Lettera di uno spermatozoo al suo babbo
E tant’altri piccoli racconti
MASSIMO SCALABRINO
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27 62100, Macerata
[email protected] / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-800-2 ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-774-3
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Prima edizione cartacea giugno 2013 Prima edizione digitale giugno 2013
Copyright © Massimo Scalabrino
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Indice
LETTERA DI UNO SPERMATOZOO AL SUO BABBO
IL TELEFONO DI MARTA
LA CONFESSIONE
INVIDIA, ODIO, RANCORE, RABBIA E FORS’ANCHE VOGLIA DI UCCIDERE
CONFIDENZE DI UNA FOLLA
LE SETTE PORTE DELLA STAZIONE
USCIRONO DIVERSI EDITTI
VIENI GIU’ CRETINA
PICCOLI CHIARIMENTI DA CHIEDERE
GUARDARE LA NOTTE
LEGGENDO SOFFICI, IN TRENO
LA FINESTRA DIPINTA, (da Corrado Covoni, 1916)
MAINO
SVOLTO’ L’ANGOLO E… .
UN CALDISSIMO SETTEMBRE
DIARIO DI UN MEDICO DI PAESE
Lettera di uno spermatozoo al suo babbo
Caro babbo,
non ho dubbi sul fatto che aprendo questa mia lettera penserai ad uno scherzo di un qualche tuo amico ma, da quanto ti dirò di seguito, capirai che non è così. Chi ti scrive è proprio tuo figlio. Insomma, quasi. Via, babbo, non fare quella faccia tra il sorpreso e l’impaurito! Non ho intenzione di farti del male e d’altra parte piccino come sono, posso solo, se mi permetti, chiederti un piacere su tutto ciò che abbiamo avuto in comune. Proprio per questo mi sono deciso e ti scrivo. Vorrei, tra l’altro, tu sapessi che sono stato scelto io a scriverti da tanti altri piccini come me, e sono tutti qui intorno che mi suggeriscono su come e cosa scriverti. Mi hanno dato una mano, o meglio il codino, a trovare la carta e la penna e, credimi babbo, non è stato facile questo nostro lavoro di gruppo. Ecco non vorrei che ti venissero subito delle strane sensazioni attraverso le quali leggere la mia lettera, perché se così fosse, avrei fallito lo scopo. Non farti venire sensi di colpa perché, te lo dirò subito, il fatto che io non sia nato e che tu non mi abbia dato un nome e che non ti ricorderai di me nei compleanni, insomma, che io non abbia tutto quello che tu chiami vita, bene tutto questo io ce l’ho ugualmente. Anche se ai tuoi occhi non sono nato. Tanto ti conosco che mi sembra leggerti nel pensiero. Credi che esista un limbo per quelli come noi, per delle mezze-anime! Ma via, babbo, non fare il citrullo! Ti confesso subito, perché tu possa calmare la tua commozione che, sotto un certo profilo, sono contento di non essere nato. Perché aprire gli occhi al mondo, il più delle volte, significa chiuderli alla capacità di comprensione della vita. Ora, se tu smettessi di ragionare da solo e seguissi le mie parole, io potrei continuare a scriverti, dato che la mia simbiosi con te è totale. Se continui a farmi delle domande ed io a darti delle risposte, finisce che non riesco più a dare alla mia lettera, il senso che io ed i miei amici vogliamo darle.
Allora, se riesci a mettere da una parte queste ricorrenti ondate di senso di colpa ed a stare tranquillo, io posso esporti il mio pensiero. Anzi, se preferisci, facciamo così. Non è vero che questa è una lettera indirizzata a te da un tuo spermatozoo, ma un raccontino un po’ folle che hai trovato, per caso, in un libro mai pubblicato, perciò è come se non ti riguardasse. Sei più tranquillo così? Cosa non farebbero i figli per il proprio genitore! Dunque, babbo: in questo raccontino mai pubblicato, si racconta di un babbo che trovò nella cassetta delle lettere una busta indirizzata a lui, l’aprì e dopo un momento di sorpresa si accorse che la lettera gli era stata scritta da un suo spermatozoo, così spinto da una ansiosa curiosità, controllò il francobollo e vide che proveniva da una città, lì vicina, dove era stato per lavoro, qualche giorno prima. Lì per lì questo pover’uomo arrossì al ricordo di quelle sere trascorse fuori casa, anche perché aveva raccontato di essersi stancato tanto, di aver lavorato tutte le sere fino a mezzanotte e invece, invece non era esattamente andata così. Ricontrollò la lettera, la busta e riavviò a leggere piano, piano. “Dunque, babbino, ti dicevo che non ti devi dispiacere, anche perché, nonostante tu non lo sappia, noi sappiamo benissimo di non esser tutti destinati a nascere, come è successo a me! Anzi al momento giusto non è vero che ci si mette a correre e chi va più forte vince. Noi, noi tutti si spinge insieme uno di noi perché arrivi a destinazione bello e robusto, per non farsi subito dominare da quell’impiastro di ovulo che sta lì bello tranquillo, senza fatica e, dove, se non si sta attenti liquida in quattro e quattr’otto ogni nostro ricordo e chi s’è visto s’è visto. Poi uno dico “Oh, a chi somiglia questo bimbo?”…. Allora volevo dirti che l’altra sera toccava a me. T’ho già detto di non fartene un senso di colpa. Sicché m’ero tutto preparato, fatto le valigie, preso con me i libri, i quadri dei nonni perché, non so se lo sai, ma mi sarebbe piaciuto assomigliare ad un tuo trisnonno. Insomma avevo salutato tutti, e preso ogni precauzione: di tanti noi, una volta fuori, non si sa più nulla. Precauzioni che si sono rivelate utili perché, alla fine di una
corsa lunghissima mi sono ritrovato, insieme a tanti miei simili, su questa grandissima foglia di platano dove resteremo per sempre, trasformandoci piano piano in chi sa cosa. Comunque sia continueremo a vivere sotto forme diverse, ma sempre vita sarà. Ecco babbo caro quello che volevo dirti, insieme coi miei amici. Vedi a noi non ci dispiace continuare a vivere così; è molto meno faticoso dell’altro sistema; perché non so se ti rendi conto, are da una a diversi miliardi di cellule, in poco tempo, è fatica incredibile che, dicono, quel tipo di vita ripaghi; ma non si sa mai. Allora, arrivo al nocciolo di questa mia lettera; è che mi fanno continuamente divagare perché per arrivare ad esprimere un concetto comune s’è dovuto votare più volte. Lo sai meglio di me che quando si è in tanti e di teste diverse non è facile mettersi d’accordo, soprattutto quando qualcuno alza il pugno e si mette a urlare che lui gli spacca il muso ect…ect… Allora ecco cosa volevo dirti, e su cosa “chiederti un piacere”: vedi babbo, io so che ci sono già tanti altri miei fratelli coi loro bagagli, ognuno con i loro programmi e le loro insistenze. Tutti conoscono il rischio che corrono, tant’è che, anche in chi riesce a nascere, resta questa paura del buio in fondo al corridoio; ecco, volevo dirti, comunque tu decida di farlo, pensa, non ha importanza che uno nasca o non nasca, ma la cosa importante è che tu, babbo, lo faccia “per e con amore”. Hai capito! Più sopportabile, più bello non nascere per amore che non nascere per niente. Insomma non nascere per una sveltina con non si sa con chi, è proprio bruttino. Babbo, fallo tutti i giorni ma ricordati di farlo non per egoismo, o per dimostrare che tu sei più furbo, più maschio di altri, ma di farlo, sottolineo, con e per amore. Ecco ti s’è detto, finalmente. Ora si va via, e ti si saluta tutti insieme. Da parte mia un grazie di cuore per questa vita diversa che, sempre, vita è. Ti abbraccio col mio codino, tuo
Spermatozoo
Il telefono di Marta
Non si divertiva quasi mai. E come sempre, al momento di uscire di casa, si chiese se non fosse stato meglio anche per quella sera starsene tranquilla. In fondo sarebbe stata una sera come tante altre. Un po’ di televisione, un libro e l’attesa di una telefonata, che non arrivava mai. “Voglio averti sempre a portata di voce” le aveva detto. Erano così, da molto tempo i suoi fine settimana. Viveva, da quando si era resa conto di cosa voleva dire vivere, in una sorta di trance, che si apriva lunedì mattina per richiudersi al venerdì sera. Il lunedì era molto importante perché segnava l’inizio di una settimana piena di incognite. Il suo ufficio, in una villa rinascimentale, era collegato da un piccolo corridoio con la biblioteca, che era in realtà lo studio del “vecchio” come lo chiamavano tutti, professori e studenti. Il “vecchio” era, secondo le voci dell’Istituto, il suo amante, e molti pensavano che lei fosse la porta d’ingresso più praticabile per raggiungerlo con proposte e richieste. Secondo le regole era vero, “il vecchio” era il suo amante. Secondo Marta, era il suo unico, incredibile totalizzante Amore. Ed era talmente annullata dal pensiero e dalla presenza di quest’uomo da non capire più se poteva ancora considerarsi individuo a sé stante o una appendice, una mano, un braccio, un qualcosa che non gli apparteneva più. In questa riflessione smarriva completamente la propria personalità, la propria capacità di scelta. Succube, plagiata, ridotta a dipendere cerebralmente da ogni suo gesto, anche inespresso: felicissima! Non si ribellava, perché quello stato quasi confusionale di smarrimento le creava sensazioni di indicibile serenità: avrebbe potuto scrivere un libro sul senso di felicità che le dava la sua presenza. Non ricordava nemmeno come era cominciato. Solo che improvvisamente si era accorta che il suo essere donna si era compiuto senza nessuna resistenza da parte sua, come se fosse nata e vissuta solo per quello. Vagamente ricordava la sua vita di prima, i suoi amori infantili, il suo
primo uomo, gli altri. Tutto era immerso in una memoria di vita che non le apparteneva più. Viveva così; ed alla fine di una qualsiasi giornata, a malapena ricordava quando, se al mattino o al pomeriggio, o quando insomma, aveva potuto, col suo corpo, dimostrargli la assoluta totalità del suo amore. Alla sera, nel suo appartamento, prima di dormire sentiva sulla pelle il profumo di lui; ed era quello il momento in cui poteva rivivere con lucidità la sua giornata. Si scindeva in due persone: da un lato, l’assistente del direttore, bravissima, precisa, rapida nell’esecuzione degli ordini, nella stesura dei programmi … un personaggio indispensabile per l’ottimo funzionamento dell’Istituto. Dall’altro, un’ombra fluttuante nella scia del suo amore, al quale corrispondeva con forza, con carattere, in pieno possesso di tutte le sue facoltà di donna, senza lasciar trasparire, neanche per un attimo, questa sua totale appartenenza. Se lui l’avesse così percepita, lo avrebbe perso in un batter di ciglia, e lei ne sarebbe morta! Non sapeva decidersi su come vestirsi; uscita dalla vasca da bagno, aveva poco tempo per prepararsi. Il suo piccolo clan stava per arrivare e l’avrebbe costretto ad attenderla sul portone. Che idea, andare in discoteca; se avesse potuto scegliere si sarebbe seduta sul divano della biblioteca in Istituto, aspettando che gli occhi e le mani di lui la cercassero. Ma era proprio per seguire un suo consiglio che si era decisa ad uscire, ed accettare l’invito dei suoi amici. Cosi, mentre sceglieva le calze, guardandosi nello specchio, prevedeva la sottile noia di quel venerdì sera, tra piccole, forzate risatine, tra la musica, tra gente a cui non apparteneva più. Le sembrava inutile vestirsi, profumarsi, non sapeva cosa cercare, cosa volere all’infuori di una bacchetta magica che la riportasse di colpo al lunedì mattina. Si ritrovò stretta tra le braccia di Marco, sulla pista da ballo, tra le luci soffuse della discoteca. Le labbra di lui vicine al suo collo sembravano attendere una sua silenziosa risposta che non aveva nessuna voglia di dargli. Aderiva al suo corpo meccanicamente, e senza emozione. Percepiva il desiderio di Marco. In fondo avrebbe potuto rispondere con dolcezza all’invito. Marco era gentile, non bello, non volgare, intelligente, e soprattutto innamorato di lei fino alle lacrime. Se Marco avesse saputo dove erano il suo pensiero e il suo corpo in quel momento non avrebbe più creduto nell’esaltante visione che aveva della vita.
Istintivamente si avvicinò ancora di più a lui, abbracciandolo come abbracciava il suo Amore. Marco reagì con sorpresa, con abbandono, serrandola ancora di più al suo corpo, e scostando il viso, la guardò sorridendo. Povero Marco, quante volte gli aveva detto di no; e sempre lui rispondeva con un mazzo di fiori, con una scatola di cioccolatini che accompagnava, quasi scusandosi, con bigliettini simpatici che le davano appuntamento per il prossimo no. Confrontava mentalmente il corpo di Marco con quello a cui era abituata, trovandolo impaziente come quello di un bimbo che sta per ricevere, dopo lunga attesa, il gioco desiderato. Anche il suo profumo, misto all’odore delle sigarette, era diverso, forse più sottile, quasi più fresco. Gli prese una mano, portandosela vicino alla bocca, e pregustando la sua sorpresa, l’accarezzò con le labbra. Sempre più bimbo, non ebbe la possibilità di reagire e l’allontanò gentilmente dal proprio corpo per guardarla di nuovo negli occhi.
Marta si sentiva quasi turbata. Quel gesto istintivo con le labbra aveva suscitato in lui un fuoco di artificio di speranze che si era subito tradotto in un fiume di dolci parole, sussurrate, promesse, lunghe come un futuro vanamente accarezzato. Con il suo Amore, di futuro, non si parlava mai. Il futuro non esisteva, non avrebbe potuto esistere. Aveva una moglie che amava con fraterna considerazione e si sentiva legato a lei come ad un’ancora sicura, che non esprimeva nessuna esigenza se non quella di vivergli vicino. Secondo Marta, in questo, non c’era vigliaccheria né paura, e poi non le interessava giocare nessuna carta che potesse in qualche modo gettare un’ombra sul suo presente. Accettava, senza farsi domande, l’enorme scenario dell’oggi come se non avesse avuto limiti né di tempo né di spazio. Ora però doveva fermare Marco che la stava abbracciando con indicibile tenerezza. Forse, le venne di pensare, non essendo riuscita a liberarsene dopo tanti no, se, quella sera, lo avesse accettato, Marco si sarebbe accorto che lei apparteneva ad un altro e si sarebbe arreso. Sul finire della canzone immaginava la sorpresa di Marco, sorridendo a quali sarebbero stati i suoi gesti, quali le sue reazioni; non avrebbe voluto fargli del male, ma allontanarlo dalla sua vita, lasciandogli un ricordo che solo il tempo avrebbe reso più giustificabile nella memoria di un amore impossibile.
Come in un film americano, lo fece salire nel suo piccolo appartamento. Osservando il rossore delle sue guance e chiedendosi rapidamente se non stava commettendo una imperdonabile cattiveria; non nei confronti del suo Amore, ma verso Marco. Giustamente l’unico tradimento lo avrebbe compiuto verso se stessa. Era imbarazzata, non sapeva cosa fare, con questo ragazzo impacciato che si muoveva per casa alla ricerca di tutte le speranze, tentando disperatamente di ricordarsi cosa aveva pensato di fare, come agire, se gli fosse capitata una fortuna del genere. Che situazione ridicola! Mentre gli versava da bere pensò che avrebbe, secondo il copione, dovuto andare in camera ed indossare una sofisticata vestaglia, oppure apparirgli davanti, improvvisamente nuda. Si ritrovò di nuovo, improvvisamente, tra le braccia di Marco. Assaporando il sapore della sua lingua, di cui conosceva solo il torrente impetuoso di parole, si stupì della morbidezza di quelle labbra che sembravano volersi fondere con le sue. Fu presa da un lungo tremore, sotto le carezze di quel ragazzo; correva con la mente a precipizio verso il divano della biblioteca alla ricerca di altre mani più sicure, più prepotenti. Cercava di resistere alla violenta tentazione di abbandonarsi e ugualmente di ricordare il piacere che le mani di lui sapevano darle nel forte odore di pelle antica del divano. Doveva vincersi, fermare Marco, fargli capire, urlando, che era la donna di un altro, e che l’altro era l’Amore, non un uomo con cui andare a letto, con cui vivere, con cui avere figli, era solo, solamente l’Amore. Questa fu, la sola parola che riuscì a pronunciare quando Marco appoggiò le labbra sul suo ventre e la prese lentamente con la lingua. Nell’accarezzargli i capelli folti e sottili lo attrasse su di sé, stringendolo con tutta la forza che le restava in un oblio assolutamente completo che la riportò verso mari di inesplorata profondità. Non avrebbe mai saputo dire quanto fosse durato quel viaggio in cui si erano alternati momenti di tempesta a momenti di calma infinita; aveva visto un susseguirsi di albe e tramonti; era approdata a spiagge inesplorate, ridendo e soffrendo in una complicità con se stessa mai sperata. Quando stava lentamente riemergendo si accorse che quel trillo lontano, che la stava riportando alla realtà, veniva dal suo telefono.
Ora che, dopo tante serate trascorse in attesa di quel trillo … ora che finalmente lui la chiamava, lei non avrebbe mai più risposto.
La confessione
“Padre mi perdoni” “Certo figliolo, sono qui per ascoltarti e pregare con te, perché per mio mezzo, Dio Misericordioso, ti perdoni. Quanto tempo è che non ti sei confessato?” “Confessato? Veramente, padre io non mi sono mai confessato” “Ma, figliolo mio, tu sei cattolico, o di che religione sei?” “Sono qui per questo. Io, padre, sono l’inventore di tutte le religioni! Il mio impegno morale, il fondamento di tutta la mia vita, tutto il mio lavoro è stato tentarvi di farvele trasgredire tutte” Don Giuseppe a questo punto, si aggiustò la stola e cercò di guardare meglio oltre la grata, per intravedere i contorni del viso dell’uomo che gli parlava. Già la tonalità della voce, roca e squillante insieme, lo aveva fortemente sorpreso, non riuscendo a distinguere se fosse un uomo o una donna. Nell’usuale silenzio della sua piccola Chiesa, schiuse il battente del confessionale, e, contravvenendo alle regole, volle cercare di intravedere la figura inginocchiata; ma non riuscì nel suo intento. Gli parve di non aver visto nessuno! Un piccolo colpo di tosse lo riportò con l’orecchio alla grata. “Ecco, padre, sono venuto da lei per trovare una strada nuova nella mia vita. Sono, padre, arrivato ad un tale punto di disperazione che sto seriamente pensando di uccidermi” “In nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo, lontano da te questa idea, ragazzo caro. A tutto c’è rimedio nella vita, perché Dio perdona tutto e tutti. Hai già scelto la strada buona, venendo qui. Prima di tutto, dimmi: vuoi confessarti?” “Si, padre” “Allora dimmi, di che parrocchia sei?”
“Padre, io non appartengo a nessuna parrocchia. Le ho inventate e sono contro tutte le parrocchie”. Don Giuseppe fu nuovamente sorpreso, e pensò che stava per essere preso, Gesù perdona, per il culo. “Vedi figliolo, essendo italiano, lo parli benissimo, senza accenti particolari, tu appartieni senz’altro ad una parrocchia, anche se non lo sai; allora ti chiedo: di che paese sei?” “Padre, perché pensa che io sia italiano? Forse perché le parlo in questa lingua? Ma io posso parlare in tutte le lingue del mondo, ate, presenti e future; no, padre, mi creda non è importante di dove sono” Don Giuseppe guardò l’orologio. Tutto sommato in Chiesa non c’era nessuno; aveva ancora mezz’ora per le confessioni, quindi poteva prestarsi a far quattro chicchere con questo buffo infedele. Certo era che, la riforma sanitaria, aveva lascito in giro tanta gente, che forse sarebbe stato meglio tenere sottocontrollo. “Allora figliolo, se non vuoi dirmi di dove sei, sai almeno dirmi chi sei?” “Padre, è più importante sapere di dove vengo e chi sono oppure è più importante sapere cosa son venuto a dirle?” Don Giuseppe trattenne la nascente indisposizione: riguardò l’orologio, si aggiustò di nuovo la veste e sospirando con rassegnazione, cercò una scappatoia veloce. “No, figliolo, è importante per te dire cosa hai da dire. Per me, volevo solo rivolgermi a te, chiamandoti per nome, o non hai neanche quello?” “Si, padre, ho un nome, che si identifica in ciò che sono, io sono la personificazione di ciò che voi umani definite come il Male” Don Giuseppe deglutì violentemente, la sua fronte s’impastò di sudore e con la violenza con cui non accettava le offese, uscì di colpo dal confessionale per affrontare questo stupido perdigiorno. Ma lì fuori, inginocchiato contro la grata del confessionale, non c’era nessuno. Sudato e vagamente impressionato, Don Giuseppe si accasciò nel suo sedile,
pensando che prima o poi la sua lunga vita solitaria gli avrebbe tirato qualche tiro barbino. Nel volgersi di sottecchi verso la grata, intuì nuovamente la presenza di qualcuno, lì dentro, inginocchiato, e facendo forza a se stesso l’apostrofò così: “Allora, te che dici di essere il Male, saresti venuti a confessarti qui da me, e perché poi hai scelto proprio me?” “Padre, la capisco, ma io non l’ho scelta. È che mi trovavo a are di qui, quando ho avuto una crisi più forte del solito. Non mi sopportavo più. Così sono entrato, forse l’ho spaventata?” “Certo! No, assolutamente no, pur avendo una gran pratica con i tuoi seguaci, non mi sarei aspettato di dover confessare proprio te! Ma…. Tu…. Sei il Diavolo?” “Padre il diavolo è solo una delle mie più riuscite maschere, non esiste nessun diavolo” “Ora, anche questa; io possono farti vedere molte testimonianze sull’esistenza del Diavolo, e poi se non fosse per questo, molti Testi Sacri parlano della sua, o della tua, esistenza.” “Mi creda, padre, molte di quelle testimonianze e quasi tutti i testi io posso recitarglieli a memoria, avendo contribuito in gran parte alla loro stesura” “Non posso crederti, mettere in dubbio l’esistenza del Diavolo, vorrebbe dire mettere in dubbio l’esistenza di……” “Padre! Ma cosa fa, bestemmia? Se lei lo desidera possiamo intavolare una discussione finemente teologica partendo dai Veda, dal Talmud, fino alla Scolastica, ando per Ignazio di Loyola, Teresa da Avila e poi avanti; tuttavia creda alla mia parola, se le dico che più lei parla del Diavolo o di me, come preferisce, e più fa il mio terribile gioco. Ma le ripeto, padre, io sono ad una svolta cruciale della mia eterna esistenza, e sono sul punto di uccidermi…..” Di nuovo Don Giuseppe ebbe un sussulto, e mentre finiva di farsi il segno della croce, un veloce sogghigno gli si disegnò sul volto: Don Giuseppe sapeva di
avere in fondo al suo cuore un fondo di perfidia! “No, padre, non lo pensi. Io le leggo nel pensiero, ciò che le è ato per la mente è veramente diabolico, anche se vero; in questo momento la prego riflettere sul mio tormento e non sul fatto che lei resterebbe disoccupato se io mi uccidessi.” Don Giuseppe era in un bagno di sudore, per di più l’idea di mettersi le mutande di lana per non morire di freddo nel confessionale, lo stava umiliando, giù, nelle viscere. Cercò di riprendersi, ed evitando di guardare dentro la grata riuscì a balbettare un lentissimo “Scusami, figliolo, ma una cosa del genere non era previsto che potesse succedere ad un piccolo prete come me, che cerca, più lealmente che può, di essere fedele al proprio primo ideale. Ti chiedo di nuovo scusa figliolo, parla pure, se vuoi, ti ascolto.” Chiuse gli occhi, il povero Don Giuseppe e si abbandonò contro lo schienale della sua torrida gabbia. “Padre, la mia esistenza fin’ora è stata interamente dedicata ad affinare e completare la mia capacità professionale. Come direste voi, il lavoro mi realizzava in pieno. Come sa ho cominciato subito, fin dalla nascita dell’umanità, a colpirvi, e su tutti i lati. Dapprima facendovi credere che solo l’accettazione di una serie di divieti e la voglia di trasgredirli, vi potesse redimere dalla vostra ignoranza. Tutte balle, la vera possibilità di conoscenza era in voi, così come lo è in ogni altro essere vivente; vi sarebbe bastato crederci e credere in voi stessi. Poi vi ho inventato una tale sfilza di divinità, facendovi dettare da ognuna di esse leggi e comportamenti tali che per vivere non vi restava che trasgredirli. Molti di voi, si sono messi in concorrenza con me, prendendo le parti ora di questo ora di quello. Vi ho suggerito diverse invenzioni micidiali che hanno stravolto la vostra più intima essenza, ponendovi davanti i magnifici premi nei quali avete sperato, rendendo molto meno faticoso il mio lavoro. Spesso mi sono innamorato di qualcuno di voi, facendogli o facendole gustare fino in fondo il piacere che ho saputo dare. Ed in questo molti sono stati di una bravura sublime; alcuni, voi stessi li avete portati all’onore degli altari, con mio naturale divertimento. Ma c’è sempre stato qualcosa che vi ha fatto sgusciare dalle mia mani. Allora allargavo
l’area d’intervento, nel quale vi buttavate con inusitata ripetitività. La vostra originalità d’interpretazione dei miei suggerimenti non si andava mai esaurendo … continuando ad inventarvi colpe e relative assoluzioni” Don Giuseppe bordeggiava in un mare di sudore freddo e caldo, con la testa confusa, in cui si incidevano a colpi di martello le parole del suo confidente. “…Allora ho provato a cambiare sistema, facendovi credere di poter viaggiare per gli spazi infiniti dell’universo alla ricerca di altre illusioni di vita; e per questo avete avuto bisogno di grandi energie. Le avete trovate e sperimentate su di voi, mentre vi lanciavo contro altri piccoli scherzi che vi hanno costretto ad accettarmi con una lucidità quasi suicida. Ecco, Don Giuseppe, ho lottato contro di voi come può farlo un grosso pugile contro un bimbetto di pochi mesi e adesso che vi vedo assolutamente in ginocchio, senza neanche più un filo di speranza, adesso, le dicevo, provo per voi una sensazione umana che mi terrorizza. Vi ho talmente ridotto male che provo, e mi costa doverlo dire, provo pietà per voi.” La voce, al di là della grata, si fece sempre più roca, come se provenisse dal profondo della terra. Don Giuseppe tese l’orecchio verso la grata per percepire quell’orrendo fruscio. “Io non posso avere pietà. Accanirmi così contro di voi mi sta rendendo sempre più umano. Ed io non sono umano, non sono di questa terra; dopo milioni di anni, i miei occhi piangono, le mie mani tremano, e più mi accanisco contro di voi più ho l’impressione di avere un cuore umano, sofferente. Don Giuseppe, mi aiuti, mi salvi … io sto per uccidermi.”
“Cosa …. Cosa …. pensi che possa fare per te … noi … io … le mie possibilità – balbettava il povero prete – sono la preghiera … posso pregare … per te. Dimmi, figliolo, sei … realmente pentito? Perché se tu lo fossi … ecco potrei fare questo per te – e alzando l’indice e il medio congiunti recitò – Ego te absolvo a peccatis tuis …”
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Fu in quell’ottobre che fiorirono i mandorli. Produttori di droga e di armi, incalliti delinquenti, usurai di stato e in proprio, politici, delinquenti comuni, preti di ogni religione, e poi gli uomini e le donne, tutti, tutti, e ovunque sulla terra conobbero una nuova vita. Restò solo lui, mezzo vestito da prete, barbone, tutto stracciato, con le mutante di lana, che vagava per le strade e gli argini dei fiumi, dove tutti lo potevano vedere, con l’indice e il medio sollevati, borbottando tra sé e sé “Ego … ego … te … absolvo … ego….”
Invidia, rancore, rabbia e fors’anche voglia di uccidere!
Di sé pensava un gran bene. Arrivato assai oltre la metà statistica della vita, e per fortuna questa si allungava sempre di un po, riflettendo su sé stesso riconosceva di aver raggiunto una stadio di consapevolezze tale da potersi consentire di esprimere un giudizio relativamente imparziale, ma bonariamente positivo, sulla capacità di capire il momento della propria esistenza. Se da un lato questo non gli aveva consentito di arricchirsi e rendersi autonomo, dall’altro gli permetteva di esprimere una sua filosofia nella quale il denaro e tutto ciò che ne potrebbe derivare, venivano considerati come casualità che, sì utili anzi utilissime, ma delle quali si poteva anche fare, se non a meno, certamente possederlo o no, non determinava la sua scelta di essere. Sotto un certo profilo si potrebbe dire che si era adattato a se stesso ed a ciò che traeva dal suo circondario; poi, in verità, lo stesso concetto si poteva esprimere con una terminologia più nobilitante. Questo non per rivestirlo di un abito non suo, ma perché il resto dell’espressione di sé stesso era conseguente ed una immagine certamente meno piatta di quella che voglia rappresentare un individuo che vive chiuso nel suo guscio, come un rosso d’uovo, indeciso e quindi impossibilitato a diventar pulcino. Aveva nel corso delle usuali battaglie, di cui riconosceva con generosità la sua piccolezza, anche se lì per lì, mentre le combatteva, gli sembravano guerre atomiche interspaziali, gran parte condotte sul proprio corpo, qua e là ferito e umiliato e risanato, aveva, diceva maturato uno sguardo sulle cose di voluta ricercata, tolleranza. Ecco, pensava, che la tolleranza fosse il suo più grande, personale, successo. Se gli fosse stato possibile ci avrebbe organizzato sopra un ministero, una chiesa, insomma una istituzione il cui compito sarebbe stato quello di distribuire, nelle confezioni più diverse a seconda del livello del ricevitore, il concetto di tolleranza. Di fronte alla casa dove abitava, viveva da moltissimi anni un grande cipresso con quale aveva stretto una profonda amicizia. Era la prima persona che salutava, quando al mattino apriva la finestra, e l’ultima a cui augurava la buona notte. Un cipresso come persona? Si potrebbe aggiungere, se fosse possibile, con
una creatività da premio Nobel! È vero che il caso lo aveva voluto ai bordi di una straordinaria vallata dalla quale cominciava la curvatura della terra, e in fondo era stato favorito dalla sorte, ma certamente non era questo per lui, motivo di pavoneggiamento o di mercato. Dal chiodo piantato nel suo fusto per sorreggere una amaca, alle lucertole, agli scorpioni, ai nidi di uccelli, al vento, al sole, alla pioggia, ai suoi lunghi dialoghi pieni di saggezza cipressoica, era l’esempio più fulgido della tolleranza. Più volte si era ispirato a quello strano sorriso che esprimeva nel curvare, sotto la forza leggera del vento, la sua lunga cima. Poi ritornava al suo posto e come se avesse avuto mille braccia sembrava accogliere tutto ciò che veniva incontro. Di certo non andava in automobile né andava a fare la spesa, era assolutamente autosufficiente. Per di più la sorte, già così favorevole con lui, gli aveva predisposto, alla giusta distanza, una cipressa, con la quale non alzava mai la voce, non s’irritava mai, non era mai in ritardo agli appuntamenti. Chissà quanti di noi, favoriti in maniera così straordinaria dalla vita, non sarebbero saliti in cattedra per insegnare, a tutti quelli che la sorte aveva bistrattato, che di loro sarebbe stato il regno dei cieli, e per ora soffrissero pure. Un autentico maestro nella disciplina della tolleranza, l’amico cipresso, a cui si rivolgeva spesso per esprimere la sua visione dei fatti del giorno, ed a cui, qualche volta chiedeva consiglio. Ed era stato proprio lui ad insegnarli per primo che la tolleranza va esercitata prima verso se stessi e poi verso gli altri. Adesso stava facendo confusione; in realtà gli aveva detto che bisognava essere tolleranti verso la natura delle cose, o le cose della natura. Certo era che la tolleranza non era una vetta di montagna che, quando l’hai conquistata puoi guardarti intorno con tranquilla e panoramica pace, è anzi un impervio sentiero. Questo lo aveva capito bene; un impervio sentiero che spesso presentava, a lui, ormai assai oltre la metà statistica della vita che per fortuna si allungava un po’, momenti di difficile ascensione. Su questo rifletteva eggiando per i giardini di piazza d’Azeglio, in una dolce mattina d’autunno, riscaldandosi ad un solicino ancora incerto ma tuttavia ben tiepido; intorno, dai maestosi platani, alle foglie sparse sui prati, a quel cielo visto e non visto tra i rami degli alberi in quell’aria dolce di metà ottobre, insomma tutto sembrava predisposto per fare da tenero cuscino alle sue soffici riflessioni. Le sue disposizioni d’animo erano, quella mattina, riassuntive di una lunga esperienza e, facendo vagare lo sguardo tra i colori non del tutto autunnali di quel cielo di foglie e di rami, correva qua e là nella sua memoria alla consolidata ricerca dei punti fermi ormai raggiunti. Come se le sue elaborazioni
gli avessero già chiarito in una immagine per ora accettabile l’essenza dei perché. Con una punta di presunzione poteva dirsi in totale tranquillità con l’universo intero e, assaporando a pieni polmoni l’aria fresca di quella prima metà mattina, … li vide! All’imboccatura del suo stomaco, sotto la pelle di tutto il suo corpo scoppiò improvvisa una infernale tempesta. Erano lì. Li aveva visti. E non c’era niente al mondo, e forse in tutto il resto dell’universo, che gli suscitava invidia, odio, rancore, rabbia e fors’anche voglia di uccidere. Un tremore improvviso lo scosse profondamente: erano tutte le cellule del suo corpo che correvano nei rifugi antiaerei per proteggersi da ciò che sapevano sarebbe successo! Scariche elettriche violentissime percorrevano il suo corpo! La tolleranza, la sapienza, la saggezza accumulata in lunghe riflessioni su antichi umanissimi testi di straordinaria grandezza, bruciacchiavano come uova fritte male ai suoi piedi. Li aveva visti: senza preavviso, girando l’angolo… lì dietro la siepe, per benino composti, su una panchina, li aveva visti. Cercò disperatamente di dominarsi, di riprendere il controllo di sé, in quel soffuso odorino di zolfo e di uova fritte che emanava dal suo corpo; gettò via i giornali ormai bruciacchiati, e muovendo i primi i cercò di allontanarsi piano, piano, tremando per l’odio, l’invidia, la rabbia, il rancore, l’ira e fors’anche la voglia di uccidere. Sapeva perfettamente che tutta la possibile saggezza accumulata nella storia dell’uomo negli ultimi trentamila anni, tutti i possibili colloqui con tutti i cipressi del mondo, tutte le tolleranze, le musiche, le sapienze più antiche, niente insomma, niente gli dava più quella profonda sensazione di fresco straordinario piacere di un tenero bacio di una dolce bambina, abbracciata su una panchina, in un giardino d’autunno.
