Elvio Porta
Il castello di tufo
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Indice dei contenuti
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII
XIX XX XXI EPILOGO
Elvio Porta
IL CASTELLO DI TUFO
Il primo libro di Colonnese e Sciacchitano dei Servizi Segreti Italiani
Tutti i diritti riservati – Febbraio 2016
“Si riparano bambole anche rotte.”
I
'Yar'uwa (Sorella) A'isha Ikenda, dell'ordine delle Suore Domenicane di Lagos, lavorava all'ambulatorio medico gratuito del convento dei Frati Cappuccini di Ibadan, nello stato nigeriano di Oyo, quando i Nanger le fecero pervenire una esplicita minaccia di morte rappresentata dalla testa troncata di una omonima gazzella “Nanger” chiusa in una scatola di cartone legata con lo spago. A'isha aveva dato rifugio ad un amico d'infanzia più giovane di lei, tale Manasseh Mwuaganga, che aveva lavorato come corriere appunto per i Nanger, ramo nigeriano di una organizzazione internazionale specializzata nel traffico di stupefacenti. Manasseh le raccontò di essere stato obbligato ad ingerire quasi trenta ovuli di droga e ad unirsi ad un gruppo di quei disperati che dalla Libia attraversano il Mediterraneo diretti in Europa su quei pericolosi ed affollatissimi barconi. Durante il viaggio aveva rischiato due volte di finire fuoribordo per il mare agitato, ed a Lampedusa aveva anche temuto di non potersi liberare in tempo del suo pericoloso carico quando la polizia italiana lo avevano bloccato in un cosiddetto “Centro di Accoglienza”. Ma dei corrispondenti della stessa organizzazione criminale lo fecero evadere e, dopo avergli fatto “consegnare” il suo fardello, lo trasferirono a Napoli e di là, sotto falso nome, lo rispedirono a Lagos. Ma poiché Manasseh non volle più ripetere quella terrorizzante esperienza, i Nanger lo condannarono a morte bruciandogli la casa. Manasseh si salvò per miracolo, ma i criminali continuarono a dargli la caccia. Con l'aiuto del Vescovo Van Claet, A'isha riuscì a fargli raggiungere il Ghana. Ma i Nanger, convinti che lei ancora nascondesse il fuggitivo, le inviarono il “pacco regalo” di cui sopra. Ed anche lei fu costretta ad espatriare. Ma prima di farlo comunicò al Vescovo che Manasseh le aveva dato i nomi di parecchi esponenti non solo del ramo nigeriano dell'organizzazione di trafficanti, ma anche di quello Napoletano. E che, una volta al sicuro, avrebbe fornito, ma solo ed esclusivamente alle autorità Vaticane, tutta la collaborazione necessaria a portare all'arresto di quei criminali. Van Claet riuscì a farle raggiungere sana e salva il Sudafrica, e subito dopo comunicò alla Santa Sede le intenzioni della
suora. Il Vaticano ò la notizia alle autorità italiane, e queste provvidero a mettere in moto i loro servizi d'intelligence. Sorella A'isha Ikenda partì la sera del 21 Maggio del 2014 da Johannesburg, arrivò all'alba a Monaco di Baviera e ò tutta la giornata in attesa del volo per l'Italia al Bayerischer Hof, nella graziosa stanza che le era stata prenotata ufficialmente dal Segretariato di Stato Vaticano, in realtà dell' “Agenzia Informazioni e Sicurezza Esterna” italiana.
A Guglielmo Colonnese, quarantun anni, sposato e padre di tre figli, Commissario di Polizia distaccato all' “AISE”, fu ordinato di andare a prendere Sorella A'isha Ikenda in Germania e scortarla in Italia spacciandosi per tal Mons. Sebastiano Manzù, esponente del Segretariato di Stato Vaticano, come aveva richiesto la suora. Va detto che il Commissario Colonnese non amava vestirsi da prete. Anche se trovava molto elegante il “clergyman”, la sua profonda educazione cattolica gli dava la sensazione di commettere un sacrilegio, anche se per ottimi fini. Ma fu costretto ad obbedire perché era l'unico che conoscesse la lingua “hausa”, che pareva fosse l'unico idioma parlato dalla religiosa nigeriana. Così nel primo pomeriggio del 22 Maggio un elegantissimo anche se un po' turbato Mons. Manzù, con regolare aporto dello Stato della Città del Vaticano, fu accompagnato da due rispettosi funzionari dell'aeroporto di Fiumicino attraverso il aggio riservato al cerimoniale e s'imbarcò sul volo della Lufthansa diretto a Monaco.
L'appuntamento era all'aeroporto Strauss alle otto di sera al gate del volo per Napoli dove per precauzione avrebbero atterrato per poi proseguire fino a Roma con un'auto predisposta per Colonnese dal Dr Miletti, suo amico d'infanzia e Capo Divisione dell'AISI (Agenzia Informazioni e Sicurezza Interna) nella città Partenopea. Cosa sarebbe accaduto dopo, e se i suoi colleghi di Roma avrebbero continuato a far credere ad A'isha di avere a che fare col Vaticano, Guglielmo non lo sapeva. E tutto sommato neanche gli interessava. Non pensava ad altro che a tornare presto a casa. Il giorno successivo sarebbe stato il compleanno di Giorgetto, suo terzo figlio di cinque anni. E lui non vedeva l'ora di consegnargli
la fiammante bicicletta rossa che aveva acquistato per lui già da una settimana. Mentre attendeva si mise a giocherellare col suo accendino d'oro, un vecchio Dunhill con su incisa una affettuosa dedica di sua moglie Elvira. Guglielmo Colonnese non fumava, ma per lui ormai era diventata un'abitudine portare sempre in tasca quell'accendino quasi fosse un talismano. Non gli fu difficile identificare 'Yar'uwa A'isha Ikenda dal momento che era l'unica donna di colore vestita da suora nel gruppo di eggeri che affollava il gate. Lo colpì la notevole statura della religiosa. “Avrà i tacchi a spillo.” Ma poi si vergognò di averlo pensato. Quando mai le suore portano i tacchi a spillo? Per cui le si avvicinò e sorrise un po' imbarazzato: “'Yar'uwa A'isha Ikenda?” (Sorella A'isha Ikenda?) Lei ricambiò con un sorriso sincero: “Baba Manzù?” (Padre Manzù?) “I. Kina jin turancin? (Si. Parli inglese?) “Dan kadan.” (Soltanto un poco). Ma si capiva dal tono esitante della sua risposta che forse non lo parlava affatto. Per fortuna in quel momento chiamarono l'imbarco e furono troppo occupati a sistemarsi a bordo per mettersi a fare conversazione. Poi, appena decollati fu servita la cena, e tutti e due dovettero combattere coi filetti di quegli strani pesci coperti di salsette indefinibili che a volte possono capitare in sorte in aereo. Subito dopo il pasto la suora appoggiò la testa allo schienale, chiuse gli occhi e si addormentò. Guglielmo fu contento di non doversi sforzare ancora a parlare quella lingua così lontana dalla sua, e si dedicò a pregustare col pensiero la piccola festa che sua moglie Elvira aveva organizzato per il compleanno di Giorgetto.
Per tutta la durata del volo A'isha continuò a dormire cambiando spesso
posizione, vittima di chissà quali sogni inquieti forse dovuti proprio alla tensione di quella sua fuga. Guglielmo la osservò. Aveva l'aria di un'antica guerriera. Dal naso stretto si capiva che forse la sua famiglia doveva avere origini etiopi, o somale, magari. Chissà che razza di storia ha. Chissà come ha deciso di farsi suora. Sempre che l'abbia deciso lei. E preso da questi pensieri si mise a sonnecchiare anche lui lasciandosi cullare dal leggero ondeggiare dell'aereo. Ma quando il velivolo iniziò la discesa verso Napoli e sobbalzò nell'attraversare le nuvole lei si svegliò: “Me yake furuwa? (Cosa succede) Guglielmo si accorse che A'isha sembrava respirare a fatica, ed aveva anche un leggero sudorino sulla fronte: “Kina lafi ya?” (Non stai bene?) “Mugu ciki.” (Mal di pancia.)
Nell'aerostazione, ati i controlli di polizia, la suora cominciò a guardarsi intorno mormorando: “Yaji kifi.” (Pesce cattivo) Guglielmo le indicò l'ingresso delle toilette. Lei ringraziò con un cenno del capo e sparì rapida oltre la porta. “Poveraccia” pensò lui e si sedette ad aspettarla su uno dei sedili allineati sotto il grande orologio digitale che segnava le 23,31.
II
“Cardiomiopatia dilatativa”. Quando le comunicarono la diagnosi che giustificava le gravi difficoltà respiratorie di suo figlio Mariolino, lei neanche capì di che si trattava. Ma poi glielo spiegarono. E le dissero anche quanto sarebbero costate tutte le cure e gli interventi necessari. E lei non mangiò per quattro giorni. Carmela Pagano era di corporatura esile. Per cui quel digiuno fece presto a darle la sensazione di non farcela più neanche ad alzarsi dal letto. Ma la mattina del quinto giorno, mentre tentava di mettersi in piedi per affrontare un'altra giornata di difficoltà senza averne la forza necessaria, le cadde l'occhio su un'immaginetta di Sant'Alfonso Maria De' Liguori che forse il vento aveva fatto cadere dalla mensola in alto ed ora la fissava dal comodino, appoggiata alla piccola sveglia digitale. Ed in quel momento le accadde un fatto sorprendente. Carmela sentì che il suo corpo cresceva, si espandeva fino a raggiungere le dimensioni di quello di un plantigrado. Di un'orsa, per la precisione. Un'orsa pronta ad usare tutta la sua forza in difesa del suo cucciolo. E da quel momento la sua vita cambiò. Quando uscì continuò a verificare in ogni specchio, in ogni vetrina che incontrava la stranezza del suo nuovo stato. Il suo corpo minuto sembrava essere rimasto inspiegabilmente lo stesso, anche se lei sapeva di essere alta quasi tre metri e di pesare almeno due quintali. Se non tre. Certo quelle sue immagini riflesse che si ostinavano a negare la verità le fecero nascere dei dubbi. Ma furono dubbi che durarono poco. Quella stessa mattina il direttore della banca dove Carmela aveva il suo conto perennemente a rosso, forse intuendo la sua intenzione di chiedere un ulteriore prestito, le fece dire dalla sua segretaria di non essere in sede. Ma Carmela riconobbe l'amata e rilucente “Golf” blu dello stesso direttore regolarmente parcheggiata davanti all'agenzia. E, sotto gli occhi della guardia giurata che
presidiava l'ingresso, sfogò la sua rabbia colpendola con un calcio. Ed accadde un altro evento inspiegabile. L'auto del Direttore non solo sobbalzò sotto il colpo, ma continuò a muoversi. E, sfuggendo a Carmela che le correva dietro cercando inutilmente di fermarla, acquistò velocità lungo la discesa detta “del Redentore” ed andò a schiantarsi contro l'antico cancello antistante l'omonima chiesa, svellendolo del tutto dai cardini. E, proprio mentre Carmela stava finalmente per raggiungerla, la Golf esplose fragorosamente distruggendo i vetri delle auto vicine e danneggiando la piccola vetrata policroma a destra del portone della chiesa stessa. Carmela, sapendo di essere stata lei la causa di quel disastro, decise di far perdere le sue tracce rifugiandosi proprio all'interno della chiesa. E mentre un nugolo di Suore Domenicane del convento annesso, incuriosite dallo scoppio corsero fuori attraversando la navata principale come uno sciame di farfalle bianche, lei si nascose nella penombra della piccola cappella laterale. C’era il piedistallo marmoreo di una statua che brillava per la sua assenza. Vi si leggeva “D. Alfonso De Liguori, Rettore massimo della Congregazione del Santo Redentore” Carmela sobbalzò. E sobbalzò anche Don Carlo Sinibaldi, il Parroco della chiesa che le chiese sorridendo bonario: “Che c'è, figlia mia?” Lei indicò il piedistallo: “E' Sant'Alfonso Maria de' Liguori?” Il prete che lottava da anni per ottenere i fondi per il completamento del restauro di quella statua, replicò con autoironia: “Eh. E' uscito un momento per fare un miracolo. Ma se aspetti cinque minuti lo vedi tornare.” E si allontanò diretto anche lui all'esterno.. Carmela rimase molto colpita dalle sue parole. Ovviamente non credette alla lettera a quello che Don Carlo le aveva detto, ma si convinse ancor di più che la sua improvvisa possanza, capace addirittura di spostare un'auto con un calcio,
poteva spie-garsi soltanto come effetto di qualcosa di trascendente, magari legata proprio a quel Sant'Alfonso Maria de' Liguori che era già due volte che si manifestava quella mattina. La ragione per cui non confidò al parroco quanto le stava accadendo è da far risalire alla sua infanzia. Ed in particolare ai racconti di Donna Virginia Catapane che quando Carmela era bambina veniva ogni mattina a pettinare sua nonna Ersilia. Secondo Donna Virginia i fatti miracolosi positivi se vengono divulgati spariscono così come si sono manifestati. Donna Virginia in verità si riferiva a prodigi operati dal leggendario “Munaciello” o dalla “Bella Mbriana”, fantasmi dispettosi o benefici che abitavano le antiche case di Napoli. Ma Carmela li collegò immediatamente a Sant'Alfonso che forse le aveva dato quella forza straordinaria per aiutarla ad affrontare i suoi problemi. Fatto di cui si convinse definitivamente quando quello stesso pomeriggio il direttore della banca, il Dr. Luigi Starrabba, si presentò personalmente a casa sua. In verità non si può fare una colpa alla nostra Carmela se vide anche in quello che avvenne una ulteriore manifestazione del generoso Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Di certo lei non poteva sapere che lo Starrabba, pur dopo averne tratto lauti vantaggi, aveva cercato di interrompere da pochi giorni i suoi rapporti (e quelli della sua agenzia) con una organizzazione criminale dedita al traffico di stupefacenti, la famiglia Fellusso, che settimanalmente gli faceva trovare una valigetta piena di denaro da riciclare proprio dietro il piedistallo orfano della effigie di Sant'Alfonso Maria de' Liguori nella vicina chiesa del Redentore. Ovviamente i malviventi avevano scelto quel luogo perché poco frequentato dopo il trasferimento della statua al suo annoso restauro. Ma questo è sufficiente a spiegare l'equivoco nel quale caddero sia Carmela Pagano sia il Dr. Starrabba durante quel loro colloquio pomeridiano. Quando Carmela aprì la porta del suo modesto appartamento e si vide davanti il Direttore della banca, la sua prima sensazione fu di paura. Paura del fatto che Starrabba, informato dalla guardia giurata, fosse venuto a pretendere da lei il rimborso dei danni subiti dalla sua macchina. Paura di minacce, di denunce, di altri guai. Ma poi chissà, forse quella stessa sensazione di potenza che si sentiva addosso le dettero la forza di chiedersi: E che cosa mi può fare? Mi minaccia fisicamente?
Un altro calcio e fa la fine della sua auto. Civilmente? E che mi può portare via in tribunale, il debito che già ho con la sua banca? Penalmente. Forse quello si. Ma la polizia crederà mai che un fuscello come me abbia potuto spostare un'auto con un calcio? Comunque stiamo a vedere. E lo fece entrare senza parlare. In realtà anche il Dr. Starrabba in quel momento aveva le sue paure. Quella che l’esplosione della sua auto avrebbe potuto portare la polizia a scoprire i suoi ati legami con quei delin-quenti, e quella che Carmela fosse venuta a sapere qualcosa pro-prio di quei suoi traffici. E si, perché se lei da una parte gli aveva salvato la vita facendo spostare la sua Golf che era esplosa senza ucciderlo, dall’altra doveva sapere che qualcuno ci aveva na-scosto dentro una bomba. E magari anche il perché. Così cercò con attenzione le parole per aprire il colloquio: “Stamattina... io lo so quello che è successo.” Ed attese. “Anch'io.” Replicò Carmela e attese anche lei. “E' tosta.” Pensò Starrabba e cominciò a sudare: “E visto che lo sa, secondo lei di chi è la colpa di quello che è accaduto?” Carmela provò a tergiversare: “Colpa? Semmai merito. Lei si è accorto che stamattina qualcuno le ha salvato la vita?” Naturalmente lei si riferiva al Santo, ma Starrabba non lo poteva immaginare. Così pensò: “Allora lo sapeva che c'era la bomba?... O no?” Decise di chiarire la cosa: “E... questa persona che mi ha salvato la vita come ha fatto a sapere che sarebbe successo... quello che è successo?” “Quello sa tutto quello che deve sapere. E nella sua gene-rosità ha voluto aiutarla anche se poco prima lei si era fatto negare proprio ad una persona che aveva bisogno del suo aiuto.” “Ma nossignore, quello è stato solo un equivoco!” Protestò lui senza accorgersi di cadere così in un equivoco ancora più grande. Per cui aggiunse:
“Signora Pagano, mettiamo le carte in tavola. Chi devo ringraziare per quello che è successo?” Carmela lo guardò a lungo, e decise di dirgli la verità: “Sant'Alfonso Maria de' Liguori.” “Cazzo, lo sa!” Pensò lui, e sebbene si sentisse morire, prese il toro per le corna: “E lei ha intenzione di rendere pubblica tutta questa storia? Magari di parlarne in giro, o alla...” Ed avrebbe concluso con la parola “Polizia”, ma Carmela lo interruppe prima sentenziando, memore della famosa Donna Virginia: “Certe cose se non si tengono accuratamente nascoste puntualmente finiscono male.” Starrabba dentro di se tirò un respiro di sollievo, anche se era chiara la minaccia di un ricatto: “Senta... me lo dica chiaramente: quanto vuole?” Lei lo guardò senza capire e lui insistette: “Diecimila le bastano?” E pose davanti a lei la busta rigonfia che aveva preparato per la bisogna. Carmela la aprì e vide la mazzetta di banconote da 50 euro: “E come ha fatto a saperlo? Io stamattina non sono riuscita neanche a dirglielo...” “Me lo sono immaginato.” E si mosse per uscire. Ma lei lo fermò di nuovo: “Aspetti. E gli interessi?...” Ovviamente Carmela voleva conoscere l'entità degli interessi sul prestito appena avuto, ma lui rimase prigioniero del suo equivoco: “Pure gli interessi vuole?... Va bene, glieli farò avere.” Poi le si avvicinò e le prese le mani, aggiungendo implorante: “Però in nome dei miei figli... Non ne parli con nessuno!”
“E con chi ne dovrei parlare?...” Replicò lei, ma Starrabba era già uscito. Carmela andò in camera col denaro in mano, prese il santino di Sant'Alfonso dal comodino e si mise a fissarlo.
III
Alle 23,47 Guglielmo Colonnese cominciò ad agitarsi. Era ato troppo tempo da quando la suora nigeriana era sparita oltre la porta della toilette. “Che si sia avvelenata? Eppure quel pesce che ci hanno dato in aereo lo abbiamo mangiato tutti e due e io sto benissimo. Almeno credo.” Si ò una mano sulla fronte e non seppe decidere se il sudorino che sentì dipendesse dalla tensione del momento, dal caldo di Napoli, o da quella punta d'ipocondria che pur non ammettendolo con gli altri, sapeva benissimo di avere. E raggiunse la porta delle toilette. Ma una volta all'interno quelle sue paure sparirono di fronte alle occhiate di disapprovazione di tutti quelli che uscivano dalle toilette degli uomini e si trovavano davanti un prete che cercava di sbirciare in quella delle donne. Per questo sentendosi toccare la spalla sobbalzò addirittura mentre una voce maschile forte e gutturale risuonò dietro di lui: “I kaalmee, fadlan...” Colonnese si volto' e si trovò davanti un uomo di carnagione olivastra che gli sorrideva: “Waan ku faraxsanahay inaan kula kulmo.” L'uomo vestiva il caratteristico “kikoi” multicolore somalo, una camicia ed una papalina tradizionale tutte e due bianche. Guglielmo riconobbe anche la lingua di quel paese. “Sorry, io non parlo somali.” Ed entrò nella toilette delle signore che in quel momento almeno nella zona dei lavandini sembrava deserta. Ma l'altro gli andò dietro trattenendolo per la giacca: “Musqusha ayaan rabaa in aan tago!...”
“Non mi sono spiegato... Non parlo la sua lingua... Capito?” E cercò ancora di liberasi dall'africano. Ma quello lo mollò con una mano e lo afferrò con l'altra: “Kaalay halkan! I kaalmee, fadlan.” “Dagli!” E si divincolò ancora chinandosi a sbirciare sotto gli sportelli dei WC. Ma l'altro non smise di trattenerlo e di mostrargli il suo kikoi lungo fino a terra per poi indicare il disegnino sulla porta. Finalmente Colonnese capì. L'uomo evidentemente doveva andare alla toilette e poiché indossava un abito che somigliava alla gonna del disegnino sulla porta voleva sapere se quel posto andava bene. “Nooo. Dall'altra parte. Toilette uomini... Là, vedi?...” E finalmente il somalo sorridendo e continuando ringraziarlo nella sua lingua incomprensibile, sparì oltre l'altra porta. In quel momento risuonarono uno dopo l'altro gli scrosci di tre scarichi in rapida sequenza. Tre signore uscirono dai WC e si diressero ai lavandini, lanciando occhiate sconcertate a Gu-glielmo che, imbarazzato, non trovò di meglio che sollevare due dita e mettersi a benedire la stanza disegnando segni di croce nell'aria, e mormorando un “...Dominus vobiscum” che non c'entrava niente ma era la prima cosa che gli era venuta in mente. Finalmente le donne uscirono e lui si precipitò a controllare le toilette rimanenti. Erano tutte inspiegabilmente vuote. Ma com'è possibile? Dov'è andata questa? Corse fuori scrutando il salone. Ma di Sorella A'isha Ikenda non c'era traccia. Cerco' di capire cosa poteva essere successo, di riflettere senza perdere la calma, di trovare una soluzione. E, come sempre faceva quando si metteva a pensare, infilò la mano nella tasca per giocherellare con l'accendino con la dedica di sua moglie. Ed in rapida sequenza scoprì tre cose. Che l'accendino non era più nella sua tasca. Che il “somalo” gli aveva fregato anche il portafogli, i soldi, il telefonino e il aporto dello “Stato della città del Vaticano”. E che chissà se tutta quella messa in scena non era servita proprio a distrarlo mentre qualcuno faceva sparire
la monaca Nigeriana che lui invece avrebbe dovuto proteggere a costo della vita. Si precipitò nella toilette degli uomini ma anche il somalo era sparito. Tornò fuori sospirando teso: “Stavolta non ci arrivo alla pensione.” E si appoggiò al muro sotto il grande orologio digitale che segnava mezzanotte e sette minuti.
IV
Anna De Vasconcellos entrò nei nuovi uffici dell'AISI di Napoli, il cui ingresso era abilmente mimetizzato nelle viscere del Castel dell'Ovo, all'una e ventidue nella notte del 23 Maggio 2014. E i pochi agenti presenti si divisero subito in due gruppi. Il primo formato da quelli che pensarono che non fosse appena apparsa una donna, ma una iena affamata. Il secondo invece composto da quelli che avvicinarono l'atteggiamento di quella stessa signora a quello di un cobra reale particolarmente incazzato, nel momento in cui si erge ritto ed estende i lati della testa, pronto a sputare veleno negli occhi della vittima di turno. In verità tutte e due le opinioni erano giustificabili visto che Anna appena entrata aveva effettivamente scorso i visi dei presenti con l'inequivocabile sguardo di una belva che cerca qualcuno da uccidere senza voler andare troppo per il sottile su chi sarà il prescelto. La Dr.ssa Anna De Vasconcellos, 38 anni, efficientissimo Capo Zona dell' AISI, non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe tornata a Napoli, città nella quale aveva giurato di non mettere piede mai più. Ma a volte il caso ci spinge in certe direzioni che noi stessi avremmo considerato impensabili fino a pochi minuti prima di trovarcisi coinvolti. O poche ore prima, come nel caso di Anna. Che mai come in quella occasione dovette dar ragione al suo mentore, l'ex Capo Divisione Salzano, che tanto spesso le aveva ripetuto: “Se vuoi far sganasciare gli dei racconta loro i tuoi programmi per il futuro”.
Come testimoniavano le innumerevoli fotografie ordinatamente conservate negli album tutti rilegati in cuoio blu che occupavano un intero scaffale nella libreria della sua casa natia a Roma, Anna fin da piccola era sempre stata molto bella. Le immagini della sua prima infanzia mostravano una bambolotta biondissima con due immensi occhi viola orgogliosamente ritratta da suo padre quasi ad ogni o dei suoi primi anni di vita.
Negli album successivi le immagini diventavano prima quelle di una deliziosa ragazzina dagli occhi verde scuro e dai capelli ramati, e poi, improvvisamente, quando le date sotto le foto testimoniavano che Anna aveva solo 17 anni, quelle di una giovane donna dai capelli rossi e gli occhi di smeraldo, che riuniva nella sua bellezza già matura l'innocenza di una colomba e il fascino sensuale di un felino. Mix talmente terrorizzante per i suoi genitori da convincerli, piuttosto che affrontare gli avve-nimenti a rischio d'infarto che certamente avrebbero punteggiato gli anni successivi della loro figlia, a sottrarsi completamente ad essi. La sua integerrima madre fuggì a Pisa con un professore di fisica, per poi trasferirsi a Losanna e di là chissà dove. Suo padre si fece semplicemente terziario scano. Invece forse proprio per la forza che le fu necessaria per superare quell'abbandono, la giovinezza di Anna andò in modo completamente diverso da quello ipotizzato dai coniugi De Vasconcellos. Infatti essi erano certi che la bellezza della figlia sarebbe stata per lei una scorciatoia troppo facile per evitare di impegnarsi seriamente nella vita. E che lei si sarebbe accorta troppo tardi di non aver costruito nulla che potesse sostenerla quando quella bellezza avrebbe cominciato a sfiorire. E invece, se fossero vissuti, sarebbero rimasti molto sorpresi nel constatare che Anna si laureò in giurisprudenza a soli ventitré anni, con lode e con una tesi sulle “Modificazioni del crimine organizzato dai primi del '900 ai giorni nostri” che le valse l'abbraccio accademico del Prof. Manlio Di Battista della “Sapienza” di Roma. Nello stesso anno vinse il concorso per Commissari di Polizia e fu destinata alla città di Napoli, sezione Pendino-Porto, zona nota alla Questura centrale per richiedere dei Dirigenti delle forze dell'ordine che godessero di un carattere particolarmente corazzato. Ma sotto la blindatura della sua volontà di ferro evidentemente Anna nascondeva un cuore tenero se andò ad innamorarsi perdutamente di Guglielmo Colonnese, allora giovane e spaurito (almeno in apparenza) funzionario appena entrato in Polizia. Purtroppo quanto profondo fosse il suo amore per lui Anna era l’unica a saperlo con certezza. In quanto quel suo istintivo comportarsi da panzer le impedì di manifestare con la dovuta frequenza (per non parlare di dolcezza, dalla quale Anna rifuggiva come fosse il diavolo) i sentimenti profondi che pur intimamente sentiva verso il suo Guglielmo. E, coerente a questo suo carattere, quando lui le preferì Elvira Foglia Manzillo,
studentessa di giurisprudenza e donna con la quale avrebbe poi condiviso il resto della sua vita, lei ufficialmente non fece una piega. Si limitò a sparire da Napoli da un giorno all'altro giurando di non rimettervi più piede. Questo per il pubblico. Invece Anna quella stessa sera manifestò più che abbondantemente il suo dolore, ma solo nel chiuso dell'appartamento romano di suo zio, il Dr Michele Salzano, che a quel tempo era già Capo Divisione del Sisde (qualcosa di simile all'attuale AISI). Ed il povero zio Michele, un po' perché voleva bene a quella nipote che considerava quasi come sua figlia, e un po' per sfuggire agli strepiti e all'alluvione di lacrime che avevano improvvisamente invaso la sua casa di solito molto tranquilla, ottenne per lei un immediato richiamo a Roma nella sua stessa struttura dei “Servizi”. E lei tornò a vivere nella capitale, dove qualche anno dopo divenne Capo Divisione dell'AISI al posto di suo zio che continuò ad occuparsi di Servizi, ma direttamente dal Ministero dell'Interno. Va detto che fu solo per puro caso che Guglielmo Colonnese, quando fu chiamato anche lui ai Servizi, fosse assegnato all'AISE e non all'AISI, dal momento che dal giorno della loro rottura aveva completamente perso le tracce della sua ex compagna e quindi non aveva la più vaga idea che lei lavorasse nella sua struttura gemella. E non sapeva neanche che Anna nel frattempo aveva sposato Rodolfo Revoltella, un affermato odontoiatra di origini triestine che, per il suo carattere focoso ed imprevedibile le era sembrato un ottimo contraltare alla sempre cauta metodicità del mai troppo vituperato Guglielmo, il cui ricordo però anche se erano ati diversi anni, ancora le dava una fitta al cuore quando le tornava alla mente. Purtroppo si sa che le scelte fatte non verso quello in cui crediamo, ma contro quello che ci ha feriti, prima o poi finiscono per mostrare il loro limite. E ad Anna De Vasconcellos quel limite saltò agli occhi in ogni dettaglio la mattina del 22 maggio 2014, quando, analizzando filmati, foto e registrazioni ottenute attraverso apposita sorveglianza diretta ed ambientale nell'ambito di una indagine legata al controspionaggio, si accorse in un solo colpo che: la spia che addirittura aveva fatto temere di avere una talpa all'interno dell'AISI, era invece una donna di origine russa estranea ai servizi il cui nome era Nastassja Nikolajevna Borodin; che costei altri non era che Nina, la giovane collaboratrice
domestica sedi-cente ucraina che lavorava proprio a casa sua; che la donna da diversi mesi aveva una focosa relazione (almeno stando a foto e filmati raccolti dagli agenti) con suo marito, l'imprevedibile (ed imprevisto) Dr Rodolfo Revoltella. A differenza di come anni addietro si era comportata con Guglielmo Colonnese, stavolta Anna era decisa a manifestare immediatamente tutto il suo furore contro colui che glielo aveva causato. Magari con l'aiuto della sua “Glock 26 Subcompact” quasi sempre presente nella sua borsetta anche se fino a quel momento l'aveva usata solo in poligono. Ma il vicedirettore Toso, suo superiore diretto ed in più a capo di quella stessa inchiesta, glielo vietò tassativamente. Manifestare le sue ire avrebbe messo in allarme la Borodin che, tutto sommato, era solo un “pesce piccolo”, ed avrebbe permesso agli ancora ignoti “pesci grossi” di far perdere le loro tracce: “No. Fino a quando non scopriamo chi c'è dietro di lei que-sta donna deve continuare la sua vita normale senza accorgersi di niente. “Continuando anche a scoparsi mio marito?” Sibilò lei pericolosa. Ma l'altro non si fece spaventare: “Se serve, si. Tanto che cosa cambierebbe per te?” “E già, in effetti ha ragione.” Replicò lei con aria conciliante mentre invece stava già pensando di usare al posto della sua Glock 26 Subcompact quell'affilatissimo coltello triangolare del set giapponese che aveva ricevuto come regalo di matrimonio da suo zio Michele. E il ricordarsi proprio in quel momento di suo zio salvò Rodolfo Revoltella da una fine prematura e la stessa Anna da una condanna a parecchi anni di prigione. Non salvò il Dr Michele Salzano dalla ripetizione di quella notte di tanti anni prima, con gli stessi strepiti e la stessa alluvione di lacrime da parte della sua nipote preferita che continuò a singhiozzare: “Io non posso tornare a casa! Se incontro quello stronzo che faccio?... Finisce che li ammazzo tutti e due.” In altre parole questa era una precisa richiesta di ospitalità. Che però quella vecchia volpe di Salzano aggirò elegantemente proponendole di trasferirsi seduta stante a Napoli, dove avrebbe affiancato il Capo Divisione Miletti dell'AISI in
una complessa indagine su un traffico internazionale di droga. Sentendo nominare Napoli Anna trasalì. Ma suo zio la rassicurò: “Quel Colonnese non vive più lì. Sta a Roma anche lui, ma lavora per l'AISE. Quindi a più tempo all'estero che in Italia.” Anna si convinse. Un paio di telefonate dell'ormai onnipotente Zio Michele, e lei, senza neanche are a prendersi un cambio d'abito, saltò in macchina ed arrivò a Napoli quasi all'una di notte. Ed ecco spiegata la sua espressione sconvolta che fu scambiata per quella di una bestia feroce da quelli che solo due ore prima erano stati avvertiti del suo arrivo. Espressione che non mutò di una virgola quando il Maresciallo Di Stasio (detto Serpico non per sue particolari capacità poliziesche ma perché magro e pericoloso come un serpente) si fece avanti ad accoglierla: “Dottoressa De Vasconcellos, benvenuta a Napoli.” “C'è il Dr Miletti?” “Si, ma è occupato. Ci sono già due persone che lo aspettano. Sono dei nostri, ma vengono da Roma. Uno dell'AISI e uno dell'AISE. Li ho fatti accomodare nel salottino qua a destra. Da questa parte, venga, le faccio strada.”
V
Giuseppe Sciacchitano detto Peppe, 38 anni, Capitano dei CC distaccato all'AISI, era noto per essere un agente molto creativo. Nel senso che nelle sue missioni preferiva seguire l'istinto e l'improvvisazione piuttosto che le procedure che gli erano state insegnate durante il suo addestramento. I suoi capi lo lasciavano fare, sia per gli ottimi risultati che otteneva, sia perché se qualcosa un giorno fosse andato storto loro ne sarebbero usciti indenni, dal momento che era noto come Peppe Sciacchitano abitualmente usasse derogare ai protocolli regolamentari. Molti dei suoi colleghi liquidavano le ragioni di questa sua scelta di “creatività spinta” con dei superficiali “...è fatto così...” “...è un po' pazzo, però divertente se non ci lavori insieme.” Ma quasi nessuno sapeva che la vera origine di quel suo comportamento “fantasioso” stava nella sua stessa vita. Una vita continuamente inventata, fin dal momento in cui era nato. Tanto per cominciare, se sua madre non avesse deciso di abbandonarlo subito dopo averlo partorito all'Ospedale San Camillo di Roma il 19 Marzo del 1976, Giuseppe Sciacchitano forse non si sarebbe chiamato ne' Giuseppe ne' Sciacchitano. Il nome ed il cognome furono un'invenzione dell'Ostetrica Maria Semeraro che andò a registrare la sua nascita all'anagrafe. Lo chiamò Giuseppe perché era nato il giorno di San Giuseppe, e Sciacchitano per lasciarli un minimo di legame con sua madre che, per quanto ne sapeva, era nativa di Sciacca, provincia di Agrigento. Una partenza quanto meno amara per il piccolo Peppe, che però, al contrario di quanto questo avrebbe fatto prevedere, fu un bambino sempre allegro, sempre giocoso e sorridente, insomma la gioia di tutti suoi genitori affidatari, a partire dall'Avv. Giovanni Battista Piras e sua moglie Maria Bonaria Sales, tutti e due di origine sarda ma trasferitisi a Roma appena sposati. Ma ne' i coniugi Piras, ne' quelli che vennero dopo di loro, seppero mai che il carattere sempre gioioso del piccolo era anch'esso in qualche modo inventato.
Nei primissimi anni della sua vita Giuseppe era capriccioso, musone, lamentoso e rompiscatole come ogni bambino che si rispetti. Fatto che però non favoriva il suo sospirato affido ad una famiglia che lo accogliesse togliendolo dalla continua provvisorietà delle sue sistemazioni dal momento che gli orfanotrofi in Italia non esistevano più da prima che lui nascesse. Fino al giorno in cui Anna Teresa Contini, una anziana assistente sociale esasperata dai suoi strepiti, gli disse: “La gente ha troppi guai per sorbirsi anche i tuoi lamenti. Se tu non impari a ridere anche quando vorresti piangere resterai per sempre chiuso qua dentro.” E poiché il “qua dentro” si riferiva ad una “casa famiglia” tanto affollata quanto disorganizzata, Peppe cominciò subito ad esercitarsi a ridere da solo. Gli altri piccoli ospiti di quella casa fecero presto a convincersi che lui era pazzo o almeno stupido. Ma quando i Coniugi Piras videro quel bambino che correva verso di loro ridendo felice e se ne innamorarono subito Peppe rise davvero vedendo le facce deluse di quelli che avevano dubitato della sua sanità mentale e che invece ora restavano in quella casa. E negli anni successivi quel suo continuare a ridere anche quando avrebbe voluto piangere gli fu talmente utile da diventare per lui un fatto automatico, indistinguibile dalla naturale gioiosità di un bambino, poi di un adolescente, poi di un uomo. E Peppe incantò con la sua allegria altre due successive famiglie affidatarie che, scaduti i regolamentari 24 mesi, subentrarono all'Avv. Piras e signora. Fino a che non si produsse nel suo capolavoro. Il Tenente del Genio Paolo Treves e la sua giovane moglie Elisa Mangiacavallo si accorsero solo dopo essersi sposati di non poter avere figli. E non dissero mai a nessuno chi di loro ne era la causa perché erano tutti e due terrorizzati dalla possibile tagliente reazione del padre di lei, il Generale di Artiglieria Liborio Mangiacavallo, un napoletano noto per il suo carattere iroso ed aggressivo. Ed anche quando pensarono ad una adozione e si rivolsero alle strutture preposte, continuarono a prendere tempo prima di decidersi, perché nessuno dei due aveva il coraggio di comunicare la cosa al Generale: quell'uomo tremendo non avrebbe mai accettato un bambino che non discendesse naturalmente del suo solido ceppo familiare, e certamente lo avrebbe combattuto come un intruso. Questo fino al giorno in cui la buona Anna Teresa Contini, che non aveva mai smesso di seguire le vicissitudini di Peppe nei suoi affidamenti, fece conoscere ai
Treves questo ragazzino di sei anni e mezzo che talmente li conquistò con la sua allegria e la sua gioia di vivere che i due decisero finalmente di adottarlo. Ma, una volta completate tutte le pratiche necessarie, mentre se lo portavano a casa loro a Napoli, si resero conto di non poter più rimandare. Era giunto il momento nel quale dovevano per forza annunciare la cosa al terribile Mangiacavallo, anche se ne avreb-bero dovuto sopportare le reazioni. Ma una volta raggiunta in cima alla collina di Posillipo la grande casa del Generale, nessuno dei due trovò il coraggio di varcare la porta dello studio dove lui li stava aspettando. E un po' vigliaccamente (ma molto efficacemente come scoprirono dopo) spinsero dentro il ragazzino, richio la porta e restarono all'esterno col cuore in gola e le orecchie tese ad aspettare le immancabili urla che entro qualche secondo sarebbero risuonate oltre il battente. E invece ci fu solo un lungo silenzio. Per quanto si sforzassero di origliare sembrò loro di sentire che il bambino e il Generale parlavano, ma troppo sottovoce per essere intellegibili. E infatti i due parlarono, e parlarono. Fino a che dopo diciotto minuti esatti la porta dello studio si aprì ed apparve Liborio Mangiacavallo con il piccolo Peppe in braccio. Il bambino aveva in testa il berretto pieno di fregi d'oro del Generale che appariva tanto emozionato da riuscire a dire soltanto col suo tono autoritario: “Questo me lo tengo io.” Cosa che negli anni successivi effettivamente fece. Nel senso che si affezionò talmente a Peppe da diventare lui il suo vero padre, seguendolo negli studi, inorgogliendosi per i suoi buoni risultati, divenendo insomma molto più del nonno adottivo che nella migliore delle ipotesi ci si poteva aspettare da lui. Che cosa Peppe e il Generale si dissero in quei famosi diciotto minuti, nessuno lo seppe mai. Solo qualche anno prima di morire, durante la festa che Mangiacavallo oramai in pensione volette dare in onore di Peppe quando fu promosso Capitano dei Carabinieri (corpo nel quale lui stesso lo aveva spinto ad entrare) pare che il vecchio militare avesse confidato al suo amico Colonnello Morini quello che Peppe aveva fatto al loro primo incontro. Prima aveva riso. Poi, quando era riuscito a far ridere anche lui, lo aveva spiazzato raccontandogli tutta la verità sull'origine di quella sua allegria. E il Generale si era sciolto come un gelato al sole. Ma questo Peppe non lo ammise mai, e ancor oggi, se qualcuno accenna all'argomento, ride, e dice che non è vero.
VI
L'auto noleggiata a nome di Monsignor Manzù con la quale Guglielmo Colonnese avrebbe dovuto accompagnare a Roma Sorella A'isha Ikenda lo aspettava puntualmente nel parcheggio dell'aeroporto. Glielo confermò l'impiegato dell'AVIS che però, in mancanza di documenti che potessero identificare Guglielmo come l'atteso esponente dello Stato della città del Vaticano, purtroppo non potette consegnargliela. Gli permise di fare una telefonata, ma solo per rispetto all'abito che indossava. Guglielmo non chiese aiuto alla polizia aeroportuale per non allargare le dimensioni del suo sputtanamento che sperava di contenere entro limiti accettabili con l'aiuto del Dr Miletti suo vecchio amico e dirigente dei “Servizi” a Napoli. Per questo quando all'una meno dieci arrivò l'auto mandata dall'AISI chiese al giovane alla guida, tale Roberto Catalano, anche se l'ora era tarda, di poter avvertire subito il Dr Miletti del suo arrivo. “Gli devo parlare subito. E' una questione della massima urgenza.” L'altro lo rassicurò: “Non si preoccupi. Lo trova in ufficio. Sta aspettando anche un Capo Divisione in arrivo da Roma.” “A quest'ora?” L'altro sorrise: “Il Dr. Miletti quando lavora non ha orario.” Guglielmo si tranquillizzò. S'infilò la mano in tasca per giocherellare con l'accendino che invece continuò a non esserci. E, per non lasciarsi prendere di nuovo dall'ansia, si mise ad os-servare le immagini che scorrevano oltre i finestrini.
La città a quell'ora sembrava più rilassata, quasi placida. L'assenza dell'abituale traffico caotico forse non le restituiva tutto l'incanto di una volta, ma metteva nel cuore di Guglielmo quel languore antico, quella “nostalgia del presente” che accompagna i ritorni a Napoli di ogni napoletano che sia stato costretto a trasferirsi altrove. E mentre scorreva le facciate umbertine del “Rettifilo” (Corso Umberto I° per i non nativi) pensò proprio che nessun napoletano lascia Napoli se non vi è costretto. Ed anche se altrove trova una vita molto più semplice di quella che avrebbe avuto nella sua città, si porta appresso per sempre la ferita di quel distacco. Per questo quando improvvisamente vide il mare di via Partenope, gli si strinse per un attimo la gola. In realtà non lo vide perché a quell'ora il mare era solo una massa nera oltre gli antichi parapetti di pietra, ma lui sapeva che c'era, e tanto bastava. E quando l'auto si inserì sull'antico viadotto che collegava il lungomare all'isoletta di Megaride verso l'immenso Castel dell'Ovo, volando a mezza altezza sul porticciolo risplendente delle luci dei circoli e dei ristoranti, Guglielmo chiuse gli occhi e si mise a pensare a quando da bambino tutta la sua grande famiglia si riuniva una volta all'anno al ristorante “Transatlantico”a festeggiare il compleanno di suo nonno Michele, il capostipite, che aveva per lui un affetto particolare. Ed ogni volta che si riunivano il nonno voleva che lui... “Dottore?” “Eh?...” “Siamo arrivati.” “Ah, si.” E scese dall'auto. Ma subito si fermò incerto non riconoscendo il grande garage nel quale si trovavano che sembrava scavato in una grotta di tufo. “Ma dove siamo, qui?” “Siamo sotto il Castel dell'Ovo. Non è mai stato nei nostri nuovi uffici?” “No...” “Allora le faccio strada.” E lo precedette davanti ad una porta di ferro.
