Indice
LA VACANZA IN MONTAGNA A CACCIA DI SPIRITI PRIGIONIERA DEGLI HOMMI UN MINISTRO TROPPO AUTOREVOLE UN’IDEA GENIALE I TRE FUGGITIVI L’ALLEGRA COMITIVA LA SCOMPARSA DELLA STREGA IL BARATTOLO DELLA MARMELLATA IL ROSPO VANITOSO UN CASTORO MOLTO GENTILE UNA PIOGGIA DI GHIANDE IL CORVO IL CONIGLIO BIANCO LA STREGA BUONA NELLA CAVERNA DEI PIPISTRELLI UNO STRANO PARACADUTE DI NUOVO NICCODEMO
LA POZIONE MIRACOLOSA GIU’ LA MASCHERA! OGNUNO AL SUO POSTO IL RISVEGLIO
Tito Canali
IL BOSCO INCANTATO
Youcanprint Self-Publishing
Titolo | Il bosco incantato
Autore | Tito Canali
ISBN | 9788891172402
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LA VACANZA IN MONTAGNA
Clara storse la bocca quando apprese che le vacanze quell’anno le avrebbe trascorse dai nonni, in Abruzzo. Non è che ce l’avesse coi nonni, anzi li adorava, ma con quello sperduto paesino di montagna si, perché lei preferiva di gran lunga i bagni al mare e i giochi sulla sabbia. In altre occasioni avrebbe protestato, ma questa volta non ci provò nemmeno, sarebbe stata fatica sprecata: il babbo e la mamma avevano deciso di fare un viaggio all’estero e una decisione del genere non si cambia tanto facilmente. Così, facendo buon viso a cattiva sorte, lasciò che la prima domenica dopo la chiusura della scuola l’accompagnassero dai nonni. A ogni buon conto, pensando alle lunghe e noiose settimane che l’attendevano, infilò nella valigia un consistente numero di libri di fiabe, di cui era una lettrice apionata.
La nonna aveva preparato un pranzo coi fiocchi per festeggiare il loro arrivo e l’intera giornata trascorse in modo piacevole. Ma il lunedì mattina, ripartiti i genitori, Clara si svegliò con un umore più nero di una carbonaia. Il pensiero che in quel momento avrebbe potuto trovarsi a Marina di Grosseto, a divertirsi a fare i bagni insieme alla vecchia combriccola di amici, non le dava pace. La nonna la sollecitò ad alzarsi, ma lei disse che non ne aveva voglia e rimase a letto a leggere fiabe fino all’ora del pranzo. Tanto non c’era nulla da fare in quel minuscolo paese appenninico, salvo tenere compagnia al nonno che, se non aveva da fare col suo orticello, ava il tempo nella piazzetta del paese a chiacchierare con altri vecchi come lui e a salutare tutti i compaesani che avano. E non era raro il caso che gli capitasse di salutare una mezza dozzina di volte sempre le stesse persone nell’arco di un’ora.
‘C’è una sorpresa per te!’ annunciò a pranzo la nonna.
‘Una sorpresa?’ fece Clara incuriosita.
‘Ti ricordi di Concettina? Ma si, la piccola Tina! Ebbene verrà a trovarti nel pomeriggio. Il nonno e io abbiamo pensato che ti saresti annoiata in compagnia di due vecchi e così l’abbiamo invitata. Sei contenta?’ Clara si limitò ad assentire con un cenno del capo. La piccola Tina, come la chiamava la nonna, aveva un anno più di lei, cioè nove, sebbene fossero più o meno della stessa altezza. Ricordava di averla incontrata durante le feste di Natale, ma non le era rimasta simpatica. Forse perché nel gioco della tombola Tina aveva vinto e lei invece aveva perso un bel gruzzolo. Sicché acconsentì a quell’incontro soltanto per far piacere alla nonna. Tina si presentò con un vassoietto di biscotti fatti dalla madre. Indossava il vestito della domenica benché fosse lunedì ed era accuratamente pettinata. La nonna l’accolse con premura, la riempì di complimenti e, tanto per rompere il ghiaccio tra le due bambine, disse a Clara:
‘Guarda che buoni biscotti ti ha portato la tua amichetta. Su, da brava, dalle un bacio.’
Clara obbedì, ma senza trasporto. Ancora non le era ata la rabbia per la mancata vacanza al mare e non aveva alcuna voglia di parlare con… quell’antipatica.
‘Sono contenta che i le vacanze qui’ disse tutta gentile Tina appena rimasero sole, ‘così potremo divertirci insieme.’
‘Ah, si?’ la rintuzzò Clara in tono altezzoso. ‘C’è per caso una piscina da queste parti?’
‘No…’
‘Un cinema?’
‘Neanche.’
‘Le giostre?’
‘Neppure.’
‘Forse c’è una pista per pattinare…’
‘No, niente di tutto questo.’
‘Allora vorrei tanto che mi spiegassi come pensi che ci si possa divertire in un posto dove non c’è assolutamente nulla!’
‘Giochiamo a nascondino, al salto della corda, agli indovinelli, a mosca cieca, al gioco della campana.’
‘Tutto qui?’
‘Qualche volta andiamo nel bosco’ rivelò Tina sottovoce, con aria da
cospiratrice. ‘Ma non dirlo a nessuno. E’ un segreto.’
‘Un segreto? E perché?’
‘Perché a noi ragazzi è proibito andarci da soli.’
Sentendo la parola “proibito” a Clara le si drizzarono le orecchie e subito s’informò:
‘Proibito perché?’
‘Perché ci abitano gli spiriti.’
‘Dì, sei scema?’
‘E’ così. Tutti lo sanno in paese. Sono molti quelli che inoltrandosi nel bosco si sono trovati di fronte a strani fenomeni. Cappelli che volano via dalla testa anche se non c’è vento, oggetti che si ritrovano spostati dal punto dove sono stati lasciati, suoni e bisbigli misteriosi…’
‘E voi cosa avete visto le volte che ci siete andati?’ chiese Clara, sforzandosi di non ridere.
‘Una volta Sandrina è stata punta a un polpaccio e sco giura di aver visto su un praticello un fiore spostarsi da un punto all’altro. L’estate scorsa io sono stata colpita sulla testa da una ghianda… Non ci sarebbe stato niente di strano se la ghianda non fosse caduta da un pino.’
‘Sono tutte balle!’ sbottò a quel punto Clara con aria di superiorità.
‘Se non ci credi puoi interrogare gli altri ragazzi. Ti diranno la stessa cosa.’
‘Perché no? Sono davvero curiosa di ascoltare la loro versione’ accettò senz’altro l’invito Clara.
A CACCIA DI SPIRITI
Il pomeriggio di solito i ragazzi del paese si riunivano sulla piazzetta e lì, seduti sul muricciolo che s’affacciava su un vasto panorama fatto di boschi e cime rocciose, decidevano a che cosa giocare, oppure, semplicemente, chiacchieravano. Quel giorno però faceva un gran caldo, il sole splendeva alto e bollente come la bocca di un vulcano e il cielo brillava di un azzurro così intenso che abbagliava la vista: tutto ciò sembrava aver convinto gli abitanti a indugiare nella fresca penombra delle case, poiché quando Clara e Tina arrivarono sulla piazzetta la trovarono completamente deserta. Solo la farmacia e l’ufficio postale avevano aperto i battenti, ma anche lì non trapelava il minimo segno di vita.
‘Aspettami qui, vado a chiamare sco’ disse Tina.
Rimasta sola, Clara allungò lo sguardo verso l’orizzonte, sforzandosi d’immaginare, al di là dei boschi e delle cime assolate dei monti, l’azzurra e scintillante distesa del mare, le bianche vele sospinte dalla brezza, i pedalò verniciati di arancione dello stabilimento le “Sirene”, gli ombrelloni di tela azzurra allineati sulla spiaggia, e pensò con acuta nostalgia alla combriccola di amici che in quel momento facevano il bagno, o giocavano alla caccia al tesoro, o costruivano castelli e dighe sul bagnasciuga.
Vide tutto ciò come in sogno, e ancora una volta la delusione di trovarsi confinata tra quei monti desolati la riempì di rabbia, sicché quando Tina tornò insieme a un ragazzino poco più alto di lei, sentì il bisogno di sfogarsi su di loro.
‘E’ lei’ disse Tina al ragazzo. ‘Non vuole credere che nel bosco ci sono gli spiriti.’
‘In paese lo sanno tutti che ci sono’ confermò senza alcuna esitazione il nuovo arrivato. Aveva la faccia arrossata dal sole e l’espressione sempliciotta e genuina dei montanari.
‘Ma certo, come no, lo sanno tutti!’ esclamò in tono canzonatorio Clara. Poi attaccò con determinazione: ‘Finora vi ho sentito dire solo cretinate! E io che vi sto ad ascoltare! La verità è che a forza di vivere isolati tra questi monti siete diventati strani e vi capita di fare discorsi senza senso. Cappelli che volano… fiori che eggiano… Siete tutti matti, ecco cosa siete!’
‘Se non ci credi sono affari tuoi’ replicò sco con indifferenza.‘In fondo sei come tutti quelli che arrivano dalla città. Vi date arie di sapere tutto e vi sentite superiori, e invece non sapete un bel niente.’
‘Faresti meglio a star zitto tu!’ lo avvertì Clara.
Ma il ragazzo continuò:
‘Sei soltanto una presuntuosa cittadina con la puzza sotto il naso.’
‘Te lo sei cercato!’ esclamò Clara dandogli uno spintone che lo mandò a sedere sul selciato.
Il ragazzo si rialzò con un’espressione infuriata, pronto a ingaggiare una lotta per vendicarsi, ma poi si trattenne vedendo nello sguardo della sua antagonista la
ferma determinazione di rispondere colpo su colpo. Chissà, sembrò pensare preoccupato, forse la forestiera conosceva le arti marziali e c’era il rischio di fare una figuraccia ancora peggiore. Prudentemente si fermò, ma dovendo comunque sfogare la sua rabbia, le lanciò la sfida:
‘Tu non ci credi, però il coraggio di andare a vedere non ce l’hai!’
‘Non ho paura, io.’
‘E perché non ci vai?’
‘Per me… sono pronta.’
‘Allora seguimi. Sono sicuro che te la farai sotto dalla fifa e fuggirai più veloce di una lepre prima ancora di entrare nel bosco’ disse sco, pregustandosi la scena.
‘Un momento’ disse Tina. ‘E’ meglio portare con noi Tommy. Lui ci proteggerà in caso di pericolo. Vado a prenderlo. Voi aspettatemi sul sentiero.’
Il sentiero iniziava proprio sotto il muretto, per scendere poi gradualmente in un fosso ricoperto di robinie e proseguire in un continuo saliscendi fino a perdersi nel fitto del bosco. ati cinque minuti, Tina li raggiunse. La seguiva un vivace lupetto, tutto felice dell’opportunità che gli si offriva di fare un’escursione tra i boschi. Per quanto giovane, le sue forti mascelle all’occorrenza avrebbero rappresentato un sicuro deterrente contro eventuali malintenzionati. Perlomeno
Tina ci sperava. Resi dunque più spavaldi dalla presenza del lupetto, s’incamminarono tra gli alberi in fila indiana, con Tommy che correva avanti a tutti, preferendo are direttamente attraverso i cespugli piuttosto che seguire il più comodo sentiero. Ogni tanto era costretto a fermarsi per aspettare i tre ragazzi.
Dopo un po’ il sentiero prese a fiancheggiare un torrente; nel alveo sassoso l’acqua scorreva limpida e veloce. Man mano che risalivano il corso d’acqua, gli alberi tendevano a infittirsi intorno a loro mentre il torrente, rispetto al sentiero, scendeva sempre più in basso, finché scomparve in una cupa e profonda forra. I raggi del sole filtravano a fatica attraverso le fronde degli alberi, arabescando qua e là il terreno ricoperto di muschio, licheni e foglie secche. Quei raggi luminosi, attraversando obliquamente la nebbiolina che saliva dal torrente, sembravano creare, in quel luogo ombroso, un’atmosfera magica. A un tratto Clara provò la strana sensazione di essere piombata nel bel mezzo di una fiaba, sicché s’aspettava da un momento all’altro di veder apparire Pollicino, i Sette Nani e Cappuccetto Rosso, ma anche lupi, orchi e briganti. Ora capiva perché era nata quella storia: era stata la suggestione di quel luogo incantato a suggerire la presenza di spiriti, folletti, gnomi o elfi che fossero.
Giunti dinanzi a un ponticello, si fermarono. In realtà non si trattava di un ponte ma di un grosso tronco d’albero caduto di traverso sul torrente. Poco più avanti il torrente, precipitando da una rupe, formava una piccola cascata e l’acqua, turbinando e spumeggiando, scorreva tra grossi spuntoni di roccia prima di are veloce sotto il grosso tronco d’albero. Il rumore della cascata era così fragoroso che sco fu costretto a urlare per farsi sentire.
‘Guardate!’ disse indicando il lupetto che si trovava dall’altra parte del torrente, quasi sommerso dal fitto dei cespugli. ‘Tommy sta puntando qualcosa!’
‘Sarà un uccello’ immaginò Clara.
‘No, sono gli spiriti’ disse Tina, allarmata. ‘Se fosse un uccello Tommy non digrignerebbe i denti e non avrebbe il pelo sollevato sulla schiena.’
‘Potrebbe trattarsi di una volpe o di un serpente’ suggerì ostinata Clara.
‘Tu pensa quello che vuoi, io torno in paese’ annunciò sco, richiamando a gran voce il cane.
‘Tommy, torna qui! Toooommyyy!’
Esibendo un sorriso canzonatorio, Clara commentò:
‘E poi sarei io la fifona!’
‘Io non ho fifa’ disse sco, ‘solo non sappiamo cosa può capitarci se oltreiamo il torrente. Questo tronco d’albero è la porta d’ingresso che conduce nel luogo abitato dagli spiriti. Tutte le strane storie che si sentono raccontare in paese sono avvenute al di là del torrente, che è la parte più fitta e inesplorata del bosco. Se voi volete continuare, fate pure, io torno indietro.’
‘Io vengo con te’ disse pronta Tina.
Proprio in quel momento Tommy si mise ad abbaiare furiosamente, e invece di
obbedire ai richiami, partì come un razzo in direzione di una densa macchia di felci sparendovi dentro. Sia sco che Tina si sgolarono a chiamarlo, ma invano: Tommy abbaiava e ringhiava come se stesse lottando eroicamente contro i misteriosi abitanti del bosco.
All’improvviso i ringhii si tramutarono in lamentosi guaiti. Tommy riemerse dal folto dei cespugli e fuggì con le orecchie e la coda abbassate. Però più che spaventato sembrava patire una cocente umiliazione. Non appena ebbe riattraversato il ponte, i ragazzi videro con stupore che portava una ghirlanda di margherite di traverso sulle orecchie. Qualcuno - spirito o chiunque fosse - si era burlato di lui! Il povero lupetto, uggiolando da far pena, andò ad accucciarsi ai piedi di sco.
