Ilaria Pasqua LE TRE LUNE DI PANOPTICON Anime prigioniere Lettere Animate Editore
Isbn: 978-88-6882-130-2
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Alle parole, fondamento dell’umanità
“Lo strumento fondamentale per la manipolazione della realtà è la manipolazione delle parole. Se puoi controllare il significato delle parole, puoi controllare anche le persone che le usano.”
Philip K. Dick
COME TUTTO EBBE INIZIO
Il Paese della Luce, come venne chiamato, era tutto fuorché luminoso. I tre villaggi che lo componevano, non erano distanti l’uno dall’altra solo nella posizione, ma anche nello spirito. Non erano tanto lontani, però, da non potersi toccare, o sfiorare lievemente con i loro confini. Ognuno dei tre credeva di essere il più forte, il più virtuoso, il più meritevole di possedere il Grande Libro. Si diceva che questo avesse dato origine, non solo al Paese della Luce, ma all’intero pianeta, grazie alle forze della Natura, che lo avevano generato per conservare l’equilibrio. Un equilibrio che l’essere umano, in nessuna epoca, è mai riuscito a mantenere. Smosso, com’è sempre stato, da bisogni terreni che ne hanno minato, di volta in volta, lo spirito. “L’uomo non è un animale pacifico” diceva il Grande Libro durante l’apparizione settimanale, in cui il capo leggeva le righe che comparivano di fronte all’intera popolazione. “Ed io sono qui per ricordarvi di vivere in pace. Perché è la pace ciò che all’uomo serve”. I tre villaggi se ne stavano buoni nei loro boschi e nelle loro pianure, con alte mura a proteggerli, come se aspettassero che qualcuno attaccasse da un momento all’altro; erano dei vulcani inesplosi, pronti a infiammarsi. Il Grande Libro ogni settimana veniva portato di villaggio in villaggio, come era stato stabilito alla sua apparizione, o meglio quando venne ritrovato al centro dei tre luoghi, proprio all’intersezione tra i loro tre accampamenti. Era cosa certa, infatti, che il Grande Libro fosse già lì prima che l’essere umano nascesse, forse era stato persino il Libro a volere l’uomo, come una sorta di Dio onnipotente. Questo, gli uomini, non lo potevano sapere, anche se lo rispettavano perché i loro villaggi, con la sua presenza prosperavano, nonostante le malattie continuassero a colpirli. I tre villaggi alzarono palizzate sempre più alte, ma continuarono a far are il Libro di mano in mano, settimana dopo settimana, temendo l’ira del grande
Spirito. Un giorno però, il capo del primo villaggio, ordinò ai suoi uomini di non portare il Libro come di consueto, accecato ormai com’era dalla sicurezza che la sua vita non sarebbe cambiata e dalla pacifica calma dei giorni ati, che lo aveva reso cieco ma irrequieto. Gli abitanti reagirono in diverse maniere: alcuni con gioia, altri con paura. Nonostante le critiche di molti, il Grande Libro rimase lì. “Lo abbiamo trovato noi. Ci appartiene di diritto” diceva il capo villaggio rafforzando intanto le mura e mostrando le armi che in quelle ultime settimane erano state costruite. “L’uomo non resiste alla guerra, perché non è mai soddisfatto di quello che ha” scrisse il Grande Libro quella notte in cui tutto cambiò. Gli altri due villaggi, informati dell’accaduto, partirono e attaccarono il primo, ma finirono per confondersi gli uni con gli altri, vista la completa ignoranza in quel genere di cose, poiché erano sempre vissuti in pace. I tre villaggi combatterono l’uno contro l’altro, con un odio che non avevano mai avuto, scambiando i fratelli per nemici. Fino a quel momento, c’era sempre stata indifferenza tra gli abitanti, una fastidiosa convivenza che però non si era mai trasformata in odio. La smania di possedere il Grande Libro, invece, li aveva accecati e, paradossalmente, ciò che doveva portare equilibrio aveva generato il caos. Non bastava una vita tranquilla e pacifica, o il monito diffuso dalla presenza del Grande Libro: “L’uomo ama la guerra, non riesce a vivere senza”. I tre villaggi ne uscirono quasi distrutti dalla battaglia. Il Grande Libro sapeva cosa stava per succedere. Lo sentiva nel cuore delle persone, nei gesti calibrati, eccessivamente calmi di quella quiete innaturale che stava per trasformarsi in una tormentata tempesta. Il Grande Libro lo prevedeva e agì. Se non l’avesse fatto, la guerra sarebbe ripresa, sterminandoli. Quella notte, nei tre villaggi, tre donne diedero alla luce tre bambini. Nel primo villaggio una bambina nacque nella calma, negli altri furono due maschi invece a urlare, come se avessero percepito il tumulto nell’aria e le agitazioni di spirito di quella notte in cui erano nati.
Celestia, Latlock e Paris, questi furono i loro nomi. Il Libro quel giorno rinacque insieme con loro. Fu questo il gesto ultimo del Grande Spirito. Il testo s’illuminò e bruciò le sue pagine rapidamente, poi qualcosa, un nucleo di spirito che sembrava contenere tutta l’energia del pianeta, schizzò via separandosi in tre. Così in ogni culla comparve un libro. Ora erano tre, tre come loro. Tre libri quasi identici, diversi solo nei colori. Blu come il mare per la bambina, giallo come il sole per uno dei due bambini, e rosso come il sangue per il terzo neonato. Due volumi non potevano essere abbastanza, ma tre avrebbero mantenuto l’equilibrio. Lo spirito del Grande Libro lo sperò: ora non avrebbe fatto altro. Divise in tre la sua stessa essenza mettendosi nelle mani di quei tre neonati. I bambini furono chiamati custodi, custodi del Libro originario che aveva accontentato i villaggi riportando la pace… per il momento. I tre bambini avevano il divieto di incontrarsi, anzi, non sapevano neppure dell’esistenza l’uno dell’altro. Ogni settimana, come già accadeva prima, il Libro parlava, ma lo faceva per tramite del suo piccolo custode. Raggiunti i dieci anni, i bambini divennero curiosi, e si mossero ognuno verso gli altri, ignari di tutto questo, eppure spinti dal legame che il Libro originario non aveva potuto far scomparire. Erano legati, come un’unica cosa. Una mattina d’estate i tre si trovarono, nello stesso luogo, uno splendido lago che si nascondeva tra i boschi e le rocce da cui scendeva una ricca cascata, che rifletteva i raggi del sole. Era quello il Paese della Luce. Forse chi aveva scelto il nome a quel Paese aveva visto prima il luogo. Doveva essere così. In cielo brillavano le tre lune sorte dopo la loro nascita, che riflettevano i colori, tenui ma intensi, dei tre libri dello Spirito: blu, giallo e rosso. Tutti e tre pensarono di aver trovato il centro del loro mondo, e incredibilmente era proprio lì che il Grande Libro si era nascosto all’origine del pianeta.
Latlock e Paris guardarono intensamente quella bambina dai lunghi capelli castani, che sembravano riflettere la luce come lo specchio dell’acqua. Intorno alla testa pareva avesse un’aureola luminosa, mentre il chiarore della pelle faceva risaltare i suoi occhi verdi curiosi. I tre si contemplarono per minuti interi. E s’innamorarono. Ogni mattina si ritrovavano presso quel lago splendente. I primi quattro giorni, però, nessuno aveva ancora avuto il coraggio di parlare. Andavano lì e trascorrevano le ore accucciati a osservarsi, a studiarsi, come se apparissero l’uno all’altro come animali sconosciuti, o estinti. Il quinto giorno Latlock si tuffò nel lago e gli altri due lo seguirono. Iniziarono a giocare e da allora continuarono a farlo ogni giorno. Si sentivano finalmente completi. Latlock rimase sempre il primo a buttarsi. Lo spirito originario sapeva che il loro incontro sarebbe potuto essere una benedizione così come una maledizione, ma era inevitabile che accadesse. I tre erano sempre più legati, Latlock e Paris erano innamorati di Celestia, e lei di loro, ma i suoi occhi erano attirati più spesso dal primo, anche se dell’amore non sapevano ancora nulla. Sempre più spesso Paris assisteva ai loro scambi di sguardi, senza fare nulla per impedirlo, anzi si teneva in disparte, incerto. Quando raggiunsero i diciassette anni oltre al tempo, anche il loro spirito mutò. I tre Libri nel corso degli anni, assunsero le sfumature dei loro custodi, seguendo le loro attitudini naturali, le inclinazioni e le pulsazioni. Vivevano così in simbiosi, da influenzarsi a vicenda. Quando arrivarono a quell’età, si fossilizzarono definitivamente su tre diverse attitudini: il Libro di Celestia sul bene, quello di Latlock sul male e il terzo sull’incertezza. Quell’incertezza di esistenza che Paris aveva sempre percepito sulla pelle. Quell’incertezza e indeterminatezza in cui aveva vissuto durante tutti quegli anni, da quando aveva conosciuto gli altri, da quando Latlock era diventato una sorta di leader che si prendeva tutto ciò che voleva e quando voleva, anche Celestia, la sua Celestia, che, inizialmente, trattava entrambi nella stessa maniera. Eppure la sua incertezza era divenuta patologica a causa della presenza di Latlock, che al contrario si faceva sempre più sicuro, volendo sempre di più, pretendendo ogni cosa. Celestia e Latlock, Bene e Male, erano due facce della stessa medaglia, che si
contaminavano a vicenda, quasi confondendosi. Paris non poteva fare niente per impedire quel loro rapporto simbiotico, poiché loro erano legati indissolubilmente. Eppure senza di lui non potevano stare. Era l’ago della bilancia, una presenza inscindibile. Celestia era ora una donna forte, profondamente saggia e giusta, una donna che riusciva a risolvere ogni tipo di problema e che era in grado di far scendere sugli animi la calma, la serenità, anche solo con la sua presenza. Ma nonostante ciò, la sua personalità pacifica ne nascondeva una tormentata, e la presenza di Latlock non faceva altro che portare alla luce tutti i suoi angoli bui, distruggendo Celestia e rinforzandola allo stesso tempo. Paris intanto non poteva fare altro che rimanere a guardare, dare man forte all’uno o all’altro, mantenendo un equilibrio ogni giorno più precario. Forse non c’era mai stata una speranza. I due non erano più gli stessi, e la confusione stava uccidendo il loro legame a tre. Come se i villaggi riuscissero a sentire questo cambiamento, iniziarono tra di loro i primi tumulti. Ognuno voleva la supremazia sull’altro, così come succedeva fra i tre custodi che erano diventati squilibrati, ormai di uno squilibrio insanabile. I Libri parlavano ai giovani raccomandando loro prudenza, ricordando a tutti e tre che il rapporto sarebbe sempre dovuto rimanere stabile, in completa uguaglianza, senza prese di posizione o sbalzi d’affetto. Un rapporto pieno di rispetto e di amicizia, umile, di parità e non di quell’amore che era pericoloso anche per un comune essere umano. Conservare questo tipo di legame era una promessa che tre ragazzini, così come tre uomini, non potevano mantenere. I villaggi ora volevano di nuovo affrontare la guerra, e lo spirito originario capì che tutto questo era stata una maledizione. I villaggi mandarono avanti i tre giovani che non vennero più chiamati custodi, ma guerrieri. I villaggi, che non si erano assegnati un nome per mantenere l’uguaglianza, ora portavano i nomi dei loro guerrieri. I tre ragazzi furono costretti a combattere, a uccidere, utilizzando il potere sopito dei Libri: quell’energia misteriosa che sgorgava in loro, sin dalla nascita. Celestia tentava di portare pace, ma era costretta ogni volta a fuggire, sporcata
dal sangue degli altri uomini e del suo stesso sangue. Non poteva sopportarlo. Un giorno era stata costretta a uccidere degli uomini che volevano portarsi via la vita di sua madre. E questo l’aveva scossa, il suo spirito era vacillato. Lei aveva provato soddisfazione e sollievo oltre che disgusto. Si accorse che si accaniva con sempre maggiore rabbia su quegli esseri umani e sentiva di star perdendo pian piano il contatto con sé, come se la guerra la stesse sporcando, e ancor peggio, come se fosse proprio da se stessa che partiva tutto quel male. Anche questo, non poteva sopportarlo. Non voleva essere così, proprio lei, la custode del Libro del bene. Non poteva avere lati oscuri, non lei. Latlock godeva invece della morte di quegli uomini, il male dentro di lui stava prendendo sempre più spazio, contaminandolo come una macchia nera e appiccicosa, e sporcando anche il suo Libro. Accecato dall’avidità, combatteva ogni giorno, alla ricerca del potere. Voleva riunire i Libri in uno. I tre ragazzi lo sapevano, lo percepivano che solo insieme potevano essere completi. Come se fossero stati separati in tre, venivano calamitati l’uno verso l’altro. Una notte Celestia diede appuntamento agli altri due, al lago, lì dove si erano conosciuti. Quella era la notte in cui avrebbero compiuto tutti e tre diciotto anni. Quel luogo era rimasto immacolato, silenzioso. Non era stato intaccato dalla guerra e dalla sporcizia di quel mondo. Celestia respirò a fondo quell’aria pacifica cercando il coraggio. Lì di nuovo insieme, i tre guardarono il cielo tristemente, poi si gettarono a terra con i loro Libri, coperti dai peccati, e piansero a lungo uno nelle braccia dell’altra, fino al momento in cui la notte divenne più densa, fino a quando il nuovo giorno iniziò a sgranchirsi le gambe per iniziare il suo turno. Quella notte le tre lune che brillavano in cielo sin dalla loro nascita, apparvero ancora più luminose, come se stessero donando ai loro tre figli la forza di fare ciò che andava fatto. Si guardarono negli occhi, chiedendosi perdono e perdonandosi reciprocamente. Poi, senza dire una parola, si alzarono, si abbracciarono ancora una volta,
tenendosi stretti e baciandosi. Si guardarono tra loro, osservarono il lago con le tre lune che si riflettevano risolute ma tristi e si tolsero la vita. Celestia, Latlock e Paris caddero nello specchio illuminato dai tre testimoni alti in cielo, colorandone le acque di sangue. Mentre i tre Libri sprofondavano nella terra, nascondendosi… morti dentro. Quel luogo magico sembrò piangere la loro fine. Si accartocciò su se stesso, spegnendosi. Le tre lune voltarono le spalle e sbiadirono, sino a diventare di un bianco quasi trasparente, perdendo i colori che le tingevano e nascondendosi agli occhi indiscreti. Aspettarono… I tre villaggi, dopo poco, ritrovarono i loro guerrieri galleggiare nelle acque a pancia in giù, ancora immersi nel loro sangue. Piansero insieme, stretti l’uno contro l’altro. I tre villaggi si riunirono per la prima volta, senza desiderio alcuno se non la pace. Il pentimento e il senso d’inutilità, li aveva attraversati uno a uno e la guerra era finita in quell’istante. Tirarono fuori dall’acqua i tre corpi e li seppellirono insieme, poi ricostruirono i tre villaggi, rimanendo in pace, a lungo. Non cercarono i Libri, non li volevano. I tre custodi erano morti e quei volumi con loro. Lo spirito originario rimase a guardare, mentre i tre pezzi di sé, sepolti e nascosti, soravano le epoche successive. Fino a quando le tre famiglie discendenti, sangue del loro stesso sangue, non li trovarono e tre nuovi custodi nacquero, portando un equilibrio e uno squilibrio di cui ormai il pianeta si era impregnato. Scatenando sventure ben peggiori. Era una storia che sarebbe continuata a ripetersi per altre generazioni… Fino a oggi. Fino, forse, a una conclusione.
CAPITOLO 1
La storia si ripete sempre
“Quel libro dall’aspetto antico e del colore del mare, agli occhi di chiunque poteva apparire come un normale volume, che aveva attraversato gli anni senza alcun clamore. Ma quando io ci poggiai gli occhi sopra, ne fui calamitata. Il ciondolo, incastonato sulla sua superficie, sembrò brillare non appena mi vide muovere i primi i nella stanza, come fosse una presenza viva che aspettava solo me. Sentivo che mi stava chiamando”.
“Sta iniziando, Signore”. “Bene”. “Che forma prenderà questa volta?”. “Non ne ho la più pallida idea”. Il Presidente pensò alle parole che aveva letto sul suo libro tanto tempo prima, dicevano che era stata la custode originaria - quella che per prima aveva rotto l’equilibrio decidendo di uccidersi per ristabilirne un altro - a influenzare la rivoluzione che sarebbe avvenuta. Ma in un mondo in cui quella custode non esisteva più, o come ormai credeva, era dormiente, quale sarebbe stato il cambiamento? Cosa si doveva aspettare? Il Presidente ci pensava e ripensava. Il libro l’aveva avvertito che questa volta sarebbe stato diverso. Niente fucili, né terremoti. E allora cosa? Forzare gli eventi avrebbe sicuramente avuto delle conseguenze, e lui era pronto ad affrontarle.
“Pensa che in questo modo usciranno allo scoperto?” “Non ne sono sicuro, ma credo che saranno costretti a farlo”. L’uomo si poggiò sullo schienale della sua poltrona, visibilmente affaticato. Una vena gli calcava la fronte con insistenza, mentre la sua bocca era contorta in un’espressione di angoscia e incertezza. Occhio Rosso, fermo sulla superficie del libro, racchiuso in quel ciondolo dorato, lo controllava da lontano, come ogni giorno della sua lunghissima vita. Il Presidente Reik era un uomo dall’età indefinibile, nessuno a Panopticon riusciva a ricordarla e nessuno si sforzava di provare a definirla. Appariva giovane e allo stesso tempo vecchio, vecchissimo, come se il suo corpo avesse lottato contro il tempo per tutta la vita, una lunga esistenza di sofferenza che non aveva potuto fare a meno di lasciare dei segni, di indebolire il suo spirito, di lasciare quell’immagine appannata e stanca, eppur forte di sé. Il Presidente Reik si versò un bicchiere di liquore e lo buttò giù tutto d’un fiato, scostando dopo un attimo la bottiglia dalla sua traiettoria, poi premette le dita sulle sue palpebre chiuse e rimase così fino all’alba, a cercare di calmare quella rabbia e quella frustrazione, che sembravano provenire da una persona che non era lui. Viveva quel malessere cui opponeva la sua vana resistenza; una sofferenza che lo scuoteva e prostrava, che lo piegava e controllava, da cui si lasciava guidare come una foglia dalla corrente di un fiume, facendolo suo.
“Ti sento sempre più vicino”. Marin non poteva crederci. Era come se fosse accanto a lei. “È perché il ragazzo sta arrivando”. “Ora potremo…”. “Cosa? Non possiamo fare materialmente nulla. Siamo Anime, Marin. Le loro Anime”.
“Stavolta è diverso. Lui sta arrivando e noi forse…”, la speranza stava fiorendo dentro Marin. “Siamo Anime, non abbiamo più quel potere. Te lo ricordi?”. “Lo so. Che ti prende ora? Non sei stato mai così pessimista, e in questo momento non dovresti proprio esserlo. Stavolta è quella giusta. Non senti? Non è come Abel o gli altri”. Marin sentì scuotere il suo spirito, e una fitta d’angoscia la immobilizzò. “Sta iniziando” disse Marin in ascolto. Dessel si rabbuiò. Provò diverse sensazioni, una sferzata di speranza e un solo e unico pressante desiderio che sovrastava tutto il resto del suo sentire: essere libero o morire, morire davvero. “Doveva succedere, prima o poi. La realtà è stata stabile a lungo”. Dessel sembrò tornare quello di sempre: sicuro e ottimista. “Non credevo sarebbe successo così presto”. Marin era realmente incredula. Aspettava questo momento da tanto, tantissimo tempo. Eppure, ora che stava accadendo, era piena di dubbi. “E come poteva essere altrimenti? Ma perché il Presidente ha aspettato così a lungo! Lui li vuole riunire, ne sono certo, vuole ritornare alle origini”. “È R…”. “Zitta! Non pronunciare quel nome. Conosci le conseguenze. Chiamalo Occhio Rosso”. “Odio quel nomignolo” disse Marin con una smorfia, “mi ricorda ciò che è successo”. Lo aveva sempre detestato. “Comunque credo sia lui ad averlo trattenuto. Ha altri piani, lui non vorrà altro che uscire da qui, come noi”. “Non poteva accadere che ora” disse Dessel sovrappensiero. “Adesso c’è lei e tu ti sei finalmente decisa a muoverti. Era ora”. “Mi rimproveri forse qualcosa? Io ho tentato con Abel, ce l’ho messa tutta, ma non ne ha voluto sapere. È fuggito via. E poi sbaglio o l’hai fatto anche tu? Se ai
tempi fossi rimasto, forse tutto questo non sarebbe successo”. Marin mise il broncio, il ricordo la infastidì. “Piantala, non puoi rinfacciare cose successe anni e anni fa. Dovevo andare via, stare lontano da voi due. E poi tanto lo sai che siamo inesorabilmente calamitati l’uno verso l’altra. Il ragazzo, infatti, è qui”, sospirò affranto. “Per quanto riguarda il professore, non aveva, purtroppo, l’attitudine giusta. Così come non l’aveva la nonna del ragazzo. Comunque ora tutto cambia”. “Non sappiamo ancora com’è lei, né come si presenterà questa nuova guerra”. “Sarà come l’aiuterai a essere”. Dessel ne era convinto. La speranza cominciò a fiorire prepotentemente dentro di lui, o dentro quello che ne rimaneva. “Se quello che ho percepito è corretto, temo che non sarà così semplice”. “Perché?”. “Quella ragazza ha qualcosa di buio dentro”. “Come tutti noi”. “È come il Presidente. E come colui che lo guida”. “Ti sbagli. È impossibile. Non può essere come Occhio Rosso. Lui era un uomo malato ed è diventato un’Anima malata, che ora rispecchia esattamente il suo custode” aggiunse Dessel. “Reik non era così. Non te lo ricordi forse? È il libro, è la presenza di Occhio Rosso ad averlo trasformato”. “Si è fatto sopraffare perché anche lui è così”. Dessel era da sempre sicuro di questo e aveva capito istintivamente che cosa sarebbe successo. La sua era solo una sensazione, che si rivelò poi giusta. “Sofia è uguale a loro, percepisco che è così”. Si sentì prigioniera. “Comunque ti sbagli”. Dessel non poteva crederci. “Se è veramente chi pensiamo, allora non può essere, poiché sarebbe una contraddizione. Ti sbagli”.
“No, purtroppo. E molto presto te ne accorgerai”. Poi aggiunse in un sussurro: “L’aspetto da sempre. Se solo Abel le avesse lasciato il libro prima… se solo mi avesse lasciata andare. Eppure ora non può più tenermi con sé”. “Siamo noi la generazione che ha cambiato tutto. Ora non siamo altro che delle Anime rinchiuse dentro a degli oggetti. È ciò che ci meritiamo” disse Dessel assorto. Marin sospirò, o almeno le sembrò di farlo, come se riuscisse ancora a percepire il suo corpo. Come se un corpo ancora ce l’avesse.
CAPITOLO 2
Parole in fuga dalla realtà
Sono una pianta mai calpestata, protetta dalla grandine e dal sole, sono una pianta che si autoalimenta, che non ha bisogno di nessuno. Sono una pianta protetta, da me stessa e dagli altri. Sono una pianta al sicuro, fino alla fine dei miei giorni.
“Sofi sei pronta?”. “Sì, quasi mamma”. Sofia era seduta sul letto, con le coperte ancora sfatte, immersa nella lettura. Lasciava oscillare lentamente i piedi ancora scalzi mentre faceva tintinnare fastidiosamente il suo braccialetto stretto al polso. Ogni tanto grattava la piastrina incollata alla pelle. Al secondo urlo della madre scattò in piedi e con un gesto veloce si infilò le scarpe da ginnastica riverse sul pavimento scuro, raccolse la borsa abbandonata in un angolo e scese tenendo un libro sotto il braccio, ancora spettinata. La madre le lanciò uno sguardo di tenera disapprovazione. “Ti sei messa a leggere, non è vero?”. Senza aspettare una risposta, aggiunse, “possibile che devi sempre far tardi? La tua amica è già qui fuori”. Mentre le parlava, le sistemò i capelli castani dietro le orecchie e mise in ordine quella disastrosa acconciatura, facendole una rapida coda. Sofia si agitò e camminò il più velocemente possibile verso la porta come se fosse in equilibrio su una fune, tentando nel frattempo di infilare il volume che stava leggendo nella borsa già carica di roba e sofferente.
“Ma lascia stare quel vecchio libro. Cerca di sbrigarti” disse la madre e lei, in risposta, smise di armeggiare con la borsa e strappò dal tavolo una fetta di pane tostato facendole l’occhiolino. Poi uscì in strada sbuffando, sfiorò delicatamente con il polso quello che sembrava un citofono, ma che invece era uno scanner incastonato nel muro. “Sofi, lascialo a casa. Evita di rischiare” urlò la mamma spaventata. “Tranquilla”. Sofia se ne infischiava e ringraziava ogni giorno suo nonno per aver mantenuto, ben nascosta ovviamente, un’immensa libreria ricca di classici, piena di quei libri che ormai in quella nazione erano proibiti. Sofia manteneva quel segreto. Del resto i controlli per scovare nascondigli erano ormai un vecchio ricordo. I computer erano stati ripuliti uno per uno, così come ogni strumento tecnologico, anche i libri erano stati fatti sparire. E la nuova Panopticon, sin dalle origini, si era data da fare per sviluppare un suo diverso tipo di cultura, se così si poteva chiamare, legata alla nazione e a tutti quei valori di amicizia e amore che non potevano essere sradicati, non ancora. Era la storia a essere stata bandita, pericolosa per l’ordine e per le menti, ma d’altronde ogni cittadino viveva felice e le isole prosperavano, perlomeno la prima isola, delle altre non si sapeva molto. Al comune cittadino bastava seguire pigramente le regole per poter ottenere tutto ciò che desiderava, nei limiti del possibile. Il Presidente rimaneva l’uomo più potente e influente, nessuno poteva aspirare a essere come lui. Le aspirazioni erano pericolose, e ben trattenute entro i confini dalle squadre di controllo, un’estensione aggressiva del Presidente Reik, una presenza che incuteva timore in ogni cittadino, anche nei più rispettosi delle leggi. Sofia aveva diciassette anni e detestava, in segreto, quelle leggi. Era un’allegra ragazza dal carattere dolce ma indeciso, pieno, però, di ombre che difficilmente si riuscivano a scorgere. Come ogni mattina infilò i libri in borsa e sgambettò via. I libri erano la sua salvezza, non faceva altro che perdersi nella lettura di quelle storie, per nascondersi da quel mondo che le trasmetteva un sempre più grande malessere, si sentiva come se si trovasse in un’epoca cui non apparteneva. Una spilungona, intanto, era ferma di spalle davanti alla porta di casa.
“Scusami, scusami, scusami” disse Sofia arruffata, strizzando gli occhi come se si aspettasse di ricevere un pugno. La spilungona, che rispondeva al nome di Martha, si girò a braccia conserte: “Sempre la solita eh? Possibile che non sei mai pronta in orario?”. Sofia rispose con una linguaccia mentre l’amica, dopo aver sbuffato, la tirò per un braccio con decisione per invogliarla a muoversi. S’incamminarono così fianco a fianco. Martha camminava lentamente, perché era talmente alta da rendere difficile all’amica stare al suo o. Sofia era bassina e graziosa, ma anche scoordinata. L’amica non faceva altro che stare attenta che lei non inciame, nelle mattonelle, o nei suoi stessi piedi, cosa che successe pochi secondi dopo. La spilungona, però, riuscì ad afferrarla poco prima che finisse con la faccia a terra. “Sei un disastro, lo sai?”. Sofia inizialmente spaventata dal terreno che aveva visto sempre più da vicino, era scoppiata a ridere di gusto. “Grazie” le disse subito dopo guardandola con tenerezza. “Non c’è di che” rispose l’altra. E poi ridendo, le due figure, così scoordinate e apparentemente inconciliabili tra loro, si diressero a o deciso verso scuola, attraversando nuvole di odori tipici del mattino: quello di cornetti caldi e pane appena sfornato, mescolati ai profumi delle persone che, in quell’inizio di giornata, erano ancora impressi sulla pelle.
Sui marciapiedi ognuno andava per il proprio percorso stabilito, in maniera ordinata, in fila indiana o a coppie, così come ogni mattina. Vedere le persone camminare così non poteva che far venire a Sofia un forte malessere, forse perché suo nonno Abel non faceva altro che parlarle di come erano le cose prima. Ma Sofia si comportava come tutti gli altri, confondendosi tra la folla ordinata di gente senza colore, senza sorprese, pigra all’apparenza ma anche nella sostanza. Alzò gli occhi al cielo a osservare le tre lune che sembravano stranamente luminose. “Solitamente di giorno non si vedono bene” disse di colpo Sofia. “Cosa? Che guardi?” Martha alzò gli occhi ma non notò nulla.
“Le tre lune. Guarda come sono visibili stamattina” confessò Sofia. “Cosa dici? Tre lune? Che ti sei bevuta stamattina?” disse l’amica sorpresa. “Non le vedi?” si bloccò e poggiò una mano sulla spalla di Martha mentre con l’altra indicava il cielo azzurro con le tre sfere che sembravano l’una l’eco dell’altra. “No Sofia, lì non c’è proprio un bel niente, c’è l’ombra della solita luna, UNA sola luna”. “Tu hai sempre visto una sola luna?” chiese sbalordita lei. “Certamente, perché tu ne vedi tre? Dai smettila di prendermi in giro. Andiamo, l’autobus è in arrivo”. Salirono sull’autobus che stranamente era in ritardo di alcuni minuti. “Che fortuna eh?” disse subito Martha dando una leggera gomitata all’amica. Sofia si era persa a pensare alle tre lune. Ricordava la prima volta che le aveva realmente notate, alcuni mesi prima. Era insieme a suo nonno sul molo. “Le riesci a vedere?” le chiese sorpreso lui. “Sì. Ma ci sono sempre state?”. “Sì. Sono lì da sempre”. A Sofia il nonno apparve triste, come se il fatto che lei le vedesse chiaramente, significasse qualcosa d’importante che lui non se la sentiva di rivelare e che l’aveva profondamente scosso. “Sono bellissime”. “Sono un marchio del nostro mondo. E da anni sono un ammonimento” disse come tra sé e sé, eppure aveva parlato. “Cosa significa?”. “Non ho detto nulla Sofi. Proprio nulla. Andiamo ora”. Poggiò la sua grande
mano sulla testa e tornarono verso casa, il nonno, all’apparenza, sembrava avesse un grave peso sulle spalle. Sofia ci ripensò e reagì piena di meraviglia così come era accaduto a suo nonno, ma stavolta del fatto che la sua amica non le vedesse. Rispose poi alla domanda che Martha le aveva da poco formulato, il ricordo di quel momento era ato velocemente nella sua testa e non era durato che pochi istanti. “Sì, meno male. Non mi andava molto di camminare”. “La solita pigra” commentò l’amica guardandola maliziosamente. “Senti chi parla!” replicò invece lei rispondendo allo sguardo. Le due ragazze trovarono posto in fondo, e pure quella fu una fortuna insperata. Mentre Martha parlava in continuazione come fosse una macchinetta, sovrastando la voce che proveniva dagli schermi pubblicitari ben fissati all’interno della vettura, Sofi si soffermò a osservare tutte le persone sedute intorno a lei. Notò una ragazza sottolineare un manuale con la penna e fece una smorfia. Erano molte le persone che leggevano sui mezzi e lei amava osservarli, perché sembravano chiusi in una bolla distaccata dalla realtà, da quel brutto momento della vita quotidiana: l’inizio della giornata lavorativa. Anche lei avrebbe letto se non avesse sofferto in quella maniera il mal d’auto. Una volta aveva provato, “non si sa mai, magari mi è ato”, si era detta, ma aveva subito vomitato la colazione sulla borsa di una signora che voleva fargliela ripagare. “Proprio su una come quella dovevi vomitare? Non potevi girarti verso l’ometto sulla destra che non indossava chili di gioielli d’oro?” commentò subito dopo Martha. Poi l’amica l’aveva trascinata fuori per il braccio, l’aveva fatta sedere e insieme erano scoppiate a ridere. Il ricordo la divertì, e Martha pensò fosse stato l’effetto del suo racconto. Sofia si distrasse ancora una volta. Un altro eggero aveva appena tirato fuori un libro, apparentemente non maltrattato, e si apprestava a leggere. La ragazza rise a fior di labbra, subito dopo, però, notò che aveva piegato un sostanzioso angolo della pagina per tenere il segno. Sbuffò e si sentì scuotere, “ehi mi stai ascoltando? Sembri annoiata”.
“No, scusami tanto. Mi ero distratta”. L’amica sospirò e riprese a parlare, stavolta con la piena attenzione di Sofia che, di tanto in tanto, annuiva. Si distraeva così spesso Sofia, che Martha credeva fosse per una sorta di vena indifferente che scorreva in lei. Era una ragazza buona, chiusa, ma l’aveva considerata sempre una brava persona. Eppure a volte diveniva irriconoscibile, fredda e distante, soprattutto con chi non era qualcuno a cui tenesse. Spesso si chiudeva in se stessa e proseguiva i suoi discorsi fra sé e sé, senza interessarsi di nessuno, chiunque fosse. Solo Martha, i genitori e il nonno erano in grado di farla tornare con i piedi a terra, fra di loro. Era un modo di agire che faceva parte del suo carattere, eppure spaventava la sua amica. Martha si chiedeva spesso cosa si nascondesse dietro quegli occhi verdi. “Sofi”, la ragazza sentì la voce di Martha che la chiamava ancora. Quando si voltò, notò subito un viso preoccupato. “Che c’è ora?”. “Il braccialetto” disse con voce decisa, Sofia stava grattando di nuovo la piastrina. “Ti dà ancora fastidio?” le chiese Martha. “Sì, come al solito”. “Possibile che in diciassette anni di vita ancora non riesci ad abituarti alla sua presenza?”. “Non lo so, la mia carne lo rigetta. Mi prude. Non so comunque come tu faccia” disse quasi con tono di rimprovero. “Che intendi?”. “È una maledettissima catena, di nome e di fatto. Ma guardalo! Ti sembra giusta la presenza di questo braccialetto? È uno strumento di controllo. Segnala l’entrata, segnala l’uscita, ormai siamo talmente abituati, da riuscire persino a non pensarci” disse scuotendo la testa. Poi alzò gli occhi al cielo: “Se potessi, me lo strapperei via, e non è detto che, prima o poi, non me lo tolga a morsi, per la disperazione”. “Sssssh. Sei impazzita?”.
“Che hai?” cambiò tono di voce, e con fare scherzoso agitando le mani davanti come una maga che sta per compiere un incantesimo, le disse: “Sei ancora convinta che ci stiano ascoltando?”. Poi scoppiò a ridere mentre Martha sbiancava. “Sofia, non scherzare. Lo sai che è così”. “Piantala. Controllano quando entriamo, usciamo, cosa compriamo... Ma non ci ascoltano”. “Questo lo dici tu”. “Sì va bene, va bene. Oh, guarda!” disse piena di entusiasmo cambiando discorso, “siamo arrivate!”. “E da quando in qua tutta questa voglia di entrare a scuola?”. Le due si guardarono e scoppiarono a ridere. Sofia si voltò pensierosa, fuori ò una delle tante squadre di controllo cui lei diede subito le spalle. Si riconoscevano perché erano vestiti di bianco e, anche se ben nascoste, si potevano vedere le pistole e i lacci elettrici legati alla cintura. Bianco come il colore della Nazione e come la bandiera, che aveva disegnati anche sopra sei isole, cinque disposte a cerchio intorno alla loro, la più grande. Bianco come la purezza, anche se Sofia ci vedeva solo una cosa: il vuoto. Per lei rappresentava la schiavitù delle menti, l’uguaglianza portata ai limiti del possibile. Il vedere quella bandiera la soffocava e la opprimeva da sempre. Una scossa di brividi la percorse, non tanto per paura, ma per una sorta di disgusto che, nel corso degli anni, stava crescendo dentro di lei. “E questo, invece, ti sembra giusto?”. “Cosa?”. “La squadra di controllo”. “Oh, non ricominciare. Così come i braccialetti, anche loro ci proteggono, e non aggiungerò altro”. “Ci credi davvero?” le disse guardandola storto. “S-sì. Certo. Lo sai che questi braccialetti li dobbiamo indossare per il nostro
bene, per evitare una nuova guerra”. “Ma piantala. Chissà se poi la storia della guerra è vera. Se fosse tutta una scusa per tenere il popolo buono?”. “Ma cosa dici, finiscila. È morta tantissima gente, dovresti saperlo bene. Tuo nonno ce ne parla da sempre” disse e poi gettò un’occhiata a una squadra di controllo che le aveva superate. “Loro ci proteggono” ripeté ancora Martha quando le divise bianche furono lontane. “Dici così perché ci ascoltano, eh?”. Martha sbiancò e Sofia ridacchiò. “Non è possibile che facciano anche questo”. In un edificio poco lontano una donna sussultò nell’ombra.
“Prigionieri da anni…” “Eppure sembrano secoli” Dessel continuò il pensiero. Marin pensava spesso alla sua condizione. Si sentiva chiusa in un piccolo spazio buio, dalle mura sempre più strette, ma non era così in realtà, il posto in cui si trovavano era diverso, indescrivibile. Era un luogo senza spazio, senza materia, così come loro: era una punizione. … Il ragazzo era ormai arrivato. Dopo tanti anni, il secondo custode aveva finalmente raggiunto il luogo cui apparteneva da sempre, ma che gli eventi avevano separato. Marin non riusciva a pensare ad altro. Da moltissimi anni era in contatto con Dessel. Nonostante la separazione fisica dei loro Libri, lei riusciva a sentirlo, così come sentiva Redis o, com’era stato ribattezzato, Occhio Rosso. I tre ragazzi erano inscindibili, anche nella morte, anche in quella prigione buia. Avevano ato gli anni a guidare i nuovi custodi e a rinfacciarsi ciò che avevano fatto, ma le colpe appartenevano a tutti e tre, in egual misura. Marin tentava in tutti i modi di bloccare l’influenza di Redis, ma lui, anche se non parlava, era sempre con loro; come un’ombra dalle braccia lunghe e insidiose li abbracciava, li teneva stretti. Marin e Dessel sentivano che
complottava e sapevano che non si sarebbe mai fermato. Erano certi che stava lavorando in segreto al suo unico obiettivo, un obiettivo condiviso anche da Marin e Dessel, che però rifuggivano il suo modo di agire, come era sempre stato. In parte sapevano che ciò che volevano fare era sbagliato. Per entrambi prima di tutto veniva la sicurezza del pianeta, di Panopticon: era sempre stata quella la loro missione. Eppure l’equilibrio era mancato, come ogni volta che uno dei tre si era sbilanciato, innamorato, o intestardito a conquistare il potere. Redis, Marin e Dessel, erano colpevoli di ognuna di quelle accuse, così come lo erano i loro predecessori, i tre custodi originari. Ma questa è una colpa che ricade su ogni essere umano, perché la natura dell’uomo non può che abbracciare la guerra, non può che volere di più, sempre di più, in un gioco senza fine. Per questo un equilibrio, per quanto cercato, non era possibile. Marin e Dessel, nella loro forma di Anime, così come ogni essere umano, non potevano far altro che osservare ancora una volta la distruzione dell’equilibrio, la guerra e le conseguenze che ne sarebbero presto venute. Erano come tutti gli uomini colpevoli eppure innocenti.
“Panopticon, la grande Nazione libera” disse ironicamente Sofia ad alta voce, mentre saltava giù dall’autobus, con Martha al suo fianco che era trasalita. “Per favore Sofi” implorò con voce tremante. “Va bene. La pianto” disse ridacchiando. “Tu sei tanto coraggiosa ma quando si parla di Panopticon e del Presidente dai di matto e ti ritrai come un gattino impaurito”. “È più forte di me” balbettò lei. “Sofi il piede” gridò Martha tirandola dentro le linee che marcavano il marciapiede, come due serpenti luminosi, in entrambe le direzioni di percorrenza. Sofia non si era accorta di essere uscita dal percorso destinato a loro. Per un attimo era trasalita. Il non rispetto delle regole, che così forzatamente era stato impresso nelle loro menti, le causava al tempo stesso repulsione, ma ancor più paura. Era un riflesso condizionato di cui non riusciva a liberarsene.
“Uffa. Maledettissimo volume” disse a un certo punto Sofia tappandosi le orecchie con i palmi delle mani dopo aver indicato il mega schermo che si trovava sulla facciata dell’edificio di fronte la scuola. “Uh, quella canzone la conosco” urlò Martha, che si mise a cantare. “No. Ti prego, lo scopo degli schermi è proprio questo” cercò di dire Sofia. “Oggi sei più insofferenze del solito, lo sai?” disse l’amica tra una nota e l’altra. “Non è vero. È che per la città c’è questo continuo suono… pubblicità, canzoni e poi quegli odiosi discorsi del Presidente” mormorò guardando la spia rossa accesa in cima allo schermo. “Sssh” disse l’amica smettendo di canticchiare. Le sembrava che un membro della squadra di controllo, che era di aggio, si fosse girato proprio verso di lei. “Hai visto? Stai zitta dai”. “Sì, va bene. Va bene. Te la vuoi cantare tutta o pensi che possiamo entrare a scuola?” chiese Sofia spazientita. Un altro agente si stava avvicinando per controllare la loro anomala presenza in strada. Gli studenti non potevano stare fuori dalle scuole dopo le 8 e 30. “Ah già. Cavolo, corriamo!”. Dopo aver ato la piastrina in uno dei tanti scanner all’ingresso ormai deserto, salirono per le scale di corsa. “Forse sarebbe stato meglio non arla. Ora i professori sapranno subito che abbiamo fatto tardi” si lamentò Sofia. “Lo sapranno comunque. Saranno già in classe. Poi tanto non si può evitare di registrarsi, tu lo dovresti sapere bene”. “Sei troppo ligia al dovere cara mia” le disse con un sorriso di scherno. Martha s’infastidì e non rispose. “Buongiorno!” urlarono le due in sintonia, una volta messo piede in classe. “Ciao Sofi, ciao Martha” rispose la ragazza che si trovava al primo banco sistemandosi i capelli biondi dietro le orecchie.
Si guardarono intorno, sorprese. “La prof non è ancora arrivata?” chiese Sofi meravigliata. “No, non ancora. Strano vero?”. “Sì, eravamo convinte di essere parecchio in ritardo”. Un ragazzo dagli occhi chiari nascosti dietro gli occhiali, saltò fuori come dal nulla e poggiò una mano sulla spalla di Sofia reclamando attenzione: “Infatti, lo siete. Come al solito. Siete le peggiori” ridacchiò dando una gomitata a un amico che era appena accorso. “Sì. Siete un disastro voi due. Com’è che si dice? Dio le fa...”. “E poi le accoppia. Ah ah”. Tutti scoppiarono a ridere mentre le due amiche erano arrossite. Sofia con più forza, Martha invece, con il suo carattere duro, aveva già preso il controllo. “Ha parlato lui. Il collezionista di due. Il latinista occhialuto”. Un’altra risata invase l’aula mentre la spilungona incrociò le braccia con soddisfazione. Sofia l’aveva guardata con una punta di ammirazione, sembrava avesse sempre la risposta giusta da dare, mentre lei aveva reagito come al solito, senza riuscire a farsi ascoltare come avrebbe voluto. “Se fossi sfacciata come lei, probabilmente non avrei tutte queste difficoltà con la scuola” pensò in quell’istante. Molto spesso le sue reazioni vuote spaventavano i professori, sembrava, infatti, non preoccuparsi molto di ciò che le veniva detto. La madre si chiedeva in continuazione come fosse possibile che una ragazza che viveva davvero nei libri potesse avere problemi a scuola, era un’assurdità. Sofia non sapeva mai rispondere a quello sguardo dubbioso che la madre riportava indietro quando andava a parlare con i professori. Nonostante fosse una persona graziosa e apparentemente socievole, era sempre chiusa in se stessa, spaventata dalla gente, o forse più che spaventata,
indifferente, poco coinvolta. Non aveva mai analizzato se fosse il suo carattere ad avere qualcosa che non andava o se fosse in realtà quella società ad averla spinta a questa chiusura, a quest’atteggiamento. Qualsiasi cosa fosse stata, lei non voleva indagare. C’erano alcune persone a cui teneva, e le andava bene così. Era solo su di loro che si basava. La prima di queste era stata, senza ombra di dubbio, Martha, che conosceva da una vita. Era una sorta di paladina per lei, il braccio forte della loro piccola squadra, l’amica che la sosteneva senza criticare mai, o quasi, i suoi black-out e le sue, a volte, strane reazioni. L’accettava così com’era. Anche se era Martha a cercare sempre gli occhi dell’amica prima di agire. Sofia agiva poco, ma quando lo faceva, era decisa, più sicura di quanto credesse. Non aveva bisogno della spinta di nessuno. Se la cosa la interessava, era la prima ad avere una reazione, ma non succedeva spesso. Il latinista continuò a fissare Sofia, gli piaceva quando arrossiva e anche quando cadeva dalle nuvole. “Che hai da fissarmi?” il suo tono infastidito era arrivato al ragazzo, che a volte non riusciva a capacitarsi del cambio di atteggiamento che subiva Sofia, tanto da non sembrare più lei, come se un’altra personalità prendesse la parola. Si voltò poi verso l’amica: “Visto Martha?”. Aprì lo zaino cercando distrattamente al suo interno. “Potevamo pure non identificarci”. “Sì, come no. Così andava a finire come la scorsa volta” sbuffò mentre Sofia ridacchiava. “Un giorno dovremmo provarci… di nuovo e insieme” cambiò espressione all’improvviso. “Cavolo, mi sono dimenticata i quaderni. Ne ho presi due sbagliati” disse Sofia affranta, mentre stringeva l’elastico della coda, che si era allentata. “Possibile che devi essere sempre così disordinata e distratta?” domandò Martha sgridandola, mentre il latinista sorrideva a braccia conserte.
“Al massimo ti presto un foglio io, dai”. Il ragazzo tirò fuori un libro e lo lanciò sul banco di peso, senza tatto. “Attento” urlò Sofia, “ti sembra il modo di trattare quei poveri libri?” disse sbuffando. Il ragazzo si ghiacciò in un solo istante, poi vedendo che era la solita Sofia ad aver parlato, si sciolse e la guardò con occhi pieni d’indulgenza mista ad affetto. “Sofi, sei proprio una rompiscatole lo sai?” disse facendole un occhiolino. A quel punto un altro dei ragazzi si era avvicinato. “Ma che non lo sai? Sofi è la salvatrice dei libri” disse ridacchiando. “Prima o poi si rivolteranno!” rispose lei convinta, mentre il ragazzo prese a mimare a grandi gesti una dea aggraziata. Risultò così ridicolo e buffo da far scoppiare tutti a ridere, ancora una volta. Anche Sofia si lasciò andare e superò il fastidio delle frasi precedenti. “Sei proprio scemo. Sembra di essere alle elementari” disse qualcuno di sottofondo. Martha intanto, ridacchiando, sussurrava all’orecchio del ragazzo: “Se vuoi conquistarla, devi trattarli meglio i libri”. Lui, in risposta, dopo essere arrossito, l’aveva spintonata via, sperando si togliesse dalla faccia quell’aria maliziosa e indagatrice che tanto lo infastidiva. Le risate divertite e rilassate della classe sparirono in un soffio. La professoressa era, infatti, entrata con il fiatone, visibilmente scossa, se non spaventata. Guardava i ragazzi, che nel frattempo erano corsi ai loro posti, con aria preoccupata, tenendo spalancati i piccoli occhietti scuri come se avesse assistito a un omicidio. La professoressa si voltò da una parte all’altra, come se cercasse un appiglio immaginario. Guardò lo schermo che era in alto sul muro, sopra la cattedra, sperando che si accendesse e desse lui le direttive, che la sostituisse, insomma, come già era successo spesso, ma questa volta non lo fece. Lo schermo tacque e lei fu costretta a prendersi quella responsabilità.
La lucetta rossa brillava in cima, come se qualcuno li stesse guardando. Era quella l’impressione che ne ricavavano i ragazzi, quasi tutti, senza eccezione. Un occhio invadente, sempre , che sovrastava le loro teste dominandoli, sempre. Ma erano così abituati alla sua presenza, sin dalla tenera età, che non ci facevano quasi più caso, così com’erano ormai assuefatti dal braccialetto identificativo, di cui subivano l’influenza silenziosa ogni qualvolta la situazione lo richiedesse. “Professoressa. Va tutto bene?” chiesa la ragazza bionda dal primo banco. La donna esitò. “No, non proprio. Fate una versione a piacere. Io tornerò tra poco. D’accordo?” disse d’un fiato e, senza ascoltare la risposta dei ragazzi, schizzò via. Tutti si allarmarono, iniziarono a guardarsi in silenzio, senza che nessuno prendesse la parola. Si scrutarono a fondo, cercando negli occhi dell’altro una spiegazione che nessuno poteva avere. Erano tutti allo stesso modo sorpresi e spaventati. Poi Martha ruppe la parete di silenzio che si era creata: “C’è qualcosa che non va, qualcosa di grande”. “Sì. La professoressa era terrorizzata. Che cosa sarà successo?”. La spilungona si alzò, dopo aver lanciato uno sguardo a Sofia, e camminò tra i banchi, poi allungò il collo verso il corridoio. “C’è un silenzio innaturale”. Finalmente i compagni si mossero. Camminarono in punta di piedi verso di lei, come se avessero paura di risvegliare il problema misterioso con il loro rumore. Tante teste perplesse si affacciarono fuori dalla porta. “Mah” disse Sofia in confusione dopo essersi alzata di scatto in piedi. Poi decise di prendere uno dei libri che si portava dietro e, quando stava per aprirlo, una ragazza urlò, era Claire, la biondina del primo banco. “Gu... guardate qui” disse a fatica, terrorizzata. Aveva preceduto Sofia di qualche secondo: un libro giaceva aperto per terra, con la copertina rivolta verso l’alto. La ragazza, nello spavento, l’aveva scaraventato per sbaglio.
Tutti si allontanarono dalla porta per soccorrere Claire. “Che cos’hai?” chiesero gli amici aiutandola ad alzarsi. Lei era bianca come un lenzuolo, e la cosa aveva ammutolito la maggior parte di loro. “Il... il libro”. “Che cosa ha il libro?” chiese Martha guardandolo. Erano ormai tutt’intorno all’oggetto, indecisi sul da farsi. Vedendo l’incertezza dei compagni, Martha si allungò, e, mentre tutti trattenevano il respiro, lo strappò da terra con un gesto deciso, poi lo poggiò sul banco, di fronte a Claire, che per la sorpresa aveva fatto un salto indietro. Martha e Sofia, che era accorsa subito dopo abbandonando il suo posto, lo fissarono intensamente, poi lo aprirono. Tutti tirarono dentro l’aria, rimanendo per qualche secondo senza fiato. Sofia spalancò gli occhi e stette immobile, mentre Martha prese a sfogliare con agitazione le pagine. Nessuno parlava più. Due dei ragazzi corsero ai loro posti e tirarono fuori i loro libri, con una frenesia spaventata, buttandoli accanto a quello di Claire e tirando un altro sospiro di terrore. I libri erano bianchi, bianchi come il latte. Privi di parole, non ce n’era neanche una.
CAPITOLO 3
Un protagonista senza ato e senza coscienza
Leon era arrivato in aula di buon’ora, forse troppo in anticipo. Rimase a studiare il suo libro in silenzio, aspettando che arrivasse qualche anima. ò più di un’ora. “Leo, sei già qui?” chiese un ragazzo biondo appena entrato. Portava in spalla svogliatamente uno zaino, mentre sembrava trascinare i piedi con grande fatica, come se si fosse alzato da poco. “Sì, sono arrivato presto”. “Come al solito. Ti ho sentito stamattina mentre te la filavi” rispose e gli si sedette accanto. “Non ci credo, tu dormi come un pezzo d’arredamento. Comunque lo sai che adoro il professor Wisdom”. “E anche lui adora te. Secchione” commentò guardandolo di traverso. Aveva quell’aspetto fresco e riposato che a lui dava sui nervi. Come faceva a essere sempre così ordinato e soprattutto sveglio nonostante avesse dormito così poco? Leon se ne stava comodo nella sua camicia e nei suoi jeans come fosse un assistente, più che uno studente. Era un ragazzo che aveva classe e che sembrava dimostrare più anni di quelli che aveva. Dietro quegli occhiali dalla montatura scura si nascondevano due occhi azzurri pieni d’ingegno e curiosità; la curiosità non mancava di certo a Fran, ma in quando a ingegno… se ne poteva reputare sprovvisto. Decisamente sprovvisto pensò osservando Leon che se ne stava a braccia conserte perso in qualche misteriosa riflessione. E poi c’era un’altra cosa che aveva notato a livello inconscio, gli sembrava che Leon fosse sempre in attesa di qualcosa. Probabilmente non se ne accorgeva nemmeno, però era quella la forte impressione che aveva da sempre. Era in attesa di qualcosa che gli
mancava e che prima o poi l’avrebbe raggiunto. Fran tirò fuori dalla borsa tutto l’occorrente per una lunga e noiosa ora di lezione, e sbuffò rumorosamente. “Su, dai, non fare quella faccia. La lezione di oggi sarà interessante, il professor Wisdom lo è sempre. Tratta di...”. “Lascia stare” lo interruppe lui. “Ma non sei curioso di sapere!”. “Oh sì! Sono così curioso che non sto più nella pelle” disse e si portò le mani al volto fingendo entusiasmo. “No, grazie. Preferisco avere la sorpresa” concluse ridendo. Leon gli lanciò una fortissima gomitata che quasi lo fece scivolare giù dalla sedia. “Così impari”. “Ma dove siamo, all’asilo?”. “Sarebbe il luogo più adatto per te. Sicuro di non aver sbagliato struttura?”. “Ah, ah, ah” rise in maniera finta l’amico, mentre entrambi sorridevano sotto i baffi. “Leo, hai per caso gli appunti della lezione di ieri?”. “Sì, ma ho visto che li prendevi anche tu”. “Sì certo, ma i miei fanno schifo. Non sono ordinati come i tuoi, su. Poi fai sempre gli schemi, che a me fanno comodo per riare”. “Uff, d’accordo. Tieni”. Leo tirò fuori un blocco ordinato di colore giallo. Ne usava uno diverso per ogni corso. “Grazie amico. Come farei senza di te?” disse infilando il blocco nello zaino senza neanche guardare. “Sì, sì” disse scocciato. Ma in fondo gli faceva piacere.
Leon tirò dalla borsa silenziosamente e in quest’ordine: un blocco azzurro, una penna a sfera, una matita, una gomma ponendoli ordinatamente sul tavolo di legno lucido. Fece ogni cosa come tutte le mattine. “E poi sarei io quello che dovrebbe tornare all’asilo!” borbottò osservando quei gesti meticolosi. Fran si divertì a scombinargli l’ordine. Ogni tanto poggiava i gomiti sul tavolo e faceva finta di scivolare. “Ops, scusa”. “Poi sono io quello infantile?” chiese scuotendo la testa. “Hai diciannove anni, non te lo dimenticare FRANCIS” gli disse Leon. “Pure tu, te lo ricordi? Ehi, lo sai che odio il mio nome intero. Nessuno mi ci chiama più così, neanche i miei. Sei un diavolo!” disse mettendo il muso. “Questo è un colpo basso”, farfugliò ancora. Leon se la rideva: “E tu allora? Mi chiami Leo quando già Leon è abbastanza corto”. “Non possiamo chiamarci Leon e Fran, farebbe troppo ridere. Ancora non l’avevi capito che era per questo?”. “Mah, che scemenze FRANCIS”. “E dai”. “Ah ma senti. Tua madre ha telefonato?”. “No”. “Beh, chiamala”. “Come mai tutto questo interesse?”. “Poverina, è da sola. Sempre sola. Vorrà sentire il suo unico figlio, almeno ogni tanto”. Si grattò la testa bionda guardando altrove. “Vuoi sapere quando è che ci porterà un’altra torta, non è vero?”. Lo conosceva troppo bene ormai, lo guardò di sbieco per un paio di secondi. “Figurati”.
“Fran…”. “Ok, va bene è così. Le torte di tua madre sono… sublimi” si leccò il labbro superiore come se le stesse assaporando proprio in quel momento. “Sei veramente incredibile FRANCIS” disse Leon scuotendo la testa, poi rise. “E dai su, telefona ti prego”. Fran lo supplicò e ò sopra alla storia del nome intero. Mentre continuavano a battibeccare come due ragazzini, il professore Wisdom entrò in aula con aria grave, annunciando che le lezioni, per quella giornata, sarebbero state tutte sospese, “a causa di forze maggiori”. Leon si precipitò dal professore, che gli apparve non solo affannato ma spaventato. Ogni tanto si voltava verso il corridoio, da cui provenivano urla isteriche, un forte rumore e un insistito calpestio affollato, come se una mandria di tori stesse attraversando la scuola. “Leon” chiamò, voltandosi verso di lui con aria afflitta. “Professore, cosa?”. Lui alzò gli occhi verso lo schermo spento, fissando teso la luce rossa: “Non posso rimanere” disse solamente, poi gli lanciò uno sguardo pieno di parole non dette e uscì correndo, mentre il ragazzo tornò perplesso al suo posto e si grattò la testa chiedendosi cosa stesse succedendo lì fuori. Alcuni corsero a vedere e poi si unirono alla folla, senza sapere bene per quale motivo stessero marciando, o dirigendosi verso l’uscita. Gli altri che erano rimasti in aula iniziarono a guardarsi perplessi, nessuno si alzò, anche quando il professore sparì nel corridoio. “Beh, tanto vale mettersi a studiare per conto nostro” disse subito Leon aprendo il libro, mentre l’aula ancora taceva. “Oh” esclamò spalancando gli occhi. “Che c’è?” chiese Fran distratto dai movimenti esterni. Poi si voltò. “Diavolo!”
esclamò subito fissando spaesato Leon. Le due file più vicine si alzarono incuriosite e si avvicinarono ai due. Il libro, che fine a poco prima era pieno di parole, improvvisamente si era fatto bianco. “Ma è impossibile” dissero quelli più vicini. Poi ognuno corse al proprio posto ad aprire i propri volumi, mentre quelli più distanti, senza capire, copiarono i loro gesti. Ci furono urla di sorpresa, ci fu chi pensò a uno scherzo. Poi si alzò un chiacchiericcio perplesso. I ragazzi presero a confrontarsi cercando un libro che avesse ancora le parole. Guardarono con attenzione, come mai avevano fatto.
Leon spinse il suo libro in fondo allo zaino poi, senza aprire bocca, si alzò in piedi e cercò di uscire dall’aula, dove la situazione si stava facendo caotica. Dopo un veloce sguardo, Fran lo seguì. S’incamminarono per l’aula schivando alcune persone che urlavano felici “non si studia, e vai” ridendo a crepapelle, senza pensare alle implicazioni che, una situazione del genere potesse generare. Alcuni, come bambini abbandonati ai loro giochi, strappavano le pagine, e Leon non poteva far altro che inorridire di fronte a quei gesti. Altri salirono sui loro banchi come se fosse in corso una qualche rivoluzione. A o rapido, stringendo ancora lo zaino, si avviò per il corridoio, percorrendolo deciso. I corridoi erano improvvisamente sgombri e lui si chiese il perché. Camminò quasi strusciando la manica destra della camicia sul muro. A ogni aula tentava di affacciarsi per osservare la situazione. Molte erano già vuote, forse gli altri erano venuti a conoscenza, prima di loro, di quella strana situazione. Alcuni studenti mostravano l’identica reazione dei loro compagni di classe: urla, lanci di libri, mormorii sorpresi, gente inebetita che sfogliava tutti i volumi che gli capitavano a tiro in cerca di una spiegazione, alla ricerca di una sola parola. Molti strizzavano gli occhi come se in realtà le parole fossero rimpicciolite e non sparite del tutto. Leon, sperava come molti, che fosse un errore, qualcosa che poteva spiegarsi, che si sarebbe risolta sfogliando altri libri
e cercando. Interrogando quei volumi sul loro rifiuto. Leon continuò a percorrere i corridoi seguito da Fran. “Leo, corri qui” disse l’amico e lui si girò subito raggiungendolo. “Che c’è?”. “Guarda”. Leon non ci aveva fatto caso, persino i fogli attaccati nelle bacheche, o i volantini, erano senza parole. Vuoti. Ciò che ne rimaneva erano solo delle immagini. “Diavolo!”. “Ma che cavolo succede?” urlò Leon facendo un o indietro e cercando di ritrovare la calma. Corrugò la fronte tentando di riflettere, mentre Fran lo osservava. Era sempre stato lui l’organizzato del gruppo, il punto fermo, la spalla su cui contare. “L’Università è impazzita” commentò Fran. “Dubito che sia solo l’Università” disse l’amico fra sé e sé. “Hai qualche idea. Non è vero?” gli chiese Fran, dopo aver concesso all’amico qualche minuto di riflessione, nella più completa immobilità. Leon lo fissò intensamente per alcuni secondi: “No. Non so cosa fare” rispose perso.
Sofia si arrampicò sulla cattedra quasi cadendo. Aveva avvicinato una sedia per aiutarsi nella salita, ma un piede le era scivolato. Riprese l’equilibrio e fu sopra. “Ragazzi. Ehi ragazzi. Silenzio!”. Le risate, le urla e le ondate di panico si erano fatte insopportabili. Non c’era più ordine. Sofia chiuse per un istante gli occhi, poi raccolse tutto il fiato che aveva in corpo e urlò, “RAGAZZI”. Finalmente tutti si girarono. “Dobbiamo mantenere la
calma. Non è il caso di fare tutto questo casino. Cerchiamo di riprendere fiato. Ok?”. I ragazzi si rilassarono per un istante, poi il latinista chiese: “Tu che idee hai Sofi? Che cosa è il caso di fare?”. Lei ci pensò su un attimo, poi si punteggiò il mento: “A essere sincera non lo so. Però dovremmo andare a confrontarci con le altre classi”. “Sì, hai ragione. Che cavolo ci stiamo a fare tutti chiusi qui dentro?” chiese Martha quasi arrabbiata, forse frustrata da quella strana situazione. Un gruppo di ragazzi uscì dall’aula, le classi si stavano man mano svuotando degli studenti, che si erano riversati nel corridoio urlando. Alcuni cantavano slogan da stadio fuori luogo, altri ridevano stupidamente invocando il controllo della scuola. Molti ragazzi cercavano aiuto nelle classi vicine. “Anche da voi è successo? Cosa può essere stato? Perché è accaduto?”. Le domande si accavallavano l’una sull’altra senza avere una risposta. Sofia scese dalla cattedra sorretta da Martha che la stava aspettando, poi andò verso il suo banco e, con un’aria disfatta e angosciata, aprì il libro che aveva tirato fuori poco prima della scoperta. Spalancò gli occhi e quasi cadde seduta, perché nel suo le parole c’erano ancora. Per l’enorme sorpresa e gioia di quella scoperta, gli occhi si riempirono di lacrime, evitando di porsi tutte le altre domande che questa rivelazione faceva nascere. Rimase immobile sul posto, scossa. “Tutto bene?” chiesero quasi all’unisono Martha e l’occhialuto latinista di nome Steven. Sofia si risvegliò, rispose un veloce sì e chiuse di corsa il libro. Aveva paura di rivelare quello che era accaduto. Voleva riflettere da sola, controllare a casa ogni suo libro per vedere se anche gli altri erano rimasti scritti. Scattò verso la porta e uscì a testa bassa, lasciandosi dietro i due amici perplessi.
“Dove vai? Aspetta” le gridarono quando lei era già sparita tra la folla. Cercò di superare illesa i corridoi straripanti, mentre gli schermi televisivi, piazzati a ogni angolo, risuonavano nel corridoio. Poteva riconoscere il timbro di voce del Presidente, che sicuramente stava invocando la calma, o forse dichiarando, come al suo solito, la potenza e prosperità che, grazie a lui, Panopticon aveva raggiunto. Buttò un occhio e notò che sugli schermi il discorso non ava scritto sotto, come succedeva sempre. Molti, alla voce del Presidente, si erano fermati a guardare, lo sentivano come un dovere sociale e morale. Era questo che gli era stato inculcato: quando il leader appare per un discorso, la nazione si deve fermare ad ascoltare, deve sentire fino all’ultima parola, e seguire, in caso ce ne fossero, le sue indicazioni. Così successe, ma Sofia continuò a camminare, scontrandosi con più persone che si erano immobilizzate sul corridoio all’improvviso, abbacinate dagli schermi. Il discorso fu breve e, una volta concluso, la gente cominciò a muoversi con più veemenza ma, nonostante le indicazioni, la calma durò poco. Non poteva essere altrimenti. Sofia scivolò più volte sui fogli strappati dai libri, che intasavano i pavimenti. Cadde improvvisamente in ginocchio. Fu difficile raggiungere le scale antincendio. Quella le era sembrata la via più sicura per uscire, visto il caos che invadeva ogni angolo del liceo. “Sofi aspetta!” urlò Steven. “Perché non mi lascia perdere? Maledizione” s’innervosì al solo sentire ripetere il suo nome, “Sofia” chiamò ancora e lei si voltò di scatto. “Mi vuoi lasciare perdere ora?” disse innervosita, quasi urlando. Non poteva fermarsi, doveva capire, aveva bisogno di raggiungere casa sua. Steven si fermò nel corridoio, e la sua sagoma fu ingurgitata dalla folla, nascondendolo agli occhi della ragazza che ormai era distante. Sofia intanto sentì i professori urlare ordini, invocando la calma. Ci avrebbero messo un bel po' per sedare quella sottospecie di rivolta. Notò sui muri i volantini, i cartelloni e ogni genere di foglio con le sole immagini a occuparne gli spazi.
“Perché le immagini sono rimaste? Perché sono solo le parole a essere scomparse?” si chiese mentre avanzava, quasi strisciando, fra le persone, cercando di non inciampare. L’immagine del suo amico, triste, pietrificato dalle sue parole, era già scomparsa dalla sua mente, aveva altro di cui preoccuparsi. Finalmente riuscì ad arrivare alla scala di ferro, anche lì gli scanner erano ben visibili ai lati e Sofia si chiese cosa sarebbe successo in caso d’incendio: “Mica pretenderanno di farci bruciare vivi per registrare l’uscita”. Davanti a lei uno dei loro professori, quello di arte, stava armeggiando con la piastrina del braccialetto. “Professore, tutto bene?”. Lui sobbalzò come se fosse stato beccato in flagrante durante la fuga, cosa che stava realmente accadendo. “Come se ne può andare in un momento così delicato lasciando la scuola nel caos?” disse tra sé la ragazza. “Oh, sì” disse sistemando la giacca e cercando di darsi un tono. “Non funziona questo scanner sulla destra. Dovrò telefonare per avvertire” rispose convinto, “o segnalarlo a una delle squadre di controllo” continuò diligente, tornando improvvisamente calmo. “Non c’è crisi che possa impedire a questa gente di identificarsi” si disse amaramente Sofia che non aggiunse altro. Per sicurezza ò la piastrina allo scanner di sinistra e corse giù tenendosi saldamente aggrappata e guardando i gradini come se potessero scomparire. Dietro di lei sentiva i i di altre persone, ma non aveva né tempo, né voglia di voltarsi a identificarli. In quell’istante pensò a cosa si sarebbe potuta trovare davanti. “E se fosse accaduto in tutta la città e non solo nella nostra scuola? Se tutto il mondo non avesse più parole scritte?”. Le urla le diedero subito una conferma che qualcosa era accaduto anche ad altri. Le si gelò il sangue nelle vene. La città era in tumulto. Le macchine sembravano circolare come al solito, anche se alcune avevano inchiodato improvvisamente come se le persone fossero impaurite, mentre i molti individui che impugnavano un giornale, o un libro, avevano iniziato a urlare cercando di confrontarsi con i vicini. Alcuni si erano gettati in mezzo alla strada per chiedere aiuto, per capire
se fossero improvvisamente impazziti, o se anche gli altri vedevano ciò che vedevano loro. Nulla. Le insegne dei negozi erano ora scarne e fredde; solo immagini e colori a riscaldarle. Sofia ò vicino a una signora che tentava di scrivere su un blocchetto. Non appena componeva una semplice lettera, quella scappava via, e la carta rimaneva inesorabilmente bianca. Così la donna strizzava la penna con forza, come se la colpa fosse sua. Sofia istintivamente strinse la sua borsa piena di libri a sé. Sapeva a fondo quanto le parole fossero importanti, così come i libri. Ma non aveva mai pensato a come sarebbe potuto essere un mondo senza parole, senza scrittura. Si fermò a riflettere per alcuni minuti, estraniandosi da tutto e tutti, poi sobbalzò. Aveva proprio in quell’istante compreso realmente, a fondo, cosa sarebbe potuto succedere. Numerose squadre di controllo marciavano verso una direzione precisa, senza voltarsi intorno, senza fermare l’isteria generale che si stava diffondendo. Quando una delle guardie le stava ando accanto, lei, distratta, si era scontrata con un uomo, facendolo cadere a terra. Sofia lo scavalcò senza aiutarlo, era troppo concentrata su quello che doveva fare per interessarsi ad altro. “Ehi tu. Identificati” sentì l’ordine imperativo provenire poco lontano da lei. Sofia era ancora di spalle. “Ho detto identificati”. Lei si girò e vide due agenti di controllo che la fissavano minacciosi. La ragazza allungò il polso, agitata, e uno dei due fece lo stesso, mentre l’altro la afferrò avvicinandosi. I due polsi si sfiorarono e una luce verde si accese, permettendogli di leggere sui loro schermi tutto ciò di cui avevano bisogno di sapere. A Sofia era già successo, molte volte. Questa violazione della privacy, come la vedeva lei, la terrorizzava e infastidiva oltre ogni misura. Si sentiva trasparente, nuda di fronte ai loro occhi, che potevano scrutare ogni angolo della sua esistenza, solo sfiorandola. “Bene”. Sofia ritirò il polso con uno scatto.
“Cosa dice il regolamento?”. “Sì, lo so” rispose sbuffando già pronta ad andarsene. Non riusciva a credere che la stessero trattenendo in un momento del genere, proprio mentre la città era pericolosamente in tumulto. “Ripeti” disse minaccioso. “Aiutare il prossimo è un obbligo del cittadino di Panopticon”. “Bene. Prosegui”. Si sentiva a scuola. Aveva ripetuto per così tanti anni quelle regole, da pronunciarle ormai quasi senza riflettere, come un automa. “I gruppi di più di cinque persone sono proibiti per più di un’ora di tempo, al di fuori della scuola, dell’Università e dei luoghi di lavoro. È obbligatorio identificare la propria presenza all’ingresso e all’uscita di ogni struttura, compresa la propria abitazione. Alla comparsa del Presidente è obbligatorio fermare ogni attività e prestare ascolto. È obbligatorio camminare in modo ordinato sui marciapiedi e nelle corsie ben delineate. Mentre è vietato correre, urlare ed esibirsi in qualsiasi manifestazione che possa turbare il normale corso quotidiano”. “Bene. Basta così. Dunque cosa devi fare ora?”. Sofia obbedì, allungò una mano verso l’uomo ancora a terra e lo aiutò ad alzarsi. Quest’ultimo la guardò con severità, poi si piegò in ossequiosi inchini. “È la legge Sofia Amberale. Non è permesso trasgredirla”. Sofia abbassò lo sguardo e camminò lentamente nella corsia designata, mentre gli agenti si unirono agli altri che stavano accorrendo per cercare di calmare le acque. Appena le guardie scomparvero dalla sua vista, lei riprese a correre, così come stava facendo prima, ma per un istante si dovette fermare, perché le girava la testa. Era ancora incredula e le sembrò sparire la terra da sotto i piedi. Non sapeva bene cosa fare. Gli schermi intorno erano tutti accesi, e cercavano di sovrastare con i loro spot le urla della gente. “Non è possibile” si continuava a ripetere.
Infine con decisione Sofia riprese il controllo e corse verso casa. Un uomo distratto le diede una spallata facendola cadere a terra, poi si voltò stringendo in mano un giornale. “Hai visto?” chiese con sguardo perso e folle, sudando vistosamente da tutti i pori. “Non ci sono più. Se ne sono andate. Ah, ah, ah”. Sofia si rialzò di corsa, e, spaventata dagli occhi di quell’uomo, dal suo oscillare convulsamente il giornale davanti a lei, indietreggiò. Quando l’uomo ò oltre, come se non l’avesse neanche mai incrociata, lei si fece coraggio e si diresse verso la sua meta.
“Come non sai cosa fare? Diavolo, tu sai sempre cosa fare. Pensaci su” disse nervosamente Fran. “Cosa vuoi fare? Dobbiamo stare ad aspettare che la situazione si calmi e capire cosa sta succedendo. Forse è un qualche strano esperimento. Andiamo a casa. Vediamo cosa dicono al telegiornale”. Finalmente raggiunsero l’uscita, Leon superò lo scanner con il polso alto ando distrattamente la mano sul sensore e fu fuori. Lo stesso fece l’amico. “Da quando in qua ti fidi di quello che dice il telegiornale?”. “E va bene Fran. Non so cosa diavolo fare. Ok?” disse con rabbia esasperata allargando le braccia. “Non mi viene in mente altro. Su, usciamo da qui”. “D’accordo” rispose arreso e silenzioso Fran. “Usciamo e facciamo come hai detto tu”. Leon pensò all’espressione stampata sul viso del suo professore preferito, ma non riuscì a cogliere la gravità della situazione. Le temperature erano ancora fredde eppure i capelli neri di Leon si erano incollati sulla fronte, era talmente agitato da sudare come fosse pieno agosto. Anche Fran faceva fatica a stare dietro alle gocce di sudore che gli imperlavano il volto. Tirava indietro in continuazione i suoi capelli biondi asciugandosi la fronte con il dorso della mano.
I due amici continuarono a percorrere i corridoi dell’Università vuota, non riuscendo a capacitarsi di quelle assenze, di quel vuoto. “Forse gli schermi hanno dato l’ordine di evacuazione e non abbiamo sentito” bisbigliò Fran. Il silenzio si era fatto così fitto e fastidioso che i loro i riecheggiavano in quegli spazi abbandonati. Leon, inconsciamente, iniziò a camminare quasi in punta di piedi, come a non voler disturbare un qualche essere che ora abitava tra quelle mura. Quell’edificio, senza esseri umani, non sembrava più lo stesso, il senso di familiarità era scomparso. Leon procedeva con disagio in un luogo che non gli apparteneva. Ogni o in avanti ne cancellava pian piano la sua conoscenza, un pezzetto alla volta, come uno spazio che vestiva lentamente un abito sconosciuto. “Diamoci una mossa Leo”. “Sh” rispose d’istinto. Quel silenzio lo metteva a disagio, eppure anche solo parlare gli sembrava sbagliato in quel momento. “Cosa sh? Non c’è nessuno qui”. “Lo so” affermò amaramente abbassando gli occhi. “Ecco, usciamo da qua” disse Fran, ma Leon si era distratto. Un rumore proveniva dall’altro lato del corridoio e lui ne fu attratto. “C’è qualcuno di là. Andiamo a vedere”. “A cosa serve? Andiamocene su”, sussurrò Fran teso come una corda di violino, era spaventato come se non si trovassero a camminare in un’Università ma in mezzo a una giungla. L’amico non l’aveva neanche ascoltato e procedeva a o spedito verso la fonte del suono. A volte si bloccava, preso dall’incertezza, ma la curiosità, la voglia di un contatto forse, lo spingeva in avanti. Il corridoio, pieno di finestre ariose, appariva trasandato, come se fosse stato abbandonato ormai da anni. I pavimenti erano pieni di cartacce. C’erano, buttate ai suoi lati, lattine vuote, matite e penne, molte delle quali spezzate, libri aperti su pagine che forse nessuno avrebbe più potuto leggere, libri di cui forse nessuno
avrebbe più saputo neanche l’argomento. Leon buttò più volte lo sguardo sui volumi abbandonati e vuoti di significato. Si piegò su uno di essi e lo chiuse rispettosamente con un gesto delicato. “Chissà di cosa ci volevi parlare” gli disse con aria abbattuta. “Ti sembra il momento?” chiese l’amico alle sue spalle. “Lascialo stare lì. È solo uno stupido libro”. “E tu sei uno stupido uomo” sussurrò voltandosi a guardarlo dritto negli occhi con uno sguardo pieno di uno stanco rimprovero. Lasciò il libro a terra e proseguì verso le voci che si erano fatte sempre più flebili. Si affacciò poi alla porta. Il professore di letteratura antica stava gettando dalle librerie del suo ufficio tutti i suoi libri, gridando: “Perché, perché. Non vi fidate di me eh? Non rappresento niente per voi eh? Dopo aver ato tutta la mia vita ai vostri comodi, è così che mi ringraziate?”. Singhiozzava rumorosamente, poi si voltò a fissare un libro al centro della cattedra. “E tu? Mi hai abbandonato ora?” disse stringendo le mani sui fianchi, poi gli diede le spalle e ne raccolse uno da terra, separandolo da tutti gli altri. A Leon il professore apparve spaventato. Lo vide rinchiudere a chiave in un cassetto un libro e poi, come se niente fosse, riprendere con i suoi urli. Il suo tono di voce oscillava da una disperata rabbia a un delicato lamento di angoscia, come un folle che cambia volto ogni istante spinto dalle tante differenti ondate di emozioni che non è in grado di controllare. Leon vide la sua figura di spalle arrampicarsi sugli scaffali, i suoi capelli bianchi, solitamente ordinati all’indietro, arruffati a seguire i movimenti della sua testa, che si girava da una parte all’altra, indecisa. “Professor Wisdom cosa sta facendo?” chiese Leon mentre si avvicinava con cautela allungando le mani in avanti per prevenire eventuali azioni dell’uomo; sembrava essere uscito fuori di testa. Il professore si girò di scatto, sorpreso che ci fosse ancora qualcuno in quell’edificio, poi si sistemò con una mossa i capelli all’indietro, come se tentasse di darsi nuovamente un tono, e guardò con un sorriso forzato i suoi due studenti visibilmente spaventati. Fran era rimasto sulla soglia, stringeva con le mani lo stipite della porta e non si decideva a muovere
un o per avanzare nella stanza. Rimase a osservare l’amico mentre andava, apparentemente senza paura, verso l’uomo. “Oh, Leon” disse subito il professore riconoscendolo. Il volto gli si addolcì. Il ragazzo, mentre tentava di avvicinarsi, cercò di schivare il mare di libri che aveva occupato quasi interamente il pavimento. Fu addirittura costretto a salire sopra le copertine e sulle pagine bianche sparpagliate per terra. Sulla sua destra, la scrivania era stranamente vuota, sopra a occupare la superficie, vi era un solo libro, ordinatamente posizionato al suo centro. Leon, che lo aveva subito notato, si chiese per quale motivo fosse lì da solo. “Che libro sarà?” si chiese essendo profondamente attratto dalla copertina. Continuò a osservarlo, sembrava un libro diverso dagli altri, aveva tre piccole fessure sulla copertina che andavano a formare un triangolo, ma non ebbe il tempo di approfondire. “Professore, cosa sta facendo?”, disse quando arrivò abbastanza vicino. L’uomo l’osservò con sguardo grave, sembrava aver ritrovato la calma. “Butto giù il mio mondo” rispose sfinito. Leon si bloccò sul posto e cercò di interpretare quella frase enigmatica. Il professore scoppiò a ridere, piegandosi in due per lo sforzo, poi poggiò le mani sulle ginocchia e rimase così, in silenzio. I due ragazzi riuscirono a sentire solo i loro cuori battere all’impazzata e una certa sicurezza iniziale scivolare via. “Professore, va tutto bene?” chiesero. L’uomo non si mosse e scoppiò a piangere all’improvviso, ma sempre in silenzio. Leon sentì il suo respiro soffocato e i singhiozzi bloccargli la gola. L’uomo anziano si coprì il volto con le mani e si rialzò piano, riprendendo la posizione retta. Si voltò verso la sua libreria, quasi vuota, assumendo un’espressione di profonda tristezza e disappunto. Infine guardò Leon aspettando che lui parlasse. “Che cosa sta succedendo?” chiese. Non sapeva perché ma in quell’istante si convinse che il professore avesse tutte le risposte che cercava, così rimase in silenzio ad aspettare.
Lui si asciugò le guance e la fronte con il dorso della mano, indeciso se parlare o no. “Ragazzo mio, sta succedendo qualcosa di terribile” iniziò, poi prese un fazzoletto di cotone bianco dalla tasca e si asciugò la fronte con più impegno. “Lo capisci?”. Leon aggrottò le sopracciglia: “Cosa dovrei capire?”. “Sei il mio migliore studente” disse con una punta di delusione, poi gli voltò le spalle. “Ci puoi certamente arrivare da solo. Sono sicuro che tu ci puoi arrivare” borbottò come se non fosse lui a parlare. “Non so perché, ma credo che tu ci possa arrivare”. “Ma io...”. Abel tornò di colpo in sé e capì che il ragazzo non poteva avere quella risposta. “Vattene via. Fila via subito” gli urlò in un momento d’impeto agitando le braccia minacciosamente, come se un’altra persona si fosse impossessata di lui. Poi si guardò nervosamente il braccialetto: “Vai via subito” urlò ancora. Fran fece un o avanti e prese l’amico per un braccio, tirandolo via da quella stanza, vedendo che l’amico era rimasto ancora imbambolato a osservare il professore improvvisamente infuriato. L’uomo andò a o lento dietro la scrivania e si sedette davanti a quell’unico libro rimasto intatto. Ne accarezzò la copertina, dove quei due piccoli buchi, sulla parte superiore, facevano da base a un terzo in cima, staccò dal collo un ciondolo e riempì la fessura rotonda sul lato destro, si soffermò a guardarlo per più di un istante e poi aprì il libro. Anche in quel volume era sparita ogni traccia d’inchiostro. Poco prima di lasciarsi alle spalle l’ufficio, Leon sentì l’uomo sussurrare “Marin” e rimanere in silenzio per un breve momento. I due ragazzi, quando lo sentirono urlare di nuovo, erano già quasi arrivati alla porta di sicurezza che prima Fran aveva indicato. “Cosa sarà quel libro che trattava con tanta devozione?” chiese Leon
sussurrando quasi a se stesso. Si mosse poi faticosamente, trascinando i piedi fino all’uscita. “Non lo so amico, ma ora è il caso di andarcene. Non l’hai visto? È praticamente impazzito”. “Non lo so, chissà. Forse è il più sano di tutti noi”. “Sì, come no”.
Fuori i due si trovarono di fronte a uno spettacolo inimmaginabile. La gente camminava rapidamente da una parte all’altra della strada fermando le persone che avano. Si erano formati, in alcuni angoli della piazza, dei gruppetti ansiosi. Il traffico era bloccato, i clacson impazziti risuonavano insistenti. Un autista era sceso urlando che rischiava di far tardi al lavoro, senza rendersi conto della situazione in cui tutti loro si trovavano. Molti altri avevano abbandonato le macchine e correvano senza meta. Gli schermi intanto mostravano immagini senza testi, impazziti come il resto della popolazione, che non aveva mai vissuto un tale momento di caos. La proiezione s’interruppe improvvisamente, i televisori si spensero all’unisono e poi si riaccesero di colpo senza trasmettere nulla, se non un’immagine nera. Un bambino, fermo al margine di un marciapiede, piangeva disperato; nel trambusto la madre lo aveva perso. La carta dei libri invadeva i marciapiedi, alcuni staccavano dei manifesti privi di parole dai muri come a sfogare una qualche rabbia o un impulso distruttivo. Un’edicola, poco distante, era stata letteralmente assaltata. Leon si avvicinò e riuscì a notare con terrore quello che aveva già pensato: le parole non erano fuggite solo dai libri ma da qualsiasi materiale, riviste, giornali, annunci, segnali stradali. Via da qualsiasi o. Vide poco distante un uomo lanciare il suo tablet a terra. Una donna, in tailleur, scuoteva il suo smartphone come se dovesse uscirne qualcosa.