“Guardi in alto.” Disse Catalano. Guglielmo lanciò un'occhiata alla piccola telecamera e la porta si aprì' con uno scatto metallico. Oltre di essa c'era uno spazioso ascensore. Non c'era la pulsantiera. Solo una piccola serratura cromata nella quale Catalano inserì la sua chiave e la cabina partì per il suo lungo viaggio verso l'alto. Quando le porte automatiche si riaprirono la prima cosa che Guglielmo sentì fu un profumo di fritto di pesce che evidentemente saliva dai ristoranti del porto laggiù in basso. Poi, mentre attraversavano il breve tratto merlato verso la porta di cristallo in fondo gli esplose negli occhi il meraviglioso panorama della città illuminata fin sulla collina di Posillipo, con le lucine delle case che si fondevano con quelle del cielo stellato. “Dottore?” Catalano gli teneva aperta la porta. Lui si affrettò a raggiungerlo ed ad entrare nel salone pieno di computers e scrivanie: “Mi scusi, io non ero mai stato quassù. E' un posto bellissimo. E' veramente...” Ed ammutolì di colpo incontrando lo sguardo del “somalo” dell'aeroporto, completo di “kikoi” camicia e papalina, che gli mormorò imibile un gutturale: “Subax wanaagsan.” Guglielmo si accigliò e chiese a Catalano: “E che fa questo qua? Lo avete arrestato?” “No, e perché?... Permette, questo è il Capitano Giuseppe Sciacchitano dell'AISI che è arrivato oggi da Roma.” Guglielmo rimase a bocca aperta, mentre l' “ex somalo” scuoteva il capo con finta comprensione: “Ci vuole pazienza.” Altri gli sarebbero balzati al collo. Guglielmo, equilibrato com'era, si limitò a ribattere freddo, ma con intenzione:
“E certo che ci vuole pazienza. Tanta!” Ma Sciacchitano non fece una piega ed aggiunse soave: “E io che ho detto?”
***
“Però, se lo sono scelti bene il posto. Guarda che meraviglia di panorama!” Esclamò Peppe Sciacchitano guardando oltre la grande porta finestra del salottino che comunicava con l'ufficio del Capo Divisione Miletti attraverso un'alta porta insonorizzata. Miletti pareva che non fosse ancora pronto a riceverli (oppure aspettava l'arrivo dell'altro Capo Divisione da Roma per farlo) come testimoniava la lucina rossa tuttora accesa accanto alla sua porta chiusa. Guglielmo, al quale l'imperturbabilità dell'altro stava mettendo le mani nel sangue, si limitò a replicare duro: “Ah,si?” Ma Peppe proseguì sullo stesso tono leggero: “Per esempio, questo terrazzino qua fuori è una poesia. Perfetto per farci una cenetta con un paio di signorine di buona famiglia. Non avresti neanche bisogno di parlare. Sarebbe tutto automatico... Ma che è, non ti piace?” “No!” Rispose dispettoso Colonnese troppo arrabbiato per accorgersi di contraddire quanto aveva detto appena pochi minuti prima. Ma Sciacchitano, forse proprio perché si accorse dell'effetto che le sue parole facevano sull'altro, insistette: “Ma non ti piace il panorama o non ti piace il fatto della cenetta con le signorine?” “Ma che t'imp...?” E concluse la frase con una specie di ringhio sommesso, ma
Peppe non fece una piega: “Così, per sapere.” Guglielmo ostentatamente non replicò e si mise a fare un numero sul telefono sul tavolino accanto al divano sul quale era seduto. Ma Sciacchitano si divertiva troppo per lasciarlo in pace: “A chi telefoni?” “Ma che te ne importa?!” La voce gli venne fuori strozzata di rabbia, ma cercò di contenersi ed aggiunse: “A mia moglie a Roma.” “A quest'ora? E non sta dormendo?” “E si sveglia!... Io stasera avrei dovuto tornare a casa. Se no poi si preoccupa. ” “Ma perché, non lo sa che mestiere fai?” “Sissignore, lo sa, ma si preoccupa lo stesso! E' fatta così!... Come, chi è fatta così...? Uh, scusa Elvira, ti ho svegliato? Si?...” “Hai visto?” “No ti volevo dire che non so se ce la faccio a tornare sta-sera... Si, stanotte... Certo che te lo potevo dire anche domani mattina, ma poi Giorgetto magari quando si sveglia, non mi trova, e sai come si dispiace?” “E certo, povero Giorgetto.” Sottolineò Peppe distraendo Guglielmo che gli abbaiò sottovoce: “Che vuoi?” Peppe rispose volutamente petulante: “Niente, chi è Giorgetto?” “E' mio figlio...” Poi al telefono: “No, è che qua ci sta un...”
“Collega” suggerì Sciacchitano “ si dice collega. C'è proprio la parola apposta...” “Si, Elvira, appena so quando arrivo ti chiamo subito.” “Dalle!” “Si, certo, domani mattina...” “Così saluti pure Giorgetto...” “Eh?... Elvira?... Elv... S'è addormentata.” “E per forza. Mi stavo addormentando pur'io.” “Ma tu che vuoi da me?” Guglielmo riattaccò fragorosamente e proseguì esasperato: “Invece di parlare a vuoto perché non mi spieghi quello che invece mi avresti dovuto spiegare da subito?” Peppe sorrise come se la cosa lo divertisse particolarmente: “E che cosa vuoi sapere? Com'è che stasera sei stato capace di mandarmi a monte un'indagine alla quale stavo lavorando da tre mesi? E questo lo dovresti spiegare tu a me.” “Io?! Ma se sei stato tu che mi sei venuto a sfottere e mi hai rubato... A proposito! Caccia subito la roba mia!” “La roba tua?...” “aporto, soldi, telefonino...” “E stanno là. Santa Lucia!” E solo allora Guglielmo si accorse che sul mobile basso accanto al divano c'era il suo telefonino, il portafogli ed un pacchetto di banconote piegate e strette da un portasoldi d'oro. “E l'accendino dove sta?” “Quale accendino? Descrivilo.”
“Che devo descrivere? E' un Dunhill d'oro.” “Con sopra la dedica di una certa Elvira?” “E' mia moglie.” Peppe lo estrasse dalla tasca: “Questo qua?” “Sissignore.” “E no, mi dispiace. Questo non te lo posso dare.” “E perché” “Perché è una prova.” “Di che?” “Di quanto sei fesso! Ma come, tu ti vesti da prete per convincere una monaca che sei un Monsignore del Vaticano, e ti porti appresso l'accendino con la dedica apionata di una certa Elvira?” “Ma ti ho detto che è mia moglie!” “Ma perché ti risulta che i Monsignori del Vaticano hanno la moglie?” “Che c'entra? Quella non l'ha visto. Io non l'ho proprio tirato fuori dalla tasca!” “E sei fesso lo stesso! Perché quella non era una monaca! Era una trafficante di droga Ghanese vestita da monaca che io stasera dovevo intercettare, e che invece tu prima l'hai fatta entrare in Italia e poi l'hai fatta pure scappare!... Hai capito?” Guglielmo lo fissò un attimo in silenzio, e poi replicò: “Non è possibile. Quella che aspettavi tu era un'altra monaca. La mia era una monaca vera.” “Ah, si? E chi te l'ha detto?”
“Si vede se una monaca è vera o è falsa!” “E da che cosa? Dal fatto che non aveva un accendino con una dedica apionata del marito?” “A proposito, dammi l'accendino immediatamente!” “Ma non ci penso neanche.” “Ladro.” “E perché? Io mica te lo sto rubando? Lo sto trattenendo per consegnarlo nelle mani del Capo Divisione Miletti. Poi lo decide lui se te lo vuole ridare o lo vuole usare come prova del disastro che hai fatto stasera.” “Tu dammelo. E poi, se me lo chiede, glielo faccio vedere io.” “Promesso?” “Sissignore.” “Va be', tié.” E gli rese l'amato accendino. Guglielmo se lo cacciò in tasca e chiese con un tono molto meno ostile: “A proposito, ma chi è questo che sta arrivando da Roma?” “E' un altro Capo Divisione che deve affiancare Miletti nell'indagine che mi hai schiattato tu stasera.” Colonnese decise di non cadere nella provocazione ed insistette: “Si, ma come si chiama?” Ed Anna replicò apparendo sulla porta alle loro spella: “Dottoressa Anna De Vasconcellos.” “Ecco.” Disse Guglielmo e si voltò.
“Anna?... Cioè, Dottoressa De Vasconcellos...” E si sentì paralizzato come una lepre accecata dai fari di un'auto. Non riusciva a staccare gli occhi da quelli di Anna sul cui viso ristagnava una sorta di ghigno che non faceva presagire niente di buono. Guglielmo in cuor suo aveva sempre considerato probabile che dopo tanto tempo Anna avrebbe potuto conservare un po' di rancore verso di lui, ma non più di questo. E invece adesso lei lo stava guardando come un lupo guarda una pecora zoppa. D'altronde come avrebbe potuto sapere che quel sorriso pericoloso nasceva non da un odio omicida verso di lui, ma solo dalla soddisfazione di trovarsi inaspettatamente davanti qualcuno sul quale avrebbe potuto sfogare se non tutta almeno un po' della rabbia accumulata quel giorno contro suo marito. Anche Sciacchitano non riusciva a levarle gli occhi di dosso, ma per delle ragioni opposte a quelle di Colonnese. Già di solito molto sensibile al fascino femminile Peppe si sentì immediatamente attratto da questa “tigresse” dagli occhi scintillanti. “E chi lo sapeva che all'AISI c'era un pezzo di donna come questo?” Pensò, e continuò squadrarla dalla testa ai piedi.
VII
Carmela Pagano ò tutto il pomeriggio a saldare conti sospesi. Da quando suo marito era sparito da più di un anno senza lasciarle un soldo aveva fatto tanti di quei debiti che manco li ricordava tutti. Al commissariato di zona, l'unica volta che ci era andata, le avevano detto che, visti i precedenti legami di Gesualdo (questo era il nome di suo marito) con la famiglia camorristica Attanasio, sterminata quasi completamente durante l'arco dell'anno precedente pare da killers della famiglia emergente Fellusso, era molto probabile che suo marito fosse morto oppure fosse fuggito all'estero per non fare la fine degli altri. In ogni caso erano certi che Gesualdo non sarebbe mai più ricomparso a Napoli, per cui era meglio che Carmela si rimboccasse le maniche e si desse da fare da sola se voleva sopravvivere assieme a suo figlio. Carmela, che per altro non aveva avuto fino a quel momento la più pallida idea dei legami di suo marito con la camorra, ci provò con tutte le sue forze a rimboccarsi le maniche. Ma in quella estate caldissima e oltre a una scottatura ed a varie punture di zanzare più affamate di lei, non ne guadagnò nulla. Lavoro niente. Ne' per lei, ne' per qualche altro milione di napoletani. A quel punto si ricordò di un film nel quale si parlava delle provvidenze che la camorra stessa metteva a disposizione delle famiglie dei propri affiliati morti o in galera, e provò ad informarsi nel quartiere. Ma scoprì che o quella era solo una inven-zione cinematografica oppure, trattandosi di una famiglia perdente quella per la quale lavorava Gesualdo, non era previsto nessun sostegno economico per la sua vedova, nera o bianca che fosse. Così Carmela non ebbe altra scelta che chiedere un minuscolo prestito alla banca, che per fortuna le fu concesso. In realtà il Dr Starrabba aveva fino a poco prima collaborato con gli Attanasio e, non sapendo ancora che piega avrebbe preso il futuro di quella famiglia, fece in modo di aiutarla. Ma molto presto i Fellusso dilagarono nel quartiere (ed anche nella sua agenzia) e fu costretto a rifiutare qualsiasi ulteriore aiuto alla povera
Carmela. Che fu a sua volta obbligata da quel momento in poi a prendere tempo ed ad “appendere conti”, come si diceva a Napoli e credo purtroppo si dica ancora. Così il mastodontico don Alberto che torreggiava appoggiato al suo bastone dietro il banco illuminato della salumeria D'Errico quando la vide apparire quel pomeriggio si stava già apprestando a sospirare rassegnato al solito “Questo me lo segni” quando invece sentì Carmela pronunciare sorridendo l'insperata frase “Vorrei saldare il conto”. Don Alberto guardò incredulo le banconote che lei gli tendeva. Ma cambiò subito espressione perché sua moglie Assunta lo colpì con un calcetto alla caviglia, che, essendo semiparalizzata, gli fece sfuggire un piccolo “Ah!” più di sorpresa che di dolore. “Vi fa male la gamba?” Chiese premurosa Carmela che conosceva il suo problema. Ma fu Assunta a rispondere: “No, prima si è tagliato e ogni volta che tocca qualcosa... Vieni, vieni di là che ti metto un cerotto... E vieni!” Don Alberto che non si era affatto tagliato, capì che sua moglie doveva comunicargli qualcosa di urgente. Così rinunciò malvolentieri a rientrare subito in possesso dell'insperato denaro dovutogli da Carmela e seguì zoppicando Assunta nel retrobottega. Una volta all'interno, nel poco spazio lasciato libero dalle cataste di barattoli, bottiglie e generi vari, chiese sottovoce alla moglie che stava cercando qualcosa in una scatola di latta rettangolare: “Che è? Perché hai detto che mi sono tagliato?” Lei replicò sottovoce, drammatica: “Perché quella si ammazza.” “Chi?” “La signora Pagano.”
“La signora Pagano si ammazza se io mi taglio...? Cioè se io non mi taglio la signora Pagano si... Assù, nunn'aggio capito.” “E quando mai capisci tu? Ma hai sentito che ha detto?” “Eh, che voleva saldare il conto.” “E una che non tiene una cecata di lira, che tiene il figlio malato di cuore, che stamattina ha distrutto la macchina del direttore della banca che mi ha detto Rosetta che abita porta a porta con lei che ci è andato lui personalmente a minacciarla, secondo te si mette a saldare il conto?” “Gesù, ma quella così ha detto.” “E perché ha deciso di ammazzarsi, quanto si' scemo! Quella puverella non ce la fa più, e siccome è sempre stata una brava persona con gli ultimi soldi prima si toglie tutti i debiti e poi si uccide. Te lo dico io!” Don Alberto la guardò incerto: “Assu', ma tu sei sicura?” “Albe', quella si ammazza! E queste sono cose il Padreterno non te le perdona!” “A me? Ma quella si ammazza lei, mica l'ammazzo io.” “Albe'!” “Va be', ho capito... Cioè, non ho capito. Io mo che debbo fare? I soldi non me li prendo?” “Assolutamente! E principalmente devi fare in modo che la signora Pagano non si ammazzi più!” “E come faccio?” “Non lo so. Inventati qualche cosa, fai quello che ti pare ma io la morte di quella disgraziata sulla coscienza non me la voglio portare!” E concluse la frase appiccicandogli un cerotto sul dito. Lui lo guardò sorpreso:
“E che debbo fare cu' stu coso?” Lei si morse una mano e sibilò: “Gesù, abbiamo detto che ti eri tagliato? Se quella capisce che ce ne siamo accorti che si vuole ammazzare, caccia la pistola e si spara dentro al negozio nostro!” “Ummaronnamia!” Ed aiutandosi col bastone tornò zoppicando nel negozio. Ma quando raggiunse di nuovo il banco scambiò uno sguardo allarmato con Assunta vedendo che Carmela sta-va frugando nella sua borsa. “Che state cercando?...” Azzardò. “Niente... Una cosa che... Non vorrei essermela scordata...” “E va bene, pure se ve la siete scordata, che fa?...” “Eh no, fa, perché... Ah, eccola qua!” E con un gesto rapido estrasse qualcosa dalla borsa. Assunta impallidì e Don Alberto si appoggiò al bancone. Poi tutti e due si accorsero che Carmela stringeva tra le dita soltanto un santino: “Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Un Santo miracoloso, io lo posso testimoniare...” A Don Alberto venne un'idea. “E' miracoloso? Ma voi siete sicura?” “E come, no?” “Permettete un momento?” “Prego.” Carmela gli cedette il santino. Lui lo prese, si chinò e se lo applicò sulla gamba malata. E quando l'attenzione di tutti i presenti nella salumeria si fu concentrata su di lui in un silenzio incuriosito, cominciò ad esclamare: “Uh, Gesù!... Uh, Gesù!... Non mi fa male più!... La gamba non mi fa male più. Guarda qua, Assu'!” Uscì da dietro il banco, gettò il bastone a terra e si mise a saltellare come un orso ballerino al centro della salumeria, con tutti i presenti che
cominciarono ad applaudire ed un paio di donne che corsero fuori ad annunciare al vicolo: “Miracolo! Miracolo!” La più sorpresa di tutti fu proprio Carmela, che rimase a bocca aperta con il denaro in mano. E si sorprese ancora di più quando Don Alberto le rese il santino e dichiarò: “No, per l'amor di Dio! Io questi soldi non li posso prendere. Perché Sant'Alfonso Maria de' Liguori vuole che voi li spendiate tutti per comprare un grande regalo a vostro figlio, che glielo portate a nome suo e che non lo lasciate mai!” “Grazie. Grazie...” Replicò Carmela travolta. Ma don Alberto insistette: “No voi ce lo dovete promettere che non lo lascerete mai a vostro figlio, a me ed a mia moglie. E' vero, Assu', che ce lo deve promettere?” “Si, si... Ve lo prometto.” Replicò Carmela colpita, ma lui non le dette il tempo di prendere fiato: “E che fate? Correte! Correte subito da vostro figlio!... Correte!” Carmela annuì e corse fuori sparendo tra la piccola folla che si era raccolta davanti alla salumeria appena in tempo per non vedere Don Alberto che si accasciò su una sedia stringendosi la gamba e lamentandosi: “Madonnamia, e che dolore!... Che dolore!...” ***
Carmela raggiunse la collina dei Camaldoli praticamente senza mai smettere di correre. Non perché avesse preso alla lettera l'invito di Don Alberto, ma perché fu costretta ad affrettarsi per prendere in tempo la funicolare del Vomero, dalla quale do-vette correre per arrivare da “Pasquale Prezzi Pazzi” a scegliere il regalo per suo figlio, in tempo per poi correre a Piazza Medaglie d'Oro dove infine fu costretta quasi a rincorrere l'autobus C41 che finalmente la portò
davanti all'immenso ospedale Monaldi. Lì dovette affrettarsi ancora nei lunghi corridoi nella speranza di poter restare almeno un'ora con Mariolino. Non perché ci fossero particolari limitazioni negli orari di visita (in quell'ospedale erano particolarmente elastici con le mamme dei piccoli ricoverati in “cardiologia pediatrica”), ma perché dopo Carmela avrebbe avuto poco tempo per arrivare a casa, cambiarsi e raggiungere in tempo il garage del centro storico dove la aspettava il suo lavoro notturno di “tassista a tradimento”, come lo chiamava lei. Ma di questo parleremo dopo. Quando finalmente lo trovò, Mariolino non era a letto. In pigiama, accappatoio e ciabatte se ne stava con altri tre bambini a guardare la televisione. E se non fosse stato per la mascherina di plastica verde che aveva sul viso, collegata alla bombola d'ossigeno portatile poggiata sul divano accanto a lui, sarebbe sembrato un bambino normalissimo, magari rimasto a casa in pigiama perché quel giorno non c'era scuola. Mariolino aveva nove anni ed un colorito roseo, forse appena un po' pallido, ma che comunque, se il bambino fosse rimasto fermo e calmo, non avrebbe mai fatto prevedere in lui un problema cardiaco così grave. Per questo quando Carmela estrasse dal sacchetto il “lap-top” che gli aveva appena comprato e lui si agitò fino a farsi spezzare il fiato in un affanno da far pena, lei fu costretta a fare la voce dura minacciando, se non si fosse calmato subito, di portargli via il regalo. Ma Mariolino non se la prese. Sapeva che sua madre praticamente viveva solo per lui e si mise d'impegno coi pugnetti stretti e l'espressione seria a farsi tornare normale il re-spiro. E quando Carmela finalmente gli lasciò il computer tra le mani, Mariolino sorrise, felice di mostrarlo ai suoi amichetti, ma con calma, senza agitarsi, estendendo anzi agli altri bambini le raccomandazioni di sua mamma. Quel giorno il tempo di visita ò più in fretta del solito e, quando lo riportarono al reparto, Mariolino accettò senza far storie di spegnere il computer, come richiese la dottoressa Laghezza per non farlo stancare troppo. Ma lo fece a condizione che glielo lasciassero tenere ancora un po' anche se spento. Così l'ultima immagine che Carmela vide prima di andarsene fu quella di Mariolino che si era addormentato sorridendo, col capo appoggiato sul suo nuovo regalo.
*** Il buio della sera era già calato da un pezzo quando, prima di raggiungere il garage dove la aspettava il “suo” taxi, Carmela picchiettò sull'uscio di un terraneo a metà di una delle strette stradine in salita alle spalle della grande chiesa di San Domenico Maggiore nel centro storico di Napoli. Come d'abitudine, guardò in alto per lasciarsi inquadrare dai led luminosissimi della piccola telecamera fissata sopra la porta ed attese lo scatto con il quale il battente si aprì, mentre una voce maschile echeggiava allegra: “Entra, Carme', avanti!” E Carmela entrò. Lo stanzone era più grande di quanto poteva far prevedere la misura tutto sommato ridotta della porta. Una volta doveva aver contenuto le stalle dell'antico palazzo gentilizio del quale faceva parte. Oggi invece sembrava un incrocio tra il centro di controllo della NASA ad Houston, ed il laboratorio elettronico del classico scienziato pazzo. Solo che il giovane che le sorrideva cordiale dal fondo del locale, seduto su una sedia a rotelle dietro il lungo banco letteralmente ricoperto di circuiti e componenti elettroniche, non faceva pensare a nulla di folle. Anzi.
Stefano Settimelli, detto “Bandirò”, era un bellissimo giovane di 34 anni, coi capelli ricci nerissimi ed uno sguardo da pirata degno dei migliori film di Hollywood. Il destino della sua vita era strettamente legato al sopran-nome che circa vent'anni prima suo padre, meccanico sopraffino di motociclette, gli aveva affibbiato. Oggi quasi nessuno nel quartiere ricorda il vero significato di quell'appellativo. Alcuni sono certi che tragga la sua etimologia da “bandito” o qualcosa di simile. Altri da “banderuola”. I ragazzi del liceo “Genovesi” a piazza del Gesù, che a volte lo venivano a trovare per far riparare i loro computers, essendo più acculturati facevano risalire il significato del soprannome ad una presunta intenzione del suo possessore di “bandire” dalla sua vita chiunque gli rompa le
scatole. Invece da dopo la morte di suo padre solo pochi anziani apionati di motociclismo ricordano che quel soprannome non si rifaceva ad altro che a Carlo Bandirola, pilota di Voghera famoso fin verso la fine degli anni '50 per la sua guida istintiva, aggressiva ed irruente che lo portò spesso a rovinose cadute o a terminare anzi tempo le gare a causa del cedimento del motore. “Bandirò” da ragazzo guidava la moto esattamente come il famoso e quasi omonimo pilota. Con grande abilità ed aggressività. Cosa che all'età di 19 anni lo fece diventare molto ambìto dalla camorra che ci mise poco ad attirarlo nel suo giro regalandogli una moto potente ed affidandogli consegne rischiose. Che puntualmente Bandirò portava a termine nel migliore dei modi malgrado quattro inseguimenti da parte della polizia in un solo mese. E il mese successivo la sua leggenda crebbe quando fu raggiunto da una pallottola al fianco sparata, pare, da un'auto della polizia che, di fronte alla sua sfrontatezza, stava evidentemente cominciando a perdere la calma. Bandirò, anche se ferito, continuò a guidare spericolatamente fino a far perdere le sue tracce. In effetti in quella occasione il giovane motociclista sentì il camlo d'allarme che lo avvertiva di essersi avventurato in una sfida troppo pericolosa che per lui si poteva concludere solo molto male. Ma era così giovane che il sentirsi una leggenda del suo quartiere a soli 19 anni era per lui un fatto irrinunciabile. Si salvò ancora tre volte per puro miracolo da inseguimenti e rovinose cadute. Poi Bandirò decise di smetterla. Ma la camorra non aveva nessuna voglia di lasciarlo andare. Così cominciarono ad arrivargli minacce sempre più precise fino al fatidico 2 Settembre di quello stesso anno. Dopo una delle più implacabili estati napoletane, il tempo cominciava a cambiare. Bandirò, bardato nella sua tuta di pelle nera e con il casco integrale anch'esso nero ma sul quale il giovane aveva fatto dipingere una stella bianca come quella che adornava il casco del vero Bandirola, stava tornando da Caserta. Aveva imboccato da poco l'autostrada quando scoppiò uno dei primi violenti acquazzoni che annunciavano fragorosamente l'arrivo dell'autunno. Bandirò sapeva che, dopo gli ultimi inseguimenti tutti “curve con l'orecchio a terra”, le gomme della sua moto non erano al meglio della loro aderenza. Perciò decise di rifugiarsi sotto un viadotto ad aspettare che il tempo migliorasse. Così si fermò e scese dalla moto. E, mentre lo stava facendo, chi dice un furgone, chi un camion, chi addirittura un'auto della stessa polizia, lo prese in pieno e gli fece fare un
volo di almeno quindici metri. E da quel momento Bandirò perse l'uso delle gambe. Finché rimase vivo suo padre, Bandirò continuò ad asse-condare la sua ione per le moto dedicandosi alla loro pre-parazione per corse amatoriali. Ma poi, quando rimase solo, si rese conto di quanto lo fe soffrire il dedicare la sua vita a quei veicoli che non poteva più guidare. Così riunì tutti i suoi clienti motociclisti e spiegò loro le ragioni che lo spingevano a lasciare quel mestiere. E lo fece concludendo il suo discorso con la frase “Scusate, ma a me chi c... m' 'o ffa fa'?”, sintesi mirabile che scatenò l'ilarità dei suoi amici ed aumentò il loro affetto verso di lui. E poiché non era tipo da restarsene con le mani in mano sviluppò subito un'altra ione, quella per l'informatica e per l'elettronica in genere. Ed in poco tempo trasformò il garage di padre nelle ex stalle di Palazzo Valenzano in un laboratorio elettronico che diventò presto il più richiesto e fornito centro di assemblaggio, vendita e riparazione di computers e di qualsiasi altro aggeggio elettronico che si trovasse in commercio o che addirittura avesse inventato lui stesso.
Ed infatti fu proprio per una di queste sue invenzioni che Carmela andò a trovarlo quella sera annunciando anche a lui di voler saldare il suo conto. E gli porse i 500 euro che avrebbe dovuto dargli ormai da quasi un anno. Ma Bandirò non li prese: “Ma sei sicura che non ti servono?” Carmela sospirò: “I soldi servono sempre. Ma pure a te.” Ma lui sorrise e scosse il capo: “No, a me no. Solo oggi ho venduto quattro apparecchi nuovi, sto bene per un bel po'. Anzi, ce l'hai con te quello vecchio?” “Si, eccolo qua.” Replicò Carmela estraendo dalla borsa un sacchetto di stoffa scura stretto con un laccetto.
“Fa' una cosa, questo dallo a me. Pigliati quest'altro, che è molto meglio.” Tirò fuori dal sacchetto un apparecchietto elettronico più piccolo di un pacchetto di sigarette, sul cui circuito stampato si distinguevano tra le altre componenti un magnete ed una batteria. E lo sostituì con il “nuovo modello”, una scatoletta di plastica gialla grande la metà, che non lasciava vedere il suo contenuto. Carmela la guardò rigirandosela tra le mani: “E questa come la collego.” “Non la colleghi proprio. Basta che la appoggi dietro il tassametro e fa tutto lei.” “E i soldi li vuoi o no?” Lui sorrise ancora: “Lascia stare, compraci un regalo per Mariolino.” Lei annuì, intascò di nuovo il denaro e si avviò verso la porta. Ma prima di uscire chiese: “Scusa, ma tu ti chiamassi Alfonso?” “No. Perché?” “Niente. Un fatto mio. Statte buono, Bandirò.” “Statte bona, Carmè.” E lei uscì.
Due strade più in su si infilò nell'androne dell'antico Palazzo Fossa di Pimonte. Il portiere Giua' si rese conto benissimo del suo arrivo, ma fece finta di non essersene accorto mostrandosi preso a ripulire con estrema attenzione una cacchetta di mosca dal vetro di una delle tante cassette della posta di legno scuro allineate accanto alla guardiola. Così Carmela raggiunse indisturbata le scale in fondo che si incrociavano verso l'alto sotto i grandi archi Vanvitelliani. Solo che lei, invece di salire, scese.
In basso, in fondo allo stretto corridoio male illuminato, spinse la porta di metallo sempre aperta ed entrò nel locale buio dall'altra parte. Qui, usando la luce del led inserito nella chiave che sbloccava anche l'antifurto, aprì lo sportello del grande taxi bianco che occupava quasi tutto lo spazio e si mise alla guida. Qui appoggiò la scatoletta gialla dietro il tassametro, come le aveva detto Bandirò, pigiò il minuscolo telecomando che prese dal cassetto del cruscotto e la saracinesca basculante (che lei si preoccupava di ingrassare regolarmente ogni tre giorni) si aprì quasi senza rumore. A quel punto mise in moto e, senza accendere i fari partì allontanandosi nello stretto vicolo buio, mentre la saracinesca si richiudeva silenziosa alle sue spalle. Solo quando svoltò l'angolo, accese le luci e proseguì.
Eugenio Pagano, padre di Gesualdo, era molto geloso del suo ultimo taxi che non aveva neanche un anno di vita. In realtà era stato sempre geloso di tutte le auto che negli anni aveva posseduto, a cominciare dal primo taxi verde e nero che suo padre gli aveva lasciato insieme alla licenza che ancora possedeva e che aveva usato in più di quarantacinque anni di onorata carriera di tassista nella quale non aveva mai tenuto una vettura per più di due anni, prima di are al modello successivo. “Il taxi si deve sempre cambiare prima che si cominci a scassare, perché uno tiene la responsabilità di chi porta a bordo. E' questione di coscienza.” Ed era rimasto ligio a questo principio anche quando, divenuto ormai troppo anziano per guidare una vettura pubblica, aveva cominciato a darla “a mezzadria” ad autisti senza un taxi proprio, che lui esaminava con scrupolosa attenzione prima di affidare loro il “suo gioiello”. E sempre e solo per i turni di giorno, dal momento che di notte c'era più pericolo che qualche drogato, rapinando l'autista, potesse danneggiare il suo amato taxi. Il risultato di questa vera e propria fissazione per le sue vetture fu che nella sua vita Eugenio Pagano spese una vera fortuna in taxi, mentre non si offrì mai di aiutare in alcun modo la povera nuora rimasta senza risorse dopo la sparizione di suo figlio. Ragione per cui Carmela, non riuscendo a trovare nessun altra maniera per sbarcare il lunario, col o di Giua' e di Bandirò che conoscevano i suoi
problemi, non aveva avuto altra scelta che cominciare la carriera di “tassista notturna a tradimento”. Intendendo con “a tradimento” non solo il suo guadagnarsi da vivere alle spalle del suocero avaro, ma anche dello stato, dal momento che gli aggeggi elettronici inventati dal giovane Bandirò producevano un campo elettromagnetico che lasciava girare il tassametro, ma gli impediva di registrare le corse. Un altro apparecchietto sempre suo bloccava anche il contachilometri, che avrebbe potuto far scoprire l'uso non autorizzato di quella vettura. Dopo le prime settimane d'ansia Carmela oramai faceva quel mestiere con una tale disinvoltura che perfino i poliziotti che pattugliavano di notte la città, ignari della sua abusività, si fermavano a volte a chiacchierare con lei mentre era in attesa a qualche parcheggio, o ad offrirle un caffè o una tazza di piccantissimo “brodo di polpo” bollente quando la incrociavano in una delle fredde nottate d'inverno davanti al chiosco di “Papele 'o marenaro” a porta Capuana o da “Rafele” a via Foria. O all'aeroporto, dove Carmela arrivò quella sera poco dopo le 23 e 30, appena in tempo per caricare al volo una monaca domenicana di colore che, un po' a gesti, un po' nella sua lingua che Carmela non capiva e un po' in inglese che per lo più non capiva lei, riuscì alla fine a farle comprendere che aveva fretta di raggiungere il convento del suo ordine, che manco a dirlo era quello annesso alla chiesa del Redentore che conteneva il piedistallo della statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Carmela, che oramai non si sorprendeva più per questa presenza continua del Santo nella sua vita, si fece il segno della croce e partì alla volta dell'indirizzo desiderato.
VIII
Attesero in silenzio per un po'. Poi Anna De Vasconcellos accennò alla porta insonorizzata: “Ma Miletti c'è?” Guglielmo cercò di non balbettare: “Si. Ma è ancora rossa...” “Chi?” “La lucetta...” Sciacchitano si inserì sorridendo: “Ma forse non l'hanno avvertito che lei è arrivata. Adesso ci penso io.” Si avvicinò alla porta accanto alla quale era ancora accesa la lucina rossa: “Dottor Miletti?... Guardi che la Dottoressa...” Lei suggerì: “De Vasconcellos.” “Eh, è arrivata... Dottore, mi ha sentito?...” E si mise a picchiettare con le nocche sulla porta. A causa dell'insonorizzazione il rumore quasi non si sentì, ma il battente si aprì di qualche centimetro. “Ma è aperto...” Sciacchitano esitò. Colonnese pure. Anna si mosse decisa, aprì la porta ed entrò seguita dagli altri due.
Nel grande ufficio del Dr Miletti c'era di tutto. Un salotto di pelle, alte librerie, una parete con al centro un grande schermo contornato da monitor più piccoli, due computer, scaffali stipati di contenitori, una scrivania immensa piena di telefoni ed una poltrona imperiale. Ma di Miletti nessuna traccia. “Ma non c'è?...” “E dove è andato?” “Ma non è che sta fuori al balcone?” Chiese Sciacchitano spostando la tenda ed uscendo sulla stretta terrazza al di qua dei merli. Non c'era nessuno anche lì. Poi si affacciò e guardò in basso. E disse ad Anna ed a Colonnese che stavano uscendo anche loro: “Miletti sta qua. Ma non credo che può venire.” E si affacciò di nuovo oltre i merli. Lo fecero anche gli altri due. Nel riflesso dei forti riflettori che illuminavano l'esterno del castello si vedeva chiaramente il corpo del Dr. Miletti sulla sporgenza di un muraglione di rinforzo una ventina di metri più in basso. Giaceva a faccia in giù, in un lago di sangue scuro, disarticolato come una marionetta alla quale qualcuno avesse tagliato i fili. Anna prese subito in mano la situazione e corse dentro ad avvertire gli altri. Guglielmo mormorò ancora incredulo: “Ma che ha fatto, si è suicidato?” E pensò: “Proprio stasera?” Sciacchitano, manco lo avesse, sentito replicò: “Può essere. Evidentemente ha saputo che eri arrivato...” Colonnese gli dette una spinta. L'altro la ricambiò. E continuarono a darsi delle spinte per non mostrare che, forse proprio per la tensione del momento
esageratamente tragico, scappava da ridere a tutti e due.
Per recuperare il corpo i pompieri dovettero calarsi “a doppia corda” dall'alto della terrazza fuori dall'ufficio. La gru arrivata via mare su un mastodontico pontone non riuscì ad avvicinarsi abbastanza a causa degli scogli che difendevano dalle onde la base del castello. Solo verso le 2,30 il medico legale arrivato insieme al magistrato potette dare un primo sguardo al cadavere appena deposto sul pavimento della terrazza e dichiarò che la causa della morte era un proiettile più o meno calibro 9 esploso da brevissima distanza. Colonnese sospirò grave: “S'è sparato.” Ma l'altro lo sorprese: “Non credo. Il foro d'entrata è dietro la nuca. E la sua pi-stola non è stata usata.” Finalmente il corpo fu portato via, pompieri, agenti, funzionari ed impiegati lasciarono la stanza. Nell'ufficio rimasero solo Colonnese, Sciacchitano ed Anna de Vasconcellos che andò a sedersi dietro la grande scrivania ed annunciò agli altri due: “E adesso un litro di caffè, un barattolo di aspirine, e non usciamo da questa stanza fino a quando non avremo capito che cosa è successo qua stasera.”
Ma non ebbero bisogno ne' dell'aspirina ne' di intossicarsi di caffè dal momento che interrogando i presenti tutti concordarono sul fatto che il Dr Miletti era stato visto vivo per l'ultima volta alle nove di sera,quando era entrato nel suo studio un cameriere di colore del ristorante “La bersagliera” che gli aveva portato la cena. “Di colore?” Chiese Sciacchitano subito attento: “Ma era un cameriere o una
cameriera?” “Non lo so. Portava i pantaloni.” Replicò “Serpico. Colonnese si inserì: “Ma com'era, alto, basso, grasso, coi baffi...?” “No, i baffi non li aveva. Statura normale, per un uomo. Se era una donna... si, era alta.” “E' lei.” Sentenziò Sciacchitano. “Ma come fai a dirlo?” Obbiettò Colonnese. La De Vasconcellos lo guardò con sospetto: “Perché, tu credi che...?” Colonnese non la fece finire: “No, lui crede. Io no.” Sciacchitano diventò tagliente: “E per forza. Perché non vuoi ammettere che hai fatto entrare in Italia non solo una trafficante di droga Ghanese vestita da monaca, ma pure un'assassina.” “Io ho fatto entrare in Italia una monaca nigeriana vera! Tutto il resto te lo stai inventando tu!” “Ah, si? E se era una monaca vera perché è sparita da dentro all'aeroporto?” “E che ne so? Magari è stata rapita dalla tua monaca Ghanese per non farla testimoniare!” “Ah, mo è la mia monaca? E' la monaca tua semmai!” “Tu sei pazzo!” “Tu sei scemo!”
Il volume saliva rapidamente, ma i due si zittirono di colpo vedendo che Anna, che aveva cercato inutilmente di interromperli, tirò fuori la sua Glock 26 Subcompact dalla borsetta, la puntò verso di loro e chiese con una leggerezza che non lasciava presagire niente di buono: “Adesso ho la vostra attenzione?” I due annuirono e, mentre lei rimetteva la pistola nella borsa, Peppe, azzardò con un mezzo sorriso: “Guardi che bastava che ci chiamasse. Noi stiamo qua...” Lei scosse il capo: “Avrei dovuto urlare, e non mi piace.” Guglielmo non riuscì a trattenersi: “E ci vuoi sparare per questo?” Ma Anna, contraddicendo quanto aveva appena detto, urlò: “Silenzio!” E proseguì rivolta a Guglielmo con un tono più basso, ma non meno minaccioso: “Se è successo quello che credo di capire, tu stasera hai combinato un casino che può significare la fine della tua carriera, se non di peggio.” “No, aspetta. Io non c'en...” “Ho detto silenzio! Qui qualcuno ha avuto lo stomaco di venire ad ammazzare un Capo divisione dell'AISI fin dentro i nostri uffici, e a quanto capisco l'assassino potrebbe essere un soggetto che era stato affidato alla tua sorveglianza!...” “E si, perché io la dovevo ancora incontrare.” Si associò Sciacchitano, con Colonnese che replicò rabbioso: “E certo. E chi me l'ha fatta scappare? Eh?” Ma Anna non si fece distrarre e proseguì rivolta sempre a Guglielmo ed alzando la voce anche lei:
“...E tu sei così stupido da metterti a litigare con lui invece di darmi almeno una volta una spiegazione convincente di quello che hai fatto!” Sciacchitano si rivolse a Colonnese con tono leggero: “No, quanto a questo la Capo Divisione ha ragione.” Colonnese cercò di contenersi: “E secondo te io ho torto?” “E allora spiegati, come dice la Dottoressa. Avanti, comincia.” “E certo che comincio. Dunque...” Ma in quel momento entrò nella stanza un gruppetto di agenti visti prima e si fermarono in attesa. Guglielmo li guardò: “Che è, volete sentire pure voi?” “Serpico” rispose untuoso: “No, volevamo informare la Dottoressa che la cassiera del ristorante “La bersagliera” ha detto che stasera non le sembra che il Dr Miletti abbia ordinato la cena, però lei è arrivata dopo e quindi non lo sa.” Anna, senza staccare gli occhi da Guglielmo, replicò bassa: “Quindi sei venuto ad informarmi del fatto che non hai niente su cui informarmi?” “Eh... No, è che mi ha detto pure un'altra cosa... non so se è importante... mo non mi ricordo... Ah, si! Ha detto che alla Bersagliera non hanno camerieri di colore.” Anna, sempre fissando Guglielmo: “E non sai se è importante?...” E proseguì in crescendo:
“E già, perché qui c'è l'abitudine di dire solo le stronzate. Le cose importanti si confessano solo quando non se ne può più fare a meno. E' vero?” Guglielmo cercò di reagire: “E non lo so, io sono appena arrivato...” Ma lei scaricò finalmente tutta la sua rabbia urlazzando sempre contro Guglielmo: “Che vergogna! Che idiozia! Telecamere dappertutto, entrate mimetizzate, ascensori a chiave di sicurezza, e uno qualsiasi vestito da cameriere di ristorante entra tranquillamente fin dentro l'ufficio del capo?” Qui addirittura punto' il dito contro il povero Colonnese gridando a squarciagola: “Voi siete degli incoscienti! Ed anche degli assassini! E adesso voglio sapere chi è il responsabile di quest'altra stronzata!” Guglielmo stava per risentirsi davvero, ma gli altri gli tolsero la parola e si affrettarono a testimoniare che era stato lo stesso Miletti ad autorizzare l'entrata del cameriere. Ma Anna ringhiò, senza mai smettere di fissare Guglielmo: “E già, perché Miletti è morto ed io non me la posso prendere con lui. Ma ci sono sempre i vivi! E' chiaro?” Tutti si affrettarono ad uscire. A quel punto Colonnese era certo che Anna avrebbe tirato fuori esplicitamente tutto il suo antico rancore verso di lui. Invece lei si limitò a farsi spiegare in ogni dettaglio la storia della scomparsa della monaca nigeriana (secondo Guglielmo) o della falsa monaca ghanese (secondo Sciacchitano). Poi, forse perché i due cominciavano a perdere lucidità per la stanchezza, forse perché anche lei risentiva dello shock della scoperta, o forse semplicemente perché c'è un limite a tutto ed anche un Panzer come la De Vasconcellos prima o poi ha bisogno di dormire, la Capo Divisione li congedò: “Adesso andate a riposarvi. Ci vediamo domani.” Guglielmo azzardò:
“Ma quando riparto per Roma? Domani è la festa di mio figlio, il più piccolo e io...” Lei gli lanciò solo un'occhiata e ripetette: “Ci vediamo domani con calma. Appuntamento alle nove qua.”
“Azz, con calma? Sono quasi le cinque!” Esclamò Peppe Sciacchitano mentre lui e Colonnese, uno vestito da somalo ed uno vestito da prete, si allontanavano a piedi dalla grande fortezza sul mare percorrendo lo stretto viadotto che la collegava a via Partenope. Colonnese replicò rabbrividendo per il vento fresco che prima dell'alba cominciava a sfiorare il mare nero: “L'importante è che ci ha fatto andare via. Tu non la conosci. Quella è capace di stare pure tre giorni senza dormire.” Peppe che neanche a quell'ora aveva perso la sua abituale ironia, sembrò entusiasmarsi: “Io pure erei tre giorni senza dormire insieme ad una così.” Colonnese decise di non dargli corda e non replicò. Ma Peppe, mentre attraversavano il lungomare deserto e si avviavano verso l'ingresso dell' “Hotel Vesuvio” pochi metri più in là, insistette: “E tu... Com'è che la conosci così bene?” Guglielmo cercò ancora di non rispondere: “Eh, bene... La conosco. Ma è roba di tanti anni fa.” Ma Peppe naturalmente non mollò: “E racconta. Se è cosa di tanti anni fa, deve essere roba pesante, se no perché quella ti guarda con gli occhi omicidi?” “Ma quando mai?”
