di rabbia le avrebbe sparate a raffica, anche quelle giuste, ma adesso, sbollito e un po’ smarrito, cercava di trovare solo quelle giuste ed era difficile. Perché Mirko gli faceva sempre quell’effetto? - Stavo sistemando l’orto, non m’ero accorto di averlo ancora tra le mani. Comunque non ti aiuto per i tuoi piccoli criminali. - Nostri ragazzi no criminali. Bimbi tutti uguali, come i vostri. Solo nostri più forti, allora io gli faccio campo da calcio, così si sfogano. - Altrimenti rubano autoradio. Fai bene. - Ormai autoradio non compra più nessuno. Tutti su Deezer. Insomma Erminio, oggi non sei gentile: vuoi litigare subito? Almeno mi dici perché?
- Lo sai, lo sai! Ma te lo dico lo stesso, ancora una volta! Mi avete rotto con questi copertoni bruciati! Mi arriva in casa una puzza insopportabile! Dovete farla finita! Tra l’altro è vietato bruciare copertoni da un’ordinanza del sindaco, se sai cos’è un’ordinanza. - Ancora questa storia dei copertoni! - Gli occhi di Mirko si fecero tondi e rossi, forse stava perdendo la pazienza. Non sarebbe stata una cosa buona per Erminio. - Noi non bruciamo copertoni. Non bruciamo legna. Non bruciamo plastica. Non bruciamo bambini. Lo vuoi capire? Io in casa ho condizionatore Daikin 9000 Bto, freddo d’estate e caldo d’inverno. Il migliore. Mjra quasi non suda più quando facciamo l’amore, allora io devo spegnere condizionatore! - 9000 Bto. Doppio inverter? - Triplo. - Non esistono con triplo inverter. - Io ce l’ho. Vieni a vedere? - Tutta quella puzza la fate voi. - Non facciamo nessuna puzza. Noi ci puliamo, puliamo le case e i nostri animali. - Ma se è tutto un casino qui. - Casino? Casa tua è casino! Qui tutto va bene. Qui tutti mangiano, si divertono e scopano. Tua casa è uguale? Fai conoscere tua donna a me? Erminio accusò il colpo. La voce gli si abbassò ancora. - Non ho una relazione fissa. - Allora solo una delle tante. Fammene conoscere una sola, magari gli piaccio. Ti dispiace se la scopo anche io? Tanto per te una in più o una in meno ... - ‘fanculo Mirko! - Quando o davanti casa tua faccio piano perché sento sempre silenzio e
credo che dormi. Sono gentile. Ma sei sicuro che dormi? Perché se invece sei sveglio io non sento voci, non sento rumori, non sento musica, non sento niente. Sei sicuro che ti diverti? - ‘fanculo Mirko. Senza che se ne accorgesse, Mirko gli aveva fatto fare tutto il giro del campo, per fargli controllare che non c’era niente che bruciava, e l’aveva riaccompagnato all’uscita. Un gesto chiaro ed inequivocabile. - Bene. Io vado, Mirko. - Sussurrò ormai senza forza. - Buona giornata, Erminio. Scusami per il caffè. Ma torna a trovarmi, magari con un bel sorriso. - Ok. Buona giornata a te. S’incamminò. Dopo una manciata di i Mirko lo richiamò: - Con un bel sorriso, altrimenti ‘fanculo! - E rise fragoroso. Erminio non rispose, riprese il suo cammino alzando il dito medio. Lentamente, molto lentamente, tornò a casa. Continuava a sentire odore di plastica bruciata. Nella testa. Nei pensieri che gli friggevano. Dov’era la plastica bruciata? Decise che il giorno dopo sarebbe andato in città a comprarsi un paio di pantaloni gialli.
VIII
Mirko si era messo il vestito buono. Era domenica mattina, faceva un caldo cane, per strada tanta polvere e nessuno in giro. Camminò spedito per tutto il tragitto dal campo nomadi alla chiesa sforzandosi di non dare segni di sofferenza. E ci riusciva: solo un piccolo rivolo di sudore gli scendeva lungo la schiena, partendo da sotto il colletto della camicia bianca a righine celesti che gli aveva regalato Mjra per il compleanno. Quando entrò in chiesa, fresca e confortante, c’erano una decina di persone sparse tra i banchi, la funzione era già iniziata e la voce di Don Aurelio era candida e confortevole come sempre. Nella seconda nicchia della navata destra vide che mancava una statua ma non gli diede importanza:
aveva cose più serie a cui pensare e continuava a pensarci. Doveva essere chiaro e deciso, doveva farsi capire e, soprattutto, doveva capire. Mentre aspettava cercava di concentrarsi su quello che diceva Don Aurelio ma le parole gli sfuggivano di continuo. Doveva continuare a pensare al suo problema o concentrarsi sulla funzione? Non lo sapeva. Era indeciso e si rimproverava di esserlo: aveva deciso di essere deciso. Comunque fece la comunione, come tutte le domeniche. Finita la messa andò a confessarsi, dovette aspettare buoni quaranta minuti che una vecchia prima di lui finisse, gli parve la Zia Pinuccia, quella che cercava di fargli il malocchio da quattro anni senza riuscirci. Quando lei si alzò e andò via, andogli accanto, gli rivolse un’occhiata affilata e gialla, lui si strinse le palle dalla tasca dei pantaloni, tanto da farsi male, poi si inginocchio al confessionale come un toro che, mansueto, si lascia portare nella stalla. - Buongiorno, Don Aurelio. Come stai? È una bella giornata almeno nella casa di Dio? - Potrebbe essere migliore. Confessa i tuoi peccati, figliolo. - Chiedo perdono perché odio un uomo. E questo non è giusto, padre. - Hai manifestato il tuo odio? Ti sei lasciato andare a gesti d’ira nei suoi confronti? - No. Sono stato gentile con lui. Ma mi conosco: so che basta poco a farmi perdere la pazienza. Basterà solo qualche altra sua parola per farmi cadere nel buio della ragione. E commetterò atti di cui mi pentirò. Irrimediabili. Per lui e per me che ho famiglia e responsabilità. È stupido rovinare quanto di bello si ha per la debolezza dell’istinto lasciandosi andare alla rabbia. M’hai riconosciuto. Vero, Aurelio? - Certo, Mirko. Ti ho riconosciuto subito. E, se permetti, ancora non capisco perché mi parli così compiutamente, in maniera forbita direi, solo in confessionale. In mezzo alla gente invece parli come un buzzurro. Perché, Mirko? Hai paura di apparire come quello che sei, una persona intelligente e colta? - No, no. In pubblico devo apparire come la gente si aspetta che sia un capo nomadi. La vostra gente e la mia gente. Se mi mostrassi come dici tu, la tua gente avrebbe paura di me, ma in maniera diversa da come l’ha adesso. Questo è
pericoloso. Poi non è detto che sia meglio non parlare come un nomade. A che servono tutti questi articoli, queste proposizioni, queste congiunzioni? Se ci si capisce anche senza è meglio la sintesi. La sintesi è un pregio, non un difetto. Ma torniamo a noi, Aurelio. Che devo fare per non odiare quell’uomo? - Ti ha recato una grande offesa? - La solita. A me e alla mia gente. I soliti pregiudizi. È convinto che noi si faccia cose assurde che, invece, accadono solo nella sua testa. Un po’ mi fa pena, so che non sta bene. Come tutti si sfoga con un po’ di sano razzismo. Lo so da una vita ma non riesco ancora ad abituarmici. - Perdonalo. E stagli lontano. Il razzismo nasce dall’ignoranza e tu sei troppo intelligente. Conosci troppo la vita per rovinarti a causa di così miseri individui. Se proprio vuoi rovinarti, fallo per un motivo più serio. - Capisco, Aurelio. Le tue parole mi confortano e mi danno forza. Mi sento già meglio e mi viene da sorridere a pensare a quel povero scemo. Un’ultima cosa che non c’entra niente: L’altro giorno leggevo San Tommaso D’Aquino: dice delle cose bellissime! Tu che ne pensi? San Tommaso. Aurelio non aveva mai letto San Tommaso. - Ego te absolvo in nomine pater et filii et spiritus sanctis amen. - Vado, vado, Aurelio. Vedo che hai da fare. Buona giornata e grazie ancora. Mirko tornò al campo nomadi a o spedito, non sentiva più il caldo come all’andata anche se l’aria s’era fatta più umida e la temperatura era salita. Non pensava più ad Erminio e alle sue follie di gomme bruciate, pensava solo al campetto da calcio che stava facendo per i ragazzi. Pensava che gli faceva sempre bene parlare con Don Aurelio: era un brav’uomo quel prete. Anche Mirko era un brav’uomo e stava recitando tre Pater Noster che l’altro si era dimenticato di prescriverglieli. Don Aurelio era nella sua stanza in canonica, aveva il computer e stava cercando su Amazon i testi migliori di e su San Tommaso d’Aquino, al quindici per cento di sconto e disponibili immediatamente. Non trovava pace.
IX
- Non è possibile. Non esistono tripli inverter. - Ti dico che l’ho visto in vendita su internet. - Ok, ci saranno pure. Ma tu ci credi a questi zingari col triplo inverter? - Che fai, il razzista? Perché no? - L’acqua calda. Gli basterebbe l’acqua calda per fare un o avanti. Sai quante ne raccontano, no? - Sono figli delle loro condizioni. Certo che un figlio d’avvocato non ha bisogno di bruciare copertoni per scaldarsi. - Sì, vabbè ... La solita carità cristiana del cazzo. - Contro il razzismo. Sono contro il razzismo. Il commissario Poletti Spada aveva preso la Statale che porta in città. Avanzavano a velocità di crociera. Era ato a prendere Aurelio per fare un giro di perlustrazione. Si fermarono al terzo cavalcavia, scesero e si avviarono all’entrata dell’autodemolitore più grande della zona. Un omone grosso e nero gli si fece incontro. Chiesero di parlare col titolare. Era lui. Il commissario gli mostrò il distintivo e chiese: - Sono venuti nomadi da lei a comprare copertoni usati, ultimamente? - Comprare? Non credo che quelli siano abituati a comprare. Comunque no, copertoni no. Sono venuti l’altra settimana a comprare un paio di pezzi e di notte m’hanno rubato mezzo deposito, ma copertoni no. - Perché non ha sporto denuncia? - Che la faccio a fare la denuncia? Quand’è l’ultima volta che avete arrestato un nomade che ruba pezzi di ricambio? Non siete troppo occupati con altre cose? Io sapevo così. M’avevate fatto capire così l’ultima volta che sono venuto in
commissariato. - Se ha le prove li arrestiamo. È sicuro che siano stati i nomadi? - Sicuro. - Li ha visti? - No. Dormivo. - Allora come fa a dire che sono stati loro? - Non mi risulta che ci sia altra gente interessata ai miei articoli. A gratis, almeno. Potrebbe anche essere, ma questo dovreste saperlo voi, non chiederlo a me. - E se scoprissimo che sono stati degli italiani? - Bene. Per quel che me ne importa. Sarebbe già tanto che cominciaste a fare il vostro mestiere. Invece mi pare stiate diventato curiosi. È venuto a farmi la predica contro il razzismo? Mi invita ad essere più buono? Alla carità cristiana? S’è portato pure in prete appresso: buona novella o santa inquisizione? - Se continua a prendermi per il culo la porto con me in commissariato, vuole? - Si figuri. Dicevo solo che nessun nomade è venuto a comprare pneumatici usati. Questo voleva sapere, no? Oppure voleva sapere se subisco dei furti? Quelli sì. E, come le ho detto, non ho visto i responsabili. Ma mi manca un sacco di roba. Le pare giusto? Non dovreste essere voi a trovare chi è stato? Se ve lo dico io è troppo facile. C’è un sacco di gente che gira qui intorno come le api al miele, ogni tanto viene qualche cretino che vuole anche fare delle foto, dice per scopi artistici. Come no? Così poi hanno tutti i pezzi catalogati e, di notte, quando entrano, vanno a colpo sicuro, senza perdere tempo. Sono costretto a nasconderli i pezzi migliori per non farmeli rubare. Altro che foto artistiche: pubblicità! La migliore mercanzia disponibile per il furto! Venite tutti stanotte! Certo! Cornuto e mazziato. Babbeo nel nome dell’arte. Ma andate a dare via il culo, per favore! - Ma è sicuro? Se ha sospetti venga in commissariato a spiegarci che indagheremo.
- Ma che vi indagate che, prima di muovervi, aspettate che ci scappa il morto! Volete sapere chi era questo cretino delle foto? Si chiama Gennaro McKeinze, abita sulla strada che porta al cimitero. Che fate adesso? Lo arrestate? - Ma quello è un artista. - Rispose Aurelio, sorpreso. - Con le foto ci fa i quadri. È vero! - E chi se ne fotte! Perché, un artista non può essere un ladro? Per me artista significa nessuna voglia di lavorare, quindi se è vivo vuol dire che ruba. A spaccare le pietre li manderei! - Vabbè, non esageriamo ... - Riprese Poletti Spada. - Se qualcuno gli compra i quadri, anche se a lei magari non piacciono, è un lavoro anche quello, no? Ci saranno persone oneste anche fra gli artisti ... - Può essere. Ma io vedo le cose dalla mia posizione: difficilmente incontro gente onesta. Quindi potete andare, come le dicevo, a farvi benedire tutti: artisti, ladri, poliziotti, preti e rompicoglioni vari... Vorrei restare solo per almeno millecinquecento anni, se possibile. E ora, se non le spiace, ho da demolire. Scomparve dentro il capannone. Tutt’intorno un cimitero di ruggine e lamiera, un enorme prato di vetri rotti e ferraglia sparsa. Il silenzio e qualche cornacchia soltanto. - Aurelio, anche questo è un cimitero. Come quelli che frequenti tu. Il cimitero della tecnica. Dove va a morire l’idea dell’uomo di essere il migliore. Le sue mire di grandezza, il sogno di sostituirsi a Dio nel ruolo di artefice del tutto. Tutto viene e morire qui, tra ruggine e vetri rotti. Nel nulla. Potresti darla anche qui una benedizione? Tanto è uguale, più o meno. - Magari ci seppellisco anche i cocci di Nostra Signora Elettrica. - Ti prometto che verrò una volta a settimana a portarle i fiori. - Benedico col liquido antigelo? Fai il serio. Non lo troverai mai uno che ti dice di avergli dato i copertoni usati: è vietato venderli da una delibera del sindaco. E non fanno neanche lo scontrino. - Hai ragione. Perché non vieni a chiederglielo tu da solo? Magari la giustizia divina li intimorisce di più. Mentire a te potrebbe essergli più difficile.
- Ho già parecchio da fare. - Torniamo, ho fame. Ti accompagno in canonica. L’hai trovato uno scultore? - Ancora no. Abbi fede. Ripresero la statale, un incidente aveva bloccato la strada, c’erano ambulanze e carabinieri. Non ritenendo indispensabile il suo contributo, Poletti Spada prese una strada secondaria che ava per i poderi della campagna, allungando un po’ avrebbero evitato di stare fermi per ore e sarebbero arrivati in paese per l’ora di pranzo. arono sopra un ponte che non pareva tanto stabile. Era uno dei pochi rimasti, costruito prima della guerra, durante il conflitto i tedeschi ne fecero saltare parecchi ma quello non l’avevano trovato, tanto era nascosto ed insignificante. Nell’aria aumentava un puzzo acre, un colore di urina che si attaccava alle narici e confondeva la vista. Non parlavano ma l’evidenza era palese: avevano trovato i copertoni bruciati. Ora bisognava trovare gli zingari. Quando l’auto fu sul punto più alto del ponte, sopra una vallata cui si accedeva da una piccola strada sterrata che nasceva alla base del ponte, discendendo giù, invece di salire, da quel punto più alto videro, in fondo, seminascosto da una fitta schiera di cipressi, un grosso fabbricato marrone che sbuffava fumo nero da sei comignoli posti sul tetto. Era una fabbrica che inquinava e appestava l’aria. Non sapevano che ci fosse ma era lì, assurdamente. Non poteva essere una fabbrica degli zingari. Mirko glielo avrebbe detto e non erano tipi da aprire industrie, non era nelle loro tradizioni. E non bruciavano copertoni. Neanche quella fabbrica bruciava copertoni, al massimo li costruiva. Nelle fabbrica si crea profitto, non ci si riscalda.
X
Una Mercedes C63 nera parcheggiò in Piazza del Municipio. Proprio nel posto riservato ai disabili, nonostante ce ne fossero altri tre liberi. Due uomini, parlottando con tono alto e vivace, scesero dall’auto senza chiuderla, entrambi pantaloni scuri e camicia a maniche lunghe sbottonata sul petto. Il più anziano, e più corpulento, l’aveva viola; l’altro, molto più giovane e mingherlino, pelle e ossa, l’aveva bianca. Continuando a vociare forte, senza che i anti capissero cosa dicevano, andarono a sedersi ad un tavolino del Bar Farina, quello centrale
con una bella veduta sulla fontana e la torre del municipio. Mirko ordinò due birre grandi alla spina. Antonio, il barista, fece finta che fosse un cliente normale ma non fu affabile e sorridente come al solito. Professionale, quello sì, certo: le birre arrivarono subito. Mirko e Bogdan, il più giovane, si scambiavano le solite opinioni: - Devi lavorare, Bogdan! Cosa fai tutto il giorno? Dove vai? - Cerco lavoro! Devi credermi, Mirko! - Era concitato nel parlare, teatrale: difficile credergli. - Oggi sono stato in quattro cantieri diversi ma nessuno mi ha voluto. Perché sono zingaro! Lo sai, è sempre la stessa storia. - Tanti dei nostri lavorano. Non è sempre come dici tu. - E tanti non lavorano. È quasi sempre come dico io. - Tu fai una brutta fine, Bogdan. Stamattina ti ho tirato giù dal letto alla undici. Non si dicono le bugie. Non si dicono le bugie a Mirko! - Alzò il tono di voce, più di quanto non lo fosse già. - Sono stato fuori dalle sei alle nove. Poi era troppo tardi per trovare qualcosa, allora sono tornato a dormire. Tu non hai fiducia in me, Mirko. Questa è la verità. Un Fiorino bianco si fermò dall’altra parte della piazza, davanti all’alimentari dei fratelli Sezzi, ne scese un uomo grosso di pelo rosso. Erminio andava una volta a settimana in città a prendere i rifornimenti per l’alimentari e li portava in paese, era uno dei lavori con cui si manteneva. Aprì gli sportelli posteriori, si guardò intorno, incrociò lo sguardo di Mirko che lo salutò forte alzando una mano ma lui si era ormai voltato dall’altra parte e non rispose al saluto: Mirko per lui era un problema. Che poi il problema fosse il suo e Mirko non c’entrasse non aveva importanza: la verità è soggettiva, quindi per lui la colpa era di Mirko. Aprì i battenti della porta del negozio di alimentari, lì bloccò con i fermi e salutò: “Buongiorno a tutti!”, poi, senza fermarsi, riuscì fuori e prese a scaricare gli scatoloni. - Quell’uomo non ha risposto al tuo saluto. Ti ha mancato di rispetto. - Non farci caso. È un po’ tocco.
Bogdan prese una lunga sorsata di birra, fece per parlare ma si fermò. Per la prima volta, quella mattina, ci fu un lungo silenzio fra i due. Poi riprese a parlare, la sua voce era più bassa, più lenta, solenne. - Non mi interessa se è un po’ tocco. Anche gli scemi devono portarti rispetto. Mirko fece una mezza smorfia, come a non voler dar peso, ma non gli riuscì di continuare il discorso che stava facendo prima, si era distratto e non ricordava neanche cosa stava dicendo. Tra uno scatolone e l’altro Erminio tornava fuori dal negozio circa ogni quattro minuti, era il tempo che gli ci voleva per portare giù in magazzino il carico. Il magazzino stava oltre il bancone, dietro una porta, in fondo ad una rampa di scale, in quella che era stata la cantina di un’osteria, il secolo prima. Bogdan lo cronometrava attentamente sul suo Rolex, se lo scatolone era molto grande di metteva un paio di minuti in più. Quando Erminio prese la grossa confezione di cinquanta spazzole per tergicristalli, l’alimentari vendeva un po’ di tutto, e scomparve oltre la soglia, Bogdan si alzò deciso e si incamminò veloce e silenzioso verso il Fiorino. A nulla valse il “Fermo! Dove cazzo vai!!!” di Mirko, niente l’avrebbe fermato. Si affacciò all’interno del Fiorino, osservò senza fretta, sorrise e gli occhi gli si illuminarono: trovato. Prese la confezione da ventiquattro pezzi, 66 centilitri a bottiglia, di birra Ichnusa e se la caricò in spalla, poi tornò a sedersi davanti a Mirko. Mise lo scatolone sotto il tavolino. La tovaglia lo copriva, ma non del tutto. Prima che Mirko potesse ruggirgli qualcosa, chiamò il cameriere. - Avete l’Ichnusa in bottiglia? - Certo, signore. Grande o piccola? - Grande. Due bottiglie, per favore. Antonio il barista tornò dentro, Mirko urlò, ma sottovoce: - Ma cosa cazzo fai? Ti metti a rubare adesso? Miserabile bastardo! - Ho sempre rubato. Anche tu, Mirko. Basta dire cazzate. E adesso non sto rubando: sto punendo chi ti manca di rispetto. Se non lo fai tu, lo faccio io. Tu sei il capo, io ti rispetto e lo pretendo anche dagli altri. - Andiamo via. Prendi quella maledetta cassa di birra e andiamo in macchina.
Antonio tornò con le birre. Bogdan le pagò assieme a quelle di prima dandogli un biglietto da cento euro. - Tieni il resto, ragazzo. - Il cameriere gli sorrise per la prima volta e tornò dentro. - Non andiamo via. Ho appena cominciato. - Replicò Bogdan. arono altri dieci minuti, Erminio svuotò il Fiorino e Bogdan costrinse Mirko ad una discussione sui migliori portieri di calcio della storia. Mirko inizialmente pensava se pestarlo o strozzarlo per quello che aveva fatto, poi la convinzione che Dasayev fosse infinitamente più forte di Yashin prevalse su tutto e non pensò più ad altro. Era incredibile che Bogdan sostenesse il contrario. Non era neanche nato quando Yashin giocava, neanche lui l’aveva mai visto giocare. Perché era così ostile? Perché era polemico a priori? Intanto Fiorenzo, il maggiore dei fratelli Sezzi, quello che si occupava della contabilità, ed Erminio avevano riletto la bolla di consegna tre volte, telefonando anche al fornitore, avevano riguardato dentro al furgone due volte, e non c’erano dubbi: mancava una cassa di birra Ichnusa di ventiquattro bottiglie da sessantasei centilitri ognuna. Erminio era imbarazzatissimo, Fiorenzo più di lui: non avrebbe mai potuto solo pensare che l’altro si fosse rubato o perso qualcosa. - Sicuro che non te l’hanno portata via quando hai fatto qualche sosta? Neanche per andare in bagno? Erminio continuava a ripetere che era impossibile: non si era mai fermato durante il viaggio e ricordava di aver caricato la birra prima delle altre cose. Quindi se qualcuno anche avesse aperto il furgone, non avrebbe potuto prenderla senza prima scaricare tutto il resto. Era impossibile. Non aveva senso. Ad Erminio un sospetto era venuto quasi subito, ma se n’era vergognato e l’aveva scacciato dalla testa. Poi, mano a mano che la mancanza della birra diveniva una certezza, quel sospetto tornava su a giganteggiare. Uscì, si piantò davanti la porta del negozio e fissò lo sguardo dove non avrebbe voluto. Anche Mirko lo stava fissando ma Erminio non riusciva a scorgerne l’espressione. Erminio guardò verso la Mercedes che sapeva fosse di Mirko e notò che era parcheggiata sul posto riservato ai disabili, tornò con sdegno a guardare la coppia di zingari al tavolino del bar. E la vide. Seminascosta dalla tovaglia. Una scatola marrone con un’inconfondibile grossa scritta sopra. Come una bomba inesplosa del tempo della guerra appena scoperta. Corse verso di loro gridando: - Maledetti bastardi!