Gli schermi sparsi nella piazza in quel momento sembravano avere una vita propria, decidendo da sé di non mostrare alcuna immagine: c’era solo una luce rossa che brillava in cima. Leon vide un uomo urlargli contro tutto il suo disappunto, come se gli altri potessero realmente ascoltarlo. In quel momento gli schermi si accesero tutti contemporaneamente, mostrando un messaggio del Presidente, allora la gente si fermò ad ascoltare. Solo per un istante la folla si paralizzò, ma la situazione era troppo strana, bizzarra e tragica perché la gente non si agitasse. All’angolo destro, arrampicato su una statua, che troneggiava minacciosa sulla piazza, un uomo anziano, altrettanto spaventoso, urlava che la fine del mondo era vicina, che se l’erano voluta. “Il grande terremoto non sarà niente al confronto!”. “Ma quale terremoto. Vecchio pazzo” si sentì urlare. Leon ricordò i molti film in cui gli era capitato di vedere una scena del genere. Ma stavolta, era la realtà. “Il grande terremoto”, si disse, non sapeva bene quella storia, anzi, era più che confuso al riguardo, ma non aveva tempo per pensarci. Si sentiva come se stesse vivendo un sogno molto articolato e fantasioso. Un sogno non suo. Scivolò seduto sui gradini della piazza e rimase a riflettere, mentre l’amico si guardava attorno sperduto, a bocca aperta, paralizzato dallo spavento. Non sapeva come reagire a quelle immagini che scorrevano insistentemente davanti ai suoi occhi senza poterle bloccare. Leon si alzò di scatto, deciso a prendere in mano la situazione, o almeno la sua di situazione. “Andiamo su. Non ci fermiamo qui” disse all’amico, ma vedendo che Fran non lo seguiva fece qualche o indietro per scuoterlo. “Dai su. Muoviti” gli ordinò strattonandolo, e lui si risvegliò dal torpore. Fran lo seguì muto, camminando quasi nella sua ombra, come se potesse in questo modo evitare di incrociare tutta quella gente impaurita, allo stesso suo modo.
Le squadre di controllo accorrevano da ogni strada impugnando le armi, per sedare una possibile rivolta alimentata dal panico. La gente era uscita fuori dai percorsi delineati, e molti agenti li forzavano a ritornare in ordine. Non era permesso percorrere i marciapiedi o le strade in diagonale, e soprattutto uscendo dalle linee luminose che si accendevano al loro aggio. “Hai visto il giornale? Guarda qui” disse una donna alla collega strabuzzando gli occhi, mentre una bambina urlava forte: “Mamma che succede?”. L’edicolante cercava di chiudere il suo negozio, con difficoltà, perché era costretto ad ascoltare le domande cui non poteva dare spiegazioni. “Che cosa volete da me? Io non ne so niente”. “Sta mettendo in vendita giornali e riviste senza scritte” gridarono i più ottusi. “Le sembra uno scherzo da fare?” aggiunse un altro sistemandosi il ponticello degli occhiali che gli stava scivolando sul naso per l’agitazione. “Sono errori di stampa? Non è vero?”. “Beh, molto professionale” disse con rabbia un altro. “Io non so niente” ripeteva a tutti il povero uomo agitato e confuso, si dimenava come un pesce in una rete, cercando solo il modo per liberarsi da quel mare opprimente di persone che si facevano sempre più vicine. Leon lo vedeva boccheggiare ansiosamente. Alcuni ragazzi erano seduti sulle panchine sorseggiando delle bibite e godendosi quello spettacolo particolare, come se stessero guardando un film e non la loro stessa vita. Uno giocherellava con lo skate, con il piede lo faceva scivolare a destra e sinistra sulle rotelle instabili, e rideva alla vista della gente. L’amico indicava le persone più disperate, un altro, invece, si preoccupava di fotografarle e di fare dei video con il cellulare per caricare tutto sulla rete, così da poterle prendere in giro in maniera globale, con il resto della Nazione, sempre che qualche censura non lo bloccasse. Quei ragazzi cercavano sempre nuovi modi per aggirare la censura, ma i coraggiosi che ci provavano realmente erano pochi.
Si sentiva spesso di arresti, di squadre di controllo piombate in casa, di sequestri e deportazioni in altre Aree. Perciò la gente aveva paura. Ma i ragazzini, ancora ignari delle conseguenze, continuavano a fotografare. Fotografare gli altri era vietato, quanto camminare fuori dai percorsi o non identificarsi. “È incredibile come la televisione abbia provocato questo grande distacco dalla realtà” pensò Leon mentre schivava le persone affannate. Nel caos generale gli capitò di poggiare i suoi occhi su una ragazza graziosa dai lunghi capelli castani stretti in una coda. Una forza l’aveva spinto a girarsi proprio verso di lei. La notò procedere a testa alta, sicura e decisa, trascinandosi dietro un’amica, così come stava facendo lui con Fran. La teneva stretta per mano, senza distogliere mai lo sguardo che puntava davanti a sé, come se stesse guardando un oggetto preciso, un obiettivo spostato avanti nel futuro. Quella visione di apparente calma lo rinfrancò, così, senza guardarsi più attorno, procedette verso casa senza altre inutili interruzioni, sperando che la situazione non gli sfuggisse di mano.
“Sofi rallenta” disse Martha stanca, tirando la mano dell’amica. “No, ci dobbiamo sbrigare”. “Ma perché siamo ate qui? Oh, quella è l’Università” disse poi cambiando tono. “Sì” rispose lei distraendosi. Con aria sognante Martha aggiunse: “Il prossimo anno toccherà anche a noi”. Poi tornò dura e seria, e anche Sofia, che aveva il cuore in gola per la tensione. “La strada che prendiamo di solito era bloccata, ma dovevamo per forza are per questa”. Martha annuì. “Hai ragione. Ma sono stanca”. “Su, non essere pigra. Manca poco”. “Insomma” replicò l’amica con una smorfia. “Senti, ma tuo nonno starà bene?” chiese poi. Sofia perse la calma per un istante e si voltò a guardarla, si era
completamente dimenticata di suo nonno. Martha, vedendola così spaventata, le strinse più forte la mano: “Stai tranquilla. Tuo nonno è uno tosto” disse facendole l’occhiolino. “Lo spero” rispose l’amica guardando intensamente l’ingresso dell’Università deserto. “Hai visto quante squadre di controllo? La città ne è invasa… ma non capiscono che la loro presenza mette più panico che altro?”. Sofia cercò di non guardarle. “Forse sapranno cosa fare. Spero veramente che lo sappiano” disse con il respiro che gli si mozzò in gola. “No che non lo sanno. È una cosa così strana!”. Sofia aveva l’impressione che questi accadimenti fossero il risultato di forze che non appartenevano all’uomo, nessun uomo poteva volere quella situazione, nessuno poteva fare questo. Si era ormai arrivati al punto di non riuscire a rendersi più conto dell’importanza delle parole, erano sottovalutate, sfruttate, calpestate. “Sarà una loro vendetta questa?” pensò la ragazza. “Apparterrà a qualcosa di più grande?”. In quel momento ricordò la guerra che aveva portato a Panopticon, che era andata sempre più crescendo. Inizialmente l’uomo credeva di poterla tenere sotto controllo, poi gli era sfuggita completamente di mano, si era ingigantita, finendo per trascinare tutto e tutti in un buco nero. È questo che sta succedendo? Si chiese. Poi capì che la situazione sarebbe andata solo peggiorando e disse: “Questo è solo l’inizio”. Sofia notò un povero edicolante scappare dal suo negozio, lasciandolo in balia di una folla inferocita. L’uomo quasi le piombò addosso: “Scusa, scusa” gridò con affanno voltandosi lievemente lungo la sua corsa, rallentando ma senza fermarsi. Vide la gente fuori di sé, tesa e preoccupata.
“Davanti a eventi così inspiegabili come si può mantenere la calma? Si può sperare che qualcuno in alto sappia cosa sta succedendo, eppure dentro di sé si è coscienti che invece non si avranno risposte. Anche loro si sono trovati invischiati in questa situazione. Anche loro sono semplici uomini. Come noi”.
Le due ragazze camminarono velocemente sforzandosi di non guardarsi intorno. Lo scoppio di quell’evento così strano aveva mandato in tilt la città, com’era normale. La gente preferiva starsene in strada a cercare una risposta, piuttosto che chiudersi in casa. Solitamente in situazioni come questi si cerca sempre la condivisione e si scansa la solitudine. Sofia ogni tanto alzava gli occhi verso gli alti edifici che sovrastavano il suo cammino, come se avesse paura che gli crollassero addosso di colpo. Dalle finestre notò molte teste e braccia cercare conforto, mentre il cielo azzurro se ne stava silenzioso. Le tre lune erano sempre ben visibili ai suoi occhi, e la ragazza non poteva fare a meno di fissarle, come se fossero proprio loro a trattenere il suo sguardo, a invogliarla a non distoglierlo. “Sono così calme. Saranno loro le colpevoli di tutto questo?”. Quella domanda era nata spontaneamente e Sofia non poté fare altro che accoglierla, poi la lasciò scivolare via. Arrivate all’angolo del loro quartiere le due amiche si separarono, dandosi appuntamento per il pomeriggio. Martha voleva assicurarsi che i familiari stessero bene. Sofia entrò in casa, affannata, superò l’ingresso buio, quasi inciampando sul tappeto a terra. “Mamma!” urlò senza voce. “Tesoro sono qui” rispose lei dalla sala da pranzo, mentre la musica riempiva la stanza e la tv se ne stava accesa abbandonata in un angolo. “Ho provato a chiamarti. Non hai visto le telefonate? Devi sempre stare attenta al videotelefono” la rimproverò tenendosi a distanza. Poi l’abbracciò. Sofia rimase come al solito un po’ rigida.
“Scusami, non ho avuto il tempo di controllare. Sono venuta via di fretta”. La donna sciolse l’abbraccio e fece segno alla figlia di sedersi. Poi si avvicinò al frigorifero e tirò fuori una bottiglia di succo di frutta alla pesca, il preferito di Sofia, prese un bicchiere e lo riempì. “Tieni, bevi” le disse poggiandole il bicchiere pieno davanti. “Grazie. Mamma, la radio” le fece segno di abbassare. Lei riprese ad armeggiare per qualche istante, afflitta. Solo in quel momento Sofia notò cosa stava facendo preoccupare la madre e benché insistesse tanto a toccarne i tasti la musica usciva senza parole. Riconobbe una canzone che era il tormentone di quel periodo, che suonava senza parole; erano scappate anche da lì. “Del resto la canzone è un o delle parole come lo è il libro. Per risolvere momentaneamente il problema, potrebbero cantare in diretta” pensò lei, “o forse anche così… non so”. Poi prese a guardarsi intorno e notò che tutti gli elettrodomestici della cucina erano diventati oggetti senza nome, le parole erano scomparse anche da loro. “Oggetti senza nome. Ma senza un nome che lo denota, l’oggetto può rimanere tale? Che cos’è alla fine una parola? È solo un segno arbitrario. Però noi ci viviamo nelle parole. L’idea di sostanza è un’illusione. La parola stessa è più reale dell’oggetto che rappresenta. La parola è la realtà, non la rappresenta solamente” disse tra sé e sé. “Avrei fatto filosofia all’Università” disse ad alta voce senza neanche farci caso. “Ma tesoro, la farai. Non è la fine del mondo” la consolò con un groppo in gola. “Io non ne sono così sicura” confessò a se stessa mentre si mordeva il labbro. Poi prese dallo scaffale una merendina, la scartò senza badarci troppo, ma quando andò a gettare la plastica nel cestino vide che era un semplice involucro blu, senza nome, come tutto il resto. La merendina le andò di traverso, bloccandole la gola, l’altra metà la lasciò sul bancone. Non aveva così tanta fame, poi si sedette di nuovo al suo posto. Sua madre era visibilmente sconvolta, ma cercò di darsi un tono il più naturale possibile.
“Che cosa è successo a scuola?” le chiese sedendosi di fronte a lei. I capelli lunghi come i suoi, le cadevano sulle spalle facendo risaltare il suo volto fino e delicato. “Quello che è successo anche qui e nel resto della città, credo. Le parole sono sparite” rispose mentre la madre si tirava avanti con i gomiti sul tavolo, poggiando il mento delicato sui palmi. Dopo qualche attimo prese a tastarsi la piastrina con la punta delle dita, distrattamente. “Io sono dovuta andare via dall’ufficio. Era scoppiata l’isteria. Si sono tutti spaventati”. Prese fiato e continuò: “Stamattina hanno iniziato i libri e le riviste” disse con una calma innaturale, “poi da poco le parole sono scomparse anche dai pc, dai cellulari...”. Distolse lo sguardo e lo abbassò verso il tavolo. Una smorfia di preoccupazione deformò il volto della madre che scoppiò a piangere cercando di coprirsi il volto. “Maledizione, scusa” disse mentre la figlia si avvicinava a lei, “mi ero ripromessa di mantenere la calma” aggiunse sprofondando sempre più tra le mani. Sofia le andò dietro e poggiò le mani sulle sue spalle. Era tutto quello che riusciva a fare per consolarla, abbracciarla era sempre stato per lei difficile. “Stai tranquilla, mamma. Sicuramente andrà tutto bene” disse con una voce flebile storpiata da un tremolio che non era riuscita a controllare. “Andrà tutto bene”. Gli occhi verdi di Sofia vagavano per quella stanza vuota, che senza parole appariva ancora più scarna, triste, quasi senza funzione. Strinse ancora più le mani sulle spalle della mamma. In quei momenti le mancava la nonna, che era come la madre che non aveva mai avuto. Sul muro della cucina, la lavagna su cui di solito era scritta la lista delle cose da comprare, era diventata limpida, persino la rivista che era poggiata sulla sedia non aveva scritte, anzi, Sofia riuscì persino a cogliere quella fuga silenziosa, infatti il titolo “Tutto Oggi” c’era ancora quando la ragazza ci aveva poggiato gli occhi sopra. La ragazza aveva guardato tristemente le lettere staccarsi e sparire. D’impulso
aveva fatto uno scatto a vuoto verso la rivista, rimanendo però con le mani poggiate sulle spalle, come se per un attimo avesse pensato di cercare di trattenerle, ma come? Pensò. Quando la madre smise di singhiozzare, Sofia si staccò da lei e in quel momento la attraversò un pensiero. Si chiese come stesse il padre. “Ha telefonato prima, è a casa anche lui. Dovresti chiamarlo, era preoccupato per te”. “Sì, vado subito” rispose la figlia, poi sfiorò la rivista con la punta delle dita mentre si muoveva e le parole all’improvviso ricomparvero, ma lei non se ne accorse. Fece per andarsene, poi si bloccò: “Mamma, spegni quella televisione. Ti rincitrullisce” disse con tono di disapprovazione. Lei fece un sorriso stanco e abbassò il volume, come se quel gesto bastasse. Sofia corse al telefono in camera sua e compose il numero di tutta fretta. “Papà?”. Sofia iniziò di nuovo a torturare il suo polso. “Sofia, stai bene. Che sollievo”. “Tu stai bene?”. “Sì”. Il padre si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. “Tu sai cosa sta succedendo?”. “E come potrei?” rispose, poi calò il silenzio prima che il padre potesse chiedere altro, ma lo fece subito dopo. “Tesoro, hai sentito per caso tuo nonno? Perché è irraggiungibile. A casa sua non c’è”. A Sofia accelerò il battito. “Sarà all’Università. Lui è sempre lì” disse con una certa calma. Ci vive in mezzo ai libri. Come me, pensò, e un sorriso non ricercato spuntò sulle sue labbra. “Non è lì”. Il padre sembrava teso, la voce le arrivò all’orecchio secca. “Come non è lì? Deve per forza!”.
“No, tesoro. Non voglio che ti preoccupi, ma lì non c’è. L’Università è stata chiusa parecchie ore fa”. “Ne sei sicuro?”. “Ho telefonato”. Sofia si lasciò cadere sul letto, stringendo saldamente la cornetta con la mano destra, poi prese a strattonare le coperte con l’altra mano, come a sfogare un’angoscia che era appena comparsa in superficie. “Il nonno è scomparso. Non ci credo” si disse preoccupata. “Se mi capita di sentirlo gli dirò di chiamarti” concluse poi e riattaccò. “Tutto a posto Sofi?”, la voce della madre arrivò dalle scale. Poi la donna comparve di fronte alla porta, stringeva le mani una nell’altra, come se un’ondata di gelo l’avesse improvvisamente colpita. “Papà sta bene, ma il nonno è scomparso”. La madre fece una smorfia di disinteresse e sparì in corridoio borbottando: “Papà è opera tua?”. Sofia però non se ne accorse, aveva risposto alla domanda meccanicamente, distratta. “Devo trovare il nonno. Ma prima...”, un pensiero che aveva dimenticato le balenò in testa. Non aveva ancora controllato i suoi libri. Si alzò di scatto e agitata, li tirò giù uno a uno ordinatamente, poggiandoli sul letto ancora sfatto. Rimase in piedi a fissarli. Questa prima azione le aveva già fatto salire il cuore in gola. Prese fiato, stringendo l’elastico dei capelli e allungò la mano sul primo volume, più volte, ritraendola a ogni movimento in avanti. Aveva paura di scoprire la risposta alla domanda che si stava ponendo da quella mattina. “I miei libri avranno ancora le parole?”. Colmò lo spazio restante con un gesto rapido e aprì il primo volume. A bocca aperta proseguì con il secondo, poi con il terzo. I movimenti si fecero sempre più rapidi e ansiosi. Ora i libri si accatastavano l’uno sopra all’altro disordinatamente, senza che Sofia se ne preoccue. Il cuore accelerava i battiti sempre più. Le sembrava di non riuscire a respirare. Le forze le
mancarono per un momento e cadde seduta sul letto dopo aver controllato e sfogliato ogni singola opera. Rimase imbambolata a fissare il muro davanti a sé, immersa nei libri, mentre si grattava la piastrina che tanto le dava fastidio, e in quel momento la sua domanda mutò. “Perché? Perché i miei libri hanno ancora le parole?”.
CAPITOLO 4
Un destino a cui non si può sfuggire
Desiderio di controllo. Tutt’intorno a lei il mondo si stava sgretolando e la sicurezza iniziava a vacillare. Tutto ciò che doveva tenere sotto controllo, era se stessa in uno stesso, fermo, stabile mondo, in cambiamento ma sempre uguale. Ora ogni cosa vacillava e la sua figura non trovava più il suo posto, né la sicurezza nelle parole che tanto la confortavano, perché anche quelle, come il mondo, stavano svanendo, portandosi via anche la sua vita, costringendola a mettersi alla prova. Costringendola a svegliarsi dal letargo.
Quella mattina in ogni angolo del Paese le parole iniziarono a fuggire, lasciando biblioteche, cartelli stradali e ogni o scritto che le contenevano, facendoli in quel modo vivere, ma dal momento in cui le parole li avevano abbandonati, li avevano svuotati della loro funzione. Nell’Area 1 la contaminazione si allargava a macchia d’olio. Mentre succedeva, Leon e Fran erano finalmente arrivati al loro appartamento. Si erano mossi con grande fretta, evitando persone che tentavano qualsiasi approccio, squadre di controllo e schermi gracchianti, non tanto perché si aspettavano di trovare a casa una risposta, ma perché, nei momenti di crisi la gente tende a essere sempre più attiva di quanto dovrebbe, e loro si erano lasciati trascinare dallo stato mentale generale. Perciò erano corsi a casa, senza sapere bene cosa fare. Sapevano solo una cosa: di aver bisogno di non stare immobili. “Mi verrà un’idea” si disse Leon, che aveva sempre tutto sotto controllo, non pensando che molti eventi non si potevano spiegare, non essendo alla portata di un essere umano comune. Non poteva, in questo caso, limitarsi a isolare il problema, rinchiuderlo da qualche parte e poi vedere come e se affrontarlo, perché aveva travolto tutto e tutti, anche lui. Il non sapere lo faceva impazzire. Si
percepiva come una comune creatura in balìa di forze sconosciute e non gli piaceva. “Mi verrà un’idea” continuò a ripetersi insistentemente tastandosi il braccialetto, come se questo lo calmasse. Fran s’identificò all’ingresso e spalancò la porta, entrò in un balzo, seguito dall’amico. Lanciò poi lo zaino in un angolo e raccolse un giornale vecchio da terra. Lo guardò con una smorfia e lo gettò nel cestino sotto il lavabo della cucina. A disagio si sedette sul divano del piccolo salotto e rimase a fissare Leon, che invece non riusciva a stare fermo. Si muoveva da una parte all’altra della stanza stringendo tra le dita il mento, come un grande pensatore che cerca una soluzione a una qualche equazione o a un problema filosofico. “Camminare stimola il pensiero” diceva sempre a Fran, che gli rispondeva: “A me stimola decisamente stare con le chiappe sul divano” divertendosi a prendere in giro l’assurdo amico. A volte aveva certe convinzioni così sciocche... quasi da cartone animato. Fran, che seguiva con lo sguardo Leon battendo con la punta delle dita sul ginocchio magro, a un certo punto balzò in piedi e si diresse verso la tv. “Accendo, vediamo che dicono”. La tv rimase buia. “E ora che diavolo ha questo vecchio macigno?” urlò scagliando pugni sulla sua superficie liscia. “Lo sai che è vecchia” disse Leon interrompendo per un istante la sua riflessione. “Mi chiedo ancora come abbia fatto a funzionare fino ad ora. È pure fuori commercio”. “Sarà anche vecchia ma si è sempre accesa. Dannazione” disse infine, e fece per darle un calcio che colpì, però, solo l’aria. Tirò fuori dalla borsa il suo pc, non ricordava di esserselo portato dietro, e lo poggiò sul tavolo. “Vediamo, vediamo” disse in attesa.
“Ma cosa... al diavolo!”. “Cosa succede ora?” chiese Leon avvicinandosi. “Guarda! Anche il computer”. Cliccò la prima pagina di un giornale dal menù dei preferiti e apparve uno schermo bianco con immagini sparse che prima andavano a contornare e ad arricchire gli articoli scritti. Allora cercò di digitare nella barra bianca, su quello che doveva essere il motore di ricerca, il nome di un altro quotidiano, e successe una cosa incredibile, che non si aspettava e a cui non aveva proprio pensato. Una volta digitate le parole nello spazio bianco, queste sparirono subito. E così le lettere sui tasti della tastiera. Fran staccò subito le mani dal pc dell’amico. “Ora non posso fare neanche una ricerca?” disse cercando inutilmente di sdrammatizzare, e rimase poi inebetito a guardare, tamburellando nervosamente le dita sulla superficie liscia. Leon, che come lui non era arrivato a pensare a tanto, si raggelò sul posto. Si strinse nella camicia blu e riprese a camminare, fermandosi solo di fronte allo schermo vuoto. “Non ci posso credere”. “Credici, amico mio. Siamo fottuti” disse a un certo punto in uno scatto d’ira, sciogliendosi dal precedente stato di confusione. “Diavolo siamo F O T T U T I. Mi hai sentito?” domandò a Leon, che ancora fissava lo schermo bianco senza rispondere. Quel computer che non sembrava più un computer, ma un qualche prototipo ancora incompleto. Fran chiuse il pc, vedendo che l’amico continuava ancora a contemplarlo, e lo gettò sul divano con un gesto di stizza. “Tranquillo, deve esserci qualcosa che possiamo fare” disse ridestandosi, poi riprese di nuovo a camminare, perso nelle sue riflessioni. “Senti, io faccio un paio di toast” propose Fran bruscamente. Non riusciva neanche lui a stare fermo. Fece i toast in quattro e quattr’otto e si avvicinò con un piattino di plastica all’amico, che ancora camminava.
“Tieni. Li ho fatti con il tonno, sono i tuoi preferiti. Fermati su”. E aggiunse, come se fosse la mogliettina di casa: “Siediti, sennò rischi di sbriciolare”. In risposta l’amico trangugiò quasi tutti i toast in un boccone, camminando sempre avanti e indietro, fermandosi solo per aiutarsi a inghiottire. Poi si diede un pugno sul petto più e più volte, fino a quando Fran non si avvicinò mettendogli in mano un bicchiere d’acqua, cosa che neanche notò, per quanto era concentrato sul problema. Leon buttò giù alcuni sorsi mentre Fran mangiò il suo toast silenziosamente in piedi dietro di lui. “Cosa cavolo possiamo fare?” continuò a domandarsi Leon ad alta voce, riprendendo la sua camminata per la stanza. “Oh, la vuoi smettere? M’innervosisci” gli gridò l’amico allargando le braccia in alto. “Camminando non risolverai niente” aggiunse vedendo che non si fermava. Iniziò a seguirlo in quel movimento, per farsi ascoltare, ma Leon si bloccò di scatto e Fran quasi gli cadde addosso. “Ora che ti prende, eh?” chiese nervosamente. “Andiamo di nuovo dal professore”. “Cosa?” disse strabuzzando gli occhi per la sorpresa. “E questa sarebbe la tua illuminante soluzione? Vedi che camminare non serve a un cavolo? Ora la smetterai di farlo, perché questa è una pessima idea. Un’inutile idea, e ogni volta che inizierai a muoverti da una parte all’altra in ‘riflessione’” disse mimando le virgolette con una smorfia, “io ti ricorderò che inutile suggerimento ti è saltato fuori da quella mente bacata. Te lo ricorderò eccome” sputò fuori tutto d’un fiato, blaterando come un matto. “Andiamoci subito” replicò Leon come se non l’avesse ascoltato. “Non mi stai sentendo, vero?” disse l’amico esasperato, poi alzò le spalle tendendo la schiena. Rimase in silenzio per alcuni secondi. “E va bene. Facciamo come dici tu. Tanto sei tu la mente” disse infine abbassandole e toccandosi i capelli biondi in segno di resa. Stava cercando di calmare la sua agitazione.
Sofia era ancora intorpidita dallo spavento, sovrappensiero, quando la madre salì
di nuovo a vedere come stava. L’aveva chiamata più volte senza ricevere una risposta. “Sofi, ti sto chiamando da un secolo. Ma non mi senti?” le disse appena arrivò alla soglia. “Ma che è successo qui dentro?”. La donna entrò nella stanza, che era sottosopra, e vide la figlia seduta sul letto, apparentemente assente. Fissava un punto immaginario sul muro, mentre teneva premute le mani in mezzo alle cosce, come se avesse bisogno di tenerle al caldo, protette. Almeno loro. Quando la madre fece per alzare un libro da terra, Sofia si ridestò, scattando a prenderlo prima che lo fe lei. Con un gesto rapido e inaspettato, la sua mano lo raccolse e lo strinse al petto, come se la madre fosse diventata improvvisamente un pericolo. La donna si sorprese, ritirò la mano e la guardò negli occhi: il suo sguardo era ora, non più assente ma spaventato, perso. “Cosa ti succede? Parlane con me” disse con tono dolce la madre, sperando di alleviare un po’ la sofferenza che percepiva provenire dalla sua bambina ormai grande. Lei scosse la testa: “Non c’è niente da dire” rispose con titubante fermezza. La donna tese le labbra con una punta di delusione e spalancò gli occhi per incoraggiarla a sputare il rospo. Quando vide che lei non avrebbe parlato, fece un ultimo, e sapeva inutile, tentativo: “Sai che a me puoi dire tutto”. Sofia pensò fra sé e sé non questo mamma, poi replicò: “Se non c’è niente da dire cosa devo fare? Inventarlo?” assunse un tono aspro e pungente sforzandosi di non far tremare la voce, per far desistere definitivamente la madre. Sapeva che l’avrebbe ferita rispondendole male, ma per ora non voleva coinvolgerla. Prima doveva capire perché i suoi libri avevano ancora le parole e cosa poteva fare a riguardo. “D’accordo” rispose la donna voltandole tristemente le spalle, mentre il suo volto si tirava in una smorfia di delusione e lei, silenziosa, dopo aver gettato lo sguardo su una foto che si trovava sulla scrivania, scivolava giù per le scale a o lento, facendosi sempre più piccola e inutile. Sofia odiava farla sentire così, avrebbe avuto voglia di inseguirla e scusarsi, ma sapeva che in quell’occasione non poteva proprio farlo. Serrò le labbra e iniziò a singhiozzare, non solo per quel silenzioso scontro avuto con la madre, ma anche
per tutta quella situazione così assurda. Pianse muta per alcuni minuti, stringendo le mani a pugno tra le gambe, poi si alzò in piedi. “Devo trovare il nonno” si disse con fermezza, appoggiò il libro sulla scrivania, vicino a quella lattina vuota senza nome che usava come portapenne e, senza salutare, uscì portandosi dietro la borsa. “Andrò nel suo ufficio. Deve essere lì”. La situazione all’esterno si era calmata. La città ora appariva quasi deserta. Si era ati da un estremo all’altro. Il vento fresco accarezzava il viso di Sofia, ma portava anche odori sconosciuti, di paura e disperazione mescolati insieme con quelli che solitamente riempivano le strade della città: i profumi del quotidiano. Ma questi erano ormai quasi una piccola sfumatura, in confronto agli altri più minacciosi, che ne coprivano prepotentemente l’impronta, rendendoli un miraggio, un eco che veniva da un paese lontano. Questi odori le arrivavano al naso come soffi perduti, che non riusciva bene a isolare, a far suoi. In giro i negozi erano desolati. Edicole, fornai, negozi di scarpe, non c’era più nessuno. E se le capitava di incontrare qualcuno, questo correva in cerca di salvezza. Era sfuggito tutto di mano, ma lei era sicura che qualcuno ai piani più alti fosse al lavoro per trovare una soluzione. Proprio in quel momento vide, in una delle piazze più grandi della città, proprio quella in cui si trovava l’Università, il Presidente parlare in cima a un palco costruito alla bene e meglio, osservato a vista da una lunghissima fila di agenti. L’occhio vagò da lui alle persone, un’immensa folla che invadeva anche le strade più vicine, quelle che confluivano lì. “Ecco dov’erano finite” disse. In quel momento pensò che tutta la città si fosse riversata in quel luogo in cerca di una risposta. C’era stranamente silenzio. Il Presidente Reik parlò con una certa sicurezza.
La sua immagine si mostrò con insistenza in tutti gli schermi della città, facendo echeggiare le sue parole. “Signori, dovete stare tranquilli. La situazione è strana, ma sotto controllo”. “Cosa succede?” urlò una parte della folla. “Siamo al lavoro per scoprirlo” gli rispose lui alzando il braccio, libero dal braccialetto, in alto. Come un eco, altre persone urlarono la stessa domanda, insoddisfatti dalle spiegazioni che non aveva dato. Le tre o quattro urla spazientite si trasformarono in un forte lamento generale, pieno di paura, ma anche di rabbia e frustrazione. La gente cominciava ad agitarsi e così il Presidente, che prese a contorcersi le mani l’una nell’altra, grattandosi ogni tanto la fronte e sforzandosi nel trattenersi dall’urlare. Avrebbe voluto fare una strage. Dietro di lui c’era più di una squadra di controllo, poi alcuni altri consiglieri fantocci che non avevano voce in capitolo. Contava solo lui: il Presidente. Gli altri erano imbambolati come soldatini inadeguati, ancora più a disagio del loro leader. Uno di loro si fece avanti con coraggio, o forse sarebbe meglio dire con stupidità e presunzione, convinto com’era, di riuscire a calmare quella mandria che iniziava a inferocirsi. L’individuo pensava di riuscire meglio del Presidente, che era un risaputo uomo di spettacolo. Il tipico leader politico che è nato ed è stato plasmato dalla televisione, che l’ha fatta sua. L’uomo politico che è diventato spettacolo, così come la politica in sé. “Non temete, gente. Tutti noi stiamo collaborando congiuntamente per risolvere la situazione che si è andata a creare” disse serio ma sereno. Il leader glielo lasciò fare, del resto era necessario che i consiglieri ogni tanto si fero sentire, si doveva mantenere quella facciata di pluralità di opinioni e punti di vista. Anche se la popolazione sapeva che le loro opinioni non avevano peso. “È questo tutto quello che riuscite a dirci?” urlarono alcuni in fondo alla piazza, e la domanda ò da una persona all’altra, da una voce all’altra, fino ad arrivare al palco.
“Vogliamo sapere che succede”. Questo era ciò che la gente chiedeva. Il bisogno di sapere si irrobustì e divenne più forte di qualsiasi frase potesse imbastire la classe politica lì ritta in piedi sul palco. E il capire che una risposta non sarebbe arrivata aveva fatto agitare la folla, che iniziò a muoversi in avanti, come un’onda minacciosa, mentre il leader che aveva parlato, sfoggiava un sorriso falso e tirato, come se sperasse, in questo modo, di calmare la rivolta delle persone che si stavano scaldando. Sofia notò le squadre di controllo che li circondavano, così come facevano gli schermi sugli edifici, tutti minacciosamente accesi e puntati sulla folla. Tante camionette erano poste sul perimetro per intervenire in caso di pericolo. E in quel momento vide le guardie agitarsi, arsi spasmodicamente ordini. La folla prese a urlare e il palco si svuotò all’improvviso, senza che nessuno aggiungesse altro. Quello era stato un intervento totalmente inutile. Poi il Presidente si fece di nuovo avanti, e sfacciatamente ripeté: “State tranquilli. Non vi agitate. Avremo una risposta alla vostra domanda molto presto. Io e i miei consiglieri ci metteremo al lavoro sin da subito, per il bene di Panopticon”. Sofia riuscì a cogliere un impercettibile sorriso soddisfatto sul volto del leader, gli angoli della bocca si erano increspati per un solo istante ma era bastato. Il leader si affrettò a scendere dal palco e fu scortato in una macchina nera. Sofia rimase a guardare mentre si allontanava.
“Dovevi arrivare prima, deficiente” urlò il Presidente mentre si sistemava sul sedile posteriore dell’auto alla ricerca di una posizione più comoda. Era entrato quasi tuffandosi a pesce. “Mi scusi signore”. “Portami al Palazzo di Giustizia. E sbrigati” intimò accendendosi un sigaro e respirandolo con avidità mentre con una mano si tirava all’indietro i capelli sintetici ingelatinati. Fu portato nel parcheggio privato e, quando scese, anche se non c’era alcun pericolo, urlò alla scorta di rimanere attaccata a lui. Temeva che qualcuno gli
portasse via la sua patetica esistenza. Salì su in ascensore senza guardare in faccia nessuno, aspirando ancora il suo sigaro. “Bentornato signore” gli urlò un vecchio dall’aria cattiva, un assistente di fiducia, il suo braccio destro per la precisione. Il Presidente rispose sputando in faccia a uno dei giovani che il braccio destro si era portato dietro, una nuvola di fumo, che il ragazzo cercò di non respirare. Trattenne il fiato per evitare di tossirgli in faccia e quando il leader sparì nella sua stanza privata con l’ultimo dei suoi uomini, scoppiò rantolando e singhiozzando con le lacrime agli occhi, sentì la gola seccarsi, come se avesse ingoiato degli spilli. Poi, appena riuscì a ritrovare il fiato, si allontanò mesto. Il Presidente lasciò la scorta nell’anticamera ed entrò nel suo ufficio, vistosamente arredato, arricchito di oggetti pacchiani che lui apprezzava, non avendo gusto. Spense il sigaro nel portacenere e si sedette alla scrivania, sistemandosi la giacca e i bottoni della camicia che sentiva tirargli sulla pancia. Aprì un cassetto serrato a chiave e ne tirò fuori un libro, dall’aspetto antico. Lo aprì con reverenza e lesse le parole che si stavano scrivendo proprio in quell’istante, riempiendo le pagine con la loro calligrafia ordinata: “Il grande Presidente lasciò la piazza in una macchina della scorta, mentre la folla imperversava. Nel suo ufficio cercò un modo per controllare la gente che aveva aizzato. Sapeva che lo avrebbe trovato assieme alla via giusta per ricostruire ciò che aveva distrutto, per conquistare ciò che non era mai stato conquistato. Per costruire ciò che non era mai stato costruito”. Ridacchiò convinto, poi osservò il libro come se gli stesse domandando qualcosa, e lui scrisse: “Sei il grande Presidente e padrone del mondo. Prosegui. Loro usciranno allo scoperto”. Il leader sorrise, annuì e lo chiuse, abbandonandosi sullo schienale della poltrona di pelle, in riflessione. Poi compose velocemente il numero sulla tastiera che era comparsa sulla scrivania al solo tocco.
“Hai novità da darmi?”. “No signore. Non si sono ancora manifestati”. “Che aspettano?” chiese con una voce piena d’impazienza. “Devo mantenere la calma” si rimproverò. “Ora che sono riuscito, devo solo seguire gli sviluppi”. Mentre diceva queste parole, la mano destra cominciò a tremare, come se si ribellasse al suo stesso padrone. “Signore, è ancora lì?”. “Sì” rispose asciugandosi la fronte piena di sudore. “Non si preoccupi. Noi continueremo a monitorare. Ho assegnato le Ombre migliori ai sospettati di ogni Area. Non falliranno”. “Bene. Ricorda di soffermarti sul vecchio e sua nipote. E su quell’uomo con sua figlia anche”. “Se ne stanno occupando due delle nostre migliori Ombre”. “Bene. Tienimi aggiornato”. “Sissignore”. Il Presidente sprofondò più a fondo nella comoda poltrona e iniziò a pensare alle numerose postazioni innalzate nell’isola, che monitoravano ognuna delle sei Aree in segreto. Pensò a quegli edifici carichi di persone, stipate nei loro piani, che controllavano la vita di ogni individuo saltando da una zona all’altra, da un cittadino all’altro, diventandone, di volta in volta, Ombra. Per questo erano chiamate così. “Per la sicurezza nazionale” diceva lui, ma la maggior parte della popolazione ne era all’oscuro e continuava la loro vita nella convinzione di essere libera. Intanto in piazza le guardie urlarono di mantenere la calma, e così fece l’uomo sdentato della mattina, quello che in piedi sulla statua predicava la fine del mondo. “Mantenete la calma. Agitarsi non serve”. Sofia rimase a guardarlo, era riuscito a calmare una parte delle persone, molto piccola, ma poteva essere un modo per trasmettere alle altre quel sentimento di serenità. Poi però aggiunse: “Tanto la fine del mondo è arrivata”.
Sofia pensò subito che fosse un uomo stupido, molto stupido. Sapeva bene che neanche lui sarebbe stato in grado di dare una risposta a quella situazione, eppure si arrogava il diritto di dire la sua inutile opinione, senza preoccuparsi delle conseguenze. Odiava le persone così. In quel momento vide una donna cadere a terra, si avvicinò per aiutarla, le ricordò sua madre e pensò a che dispiacere le aveva dato. Poi si ricordò di Martha, l’aveva completamente abbandonata. Si erano date appuntamento a casa sua e si era persino scordata di avvertirla. “Chissà dove sarà ora” si disse. Tirò fuori il cellulare dalla tasca e la chiamò, mentre la folla iniziava a calmarsi. La situazione era ancora tale da permettere un certo stato di tranquillità. C’era ancora la speranza che si trovasse una soluzione. “Del resto, quanto tempo sarà ato... sette ore?” si disse Sofia mentre componeva il numero velocemente. La gente doveva avere fiducia. Ognuno tornò alla propria attività, rimanendo in attesa. “Martha, sono io. Scusami!” le disse pensando di aver bisogno di una mano. Non poteva farlo da sola. “Dove sei finita? Ti ho aspettato. Poi sono ata a casa tua e tua madre non sapeva dove fossi. Non sapeva neanche che fossi uscita. Ma sei impazzita?”. “Oh, cavolo” rispose sperando che la madre non fosse in apprensione. “Tranquilla. Ho fatto finta di telefonarti e le ho detto che eri a casa mia” la tranquillizzò subito capendo la sua preoccupazione. “Grazie, sei proprio un’amica”. Sofia tirò un sospiro di sollievo, sistemando la cinghia della borsa sulla spalla. “Sì, sì. Ma ora dimmi dove cavolo sei?”. “Sono nella piazza centrale, quella davanti all’Università, vicino alla statua del predicatore”. “Ci sono anch’io. Sapevo che saresti venuta qui”. “Ma dove... ah, ti ho vista” disse e attaccò di scatto, poi dopo essersi avvicinata
abbracciò l’amica, non era mai stata così felice di vederla. “Su, su. Non fare la piagnona. Muoviamoci” la incitò sbuffando ma lanciandole uno sguardo dolce; anche lei era felice di averla ritrovata. Insieme erano una coppia imbattibile. “Hai sentito cos’hanno detto?” chiese Sofi all’amica. “Eccome. Non sanno assolutamente che pesci prendere” rispose lei che non aveva mai mezzi termini. “Già. Ho paura che non troveranno una soluzione”. Poi si perse dietro a un pensiero e Martha se ne accorse. “Hai qualche idea?”. “Voglio andare da mio nonno. Per questo sono qui. Papà dice che non si trova, che non è neanche all’Università, visto che è stata chiusa. Ma io sono sicura di trovarlo lì” disse tutto d’un fiato. “Lo immaginavo. Bene, allora andiamo, no?”, strattonò l’amica e la trascinò per un braccio facendosi strada tra la folla in modo brusco. Molti si voltarono a guardarle storto.
I due amici si guardarono perplessi: “Una peggiore figura non potevano farla. Diavolo!”. “Già. Non sanno proprio cosa fare”. Leon sospirò. “Abbiamo sfiorato la tragedia. Meno male che la folla si è calmata. Per un po’ tornerà tutto come prima. Senza parole ma come prima” disse Fran tra il serio e il giocoso. “Bah, forse il Presidente ha un altro piano di cui non vuole metterci al corrente” disse rimanendo colpito da questa illuminazione che poteva essere falsa quanto vera. “Andiamo dal professore. Speriamo sappia darci una mano”.
“Secondo me quel vecchio pazzo non sa un bel niente. Ma tentar non nuoce” disse Fran sistemandosi i capelli all’indietro. Il restare compresso tra la folla gli aveva fatto sentire un improvviso caldo. Anche Leon reagì a quel calore non voluto. Si tirò su le maniche della felpa che aveva indossato sulla camicia, fino a sopra i gomiti, inforcò bene gli occhiali sul naso e si mosse tra le persone che, a grappoli, scambiavano le loro insulse e infondate idee. Fran lo seguì silenzioso. Arrivati di fronte all’ingresso, notarono dei lunghi nastri di scotch, come quelli che vengono usati per isolare una scena del crimine, a bloccare l’entrata. Così decisero di girare intorno per cercare un ingresso alternativo. E lo trovarono sul lato sinistro dell’edificio, dopo aver scavalcato un cancello non troppo insidioso. Una porta di emergenza era rimasta socchiusa. Si lanciarono uno sguardo di vittoria ed entrarono, dopo aver tentennato di fronte agli scanner. “Abbiamo registrato l’uscita da casa. Forse stavolta potremmo…”. “Sì. La situazione lo può giustificare” continuò Fran ed entrarono senza identificarsi. Entrambi pensarono alla ragione che aveva costretto la popolazione, ormai da decenni, a indossare quei braccialetti, o almeno erano le scuse ufficiali che gli avevano fatto bere “per mantenere l’ordine, evitare i crimini, uno strumento utile per l’umanità”. Si scrollarono di dosso un brivido di fastidio, più per non essersi identificati per la prima volta nella loro vita che per qualsiasi altra cosa. Forse era stato lo shock per quella situazione e per l’inquietudine che ne era conseguita a renderli così insicuri, tanto che si voltarono a guardarsi più di una volta, come se ognuno avesse ancora più bisogno del o dell’altro. L’aula era la B1, quella che solitamente veniva utilizzata per la lezione di filosofia. Fran fece una smorfia e Leon ridacchiò divertito, catturato da un ricordo. Si rilassarono solo per quel momento, ripensando alle lezioni della professoressa Berry. Le percepirono così lontane nel tempo, eppure ne avevano seguita una proprio la mattina precedente. La loro espressione si addolcì inconsciamente: nonostante tutto, quelle lezioni gli mancavano, persino a Fran. Avrebbero voluto riprendere la loro vita normale, subito. Il giorno dopo sicuramente le lezioni sarebbero ricominciate, ma non riuscivano a immaginare come. Sarebbero riusciti a prendere appunti? Chi lo sa, ma in quel
momento tornarono concentrati. Dovevano trovare il professore, e solo a questo si potevano permettere di pensare. Avanzarono in punta di piedi attraverso i lunghi banchi deserti e disordinati, mentre il loro respiro sembrava rimbombare nella stanza vuota. Si voltarono più volte, credendo di essere seguiti oppure osservati. Evitarono di calpestare le carte e i libri riversati a terra per evitare di far rumore, poiché se ci fosse stato ancora qualche agente in circolazione avrebbero rischiato di venire scoperti. Ma sarebbe successo comunque, cartacce o meno. Fran non riusciva a evitare di trascinare i piedi, il suo o goffo, nonostante si stesse impegnando a stare attento, risuonava nel silenzio come l’eco di un fantasma. Leon ogni tanto si voltava a redarguirlo, inutilmente. All’improvviso furono attratti da qualcosa ed entrambi posarono gli occhi sulle pareti. Leon fu catturato dal manifesto elettronico che faceva scorrere ogni cinque minuti immagini riguardanti la storia della filosofia. Stavolta si alternavano solo i visi dei filosofi senza le loro massime, che erano fuggite via, insieme a tutte le altre parole, ma Leon le sapeva a memoria e iniziò a sussurrarle, come una preghiera silenziosa. Non voleva dimenticarle. Se, pensò, le parole non ricomparissero, saremmo noi a dover riscrivere i libri. Ed io voglio ricordare i pensieri precisi di ogni filosofo. I due amici non parlarono fra loro finché non imboccarono il corridoio, più raccolto e tranquillo. “Pensi sia ancora nel suo studio?”. “Lo spero” rispose Leon. Si dissero verso la stanza senza far rumore, come se l’enorme edificio stesse dormendo un sonno da cui non doveva essere svegliato. Leon vide uno spicchio di luce scappare dalla porta socchiusa e fece un cenno positivo all’amico. Prima di arrivare ad aprire la porta, sentirono altri i nel corridoio, e il primo impulso fu di nascondersi nell’aula vicina per aspettare in silenzio, invece restarono immobili, concentrati a fissare il punto da dove proveniva il rumore, indecisi sul da farsi.
“Sta arrivando qualcuno” disse uno dei due.
“Hai sentito anche tu?” chiese Martha. “Cosa?”. “Qualcuno parlare in fondo al corridoio”. “Ma va, siamo solo tu ed io qui dentro. E spero ci sia anche mio nonno”. A ogni o però questa convinzione si andava sfilacciando, anche Sofia aveva sentito qualcosa, e le sembrava di vedere, proprio davanti all’ufficio, qualcuno in piedi. Sofia man mano che si avvicinava alla stanza si faceva più curiosa, mentre Martha era spaventata, del resto stava calando il buio. I corridoi dell’Università assunsero un’atmosfera spettrale. I fogli sparsi ovunque le davano un aspetto abbandonato, e senza luce, ogni effetto era ampliato. Martha si guardava intorno a occhi spalancati, impaurita, mentre l’amica proseguiva decisa, gli schermi ora spenti, che si alternavano ai manifesti, punteggiavano il corridoio con la loro luce rossa sempre accesa. Il sole era ormai sparito dietro gli alberi e la poca luce rimasta entrava fiocamente dalle finestre, cercando di aggrapparsi, per poi scivolare via strappata dalla notte. Le giornate in quel periodo si stavano facendo sempre più brevi, e le ragazze si sorprendevano sempre di quanto fosse rapido il cambiamento. In fondo al corridoio notarono due figure nere immobili. Sofia era convita che stessero guardando proprio verso di loro, forse addirittura che le stessero aspettando. Accelerò il o tenendo l’amica per mano. Più le due si avvicinavano più la luce sembrava scappar via, facendo risaltare con maggiore intensità quello spicchio di luce invitante che si allungava sempre più sul buio pavimento. Dopo pochi istanti furono a faccia a faccia con i due sconosciuti, due ragazzi poco più grandi di loro, forse universitari. Martha rimase dietro a Sofia mentre li studiava con attenzione. I due si guardarono più volte, indecisi sul da farsi.
“Ciao” disse Sofia prendendo coraggio. “Ciao” rispose quello più alto con gli occhiali, che sobbalzò un attimo quando la vide, come se la conoscesse. Sofia si ritrasse di mezzo o e riuscì a vedere ben poco dei due ragazzi. La luce riusciva a malapena a illuminarne i contorni e a dare una vaga idea di ciò che avevano di fronte. Ma il suo bel volto Sofia era riuscita a inquadrarlo. Il ragazzo aveva dei bellissimi occhi azzurri nascosti dietro a un paio di occhiali dalla montatura nera spessa; ne rimase colpita. In quell’istante le sembrò che lui tentasse di cercare le sue stesse risposte e sentì di potersi fidare di quel ragazzo. Avanzò di nuovo. Il ragazzo continuava a fissare Sofia senza aggiungere altro, mentre i due accompagnatori presero ad agitarsi sul posto, non riuscendo a sostenere quella situazione, e per di più al buio. “Mi chiamo Sofia, sto cercando mio nonno” disse poi con calma. “Io sono Leon, piacere” disse l’altro allungando la mano e la strinse senza distogliere lo sguardo da lei; sembrava rimasto incantato. Sofia reagì nella stessa maniera, si guardarono negli occhi per alcuni lunghi istanti. “Noi stiamo cercando il professor Wisdom” disse Fran intromettendosi, e i due sciolsero la stretta. “Ah, comunque sono Fran”. Lei allungò la mano. “Io sono Martha. Piacere” disse secca e diffidente. “Bene, non so perché lo stiate cercando, ma dovrebbe essere qui dentro” disse Sofia, e, senza farsi pregare, aprì la porta. Guardò sbalordita lo studio. Com’è ridotto, pensò fra sé e sé, aveva lasciato la sua camera quasi nelle stesse condizioni. In quel momento sperò tanto che il nonno si trovasse nella sua stessa situazione: forse i libri del nonno hanno trattenuto le parole come i miei”. Ma la speranza fu subito frantumata. Infatti, Sofia raccolse un libro da terra e lo trovò immacolato, come se fosse stato stampato bianco per un qualche strano errore e lo chiuse prima di notare che le parole stavano ricomparendo fiocamente sotto il suo tocco. Alzò gli occhi e finalmente mise a fuoco suo nonno. Era seduto alla scrivania con il volto stretto tra le mani, immobile. Sofia si voltò inconsciamente verso Leon, non sapeva perché ma le dava una certa sicurezza, come se sapesse di potersi fidare, come se già si conoscessero.
Martha le diede una gomitata reclamando attenzione, mentre Fran teneva le labbra serrate, sempre più convinto che quella fosse una pessima idea. Leon e Sofia si scambiarono un altro sguardo d’intesa e poi lei avanzò. “Nonno” chiamò e lui si mosse lievemente. “Nonno, sono io. Sofia”. Lui alzò del tutto la testa. “Oh Sofia, la mia nipotina preferita” disse in un sussurro guardandola affranto. “Va tutto bene?” gli domandò, per accertarsene prima di chiedere ciò per cui era principalmente venuta. In quel momento pensò di aver fatto male a entrare con quei due ragazzi sconosciuti, perché doveva rivelare a suo nonno una cosa stranissima, e cioè che i suoi libri erano ancora integri, smaniosi di parlarle. Notò il pallore del suo volto, la sua difficoltà nel muoversi. Le maniche erano così lunghe da coprirgli quasi le mani. “Tesoro, come può andare bene?” disse alzandosi in piedi. “Oh, Leon. Ci sei anche tu” aggiunse e il ragazzo annuì. “Questa è la mia nipotina, mi fa piacere fartela conoscere” disse in modo svagato, indicandola. Il nonno si fermò a fissare Leon e Sofia e sembrò invaso da una qualche colpevolezza che lo aveva prosciugato di colpo. Poi scoppiò improvvisamente a ridere. “Che ha professore?” chiese Leon. “Nulla, ragazzo, nulla” rispose e si fece serio all’improvviso. La sua espressione ò all’estremo opposto della felicità. “Gli assomigli così tanto” disse poi, come se lo avesse notato per la prima volta. “Il destino è davvero buffo. Io sono solo un semplice uomo alla fine. Alla mercé di forze superiori” disse scoppiando di nuovo a ridere. Poi si piegò sulla scrivania stringendo i pugni, impotente. Martha e Fran, come se si fossero messi d’accordo, scossero la testa nel vederlo così perso. Forse non ci sta veramente più con la testa come crede Fran si disse Leon
voltandosi a guardarlo. Lui gli rispose con uno sguardo di rimprovero che sembrava voler dire “te l’avevo detto”. Poggiò nuovamente i suoi occhi azzurri su Sofia, improvvisamente persa, tesa che lo guardava senza saper bene cosa fare. “Professore. Siamo venuti tutti, credo” disse Leon prendendo l’iniziativa, “per sapere con chiarezza cosa sta succedendo”. Quanto è pallido pensò subito il ragazzo, poi guardò ancora Sofia che annuiva, non sapeva perché ma era convinto che lei, oltre ad assicurarsi che il nonno stesse bene, fosse venuta per un obiettivo specifico. Leon glielo poteva leggere in quegli occhi verdi in cui si era perso da minuti ormai. “Nonno, sono sicura che sai qualcosa” disse finalmente sbloccandosi la nipote, poi notò anche lei quel libro sul tavolo e gli si avvicinò d’impulso, come calamitata. Quando fissò lo sguardo del nonno, il libro sembrò accendersi, come una creatura vivente alla vista del suo padrone finalmente tornato a casa. Il serpente inciso sul ciondolo incastonato nella sua copertina, sembrò muoversi e rispondere alla presenza di Sofia. La ragazza allungò la mano come incantata e il professore urlò subito: “No! No, non toccarlo. Non tu”. Poi con un gesto scoordinato di agitazione la strappò via di lì, quasi inciampando sui libri, e la spinse verso l’ingresso. Poi si poggiò con i gomiti sul tavolo, sfinito. Ora appariva a tutti i presenti ancora più pallido. “Nonno, ma che ti prende?” chiese Sofia urlando, mentre Leon l’aiutava a ritrovare l’equilibrio. La ragazza era visibilmente sorpresa e spaventata. Tutto si sarebbe aspettata, tranne che di venire aggredita da suo nonno. L’uomo vedendo la sua espressione in viso si fece triste: “Scusami Sofi, non volevo. Ma devi stare lontana da quel libro” disse indicandolo con insistenza. “Professore, deve parlare. Sono sicuro che abbia qualcosa da dire” insistette Leon fissandolo quasi con aria di sfida. “Prima devo confessare una cosa” intervenne Sofia quasi sussurrandolo, “ma dovete promettere che rimarrà tra noi”. A quel punto Martha le poggiò una mano sulla spalla per farla voltare verso di lei. Cos’è che non mi hai detto? sembrava dire il suo sguardo.
Sofia fece un sorriso contrito e poggiò gli occhi su Leon, che era rimasto in silenzio, quasi incoraggiandola a continuare, anche se non sapeva cosa volesse confidare. “Parla Sofia” disse il nonno agitandosi sul posto, forse già presagendo qualcosa. “Nonno. Io...” disse improvvisamente confusa. “I miei libri... sono ancora tutti scritti”. Sputò tutto fuori come se d’improvviso le parole gliele stessero scappando di bocca. Dopo quello sforzo si sentì molto più leggera, anche se il cuore le batteva a mille e le sembrava di aver corso una maratona lunghissima. Si poggiò la mano sul cuore, cercando di farlo calmare, mentre prendeva enormi boccate d’aria. Ammettere ad alta voce quello che le stava succedendo faceva sembrare quella cosa ancora più assurda e incredibile, ma finalmente ne era consapevole. “Nonno. Puoi aiutarmi?” gli chiese sperando ardentemente che la risposta fosse positiva. Intanto Martha e Fran erano rimasti a bocca aperta, sconvolti dalla rivelazione, chiedendosi quanti, come lei, fossero in quella situazione. Forse ce ne sono tanti altri. Forse non ha colpito tutti quanti quest’assurdità si diceva Fran. Leon invece si fece serio, serrò le labbra e osservò prima il volto di Sofia, poi quello del professore, che si era ghiacciato sul posto. “Oh, no. Oh, no” prese a dire, camminando avanti e indietro per la stanza sommersa dai libri. “No. No. No” ripeteva. Sembrava aver perso la testa, poi si fermò a pochi i da Sofia tenendo le mani sulle orecchie, come a proteggersi da un qualche bisbiglio che gli confondeva le idee. “Piccola mia. Lo temevo” le disse infine in un sussurro. “Perché?” chiese Leon al posto della ragazza che non riusciva a parlare. “Perché...”, si voltò a guardare la scrivania, “perché il libro me lo ha fatto capire”.
CAPITOLO 5
Il primo incontro
Rimasero tutti fissi a guardarlo, si scrutavano l’un l’altro tesi e concentrati, poi Martha parlò: “Cosa vuol dire che l’ha detto il libro?” chiese facendo un o avanti e poggiando la mano sulla spalla di Sofia che era sbiancata. “Questo libro, la sua esistenza, lo afferma, ma non lo spiega con chiarezza” disse confusamente lui. Il professore si asciugò la fronte pallida con un fazzoletto che al confronto appariva meno bianco, e fece segno a tutti di avvicinarsi. Tirò verso l’angolo della scrivania un libro che troneggiava ordinato e composto al centro, proprio quello che Sofia e Leon avevano notato in momenti diversi. Più il volume si avvicinava a lei e più sentiva di voler fuggire. La sua gola si chiuse in una morsa e rimase in attesa, ancora incredula. “Si può sapere cosa potrebbe mai avere a che fare un vecchio libro pulcioso con Sofia?” chiese Martha aggressiva, come lo era di solito quando era profondamente preoccupata o sulla difensiva. Continuava a are con lo sguardo dal libro a Sofia, e così faceva anche Fran dietro di lei. Leon e Sofia erano invece stati calamitati dalla copertina. Rimasero immobili mentre il professore ne accarezzava delicatamente la superficie in silenzio. “Questo è il libro delle parole” disse finalmente. I due ragazzi alzarono gli occhi verso di lui senza dir nulla. “Mi è stato tramandato da mio padre, che così lo chiamava. A mio padre l’ha dato suo padre e così via”. Prese fiato, poi serrò le labbra e distolse lo sguardo, come se avesse mentito, e lo aveva fatto, almeno in parte. “È un cimelio di famiglia”.
“Ok, ma cosa c’entra con Sofia?” chiese impaziente Martha senza riuscire a trattenersi. “Ci sto arrivando, mia cara” le disse con sguardo ammonitore. “La storia che racconta, narra di tre ragazzi che si trovarono a combattere una brutta guerra. Ma essa, mi diceva sempre mio padre, rappresenta una metafora della perdita progressiva di morale e valori, una metafora della scelta dell’uomo. Uno dei protagonisti è un ragazzo che dovrebbe riuscire, tramite le sue speciali capacità, a riportare l’equilibrio. Parlava di uno scontro tra due uomini completamente diversi, che prima erano unitissimi” disse, poi sospirò rumorosamente, affranto. “Cosa c’è professore?” chiese subito Leon che si era accorto del cambiamento improvviso nell’umore del professore. “Lei ha detto dovrebbe. Perché dovrebbe?”. “Ragazzo mio, non è un caso se sei il mio studente prediletto” disse e non riuscì a trattenersi dall’abbozzare un sorriso di soddisfazione. “Allora?” sembravano chiedere le quattro paia di occhi che guardavano il professore. “Questa storia non ha una fine. È incompleta”. “Che cosa?” urlarono tutti, tranne Sofia che sembrava imbambolata. “Sì” disse ancora, poi si voltò verso la finestra, “non ho mai saputo… non ho mai capito. Non avrei mai creduto che questo libro fosse legato alla realtà, almeno non subito. Mio padre me lo aveva detto, aveva aggiunto che era importante, che io ne ero il custode. Ma non credevo che in qualche maniera potesse averci a che fare con la mia vita”. Si voltò verso la finestra, come se si vergognasse di ciò che stava dicendo. Perché sto mentendo? Tanto è inutile, lui lo sa già. E mi sta spingendo a mettermi in moto continuava a ripetersi. “Non c’entra niente. Che cosa c’entra” urlò Martha, “è solo un vecchio libro che narra una storia che non ha niente a che fare con il presente. Non c’è nessuna guerra qui. Se ne sono solo andate le parole. E allora?”. “E allora mi vieni a dire? Non riesci a comprendere la portata della cosa?” disse
fuori di sé allargando le braccia. “La situazione può solo che peggiorare”. “E chi se ne frega. Faremo a meno delle parole. Io l’ho sempre fatto” gridò ancora Martha, ormai fuori di sé. “E poi… e poi... non dovremmo proprio parlarne ad alta voce” indicò in alto come se una presenza più grande di loro, un uomo che si ergeva a Dio, fosse lì ad ascoltare. Sofia pensò che fosse terribilmente spaventata e disse: “Quando è agitata le capita anche di parlare a sproposito”. “Vi sembra il caso di parlarne?” disse ancora Martha mettendo in bella mostra la piastrina del braccialetto. “Se ci stanno ascoltando, siamo tutti fritti”. “Martha, nessuno ci ascolta” intervenne per la prima volta spazientita l’amica. Gli altri fecero una smorfia di dubbio e la ragazza la colse. In quello stesso istante Sofia iniziò a dubitare delle sue stesse parole. “E se ci stessero veramente ascoltando? Ma perché dovrebbero? Per controllarci?” si disse tra sé e sé, ma il pensiero fu subito interrotto. Il nonno si toccò il polso facendo una smorfia. “Andiamocene su” ordinò Martha all’amica. Lei in risposta scosse la testa: “Non posso proprio. Devo capire”. “Ma… non capisci che è un’assurdità?” cercò di convincerla, ma notando che non ci era riuscita, si spazientì ancora di più. “Senti, fai come ti pare. Io me ne vado” disse l’amica voltando le spalle a tutti, senza degnare di uno sguardo nessuno e correndo via. Sofia sentì i i allontanarsi in corridoio ma rimase immobile, come se non fosse successo nulla, ma Leon capì quanto quel gesto l’avesse ferita. La guardò negli occhi verdi che avevano vacillato un solo istante, proprio nel momento in cui l’amica aveva urlato che sarebbe andata via. Aveva notato il cambiamento in lei, anche se non era stato fisico. Leon si avvicinò di un o a lei e le poggiò la mano sulla spalla, così come Martha faceva sempre per calmarla, lei lo guardò intensamente e poi gli fece un
luminoso sorriso di riconoscenza, ritrovando il coraggio perduto. Fran lanciò in aria un “Diavolo, speriamo non ci stiano ascoltando sul serio”. Tutti lo guardarono sperando la stessa cosa. “Allora nonno, devi essere più chiaro. Hai detto che il libro narra una storia che è una metafora della vita. Ma perché credi che ora c’entri con la situazione che si è andata a creare?”. “Me lo sento Sofia. Mio padre ha sempre detto che questo volume era strettamente intrecciato alla realtà che viviamo. ‘Finché tutto va bene’, diceva lui, ‘il libro se ne sta zitto a osservare, e non succede nulla, ma quando sente che gli uomini iniziano a essere tra loro in squilibrio, si attiva. Si mette in gioco e cerca di ristabilire l’equilibrio del mondo attraverso il custode’. Così diceva lui, ne parlava come se fosse un essere umano” si fermò per un attimo, poi guardò di nuovo fuori dalla finestra. “Ho ato anni a sfogliare le sue pagine, sin da bambino. Ero convinto che tutto quello che mio padre mi avesse detto fosse vero. Sentivo un forte legame con quel volume, come se fosse parte di me. Lui diceva che dipendeva anche da me se sarebbe stato inattivo o meno. Non riuscivo a capire cosa volesse dire, così ne avevo timore. Lo sai Sofia, la mia vita è sempre stata una storia irrisolta, sin da bambino, quando mia madre è sparita nel nulla senza che io riuscissi a conoscerne il motivo, e l’ho cercato, eccome se l’ho cercato. Mi sono sempre rispecchiato in questo libro, non ho fatto altro che chiedermi come andava a finire la storia scritta sulle sue pagine, ma non sono riuscito a immaginarlo, né ho avuto il coraggio di porre una fine. Poi mia sorella…”, il professore sembrò interrompersi, come se stesse per confessare qualcosa che nascondeva ormai da tanto tempo. “Sorella?”. Sofia sapeva che il nonno non ne aveva, di chi stava parlando? Il pensiero venne interrotto. “Il libro a che punto termina?” chiese Leon curioso. “A tre quarti dalla fine. Mancheranno circa una ventina di pagine. Non sono state cancellate dal tempo, non si sono usurate, né nulla del genere. Non ci sono proprio, sono bianche. Non sono mai state scritte. E il fatto in sé, mi è sempre sembrato curioso”. L’uomo serrò le labbra, sforzandosi di parlare come se lui non c’entrasse. Sforzandosi di occultare la verità, o almeno quella parte di verità. A cosa sarebbe servita? Sofia era destinata a scoprirla da sola, senza il suo aiuto,
senza alcuna lente che la interpretasse per suo conto. E forse così sarebbe riuscito a tenerla al sicuro. In cuor suo voleva solo tenere sua nipote lontana da tutto, anche se non ne aveva il diritto. “Sì, effettivamente lo è” disse Leon notando nel professore un guizzo di colpa, mentre Sofia rimaneva silenziosa. “Ora credo che il libro si sia attivato. Ne sono convinto. Lo percepisco”. Fran prese a strattonare Leon, lanciandogli uno sguardo eloquente, questo è matto. Filiamocela di corsa sembrava dire, ma l’amico era rimasto affascinato da quel racconto. Era da sempre stato convinto che si potesse instaurare un legame particolare con un libro, e la storia di quel volume legato alla famiglia, tramandato di generazione in generazione, non poteva far altro che confermarlo. Voleva crederci. E poi c’era qualcos’altro, una sensazione intangibile di familiarità. “E allora utilizziamolo per risolvere la situazione. Lei può farlo professore” disse tutto d’un fiato Leon, come attraversato da una fiamma. “È a lei che è stato donato” aggiunse Leon. Il professore fece un amaro sorriso e si sedette sulla scrivania di peso. Ai ragazzi apparve stanco e provato. “Non posso fare nulla. Non tocca a me” disse voltandosi verso Sofia che trasalì. Leon era ancora accanto a lei a sostenere il suo corpo gracile, mentre stringeva la mano sulla spalla. “Maledizione, maledizione. Come posso tacere?”. Il libro su cui Abel aveva appoggiato la mano, cominciò a bruciare come a incoraggiarlo. Abel lo guardava pieno di angoscia e capì che non aveva altra scelta. “Che cosa vuol dire?” chiese Fran, ormai arreso a rimanere e in parte incuriosito dalla questione, mentre Leon aveva già compreso. “Tocca a te, Sofia”.
La ragazza tese ancora più il corpo e ogni sua espressione si irrigidì. Che cosa vuol dire che tocca a me continuava a chiedersi. Cosa c’entro io. Che cosa posso fare? “Quando mi hai detto che i tuoi libri riuscivano ancora a trattenere le parole l’ho compreso”. “Nonno. Ma cosa c’entro io? Il libro non parla di questo” disse scioccamente, ma il nonno non la ammonì, la guardò con dolcezza e rispose. “Tesoro mio, ogni secolo ha la sua guerra. Stavolta si è presentata sotto questa forma”. Leon comprese a fondo quelle parole. “È colpa mia, non è vero?” chiese improvvisamente Sofia quando le balenò in testa un pensiero. “Stamattina ho sgridato dei miei compagni di classe che lanciavano i libri. Li ho minacciati” disse sconvolta alzando gli occhi spalancati su suo nonno. L’uomo si scompose solo un istante per quella mezza verità, poi le rispose. “Ma no, tesoro. Non è colpa tua” balbettò con tutta la sicurezza che riuscì a infondere a quelle parole. “È colpa mia” ripeté, mentre Leon la stringeva e il nonno si voltava verso la finestra, ancora una volta. “Non è tua la colpa, ma mia” disse il nonno e la frase aleggiò nella stanza senza trovare una spiegazione. “I custodi non possono scatenare guerre” disse in un sussurro. “No. Non possono”, sembrava cercasse di convincersi. “Non devono. Eppure…”, scosse la testa più volte, “prima o poi sarebbe successo. In una maniera o nell’altra. Il mondo non resiste senza guerre, di qualsiasi tipo esse siano” sospirò contorcendosi una mano dentro l’altra; la destra tremava. “Quando sono scomparse le parole, ho capito che stava per iniziare una nuova guerra. La guerra di questa epoca, forse una punizione” disse il nonno, poi fece una pausa. “Io credevo che il mio libro sarebbe rimasto scritto, per me. Invece è diventato bianco. Se fossi stato io a dover porre rimedio a questa situazione, non
mi avrebbe abbandonato. Non ne ho più il diritto” aggiunse quasi in lacrime accarezzando il volume come se fosse un familiare. “Pare sia ora di lasciarlo in mano a una nuova generazione. È paradossale che abbia proprio questa nuova generazione il compito di dover risolvere questo tipo di situazione, non credi?” domandò retoricamente con una nota di disprezzo nella voce. “Proprio quella che ha dato l’impronta a questa nuova rivoluzione” disse enigmatico, senza che Sofia cogliesse in pieno il rimprovero. “Perché proprio un libro dovrebbe mantenere l’equilibrio?” chiese Leon curioso. “Perché da sempre le parole sono considerate lo strumento più potente. E c’è un libro all’origine di tutto”. “Che vuol dire?”. Leon insisteva. “Non conosco la storia. Mi spiace” rispose il nonno e si voltò verso la finestra. “Perché in questo modo?”. “Perché siamo in un mondo in cui la parola è in crisi. Il libro ha risposto a quel bisogno”. Il nonno guardò Sofia come se volesse aggiungere altro ma non lo fece, disse invece: “Del resto ragazzi, una guerra vale l’altra, basta che venga scatenata”. Fu in quel momento che il vecchio notò un rivolo di sangue uscire fuori dalla sua lunga manica bianca, e una fitta di dolore gli s’impresse in volto. Si piegò in avanti come se non si reggesse più bene in piedi. “Nonno. Che hai?” chiese Sofia. Il volto dell’uomo si era fatto ancora più pallido e Sofia non resistette dall’avvicinarsi. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca dei jeans e gli asciugò il sangue. “Ti sei tagliato con la carta?” chiese e lui scosse la testa a occhi chiusi, stringendo le labbra, poi lei se ne accorse. Alzò la manica e dal nonno uscì un gemito di dolore, mentre la ragazza spalancava gli occhi sbiancando a sua volta. Tese la mano per togliere quel pezzo di carta che si era incollato a ciò che rimaneva della sua pelle. “Che cosa hai fatto?” disse senza capire. Leon si avvicinò con l’amico e rimasero pietrificati.
“Professore. Perché l’ha fatto?”. “Non dire nulla”. Sofia non riusciva più a battere le palpebre, rimase con gli occhi fissi sul punto in cui ci doveva essere il braccialetto, e in cui invece ora c’era un ammasso di carne torturata, un buco sanguinolento che correva tutt’intorno al polso. “Nonno” disse con gli occhi pieni di lacrime mentre sentì la gola chiudersi in una morsa. “Perché?”. Lui fece solo un cenno con il capo, poi si guardò intorno come se si sentisse spiato. “Non fare quella faccia. Non mi fa male. Proseguiamo il discorso” disse con fermezza, e Sofia non poté far altro che legargli il fazzoletto intorno alla ferita, improvvisando una fasciatura, poi srotolò la manica sopra per coprirla e tornare concentrata su ciò che il nonno, con tutta la sua forza e il suo impegno, tentava di farle capire. Quella sembrava essere la lezione più importante che avesse mai dato, o almeno lei così percepì.
“Troppo tardi Abel”. Marin non poté fare altro che sospirare. “Che succede? Non riesco a sentire” chiese Dessel. “Si è strappato il braccialetto, ma è tardi per i grandi gesti. Quando il Presidente capirà che non è più un custode, andrà dritto da lei. E lei è impreparata”. “Non le sta dando informazioni?”. “No, non dice la verità, almeno non tutta. Crede che la metterebbero in pericolo. Poi lo fa per una sorta di orgoglio mescolato a un senso di colpa con cui è convissuto a lungo”. “È il minimo”. “Noi lo rimproveriamo, ma alla fine la cosa sarebbe potuta andare a finire nello stesso modo. La storia si ripete sempre, dovresti saperlo ormai”.
Marin sospirò ancora. “Non è detto. Lui avrebbe potuto non abbandonarlo, e forse gli avrebbe fatto cambiare idea”. “Dubito. Dopo la morte di tua sorella…”, esitò, “la situazione è precipitata. Non poteva fare altrimenti”. Dessel si spense al pensiero della sorellina, poi rispose: “Però non puoi negare che sparendo ha fatto sì che Occhio Rosso si rafforzasse”. “Forse, ma sai che senza Abel non poteva fare nulla. Aveva bisogno di tutti e tre” disse Marin riflettendo. “Occhio Rosso è sempre stato testardo e Reik non è da meno. Guardali. Hanno pazientato per decenni, cosa diavolo avranno in mente?”. “E chi lo sa” disse distrattamente Marin. “Che c’è?”. “Oh nulla. Abel è tentato dall’idea di sparire con il libro”. Marin sospirò ancora. “Cosa? A quel punto non riusciresti a incontrarla”. “L’ho incontrata. Anche se non sono riuscita a toccarla. Ma è proprio qui”, fece una pausa per riprendersi, “stai tranquillo, farà la cosa giusta. E poi è una decisione che non spetta a lui” disse e sentì un’ondata di angoscia provenire dal suo vecchio custode. Come sua nipote aveva i suoi lati oscuri, e uniti a una vigliaccheria che negli anni aveva perso, aveva causato un problema che si era trascinato, rafforzandosi, fino a quell’epoca. Il suo vecchio, incosciente Abel. Erano stati insieme per così tanto tempo. La sua vita era stata più lunga di chiunque altro. Se avesse continuato a utilizzare il libro, ora sarebbe ancora come il Presidente. Lei apprezzava la scelta che aveva fatto, anche se lo stava distruggendo pian piano, più lentamente certo, ma la fine non era lontana ormai. E per cosa? Per
una vita normale. Lo apprezzava per la sua scelta. Una vita normale in cambio del libro, in cambio di lei. E Marin non era più comparsa, anche se non lo abbandonava mai. Il pezzetto di spirito che ancora era rimasto attaccato al libro, aveva scritto la storia della leggenda, come succedeva quando le Anime erano spiritualmente assenti, e lei non aveva fatto nulla. Si era spenta, come tutte le sue speranze. L’unica luce era stata la nascita della piccola Sofia. Speranza, angoscia e timore perché anche lei sarebbe dovuta scendere in campo, forse una volta per tutte. L’idea la rafforzava e terrorizzava allo stesso tempo. Si sentiva responsabile quanto gli altri per quello che era successo al pianeta quando lei era viva, e aspettava solo un’occasione per rimettere tutto a posto. Per essere libera da quella prigionia e per uccidere il Presidente e la sua Anima, quella che se ne stava zitta all’interno del ciondolo incastonato sul libro, quella che non era più Redis. “Di lui non rimane più niente ormai”. A Dessel non l’aveva detto, ma l’intenzione era di tentare la morte, una volta riacquisito un corpo, o forse c’era un modo per morire senza dover sacrificare altre persone? Lo sperava. Come la guerriera della leggenda, avrebbe ucciso anche i libri e acquietato il grande spirito, almeno per qualche secolo. Se lo avesse fatto ora che non c’erano eredi, nessuno avrebbe più raccolto i libri. Sarebbero morti con loro. Lei sentiva di doverlo a quel pianeta. Però, una piccola speranza che lei potesse portare una pace stabile senza sacrifici, senza il suo sacrificio, era comparsa da quando l’aveva incontrata. Sofia era speciale, Marin desiderava tanto che sopravvivesse. Ma purtroppo non era da loro che dipendeva. Non potevano impedire a Reik e Redis di fare quello che stavano facendo, e la rivoluzione era ormai in atto. Non sapeva se esistevano altri modi per ristabilire l’equilibrio che non comportasse la loro morte. Ma Redis e Reik avevano scatenato una rivoluzione per altri motivi, lo sapeva questo, piani forse che erano incredibilmente diversi da ciò che si immaginava. Forse Redis stava spingendo il suo custode verso una direzione per poter rinascere, per poter conquistare maggiore potere. Come sarebbero andate le cose, Marin ancora non riusciva a capirlo. Si sarebbe messa nelle mani di Sofia e avrebbe sperato. Era l’unica cosa che poteva fare, sperare. Immaginò un immenso prato verde, i raggi del sole scendere caldi e lei distesa
all’ombra di una grande quercia, a godersi la lieve brezza scompigliarle i capelli e accarezzarle le guance. Quando era agitata, solo quel pensiero riusciva a rasserenarla. “Che bello…” sussurrò. “Che pace”.
“Quella donna non può essere una possibile custode. Non ha l’attitudine giusta, né la forza di carattere che ha suo padre. Mi sto intestardendo su quel vecchio, ma ho ancora dei buchi da risolvere. Le spedizioni che sto mandando in giro, ritornano sempre con un pugno di mosche. Devo intensificarle e continuare a concentrarmi sulla mia Area, prima di tutto. Maledizione, ma dove diavolo sono andati a nascondersi. Ci sono così vicino, eppure sono così lontano”. Il libro davanti a sé sembrava fremere, e al Presidente mancò il fiato per un istante. Toccò la superficie abbassando la testa, poi riaprì gli occhi. “L’uomo a cui le mie squadre stanno dando la caccia è vicino, ma senza il braccialetto con il sensore è più difficile individuarlo. Quando avrò tra le mani quell’individuo, finalmente potrò avere il terzo libro e il ciondolo. La figlia è sparita, sicuramente si sono separati, anche lei è senza sensore, ma la troverò. Che stupidi, cosa pensano di fare? Poi c’è il vecchio. Non apre bocca e non posso intervenire finché non lo fa. È inutile muoversi senza la certezza che ancora abbia il libro e il ciondolo. Perché non lo usi Abel? Perché t’intestardisci? Io agisco con pazienza, aspetto un o falso, uno solo. Aspetto che parli, che assuma il suo ruolo di custode. Ti ho lasciato vivere la sua vita fino a ora, facendoti credere che sei al sicuro, ma al momento giusto ti schiaccerò, definitivamente” disse con un ghigno sadico. “È questo che si merita per…” concluse per un attimo e strinse le mani a pugno. “Maledetto vecchio, mi hai sempre dato problemi! Vuoi darmene fino alla tua morte, non è così?”. Ripensò a lui, e una fitta di rabbia con sfumature di dolore lo attraversò, mentre sorseggiava un bicchiere di liquore davanti alla finestra del suo studio, che troneggiava con imponenza su tutta l’Area. Iniziò a battere nervosamente il piede a terra, scuotendo la testa di scatto, come se stesse tentando ci cacciare via un pensiero che lo infastidiva.
“Al diavolo” urlò tornando alla scrivania e scansando, intimorito, il libro dal suo posto. Poi però lo aprì. “Sbrigati. Non tentennare, non retrocedere o…”, lo chiuse di colpo. “Non mi dare ordini” urlò, come se avesse qualcuno davanti, e si versò un altro bicchiere di liquore, cercando nervosamente di berlo e di ripararsi da quell’ansia che lo stringeva come in una morsa. Gli sembrava di non riuscire a respirare, come se anche il suo respiro appartenesse al libro. Continuava a stringere, stringere quella corda immaginaria. Il volto del Presidente si fece paonazzo, e lui fu costretto ad appoggiare la guancia sul tavolo, come se un peso lo piegasse in avanti. “Redis, ti prego” sussurrò verso la copertina. Poi si asciugò di nuovo la fronte e la tensione sembrò calare, l’uomo riprese fiato e riassunse il suo solito colorito.