‘Cosa hai visto, Tommy? Sono stati gli spiriti, vero?’ gli chiese il ragazzo. Il lupetto rispose con un guaito lamentoso che suonò come un’affermazione, al che sco si girò verso Clara e disse: ‘Adesso ci credi?’
S’aspettava di vederla pallida e tremante, ma si sbagliava; Clara, al contrario, rideva divertita. I fiori intrecciati sul capo di Tommy - invece di intimorirla avevano reso tutta quella storia ai suoi occhi estremamente comica.
‘Mi piacerebbe tanto poterli incontrare’ disse allegramente.
‘Devono essere spiriti molto simpatici.’
‘Tu sei proprio matta!’ disse sco, incamminandosi risoluto verso il paese. Tina si mosse per seguirlo.
‘Aspetta’ la fermò Clara afferrandola per un braccio.
‘Non c’è motivo di aver paura: sono spiriti buoni. L’hai visto, no? gli piace giocare… fare gli scherzi. Perché non andiamo a vedere?’
‘Mi piacerebbe, ma proprio non ci riesco a non aver paura. No, torno indietro con sco. E se tu fossi un tantino saggia faresti la stessa cosa.’
‘Non prima di aver dato un’occhiata’ disse testarda Clara.
‘Ti prego, non andare. I tuoi nonni se la prenderanno con me se ti succedesse qualcosa’ la scongiurò Tina.
‘Cosa vuoi che mi succeda? Forse metteranno una corona di margherite anche sulla mia testa!’ scherzò Clara, accompagnando le parole con una gran risata.
‘Io me la batto!’ disse Tina rincorrendo sco.
“Che fifoni!” pensò Clara mentre li osservava andar via. Restò a guardarli finché non scomparvero tra gli alberi, poi si girò e avanzò verso il grosso tronco d’albero abbattuto; senza la minima esitazione, vi camminò sopra e approdò nella zona dove si verificavano quegli strani fenomeni. Mentre avanzava lentamente tra il fitto degli alberi, aveva l’impressione di esser spiata da occhi invisibili. Il bosco era pieno di rumori naturali: il rombante e cupo fragore della piccola cascata, gli squillanti richiami degli uccelli, il lieve fruscio delle foglie…
all’improvviso se ne aggiunse uno nuovo, una specie di musica che poteva uscire soltanto da uno strumento primitivo, come un corno o un piffero.
‘Se cercate di farmi paura, vi sbagliate di grosso!’ pronunciò a voce alta Clara, tanto per mettere le cose in chiaro.
Al suo grido di sfida la musica cessò, come se il suonatore si fosse offeso di non esser preso sul serio e avesse deciso di smettere. Clara tese di nuovo le orecchie, ma l’unico suono musicale che percepì furono le note gorgheggianti di un merlo. Devono essere spiriti molto sensibili, pensò, rammaricandosi di aver usato un tono troppo deciso.
E siccome non voleva tornarsene indietro senza prima aver tentato di svelare quel mistero, pensò di ricorrere a un trucco. Si stiracchiò, fece un lungo sbadiglio, infine si sdraiò sopra il tappeto di foglie del sottobosco e chiuse gli occhi come se volesse dormire. Per rendere più credibile la scena, finse di russare, nel frattempo, attraverso le palpebre socchiuse, spiava il bosco per cercare di sorprendere qualche strano movimento o un'ombra sospetta. Trascorsero alcuni minuti… e ancora non era successo niente.
“Hm, vedremo chi si stancherà per primo!” si disse, ben decisa a resistere fino in fondo. Dopo circa un quarto d’ora sentì le palpebre che incominciavano ad appesantirsi e dovette fare uno sforzo per non cedere al sonno.
PRIGIONIERA DEGLI HOMMI
A un tratto le sembrò di scorgere qualcosa che si muoveva tra l’erba. Però che cosa fosse era difficile dirlo. Forse si trattava di un piccolo animale, ma non ne era del tutto sicura. I suoi contorni sfuggenti non ne facevano capire né la forma né la consistenza. L’unica cosa certa - qualsiasi cosa fosse - non doveva essere più alta del pollice di un uomo.
A un certo punto la misteriosa presenza le si avvicinò fino a giungere a portata di mano. Un’occasione che Clara non si lasciò sfuggire: con mossa fulminea, allungò il braccio e un istante dopo stringeva nella mano qualcosa che si dibatteva con una furia selvaggia, e mentre si dibatteva, cambiava colore continuamente, come un camaleonte. Ma non era affatto un camaleonte, né un qualsiasi altro animale, bensì una minuscola creatura dalle fattezze umane, il quale indossava un curioso costume alla Robin Hood. Strepitava e si agitava nel tentativo di liberarsi, ma Clara teneva le dita ben strette intorno alla sua vita e non ci pensava nemmeno a mollare la presa.
‘Sei tu che ti diverti a fare gli scherzi alla gente?’ lo interrogò in tono di rimprovero. ‘Ora vediamo se sei ancora così spiritoso. Se hai la lingua, dì qualcosa. Immagino che tu sia uno gnomo.’
Lo gnomo, se lo era, si agitò ancora di più e cercò di liberarsi finché ebbe la forza di farlo, poi si arrese. Sfinito e ansimante, balbettò qualcosa con una vocina dolce e musicale.
‘Parla più forte, non ti sento’ gli disse Clara.
Alzando il tono della voce, la strana creatura supplicò:
‘Ti scongiuro, non farmi del male!’
‘Non te ne farò se ti dimostrerai ragionevole e risponderai a tutte le mie domande.’
‘Sarò ragionevole, te lo prometto’ s’affrettò a rassicurarla la minuscola creatura dei boschi.
‘La prima domanda è: sei uno gnomo?’
‘Oh no, non sono affatto uno gnomo ma un hommi. Devi sapere che noi hommi viviamo in una grande città sotterranea chiamata Talpimpopoli. Si chiama così perché per costruirla abbiamo utilizzato le gallerie scavate dalle talpe.’
La notizia non meravigliò affatto Clara; infatti ricordava benissimo che gli gnomi sono vecchi e deformi, mentre quello che stringeva nella mano era ben proporzionato e anzi era decisamente un bel giovane. Che esistessero anche gli hommi però non lo aveva mai sentito dire.
‘Come fai a cambiare continuamente colore?’ riprese a interrogarlo.
‘Il vestito che indosso è impregnato di una sostanza che ha la proprietà di riflettere i colori in modo da confondermi con l’ambiente circostante’ rivelò il
minuscolo giovanotto. ‘Come vedi la mia invisibilità è solo un’illusione ottica.’
‘Se è come dici, allora perché adesso ti vedo?’
‘Perché il vestito diventa cangiante solo se si guarda da lontano. Da vicino non produce alcun effetto.’
‘Per quale motivo vi nascondete?’
‘Per proteggerci dal pericolo della specie umana a cui tu appartieni.’
‘Oh, non c’è alcuna ragione di…’ cominciò Clara, ma subito frenò. Non era poi così sicura di quel che stava per dire. Alla fine pronunciò: ‘Io comunque non ti farò alcun male.’
‘Intendi dire che mi lascerai libero?’
‘Vedremo, vedremo. Non c’è alcuna fretta. Prima voglio mostrarti ai miei amici, altrimenti non mi crederanno quando gli racconterò quello che mi è capitato. Potresti vivere per qualche tempo con me in casa dei nonni. Chiederò al nonno di costruire una comoda casetta di legno tutta per te, e la nonna, che è bravissima in cucina, ti preparerà dei gustosi pranzetti.’ Nel sentir ciò l’hommi tornò a supplicare:
‘Oh no, ti prego, non farlo!’
‘Perché non dovrei farlo?’
‘Perché nessuno deve sapere della nostra esistenza, altrimenti è la fine per noi. La curiosità spingerà la gente a venire qui per cercare di vederci… erigeranno un muro intorno al bosco per impedirci di andarcene e magari ai visitatori finiranno per far pagare il biglietto d’ingresso, come allo zoo. Una volta che avranno trasformato questo luogo nella meta delle loro gite domenicali, diventeremo lo zimbello di turisti e curiosi, con l’inevitabile risultato che finiremo per perdere la nostra dignità e la nostra millenaria cultura. A questo punto tutto l’incanto del bosco scomparirà e per il nostro popolo sarà la fine, poiché in mezzo alla vita convulsa e confusa degli umani noi hommi non possiamo assolutamente vivere.’
L’accorato appello giunse al cuore di Clara, che disse premurosa:
‘A questo non avevo pensato. Non preoccuparti, non ti condurrò da nessuna parte e non dirò a nessuno di averti visto, né che esistono gli hommi.’
‘Oh, sei una bambina davvero molto gentile. Posso sapere come ti chiami?’
‘Clara. E tu?’
‘Giocondo, ma tu puoi chiamarmi Giò. Tutti gli amici mi chiamano così. Non so proprio come ringraziarti, Clara. Posso solo darti un consiglio.’
‘Quale?’
‘Di tornartene subito a casa prima che ti sorprendano le guardie della Regina.’
‘Davvero avete una Regina?’ chiese con stupore Clara. ‘Mi piacerebbe tanto conoscerla.’
‘Credimi, non è assolutamente il caso. La nostra Regina è terribilmente severa. Governa il popolo degli hommi con mano pesante e…’ Ma non riuscì a finire la frase. Poco distante qualcuno stava tossicchiando come per rivelare la propria presenza, il che aveva fatto ammutolire il piccolo hommi. Subito dopo Clara udì alle sue spalle un chiaro e imperioso:
‘Che nessuno si muova!’
‘Troppo tardi!’ esclamò desolato il minuscolo Giò. ‘E’ Niccodemo, il comandante delle guardie reali.’
Dal folto dell’erba era sbucato un secondo hommi. Anche costui indossava un costume verde alla Robin Hood, il quale, man a mano che avanzava, andava assumendo il colore rosa del vestito di Clara. Aveva un aspetto piuttosto corpulento, una folta barba scura e vistosi baffi appuntiti che - per un suo tic - si lisciava in continuazione. Al fianco, appesa alla cintura, portava una spada.
‘E tu chi saresti?’ chiese subito Clara, accogliendo il nuovo arrivato con un sorriso di simpatia.
Al contrario l’ufficiale aveva assunto un atteggiamento estremamente severo.
‘Le domande, se permetti, le faccio io, signora’ disse.
‘Temo che tu abbia preso un granchio: io sono soltanto una bambina, non una signora!’ gli fece notare Clara, sforzandosi di non ridere.
‘Comunque’ replicò con aria imibile il comandante delle guardie reali che Giò aveva chiamato Niccodemo, ‘ti ordino di liberare immediatamente quel… giovanotto!’
‘Ti avverto, se usi questo tono con me non otterrai nulla!’ l’avvisò Clara, indispettita dalle maniere troppo rudi del minuscolo ufficiale.
‘E tu sappi allora che da questo momento sei mia prigioniera, e pertanto ti ordino di seguirmi.’
‘A parer mio tu dai troppi ordini. E poi seguirti dove? Non ci penso nemmeno.’
‘Questo lo vedremo’ disse minaccioso Niccodemo. E senza ulteriori indugi ò ai fatti. Chiamò: ‘Soldati!’
Al grido una dozzina di hommi sbucarono dai cespugli; mentre si avvicinavano, anche le loro divise perdevano gradualmente il colore verde delle foglie, tra cui finora si erano confusi, per riflettere quello rosa del vestito di Clara. Clara si
aspettava di vederli armati di fucili, invece possedevano solo archi e frecce. Quella vista la divertì molto.
‘Come siete buffi!’ esclamò, senza dare alcun peso alla minacciosa presenza dei minuscoli soldati. E non diede peso nemmeno all’avvertimento di Giò, quando le disse:
‘E’ meglio che fai come ti dice…’
‘Voglio proprio vedere!’ ribatté Clara, sicura di sé. Confidando nella sua gigantesca mole, restò imibile dinanzi ai piccoli arcieri che si andavano disponendo davanti a lei come un plotone di esecuzione.
‘Uno… due… tre! Tirate!’ ordinò l’ufficiale. Un istante dopo dodici freccine, tante quanti erano i soldati, andarono a colpire le gambe, le braccia e il viso di Clara. Ma a parte un leggero fastidio sulla superficie della pelle, che svanì quasi subito, quei minuscoli aculei non produssero alcun danno. A Clara sembrò di essere Gulliver alle prese con il popolo dei lillipuziani, e ancora una volta le venne da ridere. Poi, facendo sentire forte la sua voce, cominciò a dire:
‘Adesso statemi a sentire…’
Ma si fermò stupefatta quando si accorse che i piccoli abitanti del bosco stavano diventando sempre più grandi. O forse era lei che stava rimpicciolendo a vista d’occhio…
UN MINISTRO TROPPO AUTOREVOLE
Clara si guardò sgomenta: era diventata ancora più piccola delle minuscole creature del bosco! La prima cosa che le venne in mente fu come l’avrebbero presa i suoi genitori quando lo avessero saputo. Già s’immaginava quello che avrebbero detto: “Ecco cosa capita ai bambini che vogliono fare di testa propria!” Ma non era il momento di pensare a loro, adesso il problema era trovare il modo di uscire al più presto da quella situazione incresciosa.
Confrontandosi con gli alberi che le stavano attorno, le venne il capogiro vedendo quanto erano alti e giganteschi. Perfino l’erba era più alta di lei. Ancora stordita, a un tratto udì la voce del corpulento ufficiale che stava redarguendo aspramente il giovane per la sua condotta sconsiderata. Diceva:
‘…il tuo comportamento non ha scusanti. Sei venuto meno alla regola numero uno, che dice: mai avvicinarsi a un essere umano, per nessuna ragione al mondo. Per questa tua mancanza verrai giudicato e condannato. Sarà la Regina stessa a infliggerti la pena che meriti. Ti conosco dal giorno che sei nato e per quanto ne so non ne hai mai combinata una giusta. Non sei altro che un buono a nulla, un perdigiorno, un lavativo, uno scapestrato senza voglia di far niente, sempre in giro a far scherzi, a divertirti in compagnia dei tuoi amici. Ma stavolta non la erai liscia, l’hai combinata troppo grossa!’
L’aspetto del giovane hommi appariva così abbattuto, che Clara non poté fare a meno di intervenire in suo aiuto.
‘Lui non ha nessuna colpa’ disse. ‘Sono stata io che l’ho ingannato fingendo di dormire.’
‘Cosa?! Che sfacciata!’ sbottò Niccodemo al colmo dello sdegno. ‘Hai persino il coraggio… tu, nella tua posizione… Pensa piuttosto a te stessa, poiché hai molti più motivi tu di preoccuparti che questo… questo briccone matricolato.’
‘Non vedo proprio cos’altro potete farmi, dopo avermi ridotta alle dimensioni di un soprammobile! Pensate cosa diranno i miei genitori quando mi vedranno.’
‘Ah-ah-ah!’ rise di gusto l’ufficiale, tenendo una mano appoggiata sull’elsa della spada mentre con l’altra si lisciava accuratamente la punta dei baffi. ‘E’ proprio questo il punto. Tu a casa non ci torni mai più. La nostra Regina non te lo permetterà. Nessuno deve sapere della nostra esistenza. Assolutamente. Chiunque l’ha saputo è stato messo in condizioni di non poter nuocere.'