Confidenze di una folla
Tra gli attributi, gli epiteti, gli insulti, insomma, tra tutto quello che si è scritto e detto di me, il dire che sono variopinta è ciò che più mi fa tenerezza, perché grande o piccola che io sia, è quasi sempre la prima e più immediata immagine che si ha di me. Mentre ciò che di me è, a me stessa, più odioso, e lo è sempre stato, è che mi innamoro sempre degli uomini sbagliati. Basta che uno salga su un barile, e da lì con voce ben modulata, con fare suadente mi arringhi, che io non resisto e dopo cinque minuti sono già innamorata. Di quello che dice non mi è mai importato molto, e questo per esperienza ormai secolare. Non mi innamoro dei concetti o delle novità, mai, assolutamente. Anche se in quel momento fossi più grande del solito, addirittura immensa, mi innamorerei di uno che riuscisse a strapparmi il cervello a furia di farsi applaudire freneticamente. Chiunque è autorizzato a pensare che io sia un pazzo tegame, ma non è così. È la immensità del mio amore che mi porta a darmi a chiunque mi chieda; vivo nella speranza che una volta o l’altra sia attratto da me, mi voglia, l’uomo giusto. Per esser seri qualche volta è successo; tuttavia anche l’uomo giusto, dopo qualche attimo di amore profondo si mette in mente di poter, con me, fare tutte le porcherie del mondo e questo è contrario al mio innato senso, anche se tardivo, di conservazione. Stavo per pensare, di democrazia! Da molto tempo ho l’impressione di vivere dentro una provetta ben illuminata e di essere analizzata da potenti microscopi, che pensano di poter valutare ogni singola particella della mia più o meno enorme massa e su queste loro solitarie riflessioni, so per centro, scrivono intere enciclopedie di sociologiche fanfaluche. Fra di essi, c’è anche qualcuno che mi disprezza e si serve di questo suo modo poco educato di valutare il suo rapporto con me, per sfogare i suoi più solitari istinti. Ho spesso, dopo queste percezioni, la sensazione di sentirmi sola, non voluta non amata; come se si potesse attribuire a tutta me stessa la stupida follia di un mio osservatore. Nelle giornate in cui mi sento più triste avrei voglia di andare da una fattucchiera per farmi leggere le carte e vedere se. attraverso la descrizione del mio ato, si potesse sapere che cosa mi aspetta nel futuro. Questo pensiero spesso mi angoscia, non per le nostalgie del ato che non è mai stato dei più allegri, ma perché non vorrei trovarmi a ripetere gli stessi
frastornanti errori. “Una folla di schiavi trascinando immensi pietroni costruì…” Che folla canaglia! Ero di un cencioso, di uno sporco inimmaginabile; il puzzo che saliva al cielo ad ogni mio movimento convinse i più riottosi dei miei, peraltro poco validi, dei protettori, a traslocare, e, per fortuna, ad andare a proteggere altre cose. Quanto mi azzannavano, mi frustavano! Ed ero così docile da non capire come solo con una fragorosa risata avrei spinto per terra tutti i miei torturatori. Tra l’altro non ho mai capito perché per annullare la cattiveria di qualche piccolo imbecille io, così grossa così enorme, abbia dovuto comportarmi così stupidamente e imbracciare le sue stesse armi per difendermi e costringerlo a trattarmi meglio; perché nient’altro ho mai desiderato.In fondo io sono una docile pecora, attaccata ai riti: anzi più il pastore riesce a trascinarmi in un cerimoniale dalla scenografia imponente, anche se del tutto priva, per me, di sostanza e più è facile comandarmi. Inferocita? Macché, può capitare qualche volta, e tutte le volte che accade non sono mai tanta, mi ci fanno diventare i miei nemici per difendere, agli occhi del loro simili, la loro resa. “Era una folla inferocita…” Tutte bugie! Quando sono folla, cioè tanta, sono, oltre che naturalmente variopinta, anche un decisamente cogliona. Come tutti coloro che vivono più di sentimenti che di profitti. Per molto tempo ho provato a frequentare luoghi, chiusi o aperti, in cui mi imponevano rituali particolari tendenti a convincere l’eterno creatore a venire incontro ai miei tormenti. Sono stati, alcune volte, momenti emozionanti ed in certi casi, sono riusciti a farmi vedere, anzi meglio, sono riuscita a vedere, fischi per fiaschi. Però, devo dire, che è sensazione molto piacevole quella di credere di vedere qualcosa che non c’è. Offre un brivido ed un piacere particolare. So che può sembrare sciocco, ma in giro ci sono degli spiritosi, che tra un canto, un ballo e una preghiera sono stati capaci di buttarmi in ginocchio. E più, in quel momento, grassa ero, e più velocemente in ginocchio andavo. Il mio rapporto con l’Eterno ha sempre avuto un tramite, non è mai stato diretto. Tranne in qualche manifestazione sportiva dove una contrarietà faceva uscire dal mio petto una univoca invocazione, per fortuna inascoltata. Non ricordo una voce dentro di me che mi abbia spinto ad un incontro con Lui. Mai. Ho sempre avuto bisogno di un interprete dal quale ho la sensazione di essere stata presa
sempre per i fondelli. Come quando per benedirmi si usano una cinquantina di lingue diverse, mentre io vorrei sentire non le mie lingue, che conosco assai bene, ma la Sua, che non ho mai sentito. “Una folla muta, dolorante, silenziosa….” Devo dire che nella partecipazione ad un qualsiasi dolore io sono grande! Così come mi innamoro con facilità, così riesco a soffrire con immenso trasporto. Di fronte alle calamità naturali, quando un’immane valanga travolge gran parte di me, ciò che ne resta piange calde lacrime. Obbiettivamente devo dire che spesso chi crepa, indirettamente o no, sembra se lo sia voluto. Nella mia faciloneria non presto attenzione a dove mi siedo. Così sono capace di tirar giù intere foreste per costruirmi case, sedie, giornali, ecc…ecc…, per poi, piangere disperatamente quando un bell’acquazzone tira giù la montagna che proprio quelle foreste tenevano su. Mi fanno credere ai grandi sentimenti, vivere nella rincorsa di un generale e completo progresso, salvo esserne poi uccisa dai risultati. Progresso…si fa per dire. In realtà ogni così detto progresso non mi risolve niente, mi crea solo nuovi bisogni. Tra me e un cane da corsa non c’è quasi differenza. Salvo che io ho la presunzione di essere più umana di lui. C’è da dire che solo quando mi diverto sembro davvero umana; soprattutto quando mi diverto spontaneamente non a comando. Le occasioni non sono molte ma capita abbastanza frequentemente; certo è che ridacchio sempre di me stessa, delle rappresentazioni che di me riescono a dare. Insomma mi rido addosso. Queste mie piccole confidenze servono solo per vedere se son capace, almeno in potenza, di migliorare. Che a qualcuno non venga in mente che io abbia nostalgia per quelle camminate compatte e ordinate, quelle marce, con fanfare e stupidi strumenti di morte, alla fine delle quali una buona parte di me si suicida. Non è questo il miglioramento che aspiro, ma visto che, presa particella per particella, non sono mai riuscita a crescere di un micron sogno sempre Menenio Agrippa. Esprimo un desiderio in toto, per vedere se, forzando tutti insieme, qualcosa si ottiene. “Una folla di variopinta speranza…” Questa è una buona immagine di me, questo essere piena di speranza, anche se non mi par chiaro cosa possa sperare, tranne che d’evitare per sempre il mio attributo più terribile. Come quando mi assottiglio di colpo e mi trasformo, da folla, in ecatombe. Ma poi non è tanto questo, contro cui non posso quasi niente. A me piacerebbe invece essere lasciata in pace, che nessuno mi studiasse con grande attenzione, per poi emettere sentenze offensive. Che nessuno mi fe innamorare perdutamente, né di se stesso né di un qualsiasi vero Dio; ecco,
vorrei, che di me, si dicesse solo, che sono assolutamente variopinta.
Le sette porte di Santa Maria Novella, la musica e l’hula op
Capiamo benissimo perché vi meravigliate. Forse pensate realmente che per quel mezzo chilo di pappa molle che avete in testa, di cui voi non sentite lo sciacquettio, ma noi sì, o per la posizione di quel brandello di ciccia che chiamate laringe, solo voi, tra gli essere viventi, possiate pensare e parlare. Se foste seri non saremo a questo punto, anzi non sareste a questo punto; ma se c’è una, fra le tante cose, che ci diverte è proprio il fatto che, fra gli esseri viventi, siete i meno seri. Già l’aver inventato questa definizione “vivente” vi ha piazzato in cima alla lista dei comici di avanspettacolo! (usiamo, per farci capire, la vostra terminologia, anziché il linguaggio col quale tutto l’universo comunica). Tuttavia, come tutto l’avanspettacolo che si rispetti, c’è un lato di voi, tra il drammatico e il tragico che se, è vero che sconfina nel ridicolo, è anche vero che ci spinge verso una lieve commozione. Questo classificare tutto ciò che a sotto i vostri occhi per vivente e non vivente. E, su questa divisione, avete costruito quello che voi chiamate vita. Siete insomma come una delle vostre bimbe di una volta, che messasi un cerchio dell’hula-hop, intorno alla vita, avesse deciso che quello fosse il confine estremo dell’universo, e voi il centro onnicomprensivo. Che occasione stupidamente persa; tutto questo susseguirsi ininterrotto di esistenze spezzettato in vita e non vita, per cui ogni volta vi tocca quasi ricominciare da capo. No, non ci siamo decise ad intervenire per spiegarvi come stanno le cose, nella loro realtà così diversa da come credete, anche perché sappiamo benissimo che, nel darci retta, non troverete nessuna convenienza e quindi non ci credereste mai. Abbiamo deciso di intervenire perché uno di voi, l’altra sera, si è fermato qui sotto e guardando il nostro aspetto esterno, contandoci, si è rivolto a noi
domandandosi e, se foste vive? Bella scoperta! Certo che siamo vive, e non solo lo sappiamo e ne abbiamo coscienza, come direste voi, ma abbiamo anche coscienza di essere insieme per caso, e ci va, per usare sempre le vostre parole, bene così. Ai vostri occhi e prima ancora alle vostre mani, noi abbiamo per voi una funzione ornamentale, infatti ci avete costruito grandissime, altissime per voi che siete piccoli. Affidandoci una funzione, diciamo così, di “ingresso”; secondo voi, noi siamo le sette porte esterne della Stazione di S. Maria Novella. Dopo più di cinquanta dei vostri anni, solo l’altra sera, uno di voi si è chiesto se per caso fossimo vive. Di solito capiamo subito i vostri discorsi, perché spesso vi fermate a parlare sotto di noi o qui vicino, ma lì per lì questa domanda ha avuto bisogno di un attimo di traduzione. Certo che siamo “vive” e se volete usare il vostro metro, siamo anche in sette. Non ci siamo mai date nomi, per riconoscerci, l’una con l’altra per più ragioni, delle vostre s’intende. Sostanzialmente, per voi, è la nostra costruzione e installazione che ci rende compresi, della stessa “roba”. Per comodità parliamo al plurale con questo simpaticone che ci chiede se siamo vive. Povero amico, lui considera vivo tutto ciò che si muove, pensa, e parla, o fischia, cinguetta, ringhia e così via; e ancora più vivo tutto ciò a cui, per i suddetti motivi, gli si affeziona o di cui si affeziona. Ed è proprio questo che ci spinge ad intervenire, ed a rispondere a quest’amico baffuto che viene qui sotto a farsi domande. Pensiamo, ora che vi abbiamo detto chi siamo e cosa siamo, che non vi riesca difficile crederci se vi diciamo che abbiamo una buona esperienza di voi, anche perché ci è facile, al vostro aggio qui sotto, percepire il vostro pensiero. Altrettanto registrarlo; non altrettanto facile ci è capire la vostra ostinazione a figurarvi diversi da quello che siete. Alla lunga ci avete fatto venire qualche dubbio, fugato poi da un controllo a raggio più lungo. Tuttavia resta il fatto che questa vostra ostinazione è, sotto un certo profilo, l’unica ragione per cui l’insieme delle vostre “idee” continua a manifestarsi sotto il vostro aspetto. Abbiamo fatto l’ipotesi che una piena coscienza della vostra essenzialità, cosa che ha qualsiasi “oggetto” di questo universo, vi porterebbe rapidamente alla distruzione; perché certamente la vostra
complessità cellulare presenta delle fragilità che sono in definitiva la causa della vostra riproduzione. È questo vostro aspetto che, diciamo così, ci commuove e ci spinge a parlare con quest’omino baffuto. Come dicevamo, siamo qui da una cinquantina dei vostri anni ed a parte la nostra meraviglia iniziale (continueremo ad usare la vostra terminologia, solo per farci capire) per lo spreco di forme a cui siete ricorsi. Cioè non abbiamo capito perché essendo voi così piccoli avete costruito noi così grandi e poi ancora, l’atrio nel quale attraverso noi avete accesso, così alto. Se avete pensato che vi potesse mancare l’aria, perché invece di distruggerla come state facendo, non ci vivete sotto, come tutti? A nostro avviso siete pieni di buffe contraddizioni. Tant’è che a furia di costruire muri, finestre, porte vi siete ridotti ad avere paura gli uni degli altri. Riconosciamo che avete un curioso estro nel mettere insieme le cose, anche se questa fantasia vi nasce da una distorta visione di ciò che vi circonda. Così come costruite le cose che usate, così siete voi, e noi, di voi come si diceva, la sappiamo lunga. Perché, vedete, senza sospettarlo ci raccontate molto di voi; ed ogni volta è come se componeste tortini dai gusti diversi però, ovviamente e sempre, con gli stessi ingredienti. Non vale la pena dire di fermarvi e soprattutto non si può imporre agli altri una visione diversa da ciò che ognuno è in grado di vedere. Ma una aggiustatina ogni tanto, per evitarvi sofferenze inutili o perché possiate meglio vedere la vita, non solo attraverso la lente del dolore, abbiamo la tentazione di suggerirvela. Che poi in fondo non si tratta di imporvi una visione diversa, ma farvi vedere più cose; per esempio mondi paralleli al vostro, con i quali convivete, senza dialogo. Vi par poco? Abbiamo infatti notato che tutte le volte che qualcuno vuol spiegarvi la sua visione di un qualcosa siete talmente presuntuosi e chiusi nel vostro mondo che subito, lo accusate di voler condizionare la vostra maniere di pensare e così via battagliando. Questo vi succede soprattutto da quando vi siete abituati a vivere prendendo ordini, cosicché il dialogo lo considerate meschino, infruttifero e invadente. Tutto questo senza entrare nei grandi temi della vostra vita, ma solo catalogando le piccole ansie che esprimete ando qui sotto. In quanti mai sarete ati!? Sempre di corsa, con l’ansia del viaggio da fare, un posto diverso dove andare, come se esistessero posti diversi da quelli in cui siete; sappiamo cosa vi spinge, meglio sarebbe dire, cosa vi aizza. Abbiamo più volte avuto la tentazione di chiedervi di fermarvi a parlare di voi con noi, per cercare di spiegarvi e forse
farvi vedere con mano cosa siete in realtà. La vostra vita è regolata come quella di una qualsiasi pianta; aprite le vostre foglie al levarsi del sole ed alla ricerca di calmare una sete che da soli vi costruite, correte per tutta la giornata per trovare più improvvisate fonti. Siete anche capaci di bere dove non c’è acqua, e con quello, togliervi la sete. E ci credete, anche. Bravi! Avete inventato complicati mezzi per piegare alla vostra volontà molti esseri che, naturalmente, sarebbero portati a convivere con voi, costruendovi, con essi, case, vestiti, treni, aeroplani, e con tutto ciò avete perso la memoria di ciò che siete. Cosicché ogni cosa che sembra esservi d’aiuto per vivere (secondo la vostra metrica) meglio possibile, in realtà vi aliena da una possibilità di addentrarvi nel mondo reale della comprensione della vita. Cosa t’è venuto in mente – amico baffuto – di chiederci “se siamo vive?” Possibile mai che tu non capisca che tutto è vita, anche quello che tu chiami carretto su cui è seduto quel tuo simile, che tu con malcelata noncuranza, chiami “facchino” -, bene anche quel carretto è “vivo” – Omino baffuto scadrà, tra poco, per il tuo orologio, quello che tu chiami il tuo tempo, ti toccherà dimenticare e rivivere perché ti ostini a non voler capire, perché ti ostini a capire solo ciò in cui credi di poter guadagnare qualcosa. Ecco, già che ci hai così stimolate, toglici, se ti è possibile, un dubbio: some avete fatto, vivendo come vivete dentro il cerchio di un hula-hop e credendo che, lì dentro, ci sia tutto l’universo, come avete fatto ad inventarvi la musica? Perché, se è vero che tutto l’universo è musica, la vostra maniera di fare musica. Lo riconosciamo tutti, è un tantino diversa. Che siate diversi anche voi? L’omino baffuto non rispose; se n’andò, sorridendo al pensiero di un sasso che, lanciato in uno stagno, disegna per un attimo, dieci, cento, mille cerchi dell’hulahop. E crede, l’impunito, di aver interpretato tutta la verità dell’universo.
“USCIRONO DIVERSI EDITTI DI ALCUNE PERSONE CHE, AVENDO TEMPO DA SPENDERE, GOVERNANO LO STATO, STANDO DAVANTI AL FUOCO” (Voltaire)
Mi chiamo Mario Rossi. Mio padre si chiamava Giuseppe, Rossi naturalmente, e mia madre Maria Bianchi. Con scarsissima fantasia, ma senza alcuna responsabilità; io sono quello che si può definite un uomo comune. o la mia vita guardando fuori dalla finestra quello che succede e qualche volta mi capita anche di vedermi are; inoltre considero che lo schermo del televisore sia una finestra un po’ più grande della mia; grande in profondità, perché di televisore ne ho uno piccolo, e in bianco e nero. Una donna, che viene da un paese lontano ed ha fatto fotografare il suo corpo nudo, quando era molto giovane, mi guarda dalla pagina di un giornale; anche la sua fotografia è in bianco e nero; lei è però bellissima. Il nero crea delle profondità tali sul suo corpo da farlo apparire come reale e, quando anch’io la guardo, penso che mi piacerebbe vederla, improvvisamente, danzare qui sul mio tavolo, come se fosse un palcoscenico, arredato con una lampada, libri, portafoto ed altri oggetti parlanti, tra cui un’antica campana di coccio, perennemente muta. Sul tavolo c’è anche un misurino di vetro, che serviva per il vino, dentro cui abita momentaneamente una stupenda rosa di colore rosa. Alle mie spalle una radio dalla forma di un grosso occhiale, sintonizzata su una emittente regionale trasmette musica da camera, una sonata per clavicembalo, viola e violino, scritta quasi trecento anni fa. Vorrei che il mio mondo fosse soltanto questo, autosufficiente ed eterno, che i giorni e le notti si alternassero silenziosi con nubi, piogge ed anche un po’ di sole. Invece cosa succede? Succede che ogni mattina mi devo alzare presto dal letto per andare a lavorare. Non che la cosa mi dispiaccia; ma, a volte, ho l’impressione che tutto ciò che riesco a combinare, anche quando si tratta di
ottenere arabeschi e monumentali risultati, siano, alla prova dei fatti, assolutamente inutili. Una volta, riuscire a concretizzare più o meno ambiziosi progetti, in realtà piccole macchinazioni, mi rendeva particolarmente felice e mi ripagavano dell’ansia e del travaglio che mi costavano. Una volta era così. Questo essere così era forse motivato dal fatto che credevo, in qualche modo, di potermi annoverare tra gli ingranaggi, se non dei più importanti, ma certo non ininfluenti, in una più complessa anche se modesta strategia. Anzi non era difficile sorprendermi mentre tentavo di entrare, cantando, nell’insieme del coro. Certo che dovevo essere ben stonato se ne fui cacciato più volte. Mi sono sempre chiesto perché se una persona è completamente stonata non possa cantare insieme a chi, per madre natura, disponga di una voce armoniosa. Per ognuno è importante poter fare parte di un coro; lo fa sentire meno solo la possibilità di partecipare con gli altri ad un canto che gli esca più dal cuore che dalle corde vocali. I cosiddetti maestri non sono mai d’accordo: per loro non c’è niente di peggio che avere nel coro qualcuno che sbagli i bassi o gli acuti. Cosicché mi tocca cantare da solo. Voci del popolo suggeriscono che sia bene non essere mal accompagnati. Ma, alle volte, anche un po’ di mala compagnia è più divertente che l’essere soli. Tuttavia ai maestri importa la loro identificazione in quanto tali, e questa realizzazione viene loro dalla possibilità di istruire un coro ben intonato, non una banda di urlatori. A noi non resta che il posto di spettatori, gente che applaude a comando per non perdere almeno il posto di spettatore. Uffa! Da dove sono guardo il maestro, che mi volge le spalle, e penso che anche un caldeo od un assiro-babilonese, ignaro di musica, dirigerebbe come lui. Legge lo spartito con gli occhi del cuore chiusi, esprime una tematica senza fantasia imponendo qua e là gabelle, tasse, piccoli ricatti, senza la coscienza che, dietro di lui, ci sono io e tanti come me che nutriamo lui ed il suo corpo. La sua visione del canto, che sta dirigendo, è priva di intelligenza. Continua a credersi bravo perché legge come leggevano i suoi nonni, i suoi bisnonni caldei, non si sforza di leggere come leggeranno i miei figli che devono ancora nascere. Fin dall’inizio sarò, poi, io che dovrò insegnar loro a far parte del coro. Sembra che una delle caratteristiche principali, per diventare maestro sia l’essere assurdamente cretino, come uno di quei medici che curando il fegato affogano l’intestino.
Ma io, Mario Rossi, non posso fare niente se non valutare, nella nebbia della mia nullità, che tutto resta com’è; anzi, ho forse la sensazione che stia peggiorando, soprattutto, quando al coro normale si vuol aggiungere un ché di sacro. Allora il tentativo di strafare le antiche letture in una ricerca di imposizione per il mondo dell’oggi sconfina, persino per me, che mi accontento di non credere più in niente, nel più totale ridicolo. Mi auguro che le cosiddette “sacralia” siamo sommerse da quel ridicolo che, piano piano, alimentano intorno a sé. Recentemente un uomo, uno di loro, per essere diverso si era opposto ad ogni forma di riflessione e di progressivo svecchiamento riallacciandosi a tematiche medioevali, è stato perdonato. Solo perché perdonato fa rima con fatturato; infatti nell’arco di poco tempo era riuscito, con cospicui finanziamenti, a creare un interessante insieme di conventicole assai ricche. Altri di loro, protesi in un futuro che trova le sue radici nell’origine più pura e religiosa di quel movimento di idee, sono stati messi al bando, al silenzio. Bando e silenzio non fanno rima con niente. I nostri maestri si accordano volentieri con chiunque detenga il potere quando questo è rappresentato non da un coacervo beneficio di nuove idee, ma quando la produzione di tale potere genera enormi strappi al mantello di ozono del pianeta, quando distrugge con un serio programma il polmone della terra, quando raccoglie in piazze ristrette milioni e milioni di uomini con i quali recitare la commedia del gioco “ io ti governo e siccome tu esercitando un tuo diritto mi hai eletto, io governo e ti fotto”. Io mi sento le mani legate, e non capisco più nulla, ascolto il discorso di questo e di quello, e con uno dei miei pochi amici, il Voltaire, dico: “un così plausibile discorso mi diede molto da riflettere, e nessuna consolazione” .
Vieni giù, cretina
“Giuro che se ti agguanto, brutta cretina, ti affogo!” allontanando il libro, si guardò intorno, sorpreso: ma chi aveva parlato? Alle due di notte nella sala d’aspetto della stazione, oltre a lui, c’era uno strano fagotto di cenci, sotto cui dormiva una persona che non riusciva bene ad identificare e nessun’altro. L’altoparlante taceva. Fuori tirava un vento freddo da scoraggiare anche i fantasmi. Sorrise fra sé e sé: mancavano ancora quaranta minuti al suo treno e cercando di rimpicciolirsi il più possibile dentro il loden, si rimise a leggere. Faceva freddo anche lì dentro. Il freddo sembrava quasi personificato dall’arredamento stupidamente stilizzato, dai marmi, dalle gigantografie di una Italia che non era così neppure trent’anni prima. Il libro non riusciva a distrarlo, e gli toccava continuamente riprendere la lettura che sfuggiva alla sua attenzione. In fondo queste mirabolanti avventure d’agenti segreti bellissimi, sempre in tiro con la pistola e con il resto, non lo distraevano più tanto. Come fe questo principe austriaco a fuggire dentro un magazzino di frutta e verdura, e contemporaneamente, a fare all’amore con una bellissima di turno, appoggiato ad una cesta di asparagi, non si riusciva a capire. Ma secondo l’autore, fortunato e arricchito con queste storie, non solo era possibile, ma anche fortemente godibile. Solo l’idea di sbottonarsi il loden, gli faceva accapponare la pelle…..però! “Stronza, infame, scendi di lì, se hai coraggio!” Questa volta aveva sentito benissimo: una voce ringhiosa provenire da quel mucchietto dormiente di cenci. Forse quel poveretto parlava sognando. Cercò, con alcuni colpi di tosse, di modificargli lo scenario del sogno, ma si senti apostrofare di brutto: “Cosa tossisci, te! Continua a leggere, che se questa volta la piglio la strangolo…” Un imbarazzo totale lo pervase, aumentando, se possibile, il suo senso di freddo, ma non tanto da non consentirgli di balbettare un “Ma chi sei? Da dove parli?” quasi con paura che qualcuno gli rispondesse.
“Sono io che ti parlo! Ma non mi vedi? Siamo io e te soli qui dentro, oltre a quella cretina; ma questa volta non mi scappa! Via, non rincoglionirti con i tuoi agenti segreti, sono qui sotto questo mucchio di cenci, infreddolito e impoverito dalla vita che quella scema mi ha consigliato di fare fino ad oggi. Ma adesso basta!, anche se per me è tardi, stanotte è finita per lei! Se l’agguanto….. Il nostro meravigliato viaggiatore non sapeva più cosa fare, cercando nell’ambiente inospitale della sala d’aspetto un appiglio, un aiuto per fuggire da questa strana fantasticheria. “Guarda, facciamo così, già che sei qui farai da arbitro, da giudice. Ora di spiego: io che ti parlo sono il corpo di quel poveraccio che dorme o fa finta di dormire, sotto quel mucchio di stracci, e sto dando la caccia a quella cretina invisibile che dice di essere la mia anima. Vedi, si è nascosta lassù sul lampadario a cavallo di quella lampadina, sapendo che non posso raggiungerla e che se la raggiungessi mi brucerei le dita. Bene, lei è la responsabile del mio stato, della mia debilitante povertà, della mia sofferente solitudine! Siccome sono deciso a morire, con questo inverno così freddo, mi sono giurato che prima devo prenderla e affogarla.” Il nostro sentì come una presenza affannata vicino alla sua poltroncina e assolutamente esterrefatto, si alzò il bavero del loden cercando una sorta di protezione da ciò che gli stava accadendo. “Ma non ti spaventare! Via! Leggi storie di ammazzamenti, tradimenti, violenze, divertendoti per are il tempo e ti terrorizza una voce, un corpo, e quella stupida lassù sulla lampadina?! Stai tranquillo, ascolta che ti racconto come sono arrivato a questo punto. Vedi amico, mi sono fatto convincere fin da piccolo a tormentarmi, a privarmi di tutto ciò che la terra aveva messo a disposizione per la mia esistenza perché solo così, diceva quella scellerata, sarebbe stata immortale e avrebbe guadagnato il paradiso. E questo per dirtela in sintesi. Io le ho creduto, sacrificandole via via che crescevo ogni impulso vitale. Non me no sono mai lamentato, anzi ti dirò che a furia di privazioni e tormentoni, ho finito quasi per trarne un certo godimento. E guardala come sta tutta orecchi! Vieni giù cretina…..” “Ma dov’è? Non hai detto che è invisibile?” “A te la mia!, io, la mia, la vedo benissimo tutta attorcigliata al bulbi della
lampadina …….Ti dicevo: questo per i primi vent’anni. Poi, allora facevo il contadino nel Chianti, un settembre m’innamorai della Giulia, una ragazza dolce come un chicco di uva a, si decide di stare insieme, di avere tanti figlioli……e lei non volle! Niente da fare. Cominciò a piangere, a dire che si ammazzava, che se mi fossi sposato avrei peccato, insomma piantò all’interno di me stesso una tale confusione che non fui più capace di decidere niente. La Giulia mi lasciò, ed io continuai a lavorare di giorno e di notte, perché lei mi diceva che più lavoravo e meno desideri avrei avuto. Così mi stancavo come un bue, e per di più non voleva che mi fi pagare perché diceva, che essendo molto povero, era quello l’unico modo che avevo per aiutare gli altri. Mi davano da mangiare, qualche vestito, un po’ da dormire e s’andava di podere in podere a lavorare dove ce ne fosse bisogno. Sempre insieme. E lei a dirmi, questo si, questo no, va bene così. Insomma per fartela breve campai così finché fui in grado di lavorare con le braccia; poi quando nessuno mi volle più, m’insegnò che l’umiltà dei poveri, nel chiedere l’elemosina, l’avrebbe senz’altro avvicinata all’immortalità e al paradiso. Oramai ero vecchio e capivo che non c’era altro da fare; però qui in città, con tutti questi ragazzi puliti, con queste belle bimbe in giro tutte contente, a me venne una grande tristezza. L’altra sera avo, lento lento, davanti ad un negozio tutto risplendente di luci, di colori, con uomini e donne tutte ben vestite nella vetrina, quella di rosso, l’altra di nero, insomma una meraviglia, quando non ti vedo, proprio di fronte a me, un vecchio tutto cencioso, laido, con un cappellaccio tra i capelli lunghi e sudici, e questo poveraccio, anche lui appena mi vide fece un balzo dallo spavento. Poi nel riguardarlo meglio, avrai capito, mi accorgo che quell’essere immondo ero proprio io! Ma come, dico, io t’ho dato tutta la mia vita, mi sono ridotto che non mi vogliono neanche i topi, non ho una casa, niente, dico a te?! Mi guarda tutta felice e mi sussurra che quasi senz’altro con tutti i sacrifici che ho fatto, lei avrà il paradiso e l’immortalità. Va bene, dico io: e, piano piano, mangiando un po’ di buon odore di cald’arroste sono venuto, come tutte le notti verso la stazione, chiedendole, per piacere di spiccicarsi, perché ho quasi settant’anni, e vorrei riposare un po’, insomma come si dice, vorrei tanto dormire. Ora giudica te, quella puzzona mi accompagna qui dentro, e con la sua vocina suadente dice così starai al caldo e dormirai un po’, quanto a morire non se ne parla nemmeno, forse tra dieci, quindici anni, anche perché nel frattempo, no stai tranquillo, niente di grave, ma m’è venuto un dubbio. Un dubbio, dico, un dubbio a te, o che dubbio t’è venuto? Ecco vedi, mi fa quella, m’è venuto da pensare che forse l’immortalità non esiste, e che quando morirai te, morirò anch’io, e che quindi non esiste nessun paradiso! Ora mi dica lei, se la prendo,
l’affogo o no quella brutta cretina?” La voce dell’altoparlante risuonò nel silenzio della stazione, liberando d’improvviso il nostro, che col suo loden, un po’ strapazzato si avviò di buon o verso la porta; prima di uscire, detto un’occhiata al fagotto cencioso abbandonato su quella poltroncina e guardò in alto verso la lampada riflettendo sulla delusione di quel pover’uomo, e, con aria minacciosa, gli venne da dire “Vieni giù, cretina.”