CAPITOLO 6
Non dire ciò che non puoi giustificare
“Perché il libro delle parole?” chiese a un certo punto Sofia, come se quell’affermazione l’avesse colpita con ritardo. “Questo non me l’ha mai voluto spiegare” rispose amareggiato e distolse lo sguardo. Sofia in quell’istante si avvicinò con o incerto alla scrivania, seguita con lo sguardo da Leon, che esitava a muoversi. Il tragitto che la separava dalla meta le apparve così lungo… strinse al petto le mani, senza distogliere lo sguardo dalla copertina. Anche il nonno si voltò verso di lei, indeciso se interrompere con un gesto quello che stava per accadere. Ma chi sono io per impedire alla sua legittima custode di toccarlo? si disse a mente. Ormai io non conto più, abbassò gli occhi a terra, mentre un moto di tristezza lo smosse sino in fondo all’anima; si sentì improvvisamente vuoto e inutile. Sistemò gli occhiali sul naso a patata e restò immobile a osservare. Cosa succederà una volta che l’avrà toccato? E sei lei fosse…, Abel trattenne il respiro. No, non può essere. E se Reik si fosse mosso in questo momento proprio perché l’ha scoperto? Oh mio Dio, continuava a pensare, non posso lasciarglielo. No, non devo, sussurrò fra sé e sé. La sua incertezza lo paralizzò e rimase a riflettere. L’ansia era palpabile, sembrava che nessuno respirasse. Leon si era avvicinato, seguito da Fran che aveva deciso di non parlare se non era strettamente necessario. Lui era il più confuso e spaventato di tutti. Invidiò per un momento Martha, che aveva avuto il coraggio di scappare via, poi però si diede del vigliacco: “Devo rimanere qui”. La scena sembrò procedere a rallentatore nell’angoscia generale. Quando Sofia allungò la mano per toccarlo, il libro blu sembrò accendersi impercettibilmente,
ritornando in vita. Ma era stato un moto interno che nessuno era riuscito a cogliere, nemmeno Sofia, anche se sentì come se un’ondata di energia la colpisse, avviluppandola. Il vecchio professore strizzò gli occhi, come se avesse avuto la tentazione di non assistere a quel momento. Al contrario, Leon li spalancò, tutto attento, pronto a rispondere in qualsiasi maniera fosse necessaria: scappare, strappare Sofia di lì, buttare il libro dalla finestra prima che esplodesse. Era arrivato a pensare alle cose più stupide, quando giunse all’ultima idea, non riuscì a trattenersi dall’abbozzare un sorriso. “Esplodere. Come no”. Fran gli lanciò un’occhiataccia chiedendosi cosa avesse da ridere. Al suo tocco il volume sembrò non reagire, un moto di delusione attraversò Fran ma non il professore né Leon, che erano concentrati. Nessuno sapeva bene cosa aspettarsi, sembrò non essere cambiato niente, eppure il professore fisicamente e spiritualmente l’aveva sentito: il legame con lui si era rotto. Si sentì più leggero di colpo, ma allo stesso tempo nudo, come se gli avessero strappato di dosso la pelle e l’anima. Si sedette per riprendere fiato, il respiro gli si era mozzato all’improvviso, ma pensò fosse solo un’impressione, una sensazione errata, autoindotta, come quando si vive un sogno a occhi aperti che si percepisce come realtà, non sapendo che non lo è. Ancora non voleva, non poteva crederci. Leon aveva spalancato gli occhi, come se avesse visto qualcosa spostarsi verso Sofia. La ragazza aprì il libro poi alla prima pagina bianca, accarezzandone il foglio e il volume, ebbe un sussulto più visibile. Il libro riprese vita all’improvviso, arricchendosi di una nuova luce e iniziò da solo a riempirsi di parole. Si stava scrivendo. Lo stava facendo per lei. Sofia ritrasse la mano come se il libro potesse mozzarla, mentre il professore si alzò e fece un o avanti, stupito. Era davvero lei la nuova custode; era solo lei che voleva. Il vuoto dentro il nonno si fece più ampio, avrebbe dovuto sentirsi sollevato per l’essersi liberato di quel peso, eppure, da sempre, sperava di poter essere lui a far
fronte a una crisi, insieme al suo libro; sperava di essere lui il prescelto. Forse il suo momento c’era stato, ma era ato. Sapeva che avrebbe dovuto agire all’epoca. “Ormai è troppo tardi per pentirsi”, si disse. Il pensiero che poi cancellò tutti gli altri, in quel momento superflui e inutili, fu quello angoscioso per sua nipote, era preoccupato per quello che avrebbe comportato per la ragazza questo gesto. Sarebbe stata in pericolo da quel momento in poi, ed era colpa sua. Si sentiva responsabile. E non era neanche riuscito a dirle tutta la verità. “Guardate” disse Fran, la cui testa spuntò all’improvviso da dietro la spalla dell’amico, “si sta scrivendo”. “La mattina Sofia e Martha andarono a scuola di corsa. Le due arrivarono in ritardo come sempre, ma non dovettero preoccuparsi, perché in classe la professoressa non era ancora arrivata. ‘Buongiorno!’ urlarono le due in sintonia, una volta messo piede in classe. ‘Ciao Sofi, ciao Martha’, rispose la ragazza al primo banco sistemandosi i capelli biondi dietro le orecchie. Le due ragazze si guardarono intorno sorprese: ‘La prof non è ancora arrivata?’ chiese Sofia meravigliata. ‘No, non ancora. Strano vero?’”. Sofia smise di leggere e assunse un’espressione di muto terrore, sbiancando. “Ma questo… questo è esattamente quello che è successo questa mattina” disse in una smorfia guardando prima il nonno e poi Leon, che non seppe di primo acchito cosa rispondere. “Prova ad andare avanti di qualche pagina” le disse Leon. La ragazza lo sfogliò freneticamente, con un groppo in gola che quasi le impediva di respirare. Il cuore sembrava volerle fuggire dal petto. In quel momento sentì la stanza stringersi intorno a lei. “Leon era arrivato in aula di buon’ora, forse troppo presto. Rimase a studiare il
suo libro in silenzio, aspettando che arrivasse qualche anima. ò più di un’ora. ‘Leo, sei già qui?’ chiese un ragazzo biondo appena entrato. ‘Sì, sono arrivato troppo presto’. ‘Come al solito’ rispose l’amico e gli si sedette accanto”. “Ma cosa diavolo, cosa diavolo significa questo?” chiese subito Fran guardando terrorizzato l’amico, poi fece qualche o indietro con l’intenzione di andarsene. “Non voglio sentire oltre”. Sofia aveva smesso di leggere. “Ci siete anche voi”. Ora anche l’espressione di Leon si fece tesa. “Aspetta! Dobbiamo rimanere. Se ci siamo anche noi, questo è il nostro posto ora” disse con voce controllata, nonostante fosse rimasto profondamente stupito e confuso. “D’accordo resto”. Leon prese fiato e fece qualche o fino a tornare nella posizione di partenza accanto all’amico. “Il libro sta cercando un contatto” sussurrò il professor Wisdom, “forse ancora non si fida”. La ragazza saltò qualche pagina e lesse ancora: “‘Professore, cosa sta facendo?’ disse quando arrivò abbastanza vicino. L’uomo l’osservò con sguardo grave, sembrava aver ritrovato la calma. ‘Butto giù il mio mondo’ rispose sfinito. Leon si bloccò sul posto e cercò di interpretare quella frase enigmatica. Il professore poi scoppiò a ridere, piegandosi in due per lo sforzo, poi…”. “Nonno ci sei anche tu. Ci siamo tutti noi” disse in un sussulto strozzato Sofia. Il professore si paralizzò sul posto, dal momento in cui aveva iniziato a leggere
cercava di trovare una risposta a quel suo persistente dubbio, non poteva crederci. “Perché mi stai facendo questo? Maledizione” disse in un sussulto. “Cosa sta dicendo professore?” chiese subito Leon, mentre l’amico scuoteva la testa. “Tu sei la reale custode, Sofia. Le parole cambiano in base alle tue azioni e reazioni. Tu influenzi il libro, così come lui influenza te. Prova a leggere sin dove è arrivato a scriversi” le disse guardando a terra con un moto di rabbia. Lei obbedì. “Lei obbedì. Poi guardò il nonno, perplessa, cercando di capire il motivo della sua improvvisa avversione e rabbia”. La ragazza smise di leggere e arrossì. “No, nonno non la penso così”. “Oh sì tesoro. Non hai capito? Quel libro, il tuo libro, ti legge dentro. È il tuo riflesso e tu il suo. I dubbi che ti stai portando dentro in questo momento, il rio mentale che stai facendo sulla situazione, su questa giornata, ecco è tutto lì nel libro”. Il libro la mette alla prova, la sfida. Cerca di farle superare i suoi dubbi e i tentennamenti, pensò il nonno, con me non si è dato la pena di farlo da quel momento in cui ho sbagliato. Eppure avrebbe dovuto. Forse ero un caso irrecuperabile. Forse non ero abbastanza interessante per lui. Assunse un’aria infelice. Se a quel tempo avessi proseguito… sicuramente il libro non si sarebbe bloccato, tagliandomi fuori. Non ne sono più degno. Se solo l’avessi fermato… pensò il vecchio sempre più accartocciato su se stesso. “Non capisco…”. “Capirai”. “Non voglio capire” disse Sofia con uno slancio d’ira lanciando il libro lontano da sé.
Il professore lo prese e lo aprì per fare un ultimo tentativo; aveva ancora la vana speranza che rispondesse al suo tocco. Così come aveva fatto tempo addietro, quando il libro cambiava sotto le sue dita guidandolo fino a quando non si era fissato su quella storia di protesta. Rimase a osservarlo, ormai arreso. Sentì di aver sbagliato a parlarne ad alta voce. Ma come avrebbe dovuto fare per informare sua nipote? La storia si ripete sempre pensò ancora amareggiato. Doveva continuare, anche se ogni parola gli causava un’enorme sofferenza. Non voleva mentire a sua nipote. Lo stava facendo, in parte. E forse solo per vergogna più che per bisogno. “Il libro con te muta, Sofia. Con me non l’ha mai più fatto” spiegò e si accorse di aver aggiunto un più di troppo. Ormai era la sua coscienza a parlare, si voleva liberare di quel peso, eppure continuava a occultare la verità. “È rimasto sempre uguale dalla prima volta che l’ho toccato. Si è bloccato in un punto e lì è rimasto. Non mi ha mai seguito, non è mai stato il mio specchio” continuò e strinse le labbra in una morsa, sforzandosi di scegliere le parole più giuste, poi guardò sua nipote e s’incupì. “Ha rimandato quello che volevo, la storia che mio padre mi raccontava, e solo quella. Mio padre era un uomo incompleto, ed io sono come lui. Per questo non ho mai visto altro. Ci sono dei custodi speciali, questo lo so. E sono quelli che riescono a usare i propri libri, a farsi ascoltare, a stringere un legame di scambio profondo, che va oltre quello dei suoi predecessori. Sei tu Sofia”. “E cosa dovrei fare?”. “Lo capirai”. “Forse se quella volta avessi reagito in un’altra maniera, il libro mi avrebbe scelto. Lei non sarebbe rimasta delusa da me. Sono stato un codardo Marin” si ripeté il professor Wisdom, che era stato perseguitato tutta la vita da quell’errore, che forse era stata la causa di tutto. Avrebbe tanto voluto rimediare, ma non poteva. La sua partita si era definitivamente chiusa. Ora toccava a Sofia. “E mia madre? Lei è tua figlia, non ha importanza questo?” disse piena d’impeto. “Che meschina. Come posso mandare avanti mia madre? Quella fragile donna senza sostanza?”.
“Tua madre, lei non sarà mai una custode. Io e lei ci siamo separati proprio per questo”. “Lei ti odia per questo?” chiese Sofia quasi dimenticandosi ciò di cui stavano parlando. Era tanta la curiosità. “No, l’ho separata da una persona, tanto tempo fa, e non me l’ha mai perdonato. È per questo che non è una custode. Ma non avrebbe mai avuto l’importanza che hai e avrai tu, Sofi”. “Non la voglio questa responsabilità” urlò Sofia in preda al panico grattandosi la piastrina con insistenza. Leon notò quel gesto intermittente e si chiese il perché di quel fastidio. Mentre rifletteva, Sofia corse fuori, sino in fondo al corridoio, sbandando, quando il nonno, dietro di lei sussurrò: “Lo terrò io”, e lo disse come per farsi sentire non dalla nipote, ma da qualcun altro. Sofia, intanto, si era fermata a prendere fiato, un centinaio di metri più in là, poggiando le mani sulle ginocchia. Era affaticata come se avesse appena terminato una maratona infinita. Respirava a fatica, l’aria sembrava essersi ritirata, lasciandola compressa come in un barattolo di vetro. Si sciolse la coda, che ormai si era abbassata sul collo; quell’elastico così stretto le diede improvvisamente fastidio. Leon comparve poco dopo, con Fran al suo seguito, e la prese per le spalle con un certo timore, aiutandola a riprendere la posizione eretta, così che potesse respirare meglio. Si appoggiò con una mano al muro ruvido e freddo, e la tenne lì fino a quando quella parte di parete non assorbì tutto il suo calore. “Respira, respira”. Sofia rilassò le spalle al tatto delle sue mani, mentre lui la osservava attentamente con il cuore in gola. “Sì, brava. Così, piano” sussurrò al suo orecchio. Il suo respiro tornò lentamente regolare, ma il suo corpo si infiammò di colpo e il cuore prese a martellare con maggiore insistenza. Ma stavolta non per lo spavento, per un altro sentimento che ancora non riusciva bene a individuare. Si voltò verso Leon e gli fece un sorriso che lo sciolse.
“Ti ringrazio davvero”. “Non c’è di che” rispose lui guardandola da dietro gli occhiali. “Torniamo da mio nonno” aggiunse imbarazzata. “Una crisi di panico non è da me. Cosa cavolo mi succede?” disse e s’incamminò. Il ragazzo rimase un istante fermo sul posto a guardarla allontanarsi, cercando di calmare quell’ondata di agitazione che l’aveva colto impreparato. Anche Fran li aveva seguiti, si trovava a metà corridoio e aveva osservato quella scena in silenzio, con un sorrisetto scemo impresso in volto. Sofia lo superò, “tutto a posto”, gli disse quando notò il suo sguardo che si era fatto al suo aggio interrogativo e serio. Fran rimase fermo ad aspettare l’amico, riassumendo quell’espressione beota. “Insomma…”, gli disse dandogli una gomitata d’intesa. “Insomma cosa? Dai sbrighiamoci” disse arrossendo ma facendo finta di non aver capito il suo commento. “Correte!” gridò Sofia dall’ufficio. I due in un istante furono accanto a lei. “Che succede?” disse allarmato Leon toccandole la spalla. “Stai bene?”. Lei scosse la testa e i due capirono. “Dov’è finito il professore?”. “Non lo so. È sparito”. Poi guardarono tutti e tre la scrivania. “E il libro non c’è più”. Sofia cadde preda di un tremito incontrollato. “E ora?” ripeteva preoccupata stringendo i pugni. Sentiva come se una parte di sé fosse stata strappata di colpo. “Tranquilla”. Leon le si avvicinò con la sua solita calma rassicurante e Sofia sciolse i muscoli.
“Cosa possiamo fare?” disse agitata. “Lo andiamo a cercare” rispose il ragazzo e le lanciò un occhiolino che le fece abbozzare un sorriso. Sofia prese un enorme respiro e disse: “Ok, andiamo Leon”. “Ehi, ci sono anch’io” s’intromise infastidito Fran. “Su amico. Diamoci una mossa” gli rispose Leon dandogli una forte pacca sulla spalla. Mentre camminavano attenti per il corridoio ormai buio, Fran ruppe il silenzio. “Hai capito il professore…” disse con tono cantilenante, “chi l’avrebbe detto che se la sarebbe data a gambe con il libro?”. Sofia serrò le labbra, neanche lei riusciva a credere che il nonno l’avesse lasciata così. Senza libro e senza indicazioni. Le si accese dentro una fiamma di rabbia, ma ben presto fu spenta dal sollievo che dilagava in ogni sua parte. La ragazza iniziò a guardare per terra, colpevole. “Con tutto quello che sta succedendo. Non mi posso proprio permettere di comportarmi così. Che vigliacca. Se posso fare qualcosa per portare tutto come prima… devo trovare mio nonno”, sospirò, “quanto vorrei che Martha fosse qui”. Leon notò il suo improvviso cambiamento d’umore, ma quando stava per dire qualcosa, Fran prese la parola. “Scusate. Vi dispiace se faccio una visitina?” disse con il suo solito tono scemo. Sofia ridacchiò, rilassandosi. “Fai pure” gli rispose Leon, e l’amico sparì in bagno. Il ragazzo guardò Sofia rilassarsi, le battute di Fran erano davvero utili. Avrebbe voluto essere lui la persona che riusciva a sciogliere i suoi nervi, e per questo provò per un istante gelosia verso l’amico. Era così facile per Fran stringere amicizia, farsi notare. E lui invece? L’assenza di un padre l’aveva reso una persona chiusa, distaccata, ma sincera e affidabile. Uno strano mix che alla presenza di quella ragazza si andava acuendo. Con lei si sentiva bene. Sofia poggiò i suoi occhi su di lui e notò che la stava fissando. “Che c’è?”.
“Nulla. Sono contento che tu ti sia rilassata” disse in un sussurro, accarezzandole le spalle come se si conoscessero da anni. Quel gesto non la infastidì, le sembrò così naturale, così rassicurante che quasi non ne riusciva a fare più a meno. Sapeva di conoscerlo solo da un’ora, ma si fidava completamente di lui, e lo stesso valeva per lei. Entrambi sentivano di conoscersi da sempre. Quel gesto la rilassò e allo stesso tempo le mozzò il respiro. “Tutto bene?” disse lui fermando la mano sulla sua spalla sinistra. “Sì”. “Ti vedo pensierosa”. “No, non è vero”. Leon fece una leggera smorfia. “Sì che lo sei. Vedo il senso di colpa impresso sul tuo viso. Che succede?”. Sofia arrossì e quasi sobbalzò, iniziò a provare una sorta di ansia. Questo ragazzo mi legge dentro. Forse non è un bene. E se fosse pericoloso? Ma no… cosa vado a pensare… e poi ho bisogno di aiuto, pensò, e nel libro c’è anche lui. Non so se è perché voglio che ci sia, o se è il libro ad averlo chiamato. Vide che il ragazzo continuava a fissarla aspettandosi una risposta. “Sai… il problema è che, mi sento, come dire… da quando mio nonno è sparito con il libro. Mi sento…”. I due dissero insieme: “Sollevata”. Si fissarono negli occhi, mentre un raggio di luna che era riuscito a penetrare da una finestra rotta, illuminava lievemente le loro figure, proiettando ombre incerte sul pavimento. “Sì, proprio così” disse Sofia continuando a guardarlo, mentre pensava che non avrebbe mai potuto nascondergli niente intenzionalmente. “Sollevata, ma anche piena di angoscia per la sua mancanza”. “È normale che sia così. Non devi starti a preoccupare. Tu sei una persona coraggiosa e intelligente” disse voltandosi verso la finestra, imbarazzato, “perciò sono sicuro che prenderai in mano la situazione senza esitare”. Si grattò la punta del naso con il dito mentre pensava a come avesse fatto a dire quelle parole che
in mente suonavano così complesse, così difficili da pronunciare ad alta voce. Ma era la prima cosa che aveva pensato vedendola. “Come fai a dirlo? Tu non mi conosci” chiese Sofia ed ebbe paura di essere stata troppo sincera, così si iniziò a guardare la punta dei piedi. “Lo so, ma è come se ti conoscessi da sempre” rispose lui e Sofia, imbarazzata disse solo: “Mi riesce facile parlare con te, sai?”. “Anche per me è lo stesso”. Fecero entrambi un sorriso e si guardarono di nuovo con attenzione, come per studiarsi. A Sofia la piastrina non prudeva più, Leon riuscì a notare questo dettaglio di sfuggita, mentre era ancora perso nei suoi occhi. “Non è solo questo. Da quando mi sono avvicinata al libro… non so come spiegarlo… l’ho percepito come se fosse vivo”. Leon si aspettava che pronunciasse quelle parole, lo realizzò solo nel momento stesso in cui lei le disse e la cosa lo lasciò esterrefatto, mentre i brividi iniziarono di colpo a increspargli la pelle delle braccia. In quel momento non seppe cosa dire. “Tranquilla. Penseremo anche a questo”. Poi le poggiò una mano sulla spalla. Fran spuntò fuori proprio in quel momento. Cosa mi tocca fare! pensò guardandoli. Poi tutto accadde velocemente. Qualcuno piombò nel corridoio aggredendo Fran, che cadde a terra. Fu colpito anche Leon, che era totalmente impreparato. Era rimasto fisso a guardare l’amico cadere. L’azione fu così veloce che nessuno riuscì a fare qualcosa. Sofia era altrettanto sorpresa, ma portò avanti le braccia in posizione di difesa fissando il suo obiettivo. “Sbrigati! Tu devi venire con me. Dai Sofia!” urlò quell’ombra dalla voce roca. In un balzo le fu accanto e la prese per un polso con forza. Lei cercò di dimenarsi e notò che portava a tracolla una borsa pesante che le colpì più volte le gambe, poi Leon s’intromise, mettendosi davanti alla ragazza e spingendo
l’intruso addosso alle finestre. Si rialzò subito tra i vetri e raccolse la borsa che si era aperta facendo intravedere un libro che somigliava a quello di Sofia. Lei lo fissò sorpresa, ma non pensò di fermarlo a causa dello shock. In quel momento un triangolo di luce illuminò l’aggressore in volto, era un ragazzo, dell’età di Sofia. Era mingherlino all’apparenza e la ragazza si chiese dove nascondesse tutta quella forza, poi si tastò il polso indolenzito senza distogliere lo sguardo da lui. Il ragazzo aveva il viso tirato in un’espressione di rabbia, ma pronto ad avanzare di nuovo. La ragazza notò un particolare, lo sconosciuto stava stringendo un pezzo di vetro che aveva raccolto da terra, così forte da farlo sanguinare, ma lui non se ne curava. Teneva impressa in viso un’espressione dura e aggressiva; sembrava un animale pronto a scattare ma, quando vide Fran spostarsi vicino a Leon, capì che non sarebbe riuscito a contrastarli. Sputò a terra, gettò il vetro andosi poi il dorso della mano sulla bocca e scappò via urlando “Tornerò”. Nella sua fuga lasciò una scia di sangue sul pavimento. “Chi diavolo era quello lì?” disse Fran. “Non ne ho idea” rispose Leon che ancora stava osservando quell’ombra scura sparire, inghiottito dal corridoio. “Tutto bene?”. “Sì” rispose solo. La sua testa viaggiava veloce in cerca di una risposta che potesse dare forma a quello che era appena successo. “Che cosa voleva quello lì da me?”. “Sapeva il mio nome” disse in un sussurro fissando un punto lontano. “Dobbiamo trovare tuo nonno di corsa”. “Sì” confermò. “Di corsa”.
“Signore”.
“Sì” disse l’uomo con voce infastidita, “spero sia importante”. “Sì, lo è” disse e poi fece una pausa timorosa. “Forza parla. Che aspetti?” urlò. “Sissignore. Un’Ombra ha rilevato qualcosa”. Sul volto del Presidente apparve un ghigno. “Di quale Ombra parli?” chiese impaziente. “Quella che segue Abel Wisdom. Uno dei professori universitari dell’Area 1”. “So benissimo chi è. Ma tu chi diavolo sei, invece? Dov’è il mio braccio destro?”. “Si è dovuto assentare, sta poco bene”. “Oh, magnifico. Tu allora ti saresti dovuto informare prima di telefonare”. “Scusi signore”. “Abel Wisdom è il vecchio che è sotto controllo da sempre. Finalmente si è mosso” disse saltando in piedi preso da un’ondata di entusiasmo e dimenticandosi l’irritazione per il sostituto che aveva telefonato. Poi si sedette di nuovo, non voleva illudersi, così decise di chiedere informazioni più precise. Ma l’agente parlò per primo. “Il suo braccio destro mi ha detto che in questi ultimi anni sta attendendo un o falso”. “Sì, è così”. “Posso chiederle perché solo ora? Hanno i braccialetti, sarebbe potuto intervenire in qualsiasi momento”. “La tempistica è fondamentale” disse assorto. Come se fosse stato una parte di sé a porgli quella domanda e non un altro. Proseguì. “Aspettavo un preciso evento, che il destino si compisse e che avessi abbastanza potere per attuarlo”. “Capisco” disse senza capire.
Il Presidente si risvegliò da quello stato di trance, come se non fosse stato lui a parlare. Si sentì spossato, buttò giù un sorso di liquore e cercò di ritrovare il punto. “Chi diavolo sei tu e che vuoi?” urlò. “Sono il sostituto…”. “Ah sì. Mi stavi dicendo dell’Ombra. Che cosa fa pensare che quell’Ombra sia uscita allo scoperto?”. L’agente rimase colpito da quel cambiamento improvviso, gli sembrò di parlare con due persone differenti. Una più posata e calcolatrice, l’altra più nervosa e sopra le righe. Sperò di concludere la conversazione il prima possibile. Quell’uomo ora lo terrorizzava di più di quanto non potesse sapere. “Dice che si è strappato il braccialetto identificativo” balbettò. “Mmm. Non ha rilevato altro?” chiese con una punta d’irritazione, deluso. “Non ha parlato di libri o ciondoli? Di qualche strano avvenimento?”. “No signore, si è strappato il braccialetto”. Che me ne importa? Non era quello che volevo, una conferma? Pensò. Ora ce l’ho. “Maledizione” disse saltando in piedi, stavolta per rabbia, “è positivo anche questo. Forse vuole scappare con il libro. Ma non credevo che si sarebbe strappato il sensore, pensavo che stesse studiando per utilizzare il suo libro. Desideravo che lo utilizzasse di nuovo”. Da una parte il Presidente voleva ardentemente confrontarsi con lui, il solo pensiero che invece se l’era data a gambe, strappandosi il braccialetto come il peggiore dei ladri, lo faceva impazzire di rabbia. “Se fosse bastato togliersi il braccialetto Abel, non credi che adesso saresti già qui nelle mie mani? Sciocco”. Poggiò la mano sulla copertina del suo libro, sfiorando il ciondolo incastonato nella punta della piramide, poi lo staccò con un gesto e prese a osservarlo con insistenza, come fosse una gemma rara, mentre quello sembrava osservare lui. C’erano dei segni sottili che ne scrivevano la superficie, andando a formare un disegno che non era ancora riuscito a comprendere.
Strinse il ciondolo e iniziò a tremare, con l’altra mano cercò di tenerla ferma. Ora è il caso di agire. Ho aspettato con pazienza per tutti questi anni, sperando che iniziasse a usare il suo libro, per avere la conferma che realmente ce l’avesse ancora, e invece nulla. Pensavo che rimanendo nell’ombra si sarebbe deciso, che sarebbe venuto qui a sfidarmi. Maledetto vecchio!” pensò imprecando fra sé e sé. “Mandate qualcuno a prelevarlo” disse in un momento di rabbia, sapendo che non sarebbe servito. “E mi raccomando. Che sia fatto con assoluta discrezione” tuonò con una voce piena di autorità. “Sissignore”. “E tu vattene al diavolo. Rivoglio all’istante il mio uomo, non me ne frega niente se sta male. Fallo venire subito qui”. “Sissignore”. Infilò nuovamente il ciondolo al suo posto, sulla copertina, poi la sua espressione mutò: era affranta e tirata. Il Presidente spostò il libro lontano da sé con uno sforzo che gli richiese una grande fatica, come se quel volume di carta pesasse quintali, poi poggiò la fronte sulla scrivania. Un forte singhiozzo gli salì in gola, prese un grande respiro e alzò il viso, asciugandolo con un fazzoletto che teneva nel taschino. Il serpente inciso sul ciondolo si mosse, l’uomo sentì la gola chiudersi come se quel serpente fosse saltato fuori e l’avesse circondata. Fissò il libro con aria ostile, spaventata, ma non poté fare a meno di riprenderlo in mano e aprirlo, a quel punto la sua espressione tornò quella di sempre. Si avvicinò alla finestra che dava sull’Area 1 con il volume stretto in una mano. Sembrava aver dimenticato quell’improvviso attacco che l’aveva colto e di cui lui iniziava a comprendere le origini, anche se si nascondevano bene. Ormai c’era dentro. Iniziò a riflettere su quel mezzo successo. “Finalmente qualcosa è accaduto. Era ora che succedesse, poi proprio Abel, non
aspettavo altro. Per quanto riguarda gli altri, sono ormai anni che non m’imbatto in nessuno di loro, sono diventati più furbi. Agiscono nel silenzio, o non agiscono affatto. Ma sempre meglio non rischiare”. Incastrò il ciondolo al suo posto e si ò una mano sui capelli, sorridendo ancora pieno di soddisfazione. “Ma se lo avesse già dato alla ragazza? Lo saprò molto presto. Forse se lo catturerò, se gli darò la caccia, lei verrà dritta da me. Spero solo sia pronta” disse e si sgranchì la schiena indolenzita. “Non l’avevi bruciato, non è vero vecchio? Temevi un nuovo squilibrio, non è così? Minacce, solo stupide, inutili minacce”. Scoppiò in una risata fragorosa, felice e rabbiosa allo stesso tempo, che lo piegò in due e che agghiacciò i segretari fuori dal suo ufficio. Tutti si pietrificarono, guardandosi l’uno con l’altro, poi quando smise di ridere, tutto ripresero il loro lavoro al pc. I loro braccialetti, ben visibili, tintinnavano sui polsi.
“Il professore ha continuato a mentire, non è vero?”. “Sì. Pensa che sia giusto così. Ma ha fatto ben capire alla ragazza che è una custode, una custode speciale. È quello l’importante”. “Non è scemo. L’ha percepito anche lui”. “Se n’è accorto solo quando io e lei siamo state a pochi centimetri”. “Decidendo di non utilizzarti, Abel ha oscurato la tua presenza. Occhio Rosso non poteva sapere dove era finito il libro e quindi tu” aggiunse Dessel che stava riflettendo per conto suo. “Sono io che ho smesso di cercare un contatto. Comunque sì. Lui non poteva trovarmi, ma mi ha sempre sentita. Sapeva che ero ancora qui”. “A quello nessuno di noi può sfuggire. Occhio Rosso sente tutti noi”. “Ma i libri senza di noi sono solo degli involucri con un pezzo d’anima originaria”.
“Marin, i libri da quelli originari sono mutati, questo è vero, quando c’erano Celestia, Latlock e Paris era diverso, in parte. Ma l’importanza dei custodi rimane. Io e te, qui dentro, non possiamo fare un bel niente senza di loro. Siamo impotenti”. “Lo so bene. Smettila di ricordarmelo. So benissimo che siamo solo Anime e nient’altro”. “Solo un motore” la interruppe Dessel sputando quella frase di colpo. “Devi smetterla di dirlo. Io rimango una persona, una persona che è legata alla custode, ma non come una schiava. Io sono lei e lei è me. È un rapporto inscindibile, di continuo scambio, di simbiosi. Sono allo stesso tempo madre, sorella, amica e figlia, o almeno sarà così quando ci fideremo l’una dell’altra. È un rapporto che non puoi liquidare con un ‘siamo un motore’. Chiaro?”. “Ti sto prendendo in giro ora” ridacchiò lui. “Da quando sono insieme a quel ragazzo capisco quello che intendi. Per me è lo stesso”. “Ti spaventa, non è vero?”. Marin lo capì di colpo. “Sì, mi terrorizza”. “Il ragazzo l’ha incontrata. L’ho sentito”. “Sì. Ma il mio piano è un altro. Dobbiamo essere certi. Il ragazzo ha bisogno di una spinta”. “Che stai combinando Dessel?” disse spaventata. “Qualcosa di avventato, non è vero?”, Marin fece una pausa significativa. “Dessel, lei è sangue del mio sangue”. “Anche il ragazzo lo è per me. Sarebbe meglio se non ti affezionassi. Sai cosa potrebbe succedere con questa rivoluzione. Le opzioni sono tante e tutte quelle che conosciamo si concludono con la loro morte. E probabilmente con la nostra. Non so se saremo mai liberi”. “Anche la morte ci potrà ridare la nostra libertà. Ma non cambiare argomento. Che stai complottando?”. “Non c’è tempo, perciò accelero il processo. Non mi rimane altro”.
“Si innamoreranno”. Marin aveva paura delle conseguenze. “Stavolta non succederà”. “La storia si ripete sempre” disse come un nastro rotto. “La storia si ripete sempre. È inevitabile”. “E allora saremo pronti alle nuove conseguenze, anche se una rivoluzione è già in atto. Forse la cosa non cambierà un bel niente”. “Lo spero”.
CAPITOLO 7
Il ragazzo confuso venuto da lontano
“Maledizione. Maledizione”, il ragazzo si fermò a prendere fiato nel parco antistante all’edificio. Il fresco della notte gli pungeva il viso donandogli una sensazione di piacere. Chiuse gli occhi e assaporò l’odore dei pini adagiati tutt’intorno assieme al rumore della notte che avanzava prepotente. Poi si lasciò cadere su una panchina. “Maledizione. Ero a tanto così e ho fallito”. Il ragazzo si fasciò la mano con un fazzoletto che tirò fuori dalla tasca con uno strattone, controllò che quella piastrina fosse al suo posto, era un’abitudine. Sembrò poi perdere tutta la calma che quella sera gli aveva donato e prese ad armeggiare con la borsa in cerca di qualcosa. Lasciò scivolare il libro del colore del sole sulle sue ginocchia e lo aprì. Poi domandò alle sue pagine bianche: “Cosa devo fare ora?”. Le parole presero forma. “Il ragazzo aspettò che i tre uscissero dall’edificio. Erano tutti scossi ma non rinnegarono il loro principale obiettivo: trovare il nonno di Sofia. Il ragazzo, che era nascosto vicino alla parete sinistra dell’edificio, dietro a un pino, li seguì silenzioso aspettando il momento migliore per attaccare. E lo trovò poco dopo, quando i tre uscirono, imboccando una stradina laterale”. “D’accordo” disse chiudendolo. Si appostò all’ingresso e non poté fare a meno di pensare a quella ragazza, il suo polso era così sottile. Non riuscì a vederla a lungo ma fu colpito dai suoi contorni. Guardò insistentemente l’orologio, come se fosse fondamentale sapere l’ora. Al quindicesimo sguardo al quadrante i tre uscirono da lì, così come il libro aveva predetto.
Per un momento esitò. Non poté fare a meno di fissare quella ragazza dai lunghi capelli castani e dalla pelle chiara e delicata, così esile eppure così decisa: apriva, infatti, la fila del trio, indicando la strada. Gli ricordò qualcosa, forse la guerriera della storia che il padre gli leggeva sempre prima di dormire, “la guerriera dai lunghi capelli castani”, perché una volta diventato suo custode, il libro aveva cancellato quella storia? Lui la amava e gli ricordava suo padre che non c’era più. Preso da un impeto di rabbia, il ragazzo scagliò via una pietra con un calcio, rischiando di farsi notare. I tre, infatti, si girarono. Rimase a osservare ben nascosto, tentando di calmare i suoi bollenti spiriti. La ragazza gli apparve come una luce che guida i marinai a riva e, allo stesso tempo, una sirena che li cattura. E lui si sentì imprigionato da lei, si sentì di colpo come un marinaio che è appena riuscito a tornare a casa. Esitò a lungo ma poi li seguì, asciugandosi con il palmo il sudore che all’improvviso gli imperlava il viso e la fronte. Continuò a pensare che non potesse essere giusta quella soluzione, cercava di trattenere le sue sensazioni nel vederla. Non credeva che, alla sua vista, si sarebbe ritrovato in quelle condizioni. Si sentiva come una calamita che cerca di resistere al ferro da cui è attratta. “Devo ritrovare la mia freddezza” si ripeteva. Ma dentro di sé una vocina, che assumeva sempre maggiore forza, prese a dubitare del piano che gli aveva suggerito il libro. Iniziò ad agitarsi, rabbrividendo, quando ripensò al fine ultimo del rapimento di quella ragazza. Infatti, quando la mattina chiese al libro cosa fare per ristabilire la situazione, quello rispose: “Devi ucciderla”.
I tre ragazzi uscirono di soppiatto dalla porta d’emergenza da cui erano entrati. Sofia si era fatta, lungo il cammino, un’alta coda che raccoglieva i suoi lunghi capelli castani. Leon rimase quasi incantato a osservarla oscillare al ritmo dei suoi i. “Prima ho sentito un rumore” sussurrò Fran.
“Sì. Dobbiamo stare attenti, sono sicuro che quel tizio sia ancora qui fuori”. Sofia annuì decisa e proseguì per prima, ma Leon non le permise quel gesto. Ogni volta che li superava, faceva in modo di tornarle accanto. “Sicuramente è nascosto qui nei dintorni. Voglio sapere cosa vuole” disse quasi a se stessa. “Hai idea di dove possa essere finito tuo nonno?”. “Sì” rispose. Ci aveva riflettuto durante il tempo che era servito per arrivare all’uscita di emergenza. “Sono sicura che sia andato al porto”. “Perché al porto?” chiese Fran incuriosito. “Perché mi portava lì quando ero bambina”. Guardò verso l’alto come se fosse stata catturata da un ricordo. “Occhio a dove metti i piedi” avvertì Leon. Sofia era quasi inciampata, distratta com’era dai suoi pensieri. “Ancora non riesco a capire perché se n’è fuggito”. “Forse perché non vuole lasciare sulle mie spalle quel peso”. “Tanto non può fare un bel niente” continuò Fran. “Secondo me è un bell’egoista” disse senza trattenersi e Leon gli diede un pugno sulla spalla per fargli capire di smetterla, ogni tanto il suo essere così eccessivamente sincero poteva fare dei danni, e lui non lo capiva. “Scusa… non volevo dire questo”, Fran abbassò il viso imbarazzato, grattandosi la nuca. “No. Hai ragione. Forse non voleva separarsene” disse Sofia senza scomporsi troppo, ma dentro di sé quell’affermazione l’aveva smossa. Non può essere. Mio nonno vuole solo aiutarmi si ripeté un paio di volte abbassando la testa sul terreno freddo. Leon capì al volo cosa stava pensando e le poggiò la sua rassicurante mano sulla spalla. “Sono sicuro che tuo nonno abbia un piano ed è scappato per una ragione”.
“Sì” gli disse sospirando, “sarà certamente così”. Poi proseguirono uno accanto all’altro. Fran ammutolì mentre Leon controllava che intorno non ci fosse nessuno. Sofia sembrava distratta ancora da qualcosa, ma si lasciava guidare lungo la strada, che alla fine avrebbe potuto percorrere anche a occhi chiusi. La luce era ormai del tutto scomparsa, ma i tre quasi non ci fecero caso. “Ho come l’impressione che il professore ci abbia nascosto qualcosa” si disse Leon mentre proseguiva. Il vicoletto che i tre avevano imboccato era particolarmente buio e abbandonato. C’erano cartacce ovunque, i secchi erano ricolmi d’immondizia mentre i lampioni mandavano una luce intermittente e fioca. “Forse era meglio fare la strada principale” disse Fran stringendosi nelle spalle. “Forse. Ma questa è una scorciatoia, giusto Sofia?” intervenne Leon. “Sì. Va bene così. E poi siamo in tre. Proseguiamo”. Sofia accelerò il o senza nessuna esitazione, fu proprio in quel momento che a sbarrarle la strada comparve il ragazzo di prima. Stavolta poté vederlo bene in viso, perché la luce artificiale colpiva proprio l’angolo di terreno in cui si trovava. “Cosa vuoi? Si può sapere?” chiese con tono deciso Sofia, mentre i due amici le si paravano davanti. “Che diavolo vuoi ragazzino? Alza subito le mani” disse Fran come se avesse una pistola. Lui si avvicinò lentamente e ubbidendo alzò le braccia, mettendo ben in mostra i polsi, per la soddisfazione di Fran che lo fissava adesso con spavalderia. “Sentite. Non voglio farvi del male. Se mi lasciate abbassare le braccia ve lo dimostrerò” disse a fatica trattenendo la durezza della voce. Il suo viso era compresso in un’espressione tesa e infastidita che il ragazzo non era riuscito a mascherare, però i suoi occhi… aveva uno sguardo penetrante e
misterioso che Sofia aveva tanta voglia di smantellare. Quel ragazzo gli appariva come un enigma da risolvere, uno scarabocchio di linee intricate che voleva sciogliere. Ci pensò su, poi consultò gli altri. Tutti e tre avevano notato un particolare curioso: veniva da un’altra Area, la sua piastrina aveva, infatti, inciso il numero tre, da quello che riuscivano a vedere. “D’accordo” acconsentì Sofia. Non sapeva perché, ma, nonostante tutto, gli ispirava fiducia, non riusciva a spiegarselo. Lui aprì con cautela la borsa e fece scivolare fuori un libro. La ragazza lo riconobbe subito, la copertina era quasi identica alla sua, con quei tre buchi in alto e uno riempito da un ciondolo dorato, ma era giallo e sopra c’era un altro disegno, e soprattutto, su un lato, era stampato il numero 3. 3 come l’Area pensò piena di sorpresa. All’improvviso Sofia ne voleva solo sapere di più, così si avvicinò velocemente con imprudenza. “Sofi, aspetta” dissero i due inseguendola. Il libro di Syd si accese per un breve istante, e forse era stato anche questo ad averla spinta ad avvicinarsi, nonostante lo avesse percepito solo a livello istintivo. Il ragazzo si sorprese di quanto stesse venendo vicina a lei, sarebbe stato facilissimo ucciderla, eppure lei gli ispirava un certo timore reverenziale, e quando le era vicino si sentiva nervoso e insicuro, per questo motivo appariva ancora più scortese del solito. I due si guardarono per un lungo istante senza parlare, come se non fossero i loro corpi, ma le loro anime a scrutarsi. “Tu non sei di qui, non è vero?”. “No” rispose tenendo ben stretto il libro. “Hai visto questo?”. Lei annuì: “È il mio libro. Sono il suo custode”, disse con le identiche parole di suo nonno.
Tutti e tre si azzittirono e aspettarono che il ragazzo aggiungesse qualcosa, ma lui si presentò solamente. “Piacere di conoscervi. Sono Syd” disse come se stesse prendendo a parolacce qualcuno. “Noi siamo Sofia, Leon e Fran” rispose la ragazza indicando ognuno. “Ma ora dimmi. Tu vieni da un’altra Area”. “Hai notato la piastrina non è vero?” chiese con finto stupore. “Sì. E anche il libro”. Ma guarda. È meno stupida di quello che sembra, disse il ragazzo fra sé e sé, imprimendosi in viso un sorrisetto compiaciuto. Lei si avvicinò ancora e Syd d’istinto si allontanò di un o, insicuro, poi abbassò lo sguardo quando se la ritrovò davanti. Ma che diavolo sto facendo? si disse sorpreso. Alzò lo sguardo e la guardò fissa: non aveva mai visto degli occhi così intensi e, infastidito, si voltò da un’altra parte, assumendo un’espressione tesa ma allo stesso tempo impacciata. “Syd” disse lei, e lui ebbe un sussulto. “Vieni con noi?” gli chiese all’improvviso nello stupore generale. Lui non riuscì a rispondere che “sì”. “Ma sei impazzita?” urlò subito Fran. “Non sappiamo neanche cosa voglia! Quello ti voleva rapire e tu vuoi fartelo amico? Leo dille qualcosa ti prego” chiese agitando le braccia. L’amico rimase silenzioso per alcuni istanti: “Se lei si fida, mi fido anch’io”. Sofia gli fece un sorriso che lui ricambiò. “Oh bene. Ci mancava solo questa”. Fran si colpì in fronte con una manata e proseguì afflitto e innervosito, con le mani ora strette in tasca, perché l’amico non gli aveva dato retta. Ogni tanto gli lanciava degli sguardi arrabbiati che
facevano ridacchiare Leon, ma infondo era così di buon’umore che non riusciva a preoccuparsi di nulla. Syd camminava di fianco ai tre, un po’ distaccato per non mescolarsi. Fran non gli staccava gli occhi di dosso, mentre Sofia guardava avanti a sé, con due pensieri fissi: suo nonno, e avere più informazioni da quel ragazzo, non appena si fosse ambientato. E di certo non è possibile con Fran che lo fissa a quel modo, rifletté guardandolo storto. Sofia notò solo in quel momento che Syd aveva i capelli del colore dell’oro. Nonostante fosse buio, la poca luce dei lampioni ci si poggiava delicatamente sopra, facendoli risplendere. Sembravano assorbirla per quanto erano lucenti, e a Sofia questa cosa colpì. Ebbe un sussulto quando lui si voltò verso di lei, sciogliendo vagamente quell’espressione arcigna e tesa in un abbozzo di sorriso, ma forse fu solo un’impressione. Quei suoi capelli cozzavano con l’aspetto duro che si sforzava di mantenere. Aveva l’espressione tirata lo invecchiava di qualche anno, le sopracciglia aggrottate su due occhi neri intensi che non permettevano di entrare, come una porta ben sigillata, infine un corpo muscoloso ma asciutto, diverso da come le era sembrato nei corridoi dell’Università, vestito in modo semplice, con una maglietta nera e un paio di pantaloni verde militare sdruciti, ai piedi invece indossava dei sandali. La temperatura nell’Area 1 di quel periodo era piuttosto fredda, era proprio in quelle settimane che l’autunno lasciava il posto all’inverno. Sofia pensò all’Area 3 e si chiese come fosse. A ogni ventata vedeva il ragazzo sussultare. Sicuramente non è a suo agio con questo clima, ma non lo vuole dare a vedere. Arrivarono al porto velocemente, e i tre decisero che Fran sarebbe rimasto con Syd mentre Leon e Sofia avrebbero cercato il nonno. La ragazza ci mise pochissimo. Era in piedi nel loro solito posto, con le braccia tese verso l’acqua. Poco prima della fine dell’ultima banchina. “Nonno” sussurrò con decisione. “Mi hai trovato. Ho sperato che capissi” rispose tristemente con un sorriso mentre allungava sempre più il libro verso il mare scuro. “Sapevo che saresti venuto qui. Cosa stai facendo?”.
L’uomo stringeva il volume tremando, indeciso sul da farsi. “Mi dispiace Sofia. Io non so che fare” balbettò irrequieto. “Nonno, non lo fare”. Sofia si avvicinò cautamente. “Saresti al sicuro se lo fi. Non vuoi che ti tolga questo peso?”. “Lo sai che non è così semplice” rispose con un viso improvvisamente adulto, come se fosse invecchiata all’improvviso e avesse, ormai, piena coscienza della sua missione. Lui si sorprese, poi la sua bocca si allargò in un lieve sorriso di comprensione, fece un sospiro. “Hai ragione” le disse, poi guardò un’ultima volta il suo libro, con intensità, come se gli stesse recitando una preghiera silenziosa, infine lo lanciò verso di lei. Tutto il resto lo dovrai capire da sola, pensò dentro di sé, mentre un sorriso amaro gli si impresse sul volto. Il vecchio fece un cenno di assenso a sua nipote Sofia avvicinandosi, poi la baciò dolcemente sulla fronte e la guardò a lungo negli occhi, senza parlare. Fece scorrere le sue mani irruvidite dall’età sulla sua coda, tirando indietro i capelli che le erano finiti davanti agli occhi. La ragazza notò che gli occhi del nonno si stavano riempiendo di lacrime, come se quello fosse un addio. Quando lei tentò di parlare, il vecchio le poggiò la mano sulla bocca, poi guardò Leon intensamente, gli strinse le mani con forza, cercando di comunicargli una richiesta che lui capì. “Non la lascerò da sola” promise Leon. Lei rimase paralizzata sul posto e non riuscì a muoversi. Neanche quando il nonno corse via, sparendo nella notte. “Nonno!” urlò, ma non si mosse. “Leon”. Lui era accanto a lei con la stessa espressione impressa in volto. “Non capisco”. “Apri il libro” tentò lui, intercettando una possibilità. Lei lo fece, ancora stordita.
Nella prima pagina trovò impresse poche parole, pensò che gli fossero costate un grande sforzo, ma il libro per fortuna lo aveva ascoltato. Gli aveva permesso di salutare sua nipote. “Sofia, ho paura che fra poco mi verranno a prendere. Visto che solo questi libri tengono impresse le parole, spero che le mie riusciranno ad arrivare fino a te. Non ho il tempo di spiegarti. Ho sbagliato a non dirti tutto prima, quando ne avevo l’occasione, ora è tardi. Perdonami. Devi stare attenta, sparisci il prima possibile perché sei in pericolo. E soprattutto, proteggi il libro. Ricorda che ne sei la custode ora. Non mi cercare perché non mi troverai. Ti voglio bene”. Poi, in fondo, vide un’altra scritta, comparsa all’improvviso, come un pensiero inconscio che riemerge in superficie: “Sofia, aiutalo. Salvalo.”
Le lettere volarono via dal libro lasciandolo inizialmente bianco. Un secondo più tardi, però, la storia di Sofia si stava nuovamente scrivendo, ma la ragazza non ebbe la forza di leggerla e chiuse il volume con un gesto di stizza, poi cadde in ginocchio e scoppiò a piangere. Aveva capito che quello era un addio. Quella consapevolezza la colpì con forza in pieno petto, mozzandole il respiro. Leon s’inginocchiò accanto a lei e l’abbracciò, Sofia si lasciò cadere sul suo petto caldo, cercando di controllare le lacrime e tutto il suo corpo che tremava dal dolore. Appoggiata al suo petto, percepì il battito calmo del suo cuore, e fu quello che la fece rilassare. Fran e Syd rimasero a osservare le due figure. Si guardarono con astio per tutto il tempo, pieni d’interrogativi, ma non mossero un o. Syd pensava che per ora avrebbe aspettato, il suo viso si tese quando vide Sofia
piegarsi su se stessa, come traata da una lancia. Sperò in cuor suo che il nonno le avesse dato delle informazioni utili per impedirgli di portare a compimento il gesto che il libro gli aveva richiesto. Stranamente lo sperava. Non era quel tipo di persona che s’intenerisce di fronte a una donna, non lo era più da molto tempo, eppure quella ragazza lo aveva scosso, la sentiva legata a uno spiraglio di ato che non riusciva a individuare. Dopo poco Sofia riuscì a ritrovare la calma e la consapevolezza che aveva una missione da compiere, anche se non era ancora ben definita. Doveva proteggere il libro da qualcuno, “ma chi?” si chiese. “Che voleva dire il nonno? Il suo ruolo era pericoloso, ma per quale motivo? Chi vuole questo libro?”. Sofia guardò in basso, perplessa e spaventata. È pericoloso per tutti, non solo per me. Siamo tutti in pericolo alla fine, pensò. Terrò il libro al sicuro. E poi, cercherò di risolvere la situazione in cui le Aree si trovano. Ma come? Il suo stato d’animo oscillava tra una forte decisione e chiarezza d’azione, e un’improvvisa insicurezza. “Aiutalo. Salvalo. Nonno a chi ti riferisci? Al libro? No, deve esserci qualcos’altro” disse la ragazza e sembrava pensarlo anche Leo, che se ne stava silenzioso tastandosi il mento. “Quella frase è comparsa di colpo, come se fosse un pensiero inconscio del professore. Forse non voleva neanche comunicarlo, eppure è saltato fuori”. “Mio nonno vuole che scappi via con il libro. Quella frase, però, lo contraddice. Che significa?”. “È uscito come fosse un pensiero inconscio” ripeté Leon, “forse non voleva dirlo ma era in realtà quello che sentiva”. “Che cosa pretende che faccia? Sono solo una ragazza con un libro. Non so neanche di preciso contro cosa dovrei combattere” continuò. Pensò poi alle altre Aree: “Chissà se la situazione sarà la stessa in tutta Panopticon. Sicuramente”. O almeno credeva che ogni Area presentasse la stessa realtà. Sulla sua destra, non molto distante, Sofia notò il ponte che collegava l’Area 1 alla 2, l’unica ben visibile. Se si sforzava poteva riuscire a vedere tanti puntini
bianchi muoversi; quella era infatti l’isola che si occupava dell’addestramento delle squadre di controllo e che riforniva l’Area 1 di agenti militari. A nessuno era permesso attraversare quel ponte, se non alle forze militari. Fu in quel momento che lei ripensò alla storia del nonno. Quella in cui le aveva raccontato la formazione delle Aree e la composizione del mondo così come si era andata a configurare da molto tempo. Erano seduti proprio su quella banchina silenziosa in una tranquilla giornata di estate. Il vento caldo era soffice e rilassante, le barche erano ferme e ondeggiavano trasportate da un mare mite e accomodante. Sofia allungava i piedi verso lo specchio dell’acqua per rinfrescarsi, ma era ancora piccola e non riusciva bene a immergerli. Con la punta delle dita ne toccava la superficie piatta increspandola di sfumature, e si ritraeva. L’acqua era così limpida che lei poteva vedere i pesci nuotare in armonia. Era tutto in armonia, talmente bello da sembrare finto. La scena sembrava uno di quei quadri bucolici che trasmettono pace e serenità, in cui il tempo sembra essersi fermato. Il nonno aveva con sé una canna da pesca, ogni tanto gettava l’amo nel largo ma non con l’intenzione di pescare, sembrava che il semplice gesto di tenere una canna e lanciare lo rilassasse enormemente, come se si trovasse al posto giusto, nel momento giusto. Era felice così: con una canna in mano a far finta di pescare e con la sua bella nipotina vicino, pronta ad ascoltare le sue storie nascosta sotto a un cappello di paglia più grande di due taglie. Le domeniche, quei giorni estivi di vacanza, erano quelli che più risaltavano tra i suoi ricordi di bambina e poi di ragazza. Aveva continuato ad andare a pesca con il nonno, sempre, nonostante fosse ormai cresciuta. Non voleva interrompere quella sorta di rito che la metteva in pace con il mondo, come se le riservasse una sorta di catarsi che le era necessaria per andare avanti, ogni giorno. A volte pensava che non fosse il paesaggio quieto e silenzioso, bello da mozzare il fiato, ma la sola presenza di suo nonno a farla sentire così felice e rilassata, in pace con tutto e tutti. Si voltava spesso a guardarlo sorridere allo specchio dell’acqua, come se stesse dialogando con qualcuno, come se potesse parlare con la natura. Per lei suo nonno non era mai cambiato, era sempre lo stesso uomo, lo vedeva costantemente uguale: con la sua barba bianca, gli occhi del suo stesso colore, l’aria saggia di un uomo costante, robusto nello spirito e nel corpo,
nonostante la mano del tempo lo piegasse sempre più. Quel giorno, l’aveva visto fuori di sé, quasi da non riuscire a riconoscerlo. Sembrava che quell’aura di sicurezza e tranquillità interiore si fosse d’improvviso frantumata, imprimendo un terrore ancestrale nei suoi occhi. Sembrava che tutti i suoi anni gli fossero piombati di colpo sulle spalle, facendolo invecchiare all’improvviso, non solo nel corpo ma anche nell’anima. “È questo che fa la guerra agli uomini?” si chiese Sofia. “Tutto bene?” domandò Leon guardandola con una punta di preoccupazione. “Sì, scusa. Ero sovrappensiero”. “L’ho visto. Non ti ho voluto disturbare. Sembravi esserti persa in un altro mondo”. “È così” disse guardando l’acqua calma, ingoiata dal buio. “Sono tornata indietro”. Sofia fece un sorriso malinconico, voltandosi a guardare di nuovo lo specchio dell’acqua e disse: “Sai, mio nonno, quando venivamo qui, mi raccontava sempre la storia di Panopticon. Ed era così bravo a farlo, che non smettevo mai di chiedergliela, settimana dopo settimana, anno dopo anno, anche se la conoscevo a memoria e non era poi un granché bella, eppure, dalle sue labbra prendeva forma come una magia” sorrise al ricordo del suo modo di raccontarla, tralasciando gli elementi politici, o almeno nascondendoli, ritagliandola a forma di bambina, come fosse una favola dalla forte morale. Sofia si chiedeva sempre come il nonno fe a conoscerla. Sembrava rivivere dei ricordi ati, eppure non era possibile, non poteva essere vivo in quel tempo. “E com’era questa storia?” chiese Leon che aveva capito quanto Sofia avesse bisogno di raccontarla. Lei sorrise un po’ sorpresa, stava raccontando per la prima volta quella storia che aveva sempre solo ascoltato e le sembrò strano, una sorta di aggio di testimone. “Ora tocca a me” si disse, guardò con aria nostalgica il molo, facendo un enorme respiro, e iniziò a narrare. “Il mondo prima era formato da tante nazioni, perlopiù confinanti. Non c’era
ovunque l’acqua a separarle, né un unico Presidente a dominarle. Ognuna di esse aveva un sistema di leggi proprio, un suo governo e una sua società. Insomma erano a tutti gli effetti indipendenti, sia nell’organizzazione sia nell’azione. Anche se si relazionavano con le nazioni esterne, mantenevano sempre la propria individualità. Alcune diedero vita a una sorta di lega, un’unione che era un tentativo di armonizzare la realtà, di formare un organismo funzionante e più potente. Le nazioni si alleavano fra loro in continuazione, cambiando dall’oggi al domani il gioco di forze in campo, in base alle necessità. Questo creò numerosi squilibri e un clima d’indifferenza, perché alla fine nessuno poteva fidarsi degli altri. Una era pronta a voltare le spalle al proprio alleato, se gli veniva offerta un’unione più proficua. Ogni nazione, poiché era unica, aveva delle caratteristiche differenti, una sua lingua addirittura. La gente viveva felice, anche se risentiva dei continui cambiamenti, sia interni sia esterni, che il governo compieva in base ai propri comodi personali. Devi sapere che le persone di quel tempo erano quasi tutte pigre e alcune anche ottuse, concentrate solo ad accumulare beni e a coltivare al meglio possibile il proprio orticello, migliorandolo a discapito di chiunque. Quella era una società egoistica, più fredda della nostra. Forse questa è l’unica cosa che nel tempo, in parte, è migliorata. Lì c’era il cinema, dove la gente poteva riunirsi al buio a guardare film, mangiando pop-corn. Parchi naturali in cui convivevano gli animali più diversi. Giardini pieni di fiori profumati e tantissimi cibi, così vari che non riusciresti ad assaggiarli tutti, non ti basterebbe una vita. Ora tutto è uniformato, ma prima c’era un’esplosione di colori e sapori. Per le strade potevi incrociare poeti erranti e scambiare opinioni con il prossimo senza che nessuno s’introducesse bloccandoti. Non c’erano squadre di controllo agli angoli delle strade, né percorsi stabiliti. Si poteva andare dove si desiderava. Il controllo era sporadico e questo creava vari problemi sociali, ma la gente era veramente libera. O almeno libera di fare quello che voleva in una società organizzata. Noi siamo degli individui silenziosi, che non si oppongono. Ed è stato così sia nel presente che nel ato. Il controllo è però ciò che rende questa realtà
peggiore di qualsiasi altra. Siamo talmente abituati ormai, da accettarlo. L’abbiamo legittimato. Poi venne la guerra, la “quarta rivoluzione”, come la chiamarono loro, che spazzò via il mondo così com’era. Nel giro di pochissimo tempo la guerra aveva eliminato la gente e le istituzioni, e persino l’organizzazione su cui si era fondata ogni nazione. Pian piano quello che erano state, sparì, come inghiottito da un buco nero. Era un mondo imperfetto quello di un tempo, ma libero e meno controllato. Non c’erano Aree o braccialetti identificativi, ma solo documenti d’identità di carta, da mostrare in giro quando veniva richiesto, o per viaggiare; un tempo esistevano grandi aeroporti, a cui tutti potevano accedere, e dove era possibile prendere un aereo, persino dirigersi, se si aveva voglia, dall’altra parte del mondo, dove ora c’è solo acqua. La gente era libera, con delle limitazioni, ma libera. La guerra iniziò a cambiare la conformazione del mondo. Poi la natura prese improvvisamente la parola e scatenò terremoti violenti ovunque, partendo da questa zona del pianeta, quella che ora è chiamata Area 1. Nessuno riuscì a spiegarsi l’origine di questi avvenimenti. ‘Noi’, diceva il nonno. ‘Siamo stati noi uomini a causarli. Lo squilibrio non poteva che portare a questo’. L’avidità dell’essere umano ha scatenato la guerra e ha trascinato con sé tutti i popoli generando l’azione della natura”. Leon notò che Sofia stava stringendo sempre più forte il libro, che sembrava emanare colori tenui e tristi, come se partecie alla storia e ne soffrisse. Così Sofia, completamente assorta, sembrava rispondere dei sentimenti del libro. Non sapeva come faceva, ma Leon era in grado di percepirlo a fondo. “Il terremoto e la grande guerra portarono il mondo a dividersi in isole. Tante nazioni delimitate e rinchiuse, su pezzi di terra galleggianti. Con l’andare del tempo molte nazioni, le più vicine a quella dove ora ci troviamo, persero le loro valenze, le caratteristiche identitarie che avevano da sempre, per diventare Aree, che unite alle altre andarono a formare l’unica grande nazione: Panopticon. Sei isole per una grande, nuova e prospera nazione, diversa da tutte le precedenti, unica nel suo genere.
Le isole ci misero molto per tornare come prima, non tutto era andato distrutto, ma c’era molto da ricostruire, e soprattutto bisognava ripartire da zero, vista la nuova particolare conformazione. La famiglia dell’attuale Presidente, in realtà i suoi predecessori, si fecero subito promotori di questa rinascita. Incredibilmente, infatti, l’isola più grande, quella che ora è l’Area 1, era uscita dalla guerra e dal terremoto in modo migliore rispetto alle altre, come se fosse stata protetta. E la famiglia del Presidente, come se già fosse preparata a questo, dopo essersi organizzata, iniziò a prendere pian piano il comando prima dell’isola, che ormai era senza nome, aiutandola economicamente per quello che poteva, partecipando alla formazione di un governo, collaborando con gli altri, fino a quando le isole non tornarono prospere. Non sembrò strano nominare la famiglia del Presidente a capo di tutto, visto quanto aveva fatto, né che la stessa famiglia riunisse tutte le isole sotto il suo comando, creando la grande nazione chiamata Panopticon. Perché come spesso succede, il governo che era precedentemente nato, aveva già trasformato le isole in Aree sottoposte alla prima, in totale dipendenza da essa, perché più ricca e perché ovviamente il potere era raccolto lì. Sono dinamiche complesse quelle di potere. Dopo il grande terremoto, per le nazioni fu impossibile tornare come prima. Si era innescato un processo irreversibile. Ora ogni isola è diversa, ha il suo scopo e i suoi costumi, ma non ha potere individuale. Chi le domina è il grande Presidente dall’Area 1. Un solo uomo per un’infinità di persone. Delle altre nazioni, al di fuori di Panopticon, noi non sappiamo nulla, non sappiamo neanche se esistano davvero, se, di tutto il pianeta, con il grande terremoto, non sia rimasto altro che questi sei pezzi di terra. Del resto non abbiamo informazioni neanche sulle Aree che formano Panopticon, se non quello che ci viene riferito dal Presidente e dalle fonti ufficiali. È come se le altre nazioni al di fuori non esistessero o non fossero mai esistite, per questo ti dico sempre che la storia è stata falsata. La lingua si è uniformata nel tempo e così i pensieri e le abitudini. Il dominio risulta così nascosto, in apparenza. Il Presidente Reik ha creato una nazione che rispecchia l’Area 1, che segue l’Area 1, perché dipende da essa. Questa è infatti la più grande e la più potente. Volutamente.
E nessuno potrebbe mai opporsi a questa verità, ma probabilmente nessuno ci pensa. Comunque la realtà attuale riserva ancora delle sorprese piacevoli, nonostante la natura in quest’Area sia sicuramente scomparsa. È disseminata di angoli splendidi, di visioni paradisiache. Siamo circondati dal mare che rende tutto più bello concludeva il nonno con una punta di ottimismo, perché, nonostante tutto, amava questa realtà e credeva che valesse la pena di preservarla” disse Sofia, ora più che mai consapevole della forza e del significato di quella storia. Poi accarezzò la copertina di quel libro, ando la punta delle dita sui due buchi e soffermandosi con l’indice sopra al ciondolo incastonato. “Ora tocca a me” aggiunse, e si mosse verso l’ingresso del molo, nascosta dal buio della notte, ma illuminata a ogni o da un bagliore di profonda consapevolezza. E Leon capì una cosa, che il libro l’aveva messa davanti a se stessa e lei aveva accettato la sfida, forse senza averlo ancora compreso.
Poco prima che raggiungessero gli altri, Leon disse: “Non conoscevo questa storia, non così almeno”. “Lo immaginavo” rispose Sofia increspando le labbra, “mi sono sempre chiesta perché a scuola la raccontassero in quell’altra maniera”. “Cioè della rivoluzione necessaria, dell’azione pacifica del grande Presidente di quel tempo. Il racconto del nonno, che era stato colui che aveva messo fine alla guerra, realizzando una nuova era migliore della precedente, in cui le nazioni avide stavano colando a picco senza controllo, consumate da se stesse perché troppo libere? O forse era il bisnonno, non ricordo”. “Già, dalle fonti ufficiali è così che viene raccontata. Solo una guerra”. Sofia rabbrividì lievemente e continuò: “Un’azione necessaria che ha costruito un mondo più giusto, in cui l’uomo è privo di avidità. Il grande terremoto non viene mai nominato, come se fosse stata tolta alla natura il suo ruolo, e poi non credo all’azione restauratrice, purificatrice. Una guerra non dovrebbe mai avere degli effetti così devastanti. Dare la colpa alle nazioni di un tempo, quelle che
ora sono divenute Aree, o a quelle esterne e ignote, non è una soluzione, non è credibile. Non giustifica un’azione di tale portata”. “Ma credo che qualcosa di vero ci sia in questo. Le nazioni di allora erano realmente problematiche, sempre più disastrose, non in grado di arginare le crisi, ma in qualcosa erano uguali: seguivano sempre e comunque un unico uomo, che si proclamava leader assoluto, senza batter ciglio, fino a quando non faceva crollare il sistema con la sua incapacità e il suo egoismo. Prima c’era un leader per nazione, ora uno per tutte”. “Questa è l’estremizzazione di quella società. Un unico capo per un un’unica grande Nazione, che domina più attraverso il controllo che attraverso qualsiasi altra cosa e fa finta che non sia così. Stiamo tutti buoni con i nostri braccialetti a seguire le direttive e a farci identificare ovunque. Nessuna minaccia ci colpisce, perciò nessuno sente il desiderio di cambiare le cose. Il Presidente se ne sta lì senza fare nulla e noi continuiamo con la nostra vita. Ora la minaccia c’è”. Sofia sospirò. “Già. Cambierà tutto”. Leon non aveva potuto fare a meno di guardare il cielo. Sofia si chiese se stava osservando le tre lune, e anzi, se poteva vederle. Ma non chiese nulla. “Parole che fuggono via, cosa significherà?”. Leon tirò indietro la testa piena di dubbi. “Non ne ho idea. Ma lo scopriremo” si dissero a bassa voce, come se qualcuno l’osservasse. “Chissà come sono realmente le altre Aree”. “Me lo sono sempre chiesto”. Rimasero in silenzio a guardare il cielo. Stavolta insieme. “Che meraviglia. Non avevo mai visto il porto di notte” sorrise lievemente Sofia. All’improvviso si sentiva in pace con se stessa e sperò che quella sensazione durasse, ma la preoccupazione per tutto quello che era accaduto e doveva ancora succedere aveva fatto capolino velocemente.
“Sì, è bellissimo” rispose Leon guardando lo specchio dell’acqua scura, che vorticava lieve sotto i loro piedi, rilassandolo. Pensò a come sarebbe stato vivere prima del grande terremoto. Immaginò di trovarsi lì, svincolato dal tempo e dallo spazio, ma non riuscì a capire come sarebbe stato, era difficile immaginare un mondo diverso dopo aver vissuto per tanto tempo in quello di Panopticon. Poi i due s’incamminarono lasciandosi alle spalle la banchina di legno del molo. Superarono il cartello di benvenuto del porto senza scritta e, dopo averci buttato un occhio, uscirono. Quando Sofia tornò con Leon da Fran e Syd, quest’ultimo d’impulso, come se qualcun altro guidasse i suoi i, si avvicinò a lei e le accarezzò la guancia destra, asciugandole una piccola lacrima che era rimasta sospesa. Sofia provò una strana sensazione, sentì il suo corpo sciogliersi a quel tocco e una sensazione di familiarità la invase, come un eco da un mondo lontano. I libri vibrarono al solo incontro tra i loro custodi. I due ragazzi rimasero uno di fronte all’altro senza parlare, scrutandosi profondamente, come se avessero qualcosa da dirsi che però rimaneva inafferrabile, lontano, senza sostanza. I due amici si stavano muovendo quando Syd ritrasse di colpo la mano, se la osservò e poi guardò a terra spaesato, l’aria da duro guerriero che inizialmente aveva assunto scomparve per un istante, e lasciò il posto a un ragazzo normale, spaventato e fragile come chiunque altro. Sofia notò il repentino cambiamento, la maschera che Syd si era costruito e si era tolta per pochissimo, ma a lei era bastato quell’attimo per scorgere qualcosa che aveva solo percepito al loro primo incontro. Le sarebbe piaciuto conoscerlo a fondo senza protezioni, ma il ragazzo si era di nuovo calcato ben in viso la sua maschera. “Che fai? Non ti prendere troppe confidenze” urlò stizzito Leon che riuscì a parlare solo dopo essersi ripreso dalla sorpresa; tutto si sarebbe aspettato, ma non che quel ragazzo dallo sguardo duro potesse avere un gesto di consolazione nei confronti di Sofia. Syd aveva già dato le spalle a tutti e aveva assunto nuovamente la sua facciata, sforzandosi di impedire alle domande che erano sorte poco prima di risalire in superficie.
Perché le ho accarezzato la guancia? Che cavolo mi è saltato in mente? continuò a ripetersi. “Allora andiamo?” disse infine per troncare le discussioni e aspettando una risposta senza girarsi. “Sì, andiamo” rispose Sofia stringendo il suo libro. Tenerlo tra le braccia le dava sicurezza, e quel calore che sentiva la rilassava, nonostante l’agitazione di cui ancora non riusciva a liberarsi. Era troppo ancora il margine d’incertezza. “Non ci hai riferito cosa ti ha detto tuo nonno” domandò Fran. “Purtroppo nulla di particolare” rispose tristemente abbassando lo sguardo. “Ha detto che è in pericolo e che lo sono anch’io”. “Tutto qui? Non ci fa sapere un modo per sistemare quello che sta succedendo? Insomma, tu hai una sorta di libro magico… dovrà pure servire a qualcosa!” disse spazientito Fran. “Calma amico. Sono certo che se ci ragioniamo su, sapremo cosa fare. Non è vero Sofi?” le disse Leon facendole un occhiolino per tranquillizzarla. “Sì”. Syd se ne stava in disparte, pensieroso. Aveva osservato bene il nonno di Sofia ed era riuscito a catturare qualche dettaglio che agli altri era sfuggito. “Dovremmo andare in un posto sicuro e leggere cos’altro ha aggiunto il libro. Se c’è qualche indicazione che ci può essere utile. E potremmo confrontarla con il volume di Syd” disse la ragazza voltandosi a guardare la sua schiena. Lui trasalì per un momento, le sue spalle si contrassero ma infine disse: “Va bene” senza girarsi… sperava che questo momento accadesse il più tardi possibile. Nel confronto tra i due libri si sarebbe compresa la sua vera missione, e ora un desiderio inconscio si faceva spazio tra quelli consci: non voleva che lo vedessero. Syd camminò meccanicamente accanto ai tre, riflettendo su una soluzione. Doveva esserci un modo per risolvere quel problema imminente.
Maledizione, maledizione urlava dentro mentre la sua espressione esteriore si faceva sempre più truce. Sofia, Leon e Fran lo notarono e continuarono a fissarlo per tutto il tragitto. Leon camminò tra Syd e Sofia, non avrebbe più permesso che Syd la toccasse, non sapeva bene perché, ma la cosa lo aveva fatto andare in bestia. Leon lo guardava in cagnesco, ma era di corporatura così esile che Syd ridacchiava al semplice guardarlo. Da solo non avrebbe potuto fare niente contro di lui. I quattro proseguirono silenziosi nella notte, tesi e preoccupati, vicini ma distanti, ognuno a cercare un piano da proporre all’altro.
“Che storia interessante” disse l’Ombra seduta al suo posto, allungando le gambe sotto al tavolo e stiracchiando la schiena tesa. “Ehi tu, non ti distrarre”. “No, stia tranquillo” disse facendo una smorfia insofferente. “Maledetto gorilla imbecille” sussurrò poi sistemandosi bene gli auricolari nelle orecchie, e i capelli rosso che le sfioravano appena le spalle. “Curiosa la questione. Non mi è stato detto tutto, mi hanno dato delle indicazioni, ma non così specifiche. Ora so bene perché è così importante per loro: ne hanno paura. E gli serve per uno scopo sconosciuto”. Comprese a fondo l’importanza della questione, in cosa, suo malgrado, era stata coinvolta. Che fine avrà fatto la sua Ombra precedente? rabbrividì al pensiero. Forse è stata destituita perché si è affezionata alla ragazzina, non faticherei a crederlo, pensò guardando in alto pensierosa. Comunque è come se fossi io da sempre la sua Ombra. So praticamente tutto di lei. Non so, è come se fossimo in sintonia, mi sento di comprenderla. Fu in quel momento di riflessione che arrivò all’improvviso una telefonata inattesa. “Pronto?” rispose lasciando uno sbadiglio a metà. “Sì, sono… Ah” disse tutta
sorpresa mettendosi sull’attenti e infilando in borsa un pacchetto di caramelle gommose che stava per aprire. “Buonasera, non… non… cosa posso fare per lei?” balbettò imbarazzata. “Sofia sì. La sto controllando bene, come mi è stato ordinato” esitò prima di rispondere ma disse: “No. Non ha detto nulla. No, glielo assicuro, non ha nominato quello che lei mi sta dicendo adesso, né l’una né l’altra cosa. Sì, il capo mi aveva già avvertito di stare attenta. Le assicuro che è così” disse con tono sicuro, ma sfogando la sua frustrazione su una penna con cui stava scarabocchiando. “Sì. Se sentirò qualcosa la avvertirò subito, non si preoccupi. Sono, modestamente, una delle migliori Ombre in circolazione”. La donna, dopo aver sentito la risposta, fece una smorfia e riagganciò, accasciandosi sulla sedia. Le energie le erano calate tutte di colpo. Perché gli ho mentito? Se mi scopre, finirò uccisa disse tra sé e sé, tremando lievemente. Non so perché l’ho fatto. Ma voglio aiutarla, se è importante come ho capito, deve stare al sicuro. E poi ho sempre provato disgusto per il Presidente. Prese fiato per calmare il battito del suo cuore. Meno male che quegli strumenti sull’ascolto della mente, come li chiamano loro, sono ancora in via di sperimentazione. A quel punto non si potrà nascondere più nulla al leader. Ora, per fortuna, possiamo ascoltare i dialoghi, ma non le menti. L’Ombra tornò all’ascolto della ragazzina rivivendo i suoi i e le sue emozioni. Quei quattro. Beh, sarà divertente seguirli. Se quegli altri ragazzi sono importanti, avranno anche loro delle Ombre singole a seguirli. E il ragazzo che si è aggiunto? Viene dall’Area 3? si chiese con curiosità. Alla fine non le servivano le altre Ombre, sempre se ce ne erano, poteva seguirli tutti finché Sofia era con loro. Rimase indecisa fino all’ultimo se buttarsi sulle caramelle o meno, poi tirò fuori dalla borsa una bustina carica di carote tagliate a listarelle fini. Si disse che era quasi ora di pranzo in fondo e iniziò a mordicchiarne una masticando rumorosamente. I suoi vicini le lanciarono più di un’occhiataccia ma lei non li ascoltava, era troppo concentrata a seguire l’avventura di Sofia.
“Niente?”.
“No. Dice che non ne ha parlato. Abbiamo suo nonno, dopo tanto cercare, e non serve a un bel niente. Non ha né il libro, né il ciondolo”. “Potrebbe averli nascosti. Che ne facciamo?”. “Non stento a crederlo. È sempre stato un egoista. Buttalo dove sai tu. Poi lo emo in caso servisse” disse con sguardo duro e pieno di significati sottintesi. “Per ora non fare altro. Lasciamo per qualche giorno che le acque si calmino, se gli mettiamo il fiato sul collo in questo momento... lasciamogli credere che non abbiamo compreso il cambiamento”. Il suo braccio destro fece un cenno di assenso e si congedò. Telefonò poi al suo sottoposto preferito. “Come sta andando in città?” chiese come se lo preoccue. “La situazione è sotto controllo, anche se mi è stato segnalato dalle Ombre che intere zone di hanno subito un blackout della parola. E sulle strade sono dovute intervenire tutte le nostre squadre, anche quelle di emergenza, per sopperire ai problemi. La popolazione si sta agitando sempre più e le dosi che inviamo di notte non hanno quasi più effetto”. “Molto bene” commentò. L’uomo proseguì con il suo resoconto: “Le Ombre hanno fatto sapere che anche all’interno del loro edificio, sono crollate delle colonne. È capitato anche con le finestre e con altri oggetti piccoli”. Poi s’interruppe e rimase in silenzio per alcuni istanti prima di domandare: “Signore. Che intenzioni ha al riguardo?”. “Tutto quello che succede si può tenere a bada. A me interessano solo i libri e i custodi, lo sai bene”. “E una volta avuti loro?” azzardò lui che non aveva ancora ben chiaro il piano. “Che domande, mio caro. Potrò creare un nuovo mondo e dominarlo. Mi basterà avere i libri e i custodi, poi potrò avere indietro il potere originario”. Si prese la testa tra le mani. “No, invece”. Poggiò gli occhi sul suo libro che sembrava puntato verso di lui, come a controllare. “Sì lo voglio”. “No, invece
no”. Balzò in piedi scuotendo la testa, si versò un bicchiere di liquore e lo buttò giù tutto d’un colpo, riprendendo fiato. Ci fu una lunga pausa durante la quale il Presidente si perse a pensare al cambiamento che sarebbe avvenuto nella sua nuova società, e al sempre maggiore perfezionamento che avrebbero raggiunto gli strumenti di controllo. Finalmente la popolazione sarebbe diventata come lui la desiderava. “Sempre che la rivoluzione scatenata non lo distrugga del tutto. Sarò comunque in vantaggio. Come la scorsa volta che è successo”. Il libro l’osservava. “Cos’hai da guardare tu, eh?” gli urlò di colpo. Fuori dal suo ufficio gli agenti pensarono che la sua pazzia stesse velocemente degenerando. In quelle ultime ore il salto apparve netto. Il leader si alzò in piedi dando un calcio alla scrivania, poi iniziò a camminare avanti e indietro con o rapido e concitato, senza fermarsi per molte ore, preso da una frenesia nervosa che non gli era mai appartenuta.
“Ragazzi”. Sofia ruppe il silenzio concentrato che avvolgeva i loro i. “Voi non siete tenuti a darmi una mano. Anzi, dovreste lasciarmi agire per conto mio. Non posso trascinarvi in qualcosa di cui ancora non so nemmeno la portata” disse Sofia guardando dritta davanti a sé, dopo un momento d’intensa riflessione. Syd la guardò in modo enigmatico, mentre Leon rispose subito: “Non ci pensare nemmeno. Ci siamo dentro. Vogliamo aiutarti. Vero Fran?”. L’amico era trasalito, fifone di natura com’era, ma guardando Sofia negli occhi non poté far altro che dire: “Ma certo. Più siamo, meglio faremo” e abbozzò un sorriso mentre l’amico gli dava una pacca affettuosa sulla spalla. “Dovrò pure controllare Leo. Ho come l’impressione che ti seguirà in capo al mondo. E dove va lui, vado io. Chissà che potrebbe combinare senza di me. E poi… è il mio compito” disse Fran nascosto dietro quel sorriso scanzonato che si era impresso in volto.
“Io ci sto” aggiunse Syd che sembrava avere già un piano. “Tu puoi stare con noi solo se ci darai qualche informazione sulla tua Area e soprattutto sulle tue intenzioni” minacciò Leon guardandolo fisso. Syd si avvicinò pronto a controbattere. “Non essere così duro Leo” lo rimproverò Sofia. “Quando ti sentirai pronto potrai parlare” si rivolse con dolcezza a Syd, e lui tese le labbra in una smorfia di insofferenza voltandosi da un’altra parte; non riusciva proprio a capire quella ragazza. “Vi ringrazio, tutti” disse Sofia impercettibilmente. “Ma forse tutto tornerà a posto senza bisogno del nostro intervento” disse Fran in un’ondata di paura, poiché terrorizza ciò che non si può spiegare. I tre lo guardarono comprensivi e arresi a ciò che erano coinvolti. Anche Fran sapeva che non si poteva più tornare indietro. Non era sua la scelta. Era la realtà che si stava sgretolando e invocava il cambiamento, in bene, se fossero stati fortunati, in male se quella situazione non si fosse risolta. “Dovremmo separarci per qualche giorno”. Sofia guardò attentamente i suoi tre nuovi amici. “Ma non volevamo mettere a confronto i due libri e cercare di capire?” chiese Leon. Sofia guardò a terra pensierosa: “Non mi sembra il caso. Penso che dovremmo andare a riposare” parlò come se in realtà volesse dire altro, ma non lo fece. “Perché mai?” chiese Leon infastidito dal pensiero di separarsi. “Non sappiamo ancora come evolverà la situazione, né cosa dobbiamo fare. Penso sia meglio tornare alla nostra vita per qualche giorno e seguire gli sviluppi”. Poi la ragazza guardò il suo cellulare: “Oggi è giovedì. Ci ritroviamo sabato mattina, alle 8, qui al porto”. I quattro si scambiarono velocemente i contatti. “Non mi sembra una buona idea. Tuo nonno l’ha detto chiaramente: devi sparire,
perché sei in pericolo”, “Il nonno è andato” disse subito Fran punteggiando l’indice sulla tempia, ricevendo subito un’occhiataccia dall’amico. “Per ora non sappiamo cosa fare, non possiamo prevedere come degenererà. Non sappiamo cosa sia vero e cosa falso. Prendiamoci qualche giorno. Io starò attenta”. “Capisco che non possiamo fare altrimenti ora” sbuffò Leon. “Ha ragione lei. Diamo un po’ d’aria a questa situazione” aggiunse Fran. “Se dovesse succedere qualcosa, se tu dovessi avere qualche problema, chiama subito, d’accordo?”. Gli occhi azzurri di Leon si riempirono di ansia, le parole del professor Wisdom non potevano che essere vere per lui. “Sì. Grazie, lo farò”. Si separarono alla fine della strada e ognuno andò verso casa. Si voltarono titubanti più volte a cercarsi, come se avessero paura che non si sarebbero mai più visti.
“Ehi tu!”. Un’Ombra si era addormentata sulla scrivania e russava talmente tanto da essersi fatta notare dal supervisore. “Scusi signore. Mi si sono chiusi gli occhi due secondi”. “Lo spero proprio. Se accadrà di nuovo, verrai sostituito”. L’Ombra deglutì con angoscia. I capelli castani folti erano attorcigliati come se ci avesse dormito sopra a lungo, cosa che era successo veramente. Sulla fronte aveva il segno leggero lasciatogli da una penna su cui si era poggiato. “Spero di non aver perso qualcosa d’importante. O il Presidente me la farà
pagare”. Buttò giù una bevanda energetica, si stiracchiò e si rimise in ascolto, ma intorno c’era solo silenzio. Un silenzio ostinato, come quello della notte.
Syd imboccò la strada per ultimo, prese quella di Sofia e la seguì a una decina di metri di distanza, cercando di non farsi notare. La ragazza camminava il più vicino possibile alle luci artificiali, ma la notte, come è normale, la spaventava. A ogni rumore sobbalzava e si fermava a guardarsi intorno. Alcune parti dell’Area 1 erano meno sicure di quanto si potesse immaginare, ma lei non poteva far altro che attraversarle per andare a casa sua. I mezzi non c’erano a quell’ora, doveva confidare nella fortuna.
“Mi meraviglio che Leon non l’abbia accompagnata a casa” disse l’Ombra seduta alla sua postazione, saltando come Sofia e assieme a lei, a ogni minimo rumore che le arrivava agli auricolari, nitido come se fosse lì con la ragazza. In quel momento ripensò al Presidente e si chiese il perché di tanta insistenza nel voler seguire quella ragazza. Rifletté su quell’uomo, ne aveva sentite di storie su di lui; gli interventi punitivi, il suo esser riuscito a tagliare fuori gli altri uomini di potere per governare indisturbato. Aveva sentito persino che le squadre di controllo erano diventate molto più aggressive, al primo sospetto, correvano a minacciare il malcapitato, lo torturavano e, se necessario, lo imprigionavano. Degli uomini imprigionati, non si sapeva più nulla, forse finivano su altre isole di cui l’Area 1 non sapeva nulla, erano entità distinte che formavano una nazione anonima sotto il potere di un solo uomo. La donna inconsciamente rabbrividì. Non so come fosse prima la vita, ma noi nel complesso stiamo bene. Siamo al sicuro, e se il Presidente pensa che così ci possa mantenere al sicuro… ma ci credo sul serio? Non lo so, d’istinto sento che c’è qualcosa che non va in tutto questo: il controllo, un solo uomo al potere, vite controllate dai braccialetti sensori, gente svuotata e riempita dalla televisione, eppure non ho un altro modello da poter confrontare a questo. Come potrebbe essere questa nostra realtà? Cosa si dovrebbe cambiare? Forse è meglio smettere
di pensarci, tanto non accadrà mai rifletté, poi si guardò intorno impaurita, come se avesse paura che qualcuno avesse scrutato nei suoi pensieri, ma per fortuna erano tutti impegnati, vide gli auricolari bianchi attaccati alle tantissime teste accanto a lei. Prese dalla borsa un paio di caramelle gommose dello stesso colore dei suoi capelli, e iniziò a masticarle cercando di sfogare in quel gesto tutto il nervosismo accumulato assieme a quel senso di fastidio che l’aveva presa alla bocca dello stomaco. “Quell’uomo è cambiato. Prima non era così crudele e scostante. È sempre stato egocentrico e assetato di potere, ma mai così. S’interessava della sua nazione, era meno rigido. Cosa gli sarà successo? È stato il potere a ridurlo così? Può veramente arrivare a tanto? E poi, da quanto tempo è al potere?” disse ad alta voce. Non riusciva a ricordarlo. Sembrava lì da sempre.
Sofia raggiunse finalmente l’ingresso del suo edificio. Il tempo che ci aveva impiegato le sembrò infinito. Tirò subito un sospiro di sollievo, poi sentì un rumore non molto distante, capì, nello stesso momento in cui si stava voltando, che era sicuramente un gatto che zampettava nei dintorni, ma ormai guardava verso quella direzione. Fu proprio in quel momento che notò una figura nascosta dietro l’angolo, era Syd. Se ne stava con le mani in tasca a osservarla con sguardo teso, lei si sorprese e non capì il perché della sua presenza. Poi, appena sembrò volersi avvicinare, Syd sparì. Sofia si allargò in un sorriso. “Voleva assicurarsi che tornassi a casa sana e salva”, disse a bassa voce riuscendo a capire le azioni, per chiunque incomprensibili, di quello strano ragazzo, solo guardandolo negli occhi. Syd controllò bene dove la ragazza vivesse, ma era davvero per quello che l’aveva seguita? Strinse la costina del libro che spuntava dalla borsa come a rassicurarlo. “Non ti preoccupare” gli sussurrò prima di andare via. Sofia rimase ancora un istante sul marciapiede freddo e si voltò un’ultima volta, era sicura delle sue intenzioni.
“Grazie” sussurrò al vento, poi entrò in casa saltando i gradini di ingresso in un solo balzo.
