La gran fiera magnara
Leggere è un gusto! percorsi tra cucina, letteratura e…
Massimo Novelli
La gran fiera magnara
Le ricette di Carlo Emilio Gadda
In copertina: Gino Covili, Festa (1979-80), particolare, tecnica mista su tela. Per gentile concessione dell’Autore.
Tutte le ricette sono di Adriano Pistorio.
ISBN: 978-88-96720-72-1
© Copyright 2003 Edizioni Il leone verde Via della Consolata 7, Torino Tel/fax 011 52.11.790 e-mail:
[email protected] http://www.leoneverde.it
Indice LA GRAN FIERA MAGNARA
Della cognizione del mangiare Del risotto e dell’ossobuco Elegia dello spaghetto nonché della Bismarck Elogio del mercato e della porchetta Dei tagli limone-seltz e di analoghe dolcezze Del vino de li Castelli e di svariati beveraggi Del dopopranzo Ma un bel mangiare, alla fine della fiera…
BIBLIOGRAFIA
INDICE DELLE RICETTE
La gran fiera magnara
Roma, 1927, ar tempi de “vigor nuovo del Mascellone, Testa di Morto in bombetta, poi Emiro col fez, e col pennacchio”. Ai tempi del Benito Mussolini, a farla breve: “Je lo dissi chiaro e tonno che ciavevo fame”. Basterebbe questa battuta di uno dei personaggi che affollano Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, il romanzo più compiuto nell’incompiutezza di quasi tutte le sue opere, per comprendere quanto il cibo sia una componente fondamentale nell’universo umano e letterario straordinariamente vorace di Carlo Emilio Gadda, uno dei massimi scrittori di tutto il Novecento anche per quanto riguarda il coté mangereccio.
Nella letteratura italiana del secolo scorso, d’altro canto, il mangiare, la fame da appetito, non hanno frequente cittadinanza: c’è semmai fame da bisogno ancestrale e c’è la fame contadina nelle storie di Beppe Fenoglio, questo sì. E sicuramente s’avviva il racconto di un pranzo quasi luculliano di campagna, sempre piemontese, ne L’ombra delle colline di Giovanni Arpino. E poco altro, se memoria non tradisce, ma naturalmente si annoveri il Gian Carlo Fusco de L’Italia al dente. Nemmeno risalendo al 1800 si traggono troppe immagini suggestive e all’uopo: restano, tra i frammenti, la cucina del castello di Fratta ne Le confessioni di un italiano di Ippolito Nievo, un risotto nel Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro (“Risotto sì. Risotto ai tartufi; non sente?” si esclama a un certo punto), le abusate citazioni dell’Alessandro Manzoni su capponi e similia ne I promessi sposi, un pranzo di poveri (ma con “frittura di pesci, stufato, torta pasqualina con le uova, pollo arrosto, latte dolce alla spagnuola”) ne La bocca del lupo di Remigio Zena. Meglio comunque il teatro e il cinema, soprattutto la commedia comica degli anni Cinquanta e Sessanta, e il Pier Paolo Pasolini de La ricotta. Meglio fare riferimento a Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, del 1887 però, magari nella versione cinematografica con il principe Totò che sarabanda una danza folle con lo spaghetto, oppure ricordarsi della fame atavica di Capannelle ne I soliti ignoti,
o di certi film con Peppino De Filippo che va al ristorante, mangia come il proverbiale lupo e non paga il conto. E questo in una linea che continua, e s’incorona, con l’Alberto Sordi immortale de Un americano a Roma. In Gadda, invece, il cibo è molto. E non è casuale se, a proposito della “energia vitale” e della “tensione onnivora verso l’esistenza” dello scrittore milanese, uno dei suoi studiosi più autorevoli, il critico Dante Isella, abbia scritto che si potrebbe parlare di “un’ingordigia di Gadda, di cui la specificazione gastronomica, largamente attestata, è soltanto il sintomo: una sorta di somatizzazione, come il vomito di Dedalus in rapporto all’odiosa-amata Dublino”. Ingordigia, certo. Insaziabilità verso il barocco del mondo (“barocco è il mondo”, Gadda dixit ne La cognizione del dolore), i suoi plurilinguismi, da quelli della “marmaglia” a quello “che il cervello suggerisce bizzarramente per le sue nascoste vie”. Fino al cibo, eccessivo, sempre presente, spesso usato come metro di paragone, assonanza, similitudine, metafora, per bassezze o virtù, filosofie e scemenze pseudo-tali (che, a volte, non sono in contraddizione), bruttezze e bellezze della varia umanità, tratti dell’anima e caratteri del corpo, gioie e dolori, amori e disamori.
Della cognizione del mangiare
La cupidigia di parole e di vita che caratterizza la letteratura dell’Ingegnere va di pari o, pertanto, con la brama o con la cognizione del mangiare. E, al pari dei diversi registri linguistici utilizzati – di lingue, dialetti, gerghi, tecnicismi, neologismi e così di questo esplodente pasto verbale –, nei suoi libri si mangia alla milanese e alla romana, alla tosca e alla meridionale, alla mensa dell’esercito e a quella dei poveri, a quelle dei nobili, dei ricchi del generone e del popolo e della plebe, negli anni soprattutto che vanno dalla Grande Guerra alla tirannia del “Predappiofesso” o “Mascellone”, cioè il Duce nell’accezione del Nostro. La fame di Gadda è fame onnicomprensiva: se da un lato è fame letterarioesistenziale, dall’altro si svela, da copione, fame autobiografica nella risicata età scolare, si sa, penosa e penata, e fame della guerra 1915-18. Il Carlo Emilio, prigioniero italiano insieme a Ugo Betti e a Bonaventura Tecchi degli austrotedeschi a Cellelager, dalle parti di Hannover, ne conserva memoria precisa: “ Di quel periodo, ricordo la fame terribile”. Nel marzo del 1944, l’ormai maturo ingegnere, trasferitosi a Firenze, risente i morsi nello stomaco in un’altra guerra, ben più spaventosa della prima. Lo rievoca in uno dei testi de I viaggi la morte: “L’Annona del Comune, a onore del vero, mi largiva un ovo fradicio ogni due mesi, l’unico mezzo di cui il Comune disponeva per farmi rivomitare, con un po’ di succhi verdastri, quel nulla di cui durante due mesi di funzionamento della carta annonaria, mi aveva oppilato lo stomaco. Nella rabbia, nella disperazione, sognavo tartufini: pollo in gelatina sognavo”. Tradotto, tutto ciò, nella rielaborazione gastro-letteraria del sciur Gadda significa un mare magnum, un’orgia, una polifonia nonché dissonanza gastrica, a base di tartufi e galantina, aragosta e vitel tonnato, minestra con le cotiche e con fagioli, vermicelli con le vongole, risotto con gli ossibuchi, abbacchio, capretto, piccioni arrosto, “uccelli scappati”, lepri in salmì, cappone lesso con mostarda, porchetta con il rosmarino, bistecche alla Bismarck, quaglie, anguille marinate e tinche con sedani e carote, calamari fritti e gran fritti di pesce, asparagi al butirro, salsa tartara con i capperi, tortini di carciofi, torta di albicocche e susine, taglio limone-seltz, zabaione, frittella di farina di castagne. E beninteso senza dimenticare, a condimento e a dessert, le “insalatine prime” e i
“bianco-azzurrini finocchi”, i “novelli sedani”, il caciocavallo e il resto della “festa formaggia”, le susine di Provenza e quelle di California, oppure la descrizione del macellaio della Milano di ieri, la Milano delle Cinque Vie, tra echi futuristi e nostalgie alla Delio Tessa, per restare ancorati al Pasticciaccio e a L’Adalgisa.
Pollo in gelatina (per 4 persone)
Per il pollo in gelatina di solito si predilige la coscia, voi invece ete il pollo intero perché una parte la metterete in gelatina e l’altra la farete in insalata.
Ingredienti:
Un pollo ruspante di circa 2,5 / 3 kg due coste di sedano una cipolla bianca due carote tre chiodi di garofano 1 cucchiaio di miele di tarassaco un bicchiere di marsala secco sale q.b quattro fogli grandi di colla di pesce
In una pentola capace (da 5 -10 litri) mettete il pollo pulito e lavato, con le verdure, il miele, il marsala, il sale. Fate cuocere per circa due ore, quindi levatelo dalla pentola. Versate poi il liquido di cottura in una terrina a raffreddare, atelo in un colino fine. Prendete la colla di pesce e mettetela a mollo in acqua fredda. A questo punto potete mettere il liquido di cottura sul fuoco e farlo consumare (il gusto deve essere leggermente aggressivo, tra il dolce, il salato e lo speziato). Aggiungete la colla di pesce, portate a bollore e spegnete il fuoco. Riate il liquido in un colino fine. Lasciate riposare per mezz’ora, il tempo di raffreddarsi. Mettete il liquido nella terrina con le cosce di pollo e poi in frigo, per circa tre ore. Con il resto del pollo, che avrete disossato e tagliato a listarelle, ate al setaccio (oppure con un averdura) le verdure che avete usato per cuocerlo, aggiungendo olio extra-vergine di oliva, qualche cappero di Pantelleria, un cucchiaio di aceto balsamico. Girate tutto ed avrete un’insalata stuzzicante.
Salsa tartara (da 6 a 10 persone)
Ingredienti:
1/2 litro di maionese al limone 4 cetrioli piccoli 20 capperi di Pantelleria due acciughe un cipollotto fresco una carota sbollentata nell’aceto
Tritate molto finemente tutti gli ingredienti sopra elencati ed amalgamateli con la maionese. Questa salsa si accompagna con carni lesse e fredde, ma specialmente con gli scampi fritti.