- Lo sistemo io, capo. - Bogdan fece per alzarsi ma la mano pesante di Mirko lo rimise sulla sedia e fu lui ad alzarsi. - Tu non fai proprio niente. Sono io il capo. Mirko si mise davanti al tavolino. Erminio andò a fermarcisi davanti. Vicinissimi. I loro aliti si toccavano. Due sguardi duri e ruvidi. Quello di Mirko una testa più su. - Ladri! Maledetti bastardi! Ridatemi la birra! - Ladro lo dici a tua sorella. M’hai rotto i coglioni: sparisci o t’ammazzo. Erminio non pensava più, era entrato in una fase che pensare era miseria. Alzò una mano e l’abbatte con tutta la forza sulla guancia destra di Mirko. Era uno schiaffo. Sarebbe stato uno schiaffo pesante: Erminio aveva delle mani grosse e massicce, e tanta forza. Ma Mirko era Mirko. Mirko era il capo. Non fu dolore quello che provò: era stupore, meraviglia. Non pensava che Erminio sarebbe mai arrivato a tanto. Non aveva mai pensato seriamente di picchiarlo, provò la stessa amarezza di quel giorno che era andato a parlare con Don Aurelio. Gli dispiacque veramente. Quasi senza trasporto, senza emozione, prese a dare calci e pugni, sapeva come fare, sapeva quello che stava facendo e gli dispiaceva, veramente. Ma alla fine chi se ne frega. Il mondo è fatto così e, povero stupido, chi sei tu per volerlo cambiare? Erminio riuscì a parare i primi due pugni ma un calcio lo stese a terra, poi sentì solo una grandinata di colpi che lo riempiva e si rannicchiò coprendosi la testa con le mani, stringendo le gambe a protezione delle parti intime. Gliele stava dando di brutto, sentiva i dolori aggiungersi uno sull’altro e, stranamente, ad ogni colpo lo odiava di meno, sentendosi sempre più stronzo. Che se le fosse meritate? La scritta “Ichnusa” vista per intero e di traverso, dal suo obliquo punto di vista, cercava di dargli torto ma non aveva importanza. Alla fine chi se ne frega. Il mondo è fatto così e, povero stupido, chi sei tu per volerlo cambiare? Un fischio, un grido di gomma, una frenata brusca e un rumore di motore roco. La macchina del Commissario Poletti Spada inchiodò in mezzo alla Piazza. Scesero di corsa, lui e Don Aurelio, precipitandosi sui due per dividerli. Mirko li lasciò fare, se avesse voluto niente e nessuno avrebbe potuto fermarlo. - Allora, cosa succede qui? - Urlò il Commissario. Erminio si rialzò lentamente, ogni movimento era un dolore atroce e una presa per il culo in fondo alla testa.
Mirko taceva e fissava l’altro, che taceva e si puliva il sangue dalla faccia col fazzoletto, poi alzò gli occhi e lo fissò di rimando, per un attimo entrambi ebbero il sospetto che l’altro si stesse per mettere a ridere ma forse si sbagliavano: erano proprio loro, in prima persona, che avevano voglia di ridere. Fu solo un attimo. La voce autoritaria e monotona del Commissario li riportò alla realtà: - Chi parla per primo? Chi mi spiega perché due omoni grandi e grossi si stanno pestando come due bambocci? - Non è vero. - Disse Mirko pacato. - Come? - Non è esatto. Io sto dando botte, lui le sta prendendo. - Ma bene! Facciamo anche a chi ce l’ha più lungo? - Non è possibile. Se lui ce l’ha più lungo del mio, allora io tutto insanguinato e preso un sacco di legnate. Rise Mirko beato come un varano. - Mi hanno rubato una cassa di birra. Quella lì sotto al tavolino. - Si decise a sussurrare Erminio. Lo scherno di Mirko gli aveva restituito un po’ d’odio e un certo istinto di sopravvivenza. Il Commissario si avvicinò al tavolino, alzò la tovaglia, guardò la cassa di birra come fosse il tesoro dei pirati. Poi alzò lo sguardo su Bogdan che a sua volta lo traava con due occhi vuoti come disegnati a pennarello. - Documenti. Tutt’e due. Don Aurelio era rimasto tre i indietro. Muto ad osservare la scena. Si sentiva completamente fuori posto, non capiva niente di quello che vedeva così intensamente da sospettare un danno neurologico di cui non s’era reso conto. Era uscito fuori anche Antonio, il barista. - Ciao Antò! Tutto a posto? - Salutò il Commissario mentre sfogliava i documenti che gli erano stati consegnati. - Buongiorno, Commissario. Tutto a posto. Che succede? - Te lo stavo proprio chiedendo. Non ti sei accorto di niente, tu?
- Mah ... - Antonio esitò, si guardò attorno, poi decise di fissare la cravatta del Commissario, un poco sotto il suo sguardo. - Ero dentro che stavo mettendo in ordine il bancone, ho sentito del trambusto, ho guardato in strada e quei due si stavano azzuffando, poi siete arrivati voi. Tutto qui. - Ma quello più grosso e nero - fece indicando Mirko. - È cliente tuo, no? Stava seduto qui assieme al ... - fece una pausa, poi disse, leggendo sul aporto che aveva in mano: - al signor Bogdan M. Iliev. Dico bene? - Sì. Hanno preso delle birre. - Hanno creato problemi? - No. - Gli occhi di Bogdan s’erano accesi e piantati pungenti in faccia ad Antonio. - No, nessuno. - Aggiunse con più convinzione Antonio. Il Commissario prese la tovaglia di carta a quadretti rossi per un lembo e la tirò con forza. La cassa di birra Ichnusa da ventiquattro bottiglie di sessantasei centilitri ognuna apparve in tuta la sua grevità. - Il signor Erminio qui presente sostiene che gli è stata rubata questa cassa di birra da questi signori: Mirko M. e Bogdan M. Iliev. Antonio aveva paura e non sapeva cosa dire. Bogdan capì che era arrivato il suo momento. - Ho comprato questa cassa di birra, non l’ho rubata. - Sì? Hai venduto la cassa di birra a questi signori, Erminio? - Siamo matti? Quella è di Fiorenzo. Fa parte del carico che gli sono andato a prendere in città. Mentre scaricavo le casse dal Fiorino questi qui si sono presi la birra. È evidente. - Tu hai visto che prendevamo la tua birra? Anzi, quella del signor Fiorenzo? Lo imbeccò Bogdan - Come facevo a vedervi se ero dentro al negozio? - Chi ci ha visto prendere questa cassa di birra dal tuo furgone?
Erminio era confuso. - Come sarebbe a dire? Bogdan prese ad urlare in falsetto, con garbo, scandendo le parole: - Qualcuno mi ha visto prendere la cassa di birra dal furgone di questo signore??? Oppure ha visto farlo al mio amico Mirko??? Qualcuno ha visto qualcosa??? C’è qualcunooo?????? - Silenzio. Poi si volse verso il Commissario: - Nessuno. Nessuno ci ha visto rubare. I soliti pregiudizi sugli zingari. Io ti ho detto che ho comprato questa cassa di birra. Ma non da chi. Ecco da chi. - Indicò Antonio e lo fissò con ferocia. - L’ho comprata da Antonio. Perché la sua birra è buona, ne ho bevuta una qui e ne voglio altre da portare a casa. Birra Ichnusa è la più buona d’Italia! Anzi: del mondo! Vero, Antonio? - Sì, sì, certo. Confermo. - Guardava per terra. Poletti Spada era incazzato. Si avvicinò ad Antonio cercando di fissarlo in faccia, allora lui alzò la testa e i suoi occhi erano disegnati con i pennarelli. - Confermi che questo signore ha comprato da te un’intera cassa di birra, poco fa? - Confermo. Un breve silenzio ridusse a zero le possibilità che quella situazione potesse proseguire. Tutti avevano voglia di andarsene. - Bene. - Sorrise Mirko. - Vi lasciamo, le nostre mogli ci aspettano per il pranzo. Bogdan si caricò la cassa di birra sulle spalle salutando cordialmente Antonio che rispose a denti stretti. Si avviarono verso la Mercedes. - Ho una buona notizia per te, caro Don Aurelio! - Urlò Mirko quand’era quasi salito in macchina. - Per me? - Rispose lui, cercando di tornare alla realtà. - Sì. Ti ho trovato l’artista! Non ti serviva qualcuno per rifare la statua di Nostra Signora Elettrica? - Certo. - Aurelio era perplesso.
- Eccolo! - Mirko posò pesante una mano sul braccio di Bogdan, facendogli vacillare pericolosamente la cassa di birra. - Lui grande artista di circo! - Circo? Mi serve uno scultore, Mirko … - È uguale! Lui è un genio! Anche grande scultore! Mi ha fatto vedere il bozzetto della sua statua: meravigliosa! Domani ti veniamo a trovare in parrocchia, così vedi! - D’accordo. Vi aspetto, allora. - Perplesso, deluso, confuso: così si sentiva Aurelio. Bogdan aggiunse un “A domani” che sembrava una minaccia, caricò la cassa di birra nel baule posteriore della Mercedes e i due salirono in macchina. - Un momento! - Aggiunse Poletti Spada avvicinandosi al finestrino del guidatore. Porse un foglio a Mirko. - Prego, questa è una contravvenzione per aver parcheggiato negli spazi riservati ai disabili. O sei anche disabile? - Bastardo! Novantacinque euro! - Come dici? - Giusto così. Ero distratto, mi scusi. Sempre a disposizione, Commissario. E buona giornata. Fece manovra e se ne andarono, lasciando un vuoto silenzioso e triste dietro di se. Antonio tornò dentro il bar senza dire niente. Poletti Spada chiese ad Aurelio: - Vuoi che ci sia anche io quando vengono a trovarti, domani? - Non credo che ce ne sia bisogno. Le porte della casa del Signore sono aperte a tutti. - Contento tu … - Maledetti appestatori. - Mormorò Erminio. - Se li becco che bruciano copertoni gliela faccio pagare. Devono marcire in galera! - Erminio, dobbiamo dirti qualcosa. - Fece Aurelio. - Che c’è ancora?
Non sapeva come dirglielo. Ci voleva tatto, dopo quello che era successo. Poletti Spada fece prima, abituato ad averne poco di tatto. - Ti sbagli, Erminio. La puzza che senti è di una fabbrica nella Valle Pinerola, sotto il Ponte della Cicerchia. L’abbiamo scoperto stamattina. Stavo proprio andando in ufficio per farmi dare l’autorizzazione al sequestro e chiusura dell’impianto: sicuramente è abusiva, visto che non se ne aveva nessuna notizia. - Quindi gli zingari non c’entrano niente. - Disse Erminio con lo sguardo nel vuoto. - Gli zingari non c’entrano niente. - Confermò Aurelio dopo un lunghissimo silenzio. Erminio ripeteva ad alta voce, senza motivo: - Ho visto cose che voi umani …
XI
Aurelio si sveglio di colpo: veniva un gran frastuono da sotto, nella chiesa. Colpi sordi, trascinamenti, botti. Succedeva qualcosa di tremendo? Il crollo di Nostra Signora Elettrica era stato solo l’inizio? Stavano distruggendo tutto? Si vestì in fretta, uscì dalla canonica ed entro in chiesa dalla porta comunicante con la sagrestia. Gli ci volle un poco per mettere a fuoco la scena, la luce forte del mattino assolato non lo aiutava. Poi, lentamente, si accorse che qualcosa era cambiato. Molto era cambiato. Vide Erminio dare martellate a San Cristoforo, alla statua di San Cristoforo. - Erminio, che stai facendo??!! Erminio si volse a guardarlo, rilassato e tranquillo. Stava seminascosto nella prima navata, il posto di San Cristoforo, e riprese a martellarlo. - Me l’hai detto tu di sistemare lo spazio scenico. Ho dovuto rifare tutti i basamenti di legno: erano marci. Ho fatto un bel lavoro, guarda: questi non li tira giù manco Gesù Cristo! - Si fece di fianco mostrandogli il nuovo basamento della statua. Era forse più bello della statua stessa. Aurelio si avvicinò, osservò
attentamente. La statua sembrava rinata aveva un’aura serena e magnificente, nel suo nuovo basamento di legno lavorato con grazia e finezza. Bellissimo. Si guardò attorno: San Cristoforo, preso da solo, era la statua più bella che era rimasta e stava nella prima nicchia di sinistra, in modo che fosse il primo ad essere visto entrando in chiesa. Assieme a Sant’Ignazio, nella prima nicchia di destra. Anche lui bellissimo, col suo basamento nuovo e l’aria misericordiosa. Le due statue di legno bruno poste all’entrata offrivano un’accoglienza calda, intima, familiare e rassicurante. Nelle due nicchie centrali a destra c’era San Giovanni, che recuperava credibilità mantenendo un’austerità silenziosa e vacua. A sinistra, il luogo del misfatto era occupato dal tavolino delle offerte e dei ceri votivi, perché nessun santo avrebbe retto il confronto con Nostra Signora Elettrica. Lo spazio era lasciato al buon cuore, alla generosità e all’intelligenza dei fedeli. Responsabilizzarli invece di offrirgli un idolo cieco. Interessante. Le ultime due nicchie erano occupate a sinistra da Santa Lucia, l’oggetto misterioso che, seminascosto, acquistava più carisma e sintomatico mistero, a destra da Santa Cristina, quasi nascosta si poteva far finta di non vederla. Bene. Era un gran bel vedere. - Era ora che ti alzassi, sono le dieci! I preti non si alzano presto per i rosari mattutini? Non lo fanno più? È dalle sei che sono qui a martellare: non hai sentito niente? Ci credo che hanno fatto fuori la Nostra Signora Elettrica! - Bravo Erminio, complimenti! Hai fatto un lavoro stupendo. Volevo dare una sistemata ma tu hai fatto un capolavoro. Non so come ringraziarti! - Smettila che mi metto a piangere. L’idea è stata tua, ho messo solo a disposizione la mia umile manovalanza. - Gli sorrise di cuore, il suo apprezzamento gli faceva bene. - Ci vorrebbero dei faretti da sistemare nelle nicchie: nelle funzioni serali farebbero un’effetto strepitoso. Vedi se te li da il Vescovo. Gliela facciamo dimenticare Nostra Signora Elettrica a questi quattro bifolchi, vedrai. - Tu hai la visione dello spazio, hai senso estetico, Erminio. Sei grande! E guarda che meraviglia i basamenti di legno! - Li accarezzava gustandone con le dita i rilievi sottili, le scritte scolpite con precisione e morbidezza, leggere nella materia morbida. - Guarda come hai lavorato bene il legno! Perché non la fai tu la statua di Nostra Signora Elettrica? - Ebbe l’intuizione, una speranza esplosiva. - Sarebbe bellissima! Non sapevo che fossi così bravo a lavorare il legno.
- No. Non mi freghi a me! - Rise Erminio, agitandogli contro il martello. - Mica voglio essere scomunicato io! Della Curia pure pure, chi se ne frega, ma i paesani mi mettono paura, quelli mi bruciano in piazza! - Va bene, hai già fatto tanto, non voglio insistere. Ma un altro favore me lo devi fare. Un grande favore. Erminio lo guardò con un occhio semichiuso: non si fidava. - Che devo fare? - Devi andare dal Vescovo. - Disse l’altro solenne. - A chiedergli i soldi per i faretti? - E quelli per la nuova statua di Nostra Signora Elettrica. Erminio attese un poco, poi disse: - Va bene. - E a dirgli che quella vecchia non c’è più. - Lo disse chiudendo gli occhi, prostrandosi mentalmente. Un altro lungo silenzio. - A spiegargli quello che è successo. Riaprì bene gli occhi, Erminio lo fissava, fin dentro la testa e le budella. - Devo andarci io? Perché non glielo dici tu? Un altro lungo silenzio. - Va bene, ci vado. Non mi dire altro, non lo voglio sapere. Ora fammi finire un paio di cose. Si mosse verso Santa Lucia, ando gli strinse il braccio e sorrise. Aurelio gli volle tanto bene. L’idillio fu interrotto da un bussare forte al portone, secco e roboante. - C’è nessuno? Don Aurelio, ci sei? - L’urlo poderoso, dall’altra parte del portone, era inconfondibile: Mirko era arrivato. Glielo aveva promesso. Aurelio andò ad aprire, cercando di tirar fuori una faccia normale: s’era appena
svegliato e stava pensando a tante cose, più o meno importanti. Tirò a se le pesanti ante di legno e comparsero le due sagome vocianti, in controluce, affilate e grevi. Le loro voci frastornanti, per lui che si era appena svegliato, e la luce prorompente del mattino, entrando in chiesa lo travolsero col fragore di una vetrata in pezzi. Doveva essere stato così quando Nostra Signora Elettrica andò in frantumi, pensò, e si ricordò anche della botola della zingara. - Come ti avevo promesso ti ho portato la soluzione a tutti i tuoi problemi! Declamò Mirko. - Ecco qui il grande artista Bogdan M. Iliev! E con lui il bozzetto della nuova statua di Nostra Signora Elettrica! - Brandiva un grande foglio arrotolato che teneva in mano come un manganello. - E anche l’opera in persona! Bogdan uscì per poi tornare dentro trascinando un grande scatolone di cartone, alto circa due metri, largo uno e mezzo e profondo altrettanto. Pesante, tanto che era diventato rosso in faccia e faceva fatica a trascinarlo, eppure, seppur magro, dava l’impressione di un uomo forte, quegli uomini che hanno la forza nei nervi e sulla pelle, che non hanno bisogno di muscoli. Dentro quello scatolone c’era sicuramente un’altra sciagura, come in quello della birra il giorno prima. Magari era la maledizione della Zia Pinuccia che stava facendo i suoi effetti nefasti. Erminio gli o accanto, senza salutare i nuovi arrivati, lo sguardo fisso al sole nascente. - Buona giornata, Don Aurelio. Ci vediamo stasera, ti riferirò della mia missione. Non preoccuparti: andrà tutto bene. - Salutò uscendo nella luce. Adesso era una sagoma nera e appuntita anche lui. Aurelio lo ringraziò e lo salutò. Mirko lo salutò. Lui non rispose neanche quella volta. - Inutile guardare il bozzetto: ecco qui il capolavoro! Guardalo subito che rimarrai a bocca aperta! Dai, Bogdan: scarta la carta! Mirko era euforico, Bogdan prese ad aprire lo scatolone. Aurelio richiuse il portone della chiesa con la paura che quello fosse una specie di vaso di Pandora da cui sarebbero uscite mille maledizioni: così almeno sarebbero rimaste lì dentro. Sarebbe bastato bruciare la chiesa per limitare i danni. - È un grande onore per noi dare il nostro contributo alla parrocchia. Continuava Mirko. - Per noi siete un punto di riferimento, non immaginate il bene che ci fate, il conforto che ci date. Sdebitarci con voi ci riempie di gioia e ci
rende orgogliosi! Bogdan ancora non aveva parlato, finito di scartare disponeva alla giusta luce la sua opera. Poi fece un o di lato e la mostrò: eccola, davanti a loro, Nostra Signora Elettrica secondo la Comunità Rom, o almeno secondo Bogdan M. Iliev, presunto artista. Era strana. Forse inquietante. Una forma umana, femminile, fatta di ingranaggi meccanici, schede di computer, valvole, pezzi di automobile, bulloni, componenti elettronici. Sembrava uno di quei manichini fatti di cianfrusaglie che aveva visto nelle vetrine di negozi di souvenir a Venezia ma era austera, solenne e aveva uno sguardo misericordioso. Sì: lo sguardo misericordioso lo aveva, tra transistor e microchip. Cosa doveva pensare? Forse l’avrebbero davvero bruciato sul rogo se avesse messo quel coso accanto a San Cristoforo. Bogdan carezzò lievemente una spalla della scultura che, essendo alta circa due metri, era all’altezza della sua testa. Poi profferì asciutto: - Questa è Nostra Signora Digitale. Appartenente al ventunesimo secolo. La modernità secondo me. La mia visione religiosa di quest’era elettronica e digitale. Era che succede e si sostituisce alla precedente, elettrica, meccanica ed industriale, di cui faceva parte la vecchia Nostra Signora Elettrica. Quindi è giusto chiamarla Nostra Signora Digitale. - Perché? - Sussurrò Aurelio. Era una domanda più generica: non si riferiva solo al nome della statua ma a tutta una serie di cose che sentiva come profonde amenità e cattiverie precipitategli addosso senza capire cosa avesse fatto di male per meritarsele. Ma Bogdan non capì, lui aspettava solo un impulso qualunque per scatenarsi: - Perché la rappresentazione del sentimento religioso, la rappresentazione del percorso verso l’assoluto, verso Dio, oggi è assai più difficile che ieri. Oggi subiamo un continuo bombardamento di immagini, di rappresentazioni visive di ogni sorta. Immagini che ci rappresentano come dovremmo essere, come si vorrebbe che fossimo. Televisione, pubblicità, internet: Siete così, dovete essere così, questa è la realtà, questa deve essere la realtà. Ma niente è così. Niente somiglia a ciò che ci propongono. Il modello è di una perfezione che non esiste, quindi quella realtà non può esistere. È una realtà che non corrisponde alla realtà. Quello è un niente che vorrebbe essere il tutto. Viviamo di un assoluto che non esiste, che non esiste più. Dio s’è nascosto. Dio ci nega la sua esistenza. Io voglio rappresentare questo vuoto di realtà e questo vuoto di percezione del
divino, di questo vuoto ci rimangono frammenti della realtà costruita dall’uomo: ingranaggi, chip elettronici e cianfrusaglie varie. Questa realtà costruita dall’uomo nella sua presunzione di sostituirsi a Dio e alla Natura creando un mondo di suoi prodotti, di automi, di automobili, di macchine, di computer, di pezzi di ricambio: genetica artificiosa per sopravvivere a se stessi, per garantirsi una falsa immortalità. Ma l’uomo non può sostituirsi a niente e a nessuno, neanche alla più umile delle bestie e non è perfetto, non lo sarà mai, prova ne è che i suoi ingranaggi arrugginiscono, le macchine invecchiano come lui e non funzionano più, per quanto si cerchi di ripararle. Non funzionano più, si rompono, si sgretolano e via. Come Nostra Signora Elettrica. Esprimo la fallacia, l’inutilità della folle corsa dell’uomo verso l’onnipotenza. Che ha sempre avuto dalla notte dei tempi. Quant’è vecchia la leggenda della Torre di Babele? Quando è stato disegnato, per la prima volta, il sedicesimo degli Arcani Maggiori, La Torre, e il Ventesimo, Il Giudizio? L’uomo, con le sue rovine di lamiera, con i suoi ingranaggi inceppati, con i suoi microchip bruciati, cerca l’ultima illusione di un archetipo a cui far fede. Cerca l’originario e l’originale: un Dio che non c’è più, o che, spero, come dicevo, si sia solo nascosto. Lo potremo scoprire quando lui ci permetterà di ritrovare, o forse trovare per la prima volta, l’umiltà di non voler essere Dio, di non volerci sostituire a lui. Aurelio lo fissava. Occhi pieni e vuoti. Sbalordito e confuso. Assente. - La Supercazzola, quindi. - Come? - Niente. Dicevo che anche tu, come Mirko, quando vuoi ti sai esprimere bene. - Sì. Ma devi capire che bisogna esprimersi come la gente, la mia e gli altri, si aspetta da te. Devo corrispondere anche io alla mia forma apparente. Aurelio lo interruppe, accorgendosi di essersi innervosito. - Sì, questa l’ho già sentita. Ascoltatemi, adesso. - Cercò di rilassarsi, voleva sembrare cordiale e comprensivo, proprio come un prete. Non voleva deluderli né urtarne la suscettibilità. - Non è semplice la cosa. Devo raccogliere tutti i bozzetti, tutte le proposte. Non siete i soli che hanno portato qualcosa. - Mentì. - Porterò tutto al Vescovo: non sono io che decido e neanche lui: sarà una commissione di alte cariche della Chiesa ad occuparsene. Lasciatemi il bozzetto e vi assicurò che glielo porterò e ne parlerò bene: la vostra statua mi piace, sul serio, ma non
posso fare di più. Forse gli piaceva davvero dopo aver sentito parlare Bogdan ma questo non significava che i paesani non l’avrebbero messo al rogo, anzi. I due Rom erano delusi. Era difficile per loro accettare che le cose fossero così complicate, poco immediate, poco ionali, ma se ne fecero una ragione. Aurelio non li stava prendendo in giro, non lo avrebbe mai fatto. Lui gli voleva bene e loro si fidavano di lui. - E la statua? - Chiese Mirko. Se gli avesse detto di riportarsela indietro l’avrebbe offesi a morte. - Se volete portatela in canonica. Si a da dietro il pulpito. Mi farà piacere tenerla con me in attesa della decisione della Curia. Se andrà male prometto che la proporrò per un’altra collocazione importante. - Che stava dicendo? Perché non imparava a stare zitto? A dire il dovuto e niente più? - Ci fa piacere lasciarla a te, Don Aurelio. Ma per l’altra collocazione dico no, grazie. - Rispose Mirko. - Se non la vogliono in chiesa la riportiamo da noi. Gli troveremo un posto, però devi venire a benedircela. - Sorrise timoroso. - È il minimo che possa fare. - Sorrise anche lui, di più. Soprattutto perché Mirko, con la sua rinuncia, gli risolveva un problema che si era creato da solo. Bogdan e Mirko riimballarono Nostra Signora Digitale e la portarono in canonica. Veloci e senza fare confusione. Aurelio rimase a fissare la luce del mattino che, partendo dal fondo alla strada, entrava tagliando la penombra della chiesa come una lama affilata. Pensava a quello che doveva dire al vescovo: doveva per forza andare da lui, prima o poi.La missione di Erminio era solo un prendere tempo, lo sapeva. Aveva solo una proposta per la nuova statua, e non era poco, ma aveva paura delle conseguenze che potesse avere. Quando i due Rom se ne andarono, consegnandogli il bozzetto ancora arrotolato come una missiva papale, lui li ringraziò sinceramente e loro ne furono felici. A loro bastava questo: la sincera gratitudine di un uomo che per loro era importante. Richiuse il portone a chiave. Avrebbe voluto pregare ma tornò a dormire.