Sofia salì in punta di piedi le scale e s’infilò in camera sua. Crollò sul letto di peso, quella giornata era stata lunga e piena di avvenimenti, sperava di riuscire a prendere sonno. Rimase a fissare il soffitto stringendo il bordo morbido del piumone. Le ombre della notte si proiettavano attraverso la finestra sui muri spessi della stanza, distorcendo le sue sensazioni e lo stesso ambiente che ora appariva sconosciuto, quasi surreale. “Domani andrò a scuola come sempre e vedrò come la gente sta affrontando quest’assenza. Sì ok, grave, ma non è un terremoto per fortuna. Questa è una realtà senza parole, come si potrà affrontarla?”. Pensò a come dovesse essere il mondo prima: gente libera che viaggiava in aereo verso mete sconosciute, senza nessun tipo di controllo, e invidiò con tutto il cuore quelle persone, poi per un istante sperò che dopo quella guerra potesse tornare ogni cosa al suo posto. Ricordò le parole del nonno sull’egoismo e l’ingordigia di un tempo: “Perché non ci può essere un equilibrio fra quel tempo e questo? Perché si a sempre da un estremo all’altro?”. Desiderava dei cambiamenti: “Questa realtà non è la conseguenza della guerra ma del mondo precedente, di quegli uomini. Non voglio che si torni né al principio di questo mondo, del dominio, né alla sua conseguenza. Voglio un mondo nuovo che non sia né quello vecchio né tanto meno quello di ora. È questo che i libri cercano di dirci? Che è ora che arrivi un cambiamento? Ma se la guerra è stata scatenata per perfezionare ancora questa realtà, come potrebbe mai portare qualcosa di buono? Deviando e disturbando il loro piano e le loro azioni, potremmo rovesciare la situazione a nostro favore, forse”. La mente di Sofia si stava annebbiando dal sonno e iniziò a sentirsi confusa, ava da un’idea all’altra… “La fuga delle parole è una punizione, visto come le trattiamo. L’immagine ha completamente preso il sopravvento, questo sarà un modo delle parole per
ribadirlo? È una punizione… è la guerra giusta per il nostro tempo, ritagliato su di noi e sui nostri atteggiamenti. E ora abbiamo un mondo come tutti lo desideravano, senza parole e solo con le immagini. Come sarà possibile vivere così? Saremo come muti, rinchiusi in una bottiglia di vetro, isolati dagli altri. Come si può comunicare solo con le immagini?”. Sofia tremò sotto le coperte, nonostante non fe freddo e le tirò fino su il naso, rabbrividita da un sentore di allarme. “È colpa mia” sussurrò mentre il confine fra inconscio e conscio si iniziò a confondere.
“Si sono incontrati”. “Era ora”. Marin era stranamente agitata. “Sento il legame”. “Com’è normale che sia”. “Dessel piantala. Tutta quella sicurezza mi fa agitare ancora più di quanto non lo sia già”. “Cosa vuoi che ti dica? Mi meraviglio che ci sia voluto tanto. Il padre di Syd era già venuto a cercarla”. “Ma ormai non è più lui il custode”. “Esatto. Lui si è sempre sforzato di resistere al legame. E quando ha ceduto, per il bene di suo figlio, non ha potuto far altro che lasciargli il libro”. “È qui per questo. Altrimenti non sarebbe mai venuto”. “Sarebbe arrivato comunque. Ha dovuto prendere il libro. Il legame è troppo forte”. “E perché allora stai agendo in questa maniera?”. Marin a volte non riusciva a capirlo.
“È l’unico modo per metterlo sulla via giusta”. “E se decidesse l’altra strada?”. “Vorrebbe dire che non è chi pensiamo sia”, esitò per un attimo “e Sofia sarà morta”. “Non lo permetterò mai”. “Ora. Ma dopo cosa farai? Dopo dovrà succedere, se vogliamo essere liberi”. “Forse. Te l’ho già detto cosa penso” disse bruscamente. Marin si strinse più forte nella piccola sfera dorata. Era lì dentro da così tanto, che non credeva più di essere realmente viva. Si sentiva morta da decenni ormai… Ma Sofia l’aveva risvegliata del tutto. Sentiva che ci potevano essere delle speranze, perché quella ragazza era diversa. Era sicuramente lei.
CAPITOLO 8
La responsabilità che tiene prigionieri
Fa troppo male non essere indifferenti, lasciarsi coinvolgere. Fa troppo male restare a terra, è per questo che volavo via da bambina ignorando chi mi stava accanto, e lo faccio da sempre. Ho capito sin da subito che sulla vita non ci può essere controllo, che basta chiudere gli occhi e non sentire le urla disperate degli altri, per sopravvivere. Il rumore incessante dell'esistenza mi spaventa. Mi sembra di vederli gli ingranaggi che scricchiolano mentre si muovono in continuazione portando avanti la vita, permettendo al mondo di restare in piedi, di rigenerarsi attraverso di noi, il nostro movimento, succhiandoci energia, prosciugandoci in questo perenne divenire, fino a quando, stanchi, noi chiudiamo gli occhi e veniamo abbandonati in un campo, secchi e immobili come una piantina prosciugata dal sole. E non si può fare altro che camminare. Perciò, se devo camminare per forza, voglio farlo a occhi chiusi e a orecchie tappate, quando lo desidero, senza preoccuparmi delle piante che crollano intorno a me falciate dalla vita, stroncate prima del necessario, o torturate dalla grandine che le piega. Voglio circondarmi di una pellicola resistente e spessa, che appanni la mia vista quando lo voglio, e otturi le mie orecchie, mi isoli dal mondo, mi isoli anche da me, da quello che sono e che non voglio essere, oppure che voglio essere ma che non sono. Desidero guardare a terra e alzare gli occhi solo quando ne ho voglia, spostarli non appena ciò che vedo non mi piace. Non muovere un dito se non per me stessa e per le poche persone che ormai mi sono dentro, che hanno strappato la pellicola e si sono scavate un cunicolo sin nel profondo, molto prima che potessi proteggermi. Ora la pellicola è la mia pelle, è tutt’una con me, e niente può toccarmi. Forse neanche io stessa. Desiderio di controllo…
Sto bene così, sto bene. Vivere e allo stesso tempo non vivere. Indifferente ma presente. Come mia madre. Indifferente verso gli altri e verso me. Una me che vuole fluire senza problemi, interni e esterni. Senza analizzare ogni suo movimento, ogni suo o. Una me che non vuole responsabilità. Sono cresciute, lo so, una crudeltà e un odio che si sono fuse con il mio organismo. Da me stessa come posso proteggermi? È una piantina malata e contorta che si nutre di catrame, di buio, e si fa sempre più forte. È una me che combatte un’altra me che non è mai esistita, o che forse c’è sempre stata, quando ero bambina, prima di comprendere mia madre, prima che mia nonna se ne andasse. E la ricordo, mia nonna. In piedi su un balcone, che stende panni profumati e che cammina goffa per la strada. La ricordo e voglio dimenticarla. L’ho fatto non appena, sofferente, è stata strappata via da un colpo di falce, all’improvviso. E non l’ho pianta. Mai. È per questo che ora sono marcia, sono marcia dentro.
… È un foglio di carta stropicciata in un cestino, che aveva scritto una notte di getto. Ma la sua regola era chiara. Nessuna analisi, mai. La ragazza aveva ato un colpo di spugna, osservando la sua bella pellicola ora ancora più lucente aggrappata alla sua pelle, intorno alla sua anima. Sofia si addormentò solo alle prime ore dell’alba, pensando proprio a quel foglio. Si rotolò a lungo nel letto per l’ansia di quei pensieri, prima di riuscire a prendere sonno.
La mattina seguente, sua madre, ancora mezza addormentata, era entrata in camera per svegliarla e le aveva subito chiesto con una nota di rimprovero. “A che ora sei rientrata?”.
“Buongiorno mamma” rispose lei, poi si strofinò gli occhi stordita “non tardi”. Per un momento si sentì incredibilmente riposata e soprattutto serena, aveva dimenticato, come spesso succede al risveglio, cosa stava succedendo. Poi la attraversò una scossa di ricordo che la riportò alla realtà, si voltò di scatto verso il comodino su cui si trovava il libro, allungò una mano rilassandosi e chiese: “Com’è la situazione fuori?”. “La gente sta cercando di tornare alla normalità ma è quasi impossibile, la situazione è troppo strana…” rispose e poi scese in cucina, mentre Sofia cercò di prepararsi velocemente, nonostante il sonno. Voleva tornare attiva il prima possibile, come se questo potesse risolvere il problema. Scese un quarto d’ora dopo e trovò la madre seduta in cucina con davanti qualche biscotto smangiucchiato e una tazza di caffè quasi non toccata. “Buongiorno” le disse la ragazza facendo finta di niente, come se non si fossero ancora viste quella mattina, forse per scongiurare una qualche critica che sicuramente sarebbe arrivata. Poi si stiracchiò soddisfatta, come se avesse dormito lungamente. “Buongiorno, di nuovo”, le rispose guardandola con sospetto. “Perché sei uscita senza avvertire?”. “Avevo un’urgenza ma ho risolto” rispose vagamente lei strofinandosi gli occhi ancora assonnati. “Sono stata in pensiero”. “Perché? Sono solo uscita” disse guardandosi intorno come se dovesse ancora realizzare cosa fare. “Perché?” disse indispettita e infastidita dal sentirsi trattare con tale accondiscendenza, come fosse una cretina. “Sai più che bene perché, non fare la furba. Non ti puoi permettere di uscire senza avvertire” aggiunse inserendo una nota di minaccia nelle sue parole. Sofia notò il dispiacere impresso sul suo viso. “D’accordo” disse facendo due i verso il frigo, “mi dispiace di non averti detto che sarei uscita”, si scusò
immobilizzandosi per un istante, con la mano stretta alla maniglia dello sportello. Sua madre sembrò rilassarsi alle sue parole, lo notò con la coda dell’occhio. La ragazza prese il latte e lo versò in una tazza capiente ricoperta di margherite rosse, poi prese una scatola di cereali senza nome, su cui un orso si stagliava sul verde intenso del cartone, e si sedette davanti alla madre, dimenticandosi il cucchiaio. La madre la fissò ancora arrabbiata, ogni tanto arricciava il naso come se fosse in dubbio su qualcosa, forse era la tranquillità mostrata dalla figlia a turbarla, forse l’istinto che non gliela raccontasse giusta, ma non sapeva che, nonostante Sofia apparisse così rilassata, dentro era un groviglio di ansie, un tumulto di sentimenti. “Non hai la tv?”. “No, non la voglio vedere”. La donna si sedette, sembrava stanchissima, come se non dormisse da giorni. Sofia scosse impercettibilmente la testa pensando Mamma, tanto dovrai sapere cosa sta accadendo. Non puoi isolarti dai problemi come fai di solito. Stavolta riguarda tutti noi, accese lo schermo mentre prendeva dal cassetto un cucchiaio. L’orso sulla scatola senza parole la fissava minaccioso, lei distolse lo sguardo, infastidita. Lasciò cadere i cereali al cioccolato nella tazza, senza badare alla quantità, e fissò la tv. Ogni stazione era saltata, solo una era visibile, ed era il canale nazionale, come al solito il più attivo e pressante. Vide le due antipatiche facce dei presentatori cianciare senza sosta. Odio questo canale, pensò Sofia sbuffando. In effetti, era l’unico che proprio non guardava mai. Lasciò scivolare il cucchiaio colmo nella tazza mentre cercava di trovare con testardaggine altri canali funzionanti. “Niente da fare” disse a mezze labbra, mentre la madre invece, sembrava essersi imbambolata.
Solo tg. Si stanno adattando velocemente pare, pensò Sofia di stucco, cercò di non scomporsi e trangugiò un’altra cucchiaiata di cereali, masticando rumorosamente mentre fissava i due telecronisti dall’aria antipatica. “Il canale si è sforzato di eliminare ogni parola dallo schermo o meglio, non hanno dovuto fare proprio niente perché erano state le stesse parole ad averlo abbandonato, così come ogni altro o”. Sofia s’impressionò per quella assenza. Notò lo sforzo dei reporter nel non inquadrare cartelli o scritte, cercando di rendere il più normale quei servizi con un flusso di parole ininterrotto. Eppure la loro assenza si sentiva lo stesso e anche i giornalisti apparivano più nervosi che mai, a volte si bloccavano o balbettavano senza la sicurezza di un foglio scritto in mano. Quale sarebbe stato il o successivo? La parola sarebbe sfuggita anche dalla bocca delle persone? Rabbrividì al pensiero di un mondo di muti. La madre continuava a fissarla come se le volesse chiedere qualcosa. Sofia si meravigliò della sua ostinazione. Non riusciva a credere che non gli avesse ancora chiesto del nonno, di suo padre. Eppure era evidente che stesse resistendo. Forse immaginava che stesse bene, visto che Sofia non ne aveva parlato. Non poteva essere una custode pensò sostenendo il suo sguardo. Ed è meglio che sia così. Perlomeno sarà al sicuro. Fu allora che notò alcune cose che stonavano: il tostapane aveva una piccola crepa su un angolo, e se fosse stato solo questo non si sarebbe preoccupata più di tanto, ma vide che anche il forno e la televisione, e tutti gli oggetti avevano una piccola ferita aperta che prima non c’era. “Mamma, che è successo?” disse indicando il tostapane. “Cosa? La crepa sul… sul… tosta…” farfugliò lei sforzandosi di trovare le lettere giuste. “Il tosta…”. Sofia cercò di non dare a vedere la sua preoccupazione e lo sbalordimento, rimase a guardare sua madre in silenzio, mentre le dita cercarono istintivamente la piastrina. “Tosta… pane!” disse infine quasi sputando la parola, le guance le si erano arrossate per lo sforzo. “Non mi veniva proprio” disse abbozzando un sorriso imbarazzato. “Succede” intervenne la figlia rispondendo con una risata che voleva essere sbarazzina ma che apparve invece nervosa. Lasciò cadere la sua domanda nel
vuoto. Poi salì le scale di corsa: “Vado su a finire di prepararmi. C’è sicuramente scuola oggi”. Appena entrata in camera, d’istinto tentò di riaprire alcuni dei suoi libri, sapendo bene che la situazione non poteva essere migliorata. Si sedette sul letto sfatto con la fronte poggiata sui palmi delle mani e cercò di ritrovare la lucidità. E se questa cosa fosse solo l’inizio? Ripensò agli oggetti crepati in cucina, a sua madre che non riusciva a pronunciare la parola tostapane. “No” disse alzandosi di scatto, “stavolta sto vedendo qualcosa che non c’è. Preoccupiamoci di una cosa alla volta”, sussurrò a se stessa raccogliendo la borsa da terra e svuotandolo dai quaderni. “Oggi libri e quaderni non serviranno di sicuro” si disse sospirando. L’unico libro che lasciò dentro fu quello di cui era custode, non era intenzionata a lasciarlo da qualche parte. “Verrà sempre con me” disse. Ebbe in quel momento la tentazione di aprirlo, ma lasciò stare, si fece scivolare la fascia sulle spalle e uscì avvertendo la madre. “Ciao Sofi”. Martha era seduta sui gradini di casa sua, saltò in piedi non appena la vide. “Ciao” rispose lei senza slanci. “Scusami tanto per ieri, ero terrorizzata” disse subito tutto d’un fiato. “Non ti preoccupare. Capisco se non vuoi farne parte” rispose Sofia scendendo i gradini e andole accanto. Non era veramente arrabbiata, comprendeva i timori dell’amica. Se avesse potuto, anche lei se ne sarebbe tirata fuori. “No, io voglio farne parte” disse l’amica alzando gli occhi da terra. “Sul serio. Voglio aiutarti, siamo sempre state una squadra”. Sofia era felice di sentire quelle parole dalla sua più cara amica, ma in cuor suo avrebbe voluto che si fosse tirata indietro, non sapeva che portata poteva assumere tutta quella situazione, ora che era diventata la custode di quel libro e che forse era in pericolo. Chissà il nonno come sta si chiese all’improvviso Sofia. Le aveva detto di non cercarlo ma come poteva farlo? Tornò poi con i pensieri verso l’amica che era ritta davanti a lei, conosceva bene la sua testardaggine. Guardò i suoi occhi che non ammettevano cedimenti: “D’accordo”.
Lei si rilassò. “Non sei più arrabbiata?”. “Non ero arrabbiata. Sei sicura di volermi aiutare?” chiese ancora. “Sì. Certo” rispose con decisione e la abbracciò. Sofia poggiò la guancia sulla sua spalla e si rilassò a quel contatto, chiuse gli occhi per qualche istante ringraziando di avere ancora la sua amica vicino e sperando che non le accadesse niente.
“Sembra tornato tutto quasi normale qui” disse Fran sussurrando mentre osservava le persone camminare all’interno delle linee luminose, impettite e silenziose come al solito. “Non proprio. Non noti la tensione nella gente? Guardale” indicò. “Ora che me lo fai notare, sembrano pezzi di legno che camminano” commentò Fran. “Proprio così. E poi la città è piena di squadre di controllo. Non le hai viste?”. Lui annuì. Le persone, come al solito, avano la piastrina del braccialetto all’ingresso di un’Università che sembrava non essere mai stata chiusa, né circondata dai nastri della polizia. La città nella notte era stata ripulita dalle cartacce, i giornalai erano chiusi, i cartelli sempre senza lettere, mentre i cartelloni digitali erano spenti. Ovviamente gli schermi erano accesi. Leon vide la gente procedere come faceva ogni giorno, ma senza nessun oggetto in mano: niente tablet, iphone o giornali. Era presto perché si organizzassero in tal senso. Il ragazzo si chiese come avrebbero fatto a sopperire alla mancanza della parola in tutti quei i, sarebbero usciti dei giornali con le sole immagini? “Probabilmente lo sapremo molto presto” si disse. Il mondo sembrava adattarsi al cambiamento con tremenda velocità.
Leon deglutì. “Che succede? Sei diventato bianco come un lenzuolo” disse subito Fran che notò il cambiamento di umore. “Non lo so… è che provo all’improvviso una grande angoscia. Guardati intorno, sono tutti così… immobili. Era più naturale la situazione di ieri, c’è stata una reazione forte. Come dire… ”. “La gente sembrava viva come non appariva da anni. Viva e interessata alla sua vita e a ciò che la circondava” intervenne Fran inquadrando perfettamente il suo pensiero. “Esatto. E da una parte, nonostante il caos e il terrore, è stata una cosa positiva. Pensavo avesse dato una scossa a questa gente, un motivo di cambiamento. E invece guardali”. I due si fermarono a osservare la fila di persone ai rilevatori d’identità. Rimasero in silenzio a lungo, poi si guardarono entrambi afflitti, non erano necessarie altre parole. “Ricordi quando ci fu il secondo blackout? Eravamo già abbastanza grandi” disse di colpo Leon. “Non parli di quello di 17 anni fa”. “No, eravamo troppo piccoli, scemo! Di quello di 10 anni fa”. “Ah, sì. Lo avevo rimosso”. “Ricordi cosa successe?”. “Sì”. Leon serrò le labbra, preso dallo stesso pensiero dell’amico, poi ripercorse tutta quella storia dall’inizio alla fine. Ricordò il blackout, durante quella sera d’inverno, e i braccialetti che non funzionavano. Ripensò alla gioia della gente che si riversò nelle strade e che fu poi catturata o costretta a tornare in silenzio nelle proprie abitazioni. Le squadre di controllo sembravano essere comparse dal nulla. A loro si mescolavano altre persone, vestite in modo diverso, come se venissero da una terra lontana. Anche loro erano sbucati dal nulla. D’istinto Leon, che aveva solo 9 anni, era corso verso il ponte che collegava stabilmente
l’Area 1 e l’Area 2 e che era vietato attraversare, se non agli agenti. Lo spettacolo che vide lo pietrificò: un fiume di persone stava percorrendo il ponte con torce e con le armi che erano riusciti a recuperare. Si dirigevano proprio lì, nella sua Area. Leon iniziò a tremare, non aveva mai assistito a un tumulto del genere. La sua vita, così come quella dei cittadini dell’Area 1, e di tutto Panopticon, presupponeva, era sempre stata pacifica, controllata, e tutti loro erano abituati a questo clima repressivo ma rilassato. Gli abitanti erano stati abituati sin dalla nascita a obbedire, ad accettare la realtà così come gli era stata presentata. Ma quella folla lo costrinse a mettere tutto in discussione. Si chiese: “Cosa vogliono? Perché stanno venendo qui? Sono stati loro a causare il blackout?”. Per la prima volta considerò un fatto, che forse non erano poi così felici. Gli agenti si riversarono sul ponte in gran numero, tirando un telo bianco che lo coprì completamente. Quando rientrarono, di quegli uomini che erano sul ponte non c’era più traccia. Non si vedevano che quelle uniformi bianche, tanti puntini impazziti che cercavano rapidamente di cancellare le prove. Portarono via i corpi su grossi camion, e Leon, che si era nascosto a osservare, corse via. Corse in mezzo agli agenti che ormai infestavano le strade, sperando di non farsi notare. Il ragazzo riuscì persino a scorgere, pochi metri più avanti, il Presidente dare ordini. Il Presidente Reik in persona, non l’aveva mai visto da così vicino; s’imbambolò un attimo, e in quel momento un agente lo prese. “Lasciami, lasciami” urlò subito. Stava andando a casa, aveva tentennato solo un minuto e si era dimostrato fatale. Il Presidente fu attratto dalle urla. “Scusi signore. L’ho trovato qui che se ne stava a guardare”. Il Presidente si avvicinò stupito. “Cosa ci fa lui qui?” chiese guardandolo fisso per alcuni lunghissimi istanti, o almeno a Leon sembrarono tali, vista la paura
che aveva provato. Stavolta l’aveva combinata grossa. Era stato un bambino irrequieto, pieno di curiosità. Ripensando a quella storia gli venne da chiedersi da quando era diventato così calmo e pacato, così rassegnato. Forse poteva essere quello il termine giusto. Rassegnato, come se qualcosa dentro gli si fosse spenta di colpo, e aspettasse solo qualcuno che andasse a premere l’interruttore. Il giorno precedente aveva sentito di nuovo qualcosa. Sofia l’aveva risvegliato, aveva premuto quel bottone. Si sentiva carico e attivo come non mai. “Riportatelo dalla madre, veloci” disse poi il Presidente di colpo, e gli voltò le spalle. Rimase fermo così fino a quando lui e l’agente non sparirono tra la folla bianca. Leon non aveva mai visto la madre così furiosa, ma non gli importava, perché aveva assistito a qualcosa di incredibile, e iniziò a pensare che le altre Aree di cui si parlava ogni giorno in televisione, non erano poi così in pace come volevano mostrare. Desiderò con tutto se stesso di capire chi ci vivesse, e come. Da piccolo voleva fare l’esploratore, e se avesse potuto… avrebbe attraversato anche subito quel ponte. Negli anni successivi, ci tornò spesso vicino a quel ponte. Solo a guardarlo, come se quel desiderio fosse ancora lì da qualche parte dentro di lui. La notte poi, dopo che la madre lo aveva sgridato a dovere e messo a letto, un’ondata di pace lo aveva invaso, affievolendo le intenzioni, intorpidendo la mente e i ricordi, fino a farlo addormentare. Il giorno dopo, tutto era tornato come prima. La rivoluzione non era mai esistita e il guasto tecnico era stato risolto. Il braccialetto, infatti, era tornato a essere stretto e soffocante. Il giorno successivo conobbe Fran, per questo ricordava bene quella notte. Sembrava che fosse stata quella rivoluzione notturna a portarlo con sé, come un dono improvviso. Leon fece scorrere i ricordi e tornò ai più recenti. Pensò alla serata appena ata, al professore con il polso sanguinante. Se è arrivato a staccarselo, di sicuro è certo di quello che dice, pensò Leon. Quando Fran gli chiese con un cenno a cosa pensasse, lui si limitò a indicare il braccialetto e gli scanner all’ingresso e l’amico capì.
Meccanicamente entrarono nell’Università, ando la piastrina, come tutti gli altri. Nei corridoi era sparita ogni traccia di carta, niente volantini o manifesti. Le bacheche, così come i muri, erano completamente vuote, escludendo gli schermi che erano pronti ad accendersi in simultanea. Notò solo degli scatoloni chiusi nell’atrio, dei fattorini esterni li stavano distribuendo alle varie ali. “Cosa ci sarà lì dentro?” sussurrò Leon all’amico. “E chi lo sa? Ma lo sapremo presto. Vedrai”. Una squadra di controllo di sei persone ò loro accanto con il solito o ritmato e meccanico. I due si voltarono a guardarli avanzare nelle loro divise bianche chiedendosi cosa ci fero all’interno dell’Università. “Solitamente non entrano”. “Vorranno accertarsi che sia ritornata la calma, che sia tutto sotto controllo”. “Con tutte queste squadre che ci girano intorno e che ci minacciano con la loro presenza, come potrebbe non essere altrimenti? Dobbiamo stare calmi per forza, che diavolo”. “Ssst, non aggiungere altro. Entriamo Fran”. Nell’aula B2, gli studenti erano già tutti seduti. Chiacchieravano tra loro come se niente fosse. “Com’è possibile che se ne stiano tutti così tranquilli?” chiese Fran sbalordito. “Non lo so proprio” rispose Leon e fu da un pensiero. “Tu stanotte sei riuscito a dormire?”. “A essere sincero non ho quasi chiuso occhio. Ho guardato l’orologio alle tre, e all’improvviso mi sono addormentato”. “Alle tre?” disse sorpreso. “Anch’io. Alle tre mi sono subito addormentato”. Leon si avvicinò a una delle file di banchi e chiese a un gruppetto ben assortito: “Ragazzi voi come avete ato la notte?”. Loro si sorpresero della domanda ma era buona educazione rispondere.
“Io ho dormito. Ero molto stanca” disse una ragazza dai capelli neri. “Io invece non riuscivo a prendere sonno, ma verso le tre mi sono sentito intorpidito e la stanchezza mi è caduta addosso. Stamattina stavo notevolmente meglio” rispose un altro che sembrava non voler smettere di parlare. Una terza persona lo interruppe e diede le sue impressioni: “Anch’io verso le tre ero stanchissimo, nonostante avessi già dormito ieri pomeriggio”. “Grazie a tutti” disse Leon e trascinò via un ignaro Fran per il braccio. “Diavolo, lasciami” continuava a ripetere lui, stropicciandosi i capelli. “Cosa ti prende ora?”. “Ma come, non hai ancora capito?” disse Leon guardandolo con rimprovero e con una punta di ansia. “Alle tre come ti sei sentito?”. “Improvvisamente stanco, come se mi avessero dato una dose di calmante” disse Fran che ricordò la sensazione. “Appunto. Ne abbiamo parlato poco fa… ricordi?”. Fran spalancò gli occhi inquadrando un pensiero. “Mi stai dicendo che…”. Leon prese la parola, non voleva lasciare il piacere della scoperta all’amico, del resto era sempre stato lui il più sveglio fra i due. “Esatto. Ci hanno drogato. Te lo dico io” sussurrò. “Non te la prendere amico. Quando vuoi, sai essere anche tu estremamente intuitivo” disse a Fran per alleggerire la situazione, abbozzò un sorrisetto compiaciuto, ma all’amico in quel momento non interessava la vittoria o la sconfitta. “E come hanno fatto? Poi tutti quanti? Non è possibile” meditò. “Potrebbero aver spruzzato qualcosa mentre eravamo in piazza. Ecco perché ci hanno fatto riunire lì. Non hai visto come la protesta è scemata?” disse aggrottando le sopracciglia e spalancando la bocca per la sorpresa. “Sì, può essere. Non ci avevo pensato”. Leon si appoggiò sui gomiti: “Ma non solo”. Nascose il viso dietro le mani. “E cos altro…”. Fran era sconvolto.
“Alle tre ci siamo tutti addormentati. Abbiamo chiesto a un solo gruppetto di ragazzi ma sono sicuro che se chiedessimo a qualcun altro ci risponderebbe nella stessa identica maniera. Alle tre siamo crollati”. “Alle tre ci hanno drogato” Fran lo sussurrò, le parole non erano riuscite ad assumere intensità. Rimase con gli occhi fissi a terra. “Proprio così”. “E come cavolo… oh” disse Fran colpito da un’illuminazione improvvisa. Indicò il braccialetto. “Sì. Esatto” rispose Leon. “Diavolo è proprio così. Non può essere altrimenti”. Fran alzò lo sguardo e finalmente notò l’espressione dell’amico, era fuori di sé dall’agitazione. Gli occhi azzurri erano spalancati dietro agli occhiali e gli tremavano le mani. La voce calma e analitica che aveva da sempre, era tradita dalla sua espressione, dai suoi gesti. Si morse il labbro sino a farlo sanguinare e si guardò il braccialetto con insistenza e una certa incredulità. Era inebetito dalla scoperta, quanto Fran. In quell’istante desiderò staccarsi quel braccialetto dal polso. Anche se lo indossava sin dalla nascita e non era mai stato senza, né gli aveva mai dato fastidio, all’improvviso avvertì che gli si stringeva ancora più forte al polso, e si sentì soffocare, come se si trovasse intorno al suo collo. Una catena pesante che lo legava stretto a terra, senza che potesse liberarsene. Sentì il respiro mozzarsi. Prese a tirarlo con forza e il sangue schizzò sulla maglietta e a terra. “Fermati. Leo fermati subito!” gli urlò Fran paralizzato dalla reazione. “Non puoi toglierlo. Fermo, ti farai solo male” gli disse ora allungando le mani per bloccargli i gesti. “Maledizione, maledizione” urlava Leon colpito da un attacco di panico. Iniziò a boccheggiare, si mise le mani alla gola come se gli si fosse improvvisamente chiusa, cambiò colore, mentre il sangue scivolava sul collo e sul braccio. L’aula si era fatta silenziosa. Fran notò che tutti li stavano guardando a occhi sbarrati, con il terrore e il disgusto impressi in volto. Due ragazzi, seduti in
prima fila, erano balzati in piedi, indecisi se agire. Erano bianchi e realmente spaventati. Solo allora Fran notò quanto sangue uscisse dalla ferita dell’amico e d’impulso lo trascinò, ancora senza fiato, fuori dall’uscita di emergenza. “Respira, respira” gli disse con voce calma. L’amico ritrovò il colorito e riprese coscienza di sé. “Non so cosa mi sia preso” disse fissandosi il polso. “Ora va meglio”. “Infatti, cosa diavolo ti è preso? Lo sai che la piastrina è attaccata alla pelle e in profondità, è praticamente tutt’uno con noi. Non puoi pensare di staccarla. Non così almeno. Non hai visto il professor...” disse Fran interrompendosi e distogliendo lo sguardo, sembrava stesse riflettendo su qualcosa. “A cosa pensi?”. “A tempo debito, amico mio” gli rispose, mentre Leon tornò a respirare normalmente, tirò fuori dalla tasca un fazzoletto e si asciugò il sangue dal polso, poi dal collo. “Non lo fare mai più. Mi hai fatto prendere uno spavento!” disse Fran sbiancando; tutto il coraggio e la fermezza di prima svanirono in un istante. “Scusa, non succederà più” fece una pausa Leon. “Non pensavo che questi braccialetti… potessero anche iniettare sostanze. È una cosa incredibile. Sino a ora credevo che venissero controllati gli spostamenti, ma mai avrei potuto pensare che potessero influenzare anche le emozioni. Ti rendi conto a cosa si potrebbe arrivare un giorno? Al controllo completo della mente. Una mente, un’individualità pensante a cosa gli serve?”. “Non credo succederà molto presto”. “Questo lo dici tu. Forse non hanno ancora trovato il modo”. “Non ne parliamo Leo, non si sa mai”. Fran era prudente. Leon entrò in aula a testa alta e fissò negli occhi ogni persona che lo guardava con curiosità, facendo in modo che si girassero dall’altra parte. “Che diavolo avranno da guardare” commentò Fran.
I due amici si sedettero al loro posto e aspettarono l’insegnante. Erano sicuri che il professor Wisdom sarebbe stato sostituito, e così accadde. Un uomo sulla cinquantina, dall’aria stupida e affannata, piombò in aula e iniziò a blaterare senza sosta; si presentò, poi, senza l’ausilio di libri, iniziò a spiegare una lezione, su Dante. Tutti notarono quanto si sforzasse di non aprire i suoi libri, che, nonostante fossero inutilizzabili, si era portato dietro. A volte il professore impugnava il pennarello e si voltava verso la lavagna, scordandosi che nessuna lettera si sarebbe fissata sulla sua superficie. A ognuno di quei movimenti, gli studenti trasalivano, non avevano bisogno di nessun altro che gli fe ricordare in che situazione si trovavano a vivere, anzi, volevano velocemente dimenticarlo, e su questo si concentrarono con tutte le loro forze. Nessuno aveva tirato fuori libri, quaderni, penne o matite, erano tutti liberi da zaini e prestavano la massima attenzione per assimilare più informazioni possibili. Nella fila davanti alla sua, Leon notò un ragazzo intento a disegnare le informazioni che gli venivano date, cosa che gli riusciva piuttosto bene. Quando il professore spiegò la struttura dell’inferno di Dante, mimando con grandi gesti in aria ciò che non poteva scrivere, sembrava non voler azzardare a disegnare, credendo, forse, che non ne sarebbe uscito comunque nulla. Il ragazzo, invece, tracciò senza esitazione un cerchio dentro l’altro, senza scrivere il nome dei gironi ma disegnando dolci in quello dei golosi e via dicendo. Sembrava divertirsi un mondo e a Leon spuntò un sorriso, come se si fosse improvvisamente rilassato. Il polso però gli doleva molto, se lo strinse più volte. In quel momento pensò a Sofia, anche se in realtà quel pensiero non l’aveva mai abbandonato. Per tutto il tempo si era chiesto insistentemente: “Starà bene? Come starà reagendo? Vorrei vederla…”. Poi fu distratto da un particolare, toccò appena l’amico indicando il cestino e in sequenza la cattedra: “Hai visto?”. Fran strinse gli occhi per mettere bene a fuoco poi si ritrasse. “Cosa diavolo…” disse senza concludere. I due si guardarono perplessi. Entrambi si chiesero per quale motivo quei due oggetti mostrassero delle crepe su un lato, poi Fran indicò anche i banchi e le sedie, che avevano lo stesso problema. Non sapevano spiegarselo, ma capirono che era tutto collegato. Si drizzarono sul posto quasi
all’unisono, ogni traccia di rilassamento era sparita e nuove angosce si facevano largo, silenziose, dentro di loro. Il professore catalizzò poi la loro attenzione. “Dan…Dan…” lo sentirono pronunciare. “Dan…” ripeté mentre sulla sua fronte gli stava comparendo una vena per lo sforzo. “Cosa gli prende?” sussurrò Leon a Fran, che stava zitto a osservare come tutti; sembravano essere stati presi da una sorta di timore reverenziale, nessuno voleva finire la parola, o rischiare di mettere di cattivo umore il supplente. Uno a bassa voce disse all’amico ridacchiando: “Tra questo e il professor Wisdom non si sa chi sia più rimbambito”. “DANTE” disse finalmente urlandolo, ma la parola gli era uscita come un rantolo confuso e ingarbugliato, si sedette alla cattedra tastandosi la fronte con un fazzoletto, mentre cercava le parole giuste per continuare. Il professore si alzò rosso in volto, più per la vergogna che per lo sforzo, sentì, infatti, ridacchiare più di uno studente e sembrò confuso su come riprendere il discorso che aveva interrotto. Guardò più di una volta l’orologio e fu sollevato quando pochi minuti dopo finì la sua ora di lezione. Uscì a testa bassa senza dar retta alle domande di alcuni studenti, che avevano come unico obiettivo quello di metterlo in difficoltà. Il ragazzo, che aveva sussurrato qualcosa all’amico poco prima, si stiracchiò annoiato sulla sedia e prese la parola: “Hai vis… vis…”. L’amico scoppiò a ridere: “Ottima imitazione”. “Hai vis… vis…” continuò a ripetere. “Sì, sì amico, ho capito. Sei un mago, saresti un balbuziente perfetto. Potresti farlo all’esame, così il supplente ti potrà prendere a calci e bocciare al volo. Già vedo la sua faccia”. Intanto dietro di loro, Leon e Fran assistevano alla scena, pallidi in viso. “Non è co… non è co…”.
“E va bene. Ora piantala” disse l’amico con tono da spaccone, il volto gli si era indurito in un’espressione arrabbiata e timorosa allo stesso tempo. “Non è così” riuscì finalmente a dire, sputacchiando sul banco, poi si coprì la bocca con una mano e divenne di ghiaccio. L’amico notò il suo sbigottimento e iniziò a scuoterlo. “Tutto bene? Ehi ci sei?”. Solo allora il ragazzo capì chiaramente che prima l’amico non stava scherzando. “Non mi venivano le parole” disse sussurrandolo quasi a se stesso. “E vabbè, su. Non farne un dramma. Succede. Dopo tutto, lo shock di questa situazione può creare dei lapsus” cercò di rincuorarlo, non sapendo però che stavolta era totalmente fuori strada. Leon e Fran si scambiarono uno sguardo preoccupato. “Hai dormito stanotte? Forse sei solo stanco” chiese all’amico che aveva balbettato. “Sì, mi sono addormentato verso le tre, ma ora mi sento più stordito che riposato se devo essere sincero” rispose. Il piede iniziò a battere senza sosta sul pavimento piastrellato. “Tornatene a casa. Stasera ti vengo a raccontare la lezione io, tranquillo” lo incoraggiò lui, poi gli diede una pacca sulla spalla e lo costrinse ad alzarsi. Lui si allontanò ancora bianco in volto. Leon e Fran rimasero in silenzio a riflettere, poi il primo disse: “Hai visto?”. “Sì… la cosa peggiorerà”. “È tutto collegato. Le lettere che scappano via, le crepe sugli oggetti, le parole che non vengono” abbassò lo sguardo sul tavolo. “Diavolo, non può peggiorare con questa velocità”. “Io penso di sì. Il professore non si era sbagliato”. Leon guardò Fran, che fu costretto ad ammettere che forse aveva ragione.
“Comunque staremo a vedere”. Pensò a Sofia, se il professore aveva ragione, Sofia era realmente in pericolo, e l’amico lo lesse nel pensiero. “Dovremmo riportare queste osservazioni domani, e controllare che la ragazza stia bene”. Entrambi avevano deciso solo con uno sguardo che non avrebbero mai nominato il suo nome, per sicurezza. “Sì, lo faremo”. Si spostarono nella nuova aula. “Capisco che abbia bisogno di prendersi il suo tempo per pensare, o che lei crede che non essendosi fatti vivi fino a ora, non lo faranno neanche in queste ventiquattro ore, ma il tempo lo sento stringersi sempre di più”. Leon si guardò intorno: “Se qui fuori le cose precipitano, anche chi cerca quel libro affretterà le sue ricerche e la prenderà” concluse serrando la mascella. Dopo pochi minuti si sedettero ai posti verso la metà della sala, per venire incontro sia al bisogno di Leon di stare davanti, sia a quello di Fran di stare il più dietro possibile. Un uomo sulla quarantina li venne a cercare. Non lo avevano visto spesso, era uno di quelli che lavoravano all’interno degli studi del preside. Quando uscirono dall’aula, trovarono ad aspettarli due omoni dall’aria truce, non due semplici uomini, ma due agenti di controllo. Fran iniziò a esitare, ma Leon lo sosteneva con lo sguardo. Non abbiamo niente da temere, sembrava dirgli. Cosa vorranno? si ripeteva insistentemente l’amico in testa. “Saranno già venuti… no, è impossibile”. Quegli individui li fecero accomodare in uno studio vuoto, intorno le librerie erano state liberate, e fu quello a dare alla stanza un’aria abbandonata e trascurata. L’unico fattore che donava un po’ di sollievo a quelle pareti scarne e tristi erano dei raggi di luce intensa che entravano da una finestra, posta proprio al centro del muro di fronte all’ingresso. I due amici furono invitati a sedersi su due sedie di legno poste sul lato sinistro,
mentre gli omoni rimasero in piedi a osservarli, senza aprire bocca. Se quello era un modo per innervosirli, beh, ci erano proprio riusciti. Leon sembrava imperscrutabile, li guardava fissi, apparentemente tranquillo, ma Fran notò come giocherellava con una penna che aveva tirato fuori dalla tasca. Lui invece puntellava con il piede sul pavimento, distogliendo ogni tanto lo sguardo, per poggiarlo fuori dalla finestra e perdersi nel cielo azzurro, come se avesse paura di non rivederlo. “Allora” disse quello più vicino alla porta, mentre il secondo se ne stava a braccia conserte, “abbiamo saputo da fonti anonime che siete dei potenziali sovversivi. Che cosa avete da dire a vostra discolpa?”.
CAPITOLO 9
La paura nascosta dentro una stanza
Quando finì di riassumere all’amica tutto quello che si era persa, Martha prese fiato come se fosse stata lei a parlare senza sosta e non Sofia. L’amica si era completamente dimenticata, in quegli istanti, della paura che qualcuno le ascoltasse. Era talmente curiosa di sapere la storia e di farsi perdonare, che era ata sopra a tutto. Non posso essere una tale fifona, si era rimproverata mentre usciva di casa. “Quindi, tu sei la custode del libro”. “Esatto”. “E puoi ipoteticamente risolvere questa guerra, sempre usando i termini di tuo nonno”. “Esatto”. “Guerra che potenzialmente è stata scatenata dai libri stessi”. “Questo siamo tentati di credere. Ma non ne siamo sicuri”. “Poi c’è questo ragazzo misterioso che è comparso dal nulla, che ha un libro come il tuo”. “Esatto” disse lei mentre Syd allungò la testa senza riuscire a sentire bene, solo il suo nome era arrivato alle sue orecchie. “E questo Syd ti piace molto”. “Esat… cosa dici?” si agitò. “Ah, ah, ah, sei proprio buffa”.
“Buffa un corno! Ma con cosa te ne esci?”. Syd sobbalzò per la sorpresa. L’ultima frase l’aveva sentita forte e chiaro. Stranamente fu colto da un’ondata di calore e il suo cuore per un istante si contrasse, come se si fosse improvvisamente fermato. La cosa lo fece innervosire. “Al diavolo. Che mi prende?” si rimproverò dando un calcio all’albero e ritrovando nuovamente il controllo. “Figurarsi, una ragazzina di questo tipo una custode!” si disse imprimendosi bene in mente le prime impressioni che aveva avuto di lei, quelle che risalivano a prima che iniziasse a conoscerla. Come se gli servissero a riacquisire quel distacco iniziale di cui tanto sentiva di aver bisogno. Poi riaprì il libro per ricordarsi la sua missione. Scorse le pagine fino all’ultima, in cui c’era scritto: “Devi uccidere Sofia”. Guardò la frase intensamente, come se il rileggerla gli avesse mozzato il fiato, e quella sparì. Improvvisamente quel suggerimento che gli era rimbombato in testa non c’era più, forse era proprio quello che avrebbe voluto, ma neanche ci fece caso. Poi si concentrò nuovamente sulla pagina bianca e la scritta ricomparve all’istante. “Che scherzi mi fai, eh?” disse lui al libro rimproverandolo, poi sbuffò rumorosamente e non fece in tempo a tornare sulle due ragazze, che se le ritrovò davanti. “Che ci fai qui Syd?”. “Oh, e così è lui. Carino!” disse Martha maliziosamente, e la frase fece avvampare per un momento il ragazzo, che riassunse poi subito la sua espressione tirata. “Ti stavo seguendo”. “Beh, grazie tante, l’ho notato” rispose lei in tono sarcastico. “E perché la seguivi?” chiese Martha. “Oh, che sbadata. Sono Martha comunque, piacere”. Allungò la mano: “Ah, e se vuoi seguire me, sei liberissimo di farlo” gli disse con sguardo ammiccante, mentre Sofia la bruciava con gli occhi. “Senti, non puoi seguirmi in questo modo” urlò lei con voce indispettita, più per il comportamento della sua migliore amica che per Syd, in fondo non le dispiaceva che lui la stesse spiando.
“Non volevo dare fastidio” rispose lui faticando a tirar fuori le parole. Maledizione, non dovevo farmi beccare, pensò, ora come farò a… “Allora? Che ci fai qui?”. Devo fare buon viso a cattivo gioco, rifletté ancora prima di rispondere. “Non ho un posto in cui stare” disse infine ciò che era un tentativo di rabbonirle ma anche la verità. Le due si guardarono: “Hai dormito qui sotto casa?”. Sofia inarcò le sopracciglia, lui annuì. “Dovevi dirmelo e…”. “E cosa? Avresti ospitato un tizio qualunque sbucato dal nulla?” chiese pieno di una rabbia fuori luogo. Sofia non seppe cosa rispondere. “Ehi, calmo. Non c’è bisogno di urlare” lo rimproverò Martha. L’amica ritrovò le parole: “Se me l’avessi detto, avremmo trovato una soluzione”. “Non mi fido di nessuno”. “Sì, l’ho capito ma…”. “Ma niente. Fatevi gli affari vostri” disse infastidito con tono duro, poi si voltò e sparì dietro l’angolo. “Che caratterino” commentò Martha. “Già” sospirò Sofia mentre lo guardava allontanarsi. “Ehi, che fai? Ti stai preoccupando? Quello è un ragazzo di strada. Se la saprà cavare”. “Lo spero”. “Stai tranquilla. Tanto fra un po’ ce lo ritroveremo dietro”.
Le due amiche imboccarono la strada per andare a scuola. Per fortuna Martha era ata molto presto da Sofia, non aveva resistito al desiderio di scusarsi il prima possibile né alla curiosità di sapere com’era andato il pomeriggio prima, quando era fuggita via come una vigliacca. Se la presero comoda, mentre Syd era alle loro spalle. Aveva, infatti, fatto il giro dell’edificio. All’ingresso della scuola il controllo identificativo era attivo e gli studenti avano con il loro braccialetto come se niente fosse successo. Le due amiche si stupirono di quell’ostinata tranquillità, che donava all’atmosfera un che d’inquietante e malsano. Nonostante la città fosse tornata tranquilla e cercava di abituarsi ai cambiamenti, niente poteva negare che le parole erano sparite; ogni cosa su cui Sofia posava gli occhi, lo ricordava, anche se tentavano di nasconderlo. I teleschermi erano tutti spenti, sia fuori sia dentro la scuola, la maggior parte delle insegne e dei cartelloni erano stati rimossi. Le pareti interne dell’edificio erano pulite e splendenti, la biblioteca di classe era vuota, la gente quella di sempre. Molti sorridevano come se niente fosse. Senza parole, senza libri, sarebbe così facile sottomettere un popolo, dominarlo, indottrinarlo secondo un proprio sistema d’idee. Sarebbe possibile programmarlo. Senza che la singola persona possa trovare un altro riscontro, se non nella realtà che gli viene presentata e che è costretto ad accettare. Realtà che può essere ricreata, volta per volta, senza punti fissi, senza che nessuno possa opporsi alla verità che hanno davanti agli occhi. E come potrebbe? Senza libri, senza parole, non c’è ato. Sofia rabbrividì a quei pensieri lasciandosi guidare in classe dall’amica, che era sorpresa quanto lei. Sofia le afferrò il polso, come se la terra sotto i suoi piedi si stesse agitando; per un attimo aveva perso l’equilibrio. “Ma che succede? Hai visto? Nessuno si sta preoccupando di nulla” disse Sofia. Sembrava che Martha, a ogni tocco di Sofia, fosse più cosciente della situazione, mentre gli altri se ne stavano inebetiti nell’ombra a evitare il problema, perché era così che il potere voleva.
“Oh, non me lo dire. Ieri ero così preoccupata che non riuscivo a prendere sonno. Poi verso le tre sono crollata come un sasso, e stamattina sto notevolmente meglio”. “Sì, io pure verso le tre. Ora che ci ho dormito su, la situazione non mi sembra poi così terribile”. “Sicuramente il Presidente riuscirà a risolverla” disse una biondina dall’aria poco sveglia. “Ma anche se non ci riesce si adotteranno soluzioni alternative”. L’amica confermava con un sorriso forzato, mentre i suoi occhietti da volpe si guardavano intorno. “Beh, ci sono sempre le immagini no?” aggiunse un loro amico infilandosi nella conversazione. “Alla fin fine si sa che la gente le preferisce” disse ridacchiando occhi di volpe. È proprio per questo, probabilmente, che le parole sono fuggite via, cretine, pensò Sofia superando quel gruppetto. Capì molto presto che quasi tutti la pensavano allo stesso modo. “Ciao ragazze” salutò il latinista col viso imbronciato. “Ciao” risposero all’unisono senza entusiasmo le due amiche. “Mi dispiace per ieri” disse Sofia subito e lui capì che era sincera. “Tranquilla. Capisco” rispose poco convinto, tirando su la cinghia dello zaino che gli stava calando dalla spalla destra. “State bene? Avete una faccia!”. “No, è solo che qui nessuno sembra preoccuparsi della situazione”. “Quale situazione?” chiese cadendo dalle nuvole, mentre le due si guardavano allibite. “Come quale situazione, ti sembra tutto normale? Senza parole?”.
“Ah, quella storia”. In quel momento al ragazzo sembrò che gli mancasse il respiro, ma un’ondata di calma lo fece di nuovo rilassare, si tastò la piastrina del braccialetto con le punta delle dita, mentre un’ondata di finto benessere invase l’aula. “Si risolverà. La nostra città alla fine è ancora in piedi, no? Sono sicuro che il Presidente saprà aiutarci. Comunque pure se non ci riuscisse, l’altra storia è risolvibile, anche se rimanessimo senza, in qualche maniera ci arrangeremo”. “Ma cosa diavolo dici?” urlò Martha facendo girare mezza classe. Stringeva il polso di Sofia come a prendere coraggio. “Solo esami orali, sai che pacchia? Sapete quanto odio gli scritti” disse con un sorrisetto il ragazzo guardando Sofia e sperando di farla sorridere, invece lei rimase tesa al suo posto. In classe calò il silenzio e le due amiche si guardarono intorno sentendosi responsabili ma aspettando che qualcuno venisse a dar loro man forte. Nessuno si mosse. Entrambe si sorpresero dell’ottusità dei loro compagni, così come di tutti gli altri. Nessuno sembrava riuscir a comprendere la gravità della situazione e gli sembrò innaturale. Persino gente in gamba come il latinista occhialuto, con cui spesso aveva portato avanti scambi d’idee più che interessanti, sembrava non arrivarci, come se fosse stato drogato. “Drogato… drogato…” si disse a mente, riflettendoci su, fino a quando l’insegnante non entrò in aula e fu costretta a sedersi al proprio banco. Restò assente per tutto il resto delle ore successive. Guardò i suoi compagni, perlopiù sdraiati sui banchi, fissare la cattedra senza entusiasmo: molti di loro sicuramente si chiedevano come avrebbero fatto a memorizzare tutte quelle informazioni senza scriverle. Altri si divertivano a scarabocchiare sui fogli. Sofia era l’unica, con Martha, a provare una forte inquietudine di fronte a quell’indifferenza. Anche di fronte al pericolo l’uomo è indifferente, si disse, basta che qualcuno li convinca di questo e la gente gli va dietro senza riflettere per proprio conto. È più semplice fingere che vada tutto bene, è più facile non pensare proprio. Del resto usare la testa il più delle volte porta sofferenza, pensò, poi affondò il viso tra le mani. Drogato… ma certo, ne sono sicura. E se potessero in qualche modo somministrare, tramite le piastrine, delle sostanze calmanti o cose simili? In
fondo questi braccialetti ora fanno così parte di noi, sono attaccati alla nostra carne fino in profondità, continuò a pensare. La schiena si tese e un’ondata di panico la fece vacillare. “Devo calmarmi” disse, poi fece un enorme respiro e cercò di seguire il resto della lezione, ma la tentazione di guardare fuori dalla finestra era sempre più forte. Alla fine della lezione di due ore, sentì alcuni compagni discutere sugli insegnanti. “Come faranno d’ora in poi? Non possono preparare o riare le lezioni. Dovrà essere già tutto nella loro testa. Pensa che difficoltà!”. “Mamma mia, non ci avevo pensato”. “Pensa al professore d’inglese, che già a malapena riesce a insegnare con il libro sotto mano”. “Ah, ah, ah, chissà come farà?”. “Beh ci sono sempre i video. Scemi, è ovvio che guarderanno quelli. I video funzionano ancora”. “Già, è vero. Tutte quelle collane uscite”. “Fra un po’ finirà che gli insegnanti non ci saranno proprio più e ci lasceranno chiusi in aula a vedere video” disse sorridendo uno. “Magari fosse vero!” Il compagno ridacchiò, mentre gli altri due non aggiunsero altro. Fosse solo questo il problema, che già è piuttosto grande, si disse Sofia ascoltandoli, poi ripensò alle crepe sugli oggetti, alla madre che balbettava e s’incupì. “Ehi Sofi. Non ti abbattere. Anche se siamo le uniche a vedere realmente come vanno le cose, non vuol dire che non riusciremo a uscirne” le sussurrò. “A voler vedere le cose” la corresse Sofia. “Già”.
Martha si voltò a osservare amareggiata i suoi compagni e sospirò, poi si rizzò sul posto. “Sofi, hai visto la cattedra?” chiese e le indicò con lo sguardo il punto esatto. Sul lato destro c’era una crepa, lo stesso era successo al muro sotto le finestre, persino i banchi avevano delle crepe. Ciò che la mattina aveva notato a casa si rifletteva in tutta la loro realtà. Sofia prese per un polso l’amica e la invitò a uscire. Si mossero verso il bagno a o lento. Martha continuava a fissare l’amica pendendo dalle sue labbra. “Insomma cosa succede?” chiese senza trattenersi. “Non lo so, ma ho notato proprio stamattina a casa, che gli oggetti della cucina erano tutti crepati. Immaginavo ci fosse qualcosa di strano, ma non credevo che la cosa si fosse diffusa ovunque”. “Ma cosa cavolo vuol dire? Perché gli oggetti si crepano?”. “Non ne ho idea…” disse stringendosi nelle spalle. “Che cosa può fare un libro contro tutto questo?” Quella domanda si faceva strada tra i suoi pensieri con insistenza. “Sevo avere fiducia. Devo avere fiducia” ripeté più volte. Una voce nel corridoio le fece voltare: “La lez… la lez…” disse la professoressa di filosofia che Sofia tanto apprezzava. Le due ragazze uscirono dall’aula per andare incontro a quel suono disarticolato. “Che ti prende?” chiese il suo collega. “Lez…” disse spalancando gli occhi e stringendosi la gola con le mani. “Lez… LEZIONE”. L’interlocutore sobbalzò. “Meglio se bevi un bel bicchiere d’acqua” commentò lui e poi, ingobbito come sempre, si allontanò verso la sua aula: la camla era appena suonata. “Hai visto?” disse con un filo di voce.
“Sì” rispose Martha con gli occhi ancora fissi nel corridoio, “è collegato?”. “Sì, credo lo sia”, esitò un istante. “Stamattina è successo anche a mia madre”. “Non le venivano le parole?”. “Esatto” disse stringendo le labbra in una smorfia. “Cosa significherà? E se… se…” disse Martha bloccandosi, era troppo terribile dar voce a quel pensiero, era meglio lasciarlo sopito ancora per un po’, continuare a sperare che non sarebbe successo. Le due tornarono in classe, mute. Ognuna chiusa nei propri pensieri, anche se erano gli stessi.
“Sì, pronto, chi parla? Postazione 5047. Sono l’Ombra che si occupa di…”. “Lo so chi sei” disse una voce dura all’altro capo del telefono. Lei la riconobbe subito, senza bisogno che si presentasse. Ormai chiamava molto spesso. “Quindi?”. “Nessuna novità” disse la donna iniziando a sudare per la tensione. “Ne sei sicura?” le chiese ancora mentre le sembrava di sentir tintinnare qualcosa tra le sue mani. “Sicurissima”. “È più stupida di quanto credessi” disse sospirando. Proprio lei avete scelto, eh? Che imbecilli. Vi sarebbe andata meglio con il vecchio, pensò divertito, stringendo il suo ciondolo tra le mani. “Finché non lo attiva, non posso farmi vivo. Spero solo che l’abbia veramente lei. Ma chi altri potrebbe avercelo?” si chiese. Poi scoppiò in una sonora risata. Uno strumento così potente nelle mani di una ragazzina, rise ancora al pensiero, sarà già tanto se riuscirà ad attivare il legame. L’Ombra si ritrasse dalla cornetta.
Il Presidente, senza salutare, attaccò subito e la donna si sciolse sulla poltrona. Sospirò. “Ho capito che quella ragazza è importante”, si disse, “non me la sento di consegnarla a quell’uomo. Posso solo immaginare cosa potrebbe arrivare a farle”, continuò lei, mentre seguiva con attenzione i movimenti della sua assegnata, mossa sì dal lavoro, ma anche da una sorta di affetto misto a curiosità. Sapeva di rischiare non avvertendo il Presidente di quello che stava ascoltando in quei giorni, ma, nonostante avesse mille dubbi e timori, qualcosa le impediva di tradirla. Intanto, nella sua stanza il Presidente rifletteva sul da farsi e fu preso di nuovo dai dubbi; quando non aveva in mano il suo libro, si sentiva tremendamente insicuro. Potrebbe darsi che la ragazzina non sia stata informata, forse non ha neanche ricevuto il libro. Quel maledetto vecchio non vuole parlare e non ha né il ciondolo né il libro. Alzò la mano e lasciò scivolare il suo tra le dita fino a tenerlo per la catenina, lo fece oscillare lentamente come se in questo modo riuscisse a riflettere con maggiore concentrazione. Con l’altra mano stringeva un bicchiere di liquore scuro che sorseggiò avidamente. Prese il ciondolo tra le dita e lo incastrò nella fessura corrispondente, lasciando le altre due vuote. La catenina venne risucchiata dal piccolo oggetto. L’uomo guardò con disappunto il triangolo ancora incompleto, poi si strofinò la fronte con il palmo, in un gesto nervoso, e spinse via il libro, fino al margine della scrivania. Scosse la testa per ritornare in sé. “Se l’ombra mentisse e la ragazzina invece sapesse, peggio ancora, se avesse anche il libro e il ciondolo già da tempo, più del tempo necessario ad attivare il legame… sarebbe un bel problema”, buttò giù un altro sorso di liquore serrando le labbra in un’espressione infastidita, “lo scoprirò molto presto”. Il libro catturò il suo sguardo e non lo lasciò andare per moltissimi minuti. Il Presidente rimase imbambolato, stregato dalla sua copertina, come un povero insetto rimasto incastrato in una ragnatela, pronto a diventare il pasto di chi l’aveva intessuta.
Durante la pausa pranzo, Sofia e Martha, così come tutti gli altri studenti della scuola, si riversarono nella sala che si trovava nel cuore dell’edificio, al piano terra, dove un tempo, si diceva, ci fosse uno splendido giardino rigoglioso che donava fresco durante l’estate grazie ai suoi alti alberi. Ora di quel giardino non era rimasto nulla, tutto cemento, una città intera sommersa dal cemento in cui la natura sembrava aver difficoltà ad attecchire, o forse si rifiutava di farlo. “Cosa c’è oggi?”, Martha strusciò il braccialetto su uno dei segnalatori posti sui lati, e sul muro comparve riflesso il suo menu per quel giorno. “Niente di allettante”, la scritta violacea scomparve subito e lei si allontanò con aria triste. Lo stesso fecero gli altri, mettendosi in fila sulle linee che marcavano il pavimento piastrellato. “Che schifo” sbuffò Sofia dopo aver ritirato la sua razione per il pranzo. Vide molti altri visi poco soddisfatti, ma non ci badò molto. Succedeva quasi ogni giorno. Le due amiche si sedettero al solito tavolino, all’angolo della sala, quello più vicino alle finestre, e con loro anche Steven e Claire. Capitava raramente che qualcun altro pranzasse insieme a loro, che sembravano sempre chiuse nel loro mondo, ma forse in quel momento così strano, in cui gli eventi stavano prendendo il sopravvento sulle persone, c’era bisogno di comunità, di stare vicini, come se questo li potesse salvare dal pericolo o scacciarlo. “Ciao ragazze. Vi dispiace se ci uniamo?” chiese Steven con in mano un vassoio pieno di cibo. “No” risposero entrambe sorprese e un po’ infastidite. Il menu del loro amico era decisamente migliore del loro. “Tanto mi sarei seduto anche senza il vostro permesso” disse il latinista ridacchiando e smorzando quel tono serio, mentre raddrizzava il vassoio storto. “Ah ecco. Mi pareva. Tutte quelle buone maniere”, commentò Martha mettendosi comoda. “Ah, ah, vero, tu non sai cosa siano le buone maniere”. Steven, che fino a quel momento stava ridendo, sembrò rimanere male al commento di Sofia, e s’imbronciò buttando giù un pezzo di pane che aveva strappato a morsi. “Su, non dire così, che il nostro latinista se la prende. Non è vero?” disse Martha
con un sorriso che cercava di infastidirlo. “Tu proprio non puoi Sofia” aggiunse, visto che la reazione non era stata quella sperata. “Ok. Abbiamo capito. Piantala adesso” disse arrabbiato mentre lei sfoggiava il suo sorriso malizioso, e Claire si irrigidì tristemente deglutendo. Aveva lanciato al ragazzo uno sguardo da spezzare il cuore, ma lui neanche se ne era accorto, troppo preso a capire se Sofia avesse colto qualcosa che evidentemente era chiaro come il sole a tutti, tranne che a lei. Sofia si era già distratta, completamente disinteressata ai commenti, e Steven si afflosciò sul posto. La sua espressione era così triste e afflitta che Martha si pentì di averlo punzecchiato e di avergli chiarito ancora una volta che Sofia a lui proprio non ci pensava. Sofia intanto teneva la borsa con il libro sulle gambe e ogni tanto allungava una mano inconsciamente per controllare che ci fosse ancora. “Che guardi?” chiese subito Martha. “Nulla, scusate” rispose sbrigativa girandosi verso di loro per un istante; i suoi occhi si erano fissati sul ragazzo seduto pochi tavoli più in là, che aveva il polso della piastrina ben fasciato. “Chissà cosa gli è successo” domandò ad alta voce, sprofondando sempre più nelle sue supposizioni. “Chi lo sa’” rispose Steven dopo aver ingurgitato un bel pezzo di carne. “Che invidia”. Martha stava sbavando alla sola vista di quei piatti. “Cosa?”. “La carne, imbecille” rispose, mentre Sofia sprofondava sempre più nei suoi pensieri. “Beh ragazze mie, si vede che avete il colesterolo…”. “Al diavolo. È un’ingiustizia” bofonchiò Sofia tornando tra di loro. Il profumino che emanava il piatto dell’amico la teneva ancorata a quel tavolo e alla sua fame.
Non fece in tempo a formulare nessun altro pensiero. Successe tutto in un istante: una squadra di controllo entrò nella sala. Sofia riuscì a scorgere quasi solo delle macchie bianche indistinte che si precipitavano dentro, poi mise a fuoco. Molti saltarono in piedi, facendo cadere vassoi e bevande, altri erano talmente spaventati da non riuscire a muovere neppure mezzo muscolo. Steven era rimasto con una forchetta a mezz’aria, mentre Claire piangeva silenziosamente: la presenza degli agenti sembrava terrorizzarla. Due dei sei uomini alzarono di peso proprio il ragazzo fasciato, torcendogli il braccio con forza. Il rumore che l’osso fece, a causa di quel movimento improvviso, fece impallidire la maggior parte dei presenti, d’altronde scene di violenza non accadevano spesso. Sofia sembrò gonfiarsi pian piano di rabbia. “Non ho fatto niente” urlò il ragazzo ignaro. “E questo?” chiese un anonimo agente tirando in alto il polso. “È stato un raptus, un incidente, non volevo… ahi, mi fate male” disse singhiozzando con dolore; il corpo era contorto in una posizione innaturale, mentre la mano dell’uomo continuava a stringersi sulla ferita, fino a quando il sangue non bagnò la fasciatura e un rivolo rosso non scese giù per il braccio, sgocciolando a terra. “Questo è quello che succede a chi prova a toglierselo” urlò l’uomo alzando ancora più in alto il braccio del ragazzo, e poi strinse con così tanta forza da farlo svenire. Gli altri agenti gli legarono il laccio elettrico ai polsi, come se potesse fuggire e lo osservarono compiaciuti. Stavano per prenderlo a calci quando Sofia balzò in piedi urlando: “BASTA! State esagerando”. “Taci ragazzina”, uno fece per avvicinarsi ma l’altro lo fermò. “Non abbiamo tempo”. “Sei fortunata” disse contrariato, “la prossima volta ti darò una bella lezione”. Sofia non indietreggiò, continuò a guardarlo fisso con disgusto, anche quando si
voltarono per andare via. Quando gli agenti uscirono trascinandosi dietro il ragazzo, una scia di sangue macchiò il pavimento bianco, e un ragazzo vomitò, mentre altri due caddero in ginocchio, nauseati. L’odore della carne bruciacchiata dal laccio si mescolava a quello della mensa, creando un’aria pesante e quasi insopportabile. Gli altri si girarono e ripresero a parlare come se niente fosse successo. Così anche i tre raggiunsero i loro posti, e come loro fecero quelli che si erano mossi o che erano ammutoliti. Tornarono tutti nella loro posizione iniziale, come se il tempo avesse subito un’inversione di alcuni minuti. In un baleno il silenzio di terrore in cui era caduta la sala pranzo, si colmò di nuovo con il chiacchiericcio allegro dei presenti. Sofia era rimasta in piedi, attonita, non si era ancora ripresa dalla scena, ma ciò che più l’aveva bloccata e che le aveva tolto il respiro, era stata la reazione dei suoi compagni. Era come se non fosse accaduto nulla, in un minuto era tornato tutto normale, come se qualcuno avesse dato un colpo di gomma su un foglio pieno di segni ingarbugliati e profondi. Sofia si voltava a destra e sinistra, cercando dai suoi compagni un contatto, una risposta, ma nessuno la guardava e la sua voce si rifiutava di uscire. Le mani le tremarono mentre continuava a indugiare sulla sala, poi fissò lo sguardo sul tavolo a cui era seduto il ragazzo, lo spazio lasciato vuoto fu prontamente colmato, la sua presenza fu cancellata. Per tutti quel ragazzo non era mai sceso a pranzo. Ma la scia di sangue era ancora lì a terra. Avrebbe voluto urlarlo. Martha si alzò e si sedettero insieme. “Che cosa ci succede? Ma hai visto?”. Sofia era sconvolta, guardò il tavolo amareggiata. “Non mi sorprendo” rispose Martha. Lei era più meravigliata dalla reazione di Sofia che dal resto. “È normale” aggiunse Steven sereno, mentre Claire aveva già ripreso a pranzare, anche se bianca in volto. Sofia li guardò a occhi spalancati e prese a grattarsi la piastrina.
“Sei stata coraggiosa” le disse dolcemente Martha, andole una mano sulle spalle, anche nel tentativo di smorzare la sua ansia. “E hai visto i risultati?” replicò con voce rotta Sofia. “Ti sei presa troppi rischi. Non è il caso che tu ti faccia notare” le sussurrò l’amica all’orecchio. Ma lei sembrò non averla sentita. “ A voi sembra giusto quello che è successo?”. “No, non lo è” disse tranquillamente Steven, “ma che ci possiamo fare?” rispose e poi mise in bocca un pezzo di carne che masticò con convinzione davanti a Sofia rimasta a bocca socchiusa, afflitta per l’indifferenza degli altri. “Secondo me è giusto invece” si unì Claire, “se uno trasgredisce, è giusto che sia punito”. Sofia stava per rispondere che era quello che chi deteneva il potere aveva insegnato a pensare, ma Steven s’intromise: “Non è neanche la prima volta che succede. Lo hai dimenticato?”. “Ma ti sembra un buon motivo? Questo ti basta a farti abituare ad assistere e ad accettarlo? Sembrate cancellare la cosa automaticamente quando succede. È così che pensiamo di proteggerci? Quanto potrà durare? Questa volta è stata molto più violenta delle scorse. Quando potrà ancora peggiorare? E a quel punto che faremo, oltre a ignorare la cosa?”. “Shh, basta parlare” disse Claire, guardandosi intorno come se qualcuno la stesse spiando, e lo stesso faceva Martha, che le lanciò uno sguardo esaustivo. “Non è il caso di continuare”. Martha si tese sulla sedia. “Sì” rispose Sofia tristemente, con un groppo in gola che non voleva svanire. Claire si rivolse a Martha e le disse che aveva sempre paura che qualcuno ascoltasse quello che diceva, quella frase le uscì da bocca come se avesse bisogno di liberarsi per un attimo da quel fardello, vero o falso che fosse. Martha aveva annuito convinta: “Sì, lo penso anch’io”. “Questo è quello che vi vogliono far credere. Come si può parlare se non fate altro che pensare che ci ascoltino? Smettetela” bofonchiò innervosita.
“Ma è così. Abbassa la voce. Secondo te come hanno scoperto che quel tipo aveva cercato di strapparsi la piastrina?” domandò Steven. Sofia rispose subito: “Non si sarà identificato stamattina”. “L’ho visto farlo” disse Steven asciutto. “Qualcuno avrà fatto una segnalazione” insistette Sofia. “Sai bene che non succede così spesso. Le persone non vogliono entrare in contatto con il potere, e non c’è più gente così fanatica o che appoggi con tanta forza…”, si bloccò. Stava dicendo, pensò Sofia, che appoggi con tanta convinzione il potere. “Molti invece lo fanno con convinzione, basti vedere Claire. Non capisco se è perché le è stato fatto il lavaggio del cervello dalla famiglia, o se ne è sul serio convinta”. Se veramente ci ascoltassero, esitò, sarebbero già venuti a prelevarmi, pensò Sofia. “Ti ricordi in quinta elementare?” chiese Martha abbozzando un sorriso prima divertito, poi tirato. “Oh, so a cosa ti riferisci. Anche a me è venuto in mente” aggiunse Steven. “Cosa?”. “La gita scolastica” disse semplicemente Martha per non entrare nei dettagli, all’improvviso intimorita. Ricordava con dolcezza quel periodo ma non capì perché aveva tirato fuori quel ricordo, forse per lanciare a Sofia una sorta di avvertimento? Nessuno proseguì, si pentirono tutti di aver rivangato quel giorno. Sofia si grattò la piastrina, e il latinista, notando quel gesto, non riuscì a trattenersi dal commentare: “Tu più che allergica alla piastrina, sei allergica al controllo. E la gita ne è stata proprio l’esempio” disse, mentre Martha e Claire si irrigidirono sul posto, guardandosi intorno come se si aspettassero di nuovo l’ingresso di quegli uomini. Poi però risero tutti insieme.
Sofia continuò a rifletterci su e si divertì a ricostruire quel ricordo, godendo di quell’emozione di euforia che si provava così di rado a Panopticon. “Quel giorno avevo sfidato il sistema” iniziò a raccontare a se stessa come se fosse un’altra persona in ascolto. “Avevo deciso di non are la piastrina nel rivelatore. Ero solo una bambina, perciò la cosa era stata più per scherzo e curiosità, che per altro, ma in sé forse già agitava e irrobustiva il seme del mio disagio. Non la sopportavo allora quella piastrina, quanto non la sopporto ora. Partimmo per la gita e non m’identificai, era talmente un’abitudine radicata farlo che le maestre avevano smesso di controllare già da molto tempo. Salii sul pullman in silenzio e aspettai una reazione. Quando videro la squadra di controllo calcare il terreno ripido che portava in cima alla collina dove c’eravamo fermati a riposare, sbiancarono. Gli uomini in bianco, come li chiamavo, mi portarono in disparte e mi ammonirono, mentre io, dopo averli osservati con sguardo ostile, misi su un’espressione da cucciolo cui nessuno avrebbe potuto resistere. Loro sicuramente lo avrebbero fatto, se non avessero pensato che l’azione era stata semplicemente una bravata. Così, dopo avermi ricondotto tra gli altri, urlarono che nessuno doveva dimenticarsi della piastrina, perché chi avrebbe disobbedito, sarebbe stato portato in prigione, cosa che a me, per stavolta, era stata risparmiata. Conoscendo quanto fossero importanti quei braccialetti, nessun bambino aveva mai tentato di non identificarsi. I genitori li imbottivano di raccomandazioni e minacce, pur di salvaguardarli. Nessuno sapeva bene cosa succedesse a chi non s’identificava. Ma per quanto mi riguardava, sono stata benone”.
CAPITOLO 10
Il lato oscuro di tre anime irrequiete
Leon e Fran se ne stavano muti e impazienti di fronte ai due uomini della squadra di controllo, chiedendosi il motivo preciso per cui erano stati prelevati. “Ci avranno ascoltato? Sanno del libro? Oppure hanno visto Leo cercare di strapparsi il braccialetto?”. Fran era un fascio di nervi, eppure riusciva a mantenere un atteggiamento sicuro, quasi da duro, anche se sarebbe scappato a gambe levate alla prima distrazione della squadra di controllo. A Leon sudavano i palmi delle mani, e un brivido freddo si era incollato alla sua schiena. Con la manica cercava di coprire la ferita già ben nascosta, sapendo che ormai era inutile; era, infatti, già convinto di essere stato portato lì per quello. Ora finalmente scopriremo cosa fanno a chi cerca di staccarsi il braccialetto, si disse con, sul volto, un sorriso quasi di sfida, fuori luogo per la situazione in cui si trovavano. Eppure, da quando era scoppiata quella strana guerra, tra l’essere umano contro un evento sconosciuto e incontrollabile, Leon aveva mostrato un coraggio e una sicurezza che non aveva mai avuto, se non tra le quattro mura dell’Università. Questo suo modo di reagire era stato per lui qualcosa di positivo, anche se, forse, sarebbero morti tutti. Ma a questo, ora, non ci pensava. Gli uomini in divisa bianca si ostinavano a non parlare, stavano adottando la tecnica dello sfinimento psicologico. Uno di loro mosse la mano sul laccio elettrico, mentre l’altro accarezzava con il palmo la pistola agganciata alla cinghia, come se cercasse di intimorire i ragazzi senza are all’azione. Volevano una confessione. Ma nessuno dei due ragazzi cedeva, rimasero a guardarsi per un tempo che gli sembrò interminabile.
“Dunque?” disse infine Leon sotto lo sguardo, ora terrorizzato, di Fran. Un ghigno gli calcò il viso e di colpo non sembrò più lui. L’uomo non ci pensò due volte e si piegò verso lui prendendolo per il collo e alzandolo dalla sedia. “Lo decidiamo noi quando ti è permesso parlare”. “Ah sì? Perché credevo che stesse aspettando questo” disse spavaldo, quasi soffocando sotto la stretta dell’omone che, dopo aver guardato il collega, lo gettò sulla sedia quasi ribaltandola. “Sei troppo impertinente per i nostri gusti” disse sempre lo stesso uomo, mentre Fran si meravigliava, stupidamente, che i due sapessero parlare. “Andate al diavolo” disse con un sorriso di scherno. Fran spalancò gli occhi non aspettandosi una reazione del genere da parte dell’amico. Lo guardò e vide che era si era tirato in avanti come se fosse pronto ad alzarsi per assalire l’agente più vicino. Quel ghigno e il suo viso segnato dalla rabbia lo avevano fatto rabbrividire. “Leo” cercò di dissuaderlo, ma Leon non distolse quello sguardo di sfida dall’uomo, che non rispose. L’altro individuo legò il laccio elettrico intorno alle mani di Fran, che iniziò a urlare e a contorcersi. Leon iniziò a sudare e il suo ghigno di sfida si trasformò in una smorfia di terrore. “Fermi. Fermi!” urlò agitandosi sulla sedia. “Mmh, hai perso tutta la tua spavalderia ora, non è vero?”. Leon fu costretto a fare segno di sì, con lo sguardo pieno di odio e frustrazione. “Dunque” disse ridacchiando la prima guardia, “cos’hai da dire?”. “Questo me lo dovete dire voi” rispose Leon.
“Risposta sbagliata” rispose dando un’altra scarica di elettricità, che traò Fran facendolo urlare di dolore. “D’accordo, d’accordo” disse riprendendo a respirare, “ho fatto un errore”. “Quale errore?” chiesero. Volevano a ogni costo che fosse lui a confessare di sua spontanea volontà, se così si può chiamare. “Ho cercato di strappar via il braccialetto. Ma è stato un gesto irresponsabile” rispose ingoiando un groppo di frustrazione. “Non era un atto di sfida, il mio, ma solo un momento di pazzia…” disse Fran. Gli uomini sembravano essere rimasti in attesa. “… Totalmente fuori luogo. È stato un gesto non premeditato. Sono solo stanco” disse sospirando, mentre l’amico riprendeva la sua posizione. La scossa era stata talmente forte da averlo piegato in due. Leon teneva la testa tra le ginocchia quando l’amico iniziò a parlare. “Stanco eh?”. Il primo gli diede uno schiaffo che lo fece volare a terra. “Riposa ora”. “Che vi serva di lezione. State attenti, perché torneremo se sarà necessario” disse l’altro uomo. Leon aveva sbattuto la testa talmente forte da avere i capogiri. Rimase fermo qualche momento per ritrovare la lucidità persa, poi mise a fuoco l’amico sdraiato sul pavimento, che lo guardava senza muoversi. Leon strisciò fino a lui e, facendosi leva con la sedia, si tirò in piedi portandolo con sé. Lo fece sedere e poi avvicinò le mani ai polsi per togliere la corda, ma erano già stati liberati dai due uomini, eppure Fran si ostinava a tenerle strette fra loro, sotto shock. “Fran”, disse l’amico prendendogli le mani. “Fran è tutto a posto”. Fece pressione per allontanare le mani ancora chiuse, come da una morsa, ma lui le teneva ben tese, irrigidite, come se fosse diventato improvvisamente di pietra. L’amico prese a parlargli a bassa voce, cercò di sciogliergli i nervi con le sue parole, e pian piano Fran tornò cosciente. Lasciò cadere le mani lungo i fianchi, senza trovare la forza per alzarsi.
“Diavolo, che botta” disse poi Fran sforzandosi di sorridere, ma non era riuscito a sdrammatizzare. L’amico lo fissava ancora con sguardo pieno di preoccupazione, che lui ricambiò, poi guardò a terra amareggiato. “Ci hanno torturato” sussurrò. Leon fece un cenno di assenso. “Ci hanno torturato dentro l’Università?”. “Sì”. Non sapeva cos’altro rispondere al suo amico, che si massaggiava i polsi sofferente, con una nota di tristezza e delusione negli occhi. “Come se niente fosse. Senza nessuno che intervenisse” continuò a dire. Più che il dolore fisico, fu questo che pietrificò dal terrore Fran: la consapevolezza che non si è al sicuro in nessun luogo, che “siamo in balia completa dell’autorità”. Nessuno dei due prima aveva realizzato e inquadrato con così tanta chiarezza questa verità. E le prove le avevano impresse sulla pelle. “Siamo degli schiavi” sussurrò Fran mentre si alzava in piedi. Leon fece finta di non sentire quell’ammissione di verità. “Come vanno i polsi?”. “Bruciano” rispose senza nessuna nota nella voce. “Andiamo in infermeria” disse Leon trascinandolo via piano, piano, e camminando in avanti con sguardo perso. Fuori molti ragazzi si erano accalcati per vedere se andava tutto bene, curiosi, più che altro, di sapere cosa facevano a chi tentava di strapparsi il braccialetto. Eppure a lui non avevano fatto proprio un bel niente, ne sembrarono sorpresi. “Lo sono anch’io” si disse Leon. “Hanno torturato il mio amico per colpa mia. È così che agiscono per far crollare chi non ne ha intenzione”. “Tu non avevi paura” sussurrò più tardi Fran. “No, non ne avevo finché non ti hanno minacciato”. Leon sospirò.
“Neanche io ne avevo fino a quel momento. Bugia”. Leon abbozzò un sorriso alla battuta dell’amico. Quella sensazione di controllo e quella rabbia che solo per un momento lo avevano attraversato dandogli sicurezza, l’aveva fatto sentire bene. Fran non azzardò a menzionare l’accaduto. Segnò mentalmente cosa era successo e si disse, che era meglio non farlo mai arrabbiare. Leon era quello di sempre. Gli sguardi della gente lo infastidirono. Si tirò giù la maglia per coprire la ferita lasciata dal tentativo di strappare il braccialetto, che invece era ancora lì attaccato alla carne, immerso nel sangue che gli era uscito per lo strattone, poi coprì i polsi di Fran e mentre stava per parlare, l’amico urlò: “Cosa avete da guardare? Levatevi di mezzo”. Era uno scatto d’ira inusuale per lui. L’amico lo guardò preoccupato che quello che aveva subito avesse compromesso il suo equilibrio, ma lui abbozzò un sorriso divertito, tornando quello di sempre. O almeno lo sperò. In infermeria entrambi si disinfettarono le ferite. Leon aveva un taglio alla testa dovuto alla caduta. “Hai visto? Hanno legato la corda su dei polsi, per evitare il braccialetto. Ma sai una cosa? A me è sembrato che anche il braccialetto mandasse scosse elettriche”. “Ma no, non è possibile. Sennò lo sfrutterebbero di più”. “Forse non vogliono farlo sapere”. Leon immaginò folle intere di persone contorcersi a terra dal dolore, e fu scosso da un brivido. “Dai non è possibile. Sarebbe una cosa…”. “… possibile amico mio”. I due si azzittirono, sempre col pensiero che qualcuno li potesse ascoltare. Se fosse vero, pensò Leon, sarebbe uno strumento di controllo più perfetto di quello che noi crediamo. Non solo per l’identificazione, ma per un controllo ancora più fisico e perfezionato. Possono generare dolore”. Fran pensava alla stessa cosa e disse solo, per farsi capire: “Come la storia delle tre”. Leon comprese subito, senza bisogno di altre parole.
Uno strumento multiforme, pensò ancora facendosi pallido. La voglia di strapparselo via si era fatta strada nuovamente dentro di lui, e la mano sinistra gli tremò quando si andò a posare sull’altro polso. Si tese pronto a un gesto di cui si sarebbe pentito. Cercava di controllare quello stimolo irrazionale, ma razionale allo stesso tempo, quando Fran poggiò la sua mano sopra la sua, fissandolo. “Tranquillo. Troveremo un’altra soluzione. Basta così”, disse con voce ferma. Il tremore della mano di Leon si calmò, eppure sentì il suo corpo lo stesso muoversi, fu solo dopo qualche istante che capì che non era la sua mano stavolta a tremare. “Troveremo una soluzione” gli disse ora Leon confortandolo e il sorriso teso e preoccupato dell’amico si sciolse leggermente. “Sì, lo spero”. Rimasero sdraiati nell’infermeria osservando il mobiletto bianco di fronte ai loro piedi, il bianco era un buon colore, rilassante. Persino la luce che entrava dalla finestra sembrava esser diventata bianca.
“Sveglia Sofi. Dobbiamo tornare in classe”. “Sì. Andiamo” disse ancora intontita, senza riuscire a definire quel sentimento di repulsione e angoscia che l’agitava. Voleva assolutamente fare qualcosa, ma non sapeva ancora né cosa, né tantomeno come. Come funzioneranno questi libri? Dovrei tentare di riaprire il mio, cercò di ragionare lucidamente, poi dovrei parlare con Syd, lui sa sicuramente più di quanto dice. E più di quanto sappia io, di sicuro. Si distaccò dall’amica che era agganciata a lei, sottobraccio. La presenza delle squadre di controllo, e il loro marciare ritmico, come piccoli eserciti senza sentimenti, le metteva una forte agitazione addosso. Pensò a suo padre, a sua madre, a suo nonno, a Martha e poi a Leon. Le loro immagini le sfilarono in testa. Egoisticamente sentì di voler agire solo per loro e per nessun altro. Si chiuse in bagno, raggomitolandosi su se stessa e si lasciò catturare dai
pensieri. Il gesto di protezione verso quel ragazzo nella sala mensa, era stato fatto per lui, o solo perché lei non voleva vedere quell’orrore? Non si era alzata forse perché si era rivista al suo posto, e aveva immaginato anche sua madre lì piangente? Analizzandosi, era quello il vero motivo che l’aveva spinta. Nessun vero coraggio, né una voglia di salvare l’umanità. Voleva solo che le cose cambiassero, ma per se stessa e i suoi cari. Forse non lo desiderava per tutti gli altri, o almeno non con abbastanza forza. “Che cosa potrei mai fare io? Sono solo questo, una ragazzina. Pure egoista, per di più”. Si strinse tra le mani la testa, persa in questi pensieri, e si chiese come fossero venuti fuori. Non aveva mai scavato a fondo dentro di sé, non ce ne era mai stato bisogno, ma ora la necessità, o meglio la costrizione di agire, l’avevano messa di fronte alle sue reali motivazioni, ai suoi istinti più profondi. E quello che c’era laggiù non le piaceva. “Sofi, sei qui?”. Non rispose. “Dai apri”. La serratura scattò e la porta si socchiuse in un cigolio. “Che succede?”, chiese Martha. “Non è nulla. Forse solo un attacco di paura”. L’amica le sorrise: “Non ti lascerò da sola, lo sai?”. “Tu saresti meglio di me per risolvere questa situazione”. “Che vorresti dire?”. “Sei sempre stata attenta al prossimo. A me non è mai fregato niente”. “Questo non è vero. Sei la persona più buona che conosca”.
