Mai Dimenticare Il Gatto 571r21

Indice

Capitolo primo

Capitolo secondo

Capitolo terzo

Capitolo quarto

Capitolo quinto

Capitolo sesto

Capitolo settimo

Capitolo ottavo

Capitolo nono

Capitolo decimo

Capitolo undicesimo

Capitolo dodicesimo

Capitolo tredicesimo

Capitolo quattordicesimo

Capitolo quindicesimo

Capitolo sedicesimo

Capitolo diciassettesimo

Capitolo diciottesimo

Capitolo diciannovesimo

Breve storia di un gatto rosso

Ai miei nipotini: Nicole, Arianna, Filippo, Edoardo e Giorgia

Pietro sco Matino

Mai dimenticare il gatto

Seconda edizione - Perugia 2016

Pietro sco Matino

2^ Edizione - Perugia 2016

Copertina e illustrazioni: P.F. Matino

ISBN | 9788891158017

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Premessa

Il gatto mi ha sempre affascinato e così ho voluto renderlo protagonista delle vicende narrate in questo libro. Tutto succede a Mandyrion, città immaginaria ma non troppo, molto simile a quella in cui sono nato e dove da piccolo ho avuto un bel gatto rossobiondo. Mandyrion è una città antichissima e ricca di storia, perciò offre molti spunti per le avventure feline. Nel racconto ho immaginato che il gatto, con il suo sguardo profondo e intelligente, abbia saputo scrutare le vicende umane e sia stato capace di intrufolarsi nella storia con una certa discrezione e anche con tutta la sua gioiosa presenza.

Prologo felino

Vi stupirà sapere che la storia umana, così come la conosciamo, è solo una piccola parte di un'altra ancora più grande e sconosciuta, governata dai gatti, Sì, avete sentito bene: ho detto gatti, cioè quelle piccole creature biologicamente dinamiche, vispe e intelligenti che sono in grado di tenere in pugno la nostra storia, o perlomeno di metterla in subbuglio quanto basta per farci restare di stucco.

Le cose stanno così: che ci crediate o no, esiste una storia parallela a quella umana che è stata scritta dai gatti. Esiste, cioè, un loro punto di vista e una loro verità che adesso incomincia a saltare fuori. I gatti hanno un loro mondo, misterioso e incredibile, e sono dotati di una strana forza magnetica con cui possono farsi valere e rispettare, provocando a volte fenomeni sorprendenti e anche inquietanti.

Non ci credete? Non ve ne siete accorti? Non vi è mai capitato di vedere qualche stranezza in loro presenza? Un tappeto che all'improvviso si è sollevato da terra e subito dopo si è afflosciato. Una vecchia sedia traballante che ha tentato di spiccare il volo e poi si è sfracellata contro il pavimento. Una finestra che si è aperta senza motivo e poi si è richiusa, un rumore nella notte… E tutte le volte c'era un gatto nei paraggi. Che ne dite? Una banale coincidenza? No! Ma c'è dell'altro, sentite.

Una notte è stato visto un gatto aggirarsi per le strade di Mandyrion con una borsa da postino a tracolla. Il giorno dopo molte persone, compresi i miei vicini, hanno trovato una misteriosa lettera sotto la porta di casa. Spinto dalla curiosità, ho cercato di saperne di più, ma nessuno mi ha dato una risposta soddisfacente: un vecchietto mi ha detto di riare il giorno dopo; una donna si è barricata in casa dicendo che avrebbe dovuto parlare prima con suo marito; un'altra mi ha

detto di non impicciarmi dei fatti suoi; altri non mi hanno più rivolto la parola; un mio vicino di casa, appena mi ha visto, è andato a farsi un goccetto di vino e dopo un po'è tornato sbronzo cantando “O bella ciao, miao, miao”!

La faccenda sembrava molto oscura e avevo paura ad andare avanti, ma non volevo mollare. Dopo molte ricerche ho scoperto, infine, che esiste una documentazione storica felina conservata in un archivio segreto della Biblioteca civica “Mirco Gattini” di Mandyrion. Tramite un amico bibliotecario sono riuscito a ottenere le fotocopie di una parte di quei documenti. Li sto ancora leggendo, ma ho capito che si tratta di una versione felina della storia che a qualcuno potrebbe dare fastidio. Sono argomenti segreti che… Ehi, un momento, ma cosa succede? Sento strani rumori dietro la porta. Fatemi guardare.

È notte, chi sarà a quest'ora? Ma, ma… qualcuno sta graffiando la mia porta, la sta forzando… la maniglia, si muove, si gira in basso… Oh no! E questi chi sono? Ehi, fermi, aspettate, cosa volete da me? Fermi, vi dirò tutto… no, non lo fate, no, no… Aaah!

Ho un gran male alla testa. Non so quanto tempo sia ato, ma i fogli ora sono in mano agli intrusi. Li stanno esaminando attentamente. Uno di loro, quello più grosso, mi tiene bloccato a terra: la sua zampa domina il mio petto, mi schiaccia e quasi non mi fa respirare. Lo guardo allibito: si tratta di un gattone bianco dall'espressione feroce. È lui che dà gli ordini e gli altri obbediscono. Sono in tre. Si mettono a rovistare dappertutto e io li seguo con lo sguardo, impotente. «Ehi, capo, guarda cosa ho trovato» dice uno di loro sbandierando un foglio: li riconosco, sono gli appunti del mio fedele Ceci… Il gattone li afferra a razzo, li guarda e inizia a sghignazzare. Sento il peso della sua zampa e della sua compressione ritmica; lunghi artigli mi feriscono la pelle. Chiudo gli occhi, sto per svenire, sento una voce roca e catramosa che dà ordine di legarmi e lasciarmi per terra. Muovo appena le palpebre e osservo il gattone che fissa i fogli di Ceci e inizia a leggerli… Ora scoprirà tutto.

Capitolo primo

La gattopierica

Nella mia lunga vita ne ho viste di tutti i colori. Ma questa volta mi è capitato qualcosa di incredibile. Anzi, direi proprio fuori dal mondo. Dal mio mondo, per la verità. Mettetevi nei miei panni, se ci riuscite s'intende, e capirete. Innanzitutto mi presento: mi chiamo Arnaldo, detto Ceci. Sono un gatto e - vi avverto - non di quelli che incontrate tutti i giorni. Ma di questo magari ne parleremo in un secondo momento.

Quello che ora mi preme dire è che ho subito un grave torto. Volete sapere da chi? Dal mio miglior amico, Oliviero, il mio padrone di casa. Premetto che io ho sempre avuto un grande rispetto per lui e per gli umani in genere. Non mi è mai piaciuto mettermi contro di loro, salvo casi particolari. Sì, è vero, qualche volta gli umani hanno maniere poco signorili verso noi gatti, come quella brutta abitudine di dare calci con facilità, anche per futili motivi o solo per essere lasciati in pace.

Ma queste cose si possono sopportare. Tra l'altro, devo dire, io ho molta pazienza. Quello che invece non posso più accettare è l'essere lasciato nel dimenticatoio. Mi spiegherò meglio esponendo i fatti dall'inizio.

Qualche tempo fa Oliviero incominciò ad avere i primi successi come scrittore di libri per bambini. Molta gente leggeva i suoi racconti e anche noi gatti, per non essere da meno, lo facevamo. Non per niente, ma è sempre buona abitudine sapere quello che pensano e fanno gli umani, dato che iamo gran parte della nostra vita con loro.

Un giorno però, leggendo l'ultimo dei suoi libri, scoprii un fatto grave. Anzi, oserei dire inconcepibile. Volete proprio saperlo? Bene, si tratta di questo: notai che in tutto il racconto, come era già avvenuto per gli altri suoi libri, Oliviero non si era mai degnato -perdinci! - di parlare di un gatto. Diamine, un gatto: cosa ci vuole a inserirlo tra i personaggi?

Un gatto lo incontrate dappertutto, da secoli vive con gli umani e sta sempre tra i loro piedi, tutti lo potrebbero testimoniare. Capite ora cosa voglio dire? Va bene tutto, ma questo non potevo tollerarlo.

La mia coscienza felina incominciò subito a rivoltarsi e invocare giustizia; anzi, a gridare vendetta. E così, seppure a malincuore e spinto dal senso del dovere verso la mia categoria, mi decisi a segnalare tutto al GCG, il Gran Consiglio dei Gatti.

Forse non sapete che nel nostro mondo felino esistono i grandi saggi che studiano l'andamento di ciò che succede tra gli umani e stabiliscono le direttive da seguire per adeguarsi alle varie situazioni. Nel mio rione ogni mese si tengono riunioni con il Gattosavio che, per chi non conosce la legislazione felina, rappresenta il Gatto Capo di zona, la massima autorità dell'AFT, l'Assetto Felino Territoriale. Ma a questo punto, prima di andare avanti, devo spiegare alcune cose a proposito dei gatti che voi umani sicuramente non conoscete.

Lettura

Capitolo secondo

Dovete sapere che sin da quando eravate bambini vi hanno ingannato sul nostro conto raccontandovi storielle prive di fondamento. Anche a scuola hanno continuato a fare altrettanto. Ma ora veniamo al nocciolo della questione.

Vi è sempre stato detto che i gatti hanno 7 vite. Bene (si fa per dire), sta proprio qui l'inganno. Questa diceria vale solo per il gatto comune, non per quello reale a cui io appartengo, che ha una dignità molto diversa. A dirvela tutta, c'è una differenza abissale fra i due tipi di gatto anche se in apparenza si assomigliano fino al punto da essere quasi scambiati l'uno per l'altro. Tanto per incominciare il tipo comune non si interessa mai alle questioni dell'orgoglio felino, cosa che invece fa regolarmente quello reale.

Proprio su quest'ultimo è stato commesso un ma dornale errore da tutti gli studiosi: il gatto reale, dovete sapere, ha 777 vite e non soltanto 7 come il gatto comune! Vi rendete conto di cosa voglia dire questo? Che noi abbiamo una vita molto più lunga rispetto a quella del gatto comune. Sono secoli che lo diciamo ed è ora che gli umani lo scrivano nei libri di scuola.

Pensate: solo il gatto reale conosce veramente la storia dei vostri popoli. Abbiamo assistito a tutti i grandi eventi, sofferto malanni e pestilenze, vissuto le guerre, quelle vere, quando gli scontri avvenivano corpo a corpo o, come si diceva una volta, gatto a gatto. Abbiamo fatto il Medioevo e, ve lo assicuro, non è stata una eggiata. I gatti venivano incolpati di ogni cosa che capitava agli umani, e bastava un'inezia per essere maltrattati o finire sul rogo insieme alle streghe. Abbiamo ato brutti momenti, devo dire, e ci abbiamo rimesso diverse vite feline a testa. Per fortuna noi della razza reale ne abbiamo tante, ma i gatti comuni sono arrivati spesso a giocarsi tutte e 7 le loro vite. Meglio non pensarci più. Ma ora ritorniamo al misfatto.

Era una calda giornata di maggio quando scoprii tutto e per la prima volta mi trovai costretto a segnalare il comportamento di Oliviero al Gattosavio. Quest'ultimo indisse subito una riunione straordina ria presso la sede felina territoriale.

Lo immaginavo. C'era da aspettarselo, data la gravità dell'accaduto. L'incontro avvenne in tarda serata nella sede del Consiglio Felino, presso il Vecchio Capanno della Contrada San Giovanni, alla periferia di Mandirion, dove ormai vivo da secoli.

Furono invitati i gatti reali dei rioni principali del paese. Faccio presente che queste riunioni generali di solito hanno una cadenza annuale; ma questa volta la data dell'incontro fu anticipata. L'argomento era troppo importante.

Quella sera uscii di casa in silenzio e un po'triste, senza fare neanche un “Miao” a Oliviero che stava lavorando nel suo studio. D'altronde, era proprio lui la causa della mia tristezza e non me la sentivo di fare tanti inutili miagolii.

Capitolo terzo

Mi avviai lentamente verso il Vecchio Capanno. Strada facendo sentivo crescere dentro di me un senso di malessere, come un rimorso per la denuncia che avevo fatto. So che nel mio caso voi umani parlereste di tradimento, ma sappiate che nel mondo felino non esiste questo concetto. Sono ben altre le cose importanti per noi. E poi va detto che, nonostante mi dispie per il mio padrone, io avevo l'obbligo morale della segnalazione al Gattosavio. È una questione di rispetto delle leggi feline.

Per noi il senso della giustizia prevale su ogni altra cosa. Perciò avevo fatto solo il mio dovere e non potevo rimproverarmi niente. Tuttavia, persisteva in me uno strano malessere. Forse, sotto sotto, mi preoccupavo per Oliviero: da un lato cercavo giustizia e da un altro volevo proteggerlo da una condanna troppo severa da parte del Consiglio. Vivevo uno stato psicologico che voi umani chiamereste “conflitto interiore”. Oh, badate bene: questi sentimenti non fanno parte del nostro sistema di pensiero. Io li ho appresi solo frequentando Oliviero. Lui è molto sensibile e, devo ammettere, finora si è sempre comportato bene con me. Tra l'altro non mi ha mai dato un calcio e mi ha sempre coccolato.