Peppe gli cedette il o all'ingresso dell'albergo, e proseguì mentre procedevano verso la portineria: “Azz, quando mai? E' così evidente. Di' la verità, che le hai fatto?” “Ma che devo averle fatto? Niente...” Tergiversò Guglielmo sinceramente imbarazzato, ma poi concluse mentre arrivavano davanti all'assonnato portiere di notte: “...Prima stavamo insieme e poi quando ho conosciuto mia moglie me ne sono andato senza dirle niente.” Il portiere si svegliò di colpo. Guglielmo se ne accorse ed aggiunse conscio dell'abito che indossava: “No, ma che ha capito? Guardi che c'è un equivoco.” Ma Peppe non mollò la presa rivolgendosi complice al portiere che gli dava la chiave elettronica della sua stanza: “Nossignore, quello è vero. Voi non sapete a quelle povere monachelle che le combina!... Che numero è la tua stanza?” Solo in quel momento Colonnese si ricordò che, prevedendo di tornare a Roma quella sera stessa, non aveva prenotato nessun albergo. “Uh, mi dispiace, non so proprio come fare.” Il portiere si finse mortificato: “In questo momento a Napoli ci stanno sei conferenze mondiali contemporaneamente. Tutti gli alberghi del lungomare hanno affittato pure le stanze del personale.” Peppe si offrì: “Ti potresti arrangiare nella mia stanza, ma non so se riesci a dormire. C'è solo un letto matrimoniale, e io russo.” “Ma nossignore, gli alberghi del centro posto ne hanno. Vi prendete un tassì qua all'angolo e in cinque minuti siete a letto.” “E va bene, farò così.” Si rassegnò Guglielmo e si avviò verso la porta. Peppe
andando all'ascensore si finse cerimonioso: “Comunque, se ti serve qualcosa, questo è il numero del mio cellulare.” E gli porse un biglietto da visita aggiungendo col suo tuto ironico: “E mi raccomando, riposati!” Guglielmo non aveva più la forza per continuare ad arrabbiasi. Si limitò a replicare: “Non te ne perdi una, eh? Proprio senza pietà.” Peppe fece l'innocente: “Ma perché, che ho detto?... Be', buonanotte!” Ma Colonnese era già uscito.
IX
La donna grassa col cagnolino scese dal taxi alle 21,45 proprio all'incrocio tra via Cimarosa e via Michele Kerbaker. E Carmela Pagano, mentre annotava sul suo quadernetto l'incasso della corsa, venne avvolta dai profumi paradisiaci che emanavano dalla “Friggitoria Vomero”ancora aperta e si ricordò che, travolta dagli avvenimenti di quella avventurosa giornata, si era completamente dimenticata di mangiare. Si precipitò dentro e, dopo aver lottato con la piccola folla di ritardatari che ancora si accalcavano davanti al banco, uscì stringendo trionfalmente un grosso cartoccio di “panzarotti, paste cresciute e palle di riso”, irrinunciabili specialità di quel famoso locale. E masticando la prima fragrante crocchetta di patate ancora bollente, Carmela si sentì felice. E, naturalmente, da quel momento in poi fu tutto un susseguirsi di clienti che sembravano essersi messi d'accordo per impedirle di mangiare. Addirittura quando alle 23,45, lasciato l'ultimo eggero, decise di accostarsi al marciapiede di via Santa Teresa al museo, spegnere l'insegna sul tetto del taxi e dedicarsi finalmente ai suoi fritti, un tale le saltò in macchina offrendole doppia corsa se lo avesse portato subito all'aeroporto di Capodichino in tempo per prendere l'aereo per Milano. E, mentre lei si precipitava su via Foria, il eggero annusando l'aria ed occhieggiando il cartoccio accanto a Carmela aveva esclamato col suo accento lombardo: “Ma che profumo! Cosa sono quelle cose lì?” “Panzarotti... Cioè, crocchette di patate, pizzelle fritte, arancini di riso.... Prego, volete favorire?” E l'altro favorì con gusto, anche perché, come specificò a bocca piena durante il viaggio, quella sera neanche lui aveva avuto il tempo di mangiare. All'aeroporto le lasciò la doppia corsa, una lauta mancia, ed il cartoccio della
friggitoria Vomero col contenuto ridotto alla metà. E, prima che Carmela potesse tornare ad addentare una di quelle delizie, le entrò nel taxi una monaca di colore che doveva non aver cenato neanche lei dal momento che, quando scese davanti alla chiesa del Redentore, il cartoccio era ridotto ad un quarto. E qui salirono quei tre ragazzi allegri e rumorosi, che quando scesero a piazza del Plebiscito, le lasciarono solo la carta oleata ed il profumo persistente dei fritti che non aveva potuto gustare. Verso le due e mezza, ando per il vicolo San Pietro a Maiella pensò di fermarsi alla “Friggitoria Verace” a riprovarci. Ma il traffico di auto e motorini strombazzanti dei ragazzi che affollavano le discoteche intorno al Conservatorio non le permise neanche di rallentare. Alle 5,15, col taxi fermo a via Santa Lucia all'angolo dell'Hotel Vesuvio, Carmela si appisolò col capo appoggiato al finestrino chiuso. Ma fu svegliata quasi subito prima da un rumoroso “gorgorò” del suo stomaco e poi da un prete che salendo a bordo esclamò: “Mhh, che profumo!” Lei replicò d'istinto: “Mi dispiace, i panzarotti sono finiti più di tre ore fa.” “Come dice?” Chiese interdetto Colonnese. “No è che mi ero comprata la cena, ma se la sono mangiata tutta i clienti... Dove vi porto, Padre?” “Io dovrei cercarmi un albergo, ma...” “Ma?” “Ci sono posti aperti dove mangiare a quest'ora?” “A Napoli? Quanti ne volete?”
E fece per mettere in moto, ma Colonnese la fermò: “Però a condizione che mi facciate compagnia. A mangiare da solo mi viene una tristezza...” Lei si voltò a guardarlo, poi replicò: “Io sto morendo di fame, voi siete prete, e quindi altre intenzioni è difficile che le abbiate... Perché voi siete prete, è vero?” “E certo. Non si vede?” “E allora ci sto.” E mise in moto. “Vi porto in un posto che... Non so se lo conoscete. Da quanto tempo mancate da Napoli?” “Io veramente ci sono nato.” “Però è parecchio che non ci state, è vero? Si sente dall'accento.” “Lo so. A Roma dicono che ho l'accento Napoletano e a Napoli che ho quello romano. E' la mia condanna.” “Eh, fossero tutte queste le condanne!” Carmela fece per partire, ma si fermò di nuovo ed aggiunse: “Oh, però a condizione che alle sei e mezza precise mi fate posare il taxi.” “Si... Ma perché proprio alle sei e mezza?” “Perché... Padre, voi quante cose volete sapere?” E partì immettendosi allegra su via Partenope.
***
Nella piccola trattoria a Porta Capuana, dopo una piccantissima impepata di cozze sostenuta dal succo di due grandi limoni di Sorrento e da un litro di
“bianco della casa” freddissimo, Guglielmo finalmente si dimenticò delle occhiate feroci di Anna De Vasconcellos, della monaca nigeriana, e del povero Dr Miletti, della cui morte era però sinceramente dispiaciuto. Su suggerimento di Carmela che ne garantì la freschezza, ordinò anche un doppio fritto di calamari, gamberi, triglie, merluzzetti e misto di paranza accompagnati da un altro litro di quel “vinello leggero” che, sarà stata l'ora, il calo di tensione o la compagnia di quella tassista così simpatica e rilassante, gli sembrò molto migliore del “Blanc de blanc di Laurent & Perrier” che aveva bevuto nemmeno una settimana prima da “Leduc” a Parigi. Mangiando e più che altro bevendo parlarono poco. Poi quando le ottime pietanze ed il vino ghiacciato cominciarono a fare il loro effetto diventarono loquaci. Cominciò Carmela che si terse le labbra dopo aver svuotato un ennesimo bicchiere e chiese: “Scusate, Padre Manzù, vi posso fare una domanda?” E qui le venne un piccolo singhiozzo che avrebbe dovuto avvertirla di stare esagerando col vino, ma quell'abbandonarsi spensierato, che non aveva praticato da chissà quanto, la rendeva troppo felice per darvi peso. “Prego” replicò lui finendo il suo vino ed afferrando il cameriere al volo per chiedergliene ancora. “Ma perché avete lasciato le triglie. Non vi piacciono.” Guglielmo sorrise allegro e replicò strascicando un po' le “esse” : “La verità? Sono troppo piene di spine. Quando ero piccolo me ne andò una alla gola e...” Lei, con una confidenza che era anch'essa figlia di quel vinello, gli prese il piatto: “Va be', ho capito. Ve le spino io.” E si mise a farlo anche se Guglielmo protestò con la voce un po' impastata: “Ma no, non c'è bisogno.”
“Ma si che c'è bisogno. Sono saporitissime. A lasciarle là è un peccato di Dio, mo ce vo'.” Guglielmo, che era tanto che non veniva coccolato in quel modo, chiese a sua volta: “E adesso gliela posso fare io una domanda?” “Padre, ma datemi del tu.” “Te la posso fare io una domanda?” “Certamente.” “Ma è normale che i eggeri si mangino la cena tua?” E versò a tutti e due dell'altro vinello leggero appena arrivato. Lei rise: “Oh, stasera pare che si erano messi d'accordo! Prima un milanese che teneva una fame peggio della mia, poi una monaca africana appena arrivata all'aeroporto che neanche ci scherzava, poi tre ragazzi che...” Guglielmo fece fatica a ripescare un po' di lucidità nel suo abbandono alcolico ed esclamò con la voce che gli venne fuori troppo forte: “Com'era la valigia?” Lei non capì la ragione di questo cambiamento improvviso: “Che cosa?” “La suora africana, aveva una valigia rossa?” “Si, perché?...” Carmela non voleva interrompere quella fuga gustosa dalla realtà per l'improvvisa tensione che sentiva nelle parole del prete. “Perché siamo arrivati insieme. Dovevamo proseguire per Roma. Invece quella è sparita senza una ragione e mi ha lasciato da solo all'aeroporto.” “Veramente?”
“E dov'è andata? Dove l'hai portata? Me lo puoi dire?” Lei, anche se incerta, replicò: “Al convento delle suore Domenicane. Quello che sta attaccato alla chiesa del Redentore, dove c'è la statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori... Cioè, dove c'era la statua, perché adesso...” Ma lui la interruppe pressante: “E mi ci puoi portare?” “Dove?” “A questo convento.” “Ora?” “Eh, ora.” Lei guardò l'orologio: “Ma a piedi. Sono le sei e un quarto. Io prima debbo posare il taxi.” “E va bene. A piedi.” Disse lui afferrando di nuovo il cameriere al volo per chiedergli il conto.
Alle sei e mezza precise, lasciato il Taxi nel piccolo garage di Eugenio Pagano, provarono ad avviarsi a piedi verso il convento. Ma bastarono pochi i per rendersi conto che non ce l'avrebbero mai fatta. Erano svegli tutti e due da quasi 24 ore. Quel “Vinello leggero” mostrò di colpo di essere tutto meno che leggero. Si sentirono improvvisamente le gambe così pesanti da doversi prendere sottobraccio per sostenersi a vicenda. Guglielmo aveva l'occhio stravolto: “E che facciamo adesso?” Carmela ci mise un attimo per metterlo a fuoco, poi chiese:
“Monsigno', voi siete prete?” “Eh!” Rispose lui. “E allora non vi preoccupate.” E si avviarono col fruscio dei loro piedi strascicati che echeggiava nella stradina deserta.
Quando finalmente raggiunsero il modesto appartamento di Carmela, al quinto piano senza ascensore, nessuno dei due aveva la forza di parlare. Ansimando sonoramente ebbero solo un breve, ma efficace discorso muto. Lei a gesti gli disse, nell'ordine: Quello è il divano. Questi sono un cuscino e una coperta. Il bagno sta qua, però aspettate che ci vado prima io. Lui si limitò ad annuire. Mentre lei era sparita nel bagno Guglielmo si accorse che oltre la finestra il cielo era rischiarato dai primi albori. Pensò di chiudere la serranda, ma appena toccò la cinghia quella si spezzò e la saracinesca si chiuse di botto con un fragore esagerato. Guglielmo fece un balzo indietro, ma Carmela si affacciò dal bagno e lo rassicurò sempre a gesti: Non vi preoccupate. E' normale. Lo fa continuamente. E sparì nella camera in fondo. Guglielmo si sedette sul divano. Poi provò a distendersi, ma fu come se tutto il mondo cominciasse a girargli intorno. Tornò seduto e mosse le mani per reggersi la testa. E si accorse di avere le dita della destra macchiate di una sostanza marrone ed untuosa che sembrava lucido da scarpe. Barcollando raggiunse il bagno, ma per quanto si strofinasse le dita con la carta igienica e le lavasse con acqua calda e sapone quella strana sostanza si limitò a sporcargli anche l'altra
mano.
L'indomani mattina, quando si svegliò Guglielmo avrebbe voluto non essere mai nato. Alla luce del suo amato accendino l'orologio che aveva al polso gli disse che era ato mezzogiorno da 15 minuti. Si alzò di scatto e nella testa gli esplose un dolore così violento e cattivo da dargli la certezza di essere vittima almeno di una emorragia cerebrale. Nello stipetto del bagno trovò un flacone di Aspirina, ma era vuoto. In compenso nello specchio di quello stesso stipetto vide l'immagine di un prete scapigliato col viso di un soldato “mimetizzato”. Durante il sonno doveva essersi toccato il viso con le dita ancora sporche di quella maledetta sostanza marrone. Si lavò la faccia, si ravviò i capelli, ma la sua immagine non cambiò di molto. E qui la sua punta di ipocondria si affacciò di nuovo: Chissà cos'era quella roba marrone. E chissà dove gli si era appiccicata alle dita. E se era velenosa? E se mi viene uno choc anafilattico? Istintivamente si toccò la gola sporcando di marrone anche il collare. Raccolse la carta igienica sporca intenzionato a farla analizzare, la avvolse in dell'altra pulita e se la cacciò in tasca. Poi chiamò Peppe Sciacchitano, parlando sottovoce per non svegliare la “tassista”: “Pronto, sono Guglielmo Colonnese.” “Che vuoi?” “Fammi un piacere, avverti tu la De Vasconcellos che arrivo direttamente dopo pranzo.” “Io? Io adesso mi sto svegliando. Ma in che albergo stai?” “...Non lo so.” “Ma che hai combinato stanotte?” “Niente. Ho trovato la monaca nigeriana.” “Ah. E dove sta?”
“Al convento delle monache nigeriane.” “Perché, a Napoli ci sta il convento delle monache nigeriane?” “Il convento delle monache Domenicane. Lei viene da quello di Lagos. In Nigeria.” “Ah. E adesso stai là?” “No, ci volevo andare con te.” “Ah, grazie... e allora giusto il tempo che mi alzo, mi faccio la barba, mi vesto, mi piglio un poco di caffè e andiamo subito ad avvertire la De Vasconcellos.” “Senti, no, forse è meglio se ti o a prendere io. Così mi faccio pure una doccia.” “Non hai proprio dormito stanotte?” “Se ti ho detto che ho trovato la monaca. E poi prima di venire devo comprare qualcosa da mettermi addosso. Io non ho bagaglio.” “Allora fa' una cosa. Io lascio detto in portineria di darti le chiavi. Tu fai con tutto comodo, quando hai finito mi raggiungi.” “In ufficio?” “No, nel salone al primo piano, dove si fa colazione.” “Ma a quell'ora staranno servendo il pranzo.” “E vuol dire che pranziamo pure noi. In ufficio ci andiamo dopo. Tanto la scusa ce l'abbiamo: abbiamo trovato la monaca, o no?” “Abbiamo?” Ma Sciacchitano aveva già riattaccato. Guglielmo intascò il cellulare e, attento a non far rumore, raggiunse la porta. Prima di uscire lanciò un'occhiata verso la camera da letto. Il battente non era completamente chiuso. Uno spiraglio lasciava vedere con chiarezza nella luce
del giorno che entrava dalla finestra, il letto matrimoniale che conteneva un mix abbagliante di 10% di lenzuola e 90% di Carmela. “Però. Chi se lo aspettava che questa sotto panni fosse messa così bene!” Ma poi si ricordò dell'abito che indossava ed uscì sul pianerottolo richiudendosi cautamente la porta alle spalle. *** La lunga doccia lo rimise al mondo. Anche se non riuscì a cancellargli del tutto quel color marrone dalle dita e dalla faccia. La cameriera al piano che chiamò in soccorso lo esaminò con occhio esperto. E sentenziò: “E' lucido da scarpe. Testa di moro.” “Ah. E come si toglie?” “Uh Gesù, che ci vuole? Aspettate...” Uscì per pochi secondi e rientrò con un paio di piccole porzioni di burro incartate nella stagnola avvolte in un tovagliolo che doveva aver preso da qualche vassoio rimasto nel corridoio: “Ecco qua.” “Ma è burro?...” “Si. E' l'unica cosa che toglie le macchie di lucido da scarpe dalla pelle.” “Ma lei è sicura?” “E guardate.” Lo condusse nel bagno e, senza tanti complimenti, gli strofinò il burro sul viso. Poi lo tirò via col tovagliolo mostrando con orgoglio che le macchie erano magicamente sparite. Mancia di dieci euro, altra ata di burro sulle mani ed altra lavata per portarlo via e Guglielmo si sentì un uomo nuovo. Solo per un attimo si chiese se quel burro non avrebbe potuto scatenargli magari anch'esso qualche allergia, ma poi fu così felice di potersi finalmente cambiar d'abito che anche quella ”punta di
ipocondria” si dissolse nell'aria. Indossò un vestito grigio con camicia celeste e cravatta blu a pois bianchi nuovi di trinca, mise l'abito talare con camicia e collare nello stesso sacchetto del negozio, finalmente si liberò della carta igienica sporca che si era portato in tasca gettandola nel cestino del bagno. E, prima di raggiungere Sciacchitano nel salone al primo piano, scese in portineria. Qui cedette il sacchetto ad uno dei portieri di giorno perché fosse mandato in lavanderia e chiese notizie di un mazzo di fiori che aveva fatto ordinare non appena era arrivato. “Si, si, tutto a posto. Eccoli qua. Belli, no?” Il portiere indicò un magnifico fascio di rose rosse a gambo lungo poggiato su una delle scrivanie dietro il banco. Guglielmo obbiettò: “A parte il fatto che non avevo chiesto rose, i fiori andavano consegnati alla signora Carmela Pagano. Dovrebbe esserci anche il mio biglietto col nome e l'indirizzo. Il portiere si spostò a prendere i fiori, e in quel momento alle spalle di Guglielmo risuonò una voce femminile dal caratteristico tono perentorio: “Guglielmo!” Prima di voltarsi già lo sapeva che si trattava di Anna De Vasconcellos che, con un abito di seta “ecru” che le disegnava il corpo, un foulard rigorosamente di Hermes sui capelli e gli occhialoni da sole, il tutto frutto di un tempestivo shopping matutino, sembrava più una top model che un Capo Divisione dell'AISI. “Oh, Anna...” Ma non ebbe il tempo di aggiungere altro. Il portiere tornò col grosso mazzo di fiori annunciando: “Il biglietto c'è. Ma non c'è ne' il nome ne' l'indirizzo.” Anna chiese curiosa:
“Cos'è, la festa di qualcuno?” Guglielmo si ricordò di Giorgetto e replicò: “Si, oggi è il compleanno di mio figlio. Te l'ho detto ieri. A proposito, a che ora parto per Roma?” Anna non gli rispose. Si limitò a chiedere: “Tuo figlio quanti anni ha?” “Cinque.” “E gli mandi le rose rosse?” Guglielmo non ci penso su nemmeno un attimo. Prese i fiori e glieli offrì: “Veramente queste erano per te.” Se Anna rimase colpita o meno, quegli occhialoni scuri lo nascosero completamente. Disse solo: “Grazie...” Ma aggiunse subito: “E il biglietto non me lo dai?” Rapida glielo prese dalle mani e lesse: “Grazie per l'ottima cena.” E lo guardò interrogativa. Guglielmo replicò con un tono che sembrava vero: “Era un modo per invitarti stasera. Ti ringraziavo prima, così non avresti potuto dirmi di no.” Stavolta lei una reazione la ebbe, anche se enigmatica. Fece un o indietro e lo fissò chinando un po' il capo da un lato. Ma subito riprese il suo tono “corazzato” abituale:
“Va bene, vedremo. Adesso parliamo di cose serie. Mi ha chiamato Sciacchitano. Ha detto che ha trovato la monaca ghanese. Dove sta?” “Lui sta nel salone al primo piano. La monaca invece sta nel convento delle monache Domenicane. E non è Ghanese, è nigeriana. E non l'ha trovata Sciacchitano.” “Ah, si? E chi l'ha trovata?” Ma subito si tolse gli occhiali ed aggiunse con uno sguardo allegro: “Sto scherzando... Ma me lo offri almeno un caffè, o neanche questo?”
Quando entrarono nel salone al primo piano, lei elegantissima con quel gran fascio di rose in mano e Guglielmo col suo abito nuovo, tutti i presenti li presero per una coppia di divi del cinema. Sciacchitano non perse l'occasione per mostrarsi ammirato. Naturalmente solo con lei. Si alzò dal suo tavolo e tenendole la sedia dichiarò: “Dottoressa oggi siete di una bellezza abbagliante. Avete fatto un'entrata che mancavano solo i flashes dei fotografi. ” Lei si sedette: “Sciacchitano, guarda che con me l'adulazione non funziona.” Ma aggiunse subito con un ampio sorriso e toccandogli il dorso della mano: “Però mi piace moltissimo.” Sciacchitano rise. Lei pure. Anche Guglielmo rise, ma, chissà perché, con una punta di gelosia. A quel punto forse avrebbero pranzato insieme, dimenticandosi almeno per un po' della monaca africana. E magari si sarebbero anche divertiti con quell'aria da “bei tempi andati” che sembrava aleggiare improvvisamente tra di loro. Ma furono interrotti da “Serpico” che arrivò affannato: “Dottoressa, ma il vostro cellulare non piglia?”
Lei tornò subito Capo Divisione: “Perché, tu hai il numero del mio cellulare?” Serpico si mise una mano in fronte: “Ah, ecco perché non vi riuscivano a trovare. Quelli chissà che numero facevano.” “Comunque adesso mi hai trovata. Che c'è?” “In ufficio ha telefonato una persona per voi. Dice che è urgente.” “E chi è? “E... ” Estrasse un foglietto e glielo porse: “Sta scritto qua.” Anna lo prese e lesse: “'Yar'uwa A'isha Ikenda... E chi è?” Sciacchitano: “La monaca ghanese.” Guglielmo: “No, prego, la monaca nigeriana.” Anna li guardò tutti e due e chiese: “E come fa a conoscere il numero dell'AISI?”
X
“Il vostro numero ci è stato comunicato dalla nostra casa madre a Roma” Suor Armida, la massiccia Priora del convento delle suore Domenicane aveva un tono accusatorio “che a sua volta lo ha ricevuto dal direttore della vostra agenzia quando gli abbiamo comunicato quello che è successo ieri sera.” Guglielmo cercò di capire: “Si, ma appunto, ch'è successo ieri sera? Dov'è suor A'isha?” “Permette?” disse l'uomo altrettanto massiccio che le sedeva accanto nella grande libreria del convento “sono l'Avv. Emanuele Pavia, e sono qui su richiesta del Segretariato di Stato della Città del Vaticano.” “Nientedimeno.” commentò Sciacchitano con un'espressione così seria che l'altro non si accorse neanche che lo sfotteva. “Ieri sera è accaduto un fatto grave per cui Suor...” Lesse da un foglio, ma Guglielmo fu più rapido a suggerire: “...A'isha Ikenda” “Esatto... è stata costretta a rifugiarsi qui dopo essere stata lasciata sola in aeroporto senza che nessun funzionario dei servizi italiani fosse venuto ad accoglierla.” “Come, venuta ad accoglierla? Ma se io sono andato fino in Germania per accompagnarla qua?...” “Si, ma poi l'ha abbandonata in aeroporto. Cosa che l'ha resa vittima di un tentativo di rapimento da parte di una sedicente “suora ghanese” che si era offerta di accompagnarla fino a questo convento. Per fortuna Suor...” “A'isha Ikenda”
“...Si è accorta in tempo che c'era qualcosa di sospetto nel comportamento dell'altra suora, è riuscita a sfuggirle e si è rifugiata nella clausura di questo convento. Ragion per cui, vista l'inefficienza di quelli che avrebbero dovuto proteggerla, sono stato incaricato ufficialmente dal Segretariato di Stato di comunicarvi che Suor...” “A'isha Ikenda...” “...non sente più nessun obbligo di collaborare a rischio della sua vita con le autorità italiane.” E, con un gesto conclusivo, chiuse la cartella che aveva davanti, e si alzò per andarsene. Sciacchitano e Colonnese cercarono di fermarlo: “No, senta Avvocato...” “Aspetti un attimo...” Ma lui li interruppe sollevando una mano: “Vi prego. Non insistete. Se non volete che per colpa vostra si apra un incidente diplomatico considerate questo convento off limits per voi e per ogni altro agente della vostra agenzia.” Ed uscì. I due si rivolsero alla Priora: “Madre, ma voi non potete aiutarci lo stesso?” Ma Suor Armida mormorò sdegnata:” “Vergogna!” Ed uscì anche lei. Rimasti soli Sciacchitano non perse l'occasione per sfottere il collega: “Hai capito? Ti devi vergognare.” Ma Colonnese stavolta non stette al gioco:
“Sciacchità, guarda che se io ancora ti sopporto è perché tra massimo un paio d'ore me ne torno a Roma e non ti vedrò più per tutta la vita!” Ed uscì seguito da Peppe che rispose sorridendo: “La speranza è assolutamente condivisa.” Ma, mentre percorrevano il corridoio dell'antico convento squillò il portatile di Sciacchitano che rispose: “Si?... Ah, Dottoressa De Vasconcellos, sono Sciacchitato... Si, sta qua...” E ò il cellulare a Guglielmo: “Vuole parlare con te.” Guglielmo prese il telefonino e se lo portò all'orecchio: “Pronto?... Chi?... Il Vice Direttore Massa? Si, è il capo mio...” la sua espressione cominciò a diventare sempre più tesa “...e lui che ha detto...?” La rabbia di Guglielmo crebbe a vista d'occhio “...Sissignore, ho capito. Agli ordini.” Riattaccò e scagliò il portatile contro il muro. “Ue', il telefono mio!...” Sciacchitano si affrettò a raccoglierlo. “Ma si può sapere che ti ha detto?” continuò a coccolarsi il telefonino mentre Guglielmo rispose: “Ha detto che a Roma hanno deciso che siccome il casino con le monache lo abbiamo fatto noi, siamo noi che ce ne dobbiamo occupare.” “Noi, chi?” “Io e te. Hanno deciso che dobbiamo restare a Napoli finché non è tutto risolto.” Sciacchitano rimase un attimo in silenzio come riflettendo. Poi sollevò la mano e scagliò anche lui il telefonino contro il muro.
***
“Tanti auguri, Giorgetto! Ti è piaciuta la bicicletta?” Guglielmo cercò di non far trasparire con suo figlio lo sforzo che faceva per sembrargli allegro: “Si lo so, ma papà è rimasto bloccato qua... Dove sto?... A Venezia... ” Per Guglielmo era automatico non dire mai per telefono dove si trovasse. “Dove?... E che ci fate a Napoli?... Ah, siete andati dal nonno per la festa tua... E quando tornate a Roma?... Dopodomani... Una gondo-la?... Si, ho capito una gondola piccola, ma che te ne fai? A Venezia ci sono tante altre cose che ti posso portare oltre le gondole...” “E quali sono?” Gli mormorò all'orecchio Sciacchitano che gli si era avvicinato alle spalle nel grande salone dell'AISI di Napoli. “Che cosa?” Sobbalzò Guglielmo coprendo il microfono con la mano. L'altro insistette: “Eh, quali cose ci stanno a Venezia che uno può comprare, oltre le gondole di plastica?” “E non lo so. Ci stanno... Ma te ne vai, o no?... Scusa, Giorgetto, non ce l'ho con te. E' che qua c'è un...” “Collega. Sempre collega. La parola non è cambiata.” “...C'è uno che mi è venuto a chiamare perché dobbiamo fare una cosa urgente... E no, oggi non ce la faccio. Ma non ti preoccupare che papà fa presto presto e ritorna subito a casa... Ah, già, voi non ci siete... Devo venire a Napoli? E adesso vediamo come vanno le cose... Pronto? Giorgetto?... Elvira?... Che ha fatto, s'è messo a piangere? E io lo sapevo... Purtroppo c'è stata un'altra complicazione nel lavoro... Si, sto a Venezia... Che cosa? I merletti? Ma quelli li fanno a Murano, io non ho il tempo per...” Sciacchitano gli sussurrò nell'orecchio: “Burano! Si chiama Burano dove fanno i merletti. A Murano ci fanno i vetri. Neanche una bugia fatta bene sei capace di dire!...” Guglielmo coprì ancora il microfono: “Tanto quella non lo sa.” Poi riprese: “Come dici? Ah, a Murano fanno i lampadari?... E lo so. No volevo dire Burano, mi sono confuso perché qua c'è
uno che... Scusa, adesso debbo andare... Si, ti faccio sapere. Ciao. Ciao.” Riattaccò e si rivolse a Sciacchitano: “Scusa, mi dai un attimo il telefonino tuo?” L'altro estrasse il telefonino miracolosamente sopravvissuto agli impatti precedenti e glielo ò. Colonnese lo prese e con un solo gesto lo scaraventò fuori dalla finestra aperta. E prima che l'altro potesse reagire gli ringhiò contro:” “Ma si può sapere che vuoi da me? Eh? Che vuoi?” Sciacchitano, come sempre gli accadeva quando stava per arrabbiarsi, cominciò a sorridere scuotendo il capo: “No, tu sei scemo. Ma non scemo poco. Proprio scemo irrecuperabile.” “E tu sei uno scassacazzi insopportabile.” Peppe addirittura rise: “Però simpatico. Uno che ogni volta che parla un sorriso lo riesce a strappare a chiunque. Invece con te, niente! Un muso fino a terra 24 ore su 24. Colonne' guarda, io te lo dico come amico: tu sei poco più simpatico di una cassa da morto. Ma appena appena. Mo mettiti nei panni miei. Tu mi hai fatto perdere un mese di lavoro, hai fatto entrare in Italia una trafficante ghanese...” “Dagli!” “...che probabilmente ha pure ammazzato un nostro Capo Divisione, e malgrado questo io ho detto: non fa niente, sopportiamo con pazienza, tanto questo riparte e chi si è visto si è visto”. “Ah, questo hai detto?” “Si, perché io sono una persona simpatica. Lo vedi come rido? Le stanze si illuminano quando a questo sorriso!” “Sciacchita', tu ti devi far curare.” “No, tu ti devi far curare! Tu tieni il cervello in condizioni disperate. Ma è
possibile che non ti rendi conto che, dopo che ho avuto questa condanna di dover lavorare insieme a te, che già ha messo la mia vita in pericolo, per me può essere mortale essere costretto a sentire uno che con suo figlio, dicendogli una bugia, sceglie l'unica città del mondo nella quale non c'è niente da portargli in regalo a parte una gondola di plastica! E mo tu a Napoli una gondola di plastica dove la pigli?... He' capito mo?” Anche a Guglielmo finalmente scappò un mezzo sorriso. Prese il suo telefonino e lo porse a Sciacchitano: “Tié.” “Che è?” “Niente. Il tuo te l'ho rotto. Ti do il telefonino mio.” Sciacchitano a momenti diventava serio: “E poi come telefoni a Giorgetto?... No. E' meglio che te lo tieni, tanto io me ne faccio dare un altro.” Ma poi tornò a sorridere ed aggiunse: “Comunque, anche se mi hai fatto questa gentile offerta, ricordati che io sempre non ti sopporto.” “E sapessi io.” Replicò Guglielmo. Ma la voce di Anna risuonò alle loro spalle: “A tutto c'è rimedio.” “In che senso?...” Sciacchitano e Colonnese si voltarono verso di lei con aria interrogativa. Anna per tutte risposta fece loro cenno di seguirla. E mentre li precedeva nell'ufficio dell'ex Capo Divisione, aggiunse sottovoce: “Probabilmente abbiamo identificato l'assassino di Miletti.” Colonnese e Sciacchitano si scambiarono un'occhiata speranzosa. Le immagini che scorrevano su uno dei monitor sulla parete di fronte alla scrivania del fu Miletti ed ora della De Vasconcellos erano quelle che la sera
precedente erano state riprese dalla telecamera posta sulla porta dell'ascensore nel garage. Mostravano un uomo di colore vestito da cameriere, con un vassoio coperto in mano. Occhiali da sole ed un berretto. Guglielmo chiese: “E' lui?” “Si.” Replicò Anna: “Lo hanno riconosciuto tutti.” Sciacchitano si inserì: “E sanno pure come si chiama?” L'uomo di colore sembrò rispondergli dal monitor: “Emmanuel Agunbiade.” Seguì lo scatto della porta e l'uomo sparì nell'ascensore. “Che ha detto?” Chiese Guglielmo. Anna ripetette: “Emmanuel Agunbiade. E' il suo nome.” Sciacchitano esclamò: “Ma allora lo sapevano chi era. E perché ieri sera hanno detto di non conoscerlo.” Anna lo guardò: “Chiudi la porta.” Lui eseguì e lei proseguì a voce più bassa e circospetta: “Del suo nome era al corrente solo l'agente Di Stasio che ieri sera si è trattenuto apposta per farlo entrare e poi se n'è andato a casa.” Guglielmo si accigliò:
“Ma allora questo Di Stasio è complice?” Ma Anna scosse il capo: “No, c'è un complice, ma non è l'agente Di Stasio. Lui obbediva solo a un ordine di Miletti. Emmanuel Agundiabe era un confidente del Capo Divisione. Ieri sera, per quanto ne sa Di Stasio, doveva venire a dirgli il nome della talpa che Miletti sospettava ci fosse in questo ufficio. Per questo era vestito da cameriere e Miletti non aveva ordinato la cena.” Sciacchitano concluse: “Perché la talpa lo scambiasse per il solito cameriere del ristorante che portava la cena a Miletti.” Guglielmo scambiò un'occhiata con Peppe: “E poi che ha fatto, ha cambiato idea e lo ha ammazzato?” Anna replicò seria: “Forse lo hanno scoperto e gli hanno fatto una proposta che non ha potuto rifiutare. Comunque avete capito adesso perché ho dovuto per forza convincere quelli di Roma a farvi restare qui con la scusa del pasticcio che avete fatto con la monaca?” “Ah, tu sei stata?...” Esclamò Guglielmo d'istinto. Lei replicò seria: “Io qui non mi posso fidare di nessuno. Forse un po' di Catalano, ma neanche ci potrei mettere la mano sul fuoco. In ogni caso questo Emmanuel Agunbiade è l'unico che è entrato nell'ufficio di Miletti ieri sera e quindi è l'unico che poteva farlo fuori.” Guglielmo ci provò: “Quindi il caso è risolto. Noi ce ne possiamo tornare a Roma?” Lei scosse la testa: “Non ancora. Purtroppo l'omicidio di Miletti è solo una parte del nostro
problema. E mi dispiace dirlo, se davvero c'è una talpa all'AISI di Napoli, non è neanche la parte più importante.” Sospirarono seri tutti e tre. Poi Sciacchitano chiese: “Ma questo Emmanuel... Comesichiama...” “Agunbiade.” “Eh, Agunbiade, sappiamo dove si può trovare?” “Si. Di Stasio dice che Miletti lo chiamava sempre all'Hotel Corona alla Ferrovia.” “E lo hanno arrestato?” “Ci stanno andando Catalano e Di Stasio. Ma vorrei che ci andassi anche tu.” “Capisco... E Colonnese non viene?” “Io e Colonnese dobbiamo fare un altro lavoro. Comunque tenetemi informata. Di Stasio ha tutti i miei numeri.” Si alzarono. Anna si rivolse a Peppe che stava uscendo: “Sciacchitano... Mi raccomando.” Lui sorrise: “Dottoressa, state in mano all'arte.” E sparì oltre la porta insonorizzata. Rimasti soli, Guglielmo chiese: “E noi?” Anna sorrise:
“Noi abbiamo un appuntamento.” “Con chi?” “Stamattina non mi avevi invitata a cena? O hai cambiato idea?”
XI
Nessuno, ne' del quartiere ne' dell'autorità inquirente, sapeva che fin dal momento del suo incidente Stefano Settimelli detto Bandirò sapeva benissimo chi aveva cercato di ucciderlo. Infatti prima di essere investito aveva avuto il tempo di riconoscere alla guida della “Jeep” che puntava su di lui a tutta velocità, Gesualdo Pagano, uno scagnozzo dei suoi ex “datori di lavoro”, la famiglia Attanasio. Non lo disse mai a nessuno perché giurò a se stesso che, anche se avesse dovuto metterci vent'anni, un giorno sarebbe riuscito a vendicarsi con le sue mani. Durante la sua lunga degenza ospedaliera suo padre continuò a ripetergli che quel “pirata della strada” (lo chiamava così perché neanche lui sapeva che suo figlio lo aveva riconosciuto), pur avendo attentato alla sua vita, in realtà gliela aveva salvata. Perché da quel momento sia la delinquenza organizzata paga della sua vendetta, sia la polizia che aveva comunque risolto il problema, non avrebbero messo più in pericolo la sua esistenza. Ma per quanto Bandirò si ripetesse che suo padre aveva ragione nel leggere la sua sfortuna come una fortuna, l'odio verso quel Gesualdo Pagano rimase vivo in lui anche dopo che seppe della sua sparizione. Ma a quel punto non poteva rinunciare a quel livore che lo aiutava a vivere. Una sera Carmela Pagano, avendo saputo da una amica comune di una sua “invenzione miracolosa” già in uso da parte di parecchi colleghi di suo suocero, ingenuamente andò a bussare proprio alla porta della sua casa laboratorio. “Buonasera. Io sono un'amica di Rosetta Spanò. Mi chiamo Carmela Pagano.” Lui, che era seduto dall'altra parte del bancone, rimase di ghiaccio: “Parente...?” Lei lo guardò triste: “Si... Sono la moglie di Gesualdo Pagano... Lo conoscevate pure voi?”
Bandirò continuò a rimanere di pietra: “Si, lo conoscevo...” “Rosetta mi ha detto che voi fate quegli apparecchi per i tassametri dei taxi... Li fate?” Lui annuì ed abbassò lo sguardo sull'ultimo cassetto in basso, fuori dalla vista di Carmela. Dentro c'era la vecchia pistola di suo padre. La prese lentamente, ma lei aggiunse: “Però aspettate un momento. Siccome io i soldi per pagarvi non li tengo, Rosetta mi ha detto che voi ogni giorno all'una mangiate un panino da solo qua dentro. Se io vi porto il pranzo caldo tutti i giorni per un mese... pure due... voi me lo date l'apparecchio?” Bandirò rimase in silenzio per qualche secondo. Poi decise. Lasciò la pistola, prese un circuito stampato con un magnete ed una batteria da un altro cassetto e lo mise sul banco: “Se ne può parlare.” Bandirò quella sera aveva accettato l'accordo sperando di poter ottenere da Carmela notizie che potessero portarlo a scoprire il nascondiglio del marito, anche se in realtà anche lui sapeva che molto probabilmente Gesualdo Pagano era morto. Ma poi, incontrandosi tutti giorni per pranzo con quella donna sempre sorridente che lo curava con tanta dolcezza, che lo trattava con tanta semplicità da far sembrare normale anche il suo handicap, pian piano Bandirò dimenticò la ragione per la quale aveva stretto quel contratto. E cominciò ad affezionarsi davvero a Carmela che solo parecchio tempo dopo, e solo quando furono molto più in confidenza, gli confidò di non aver mai saputo nulla delle frequentazioni camorristiche di suo marito. Quel giorno Bandirò decise che non le avrebbe mai detto del suo “tragico precedente” con Gesualdo. Forse per gratitudine, o forse perché gli era nato dentro qualcosa di più di un semplice affetto per Carmela. Fatto che però, prigioniero com'era della sua condizione, non riusciva ad ammettere neanche con se stesso.
Questo fino alle 13,30 del 22 Maggio. Carmela arrivò al laboratorio con un cartoccio oblungo che doveva essere ancora caldo, visto che lo reggeva su uno strofinaccio piegato per non scottarsi: “Oggi gnocchi alla sorrentina, ricetta originale del ristorante Il Parrocchiano! Dove apparecchio, qua o sul tavolino?” Lui non rispose e lei aggirò il bancone: “Meglio sul tavolino, stai più comodo.” Lui continuò a tacere e lei chiese allegra: “Che è? Non ti piacciono gli gnocchi?” Bandirò forse proprio per il trambusto sentimentale che si sentiva dentro rispose con un tono appena un po' capriccioso: “Guarda che il nostro contratto è scaduto da parecchio. Non c'è bisogno che tu continui a portarmi da mangiare.” Ma lei, che evidentemente oramai lo conosceva bene, non perse la sua allegria e replicò: “E' perché non sai la vera ragione per la quale l'ho fatto. Siccome questi gnocchi mi sono venuti particolarmente una chiavica, ho detto: adesso glieli porto a Bandirò così gli intossico un poco la giornata pure a lui. Va bene così?” E gli versò gli gnocchi nel piatto che aveva preso dallo stipetto con tovaglioli bicchiere e posate. Gli gnocchi avevano davvero un aspetto imperiale, tricolori di pomodoro mozzarella e basilico, e con una gratinatura perfetta alla superficie. Bandirò cedette alla gola e li provò. Squisiti. Ne prese ancora e chiese a bocca piena: “Tu non mangi?” Lei rise: “Per l'amor di Dio! Se solo penso a mangiare mi sento male. Stanotte ci ho dato
un po' dentro col vino.” Lui, mascherando una punta di gelosia, la prese in giro: “Hai fatto una cenetta romantica?” “Si, con un Monsignore del Vaticano. Anzi, a proposito...” “A proposito di che?” “Tié.” E gli porse un santino. “Che è?” “Sant'Alfonso Maria de' Liguori. Santo miracoloso.” “Te l'ha dato il Monsignore?” “Si.” Mentì lei per non fargli capire quanto le dispiaceva quella sua condizione. Lui osservò la figurina che rappresentava la statua di un uomo in abito talare del settecento e scosse il capo: “Secondo me, con me non ce la fa.” “Ah, pure secondo me. Ma che t'importa? Tanto è gratis.” Bandirò, continuando a mangiare col santino accanto al piatto, chiese: “E come si usa?” “Niente, te lo metti in tasca a contatto con la gamba...” “A me non funzionano tutte e due.” “Non ti preoccupare, quello lo sa. Io pure non ci credevo, ma poi ho visto don Alberto D'Errico... Sapessi oggi come bal-lava dentro alla salumeria.” “Don Alberto, quello zoppo?” “Esatto.”
“Mah.” “Oh, io adesso me ne vado sennò faccio tardi da Mariolino. Il “ruoto” me lo piglio domani. Così gli gnocchi che restano magari te li mangi stasera.” “Quali gnocchi che restano? Qua tra cinque minuti non c'è più niente.” “E meglio così. Beato a te che tieni questa salute!” Ed uscì mentre Bandirò replicava tra se: “Mo vuoi vedere che sono io quello sano?” Prese il santino, lo guardò e se lo cacciò in tasca. E, mentre gli tornavano in testa le parole di una vecchia canzone della Vanoni “...proviamo anche con Dio, non si sa mai...” riprese a mangiare con gusto. ***
Mentre gustava gli “gnocchi alla sorrentina” che Anna aveva ordinato per tutti e due, Guglielmo Colonnese non poteva immaginare di star mangiando la stessa cosa che aveva cucinato a pranzo la tassista della notte precedente. Pensava invece a quello che le due cene avevano di diverso. Praticamente tutto. Era evidente la sproporzione tra la piccola trattoria dove lo aveva portato Carmela ed il lusso del grande ristorante “La bersagliera” ai piedi dell'immane castello, scelto da Anna per la sua magnifica veranda sul mare. Evidente era anche la differenza tra i piatti “caserecci” di Porta Capuana e la raffinatezza degli antipasti che gli erano stati serviti prima degli gnocchi. Per non parlare di quel “vinello leggero” che la notte precedente lo aveva quasi tramortito e la delizia del “Fiano di Avellino di Mastroberardino” che aveva ora davanti. E poi quel vociare confusionario che aveva costretto lui e Carmela quasi a gridare per potersi sentire non poteva reggere il confronto con il sussurrare educato degli avventori del “La bersagliera” che permetteva addirittura di sentire il placido sciacquio del mare tra le barche a vela e gli yacht che affollavano il porticciolo turistico nel riflesso dalle luci dei ristoranti e dei circoli nautici che lo contornavano.