Per la maionese occorrono: 4 rossi d’uovo 1/2 litro d’olio d’oliva 1 limone molto succoso
sale q.b.
Sbattere con la frusta i rossi d‘uovo in una terrina con il sale. Aggiungere a filo metà dell’olio. Quando raggiungerà una consistenza compatta versate il succo di limone, sempre sbattendo con la frusta e il restante olio.
Asparagi al butirro (o burro) (per 4 persone)
Un consiglio subito: gli asparagi vanno ammollati in acqua tiepida per far perdere loro la sabbia, raccolta dove vengono coltivati.
Ingredienti:
1 mazzo (circa 1,5 kg) di asparagi grossi (possibilmente di Santena) 150 gr di burro di pura panna 1 spicchio d’aglio 1 rametto di rosmarino 1 manciata di parmigiano sale q.b.
Lavate dunque gli asparagi in acqua tiepida diverse volte. Mettete una pentola a bordi alti sul fuoco con trequarti d’acqua, salate e portate in ebollizione. Immergete gli asparagi legati a mazzo, facendoli cuocere 7-8 minuti. Scolateli ed avvolgeteli in uno straccio di tela, così si asciugheranno e si manterranno caldi. Mettete in un pentolino il gaddiano butirro (cioè il burro), lo spicchio d’aglio ed il rosmarino. Fate bollire – non friggere – con un piccolo mestolo, togliendo l’eccedenza di schiuma dal burro (questo si chiama burro chiarificato). Dopodiché adagiate gli asparagi in un piatto fondo, versate il burro
e una manciata di parmigiano.
Tinca in agrodolce (per 4 persone)
Ingredienti:
2 tinche di media grandezza 1 bicchiere di aceto rosso 1 litro di vino bianco secco 1 carota 1 cipolla bionda 1 spicchio d’aglio 1 rametto di salvia olio d’oliva olio di semi per friggere la tinca farina bianca sale fine 2 cucchiai di zucchero
Innanzitutto, per togliere il sapore melmoso e il viscido della tinca, bisogna scottarla in acqua bollente, per poi friggerla e metterla in agrodolce, oppure arrostirla sulla griglia.
Immergete le tinche per 5 minuti in acqua bollente, e asciugatele con uno straccio di tela o con lo scottex. Infarinatele e friggetele in olio di semi abbondante, doratele e mettetele da parte su carta scottex. In una pentola a bordo alto soffriggete in olio d’oliva lo spicchio d’aglio, la cipolla e la carota tagliate alla Julienne, ossia a listarelle. Aggiungete l’aceto e il vino bianco, portate in ebollizione. Aggiungete lo zucchero, la salvia, sale fine q.b. Togliete dal fuoco ed immergete le tinche, lasciandole riposare per 24 ore in luogo fresco.
Calamari (per 4 persone)
Ingredienti:
1 kg di calamari freschi farina bianca olio di semi per friggere sale fine q.b.
Pulite i calamari, spellateli e tagliateli ad anelli. Lavateli poi in acqua corrente. Asciugateli bene, ateli nella farina bianca e friggeteli in olio di semi abbondante. Infine, ateli su carta assorbente o su scottex, e salate.
Tortino di carciofi (per 4 persone)
Ingredienti:
1/2 kg di pasta sfoglia otto carciofi (possibilmente liguri) tre uova intere uno spicchio d’aglio una cipolla rossa una manciata di prezzemolo due noci di burro sale q.b.
Imburrate una tortiera, di quelle che si possono aprire sul fondo. Stendete la pasta sfoglia e depositatela nella tortiera. Pulite e tagliate i carciofi a piccoli spicchi. Nel frattempo, tritate in modo fine lo spicchio d’aglio, la cipolla rossa ed il prezzemolo. In una padella ponete il burro e fate rosolare il tritato a fuoco basso, aggiungendo i carciofi che vanno rosolati anche loro per circa dieci minuti, e metteteli da parte. Sbattete le uova e salate q.b.
Aggiungete i carciofi, versate il composto nella tortiera e cuocete a 180 gradi per 10 minuti. Sfornate e servite subito.
Lepre in salmì (per 6/8 persone)
Ingredienti:
1 lepre di caccia (circa 2 kg) 10 chiodi di garofano 1 cucchiaio di cannella 10 bacche di ginepro 2 cipolle 2 carote 2 coste di sedano 2 spicchi d’aglio 1 cucchiaio di cacao amaro 1 bicchiere d’olio d’oliva 2 litri di Nebbiolo sale e farina q. b. 1/2 bicchiere di brandy
Tagliate la lepre a pezzi (importante che ci sia il suo fegato e una parte del suo
sangue, se è possibile). Prendete una cipolla e picchettatela con i chiodi di garofano (in gergo culinario si chiama mina). Mettete la lepre in un contenitore capace con la cipolla detta mina, tutte le verdure rimanenti tagliatele a pezzi grossolani, le bacche di ginepro, il cacao, il brandy. Coprite il tutto con il vino Nebbiolo, e lasciate in infusione per almeno 24 ore in luogo fresco. Quindi, dividete la lepre dalle verdure e dal vino. In una pentola a bordo alto mettete l’olio e le verdure, e fatele rosolare. Nel frattempo, ate i pezzi di lepre nella farina e fateli rosolare in padella con l’olio d’oliva, salando q,b. Mettete i pezzi di lepre nella pentola insieme alla verdura. Rifate rosolare il tutto. Il vino, con la cipolla, fatelo appena bollire in una pentola a parte. Dopodiché lo verserete nella pentola con la lepre, facendo cuocere a fuoco lento per circa un’ora e mezza. Ultimata la cottura, separerete la salsa dai pezzi di lepre che terrete al caldo. ate la salsa, togliendo la cipolla con un averdura. Rimettete il tutto insieme, salsa e lepre, e scaldate il giusto per mangiarla accompagnata con della polenta fritta.
Uccelletti scappati (per 4 persone)
Ingredienti:
4 stecchi di legno lunghi 20 cubetti di lombo di maiale un rognone di maiale tagliato a cubetti 10 cubetti di fegato di maiale foglie di salvia olio e sale q. b. 2 bicchieri di vino prosecco
Preparateli con la parte di carne grassa del maiale su degli stecchi di legno, intervallati con salvia, rognone e fegato. Poi rosolateli in padella con poco olio e sale, bagnandoli con il vino prosecco.
Del risotto e dell’ossobuco
Sicuramente “si mangia troppo!” in Gadda, come ben constata il dottore de La cognizione del dolore, al cospetto del protagonista, il furente e dolente don Gonzalo Pirobutirro, “la cui cupidigia di cibo, ad esempio, era diventata favola”. Talmente favolosa che all’hidalgo “la malinconia del tramonto non gli vietava di liquidare certe sleppe giù per lo stomaco, di manzo fagiano, che te le raccomando vai, vai! con le cipolline in agrodolce”. E ci si ingozza letteralmente di ogni ben e di ogni mal di Dio (per fegati e affini), come accennato, nei due predetti romanzi, nei disegni milanesi de L’Adalgisa, ne La meccanica, nelle novelle e nei racconti di Accoppiamenti giudiziosi. Lo stesso Gran Lombardo, al secolo e ai posteri il Gadda medesimo, confessava in una lettera ad Alberto Carocci, agli inizi del 1928, la sua ione pantagruelica per la cucina, scontata troppo sovente in digiuni o quasi, come avrebbe dovuto scontarla il suo Gonzalo: “Dio mi ha inaspettatamente ma giustamente punito della mia gola, della mia avidità, della mia rapacità da Vitellio”. Una pena troppo grossa, gaddianamente eccessiva pur considerando le sue ascendenze in ispirito Folengo-Rabelais (che signori dell’eccesso erano), se fa fede un ricordo di Isella dei tempi fiorentini dello scrittore: “La sera, riaccompagnandolo verso casa, Gadda ci confessò di avere per cena un etto di affettato. Pensi un simile omone, di forte appetito…”. Ma intanto nei suoi libri si gozzoviglia, eccome se lo si fa, quando poi non è l’Ingegnere, come ne Le meraviglie d’Italia, a scendere in campo direttamente, ossia in prima gastronomica persona, per dettare le regole auree del vero risotto alla milanese, piatto maestro o genius loci del desinare meneghino. È il risotto classico, d’antan, che esige quanto segue: “La casseruola, tenuta al fuoco pel manico e per una presa di feltro con la sinistra mano, riceva degli spicchi o dei minimi pezzi di cipolla tenera, e un quarto di ramaiolo di brodo…”, di manzo naturalmente. E il burro, è ovvio, che sia “lodigiano di gran classe”, e che il riso sia di qualità, “come il tipo Vialone, dal chicco grosso e relativamente più tozzo del tipo Carolina…”.
Il risotto, però, può accompagnarsi alla perfezione con l’ossobuco, la tradizione del nòs Milàn e dintorni insegna. Nelle sue sorde e pure violentissime rabbie, nelle astratte e concrete disperazioni, nel sogno e nel delirio, davanti a una minestra approntatagli alla svelta dalla mamma, Don Gonzalo, hidalgo in bolletta di una non troppo immaginaria Brianza borghese-fascista stravolta in un paese sudamericano da operetta, il Maradagàl, s’imbizzarrisce in una sequenza dagli umori tanto chapliniani quanto espressionistici. Ecco allora materializzarsi i camerieri dei ristoranti delle stazioni, in fracs neri, che devono dare retta ai clienti borghesoni, immaginabili anche come dipinti da un George Grosz padano, che “ordinavano loro con perfetta serietà ‘un ossobuco con risotto’ ”. Borghesi di Brianza-Maradagàl, questi, che di fronte al “reverente frac” del cameriere, e quindi compiaciuti e illusi da “un attimo di potestà marchionale”, sono dimentichi di scioperi operai e contadini, nonché delle “urla di morte, le barricate, le comuni” del rosso biennio appena inghiottito dal tempo del bastone e della carota.