Naturalmente, anch'io l'ho sempre ricambiato strusciandomi lentamente sulle sue gambe. Nel mio ambiente la strusciata dorsale lenta sulla gamba umana è il massimo della dimostrazione d'affetto, anche se qualcuno di voi la scambia per una mossa ruffiana. Ora però non potevo lasciarmi andare a banali sentimentalismi e il senso del dovere mi spingeva ad andare avanti. Quando arrivai al Capanno c'erano già molti gatti reali che discutevano animatamente il caso tra di loro.

Tutto lasciava presagire che ci sarebbe stata una riunione infuocata e incominciai a temere il peggio per Oliviero. L'ansia cresceva dentro di me e sentivo la

responsabilità di quello che poteva essere deciso contro di lui. Ho fatto solo il mio dovere, mi ripetevo, cercando di respingere il senso di agitazione che mi assalì in quel momento. Poco dopo un gran silenzio: arrivava il Gattosavio accompagnato da due Gatti Consiglieri e dal Gatto Segretario. Camminavano impettiti, dignitosi e a testa alta. Tutti e tre entrarono nel Capanno con o deciso dirigendosi verso il tavolo della presidenza senza salutare nessuno. Era questo il comportamento giusto da tenere per rimarcare la gravità della situazione.

Dentro la sala del Capanno il Gatto custode aveva già alcune candele: la loro luce giallognola rischiarava l'ambiente fluttuando sulle vecchie tavole abbandonate che fungevano da posti a sedere. Ma quella sera molti gatti restarono in piedi per la tensione nervosa. Il Gattosavio indossò subito il mantello rosso e il gran cappello regale, un berretto verde con la visiera a sghimbescio, secondo il rito imposto dalle assemblee plenarie. Poi si sedette dietro al tavolo della presidenza ed esaminò il caso.

«Non possiamo permetterci di scomparire dai libri degli umani!» urlò a un certo punto un gatto in fondo alla sala.

«È vero! È vero!» replicarono in coro molti altri gatti. Osservai il Gattosavio aggiustarsi gli occhiali sopra il naso e guardare tutti di sottecchi. Aveva consumato molte delle sue vite per cause nobili e ora gliene rimanevano solo una decina. Dovete sapere che nel nostro mondo ha valore il minor numero di vite rimaste, perché è indicativo di saggezza e di impegno profuso nelle lotte sociali feline.

«Ordine, gatti, ordine!» tuonò all'improvviso il Gattosavio con voce possente e battendo con forza un martello sul tavolo, tanto da far tremare la candela che vi stava sopra e poi farla cadere. Un Gatto consigliere accorse subito a rimetterla al suo posto, spingendola con forza in una apposita buchetta del tavolo scavata nella cera fusa.

«Siamo venuti qui per fare giustizia e giustizia sarà fatta. Tutti sappiamo quanto sia importante la nostra presenza tra gli umani. Il nostro compito sociale è insostituibile e non possiamo essere dimenticati. Ma ora c'è qualcuno che sta ignorando la nostra esistenza e ci sta togliendo dai suoi libri. E questo per noi è il peggiore di tutti i mali, più di quelli che abbiamo subito e combattuto nei secoli ati, perdendo numerose vite!»

«Sì! È vero, è vero!» fu il grido generale dei gatti presenti all'assemblea. Io osservavo tutti rimanendo in silenzio. Già mi aspettavo il peggio quando un gatto saltò in piedi su una vecchia tavola facendola scricchiolare paurosamente in fondo alla sala; poi si mise a urlare: «Articolo 5! Articolo 5!» e tutti gli altri a ripetere: «Sì! Articolo 5! Articolo 5!»

In quel momento fui colto da un brivido e mi sentii morire: veniva invocata l'applicazione dell'articolo 5, la più severa delle condanne! Provai a oppormi e chiedere qualche attenuante per il mio padrone di casa, ma le grida degli altri gatti mi sommergevano e non riuscii a farmi sentire. A un certo punto il Gattosavio si impose colpendo il tavolo con il martello e provocando un nuovo sussulto della candela, ma questa volta senza farla cadere. Proprio in quel momento si spalancò la porta del Capanno: due Gatti guardiani tenevano per le ascelle un gatto comune che io conoscevo bene.

«Tempesta!» gridò il Gattosavio appena l'ebbe visto. «Cosa ci fai tu qui? Sei il solito impiccione! Quante volte te l'abbiamo detto di girare alla larga e non intrometterti nei nostri incontri?»

«Ma… io non volevo, mi trovavo per caso da queste parti e… »

«Sì, lo so, lo so, tu sei sempre per caso in mezzo alle nostre zampe. Voi due: buttatelo fuori, più lontano che potete!» ordinò furioso il Gattosavio ai due Gatti guardiani che sembravano giganteschi di fronte a Tempesta.

Incontro al Vecchio Capanno

Capitolo quarto

Devo dirvi che noi gatti reali abbiamo una corporatura leggermente più grossa rispetto a quella del gatto comune e ci distinguiamo da loro anche per il colore del pelo: di solito il nostro è di un bel bianco candido con una piccola macchia giallo-dorata dietro al collo. Oliviero dice che è simile al colore dei ceci, per questo mi ha affibbiato il nome di quei legumi.

Un'altra cosa da sapere è che fra noi e i gatti comuni non corre buon sangue, ma senza un motivo preciso. Forse si tratta di vecchi rancori o rivalità legate al possesso del territorio. Tuttavia io non do importanza a queste cose. Tempesta è un bravo gatto e da quando è venuto ad abitare vicino a me ho stretto subito amicizia con lui. Cosa che non devo sbandierare troppo in giro, perché potrebbe dare fastidio ai gatti reali. Dicono che non è bene dare confidenza a quelli di classe inferiore. E in parte hanno ragione. Avete mai visto un aristocratico e un contadino andare a cena insieme? Be', è quasi la stessa cosa per noi. So che ora voi umani avete superato i problemi legati alla differenza di classe sociale, ma da noi gatti ancora non è proprio così.

Quella sera, probabilmente, il povero Tempesta mi aveva seguito e si era avvicinato al Vecchio Capanno per pura curiosità. Ma, naturalmente, non potevo dire niente in suo favore. Puntai gli occhi sul Gatto-savio che incominciò subito a leggere l'articolo 5 dal Libro delle Sentenze e infine pronunciò la parola simbolo della condanna riservata al mio padrone di casa: GATTOPIERICA!

«Arnaldo!» gridò poi il Gattosavio. Dovetti alzarmi subito e andare dritto come un baccalà verso il tavolo della presidenza, mostrando fieramente il senso del dovere.

Il Gattosavio teneva in mano una boccetta presa da una piccola valigia che il Gatto segretario aveva messo sopra il tavolo.

«Gatto Arnaldo! Ecco, tieni! Ora sai quello che devi fare!»

La boccetta conteneva una polvere finissima e inodore che andava somministrata al colpevole attraver so un cibo o una bevanda, oppure facendola respirare. In un primo momento provai a spezzare una lancia in favore di Oliviero, ma con un certo distacco, s'intende.

«O Gattosavio…» provai a dire sottovoce. «L'imputato è certamente colpevole, ma… ehm… devo ammettere che mi ha sempre trattato bene e…»

«Arnaldo, cosa stai cercando di dire? Vuoi difendere il colpevole, per caso?» mi fece il Gattosavio portando il suo faccione più vicino a me e facendo vacillare gli occhiali sulla punta del suo naso.

«Oh, no, no. Volevo solo chiedere se è il caso di dargli la polvere tutta insieme o in due volte per vedere se… »

«Mio caro Arnaldo, tu sai quanto sia grave dimenticarsi di noi, perciò dobbiamo dare una lezione esemplare all'imputato e la dose da somministrare è… TUTTA INTERA!»

Poi il Gattosavio finse una voce tenera: «Capito, figliuolo?»

«Sissignore. Sarà fatto!» Non avevo scelta.

Capitolo quinto

Conclusa la riunione ritornai a casa pensieroso stringendo in mano la boccetta con la dose di gattopierica. Il Gattosavio la otteneva dalla gattopirite, un raro minerale preistorico che provoca un forte orientamento psichico in senso felino negli umani che ne vengono a contatto.

Sapevo che l'effetto sarebbe stato transitorio, ma ero comunque preoccupato per le le modificazioni comportamentali che avrebbe potuto subire Oliviero. Per qualche giorno tenni nascosta la boccetta nel mio rifugio segreto, un piccolo monolocale di legno che avevo in un angolo del giardino. ai un po'di tempo ad arrovellarmi il cervello su come e quando mettere la polvere nel cibo di Oliviero. Poi un giorno mi decisi.

Aspettai che fosse pronto il pranzo. Controllai i movimenti del mio padrone da dietro lo stipite della porta di casa. A un certo punto lo vidi uscire dalla cucina con un piatto di pasta in mano che appoggiò in fretta sul tavolo. Forse scottava: la solita abitudine degli umani di mangiare caldo.

Poi Oliviero ritornò in cucina a prendere qualcos'altro in attesa che il piatto si raffreddasse un po'. Quello era il momento buono. Strinsi più forte a me la boccetta e con un guizzo felino (è proprio il caso di dirlo) saltai sopra la sedia di Oliviero e lasciai cadere la polvere di gattopierica nella pasta. Ma solo una piccola quantità. Non ebbi il coraggio di svuotare la boccetta.

Poi mi allontanai rapidamente. Ben presto Oliviero ritornò dalla cucina e si mise seduto a mangiare. Io avevo già finito di pranzare, anche se una porzione del mio cibo stava ancora nel piatto vicino alla porta del garage. Non avevo appetito e

giravo lentamente intorno al tavolo del mio padrone.

«Ceci, che cos'hai?» mi fece Oliviero.

«Mi-a-ooh!» risposi, che nel vostro linguaggio significa "niente, niente".

Dovete sapere che la polvere di gattopierica è quasi invisibile e non ha nessun sapore; perciò Oliviero trangugiò tutto senza accorgersi di niente. Poco dopo arrivò Angelica, la sua fidanzata, con un bel vestitino attillato. Appena mi vide gironzolare in casa mi rifilò subito un calcio per allontanarmi. La solita screanzata.

«Via, via!» fece. «Uffa! Questo gatto è sempre tra i piedi! Perché non lo mandi a farsi un bagno al mare?» Io ci avrei buttato lei al mare, vicino alla foce del fiume Kidro, dove l'acqua è più gelida. Tutto a pochi chilometri da Mandyrion.

«Ma che male ti ha fatto, è così carino» le rispose Oliviero. Meno male che qualcuno mi difende, pensai. Feci subito un miao di apprezzamento per il mio padrone. La ragazza era tanto bella quanto antipatica, sempre piena di maniere sgarbate con me. Io la rispettavo solo perché piaceva al mio padrone di casa, altrimenti l'avrei graffiata dalla testa ai piedi.

Lasciai i due piccioncini da soli, ma poco dopo ritornai indietro attratto da un piccolo battibecco sorto fra loro.

«Ti ho sentito bene, sai! L'hai detto tre volte consecutive» diceva la ragazza.

«Ma cosa dici, Angelica. Lo sai che ti voglio bene come a un gatto!»

«Ecco, appunto. Lo vedi? Ci risiamo. Dici gatto in continuazione. E poi io non sono un gatto.»

«Ma no, cos'hai capito? Io volevo solo dire che i gatti sono belli e quindi… volevo dire, chi meglio di un gatto potrebbe volerti bene e così…»

«Basta, vado via!» Angelica fece per andare via e Oliviero le corse dietro dicendo: «Aspetta, Angelica. Te ne stai andando come un gatto offeso. Qui ci sono molti gatti che ti vogliono bene, aspetta! Ti regalo un gatto se vuoi.»

Beh, effettivamente, la voce “gatto” incominciava a essere frequente nel discorso di Oliviero, ma io ne ero contento e ridevo sotto i baffi, mentre Angelica se ne andava via sbattendo la porta.

Oliviero si girò dalla mia parte guardandomi pensieroso. Si prese il mento con una mano. Io feci lo gnorri e mi allontanai presto scodinzolando. Temevo un rimprovero. Coscienza sporca? Poi mi sentii chiamare da una voce tranquilla:

«Ehi, tu!»

«Mi-ii…aoh!» proferii incerto, per dire “Sì…? Dici a me?”. Mi aspettavo il peggio quando vidi Oliviero graffiare l'aria a vuoto con una mano alzata in un simpatico atteggiamento felino; poi mi disse lentamente: «Mi-i-àoh!»

Benvenuto nel mondo dei gatti, Oliviero. Gli risposi con un bel Miao. Subito dopo uscii a fare un giro fuori. Ne avevo proprio bisogno. Non sapevo cosa pensare. La gattopierica incominciava a dare un certo risultato e i pensieri di Oliviero incominciavano a orientarsi in senso felino. Speravo solo che la piccola dose che gli avevo propinato non producesse effetti troppo forti. In fondo era il mio padrone di casa. Cercai di tenerlo d'occhio e controllai i suoi spostamenti senza farmi vedere.

La gattopierica

Capitolo sesto

Il giorno dopo Oliviero uscì di buon'ora. Lo vidi dirigersi verso una libreria non molto distante da casa. Vi andava spesso a comprare i suoi libri. Seguii Oliviero da una certa distanza. Appena lo vidi entrare in libreria mi piazzai subito dietro la porta d'ingresso per spiare i suoi movimenti.

La vecchia proprietaria stava assorta dietro il bancone e non si era accorta di lui.