Dove il confronto invece risultava decisamente a favore della trattoria di Porta Capuana era in quella sensazione di assoluto disimpegno giocoso, quasi infantile, al quale Guglielmo si era abbandonato con Carmela rispetto a quel senso di tensione che si sentiva addosso quella sera, malgrado Anna continuasse a sorridergli mentre cenavano in silenzio. Dopo gli gnocchi Anna ordinò sempre per tutti e due un “coccio all'acqua pazza” (gallinella di mare con acqua, pomodorini del Vesuvio, peperoncino, aglio, olio e sale). E Guglielmo si accorse che il menu di quella sera era esattamente lo stesso di tanti anni prima, in quello stesso ristorante, la sera precedente alla loro rottura. E questa non poteva essere solo una coincidenza. E comunque, che cosa poteva significare? Cosa doveva aspettarsi? O da cosa si doveva preparare a difendersi? In fondo se Anna si fosse voluta vendicare perché lo avrebbe portato a cena in un luogo così bello? E poi vendicarsi, come? Possibile che lei ancora covasse voglia di vendetta contro di lui. Guglielmo pensò che comunque era meglio essere pronti a tutto. Anna forse lo intuì e cominciò a parlare con un tono sorridente ed una voce suadente che non aveva mai usato da quando si erano rivisti: “Mino...” “Oddìo, si ricorda che mi chiamava Mino.” Penso' Guglielmo. “E questo che sarà, un bene o un male?” Ma lei proseguì con lo stesso tono: “Se non ti spaventi ti vorrei chiedere una cosa.” “Figurati, chiedi pure.” Rispose lui spaventandosi immediatamente malgrado il tono disinvolto che si sforzò di usare. “Devi sapere che c'è una parte di me che ti vorrebbe uccidere. Adesso, qua, stasera...” “Meno male che c'è anche un'altra parte.” Pensò Gugliel-mo bevendo un sorso di quel magnifico Fiano di Avellino del quale non sentì neanche il sapore. “...E poi c'è un'altra parte di me che invece...” “Invece, che cosa?” Pensò lui nascondendo la sua agitazione sotto un sorriso
disinvolto, ma lei non concluse la frase e proseguì: “Adesso io ti faccio una domanda. Ma tu, prima di rispondere, non ti scordare di quello che ti ho detto.” “Adesso scappo” pensò Guglielmo “o mi butto proprio a mare, così risolviamo la faccenda.” Lei bevve un sorso, prese una sigaretta dalla tasca del tailleur nero che le avevano appena consegnato e che, malandrinamente consapevole del suo notevole “décolleté”, indossava “a pelle”, e se la pose tra le labbra: “Hai da accendere?” Guglielmo si scosse dai suoi pensieri, estrasse il suo Dunhill e fece per farlo scattare. Ma lei glielo prese dalle mani: “Permetti?” “Prego... Ma qui si può fumare?” Replicò lui preoccupato che Anna si accorgesse della dedica di sua moglie sull'accendino.. “In fondo siamo all'aperto...” esitò lei. Poi rinunciò. Ripose la sigaretta, trattenendo però l'accendino tra le mani e gli fece la sua annunciata domanda: “Mino, quando mi lasciasti tanti anni fa, perché lo facesti senza dirmi niente?” Colonnese non avrebbe fiatato, ma lei lo fermò lo stesso: “Aspetta: lo facesti perché avevi paura delle mie reazioni o c'era un'altra ragione?” “La verità?” chiese Guglielmo e mentì spudoratamente: “Non ero sicuro di quello che facevo e stavo male abbastanza da solo per veder soffrire anche te.” Lei non tirò fuori la pistola e nemmeno si trasformò in un drago fiammeggiante. Si limitò ad annuire con gli occhi scintillanti. “Ci ha creduto.” Pensò Guglielmo ed approfittò del suo silenzio per rilanciare: “E adesso quale parte di te prende il sopravvento, quella che mi vuole uccidere,
oppure...” e lasciò la frase in sospeso come lei aveva fatto prima. Anna lo fissò e sorrise: “Oppure.” E gli poggiò la mano sulla sua. Guglielmo sentì una specie di scossa elettrica. Ma lei ritirò la mano e chiese ancora: “Aspetta. Un'altra cosa...” Lui la fermò: “E no. Abbiamo detto una domanda. Adesso invece te ne posso fare una io?” Lei annuì e lui chiese: “Che significa il tuo 'oppure'?” “La verità?” disse lei e non mentì: “Non lo so.” E si fissarono intensamente, forse ognuno cercando di capire cosa pensasse davvero l'altro. Ma furono interrotti dallo squillo del telefonino di Anna, che posò l'accendino sul tavolo e rispose: “Pronto?... Dimmi Sciacchitano, ti sento benissimo...” Guglielmo approfittò del momento per recuperare il Dunhill e farselo sparire in tasca mentre lei proseguiva seria al telefono: “Ho capito... E adesso aspettate il magistrato?... Va bene. Tenetemi informata.” Poi guardò seria Colonnese ed annunciò: “Hanno trovato quell'Emmanuel Agunbiade.” “Lo hanno arrestato?”
“No.” “Perché?” “Era morto da due giorni.” “Ah... E hanno trovato indizi sul posto?” “Si. La moglie. Che ha detto che se non lo avesse trovato già morto lo avrebbe ucciso lei con le sue mani.” “E perché?” “Era sparito da un mese senza dirle niente.” Ed aggiunse con intenzione: “Ti ricorda qualcosa?” Guglielmo sorrise e parò il colpo, mentre il cameriere portava in tavola il pesce: “Anna, ma ti pare il momento? Guarda che meraviglia... No, no, lasci, faccio io.” E si mise a spinarle il pesce come Carmela aveva fatto con lui la notte precedente.
XII
All'inizio Sciacchitano non aveva la più pallida idea di chi fosse quella donna di colore grassa e sudata. Sapeva solo che doveva essere nigeriana anche lei, dal momento che urlazzava senza interruzione in quella lingua “hausa” per lui assolutamente incomprensibile. Non piangeva e non si disperava. Era semplicemente furiosa. E proprio contro il morto. Infatti, dopo i primi minuti di inutili strepiti, se Catalano e Di Stasio non l'avessero fermata appena in tempo, avrebbe addirittura decapitato il cadavere del povero Emmanuel Agunbiade con una grossa accetta che, malgrado la folla di poliziotti accorsi sul posto, aveva trovato tra gli attrezzi lasciati dagli operai che stavano rifacendo i bagni nel corridoio al secondo piano. Ci volle ancora un'oretta prima che il cadavere potesse essere rimosso. Il Medico Legale, in presenza del Magistrato, dichiarò che l'uomo era stato ucciso da circa 48 ore con un proiettile presumibilmente da 9 mm sparatogli alla nuca. Esattamente con le stesse modalità dell'omicidio del povero Dr Miletti. Era chiaro quindi che il suddetto Emmanuel Agunbiade non poteva essere, come avevano creduto all'AISI, l'assassino del Capo Divisione, ma era con molta probabilità vittima anche lui dello stesso omicida. Peppe Sciacchitano non aveva voluto interrogare personalmente la nigeriana. Aveva lasciato il compito a Catalano e Di Stasio quando avessero trovato qualcuno capace di fare da interprete. La vera ragione era che quella donna, oltre a superare abbondantemente i 130 kg, era anche brutta come la fame. E Sciacchitano mentre era sensibile alle belle signore, era altrettanto refrattario a quelle meno attraenti. Ma poi Catalano e Di Stasio trovarono nello stesso albergo tale Lysa Franklyn, una ventiduenne americana, anch'essa di colore, ma, a differenza della nigeriana, di una procacità esagerata. E quando la ragazza dichiarò di aver vissuto molti anni in Nigeria con la sua famiglia e quindi di conoscerne l'idioma, Sciacchitano decise immediatamente di prendere in mano la situazione personalmente. Motivando la cosa col fatto che “i pesci si prendono meglio con le mollichelle
dolci” fece preparare dalla cucina dell'albergo un vassoio di frittatine di maccheroni, arancini di riso e frittura all'italiana assortita, accompagnato da caffè, tè e bevande varie e lo fece portare nella stanza dove doveva svolgere l'interrogatorio. Ovviamente quando aveva parlato di un'esca fatta di “mollichelle dolci” Peppe pensava a quella delizia di Lysa (che lui si ostinava a chiamare “Laisa”). Invece il contenuto del vassoio fu talmente gradito dalla nigeriana da farla smettere istantaneamente di urlare per dedicarsi a spazzolarlo fino all'ultima briciola. Cosa che però dette il tempo a “Laisa”, tra un boccone e l'altro, di farsi raccontare la sua storia. La donna aveva 19 anni, si chiamava Fa'izah Gambo ed era la sposa promessa del defunto Emmanuel, che però qualche settimana prima delle nozze la aveva abbandonata senza lasciare tracce. Almeno questo era quello che credeva lui. Invece Fa'izah, con l'aiuto della sua famiglia e di tutta la potente tribù Yoruba alla quale apparteneva, le tracce le trovò eccome. Ed in pochi giorni partì alla volta dell'Italia per costringere il fuggitivo ad assumersi le sue responsabilità. Purtroppo lo aveva trovato trop-po tardi, quando era già stato ucciso. Ma non per colpa sua: l'indirizzo di Emmanuel a Napoli che le avevano dato in Nigeria non era giusto. Il suo promesso sposo non ci abitava più da quasi un mese. Peppe si rivolse fascinoso a “Laisa: “E qual'era questo indirizzo?” L'americana tradusse e Fa'izah per tutta risposta afferrò l'ultima frittatina e se la cacciò tutta intera in bocca. Ma mentre masticava, si mise a scavare in una tasca invisibile tra le pieghe del suo pancione e ne tirò fuori un foglietto piegato. Lysa lo prese e lo ò a Peppe che lo aprì, lesse ed esclamò: “Azz!...” Poi si rivolse improvvisamente frettoloso a “Laisa” e le chiese in inglese: “Have you got anything to do later?” Ma lo pronunciò con un accento napoletano talmente marcato che la ragazza replicò in italiano, ma con un forte accento della Carolina del Sud: “Meglio tu dici in italiano.”
Lui tradusse: “Hai da fare più tardi?” “Più tardi di ora?...No, perché?” Lui che si stava cercando freneticamente in tasca, si alzò: “Non ti muovere da qua...” E si avviò verso la porta borbottando: “Ma dove sta il cellulare mio?...” Poi si ricordò che Guglielmo glielo aveva scaraventato fuori della finestra ed uscì dalla stanza chiamando: “Catalano?... Catalano?...” ***
“Sul mare luccica l'astro d'argento...” La voce del posteggiatore che allietava i clienti del ristorante “Zi' Teresa”, (quello più vicino allo stretto istmo che collega il Castel dell'Ovo alla terraferma) echeggiò lontana col suo accompagnamento di chitarra e mandolino, portata dalla brezza leggera che aveva trasformato il golfo in un trionfo di tremule striscioline d'oro, riflessi a mare delle luci che punteggiavano magiche la collina di Posillipo. Il magnifico “Fiano di Avellino di Mastroberardino” aveva avuto su Guglielmo un effetto molto diverso da quello del vinello di Porta Capuana. Si sentiva dentro una leggerezza che non gli fece notare che, continuando a chiacchierare dei “bei tempi andati”, Anna lo aveva portato fino al lussuoso ingresso del “Grand' Hotel Vesuvio”. “No, ma che ci siamo venuti a fare? Qua non c'è posto. Stamattina hanno detto che tutti gli alberghi del lungomare sono esauriti.” Anna sorrise: “Non ti preoccupare. Vieni.” Ed entrò. E forse fu sempre per il magico “Fiano di Avellino” che quando, a differenza
della sera precedente, ricevettero in portineria un'accoglienza da emiri arabi, Guglielmo, di solito sempre così pronto a mettersi sulla difensiva, neanche si allarmò. Addi-rittura manco fece caso al fatto che, poiché aveva con se solo il aporto del Vaticano intestato a Mons. Manzù, l'imperturbabile capoportiere non si scompose affatto. Trascrisse i dati facendo finta di non notare che lui era in abiti civili ed in compagnia di quella gran bella signora. Guglielmo ci rise sopra commentando la cosa mentre salivano in ascensore. E lei rispose allegra: “E' normale. E' diversa l'accoglienza che qui danno ad un vero monsignore del Vaticano da quella che danno a noi. Con noi sono più cordiali.” “Cordiali? Qua sembrava che fossero arrivati il barone Rotschild e signora!” “Adesso vedrai perché.” E si mise a sorridere come una ragazzina che ha appena fatto una marachella. Gugliemo sentì un vago camlo d'allarme. Ma piccolo. Un camlino, come quello delle fate. Che però diventò una sirena antiaerea quando entrarono nella “3 bedrooms luxury suite” che Anna aveva fatto prenotare per lui. Mentre il “bell boy” che li aveva attesi per farli entrare si affrettava a spalancare porte e finestre dello studio, del salotto, della prima, della seconda e della terza camera da letto mostrando anche le tre stanze da bagno annesse, Guglielmo non riuscì a trattenersi: “E che esagerazione!” “Non ti piace?” Fece lei con un tono da diva anni trenta. “E' grande quanto casa mia.” Lei alzò la voce e proseguì con lo stesso tono: “Avevano solo questa. Magari tra qualche giorno, se se ne libera una più grande...” E sfarfallò gli occhi in un modo così esagerato che Guglielmo capì che lei stava solo divertendosi alle spalle del Bell Boy che da quando erano entrati non le
aveva tolto gli occhi di dosso neanche per un secondo. Infatti quando il giovane le ò accanto Anna gli si rivolse con un'aria da Greta Garbo doppiata da Tina Lattanzi: “E lo champagne?” “E' nel salotto, signora.” “Freddo?” “Ghiacciato.” Lei gli ò un biglietto da venti euro. Lui ringraziò ed aggiunse: “Se le serve qualcosa, io mi chiamo Saverio. Chieda di pure me.” Lei sorrise: “Non credo che avrò bisogno d'altro. Comunque, se dovesse accadere...” Saverio si inchinò di nuovo ed uscì. E loro due scoppiarono a ridere talmente di gusto che dovettero rifugiarsi sul balcone per paura che Saverio li sentisse dal corridoio. In effetti più di un balcone si trattava di una vera e propria terrazza che correva lungo tutto l'appartamento, cosparsa di tavolini, poltroncine, lettini per il sole e piante varie. Oltre il parapetto il panorama era veramente mozzafiato. Da lassù si aveva la sensazione che il grande castello sul mare, il porticciolo illuminato e tutta Napoli fino a Posillipo fossero un'unica scenografia messa su apposta per festeggiare chi si affacciava da quel luogo incantato. Forse la colpa era del lusso sfrenato col quale era arredata quella suite, o semplicemente del fatto che Napoli vista da lì era davvero una sirena ammaliatrice, certo è che Guglielmo ed Anna, quando smisero di ridere, si ritrovarono l'uno davanti all'altra con i visi pericolosamente vicini. Ma nessuno fece la prima mossa. Anche se nessuno si ritirò.
Fu Anna che ruppe il silenzio sospirando: “Vedi, se adesso fossimo in un film, ci avvicineremmo lentamente e poi...” “...E poi?” “E poi sicuramente suonerebbe il telefono, o il camlo della porta, o una cosa qualsiasi che salverebbe quei due stupidi da una decisione che non sanno prendere.” Lui sorrise e sospirò: “Ecco. Adesso mi ricordo perché tanti anni fa...” “Ti innamorasti di me? No, ti sbagli, all'epoca non ero così. Ero molto più stronza.” “E allora vuol dire che con gli anni sei migliorata. Come il vino.” “Veramente si dice che il vino invecchia, non che migliora... A proposito!” E rientrò rapida. Guglielmo, si affacciò all'interno: “Che c'è, hanno bussato davvero alla porta?” Anna tornò verso di lui con due flutes ed una bottiglia di Krugg ghiacciato che aveva preso dal secchiello sul tavolino del salotto. Quando furono di nuovo sulla terrazza gliela ò: “Aprila tu.” Lui la prese, tolse la stagnola e la gabbietta. Mentre il tappo cominciava ad uscire chiese: “A che beviamo? Alla nostra amicizia?” “Secondo te è un'amicizia?...” “Be', così, su due piedi... Facciamo una cosa, beviamo a quello che è, è.”
Lei dette un'occhiata al suo orologio: “Va bene. E' proprio mezzanotte precisa. Facciamo capodanno” Lui spinse il tappo coi pollici: “Uno, due... e tre!” Il tappo saltò con uno schiocco forte e contemporaneamente il vetro della finestra alle spalle di Anna si ruppe in mille pezzi. Lei guardò Guglielmo stupita: “Che hai fatto, hai rotto il vetro col tappo dello champagne?” Lui indicò oltre il parapetto: “No, io l'ho sparato verso...” Ma cambiò subito espressione: “Sparato?...” Fecero appena a tempo a buttarsi a terra all'interno della suite che tre colpi un rapida successione, soffocati come quelli provenienti da un'arma silenziata, andarono ad infiggersi sull'imposta della finestra davanti alla quale fino a meno di un secondo prima c'era stata Anna. Stesi a terra, abbracciati come a proteggersi l'un l'altra, Guglielmo ruppe la tensione: “Però me lo potevi dire prima che eri sposata.” “No, non è mio marito.” Replicò lei con la Glock 26 Subcompact che le era apparsa magicamente nella destra mentre con la sinistra non smetteva di proteggerlo: “Sono andata via da Roma apposta per non sparargli io.” “E perché?” Chiese lui continuando ad abbracciarla. “Questioni di corna.” Disse Anna e forse si sarebbe alzata se in quel momento la porta della Suite non si fosse aperta e non fosse apparso Sciacchitano con la sua “Sig Sauer P288” in mano. Vedendoli abbracciati sul pavimento, chiese con finta serietà: “Ho interrotto qualche cosa?” “No,” disse Guglielmo “abbiamo già risolto da soli.”
“Non avevo dubbi.” Replicò lui avvicinandosi cautamente alla finestra. Ma prima di raggiungerla il telefonino di Guglielmo si mise a squillare. Colonnese, sempre abbarbicato ad Anna, riuscì a prenderlo dalla tasca: “Pronto?... Ah, Elvira, sei tu?... Si, hai ragione, ti avrei chiamata tra poco... No, purtroppo neanche stasera... Eh, qui il fatto si fa sempre più ingarbugliato...” Anna si morse un dito per non ridere. Lui se ne accorse e per non farlo anche lui si voltò a guardare Sciacchitano: “...I merletti? Ah, li tengono pure qua a Venezia?... E va bene, mo, appena mi libero...” Sciacchitano lo mandò' al diavolo con un gesto come a dire: “Allora lo fai apposta?” Ad Anna venne di nuovo da ridere. Lui la strinse più forte per farla tacere mentre concluse: “...Scusa, Elvi', adesso non ti posso proprio spiegare quello che sta succedendo qua...” “Ecco.” Mormorò Sciacchitano. “Si, appena posso ti chiamo. Ciao, cià.” Riattaccò e rimasero tutti in silenzio per qualche secondo. Poi Peppe chiese con finta serietà: “No, volevo sapere una cosa. Voi pensate di partecipare alle indagini, oppure volete continuare a fare quello che stavate facendo come se niente fosse?... No, così mi regolo.”
***
I colpi erano stati sparati da un angolo semibuio, protetto da una parete di piante,
nella zona servizi del “Caruso Roof Garden”, lo splendido ristorante all'attico dell'Hotel Vesuvio, situato proprio sopra la suite di Guglielmo. Lo scoprì Anna va-lutando la direzione dei proiettili infissi negli scuri della finestra. E trovò anche delle bruciature che le indicarono dove l'arma, era stata accostata all'esterno del parapetto. A Sciacchitano sembrò strano che nessuno degli ospiti del ristorante avesse sentito gli spari. Ma Guglielmo ed Anna, testimoniarono che le detonazioni erano state fortemente attenuate da un buon silenziatore, e quindi era plausibile che si fossero confuse col rumore del traffico del lungomare che a quell'ora era ancora intenso data la mitezza della serata. Che nessuno avesse visto lo sparatore lo attribuirono al fatto che, se già il ristorante era rischiarato da luci d'atmosfera non particolarmente forti, la zona scelta dall'attentatore dietro le piante era tanto poco illuminata che loro stessi dovettero usare le torce per ispezionarla. E comunque, quanto bassa fosse stata veramente la luce su all'attico lo capì Peppe Sciacchitano quando, solo dopo essere tornato con Anna al piano inferiore si accorse che lei aveva le mani ed il viso sporchi di una sostanza marrone oleosa che odorava di lucido da scarpe. Lei si guardò incredula nello specchio della consolle nel corridoio ben illuminato e dichiarò di non aver la più pallida idea di come avesse potuto imbrattarsi in quel modo. “Ecco qua.” Disse con un tono oramai abitudinario la cameriera che li incrociò davanti alla porta della suite offrendole un piattino con due pezzetti di burro che prese dal tavolo coi resti di una cena che aveva appena ritirato: “Lavatevi con questo se no non se ne va. Ma dove vi sporcate tutti quanti con questo lucido da scarpe?” E se ne andò senza precisare chi fossero quei “tutti quanti”, ed impedendo ad Anna e Sciacchitano, con la abitualità con la quale aveva descritto la faccenda, di collegare quel “color testa di moro” alle loro indagini. D'altronde Guglielmo Colonnese, l'unico che avrebbe potuto notare quella strana coincidenza, era sceso al pianterreno per controllare le registrazioni delle telecamere di sicurezza in cerca di qualche immagine dello sparatore. Anna, per non ungere di burro il suo tailleur nuovissimo con quella scollatura che era stata già ampiamente oggetto delle occhiate di Sciacchitano, annunciò che si sarebbe fatta una doccia usando una delle tre stanze da bagno della suite.
Sciacchitano non perse l'occasione per mostrarsi galante a modo suo: “Che faccio, vengo pur'io, oppure...” “Oppure.” Rispose lei sorridendo, ma con un'intenzione diametralmente opposta a quella che aveva usato prima con Guglielmo. Così Peppe si affrettò a fare rapporto su quanto aveva scoperto all'Hotel Corona e se ne andò di corsa, accampando la scusa di essere atteso con urgenza dal Questore Manna che aveva bisogno di un non meglio identificato favore. In realtà si precipitò di corsa al bar al pianterreno dove aveva trascinato la bella “Laisa” con la scusa di aver ancora bisogno del suo aiuto. Richiesta che non aveva affatto ingannato la ragazza, che però sembrava aver gradito comunque l'invito.
***
Guglielmo Colonnese ci mise abbastanza poco ad identificare le registrazioni che gli servivano. Erano due e provenivano da una telecamera nella zona lavanderia e da un'altra posta all'esterno dell'uscita di servizio, alle spalle dell'albergo. Ambedue mostravano un uomo di colore di altezza media (o una donna di colore abbastanza alta), ma col viso reso irriconoscibile da un berretto dalla lunga visiera, da occhiali da sole a specchio ed anche dalla scarsa definizione delle telecamere. Nella prima l'uomo (o la donna) indossava una giacca da cameriere e spingeva un carrello pieno di biancheria da letto. Nella seconda usciva dalla porta di servizio coperto/a da un giubbotto con cappuccio e si allontanava fino a sparire in via Chiatamone. Telefonò subito ad Anna, ma al telefonino non rispose. In ufficio gli dissero che lì non c'era e gli consigliarono di chiamare sul portatile. Per cui trasferì le registrazioni su una chiavetta USB e se ne tornò nella sua suite. Era ata da parecchio la mezzanotte e la stanchezza cominciava a farsi sentire. L'appartamento, era stato rassettato sommariamente, ma ancora risentiva della confusione lasciata dalla scientifica. Guglielmo uscì sbadigliando sulla terrazza, lanciò solo un'occhiata verso la zona dalla quale erano partiti i colpi,
poi si lasciò assorbire dal panorama mentre i suoi pensieri spaziavano liberamente. Era una sua abitudine quella di mettere in ordine i ricordi delle cose accadute prima di chiudere le sue giornate. E da quando era arrivato a Napoli gliene erano capitate davvero tante. A parte i due omicidi delle ultime 48 ore che comunque rientravano nella normalità del suo strano lavoro, c'erano stati poi quegli altri due incontri che lo avevano colpito forse più di quanto fosse disposto ad ammettere. Pensò alla tassista, alla sua semplicità allegra e rilassante, ed all'immagine di lei addormentata oltre lo spiraglio della porta accostata della sua camera da letto. Poi pensò ad Anna De Vasconcellos, al suo fascino maturo ed alla sua sincerità inattesa nel rapportarsi a lui. Sospirò, rientrò, e cominciò a fare il numero di casa sul suo telefonino. Ma quello si mise a squillare. Lo fissò sorpreso, ma era un altro portatile la cui suoneria si faceva sentire dallo studio attiguo. Ma prima che riuscisse a trovarlo la penombra della stanza fu rischiarata per un attimo da Anna che aveva aperto la porta di una delle camere da letto e l'aveva subito riaccostata: “Scusa, Mino. Non sapevo che eri qua... Per favore mi eresti il telefono?...” “Si, ma dov'è? Io non lo vedo. Aspetta che accendo la luce.” Ma lei non gliene dette il tempo: “Va bene, non ti preoccupare, faccio io. Tanto hai detto che siamo amici.” Aprì la porta e venne di persona a cavar fuori il portatile dalla borsetta che si trovava semicoperta dalla gonna del suo tailleur appoggiata insieme alla sua giacca sullo schienale di una sedia: “Pronto?... Zio Michele? Si, sono io. Hai saputo che ci hanno sparato?... Si, sul balcone di una stanza dell'Hotel Vesuvio...No per fortuna ci hanno mancato... Si a me e a Mino, la stanza era sua...” In qualsiasi altra momento Colonnese si sarebbe allontanato o almeno avrebbe fatto finta di non ascoltare. Invece quella sera la sua abituale correttezza fece miseramente cilecca e lui rimase lì a guardare Anna De Vasconcellos uscita dalla camera da letto indossando solo uno di quei completi di biancheria nera che proprio per la loro insospettabile semplicità risultano molto più eccitanti di qualsiasi indumento tutto pizzi e trine.
“...Mino Colonnese... Guglielmo... Si, proprio quello... Ma che dici?... Ma come, che ci facevo lì? Stavamo lavorando... Ah, si? E perché questo sarebbe il momento meno indicato?” Senza smettere di parlare al telefono, Anna si stava ora rivestendo, esibendosi in uno spogliarello all'incontrario fatto con una tale naturalezza da risvegliare un morto. “...Chi?... Non è possibile!... Ma tu sei sicuro?... E che posso fare? Niente. Oppure gli sparo e risolviamo la faccenda.” E riattaccò. Colonnese azzardò: “Gli spari... a chi?” “A mio marito.” “Ah. Ma allora è vero che eri sposata? E perché gli vuoi sparare?” Lei sospirò: “Te l'ho detto. Questioni di corna.” “Hai fatto le corna a tuo...” “No. Lui le ha fatte a me.” “E com'è possibile?” Lei sorrise: “Vedi? Certe volte sei proprio carino. Sei sempre stato così... Ti dispiace se stanotte dormo qua?” “Per il fatto che sono molto carino, o c'è un'altra ragione?” “E' una storia complicata. Mio zio mi ha detto che mio marito è appena arrivato a Napoli.” “Pure lui?”
“Perché, chi altro?” “Mia moglie e mio figlio piccolo.” “E non lo vuoi incontrare?” “Si, ma le ho detto che stavo a Venezia. Sai, io non dico mai dove vado... Per prudenza.” “Anche mio marito non sa che io sono a Napoli. Almeno credo.” “A proposito, in quale albergo stai?” “All'Excelsior, dall'altra parte della strada. Ma non voglio andarci, perché comunque è strano che lui sia venuto proprio qua.” “Pensi che qualcuno gli ha detto dove seii?” “A lui, o a lei.” “Lei, chi?” “Lei. Te l'avevo detto che era una storia di corna. Allora, posso restare?” “Figurati, c'è tanto posto. Scegli dove vuoi dormire...” Lei indicò la camera dalla quale era uscita: “Io resterei qui, dove ho fatto la doccia.” “Ah, per questo prima non rispondevi al telefono... Allora io dormo nella camera dall'altra parte del salotto così non mi senti russare.” “Scusami.” “E di che?” “Adesso me ne andrei a dormire. Sono proprio stanca.” “Anch'io non mi reggo in piedi.”
“Buonanotte.” “Buonanotte.” Invece nessuno dei due riuscì a prendere sonno. Si ritro-varono in accappatoio all'una e mezza nel salotto. Anna lo informò su quello che Sciacchitano aveva scoperto. Emmanuel Agunbiade aveva cominciato a are delle notti all'Hotel Corona solo da quando il Dr. Miletti gliene aveva fornito i mezzi. Ma anche da quel momento quella era stata per lui solo una residenza saltuaria: in genere continuava a vivere con altri extracomunitari africani in un ostello gestito dalle suore Domenicane all'interno del loro convento. In altri momenti a quella notizia Guglielmo si sarebbe rivestito e sarebbe tornato ad indagare su quelle suore Domenicane che cominciavano ad essere un po' troppo presenti in quella faccenda. Ma poi Anna iniziò raccontargli tutta la storia di suo marito, il Dr Rodolfo Revoltella, e della sua amante Nina, al secolo la spia russa Nastassja Nikolajevna Borodin. E Guglielmo non ci pensò neanche a muoversi da quel divano.
XIII
Quel segreto progetto di vendetta da attuare assolutamente con le sue mani era per Bandirò un modo per ridare uno scopo alla sua vita improvvisamente svuotata dal suo “incidente”. Per questo non aveva mai confessato di aver riconosciuto il suo attentatore, e per la stessa ragione aveva voluto continuare a credere nel suo programma anche quando tutti dicevano che Gesualdo Pagano o era morto o comunque non si sarebbe fatto mai più vedere a Napoli. E fece bene, perché molto probabilmente fu proprio quella sua concentrazione feroce che gli permise di ricominciare a camminare, anche se poco e male. Tutto partì da un sogno fatto da Bandirò nel quale Gesualdo Pagano entrava nella sua camera da letto stringendo una man-naia da macellaio, deciso a finire il suo lavoro. Negli incubi è frequente avere la sensazione di voler fuggire, ma di avere le gambe paralizzate. Invece nel sogno di Bandirò le sue gambe davvero paralizzate si erano mosse a gran velocità. E quella sensazione lo fece svegliare con la certezza che un giorno il suo corpo sarebbe tornato a funzionare interamente. In effetti seppure nella nebbia del primo risveglio e nella penombra lasciata dal piccolo lume suo comodino che dal giorno del suo investimento restava per tutta la notte, Bandirò credette di vedere sotto le coperte dei sobbalzi, degli scatti, delle contrazioni, come se le sue gambe si fossero mosse davvero, anche se solo di pochi centimetri. Così trasferì in questa speranza tutta la determinazione che fino a quel momento aveva riservato solo al suo progetto di vendetta. E, un centimetro alla volta, giorno per giorno, settimana per settimana, mese per mese, cominciò davvero a muovere i suoi arti inferiori. Lo fece prima mentre era a letto, poi mentre era seduto, e poi finalmente un giorno, aggrappandosi al banco del suo laboratorio, si tirò su dalla sedia a rotelle e mosse un o. Finì lungo disteso sul pavimento, ma quella fu per lui la sperata conferma che lo spinse ad esercitarsi in ogni momento disponibile. Naturalmente se era da solo, altrimenti la necessità di segretezza del suo progetto prendeva subito il sopravvento e lui se ne restava
immobile e triste come al solito. Forse avrebbe condiviso l'entusiasmo per i suoi progressi con Carmela Pagano, se solo non fosse stata proprio la moglie dell'uomo contro il quale era concentrata quella voglia di vendetta che era la sua forza. Così quando Carmela gli portò “il santino miracoloso” lui lo prese essenzialmente come un augurio. Anche perché ad un reale aiuto soprannaturale credeva sinceramente molto poco.
Eppure divenne anche lui, anche se suo malgrado, un testimone delle capacità taumaturgiche di Sant'Alfonso Maria de' Liguori proprio il giorno successivo quando Carmela andò a trovarlo con una “insalatiera” di “ziti lardiati” degni di un re, delle cotolette profumatissime ed un'espressione tanto turbata che Bandirò le chiese quale ne fosse la causa addirittura prima di dedicarsi come era solito a divorare quelle prelibatezze. “Non lo so. Ho paura perfino di parlarne.” Fu la risposta di Carmela, tanto strana da spingere Bandirò ad insistere. E lei, mentre gli serviva il pranzo, cominciò a raccontare della improvvisa apparizione sul suo comodino del santino di Sant'Alfonso che tante conseguenze miracolose aveva avuto da allora in avanti. “Allora pensai che era stato il vento a farlo cadere dalla mensola. Ma oggi invece ho l'impressione che sia stato qualcos'altro a spingerlo giù.” “Una scossa di terremoto?” “No. Mio marito.” Bandirò si dimenticò perfino di quei maccheroni che normalmente avrebbe spazzolato in pochi secondi: “E' tornato?” “Non lo so. Io non l'ho visto. Però ho trovato la cinghia della persiana tutta sporca del lucido da scarpe “testa di moro”, quello che usa lui. Una scatoletta che era sempre stata sopra la mensola e adesso non c'è più.”
“Cioè tu dici che tuo marito, prendendo il lucido da scarpe...” “...ha fatto cadere Sant'Alfonso Maria de' Liguori. E quello si è messo a fare miracoli.” “Ma sei sicura che il lucido da scarpe non lo hai usato tu?” “Non è possibile. Io uso solo quello nero o quello neutro...Ma se è tornato perché non si è fatto vedere da me? Forse sa che lo vogliono uccidere e mi vuole proteggere...” “Può essere...” “Ma che è, non ti piacciono gli ziti? Non sono venuti bene? Perché tu di solito ne vai pazzo...” “No, no, è che mi sono distratto a sentire questa cosa... Adesso li mangio.” “Va bene. Me ne vado perché mi aspetta Mariolino. Domani che vuoi mangiare?” “Ma no, niente...” “E che fai, resti digiuno? La vuoi una bella pasta e patate con la provola squagliata dentro?” “Grazie.” “E adesso mangia. I “ziti lardiati” freddi non sono buoni.” Ed uscì. Ma Bandirò, non ce la fece a mangiare. Il cuore gli batteva troppo forte. Come oramai aveva fatto tante volte, aggrappandosi al bancone si tirò su. Poi fece un o. Un secondo. Un terzo... “Bandirò scusa, mi ero scordata l'insalatiera se no domani...Ah!...” Carmela rientrata di corsa sobbalzò e rimase a bocca aperta a guardare il giovane che sobbalzò anche lui. Carmela balbettò: “Gesù... E com'è che tu...?”
Bandirò non poteva spiegare. Per cui mise la mano in tasca, estrasse il “santino miracoloso” e lo mostrò a Carmela senza parlare. Lei gli corse incontro, lo abbracciò con una tale foga da fargli perdere l'equilibrio. E caddero tutti e due sul pavimento con Carmela che continuava a tempestargli la faccia di baci, gli occhi inondati di lacrime di commozione. Anche a Bandirò dopo tanti anni venne fuori una lacrima, anche se solo per la rabbia di essersi andato ad innamorare proprio della moglie di Gesualdo Pagano. E rimasero a lungo così, abbracciati sul pavimento, prima di trovare il fiato per parlare di nuovo. *** La mattina dopo Guglielmo fu svegliato dal telefono dell'albergo che squillava dal suo comodino. Rispose ancora ubriaco di sonno: “Pro...Pronto?” Dall'altra parte una voce femminile risuonò tanto sveglia da sembrare stridula: “Monsignor Manzù?” “No, chi...? Ah, si. Sono Monsignor... Ma chi parla?” “Carmela Pagano. Vi ricordate? La tassista che...” “Si, si, mi ricordo...” “Io credo che è stata proprio la volontà di Dio che mi ha fatto sapere dove trovarvi.” “Ah, si?” “Ieri mattina, quando ve ne siete andato da casa mia, avete preso un taxi, è vero?” “Si... Mi pare.” “L'autista era mio cugino. Per caso gli ho detto che vi avevo conosciuto e lui si è ricordato dove vi aveva accompagnato.”
Guglielmo si tirò su completamente sveglio: “Ho capito. E adesso che vuole suo cugino?” “No, lui niente. E' a me che dovete fare una grazia.” “E sarebbe?” “Vi debbo parlare urgentemente.” “Eh, ma adesso non è possibile... Io sono qui con...” In quel momento si accorse che, addormentata accanto a lui, c'era la Dottoressa De Vasconcellos. Esclamò incredulo: “Anna!...” “Come dite?” Lui abbassò la voce quasi a un sussurro: “D'Anna... Sono qui con Monsignor D'Anna, il vescovo di Mantova.” “Ah, meglio. E portate pure lui.” “Non mi sembra il caso. Monsignor D'Anna è in clausu... in ritiro spirituale. Fa' una cosa, chiamami domani, oppure la prossima settimana...” “Non ho capito. Vi dispiace di parlare un poco più forte?” “Chiamami domani.” “Se non potete fare prima, a quest'ora va bene?” “Si, si... Va bene, va bene... Pace e bene.” E riattaccò. Ma nel voltarsi a rimettere a posto la cornetta dette uno strattone al lenzuolo nel quale era avvolta Anna che si svegliò con un mugolio seccato. Ci mise qualche attimo a metterlo a fuoco ed esclamò con la voce ancora arrochita dal sonno: “E tu che ci fai nel mio...?”
“No, veramente tu che ci fai nel mio...?” “Va bene. Noi che ci facciamo nel nostro...?” “Io non mi ricordo.” “E neanch'io.” Un attimo di silenzio. Poi Guglielmo: “Ma abbiamo bevuto stanotte?” “No. Non credo... Ah!” L'ultima esclamazione era dovuta al fatto che Anna aveva dato un'occhiata sotto le lenzuola e si era trovata nuda. “Ah!” Esclamò Guglielmo per la stessa ragione. Si guardarono incerti, poi lui azzardò: “Ma abbiamo fatto... cose?” “Non lo so... Non credo... Eravamo troppo stanchi. Ma perché, tu pensi che...?” “E tu?...” “Va bene. Più tardi ce lo ricorderemo... Mi lasci il lenzuolo, così mi alzo.” E provò a tirarlo a se, ma Guglielmo lo trattenne: “E no, aspetta. Qua c'è un solo lenzuolo.” “Ma io sono...” “E pur'io. Vai così. Tanto io non ti guardo.” “E chi ti crede?” “Ma ieri sera hai detto che eravamo amici...” “Si, ma non così tanto amici.”
“Quindi l'amicizia è una questione di biancheria?” “E allora che vogliamo fare?” “Che ne so... Ci alziamo tutti e due insieme?” “Come?” “Ci avvolgiamo nel lenzuolo ognuno da un lato. Io ti accompagno alla tua stanza da letto, tu entri, accosti la porta, io sfilo il lenzuolo e me ne torno qua.” Le ci pensò un attimo, poi annuì: “Potrebbe funzionare. Allora vengo io dal lato tuo o tu dal lato mio?” “Come preferisci.” “Va be', ho capito.” Avvolgendosi nel lenzuolo si spostò verso di lui che si affrettò a fare lo stesso. Così si ritrovarono come due mummie sedute dallo stesso lato del letto. “Allora pronti?” Disse lui. “Uno, due... e tre!” Disse lei e si alzarono. Di lì in avanti fu tutto un: “Piano!... Aspetta!... E non tirare!... Ma sei tu che tiri!... Dobbiamo muoverci insieme, un o alla volta!...” Ma arrivati al centro del salotto si bloccarono: “Colonnese?... Colonnese?... Dove stai?...?” E, prima che i due riuscissero a organizzare una ritirata sincronizzata la porta che dava nello studio si aprì: “Ma quante cavolo di stanze ci stanno in questo....?” Sciacchitano li vide e rimase con la frase a metà. Ma si riprese subito e chiese: “E' un giocherello nuovo? Lo insegnate pure a me?” Guglielmo cercò di avere un tono naturalmente seccato: “Sciacchitano, e tu che fai qua?”
“Ero venuto a cercare notizie della Dottoressa. La stanno cercando dappertutto. Il suo cellulare non risponde.” “E sarà rimasto nell'altra... Ma perché non mi hanno cercata all' Excelsior ? Io stanotte ho dormito là...” Mentì lei. Sciacchitano aggrottò le sopracciglia: “Ah. E allora è un vero mistero.” “Che cosa?” “Dice che stanotte qualcuno è entrato in camera sua, ha sparato tre colpi al suo letto e se n'é andato. Il mistero è come ha fatto a non colpirla visto che lei stava dormendo là.”
***
Al pianterreno dell'hotel Excelsior verso il lato del mare c'è una teoria di splendidi saloni i cui alti finestroni affacciano sulla fine di via Partenope e sull'inizio di Via Nazario Sauro. Quella mattina il salone scelto per la colazione era quello proprio sull'angolo, di fronte alla magnifica fontana fatta costruire nel XVII secolo dal Duca D'alba, Don Antonio Alvarez di Toledo. E' una fontana a tre archi ispirata a divinità marine e fluviali, con stemmi della città, dei Viceré e dei Re dell'epoca, ma più famosa tra gli storici Napoletani come la “fontana senza pace” per i numerosi cambiamenti della sua localizzazione e dei nomi coi quali il popolo di conseguenza la chiamava. Da “Fontana del Gigante” nella sua primitiva sistemazione tra il palazzo reale e il “Gigante di palazzo”, una statua enorme rimossa nell'800, fu poi chiamata “Fontana dell'Immacolatella” quando fu spostata accanto all'omonima chiesa all'interno del porto. Poi diventò la “Fontana della Villa”, quando fu trasferita nel comprensorio della “Villa del Popolo”, un insieme di giardini pubblici che
esistevano dove oggi corre la Via Marina Nuova. Solo ai primi del '900 fu trasportata nella sua attuale sistemazione. Ma qui, forse perché l'averla posta in controluce sullo sfondo dell'azzurrissimo cielo di Napoli ne rende faticosa la visione, o perché l'invasione del traffico frenetico ha tolto a quel lungomare la sua caratteristica di luogo da eggiata domenicale, o forse perché la gente non ha più il tempo e la voglia di soffermarsi ad ammirare una fontana, certo è che oggi il popolo napoletano non ricorda più il suo nome. “E secondo me non la vede neanche.” Pensò Colonnese che conosceva la storia della fontana e la sentiva molto simile alla sua per i continui spostamenti ai quali il suo lavoro lo sottoponeva. Proprio per il mestiere che faceva, lui sentiva il bisogno di tornare il più spesso possibile alla tranquillità quotidiana della sua casa. La mattina voleva svegliarsi con sua moglie Elvira che gli portava il caffè in tuta da ginnastica e non con una sua ex nuda, per giunta troppo stanco per ricordare che cosa ci avesse combinato. Sentiva una gran nostalgia dei suoi figli, della serietà un po' musona di Paolo, delle turbe adolescenziali di Margherita e delle risate innocenti di Giorgetto. E invece ogni complicazione che si aggiungeva lì a Napoli ritardava ancora di più la data del suo rientro. Questi erano i pensieri che gli occupavano la mente quella mattina e lo distraevano dai suoi commensali seduti al grande tavolo tondo proprio nell'angolo curvo del salone dell'Hotel Excelsior. Accanto a lui sedeva il Dr Michele Salzano, arrivato da Roma appena saputo del secondo attentato a sua nipote. Di fronte c'era il Questore De Dominicis che alternava la sua attenzione tra il vasto assortimento di croissant, caffellatte, burro e mar-mellate varie, e la scollatura del tailleur nero che Anna De Vasconcellos non aveva avuto il tempo di cambiare. Poi c'era il vicequestore Altieri della Mobile, e Peppe Sciacchitano, intento a scambiare occhiate e sorrisi con un tavolo di signore si dall'altra parte della sala. “Dottore, la scientifica ha finito.” Annunciò a mezza voce l'Ispettore Verri apparso dall'atrio. De Dominicis posò il bicchiere d'aranciata e chiese basso:
“Li ha visti qualcuno?” “Non si preoccupi, sono stati discretissimi. Nessuno si è accorto di niente.” E si ritirò mentre il Questore sorrise a Salzano: “Qua a Napoli già i turisti sono pochi. Se poi gli facciamo sapere pure che sparano dentro gli alberghi...” E lanciò un'altra occhiata alla scollatura di Anna. Salzano mandò giù un sorso di caffè e si rivolse a sua nipote con un tono orgoglioso tutto ad uso e consumo del Que-store e di Altieri: “Si sa che tu sei sempre bravissima, ma adesso mi devi spiegare come hai fatto a prevedere che stanotte qualcuno sarebbe entrato in camera tua...” abbassò la voce “...e ti avrebbe sparato tre colpi.” Anna stette al gioco e rispose con una punta di sussiego: “Be', è il nostro lavoro sapere in tempo le cose.” E si mise ad imburrare un piccolo croissant. “Ma dove ti eri nascosta?” Anna lanciò un'occhiata a Guglielmo: “Ci ha pensato Mino Colonnese.” “Hai capito? E bravo Colonnese!” Guglielmo che non aveva seguito la conversazione, prese tempo: “In che senso?...” Salzano rise: “E be', nel senso che se non era per lei, la mia cara nipotina ce l'eravamo giocata. Bravo. Mi raccomando, continui ad avere sempre la stessa cura della nostra Anna.” “Fino a quando non torno a Roma...”