Riso allo zafferano (per 4 persone)
Ingredienti:
1/2 kg di riso Carnaroli olio d’oliva 1 bustina di zafferano (meglio in pistilli) una manciata di parmigiano una noce di burro 1 litro di brodo di carne magra sul saporito
Tostate il riso con un filo d’olio d’oliva, aggiungete lo zafferano ed il brodo caldo, cuocendo per 20 minuti. A cottura terminata, mantecate con burro e parmigiano avendo l’accortezza di lasciare il riso molto morbido (all’onda). Accompagnatelo con l’ossobuco.
Del rosbiffe ar sangue, ma pure del gorgonzola
Potenza del cibo, già. La stessa per la quale, nel Pasticciaccio, il commendator Angeloni, del Ministero dell’Economia Nazionale, a qualche guaio con il commissario Ciccio Ingravallo (che nel cognome, di sodo molisano, richiama caserecci formaggi capreschi) per la sua predilezione da uomo solo che nutre verso le botteghe dei salumai di lusso, con le vetrine e i banconi “pieni di galantina o di paté”, di “carciofini all’olio, vitel tonnato”, nonché di “un presciuttino sano: un presciuttino de montagna de pochi chili”.
Galantina (per 6 persone)
La galantina può essere confezionata sia con il pollo sia con il vitello, gli ingredienti del ripieno non cambiano.
Ingredienti:
Un pollo di media grandezza disossato oppure una tasca di vitello
due carote una tazza di piselli uno spicchio d’aglio due bocconcini di pane fresco una tazza di latte due uova sode due etti di prosciutto macinato due etti di prosciutto tagliato a dadini due uova intere due etti di polpa di pollo macinata (se la galantina sarà di pollo), oppure due etti di polpa di vitello macinata (se sarà di vitello) sale e pepe q.b.
Tagliate le carote a dadini, mettetele in una terrina aggiungendo i piselli, i bocconcini di pane (precedentemente ammollati nel latte), il prosciutto macinato e quello a dadini, la carne di vitello o di pollo macinata, le uova fresche, sale e pepe q.b. Schiacciate leggermente lo spicchio d’aglio ed aggiungetelo al composto, impastate il tutto con le mani e lasciate riposare per un’ora. Prendete il pollo o la tasca di vitello, salate all’interno, farcite con il composto (togliendo prima lo spicchio d’aglio) e disponete le uova sode una dietro l’altra al centro dell’impasto, facendo attenzione che non si creino delle bolle d’aria. Cucite la tasca o il pollo nel punto in cui avete introdotto l’impasto. Impacchettate il pollo o la tasca di vitello in un foglio di carta da forno, oppure in un canovaccio di tela. Legate stretto a mo’ di salame. In una pentola capace fate bollire in acqua leggermente salata, per circa due ore. Togliete dall’acqua e
adagiate la galantina in una terrina con un coperchio sopra, in modo da schiacciarla per renderla leggermente ovale. Lasciate raffreddare in frigorifero per 24 ore. La galantina di pollo, in estate, è ottima anche in gelatina.
Vitello tonnato (da 6 a 10 persone)
Questa è una delle ricette più vecchie, in cui la salsa non viene condita con la maionese.
Ingredienti:
Una rotonda di vitello (oppure girello) uno spicchio d’aglio un rametto di rosmarino 3 bicchieri di vino bianco secco olio d’oliva e sale q.b. Per la salsa: Quattro acciughe senza lisca e pulite in acqua corrente due cucchiai di capperi di Pantelleria 3 etti di tonno (possibilmente al naturale e non sott’olio) 4 tuorli d’uovo lessati fondo di cottura
In una padella rosolate la rotonda con olio d’oliva, lo spicchio d’aglio e il rametto di rosmarino. Mettetela in una teglia o pirofila da forno, salando quanto basta, e aggiungete il vino bianco e il condimento della rosolatura. Cuocete in forno per tre quarti d’ora a 180 gradi, e lasciate raffreddare. Con la mezzaluna tritate i capperi, l’acciuga, il tonno e i tuorli d’uovo. Mettete il tutto in una terrina, e con una frusta sbattete il composto con quello che vi rimane del fondo di cottura della rotonda. Se la salsa vi sembrasse troppo compatta, aggiungete un po’ di vino bianco. Servite il vitello tonnato tagliato a fette, con a fianco la salsa tonnata. La salsa non fatela mai con il frullino, vi cambierebbe totalmente il sapore.
Paté (per 6 persone)
Di paté ce ne sono ovviamente diverse qualità, per tutti i palati e per tutte le tasche. Questa ricetta è una delle più semplici e meno costose.
Ingredienti:
Fegatini di pollo e di coniglio per un totale di 500 gr. uno scalogno uno spicchio d’aglio un rametto di rosmarino fresco un bicchiere di cognac o brandy olio d’oliva 4 etti di burro fuso quattro fette di lardo di medio spessore sale e pepe q.b una terrina ovale oppure uno stampo da budino rettangolare
Tritate finemente lo scalogno, l’aglio e gli aghi di rosmarino.
In una padella mettete il trito nell’olio d’oliva, e fate rosolare i fegatini. Ultimata la cottura, aggiungete il cognac o il brandy, e fate evaporare, mettendo sale e pepe q.b. ate il tutto al setaccio (se non disponete di un setaccio, va anche bene un frullino per carni). Mettete il composto in una terrina e, con una frusta, mescolate, facendo scendere il burro fuso a filo, ancora caldo. Si presenterà un composto leggermente morbido. Foderate lo stampo con le fette di lardo, versate il paté e fate raffreddare in frigo per due ore. Servitelo tagliato a fette, con crostini caldi e con riccioli di burro. La frenetica ricerca di cibarie e mangiarini, nel corpus narrativo del Gran Lombardo, non risparmia nessuno. A cominciare dai poliziotti che accompagnano Ingravallo nella Roma del 1927, e lo aiutano a trovare chi ha ucciso orrendamente la bella e malinconica Liliana Balducci. Tra un’indagine e l’altra, c’è sempre tempo per fare un salto da “er Maccheronaro, qui a via der Gesù, ce sta apposta. Ce conosce tutti, che semo boni clienti. Er rosbiffe ar sangue è la specialità de Peppì”.
Er rosbiffe (o roastbeef alla romana) (per 6 persone)
Ingredienti:
1,5 kg di sottofiletto di vitellone o manzo 1/2 bicchiere d’olio d’oliva 2 kg di sale marino grosso
Prendete 1,5 kg di sottofiletto di vitellone, o manzo, e rosolatelo in padella con olio d’oliva. Quindi adagiatelo in una pentola a bordi non troppo alti, ricoprendolo totalmente con circa 2 kg di sale grosso marino. Bagnatelo in sale con un mestolo di acqua ed infornatelo a 180 gradi per quasi un’ora. A cottura ultimata, lasciate riposare per 30 minuti. Il sale si romperà con un colpo di forchetta a mo’ di guscio: tagliate le fette dello spessore di un centimetro con un coltello a lama lunga e sottile.
Neanche ne La meccanica, romanzo ambientato a Milano all’epoca della prima guerra mondiale che Gadda compose intorno al 1924-29 e che mai concluse, la formosa e languida cucitrice Zoraide può fare a meno di agognare i giovanotti figli dei signori, dei quali è amorosamente ghiotta, in contrasto e in negazione mangereccia dei ragazzi popolani, operai, brumisti, garzoni, facchini, che nelle osterie divorano “il gorgonzola ghiotto, grasso, piccante, concupiscibile e laudabile per meraviglie verdi del capelvenere suo, biascicato in polta fra morsi avidi e dilaceranti nel pane e sorsate di vino larghe con un gorgoglio tra le carotidi enfie…”. Ah no, la popputa Zoraide rabbrividisce al pensiero, lei che è beltà fatta per i profumi, per i giardini, per gli studenti inamidati di fresco e ben pettinati. Non teme il cibo, s’abboffa e molto il grosso giovincello Claudio in un racconto dal titolo Una buona nutrizione, compreso nel volume Accoppiamenti giudiziosi. Corteggiatore silente della fanciulla Lisa, nel colmo della seconda guerra mondiale voluta dalla “belva Adolfa coniugata al Predappio”, il rubicondo innamorato si rimpinza a casa di lei come si deve e oltre: “Certi medaglioncini di filetto, come vengono denominati nelle liste”.
Medaglioncini di filetto (per 4 persone)
Ingredienti:
4 filetti di fassone (tipico vitello piemontese) tagliati spessi due dita 50 gr di burro di pura panna 2 spicchi d’aglio sale q. b.
Prendete una padella e fate sciogliere il burro. Appena inizia a soffriggere, mettete i filetti e l’aglio, facendoli rosolare 3 minuti per parte. Poi salate e servite con il condimento di cottura.