«Buongiorno!» disse Oliviero da lontano. Fin qui tutto bene. Tirai un sospiro di sollievo. L'anziana signora era intenta a controllare alcuni fogli sparsi sul bancone. Sembrava molto presa. Oliviero si avvicinò a lei e aprì la bocca lentamente, poi la richiuse come se non volesse dire niente, ma all'improvviso urlò in faccia alla donna:

«MIAOOO!»

La donna fece un salto sopra la sedia e cadde indietro. Oliviero accorse in suo aiuto. Non farlo, non farlo, dicevo fra me. Sapevo che l'effetto della gatto-pierica a volte si può trasmettere per contatto diretto, anche con una semplice stretta di mano. Troppo tardi: proprio in quel momento Oliviero aiutò la donna a rialzarsi prendendola per una mano e poi si scusò con lei per averla spaventata.

«Non so cosa mi sia successo, signora Evelina, non volevo, mi dispiace molto…»

«Oh, non si stia a preoccupare, Oliviero, tanto a me piacciono i gatti.»

«Anche a lei?»

«Sì, moltissimo. Anzi, le dirò di più: d'ora in poi ne voglio avere uno fisso qui dentro…» Eccomi, sono qui, Evelina cara! Pensai che a quel punto potevo entrare in scena anch'io e - chissà? - forse Evelina mi avrebbe assunto come assistente. Ma preferii non uscire allo scoperto, altrimenti non avrei potuto controllare gli sviluppi della situazione. Comunque, andò tutto bene. I due si misero a parlare di gatti e alla fine Oliviero, dispiaciuto per il piccolo incidente, invitò Evelina a uscire con lui: l'avrebbe portata a cena in un ristorante vicino al centro, poco più avanti della libreria. Io ritornai a casa più tranquillo, pensando che l'effetto della gattopierica ormai sarebbe svanito presto. D'altra parte, avevo usato solo una piccola parte della dose consigliatami dal Gattosavio.

Giunta la sera, sentii il mio padrone canticchiare sotto la doccia. Storpiava allegramente una vecchia canzoncina che mi sembrava di conoscere: «Una mattina, mi son svegliato, o bella miao, bella miao, bella miao, miao-miao! Una mattina…»

Mi allontanai in fretta e pensai ai tempi in cui quella canzone andava di moda. Ne erano ati di anni, ma la ricordavo ancora bene, la cantavano per le strade. Non mi convinceva però il “miao” del ritornello. Mah, forse un omaggio ai gatti.

«Ceci! Stasera ho una cena galante con la signora Evelina, eh-eh!» Oliviero scherzava parlando a voce alta dalla sua camera mentre si vestiva.

«Tu rimani a casa e fai buona guardia, eh?»

Mica sono un cane, sono un gatto reale, io!

Prima di uscire, Oliviero mi cercò per salutarmi. Io lo guardai preoccupato da un angolo del salotto. Lui si avvicinò e mi ha disse:

«Ehi, sei arrabbiato con me perché ti ho detto che esco con Evelina? È solo una cena di lavoro, poi ti spiegherò. Ah, se vedi Angelica non dirle niente, non vorrei che mi fe una scenata di gelosia.»

Sai quanto me ne importa di Angelica?

«Beh, io adesso vado, fai il bravo, eh?» Oliviero era sorridente. «Miaoo!» gli feci per salutarlo.

«Miao a te, caro Ceci!» mi disse prima di andare via.

Naturalmente, sgattaiolai fuori dopo di lui e lo seguii fino a quando non arrivò a casa della signora Evelina, poco distante dalla libreria. Il ristorante non era lontano e i due si diressero a piedi ridendo e scherzando come vecchi amici.

Cercai di sentire i loro discorsi senza farmi vedere: parlavano della bellezza dei gatti. Grandioso! Non mi sembrava vero. Potevo ritornare a casa, tanto i due non avrebbero combinato guai. Pensavo che l'effetto della gattopierica dovesse incominciare a svanire da un momento all'altro. Esitai per un attimo, poi notai da lontano l'insegna del ristorante e mi lasciai vincere dalla curiosità di vedere come

sarebbe finita la serata.

Capitolo sette

Oliviero ed Evelina entrarono nel ristorante e presero posto a un tavolo. Scelsi un punto di osservazione adeguato dietro la porta d'ingresso. Dovevo stare ben attento a non farmi scoprire da nessuno. Mi nascosi dietro una tenda che faceva proprio al caso mio. Da lì potevo sentire tutto senza essere visto. Oliviero ed Evelina aspettarono il cameriere e ordinarono la cena.

Mangiarono con calma chiacchierando del più e del meno. Ad un certo punto incominciarono a parlare di gatti e dell'importanza di averli nel quartiere. Dicevano che la gente dovrebbe amarli di più. Parole sante. Poi decisero di impegnarsi a fondare un comitato per la tutela dei gatti.

Nel frattempo il cameriere si avvicinò al loro tavolo per chiedere se gradivano un dessert.

«Avete dato uno sguardo al Menu, signori? Questa sera abbiamo molte novità e, se permettete, vi potrei consigliare…» Il cameriere recitò una lunga filastrocca di nomi per me incomprensibili. Per fortuna, a un certo punto, Evelina lo interruppe alzando una mano:

«Giovanotto, posso fare una domanda?»

«Chieda pure tutto quello che vuole, signora. Cercherò di accontentarla»

«Avete un gatto?»

«Un… ga-gatto?»

«Sì, un gatto, che c'è di male? Mi porti un gatto ché lo voglio accarezzare, perbacco!»

Deglutii, anche se la mia gola era completamente secca. Il cameriere restò imbalsamato per qualche secondo, poi si rivolse a Oliviero con aria interrogativa e confusa:

«Anche lei un gatto, signore?»

Non sapeva quello che diceva e si trastullava a guardarli e girarsi i pollici. Oliviero si mise in piedi e appoggiò con forza i palmi delle mani sopra il tavolo. Poi si inclinò verso il cameriere e con un'espressione inferocita gli urlò in faccia:

«MIAO! MI-I-I-AOOO! MI-I-I-A-OOO!»

Il cameriere, colto di sorpresa e spaventato, balzò indietro senza guardare, cadendo rovinosamente addosso a due clienti seduti a un tavolo vicino. Erano due giapponesi, marito e moglie. Avevano appena incominciato ad assaporare un buon brodino caldo che finì sulle loro gambe. Tutto il resto, compreso il tavolo, andò per terra insieme al cameriere. Solo i due giapponesi restarono al loro posto immobili e composti, nonostante il brodo li avesse ustionati.

Il gran frastuono attirò l'attenzione di tutti e poco dopo vidi arrivare in sala il titolare del locale che incominciò a sbraitare contro il cameriere maldestro e a scusarsi con i clienti. Non faceva altro che ripetere: «Sono mortificato, signori, sono mortificato!»

Oliviero ed Evelina si diressero verso la porta di uscita. Il titolare corse a fermarli e convincerli a rimanere, ma i due si girarono di scatto verso di lui e gridarono in coro: «MIAOOO!»

Il titolare del locale rimase di stucco, mentre Oliviero ed Evelina lasciarono il locale riprendendo la strada di casa. Io uscii dal mio nascondiglio ando proprio vicino ai piedi del titolare ancora imbambolato. Notai il suo sguardo allocchito e gli feci subito “miao” per buona creanza. Lui si limitò a guardarmi con una faccia da ebete senza neanche rispondermi. Bella educazione, pensai.

Intanto, Oliviero ed Evelina se ne ritornarono a casa chiacchierando allegramente. Il giorno dopo andai a trovare il mio amico Tempesta e gli raccontai tutto.

In un primo momento ci mettemmo a ridere, ma temevamo che a lungo andare il mio padrone di casa avrebbe collezionato brutte figure. Tempesta mi suggerì di parlarne con il Gattosavio. La lezione ormai poteva bastare e doveva esserci un antidoto per interrompere presto gli effetti della polvere di gattopierica che si stava rivelando più potente del previsto.

In serata mi recai dal Gattosavio. Abitava presso la casa di un contadino alla periferia di Mandyrion e aveva una piccola capanna in giardino dove riceveva le visite dei gatti reali. Gli parlai della situazione del mio padrone chiedendo un po'di clemenza, ma non si lasciò impietosire.

«Quell'uomo deve pagarla cara e deve scontare la pena fino in fondo, finché l'ultimo granello di polvere non abbia fatto il suo effetto, capito?» mi disse con voce ferma.

«Ma io pensavo che… »

«Tu non devi pensare, devi solo agire. Ora vai e tieni d'occhio il tuo padrone; poi dimmi come vanno le cose. Quell'uomo non si dimenticherà più di noi, vedrai, ah-ah-ah!»

Il Gattosavio esplose in una risata rauca e sarcastica che lasciava capire tutto il suo compiacimento per gli effetti della gattopierica su Oliviero. Poi mi salutò senza aggiungere altro. La sua risata riecheggiò per un po'nelle mie orecchie mentre me ne ritornavo a casa.

Capitolo ottavo

Contemplai il bruno violaceo del cielo che annunciava il sopraggiungere della sera e accelerai il o. Strada facendo vidi Tempesta venirmi incontro tutto trafelato. Con il suo pelo nero sembrava una macchia rotolante, confusa con le tenui ombre del crepuscolo.

«Corri, corri! Il gatto anziano, il gatto anziano!» esordì Tempesta visibilmente agitato. Si riferiva al nonno del Gattosavio. Dovete sapere che a Mandyrion vive il gatto più anziano al mondo: lo chiamano il Gattosauro. Gli è rimasta appena una vita, l'ultima delle sue lunghe e gloriose 777 primavere, e ora deve stare attento a quello che fa per non rischiare di perderla. Il Gatto medico gli ha già proibito molte cose e soprattutto gli ha detto di non andare più sui tetti alla sua età. Ma ora chissà cosa aveva combinato. Tempesta aveva il fiatone e così aspettai che si cal masse per farmi raccontare tutto.

«Il nonno, il nonno… il Gattosauro… Corri, facciamo presto!» farfugliava ansimante.

«Ma… Tempesta, si può sapere cosa è successo?»

«Il Gattosauro è salito su un tetto e ora non sa più come scendere. È rimasto paralizzato dalla paura e sta chiedendo aiuto!»

«Oh, no! Ma cosa gli è saltato in mente? Glielo abbiamo detto tante volte di non andare più sui tetti! Glielo ha ordinato anche il dottore»

«Ma questa volta lo ha fatto, non ha saputo resistere»

«E dove si trova adesso?»

«Sul tetto di casa del tuo padrone»

«Cosa?!» Non ci potevo credere.

«E come ha fatto?» gli chiesi sconcertato.

«Si è arrampicato salendo sul vecchio albicocco che sta nel giardino.»

Pensai al grosso tronco nodoso di quell'albero e ai suoi lunghi rami contorti che raggiungono il tetto della casa, peraltro non troppo alta: devo dire che quei rami sono molto invitanti per noi gatti e anch'io cedo spesso alla tentazione di andarci sopra. Ma il Gattosauro no, lui non doveva salirci, troppo pericoloso per la sua età.

Io e Tempesta ci mettemmo a correre e ben presto arrivammo a casa di Oliviero. C'era poca luce in giardino e sentivamo alcune voci. Riconobbi quella di Angelica:

«Mi avevi promesso che non avremmo più parlato di gatti e adesso, invece,

eccoti a fare addirittura il salvataggio di un gattone. Questo è troppo, sono stufa di avere gatti fra i piedi.»

«Ma non lo vedi quanto è impaurito, poverino? Non ti fa tenerezza?» replicò Oliviero armeggiando una scala per raggiungere il tetto. Il Gattosauro se ne stava immobile acquattato a zampe larghe sul bordo del tetto, con il muso appena sporgente in fuori. Di tanto in tanto emetteva un lamentoso "Miaooo!".

Oliviero fece ampi gesti per incitarlo a tornare indietro e scendere giù, ma il Gattosauro non si muoveva da lì neanche di un millimetro. Io e Tempesta entrammo nel giardino infilandoci attraverso la siepe. Ci avvicinammo a Oliviero che fu felice di vederci. Angelica, naturalmente, si arrabbiò con noi e provò ad allontanarci colpendoci con una scopa. Facemmo un “miao” di protesta e Oliviero prese le nostre difese. Poi ci chiese di dargli una mano:

«Su, amici, aiutatemi a far scendere il micione da lassù.» Io e Tempesta miagolammo a lungo per convincere il Gattosauro a scendere, ma niente da fare. Poi salimmo sul grande albicocco e provammo a parlargli da più vicino, ma ogni miagolio sembrava inutile. Ci voleva qualcosa per fargli cambiare idea. Mi ricordai di avere ancora un po'di polvere di gattopierica; sapevo che dava più forza ai gatti in difficoltà. Nel nostro mondo felino la chiamiamo “la polvere del cambiamento”. Tutti possono cambiare atteggiamento venendone a contatto.

Scesi giù di corsa per andare a prenderla dal mio rifugio segreto e ritornai subito da Tempesta che mi aspettò sull'albero. Salimmo sul tetto e ci avvicinammo lentamente al Gattosauro. Gli feci vedere la polvere e gli dissi di respirarne un po'che gli avrebbe fatto bene. Ma lui si rifiutò di prenderla e restò immobile dov'era con lo sguardo perso nel vuoto.