“A proposito...” Si inserì Sciacchitano, ma Salzano lo prevenne, sempre ad uso degli altri: “...Quando tornate a Roma? A breve. Qui l'indagine so che sta camminando bene.” “Ah, quanto a questo...” Replicò Sciacchitano sorridendo. “Si può dire che è quasi...” Aggiunse Colonnese ad Anna concluse con un'aria compiaciuta: “...Mancano solo pochi dettagli.” Altieri si inserì interessato: “Allora tra poco ci saranno degli arresti?” Salzano sorrise: “Ovviamente li opererà la polizia. Quindi lei e il Questore sarete i primi ad essere informati. E' vero Anna?” “Ma certamente.” Rispose lei ed addentò il croissant. Ma appena Altieri e De Dominicis, dopo una serie di cerimoniosi saluti, si furono allontanati, il tono improvvisamente si incupì. Salzano li guardò tutti e tre interrogativo: “Allora?” Anna scosse il capo sconsolata: “Niente. Neanche un indizio. Zero.” Sciacchitano azzardò: “Veramente un indizio ci sarebbe...” Ma Salzano lo interruppe: “Se è legato al convento delle monache domenicane, di-menticatelo. Quello per
voi è off limits. La suora nigeriana non esce dalla clausura e il Vaticano è d'accordo.” Guglielmo cercò di fargli cambiare idea: “Ma quella monaca conosce i nomi sia dei trafficanti nigeriani sia di quelli napoletani!” “E proprio per questo non vuole uscire, perché ha paura di essere ammazzata.” “No.” precisò Sciacchitano “quella non esce proprio per non parlare con noi. Perché è una trafficante Ghanese vestita da monaca!” Salzano si accigliò: “Una trafficante Ghanese?... E perché sarebbe venuta dall'Africa per chiudersi nel convento delle suore Domenicane? Si è convertita?” “No, zio Michele, una ragione potrebbe averla. L'africano che hanno ammazzato e che era un informatore di Miletti viveva di solito proprio dentro a quel convento in una specie di ostello gestito dalle suore. Un ostello dove molto probabilmente si sono rifugiati anche gli altri corrieri dei trafficanti.” “Ah.” Esclamò Salzano colpito: “E la polizia non li ha identificati?” “Non possono. L'ostello si trova all'interno della clausura. E' vero Sciacchitano?” “Si. Il comprensorio è ufficialmente parte della clausura anche se le monache vivono in un'altra zona. L'hanno fatto per proteggere gli extracomunitari proprio dalla Polizia italiana.” Anna spiegò: “Gli africani devono aver detto che vengono da paesi dove c'è la guerra, che sono perseguitati politici, e che se li rimandiamo in patria li ammazzano subito. E le povere suore ci avranno creduto.” Guglielmo abbassò la voce: “Però lo capisce che se noi non entriamo là dentro questa storia non la finiremo
mai?” Sciacchitano chiarì: “Mica possiamo restare a Napoli per sempre? Lui è pure dell'AISE, in Italia non dovrebbe agire...” E rimasero tutti e tre a fissare Salzano che prima si accigliò, poi sospirò, poi finalmente parlò: “Io non vi posso assolutamente autorizzare ad entrare in quel convento stando alle attuali decisioni del Vaticano.” Ma aggiunse a voce tanto bassa da essere appena udibile: “Certo, se io non ne venissi a conoscenza... Però attenzione: non fate guai perché io non vi posso coprire. E principalmente non fate trapelare la cosa se no consideratevi immediatamente fuori dai Servizi. E l'ordine di rientro alle strutture di appartenenza ve la firmo io personalmente.” Poi si alzò ed aggiunse sorridendo e riprendendo un tono normale: “E con questo vi saluto e vi auguro un ottimo lavoro.” Strinse le mani a Colonnese e Sciacchitano, baciò sulle guance la nipote, e se ne andò. E i tre rimasero a scambiarsi occhiate incerte.
XIV
“Ma tu sei sicura, figlia mia?” Il parroco della chiesa del Redentore oltre la griglia del confessionale aveva un'aria perplessa. Carmela replicò con foga: “Gesù, due paralitici che si mettono a camminare appena li tocca Sant'Alfonso Maria de' Liguori, secondo voi non è un miracolo?” “A parte il fatto che non li ha toccati Sant'Alfonso, ma una sua immaginetta...” “E non è la stessa cosa?” “No, perché se compariva Sant'Alfonso in persona quello era sicuramente un miracolo. Se invece quei due hanno avuto un miglioramento quando sono venuti a contatto col santino, ci possono essere un sacco di altre spiegazioni.” “E sarebbero?” “E che ne so, la combinazione, la suggestione... Figlia mia la chiesa prima di riconoscere un miracoloso a anni ad analizzare, a fare ricerche, a trovare prove. E se non è più che sicura non avvia neanche la pratica.” “Don Carlo, ma perché ce l'avete proprio con Sant'Alfonso Maria de' Liguori? E' perché non vi hanno ancora riportato la statua sua, è vero?” Il Parroco rise bonario: “E mica è colpa di Sant'Alfonso se non stanziano i fondi per finire il restauro.” “Ma almeno accendetegli le luci nella cappella sua.” “Perché? La statua non c'è, là non ci va nessuno. Coi soldi che spenderei per quelle luci do' da mangiare ad altri due extracomunitari della nostra casa di accoglienza.”
“Insomma, la luce non la volete accendere, i miracoli non li volete riconoscere, e poi dite che non ce l'avete con Sant'Alfonso.” “Dagli. Non sono io che li devo riconoscere.” “E chi è?” “Il Vaticano. A Roma ci sta tutta un'organizzazione che segue queste cose. Io, al massimo le posso segnalare, ma sempre se questi fenomeni si ripetono o diventano così eclatanti da mostrare senza alcun dubbio le caratteristiche di un fatto soprannaturale.” “Ah, si debbono ripetere? Datemi un'altra decina di immaginette di Sant'Alfonso e vi faccio vedere.” “Eh, si. Mo Sant'Alfonso si mette a fare i miracoli all'ingrosso.” “E allora datemene di meno. Quattro o cinque.” “Carmela, tu non devi dare un valore taumaturgico a delle figurine. Il valore non sta lì.” “E dove sta?” “Nella fede delle persone.” “E io la tengo la fede. Datemene Due. Uno. Almeno per mio figlio.” Don Carlo sospirò: “A proposito, come sta Mariolino?” Stavolta fu Carmela a sospirare: “Come vuole Iddio. Chi parla di trapianto, chi no. L'unica cosa sicura è che l'operazione che gli servirebbe la fanno in America, ma tra viaggio ed intervento ci vorrebbero tanti di quei soldi che io me la posso solo sognare.” Altro sospiro del Parroco: “E speriamo che Sant'Alfonso faccia il miracolo pure a Mariolino. Va be', vieni a
prenderti il santino.” Carmela aggirò il confessionale e raggiunse Don Carlo che ne era appena uscito. Il prete le dette l'immaginetta, ma precisò: “Però a tuo figlio non gli dire che questo santino chissà che può fare. Gli daresti delle false speranze. Ricordati che la tua fede può fare molti più miracoli di questa figurella.” Carmela ringraziò, tentò di baciare la mano del prete che invece la ritirò, e si avviò verso l'uscita della chiesa. Ma ando davanti alla cappella a sinistra si soffermò a guardarla con disapprovazione. Le luci erano tutte spente e nella semioscurità della prima sera si intravedeva appena la parte frontale del piedistallo della ex statua di Sant'Alfonso. Il resto della cappella era completamente al buio. “E per forza che non ci viene nessuno.” Pensò lei avvicinandosi a carezzare il marmo del piedistallo girandogli attorno. E, accorgendosi di non riuscire nemmeno a leggere la scritta che sentì sotto le dita incisa dall'altra parte, cercò nella sua borsa, estrasse una piccola torcia e la accese. E sobbalzò col cuore in gola trovandosi davanti Colonnese e Sciacchitano altrettanto sorpresi per quella luce improvvisa. Ma la cosa che colpì di più Carmela fu che Guglielmo non indossasse il suo abito talare: “Monsignor Manzù!... E com'è che state... in borghese?” Guglielmo la interruppe facendole cenno di abbassare la voce: “Sono in incognito.” Era la prima scusa che gli era venuta in testa, ma lei invece di scoppiare a ridere come lui temeva, sembrò invece molto colpita. Abbassò la voce e chiese in tono complice: “Ma allora a Roma già lo sanno che qua...?” Ma non concluse la frase. Colonnese non sapeva che dire, così intervenne Sciacchitano buttandosi sul generico:
“A Roma sanno sempre tutto.” Lei si rivolse a Guglielmo: “Ma anche lui è...?” “...In incognito. Si.” “E perché Don Carlo non mi ha detto niente?” Guglielmo non aveva la più pallida idea di chi fosse Don Carlo: “Perché forse non ne sa niente neanche lui.” “Ma già l'avete aperta la pratica?” “E certo.” “State facendo l'indagine?” “E...si.” “Però adesso ditemi la verità...” “Quale...?” “Secondo voi non è un peccato che qua sta tutto spento?” “E certo, si potrebbe accendere... non so... qualche cosa.” “Don Carlo dice che con i soldi della corrente da' da mangiare agli extracomunitari che stanno dalle suore.” “Ah.” Guglielo fu subito interessato: “Ne ho sentito parlare. Ma questi extracomunitari che stanno dalle suore... non escono mai?” “Come, no?” “E dove vanno?” “Qua. Scendono nella chiesa. Don Carlo dice una messa apposta per loro ogni
sera.” Sciacchitano finalmente capì: “Ah, Don Carlo è...?” Colonnese lo zittì dandogli di gomito e lui protestò: “Che è?” “Ssss... E' meglio che qua dentro non... Andiamo fuori.”
Sulla discesa del Redentore si fermarono a pochi i dalla chiesa e Colonnese chiese ancora: “E a che ora viene officiata questa messa per gli extracomunitari?” Lei dette un'occhiata all'orologio: “Adesso, tra poco. Ma non è aperta al pubblico. Quelli sono persone che si nascondono, voi lo sapete. E' gente perseguitata...” “Si capisce.” “Ogni sera, prima verificano che nella chiesa non c'è più nessuno, poi chiudono la porta a chiave e solo allora li fanno scendere. Però se è per le prove ve le posso dare io.” Colonnese e Sciacchitano si scambiarono un'occhiata: “Le prove... di che?” Lei sorrise e rispose complice: “Dei miracoli di Sant'Alfonso Maria de' Liguori sui quali state indagando, no?” Sciacchitano non perse l'occasione: “E come avete fatto a indovinarlo?”
“Perché io conosco personalmente due miracolati. Uno ve lo posso far incontrare pure subito. Volete venire?” Colonnese finse rincrescimento: “Adesso purtroppo non è possibile. Ci dobbiamo prima cambiare. Noi non possiamo andare in giro così...” Sciacchitano rincarò: “E' proprio vietato dal Vaticano. Anzi io me ne debbo scappare subito perché prima mi debbo cambiare e poi ho un appuntamento.” “Con chi?” Chiese Colonnese. “Con Laisa... Monsignor Laisa, tu non lo conosci. E' americano. Mi sta aspettando alla Curia Arcivescovile. Ci vediamo domani mattina” Fece un cenno di saluto col capo e si mosse. Guglielmo cercò di trattenerlo: “Aspetta? E il Cardinale De Vasconcellos? Quello pure ci aspetta.” Ma Sciacchitano non si fece convincere: “E vacci tu, che sei più intimo. Io sto in ritardo...” E scappò via. Guglielmo lo seguì con uno sguardo di disapprovazione. Fino a che Carmela chiese: “E allora per queste prove come volete fare? Vengo sempre domani mattina? Io era proprio di questo che vi volevo parlare.” “No... E' meglio se vi cerco io.” “E allora mi raccomando, trattatemi bene Sant'Alfonso che deve fare un miracolo pure a mio figlio che sta in ospedale... Va be', ve lo dico un'altra volta. Io vado di qua. Voi da che parte andate?” “Di là...” Ma in quel momento un tonfo li fece voltare. E tutti e due fissarono il grande
portone della chiesa che veniva chiuso, con le mandate della antica serratura che risuonarono chiare sul rumore del traffico nella strada male illuminata.
***
“Don Giovanni, a cenar teco / m'invitasti. E son venuto...” La voce del “basso profondo” che provava in tuta da ginnastica sul grande palcoscenico del teatro San Carlo insieme ad un tenore ed un baritono esplose possente sostenuta dal “fortissimo” dalla grande orchestra in buca. Peppe Sciacchitano rimase a guardare dal fondo della platea. Quando “Laisa” Franklyn lo raggiunse si informò sottovoce: “Chi è?” Lei rispose sussurrando: “Il Commendatore.” Ed uscì. “Quale Commendatore?” Chiese Sciacchitano seguendola.
Nel lungo corridoio dietro i palchi della prima fila lei gli rispose col suo accento strascicato del Sud Carolina: “La statua del Commendatore del Don Giovanni di Mozart. La vuoi vedere?” “Che cosa?” “La statua. L'ho fatta io. Questo è mio lavoro.” Ed aprì la porta a sinistra. “Fai le statue?” Chiese Peppe e la seguì.
Nello stanzone della scenotecnica la “statua del Commendatore” era davvero
impressionante. Torreggiava imponente col suo elmo alato sul piedistallo di finta pietra. Per farla dovevano essersi ispirati al modello usato nel film sulla vita del grande musicista tedesco. “Toccala” gli suggerì Lysa. “Perché?” “Non è marble... marmolo, come si dice?” “Marmo.” “Invece è molto liggiera... E un costume. Fatto di stoffa.” “Veramente?” Si sorprese Sciacchitano e si mise ad esaminare la finta statua con grande attenzione. “Ti piace?” “Si... Si... Mi piace...” Replicò lui riflettendo veloce: “E quanto ci hai messo per fare questa statua qua?” “Per questa ci è voluto un sacco di tempo... Perché ha armatura... prima fatto bozzato... bossello...” “Bozzetto.” “Si, poi altri scelto stoffe... Quasi un mese. Ma quando facevo a Manhattan costumi di statue per artisti di strada basta poche ore.” Sciacchitano la fissò interessato: “E per fare un costume, per esempio, come la statua di un vescovo antico... an ancient bishop... ma anche con barba e trucco, quanto ci metteresti? Pagando, naturalmente...” “Se tu da' stoffa e macchina di cucire... mezza giornata.” “Tu hai un'automobile?” “No...”
“Va bene. Noleggio io un furgone.” “Per fare cosa?” “No niente. Poi ti spiego. Adesso ti porto a cena in un posto speciale.” “Con il furgone?” “No, ci arriviamo a piedi. Tanto è qua vicino. All'hotel Vesuvio c'è una cucina di gran classe.” “Allora mi devo cambiare?” “No. Là c'è un servizio in camera straordinario. Noi ci mettiamo fuori al balcone, con tutta Napoli davanti... Se non ci sparano pure a noi...” “Come dici?” “Niente. Scherzavo. Andiamo?”
***
Il mattino successivo il laboratorio della scientifica situato nella vecchia questura di Napoli era inondato di sole. Guglielmo Colonnese pensò che, anche se dotato dei più moderni macchinari, quel posto aveva la stessa aria “casereccia” di tanti anni prima. E non gli dispiaceva affatto che avesse conservato la sua “dimensione umana”, rispetto agli avveniristici uffici della polizia scientifica che si vedevano nei telefilm americani. Anche l'agente Maria Calvizzano bassa e grassoccia, con il camice bianco sopra la divisa, sembrava più un'ostetrica che una poliziotta: “Il Dr Miletti e l'africano sono stati uccisi con la stessa arma, una calibro 9x21. Contro il suo letto invece hanno sparato con una 9x18.” Peppe Sciacchitano neanche lo aveva guardato il laboratorio, preso com'era dalla figura slanciata della giovane ispettrice Tilde Cusumano con la gonna della
divisa che, seppur seriosamente tagliata dritta, non riusciva a nascondere le sue rotondità quando lei si muoveva da una postazione all'altra. Neanche Anna De Vasconcellos fece caso al laboratorio, ma per tutt'altra ragione. Infatti chiese interessata: “9x18 Makarov, la vecchia pistola dell'esercito russo ?” “Si, i proiettili che abbiamo trovato in realtà sono 9,3 che è il calibro specifico della Makarov. Dottoressa, però volevo dirle, io l'ho chiamata perché il Questore ci ha detto di tenerla costantemente aggiornata, ma non c'era bisogno che venisse fin qua. Man mano che procediamo con le analisi la posso informare anche per telefono.” “Preferisco parlarle di persona.” E si avviò verso l'uscita. Colonnese, prima di avviarsi anche lui, richiamò con un gesto l'attenzione di Sciacchitano, che staccò malvolentieri lo sguardo dalla gonna della Cusumano e li seguì.
*** Nell'auto di servizio guidata da Catalano, mentre imboccavano il lungomare, Peppe Sciacchitano, seduto a destra si voltò indietro verso la De Vasconcellos: “Dottoressa, ma secondo lei...” Lei gli fece un perentorio cenno di tacere indicando l'auto intorno a loro, come a dire “potremmo essere ascoltati.” Sciacchitano capì e proseguì: “E appunto, volevo dire, perché lei e Colonnese non venite a pranzo al ristorante dell'Hotel Vesuvio? Fanno un antipasto di formaggio caprino e mela annurca che è una squisitezza. Ieri sera ho mangiato veramente bene.” Anna scambiò uno sguardo con Colonnese e stette al gioco: “Si potrebbe anche fare, visto che è l'una meno un quarto... Catalano, ti dispiace di avvertire tu in ufficio? Così se non dovesse prendere il mio portatile sanno
dove trovarmi.” “Non si preoccupi Dottoressa. Ci penso io.” Replicò l'agente alla guida fermando l'auto davanti all'albergo. Sciacchitano aspettò che Anna e Guglielmo fossero scesi per chiedere a Catalano: “Mi hai trovato quella cosa?” “Ah si, sta qua.” E gli ò un foglio piegato aggiungendo: “Però questa è quella di Roma. Quella di Napoli non l'ho trovata.” “Va bene lo stesso.” Sciacchitano scese dalla macchina e raggiunse rapido i due che stavano entrando: “E al “Roof Garden”, il Caruso, all'ultimo piano. Avviatevi su. Io devo are un attimo in camera. Ma un secondo. Vi raggiungo subito.” E sparì rapido nell'ascensore. Colonnese lo stava seguendo, ma Anna lo trattenne: “No, lascialo andare. Noi prendiamo l'altro ascensore.” Ma quando le porte di quello di Sciacchitano si chio lei non si mosse. Estrasse il telefono e fece un numero: “Catalano?... Sono la Dottoressa De Vasconcellos... No, volevo sapere... Che cos'era quel foglio che hai dato a Sciacchitano?”
***
Lysa Franklyn era di pelle scura. Ma quando Peppe Sciacchitano entrò nella sua stanza all'hotel Vesuvio, aveva la faccia e le braccia quasi completamente imbiancate dalla miscela di gesso che stava usando sull'antico abito vescovile col mantellone ricamato sul manichino preso in prestito dalla sartoria del San Carlo: “Ecco qua. Questa è la fotografia della statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. La sai rifare tale e quale?”
E le cedette il foglio avuto da Catalano. Lei osservò la figura del Santo resa ancora più imponente dalla mitria arcivescovile. Aveva il bastone pastorale nella destra ed un libro nella sinistra. Un puttino accanto ai piedi reggeva un crocefisso. Lei lo indicò: “Pure con il bambino qui sotto?” “No, non ti preoccupare del bambino. La facciamo senza il bambino.” “Se tu dicevi prima libro e bastone li prendevamo al San Carlo.” “E magari ci iamo dopo. Allora, hai abbastanza stoffa?” “Credo di si.” “Se non ti basta usa un lenzuolo. Poi ci penso io.” “Ma tu non resti?” “No, io torno dopo. Adesso ho da fare. Ma tu alza il telefono ed ordina tutto quello che vuoi, da mangiare, da bere, qualsiasi cosa.” Lei sorrise: “Adesso non ho fame. Magari dopo, quando torni...” “Allora io vado. E mi raccomando...” E giunse le mani in un gesto comicamente implorante. Lei rise.
***
Di giorno il panorama che si godeva dal “Caruso Roof Garden” non era meno splendido di quello notturno. Se perdeva qualcosa del fascino misterioso delle mille luci che la sera si
riflettevano a mare lo guadagnava più che abbondantemente nel colpo d'occhio. Quel giorno una mattinata ventosa aveva spazzato l'aria da ogni impurità e l'immagine del golfo di Napoli appariva nitidissima da Capri alla punta della collina di Posillipo. Quando Sciacchitano raggiunse Anna e Guglielmo al tavolo accanto al parapetto dove i due stavano sorbendo un aperitivo, la De Vasconcellos lo accolse con un sorriso sfottente: “E bravo Sciacchitano. Abbiamo saputo che ti sei pentito delle tue tante malefatte e sei diventato devoto di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.” “Quello che stanno bevendo loro.” Disse Sciacchitano all'impeccabile cameriere che gli era apparso a fianco e che si affrettò ad andare ad esaudire il suo desiderio. Poi sorrise e rispose: “Ve l'ha detto Catalano, è vero? Io l'avevo fatto apposta per vedere che tipo era. Gli avevo raccomandato di non non parlarne con nessuno.” Guglielmo posò il bicchiere del suo Martini: “E adesso che invece ce l'ha detto, secondo te che tipo è?” Sciacchitano si sedette: “E' un poco piattola, ma secondo me non è lui la talpa...Gli mancano le...” “...palle.” Concluse Anna: “Comincio a pensarlo anch'io, anche se non si può mai sapere.” Guglielmo cambiò discorso: “E che ci vuoi fare con la statua di Sant'Alfonso? La vuoi cercare, farne finire il restauro e riportarla alla chiesa per ingraziarti il Parroco?” “Grazie...” Sciacchitano prese il Martini dal vassoio dell'efficientissimo cameriere e quando quello si allontanò rispose mentendo spudoratamente: “Ci avevo pensato anch'io, ma quanto tempo ci sarebbe voluto? No. E' stato la prima cosa che mi è ve-nuta in mente per capire Catalano che panni vestiva.”
Si accomodò sulla sedia e si rivolse ad Anna: “Allora... Dottoressa, possiamo parlarci chiaro?” “Dobbiamo.” “Secondo me quello che le ha sparato in questo albergo e quello che ha sparato al suo letto all'Excelsior, sono due persone diverse.” Colonnese si inserì: “Infatti i proiettili sono differenti.” “Questo non vorrebbe dire niente. Uno può sempre usare due pistole diverse. Secondo me invece le ragioni sono altre. La prima è che l'attentatore che vi ha sparato qua, se era lo stesso uomo o donna di colore che ha ammazzato il povero Miletti è probabile che la sua intenzione fosse quella non di uccidere lei, ma qualunque successore di Miletti...” Lei annuì e lui avrebbe proseguito se il “maitre” non si fosse avvicinato al tavolo: “Allora, che cosa possiamo servirvi?” Sciacchitano fu rapidissimo a rispondere: “Per me due spaghettini al pomodoro e basilico, belli semplici e profumati.” “Anche per me” Si unì Anna. “Faccia tre.” “E per secondo? Abbiamo...” Peppe lo interruppe: “Come si chiama quel pesce magnifico che ho mangiato ieri sera? Quello con gli occhi grandi...” “La pezzogna.” Sorrise orgoglioso il maitre.
“Esatto. La dovete provare. E come si può cucinare?” “La morte della pezzogna è o al forno o all'acqua pazza. Ve ne posso far fare due più grandi, così la provate in tutti e due i modi?” “Bravo.” Annuirono tutti. “E da bere?” Sciacchitano continuò a condurre l'orchestra: “Se lo avete, un Asprinio di Aversa di Grotta del Sole bello ghiacciato, però quello dei Vignali ad Alberata. Se no quello che secondo lei ci azzecca meglio con la pezzogna.” “Adesso ci penso io.” Il Maitre si inchinò e sparì così come era apparso. “Allora, dove eravamo rimasti?” Sciacchitano ritornò se-rio. “Le ragioni per cui i due sparatori secondo te non sareb-bero la stessa persona.” “Ah, si. La prima ve l'ho detta. La seconda e che quello che ha sparato al suo letto non era di colore, perché ieri sera di colore all'Hotel Excelsior non risulta esserci stato nessuno, ne' dai filmati delle telecamere ne' dalle testimonianze...” Guglielmo obbiettò: “Si, ma questo significa soltanto che non l'hanno visto.” Anna si unì: “Questa è gente abile. Sa come sono disposte le telecamere.” Ma Sciacchitano ribatté: “Si però quell'altro si è fatto vedere dalle telecamere del Vesuvio.” “E va bene” insistette Guglielmo “una volta si è fatto vede-re e una no. Ma questo non basta a dimostrare che si tratta di di due persone diverse.”
“Me la fate dire la terza ragione?” “E parla.” “Prego.” “Lei ha detto che ieri sera ha guardato l'orologio un attimo prima che le sparassero qui al Vesuvio?” “Si. Era mezzanotte precisa.” “E dal sistema computerizzato dell'Excelsior risulta che le uniche due volte nelle quali è stata inserita una chiave elettronica nella serratura della sua stanza sono state una alle 23,59 ed un'altra stamattina alle 7,02. E siccome la seconda era quella della cameriera che si è accorta del letto bucato e ha dato l'allarme, non è possibile che lo stesso killer vi abbia sparato contemporaneamente in due alberghi diversi. O no?” Silenzio. Poi Guglielmo cominciò: “Io non ho capito...” “Che cosa?” Abbaiò Sciacchitano. “Non ho capito perché questa ragione ce l'hai detta per terza. Ce la dicevi per prima e ci risparmiavamo le altre due.” Risero tutti e tre con Sciacchitano che aggiunse: “E non lo volete concedere un po' di spazio allo spetta-colo? Allora che gusto ci sta a fare questo mestiere?”
***
Alle 14,45 il loro tavolo al Caruso Roof Garden somiglia-va più ad un campo di battaglia che al desco di tre agenti segreti impegnati in una indagine difficile. Le due bottiglie di Asprinio di Aversa completamente vuote che rilucevano nel sole
del pomeriggio in mezzo a piattini di dolce e tazzine da caffè avevano ben lavorato ai fianchi i tre commensali. Ma il colpo di grazia doveva averglielo dato quella bottiglia di raffinatissima “Most” di Bepi Tosolini, una acquavite di moscato rosa capace di ammaliarti come una sirena se bevuta da sola, ma capace anche di mandarti fuori combattimento come il pugno di un peso massimo se scelleratamente accompagnata da quel limoncello ghiacciato la cui bottiglia imperlata al centro del tavolo sembrava ridere di loro fino alle lacrime. “Io devo andarmene da Napoli.” Sospirò Anna con la voce impastata. “E pur'io.” Si unì Guglielmo. “E perché, io no?” Aggiunse Sciacchitano. Ma Anna sospirò ancora: “Se resto qui, tra la frustrazione che mi sento addosso e questa cucina, in un mese metto su dieci chili.” “Sempre se non ti sparano prima.” Disse serio Gugielmo. Ma subito esplose in una irrefrenabile ilarità alla quale si unirono immediatamente anche gli altri due. E continuarono per un bel po' con quella ridarella alcolica che faceva loro trovare irresisti-bile qualunque cosa dicessero. Nel ristorante non c'era più nessuno. Solo il maitre ed un cameriere che si tenevano rispettosamente a distanza. Anna sembrò prendere le redini: “Va bene. Basta. Andiamo.” E si alzò. Ma ricadde subito a sedere esclamando: “Cacchio! E chi ci arriva all'Excelsior?” Sciacchitano che si teneva dritto solo aggrappandosi al bordo del tavolo, propose:
“E si riposi un'oretta qua. Questo ha tutto quello spazio. Potreste ricominciare da dove vi siete interrotti stamattina...” E giù altre risate irrefrenabili. Finalmente, con Anna aggrappata al suo braccio, Gu-glielmo si avviò: “Tu vieni?” “Andate pure. Io firmo il conto, lascio una mancia e vado a mettermi a letto anch'io. Ci vediamo stasera. Se mi riprendo.” Ma appena i due sparirono alla sua vista Peppe raggiunse il maitre e gli chiese con tono implorante: “Me li fa sei caffè amari?” Il Maitre, esperto, non fece una piega: “Tre li già preparati. Le faccio subito gli altri tre.” E si spostò verso la cucina con Sciacchitano che gli gridò dietro: “Li metta tutti in una tazza sola...”
***
Entrati nel salotto della grande suite Guglielmo si chiuse la porta alle spalle. “Qua.” Anna indicò il divano e lui la portò a sedersi. “Ma non vuoi andare a letto?” “Non posso. Se mi metto distesa vomito. E pure se chiudo gli occhi. Siediti vicino a me.” Lui eseguì e lei lo guardò con due occhioni tristi:
“Ti posso prendere un po' a pugni, per favore?” “E perché?” Anna rispose con un lamento infantile: “Perché mi hai lasciato!”. Guglielmo la guardò intenerito: “Ancora ce l'hai con me?” “Non ce l'ho con te. Ce l'ho con mio marito e con quella stronza della Borodin. E siccome non li posso ammazzare di botte perché me l'ha tassativamente vietato il vicedirettore Toso, almeno me la prendo con te. Avanti, ti posso prendere un po' a pugni?” “Dopo. Adesso scusami un attimo.” Si alzò e si avviò verso l'attigua camera da letto. Ma lei lo fermò: “E che fai, mi lasci sola?” “Devo andare un momento...” “Aspetta. Io non li posso ammazzare di botte, ma tu si.” “E adesso quando torno ne parliamo.” “No, ne parliamo subito. A te il vicedirettore Toso non te l'ha vietato, è vero?” “Che cosa?...” “A me si!...” Le si ruppe la voce e si mise a tirar su col na-so. In una crisi di autocommiserazione si indicò il viso col trucco che cominciava a risentire della situazione: “Guarda qua.” “Si ma adesso debbo proprio andare , se no...” Fece ancora per muoversi, ma lei: “Lo vedi? Se ne vanno tutti. E tu sei peggio degli altri, perché te ne andasti allora e te ne vai anche adesso.”
“Ma io vado e torno...” Protestò Guglielmo. “E invece mi servi ora! Perché è stata lei a sparare sul letto mio.” “Chi?” “La Borodin. Chi altro oggi usa ancora la Makarov 9x18? Solo una russa rimasta affezionata a quell'arma superata! Ma perché credi che mi abbiano mandato a Napoli?” “Non lo so, ma me lo racconti dopo...” “Per difendere quella stronza, che se no scopre che la stanno sorvegliando! Bella sorveglianza. Sorvegliata, sorvegliata, quella mi spara tre colpi e nessuno se ne accorge.” “Veramente, se è stata lei, ha sparato solo al letto tuo...” “E allora stasera tu sai che fai? Vai dove stanno lei e mio marito e spari tre colpi nel letto loro.” “Con loro dentro?” Lei si illuminò: “Sarebbe bellissimo... Ma che fai ancora qua? Vai se no te la fai addosso. Rimandare, sempre rimandare. Non ne posso più...” Ma Guglielmo era già schizzato nel bagno. Appena in tem po. Quando tornò di là Anna dormiva a bocca aperta semiseduta sul divano. Guglielmo prese un lenzuolo da uno dei tanti letti e la coprì. Poi si sedette sulla poltrona di fronte a lei e si addormentò subito.
XV
Il furgone noleggiato all'Avis si fermò davanti alla chiesa del Redentore alle 19,22. Lysa Franklyn, seduta al posto di guida annunciò ad alta voce: “Siamo arrivati.” “Okay.” Echeggiò la voce di Peppe Sciacchitano dall'interno. Lasciando il motore in moto e le luci accese Lysa scese nella strada. Salì i gradini ed entrò nella chiesa. La cappelletta a destra era completamente buia e ava del tutto inosservata rispetto alla navata ben illuminata fino all'altare in fondo, risplendente di ceri accesi e di forti luci alogene. Lysa si avvicinò quasi a tentoni al famoso piedistallo senza la statua. La chiesa era del tutto deserta e silenziosa fatta eccezione per una donna molto anziana che appoggiandosi ad un bastone stava lentamente raggiungendo l'uscita. Quando sparì oltre l'antico portone, Lysa la seguì fuori. E, mentre la donna anziana si allontanava sulla discesa, lei raggiunse la porta laterale del furgone e la aprì. La “statua di Sant'Alfonso” che ne scese era davvero impressionante nel suo realismo. Il viso di Sciacchitano, imbiancato e coperto da una corta barbetta risultava del tutto irriconoscibile e perfettamente somigliante a quello della statua sulla foto avuta da Catalano. Ma, malgrado tutte le assicurazioni di Lysa sulla sua leggerezza, quel costume si rivelò difficile da portare per Sciacchitano che avrebbe voluto muoversi il più rapidamente possibile per non essere notato. Lysa prese dal pavimento del furgone il lungo bastone pastorale, la mitria arcivescovile ed il librone tutti dipinti in modo da dar l'impressione di essere fatti di marmo. Poi prese anche un piccolo sgabello di metallo pieghevole, richiuse il portellone e raggiunse “la statua” che, all'interno della chiese si stava accingendo a salire sul piedistallo.
“Aspetta.” Gli sussurrò lei ed aprì lo sgabello. Lui vi pose un piede sopra, ma prima di salire si raccomandò a bassa voce: “Qui la messa comincia alle otto. Alle otto e mezza al massimo devi essere davanti al portone.” “Okay.” E lo aiutò a salire. Gli ò la mitria che lui si pose sul capo faticando un po' a trovarle il giusto equilibrio. Poi il lungo bastone pastorale che tenne con la destra, e per ultimo il librone che verificò aprendone la copertina rigida. Conteneva una minuscola telecamera digitale destinata ad identificare gli extracomunitari che di lì a poco sarebbero scesi in chiesa. Ma quando si immobilizzò nella posa effigiata nella foto a Lysa venne da ridere. Ma trattenne l'ilarità e prima di andare gli scattò una foto col suo telefonino. Sciacchitano non si aspettava il flash e a momenti metteva un piede in fallo. Ma si riprese in tempo e, mentre la ragazza si affrettava ad uscire, assunse di nuovo la sua posizione “marmorea”. Fuori dalla chiesa Lysa dette libero sfogo alle sue risate mentre saliva alla guida, sistemava lo sgabello accanto a se e ripartiva. Risate tanto irrefrenabili che la costrinsero a fermarsi ancora due volte ad asciugarsi gli occhi prima di allontanarsi definitivamente nel traffico della sera.
***
Alle 19,46 Sciacchitano cominciò ad essere assalito dai crampi. Riò a memoria tutto quello che anni prima gli era stato insegnato in caso di immobilità forzata, magari per un appostamento da cecchino. Spostare l'equilibrio da una gamba all'altra. Rilassare i muscoli dolenti. Cercare di portare la mente ad un distacco “zen”. Sembrava facile e convincente allora. Invece quella sera, quando spostava l'equilibrio da una gamba all'altra, la seconda gli faceva male più della prima. Rilassare i muscoli attaccati dai crampi senza massaggiarli era assolutamente impossibile. E quanto al “distacco zen” la sola idea lo avrebbe fatto ridere se solo non avesse avuto quella voglia urgente di imprecare contro quella sua
maledetta “testa creativa” che lo metteva regolarmente in situazioni che poi finiva col rimpiangere. Ma la cosa più impellente che lo aggredì, anche se lui ne era soggetto molto di rado, fu una inattesa quanto feroce voglia di fumare. Per quanto cercasse di rifiutare quel pensiero, le sigarette e l'accendino che aveva in tasca sotto il suo abito “marmoreo” gli sembravano sempre di più l'unica cosa che avrebbe potuto dare sollievo ai suoi problemi. Alla fine cedette. Si pose il librone sotto il braccio e cominciò una lenta e complicata manovra per raggiungersi in tasca gli oggetti del suo desiderio senza cadere da quel piedistallo che sembrava diventare sempre più stretto. Alla fine, dopo vari contorcimenti a rischio di stiramenti muscolari, riuscì a mettersi una sigaretta tra le labbra. Un'ultima occhiata di controllo verso la navata illuminata e deserta e fece scattare l'accendino. Ed il suo volto imbiancato che improvvisamente apparve nel buio della cappella rischiarato dalla fiammella a momenti faceva venire un infarto ad una vecchietta che, senza che lui se ne accorgesse, era venuta zitta zitta ad inginocchiarsi proprio davanti al piedistallo. Ma per fortuna l'anziana donna non ci rimase secca. Invece più viva che mai, corse verso l'altare strillando come un'aquila “Miracolo!... Miracolo!” richiamando l'attenzione del Parroco che si affacciò dalla porta in fondo seguito da due chierichetti e dal sacrestano. Sciacchitano capì che non c'era tempo da perdere. Con un salto che gli ricordò il suo ato da paracadutista riuscì a balzare sul pavimento senza perdere mitria, bastone e librone, e sparì oltre il portone prima ancora che Don Carlo Sinibaldi avesse il tempo di capire cosa l'anziana fedele stesse blaterando.
***
La statua “napoletana” di Sant'Alfonso Maria de' Liguori era formalmente identica a quella esposta in San Pietro a Roma. L'unica differenza stava nelle sue dimensioni.
Perché mentre quella partenopea era più o meno a “grandezza naturale”, cioè alta circa due metri compresa la mitria, quella di Roma, molto più imponente, raggiungeva quasi i cinque metri. Altra differenza fondamentale secondo don Carlo Sinibaldi era che mentre quella romana aveva nobili natali perché commissionata ai primi dell'800 al preclaro scultore Pietro Tenerani da Carrara, la seconda era solo una copia realizzata quasi cento anni dopo dal giovane scultore Caponetto che, malgrado la sua indiscussa bravura, non ebbe il tempo materiale per diventare famoso come il suo collega carrarese perché a 28 anni fu ucciso da un cecchino durante la prima guerra mondiale. Morale della favola, mentre la mastodontica statua romana non aveva mai smesso di far mostra di se in San Pietro, sottoposta alle amorose attenzioni di varie equipe di restauratori del Vaticano, quella napoletana erano circa due anni che era stata portata via dalla chiesa che la ospitava e a tutto Maggio 2014 non vi era ancora ritornata. E non è che il Parroco non fosse ricorso ad ogni mezzo per ottenere il completamento del restauro e la restituzione della statua. Le sue telefonate, lettere, esposti, richieste, implorazioni, prima alla Curia napoletana e poi a quella romana, non si contavano. Ma tutte avevano sortito lo stesso effetto. Nulla. Sembrava che nessuno dai quali dipendevano le sorti della “statua piccola” fosse interessato non al Santo, equamente onorato a Roma, a Pagani, a Foggia ed in altre chiese d'Italia, ma alla sorte della sua statua napoletana, forse per il fatto che il suo autore, anche se non per colpa sua, risultava un “Carneade” qualunque agli occhi di chi doveva stanziare i fondi necessari al completamento del suo restauro. Agli inizi del 2013, di fronte allo scoramento del povero Don Carlo, un suo nipote che lavorava in pubblicità gli suggerì di scuotere l'opinione pubblica ricorrendo alle stesse tecniche che in tutto il mondo rendevano appetibili prodotti anche di scarso valore: e cioè parlandone, parlandone, parlandone. Così furono promossi eventi, manifestazioni, iniziative culturali e qualsiasi altra cosa che potesse rinverdire nelle coscienze del popolo il problema della “statua rapita ai suoi fedeli”, come l'aveva chiamata lo stesso Sinibaldi in una delle sue prediche domenicali. Ed in molti si dettero da fare per il raggiungimento di questo scopo. Don Carlo fece addirittura stampare a proprie spese 4.000
“santini” con l'effigie della statua, con i quali sostituì i precedenti che riportavano invece l'immagine del Santo presa da un famoso quadro conservato a Pagani. Ma curiosamente quelle manifestazioni, quelle iniziative culturali, quegli eventi nati con lo scopo di pubblicizzare una statua “scomparsa”, proprio per l'assenza di quella statua in questione non ebbero i risultati sperati. Il nipote di Don Carlo, con una sintesi forse irrispettosa ma molto efficace spiegò quel fallimento con la frase: “E' stato come pubblicizzare l'assenza di un prodotto che se vai al supermercato non lo trovi. A chi interessa?” La sua tesi era certo filosoficamente molto discutibile, ma quale pubblicitario si rifà alla filosofia per vendere le sue merci? Questo restringerebbe il suo target solo a gente di buon livello culturale, troppo difficile da convincere a comprare ad un prezzo altissimo proprio perché maggiorato dei costi della pubblicità, magari una “crema antirughe”, quando da centinaia di anni non ce n'è una che abbia mai fatto sparire una sola delle grinze che si manifestano implacabilmente sui nostri visi col are degli anni. Comunque, non divaghiamo. Quello che ci interessa è che da quel giorno tutti i santini di Sant'Alfonso dispensati ai fedeli nella chiesa di Don Carlo Sinibaldi rappresentavano la sua statua. Compresi quelli che Carmela Pagano aveva dato a Bandirò ed a suo figlio Mariolino. E' quindi facile immaginare con che precisione la nostra “tassista a tradimento” avesse fissa nella memoria quella statua alla quale tante volte, negli ultimi giorni, aveva rivolto il suo sguardo speranzoso. Quel giorno Bandirò le aveva fatto sapere che il “tassista a mezzadria” che avrebbe dovuto usare la vettura di Eugenio Pagano non si era presentato a ritirarla perché immobilizzato da un fastidioso “colpo della strega” e che quindi Carmela avrebbe potuto tranquillamente anticipare il suo “turno”. E così quando lei ò col suo taxi alle 19,54 davanti alla Chiesa del Redentore riconobbe subito la statua di Sant'Alfonso che ne usciva completa di mitria, pastorale e librone, ed inchiodò la vettura non preoccupandosi affatto degli eventuali tamponamenti che avrebbe potuto provocare. Ed avendo avuto nei giorni precedenti tutto il tempo di abituarsi all'idea di star vivendo un momento miracoloso della sua vita fu più emozionata che
meravigliata quando la statua di Sant'Alfonso, con una agilità inattesa per essere fatta di marmo, aprì lo sportello del suo taxi e si sedette sul sedile posteriore dicendole: “Buonasera.”