Piccoli chiarimenti da chiedere al Signore, nel prossimo incontro
Che idea aver lasciato l’Egitto, così caldo, con quelle belle giornate piene di sole. Fai il Profeta per tutta la vita e ti ritrovi a ottant’anni, in cima ad un monte, con un freddo cane, chiamato da una voce che dice di essere il Signore di mio padre, di Abramo, di Isacco, di Giacobbe … e poi mi son dovuto togliere anche le scarpe! Qui, sull’Oreb, è veramente freddo! Quello che mi fa andare avanti è il pensiero di tutta la mia gente, accampata laggiù, nel deserto, poveretti! Ma gliel’ho detto a questo Signore, io non sono buono con le parole, e così mi tocca sentire quel che ha da dire, riferire il tutto ad Aronne (Es. 4.13) e lui lo spiega al popolo. Ma se parlava il Signore stesso con il suo popolo, io avrei evitato tutto questo freddo e poi, sinceramente, mica tutti sono disposti a credere a me ed a mio fratello Aronne. Signore!Sii puntuale agli appuntamenti, per te è facile ché viaggi sul roveto ardente; qui è un gran freddo. Gli debbo riconoscere che, bene o male, dall’Egitto ci ha tirati fuori. Però quel Faraone, che uomo! I suoi maghi, insomma io vado lì con questa verga, gli dico che mi manda il Signore, il quale gli ordina di lasciar liberi gli ebrei che sono il suo popolo, e questo Faraone non fa una piega. Se non ha detto che non gliene fregava niente è stato per non complicare le cose ai suoi stenografi o geroglificografi. E poi, la battaglia che ha fatto!... Però, mi chiedo, quassù a questo freddo, se c’era bisogno di fare una tragedia così, con tutti questi morti, vendette… se tu sei il Signore, se hai inventato, nel libro prima di questo, la luce, il buio, etc, etc ……., allora zac! Porta via il tuo popolo eletto. Sano e salvo dove volevi te; così il Faraone, i mattoni (Es. 5.8), se ti faceva tutti da sé. Con un palmo di naso, lui e i suoi maghi. Invece: cavallette, rane, pestilenze…..non ho capito questo mettersi in concorrenza (Es. 8.7) con i maghi di corte. Certo è, che se è vero che, tra le tante punizioni che riesci ad infliggere, c’è anche quella di “farti fuggire, senza che nessuno ti insegua” (Lev. 26.28), questa si che è tremenda. Lo posso anche dire forte! Qui al buio, non mi va, alla mia età, di aver paura, o timore come dice lui, del Signore. Perché aver paura di
uno che dice di aver creato questi stupendi tramonti, queste aurore piene di soffuse luminescenze: io, uno così, vorrei poterlo amare, e basta. “Mosè, Mosè” Eccolo! “Eccomi, Signore” /Es. 2.23) “Signore, aspetta, vengo un po’ più vicino al tuo roveto ardente, perché ho molto freddo; ecco, vorrei chiederti alcune delucidazioni, chiarimenti … permetti? Ecco! Ascoltami: perché devo dire al mio popolo che non ci sono altri Dei, all’infuori di te ?. Vedi, Signore, non posso trovarmi a discutere, impreparato, con loro che sono abituati, dopo tanti anni d’Egitto a pregare le divinità più disparate, che non intaccano per niente la tua potenza e che a loro sono più familiari. Vedi, Signore, scusa la confidenza, ma ho letto che un certo Dio di Bharat, in un libro dal titolo Bhagavadgita, sosteneva di riconoscere qualunque Dio o forma di religiosa preghiera, purché fosse pensata con fede sincera. Non credi che, al di là degli idolini e statuette, sarebbe più giusto che la gente si sentisse religiosamente libera di pregare il Dio che preferisce. Anche perché, Signore questo popolo che tu hai lasciato libero è uscito ora da una schiavitù…… Ecco, e ancora mi scusi: io vado a dire al mio popolo di onorare il padre e la madre, e questo va bene. Loro però lo sanno perché mi chiamo Mosè, e perché mia madre mi abbandonò, per paura, in un cesto sul fiume (Es. 2.3) e che non l’aveva fatto prima solo perché, da piccolo, ero bello (Es. 2). Non credi che bisognerebbe insistere ché anche i genitori rispettassero i figli, sia maschi che femmine. Mi pare giusto che l’amore sia come diceva mia nonna, che se vuoi che questo, l’amore, si mantenga bisogna che un cestino vada e l’altro venga. Signore! Signore! Non vada via! Che vuol dire non ammazzare? Noi per venire via dall’Egitto abbiamo fatto una strage! E di qui a diecimila anni, che tanti ce ne vorranno per arrivare e poi restare, nella Terra Promessa, non faremo altro che uccidere ed essere uccisi, persino in Tuo nome, (e se no che profeta sarei?). Forse lo dici per me, per l’Egiziano che ho ucciso? (Es. 2.12). Se mi consenti, vorrei suggerirti una piccola modifica, un miracolino: vedi, se non ti rincresce, di toglierci il gusto, il piacere di uccidere; via già che ci hai fatti te, apporta questa una piccola correzione. Ora, Signore, non vorrei che tu mi prendessi per un ingrato o che io mi potessi mettere a rimpiangere l’Egitto, che era bello caldo, ma il mio popolo c’è stato quattrocentotrenta anni, mica un fine-settimana, e sa com’è la gente, sempre
pronta a prendersela con il governo. Ora, te, se puoi, mettiti nei miei panni. Io, scendo dall’Oreb, lo dico ad Aronne, lui si rivolge al popolo e gli dice “non fornicate”. Io, per me, le assicuro che cercherò di non esserci, perché le sassate, a ottant’anni, si scansano male! È giusto “non commettere adulterio” perché non si deve tradire chi ti vuol bene. Ma “non fornicate” è troppo generico, perché secondo me sarebbe come dire, “non mangiate” non camminate, insomma “vivete male”. Ora, permettimi, prima che il mio popolo, o il tuo popolo eletto, si levi in lamenti così alti da ricordare (Es. 2.23) di che pasta li hai fatti, se si potesse diminuire la portata di questo ordine….basterebbe, non so, dire loro che durante il giorno possono anche pensare a qualcos’altro….. Signore, suppongo che tu abbia molti impegni e ti prego considera che da quando il tuo popolo è nato, e poi per i prossimi millenni, il tuo popolo eletto sarà più o meno giustamente famoso per una innata grande capacità commerciale. Lo farà con tutto, e in particolare con l’oro, l’argento, insomma con il denaro. È vero, sarà fortemente calunniato perché il suo nome sarà assimilato, tout-court, direbbero i si, a quello della usura; ed essendo il popolo eletto del Signore, di mio padre, di Abramo di Giacobbe, sopporterà la calunnia con rassegnazione. Ora, Signore, te che sei chi sei (Es. 3.14) e sai tutto, gli dici di non rubare. Con umiltà vorrei chiederti di darci una misura, e per non offendere la nostra qualità di popolo eletto…..quanto possiamo?.....questo tuo silenzio, Signore, mi raggela il sangue; forse sto osando troppo; ma, capisci, la carota della Terra promessa è grandiosa; non vorrei quindi che per non aver capito io, il tuo popolo eletto non ci arrivasse mai, me compreso, che ho ottant’anni. Ancora Signore una cosa ti prego, oltre a dire di non desiderare la cosa d’altri, la moglie, i servi, già che contabilizzi così bene tutto ciò che all’uomo appartiene, potresti aggiungere che le donne non devono desiderare il marito delle altre. Perché, per ora può andare non menzionarle neanche, ma fra qualche anno, grazie anche ad un tuo….prossimo parente si dovrà considerare le donne come persone, con una loro anima, proprio come gli uomini. Incredibile, vero? Questo tuo silenzio, Signore, non mi dice niente di buono. Vorrei anche parlarti del codice di Hammurabi, circa la schiavitù: non voglio dar retta a chi dice che tu lo abbia copiato. Signore?! Dove sei, rispondi! Perché con tutto quello, che io,
come profeta, so che succederà, se te non sei chiaro fin da subito, potrebbe venire fuori un bel casino. Signore, nella tua grandezza, non mi fraintendere, non voglio contraddirti, ma devo capire per far capire al mio popolo che, come te hai detto, è di dura cervice.” “Mosè, Mosè” (Eccolo) “Eccomi, Signore” “Mosè, sali su questa vetta dell’Abarim, a guardare in fondo alla valle … Là molto in fondo, c’è la Terra Promessa dove tu non metterai piede! Così impari a contraddire il Signore Dio tuo …!” “Eccomi servito, come si dirà tra diecimila anni, di barba e capelli … “
Guardare nella notte
Come essere dietro una cinepresa di grosse dimensioni fornita di lenti potentissime oltre ché di microfoni elettronici ad alto rendimento cromatico in grado di percepire immagini e registrare suoni con ottima definizione a distanze incredibili. Vagare con l’obiettivo sui tetti di una qualsiasi città ondeggiando tra le nubi e gli abbaini della periferia oppure tra le stelle e gli attici residenziali. Incollare frammenti di fotogrammi e di nastri, quasi a caso, mimando un quadro futurista per trarne uno spezzone, un collage, che senza alcun senso logico o compiuto riporti il gusto su strade diverse. Dove, immagini e suoni, diano nuovo senso naturale alla vita, fornendo il tutto di una possibilità di visione accelerata o decelerata a volontà: secondo l’umore, la voglia d’amare, l’appetito, o il corretto e puntuale funzionamento del proprio stomaco. Una sorta di cinepresa volante, come la scopa di un mago che potesse anche essere utilizzata per andare, alla Zavattini, in un “mondo migliore”. Con l’occhio incollato all’obiettivo spiare la vita nelle case degli altri, in attesa che la propria trovi uno sbocco autonomo, libera da meschinerie o da improvvise, forse non giustificabili, incomprensioni. Il sogno di molti ragazzi alla lavagna: quello di cancellare i propri errori, e nel farlo, vedere apparire la soluzione giusta, quella del voto incredibile, dell’applauso degli amici, dell’occhiata complice e promettente del piccolo flirt del giorno che è, ovviamente, un amore eterno. Anche fermarsi un attimo, ma per sempre, e godere l’eternità di quell’amore momentaneo: poi, l’oblio a piccoli sorsi e con un po’ di ghiaccio, se il tutto avvenisse d’estate; per l’inverno, si potrebbe consigliare l’oblio in piccole paste con cioccolata calda, in un bar vecchiotto ma elegante, in una città del nord sommersa dalla neve, silenziosa, bianca, alle undici, di sera. Accendere il riscaldamento, e un po’ di aria condizionata per umidificare al giusto l’aria dell’abitacolo della propria scopa volante, e senza vibrazioni e turbolenze avvicinare la cinepresa super elettronica, atomica e turbo, a quella finestra laggiù.
Retromarcia veloce alla vista di una culla dove dorme un bambino che sta sognando la propria innocente bambinaggine senza capire che sta affogando nelle sabbie mobili dei luoghi comuni, senza alcuna possibilità di riscatto. Fermarsi e bloccare la sua immagine per consegnarla alla storia della sua vita e potergli poi dire che un giorno che c’ero e testimoniargli, attraverso il ricordo della mia vigliacca fuga, che mi ero accorto di lui, e che, ognuno, o si salva da sé e muore oppure vive, insieme, a chi morendo, continua a vivere. Come se la mia e la tua cinepresa non fossero uno strumento per suscitare una coscienza-conoscenza collettiva di cui, nessuno ancora, è stato in grado di tracciare una soddisfacente e universale ideologia. La neve che cade aziona automaticamente il tergicristallo, della scopa volante. Le difficoltà aumentano se uno immagina una storia d’inverno. Una cioccolata calda alle undici di sera, d’estate, risulterebbe più incomprensibile dell’intero racconto. E lui, il racconto, vuole che la cinepresa si muova, selezioni rapidamente de immagini vivificate attraverso i vetri delle finestre illuminate, alla ricerca di qualche cosa di vitale, di stuzzicante, che attivi tutti i suoi pruriti di guardone della vita. Giocare alle carte è quasi meglio che guardare la televisione. “A che si gioca?” “Sono per il poker, ma in due non si gioca bene” “Si può giocare con due morti?” “Bastiamo noi.” “Allora, se ti senti abbastanza vivo facciamo una mano di scalaquaranta” “Strip?” “Ma se siamo già nudi” “Strippiamoci i pensieri, quelli veri, qui sul piatto!” “Vuoi giocare o fare un massacro?”
“Giochiamo”. Giocano, per are il tempo. Come se avessero vissuto un’eternità e ne dovessero vivere un’altra. E tra questa e quella gli venisse la tentazione di qualche sbadiglio di noia. Ma che vite vissute! Questo è uno spreco. Tutti tesi a superare se stessi, giocano a “questo ritmo della vita moderna che ti uccide”. Certe vite sono come perle per i porci, che tuttavia, anche se arrotolate di letame, sempre perle sono. La cinepresa, strumento parlante, sostiene che, porci letame e perle, sempre atomi elettroni viti e bulloni della stessa materia, a cui solo il nostro occhio pieno d’inganni ha dato vestiti diversi. Stai zitta e guarda lì dentro. Sono tanti, così tutt’insieme. Ma non tutti si vedono gli uni con gli altri. Solo questo aggeggio super atomico riesce a percepire in ambienti chiusi, chi non c’è. Bravo. Descrivi. Sembra una casa normale: gente di mezza età e un po’ più giovane. Tolleranti e intelligenti q. b. Non si sente bene, c’è il ronzio della televisione. Che cosa vuol dire q.b.? Quanto basta. Quando basta a non credere a tutto ciò che vedono. Sono all’erta, critici, a parte chi sta sonnecchiando; incerti tra dormire, leggere un libro, fare una partita a dama, preparare il pranzo per domani; la più giovane avrebbe voluto uscire, e sta pensando, nel guardare l’orologio, che più o meno adesso avrebbero posteggiato sotto i Cappuccini, vicino ad altre auto dai vetri appannati, eccola lì sente quasi la mano di Gianluca dentro i collant, lo sta aiutando ad abbassarli…. “D’Arrigo” “Chi?” “D’Arrigo, la Cima delle Nobildonne” “Perché non vai anche te ai telequiz, faresti soldi, sai quasi tutto” Ma che stupido, mio fratello; dove sarà Gianluca, adesso? Fregatene eh! Ma come? Le ombre parlano? Si e solo con questa cinepresa si possono registrare. Le più non sono allegre. Comunque, se vuoi facciamo una zoommata. No, andiamo a vivi! Però, fermati su quella signora anziana; un po’ più a destra. Vai così! Non volevi andare a vivi? Quella non mi sembra poi più tanto, la registro come un fumo di una sigaretta. Se tu stessi zitta, scopa elettronica dei miei stivali, lo sentirei cosa dice …. sentila, “la fantasma” sta parlando alla trisnipote. “Elena, Elena ma possibile che il tuo Gianluca non pensi ad altro che a fare
all’amore. Sei così giovane Elena, hai appena diciassette anni.” “Papà!” “Si, che c’è?” “A che età si è sposata la nonna di tua madre?” “A quest’ora! E il tuo Gianluca dov’è finito stasera?” Andiamo via di qua; punta su quel palazzo buio là in fondo alla strada. Non c’è nessuno, andiamo a vedere, gira nella corte, piano, piano, lì dove c’è quella luce accesa. Una donna delle pulizie; aspirapolvere in mano, segue i suoi pensieri che ne avrebbero più bisogno di essere spolverati della moquette, “Vorrei armelo sulla testa, porta via tutto quel poco che c’è, e poi andar via anch’io. Andar via di qua, da questa città di merda, voglio essere aspirata….” Attento, guarda c’è gente in arrivo; abbiamo un armigero della sorveglianza, bel pistola; spetta, guardiamo che succede. “Credevo ci fossero i ladri” “Senti facciamo così, quando vedi le luci alle undici di sera del mercoledì, non venire a rompere i ciglioni perché non ci sono i ladri, ma io che lavoro, va bé!?” “Suscettibile la signora….” “Suscettibile o no. Levati dalle palle, che tanto a te non te la do!” “Sai che perdita. Se ti volessi prendere, ti prenderei anche mentre dai l’aspirapolvere. Ma credi di avercela d’oro?” Perché si trattano così, con tanta violenza? Essere ignoranti non dev’essere la solo giustificazione. “Non ce l’ho d’oro né di pasta e fagioli, cerca se puoi, di scomparire”. In nome della libertà si sono liberati di tutto, compresa la gentilezza di vivere, trasformando, se ce ne fosse stato bisogno, la vita di tutti i giorni, in un film di gangster.
Le bestie, feroci secondo la nostra classifica, sono più cortesi tra loro. Aspetta! Guarda il pistolero sta mettendo le mani addosso a quella donna, lei sembra non reagire, accettare; allora si trattava di una sorta di danza dell’amore….. boia! Che colpo: un portacenere di cristallo, lì, deve far impazzire di dolore! Vai, ruota la scopa piano, andiamo via di qui. Per stasera il campionario potrebbe essere finito. Ritorniamo indietro ando per il parco. Ascolta. Accosta. Cos’è questo rumore? Il platano. Come il platano? Si, il platano sta “parlando”. Possiamo sentire. Forse attaccando il decodificatore. Attaccalo. “Di notte si respira meglio” Ma con chi parla? Da sé. “Anche la terra è più buona di notte; e tra poco ricomincerò a germogliare, se il freddo si attenua. È piacevole il solletichio dei nuovi germogli. Speriamo di ospitare tanti nidi questa primavera. Sono simpatiche quelle piccole creature che appaiono e scompaiono improvvisamente. Se non ci fossero gli uomini, sarebbe molto più salubre vivere, per tutti gli esseri viventi. Ora ci voleva anche questo mostro qui davanti. Cosa sarà…..?” Dice di noi. Bene vai via. Quel platano non ha torto. Dove si va? Su, vai, su in verticale sopra la città. Ecco così; quante luci. Sembra tutto calmo, da quassù si sente solo il vento e la neve. Come fosse una musica che nessuno è mai riuscito a scrivere. Perché la gente che filmiamo e registriamo è così meschina, così povera nel suo vivere. Come potrebbe essere diversamente. Hanno intestato scuole, vie, piazze a Niccolò Machiavelli …. per questo anche a sco d’Assisi. Sì, ma tra i due esempi studiano e preferiscono il primo e ne mettono in opera gli insegnamenti. Attento. È mezzanotte, senti la campana di San Marco. Guarda, laggiù in quella finestra. “Nonna quando suona la campana le mamme vanno a scuola a prendere i bambini, vero?” Ecco perché la maestra dice che Giuliano è tanto attento a scuola. Aspetta soltanto e per tutta la mattina, il rintocco di mezzogiorno. Sintonizzati su quel ragazzino.
“Se fosse giorni, sarebbe già mezzogiorno e uscirei di corsa da scuola. Vorrei stare sveglio fino a mezzogiorno così non mi dovrei svegliare domattina e andare a scuola. Cattiva maestra. Puzza sempre di sigaretta. Brutta. Io non sono uno stupido. Sono un bambino. Da grande fumerò anch’io. E farò paura ai bambini……” Spengi. Per Dio. Spengi.
Leggendo Soffici, in treno
Partire gli dava quasi sempre un senso di liberazione, brevi o lunghi che fossero i viaggi. A tutti i mezzi preferiva il treno. Per un lungo periodo della sua vita aveva viaggiato in aereo con la stessa frequenza con cui in città si prende un autobus. Dell’aereo non sopportava né il decollo né l’atterraggio, mentre molto sovente aveva trovato denso di suggerimenti il volo, tranne quella volta che un gruppo di comuniste padovane in pellegrinaggio a Mosca avevano stravolto il suo stomaco, già gravato da una cenetta d’addio. Un piatto ottimo era stato il pecorino toscano ai ferri. Favoloso, come il dopo cena; terribile da digerire come le “ciacole” di quelle Fidelcastro venete. L’auto era diventata una appendice del suo corpo, al punto da intonare vestiti, cappotti, insomma l’abbigliamento al colore di questa infedele protuberanza. Infedele perché aveva sempre bisogno di un altro, una volta l’olio, sempre il carburante, i pneumatici e poi, quella sua sfrenata ione per i meccanici: aveva alla fine capito che non erano fatti l’uno per l’altro. Dei meccanici, quella femmina perversa, sentiva l’odore da lontano e per di più le piacevano quelli cretini, rozzi, inesperti che alla ricerca del suo simulato guasto la scoperchiavano tutta. E lui pagava, come un guardone torbido e spendaccione. Così, quando poteva, e se ciò avveniva in contemporanea con una prolungata astinenza da sciopero, il treno era il suo preferito. Pregustava il suo scompartimento, comodo, caldo, con le luci un po’ soffuse e poi, l’odore, così antico, che hanno i treni. In particolare, i vagoni letto. Sempre l’incognita dei compagni di viaggio, ma anche questa faceva parte del giuoco del treno e ne accettava comunque, con grande tolleranza, immergendosi nella lettura dei giornali, la quasi sempre deludente rivelazione. Quello che più lo annoiava era trovare gente come lui, cioè troppo, in tutto simile a sé stesso. Naturalmente sapeva che i personaggi di Corto Maltese o di Salgari non viaggiavano su i suoi treni….Ma, quando uno parte….. Quella volta, assolutamente “fatti” da una super-dose di scioperi, gli aerei
giacevano stremati e sognanti negli aeroporti e la riunione bimestrale dei direttori di filiale gl’imponeva di attraversare l’Italia dal basso all’alto; niente gl’impediva una dose massiccia di treno. E se avesse fortuna, avrebbe potuto avere uno scompartimento-letto tutto per sé; anzi arrivando in stazione si era ripromesso di consolidare la sua prenotazione singola con un sacrificio sull’altare della buona volontà del controllore addetto ai vagoni letto. Cosa che fece poco prima di prendere possesso della sua cabina, con la tacita collaborazione di un gentile quanto prezzolato funzionario. Sarebbe arrivato alle undici del giorno dopo. Il tempo per andare in albergo, fare una doccia, pranzare ed iniziare la riunione alle 14. Nessun problema, pensò, nel chiudere dietro di sé la porta della cabina. Questa volta quel piccolo regno era tutto per lui; con la calma di chi sa di essere padrone della situazione, sistemò i propri bagagli scegliendo il piacere di un viaggio solitario nonostante che anche l’altro letto fosse pronto per un inatteso ospite. Lì per lì vide svanire nell’aria il suo ricco sacrificio, ma la partenza quasi improvvisa del treno lo rassicurò sul suo solitario dominio -. La tenda sollevata sul vetro gli permetteva di godersi lo spettacolo notturno del mare accarezzato dal rotolare del treno tra puntine di luce che, apparendo e scomparendo, sembravano trasformare la natura in un lungo interminabile albero di natale. Sullo sfondo, quasi immobili, navi lontanissime disegnate da piccolissime luminescenze, più viste con la fantasia, con cui riusciva a fissare l’immagine, al di là del nastro veloce che la corsa del treno dipanava. Sdraiato nella sua cuccetta si pasceva di questo inizio di viaggio, congratulandosi con sé stesso per l’ottima scelta, ascoltando con la memoria, come spesso gli capitava, quello che Gerschwin era riuscito a farsi dettare dal continuo rullio ritornante del treno. Anche un rumore ripetitivo quasi ossessionante poteva essere trasformato in musica, bastava entrare nel suono, e capirne e interpretarne la voce. Si era portato una pila di quotidiani con l’intenzione di trascorrere qualche ora nella lettura, prima di addormentarsi, ma era più che altro attratto da una raccolta di scritti di Ardengo Soffici, toscano, pittore e scrittore di straordinaria umanità. Dette un’occhiata a un paio di giornali pensando che, da leggere sdraiato sulla cuccetta, erano scomodi, e d’altra parte il rollio ininterrotto e ritmato del treno non favoriva questa volta la sua attenzione.
Ripiegando i giornali si sistemò alla meglio per leggere il Soffici. Cercando subito di assimilare alle parole del testo quella certa musicalità del dialetto toscano che gliele rendevano più gustosamente familiari. Non lo stava leggendo con ordine, ma saltava qua e là tra i “Frantumi” le “Illuminazioni”, la storia di Lemmonio Boreo, finché non capitò sulle pagine di un delizioso raccontino dal titolo “Riflesso”. Nell’immaginarsi, seguendo il testo, la scena descritta, gettava anche lui, sguardi veloci sul vetro del proprio scompartimento, senza tuttavia vedere nient’altro che il cuscino della cuccetta di sotto e le luci sfuggenti di un buio che il treno tagliava veloce. Ci sono certi scrittori e poeti, ignorati, dimenticati dalla critica e dalla scuola che meriterebbero ben più allori di altri che, antichi o moderni, continuano a riempire le terze pagine dei giornali o i libri di letteratura. Forse Soffici era uno di questi. Immediato, usava realmente le parole come fossero pennelli, dando alla pagina una luminosità solare che non aveva bisogno di interpreti carismatici strampalati. Quel sapore di terra della campagna toscana o inglese, i ritratti veloci dei personaggi della cultura degli anni venti, chimismi, grandi dolcezze verbali. Adesso il treno aiutava a leggere ed a riflettere, ed anche conciliava una progressiva lenta sonnolenza. Com’era lontana la sua vita di tutti i giorni, il suo lavoro, dai suoi più reali ed intimi interessi! Così nel riflettere su questo dualismo che spesso creava contrasti e sottili sofferenze, si predisponeva a dormire, chiuso nel suo bozzolo ferroviario. Ciò che lo svegliò nella notte dopo una appena percepita fermata del treno, fu un leggero parlottare nella porta socchiusa del suo scompartimento, ed un profumo di grande intensità. Un profumo femminile che gli risvegliava nel dormiveglia il ricordo di una sonata di Beethoven, giuocata sul pianoforte della sua memoria in un pomeriggio di sole invernale, quando ebbe l’impressione che il suo cuore volesse liberarsi di lui e correre tra le mani di una giovane e indimenticabile pianista. Nel prolungarsi del dormiveglia gli parve di scorgere, alla incerta luce della abatjour della prima cuccetta, riflessa nel vetro, una figura di donna che in grande silenzio di toglieva il soprabito, quasi volesse predisporsi per dormire. Ridacchiando fra sé e sé pensò a Soffici ed al raccontino ultimo letto: un volto, travagliato dalle ombre del treno, di rara e straordinaria bellezza. Si muoveva lentamente scoprendo poco per volta ora il profilo, ora la schiena e dando di sé, nel togliersi le vesti una immagine di profumata eleganza, che nel suo stato di semi-incoscienza gustava al limite del sogno.
D’improvviso, come d’improvviso una luce rompe il buio, apparve sul vetro il candore delle sue spalle e del suo seno orlato, sembrava, di pizzo nero, forse, di seta, mentre di delineavano in tutta la loro grazia i lineamenti del viso e del collo. La giovane donna, appoggiata ai cuscini della prima cuccetta parve chiudere gli occhi, con un profondo sospiro di sollievo, come se riposasse dopo una lunga corsa. Iniziò così un muto dialogo in cui lui, inquilino della cuccetta superiore, quasi stordito dal sottile, profondo profumo del corpo della inesperta ospite, “accarezzando la sua immagine tremolante entro la notte, oltre il cristallo come un fantasma fugace inafferrabile” le raccontò il suo straordinario bisogno d’amore, e come vivendo un sogno finora mai vissuto, si trovasse con lei in una casa sconosciuta, seduto davanti al fuoco di “pine scricchiolanti”, su un largo divano ricoperto di cretonne a fiori autunnali, e come le amorose carezze delle sue mani avrebbero sentito accendersi e fremere la sua pelle liscia e tiepida. Affascinato da quel volto di cui distingueva la dolcezza e la profondità dello sguardo, il forte disegno delle labbra, che perdeva e riappariva oltre il vetro del finestrino nella notte calabra; forse tradito dal ritmato rollio del treno, quasi stordito e pervaso dal profumo di lei, gli parve riaddormentarsi continuando un sognante dialogo fatto di carezze, di morbide promesse, di appuntamenti, frammenti di vita. Fu il nome della città di Bologna, gridato da un altoparlante che rimise la sua fantasia in tumulto e la ricondusse alla realtà in cui entrarono, a precipizio, speranza e dolcezza di rivedere, riflesso nel vetro, quel volto elegante, quel corpo vivo di cui sentiva ancora il profumo. Vide solo gente infreddolita, grigia in una mattinata grigia che rendeva tutto monotono; così si affacciò titubante della sua cuccetta, quasi presagio e ne vide il letto intonso, su cui prima di dormire aveva lasciato cadere il libro di Soffici, gli occhiali, i giornali. Sorridendo a sé stesso, si rimise gli occhiali. Un inserviente del vagone-letto bussò per porgergli il caffè, che bevve con avidità quasi volesse cancellare il ricordo di un sapore di dolci parole, di un profumo profondo, sottile che ancora, stranamente, sentiva aleggiare nell’aria della sua solitaria cabina.