All'improvviso sentimmo delle voci familiari provenienti dalla strada. Forse

qualche gattino di aggio cercava di parlare al vecchio Gattosauro.

«Miao-miao, miio-mush-mush-miao!» Ehi, un momento! Quelli non erano normali miagolii. Vicino alla siepe c'erano due bambine, una biondina e una brunetta, e avevano entrambe un gattino in braccio. Erano due cuginette, Sara e Giulia, e io le conoscevo bene: abitavano poco più avanti della casa di Oliviero. Entrambe avevano imparato il nostro linguaggio. Questo capita ai bambini che amano i gatti e giocano con loro. Chi gioca ama, mi hanno sempre detto, e le due bambine avevano un grande amore per i gatti.

Capitolo nono

La mamma di Sara, che era lì nelle vicinanze, chiamò le cuginette e ordinò loro di ritornare a casa. Si stava facendo tardi per la cena. Ma le bambine non si muovevano e parlavano al Gattosauro rivolgendogli numerosi complimenti e chiedendogli di scendere giù per giocare con loro. Anche i gattini che avevano in braccio approvarono l'idea con prolungati e teneri miagolii.

Proprio in quel momento successe qualcosa di inaspettato. Il Gattosauro tirò su la testa e si allungò sulle zampe. La sua espressione, prima abbacchiata e derelitta, acquistò improvvisamente una nuova vitalità. Io e Tempesta restammo sbigottiti e anche Oliviero sembrò sorpreso, mentre Angelica cercava l'uscita del giardino per andarsene.

In quel momento vidi spuntare attraverso la siepe il Gattosavio con una squadra di gatti soccorritori al suo seguito. Probabilmente si era già sparsa la voce del Gattosauro in pericolo ed era stato organizzato un piano di salvataggio. Angelica si venne a trovare sulla loro traiettoria e, nel vedere quel mucchio di gatti, emise un urlo e balzò indietro spaventata. Si fece da una parte restando a bocca aperta e braccia elevate come se qualcuno la minacciasse con una pistola. Il Gattosavio si limitò a dire: «Largo, signorina, largo, ci faccia lavorare!»

I gatti soccorritori, capeggiati dal Gattosavio, salirono rapidamente su uno dei numerosi rami del vecchio albicocco. Si accorsero di me e Tempesta che nel frattempo ci eravamo appollaiati su un altro ramo poco distante e ci fulminarono con delle occhiatacce. Si fermarono in cima e cominciarono a parlare al Gattosauro chiedendogli ripetutamente di avvicinarsi a loro che lo avrebbero aiutato a scendere. Prima, però, doveva prendere la dose di gattopierica che il Gattosavio aveva con sé.

«Andate via, sto bene e non ho bisogno di niente!» reagì seccamente il Gattosauro.

«Dài, nonno, non fare storie, vogliamo solo aiutarti. Non ce la farai a…»

«Andatevene, ho detto, so cavarmela da solo.»

«Hai bisogno della polvere!»

«Non è vero!»

Il Gattosavio, spazientito, aprì la boccetta di gattopierica e urlò:

«Cambiamento!» Era la parola d'ordine, una specie di grido di guerra a cui gli altri gatti risposero in coro: «Cambiamento!» Stavano per entrare in azione con la gattopierica.

La squadra felina si drizzò per saltare compatta sul tetto, ma in quel momento il ramo del vecchio albicocco cedette sotto il loro peso, scricchiolò paurosamente e si inclinò di colpo verso il basso senza distaccarsi del tutto. I gatti scivolarono caoticamente per terra rotolando vicino ad Angelica che restò a osservare la scena ammutolita ed esterrefatta.

La polvere di gattopierica si rovesciò completamente addosso a lei che, senza capire di cosa si trattasse, si sventagliò nervosamente agitando le mani come per scacciare degli invisibili moscerini dal naso. Troppo tardi. La ragazza ormai era venuta in pieno contatto con la polvere e l'aveva anche respirata, come era inevitabile.

Capitolo decimo

Io scesi giù in fretta dall'albero e andai a rimettere al suo posto la mia boccetta prima che gli altri mi scoprissero. Tempesta mi venne dietro quasi fino al rifugio: si fermò in un angolo del giardino a guardare quel che succedeva. Io ritornai da lui in un battibaleno.

Oliviero si apprestava ad aiutare Angelica che era andata su tutte le furie, mentre i gatti soccorritori gironzolavano indecisi sul da farsi in attesa di istruzioni da parte del Gattosavio. Ma anche lui sembrava indeciso e si mise a riflettere rimanendo fermo e smarrito vicino al tronco dell'albicocco.

In quel mentre vidi il Gattosauro scendere dal tetto saltando sui rami dell'albero, agile e veloce come una pantera. Corse direttamente fuori in cerca delle bambine per giocare con loro. La squadra dei gatti soccorritori sembrava abbastanza disorientata. Nel frattempo, Oliviero era intento a tranquillizzare Angelica.

«Non ti preoccupare, è stato un piccolo incidente,» disse Oliviero, «adesso risolviamo tutto, vedrai. Entriamo in casa e poi mettiamo tutto in ordine qui, va bene?»

«Cosa vuoi fare? Entrare in casa? E i gatti…»

«Lasciali stare, Angelica, andranno via da soli. Vedrai che…»

«Ma perché lasciarli andare? Cosa ti hanno fatto di male? Ehi, tu…» Angelica si rivolse verso il Gattosavio che spalancò gli occhi nel vedersi puntato dalla donna.

«Sì, dico a te, vieni qui bel gattone, dimmi come ti chiami…» fece Angelica muovendosi in direzione del Gattosavio che, come sentendosi in pericolo, si defilò presto attraverso la siepe. Si tuffò sulla strada seguito dai gatti soccorritori. Angelica prese a rincorrerli gridando dietro di loro: «Venite qui, bei gattini, non scappate, venite dalla vostra mammina!»

Io e tempesta uscimmo anche noi per strada ad assistere alla scena, peraltro alquanto buffa, mentre dal lato opposto si celebrava una vera amicizia: Sara e Giulia si erano strette intorno al Gattosauro con i loro gattini in braccio, confabulando piacevolmente tra di loro. Il Gattosauro sembrava un'altra persona… (ehm… volevo dire: un altro gatto). Ma ben presto arrivò Gloria, la mamma di Giulia, che riportò le bambine a casa. Il Gattosauro le seguì e si accovacciò per terra all'esterno della loro abitazione. Mi accorsi più tardi che le bambine gli avano del cibo dalla finestra.

Il giorno dopo Angelica ritornò da Oliviero. Pensai che ormai si fosse addolcita e anche lei amasse i gatti dopo l'ultima manifestazione di affetto verso il Gattosavio e la squadra dei gatti soccorritori. In più aveva respirato la gattopierica e i suoi pensieri dovevano ormai avere un certo orientamento felino.

Quindi, nel vederla da lontano, mi lanciai verso di lei a colpo sicuro per farle un po'di feste. Ma Angelica era più acida che mai e reagì assestandomi un calcio forte e nervoso da farmi ruzzolare per qualche metro. Protestai con un lungo e disperato “miao!”. Ero andato a finire addosso alla siepe. Da lì potei sentire alcuni miagolii provenienti dalla strada.

Mi affacciai curioso da sotto il verde della siepe e visualizzai una scena deliziosa vicino casa di Gloria: Sara e Giulia giocavano con i loro gattini accanto al Gattosauro che restava immobile mentre loro gliene facevano di tutti i colori. Le bambine gli avevano messo prima un cappellino in testa e poi un asciugamano sulle spalle a mo'di mantello. Lui sembrava felice di stare al gioco e di appartenere a quella piccola combriccola da cui si sentiva molto amato.

Osservando la scena compresi allora che, più della polvere di gattopierica, è l'amore a provocare un cambiamento nella vita delle persone e in quella dei gatti, naturalmente.

Me l'avevano detto, però: chi gioca ama. Doveva essere vero.

Capitolo undicesimo

Nuovi amici e nuove esperienze

Cominciai a frequentare Sara e Giulia. Le due cuginette avevano rispettivamente due e tre anni e andavano d'amore e d'accordo su tutto. I loro gattini erano favolosi e anche l'ultimo arrivato, il Gattosauro, non era da meno. Formavamo davvero un bel gruppo insieme, ve l'assicuro.

Il mio amico Oliviero, invece, ebbe un periodo burrascoso con Angelica e alla fine i due si lasciarono. Meglio così, pensai. Una donna che non amava i gatti non era degna di stare con Oliviero e neanche con me, naturalmente. Cercai di consolare il mio padrone di casa fingendomi triste per l'accaduto (in realtà ero felicissimo per la sua separazione da Angelica) e lo invitai a giocare con i miei nuovi amici. Sul momento Oliviero declinò l'invito, però mi fece capire che pre sto sarebbe venuto a giocare con noi. Era felice che io frequentassi Sara e Giulia e le rispettive famiglie, che lui conosceva molto bene e, cosa più importante, amavano i gatti.

Le due cognate, cioè la mamma di Sara, Carmelina, e quella di Giulia, Gloria, erano premurose verso le bambine e, non lo nascondo, si comportavano bene anche con noi gatti. Peraltro, accolsero volentieri il Gattosauro, nuovo entrato nel giro di amicizie delle cuginette.

Carmelina e Gloria sembravano brave mamme e Oliviero non faceva che elogiarle. Tuttavia, ebbi presto alcune perplessità a loro riguardo. Innanzitutto, erano entrambe donne di bell'aspetto e la cosa già mi insospettiva: non mi fidavo più dell'esteriorità dopo l'esperienza avuta con Angelica. La bellezza delle

donne, secondo me, non era più garanzia di amore verso i gatti. Infatti, con il are del tempo, mi resi conto di alcune strane manie delle cognate che nel mondo felino non sarebbero state mai accettate.

Le due donne (credetemi, non lo dico per giudicarle) tutti i giorni imponevano alle bambine orari fissi per la pappa e per andare a dormire. E poi la pappa bisognava finirla tutta sennò erano guai. Le cose si svolgevano sempre con una sequenza precisa.

A un certo punto della giornata Carmelina e Gloria - non so perché - guardavano l'orologio come se fosse un segnale d'intesa e facevano scattare il piano d'azione. Il loro viso si trasformava e si muovevano con rapidità in cucina senza parlare. Nessuno osava più dire niente. In quei frangenti si respirava un'aria di tensione che induceva le povere bimbe a sottostare al volere delle mamme senza poter reagire. Qualcosa di simile avveniva al momento del dormire. E tutto cominciava sempre dopo il solito segnale convenuto, cioè un'occhiata all'orologio (ormai l'ho capita: i guai umani devono essere incominciati da lì, da quel banale misuratore del tempo).

Io rimanevo inorridito nel vedere applicate quelle regole con tanto rigore. E poi sempre con la complicità dell'orologio. Ma vi rendete conto? Si trattava di una grave limitazione della libertà individuale che nel mio ambiente non sarebbe stata mai tollerata; anzi, avrebbe rappresentato un reato vero e proprio o, comunque, un'ingiustizia.

Chiesi spiegazioni in merito a Oliviero e lui mi disse che quelle erano solo delle regole educative per le bambine e non c'era niente di male. Ma alla fine, non vedendomi convinto, ammise che le due donne a volte esageravano e gli scappò detto che Carmelina, in particolare, era una tipa tosta.

Lì per lì non capii cosa volesse dire, ma immaginai che quella frase dovesse nascondere un terribile segreto. Ripensai a tutte le volte che avevo preso le difese di Sara: Carmelina dilatava gli occhi e mi inceneriva sempre con uno sguardo severo, e così io ero costretto a fuggire impaurito. Da quel momento mi misi in testa di scoprire cosa ci fosse realmente dietro alla sua apparente dolcezza.

Capitolo dodicesimo

Nei giorni successivi mi recai più spesso a casa di Carmelina per osservarla, ma lo facevo con discrezione e tenendomi a debita distanza perché lei non si accorgesse della mia presenza. Scoprii che da qualche tempo lei pretendeva che Sara fe i suoi bisognini al bagno e non più nel pannolino.

Premetto che la bimba non aveva ancora compiuto due anni di età e, da che mondo è mondo, i bambini cominciano a fare da soli i loro bisognini da tre anni in su. Questo è scritto in tutti i libri dedicati ai bimbi, potete controllare. Ma Carmelina, nossignore, la pensava diversamente.

Un giorno vidi la bimba (sentite questa) che girava per casa senza pannolino e a un certo punto fece la pipì sul tappeto del salotto. E fin qui niente di strano, almeno per me. Poco dopo, ignara delle conseguenze, Sara depositò sul tappeto anche un biso gnino solido. Nei paraggi c'era Carmelina che, appena si accorse dell'accaduto, emise un urlo. Sara si spaventò e cadde seduta spiaccicandosi con il sederino sopra la sua cacchina. Per forza, cosa poteva fare? Ma per Carmelina invece fu la fine del mondo.

Chiamò ad alta voce il marito che era un sant'uomo - e non era un caso che si chiamasse Santino -che corse subito in suo aiuto. Carmelina sollevò rabbiosamente la povera Sara da terra, rimproverandola aspramente e mettendola nella vasca da bagno per lavarla. Poi finì di sfogare la sua rabbia lamentandosi (quasi non ci potevo credere) per il tappeto nuovo che si era rovinato. Roba dell'altro mondo!