Ora conviene fare un o indietro. Peppe Sciacchitano non sapeva che negli ultimi anni della sua vita il Vescovo Alfonso Maria de' Liguori fu assalito da una forma di artrite che progressivamente gli deformò la spina dorsale fino a portarlo ad assumere sempre quella caratteristica posizione col capo piegato in avanti effigiata in tanti quadri. Anche nelle sue statue egli aveva quella posizione. Ma in quella esposta in San Pietro, data la sua collocazione il alto nella nicchia del secondo giro sopra quella di San sco, la cosa non si notava data la difficoltà di poterla vedere lateralmente. La stessa cosa per tutte le foto che le erano state scattate frontalmente. Carmela ricordava invece perfettamente quella posizione del capo del Santo dal momento che la “statua napoletana” non era incassata in una nicchia e la gente poteva tranquillamente girarci attorno. Così, quando Sciacchitano salì nel taxi e a causa del bastone e del librone che gli occupavano le mani non potette togliersi l'alta mitria e fu costretto ad assumere proprio quella stessa posizione col capo spinto in avanti per non urtare il soffitto dell'auto. E questo per Carmela Pagano fu la conferma definitiva che era proprio la statua del Santo, miracolosamente animata, ad essere venuta a sedersi nella sua vettura. Per cui mormorò con una espressione incantata: “Sant'Alfonso Maria de' Liguori...” “Esatto.” Replicò Sciacchitano, ancora incerto se la donna si riferisse al costume che indossava o fosse convinta davvero di star parlando col Santo. Fu Carmela stessa a sciogliere quel nodo quando chiese con la voce arrochita dall'emozione:
“Adesso che devo fare?” In quel momento i fari di un'auto che veniva in senso contrario fecero sì che Sciacchitano la riconoscesse e decidesse di rispondere semplicemente: “Mi porti all'hotel Vesuvio.” A questo punto Peppe si aspettava che lei scoppiasse a ridere, oppure gli chiedesse qualche spiegazione sul suo strano aspetto marmoreo, o addirittura che si arrabbiasse, magari sentendosi offesa nella sua fede per quel Santo che aveva espresso a lui e Colonnese proprio la sera precedente. Invece Carmela si illuminò ed balbettò con un sorriso speranzoso: “Da Monsignor Manzù?!” “Si...” Lei ebbe un'espressione affannata, ma compiaciuta: “Ah, che soddisfazione! Adesso voglio vedere se si convince o no. No perché io ieri sera gli volevo far incontrare Don Alberto e Bandirò. Ma lui non è voluto venire, perché ha detto che si doveva cambiare e... Gesù, sant'Alfonso Maria de' Liguori!...” Ma “Sant'Alfonso” le intimò di tacere toccandosi la punta del naso, e mosse la sinistra con tutto il librone per dirle di andare. Lei annuì rapida e partì. Rimasero in silenzio per tutto il viaggio con lei che si limitava a lanciare occhiate all'espressione secondo lei sempre più ieratica di Sciacchitano che invece era causata dal dolore che gli era venuto nel collo per colpa della sua innaturale posizione. Arrivati all'Hotel Vesuvio Carmela riuscì solo a fermare il taxi prima di cadere in un vero e proprio stato di choc che si manifestò con un tremito irrefrenabile e con l'impossibilità di parlare. Sciacchitano, che non riusciva più a muovere la testa, non se ne accorse e chiese:
“Quanto debbo?” Lei non rispose. “Signora?” Ma lei continuò solo a tremare, l'occhio fisso in avanti a guardare lontano oltre il parabrezza. Sciacchitano, sempre bardato di tutto, scese dal taxi e, vedendo che lei ancora non si voltava si mosse verso la porta dell'albergo.
Appena entrato incrociò Saverio, il bell boy, che gli sorrise: “Bellissimo costume, dotto'. Siete stato a una festa in maschera? Sciacchitano annuì. Estrasse un foglio da 50 euro e glielo porse: “Fammi un piacere. Qua fuori c'è un taxi guidato da una donna. Pagala, ma non dirle chi sono io.” L'altro fece un saluto militare, prese i soldi ed uscì.
Il taxi era ancora fermo davanti alla porta dell'albergo. Saverio si rivolse a Carmela immobile alla guida: “Signo'?” Lei si voltò lentamente e lui le chiese: “State aspettando qualcuno dell'albergo?” Lei scosse il capo: “No... Ma per caso avete visto un... una statua di Sant'Alfonso che è entrata adesso adesso...”
“No, quale statua? Comunque qui non potete stare. Il parcheggio dei taxi sta all'angolo di Santa Lucia.” Lei ancora frastornata mise in moto e partì. E Saverio sorrise soddisfatto per i 50 euro guadagnati così facilmente.
I due giapponesi rannicchiati nell'angolo dell'ascensore sembravano minuscoli al confronto con l'imponente statua completa di mitria, pastorale e librone. E rimasero così colpiti da quell'inatteso incontro da dimenticare di scendere al loro piano. Se ne ricordarono solo dopo che seguirono Sciacchitano nel corridoio delle suite e gli scattarono una raffica di foto. Lui li favorì assumendo varie pose una più ieratica dell'altra. Alla fine gli orientali s'inchinarono rapidamente cinque, seicento volte e sparirono di nuovo nell'ascensore. Peppe Sciacchitano picchiò due tre volte con le nocche alla porta della suite di Colonnese, ma nessuno gli aprì. Poi si accorse che l'uscio non era chiuso a chiave. Lo spinse ed entrò. Faticò a are per la dimensione del mantellone e degli “accessori” che gli occupavano le mani. Una volta dentro si guardò intorno nel salotto in penombra, rischiarato in maniera indiretta dalle abat-jour dietro il divano e sullo scrittoio. Sembrava non ci fosse nessuno. Poi Sciacchitano sentì un vago russare che veniva dallo studio attiguo. Avanzò in quella direzione, ma si bloccò subito sentendo la canna di una pistola nella schiena ed una voce femminile che gli intimava: “Fai un altro o e ti sparo nella spina dorsale!” “No, no, ma chi è? Un momento! So' Sciacchitano...” Si voltò e rimase a bocca aperta di fronte ad Anna che, scalza e con addosso uno dei suoi completini di lingerie da bombardamento, gli puntava la sua piccola Glock: “Sciacchitano?! Che è 'sta cosa che hai addosso?” “Questa? E' la statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.” “E che ci fai vestito da...?” “Niente. Io mi diverto così. Oh, a proposito, voi che ci fate vestita da... così?”
Lei lo guardò storto: “Idiota.” E sparì nella camera da letto a sinistra dell'ingresso.
***
“Tu sei pazzo! Tu sei completamente pazzo! Anna, ma come posso lavorare con uno così?” Guglielmo avvolto come la De Vasconcellos in un accappatoio bianco dell'albergo, non riusciva a frenarsi. Sciacchitano invece seduto sul divano, finalmente senza la mitria, librone, mantellone e pastorale, sembrava non essere particolarmente interessato ai suoi strepiti, concentrato com'era a scollarsi dal mento la corta barbetta “di marmo”. Cosa che sembrava far infuriare ancora di più Colonnese: “Ma si può sapere che cosa credevi di fare con questa pagliacciata? Eh? Si può sapere?...” Sciacchitano, che evidentemente si divertiva a farlo stizzire, chiese tranquillissimo: “Scusa, non è che c'è un poco di alcool nel bagno? Se no questo mastice non si stacca.” “Anna, ma tu lo senti? ! Questo lo devi far ricoverare se no prima o poi ci fa are un guaio a tutti quanti!” “Oh, se non tieni lo spirito va bene pure la benzina.” “Si! Una latta! Per darti fuoco. Così ci leviamo il pensiero!” Peppe, con mezza barbetta ancora appiccicata al viso, chiese con la solita calma: “Hai finito?”
“Io non ho neanche cominciato! Ma ti rendi conto di che cosa ci hai fatto rischiare con questa tua iniziativa strampalata?” “No, che cosa?” “Ma che speravi, che in quella chiesa fossero così stupidi da non accorgersi che era improvvisamente riapparsa la statua di Sant'Alfonso, così tu potevi fotografare tutti gli africani che si nascondono là dentro?” “No.” “No?... Allora perché ti sei travestito così?” “Proprio perché qualcuno invece si accorgesse dell'apparizione della statua e si mettesse a gridare al miracolo. Cosa che è regolarmente avvenuta.” “...E a che scopo?!” Sciacchitano rispose sorridendo serafico: “Allo scopo che tu domani mattina ti rimetti gli abiti da Monsignor Manzù, e ti presenti alla chiesa mandato ufficialmente da Roma per indagare sul miracolo dell'apparizione della statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori. E il Parroco che non ti ha mai visto, sperando nella ratifica del miracolo che darebbe lustro alla sua chiesa, ti verrà a mangiare in mano. E da quel momento, diventerà a sua insaputa il nostro miglior informatore sui movimenti e sulle identità sia degli africani sia della monaca rifugiati all'interno del convento. Hai capito adesso?” Sciacchitano aveva sfrontatamente mentito perché il suo piano era stato veramente quello ipotizzato da Guglielmo. Ma, visto il suo fallimento, per non farci una figuraccia si era inventato la prima cosa che gli era venuta in mente. Ma sicuro che non sarebbe stata presa sul serio. Invece Guglielmo, anche se la calma di Sciacchitano stava come sempre mettendogli le mani nel sangue, si forzò a restare obbiettivo. Guardò la De Vasconcellos: “Tu ha sentito?” Lei annuì pensierosa. Guglielmo insistette:
“E che ne pensi?” La Dottoressa, pur con la fronte aggrottata, mormorò: “Che è un piano talmente assurdo che potrebbe anche funzionare.” “Veramente?” Esclamò Sciacchitano sinceramente sorpreso. Ma poi fece finta di ridere della sua stessa battuta. Guglielmo forse avrebbe ribattuto qualcosa, ma gli squillò il telefonino: “Pronto?... Oh, Elvira, che piace...” Sorrise Guglielmo, ma mutò subito espressione chiedendo agitato: “Che cosa?... Ma quando?... Uh, Gesù!... E il medico che dice?... Si, lo so che tuo padre è medico... Appendicite? Ma perforata?... Si, sto calmo, sto calmo... Ci andate adesso?... Ma è un ospedale qui a Napoli... cioè lì a Napoli?... Che debbo stare tranquillo? Io adesso mi precipito subito. Il tempo di arrivare. Sissignore, non mi agito. Sto calmo, promesso.” Riattaccò e si mise a saltellare per tutta la stanza ripetendo agitatissimo: “Ummadonna!... Ummadonna!..” Sciacchitano gli si avvicinò: “Ch'è stato?” “Giorgetto. Mio figlio. Lo hanno ricoverato con un attacco di appendicite. Forse lo devono operare subito. Scusate, ma io debbo correre là...” E si mosse verso la sua camera da letto. Ma Sciacchitano lo fermò: “Aspetta. Dove vai. Tu ufficialmente sei a Venezia.” “E... dico che mi sono fatto portare qua da un aereo militare. Un caccia. Che ci può mettere un caccia? Dieci minuti...” “Da Venezia? Mezz'ora. Tre quarti d'ora... Ma mentre vai in aeroporto a Tessera, arrivi a Napoli, ti sposti da Capodichino all'ospedale, a una nottata.”
“E allora che faccio?” Anna gli si avvicinò anche lei: “Per ora niente. Ci teniamo informati per telefono. Faccio chiamare Di Stasio a nome tuo, ma senza dire che tu sei già qua. Se ce n'è necessità ci andiamo anche stanotte. Se no domani mattina, anche prestissimo. Stai tranquillo.” Sciacchitano si associò: “Ma si, non ti preoccupare, quella, l'appendicectomia è una sciocchezza. A me me l'hanno fatta tre, quattro volte...” “Ma che cazzo dici?!” “Niente, così, per sdrammatizzare... Che faccio, ti ordino un paio di litri di camomilla?”
XVI
Elvira Foglia Manzillo aveva 39 anni. E oramai da parecchio non tornava più con la mente alla sua prima giovinezza. Non perché fosse stata sgradevole, ma perché preferiva non ricordare quegli anni magici nei quali la vita era come un albero di Natale la mattina del 25 Dicembre, cioè tutta piena di regali ancora da scartare, ora che sempre più spesso aveva la sensazione che tutto fosse già irrimediabilmente accaduto. Non che si lamentasse di quello che aveva. Adorava i suoi tre figli che la riempivano di affetto e di scoperte, anche se esse erano sempre le “scoperte dei suoi figli” alle quali lei poteva partecipare solo “per interposta persona”. Amava suo marito Guglielmo, magari non più con la ione dei primi tempi, ma nella tranquillità di una realtà rassicurante fatta di una serena quotidianità familiare e praticamente senza sofferenze. Eppure. Eppure ogni tanto un'immagine, un profumo, un sapore, una musica, lasciavano entrare nel suo cervello il ricordo di uno dei suoi sogni di una volta. E quale realtà può resistere al fascino ricattatore di un sogno giovanile meraviglioso ed incantato, spe-cialmente quando sai che non ti può più appartenere?
Quando aveva 17 anni ed era ancora una bomba inesplosa di agguerritissimi ormoni, una splendida mattina dei primi di Settembre, nell'affrontare la curva panoramica di Via Petrarca sulla collina di Posillipo, Elvira cadde dal motorino e, malgrado avesse il casco regolarmente allacciato, perse conoscenza. Si risvegliò dopo circa sei ore in una splendida stanza singola con vista panoramica sul golfo di Napoli nel reparto traumatologia di villa del Sole, dove suo padre, il famoso ed onnipotente cardiochirurgo Dr. Prof. Achille Foglia
Manzillo, l'aveva subito fatta trasferire dopo una prima sosta al pronto soccorso dell'ospedale Fatebenefratelli. Ma quello che la colpì di più fu che aprendo gli occhi incrociò lo sguardo ansioso di un giovane ventunenne dagli occhi verdi identico a Brad Pitt, ma dai colori mediterranei. Così se si somma agli ormoni di cui sopra il fatto che l'immagine di quel giovane abbronzatissimo (era appena tornato da un mese in Grecia sulla barca di un amico) le apparve magica e scintillante di riflessi d'oro per tutta la morfina che le avevano somministrato per togliere il dolore delle due costole incrinate e dell' ematoma alla cresta iliaca destra, è facile capire come per la giovanissima Elvira quell'incontro fu come sbattere insieme acido nitrico e glicerina. Se poi si aggiunge che subito dopo lei scoprì che il giovane in questione era quello che l'aveva raccolta da terra, l'aveva portata in ospedale, non l'aveva lasciata nemmeno per un minuto e le aveva riempito la stanza di fiori, cioccolatini e caramelle, si capisce come esplodesse in lei un innamoramento istantaneo di quelli che lasciano il segno per tutta la vita. In realtà la giovane Elvira tralasciò tutta un'altra serie di dettagli legati al suo incontro con quel giovane così sollecito ed affettuoso. Ma chi siamo noi per criticare le scelte di una fanciulla che si affaccia alla vita e crede di scoprire che essa è proprio quella delle favole che le raccontava sua madre per farla addormentare? Ancor oggi ognuno di noi quanto sarebbe pronto a dare per poter tornare a vivere quella illusione meravigliosa anche a costo di affrontare di nuovo la conseguente delusione?
Ad Attilio Bellucci, questo era il nome del giovanotto, le cose fino a quel momento erano andate sempre bene. Perfino quando a diciassette anni perse tutti e due i suoi genitori nel famoso incidente aereo della Air a Caracas, cascò per così dire in piedi, perché subito fu “adottato” da suo nonno, il Comm. Enrico Bellucci, grossista di materiali elettrici divenuto miliardario speculando sulle costruzioni edili nel periodo Laurino delle “Mani sulla città”, che lo rese anche suo erede universale.
Enrico Bellucci all'anagrafe di Napoli era stato registrato come Enrico Esposito dalle suore dell'orfanotrofio dell'Annunziata presso il quale era stato abbandonato la sera del 15 Luglio 1944. Aveva assunto a pieno titolo il nuovo cognome quando fu adottato nel 1948 dai coniugi Bellucci, due contadini di Cercola, paese dei comuni vesuviani. E, praticamente da allora fino all'età di 70 anni non smise mai di lavorare, secondo alcuni sia al di qua che al di là della legge. Ma non stiamo a guardare troppo per il sottile la vita a dir poco “avventurosa” che Enrico aveva vissuto. Quello che ci interessa è che, proprio per gli altissimi risultati economici che aveva raggiunto malgrado la sua quasi totale mancanza di cultura (aveva preso il diploma delle elementari solo a 40 anni), qualsiasi manuale di psicologia avrebbe spiegato perfettamente come egli avesse “pagato” i suoi miliardi con una ipocondria che aveva del leggendario. Per la quale, scoprendosi almeno una malattia al giorno, aveva preteso da suo nipote Attilio una sola cosa in cambio della vita di lussi che lui gli poteva garantire: che il giovane si laureasse in medicina. La specializzazione l'avrebbe decisa poi, quando avrebbe capito qual'era la malattia più grave che lo affliggeva.
Ed infatti, appena dopo il conseguimento della “Maturità Classica” conseguita presso il liceo Umberto I, Attilio si iscrisse alla facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università degli Studi di Napoli. Il fatto fu celebrato con una festa con orchestra e fuochi artificiali organizzata da nonno Enrico nella sua antica villa di Posillipo, e che rimase leggendaria per quel migliaio di persone, tra invitati ed imbucati, che vi parteciparono. Ma poi, forse perché è fisiologico che un giovane al quale viene offerta una vita facile cerchi tutti i mezzi per rovinarsela, Attilio non si dedicò allo studio più di tanto. Usciva tutte le mattine per andare all'università, ma nel 90% dei casi preferiva delle destinazioni più divertenti e trasgressive. Fino al giorno in cui suo nonno, che pur essendo ignorante come una capra certo stupido non era, non trovando traccia di esami sul libretto universitario di suo nipote gli pose un aut-aut: o Attilio rientrava in corso entro l'anno, oppure lui si sarebbe disinteressato per sempre del suo avvenire. E la minaccia avrebbe anche funzionato, perché ad Attilio, abituato oramai al
lusso, la prospettiva di doversi guadagnare il pane quotidiano mise addosso un terrore infernale. Ma nonno Enrico commise un errore. Convinto in buona fede che che per ottenere migliori risultati dalla gente fosse meglio usare la carota insieme al bastone, come incentivo per i suoi studi regalò ad Attilio un bel “carotone verde”, una Kawasaki 750 che sprizzava potenza da tutti i pori. E così venne la mattina della caduta di Elvira dal motorino, che rischiò di cancellare definitivamente il radioso futuro del giovane. Perché Attilio non giunse a soccorrere la ragazza dopo l'incidente: fu lui stesso a causarlo piombandole addosso con la Kawasaki che stava guidando un po' troppo allegramente in compagnia di alcuni suoi sciagurati amici motociclisti. Elvira non si era neanche accorta della ragione per la quale era caduta, ma i cosiddetti amici di Attilio pare invece di si. E circolarono diverse voci maligne secondo le quali fu solo per paura di essere denunciato che il giovane si preoccupo' di soccorrere la ragazza. Invece la ragione per la quale non si mosse dal suo capezzale dipese dal fatto che scoprì quasi subito che Elvira era la figlia del del temuto ed onnipotente Dr. Prof. Achille Foglia Manzillo, Docente di “Malattie dell'apparato cardiovascolare e respiratorio”, la cui inimicizia avrebbe certamente significato la fine della sua carriera universitaria. Oppure la cui amicizia avrebbe potuto essere proprio il jolly del quale Attilio aveva bisogno per accontentare suo nonno. Per cui Elvira, da quel momento in poi, visse per Attilio un amore totale ed assoluto come solo può viverlo una fanciulla al suo primo incontro con la vita. E Attilio ricambiò quel suo sentimento con una assiduità ed una sollecitudine che fu facile per lei scambiare per segni di un amore solido ed incrollabile. In realtà non è che lui non apprezzasse la splendida dedizione che aveva per lui quel fiore innocente di Elvira. Ma forse rimase intrappolato dal sapere di essersi dedicato a quella ragazza mirando alle grazie del padre. E questo obbligo di sentirsi astuto a tutti i costi fece sì che lo diventasse anche con lei, dedicando di nascosto il meglio della sua attenzione a tutta una serie di signorine che valevano certamente molto meno della sua ingenua innamorata.
Comunque, Elvira non lo seppe mai ed il loro amore, per quanto sbilanciato, andò avanti per quasi un anno. Fino al giorno in cui il Dr. Prof. Achille Foglia Manzillo, pur apprezzando le capacità che il giovane Attilio aveva dimostrato nello studio da quando aveva cominciato a frequentare sua figlia, forse informato da qualche malalingua sulle sue attività “extraconiugali”, decise che Elvira meritava qualcosa di meno rischioso del pur brillante Bellucci. Così, muovendo le sue amicizie, e con l'appoggio del nonno del ragazzo che finanziò l'impresa, gli procurò l'ammissione alla Johns Hopkins University di Baltimora, una dei più prestigiosi atenei del mondo in campo medico. Elvira amava troppo quel giovane per non capire che quella sarebbe stata per lui una esperienza preziosa ed irripetibile e ne accettò il distacco. Pianse. Questo si. Pianse a lungo tra una lettera e l'altra che le arrivavano dagli Stati Uniti. Ma poi, man mano che quelle si diradarono, si diradarono anche le sue lacrime. Fino a quando un giorno incontrò Guglielmo Colonnese col quale visse poi un amore forse meno magico ma molto più forte e solido di quello che avrebbe potuto avere con Attilio. Eppure. Eppure quando ogni tanto un'immagine, un profumo, un sapore, una musica le riportavano alla mente quegli occhi verdi che tanti anni prima la avevano fissata ansiosi a Villa del Sole, ancora qualcosa le pungeva il cuore.
A mezzanotte e 40, al “triage” del pronto soccorso dell'Ospedale Monaldi, al piccolo Giorgetto Colonnese dettero “codice rosso”. Cosa che fece agitare talmente Elvira che quando portarono il bambino all'interno per i primi prelievi per il calcolo dei leucociti suo padre le suggerì di restarsene nella saletta esterna, dalla quale poteva comunque vedere suo figlio attraverso una “finestra” di cristallo. Tanto poteva stare tranquilla: lui sarebbe rimasto insieme a Giorgetto ad aspettare l'arrivo del chirurgo, che si stava precipitando d'urgenza in ospedale, essendo stato informato che si trattava del nipote del famoso Dr. Prof. Achille Foglia Manzillo.
Elvira sapeva che la sola presenza di suo padre sarebbe bastata a rendere tutta la procedura ospedaliera molto più rapida ed efficiente, per cui accettò di restarsene fuori, anche se in continuo contatto visivo col bambino. Finalmente arrivò l'atteso chirurgo ed Elvira, anche se se ne vergognò molto quando se ne rese conto, per un po' dimenticò perfino la ragione per la quale era lì. Non solo il medico in questione era Attilio Bellucci, non solo aveva gli stessi occhi verdi e la stessa abbronzatura (era reduce da una vacanza di un mese in Grecia stavolta sulla sua barca), ma in più il tempo e l'esperienza gli avevano dato una sicurezza pacata molto più affascinante della foga acerba di tanti anni prima. Così quando suo padre tornò fuori ad annunciarle che sospettando una perforazione avevano deciso di operare subito il bambino, la prima cosa che Elvira gli chiese, fu: “Ma tu lo sapevi che quello era...?” “Attilio Bellucci? Per forza, l'ho chiamato io.” Lei annuì con gli occhi grandi: “Ma sei rimasto in contatto con lui...?” “Certo. Quello è diventato uno dei più bravi chirurghi pediatrici che ci sono in giro...” Ma poi si accorse del lampo sognante che ò negli occhi di sua figlia ed aggiunse ridendo: “Si, ma non ti agitare. Il tuo Attilio già da parecchi anni è diventato completamente omosessuale.” E tornò rapidamente di là non perché ve ne fosse urgenza, ma per non ridere per l'e-spressione che era apparsa sul viso di Elvira. Il Professore ovviamente aveva mentito. L'aveva detto un po' per quel senso dell'humor feroce che spesso hanno i medici quando parlano tra loro, ma anche per esorcizzare un eventuale turbamento da parte di sua figlia. Ma non aveva calcolato quanta innocenza della Elvira diciassettenne era rimasta in Elvira donna e madre di tre.
Per questo quando dopo il rapido intervento, Attilio si trattenne con lei nella saletta attigua alla “sala risvegli”, tutta la loro conversazione fu influenzata dalla falsa informazione che il Prof. Foglia Manzillo aveva dato a sua figlia ed alla quale lei aveva ingenuamente creduto. Così mentre lui, chiacchierando di argomenti generici, pensava che ad Elvira gli anni avevano aggiunto fascino senza toglierle bellezza, e che quasi quasi..., lei pensava: “Ma che peccato!” Poi lui decise di portare la chiacchierata più sul personale e le chiese: “Hai altri bambini?” “Si. Tre in tutto.” “E da quanti anni sei sposata?” “Diciotto anni. Tu?” L'aveva chiesto d'istinto prima di accorgersi che forse era una domanda che non doveva fare. Ma lui sorrise: “Anch'io sono stato sposato. Ma ci siamo lasciati da più di un anno.” “E per forza.” Pensò lei, invece disse: “Mi dispiace.” Ma lui sorrise ancora coi suoi denti di perla: “E perché? Ogni fine può essere un inizio migliore.” E la guardò con intenzione. Lei invece guardò quello sguardo scintillante e pensò: “Ma che peccato!” “E tuo marito dov'è? Com'è che non è qua?”
Lei sospirò e rispose d'istinto, ma senza alcuna cattiveria: “Mio marito purtroppo non c'è quasi mai. Viaggia molto.” Attilio prese questa dichiarazione per un segnale d'insoddisfazione e decise di accelerare: “Senti, io ho una barca molto bella. Sono tornato adesso dalla Grecia...” “Beato te.” “No, volevo dire, a bordo, costumi da donna ce ne sono quanti ne vuoi. Domattina, dopo i primi controlli, tuo figlio deve riposare un paio d'ore. Io ho promesso che avrei portato un collega di Roma e sua moglie a scoprire Napoli vista dal mare. Perché non vieni a fare un giro in barca anche tu? Tanto per distrarti un po' dalle ansie di stanotte. Se vuoi puoi anche dormire al sole.” Lei, sapendo di non “correre rischi” sorrise ed accettò. “E' fatta.” Pensò lui. “Ma che peccato!” pensò lei.
***
“E come è possibile? Ma voi siete sicura?” Il tono di Carmela era talmente sorpreso che sarebbe suonato addirittura offensivo all'orecchio di qualsiasi medico che non fosse stata la dottoressa che stava con lei davanti alla porta aperta della “Terapia intensiva coronarica” oltre la quale, tra gli altri, nel sole della bella mattinata si vedeva anche il letto nel quale Mariolino giocava col computer.. Sabina Laghezza oltre ad essere un'ottima cardiologa pediatra era veramente una brava persona. Per cui sorrise e replicò bonaria: “Gesù, che domande. Certo che sono sicura.”
In più di vent'anni ati a curare bambini malati di cuore aveva visto madri che cercavano di esorcizzare il dolore per le sofferenze dei propri figli nei modi più disparati. Madri lamentose, madri assillanti, madri sospettose, madri imploranti, madri aggressive e tanti altri tipi di madri che manco lei stessa li ricordava tutti. E lei con la sua comprensione le aveva aiutate ad aver fiducia, a sperare ed a volte anche ad accettare il dolore. Facendo comunque del bene ad ognuna di loro anche quando non riusciva a farlo per i loro figli. Eppure, in tutto quel campionario di “matres dolorosae”, non le era mai capitata una come Carmela che quella mattina era addirittura arrivata a protestare per il ritardo che portava la miracolosa guarigione di suo figlio che, secondo lei, avrebbe dovuto essersi verificata già da varie ore. Ma, come abbiamo detto, la Laghezza era davvero una brava persona e per questo non smise di sorridere: “Ma piuttosto tu, com'è che sei così certa che proprio stamattina Mariolino doveva avere questo improvviso miglioramento?” “E... Non ve lo posso dire.” “Perché?” “Perché se no può essere che quello non succede più.” “Per scaramanzia? Ma allora non sei proprio sicura?” “No, per essere sicura sono sicura... Però pure se ve lo dicessi voi comunque non ci credereste.” La dottoressa si arrese. Controllò l'ora: “Senti, io adesso ho da fare. Facciamo così, il tuo numero ce l'ho, se succede qualcosa ti avverto subito e tu corri qua. Va bene?” “Si... Grazie... Dottoré, voi siete sempre... Però vi dispiace se mi trattengo un altro poco? Dovesse succedere proprio adesso...” “Va bene. Resta. Però non qua, le infermiere a quest'ora hanno da fare. Nel corridoio in fondo. O anche meglio nella sala d'aspetto della chirurgia generale al piano di sotto. Va bene?”
“Va bene.” Annuì Carmela, lanciò un'ennesima occhiata a Mariolino, e si avviò.
***
Quella mattina Guglielmo Colonnese ce l'aveva con tutto il mondo. Ce l'aveva con Anna che, malgrado le promesse, lo aveva lasciato dormire senza avvertirlo che l'intervento su suo figlio era già avvenuto la notte precedente. Ce l'aveva con Sciacchitano che quella mattina non si era proprio fatto vedere. Ce l'aveva con Catalano che con la sua guida esasperante nel traffico della città ci aveva messo quasi due ore ad arrivare fino al “Monaldi”. Ed un po' ce l'aveva anche con sua moglie che, benché Giorgetto dovesse riposare ancora per qualche ora, risultava inspiegabilmente assente dall'ospedale. Non ce l'aveva con suo suocero perché non prevedeva che ci fosse, anche se in realtà era stato l'unico a restare fisso al capezzale del nipote fino alla mattina, quando, totalmente rassicurato dal decorso post operatorio, aveva finalmente deciso di andare a dormire. Così per lasciar are il tempo fino al risveglio di Giorgetto, scese al bar, prese un caffè, risalì, ridiscese, prese un altro caffè, lesse tutto il giornale ed infine comperò la “Settimana enigmistica” ed andò a sedersi nella sala d'aspetto. Ma non fece a tempo a leggere la prima didascalia degli “Incroci obbligati” che una voce femminile lo fece sobbalzare: “Monsignor Manzu!” Davanti a lui si era materializzata Carmela Pagano che gli sorrideva con due occhi speranzosi: “Ma allora succede pure a mio figlio? A che ora succede?... Non me lo potete dire?... Guardate che con me potete parlare. Io lo so che ve l'ha detto
direttamente lei. Ieri sera praticamente ve l'ho portata io fino all'albergo.” Stavolta la curiosità fu troppo forte: “Portata... chi?” Le dette un'occhiata di controllo alla stanza vuota ed aggiunse abbassando la voce: “La statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori.” “Ah, l'hai portata tu?...” Lei, sempre più complice: “E' apparsa improvvisamente davanti alla chiesa del Redentore. Embe', voi non ci crederete: E' salita dentro al taxi mio e mi ha detto: Portami all'Hotel Vesuvio.” “No, ti credo. Ti credo.” “E' venuta da voi?” “Chi?” “La statua.” Guglielmo sospirò: “Si, è venuta da me.” “E che vi ha detto? A mio figlio quando succede?” “Che cosa?” “Il miracolo. Se no voi perché state qua, in borghese? State indagando, è vero?” Lui si guardò intorno, poi rispose: “Carmela, io di certe cose non ne posso parlare....”
“Ma io sono la mamma. Neanche a me me lo potete dire?” “Mi dispiace. Anzi, fai una cosa, da adesso in poi se mi incontri insieme a qualcuno fai finta di non conoscermi. Tu devi fare finta che non lo sai chi sono veramente.” “E per mio figlio?” Guglielmo controllò l'orologio: “Secondo me... Ci vuole ancora un po' di tempo. Devi avere un poco di pazienza.” Lei ci rimase un po' male, ma annuì lo stesso: “Io la pazienza la tengo, tanto a Mariolino solo un miracolo lo può salvare. Perché io i soldi per farlo operare privato non li tengo.” Guglielmo le fece una carezza sui capelli e se ne andò turbato.
XVII
“No, quale miracolo? Qua non c'è stato nessun miracolo. Monsignore guardate che devono avervi informati male.” Nella sacrestia Don Carlo Sinibaldi sembrava sicuro di quello che diceva. Guglielmo, ancora una volta in clergyman dette un'occhiata a Sciacchitano che insistette: “Ma come, ieri sera... Dice che in questa chiesa una donna ha avuto un'apparizione... La statua di un Santo...” Don Carlo sorrise: “Ah, Sant'Alfonso Maria de' Liguori?” “Esatto.” “Venite con me.” E li precedette nella chiesa fino alla cappella semibuia accanto alla porta. Indicò il piedistallo vuoto: “Ecco qua. Voi vedete una statua là sopra?” Guglielmo ammise: “No.” “E neanch'io.” Sciacchitano s'inserì: “Ma quella signora invece pare che l'ha vista.” “Si, ma quella signora solo il mese scorso ha visto tre volte la Madonna, due
volte Sant'Antonio, e una volta i santi Cosma e Damiano, tutti e due insieme. Monsignore, questo non è un miracolo. E' Alzheimer.” “Ma a noi ci hanno mandato per indagare...” Ribatté Guglielmo. “E su che cosa? Sulle allucinazioni di quella poveretta?” Sciacchitano ci provò ancora: “Va bene, ma non è meglio che almeno diamo un'occhiata?... ” “A che cosa?” “Così, per sicurezza...” Guglielmo tagliò corto rivolgendosi a Sciacchitano: “Lasci stare. Non serve.” “No, quello per servire, servirebbe. Ma comunque... Come vuole lei, Monsignore.” Ed uscirono. *** Fuori dall'ascensore in cima al Castel dell'Ovo, mentre percorrevano la terrazza merlata verso la sede dell'AISI, Guglielmo non si dava pace: “Ma come, tu fai tutto il piano machiavellico, organizzi la statua di Sant'Alfonso, ci metti a rischio di un incidente diplomatico col Vaticano, tutto per far credere a un miracolo e chi scegli per farti vedere? Una vecchia con l'Alzheimer alla quale non crede nessuno?” Sciacchitano, come al solito, invece di prendersela si mise a ridere: “E io potevo mai sapere che la vecchia teneva l'Alzheimer? Mica ce l'aveva scritto in fronte!” E come al solito l'allegria di Peppe fece stizzire Guglielmo:
“E ti dovevi informare!” “E come. Scendevo da là sopra vestito da statua e domandavo: -Scusate, per caso voi tenete l'Alzheimer?- Così alla vecchia le veniva un infarto stesso là.” Entrando nel salone Gugliemo ribatté: “No. Ti dovevi informare prima. Fare un sopralluogo, scegliere la persona più adatta e...” Sciacchitano continuò a sorridere, ma alzò la voce: “Sono tre giorni che stiamo qua. Chi ce l'aveva tutto questo tempo?” Guglielmo aprì la porta dell'ufficio di Anna: “E allora non lo facevi proprio. Tanto per i risultati che hai ottenuto...!” “La porta!” Fece eco Anna continuando a fissare i sei schermi illuminati sulla parete. Sciacchitano chiuse il battente insonorizzato e lei proseguì: “Mettetevi seduti e fatemi un rapido resoconto della vostra visita al convento, anche se dall'aria che avete ho già capito che non avete concluso un accidente di niente.” Guglielmo continuò col suo tono esasperato: “E per forza! Questo si è andato a scegliere una vecchia con l'Alzheimer che...” “Ah, io me la sono scelta? Io non sapevo neanche che ci stava là dentro!...” Anna li interruppe decisa: “Ho detto un rapido resoconto. Rapido. Perché tra poco ab-biamo un collegamento importante.” “Con chi?” “Col Dr Salzano da Roma. E mi raccomando se avete combinato casini col
convento delle monache non dite una parola.” “Abbiamo? E' lui che fa i casini. Per giunta inutili. E io, per colpa sua, non posso tornare a Roma!...” Ma l'eccesso di rabbia che c'era nel tono di Guglielmo colpì Sciacchitato: “Ne', ma si può sapere che hai? Fino a ieri eri una persona normale. Scassacazzi come al solito, ma normale. Mo che ci'hai? Stai preoccupato per tuo figlio? Ma quello sta benissimo. Qua arriva un bollettino medico ogni mezz'ora.” Anna lo fissò: “Cos'è, hai litigato con tua moglie quando sei andato all'ospedale?” Guglielmo assunse un'aria imbronciata: “Mia moglie non c'era neanche stamattina.” “E com'è?” “Non lo so. Forse aveva da fare.” Sciacchitano non perse l'occasione per ironizzare: “E certo, col bambino in ospedale, se a una le scappa di fare una cosa urgente...” Guglielmo lo fissò minaccioso: “Che cosa voi dire?” “Niente. Pure un'amica mia lasciò il marito in ospedale per venire da me. Ma andò tutto bene. Poi gli disse che io ero omosessuale, e il marito neanche se ne accorse.” Stavolta Guglielmo si arrabbiò sul serio: “Senti, per tua norma, mia moglie è una persona perbene e...” “Perché, c'è qualcuno che lo mette in dubbio?” Fece eco la voce del Dr Salzano dal grande schermo centrale.
Tutti si stamparono il sorriso in faccia: “Ma nossignore, zio, questi scherzano sempre.” “Vuol dire che le cose vanno bene.” “Si, stiamo lavorando. Adesso appena raggiungiamo i primi risultati ti informiamo subito. Intanto che sono queste immagini che ci vuoi mandare?” “Sono riprese satellitari in diretta fatte dagli americani che stanno seguendo anche loro gli spostamenti della Borodin.” “Ah. E dove stanno lei e...?” “Sempre a Napoli. Aspetta, vi o le immagini, così potete riconoscere i posti.” E sullo chermo il viso di Salzano fu sostituito da un'inquadratura molto dall'alto di Napoli e del suo golfo con la telecamera che zoomava avvicinandosi sempre di più. Solo che alla fine non mise a fuoco la città, ma una parte del suo mare, esaltante per la nitidezza che le sue piccole onde increspate mostravano anche se riprese da migliaia di chilometri d'altezza. “Un altro po' che si avvicina, va sott'acqua.” Commentò, Sciacchitano. Gli rispose la voce di Salzano attraverso gli altoparlanti: “Un attimo che adesso si spostano. Stanno cercando una barca a vela.” Infatti la telecamera cominciò a muoversi verso destra, fino ad inquadrare un lungo sloop dalla linea filante. Salzano proseguì mentre la sua immagine si avvicinava ancora: “Si tratta di uno Swan di 24 metri che secondo la Capitaneria di porto di Napoli appartiene ad un certo Dr Attilio Bellucci...” “Bellucci?...”Si accigliò Guglielmo. “Lo conosci?” Chiese Anna. “Non lo so, può essere qualcuno che ho incontrato tanti anni fa a Napoli. Ma non
mi ricordo proprio...” “Eccolo qua. Questo è il Dr Bellucci.” Ora sullo schermo era inquadrato sempre dall'alto, ma non in verticale, cosa che lasciava vederne quasi completamente il viso, un bell'uomo aitante, abbronzatissimo, in costume da bagno australiano, alla guida di una delle due grandi ruote dei timoni luccicanti nel sole. “Ma chi è, un attore?” Chiese ammirato Sciacchitano. “No, un chirurgo.” Replicò la voce di Salzano, e Guglielmo si accigliò: “Un chirurgo? Bellucci?... Il medico che ha operato Giorgetto si chiama Bellucci! Ma io non l'ho mai visto...” L'immagine si spostò nel grande pozzetto ad inquadrare una donna bionda in bikini rosso accanto ad un altro uomo meno abbronzato del primo ma più muscoloso ed anche lui con addosso un costume a mezza gamba,: “Questa è Nastassja Nikolajevna Borodin. E quest'altro lo conosci, no?” “Chi è?” Chiese Sciacchitano sottovoce. “Mio marito.” Replicò Anna con un tono truce e senza voltarsi. “Ah. E com'è che...?” Anna sospirò: “Te lo spiego dopo.” “Quest'altra donna invece non sappiamo ancora chi sia...” Riprese la voce di Salzano mentre la telecamera del satellite continuava la sua panoramica verso prua ad inquadrare una bella donna in slip turchese e col reggiseno del bikini slacciato, che giaceva prona a prendere il sole: “Comunque è una ospite di quel Bellucci. Appena arrivano al porticciolo di Mergellina, la Finanza ha predisposto un controllo all'uscita, così sapremo come si chiama.” Ma in quel momento la donna a prua riallacciò il suo reggiseno turchese, disse
qualcosa all'uomo al timone e si mise supina continuando a prendere il sole con gli occhi chiusi. E Guglielmo annunciò con la voce che gli venne fuori un po' roca: “Non c'è bisogno della Finanza. La signora si chiama Elvira Foglia Manzillo. In Colonnese. Forse.” Anna lo fissò sorpresa: “Tua moglie?” “Hai visto? Mo hai scoperto pure che cosa aveva da fare.” Commentò leggero Sciacchitano. Guglielmo, l'occhio inchiodato allo schermo, neanche lo sentì. Estrasse il telefonino e si mise a fare un numero. Anna lo interruppe: “Che stai facendo?” “E che devo fare? Chiamo mia moglie.” “Assolutamente no!” Tuonò dagli altoparlanti la voce di Salzano. “E perché?” Guglielmo era spaesato. “Per la stessa ragione per cui mia nipote non può chiamare suo marito. La Borodin non deve scoprire che la stiamo sorvegliando.” “Ma che c'entra mia moglie con la Borodin?” Gli rispose Anna: “Se tu la chiami come le spieghi che sai dove sta?” “Non glielo spiego. Le dico che sto ancora a Venezia e che l'ho chiamata per sapere come sta Giorgetto.” Anna riflettette un attimo: “Secondo me è pericoloso.”
Invece fu Sciacchitano a venire in soccorso di Guglielmo: “Ma no, se lui non le dice che la sta vedendo... E' meglio. Così si toglie questo pensiero. Magari non c'è niente di male. Il bambino sta bene, il chirurgo che l'ha operato ce l'ha vicino... Quella poi un giro in barca si sta facendo. Se lo ammette significa che è innocente, e se no... Almeno Guglielmo lo sa con certezza. Chiamala, va'.” Anna non si oppose e lui rifece il numero. Tutti fissarono Elvira sullo schermo. All'inizio non successe niente. Poi lei si mosse, cercò qualcosa nella borsa... E l'immagine dello Yacht sparì all'improvviso, sostituita dalla parete dello studio di Salzano, ma senza Salzano a vista. “Ch'è successo?” Chiese Guglielmo. “Niente. La linea si è scollegata.” “E proprio adesso?” “Mino, ma tu lo sai quanto costa un minuto di questo satellite?...” Ma Colonnese la interruppe a sua volta facendole cenno di tacere: “Pronto?... Elvira?... Si, sono io... Purtroppo sto ancora qua, a Venezia... Ma cos'è, c'è vento? Dove sei?” Anna e Sciacchitano gli fecero cenno di stare attento a quello che diceva, ma lui proseguì: “...In barca?... E come mai?... Ah, Attilio Bellucci... Il Dottore che ha operato...? Aspetta, scusa, ma mi ricordo male o tu e lui una volta stavate insieme?... Si, a diciott'anni... Come dici? Non sento. Parla un po' più forte... E perché non puoi?...” Lei rispose e lui mutò espressione. Alla fine concluse tetro: “...Magari poi me lo spieghi meglio quando non c'è questo vento... Si, ciao,
ciao.” Anna, Sciacchitano lo fissarono interrogativi: “Che ha detto?” “Niente... Che quell'Attilio Bellucci era un suo fidanzatino di quando erano ragazzi e lei lo ha incontrato perché ha operato Giorgetto... Ma ha detto che non mi debbo preoccupare perché nel frattempo... dice che Bellucci è diventato omosessuale.” “Ecco.” Mormorò Sciacchitano. Ma in quel momento riapparve sullo schermo il viso di Salzano: “Ascoltatemi bene. Ho appena detto al mio collega americano chi è la quarta signora a bordo, e loro hanno detto che questa è una grande fortuna.” “Ah, si?” Chiese Colonnese. “Abbiamo concordato che lei, Colonnese, deve riapparire ufficialmente a Napoli e deve usare questa insperata opportunità per avere quanti più dati è possibile sui movimenti della Borodin naturalmente facendo in modo che si ripetano questi incontri tra sua moglie e i suoi amici.” Colonnese era attonito: “Non ho capito, che dovrei fare io?” Ma Salzano tagliò corto: “Colonnese, lei vuole tornare a Roma? E allora faccia quello che le si chiede.” Fece un gesto a qualcuno e la sua immagine sparì dallo schermo. Sciacchitano cercò di rincuorare il collega: “Ma si, che t'importa, tanto quello è omosessuale... O hai paura che si metta a fare la corte a te?” Colonnese, per tutta risposta, strinse la mano a pugno e si morse le nocche delle dita.