‘Che significa?’
‘Significa che puoi dire addio alla tua famiglia e al tuo mondo. Insomma fai conto che non siano mai esistiti. D’ora in poi dovrai abituarti a vivere come uno di noi.’
‘Oh, basta!’ esclamò Clara spazientita. ‘Se proprio devo incontrare la Regina, che almeno avvenga subito. Non vedo l’ora di chiarire questa ridicola faccenda e potermene tornare a casa. La vostra Regina avrà pure un cuore: sono sicura che capirà la mia situazione.’
Niccodemo fece incatenare per precauzione sia Clara che il giovane scapestrato, poi, seguito dai due prigionieri e dal drappello di arcieri, s’incamminò
immergendosi nella densa vegetazione del sottobosco. I loro vestiti, compreso quello di Giò, erano tornati a riflettere il colore delle foglie, cosicché, ora apparendo, ora scomparendo, Clara aveva l’impressione di essere stata presa in ostaggio da una banda di fantasmi. Clara era impaziente di arrivare: quella storia cominciava a darle sui nervi. Non si sentiva affatto tranquilla ridotta all’altezza di si e no dieci centimetri. Con simili dimensioni, qualsiasi cacciatore, contadino o taglialegna che attraversassero il bosco avrebbero potuto schiacciarla e non se ne sarebbero neanche accorti; senza contare il grave pericolo che avrebbe corso se si fosse imbattuta in un qualunque animale selvatico che andasse in giro alla ricerca di che sfamarsi.
Percorso un buon tratto di strada, finalmente si fermarono davanti a un groviglio di grosse radici che emergevano ai piedi di una vecchia quercia. I soldati si diedero subito da fare per rimuovere una pietra che ostruiva una galleria posta tra due radici. Clara comprese che erano giunti a destinazione e, con un certo timore, si rassegnò a seguire l’ufficiale nell’oscurità del tunnel. Quell’oscurità non piaceva a Clara poiché se la immaginava popolata di ragni, vermi e topi, e inoltre a procedere alla cieca rischiava ogni momento di battere la testa contro il reticolo di radici che sporgevano dal soffitto. Per gli hommi invece l’assenza di luce non costituiva alcun problema e avanzavano sicuri e spediti.
Mano a mano che procedevano, la galleria si faceva sempre più spaziosa e cominciò a rischiarsi grazie a numerose lucerne a olio appese alle pareti. Infine si trovarono ad attraversare strade e piazze della città che gli hommi chiamavano Talpimpopoli. Ai lati della strada i minuscoli abitanti si fermavano a osservare incuriositi il aggio dei soldati che scortavano i due prigionieri. Poco dopo il corteo entrò nel Palazzo Reale e, attraversate molte porte e percorso lunghi corridoi presidiati da guardie armate, fece il suo ingresso in una luminosa sala splendidamente arredata. Clara era rimasta a bocca aperta di fronte a tanto sfarzo; mai avrebbe immaginato che nel sottosuolo potesse esistere un luogo simile. Per quanto ne sapeva, queste cose avvengono solo nelle fiabe. Mentre si guardava intorno piena di meraviglia, una lunga fila di cortigiani andava prendendo disciplinatamente posto nella tribuna disposta in fondo alla parete, mentre il popolo si accalcava in piedi ai lati della sala. “Questa” si disse Clara “dev’essere senz’altro la sala dove tengono le loro riunioni più importanti.” Si
guardò intorno per vedere se riusciva a scorgere la Regina, ma tutto ciò che vide fu una bambina seduta su un trono che si succhiava il pollice con aria imbambolata. In piedi accanto a lei, con una folta barba nera, c’era un hommi dall’aspetto imponente nella sua alta uniforme luccicante di medaglie e lustrini.
‘Chi sono quei due?’ chiese Clara, rivolta a Giò.
‘La Regina Matilde e il Primo ministro Porfirio’ rispose il giovane.
‘E adesso che cosa succederà?’ chiese ancora Clara, più incuriosita che preoccupata.
‘Si preparano a decidere della nostra sorte e, a esser sinceri, non prevedo nulla di buono né per me né per te.’
Intanto Niccodemo, alla presenza della Regina e del Primo ministro, aveva appoggiato, non senza difficoltà per via della sua grossa pancia, un ginocchio sul pavimento e a capo chino aspettava rispettosamente di essere interpellato. Porfirio, impettito nella sua splendida uniforme, gli fece cenno di alzarsi, poi chiese con voce profonda e autorevole:
‘Parla: chi sono costoro?’
L’ufficiale si alzò con fatica e spingendo rudemente i prigionieri innanzi a sé, rispose:
‘Questo giovane, mio signore, si chiama Giocondo. Da parecchio tempo è noto alle autorità di polizia per essere un perfetto fannullone. Nonostante sia stato invitato più volte a tenere un comportamento più rispettoso delle leggi, continua a vivere a modo suo infischiandosene di tutto. La sua esistenza pertanto è del tutto inutile per la comunità. Il suo unico interesse è quello di andarsene a zonzo nel bosco a fare scherzi agli umani in compagnia di una combriccola di amici della sua stessa pasta. Lo tenevo d’occhio da un pezzo e finalmente oggi l’ho colto in flagrante. Ero sicuro che prima o poi avrebbe commesso una grave infrazione.’
‘Quale infrazione?’ chiese il ministro con la sua voce profonda e autorevole, che rintronò sonoramente tra le quattro pareti del vasto salone.
‘Precisamente la numero uno, Eccellenza.’
Tra quanti assistevano all’udienza scappò un ‘Ohhh!’ di meraviglia e di indignazione.
‘Devo dedurne’ disse con stupore Porfirio ‘che la prigioniera è una umana…?’
‘Esattamente, Eccellenza.’
‘E quindi hai provveduto a ridurla di dimensioni. Hmm, è stata una decisione avventata’ disapprovò il Primo ministro assumendo un’espressione preoccupata.
‘Vi sono stato costretto quando ho visto che aveva catturato l’imputato che per
curiosità le si era avvicinato troppo’ si affrettò a giustificarsi Niccodemo, intimidito.
‘Date le circostanze’ ammise Porfirio dopo aver riflettuto qualche istante ‘devo riconoscere che non potevi agire diversamente. Il mondo avrebbe scoperto l’esistenza degli hommi e per noi sarebbe stata la fine.’
‘Sarebbe andata proprio così, Eccellenza’ confermò Niccodemo con un sospiro di sollievo.
‘Bene!’ esclamò allora l’autorevole Primo ministro, e rivolgendosi alla bambina seduta sul trono, che per tutto il tempo non aveva mai smesso di succhiarsi il pollice, disse: ‘Vostra Altezza si sarà senz’altro resa conto di quale grave colpa si è macchiato questo sventurato giovanotto e certo vorrà infliggergli la punizione che si merita. Col permesso di Vostra Maestà, suggerirei di emettere una sentenza esemplare, ad esempio una pena ai lavori forzati non inferiore a dieci anni. Così avrà tutto il tempo di riflettere sull’opportunità di rispettare le leggi e sull’importanza di avere un’occupazione. Per un giovane, come recita un vecchio adagio, l’ozio è il peggiore dei mali.’
La piccola regina guardò il Primo ministro con la sua espressione imbambolata, poi per tutta risposta fece un cenno d’assenso con il capo.
‘Vuole avere la compiacenza di togliersi il… dito dalla bocca e pronunciare personalmente la condanna, Maestà? E’ la procedura’ insisté Porfirio indispettito.
La piccola regina si sfilò il pollice dalla bocca giusto il tempo per dire all’imputato:
‘Ti condanno a dieci anni di lavori forzati.’
Dopodiché il pollice tornò velocemente nel suo posto abituale.
‘Un momento, signori!’ intervenne a questo punto Clara, riconoscendo onestamente che la colpa di quanto era accaduto in gran parte era sua. Finora aveva seguito la scena come se stesse assistendo a una recita della scuola e solo adesso si era ricordata che in quella storia lei ricopriva uno dei ruoli principali. Declamò, come se ci fosse una platea ad ascoltarla: ‘Che razza di giustizia è mai questa? In questo paese l’imputato non ha il diritto alla difesa come si usa in tutti i paesi civili?’
‘Forse noi hommi non siamo così civili come a te piacerebbe’ replicò Porfirio con un’espressione di finta benevolenza che per un momento illuse Clara, ‘ma, date le circostanze, dobbiamo essere inflessibili contro chiunque metta in pericolo la nostra sicurezza.’ Detto ciò, soggiunse in tono sbrigativo: ‘Quanto a te, il mio suggerimento è di emettere nei tuoi confronti senz’altro una sentenza di morte.’
‘Cosa?!’ esclamò Clara esterrefatta. ‘Ma se non ho fatto niente!’
‘Ma, mia cara’ riprese a dire il Primo ministro con untuosa affabilità, ‘non è questo il punto. Lo sappiamo tutti che da parte tua non c’è stata alcuna colpa, tuttavia devi capire lo stesso che non possiamo lasciarti tornare a casa. Potremmo tenerti rinchiusa fino alla fine naturale dei tuoi giorni, ma chi ci garantisce che un giorno non tenterai di fuggire?’
‘Lo garantisco io!’ disse Clara di slancio.
‘In ogni caso non spetta a me dire l’ultima parola’ rispose Porfirio in tono annoiato; e rivolto verso la piccola regina, proseguì: ‘Se Vostra Altezza vuole avere la compiacenza di togliersi il dito dalla bocca e pronunciare il verdetto le saremmo tutti infinitamente grati.’
Clara non aveva dubbi sull’esito negativo del verdetto, dal momento che quella specie di pupattola non faceva che ripetere parola per parola ciò che il ministro continuava a suggerirle; sicché, quando la vide stapparsi per la seconda volta la bocca, non resistette all’impulso di indirizzarle una smorfia prima che pronunciasse la sentenza. In questo genere di cose Clara era un vero asso. Ne conosceva diverse, ma la migliore era senz’altro quella in cui si stava esibendo in quel momento, che consisteva nell’accostare gli occhi l’uno all’altro in direzione della punta del naso e contemporaneamente mostrare la lingua in tutta la sua lunghezza.
Nel veder ciò la piccola regina era rimasta a bocca aperta dallo stupore, ma invece di mostrarsi offesa dell’affronto recato alla Sua regale persona, cominciò a ridere in uno strano modo sussultorio, come se fosse scossa da una serie ininterrotta di singhiozzi.
‘Ih- Ih- Ih!’
‘La sentenza… Vostra Altezza!’ la sollecitò Porfirio.
La piccola regina però continuava a ridere e a sussultare indicando nello stesso tempo, con la mano libera, la faccia deformata dell’imputata.
‘Suvvia, Maestà!’ disse in tono stizzito il Primo ministro.‘Contegno, ci vuole! Che cosa penseranno i vostri sudditi? Dovete pronunciare la sentenza.’
La piccola regina, timidamente, gli fece cenno di piegarsi e gli bisbigliò qualcosa nell’orecchio. Dopo aver ascoltato, il Primo ministro mostrò un’espressione contrariata, tuttavia finì per rivolgersi ai presenti con le seguenti parole:
‘Il giovane sia portato via e che sconti la sua pena.’
‘Ah no, vi supplico!’ gridò quel poveretto. ‘Non sono abituato a stare rinchiuso e tanto meno a svolgere lavori pesanti. Abbiate pietà! In fondo non ho fatto niente di male!’
Due guardie l’afferrarono e lo condussero via a viva forza.
‘Invece, per quanto riguarda la prigioniera’ proseguì l’autorevole Primo ministro, ‘la nostra amata Regina ha espresso il desiderio che le sia concessa la grazia. Pertanto questa corte stabilisce che l’imputata dovrà trascorrere il resto della sua esistenza nel Palazzo Reale, al servizio personale di Sua Maestà.’
UN’IDEA GENIALE
Ascoltata la sentenza, lì per lì Clara non sapeva decidersi se continuare a protestare o felicitarsi con se stessa per esser stata graziata. Infatti se era vero che la morte è una cosa terribile, l’alternativa che le si offriva in cambio non migliorava di molto la sua situazione. Fare da balia a quella specie di pupattola per tutta la vita non lo trovava affatto divertente, per di più nel buio di un sotterraneo, senza alcuna speranza di poter rivedere un giorno né i suoi compagni di scuola né i suoi familiari.
Questi pensieri le misero addosso una tale tristezza, che quando entrò nel bellissimo appartamento reale, invece di ammirare gli splendidi arredi, si coprì il viso con entrambe le mani e scoppiò in un pianto dirotto. Dopo un po’ che piangeva, sentì una mano poggiarsi con estrema delicatezza sulla sua spalla. Si girò di scatto, e nel vedere la piccola regina, per dispetto mise in mostra tutto il suo repertorio di smorfie, tanto per sfogarsi e farle capire subito con chi aveva a che fare.
Ma anche questa volta la piccola regina, invece di prendersela a male, si mise a ridere così di gusto da doversi tenere la pancia.
‘Ih-Ih-Ih!’
Più Clara faceva le smorfie, più la piccola regina sembrava sarsela. Quando si rese conto di essere diventata per lei una specie di buffone di corte, Clara smise immediatamente e con tono irritato domandò:
‘Si può sapere per quale ragione Vostra Grazia sta ridendo?’
‘Oh bella, perché sei buffa!’ rispose quella con naturalezza.
‘Visto che le mie smorfie la divertono tanto, Maestà, allora non le farò più!’
‘Oh, ti prego, continua. E’ così divertente…’
‘Se lo può scordare.’
‘Io sono la Regina e perciò devi fare quello che ti dico!’ s’impuntò impermalita la piccola regina.
‘Io non voglio essere il suo pagliaccio, e poi non obbedisco alle regine crudeli…’
‘Questo non è affatto vero.’
‘Ah, no? E allora perché non mi permette di tornare a casa? Chissà come starà in pensiero la nonna pensando che mi sono persa nel bosco.’
‘Non dipende da me’ spiegò la piccola regina.
‘Io ho potuto soltanto salvarti la testa che il Primo ministro voleva farti tagliare. Ma se proprio lo desideri ti aiuterò a fuggire, così potrai correre a casa e riabbracciare i tuoi cari. So cosa si prova quando manca l’affetto dei genitori. Io li ho persi entrambi l’anno scorso.’
Queste ultime parole furono espresse con un tale malinconico candore, che Clara non dubitò un solo istante della loro sincerità. Rinfrancata per aver trovato un’alleata così influente, chiese cosa era accaduto ai suoi genitori.
‘E’ stato un fulmine. Sono stati sorpresi da un violento temporale mentre eggiavano nel bosco. E così, all’improvviso, mi sono ritrovata orfana e regina allo stesso tempo. Come vedi, sulle mie spalle pesa una grande responsabilità, anche se in realtà è il Primo ministro che decide su ogni cosa.’