Vi confesso che restai allibito dalla scena. Guardai Carmelina: avevo una gran

voglia di dirgliene quattro e stavo per farlo (a modo mio, s'intende, cioè mostrando le unghie) quando vicino a me apparve il Gattosauro che mi fermò.

«Lascia stare, figliuolo» mi disse tirandomi per una zampa.

«Perché? Ma l'hai visto come si è comportata?»

«Sì, lo so. Carmelina è buona e cara, ma a volte le prendono i cinque minuti.»

«Cinque minuti?»

«Sai,» fece il Gattosauro con voce calma «in fondo Carmelina è una brava figliuola, ma a volte ha i suoi momenti di crak!»

«Crak?!»

«Sì, è quando le donne sono un po'nervosette e si rompe il loro equilibrio interiore, sai com'è…»

Io scrutai perplesso il Gattosauro, ma sentii di potermi fidare dei suoi saggi consigli e così mi allontanai insieme a lui per fare una eggiata.

«Ti ha detto niente Tempesta?» mi fece a un certo punto il Gattosauro.

«No, a cosa ti riferisci?» domandai. Pensai che Tempesta avesse scoperto qualcosa di nuovo sugli umani. Lui era il classico tipo che stava sempre in giro a curiosare dappertutto.

«Beh, non so ancora niente di preciso, ma sembra che Tempesta si sia intrufolato nella cantina del nonno di Oliviero.»

A questo punto dovrei spiegare che a Mandyrion chiamano cantine i locali scavati sotto le abitazioni, dove i contadini tengono al fresco il vino dentro grosse giare. Tra l'altro, la città è attraversata anche da tunnel sotterranei che un tempo servivano per sfuggire agli assedi o sorprendere il nemico alle spalle spuntando da un'altra parte della città.

«E cosa è andato a farci là?» domandai.

«Mah, sembra che abbia notato qualcosa di strano su una piccola porta sotterranea.»

«Oh, no!» esclamai, temendo che Tempesta si fosse andato a cacciare in qualche pasticcio, «Ma proprio là doveva andare a ficcare il naso?»

«Perché, l'hai vista pure tu quella porta?»

«Sì, ero insieme a Oliviero. Mi ha detto che è solo un vecchio ripostiglio dove il nonno tiene qualche attrezzo di lavoro. Ma Tempesta cos'ha combinato?»

«Ah, non ha fatto niente di male, è solo che c'è qualche anomalia.»

Il Gattosauro parlava sempre di anomalia quando non riusciva a spiegare qualcosa secondo la logica maturata nella sua lunga esperienza di vita.

«Dice che ha visto una strana luce sotto la porta» proseguì sottovoce il Gattosauro facendosi pensoso. Restò un attimo in silenzio; poi si fermò di colpo e disse: «Sai cosa facciamo? Andiamoci subito.»

«Dove?»

«A vedere quella porta. Il posto non è lontano da qui.»

«Ma il nonno di Oliviero non vuole che ci vada nessuno là, forse è pericoloso.»

«Pericoloso? Per noi? Ma che storie sono queste!»

Era ato mezzogiorno quando raggiungemmo la casa del nonno di Oliviero. Come al solito, entrammo nel piccolo giardino da una strada parallela, alle spalle dell'abitazione. C'era una fila di grossi vasi di felci verdi sopra un muretto. ammo da dietro i vasi per tenerci nascosti e vedemmo Tempesta che stava già lì, appostato di fronte alla scala che conduceva in cantina. Poco dopo apparve il nonno nel giardino.

Si accorse di noi e fece un gesto di insofferenza. Ma quello era solo un suo modo di fare perché in fondo lui non aveva niente contro i gatti. Tempesta, spaventato dai grossi baffi a manubrio del nonno, si abbassò per nascondersi meglio. Poco dopo il nonno rientrò in casa.

Con un balzo Tempesta si infilò nella cantina correndo velocemente sui gradini scavati nella roccia. A Mandyrion molte famiglie contadine usavano questi locali sotterranei, oltre che per tenerci il vino, anche come dispensa alimentare e non volevano che ci andassero i gatti.

Io e il Gattosauro ci guardammo intorno con circospezione e scendemmo anche noi giù per le scale.

«Tempesta! Aspettaci!» gridai. Sentii la mia voce riecheggiare nel sotterraneo, senza ricevere risposta. Niente, neanche un miagolio del mio amico.

«Tempesta!» continuavo a dire mentre scendevo. Il Gattosauro mi guardò perplesso. ammo insieme per un piccolo locale con la volta a botte e poi entrammo in un vano successivo, molto più grande del primo. Di Tempesta neanche l'ombra.

«Dove si sarà cacciato?» domandò il Gattosauro.

«Tempesta? Dove sei? Esci fuori, dài, non fare scherzi, non è il momento!» dissi, ma era come parlare al vento. Osservai le mensole di legno sui muri: sopra ci stavano boccali e brocche di terracotta; per terra c'erano giare di varie dimensioni allineate lungo le pareti. Tutto tenuto in grande ordine, ma di Tempesta niente, sembrava sparito. Sentimmo delle voci proveniente da sopra.

Sul momento decidemmo di rinunciare alla ricerca di Tempesta e cercammo di risalire alla svelta stando attenti a non farci vedere da nessuno.

Capitolo tredicesimo

Il giorno dopo andai a trovare le mie nuove amiche, Sara e Giulia, e raccontai loro della scomparsa di Tempesta sotto la cantina del nonno di Oliviero. Le bambine restarono meravigliate e mi dissero che avevano sentito parlare di alcuni fatti misteriosi che avvenivano nei cunicoli sotterranei di Mandyrion. L'avevano saputo da altri gatti. Lì per lì la cosa mi incuriosì, però mi premeva sapere prima cosa era successo a Tempesta.

Decisi di andare da solo a ispezionare la cantina del nonno di Oliviero. Lo feci con il favore della penombra crepuscolare di una calda giornata estiva. Mi intrufolai rapidamente nel sotterraneo dove penetrava ancora un fiotto di luce dall'esterno. Ma i miei occhi si adattavano abbastanza bene all'oscurità. Le sagome degli attrezzi e delle giare incombevano su di me come ombre minacciose. Mi dissi che non c'era da aver paura e proseguii in fretta finché non arrivai davanti alla porticina che cercavo.

Mi fermai a guardarla per qualche istante. Non rilevai niente di strano. Stavo per avvicinarmi ancora di più quando all'improvviso la maniglia incominciò a muoversi da sola. Trasalii emettendo un rantolo di terrore. Feci un rapido dietrofront e mi catapultai verso l'uscita. Avevo sopravvalutato il mio coraggio.

Mentre ritornavo a casa a testa bassa, intenzionato a parlare dell'accaduto con Oliviero, mi ritrovai di colpo fra le braccia del Gattosauro. Non mi ero accorto di lui: mi stava venendo incontro dopo avermi visto abbacchiato.

«Ehi! Sei stravolto, ma che ti è successo?»

«Sapessi! La cantina, la porta… la cantina del nonno, quella porta è… » balbettai.

«Ehi! Fermati un po'. Ti potresti spiegare meglio?» Raccontai tutto al Gattosauro che in un primo momento restò perplesso; poi sorrise e disse: «Sarà stata un'allucinazione dovuta alla paura, vedrai!»

«Macché, è tutto vero!» protestai.

«Va bene, va bene. Vuol dire che domani andremo a controllare insieme, così cercheremo di capire come stanno le cose e che fine ha fatto il tuo amico Tempesta.» Era quello che volevo e approvai subito l'idea.

Ci salutammo e il mattino seguente ci trovammo entrambi puntuali davanti all'ingresso della cantina del nonno di Oliviero. Dopo esserci assicurati che non ci fosse nessuno nei paraggi, scendemmo rapidamente di sotto e ci arrestammo davanti alla porticina misteriosa.

«Apriamola!» disse il Gattosauro.

«Ma ne sei sicuro? E come facciamo a…?» chiesi mentre mi accorgevo che stavo trattenendo il fiato.

«Credi che questo sia un problema per noi?»

In un attimo il Gattosauro spiccò un salto, agganciò la maniglia e la tirò giù con il suo peso. Subito dopo uno scricchiolio sinistro: la porticina si aprì ruotando lentamente sui cardini. Il Gattosauro la colpì con una zampata per aprirla del tutto.

Davanti a noi apparve un piccolo vano buio di circa un metro quadrato. C'erano due zappe e un vecchio paio di stivali a ridosso del muro; per terra si vedeva una tavoletta sbilenca che lasciava intravedere una piccola buca. Il Gattosauro la scostò scoprendo un'apertura più ampia immersa nel buio. Sembrava un aggio che conduceva ancora più in profondità.

Dopo un po'ci accorgemmo di un debole bagliore luminoso proveniente dal basso che ci permise di notare una scaletta di pietra davanti a noi.

«Dài, forza, scendiamo» mi fece il Gattosauro. Io lo seguii con un pizzico di tremore addosso. Ci trovammo in un tunnel illuminato da qualche candela accesa attaccata alle pareti su piastre ricurve a mo'di lampioncino. In lontananza vedemmo un gatto bianco venirci incontro tutto trafelato.

Capitolo quattordicesimo

«Ehi, voi due! Siete nuovi?» ci domandò mentre si avvicinava con solerzia.

«Come, nuovi?» dissi a mezza voce.

«Voglio dire, siete qui per la causa?» fece il gatto bianco dopo averci raggiunto. Ci scrutò attentamente nella scarsa luce del tunnel. Poi, mentre fissava il Gattosauro, ebbe un sussulto di stupore e disse: «Ehi, ma tu sei Ulisse.»

Per la prima volta sentii pronunciare il vero nome del Gattosauro: Ulisse! Nel mio ambiente succedeva che ai gatti più valorosi venissero affibbiati nomi importanti.

«Sì, sono io, ma… che sta succedendo qui?»

«Come, non lo sapete? Qui sotto vivono i gatti della Rivoluzione, quelli che lottano per la causa, per il riconoscimento dei nostri diritti, del nostro valore storico. Il ruolo felino tra gli umani è stato sempre trascurato e ora è giunto il momento del riscatto. Venite che vi porto dal capo.»

«Ehi, aspetta un momento: dicci prima chi sei» pretese il Gattosauro con autorevolezza.

«Sono Rocco, il segretario del capo.»

Seguimmo Rocco che ci condusse per un dedalo di corridoi sotterranei. Poi si fermò vicino a una porta, bussò tre volte e l'aprì senza indugiare.

«Capo, questi sono nuovi» disse Rocco invitandoci a are. Vidi una piccola stanza con pile di libri e fogli accatastati per terra; dietro una tavola adibita a scrivania c'era seduto un magnifico esemplare di gatto bianco.

«Annibale!» esclamò il Gattosauro appena lo vide.

«Ulisse!» fece l'altro di rimando. I due gattoni si conoscevano bene e si misero subito a raccontarsi molte cose, ignorandomi quasi del tutto. Si ricordarono dei vecchi tempi, di quando combattevano insieme contro i gatti saraceni e di come aiutavano gli umani a vincere le battaglie graffiando le gambe dei loro nemici e altre cose simili. Ne avevano combinate di cotte e di crude, insomma. Ma ora nessuno si ricordava più niente dell'eroismo felino, delle lotte per l'unità territoriale, dei salvataggi di donne e bambini e… Adesso era finito tutto nel dimenticatoio.

A un certo punto Annibale e Ulisse si girarono verso di me, quasi sorpresi della mia presenza.

«Lui è Arnaldo, è un bravo gatto» mi presentò sinteticamente il Gattosauro.

«Per la nostra causa qui servono gatti valorosi.»

«E lui lo è, Annibale. Ma dimmi una cosa, qual'è il vostro obiettivo?»

«Indurre gli umani a riconoscere le nostre imprese e le nostre antiche origini. Come sai, noi apparteniamo alla gloriosa dinastia felina dei Maosapiki.»

«Non è un'impresa da poco dimostrare tutto questo.»

«Sì, lo so, ma adesso abbiamo molte prove in più. Guarda qui.» Annibale prese una vecchia moneta da sopra la scrivania e la mostrò a Ulisse. Diedi una sbirciata: da un lato si vedeva l'effige di un gatto grintoso e dall'altro due spighe di frumento stilizzate.

«Sai cosa vuol dire quest'immagine? Vittoria e benessere che gli umani hanno ottenuto grazie al nostro aiuto. Un re maosapiko fece coniare questa moneta in nostro onore molti secoli fa. Comunque, ci sono tanti altri reperti a nostro favore. E poi c'è dell'altro: Alchemio, il nostro gatto scienziato, sta lavorando a una formula matematica per modificare il tempo. Sai, noi conosciamo molti segreti di questi luoghi e potremmo…»

Ascoltavo con attenzione quei discorsi quando mi ritornò in mente il mio amico Tempesta. In fondo, mi trovavo là per lui e me ne stavo quasi dimenticando.

«Un simpatico gattone nero, arrivato qui da poco, sta ora collaborando a un esperimento promettente di Alchemio» proseguì Annibale.

«Tempesta!» esordii all'improvviso.

«Ma di chi parli, ragazzo?» mi chiese Annibale.