La finestra dipinta (da Corrado Govoni, 1916)
Finestra, singolare femminile, apertura che si fa nel muro per dare lume ad una stanza. Meglio saltare da una finestra che dal tetto. O mangi questa minestra o salti questa finestra. Una finestra nel cuore. Funesta ca’ lucive…… Tutto ciò che volete. Per quanto mi riguarda come finestra, io sono una finestra un po’ particolare. Infatti non sono una finestra, o meglio, sono una finestra dipinta. Tra l’altro, se non fosse stato per questo ragazzo che ava qui sotto ogni tanto, forse nessuno mi avrebbe notata. Mi hanno dipinto, qui sull’“intonaco”, per una questione di equilibrio, in un palazzo che ora è nero e fosco, ma che quando fu inaugurato era un bellissimo palazzo rosa. È stato gentile questo ragazzo che, attardandosi a gironzolare per i vicoli del centro antico, mi ha notato, ed ha pensato questa cosa tanto carina: “Non conosco nessuna cosa più dolce e misteriosa di quella piccola finestra finta”. Per la verità non sono piccola. Forse vista così dal basso, eggiando tra i gatti solitari del vicolo non appaio in tutta la mia grandezza. Già che mi facevano finta non hanno badato a spese e mi hanno dipinta molte volte più grande del normale. Il padrone disse che voleva fossi una finestrata di sole; che è cosa che allora si diceva quando ad un tratto si spalanca in un tendone buio di nuvoli, una grande apertura per cui ano, improvvisi, i raggi del sole. Non ho quasi rimpianti. Essere veri o dipinti, di per se stessi, non fa differenza. Forse se dietro di me ci fosse qualcosa a cui la mia finzione impedisse la propria vita, ma dietro di me non c’è niente. Io non ho quasi rimpianti. Al padrone ho giurato di mantenere il segreto a condizione che lui desse alla mia finzione una maggiore realtà. Avrei voluto tanti vetri. Da un lato perché mi piaceva tanto il vetraio che aveva messo i vetri alle altre finestre. Quelle chiacchierone hanno smesso solo
cent’anni fa di raccontare con quanta delicatezza, attenzione, quel garzone del vetraio, glielo metteva nei loro buchi, il vetro. E poi perché vorrei, riflettendola, restituire al cielo tutta la sua luce, che su di me scivola sempre più tenuemente, via via che mi scoloro. Sto sempre più spesso pensando che il mio giuramento non dovrebbe avere più tanto valore, non per la mancata promessa, in contropartita, ma perché il mio padrone è morto, da tanto tempo, di dolore! Ma che dico, di dolore! Si certo è morto per un grande dolore che gli è venuto per il gran ridere. Insomma è morto dal ridere. No, caro il mio giovane Corrado, dietro di me non c’era tutto quello che tu, con tanta poesia, hai immaginato. Non c’era: “una piccola bambola che dorme nella culla di pizzo d’un cestino coi suoi biondi capelli di pannocchia, raccolti sulla fronte senza sogni.” E nemmeno: “…..uno spettro di vapore gelido e trasparente tutte le notti viene a coricarsinel soffice letto ad ascoltare i gatti misteriosi che fan le fusa sopra il tetto.” Macché! Dietro di me c’è, sì, una “camera chiusa” ma senza le tue dolci romanticherie, Corrado mio. Dietro di me, in una stanza chiusa il mio padrone aveva nascosto, diceva lui, un grande tesoro. Un tesoro così grande per il quale aveva fatto costruire questo stupendo palazzo rosa, nel centro del nostro piccolo paese. Il fatto che, pur finta,
io fossi stata dipinta così grande, forse, fu per espiazione. Press’a poco un ragionamento pensato così: il mio tesoro è così grande che, nessuno, neanche la luce può vederlo. Fuori, a titolo di espiazione, una bella finestra finta. Il mio padrone era un uomo ricchissimo. Perché suo nonno ed il nonno di suo nonno avevano, come rappresentanti del governo centrale, rubato tutto ciò che gli era stato possibile rubare. Oltre ad essere ricchissimo era anche uno degli uomini più brutti di tutto il paese. La sua bruttezza era tale che anche per gli animali di casa ci volle un po’ di tempo per abituarsi a vederlo d’improvviso, senza spaventarsi. La madre morì, dicono di crepacuore non appena nacque, il padre già non c’era più. Fin dai primi anni di vita era ancora talmente ricco che la sua bruttezza, nonostante desse il mal di testa a chi lo vedeva per la prima volta, non gli pesava granché. Tuttavia nessuno volle sposarlo e rischiare di avere un figlio così orrendo. Anche quelle donne che aveva comprato per farne delle mogli e farci dei figli, quando arrivavano la sera scappavano a gambe levate. Qualcuna ci restò, secca, perché non gli resse il cuore. Le donne dicevano di lui, “neanche per tutto l’oro del mondo”. Ricorse nella sua lunga vita a mille sotterfugi pur di trovare una ragazza, anche non più tanto giovane, che accettasse di vivere con lui. Così alcuni amici del suo enorme patrimonio, non amici suoi, lo accompagnavano ogni tanto in città, dove opportunamente mascherato e coperto riusciva ad avere fugaci e insignificanti rapporti con delle prostitute bendate. Anche a me, che sono una finestra finta, quando ava qui sotto, d’improvviso, dava i brividi; stavo per dire, faceva tremare i vetri. Una sera, mi raccontò, quando facemmo il patto che poi non sto mantenendo, una sera, non potendone più di quella ciurma adulante che gli impestava la casa, ma che gli era così utile a vivere, mi disse che intabarrato ben bene e non solo per la bruttezza, ma anche perché faceva un freddo cane, se ne uscì per la campagna. Non sapeva dove andare, a piedi e da solo, così che camminò fino a mezzanotte, quando giunse vicino ad una casupola scarsamente illuminata. Guardò dentro, dalla finestrina, e vide che c’era una ragazzina di una quindicina d’anni che piangeva, tenendo un papero morto sul grembo. Incuriosito, si avvicinò alla porta e scorse che quelli erano dei suoi contadini, dal nome del piccolo podere. Ben coperto, per non farsi riconoscere, e, poi per non farse vedere, chiese di poter entrare un po’ al caldo. Così seppe la storia di quel povero papero che era stato un compagno di giuochi di Margherita, e che era morto perché suo padre il giorno dopo lo voleva arrosto. Margherita piangeva la
triste sorte del suo amico papero; in quella notte, così buia e fredda, il mio padrone consolò quella dolce bambina fino quasi a farla sorridere. Senza mai farsi vedere. La lasciò, poi, con una coperta di lana sulle gambe. Se il suo spirito avesse potuto trasformare l’aspetto del suo viso, quella mattina Apollo si sarebbe ingelosito di lui. Insomma era felice. Tornato a casa, nel togliersi tutto il ciarpame con cui si era coperto, vide spuntare da una tasca un biglietto e lo prese non sapendo di chi fosse. Nel leggerlo, due grosse lacrime gli riempirono gli occhi, perché quel biglietto apriva per lui un mondo sempre talmente sognato da essere diventato un pianeta di altre galassie. Fu così che chiamò i muratori, e come impazzito progettò e fece costruire questo palazzo rosa, perché nel suo interno ci fosse una stanza con solo una finestra dipinta sull’intonaco e, dentro la stanza, in una teca di cristallo, chiuse quel biglietto, il suo tesoro. Poi arono gli anni e io son rimasta qui a custodire questo tesoro e forse hai ragione, Corrado quando dici: “Dolce e ineffabile è la stinta finestra azzurra in alto sotto il tetto con le stecche tirate come piaghe d’organetto sulla parete funebre dipinta.” Vuoi sapere quando è morto il mio padrone? Ormai tant’anni fa. Gli prese una brutta polmonite e quando sembrava già bell’e partito, il dottore gli mise una specchio davanti alla bocca, per vedere se aveva ancora il respiro, e in quel mentre lui aprì gli occhi, si vide allo specchio improvvisamente, e scoppiò in una grande risata. Rise così forte e tanto che bastò un colpo di tosse a levarlo dal mondo. Lo so che stai pensando, Corrado. Vorresti sapere che cosa aveva scritto Margherita al mio padrone? Nulla, ma cosa vuoi che gli avesse scritto in un bigliettino con quattro parole. Aspetta, ecco, via te lo dico, se non ricordo male, mi confidò che c’era scritto: “Grazie, ti voglio bene”.
Tutto, qui.
Maino
Maino lo conoscevano tutti. Per chiunque asse nella piazza centrale oppure, a seconda dell’ora, davanti alla stazione ferroviaria, l’incontro con Maino era inevitabile. In quei tempi, durante il giorno, i pochi taxi si tenevano al riparo nei garages. Fuori, all’ombra delle piante o nella piazza della stazione, erano in sosta le carrozze. Maino, caldo o freddo che fosse, era lì. Alla stazione, per un saluto ai treni che partivano. Quasi sempre si trattava di un saluto pieno di desiderio e di amarezza, perché certamente avrebbe voluto andarsene anche lui. Così ogni volta che un treno si allontanava lentamente sui binari, lasciava dietro di sé questa curiosa figura di un piccolo uomo, con i suoi pantaloni sempre troppo corti, quando addirittura non li portava alla zuava, con la sua giacchetta nera su cui spiccava una grande coccarda tricolore. Un gran fazzoletto bianco, sempre, gli pendeva dal taschino; e poi l’ombrello, un suo ombrello grande, verde, sempre tenuto sotto il braccio, col sole o con l’acqua. Partito il treno, si avviava con un aria molto sconsolata, a testa bassa, ciondolando, verso i cavalli e, tra i lazzi e le battutacce dei fiaccherai, si metteva a chiacchierare con le bestie; eggiava tra di loro, gesticolando, insomma intavolava sempre accanite discussioni. Allora, soprattutto d’estate, un po’ per scherzo, e un po’ per ripararli dal sole, sulle teste dei cavalli erano posizionati dei curiosi resti di cappellacci da donna o da uomo, spesso di paglia e qualche volta di panno, con residui di violette o di piume d’uccello. Da lontano si vedeva Maino, questo piccolo uomo, apparire e scomparire tra le loro teste, spesso immobili nel sonno, oppressi dal caldo e dalle mosche; ma lui non se ne curava, l’importante era poterli mettere a parte dei suoi segreti. Maino era matto. Era il matto del paese. Un matto buono che dimostrava la sua grande tolleranza nel non reagire mai alle prese in giro, qualche volta violente, sempre gratuite di grandi e piccini. Per noi, piccini, aveva una sorta di predilezione, e quando lo incontravamo, sempre stando dall’altro lato della
strada, quasi ne avessimo con un cauto timore, ci guardava urlandoci dietro se sapevamo cos’era il cielo. Questa, come altre domande, ci lasciavano spesso stupefatti e poi, ai nostri silenzi, rincarava la dose, chiedendoci che cosa andavamo a fare a scuola se non sapevamo dirgli cos’era il cielo!. Anche se scappavamo, ridendo e urlando a Maino che era un bel matto, ci restavano sempre in testa, irrisolte, queste strane domande. Giustino, un compagno di queste avventure, si azzardò di chiedere a scuola, alla maestra, che cosa avesse risposto se le avessero chiesto che cos’era il cielo. E, lei, a botto, subito pronta, rispose che, posta così, era una domanda stupida. Appunto, se diceva tra noi. Già, ma cos’era, il cielo? Non ricordo di aver mai visto Maino seduto. Se ne stava sempre in piedi, agli angoli delle strade, con l’ombrello verde sotto il braccio, salutando che gli pareva, non chi conosceva. Il suo modo di salutare era vagamente canzonatorio. Dalle grandi scappellate al sindaco od a qualche signora che gli attirava particolarmente l’attenzione, allo scattare sugli attenti, tenendo l’ombrello come un fucile, al aggio del vigile urbano o peggio ancora, al aggio dei carabinieri. Tutti lo conoscevano, e nessuno rispondeva al suo saluto, tranne noi ragazzi Noi ragazzi e i cavalli, che rallentavano il o e deviavano verso il suo angolo nell’incontrarlo. Quando c’era più tempo, al ritorno da scuola, qualcuno di noi gli si fermava vicino per scambiare qualche battuta ed alle nostre innocenti cattiverie rispondeva sempre con qualche strana pensata. Una volta, osservando tutte le spille da balia che teneva sul bavero sinistro della giacca e chiedendogliene il perché, ci disse che il mondo stava attaccato alla sua giacca con quelle spille; sarebbe bastata staccarne una perché l’illusione finisse, e il mondo scomparisse! Chi di noi era portato a far lavorare la fantasia abbinava subito l’idea di illusione e di mondo; così nasceva l’attesa di un nuovo possibile incontro con Maino quasi fosse possibile un chiarimento, una spiegazione. Maino viveva con sua mamma, una donna molto vecchia, e con un fratello, che lavorava in fabbrica. Il fratello era normale, e fu quando lo conoscemmo che si capì di colpo la differenza tra un matto e uno stupido. Maino era vivo, a colori, con gli occhi vivacissimi, in un viso largo devastato dalle rughe, montato su un
corpo piccolo, flaccido, e nel contempo scattante. Suo fratello aveva un fisico asciutto, il viso perennemente corrucciato, angosciato dalla vergogna di essere fratello di Maino. Tra i due, ed era poi il loro unico legame, c’era Dosolina, la loro mamma, che più volte aveva tolto Maino dalle mani del fratello, quando il poveretto non reagendo agli insulti ed alle invettive dell’altro, lo esasperava al punto di venire schiaffeggiato con violenza. Anche sotto gli schiaffi, Maino, il matto restava tranquillo; i vicini di casa raccontavano che sembrava quasi che Maino non sentisse il dolore, restando immobile a fissare il fratello, sotto una tempesta di pugni. Poi arrivava Dosolina e tutto finiva. Maino tendeva la mano a Dosolina e tutte e due ciondolando, camminavano infatti nello stesso modo, uscivano di casa. Lei si sedeva su una panca nell’orto, Maino, in piedi, vicino alla madre. Il fratello si chiudeva in cucina per annegarsi nel fiasco del vino. Dosolina appoggiata la testa alla vita di Maino, partiva con lui per un viaggio lontano, guardando insieme una vecchia casseruola in cui cresceva della salvia. Chi aveva il caso di vederli, così insieme, ne provava uno strazio profondo, perché capiva all’istante che da quei due esseri, così fuori dal normale, sortiva, a torrenti, un bisogno d’amore che non avrebbero mai né saputo chiedere né ottenere. Fu in quella posizione che anche noi ragazzi, in tre o quattro, li sorprendemmo un giorno che ci venne la curiosità di andare a vedere la casa di Maino. Appoggiati alla rete di recinzione dopo aver osservato per un po’ in silenzio quella strana coppia, attirammo l’attenzione dell’uomo; ma fu la Dosolina a vederci per prima e se ne abbuiò, come se avessimo interrotto un suo sogno. Maino invece ci venne incontro tutto ciondolante, ridendo, a suo modo, come fossimo suoi amici. In noi, un senso di timore, e di scherno, nel dire ad alta voce in maniera più o meno educata,“Buon giorno, signora” Maino che prese al volo il nostro atteggiamento, ci chiese se, alla fine, a scuola ci avevano insegnato cos’era il cielo. Fu così che, fra noi seduti sul ciglio della strada e Maino in piedi contro la rete, ebbe inizio uno strano dialogo in cui pensammo ci parlasse come forse parlava con i cavalli. “ Lo sapete – ci disse – cosa ho sognato stanotte? Allora, ve lo dico: stanotte ho sognato che Maino era un cavallo felice e tranquillo, che non sapeva d’essere un cavallo. Poi Maino si era svegliato di colpo e con grande stupore si accorse di essere Maino. Ero così confuso che non sapevo più se era Maino che sognava di essere un cavallo o un cavallo che sognava di essere Maino”. Lo guardammo, ridacchiando. “Perché la gente crede di essere sveglia solo quando sa dire questo è Maino e questo è un cavallo…. Ma loro non sanno che Maino e un cavallo, sono la stessa cosa”.
E noi lo si scherniva accennando, l’un l’altro con piccole gomitate, ai calzini sfondati del povero matto, che sbuffavano fuori dai pantaloni alla zuava. Il solito Giustino, che aveva più coraggio di tutti, chiese allora a Maino come mai rideva in continuazione, cosa aveva da ridere sempre. “Certo io sono felice perché sono buono a nulla. Una volta c’era uno che tagliava degli alberi per fare la legna per il fuoco, e tra tanti alberi tagliati ne aveva lasciato uno intero. Così gli chiesi perché, e lui rispose che la sua legna non era buona a nulla, come me, Tanto è vero che, grazie al non essere buono a nulla, nessuno mi fa del male! Rido, vivo e morirò alla fine della mia vita. Come un cavallo, come un albero inutile, perché loro mi capiscono” Maino si scostò dalla rete e si accorse che la Dosolina era rientrata in casa. Così guardandoci con quei suoi strani occhi dolci, borbottò qualcosa facendoci capire che stava diventando tardi e doveva andare alla stazione a salutare il treno per Firenze. Mentre ci stavamo alzando si rivolse di nuovo verso Giustino, dicendogli “Se tu sapessi cos’è il cielo sapresti come si fa a cacciare i pensieri cattivi che sorgono d’improvviso, inconsapevolmente. Ma te non lo sai, cos’è il cielo! E i pensieri inconsapevoli ti rincorrono fino a prenderti e così diventi cattivo.” Giustino che non era né paziente né tanto educato, lo guardò con la faccia a prendi in giro e poi sbottò “e va bene professor Maino, cos’è il cielo, diccelo!” Maino si guardò in torno come per vedere che non ci fosse nessuno e poi ci disse piano, piano “Il cielo, bimbi, siete voi! Capito?!” Lo guardammo allontanarsi, ciondolante sulle sue gambotte finché si girò a salutarci con la mano, e noi si rimase lì, come dei citrulli, pensando che Maino era proprio matto. A conferma di questo la mattina dopo, a scuola, la maestra accarezzando Giustino sulla testa, gli chiese ridendo se avesse alla fine scoperto cos’era il cielo e lui, che era il più coraggioso di tutti, non le rispose, volendo conservare quello che gli sembrava un gran bel segreto.
Svoltò l’angolo e…
Sparì. Come sparì? Sparì, scomparve, volatilizzato, pluff! Non lo si trovò più. Il fatto si svolse così: il Bertini stava guidando lentamente, nel traffico di prima mattina, e insieme alla moglie, ancora semi addormentata, ascoltava il giornale radio. Attraversando un incrocio a o d’uomo, notò all’angolo della strada, una cabina telefonica e ricordandosi improvvisamente di un appuntamento, accostò, non senza difficoltà, l’auto al marciapiede. Lasciando il motore e innestata la segnaletica della sosta momentanea, scese di macchina frugandosi nelle tasche alla ricerca di un gettone, svoltò l’angolo tra il viale dell’Indipendenza e via Lewis Carroll, infilandosi nella cabina telefonica. Così, una signora che restò stupefatta dalla sorpresa, e che poi fu la prima a dire, alla moglie del Bertini, di aver visto l’uomo, sceso dall’auto, entrare nella cabina telefonica ed, un attimo dopo, la cabina era vuota. Maigret si grattò un orecchio. Avrebbe voluto grattarsi anche l’altro, il sinistro, ma non ce l’aveva più. Un colpo di baionetta sul fronte russo. Meglio un orecchio, che tutto il resto. Prossimo alla pensione, lo chiamavano Maigret, per la sua straordinaria abilità nel risolvere casi impossibili. Il caso Bertini gli era stato affidato dopo che nessuno era riuscito a capirci qualcosa. Tra l’altro essendo il Bertini molto conosciuto per la sua piccola banca e venendo da un’antica famiglia della città, se n’era, su istanza della “vedova” occupato anche il Prefetto. E il Vescovo. Il Vescovo? Chiese Maigret. Sì, il Vescovo! Il luogo della scomparsa era stato in ato, ma lo era tutt’ora, considerato, dalla gente del quartiere, come una specie di triangolo delle Bermuda. Insomma un posto dove succedevano strane diavolerie; tra le altre quel telefono della Sip, in quella cabina, non si era mai guastato. E poi ogni tanto si sentivano delle risate così soddisfatte così piene di buonumore, che la gente che si trovava a are scappava, rabbrividendo, a gambe levate. Il nostro Maigret non fumava la pipa ma il toscano, che posava, e non volentieri, per mangiare o per altre occasioni che con l’andar degli anni si facevano purtroppo sempre più rare. Con il pacco dei giornali sottobraccio percorse a piedi Viale Indipendenza cercando l’incrocio con via Lewis Corroll.
Ma non lo trovò. Sentì stranamente un piccolo prurito all’orecchio sinistro, lo scacciò sorridendo ma ne riconobbe subito il segnale. Non particolarmente a conoscenza della toponomastica di quella cittadina si mise a cercare questo nome, prima alla “L” e poi alla “C”, e scoperto che sull’elenco stradale, in attraversamento di Viale Indipendenza c’era tutto meno che Carroll, ebbe la sua prima sorpresa. Il nome della via indicata su tutti i rapporti dei Vigili Urbani, primi ad intervenire, della polizia, dei carabinieri, della magistratura, era sbagliato. L’unica cabina della Sip in una strada che fe angolo con Viale Indipendenza era in via F.ll Cairoli. Allora, il Bertini, in che strada era sparito? Domanda che non aveva tutto sommato un grosso rilievo, quanto l’altra: dove era andato a finire? Nel prendere l’autobus per tornare in prefettura, Maigret, filosofeggiava con il vocabolario, pensando che tra le definizioni del verbo sparire ce n’era una assai piacevole che recitava press’a poco così “sparire = uscir di vista a un tratto”. Scese dall’autobus e ritornò subito in via Fratelli Cairoli. Si chiuse nella cabina della Sip: angolo delle Bermuda o no, quel telefono funzionava. Chiamò il centralino della Criminalpol e chiese che controllassero se c’era o no una via intestata a Lewis Carroll e che poi mandassero a prelevarlo. Dove? Gli chiesero. In via Lewis Carroll rispose il nostro Maigret, grattandosi l’orecchio che non aveva. Fu quel gesto inconsueto che lo mise di nuovo in allarme. La via era deserta. Il ricevitore del telefono nella cornetta, e lui, questa poi, sentiva ridere. Accese il pezzo di toscano che stringeva tra i denti per darsi un po’ di coraggio e, sbirciando all’intorno, cercò di non essere gabellato da qualcuno in vena di scherzi. Tuttavia ebbe la chiara percezione che il fragore delle risate provenisse dalla parte alta della cabina; così mentre cercava con le mani un qualche piccolo trasmettitore, appoggiò le dita, distrattamente, su una sottile decalcomania. Le ritrasse di colpo. Aveva percepito una leggera aspirazione proveniente da quella parte del vetro. Guardò con attenzione, ma il vetro, tranne che per la decalcomania era intatto. Riprovò con la mano e riavvertì di nuovo una corrente d’aria che tentava quasi di risucchiarlo verso la piccola immagine. Questa poi, si disse sottovoce il Maigret e, con assoluta noncuranza soffiò con forza una quantità di fumo del toscano verso quella decalcomania appiccicata sul vetro. Il fumo fu aspirato in un baleno, e di nuovo risentì quelle grosse risate, intervallate questa volta da robusti colpi di tosse. Non aveva capito chi era, dov’era il nemico, ma s’era inventato un’arma! C’era riprodotto, sulla decalcomania, un gran cancello verde in ferro battuto,
sorretto da grossi pilastri di sassi e cemento. Si apriva su una strada di campagna, tipica toscana, costeggiata di alti cipressi, avvolti alla base, di glicine folto: un ritrattino alla macchiaiola e nient’altro, non una scritta, niente che indicasse di cosa si trattava. Vi avvicinò un occhio per vedere un po’ da vicino, e si ritrovò improvvisamente al di là del cancello verde di ferro battuto. Nel girarsi di scattò, pronto per una immediata ritirata, si ritrovò di fronte ad un’altra piccola decalcomania nella quale era dipinto l’interno di una cabina della Sip. Maigret aveva vinto molte battaglie, e fu proprio questa memoria di sé che lo spinse in avanti, su per quella stradicciola in salita, tra i cipressi ed il glicine. Aveva scoperto dov’era finito il Bertini? Tastò col gomito l’arma che teneva alla cintura dei pantaloni e tenendo a portata di mano la propria tessera di riconoscimento quale commissario di polizia, si avviò lentamente verso la cima della collinetta. Sembrava un normale podere toscano, popolato di ulivi e di vigne, molto aperto verso il cielo di un azzurro intenso. Da li, si intravedeva un fondo valle avvolto in una nebbia bianco rosa spessa e impenetrabile. L’aria, nonostante il suo sigaro, era buona da respirare, molto buona. Arrivò così ad un portoncino di legno verde massiccio: all’apparenza assolutamente chiuso. Cercando un camlo, un citofono o qualcosa di simile, notò un grosso manifesto appeso ad un muro laterale e, incuriosito più che altro dall’aumentare del prurito all’orecchio mancante, si predispose con circospezione alla lettura “Caro amico, - v’era scritto – questo piccolo portone verde segna il confine tra lo stato ed il non stato. Per te, che sei entrato dal valico Lewis Carroll è predisposta una camera di decompressione nella quale sosterai il tempo che riterrai necessario. Solo all’interno della camera troverai le istruzioni per l’uso. Sappi tuttavia che la concettuale e sostanziale differenza tra il mondo dal quale provieni e quello in cui stai per entrare è la seguente: nel nuovo mondo non esiste denaro, e niente di tutto ciò cha a questo è connesso. Per entrare devo solo inserire nell’apposita fessura laterale tutto ciò che hai con te ed a cui dai valore: documenti, patenti, tessere di partito e di club, fotografie, soldi, ori e gioielli, occhiali, armi, e nel tuo caso, per piacere, anche i sigari. Un attimo dopo che la macchina avrà trasformato tutto in un mazzolino di margherite, tenendo il suddetto con la mano sinistra, aprirai con la destra il portone di legno ed entrerai nella camera di decompressione. Buona giornata da parte del non esecutivo governo del non stato.”
Al commissario Giovannoni Mario, in arte Maigret, tre anni dalla pensione, trentasette anni di servizio nella Polizia di Stato, di cui una parte nei servizi segreti, non prudeva più l’orecchio mancante. Si toccò qua e là, come faceva sempre nei momenti più angosciosi per accertarsi di essere sveglio, e decise che se fosse stato un bluff, lui sarebbe andato a vederlo. Si vuotò le tasche, mentre quella specie di flipper in cui infilava via via tutto ciò che aveva in tasca, gorgogliava come una matura signora prossima ad un dolcissimo orgasmo. Il Giovannoni Mario, con i sentimenti in tumulto e un mazzolino di margherite nella sinistra si ritrovò davanti al portone di legno che aprì ed oltreò con o esitante. Se quello era uno scherzo e i suoi documenti andati distrutti, raccontare cosa gli era accaduto per riaverne i duplicati sarebbe stata un’impresa degna di Ercole. S’era quasi dimenticato del Bertini quando lo vide e lo riconobbe, seduto in una delle prime file di quello che gli sembrò, a prima vista, un immenso cinematografo. Bertini aveva il volto ilare, si massaggiava le guance e insieme, guardando fisso uno schermo apparentemente bianco, si asciugava le lacrime che dal ridere gli scendevano copiose dagli occhi. Al Maigret parve che nel cinema ci fossero altre persone, alcune uscivano, altre entravano. Non si sentiva nessun altro rumore se non sommerse risatine, o improvvisi scoppi di risa, alcune nervose, altre aperte, liberatorie. Il mazzolino di margherite si stava piano piano trasformando in un sofisticato depliant. Aveva buttato via anche gli occhiali per leggere, cerchiati d’oro! E ora? Ora leggeva benissimo, senza! Caro Mario, ti diamo brevemente le istruzioni per usufruire della camera di decompressione. Ti preghiamo prima di tutto di voler formulare questo pensiero “Se il denaro non esistesse, come in realtà non esiste, voglio rivedere la mia vita su quello schermo per capire perché l’ho vissuta così. Ancora una preghiera, caro Mario, vogliamo informarti che durante la visione del tuo film ognuno degli aspiranti cittadini del non stato vede il proprio fil delle sua vita. Deciderai se restare con noi o tornare indietro nel tuo mondo. Osserva il risatometro che trovi vicino alla tua poltrona. Se la pallina si posiziona sul verde, sei il benvenuto. Oltre la camera di decompressione troverai un grazioso ricevimento e le non istruzioni per vivere felice nel non stato. Buon divertimento.” Nel sedersi, vide il Bertini, in maniche di camicia, avviarsi verso l’entrata del non stato, mentre sullo schermo appariva la testa ridente del leone della Metro Goldwin Mayer che presentava il palcoscenico del film della vita di Mario
Giovannoni, in arte Maigret …. Fu deciso il silenzio stampa. Il commissario Mario Giovannoni, in arte Maigret, incaricato delle indagini per la scomparsa del Bertini….dopo aver chiesto telefonicamente di essere prelevato in via Lewis Carroll…..era sparito.
Un caldissimo settembre
Era così caldo, ma così caldo che non resistette e si tolse i jeans. Sdraiato sul suo lettuccio, nella penombra delle persiane socchiuse, si guardava le gambe stecchite e talmente bianche da far spavento! Si guardò i piedi: un po’ meno bianchi per via della polvere …. sfilandoli dai sandali, li agitò in aria. In fondo erano solo quarant’anni che faceva il guardiano del cimitero, e poco di più che era entrato nei scani. Per tutta la mattina era andato su e giù per i vialetti del cimitero per controllare le lampadine sulle lapidi delle tombe e su quelle dei forni. Una bella camminata! Con quel caldo infernale. Oddio, lui non avrebbe dovuto nominare l’inferno, visto che per di più era domenica. Tutto restava chiuso e tutto in ordine. Talmente chiuso che non aveva nemmeno aperto la chiesetta, e non gli era neppure ato per la testa di dire messa. Lo so - si disse – avrò fatto un altro peccato, ma con questo caldo infilarsi in quella cappellina semi sotterranea e dire messa, da solo, tutto bardato con tonaca e paramenti … senza fedeli, gli era sembrato inutile. Inutile?! Gli parve assopirsi …. Percepì la protesta dei suoi silenziosi amici. Si! Ragazzi miei, credete a me che sono prete da … tanti anni: anche se, per una domenica, non ascoltate la messa, non vi può far del male: Non certo un male maggiore di quello che avete commesso in vita! Ma … e la nostra redenzione? Obbiettarono le voci. Decise di alzarsi dal suo lettuccio. Aprì la finestrella che dava sulla distesa di tombe: sui tanti e ricchi monumenti funebri e vide, sorridendo pacificamente, quello che solo lui poteva vedere. In quella bellissima assolata giornata di una domenica mattina, con un caldo incredibile, a mezzogiorno in punto, erano tutti fuori a prendersi il sole! Eccola qui, pensò, la loro redenzione! Questo starsene fuori al sole! Senza fame, senza sete Allegri, ciarlieri e senza alcunché di brutto da pensare. Gli venne in mente un divertente aforisma di una scrittore di oltre cent’anni fa che invitava la gente a starsene tranquilla chè il peggio era ato! Nel loro caso era proprio così! Per loro, il peggio ed il meglio era ato! Tranne qualche nostalgico, di recente arrivo, che ritto su una qualsiasi tomba inneggiava canti alla vita appena lasciata. Alcuni se ne stavano sereni ad applaudirlo ma dal resto degli ospiti, erano ignorati completamente. Per altro tutti si erano felicemente organizzati. Uscivano dalle loro case, o casse, solo se era una bella giornata. Di notte, dormivano tranquillamente e se a qualcuno veniva in mente di giocare al
fantasma, era zittito subito! I più giovani avevano organizzato una serie di mini campionati, dal calcio al ping pong, al nascondino. Quest’ultimo era il gioco preferito dei ragazzi, riusciva benissimo a tutti. Le ragazze, che non erano molte, soprattutto quelle arrivate di recente, avevano organizzato una specie di cenacolo di letteratura. Dalle loro riunioni, ogni tanto si sentivano dei gridolini di falso scandalizzarsi solo quando erano le più giovani a ricordarsi o inventarsi le loro storie. Come è facile da immaginare parlavano quasi esclusivamente di uomini! In un luogo isolato del cimitero, circondato di alti cipressi, alcuni uomini che erano stati personaggi di una certa classe si erano organizzati mettendo su un circolo per il bridge, esibendosi in partite infinite e silenziose. Andavano di moda anche gli scacchi e il poker. A questo gioco partecipava volentieri frate Anselmo, era imbattibile! Lo invitavano spesso a giocare. Intanto era vietatissimo barare! In particolare andare alle spalle di un giocatore oppure entrare di soppiatto in mezzo alle carte degli avversari … già perché frate Anselmo era l’unico vivente e si divertiva un mondo stando in mezzo ai suoi morti! Li conosceva uno per uno: molti di loro li aveva dovuti consolare ed aiutare ad abituarsi a vivere così. Si fa per dire! Praticamente governava una tribù di gente che non c’era più, contribuendo alla loro serenità nel dare loro, con la sua costante presenza umana e viva, la sensazione di esserci ancora. Senza considerare il fatto, di per se incredibile, che lui era l’unico a vederli, a parlarci in un continuo colloquio amichevole e sincero. Tranne quella domenica di metà settembre, così calda, ma così calda, che Anselmo non aveva voglia neppure di mettere un dito fuori dalla sua casetta. Persino il rumore delle rare automobili, là fuori, per strada, gli faceva caldo! Restò per un po’ ad osservare, attraverso una persiana socchiusa, cosa combinavano i suoi morticini. Belli loro! Pensò, caldo non ne soffrivano certo! Proprio sotto la sua finestrina un gruppo di antichissime ospiti, lavoravano a maglia, ciaccolando tra loro. Quante volte gli avevano raccontato le loro storie! Una di queste era nel cimitero da sempre, una decana. Aveva deciso: non avrebbe pranzato e se ne sarebbe stato tutto il giorno sdraiato a letto, senza brache, col ventilatore . Gli parve di stare per assopirsi …. Anzi, no! L’avrebbe tenuto spento il ventilatore … consumava troppo! ..... Forse era nel dormi veglia, quando sentì suonare la camla sopra il grande cancello del cimitero. Non ci fece caso. A mezzogiorno del 18 settembre del 2050, chi vuoi che venga, di domenica, al cimitero … che oltretutto, come si poteva leggere sull’orario ben esposto, era chiuso! La camla risuonò di nuovo. Anselmo fece per raggomitolarsi sul suo lettuccio. Neppure la curiosità di andare a vedere se per davvero c’era qualcuno che chiedesse qualcosa. La camla risuonò, ancora più a lungo. A questo punto, pensò che ci fosse un
pellegrino bisognoso di aiuto e, caldo o non caldo, doveva andare a vedere. Infilò rapidamente il saio senza nemmeno mettersi le mutande: malamente barcollando sui sandali, aprì il portoncino che dava sull’ampio piazzale d’ingresso del cimitero. Oh!, questa?! Una donna anziana, con un mazzolino di fiori, lo salutò agitando una piccola mano. Vuoi vedere, si disse, che adesso i morti vengono qui da soli, quando sono ancora vivi! Tentò di dire che il cimitero era chiuso. La signora gli disse rapidamente che veniva dal nord Europa per parlare con un amico e nel pomeriggio … doveva ripartire. Un amico? Qui!? Si avviò nel caldo e si accostò al cancello. La signora era ben viva e faceva intravedere, tra le rughe del volto, un’antica bellezza. Notò le mani, stranamente poco curate, con le unghie mangiucchiate! “ Un amico, signora? Qui ci sono solo io, frate Anselmo, e per il resto questo è un cimitero. Oggi, domenica, chiuso” “ Si! Ma l’amico che cerco, che desidero venire a trovare, e come può vedere, gli ho portato due fiori, so che è qui! Oggi è il 18 settembre e compie gli anni! Molti anni. Lo so per certo!” Frate Anselmo era oramai in ballo! Aprì il cancello. Si offrì di accompagnare la signora, dopo aver chiesto il nome dell’amico. Boh! Pensò, e si diressero verso la cappella della famiglia Sandri. Niente poteva più meravigliarlo. “E’ sicura, gentile signora?” Il caldo era soffocante; lo scricchiolio della ghiaia sotto i piedi del frate e della signora sollevò l’attenzione di tutti gli ospiti che si accalcarono meravigliati lungo il vialetto. Anselmo fece loro un segnale rassicurante e lentamente ognuno tornò alle sue occupazioni. La signora toccò con la mano la manica del saio di frate Anselmo e con voce leggermente preoccupata chiese se erano soli. Se c’era qualcun altro, oltre loro due. “Qui è pieno di gente, cara amica! Ma sono tutti calmi e sereni. Forse lei li ha sorpresi! Può dirmi il suo nome, cara signora!” ”Mi chiamo Paola ed ero tanto amica di uno dei Sandri.” “E quale? L’ultimo che è qui, è arrivato tanti anni fa! Come poteva, se è lui, essere suo amico? Lei era una bimba e lui era già vecchio!”