“Essere chiusa e distratta non vuol dire essere buona” rispose distogliendo lo sguardo. “Cosa ti sei messa in testa?”. Martha non aveva mai sentito simili discorsi da Sofia, che ora, tutto a un tratto, si rinchiudeva in bagno stringendo la borsa con quel libro a interrogarsi, farneticando. “Non è nulla. Mi erà”, non poté rispondere altrimenti. Non si sentiva all’altezza, ma decise di andare avanti con un’unica condizione impostasi: non avrebbe più scavato dentro di sé, era faticoso e le avrebbe di sicuro tolto coraggio. Questo lo sapeva bene. Martha intuì le sue riflessioni, pensò alla madre. Era lei che le aveva causato quei danni. La sua indifferenza, il poco coraggio nello scrutarsi dentro e trovare le motivazioni per occuparsi di se stessa e di sua figlia, troppo chiusa, troppo impegnata a ignorare le sue delusioni, i suoi problemi. Era una donna che non si era mai sforzata di migliorare se stessa, neanche per sua figlia. Non aveva fatto nessun tentativo per cercare di risolvere quei problemi per migliorare. Troppo egoista. La paura di non essere abbastanza per questo mondo, di non meritarsi di viverlo. Ecco, questo era il risultato dell’osservazione di quel modello: una ragazza chiusa che cercava di scacciare dentro di lei l’egoismo con cui era cresciuta, da cui era stata circondata ogni giorno. Solo nelle situazioni d’emergenza si poteva notare la preoccupazione negli occhi e nei gesti di quella donna, ma per il resto se ne stava lì, seduta a un tavolo di fronte alla televisione. Sperò che Sofia non si trovasse intrappolata in quella prigione di sentimenti, che non ne fosse risucchiata, perché lei non era come sua madre. Non lo era. Forse non lo era.
“Non vieni?”. Martha voleva farla uscire da lì a ogni costo. “Sì. Dammi solo due minuti per sciacquarmi la faccia”.
“D’accordo. Ti aspetto in classe”. Sofia estrasse il libro dalla borsa che aveva trascinato fino lì, se l’era portata anche a mensa, aveva troppo paura che qualcuno la rubasse, ma in parte lo avrebbe desiderato. Si piegò sulle ginocchia e notò un’altra crepa che non c’era prima, proprio sotto il lavandino. Scattò in piedi e la vide formarsi anche sullo specchio. La sua immagine si divise a metà. Rimase a osservarla imbambolata. Poi si decise ad aprire il libro: dentro era bianco. Per un attimo la colpì un moto di gioia, pensò forse il libro non mi vuole più. Mi ha scrutata dentro e non gli sono piaciuta, ma non fece in tempo a pensarlo che le parole iniziarono a scriversi. Stavolta quello che si scriveva non era la storia della giornata, era un racconto che parlava di una bambina. C’era una volta una bambina spaventata, vagava in un bosco buio cercando sua madre. La chiamava ad alta voce, singhiozzando, ma non la raggiungeva. Chiamò allora suo padre, ma era lontano, lui non poteva realmente aiutarla. Continuò così a camminare, mentre tutt’intorno, gli alberi si agitavano flettendosi, come spezzati da una forza malvagia. Le piante sembravano chiederle aiuto, ma lei pensava solo a uscire dal bosco, aveva troppa paura per fare qualsiasi altra cosa. Incrociò un coniglietto con una zampa rotta, ma lo lasciò lì. Incontrò un cervo ferito, e superò anche quello voltandosi da un’altra parte, mentre gli animali chiedevano aiuto e gli alberi gridavano il suo nome. “D’accordo ho capito. Sono un’egoista, ho paura della mia stessa ombra” urlò. Il libro insisteva nel metterla davanti a se stessa e alle sue paure. Sembrò bruciare tra le sue mani, così proseguì la lettura, in lacrime. Quando arrivò in fondo al bosco, sentì urlare qualcun altro, stavolta era un essere umano, era Martha. La bambina non ci pensò due volte, e spinta dalla sua amica, trovò il coraggio necessario a entrare. Si gettò tra i rami e arrivò al centro del bosco, ma l’amica non c’era più, trovò sua madre.
Era lì che impiccava, con una corda logora, gli animaletti feriti, quelli che Sofia aveva trovato lungo il cammino e che aveva ignorato. Poi si fermò a guardarli mentre morivano. Sofia corse verso di loro e li liberò uno a uno. “Cosa stai facendo?”. La madre sembrava terrorizzata, teneva le mani a mezz’aria come se avesse avuto l’intenzione di risolvere quello che aveva causato, ma non ci era riuscita, era rimasta paralizzata dal terrore. Poi notò che le sue caviglie erano legate da una spessa catena, e delle manette le erano comparse ai polsi. “Mamma, che cos’hai lì?” chiese Sofia sorpresa, ma la donna scoppiò in una risata fragorosa. Era tutto ciò che le rimaneva, ridere e non pensare. Sofia intanto curò gli animali e li portò fuori dal bosco, lasciandosi alle spalle la madre incatenata. Nella pianura, trovò Martha ad aspettarla, e c’erano anche suo padre e suo nonno. Tutti lì con un sorriso. Ho capito, forse. Le spuntò sul volto un sorriso sollevato e triste allo stesso tempo. È così che vedo mia madre? pensò con angoscia, poi la storia proseguì, scrivendo un’altra conclusione: E lei si rilassò, il suo mondo era al sicuro, anche se dietro di lei il bosco popolato da ogni tipo di essere vivente, era in fiamme. Ma Sofia non si mosse. Rimase a guardare, paralizzata da due forze opposte: voleva agire, ma allo stesso tempo non le importava, i suoi familiari erano al sicuro! Inaspettatamente, però, il pavimento sotto di loro si aprì e minacciava di inghiottirli uno a uno. Lei si voltò verso gli altri, poi verso il bosco in fiamme, senza sapere cosa fare, senza volersi muovere. Dall’alto comparve una chimera che disse: “Posso salvare una sola persona. O te, o uno dei tuoi familiari. Cosa scegli?”. “Salva me” disse senza esitazione. In quel momento comparve la nonna. Era da così tanto tempo che Sofia non la vedeva. Sembrava infelice. Era per terra ma sua figlia, che le stava accanto, non l’aiutava ad alzarsi. Sofia avrebbe voluto avvicinarsi ma la chimera la portava
su, sempre più su. E lei fu costretta a osservare la morte dei suoi familiari dall’alto. Martha cadde per prima lanciando un urlo agghiacciante, la madre senza mostrare emozioni, mentre suo padre la guardava come se fosse una vigliacca, e questo la ferì. Sua nonna non fece altro che tenere gli occhi chiusi, come se neanche volesse vederla quella nipote codarda. Sapeva che Sofia, come l’ultima volta, non avrebbe versato una lacrima per lei. Infine fu il turno di suo nonno, che fissava solo il libro che teneva stretto al petto, il suo libro. Quello che lei non voleva. Cercava di incitarla, forse. L’ultima cosa che lei riuscì a vedere fu un sorriso triste ma colmo di parole, impresso sul suo viso. Alle sue orecchie arrivò l’eco di una frase: “Aiutalo. Salvalo, ti prego”. Tutti sparirono, lasciandola da sola su quel pezzo di terra. La chimera era sparita. Si accorse solo in quel momento che non avrebbe avuto bisogno della chimera, perché in mano stringeva il libro. Il ciondolo scintillava sulla sua superficie, richiedendo attenzione. Era stata lei a non volerli salvare. C’era una possibilità ma aveva fatto finta che non esistesse. Proprio di fronte a lei era comparso uno specchio che riusciva a inquadrarla interamente, la cornice in legno intarsiato sembrava scurirsi sempre più. Vide se stessa, così come si percepiva. Era bianca in volto, rannicchiata in avanti come a proteggersi, miserabile e vuota. Inutile. La figura allo specchio fece un ghigno cattivo, poi scoppiò in una risata astiosa e soddisfatta, che risuonò nelle sue orecchie con insistenza, facendola tremare, togliendole le energie, fino a farla piegare a terra. Pianse tutte le sue lacrime, ferma sul ciglio di quel precipizio, mentre uno sguardo lontano, dietro il bosco, la osservava soddisfatta. Sofia si sentì tremendamente sola, ma da una parte provò uno strano sollievo. Era più facile vivere senza persone di cui preoccuparsi, senza amare. Perciò…”. “Basta così. Non è vero” sussurrò Sofia in un tremito. “Nonna”. Continuò a fissare la crepa che divideva in due la sua immagine. “Io non voglio essere così. Ma non voglio neanche combattere con quell’altra parte di me stessa” urlò, poi poggiò la mano sulle pagine del libro e desiderò che quella crepa sparisse, desiderò con forza e rabbia, bontà ed egoismo che quella crepa se
ne andasse, dallo specchio, come da lei. “Come dice il nonno, il libro è il mio riflesso. Ma sono anch’io a influenzare ciò che dice” ripeté, poi rimase imbambolata a guardarlo. La crepa iniziò pian piano a richiudersi, sotto gli occhi attoniti di Sofia, che non pensava potesse succedere. In un istante la superficie tornò come nuova, liscia, e rispecchiò l’immagine di una Sofia integra. Lei era ancora a bocca aperta, ma dopo un attimo sorrise. Chiuse il libro e lo rinfilò nella borsa, ancora sorpresa di quello che era riuscita a fare. Devo raccontarlo a Martha e agli altri pensò ottimista, ma sapeva che quella non sarebbe stata comunque una soluzione, c’era molto di più da fare per uscire da quel bosco buio.
“Marin! Devi spingerla nella direzione giusta”. “Tu lo sai bene. Non sono solo io, ma è anche lei a influenzarlo. E lei è anche così”. Marin rabbrividì. “Non potrà mai salvarlo. Ed io non voglio che succeda”. “Dessel, lei forse potrebbe. Non sappiamo ancora qual è il reale valore dei libri nelle loro mani”. Marin sospirò. “Il terzo chi diavolo sarà?”. “Deve essere per forza un custode”. Si interrogavano da quando era nata Sofia, 17 anni prima, su chi fosse. “Dovrebbe essere il Presidente. Eppure non è lui. Marin, chi diavolo sarà? “Deve essere legato al libro. Non può essere una persona qualunque”. “Invece potrebbe”. Dessel continuava a essere convinto che esistesse questa possibilità.
“Se non saranno tutti e tre, niente potrà cambiare”. Marin non voleva parlare della possibilità di un erede, l’idea l’affliggeva, sentiva che c’era qualcosa che non andava. “Se non saranno tutti e quindici vorrai dire”. “Già. Sembra una cosa impossibile”. “Non per loro”. Entrambi sentivano che quella generazione di custodi avrebbe cambiato le cose, come aveva fatto, involontariamente, la loro. Marin e Dessel ricordarono nello stesso momento la vita con i loro libri, come prigionieri liberi. Ricordarono ciò che era accaduto, e ciò di cui la loro generazione così come quella attuale, era portatrice: il caos. Il totale cambiamento degli equilibri. La distruzione. Ciò che i libri, prima che Marin e Dessel venissero intrappolati come tutti gli altri, tentavano da sempre di scongiurare. Era solo colpa loro, di loro due e di Redis. Tutte quelle persone morte, insieme a quelle che erano diventate vittime inaspettate del loro esperimento, del suo esperimento, le portavano sulla coscienza. Tutte. “Le tre lune non sono ancora cambiate”. “Dessel, succederà. Devi avere pazienza”. Rimasero in silenzio per un tempo che non riuscivano più a calcolare. Poi Dessel parlò. “Abel è riuscito a mantenere la stabilità per molto tempo. È l’unica cosa buona che ha fatto”. “Poteva fare di più. E invece è scappato via. E poi, è solo perché Occhio Rosso non ha voluto agire, che la realtà è rimasta stabile. Stava aspettando i tre custodi originari. Non ha fatto un bel niente Abel”. Marin sembrò perdersi in un pensiero. “È per questo che hai smesso di apparirgli? Non voleva che lei...”, esitò, “non voleva che lei morisse, lo sai non è vero?”. Marin non rispose.
Poi disse solo: “Aspettavo lei. Ed è arrivata”. “Se il Presidente avesse deciso di scatenare la nuova rivoluzione prima di diciassette anni fa, sarebbe stato un problema”. “Lui sapeva benissimo di Sofia. Ne sono sicura”. “Lo credi veramente?”. Dessel sapeva che era così. Si meravigliò di aver posto quella stupida domanda. Ovvio che lo sa, pensò. “Sì. Occhio Rosso la desidera”. “Desidera te. Com’è sempre stato”. Dessel si tese. “Desidera lei e il suo potere. Quando lei è nata l’ha sentito e ha aspettato”. “Lei è bella”. “Quando accadrà… quando saremo liberi…se saremo liberi”. “Tu avrai il suo corpo. E Occhio Rosso avrà entrambe”. “Non succederà. Basterà che i ragazzi agiscano per primi. Sempre che sia questo ciò che serve veramente”. “Ma se i ragazzi agiranno per primi, non è detto che riescano a farlo. Occhio Rosso deve volere qualcos’altro. Non ci riusciremo mai, e poi noi non abbiamo delle reali indicazioni. Riunire i custodi può davvero bastare per ristabilire l’equilibrio e farci rinascere?”. O morire veramente, pensò Marin che non aveva svelato questo pensiero pressante che si era trasformato, man mano, in intenzione. Voleva salvarla, lei voleva che Sofia vivesse. Dopo una pausa disse solo: “I custodi leggendari possono farlo. Cos’è poi tutto questo pessimismo? Mi dai sui nervi Dessel”. “Scusami. È che stare qui dentro mi sta uccidendo”. “Siamo già morti”.
“E poi, ancora quella frase”. Sofia era ancora rinchiusa in bagno a fissare lo specchio. Salvalo, aiutalo. “A chi si riferirà? Come faccio a scoprirlo senza nessun indizio? Beh. Non importa”, scrollò le spalle e lasciò i suoi dubbi in quella stanza. Mentre usciva dal bagno pensò a due cose, la prima riguardava suo nonno. Il dubbio che si fosse staccato il braccialetto per paura che fossero ascoltati, iniziava a insinuarsi con più insistenza di quanto lei avrebbe voluto. Se fosse vero… come faremmo a comunicare ora? Non possiamo scrivere, pensò, poi tornò sui suoi i. Non è sicuramente vero. Sennò sarebbero già venuti a prendermi, si disse grattandosi il polso e sistemandosi i capelli dietro le orecchie. La seconda cosa a cui pensò era ancora più fastidiosa della prima, ed era stata quella maledetta storia a tirarla fuori. Ricordò un episodio di alcuni anni prima, c’era un bambino che litigava con sua madre. I due erano fermi in mezzo al marciapiede e, d’istinto, Sofia si era fermata a osservare la scena. Solitamente non le interessavano questo genere di cose, amava analizzare solo le persone interessanti che aveva intorno, si metteva nei loro panni e immaginava come dovesse essere la loro vita. Quando voleva, sapeva essere molto empatica, ma la cosa si fermava lì. Non era mai stata un’impicciona. Quel giorno una madre aveva voltato le spalle a un bambino che era caduto sbucciandosi il ginocchio. Il piccolo continuava a piangere davanti alla propria madre esasperata, che lo aveva lasciato lì. In Sofia era nata, in quel momento, una sorta di rabbia inspiegabile, verso la donna, ma anche verso quel bambino. Era scattata verso di lui, ancora a terra, e lo aveva sgridato. “La smetti di piagnucolare? Alzati in piedi, non ti sei fatto niente” gli disse, mentre lui tendeva la mano per farsi aiutare, ma lei non si chinò. “Ti sembra che piangere sia utile a qualcosa? Così tua madre non ti darà mai più retta, anzi, ti ignorerà” disse come se avesse pescato dentro se stessa uno di quei ricordi che non voleva rivivere. “Sei uno stupido ragazzino frignone e…”. “Sofia” le disse Martha tirandola per il braccio. “Cosa fai? Lascialo stare” balbettò. Sofia era rimasta immobile per la sorpresa.
Poi si erano allontanate lasciando il bambino ancora a terra. “Ma cosa cavolo ti è preso?” le chiese l’amica. “Non lo so” rispose la ragazza ed era la verità, era scattata senza neanche pensarci. “Lasciami in pace!” disse poi spintonando l’amica che non aveva colpa. Non sapeva perché le era cresciuta quella rabbia dentro e iniziò a credere di avere un lato cattivo e insofferente che voleva uscire. “L’ho lasciato lì per terra senza neanche aiutarlo” commentò Sofia dopo poco. “Non sembravi neanche te. Prima ti accanisci contro un bambino che non ti ha fatto nulla, e poi, dopo averlo insultato, l’hai pure lasciato a terra quando ti ha chiesto aiuto. Miss freddezza. Ma che ti sei bevuta stamattina? Latte acido?” replicò Martha quando la raggiunse alla fermata dell’autobus, senza menzionare lo spintone. “Non so che dire. Non so perché l’ho fatto. Sono scattata e basta. Scusami per prima. Comunque, ti prego, non pensiamoci più”. “Dovremmo capire, invece”. “Non c’è un cavolo da capire. Andiamo a fare colazione su”. “Ok”. La storia si era chiusa lì. Sofia l’aveva dimenticata fino a quel momento. Per una volta, quella reazione era riuscita a collegarla a sua madre. Il filo si era legato da un punto all’altro dei suoi ricordi, unendoli. Ma lei lo spezzò subito. Scavò per cercare degli episodi di puro egoismo, come se sadicamente volesse trovare conferma della sua cattiveria, e scaricarsi dal peso di quella responsabilità. Ci fu un altro episodio che venne alla luce proprio in quel momento, poi un altro e un altro ancora. Sofia si accartocciò su se stessa. Dove si erano nascosti? Si chiese. Poi si mise i capelli dietro le orecchie con un gesto automatico, mentre le immagini prendevano vita.
Ricordò quel ragazzino pestato in un angolo del parco. Sofia, che quel giorno era sola, aveva deciso di are di lì per fare prima, era una scorciatoia molto utile, ma non la usava quando usciva con Martha, perché con lei voleva stare il più possibile. Il ragazzino urlava e chiedeva aiuto, ma lei non si fermò, tirò dritta perché non poteva perdere tempo. Aveva preso la scorciatoia apposta per fare prima. Se la caverà, si disse mentre si lasciava alle spalle quella scena, ma il viso di quel ragazzino contratto dalla paura l’aveva tenuta sveglia per alcune ore quella notte. Sofia sapeva che non ne era uscito bene. Il giorno dopo si era alzata senza ricordarsene. Lo schiaffo che aveva dato alla sua compagna di classe delle elementari perché tentava di portarle via Martha? Solo per l’amica e per poche altre persone lei si scaldava realmente, poi, se gli altri non gli erano di alcun beneficio, avrebbero anche potuto sdraiarsi davanti e lei non lo avrebbe notato. La rabbia che aveva provato quel giorno… se avesse avuto in mano un coltello, era sicura che l’avrebbe usato. Il giorno successivo, a mensa, l’aveva fatto. Aveva impugnato un coltello e, da lontano, aveva minacciato quell’altra bambina, che si era talmente spaventata, da aver deciso di cambiare classe. Questo Martha, non lo sapeva. Ma non erano questi episodi singoli a farle veramente paura, era quel nocciolo duro che aveva nascosto dentro. Quella stanza buia che teneva chiusa a chiave e in cui non si avventurava mai. Ogni tanto sentiva bussare e aveva la tentazione di spalancare la porta, per assorbire tutto quello che lì dentro c’era: dolore, frustrazione, rabbia. are in rassegna ogni ricordo che ci aveva infilato, nutrire quel lato di sé che sembrava non appartenerle. Quante diverse anime c’erano dentro di lei? Aveva paura che un giorno o l’altro lei sarebbe esplosa. Quei comuni scontri quotidiani erano piccole cose, ma insieme portavano alla luce una persona che Sofia non voleva conoscere. Anche lei fuggiva al cambiamento, preferiva starsene chiusa con chi amava e che ricambiava, per essere felice e non doversi confrontare, come sarebbe stato necessario con altri. Ma questo non sarebbe bastato, come custode doveva fare molto più di così. Doveva sviluppare quella forza, quella voglia di mettersi in gioco, e guardarsi dentro per portare alla luce il suo coraggio, la sua bontà e pietà. In poche parole
doveva mostrare quell’umanità che usciva a sprazzi, ma che era sopita e schiacciata sotto il peso della paura. Era tutto un gioco di specchi, di sentimenti che si scontravano e contaminavano continuamente; l’egoismo che alimentava la paura che spingeva le parti buie del suo carattere a prendere sempre più spazio, l’indifferenza come atteggiamento e arma di difesa. Paura che nascondeva la possibilità di essere la persona che era, ma che non credeva di essere. E cosa ancora peggiore, quando provava quella rabbia, lei si sentiva bene. Si sentiva completa. Martha sapeva di questo conflitto, a lei era ben visibile. Conosceva bene le sue buone qualità, quelle che la facevano amare da chiunque, quelle che cercavano di arrampicarsi, ma che lei rigettava giù con un grido di angoscia. “A volte divento una persona che non riconosco” disse con un’espressione infelice e timorosa. Steven agitava il braccio verso la sua direzione ma era così distratta che neanche lo notò. “Va un po’ meglio?”. “A dire il vero non proprio”. “Che c’è ora che non va?” “Riesco a riparare le crepe”. “Che cosa?”. Martha non capì perché, ma all’improvviso quella cosa le apparve sotto una luce negativa. Rimase a pensarci su, ma non riuscì a collegare quella sensazione all’azione. “Vieni, ti faccio vedere lo specchio”. Sofia la trascinò in bagno, scontrandosi con alcuni compagni di classe che stavano in mezzo ai piedi. “Levatevi”, urlò lei nervosa. Entrò in bagno e si piazzò davanti allo specchio, e in quel momento le mancò il fiato per un attimo, la superficie si era nuovamente crepata. “Forse non dura a lungo l’effetto. Oppure sono impazzita e non ho fatto un bel niente”, fu quello che pensò Martha, che lanciò uno sguardo prima allo specchio e poi a lei.
“Non mi guardare così. È successo veramente”. Poi ci fu un rumore, proveniente da uno dei bagni alle loro spalle. Sofia non ci pensò due volte e, quando una ragazza bassina fece capolino, la prese per un braccio e le intimò di uscire subito di lì, spingendola verso la porta con aria truce. La ragazza era trasalita, non si aspettava di trovarsi di fronte a una Sofia imbestialita, era ancora intenta a sistemarsi la gonna, quando scappò fuori senza voltarsi indietro. Martha le lanciò uno sguardo ancora più sorpreso e si ritrasse. Ma cosa le prende? pensò con insistenza, ma non osò chiedere. “Guarda qui” disse Sofia, che aprì il libro e iniziò a parlare a quella crepa. Non successe niente. Ci riprovò, ma non accadde ancora nulla. “Sofia non…”. “Fai silenzio” urlò e dopo il terzo tentativo scaraventò il libro contro lo specchio, che si ruppe ancora di più. Alcuni pezzi caddero nel lavabo, frantumandosi. Poi si avvicinò e raccolse il libro con mani tremanti di nervosismo, sotto gli occhi sempre più straniti e spaventati dell’amica. Ci riprovò ancora e in risposta sullo specchio comparve un’altra crepa, che scese giù fino a dividere il viso di Sofia in sette, otto, addirittura nove parti. La ragazza rimase a fissare imbambolata quei frammenti, cercando la calma. Aveva perso la testa e non succedeva mai. Martha pensò la stessa cosa. La ragazza infine abbassò gli occhi sul libro ancora aperto e in quel momento comparve una frase: “Il controllo di se stessi è la maggior virtù”. Sofia si sentì presa in giro e iniziò a singhiozzare. L’amica si avvicinò a lei e mise una mano sulla sua spalla. “Cosa ti succede?” chiese non sapendo cosa fare. “Non posso crollare quando sono ancora all’inizio di tutto” sussurrò tra i singhiozzi. “Lasciami stare” urlò all’amica, che si allontanò. “Devi mantenere la calma” disse spaventata.
“Che mi è preso?” chiese Sofia mentre si raggomitolava sulle ginocchia. “Quel libro sta tirando fuori il peggio di te” sussurrò Martha mentre le accarezzava la schiena magra e ricurva. Lei chinò la testa in avanti e i capelli le coprirono il viso facendola sparire. “Non è il libro. Sono io” disse e pianse ancora, fino a quando non suonò la camla. In corridoio il latinista, che sembrava stare cercando Sofia ovunque, gli premette una mano sulla spalla: “Va tutto bene? Sembri sconvolta”. Lei alzò gli occhi sul ragazzo: “Sì”. “Sei sicura?”. “Ho detto di sì” rispose con sempre maggiore irritazione, mentre lui stringeva sempre più la mano per non lasciarla andare via come sempre gli succedeva; lei era bravissima a sgusciare via da lui, e questo lo deprimeva più di qualsiasi altra cosa. “Non mi dire bugie, lo vedo che…”. Sofia lo interruppe e il libro pulsò nella borsa, rispondendo ai sentimenti della ragazza, forse, in parte provocandoli. Sofia si sentì come invasa da un’ondata di lava bollente. “Vedi di farti gli affari tuoi ogni tanto” gli urlò, scansando con violenza la sua mano dalla spalla e lasciandolo pietrificato in corridoio. “Andiamocene dai, ti accompagno a casa” le disse Martha, lanciando uno sguardo di scuse al ragazzo, che era rimasto profondamente dispiaciuto, guardava a terra un po’ piegato su se stesso, a protezione dei suoi sentimenti feriti. In strada non parlarono, Sofia guardava dritto davanti a sé, sovrappensiero. Camminava in un altro mondo. L’amica non capiva neanche se sapesse di essere lì con lei. Ogni tanto si voltava a osservarla ma lei era tesa, con lo sguardo fisso, le mani strette a pugno, come se si stesse trattenendo dal picchiare qualcuno. Le sta succedendo qualcosa. Non riesce più a controllarsi, pensò Martha. Camminarono fianco a fianco, fino a quando non si decise a parlare.
“Credo di essere una cattiva persona”. “Non hai mai avuto questi pensieri, che ti succede?”. “Non lo so... forse è davvero questo libro che mi sta spingendo a interrogare la mia anima, sta smuovendo i fondali, sta scandagliando parti di me cui non sono mai arrivata”, si morse un labbro. “Non sei una cattiva persona”. “Ma sono strana”. “Sono tutti strani”. Martha avrebbe dovuto rassicurarla, ma non ci stava riuscendo molto bene. “Ho qualcosa che non va”. “Ognuno di noi ha qualcosa che non va” disse ancora per consolarla. “Ma qui dentro io…”, si strinse le mani al petto come se nascondesse un mostro. “Smettila Sofi. Ogni persona di questo mondo nasconde dei segreti o ha delle parti di sé che chiude a chiave, per un motivo o per l’altro. Non ti preoccupare, cerca solo di mantenere la calma” le disse Martha mentre lei annuiva. La penso così veramente. Ma non so se questo valga anche per Sofia. In lei c’è qualcos’altro. C’è un’altra lei che mi fa paura, si disse mentre si scrollava di dosso un brivido, poi le fece un sorriso più convinto. Lei ricambiò e poi sparì di nuovo nei suoi pensieri. Di fronte a casa, Sofia salutò l’amica con un bacio sulla guancia. “Grazie” le disse poi, e aspettò che si allontanasse, poi si voltò verso Syd, che aveva visto nascosto dietro l’angolo. Gli si avvicinò e stavolta lui rimase fermo. Lo afferrò per il braccio e questo lo fece irrigidire, poi lo accompagnò verso il portone. “Vieni. Credo tu abbia bisogno di farti una bella doccia” gli disse a testa bassa e lui non poté far altro che seguirla un po’ spaesato, ma notò il suo atteggiamento carico di sfiducia.
“Stai bene?” chiese con il tono più naturale possibile, ma suonò come un grugnito; lei si voltò di scatto sorpresa che il ragazzo si fosse accorto che c’era qualcosa che non andava. Solo poche persone riescono a capire quando non sto bene. Ma negli ultimi giorni non riesco a nascondermi, mi sento uno specchio, pensò. “Sì”, cercò di sostenere lo sguardo ma con difficoltà. “Non sembra” disse lui voltandosi da un’altra parte, “non nasconderli”. “Cosa?”. “I tuoi sentimenti. Lo fai sempre, non è vero?”. Lo capiva, perché faceva lo stesso anche lui, sempre. Lei comprese e scoppiò in un pianto silenzioso, rimanendo immobile sulla soglia di casa. Syd guardando sempre dall’altro lato della strada, le lasciò tutto il tempo necessario per riprendersi, non riusciva a far altro che questo per confortarla. “Ok. Entriamo” disse lei dopo alcuni minuti, fu solo a quel punto che Syd si voltò a osservare i suoi occhi verdi, arrossati per lo sforzo. La gola gli si chiuse un istante, poi la seguì dentro. “Mamma ciao. Salgo in camera” le urlò correndo su per le scale e trascinandosi dietro il ragazzo, ancora più sorpreso. “Poi appena ti sei cambiata scendi, ok?” urlò di rimando la madre. “Ok” rispose, ma ormai era già su. La mamma sembra star bene. Avrà assunto di nuovo quelle pasticche calmanti. Sono come una droga, pensò, poi abbassò lo sguardo, aveva già tentato di impedire che assumesse medicinali, ma non ci era mai riuscita. Ormai aveva rinunciato da tempo. Alla madre piaceva drogarsi con quella roba. Riusciva a dimenticarsi di tutto. Il mondo circostante sbiadiva pian piano, fino a sparire. Syd esitò sulla soglia. “Entra” gli disse con dolcezza la ragazza. “Il bagno è lì” riprese a parlare tendendogli un asciugamano rosa che lui guardò perplesso. “Scusa, ho solo questo” disse ridacchiando con un pizzico d’imbarazzo.
“Grazie” bofonchiò lui in risposta. “Vai pure”. Syd esitava ancora a muoversi, sembrava stesse studiando la camera in ogni suo dettaglio, e questo faceva imbarazzare ancora di più Sofia, che non aveva mai invitato un ragazzo nella sua stanza, figurarsi a fare una doccia. Si sedette sul letto, tesa. Poi si rialzò, girò irrequieta guardando distrattamente la libreria, le penne sulla scrivania, i peluche, che ancora teneva su alcune mensole, e infine raccolse una matita che era caduta a terra. Avrò fatto bene? non poté fare a meno di chiederselo, tese l’orecchio verso la porta chiusa e le parve di sentire Syd canticchiare, le sembrava impossibile ma era sicura di averlo sentito. Quando sentì l’acqua chiudersi, si sistemò velocemente i capelli, infilando le ciocche dietro le orecchie e poi si sedette sul letto. Si sentì stupida a stare lì impalata, così tirò fuori il libro dalla borsa, non voleva farsi trovare ferma ad aspettarlo. Quando aprì la porta, la ragazza trasalì. Syd era sicuramente un altro. Non fu quella la prima cosa che notò, ma il fatto che fosse a petto nudo. “Perché sei uscito senza vestirti?” disse voltandosi. “Che c’è? Non hai mai visto un uomo?”. “Sì, un uomo. Al massimo un ragazzino” disse lei per togliersi dall’imbarazzo, anche se rimaneva voltata dall’altra parte. “Se sono un ragazzino perché non mi guardi?” chiese lui. A quel punto lei si girò, non poteva di certo dargliela vinta. Lo guardò dritto negli occhi, poi però il suo sguardo scese pian piano giù. “E vestiti no!” le urlò alzandosi di scatto, quasi inciampando come suo solito, e facendo poi finta di dover svuotare la borsa che era già vuota. Syd rise sotto i baffi, mentre Sofia, in quei pochi istanti, poté conoscere il ragazzo che era prima. Era uscito fuori solo per un momento ma era stata capace di vederlo. Una volta indossato i suoi soliti abiti, riassunse quell’espressione dura che ormai lo caratterizzava.
Chissà cosa l’ha fatto diventare così? pensò la ragazza in un momento di lucidità. Poi si sedette e Syd fece lo stesso, ma si mise distante, dall’altro lato della stanza. Rimasero alcuni istanti a scrutarsi, mentre un leggero vento faceva ondulare le tende morbide della finestra. “Allora, so che hai delle domande” disse ormai arreso a rispondere. “Sì” disse sistemandosi sul posto. “Aspetta però. Forse non è il caso di parlarne così”, s’indicò le labbra. “Non credo ancora molto a quella storia dell’ascolto”. “Neanche dopo aver visto tuo nonno?”. Sofia si tese: “Ho visto il suo pallore e la fasciatura”, confessò guardandosi le mani: la ragazza era rimasta sorpresa dallo spirito di osservazione di Syd. Come ha fatto ad accorgersene? Era anche così lontano. Forse ci ha spiato, rifletté. “No, penso che mio nonno fosse sconvolto. E poi c’è dell’altro. Ne ho parlato, e tanto, ma nessuno è ancora venuto a prendermi”. “Forse stanno solo aspettando”. “Non dire scemenze” rispose con decisione. “Come vuoi”, replicò lui, “tanto sei una testarda”, sbuffò alzando gli occhi al cielo come un bambino. Dopo quel segno di assenso Sofia iniziò a domandare. “Prima di tutto: come sei arrivato sin qui dall’Area 3?” chiese, poi si tese in attesa di una risposta. Lui si ò una mano nei capelli biondo scuri. “Sono venuto a trovare mio zio”. “Non era questa la domanda. Voglio sapere come hai fatto?”. “Ho chiesto un permesso speciale” rispose distogliendo lo sguardo. “Ma solitamente i permessi non li danno”.
“A me l’hanno dato, invece”. “E perché mai?” insistette lei. “Perché… mio zio lavora per il Presidente”. “Che cosa?” urlò lei. “Sofia tutto bene?”. La madre si fece sentire dal piano di sotto. “Non urlare” la rimproverò Syd a bassissima voce. Sofia tese il collo verso la porta: “Sì, mamma. Ancora non sono pronta”. “Quindi lavora per il Presidente” continuò sussurrando. “Già”. “E che cosa fa?”. “Non ne ho la più pallida idea”. Ci fu una pausa. Syd sembrava essersi innervosito, faceva girare da una parte all’altra la sedia con le rotelle che cigolavano fastidiosamente a ogni movimento. “Perché sei venuto a trovare tuo zio?” chiese lei. A questa domanda lui esitò, indeciso se confessare o no: “Volevo delle risposte da lui”. “Di che genere?”. “Ora non ti sembra di impicciarti un po’ troppo?” chiese saltando in piedi. “D’accordo. Scusa”. Lui si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e rimase imbronciato con le braccia conserte. “Ma perché tuo zio si trova nell’Area 1 pur appartenendo originariamente alla 3?”. “Ha chiesto un permesso per trasferirsi” rispose e lei fece una smorfia delusa. Nella mente di Sofia si formò un’immagine senza volto di quell’uomo in fuga, perché a una fuga sembrava aver accennato con il suo tono infastidito.
Sarà scappato per via del libro? si chiese subito Sofia. Sarà per questo che lo cercava? “E il libro?” chiese poi al ragazzo che si stava spazientendo. “Il libro cosa?”. “Come fai ad averlo?”. “Ce l’ho. Mio padre ne era il custode”. “Tuo padre potrebbe aiutarci”, disse lei illuminata. “Mio nonno è sparito. Forse lui può aiutarci”. “No, non può” disse cambiando tono, la voce si era abbassata e aveva assunto una nota triste, una fragilità che cercava di nascondere bene. “Perché no?”. Non rispose. “Perché no?” insistette lei. “Ma la vuoi piantare? È morto, d’accordo?” disse, di nuovo in piedi allargando le braccia in segno di resa. “Mi dispiace” si scusò lei, forse realmente dispiaciuta. “Com’è morto?”. Lui si avvicinò alla finestra e guardò fuori. “Non lo so. È scomparso” rispose Syd con tono secco, voltandosi verso la parete sopra la scrivania. Con la punta delle dita fece rotolare una penna sulla sua superficie, pensieroso. “Ma potrebbe essere vivo allora, non lo sai, insomma, non l’hai visto mica con i tuoi occhi!”. “Non avrebbe mai lasciato il libro”, esitò. “Se fosse vivo lo avrebbe portato con sé”. Sofia comprese il ragionamento del ragazzo ed evitò di insistere. Anche suo
nonno non voleva lasciarlo. Syd non sapeva perché le stava confessando tutto, avrebbe potuto benissimo mentire, anzi, si era preparato delle risposte false da rifilarle. E invece aveva ceduto come un fesso di fronte a quegli occhi verdi. Non riusciva a mentirle, e non capiva il perché. Il fiato gli si mozzò in gola e il respiro si fece agitato, pensò inizialmente che fosse la rabbia a smuoverlo in quel momento, e invece era qualcos’altro. I libri si accesero di colpo, i due ne percepirono il calore, nonostante fossero distanti. Un calore confortante, che partecipava alle loro sensazioni. Syd si avvicinò alle tende che ancora ondeggiavano delicatamente, spinte da un soffio che sembrava un respiro. “Tutto bene?”, si alzò dal letto anche lei e quando gli fu dietro non poté fare a meno di notare quanto sembrasse forte in confronto alla sua esile corporatura. La ragazza restò alcuni istanti a guardare l’incavo del suo collo, la curva che seguivano le sue spalle, la sua schiena tesa, poi allungò una mano per toccargli la spalla e voltarlo, ma lui la respinse scuotendola all’indietro in uno scatto e lei si ritrasse. Lui continuò a fissare la finestra, e sembrava sussultare a ogni respiro, poi mugugnò una scusa, e Sofia si sentì triste nel vedere il suo corpo contrarsi e irrigidirsi sempre più. Poteva vedere i muscoli darsi battaglia. Si avvicinò ancora una volta e poggiò la sua mano sulla spalla, come faceva Martha con lei, sperando di donargli conforto. Stavolta lui non la scansò, sembrò sciogliersi sotto quel tocco, e restarono così, a lungo, mentre entrambi sentirono una sensazione di calore diffondersi dentro di loro. Sofia capì quel suo istinto di fidarsi. Io e lui, in un certo senso, ci assomigliamo. Lui tiene a distanza le persone e si tiene tutto dentro, così come faccio io, ma in un modo diverso. Io non porto maschere dure per cacciare via da me il prossimo. Mi rendo conto di estraniarmi dagli altri non appena perdo interesse, come se cadessi in trance. Mi perdo nel mio mondo e ho difficoltà a tornare indietro. È terribile ma è così. Poi pensò: Ma non avevo detto che mi sarei lasciata perdere? Si rimproverò, pensando ancora a quel ragazzo che aveva fatto entrare con così tanta facilità nel suo mondo. E senza conoscerne ancora il perché.
Sofia strinse ancora più forte la mano sulla sua spalla, aggiunse anche l’altra, e sentì il tepore emanato dal suo corpo, chiuse gli occhi, percepì la sua angoscia, una paura ancestrale che faceva a pugni con la sua intenzione di farla a pezzi. Ci combatteva contro con tutto se stesso, e lei riusciva a sentire quel conflitto. Sofia era riuscita a intravedere alcune parti di lui da cui fuggiva, così come il suo libro stava facendo con lei.
Fu solo un momento, quando sentì che Syd si era calmato e disteso sotto il suo palmo, tornò sul letto e lui la seguì, con un’ espressione tirata, come se niente fosse successo. “Perché non hai dormito da tuo zio?” chiese Sofia titubante, temendo di aver sbagliato a ritirare fuori l’argomento. “Perché non… l’ho trovato. E non volevo restarci” disse vagamente, ma Sofia capì di non poter insistere. “Ti trovi bene con il tuo libro?” chiese ancora. “Sì”. “Hai qualche informazione da darmi? Io non ne so molto”. “Che vuoi sapere?”. Syd sembrava ora più distaccato, nonostante si mostrasse disponibile. Sofia notò come si muoveva sulla sedia, come se l’angoscia che aveva percepito pochi minuti prima, ora fosse preponderante e lui, in qualche modo, più risoluto. “Come funziona e quanti ce ne sono?”. “Prima di tutto, il libro si muove di sua spontanea volontà, ma rispecchia anche te stessa, penso tu l’abbia capito. Quindi spetta a ogni custode capire come funziona il suo e come relazionarsi con esso. Ma non è solo compito del custode, ogni libro può essere diverso. O almeno credo. Mio padre mi ha detto che nessuno può strappartelo o rubartelo, perché tornerà sempre indietro. Un’altra persona non può possederlo, né utilizzarlo se il custode non glielo cede di sua spontanea volontà”.
“Davvero? Beh, la cosa mi rasserena” rispose Sofia rilassando il viso. “Non dovrebbe. Perché potrebbero torturarci per convincerci a consegnarglieli”. Syd era serissimo. “Ma di chi parli?”. La ragazza fece una smorfia. “Parlo ipoteticamente”. Sofia incrociò le braccia e perse qualche istante a pensare. “Poi?”. “Non so niente più di questo”. Sofia rimase delusa, ò la mano sulla copertina del suo libro, disegnando con la punta delle dita i contorni delle tre fessure rotonde. “Il tuo ha la fessura a destra” disse sorpreso. “Che intendi?”. “Anche il mio ha tre fessure sulla copertina, che vanno a formare un triangolo. Pensavo fosse per tutti uguale la posizione del ciondolo, invece guarda qui: il tuo libro ha la fessura destra occupata, quella che si trova sul mio libro, invece, è vuota. Questo ciondolo dorato è incastonato sulla fessura a sinistra nel mio. Che strano”. Syd si fece pensieroso e si tastò il mento mentre lei lo osservava con attenzione. “Mi stai dicendo che ogni libro cambia in base alla posizione che occupa il ciondolo sulla copertina?”. “Non è ho la minima idea. Ma devono differenziarsi per forza, o almeno credo. Potrebbe essere solo un caso”. “Credi veramente che ciò che riguarda questi libri, anche il minimo particolare, potrebbe essere un caso?” chiese ironicamente Sofia ripensando a suo nonno. “Probabilmente no. Ma non ho altri paragoni, quindi…”. “Vuoi vedere il mio libro?” disse lei. Syd non sperava che glielo proponesse e
non tentò nemmeno di spingere molto per raggiungere quello che poteva essere un primo obiettivo. Ma ci era riuscito comunque. Se conoscerò meglio la sua forza, potrò usare la mia per portare a termine il piano, cercò di convincersi, avrebbe avuto tantissimi momenti per ucciderla, eppure aspettava ancora. Nel frattempo il libro di Sofia si scaldò, il serpente sul ciondolo sembrò muoversi irrequieto. “Sì” disse Syd. Sofia aggiunse alla domanda: “Se tu mi farai vedere il tuo”. Syd trasalì e si pietrificò, ma cercò di non darlo a vedere. Vedrà cosa mi ha chiesto il libro. Forse se evito di pensarlo, le pagine taceranno. Non voglio che lei… che lei cosa? Potrebbe essere il momento giusto. Devo approfittarne, pensò ancora, diviso a metà da due diversi sentimenti. “D’accordo. Puoi vederlo”, il ragazzo lo disse guardando da un’altra parte. Sentì i suoi palmi farsi scivolosi e il cuore martellargli. “Non sono mai stato così agitato. Mi devo dare una calmata” si ripeteva mentre Sofia lo guardava con una punta di preoccupazione, intuendo che qualcosa non andava. “Allora. Comincio io. Ecco qui”. Lui lo prese e lo sfogliò con profonda agitazione. Il loro ultimo scontro non era stato dei più felici e temeva che succedesse ancora. Le pagine erano ancora vuote, le fissò con timore. Non era comparsa la storia di quel giorno, come era accaduto con il nonno, e per fortuna, aveva paura di leggere cosa potesse esserci scritto. Ripensò a poche ore prima, quando si era chiusa in bagno, e serrò gli occhi per scacciare via quell’immagine di sé. Fu allora che il libro iniziò a scriversi. “Ehi guarda” la richiamò Syd. “Non c’è cosa migliore del conflitto per migliorare, o per distruggersi”.
“Che vuol dire?”. Sofia serrò le labbra. Mi legge proprio dentro, pensò. “Ti senti in conflitto? È così quindi che il tuo libro funziona”, disse in una smorfia. “Non lo so come funziona, ma tu sei proprio sicuro che cambi in base al custode? Comunque ieri raccontava ciò che avevo fatto durante il giorno. C’era scritta la mia storia e quella delle persone che erano con me”. “Anche di Leon e di quell’altro imbecille?” chiese con disprezzo. “Syd!”, disse con una punta di rimprovero. “Sì comunque. Anche la loro”. “Interessante” commentò tirandosi in avanti. Utile, ma allo stesso tempo pericoloso. Per fortuna non sa utilizzarlo. Sempre che poi abbiano un solo modo di essere utilizzati. Dovrò scoprire di più a riguardo, pensò estraniandosi un secondo. “Dimenticavo di dirti che il libro per funzionare bene ha bisogno di più equilibrio possibile”. “Equilibrio?”. “Già. Dovresti cercare di mantenerti il più salda possibile, perché tu influenzi lui, così come lui può influenzare te” disse solennemente il ragazzo. Ma perché le sto confidando anche questo? Non devo aiutarla, pensò contorcendosi le mani. “Capisco. Ecco perché oggi non sono riuscita a riparare quella crepa” le sfuggì. “Aspetta. Aspetta. Torna indietro. Riparare le crepe?”. Sofia si grattò il mento, imbarazzata. Avrebbe preferito tacere in questo caso. “Te ne sei accorto delle crepe?”. “E come potrei non accorgermene? Sono ovunque. Anche qui, guarda la tua scrivania”. Una piccola stradina si stava facendo spazio sul lato sinistro. Spalancò gli occhi verdi nell’inquadrarla: “Cavolo, quella non l’avevo vista”. Poi si alzò e allungò le dita per sfiorarla. “Sai cosa significa?”. “No. Ma ho una supposizione”.
“Spara” disse ritraendo la mano. “Se tu mi fai vedere come ripari le crepe”. Syd intrecciò le braccia, era curioso, tutto il resto poteva aspettare. “Ma possibile che dobbiamo andare avanti col ricatto?”. “Non sono ricatti, ma semplici scambi” disse sistemandosi indietro i capelli con nonchalance. Lei sbuffò infastidita: “D’accordo”. Non voleva ammettere a se stessa che si stava divertendo. Aprì il libro e iniziò a fissare la crepa con tutta la concentrazione possibile. La crepa iniziò a chiudersi, poi l’immagine di lei che strattonava quella ragazzina in bagno prese il sopravvento, e la fessura si riaprì. “Che succede? A cosa pensi? Elimina i conflitti. Respira” le disse appoggiandole una mano sulla spalla. “Eliminali”. Lei si tese al tocco della sua mano calda e si innervosì. “Non ci riesco” disse increspando la fronte per lo sforzo. “Sì che ce la fai”. Stavolta fu lui a prenderle il braccio e a mantenerla stabile. “È il libro che li sta tirando fuori. Ora perché pretende che li ricacci dentro per farlo funzionare?” balbettò. “Lui te li tira fuori per farteli risolvere. Non fa niente a caso. Cerca di rilassarti. Respira”. In quel momento pensò a Leon e al suo tocco, che era così diverso da quello di Syd. Quello di Leon le aveva dato una sensazione di calore, di tranquillità, ma il tocco di Syd le aveva procurato una scossa. Una carica di energia che l’aveva infiammata e che con difficoltà riusciva a controllare. Chiuse di nuovo gli occhi e rimase concentrata. Ci riuscì. La crepa si risanò in un istante. Ma all’improvviso quelle immagini presero il sopravvento, quella parte di lei che non voleva vedere, si fece spazio, e la crepa, che si era quasi del tutto richiusa, prese di colpo fuoco.
Sofia aprì gli occhi e rimase paralizzata da ciò che aveva fatto. “Che fai imbambolata? Sbrigati! Prendi quello”, indicò il lenzuolo e lei lo afferrò. Poi insieme cercarono di spegnerlo. Il fuoco divampava alto ed era sempre più intenso. Non riuscivano a calmarlo, sembrava una presenza viva che li derideva. Sofia agì d’istinto. Lasciò il lenzuolo e prese il libro. Chiuse gli occhi per cercare la concentrazione e poi fissò il legno. “Stavolta non accadrà” sussurrò. Toccò la superficie calda del libro, il ciondolo rispondeva al suo tocco. Sembrava un piccolo essere vivo che respirava sul suo palmo. Si concentrò e pian piano il fuoco sparì, e la crepa, che si era riaperta, si chiuse. “È incredibile” disse Syd improvvisamente esaltato. Gettò a terra il lenzuolo che ancora stringeva in mano. “Il mio non può fare questo. E chissà se gli altri…” chiese in parte deluso. Lo sguardo di Sofia lo fulminò: “Ci sono altri libri, quindi”. “Sì. Non so quanti, ma sono sicuro che ce ne sia almeno uno per Area. Io suppongo… sul mio c’è scritto il numero dell’Area a cui appartengo, e sul tuo c’è l’1”. “Hai ragione. Deve essere così”. Sofia si sedette a prendere fiato. Quel gesto le aveva tolto di colpo le energie. Si asciugò la fronte con il dorso della mano, pallida. “Ma che ruolo avranno? Si potranno usare insieme, oppure ognuno ha un compito differente?”. In quel momento Syd pensò al suo, di compito, prese un enorme respiro, zittendo la voce nella sua testa che gli diceva di fermarsi. “Guarda qui, è comparsa una nuova frase” disse Sofia perplessa. Raccogli le Anime. “E che cavolo vuol dire?” chiese Syd facendo una smorfia. “Le Anime. Non saprei. Non ne ho mai sentito parlare”.
Fece una domanda silenziosa al libro, e lui rispose semplicemente: Devi raccogliere le Anime. Cercale”. “Ma se non so cosa sono, come posso trovarle?” disse arrabbiata Sofia. “Perché non me lo dice?”. “Forse vuole che lo scopri da sola” rispose Syd toccandosi il mento. “Maledizione”. “Che succede?” chiese Syd strappato alle sue riflessioni. “Guarda lì”, indicò la crepa che era tornata. “Non si ripara mai definitivamente, è successo anche a scuola”. “Proviamo insieme” disse lui sistemandosi il libro sulle ginocchia. Sofia lo guardò sorpresa della richiesta. “D’accordo”. Allungò una mano verso Syd che, titubante, la strinse. Sentì la sua mano perdersi in quella di lui, e questo le donava sicurezza. Fissarono la crepa desiderando di chiuderla, i libri cominciarono a bruciare sulle loro gambe, ma loro non si distrassero, l’aria sembrava immobile. La tenda che prima si agitava lievemente si era fermata del tutto, come se trattenesse il respiro. In quel lasso di tempo in cui percepirono quell’immobilità, in cui lo stato di concentrazione era tale da creare il vuoto intorno, la crepa svanì. Al tocco entrambi provarono uno strano sentimento di familiarità. Ho come la sensazione di conoscerlo da sempre, pensò Sofia, e lo stesso pensiero ò di soppiatto nella mente di Syd. Si guardarono brevemente, cercando nell’altro una risposta. Si tenevano ancora per mano. In quel momento si sentirono specchio di due anime appartenenti a un mondo lontano, che non esisteva più da tanto. Si sentirono per un momento non solo legati tra loro, ma anche a un loro io perduto nel tempo. Poi si riassopirono. “Vuoi vedere il mio ora?” chiese Syd staccando di colpo la mano da quella di lei, con una sorta di imbarazzo e fastidio impresso in volto; i gesti si erano fatti più legnosi. “Sì”. Sofia stava spostando lo sguardo sulle grandi mani di Syd, che sembrava
molto agitato, quando le pagine del libro che ancora teneva in grembo, iniziarono a scriversi. “Presta attenzione a chi ti sta accanto. Vuole spegnerti”, le parole comparvero insieme a quelle del suo libro che diceva: “È l’occasione giusta per uccidere Sofia”. Syd le lesse nello stesso momento di Sofia e non aspettò: in un istante la gettò a terra e le strinse le mani al collo, mentre lei si dibatteva, ancora sorpresa, con gli occhi spalancati in un’espressione addolorata. Poi iniziò a immobilizzarsi pian piano, come se la vita stesse scivolando via dal suo corpo. Era sfiancata dagli sforzi precedenti e non riusciva più a ribellarsi. Syd cercò di non guardarla, i suoi occhi lo mettevano in difficoltà. Sofia forse notò il suo conflitto, così smise di dimenarsi, si fermò. Lasciò cadere le sue braccia lungo i fianchi e chiuse gli occhi. I capelli castani si erano sparsi sul pavimento. La ragazza agì così, d’istinto. Non seppe neanche il perché, ma funzionò. Syd allentò la presa e fece scivolare le braccia a terra, rimase inginocchiato, prostrato verso il pavimento, sapendo di aver fallito la sua prima e unica occasione. Confuso, arrabbiato, infelice, eppure sollevato. Si asciugò il sudore dalla fronte, guardando a terra. Poi poggiò le mani sulle gambe che erano ancora piegate a terra, attorno al corpo esile di Sofia, come un ponte su un fiume sottile e indifeso. Sofia si massaggiò la gola tossendo e si tirò lentamente su a sedere, scivolando da sotto le sue gambe. Era scossa da un leggero tremore. Non scappò via, né urlò, chiese solo: “Perché lo hai fatto?”. Syd si ostinava a fissare il pavimento, i capelli color dell’oro gli danzavano davanti coprendolo alla sua vista. Poi finalmente alzò la testa, i due si guardarono, gli occhi tristi di uno si rispecchiavano in quelli dell’altro. “Perché è stato il libro a chiedermelo”. Poi aprì il volume per farglielo leggere, tremava ancora per l’adrenalina e per quel misto di sensazioni che lo avevano prima spinto e poi trattenuto. Sul libro c’era solo una frase.
“Hai fatto una scelta. Ora perseguila”. “Direi che ha messo alla prova anche te” disse Sofia e abbozzò un sorriso mentre si tirava su fiaccamente. Lui non riuscì a dire nulla. “Hai scelto me. Forza, alzati” disse la ragazza porgendogli la mano, e lui si aggrappò a lei senza pensarci. “Su andiamo” gli disse con tono dolce ma imperativo, poi gli lanciò un sorriso quasi impercettibile. E in quel momento quella ragazza apparve a Syd come la guerriera del suo libro, con il suo portamento fiero e sicuro. Fissò i suoi lunghi capelli castani ondeggiare e la seguì. Nello stesso momento, le tre fessure si mossero sulla copertina, il ciondolo di Sofia andò a occupare la punta della piramide.
CAPITOLO 11
La disgregazione della materia e ciò che ne deriva. Il legame si stringe.
“Syd, Syd, Syd. Area 3. Ah, eccolo qui” disse la donna dai capelli rossi dall’ottavo piano dell’edificio stipato di Ombre che si perdevano a vista d’occhio. Ognuna alla propria postazione, identica a quella del vicino, formazione che si ripeteva poi per almeno un’altra cinquantina di piani, forse più. Non le era dato avere quest’informazione. Sapeva però che le fondamenta del palazzo scavavano la terra per tantissimi metri e che un gran numero di piani erano sotterranei. “Ringrazio di essere fuori dalla terra, anche se in realtà non sembra di esserlo. La luce del sole è talmente lontana…”. Sentì improvvisamente il peso di quell’aria rarefatta. “Ricordo quando uno, poco distante da me, ebbe un attacco di claustrofobia e di panico. Si contorceva e aveva il terrore impresso negli occhi. Per molti qui è veramente troppo. Troppe persone compresse, postazioni identiche, in piani identici, di un edificio identico agli altri, sparsi nelle zone dell’Area, con persone che sembrano identiche e anonime”. Si toccò i capelli rosso fuoco con un sorriso stanco ma vivo. In quel mare indiscriminato di teste, l’unica a distinguersi era la sua. Sulle gambe teneva di nuovo un pacchetto di caramelle gommose senza nome, dei più svariati colori, rigorosamente accesi. Ne prese una a forma di lombrico e se la ficcò in bocca succhiandola, sempre con il disappunto dei vicini che evidentemente non avevano tanto coraggio da imitarla. Lei pensò ancora alla posizione di quegli edifici: “Alla fine è indifferente dove si trovino, visto che la popolazione non sa che li stiamo ascoltando”, si disse con una sorta di amarezza che non avrebbe dovuto appartenerle, visto il ruolo che ricopriva.
Poi chissà perché le Ombre vengono tutte dall’Area 2, così come gli agenti? si domandò per la prima volta. Forse perché nessuno dell’Area 1 ha voglia di fare questo lavoro ingrato. Bah, lasciamo perdere. Fu in quel momento che notò una piccola crepa sul muro. Che strano, questa mattina non c’era di sicuro. Mah, va bene. Non ho tempo per starci a pensare. Si stava aprendo una piccola fessura anche nella sua scrivania, in un angolo basso e poco visibile. “Cos’è che stavo facendo? Ah sì, vediamo un attimo” disse masticando un lombrico gommoso. “La sua Ombra si trova… al ventitreesimo piano del terzo edificio. Bene”. Prese i contatti e, guardandosi intorno, compose il numero per chiamare. Uno dei capo-piano era appena ato, perciò era sicura di avere del tempo ancora, prima che fero un altro giro di controllo, almeno dieci minuti. “Sì? Chi parla?”. Che voce giovane, pensò. “Ciao”. Le venne di dare del tu e sperò di non mettersi in cattiva luce, non era molto educato. “Ciao a te”. “Sono un’Ombra dell’edificio 1, dell’Area 1” disse facendo oscillare un lombrico gommoso decapitato da un morso. “Ah, buongiorno”. La sua voce si tese. Era raro ricevere telefonate dalle Ombre delle altre Aree, soprattutto dalla 1, quella principale. Si sforzò di darsi un tono: “Cosa posso fare per lei?”. “Non ci stavamo dando del tu?” disse stupita. “Non mi permetterei mai”. “Come vuoi. Volevo avere informazioni sul ragazzo che segui. Syd”. “Sì” rispose quello dall’altra parte del telefono, sulla difensiva.
“È venuto sotto permesso per suo zio. È vero?”. “Sì”. Monosillabi, magnifico! pensò lei infastidita, ma insistette. “Hai notato qualcosa di strano?”. “No, affatto. Alla fine è il nipote di uno dei servizi speciali del Presidente” disse, facendo capire che non lo controllava poi tanto con questa scusa. Ma si rese conto di aver sbagliato, che lei avrebbe capito e forse l’avrebbe segnalato. “Diciamo che è un tipo a posto. Anche se è molto scontroso. Non mi dà molto da fare, non ha tanti amici. Se ne sta da solo”, cercò di riprendersi, mentre i capelli rossi della donna facevano silenziosamente segno di no. “S’identifica sem… sem…”, all’improvviso non gli venivano le parole e la donna rimase ferma ad aspettare che completasse la frase, con pazienza. Era imbarazzante stare in ascolto sapendo la difficoltà del suo interlocutore, si sentiva come se si trovasse con un’altra persona in un ascensore che procedeva lentamente. Ma che gli prende? rizzò la schiena e lasciò il pacchetto di caramelle. “SEM… SEM… non riesco più a… non mi vengono le… parole”. Lei sentì il suo affanno e immaginò le ombre intorno a lui girarsi infastidite, così come succedeva con lei quando faceva qualcosa al di fuori della norma. “Tutto a posto?”. “Sì… sì” rispose con voce insicura. “Tranquillo. Non ho nessuna intenzione di segnalarti. E poi in base a che prove?”. Era convinta fosse per quello l’improvvisa perdita di parole. “Non riuscivo a parlare, non mi è mai successo. Non venivano le parole, come se scapero non appena finivo di formularle mentalmente”. La donna non ci fece caso.
“Dicevo che s’identifica SEMPRE”, e calcò la parola come se volesse dimostrare a se stesso di ricordarla, se la scrisse bene in mente, cancellando quella brutta sensazione di disagio. “Sia a casa sia a scuola, ma anche nei vari luoghi pubblici in cui sta entrando qui nell’Area 1”. La donna rimase in ascolto senza sapere che quel problema delle parole si stava diffondendo a macchia d’olio in tutta l’Area. “Bene. Quindi niente da segnalare”. Aveva acquistato sicurezza nel corso della chiamata. “Perché le interessa? Non è normale che…”. “Oh, non è nulla. Pura curiosità” disse interrompendolo. Non regge come scusa, maledizione. Pensa, pensa, si disse la donna. “Ora che è all’Area 1 è normale che ci siano più controlli. E io sono stata incaricata di accertarmi che vada tutto bene”. “Capisco. Di quale zona è l’Ombra, lei?”. Lei pensò che non avrebbe potuto mentire, del resto non si potevano effettuare collegamenti anonimi, lo avrebbe comunque scoperto. “Sono un’Ombra individuale, di Sofia Amberale. Ma non c’è bisogno di nessuna segnalazione. Ho chiamato in via ufficiosa questa prima volta. Per fare conoscenza. Io solitamente non segnalo i miei colleghi… ma se costretta, lo farò”. L’uomo si tese sulla sedia. “Capisco. Beh allora è stato un piacere, buon lavoro” disse titubante lui. “Piacere mio. Buon lavoro anche a te” rispose e attaccò di corsa. Sulla fronte le erano spuntate delle goccioline di sudore, non era stato facile come si aspettava. Sperò che l’individuo non la segnalasse, se l’avesse fatto… Cosa potrebbe succedermi? Beh, non importa. Devo salvaguardare quella ragazza. Sento di doverlo fare. Non mi segnalerà. Ne sono certa, pensò. E poi con il reset giornaliero dovrei essere al sicuro, e così anche Sofia. Per fortuna ci sono queste direttive, se non ci fosse stato quel sovraccarico diciassette anni fa,
beh, adesso le conversazioni di ognuno dei nostri Esaminati sarebbe registrata e pronta a essere ata al vaglio. È difficile contenere un tale numero d’informazioni. Altro che per motivi di privacy, come si fa a credere che sia vero? Storse la bocca in una smorfia di frustrazione. Noi controlliamo ogni movimento delle persone, che privacy c’è in questo? Scosse la testa infastidita e tornò a pensare a Sofia. Non sentiva solo di doverla proteggere, si era anche stranamente affezionata a lei, ed era un divieto per un’Ombra. Era stata addestrata a essere obiettiva, eppure con quella ragazza non ci riusciva proprio. Si accorse improvvisamente di essersi imbambolata e di avere i palmi sudati, stava ancora stringendo una di quelle caramelle che si era quasi sciolta sotto la sua presa. La gettò nel cestino, con un improvviso scoraggiamento, e ne sfilò un’altra dalla busta, poi infilò il sacchetto in borsa. Dopo poco sarebbe ato di nuovo il capo per il controllo. Si stropicciò i capelli rossi con insistenza e disse: “Come si può vivere così”.
“Signore”. “Sì?”. “Sono l’Ombra del ragazzo”. “Sì, lo so bene. Che aspetti a parlare?”. “Mi scusi. L’Ombra di quella ragazza, Sofia, si è fatta viva. Voleva delle informazioni. Io sono rimasto sul vago”. “Bene. Ottimo lavoro. I due ragazzi sono sempre insieme?”. “Sì. Parlavano dei libri, come le ho detto durante la scorsa telefonata”. Come ai vecchi tempi, pensò. Niente cambia. La storia si ripete, sempre. Se non con qualche piccola variazione, come quelle causate da Redis e dagli altri due, ma sono variazioni che non m’interessano. Insieme, quei tre hanno dato una svolta alla storia di questo pianeta, in una maniera impensabile, rifletté il
Presidente. Ma alla fine il risultato non cambierà. Nuova rivoluzione, nuovo potere, pensò con le labbra tese in un sorriso. E poi, Redis dice che è proprio questo il mio momento, il momento che il libro ha individuato. Dopo tanto aspettare… Gettò un’occhiata al volume che se ne stava poco distante da lui. E se è lui a dirmelo, non posso far altro che agire. Una goccia di sudore spuntò dalla sua fronte e un forte malessere lo invase. “L’attesa ha dato i suoi frutti” disse, poi si piegò in avanti e si strofinò la fronte corrugata con la punta delle dita. “Signore?”. “Ho finito con te. Cosa vuoi ancora?”, tirò la testa indietro e chiuse gli occhi. “Mi scusi”, disse prostrato, “la terrò informata”. Devo lasciare del tempo a tutti e due per fare in modo che i libri e le loro Anime si fidino dei loro custodi e i custodi di loro. Se il legame non si sarà attivato, saranno completamente inutili. E a me servono funzionanti. Calò un insistente silenzio. Dalle spedizioni, in questi anni, non abbiamo ricavato nulla. Ma sono sicuro che se la situazione degenererà ancora, saranno costretti a uscire allo scoperto. E a quel punto ci sarò io ad aspettarli, scoppiò in una fragorosa risata, sembrava tutto calcolato, persino quella nuova e strana guerra appariva voluta. Ma come poteva un solo uomo scatenarla? “Dovranno venire tutti qui” disse infine.
“Va meglio?”. Fran avanzava leggermente piegato su un lato e sembrava stesse per cadere. All’inizio Leon lo sorreggeva, ma lui a un certo punto si era distaccato dicendo di farcela da solo. “Tranquillo, è una cosa da niente” disse con un mezzo sorriso forzato. “Sicuro?”.
“Sì”. “iamo al supermarket a prendere acqua e qualche snack, prima di tornare a casa?”. “Sì, ti prego. Ho proprio voglia di un po’ di cioccolata. Con il pranzo oggi mi è andata proprio male. Chissà chi è la mente malata che prepara i menu per i braccialetti…” disse sbuffando, poi gli fece l’occhiolino mascherando il dolore ai polsi e lo shock per le percosse. Quando viene superata quella barriera che dovrebbe essere invalicabile, quella del rispetto della persona, è difficile tornare ad avere fiducia nel prossimo. E Leon vedeva in Fran una sorta di rabbia ben celata, che non gli era mai appartenuta. Gli erà, si ripeté più volte scacciando le altre possibilità. “Quel senso d’impotenza l’abbiamo provato tutti una volta o l’altra”. Le strade erano stranamente sgombre. La gente, in quei giorni, tendeva a rimanere chiusa in casa, usciva solo per andare al lavoro o per fare la spesa. Era più preoccupata di quanto volesse dare a vedere, e quel timore si percepiva nell’aria. Erano le squadre di controllo, visibilmente aumentate, a trattenerli dall’esprimersi. Prima capitava di incontrarle, giravano sempre per la città e nei luoghi pubblici, ma non erano così invasive come apparivano ora. Le vie ne erano piene; in ogni zona cruciale dell’Area 1, erano stati allestiti dei posti di blocco, talmente ampi da essere visibili già da lunghe distanze. Alla loro vista Leon notò le persone ritrarsi, indurirsi, le emozioni rinchiudersi come un’onda che viene risucchiata dal mare, lasciando la sabbia secca e asciutta all’esterno, ma senza che riesca a cancellare quei buchini ben impressi in superficie. Spiragli in cui l’acqua si è insinuata, da cui continua a uscire e a bagnarla, quella superficie, facendo intravedere i sentimenti che, la presenza di quei robot bianchi sembravano voler cancellare. Era inevitabile, nonostante tutto. Così fece anche Fran, che era visibilmente spaventato alla loro vista: si voltò verso il muro per non guardarli, per non ricordare. “Entriamo in questo” disse. I due notarono che era un supermercato solo grazie
alle immagini di cibo attaccate fuori, perché lì dove appariva la scritta, c’era un vuoto, uno sfondo blu uniforme. La città sembrava aver cambiato di colpo volto. Non sembrava più casa loro. Ora i negozi apparivano come fantasmi di una vita ata, senza quel nome a identificarne l’esistenza, a definirne i contorni, i ruoli. Se non fosse stato per la vita al loro interno, che li animava come ogni giorno, Leon avrebbe potuto giurare a chiunque che quei luoghi fossero abbandonati. arono la piastrina allo scanner d’ingresso con una smorfia impressa sul viso e una ritrosia che li nauseava, ed entrarono. Al bancone, entrambi notarono un vecchio signore afflitto che si teneva il viso tra le mani, senza mai alzarlo. Quello in cui erano entrati, era un piccolo supermercato, perciò sarebbe stata buona educazione salutare. Non era la prima volta che andavano lì, e mai era successo che quel signore tanto cordiale, non si fosse girato ad accoglierli con un sorriso. Tutti questi pezzi di realtà, di routine, che avevano vissuto senza soffermarsi a pensare, quasi senza notarli a livello cosciente, erano andati perduti. Quella situazione, quella strana “guerra”, si era portata via anche questo, oltre alle parole. E ora che quelle parole non c’erano più, ne sentivano la mancanza. L’assenza di quei piccoli gesti quotidiani, così familiari, non faceva altro che aumentare la sensazione di estraniamento che sentivano appiccicata addosso, come se camminassero in una realtà che non era la loro. Estranei in un mondo che non riconoscevano. Leon era tentato dall’andare a salutare il vecchio signore, di provare a ricucire almeno quello strappo del suo tessuto quotidiano, ma aveva troppa paura di sapere cosa lo fe piegare in quel modo, cosa gli togliesse il respiro. Vide più volte la schiena contrarsi. I due amici si lanciarono un’occhiata tesa e poi si addentrarono silenziosamente negli stretti corridoi quasi deserti. “Papà? Sì, va tutto bene”. Fran si sforzava di darsi un tono. “Sì. Ti richiamo più tardi”.
“Ancora tuo padre?”. Leon era sorpreso, aveva già chiamato due volte. “Sì. È apprensivo”. Leon abbassò lo sguardo. I suoi occhi azzurri si fecero tristi. “Scusa amico”. “E di che?”. “Della faccenda del padre”. “Figurati. Alla fine non mi può mancare chi non ho mai conosciuto”. Fran si sentì a disagio in quel momento. Leon era sempre visibilmente scosso quando saltava fuori l’argomento. “Mia madre non me ne ha mai parlato. Te l’ho detto. E lui non si è mai fatto vivo. Anche lei preferisce non parlarne”. “Ma è in quest’Area, però”. “Sì. Lei mi ha detto che ha tentato di cambiare, per allontanarsi da lui, ma non gliel’hanno permesso”. “Perché voleva allontanarsi?” chiese, sembrava un gesto estremo il voler addirittura fuggire dall’Area. Gli sembrò assurdo e sospetto, nonostante sapesse che era la verità. Sentirlo dire da lui però acquisiva di colpo tutta un’altra sfumatura, che non aveva considerato. “Non lo so. Non voleva più rivederlo. Ed io ho smesso di chiedere”. Serrò le labbra. “E poi la cosa la rendeva molto triste”. “Tua madre sembra sempre molto triste, anche se non lo dà a vedere. Oh scusami. Non volevo dirlo”. “Smettila di scusarti. Alla fine è la verità. Lei è una persona terribilmente…”. “Insofferente. È la cosa che ho pensato quando l’ho conosciuta”. “È vero”.
Leon si sforzava di parlare, voleva a ogni costo distogliere l’amico dal pensiero di ciò che aveva subito. Perciò andava bene tutto. Anche il discorso di suo padre. “E poi, che risate. Quando compare una squadra di controllo”. “Oppure lui” aggiunse Leon, che non riusciva neanche a dire il nome di suo padre. Fran si agitò un momento. “Già, ho ben impresso in mente la sua faccia imbestialita”. “Oh sì. Lo odia da sempre”. Leon ridacchiò, sua madre era buffa in quei frangenti. “Il nostro magnifico dittatore”. Il sorriso si tese in una smorfia. Carne da macello, pensò. “Fran! Fai silenzio”. “Al diavolo. Tanto, ormai. Al massimo prenderò qualche altra scossa”, mentre pronunciò queste parole, divenne bianco in volto, e Leon lo vide rabbrividire. “Uh, vuoi un pacchetto di barrette al cioccolato senza nome?” chiese Fran a Leon con lo spirito di un tempo. “Sì quelle, prendile. Dalla forma e dalla figura direi che sono le solite”. “Sì, dovrebbero. Ora, senza marche, potrebbero benissimo rifilarci robaccia di terza categoria”. “C’è sempre il marchio”. “Il marchio senza la scritta ha il suo valore?” meditò Fran. “Non ne ho idea. Ma pure se non ce l’ha, ce l’avrà”. “Se la situazione rimane così, sicuro”. “Sono certo che la risolveremo”. Fran rimase in silenzio per un momento, lungo abbastanza da far girare Leon
verso di lui: “Ci credi davvero?”. “Sì. Perché no. Una possibilità ce l’abbiamo. Lo sai”. “Parli di quello stupido libro? Hai mai sentito di guerre che si sono combattute con i libri?”. “Il libro è uno strumento potente”. “È uno strumento potente in un altro senso. Non può essere un’arma in senso pratico. È solo un pezzo di carta” disse quasi esasperato massaggiandosi i polsi. “Sai bene che quello non è un semplice pezzo di carta”. “Sì, va bene, ok. È speciale e lo abbiamo visto. Ma secondo te ha il potere di ricostruire un mondo? O buttare giù il…”, non proseguì, il timore di essere ascoltato si era rafforzato dal momento in cui aveva subito quella violenza, e persino Leon tacque; alla fine non c’era bisogno di dire altro, si erano capiti. “Vediamo se lei è riuscita a trovare quello che cercava”. “Sicuro che cercasse qualcosa?”. “Sì, delle spiegazioni. Ha preso tempo perché doveva riflettere da sola”. “E tu che ne sai?”. “Lo so. La capisco così bene da stupirmi” disse Leon voltandosi verso il reparto succhi. Rimase pensieroso a osservare quegli involucri anonimi, di diversi materiali e colori, tutti ordinatamente infilati in settori che non avevano quasi più bisogno di esistere. Guardò le immagini della frutta, l’unica cosa che li distingueva l’uno dall’altro, e prese a caso quello dall’aspetto più invitante. Fran lo guardò di sottecchi e fece un sospiro affranto. “Un mondo senza marche. Te lo immagini?”. Leon prese una bottiglia con un’etichetta completamente bianca. “No. C’è talmente sfoggio in quest’epoca… come le etichette sulle confezioni, la marca distingue una persona dall’altra. O almeno è così che la pensano gli altri”. “Come se fosse la marca a distinguerla, a definirne lo status o le qualità”.
“È così anche con le persone”. Sospirarono entrambi, sempre fissi sui succhi di frutta. “Adesso si attrezzeranno con le immagini, alla fine sono quelle che rimangono più impresse, no? Queste sono ancora vecchie scorte, ma sicuramente quando ripartiranno i rifornimenti, avremo lo stesso prodotto rilanciato in altro modo”. “Sembri un esperto”. Leon pensò che l’amico avesse sbagliato corso di studi. “Eh, eh sai che non è vero. Uso l’immaginazione. Ci saranno prodotti solo basati sulle immagini, e così tutto il resto”. “Sì, certo. È logico. Ma alla fine non è da anni così? L’immagine è diventata più importante in quest’epoca. Da quando c’è stato il…”, non voleva dirlo ad alta voce, perché del grande terremoto, in giro, non si parlava molto. Ancora non gli era chiaro perché spingessero più sulla storia della guerra, che su quella della calamità naturale. “Vorranno far credere che questo mondo sia il frutto di un intervento umano e non della natura?”. “Leo. Ti sei incantato?”. “Scusa, dicevo che ormai l’immagine ha preso il sopravvento. Per molti non sarà poi un grande problema vivere di sole immagini. Telegiornali, cinema, libri, tutto illustrato”. “Ma hai visto oggi all’Università? Le crepe e…”. Ripensarono al professore che balbettava le parole. “Sono sicuro che peggiorerà” disse Fran e Leon non poté che acconsentire. Ha pienamente ragione. Questo non è ancora tutto, si disse mentre sceglieva un pacco di carne dal banco frigo, e Fran una confezione di sei birre senza nome. “Vabbè dai, beviamoci su” gli disse infine Fran con un sorriso stanco, ma che gli apparteneva. “Sei sempre il solito” rispose, rinfrancato da quella visione. Sta bene per fortuna. “Cassa?” chiede Fran.
“Aspetta. Volevo prendere anche un pacco di bis…”, i due si guardarono terrorizzati. “Riprova su, riprova!” disse nervosamente Fran avvicinandosi all’amico. “Bis…”. “Oddio”. Fran si guardò intorno. Poi mimò con le labbra la parola, come se questo potesse aiutarlo a fargliela tornare. “Bis…”, prese a toccarsi le labbra mentre Fran era impallidito. “Prendi un grande respiro e poi riprova” disse a Leon cercando di ritrovare la calma. Luì annuì senza aprire bocca, come un muto spaventato dal suono. “Aspetta. Riposa un secondo”. Fran tornò dopo un minuto con una bottiglia d’acqua ghiacciata, questa era addirittura senza etichetta. Leon bevve qualche sorso sforzandosi, si sistemò bene gli occhiali sul naso, come se dipendesse da quello la buona riuscita dell’impresa, poi riprovò. “Bis…”, si piegò su se stesso mugugnando spaventato, aveva il terrore che non sarebbe riuscito più a parlare, anzi, ancora peggio, ne era certo: se non ora, sarebbe successo. Fran gli poggiò le mani sulle spalle per fargli sentire la sua vicinanza, poi lo guardò fisso negli occhi senza dire nulla. “Biscotti” disse finalmente Leon in un fremito angosciato. Vista dall’esterno la scena poteva apparire ridicola: la loro espressione era grave, i corpi tesi. Eppure, se la gente che li derideva in quel momento avesse saputo, o solo immaginato che questo sarebbe potuto succedere anche a loro, in qualunque momento, non avrebbe riso, né ignorato il terrore che poteva causare il rimanere senza parola. “Dai, andiamo a pagare” disse Fran. Leon sembrava aver ritrovato la calma, ma dovette prendersi prima qualche minuto. “È orribile non riuscire a parlare. Io pensavo alla parola ma questa, arrivata alla lingua si perdeva. È come se…”.
“Ma ora è tutto a posto, no?”, disse ottimisticamente Fran interrompendolo. “Sì. Ma per quanto? Questa cosa, qualsiasi cosa sia, ci sta raggiungendo. Prima o poi…”. “Non devi neanche dirlo”. “Non possiamo negarlo, succederà, ne sono sicuro. Peggiorerà”. “Basta ora. Pensiamo a tornare a casa” disse indicando le casse Fran. Andarono alla cassa più vicina e non poterono fare a meno di fissare il povero gestore, in tutto quel tempo che avevano ato lì, non si era mosso. Era così afflitto che i due ragazzi avrebbero voluto avvicinarsi per dargli conforto. Invece, arono i braccialetti allo scanner laterale e rimasero in attesa. “Signore?” disse a un certo punto Leon facendosi più vicino. “Signore va tutto bene?”. Fran lo seguiva senza aprire bocca. Finalmente l’uomo alzò gli occhi, ed erano quelli di sempre, azzurri e gioviali ma con una luce diversa, è questo che colpì subito Leon: sembravano essere stati contaminati da qualcosa che ne deformava lo sguardo. L’uomo era spaventato, le rughe del viso sembravano più scavate di quanto ricordasse, le occhiaie gli davano un’espressione prostrata, mentre i capelli, solitamente ben pettinati, lo facevano apparire trasandato, o disperato, pensò Leon. Gli occhi dell’uomo sembrarono essere fuori, come se a forza di spalancarli non fossero più tornati indietro al loro posto. “Non riesco più a…”, aveva la bocca impastata dal troppo silenzio, mosse la lingua in bocca e contrasse le labbra in una smorfia. “Quelle difficili, non riesco a dire quelle difficili”. Sputò fuori guardando a terra. Forse aspettava qualcuno che si preoccue per lui, almeno un minimo. “Io vi… conosco” disse come un muto che aveva appena iniziato a parlare. “Venite qui”. Sembrava che non avesse mai parlato in tutta la sua vita, tanto era lo sforzo che ci metteva a far uscire ogni singola sillaba dalla bocca, cercava di calibrare bene le parole, di staccarle l’una dall’altra. Le tirava fuori da sé, con attenzione e cura, come fossero gioielli preziosi nascosti in un forziere. Come se
solo in quel momento ne avesse scoperto il vero valore. “Sì, veniamo spesso” disse Leon. “Abitiamo vicino”, aggiunse l’amico che aveva fatto un o avanti. L’uomo assunse un’espressione infelice, sembrava sapere cosa sarebbe successo, e li guardava con pietà. “Che vuol dire che non riesce a dire quelle difficili?”. Leon sembrava aver paura anche solo di pronunciare il termine. L’uomo notò le buste piene che i due ragazzi tenevano in mano e si alzò. “Oh, ma avete carico. Poggiatele qui sul ban… ban…”. Il signore non si scompose, quello scintillio di gentilezza che lo aveva sempre contraddistinto scomparve di nuovo, per far posto a un’espressione muta, tirata, fissa, forse arresa. Si sedette di nuovo e rimase a fissare il bancone, mentre non riusciva a pronunciare la parola, e provava angoscia, ma senza mostrare opposizioni al suo stato. Il suo appariva come uno sguardo rassegnato. L’uomo non si aspettava che la parola gli venisse, né si sforzava di cercarla. Aveva assunto semplicemente un atteggiamento di resa. Guardò per un minuto il bancone, poi poggiò di nuovo il viso sui palmi tornando nella posizione iniziale, senza salutare i ragazzi, senza aggiungere altro; quella semplice dimostrazione era bastata. Leon e Fran capirono e lasciarono che l’uomo tornasse ai suoi pensieri. Non avrebbero potuto fare nulla. Sentirono entrambi il sangue ghiacciarsi nelle vene, il cuore fermarsi; quella scena gli aveva mozzato il respiro. Sul bancone si formò all’improvviso una crepa, come se la mancanza di parole l’avesse generata. Leon la fissò prima di lasciarsi alle spalle il supermercato e quell’uomo abbandonato a se stesso. Il commerciante guardò ancora quella piccola fessura scendere giù come se avesse vita propria, e non fece altro che registrarla nel suo campo visivo e lasciarla fare.
Leon ebbe l’impressione che l’uomo ne avesse già viste di crepe in giro, che non fosse la prima volta che le scovava a invadere il suo supermercato e la sua esistenza. Un uomo che non riesce più a parlare e delle crepe che si formano sugli oggetti, rifletté con improvvisa freddezza. Un mondo senza parole, come potrebbe sopravvivere? Poi spalancò gli occhi. E senza parole la realtà si può dire che esista? Rabbrividì a quell’illuminazione e rimase fermo alcuni istanti sulla soglia, senza riuscire a muovere un o. “Andiamo?” gli disse Fran lanciandogli un’occhiata stanca, avevano entrambi bisogno di riposare. In silenzio si avviarono verso casa trascinando le due buste di peso, arono di fianco a più di una squadra di controllo, ma non ci fecero neanche caso. Erano stati colpiti dalla gelida consapevolezza che non sarebbe finita lì. Ora avevano veramente compreso che quello era solo l’inizio.
“Signore. Ci sono sempre più segnalazioni. Le squadre di controllo non sembrano mai abbastanza e le persone sono sempre più spaventate” disse il braccio destro del Presidente. “Non me ne frega niente. Ci sono cose più grandi di cui occuparsi”. “Ma signore…”. “Fai partire un’altra ondata di calmanti, le due ate non sono state abbastanza a quanto pare” ordinò tamburellando con le dita sul tavolo. “Non possiamo intorpidirli in eterno, prima o poi dovremmo dare loro delle risposte” disse con tono trattenuto l’uomo, mentre il Presidente si voltava a guardarlo infastidito. “Hai parlato?”. L’individuo rimase in piedi, sempre più sbalordito dell’indifferenza del leader per il suo popolo. “Insomma ti dai una mossa? Fai quello che ti ho detto. E sparisci dalla mia vista” urlò, indicando la porta con la mano. Il suo viso si era fatto paonazzo, le sopracciglia invece si erano tese sugli occhi arrabbiati.