«Deve essere lui! Dài Ulisse, corriamo, corriamo!» feci strattonando il Gattosauro. Poi uscii dalla stanza del capo e incominciai a correre all'impazzata in quei lunghi corridoi semibui. Allungai lo sguardo in avanti e mi parve di vedere un puntino di luce intensa in lontananza. Ebbi la netta sensazione che fosse quella la direzione giusta da seguire.

Un rumore di i riecheggiò dietro di me. Era il Gattosauro che cercava di raggiungermi. Mi chiamava con insistenza: «Arnaldo! Aspetta! Non fare sciocchezze!»

Altri gatti si affacciarono nel tunnel, ma senza ostacolare la mia corsa affannosa verso il forellino luminoso che andava allargandosi sempre di più davanti a me. A un certo punto udii la voce di Rocco che mi intimava: «Fermati! Non farlo, non farlo!»

Ma io continuai a correre a perdifiato senza fermarmi. Solo il Gattosauro riusciva a starmi dietro con il suo o da pantera. All'improvviso entrai in un pulviscolo luminoso che mi avvolse come un vortice e si trasformò presto in un caleidoscopio di colori scintillanti. Dopo una decina di metri mi trovai finalmente verso l'ultimo tratto, un aggio piuttosto angusto scavato nella roccia. Lo attraversai alla svelta raggiungendo il punto d'uscita.

Sentii il palpitante abbraccio della luce esterna che abbinai a una piacevole sensazione di libertà, ma anche alla possibilità di rivedere il mio amico

Tempesta.

«Ulisse, ci sei?» chiesi mentre riprendevo fiato.

«Sono qui. Potevi rallentare, per la miseria!»

Il Gattosauro si fermò vicino a me ansimante. Mi guardai intorno e a una prima occhiata mi sembrava di conoscere il posto.

«Siamo sbucati dall'altra parte della città, verso la periferia, mi pare…» dissi.

«Sì, è vero, ma c'è qualcosa che non mi quadra…» aggiunse Ulisse un po'perplesso. Poi mi fece notare una grossa lastra di pietra su cui c'era scritto “Masseria Giannangelo”. In quello stesso momento sentimmo una voce alle nostre spalle:

«Ehi, voi due! Siete nuovi?» Ci risiamo, un altro amico di Rocco, pensai. Ma quando io e Ulisse ci voltammo indietro scorgemmo il volto sorridente di un giovane a cavallo. Aveva un'espressione amichevole e, cosa più importante, parlava il nostro linguaggio. Un amico, dunque. Però, che strano: indossava una specie di divisa da poliziotto e non capivo cosa volesse dire.

«Che c'è, vi ho spaventati?» disse il giovane notando la mia aria preoccupata.

«No.. no, è per l'uniforme…» dissi timidamente.

«Sono una guardia del re.»

«Del re?!» esclamammo in coro io e il Gattosauro.

«Il re Ferdinando IV. Viene da Lecce ed è diretto a Napoli. erà la notte qui insieme alla moglie, la regina Carolina. Sono ospiti del cavalier Costantino Primiceri, proprietario di questa masseria. La famiglia reale sta facendo un viaggio in Terra d'Otranto. Ma voi non vi preoccupate perché sia il re che la regina amano i gatti.»

«Ma, ma… in che anno siamo?» domandò Ulisse sconcertato.

«Che domande! Nel 1789.»

«Cosa?!» esclamai barcollando. Il Gattosauro mi riacchiappò prima che cadessi per terra.

«Non abbiate timore. Come vi ho detto, il re è amico dei gatti. Guardate là, ce ne sono alcuni che stanno organizzando un incontro con lui, credo una festicciola. C'è quel gatto nero che sa tutto, chiedetelo a lui, dice che è in missione speciale qui.»

La guardia del re ci indicò un gruppetto di gatti radunati dietro un cespuglio, poco distanti da me e Ulisse. Puntai lo sguardo su quello nero e lo riconobbi subito.

«Tempesta!» proruppi eccitato. «È il mio amico, lo stavo cercando. Oh, grazie signor…»

«Oronzo, mi chiamo Oronzo» rispose la guardia, «E voi due come vi chiamate?»

«Io Arnaldo, e lui…»

«Ulisse» mi anticipò il Gattosauro alzando la testa con fierezza.

«Ma che bei nomi! Adesso però io devo fare un giro di perlustrazione intorno alla masseria. Spero di rivedervi presto.»

Capitolo quindicesimo

Dopo esserci salutati con la guardia reale, io e Ulisse andammo verso Tempesta che, appena ci vide, si separò dagli altri gatti per venire a salutarci.

«Cosicché state organizzando una festicciola per il re» gli dissi.

«Macché festicciola! Stiamo solo preparando un incontro con lui per aiutare i cittadini di Casalnuovo.»

«Di Casalnuovo? Ma non siamo a Mandyrion qui?»

«Sì, ma da qualche secolo si chiama Casalnuovo e ora alcuni cittadini vogliono che mettiamo una buona parola con il re per ristabilire l'antico nome di Mandyrion.»

In quel momento sentimmo una voce aspra e imperiosa che coprì quella di Tempesta: «Ehi voi! Cosa fate qui? Siete nuovi?» Ancora! A pochi metri di distanza da noi c'era un'altra guardia del re a cavallo, ma questa volta il suo aspetto non sembrava per niente amichevole.

Infatti, poco dopo sguainò la spada e si lanciò minacciosamente verso di noi urlando: «Via, via! Gatti della malora, ma quanti ce ne siete qui? Andate via. Questa volta vi ammazzo tutti.»

No, non era una figura amica, per niente, acciderba! Tempesta scattò in avanti come un fulmine dicendo: «Presto, fuggiamo, più in fretta possibile.»

Senza farcelo ripetere due volte, io e il Gattosauro ci mettemmo a correre a tutta birra insieme a lui. Sentimmo il fruscio sibilante della spada che la guardia reale faceva roteare alle nostre spalle, mentre spronava al massimo il suo cavallo. Stava per raggiungerci, anche se noi viaggiavamo ormai alla velocità della luce. Attraversammo sterpaglie, buche e mucchi di pietre sparse qua e là, finché a un certo punto non ci trovammo in un terreno polveroso pieno di piante di ortaggi. Le zolle ci facevano inciampare e quasi cadere, mentre altre ci rimbalzavano addosso. All'improvviso ne sentimmo alcune più grosse pioverci sopra la testa.

«Ma ora che fa quello lì, ci prende pure a sassate?» dissi vacillando.

«Sono zolle del terreno. Correte, correte!» urlava Tempesta. Una zolla mi colpì sul dorso e cacciai uno strillo.

«Via da qui, sparite gattacci, mi state distruggendo i pomodori!» intimò una voce ruvida alle nostre spalle. Ma non era più quella della guardia reale. Mi girai e vidi un contadino che, preoccupato per le sue coltivazioni, ci scacciava a suon di zolle. Non capivo, ma continuai a correre senza ragionare, tenendomi vicino a Tempesta e Ulisse. Tutti e tre insieme raggiungemmo presto uno spiazzo di terra battuta dove ci sembrò di essere fuori pericolo. Non c'era più nessuno a minacciare le nostre vite. Sentimmo il rumore di alcune auto lungo una strada asfaltata davanti a noi.

Il posto si assomigliava a una zona periferica di Mandyrion. Ma sì, ci trovavamo nell'area archeologica, dietro la chiesa di Sant'Antonio. Riconobbi in lontananza

il ponte della ferrovia. Tirai un sospiro di sollievo.

«Siamo ritornati a casa!» esultai.

«Aveva ragione Alchemio» disse Tempesta.

«Ah, il gatto scienziato e i suoi esperimenti» fece Ulisse con tono sarcastico.

«Un gatto rossiccio, rosso e biondo» continuò Tempesta senza badare al Gattosauro. «Nel tunnel dicevano che fosse molto intelligente. È stato lui a dirmi che in caso di pericolo dovevo mettermi a correre più veloce che potevo. Solo così sarei uscito dalla formula del tempo.»

«La formula del tempo?» domandai stupito.

«Ah, non mi chiedere cosa sia…»

In quel momento un'auto ò vicino a noi che, dopo averci superato di qualche metro, inchiodò e fece retromarcia. Ecco un altro che ora ci chiederà se siamo nuovi, pensai. Ma dovetti subito ricredermi quando vidi due simpatiche manine che sventolavano saluti da dietro i vetri dei finestrini posteriori. Erano Sara e Giulia: che gioia rivederle!

Alla guida della vettura c'era Carmelina che ci sollecitò a muoverci con ripetuti gesti della mano: «Fate presto, entrate, vi do uno strappo a casa. Siete spariti

dalla circolazione e le bambine vi hanno cercato tanto. Ma dove siete andati a finire? Anche Oliviero è stato in pensiero.»

Mi lasciai andare alla visione di Carmelina che in quel momento mi sembrava un angelo sceso dal cielo. Si dimostrò molto premurosa, sfoderando modi raffinati e gentili. Una cara donna, dopotutto. Saltai in macchina insieme a Tempesta e Ulisse; le bambine ci coprirono subito di coccole. Dopo un breve e festoso viaggio arrivammo vicino casa di Oliviero e l'auto si arrestò. Carmelina ci fece scendere.

Io, Tempesta e Ulisse salutammo le bambine e ci addentrammo nella fitta siepe che circondava la casa di Oliviero. Non vedevo l'ora di rivederlo e raccontargli tutto. Poi volevo rivelargli il vero nome del Gattosauro: Ulisse. Mi preparai mentalmente a dirgli con tono solenne: “Ecco, ti presento Ulisse, un nuovo amico, eh, eh!”. Volevo vedere che faccia faceva.

Mentre vagavo nei miei pensieri vidi Oliviero sulla porta di casa che allungava le braccia in segno di benvenuto e disse:

«Ehi, che bel gruppetto, sembrate i tre moschettieri! Venite dentro che voglio presentarvi un amico. Sono sicuro che vi piacerà; è uno che ama molto i gatti.»

Dietro di lui c'era un bel giovane sorridente che a prima vista mi ricordò una persona che già conoscevo. Che strano: assomigliava tanto alla prima guardia reale che avevo visto all'uscita del tunnel; era pressoché identico, ma senza divisa militare.

«Ragazzi,» fece Oliviero, «vi presento Oronzo.»

Capitolo sedicesimo

Vedere l'amico di Oliviero così somigliante alla guardia reale e, come se non bastasse, con lo stesso nome, Oronzo, mi procurò un tale sbalordimento che mi ci volle un po'per superarlo.

Il giorno dopo, ripensando all'esperienza avuta nel tunnel, decisi di raccontare tutto a Oliviero, ma lui si mostrò alquanto scettico. Gli vennero meno i dubbi solo dopo aver ascoltato anche la versione dei fatti di Tempesta e del Gattosauro.

«Mi sembra tutto così assurdo, quasi non ci posso credere… » disse Oliviero con qualche residuo di perplessità. Poi, riflettendoci sopra, propose di ritornare sul posto.

«Non è perché non mi fidi di voi» disse, «ma solo per capire meglio tutta la faccenda e vedere che non ci sia dell'altro.»

«Dell'altro? Io ne avrei avuto già abbastanza» obiettò Tempesta. Immediatamente gli diedi una zampata, e lui capì. Di solito noi gatti siamo sempre pronti alle nuove avventure e tutto ci deve incuriosire, perciò non potevamo smentirci per così poco.

«Bene. Quando si comincia, allora?» si corresse prontamente Tempesta.

«Ehi, un momento: dimenticate il nonno» osservai.

«A lui ci penserò io; anzi, approfitterò per chiedergli qualche informazione su quel tunnel» disse Oliviero.

Ci lasciammo dandoci appuntamento davanti all'ingresso della cantina del nonno di Oliviero per la mattina del giorno dopo. Io, Tempesta e Ulisse fummo puntuali e all'ora prestabilita ci facemmo trovare acquattati davanti ai primi gradini della scala in pietra della cantina. Nessuno si era accorto di noi e tutto era filato liscio fino a quel momento.

Ben presto ci raggiunse anche Oliviero e scendemmo di sotto tutti insieme. La luce penetrava dall'alto illuminando sempre meno l'ambiente sotterraneo fino a lasciarci nella penombra a qualche metro di distanza dalla scalinata; poi l'oscurità prese il sopravvento su tutto.

Oliviero accese una candela che aveva con sé. Raggiunta la porticina del tunnel, l'aprì e ci fermammo tutti a guardare il piccolo vano interno. Sul pavimento si vedeva la tavola che fungeva da botola.

«Allora, Oliviero, cosa ti ha detto il nonno?» domandò Tempesta.

«Lui dice che è tutto a posto qui sotto. C'è solo un aggio sotterraneo abbandonato e non ci sono pericoli. Mi ha detto però di stare attento alla Cerva regia, ma non saprei dirvi…»

«Cosa?!» stupimmo io e il Gattosauro.

«Oh, niente di preoccupante, il nonno voleva solo scherzare. Si riferiva a una vecchia leggenda di Mandyrion.»

Io sapevo bene che non era né uno scherzo né una leggenda. La Cerva regia era una antica divinità man-dyriana che risaliva ai tempi dei popoli maosapiki; ma la dea a volte assumeva le sembianze di una donna forte e temibile, assetata di potere e denaro. Il popolo maosapiko di Mandyrion adorava la Cerva regia e la metteva a bada dei suoi bottini di guerra per tenerli al sicuro.