XII
Aurelio si svegliò verso le quindici, aprì i battenti delle finestre ed entrò una folata di aria caldissima. Il sole e niente altro all’orizzonte, aria umida e appiccicosa, sfondo bianco e pulito. Era ancora vestito con la tonaca messa di fretta la mattina, la barba incolta, gli occhi infossati e lucidi. Non aveva un bell’aspetto. Scese in canonica. La grande scatola di Bogdan era accanto al tavolo di legno dove aveva il portatile, l’unico spazio libero e possibile per lasciare un ingombro tale. Sulla mensola accanto, sotto la finestra, la fila di libri della sua biblioteca personale. Gli diede un’occhiata, in cerca di qualcosa di interessante, di qualcosa che mettesse un poco di ordine il caos che aveva in testa. Niente. Niente che fosse abbastanza forte ed adatto al momento. Un grappino da leggere per le emergenze. Giusto. Aprì un cassetto a sinistra sotto il tavolo, prese una bottiglia e si versò due dita di J&B nella tazza da caffellatte. Sollevò lo schermo del portatile, premette il tasto d’accensione e tre bip lunghi e fastidiosi risposero che il marchingegno non aveva intenzione di funzionare quella mattina, come accadeva spesso. Richiuse lo schermo sbattendolo forte, indispettito, si alzò e prese a scartare lo scatolone col tagliacarte. Lo fece con furia e fatica, sfogando la rabbia trattenuta a lungo. Infine mise a nudo Nostra Signora Digitale, che per lui rimaneva comunque Nostra Signora Elettrica, versione 2.0 magari. Per quanto fossimo nell’era digitale anche il chip in silicio viene azionato da impulso elettrico. Sempre dell’elettricità si ha bisogno. Nostra Signor Elettrica emerse in tutto il suo folle splendore. Aurelio prese a mormorare, sempre più forte. Pregava così:
Hai mica visto volare il mio teschio, Signore? Perché ho perso la testa. Ora Pronobis. E non cessa di girare la mia testa in mezzo al mare. Ora Pronobis. Anche tu sarai legato come me ad un soldo e a questo circo di cani pronto a scendere tra chi innocente non è. Ora Pronobis. E non fare di me un idolo io brucerò. E se divento un megafono m’incepperò. Ora Pronobis. Cosa fare non fare non lo so. Ora Pronobis. Trasformami in megafono. Ma non ora, non qui. Ora Pronobis.
- Non ora, non qui. - Concluse Poletti Spada. - Datti una lavata e fatti la barba: non hai un bell’aspetto. Abbiamo chiuso la fabbrica abusiva: la puzza resterà per
sempre nella testa di Erminio. Scusami ma non ho potuto fare a meno di ascoltare. Aurelio si volse e lo guardò sconcertato, sorpreso e arrabbiato, come se lo avesse sorpreso nudo. Nudo e a masturbarsi. Ma la porta ricordava di averla chiusa a chiave. - Era aperto, sono venuto a cercarti e ho sentito la tua prece. Bella. Molto più interessante dei tuoi soliti sermoni. La dirai in chiesa, domenica? - Sembrava convinto. Credeva davvero di aver ascoltato una bella predica. - No. Non sono parole mie. - No? Ratzinger? Wojtyla? - Ma che musica ascoltavi a vent’anni? Poletti Spada ci pensò. Poi rispose incerto, cercando di ricordare. - Un poco di musica classica, Debussy, Brahms. Poi Satie, qualcosa di Astor Piazzolla, Vangelis … - Insomma, non sei mai stato giovane tu.
- Grazie. Invece tu? I canti gregoriani sono musica da ragazzi? - Canti gregoriani quelli che hai appena sentito? La chiamavano musica punk, o qualche cazzata del genere. - Ah, i punk! A vent’anni i punk li prendevo a manganellate quelli lì, anche se erano preti. Chissà che non ci siamo già incontrati? C’era da considerare la presenza della statua di Bogdan, troppo evidente per far finta di niente. - Cos’è quel coso? - Gentile offerta di Mirko e Bogdan. - Bogdan M. Iliev? Quel ladro di birra? - È anche un grande artista. Mi ha portato la sua proposta per la nuova statua di Nostra Signora Elettrica. - Metti quella in chiesa e se il Vescovo mi chiede di arrestarti lo faccio molto volentieri. - È così brutta? - È inquietante. Non so dire se sia brutta: non ho senso estetico, sono una persona pragmatica. - Comunque non decido io, decide il vescovo. Gli farò vedere i bozzetti che ho e poi se la sbriga lui. - Tanto i paesani se la prendono con te, mica con lui. Hai fatto relazione al vescovo? Quante proposte hai raccolto, oltre a questo coso? - Un paio. E tu? Come vanno le indagini? - Ferme. - Uno a zero per me.
Poletti Spada lo guardò un poco sopra la spalla sinistra, come faceva quando era nel suo ufficio, poi lo squadrò dalla testa i piedi. - Ripeto: datti una lavata e fatti la barba, se devo arrestarti voglio farlo bene, in grande stile, con molti spettatori. - Che mi accolgono con grida di odio? - Questa la conosco ma non è per te. Tu sei quello che viene sbattuto al muro, ricordi? Purtroppo sei dall’altra parte. - Sorrise e si avviò fuori. - Vai in pace. - Concluse Aurelio che poi andò a farsi una doccia e a radersi. Quando si rivestì non indossò l’abito talare ma solo una maglietta e i jeans. Prese il bozzetto di Bogdan e uscì. Camminando ripensava a quello che gli aveva detto Poletti Spada. Era vero: lui stava dall’altra parte ed era quella sbagliata. Sempre. Ma cosa significava? Perché doveva stare da una parte? Lui non si sentiva da nessuna parte.
XIII
Erminio, con la sua carriola dipinta di verde, piena di attrezzi vari, entrò nel campo nomadi. Una piccola folla di bambini e ragazzi, dai tre ai dodici anni, gli si fece attorno, molti allungavano le mani sulla carriola incuriositi da quei metalli luccicanti, lui li scacciava con manate pesanti, loro non sembrava sentissero dolore, ridevano e facevano mille domande. A lui non andava di andare direttamente da Mirko. Chiese al ragazzo più grande dove fosse il campo da calcio. Questi, inorgoglito dall’essere stato scelto come il più autorevole, si fece subito capobranco e, non dopo averci pensato su per capire di quale campo da calcio stesse parlando quell’uomo rubicondo pieno di ogni ben di Dio, rispose: - Campo da calcio … Mirko ha detto che noi costruiamo campo da calcio! Vado a chiamarlo! - No. - Fece Erminio. - Devo fargli una sorpresa. Quando Mirko si sveglia deve trovare tutto fatto: è un regalo. Tu e i tuoi amici mi darete una mano, ok? - Certo! Andiamo, allora: Io so dove vuole fare il campo da calcio! Arrivarono ad una spianata di erba alta, sassi e buche. C’era molto da fare ma
volere è potere. E una gran fatica. Ma chi glielo aveva fatto fare? - Bene. - Disse al ragazzo. - Come ti chiami? - Pasquale, signore. - Io mi chiamo Erminio. - Gli porse una banconota da cinquanta euro. - Ho il decespugliatore, due picconi e due pale. Trova qualche altro attrezzo: dobbiamo tagliare l’erba, dissodare la terra e spianarla. Poi tracceremo le strisce e sistemeremo le porte. Il falegname le ha già preparate: quando il campo sarà pronto le andremo a prendere. Devi trovarmi un paio di ragazzi come te, forti e robusti, che ci aiutino. E stare attento che non mi freghino niente. Pasquale storse la bocca, la mano di Erminio pendeva nell’aria con la banconota, lui alzò la sua, come un capo indiano. - Non devi darmi soldi: tu ci stai aiutando. Hai la mia parola che nessuno toccherà i tuoi attrezzi. Vado a chiamare amici bravi. Faremo un bel lavoro! Si allontanò urlando frasi secche e ripetute alla piccola folla minorenne. Molti corsero via, alcuni lo seguirono, solo quattro o cinque dei più piccoli rimasero nei paraggi a guardare Erminio con occhi trasognati, quasi fosse l’orco delle favole, ma buono, tipo Shrek. Nessuno si avvicinò alla sua carriola. Lui prese il decespugliatore e cominciò a lavorare. Erano le otto e trenta del mattino. Pasquale tornò una ventina di minuti dopo, con quattro ragazzi armati di pale, piccoli e due carrelli della spesa a mo’ di carriola. Senza neanche presentarsi Erminio diede loro le indicazioni operative: chi fa cosa e come la si deve fare e così via. Pasquale ripeteva gli ordini nella loro lingua, non ce n’era bisogno perché capivano benissimo, ma lui manteneva il ruolo di assistente al capomastro. Il cantiere prese vita con efficienza svizzera. Erano infaticabili ed Erminio invidiava la ione e la foga che mettevano nel lavoro. Ci mettevano anche parecchie bestemmie dovute a qualcosa che stavano facendo per la prima volta ma che facevano piuttosto bene, tutto sommato. Bogdan stava nascosto dietro ad un albero a controllare la situazione, beveva tranquillamente una birra presa dalla famosa cassa Ichnusa. Erminio per un poco fece finta di non averlo visto, poi alzò la mano e salutò, senza smettere di decespugliare. L’altro rispose a voce alta. Verso le tredici e trenta Erminio era sfinito, il campo da calcio quasi finito, ed aveva una gran fame. Chiamò uno dei cinque ragazzini piccoli, spettatori dell’impresa ai bordi del campo. Arrivarono tutti assieme. Riprese la banconota da cinquanta euro e chiese loro di andare a comprare panini e bibite
per tutti, che era ora di pranzare. Loro si azzuffarono brevemente, poi il più forte prese la banconota e corse via, inseguito dagli altri. Arrivati all’albero di Bogdan, circa dieci metri più in là, questi li fermò, ci fu una breve discussione, quattro di loro si allontanarono con lui e l’ultimo tornò indietro a restituire i soldi ad Erminio, poi, senza rispondere alle sue domande, raggiunse il gruppetto che si stava allontanando. Mezz’ora dopo Mjra e altre cinque massaie, un paio di queste di una bellezza fulminante, vennero con grandi pentoloni, assieme a Bogdan che portava su un carrello della spesa quattro casse di birra Ichnusa. Comparvero cavalletti, assi di legno e tovaglie. La pausa pranzo iniziò con la solennità e l’euforia di un pranzo nuziale. Erminio era spaesato, andò a sedersi accanto a Pasquale, il quale, felice ed incerto anche lui, si alzò in piedi alzando una bottiglia di birra: - Ringraziamo tutti il nostro amico Erminio! Ci fa un grande regalo: il campo da calcio!! Evviva Erminio!!! Venne a sedersi accanto a loro Bogdan borbottando qualcosa a Pasquale che rispose stizzito, lui ruggì e l’altro abbassò gli occhi e rise. Bogdan batté forte le mani per ottenere silenzio e annunciò con voce profonda e solenne: Ringraziamo Erminio, il nostro amico, che ci fa dono del campo di calcio per i nostri ragazzi. Erminio è un uomo buono! È nostro amico! Un applauso clamoroso, un boato d’allegria, Erminio arrossì, gli veniva da piangere. Prese la parola: - Grazie a voi, ragazzi. Avevo da farmi perdonare una cosa, così ho pensato di fare qualcosa di utile per voi. Tutto qui. Sono felice. Tutti applaudirono e il vociare divenne frastornante. C’era anche la musica. Bogdan riprese la parola. - Grazie, amico. Tu sei una persona buona. Fu tutto un gran mangiare e parlare, ridere e urlare. Erminio beveva birra, tanta, e non era abituato. Il discorso di Bogdan non era terminato, ad un tratto riuscì a sentirlo dire: - … e abbiamo portato la mia statua a Don Aurelio. Forse non verrà scelta per la chiesa ma noi ne siamo orgogliosi lo stesso e se non la vorranno la metteremo qui, a benedire il campo da calcio! E verremo a pregarci quando ne avremo bisogno! La faccia di Bogdan saltellava: Erminio era ubriaco, per questo aggiunse: - Ma mettetela dentro una Mercedes: rischia di prendere tante pallonate che si sfascia come quell’altra! - E rise forte, come non faceva da tempo. Rise anche Bogdan
che gli mise in mano un’altra bottiglia di birra, anche se non aveva ancora finito la precedente. Beveva un sorso da una e un sorso dall’altra. Bogdan rise ancora più forte, assieme a lui rise tutta la tavolata. Quando Erminio si svegliò, la testa pesante e la mente intorpidita, lo fece a causa di una manata che gli era arrivata sulla testa. Vide il faccione di Mirko che gli sorrideva compiaciuto, si mise in piedi con difficoltà e si guardò attorno. Il campo da calcio era finito. Perfetto. Con l’erba tagliata, le porte, le reti e anche le bandierine. S’era fatto quasi buio. - Eri stanco dopo il pranzo, così ti abbiamo lasciato dormire e abbiamo continuato noi. - Disse Mirko. - Siamo andati dal falegname a prendere le porte, Mjra ha cucito le reti e le bandierine. Bel lavoro, Erminio. Grazie. Sei un uomo buono. Non so come ringraziarti. - Sono io che devo chiederti scusa per aver pensato male di voi. Per quella storia della puzza di gomma bruciata. Era colpa di una fabbrica abusiva, lo sapevi? Il commissario Poletti Spada l’ha fatta chiudere. Voi non c’entravate niente. Volevo farmi perdonare con una cortesia, con i fatti, rendermi utile. Sai, noi siamo diversi, molto diversi, ma anche tu sei un uomo buono. Buono ed onesto. - Onesto? Io? Uno zingaro? - Gli rise in faccia. - Per come la penso io, sì. Molto più di tanta gente per bene. Mirko gli diede una manata sulle spalle e rise ancora. - Andiamo Erminio, carichiamo la carriola e gli attrezzi in macchina che ti accompagno a casa. Non ti reggi in piedi e dici cazzate! Andarono. Due uomini buoni ed onesti. Anche ubriachi.
XIV
Aurelio attese un buon quarto d’ora. Suonò il camlo tre volte. Teneva in mano un grosso tubo di carta: il progetto di Bogdan per la statua di Nostra Signora Elettrica, e Tobia cercava di impadronirsene a colpi di zampa e di muso.
Era costretto a fargli il solletico e strapazzarlo di tanto in tanto, per distrarlo dalla preda. Se non avesse telefonato prima e Gennaro avesse accettato con entusiasmo la sua visita se ne sarebbe già andato. Doveva per forza essere in casa. Il portico fiorito, con sedie e tavolini, e la compagnia di Tobia erano così confortevoli che non gli dispiaceva aspettare. Avrebbe accettato di rimanere tutta la mattina seduto lì, tra ginestre e tulipani, a giocare con quel botolone irresistibile ma, infine, Gennaro aprì la porta, col suo sorriso distaccato e quieto, quello degli uomini di personalità. Si scusò: - Perdoni, padre. Ero giù in studio, credo di non averla sentita subito e quando l’ho fatto ho dovuto lavarmi le mani per bene dai colori: ci vuole tempo, altrimenti imbratto tutta casa. Ma vieni, accomodati. Lo fece entrare, ad Aurelio dispiacque separarsi da Tobia che rimase a fissarlo da dietro la porta finché non si richiuse. Gennaro era di buon umore, lo portò nel seminterrato, il suo studio, a mostrargli i quadri. Alcuni erano appesi alle pareti, altri, la maggioranza, erano accatastati nella stanza-magazzino, adiacente a quella di lavoro. In questo magazzino le tele erano ordinatamente impilate in scaffali metallici, riposte nei ripiani a seconda della grandezza. Gennaro ne estraeva quelle più significative e le poggiava affiancandole dove trovava spazio. Un’esplosione di colori. Pittura con smalti, acrilici ed oli combinata con immagini di derivazione fotografica, elaborazioni digitali, fotocopie, ritagli di giornali. Colori e forme. Strutture compositive. Le fotografie erano in prevalenza di sculture: riproduzioni riprodotte. - Preferisco fotografarle le sculture, che farle. - Disse Gennaro, come gli avesse letto nel pensiero. - La riproduzione della scultura, fotograficamente parlando, permette contrasti forti, vuoti e pieni da riempire e svuotare con la sostanza pittorica. L’immagine vuota della scultura posso riempirla con quel che più m’aggrada. L’immagine diventa un segno, un segmento grammaticale del mio linguaggio. Un elemento strutturale della composizione. Senza un riferimento figurativo non avrebbe senso l’astrattismo pittorico. Rispetto a cosa astraggo? Al figurativo. Rispetto a cosa riproduco figurativamente? All’astratto. Quindi i due elementi devono essere presenti e compenetrati. Anche la fotografia: rispetto a cosa queste macchie di colore stampate su carta fotografica sono una figurazione e non segni astratti? Perché una figurazione pittorica, naturalistica, non dev’essere invece considerata per quello che è: un insieme di segni e di macchie di colore? Quindi è astrazione. Le due cose si completano. Si affermano e contraddicono a vicenda.