La signora non rispose. Si stavano avvicinando alla cappella dei Sandri. Uno di loro salutò il frate agitando un braccio; gli altri, erano in tutto una cinquantina di persone, se ne stavano sdraiate a prendere il sole; chi su vecchie sdraio di vimini, chi appoggiate su altre tombe e un po’ di loro direttamente sul tetto della cappella. Il più anziano dei Sandri si alzò dalla sua scarrettata sedia di paglia e togliendosi il sigaro di bocca, sbuffando fumo, si avvicinò alla anziana signora per guardarla bene in viso. La signora non poté reprimere un colpo di tosse! “Ma, signor custode, chi fuma il sigaro?! Sarà mica lei?!” “Non si preoccupi signora! I frati non fumano” Rispose il frate, agitando un dito minaccioso sotto il naso dell’anziano Sandri. “Mi dica cara signora Paola, chi è il Sandri che cerca?” “Si chiama Max, Max Sandri!” Si zittirono tutti! A far star zitti i Sandri non c’era quasi mai riuscito neppure frate Anselmo. L’anziano Sandri bisbigliò qualcosa in un orecchio al frate. Molti degli ospiti delle cappelle vicine di accalcarono intorno alla famiglia Sandri, tutti curiosi di vedere come sarebbe andata a finire. Max era l’unico ridotto in cenere, di solito agitatissimo perché aveva lasciato detto che voleva essere disperso in mare e non infilato in un vaso! Il frate si avvicinò alla porticina in ferro battuto e tirata fuori la chiave da un mucchio di altre chiavi e chiavine, entrò nella cappella; si avvicinò al piccolo altare seguito dalla titubante e intimorita anziana signora. Prese dall’altare una coppa di peltro e porgendola alla signora le disse “Ecco, signora, qui dentro c’è il suo Max”. La reazione della signora fu stupefacente! “Allora ce l’hai fatta, a farti cremare! Non mi hai dato retta, non mi hai creduto! Brutto ragazzaccio!” E, sorridendo dolcemente, chiese se poteva sollevare il coperchio del vaso in peltro! Lo sollevò. Immediatamente si levò, dalla piccola urna di peltro, un urlo che per poco non scrollò dalla paura l’intero cimitero. Tutti l’udirono, tranne la signora
che stringeva teneramente la coppa di peltro. Lei non vide cosa uscì d’improvviso dall’urna, tranne il buon frate e tutti gli altri Sandri, che ne restarono meravigliati, si potrebbe dire, a bocca aperta! Stavano per salutarlo tutti in coro, quando dalla diafana figura ne usci un altro urlo “Paola!!!” Questa volta il bravo frate Anselmo non resistette e chiese al Max Sandri come aveva fatto a riconoscere la sua amica, in questa anziana donna. ”Ma quale anziana?!”Urlò nuovamente Max.”Non vedi come è giovane e bellissima!” “Abbassa la voce, tu sei in un cimitero!” suggerì Anselmo. “Sai che m’importa! Guarda, questa ragazza è Paola! La riconoscerei tra mille anni … oh! Anni?! Paola, ma come hai fatto a restare così giovane e così bella?! Non è possibile!” L’anziana signora, ignara di questo chiacchiericcio, aveva il bel viso rigato di lacrime; se ne stava ferma, con l’urna in mano, a fissare la cenere, nell’opprimente caldo della cappella. Tra le lacrime pensava a quanta strada aveva fatto per venire a trovare il suo Max! Voleva raccontarsi e fargli gli auguri per il suo compleanno! E si, che lei gli si era raccomandata che non si fe cremare! Glielo aveva detto … se no … se a lei fosse venuto in mente di venirlo a trovare per parlargli, per averne un consiglio … no! No, non avrebbe mai accettato un consiglio! Avrebbe voluto solo parlare con lui, raccontarsi.. Non aveva bisogno di consigli, sapeva di poter sbagliare quasi tutto da se! E così aveva fatto! Aveva sbagliato tanto, o quasi, nella sua vita! Ora, singhiozzava dolcemente. Poi, con le lacrime agli occhi pensò che tra quattro ossa e un po’ di cenere, che differenza c’è!? Frate Anselmo, che forse aveva capito, presa una sedia, fece accomodare la signora; mentre Max molto commosso si avvicinò ad Anselmo e gli chiese come fosse possibile che quella ragazza fosse ancora così bella e così giovane! Anselmo, che si era reso conto, stranamente, di aver capito, gli chiese se sapeva chi fosse quell’anziana signora! Anche gli altri Sandri, ammutoliti per l’emozione di quella incredibile visita, cercavano tra loro di capire cosa stava succedendo. Max scuoteva la testa, e rivolto al frate chiedeva con insistenza come fosse possibile che quella ragazza, dopo tanti anni fosse ancora così bella e
giovane. Anche Anselmo di stava commuovendo! Spiegò a Max che, nonostante la sua incompetenza negli affari di cuore, lui, povero frate che non aveva mai amato, che non sapeva niente dell’amore, forse, stava rendendosi conto che quella straordinaria lente di ingrandimento che è l’amore, fa vedere le cose solo come si vorrebbero vedere. Per questo Max non vedeva com’era in realtà questa strana signora. Gli occhi con cui la guardava erano gli occhi del cuore! La riconosceva per la ragazzina che aveva ammirato, tanti tantissimi anni addietro. Max si accucciò vicino a Paola e lei, sottovoce, nella sua strana lingua del nord Europa, cominciò a raccontare lungamente cose della sua vita, cose che nessuno li intorno capiva. Mentre le cadevano belle lacrime sulla cenere di Max, lui reclinò il capo sulle sue ginocchia, ricordando il calore dei loro abbracci. Quanto tempo restarono così? Boh! Anselmo li guardava con dolcezza! Lui non aveva mai amato, non sapeva cosa si sentiva ad innamorarsi: lasciò are il tempo, con cui da sempre non aveva gran rapporto! Si riscosse sentendo la voce di Paola. “Padre! Posso chiederle una grande cortesia?! Le sarei proprio tanto grata se mi permettesse una piccola cosa ….” “Sono un frate, signora, mi dica pure. Cosa posso fare per lei?” L’anziana signora aprì la sua borsa e ne estrasse una scatolina piena di pillole. La vuotò nella borsa, e porgendo la piccola scatola al frate chiese se … Max annui sorridendo! “Dai, frate, dille di si!” Una parte di se sarebbe andata via di lì e avrebbe vissuto vicino alla sua Paola! Altro che essere disperso in mare! Anselmo si tirò su la manica del saio e infilata la mano nell’urna che conteneva le ceneri di Max, ne tirò su un piccolo grumo e lo depose nelle scatolina delle pillole. La signora prese la mano al frate e ne baciò il palmo …..
Quel settembre, quella domenica, quel 18 settembre, faceva un caldo, ma un così grande caldo …. che l’unica scelta possibile era dormire, sognare, forse ….
Oh! Bella! E questo?! Si girò nel suo lettuccio …..che sia già il tramonto? Aprì gli occhi. Dio! Allora ho dormito! E … Paola, Max, i Sandri, tutti gli altri ….Che sogno! E’ colpa del caldo, di questo caldissimo settembre.
Diario di un medico di paese
L’abitudine
L’abitudine di fissare, di incasellare un pensiero, una riflessione, determinando il mese, l’anno, il giorno ed alcune volte l’ora in cui mi è venuta una tal idea. Come se credessi nel tempo: infatti credo nello scorrere del tempo come credo in qualsiasi altra cosa inutile. Il tempo che a è un’invenzione utile per i venditori di orologi. Tuttavia, oggi mercoledì 28 luglio 1937 alla dieci di sera, sono qui, vestito con un paio di pantaloni grigi di lana leggera, ho tolto il colletto alla camicia, allentate le bretelle e, dal momento che sono solo, seduto sulla mia preferita sdraio di vimini, mi sono levato anche le scarpe. Sto scrivendo, su una paginetta di questo sfilacciato e vecchio quaderno, stando tutto sbilenco! Così ho definito il tempo e descritto il mio abito! Cose inutili! D’abitudine. Sul tempo debbo aggiungere che c’è un cielo stellato, così pulito che mi fa quasi venir voglia di credere in dio. Uno qualsiasi. C’è un bel silenzio qui intorno. Sono sotto il portico, davanti all’orto, dietro casa. L’orto mi è più consanguineo del giardino davanti, con la sua grande palma, i vialetti, la ghiaia, la vasca dei pesci rossi. L’altro portico, all’ingresso della casa, con le sue poltroncine ben affiancate, dove nelle ore di visita sono in attesa, pazientemente, i miei clienti. I miei pazienti. Pazienti, ecco verrà senz’altro dal verbo patire, indicando coloro che soffrono, che patiscono un qualche male. Tutto questo perché sono un medico, infatti sto curando il mio inizio di asma accendendomi un sigaro, dopo aver superato l’amletico dubbio se tagliarlo a metà o no. Potrebbe l’odorosa foglia di tabacco soffrirne? Una domanda degna di Amleto! Forse credo che dandole fuoco e fumandola ne trarrà un qualche giovamento?! Deciso: l’accendo intero dopo averne mordicchiato e spuntata la punta più sottile. Buono. Sono convinto che parte della bontà e dell’afrore del toscano sia originato dal piano d’appoggio che usano le sigaraie di Lucca per arrotolarne la foglia. Corre un proverbio d’antica saggezza popolare che recita come se ti si desse il caso di trovare un toscano buono, bisogna fumarlo. Mi hanno detto, e spero sia vero, che le sigaraie usano l’interno delle cosce su cui adagiano la foglia del Kentucky, per arrotolarla e costruire il sigaro. Posti e nomi di sicura aspirazione ironicamente voluttuosa. Di voluttà non ne ho quasi più memoria; e si che, forse, sono quasi vecchio, anche se non mi sembro tale, per ora. Siamo nel 1937 appunto, trentasette più ventotto, fa sessantacinque. I miei anni, una nuvola di fumo
azzurro sta sollevandosi sopra la mia testa e vorrei mi trascinasse con se. Ovunque.
Ricapitoliamo: mi sono laureato poco prima del Natale del 1897, faccio il medico da più di una trentina d’anni; sono dolcemente sposato, così dolcemente che di più non si può. Mia moglie è dolce e silenziosa. Bella. A volte, un fantasma: brava, ordinata, anche imperativa nel suo silenzio. Abbiamo avuto quattro figli in quasi quarant’anni anni di matrimonio. Il primo fa l’avvocato ed ha un figlio, la seconda si è sposata e vive, con mio grande dolore, al nord Italia; il terzo è pilota all’Ala Littoria, è sposato ed ha due figli, vive in Cirenaica; l’ultimo segue la mia strada e da poco è medico. Non credo mi manchi niente da non potermi dire o sentirmi felice e ben realizzato. In questi anni oltre ai figli, ai nipoti, mi sono costruito questa casa che amo molto, così come amo il mio lavoro e dai miei pazienti sono amato e benvoluto. Spero e credo. Direi, con una punta d’orgoglio, che mi circondano di attenzione e di affetto. Certo che tutto ciò che ruota intorno alla mia casa, al mio paese, ciò che sta accadendo da anni a questa bellissima terra di affascinanti memorie, non trova né la mia comprensione né tanto meno la mia partecipazione. Anzi smessi i panni che indosso malvolentieri di una educata bonarietà di giudizio tutto questo sbandierio di cenci neri, fasci e croci uncinate e tristemente colorate, da impero da cattiva barzelletta, mi riempie di stordito schifo. Leggo sui giornali come il capo del governo che da anni, dall’inizio della sua avventura, si fa chiamare con un ridicolo appellativo di estrazione latina, si esibisce in discorsi che se va bene tra qualche anno provocheranno, riascoltati, colossali risate e, se va male, caanno tanti inutili dolori. Questo cielo stellato mi ripaga di tutte le mie preoccupazioni! Ma non del tutto se penso al futuro dei miei figli, dei loro figli quando, se non ci sarà un ravvedimento generale, saranno costretti a confrontarsi con un mondo esterno più libero, più democratico. Sempre che democratico e libero siano nei fatti compatibili. Ora mi arresteranno per questa bella pensata! Sono ati parecchi anni da quando ritrovarono quel socialista di Rovigo, massacrato di botte e da allora si è andati sempre peggio. Pensare che era assai più giovane di me.
M’è venuto in mente stamani. Cercavo dei documenti nei cassetti sotto la libreria, quando ti ho ritrovato! Ho sorriso riprendendoti in mano, il mio diario!, o meglio le minute delle relazioni che come capitano medico e responsabile di un ospedale al fronte nell’ultima guerra, l’Ospedale di Guerra n°61, mandavo al comando generale. Si dice che complessivamente quella guerra che ora chiamano mondiale causò dieci milioni di morti e venti milioni di feriti. Non sono bastati. Così in nome delle più straordinarie idiozie si è continuato ad uccidere. Mi vengono i brividi se penso a cosa è successo e sta ancora succedendo in Spagna di questi tempi. E forse, anzi senza il forse, si continuerà ad uccidere così come hanno fatto gli sgherri di chi oggi detiene il potere politico in Italia e nel mondo, con il tragico assenso di tutte le religioni predicanti pace ed amore, Ho la tentazione di invitarmi a pensare ai fatti miei e della mia famiglia, ma non riesco ad escludere dai miei interessi quelli di gente come me che hanno gli stessi problemi, irrisolti. Ci stanno insegnando, o meglio ci hanno insegnato per secoli a non essere ed a non voler riconoscerci uguali. Fedeli e infedeli, Due grandi categorie. False tutt’e due, e soprattutto l’una per l’altra. E prima ancora altre divisioni: gli uomini e le donne. Quasi avessimo destini diversi. E gli schiavi, quelli antichi e quelli moderni. Schiavi di catene o di ideologie che stravolgono gli umani facendo loro credere di appartenere a razze diverse. Per fortuna la mia Patria sembra che non si stia avviando sulla pericolosa china di uno stupido razzismo. Ma non è detta l’ultima parola. Abbiamo vissuto e viviamo in un clima di così appiattite idiozie che se non ci si sta attenti si perde quel senso critico che ci permette o ci avvia sulla strada del riconoscimento di ciò che è la natura dell’uomo, di ciò che è giusto solo se è giusto per tutti e dovunque. Uno dei grandi padri del cattolicesimo dice che l ‘uomo può solo scegliere che tra un maggior o un minor bene. Non ci credo, Sarebbe come arrendersi alla pigrizia della propria stupidità, alla non volontà della ricerca di una soluzione alla cattiveria umana. A proposito, mio diario ritrovato, rispondimi! Spiegami!
Quali suggestioni
Quali suggestioni mi assalirono, da quali emozioni fui travolto quando decisi di arruolarmi volontario nell’esercito allo scoppio della guerra? Avevo una decina d’anni di professione, una buona e vasta conoscenza della gente del mio paese, la mia famiglia e la mia casa già pronte per essere felicemente vissute e mi vado ad arruolare. Forse avrò pensato che quella sarebbe stata l’ultima guerra, che togliendo di mezzo oligarchie tradizionali e nefaste, che si sono da sempre auto assolte vantandosi esecutrici del volere di un qualsiasi dio e dei loro popoli, spesso quasi totalmente analfabeti, avrebbe necessariamente fatto nascere governi pronti ad intraprendere la strada di una mai realizzata democrazia, distribuendo più giustizia a tutte le genti. Il risultato è stato che mio fratello, repubblicano, mazziniano e massone, se ne è dovuto fuggire in Brasile se non voleva essere massacrato di botte dai nuovi e piccoli potenti di paese. E’ successo che ad una sola autorità, più o meno permeata di superficiale ed unilaterale eticità, si sono sostituiti mille ignobili capetti che da un solo grande capo ricevono gli ordine per sopprimere chiunque non la pensi come loro. Mio fratello! Ha messo su a San Paolo una rappresentanza di libri e edita un giornalino scritto metà in portoghese e metà in italiano, dal titolo “Il dovere”con sotto titolo ”periodico di propaganda repubblicana” Credo che più onesto ed idealista di lui ce ne siano pochi! Debbo aggiungere potentemente anticlericale. Ricordo che nel numero del Natale del 1934 ha pubblicato la ricorrenza della nascita di Gesù.Cristo come se fosse la nascita di uno dei tanti importanti personaggi, ma qualsiasi. Sono d’accordo con lui. Anche se questo dei preti è un tasto che non tocco volentieri, perché non li capisco, i preti intendo. Hanno, meglio hanno avuto in mano uno dei più incredibili e fantastici messaggi che mai l’umanità mediterranea abbia potuto avere e si sono distinti per l’assoluta incoerenza con la quale, storicamente, ne hanno propagandato e realizzato ogni punto e virgola. Un po’ come il mio stato maggiore dagli altisonanti discorsi che si riassumevano in un armiamoci e partite. Hanno commesso i peggiori crimini forse spacciandosi come martiri di grandi sacrifici, poiché peccavano loro per la salvezza di tutta l’umanità!. Ho poi un sospetto: essi credono che la rivoluzione russa, idealmente propagandata e venduta come una restituzione di uguaglianza e libertà, avrebbe potuto essere stata una concorrente al loro preteso cristianesimo, fondando una sorta di religione laica. Sono stati degli straordinari illusi. Oppure, ed è più facile che così sia stato, l’hanno scientemente usata, prendendo le barbarie consumate dai rivoluzionari contro qualsiasi chiesa, come manifestazioni di estrema inimicizia nei loro confronti; e più quelli distruggevano chiese, più le chiese si proclamavano martiri della fede. Ignorando, o tentando di far dimenticare, come le varie chiese avessero nei secoli strumentalizzato la credulità della povera gente. La rivoluzione del
bolscevismo non ha portato per ora a niente, se non a creare una dittatura che sta causando straordinarie povertà, così come la loro supposta cristianità non ha portato in duemila anni di vita quasi a niente rispetto a ciò che Matteo racconta fosse stato detto dal Cristo, parlando dalla Montagna. Salvo straordinarie opere d’arte. Solo lotte, massacri per l’affermazione di un potere quanto mai innaturale e strampalato la cui forza si basa sull’aver istigato un sciocca e tragica paura dell’al di là. Come se oltre la vita che viviamo esistesse un’altra vita, e per di più eterna! Uno spreco nell’al di qua! Nascere per morire e vivere in eterno: allora a che servirebbe il nascere!? Mi sto ponendo una domanda forse banale, ma non meno banale delle risposte che si ottengono! Oggi il potere per essere tale deve necessariamente avere un nemico da combattere, che non è certamente la povertà o le necessità primarie dei popoli che gli stessi poteri governano, ma un nemico che distragga e spinga la gente sui campi di battaglia. E questo nemico i russi, dopo aver sfruttato, diario permettimi, sputtanato il nome del socialismo sulle loro bandiere, cambiando nome alla loro nazione, lo stanno offrendo, già cotto, a tutto il mondo cosiddetto liberale e civile. Salvo allearsi alla bisogna con i propri nemici. Solo il nostro grande capetto in camicia nera poteva prendere l’abbaglio di credere nel loro socialismo quando, per primo, tra le nazioni del mondo li riconobbe come nuovi padroni della Russia. Quanto poi alla libertà del proletariato, che certamente i bolscevici non sanno minimante di cosa si tratti, si traduce in uno statalizzare qualsiasi forma di capitale privato, compreso quel mondo piccolo o grande artigianale o industriale, la cui varietà d’intenti è da sempre alla base e di una molteplicità di sfruttamenti ma anche fonte di una crescita generalizzata di benessere.
Mi faccio ridere!
Io, un povero medico di paese, giudico e discorro di fatti tanto più grandi di me, con la stessa presunzione dei terrestri che credono di essere gli unici esseri viventi e per di più al centro dell’universo. Bla, bla e poi bla. Sarebbe meglio che mi rimettessi leggerti mio vecchio diario, o quel che di te ne resta, di quegli anni infami della guerra, invece che continuare ad imbrattarti con
le mie idee! Quasi vent’anni orsono. Ho ancora negli orecchi lo scoppio delle bombe dei mortai, i lamenti dei poveri feriti nel mio piccolo ospedale da campo. Che orrenda carneficina, impossibile da descrivere e tuttavia, piano piano, mi sembrò di vivere una quasi normalità, come se ciò che accadeva fosse riportato da un lento fluire, ombre di se stessi proiettati fuori dalla propria capacità di capire l’esistenza ed i suoi perché. Era normale il morire, a vent’anni. Ed in tutto questo, col mio lume a petrolio, nella penombra di una stanzetta o sotto un tenda io redigevo con pedissequa pazienza queste paginette. Come se intorno a me tutto ciò che accadeva non mi riguardasse ed io fossi altrove, in un altro mondo, oppure chiuso in me stesso, così come in tanti di noi, abitassero tanti e diversi mondi. Mondi che mi sorridevano quando entrava nel mio studiolo, nel mio laboratorio la signorina Cesari. Michela Cesari, torinese, infermiera professionista, assegnata come altre dalla Croce Rossa, nelle retrovie della prima linea, con la qualifica di assistente del direttore del piccolo ospedale. La mia assistente. Mi sono spesso chiesto e continuo a chiedermelo tuttora perché una donna così giovane con tanta voglia di vivere, avesse scelto un lavoro così particolarmente rischioso e lo svolgesse con una cura quasi maniacale, come se per lei fosse una missione. Si dedicava con tanta ione alla cura di quei poveri militari feriti o moribondi, dimostrando essa stessa una sofferenza così reale che mi faceva sospettare che in tale partecipazione al dolore ci fosse la ricerca estrema del soddisfare chissà quale nascosto piacere. La osservavo quando con le lacrime agli occhi sollevava un lembo di lenzuolo per chiudere definitivamente alla vita il volto di un povero ragazzo appena deceduto. Le guardavo le mani affusolate scosse da un leggero tremore, gli occhi socchiusi e pieni di lacrime, il seno leggermente ansante sotto la divisa azzurra, quasi stesse per raggiungere un misterioso piacere. Confesso di essere stato cattivo nel far nascer da quegli atti pietosi una sensazione così perversa ma non riuscivo a spiegarmeli altrimenti, a capire i perché di tanta partecipazione, rispetto anche alla freddezza di tante altre signorine infermiere, e poi dei pochi medici che avevo con me nell’ospedale da campo. La signorina Michela Cesari aveva circa trent’anni, sottile e slanciata, abile
suonatrice di pianoforte, con una grande ione per Mahler. Fu quando trasferimmo il nostro ospedale dalle immediate retrovie in una antica villa patrizia nella campagna di Verona, che trovammo in una sala, al piano terreno un malconcio pianoforte e, con molta abilità, la Cesari lo rimise in condizione di suonare Poi accadde una cosa incredibile, che stento ancora a ricordare sia avvenuta realmente. Qualche settimana dopo l’adattamento ad ospedale della villa, in cui le giornate di lavoro proseguivano ad un ritmo pazzesco, quasi senza soste per il continuo afflusso di uomini feriti, dopo una lotta terribile per salvare un ragazzo con una operazione lunghissima, mi ritirai nel mio alloggio, assolutamente bisognoso di qualche ora di buio, se non di un breve sonno. Sentivo il bisogno di una sorta di purificazione e mi sdraiai completamente nudo sotto la coperta di lana La Cesari bussò alla porta della mia stanzuccia e senza dire una parola s’infilò sotto le mie coperte. Io ero nudo ed indifeso e lei si era completamente spogliata. Non ci dicemmo niente, quasi cercassimo in quell’atto una sorta di riparazione al male di tutti i giorni. Forse per la dolce violenza che facemmo a noi stessi quello fu un tentativo inconscio di creare una nuova vita, un mondo diverso da quello in cui eravamo costretti a vivere. Fu quella la sola volta che facemmo all’amore. Mi accorsi che Michela con il volto nascosto in una mia spalla stava silenziosamente piangendo. Le chiesi il perché di quelle lacrime. Mi rispose che si vergognava di essere stata anche solo per quel momento realmente felice. Al mattino seguente io ero il signor capitano, il signor dottore e lei la signorina Cesari. Certo che mi era capitato di guardarla con occhi meno professionali più volte, ma mai mi ero permesso, prima di quella notte e neppure dopo, di fare mentalmente allusioni al desiderio che la sua persona mi ispirava. In fondo era il 1917 e non il 1938! Forse aveva letto nel mio pensiero. Di certo non tornò più nella mia camera. Fu solo al momento di congedarsi definitivamente dal servizio e tornare nella sua Torino che, nel salutarmi, mi ringraziò, con particolare calore, “di tutto” chiamandomi per nome e non rivolgendosi a me con il mio grado di ufficiale, da poco promosso Maggiore.
Strana ragazza
Strana anche questa notte! Dopo tanti anni dalla fine della guerra, che fu poi definita “la grande guerra”, assai curioso che mi siano tornati alla memoria
questi fatti, rileggendo le mie poche riflessioni di allora in cui certo non avevo, ovviamente mai, accennato alla Michela Cesari. Naturale che per me l’episodio della Cesari fu importante, ma anche altri affiorano nel ricordo di quei giorni che definirei assolutamente irrilevanti nell’economia dell’universo ….o questa come mi è venuta fuori? Nulla di quello che avviene durante una qualsiasi guerra ha neppure un’ombra di rilevanza, né per l’umanità, né per ogni singolo individuo, tranne per chi ci muore, e per chi ne piange la morte. La guerra non risolve niente, non apporta beneficio a nessuno, se non piccoli o grandi spostamenti di potere, assunzioni di grandi ricchezze a quei pochi che non rischiano un bel niente, di sicuro porta aumenti indiscriminati di povertà. Al Tenente Renato Fantiscelli portò il naso rotto, un ematoma alla guancia destra, un forte mal di testa, ed un affronto “terribile” al suo orgoglio di ufficiale, lavabile solo da una sentenza del Tribunale Militare. Al soldato semplice Riccardo De Rossi, la fuga dall’Esercito, la denuncia per diserzione. Per cui se fosse stato catturato, sarebbe senz’altro stato fucilato. I fatti, come li rileggo dal mio brogliaccio. Il tenente Fantiscelli Renato si presentò a mezzanotte del 18 novembre 1917 in ambulatorio, accompagnato dal maresciallo Zunini Carlo, per farsi medicare e raccontò ai carabinieri che ”i fatti” si erano svolti così. Quella sera, verso le dieci, facendo un giro di ispezione in paese, entrò per un controllo nell’osteria Della Badia e notò, in un angolo buio, un militare seduto davanti ad una fiasca di vino; l’uomo guardava davanti a sé con lo sguardo vitreo dell’avvinazzato. Sul mio rapporto ho proprio scritto avvinazzato e non ubriaco, secondo la denuncia dell’ufficiale. Avvicinatosi al milite lo apostrofò con autorità invitandolo ad alzarsi e salutare. Pare che questo rispondesse senza muovere un muscolo con un enorme rutto! Al che il Fantiscelli, inorridito per quella mancanza di rispetto agguantò per il bavero il De Rossi ordinandogli di mettersi sull’attenti. Per tutta risposta il De Rossi, quasi volesse prendere la rincorsa, giratosi verso destra con il busto, sferrò un potente manrovescio sul naso aristocratico del tenente Fantiscelli che rovinò sul pavimento e, mentre il maresciallo Zunini soccorreva il malcapitato ufficiale, a detta dei presenti nell’osteria, il De Rossi usciva, con ironico o marziale, dal locale perdendosi nella notte. Le ultime notizie riportano la fuga o meglio l’accusa di diserzione nei confronti del De Rossi, e conseguentemente la denuncia al Tribunale Militare. I commilitoni del De Rossi,
interrogati sul perché di una tale comportamento dichiararono che il De Rossi, così come loro stessi, aveva ato gli ultimi giorni in trincea, dove avevano avuto un scontro alla baionetta con i soldati austriaci, ed in quello scontro molti di loro erano stati costretti ad uccidere dei nemici, in qualche caso, molto giovani, quasi dei ragazzi. Durante il rientro dalla prima linea il De Rossi aveva manifestato cenni di inquietudine e lamentava di vergognarsi di quello che aveva fatto. Pensai allora l’unica arma che il tenente Fantiscelli avesse mai impugnato fosse stata la sua penna, con un affilato pennino.
Note curiose
Le note che mi appaiono più curiose, rileggendole oggi, sono quelle relative agli aspetti amministrativi della mia direzione dell’Ospedale di Guerra n° 61. Vi furono durante la mia direzione diversi traslochi e quindi nuovi impianti di ospedali, vuoi per ragioni strategiche, vuoi per allargare, purtroppo l’ospitalità di quei luoghi. In allora, poi imperversavano le infezioni polmonari, la terribile tubercolosi, e fu necessario allestire reparti particolarmente isolati per cercare di curare quei poveri infetti. Il più delle volte il trasporto dei materiali, i sanitari, gli allestimenti chirurgici, ed anche il vettovagliamento sia per gli uomini che per gli animali avveniva con carri tirati da buoi. Raramente ci venivano concessi dei camion. I più servivano per il trasporto delle truppe, delle armi, di tutto ciò che era indispensabile per il fronte. Dovevo anche preoccuparmi della capacità di produzione lattifera delle mucche. Questi poveri animali, forse perché sottoposti al continuo rombo dei mortai, perdevano la possibilità di mantenersi ad un buon livello di produzione di latte ed era inutile tenersele vicino, per cui venivano spesso sostituite con mucche nuove, e le vecchie riportate nei campi, al riparo dalla stupidità umana. Ordini e contrordini, telegrammi e fonogrammi con disposizioni spesso contraddittorie, quando addirittura cifrati per cui c’era anche la perdita di tempo nel decifrare disposizioni di nessuna rilevanza. Ma che essendo cifrate, spesso in codici di chiarissima identificazione, davano lustro ed importanza a chi le spediva. Il 25 dicembre del 1917 appuntavo sul mio brogliaccio che per quel giorno “non
c’era niente da rilevare”. Nemmeno che fosse il giorno di Natale. Cosa che per me non significava niente, ma per molti degli uomini ai miei comandi era giorno di festa e di raccoglimento, soprattutto per chi aveva famiglia. Pochi allora capirono che l’entrata in guerra di un gigante come gli Stati Uniti d’America avrebbe risolto rapidamente il conflitto e spento gli appetiti dei vecchi imperi. Anzi avrebbe spento quasi tutti i vecchi imperi. Dall’assassinio inutile di quell’inutile principe nel giugno del 1914, che fu l’esca dell’incendio erano ati tre anni in cui erano morti, tra i tanti altri, persino decine di migliaia di uomini venuti dalla lontana India, sudditi dell’impero britannico! Un massacro le cui ombre stanno riapparendo all’orizzonte. Perché è su questi morti, come su tanti altri massacri perpetrati dal colonialismo inglese ed europeo che sta nascendo un assoluto bisogno di autonomia e di liberà nel mondo e nel grande continente indiano.