«Allora, andiamo giù, ragazzi?» fece Oliviero aprendo la botola. Annuii timidamente insieme a Ulisse e Tempesta, e uno dopo l'altro scendemmo di sotto ando per la stretta scaletta di pietra che conduceva in un lungo camminamento buio.

«Non si vede nessuno dei vostri amici, eh? Ma siete sicuri di quel che mi avete raccontato o è stata solo un'allucinazione collettiva?» domandò Oliviero.

«Ma no, vedrai che adesso arriverà Rocco e ci chiederà se siamo nuovi qui» replicai subito. Però non si vedeva nessuno, solo il buio oltre la tremula luce della candela che Oliviero teneva in mano. Dopo aver camminato un po'vedemmo un altro corridoio aprirsi alla nostra sinistra e in alto appariva una targhetta con su scritto “Via Dalmazia”.

«Guardate, non è strano? Sembra che stiamo percorrendo le strade di Mandyrion al rovescio, cioè viste da sottoterra» disse Oliviero.

Ci mettemmo a camminare in quella traversa e dopo qualche metro si aprì un altro corridoio a destra con due cartelli in alto. Su uno c'era scritto “Masseria Pozzi” e sull'altro “Contrada San Giovanni”. Oliviero incominciò a ridere e disse: «Questo è tutto uno scherzo, sembra proprio la pianta sotterranea di Mandyrion e delle sue campagne, ah-ah!»

Io e gli altri, invece, non avevamo niente da ridere. In quel momento ci raggiunse una lieve corrente d'aria che fece spegnere la candela. Per un attimo ci ritrovammo nell'oscurità totale. Oliviero cercò i fiammiferi che aveva in tasca e si affrettò a riaccendere la candela.

Mentre lo faceva sentimmo alcuni rumori, come un fruscio prolungato seguito dall'eco di una risata stridula e sinistra che si perse in lontananza. Con uno scatto ci aggrappammo alla parete del tunnel e restammo irrigiditi senza sapere cosa fare.

«La Cervarezza!» esclamò Ulisse.

«Cosa?» fece Tempesta con voce stranita.

«È la Cerva regia! Qui la chiamano così» spiegai sottovoce. Non avevo paura, ma trattenevo il fiato.

«Ritorniamo indietro, forse il nonno di Oliviero starà in pensiero» disse Tempesta impaurito.

«Ma no, dài, non ci lasciamo suggestionare; andiamo a vedere prima di cosa si tratta» propose Oliviero e cominciò a muoversi. Il tunnel ripiombò di nuovo nel silenzio. Io, Ulisse e Tempesta ci mettemmo in fila indiana e seguimmo Oliviero. Camminavamo adagio e guardinghi, quando all'improvviso mi sentii afferrare per una spalla. Lì per lì pensai subito a Tempesta che stava dietro di me, forse in preda a una crisi di panico. Girandomi, invece, notai una robusta zampa felina spuntata dal nulla. Proveniva da una grata del muro e si era agganciata tenacemente alla mia spalla.

Capitolo diciassettesimo

«Rocco! Mi hai fatto prendere un colpo!» proruppi. Nessuno di noi si era accorto della presenza di alcuni gatti spaventati rinchiusi dentro una cella. Oliviero e Ulisse si avvicinarono subito a me e Tempesta.

«Ma che ci fate qui dentro?» chiesi smarrito.

«Ci ha rinchiusi lei, la…la…» balbettava Rocco.

«Ma si può sapere di chi parli?» chiese Oliviero.

«Della Cerva regia! Quella ha una forza spaventosa» rispose una voce alle spalle di Rocco.

«Annibale! Grazie al cielo siete tutti vivi» sospirò Ulisse.

«Sì, ma la Cerva ha rapito Alchemio. Vuole avere la formula del tempo per prendersi le mandorle d'oro.»

Avevo sentito parlare delle mandorle d'oro che venivano appese a un albero dopo

le vittorie dei maosapiki mandyriani contro i popoli vicini. Ora quel tesoro doveva essere molto ambito dalla Cerva regia, che sicuramente si era già trasformata in una donna avida e malvagia. Mentre ci pensavo sentii un brivido corrermi lungo la schiena come una scossa. Me la presi con il fresco del sotterraneo, ma non ne ero tanto sicuro.

«Adesso noi non possiamo fare niente per aiutare Alchemio perché siamo rinchiusi qui e le chiavi ce l'ha lei» disse mestamente Annibale. Oliviero provò a forzare la grata, ma senza riuscirci.

«Vuol dire che prenderemo le chiavi alla Cerva!» dichiarò fieramente Ulisse.

«Ma la Cerva è troppo forte, non ce la farete mai.»

«Ce la faremo, invece, vedrai» insistette Ulisse. «Dimmi, piuttosto: che aspetto ha questa volta la Cerva?»

«Il solito, sembra una nobildonna, invece è… è terribile!» disse Rocco con occhi dilatati. In quel momento un'altra risata sinistra si diffuse nei meandri sotterranei.

«Andiamo!» comandò all'istante Ulisse come un valoroso condottiero.

Ci mettemmo tutti dietro al Gattosauro che ci guidò proseguendo per la stessa direzione di prima. Dopo una decina di metri scorgemmo una luce in lontananza. Doveva essere l'uscita dal tunnel. Ci avvicinammo con cautela. Ulisse ordinò a Tempesta di fare una rapida esplorazione preventiva. L'apertura era di forma

ovale, parzialmente ostruita da pietre, e faceva penetrare un pulviscolo luminoso quasi accecante.

Mentre Tempesta si accostava all'apertura l'intensità luminosa calò bruscamente e il grosso foro ovale si riempì del muso di un cavallo che prima mostrò i suoi grossi denti, e poi emise un nitrito. Tempesta balzò indietro mentre l'eco del nitrito si diffuse nella cavità sotterranea. Indietreggiammo spaventati fermandoci a ridosso delle pareti.

Qualcuno dall'esterno richiamò il cavallo e infilò la punta di una spada dentro il foro del tunnel colpendo l'aria a vuoto.

«Dài, ora andiamo, bello! Ci sarà stato un gatto qui. Se si avvicina lo infilzo io, non ti preoccupare.» La voce, secca e rude, proveniva dall'esterno. Poi sentimmo quella di un altro che diceva: «Su, andiamo, ormai siamo vicini alla Cittadella, non perdiamo altro tempo.»

Poco dopo i due cessarono di parlare e non sentimmo altro. Tempesta ritornò velocemente verso di noi. Dopo un momento di incertezza decidemmo di provare a mettere la testa fuori. Ci muovemmo prudenti, a o lento, ma all'improvviso una donna sbucò da una insenatura laterale del tunnel. La sua figura in controluce si delineò come una sagoma nera tra noi e il foro luminoso dell'uscita. La donna iniziò a sghignazzare. Aprì le braccia mettendo in mostra un grande mantello nero sopra le sue spalle che la faceva somigliare a un gigantesco pipistrello.

«Ah-ah-ah! Dove volete andare, miei cari? Ma cosa vedo: c'è un giovanotto con voi e anche un nonnino. Oh, ma è senza bastone, poverino. Tie', prendi questo. Ah-ah-ah!» La donna tirò fuori un tronchetto di legno da una tasca e lo lanciò addosso al Gattosauro colpendolo in pieno. Io guardai Ulisse e lo implorai con

gli occhi di non reagire alla provocazione. Stranamente, la voce di quella donna mi sembrava somigliasse a quella di…

«Angelica!» esclamò Oliviero. «Ma, ma… sei tu? Cosa ci fai qui?»

«Oh, grazie giovanotto per avermi dato questo bel nome, ma non posso accettarlo, ho altro a cui pensare adesso.» Si trattava solo di una coincidenza.

Capitolo diciottesimo

Sentimmo l'acuto miagolio di un gatto che la donna teneva dentro un sacchetto a tracolla. Lei lo prese con una mano e ce lo mostrò come un trofeo.

«Alchemio!» urlò Tempesta.

Era il gatto scienziato di cui avevo sentito parlare, quello della formula del tempo.

«Il vostro amico scienziato ora mi rivelerà la formula matematica che mi farà trovare le mandorle d'oro, non è vero, amico mio? Ah-ah-ah!» La donna sghignazzava, sguaiata e nervosa, tenendo Alchemio per la collottola e ben sollevato in alto. Il profilo della donna in controluce era vagamente somigliante a quello di Angelica, che sicuramente avrebbe interpretato bene un così cattivo personaggio, niente da eccepire; ma sul momento, chiunque lei fosse, quella figura femminile mi incuteva una certa paura, devo ammetterlo.

Senza rendercene conto, io e gli altri stavamo indietreggiando. Oliviero tastava il muro alle sue spalle come se cercasse un riparo fra le crepe calcaree; forse era un po'sconcertato dalla strana somiglianza di quella donna con la sua vecchia fiamma.

«E ora che facciamo?» domandai a bassa voce.

«Stai tranquillo, a quella ci penso io» disse Ulisse ostentando sicurezza di sé.

«E come? Quella è troppo forte e può sbatterci tutti sul muro» risposi preoccupato.

«So qual'è il suo punto debole, ragazzo.»

«Ah, sì? E quale sarebbe?» Ulisse si fece più vicino a me bisbigliando nel mio orecchio: «Il ginocchio!»

Io lo guardai stupito mentre in quello stesso momento Oliviero trovò la forza di farsi avanti e disse: «Ma su, Angelica, basta! Che scherzo è questo, ti sei impazzita, per caso?» Oliviero sembrava allampanato e forse parlava senza sapere quel che diceva.

La donna richiuse Alchemio nel suo sacchetto e si scagliò a razzo contro Oliviero. Lo acchiappò per il petto con tutte e due le mani, lo sollevò da terra e lo sbatté davanti a noi che indietreggiammo d'impulso.

«Impazzito sarai tu, bel giovanotto dei miei stivali! E ora tocca a voi!» ruggì minacciosa la donna. Io e Tempesta ci voltammo indietro e per un attimo ci ritrovammo abbracciati. Ulisse, invece, restò fermo al suo posto; respirò profondamente allargando al massimo il petto come un gorilla arrabbiato. Subito dopo si lanciò con uno scatto micidiale sulla donna facendola cadere. Io e Tempesta non potevamo credere ai nostri occhi. Oliviero, mezzo stordito dalla botta che aveva preso, se ne stava per terra ancora malconcio e si toccava la testa.

Intanto la donna reagì contro il Gattosauro allontanandolo da sé con una brusca manata. Poi fece per rialzarsi, ma prima che si raddrizzasse Ulisse si tuffò nuovamente addosso a lei atterrandola per la seconda volta.

«Adesso ti ammazzo!» urlò rabbiosa la donna allungando le braccia verso il Gattosauro. Ma quest'ultimo non si fece sorprendere: ringhiò ferocemente contraendo i muscoli del tronco fino a curvarsi come un arco e si scagliò diritto su un ginocchio della donna, afferrandolo e stringendolo fra i denti.

Lei emise un gemito doloroso e barcollò; cercò di divincolarsi dalla morsa felina e provò più volte a colpire il Gattosauro, ma senza riuscirci. Lui la schivava ogni volta muovendosi energicamente con il suo tronco robusto senza mollare mai la presa. I suoi denti stringevano sempre più forte il ginocchio della donna come in una morsa d'acciaio.

Lei sembrava perdere le forze e Ulisse le diede il colpo di grazia: affondò ancora di più i denti nel ginocchio finché la donna non cadde indietro emettendo un urlo lancinante, angoscioso e orribile. Una spaventosa eco risuonò in tutto il camminamento sotterraneo: «Aaaaah!»

Mentre la donna era fuori gioco, Ulisse liberò Alchemio e strappò una chiave legata al collo della donna.

«Presto! Andiamo via da qui!» ordinò Ulisse. Oliviero si rialzò frastornato e non capiva ancora cosa stesse succedendo. Ma non c'era tempo per le spiegazioni e gli dicemmo di riaccendere subito la candela per ritornare indietro. Lui eseguì gli ordini senza ribattere e facemmo il percorso inverso.

Capitolo diciannovesimo

Eravamo già abbastanza lontani quando ci girammo indietro. Non vedemmo più la donna, ma al suo posto potevamo distinguere nettamente in controluce la silhoutte di una cerva. La Cervarezza!

Ci mettemmo a correre e girammo presto nel corridoio laterale che portava dai nostri amici imprigionati. Oliviero inciampò su alcune pietre per terra. Si chinò per guardare meglio e si accorse che si trattava di mandorle, mandorle d'oro! «Ma com'è possibile? Guardate!» esclamò sorpreso.

«Ora mettile in tasca e andiamo! Dobbiamo liberare Annibale e gli altri, facciamo presto!» intimò Ulisse. Arrivati alla cella, liberammo subito i nostri amici grazie alla chiave che Ulisse aveva strappato dal collo della donna. Poi ci lasciammo andare a un festoso abbraccio, molto simile a una danza fra ubriachi.

«Ehi, aspettate un momento!» disse Tempesta. «Ma siamo ancora in pericolo! Vi siete forse dimenticati della Cerva?»

«Ma no, non c'è più nessun problema» replicò Alchemio. «Ormai la polvere del tempo si è disattivata»

«Disattivata?» chiese Rocco, stupito.