‘Mi dispiace molto per i tuoi genitori, purtroppo sono cose che accadono’ disse Clara comprensiva. Poi, tornando all’argomento che più le stava a cuore, soggiunse: ‘A pensarci bene, scappando non risolverò del tutto il mio problema: devo assolutamente ritornare quella che ero prima. Che lei sappia, Maestà, non esistono per caso delle scarpette fatate o bacchette magiche con le quali chi le possiede possa realizzare qualsiasi desiderio?’
‘Non l’ho mai sentito dire.’
‘Allora una medicina capace di far crescere? Oppure un antidoto che annulli l’effetto della sostanza che stava sulla punta delle frecce che mi hanno colpita?’
‘A queste domande può rispondere solo Barbaverde.’
‘Chi è Barbaverde?’
‘Il nostro chimico di corte. E’ lui che prepara la sostanza che fa rimpicciolire e quella che rende i nostri abiti mimetici.’
‘Devo assolutamente parlarci.’
‘Se vuoi incontrarlo, devi farlo però di nascosto per non insospettire il Primo ministro. Nel Palazzo ci sono spie dappertutto.’
‘Ma perché Vostra Maestà si succhia sempre il pollice?’ chiese Clara, avendo notato che la piccola regina toglieva il dito dalla bocca giusto il tempo necessario per parlare.
‘Mi fa sentire più tranquilla’ rispose timidamente la piccola regina, arrossendo.
‘Ah, capisco’ disse Clara, ricordandosi di un suo cuginetto che aveva lo stesso vizio: nonostante avesse superato i cinque anni, i genitori non riuscivano a staccarlo dal ciuccio. Poi aggiunse: ‘Se non le dispiace, Maestà… avrei una certa fretta.’
‘Sono pronta.’
Indossati due neri mantelli e calato il cappuccio fin sugli occhi per non essere riconosciute, s’inoltrarono nel dedalo di corridoi del vasto Palazzo Reale. Giunte davanti a una porta, la piccola regina bussò con discrezione. Dall’interno una voce invitò i visitatori ad entrare. Superato l’uscio, Clara vide un vecchio seduto su un alto sgabello davanti a un bancone da laboratorio ingombro di cianfrusaglie. Aveva la testa calva e lucida come una palla da biliardo, in compenso era munito di una lunga barba che gli arrivava fino alla cintura, una barba che giustificava appieno il suo nome poiché conteneva tutte le possibili sfumature del verde. A giudicare dalla pelle incartapecorita e dalla schiena curva, non doveva avere meno di novant’anni. Se ne stava tutto assorto a travasare un liquido rosso rubino da un pentolino di rame a un alambicco di vetro. Solo quando la piccola regina emise un paio di colpi di tosse, si girò per osservare i visitatori coi suoi occhi cisposi. E non appena le due bambine ebbero sollevato il cappuccio, esclamò sorpreso:
‘Voi, Maestà?’ Scivolò svelto giù dallo sgabello e si esibì in un inchino così profondo che Clara sentì distintamente scricchiolare le sue vecchie ossa. ‘In che cosa posso servirvi, Maestà?’
‘Desidero che tu restituisca alla mia amica le dimensioni di una bambina umana.’
‘Una bambina umana, avete detto? Oh, poverina!’ esclamò il vecchio chimico con voce comionevole, e allungando la mano ossuta fece una tenera carezza a Clara. Infine emise un malinconico sospiro e disse: ‘Eh! lo farei molto volentieri, Maestà, ma voi sapete benissimo che senza un ordine preciso del Primo ministro non posso far nulla.’
‘Te lo chiedo come un favore personale’ insistette la piccola regina.
‘Un tempo’ rispose il vecchio addolcendo la voce ‘ero molto amico di vostro padre e di vostra madre, mentre non lo sono mai stato, e meno che mai adesso, del Primo ministro… quindi credo che farò uno strappo alla regola.’
Nel sentire ciò, Clara intervenne tutta felice:
‘Grazie, signore! I miei gliene saranno infinitamente riconoscenti quando sapranno quello che ha fatto per me.’
‘Oh, non ne dubito affatto, mia cara, ma dovrai avere un po’ di pazienza poiché dovrò consultare il ricettario. Vedi, è la prima volta che mi capita di preparare questa pozione; finora non si era mai reso necessario.’
‘Scusa, non potresti consultarlo adesso?’ chiese Clara impaziente.
‘Se per te è una questione così urgente, ci guardo subito.’
Cavò fuori da un armadio un polveroso e decrepito libro di pergamena, lo consultò attentamente, umettandosi il dito con la lingua ogni volta che girava pagina, infine si disse dispiaciuto ma purtroppo possedeva tutti gli ingredienti che gli occorrevano meno la Delizia Purpurea, una bellissima rosa che da diversi anni ormai risultava introvabile.
‘Mi rincresce, bambina mia, ma mi occorre almeno un petalo della Delizia Purpurea, altrimenti non posso fare nulla per aiutarti’ concluse con un sospiro.
‘Ci sarà pure qualcuno che sa dove bisogna andare a cercarla!’ esclamò Clara vedendosi crollare il mondo addosso.
‘Hmm’ rifletté il buon vecchio grattandosi la nuca pelata,‘forse qualche vecchia strega… ma è difficile oggigiorno trovarne una in giro. Non tira buon vento per loro da quando Porfirio ha emanato un editto che mette al bando chiunque pratichi la stregoneria, la magia, la chiromanzia e cose simili. Io stesso ho dovuto rinunciare al titolo di mago, di cui andavo molto orgoglioso, per non finire in prigione.’
‘Davvero sei un mago?’ chiese emozionata Clara.
‘Non proprio, ma la gente lo credeva e questo mi bastava. No, bambina mia, sono soltanto un professore di chimica al servizio della Regina.’
‘Che peccato!’ sospirò Clara, che per un momento si era illusa di poter risolvere il suo problema con una semplice parola magica. Poi si rivolse alla piccola regina e con piglio deciso disse:
‘Col vostro permesso, Maestà, vorrei andare alla ricerca della Delizia Purpurea. Se il Primo ministro domandasse di me, ditegli che sono fuggita.’
‘Non sarò io a dirglielo’ dichiarò la piccola regina togliendosi il dito dalla bocca, ‘poiché io verrò con te.’
‘Voi non potete, Maestà!’ esclamò Barbaverde.
‘Perché non posso?’
‘Perché siete la Regina!’
‘Oh insomma, sono stufa di starmene tutto il giorno rinchiusa nei miei lussuosi appartamenti come una reclusa. Dal giorno che sono nata non sono mai uscita dal Palazzo! Anch’io ho il diritto di vedere il mondo.’
‘Oh, Maestà! sarei davvero felice se venisse con me’ dichiarò Clara, e di slancio l’abbracciò come avrebbe abbracciato la sua più cara amica.
‘Così ci aiuteremo a vicenda’ rispose la piccola regina non meno entusiasta. ‘Tu m’insegnerai a vivere nel mondo di fuori e io ti aiuterò a trovare la Delizia Purpurea.’
Ma Barbaverde recriminò:
‘Se Vostra Maestà mi permette, non glielo consiglio. E’ imprudente lasciare il trono completamente nelle mani di un ministro ambizioso e incline a governare in modo dispotico. Potrebbe venirgli la tentazione di impossessarsi del potere e nessuno oserebbe opporsi se voi sparite. Vi sarete accorta che ormai le guardie obbediscono solo ai suoi ordini, il che è già molto inquietante. Senza la vostra presenza, Maestà, il popolo degli hommi rischia di perdere definitivamente ogni speranza di libertà. Già adesso sono in molti a lamentarsi del suo modo di
governare così poco democratico.’
‘A questo non avevo pensato’ ammise la piccola regina, tornando a infilarsi il pollice in bocca con aria pensosa.
‘E se ci fosse una sosia al suo posto?’ suggerì a quel punto Clara.
‘Una volta ho letto la storia di un ragazzo povero che rassomigliava a un principe: un giorno i due si sono scambiati i vestiti e mentre il ragazzo povero fingeva di essere il principe, il vero principe se ne andava in giro in mezzo alla gente vestito di stracci.
‘Ma io non ho una sosia’ fece notare la piccola regina.
‘Beh, a questo si può rimediare’ disse Barbaverde. ‘Se proprio insistete in questa pazzia, Maestà, lasciate fare a me: m’è venuta un’idea. Ho bisogno soltanto che mi mandiate una delle vostre ancelle più fidate.’
‘Gaia è l’ancella di cui più mi fido’ disse la piccola regina.
‘Fatela venire qui, ma in gran segreto’ raccomandò Barbaverde. L’idea dell’anziano chimico, come si scoprì presto, era di trasformare l’ancella in una sosia artificiale mediante una maschera. Per ottenerla agì in questo modo: spalmò una sostanza cerosa sul viso della Regina, la lasciò asciugare per alcuni minuti e infine dal calco ricavò la maschera con un materiale morbido dello stesso colore della pelle.
Appena Barbaverde l’ebbe sistemata sul volto della fanciulla, Clara, impressionata dalla rassomiglianza con la piccola regina, esclamò:
‘Oh santo cielo, sembrate due gemelle!’
‘E ora tocca a voi due’ disse Barbaverde. Dal bancone prese una boccettina, l’aprì e spruzzò sui vestiti di Clara e della piccola regina un liquido luminescente.
‘Questo vi renderà più o meno invisibili.’
‘Che meraviglia!’ commentò felice Clara, e subito volle fare una prova. Si avvicinò alla parete verniciata di giallo, e vide che effettivamente il mantello scuro aveva assunto una tinta giallastra. A stento riusciva a distinguere i propri contorni.
Mentre così si divertiva, la piccola regina diede tutte le necessarie istruzioni all’ancella, sebbene non ce ne fosse bisogno dal momento che sapeva perfettamente come doveva comportarsi, essendo al suo servizio da parecchio tempo. Dopodiché, avviluppate nei loro mantelli mimetici e tirati sugli occhi i cappucci, le due bambine lasciarono furtivamente il Palazzo attraverso un aggio segreto.
I TRE FUGGITIVI
Per evitare che s’imbattessero in qualche drappello di guardie uscendo da Talpimpopoli, Barbaverde aveva suggerito un percorso più lungo ma più sicuro, il quale si snodava tra vicoli e strade poco frequentate. Quando finalmente raggiunsero il bosco, la piccola regina si fermò incantata ad ammirare il verde naturale delle foglie e i raggi abbaglianti del sole che filtravano attraverso le fronde degli alberi. Si tolse il dito dalla bocca ed esclamò estasiata:
‘Che spettacolo meraviglioso! E che aria buona si respira!’
‘Vostra Maestà intende dire che questa è la prima volta che vede il bosco?’ si stupì Clara.
‘Si, e lo trovo bellissimo.’
Clara al contrario aveva appena messo la testa fuori dal tunnel che si sentì subito inquieta. Era così piccina che ora persino un innocuo bruco la terrorizzava, gli alberi si erano trasformati in torri altissime e il più piccolo cespuglio poteva nascondere una lucertola delle dimensioni di un coccodrillo. Non era più lo stesso bosco dove poter fare una tranquilla e piacevole eggiata ma una giungla piena di pericoli, in cui animali che prima sarebbero fuggiti spaventati al suo avvicinarsi, adesso possedevano, rispetto a lei, dimensioni da epoca dei dinosauri! Sarebbe bastato che le fosse caduto sulla testa un pinolo per tramortirla, senza parlare della pigna stessa, il cui impatto l’avrebbe sicuramente ridotta a una poltiglia irriconoscibile.
Clara però non era tipo da spaventarsi a lungo: a quel punto, si disse, contava solo trovare il modo di uscire da quell’incubo. In breve, doveva mettersi subito alla ricerca della Delizia Purpurea. Prima però bisognava allontanarsi il più rapidamente possibile dalla città sotterranea, se non voleva correre il rischio di essere di nuovo catturata. Mentre camminavano nel bosco incontrarono molti hommi occupati a raccogliere semi, radici, bacche, legna e altre cose necessarie alla vita della comunità. Erano tutti muniti di un grosso cesto che riempivano fino all’orlo e si caricavano sulle spalle per trasportarlo nei magazzini della città. Clara e la piccola regina si meravigliarono nel vedere questi lavoratori severamente sorvegliati dalle guardie reali. Ne chiesero il motivo a una vecchietta che ava, e questa spiegò che si trattava di condannati ai lavori forzati.
‘Come!? Così tanti?’ chiese incredula Clara.
‘E’ tutta colpa di quella sciagurata di Matilde’ disse la vecchietta a voce bassa, guardandosi intorno con fare circospetto. ‘Prima era diverso, avevamo un buon Re e un’ottima Regina, ma dopo la disgrazia il potere è ato tutto nelle mani della loro unica figlia, la più cattiva e perfida regina che abbia mai regnato a memoria di hommi. Quanto più i genitori amavano i loro sudditi, tanto più lei ci sottopone a vessazioni e tormenti di ogni genere. E’ sufficiente la più insignificante delle infrazioni per essere arrestati. Ormai si vedono in giro più condannati ai lavori forzati che gente libera. Se continua così, fra non molto ci saranno soltanto schiavi a Talpimpopoli.’
A sentir ciò la piccola regina non riuscì a trattenersi, e, toltosi il pollice dalla bocca, se ne uscì dicendo:
‘Non è affatto colpa della Regina, semmai è il Primo ministro che…’
Se Clara non le avesse dato una gomitata per farla star zitta, si sarebbe senz’altro tradita. A sentir quelle parole, la vecchia fece una smorfia e rispose:
‘Buono anche quello. Insieme formano una coppia davvero ben affiatata. In ogni caso resta il fatto che a pronunciare le sentenze è sempre lei, quella piccola smorfiosa. E sempre col dito in bocca, proprio come te.’
Clara lesta lesta tirò per un braccio la Regina, ringraziò e s’allontanò alla svelta.
‘D’ora in poi Vostra Altezza dovrà cercare di essere più prudente se non vuole compromettere la nostra missione’ l’avvisò Clara, trascinandola via piuttosto energicamente.‘A quanto pare non gode di molta popolarità tra i suoi sudditi. E poi, se non vuole rischiare che qualcuno la riconosca, deve smetterla una buona volta di succhiarsi il pollice!’
Dalle labbra della piccola regina non uscì neppure una sillaba; aver scoperto fino a che punto fosse impopolare era stata dura per lei da mandar giù. S’incamminò assorta dietro a Clara covando cupi pensieri. Inconsapevolmente, era tornata a infilarsi di nuovo il pollice in bocca.
Nel bosco a un tratto echeggiarono delle grida. Da alcuni anti appresero che era fuggito un prigioniero e che le guardie fermavano e interrogavano chiunque incontrassero. Credendo che fossero loro le ricercate, s’affrettarono a nascondersi nella fessura di un masso roccioso, in attesa che le acque si calmassero. Si resero conto solo all’ultimo momento che all’interno del rifugio c’era qualcuno che aveva avuto la loro stessa idea. Con sorpresa s’accorsero che si trattava di Giocondo.