I colori esplodevano, le figure emergevano. In quei rettangoli e quadrati di tela accadevano cose indescrivibili, forti e urlanti. Aurelio se le sentiva addosso e dentro. E il papiro di Bogdan che teneva in mano lo preoccupava: aveva timore di mostrarglielo, Gennaro avrebbe potuto schiantare Bogdan con un solo sguardo al suo progetto. - …d’altronde, - Continuava Gennaro. - l’unica realtà è quella di un’illusione di un’immagine che rappresenta solo se stessa. Priva di contenuto e di senso. Autoreferenziale. Rappresentazione del nulla. Iperrealtà del nulla, unica realtà. Troppo insopportabile per non concludersi che nella negazione di se stessa. Il mondo non bisogna costruirlo: bisogna simularlo. Non mi sto inventando nulla. Come faccio ad inventare qualcosa se non c’è nulla da inventare? Posso solo riprodurre, simulare. Sono monotono, non ho fantasia. La realtà stessa è un’immagine ripetuta, io posso fare soltanto da eco, continuare a replicare una replica. Come i vecchi telefilm, quelli che nessuno dice di rivedere ma tutti conoscono a memoria. - Dovresti parlare con Erminio. - Perché? - Ha scritto qualcosa del genere. - Sul serio? Non ce lo vedo. - Niente è ciò che appare. - Appunto. È quello che stavo dicendo. La forma e la sua assenza. - Disse brandendo una tela con sopra un camioncino OM tutto arrugginito. - Essendo l’illusione la rappresentazione arcaica del reale, ne vale solo l’icona. Nel contemporaneo, dell’immagine rimane solo la tecnica di rappresentazione. Tecnica che ha sorato il reale ed è diventata iperrealtà. Autoreferenziale e vuota. Il significato è reso nullo dall’assenza dell’immagine che non è più descrittiva della realtà ma solo il proprio calco perfezionato. L’immagine è l’unica realtà, eppure non esiste. L’immagine rende nullo il reale. Forme vuote, assenti, riprodotte alla perfezione. Assenza di realtà e contenuto. Vanificazione dell’essere. Elevazione del nulla. Rimarcare la mancanza nella presenza. O viceversa: è uguale. Gennaro aveva bisogno di prendere fiato, tacque un attimo ed Aurelio ne
approfittò srotolando il papiro di Bogdan sul tavolo da lavoro. - Che ne pensi? - Si aspettava il peggio. Gennaro si avvicino. Pattinò con lo sguardo per lunghi momenti silenziosi. Poi rispose con voce aggraziata: - Ha un buon tratto. Tempera diluita. Leggero, le ombre sono ben studiate. Rappresentativo. - Sì, ma la statua? Come ti sembra la statua? - Il volto con tutti questi bulloni, fatto di rondelle e pezzi di computer … - Sì? - Non sono quei pupazzi pacchiani che rifilano ai turisti a Venezia? - E il corpo? - La tempera acquerellata l’aggrazia, ma rimane un manichino della Coin. Insomma, il tipo sa dare la tinta ma questo coso al massimo lo puoi mettere al luna park, mica in chiesa. O vuoi veramente farti scomunicare? - Allora perché non la fai tu la statua? - Te l’ho detto. Mi dispiace ma non posso. Ma ciò non c’entra col fatto che questo qui sarebbe un crimine. È difficile fare lo scultore. A questo al massimo puoi fargli ridipingere il soffitto della sagrestia. - Capisco … Belli i tuoi lavori. Senti, scusa se cambio discorso. L’altro giorno sono andato col Commissario dall’autodemolitore, quello vicino al Ponte della Cicerchia. Lo conosci? Gennaro ci pensò su, poi, apparentemente sincero, negò: - Non mi pare. Quelle foto del furgoncino OM, se ti riferisci a quelle, l’ho scattate a Roma. Non ci sono mai stato dove dici tu. Perché me lo chiedi? - Sostiene che viene da lui gente che con la scusa di fare foto artistiche fotografa i pezzi di ricambio che la notte gli vanno a rubare. Fanno così per andare a colpo
sicuro e non perdere tempo. Gli tocca nascondere i pezzi migliori, così ha detto, per evitare che glieli rubino. Altro che farlo sapere a tutti facendo foto che fanno il giro del mondo. E ha fatto proprio il tuo nome. Sicuro che non ci sei mai stato? Gennaro rise. Un risolino breve e sommesso, compito. - Non gliene voglio al tuo amico: rispetto le idee di tutti, magari hanno più ragione di me. Solo i pubblicitari li considero necrofili, ma quello è un altro discorso. Non ci si inventa mai niente di nuovo, ricordi? Quindi di qualcun’altro deve essere stata prima, l’idea. Si ruba sempre. L’artista, in fondo, è sempre un ladro di qualcosa. Di poesia, di una veduta, di un sentore. Prende linfa vitale da ciò che già c’è e anche da come è stato visto dagli altri artisti. Si chiama cultura personale, riferimenti storici, quella roba lì. Imparare da chi ci ha preceduto sullo stesso cammino. C’è anche il saper vedere il quotidiano in un’altra maniera, con uno sguardo obliquo, il cosiddetto sguardo d’artista. D’altronde il lavoro che faccio in pittura rielaborando le fotografie della scultura e quelle, perché no, delle carcasse d’auto è proprio continuare il percorso espressivo iniziato da altri, lo scultore o l’ingegnere automobilistico che sia. Secondo il tuo amico io potrei essere un ladro, o forse, per come la vedo io, traggo quella benedetta linfa creativa da un anelito vitale, un soffio creativo, anteriore al mio, che vive nell’opera, come diceva Picasso, al dì là del suo autore, che vive nell’occhio di chi la guarda e si trasforma incessante nel tempo. E il mio occhio, non migliore o più importante di quello dell’osservatore, trasmette al mio sentire, alle mie mani, quel fare, quel creare che rigenera ed elabora l’immagine. È il fare artistico, chiamalo come accidenti ti pare, che continua a far vivere l’essenza dell’opera nelle sue rielaborazioni, interpretazioni o copie che dir si voglia, le quali si diluiscono nel tempo tramite mani e teste diverse, di chi non è importante. È l’impermanenza dell’opera d’arte, anzi: solo dell’arte. Al di là delle varie forme che assume l’arte continua a vivere, forse immortale, di se e per se. Con, senza o contro la volontà degli artisti, degli osservatori, dei denigratori, dei demolitori, degli uomini tutti. È questa la sola miserabile illusione che l’arte ci può dare. Forse è troppo, forse è troppo poco. Non lo so. - Capisco ... - Guarda che anche questo tuo amico demolitore è un artista, o perlomeno un intenditore d’arte, a suo modo: riconosce la mia qualità di trasformatore della materia, di alchimista, dandomi del ladro, cosa che io, credo, di non essere, e magari sbaglio. Questo mi inorgoglisce: scopro continuamente altro da me
proprio in me. La sua forza creativa, la sua immaginazione, è meravigliosa. Ma il suo discorso, comunque, non mi sorprende: l’ho già sentito. - T’hanno accusato di qualche altro furto? - Tentato furto. - Sorrise ancora. - Lo stesso discorso me l’ha fatto il responsabile ai Beni Culturali di una grande città europea durante una mia visita al Cimitero Monumentale ivi presente. Anche lì volevo scattare delle foto da utilizzare per le mie cose, come sai prediligo cimiteri e autodemolitori. Le carcasse d’auto e gli angeli ottocenteschi si equivalgono per me, quindi la situazione era proprio la stessa. Sai che mi disse? - Cosa ti disse? - Che non c’erano fondi per la sorveglianza notturna e di notte venivano a rubarsi statue e sarcofaghi per farci vasche da bagno e nani da giardino. Quindi quelle meravigliose sculture, quel patrimonio artistico della città e di tutti gli uomini di buona sensibilità, era meglio non fotografarlo, non pubblicizzarlo. Meglio tenerlo nascosto per non farselo rubare di notte. Come ha detto il tuo amico demolitore, no? - In effetti. E non posso neanche dargli torto. Ad entrambi. - Neanche io. In fondo arte e pezzi di ricambio sono la stessa cosa. Breve silenzio, forte, pesante, narcotizzante. Poi Aurelio terminò: - Posso andare a giocare con Tobia? Gennaro se ne dispiacque un poco: lui era come un bambino introverso che dà poca confidenza ma una volta che s’è lasciato andare non smetterebbe mai di parlare. Ed era anche orgoglioso. Si indispettì e non fu simpatico: - No. Tobia adesso deve riposare: è stato tutta la notte a dare la caccia ad un gatto. - E l’ha preso? - Non c’è riuscito. In realtà erano le ombre dei cipressi che quando tira vento fanno strane forme, ci puoi vedere di tutto. Niente è ciò che appare. Ma lui questo non lo sa.
- Niente è ciò che appare. Si salutarono con mestizia. Aurelio tornò indietro senza essere accompagnato alla porta: Gennaro doveva finire una tela per cui era terribilmente in ritardo nella consegna. Fuori Tobia lo accompagnò per un tratto di strada, lui gli ripeteva di andarsi a riposare, di restare a casa. Tobia non capiva e lui approfittò fino all’ultimo della sua compagnia confortante e calorosa.
XV
- Proprio non la capisco. Eppure è un tipo così in gamba, una brava persona se lo conosci. - Mirko diede una lunga sorsata di birra. - Sta sempre in casa da solo. Non esce con nessuno, sempre lì ad intristirsi. Mai visto con una donna. Sarò mica frocio? - Non si dice: si dice omosessuale. - Replicò Aurelio. Anche lui beveva birra. Erano seduti ad un tavolino del bar di Antonio, era una splendida giornata di sole. Il parroco e il capo della comunità Rom parlavano di sesso. - Va bene, omosessuale. Come fa a stare sempre da solo, senza una donna? - Senza neanche un uomo se è per questo. - Giusto. Quindi non è neanche omosessuale. Non è niente. - Saranno fatti suoi. Ognuno fa le sue scelte. Gli andrà bene così. Neanche io esco mai con una donna, o con un uomo, per quello che intendi tu. - Ma tu sei un prete! Ecco, non osavo chiedere, infatti… E tu come fai? Sei un uomo anche tu. Non senti nessun bisogno? - No. Ho altri interessi nella vita. - Uomini? Anche tu? - No, Mirko. Parlo di cose più importanti.
- Ma una cosa non esclude l’altra. Se vedi una donna non provi niente? - No. - E se vedi un uomo? Non provi niente lo stesso? - Mirko, che domande mi fai? - Sto cercando di scoprire se sei morto! - Un uomo del Signore fa una scelta che cambia il suo modo d’essere, che cambia anche i suoi istinti naturali. La volontà umana può renderci sorprendentemente diversi, più di quanto possiamo immaginare. - Sì, la solita storia che non capirò mai. Perché devi fare certe scelte? Si vive una volta sola. Vabbè .. Antonio, portaci altra birra! - Urlò. - Comunque parlavamo di Erminio: tu sei irrecuperabile. Insomma, vorrei fare qualcosa per lui, credi proprio che non gli piacerebbe se andassi a trovarlo assieme a qualche amichetta? Guarda che mi costa una tombola questa cortesia. Almeno spero gli faccia piacere. - Cosa vuoi che ti dica? - Quello che pensi, cazzo! Non il prete, quello che pensi tu, Aurelio! Rimase a fissarlo straziato per la simpatia che provava per lui e un senso di smarrita stanchezza che gli rendeva difficile trovare qualcosa di banale da dire. Di cose sensate ne avrebbe trovate ma era meglio non pensarle. - È permesso? - La voce familiare li interruppe. Poletti Spada era lì, davanti a loro. Non si erano accorti che fosse arrivato, assieme ad un’altra persona che non conoscevano. Chiaramente volevano sedersi. Infatti, senza aspettare risposta, presero le sedie dal tavolino accanto e si accomodarono. Mirko prese due bicchieri e versò birra anche per loro. - Benvenuto, Commissario. È sempre un piacere vederla, almeno all’aperto, senza sbarre davanti! - E rise forte. - Grazie, Mirko, anche per me, credimi. Caro Don Aurelio, - Esordì Poletti Spada. - Sono ato in sagrestia e non ti ho trovato, casualmente avamo
qui davanti. Ho assoluto bisogno di presentarti il qui presente collega, Christian Paolini. - Volse il palmo della mano verso il tipo biondo, magro e con il volto tiepido, seduto accanto a lui, il quale si alzò in piedi a stringergli la mano, a lui e a Mirko. - Ispettore Christian Paolini. Piacere. - Piacere mio. - Rispose laconico Aurelio. - Siamo nel pieno di un’indagine? Devo andare via? - Chiese Mirko tracannando in fretta il contenuto del suo bicchiere per alzarsi subito ma Poletti Spada lo fermò, sfiorandogli il braccio con benevolenza. - No, no. Figurati. Non c’è nessuna indagine. Il qui presente Christian vuole offrire il suo contributo per la nuova statua di Nostra Signora Elettrica. Lui è un grande artista e si è proposto con entusiasmo. Sarebbe un onore per lui. - Deve portare un progetto. - Rispose Mirko, anticipando Aurelio. - Aurelio deve relazionarsi con il Vescovo, con la Curia, con Roma. Non è così semplice. Poletti Spada si sorprese. Non ci voleva il suo fiuto da poliziotto per capire che la cosa non andava a genio a Mirko. - Certo. - Rispose. - Non si vuole imporre niente a nessuno, né scavalcare la procedura. Ci proponiamo con umiltà. Aurelio prese la parola prima che la situazione degenerasse. Qualcosa doveva pur fare, non poteva stare sempre zitto. - Va bene, commissario. Scusate Mirko ma stavamo discutendo della questione del Diritto Pubblico nella Repubblica di Platone e l’arcinota questione fra semantica e porcospini nelle questioni pubbliche e private deve averlo assorbito troppo. Poletti Spada lo guardò come si guarda una trota. - Certo, è così. Mi scuso, commissario. Sono felice che ci sia una vostra proposta, sono felice di conoscere Christian. - Aggiunse Mirko levando in alto il bicchiere per brindare all’evento.
- Piano, colore e linee direttrici. - Annunciando la sua poetica con una voce alta e sottile, un poco femminile, l’ispettore Paolini porse ad Aurelio una cartelletta A4 con dentro il suo progetto. - Tutto si può ridurre a questi elementi strutturali. E da questi tutto si può sviluppare. Struttura. Struttura ridotta all’essenziale. Sintesi. Questa è la mia ricerca espressiva. Questo è il mio progetto, le chiedo cortesemente di esaminarlo. L’ultima frase poteva sembrare come un’umile supplica o una ferma esortazione, una minaccia di un pubblico ufficiale zelante e presuntuoso. Aurelio non riuscì a capirlo ma pensò che fosse proprio così che si esprimevano, un tempo, i messi della Santa Inquisizione. - Bene, vi ringrazio tantissimo. - Disse alzandosi e mettendo la cartelletta sotto il braccio. Mirko si alzò appresso a lui. - Come ha detto Mirko, porterò il progetto al Vescovo. Ci sarà una selezione: ne sono arrivati tantissimi. Speriamo che il vostro abbia successo. Ora devo scappare, fra mezz’ora c’è la funzione. - Vado anche io, s’è fatto tardi. - Mirko pagò il conto. Si alzarono anche Poletti Spada e il suo accompagnatore, più sorpresi che offesi, in imbarazzo. - Arrivederci. Ma davvero Platone parlava di semantica e porcospini? Aurelio era quasi salito in macchina di Mirko, rimase a pensare cosa rispondere. Mirko lo anticipò: - “Ognuno, quando ritiene di poter commettere ingiustizia, la commette. Il culmine dell’ingiustizia consiste nel sembrare giusti senza esserlo”. A presto, Commissario. E partirono con una lieve sgommata di soddisfazione. - Non ci contare troppo. Meglio per te. - Rispose Poletti Spada fra i denti, rivolto al suo collega che non fece una piega: sembrava fosse lui la statua. - Ma davvero Platone ha detto quella roba lì? - Certo, controlla pure.
Aurelio rise. - Sei un bastardo! A te non ti frega nessuno! - Ci vuole ben altro di un commissario stronzo e il suo tirapiedi sparaballe. Fidati. Svoltarono a sinistra, contromano. Avevano fretta: la funzione non poteva aspettare.
XVI
Eppure qualcosa doveva fare per Erminio, si ripeteva Aurelio mentre apriva la cartelletta viola che gli aveva consegnato l’ispettore Christian Paolini e ne disponeva il contenuto, una manciata di fogli formato A4, ordinatamente sul tavolo della canonica. Non si era mai veramente preoccupato per Erminio. L’aveva osservato, scrutato, analizzato, ma non l’aveva mica capito. Anzi, l’aveva mai osservato a fondo con lo sguardo comionevole di un prete? Partecipe della sua umanità, solidale col suo essere? D’altronde lui non ci si sentiva, non lo era, un prete. Perché mentire a stessi? Dodici fogli, in ognuno di essi un quadrato monocromo di colore differente. La soluzione stava nei quattro fogli finali: c’era descritto l’assemblaggio di quei quadrati, le istruzioni di montaggio: dodici lastre semitrasparenti colorate a comporre una sagoma vagamente umana, robotica. Le parole di Mirko l’avevano preoccupato, l’avevano fatto preoccupare per qualcuno. Per la prima volta, dopo tanto tempo si preoccupava per qualcuno. Non solo per se stesso. Erminio era suo amico. Ma da Erminio all’idea che si era fatto lui di Erminio ce ne ava. Neoplasticismo figurativo. Roba da non credere. Le lastrine colorate, riunite in un rozzo robot, tipo quelli dei telefilm anni cinquanta, lasciavano trasparire tracce, segni, probabilmente incisioni, orizzontali e verticali, la diagonale era abolita, configurando un accenno di descrizione anatomica, l’ombra di un corpo distribuite nelle ascisse x e y. Forse erano le membra dissolte nella luce di un corpo che avrebbe dovuto essere solo spirito. E la testa un cerchio perfetto, a dispetto di tutto il resto. L’assoluto, il rotondo. La sintesi e la struttura. Roba da rogo nella pubblica piazza. La Nostra Signora Elettrica di Bogdan annuiva, lì accanto al frigorifero, ma lei era di parte, non faceva testo. La sua espressione gli sembrava più quella di Maria Maddalena, che quella della Madonna. Tentatrice e
fuorviante. Ma era una sua illusione, una sua allucinazione. Rise. Erminio stava troppo da solo, rischiava d’intristirsi. Sempre che invece non fosse meglio così, per lui e per tutti gli altri. E che non ci fosse nemmeno bisogno di rompergli i coglioni. La cosa più ragionevole era andare da lui e parlarci. Capire se era il caso di romperglieli oppure no. In caso negativo si sarebbero fatti una chiacchierata, come tante altre volte. E la cosa avrebbe fatto del bene, magari più a lui che ad Erminio. Era deciso: mise il giubbotto ed uscì. I muri esterni della casa di Erminio erano scrostati, sui davanzali delle finestre c’erano però vasi di fiori ben curati. Tutt’attorno un orto dove cresceva di tutto: pomodori, cipolle, patate e tanti altri ortaggi. Poi alberi da frutta e un paio di ulivi. C’era un silenzio totale. Aurelio suonò il camlo che dovette premere a fondo per tirar fuori un trillo secco, da centrale elettrica. Erminio venne subito ad aprire, era mattina presto ma lui era già in piedi da parecchio. - Ciao, Aurelio. Vieni, entra. Stavo proprio per venire da te. Lo fece accomodare nella grande sala che faceva da cucina, salotto e laboratorio assieme. Ad un angolo c’era la macchina a gas, un tavolo, il frigo, il lavandino e tutto l’occorrente per alimentarsi. Ad un altro un divanetto, un paio di sedie e un televisore a tubo catodico ventisei pollici. Il resto della stanza era occupato da un grande tavolo da lavoro, sulle pareti stavano appesi utensili vari, c’erano anche alcune librerie piene. In fondo c’era il bagno. Era tutto ordinato e pulito ma ogni volta che Aurelio entrava lì dentro aveva la sensazione di trovarsi in una specie di officina o di ufficio, non in una casa. Mancava calore. - Vuoi un caffè? Glielo porse sul tavolo della cucina, dove c’erano anche biscotti, pane e marmellata. Si sedettero. Non s’era mai seduto sul divano del salotto ogni volta che era andato a trovarlo. - Come te la i, Erminio? - Si guardava attorno. Una cosa, in fondo, all’angolo della parete piena di attrezzi, oltre il tavolo da lavoro, attirò la sua attenzione ma cercò di non distrarsi da quello che doveva dire. - È una domanda generica o devo preoccuparmi?
- Nessuna delle due. Forse. - Sorrise Aurelio. Erminio gli porse un foglio. - L’ho scritta ieri sera. Che te ne pare? - Ancora le tue poesie? - Lo so, sono noioso. Proprio non vuoi leggerla? - Certo che la leggo. Almeno questa è scritta su una colonna sola.
URBANA Camminare selvaggio Senza senso direzione Ad angolo retto Intorno dentro la testa Aria di nebbia Voglia di odio di odorare qualcuno o qualcosa Anche solo una faccia non conosciuta di temere corpi al buio Camminare selvaggio su strade luci mattoni
Camminare selvaggio Senza senso Non c’è più un recinto bucato nella nebbia Intorno dentro la testa Odore di nebbia Odore di urla carbonizzate Continuo a sentire Odore di urla carbonizzate Mi sento chiamare Non mi voglio voltare Mi sento cercare Non mi trovo Mi sento sembrare E non lo sono Mi sento malato Ma in un’altra maniera Forse quella giusta La normalità Di un modo pericoloso Di simulare Quello che già c’è
E non serve Speculare forse Morbosamente inutile Mi sento in un modo pericoloso Morbosamente inutile Continuo a sentire odore di urla carbonizzate Mi sento chiamare Non mi voglio voltare A VEDERE Le necessità Le volontà Le vanità Come i tuoi bastardi pantaloni gialli Bravo Mettili E cercami ancora Vienimi a stanare Fammi sentire Che aspetto qualcuno O nessuno Fammi credere ancora Senza importanza
Intorno dentro la testa odore di nebbia Continuo a sentire odore di urla carbonizzate Foto controluce con sguardi strozzati Privi di quello che non hanno mai avuto e non avranno mai Pieni di quello che non credevano di sentire o vedere Inutile spiegare o scusare Inutile pensare o non credersi Inutile fare rumore per non sentirsi Inutile fare silenzio per sfuggirsi INTERRUZIONE Per capire e sentire quello che gli occhi non possono dire Vedere quello che lo parole non sentono Sentire quello che dentro manca e resta Non c’è niente da spiegare Non c’è niente da imparare Non c’è niente d’importante Continuo a sentirmi cercare
Non importa Continuo a sentire odore di urla carbonizzate Mi sento cercare Non mi trovo Mi sento sembrare E non lo sono Mi sento malato Ma in un’altra maniera di quello che non ho e ho sempre avuto Mi sento chiamare Non mi voglio voltare Non importa Ogni urlo Lo ascolto e non lo guardo.
Aurelio gli ridiede il foglio. Rimase un attimo in silenzio, poi disse: - Senti ancora odore di plastica bruciata? - Certo, la sentirò sempre. Ma almeno adesso so che non è colpa di Mirko. Insomma, che te ne pare? - Interessante. Ti lascia un rumore nella testa, come un pezzo punk. Ti ci vedo come cantante. No, anzi: come batterista.
- Io no. - A proposito di Mirko. - Si fece forza. - Ci ho parlato, ti vuole invitare ad una festa con lui. - Una festa? - Sì, una festa particolare. Insomma, posso parlare liberamente? - No, devi parlare di nascosto. Ma che dici? Sono mica il commissario Poletti Spada? - Allora … Mirko ti vede un po’ giù, si preoccupa per te, gli sei simpatico e non riesce a capire perché te ne stai sempre da solo, senza fare rumore, senza divertirti. Vuole farti una festa. Silenzio. Erminio non aveva capito. Aurelio prese aria e la mandò giù nei polmoni, poi tirò fuori tutto. In fondo lui non c’entrava niente. - Ti viene a trovare una sera di queste con due signorine a pagamento, una cassa di birra e sigari cubani. Poi ti porta in giro per locali che conosce lui. Dice che ti farà divertire da matti. - E tu che gli hai detto? - Erminio lo guardava come si guarda una multa arrivata per sbaglio. - Niente. Io riferisco. - Cazzo. Sei un prete, tu! Un’opinione devi averla su queste cose! - A parte il discorso del prete, non mi sembra una cattiva idea. - Ottimo. Vieni anche tu? - No, io vado a dormire presto. Senti, Erminio, non ha tutti i torti: magari distrarti un poco, ogni tanto, ti farà bene. Anche io ti vedo troppo solitario, troppo serio. Anche questa storia delle gomme bruciate non è rassicurante, magari significa che sei sui nervi, che hai bisogno di rilassarti, di divertirti. Prova, no? Se non ti piace lascia perdere, almeno c’hai provato.