XVIII
Nel Bar dell'Hotel Vesuvio Sciacchitano con un Martini davanti se ne stava arrampicato su uno degli alti sgabelli davanti al banco rivestito di pelle verde capitonné. Anna De Vasconcellos, al primo tavolino accanto ad esso, era seduta su una delle poltroncine di pelle rossa opaca con un “Aperol spritz” tra le mani. Guglielmo Colonnese, con un caffè dimenticato su quello stesso tavolino, eggiava avanti e indietro. La sala era deserta. Perfino il barman aveva preferito sparire per lasciare quei tre con i loro pensieri, che dovevano essere seri visto che se ne stavano in silenzio, troppo impegnati a riflettere per ricordarsi di bere. Alla fine fu Anna a parlare: “Ma fammi capire una cosa: tu vuoi andarci o no?” Guglielmo replicò esasperato, ma non aggressivo: “E non lo so!...” Sciacchitano cominciò col suo solito tono: “Colonnese, io non è che mi diverta a sfotterti sempre... Si, forse un poco, però pure tu... Ti vai a mettere in certe cacchie di situazioni che...” “Io?!” “E si. Forse non è colpa tua, ma le cose più semplici con te s'incastrano come quando ti metti in tasca due paia di occhiali. Le stanghette si arravogliano sempre in una maniera che pare che lo fanno apposta per non farsi tirar fuori. E alla fine o una si piega, o un'altra si spezza, oppure, addirittura se forzi , saltano proprio le lenti degli occhiali e li devi buttare.”
Guglielmo lo guardò incredulo: “Ma che ca...volo stai dicendo?” “Eh, che sto dicendo... Sto dicendo che sei troppo sfortunato. Ma di una sfortuna che è talmente esagerata da diventare sospetta.” “Ah, mo è pure colpa mia?” “Non lo so, ma per la serie “facciamoci benedire”, capitano tutte quante a te.” Peppe si rivolse ad Anna: “Perché adesso, mettiamoci nei panni di questo disgraziato...” Guglielmo lo guardo' storto: “Sciacchita', non esagerare.” “No, io sto parlando seriamente. Adesso io non so di chi è la colpa...” “Dalle!” “...Ma tu ti trovi in una situazione veramente difficile.” “Ah, te ne sei accorto.” “E che ci vuole a capirlo, quello è macroscopico.” Di nuovo ad Anna: “Adesso questo... insomma, Colonnese... da una parte non vedrebbe l'ora di andare a vedere sua moglie che sta combinando, e dall'altra giustamente si mette paura di coinvolgerla in cose che possono essere pericolose, perché non ci dimentichiamo che qua ci sono stati due omicidi e due tentati omicidi.” Guglielmo lo guardò colpito: “Eh, si... E allora, che devo fare?” “E che ne so, io?... Io ne sto parlando proprio per smuovere le acque, così magari ci viene un'idea...” “Ah...” Disse Colonnese deluso, ma l'altro continuò: “Perché noi qua abbiamo due problemi: quello della monaca vera o falsa
nascosta dentro al convento e quello di questi sopra alla barca. E chi ci dice che non siano legati l'uno all'altro?...” Anna lo fissò: “In che senso?” “Nel senso che qui abbiamo due sparatori; il nero che ha ucciso Miletti e forse pure quello dell'hotel Corona, e la russa se è vero il fatto della Makarov. Mo dico io, com'è che tutti e due hanno tentato di sparare proprio a lei? Una ragione comune ci deve essere.” “Si... E' giusto.” Si unì Guglielmo. E Sciacchitano proseguì: “Adesso, anche se Colonnese va dagli amici di sua moglie, dal momento che la russa non la possiamo interrogare per ordini superiori, quella ragione chissà tra quanto tempo la sapremo.” Anna: “E allora?” “E allora non c'è niente da fare. Se la monaca non parla questa storia non la risolveremo mai.” Seguì un altro silenzio con tutti presi dai loro pensieri. Poi Anna: “Forse si potrebbe...” Guglielmo: “Che cosa?” “No, niente... Non va bene.” Altro silenzio. Guglielmo: “Oppure...”
Anna: “Oppure?” “No... Non funziona... Ci vorrebbe un...” Sciacchitano: “Lo so io che ci vorrebbe. Una bella damigiana di acqua di Lourdes!...” Era solo una battuta, ma Guglielmo si illuminò: “Esatto!” Gli altri due lo fissarono e lui proseguì con un sorriso crescente: “Un miracolo. Era così chiaro, ce l'avevamo sotto il na-so!... Ci vuole un miracolo vero.” Sciacchitano cominciò ad intuire: “Ti sei convertito pure tu? Lassa fa' a Dio!” Anna non capì: “Ma di che state parlando?” Le rispose Guglielmo: “Prima di tutto dobbiamo sapere dove sta la statua di Sant'Alfonso, quella vera.” Sciacchitano si associò entusiasta: “Esatto. E poi dobbiamo trovare la signora dei santini...” Anna, sempre più spaesata: “ E chi è?” Guglielmo, sedendosi con Sciacchitano allo stesso tavolino di Anna, cominciò:
“Si chiama Carmela Pagano. Ma adesso ti spiego l'idea. Dunque...” Anna si mise ad ascoltarlo con un'espressione accigliata.
***
Accigliate erano anche le espressioni delle grandi statue di marmo lungo gli immensi corridoi dell' Istituto per il Restauro che Colonnese e Sciacchitano percorrevano lanciando occhiate a destra e a sinistra. Accigliato era il grande “Atlante” sotto il peso del mondo, accigliato era l'immenso “Ercole” con la clava in mano. Sembrava accigliato perfino l'enorme piede di marmo accanto alla porta in fondo, forse perché orfano di chissà quale colossale statua romana. Ed accigliata era anche l'espressione del Dr Martinelli, il direttore dell'immenso laboratorio affollato di restauratori in camice o in tuta che si agitavano intorno ad innumerevoli opere marmoree : “No, mi dispiace, ma questa statua non l'abbiamo noi.” Disse con la sua voce stridula e rese a Colonnese la foto della statua di Sant'Alfonso. “Come, non l'avete voi? Ma siete sicuro?” “E si. Qui nel laboratorio non ci risulta nessuna opera marmorea del Caponetto.” Sciacchitano intervenne: “Ma a noi invece risulta che la statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori, che una volta si trovava nella chiesa del Redentore, è stata affidata per il restauro proprio a questo laboratorio.” “Ah, si? E quando?” “Non lo so, un paio d'anni fa.” Martinelli sorrise con sufficienza:
“Eh, ma da due anni a questa parte qui ci sono stati tanti di quei cambiamenti. Hanno rifatto tutto il chiostro del Fuga, hanno risistemato il primo piano, perfino il nostro laboratorio è stato modificato, e voi venite dopo due anni a chiedermi questa statua che fine ha fatto?” Colonnese cominciò a perdere la calma: “Non ho capito. Lei mi sta dicendo che questa statua ve la siete persa?” “Io non ho detto questo. Ho detto che in questo momento questa scultura non si trova.” Guglielmo cominciò ad alzare la voce: “Un francobollo, una lettera, può essere che non si trova. Non una statua che pesa tre tonnellate!” Martinelli cercò di tagliare corto: “Senta. Il massimo che posso fare per voi è far fare una ricerca. E se ci saranno novità, ve lo farò sapere. Adesso scusatemi perché devo andare...” E fece per andarsene. Ma Sciacchitano lo trattenne per un braccio concludendo: “...in galera.” Martinelli lo fissò a bocca aperta, e lui proseguì: “Il mese scorso ne abbiamo arrestati due di colleghi tuoi che non sapevano che fine avevano fatto le opere d'arte che gli erano state affidate, e invece poi invece si è scoperto che se l'erano vendute a due collezioni private, una ad Arezzo ed una addirittura ad Amsterdam.” Martinelli, pallido balbettò: “Ma... voi chi siete?” Colonnese replicò ando anche lui al tu: “Siamo due che ti stanno facendo una domanda alla quale è meglio che rispondi subito: gentilmente ci dici dove sta questa statua qua?” E gli mostrò di nuovo la
fotografia.
***
La statua effigiata sulla foto apparve nell'angolo dell'antico scantinato dopo che tre operai spostarono due travi di legno, un mucchio di paglia, alcuni pannelli da imballaggio ed aprirono l'alta cassa che ancora la conteneva. Martinelli si mise ad urlazzare: “Avete visto? Eccola qua! Qui nessuno ruba niente! Noi siamo persone oneste e non so voi come vi permettete di...” Ma Colonnese gli dette sulla voce: “Voi siete molto peggio dei disonesti! Voi siete come que-ste statue qua. Che se uno no vi spara addosso col cannone non vi spostate neanche di un centimetro, perché ve ne fottete delle ragioni degli altri!” Martinelli, indignato, non lo considerò degno di risposta e se ne andò ripetendo: “Ma non finisce qui! Non finisce qui!” Quando l'eco della sua voce resa ancor più stridula dalla rabbia si spense, il più anziano dei tre uomini in tuta chiese a Colonnese: “Ma che ne dobbiamo fare di questa statua. La portiamo sopra?” “Non so. Secondo voi in che condizioni sta?” I tre si consultarono con lo sguardo, poi sempre quello più anziano rispose: “Le condizioni sono buone. E' sporca...” Colonnese annuì: “E voi datele una bella lavata. Poi vi facciamo sapere quando e dove si deve
portare.”
*** “Tutto a posto, Dottoressa. Abbiamo la statua pronta, pulita e profumata, senza spendere un soldo di restauro.” Annunciò trionfante Sciacchitano entrando nell'ufficio di Anna De Vasconcellos che sorrise: “E come ci siete riusciti?” Colonnese replicò con aria compiaciuta: “Perché il restauro non serviva. La statua era solo sporca.” “E allora perché l'hanno trattenuta per due anni?” “Perché se l'erano persa in uno scantinato e nessuno aveva voglia di cercarla.” Anna sospirò: “Be', meglio così, perché ho parlato poco fa col Dr Salzano.” “Ah. E che ha detto?” “Per prima cosa mi ha chiesto a che stava la tua indagine sulla russa attraverso tua moglie.” “Ah. E tu?...” “Gli ho detto che ci saresti andato oggi pomeriggio.” Guglielmo chiese contrariato: “E perché ti sei inventata che ci andavo?” “Perché tu oggi ci andrai davvero. Mino se gli americani usano addirittura il satellite per seguire la Borodin, è facile che adesso sorveglino pure tua moglie. E se non ti vedono almeno che parli con lei, mio zio lo viene a sapere. E tu lo sai che quando lui ti chiede di fare una cosa è meglio che la fai subito.”
Guglielmo sospirò rumorosamente. Ma lei proseguì: “E poi mi ha detto che lui, per l'operazione miracolo non tira fuori neanche un centesimo.” Sciacchitano si avvicinò preoccupato: “E perché?” “Le solite ragioni. Ufficialmente non ne vuole sapere niente, e se qualcosa va storto...” “...ci firma personalmente il foglio di rientro alle strutture di appartenenza. Ma per il bambino all'ospedale, tra intervento ed accessori i fondi chi ce li da? Là ci vogliono parecchi soldi.” Anna si rabbuiò: “Purtroppo anche più di quelli che immaginavamo.” Aprì una cartella che aveva sulla scrivania: “Il bambino, che si chiama... Mariolino Pagano... non soffre solo di cardiomiopatia dilatativa...” Guglielmo si fece serio anche lui: “Ah, no?” “Ha anche un difetto genetico, che è quello che gli produce la cardiomiopatia. Per cui, anche se fero solo un trapianto la causa resterebbe e si dilaterebbe anche il cuore nuovo. E l'intervento per risolvere il problema alla radice lo fa un solo medico americano, alla famosa Cleveland Clinic, in Ohio” Sciacchitano si rivolse a Colonnese: “Lo vedi? Poi dici che non ti devi fare benedire! Una volta che ti viene un'idea quasi geniale, perché poi era la stessa che avevo avuto io, ti va a capitare l'unico ragazzino con un rarissimo difetto genetico che in tutto il mondo lo cura uno solo, per giunta nella clinica più cara di tutta l'America?”
“E che, è colpa mia?...” Anna si inserì per evitare che quei due andassero avanti così per ore: “Ma non si può scegliere un altro bambino? Ce ne sono tanti che hanno bisogno di aiuto.” Guglielmo replicò con foga: “No. Perché per poter entrare in quel convento con la scusa di un miracolo, dopo il fatto della vecchia con l'Alzheimer, a noi serve un caso inoppugnabile. E la guarigione di un bambino che ha una malattia normale non è un miracolo.” Sciacchitano proseguì con lo stesso calore: “E poi quel ragazzino non l'abbiamo scelto per la sua malattia, ma per sua madre. Che è talmente già convinta dei miracoli di Sant'Alfonso che non appena si verifica quello che lei sta aspettando per il figlio, farà un casino tale che in quella chiesa neanche se ne accorgono che ci entriamo noi ad indagare.” Ma Anna era ancora perplessa: “Si. Ma visto che a Roma ufficialmente non ne vogliono sapere, i soldi per far operare questo bambino chi ce li da?” Sciacchitano si fece avanti: “Io forse un'idea ce l'avrei.” Colonnese aggiunse: “Veramente pur'io.” “Ah, bene.” Si rincuorò Anna. E Sciacchitano cominciò: “L'ultima volta che è venuto in Italia il presidente degli Stati Uniti, prima ha preso contatto con noi un altissimo dirigente della CIA che non so se lo conoscete. Si chiama Morrison...” Guglielmo esclamò sorpreso:
“Non lo conosco? Ma se l'ho portato io in Italia!...” “Si, ma siccome sta arrivando a Napoli proprio ora...” Colonnese aggiunse: “Eh. Oggi pomeriggio, viene dalla Germania...” Sciacchitano gli lanciò un'occhiataccia e proseguì: “Si, ma io gli ho parlato...” “E pur'io.” Altro scambio di occhiatacce, poi Peppe Sciacchitano precisò: “Ma a me ha dato un appuntamento...” Ma Colonnese concluse: “...A cena. Stasera alle nove al ristorante Zi Teresa. Pure a me.” Sciacchitano guardò il collega e sorrise: “Oh, sembriamo Starsky ed Hutch.” “Veramente sembrate Stanlio e Ollio. Ma va bene lo stesso.” Replicò Anna. Ma poi si accorse che tutti e due avevano ancora qualcosa da dire: “Be'? Che altro c'è?” Sciacchitano guardò Colonnese che cominciò imbarazzato: “Ci sarebbe un piccolo problema.” Lei lo guardò sospettosa e Sciacchitano si affrettò a precisare: “Ma piccolo, una cosa da niente. Siccome noi lo conosciamo bene questo Morrison...” Colonnese venne in sostegno: “E' uno che in America ha potere assoluto.
XIX
Erano più o meno le 14 quando riuscirono a lasciare l'ufficio e, su istanza di Peppe Sciacchitano che ne aveva avuto ottime referenze, decisero di “andare a mangiare un boccone” da “Antonio & Antonio” sito all'inizio di via Partenope, curiosamente al centro tra due ristoranti chiusi tutti e due da poco per ragioni di riciclaggio dalla Direzione Distrettuale Antimafia. Una volta seduti ad uno dei tavoli esterni sul magnifico lungomare, il “boccone” si trasformò per Sciacchitano in un piatto di fusilli di pasta fresca ai frutti di mare e pomodorini del Vesuvio, seguito da un fritto di calamari e gamberi, mentre Anna si accontentò di una doppia razione di polpi affogati in cassuola. Colonnese ordinò una pizza Margherita, ma la lasciò quasi tutta perché aveva lo stomaco stretto per la tensione. Alle 14 e 22 una telefonata dall'ufficio informò Anna che la Gdf aveva fatto sapere che il Dr. Bellucci ed i suoi ospiti erano appena sbarcati al porticciolo di Mergellina e si erano allontanati tutti col SUV del Chirurgo. Guglielmo aspettò ancora un quarto d'ora per dare ad Elvira il tempo di tornare in ospedale poi si fece raggiungere da un'auto dell'ufficio. Lasciò Anna e Peppe ancora alle prese con fragole al limone e limoncello e si avviò verso il “Monaldi”, dove, procedendo alla abituale “velocità spericolata” di Catalano arrivarono alle 16,10. Ma nella lussuosa “stanza singola per solventi” messa a disposizione di Giorgetto da suo nonno, il bambino non c'era più. C'erano tre infermiere. Una riordinava la stanza, un'altra raccoglieva vari peluches, pigiamini mai indossati e scatole di cioccolatini che inseriva in dei grossi sacchetti di plastica, ai quali legò anche i sei palloncini colorati che avevano contribuito ad allietare il soggiorno del figlio di Guglielmo, ed una terza, una Caposala che aveva lavorato per anni con suo suocero, che lo informò che “Giorgetto” era stato appena trasferito a casa del nonno. “Ma non è troppo presto?” S'informò preoccupato Guglielmo, ma lei lo
rassicurò: era stato lo stesso Dr Bellucci ad autorizzare la dimissione del bambino. E addirittura aveva voluto accompagnare personalmente lui e sua madre a casa del Prof. Foglia Manzillo. Poi, siccome lasciando l'ospedale sua moglie aveva detto che avrebbe mandato qualcuno a ritirare le cose rimaste gli consegnarono i grossi sacchetti di plastica coi palloncini e se ne andarono, lasciandolo solo a riflettere sui suoi problemi. E forse proprio per rimandare il più possibile il momento nel quale li avrebbe dovuto affrontarli una volta a casa di suo suocero, non prese l'ascensore. Scendendo le scale si fermò sul pianerottolo del reparto di “Terapia Intensiva Coronarica” e lanciò un'occhiata oltre la porta aperta. Il bambino che giocava col computer era proprio Mariolino, ma lui non lo conosceva. La Dottoressa Laghezza si affacciò sorridente: “Cercava qualcuno?” “No, stavo guardando questi bambini... Il mio lo hanno appena dimesso. Mi è rimasta questa roba... La possiamo regalare a loro?...” “Ma certo.” Disse la Laghezza con un sorriso ancora più grande: “Dia a me.” Guglielmo le consegnò sacchetti e palloncini e si allontanò mentre alle sue spalle già risuonava il vociare dei ragazzini eccitati dagli inattesi regali.
***
Lungo la strada verso casa di suo suocero sulla panoramica via Orazio, Guglielmo provò varie volte a chiamare sua moglie, ma non rispose mai nessuno. Quando arrivò, Giorgetto si era appena appisolato. Elvira non c'era. Il Prof. Foglia Manzillo gli disse che era uscita con degli amici a fare spese:
“Dice che il portatile le è caduto a mare e se ne deve comprare un altro. Stamattina è uscita in barca col Chirurgo che ha operato Giorgetto...” “Il Dr. Bellucci. Lo so.” “Ah, lo sai?” Foglia Manzillo sembrava perplesso: “E come lo sai?” “Me l'ha detto Elvira.” Lo fissò ed aggiunse: “ E mi ha detto anche che è omosessuale.” “Si,” replicò il Professore “gliel'ho detto io.” Guglielmo si accigliò: “Ma... lo è?” “Assolutamente no.” Pausa. Poi Guglielmo si sforzò di mantenere un tono leggero: “E allora perché le ha detto...?” “Perché quell'Attilio Bellucci già una volta l'ho dovuto spedire in America quando Elvira aveva diciott'anni. Se sorgessero complicazioni adesso non saprei proprio dove spedirlo.” Foglia Manzillo si accorse dell'espressione smarrita di Colonnese e proseguì: “Comunque stai tranquillo. Sono sicuro che non è successo ancora niente.” “Ancora?...” “Gugliè, mia figlia è una moglie correttissima, un'ottima madre, e poi è la luce dei miei occhi, e quindi non ne potrei mai dirne male...” Colonnese lo interruppe: “Professore, non mi faccia preoccupare.” “E no, figlio mio. Tu ti devi preoccupare. Perché le donne sono personaggi strani. Hanno dei meccanismi emotivi molto delicati. Lo choc per l'operazione di
Giorgetto, tu che non c'eri... Una madre diventa vulnerabile... Comunque adesso grazie a Dio stai qua... In ogni caso, per stanotte come volete fare?” “Che cosa?” “Elvira voleva dormire col bambino. Ma forse è meglio se vi faccio preparare la camera grande, così dormite insieme.” “E si... è meglio.” “Molto meglio. Oh, e stasera, siccome gli amici di Bellucci per ricambiare l'uscita in barca lo hanno invitato a cena insieme ad Elvira al Borgo Marinari, forse è meglio se ci vai pure tu.” “Al Borgo Marinari?... E sa a quale ristorante?...” “Non lo so. Ma che differenza fa. Tanto te lo dice Elvira quando l'accompagni... Perché tu ce l'accompagni?...” “Si capisce... Senta, ce l'ha un poco di bicarbonato? M'è rimasta la pizza sullo stomaco e...” “Ecco. Per esempio questo non lo devi fare.” “Che cosa?” “Macinarti dentro. Così ti carichi, ti carichi, e quando arriva Elvira, invece di risolvere i problemi v'appiccecate. E quella si trova l'alternativa pronta sotto il naso.” “E...allora che dovrei fare?” “Ma non lo so. Esci, comprale dei fiori, corteggiala!...” “Ma sono diciott'anni che siamo sposati. Quella mi ride in faccia.” “Si vede che tu di donne ne hai conosciute poche...” “Perché poche?...” “Perché le donne le bugie non le sopportano mai, a meno che non siano dei
complimenti. A quelli anche se sono completamente falsi ci credono sempre! Per cui, adesso fai uno sforzo di memoria, ricordati quello che le dicevi diciott'anni fa, e stasera ripetiglielo tale e quale.” “E' una parola.” “Figlio mio, la guerra è guerra...” E concluse rivolto alla donna appena entrata: “Melina, gli date un poco di bicarbonato al Dottore?” “Subito, Professore.” Ed uscì di nuovo mentre Foglia Manzillo tornò a sorridere a Guglielmo: “Ma non sarebbe meglio una bella tazza di caffè, che qua teniamo proprio la macchina del bar. M'è costata una cifra, ma viene un caffè che...” Inspirò profondamente come sentendone il profumo, e concluse: “...pare che è primavera!” E si avviò per uscire dalla stanza. Ma Guglielmo aggiunse: “Forse perché stiamo proprio a Primavera.” Il Professore si fermò sulla porta e si voltò: “Lo vedi ? Tu questo non lo devi fare!” “Che cosa?...” “Tu sei troppo preciso! E sbagliati un poco, ogni tanto. Ricordati che le donne agli uomini perdonano tutto, meno che la noia!” Guglielmo lo guardò riacquistando un po' d'ironia: “Professo', ma voi siete sicuro?...” Risero tutti e due e poi il Professore uscì. Appena solo Guglielmo estrasse il telefonino e fece un numero: “Anna?... Stasera la cena con Morrison è alla “Zi Teresa”?... Tuo marito e la Borodin stasera vanno a cena in un uno dei ristoranti di Borgo Marinari, ma non lo so qual'è... Si, ci vado anch'io, con mia moglie e Bellucci, quello della barca...
Non è omosessuale, e io per questo ci vado... per fare quello che mi ha chiesto tuo zio... Almeno spero...”
***
Elvira rientrò intorno alle 19, piena di scatole e sacchetti di quello che doveva essere stato uno shopping epico. E sembrò davvero felice di vedere Guglielmo. Giorgetto era sveglio da ore, e poiché il nonno lo aveva sommerso di regali, non dedicò molta attenzione ai suoi genitori, preso com'era dall'ultima Play Station che il Professore gli aveva fatto montare nella sua stanza. Quando restarono soli nella vasta camera da letto, Elvira, scartocciando gli acquisti, sembrava felice come una bambina che apre i regali del suo compleanno. Forse troppo felice. Tanto che Guglielmo cominciò a preoccuparsi. Ed, approfittando del fatto che lei era andata nel bagno attiguo a provarsi l'abito che avrebbe indossato quella sera, e quindi non avrebbe notato se gli scappava qualche espressione sospetta, chiese alzando la voce per farsi sentire: “Ma il ristorante dove andiamo stasera... come si chiama?” Lei replicò dal bagno: “Non lo so. Ma ci accompagna Attilio... il Dr Bellucci, che ci viene a prendere alle nove.” Guglielmo fissò la porta accostata del bagno: “Ma io ho già chiesto una macchina dell'ufficio...” Solo un'esitazione, poi lei replicò: “Ah. Allora lo avverto...” “Se vuoi.” “No, no. E' meglio se andiamo da soli... Perché a proposito di Attilio, dopo ti
debbo dire una cosa.” Guglielmo si bloccò, poi chiese sempre rivolto alla porta del bagno: “Ma è proprio necessario?” “Cosa?” “Dirmi questa cosa... No, perché uno quando le cose le dice, poi restano dette, e dopo...” Il tono di Elvira mostrava sconcerto: “Ma che hai capito?” “E non lo so. Se non me lo dici...” “E un attimo. Ho scoperto che Attilio...” si affacciò alla porta e proseguì abbassando la voce “non è omosessuale.” E sparì di nuovo all'interno. Guglielmo dette un colpo di tosse per schiarirsi la voce: “E... come l'hai scoperto?” “E be', una donna se ne accorge.” Guglielmo, guardando fuori della finestra: “Si, ma una donna se ne può accorgere perché quello non fa gesti affettati, o anche perché si ritrova una mano al culo. Tu come te ne sei accorta?...” “Guglielmo!...” Elvira uscì dal bagno: “Ma cos'è, sei geloso?” “Io? Ma quando mai...” Ma voltandosi e vide Elvira con addosso un abito che sembrava proprio quello di Anna all'ambasciata di Romania descritto da Sciacchitano: di seta verde, con uno spacco pronunciato e con la schiena scoperta. In un colpo solo si ricordò delle frasi di Peppe e delle raccomandazioni del Professor Foglia Manzillo e proseguì in tutt'altro tono: “...Si! Sono geloso. Chi non lo sarebbe? Ma ti sei guardata? Nel ristorante dove andiamo stasera di te ne parleranno fino all'anno venturo!”
Lei sorrise compiaciuta: “Addirittura? Solo per un vestito un po' più...” Ma lui la interruppe oramai lanciato: “No! Per quello che c'è dentro il vestito!” Lei aveva gli occhi che erano diventati due stelle: “Guglielmo... E com'è?... Queste cose non me le dicevi da tanto tempo...” “Però le ho sempre pensate.” “Quanto sei carino.” Disse lei e andò a stringerselo sottobraccio. Ma, prima che lui potesse reagire in qualche modo, lo lasciò subito: “Adesso però, non mi fare perdere più tempo se no facciamo tardi.” E corse di nuovo a chiudersi nel bagno. Guglielmo sospirò e si ò una mano sulla fronte.
***
Per fortuna quella sera alla guida della grossa Mercedes scura c'era “Serpico” invece di Catalano che, con la sua guida esasperante li avrebbe fatto arrivare certamente in ritardo. Invece alle 21,15 precise Guglielmo ed Elvira scesero all'angolo tra via Partenope e la stradina del Borgo Marinari dove li aspettavano Attilio Bellucci e i suoi due ospiti. L'abito indossato da Elvira ebbe un effetto anche superiore a quello che si aspettava Guglielmo. Mentre si presentavano il Dr Rodolfo Revoltella fu tanto colpito da guardare subito altrove per non incorrere nelle ire della sua compagna che non era brutta, ma con quell'abito senza spalline che non lasciava nulla
all'imma-ginazione non aveva certo la raffinatezza di Elvira che aveva coperto la sua scollatura sulla schiena con un antico scialle a fiori. La donna si presentò come Nina Balabanov, originaria di Kiev. Ma lo fece con quel sorriso troppo cerimonioso che a volte tirano fuori le donne per mascherare la rabbia di non riuscire a perdonare ad un'altra di essere più bella di loro. Bellucci invece (che, forse per le luci artificiali degli antichi lampioni, da vicino sembrava ancor più bello ed abbronzato di come era apparso via satellite) si profuse in complimenti che certamente avrebbero contrariato Guglielmo se al momento non avesse avuto altro per la testa. Infatti l'unica cosa che chiese fu: “A quale ristorante andiamo? Spero non alla “Zi Teresa”. Perchè l'ultima volta che ci sono andato...” Bellucci non lo fece finire e replicò col suo sorriso splendente: “Se vi sta bene avrei prenotato al “La bersagliera”, se no ne possiamo sempre scegliere un altro. “No, no, va benissimo. Qualsiasi cosa purché non sia la “Zi Teresa”.” Mentì Guglielmo che invece amava allo stesso modo tutti i ristoranti del borgo, ma che ora era si preoccupava solo di precedere gli altri in modo da poter avvertire con un'oc-chiata Anna del loro arrivo.
***
“Zi Teresa” e “La Bersagliera” sono due ristoranti praticamente gemelli che si affacciano l'uno a fianco all'altro sul porticciolo turistico del Borgo Marinari dal lato opposto al castello, ciascuno con la sua ampia veranda che dà sul molo verso via Partenope. Per cui i nostri, scesi sul largo molo dalla stradina che mena al Borgo, dovevano per forza are davanti alla veranda della “Zi Teresa” per raggiungere quella de “La Bersagliera.” E al centro della prima c'era il tavolo al quale sedevano Sciacchitano, Morrison (massiccio, capelli tanto biondi da sembrare bianchi ed una simpatica faccia da
pugile col naso rotto) ed Anna che colse al volo l'occhiata di Guglielmo e per tutto il tempo del loro aggio si chinò a terra, alla ricerca di uno degli orecchini di perla con brillantino, che, guarda caso, le era caduto proprio in quel momento. Lo trovò quando il gruppo con suo marito fu ato e si sistemò in modo da dare le spalle all'altra veranda. L'abito che aveva indossato quella sera per “convincere” Morrison era il massimo del sexy proprio perché nascosto sotto il massimo della semplicità. Si trattava di un classicissimo tubino nero, solo che era fatto di Cady di seta, in modo che nel movimento le disegnasse tutto il corpo. Ed era appena più corto del normale, per mettere in risalto le gambe fasciate di nero che terminavano in due insospettabili “décolleté” di capretto anch'esse nere. Un filo singolo di perle Akoya al collo e ai lobi i due piccoli orecchini di cui prima. Forse una mise anche troppo raffinata per Morrison. Ma Anna, mentre Sciacchitano tra una battuta e l'altra gli raccontava quello di cui avevano bisogno, sapeva come dare il “colpo di grazia” all'americano. Così si alzò, raccolse la borsetta da sera, e con un tono da regina annunciò: “Scusatemi, vado a incipriarmi il culo.” E si avviò verso l'interno con una camminata che andava misurata con la scala Mercalli. Morrison che parlava l'italiano come una vacca svizzera, ma ne conosceva alla perfezione tutti i termini “osé”, senza staccare gli occhi dal posteriore della De Vasconcellos si sgana-sciò dalle risate e strinse la mano a Sciacchitano sigillando così il loro accordo prima di dare fondo anche alla seconda bottiglia di “Terre bianche” consumata solo con gli antipasti. Ma Anna non se ne accorse, non solo perché non aveva bisogno di voltarsi a verificare come sarebbe andata la cosa dopo la sua eggiata, ma perché era impegnata a tenere d'occhio la tavola col gruppo di suo marito nell'altra veranda. Non poteva non riconoscere che il Dr. Rodolfo Revoltella era davvero un gran bell'uomo coi suoi ricci neri che gli ricadevano ribelli sulla fronte e quel colore dorato che gli dava il sole preso quella mattina in barca.
Se solo non ci fosse stata quella str... della Borodin... Ma dov'era? In quel momento non la vide. Ma il tavolo di Bellucci era semicoperto da una colonna. Anna si mise a spiare da dietro delle alte piante, ma non riusciva a vedere bene. D'altronde era troppo “visibile” per esporsi ancora di più. Infatti, si accorse che le occhiate dei camerieri che avano venendo dalla cucina cominciavano a farsi troppo curiose e decise di fingere di aver bisogno della toilette. Ma arrivata davanti alla porta il battente si spalancò di colpo colpendola in faccia e scaraventandola a terra stordita, senza avere la possibilità di vedere nulla della figura che si allontanò di corsa sparendo all'esterno. I camerieri accorsi ad aiutarla dissero che era un uomo di colore. Anna fece loro cenno di non agitarsi e si affacciò all'interno. Due piedi femminili calzati di rosso sbucavano dalla porta aperta di un water. Istintivamente prese la sua Glock dalla borsetta ed avanzò. La donna distesa a terra era Nastassja Nikolajevna Borodin, o almeno il suo corpo, visto che qualcuno le aveva sparato un proiettile di piccolo calibro esattamente in mezzo agli occhi. Sempre con la pistola in mano si avvicinò per esaminarla, ma un rumore alle sue spalle la vece voltare. E si trovò ad incrociare lo sguardo inorridito di un cameriere con una “fiamminga” in mano, che riuscì solo a farfugliare: “Ummadonnamia. E che l'è successo?” Anna rispose tetra, rimettendo la piccola Glock nella borsetta: “Niente. Ha litigato con un proiettile.” Tirò fuori il telefonino dalla borsa e si mise a fare un numero. Ma il cameriere proseguì: “Uh, Gesù, e che peccato. Una persona così gentile!...” Anna lo fissò: “Ma perché, la conosceva?”
“No, ma adesso adesso mi ha dato venti euro...” “E perché?” “Non ho capito bene, quella parlava con un accento strano... Forse voleva scegliere che cosa ordinare. Ha voluto vedere che stavo portando a tavola. Ma l'ha preso da mano e l''ha esaminato da tutti i lati. L'ha pure annusato, forse per vedere se era fresco...” “E che pietanza era?” Lui le mostro il pesce nella “fiamminga”: “Questa qua. Era la spigola che avete ordinato voi. Che faccio, ve la porto a tavola lo stesso?”
XX
Alle 5,35 la città, vista dall'alto del Castel dell'Ovo, sembrava rabbrividire colpita dalle prime lame di luce ancora fredda dell'alba che nasceva da dietro il Vesuvio. E rabbrividì anche Anna mentre dal grande schermo sulla parete di fronte a lei il Dr Salzano la informò: “Era Polonio, non hanno stabilito ancora quale isotopo, ma dovrebbe essere il 210, stando alle abitudini dei russi. Comunque la tua spigola ne era stata ben innaffiata. Spero che non l'hai assaggiata.” “No. Per fortuna non ho fatto in tempo.” “La Borodin ne aveva un piccolo contenitore di piombo nella borsetta. Se quello che le ha sparato non te ne faceva accorgere, facevi la fine di Litvinenko, quell'agente che ammazzarono a Londra nel 2006.” “Quindi io sarei viva grazie allo stesso uomo di colore che invece ha cercato di spararmi due sere fa. E com'è possibile?” “Non lo so. Ci pensiamo più tardi. Adesso vatti a riposare un po'.” E chiuse il collegamento.
*** Tornando in albergo Anna, con ancora addosso solo il tubino nero che le lasciava scoperte le braccia, rabbrividì ancora per il vento pungente che spazzava il lungomare. E mentre attendeva la sua chiave davanti al banco della portineria dell'Hotel Excelsior, starnutì. Cosa che richiamò l'attenzione di Colonnese e Sciacchitano che la aspettavano seduti ad uno dei tavolini del bar: “Anna!...”
“Dottoressa!...” “E voi che ci fate qua?” “Niente. Abbiamo pensato di venire a fare colazione qua. Ma purtroppo il bar è ancora chiuso. Dobbiamo andare al bar qua dietro che è aperto tutta la notte. Voi non lo volete un bel caffè?” “Si, due litri. Ma datemi il tempo di andarmi a cambiare che sto morendo di freddo.” “Che peccato.” Mormorò Sciacchitano guardandole le gambe. Lei sorrise: “Ma pure alle cinque del mattino pensi sempre alle stesse cose?” Sciacchitano la squadrò dalla testa ai piedi: “Io? Siete voi che pure alle cinque del mattino me le fate pensare... Va be', non fa niente, andatevi a cambiare. Mi rassegno.” Lei se ne andò ridendo. Guglielmo pensò a quello che, copiando Sciacchitano, ave-va detto a sua moglie la sera prima, e sorrise anche lui.
***
La nuvola di vapore che veniva dalla macchina del caffè si dissolse nell'aria ed il suo sibilo divenne il caratteristico gorgogliare del beccuccio cromato che affondava a surriscaldare il bricco del latte che il barista anziano poi pose nel vassoio insieme alle tazze grandi e piccole tutte piene di nerissimo caffè espresso: “Ecco qua. Bello bollente, come ha chiesto la signora.” “Grazie,” disse Sciacchitano prendendolo “i soldi stanno sulla cassa.”
“Adesso vi porto subito il resto.” “Non c'è bisogno.” E portò il vassoio al tavolino nella saletta interna dove erano seduti Guglielmo ed Anna che, coi pantaloni neri, gli stivaletti bassi ed il pullover azzurro col collo alto aveva perso la sua aria da “famme fatale” guadagnandone una da ragazzina alla quale Sciacchitano, contrariamente a quanto aveva promesso, non riusciva a rassegnarsi. Anna lo notò mentre staccava la “palla” caratteristica delle brioches napoletane per intingerla nel caffellatte: “Cos'è, non ti piace come sono vestita?” “No, mi piace. Solo che sembrate mia figlia.” “Perché, tu hai una figlia?” “No. Ma se l'avessi mi piacerebbe che fosse come voi... Anche una nipotina così andrebbe benissimo...” Ma Anna cambiò tono: “Allora com'è andata in questura? Sono ancora convinti che le ho sparato io?” “Be', tuo marito era sicuro.” Guglielmo cercò di sorridere. “Ha vomitato solo veleno contro di te. Secondo lui la Borodin era una specie di santa.” “Ma poi gliel'hanno detto chi era veramente?” “Gliel'ha detto tuo zio per telefono.” “E lui.” Sciacchitano sorrise compiaciuto: “Si è andato a chiudere nel cesso con un attacco di diarrea.” “Mi fa piacere.” Sorrise anche Anna. Ma poi tornò seria ed aggiunse: “Io non capisco com'è che quella ce l'aveva con me al punto di volermi uccidere.”
Guglielmo la guardò: “Non credi che possa essere per gelosia?” Gli rispose invece Sciacchitano col suo solito tono ironico: “E quella si portava il Polonio dalla Russia per ammazzare la moglie del suo futuro amante, che, guarda caso è pure una Capo Divisione dell'AISI?” “No. Può darsi che ce l'avesse in borsa per altre ragioni e vedendoti là...” Ma Sciacchitano non mollò: “E che era, rossetto, che una se lo trova in borsa...? No, la cosa strana è un'altra. Visto che proprio perché aveva il veleno appresso il fatto era premeditato, come ha fatto quella a sapere che la Dottoressa ieri sera sarebbe stata a cena là?” Anna aggrotto la fronte: “Può averlo saputo solo da qualcuno dell'ufficio. Erano gli unici a i quali ho detto dove trovarmi ieri sera.” “E chi c'era ieri in ufficio?” “Praticamente tutti.” E tutti e tre annegarono la frustrazione nei caffellatte con le brioches. Poi lei si terse le labbra con un tovagliolino di carta e chiese a Guglielmo: “E con tua moglie com'è andata?” Lui sorrise: “Ah, benissimo. Quella è stata l'unica cosa buona che c'è stata ieri sera. Perché quel Bellucci quando ha saputo chi era la Borodin, ha avuto una tale paura di essere coinvolto che se gli parlano di chiunque era presente ieri sera gli viene l'orticaria!” Anna annuì e tornò al discorso principale:
“E dell'uomo di colore che le ha sparato, dopo aver sparato a me l'altra sera, ne vogliamo parlare?” Guglielmo scosse il capo: “Non era lui che ha ammazzato la Borodin.” “E tu che ne sai?” “Era una lei. La cassiera l'ha vista bene. E la descrizione corrisponde esattamente alla monaca nigeriana.” “O ghanese.” Aggiunse puntiglioso Sciacchitano. Anna tagliò corto: “E allora, ghanese o nigeriana, l'unico modo che abbiamo per capirci qualcosa è entrare in quel convento e farla parlare con le buone o con le cattive. Per cui, visto che da Roma non ci lasciano altra scelta, l' “operazione miracolo” deve partire stamattina stessa.” “Sempre che ce la facciamo a organizzare tutto per stamattina.” “Ce la dovete fare.” “Eh, ma dobbiamo richiamare Morrison, contattare quelli della statua, trovare il camion per il trasporto, la gru, la banda, un po' di tempo ci vuole.” “La banda?” Si accigliò lei perplessa.
***
Alle 16,25 di quel pomeriggio lo strombazzare degli ottoni contrappuntato da grandi colpi di grancassa della piccola banda ferma sul marciapiede davanti alla chiesa del Redentore accompagnò il lungo braccio della gru cingolata che, le estensioni laterali aperte a bilanciarla sulla strada, sosteneva il “volo” della statua di Sant'Alfonso Maria de' Liguori dal grosso camion scoperto, attraverso il
grande portone spalancato fin sul suo piedistallo di marmo. Nell'auto ferma dall'altra parte della strada Anna si rivolse a Sciacchitano: “Ma me lo spieghi perché avete chiamato la banda?” “Per fare rumore. Così tutto il quartiere sa del ritorno della statua e quando succede il miracolo...”
*** All'interno della chiesa anche Don Carlo Sinibaldi era incuriosito per la stessa ragione: “Monsignor Manzù, ma chi l'ha mandata 'sta banda?” “Non lo so, forse quelli che hanno restaurato la statua.” “Per festeggiare il fatto che ci hanno messo due anni per darle solo una lavata?” Guglielmo assunse un tono comprensivo: “Don Carlo io la capisco. Ma secondo me non le conviene protestare. Se no quelli se la ripigliano e chissà quanti anni ano prima che gliela ridanno.” “Santa pazienza!” Sospirò Don Carlo e si avvicinò a dare il bentornato al suo Santo.
***
Il primo pezzo nel quale fu usata la lingua napoletana nelle musiche di chiesa fu scritto nel 1754 proprio da Sant'Alfonso Maria de' Liguori e fu chiamato “Pastorale” ovvero “Quanno nascette ninno”. Ed è il pezzo dal quale è stato tratto in italiano “Tu scendi dalle stelle.”
E fu proprio quel pezzo nella sua emozionante versione originale che il coro delle suore di San Domenico, schierato davanti alla cappella di Sant'Alfonso finalmente illuminata fece echeggiare nella chiesa del Redentore per festeggiare il ritorno della statua. Poi, alle 19, conclusa la cerimonia, le monache ritornarono al loro convento, le luci furono abbassate di nuovo e la chiesa tornò deserta in attesa della abituale messa a porte chiuse per gli immigrati. Sciacchitano e Colonnese/Mons. Manzù avevano dato appuntamento a Carmela Pagano per le 17,25 precise dietro il piedistallo famoso, dove, “Miracolo! Miracolo!”, Sant'Alfonso le avrebbe fatto trovare un segno inequivocabile dei suoi poteri taumaturgici. Per questo alle 19, 10 i due si introdussero nella chiesa per andare a depositare nel luogo convenuto un plico indirizzato a Carmela, contenente due biglietti aerei per Cleveland (Ohio) intestati a lei ed a Mariolino Pagano, ed una carta di credito aurea intestata sempre a Carmela ed una serie di documenti attraverso i quali l'emittente “Fondazione Davenport di Losanna” si impegnava a coprire tutte le spese cliniche, mediche e di ogni altro genere alle quali l'intestataria sarebbe potuta andare incontro fino alla completa guarigione del bambino. Naturalmente Carmela avrebbe gridato al miracolo, non potendo mai immaginare che la “Fondazione Davenport” non era altro che una dei tanti enti fittizi usati dalla CIA per coprire spostamenti di denaro in giro per il mondo. E in più, Mons. Manzù del Vaticano sarebbe stato nelle vicinanze, ove mai ce ne fosse stato bisogno, per testimoniare a Carmela che l'origine di quell'improvviso regalo andava fatta risalire proprio a quel Santo che per altro le era già apparso una volta sotto forma di statua materializzatasi nel suo taxi. Da questo sarebbe nato grande confusione nel quartiere e quindi nella chiesa, della quale i nostri avrebbero approfittato, spacciandosi per inviati del Vaticano, per penetrare nel convento e prendere contatto col la suora (vera o falsa) che vi si nascondeva. Questo era il piano dell' “Operazione miracolo”. Ma quando Sciacchitano e Colonnese/Manzù andarono a depositare il plico indirizzato a Carmela Pagano dietro il piedistallo della statua di Sant'Alfonso avvenne una cosa imprevista: “Gesù, ci sta una busta come la nostra.”