‘Sss!’ fece il giovane scapestrato appena vide entrare le due bambine. Ma un istante dopo, riconoscendole, cambiò tono e montando su tutte le furie, esclamò: ‘Ah, siete voi!’
Siccome le grida delle guardie si facevano sempre più vicine, stavolta furono Clara e la piccola regina a fare “sss!” e a tappare contemporaneamente la bocca al giovane. L’hommi che Clara era riuscita a catturare con l’astuzia e che la piccola regina aveva condannato ai lavori forzati per un lungo periodo di tempo, se ne stette buono finché le voci delle guardie non si furono allontanate, poi sfogò tutta la sua rabbia. La causa di tutti i suoi guai, sbraitò, erano loro due: averle incontrate era stata la sua rovina.
‘Non c’è bisogno che urli tanto, non siamo mica sorde!’ reagì Clara, per nulla intimorita. ‘E poi la colpa di quanto è accaduto in parte è anche tua. Se non ti fossi divertito a fare gli scherzi alla gente che se ne va in giro per i fatti propri, ora non ci troveremmo in questa situazione.’
‘Ma… ma… erano scherzi innocenti…’ dichiarò per giustificarsi il giovanotto, punto sul vivo.
‘Chi ride prima piange dopo’ sentenziò Clara, ripetendo pari pari le parole che in più di un’occasione aveva sentito pronunciare dai grandi.
‘Ben ti sta!’ rincarò la piccola regina, cavandosi il dito dalla bocca.
Ma il suo intervento risultò inopportuno poiché il giovane, giratosi verso di lei, la redarguì duramente:
‘Ah, hai anche il coraggio di parlare, tu, regina dei miei stivali… Piuttosto meriteresti una buona sculacciata!’
‘Co-come osi!’ gridò la piccola regina facendosi tutta rossa e rimanendo col dito sospeso a mezz’aria. ‘Io sono la Regina. Io posso… posso…’
‘Cosa? Chiamare le guardie? Dovresti però spiegar loro perché ti nascondi e come mai ti trovi fuori dal Palazzo insieme alla prigioniera umana. Questa faccenda ha tutta l’aria di una fuga, o mi sbaglio?’
‘Sei un impertinente!’ esclamò furiosa la piccola regina. ‘Pagherai cara la tua arroganza.’
Clara pensò che gli insulti e le minacce in quel difficile momento non servivano assolutamente a niente e così, cambiando atteggiamento, cercò di mettere pace.
‘E’ inutile litigare tra noi: quel che è stato è stato. Ora ci troviamo sulla stessa barca e dobbiamo remare insieme se non vogliamo affondare.’ E rivolta al giovane, continuò:‘E poi la Regina non è la tiranna che tutti pensano, semmai è lei la principale vittima. La colpa di ciò che accade è tutta del Primo ministro che approfitta della sua giovane età per governare a proprio piacimento. Per dimostrarti che la Regina in realtà possiede un animo gentile e generoso, ti dirò che ha lasciato di nascosto il Palazzo Reale rischiando in prima persona al solo scopo di aiutarmi a trovare la Delizia Purpurea, la rosa che mi permetterà di tornare nel mio mondo. A proposito, tu per caso conosci qualche strega? Sembra che soltanto loro sappiano dove cercarla.’
‘Sì, una la conosco, ma a che serve? La Delizia Purpurea è scomparsa dalla faccia della Terra da moltissimi anni, tanto che è diventata una leggenda.’
‘Tu portami dalla strega’ incalzò Clara, che difficilmente si lasciava scoraggiare dalle cattive notizie, e quella che la Delizia Purpurea fosse ormai scomparsa dalla faccia della Terra era davvero una pessima notizia.
‘Scordatelo’ rispose Giò, scrollando le spalle.
‘Non voglio avere nulla a che fare con voi due. Le ragazzine come voi sono soltanto fonte di guai.’
‘Ti prego…’ cominciò a dire Clara con voce sdolcinata.
‘Niente da fare, mi dispiace.’
‘Sei così coraggioso …’
‘E’ inutile continuare questo discorso.’
‘La tua presenza ci farebbe sentire più sicure…’
‘Mi pare di aver già detto…’
‘… e poi tu conosci il bosco meglio di chiunque altro.’
‘Oh, insomma!’
‘Via, sii buono. Siamo solo due deboli bambine che hanno bisogno di protezione e tu sei così forte, così leale, così generoso, così intelligente…’
‘E va bene, vi porterò dalla strega, basta però che la finisci di miagolare!’ cedette Giò tutto confuso.
L’ALLEGRA COMITIVA
Per un po’ Clara e la piccola regina tennero bene il o di Giò, ma a mano a mano che s’inoltravano nella densa vegetazione del sottobosco la fatica cominciò a farsi sentire nelle loro gambe, soprattutto in quelle poco abituate a camminare della piccola regina. All’inizio aveva cercato orgogliosamente di resistere, ma alla fine crollò di schianto su un mucchio di foglie secche, lamentandosi di avere le gambe completamente intorpidite e di non poter fare un o di più.
‘E ora che si fa?’ chiese Clara, approfittando anche lei della sosta per sdraiarsi e riposarsi un po’.
‘Lasciami pensare’ rispose Giò. ati alcuni secondi, disse:
‘Voi aspettatemi qui, torno subito.’
‘Dove sarà andato?’ chiese in tono apprensivo Matilde.
‘Non lo so’ disse Clara.
‘Mica ci lascerà sole!’
‘Spero proprio di no. Da sole non riusciremmo mai a trovare la strega.’
All’improvviso udirono uno strano rumore, come di un corpo che striscia nell’erba. Quando videro di cosa si trattava si sentirono accapponare la pelle. Un serpente si era fermato a poca distanza da loro e coi suoi occhi gialli e obliqui le stava fissando attentamente. A Clara sembrò un mostro preistorico con quella grossa testa che ondeggiava a mezz’aria e la sottile lingua biforcuta che guizzava fuori dalla bocca, e provò una senso di ripugnanza all’idea di finire tra quelle fauci spaventose.
‘Ma non dovevamo essere invisibili?’ chiese alla non meno atterrita compagna.
‘Lo siamo, infatti’ rispose quella: ‘ma con i rettili non serve, per via che loro avvertono la presenza delle prede dal calore dei corpi.’
‘Ci mangerà’ proferì Clara rabbrividendo.
‘Se restiamo ferme è molto probabile.’
‘E allora che cosa stiamo aspettando? Però è meglio muoverci in direzioni opposte, così almeno una di noi si salverà’ propose Clara.
Un o dietro l’altro, presero ad allontanarsi l’una dall’altra. A quella inattesa manovra la serpe (poiché era una serpe) cominciò a girare la testa una volta da una parte e una volta dall’altra, indecisa quale delle due rincorrere.
‘E’ il momento di accelerare!’ gridò Clara, facendo contemporaneamente un
balzo in avanti.
Anche Matilde era scattata, ma per sua sfortuna andò a inciampare in una radice che emergeva dal terreno e cadde con un grido di dolore. Clara tornò indietro a soccorrerla: infilò la testa sotto uno dei suoi bracci, l’avvinghiò alla vita e la trascinò con sé. Per fortuna l’attenzione della serpe venne distolta dal saltellante aggio di una rana e a quella vista subito decise di cambiare direzione. Quando Clara fu certa che il serpente non le stava inseguendo, si fermò per riprendere fiato.
‘Come si sente, Maestà?’ domandò premurosa.
‘Come vuoi che mi senta?’ bofonchiò la piccola regina, pallida come un morto e ancora tutta tremante.
Improvvisamente tra i ciuffi d’erba sbucò la testa di un animale ancora più mostruoso del precedente, tanto da far pensare a Clara di trovarsi di fronte alla reincarnazione di un feroce brontosauro. Stavolta però si trattava soltanto di una innocua tartaruga. Il suo sollievo si tramutò in gioia quando vide Giò seduto sul dorso dell’animale come un cocchiere in cima alla sua carrozza.
‘Salite’ disse. ‘Non sarà un viaggio comodo, ma è sempre meglio che andare a piedi.’
‘Come hai fatto a convincerla?’ gli chiese incuriosita Clara, intanto che aiutava la piccola regina a inerpicarsi sulla screziata corazza della tartaruga.
‘Con questo…’ rispose Giò mostrando una lunga asticella sulla cui punta era appesa una fragola. ‘Ogni tanto gliela faccio annusare e appena sta per addentarla, l’allontano un po’. Con questo sistema ci condurrà dovunque vogliamo: basta spostare la fragola nella direzione desiderata.’
Clara pensò che era un modo di viaggiare piuttosto primordiale, tuttavia, come aveva detto Giò, era sempre meglio che andare a piedi. La tartaruga non dava segni di avere fretta, seguiva gli spostamenti della fragola con la tranquilla pazienza di chi sa che prima o poi otterrà il suo scopo. Infatti, appena giunti a destinazione, Giò lasciò che l’addentasse, e mentre la tartaruga si godeva il suo meritato premio, i tre scivolarono uno dietro l’altro giù dal ruvido guscio.
Si trovavano nel mezzo di un folto gruppo di piante d’acanto, le cui ampie foglie non lasciavano trapelare che sottili spiragli di luce. Giò lanciò un fischio e subito una mezza dozzina di hommi uscirono dai cespugli simili a ombre colorate, materializzandosi sotto i loro occhi via via che si avvicinavano. Erano tutti molto giovani e avevano un’aria allegra e scanzonata. Ognuno si presentò con un buffo soprannome: Nasodipecora, Corbezzolo, Risolino, Russaforte, Ruspante e Bruco.
‘Dove hai pescato queste donzelle, Giò?’ s’informò Nasodipecora, esibendosi in un inchino alquanto teatrale.
‘Donzelle?’ gli fece subito eco Corbezzolo. ‘Io non vedo donzelle. Sembrano piuttosto due oche spennacchiate.’ Usando lo stesso tono canzonatorio, Giò intimò:
‘Amici, state attenti a come parlate: avete dinanzi a voi la Regina Matilde in persona!’
‘Quale delle due, compagno Giò?’
‘Io!’ pronunciò con aria importante la piccola regina, togliendosi per un attimo il dito dalla bocca.
‘Ah, quale immenso onore, Altezza!’ esclamò Risolino il quale, credendo che Giò come al solito scherzasse, stette al gioco e si genuflesse dinanzi alla bambina fin quasi a toccare terra con la fronte.
‘Forza, amici, diamole il benvenuto che spetta a una regina’ gridò Nasodipecora.
‘Si, diamoglielo’ gli fecero eco gli altri.
Matilde non fece in tempo ad apprezzare quella decisione, che all’improvviso si ritrovò a gambe all’aria. Nasodipecora l’aveva spintonata facendola inciampare sulla schiena di Risolino, accucciato alle sue spalle. Tutti ridevano dello scherzo, persino Matilde. Anzi, la piccola regina rideva così di gusto, che pareva non si fosse mai divertita tanto in vita sua. Approfittando della confusione, poco dopo Clara e Matilde si accordarono segretamente tra loro per ricambiare la cortesia: quatta quatta Clara andò ad accucciarsi alle spalle di Risolino, e a quel punto la piccola regina diede all’hommi una spinta così energica da mandarlo a finire lungo disteso. E questo non fu che l’inizio. Da quel momento tutti cominciarono a farsi scherzi di ogni sorta. Sembrava proprio che quei giovani non avessero altro da fare che divertirsi tutto il santo giorno. Saltellavano, ruzzolavano, si esibivano in spericolate capriole, facevano tra loro cavalluccio, volteggiavano appesi a un ramo, si tiravano piccole bacche, e tutto ciò con la spontaneità e la gaiezza di fanciulli.
Per Clara fu impossibile non lasciarsi contagiare da un simile spettacolo. Dal gran ridere le erano spuntate persino le lacrime. Solo quando cominciò a pensare al momento in cui avrebbe raccontato quella straordinaria avventura a sco e a Tina, si ricordò che doveva trovare la Delizia Purpurea. Allora, tirando Giò per un braccio, lo pregò di condurlo dalla strega.
‘Già, me n’ero dimenticato’ rispose il giovane. ‘Vive nel tronco vuoto di una vecchia quercia non lontano da qui.’ E rivolgendosi alla combriccola, disse: ‘Forza, amici, dobbiamo accompagnare le donzelle dalla strega Palmira, e su col morale.’
‘Per tirarlo su non c’è niente di meglio di una canzoncina’ rispose Ruspante, e attaccò:
‘Quando il vento il Ministro spazzerà
e la Regina in padella friggerà,
la vita più bella per tutti sarà
e ognun cantando baldoria farà…’
Matilde, che un istante prima aveva riso fino a rischiare le convulsioni, a sentir ciò si fece tutta seria. Domandò a voce alta:
‘Chi vi ha dato il permesso d’insultarmi?’
‘Eh, via! Non vorrai farci credere di essere la Regina’ disse Russaforte, ridacchiando tra sé e ammiccando ai compagni.
‘Ma certo che sono la Regina!’
‘Ma certo che sono la Regina!’ esclamò Corbezzolo, imitando comicamente la sua voce.
‘Se è vero quanto affermi, bricconcella’ disse da parte sua Nasodipecora,
‘allora dovresti essere così istruita da sapere perché le talpe vivono sottoterra.’
‘Io… non lo so.’
‘Ecco, lo vedi? Se tu fossi la Regina avresti saputo rispondere.’
‘Perché le talpe vivono sottoterra?’ chiese a quel punto Matilde, incuriosita.
‘Perché? Perché si vergognano, ih-ih-ih!’ sghignazzò Nasodipecora.
‘Dovresti anche sapere’ aggiunse Russaforte facendo l’occhiolino ai compagni ‘che cos’è quella cosa che di notte si spegne e si smorza.’
‘Non lo so. Che cos’è?’ chiese di nuovo l’ingenua Matilde dopo averci pensato un po’.
‘Ci sei cascata, oca che sei! Una cosa che si spegne e si smorza non esiste. E’ un gioco di parole.’
‘Oh, insomma!’ protestò la piccola regina in tono arrabbiato. ‘Possibile che non prendiate mai nulla sul serio?’
‘Sul serio prendiamo le bastonate che ogni tanto le guardie ci elargiscono con grande generosità in nome della Regina’ replicò Bruco. ‘E se tu fossi davvero ciò che dici di essere, potremmo restituirti con gli interessi quello che ci hai prestato, cioè un bel mucchio di legnate. Ih-ih-ih!'
‘Ci mancherebbe anche questa!’ esclamò Matilde in tono altezzoso, facendo tuttavia prudentemente un o indietro. Ma subito dopo tornò a brontolare in tono minaccioso: ‘Se fossimo a Palazzo…’
‘Ascolta il mio consiglio, Maestà, dimentica il tuo rango’ le suggerì sottovoce Giò. ‘Almeno finché rimani con noi. Qui non ti conviene farti riconoscere. Non sai cosa potrebbe capitarti se i miei amici si convincessero che sei davvero la Regina. Bada, te lo dico anche se in fondo non mi dispiacerebbe affatto che ricevessi una bella lezione.’
‘Ma io…’ balbettò mortificata Matilde, inghiottendo a fatica la sua rabbia.