- Sempre meglio. Ho anche l’assoluzione garantita, no? Neanche un Pater Noster? - E dai, non farmi il bigotto. T’ho chiesto di parlare liberamente. Vuoi che faccia la parte? Che reciti qualche o del Vangelo? Posso sempre rifugiarmi nel solito “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Parlo sinceramente, Erminio. Lasciamo perdere le cazzate. - Aurelio, ti ringrazio e sono commosso del tuo interessamento ma non ho bisogno dell’aiuto di Mirko, sto bene così. Ringrazia anche lui, veramente. Da lui potevo aspettarmelo, ma da te … - Sono preoccupato. - Me l’hai detto. Non devi preoccuparti. - Hai una donna? - No. E non sento il bisogno di averla. E non ce l’hai neanche tu. Senti il bisogno di averla? - Ti prego, Erminio. Io non c’entro, non posso entrarci anche volendo. Adesso parliamo di te, solo di te. Dopo, se vuoi, parliamo di me. - Va bene. - Non ti interessano le donne? - Non più di quanto possano interessarmi gli uomini, gli animali e i vegetali. - Non ti interessano neanche gli uomini, quindi? Sorrise. - Non sono omosessuale e non mi accoppio con gli animali, ho un orto ben curato ma uso le sementi che mi consiglia Sezzi, non le mie. - Amicizie? Compagni? Parenti? - Figlio unico. Orfano. Frequento un prete ma non so se valga come amico perché ha detto di essere una cosa a parte. E un zingaro che però ho visto poche volte e non so se ci sia da fidarsi di quella gente. Non sono innamorato di lui,
fisicamente lo trovo detestabile, ma forse è solo perché mi ha riempito di botte una volta. Aurelio rimbalzava lo sguardo da Erminio alla cosa che attirava la sua attenzione in fondo alla sala. Cosa doveva dire adesso? - La vuoi veramente sapere tutta la storia? - Erminio si alzò, prese dalla mensola della cucina due bicchieri e una bottiglia di Jack Daniel’s. Erano le otto e ventisette di mattina. - Allora bevi con me. - Disse risiedendosi e piantando con forza i bicchieri sul tavolo. Aurelio fece cenno di sì con la testa. - Ogni cosa ha un prezzo. - Erminio riempì i bicchieri, diede un sorso, attese che anche Aurelio bevesse, poi cominciò: - Sono arrivato qui dieci anni fa, ho ristrutturato questa casa e la mia vita è ricominciata qui, in silenzio, per conto mio. Sono così, sono diventato così, non voglio essere diverso. Una volta ero un impiegato di una azienda informatica, lo sono stato per venti anni. Ero bravo, avevo amici, ero sposato. Per fortuna senza figli, altrimenti avrei avuto dei problemi di responsabilità e forse non sarei potuto divenire quello che sono adesso. Forse, non posso verificare un fatto che non esiste. Comunque, ad un certo punto, una serie di accadimenti ha cancellato tutto quello che ero. Io ne ho preso atto e ho ricominciato. Mi sono ricostruito col poco che mi restava. - Che è successo? - Chiese Aurelio vuotando il suo bicchiere. Erminio li riempì di nuovo entrambi. - Mi sono successe cose banali, che succedono a tutti, ma non per questo te l’aspetti quando succedono a te. Pensi sempre che succedano solo agli altri certe cose. No, sono successe anche a me, proprio a me. Un giorno sono stato licenziato perché usavo sul lavoro cose che non erano dell’azienda, che mi portavo da casa, dissero. Non ti spiego di cosa si trattasse, solo dissi al capo che la carta igienica non c’era in bagno, quando me lo fecero presente, e se non mi fossi pulito il culo con le salviettine che mi portava da casa, anche quelle, m’avrebbe dato fastidio e forse anche la puzza ai colleghi in ufficio avrebbe dato fastidio. Poi cercai altri lavori, qualcuno lo feci, ma sono rimasto incazzato. Così incazzato che mia moglie s’è stufata di sopportarmi, come darle torto? E se ne è andata. Anche gli amici si sono stufati, uno alla volta, di sopportarmi. Sono rimasto solo come un cane. Neanche il portiere del palazzo dove abitavo mi
salutava più. Eppure era pagato per farlo. Ma non posso dare torto neanche a lui. Ero sporco e puzzavo. Avevo finito le salviette, non avevo soldi per comprarle. Ero solo: dovevo bastarmi. Solo i soldi cominciavano a non bastarmi. Io ero meno importante. Ad un certo punto devo aver avuto uno sdoppiamento di personalità, una schizofrenia. Parlavo da solo, parlavo con me stesso e mi sono detto: “non preoccuparti, io ci sarò sempre. A me piaci. Non ti lascerò mai. Saremo felici assieme.” Questo mi ha reso indistruttibile. Per questo non ho bisogno di nessuno. E non ho bisogno neanche delle donne. Sto meglio da solo. È una colpa? È un peccato? Affare vostro. Non mi riguarda. Io sono fuori. Non è possibile che a nessuno frega un cazzo di te e si ricordano solo per romperti i coglioni se non ti lamenti. Non so se mi spiego. Sono misantropo? Bene. Me ne vanto. Non è che non ho bisogno delle donne: non ho bisogno di nessuno. “Però stai male!” dici tu. Devo stare bene per forza? Sto male: e allora? Perché, se vi do retta sto meglio? Voi altri state tutti bene? Qui si tratta solo di stare meno peggio. Mi sono evoluto abbastanza. Anche troppo. Anche di più. Invidio Mirko ma io non sono Mirko e non lo sarò mai. Ma siamo sicuri che non lo troviamo impiccato ad un albero anche lui, prima o poi? A qualcuno frega tanto di Mirko che ci metterebbe la mano sul fuoco? Fero tutti come gli pare, basta che non mi vengono a rompere i coglioni. Io voglio solo stare per conto mio. - Sei soddisfatto così. - Esatto. O magari insoddisfatto così: è la stessa cosa. Aurelio vuotò il bicchiere, ne assaporò il sapore fino all’ultimo alito sulla lingua, si alzò, la testa calda e traballante, prese a camminare, non sapeva bene dove andare, allora rivide l’oggetto del suo interesse e gli si fece vicino. Era proprio una scultura. Una scultura di legno. - Non posso darti torto. Scusa per l’invadenza, era a fin di bene, hai ragione tu: stai bene così, o non stai bene così. Stai così. Come tutti, alla fine. Anche io, ad esempio, spesso non mi sento troppo bene ma non per questo è sicuro che mi sentirei meglio, in altre condizioni. L’hai fatta tu questa? - Sì, certo. L’ho fatta io. Era di mogano. Una figura femminile avvolta in un drappeggio che gli girava tutt’intorno, le mani giunte in preghiera, il volto soave, lieve, di una bellezza sublime. Una madonna perfetta. Era lei: Nostra Signora Elettrica.
- Quando l’hai fatta? - Come ti dicevo, - Sorrise stancamente Erminio. - Quando sono arrivato qui non ero nessuno e non avevo niente, mi sono arrangiato e mi arrangio tutt’ora, a fare ogni tipo di lavoro che mi garantisca la precarietà. Faccio molti lavori di falegnameria, ho imparato a lavorare il legno, e quella l’ho fatta a tempo perso. Quando non ho niente da fare mi rilasso con atempi inutili. Lo faccio per tenermi occupato e non pensare troppo. - È perfetta. È illuminata dalla luce divina. - Ma fammi il piacere. Sono pure ateo! Tu hai bevuto troppo. Domani, a mente fresca e riposata, ti apparirà in tutta la sua miseria, te l’assicuro. - Lo dici tu. Invece c’è l’alito del divino in questa scultura. - Per favore. Ricordati che sei un prete cattolico, non un testimone di Geova. Sono loro quelli convinti che anche gli atei sono invasati dalla Madonna. Tu resta al posto tuo che poi, detto fra noi, non ti ci vedo neanche troppo bene. Rise. E riempì ancora i bicchieri. Eppure Aurelio era convinto di aver trovato quello che stava cercando, quella statua era meglio di quanto avesse potuto sperare, il whisky non c’entrava niente, come dicono sempre gli ubriachi. - Erminio, è lei! Nostra Signora Elettrica! Perfetta! Tu ci salvi tutti! - Manco per sogno! - Sgranò gli occhi, fece una smorfia arrabbiata e poi rise ancora. - Quella è la statua storta di un ateo un po’ stupido e tu non capisci niente di scultura! Comunque te l’ho detto: non ci tengo a finire sul rogo assieme a te. Già me la immagino la furia dei paesani se dovessero vedere quel coso in chiesa. Finora mi sono salvato perché ho tenuto un profilo basso e voglio continuare a farlo. Non sono Gesù Cristo, sono solo un povero cristo. - Andiamo, Erminio! Almeno tu aiutami! - Voglio aiutarti. Ma così ci mettiamo nei guai tutt’e due: dammi retta. L’aiuto che posso darti è di non farti toccare quella cosa. Trova un nome importante, magari famoso, come autore della nuova statua. Che abbia l’autorità per zittire questi bifolchi. Qualsiasi cosa metterai in chiesa non provvista di un sigillo
d’autorità, per quanto bella, per quanto perfetta, non li convincerà. Non è colpa loro. Hanno bisogno di sicurezza, solo qualcosa certificato come divino li tranquillizzerebbe, non può averla fatto il facchino della porta accanto: è una madonna, non dimenticarlo. Aurelio cedette sfinito, ancora una volta. - Hai ragione ma sei un bastardo. Non mi vuoi aiutare. - Ti sto aiutando. Aurelio si rimise seduto e bevvero ancora, in silenzio. La bottiglia era quasi vuota. Erminio gli porse un cartoncino spesso, giallino: era un biglietto da visita. C’era scritto sopra indirizzo e telefono del Vescovo. - Ha detto che devi chiamarlo e andarci a parlare di persona. Aurelio sentì svanire di colpo la sbornia che non s’era accorto di essersi preso. - Ieri sono andato a raccontargli tutto, come mi avevi chiesto di fare. Capisce, ma vuole che vai da lui perché deve assolutamente parlarti di persona. Ho detto che sei malato, che non puoi muoverti ma lui aspetterà che guarisci. Sperando che tu lo faccia in fretta, ha detto. - Va bene. - Disse Aurelio riempiendo i bicchieri e vuotando la bottiglia. Silenzio. - Problemi? - Erminio cercava il suo sguardo, lui guardava il televisore spento. Poi si alzò. - No, no, ci vado il prima possibile. Grazie, Erminio: hai fatto tanto, anche troppo. Ora vado, altrimenti mi addormento sul divano. Erminio, accompagnandolo alla porta, si ricordò qualcosa: - Mi avevi detto che poi avremmo parlato di te. Lo avevi promesso. - C’è poco da dire, credimi. Io non sono io. - Gli sorrise di cuore. - Troppo facile: un prete è il messaggero di Dio, no? Quindi non sei tu: sei la parola di Dio. Non c’è una certa presupponenza in questo? In pratica, spersonificandovi nella parola di Dio è come se vi sostituisse a lui, con discreta
umiltà. Abbiamo la conoscenza delle cosa tramite le informazioni che ci arrivano da essa: la parola di Dio ce ne descrive la natura, la sua parola è la sua natura visto che non ne abbiamo una forma, una visione, a parte qualche miracolato. Quindi io che sono un prete sono Dio: al di là dei sofismi va a finire così. - Sei fuori strada. - Sorrise ancora, divertito.- Facci caso: nei sermoni parlo raramente di Dio, la mia parola non è che sia così perfetta, che abbia tanto del divino. Non mi nascondo dietro la parola di Dio, non mi nascondo dietro Dio. Io, certo, non sono Dio. - E chi sei? - Uno qualsiasi. Non lo so neanche io, te l’ho detto. Io sono solo uno qualsiasi. Io sono uno. Gli sorrise, con la grazia di chi ha profferito una verità divina. E andò via. Erminio non diede peso a quello che gli aveva detto e riprese a mettere ordine nella sua casa-studio, come stava facendo prima di quella visita. Aurelio, facendo la strada per tornare in canonica, cercava di camminare dritto, non sicuro di riuscirci. Aveva paura che qualcuno lo notasse ubriaco ma, fortunatamente, c’era poca gente in giro. Quei pochi, credenti e non, che incontrava lo salutavano alla solita maniera. Lui pensava che tutti fossero cattivi perché nessuno voleva aiutarlo. Cattivi ed egoisti. “Bella scoperta, sai che novità” si disse. Quando si è ubriachi si crede di pensare cose geniali, invece è tutto così banale.
XVII
Il Commissario Poletti Spada s’era messo il vestito buono. Il completo gessato, grigio chiaro, che aveva preso otto anni prima alla Coin. Era in ottime condizioni perché lo usava raramente ed era una persona che aveva cura delle proprie cose. Raramente buttava un capo d’abbigliamento rotto o troppo consunto. Lui gli indumenti li lavava alla temperatura giusta, con i detersivi adatti, stirava in maniera impeccabile, stava attento a dove si sedeva e si impigliava raramente in maniglie o altre sporgenze. Quindi di vestiti ne comprava pochi e quando era stufo di qualcosa che ormai non metteva più da anni, li dava alla parrocchia per i
bisognosi. Così si sentiva altruista e faceva posto nell’armadio. Sentirsi generoso lo faceva sentire meglio e nell’occasione faceva due chiacchiere con Don Aurelio, forse l’unico con cui parlava volentieri in paese. Non era una vera e propria amicizia ma una sporadica occasione di scambiare opinioni che non fossero scontate. Aveva provato ad uscire con qualche collega, ad andare al bar, classico punto di ritrovo di ogni paese, ma parlare con la gente lo annoiava e lo faceva sentire superiore. Non è che avesse una grande opinione di se stesso, tutt’altro, ma le persone non mancavano di fargli sempre presente la loro pochezza. Non era colpa sua. Quindi, soprattutto, si annoiava. Viveva da solo, aveva divorziato da tre anni e s’era sentito subito meglio da quel momento, o meno peggio. Fortunatamente non aveva figli, non aveva niente da rimpiangere o da rimproverarsi. La moglie era andata via, di punto in bianco, una mattina di febbraio. Aveva atteso in cucina che lui si svegliasse, gli aveva preparato la colazione come tutti i giorni e mentre lui gustava i Gran Turchese inumiditi dal caffellatte, una delle poche cose della vita che adorava, lei gli aveva spiegato, con tono cordiale e distaccato, che lui non aveva più attenzioni per lei, che la ignorava completamente, che viveva solo per il suo lavoro. Era sorpreso e non ebbe il tempo di risponderle. Non avevano mai avuto neanche niente che si avvicinasse ad un litigio, nessun malumore che potesse mettere in dubbio la loro unione, che credeva solida ed inaffondabile. Lei aveva già la valigia pronta accanto la porta, si mise il cappotto e andò via. E basta. Non pensò a correrle dietro, a chiedere migliori spiegazioni, ad implorarla di rimanere, perché voleva finire i suoi Gran Turchese. Assurdamente, in quel momento, per lui erano la cosa più importante, erano l’unica percezione fisica di un piacere, l’unica traccia di autenticità, l’unica cosa che gli interessasse. E basta. Questo lo convinse che la moglie aveva ragione, c’era poco da discutere. Era un uomo di legge, abituato a prendersi le proprie responsabilità, nel bene e nel male. Finì la colazione, si vestì e andò in ufficio a are la giornata come al solito. Aspettò una settimana per verificare se la moglie gli mancasse, se fosse disperato, se solo il peso della solitudine potesse portarlo a tentare una riconciliazione. Niente di tutto ciò: era più rilassato ed attento sul lavoro, aveva più tempo per se stesso, non che prima non ne avesse, diciamo che era ato da un novanta ad un cento per cento e aveva più spazio in casa. Non c’era motivo di cercarla. Infilò tutte le cose della moglie in dodici scatoloni, chiamò il corriere e li fece consegnare all’indirizzo della sorella della moglie, una persona che odiava ma gli stava comunque simpatica. Poi chiamò l’avvocato e gli diede incarico di occuparsi delle pratiche per il divorzio, raccomandandosi di non fare problemi per l’entità dell’assegno di mantenimento e della spartizione dei beni cointestati: totale disponibilità e generosità, nell’ambito del possibile, naturalmente. L’avvocato, un amico di
famiglia, non se l’aspettava proprio e provò a chiedere cosa fosse successo di tanto grave, provò a preoccuparsi, ma Poletti Spada era freddo e procedurale, come stesse mandando avanti una pratica come tante altre in Questura, quindi lui si limitò, con sollievo, al suo dovere professionale. Il Commissario si sentì un po’ bastardo nel gestire la questione con tale distacco ma sapeva di esserlo, in fondo. Lo aveva sempre saputo. Ad esempio, quando da giovane rompeva a manganellate le teste dei manifestanti non aveva mai provato nessun coinvolgimento emotivo, non se ne era mai sinceramente, umanamente, dispiaciuto. Perché doveva dispiacersi, allora, per il suo divorzio: una cosa infinitamente meno dolorosa? Lui era finito col diventare come il suo mestiere, oppure aveva scelto quel mestiere perché era fatto in quella maniera. Era la stessa cosa. Era freddo ed esecutivo, non legislativo. Il suo mestiere era la cosa che sapeva fare meglio, non gli rimaneva altro da fare, quindi. Per fare un mestiere bastardo bisognava essere bastardi. Sapeva che il suo mestiere poteva anche essere lodevole, indispensabile, che senza i poliziotti non ci sarebbe stato ordine sociale, che molti poliziotti erano degli eroi e delle persone meravigliose, ma per trovarne uno così non dovevano rivolgersi a lui. Anche quando faceva qualcosa di meritevole sul lavoro era qualcosa fatta da un bastardo con uno spiccato senso del dovere: gli era toccato fare anche quello, non dipendeva da lui. Così pensava di se, perché era severo con se stesso come lo era con gli altri. Era pronto. Aveva messo anche la camicia celestina. Era vestito serio ma discreto. Non doveva essere protagonista quel giorno, doveva tenersi in disparte. Aspettava che Don Aurelio citofonasse: gli aveva chiesto di accompagnarlo dal Vescovo, in città, per parlargli della faccenda di Nostra Signora Elettrica. Lui gli aveva detto di farlo subito, quando successe il fatto, ma Aurelio non l’aveva ancora fatto. Fatti suoi, non gli interessava molto. Ma se l’era presa troppo comoda e adesso, evidentemente, non poteva più rimandare. Che chiedesse di farsi accompagnare da lui era strano: di solito era Erminio ad occuparsene, ma non era un problema per lui. Forse aveva bisogno di una figura autoritaria che lo sostenesse e gli fe forza. Sorrise all’idea. Il citofono suonò mentre si sistemava una cravatta rosso bordeaux. Scese, vide che Don Aurelio era sempre nelle condizioni che sapeva: s’era fatto la barba, messo l’abito talare buono, ma era pallido, gli occhi infossati con lo sguardo allucinato. L’Alfa 75 partì al primo colpo. Fu un viaggio tranquillo, un’ora di strada libera fino in città senza parlare molto. Aurelio era taciturno e Poletti Spada, quando affrontava un qualsiasi argomento, notava che l’altro non riusciva a seguirlo nel discorso. Era distratto. Di scherzare non se ne parlava neanche: aria troppo
pesante e chiedergli seriamente cosa avesse per la testa era un azzardo che non voleva compiere. Aurelio si tormentava con qualcosa da cui non si distraeva, costringerlo a farlo avrebbe potuto provocare qualche danno. Quando l’Alfa 75 parcheggiò davanti al grande edificio della Curia, un pachiderma severo e rigoroso alla periferia della città, Aurelio pregò Poletti Spada di aspettarlo lì. Avrebbe fatto presto, massimo una mezz’ora. Si scusò, ringraziò ancora, scese dall’auto con l’andatura di uno zombie ed entrò nel pachiderma. Poletti Spada si infilò in un centro commerciale lì davanti: doveva are del tempo inutile, tanto valeva farlo nella maniera più stupida. La segretaria particolare del Vescovo, una suora benedettina, fece accomodare Aurelio in sala d’aspetto per buoni venti minuti. Lui, in quel lasso di tempo interminabile, riesaminò innumerevoli volte quello che si era preparato da dire al Vescovo. Lo riesaminava e lo cambiava ogni volta, combinando ipotesi e soluzioni alla ricerca di una verità da raccontare, alla ricerca di una menzogna da sostenere. Ma tutto si equivaleva. Pensava di confessare tutto ma gli era difficile sostenerlo con convinzione. Gli era difficile sostenere una verità così assurda. Convincerlo che non stava mentendo. Poteva inventare qualcosa di credibile ma di totalmente falso ma non si sentiva credibile, giustamente. Anche una via di mezzo fra le due cose era traballante. Fino a che punto sarebbe riuscito a reggere il peso delle sue menzogne? E fino a che punto sarebbe riuscito a rendere credibili la verità? La realtà latitava. Un pozzo ricolmo di sabbie mobili in cui era immerso fino al collo. Quando finalmente la segretaria lo invitò ad entrare nella stanza del Vescovo non aveva ancora la minima idea di quello che avrebbe detto. - Buongiorno, Don Aurelio. Che piacere rivederla. - Monsignor Antonio Mazza gli venne incontro, alzandosi dalla scrivania, con un sorriso cordiale e benemerito. Aveva il volto di una tartaruga buona: pieno di rughe sottili attorno ad uno sguardo cordiale e distinto, appena lontano. - S’accomodi, s’accomodi … Aurelio si ritrovò, spinto dai tocchi invisibili delle mani grandi e rosse del Vescovo, seduto davanti a lui su una grande poltrona di pelle nera. - Deve sapere, caro Aurelio, che per me voi eroici parroci dei piccoli paesi, che alimentate la fede della gente semplice, siete fondamentali, siete i più importanti. È nella vostra realtà che la vita ha ancora un sapore autentico e naturale. È da voi che mi aspetto belle notizie perché è lì da voi che la vita è vera, che è ancora nella grazia del Signore. È da voi che la realtà è ancora illuminata dalla luce divina.
Avrebbe voluto dirgli che lui la realtà l’aveva persa di vista, sebbene fosse circondato da zotici incoscienti del proprio essere e di quello degli altri. Non capiva in quale misura questi potessero essere migliori di un qualsiasi abitante di città. Che differenza fa, alla mattina, dare da mangiare alle galline oppure infilarsi nella metropolitana? Ognuno si rimbambisce come vuole o come può. Rimase in silenzio. Si limitò ad un cenno col capo ed un flebile sorriso. - Deve sapere che siete sempre al centro dei miei pensieri e delle mie preghiere. Continuava il Vescovo. - Il mio impegno è di sostenere soprattutto le vostre esigenze… Aurelio, come al solito, era confuso, non sapeva neanche se capiva bene quello che sentiva. Prima ancora che con le sue orecchie con la testa. Dopo un sermone di dieci minuti buoni, il Vescovo venne al dunque. Il nocciolo del discorso deve essere rivestito di polpa, altrimenti non ha l’importanza di un nocciolo. - … e allora, caro Don Aurelio, mi vuole raccontare cosa è successo a Nostra Signora Elettrica? E per quale motivo ha aspettato tanto per venirmi a trovare? Ha forse timore di me? Non deve. So essere misericordioso, come il Signore ci insegna. La grazia del Signore perdona tutti. Perdona anche noi che dovremmo portare il suo insegnamento e dare il buon esempio, anche noi siamo uomini e possiamo sbagliare. Non è così, Aurelio? Ma gli schiaffi di Dio appiccicano al muro tutti, pensò lui. Aveva poca speranza nella misericordia e nel perdono, in base alle sue esperienze personali. Che doveva dire? Non rispondeva. Il Vescovo continuava a parlare, col suo sguardo lontano e profondo piantato nell’anima di Aurelio. - … la seguo praticamente da sempre, caro Aurelio. Da quando lei ha preso i voti per la precisione. Ho avuto modo di apprezzare il suo operato. Davvero. Ho avuto il piacere di ascoltarla quella volta che tenne un bellissimo sermone a Pietrasanta, quand’era ancora il parroco di quel paese. Ricorda? Saranno ati dieci anni ma io non ho dimenticato quelle parole piene di fede, di forza d’animo, di grazia divina. E ricordo come, conoscendola personalmente alla cena conviviale della sera, organizzata per la mia visita pastorale, le sue parole di uomo di fede mi conquistarono, mi toccarono il cuore. Da allora le voglio bene come ad un fratello, caro Aurelio. E ora sono qui per aiutarla, mi creda. Allora, com’è andata? Me lo dice? - Un sorriso avvolgente, rassicurante, somigliante a quello dei Capi di Stato in televisione, rendeva obbligatoria una risposta convincente e non più rimandabile.