Dire che “si rifocillava, oh, sì” è dir poco. Tanto che, dopo avere maciullato il filetto “e le patatine secolui”, in bocca gli si scioglierà “il viatico postremo d’uno zabaglione”. Tuttavia Claudio, il taciturno mangiatore, esaurita l’ultima stilla zabaionesca, adducendo l’ora tarda e il fardello degli studi lascia assai presto la villa di Lisa. Ma non per piegare la schiena sui libri, assolutamente no. L’ingrato, il traditore, il maciullatore di medaglioncini a sbafo, si infila in una casa vicina per amoreggiare con la pittrice Violante. Le risciacquature dei suoi panni letterari in varie acque, dalla Milano dell’adolescenza a Firenze, quindi definitivamente a Roma, coincidono non soltanto con l’arricchirsi e con l’ampliarsi delle sue invenzioni stilistiche, ma coinvolgono, chiaramente, anche il suo ricettario eno-gastronomico. Come sempre, che l’Ingegnere ausculti i cuori e i ventri di Milano o della Capitale, la sua ingordigia dell’esistenza lo conduce a catalogare, con un inappuntabile metodo scientifico, con ossessione alla Emile Zola, i piatti dei ricchi e i piatti dei poveri (che sembrano però dominare nel suo magmatico banchetto letterario); dei nuovi ricchi e dei poveri impoveriti, dei Predappiofessi e dei loro tirapiedi; della mala dei Navigli, Porta Cicca e la Vetra, e dei balordi delle crescenti borgate romane. Nella città de La meccanica e de L’Adalgisa, che fu pubblicata nel dicembre del 1943, come nella Brianza de La cognizione, che apparve in rivista tra il ’38 e il ’41, l’avere e non avere, per parafrasare Hemingway ma in senso cibario, si declina in modi contrapposti, è logico: dal gorgonzola proletario detestato dalla Zoraide, che infatti aspira ai borghesi, al “misto panna-cioccolatto per la signora, sissignora!” dei parvenu che fanno uscire fuori di senno l’irascibile don Gonzalo. C’è in ogni caso una sorta di mediazione di classe, se vogliamo, un afflato di umanitarismo in accordo con i tempi dei disegni meneghini. Siamo sul finire dell’Ottocento, qui, agli albori del Novecento, nei venti del positivismo e del socialismo, tra quegli afflati filantropici che a Milano faranno germogliare la Società Umanitaria ampiamente ricordata da Gadda. Nelle storie dell’Adalgisa, lo spirito dell’epoca prende corpo nel gusto delle minestre con fagioli e patate, minestre con le cotiche benignamente concesse ai lucidatori di parquets dalle madame proprietarie delle magioni, da questi laboriosamente e forzosamente (per salario e non per altro, si suppone) visitate: “Viceversa, la umanità pronta e vividamente lombarda di qualche padrona di casa lasciava
mescere loro in cucina, a opera finita, un qualche onesto bicchier di vino: magari accanto a un pane, a un bel piatto di minestra con le cotiche: di cui poi fuoriuscisse l’osso, non integralmente vedovo della su’ ciccia, d’una costola bovina…”.
Minestra di fagioli e patate lesse (per 6 persone)
Ingredienti:
Due porri quattro patate di media grandezza mezzo chilo di fagioli cannellini, ammollati in acqua tiepida per almeno 4 ore due cucchiai di olio d’oliva sale q.b.
Tagliate i porri a rondelle sottili, rosolateli in una pentola da 5 litri con olio d’oliva. Aggiungete i fagioli e le patate intere, cuocete tutto per circa due ore in acqua abbondante. Salate quanto basta. A cottura terminata, infine, schiacciate le patate con una forchetta. Pepate e condite con olio extra-vergine.
Fagioli e cotiche (per 4/6 persone)
Ingredienti:
2 kg di fagioli borlotti di Saluggia (freschi o secchi secondo stagione) 1 kg di cotiche di maiale (rasate) 1 osso di prosciutto crudo cipolla aglio rosmarino lauro sale, pepe olio d’oliva q.b. spago da cucina se avete i fagioli secchi ammollateli per 12 ore in acqua fredda
Preparate un battuto con aglio, rosmarino e lauro, cospargetelo sulle cotiche, macinando del pepe in abbondanza. Arrotolatele a salame e legatele con lo spago. Preparate un battuto con una cipolla aglio e rosmarino. Fate soffriggere con olio d’oliva in una pentola da 5 litri il battuto, dopodiché aggiungete le
cotiche, l’osso di prosciutto e i fagioli. Rosolate ancora per 5 minuti. Aggiungete sale q.b. e coprite con acqua fredda. La cottura deve essere di 5 o 6 ore, a fuoco lento.
Elegia dello spaghetto nonché della Bismarck
Vecchi buoni tempi, fasullamente buoni, lo sa pure l’Ingegnere, che ora li irride e li dissacra, sebbene a volte, da romantico tradito qual è o si sente, li compianga e li rimpianga, che è quanto capita di fare a tutti se non si è proprio uomini vuoti come nelle terre desolate di T. S. Eliot. Sono i tempi in cui una fiorente donna del popolo come l’Adalgisa, in procinto di fare il suo bravo salto di classe (niente di straordinario, per carità, diciamo un ragioniere, un piccoloborghese), è generosa dispensatrice di “sorbetti, di limonate (dette oggi spremute di limone), di petits-fours, di cocomero in ghiaccio”. E i corteggiamenti, nei salotti e pure nei salottini, vanno avanti a base di menta e ratafià: “Rideva allegra, felice, la signorina Adalgisa, mi porgeva la coppa delle caramelle: ‘com’è incantato lei!’, lasciandomi il tempo di prenderne quante volevo, incoraggiandomi anzi nella pesca: ‘quale vuole? ….aspetti, gliela trovo io…e la menta? E il ratafià? Non le piace il ratafià…e questa?…’ (leggeva) ‘…noisette: non le va la noisette?’ ”. Si è detto, a ragione, che tutto in Gadda è fame. Quella materiale, di cibo, estrinsecata in languorini e nei glu-glu di pancia, attanaglia i sottoproletari romani esattamente quanto i borghesucci e i nobilotti milanesi. Il “povero Carlo”, l’innamorato della signorina Adalgisa, ritornava dalle sue eggiate suburbane “con un grande appetito in corpo”. E per distoglierlo talvolta, all’occorrenza, dalle sue ioni per i francobolli e per la mineralogia, che cosa c’era di meglio se non un prosciutto di San Daniele?: “Certo, vero San Daniele. ‘È buonissimo, proprio’ conveniva lui”. E nell’aristocraticissima casa Brocchi, in Accoppiamenti giudiziosi, il conte Agamennone infrange la sua “salutifera chiesa vegetariana”, di cui si è fatto zelante adepto, al comparire di “una qualche bistecca alla Bismarck, o di un cappone lesso di Brugnasco o Molnate ingrassatogli dai sò paisan con quella devozione e con quel buonumore che può di leggieri immaginare chi n’abbia voglia, e reso meno pernicioso, e comunque appressato al regno vegetale, dal variopinto contorno di un due o tre pezzi di ‘mostarda’ di Cremona”. Una bistecca alla moda del cancelliere prussiano che è deroga, con il cappone citato, al “regime broccolesco”: “Il paventato e reverito nome di Bismarck sarebbe venuto a galla, quel giorno, con un uovo in coppa,
dopo nomenclature vegetali ch’erano durate un mese”.
Bistecca alla Bismarck (per 4 persone)
Ingredienti:
4 bistecche di sottofiletto 50 gr di burro di pura panna 4 uova fresche sale q. b.
Cuocete in poco burro scaldato una bistecca di sottofiletto tagliata spessa, doratela da ambo i lati. Nello stesso condimento fate cuocere un uovo all’occhio di bue. Servite la bistecca con l’uovo adagiato sopra.
Bistecca alla Bismarck dietetica (o del poveretto) (per 4 persone)
Ingredienti:
1 kg di broccoli 4 uova fresche 50 gr di burro di pura panna sale q. b.
Prendete dei broccoli sbollentati in acqua, cuoceteli in burro scaldato. Nello stesso condimento mettete un uovo all’occhio di bue, adagiandolo sui broccoli.
Elogio del mercato e della porchetta
La frenesia del cibo, che si declina nella onnicomprensività gaddiana, è pure motivo etnico e geografico, nel senso che sintetizza con il palato le varie regioni d’Italia, le fa assaporare fisicamente, come annusando profumo di basilico in un carruggio si possiede la Liguria. La fame non saziata di un Gonzalo romanizzato, in Accoppiamenti giudiziosi, è anche pretesto per un nostalgico elenco – siamo in tempo di guerra, dopo il 1940 – delle sane virtù del mangiare del borgataro e del popolaccio, ma non soltanto questi, prima dell’era del Mascelluto e dell’Adolfo: “Ebbero parole incoraggianti. Si rifecero al ato prossimo. ‘In tempi boni la troverebbe di tutto. Salame, ricotta…’.’Raveggiòli’ ‘Pecorino’ ‘Fave fresche alla su stagione’ ‘Per pasqua i’capretto, con la su bella coda co’ i’ciuffo’ ‘Di martedì e di giovedì e sabato la ciavéa le braciole’…”. Mentre il sogno spaghettaro della povera gente, quando a Milano suonavano le sirene del mezzodì, è ne L’Adalgisa sia una contrapposizione di classe al desinare dei signori, sia l’evocazione della pastasciutta veramente napoletana: “E la sirena che scodinzola come un furetto a tirar finalmente a casa le signore, i signori. Aragoste e tartufi avevano preso una direzione da romanzo: e anche loro gli aspàragi, i bei spargioni verdi, ammollati, annegati nel butirro…Loro sognavano invece un bel piatto di spaghetti”. E li agognavano “anche non venissero fuora dai magazzini di Gragnano e di San Giovanni a Teduccio, dalle miracolose filiere di zite alla marina di Torre Annunziata, la più esauriente fra tutte le zitelle….”.