Clara, che non aveva perso una parola di quel battibecco, pensò che era venuto il momento di intervenire. Sottovoce, implorò la piccola regina:
‘Maestà, la supplico, faccia come dice Giò. Ormai è chiaro come la luce del sole che la Vostra impopolarità tra i sudditi è molto diffusa. Facendosi riconoscere, oltre ad attirarsi addosso guai come topi sul formaggio, non farebbe che intralciare le ricerche della Delizia Purpurea.’
Il volto di Matilde si contrasse come se stesse ingoiando un rospo, poi fece un profondo respiro e annuì. Un istante dopo aveva ripreso ostinatamente a succhiarsi il pollice.
‘Col vostro permesso, Maestà, sarebbe più prudente se da questo momento in poi le dessi del tu e la chiamassi semplicemente Matilde’ aggiunse Clara.
La piccola regina, con un notevole sforzo, tornò ad annuire muovendo lentamente il capo dall’alto verso il basso. A questo punto tutta la compagnia riprese il cammino verso la dimora della strega, Giò in testa, Clara e la piccola regina subito dietro e gli allegri hommi in coda che, ridendo e scherzando come studenti a una gita scolastica, cantavano a squarciagola:
‘Siamo i discoli del bosco
facciamo scherzi a più non posso
viviamo felici come monelli
di ogni legge siamo ribelli.
Ohilì, ohilà, com’è bello giocar
senza andare a lavorar.
LA SCOMPARSA DELLA STREGA
La gigantesca quercia davanti alla quale si fermarono era così vecchia che doveva aver abbondantemente superato la soglia dei cento anni. Il tronco, contorto e screziato, era cosparso di gloriose ferite rimarginate come un vecchio guerriero a riposo, ciononostante la chioma appariva ancora verde e rigogliosa e proiettava una grande ombra intorno a sé.
Giò, approfittando della ruvidità del tronco, cominciò a inerpicarvisi usando mani e piedi come se scalasse una ripida parete rocciosa, e quando raggiunse il punto in cui il tronco si divideva a ventaglio in tre grossi rami, si mise a guardare attraverso un foro, scavato probabilmente dall’acuminato becco di un picchio. Anche Clara e Matilde, tolti i mantelli per esser più libere nei movimenti, avevano intrapreso la lenta e difficile salita dietro a Giò; il resto della comitiva invece si era sdraiata ai piedi della vecchia quercia e tanto per ingannare il tempo avevano preso a raccontarsi storielle spiritose, sicché ogni tanto il bosco risuonava dei loro sghignazzi.
Giò, ricordandosi che la strega era un po’ sorda, lanciò un grido che rimbombò sonoramente nella cavità del tronco. In risposta, si udì una voce chioccia protestare con una certa veemenza:
‘Ehi, lassù, che bisogno c’è di fare tanto chiasso? Possibile che non si può stare in pace un momento?’
‘Ma tu non sei Palmira!’ esclamò sorpreso il giovane.
‘Ti ho forse detto di esserlo?’ rintuzzò con alterigia la voce chioccia.
‘Fino all’altro giorno questa era la sua dimora…’ disse Giò per giustificarsi.
‘E con questo? Ora è casa mia!’ precisò la “voce” in tono perentorio.
Clara e Matilde, giunte in cima al tronco, si misero anche loro a sbirciare attraverso il buco. A poco a poco i loro occhi si abituarono all’oscurità e poterono distinguere pentolini, ampolline, polveri colorate, piante rinsecchite, ossicini, ciuffi di peli e altri mille strani oggetti. Tutto ciò era sparpagliato in un disordine indescrivibile, il che faceva pensare che la strega doveva essere partita in gran fretta. In mezzo a tutta quella confusione, un gufo se ne stava accovacciato in un angolo e guardava in su coi suoi grandi occhi luminosi di uccello notturno. Con un tono di voce accattivante, Clara gli domandò:
‘Buon gufo, sapresti dirci, per cortesia, dov’è andata la strega? Abbiamo urgente bisogno di conferire con lei.’
Stavolta, usando un tono più gentile, in perfetta sintonia con la voce della bambina, il gufo rispose:
‘Non saprei. E’ partita con tanta furia che non ho avuto il tempo di domandarglielo.’
‘Ma perché tanta fretta?’
‘Oh, bella! per sfuggire alle guardie della Regina che stavano venendo a prenderla. Una cornacchia è corsa ad avvisarla e lei non ci ha pensato due volte a filarsela.’
Togliendosi il pollice dalla bocca, Matilde s’informò incuriosita:
‘Che c’entra la Regina?’
‘Come, non lo sai?’ stridette il gufo. ‘Quella specie di mostriciattolo ha bandito tutte le streghe, i maghi e le fattucchiere dal regno degli hommi e ha persino minacciato gravi sanzioni a chi offre loro rifugio e ospitalità.’
‘Per quanto ne so, la Regina non ha mai firmato questo bando’ ci tenne a precisare Matilde.
‘Tu non puoi immaginare quale essere spregevole stai cercando di difendere’ replicò il gufo con l’aria di chi la sa lunga sull’argomento. ‘Io posso parlare con cognizione di causa, avendo avuto la grande sfortuna di conoscerla personalmente.’
‘Cosa?!’ sbottò Matilde al colmo dell’indignazione di fronte a quella spudorata menzogna. Questa volta la misura era colma e se Clara non si fosse affrettata a tapparle la bocca, chissà cosa sarebbe successo.
‘Se non sai dov’è andata’ riprese Clara conciliante, ‘dicci almeno che direzione ha preso.’
‘Tu sei una bambina simpatica’ disse il gufo marcando sul “tu” per sottolineare che l’altra non lo era affatto. ‘Se proprio ci tieni a saperlo, mi pare a sud… Ma non ci giurerei, visto che era giorno e quando c’è troppa luce preferisco starmene rintanata. Ti consiglio di chiederlo agli uccelli diurni: loro di solito sono al corrente di tutto ciò che succede nel bosco.’
‘Grazie dell’informazione, buon gufo, e scusaci per il disturbo. Ci sei stato davvero molto utile.’
‘Grazie a te della visita’ replicò con voce gentile il pennuto. ‘E’ un vero piacere conversare con le persone “beneducate”.’
Subito Clara si guardò attorno per vedere se c’era qualche uccello nei paraggi.
Ma non ce n’erano.
‘Bisognerebbe salire più in alto’ suggerì Giò, come se avesse intuito i suoi pensieri. ‘Qui siamo troppo bassi.’
‘E allora forza!’ disse Clara impaziente, e per dare il buon esempio, cominciò a muoversi per prima.
‘Scusatemi ma io torno indietro’ dichiarò da parte sua Matilde. ‘L’altezza mi dà le vertigini.’
All’inizio il robusto ramo che li sosteneva - allungandosi gradualmente verso l’alto - risultò abbastanza agevole da percorrere, ma via via che avanzavano cominciò ad assottigliarsi e ad assumere una posizione sempre più verticale. Clara si rese conto che non ce l’avrebbe mai fatta se non ci fosse stato Giò a incoraggiarla e a consigliarle dove appoggiare i piedi. Per Giò salire sulla cima di un albero sembrava la cosa più naturale di questo mondo: riusciva a saltare da un ramo all’altro con la stessa destrezza di una scimmia, inoltre, per quante evoluzioni fe, non cadeva mai. E anche se fosse caduto, Clara era convinta che sarebbe riuscito comunque ad afferrarsi a un ramo più basso, prima di toccare terra. Le sembrava di vedere in lui Peter Pan, e non solo per l’agilità e il coraggio, ma anche per il suo indomito spirito di libertà. Essere un hommi era così divertente, si disse, che se non ci fosse stata la sua famiglia in pena le sarebbe piaciuto moltissimo vivere in mezzo a loro. Sarebbe andata in giro tutto il giorno insieme a Giò e ai suoi amici, divertendosi un mondo a fare gli scherzi alla gente del paese che attraversava il bosco.
Quando raggiunsero i rami più sottili, si fermarono nel timore che si spezzassero sotto il loro peso. Da ogni parte erano circondati dalle foglie dentellate della vecchia quercia, tanto che, riflettendone il colore, anche loro apparivano verdi dalla testa ai piedi. Di certo nessun occhio umano avrebbe potuto notarli. “Più o meno siamo mimetizzati come le cicale” pensò Clara, che non era mai riuscita a vederne una benché cantassero tutto il giorno a squarciagola. Mentre così rifletteva, udì gorgheggiare un merlo. Girò il capo intorno a sé ma non vide nulla. Rimase alquanto sorpresa quando si accorse che a emettere quel gradevole suono era Giò, tanto ne risultava perfetta l’imitazione. A intervalli regolari il giovane continuò a lanciare i suoi trilli, finché in risposta giunse da qualche parte il verso di un usignolo. Con prontezza Giò cambiò registro e cominciò a intrattenere con lo sconosciuto pennuto una melodiosa conversazione a distanza. Quando quel concerto a due voci cessò, riferì in tono deluso:
‘Dice che sono diversi giorni che non vede la strega. Ignorava persino che fosse fuggita.’
‘Prova ancora, Giò’ lo pregò Clara.
Il giovane riprese i suoi sonori richiami, e poco dopo giunse in risposta la voce di una cinciallegra. Ma anche lei non ne sapeva niente.
‘Prova di nuovo, Giò!’ insisté Clara.
Attratti dai richiami, stavolta vennero alcuni eri. Si posarono su dei rami non molto distanti da loro, comportandosi come se fossero ormai abituati alla presenza dei minuscoli abitanti del bosco; e sebbene gli abiti rendessero gli hommi invisibili ai loro occhi, ne percepivano tuttavia la presenza attraverso ogni minimo movimento. Alla domanda se sapessero dove si era diretta la strega, risposero che l’avevano vista correre come una furia verso lo stagno, in direzione sud. Altro non sapevano.
‘Bene, è già qualcosa’ disse soddisfatta Clara non appena fu messa al corrente della risposta.
‘Se ci affrettiamo, forse possiamo ancora intercettarla.’ Scesero dall’albero e di nuovo si ritrovarono tutti assieme, Clara, la piccola regina, Giò e l’allegra comitiva dei giovani hommi. Questi, incamminandosi, ripresero a cantare in coro:
‘Amiamo del bosco i colori
e il profumo inebriante dei fiori…
Ohilì, ohilà, com’è bello giocar
senza andare a lavorar…’
IL BARATTOLO DELLA MARMELLATA
Mentre si facevano largo nell’intrigo dell’erba alta come se attraversassero una giungla, all’improvviso si manifestò tra i giovani hommi una viva eccitazione. Avevano avvertito nelle vicinanze la presenza dell’uomo, il che per loro significava divertimento assicurato. Era un’opportunità alla quale non intendevano assolutamente rinunciare, e sebbene Clara avesse una gran fretta di raggiungere la strega, si vide costretta a seguirli.
Guidati dalle voci umane che risuonavano nel bosco, giunsero a una radura dove un gruppo di boy scout stava approntando un accampamento. Avevano tirato su le tende e il fuoco e ora si preparavano per un’escursione nei dintorni. Vestivano tutti allo stesso modo: camicia celeste, pantaloni blu, calzettoni fino alle ginocchia e cappello grigio a larghe tese. Quando ogni cosa fu sistemata, il gruppo dei boy scout si mosse in fila indiana, lasciando a guardia del campo una sentinella, che li seguì con lo sguardo finché non scomparvero nel fitto della boscaglia. Un po’ per are il tempo e un po’ per farsi coraggio, il ragazzo si mise a fischiettare.
Gli hommi gli si avvicinarono protetti dai loro abiti mimetici, poi, servendosi di un lungo filo d’erba che avevano divelto dal suolo, si divertirono a solleticargli un orecchio. Il ragazzo, credendo che si trattasse di un insetto, fece dei gesti con la mano per scacciarlo. Accorgendosi che tutti i suoi tentativi risultavano vani, si mollò una sonora manata sul collo per schiacciare l’importuno e porre fine una volta per tutte a quel tormento. Ma quando sembrava che tutto fosse tornato a posto, ricominciò il supplizio nell’altro orecchio. A un tratto gli sembrò di percepire dei risolini soffocati; pallido di paura, girò gli occhi intorno, e non vedendo anima viva, scattò in piedi e si mise a correre come una furia per raggiungere i compagni.
Ma il divertimento per la combriccola dei giovani hommi era appena cominciato.
Rimasti padroni del campo, si diedero a spostare di qua e di là gli oggetti meno pesanti, poiché il loro maggior godimento consisteva nello spiare le facce sbalordite dei ragazzi quando al ritorno avrebbero trovato ogni cosa fuori posto. Clara non aveva potuto fare a meno di partecipare al loro gioco, ma dopo che il boy scout era corso via, fu di nuovo presa dall’ansia di raggiungere al più presto la strega, per cui sollecitò la comitiva affinché si riprendesse il cammino. Ma per quanto supplicasse, nessuno le dava retta. Quanto a Matilde, era così incuriosita da tutti quegli strani oggetti che si trovavano sparsi nell’accampamento che non la degnò neppure di una risposta. A un certo punto Clara la sentì urlare. Girandosi verso di lei, la vide immersa fino alla vita in un barattolo di marmellata. L’aiutò a uscirne fuori e cercò di ripulirla alla meglio raschiando via la marmellata dal vestito e dalle gambe con un bastoncino raccolto a terra. Intanto la piccola regina si leccava le dita e diceva:
‘Com’è buona!’
Clara ne assaggiò un po’ e disse:
‘E’ marmellata di ciliegie.’
‘Le ciliegie le conosco, ma la marmellata di ciliegie è la prima volta che la mangio. Penso che ne farò una bella scorpacciata.’
‘Un’altra volta, Maestà, ora dobbiamo affrettarci.’
Ma la piccola regina non le prestò ascolto, si piegò e raccolse un po’ di marmellata dal barattolo rovesciato.
‘Hmm, è davvero squisita’ tornò a ripetere leccandosi le dita con un’espressione estasiata.
‘Te lo dico per l’ultima volta: o ti muovi o dovrò lasciarti qui!’ minacciò Clara, facendo l’atto di avviarsi per farle capire che non scherzava.
‘Va bene, vengo. Accidenti, mi sento tutta appiccicosa.’
Clara si rivolse agli hommi per sollecitare anche loro a seguirla, ma tutti volevano attendere il ritorno dei boy scout: per nulla al mondo, dissero, si sarebbero persi lo spettacolo delle loro facce nel vedere l’accampamento messo sottosopra. Anche Giò in un primo momento voleva restare, e soltanto quando vide le due bambine inoltrarsi da sole tra la fitta vegetazione si decise a rincorrerle.
‘Dove credete di andare se non sapete nemmeno dove si trova lo stagno?’ le rimproverò appena le ebbe raggiunte.
‘So che sta a sud’ rispose asciutta Clara ‘e il sud lo so benissimo dove si trova: basta orientarsi con la luce del sole o con le ombre, che è la stessa cosa!’
‘Ehi!’ si stupì Giò, ‘non sarai mica arrabbiata con me.’