“Sissignore” rispose senza entusiasmo, e quando uscì, sbatté quasi la porta. “Maledetto imbecille” disse il Presidente e poi guardò il libro. Il ciondolo sembrò voltarsi verso di lui. Il leader spinse un tasto sotto la scrivania, che fece scorrere fuori un frigo bar dietro di lui. Il Presidente si alzò e si versò un bicchiere di liquore, sovrappensiero. Forse ho selezionato male le famiglie. Non è possibile che in tutti questi anni nessuno di loro si sia tradito. E soprattutto di fronte a una guerra. Ma la selezione era l’unica cosa da fare. Non potevo portare avanti per anni un controllo a tappeto della popolazione, la cosa sarebbe diventata dispendiosa e sicuramente sarebbe saltata fuori se ogni Ombra fosse stata allertata su questa questione. Non posso permettere di farmi scoprire, devo agire per gradi. Buttò giù un sostanzioso sorso e continuò a pensare. Diventerebbe un pericolo che non posso correre. E poi ho quasi la certezza che siano quelle le famiglie. Per l’Area 1, ormai ho quasi tutte le risposte. Li avrò tutti e tre nelle mie mani molto presto. I prigionieri si ostinano a non parlare, ma non possono fare niente. Li ho messi fuori combattimento, ma averli catturati, al diavolo, non mi aiuta per nulla, perché non posso utilizzarli come volevo. L’uomo si avvicinò a un quadro e rimase a guardarlo come se fosse interessato. Trovare le altre, invece, è diventato veramente difficile, pensò, poi strinse il bicchiere con più forza. I miei esploratori, che possono agire sul campo, mi saranno più utili delle Ombre. Devo velocizzare il tutto, non posso perdere ulteriore tempo. La situazione sta degenerando velocemente, credevo di avere più tempo. Abbiamo catturato anche quell’uomo, ma continua a tacere, mentre sua figlia è sparita dalla circolazione con il libro, ne sono certo, e con il ciondolo. Maledetta. Ma sono sicuro che prima o poi verrà a cercare suo padre. Buttò giù un sorso, cercando di placare quell’ondata di rabbia che non gli faceva prendere fiato. Fece poi scorrere il quadro di lato con la mano libera, scoprendo una cassaforte nascosta. La aprì e osservò con soddisfazione il suo bottino. Sfiorò con le dita i libri accatastati al suo interno, ò le mani sulle fessure rotonde vuote, poi si soffermò con lo sguardo su una scatola posta sul lato destro, in cui alcuni ciondoli, perfettamente lucidati, scintillavano ai suoi occhi avidi.
Buttò giù un altro sorso di liquore e richiuse la cassaforte con una smorfia soddisfatta, riposizionando il quadro lì dove era prima. Si andò a sedere di nuovo prendendo in mano il suo vecchio libro e non si accorse che la fessura con il suo ciondolo era scivolata sul lato destro. E quel maledettissimo vecchio è il più testardo di tutti, ma che importa? La ragazzina ha il libro, è chiaro. Ora devo solo capire se il legame è attivo, mi serve una conferma si disse. Un’idea improvvisa lo colpì come una scossa, si meravigliò di non averci pensato prima. Scoppiò a ridere soddisfatto e stupito di non esserci arrivato prima. Accavallò le gambe e si poggiò allo schienale con un ghigno impresso sul viso. “Che i giochi abbiano inizio”.
“È completamente senza controllo”. Dessel rabbrividì al solo pensiero “Come il suo padrone”. “Occhio Rosso è… Non possiamo fare niente, Marin”. “Non dobbiamo. Forse siamo a una svolta”. “A che conseguenze?”. “Ora sei tu a preoccuparti delle conseguenze Dessel? Forse avverrà sul serio il miracolo”. “Sofia è come lui. E le tre lune, le hai viste? Sono sempre uguali. Non c’è speranza”. “È ancora presto Dessel. E comunque lui è come lei al massimo”. “Hai capito cosa intendo. Piantala di fare la sapientona Marin”. Dessel osservava i cambiamenti repentini di Marin con sconforto. “Te l’avevo detto all’inizio. È una bomba inesplosa” borbottò lei.
“Lei è più suo nonno e te, che lui”. Dessel doveva convincerla. Se non lo era lei, che era la sua custode, chi lo sarebbe stato? “Staremo a vedere”. Marin non ne era convinta. Sentì una sferzata di energia che la portava a non pensare a nessuno, se non a se stessa. Come se l’anima di Sofia, la vera anima, la stesse contagiando. E poi continuava a pensare a Celestia. Celestia e Sofia, pensò, mentre Dessel andava avanti con il suo discorso. “Ehi, ma da che parte stai? Deciditi”. “Da quella che ci libererà” rispose e poi pensò, o che ci darà la morte. “Ti vedo convinta stavolta. Che cosa è cambiato?”. Marin non rispose e Dessel ebbe paura. La sua Marin sembrava stesse cambiando. Era stata Sofia o forse il risveglio completo di Occhio Rosso a influenzarla? Ma era possibile cambiare in una situazione del genere? D’altronde loro non erano altro che Anime. Fece finta di niente e aggiunse: “Allora incrocia le dita e cerca di portarla nella direzione giusta. Mi pare tu ci stia riuscendo”. Sospirò, pensando che l’avrebbe tenuta d’occhio. “Non è semplice”. “Niente lo è”. “Riusciremo mai a uscire di qui?”. “Lo faremo a ogni costo, stavolta”.
I due libri si scaldarono dentro le borse. Mentre i loro due custodi si apprestavano a muoversi. Sofia uscì senza preoccuparsi di sua madre, aveva cose più importanti di cui occuparsi. Le sembrò strano che non l’avesse più chiamata e che, soprattutto, non avesse bloccato la sua uscita, ma il pensiero si fece aria e sparì. “Forse mio nonno sa cosa sono le Anima” disse all’improvviso Sofia.
“Mh, sì. Forse” disse Syd sovrappensiero, mentre stava ancora rivivendo la scena di poco tempo prima. “Sembrava un’altra persona. In quel momento sembrava veramente un’altra persona”. Avevano stretto un legame e ancora non si erano accorti di quanto fosse diventato profondo in così poco tempo. Lei sembrava ormai pronta a prendere in mano le redini del suo destino, e lui era più che deciso a non lasciarla sola, ma non aveva ancora realizzato neanche questo. Ci sarebbe voluto del tempo perché fe ordine in quel groviglio di sentimenti. Il libro di Sofia aveva detto altro quando si erano fermati in un punto appartato a leggere: “Troverai un alleato che non sembrava poter essere d’aiuto”, ovviamente parlava di Syd, e lui l’aveva vissuta come una conferma, quasi un’approvazione che quello che stava pensando fosse giusto. Ma non ne era ancora convinto. Perché il mio libro ha voluto mettermi alla prova? Sono il suo custode, e dovrebbe sapere ormai che farò tutto quello che sarà necessario. In quel momento pensò a suo zio e lo invase una fitta di tristezza e rabbia. Perché se n’è andato abbandonandomi lì? Ha lasciato il libro ed è fuggito. Maledetto codardo. Syd non si accorse di aver stretto le mani a pugno talmente forte da ferirsi i palmi. “Ehi, stai bene?”. La ragazza si era accorta dell’improvviso moto di rabbia dentro di lui, poiché si era accesso come una lampadina infuocata. “Sì. Si può sapere che intenzioni hai? Maledizione dove stiamo andando?”. “Lo vedrai” rispose serrando le labbra. Lei doveva provarci, sperava che sarebbe riuscita a rincontrarlo. “No, non vedrò proprio un bel niente. Non sopporto il tuo modo di fare. Anzi, non ti sopporto proprio. Vacci tu, io non sono costretto a seguirti, né ora né mai”. “Ma aspetta” replicò lei sorpresa, lo afferrò per il braccio per cercare di trattenerlo. “Lasciami stare. Vattene al diavolo” disse liberandosi dalla presa fino quasi a colpirla in viso. Lei era rimasta ferita e delusa da quell’improvviso gesto, ce l’aveva scritto in viso.
“Fai come vuoi” gli disse arresa, non poteva di certo trattenerlo contro la sua volontà. Lui le diede le spalle e se ne andò via, era talmente furioso da non riuscire a trattenersi e lanciò un calcio a un lampione poco distante facendolo oscillare pericolosamente. Con le mani strette in tasca e la schiena piegata in avanti, camminava di tutta fretta, come se avesse un appuntamento improrogabile. Che cavolo mi è preso? si chiese. Non capiva più se era arrabbiato con se stesso per essere sbottato così contro di lei, o se lo era ancora per via di suo zio. Pensavo di averlo superato ormai. Sono un bamboccio. E l’ho anche lasciata andare da sola. Se le succedesse qualcosa, non me lo perdonerei, si voltò nella direzione che aveva preso Sofia e iniziò a correre, riflettendo su dove potesse essere andata.
“Signore, non ho nessuna novità da darle. Sì. Sono sicura”. L’uomo le fece un’ultima domanda con tono grave, come fosse un ultimatum. “Sì” rispose incerta lei, improvvisamente intimorita, forse presagendo qualcosa, poi l’uomo all’altro lato del telefono disse una frase che fece scattare in avanti la testa dai capelli rossi. “Cosa avete intenzione di fargli?”, sbiancò. “Capisco. È un buon piano” balbettò, sforzandosi di tenere la voce ferma. “Se può, mi tenga aggiornata. Io farò lo stesso” disse lei tesa. La caramella gommosa che aveva appena ingoiato le sembrò tornare su tutta intera. Sentì strisciare una fredda ansia dentro di lei. “Devo fare qualcosa. O sarà finita”.
CAPITOLO 12
Ciò che Abel non riesce a confessare
Sofia si sedette al solito posto con le mani strette tra le ginocchia. Chiuse gli occhi e si lasciò coccolare dal vento fresco che tirava con forza verso di lei. Sorrise a quel contatto. I capelli ondeggiavano apparendo più lunghi di quanto non fossero, mentre lei, con gesto abituale, cercava di sistemarseli inutilmente dietro le orecchie. Le aste di legno erano fredde come se fossero di ghiaccio, a quel contatto un brivido prese vita sulla sua pelle candida, talmente delicata da sembrare di potersi squarciare sotto il peso di quel vento. Le aste sembrarono scricchiolare, ma non volle girarsi, non voleva accertarsi se quel pensiero che le era balenato in testa fosse vero. Non voleva avere la conferma che quelle crepe si stavano portando via anche il suo molo, la sua infanzia. Rimase immobile ad aspettare un ricordo, forse un’illuminazione. Magari mio nonno tornerà qui, si disse, più che una speranza era quasi una convinzione, anche se non sapeva quando sarebbe successo. Avrebbe aspettato. “Ehi” disse una voce maschile dietro di lei. Solo per un momento sperò fosse suo nonno, ma nell’istante successivo aveva già individuato quel tono, quella voce che gli era diventata ormai così familiare, tanto da farla rilassare sul posto. Gettò le spalle tese all’indietro, poggiandosi sui palmi, poi aprì gli occhi. “Mi hai trovata”. Ormai la conosceva abbastanza da riuscire a dedurre i suoi movimenti. “Sì”, disse solo, poi si sedette accanto a lei.
“Mi dispiace di essermene andato così” le confessò. Avrebbe dovuto scusarsi anche per averle urlato contro senza motivo, ma lasciò stare. “Fa niente. Capisco che siamo tutti un po’ sotto pressione” rispose lei guardandolo. Syd osservò il suo viso con una fitta al cuore, gli sembrò di nuovo un’altra persona. Forse questa è la vera lei. Ma una persona, alla fine, è composta da tante altre. Un essere umano è così pieno di sfumature, pensò Syd mentre i capelli di lei svolazzavano al vento e i suoi occhi si perdevano all’orizzonte verso il tramonto. “Non è bellissimo qui?”. “Sì, lo è” disse rilassato e sciolto. Syd non si sentiva così bene da molto, moltissimo tempo. Aveva poggiato la sua rigida maschera lì accanto a sé, e in quel momento non gli venne voglia di rimettersela. Chiuse gli occhi godendosi il fresco, come se non l’avesse mai percepito veramente. Il sole stava per essere risucchiato dall’acqua che sembrava agitata, in tumulto come loro due. I ragazzi si voltarono nello stesso istante l’uno verso l’altra e si guardarono intensamente negli occhi, dimenticandosi di tutto e tutti, come se si trovassero in una realtà parallela dove esistevano solo loro, quel molo e quel tramonto. Una sensazione di pace, e allo stesso tempo di forte agitazione li travolse, si sentivano stranamente vicini, felici e nervosi, potenti come se tutto fosse possibile e, nello stesso momento, fragili da spezzarsi. Svegli ma addormentati, in quel molo, ma altrove. Una sensazione che nessuno dei due aveva mai provato. Fu in quel momento che qualcuno chiamò Sofia e l’incantesimo si ruppe, facendo piombare di colpo i due ragazzi di nuovo ognuno nel proprio corpo, lì, in quella realtà. Sofia distolse lo sguardo battendo le palpebre per cercare quella voce che conosceva così bene, ed era lì, a pochi metri da lei. “Sapevo che saresti venuto” sorrise lievemente; il nonno non sembrava più in salute dell’ultima volta che l’aveva visto. Sofia si alzò in piedi per andargli incontro, e così fece Syd.
“Vieni. Siediti. Ti prego” disse la ragazza. Il nonno era una maschera di fatica. “No” rispose lui guardandosi intorno teso. “Dov’è Leon?” chiese in pensiero, poi continuò: “Non importa. Ti devo parlare, e lo devo fare subito. Dopo, devi promettermi che sparirai”. Sofia indietreggiò istintivamente di un o. “D’accordo” rispose seria. “Bene” disse lui riprendendo fiato. “Tua madre e tuo padre sono al sicuro”. “Cosa? Dove?” chiese sorpresa. Non si aspettava, né aveva minimamente pensato che i suoi fossero in pericolo, o almeno, non in quel momento, era ancora presto, non era successo niente, nessuno l’aveva cercata. Eppure il nonno credeva che fossero in pericolo. Sofia si diede della stupida per non averci riflettuto a fondo, per aver agito senza pensare a loro come solitamente faceva. Sono un’egoista. Ecco tutto, pensò subito. “Lì ho portati in un luogo sicuro”. “Ma li troveranno?”. “No” disse con voce grave, “non succederà”. Sofia capì che il nonno aveva agito sui suoi così come aveva fatto su se stesso, e annuì. A Sofia balenò in mente una sola e unica immagine di sua madre: lei seduta al tavolo della cucina, con la testa poggiata sulle mani, pensierosa e assente. Immobile come una statua antica e distante. Si arrestò bruscamente. “Sei sicuro che mia madre sia al sicuro?” disse ancora Sofia, non ce l’avrebbe fatta altrimenti, ne era convinta. “Stai tranquilla” rispose il nonno guardandola. “Dove eri finito?”. “Sono stato preso. Non mi voglio dilungare, ma sono riuscito a fuggire. Devo darti delle informazioni, anche se è pericoloso”. Si guardò ancora intorno. “Immaginavo fosse pericoloso. Ma sono confusa, nonno. Non ci sto capendo
nulla” disse lei, ma lui proseguì con il suo discorso. Non aveva tanto a disposizione. “Speravo che avessi il tempo di scoprire da sola queste informazioni, ma non ce n’è, e non voglio che tu rischi di morire nel cercarle. Devi partire con un minimo di vantaggio. O almeno alla pari con lui”. La sua espressione si tese mentre parlava e Sofia si chiese chi fosse quel lui, ma rimase zitta ad ascoltare. “Abbiamo ancora questi”. Sofia alzò il polso. “Ora non importa più. Ormai sa che tu sei a conoscenza del libro” disse, poi si guardò intorno. “Dovete trovare un modo per toglierli senza danni”. Si voltò verso Syd: “Capito ragazzo? Ora vi…”. “Signore” disse Syd, che invece aveva avuto il coraggio di interromperlo, “cosa…”. “Fai silenzio ragazzo. Ascolta”. Il viso del giovane si riempì di rabbia, pronto a ribattere, ma Sofia lo zittì silenziosamente, con un’occhiata più che esaustiva. Il vecchio professore iniziò a parlare. “Ogni Area possiede tre libri, che appartengono a tre famiglie e hanno quindi tre custodi”. I ragazzi a quelle parole spalancarono gli occhi. “Tre libri così come tre fessure” disse Syd ricollegando. “Esatto. I libri dell’Area sono nati con caratteristiche diverse. Ce ne sono tre tipi: quello chiamato del Bene, quello del Male e infine quello dell’Incertezza”. “Incertezza?” disse Syd improvvisamente pensieroso. “Esatto”. “Scusa nonno. Ma chi li ha creati?”. Il vecchio professore tacque. Rimase a osservare Sofia per qualche secondo, poi riprese a parlare ignorando la sua domanda. “Quindi, ogni Area possiede questi tre diversi libri”. “Signore. Lei sa dirmi il mio libro di che tipo è?” chiese avvicinandosi all’uomo
e tirando fuori dalla borsa la sua opera. “Anche tu hai un libro?” disse visibilmente sorpreso. “Sì. Ma vengo da un’altra Area”. “Ah capisco” disse l’uomo deluso come se avesse sperato di essere riuscito a risolvere, senza alcuna fatica, uno dei problemi che si era prefissato. “Devi osservare il colore e il ciondolo. È giallo, bene. Poi devi guardare dove è posizionato il ciondolo, questa è la prova decisiva. È a sinistra, vedi?” disse indicandolo. “E quindi?”. “Incertezza”. “Incertezza? E perché mai?”. Il ragazzo si sentì improvvisamente deluso e arrabbiato, perfino confuso. “È un libro importante, ragazzo mio. Può fare la differenza, è l’ago della bilancia”. “Cioè?”. “Può rafforzare l’uno o l’altro polo” spiegò abbozzando un sorriso, “dipenderà da te da che parte stare. E dipenderà anche da te mantenere l’equilibrio di voi tre custodi; se non riuscirai, ci saranno delle conseguenze per la tua Area di appartenenza e per tutta Panopticon”. “Si spieghi meglio”, Syd era confuso. “Il tuo libro agisce di conseguenza alle tue oscillazioni. Se sei più predisposto verso il male, rafforzerà quel polo, e viceversa”. “Il libro mi ha detto di uccidere Sofia. Mi sta dicendo che sono stato io a deciderlo? Che il libro era specchio di questa indecisione?”. “Sì, ma non come la pensi tu”. “Syd, il libro ti ha messo alla prova su quel punto. Forse voleva vedere da che
parte ti saresti schierato. Probabilmente lui lo sapeva già, voleva solo farlo vedere anche a te” spiegò Sofia come se lo comprendesse a fondo. “Ti ha messo alla prova, portandoti all’estremo, perché ti sia chiaro, ragazzo mio” aggiunse il nonno. Lui annuì: “Capisco”. “Il tuo libro è molto potente, può fare la differenza. Anzi, direi che senza di esso gli altri due non potranno mai raggiungere l’apice della potenza di cui hanno bisogno per agire concretamente”. Il professor Wisdom si fermò a osservare Syd, aveva un che di familiare. Poi lesse il numero sulla costina e comprese. Spalancò gli occhi un solo momento e gli poggiò le mani sulle spalle senza distogliere lo sguardo. Sembrava profondamente addolorato e sorpreso insieme. “Tu vieni dall’Area 3, non è vero?”. “Sì” rispose, ancora sorpreso per quel gesto. “È venuto a cercare suo zio” intervenne Sofia. Il vecchio sospirò. È incredibile. La storia si ripete sempre, guardò prima lui, poi Sofia, e decise che non poteva parlargliene. Se Marin non l’aveva fatto, voleva dire che il tempo non era ancora arrivato. “Nonno ci sei?”. Sofia capì che Syd gli aveva fatto ricordare qualcosa, il nonno, infatti, sembrava essersi perso nei suoi pensieri, dimenticando completamente quanta fretta avesse. “Sì, scusatemi”. “Che senso ha questo libro?” chiese ancora Syd, concentrato com’era sulla spiegazione precedente. “Perché è stato creato, intendi?”. “Sì”.
“La natura umana è mutevole e infida, si lascia facilmente corrompere. Era pericoloso ripartire tutta l’energia in due soli libri che si contrappongono e che non possono vincere, e non devono vincere. Il terzo libro, come vi ho già spiegato, rappresenta il punto d’equilibrio e allo stesso tempo di rottura del triangolo. È alla base anche per questo motivo: se viene tolto da lì, il triangolo crolla e la forma diviene incompleta. La stessa creazione dei tre libri è un modo di mettere alla prova l’uomo, porlo davanti a una decisione”. L’uomo ama la guerra, pensò Syd, e i libri ti permettono, forse, di scatenarla e di combatterla, così come di spegnerla ma anche di evitarla. “La storia dell’umanità” aggiunse il nonno perdendosi a osservare l’acqua tornata improvvisamente calma. “Anche se la storia non è tutta qui. Questa ne è solo un’evoluzione. Ma non ho tempo di raccontarvela ora” concluse. Poi sospirò e si fece improvvisamente pallido, aveva scoperchiato il suo vaso di pandora. Ci aveva guardato dentro un solo istante e già si sentiva vuoto. “Nonno”, Sofia porse il suo libro, “dove dovrebbe trovarsi il mio ciondolo?”. Il nonno stava per parlare quando la ragazza notò qualcosa che la turbò. “Che succede?” chiese Syd guardando prima il libro poi lei. “È strano. Il ciondolo è sulla punta della piramide ora. Avrei giurato che fosse a destra”. “Lo era” disse Syd poggiando una mano sulla copertina per vedere meglio. “Il ciondolo non può essersi spostato, ragazzi. È da sempre sulla punta. Perché il tuo è il libro del Bene”. “Del Bene” ripeté lei sollevata, come se avesse temuto fino all’ultimo che le spettasse quello del Male. “Uno dei più potenti” sospirò di nuovo, guardando lontano. Sofia non lo sentì. “Nonno, te lo giuro. Era a destra quando eravamo in camera mia”. “Sì, signore è vero”.
“Non capisco” disse il professore tastandosi il mento con l’unica mano che era ancora in grado di alzare, l’altra la teneva scesa lungo il fianco, come se fosse un corpo morto. “Nonno guarda!”. I tre rimasero a osservare e sorpresero il ciondolo muoversi; ora era tornato sul lato destro. “Ma che vuol dire questo?”. “Si muove dalla punta a destra e viceversa. Forse…”. “Forse cosa? Sputa il rospo, devo saperlo” disse Sofia allarmata, mentre Syd prese a punteggiare il piede sulle assi dure. “La fessura sulla destra è il Male. Il ciondolo con me è sempre rimasto in punta, perché dopo la guerra eravamo in un periodo di pace, e il Bene, a modo suo, aveva trionfato. Ma ora che ne è scoppiata un’altra di guerra, gli equilibri non sono definiti, sono in tumulto. Perciò in base ai movimenti delle forze in gioco, muta anche la posizione del ciondolo”. “Mi stai dicendo quindi che io sono in posizione di svantaggio”. “Sì” disse il nonno sudando di colpo. Il Male e il suo custode sono in vantaggio ora. Non so come mai, ma è così”. “Se prima, quando l’aveva lei, era a destra, vuol dire anche che nella scorsa guerra il Male ha trionfato”. “È così. La guerra ha distrutto questo mondo” disse il nonno amareggiato. “Ma è nato un nuovo mondo”. “Sì, ragazzo, ma è una conseguenza estrema del precedente, il risultato di molte perdite”. “Mh. Saremmo comunque arrivati a questo tipo di realtà, prima o poi”. “Forse sì”. “Sofia, ricorda che niente è immutabile. Prestaci attenzione. Non perdere la strada” disse enigmaticamente l’uomo, ma la ragazza era presa da un’altra domanda.
“Quindi nonno, cosa devo fare?”. “Proteggere il libro e comprendere ciò che ti dice”. A Sofia tornò in mente quella frase e chiese: “Sai cosa sono le Anime?”. “Le Anime” ripeté sospirando, poi distolse lo sguardo. Pensò a Marin e si fece di colpo ancora più triste e misero. “Sì. Anime. Il libro mi ha detto di raccoglierle, senza spiegare il perché”. “Io non saprei”. Non devo dirglielo, pensò, chiedimi qualcos’altro. Svelta. Si guardò intorno ancora una volta. Sofia s’illuminò. Desiderava tanto avere una risposta a quella domanda. “Ho letto sul libro una frase. Aiutalo, salvalo. Chi dovrei aiutare e salvare?”. Il nonno sbiancò. “Nonno?”. “Non ti ho mai scritto niente del genere Sofia”. Sta mentendo. Syd lo guardò di traverso. “Sì invece. Me l’hai scritto”. Cosa nasconde? si chiese il ragazzo. “No”, scattò verso di lei e la prese per le spalle ignorando Syd. “Sofia ti supplico. Pensa solo a sparire. Tu non puoi porre rimedio ai danni che ho fatto io. Promettimi che te ne andrai via e basta”. Poi si voltò verso il ragazzo che stava ancora cercando di elaborare tutte quelle informazioni. “Syd, non ti allontanare da lei. Dovete stare insieme. È fondamentale. Insieme ma voi due non potete…”. “Sofia!” urlò all’improvviso una voce di donna alle loro spalle. Ciò che Sofia notò subito, fu la testa rosso fuoco che veniva sempre più vicino, era affannata, come se avesse corso per tutta la città per arrivare lì.
I tre rimasero immobili, incerti se scappare o se tentare di capire chi fosse. “Chi sei?” disse il nonno proteggendosi istintivamente il corpo con l’unico braccio che riusciva ancora a muovere, era teso in una posizione di allarme, mentre Syd e Sofia si erano avvicinati di qualche o, sia per proteggere il professore sia per attaccare, nel caso fosse stato necessario. “Sono la tua Ombra”. “Che cosa?”. La ragazza fece un altro o in avanti; non sapeva perché, ma quella donna aveva un’espressione impaurita quanto la sua e sinceramente preoccupata. “Io… noi… insomma faccio parte di una categoria che è stata incaricata di seguire o, o i cittadini”. “Ascoltandoci, non è vero?” chiese il professore, tornato improvvisamente lucido. “Sì” rispose la donna costernata, abbassando lo sguardo mentre Sofia si faceva ancora più vicina, nonostante la sorpresa per la conferma a quell’inquietante idea. “Martha ha sempre avuto ragione. Ed io ormai mi sono abituata a quest’idea”. “Fermati” le urlò Syd. “Stai tranquillo” gli rispose, poi si rivolse alla donna affannata: “Cosa ci fai qui?”. Lei, che ancora guardava a terra, alzò lo sguardo. “Sono venuta ad avvertirti”. Guardò il professore, spaventata. “Professore. Lei deve sparire, questa è una trappola. Lui l’ha lasciata fuggire per farle raggiungere sua nipote”. Il vecchio si ghiacciò sul posto, alimentando il pensiero di quella che era già una sua paura. “Lo temevo”, disse, “ma non potevo non provarci”.
“Lui chi? Nonno?”. Il vecchio tacque e lei si avvicinò di colpo alla donna impaurita, comprendendo ciò che aveva fatto per loro. Perché ti sei preso questo rischio per me? Sofia non riusciva a pensare ad altro. “Stai lontana” urlò Syd, “non sappiamo se dice la verità” disse facendo qualche o verso la ragazza. “No, Syd, io lo so” intervenne e sorrise alla donna. “Mi ha protetta. Sarebbero già dovuti venire a prendermi, da giorni. Non è vero?”. La testa rossa annuì. “Hanno seguito tuo nonno” disse ancora senza fiato. “Avevo io il libro e ne ho parlato tanto, senza interessarmi dei rischi”. La donna con i capelli rossi annuì ancora, affranta. “Non devi biasimarti” disse con tono dolce, “nessuno può immaginare che qualcuno lo stia ascoltando”. Sofia scosse la testa, sapeva che aveva sbagliato, si era disegnata deliberatamente un bersaglio sulla testa. “Sono un bersaglio”, disse. “Lo saresti stata comunque, Sofi, perché sei una custode ora” rispose amareggiato suo nonno che sapeva di non poterla proteggere. “Ho fatto di tutto per tenerli lontani, ma pensò che ormai sospettino di me” disse la donna con sguardo teso, sembrava aver smesso di respirare. “Comunque, professore, lei deve scappare via da qui. E anche tu Sofia, vattene sub…”, si interruppe di colpo. Sofia d’impulso fece un o avanti e prese al volo la donna che stava crollando a terra, con gli occhi sbarrati in una smorfia di dolore. In un attimo sul molo si era materializzata una squadra di controllo che aveva immobilizzato il nonno. “Corri” disse la donna dai capelli rossi sputando sangue. “Corri Sofia. Tu sei importante” balbettò prima di spegnersi. La ragazza rimase immobile, inginocchiata al suo capezzale, mentre il sangue si espandeva sempre più sulle assi di legno. Sofia era sconvolta, gli occhi fissi su
quella donna morente, finché Syd non la trascinò via. “Nonno!” disse, poi si voltò a guardarlo. Il vecchio professore sembrò intercettare un pensiero. “Chi ci sta facendo questo?”, sembravano chiedere gli occhi di Sofia. “Che stupida”, si rimproverò. La domanda più importante non le era mai venuta in mente. “Chi è al centro di tutto questo?”. “Il Presidente. È il Presidente” disse lasciandosi legare le mani dietro la schiena con il laccio elettrico, “è un custode”, disse ancora. Sofia rabbrividì, ma capì che in cuor suo lo sapeva già. Poi il professore sussurrò un’altra cosa, quando ormai era quasi a terra svenuto. Il suo era stato come un gesto inconscio: “Aiutalo. Salvalo”. Ancora quelle parole: ‘Aiutalo. Salvalo’, pensò Sofia. Ora capiva a chi si riferisse. Ma perché? La frustrazione e la rabbia per quello che quell’uomo gli stava facendo, le offuscò i pensieri. L’ultima cosa che Sofia riuscì a vedere e che le rimase impressa, fu l’aria affranta di suo nonno nel pronunciare quel nome, che stonava con la sua cattura. Ma quell’impressione che le era sembrata così fuori luogo, svanì subito, lasciando il posto al nome dell’uomo che stava causando tutto questo: il Presidente. Nientemeno che lui. Sofia non poteva crederci, quella notizia e la cattura del nonno l’avevano ghiacciata, se Syd non fosse intervenuto sarebbe ancora ferma là a chiedersi il perché. Come posso combattere contro il Presidente? si chiese, e perché? Perché lui, cosa voleva? Perché aiutarlo? Aiutare l’uomo che ci ha fatto tutto questo. E poi salvarlo? Salvarlo da cosa? Che intendevi nonno? Sofia corse più veloce che poteva, il volto teso in un’espressione di paura e rabbia. La ragazza sarebbe tanto voluta rimanere e strappare via suo nonno dalle mani della squadra di controllo, ma sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Molti agenti stavano adesso inseguendo lei e Syd, e nessuno dei due si girò a
controllare, tennero lo sguardo fisso in avanti, concentrati sulla loro salvezza. Syd la guidò in un cunicolo nascosto dietro un mucchio di scatoloni. Avanzarono a tentoni in quel buco buio, in cui riuscivano a entrare solo inginocchiati. “Che posto è questo?”. “L’ho trovato qualche giorno fa. Per le emergenze”. “Avevi previsto che sarebbe successo qualcosa del genere?”. “Sì”. “Io non avevo pensato proprio a un bel niente invece”. I due arrivarono in una stanza interna, ormai illuminata solo dalla luna. “A un bel niente” ripeté Sofia sotto shock, le labbra le tremavano, lo sguardo era fisso a terra, perso. “Sofia, guardami”, Syd le alzò il mento, “non è colpa tua. Tu non potevi saperlo”. ”Sì che lo è. Ho preso tutto sotto gamba. Mio nonno è stato catturato, e quella donna… quella donna cercava di avvertirmi. Ha rischiato la vita per avvertirmi. Ed io che ho fatto? L’ho fatta ammazzare come un cane, senza fare nulla”. Sofia iniziò a urlare fuori di sé guardandosi le mani ancora sporche di sangue. “Syd hai capito? Il Presidente è un custode… ti rendi conto? Un custode”. “Beh, si poteva anche immaginare…”. Sofia iniziò a farneticare: “Che cavolo, chi si affiderebbe a me? Io non…”, non fece in tempo a finire la frase che Syd le mollò uno schiaffo e lei si calmò, i suoi occhi ripresero la loro lucidità. “Sei tornata tra noi? La smetti ora di dire scemenze?”. “Togliti” gli disse lei spintonandolo, poi strofinò le mani sulla felpa prima di andarsi a sedere su una cassa piena di reti da pesca, lì tirò le gambe fino al petto e rimase a riflettere.
“Scusa, non volevo” disse Syd sedendole accanto, “ma eri fuori di te, avresti finito col farci scoprire. Dobbiamo stare in silenzio” continuò il ragazzo, poi tese l’orecchio per sentire se i i erano vicini. “Dobbiamo muoverci di qui al più presto”. Si fissò il braccialetto con apprensione. “Siamo a posto, ci hanno superato”. Lei era ancora immobile, come se non fosse più cosciente di ciò che stava accadendo, poi lo guardò e fu invasa di colpo da un moto di tristezza, scoppiò a piangere dopo aver nascosto il volto tra le mani. Il pianto durò pochi secondi perché di colpo la ragazza si alzò e iniziò a camminare avanti e indietro, come se non riuscisse a trattenere dentro tutto ciò che si stava agitando. Si fermò, guardò a terra e poi sferrò un calcio violento a uno scatolone, che si schiantò contro il muro davanti con un suono sordo, volando per alcuni metri. Syd rimase imbambolato a guardarla, non sapeva bene cosa fare in quella situazione, né si aspettava quello scatto d’ira. La ragazza si sedette di nuovo, poggiando la testa sulla spalla e restò così, finché non riuscì a calmarsi. Poi alzò gli occhi su una crepa che stava minacciosamente aprendo in due il muro contro cui era finito lo scatolone. Non era la prima crepa che Sofia vedeva in quella stanza, erano ovunque. Ma lei ormai sembrava essersi abituata alla loro presenza. Poggiò lo sguardo su una rivista spiegazzata ai suoi piedi e rimase così, a fissare le immagini senza parole. Quella che fissava, sembrava una rivista pornografica. Sofia si soffermò sulle curve sbavate d’inchiostro, su un braccio che era stato strappato via e si percepì, per un solo istante, slegata, come se le parti del suo corpo non fossero più unite tra loro. Sentì di non potersi mai più rialzare di lì senza perdere un pezzo, senza riuscire a tenere insieme tutta se stessa, il suo corpo, il suo mondo. Come quella donna della foto strappata, sentiva che le mancava qualcosa. “Non è stata colpa tua, non potevi prevederlo. Tuo nonno era cosciente di ciò a cui andava incontro, e anche quella donna: quando ha deciso di venire qui, l’ha fatto per un motivo, voleva proteggerti. Aveva capito che sei speciale per il Presidente e che hai un ruolo fondamentale in questa guerra. Così come l’ho io. E se vogliamo sopravvivere, dobbiamo essere saldi”. “Non hai mai parlato così tanto” gli disse la ragazza commentando aspramente. “Cosa?”. Syd si sorprese della durezza della sua voce.
“Hai capito. Stai parlando troppo”. “Lo so che sei sconvolta ma…”. “Stai parlando troppo!” ripeté alzandosi in piedi e dandogli le spalle. Il libro, che era ancora nella borsa tenuta a tracolla, pulsò, scosso da quell’improvvisa energia negativa. Syd rimase in silenzio e aspettò che lei aprisse bocca, poi si voltò e ascoltò le parole della ragazza: “Io non voglio tutto questo. Non ho mai voluto responsabilità, non m’interessano, così come non m’interessa della gente di questo pianeta. Volevo solo che mio nonno stesse al sicuro”. “Sofia, non puoi tirarti indietro”. “E chi lo dice?”. La ragazza allargò le braccia mentre il viso si tese in un’espressione indecifrabile. “Potrei bruciare il libro e togliermi dall’impiccio”. “Non ti perdoneresti mai”. “Oh sì che lo farei. Tu non mi conosci. A me non importa niente di nessuno, è sempre stato così”. Lui la fissò intensamente senza spiccicare parola. “Maledizione!” urlò la ragazza, dandogli di nuovo le spalle. L’energia negativa si trasmetteva da lei al libro e dal libro a lei, intensificandosi. Sofia era fuori di sé e stava faticando a mantenere il controllo di quella rabbia che sentiva soffocarla. Quella stanzetta le sembrò stringersi addosso, togliendole il fiato. Le pareti precarie sembravano volerla sotterrare viva, con quei tabelloni vuoti e quei volantini senza parole. I muri pieni di crepe sembravano essere sempre più numerosi. Si sentì oppressa da quel luogo, come se quella che si trovava davanti fosse la porta che la conduceva ai margini delle sue più buie e inconfessabili paure. Era spaventata e triste. Alzò gli occhi e notò che da una piccola finestra in alto erano ben visibili le tre lune. Le osservò ipnotizzata, con la testa piegata verso il collo,
e ritrovò piano la calma. Syd la lasciò da sola a riflettere, prese il suo libro e lo sfogliò silenziosamente, voleva sapere se avesse qualcosa da dire al riguardo. “La ragazza ha bisogno di più equilibrio possibile”. Ma dai? Non ci ero arrivato, pensò lui con aria infastidita. “Cosa devo fare?” domandò. “La motivazione arriverà su ali leggere e tormentate”. “Mh. Tormentate non è un buon segno. Ho capito, aspetterò” disse a bassa voce, poi lanciò un’occhiata a Sofia che era ancora rivolta verso il muro, immobile, catturata non si sa da quale pensiero; decise di non disturbarla. “La ragazza è in bilico. Cammina su una fune di rabbia”. Syd leggendo quelle parole sbuffò preoccupato. Perché me lo dici? Dovrò essere io a tenerla in equilibrio? pensò il ragazzo temendo il peggio. Si distrasse poi con altri pensieri. La sua mente si soffermò su quella donna dai capelli rossi, chissà come sarà la mia, di Ombra? si chiese con curiosità. Come avrà fatto il Presidente a trovare le famiglie dei custodi? Da quanto è alla ricerca? E se Sofia è nel mirino, lo sono anch’io e tutti i custodi esistenti? Non so per quale motivo quell’uomo voglia i libri, ma di sicuro li cerca tutti. E poi ha detto, ‘aiutalo’. Perché aiutalo? Forse c’è qualcun altro che guida le sue azioni? Non ho tempo di pensarci. Il vecchio è stato trascinato via come un sacco di patate, e così, chissà quanti altri! Poi s’illuminò. Dobbiamo fare come lui. Dobbiamo toglierci il braccialetto. Ora l’Ombra di Sofia è fuori gioco, ma ci metteranno poco a rimpiazzarla. Sono sicuro che lui stava aspettando, aspettava qualcosa, per questo non si è mosso. E ora l’ha fatto. Ci starà addosso. Il vecchio poi è stato seguito fino a qui. Ci troveranno. Dobbiamo muoverci. Non possiamo aspettare si disse alzandosi. “Sofia, dobbiamo andare via di qui”. Lei annuì silenziosa, il suo respiro stava pian piano tornando regolare, e così il libro sembrò spegnersi gradualmente.
Rimase ferma, senza girarsi, forse si vergognava di quello che aveva sputato fuori d’istinto, quella che era in un certo senso la verità, o meglio, una delle sue verità.
CAPITOLO 13
Come topi in un labirinto
“Allora?”. Il Presidente Reik giocherellava con il ciondolo dorato. “Signore, abbiamo il professore, ma la ragazzina e il ragazzo sono fuggiti”. “Che cosa?” urlò poco sorpreso. “Almeno abbiamo avuto la conferma che l’Ombra era una traditrice?”. “Sì. È venuta dritta qui” “L’avete uccisa come ho ordinato?”. “Sissignore”. “Bene” rispose incrociando sulla scrivania le dita di una mano all’altra. Ma l’idea del Presidente non era quella di catturare i ragazzi. “ Hanno usato i libri?” chiese con un tono di voce impaziente. “Come?”. “I libri, imbecille! Li hanno usati? Per proteggere il nonno, per scappare. Ce li avevano o no dietro quei maledetti libri?”. La voce si alzò piano piano. “Insomma rispondi!”. “Li avevano, ma no, non li hanno usati. Sembravano, come dire… spaesati”. Al diavolo, pensò l’uomo stringendo ora il ciondolo nel pugno. Forse le Anime non li hanno ancora accettati. O forse sono loro a non aver accettato. Abel, perché diavolo non le hai dato informazioni? Il Presidente era convinto che lasciandolo libero il vecchio, lui avrebbe parlato. Che tu l’abbia informata o meno, sarà in pericolo comunque, pensò ancora.
“Teneteli d’occhio. E fatemi sapere cosa faranno d’ora in poi” ordinò alla fine. “Sissignore. Ha altre richieste?”. Si estraniò per un istante. Non l’hai bruciato. Io lo sapevo. Non potevi farlo. Non è vero, vecchio? Non ci sei riuscito. Del resto non avresti mai potuto uccidere tua sorella. Non è così? pensò il Presidente con un sorriso di scherno impresso in volto. I dubbi che ancora lo tormentavano scivolarono via. Ce l’ha eccome. Ed è questione di tempo perché il legame venga sigillato definitivamente. Sta andando tutto come previsto, anche se odio attendere. “Signore?”. La donna non sono ancora riuscito a trovarla, ma il ragazzino è venuto per lo zio e finalmente sono tutti riuniti. Noi tre… pensò ancora. “Signore?”. “Sì”. “Rafforzeremo i controlli e segnaleremo se c’è qualche cambiamento”. Il Presidente aprì il libro. Ora è arrivato il momento. Abbiamo ormai la sicurezza che la ragazza ha il libro e anche il ragazzo. Il vecchio non ti serve più. Appena ne hai la certezza, cattura Sofia e Syd. Il Presidente immaginò nella sua mente una scacchiera in cui le sue pedine erano avvantaggiate. “Non perdeteli di vista e rimpiazzate l’Ombra con una meno inetta”. “Sì, subito”. “E cercate di non deludermi. O qualcuno pagherà” disse con tono duro attraversato da una vena sadica, battendo il palmo sul tavolo e scoppiando in una risata folle, che lo fece piegare in avanti, mentre dall’altro capo del telefono si sentì l’agente deglutire.
Ti senti ancora colpevole. Io lo so. Ma non puoi tenere al sicuro tua nipote. Non puoi.
Quella sera l’appartamento appariva a Leon e Fran ancora più vuoto e triste del solito. L’ingresso piombava direttamente in un’ampia stanza in cui si apriva, sull’angolo accanto all’ingresso, una porta che separava il salotto dalle stanze da letto e dal bagno. Sul muro destro dell’ampia stanza c’era un divano blu scolorito, una libreria che faceva angolo e che andava a toccare una finestra ampia, identica a quella che si trovava in cucina. All’altro angolo vi era una scrivania che ospitava un computer portatile bianco. Sul lato opposto al divano, si apriva una porta molto ampia, che dava sulla cucina. L’appartamento era tutto lì. I muri erano vuoti, il salotto buio, mentre la cucina appariva abbandonata e bisognosa di cure, ma era la loro casa e i ragazzi si trovavano bene. Fran, appena mise piede sul pavimento chiaro, si gettò sul divano, sprofondando tra i suoi cuscini, mentre l’amico zampettò fino in cucina, aprì il frigo e si versò un bicchiere d’acqua, valutando nel frattempo cosa si poteva preparare per la cena. Quando si voltò verso l’amico, lo trovò in piedi di fronte alla porta accanto al divano. “Che succede?” chiese Leon, e Fran saltò sul posto come se fosse stato sorpreso a fare qualcosa che non doveva essere vista. Fran fece un segno della mano, si tolse le scarpe sfilandole con i piedi e raggiunse l’amico in cucina. Prese due birre e tornò sul divano, ne ò una a Leon, poi tentennò un po’, prima di sedersi. “Allora?”. Leon non demordeva, poi se ne accorse, rendendo inutile il segno del capo con cui Fran aveva indicato il problema. Un rumore di legno che sta cedendo invase le loro orecchie e il silenzio della stanza. Fran andò accanto all’amico ed entrambi rimasero muti a osservare la crepa che si faceva spazio sulla porta. Ne avevano notate tante di ritorno verso casa, erano sui marciapiedi, sui muri degli edifici, su qualsiasi tipo di superficie.
I due si guardarono affranti, sapevano di non poterle riparare, poiché si sarebbero riaperte. Ignorarono il problema e si sedettero sul divano a bere dalle bottiglie, ognuno alla propria estremità. Nessuno dei due parlava. Si era creato, dentro di loro, il timore che, se l’avessero fatto, la voce non sarebbe uscita. Avevano il terrore di scoprire di essere senza parole, perciò era meglio tacere. Almeno per quella notte non avevano bisogno di altre sorprese.
“Devi fare un’altra cosa per me”. “Sì, mi dica”. “Devi rivolgerti alle Ombre che seguono la persona più vicina a quella ragazzina. Un’amica sarebbe meglio. Sappiamo bene che i parenti sono del tutto inutili. A proposito, nessuna novità da quel fronte?”. “No, signore”. “Poco male. Sarebbe stato solo uno spreco di energie”. “Vuole che faccia controllare chi le sta vicino, quindi?”. “Sì. Voglio sapere se la ragazza ha parlato del libro a qualcun altro, e se c’è qualche legame che mi può essere utile”. “C’è un problema. Come sa, le registrazioni che abbiamo, riguardano solo il giorno appena ato. Come al solito le vecchie registrazioni sono state eliminate per problemi di… spazio, o, come viene insegnato alle Ombre, di privacy”. Il Presidente a quella frase ridacchiò: “Dovremmo trovare un modo per evitare black-out, le registrazioni sono utili. Perché se non s’interviene nel giorno stesso, non si hanno prove, se non le dichiarazioni delle varie Ombre. Comunque ora non è il caso di parlarne. Sarà un problema che risolverò. Senti le Ombre dei suoi vicini, registrazioni e non, poi noi agiremo di conseguenza. Ho un’idea alternativa per attirare Sofia qui e farla agire di sua spontanea volontà” disse buttando giù un altro bicchiere di liquore e abbozzò un sorriso soddisfatto. “Sì, lo immagino signore”.
“Tu mi conosci, non è vero?”. A quella domanda, entrambi scoppiarono a ridere, mentre una nuvola nera attraversava il cielo, pronta a scaricare la sua pioggia.
“Devo are a casa” disse all’improvviso Sofia voltandosi verso Syd, tenendo le mani strette sui gomiti come a proteggersi da qualcosa che non era ancora riuscito a capire. “Non mi sembra una buona idea” rispose lui. “Andiamo stanotte, solo due minuti” disse lei con il tono di chi non accetta ragioni. “Va bene” cedette il ragazzo. “Ma voglio are prima in un altro posto”. “Ok” rispose la ragazza senza chiedere dove dovesse andare, a lei importava solo are a casa sua. I due strisciarono fuori dal cunicolo, silenziosi come gatti. Sofia non riusciva a non pensare alla donna dai capelli rossi e a suo nonno trascinato via in catene, ma aveva ritrovato la decisione e l’equilibrio giusto per affrontare le cose. Si sentiva in tumulto, ma allo stesso tempo lucida; non avrebbe fatto scemenze, questa volta. Quando avrò più informazioni, andrò dal Presidente e libererò mio nonno, si disse non sapendo come fare. Se è lui che ha scatenato questa guerra, è lui che può risolverla. Non ne era molto convinta, ma non riusciva a formulare un’idea migliore di questa. “Come si fa a scatenare una cosa del genere? È umanamente possibile? Sì, i libri sono tutto fuorché umani, è chiaro, ma come possono una manciata di pagine di carta e il suo custode a portare a uno stravolgimento così potente? E come può averlo fatto… che intenzioni ha? E perché mio nonno…”. “Quante domande Sofia. Non lo so. Forse lo capiremo”. “Al diavolo il Presidente” rispose lei piena di rabbia. Le squadre di controllo si erano fatte ancora più numerose, i ragazzi riuscirono a
vederle da dietro le casse all’uscita del cunicolo. Per fortuna Syd sapeva muoversi bene di nascosto, aveva anche studiato un percorso in cui si poteva rimanere invisibili agli altri. arono in vicoli bui, o in ampie strade piene di locali, dove era più facile are inosservati, visto il gran traffico di persone. Restarono entrambi colpiti dal mutamento della città in quelle poche ore, gli edifici, così come le strade, erano attraversate da un numero incredibile di squarci, che sembravano sul punto di far crollare ogni cosa. I palazzi apparivano fragili come bicchieri di vetro sottile, l’asfalto era pieno di buche, che i servizi stradali cercavano di ricoprire. Sofia e Syd arono su un marciapiede scheggiato e lei schivò le fessure, mentre il ragazzo ruppe una mattonella per sbaglio, semplicemente sfiorandola. “Una realtà di cristallo” sospirò la ragazza. “Cosa dici?”. “Panopticon, sembra essere diventata di cristallo”. “Dai su, proseguiamo” sbuffò lui. Non c’era tempo da perdere in pensieri di questo tipo. Sembrava che tutto il loro mondo stesse per cadere a pezzi, la loro realtà pronta a disintegrarsi per lasciare il posto a un’altra che premeva dalle profondità ostili della terra. Cercarono di non notare gli uomini arrampicati che imbracciavano costosi strumenti ripara-muri. Sentirono le loro urla di frustrazione quando gli operai si rendevano conto che tutto il loro lavoro, lì sospesi in aria, era vano, che tante altre fessure erano pronte a farsi spazio, più grandi e numerose delle precedenti. Era come se le spaccature agissero di vita propria, come se fossero sprazzi di oscurità, demoni bui che si erano fatti vivi per assalire e conquistare la città. Syd tentava di evitare di are di fronte agli schermi, anche se erano spenti, come se avesse paura che attraverso il controllo potessero individuarli. E forse potevano veramente. Ormai Sofia non era più sicura di nulla.
Dove vorrà andare? E perché sembra così teso? si domandò con apprensione. Sofia faceva quasi fatica a tenere il suo o, anche quello si era fatto nervoso, freddo e incostante. La ragazza si lasciò andare ai suoi pensieri. Non solo su quello che stava accadendo, e che la popolazione non sembrava comprendere, ma su quel mondo in generale. Rifletteva su Panopticon e sulla vita che ogni Area conduceva. Non era la prima volta che Sofia si soffermava su questi pensieri, ma quel giorno assunsero un altro spessore. Non capiva bene, sentiva che c’era altro dietro, che aveva afferrato, solo dai bordi, delle sfumature che le erano poi sfuggite. E sentiva, al contrario delle altre volte, crescere dentro di lei una fiamma, un desiderio di azione, che ancora non sapeva come gestire e soprattutto, cosa comportasse. Come fanno a fare questo? Come riescono a tenere a bada le persone, a non fargli pensare che ci possa essere una vita migliore ad aspettarli? Eliminando i confronti con il ato, realizzò. Certo, eliminando il ato. Ma io so la vera storia, per questo posso capire rifletté, mentre Syd rallentava il o. Quante persone la sapranno? La gente dovrebbe conoscerla. Non è giusto. Il Presidente e la sua famiglia si sono appropriati della vera storia e l’hanno cambiata per apparire qualcosa che non sono mai stati. Non sono i nostri salvatori. E se il grande terremoto fosse partito in qualche modo da loro? Una strategia per ripartire da zero e piazzarsi al potere? Lui, del resto, è un custode. Forse sto andando troppo in là con la fantasia. Sofia si voltò verso Syd e lo trovò come poco tempo prima, completamente assorbito nel suo piano. Non l’aveva mai visto così agitato. Lei fu guidata in strade che non aveva mai percorso. Si sentiva persa, in pericolo, ma era anche la notte ad amplificare queste sue impressioni. Syd sa quello che fa si disse. Ormai aveva capito che sotto quella scorza dura, si nascondeva un ragazzo serio e determinato, che ragionava su ogni o. Perciò mi fido. Se pensa che ci sarà d’aiuto questo posto che dobbiamo raggiungere, lo seguirò. I due camminarono a lungo senza rivolgersi la parola.
Sofia si sorprese dell’immobilità della città. Era una notte atipica. arono sotto più di un edificio da cui erano caduti pezzi di materiale. Ormai ogni struttura era attraversata da spesse crepe, che ne deterioravano pian piano la superficie, donandogli un aspetto trascurato, persino abbandonato. Nell’insieme l’atmosfera sembrava quella del principio della fine del mondo, che ricordava quei film di guerra trasmessi nella serata fissata dal Presidente. Il trenta di ogni mese, il Presidente ci teneva a ricordare alla popolazione cosa sarebbe potuto succedere se la sua famiglia non avesse combattuto, se lui non fosse stato lì a governare la loro grande nazione, se loro non avesse preso in mano la situazione, e soprattutto a ricordare cosa fa la guerra alle persone. “Molto suggestivo devo dire. a a chiunque la voglia di ribellarsi”. Ogni tanto Sofia si voltava a guardare Syd, ma lo trovava teso in un’espressione d’incomprensibile angoscia e rabbia mescolate insieme, come se avesse un grande desiderio di raggiungere quel luogo e, allo stesso tempo, di rifuggirne, andando nella direzione opposta. Syd allungo l’orecchio e rallentò il o. Era in allarme per qualcosa. Sofia lo aveva notato subito. Anche lei aveva percepito qualcosa di strano. “Fermati” disse di colpo Sofia, guardando con la coda dell’occhio dietro di loro, poi si voltò lentamente. “L’hai sentito anche tu, non è vero?”. Syd non si aspettava che la ragazza se ne fosse accorta. “Vieni fuori” urlò Sofia sperando che non fosse un agente. Un agente non ci seguirebbe in questa maniera. Loro hanno altri metodi, pensò subito. “D’accordo. Non mi aspettavo che due come voi mi avrebbero beccata” disse la voce nascosta nell’ombra. “Una ragazza”. Sofia non se l’aspettava. Era sicuramente più grande di loro, almeno di qualche anno. Venne avanti nascosta in una felpa larga, che non le si addiceva, come se l’avesse rubata a qualcuno. Aveva un’aria truce e aggressiva. “Siete pessimi. Vi ho seguito per tutto il tempo e non ve ne eravate ancora
accorti” disse lei facendo una smorfia di disapprovazione, mentre i due la fissavano con ostilità mista a sorpresa. “Tranquilli. Sono con voi” aggiunse poi. Sofia notò che non aveva il braccialetto al polso e che indossava il ciondolo come una normale collana. “È una custode. E non ha il braccialetto” disse Sofia. La ragazza rispose con un sorriso aggressivo ma compiaciuto. “Già” sussurrò Syd. Era lei, Sofia l’aveva capito subito, la custode del libro dell’incertezza. “Bene. Avete già capito chi sono. Piacere, sono Alexa”. “Noi Sofia e Syd” disse Sofia con una smorfia. “Lo sapevo, ovviamente”. La fissò con aria di sfida: “Altrimenti non vi avrei seguiti”. “Comunque, volevo solo presentarmi. Bye, bye”. “Ehi, aspetta” disse istintivamente Syd, “penso che sia meglio che tu rimanga con noi”. Sofia sbuffò ma sapeva che l’amico aveva ragione. “Con voi” disse divertita, “ma figuriamoci. Per farmi ammazzare? Non se ne parla proprio” rispose, poi corse via senza che nessuno potesse aggiungere altro. “Che strana tipa” disse Sofia. “Tanto tornerà. Dovrà tornare da noi”. “Dai su, dobbiamo andare”. Sofia incoraggiò il ragazzo, che era rimasto imbambolato a fissare il punto in cui Alexa era sparita. Syd camminava ora sovrappensiero. Quando Sofia gli si avvicinava, lui si scansava e si chiudeva in una solitudine rigida e ottusa, come se fosse rimasto
incastrato in una buca e insistesse a rimanerci dentro, a coprirsi di terra sotterrandosi sempre più a fondo pur di non dover chiedere aiuto. Anche se quel gesto suicida gli avrebbe tolto, alla fine, tutta l'aria, soffocandolo. Ed è così che a Sofia appariva: soffocato. Sembrava non respirare da molto tempo. “Manca molto?” chiese lei. In risposta il ragazzo la strattonò verso un sottoscala. “Che succede?”. Guarda lì, sembrava indicargli lui con lo sguardo. Dal fondo della strada erano comparse sei squadre di controllo, marciavano senza scomporsi più di tanto. “Altri controlli?”. “No, non sembrano pattugliamenti” sussurrò il ragazzo, e aveva ragione; le squadre facevano da apripista a più di un veicolo riparatore, ognuno di essi si era fermato sotto gli edifici dove le crepe erano più vistose, e si stavano impegnando a farle sparire. Sofia e Syd sapevano bene quale sarebbe stato il risultato di quegli interventi, e si guardarono sconsolati ma anche infastiditi. “Come possono pensare di poter risolvere questa situazione? E se lo vogliono fare, perché diavolo non pensano a qualcosa che realmente funzioni? Lo sanno benissimo anche loro che non servirà. E allora perché insistono?” chiese lei. “Forse per far vedere alla popolazione che hanno in mano la situazione”. “Hai ragione, forse è proprio così”. “Ora dove iamo?”. “Aspettiamo qualche altro minuto” disse lei guardandosi intorno per trovare un nuovo percorso più sicuro. La loro attenzione fu poi catturata da una squadra disposta a cerchio intorno a qualcuno, allungarono lo sguardo per mettere a fuoco la situazione.
C’era una famiglia inginocchiata. Sofia riuscì a notare il sangue a terra e sulle loro braccia, e capì subito cosa significasse, vide che anche Syd l’aveva capito. L’uomo si parava davanti ai suoi familiari, una donna e due figli più o meno della stessa età. Tutti aprivano la bocca senza che ne uscisse nessun suono, continuavano ad agitarsi in un balletto angosciante e nervoso, senza riuscire a spiegarsi. Ma non c’erano bisogno di spiegazioni, né di suppliche. Gli agenti quasi non li guardavano, o almeno così sembrò a loro. I caschi coprivano interamente il volto degli agenti, dandogli un aspetto ancora più terrificante di quanto già non avessero con quelle tute bianche. Apparivano come extra terrestri che stavano portando sulla propria navicella i prigionieri. Syd e Sofia, notarono dietro quella famiglia, dei veicoli che erano carichi di tutte quelle persone che avevano perso la testa di fronte all’improvviso mutismo. Intanto, alcuni schermi rimasti intatti continuavano a trasmettere spot, per cercare di distrarli, assieme a dei messaggi del Presidente. Sofia vide un uomo insanguinato tirare un pezzo di calcinaccio contro uno di essi. Quei maledettissimi schermi, apparivano alla popolazione come enormi occhi ammiccanti e scrutatori che li osservavano, e forse, immaginavano che dietro di loro, il Presidente e i suoi sottoposti se la ridevano e si godevano in prima fila lo spettacolo; la nuova grande guerra in diretta. “La gente è nel panico, non sa più che fare. Non possono pensare di poter controllare le cose solo con le ondate”. “Cosa intendi?” chiese Syd perplesso. “No, lascia perdere”, la interruppe prima che potesse rispondere e le fece segno di fare silenzio. Sofia dimenticava spesso che erano ascoltati, ma a quanto pareva l’Ombra di Syd non era al corrente della situazione, e probabilmente gli uomini del Presidente non erano riusciti a individuarlo. “Forse sarebbe meglio proprio non…”, e si indicò la bocca. “Dovremo risolvere anche noi, come loro” rispose lui indicando quella famiglia disperata e i loro braccialetti.
Sofia annuì con un sospiro. Il pensiero la terrorizzava. Non rispose. Togliersi i braccialetti e diventare come il nonno? Un fantasma ambulante? E se non ci riuscissimo? Non credo sia una procedura facile. Ciò che mi sorprende sempre è che non abbiano pensato a installare nei braccialetti dei sensori per provocare quelle scosse che danno solitamente solo attraverso i lacci. Così saremmo finiti fuori gioco in un attimo. Alla fine non avevo torto comunque, anche Syd parlava di somministrazioni tramite braccialetto. Le ondate di calmanti ci sono state sul serio, ma sono sin troppo pacifiche. Perché non pensare a qualcosa di più efficiente? Forse credevano che dare la possibilità ai braccialetti di provocare delle scosse, potesse generare il panico nei loro possessori. Sì, deve essere così. La notte, poi, è il momento migliore per far sparire le persone. Mi chiedo che fine faranno, queste considerazioni la stancarono, chiuse un istante gli occhi. Comunque chissà dove stiamo andando? pensò ancora Sofia, che in quei momenti saltava da un’idea all’altra, come a distrarsi da quella situazione. “Syd, secondo te quanto ci vorrà prima che mi prendano?” disse all’improvviso guardando a terra e dando un calcio a una lattina accartocciata senza nome. Quel pensiero l’assillava da quando era scappata via dal pontile, lasciando suo nonno da solo. L’angoscia le strinse lo stomaco in una morsa, e prese a grattarsi la piastrina con insistenza. Ormai sarà questione di momenti. Sono sicura che la mia Ombra è stata già rimpiazzata, alzò gli occhi verso Syd e scoppiò: “Non riesco a capire” disse allargando le braccia, “cosa aspettano? Questi braccialetti hanno i sensori. Perché non ci hanno ancora raggiunto?”. “Forse hanno altri piani, o forse siamo talmente bravi da riuscire a non farci prendere”. Gli fece un occhiolino che non la rassicurò. Sofia vide la preoccupazione nello sguardo dell’amico. “Procediamo il più velocemente possibile, non possiamo fare altro. Nel caso dovessero…”. “Raggiungerci” intervenne lei. “Sì esatto. Correremo il più veloce possibile”. Syd aggrottò la fronte, non si sentiva molto sicuro.
“Sai, non mi sembra un buon piano”. “È l’unico che abbiamo. Se riusciremo a trovare mio zio, forse riusciremo anche…”, si accorse di aver parlato troppo, non voleva confessare lo scopo di quel pellegrinaggio pericoloso, voleva evitare le mille domande che sapeva Sofia gli avrebbe fatto. “Andiamo da tuo zio? Ma che scema, perché non ci ho pensato prima” si disse. “Aspetta” intervenne subito lei ricordandosi qualcosa che, dopo le sue parole le era sfuggito, “quello zio? Quello che lavora per il Presidente?”. “Sh. Fai silenzio”. “Ma sei impazzito?”. Sofia non poteva crederci. Stavano andando nella tana del nemico. Spalancò gli occhi verdi in attesa di una spiegazione. Syd lo sapeva che se avesse confessato la meta ultima, Sofia avrebbe protestato e non l’avrebbe seguito. “Ascolta. È la mossa giusta, perché forse sa qualcosa che ci potrebbe essere utile, lavorando per… insomma hai capito”, Syd si grattò una spalla improvvisamente insicuro. “Non sono certa che sia la cosa giusta da fare. Ma alla fine cos’altro abbiamo da perdere?” disse con una smorfia. “Forse lui sa come si fa” aggiunse Syd scuotendo il polso. “Ho paura al pensiero. Ma è l’unica cosa da fare. Non abbiamo niente da perdere, arrivati a questo punto” rispose Sofia, che non poté fare a meno di perdersi nei suoi pensieri. Alla fine è proprio così. Non sappiamo cosa fare. L’Area 1 è assediata dalle squadre di controllo, che si sono riversate per le strade in un flusso continuo. Alcune portano via la gente che si ribella, altre sono piazzate lì solo per mettere timore, controllare ogni zona e arginare i problemi. Altre ancora si stanno servendo di macchinari per evitare che ogni edificio faccia la fine di quello che è stato inghiottito dalla voragine. C’è in giro una continua manutenzione. Poi ci siamo noi con i nostri libri, due, contro quello del Presidente, che sono sicura lo sappia usare meglio di quanto riusciamo a fare noi. Cos’altro potremmo fare, se
non cercare qualcuno che ne sappia di più? Di questo o finiremo tutti uccisi, pensò e tirò fuori con gesto automatico il libro. “Ci dovremmo affidare più a lui che a noi, secondo me” disse Sofia. “Improvvisamente ti fidi? Se sono giorni che fai storie!”. “Ho altre scelte?” domandò lei tesa in viso. Sfogliò il libro e lo stesso fece Syd con il suo. “L’equilibrio si trova solo con la pace interiore”. “Non sei molto d’aiuto” disse Sofia sospirando, continuando a guardare il libro intensamente. “La strada intrapresa è quella giusta” lesse, sorrise e guardò Syd che aveva assunto un'espressione tesa e angosciata. “Che ti succede?”. Lui non staccava gli occhi dal libro. “Dove ti trovi c’è più di un bugiardo”. “Cosa diavolo vuol dire?” urlò il ragazzo verso le pagine. “Camminerai su una lastra di ghiaccio sottile finché non deciderai” lesse ancora. “Ora sì che sei chiaro” disse Syd scagliando il libro a terra. “Ascolta. Il mio dice che stiamo facendo la cosa giusta. Proseguiamo. Poi sono sicura che il tuo si chiarirà”. Sofia lo afferrò per il braccio e lo trascinò in avanti, lui raccolse il libro e proseguì il cammino, muto.
“Perché non agiamo?”. “Perché ho altri piani” disse il leader cercando di bloccare il tremore della sua mano destra, che stringeva un bicchiere ormai vuoto. Aveva versato quasi tutto il liquore sulla superficie della scrivania. Sentiva bruciare la mano, come se fosse attraversata da una fiamma perenne che si stava diffondendo dentro se stesso. Il suo corpo sudava di continuo, lasciandolo spossato e rabbioso. Non capiva il perché di quel disagio, era come se il suo corpo stesse cercando di ribellarsi.
Guardava il libro, tranquillo al centro del tavolo e desiderava scagliarlo nel fuoco. Una volta aveva anche tentato, con pessimi risultati. Chiuse gli occhi per ritrovare la concentrazione. “Signore. Non capisco”. “Lasciali andare. Falli seguire a vista, ma lasciali proseguire” disse bevendo con uno scatto l’ultimo goccio che era rimasto nel bicchiere, che lanciò contro il muro in un gesto d’ira. Poi sbatté la mano tremolante sulla superficie appiccicosa, fin quando non tornò stabile. Il suo collaboratore non disse niente, succedeva molto spesso in quegli ultimi tempi, e aveva capito che era meglio tacere. “Allora…” riprese il Presidente andosi una mano sui capelli e sistemandosi poi la camicia appiccicata al corpo sudato. “Utilizzeremo l’altro piano di cui ti parlavo. Hai trovato quello che ti ho chiesto, giusto?”. “Sì. Ho indagato e l’ho trovata”. “Bene. Sai cosa fare”. “Agisco subito”. Il leader interruppe la comunicazione e iniziò a camminare avanti e indietro, con un nodo di disperazione in gola. Rimase fermo per qualche istante di fronte alla scrivania che ospitava un solo oggetto, il libro, che sembrava aver preso il suo posto al comando dell’Area 1.
Erano rimasti impalati a fissare i loro libri, chiedendosi se gli avrebbero dato ulteriori consigli. “Ehi, guarda”, Syd allungò il collo verso Sofia, “il ciondolo è sempre sul lato”. “Siamo in svantaggio dunque. Ma sarà vera questa cosa? Non ho mai sentito di
ciondoli che si spostano”. “Perché? Hai mai sentito di libri che comunicano?”. Sofia tossì imbarazzata. “Hai ragione. Quindi siamo sempre in svantaggio”. “È un vantaggio sapere che siamo in svantaggio, però”. “Bel gioco di parole, ma ora diamoci una mossa” disse bruscamente lei, che a tratti appariva come un maschiaccio. I due avevano cambiato direzione già un paio di volte, per evitare le squadre di controllo riversate in strada. I posti di blocco erano aumentati, e stava diventando sempre più difficile attraversare la città. I ragazzi cercarono anche di schivare gli schermi, ma era impossibile, erano troppo numerosi. Al loro aggio, quelli che erano spenti, si accendevano all’istante, facendoli sobbalzare. Proseguirono così, con un’angoscia che cresceva dentro di loro a ogni o. Speravano che quella lunga azione, che sembrava più una fuga, finisse presto. Ormai le voci negli spot erano scomparse, sostituite da musica senza parole e da un susseguirsi rapido d’immagini che cercava di colmare quella mancanza, senza riuscirci. Sofia sentì la borsa riscaldarsi. “Aspetta un secondo”. “Che c’è ora?” chiese Syd bloccandosi sul posto. “Il libro” disse Sofia e lo aprì di tutta fretta. Ormai capiva quando il libro la chiamava. Il loro legame si stava stringendo. “La forza del custode è la forza del libro”. “Aspetta, controllo il mio” intervenne Syd. “L’astuzia del custode è l’astuzia del libro”. “Si sono messi d’accordo” disse Syd scherzandoci su. “Sembra proprio che chiacchierino”, sorrise. “Hanno stretto un legame. Come
noi” sussurrò Sofia guardandolo fisso. Syd distolse lo sguardo: “Diamoci una mossa. Dobbiamo arrivare e tornare indietro prima che faccia mattina”. Il ragazzo sperava che lo zio avrebbe trovato un modo per togliere quei braccialetti, sempre se fossero riusciti a raggiungerlo. Sofia ogni tanto rallentava il o per fissare i lavori di manutenzione degli agenti intenti con i loro macchinari a fare delle modifiche; gli edifici sembravano essere stati attaccati da insetti di ogni dimensione. Non aveva mai visto un tale lavoro, e quelle immagini di attività notturna, con le luci che illuminavano il buio come piccole lucciole, la affascinavano, nonostante la disperazione di quella situazione. Solitamente non girava anima viva di notte. Ogni giorno, infatti, i sensori controllavano il rientro a casa. Quelle luci la riportarono indietro di anni, in una di quelle serate d’estate che lei ava seduta sul muretto a ridosso della spiaggia, a prendersi il fresco e a osservare le stelle, che in città non si riuscivano a vedere. ava ogni estate lì, nella casa dei nonni. Sin da quando era bambina. Era il marchio indelebile della sua infanzia. Scattate le dieci di sera poi, tornava a casa di corsa, trascinandosi con forza le due amiche. Percorreva il lungo viale alberato, dove il profumo dei pini e della resina solleticava le narici, e s’infilava nella stradina che le riportava tutte e tre alle loro case. Avvicinandosi al palazzo, ricordava la figura di sua nonna affacciata al balcone, con la sua lunga camicia da notte rosa e l’aria prima preoccupata, poi, alla sua vista, minacciosa, tipico di chi sta aspettando da ore sua nipote rientrare. Intorno vi erano i sussurri notturni che incitano a salire di corsa, la luce flebile dei lampioni, il canto delle cicale, rotto solo dal aggio di qualche treno sulla ferrovia vicina e il pulsare delle stelle che stanno lì a osservare. Quel profumo d’estate le sembrava ancora di sentirlo, con tutti quei giorni trascorsi senza pensare che non sarebbero ritornati mai più, che in un futuro non troppo lontano sarebbero stati ricordati con malinconia, cercando di cogliere dei dettagli che erano ormai fuggiti via, rapiti dal tempo.
“Faccio un altro paio di toast”. Fran non riusciva a stare fermo. Leon in risposta aveva solo alzato la bottiglia ormai quasi vuota. Non se la sentiva di parlare, voleva tenere le parole tutte rinchiuse dentro di lui, come se dovesse centellinarle diligentemente, per evitare di sprecarle. Come se pensasse che, così facendo, non sarebbero scomparse, e, nel caso fosse successo, sapesse di avere una piccola riserva ancora inutilizzata da cui attingere. L’idea lo confortava. Era un pensiero sciocco, lo sapeva bene, perché se le parole se ne fossero andate, anche la riserva si sarebbe inesorabilmente svuotata. Fran tornò con i toast, ma prima che riuscissero a dare il primo morso, un urlo si alzò dalla strada, e fu così forte che sembrò provenire da una stanza vicina. I due ragazzi si alzarono di scatto e andarono alla finestra. Una squadra di controllo stava portando via un ragazzo, mentre la madre implorava di lasciarlo stare. La donna s’inginocchiò a terra, proprio su una crepa che divideva in tanti spicchi la strada. L’auto con gli agenti si mosse. Era carica di giovani, come se fossero venuti a reclutare gente per una futura guerra. Proseguirono per pochi metri, poi le ruote vennero inghiottite dall’asfalto che in quel tratto si era aperto all’improvviso. L’auto rimase incastrata. Alcuni agenti scesero per cercare di liberare le ruote ma non ci riuscirono. Fu allora che successe qualcosa d’inaspettato. Dagli edifici diroccati, dai negozi apparentemente chiusi, si riversarono in strada tantissime persone, vestite o in pigiama. Corsero tutti verso gli agenti e di colpo li sommersero. Del bianco delle loro divise non vi era più traccia. A Leon, che vedeva la scena dall’alto, sembrò un gruppo folto di formiche che assaltavano una piccola briciola di pane indifesa. Fran vide il sangue scorrere sull’asfalto tirò indietro l’amico. “Non guardare”. Leon sembrò essersi impressionato, rimase con gli occhi sulla strada e non parlava, il toast gli era rimasto in gola. Quando i due amici voltarono le spalle alla finestra, un pezzo di cornicione si schiantò in strada, facendo un rumore di morte.
I due ragazzi furono costretti a cambiare strada, quella che stavano percorrendo da circa una ventina di minuti, era stata occupata da una squadra di controllo. I marciapiedi erano inagibili, l’asfalto minacciava il crollo, e alcuni pezzi di cemento stavano cadendo giù dagli edifici, che sembravano sputarli verso gli agenti con grande soddisfazione. “Inizio a essere un po’ stanca” disse Sofia in un sussurro, “non abbiamo neanche mangiato”. “Dovremmo. Entriamo in un supermercato notturno e prendiamo qualcosa” propose Syd affaticato. A pochi metri, una luce illuminava il marciapiede diroccato. I due sperarono che fosse quello che cercavano. Si muovevano in una serata atipica: molte persone avevano tenuto aperti i loro negozi, forse per paura di andare a dormire e risvegliarsi senza parole. O svegliati dall’intrusione degli agenti che, sempre in più edifici, trascinavano via persone fuori di sé. “Ferma!” sussurrò Syd afferrando il polso della ragazza, che si era pericolosamente avvicinato al sensore d’ingresso. “Scusa. Mi è venuto spontaneo”. “Stai più attenta” disse con tono di rimprovero. Sofia pensò che gli agenti li avrebbero trovati comunque, anche se evitavano d’identificarsi. E poi alla cassa come avrebbero fatto? Anche lì era necessario strusciare la piastrina. Entrarono a testa bassa nel negozio e si diressero al reparto dei cibi pronti. La luce a neon schizzava impazzita sprazzi di luce a intermittenza sul pavimento, lasciando a tratti la stanza al buio. I due strapparono qualche panino dallo scaffale e si diressero, senza parlare, alla cassa, dietro cui, una signora sulla cinquantina se ne stava buttata con sguardo perso nel vuoto e un sorriso inquietante impresso nel volto. “Signora”. Syd lasciò i panini a Sofia e tirò fuori una tessera plastificata,
evitando lo scanner posto ai lati del bancone e sperando che non dicesse nulla. Avrebbero guadagnato tempo, ci volevano almeno sei ore per registrare i movimenti delle tessere. Era per questo che le stavano abolendo pian piano. “Buonasera signora, vorremmo…”. “Vorremmo pagare” dissero entrambi alternandosi, ma dalla donna non arrivava più risposta. Se ne stava seduta, come impagliata, fissando un punto invisibile del soffitto. Appariva trasandata, i capelli rossi a boccoli erano sfatti e incollati sulla testa rotonda, il volto era nascosto dietro a un trucco pesante e sbafato in ogni punto, che la faceva apparire una maschera disperata. Indossava un camicione a fiori che la copriva sin sotto le ginocchia, e un paio di zoccoli consumati. Sofia non riusciva a smettere di fissare le sue labbra carnose; il rossetto scarlatto era stato tolto con un movimento del dorso della mano che lo aveva sparso tutt’intorno, fino al naso. “Signora?”. Syd allungò la tessera con un certo timore, sul bancone di fronte a lei. Poi, poiché la donna non dava segni di vita, fece un gesto a Sofia per farle capire di uscire, ma in quel momento la donna la afferrò per il polso facendole cadere a terra i panini. Lo sguardo roteò dal soffitto verso di lei, come una bambola appena ricaricata a molla da un burattinaio immaginario. Le sue labbra si contorsero in un sorriso folle, mentre i ragazzi la osservarono sorpresi e spaventati. “La lasci andare” disse Syd tirando Sofia da una parte. La presa si fece sempre più forte e la ragazza strinse gli occhi per il dolore. “Insomma, la lasci” urlò ora spazientito, poi le afferrò il braccio e la spinse via: lei lasciò andare la presa e ricadde seduta. La donna rimase a fissare i due ragazzi e poi scoppiò in una violenta risata che li gelò, perché sembrava tutto ciò che le restava; aveva un suono strano, come se provenisse, con molta fatica, dal fondo della gola. Probabilmente era un’altra vittima di quella fuga di parole. I due ragazzi raccolsero i panini e uscirono.
“Era impazzita”, disse Syd a bassa voce. Sofia non rispose, tirò fuori il suo panino e lo morse convinta, lo stesso fece il ragazzo. Erano entrambi affamati. Mangiarono in silenzio, cercando di dimenticare quella risata che riecheggiava ancora nelle orecchie lasciandogli, impresso sulla pelle, un brivido persistente. “Ci siamo” disse infine Syd buttando giù l’ultimo pezzo di panino. I ragazzi imboccarono una stradina buia e desolata, e dopo pochi metri Syd si fermò di fronte a una porticina di legno, dall’aria antica. Ciò che la ragazza notò, furono i mattoncini marroni che erano crollati tutt’intorno, e la porta che si reggeva in piedi a malapena, era rimasta attaccata all’unico pezzetto di muro intero. Poi notò che tutta quella zona era ridotta nella stessa maniera. Infondo, una rete metallica separava la stradina chiusa da un campo per gli allenamenti. Sofia cercò in cielo le tre lune che erano coperte e pensò subito che forse qualcosa non andava. “È questa” disse, e in quel momento Sofia pensò al motivo per cui Syd aveva insistito nel vivere in strada, rifiutando di alloggiare dallo zio. “Lo saprò presto” disse ancora, fissando l’espressione tirata di Syd, che teneva le mani serrate in un pugno.
CAPITOLO 14
La certezza che non c’è scampo
“Syd?”. Sofia lo chiamò perché sembrava esitare e gli strinse d’istinto il pugno che si aprì. Lui la guardò con il volto più rilassato. “Entriamo”. Salirono i due gradini e, senza che nessuno la toccasse, la porta si aprì. I ragazzi si guardarono per un istante, improvvisamente indecisi, e poi scivolarono dentro. Erano lì per quello, e dovevano anche sbrigarsi. Ormai era notte inoltrata e la mattina non era così distante. Per loro sarebbe stato più difficile raggiungere il molo. Entrarono in un atrio buio e stretto, proseguirono camminando verso destra, in direzione dell’unica fonte di luce dell’intera abitazione. Syd andò per primo, poteva essere una trappola. Sofia strisciò la mano sulla parete per non perdere l’equilibrio nell’oscurità. Sentì le cornici solide dei quadri, il muro ruvido, e sperò di riuscire ad arrivare nella stanza senza inciampare. Syd sembrò leggerla nel pensiero, perché allungò un braccio e lei si aggrappò, come un cieco al suo bastone. I due ragazzi trovarono lo zio di Syd nella sala da pranzo ad armeggiare nei vari cassetti, come se stesse cercando qualcosa che valeva della sua vita. Sulla sedia aveva riempito una borsa di vestiti, che era talmente colma che era impossibile chiuderla. Da ciò che videro i due capirono subito che lo zio era pronto alla fuga. “Zio” chiamò Syd con tono duro, le sue mani si erano nuovamente chiuse a pugno. Sofia notò la tensione del suo corpo e cercò di capire a cosa fosse dovuta. Allo zio, certo. Ma perché?
“Oh, Syd” disse lo zio quasi spaventato, facendo un salto indietro che lo fece sbattere contro un mobile alto alle sue spalle. “Speravo che ti saresti fatto vivo”, disse asciugandosi la fronte agitato, come chi è stato sorpreso a compiere qualcosa che non dovrebbe. Afferrò la borsa e la spostò subito a terra, ai suoi piedi. Syd non chiese cosa era intento a fare. “Hai due minuti per parlare?”. L’uomo si guardò il braccialetto. “Ma certo. Sedetevi. Chi è la tua amica?” chiese con finta sorpresa. “Piacere, io sono…” iniziò a dire lei allungando la mano giovialmente. “Non parlare, non si sa mai” disse Syd alla ragazza. Non era sicuro di suo zio e continuava a fissare il braccialetto con timore. Sofia capì e chiuse la bocca. Ma lo zio, nonostante la tensione, non resistette nel sorriderle. Una volta seduti lo zio chiese a Syd che fine avesse fatto. “Non si sparisce così”, disse subito. “Non si sparisce così? Io? Prima fuggi dall’Area lasciandomi con… senza nessuna indicazione! Poi mi hai cacciato via di qui”. Si lasciò prendere dalla rabbia. “Lo dovresti sapere perché ti ho cacciato” lo interruppe. “L’ho fatto per proteggerti. Sapevo che avremmo trovato un modo per rivederci. Se non fossi venuto tu, ti avrei cercato io”. Poi Syd si ritrasse. “Forse non dovremmo parlarne” disse facendo oscillare il polso con il braccialetto e indicando il suo che sembrava ancora più minaccioso. “Tranquillo. Siete venuti nel momento giusto. Ora possiamo parlare”. “E perché?” chiese dubbioso all’uomo baffuto, che sembrava essersi improvvisamente rilassato. “Perché è spento. Godiamo di questa immunità la notte”. Sofia si ricordò che lo zio lavorava per il Presidente e, nonostante le fosse
sembrato simpatico e a posto, cominciò a innervosirsi. “Stai tranquilla” le sussurrò all’orecchio Syd, che aveva notato quell’improvvisa tensione. “Sì. Tranquilla. Devi fidarti di me. Non voglio fare nulla”. “Tranne cacciare i nipoti da casa e abbandonarli al loro destino” intervenne Syd. “Non hai capito. Sapevo che tu lo possedevi. Era l’unico modo per farti stare al sicuro”. “O per non intaccare la tua carriera. Non è vero? Il nipote di un funzionario del Presidente, un custode. Bella storia no? Saresti licenziato in tronco”. “Non è per questo. La vuoi piantare di straparlare?”. Lo zio cercava di farlo zittire ma non riusciva. “Visto che di notte non è funzionante, potevi aspettare quel momento per parlarmene” disse Syd tirandosi avanti con il petto come se volesse aggredirlo. “Il tuo però funziona” rispose lo zio e Syd guardò il braccialetto. “Hai ragione. Inizialmente speravo che venendo da un’altra Area…” “No, non cambia. Le Ombre di ogni Area sono raccolte tutte qui nell’Area 1. Ogni cosa è centralizzata e collegata”. Syd lo immaginava ma non voleva dargliela vinta. “Ma io non mi farò prendere”. Sofia si strinse il polso, irrequieta. “Smettila di parlare a sproposito e veniamo a noi. Io ho delle informazioni da darvi, ma prima dobbiamo fare una cosa”. “Prima dovresti dire tu a me perché sei fuggito dall’Area 3 per venire qui”. “Per il lavoro” disse lo zio grattandosi la fronte nervosamente. “So bene che non è quello il motivo”, non distolse lo sguardo dallo zio.