Braciole di maiale (per 4 persone)
Ingredienti:
4 braciole di maiale con il suo filetto tagliate spesse 2 cm. 2 spicchi d’aglio un rametto di rosmarino mezzo bicchiere di vino bianco secco sale e pepe q. b. 3 cucchiai di olio d’oliva
Prendete una padella, metteteci l’olio, l’aglio e il rosmarino. Fate soffriggere, aggiungete le braciole e fatele rosolare per circa 7 minuti per parte, salate e pepate. A cottura finita, mettete le braciole nei piatti di portata. Nel frattempo riducete con il vino bianco il sugo rimasto della cottura, e versatelo sulle braciole.
Conserva di pomodoro
Ingredienti:
5 kg di pomodori di Pachino tre spicchi d’aglio due cipolle rosse un cuore di sedano venti foglie di basilico olio d’oliva q.b 2 cucchiai di zucchero
Tagliate i pomodori a metà, mettendoli in un recipiente capace. Frullate il tutto con un frullatore a immersione, andolo poi in un colino (detto cappello cinese): rimarranno i semi e le bucce. Tritate allora finemente aglio e cipolla, sedano e basilico, che metterete a rosolare con olio d’oliva in una pentola. Aggiungete il pomodoro, il sale e lo zucchero e cuocete a fuoco lento per circa due ore. Questa salsa la potete anche conservare per l’inverno, sterilizzandola in vasetti di vetro per una ventina di minuti.
Dovreste riempire circa 5 vasetti da 0,750 kg.
Zuppa di ceci e costine di maiale (o del veridico porco) (per 4/6 persone)
Ingredienti:
1,5 kg di costine di maiale tagliate a tocchetti 1 cipolla bianca gli aghi di due rametti di rosmarino 2 spicchi d’aglio 2 pomodori maturi 0,5 kg di ceci 1/2 verza olio d’oliva e sale q. b.
Prendete una pentola a bordo alto. Metteteci dentro olio d’oliva, il rosmarino, l’aglio e la cipolla tagliati molto fini, che farete rosolare. Dopo aggiungete le costine di maiale e i ceci precedentemente ammollati. Fateli ancora rosolare per 6/7 minuti. Poi coprite d’acqua la verza tagliata a listarelle. Salate quanto basta e fate cuocere per 2 ore.
Sono elegie che sfociano nell’elegia dell’elegia cibaria, di irriverente (ma mica troppo) parafrasi manzoniana, propinata dal Gran Lombardo nella lettera a Carocci datata 1928: “Addio monti di spaghetti sorgenti dall’acque salsose della pommarola che giungeva quasi ‘n coppa e con cui mi imbrodolavo (nei momenti d’oblio) il bavero della giacca e la mia poco rivoluzionaria cravatta! Addio care memorie di spigole, di vongole, di spiedini di maiale, di panforte, e di altri vermiciattoli mangiati nelle più nefande e saporose bettole della suburra, facendo finta di discutere lettere e politicaglia tanto per salvare un po’ le apparenze, ma in realtà con l’occhio al piatto che arriva, fumante, trionfante, eccitante, concupiscente e iridescente di smeraldino prezzemolo. Addio! O, per lo meno, arrivederci”. E arrivederci è se nel Pasticciaccio, ancora una volta, l’ingordigia del Carlo Emilio coniuga la ione del mangiare con il piacere, oppure la necessità, di proseguire nell’enumerazione-catalogazione barocca del barocco mondo: è il mercato, adesso, a farsi meraviglia d’Italia, anzi, de Roma. Mercato pieno, straripante di cibi. Ovvero la “gran fiera magnara” rappresentata in un gran pezzo di bravura dall’Ingegnere, uno dei suoi rossiniani crescendo letterari, nell’ora “delle mozzarelle, dei formaggi, delle vermìfughe cipolle, e dei cardi, sotto la neve pazientemente ibernanti, degli odori, delle insalatine prime, dell’abbacchio”. L’agente inviato da Ingravallo, nel romanzo, per pizzicare un tizio si muove tra “gente che vennevano la porchetta su le bancarelle de piazza, quela mattina, ce n’era na tribù”. E sulle mercanzie, sulle verdure e sugli abbacchi, svetta trionfale: “Da San Giuseppe in poi è la staggione sua, se po dì. Col timo e co li fiocchetti de rosmarino, e l’agli nun ne parlamo, e il contorno o il ripieno de patate co l’erbetta pesta”.
Porchetta al rosmarino
Se avete un forno a legna grande vi conviene invitare tanta gente, perché avrete scelto una porchetta che pesa all’incirca 100 kg. Se invece avete un forno
piccolo di casa, andrà bene una porchetta del peso di 5 kg: quindi, per mangiarla, basteranno i vostri famigliari o pochi amici. In ogni caso, il procedimento è uguale per tutte due; le differenza è dovuta soltanto al fatto che, nel primo caso, si tratterà di una grossa scrofa (cuoce in 8/9 ore), mentre nel secondo di una maialina da latte (cuoce in 3 ore).
Ingredienti per una maialina da latte:
1 maialina da latte 20 spicchi d’aglio gli aghi di 4 rametti di rosmarino 2 ciuffi di finocchietto selvatico 1/2 litro di vino bianco secco spago da cucina sale q. b.
Se siete capaci disossatela, tranne la testa che si lascia intera. A questo punto farcite la porchetta di spicchi d’aglio, rosmarino e semi di finocchietto selvatico, legate il tutto come un salame molto stretto, e mettetela in una teglia. La infornerete bagnando, di tanto in tanto, con vino bianco. Cuocete, come si è detto, per 3 ore.
Capretto
(per 4 persone)
Ingredienti:
Mezzo capretto da latte abbondante rosmarino (solo gli aghi) 2 foglie di lauro 3 spicchi d’aglio 1 carota 1 costa di sedano 1 cipolla bianca 1 bicchiere d’olio d’oliva extravergine 1/2 litro di vino bianco secco sale q. b.
Tagliate il capretto a pezzi di media grandezza. Tritate finemente rosmarino, aglio e cipolla, mettete in una casseruola a bordo alto l’olio e fate rosolare il trito. Aggiungete i pezzi di capretto e fate dorare tutto, aggiungendo la carota e il sedano tagliati a tocchetti Salate q. b. e bagnate con il vino bianco, aggiungendo le foglie di lauro. Lasciate consumare a fuoco lento per un’ora. Servite sul piatto di portata con il suo sugo.
Cipolline in agrodolce (per 6 persone)
Ingredienti:
2 kg di cipolline d’Ivrea 1/2 bicchiere d’olio d’oliva 2 cucchiai di zucchero 1 bicchiere di aceto di vino rosso sale q. b.
Lasciate le cipolline per qualche ora a bagno in acqua tiepida, in modo da non lacrimare troppo quando le pelerete Detto questo, spellate allora 2 kg di cipolline (dette di Ivrea), saltatele in padella con olio d’oliva per 10 minuti, dopodiché aggiungete sale quanto basta, 2 bei cucchiai di zucchero, un bicchiere di aceto di vino rosso. Cuocete fino a quando il sugo accenna a caramellare.
Cammina, osserva, cerca, lo sbirro, il Biondone, “involtato nel turbine degli inviti e degli incitamenti alla compera, e in tutte le conclamazioni di quella festa formaggia, trascorse piano piano davanti le bancarelle abbacchiare, oltreò carote e castagne e attigue montagnole di bianco-azzurrini finocchi, baffosetti, nunzi rotondissimi d’Ariete; ivi insomma tutta la repubblica erbaria, dove alla gara dei costi e delle profferte i novelli sedani già tenevano il campo: e l’odore delle bruciate in sul chiudere pareva, da pochi fornelli superstiti, l’odore stesso de l’inverno fuggitivo”. Nel rutilante odoroso spettacolo, regno della sinestesia e dell’acquolona in bocca, il Biondone s’avventura poi tra “rotoli di trippe lesse l’un sull’altro come tappeti arrotolati, gentili anatomie di capretti spellati, rosso bianche, il codonzolo appuntito, ma terminato nel ciuffetto, a significare in modo veridico la nobiltà: ‘pe quattro lire v’oo do tutto,’ diceva l’abbacchiaro presentandolo a mezz’aria, tutto cioè mezzo: e i bianchi cespi de la lattuga romana, o insalatine ricciolute tutte riccioli verdi, polli vivi coi loro occhi che smicciano da un lato solo e vedono, ognuno, un quarto del mondo, galline vive chiotte chiotte stipate nelle loro gabbie, o nere o belghe o padovane avorio-paglia, peperoni secchi gialloverdi, rossoverdi, che al mirarli solo ti pizzicavano la lingua, ti mettevano in salive la bocca: e poi noci, noci di Sorrento, nocciuole di Vignanello, e castagne a mucchi”. “Addio, addio”: chiude così Gadda, sempre gastro-lirico come nell’addio o arrivederci del ’28, la sua Vucciria capitolina, potente, corporale, muscolosa come pennellata michelangiolesca.
Trippa con verdure al vino bianco (per 6 persone)
La parola trippa suscita anche ricordi d’infanzia. Sono i ricordi di quando, ancora bambini, si andava di nascosto dal trippaio, non lontano da casa, per vederla cuocere e sentirne il profumo.