- La ringrazio. La ringrazio tantissimo, eccellenza. Era ora di rispondere: il Vescovo poteva perdere la pazienza. - Sono commosso per la stima che mi esprime, forse neanche la merito. - Non dica così. - Lo interruppe l’altro sorridendo ancora di più. - Non lo dica: lei merita. Merita stima non solo come persona ma, soprattutto, come pastore di Dio. Non è forse questo il suo dovere e la sua aspirazione? Quando ha preso i voti non si è forse spogliato del suo essere persona umana per divenire verbo del Signore? - Certo. - Ammise Aurelio. - Bene. Ed è quello che io vedo in lei, quello che mi interessa di lei. Un fedele messaggero di Dio. Tutto il resto non conta. Anche quello che c’era prima, soprattutto quello che c’era prima. Qualsiasi persona lei sia stato prima. Lei è Don Aurelio Tognazzi, mio caro. Adesso e per sempre. Solo e soltanto Don Aurelio Tognazzi. Per sempre. Dico bene? - Dice bene, eccellenza. - Finalmente aveva capito. Ce ne aveva messo di tempo ma aveva capito, anche se ancora non ci credeva. Un sollievo su cui adagiarsi piano, con paura di svegliarsi da un sogno troppo bello. - Dice bene. Anche se una parte di me, per vicissitudini che non le sto a raccontare, a meno che lei non senta la necessità di sapere, una parte di me l’ho lasciata a Pietrasanta. Quando sono arrivato in paese, nella mia attuale parrocchia, sono diventato un’altra persona. Spero che questo cambiamento mi abbia migliorato, o almeno non reso peggiore. Spero sempre di riuscire a portare la parola di Dio nel migliore dei modi possibili. Certo, in modo diverso da un tempo. Quello che di me ho lasciato a Pietrasanta è morto oramai, e per esso prego tutte le sere. Ma ora sono un pastore diverso. - Lo so, Aurelio. Lo so. - Lo sguardo bonario ed infinito, dritto nel cuore. Il Vescovo lo stava assolvendo. - Per questo l’ho sempre seguita. E non deve preoccuparsi: lei era un ottimo pastore a Pietrasanta e lo è anche adesso. Le ripeto che a me interessa solo questo. Ha tutta la mia fiducia e il mio sostegno. Mi permetta solo di chiederle se la parte che ha lasciato a Pietrasanta è rimasta lì, oppure l’ha portata con se e messa da parte, oppure se n’è andata da sola? - Si è spenta lì, eccellenza. - Sorrise Aurelio, riuscendo a reggere lo sguardo dell’altro per la prima volta. - Ho cercato di portarla con me, di rianimarla, di
confortarla. Ma si è spenta da se. Il Signore l’ha chiamata nel regno dei cieli. Adesso riposa in pace, se questo può rasserenarla. - Bene. - Chiuse il discorso il Vescovo rilassando il sorriso in un’espressione placida e luminosa. - Stasera pregherò per lui. - Si alzò, aprì le ante di una credenza di legno antico alle sue spalle, prese una bottiglia di amaro, fatto in qualche abbazia lontana, ed offrì un piccolo ristoro al suo ospite. Bevvero in silenzio per circa dieci minuti, infine il vescovo solennemente si alzò. Aurelio, automaticamente, si alzò con lui. Si strinsero la mano. - Di cos’altro dovevamo parlare? La sua compagnia mi è così grata che mi distraggo …- fece il vescovo. - Voleva sapere i dettagli della scomparsa della statua di Nostra Signora Elettrica. L’ho trovata in frantumi un mese fa e ancora non si sono trovati i responsabili. - Non importa. Cosa cambierebbe trovare chi è stato? Perdoniamoli. Importante, invece, è fare una statua nuova e più bella ancora. Che questo sia un segno divino per spronarci al rinnovo: ne faccia fare una bellissima, non si preoccupi per le spese, ha tutto il mio sostegno. Ma faccia in fretta, la prego. Voglio una bellissima cerimonia d’inaugurazione il più presto possibile. Quanto ci vorrà? Diciamo un mese, più o meno? - Certo, eminenza. Mi dedicherò con tutto me stesso. E il suo sostegno sarà la mia forza. Grazie ancora, eminenza. - Buona giornata, Don Aurelio. Il Signore le darà tutta la forza di cui ha bisogno, ne sono sicuro. L’aveva accompagnato alla porta, si salutarono ancora una volta, poi Aurelio si ritrovò a scivolare per le scale, a raggiungere l’esterno, velocemente, liquidamente. Era successo tutto come in un sogno, ancora non ci credeva, ancora si sforzava di convincersene mentre risaliva sulla macchina di Poletti Spada, il quale, oramai, fatte le spese al centro commerciale, era tornato a sedersi lì dentro, appisolandosi. Aurelio lo svegliò e non era bello farsi prendere di sorpresa per un poliziotto. Mise in moto e ripartirono. - Alla salute, Don Aurelio. - Lo rimproverò, ma era rinfrancato nel vederlo rilassato, felice e trasognato, completamente diverso da come l’aveva lasciato.
Qualsiasi cosa si fossero detti col vescovo era andata bene. - Mi hai fatto aspettare altro che una mezz’ora. Che avevate da raccontarvi di così importante? Avete ricordato i bei tempi del seminario, quando davate fastidio alle monachelle? - Era la prima volta che lo vedevo ma penso di poterlo ritenere un amico, un amico d’infanzia, magari. Sì, proprio così. - Sei strano, sai? - Davvero? Ma tu ci sei mai stato a Pietrasanta? - No. Ma che c’entra? - Niente. Non ci sono mai stato neanche io, se t’interessa. Poletti Spada lo osservò bene, nei dettagli della faccia: aveva un’espressione rilassata e un colorito roseo. Rinunciò ad indagare oltre preferendo una giornata tranquilla. Ci voleva una bella mangiata. - Non ti capisco e neanche mi interessa, se proprio vuoi saperlo. Andiamo che ti offro il pranzo: qui vicino c’è una trattoria fantastica: hai bisogno di rimetterti in forze che ultimamente t’ho visto un poco indebolito. Allunghiamo di un paio di chilometri ma ne vale la pena, fidati. - Il signore è con noi! - Rispose Aurelio. Andarono, mangiarono e bevvero, furono molto loquaci e continuarono ad esserlo per tutto il viaggio di ritorno. Rilassati, sereni e un poco ubriachi.
XVIII
Alle undici e trenta Aurelio era seduto ad un tavolino del Bar di Antonio in Piazza del Municipio. Aspettava Poletti Spada. Era una splendida mattina di settembre, non era caldo, l’aria cominciava a rinfrescarsi: promessa di un autunno imminente. Il giorno prima, nel viaggio di ritorno dalla Curia Vescovile,
avevano deciso di dare un’accelerata alla soluzione del problema di Nostra Signora Elettrica. Il Vescovo era stato veramente disponibile, più di quanto Aurelio si aspettava. Aveva soltanto chiesto di fare presto ed era giusto accontentarlo. Risolto quel problema, forse, sarebbe tornata un po’ di pace per tutti: per lui, per il paese, per tanta gente. Bisognava trovare la nuova statua ma di fatto era disponibile solo quella di Bogdan che non li convinceva per niente. Ad Aurelio non dispiaceva, ma era sicuro che i paesani non l’avrebbero digerita. McKeinze era inconvincibile. Non rimaneva molto, anzi quasi nulla. Il Fiorino di Erminio si fermò dall’altro lato della piazza, davanti all’alimentari dei fratelli Sezzi. Erminio scese, aprì le porte posteriori del veicolo, vide Aurelio e lo salutò da lontano. Non si avvicinò perché doveva scaricare la consegna del martedì, sarebbe andato a salutarlo dopo. Aurelio, salutandolo con la mano, ricordò la bellissima statua di legno che teneva nascosta in casa. Un anatema, avrebbe voluto scagliargli contro un anatema. Poteva convincerlo? Magari Erminio era più duttile di McKeinze. Doveva provarci. Dunque aveva in mano una statua sicura e una ipotetica, convincibile, forse. Quella sarebbe piaciuta a tutti, ne era sicuro. Era poco, come trovarne altre? Un bando pubblico? Ci voleva troppo tempo. La cosa migliore sarebbe stata un piedistallo vuoto, semplicemente vuoto, come aveva suggerito McKeinze. Il trionfo dell’assenza, la statua che non era riuscito a trovare: il vuoto. Il trionfo del nulla, più vero del vero. Erminio appariva e spariva dalla soglia del negozio portando dentro le grosse scatole pesanti. A sinistra, dalla via laterale, arrivava puntuale Poletti Spada ma non era solo: con lui riconobbe l’Ispettore Paolini. Ecco, lui l’aveva dimenticato. C’era anche lui con la sua opera essenziale. Essenzialmente perfetta per andare al rogo. Migliore, allo scopo, di quella di Bogdan. Due statue e mezza. Due delle quali sarebbe stato conveniente scartare. Poletti Spada e Paolini si sedettero con lui, salutarono e sorrisero. - È l’ora delle decisioni. - Il Commissario cominciò senza preamboli. - Anche il vescovo ci ha messo fretta, Aurelio. Christian è voluto venire con me - disse facendo cenno verso di lui. - per spiegarti bene la sua poetica, ci tengo che lo ascolti attentamente: abbiamo una grande occasione. Il suo sarebbe un lavoro importante e di qualità. - Non sono un critico d’arte. - Rispose Aurelio - Non so quanto possa capire. Posso ascoltare, quello sì: sono un prete. - Sei quello che decide. - Insistette Poletti Spada.
- Neanche per sogno. Decide il Vescovo. - In base a quello che tu gli proponi, no? Quindi ci manca poco. - Gli porterò il vostro bozzetto, quello di Bogdan e altri che sicuramente arriveranno. Poi, ripeto, tocca a lui. - Il bozzetto di Bogdan. - Sorrise amaro Paolini - Possiamo dare ai fedeli l’opera di uno zingaro? Lo sguardo di pietra di Aurelio era una risposta chiara quanto il silenzio che ne seguì. Paolini divenne serio e cercò di intonare la voce un poco più bassa, meno stridula, senza riuscirci molto. - Chiedo scusa. Non fraintendetemi, non prendetemi per razzista, non lo sono. Voglio dire che sarebbe difficile, molto difficile, che la accettino. Purtroppo ci sono dei pregiudizi: con quella statua ti attirerai l’odio di tutti in paese. - È questa la poetica di cui volevate parlarmi? Paolini diede una lunga sorsata di birra, che nel frattempo Antonio non aveva mancato di portare a tutti, pensava a come porre rimedio all’infelice uscita fatta. - Ha ragione, parliamo delle cose importanti. Vede, le mie opere sono processi di scomposizione e ricomposizione nella sintesi. Prima riduco tutto alle forme essenziali, per un’ascesa, per un’elevazione, poi le sintetizzo nella composizione. Per me questa è l’arte che porta al sacro. Aurelio vide, dall’altra parte della piazza, che due amici di Erminio si erano fermati a salutarlo: erano Mirko e Bogdan. Sembrava una scena già vista ma stavolta l’atmosfera era cordiale, parlavano tranquilli e sorridenti. Poi Erminio riprese a portare dentro il negozio gli scatoloni e gli altri due rimasero lì a parlottare. Fecero un cenno di saluto, solo Aurelio rispose. - Ecco la concorrenza …- Paolini aveva continuato a parlare ma Aurelio s’era distratto, quell’esclamazione si riprese la sua attenzione. - Che ci fanno lì quei due? Voglio proprio vedere cosa succede. Erminio dev’essere stupido a lasciare il furgone aperto e incustodito. Poletti Spada continuava a fissare il suo boccale di birra, senza dire una parola. Aurelio avrebbe voluto rimanere calmo ma si sentiva insofferente, avrebbe
voluto alzarsi e andare dall’altra parte del mondo, in un posto dove non ci fosse nessuno, possibilmente. - Non mi pare stiano facendo proprio niente. - Rispose - Certo, come no. Voglio proprio vedere. Lasciamo perdere. Comunque, le dicevo: c’è bisogno di un messaggio semplice e al contempo profondamente spirituale. La sintesi è fondamentale. - E la sua sarebbe sintesi? - L’interruppe. Non lo sopportava più e sapeva che stava per dire cose di cui si sarebbe pentito. - Quattro specchietti colorati? Non dobbiamo arredare una scuola materna: dobbiamo fare la statua di una Madonna. I bambini si potrebbero far male con i pezzetti di vetro: almeno li faccia di plastica, morbidi e con gli angoli arrotondati. Paolini non ci credeva, era diventavo abbastanza viola e il falsetto della sua voce era ritornato naturalmente fastidioso. - Lei sta offendendo la mia arte ... lei ... un uomo di fede … - Le ho detto che di arte non capisco niente. Le sto dicendo soltanto quello che penso del suo lavoro ma non faccio testo, non sono competente: sono un prete, non sono tenuto a conoscere la storia dell’arte ma so cosa può assomigliare ad una madonna. Umilmente penso quello che miserevolmente la mia coscienza umana mi suggerisce. Magari sbaglio, ma quattro quadratini colorati non riesco proprio ad associarli alla trascendenza. E la sintesi è una soluzione molle. La dialettica, invece, una soluzione nostalgica. Paolini aprì la bocca per parlare, la richiuse, si volse a guardare Poletti Spada che continuava a fissare il boccale di birra, tornò a guardare Aurelio, poi si alzò bruscamente. Andò dall’altra parte della piazza, al Fiorino di Erminio, dai due zingari. - Dove va? - Chiese Aurelio. - L’hai fatto arrabbiare, adesso ha bisogno di sfogarsi. Rispose Poletti Spada lasciando il boccale di birra per porgergli uno sguardo stanco, molto stanco. Si scusò e alzandosi, molto lentamente, si diresse verso il suo compare. Paolini stava discutendo con Mirko e Bogdan, i toni erano alterati. Aurelio restò seduto, spettatore di una scena che non avrebbe mai voluto vedere.
I poliziotti chiesero i documenti. - Come se non mi conoscessi, Commissario? - Mirko gli porse il aporto che Paolini si affrettò a prendere, quasi strappandolo dalle mani del suo superiore. Prese anche quello di Bogdan. - Questo aporto è scaduto. - Gli urlò in faccia. - Ho la carta d’identità a casa: posso andare a prenderla. - Lei deve circolare con un documento valido, lo sa? Non mi interessa che ce l’ha a casa. Bogdan rimase in silenzio. - Deve seguirmi in Commissariato per accertamenti. Infilò una mano nella tasca del giubbotto per prendere il cellulare. - Christian .. - Provò a fermarlo Poletti Spada. - Commissario, non posso fare altrimenti: è la procedura. Tra l’altro ho visto movimenti sospetti attorno a questo furgone. Intanto era arrivato Erminio, chiese cosa fosse successo a Mirko. Gli rispose Paolini: - Può controllare se manca qualcosa dal suo furgone, per cortesia? Erminio non fece un o, con le spalle al Fiorino, li fissò tutti per alcuni secondi. - Non manca nulla. Può starne certo. - Lo vedremo. - Ringhiò Paolini. ati pochi minuti arrivò la volante, scesero due agenti che prelevarono Bogdan con garbo e fermezza e lo portarono via. Poletti Spada disse che li avrebbe raggiunti in Commissariato con la propria auto e dopo averli visti allontanare si volse verso Mirko per dire qualcosa ma lui sputò per terra e se ne andò, salutando solo Erminio. Allora fece per tornare verso Aurelio, ancora seduto al bar, ma lui se ne andò prima di farsi raggiungere. Senza salutare ma senza sputare.
XIX
Si era organizzato un confronto diretto in questura. Proprio come nei telefilm americani. C’era una stanza da dove, attraverso una vetrata oscurata, si potevano vedere i sospettati senza essere visti da loro. Questa vetrata era stata perfezionata con una specie di velina che faceva l’effetto flou: serviva come filtro opalescente per sfocare la veduta e rendere realistiche immagini che invece erano proiezioni virtuali, schierate accanto ad oggetti reali. Era un congegno sofisticato che permetteva la visione di una realtà che non c’era. Poletti Spada se l’era fatto prestare da un suo amico che lavorava al Teatro, in città. Accanto alle tre statue disponibili ne sarebbero apparse altre solo proiettate. Ologrammi. Falsi simulacri di simulacri. L’apoteosi della simulazione. La fuga definitiva, seppur ordinata e ben schierata in parata, della realtà. Seduta davanti allo spettacolo, invece di cittadini denuncianti un reato, una curiosa commissione esaminatrice. Era composta da Don Aurelio, il commissario Poletti Spada e il sindaco Sebastiano Sforza. Sarebbero dovuti venire anche il Vescovo, Monsignor Antonio Mazza e Gennaro McKeinze, in qualità di consulente artistico, ma entrambi non si presentarono. Il Vescovo era dovuto recarsi a Roma, per un’urgente convocazione da parte della Santa Sede. L’artista non aveva neanche avvisato e non rispondeva al telefono. Dopo quaranta minuti di attesa inutile si decise di cominciare. Era stato richiesto di presentare dei bozzetti di un’opera da realizzare dopo l’approvazione ma l’entusiasmo dei candidati aveva fatto pervenire delle opere già finite, quindi si poteva prendere in esame delle realtà concrete, non delle ipotesi. Le tre statue erano davanti a loro, assieme a quelle simulazioni olografiche messe lì a confondere ma che dovevano esserci: per far credere al sindaco e al vescovo che erano stati numerosi i candidati, molti di più di quelli presenti, e tanti altri erano stati scartati. Dovevano credere che c’era stata una lunga selezione che, in realtà, non c’era mai stata. Farne vedere solo cinque per far credere fossero molti di più, non soltanto tre, di cui uno a sua insaputa, tra l’altro. Il sindaco Sebastiano Sforza, soprannominato dalla popolazione Sebo per via dell’abbondante forfora che gli cospargeva le giacche blu scuro che, ostinatamente, continuava ad indossare, era un grande oratore. Era capace di parlare per ore, con forte cadenza dialettale, senza curarsi dell’interlocutore, senza neanche accorgersi dell’interlocutore. Aveva una faccia rubiconda nonostante non fosse poi tanto grasso di corporatura, ed era permanentemente unto in faccia, come sui capelli. Secerneva grasso, in varie maniere. Si distingueva per gli svariati, fantasiosi, accordi e programmi d’intesa
con aziende, industrie e fazioni politiche di ogni genere e corrente. Nonostante il paese, fin dalla nascita della Repubblica e fin dall’introduzione del diritto di voto, fosse sempre stato governato dalla sua stessa sigla politica, lui manteneva un status pacifico di proficua collaborazione con tutti. Poletti Spada lo odiava ma lo trattava con estrema cordialità ed era sempre disponibile con lui, la qual cosa aveva convinto Sebo di stargli simpatico. Solo una volta gli aveva creato problemi: per quella fabbrica di materiali plastici che aveva voluto far chiudere a tutti i costi. I proprietari erano suoi amici e la cosa gli creò qualche problema, ma l’avvocato gli consigliò di lasciar fare a Poletti Spada e lui aveva abbozzato, per una volta. Faceva sempre come gli diceva il suo avvocato: era un politico prudente. Comunque non ce l’aveva con quel poliziotto zelante ma sperava che non gli avrebbe creato altri problemi in futuro, altrimenti avrebbe dovuto sistemare le cose, a malincuore. Aurelio stava un po’ in disparte, accanto aveva la sedia lasciata vuota dal Vescovo, più in là c’erano gli altri due che parlottavano, Sebo si decise a voltarsi verso di lui e diede inizio alla seduta: - Bene, caro Don Aurelio. Visto che ci siamo tutti e quelli che non potevano venire, alla fine, non sono venuti, possiamo cominciare. Vuole parlarci un poco di queste proposte? Ci dica tutto ciò che ritiene indispensabile, utile, necessario o anche solo di qualche interesse per renderci edotti della situazione, per capire le esigenze della parrocchia e dei fedeli. Ci dica tutto quello che dobbiamo sapere per non fare una scelta sbagliata, insomma. Che non ci si debba pentire successivamente, questo è l’importante! - Grazie, signor sindaco. Cercherò di essere utile. Non sono certo un critico d’arte ma le parlerò dal mio punto di vista, tenendo presente, appunto, le esigenze della parrocchia, per non sbagliare, come dice lei. Ai fedeli dobbiamo dare qualcosa che corrisponda alle loro aspettative, alle loro esigenze, alle loro speranze, prima ancora della valenza artistica ed estetica dell’opera. Sono gente semplice che ha bisogno di un messaggio rassicurante e di speranza, sobrio, senza fronzoli, che si faccia riconoscere con delle forme semplici dove la sacralità sia facilmente individuabile. A tal fine preferisco un’iconografia tradizionale. Certo cerebralismo, per quanto valido, non sarebbe recepito: non abbiamo una popolazione di storici dell’arte. Per questo le indico subito la proposta che preferisco: quella del compaesano Erminio, esemplare cittadino e devoto fedele. Una scultura lignea, la seconda da destra, che con plasticismo classico rende le forme lievi, spirituali ed eteree, grazie ad una rara sensibilità d’animo. È una rappresentazione di forte impatto eppure delicata, semplice ed immediata. Rassicura lo spirito, ha una grande bellezza propria, è fatta con la
mano dell’artista e lo spirito del divino. Sebo ascoltava, col suo sguardo ittico imprevedibile: non si capiva se fosse concentrato su quello che Aurelio diceva o fosse completamente assente, assorto in qualcos’altro. - Sì, Sì. È molto bella. E quell’altra? Quella accanto? Semplice e rotonda. Essenziale. Bella anche quella, no? - Quello è Brancusi. L’autore non è disponibile al momento. - Ah, no? - Era sorpreso, giustamente. - Perché sta lì la sua opera, allora? - Ha avuto un infortunio: è morto. Il secolo scorso. Perché c’è la sua opera? Chieda al commissario: a lui piacciono gli effetti speciali. Poletti Spada lo fulminò con lo sguardo ma non rispose, portò il discorso dove gli interessava. - Guardi l’ultima a sinistra, signor sindaco. La trovo di una bellezza rara. - Era la statua di Paolini. - Le forme e i colori sono disposte in trasparenze ingegnose trasmettendo una sensazione di assoluta pace e serenità. È un opera frutto di un severo studio sulla forma, sulla sacralità, sull’arte. Audace ed innovativa, sarebbe un gran colpo per il paese proporre un capolavoro simile agli occhi della nazione e del mondo intero. Avremmo un successo che ci metterebbe all’attenzione di tutti. - Certo, certo. - Rispose l’altro che, evidentemente, anche lui, non riusciva a vedere niente altro che una serie di quadratini colorati e segni astrusi. - Bella anche quella. E questa? Classica ma ben fatta. Spettacolare. Mi colpisce. - Quello è il Canova. - Ammise Poletti Spada. - Anche lui non è disponibile. - E perché? - Anche lui è morto da qualche secolo. - Rispose Aurelio. - Che vuole farci? Questi artisti sono strani: ad un certo punto sono abituati a morire. - L’ho già sentito questo nome … mi dispiace. Non sapevo fosse morto… Una disgrazia? - Non saprei. Volontà del Signore, diciamo. Un forte trambusto li interruppe. Vociare concitato tra una voce ben nota e altre,
poi la porta si spalancò ed Erminio entrò seguito da due poliziotti che lo afferravano per le braccia. Lui diede una scrollata, non riusciva a liberarsi ma loro non riuscivano a portarlo via. - Devo fare una denuncia! - Urlava. - E la voglio fare esclusivamente al commissario! È mio diritto! - Ci scusi, commissario. Abbiamo cercato di fermarlo ma è riuscito ad entrare lo stesso. Glielo abbiamo detto che non volete essere disturbati! Adesso lo portiamo via! - No, no. Aspettate! - Poletti Spada si alzò e gli andò incontro. - Lasciatelo. Siedi con noi, Erminio. Spiegami che diamine succede. E voi, ragazzi, andate, non vi preoccupate. È una faccenda delicata: lasciate fare a me. Erminio non creerà alcun problema, ne sono sicuro. - Come vuole, commissario. - I due poliziotti obbedirono e lasciarono la stanza. Erminio rimase in piedi senza seguire il consiglio del commissario, e, guardando oltre il vetro vide la sua statua. Era già rosso, poi divenne bianco, poi di nuovo rosso, ancora di più. - Che ci fa la mia statua là dentro? Chi ce l’ha portata? Ma siete impazziti?! Poletti Spada lo accompagnò dolcemente a sedersi sulla sedia lasciata libera dal Vescovo, lui non oppose resistenza. Aurelio guardava per terra. - Erminio, fammi capire: non l’hai portata tu quella statua qui? - Ma se sono venuto per fare la denuncia! Me l’hanno rubata! Che ci fa qui? - Te l’hanno rubata? - Sì, me l’hanno rubata. Stamattina, quando sono tornato a casa dopo le consegne al negozio, ho trovato la porta scardinata. E la statua non c’era più. Hanno rubata solo quella. Me che se ne fanno di quello sgorbio? Poi sono venuto qui a fare la denuncia ma la faccio solo a lei, mi fido solo di lei. Ma qui che succede? Perché la mia statua sta qui? Poletti Spada cercava di intercettare lo sguardo di Aurelio ma lui continuava a guardare per terra. - Niente, Erminio. Siamo più efficienti di quello che pensi: l’abbiamo ritrovata proprio un’oretta fa. In una discarica abusiva assieme a queste altre sculture.