Mi diverte
Mi diverte, con un pizzico di amarezza, pensare alle grandi religioni orientali, non certo prive di estremismi, e confrontarle con la mentalità dei nostri preti guerrieri, Una sera mi venne a trovare nel mio piccolo alloggio il cappellano militare Don Federico Bassi. Bolognese, sui cinquant’anni, tarchiato con una corporatura più da pugilatore che da salvatore di anime. Aveva confessato tutto il pomeriggio tanti ragazzi e, ad alcuni di loro, somministrato l’estrema unzione. Mi raccontò di aver chiuso gli occhi ad un giovane diciassettenne, pregando con le lacrime agli occhi che la sua anima fosse accolta in paradiso. Lo ascoltavo con il rispetto che si deve ad un qualsiasi uomo di fede, quando improvvisamente cambiò tono di voce e con uno sguardo accusatore mi chiese cosa diavolo stessi leggendo! Seguii il suo sguardo e mi accorsi che aveva letto il titolo del libro che avevo appoggiato sulla sedia che mi faceva da comodino, vicino alla lampada a petrolio. Gli chiesi che male gli poteva aver mai fatto il buon Lucrezio. E se ne partì con un’invettiva contro questo cattivo uomo, pessimo poeta, vietato dal cattolicesimo, tant’è che si era persino suicidato. Restai di sasso: prenderlo per la tonaca gallonata dalle insegne del suo grado nell’esercito, e sbatterlo fuori dal mio alloggio, oppure parlargli a lungo di Lucrezio cercando di spiegargli la grandezza profetica del “De rerum natura”. Non feci ne l’una né l’altra: mi limitai a sorridere e lo invitai ad andare a riposarsi. Mi venne in mente una mia
lettura di quegli anni: un poema indiano che racconta della periodica guerra di due fazioni, parenti tra loro, per la gestione del potere. Il re di una di queste fazioni, credo di nome Arjuna, a in rassegna i diversi schieramenti sul suo carro, che è guidato dal dio Krishna e nel vedere tutti quei soldati, nemici tra loro, pregare, chiede al dio se non si turba nel vedere la gente che prega dei diversi da lui. Krishna risponde di no, non è per niente turbato perché gli uomini sono liberi di pregare qualunque dio, purché preghino con vera fede. Fantastico! Questa vicenda è raccontata parecchi secoli prima della nostra era.
Anche pregare, stanca
Questa notte ho l’impressione che tutto stanchi. Ho ricevuto una lettera da Juiz de Fora, in Brasile, da dove mio nipote descrive una situazione allarmante per tutto il Paese; da lì, dice lui, si esporta solo carne e si importa tutto! Poi mi scrive di essere preoccupato per la situazione in Europa dove secondo lui è in preparazione una nuova guerra. Non solo secondo lui. Dalla fine della cosiddetta prima guerra mondiale non abbiamo fatto altro che combattere, in tutto il mondo con armi di tutti i tipi; in Africa ad esempio sono state assoggettate intere civiltà, così come è stato tentato in Asia. Certo negli USA è finita da anni la carneficina dei nativi americani. Questo perché i cosiddetti indiani sono finiti, non ce ne sono quasi più. Io sto qui nella mia casa a rivivere l’ieri, raccontandomi l’oggi senza quasi preoccuparmi del domani mattina, che tutto sommato è quasi in arrivo. Chissà se la mia dolce consorte si è accorta che non sono ancora andato a letto! Forse si domanderà come mai stanotte non russo, non bofonchio e non tossisco come tutte le notti! In conseguenza di ciò domattina non mi rimprovererà di non averla fatta dormire. O forse si! Lo farà. Perché dovrebbe risparmiarsi il suo dolce brontolio. Ora poi che siamo rimasti quasi soli, in questa casa che è diventata sempre più grande, la vedo a volte aggirarsi per casa come se cercasse qualcosa di perduto. Forse la sua giovinezza, la gioia dei bambini; glielo chiesi qualche giorno fa, cosa stesse cercando e mi rispose sorridendo che non stava cercando niente, e aggiunse a voce più bassa che non c’era più niente da trovare.
Tra poche ore Nannina aprirà la porta che da sul giardino, entrerà sotto il portico e scoperto che non sono andato a letto si preoccuperà chiedendomi allarmata se sto bene, cosa è cos’altro s’inventerà. Nannina è con noi da quasi trent’anni. Stavo facendo una specializzazione a Pisa quando ce la presentò don Giomi: la ragazza era orfana e cercava un lavoro come cameriera. La ricordo come una bambinona che in poco tempo si trasformò in una giovane piuttosto belloccia, un carattere puntiglioso che qualche volta cercava di prendere il sopravvento su mia moglie che, per quanto docile, era capace di bloccarla con un’occhiataccia. In casa tutti dicevano che si era innamorata di me ed in effetti l’unica volta che ebbe bisogno di me come medico si comportò in modo tale da non lasciar dubbi sulla sua volontà di darmi tutto ciò che aveva da darmi. Non che io fossi di sasso, né allora né oggi, però mi sarebbe sembrato di approfittare della ingenuità di una ragazza sola al mondo. E le conseguenze avrebbero potuto essere fortemente odiose. Curiosamente Nannina, da allora, forse perché mi si era mostrata nella sua intimità sembrò avere più confidenza o prendersi più confidenza con me. La cosa non sfuggì a mia cognata che di tanto in tanto veniva a stare da noi e da antica zitella vantava una percezione straordinaria nello scoprire i segreti più reconditi.
Credo di essere stato
e di essere, magari ora con l’età mi è più facile, un medico molto rispettoso delle mie giovani o non giovani pazienti. Forse la mia maniera colloquiale di affrontare i loro malanni, il cercare di capirne le origini, convinto come sono che in molti casi, soprattutto quelli più leggeri, l’origine del malore fosse da cercare altrove. Ed era la causa che andava combattuta. Loro trovavano in me un educato scavatore di malesseri spesso causati da situazioni di vita a cui l’assuefazione generava stati di ansia, trattabili con farmaci ma, secondo me, cancellabili con l’eliminazione delle paure, delle insoddisfazioni. Una sorta di confessore laico il cui obbiettivo non era certo una assoluzione con tanto di penitenza, ma quello di condurre “l’ammalata” ad una più profonda conoscenza e coscienza di sé. Forse per questo tutti credevano e dicevano in giro che io fossi un bravo medico!
Ero solamente così, naturalmente. Anche durante gli anni dell’Ospedale di Guerra 61, quando curavo una ferita, cercavo un dialogo con quei poveri ragazzi, convinto che la distrazione provocata da un ricordo o il parlare di un progetto allontanasse da loro la più forte sensazione del dolore. Qualche volta questo mio atteggiamento mi procura dei piccoli guai, soprattutto quando viene frainteso! Ogni tanto mi capita con le mie pazienti, giovani o meno giovani. Più o meno spogliate, per ovvie ragioni di ascolto del loro cuore o dei loro polmoni, si lasciano andare a chissà quali fantasie e voluttà, trovando una disponibilità d’incontro che io certamente non ricerco. Oddio! A quest’ora di notte posso anche confessare che non sempre è facile resistere alla tentazione. Mi correggo, non sempre mi è stato facile in ato resistere alla tentazione! Quanto poco mi piace questa dizione “ in ato”! Secondo calcoli umani ho superato i sessant’anni, secondo me, che non credo nel computo del tempo, l’averne sessanta, venti o duemila non cambia assolutamente niente. Feci un calcolo anni fa. In rapporto alla velocità della luce ed allo “scorrere” del tempo in anni luce, risultò che alla mia età avrei vissuto più o meno, pochi centesimi di secondo! O no?!
Questo il mio piccolo mondo, qui di casa mia.
Fuori impera l’ignoranza e l’analfabetismo sociale più buio di quanto ci si possa immaginare. Tutto è affidato all’immaginazione del credere che il momento in cui viviamo sia esaltante e storicamente produttivo. A mio avviso l’attuale governo ben identificatosi dopo l’assassinio dell’on. Matteotti sta impoverendo di idee e di libertà la nostra Italia. E ciò che rende ancora più inverosimilmente tragica la situazione è che sembra che alcuni governi europei plaudano il fascismo come soluzione ad ogni povertà sociale. La mia gente viaggia secondo me, inebetita, vestita con orrende camicie nere. Colore scelto come segnale di lutto per la morte dell’intelligenza! E qui non posso che concordare! Ho notizia di gruppi di resistenza al fascismo, soprattutto a Parigi, ma ho l’impressione che si tratti di esercitazioni di intellettuali più o meno benestanti, senza possibilità reale di incidere al momento su ciò che sta accadendo sia da noi che nel resto del mondo. A parte il fatto che qualcuno di loro ci rimette la pelle, sotto gli assassini fascisti. Mi auguro che in un futuro prossimo sia a fondo valutata la loro opera ed il loro sacrificio. Di nuovo si sente parlare di riarmo, di soluzioni
guerreggiate, come se i morti di vent’anni fa fossero completamente dimenticati, resi inutili da appetiti imperialistici di scarsa intelligenza e di grande pirateria. L’altro giorno è venuto nel mio studio il Borini, uomo curioso, ignorante, ma con una buona punta di onestà: visto che di mestiere fa il podestà e quindi è il capo dell’amministrazione comunale, direttamente nominato dall’autorità governativa, crede d’essere il padrone del paese. Tranne quando gli fa male la pancia, e la paura di un male peggiore lo rende docile come una pecorella. Disteso sul mio lettino, mentre gli premevo il fegato, magari un po’troppo violentemente, per saggiarne l’ingrossamento, lui si sperticava nelle lodi al suo idolo, il “ duce di tutta Europa” così lo apostrofava. Io gli ho suggerito che oltre alla parsimonia nel bere e nel mangiare avrebbe dovuto non esagerare con le lodi al “supremo” e far funzionare di più lo spirito critico. Pacatezza nel mangiare e nel pensare fanno vivere più in salute e più a lungo! Mi ha detto che sono un troglodita socialista e che se non fossi suo amico e bravo medico mi avrebbe spedito al confino. E mica al Forte de Marmi come quel giornalista, tal Malaparte, ma a Lipari dove c’era tutta gentaccia come me! L’ho guardato sorridendo e gli ho propinato un purgante così forte che avrebbe potuto fargli digerire anche la sua camicia nera. Poi aggiungendo che di me aveva fiducia, volle che andassi a casa sua a visitare moglie e figlia, perché solo da me si sarebbero fatte toccare! Così due pomeriggi fa, chiuso lo studio sono andato a casa Borini. Certo ho dovuto attaccate il calesse, perché i Borini abitano in campagna e lontano da qui. Non c’è che una breve gita in calesse che sia creatrice di riflessioni dolcissime. Così come lo è la campagna qui intorno. Tengo cavallo e calesse in una stalla vicino a casa, amorevolmente custoditi da un vecchio fiaccheraio che insieme al mio tiene il suo cavallo che mi sembra suo coetaneo. Mi rendo conto che tra pochissimo tempo dovrò vendere calesse e cavallo e sostituirli con una Balilla: la patente c’è ma è tanto tempo che non guido un’ automobile. Mi toccherà imparare di nuovo e per certo non sono più un ragazzo. Dicevo delle signore Borini. Belle tutte e due. La Marisa Borini scoppia di salute e di esuberanza, mentre la figlia Luisa mi da qualche pensiero perché non solo è gracile ma soprattutto mi sembra a prima vista, per i suoi vent’anni, troppo spenta, quasi non avesse alcun interesse a stare al mondo. Così stavolta mi sono trattenuto più ad ascoltare i mali o i presunti mali della figlia, piuttosto che quelli della madre.
Tirar fuori di bocca le parole alla Luisa non è impresa da poco e come mi sono accorto che temeva potessi raccontare ai suoi genitori le sue ambasce, le ho spiegato che un medico è quasi come un prete. Il prete riferisce al suo dio ed il medico, se del caso, si rivolge al farmacista. Ma non era di questo che aveva bisogno: a vent’anni si ha bisogno di una medicina naturale che si chiama amore, da ricevere e da dare. I giovani che suo padre le faceva frequentare le erano insopportabili, li giudicava dei fanatici imitatori di virili manie senza sostanza e cultura. Ad uno solo andava il suo pensiero. Il figlio del Nanni. Il fattore di casa Maoni. La figlia del podestà con il figlio del fattore. Una storia che si ripeteva da millenni, dove la stupida supponenza di un qualsiasi padre ricco di meschinità impediva alla figlia di frequentare il giovane che amava in nome di una differenza sociale meno importante di una qualsiasi nebbiolina! Anamnesi e diagnosi e terapia velocissima! La medicina stava nell’allontanare la Luisa dalla sua famiglia, mandarla in vacanza a Porretta o a Viareggio ed avvertire il figlio del Nanni che l’andasse a trovare liberamente. Tramare ed ordire una terapia così poco farmaceutica fu tutt’uno, come vedere rifiorire il sorriso sul bel volto della giovane Luisa. Altro che purgante! Mentre risalivo sul calesse la Marisa Borini, chissà se per ringraziarmi o per ingraziarmi mi fece un mezzo inchino, mostrandomi la solidità e l’ampiezza del suo florido seno. Con questo non avrebbe certo evitato la, seppur piccola, parcella! Ancora alla mia età, con la mia professione, non ho definitivamente capito perché certe donne, di ogni ceto sociale che siano, amano farsi guardare. Cosa che io faccio volentieri cercando che non si accorgano troppo del mio interessamento. Per di più, poi a tale esposizione, non corrisponde quasi mai un’offerta concreta. Come si trattasse un assaggio! Come se esse stesse si considerassero come un bellissimo prodotto racchiuso in una vetrina dove, per averlo, devi….ma che mi viene in mente!! Verrà un tempo in cui si renderanno conto del loro valore: in termini di confronto col mondo maschile non c’è nessun rapporto di inferiorità, anzi esse sono state, sono e saranno l’unico motore di tutto ciò che vive. Ti saluto, per stanotte ho scritto abbastanza, in fondo sto riprendendo a parlare con te dopo più di vent’anni, accontentati!
Giovanotto!
Averti ritrovato dopo tanto tempo, quasi vent’anni, mi stimola a farti delle confidenze. In fondo te non sai un accidente di quello che succede fuori dal cassetto in cui ti tengo. Per me anche se ti considero un amico, un vecchio amico, a cui confidarmi sicuro che non farai la spia a questi cialtroni che mi vivono intorno; forse per questo sei un ragazzo che non invecchierà mai! Allora eccoti la situazione ad oggi inventata da un uomo che credevo scrittore spiritoso e che l’anno scorso ho conosciuto personalmente a Firenze. Questo, forse burlone, ma certamente non sai che in questo periodo i burloni sono tragicamente al potere in tutta Europa, ha scritto un articolo sul Corriere della Sera in cui protesta contro l’uso del “lei”. Dicendo che si tratta di un uso stomachevole, contro la sintassi e la dignità civile! Il Cicognani propone al posto del “lei” l’uso del “voi”. L’altro tragico imbecille, tal Starace, dotato di un potere immenso, non avendo nient’altro di costruttivo da fare, si è impadronito di questa stupidata e con l’aiuto del Sommo Capo sta riuscendo ad imporre questa sciocchezza non solo linguistica in tutta Italia. Se non dai del “voi” sei un traditore della Patria! Quest’estate a tale idiozia se n’è aggiunta un’altra: vietato o quasi stringersi la mano! Bisogna salutarsi alzando il braccio destro al cielo. Il cosi detto saluto romano! Nella speranza che un fulmine ci strafulmini! Te ti sei vissuto questi anni al riparo di un ben custodito e dimenticato cassetto e non puoi sapere cosa è successo intorno a te. Sintetizzo per ora, anche perché non ho più inchiostro nel calamaio e non ho voglia di alzarmi e prenderne un altro. Ti assicuro, è successo di tutto! Hai presente due fondamentali aspirazioni della nostra generazione uscita dalla guerra, per esempio, libertà attraverso un principio di democrazia? Tutto morto e sepolto. Al momento non c’è Gesù che li tiri fuori dalla tomba, così come non c’è Gesù che riempia il mio calamaio! Lui moltiplicava i pesci e non l’inchiostro! Ora, però, con le ultime gocce d’inchiostro te ne racconto un’altra. Pochi anni fa furono organizzati a Roma degli incontri sportivi tra giovani. Di per se cosa lodevolissima. Salvo che veniva diffuso una sorta di decalogo che comprendeva riflessioni di questo tipo: “chi non è pronto a dare anima e corpo alla Patria e servire il duce senza discutere non merita la camicia nera” E di seguito” Usa tutta la tua intelligenza per comprendere gli ordini che ricevi e tutto il tuo entusiasmo nell’ubbidire” Per fortuna mio figlio più piccolo, allora universitario e, purtroppo sfegatato fascistello, trovò eccessivi questi comandamenti. Riflettici ed a presto!
Salute a te!
Cos’è ti meravigli perché scrivo sulle tue candide pagine con un’ inchiostro diverso?! In qualche modo bisogna ribellarsi! L’altra storia, per me assurdamente curiosa è la simpatia del vaticano per questo governo italiano o, come si definisce lui stesso, per questo regime. Il capo del governo e tutto il suo movimento politico, un gregge belante e forzatamente plaudente, nel quale militano chissà come e perché anche persone straordinariamente intelligenti, viene definito come un “baluardo della cristianità nel mondo”. Anche questa tientela per te, se no oltre al confino mi mandano sul rogo! Ora, già di per sé trovo singolare che il vaticano si arroghi il diritto di identificarsi col Cristo! Pensa te! E questo perché nel corso dei secoli questo “ente” ha mantenuto il proprio potere non certo con la preghiera, con l’esercizio della carità, ma con la più pervicace violenza e sopraffazione. Esercitata in tutti i modi possibili e sempre con grande fantasia. Dalla simonia….come cos’è? Non sai chi era Simon Mago? Un furbastro che dicono tentasse di comprare da San Pietro il potere di comunicare i doni dello Spirito Santo. Bel prodotto da vendere! Si tratta della vendita, riscrivo vendita, di indulgenze, sconti di pena dal purgatorio in cambio di terre, soldi, e quant’altro. Anche in cambio di sole preghiere: come se fossero gestori di un tribunale con annessa banca divina. Cosa condannata dal vaticano e ovviamente praticata con molto profitto, da secoli, dallo stesso vaticano. Fino alla difesa strenua del proprio potere d’interpretare la voce di dio. Salvo crederci. Dio: mi piacerebbe discutere con qualcuno dell’essenza di Dio, lasciando perdere il fatto che esista o meno. Lui, chissà se esiste o no, per certo sono falsi i costumi e tutto il guardaroba che le varie religioni gli fanno indossare. Tanto che chi cercava altre spiegazioni poteva tranquillamente ardere su un rogo come Giordano Bruno, il più grande, per me, filosofo della scienza di tutti i tempi oppure essere sputtanato come Camla o Galilei. A scelta. Va bene: su Camla ed il suo comunismo, ci sarebbe da discuterne! Giusto un regime negatore di libertà come quello che ci governa, può essere assunto come difesa della cristianità. A detta del vaticano, fino alla prossima smentita! Cosa che invece non verrà mai smentita è la grandezza, la profondità e l’assoluta innovazione sociale proposta dal Cristo, secondo Matteo, nel Discorso della Montagna. Principi che nessuno difende perché anti economici! Sto pensando a
quei due carbonari che poco prima della fine del potere temporale del papa furono fucilati, ovviamente per ordine del papa, e per mano civile, in Piazza del Popolo a Roma. Vai a leggerti la lapide che ricorda questo ultimo omicidio del cristianissimo vaticano. Si. Ma si trattava di un periodo definito “potere temporale del papa” e allora? Era lecito o cristiano uccidere? Era questo che diceva Matteo dalla sua montagna? Capita, è capitato, sta capitando che qualcuno traduca la filosofia di base di questo discorso o tenti di farlo, dettandone una applicazione alla società dell’oggi, ma solo al fine di trovare altri greggi pronti a sacrificarsi in nome di una futura libertà ed uguaglianza di diritti, che nei termini in cui è proposta verrà fatto di tutto per mai realizzarla. Per la verità sono stati capaci e continuano a farlo, di prometterne la realizzazione in un’altra vita e non in questa. Basta crederci. Ti ho annoiato? Peggio per te! Se non le dico a te queste cose a chi le dico?! L’altra mattina ci pensavo mentre mi stavo facendo la barba e mi sono così innervosito che alla fine mi sono fatto un bel taglio! Non solo per questo. La sera prima ho avuto una spiacevole discussione con mio figlio più piccolo. Si, quello che già si è laureato in medicina. Mi si è presentato a cena con tanto di camicia nera. Non ho mai esercitato il potere di padrone di casa, o di padre in modo autoritario. Ma trovarmi a tavola questo bel ragazzo, che giudico anche molto intelligente con la camicia nera mi ha fatto ribollire il sangue. Mi sono alzato da tavola sono andato su in camera ed ho sostituito la cravatta a farfalla, quella blu a pois bianchi, con un grande fiocco nero, all’uso degli anarchici. Poi mi sono seduto a tavola, ed ho chiesto ai miei famigliari di riflettere sul lutto che sia io che Filippo portavamo. Quando sua mamma mi ha chiesto chi era morto, le ho risposto che era morta “l’intelligenza”. Come l’intelligenza? Si, ho insistito, era morta insieme ai suoi fratelli che si chiamavano: rispetto, buon gusto etc. etc! Questo, ho detto a mio figlio, è il perché quelli come lui portano la camicia nera ed io il fiocco dello stesso colore. Filippo si è offeso e ne è nata una discussione che non ci ha lasciato mangiare in santa pace. Anche Ferdinando, il più grande, è fascistoide. Ma da bravo avvocato lo è più per opportunismo che perché ci creda realmente. L’unica cosa che approvo di questo mio figlio, non l’unica ma una delle cose migliori che lui abbia fatto è stato sposarsi! Perché ha sposato una ragazza bellissima, dalla quale ha avuto un bel bambino. Anche qui l’unico neo, se di neo si può parlare, sono i
parenti di mia nuora, così stupidamente fascisti da lasciare interdetti. L’assenza di spirito critico verso il fascio è in loro proporzionale alle commesse di lavoro che ricevono dal governo! Un arricchimento che ne fa una delle famiglie più danarose di tutto il paese. La mia gioia, il mio più grande amore, con tutte le sue ciccette in abbondanza, sposata con un professore siciliano di scienze, se ne vive beatamente in nord Italia; ci scriviamo, e dalle sue lettere traspare la sofferenza di non avere ancora, dopo sei o sette anni di matrimonio, avuto un figlio. Arriveranno, così la consolo! Ti completo il quadro della mia famiglia. Massimo, il più bello ed il più silenzioso di tutti, sposato, padre di due figli piccoli piccoli, vive in Cirenaica, di stanza a Bengasi ed è pilota di idrovolanti. Quasi tutti i giorni fa la spola tra Bengasi e Venezia, dove sta per trasferirsi definitivamente. Politicamente indifferente, ma certamente molto critico di ciò che oggi accade, finirà, e ne sono sicuro, per mettersi nei guai, lavorando in un impresa dove c’è poco posto per gente come lui. Staremo a vedere.
Non posso
Non posso non raccontartela. Ho bisogno di parlarne con qualcuno per alcune considerazioni di base che rendono l’accaduto, o meglio ciò che accade, quasi impensabile. Vero è, mi correggo, potrebbe anche essere vero che io che scrivo, nonostante la vita e l’esperienza vissuta, dimostri meno anni di quelli che realmente io abbia. Consolante ma quasi inutile. La cosa poi è soggettiva. Io sto bene: sono in piena salute, per i miei anni. Se c’è qualcosa che stenta a funzionare come una volta, e nel dirlo mi ricordo di essere un medico, è dovuto in parte a questo bischero del tempo che a! Ai miei anni. Mi è stato suggerito, dalla persona di cui sto per parlarti, che ciò che guardo, ciò che vedo, non lo percepisco con gli occhi dei miei vecchi anni, ma con quelli del mio animo che è quello di un uomo senza età. Lei dice: animo, perché ci crede. Io
suggerisco: cervello. Come si fa a non innamorarsi di una persona che ti dice una cosa del genere?! Agli occhi di questo, finto ragazzo che guarda, mancano le mani da ragazzo, pronte e nervose per una dolce carezza. E se bastasse la mancanza delle sole mani! Se l’entusiasmo, autentico, dolcissimo che provoca il vederla, il trovarsela di fronte, bere il suo sorriso, osservarla mentre si muove provocasse un abbassamento di età, dopo qualche minuto ato insieme dovrebbero riportarmi in fasce da una balia. Ritorno bambino, anzi un lattante! Vuoi che te ne racconti? Come sai, perché ci vivi dentro, nel mio studio ho raccolto con gli anni un buon numero di libri. A furia di consultarli, di aggiungerne di nuovi, insomma di vivere con loro, ne ho completamente scompaginato l’ordine originale. Per cui quando cerco qualcosa mi sembra d’essere Stanley che ritrova per caso l’amico scomparso in Africa in mezzo ad un villaggio indigeno, loro gli unici europei, e gli chiede se, per caso, si trovasse davanti a mister Livingston……. Insomma, domandai ad un amico se aveva qualche persona, magari più giovane di me, disposta a prendere libri, spostarli, rimetterli in un certo ordine sugli scaffali….di giovane schiena che mi potesse dare una mano. Suonò al cancello una donna. Giovane. Si presentò come indirizzata a me dal Baracchi, dichiarandosi disponibile a darmi una mano per i miei scaffali. A prima vista mi parve graziosa, molto giovane, e decisi che probabilmente la sua schiena non era dolorante. Oramai sono settimane che me la vedo andare su e giù per la scaletta appoggiata agli scaffali. Mi correggo: che me la guardo e nel guardarla, l’ascolto mentre mi parla di sé, della sua famiglia, della sua breve non facile storia. Ha solo ventidue anni. I suoi ventidue anni stanno ai miei anni come io sto bene seduto in poltrona, con un plaid sulle ginocchia! Tuttavia, un giorno, dopo avermi confidato cose e fatti molto privati della sua famiglia e suoi, forse commossa dalla mia capacità d’ascolto, nel salutarmi, mi gettò d’improvviso le braccia al collo, stringendomi a sé in un abbraccio talmente totale ed assolutamente inaspettato. Ebbi due ondate di stupore. La prima fu dovuta alla cosa in sé, cioè che mi abbracciasse con tanta forza e con totale aderenza; la seconda ondata, anche questa più che inaspettata fu la mia reazione, diciamo, fisica. “ Avanti Savoia! Qui si fa l’Italia o si muore, con l’inno di Schiller alla Gioia di Vivere, nel finale della nona di Beethoven!” Pudicamente, fu una sollevazione di massa!
E’ naturalmente più che fidanzata e più che innamorata di un giovane biondo, un po’ rossiccio di pelle che io, scherzosamente, ho soprannominato “pomodoro”. Oltre al pomo deve avere qualcosa d’altro dorato. Per esempio la fortuna sfacciata di aver incontrato, all’inizio della sua giovane vita, una dolcezza come Paula. La mia aiutante si chiama Paula. Il suo lavoro sta per finire, tuttavia l’altro giorno mi ha fatto la proposta di dare una catalogazione diversa ai miei libri. Il che vorrebbe dire protrarre la sua collaborazione. Ho subito risposto che potevamo provare. Ed ha soggiunto che finita questa nuova catalogazione, visto che non ho una segretaria per ricevere i pazienti, potrebbe farlo lei, con il compito di prendere loro i primi dati e farne uno schedario da aggiornare nelle successive visite Questo perché le sarebbe piaciuto restare a lavorare con me. Ne vuoi una descrizione? Dopo. Vero è che la mia dolce moglie è troppo signora, e sicura di sé, oltre che di me, ma soprattutto dei miei anni, per dimostrare punte di gelosia…. Oh! bella! Cosa c’entra questo pensierino? Invece c’entra. Dall’alto della mia vecchiaia, senza considerare le rughe del mio cuore, comincio, nel pensarla e vederla, a sentirlo battere di nuove emozioni. Cosa mi stai chiedendo? Se per caso mi sono innamorato di questa ragazza? Va bene, sei il mio unico confidente e ti sono permesse anche domande così sciocche. E se così fosse che male ci sarebbe? Ho capito, stai chiedendo chi di noi due è più sciocco! Ma, vedi, ci sono delle opere d’arte in natura che superano spesso tutte le cose più meravigliose create dall’uomo. Michelangelo, ad esempio, diceva di sé che lui non faceva altro che estrarre dal marmo ciò che il marmo conteneva. Ovviamente la cosa riusciva così stupendamente solo a lui. Poi si accaniva contro le sue creature lamentandosi del perché esse non gli parlavano.
Paula
Non l’ho certamente estratta da niente di così tangibile, come il marmo o come le pagine di un libro e neppure me la sono sognata durante un sonno stupendo. E’ solo entrata dal mio cancello! Ma il capirla, ascoltami non solo il vederla o guardarla, l’entrare nel suo pensiero, sorprendermi per riflessioni con cui d’improvviso mi illumina, la rendano ai miei occhi ancora più bella di quanto oggettivamente lo sia. E non devo accanirmi nel chiederle di parlarmi: lo fa da sé! E spesso mi sorprende. Ovviamente più che i giorni ano e più entriamo in confidente dialogo. Fu ieri o ieri l’altro. D’improvviso le dissi, scherzando, che era stata fortunata ad incontrare ed a lavorare con un “vecchino” come me. Ci fu un attimo di silenzio e poi se ne uscì, sorridendo, nel dirmi che non era vero. Era stata sfortunata perché mi aveva incontrato con troppa diversità di tempi, di età, così troppa che non avrebbe potuto sposarmi! Non guardarmi con quell’aria da prendermi in giro, brutto anatroccolo di un diario! Se no ti chiudo! Anzi, lo faccio.
Ti accontento
Ti accontento perché non avendo occhi non puoi vederla. Quindi fidati. Altezza: normale. Occhi: scuri, sguardo penetrante e sorridente. Capelli: tra il nero ed il castano scuro, sempre puliti, tanti e lunghi, a volte li raccoglie in una crocchia: se non tenessi le mani in tasca vorrei affondarle tra i suoi capelli. Pelle: nel vederla hai la sensazione che sia morbida e tesa e di un naturale invitante profumo. La schiena, dalla vita in su, splendida. Andatura: dolce non aggressiva, a volte un po’ troppo ondeggiante, ma non guasta. Seno: bello, sembra curiosamente regolare, nel senso di uno uguale all’altro. Mi è capitato difficilmente, in tanti anni che faccio il medico, di vederne uno uguale all’altro. Anche qui, e purtroppo mi obbligo a tenere le mani in tasca! Bocca: morbida, tenera, ben disegnata. Denti: le pecorelle del Cantico dei Cantici. Come, cosa ho detto? Non mi metto certo a raccontarti cos’è il Cantico dei Cantici. Fidati. Mani: piccole ed a volte orrende, si sfama mangiandosi le unghie. Corpo: vita stretta, sedere giusto. Insomma, una ragazza normale!? Si, la
definirei carina. Molto. Ed allora cos’ha di così affascinante? E’che te come diario sei ovviamente astemio! Il vermouth, il gin, la vodka, il cognac, ognuno di questi liquori sono di per sé normalmente ottimi. Se li sai dosare, mettere insieme, ne tiri fuori una bevanda degna degli dei. Quello che ha Paula è uno straordinario dosaggio! E’ l’insieme di tutto ciò che è, che la trasforma, non solo ai miei occhi, bellissima. A questo devi aggiungere che ha un cervello guizzante, capace di cogliere al volo sfumature appena appena abbozzate e riderci sopra. Con grande intelligenza. Dimostrando così di non avere alcuna paura. Ecco mi mancava di dirti della sua maniera di ridere. O forse te l’ho già detto. E’ da bere! Vale a dire che se il suo ridere si potesse mettere in un bicchiere ovviamente di cristallo, si potrebbe, con questa bevanda, brindare alla vita, alla gioia del vivere. La guardo ridere e silenziosamente la bevo! Un po’ come toccare con mano la differenza tra percepire e concepire. Difetti? Quanti ne vuoi! Un po’ miagolona, come tutte le donne che recitano a volte, per gioco, la parte delle bambine. Testarda ma nel contempo capace con un sguardo di sotterrarti di dolcezza. Fiori di un bellissimo giardino. Di umore variabile ma tendente quasi sempre al bello. Le nubi, e qualche motivo per averne indubbiamente lo ha, le scompaiono subito al primo raggio di un complimento, che riempie di luce il suo giardino. Come hai detto? Cosa mi hai chiesto? Ho paura di si! Perché, paura? Perché una persona sincera ti resta dentro, non la dimentichi facilmente. E lei, ciò che sa, che decide di poter dare di sé, lo da con stupefacente sincerità. Ci sono due amori che nella vita non si dimenticano mai più: il primo e naturalmente, l’ultimo. Allora, mio bel vecchietto, ne sei innamorato?!
“E non sono triste. Ma sono stupito Stupito se guardo il giardino...