Ingredienti:
4 kg di trippa mista 4 porri 4 carote 4 cipolle bianche olio d’oliva sale q.b. 3 litri di vino bianco secco
Tagliate porri, carote e cipolle alla Julienne. Soffriggere quindi le verdure e salate quanto basta, aggiungendo la trippa, rosolando ancora per 5 minuti. Versate del vino bianco e cuocete a fuoco lento per 4 ore. Il consiglio è di mangiare la trippa il giorno dopo.
Dei tagli limone-seltz e di analoghe dolcezze
Per i borghesi di Brianza-Maradagàl, descritti al vetriolo ne La cognizione, la cerimonia del dolce si traduce in orgasmo da appagamento di se stessi, in sigillo di potere. Sono “pervase da un sottile brivido, le signore: non appena si sentissero onorare dell’appellativo di signora da simili ossequenti fracs. ‘Un misto panna-cioccolatto per la signora, sissignora!’. Era, dalla nuca ai calcagni, come una staffilata di dolcezza”. E analogamente rabbrividiscono gli uomini: “Oh! spasimo dolce! Procuratoci dal reverente frac: ‘Un taglio limone-seltz per il signore, sissignore! Taglio limone-seltz al signore!’. Il grido meraviglioso, fastosissimo, pieno d’ossequio e d’una toccante premura, più inebriante che melode elisia di Bellini, rimbalzava di garzone in garzone…”. Fino a capovolgersi, ma in dispensa, in un inequivocabile “un taglio limone-seltz per quel belinone d’un 128!”.
Taglio limone–seltz (per 4 persone)
Ingredienti:
1/2 kg di gelato al limone 1 sifone di seltz 4 scorze di limone
Era un dessert che si consumava nei tempi che furono, oggi si consuma sorbetto al limone e vodka. È semplicissimo da fare in casa. Procuratevi intanto un buon gelato al limone (attenzione a non usare un sorbetto, si scioglierebbe subito); il seltz, in commercio, si può trovare in bottiglie da litro (oppure, se avete un sifone, sapete come fare). Mettete il gelato al limone in una coppa di vetro, oppure in un bicchiere da gelato, poi spruzzatelo abbondantemente con il seltz. Guarnire con una scorzetta di limone. Sarà un ottimo digestivo.
Ma in Gadda, si è visto, si orchestra spesso anche il tono elegiaco, lirico, memore di amori giovanili perduti o soltanto vagheggiati. Ne La Madonna dei filosofi, opera che segna il suo esordio ufficiale nella letteratura (uscì nel ’31, per le Edizioni di Solaria), a fungere da proustiana madeleine è una cassata alla siciliana: “Maria pensò che Emilio mai non l’avrebbe accompagnata a prendere nessuna cassata, né spumone”. Perché questo Emilio “era qualcosa del meraviglioso ato: adesso, dopo gli anni atroci, non era che un nome, associato a vani ricordi, e a funebri viole mammole”. Ricordi che riaffiorano a Milano “in una splendente sera di giugno, allorché le luci del crepuscolo, che in Italia sono talora meravigliose ed inimitabili, facevano diventar più rosa le colonne di granito di Baveno, fra ombre violette e globi d’oro; con rondini e tutto”. E ricordi, ancora, che sempre nel primo libro dell’Ingegnere, hanno il sapore delle caramelle comperate, negli anni adolescenti, sul milanese corso Garibaldi, fra il largo La Foppa e il Pontaccio: “Che era accaduto? Uno dei migliori sillogismi del mio repertorio: se una caramella è delizia, tre caramelle sono una delizia tre volte più buona. C’era, bisogna confessarlo, il pericolo di una deglutizione prematura, di uno ‘strangolamento’, come si dice nella terra inumidita dall’irreperibile Sèveso. Appunto per questo, nel crogiolare quei tre saporini, crema caracca, menta glaciale e ratafià, (chissà poi che cos’è questo ratafià), nell’allontanarmi seco loro dal fòndaco della geometria rattoppata, appunto per questo mi davo l’aria più naturale del mondo”. Il florilegio di dolci e dolciumi, dessert e altre mollezze cibarie, prosegue in Gadda sempre piuttosto semplice e domestico, quieto e morbido come un bel cielo di Lombardia, solatio come il “chiaro e meraviglioso paese”. Solare s’impone dunque lo zabaione che il già menzionato signorino Claudio, in Accoppiamenti giudiziosi, attende dalla signorina Lisa e dalla signora Gemma. Era “il viatico postremo d’uno zabaglione, con tanto di zeta”, che “la brava Lena, dalla su’ cucina, si sarebbe accinta a erogare in un batter d’occhio, cioè a frullargli e a cuocergli: e di mano maestra, come aveva”. Se qui lo zabaione è mezzo per trattenere ancora Claudio, che, come si sa, di ben altri e più floridi languori muliebri anelava saziarsi, invece per il ragazzaccio Bruno de L’Adalgisa, narratore di “cose da uomo, del mondo del Cordusio, pieno di lotte, di affari e di tram”, la soffice prelibatezza viene evocata dal buon calore della
cucina in cui si trova. Una cucina “buona e tepida come dalla presenza di un antico genio, che fosse vaporato fuori dagli antichi risotti: dai capponi, dagli spinaci, dai sabaglioni del tempo cuoco. Cuoco di vita”.
Capponi bolliti (per 6 persone)
Ingredienti:
1 cappone 1 cipolla bianca 1 carota 1 gambo di sedano 5 chiodi di garofano 5 litri d’acqua 1/2 litro di Marsala secco 3 cucchiai di miele di Tarassaco sale q.b.
Pulite e fiammeggiate il cappone. Mettetelo in una pentola capace con l’acqua, il Marsala, il miele, le verdure, i chiodi di garofano e il sale, e fate cuocere per un’ora e mezza. Finita la cottura, toglietelo dalla pentola e mettetelo in una pirofila, facendolo asciugare per 15 minuti in forno a 150 gradi.
Flan di spinaci (per 4 persone)
Ingredienti:
1/2 kg di spinaci besciamella 2 uova 2 cucchiai di parmigiano burro sale, pepe q.b.
Lessate gli spinaci per 10 minuti, sgocciolateli e tritateli finemente. Fate una besciamella densa con circa 40 gr di farina burro e latte. Mescolate gli spinaci tritati nella besciamella con il parmigiano, le uova e una noce di burro. Aggiungete sale e pepe q.b. Mettete il composto in uno stampo liscio con il buco imburrato e cosparso con un po’ di pane grattugiato. Cuocete a bagnomaria per circa un’ora.
Zabaglione (per 4 persone)
Ingredienti:
5 rossi d’uovo 5 cucchiai di zucchero 1 bicchiere di Marsala o Moscato
Per fare un buon zabaglione occorrono cinque rossi d’uovo e cinque cucchiai di zucchero sbattuti con forza con la frusta. Aggiungete poi a piacere o un bicchiere di Marsala oppure di Moscato, facendo cuocere a bagnomaria fino a renderlo cremoso.
Quella vita di cui sa poco la solita signorina Lisa, quella del signorino Claudio, che gozzaniamente (ma è un Guido Gozzano da riderci sopra, visto, riveduto e corretto dalla mano di un Giuseppe Novello o da un Sergio Tofano) si crogiola in un mondo infantile e stupidino di vezzeggiativi: “Il te soltanto riusciva a sfuggire alla vezzeggiatura, non poteva raffinarsi in teino: ma lo inseguivano, a cascatelle, cucchiaini e biscottini”. Ed ecco servito il Niagara piccolo-borghese della fanciulla tra un “vestitino rosa” e un “vestitino celeste”, una torta di albicocche e una di susine, che per la nostra cara Lisa divengono, nello scegliere questo o quello, questa o quell’altra, i cardini dell’essere, i valori fondanti e fondenti dell’esistenza.
Torta di susine ed albicocche (per 6 persone)
Ingredienti:
Un kg di susine o albicocche una bustina di lievito vanigliato 4 etti di farina bianca 1,5 etti di zucchero 3 uova intere 1,5 etti di burro fuso un bicchiere di latte
È la classica torta che faceva la nonna. In una terrina sbattete con una frusta i rossi d’uovo, lo zucchero e il lievito: quando tutto sarà bello spumoso aggiungete la farina con un piccolo setaccio, poi il burro fuso ed il latte, lasciando riposare per 20 minuti. Nel frattempo sbattete a neve l’albume delle tre uova, ed incorporatelo lentamente con un cucchiaio di legno nel precedente composto. Imburrate una tortiera a bordo alto leggermente infarinata. Rovesciate metà del composto e aggiungete il 50 per cento delle susine, o delle
albicocche, tagliate a tocchetti. Successivamente aggiungete il restante 50 per cento di susine, o di albicocche, e mettetelo in forno per 40 minuti a 180 gradi. Lasciate raffreddare per un’ora.