Evidentemente c’è un commercio clandestino di opere d’arte rubate. Il ladro le nascondeva nella discarica. Grazie ad una chiamata anonima siamo andati e abbiamo trovato tutto questo. Stiamo cercando di risalire ai proprietari, per questo ho convocato Don Aurelio e il sindaco. Sono state rubate delle statue anche al Palazzo del Comune e stiamo verificando che non sia sparito qualcosa anche in Chiesa. Non sapevamo che quella statua fosse tua, altrimenti ti avremmo chiamato. Erminio si era calmato, guardava le statue, guardava gli altri. Salutò con rispetto il sindaco che rimase del suo sguardo ittico, rispondendo con un borbottio. Aurelio non lo guardava. - E c’era anche una statua del Canova al Palazzo del Comune? Complimenti! - No, quella non è roba mia. - Rispose Sebo, adesso irritato. - Quello mi sa che è uno scherzo di carnevale che qualcuno dovrà spiegarmi. - Comunque stiamo per arrestare i colpevoli. Magari hanno a che fare anche con quello che è successo a Nostra Signora Elettrica. Questo le farà piacere, vero, Don Aurelio? - Urlò quasi, per costringerlo a guardarlo. Lui volse lo sguardo un po’ più su, sopra la spalla sinistra del Commissario. Certamente. Non aspetto altro. - E chi sarebbe il colpevole? - Chiese Erminio. - Gli zingari. - Rispose Poletti Spada, credendo di fargli piacere. - La discarica era proprio adiacente al loro insediamento e abbiamo indizi sostanziosi e testimoni oculari. - Siete dei coglioni. - Come? - Siete dei coglioni. Mirko non c’entra niente e voi lo sapete: non verrebbe mai a rubare in casa mia. Voi non sapete che pesci pigliare e ve la prendete con gli zingari. Razzisti siete, ecco! - Datti una calmata, Erminio. - Adesso era Poletti Spada che s’innervosiva e cercava di indossare l’autorità che gli competeva. - Stai offendendo un pubblico
ufficiale. - Me ne fotto! Me ne fotto di te e del pubblico ufficiale. Anche della Chiesa e dello Stato. Sono anarchico e sono ateo, e ci vedo anche lo zampino divino in questa sporca faccenda. - Anche lui cercò lo sguardo di Aurelio senza riuscire a staccarglielo dalle mattonelle. - Fottetevi tutti. Sai che vi dico? Non puoi arrestare Mirko: la statua gliela ho regalata. Non c’è nessun reato. - Hai appena detto che ti è stata rubata! Sei venuto a fare la denuncia! Adesso urlava Poletti Spada ed Erminio gli rispose calmissimo. Finalmente calmo. - Io? Ma quando? Ho detto che mi hanno rubato una sedia. Ci senti male, commissario. Manca una sedia da casa, quella gialla con le gambe verdi: vedi se riesci a trovarla al campo nomadi. Poi ne riparliamo. - Mi stai prendendo per il culo. Ho i testimoni di quello che hai detto. - Io non ho sentito niente. - Sussurrò Aurelio, sempre concentrato sul pavimento. - Io ho sentito una marea di cazzate ma non mi pare si parlasse di statue. Sì, mi pare proprio si parlasse di una sedia gialla, ma con le gambe rosse. Potrei sbagliarmi, però. Il problema, per me, è che questa storia mi sta rompendo i coglioni.- Sentenziò Sebo, alzandosi di scatto. - Visto?- Erminio sorrise al Commissario. - Vattene a casa e portati la tua statua, prima che ci ripenso. - Ringhiò Poletti Spada di rimando. - Vado. - Erminio prese la porta, sull’uscio concluse:- Ma la statua la vai a riportare a Mirko: è sua, l’hanno rubata a lui. E imballatela bene che poi vado a controllare se l’avete rovinata. Vi saluto. ‘Fanculo a tutti. Tranne lei, con rispetto, signor sindaco. - Bene. Ora devo andare: c’è il consiglio comunale.- Anche Sebo si diresse verso la porta. - Non voglio sapere che razza di casino avete combinato, non ho tempo da perdere. La statua scelta è quella lì, sempre che non sia finta anche quella. Indicò dritto davanti a se la statua di Bogdan. - E non se ne parli più. Fra una
settimana ci sarà l’inaugurazione: organizzatevi. E non fate altre cazzate. Arrivederci. Aurelio lo seguì. - Devo andare anche io: ho la funzione. Poletti Spada li accompagnò, salutandoli sibillò in un orecchio ad Aurelio: Dovrei sbatterti in galera, bastardo di un prete ladro! - C’è tempo. - Gli rispose lui ad alta voce, con un sorriso lucente. - C’è tempo figliolo. Il Signore vede e provvede, non essere in pena.
XX
La telefonata arrivò in tarda mattinata. Aurelio stava studiando i preparativi per l’inaugurazione della nuova statua di Nostra Signora Elettrica, quella di Bogdan. Nella cornetta del telefono una voce lenta e cadenzata, ferma e solenne, inevitabile come la volontà di Dio e le disgrazie naturali: era il Vescovo. - Caro Don Aurelio, voglio scusarmi con lei per non essere potuto venire, l’altro giorno, alla commissione esaminatrice di Nostra Signora Elettrica ma importanti impegni mi hanno chiamato a Roma con assoluta priorità. - Non si preoccupi, Eccellenza. Siamo comunque giunti ad una conclusione: abbiamo scelto e l’inaugurazione ci sarà tra una settimana. Abbiamo cercato di procedere con celerità, come lei ci aveva suggerito. Adesso stavo giusto organizzando i preparativi per la cerimonia: vedrà che ne sarà soddisfatto… - La chiamavo appunto per questo. - Il vescovo lo interruppe come se fosse stato Aurelio ad interrompere lui. Era così, infatti: lui gli stava dicendo cose importanti, della massima importanza, quel che poteva dire o pensare Aurelio non aveva la minima rilevanza. Lui lo stava solo mettendo a conoscenza. - Vede, mio caro, sarò impossibilitato a venire anche alla cerimonia. Al mio posto preferisce venire Monsignor Fernando Falconi, Cardinale di Santa Romana Chiesa e non ho certo potuto negargli il piacere. Una così alta autorità darà lustro alla sua parrocchia e gioia ai suoi fedeli. È il segno dell’importanza che hanno le piccole realtà di provincia per il Santo Padre. Io ne sono lieto e mi faccio
volentieri da parte. Dovrebbe essere fiero ed orgoglioso di questo. Lei conosce il Cardinale Falconi, vero? - Falconi ..? - Aurelio era preso alla sprovvista. - Non ricorda, mio caro, me lo aspettavo. Lei a Pietrasanta ha subito proprio un brutto trauma. Monsignor Falconi mi ha parlato molto di lei, l’altro giorno, durante la mia visita a Roma. Quando gli ho detto che per la convocazione improvvisa in Santa Sede avevo dovuto rinunciare alla commissione esaminatrice di Nostra Signora Elettrica, lui si è ricordato di lei. Di quando lei, novizio, appena presi i voti, fu suo aiutante per lungo tempo, poi fu Monsignor Falconi ad indirizzarla a Pietrasanta e sempre lui, successivamente, alla parrocchia dove è adesso. Mi ha confessato il suo rammarico per il fatto che lei non si sia più fatto sentire con nonostante lui le abbia scritto svariate volte. Tacque. Ci fu un lungo silenzio che durò pochi secondi. - Venuto a conoscenza dell’episodio di Nostra Signora Elettrica si è subito proposto per presenziare alla cerimonia: ha una gran voglia di rivederla. Ha insistito, in verità, a che ci fossi anche io ma ho preferito farmi da parte: penso che abbiate molte cose da dirvi. E quello che io potevo fare ormai l’ho fatto. Non è in mio potere aiutarla ancora, con sincerità. Spero possa capirmi: ho fatto veramente tutto il possibile, e oltre. - Certo, Eccellenza. Lei ha fatto tanto per me, più di quanto era dovuto e osassi sperare. Non finirò mai di ringraziarla di cuore, veramente. - Buona fortuna, figliolo. Ricordati che il Signore è con te, sempre e comunque. Il vescovo attaccò. Aurelio sentì un mondo che crollava, non gli rimaneva che far finta di niente e pensare alla Statua di Bogdan. Nostra Signora Elettrica era crollata perché un mondo vecchio non era più sostenibile ed era andato in frantumi. Questo nuovo feticcio, nella sua indecifrabile inquietudine, rappresentava proprio un futuro inconoscibile che lui, infatti, non avrebbe conosciuto. Il giorno della cerimonia, coincidente con la festa padronale, in paese era presente anche un circo di fama mondiale. ava in tour da quelle parti e se ne era approfittato per allestire una festa in pompa magna per le strade del paese dove sarebbero stati presenti gli artisti circensi: saltimbanchi, giocolieri, pagliacci, nani, ballerine e tutto il resto del copione. I proprietari del circo erano un’importante famiglia di etnia Rom, i fratello Karamazov. Ricchi e famosi,
grandi amici di Sebo il Sindaco. La cosa si sposava alla perfezione con la nuova statua di Nostra Signora Elettrica, anche lei di origine Rom. Aurelio cominciava a capire perché il sindaco aveva scelto la statua di Bogdan, il quale era stato rilasciato dalla Polizia con tante scuse e un paio di casse di birra Ichnusa in omaggio. Ne aveva parlato con Mirko che aveva fatto una faccia strana: i fratelli Karamazov li conosceva e non gli piacevano per niente. “È gente cattiva e sporca” aveva detto e non ne aveva più voluto parlare. Visto che la statua di Bogdan era stata scelta, lui aveva sistemato quella che gli aveva regalato Erminio al campo di calcio del campo nomadi ed era piaciuta a tutti. Nessuno lo diceva, ma ai nomadi piaceva più di quella di Bogdan. Erminio li andava a trovare spesso, si diceva anche a causa di una bellissima ragazza bruna, di cui non si capiva bene l’età. Era bellissima veramente, cosa che rendeva l’ipotesi alquanto improbabile. Più veritiero che Bogdan l’avesse coinvolto in interminabili partite a poker, viste anche le casse di birra Ichnusa che spesso Erminio portava con se, probabile pagamento dei debiti di gioco. Vero era che i due erano diventati amici, senza nessuna delle gelosie che spesso hanno gli artisti, soprattutto quando uno è stato preferito all’altro. Intanto in paese fervevano i preparativi per la grande festa del Santo Patrono coincidente con l’inaugurazione della nuova Nostra Signora Elettrica. Un evento eccezionale: più importante del Giubileo. L’Apocalisse. Aurelio uscì a fare un giro, voleva far respirare il cervello, l’aria nella canonica era il respiro malato di un animale braccato, si sentiva come un cinghiale circondato dai cacciatori. I lumini di Natale, fuori stagione, avevano invaso i vicoli del centro storico, appesi ai cavi elettrici. L’aria dei giorni di festa. Villeggianti forestieri erano già presenti seppur mancava ancora una settimana all’evento. La Pro Loco e le agenzie di viaggio si erano date da fare: avevano lanciato il richiamo di una vacanza etnoculturale, nella natura incontaminata, nei luoghi storici, antichi, nella cultura secolare. In quel posto dimenticato da Dio dove non c’era nulla da vedere. Potenza della pubblicità. E la gente ci veniva, era contenta, era convinta di fare una gran bella vacanza. Contenti loro. Sul piazzale dove si svolgeva il mercato settimanale, uno sterrato di cinquecento metri quadrati fuori le mura antiche, proprio dietro la Piazza del Municipio e del bar dei fratelli Sezzi, s’erano accampati i furgoni di dolciumi, le bancarelle di giocattoli e cianfrusaglie varie, i nordafricani con i loro teloni di maschere di legno e pellame contraffatto, e, soprattutto, il grande tendone del Circo Karamazov, protagonisti dell’evento, assieme a Nostra Signora Elettrica. Come detto, non erano solo lì, la loro presenza era dappertutto: nelle vie del centro s’erano sparsi giocolieri e saltimbanchi, pagliacci e prestigiatori, mangiafuoco ed acrobati, questi ultimi si arrampicavano sui lampioni e sulle insegne dei negozi. Tutto il paese era in festa
e in simbiosi con il circo. In un atmosfera surreale, da film, ma con la disarmante tristezza della finzione messa a nudo dall’assenza di una qualche sospensione dell’incredulità. Tutto era caotico e dimesso, non si capiva bene il confine tra realtà e finzione, capitava di scambiare un pagliaccio per una persona conosciuta o di prendere sul serio le chiacchiere di qualcuno che s’agitava troppo e rideva ad alta voce. Ci fu un episodio assurdo e significativo: i vigili del fuoco faticarono non poco a rimuovere un lampione sospeso, in un vicolo, che era vecchio e pericolante, di quelli appesi ai cavi elettrici tra un edificio e l’altro. La gente si era assiepata sotto di loro e si sbellicava dalle risate, soprattutto quando il caposquadra inciampò sulla scala rischiando di cadere e rompersi la testa. Quand’ebbero finito una ragazza gli fece i complimenti, anche per le divise che sembravano proprio vere, lui la prese a calci in culo e si rischiò la rissa. Fortunatamente avano di lì degli acrobati veri, e, capita la situazione, si impegnarono in uno spettacolo mozzafiato su e giù per i cavi elettrici. La gente rimase incantata a guardarli e i vigili del fuoco poterono tornare in caserma senza problemi, anche se molto incazzati. Mirko era fermo accanto ad un venditore di zucchero filato, attorniato da persone che gli facevano molte domande, alla vista di Aurelio li interruppe: Ecco Don Aurelio, scusatemi ma devo andare. Dobbiamo preparare la cerimonia di Nostra Signora Elettrica. Scusate, scusate. Saluti a tutti! Loro lo salutarono reverenti e sorridenti, come fosse un’autorità. Aurelio lo attese pochi i più in là, Mirko lo raggiunse e, prendendolo per un braccio, lo trascinò via con se. - Andiamo, presto! Via da qui! - Ma che succede? Si diressero a o svelto verso la chiesa. Mirko era arrabbiato. - Andiamo a vedere come procede con la statua di Bogdan, basta che mi porti via di qui! Questi mi hanno rotto i coglioni! Tutti a chiedermi dei fratelli Karamazov! Quanto sono bravi? Quanto sono belli? Che gli devo dire? Che non li sopporto? Devo creare problemi? Fatemi stare zitto. Non insistete: non mi piace dire le bugie. - Ma che ti hanno fatto? - Forse un giorno te lo racconterò. Ma te l’ho già detto, fidati: è gente disonesta.
- Va bene. Ti credo e non ti chiederò più niente. - Una cosa voglio dirtela, però. Perché sei mio amico e purché mi prometti che non lo dirai a nessuno. Fai conto che mi sto confessando e questo è un segreto da prete. Che non si può dire a nessuno. - Hai la mia parola. Segreto confessionale, stai tranquillo. - Sai perché il sindaco ha scelto la statua di Bogdan? Perché sapeva che doveva arrivare il Circo Karamazov, li conosce bene quei furfanti. L’ha chiamati e gli ha chiesto se gli avrebbe fatto piacere partecipare all’evento, combinare l’inaugurazione di Nostra Signora Elettrica con il loro circo. Un grande richiamo a livello nazionale, turisti, sponsor, insomma: la possibilità di raccogliere un bel po’ di soldi. Loro, naturalmente, ne sono stati entusiasti e hanno pensato bene, come il Sindaco si aspettava, di sovvenzionare non so quale opera pubblica per il paese, in segno di gratitudine. Tutti felici e noi ci becchiamo questo teatrino triste. - Avevo sospettato qualcosa del genere. Quindi era già tutto deciso? La commissione, praticamente, è stata inutile? - Esatto. Poveri stupidi, tu e quel babbeo del Commissario, che vi ci siete pure impegnati. Ha fatto bene il Vescovo a non venire per niente. Magari già lo sapeva: I vescovi sanno sempre tutto. - Possibile. Magari non è venuto anche per altri motivi. - Cioè? Per quali altri motivi? - Penso che io gli stia creando qualche problema. - Tu? Che problema gli staresti creando? Aurelio avrebbe voluto dirgli tutto, aveva bisogno di confessarsi con qualcuno. Mirko era la persona giusta ma doveva resistere. Non sarebbe servito se non a creare qualche altro problema, stavolta a Mirko. - Non posso dirtelo. Ma ti prometto che quando potrò parlarne tu sarai il primo a sapere.
Sorrise sincero, Mirko era sorpreso e felice della fiducia meritata. - Se posso esserti d’aiuto, in qualsiasi maniera, non hai che da chiedere. Non farti problemi! Disse convincente e deciso. Ad Aurelio sarebbe piaciuto che l’altro gli prestasse, anche solo per dieci minuti, quel carattere sicuro, convincente e deciso. Gli sarebbe bastato essere così per dieci minuti e avrebbe risolto tutto. Erano arrivati in chiesa, entrarono dall’entrata principale. Nella seconda nicchia della navata di sinistra Erminio e Bogdan stavano dando gli ultimi ritocchi a Nostra Signora Elettrica. Sistemata su un bellissimo basamento di legno, fatto per l’occasione da Erminio, lucidata e levigata, splendeva di luce propria. Era decisamente una Madonna: non ci stava male. Aurelio s’era immaginato di molto peggio. Forse tutta la pubblicità di quei giorni, le autorità presenti, l’atmosfera del circo, avrebbero veramente convinto i paesano che quella era la migliore delle soluzioni possibili. Potenza della simulazione. Potenza dell’immagine. Nessuna statua classica o classicheggiante, naturalistica o naturale, avrebbe potuto, nella sua verosimiglianza, essere altrettanto convincente. - Ma non ti dispiace per niente che non hanno scelto la tua di statua? - Diceva Bogdan ad Erminio mentre lucidavano la testa della statua con l’aceto. - Sai che giù al campo è piaciuta tantissimo? Dicono tutti che è più bella di questa. - Non è vero, Bogdan. Questa è quella giusta. Sicuro. Sai perché? Non sono ancora convinto che gli zotici del paese siano capaci di mandare giù qualcosa che non sia esattamente uguale a quella che c’era prima. Si rischia il linciaggio. Per me sarebbe un problema, per te, invece, che sei abituato a cambiare spesso città ed abitudini, non lo sarebbe più di tanto. Bogdan rise. - Allora sono fregato. Se scappo vieni con me? - Manco per sogno. Voglio restare qui, ho le mie abitudini: non farmi notare, essere invisibile, non avere rotture di coglioni. - Avete finito? - S’inserì Mirko. - Ci siamo. Eccola: splendida splendente. - Fece Bogdan, con un ultimo teatrale tocco d’ovatta inacidita sul naso della statua. Stava lì, lucente e pericolosa, estranea ed ambigua. La contemplavano ammirati e preoccupati. Chi più, chi meno.
XXI
La settimana ò veloce, in un vortice di preparativi, dettagli previsti e non, altre cose e altro ancora. Una realtà stralunata e surreale tra fiaba ed incubo. Tra giocolieri, vigili urbani, poliziotti rancorosi, come Paolini che faceva multe di ripicca ai nomadi, multe che venivano regolarmente annullate dal capo dei vigili su indicazione del sindaco. Pagliacci improvvisati e professionisti seri, acrobati della fune e del pensiero, figure di sfondo e di primo piano, in alternanza, una volta per uno. Messe a fuoco sull’orizzonte e primissimi piani. Un calderone confuso, un mondo di cani, ammaestrati e non, dove nessuno era innocente, dal primo all’ultimo. Mancava mezz’ora all’inizio della solenne cerimonia d’inaugurazione della statua di Nostra Signora Elettrica. In chiesa erano già presenti il Cardinale Fernando Falconi, il Sindaco Sebastiano Sebo che faceva gli onori di casa e gli parlava fitto fitto sulla spalla: chissà a quali patti lateranensi stavano addivenendo, i fratelli Karamazov e Gennaro McKeinze, in qualità di esponente di punta dell’arte locale, invitato per un intervento prettamente tecnico sull’opera. Don Aurelio Tognazzi, parroco del paese, e il Commissario Poletti Spada non erano ancora arrivati, erano in preoccupante ritardo. Stavano ancora in giro per il paese. - Sarebbe ora di andare, Aurelio. È tardi, dovremmo essere già lì. Erano fermi davanti ad una grande ruota, quel maledetto divertimento consistente nel farsi venire la voglia di vomitare ad ogni costo. In quel momento Aurelio non ne aveva bisogno: era una sensazione che aveva comunque. - Devo parlarti. - Disse al commissario. - È ora che ti dica tutto. Sei la persona giusta: hai qualità umane per capire e, soprattutto, un ruolo istituzionale che ti obbliga a starmi a sentire. - E non puoi farlo dopo? Stiamo facendo tardi, ti dico. - Io non vengo.
- Come? - Naturalmente Poletti Spada non gli credeva. - Ma sei impazzito? Come sarebbe a dire “Io non vengo”? - Non vengo. Non vengo alla cerimonia. Non torno più in parrocchia. Me ne vado. Adesso. Non so neanche dove. A meno che tu, attenendoti al tuo dovere, non decidi di arrestarmi. E comunque, se mi arresti non posso venire alla cerimonia: dovresti portarmi in prigione, in cella al commissariato, credo. Te la perdi anche tu la cerimonia. Mi dispiace. - E per quale motivo dovrei arrestarti? - Poletti Spada rispose calmo. Aveva a che fare con un attacco improvviso di sana follia oppure Aurelio era un freddo calcolatore che mirava a non sapeva quali fini? - Sostituzione di persona. Esercizio abusivo di attività sacerdotale, o come diavolo si dice. Sono reati, no? Devi arrestarmi. Sei un poliziotto, dopotutto. - Mi fai capire? Cosa mi stai dicendo? Devo prenderti sul serio? - Ricordi quando ci siamo conosciuti? - Tre anni fa, al tuo arrivo in paese. - Perché mi hai convocato in commissariato, il giorno dopo il mio arrivo? Poletti Spada rimase qualche secondo a pensare, poi recuperò l’accaduto: - Ti convocai come testimone. Dovevo confrontare le tue dichiarazioni con il rapporto che l’ispettore della Polfer, un certo Giacomo Mazza, ricordo ancora il nome, aveva redatto su quanto era accaduto sul treno che ti portava in paese. - E cos’era successo? - Un tipo, il tuo compagno di cabina letto, aveva avuto un infarto ed era morto. Tu confermasti l’accaduto e l’indagine finì lì. Nessuno venne a reclamarlo, non aveva documenti con se e non potemmo rintracciare nessun parente. Pace all’anima sua. Morto da solo, a parte un prete che, da quel che ricordo, neanche ha fatto in tempo a dargli l’estrema unzione. Da solo e come un cane. - Quel tipo ero io. - Quel tipo eri tu?