“Non posso rivelartelo”. “Ci risiamo. Un altro segreto. Sono stufo” disse alzandosi Syd. “Syd. Siediti” intervenne Sofia, “abbiamo bisogno di sapere cosa ha da dirci. Siamo venuti qui apposta”. La ragazza aveva ragione. Syd fu costretto a ingoiare il rospo e a sedersi di nuovo, nonostante ribollisse di rabbia repressa. Lo zio lo guardava con aria affranta, andosi le dita sui folti baffi, indeciso. “Prima di tutto... quelli”, indicò i loro braccialetti. Poi annuì silenzioso come se stesse riando una qualche procedura. “Venite di là” aggiunse. I ragazzi lo seguirono, Sofia prese una mano dentro l’altra timorosa. Avevano scoperto già molte cose, e tutto sarebbe cambiato da quel momento in poi. “Mi meraviglio che non vi abbiano ancora trovato, visto il localizzatore che si trova all’interno del braccialetto”. “Infatti verranno. Stanno solo cercando di studiare le nostre mosse e capire cosa cerchiamo di fare” disse Syd da grande stratega. In fondo è la verità. Siamo stati lasciati liberi di girare, come topolini in un labirinto, ma arrivato il momento giusto, ci saranno addosso, pensò Sofia. La ragazza allungò il polso verso l’uomo, che indicò il ciondolo. “Forza, staccalo” disse lo zio una volta raggiunta la stanza. “Come?”. “Staccalo”. Indicò il ciondolo. Sofia non si era accorta di aver preso il libro e di averlo stretto forte, come a proteggersi. “Si può togliere?”. Sofia era sorpresa da quella notizia. “Certamente”. La ragazza allungò titubante le dita verso il punto in cui il ciondolo era incastonato, poi guardò Syd che annuì.
Con delicatezza lo tirò fuori dalla sua fessura, era perfettamente rotondo, una pallina dorata con dei segni che prima non aveva notato. Sofia se lo portò più vicino agli occhi. “Guarda Syd. Ha delle striature sulla superficie. Sembrano… sembrano dei serpenti in rilievo che corrono tutt’intorno”. “Poggia il ciondolo sopra il sensore”. Sofia era titubante ma lo fece, e il braccialetto iniziò a staccarsi dalla pelle, portandosi dietro tutti i cavetti che erano diventati parte di lei. “Com’è possibile che proprio i ciondoli riescano a toglierli?”. “Non lo so, so solo che il libro vive e si evolve come ogni essere umano. E il meccanismo del braccialetto è come se fosse vivo. È un essere a tutti gli effetti”. La ragazza strinse i denti, mentre il braccialetto lasciava pian piano la sua pelle come se fosse vivo. Dopo alcuni minuti il bracciale cadde a terra, si contorse per alcuni istante e s’immobilizzò, senza vita, seccandosi e annerendosi in un istante. Sofia sospirò, la fronte le si era imperlata di sudore. L’uomo le fasciò il polso con una benda bianca che strinse talmente tanto da far sussultare la ragazza. “Adesso tu, Syd. Con il tuo”. Mentre il ragazzo tirava fuori il suo libro e staccava con apprensione il ciondolo, Sofia incastrò il suo con dolcezza al suo posto, che era sempre l’angolo. Pensò al Presidente e a come avrebbero mai potuto batterlo. Ora che non avevano il braccialetto, forse sarebbero dovuti semplicemente scappare via e lasciare al mondo al suo destino: c’erano altri custodi che potevano occuparsene. Syd boccheggiò, sembrava aver sofferto molto più di Sofia a quel distacco. “Ora il cordone ombelicale è reciso. Dovete nascondervi bene e aspettare le indicazioni. In quanto custodi, li avrete quando sarà il tempo giusto”. La ragazza staccò il ciondolo senza farci caso e lo strinse in mano beandosi dello strano calore che produceva; era caldo e accogliente, sembrava trasmettere energia alla sua portatrice. Le sembrava di tenere in mano un uccellino ferito,
fragile, ma pulsante di vita. Lo fissò stregata, senza riuscire a distogliere lo sguardo. “Ehi. Ehi?”. Syd continuava a non chiamarla per nome, per sicurezza. Non voleva far sapere il nome a suo zio, anche se probabilmente ne era già a conoscenza. Le diede una gomitata e la ragazza si ridestò come se niente fosse. Lo zio tirò un sospiro e la guardò con apprensione. “Vorrei sapere di più su questi ciondoli” chiese Sofia. Lo zio allungò l’indice verso il libro che la ragazza teneva in mano. “I ciondoli rendono i libri stabili. E dipende dai loro custodi far sì che ci rimangano. Infatti, le loro caratteristiche nascoste, quei comportamenti che sono in profondità in ognuno di loro, si acuiscono e iniziano a prendere corpo”. Sofia trasalì, aveva compreso alcuni dei suoi recenti comportamenti, finalmente. Lo zio continuò: “Il libro tira fuori il meglio del custode, ma può anche far risaltare il peggio, a volte semplicemente per far sì che il custode possa scontrarsi e rapportarsi con esso e superarlo. Dico questo perché so che succede a ogni custode ed è importante che sappiate come gestirlo. Il custode deve imparare a controllarsi, così potrà gestire anche il libro. Se perde la testa, il libro non funziona. O peggio, può influenzare così tanto il suo custode da cambiarlo, fino quasi a controllarne i gesti. È raro che succeda, ma capita. Ovviamente questo accade solamente quando il libro e il custode diventano una cosa sola, in modo… disturbato, folle, non saprei spiegarvelo diversamente”. Sofia guardò il ciondolo e si chiese come fosse possibile una cosa del genere. La sua presenza nella sua mano, le sembrava così… naturale, come se quell’oggetto fe parte di lei, come se la completasse. Sorrise e lo strinse più forte, assorbendone l’influenza. Lo zio rimase in silenzio, in quell’istante aveva chiuso gli occhi come per evitare che i ragazzi potessero leggerci attraverso un qualche pensiero segreto. “Signore” disse Sofia in attesa. L’uomo riaprì gli occhi. “Il libro non può funzionare senza ciondolo. Ma ce n’è solo uno nell’Area che
può, e sarà quello che dovrà ospitare gli altri due”. “Aspetta zio. Vai piano. Che significa?”. Syd, che era appoggiato a un mobile, si tirò in avanti. “Ogni libro ha tre fessure. Non so se sapete che i libri sono tre, tre per ogni Area”. “Sì, questo lo sappiamo”. “Bene. Allora ci deve essere un libro principale nell’Area che accolga gli altri due ciondoli e inglobi, in un certo senso, gli altri due libri”. “E perché dovrebbe?” chiese ingenuamente Sofia. L’uomo si avvicinò lentamente, mentre una luce delicata, proveniente da una candela poco distante, gli illuminava solo una parte del viso con chiarezza. “Per avere più potere. Il libro diventa più potente”. “Capisco”. “Io non so come si può individuare il libro portante. So solo che la maggior parte dei volumi, senza ciondolo, è inutile. È per questo che i custodi a volte scappano con il ciondolo abbandonando il libro”. “È successo?”. Si chiese come fosse possibile Sofia. “Succede mia cara. Succede”. “E chi li ha obbligati alla fuga? Perché dovrebbero…”. “Non lo sai? Il precedente custode non ti ha avvertita?”. “So che il Presidente…”. “Il Presidente”, la interruppe chiudendo di nuovo gli occhi. “Il Presidente è un uomo davvero avido. È stato lui probabilmente a scatenare questa nuova guerra”. “Che cosa?” urlò quasi Syd. “Già”.
“Ma non è possibile. E perché?”. “Per smuovere le acque. Sapete, cerca i libri da tutta la sua vita. Una lunghissima vita. Da quando lo conosco quell’uomo è sempre identico. Nessuno si chiede come sia possibile che dimostri sempre la stessa età. Quando ero bambino, lui era già così”. I due ragazzi spalancarono gli occhi sorpresi, a questo neanche avevano pensato, erano talmente abituati alla presenza del Presidente, come tutti del resto, da non farsi questo tipo di domande. La vita, dopo la grande guerra e il terremoto, si era allungata, grazie all’agio e alla ricchezza che godeva l’Area 1, ma effettivamente era impossibile che il Presidente non invecchiasse. “Non è possibile. La grande guerra però, quella è stata risolta da un suo parente, è la verità?” chiese Syd. “Sì. Non sono sicuro che non l’abbia anche scatenata”. “Ma…”. “E soprattutto, non so quale parente l’abbia fatto, la cosa è confusa. Solo l’attuale Presidente, sembra essere vissuto così a lungo da vedere intere generazioni”. “Perché nessuno si chiede come sia possibile?”, Sofia finalmente ebbe il coraggio di parlare. “Neanche tu l’hai fatto. Mi sbaglio?”, la guardò di sottecchi l’uomo. “No. Ha ragione. Siamo così abituati a vederlo, che non riflettiamo più. È come se lui fosse una presenza ultraterrena che è per noi più un Dio che un essere umano” disse Sofia riflettendo, poi tornò alla carica: “È sicuro che sia stato lui a provocare tutto questo?” chiese sconvolta, con un groppo alla gola. “Non lo so per certo”. “Ma il grande terremoto…”. “Tu sai del grande terremoto?”, lo zio sembrò sorpreso.
“Sì… mio nonno me ne ha parlato”. “Aspetta, che cosa?”. Il ragazzo guardò Sofia in attesa di una spiegazione. “Mio nonno mi ha sempre parlato di un terremoto, che era stato il risultato della guerra, come se la natura si fosse di colpo rivoltata”. “Allora anche il grande terremoto potrebbe essere opera del Presidente. O almeno della sua famiglia” aggiunse Syd. “Tuo nonno…”, lo zio sembrò perdersi nei suoi pensieri. “Tuo nonno è ancora vivo allora”, disse senza pensarci. “Tu sai chi sono, non è così?”. Sofia lo aveva già capito. “Cosa? Zio, rispondi”. “No, ti sbagli”. Lo zio chiuse gli occhi, sembrò essersi improvvisamente commosso. Rimase in silenzio per alcuni istanti. “Zio allora? Rispondi”, lo incalzava il ragazzo. “Ragazzi, lasciate perdere quella storia”. “Non sto parlando del terremoto. Parlo del perché conosci Sofia e suo nonno” chiese il ragazzo. “Lascia perdere. Non ti parlerò di nessuna delle due cose”. Sofia era rimasta senza parole, non sapeva cosa dire, poi ebbe un’illuminazione. “Il terremoto è stato scatenato da loro. Hanno usato il libro, non è vero? È questo che mio nonno non mi ha voluto dire. Quindi anche la divisione in isole è opera sua?”. Lo zio sembrò rimanere senza fiato per un momento. “Siete fuori strada. Fatemi un’altra domanda, perché non risponderò a questo”. “Perché?”, Syd non voleva lasciare l’argomento in sospeso.
“Basta. Non ho informazioni precise su quel periodo. Perciò preferisco tacere. Non insistere”. L’uomo sembrò irremovibile, così Sofia fece un’altra domanda. “Senta. Il mio libro. Io non capisco come funziona”. “Non posso dirtelo io. Il potere del libro sarà indefinito finché la custode sarà indefinita”, disse come se fosse il libro a parlare. “E come faccio?” chiese Sofia, sapeva che era una risposta cui lui non poteva darle. “Lo capirai”. L’uomo riprese ad armeggiare con la borsa ormai carica. “Signore”, Sofia si ricordò all’improvviso di qualcosa, “cosa sono le Anime?” chiese fissandolo negli occhi. “Dove hai sentito questo termine?”. Lo zio tornò con gli occhi sui due ragazzi. “Me l’ha detto il libro”. “Oh. Era da tanto che non sentivo chiamarle così, Anime, che quasi me ne ero dimenticato. Il Presidente si rifiuta di chiamarle in quel modo”. “Cosa sono?”, chiese ancora impaziente. “Sono i ciondoli. Si chiamano Anime”. “E perché mai?” rincarò Syd. “Non lo so”. Lo zio distolse lo sguardo per un momento e lo fissò sul quadro appeso al muro, che aveva un angolo più basso dell’altro. Non era sicuro che i ragazzi dovessero saperlo. Sofia si era fatta improvvisamente silenziosa e sembrava essere diventata più bianca di quanto già non fosse. “Che ti prende?” chiese Syd. Lei lo guardò. “Ricordi il messaggio del libro?”. Il ragazzo spalancò gli occhi. “Zio, ascolta. Abbiamo ricevuto un messaggio di
quel tipo dal libro. Dal suo” aggiunse lui guardandola. “Cosa diceva?”. “‘Raccogli le Anime’. Non sapevamo che cosa diavolo volesse dire”. “È questo ciò che ti ha detto?” chiese lo zio a Sofia per avere una conferma. Lei annuì con un cenno della testa, senza parlare. “Allora è quello che devi fare. Dovete partire ragazzi”. “Cosa?”. “Sì. Sofia tu devi andare nelle altre isole e cercare i custodi con i loro ciondoli, e i libri ovviamente. Io non so quanti di loro saranno ancora liberi”. “Che vuol dire?” chiese Syd. “Molti sono stati catturati dal Presidente con i loro libri, altri con i ciondoli e altri ancora con entrambe le cose. Può farseli cedere, ma utilizzarli senza il proprio custode non è possibile. È una questione di sangue, di discendenza”. Lo zio si stropicciò i capelli infastidito, proprio come faceva suo nipote. “Li vuole perché forse pensa di riunirli tutti. Non so come, né cosa diavolo abbia in mente. Ma un piano ce l’ha di certo” sbuffò. Nessuno dei due ragazzi lo interruppe. “Sofia, tu dovrai partire e cercare chi riesci a trovare. Infine, con le forze che avete, dovrete tentare di recuperare tutto quello che ha il Presidente. Anche se il suo libro è davvero potente, molto potente”, sospirò e poi aggiunse: “Sconfiggendo chi ha scatenato la nuova rivoluzione dovrebbe ristabilirsi l’equilibrio”. Sofia tacque fino a quel momento, poi sbottò. “Io non vado da nessuna parte. Nessuna”. “Ma che dici?” replicò Syd arrabbiato. “Tu devi”. “È un tuo dovere, bambina. Sei costretta, non puoi più scegliere”. “Ma io non voglio”, disse con voce spezzata, “non la voglio questa responsabilità”.
“T’inseguirà ovunque se non l’accoglierai subito”. Lei abbassò la testa. “Non sono la persona giusta. E poi, che speranze abbiamo?”. “Bambina”, disse di nuovo l’uomo, stavolta con una voce dolce, “se il libro ha scelto te, è perché ha fiducia nelle tue capacità e sa che puoi. Sono sicuro che il motivo ti sarà presto chiarito”. “Forse ha semplicemente sbagliato a scegliere” rispose lei abbozzando un sorriso arreso, e gli voltò le spalle raggiungendo l’uscio. Syd la guardò storto, la ragazza non faceva altro che ripetere quella frase e lui quasi l’avrebbe voluta colpire. “Devi assicurarti che faccia ciò che il libro chiede. O le conseguenze…”, sussurrò all’orecchio di Syd. “Sì zio. Non temere” rispose poggiandogli la mano sulla spalla, come se tutti i loro problemi fossero ormai superati, e i torti perdonati. “Bene, sono più sollevato”. Un bip bip risuonò nella stanza, l’uomo si guardò intorno impaurito. “Oh no. Ragazzi, andatevene via subito. Il braccialetto si sta riattivando. E può individuare chi è con me”. “Ma cosa diavolo…? È diverso dai nostri?”. Lo zio annuì, mentre una luce rossa pulsava veloce sul polso dell’uomo. “Sofia, siamo tutti nelle tue mani” disse infine, senza distogliere lo sguardo da lei, poi la luce divenne verde. I due ragazzi lo guardarono e poi sparirono da dietro la porta, e lui si rilassò, lasciandosi cadere su una poltrona. “Spero di aver detto loro abbastanza”. Finì di pronunciare questa frase proprio nel momento in cui una squadra di controllo piombò nella stanza, pistole alla mano. L’uomo si alzò lentamente dalla poltrona, tenendo alte le mani, e in un istante fu portato via.
“L’avete preso?”. “Sissignore”. “Bene. Mettetelo insieme alla ragazzina. E poi fai quello che ti ho ordinato”. Non immaginavo sarebbero ati da lui, pensò. “Sì, d’accordo”. L’uomo esitò. “Scusi signore, ho un’altra informazione da darle”. “E che aspetti?”. “I due ragazzi sono riusciti a liberarsi dal braccialetto”. “Immaginavo sarebbe successo. Ma era un rischio da correre per seguire il piano così come l’ho pensato”. “Mi dispiace signore”. “Cercate di non perderli di vista. Presto non avremo più di questi problemi”. “Sì, signore. Ormai ci siamo. Anche il sensore che i laboratori stanno sviluppando da anni è quasi giunto a compimento”. “Magnifico”. Il fatto che sono riusciti a togliere i braccialetti… è una prova che sono ormai legati ai loro libri. Redis ha ragione, ora posso agire.
“Sofi, dove stai andando? Quella non è la direzione giusta” urlò Syd mentre osservava la ragazza camminare per la strada dandogli le spalle, senza voltarsi, accelerando il o come se avesse intenzione di seminarlo. Era stata presa dal panico. Lui la rincorse. Sofia si girò di scatto prima che Syd potesse afferrarla. “Non hai capito? Non voglio avere niente a che fare con tutto questo. Parole che
fuggono, ciondoli, custodi e ricerca di Anime. Non ne voglio sapere” urlò lei allargando le braccia, mentre un’espressione di paura e ansia le si impresse in volto. “Puoi dire quello che vuoi, ma sei costretta a farlo. È diventato un tuo dovere. Non ti puoi tirare indietro”. “Io non voglio” urlò, e il ragazzo la sovrastò con la sua voce. “Smettila di fare la codarda e assumiti le tue responsabilità, che cavolo”. Sofia si fece muta. La testa di una signora aveva fatto capolino da una delle tante finestre diroccate che li sovrastavano, la ragazza alzò il viso e vide i suoi capelli castani oscillare nel vuoto ad alcuni metri sopra di lei, mentre una piccola crepa scendeva da quel balcone fino ai suoi piedi. “Non ti è ancora chiaro? Non c’è più tempo. Non ti puoi nascondere dietro un dito e sperare che i” disse Syd, poi la strinse per le spalle, lei abbassò gli occhi e guardò a terra pensierosa. Sentì nel petto un macigno e la gola chiudersi come se non la volesse lasciar respirare. “Perché proprio io?” disse in un sussurro strozzato. “Lo capirai” rispose il ragazzo, poi le tirò su il mento con le dita così come aveva già fatto. “Il libro te lo dirà”. I due continuarono a fissarsi a lungo. “E poi ci sono io con te”, le disse ancora mentre il cuore di Sofia si alleggerì, anche se prese a battere all’impazzata. Lei gli mollò un ceffone sulla spalla e iniziò a camminare, stavolta nella direzione giusta. “Stai tranquillo. So cavarmela da sola” disse poi tutta impettita. “Fino a poco fa non sembrava proprio”. “Poco fa? Cosa? Non ricordo”. “Certo che sei proprio un tipo strano tu”.
Lei fece un gran respiro, si sistemò i capelli all’indietro e alzò gli occhi al cielo cercando di togliersi dall’imbarazzo. Si era lasciata andare e proprio non se lo poteva permettere. Poi non era così convinta che lui sarebbe rimasto, lo vedeva vacillare, percepiva il suo conflitto. Mentre Sofia stava lì in piedi, sentiva il libro pulsare, scaldarsi d’indignazione; era arrabbiato, ce l’aveva con lei, con il suo esitare. Quando la ragazza lo aveva sfiorato, la sua sicurezza era tornata, d’altronde aveva già deciso che non si sarebbe tirata indietro. Sperò che i costi delle sue azioni non sarebbero stati troppo alti. “Diamoci una mossa. Dobbiamo are a casa tua ed essere al molo fra tre ore. Vorrei anche riposare un po’”. Sofia si guardò il polso bendato e si sentì libera, il peso di quella catena era stato spezzato. Ricordò che l’aspetto della pelle non era dei migliori dopo che lo zio le aveva staccato di dosso il braccialetto e rabbrividì: la carne era tagliata, come se fosse stata asportata una vena dalla sua profondità, ma la fasciatura le nascondeva la ferita, che non sanguinava più, la benda aveva infatti smesso di tingersi di rosso. La ragazza vide che anche Syd si tastava delicatamente il polso, come se non ci credesse. “Possiamo dire quello che vogliamo” urlò lei alzando al cielo il polso ferito. “Panopticon fai schifo. Squadre di controllo a morte! Presidente odio la tua brutta faccia! Che un fulmine ti colpisca”. Prese fiato e si allargò in un sorriso. “Non è magnifico?”. “Sì, lo è”, sorrise lui stanco.
I due ragazzi ci misero più tempo del solito a raggiungere la casa, ma non ci fecero caso. Erano troppo tesi a schivare le squadre di controllo, che per fortuna si muovevano sempre in gruppo, e tutta la gente che appariva sospetta. Quando Sofia si mosse per attraversare la strada, Syd la fermò. “Dimmi tutto quello che devo prendere. Vado io”. La ragazza capì, se ci fosse stato qualcuno ad aspettare sarebbe rimasto deluso dal vedere che non era lei, e poi Syd era molto più veloce a scappare, perciò non si oppose.
“Sotto il letto c’è una borsa, infilaci qualche vestito. Lascia questo sotto il tappetino fuori dalla porta”, strappò un foglietto di carta da un quaderno che aveva e scrisse con una leggera indecisione Sto bene. Non mi cercare. Poi fissò la scritta per un istante, voleva la conferma che non si sarebbe cancellata, e per fortuna non lo fece. Lei aveva il potere di trattenere le parole e ne era grata, non sapeva in che altro modo avrebbe potuto avvertirla altrimenti. “Nel caso dovesse tornare”, disse porgendoglielo insieme alla scheda con il sensore che serviva per aprire la porta. Lui fece un cenno di assenso e si mosse il più velocemente possibile, mentre la ragazza prese a osservare, con sguardo perso, lo schermo, stranamente spento, piazzato poco distante da lei, sul palazzo di fronte al suo. Non era abituata a quel silenzio, il suono era sempre vivo nelle strade della città. In quel momento avrebbe tanto avuto bisogno di quello stordimento, di quel continuo rumore che le permetteva di non pensare, di distrarsi. Ora, quel silenzio era più opprimente e fastidioso di qualsiasi altra cosa. Syd infilò subito il foglietto sotto il tappeto, poi entrò, accostando la porta delicatamente. Gettò uno sguardo in cucina, dove vide un foglietto. “Sto bene”, c’era scritto, “molto scarno come saluto”, pensò Syd, “tale madre tale figlia”, lo strappò dal tavolo e se lo mise in tasca. Salì su cercando di non fare rumore, sulla soglia della camera di Sofia si sorprese ad annusare il profumo dolce che ogni angolo emanava. Restò immobile qualche istante a osservare la stanza così come non aveva mai fatto; il letto morbido sulla destra, la libreria piena di libri, le pareti di un rosa chiaro con niente attaccato sopra, se non alcuni disegni d’infanzia che rappresentavano una famiglia di tre persone felici. Syd si chiese che fine avesse fatto il padre, poi fu distratto dall’angolo della scrivania, e notò che la crepa era tornata più incisiva di prima, precisamente nello stesso punto. Maledizione. Quanto sarà durato il nostro intervento? si chiese. Lei ha detto che da sola non ha funzionato per più di qualche minuto. Con me almeno venti. Lo attraversò una consapevolezza nuova… Non siamo abbastanza forti. Cosa dobbiamo fare per diventarlo?, pensò con tutto se stesso. Si sentiva debole e sperduto in quel momento. Quella maledetta crepa che era tornata lo aveva fatto vacillare. “Ma di che mi preoccupo. Alla fine neanche
sapevo di poterlo fare”. Si agirò in quel disordine, chinandosi ai piedi del letto e di scatto fece scivolare la borsa fino a lui. Aprì l’armadio e ci infilò tutto quello che si trovava davanti, poi fu pronto per uscire. Solo all’ultimo notò una foto incorniciata, su un lato della scrivania, poggiata a pancia in giù, come se la ragazza avesse voluto nasconderla. La tirò su d’impulso e vide lei da bambina, sorridente, insieme a suo padre e sua madre, altrettanto felici. Il vetro del portafoto era rotto ma l’immagine era ancora integra. La tirò fuori e la portò con sé. L’aveva colpito quel sorriso spensierato, non l’aveva ancora mai visto sul volto di Sofia, e, in un angolo profondo di se stesso sperò che sarebbe successo, prima o poi. Uscì di casa con attenzione e notò Sofia fargli dei gesti dal sottoscala, lì dove l’aveva lasciata. Così ebbe l’accortezza di guardarsi intorno e riuscì a notare per tempo una squadra di controllo a pochi i da lui. Si gettò giù per i gradini, corse in strada trascinandosi dietro la borsa di Sofia e la sua, ben legata alle spalle. Era il più veloce di tutti, ma li sentiva a pochi i da lui. Gli sembrò di essere spacciato, poteva sentire le corde elettriche alzate al cielo, i respiri rumorosi di quelli che all’apparenza potevano sembrare dei semplici robot con aspetto umano. Sofia era pronta a fuggire, stava aspettando che Syd la raggiungesse per muoversi, ma lui sulla strada deviò verso destra, trascinandosi dietro tutti gli agenti inferociti. La ragazza era tentata di urlargli contro, ma il terrore che lo catturassero le tolse il respiro, non voleva che succedesse. Non aveva tempo di analizzare questi sentimenti, così tenne occupata la sua mente in subbuglio osservando la strada per cercare una soluzione. “Che cosa faccio? Vado verso di lui o aspetto qui?”. Era indecisa ma pensò di rimanere. Syd sarebbe tornato lì. Lo aspettò a lungo, rannicchiata nel sottoscala, sperando che lui tornasse. Strinse a sé la borsa, e il libro sembrò sciogliersi e consolarla. Sofia si sentiva abbracciata da quel calore che emanava, come se quell’oggetto non fosse fatto di carta ma di carne. Come se fosse un essere umano, vivo. E proprio come un essere umano, inizialmente lo aveva sentito diffidente, distaccato dal suo tocco, persino dispettoso. Ma ora si era abbandonato
completamente a lei e in quel momento sembrava volesse consolarla. La ragazza rimase a lungo stretta al suo volume, confortata dal suo tepore. A ogni o sussultava, allungava il collo verso il marciapiede per poi rimanere delusa. Quella strada non era mai stata così trafficata come quella sera, e di Syd, dopo due ore, neanche l’ombra. La sua ansia si fece sempre più forte, pensò per alcuni minuti di gettarsi in strada a cercarlo, Ma come potrei fare? Non posso mettermi a urlare il suo nome, sarebbe inutile e attirerei l’attenzione. E se non tornasse? E se muovendomi potessi essergli d’aiuto? Forse mi sta aspettando. No, sono sicura che lui voglia che io rimanga qui. Una serie infinita d’interrogativi la tenne impegnata per molto tempo. “Dannazione, ma dove sei finito?” disse tirando un sospiro affranto; la piastrina le prudeva come non mai, anche se era assente. Poi una voce la raggiunse. “Sofi”. Era lui, era tornato. Il cuore le salì in gola, il sollievo fu così forte da farla crollare seduta sui gradini; non si era accorta di quanto fosse tesa. Quando il ragazzo la raggiunse, lei gli saltò al collo e lo abbracciò. Syd rimase paralizzato sul posto, non si aspettava una simile reazione, poi lei si staccò e tentò di dargli uno spintone che lui bloccò, lasciando cadere la borsa a terra. “Che fine avevi fatto? Perché ci hai messo tanto?” chiese con rabbia. “Sono qui da ore”. Le tremava la voce per l’agitazione che aveva provato. Lui la teneva stretta per i polsi e la fissava con aria grave. “Ci ho messo un po’ a seminarli. Ma sono arrivato, no?”. Sofia prese fiato, calmandosi, e lui la lasciò andare. Si sedettero entrambi sui gradini e rimasero in silenzio per alcuni minuti; avevano bisogno di rilassarsi e di ritrovare le energie. Syd le ò la borsa e si asciugò il sudore della fronte con il dorso della mano, era stata una bella corsa. “Grazie”, rispose solo, “mi dispiace. È stata una pessima idea” disse lei abbassando lo sguardo.
“Infatti è stata pessima, ma tranquilla, sono abituato a correre” disse grattandosi il naso. Fu in quel momento che Sofia si accorse della sua gamba. “Cosa ti è successo?”. “Mi hanno preso, ma non è niente tranquilla”. Sulla coscia era comparso un taglio dall’aria minacciosa, era scuro come se il sangue ci si fosse seccato sopra. Sofia cercò qualcosa nella sua borsa e ne tirò fuori una maglietta bianca che non usava più, inconveniente dell’aver lasciato andare a prendere dei vestiti da un ragazzo! Tirò fuori una vecchia bottiglietta d’acqua dalla sua borsa, che aveva già usato per pulirsi le mani dal sangue, e lasciò cadere abbondanti gocce d’acqua sulla ferita, poi la fasciò con la maglia, la strinse talmente tanto da fargli uscire un grugnito di dolore. Lei ridacchiò mentre Syd le lanciava un’occhiataccia da sotto i suoi capelli d’oro. A Sofia sembravano più lunghi dell’ultima volta che li aveva visti, anche se era impossibile. Senza pensarci gli scansò una ciocca dagli occhi, lui la lasciò fare e poi si voltò da un’altra parte, imbarazzato. Si era creata un’atmosfera che poneva entrambi in una situazione nuova, rendendoli nervosi. Sofia iniziò a guardarsi le mani, sentendosi stupida per quel gesto istintivo che le era uscito con così tanta facilità e naturalezza. Sperò che quel momento asse velocemente, e fu lui per fortuna a romperlo. “Ora andiamo al molo”. “Ok” rispose lei ancora scossa dall’agitazione. “Aspetta solo un secondo”. Lei si tolse la felpa sporca di sangue di dosso e s’infilò una maglia con le maniche lunghe sopra la canottiera. Quel gesto inaspettato fece irrigidire Syd, che aveva osservato solo per un istante il suo corpo. Il ragazzo si girò di colpo imbarazzato e teso. “Ok. Andiamo al molo” sussurrò Sofia. Syd sembrava esser tornato nello stato d’animo di sempre, e anzi, appariva ancora più ostile del solito. Entrambi non potevano fare a meno di pensare allo zio del ragazzo. Lui l’aveva riconosciuta. Conosceva suo nonno. Perché lo conosceva? Non aveva il tempo di pensarci.
Il Presidente Reik, iniziò a puntellare con le dita sul ripiano della scrivania, assorto. Stava pensando a una maniera più rapida e discreta di agire. Poi chiamò il suo braccio destro. “Sissignore”. “Porta il traditore e la ragazzina nella sala grande. Infine prepara il video. È quasi tempo di lanciarlo”. “Sissignore”.
Fran si rigirò più volte, non riusciva a dormire. Il soffitto della stanza sembrava scendere giù pian piano, ma era solo una stupida impressione. “Non ti riesci ad addormentare, vero?”. Leon era ancora preoccupato per ciò che era accaduto al supermarket, non poteva fare a meno di pensarci. E poi i suoi pensieri volavano continuamente a Sofia. Sperò si fe giorno il prima possibile. Non sapeva perché, ma starle lontano era diventato difficile. “No”. “Neanch’io” disse Leon, che si era girato a pancia in su e aveva allungato le braccia sopra la testa. “Cosa diavolo mi prende. Non ho mai sofferto d’insonnia” disse Fran mettendosi nella stessa posizione dell’amico. “Sai che non è stata una giornata come le altre!” sospirò. “Affatto”. “Fra poche ore dovremmo raggiungere il luogo dell’incontro”. Leon si stiracchiò la schiena e fece un enorme sospiro. “Sì”. Ormai avevano deciso di parlare senza nominare luoghi e persone, per sicurezza.
“Ora sì che mi ci vorrebbe una di quelle ondate” disse Leon chiudendo gli occhi. “Già. Vorrei tanto prendere sonno”. L’oscurità sembrava più densa e opprimente dei giorni ati. Fran si voltò verso l’amico che se ne stava ancora a occhi chiusi. “Stai dormendo?” chiese. “No. E pure se stessi dormendo, ormai sarei sveglio”. “Stai sempre a lamentarti”. “Io eh?” “Non so come si possa dormire, visto tutto quello che sta succedendo. Se ci affacciassimo in strada ora, vedremmo ancora una quantità incredibile di agenti indaffarati a mantenere il controllo” disse Leon. Poi si voltò verso la finestra aperta. Dall’altro lato della strada, una donna si era affacciata a stendere due magliette, con l’aria affranta. L’edificio era così vicino al loro che si riusciva a vedere persino dentro casa. Una televisione accesa alle spalle della donna mandava lampi di luce, illuminando le pareti. Erano tutti svegli. Come loro. Fran tossì, la gola si era seccata di colpo. Buttò giù un sorso d’acqua dal bicchiere che teneva fisso sul comodino. “E a riparare le crepe sparse ovunque”. “Già”. Leon ripensò alla scena di poco tempo prima. La donna in lacrime, gli agenti sommersi dalle persone. “Inutilmente”. “Già”, sospirarono entrambi. “Stai sperando che lei stia bene?” chiese. ò un attimo prima che Leon rispondesse. “Sì. Ci ho pensato per tutto il giorno”. Il ragazzo non aveva smesso un istante. “Potevi chiamare”.
“Non volevo sembrare…”. “Apprensivo e rompipalle come sei di solito. Chiaro”. “Oh. Ti ringrazio” disse innervosendosi Leon. Fran rise e l’amico si rasserenò; sembravano essere tornati ai vecchi tempi. “E poi non è vero che sono così”. Leon si tirò su a sedere. “Se lo dici tu”. “E dai”. Fran scoppiò in una fragorosa risata. Per un momento dimenticarono di essere stati torturati e di essere ingabbiati in una situazione da cui non sarebbero potuti più uscire. Se non con la morte.
CAPITOLO 15
Ciò che Sofia può fare
Syd si fermò piegandosi leggermente sulla gamba ferita; appoggiarci il peso sopra l’aveva fatto sussultare. “Le strade si sono svuotate, l’hai notato?”. Syd vide quanto fosse peggiorata la situazione. “Sì. La città sembra deserta. C’è qualcosa di strano”. “Fa paura. È desolata”. “Già. La gente deve essersi rinchiusa in casa” disse Sofia. O è stata portata via dalle squadre. Sono sparite anche quelle. Ma che succede? Poi un pensiero le balenò in mente: E se lo avessero fatto per noi? Se ci stessero aspettando lì, in fondo? Sofia vide che Syd stava pensando la stessa cosa. “Cambiamo strada di corsa” disse deciso, ma proprio in quel momento, uno schermo di quelli che erano solitamente attaccati sugli edifici e che martellavano con spot e immagini ogni giorno, si accese. Comparve un’immagine inaspettata. Sofia sbarrò gli occhi, confusa: era Martha.
La ragazza rimase ammutolita a fissare lo schermo, mentre Syd sembrava confuso quanto lei. “Non è possibile” sussurrò, mentre non riusciva a distogliere lo sguardo dalla sua amica imbavagliata e bianca, più spaventata di quanto non fosse stata in vita sua.
“L’hai vista bene, mia cara Sofia?” disse il Presidente rivolgendosi proprio a lei. La ragazza si guardò intorno. Solo quello schermo era e il Presidente parlava proprio con lei, l’aveva seguita fino a quel momento e ora si era palesato. “Lasciala stare. Maledetto” urlò come se lui potesse sentirla, e, infatti, era così, perché lui rispose. “La lascerò. Stai tranquilla. Ma a una condizione. Vieni alle dieci di questa mattina nell’atrio del Palazzo di Giustizia. Non tardare oppure…” prima che l’uomo terminasse la frase, Martha venne strattonata violentemente ed emise un urlo roco e soffocato. Sofia si sentì morire, il sangue le si ghiacciò nelle vene al pensiero della sua amica nelle mani del Presidente. “Maledetto. Te la farò pagare, lo giuro” urlò. Sofia si era fatta improvvisamente decisa e il suo corpo fu attraversato da una scossa di energia che la ritemprò dandole tutto il coraggio necessario. Il Presidente rise di gusto. “La vedremo, ragazzina. La vedremo”. Poi lo schermo si spense, lasciando i due ragazzi ancora lì a osservarlo. “Una bella mossa, non c’è che dire” parlò Syd, con un tono che mostrava scherno e allo stesso tempo ammirazione, ma come se la cosa non lo riguardasse. “Che c’è? Ora fai il tifo per quel maledetto?”. “Ti pare? Non dire scemenze”. Lei gli lanciò uno sguardo cattivo che lo incendiò e lo fece voltare. Syd capì che non era il momento di stuzzicarla, soprattutto su una cosa così importante. “Andiamo al molo. Poi dritti da Martha” disse Sofia e nel pronunciare quel nome i suoi occhi si fecero tristi tradendo tutta la sua preoccupazione e insicurezza sulla faccenda. Il Presidente scomparve dallo schermo, lasciando spazio a uno spot muto: solo immagini scorrevano con un sottofondo musicale. Sofia aveva già notato che i telegiornali, così come gli spot, erano stati
organizzati in altro modo, adattandosi subito al cambiamento: i giornalisti, quando c’erano, usavano filmati e immagini per parlare delle notizie. Cercavano in ogni modo di sorridere, forse costretti dal leader. Era necessario che, anche se muti, mostrassero tranquillità, visto che le notizie alla televisione, e la televisione stessa, erano le uniche cose a cui la popolazione dava retta, di cui si fidava, in cui credeva, fino alla fine. Il Presidente avrebbe potuto dire il contrario di quello che stava succedendo, e loro ci avrebbero creduto. Perciò Sofia osservò quei due poveri uomini tristi che portavano avanti quel teatrino facendo finta che tutto andasse bene, che il Presidente avesse la situazione sotto controllo, nonostante ormai la quasi totalità della popolazione fosse muta e la città stesse crollando a pezzi, inghiottita dal mare. “Aiutalo. Salvalo, nonno? Pensi davvero che quest’uomo abbia bisogno di protezione?”. Sofia scalciò via un pezzo di cemento stringendosi le braccia al petto. Quelle due parole le rimbombavano in testa da quando suo nonno le aveva pronunciate, poi pensò a Martha e al terrore impresso nei suoi occhi. Prese a grattarsi lì dove prima c’era la piastrina. “Stai tranquilla. La tireremo fuori da lì”. “Sì” rispose Sofia, ma non ne era così sicura. Cosa aveva da opporre allo spiegamento di forze del Presidente? Solo se stessa e un libro.
I suoi pensieri furono interrotti quando i due ragazzi voltarono l'angolo e si ritrovarono in una strada affollata di gente che urlava. Lì si bloccarono. “Come fa a esserci tutta questa gente? Sono le quattro del mattino” disse Sofia guardando l’orologio. Syd aveva allungato istintivamente un braccio davanti a lei per impedirle di proseguire. “C'è qualcosa che non va. Non vedi?” chiese con tono scortese notando le note di disperazione nelle urla della folla. “Me ne sono accorta, che credi. Sei sempre molto gentile” gli disse nervosamente.
“Non è il momento di litigare. Dobbiamo trovare un modo per superare tutta queste persone ed evitare le squadre” disse Syd. I suoi occhi si poggiarono velocemente sugli agenti in fermento, sembrava che tutti quelli presenti nell'Area 1 si fossero riversati lì. “Quale... Oddio”. Lo sguardo di Sofia cadde su quell’enorme buca che scavava la strada da parte a parte e che aveva inghiottito anche un edificio nella sua discesa. La gente urlava spaventata, alcuni uomini erano rimasti aggrappati a una porta che pendeva pericolosamente ai margini di quel burrone, alcuni agenti tentavano di raggiungerli ma senza un risultato immediato. Altri erano rimasti feriti per il crollo di calcinacci. Sulla sinistra un edificio si era spaccato a metà, crollando solo in parte. Una donna era rimasta intrappolata al secondo piano, i soccorritori tentavano di estrarla da quel mare di macerie che a tratti era incandescente. Un uomo sulla cinquantina stringeva la moglie inginocchiata a terra, qualcuno dei suoi familiari era rimasto all'interno. Il sangue bagnava parti di quell'edificio, macchie indelebili di moscerini umani schiacciati dalla natura. Sofia poteva vedere bene il sangue, perché gli agenti erano tutt'intorno a cercare di salvare il salvabile. Su quello che rimaneva della strada, c’erano macchine accalcate, accartocciate in un groviglio di lamiere, l’uno attaccata all'altra, fino a perdita d'occhio. Poco distante erano stati poggiati a terra tutti i feriti, in una sorta di pronto soccorso improvvisato. Più di una persona urlava alla buca come se potesse risputare fuori i loro cari. Una crepa, non molto profonda, si era aperta in fondo alla strada, dall’altro lato bloccando molte auto al suo interno. Altre squadre erano impegnate a cercare di liberare gli uomini incastrati, ancora vivi o forse a pezzi. Molti pedoni erano stati risucchiati da quelle fessure poco profonde. Sofia vedeva il busto di due uomini, e altre sette persone di cui notava solo le braccia, dimenarsi e chiedere aiuto nonostante i consigli dei soccorritori che
urlavano di mantenere la calma, una calma che non ci poteva essere in quella situazione. La città stava crollando a pezzi. “Ci potevo essere io lì” disse istintivamente Sofia. Syd la guardò perplesso e lei continuò: “Non so perché, ma è la prima cosa che mi è venuta da pensare”. Poi le comparve sul viso un sorriso amareggiato, costernato. Osservò le persone una a una, immobile, bloccata dalla sorpresa che l’aveva colta quando già aveva tante cose da metabolizzare. Sofia guardò le persone che si affannavano a scattare foto. Erano accorsi tantissimi curiosi che, invece di aiutare, non facevano altro che riprendere con le telecamere gente dimezzata, ferita, spezzata dal dolore. Se tutta la gente che è accorsa smettesse di fotografare e aiutasse, si potrebbero salvare tantissime vite si disse la ragazza, invece erano presi a documentare quel grande e incredibile evento. Sofia vedeva l’eccitazione nello sguardo delle persone che non avevano mai visto nulla del genere. A Panopticon queste cose non succedono. È tutto così schematico e controllato, pensò. La popolazione vive come un insetto sottovuoto, controllato a vista, in ogni suo movimento. Vive più attraverso ciò che trasmette la televisione, carica di immagini, che attraverso il proprio corpo, comprese Sofia. “Viviamo un distacco dalla realtà che non ci permette di percepirla come dovremmo. Queste persone vivono l’orrore di quello che è accaduto come se stessero vedendo un documentario in tv, o il servizio al tg di una delle altre isole, come se guardassero la scena attraverso uno spesso vetro, o attraverso la mediazione di un obiettivo fotografico. Eppure siamo qui, in carne e ossa. Il sangue versato è quello dei nostri familiari, dei nostri cittadini. Non è un film, e non è neanche un paese lontano. È qui e ora” disse intontita. Anche Syd era attonito, ma sembrava essersi già abituato all’idea che tutto quello poteva accadere, perché quel dolore era giustificato dalle loro stesse azioni, che l'avevano procurato.
Syd lo capiva, così come lo aveva compreso Sofia. “Tutto quello che sta succedendo ce lo meritiamo” disse Sofia. “Noi dobbiamo sopravvivere per provare a porvi rimedio” aggiunse Syd. L’espressione di Sofia assunse una smorfia ambigua; dubbiosa, seria, spaventata e rabbiosa insieme. “Che ti prende?” chiese subito il ragazzo, notandola. “Nulla. Solo non sono così convinta di poter fare qualcosa. Sono solo una ragazza e forse non solo la persona giusta”. “Sai bene che se il libro ti ha scelto lo sei. E ora smettila”. “È solo un libro. E poi non aveva scelta. Apparteneva alla mia famiglia. Ci sono solo io! Che cosa può fare una ragazzina con un libro per questa realtà?”, quasi urlò mentre Syd fece qualche o avanti. La ragazza rimase indietro e sussurrò, quasi a se stessa: “Io voglio solo sopravvivere”. La frase giunse alle orecchie di Syd che la ignorò. “Vieni? Dobbiamo aggirare la buca”. “Aspetta”. Sofia non si era mossa, lo sguardo era stato catturato da qualcosa. Una scena, infatti, la colpì più di altre e la fece fermare a riflettere, nonostante non fosse appariscente e si confondesse in quel mare di dolore, sangue e disperazione. C'era una donna fuori da un negozio di scarpe distrutto, era appoggiata a una vetrina rotta e avanzava lentamente, calpestando le scarpe sparse sul terreno frammentato. Sofia riusciva a vedere, in lontananza, tanti piccoli pezzi colorati cedere sotto i suoi piedi. La donna urlava, come se volesse sfogare i suoi sentimenti per quella situazione. Sofia tese l’orecchio per isolare quei suoni, per capire cosa stesse urlando, ma dalle sue labbra non proveniva nessuna parola. Era muta. Come se i sentimenti che stava abbandonando nel cielo fossero così: silenziosi e leggeri. Non era stato
lo shock a renderla muta, Sofia ne era sicura, ma era stato il risultato della degenerazione di quella situazione, la sua reazione a ciò che stava accadendo. Ne era sicura eppure voleva assicurarsene. Sentì il desiderio di raggiungere quella donna, di aiutarla. Sofia ò una mano sulla borsa a tracolla accarezzando il libro che sembrava pulsare ed essersi scaldato. Come spinta da lui, la ragazza si mosse senza ulteriori indugi. “Dove stai andando? Ehi rispondi!” gli disse Syd raggiungendola con un balzo, e in un secondo le fu accanto. “Allora?”. La fissava con una punta di preoccupazione. “Prima ti ammutolisci, poi spari frasi enigmatiche e infine ti metti anche a camminare a caso? Ma che ti prende?”. I due ragazzi girarono intorno alla buca abbassando la testa ogni volta che un agente gli ava accanto, ma era una precauzione inutile, visto quanto le squadre di controllo erano impegnate e immerse in quello scenario di distruzione. Non avrebbero potuto notarli o occuparsi di altro. Quando i due giunsero più vicini alla voragine, Sofia buttò uno sguardo al suo interno. “È impressionante” balbettò colpita. “Sai cosa succederà all'Area 1 se inizierà a crollare in questo modo?” chiese Syd fissando quella scura buca senza speranza. “Sì. Saremo inghiottiti dall'acqua. Questa è un’isola”, deglutì con forza e le sembrò che la saliva le si fosse annodata alla gola come filo spinato. “Mio dio”, disse ancora, poi, aggirando altre macerie e un uomo inginocchiato sul ciglio del buco, arrivarono alla donna che ancora urlava al vento parole senza suono. Non era spaventata, ma peggio, arresa. E non c’era cosa che potesse rendere Sofia più triste. Forse era per quello che la ragazza l’aveva notata, per quel senso di muta indifferenza. Se ne stava ferma, senza espressione a strillare parole mute, che non erano un grido di aiuto ma solo un modo di reagire, una non reazione, uno "state fermi". Sofia si vedeva così come quella donna, una ragazza che urlava parole mute e inutili o, peggio, che non urlava affatto.
“Signora”. La donna guardò Sofia con aria improvvisamente persa. “Va tutto bene? Si alzi” disse Syd, che l’aiutò a tirarsi in piedi, aveva capito che Sofia si era avvicinata per lei e, anche se voleva a ogni costo non perdere ulteriore tempo, non poteva ignorarlo. Il cielo buio apparve alla ragazza come un manto ostile che copriva la poca luce che era rimasta viva a rischiarare quelle macerie. Quel buio rendeva la voragine ancora più minacciosa, e i loro destini più incerti. La donna si toccò la gola con un gesto delicato. Il suo volto era senza paura, senza dolore, senza sentimenti. Non possedeva un’espressione. Ed era questo ad aver colpito il cuore di Sofia. “Si tenga a me se ha bisogno” disse la ragazza. La donna, in risposta, scosse la testa e le sorrise vuota. Sofia non sapeva che fare, l'aveva spiazzata con quel gesto. Guardando la donna Syd era altrettanto sorpreso da quel modo di reagire, anzi, di non reagire. Anche il ragazzo si stava guardando intorno, affranto. Sofia seguì il suo sguardo e capì cosa aveva messo a fuoco: tantissime persone che piangevano cercando di ritrovare le parole. Non sta succedendo solo a questa donna, ma a tutti noi, questo pensiero si fece largo nella mente di Sofia, che immaginava sarebbe successo, presto o tardi, qualcosa di peggiore che una parola dimenticata. Sofia fissò Syd con aria tesa e sofferta. Il ragazzo scuoteva la testa, con le braccia rilasciate e deboli lungo i fianchi, come se per un momento si fosse arreso, come se avesse pensato: Cosa possiamo fare di fronte a tutto questo? Che cosa?. Poi notò che aveva aggrottato la fronte più volte, perdendo leggermente l’equilibrio. Non riusciva più a trattenere il peso sulla gamba ferita. Ma non era importante in quel momento. Una paura aveva colpito entrambi. I due ragazzi si sentirono in quell’istante nella stessa identica maniera: bloccati, con un nodo di ansia alla gola che gli impediva di rimandare giù questi sentimenti negativi.
“Signora, mi dispiace” disse Sofia con un filo di voce, stringendole le mani. Il libro pulsò ancora nella borsa, come se chiedesse di essere tirato fuori. Sofia, sotto le tre lune che brillavano in cielo, pensò a quanto desiderasse che quella donna potesse di nuovo esprimersi, farle sapere perché era così. “Andiamo. È inutile” disse Syd amareggiato, stropicciandosi i capelli disordinati. “Sì”, convenne Sofia e, dopo aver lanciato un ultimo sguardo alla donna, le voltò le spalle e seguì il ragazzo che ora zoppicava lievemente. “Grazie” sussurrò la donna dietro di lei, e il suono riuscì a raggiungere le sue orecchie. Sofia si girò di scatto, era proprio la donna ad aver parlato. Le andò di nuovo incontro, mentre lei cadeva in ginocchio; tutti i sentimenti che la donna aveva nascosto in quell’espressione di ghiaccio e che aveva represso dentro di sé, riemersero prepotentemente e la colpirono. Scoppiò a piangere, stringendosi il viso tra le mani, piena di gioia, di dolore e di sorpresa per le parole ritrovate. La speranza era tornata insieme a tutto il resto, saturandola. “Grazie”, disse stringendo le braccia di Sofia. “Io non ho fatto niente” balbettò la ragazza. “Sì, invece. Ho sentito un calore, e le parole hanno ripreso forma” rispose la donna cercando di descrivere quelle sensazioni. “Sono stata invasa all'improvviso da quel calore”. Sofia era attonita. Appena la donna tentò di dire altro, lei scappò via, scansando quei gesti di ringraziamento, e si diresse nella direzione che poco prima Syd stava seguendo. Non si voltò fino a quando non fu lontana. “Ma che ti è preso?”. Syd l’aveva raggiunta affrettando il o ed emettendo qualche gemito a causa della ferita alla coscia che non si era ancora rimarginata. “Niente, andiamo”. “Hai lasciato quella donna a bocca...”. “Stop. Non voglio parlarne” disse e alzò le mani a protezione.
Syd cercò di afferrarla per un braccio ma lei si scansò. “No, dobbiamo Sofi. Hai fatto tornare le parole”. “Andiamo o no? Non avevi fretta?”, lo interruppe Sofia. “D’accordo. Ma sei strana forte” borbottò. “Prima o poi dovremo parlarne. Non hai visto quante persone erano diventate mute?”. Lei rimase zitta, aveva capito ciò che Syd cercava di dire. Sarei dovuta rimanere ad aiutare quelle persone se davvero è stato merito mio quello che è successo alla donna. Ma quanto durerà il mio intervento? Se funzionerà come con le crepe, fra pochissimo sarà di nuovo muta, cercò di giustificarsi fra sé e sé. Guardò poi a terra per tutto il percorso e cercò di riassumere un tono, proseguendo come se niente fosse successo, anche se quella donna, e ciò che era successo, non poteva essere ignorato. Quella scena continuò a occupare la sua mente per tutto il resto del tragitto. Ha fatto tornare la voce a quella donna. Ne sono sicuro. Quanto si spingerà oltre il suo potere? si chiese Syd guardandola senza farsi notare.
Sofia rimase silenziosa per i successivi dieci minuti. I ragazzi camminarono per le vie più isolate che trovavano, cercando di non guardarsi intorno, tentando di concentrarsi solo sui loro battiti, sui loro libri, sulla strada che ancora gli mancava da percorrere. Sofia era rimasta scioccata dalla voragine e continuava a fissare la terra per paura che si aprisse all’improvviso una nuova crepa e che la inghiottisse. Poi alzò gli occhi e finalmente parlò. “A cosa pensi? Hai una faccia”, non fece in tempo a dirlo che Syd le diede uno spintone nella direzione opposta, evitando che un enorme masso si schiantasse sopra la sua testa. “Oh, cavolo”. Sofia era rimasta senza parole. “Questa città sta crollando totalmente in pezzi. Non penso durerà a lungo” disse Syd.
“Tutta questa realtà, vorrai dire. Comunque grazie”, sbuffò lei rialzandosi e mettendosi in ordine. Nel cadere aveva dato una bella botta alla schiena, se la massaggiò qualche istante prima di riprendere a camminare, fu in quel momento che si ricordò della ferita di Syd. “Come va la gamba?”. “Oh, bene. Non la sento nemmeno” disse appoggiando il piede a terra con una smorfia. “Dovresti farmi vedere come sta”, continuò lei avvicinandosi, ma Syd si scansò. “Lascia stare. È una perdita di tempo. Dobbiamo andare”. “Va bene” rispose lei senza protestare, perché aveva visto che lo sguardo di Syd era già rivolto in avanti, forse era arrivato prima di loro alla meta. arono di fronte a uno schermo che si accese all’improvviso, senza riprodurre nessuna immagine. Era bastata la loro presenza a farlo attivare, almeno è così che i due pensarono al momento. Sofia afferrò Syd per il braccio e lo aiutò ad accelerare il o. “Anche gli schermi ora ci seguono, è chiaro” disse Syd bofonchiando. Ci stanno cercando. O forse sanno bene dove siamo, e gli schermi servono per seguire i nostri i, si disse Sofia. “Non lo possono sapere, tranquilla”. Ora Syd zoppicava vistosamente, dopo lo sforzo precedente, e Sofia non sapeva se offrirgli una spalla, ma era sicura che avrebbe rifiutato, perciò rimase a osservarlo mentre si sforzava di camminare ben eretto. “Ah, che stupida”, si colpì la fronte con il palmo. “Che hai ora?” chiese il ragazzo. “Ho degli anti infiammatori nella tasca della borsa”. “E adesso te ne ricordi?” sbuffò lui nervoso. “Alla buon’ora eh. Proprio tipico tuo”.
“Li vuoi o no?” minacciò lei facendoglieli oscillare davanti alla faccia. “Sì. Dammene un paio”. Syd li buttò giù senza acqua, faticando a deglutire, e abbozzò un grazie che a Sofia quasi non era arrivato.
“Ci siamo. Mancano dieci minuti ancora, ma fa nulla. Vieni, siediti Leo” disse Fran all’amico e lui eseguì. Era scosso e tremante. “Ecco qui. Ora aspettiamo”. I due rimasero fianco a fianco a fissare lo specchio dell’acqua e i loro cuori pieni di disperazione si gonfiarono ora di speranza e pace. “Stai tranquillo” gli disse Fran. Leon rimase silenzioso e, nel vedere la calma di quel luogo, pianse le sue lacrime più amare, preoccupato per quello che avrebbe fatto da quel momento in avanti. Come avrebbe potuto aiutare Sofia, in quello stato? Fran gli poggiò una mano sulla spalla interpretando quei pensieri e disse la cosa che più di tutte, in quel momento, riusciva a consolarlo. “Non ti preoccupare. Lascia parlare me. Tu annuisci e basta”. Leon a quelle parole annuì. Del resto non poteva ormai fare altro che quello. Dei i alle loro spalle, ruppero i loro pensieri. Entrambi si alzarono e andarono incontro ai nuovi arrivati: Sofia e Syd. Leon notò la preoccupazione impressa nello sguardo di Sofia e l’incredibile fiducia con cui fiancheggiava Syd, che guardava a intervalli regolari, come se la presenza del ragazzo le desse il coraggio di continuare per quel percorso pieno di ostacoli invisibili. Syd, di suo, faceva lo stesso, la guardava e controllava che stesse bene. Fran notò la ferita che lui aveva sulla coscia e si chiese subito come se la fosse procurata, ma non disse nulla. Rimasero tutti in silenzio per alcuni minuti, minuti che sembrarono interminabili.
“Ciao ragazzi”. Gli occhi di Sofia si addolcirono alla vista di Leon, gli si avvicinò e Leon d’impulso l’abbracciò. Sapeva che non era il caso, ma non riuscì a resistere. Syd intanto s’irrigidì sul posto, facendo un o avanti nella loro direzione, ma li lasciò fare, aveva già notato che c’era qualcosa che non andava nello sguardo di Leon. I suoi occhi azzurri erano pieni di preoccupazione, quasi opachi, come svuotati di ogni ardore. “Sto bene. Tranquillo”. La ragazza gli sorrise, aveva interpretato la sua stretta apprensiva. “Tu invece?” chiese Sofia. Lui annuì solamente, poi guardò Fran, che si mise in mezzo. “Allora ragazzi. Avete novità?”. Sofia era ancora concentrata nell’osservare Leon, sicura che avesse qualcosa di diverso. Qualcosa nel suo atteggiamento forse, non riusciva a individuarlo. Si rivolse a Fran: “Sì. Abbiamo alcune cose da dirvi, ma prima dobbiamo fare un’operazione”. Sofia si voltò verso Syd: lo avevano deciso lungo il cammino, dovevano farlo altrimenti non avrebbero potuto parlare. In quel momento la ragazza alzò il polso e i due amici notarono ciò che prima gli era sfuggito: al posto del braccialetto c’era una benda bianca. “Sì. Ci siamo riusciti”. “Diavolo! E come avete fatto?” chiese Fran spaventato, ma elettrizzato al pensiero di potersi sottrarre a quel maledetto oggetto. I pensieri di Leon sembrarono gli stessi, arono velocemente sulla sua espressione, senza che ci fosse un riscontro nelle sue parole. Si ostinava a tacere e Sofia cominciava a sospettare seriamente che qualcosa non andasse. Già temeva dentro di lei per cosa quel silenzio significasse. Lo sentiva. Per quanto tentasse di nasconderlo, era chiaro. Notò che Syd guardava Leon con comprensione, lui sapeva già tutto. Aveva realizzato prima di lei, eppure non parlava. Stava rispettando il desiderio di Leon, che ricambiò l’occhiata con un lieve cenno di ringraziamento.
Sofia non voleva scoprirlo… proseguì nello spiegare come avrebbero tolto i braccialetti. Tirò fuori il resto della maglietta bianca con cui aveva fasciato Syd, e strappò con delicatezza il ciondolo dalla copertina. “Dammi il polso”, si rivolse a Fran che era più vicino, e lo staccò in un attimo. Fran fremette, una scossa l’aveva attraversato come se tutti i suoi circuiti interni per un momento si fossero fermati, dandogli la sensazione di un improvviso black-out. La cordicella animata cadde a terra contorcendosi, poi si annerì, morendo. Fran e Leon spalancarono gli occhi alla vista di quell’organismo che sembrava vivo. Leon d’impulso si diede una pacca sul polso come a scansare un terribile insetto che si era attaccato. Sofia liberò delicatamente anche lui, che rimase a osservare, con un candido stupore, il suo polso riconquistato. La sua ferita precedente non era ancora guarita, ma Sofia non chiese nulla. Il ragazzo sorrise e annuì. Sofia tenne fra le sue mani il suo polso per alcuni secondi, dopo averlo fasciato, come se non volesse lasciarlo andare, e come se quel gesto potesse cambiare la situazione. La ragazza poi si allontanò titubante e infilò il ciondolo nella fessura a cui apparteneva, facendo scivolare il libro nella borsa. Rimase con lo sguardo fisso a terra per alcuni secondi, poi capì che non poteva fare a meno di evitarlo e si decise, alzò gli occhi verso il ragazzo silenzioso. “Leo. Ti prego parla” chiese in tono di supplica Sofia, che ormai era stata costretta a considerare che quel pensiero fosse reale, come se quella domanda rappresentasse un ultimo tentativo prima di arrendersi alla verità. Lui abbassò lo sguardo e a Sofia salirono le lacrime agli occhi, che ricacciò giù subito, ingoiando saliva. “Troveremo un modo. Te lo prometto” gli disse alzandosi in punta di piedi e prendendogli le guance incandescenti tra le mani. Lei poteva sentire il terrore e la sua frustrazione dell’amico scorrergli sotto lo strato sottile di pelle. Syd distolse prima lo sguardo, infastidito, poi la fissò, come se la incitasse a tentare.
“No”, sussurrò lei. “Non posso”. Scosse la testa arresa, ma Syd l’aveva vista quella notte, far tornare le parole a quella donna, ne era certo, però non voleva insistere. Sarebbe arrivato il momento in cui anche lei si sarebbe convinta della realtà e ci sarebbe riuscita. “Adesso è il caso di spiegarvi tutto ciò che abbiamo scoperto in questi giorni” disse Syd prendendo in mano la situazione. Si era stufato delle smancerie e sentiva di voler interrompere quello scambio fastidioso di affetto. “Aspetta. Avete?”. “Sì” rispose Sofia. “Siamo stati insieme tutto il tempo” intervenne Syd fissando Leon negli occhi con aria di sfida. “Sì” ripeté ora imbarazzata Sofia. “Syd mi ha aiutato a scoprire delle cose. Abbiamo fatto squadra”, balbettò lei gesticolando, “ma solo perché in due era semplice. Insomma, sapete come vanno queste cose. Due è meglio di uno”, arrossì, mentre Leon storceva il naso. “Non perdiamo tempo”, Syd interruppe l’improvvisa atmosfera di disagio che si era creata, “vi racconteremo tutto. Vuoi farlo tu Sofi?”. Sofi, pensò Leon fra sé e sé, c’è voluto poco per sciogliere il ghiaccio tra quei due. “Ma certo” rispose lei, che gli lanciò uno sguardo e poi prese a raccontare. Le espressioni di Fran e Leon arono dallo stupore, alla paura, poi alla confusione, ma non interruppero mai le spiegazioni di Sofia, che erano chiare e di una precisione che rendeva inutile qualsiasi domanda. Quando la ragazza finì di parlare, i due annuirono, era tutto chiaro. All’improvviso, come se avesse aspettato proprio quel momento per saltar fuori, quella ragazza dall’aria combattiva, comparve alle loro spalle. “Ancora lei” sospirò Sofia che era confusa. Sapeva di aver bisogno di lei, ma allo stesso tempo avrebbe tanto preferito farne a meno.
“Salve gente”, si rivolse a Sofia e Syd. “Che fine avevi fatto?” chiese Syd. “Avevo da fare. E poi l’idea di stare con voi, ragazzini, non mi attirava. Io mi muovo in proprio. Ma purtroppo temo che questa volta non ci siano alternative”. “Loro sono Leon e Fran” disse Sofia infastidita. È chiaro, quella ragazza non le piaceva, a pelle la infastidiva. E la stessa cosa provava lei nei suoi confronti. Sensazioni che erano difficili da scansare. Erano come il gatto e il topo, avrebbero dovuto conviverci. Sofia già sapeva che sarebbe stata dura sopportarla, appariva un osso duro. Sembrava terribilmente sicura di sé, se ne stava lì in piedi a fissare tutti con aria di sfida, dandosi un tono da dura. Sofia fissò con imbarazzo il corpo della ragazza, che stavolta non era coperto dalla felpa, lei in confronto era così… poco fornita, e si sentì avvampare per la vergogna e poi per il fastidio. Vide Leon fissare la nuova arrivata con una sorta di ammirazione, forse era per il suo atteggiamento, o per i suoi abiti maschili che calzavano così bene sulle sue forme pronunciate. Portava una maglietta con le maniche corte, bianca e attillata, strappata sulle spalle, nonostante fe piuttosto freddo. La maglietta era infilata in un paio di pantaloni verde militare, pieni di tasche che ricadevano alla perfezione sui suoi fianchi. Sofia notò Fran imbambolato a fissarle il seno, e così Leon. Persino Syd era rimasto colpito dalla presenza di quella ragazza. Non sapeva perché, ma s’innervosì. Il suo spirito competitivo iniziò a farsi sentire, cosa che non era mai successa. Stava per dirle qualcosa quando lei la bloccò, anticipandola. “Ah, per la cronaca: c’è un vecchio morente seduto sul molo”.
CAPITOLO 16
Faccia a faccia. L’inizio del risveglio
“E cosa aspettavi a dircelo?” urlò Sofia precipitandosi lì. I suoi tremendi sospetti si fecero subito reali. “Nonno!” disse, poi fece qualche o rapido e allo stesso tempo incerto, verso quell’uomo seduto di spalle sul molo. La sua figura sembrava essersi fatta più esile e ricadeva in avanti sofferente. Il vecchio sembrava fissare le tre lune, come incantato. Sofia vedeva la sua testa bianca alzata verso il cielo. Poi vide la sua schiena muoversi lentamente e a scatti; il suo respiro si era fatto ansimante e affaticato, come se qualcosa gli si fosse conficcato in gola. Non poteva vedere il suo viso, ma riusciva a immaginare ogni singolo dettaglio di quell’espressione devastata. Quasi temeva di avvicinarsi, aveva paura di dover affrontare un’immagine di suo nonno che non era più la stessa, quella dolce e bonaria che ricordava. Sofia lo chiamò più volte, ma lui non si era mai voltato a guardarla, sembrava volesse essere lasciato da solo. O forse le sue condizioni erano così critiche da non riuscire neanche a chiedere aiuto. In quel momento si frapposero tra lei e il nonno degli agenti, spuntati dal nulla, come nuvole che improvvisamente prendono corpo. “Levatevi di mezzo” strillò Sofia con un groppo in gola che le mozzava il respiro. “Toglietevi” continuava a strillare. Si sbracciava cercando di raggiungere quel corpo quasi inerme, che le appariva così distante. “Deve venire con noi. Subito. Il Presidente l’aspetta, ora”. Non era questo l’accordo, pensò Sofia, che non era riuscita a organizzare un piano d’azione, né a parlarne con gli altri.
“Non c’è nessun accordo. È il Presidente che decide. Sbrigati”. Sofia non si aspettava nemmeno che quei tizi in uniforme parlassero, per quanto sembravano finti. Leon sfrecciò vicino a lei, cercando di aprirsi un varco per raggiungere il professore, ma la squadra di controllo lo rigettò indietro, e il ragazzo cadde malamente sulla schiena emettendo un gemito sordo. “Lascia perdere. Non ci faranno are” disse Fran aiutando Leon ad alzarsi. Syd era rimasto qualche o indietro, vicino ad Alexa. I due sembravano fatti della stessa pasta, infatti entrambi agirono nella stessa maniera. O almeno così sembrò in un primo momento. “Io non ci penso nemmeno a seguirti, ragazzina. Arrangiati” urlò Alexa scattando verso il aggio che la sera prima Syd e Sofia avevano percorso. Le guardie la lasciarono andare, non avevano ordini a riguardo e non sapevano chi fosse, così la donna superò le scatole e sparì. Quella fuga non colpì Sofia, che, anzi, fu felice di essersela tolta dai piedi, ma quel pensiero le aveva attraversato la mente un solo secondo, perché era concentrata con tutta se stessa su suo nonno, ancora immobile e silenzioso. Fissava le sue spalle cercando di capire se respirasse ancora. Syd si era voltato a guardarla, forse l’avrebbe fatto con la stessa intensità con cui aveva guardato Alexa se le cose tra lui e Sofia non fossero stranamente cambiate in quei giorni. Assunse un’espressione infastidita, aveva deciso di proteggere la ragazza, ma il primo impulso era stato quello di togliersi da quella situazione: il suo volto esprimeva bene questi sentimenti. Si guardò intorno, ancora indeciso. Capì finalmente cosa intendesse il libro. Devo scegliere. E devo farlo definitivamente, lasciandomi alle spalle i sentimenti opposti. Perché vacillo così? pensò in un istante. Poi fece un enorme respiro e chiuse gli occhi, mentre le guardie si stavano occupando dei suoi nuovi amici. Syd li aprì, era circondato dagli agenti ma non gli importava, gli lanciò un sorriso di scherno e fece tre i avanti per andare accanto a Sofia, che lo guardò chinando lievemente il capo, come a ringraziarlo. Come se lei avesse capito che il ragazzo si era trovato, fino a quel momento, di fronte a un bivio, in cui una delle due strade lo tratteneva più dell’altra, cercando di spingerlo verso
la sua direzione. Leon e Fran non sapevano invece cosa pensare, se ne stavano in piedi ad aspettare che Sofia dicesse qualcosa. “D’accordo andiamo”, si arrese lei pensando alla sua amica Martha. Non aveva altre alternative che cedere. Sofia si lasciò scortare fuori dal porto. Si voltò più volte a guardare la figura immobile di suo nonno, sperando che stesse bene. Forse non avrebbe potuto fare cosa migliore che questa: allontanare gli agenti dal molo e dare al vecchio la possibilità di riprendersi. Allontanandosi però, vide il nonno sempre immobile, e temette che non fosse più tra loro. La ragazza proseguì il cammino immersa in questo dubbio atroce. Vicino a lei Leon, Fran e Syd. Tutti e tre erano stati costretti a partecipare alla “gita”. Ma lei era sicura che sarebbero andati comunque. Gli agenti li fecero salire su una macchina scoperta, ma ai cui lati si innalzava una sorta di rete elettromagnetica trasparente che copriva anche le loro teste. Quelle erano alcune delle vetture di sicurezza che venivano usate per i criminali politici e i traditori, in modo che tutti potessero vederli in faccia e deriderli mentre venivano portati via. I ragazzi si scambiarono uno sguardo preoccupato, sperando di uscire da quella situazione indenni. Sofia non aveva notato che, appena date le spalle al molo, Alexa era saltata fuori da dietro gli scatoloni, scattando in direzione della banchina.
Le strade, in quelle ore ate al molo, sembravano essere regredite ancora. Le crepe avevano invaso ogni superficie, pezzi d’intonaco ed edifici cadevano giù come neve. Le squadre di controllo erano impegnate nel porre rimedio a qualcosa che non poteva essere controllata. La città sarebbe crollata pian piano, che il Presidente lo volesse o no.
Sofia si chiese come fe quell’uomo a non preoccuparsi e quale fosse il suo piano. Radere al suolo Panopticon e ricostruirla? E con le persone come avrebbe fatto? Sofia gettò uno sguardo a Leon, che guardava a terra, impaurito, nonostante avanzasse deciso. La ragazza si chiedeva come fosse non poter far sentire la propria voce, immaginò quanto terribile fosse formulare un pensiero che poi non riusciva a prendere forma sulla lingua di una persona che era abituata a parlare. Con queste persone, il Presidente cosa ha intenzione di fare? Vuole una nazione di muti? Dov’è il guadagno in ciò che si è scatenato? Un mondo che crolla a pezzi come nella terza e la quarta guerra. A che cosa stiamo andando incontro… mio Dio, ne avrà la più pallida idea? pensò lei senza sosta, spostando lo sguardo da una persona all’altra di quelle riversatesi per le strade e portate via dagli agenti, mentre gli schermi, tutti accesi e a volume altissimo, nascondevano impenitenti le loro urla mute. Le urla della distruzione. Se perfezioneranno quel fluido che somministrano attraverso il braccialetto, non ci sarà possibilità di una rivolta, pensò ancora Sofia, e l’idea dei suoi amici e della sua famiglia inebetita, sotto controllo, le fece salire il sangue alla testa. In quel momento percepì il suo libro che fremeva di rabbia nella borsa; si era scaldato come faceva ormai spesso, rispondendo ai sentimenti della sua custode. La ragazza ci ò una mano sopra riflettendo sul da farsi, cercando di scacciare quell’ultima immagine di suo nonno che si era impressa in mente con insistenza. Guardò Syd e Leon, le braccia girate dietro la schiena, sofferenti ognuno in un modo diverso, e le si strinse il cuore. Spostava lo sguardo dall’uno all’altro e provava qualcosa che non aveva mai percepito in vita sua. Lì, seduta con le mani legate, con i capelli liberi al vento, ferma, immobile di fronte a loro due, oltre che a se stessa, sentiva che per la prima volta nella sua vita avrebbe potuto sacrificarsi per qualcuno. Avrebbe dato la sua vita in cambio della loro. Ma sentiva sin nel profondo che quei pensieri erano pericolosi, dannosi in una maniera che non riusciva a immaginare. Un camlo d’allarme le suonava in testa ogni volta che si soffermava su questi sentimenti. E per questo frenava ogni tipo d’impulso, limitandosi a conviverci, per sopravvivere. Si guardò intorno, posò lo sguardo sugli edifici e le strade che sembravano
accartocciarsi, le persone che andavano al lavoro come se niente fosse, scavalcando tutte le buche e le crepe che si trovavano di fronte. Altre ancora chiuse nei loro negozi nel silenzio. Molti avevano perso la voce quella notte, proprio come Leon; di questi, alcuni erano rassegnati, altri tentavano di farsi ascoltare, urlavano, si sbracciavano in cerca d’aiuto, ma al aggio delle squadre di controllo si ritiravano in un angolo spaventate. Molti altri erano affacciati alla finestra e guardavano in basso sconsolati. Chissà quanti avevano perso le parole durante la notte? Sofia si chiedeva qual era il momento preciso in cui le parole fuggivano, qual era il fattore scatenante, ma soprattutto, c’era veramente? Forse quel che notava era una semplice ondata casuale che si muoveva senza progetti, senza piani particolari. Non riusciva a credere che fosse così potente il libro, lui, o chiunque esso fosse. Fran era con Leo, e la voce ce l’ha ancora, si disse voltandosi a osservarlo. Fran si stringeva le ginocchia fissando a terra, mentre Leon aveva diretto il suo sguardo sulle strade, non capacitandosi di come fosse degenerata la situazione in così poco tempo. Sofia non faceva altro che pensare ai suoi familiari, a come e quando si sarebbero potuti rincontrare. Si domandava se sarebbe stata possibile, in futuro, una vita normale, come l’aveva sempre desiderata. Desiderava andare all’Università più di qualsiasi altra cosa, e questa possibilità le era preclusa ormai. Non riusciva a immaginare come sarebbe stata la vita da quel momento in avanti, non solo per lei, ma per tutta la popolazione. Una volta che tutti avessero perso la voce - e non si poteva più negare questa possibilità, perché sapevano che sarebbe successo - come poteva andare avanti la società? Non era tanto il mutismo a spaventarla ma la consapevolezza che gli oggetti si stavano disgregando uno a uno. Sofia ci aveva pensato a lungo e credeva che tutto questo avvenisse per un motivo preciso, un motivo che le era già venuto in mente all’inizio di quella storia, qualcosa che aveva già presagito. Quando non c’è più una parola a nominare l’oggetto, questo non ha più motivo di esistere e si sgretola. Non c’è realtà senza una parola che la nomina, dandogli forma. Sapeva che era un principio astratto, filosofico, ma non riusciva a pensare ad altro che a quello. Perché altrimenti? Non ho altre spiegazioni.
Fran alzò la testa verso le guardie, e per un attimo a Sofia sembrò che quelle avessero risposto con un cenno. Ma si accorse di aver chiuso gli occhi subito dopo, presa da un improvviso colpo di stanchezza, a cui diede la colpa di quella visione. Cercò di tirarsi su proseguendo con le sue riflessioni, non poteva crollare, non doveva addormentarsi in un momento del genere. Guardò in alto le tre lune, sembravano così fragili. Eppure così forti. Mentre lei si sentiva così stanca. Le sembrava di essere sveglia da giorni interi, ed effettivamente era proprio così. E la nuova società che sicuramente nascerà da queste ceneri, come sarà? Aveva paura anche solo a immaginarlo.
L’auto sobbalzò, nello schivare una buca era salita sopra una crepa che aveva fatto arricciare la strada su se stessa producendo un’onda insidiosa. Un minuto dopo il Palazzo di Giustizia sfilò sul loro fianco destro. Tutti e quattro trattennero il respiro. Fran alzò gli occhi su quell’edifico, che rimaneva stranamente integro, nonostante tutta la città intorno si stesse disgregando. Syd guardò Fran e poi Sofia pensando la stessa cosa. Quell’edificio risaltava come un’oasi confortevole nel deserto. Non sembrava vero. Due agenti li spintonarono per farli scendere il più velocemente possibile. Sofia fu presa in contropiede, era rimasta imbambolata a fissare i contorni di quel palazzo perfetto, chiedendosi come fosse possibile e non ebbe dubbi che fosse il libro a mantenerlo integro. Non può essere altrimenti, trasalì al pensiero del potere che poteva emanare, il suo non era altrettanto efficace, le crepe che aveva riparato si erano riformate subito dopo. I ragazzi si fermarono sul marciapiede dissestato e alzarono la testa tracciando i contorni dell’edificio con lo sguardo, poi furono distratti da una scena che era scoppiata all’improvviso alla loro sinistra: un uomo digrignava i denti verso gli agenti che lo avevano immobilizzato; gli avevano stretto le braccia con tale forza da lasciar cadere dalle sue mani le pietre con cui poco prima aveva tentato di minacciarli. Dalla sua bocca non uscivano altro che suoni sconnessi e affaticati che completavano il quadro di una persona disperata, che non aveva niente da
perdere. Si opponeva con tutte le sue forze, contorcendosi sotto le strette degli agenti. L’uomo guardava, di tanto in tanto, il cielo come se potesse aiutarlo. Molte persone, che erano di aggio, si erano bloccate a osservare la scena, impaurite, con il terrore negli occhi. Forse sapevano che tutto questo sarebbe successo anche a loro, nonostante fosse imposto di proseguire con la vita di tutti i giorni. Lo sapevano che sarebbe successo. Eccoli lì, pensò Sofia, con il loro vestito quotidiano ben indossato, camminare per le strade facendo finta che ogni cosa sia al suo posto. Ignorare per non vedere, per non affrontare il problema. Ignorare per paura, o semplicemente perché così è stato ordinato. Di fronte alla catastrofe l’uomo non riesce a far altro che ignorare, seguire l’ordine del più forte sperando che la situazione si metta a posto da sola, perché tanto, finché non succede a loro, il problema non esiste, non viene percepito come reale a tutti gli effetti. Il maledetto egoismo dell’essere umano. Il mio maledetto egoismo. L’uomo perse una scarpa, nel suo tentativo di liberarsi da quelle mani che si facevano sempre più numerose. Due agenti gli legarono le braccia dietro la schiena con i lacci elettrici, questo lo fece sussultare e crollare di peso sulle ginocchia. Fino a quel momento l’individuo si era sforzato di rimanere in piedi. Nonostante le mani lo spingessero sempre più a terra, lui si ostinava a restare in piedi, a testa alta, lucido nella sua follia. Quando la scarpa si sfilò, lui si voltò a guardarla e la indicò con lo sguardo, cercando di pronunciarne il nome. Ma come tutte le parole ormai, anche quella era svanita. Strinse le labbra e si lasciò portare via. In quel momento Sofia notò la crepa che si era aperta sulla superficie della scarpa, che la attraversava dalla punta fino al tallone. Si avvicinò, svincolandosi dall’agente che la seguiva e, in un istante, osservò dal vivo il deperimento della materia; la scarpa si disintegrò, fino a sparire. Sotto gli occhi attoniti di tutti, Sofia ebbe conferma alla peggiore delle sue paure. Mandò giù quella consapevolezza e tornò al suo posto, spinta dall’agente che ancora sembrava non essersi ripreso. I ragazzi salirono i gradini bianchi e perfetti, uno a uno, prendendosi il loro tempo; nonostante le spinte degli agenti, ogni tanto opponevano resistenza e si fermavano a guardare il palazzo, con il cuore in gola e un persistente macigno
sullo stomaco, che non li faceva più respirare. La scarpa è sparita, continuavano a pensare. Spariremo anche noi? pensò Leon guardando a terra. Syd era l’unico che procedeva più che spedito. Sofia lo aveva visto stringere i pugni e, da quando aveva scorto l’edificio, la sua espressione era mutata in una piena di rabbia, come se quel Palazzo fosse la causa di tutti i suoi guai. Chi stazionava all’interno del Palazzo, si beava di quella calma. I libri pulsarono improvvisamente nelle loro borse, come attratti da quell’edificio. Sofia sentì di nuovo il calore che emanava il suo volume, che premeva sulla gamba, donandogli un profondo piacere e allo stesso tempo mettendola sull’attenti. Sembrava che il libro dicesse: “Stai attenta”. Ormai le sembrava di sentirlo parlare, le bastava toccarlo, percepire le sue contrazioni, i suoi spasmi interiori per capire cosa voleva comunicarle. Lo stesso succedeva a Syd. Sofia l’aveva infatti visto allungare la mano verso la borsa e dargli un paio di pacche, come a calmare un amico. Quando entrarono Sofia pensò di mettere in salvo il libro, strappando via il ciondolo. Così, nel caso riuscissero a farselo consegnare, non l’avranno tutto, e se il Presidente avesse trovato un modo per utilizzarlo senza il suo legittimo custode, non potrà farlo”. Il problema era che non l’avrebbe potuto utilizzare neanche lei in questo modo. Rimase a riflettere per alcuni istanti, estraniandosi dall’enorme atrio in cui era entrata, che era un incrocio tra una splendida hall di un hotel a cinque stelle e una chiesa. Un luogo che catturava tutte le attenzioni per la sua maestosità e grazia. Leon e Fran ne rimasero incantati. Guardavano ogni angolo con attenzione e interesse, a bocca semi aperta, quasi dimenticandosi del perché fossero lì. La porta si chiuse alle loro spalle con un gran fragore, e questo li riportò alla realtà. Poi tutti si accorsero che proprio in fondo alla hall, che sembrava la stanza più grande di tutto l’edificio, c’era uno schermo gigante posto in cima a una porta, separata dal loro piano da una serie di sei ampi scalini che la rialzavano.
Lo schermo era spento, ma i quattro alzarono gli occhi e non li distaccarono da lì fino a quando la porta in cima ai gradini non si aprì scricchiolando; quello stridio rimbombò per tutta la stanza facendoli sussultare. Un brivido li percorse, la temperatura sembrava essersi improvvisamente abbassata, proprio come se si trovassero in una chiesa. Sofia fu invasa di colpo da un brivido. Notò Leon e Fran, spostati sulla sua sinistra, poco dietro di lei. Si voltò a guardarli e si sorprese nel vedere l’espressione di Leon: era teso ma anche sciolto, i suoi occhi azzurri erano concentrati su un punto del muro, come catturato da qualcosa che lei non riusciva a vedere. Ma fu solo un pensiero conscio a metà. Sofia fissò con decisione la porticina e non distolse lo sguardo mai, restando in attesa che qualcuno si fe vedere. Il Presidente saltò fuori stringendo Martha per un braccio. Aveva un sorriso soddisfatto impresso in volto che Sofia avrebbe voluto fargli ingoiare. La sua amica sembrava spaventata e desolata allo stesso tempo. “Martha!” urlò Sofia facendo un o avanti. L’amica sussultò quando l’uomo la trattenne. “Ciao Sofia” salutò il Presidente, “vedo che non hai resistito a portare i tuoi amici. Non è una buona mossa” aggiunse. Guardò poi fisso Leon e Fran, poi fece un ghigno. “Lascia stare la mia amica” disse ignorandolo la ragazza. “Non penso tu possa dettare ordini in questa situazione”. L’atteggiamento strafottente di lui, quell’espressione estasiata che si nutriva della sua stessa cattiveria, le faceva venire il voltastomaco. Una rabbia crescente le aveva fatto stringere le mani a pugno. Syd fece un o e la raggiunse, anche lui era fuori di sé. “Oh, c’è anche Syd vedo” commentò il Presidente come se non l’avesse già notato: il suo copione procedeva come aveva programmato. Sa anche di me, disse il ragazzo con lo sguardo a Sofia che scosse la testa.