Del vino de li Castelli e di svariati beveraggi
Si divora così tanto, nei libri dell’Ingegnere, nella sua “gran fiera magnara”, che ne risulta infine una gran sete. Da morirci, appunto, se non placata a dovere. Come ben sa Gonzalo Pirobutirro che, dopo quel “po’ po’ di lappa lappa”, voleva, “tra i labbri, d’un diaccio calice il labbro sottile e molato, la vitreità destituita di spessore, la purità frigida ed incorporea, netto cristallo”. Per smaltire maccheroni, trippe, abbacchi, porchette col rosmarino e l’aglio, cotolette alla viennese e aragoste in salsa tartara, intanto, sarà bene seguire il commissario Ingravallo che, tra un filosofare e l’altro sul “nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo” delle umane catastrofi, conosce le virtù dei vini bianchi dei Castelli Romani: “A Marino, artro che quel’ambrosia ce sta! a la grotta der sor Pippo ce steva un bianco malvagio: un vigliacchetto de quattr’anni, in certe bottije, che cinque anni prima avrebbero elettrizzato il ministero Facta, se il Facta factorum fosse stato in grado de sospettanne l’esistenza”. Va giù liscio che è un nettare, quel bianco di Marino, e a Ingravallo “faceva l’effetto del caffè, sui suoi nervi molisani: e gli porgeva d’altronde tutta la vena, con tutte le sfumature, d’un vino di classe: le testimonianze e i modulati accertamenti linguaticopalatali-faringo-esofagici d’una introduzione dionisiaca. Con uno o un paro de queli bicchieri in canna, chissà”. Niente a che vedere, però, par di capire, con il “cinque anni bianco extra-secco” del cavalier Gabbioni Empedocle & Figlio, in quel di Albano Laziale, che i coniugi Balducci offrono al commissario nell’apertura del romanzo. Don Ciccio, almeno, ce lo presenta, sorseggiando l’ultimo calice, come vino che induce al desiato oblio: “…da sognarseli perfino in questura, il vino, il bicchiere, il Padre, il Figlio e il Lazio…”. Che dire poi, risalendo alla Brianza-Maradagàl de La cognizione, dei vinelli locali con i quali accompagnare le “aragoste in salsa tartara”, i “merlani in bianco con fiotti di maionese” e i “piccioni arrostiti in casseruola con i rosmarini e le patatine novelle, dolci, ma non troppo”?
Il sospetto che siano essi vini del tutto nostrali, magari bianchi delle terre di Basso Piemonte, Gavi e Cortese, o dei filari del veronese Soave, quando non un rosso di Valtellina o di Oltrepò e persino ticinese e di San Colombano al Lambro, è legittimo e ragionevole. Ma l’Ingegnere ce li racconta quali “bianchi secchi, limpidissimi, da ventidue e fino ventotto centavos, del Nevado o del Cerro Pequeno”, e tali li si tiene. Sconsigliabile, in ogni caso, è il fosco Barletta da quattro soldi che il vecchio Zavattari tracanna nelle pagine de L’incendio di via Keplero: “…andava mescendosi via via per tutto l’assonnato e ciondoloso pomeriggio un mezzo bicchiere via l’altro, ‘on mezz bicerott’ e ‘on alter mezz biceròtt’, e con mano oscillante, la destra, a quando a quando se lo recava sotto ai baffi, il biceròtt; e così non la finiva più di centellinare e di assaporare (lunghi assaporamenti e clamorose stappature del palato), come fosse nettare ambrosio, quel panerone rosso, maturato su a ferragosto dalle cantine della Martesana, che gli lasciava due millimetri di una polta violacea sulla lingua barbugliosa”. Dove “panerone”, spiega Gadda, in milanese “è panna assai densa” e “dicesi, nel gergo de’ bevitori, d’un vino corposo e dimolto tinto, il quale non manchi di deporre sulla lingua de’ buongustai la desiderata fanghiglia: senza che, verrebbe incriminato d’esser vinello, sangue di rana, e così via”. Non ha problemi di questo genere la sventata ma tanto incantevole ragazza Carla dello splendido racconto di guerra italicomondiale, la seconda, intitolato Prima divisione nella notte, del 1950. Sulla sua rombante Aprilia, innamorata cotta di un bel mitragliere della Regia Marina, batte le riviere della Liguria, volando tra “curve e controcurve dell’Aurelia”. Come una Zelda Fitzgerald, però italiana, protetta dal prefetto di Savona e dal federale di Imperia in cambio di qualche regaluccio, Carla sfreccia in automobile da Levante a Ponente “in una disperata corsa lungo l’arco del Golfo”, con la sua “sbronza leggera e a momenti alata”. E che la sbronza ci sia sovente, nessun dubbio: “…bevve dei Pedroni, dei Martini, ma anche molto whisky, molto brandy, molto maraschino e del rum”. Soprattutto del memore rum, certo. Perché “il rum era piaciuto tanto a Vittorio”, al baldo marinaio della Carla, e “che allegrezza, il mattino di Natale, a Lerici!”. E a quell’amore ebbro con la ragazza Carla è probabile che Vittorio, prima di affondare con il suo incrociatore, sarebbe riandato con il pensiero. Prima di morire, insomma, di avvertire che, nella lacerazione del tessuto del mondo, “si lacerava con lui, con ogni suo viscere, dentro, con ogni possibilità di seguitare ad
amare, a conoscere”. In quella lacerazione, allora, è facile che il mitragliere della Regia Marina abbia rivisto e riassaporato le cenette amorose con Carla, che “lo aveva portato nei ristoranti con le tovaglie, con le bottiglie e i bicchieri di cristallo, con le posate vere, d’argento: gli aveva fatto ingollare datteri a Lerici, e diti e mitili a Porto Venere”. Cibi d’amore e amore: sola salvezza in quella gran coglionata – per ricordare un verso arcinoto di Jacques Prévert – che è la guerra.
Zuppa di datteri e cozze (per 4 persone)
L’ideale, per una zuppa di questo genere, è procurarsi datteri e cozze pelose raccolti tra la Palmaria e l’Isola del Tino proprio come nel racconto di Gadda, per poi scottarli in olio d’oliva (possibilmente ligure), aglio e cipolla, aggiungendo i pomodori succosi delle Cinque Terre.
Ingredienti:
1 kg di datteri di mare 1 kg di cozze pelose 1 spicchio d’aglio 1 cipolla bionda 4 pomodori maturi
olio d’oliva q.b. 1 tegame di coccio
Tritate finemente aglio e cipolla, rosolate con olio d’oliva, aggiungendo i datteri e le cozze pelose. Coprite con un coperchio per 10 minuti, aggiungete i pomodori spellati e privati dei loro semi, cuocete ancora per 15 minuti. Servite ben caldo con crostoni di pane.
Del dopopranzo
Al termine della “gran fiera magnara” gaddiana, è umano e giusto che si sia colti da una leggera sonnolenza. Se la sente crescere don Ciccio Ingravallo, all’inizio del romanzo, con i sospiri primaverili nell’aria dell’appena trascorso Carnevale, dopo il pranzo a casa dei Balducci che “fu lieto, nella luce d’un meraviglioso pomeriggio, rimasti al marciapiede i coriandoli e qualche gentile bautta, quacche trombetta, qualche azzurra Cenerentola o nerovellutato diavoletto”. Ingravallo, a dire il vero, non aveva ecceduto nel desinare: “… mangiò e bevve con misura, come al solito: ma di buon appetito e a buon sorso”. Però il sonno era in agguato, complice “forse l’effetto del bianco secco del Gabbioni”. Tutto ciò non impedisce al commissario di esercitare il suo mestiere di segugio e di filosofo. E l’arrivo del nipote della soave Liliana Balducci gli fa sorgere dei sospetti sulla natura vera dei rapporti che intercorrono fra il giovanotto e la zia: “Ingravallo fu colto allora da un’idea strana, come avesse bevuto un veleno, era il bianco secco del Gabbioni: gli venne l’idea che il ‘cugino’ corteggiasse la signora Liliana per…ma sì!…per averne favori di denaro”. Un’idea che, nel prosieguo della storia, si farà sempre più forte, fino a trasformarsi in capo d’accusa per l’omicidio della Balducci. Don Ciccio, in sostanza, pur con il bianco secco e gli sbadigli in corpo, non ha tempo per lasciarsi andare all’ozio digestivo del dopopranzo. E neppure a don Gonzalo Pirobutirro riesce agevole. Anzi: l’hidalgo, in cagione di quel “lappa lappa” che conosciamo, viene colto da accesi furori, “aveva anche la faccia, il sin verguenza, di cercar briga ogni volta al trattore, col dire che quello gli conteggiava simili portate troppo più che una ordinaria somministrazione di puchero”, che è il lesso con verdure orgoglio nazionale e tradizionale del Maradagàl. E “il trattore, benché avesse a mano il grembiule e non il coltello, – (se ne detergeva usualmente, con quel zinale color sciacquatura dei piatti, il sudato del collo, torno torno tutta la grascia), – lo mandò un bel giorno a farsi friggere, esortandolo cercar altrove il mangiare, dove potesse intasarsi meglio, e per nulla”.
Il puchero (per 6 persone)
Si dice sia una vecchia ricetta che si cucinava quando veniva ucciso il bove, da novembre a gennaio. E faceva da piatto unico.
Ingredienti:
2 kg di punta di petto di bove un cavolo verza 5 carote 5 patate una pannocchia di granoturco verde, ossia non matura o secca una pentola da 10 litri sale q.b.
Tagliate la carne a pezzi grossi, riempite la pentola d’acqua e aggiungete la carne, mettendola sul fuoco. La carne va bollita per 3 o 4 ore. A questo punto, aggiungete il cavolo, le patate e le carote tagliate a tocchetti, salando q.b.
Quando la verdura vi sembrerà quasi cotta e la carne al tocco della forchetta tenderà a disfarsi, aggiungete la pannocchia di granoturco e lasciate cuocere per una mezz’ora ancora. Lasciate riposare il tutto per venti minuti prima di mangiarlo.