Guglielmo non riusciva a vedere: “Ma stai scherzando?” “No. Quella veramente ci sta.” “Vuoi vedere che Sant'Alfonso ha fatto davvero un miracolo?” “Se è così sei fortunato. La busta è intestata a te.” “A me?!...” E prese il plico che l'amico gli offriva. Era veramente indirizzato a “Dr. Guglielmo Colonnesse, c/o AISE. Personale.” Ancora incredulo ne strappò il bordo e si spostò più vicino ad una delle fioche lampade rimaste ancora accese davanti alla cappella. All'interno c'era la fotocopia di un tesserino della “Intelligence Agency, Repubblic of South Africa” intestato alla “Special Agent Mary Acava Matabane” e la foto era indiscu-tibilmente quella della donna che Guglielmo era andato a pren-dere a Monaco di Baviera: Sorella A'isha Ikenda. Sciacchitano e Colonnese si guardarono: “Non era ne' Ghanese ne' Nigeriana.” “E non era neanche monaca.” “Che figli' 'e ntrocchia!...” “Ma c'è una lettera. Che c'è scritto?” “Aspetta che non si vede niente. E' in inglese.” “E traduci... Dammi qua, va'.” Sciacchitano prese il foglio e si avvicinò ad una lampada più forte: “Caro Signor Colonnesse... Con due esse...” “Vai avanti.”
“...La tessera che vi ho mandato in fotocopia è vera. Il nome invece è falso. E' inutile cercare me perché ora che leggi questa lettera io ho già lasciato l'Italia da diverse ore.... Ah, ecco.” “E allora chi ce l'ha messa la lettera, qua?” “E che ne so?...” Sciacchitano riprese a leggere: “Come tu hai certamente già capito siamo dalla stessa parte... Tu l'avevi capito?” “Io?...” “...ma da quando sono dovuta intervenire per evitare l'omicidio della tua fidanzata...” “Si riferisce ad Anna.” “Perché, vi siete fidanzati?” “Leggi!...” “...Non posso più restare in tuo paese... Nastassja Nikolajevna Borodin si era fidanzata con marito di Anna De Vasconcellos perché era stata incaricata di eliminare Anna già a Roma da un doppiogiocatore...” “Doppiogiochista.” “Seh, va buo'... doppiogiochista che lavora con suo zio Dr. Salzano, che si chiama... Dove sta?... E non c'è scritto...” “Come, non c'è scritto? Ci deve essere.” “Gesù, ma qua il foglio finisce, dietro non c'è scritto niente...” “Ma che fa questa, ci sfotte?” “Ah, eccolo qua!... Era caduto per terra... Dunque... che si chiama... Lampedusa...” Si guardarono incerti:
“Conosci qualche Lampedusa al ministero a Roma?” “No... Comunque, vai avanti.” “...che aveva paura di essere stato scoperto da lei. Per questo la ha seguita anche a Napoli. Chi ha sparato altri non so.” “Che significa “chi ha sparato altri non so”?” “Che non sa chi ha sparato agli altri... è inutile cercare tra africani di convento perché ho già controllato io. Meglio non far capire che conoscete questo loro...shelter...” “Significa rifugio.” “Lo so.” “E poi?” “...abbiate cura di voi stessi e guardatevi spalle.” Si scambiarono uno sguardo preoccupato: “Che avrà voluto dire con quel guardatevi le spalle?” “E che ne so?...” Ma in quel momento una voce che risuonò improvvisa proprio alle loro spalle li fece sobbalzare: “L' ha fatto?” Carmela li guardava con li occhi scintillanti di speranza: “Allora, l'ha fatto?” “Che cosa?” Replicò Guglielmo riprendendo fiato. “Il miracolo per mio figlio.” “Carmela, ma tu che ci fai qua a quest'ora? Non dovevi venire alle sette e 25?”
“E sono le sette e 25. Allora, l'ha fatto?” Altra occhiata tra i due poi Guglielmo sospirò e rispose: “Sissignore. L'ha fatto.” Lei guardò i loro visi seri e chiese allarmata: “Ma non è venuto bene?” “Che cosa?” “Il miracolo. Voi tenete queste facce. Ditemelo se non è venuto bene.” Sciacchitano scosse il capo: “Nossignore, è venuto bene. State tranquilla” “E allora che è? Ne aspettavate uno pure voi e non ve l'ha fatto?” Colonnese annuì: “Più o meno.” “E dovete avere pazienza. Vedrete che quello prima o poi ve lo fa pure a voi... Che è 'sta busta?” “Il miracolo vostro.” Disse Sciacchitano cedendole il plico. “Qua dentro ci sta il miracolo mio?” Disse lei con gli occhi grandi. “Sissignore,” s'inserì Colonnese “però adesso mi raccomando...” le fece cenno di tacere “prendi questa busta e vattene a casa senza dire niente a nessuno.” “Non la posso aprire adesso?” “No!” “E perché?” “E perché... Se no quello... va a finire che... può anche sparire tutto. Lo sai come
sono i Santi...” “Ah, allora è vero quello che diceva Donna Virginia Catapane ?” “E chi è?” “Quella che pettinava a mia nonna. Lei diceva...” Ma Colonnese non la lasciò finire: “Carmela, hai il taxi?” “No...” Si rivolse a Sciacchitano: “Ti dispiace di accompagnarla a casa con la macchina? Se no magari questa appena esce, si fa prendere dalla curiosità... Poi ci vediamo direttamente... alla Curia.” Carmela chiese grata: “Ma non vi posso neanche offrire un caffè? Così, per ringraziarvi...” “No, poi ce lo prendiamo dopo... quando arriviamo in Curia.” “Noi sempre là ce lo pigliamo.” Confermò Sciacchitano senza ridere ed uscì con la donna. Appena i due sparirono Colonnese sospirò e dette un'oc-chiata alla statua. Poi estrasse dalla tasca la busta lasciata dalla Sudafricana e si mise a scorrere di nuovo la lettera. Ma in quel momento un'altra voce alle sue spalle lo fece sobbalzare ancora una volta: “L'avete trovata?” Guglielmo si voltò: “Che cosa?”
Don Carlo indicò il plico: “La busta che avete in mano. Me l'ha lasciata stamattina una monaca che è tornata in Nigeria. Ha detto di metterla dietro al piedistallo di Sant'Alfonso che voi certamente sareste venuta a prenderla. Ma chi è questo Guglielmo Colonnese, l'amico vostro?” “Si... Ma come faceva la monaca a sapere che noi saremmo venuti qua stasera?...” “Perché, non glie l'avete detto voi?” Guglielmo esitò un attimo, poi replicò: “E può essere pure. Sapete com'è uno alle volte dice una cosa e poi... Santa notte, Don Carlo.” Ed uscì all'esterno. “Santa notte, Monsignore.” Replicò il Parroco e cominciò a chiudere il grande portone alle sue spalle.
***
“Quale Lampedusa? Nel mio ufficio non c'è nessun Lampedusa.” Disse il Dr Salzano la cui immagine dal grande schermo sulla parete nell'ufficio di Anna sembrava sovrastare Colonnese e Sciacchitano in piedi sotto di esso. Anna De Vasconcellos seduta dietro la scrivania con la lettera dell'agente sudafricana in mano azzardò: “Ma qui c'è scritto proprio Lampedusa... o Lompedusa... non si capisce bene. E' un problema. ” “No,” replicò Salzano seccato “il problema è che cosa dico adesso al vostro direttore che si aspettava risultati importati dalla vostra operazione nel
convento.” Guglielmo si sorprese: “Ma perché, lo sapeva?...” “Ufficialmente no. Esattamente come me. Solo che io adesso gli posso mai dire che voi due avete fatto entrare in Italia una agente sudafricana...” “Che ha salvato la vita alla dottoressa De Vasconcellos...” “No. La vita se l'è salvata la dottoressa da sola perché è stata brava e capire che il pesce era avvelenato. Lei ha solo ammazzato una agente russa che stavamo sorvegliando insieme agli americani, impedendoci di scoprire a chi era collegata. E voi per giunta dopo tutto questo ve la siete pure lasciata sfuggire. Come faccio a dire questo al vostro capo?” Sciacchitano sorrise: “E lei non glielo dica. Ci dia un altro po' di tempo e vedrà che risolviamo tutto noi.” Stavolta fu Salzano a sorridere: “Ah, quanto a questo, tempo ne avete quanto volete. Perché siccome voi non vedete l'ora di tornare a Roma, sappiate che non vi muoverete da Napoli fino a quando non avrete risolto tutta questa situazione. E non fate altri guai...” “Ma sciacchitano proseguì al posto suo: “...se no l'ordine di rientro alle strutture di appartenenza ce lo scrive lei personalmente, e per noi sarà comunque un onore ricevere una lettera firmata dal Dr Salzano.” “Seh, sfotti, sfotti tu.” “Non mi permetterei mai.” “Statemi bene, e buon lavoro.” E il collegamento s'interruppe,
Seguì un silenzio lungo. Poi, vedendo che Peppe sembrava riflettere intensamente, Anna lo guardò: “Che stai pensando, Sciacchitano.” “Ho un dilemma, Dottoressa.” “Cioè?” “Stasera mi prendo gli spaghetti a vongole in bianco o le linguine con cozze e pomodorini?” Anna scosse il capo sconsolata: “Tu a questo stavi pensando?” “E certo. Noi tra dieci minuti abbiamo appuntamento a cena con Morrison per dargli gli abbonamenti.” “Quali abbonamenti?” “Ah, Colonnese non ve l'ha detto? In cambio dell'aiuto che ci ha dato nell'operazione miracolo...” “Va be', stendiamo un velo di pietoso silenzio su questa operazione.” “Si, ma lui il favore ce l'ha fatto, e in cambio ha voluto due abbonamenti allo stadio del Napoli in tribuna d'onore.” “Ma se lui sta in America, che se ne fa?” “E chi lo sa. Piuttosto voi, Dottoressa, stasera a cena che vi prendete?” “Ma a cena dove?” “Alla Zi Teresa, quello Morrison è fissato...” “E dopo ieri sera ancora vi fanno entrare alla Zi Teresa?” Sciacchitano sorrise con sufficienza:
“Anzi, ci portano in palmo di mano. Noi siamo stati capaci di fargli sparire la russa morta da dentro al cesso senza che nessuno dei clienti se ne accorgesse!... Allora che cosa pensate di ordinare?” “Niente. Preferisco andarmene a dormire. Magari mi faccio portare qualcosa in camera.” “Statevi accorta che il cameriere non sia di colore... E tu Colonnese?” “No, io faccio come la dottoressa.” “Ti fai portare qualcosa in camera?” “No, pensavo di are da mio figlio.” “E ci vai dopo. Tanto io pure non voglio fare tardi. Avanti non mi lasciare solo con Morrison.” “Va bene.” Anna si alzò e si avviò verso la porta. Sciacchitano fece un'espressione dispiaciuta: “Dottoré, però è un peccato che non venite pure voi.” “E perché, tanto oramai l'americano il favore ve l'ha fatto.” “Ma perché, ieri ci siete venuta solo per Morrison?” Lei, con intenzione: “E per chi avrei dovuto venirci? Tu non sei il mio tipo, questo non vede l'ora di correre da sua moglie... Che vuoi farci, sono sfortunata.” Ed uscì ancheggiando esageratamente. Mentre la porta insonorizzata si richiudeva, Sciacchitano esplose: “Madonna, e che le farei!” Ma da fuori echeggiò attutita la voce di Anna:
“Ti ho sentito!” Sciacchitano guardò Colonnese con l'espressione di un ragazzino colto in fallo: “Andiamo, va', così ci spicciamo subito subito e ce ne andiamo a dormire.”
***
Al contrario di quanto aveva auspicato Sciacchitano, a mezzanotte e venti erano ancora a tavola. Le bottiglie di “Falanghina di Donna Matilde” che avevano accompagnato i risotti ai frutti di mare e le tre porzioni “monstre” di “pesce spada alla siciliana” erano già quattro e Colonnese, al quale cominciava a girare la testa, faceva una fatica del diavolo ad interpretare l'italiano di Morrison, aggravato da una pronuncia più impastata del solito. Solo Sciacchitano sembrava reggere benissimo. Guglielmo pensò che funzionava davvero il sistema che lo stesso Peppe gli aveva suggerito, che era quello di sciacquare il bicchiere ogni volta con un sorso d'acqua senza asciugarlo prima di riempirlo di nuovo di vino. Ma per lui oramai era tardi per cominciare. Così si limitò a guardare ammirato il suo collega che con una voce assolutamente limpida chiedeva all'americano: “Scusa, Morrison, ma se tu stai sempre in giro per il mondo, che te ne fai di due abbonamenti del Napoli?” L'altro rise allegro e biascicò: “No, no è, no per me.” “Che ha detto?” Chiese sottovoce Guglielmo. “Non sono per lui... E per chi sono?” Altra risata dell'americano che replicò: “No io matina domani Roma... Porto amico.”
“Ah hai un amico americano a Roma che fa il tifo per il Napoli?” La cosa sembrò divertentissima a Morrison che rise ancora di più: “No american, taliano, lavora ministero... Tu conosce? Lui chiama Lompedusi... Sta da dottore Salzano.” “Lampedusa?” Esclamò Guglielmo di colpo sveglissimo scambiando uno sguardo con Sciacchitano. Ma l'americano, per tutta risposta, si sganasciò ancora dalle risate. “Che ca...cchio ride?” Mormorò Guglielmo impaziente. Finalmente il biondo spiegò: “No Lampedusi... Lombdosi... Aspe'.” Estrasse una penna e scrisse sul tovagliolo: “Lombardozzi.” “Ah, Lombardozzi!... Si chiama Lombardozzi!...” “Conosce?” Sciacchitano rispose allegro: “No, però sono contento lo stesso. Allora pastiera e limoncello?” “Yes, yes...” “Aspettate, vado a ordinarli io, se no questi chissà quando ce li portano.” Si alzò e si avviò verso il fondo. Ma appena fu fuori vista estrasse il telefonino, fece un numero e lo lasciò squillare a lungo. Fino a che: “Dottoressa, sono Sciacchitano... Si lo so che ore sono, ma statemi a sentire. Avvertite subito vostro zio che il doppiogiochista si chiama Lombardozzi e non Lampedusa. Avete capito? Lombardozzi... Solo che quelli di lingua inglese lo pronunciano una schifezza e la sudafricana ha scritto Lampedusa... Aspettate. Ditegli pure che Morrison è amico suo e lo vede domani mattina per dargli gli abbonamenti che ha chiesto a noi... Vedessero loro a Roma questi due quanto sono amici. Mi sono spiegato?”
XXI
Nella tarda mattinata Napoli era bagnata da un sole radioso, talmente forte che Colonnese fu costretto ad abbassare le veneziane nell'ufficio di Anna per distinguere meglio il viso di Salzano che parlava dal solito grande schermo: “No. Morrison è pulito. E' Lombardozzi quello che puzza.” Sciacchitano chiese interessato: “L'avete fermato?” “No, ma l'abbiamo messo sotto sorveglianza. E questo ci ha fatto scoprire che appena ha avuto i vostri abbonamenti è andato a consegnarli ad un certo Gaspare Fellusso, napoletano, che era venuto a Roma apposta per prenderli.” “Fellusso...?” Si accigliò Colonnese: “Non lo conosco...” “Lo so io chi è.” Anna si alzò dalla sua scrivania ed andò a cercare in uno schedario mentre proseguiva: “La famiglia Fellusso da un paio d'anni ha preso il posto degli Attanasio nel traffico internazionale di droga... Ma dove sta la cartella...?” Andò a pigiare l'interfonico sulla scrivania: “Di Stasio?” Due secondi dopo l'uomo apparve sulla porta: “Prego, Dottoressa.” “La cartella dei Fellusso dove sta? Miletti me ne aveva parlato quando stavo ancora a Roma.” Di Stasio chiuse la porta ed avanzò verso la scrivania replicando con tono
complice: “Le cose più riservate lui le teneva in un posto più riservato...” Si chinò sotto la poltrona e spinse la leva che di solito ne regola l'altezza. E quella invece si aprì come uno scrigno rivelando un vano sotto il sedile. “Eccola qua.” Esclamò Di Stasio e pose una voluminosa cartella sulla scrivania. Anna aspettò che lui richiudesse la poltrona e se ne andasse per mettersi a scorrere freneticamente le pagine illuminandosi man mano: “Miletti aveva scoperto che i Fellusso hanno rapporti con un gruppo criminale nigeriano che si chiamano “Nanger”... Sono loro che mandano la droga qua attraverso corrieri che fanno arrivare per mare con quelli dei barconi dalla Libia.” Sciacchitano balzò in piedi: “Allora è risolto! Facciamo arrestare tutti i Fellusso e ce ne torniamo a Roma!” “E come li facciamo arrestare?” Chiese Colonnese. “Gesù, è così chiaro. Era proprio quella cartella che stavano cercando per cui hanno ammazzato Miletti.” Anna cominciò a capire: “E hanno sparato a me...” Sciacchitano concluse: “...perché pensavano che voi sapevate dove l'aveva nascosta!” Anna continuò a scorrere le pagine: “Qui dice che non aveva ancora riferito a Roma perché sospettava che proprio lì i Fellusso prendessero le informazioni per sfuggire alle sue indagini... Però qui prove vere e proprie non ce ne sono. Lui le stava cercando.” Ma Sciacchitano non si fece scoraggiare:
“E che vuol dire? Adesso che sappiamo tutto della talpa di Roma e del giro dei nigeriani, che ci mettiamo a trovare le prove?” Colonnese dovette ammettere: “Si, questo per lo meno è un punto di partenza.” “Un ottimo punto di partenza.” Si associò Anna. Sciacchitano propose: “E allora, per festeggiare, oggi a pranzo due vini: Malvasia del Collio profumato, e Bianco vergine della Val di Chiana limpido e secco, che si sposano perfettamente e si fanno accompagnare all'altare da un magnifico dentice arrosto o pure da una grande spigola di mare al sale, alla scelta. Che ne dite? Eh?...” Ma Guglielmo obbiettò perplesso: “Io veramente pensavo di pranzare con mia moglie...” Sciacchitano scambiò un'occhiata con Anna: “E porta pure a lei, no?” “E no, lei non lo lascia a Giorgetto... Va bene. La avverto... Uh, ho lasciato il telefonino in albergo.” “E ti do il mio!” “Ma il numero ce l'ho su quell'altro... iamo un attimo a prenderlo e poi andiamo.”
*** Al bar dell'hotel Vesuvio, mentre aspettavano Guglielmo, Peppe propose ad Anna di “prepararsi la bocca” per il pranzo con un Martini Cocktail secondo la “ricetta originale Sciacchitano”: ghiaccio, gin, la fotografia del vermouth Martini Dry ata accanto al mixer, mescolare e versare, una strizzata di scorza di limone e due olive a testa, rigorosamente salate e non dolci.
Il barman eseguì il tutto alla perfezione. “Cin, cin!” Ma mentre si stava portando il bicchiere alle labbra una mano che lo tirò per il braccio a momenti glielo faceva versare tutto addosso: “Dove sta il monsignore? Dove sta?” Carmela Pagano, gli occhi lucidi di gioia, proseguì con foga: “Io lo debbo ringraziare. E pure a voi. Voi siete tre santi. Voi, lui e...” qui abbassò la voce “...e Sant'Alfonso. Ma io...” si mise l'indice davanti al naso “...non ho detto niente a nessuno. Solo che sto piangendo da ieri sera. Non riesco a smettere.” Sciacchitano le porse il bicchiere che non aveva neanche toccato: “Provate con questo.” “Ah, grazie.” Lei lo prese e lo ingollò d'un fiato. Poi sorrise: “Buono... Ma basterà?” Peppe si rivolse al barman: “Ne faccia altri tre.” “Per me, no.” Disse Anna. “No, il terzo è per... il Monsignore.” Anna si ricordò qualcosa: “A proposito lo potete avvertire di vestirsi normale?” “Normale... come?” “Vestito da Monsignore. Non in borghese.” “E perché?”
“Perché mi deve fare una grazia. E' una cosa importante. Se mi rivolgo a qualcun altro debbo raccontare il fatto del miracolo e voi avete detto...” Peppe scambiò un'occhiata con Anna, poi replicò: “No, no. Il Vaticano non vuole. Aspettate...” Ed estrasse il telefonino. Carmela sorrise ad Anna e chiese a Sciacchitano: “Ma la signora pure è del Vaticano?” Sciacchitano spiegò gentile mentre faceva il numero: “Si. Lei è una dama di carità che si occupa degli ordini femminili.” Carmela spalancò tanto d'occhi: “Come Santa Giovanna Antida Turet, quella che fondò le Suore di Carità?” “Eh. Più o meno... Pronto, Don Guglielmo, mi ate il Monsignore?” Coprì il microfono ed aggiunse a Carmela: “Don Guglielmo è il suo assistente...” Anna lo guardò ammirata: “Però, quanti ne siete, eh?” “...Monsignore, c'è qui la signora... quella del miracolo di Sant'Alfonso... si. Dice se vi vestite in clergyman... Eh, le dovete fare una grazia... Non lo so quale, ma ha detto che se si rivolge altrove deve raccontare il fatto del miracolo, e... Esatto. Vi aspettiamo al bar.”
***
Il taxi percorreva le strette strade in salita a monte di Spaccanapoli, quella via dritta che come una ferita di coltello sembra tagliare in due l'antico centro storico. I nostri tre erano seduti dietro. Carmela, accanto all'autista, era voltata indietro e si rivolgeva a Sciacchitano: “Però, veramente mi hanno fatto bene quei cosi che mi avete offerto. Voi questo bevete al Vaticano?” “Sempre.” “E fata bene. Vedete? Non piango più...” Si rivolse a Colonnese/Manzù, seduto al centro in abito talare: “...No, perché prima ho spiegato ai vostri... non so come si dice, scusate...” “Va be', non fa niente.” “...che è da ieri sera che non riuscivo a smettere di piangere. No, io capisco l'emozione, la gioia per quello che è successo, ma io parevo il diluvio universale. Mi veniva a ridere da sola mentre piangevo. Poi ho pensato che doveva essere una cosa che la porta proprio il miracolo e mi sono rassegnata.” Guglielmo cercò di essere gentile: “E voi per questo mi avete chiamato?” Lei sorrise: “Noo. Il fatto è un altro. Voi vi ricordate che io conoscevo altri due miracolati di Sant'Alfonso?” “Si...” “Ecco, uno dei due, che è tanto un bravo ragazzo, però sfortunato assai... non tanto ci crede al miracolo che ha avuto. E secondo me è per questo che il suo non è riuscito tanto bene. Voi che, mo ci vuole, state proprio così...” avvicinò gli indici “...con Sant'Alfonso se lo poteste convincere, io lo so che quello alla fine il miracolo glielo finisce di fare.”
“Devo convincere Sant'Alfonso?” “No, dovete convincere Bandirò a credere al miracolo di Sant'Alfonso.” Sciacchitano si inserì: “E chi è Bandirò?” “Ma come, quello gli ha fatto il miracolo e voi manco lo conoscete? Lo vedete che è come dico io: lui non ci crede abba-stanza e quell'altro neanche ve lo dice!” “Quell'altro, chi?” “Sant'Alfonso, no?...”
***
Dopo un'ennesima curva in salita il taxi si fermò all'inizio della stratta stradina che costeggiava Palazzo Valenzano. “Lasciaci qua, Pasqua' “ Carmela si rivolse all'autista “se no dopo ti trovi male coi sensi vietati.” Ed aprì il suo sportello. Prima di scendere Colonnese chiese: “Quanto vi devo?” Ma l'altro sorrise: “Niente, per carità. Con quello che avete fatto per Carmela ci mancherebbe pure che mi faccio pagare.” Guglielmo guardò serio Carmela: “Ma che hai fatto, gliel'hai raccontato?”
Lei sorrise come una ragazzina: “Va be', ma lui è come se fosse di famiglia, non conta. E poi a qualcuno glielo dovevo dire. Se no schiattavo in corpo.” “Però, mi raccomando, da adesso basta. Nessuno deve sapere niente.” Sciacchitano si unì: “Se no al Vaticano se la pigliano con noi.” “P'ammore 'e Dio, ve lo giuro. Andiamo adesso?” Scesero tutti. Carmela ringraziò il tassista che ripartì e si affrettò a guidare gli altri nella stradina. Colonnese/Manzù si informò: “Allora, come si chiama questo signore dal quale stiamo andando?” “Si chiama Stefano Settimelli, ma se lo chiamate così lui manco vi risponde perché da quand'era piccolo tutti lo chiamano Bandirò.” Guglielmo che aveva avuto un padre apionato di motociclismo, chiese: “Ma... sta per Bandirola?” “No. Sta isso sulo. Bandirò.” Ripetette Carmela che non aveva idea dell' origine di quel soprannome.
Quando entrarono nel vasto locale delle ex stalle del palazzo nobiliare, Bandirò, aggrappandosi al bordo del bancone, si tirò su dalla sua sedia a rotelle e li accolse: “Buongiorno, io mi chiamo Bandirò...” I tre gli strinsero la mano, con Sciacchitano che disse: “Permettete? La Dottoressa...”
Anna: “Piacere.” “Monsignor Manzù.” Il giovane sembrava imbarazzato: “Sentite, voi mi dovete perdonare, io glie l'avevo detto a Carmela che era inutile disturbarvi, ma quella è capatosta...! “Io? E tu allora? Che non vuoi fare mai quello che uno ti dice? Avanti stavolta devi parlare con Monsignore e basta.” “Ma di che cosa dobbiamo parlare?” “E... adesso te lo dice Monsignore.” Bandirò si arrese ed annuì. Anna sorrise: “Volete che noi usciamo?” Bandirò scosse il capo: “No, ce ne andiamo noi dentro.” Guglielmo accenno alla carrozzella: “Volete?...” Ma Bandirò lo ringraziò con un piccolo sorriso: “No, se mi fate appoggiare, ce la faccio.” “Prego.” Replicò Guglielo e gli offrì il braccio.
Ma quando arrivarono nello stanzone interno, con la “zona cucina” e la “zona letto” nelle quali vigeva una “confusione ordinata” simile a quella che c'era di fuori, il giovane si lasciò cadere con un'espressione dolorante su una sedia
accanto al tavolo. Guglielmo si preoccupò: “Cos'è, non ce la fate?” Il giovane fece spallucce: “No, è che io faccio questi quattro i più per fare contenta Carmela... Che se fosse per me... in certi giorni veramente...” Ed abbassò lo sguardo massaggiandosi le gambe. Guglielmo si guardò intorno e gli caddero gli occhi sulla vecchia foto in bianco e nero incorniciata sulla parete di fronte. Ritraeva un corridore motociclista inclinato in curva. Indossava un completo di pelle nera come si usava una volta, occhialoni ed un corto casco bianco, sulla cui parte anteriore spiccava una grande stella. Guglielmo la riconobbe, e forse fu per questo che sospirò e disse: “Senta, Bandirola...” Il giovane sollevò lo sguardo e lo fissò con tanto d'occhi spalancati. Poi mormorò: “Solo mio padre mi chiamava così... Guardate, mi avete fatto venire la pelle d'oca.” E gli mostrò il braccio. Gugliemo sorrise ed indicò la foto: “Carlo Bandirola. Nato a Voghera nel 1915. Correva per la Gilera. Vinse il Gran Premio di Germania nel '53 e il titolo italiano della 500 nel '58. Poche vittorie e un sacco di cadute. Ma non morì in motocicletta.” Bandirò aveva gli occhi lucidi. Balbettò: “Scusate... no, perché con tutte queste storie di miracoli... Voi siete sicuro che non siete la buonanima di mio padre? Lui diceva le stesse cose.” Guglielmo sentì l'emozione del giovane e cercò di sdrammatizzare: “Purtroppo i miracoli li fa Sant'Alfonso. Io ancora non sono capace...” Ed allargò le braccia.
Bandirò abbassò il capo, si strinse la faccia e si mise a piangere in silenzio. Guglielmo lo lasciò fare per qualche secondo, poi ò al tu: “Tuo padre pure correva con le motociclette?” Bandirò tirò su col naso: “Si... Ma non era professionista. Faceva le gare in salita.” “Pure mio padre.” Silenzio. “Chissà se si conoscevano.” Altro silenzio. Poi Guglielmo replicò a mezza voce: “Adesso si conoscono di sicuro.” E tutti e due si misero a guardare altrove.
***
“Bandirò è una specie di genio dell'elettronica. Voi non sapete che si è inventato per i tassì.” Nella parte anteriore del laboratorio Carmela parlava con ammirazione del suo amico. Anna sorrise: “Ah, lavora per le società dei taxi?” “No. Contro. Speriamo che non lo scoprono mai, ma lui ha fatto un apparecchio che, non so come fa, ma fa girare il tassametro normalmente, però senza registrare la corsa. Così chi è costretto a lavorare su un taxi che non è il suo, invece di farsi sfruttare dal padrone della macchina, gli fa il servizio! E' proprio un dono che tiene. Per esempio, voi volete telefonare, che ne so, in Germania senza pagare...?”
Sciacchitano la interruppe: “No, non voglio telefonare a nessuna parte. Però voi queste cose è meglio se non le raccontate in giro...” “Ve be', ma di voi mi posso fidare.” “Ah, quanto a questo...” Disse Anna, ma fu interrotta da Guglielmo che riapparve da solo dalla stanza accanto: “Sentite, se avete fame, forse è meglio se vi andate a man-giare qualche cosa. Qua il fatto prende per le lunghe.” Occhiata interrogativa di Sciacchitano e lui spiegò: “Il giovane si vuole confessare.” “Veramente? Come so' contenta!” Esultò Carmela. Sciacchitano cercò di restare serio: “E tu che fai, lo confessi?” “No...” “Uh, Gesù, e perché?” Si preoccupò Carmela. Guglielmo cercò di rassicurarla: “No, siccome io sono in un periodo di ritiro spirituale, e quindi non posso...” “Ah, non potete?...” Si tranquillizzò Carmela. “...No. Però lui lo vuole fare lo stesso.” Carmela sorrise: “E allora voi fateglielo questo favore. Pure se non è proprio una confessione, mo ce vo', confessata e comunicata, magari gli fa bene. Può darsi che Sant'Alfonso gli finisce il miracolo...” Anna chiese seria:
“Ma tu che gli hai detto?” “Che ci pensasse bene. Perché non trattandosi di una confessione vera e propria, se vuole dirmi qualcosa è come lo dicesse, che so, a un commissario di polizia.” “E lui?” “Lui insiste.” Sciacchitano sdrammatizzò: “Ma si, faglielo questo favore, tanto male non gli può fare. Al peggio ti scordi quello che ti ha detto... Intanto noi ci andiamo a mangiare una cosa. Tengo voglia di una bella pizza. Qua è zona, no?” Anna replicò orgogliosa: “Modestamente qua sotto ci sta Michele, oppure Sorbillo... Fanno certe pizze così...” allargò la braccia a mimare una circonferenza smisurata “...Uno se le ricorda per tutta la vita.” Anna, accennando al gesto della donna: “Sempre se sopravvive...” “E come, no? Quella è tutta grazia di Dio. Venite...” Aprì la porta, ed una volta fuori fece strada ad Anna ed a Sciacchitano, continuando a decantare la bontà di quelle pizze fino a che sparirono oltre l'angolo di Palazzo Valenzano.
***
Cominciò a piovere una verso le 14,45, una mezz'ora dopo che Anna, Carmela e Peppe erano andati a pranzo. E il martellare delle grosse gocce risuonò forte sulla porta di metallo del laboratorio.
Dall'interno Guglielmo lanciò un'occhiata oltre la finestra, nella strada luccicante d'acqua: “Io non capisco. Fino a mezz'ora fa ci stava un sole tanto, e mo, guarda qua...” Sospirò ed aggiunse: “Secondo me il Padreterno sta distratto...” Ma incrociò lo sguardo di Bandirò e precisò: “No... sta distratto con cose più importanti... Però, malgra-do tutto questo, trova sempre il tempo per fare i miracoli.” “A chi?” Chiese Bandirò. “A te, per esempio.” “Mh. E che miracolo mi ha fatto? Io ve l'ho detto perché io ho trovato la forza di alzarmi da quella sedia. Per ammazzare quello che mi ha ridotto così. Che è pure il marito della mia unica amica.” “E questo non ti sembra un miracolo?” “Un omicidio?” “Tu l'omicidio non l'hai fatto. Però ti sei alzato. E non ti sembra un altro miracolo che proprio la moglie di quello che ti ha ridotto così, senza sapere niente, si viene a prendere cura di te? E tu te ne innamori al punto che mi vieni a raccontare tutta 'sta storia così l'omicidio non lo puoi fare più?” Prese la vecchia pistola del padre di Bandirò che ora si trovava sul tavolo e si mise a guardarle dentro. Il giovane borbottò: “Chi ve l'ha detto che io mi sono...?” “Si vede, Bandirò. Si vede.” Lui annuì, ma il tono gli venne fuori rabbioso:
“Sissignore. Mi sono innamorato. E a voi vi sembra una cosa buona che non glielo posso neanche dire inguaiato come sto?” Anche la voce di Guglielmo venne fuori un po' alterata dall'esasperazione: “Guaglio', ma tu, con tutto quello che ti è capitato che altro ti serve per capire che tieni un cu... tieni una fortuna che fa paura?” “Io?” Guglielmo proseguì con la stessa foga: “Hanno cercato di ucciderti e non sei morto. Eri paralizzato su una sedia a rotella e adesso ti alzi...” “Seh, mi alzo e poi mi riseggo un'altra volta...” “Lascia stare. Ti sei alzato!... Eri solo e adesso hai una donna che non solo si prende cura di te tutti i giorni, ma ti ha fatto anche tornare la voglia di innamorati di qualcuno! E questi per te non sono già tre miracoli?” Il giovane annuì lentamente, e Guglielmo proseguì abbassando solo di poco il tono: “E se per caso tre miracoli non ti bastano, ti comunico che ne ho appena scoperto un quarto.” Gli mostrò la pistola: “Eccolo qua.” “La pistola è un miracolo?” “No. Il fatto che non l'hai usata è un miracolo.” “Ah...” “No, non hai capito. Il miracolo non è che tu hai evitato di fare un omicidio con questa pistola. Il miracolo è che questa pistola non ti ha fatto perdere pure una mano e forse la vita: se tu l'avessi usata, questa ti sarebbe scoppiata in mano. Da quanto tempo non la pulisci?” “Non lo so... Da mai. Credo che non sia stata mai usata... Scusate, Monsignò, io capisco le motociclette per il fatto di vostro padre, ma com'è che voi ne capite
pure di pistole?” “Lo vedi? Un altro miracolo!” Rispose pronto Guglielmo e si mise l'arma in tasca.
***
Il caffè venne fuori gorgogliando dalla macchinetta sul fornello. Bandirò spense il gas, la prese e, un po' ondeggiando, la portò fino al tavolo: “Quanto zucchero?” “Amaro.” “Pur'io.” Sorrise lui e si mise a versare il caffè nelle due tazzine. Guglielmo lo guardò: “Ma tu lo sai che ti muovi meglio di prima. Hai fatto questo tratto camminando quasi normale.” Bandirò sorrise: “Sesto miracolo?” “No. E' che ti sei tolto un peso dallo stomaco. E con meno peso addosso si cammina meglio...” Bevve un sorso: “Buono... Questo pure te lo porta Carmela?” “Si...” “Lo vedi? Fai schifo quanto sei fortunato!” Bandirò rise. E Guglielmo continuò: “Ma fammi capire una cosa. Com'è che tu hai pensato che il marito di Carmela... “Gesualdo Pagano”
“Eh. Com'è che hai pensato che questo Gesualdo Pagano era tornato a Napoli?” “Per il fatto del lucido da scarpe che Carmela ha trovato sul laccio della serranda a casa sua...” Guglielmo lo interruppe attentissimo: “Testa di moro? Era testa di moro questo lucido?...” “Si... Perché era quello del marito. Lei usava il nero o il neutro. A carnevale ci avevano truccato il figlio da africano, ma poi ci era voluta la mano di Dio per toglierglielo dalla faccia... Monsignò, ma che è?...”
***
Non pioveva più quando la porta di metallo del laboratorio di Bandirò si apri e Guglielmo ne schizzò fuori. Se ne allontanò rapidamente e, quasi all'angolo del palazzo si mise freneticamente a fare un numero sul suo telefonino. “Pronto?” Risuonò vicinissima la voce di Anna. “Pronto?” Ripetette lui sconcertato. “Pronto!” Disse lei più forte. Guglielmo si affacciò oltre l'angolo e lui ed Anna si trovarono l'uno di fronte all'altro. Sciacchitano era accanto a lei. Carmela no. “E la... signora Pagano dove sta?” “Ti manda tanti saluti, ma è dovuta andare via. Domattina parte per l'America insieme al figlio. Ma perché mi hai chiamato? Volevi una pizza pure tu?” “Una pizza? Che pizza?...” “Quelle di Sorbillo. Sapessi che ti sei perso!...”
“No, stammi a sentire, a casa della signora Carmela Pagano, dove io mi sono trovato per caso una sera, che poi ti racconto... mi sono sporcato con un lucido da scarpe che poi lei non ha trovato più per cui ha pensato che...” “Testa di moro?” “Che cosa?” “Il lucido era testa di moro?” “E tu che ne sai?” “Io mi sono sporcata con quello stesso lucido durante il sopralluogo nel punto da dove ci hanno sparato dall'attico dell'Hotel Vesuvio.” “E per forza! Perché quell'uomo di colore che ci ha sparato e che ha ammazzato pure Miletti e quello all'Hotel Corona, non era di colore. “ “No?” “No!... Era Gesualdo Pagano, il marito della signora con la quale avete mangiato la pizza, che si era truccato da uomo di colore con quel lucido!” Sciacchitano spalancò tanto d'occhi: “L'aveva truccato la moglie? E noi le abbiamo fatto pure il miracolo?” “Nossignore, la moglie non ne sa niente. Ha intuito soltanto che il marito fosse tornato a Napoli, ma non sa ne' cosa ha combinato e neppure dove si nasconde. Invece io lo so. Me l'ha detto adesso adesso quel Bandirò che era un'altra vittima di Ge-sualdo Pagano e che sono anni che gli stava dietro per ucciderlo con le sue mani. Ma poi invece grazie a Dio ha rinunciato e la pistola l'ha data a me.” Anna e sciacchitano replicarono quasi in coro: “Si, ma dove sta questo Gesualdo Pagano?...”
EPILOGO
C'era un bel vento teso sulla terrazza dell'aerostazione dell'Aeroporto Internazionale di Napoli mentre Colonnese e Sciacchitano agitavano le braccia salutando Carmela Pagano che insieme a Mariolino, in regolamentare sedia a rotelle spinta da un inserviente, bombola d'ossigeno portatile e mascherina verde sul viso, salivano nel grosso autobus diretti all'aereo fermo sul piazzale. Si accorsero solo quando il pullman fu partito che Anna era apparsa dietro di loro ed anche lei aveva salutato la partenza di madre e figlio. “Anna? Allora?” “Venite dentro che qua c'è troppo vento, non si riesce neanche parlare.” Seduti ad uno dei tavolini davanti al bar, Anna cominciò: “Innanzitutto vi devo dire che sia mio zio, sia il Questore, sia il nostro direttore a Roma sono soddisfattissimi.” “E ci mancava pure che non erano soddisfatti.” Sorrise Guglielmo. Ma lei continuò: “Gesualdo Pagano è stato arrestato stamattina all'alba nel suo rifugio a Frattamaggiore che ci aveva indicato quel Bandirò.” Sciacchitano sorrise anche lui: “Dottoressa, questo lo sapevamo. Ma ha confessato?” “Tutto.” “Lassa fa' a Dio!” Sciacchitano e Colonnese si strinsero la mano. Anna proseguì allegra anche lei: “Dopo l'arresto ci ha messo esattamente quattro minuti a decidere di pentirsi: ha ammesso tutti gli omicidi e ha detto tutto dei mandanti: la famiglia Fellusso che
lo avevano preso a lavorare per loro. Ha raccontato ogni dettaglio dei loro traffici di droga, dei “Nanger” nigeriani, delle collusioni in Italia, tutto. In cambio avrà la protezione come pentito, per cui gli cambieranno nome e lo spediranno chissà dove: il che significa che comunque a Napoli non ci metterà più piede.” “Evvai!” Colonnese e Sciacchitano si strinsero la mano di nuovo. “C'è solo un piccolo problema.” I due si scambiarono un'occhiata allarmata: “Sarebbe?” “A Roma sono rimasti molto soddisfatti di voi.” “Questo ce lo hai già detto.” “Si, ma proprio soddisfatti assai per quello che avete fatto qui a Napoli.” “E allora?” Lei esitò poi rispose: “Vogliono che ci restiate ancora.” I due si guardarono indignati. Anna cercò di mitigare la cosa: “Ma solo provvisoriamente. Per un'altra piccola indagine che è venuta fuori proprio nei giorni scorsi...” Ma i due non si calmarono affatto. Cominciarono a fissarla minacciosi: “Sei sta tu?... Di la verità. Sei stata tu?” “Dottore' guardate che se veramente siete stata voi...” Anna si alzò e cominciò ad arretrare: “No. Non sono stata io!... L'hanno deciso loro a Roma!... Ma che fate? Fermi!”
E ridendo corse fuori sulla terrazza. Gli altri due la rincorsero ridendo anche loro. Poi si accorsero che il volo di Carmela stava decollando. Si fermarono e restarono a guardare quel grande aereo che partiva verso la speranza. Poi Sciacchitano chiese: “Oggi a pranzo vi andrebbero due linguine col sugo dei porpetielli? O preferite il baccalà alla napoletana.?” Colonnese gli lanciò un'occhiataccia: “Ma come ti viene di pensare a mangiare proprio adesso?” “Be', visto che ci dobbiamo sacrificare a Napoli, tanto vale...” Anna guardò Colonnese: “Non ha tutti i torti.” Guglielmo annuì e sorrise anche lui: “Andiamo.?” Si presero sottobraccio si avviarono tutti e tre verso l'interno. Se vuole può fare qualunque miracolo. Quindi sarebbe perfetto. Però...” “Però?” “Però ci servirebbe il vostro aiuto.” “Per fare cosa?” “No, niente. Il fatto è che Morrison è uno che non fa bene a nessuno... Però è molto sensibile alle donne molto belle...” “Insomma, l'unico modo per convincerlo sarebbe che stasera a cena ci venissi pure tu.” “Possibilmente con uno di quegli abiti vostri che secondo me ci vorrebbe il porto
d'armi per metterselo addosso.” E tutti e due attesero sorridendole. Anna decise di farsi pregare un po': “Si, io lo farei anche, ma...” “Ma?” “Ma non credo di essere adatta. Voi volete una donna di chissà quale bellezza, io invece sono una perfettamente normale.” Sciacchitano sembrava addirittura indignato: “Normale?... Sentite. Voi l'anno scorso a Roma siete venuta ad una cena all'ambasciata di Romania...” “Ah, c'eri anche tu?” Peppe si rivolse a Guglielmo: “Si, ma di me non se n'è accorto nessuno, mentre di lei ancora ne parlano. Teneva un vestito verde aderente, con uno spacco... Con un piccolo fiocco dietro e tutta la schiena da fuori!...” E fece un gesto come a dire “Che meraviglia!” Anna sorrise finta schiva: “Va be', ma quello era l'abito che...” Ma Sciacchitano non accettò l'obiezione: “Abito? Quello era un capolavoro!” “Non esagerare. Era un normale vestito da sera...” “Dottoressa, sempre con il dovuto rispetto, era quello che c'era dentro al vestito il capolavoroche quelli ancora si ricordano!...” “Ma dai!...”
Sciacchitano proseguì tornando serio: “No, io lo so che voi, per carità, siete una che persona che non usa mai le sua attrattive femminili per raggiungere uno scopo...” “Ah, questo è vero.” Confermò Colonnese mentendo spudoratamente. “Però, almeno una volta, può essere pure divertente. Eh?... Che dite?” Anna provò anche lei ad essere seria: “Ragazzi, voi non ci crederete, ma io quando sono costretta a combinarmi “da guerra” per ragioni di lavoro, non so, mi sento sempre un po imbarazzata.” “No, no. Noi ci crediamo!...” “Si capisce!” Risposero quasi in coro tutti e due, ma Colonnese continuò: “Ma noi non ti stiamo chiedendo di farlo come una cosa di lavoro...” “Ah, no?” Sciacchitano la mise sul patetico: “Vi chiediamo di farlo per quel ragazzino, che senza il vostro aiuto...” Anche Anna replicò fingendosi commossa: “Be', per questo semmai...” Ma poi scoppiarono a ridere tutti e tre.