“Mi dispiace”. La voce di Martha arrivò flebile alle loro orecchie, ma i ragazzi riuscirono a sentirla. “Non ho potuto fare altrimenti” disse voltandosi a guardare il Presidente con timore. “Mi ha detto che ti avrebbe lasciata stare, Sofia”. Gli occhi le si riempirono di lacrime, era stremata, i suoi nervi stavano crollando. Nel vedere la sua amica così, Sofia iniziò a perdere il controllo; la rabbia le cresceva dentro e il libro cominciava a rispondere ai suoi sentimenti mettendosi in allarme. Ma la ragazza era lucida come non mai. Notò subito alcuni dettagli che non comprendeva: la mano del Presidente che era libera, tremava leggermente e lui gesticolava per nasconderlo. E poi c’era il sudore, il Presidente sudava come se stesse faticando a controllare, non quella situazione, ma se stesso. L’uomo si asciugò la fronte con il palmo della mano più volte, e una vena si gonfiò sotto la pelle come se volesse saltare via. Sembrava padrone di sé e allo stesso tempo perso. “Ho una sorpresa per te, ragazzo” disse poi il leader rivolgendosi a Syd, che si fece scuro in volto quando vide suo zio, una piccola figura fiacca, venir trascinato di peso su per i gradini. “Zio” urlò sorpreso lui; non credeva che l’avrebbero catturato. “Syd! Che cosa ci fai qui?” chiese spazientito e balbettante lo zio. “Non dovevate” aggiunse sospirando. Ogni parola gli costava una gran fatica. Poi guardò i due ragazzi con aria smarrita, rassegnata. Lo zio aveva ragione, non dovevano trovarsi lì. L’uomo tentava di tirarsi in piedi ma le ginocchia non riuscivano a reggerlo, due agenti lo sorreggevano bruscamente. Syd sembrava aver perso molta della calma e della sicurezza con cui era entrato lì. In quel momento appariva nervoso e controllava a malapena le sue reazioni. Sofia invece fissava la sua amica, che ormai guardava a terra, come se alzare lo sguardo le fe male. Il Presidente rise, aveva in pugno entrambi. “Dunque, ragazzi miei. Ho un accordo per voi. I vostri libri e i ciondoli in cambio di loro due” disse indicandoli e gli agenti li spinsero in avanti sin sul bordo dei gradini. Sofia e Syd si guardarono con serietà ma tradendo un’ansia che non potevano
nascondere. La ragazza sentì i palmi bagnarsi di sudore, le guance scottargli per l’agitazione, mentre Syd aveva serrato ancor di più i pugni, dimenticandosi del dolore alla coscia; aveva teso con tale forza i muscoli da riaprire la ferita, il sangue aveva ripreso a sgorgare e scendeva giù a piccoli fiotti, bagnandogli il ginocchio. Leon e Fran erano stati tirati da una parte e osservavano la scena, impotenti, sperando di riuscire a fuggire da quella situazione incolumi. Fran fissava addolorato Martha, mentre l’amico sperava che Sofia non fe sciocchezze. Leon si sentiva impotente, lì immobile, senza neanche poter parlare, dare consigli. La voce era così importante, le parole lo erano. Ora se ne rendeva conto più che mai. “D’accordo” disse Sofia. “No! Sei impazzita?” intervenne Syd avvicinandosi a lei, ma due agenti si erano inseriti tra loro dividendoli. Sofia fece un cenno al ragazzo chiedendo di fidarsi, poi fece qualche o avanti. Mentre si avvicinava, staccò con un gesto rapido il ciondolo e se lo fece scivolare nella manica senza che nessuno se ne accorgesse. Questo provocò una leggera scossa che la percorse da parte a parte. Proprio in quel momento due agenti le andarono incontro. Da dietro le sue spalle, spuntò un altro agente con il suo libro. Aveva la copertina rosso fuoco. Sofia s’immobilizzò. Vide scintillare la sua anima, incastrata proprio in punta e trasalì. I suoi peggiori timori presero nuovamente forma. Il Presidente era veramente un altro custode. Non poteva essere altrimenti. Era ovvio che fosse così, si disse la ragazza irrigidendosi. Lo sapeva, eppure solo quando si era trovata nella situazione aveva realizzato completamente ciò che era chiaro sin da subito. Questo scontro aveva reso tutto ancora più spaventoso, più reale. Quando il Presidente prese in mano il libro, successe qualcosa d’inaspettato. I loro due libri emisero una luce intensa piena di calore, mentre i due custodi si sentirono invasi dai sentimenti che le due anime sembravano provare: rancore, sollievo, rabbia e… l’uno non riuscì a capire l’altro, perché era tutto confuso, rovinato dal tempo.
Il Presidente sentiva che il suo libro voleva fuggire, eppure era calamitato da quell’altro, come se i volumi fossero due facce della stessa medaglia. E così si sentì Sofia al cospetto del Presidente. Una forte ansia e frustrazione, mista a una brutta sensazione di desiderio, la scossero, e lo stomaco le tremò per l’agitazione. Il ciondolo sembrava muoversi nella manica, bruciandole la pelle. Il libro del male… pensò. Non poteva averlo altri che lui. Sofia notò subito un cambiamento nel Presidente, era stato impercettibile ma a lei era balzato all’occhio: quando aveva toccato il libro, l’uomo era stato attraversato da una piccola scossa, che lo aveva teso per un brevissimo istante, come se un’altra presenza avesse preso posto nel suo corpo, riempiendolo di male. La sua presenza si era fatta più buia e profonda. Sofia non sapeva spiegarlo, sembrava che un’ondata nera l’avesse invaso. L’espressione dell’uomo si era fatta più malvagia e perversa, folle, le mani tremavano vistosamente, la stretta su Martha non sembrava più così salda. Ma il libro del Presidente sembrò subire ciò che anche il suo aveva subito. E l’uomo fu invaso dalle stesse sensazioni della ragazza. Gli occhi si spalancarono nel percepire il suo libro in un tale stato di agitazione. Lei stava male, si piegò su un fianco. Non voleva sentirsi legata in quella maniera a quel libro. Non capiva perché provasse quel sentimento di attrazione e repulsione, come se i due si fossero fusi in un abbraccio. Il Presidente Reik non riuscì a trattenersi dal sorridere. Aveva avuto la conferma. Poi guardò Syd d’istinto. Lui sembrava inebetito, come se avesse sentito qualcosa di quello che succedeva. Il suo libro pulsava nella borsa, mentre il viso si faceva teso. Fissava Sofia con profonda comprensione, come se non avesse mai fatto altro nella sua vita. Ma il suo sguardo era duro. Sofia disse allora: “Ve lo cedo”. Le guardie strapparono subito il libro dalle mani, ora che lei l’aveva dato spontaneamente, e lo consegnarono in quelle del Presidente. Syd scosse la testa, come se si fosse svegliato da un incantesimo. Lei si sentì invece sollevata.
“Il ciondolo dov’è?” chiese poi l’uomo, notando che sulla copertina del libro mancava. “Non ce l’ho” rispose lei. “Bugia”. Il Presidente la fissò piegando la testa su un lato, con uno sguardo obliquo e contorto dalla pazzia, che la gelò, ma continuò a mostrarsi sicura. Incastrò il libro sotto l’ascella, per poter tenere in mano il suo. “Voglio il ciondolo” disse perdendo la calma. “Il tuo stupido vecchio te l’ha sicuramente dato. Non è mai stato un grande stratega”. A quelle parole Sofia non poté fare a meno di sorprendersi, inarcò le sopracciglia e disse: “Come vi siete conosciuti? Perché lo conosci?”. Poi lo guardò con durezza, senza vacillare. Sentiva una rabbia sempre crescente impadronirsi di lei. Un leggero tremore nervoso le percorse il braccio, senza che lei riuscisse a calmarlo. Strinse i pugni con maggiore vigore, fino a graffiarsi con le unghia, come se questo le permettesse di mantenere più fermi gli arti. “Sofia” sussurrò Syd. “Che c’è?” rispose lei come se fosse un’altra persona, guardandolo con un’espressione violenta e distaccata. “Tutto bene?” chiese lui indicando le mani. Lei le aprì quasi sorpresa, come se non se ne fosse accorta. Si scrutò i palmi impensierita, tornando la ragazza di sempre. Gli occhi si erano svuotati di quella rabbia folle e buia, ma tutto durò solo pochi istanti; il suo viso assunse di nuovo quell’aria cattiva, sembrava non gli importasse più niente di nessuno. “Mmm. Si vede che siete sangue dello stesso sangue” commentò il Presidente senza rispondere alla domanda. Sofia serrò la mascella; suo nonno non le assomigliava per nulla, si sentì confusa. “Tuo nonno” disse l’uomo con un mezzo sospiro, e in quel momento i suoi occhi si riempirono di umanità… riaffiorarono dei sentimenti di rimorso e frustrazione che la ragazza riuscì a cogliere. La sua espressione era mutata, dalla follia alla tristezza solo per un momento.
Sofia ripensò a quelle parole, ‘aiutalo, salvalo’. Scosse la testa energicamente e non fece in tempo a chiedere spiegazioni, che il Presidente fece un cenno all’agente vicino. Il suo movimento fu rapido, afferrò i capelli dello zio e tirò indietro la testa, poi gli tagliò la gola con un colpo secco. I gemiti dello zio furono coperti da un urlo di Syd, che squarciò l’aria. Il ragazzo rimase pietrificato a fissarlo, tentava di dire qualcosa, ma il sangue gli aveva bloccato la gola. “Tuo padre è…” disse in un sussurro lo zio prima di morire. “Cosa?”. Syd non era riuscito a sentire, ma aveva letto le sue labbra, che non fecero in tempo a completare la frase. L’uomo cadde a terra senza vita, annegando nella sua pozza di sangue. Il Presidente rise soddisfatto. “Questo succederà a tutti i tuoi familiari, caro ragazzo. Oppure puoi evitarlo dandomi il ciondolo e il libro”. Syd era diventato irriconoscibile, quella rabbia che Sofia aveva imparato a conoscere, non era nulla in confronto a quella che emanava in quel momento. “Syd. Calmati” disse Sofia improvvisamente tornata in sé, allungando una mano verso di lui. Gli afferrò delicatamente il braccio, ma lui la scansò con un gesto netto. “Gli faremo pagare tutto quello che ha fatto. Te lo prometto” sussurrò Sofia, e Syd sapeva che sarebbe stato così, un giorno, e sapeva altrettanto bene che in quel momento non avrebbe potuto vendicare suo zio. Rimase immobile, sconvolto e impotente. “Allora ragazzo. Dammi il ciondolo e il libro. Lo so che li hai. Vuoi vedere altri tuoi parenti morire?”. Syd rise, era la reazione giusta, non voleva dare soddisfazioni a quel bastardo. “Non ho altri parenti. Hai ammazzato l’ultimo” disse. “Ne sei sicuro?”. Il Presidente rise schernendolo, mentre Syd iniziava a riflettere cercando una risposta. Spalancò gli occhi quando quell’interrogativo lo travolse e si sedimentò dentro di lui. Tuo padre è… e se… no, non può essere, pensò solo, e alle sue spalle si aprì la porta che fece voltare tutti.
“L’ho presa signore” disse un agente. “Benissimo”. In tre cercavano di tenere ferma un’Alexa irrequieta che scalciava come un cavallo. Anche se non l’avessero catturata, lei sarebbe comunque andata lì. “Imbecilli! Giù le mani, non c’è bisogno, mi stavo dirigendo proprio qui”. Lei sentiva, a livello inconscio, di dover raggiungere Sofia. Una sorta d’istinto la spingeva verso di lei, anche se a pelle non sopportava quella ragazzina dall’aria dura e impaurita allo stesso tempo. Ma era anche un desiderio più importante a muoverla… “Bene, bene. Chi abbiamo qui? Alexa! Sì, d’accordo, ho bisogno anche di te. Vieni pure”. Il Presidente vide il ciondolo scintillarle al collo. “Maledetto!”. “Vuoi qualcosa in particolare, mia cara?” chiese l’uomo tendendo l’orecchio con un sorriso di scherno impresso in volto. “Lascia libero mio padre”. A quelle parole gli altri ragazzi si voltarono e riuscirono a leggere sul suo viso i suoi sentimenti: frustrazione, ansia, affetto, voglia di riavere suo padre, emozioni nascoste sotto uno spesso strato di rabbia che l’aveva indurita. Proprio com’era successo a Syd. “Te lo puoi scordare. È una garanzia. A meno che…” disse il Presidente alzando il tono di voce e marcando le ultime parole. “Non avrai mai il ciondolo, tantomeno il mio libro” rispose lei serrando le labbra. “E allora arrangiati. Quando ti deciderai, potrai portare via tuo padre da qui”. Alexa lanciò un’occhiataccia a Sofia, che la ignorò. “Ora lascia stare la mia amica”. Sofia aveva deciso che quello che aveva visto nel Presidente in quell’istante in cui parlava del nonno non le importava, tantomeno le interessava del desiderio di quella strana ragazza sbucata dal nulla, voleva solo che il suo nemico liberasse Martha.
Il Presidente fece un ghigno e scaraventò Martha verso un agente, che la trascinò via. La ragazza era impacciata nei movimenti, stremata per lo sforzo, e inciampò più volte nei suoi stessi piedi. “Aspetta! Cosa fai?”. Sofia si avvicinò di qualche o ma fu spinta all’indietro violentemente. Syd la prese al volo prima che cadesse a terra. “Veramente credevi che l’avrei lasciata libera così? Il ciondolo bellezza” gli disse sapendo bene che lei lo possedeva. “No” urlò lei. Il ciondolo le scivolò in mano. Sofia poteva sentire le incisioni muoversi irrequiete come serpenti. Il Presidente, che aveva ora i due libri, rise, fino a quando qualcosa cambiò: abbassò lo sguardo su quello di Sofia che si era fatto incandescente, fino quasi a bruciarlo. La ragazza sentiva il suo corpo infiammarsi di rabbia, di un’energia che non riusciva a controllare. Il ciondolo iniziò a scottarle la mano e lei desiderò con tutta se stessa che Martha fosse libera. In quel momento il libro che Syd teneva in borsa fu attratto da lei come una calamita, lo stesso successe ad Alexa, che le fu subito accanto, con il suo. Il ciondolo appeso al collo tirava verso Sofia come se volesse raggiungerla. Alexa se lo strappò dal collo e lo inserì nella fessura corrispondente del volume. Il suo libro era di un colore giallo antico, mangiucchiato sui lati. Sofia strinse con maggiore forza il ciondolo, concentrandosi su Martha e i due agenti, che la stavano portando via volando contro la parete nello stupore generale. Syd e Alexa guardarono Sofia, sbigottiti: aveva usato il libro in un modo nuovo e per di più senza averlo in mano, e senza che la sua “anima” fosse incastrata sulla copertina. I libri dei due ragazzi si scaldarono, come risvegliati da un’improvvisa scossa, risuonarono rispondendo al richiamo di quello di Sofia. La sorpresa impressa sul volto del Presidente, fece ridere Sofia, che non sembrava più la stessa. Strappò con un gesto del ciondolo, il libro dalle mani dell’uomo, che ricadde nelle sue. Lui si allungò per cercare di prenderlo, ma in un attimo il volume era tornato dalla sua custode. La sua copertina era ora di un
intenso blu, come se fosse ringiovanito all’improvviso, rinvigorito grazie a lei. La ragazza mise al suo posto il ciondolo, che cambiò subito posizione, ora era in punta. L’uomo intanto cercava di rimanere in piedi, ma le gambe sembravano non volerlo più reggere. Raccolse il suo libro da terra poggiandoci una mano sopra, sfiorò il ciondolo e gli parlò silenziosamente. In quel momento Sofia volò a terra spinta da una forte scarica di energia negativa. Si alzò subito, mentre Syd e Alexa tentavano di controllare i loro libri. “Forza. Tutti insieme” urlò Sofia ai due che gli erano accanto. I tre si concentrarono sul Presidente, i loro libri si unirono in una danza comune: quello di Sofia brillava, comandando i movimenti degli altri. Leon teneva gli occhi chiusi e Fran non capiva il perché. Provò a scuotere l’amico da quella trance. Lo schermo sulla testa del Presidente si ruppe crollando giù, mentre lui si gettò su un lato riuscendo a evitarlo. Il pavimento si riempì di squarci, mentre dalle pareti iniziarono a crollare pezzi di marmo: l’edificio si stava sgretolando. Tutt’intorno, la stanza si era fatta rumorosa. Alcuni agenti erano già fuggiti, altri erano rimasti feriti da quel crollo. Altri ancora, fissavano il Presidente speranzosi, aspettando un ordine. La ragazza cercò con gli occhi Martha, e la trovò distesa sui gradini; un pezzo di schermo le era caduto addosso, ferendola alla testa. Sofia vide molto sangue sgorgare sul marmo bianco e fu presa dal panico, tutta la sua sicurezza svanì in un secondo, e i libri si spensero, facendo disperdere la loro energia. Il Presidente era di nuovo in piedi e aveva ordinato di far alzare Martha. Syd nel frattempo aveva afferrato per il polso Sofia, che era ancora imbambolata. “Sbrighiamoci, andiamo!”. Il Presidente scoppiò a ridere, mentre Fran e Leon, che si era finalmente risvegliato da quell’improvviso torpore, nella confusione generale erano riusciti a liberarsi, con pugni e calci, dai lori carcerieri. Il Presidente si accasciò all’improvviso sui gradini. Sofia si voltò, indotta a farlo dal suo libro, mentre il volume dell’uomo pulsava sulle sue ginocchia.
La ragazza vide qualcosa strisciare via dal libro, arrivando fino ai polsi: sembravano dei serpenti neri. Gli strisciarono dentro, sottopelle, fino al volto. Il Presidente alzò il libro verso Sofia. Gli occhi dell’uomo apparivano senza vita. Parlò e la sua voce non sembrava la sua, come se il libro e le incisioni che aveva visto a volte muoversi sul ciondolo, l’avessero posseduto. Come se il libro stesso, l’avesse posseduto. “Ti ritroverò, Marin”. Sofia sentì la gola chiudersi, il respiro affannarsi. Il libro s’immobilizzò, come se non sapesse cosa fare. Lo stesso fece Sofia, che ancora fissava quell’uomo. “Cosa fai Sofia? Vieni”. Syd poco distante, stava combattendo contro degli altri agenti. I serpenti neri uscirono silenziosi dal corpo del Presidente Reik, così com’erano entrati, e tornarono sul ciondolo. Il corpo del Presidente cadde in avanti, mentre il libro si spense. Sofia solo allora si sentì libera di muoversi, prese fiato, stordita, e raggiunse Syd. “Cosa è successo?”, non poteva che chiedersi. “Chi è Marin?". In un attimo il gruppo si era riunito. Leon, Fran, Alexa, Syd e Sofia corsero verso la porta d’ingresso. “Non posso lasciarla qui” disse immobilizzandosi, con gli occhi pieni di lacrime, quando si ricordò della sua amica in trappola. Il cuore le balzò in gola strozzandola, sentì lo stomaco contorcersi e il suo corpo piegarsi in due per la sofferenza, mentre vedeva il corpo della sua amica giacere a terra circondata da alcuni agenti, apparentemente morta. “Non puoi salvarla, ora” intervenne Syd. Sofia fu trascinata di peso dall’amico, ma lei opponeva una grande resistenza; era pesante come se si fosse tramutata in un sasso. La ragazza riusciva a sentire
sentimenti contrastanti provenire da lei e dal suo libro, come se da quel momento i due fossero collegati con ancora maggiore intensità. Il libro di Sofia voleva restare, e voleva andare via. Provava repulsione e amore. La sua custode voleva solo aiutare l’amica, ma allo stesso tempo desiderava essere già lontana. Sentiva questi sentimenti fare a pugni tra loro immobilizzandola fisicamente. E il suo libro invece, voleva stare laddove si trovava l’altro. Dove sarebbe andata Sofia, sarebbe andato anche lui. Questi sentimenti la confo, come se appartenessero a qualcuno che conosceva solo in parte. “Leon”. Syd lo chiamò a gran voce, non capì perché, ma il ragazzo era immobile al centro del trambusto a fissare il Presidente e il libro, imbambolato come se non riuscisse a distogliere lo sguardo o a muoversi, come se il suo corpo non gli appartenesse più e la sua anima stesse vagando sopra di lui. “Leon!” urlò più forte Syd e lui si ridestò, ricordandosi perché era lì. Comparve di colpo al fianco della ragazza e cercò di comunicare come poteva. La guardò intensamente e Sofia annuì. Le sue labbra si erano contratte in una smorfia di dolore. Quella era la cosa più difficile che avesse mai fatto. Ma Leon aveva ragione, “da morta non potrai di certo aiutarla”, era questo che voleva dire. Si lasciarono alle spalle il palazzo che cadeva giù pezzo dopo pezzo. L’unico edificio della città che non aveva avuto problemi, stava crollando sotto i loro occhi, ma Sofia era sicura che il Presidente sarebbe riuscito a ripararlo con il suo libro rosso fuoco. La visione dell’uomo con in mano il suo libro, l’aveva riempita di angoscia e terrore. Il modo in cui quell’individuo reagiva e interagiva con quel libro, le aveva fatto mancare il respiro. Non era sano, quel rapporto non lo era. Sofia sperò che Martha stesse bene. “Tornerò. Te lo prometto” sussurrò voltandosi per un’ultima volta, con lo sguardo infuocato, poi tornò a guardare di fronte a sé, con difficoltà, perché i suoi occhi si erano riempiti di lacrime. Continuò a correre in avanti, mentre il vento sottile faceva scivolare le sue lacrime in orizzontale lungo le sue guance rosse, perdendosi nell’aria… le labbra contratte non ritrovarono il sorriso per molti giorni. Sofia fissò il punto in cui la scarpa si era disintegrata, in un tempo che sembrava essere un altro, rispetto a quello in cui ora stava vivendo.
La chiamò per nome, mentre scendeva di corsa i gradini con il libro stretto in mano. Poi superò il marciapiede, lasciandosi alle spalle quella scarpa tornata improvvisamente reale. Alexa e Fran erano un o avanti agli altri, ogni tanto lei si voltava a sbraitare, incitandoli a muoversi più rapidamente. “Mio nonno corre più veloce” urlava lei, mentre Fran ridacchiava. Nonostante la situazione, aveva ritrovato il suo buon umore. I due non fecero in tempo a superare il marciapiede di fronte al Palazzo di Giustizia che, all’improvviso, un agente sbarrò la strada a Sofia, Syd e Leon, che erano rimasti indietro. Sofia sentì il libro scaldarsi, lo strinse attraverso la borsa chiudendo gli occhi solo per un istante, e quando li aprì, lei era un’altra. “Togliti di mezzo” gli urlò con voce aspra. I ragazzi sarebbero riusciti benissimo a gettarlo a terra e a scavalcarlo, ma in quel momento Syd e Leon si bloccarono senza sapere bene cosa fare. Rimasero a osservare Sofia, che aveva cambiato di colpo espressione, gelandoli. L’agente cadde in ginocchio, toccandosi il collo come se una corda invisibile lo stesse strangolando. La sua faccia si era fatta paonazza, le vene sulla fronte si erano ingrossate, minacciando di esplodere, mentre teneva i denti serrati nello sforzo di resistere a quella stretta soffocante. Si contorse a terra senza riuscire a respirare. I due ragazzi non si erano accorti che Sofia aveva il braccio allungato verso di lui e che stava stringendo le dita sempre più. Notarono solo dopo l’espressione del suo viso: era deformato dalla crudeltà, dalla rabbia. Rimasero attoniti, fermi come se il cemento avesse ingoiato i loro piedi, e spalancarono gli occhi profondamente persi; quella scena non era possibile. Non poteva essere Sofia quella ragazza che stava strangolando un essere umano. “Sofia! Fermati! Lo ucciderai!” urlò Syd, mentre Leon non riusciva ancora a muovere un o, con l’espressione non terrorizzata, ma estasiata. Syd, invece, era confuso.
“Sofia!” gridò ancora. Lei sembrava posseduta, e soprattutto, sembrava provare piacere nell’indurre quel dolore. L’uomo chiedeva pietà, fissandola con occhi pieni di lacrime, rossi come se stessero per schizzare fuori dalle orbite. Leon era a pochissima distanza da loro, con la testa piegata da un lato, come se stesse partecipando, come se gioisse di quel dolore. E Syd sentì una spinta di rabbia avvilupparlo, confonderlo, come se una corda invisibile stesse spingendo Sofia, lui e Leon verso un unico centro di sentimenti. “Sofia!”. “Che vuoi?” chiese lei senza guardarlo; i suoi occhi non tradirono emozioni in quell’istante. “Lo ucciderai”. “È quello che voglio”, abbozzò un sorriso. “Questa non sei tu. Sofia, andiamo. Leon, vieni”, si rivolse direttamente a lui che, dopo aver chiuso per un istante gli occhi, si avvicinò. Tentò di fermarla, staccandola da quello strano stato, ma qualcosa lo bloccò, come se un flusso d’aria lo spingesse indietro. Leon scosse la testa, stava sudando nonostante il freddo. “Ascolta. Tu non sei un’assassina. Andiamo via subito. Arriveranno rinforzi. Sofia ascolta, tu puoi controllarlo”. Lui sperava veramente fosse così e lo disse lentamente, imprimendo, in quelle parole, tutta la decisione e la sicurezza di cui era capace. “Puoi” disse Syd allungando una mano verso di lei, ma non si avvicinò, non toccava a lui fermarla, doveva, poteva farlo da sola. Lei scosse debolmente la testa, il suo viso si ammorbidì, come se stesse tornando in lei. Il suo corpo si sciolse dalla tensione, lentamente. La voce di Syd l’aveva riportata indietro da quel territorio sconosciuto. Leon riuscì a toccarle la spalla e lei abbassò di colpo il braccio. L’uomo crollò a terra svenuto. Sofia perse l’equilibrio per un breve istante e scivolò sul petto di Leon. Entrambi tirarono un sospiro di sollievo, ma non c’era tempo da perdere.
“Ora andiamo” disse Syd afferrandola per un braccio e spostandola da Leon. Sofia si fece bianca in volto, serrò le labbra mentre osservava quell’uomo lottare per riprendere i sensi, per riemergere da quello stato d’incoscienza. Senza neanche coordinarsi corsero tutti verso il molo. Lo stanzino nascosto che trovarono, era un posto sicuro, e ora che non avevano più i braccialetti, potevano sparire, sempre che fossero riusciti a schivare gli schermi che erano già accesi. La caduta del Palazzo di Giustizia sembrava aver diffuso un panico ancora maggiore tra la gente, molti erano sollevati, credendo che il Presidente fosse morto, altri urlavano che la fine del mondo era ormai arrivata. La morte del Presidente era qualcosa d’inconcepibile, la sua presenza aveva accompagnato l’esistenza di ogni essere umano, giorno dopo giorno, dai tempi della nascita di Panopticon. Il Presidente era Panopticon, e Panopticon era il Presidente, fautore di quella realtà che la fine della guerra aveva plasmato. I ragazzi ignorarono le persone per le strade. Sofia era confusa, vide solo, con la coda dell’occhio, un uomo fuori di sé che lanciava un telefono a terra e che balbettava suoni, poi le squadre di controllo, mentre sugli schermi comparve il Presidente con un messaggio per la popolazione. La sua comparsa provocò reazioni diverse: gioia, ansia, paura. Sofia notò il sollievo sul viso di molte persone: se il Presidente era ancora vivo, lo sarebbe stata anche Panopticon, c’era ancora possibilità di salvezza. Questo pensavano molti, ma i ragazzi che correvano con il cuore in gola, credevano invece che lui l’avrebbe distrutta, che non gli importava di salvaguardare quel luogo, e anzi, forse il suo obiettivo era proprio farlo sparire. Non erano ancora chiare le motivazioni, ma Sofia era sicura che si sarebbe fatto avanti molto presto, e che le cose avrebbero assunto una nuova luce.
“Marin?”. Dessel era in pensiero. “Sì…”.
“Ho capito ora”. Fece un sospiro teso, “stai bene?”. “Non ho potuto fare nulla”. Marin si sentiva sfinita. “Dipende solo da lei”.
CAPITOLO 17
Chi è Sofia?
Il Presidente era stato allontanato dal Palazzo di Giustizia e viaggiava a grande velocità nella sua limousine, mentre le squadre di controllo provvedevano, con i tecnici, a ricostruire ciò che era crollato. “Come sta signore?”. “Bene”. “Il piano è stato un successo”. “È vero”, rispose, “finalmente li ho potuti incontrare”. Redis ne aveva bisogno. Ora so che il legame è stabilito, pensò sorridendo. “È stato pericoloso attirare anche suo figlio, signore”, disse il suo braccio destro che era a conoscenza di quella parte del piano. “Pericoloso ma necessario. Doveva accadere prima della loro partenza” confessò con sforzo l’uomo, che sentiva ogni muscolo del suo corpo dolergli. “Comunque stiamo facendo come ci ha ordinato” rispose il braccio destro. “Non li perdete di vista. Dovete esserci quando arriveranno agli altri custodi. Quando li avrà trovati tutti…”. “Colpiremo!” disse l’uomo infervorato, non accorgendosi di aver interrotto il Presidente. L’uomo tacque di colpo imbarazzato, ma il leader non ci aveva fatto caso. “Hanno tutti paura di me. Ma non avranno paura di lei. Soprattutto se lei è chi Redis pensa” disse.
“Sì. Stavolta sarà un successo”. Li troveranno e verranno tutti qui, rise, sorseggiando avidamente un bicchiere di liquore: aveva bisogno di riflettere senza che quell’intorpidimento, quel tremore gli fosse d’intralcio. “In cielo le tre lune si stanno ancora risvegliando. Ci vorrà tempo” aggiunse l’uomo parlando tra sé e sé. Poi piegò la testa all’indietro in cerca di un o. Quel potere… pensò l’uomo stringendo il sedile in pelle e avvicinando alle sue ginocchia il libro. Il ciondolo era nelle sue mani, il libro nelle mie. Com’è possibile? E cosa è successo dopo? E il legame fra i due libri? Sono davvero loro. Chiuse gli occhi un breve momento. Però non riesco a ricordare il momento in cui sono svenuto. “Signore”, una voce interruppe la sua riflessione. “Sì, cosa c’è?” disse infastidito, allungando il collo verso il guidatore. “Volevo farle sapere che la ragazzina è al sicuro”. “Bene. È viva, quindi”. “Sì. È ferita ma non è in pericolo di vita”. “Bene. Curatela e rinchiudetela. Ci potrebbe servire di nuovo”. “Sissignore”. “Portami a casa” aggiunse poi improvvisamente sfinito. Il Presidente appoggiò la testa sullo schienale e chiuse gli occhi, stavolta per dei lunghi minuti. “Com’è possibile?”, furono le ultime parole che disse prima di crollare in un sonno oscuro. Il tremore alla mano destra e una forte scossa soffocante che invase il suo corpo, lo risvegliarono di colpo. Trovò il libro sulle sue ginocchia, il ciondolo che lo scrutava come un occhio invadente e perverso: in quel momento non notò che era scivolato dalla punta all’angolo destro.
Il Presidente lo lanciò sul sedile e continuò a pensare a Sofia, mentre con una mano tentava di arrestare il tremore dell’altra, che lo scuoteva sino alla spalla. Lanciò uno sguardo irrequieto e spaventato al libro, e il corpo prese a respirare con il suo naturale ritmo. Era ormai arrivato a casa. In quella casa in cui evitava di andare con tutte le sue forze. Viveva nel suo ufficio, che aveva dotato di tutti i comfort, proprio per escludere la possibilità di dover mettere piede nella sua vera abitazione. Si allentò il nodo della cravatta, nervoso per la nuova scoperta che lo distraeva e con cui nascondeva la verità che a casa non c'era nessuno ad aspettarlo.
Syd, Leon, Alexa e Fran fissavano Sofia con un certo timore e una forte preoccupazione, pieni di interrogativi, gli stessi del Presidente. Quelli di Syd e Leon si erano rafforzati durante quella lunga corsa. Syd voleva fermarsi il prima possibile per consultare il suo libro, e lo stesso voleva fare Alexa. Sofia ormai veniva trascinata quasi di peso da Syd e Leon, che avevano capito ci fosse qualcosa che non andava, ma non potevano fermarsi. La ragazza inciampava nei suoi stessi piedi, sfinita. Quando raggiunsero la stanza nascosta, erano tutti provati, stanchi ma non distrutti come lo era Sofia; questa ansimava con forza, come se le mancasse l’aria, il suo colorito si era fatto ancora più tenue, gli occhi socchiusi e persi. Leon, vedendola piegata su se stessa, le andò dietro e la tirò su le sue spalle per farla respirare meglio, toccandola con un certo timore: la scena a cui aveva assistito poco prima non gli sembrava reale, non era possibile. Quando il respiro si fece regolare, lui fece un o indietro e tornò al suo posto. “Va meglio?” chiese Syd. Lei annuì asciugandosi la fronte dal sudore e tentando di sollevare la testa che le cadeva immancabilmente in giù, come se il collo fosse snodato. Il ciondolo, nel frattempo, si era spostato silenziosamente sull’angolo. “Cosa ho fatto?”. Sofia fu improvvisamente colpita da una consapevolezza: si era dimenticata, per il momento, di tutto quello che era successo prima, nel Palazzo.
Syd e Leon si lanciarono un’occhiata, non sapendo bene come affrontare l’argomento; avrebbero dovuto rendere partecipi anche Fran e Alexa, ma forse non era il momento giusto. Fran si era seduto in un angolo e teneva la testa poggiata sui palmi. Era troppo stanco per stare a sentire. “Non ci credo. Sei peggio di una vecchia. E hai solo diciassette anni” disse Alexa ridacchiando. Era sudata ma si era ripresa velocemente dalla corsa. Il suo corpo era più allenato, come se fosse abituata a scappare. Sofia fece finta di non ascoltare quel commento, guardava a terra spaesata, e quando la ragazza stava per ripartire all’attacco, crollò svenuta. “Sofia” urlò Syd e la voltò. Leon agitò le braccia e si avvicinò. “Tranquillo che respira” disse Alexa senza neanche muoversi. Se ne stava a braccia conserte a osservare la scena. “Me la dai una mano o no?” disse Syd spazientito. “Ok, ok. Ma stai calmo” rispose dopo aver alzato gli occhi al cielo mentre Leon era già accorso al suo capezzale. “Pure la balia mi tocca fare”. Syd la gelò. “Se non fosse stato per lei chissà dove saremmo ora!”. Alexa strinse le labbra e non disse altro. Sofia era profondamente addormentata. “Deve essere stato il libro” disse Syd, e Leon annuì. “Ha usato il suo potere per la prima volta. E anch’io. Non so neanche com’è successo”. “È strano. Perché il mio libro è stato attratto dal suo” si inserì Alexa. “È successo lo stesso a me. Erano in simbiosi e sentivo come se il mio volume non respirasse lontano dal suo”, cercò di spiegarsi stringendo la gola con una
mano, mentre, nascosto in un angolo di sé, cercava di rielaborare tutte le altre sensazioni che aveva provato alla vista del libro del Male. “Sì. Non so cosa diavolo sia successo. Ma il suo libro ha qualcosa di diverso”. Alexa lo dovette ammettere. Syd cercò di concentrarsi su questo “È lei che è diversa. Il libro rispecchia il custode, no?”. Alexa non rispose e gli diede le spalle. Prese a osservare il muro di fronte, infastidita; non poteva accettare quella realtà, non voleva. “Si vedrà” disse infine per chiudere il discorso. Il suo tono presentava varie sfumature, dall’infastidito al vago. E se avessero delle controindicazioni? Se… non so, se a lungo andare prosciugassero il suo custode? pensò Syd guardando Sofia con apprensione. Di questo non possiamo esserne sicuri. Potrebbero averli, degli effetti collaterali. Dovremo scoprirlo. Quel potere forse è troppo per lei da gestire, ma non capisco se le appartiene o se è il libro a possederlo. Da quello che ha detto lo zio, fece una smorfia di dispiacere, amplifica il nostro potere e rende reale la nostra energia. È un’azione comune che ci vede legati ai nostri libri. Il potere di Sofia è maggiore, è chiaro, ma non ne comprendo ancora la portata. Da dove… da dove è uscita tutta quell’energia? rifletté, evitando, in quel momento, di rendere partecipi gli altri di questi pensieri. “Forse non ricorderà niente quando si sveglierà. Almeno lo spero”, sbuffò, sapeva quanto si sarebbe preoccupata. “È un bel casino”. Syd guardò Leon, che mostrava le sue stesse perplessità e preoccupazioni. “Ha quasi ucciso un uomo” disse Syd. Per ora era meglio tacere, non voleva scatenare il panico nel loro gruppo, si sarebbe preso del tempo per riflettere. Leon sembrava pensare la stessa cosa, aveva allungato l’indice sulle labbra in segno di silenzio. Nessuno dei due riusciva ad ammettere quanto quella scena li avesse lasciati senza parole, paralizzati dalla sorpresa. Era l’ignoto che li terrorizzava.
Quante cose ancora non sapevano! Dovevano andare avanti, camminando nel buio. Cercando di utilizzare la poca luce che possedevano, per illuminare i loro i incerti.
Syd non se ne accorse, ma il piccolo serpente sulla superficie del ciondolo si mosse, girò tutt’intorno, come se volesse rispondere ai suoi pensieri, o fosse pronto a saltar fuori per agire. “Consultiamoli”. “Sì, mi sembra anche l’ora”. Sofia e Syd si sedettero vicini e aprirono i loro libri, entrambi gialli. Leon, intanto, si era seduto accanto a Sofia e le scostava dal viso i capelli castani, sistemandoglieli di lato. “Ha bisogno di equilibrio”, lesse ad alta voce Syd. “Sta parlando di Sofia”. “I tempi sono maturi. Niente è quello che sembra. Accompagnala”. “Ma che vuol dire?” chiese Syd. “Accompagnala è chiaro. Parla sempre di Sofia” intervenne uno di loro. “Non è detto. Magari sta intendendo questa guerra” disse Alexa senza crederci. “Certo. E secondo te, il libro che sta cercando di risolvere questa situazione, ti consiglia di buttare benzina sul fuoco, no?”. Lei sbuffò, sapeva benissimo che parlava di Sofia. “Non dubitare di ciò che il tuo cuore ti suggerisce”. Alexa sospirò, mentre Syd non la perdeva di vista un istante. Notò che tamburellava con le dita sulla gamba, era nervosa. “Dobbiamo sbrigarci a partire” disse Alexa sistemandosi la maglietta bianca che si era leggermente alzata. “Dobbiamo trovare i custodi e tornare qui ad affrontare il Presidente”, sospirò, “sperando che allora il mondo sarà ancora in piedi”.
“Quanto pensi potrà degenerare ancora la situazione?” chiese Syd. “Secondo me entro un paio di giorni non ci saranno più città. Sarà tutto crollato. Il libro me lo aveva detto. Aveva scritto che il mondo, come lo conosciamo, cadrà in pezzi per essere ricostruito ancora una volta”. “Mm”, Syd si sedette, “chissà se ce la faremo?”. “Forse no. Anzi, quasi sicuramente no”. La ragazza fece una smorfia di agitazione e sospirò chiudendo per un istante gli occhi. Syd comprese quanto era agitata e incerta, proprio come lui. I loro libri risposero a questi sentimenti. “Dobbiamo” disse guardandola, poi lei si accovacciò vicino a lui. I due rimasero silenziosi, ogni tanto si lanciavano un’occhiata, come se stessero comunicando con i pensieri invece che con le parole. Leon notò la somiglianza di carattere fra i due; apparivano ai suoi occhi, elementi contrastanti, come acqua e fuoco, ma allo stesso tempo simili. Come se a volte si sovrapponessero uno all’altra, entrando in una totale sintonia che li rendeva indivisibili. Sembravano aver legato, nonostante non fossero stati insieme che poche ore. Syd distolse lo sguardo e osservò il libro accanto a Sofia. Equilibrio e squilibrio. Due anime che convivono dentro e fuori. È in bilico, sussurrò tra sé e sé. Poi si massaggiò le tempie. Un forte equilibrio e allo stesso tempo un devastante squilibrio. Come farà? Syd non smetteva di riflettere, irrequieto. Lanciò poi uno sguardo di fuoco a Leon che stava trascorrendo quei minuti ad accarezzare la testa di Sofia con delicatezza, come se avesse paura che sparisse. Il ragazzo rispose allo sguardo scuotendo le spalle e Syd li raggiunse, sedendosi accanto a Leon a braccia conserte, fino a quando lui non interruppe quel gesto. Cosa dobbiamo fare con lei? sembravano dirsi i due, in una conversazione muta. Ha quasi ucciso un uomo. Tutti e due avevano quell’immagine impressa in mente. Fino a dove potrà spingersi? Succederà di nuovo? Cosa possiamo fare per impedirlo? Queste erano le domande che affollavano i loro pensieri. Ma ce n’era una più profonda, più nascosta, che faceva a entrambi grande paura, e che non avevano intenzione di porre ad alta voce, neanche di farla riaffiorare a livello cosciente: Chi è veramente Sofia?
Sofia si agitò, mormorava dei suoni senza significato, girandosi da una parte all’altra, come se stesse vivendo un terribile incubo. Syd le strinse la spalla, cercando di calmarla, poi guardò Leon. Tutto avveniva sotto lo sguardo attento di Alexa, che sperava che quella ragazzina non si svegliasse. Saremmo più al sicuro senza di lei pensava. “Dobbiamo partire. Verrete con noi?” chiese Syd per cambiare discorso. Leon annuì, poi si voltò verso l’amico, non aveva notato la sua aria terrorizzata, erano stati così concentrati su Sofia che non si erano accorti che in lui qualcosa era cambiato. Se ne stava accartocciato su se stesso in un angolo. Tutti e tre capirono. “Mi dispiace. Troveremo un modo, vedrai” disse Syd. L’altro scosse in risposta la testa, era sfiduciato, credeva che sarebbe rimasto così per sempre. Stava ando quei minuti a cercare di farsene una ragione. Leon gli sedette vicino mettendogli una mano sulla spalla: rimasero così fermi a cercare conforto l’uno nella presenza dell’altro. Se la sarebbero cavata. Leon ne era sicuro. “Attento alla ragazza, ha un cuore irrequieto”, fu l’ultima frase che il libro comunicò a Syd in quello stanzino. Il ragazzo non era ancora riuscito a inquadrare quel suo lato. Aveva intravisto una diversa Sofia in quel Palazzo, e fuori di lì si era palesata con ancora maggiore forza; una Sofia oscura, piena di sentimenti negativi che stavano prendendo il sopravvento su di lei. C’era qualcosa di diverso da quello che si vedeva, che si agitava in lei, e che era pericoloso. L’aveva intuito, ci si era trovato faccia a faccia, e forse il libro non faceva altro che amplificarlo. Chissà, forse questo era stato il motivo di quella forte ondata di potenza. Ma non deve attingere la sua forza dalla rabbia. E il libro non dovrebbe permetterglielo pensò. Alexa fissava Syd con insistenza e lui la guardò di rimando, perso nelle sue riflessioni. Poi si alzò in piedi. Il ragazzo pensò di doverla tenere sotto controllo, accertarsi che lei rimanesse sempre la stessa. Non potrei mai sopportare che… cosa? Syd si accorse di aver fatto vagare troppo i suoi pensieri, e si arrestò, non voleva proseguire.
Non voleva approfondire quell’ansia nello scoprire che Sofia era costantemente in pericolo, a causa di un nemico da cui non poteva difenderla: se stessa.
“Non puoi dirglielo Marin”. “Lo so. Ma forse posso farglielo capire”. “Pensa a Sofia. Solo lei conta ora” borbottò Dessel. “Sei troppo altruista. Ogni tanto dovresti pensare anche a te stesso” disse Marin che era più altruista di lui. “Non sono altruista, voglio la loro morte. Sono tutto tranne che altruista. Penso a me molto più di quello che credi” disse Dessel convinto. “Non sappiamo ancora se sarà necessario. Forse c’è un modo che ancora non conosciamo. E poi tu non hai mai pensato a te stesso. Quella volta…”. “L’ho fatto perché non avevo scelta. E quella decisione ha avuto delle conseguenze”. “Chissà se fossi rimasto cosa sarebbe successo. Forse le cose sarebbero cambiate comunque e tu, lei…”. “Piantala, Marin”. Dessel non voleva risentirlo, ancora non capiva se fosse stato un errore. Forse, se fosse rimasto, ora Panopticon non esisterebbe, e il pianeta sarebbe ancora vario e colorato come lo era una volta. Lo ricordava con una profonda nostalgia. “Ormai è acqua ata” sussurrò a Marin. “Sai che non è vero”. “Ci siamo ritrovati. È quello che conta”. “Sarà così finché loro due saranno insieme” disse Marin. “Ci resteranno”. “Ne sono certa anch’io. Loro due sono…”
“Non ne siamo ancora sicuri”, la interruppe lui. “Le lune sono sempre trasparenti”. “Sai che è così. Anche tu l’hai percepito quando siamo stati imprigionati nei ciondoli. Hai visto la storia. E quando sono nati Sofia e Syd, l’ho sentito anch’io. È per questo che io, te, e anche lui siamo finiti in questo modo. È tutto scritto. È tutto legato ai tre della leggenda”. “È una maledizione” sussurrò Dessel, poi aggiunse, “dobbiamo ucciderlo. Lo sai? Solo così potremmo essere liberi”. “Sì…”. “Marin. Desideri ancora essere libera?”. “Sì”. “Allora non puoi avere ripensamenti. Non puoi salvarlo. E non ci deve provare neanche Sofia”. “Io non voglio salvare il Presidente ma lui, anche lui è intrappolato come noi”. “Se Sofia salverà il Presidente, forse salverà anche lui. Ma sai che è impossibile. Ed io non voglio. Non si merita la libertà, visto quello che sta causando. Marin tu…”. “Non sappiamo ancora quale sarà il finale. Forse lui uscirà fuori di qui con noi, e sarà come un tempo”. “Basta. Smettiamo di parlarne” disse innervosito Dessel. Come poteva ancora essere così legata a Redis? “Comunque Dessel, non sappiamo ancora cosa sarà necessario veramente per ristabilire l’equilibrio e uscire di qui. Questa volta è diverso e noi non possiamo fare previsioni”. “Sì, lo so. Ma non parliamone”. “Nessuno ci sta ascoltando, Dessel. C’è solo lei e si rifiuta di parlare”.
“Probabilmente Alexa se ne andrà via. Perciò è inutile anche solo parlarvi”. “Visto? Siamo soli, Dessel”. “Voglio riposare. Noi tre insieme… è come ai vecchi tempi. Sfiancante”. Una serie di generazioni legate alla storia di quei tre, continuò a pensare Marin. “Già. È davvero una maledizione. Le nostre famiglie sono piene di ambizione, sono confuse”. “Perché ciò che è successo a noi le ha segnate”. “Le lune sono ancora di quel bianco trasparente, e il ragazzo è ancora lontano dalla scoperta. Non ha ancora capito a dove appartiene”. “Lo capirà presto. E Sofia, non riesco ancora a comprendere, è combattuta. Se non lotta, morirà prima che qualcosa possa accadere”. La voce di Marin tremò e lei smise di parlare. Dessel riuscì a interpretare quel silenzio. “Stai pensando ad Abel, non è così?” Lei non rispose. “Sono sicuro che tuo fratello è ancora vivo. Stai tranquilla”. “Sono rinchiusa qui dentro e non posso più proteggerlo. Non possiamo più fare nulla e questo mi fa impazzire. Cosa abbiamo fatto?”. “Siamo tutte vittime della Natura”. “È colpa nostra, però, per tutto il resto. Dessel, è così. Non si può negare”. Silenzio. “Non volevo incontrarlo così”. “Stai ancora pensando a lui?” chiese innervosito. “Non ci riusciremo mai”. “Marin”.
“Sì?”. “Abbi fiducia in Sofia”. “E tu in Syd”. “Se loro due fossero veramente loro, avremmo realmente qualche speranza sia per il mondo che per noi stessi”. Il terzo chi sarà? Marin continuava a chiederselo. “Non può non essere che un custode”, disse Dessel. “Deve esserlo”. “Visto che i due guerrieri originari si sono manifestati in questa generazione, anche il terzo guerriero si deve essere reincarnato, e deve essere per forza legato al Presidente”, continuava a ripetere Marin. “Ce lo stanno tenendo nascosto” rispose Dessel. “C’è un erede, ne sono sicura”. Anche Dessel ci aveva pensato a lungo. “Sì, è così. Lo sento. E probabilmente è ignaro di tutto, per questo non lo percepiamo”. “Il Presidente lo saprà di certo. Ma siamo certi entrambi che non accetterebbe mai di perdere il suo potere”, rispose Marin. “Perché il Presidente dovrebbe avere un erede? Lui vuole tenere il potere”. “Per avere quel tipo di potere che desidera, ha bisogno delle tre reincarnazioni. E lui non lo è di certo. Deve esserlo il suo erede”. Dessel rabbrividì al pensiero di quest’altra bomba vagante. Occhio Rosso gli sta mentendo. “Occhio Rosso mente al suo custode così come noi ai nostri”, disse amaramente Marin. “Noi vogliamo anche la salvezza di questo pianeta, però”. “Non so se si potrà avere entrambe le cose. Non sappiamo ancora nulla” disse, ma Dessel non la stava ascoltando.
“Ne sono certo Marin. Se c’è un erede, il Presidente non ne conosce la funzione. O forse pensa che possa servire per altro. Appunto per conquistare il potere. Ed è anche vero. Ma non sa cosa comporterà il risveglio dei tre guerrieri”. “Occhio Rosso complotta da decenni. Se così fosse, starebbe seguendo un piano già da lungo tempo. Ma come faceva a sapere in anticipo delle reincarnazioni?”. “Deve essere andato per tentativi. Come noi ha aspettato” rispose Dessel. “Sa che potremmo dirglielo. Per questo Occhio Rosso lo tiene nascosto”. “Marin sai quali sono le regole qui. Non potremmo comunque parlare”. “Farglielo capire sì, però”. Marin rimase in silenzio per alcuni lunghi momenti, persa a riflettere. Per questo ci sta lasciando in pace, Marin lo capì. “Non vuole che interferiamo. Lui ha bisogno dei tre custodi originari per rinascere, come noi. E il Presidente non ne sa nulla. Mio Dio, è terribile. Sai cosa potrebbe succedere a questo pianeta?”. “Non lo dire. Stiamo andando oltre con le supposizioni. Riposiamoci”. Entrambi rabbrividirono.
CAPITOLO 18
Anime prigioniere sotto le tre lune di Panopticon
“Mh. Che è successo?”. Sofia premette le dita sulla fronte. “Stai bene?” chiese Syd. “Ho un gran mal di testa” balbettò con la voce ancora impastata dal sonno. “Ti sei addormentata di colpo”. Sofia si tirò su a sedere guardandosi intorno spaesata. Si trovavano nel piccolo stanzino di fronte al molo. “Quando siamo venuti qui? E il Presidente?”. “Non ricordi la corsa?”. “No”. “Beh, bella addormentata, ti decidi ad alzarti? Dobbiamo parlare”. Alexa era in piedi a braccia conserte davanti a lei e la puntava con il suo sguardo minaccioso. “Io, ricordo di aver…”, Sofia si coprì la bocca con le mani, era impaurita da se stessa. Syd e Leon sapevano che lo sarebbe stata. “Che cavolo dici? Ti alzi o no?”. Alexa le era davanti ancora a braccia conserte. Sofia si alzò di colpo e Leon, che le era dietro, la sorresse: la ragazza si sentiva ancora confusa, come se avesse dormito per giorni. I muscoli erano intorpiditi, e così la mente. Scosse la testa per tornare in sé. “È successo, non è vero? Non è stato un incubo?” chiese Sofia, la sua espressione si fece di colpo spaventata e alzò lo sguardo dalla punta dei piedi verso i suoi amici.
“Sì, è successo” ammise Syd. “Di cosa parlate?” chiese Alexa sentendosi esclusa. “Sono un mostro”. “Non eri in te”, cercò di giustificarla il ragazzo. “Allora, mi spiegate?”. Syd alzò gli occhi al cielo, forse non era il caso di ripetere quello che era successo, avrebbe assunto contorni reali pronunciando l’accaduto ad alta voce. “Non c’è molto da dire. Sofia ha…”. “Ho quasi ucciso un uomo” concluse lei, poi guardò a terra piena di apprensione, stringendosi le mani al petto. “Che cosa?”, Alexa fece istintivamente un o indietro. “Vi giuro che non lo so cosa mi è successo. Non riuscivo più a controllarmi, provavo questa rabbia che si è canalizzata tutta in quel gesto. Mi sembrava quasi di osservare dall’alto una me stessa che non ero io”, allargò le braccia. “Ho toccato il libro e questa forte ondata di energia si è materializzata di colpo. Mi sentivo incatenata al libro e al mio stesso corpo. Non so bene come spiegarlo”. “Lascia stare. Non eri in te, e poi ti sei fermata”. “No, non puoi farla così facile. Questa qui è una specie di mostro dai poteri sconosciuti” disse Alexa. “Piantala ora!” disse Syd. “Mi dispiace Alexa”. “Non ti scusare. Alexa, ci penseremo io e Leon a controllarla. Sofia, se mai dovessimo vederti in quelle condizioni, ti riporteremo tra noi. Te lo prometto. Anche se dovessimo prenderti a calci per riuscirci” disse Syd. “Sì”, lei sorrise lievemente.
“A calci ti ci prenderò io se non ti controlli” bofonchiò Alexa guardando storto Syd. Ma i ragazzi compresero la preoccupazione di Sofia. La ragazza aveva percepito quella rabbia e quel male quanto loro, e aveva paura che potesse succedere di nuovo. Eppure quell’energia, quella potenza, da una parte l’aveva fatta stare bene. Scosse la testa dimenticando quella sensazione di ebbrezza e continuò a pensare quanto fossero sbagliati quei sentimenti. Non doveva mai più succedere. Voleva tenere lontana da sé quella Sofia il più possibile. Però, forse, nel profondo la desiderava più vicina. “D’accordo”, confermò Alexa. “Bada che ti terrò sotto controllo anch’io. E non sarò dolce come loro”. Puntò un dito addosso a Sofia che annuì, cercando di dimenticare gli ultimi avvenimenti, e focalizzandosi solo sul futuro. Syd le lanciò un’occhiata, abbozzando inaspettatamente un sorriso e lei si voltò infastidita. “Forza” disse Syd guardando prima Alexa e poi Sofia. Leon le sorrise e lei ricambiò ritrovando un po’ di sicurezza, anche se un’inquietudine profonda la scuoteva, e sapeva che non l’avrebbe più abbandonata, perché anche lei, come gli altri, si chiedeva: “Chi è veramente Sofia?”. “Ma Fran dove…”, la ragazza si ricordò all’improvviso di lui e lo vide seduto all’angolo fare un gesto con la mano in segno di saluto; abbozzò un sorriso imbarazzato come se fosse colpa sua. “Oh no. Mi dispiace” commentò Sofia sospirando. “Troveremo una soluzione. Ve lo prometto” disse Sofia, poi li guardò entrambi con la maggiore decisione possibile, ma non era poi così sicura che sarebbero riusciti a trovare una soluzione. “Forse se rafforzassimo il potere dei libri, così come riusciamo a riparare le crepe potremmo…”. “Sono tutte congetture. Senza offesa, ragazzi” disse Alexa. “Iniziate a mettervi l’anima in pace, è inutile sperare se non sappiamo neanche dove girarci”. I ragazzi si rattristarono, Sofia vide i loro corpi sgonfiarsi dalla speranza e ricadere su se stessi. “Smettila Alexa. Non lo puoi sapere”.
“Come non lo puoi sapere tu. Chi ti credi di essere? La salvatrice?”. “Cosa dici?” chiese Sofia. “Sì, hai sentito bene. Arriva una ragazzina qualunque che lega a sé il mio libro, fa crollare un palazzo e per finire sviene. Ma chi diavolo sei?” disse urlando esasperata, poi allargò le braccia quasi in segno di resa, non riusciva a capacitarsi di quello che era successo, e dell’importanza che rivestiva Sofia. Lei rimase sorpresa da quelle parole. “Credi che io lo sappia? Non so cosa è successo” rispose Sofia, poi come se si fosse ricordata qualcosa all’improvviso, scattò verso la borsa e tirò fuori il suo libro. “Vediamo cosa dice”. “Il potere non è la risposta. L’unione lo è”. “Aspetta, sul mio sta comparendo qualcosa” disse Alexa, “C’era una volta una ragazza dal carattere duro, che non voleva ammettere di sapere cosa fare. Aveva girato per mesi l’intera città alla ricerca di una ragazza, la custode del Bene. Sapeva che solo con gli altri custodi avrebbe potuto sfidare il Presidente, l’uomo che aveva catturato suo padre e chissà quanti altri vecchi custodi. Sul molo il vecchio professor Wisdom le aveva confermato che suo padre era proprio tra le sue mani”. “Aspetta. Hai parlato con mio nonno?” chiese Sofia. “Sì”, rispose Alexa storcendo le labbra. “Allora è vivo?” domandò guardando a terra. “Sinceramente non lo so. L’ho lasciato lì che respirava a fatica”. A Sofia salì il cuore in gola. “Forse l’hanno catturato le squadre di controllo” aggiunse. “Prosegui”, disse Syd. “Venne catturata e fu trascinata al Palazzo di Giustizia, dove si trovavano gli altri due custodi”. “Beh. Perché ti sei fermata?” chiese Syd.
“Non va avanti”. “Come è possibile?”, i due allungarono il collo verso le pagine, poi il libro di Syd emise calore. “Aspettate. Il mio sta scrivendo qualcosa”. “Così nel Palazzo di Giustizia si riunirono. Non fu una semplice riunione, i tre si collegarono l’uno all’altro per la prima volta, sprigionando un enorme potere.” “Non dice altro” disse Syd. “Guardo il mio” intervenne Sofia. “Perché tu devi essere quella che conclude la storia?” chiese infastidita Alexa. “Che ne so. Vallo a chiedere al mio libro. Allora… ecco qui”. “I tre libri risuonarono come non era possibile succedesse. Il libro dell’incertezza di un’altra Area è incompleto senza gli altri due e non può essere risvegliato se non dai suoi compagni”. “Che cosa cerca di dirci?” chiese Syd pensieroso. “Cerca di ristabilire l’equilibrio della tua Area, il giusto ordine delle cose. È ancora imperfetto. Il ragazzo non sa”. “Parla di me?” domandò Syd sorpreso. “Il libro del Male ha raggiunto un livello di potere anomalo per una sola Anima”. “Cosa vuoi dirci? Parla” chiese Sofia dolcemente stringendo forte la copertina blu. “Sofia, raccogli le Anime. Guida i tuoi compagni contro il Male”. “Ma ci hanno detto che i tre libri di ogni Area devono riunirsi in uno per fronteggiare lui e questa distruzione” disse Sofia. “Non se è stato il libro del Male a scatenare la guerra. E la guerra, lui”.
“È vero che è stato lui allora”. “Quell’uomo non sa cosa fa. È caduto in un abisso. Tu puoi liberarlo. E liberare anche…”, il libro tacque all’improvviso. “Cosa? Liberare anche chi?” chiese Sofia, ma non ottenne una risposta, perciò fece una nuova domanda. “E a quel punto la situazione si ristabilirà?” chiese la ragazza senza avere una risposta.
“Ma sei impazzita? Non puoi dare tutte quelle informazioni. Ci è proibito, stupida. E ti stavi facendo scappare anche di noi, stai attenta” intervenne Dessel. “Non potevo tacere. Dovevo aiutarla” disse Marin. “Sai bene quali sono le nostre regole”. “Sono stupide. Se il pezzetto di Spirito chiuso in questo libro mi lasciasse libera di parlare come e di quello che voglio... Maledizione”. “Taci. La ragazza deve trovare da sola tutte le risposte. E poi, sai che non abbiamo altre alternative. È un blocco che ci è stato imposto” ricordò Dessel. “Lo so, ma lei e lui…”. “Sì, lo so bene. E lo capirà. Stai tranquilla. Sembra una tipa sveglia”. “Lo è. Ma se non comprendesse, se non ci capisse. Come può andare avanti senza indicazioni?”. “Hai sentito anche tu quel potere… lei può veramente farcela”. “Se riuscirà a controllarsi”. “Questo è il mio unico timore. Tu puoi…”. “No. Non posso impedirglielo. E lo sai anche tu. Noi possiamo influenzare fino a un certo punto, fino a quando lei ci seguirà e sarà in sintonia con le nostre scelte. Noi non siamo così potenti. Non quanto un custode. Non quanto lui”.
“Già. Lui forse è troppo potente persino per lei”. “Questo ancora non lo sappiamo”. “Lo sai. Riesce a insinuarsi, a mantenere il controllo, persino su di noi se ci facciamo notare. È sempre stato così” disse come a sfogarsi. “Vedrai, Sofia si rafforzerà, e anche Syd. E poi se fosse la guerriera… lei potrebbe risvegliarsi del tutto. E nessuno potrebbe contrastarla”. “Solo se gli altri due guerrieri della leggenda si risveglieranno”. I due rimasero silenziosi a osservare i loro due custodi cercare di trovare il coraggio per partire. Più ava il tempo e più sentivano il desiderio di morire, ma non potevano fare neanche questo. Forse sarebbe stata la volta buona, quella in cui sarebbero riusciti a uscire da quei piccoli ciondoli che li tenevano prigionieri. “Forse ce la faremo”. “Non dovremo farlo. Al possibile prezzo non ci pensi?”. “Non voglio pensarci ora”.
Il Presidente camminava avanti e indietro nel suo salotto polveroso. Il Palazzo di Giustizia era quasi restaurato, con il suo potere sarebbe riuscito a farlo restare in piedi. “Per fortuna ho svuotato la cassaforte prima di scendere. Forse, inconsciamente, immaginavo che sarebbe potuto succedere. Quella ragazzina è speciale...”. Fissò i ciondoli che sembravano brillare di vita propria. “È proprio la persona che Redis credeva fosse”. La sua vecchia casa sembrava ancora più ostile di quanto la ricordasse. Si fermò di fronte alla biblioteca, uno scaffale era pieno di cornici d’argento che intrappolavano pezzi del suo ato dimenticato, e che insisteva a mantenere
sepolto. Le spolverò con un gesto della mano. In una foto la sua famiglia se ne stava tutta impettita davanti alla residenza di campagna. C’erano suo padre, sua madre, il fratello più piccolo e quello più grande, il suo amato fratello, la persona che aveva più ammirato e che continuava ad ammirare. Quando si soffermò sul suo volto, trasalì solo per un istante e distolse lo sguardo. Le altre due fotografie al centro e a destra, sapeva di doverle saltare, corse con gli occhi alle due che si trovavano sul ripiano superiore, al centro, come se vegliassero su tutte le altre. Guardò di sfuggita quella che ritraeva suo figlio. Non l’aveva mai incontrato di persona, o forse sì, non era importante, era lì solo per ricordare che quel ragazzo esisteva. Poi trattenne il fiato e allungò una mano per afferrare l’altra. Era la foto più vecchia di tutte, più antica di quanto riuscisse a ricordare. Da quanto tempo viveva in quella realtà? Gli sembrava di non ricordarlo. E poi quella, si poteva chiamare vita? Guardò il libro dalla copertina infuocata, poggiato sulla sua destra. Il ciondolo lo fissava ancora, quell’occhio non sembrava abbandonarlo mai. Lo sentiva sempre poggiato su di lui. L’uomo cominciò a tremare e a sudare. Sentì lo stomaco rovesciarsi, ormai era abituato a quei sintomi, anche se quando iniziavano, non poteva non provare un moto di terrore. Tenne stretta a lungo la cornice tra le mani, prima di ripulirla da quello strato grigio e lanoso. Quando lo fece, il suo cuore cominciò a battere, preso da sentimenti che aveva dimenticato. Serrò le labbra in una smorfia di dolore e frustrazione. Nella foto due ragazzi, uno accanto all’altro abbracciati, sorridevano felici all’obiettivo. Erano lui e Abel. Il ciondolo sul libro si mosse verso il Presidente, illuminandosi. Più che un ciondolo, sembrava un occhio rosso che lo fissava, incatenandolo. L’uomo sentì il suo corpo venir attraversato da una scossa.
“Redis” sussurrò mentre crollava a terra, stringendo ancora la cornice.
Sofia sentì di nuovo la stanzetta stringersi. Prese fiato. “E ora questo che vuol dire?”. “Non hai capito? Dobbiamo partire. Radunare i custodi delle altre isole…”. “Le isole sono sei in tutto, compresa questa” disse impaurita Sofia, ma Alexa non la stava a sentire. “Dobbiamo poi tornare qui a dar battaglia al Presidente” concluse Alexa. “Ma se lui ha catturato dei custodi, avrà i libri e forse anche i ciondoli. Come possiamo…”. “Che sei stupida? Alla fine penseremo pure a liberare loro”. “La fai semplice tu” disse Sofia. “Ehi ragazze. Potreste piantarla? Il libro ha parlato chiaro, per una volta. Dobbiamo partire, guidati da Sofia”. Syd prese per le spalle Alexa, come a trattenerla, e lei s’irrigidì. Aveva capito subito che era pronta a scattare. “Non ho intenzione di stare ai comandi di una ragazzina”. “Ma non capisci Alexa? Ha collegato i nostri libri quando non era possibile. Ha qualcosa in più, anche se non sappiamo cosa sia”. Alexa si voltò da un’altra parte per non dare soddisfazione a Syd, che aveva ragione e lei non voleva ammetterlo. Si sciolse poi sotto il tocco del ragazzo e lo guardò dritto negli occhi: Syd non distolse lo sguardo. Il loro rapporto sembra cambiato, percepì Sofia mentre li guardava con una punta di fastidio, ma non disse nulla, non si sentiva nella posizione, in quel momento, di creare fastidi. Né tantomeno voleva rompere quel già fragile equilibrio, quel rapporto ancora labile, che si era creato con tanta fatica, fra tutti loro. Sofia si avvicinò istintivamente a lui, mentre Leon, a braccia conserte, osservava la scena con crescente irritazione.
Alexa si avvicinò a Sofia, come se volesse colpirla. Poggiò una mano sul suo libro e Syd la seguì. “Non so cosa diavolo abbia questo maledetto libro di diverso dal mio”. Alexa sbuffò. “Non è solo il libro, anche la custode” disse Syd copiando il suo gesto. Quando tutti e tre si ritrovarono a toccare il libro di Sofia, un lampo di luce li illuminò. I libri si scaldarono come non avevano mai fatto e loro tre si sentirono uno nel corpo dell’altro. Come se avessero fatto a cambio di anime solo per un istante. Syd e Sofia, in particolare, percepirono che il legame tra loro, così come quello tra i loro libri, si era rafforzato. Ma la cosa più strana che sentirono, fu che ognuno, finalmente, aveva occupato il giusto posto. Il posto che gli spettava da sempre. I due rimasero attaccati al libro di Sofia, sorpresi ma concentrati, come se qualcuno gli stesse sussurrando qualcosa a cui dovevano prestare la massima attenzione, poi la luce svanì. L’ondata di energia si spense in un battito d’ali, sotto lo sguardo turbato di Leon e Fran che non smettevano di guardarli nell’attesa che dicessero qualcosa. Syd tirò fuori il suo libro dalla borsa. “Guardate” disse e non sembrava sorpreso, né spaventato, almeno non in quel momento. Sulla costina del volume era scomparso il numero tre, ora c’era un uno. Uno come l’Area 1, il luogo a cui sentiva di appartenere già prima che se ne rendesse consciamente conto. Era bastato toccare terra per sentire quel disagio sconosciuto sparire. Per questo mio zio si trovava qui, pensò subito. “Il numero 1” disse subito Sofia sorridendo. Alexa ancora non riusciva a parlare. “Alexa forza, tiralo fuori. Non stare imbambolata”. Sofia non poteva aspettare, voleva una conferma. Con gesto automatico la ragazza fece scivolare fuori il libro. Ora sul suo c’era il numero tre. I colori non erano cambiati. Sempre gialli, sempre i libri dell’incertezza. Però si erano scambiati l’Area. Sofia era ancora stordita, ma non
poteva smettere di sorridere. Finalmente Alexa parlò: “Non appartengo a quest’Area. Ora sento come se lo avessi saputo da sempre”, abbassò lo sguardo. “Anch’io. Appartengo all’Area 1. Non so perché sia finito laggiù con la mia famiglia, o perché il libro avesse quel numero impresso, ma è così”. Finalmente Syd sentiva di aver trovato il suo posto. “È incredibile” rispose Sofia. “Troveremo una spiegazione anche a questo, quando partiremo”. Il ragazzo non si scompose, sapeva che avrebbe scoperto le ragioni. Si sentì tradito in parte, perché era come se il libro gli avesse mentito. Ma forse non poteva parlare di quest’argomento, pensò. “D’accordo. Ora non abbiamo proprio tempo, dobbiamo pensare al viaggio”. Alexa era più che d’accordo. Si accostò a Syd stringendo il suo libro in petto, così come stava facendo il ragazzo. Apparivano sereni e leggeri. “E come facciamo ad andare sulle altre isole?” chiese Sofia rompendo il silenzio “Ci stavo riflettendo. Mio padre mi diceva che ogni isola è collegata. Ma non so come” intervenne Alexa. “Io sono venuto qui via mare” rispose Syd. “Dovremmo partire usando una di quelle barche. Non vedo altre opzioni per ora”. “Ma non sappiamo neanche quanto sono lontane l’una dall’altra” disse Sofia. “Vedi altre alternative, sapientona?” sbottò Alexa. Sofia iniziò a camminare avanti e indietro irrequieta. “Ehi. Non ti agitare ora. Procederemo insieme e faremo luce. Abbiamo bisogno che tu sia lucida”. Syd sembrava aver acquisito una nuova consapevolezza, e guardarlo così sicuro, le fece venire il batticuore. Aveva una nuova luce negli occhi, e la sensazione che si fossero già conosciuti, si rafforzò. Con un o il ragazzo le fu accanto e gli poggiò una mano sulla spalla con tutta la naturalezza del mondo, come se non avesse mai fatto altro.
“Ma…” disse confusa lei, voltandosi. Syd pensò si riferisse all’argomento e la interruppe subito. “Niente ma. Pensa a tuo nonno. Anche lui sapeva che sei speciale. E ha fiducia in te”. Leon poggiò il suo palmo sulla pelle calda della ragazza, tra il collo e la spalla, per trasmettergli la sua fiducia e il suo incoraggiamento. Non poteva fare altro. Si sentiva soffocato, non poteva dire la sua opinione, né consigliare. Sofia si sentiva una bambola a cui hanno staccato le batterie, vuota, inutile. Il cuore premeva nel suo petto senza sosta, quasi non riusciva a battere le palpebre per l’agitazione. Lanciò un’occhiata a Leon per renderlo partecipe, lui annuiva ogni volta che era d’accordo. Fran, invece, alzava di tanto in tanto gli occhi sugli altri, come se ascoltasse solo a intermittenza i loro discorsi. “Dobbiamo tornare il prima possibile qui e sventare l’avanzata di quell’uomo. Se siamo gli unici a poterlo fare, abbiamo il dovere di non tirarci indietro” disse convinto Syd. Alexa intanto distolse lo sguardo, forse in dubbio, non tanto sul piano, ma sulla squadra che si era formata. Syd se ne accorse e si avvicinò a lei, staccandosi da Sofia che rimase vicina a Leon. Le strinse il braccio, come a incoraggiare un suo sì. Lei gli lanciò una veloce occhiata e glielo lasciò fare. Non possiamo proprio tirarci indietro. Mio nonno e Martha, mia madre e mio padre. Hanno tutti bisogno di aiuto, pensò buttando giù un enorme sospiro. Alexa si liberò dalla stretta di Syd e disse: “Sì, avete ragione. Dobbiamo andare insieme”, poi guardò Syd e Sofia. Syd sorrise. “Se hai bisogno di un minuto, prenditelo pure. Ma dobbiamo sbrigarci”. Sofia respirò a fondo e cercò dentro di sé la convinzione. Si diresse silenziosamente verso la porta d’ingresso e uscì. Quando Syd tentò di seguirla, Leon lo bloccò scuotendo la testa, aveva capito che doveva stare da
sola per un po’. Sofia restò in piedi sul molo. Le acque calme sembrarono rassicurarla, cullandola tra le sue onde sicure. Dentro, i ragazzi aspettavano silenziosi, sperando che Sofia non scape, che non avesse ripensamenti. Lei alzò gli occhi verso il cielo, le tre lune erano sempre nella stessa posizione, eppure qualcosa era cambiato. Una delle tre aveva assunto delle sfumature blu, come il suo libro. Non era un colore netto quello che vedeva, era simile a qualcosa che se si colora piano, piano, seguendo il ritmo di qualcuno. Fu in quel momento che uscì Syd, che guardò a sinistra, verso il mare e si chiese da quanto la sua famiglia era lontana dalla sua terra. Chiuse gli occhi, poi li riaprì e si avvicinò a Sofia. “Che meraviglia le tre lune questa sera” disse Syd. Sofia sembrò sorpresa. “Le riesci a vedere? Tutte e tre?”. “Certamente. Perché me lo chiedi?”. “Martha non le riusciva a vedere, e da mio nonno ho capito che non tutti possono. Forse solo i custodi” borbottò. “Deve essere così. Solo che oggi sembrano diverse, non trovi?”. Sofia scattò in avanti senza rispondere. Il suo urlo squarciò il cielo, rimbombando nello stanzino. Tutti scattarono fuori. La ragazza fissava il molo crollare a pezzi. “No. No, ti prego. Non portarti via pure i miei ricordi” balbettava lei senza sapere cosa fare. “Il molo NO!” urlò con tutta la voce che aveva in corpo, mentre le lacrime, per la tristezza e la rabbia, avevano iniziato a scorrere. Il processo improvvisamente s’interruppe, poi si invertì, sotto gli occhi increduli di Sofia e degli altri che erano accorsi. “Allora è così, non è vero? Molo, molo, molo, molo, banchina, banchina. Su, così” disse lei sorridendo, poi si asciugò gli occhi, e il cuore cominciò a rallentare.
“Ah, ah, ah, ah”, Sofia rise come un’invasata, alzando le braccia verso il cielo. “Molo!” disse ancora. “Sofia”. Syd e Leon andarono accanto a lei, seguiti da Fran e Alexa, quest’ultima era la più sorpresa di tutti, guardava a bocca aperta il molo ricomporsi e poi Sofia, come se fosse un mostro. Sofia li fissò con indulgenza, non avevano ancora capito, poi gli sorrise. “È come pensavo. La realtà si sta distruggendo perché non c’è più nessuno a dargli un nome. Se non viene nominata non può esistere”. “Ma cosa diavolo…”, Alexa non riusciva bene a seguire il discorso, gettò un’occhiata a Syd che sembrava aver capito. “È così” confermò lui. “Ma è assurdo” balbettò Alexa tamburellando con le dita sul gomito dell’altro braccio. “La realtà non può stare in piedi da sola. Guardate questa ad esempio”, indicò una barca. “Syd nominala, chiamala con il suo nome”. “Barca” disse Syd e il legno si ricompose piano, prendendo la forma di una barca. “È incredibile. Quindi ogni persona potrebbe lavorare per ricomporre la nostra realtà” disse Alexa grattandosi nervosamente un braccio. “Ma si sa che l’uomo è un animale poco collaborativo” aggiunse. Syd e Sofia si guardarono affranti. “Che c’è?”. La ragazza s’innervosì mentre Sofia sospirò. “Potrebbero, se avessero ancora una voce” disse Sofia guardando Leon e Fran che fissavano a terra. “Oddio”. Alexa non ci aveva pensato. “Se siamo arrivati a questo livello di distruzione…”. “Sì”, continuò Syd. Sofia non aveva voglia di pronunciare ad alta voce quella
verità, e strinse una mano dentro l’altra: “Vuol dire che non c’è rimasto nessuno a parte noi”. Alexa si portò una mano alla bocca, finalmente colpita, lei che si era mostrata sempre così sicura, ma c’era una cosa che ora l’aveva realmente scossa. “Ho un pensiero. Ma preferisco… non dirlo ora” si fermò Alexa guardando Leon e Fran che si erano voltati verso di lei, improvvisamente tesi. “Dilla. Siamo una squadra. Da quand’è che ti fai tutti questi scrupoli?”. Lei serrò le labbra, tenendo le mani incollate ai fianchi, i suoi capelli neri erano stretti in una coda che si muoveva irrequieta, come se seguisse i suoi pensieri. Aveva veramente degli scrupoli. “Se le persone non possono parlare, quindi non nominare gli oggetti della nostra realtà che si disgrega”, si bloccò titubante. “Sì” disse Syd per incentivarla. “Intendo. Se le parole scappano dalla bocca, come se fossero vive, non potrebbe essere che prima o poi… come dire. Scappino anche dalla mente?”. Leon e Fran trasalirono, quest’ultimo fissava Sofia come se avesse tutte le risposte, ma anche lei era rimasta colpita, e sbarrò gli occhi. “Il mondo si trasformerebbe…”. “In un mondo di folli. O si morirebbe, tentando di restare in vita. O ancora peggio… l’uomo si disgregherebbe, così come la realtà in cui vive” proseguì Syd. Erano stati colpiti tutti da questa possibilità. I loro occhi vagavano lontani immaginando una realtà di quel tipo, che era possibile, anzi probabile. “Se la realtà si disgrega perché non c’è nessuno a nominarla, allo stesso tempo, nel senso inverso, senza una realtà l’essere umano non avrebbe più oggetti da nominare, con cui vivere. E in quest’assenza…”, Sofia adorava queste riflessioni, la portò avanti con una punta di divertimento, senza pensare a Leon e Fran che stavano trattenendo le loro reazioni. Le loro espressioni si erano fatte tirate e piene di angoscia, erano quasi storpiate da questi sentimenti. Come avrebbero potuto vivere da quel momento in avanti? Pensando che forse una mattina si sarebbero potuti svegliare senza il lume della ragione? O addirittura
smembrarsi e sparire come gli oggetti? Leon fissò per un istante Sofia negli occhi e poi si accasciò a terra, come se avesse appena ricevuto un pugno nello stomaco, e lei si sentì in colpa per aver portato avanti quella riflessione. “Scusa Leo” disse lei e si abbassò con aria contrita, aiutandolo a tornare in piedi; sentiva la sua pelle tremare sotto la mano, non riusciva a immaginare quanto potesse essere terribile trovarsi in quella situazione. “Ma non possiamo saperlo ancora quale sarà l’evoluzione. Queste sono solo teorie” disse Syd cercando di tranquillizzare Leon e Fran. Stava provando una gran pena nei loro confronti. “Teorie a cui, ripeto, dovreste iniziare ad abituarvi” disse con una smorfia Alexa. “Alexa! Piantala”, Syd l’aveva incenerita con lo sguardo, e lei sembrava risentire dei suoi rimproveri. Allargò le braccia come a confermare ciò che aveva appena sputato fuori: “Qualcuno le deve pur dire queste cose”. “Sì. Ma c’è modo e modo” aggiunse Sofia. Alexa la guardò di sottecchi. “Non penso comunque che il nostro intervento attuale possa preservare la realtà integra a lungo” aggiunse Alexa. “Già. Come le crepe che avevamo tentato di riparare” rispose Sofia. Sofia si riempì di angoscia nel vedere Fran, e soprattutto Leo ridotti in quello stato. Sentì il cuore contorcersi dentro al petto. Poi pensò a Martha e a quanto dovesse essere impaurita, lì da sola, forse aveva anche lei perso la parola come tutti gli altri. Anzi, era sicura fosse successo. Pensò a suo nonno e ai suoi genitori che lei non era riuscita a salutare, ma che forse poteva salvare. “D’accordo”, disse con una voce sicura, “partiamo”. Gli altri la guardarono con altrettanta decisione. Mentre i libri pulsarono, legandosi l’uno all’altro, così come stavano facendo i loro custodi.
Syd sorreggeva Leon, e Alexa, scocciata, dopo un gesto di Syd, aveva afferrato Fran. Erano ancora provati per quelle rivelazioni. Come una squadra affiatata e coordinata si mossero in avanti, inoltrandosi nel molo, guardandosi intorno con apprensione. Nessuna squadra di controllo era lì ad aspettarli, sembrò a tutti molto strano, ma nessuno parlò. Avanzarono silenziosi tra le barche, cercando quella più adatta a un viaggio ignoto in dimensioni e durata. “Molo, molo, molo” sussurrò Sofia, guardando con dolcezza e apprensione quel luogo magico della sua infanzia. Poi fece una silenziosa preghiera e impresse quell’immagine nella sua mente. Infine raggiunse i suoi amici. Aveva accettato quel destino sorprendente… Fu scossa da un brivido, ma quando raggiunse i suoi compagni, non aveva più dubbi. I loro sguardi mostravano la stessa decisione. Panopticon. La misteriosa grande Nazione, pensò Sofia. Non sappiamo molto delle altre Aree, anzi, non sappiamo quasi nulla, rifletté. Il Presidente tendeva a centellinare le informazioni, come se solo l’Area 1 avesse importanza. Nonostante il mistero che avvolgeva le altre isole, e le preoccupazioni che i ragazzi sentivano insinuarsi sotto la pelle, erano tutti pronti a esplorarle. Finalmente avrebbero saputo cosa si nascondeva nel resto della grande Nazione. “Verso l’ignoto” sussurrò Sofia, mentre Leon le prese il polso infondendole calore. I due si guardarono, mentre Fran iniziò a rischiararsi la gola per interrompere le loro smancerie e far notare la sua esistenza. La ragazza lo sentì e ridacchiò divertita, si era finalmente rilassata. Leon gli lanciò un’occhiataccia e lasciò il polso di Sofia dando una spintarella all’amico impiccione, che sembrava essere tornato in sé, poi fissò lo sguardo dritto di fronte a sé e sorrise lievemente, incantato. Guardava lontano, oltre lo specchio d’acqua. Stava realizzando il suo sogno di bambino. Andare via di lì ed esplorare quel mondo sconosciuto. “Un viaggio con te sarà un completo strazio”. Alexa guardò storto Syd che era distratto. “Vattene allora. Nessuno ti ha chiesto di venire” disse Syd. “Senza di me sareste persi, stupido”. “Sei tu la stupida. Dobbiamo collaborare, quindi ho un’idea: tu stai zitta ed io parlo”.
“Certo. Come no”. I due sembravano divertirsi litigando. Sofia pensò che quei due si assomigliassero. Lasciò da parte le impressioni fastidiose che aveva avuto in quell’ultima ora, sperando in cuor suo che non fossero vere. Sospirò nel vederli divertirsi a litigare e si voltò nuovamente verso il molo, ora tornato calmo e pacifico. Leon e Fran, con i loro zaini ben stretti in spalla, alzarono gli occhi al cielo, sbuffando. Bel clima di armonia, sembravano dire. I battibecchi tra i due continuarono, non sarebbe stato un viaggio semplice, ne erano tutti convinti. Ma di una cosa Sofia era convinta: il loro legame non si sarebbe spezzato tanto facilmente, anzi si stava rafforzando sempre di più, e avveniva velocemente. La ragazza non capiva se erano stati i libri ad averlo cementato, ma non le importava, sapeva solo che con loro si sentiva al sicuro, più al sicuro che con se stessa. Poi calò un lungo silenzio, un silenzio che preannunciava la partenza, l’inizio di un’avventura ignota e forse pericolosa. Un silenzio che confermava la loro decisione. Sofia, Syd e Leon erano ora uno vicino all’altra. Alzarono contemporaneamente gli occhi al cielo. Le tre lune erano splendide. Ora la seconda si stava colorando di un tenue giallo, proprio sotto i loro occhi. Nessuno disse niente, come se quello spettacolo fosse una cosa naturale. Sofia percepì il libro scaldarsi, rispondere ai suoi pensieri, entrare in completa sintonia con la sua mente, come fossero una cosa sola. Sì. Aspettavi solo me. Ripeté dentro se stessa quella prima impressione che l’aveva folgorata pochi giorni prima. Poi accarezzò la copertina del libro, sentendosi di nuovo carica di energia. “Ora partiamo”, sussurrò guardando i compagni e poi il suo libro. “Insieme”.