Gonzalo, invece di uscir fuori di sé, a quel punto si faceva “mignolo mignolo” dalla vergogna “rimpetto a tutti i rimanenti attavolati che pasturellavano e brucavano con tanto decorosa benignità, e taluno glugolando alcun gotto; indiché non appena gli venne meglio sgattaiolò per la porticina di strada: poiché ben vedeva pure lui, per quanto hidalgo fosse, che da nessun altro porcile in tutta la terra avrebbe potuto pascere tozzi d’aragoste con cucchiaiate di maionese a quel modo, e a così basso mercato”. Però la gargantuesca “stagione di crostacei e di rosmarini, inaffiatissima” finirà per apportare a don Gonzalo “un lungo e costosissimo male”. E fu questo, ci dice l’Ingegnere, “a vietargli, una volta per tutte, che seguitasse addoppiar lo stomaco di patatine disfatte impoltonate nei vini del Pequeno: ché lo astrinse a digiuni sempiterni, e lo ridusse incipriare la mucosa del gastrico di caolino a polvere, o magistero di bismuto (sottonitrato di bismuto), come volesse”. Non solo. Per l’ingolfato (di bismuto) Gonzalo, sarà ancora più rabbioso e penoso (per il suo stomaco) assistere al riposo postprandiale dei borghesoni e dei borghesotti di Brianza-Maradagàl, che al ristorante, compiaciuti dopo il taglio al limone-seltz, aspiravano di gran gusto la sigaretta: “…fumo d’eccezione, di Xanthia, o di Turmac; in una voluttà da sibariti in trentaduesimo, che avrebbe fatto pena a un turco stitico”. E “così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice, emanando voluttuosi ghirigori; mescolati di miasmi, questo si sa, dei bronchi e dei polmoni felici, mentre che lo stomaco era tutto messo in giulebbe, e andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer canto e trionfo, e presagio lontano di tamburo, la marcia trionfale dell’Aida o il toreador della Carmen”. La nota quanto famigerata (per chi la provò su se stesso) legge del contrapo magnatorio, dunque. La punizione ovvia per il macerato Gonzalo, la cui “cupidigia di cibo” esecravano “unanimi, i poveri, i denutriti, i mendichi, quel vizio della gola, che è così turpe in un uomo, e quel barbaro costume, poi, dopo aver mangiato, di berci anche sopra del Nevado, per giunta, o del Cerro; quasiché fosse, il vorace, a banchetto con le ombre de’ suoi Vichinghi”. È la pena prevedibile, questa a base di caolino a polvere, per chi, avendo colto la baroccaggine del mondo, ne aveva traslato il succo persino nei saporiti prodotti della natura: “…i fagioli, le zucche, i cocòmeri oblunghi sono altrettante
scorribande, verso il barocco, della entelechia delle zucche e dei cocòmeri quali natura tuttavia li elàbora”. Ed è il patimento gastrico per colui il quale, come accade ne La cognizione, orgasma la descrizione di un formaggio del Maradagàl, il “croconsuelo”, che assomiglia parecchio a un fratello caseario se: “È una specie di Rochefort del Maradagàl, ma un po’ meno stagionato: grasso, piccante, fetente al punto da far vomitare un azteco, con ricche muffe d’un verde cupo nella ignominia delle crepe, saporitissimo da spalmare con il coltello sulla lingua-ninfea e biasciarlo poi per dei quarti d’ora in una polta immonda bevendoci dentro vin rosso, in restauro della parlantina adibita ai commerci e recupero saliva”.
Ma un bel mangiare, alla fine della fiera…
Insomma: la “gran fiera magnara” del Gran Lombardo (o piuttosto del Gran Italiano, che federalisticamente, ma con la nobiltà del Carlo Cattaneo, inghiotte e trasforma lingue, umori, tipi umani, cibi, del Bel Paese?) coincide con la sua gran fiera espressiva, lo si è visto. Tanto che uno studioso illustre come Gianfranco Contini, parlando della sua scrittura, non può fare a meno di utilizzare sostantivi e aggettivi di derivazione alimentare: “analisi degli ingredienti che intridono questa pasta”, “grandiose manipolazioni che originano gli impasti più elaborati”, “il reale si offre come riccamente, voracemente appetibile”, “sapientissima vivanda per una numerata cerchia di apionati colleghi”. E via di questo o saporito. Ma in Carlo Emilio è presente, come è risaputo, anche una irrisolta e non risolvibile anima romantica, da egli stesso ammessa e difesa. Romantica e popolare, nel senso di quel sano popolo milanese dei tempi dell’Adalgisa. Così non c’è da stupirsi se il finale de La cognizione del dolore, versione 1963, sfogate le furie gonzalesche, sfoci in un malinconico pianissimo, lirico e vociano (Contini chiama in causa le poesie di Clemente Rebora). È la poesia Autunno che conclude il romanzo, quelle “Tàcite imagini della tristezza/ Dal plàtano al prato!”, quel “feudo intero” che “fruttìfica una susina/ Bisestile, alla collina/ Dolce e brulla”. Pure in questo caso non si può prescindere dal mangiare. Ma questo bel mangiare, alla fine della fiera, è quello non ricco e raffinato eppure delicato, dolce, al ricordo, di una scampagnata di popolo alla domenica. Domenica con scampanio di campane in lontananza e parco comunale, oppure boschetto di collina o di piana lungo il fiume. Domenica appagata, tra le carezze degli amanti, con la festa modesta ma sicura di qualche ovo sodo, qualche sardina, il tumido lascivo gorgonzola nelle pagnotte. Questa domenica: “Lieta di pòvere
Gioie e vivande La domenicata popolare Gusci d’ovo, carte gorgonzoloidi spande, Ha bell’e imbrattato – il demanio feudale! Il pensoso elettrotecnico assale Audace la scatola di sardine - anteguerra, La saldatura torno torno Arrìcciola – e il forziere disserra Vivo di mattutini Polsi: e il pane addenta – o dimezza Con la ragazza, che lo bacia e carezza Fra la bicicletta e gli spini”.
“Tàcite imagini”, appunto. “E rimota dolcezza/ In ogni novo cuore, per chiari mattini”. Mattini in cui forse, dalle ville degli sciuri, gli innamorati, placati da ovi sodi e sardine, sentivano refolare un residuo di profumo di risotto. Era il risotto che cuoceva nella “vecchia e pesante casseruola di cui da un certo momento in poi non si sono più avute notizie: prezioso arredo della vecchia, della vasta cucina”. Quella casseruola che ben s’addice a chiudere, liricamente tinta di pastello, la fiera mangereccia dell’Ingegnere. Casseruola dai “lucidi rami” che, più d’una volta, figuravano “sull’ammattonato, a captare e a rimandare un raggio del sole che, digerito dagli umani il pranzo, concocto prandio, decede”.
Decede quindi il desinare degli umani, del volgo e dei portafogliosi e superbi, dei magri dei pasciuti. Come dire addio risotti fumanti, sorgenti dai piatti. E addio rosette e michette con l’ovo ‘n coppa e il gorgonzola nel core, addio sardine e vermicelli, capponi e aragoste. Addio. O gaddianamente arrivederci alla prossima fiera magnara, sia essa prosciuttosa o di magra minestra. In tutto, e per tutto, come la vita.
Indice delle ricette
Pollo in gelatina
Salsa tartara
Asparagi al butirro (o burro)
Tinca in agrodolce
Calamari
Tortino di carciofi
Lepre in salmì
Uccelletti scappati
Riso allo zafferano
Galantina
Vitello tonnato
Paté
Er rosbiffe
Medaglioncini di filetto
Minestra di fagioli e patate lesse
Fagioli e cotiche
Bistecca alla Bismarck
Bistecca alla Bismarck dietetica (o del poveretto)
Braciole di maiale
Conserva di pomodoro
Zuppa di ceci e costine di maiale (o del veridico porco)
Porchetta al rosmarino
Capretto
Cipolline in agrodolce
Trippa con verdure al vino bianco
Taglio limone–seltz
Capponi bolliti
Flan di spinaci
Zabaglione
Torta di susine ed albicocche
Zuppa di datteri e cozze
Il puchero
Bibliografia
Le citazioni dalle opere di Carlo Emilio Gadda (1893-1973) sono tratte dai seguenti libri, enumerati nelle edizioni qui utilizzate:
La Madonna dei filosofi, Garzanti, Milano, 2002 Le meraviglie d’Italia, Einaudi, Torino, 1964 L’Adalgisa, Garzanti, Milano, 2001 Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, Milano, 1973 Accoppiamenti giudiziosi, Garzanti, Milano, 2001 La cognizione del dolore, Einaudi, Torino, 1963 La meccanica, Garzanti, Milano, 1974 I viaggi la morte, Garzanti, Milano, 2001 Il tempo e le opere, Adelphi, Milano, 1982 “Per favore, mi lasci nell’ombra”. Interviste 1950-1972, Adelphi, Milano, 1993
Altre citazioni e suggestioni provengono da questi testi: Aldo Buzzi, L’uovo alla kok, Adelphi, Milano, 2002 Lombardi antichi e moderni, di Paolo Mauri, intervista a Dante Isella, in la Repubblica, 9 novembre 2002
In questa collana sono già apparsi:
Elisabetta Chicco Vitzizzai, La cucina golosa di Madame Bovary Daniela Messi - Roberta Anau, La cucina della Bibbia Anna Rita Zara - Maurizio Tiani, La cucina dei Califfi Roberto Carretta, La cucina delle fiabe Loredana Limone, La cucina del Paese di Cuccagna Allegra Alacevich, A pranzo con Babette Barbara Buganza, In cucina con Banana Yoshimoto