«Sì, è la polvere ottenuta con la mia formula. Ne ho lasciata un po'nel sacchetto

di quella donna, ma senza un'altra componente che ho con me si disattiva presto. Così adesso è tutto finito e non c'è più nessuna Cerva e nessuna donna al suo posto. È acqua ata, anzi: è tempo ato.»

«Accidenti, Alchemio! Perché non ce l'hai detto prima?» protestò Tempesta.

«Ma non mi avete dato il tempo di dirvelo. E poi, dall'interno del sacchetto era difficile parlare.»

Tutto finì allegramente e ognuno ritornò ai suoi impegni. Alchemio riprese i suoi studi scientifici e cercò di perfezionare i suoi esperimenti sulla formula del tempo. Annibale, Rocco e gli altri continuarono a dedicarsi alla causa felina organizzando i loro progetti nella città sotterranea di Mandyrion.

Io, Tempesta, Ulisse e Oliviero ritornammo in superficie per riprendere la nostra solita vita. Appena risaliti, Oliviero si ricordò di aver messo in tasca le mandorle d'oro raccolte nel tunnel. Tutto eccitato infilò le mani in tasca ed estrasse le mandorle, ma ebbe la brutta sorpresa di ritrovarsi in mano delle comuni mandorle. Le guardammo con occhi sbarrati, ma poco dopo sentimmo il rumore di alcuni i: stava arrivando il nonno di Oliviero.

Io, Tempesta e il Gattosauro ci defilammo subito nascondendoci dietro i vasi di fiori del giardino.

«Oliviero, sai chi ho visto oggi?» fece il nonno al nipote.

«No, chi?»

«La tua ragazza, Angelica.»

«Non è più la mia ragazza, nonno!»

«Ah, no? Viene sempre a comprare la frutta fresca da me, al mercato… »

«E allora?»

«Niente, è che oggi voleva le mandorle a tutti i costi e io non ce le avevo. Mi ha anche chiesto se ce le avessi tu, per caso. Ma che strano: come facevi ad averle tu le mandorle, eh?»

Breve storia di un gatto rosso

Vi avverto: se incontrate un gatto e lo guardate fisso negli occhi rischiate di essere stregati, avrete una visione felina della vita e imparerete presto il linguaggio dei gatti. Ve lo dico perché io ci sono già ato.

Oliviero Felis

Mancava poco alla mia laurea. Abitavo a Peregat, in una casa affittata agli studenti in periferia della città. Quel giorno rientrai tardi e stanco, mangiai un boccone e andai presto a letto. Come mia abitudine lessi un po'prima di addormentarmi. Durante la notte un rumore mi fece svegliare di soprassalto. Mi sembrò di percepire un fruscio, come se qualcuno sfogliasse le pagine di un libro. Aprii gli occhi ma non vidi nessuno. Forse stavo solo sognando.

La luna inondava la mia camera di morbida luce argentea che sembrava avvolgere i miei pensieri con un manto di dolcezza. All'improvviso però, quella stessa luce proiettò una sagoma bluastra e sinistra vicino al mio letto. Sul muro si disegnò all'improvviso il profilo gigantesco di un gatto. Colto di sorpresa e spaventato, saltai sul letto che cigolò rumorosamente. Per un po'restai seduto con la faccia smarrita. Un nuvolone coprì la luna e oscurò tutto.

Fuori il vento incominciò a soffiare forte scuotendo freneticamente i vetri della finestra. Nella stanza riecheggiavano sibili e rumori di ogni tipo provocati dalle

vibrazioni legnose dei battenti. Un sordo ticchettio diveniva sempre più insistente e tutto mi sembrava ormai un concerto di suoni caotici e stonati che annunciavano un imminente temporale.

Ci misi un po'per capire che qualcuno stava bussando energicamente alla porta di casa. Indossai alla svelta pantalone e camicia e uscii dalla mia camera. Attraversai la sala da pranzo e mi precipitai nell'ingresso. Mi fermai un attimo e respirai profondamente. Ero impaurito. Chi poteva essere nel cuore della notte?

Mentre cercavo di riflettere sul da farsi, sentii una raffica di colpi alla porta, schietti e urgenti. Erano ticchettii simili a quelli di un picchio, prodotti forse dalle nocchie di una mano sarmentosa, o solo dalle dita adunche e callose di un anziano contadino. Forse piegato dal carico degli anni, forse ammalato e in cerca di un riparo… Oddio, stavo negando l'aiuto a un bisognoso di aggio! Restai ancora fermo e un po'titubante.

«Chi è?» domandai agitato.

Il frastuono di un temporale inghiottì la mia voce e forse anche la risposta del povero viandante che probabilmente chiedeva solo di entrare. In quel momento sentii un violento rumore di pioggia scrosciante. Cosa potevo fare, lasciare fuori il poveretto a infradiciarsi? Non ne ebbi il coraggio e così aprii la porta di colpo, quasi spinto da un senso di colpa.

Fuori solo il buio e una foschia umida e cupa. La tenue sagoma bluastra della luna si vedeva appena disegnata sull'oscuro velo della notte.

Non vidi nessuno davanti a me. Chiusi immediatamente la porta e mi ci

appoggiai sopra girandomi di spalle. Respirai affannosamente come se avessi fatto una corsa campestre e contemplai il buio dentro casa.

Cercai un interruttore ma era saltata la corrente a causa del temporale. Mi diressi verso la camera da letto quasi a tastoni, guidato solo da un alito di luce azzurrognola. Prima di entrare in camera mi sembrò di percepire nuovamente il fruscio tipico di chi sta sfogliando un libro. Drizzai le orecchie ed entrai cauto con il cuore che mi martellava nel petto. Mi guardai intorno: era tutto a posto, almeno in apparenza.

Mi sedetti pensieroso sul bordo del letto. Il vento faceva sentire i suoi ultimi sussulti e il temporale incominciava a are. Mentre mi concentravo sull'eco di alcuni rumori sentii un suono delicato che scambiai per un sibilo del vento, ma era un miagolio dolcissimo proveniente dall'interno della casa.

Mi girai di colpo verso la porta semiaperta della camera e mi trovai davanti a una visione stupefacente: due punti luminosi immersi nel buio erano rivolti verso di me, come due biglie retroilluminate. Lentamente misi a fuoco il profilo di un gatto intorno a quei cerchietti fluorescenti. Fui subito catturato e stregato da quella visione.

«Miao!» fece il gatto e si avvicinò a me. Ora potevo vederlo meglio sotto il chiarore crescente della luce lunare che penetrava in camera. Mi sembrò un bel gatto rosso biondo simile a uno che avevo da bambino, anche se non riuscivo a esserene certo per la scarsità della luce. Affondai lo sguardo nei suoi occhi luminosi lasciandomi subito conquistare dalle sue iridescenze.

«Ehi, ma che bel micione che sei!»

«Mi-i-i-ao!» fu la risposta. La presi come un “grazie” e così mi venne di dire:

«Non c'è di che. Ma vieni qui, fatti vedere meglio… Lo sai che ti assomigli tanto a un gattino che avevo da piccolo? Si chiamava Rubino.»

Lo accarezzai ando le dita sopra la sua testina e riguardai quegli occhi stupendi che sembravano emanare una luce intensa e ipnotica. È buffo, ma ebbi una strana sensazione, come un senso di intesa con il gatto. Percepivo di essere entrato in sintonia con lui e di capire le sue intenzioni: voleva dirmi qualcosa di importante.

Ma come era possibile? Forse è tutta una suggestione dovuta al mio amore per i gatti, pensai. Mentre ci riflettevo su, il gatto mi fece un miagolio prolungato che, non so perché, riuscii a interpretare perfettamente. Si trattava di una urgente richiesta di aiuto:

«La Principessa è in pericolo, fai presto!»

«La Principessa? Ma non ci sono Principesse da queste parti, di chi parli?» gli domandai.

«Miao! Perbacco, non conosci la storia?»

Pensai alla storia dei gatti e a quello che avevo studiato sulle loro lontane origini; compresi che il mio interlocutore si riferiva a una diretta discendente della nobile stirpe felina egiziana.

«Sì, sì, ho capito» replicai, «ma dov'è questa Principessa?»

«È nelle vicinanze. Devi fare presto!»

«Ehi, aspetta un momento, è come cercare un ago in un pagliaio.» provai a protestare.

Prima che finissi di parlare il fragore inaspettato di un tuono mi fece sussultare. Poi si fece tutto nuovamente buio e silenzio, mentre un debole miao si perdeva lontano nell'aria. Cercai una candela e i fiammiferi: li trovai come per incanto sulla scrivania. Senza pensarci due volte accesi freneticamente la candela e mi misi a cercare il gatto per tutta casa. Ma niente. Sparito, volatilizzato.

Ero molto stanco e ritornai a letto. Il brontolio degli ultimi tuoni si perse in lontananza come un esausto rullio di tamburi.

Il giorno dopo mi alzai di buon'ora.

Pensai a quello che mi era successo durante la notte. Ben presto mi convinsi di aver fatto solo un sogno. Però ne ero contento: in fondo avevo visto un gatto che assomigliava a Rubino, il caro gattino rosso-biondo della mia infanzia. Aprii la finestra e feci entrare un po'd'aria insieme alla luce del mattino. Fuori splendeva il sole, ma per terra c'erano pozzanghere di pioggia recente e si sentiva un'aria fresca e umida.

«Grazie, Oliviero» esordì una voce femminile dalla strada. Era una vicina, la signora Vilma, che mi aveva visto affacciato alla finestra.

«Ma… di cosa, Vilma?»

«Per quello che hai fatto. Mio figlio ha pianto quasi tutta la notte perché ieri sera non trovava più la sua gattina. Poi, con quel temporale, non potevamo neanche andare in giro a cercarla. Pensavamo che si fosse smarrita o anche qualcosa di peggio. Ma stamattina l'abbiamo vista uscire dal suo portoncino di casa e abbiamo capito che le hai dato un riparo per la notte. Riccardo è stato così contento quando l'ha vista… Ah, eccolo là! Riccardo, vieni a ringraziare Oliviero.»

Vidi il bambino avvicinarsi alla mia finestra tenendo in braccio una bella gattina dal pelo rossobiondo. Non ci potevo credere. Guardai il bambino che sprizzava gioia da tutti i pori.

«Ciao Riccardo. Come si chiama la tua gattina?» gli domandai con fare paterno e di circostanza.

«Principessa.»

«Principessa?!» ripetei sbalordito.

«Come si dice, Riccardo?» intervenne la madre.

«Grazie, Oliviero.»

Abbozzai un sorriso in segno di saluto e rientrai subito in camera sconcertato. Osservai i miei appunti sulla scrivania e la pila di libri sul comodino. In cima ce n'era uno più sporgente che non l'avevo messo io là. Andai a controllare e lessi il titolo: La nobiltà del gatto europeo e la storia di Principessa.

Sfogliai le pagine in fretta e mi fermai a leggere alcune righe verso la metà del libro:

“La banda di Micimiau raggiunse le coste maopigie a bordo di una nave mercantile fenicia. Quando fu a terra la banda si diresse verso Maotranto e mise in atto il suo piano: rapire Principessa e chiedere una grossa somma di riscatto alla famiglia reale dei Gattosapi. Il rapimento avvenne in una cupa notte d'estate, mentre un violento temporale si abbatteva su tutta la costa. Principessa venne rinchiusa in un un sotterraneo buio e maleodorante. Ma non restò a lungo prigioniera. Il conte Oliviero, informato dell'accaduto, intervenne presto in suo aiuto e il giorno dopo Principessa fu di nuovo libera”.

Chiusi il libro e mi abbandonai sul letto di traverso. Cercai di immaginare la scena di esultanza per la liberazione della prigioniera. Avvertii le mie labbra muoversi da sole, silenziose, mentre scandivano lentamente Principessa.

Cenni storici di Mandyrion-Manduria

Mandyrion-Manduria è di origine antichissima. La tradizione vuole che sia stata fondata dai Messapi, uno dei popoli giunti nel Salento dopo le prime migrazioni egeo-illiriche avvenute intorno al X-XII secolo a.C.. Esistono testimonianze preistoriche di Mandyrion: un'ascia paleolitica della collezione Arnò e, soprattutto, diverse documentazioni del periodo Neolitico in aree vicine come Monte Mariano, Borraco, Terragna, Li Castelli. Dell'età del Bronzo è un ripostiglio di utensili rinvenuto nella contrada “Li Strazzati”.

Alcune fonti parlano di rinvenimenti di ceramica micenea dell'VIII secolo a.C. nella località Li Castelli, corri spondente all'antico casale di Felline, a metà strada fra l'odierna Manduria e il mare. Comunque, tutta la zona è ricca di antichi e preziosi reperti che rappresentano un vero e proprio tesoro archeologico sommerso.

Nel ato Mandyrion, a seguito di saccheggi e distruzioni, si è trovata dispersa in Casali, sorti nelle campagne limitrofe dove la gente correva a rifugiarsi.

Ruggero il Normanno nel 1090 avvia la ricostruzione del paese con il nome di Casalnuovo. Nasce così il Castello e la Chiesa normanna, futuro duomo di Manduria, oggi conosciuta come Chiesa Madre o Chiesa Matrice. Casalnuovo riprende il suo antico nome di Manduria nel 1789, con un provvedimento reale di Ferdinando IV, mentre nel 1895, quando ancora è provincia di Lecce, viene insignita del titolo di città per decreto reale di Umberto I.