‘Certo che sono arrabbiata con te!’ si sfogò Clara, imitando il comportamento severo e intransigente che la maestra assumeva a scuola quando non era
ascoltata. ‘Per me trovare Palmira è una questione di vita o di morte e tu, che ti sei offerto di aiutarmi, perdi tempo insieme ai tuoi stupidi amici a combinare stupidi scherzi a dei ragazzini. Mi spiace dirtelo, ma questo comportamento denota da parte tua una preoccupante mancanza di serietà.’
Giò stava borbottando delle scuse allorché Matilde, che stava dietro, si lasciò scappare un urlo raccapricciante. Era circondata da una mezza dozzina di formiche che, rispetto a lei, avevano più o meno le dimensioni di un’aragosta. Vedendo che le stavano annusando con preoccupante insistenza i vestiti, Giò raccolse da terra un rametto secco e con quello cercò di scacciare le importune. Clara invece prese a lanciare contro di loro ogni pietruzza che trovava sul terreno. I loro sforzi combinati riuscirono ad allontanarle di qualche o, ma non tardò molto che ne arrivarono altre da ogni direzioni. Per evitare di esser sopraffatti, non c’era altro da fare che allontanarsi il più in fretta possibile. Si voltarono e si misero a correre. In un primo momento le grosse formiche erano rimaste incerte, poi presero a inseguirli con accanimento. Matilde chiese infastidita:
‘Perché ce l’hanno con me?’
‘E’ per via della marmellata che è appiccicata al tuo vestito’ spiegò Clara. ‘Succede la stessa cosa col miele o con qualsiasi altra cosa che sia dolce. Di fronte a leccornie simili le formiche ci diventano matte. Credo proprio che sarà difficile liberarcene, a meno che non raggiungiamo al più presto lo stagno.’
Avrebbe potuto suggerire un ruscello o una pozza d’acqua qualsiasi, ma di proposito aveva accennato allo stagno con lo scopo di trasformare quella precipitosa fuga nell’opportunità di raggiungere più in fretta la strega. La paura sembrava aver messo le ali ai piedi di Matilde, che già al primo scatto aveva sopravanzato di un buon metro i suoi compagni. Ma per quanto ce la mettessero tutta, i tre non riuscivano a distanziare le inseguitrici, che anzi guadagnavano terreno a vista d’occhio. Voltandosi, Clara rimase impressionata nel vedere
quanto fossero numerose. “Se avessi con me il piffero magico” le venne in mente, “le farei precipitare giù da un dirupo, come i topi della fiaba… e invece corriamo il rischio, se cadiamo, di andare incontro a una fine orribile!” A quest’ultimo pensiero rabbrividì e gridò con voce angosciata:
‘Dobbiamo correre più svelti!’
Ma era un’esortazione superflua in quanto correvano già al massimo delle loro possibilità. Matilde, che in altre circostanze si sarebbe già fermata, non aveva mai ceduto nemmeno per un istante il comando della corsa. La paura la faceva straparlare; continuava a ripetere alle ostinate inseguitrici:
‘Vi avverto, io sono una regina. Se solo oserete toccarmi con una delle vostre sudice zampe, giuro che manderò i miei arcieri a punirvi. E se lo dico lo faccio…’
E altre minacce del genere, a cui però le formiche, ammesso che capissero, non sembravano dare alcun peso.
‘Prima o poi dovranno pur stancarsi!’ esclamò Clara, alla quale cominciava a mancarle il fiato.
‘Non ci contare: è impossibile competere nella corsa con chi dispone di sei zampe’ la disilluse Giò, continuando a mulinare il suo bastoncino sul muso delle formiche che si avvicinavano troppo.
‘Manca molto allo stagno?’
‘Ancora uno sforzo e ci siamo.’
Erano appena usciti dalla boscaglia, quando apparve davanti ai loro occhi una tranquilla distesa d’acqua azzurrina, da cui emergevano in modo confuso erbe, canne e arbusti. Senza indugiare un solo istante, ci si tuffarono dentro, giusto in tempo prima di esser raggiunti dalle pericolose mandibole delle formiche.
IL ROSPO VANITOSO
Vista la mala parata, le formiche se ne tornarono indietro deluse. Matilde non fece in tempo a rallegrarsi per lo scampato pericolo, che una nuova minaccia si profilò per lei. Infatti Clara, mentre nuotava per tornare a riva, la vide che si dibatteva tra le fauci di uno spaventoso mostro acquatico. Era così brutto e repellente che è impossibile esserlo di più. Aveva gli occhi cisposi che sporgevano come se dovessero uscirgli dalle orbite da un momento all’altro, la bocca era larga quanto un forno e, come se non bastasse, ogni parte del suo viscido corpo era ricoperto da vesciche disgustose.
ata la sorpresa, Clara si rese conto che si trattava soltanto di un grosso rospo. Non per questo però si sentì più tranquilla: le sue dimensioni erano tali da incutere comunque il massimo rispetto. Il primo pensiero che le venne in mente fu di ricordarsi se i rospi erano animali erbivori, carnivori oppure insettivori, e poiché non se lo ricordava, decise di stare all’erta. Nel frattempo Giò, con poche ma energiche bracciate, era risalito sulla riva e coraggiosamente affrontò il mostro puntandogli contro il suo modesto ramoscello come se brandisse la gloriosa spada di Re Artù.
‘Lasciala andare, Ben, o mi vedrò costretto a bucarti quel grosso pancione che ti ritrovi!’ minacciò, mostrando con ciò di conoscere bene il gigantesco anfibio.
Questi non sembrò dar molto peso alle sue parole, tuttavia depositò la piccola regina sulla riva e gracidò con la sua voce rauca:
‘Guarda chi si rivede, il giovane Giò! Vi avevo scambiati per guardie reali a caccia di rospi. Pare che da qualche tempo la nostra pelle sia molto in voga tra gli hommi per fabbricare tamburi e cose del genere. Ma che ci fai da queste
parti?’
‘Stiamo seguendo le tracce della strega Palmira. Per caso l’hai vista?’
‘E’ ata di qua giusto un’ora fa’ rispose ben disposto il rospo.
‘E dove andava?’ s’intromise subito Clara piena di speranza.
‘Perché lo vuoi sapere, piccola?’
Clara glielo spiegò. Ma via via che ascoltava, il rospo diventava sempre più serio, finché emise un severo:
‘Ah, davvero?’ E mutando repentinamente d’umore, si sfogò: ‘Dunque tu saresti una bambina umana! Sappi allora che ho un conto in sospeso con tutti i ragazzini della tua specie. Vorrei tanto sapere perché ogni volta che incontrate un rospo vi divertite a tirarci addosso sassi o qualsiasi altro oggetto contundente che vi capiti sottomano, come se si trattasse del vostro sport preferito. Una volta sono stato gravemente ferito e solo per miracolo non ci ho rimesso la pelle. Sono davvero curioso di sapere che cosa c’è in noi che vi disturba tanto.’
‘Beh’ fece Clara maliziosamente, ‘basta che ti specchi e lo capirai da solo.’
Alla battuta Giò e Matilde non riuscirono a trattenere un risolino.
‘E con questo che cosa vorresti dire?’ domandò Ben sulla difensiva.
‘Non è colpa di nessuno se voi rospi siete così… così…’
‘Così come? Continua.’
‘… brutti.’
‘Brutti?’
‘Orrendi’ si corresse Clara.
‘Questa è semplicemente la tua opinione’ rimarcò il rospo fingendo indifferenza. In realtà ci era rimasto piuttosto male nell’apprendere che non era poi quel bell’esemplare che credeva di essere. La sua principale attività infatti consisteva nel trascorrere il tempo ad ammirarsi nell’acqua dello stagno e a procurarsi unguenti per rendere più liscio e più morbido il suo corpo bitorzoluto. Giusto poc’anzi aveva acquistato un nuovo preparato proprio dalla strega Palmira, che doveva spalmarsi su tutto il corpo per ottenere una particolare lucentezza della pelle.
A rincarare la dose ci si mise anche Matilde, mossa dal desiderio di vendicarsi dello spavento che il rospo le aveva procurato. Si tolse il pollice dalla bocca e disse piuttosto acidamente:
‘Se vuoi saperlo, questa è anche la mia opinione!’
‘Ebbene se è così che la pensate, allora non abbiamo altro da dirci’ disse Ben in tono mortificato, assumendo un contegno estremamente grave. Si girò su se stesso e si arrampicò lentamente e faticosamente su una grossa pietra che emergeva dallo stagno, e da lì prese a sbirciare, senza darlo a vedere, la propria immagine riflessa.
Clara notò che aveva gli occhi gonfi di lacrime e si meravigliò che un essere così mostruoso potesse avere un animo tanto sensibile. Proprio come accadeva nella fiaba La Bella e la Bestia, pensò. Se solo l’avesse immaginato, di sicuro si sarebbe comportata in modo diverso. Pentita, cercò di rimediare.
‘Siamo stati troppo duri con lui’ comunicò ai suoi amici.
‘Cooosa?!’ reagì Matilde.’Questo orribile bestione mi ha mancato di rispetto, il che è assolutamente intollerabile! Quando tornerò a Palazzo manderò un drappello di arcieri a sistemarlo come si deve!’
‘Invece dobbiamo chiedergli scusa, altrimenti non ci dirà mai dove si è diretta la strega’ insisté Clara.
‘Hai ragione’ fu d’accordo Giò. ‘Ma sarà difficile convincerlo. Tutti nella zona sanno quanto Ben sia permaloso riguardo al suo aspetto. E’ convinto di essere l’animale più bello che esista sulla faccia della terra e sentirsi definire orrendo deve esser stato un duro colpo per lui.’
‘Potrei anche perdonarlo…’ cominciò a dire Matilde più conciliante ‘ma chiedergli scusa… questo mai!’
‘Potresti almeno fingere’ suggerì Giò.
‘Ma io sono la Regina!’
‘Quando è necessario’ affermò convinta Clara ‘anche le regine qualche volta dicono le bugie, specialmente nelle questioni di dipromazzia.’
Non era sicura di aver pronunciato correttamente quella difficile parola, tuttavia fece lo stesso un grande effetto e questo le bastò. Matilde si mise il pollice in bocca e non disse altro. Il suo silenzio fu interpretato come assenso da Clara che, ritenendosi tacitamente autorizzata, s’avvicinò più che poté al rospo e parlando a nome di tutti, gli disse:
‘Se ti abbiamo offeso, ti prego di scusarci, Ben. Vedi, noi siamo due bambine e i bambini, si sa, spesso non sanno quello che dicono. Le nostre osservazioni circa il tuo aspetto era solo uno scherzo, un gioco. In realtà non pensiamo affatto che tu sia… brutto. Anzi, personalmente trovo che sei piuttosto ben fatto. Anche la mia amica è dello stesso parere. Stavamo appunto ammirando il tuo profilo poco fa…’
‘Perché, cos’ha il mio profilo?’ chiese allarmato il rospo, uscendo dal suo sdegnoso riserbo.
‘Ecco, a parer nostro esprime un non so che di affascinante… che non si trova l’eguale in nessun’altra specie animale.’
‘Dici sul serio?’ chiese il rospo in tono lusingato.
‘Certo che dico sul serio.’
‘Sai, non mi sono mai visto di profilo…’
‘Ti assicuro che è qualcosa che tutti dovrebbero invidiarti. Diglielo anche tu, Matilde.’
‘Oh si, davvero affascinante’ confermò Matilde a denti stretti.
‘E dei miei occhi cosa ne pensate?’ domandò il rospo, guardando dritto verso di loro per facilitargli il compito.
‘Senza timore di esagerare’ disse Clara ‘sembrano due rubini incastonati nell’avorio.’
‘Forse la bocca è un po’ troppo larga…’ osservò il rospo con finta modestia.
‘Secondo me invece è perfetta, vista nell’insieme. Se fosse solo un po’ più piccola stonerebbe con tutto il resto.’
‘Dici?’
‘Sei un vero mostro di bellezza!’ sbottò arcigna Matilde.
‘Eh?! Che cosa hai detto?’ esclamò il rospo inalberandosi.
‘E’ un modo di dire’ corse ai ripari Clara.
‘Significa che sei al di sopra di ogni paragone.’
‘Ah! se è così…’
Vedendo che si era alquanto rabbonito, Clara ne approfittò per chiedergli:
‘A proposito della strega, Ben, sapresti indicarci la direzione che ha preso?’
‘E’ andata da quella parte’ disse il rospo indicando la sponda opposta.
‘Ha attraversato lo stagno sopra una foglia. Sembrava avesse una gran fretta.’
‘Una foglia hai detto?’ si meravigliò Clara.
‘Sarà stata sicuramente una foglie di ninfea’ spiegò Giò. ‘Sono abbastanza larghe e galleggiano che è una meraviglia.’
‘Allora cosa stiamo aspettando? Cerchiamone una anche noi’ sollecitò Clara.
‘Ehi, che ne dite della coda? Non sembra anche a voi che sia un po’ troppo corta?’ gracidò il rospo mentre si allontanavano.
Ma il terzetto questa volta non rispose. Avevano cose molto più importanti di cui occuparsi in quel momento.
UN CASTORO MOLTO GENTILE
Non molto lontano da un folto canneto, nell’acqua stagnante, galleggiavano una accanto all’altra diverse foglie di ninfea, quasi a formare una sorta di pavimentazione. Saltarono su quella che sembrava più robusta, ne recisero il peduncolo e, usando dei bastoncini come remi, la spinsero al largo. A un certo punto Matilde, stanca, gettò il suo remo e si sedette a braccia conserte: la sua resistenza era giunta al limite. Quando la presero in giro per questo, si mise a ciucciarsi il pollice senza rispondere. Ma dall’espressione del viso si capiva perfettamente quali bellicosi pensieri le ronzassero in quel momento nella testa. Buon per loro che non ci fossero a portata di voce i suoi arcieri, pensò rassicurata Clara.
Giò dirigeva la ninfea verso la sponda opposta con la perizia di un provetto capitano di lungo corso. Tutto sembrava filare liscio, finché, giunti al centro dello stagno, all’improvviso il cielo si oscurò. Temendo l’arrivo di un temporale, guardarono preoccupati in alto, ma ciò che videro non erano nuvole bensì un grande stormo di oche selvatiche che volteggiava sopra le loro teste. Scongiurato il pericolo della pioggia, se ne presentò subito un altro allorché i grossi volatili cominciarono a scendere sulla superficie dello stagno: planando, creavano enormi onde che fecero traballare paurosamente la fragile imbarcazione. I tre occupanti, per non finire in acqua, si distesero sulla foglia e si tennero strettamente aggrappati ai bordi.
Quando quella turbolenza cessò, erano letteralmente circondati dalle oche selvatiche. Gli spazi si erano ridotti al minimo e per giunta la stazza dei volatili era tale da impedire di vedere qualsiasi cosa che non fossero i loro bianchi corpi piumati. Inutilmente cercarono di far allontanare le oche dalla foglia di ninfea: anche se molte si spostavano, non ottennero alcun risultato pratico, perché era come muoversi in un labirinto senza via d’uscita. Non c’era altro da fare che aspettare che si decidessero a riprendere il volo.