- Sì, ero io. - Aurelio prese fiato e liberò quel catarro nero che aveva in testa, lasciandolo fluire fuori dalla bocca come una stanca, fredda, eruzione vulcanica. Ascoltando le proprie parole si sentiva meglio, sempre più leggero, si rilassava: era una purga mentale. - Morte naturale, certo. Infarto. Ma morì Don Aurelio Tognazzi, non io. Ero su quel treno perché stavo scappando. Più o meno come sto per fare adesso. Non sopportavo più la vita che facevo. Il lavoro che facevo. Ma ha importanza che avessi o meno un lavoro? L’avevo perso, forse, o forse non l’avevo mai avuto. Non ricordo. Non sopportavo più la mia famiglia: avevo moglie e avevo figli. Ma che importanza ha quanti mogli ho avuto, se ne ho avute? Quanti figli ho avuto, se ne ho avuti? Non aveva importanza. Non ha importanza. Scappavo. Presi quel treno senza sapere dove andare. Che importanza aveva dove stavo andando? Cosa avrei fatto una volta arrivato dove non sapevo di stare andando? Non lo sapevo. Dormivo e basta. Stanco di pensare ad una soluzione, di cercare un’idea che non mi veniva, mi ero addormentato. Poi ecco quel gridolino nella notte. Mi tiro su e vedo questo tipo, tutto paonazzo, di fronte a me che boccheggia. Si sente male, è evidente, e io non so cosa fare. Cerco di parlargli ma ansima soltanto, guardandomi con due occhi terrorizzati che non dimenticherò mai. Vado a prendergli una bottiglia d’acqua, il vagone ristorante è lontano quattro carrozze. Quando torno non si muove più. Cerco il battito cardiaco, gli metto uno specchietto da viaggio sotto il naso, l’avevo visto fare alla televisione, ma niente da fare: non respira più. Morto stecchito. Aspetto. Aspetto e spero di essermi sbagliato, spero che si riprenda, spero in un miracolo. Ma i miracoli non esistono, lo sapevo già. Aspetto. Non so che fare. Mi dispiace tanto per lui ma mi dispiace per me, che mi trovo in quella situazione. Sono in compagnia di un morto e sono senza documenti: mi accorgo di non trovarli più, cercandoli per mostrarli ai pubblici ufficiali che sarebbero senz’altro arrivati, prima o poi. Mi ritrovo nel portafoglio solo la tessera della palestra. Spiegare quello che era successo, cosa ci facevo io su quel treno, senza un documento, mi pareva impresa alquanto scomoda e io stavo solo cercando un po’ di pace. Non avrei retto a stress ulteriori. Non so come mi venne l’idea tanto stupida che sembrava sistemare tutto, o almeno darmi una speranza, una possibilità. Il morto aveva più o meno la mia stessa età, all’apparenza, quasi la stessa statura, capelli castani e occhi castani, come me. Prendo i suoi documenti dal borsello poggiato sulla cappelliera: è un prete e si chiama Don Aurelio Tognazzi. Stacco la mia foto dalla tessera della palestra e la metto al posto della sua, sperando non controllino bene il timbro, sperando che ad un prete i documenti non li si controllino con troppo zelo. Eccomi una nuova identità, una nuova vita: quello che volevo, almeno fino a quando non scendo dal treno. C’è un morto senza documenti nella mia cabina, poverino. Tuttavia, se permettete, raggiungo la mia
nuova parrocchia che ho tanto da fare, scusatemi. Ho una lettera di trasferimento nella tasca del borsello e un’altra lettera, ancora da spedire, in cui confesso a Don Ferdinando Falconi di essere un po’ preoccupato che nel paese dove mi ha assegnato nessuno mi conosce ed io non conosco nessuno. La trovo una cosa bellissima, fondamentale per me. Certo, mi toccava fare il prete, ma mi stava andando alla grande: non potevo lamentarmi. - Ma sei matto? - È tutto vero. E avevo ragione, avevo sempre ragione: i documenti, l’ispettore della Polfer, neanche me li ha chiesti. Mi ha accompagnato personalmente in parrocchia, diceva che era devoto a Padre Pio e che aveva un fratello parroco a Trieste: se potevo aiutarlo a farlo trasferire a Roma, o più vicino a casa, il Signore me ne sarebbe stato eternamente grato, aggiunse. Il giorno dopo scrissi di quella cosa a Don Fernando Falconi, il mio diretto superiore a Roma, da quello che avevo capito leggendo i documenti e le lettere che trovai nel borsello. Era il minimo che potessi fare per sdebitarmi con l’ispettore della Polfer: non lo sapeva ma aveva aiutato un cristiano a rinascere. Anche se un altro era morto e non ci si poteva fare più niente. Fu anche la prima e unica volta che scrissi a Don Fernando Falconi. Non so se sia servito, però. - Ma pensa che stronzo di ispettore della Polfer! - Pure tu, però. Non avresti dovuto controllarmeli i documenti, quando sono venuto in questura? - Non ricordo nemmeno. Sarà stato distratto. E poi non ci si può fidare neanche più dei preti, adesso? Cosa c’era da sospettare? Era un normalissimo infarto e quel poveretto non aveva documenti, non siamo riusciti a riconoscerlo e nessuno è venuto a cercarlo. Gli scomparsi senza nome sono difficili, sai? - Ci credo. Anche io cerco sempre di are inosservato. - Ma … Perché? - Che vuoi che ti dica? Forse non sapevo cosa fare. O non avevo altra possibilità: istinto di sopravvivenza. Diciamo che i fatti, per quanto casuali e senza senso, mi hanno portato lì a dover decidere qualcosa, ma neanche troppo convinto. Avessi avuto più volontà mi sarebbe venuta un’idea migliore, forse. Ma ero troppo confuso e senza ambizioni. Ho preso una via che mi si è presentata per caso, per
pigrizia e mancanza di fantasia, probabilmente. Il prete l’ho fatto con la frode, scorrettamente quindi, ma per come li ho conosciuti i preti, non è che abbia fatto molto peggio di loro, alla fine. Si sopravvive. D’altronde il povero Don Aurelio Tognazzi era morto, a lui non poteva più interessare che mi appropriassi della sua identità e della sua tunica. Spero non sia arrabbiato con me. - Cosa credi di aver dimostrato? - Dimostrato ..? Io? Niente. Non ho proprio niente da dimostrare. Stavo solo scappando, ho trovato una via di fuga e provato a fare una vita che, magari, fosse migliore di quella di prima. Magari la vita spirituale mi farà bene, pensai. Ma ci portiamo sempre appresso noi stessi, quello è il problema irrisolvibile. Non si cambia mai abbastanza. Non si cambia mai per niente, sotto certi punti di vista. - E adesso? - Adesso? Non vengo alla cerimonia. Scappo, un’altra volta. Se non mi arresti me ne vado. Penso di non averci concluso niente, in questi tre anni. È una bella morale, non credi? - Non credo nelle morali. Come non credo per niente a quello che mi stai dicendo. - Fai come ti pare ma sono un reo confesso: non è tuo dovere arrestarmi? - Non hai testimoni. A me non hai detto niente. Adesso vieni con me alla cerimonia e faccio finta di non aver sentito niente. - Non se ne parla. Possibile che non te ne freghi niente del reato che ho commesso? È cosa grave, sai? - Non me ne frega niente. Tu per me sei Don Aurelio Tognazzi, che lo voglia o no. Non mi interessa se sei morto o se sei un altro. Sono tre anni che ti conosco come Don Aurelio Tognazzi e resti Don Aurelio Tognazzi. Mi va bene così e non mi fai cambiare idea in nessuna maniera. - Quindi la pensi come il Vescovo? - Non lo so come la pensa il Vescovo. Sei andato a raccontare queste fesserie anche a lui?
- L’ha capito da solo. Ti ricordi quella volta che mi hai accompagnato alla Curia? Poletti Spada si ricordò del cambiamento umorale di Aurelio, dopo quella visita. Come fosse teso ed esasperato prima e quanto fosse stato allegro e spensierato dopo, a pranzo finirono addirittura per ubriacarsi. Ma non cambiava idea tanto facilmente. - Sì, me lo ricordo. E se il Vescovo la pensa come me penso proprio di aver ragione. Comunque. - A volte la realtà è più incredibile della finzione. - E allora che problema c’è? - Alla cerimonia ci sarà il Cardinal Falconi, venuto apposta da Roma. Lui mi conosce bene, anzi conosce bene Don Aurelio Tognazzi: è quel Don Fernando Falconi di cui ti parlavo prima. Vuole finalmente riabbracciarmi, dopo tanto tempo. È venuto per questo. Quindi il Vescovo, alla fine, s’è dovuto tirare indietro. Ha fatto tanto per me ma adesso, lo capisco, la mia posizione è ormai insostenibile. È venuto il momento di uscire di scena. Posso anche scontare le mie colpe in prigione, te l’ho detto. Oppure scappare via un’altra volta. Ma il giudizio ecclesiastico me lo risparmio, al rogo non ci voglio finire. Poi non so come la prenderebbero i cari compaesani se la cosa dovesse venir fuori proprio durante la cerimonia, non lo escluderei un bel fuocherello in stile secentesco. Insomma: o scappo o mi arresti. Dipende tutto da te. - Carogna. Ti scansi da una parte e fai decidere gli altri, come al solito. - Fece una pausa, si guardò attorno schifato, guardò l’orologio e decise. - Continuo a non crederti ma ora devo andare: la cerimonia è già iniziata e mi dovrò sorbire le lagne di quel coglione del sindaco. Buon viaggio. Hai un treno tra una ventina di minuti: ti consiglio di prenderlo, prima che ci ripensi. Vedi di trovarti uno scompartimento affollato, niente cabine letto. - Fece due i indietro, un inchino. - Addio, Don Aurelio, e vedi di cominciare a fare la persona adulta. Non voglio più sentir parlare di te, altrimenti ti vengo a cercare. Promesso. - Girò i tacchi e si avviò a o veloce verso la chiesa, senza voltarsi. Aurelio aveva un groppo alla gola, lo osservava allontanarsi e sapeva che non l’avrebbe mai più rivisto. Gli voleva bene. Si fece forza e andò per la sua strada. Il Commissario Poletti Spada entrò bestemmiando in chiesa. Non era possibile che il mondo fosse così assurdo e ingrato, non ci credeva. Sperava solo che
Aurelio prendesse davvero il primo treno in partenza, sperava di non trovarselo mai più tra i piedi, altrimenti avrebbe fatto il suo dovere, anche se non ci credeva. Sebo, il sindaco, gli si fece incontro sorridente e in un orecchio gli sussurrò: - Ma dove cavolo eri finito, disgraziato? E dov’è quel cretino del prete? Senza attendere risposta, come suo solito, alzò la voce per presentarlo ai presenti: - Ecco il nostro caro commissario Poletti Spada: senza il suo contributo, tenace e competente, tutto questo non sarebbe stato possibile! La folla, disposta ordinatamente nelle panche della chiesa, applaudì entusiasta. Sebo lo accompagnò all’altare, dietro il quale erano disposte in parata tutte le autorità: il Cardinale Fernando Falconi, i due fratelli Karamazov, barbuti, ingioiellati e vestiti di abiti vivacemente colorati: due zar d’altri tempi. C’era Bogdan, evidentemente a disagio, Gennaro McKeinze, serio e impettito, proprio un funzionario della Deutsche Bank che, per l’occasione, virava verso una certa eminenza papale. Una voce s’era interrotta, all’ingresso di Poletti Spada, e ora ricominciava, mentre lui si sistemava tra Sebo e il Cardinale, nella fossa dei leoni. Accanto a lui sarebbe dovuto esserci Aurelio, quell’infame. - … e con profonda commozione e gratitudine che saluto quest’opera di raro senso estetico e plastico! - Diceva Gennaro. - Una rivisitazione in chiave moderna della forma del Sacro, con chiari riferimenti alla trascendenza e alla speranza, in un sublime equilibrio tra tecnica e pathos, tra etica ed epica. Quest’opera ci fornisce un messaggio profondo di avvicinamento a Dio, una speranza e una certezza per lo spirito. Nostra Signora Elettrica era splendida nella sua nicchia, addobbata col nastro tricolore e lo stemma della Santa Sede, illuminata sapientemente dai faretti disposti da Erminio, che non era presente. Neanche lui. E non c’era neanche Mirko. Quindi se c’erano due persone assolutamente sole, in quella chiesa, e che non potevano neanche farsi compagnia tra di loro, erano proprio Bogdan e Poletti Spada. Entrambi erano a disagio, pallidi e sudavano freddo. - Ma dov’è finito Don Aurelio? - Chiese il Cardinal Falconi al commissario, senza voltarsi, continuando ad ammiccare alla cantilena glorificatrice di Gennaro. - Non so, Eccellenza. L’ho cercato dappertutto ma non sono riuscito a trovarlo.
Me ne scuso infinitamente. Spero non gli sia successo qualcosa di grave. - Mentì lui. Intanto, fuori la chiesa, seduti sui gradini dell’entrata, Mirko ed Erminio stappavano due bottiglie di birra Ichnusa. Brindavano e Mirko confessò all’altro tutto il suo rancore per i fratelli Karamazov, spiegandogliene i motivi. Erminio rideva e gli rispondeva che un omone saggio come lui doveva essere superiore. Mirko disse di non prenderlo per il culo, che erano cose serie. Ma in breve presero a ridere entrambi, trasformando il discorso in una serie di facezie con un senso tutto loro, se mai ce ne fosse stato uno. Tobia, che era venuto col suo padrone ma che, come noto, non poteva entrare in chiesa, si unì a loro accovacciandosi un gradino sotto i loro piedi. Intanto il discorso di Gennaro era serio e ben ponderato, non per niente l’aveva studiato tutto la notte, scritto al computer e lo stava leggendo stampato a caratteri grandi, per non dimenticare niente d’importante. Si alzò dalla folla una voce stridula, come una cornacchia, che lo interruppe improvvisamente: - Sono tutte menzogne! Questa statua è una schifezza fatta da uno sporco zingaro! Non può stare in chiesa! Non può stare in un luogo sacro! È vergognoso lo scempio che state facendo! Cosa v’hanno promesso questi quattro accattoni e ladri? Quanti soldi vi siete messi in tasca? Sciagura a voi! Maledetti!!! Era la Zia Pinuccia che lanciava l’anatema. Era sbucata al centro della folla, fiammeggiante e spietata, come Torquemada. Le sue parole accesero un silenzio assoluto, totale, che aspettava solo lei e nessun altro per terminare. Gennaro era a bocca aperta, inerme, i fratelli Karamazov, increduli, bisbigliavano qualcosa all’orecchio di Sebo, il quale sudava e ripeteva scuse impacciate, fu l’unico a provare una reazione, ma non fece in tempo ad aprire bocca che la Zia Pinuccia riprese, con più furia ancora: - Non è possibile insultare il Signore Dio Nostro con le zozzerie di questi ladroni! Bestemmiatori! Eretici! Che Dio vi fulmini! La gente cominciava a mormorare, un torvo brusio di approvazione si spandeva tra di loro, cominciarono gli applausi e le urla di approvazione, graffi ruvidi. - Via dalla nostra chiesa! Via dal nostro paese! Stranieri peccatori e infami! Zozzi! L’anatema della Zia Pinuccia venne sommerso da urla di rabbia e di odio. Un
gruppo di persone si avventò sulla statua di Nostra Signora Elettrica e prese a dargli calci e pugni. La trascinarono a terra e gli furono addosso, come un branco di zopilotes. La massacrarono. Si sentivano i cigolii e gli urli metallici del dissemblaggio profano. L’orda famelica faceva il suo pasto infame d’un simulacro innocente e assente. Il Cardinale aveva provato a fare un tentativo di richiamare la gente all’ordine, ma la sua voce troppo esile, abituata ad essere ascoltata in silenzio, neanche si era sentita. Stava immobile come una sfinge perplessa ad assistere a qualcosa che non sapeva se fosse blasfemo o no. La sacralità di quella statua ancora doveva essere ufficialmente conclamata, benedetta. Era sacro il luogo, la chiesa, ma se la statua non era ancora sacra, poteva essere lei l’oggetto sacrilego? Potevano avere ragione, quindi, i fedeli? Si trattava di sacrilegio o di esorcismo popolare? Comunque il volgo non dovrebbe avere potere decisionale in queste cose, spettava alle autorità ecclesiastiche decidere, pensò con stizza. Sebo urlava ma non sapeva più cosa e gli veniva da piangere, Bogdan era sempre più pallido e aveva una mano infilata nel giubbotto. Gennaro, con la solita intuizione dell’artista che vede le cose in anticipo, era già sparito, ando chissà da dove. Il gruppo più sostanzioso della folla si mosse dalle panche, scaraventandole a terra, in minacciosa direzione del pulpito. La sommossa sacrilega in nome di Dio si stava scatenando e non era possibile fermarla. Il Cardinale e Sebo dimostrarono un’agilità inaspettata e raggiunsero in un salto la porta che dava sulla canonica, alle spalle del pulpito, chiudendosela dietro con poco altruismo. Rimasero Bogdan e Poletti Spada da soli contro la folla inferocita, stavolta dovevano farsi compagnia per forza. Il commissario sapeva che toccava a lui, che spettava a lui ristabilire l’ordine pubblico, dopotutto. Ma non fu lui a tirare fuori la pistola, fu Bogdan: sparò due colpi in aria ed urlò di non avvicinarsi, altrimenti avrebbe mirato in mezzo ai denti. La folla si fermò, esita tra un o avanti e uno indietro, schiumava di rabbia ma non era sicura di rischiare la pelle. - Cazzo fai? - Chiese Poletti Spada. - Se aspetto che lo fai tu si fa notte. Eppure è compito tuo, coglione. Bogdan scese dal pulpito ando per la navata alla sua sinistra, radente al muro, coprendosi le spalle, teneva lontano le belve fameliche agitando la pistola davanti a se col braccio teso. ò accanto a quel che rimaneva della sua scultura, non se ne dispiacque più di tanto che fosse ridotta ad un mucchietto di ferro e cartone: pensava più a salvare la pelle. Riuscì a farsi largo ed arrivò fino a Sant’Ignazio, lì vide che i paesani l’aspettavano tutti davanti l’uscita e stavolta
non sembravano intimorita dalla sua pistola. Forza dei numeri: la massa tanto è più numerosa, tanto più si fa compatta e coraggiosa. Ma lui fece un giro attorno alla statua e, miracolosamente, scomparve. ando dalla Botola della Zingara uscì fuori, dalla parte laterale dell’edifico, e tornò indietro, ai gradoni di marmo dell’entrata principale, perché lui gli amici non li dimenticava di certo. Mirko ed Erminio lo guardarono ridacchiando, chiedendogli da dove diavolo fosse spuntato. Erano ubriachi. Tobia lo salutò bofonchiando. - Datemi le chiavi della macchina, presto! - Mirko fece come gli chiese, molto lentamente, senza parlare, era proprio ubriaco. - Alzatevi! Andiamo! - Li incalzò Bogdan. - Correte che qui si mette male! Li tirò su a forza tutt’e due, lui piccolo e secco a quei due omaccioni grandi e grossi. Ma quando videro la folla indemoniata vomitarsi fuori dalla chiesa e venire verso di loro, realizzarono subito e presero a correre appresso a Bogdan. Solo Tobia rimase fermo al suo posto, abbaiando a tutti, ma nessuno si curò di lui, venne scavalcato come fosse invisibile. Rimasto solo, quando la folla s’involò dietro ai fuggiaschi, smise di abbaiare e si guardò attorno. Ma dove era finito il suo padrone? Possibile che fosse tornato a casa dimenticandoselo lì? Possibile. La Mercedes C63 di Mirko, guidata da Bogdan, partì sgommando e fu subito lontana dagli inseguitori, uscì dal paese in un minuto e mezzo. Bogdan aveva ripreso colore e stava rilassandosi, l’adrenalina si riassorbiva piano piano, gli davano fastidio solo quei due babbei sul sedile posteriore che continuavano a ridere e dire cose senza senso. Poletti Spada era rimasto in piedi dietro l’altare bestemmiando sottovoce, il Cardinale e Sebo, verificato che la chiesa s’era svuotata e il pericolo era ato, uscirono dal loro nascondiglio e si avviarono verso l’uscita, andogli accanto uno dei due, non capì bene chi, gli sussurrò: Di questo me ne renderà conto, commissario. La sua posizione è molto delicata, non vorrei essere al suo posto. Lui rispose sonoro, con l’eco della sua voce che rimbombava nella volta decorata: - Andate a farvi fottere! Tutti! Nessuno escluso! E loro andarono, senza replicare. Intanto, parcheggiato il Fiorino sul ciglio di una curva a gomito a strapiombo su una vallata, Aurelio prendeva aria con la bocca spalancata e il respiro rantolante. L’ansia, il panico, gli avevano fatto venire le vertigini, come a volte gli
succedeva quando era particolarmente teso, e non era più in condizioni di guidare. Doveva aspettare un po’, rilassarsi ed arrivare in un posto qualsiasi dove ci fosse una stazione per prendere il treno. Anche se la cosa non gli andava non poteva più guidare e quel Fiorino, inoltre, tecnicamente poteva risultare anche rubato. Non aveva avuto il tempo di chiedere ad Erminio il permesso di prenderlo. Era il secondo furto che faceva a quello che, forse, era stato il suo migliore amico. A che servono gli amici, d’altronde? Era una bellissima giornata di sole, non faceva neanche troppo freddo per essere metà dicembre, l’aria era limpida e all’orizzonte si vedeva fino al mare, dal basso della vallata veniva su un acre odore di gomme bruciate. Mancava poco a Natale. Non riusciva proprio ad immaginare dove e come lo avrebbe festeggiato.
Epigrafe
Egregio Commissario, Scrivo questa lettera a lei senza motivo: perché non so a chi scriverla. Non ho altri con cui confidarmi: non che provi particolare stima ed affetto nei suoi confronti, ma proprio non ho nessun altro. Ci sarebbe Erminio ma suppongo che sia ancora arrabbiato con me per via del Fiorino ed è meglio che lo lasci in pace. Anche questa è una cosa su cui lei dovrebbe indagare. Lei non fa bene il suo lavoro. Dunque, abbiamo fatto il giro dell’oca e siamo tornati al punto di partenza. Per quanto dobbiamo continuare a girare in tondo come cani alla catena? Vent’anni fa sentivo questo sapore torbido e nero in fondo all’anima e mi dicevo “Cresci che cambierà. Vedrai che cambierà. Vedrai com’è bella la vita.” L’ho fatto. Ma non è cambiato niente. Sì, la vita è bella ma che c’entra? A noi chi ci salva? Sento sempre quel sapore amaro che dicevo, che resterà lì, sempre, finché crepo. Non è che crepando se ne va, è solo che, naturalmente, non potrò più sentirlo essendo le mie capacità ricettive, e tutto il resto, disabilitate. Voglio dire: il sapore resta, siamo noi che non ci saremo più. È il sapore del mondo. È quella fottuta dolce indifferenza che non capirò mai. Perché non c’è niente da capire. Inutile insistere, inutile cercare soluzioni: non c’è proprio niente da capire. C’è solo da lasciarsi andare allo stesso disgusto di vent’anni fa, gustarsi
tranquillamente quel torbido sapore. Non parlo di rivivere gli stessi momenti, di ricordare. No, proprio lo stesso sapore, lo stesso sentire. E non è un bel sentire, fa atrocemente bene ma non è un bel sentire. A lei è mai successo? E il bello è che sono cosciente che non finisce, non finisce mai. Naturalmente nel mio, nel nostro, miserabile e limitato tempo. Un eterno presente che capire non sai, l’ultima volta non arriva mai. Lei continua a sentire Astor Piazzolla e io certa musica di merda: spero non vorrà manganellarmi per questo. Comunque sono ormai lontano. Molto lontano. Difficile che possa trovarmi. Come le dicevo, lei non fa bene il suo lavoro. Lo fa apposta? Non ha scoperto neanche la mia falsità. E quella dell’agente della Polfer. Lei, mi perdoni la franchezza, è un coglione, Commissario. E io non sono migliore di lei, certo. Con questo concludo. Perché le ho scritto? Non lo so. Non me lo chieda. Spero che questa mia lettera non le arrivi mai. Con Rispetto Don Aurelio Tognazzi (se le pare).
P.S.: Nel caso lo veda, dica a Gennaro McKeinze che i suoi quadri non valgono un cazzo.
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