Stupito di che? non mi sono Sentito mai tanto bambino”
Scriveva così Guido Gozzano! E non mi conosceva!
Inutile che tu rida! Sei pestifero, diario mio. Ora ti chiudo! Non lo so. E’ tanto tempo che non mi innamoro più sul serio, che non so riconoscerne i sintomi. Potrei confessarti il mio desiderio di lei, di scoprirla lentamente, di accarezzare il suo ventre di velluto ma sarebbe una confessione inutile, né peccato né progetto, neppure sogno, solamente fuori posto. Per risponderti onestamente posso dirti che sto imparando a volerle bene, con moltissimo amore. Un’ultima cosa importantissima, non è fascista! Tant’è che sorridendo mi ha informato che neppure la sua biancheria intima è quasi mai nera, quando lo è si tratta solo di vanità!
Ti resto
Ti resto in argomento. O quasi. Non ti farò il suo cognome perché non vorrei che qualcuno individuasse questa persona. La chiamerò sca. Venne l’altro giorno afflitta dal un dolore al fegato. Te la descrivo. Capelli corti alla maschietta, alta, flessuosa, una bella donna che non porta solo i capelli corti, si veste preferibilmente in pantaloni e camicia. Per fortuna mai nera! Molto poco femminile, all’apparenza. Dopo il primo racconto dei suoi mali, per consentirmi una più approfondita diagnosi la invito ad entrare nello spogliatoio ed attendermi un attimo. Conosco sca da tempo. So che ha un negozio di abbigliamento elegante e che non è sposata. Un po’ chiacchierata in paese ove si narra di sue libertà di comportamento. Molto apprezzata dal mondo femminile per le novità sempre alla moda del suo negozio. Chiedo il permesso di entrare nello spogliatoio dove ho il lettino e gli strumenti per visitare i pazienti e con grande imbarazzo me la ritrovo distesa sul lettino, tutta completamente nuda. Tossisco
per annunciarmi e la invito a coprirsi osservando come non ci fosse affatto bisogno di spogliarsi completamente. Mi dice a brutto muso che ha voglia di fare all’amore con me e di non fare tante storie! Noto subito che nel rivolgersi a me mi da del “tu”! Ohibò!! Ma non era obbligatorio darsi del “voi”? Mi rivolgo a lei dandole del “lei” ed indossato lo stetoscopio inizio ad auscultarle il cuore. Un battito regolare dopo il primo breve tremito dovuto al freddo del contatto col mio apparecchio. Le chiedo di sollevarsi seduta per auscultarle i polmoni. Bella schiena! Tutto a posto. La faccio di nuovo sdraiare e pongo la mia mano sul suo fegato. Mi prende la mano e se la mette lì…..dicendomi che lei pratica il libero amore e, se ne ha voglia, ne ha voglia! Ritiro la mano. Le dico che sono solo un medico e per di più, un medico di una certa età. Esco dallo spogliatoio invitandola a rivestirsi. Se n’è andata lanciandomi un sorriso ironico. Io le ho risposto guardandola con tristezza. Libero amore. Amore e libertà. Amarsi a caso, alla bisogna, forse senza neppure dirsi “buongiorno”. Tutto ciò non ha niente a che fare né con la libertà né con l’amore. Chiamarlo amore ed amare e poi il fare all’amore, il freddo atto di una improvvisata penetrazione, lo scopare, mi sembra che equivalga ad ingannare se stessi, rendendo banale e stupida una delle cose più belle che gli umani possano fare. Confondere tutto ciò con l’amare e dare poi a questa confusione il nome di libertà, lo trovo oltretutto tristissimo! Capisco invece il senso di ribellione di quella società che per secoli ha dovuto addolcire con falsi nomi atti a cui era costretta in nome di convenzioni quanto mai ossessionanti in cui l’amore o l’amare erano solo dei paraventi: amare solo chi si ama, per riprendere la proprietà di se stessi è quindi giustissimo. Di essere ciò che si desidera essere senza dover sottostare a contratti spesso imposti o assurdamente vincolanti, ma da qui a trasformarsi in oggetti, secondo me, non solo il o è troppo lungo ma addirittura troppo e inutilmente pericoloso. Vero è che il mio grande amico Voltaire, un paio di centinaia di anni, fa sosteneva che la città di Londra era diventata così ordinata dopo essere stata completamente distrutta da un incendio! Ma un essere umano, anche uno solo, è più importante di un’intera città. Distruggerlo per poi ricostruirlo, senza che questa ricostruzione non sia frutto di una presa di coscienza è inutile. Soprattutto lo è per se stesso.
Ti riprendo
Ti riprendo in mano perché sono terrorizzato dall’idiozia dei nostri giorni. Il nostro paese, l’Italia, si avvita sempre più sulla Germania. La cattolica cristiana fascista Italia! Il ministro della propaganda tedesco, bruttino e leggermente storpio dal nome che mi ricorda un tipo di tappeto, tal Goebbels, ha recentemente dichiarato che Cristo non poteva essere un vero profeta perché era ebreo! Qui nessuno protesta a tale banale idiozia. Per la verità neppure il Cristo protesta. Non posso dirti cosa farei se fossi in lui fornito, come lui diceva, di un tale babbo. Almeno Giove sistemava i suoi detrattori con qualche bella saetta! Ovviamente per tale ministro nella sua immensa capacità di raccontare balle, l’unico profeta è il suo adorato capo. Come si chiama? Non lo scrivo perché ne provo ribrezzo. E del nome dei nostri perché non ne scrivi? Loro non mi fanno ribrezzo ma solo una pena indicibile. Delle pecore che seguono il pastore? Le pecore sono solo pecore.
Ho saputo
E mi sembra assolutamente incredibile. Mi sembra incredibile che ci sia un essere umano che ne perseguita un altro perché è di religione diversa. Questo accadeva nei periodi più bui dell’umanità, quando erano gli stregoni e le loro religioni a comandare, a dettare leggi di comportamento. Quando il futuro era descritto nelle viscere di un innocente erotto. Quando il credere a qualunque stupidata era obbligatorio. Quando la scuola, l’istruzione, la vita civile e sociale era affidata alle cure di chiese e contro chiese. Ma oggi! Oggi, con la radio, il telefono, gli aeroplani, la stampa, i giornali è mai possibile che un’intera nazione, che più nazioni, eserciti, polizie, tutti cretini, si scaglino contro gli ebrei per il solo fatto che sono ebrei! E’ venuto da me il Borini. Più nero in viso della sua camicia nera. Mi si è seduto sul lettino e guardandosi in giro come se cercasse di vedere se per caso c’era qualcuno che lo ascoltasse cominciò a lamentarsi dicendomi che non poteva, non
poteva farlo. Mi sono seduto accanto a lui e gli ho detto di raccontarmi con calma. Lì per lì pensai che avesse scoperto la moglie in un granaio con qualcuno! Poi cominciò a raccontare. E certamente se avesse scoperto il tradimento della moglie sarebbe stata al confronto un’ allegra storiella. Gli era pervenuta da Roma, dal ministero degli interni l’ordine di radunare tutti gli uomini, tutte le donne e tutti i bambini di fede ebraica, portarli nella palestra della Gil e aspettare altri ordini. I Modena, mi disse, la famiglia Modena era la sua vicina. Abitavano da una vita nella cascina vicina alla sua. La Marisa e prima di lei sua madre, erano amiche e confidenti delle donne di quella famiglia e toccava a lui, proprio a lui, andare da loro con il camion, far salire tutti e portarli alla Gil. E poi con che pretesto? E così doveva fare con almeno altre venti famiglie, e lui le conosceva tutte. Molte di loro erano fasciste! Che doveva fare? “E poi la mamma del Nanni o non era ebrea anche lei? Pensi lei se vado a prendere la nonna e la mamma dello spasimante della mi’ figliola! In casa m’ammazzano!!” “Questa non sarebbe cosa mal fatta!” gli risposi sorridendo. ’Un rida, per favore, ….. e la mi dica un’altra cosa, lei che è istruito. Cosa vol dire essere ariani?!” “Caro Borini… quando si tratta di idiozie non si è mai istruiti abbastanza.” Cominciai a chiedergli se si era reso conto in tanti anni di cosa voleva dire indossare una camicia nera. Gli ho parlato per una mezz’ora, finendo col dirgli che non ci sono razze tra gli umani. Mi guardava stralunato e poi sbottò dicendomi che aveva capito, io ero un socialista e per di più sovversivo! Gli ho risposto che era vero aveva capito, io ero un sovversivo. Era anche vero che lui era un gran bischero! Andasse pure a imprigionare gli ebrei non mi rompesse più l’anima, anche se avevo dei dubbi circa l’ esistenza della suddetta! “E allora, che faccio?” mi chiese con un’aria da can bastonato. “Fai quello che hai sempre fatto e che ti riesce così bene: fai lo scemo del villaggio! Quel documento infame non l’hai ricevuto mai, e se te lo rimandano buttalo via” So che da altre parti d’Italia è cominciata la caccia agli ebrei e se non fossi un pusillanime, attaccato alla mia casa, alla mia famiglia e in fondo troppo vecchio
per lottare….Chiederò a mio figlio, quello fascista, che sta succedendo; forse lui mi darà una spiegazione.
Sono venuti i carabinieriì
Sono venuti a prendermi i carabinieri. Li ho seguiti senza chiedere niente, dopo aver detto a Paula, impressionatissima, di avvertire mia moglie di non stare in pensiero. Mentre ci muovevamo con la loro macchina ho chiesto loro a cosa dovevo questa novità. Nessuno mi rispose. Proseguimmo per un po’ in silenzio quando mi accorsi che stavamo dirigendoci verso la casa del Borini. Appena arrivato nell’aia scorsi l’auto del Guglielmi, un magistrato mio amico, parcheggiata davanti alla casa e un nugolo di carabinieri e militi con tanto di camicia nera. Il Guglielmi come mi vide mi venne incontro e salutandomi mi accolse con un “ Che disgrazia, che disgrazia dottore mio” Gli chiesi cosa era successo. Al che guardò la mia scorta chiedendo come mai non mi avevano informato. Nessuno mi aveva detto niente; mi avevano preso quasi di peso e portato via. La mia scorta si prese un’improvvisa risciacquata di testa e la cosa mi rincuorò, capii che non ce l’avevano con me: per un secondo, perché la notizia che mi dette subito mi agghiacciò il sangue nelle vene. Il Borini era stato trovato impiccato ad una trave della sua stalla ed era morto. Il Borini, morto? E’ stato ucciso? E da chi? Probabilmente si è impiccato a giudicare dalla posizione del cadavere e dalla sedia rovesciata ai suoi piedi. E perché dovrebbe essersi ucciso? Guglielmi mi disse che mi avevano fatto venire a casa Borini per stilare un certificato di morte in assenza del medico legale e poi…con un po’ di titubanza mi si chiede se potrei conoscere le ragioni per cui il Borini si è ucciso. Rispondo che Borini era un mio paziente ma che non sapevo altro di lui. Non potevo sapere che il Borini era pedinato dalla milizia e l’avevano visto entrare in casa mia l’altra sera e quindi sapevano che s’era trattenuto a lungo con me. La polizia si stava inventando un suicidio dovuto alla vergogna di aver saputo di essere stato tradito dalla moglie. A me sembra impossibile. A parte che non credo che la moglie lo tradisca. E’ si un po’ vanesia, ma si tratta, secondo me, solo di un vezzo, di un atteggiamento provocatorio. Ho firmato i documenti. Mi sono fermato a parlare con Marisa e Luisa Borini che, essendo sinceramente disperate, non riuscivano a capacitarsi del perché di quel gesto che ritenevano assurdo. Tra il Borini e sua moglie i rapporti erano normali, qualche screzio
niente di più. Con la Luisa le cose si stavano aggiustando e, comunque non sarebbero stati eventuali dissapori tra padre e figlia a causare quella tragedia. Economicamente la famiglia stava bene. Borini amministrava con intelligenza il patrimonio della moglie….intelligenza di uno che portava anche a letto la camicia nera! Tra i suoi camerati serpeggiava una grande costernazione per l’accaduto. C’è da dire in questo caso che loro non sarebbero andati tanto per il sottile se si fossero manifestate serie divergenze di vedute. Infatti, forse a conoscenza di una disobbedienza del Borini avevano deciso di farlo spiare. Ma probabilmente non era questo. Insomma un mistero
Mio figlio, un medico
Già mio figlio più piccolo è medico. Ed è anche fascista. Ora anche automobilista! Sviluppo una idiosincrasia per gli “ismi”. Grazie a lui in famiglia è arrivata la prima automobile. E’ piccola, piccola e l’hanno chiamata Topolino! Ci si sta in due, forse in tre. Si può scoprire come fosse un calesse. Certo è più veloce di un calesse. Mi ha portato a fare un giro inaugurale in automobile. Così ne ho approfittato per chiedergli, visto che lui è culo e camicia con gli uomini in nero, se mi sapeva dire cos’era questa storia, anche in Italia, degli ebrei. La prese talmente lunga nel rispondermi che facevo difficoltà a stargli dietro. Quando finalmente riuscì a capire cosa stava dicendo, gli chiesi di fermare l’automobile, perché mi sentivo male e volevo fare due i. Ma scusa. Tu hai fatto il liceo classico, e hai studiato medicina a Bologna, non è vero? Al liceo hai avuto un minimo di informazioni sulla storia della filosofia, dell’evoluzione del pensiero umano, non è vero? A medicina ne hai studiato la struttura fisica, avrai capito che ovunque nel mondo, su questo pianeta, a parte alcune differenze molto piacevoli, sia l’uomo che la donna sono costruiti nello stesso preciso modo. Qualunque sia la parte del mondo in cui si sia nati. E come fai, se hai capito tutto questo a parlarmi di “razza”??!! La sua risposta mi ha lasciato di merda. Scusa diario, ma è proprio così! Mi ha detto con tono pacato che forse è giusto tentare scientificamente di migliorare la razza umana, indirizzando l’evoluzione per creare un modello più puro: e poi, lo sapevo o non lo sapevo che anche alla fine della messa, il prete in chiesa ripete
la maledizione agli ebrei, quali carnefici del figlio di Dio? E certamente una ragione dovrà pur esserci! C’è, gli ho risposto, il prete e i suoi simili sono degli imbecilli! E sono tutti in compagnia di chi crede a tali idiozie. Chi ha scritto quella frase starà rosolando all’inferno, sempre che questo ci sia, da centinaia d’anni. Gli ho domandato se lui, mio figlio, il nipote di mio padre, credeva veramente che la ragione di queste disposizioni criminali nate e prolificate nella Germania di quel pagliaccio, fossero solo da attribuirsi ad uno stupido e folle pregiudizio di quel tipo. Mi ha chiesto di cambiare discorso, di non farmi sentire, di abbassare la voce. Schiumavo di rabbia. Ma ti rendi conto, gli ho urlato, che questa banda di invertebrati sta per ricreare in Europa un’altra carneficina. Dove portano tutta questa gente, che ne faranno dei nostri concittadini chiusi nella palestra della Gil? Alla fine, scendendo di macchina e nell’avviarmi a piedi verso casa, gli ho chiesto se pensava ancora di essere mio figlio. Non ho dormito tutta la notte. Questo mio ragazzo è convinto da tali menzogne? Dovevo parlargli, con calma, farlo ragionare. Domani lo farò.
Ieri
Ieri volevo affrontare la questione con il mio ragazzo; per fortuna, dei miei figli, lui solo si è così rimbischerito. Gli altri figli hanno capito e tacciono, in silenzio. Volevo chiamarlo quando è entrata Paula nello studio avvertendomi che in sala d’aspetto c’era Luigi Balaschi, per una visita. Per un attimo mi sono goduto l’apparizione di Paula, una ventata di primavera. Dio, com’è bella! E se fosse ebrea!? Ora ci scherzo su! Luigi Balaschi è qui in paese da molti anni, è direttore di una azienda grossa, sposato con due figli, Da me non si è mai fatto visitare. Vediamo cosa gli rode, ho pensato andandogli incontro. Convenevoli. Si accomodi e mi dica cosa posso fare per lei? Come sta? Bene, benissimo mi rispose, ho solo un grosso imbarazzo. Di stomaco, pensai. No, mi rispose quasi avesse carpito la mia richiesta. Allora, mi dica.
Me lo disse! In sintesi, caro amico diario, la situazione era questa. Dopo quasi dieci anni di matrimonio non c’era più niente che lo legava a sua moglie, tranne l’amore per i figli, sacro e santo. Pensavano al divorzio. Dove?! In Svizzera, sua moglie era di Lugano, si erano sposati li. Incomprensione tra voi due? Non c’era più niente, neppure un minimo di complicità. Tant’è vero che il suo bisogno di carezze e di affetto si era ingigantito al punto da cercare soluzioni a volte tristissime. E per sua moglie? Già, mi rispose, non lo so: forse ne sente meno la necessità. Capì l’espressione del mio volto e continuò dicendomi che la cosa aveva preso un piega di spiacevole.....piacevolezza. Oh!? Alcuni mesi prima avevano dato ospitalità ad una giovane se di Parigi, che laureata alla Sorbona in filologia antica voleva fare una specializzazione a Firenze. Nipote di loro amici si, fu accolta in casa con gioia. Soprattutto mia gioia, mi specificò, perché questa ragazza si rivelò essere una persona allegra, piena di vita. Tanto che tra noi, sottolineò, era nata una viva simpatia, non del tutto gradita alla moglie. Scusi, Balaschi, ma io sono un medico e per di più un medico di paese, cosa posso fare per lei! Mi nasce il dubbio che lei abbia bisogno di un medico dei nervi, della psiche; o se vuol perdere tempo, di un confessore! No. Mi ascolti. Accadde questo. Mia moglie e i bambini scelsero quest’agosto di arlo al mare. Lei ha una casa a Rapallo. Partirono con un bagaglio leggero, in treno. Io e Nicole li avremmo seguiti dopo qualche giorno in macchina, alla fine del corso universitario della ragazza, portando le valigie e le cose più ingombranti. Già dalle prime ore in cui restai in casa con Nicole si stabilì tra noi un parlottare più fitto del solito, quasi un cameratismo affettuoso. Non voglio entrare in particolari ma la seconda sera ho ritrovato in Nicole sapori e piaceri che stavo quasi dimenticando. Non ero il primo suo uomo, e forse proprio questo aumentò in noi una soddisfazione realmente straordinaria. Stupidamente mi congratulai con me stesso. Accompagnai Nicole e bagagli a Rapallo e poi tornai a casa. Qualche settimana dopo Nicole tornò perché doveva sostenere un colloquio all’università e poi tornava a Parigi. Ripetemmo per due notti i nostri incontri. Fu di una dolcezza indescrivibile ed io mi sentì rinascere. Ieri mi è arrivata una lettera di Nicole. Eccola qui. Me la porse, ma io non la raccolsi. Quindi? Mi scrive una cosa bellissima. Mi dice che se avesse potuto mi avrebbe liquefatto e poi mi si sarebbe iniettata nelle
vene per non perdermi mai! Stupendo! Ne sarà contento, dissi. Si! Ma continua scrivendomi che mia moglie ha conosciuto un uomo al mare. C’è uscita a cena affidando a lei i bambini. E la mattina dopo tutta emozionata le ha raccontato di aver ato la notte più meravigliosa dei suoi ultimi dieci anni. Scrive Nicole che la signora le ha confessato che finalmente si è sentita donna visto che da tanto tempo a letto con me si annoiava e basta. Capito?! No! Gli risposi di non aver capito perché venisse a raccontare a me questa storia di reciproche corna. Come perché?! E se la signora mia moglie, o futura ex moglie mi se ne va in giro per il paese a raccontare che a letto con me non funziona, io che figura ci faccio! E’ qui che lei, un medico, mi deve aiutare. Pensai che l’unico modo che avevo per aiutarlo era quello di dire a Paula di tripicargli l’importo della parcella! Così imparava a non andare in giro a raccontare baggianate. Cosa vuole che faccia, gli dia una patente di maschio latino, per curare il suo orgoglio ferito! Gli chiesi se ancora c’era qualcosa che lo legava affettivamente alla moglie. No, mi rispose, la storia è finita. Gli consigliai di tacere. Il suo orgoglio non ne avrebbe risentito a meno che non avesse abitato tra le sue gambe. Lo consigliai di stare vicino alla moglie, aiutandola nella separazione, di stare vicino più possibile ai suoi figli, di far vedere a sua moglie la sua vera statura di uomo: di non raccontarle della sua avventura con la ragazza se. Di trovarsi un’altra compagna. E se, mi ripeté, lei va in giro per il paese a raccontare che si separa da me per questioni di letto, mi capisce?! Faccia così, su quel letto ci dorma sopra! E sorrida, troverà altre mille Nicole! Lo salutai, scrissi su un foglietto quanto Paula doveva chiedergli per il colloquio, convinto che più gli avessi chiesto e più si sarebbe convinto che il mio consiglio era giusto. Aggiunsi, tanto per non perdere l’occasione di fare un predicozzo, che l’orgoglio di un uomo sta nell’amore che porta alla persona amata, e che quando l’amore non c’è più, non c’è più niente che abbia significato: il mondo, quello vero, non è fatto di chiacchiere.
La posta
L’ingresso di Paula nel mio studio, sia che esca od entri venti volte al giorno è sempre una miracolosa apparizione. Non smetterò mai di dirmelo! Anche solo quando viene per portarmi la posta. Da una porta entrò Paula e dall’altra, dopo un leggero bussare, mia moglie. Ti devo raccontare di lei, di mia moglie. E’ una persona intelligente, apparentemente mite, capace di straordinarie dolcezze. Attenta a me come lo si può essere nei confronti di una bambino; ma capace di sferzarti con pochissime parole o con lo sguardo. Anche adesso, leggermente segnata dall’età e dal peso, manifesta la sua originaria bellezza. Sono stato un uomo molto fortunato nel viverle accanto. Paula le andò incontro sorridendo, si dettero due baci leggeri sulle guance, come se avessero una sorta di dolce complicità. Mia moglie è dolcemente comprensiva!. L’età. I figli. La casa. Qualche acciacco. Siamo tutti e due quasi fuori combattimento. Per quanto mi riguarda, quello che mi frega, mi imbroglia è il mio cervellino! Lui vorrebbe ancora vivere, amare …. ma perché racconto queste cose ad un pezzo di carta!! Questo pensavo nel far are tra le mani la posta quando notai una strana lettera. La girai per vedere il mittente e mi accorsi con grande stupore che me l’aveva scritta il Borini. Prima di aprirla guardai la data del timbro sul francobollo e vidi che era di pochi giorni prima della suo suicidio. Che c’è? All’unisono, mi chiesero le due donne, vedendomi impallidire. Le pregai di sedersi. Una lettera del Borini. L’apriì. La lessi ad alta voce. “ Caro dottore-cominciava così- dopo il colloquio avuto con lei sono stato a parlare con il federale per avere un chiarimento sulla vicenda degli ebrei. Per me, che sono un povero cristo, l’incontro è stato ferocemente deludente. Mi è stato detto che un ordine è un ordine e che la mia coscienza fascista non poteva che obbedire ciecamente. Che se non l’avevo capito si trattava di una pulizia morale della nostra Italia, e che era il primo o per un rinnovo, per una definitiva affermazione della razza ariana. Mi ha fatto vedere un’ordinanza che mi giungerà tra pochi giorni in cui si impone ai negozianti di esporre un cartello su cui sta scritto che in quel negozio è vietato l’ingresso agli ebrei ed ai cani. La stupida arroganza di questo individuo che in ato avevo giudicato con bonarietà mi ha distrutto. Dottore, ho io una coscienza fascista? E che vuol dire!, se ce l’ho, ho solo una sola coscienza. La mia. Posso io di fronte a mia figlia, ai
miei cari comportarmi in maniera così insensata. Gli ho poi chiesto che cosa ne sarà di questa gente, e gli ho ricordato che tra loro molti sono fascisti, più fascisti di tanti altri: una volta raccolti alla Gil, cosa ne faremo? Saranno rieducati in appositi luoghi all’uopo predisposti e che in ogni caso non era cosa che mi riguardasse, obbedissi agli ordini e basta. Il tono con cui m parlava mi dava l’impressione di uno che recitasse una parte, e che tutto sommato mi prendesse per un fesso qualunque, pronto all’obbedienza. Mi liquidò con un prepotente saluto romano a cui risposi timidamente. Dottore, sono stanco, stanchissimo di portare questa camicia nera, di obbedire a comandi a volte ridicoli, sono stanco e schifato persino di vedere Don Giuseppe con il simbolo del fascio sulla tonaca. Sono così stanco che non riesco nemmeno più a connettere quando sento parlare di riarmo, di “credere, obbedire, combattere”, di una nuova guerra, di questa povera gente che dovrei ammassare in palestra. Vorrei pregarla di farmi un grandissimo piacere, prego lei perché so che lei è un giusto, se riceve questa lettera dia ogni tanto un’occhiata alla mia Luisa, se può la consigli, la guidi. Io, da parte mia, mi arrendo. E l’ultima cosa, non porti ai carabinieri questa lettera, magari non loro, ma i miei camerati sono capaci di tutto, anche di prendersela con i miei. Grazie dottore.” Io avevo ed ho tuttora le lacrime agli occhi. Piangevano anche le mie due donne. Farò leggere questa lettera a mio figlio, facendogli giurare di non farne parola. Povero Borini, pensare che l’avevo giudicato così malamente! Certo avrebbe potuto combattere, opporsi, magari far finta di dare di matto, alla Pirandello, e in quella pazzia raccontare la sua verità, andando così incontro alle persecuzioni della milizia…. E, io, che faccio? Mando ai giornali questa lettera? A quali giornali? Dove? Forse in Francia, per poi vedersi abbattere una tempesta sulla vedova e sulla figlia del Borini? Dammi un consiglio. Sono troppo vecchio per fare l’eroe.
Due ragazzi
E’ così che fino all’altro giorno ho giudicato due miei figli, il più grande
Ferdinando, l’avvocato e Filippo, il medico. Non si sono allontanati dal paese, se non per l’università. Lavorano e vivono qui. Mi piacerebbe ci vivessero anche gli altri due: Concetta vive a Pavia col marito, che è preside di un liceo. Massimo, da poco trasferito di base all’aeroporto di Venezia, da dove continua i suoi viaggi di routine pilotando idrovolanti. Abitano tutti nel mio cuore. Filippo e Ferdinando con la sua bella moglie sono venuti a pranzo a casa, domenica scorsa. Hanno voluto parlare a quattr’occhi con me ed ecco cos’è successo. A Ferdinando il partito ha proposto di diventare Podestà. Di prendere il posto del povero Borini. Filippo consiglia al fratello di accettare quello che lui definisce un “onore”. Ferdinando è titubante e chiedono il mio consiglio. Ho chiesto se sapevano il perché del suicidio del Borini. Hanno abbozzato un sorrisino raccontandomi ciò che si dice in paese della Marisa Borini e di una sua presunta relazione con un personaggio sconosciuto, dando un giudizio ironico e boccaccesco su tutta la storia e chiedendomi cosa c’entrava la mia domanda. Ho aperto il cassetto in cui, chiusi a chiave, tengo i documenti più personali e ho dato loro da leggere la lettera del Borini. Ferdinando ne è rimasto colpito profondamente. Filippo ha reagito con un gesto di stizza, forse stava per dare del vigliacco al Borini ma gli ho imposto di starsene zitto, di non fiatare. Era tempo che non alzavo la voce con lui e questo più di altro l’ha zittito. Ferdinando ha riletto più volte la lettera ed alla fine mi ha chiesto se non fosse il caso di accettare questa carica per vedere come fare per aiutare questa povera gente. A questo punto anche Filippo non ha più parlato. Si sono resi conto che stava accadendo sotto i loro occhi quello che poteva essere l’inizio di una tragedia. Ho ordinato a Filippo di non far parola con nessuno di questa lettera e di smetterla di criticare la signora Borini che di tutto ciò non era che una vittima. Ferdinando mi ha chiesto se non fosse il caso di far conoscere la verità alle due Borini, anche per evitare che tra madre e figlia nascessero dei profondi malintesi. Bravo il mio avvocatino! Il mio consiglio è stato di non accettare la carica di podestà e di tirarsi progressivamente fuori dalle simpatie dei fascisti. Filippo non ha più parlato. Ma ne riparlerò io con lui, alla prima occasione.
Marisa e Luisa
Sono andato a trovarle con la lettera del loro babbo in tasca. Ho subito notato che tra le due donne c’era un forte dissidio tant’è che alle prime battute del nostro incontro la Luisa mi metteva al corrente che avrebbe lasciato quanto prima sua madre ed il paese, dicendomi che voleva anche andarsene dall’Italia. Coraggiosa questa ragazza. Vediamo mi son detto se avrà il coraggio di affrontare la verità sulla morte di suo padre. Così ho raccontato del mio ultimo incontro col Borini, dei suoi dubbi sulla eseguibilità degli ordini che aveva ricevuto e poi ho letto la lettera che avevo ricevuto. La Marisa ha cominciato a piangere in assoluto silenzio, rigando il suo bel volto maturo e già segnato dalle prime rughe. Non muoveva un muscolo, non singhiozzava, piangeva e basta. Luisa ha voluto leggere la lettera, restando muta, pallida e con la mano leggermente tremolante. “Povero babbo! Lui così orgoglioso della sua divisa, dei suoi stivali lucidi……” Si è rivolta verso sua mamma, abbracciandola forte, mormorando una “scusa, mamma, perdonami” Una scena, se vuoi, drammatica e tristissima. Mi hanno chiesto a lungo del loro uomo. Volevano sapere da me cosa pensassi di questa tragica decisione. Parlai chiaramente di quello che pensavo, del momento che stiamo vivendo e sotto certi aspetti mi sono reso conto che queste due persone, come forse tanta gente come loro, non solo sono disinformate, ma credono che quello che sentono alla radio sia l’unica cosa vera….”ma come l’hanno detto alla radio…” Poverette!! Ho tirato fuori dalla borsa, tenendolo con la punta delle dita per paura di sporcarmi, il numero di settembre di una rivista che ha per titolo “La difesa della razza” che porta come sottotitolo la parola scienza etc etc….scienza, capite? Scienza, niente è più criminale che tentare di far are per scientifico un qualsiasi ragionamento che abbia a che fare con l’antisemitismo o contro i popoli cosiddetti di colore. Così niente è più blasfemo di chi attribuisce ad una qualsiasi volontà divina la propria irresponsabile condotta e predicazione. Ho di nuovo spiegato loro il tormento del povero Borini, suggerendo che sarebbe meglio che la Marisa andasse orgogliosa del suo uomo, e così la Luisa di suo padre. Le ho
lasciate che piangevano, silenziosamente rassegnate. Purtroppo.
Sono tornato
Sono tornato a casa con una infinita tristezza nel cuore. Per fortuna casa mia è un altro mondo. Anche se vi succedono cose dell’altro mondo. Ferdinando ha accettato la carica di podestà. Gli ho subito telefonato dicendogli quello che gli dovevo dire a proposito degli ebrei e dei coglioni come lui. Gli ho ordinato che quando vuol venire a trovare sua madre si accerti che io non sia in casa, perché lo prenderò a calci nel culo e lo butterò fuori di casa. E uno! Aspetto che torni Filippo e sistemerò anche lui. E’ l’ora di farla finita con le dolci benevolenze! Per fortuna c’è Paula. Sembra che intuisca i miei stati d’animo. Si è seduta davanti alla mia scrivania e mi ha chiesto delle donne Borini, come l’avevano presa, di dove è stato sepolto e se, per questa volta visto che si è suicidato, gli sia stata data la benedizione in chiesa. Purtroppo, non per lui, ma per sua figlia e sua moglie, la cosiddetta benedizione gli è stata pubblicamente negata, ma don Giuseppe, il prete fascista, ha segretamente biascicato una sua particolare preghiera. Non so altro. Ho poi detto a Paula che prenda buona nota, dopo la mia morte, deve ricordare a tutti i miei che io desidero che il mio corpo sia cremato e poi che le ceneri siano consegnate al mio amico, il dottor Olivio Rossi che, data la sua avversione per la navigazione, persino quella sotto costa, dopo avermi infilato in una scatola da scarpe, mi disperderà in alto mare! Mentre parlavo sorridendo Paula mi guardava con crescente sorpresa! Fino a chiedermi, quasi preoccupata “ eh, io?!”Le ho chiesto che c’entrava questa sua domanda. La sua risposta mi ha, direi, emozionato. “E io, dove vengo a trovarla? Come faccio quando ho bisogno di parlare con lei? Se voglio portarle un regalo, un fiore, come faccio, a chi lo do?” Vorrei tanto che ci dessimo del “tu”! Per poterle raccontare del mio profondo innamoramento non solo per la sua grazia, la sua bellezza, ma soprattutto per la sua intelligenza, per queste sue improvvise sortite che io traduco in espressioni di un sentimento che va al di là di una profonda amicizia. Confesso che mi piace immaginare che lei costeggi un reciproco innamoramento: un “ci vogliamo
molto bene”. Dove il tutto si ferma lì, per l’educazione di entrambi, e per gli altri amori che ci legano altrove. Confesso a te: amori che legano lei esclusivamente! Per quanto mi riguarda sono fuori causa. Mi considero fuori causa. Solo così sono sicuro di evitare cattive figure! Immagino: io, il medico di paese, alla fine della mia discesa, con i miei capelli bianchi che ricevo in risposta ad una precisa domanda un gentile sorriso, nel quale mi si dice della confusione che starei facendo, magari con un piccolo grazie dovuto al fatto che Paula, persona intelligente e gentile, per non ferirmi, mi farà capire come si sia sentita lusingata della mia attenzione……mi fermo qui! Solo nel sogno mi sento autorizzato ad immaginare il calore di un suo abbraccio, il velluto di una sua carezza….la dolcezza delle sue labbra. “Dottore, c’è il dottor Filippo” la voce di Paula
È così che finiscono i sogni. S’infrangono nella realtà! Ho parlato a lungo con mio figlio. Prima con grande pacatezza. Un padre ad un figlio. A tratti ho perso la pazienza. In alcuni momenti ho dubitato della sua intelligenza e gliel’ho detto. M’è venuto da pensare che Paula sarebbe stata una moglie ideale per lui, poi mi sono ingelosito! Troppo intelligente lei, troppo immaturo il mio ragazzo. Mi sono sentito dire con abilità e senza meno con affetto che io sono un uomo anziano, che non posso capire lo spirito che anima i giovani di oggi. Essi hanno fede in una nazione degna dell’impero romano e che solo un uomo, un uomo come lui, sta realizzando questo grande impero che ci vede alleati con i fratelli tedeschi, anzi germanici. Che devo riflettere sulla partecipazione del partito alla liberazione della Spagna dai comunisti, che devo pensare a come l’italianità si attua nelle colonie d’Africa….. Era già qualche giorno che non fumavo il mio toscano. Fumare fa male, ma a volte fumare calma i nervi, rende socievoli e sorridenti. Mi sono un mozzicone di sigaro! Cosa che in studio non faccio mai. L’impero romano! Le strade, le leggi, la pax romana, da accettare o da essere schiavizzato o ucciso, in due parole la civiltà. Meno male che la Grecia, nata e morta prima di loro, ne influenzò l’intelligenza mitigandone la ferocia. E adesso: Lui, il duce! Allora ho detto brevemente e con la massima calma a mio figlio Filippo cosa pensavo della sua fede. Primo: il “lui” in questione era un perfetto imbecille, una pecora cretina, contornata da pecore più cretine di lui, che negli ultimi tempi seguiva
o o gli ordini di un autentico schizofrenico, spesso ridicolo e tragico personaggio che aveva ridotto alla fame il suo popolo e che ora cercava di procurare di che vivere alla sua gente derubando altri popoli. Creando il mito dell’industria tedesca, tra un cannone ed un carro armato. Non la realtà di un industria che crei benessere, che sfami la sua gente, che dia pace alla nazione. Gli ho fatto una profezia facile facile: il tutto sarebbe crollato: “lui”, il suo ridicolo impero, e l’imbianchino germanico avrebbero prodotto una immane carneficina, più immane della prima che io avevo ben conosciuto. E che, d’ora in poi, siccome questa è casa mia. Nessuno ed ho sottolineato la parola nessuno vi sarebbe entrato se non vestito civilmente, senza divise militari o miliziane e che d’ora in poi le camicie, in casa mia, dovevano essere rigorosamente bianche! Fe quel che voleva, compreso l’andarsene di casa. Filippo se n’è uscito sbattendo la porta. Imparerà.
Uno strano personaggio
Paula mi porta una scheda appena compilata. Nome cognome data di nascita, malattie infantili, esami recenti. L’uomo proviene dalla Persia, dove è nato nel mio stesso anno. Ha un nome curioso, O’missam Onirbalacs. Vediamo chi è. Più o meno della mia corporatura, il o svelto, i capelli senza un filo bianco, la pelle di un uomo di cinquant’anni. Sembra proprio che abbia vent’anni di meno. Di me. Glielo dico! Sorride e m’informa che dell’età non gliene importa quasi niente. Come a me. Salvo che lui ha qualche motivo in più per sostenerlo! Paula esce dalla studio e il mio nuovo paziente la segue con lo sguardo. Poi si rivolge a me, dandomi quasi un segno di complice approvazione. Non lo colgo e lo invito a parlarmi dei propri malanni. Non ne ha! Eccone un’altro! La sua salute è ottima- non c’era da dubitarne- Sottolineo che io sono un medico e quindi mi suggerisca come posso aiutarlo. Mi dice subito che io ho fama di essere un bravo medico che non fa molta differenza tra i mali del corpo e quelli dell’anima. Un Freud di paese! Penso io. Dice la sua sorridendo e continua raccontandomi di essere un uomo con una
piccola rendita, che finora ha girato il mondo, fatto tanti lavori. Sempre alla ricerca di una persona che fino a poco tempo fa non ha mai incontrato, di una donna di cui ha sempre saputo tutto, l’aspetto fisico, il colore degli occhi, il disegno delle labbra, la vivacità dello spirito, tutto: tranne non averla mai conosciuta. Di una donna alla quale ha dedicato un piccolo libro di poesie …. e me lo porge. Mi racconta di altri suoi amori, dei suoi figli, della sua vita. Continuo a guardarlo in silenzio, aspettando che continui. Intanto sbircio tra le pagine qualche verso. Ne resto sorpreso. Questo Persiano mi sta raccontando di sé, dei suoi stati d’animo e alla fine mi chiede se c’è un antidoto, una medicina, che possa curare un uomo come lui, con la sua esperienza di vita, dalla sua ultima malattia. Siccome non ho capito bene di cosa si tratti, resto in silenzio, aspettando che mi dica di cosa soffre. “Mi sono perdutamente innamorato! E ce ne sto veramente male, perché, dottore, l’ho finalmente trovata, e le parlo quasi tutti i giorni!” Lo guardo sospettando che sia leggermente matto! Quindi per riepilogare, dico, lei si è innamorato di una sua creatura, di una donna che gli è nata dalla sua fantasia, e che finalmente l’ha conosciuta. Allora gli chiedo, fingendo di stare al gioco, che età ha questa donna così meravigliosa. Mi risponde velocemente che ha poco più di vent’anni! E che non ha nessuna speranza, neppure quella di stringersela tra le braccia. Anche perché, forse, non esiste! Nel senso che lui la vede talmente corrispondente al suo ideale di donna che ha paura che sia un fantastico scherzo della sua immaginazione, e che da questa deve guarire. Allora, gli dico, il rimedio, l’antidoto o la medicina c’è ed è un antico farmaco. Sempre che lei consideri i risultati del suo incontro con questa giovane donna come una malattia e che per guarirne debba possedere questa creatura per il resto dei suoi giorni, cosa impossibile, e non la consideri come una gioia che la vita all’ultimo momento gli abbia offerto di vivere. Amare una persona lo si può fare da soli, senza bisogno di essere corrisposti, Farci all’amore è un poco più difficilino! Ma è un’altra cosa. Mi pare sollevato. Sorride e mi chiede se, nel caso se ne stesse facendo una malattia, quale potrebbe essere la cura e se posso fargli rapidamente la relativa ricetta. Mi sporgo sulla scrivania per essere più vicino possibile al mio “ paziente”. No, gli dico, non c’è bisogno di nessuna prescrizione medica, la cura di tale grave malattia si chiama “specchio”! Specchio? Si, ci si guardi, al mattino quando si alza, prima di lavarsi il viso, prima di pettinarsi o di farsi la barba, prima e dopo ogni pasto e la sera quando va a letto. Si specchi a lungo in un
qualsiasi specchio e si confronti con quel se stesso che desidera avere la sua ventenne tra le braccia, che vorrebbe baciare con la sua bocca, di mattina presto, appena sveglio, con il suo alito fresco e giovanile …. Ha capito. Mi chiede se la sua malattia è inguaribile. No, gli dico . Può non essere una malattia. E’ uno stato d’animo, bellissimo! Finché resta tale. Però, se chi lo prova lo giudica come se si trattasse di una malattia non v’è che un rimedio per farsela are. Confrontarsi con se stesso, con leale serenità. Il persiano mi guarda deluso. La mia diagnosi e la cura prescritta non gli è piaciuta. Gli specchi non piacciono a nessuno. Nemmeno a quelli come me, come lui, che si battono per l’abolizione del tempo che a! Nel parlare sto pensando a Paula. Io, concludo tra me e me, di non aver bisogno di specchi!
Perché?
Perché sono sicuro che non avrei “tutto” da darle. Nel dire tutto penso all’impossibilità di un futuro. E non per un problema di inesistenza del are del tempo, come sostengo, guarda caso, da molto tempo! Ma perché noi umani siamo fatti di una materia deperibile, come qualunque essere vivente. Anche se questo non ci toglie il gusto di dare e ricevere una carezza. Che poi per abitudine ci si sia chiamati animali -non tutti- come fossimo dotati di anima, trovo che non cambi la natura delle cose. Come diceva l’ottimo Lucrezio. Ma prima di lui anche l’Ecclesiaste parla della scadenza del “tempo”. Forse meglio definibile come “stagione per ….” Una stagione per nascere, una per crescere, una per riprodursi, una per allevare la prole ed una per morire. Il resto, nel senso del tutto, è un castello di carte. Un castello nel quale per alleviare la noia, l’abitudine alla ripetitività degli stessi gesti, e cercare di dare un senso al tutto abbiamo posto un arredo con stanze meravigliose. Tra queste alcune inutili ma molto frequentate come la stanza della guerra, quella dell’odio, quella della stupidità. E poi la più bella: la stanza dell’amore, e per farla abitare non solo da chi naturalmente ne avesse il dovere - diritto d’esserci, l’abbiamo abbellita con la musica, la poesia, l’arte. Col crederci immortali. E con noi immortale l’amore: una musica perenne. Per altro raramente dall’amore scaturisce musica, mentre sempre l’amore quando è tale, è musica! Col credere, dicevo, che si possa
rinascere e ritrovarsi in una vita simile a questa o in un’altra migliore. Inventandoci l’inesistenza delle stagioni per prolungare a dismisura primavera ed estate; e questo perché il nostro cervello non invecchia come il resto del corpo. Ed è con lui, nonostante ciò che tutti noi pensiamo, che in realtà si ama. Tutto il resto del nostro corpo, quando ama, quando spasima, si eccita, soffre, ed ardentemente desidera un altro corpo, credendo di essere l’unica vera espressione dell’amore, ha solamente la stessa funzione del nostro intestino. Si nutre di questa sensazione, digerisce ed espelle i resti. Così che quando sono solo i corpi ad amare e ad essere amati, nutriti sempre con lo stesso cibo, diventano anoressici e l’amore finisce! Ecco questa assoluta verità. Quanta gente ho visto, ho visitato, la cui unica malattia nasceva dalla delusione di avere creduto di amare, di aver chiamato amore ciò che era solo desiderio. Come fare una indigestione e ritrovarsi con il mal di pancia, ed averne la testa confusa. Crediamo nell’eternità solo perché la nostra attuale vita, quella che stiamo vivendo, la si percepisce, ed è, come l’ultimo anello di una lunghissima catena il cui inizio si perde nei meandri della natura. Per rinascere, rigenerare altri anelli di questa catena a cui diamo il nome di “figli” In questo millenario percorso abbiamo visto nascere e morire un’infinità di amori, di innamoramenti, così che se, improvvisamente il nostro cuore palpita, meglio dire il nostro cervello riconosce, dipinti in un altro essere umano, i tratti, il volto, il sorriso ed il tono di voce in un’addizione di sensazioni già vissute, le nomina subito “amore”. Con l’assoluta libertà, anche piacevole, di sbagliarsi. Ho detto “ riconosce”: Ma prima di me, modestamente, il grande, sommo ed unico, Aristocle, in arte detto Platone, aveva scritto che “amare è conoscere” Ti è piaciuto?! Appena posso sentirò sull’argomento il parere di Paula: so che è innamorata, comprese le tempeste che questo innamoramento le provocano.
Paula
Non è d’accordo. Sostiene che per entrare nella stanza dell’amore non c’è “diritti o doveri ”; in quella stanza si entra fin dalla nascita, perché l’amare è un diamante con mille sfaccettature. Amo i miei genitori, amo i miei amici, amo
un’alba....Mi dimostra così quello che avevo già capito da tempo. Questa donna ha una capacità di riflessione, una sensibilità così profonda che mi emoziona. Più l’osservo e più mi rendo conto che ha ed avrà delle difficoltà a rapportarsi con tutto ciò che è esterno a lei. Compresi gli uomini di cui si innamorerà, o l’uomo di cui è innamorata oggi.. Glielo dico. Mi apre il suo cuore. Resto affascinato dalla intelligente luce che sprigiona. La sua capacità di analisi, di approfondimento, la porta a desiderare una corrispondenza di sentimenti, di premure, di dolce rispetto per le cose della sua vita di tutti i giorni oltre che per la sua capacità di amare che le renderà non facile il vivere. Forse crescendo con l’età, con l’esperienza, riuscirà a rafforzare la sua volontà di resistenza al non essere capita come vorrebbe, a non ottenere pienamente ciò che è capace di dare. Mi auguro e le auguro che quand’anche riuscisse a crearsi una corazza protettiva, non perda mai il suo calore. Io, uomo di una certa esperienza di vita, solo avvicinandomi, accostando le labbra a questo meraviglioso calice, provo una gioia incredibile. La vita mi ha dato modo di conoscere oltre a mia moglie, che giudico straordinaria, un’altra donna straordinariamente bella. Raramente capita che la bellezza di un cuore sia più meravigliosa di una già perfetta bellezza di un corpo. Di certo, questa, non sarà mai mia! Ma non vuol dire niente. Sarà sempre ed ancora più bella!
Rieccolo!
Paola mi porge una busta grande. Dentro ci sono due buste. Una indirizzata a me e l’altra ad una certa Nadia Labonici, che non so chi sia. Apro quella indirizzata a me. Dentro ci sono mille lire ed una lettera. La lettera a firma di Onirbalacs, il persiano, mi dice che i soldi sono per il mio onorario. Resto meravigliato: una cifra incredibile! Mi scrive per ringraziarmi della cura dello specchio. Mi dice di aver girato per giorni in tutto l’albergo che lo ospitava, guardandosi in tutti gli specchi che trovava! Ed in essi, ogni volta, vedeva se stesso, il suo ato, il suo oggi, Non era riuscito a vedere il suo futuro. Questo gli aveva chiarito i limiti della sua illusione. In particolare qualche giorno dopo, per un assoluto caso, aveva ato molte ore con Nadia, la ventenne di cui si era completamente innamorato, Aveva deciso di tornare in Persia. Mi pregava di far recapitare la lettera indirizzata a questa Nadia. Eccomi trasformato in un postino. La lettera era aperta. Forse un invito a leggerla. Non ci penso neanche. Apro il
mio cassetto e ci metto dentro tutta la busta. Mille lire!! Un pazzo!
L’inizio della fine
Era già successo con l’annessione dell’Austria da parte della Germania nel marzo del ’38.E da questo si era avuta conferma di come la pirateria tedesca fosse pronta a depredare l’Europa, Per non essere meno stupido di Hitler, l’uomo, che secondo il vaticano ci era stato mandato dalla provvidenza, invade l’Albania (dirò a Paula di ricordarmi di mandare una cartolina all’ Albania per darle l’indirizzo della provvidenza) Pochi giorni fa con settanta divisioni e duemila cinquecento aerei i tedeschi invadono la Polonia. Credo che ne rimarranno distrutte intere nazioni. Moriranno altri milioni di uomini. Infatti la Gran Bretagna e la Francia hanno dichiarato subito guerra alla Germania. Si sono per ora dimenticate dell’Italia, ma ci penseranno a Roma a ricordarglielo. Io, insieme a tutto questo mondo governato da farabutti, sono stanco. Perché parlare di sentimenti, di amore, di emozioni quando un centinaio di piccoli imbecilli nostrani sfilano con le loro camicie a lutto, con le loro bandierine piene di teschi, le chiamano gagliardetti e di pugnalini, inneggiando alla guerra. Ma si accorgeranno presto a spese di tutta l’umanità che la guerra non è un’avventura romantica ma solo un suicidio di massa. Filippo si è subito arruolato negli Alpini, nella divisione Julia, come ufficiale medico e non so dove l’abbiano mandato. Massimo, appena tornato da Venezia, con moglie e figli, è stato richiamato. E per fortuna, dato il suo ato di studi a medicina, voleva fare il veterinario, è stato inquadrato in un reparto di Sanità, e non in aviazione. Domani si dice sia prevista la sua partenza per il confine con la Francia. O il fronte contro la Francia. Non lo so. Ferdinando se ne sta ben nascosto tra il suo studio di avvocato e la sua divisa da podestà. Il marito di Concetta è troppo vecchio per fare la guerra, e se ne sta tra i suoi banchi di scuola. Meno male. Eccoci sistemati tutti. Io. Io mi godo l’ultimo sole della mia vita. Mia moglie piange e ne ha tutte le ragioni. E’ arrivata da Lucca la sorella di mia moglie. La zia Italia: Ha quasi ottant’anni. Piccola di statura. Maestra in pensione. Una gran carattere! E’ nata nel 1862! Italia di primo nome e Liberata di secondo. E’ una speranza per tutti noi che l’Italia sarà prima o poi liberata dall’idiozia.
Oggi abbiamo pranzato noi tre soli. L’Italia ha un appetito fantastico, per i suoi ottant’anni La guardavo da molto vicino e non mi ricordavo la grandezza un tantino smisurata delle sue orecchie, aggravata da due orecchini da un quintale l’uno! A fine pasto, dopo la frutta, zitta zitta si è bevuta due bicchieri di vino rosso. Uno dietro l’altro. Le ho chiesto se non pensasse che le possano far male. Li beve sempre, dopo pranzo e dopo cena. Salute all’Italia Liberata.!
Però
Però se sono stanco! Sarà stato il pranzo. Da qualche tempo ho difficoltà nella digestione. E il battito del cuore accelerato. E si che non mangio né pesante né tanto! Andrò da un dottore. Da me non mi riesce diagnosticare alcun malanno. Mi frega l’ottimismo, e, da qualche tempo, la voglia di rivedere Paula nel mio studio. Apro il mio cassetto e ti ritrovo la lettera del persiano a questa sua Nadia. Perché l’ha lasciata aperta? Distrazione o voleva che la leggessi. Sono un vecchio curioso e pettegolo. Chiudo il cassetto. Riapro il cassetto. Se impostassi questa lettera mi leverei dall’imbarazzo. Se la leggessi, anche! Apro la busta. Ma quanto scrive! Bella calligrafia. Due pagine. Coraggio
Amica mia,
ad occhi aperti ho sognato. Eravamo seduti, vicino l’uno all’altra, sulla vetta di un colle, dietro un antica porta. Un luogo segreto del mio cuore. Osservavo il cielo colorato di nuvole per suggerirti, quanto e come, pieno di sole fosse più bello. Ti piacque così. Ti parve più vero. Eri lì, nel sogno, così vicino a me che
sentivo il tuo respiro, percepivo i tuoi pensieri e capivo che in parte mi escludevano da te. Per questo non ho osato abbracciarti. Mi sono sdraiato sull’erba. Seduta, mi sovrastavi. Guardavo il cielo e vedevo te. Eri il mio cielo. Leggerai queste parole ed io sarò tornato nelle mie terre. Lì amo un’altro luogo, sulla riva di un piccolo golfo. Sto pensando a quel mare quando è calmo, con una minuscola onda che lambisce la riva. Il mare è morbido. So che, accarezzandolo con lo sguardo, penserò alla tua pelle, al tuo corpo perfetto, ed avrò il desiderio di un lungo e miracoloso bagno. Di certo, si sa, ci sono dei sogni che sono destinati a svanire. Altri invece che ti restano impressi nel cuore perché diventano splendide realtà, essi infatti sono sogni che hanno la coscienza di essere solo dei sogni, e come tali vivono sempre. Forse avrai capito dal nostro parlare la mia assenza in una qualsiasi fede. Questa assenza vacilla quando ti penso, ti guardo, perché comincio a credere che solo un dio possa aver immaginato e creato il tuo sorriso. Ho parlato a lungo con un amico dell’incredibile profondo amore che è nato in me quando ti ho conosciuto e soprattutto quando ho capito il tuo pensare. Mi è stato chiesto di riflettere sulla distanza dei nostri tempi. L’ho fatto. Ho anche rivisitato i miei tanti innamoramenti, i miei amori, le gioie ed i dolori spesso nati da una qualche impossibilità di realizzazione. Un rifiuto, una situazione troppo complessa da affrontare, spesso un abbaglio. Lo so che l’amarti non mi darà altro che amore, il mio per te. Questo non mi darà dolore, non mi farà soffrire anche aggiungendo al tempo che ci separa, un lunghissimo spazio. Non mi farà soffrire perché so che tu non potresti mai amarmi. I tuoi progetti di vita sono alla loro alba. Io non ho più quasi niente da vivere. Ho solo la possibilità di applaudire al tuo essere, ammirarti fin che mi sarà possibile; vorrei, e mi riesce difficile, pregare un qualche dio perché tu possa un giorno trovare una persona che sappia capire ciò che sei in grado di dargli amandolo e che ti ricambi con tutta la tenerezza che solo un tuo sorriso sa far vivere. Ovunque io sia, ovunque tu sia, nei limiti della mia immaginazione sappi che il mio cuore batterà sempre per te, pronto a darti se stesso. Io ti amo. Come scrisse il grande Shakespeare, il mio cuore batte nel tuo petto. O’missam
Poverino!
Ho riletto più volte questa lettera. Tenero arrendersi alla realtà. Meglio arrendersi che cercare di forzare la realtà. Sentirò il commento di Paula e poi cercherò di far recapitare alla signorina Nadia questa lettera. Mi piacerebbe conoscerla! A Paula la lettera è piaciuta. Direi che ci si è leggermente commossa: Forse sarebbe piaciuto anche a lei ricevere una lettera cosi piena di dolcezza. Si è offerta di recapitare la lettera, così conoscerà Nadia. Mi sono raccomandato di osservarla bene, da riferirmi com’è questo splendore.
Ci siamo!
Invadiamo la Russia a fianco dei nazisti. Faremo la fine di Napoleone, con la differenza che in mezzo a loro c’é Filippo. I giornali scrivono che abbiamo catturato diecimila soldati russi. A cui ovviamente dovremo dar da mangiare. Sembra che si sia chiamati a dare una mano ai tedeschi che sono sotto attacco da parte dell’esercito russo. Vorrei riuscire a non pensarci. Ed ho una fitta al cuore non solo per Filippo ma anche per tutti quei ragazzi in mezzo alla neve. Sia i nostri che gli altri. A volte credere in qual cosa potrebbe far bene, anche se non servirebbe a nulla. Comunque sia, mi vien da pregare per tutti. Una tristezza profonda. Tenterò di dormire.
Paula&Nadia
A dir poco è tornata entusiasta dall’incontro con Nadia, anche perché con sua grande sorpresa si è trovata di fronte una ragazza della sua età. Gentile e piena di premure, e la cosa più sbalorditiva, racconta Paula è la straordinaria somiglianza di questa ragazza con lei. Due sorelle! Hanno preso il te insieme ed hanno chiacchierato tutto il pomeriggio: Secondo Paula, nonostante Nadia avesse conosciuto da poco il nostro persiano, ne aveva capito la profondità del sentimento che le aveva ispirato. Sicuramente Nadia non si era a sua volta
innamorata. Ma provava per questo sconosciuto un sentimento misto di grande affetto che rasentava l’amore. Amore che non poteva essere perché Nadia era super fidanzata ed amava questo suo quasi coetaneo anche se per strane ragioni non riceveva da lui quella gioia, quell’allegria che il suo sentire esigeva. Non provava né delusione, né amarezza. Solo, a volte, si sentiva come abbandonata ad una solitudine che non le faceva presagire niente di buono. Si era nuovamente iscritta all’università, aveva trovato un lavoro che la impegnava, ma con un futuro incerto. Guerra, compresa. Una cosa aveva notato Paula, e questo la frenava nel trovare troppe somiglianze, Nadia era di una bellezza solare. Sotto un leggero vestito di seta, blu a pois bianchi, si capivano i suoi fianchi stretti, una vita proporzionata, lunghe gambe che sembravano create per l’amore. E su tutto questo, seni pieni e disegnati perfettamente. La lettera del persiano, aveva riempito Paula di malinconia. Il suo giovane amore non sarebbe mai riuscito a scriverle parole di tale profondità. L’amore tra loro era costruito di fatti, certamente non di parole. E queste erano, le parole, che sia a lei che a Nadia mancavano. Le parole esprimono a volte meglio di mille baci, la gioia dell’amore: Parole e baci insieme, conclo ridendo, erano la cosa migliore! Si consultarono sulla possibilità di rispondere a questa lettera così affettuosa e poi Nadia decise che ci avrebbe pensato. Paula mi ha raccontato che nel tornare a casa sentiva su di sé l’armonia di questa lettera che non era stata scritta per lei. E come anche lei sentisse il bisogno di essere amata con una così totalità di comprensione. Non solo perché era bella ed intelligente, ma perché l’essere amata così avrebbe dovuto riempire tutti gli orizzonti del suo uomo, scatenando in lui ogni musica possibile, ogni melodia che le fe capire la serena profondità dell’amore che le era dato. Poi mi disse, ma forse non ho capito bene, che l’unico uomo che avrebbe potuto scriverle una così bella lettera, quello ero io. Non le risposi. Che si sia accorta del mio silenzioso amore!? Pensai che avrei potuto lasciarle in eredità tutta quella felicità che mi aveva dato nel lavorare con me, nell’essermi vicino.
Sono seduto sul letto.
In pigiama. Arriva mia moglie con una tazza di brodo. Che è successo? Prende una sedia, si accosta al mio letto e mi dice che sono stato male. Male? Si. Mi sono accasciato sulla scrivania, pallido come un cencio. Paula l’ha chiamata e poi subito ha chiamato il mio amico Rossi. Diagnosi: un infarto. Cura: stai fermo a letto, non ti affaticare perché il pericolo è dietro l’angolo! Pericolo? Il Rossi m’informa di una novità, con un infarto alla mia età, si schianta. Bella novità. Mi chiede, visto che la situazione non è simpatica, e che io sono del tutto sveglio, se voglio parlare con un prete. Si meraviglia quando gli dico che va bene. Mi porti pure un prete, anzi più preti. Voglio un buddista, un taoista, un mussulmano, uno shintoista, uno stregone.....mi interrompe ridendo e mi dice che può portarmi solo un prete fascista! Mia moglie lancia uno dei suoi gridolini quando dico al Rossi dove può metterselo il suo prete fascista. Chiedo di poter vedere Paula, Le devo dire dei miei appuntamenti. A chi affidare i miei pazienti. Questa ragazza è d’oro!: mi porta una penna, un calamaio con l’inchiostro e te, mio buon amico. Le chiedo di restare solo. Si avvicina a me, si china sul mio viso ed accosta le sue labbra alle mie. Dovessi morire ora... nell’elegante e sorridente malinconia del mio crepuscolo....non mi resterà che attendere, ogni sera, che risplenda almeno per i prossimi cinque miliardi di anni, il cielo stellato sopra di noi...
Post-fazione
Deve essere il destino di tutti i diari! Quello di rimanere segreti, scomparire e riapparire anche dopo molti anni. Un’abitudine, come scriveva mio nonno. A distanza di settanta anni dalla morte di mio nonno, nel leggere queste righe del suo diario, ho capito che avrei fatto cosa gradita a lui ed a qualche amico mio se tentassi di stamparlo anche se solo in pochissime copie. Prima di farlo sono andato a cercar di conoscere Paula e Nadia. Sulla tomba di Paula, insieme ad una sua nipote, ho posato un mazzo di rose rosse e una piccola orchidea.
Poi in quella casa che fu di Paula ho sfogliato molti album di foto. Paula piccolina al mare, Paula in bicicletta, alle medie, a vent’anni, ed una foto, grande, in una pagina, Paula con mio nonno. Una foto di un funerale, quello di mio nonno. Incredibile la quantità di gente e di bandiere fasciste! Non sono riuscito a star zitto. Ho notato come questa ragazza fosse un autentico splendore! Bellissima. E poi il giorno del suo matrimonio, il suo primo bambino, la sua bambina. Paula a cinquant’anni, ancora bellissima. Ne abbiamo parlato a lungo di nonna Paula. La nipote Paola, portava il nome della nonna, ricordava benissimo di mio nonno, non perché l’avesse, ovviamente, conosciuto, ma perché a sua nonna Paula, quando e spesso raccontava di lui, le brillavano gli occhi. Certamente, concluse la nipote, mia nonna voleva un gran bene al suo dottore. Forse l’amava, con una segreta e profonda tenerezza. Le ho chiesto se sua nonna avesse mai letto questo diario. Rimase sorpresa dalla mia domanda e con un po’ di titubanza mi raccontò che la nonna le aveva detto di essersi fermata, dopo la morte di mio nonno, ad aiutare l’avvocato Ferdinando a mettere in ordine le carte del padre. Un pomeriggio ritrovò, nell’aprire un cassetto dove lei stessa l’aveva riposto, questo piccolo quaderno; si accomodò in poltrona e se lo lesse. Che impressione ne ebbe: una commozione, quasi una gratitudine immensa verso quest’uomo perché l’aveva capita e certamente amata, rispettandone i sentimenti, senza mai neppure per scherzo cercare di ottenere da lei niente più di un sorriso. Mi raccontò poi di aver provato un tenerissimo amore per lui. Lo considerava non un padre, non un fratello maggiore e neppure un caro amico, ma una specialissima ed unica persona che avrebbe voluto incontrare di nuovo in una qualche nuova vita. Di Nadia ho trovato poche tracce. Tranne la notizia che, abbandonato il suo primo fidanzato, si era sposata con un ufficiale americano e se ne era andata negli Stati Uniti con il marito, che divenne un importante magistrato. Filippo fu uno dei pochi a salvarsi dalla bufera russa, ridimensionando se non dimenticando la sua ione fascista. Diventò nel corso degli anni a venire un famoso medico ed un altrettanto autorevole manager, di cui ancora oggi è vivissimo il ricordo in paese. Ferdinando morì giovanissimo, a cinquant’anni, troppe sigarette e tanti affanni. Massimo, se n’è andato qualche anno fa, e così tutta la famiglia di mio nonno. Così Concetta e suo marito. Mi viene in mente il Lee Masters di Spoon River.... “tutti, tutti, dormono dormono là sulla collina”. Con le loro ioni, i loro amori, i loro desideri, i loro mal di pancia. Resta di mio nonno, oltre alle sue tante foto, una splendida e grande fotografia che lo ritrae con la moglie il giorno delle nozze, nel settembre del 1899. E poi le sue medaglie della prima guerra mondiale, il ricordo che il paese ancora oggi ha di lui anche perché fu il
fondatore e l’animatore, agli inizi del secolo scorso, della società del Pronto Soccorso. Di lui, dicevo, restano queste sue parole, in questo diario, che testimoniano la felicità dell’ultima e forse grande immagine d’amore della sua vita. Chissà se questo suo visionario amore fosse stata vissuto oggi, come sarebbe stato vissuto. Spero nello stesso modo. Con educazione, con intelligenza, con la immensità di un sentimento vero, pulito. Sarà contento se dedicherò la stampa di questo piccolo diario alla sua Paula, che in fondo, forse, non rappresentava che l’immagine giovane della sua capacità d’innamorarsi.
Di certo sarebbe più contento, anzi sarebbe stato più contento mio nonno se tutto ciò che ho raccontato lo avesse vissuto veramente! Anzi, se tutto ciò fosse vero e non inventato dall’inizio alla fine!! In fondo, che differenza fa!?
Epicuro. Lettera a Meneceo. trad. A.M. Pellegrino ed.Stampa Alternativa. “Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell’animo nostro”.
Le notizie storiche sono tratte da “Storia d’Italia nel periodo fascista” Salvatorelli-Mira. Einaudi ed.1961
Lettera di uno spermatozoo al suo babbo - Massimo Scalabrino
Stampato nel mese di giugno 2013 da www.stampalibri.it - Boon on demand - Macerata
Versione digitale realizzata da: Eugenio De Angelis nel mese di giugno 2013