Dopo circa un’ora, mentre erano lì sdraiati che sonnecchiavano, a un tratto alcune oche cominciarono a sbattere velocemente le ali e a sollevarsi dall’acqua. Lo stagno tornò ad agitarsi e la ninfea riprese a sussultare pericolosamente. Ogni tanto un’onda più grossa delle altre superava il bordo e li investiva in pieno, allora dovevano mettercela tutta per non cadere in acqua. “Affogherò” pensò malinconicamente Clara, provando comione per se stessa. “A nessuno verrà mai in mente di cercare il mio corpo nel fondo di uno stagno, di conseguenza nessuna mano pietosa verrà a gettare un fiore sulle mie misere spoglie. Vorrei tanto che tutto questo fosse soltanto un sogno, anche se, in fondo, un po’ mi dispiacerebbe, perché se fosse soltanto un sogno e ora mi svegliassi, non saprò mai come finisce questa storia.” Intanto, sogno o non sogno, ciò che avevano temuto si verificò. La foglia della ninfea, che finora aveva ben galleggiato, cominciò lentamente a inabissarsi, e di lì a poco si trovarono a lottare tra vortici e onde che, in rapporto alle loro dimensioni, apparivano gigantesche. L’ultima cosa di cui Clara ebbe coscienza fu la fugace visione di Giò e Matilde che lottavano tra i flutti, poi perse i sensi.
Quando tornò in sé, vide che si trovava in uno strano luogo semi buio, le cui pareti, il soffitto e il pavimento erano costituiti da rami intrecciati con erba e fango pressato. Non lontano, si sentiva l’allegro gorgoglio di un ruscello. Soltanto quando vide affacciarsi da una fessura il muso di un castoro, si rese conto che quella strana costruzione doveva essere una specie di diga. Il grosso roditore sembrò rallegrarsi nel constatare che si era riavuta.
‘Ce l’hai fatta a svegliarti, piccioncina’ squittì in tono scherzoso.
‘Che ne è stato dei miei amici?’ chiese subito Clara.
‘Si stanno asciugando al sole, sta tranquilla.’
‘Come faccio a trovarmi qui? Che è successo?’
‘Stavo raccogliendo dei sassi sul fondo dello stagno quando vi ho visti in difficoltà, e così ho pensato di portarvi in salvo’ spiegò con modestia il castoro.
‘Non so proprio come ringraziarti, signor… Castoro.’
‘Oh, non ce n’è bisogno, mia cara. Ho fatto quello che chiunque avrebbe fatto al mio posto.’
‘Se è possibile, vorrei asciugarmi un tantino anch’io: sto tremando dal freddo.’
‘Ma certo, piccioncino. Ti porto subito fuori. Attaccati pure alla mia coda, in questo modo faremo prima.’
Clara si attaccò con entrambe le mani alla pelosa coda del castoro e dopo aver percorso un labirinto di bui cunicoli, in pochi secondi si ritrovò all’aperto. Come aveva annunciato il generoso roditore, i suoi compagni di viaggio se ne stavano distesi l’uno accanto all’altra a scaldarsi al sole, tranquilli come turisti sulla spiaggia. Impulsivamente Clara corse ad abbracciarli tutta felice di vederli ancora vivi, mentre l’artefice del salvataggio assisteva alla scena con aria soddisfatta. Alla fine Matilde si sentì in dovere di dichiarare ufficialmente, rivolta al castoro:
‘Per quello che hai fatto meriti una ricompensa. Se c’è un desiderio che vorresti veder realizzato, farò in modo di accontentarti.’
‘Oh, ti ringrazio, piccioncino’ rispose il castoro, ‘ma nessuno può fare ciò che più desidero.’
‘Cos’è che più desideri?’ chiese Matilde.
‘Visto che me lo chiedi, te lo dirò. Vedi questa diga che ostruisce il ruscello? ebbene una volta formava un delizioso laghetto e noi castori che l’avevamo costruita ne andavamo orgogliosi. Era faticoso mantenerla in buono stato: ogni volta che si apriva una falla bisognava affrettarsi a ripararla. Il lavoro però non ci pesava; eravamo una piccola comunità ma non avevamo bisogno d’altro per sentirci felici. Poi un giorno sono arrivate le guardie della Regina e ci hanno costretti a trasferirci da un’altra parte a lavorare a una diga per conto degli hommi. Io sono riuscito a fuggire e a tornare qui perché non volevo vivere come uno schiavo, ma come vedete da solo non ce la faccio a riparare i danni che la corrente provoca ogni giorno. Il mio più grande desiderio è che alla nostra comunità sia concesso di ritornare qui, prima che la diga finisca per essere travolta e distrutta definitivamente. Ma so già che tutto questo non potrà mai realizzarsi.’
‘E invece sarai esaudito, te lo prometto’ dichiarò solennemente Matilde.
‘Tu lo prometti?’ ripeté meravigliato il castoro.
Prima che Clara e Giò potessero impedirglielo, Matilde dichiarò:
‘Io sono la Regina degli hommi.’
Il castoro interrogò con gli occhi gli altri due aspettandosi di vederli sorridere di fronte a quella bugia, ma intuendo dalle loro facce che c’era qualcosa di vero, tornò a fissare Matilde con attenta curiosità. Qualcosa nel suo atteggiamento dovette persuaderlo che si trovava davvero davanti alla vera Regina, poiché all’improvviso piegò rispettosamente il capo e pronunciò in tono ossequioso:
‘Maestà!’
‘Hai la mia parola’ confermò Matilde.
‘Appena sarò tornata a Palazzo ordinerò di rilasciare tutti i castori fatti schiavi.’
‘Altezza, queste parole suonano come una dolce musica per le mie orecchie.’
Matilde aveva assunto un atteggiamento solenne e nobile, come del resto esigeva il suo alto rango. Questo non stupì più di tanto Clara, che aveva notato già da un po’ di tempo importanti cambiamenti nel suo comportamento, come per esempio quello di aver quasi smesso di succhiarsi il pollice.
‘D’ora in poi’ continuò la piccola regina ‘non ci saranno più schiavi nel mio regno. Ognuno potrà vivere liberamente come meglio crede. Farò in modo di abolire tutte le leggi, le ordinanze e i decreti ingiusti o eccessivamente severi che sono stati emanati in questi ultimi tempi. Si dovranno rispettare soltanto le leggi che vanno d’accordo col buon senso, e comunque dovranno essere sempre approvate da un Consiglio di saggi. Nessuno sarà più rinchiuso in prigione senza un grave motivo. Gli hommi dovranno cercare di vivere in pace nel reciproco
rispetto con tutte le altre specie che abitano nel bosco.’
Giò ne approfittò per dire:
‘Allora non correrò più il rischio di finire in prigione se non lavoro?’
‘Certo che no. Sarai libero di scegliere il modo di vivere che più preferisci. A patto che ti comporti onestamente.’
‘E le guardie reali’ chiese a sua volta Clara ‘non lanceranno più le frecce che rimpiccoliscono la gente che eggia per i fatti propri nel bosco?’
‘Sarà severamente proibito. Anzi, appena tornerò alla Reggia darò ordine a Barbaverde di non produrre più quella sostanza. In quanto alle guardie reali, dovranno svolgere esclusivamente un compito di semplice controllo.’
Nel sentire ciò, il castoro squittì tutto contento:
‘Quindi tutto tornerà come al tempo in cui regnavano i vostri genitori. E di grazia, Maestà, quando avverrà tutto questo?’
‘Te l’ho detto, non appena tornerò a Palazzo. Costringerò il Primo ministro a dare le dimissioni e assumerò io stessa il comando. Ma prima di tornare a Talpimpopoli dobbiamo trovare la strega Palmira. Per la mia amica qui presente si tratta di una questione di vita o di morte.’
‘L’ho vista are che non è molto’ disse il castoro, desideroso di rendersi utile.
‘Era diretta verso quel bosco di lecci che si vede laggiù, ai margini dello stagno. Ma raggiungerla non sarà facile: correva veloce come se avesse il diavolo alle calcagna.’
Questa notizia li sollecitò a rimettersi subito in cammino. Rinnovati i ringraziamenti per l’aiuto ricevuto e ribadita da parte di Matilde la promessa di liberare i castori dal loro stato di schiavitù, il terzetto si rimise in marcia.
UNA PIOGGIA DI GHIANDE
Seguendo le indicazioni del castoro, poco dopo si trovarono ad attraversare un lecceto così fitto che la luce del sole non riusciva a penetrarvi e ogni cosa era avvolta nella penombra. Come era loro consuetudine, cercarono qualcuno per chiedere se per caso avesse visto are da quelle parti la strega. Ma il bosco risultava stranamente silenzioso; nessun rumore si sentiva, a parte il fruscio quasi impercettibile delle foglie, nessuna cicala emetteva i suoi monotoni trilli e nessun uccello cinguettava.
Tutto ciò appariva così innaturale, che temettero che qualche oscuro pericolo incombesse su di loro, e istintivamente presero a guardarsi intorno con aria circospetta. Presto i loro timori trovarono conferma quando all’improvviso l’erba davanti a loro si spalancò e apparve un manipolo di guardie reali armate di archi e frecce. Mentre avanzavano stringendoli in un cerchio, i loro contorni sfumati si facevano sempre più precisi, finché riconobbero in prima fila la massiccia figura di Niccodemo. Subito l’ufficiale intimò, rivolto a Clara e a Giò:
‘Non un o o siete morti! In nome della legge vi dichiaro tutti in arresto. Per la vostra fuga vi sarà comminata una pena ancora più severa e questa volta vi garantisco che non sfuggirete al vostro castigo.’
Dopodiché, lisciandosi con aria soddisfatta i lunghi baffi, ò ad esaminare Matilde. E all’improvviso l’espressione del suo viso cambiò, impallidì e piegando rispettosamente la testa, balbettò in tono riguardoso:
‘Voi… voi qui… Altezza.’ Poi, tornando agli altri due, esclamò profondamente indignato:
‘E’ chiaro, avete rapito la Regina per garantirvi la fuga. Ebbene sappiate che questo è un reato talmente grave da contemplare senz’altro la pena di morte!’
‘Credo, mio buon ufficiale, che ci sia un equivoco’ l’interruppe Matilde, mostrando un sorriso divertito. ‘Non sono stata affatto rapita, ho lasciato il Palazzo Reale di mia spontanea volontà.’
Ma Niccodemo, credendo che parlasse per paura, replicò:
‘Non dovete più temere le loro minacce, Maestà. Ormai non possono più nuocervi.’
‘Vi ripeto che…’ cercò di opporsi Matilde.
‘Ora li farò legare così vi convincerete che non correte più alcun pericolo, Maestà’ la prevenne Niccodemo. E a un suo cenno due guardie si avvicinarono con dei lacci.
Ma proprio in quell’istante cominciò a cadere dagli alberi una fitta pioggia di ghiande. Non cadevano a casaccio bensì sembravano indirizzate proprio sulle teste imberrettate degli arcieri, le cui divise cangianti, forse a causa della scarsità della luce, non riuscivano a riflettere a sufficienza il colore screziato delle foglie secche che tappezzavano il terreno e quindi erano diventati un facile bersaglio. Non c’era alcun dubbio, dall’alto qualcuno si stava divertendo a loro spese, e lo facevano con una tale precisione, che i malcapitati non ebbero neppure il tempo di far funzionare i loro archi. E siccome le ghiande erano abbastanza grandi e
pesanti da provocare dolorose contusioni ogni volta che centravano il bersaglio, il drappello fu costretto a una ritirata frettolosa. La fuga si protrasse fino ai margini del bosco, soltanto allora la pesante pioggia smise di seguirli in ogni loro spostamento.
Mentre i soldati, messisi al sicuro, si leccavano le ferite, i misteriosi lanciatori scesero velocemente lungo i tronchi degli alberi per radunarsi intorno a Clara, a Matilde e a Giò. Si trattava di una colonia di simpatici scoiattoli che squittivano e saltellavano al colmo dell’eccitazione per la vittoria riportata.
‘Grazie per averci dato una mano’ disse Giò rivolto a quello che sembrava il capo.
‘Non l’abbiamo fatto soltanto per voi, ma anche per noi’ dichiarò lo scoiattolo, fermo a pochi i da loro, ‘poiché abbiamo deciso di ribellarci alla prepotenza degli hommi.’
‘Perché, che cosa vi hanno fatto?’ domandò Clara.
‘Pretendono che raccogliamo noci e nocciole per riempire i loro magazzini per le scorte invernali. Ci hanno minacciato di trafiggerci con le frecce che rimpiccoliscono se non obbediamo. La nostra risposta l’hanno ricevuta poco fa. Da questo momento siamo entrati ufficialmente in guerra contro di loro. Ma a voi perché volevano arrestarvi?’
‘E’ una lunga storia’ sospirò Clara e cominciò a spiegare di essere una bambina umana rimpiccolita dalle frecce delle guardie reali e che ora, insieme ai suoi amici, era alla ricerca della strega Palmira per chiederle di aiutarla a tornare
quella di prima. Per prudenza tacque sulla vera identità di Matilde, poiché c’era il rischio che gli scoiattoli - avendo dichiarato guerra al suo popolo - se ne servissero come ostaggio. Matilde però non era abituata a are inosservata e stava già cominciando a dire ‘Sono io la…’, quando ricevette da parte di Clara una gomitata nel fianco.
‘Ahi!’ si lamentò Matilde girandosi verso di lei con un’espressione corrucciata. ‘Mi hai fatto male!’
Ma Clara non le badò e per distrarre gli scoiattoli riprese in fretta il discorso.
‘Per caso avete visto are la strega da queste parti? E’ molto importante che ci parli. Se non torno presto a casa i miei nonni rischiano di morire di crepacuore.’
‘No, non l’abbiamo vista, però sappiamo che ogni volta che si sente in pericolo corre a rifugiarsi sulla montagna’ squittì lo scoiattolo.
‘Questa montagna è molto lontana?’
‘Non molto. Dovete prendere quel sentiero che vedete alle vostre spalle. Dopo circa cento metri incontrerete un torrente: risalendo il suo corso, vi condurrà direttamente alla montagna. A questo punto vedrete apparire davanti a voi una cascata, dietro la quale c’è la grotta dove Palmira va a rifugiarsi nei momenti di pericolo.’
‘Grazie infinite di tutto’ disse sbrigativamente Clara, avendo fretta di ripartire.
‘Fate attenzione mentre attraversate il bosco’ avvertì il buon scoiattolo. ‘Ci sono molti cinghiali e quelli non tollerano l’intrusione di estranei nel loro territorio, tanto meno quando si tratta di hommi.’
Salutati i simpatici scoiattoli, Giò, Clara e Matilde s’avventurarono di nuovo tra gli intricati sentieri della boscaglia. Avevano appena superato un grosso cespuglio di agrifoglio, quando s’imbatterono in un uovo così enorme che avrebbe potuto contenerli comodamente tutti e tre, e così largo che bisognava essere perlomeno in due per abbracciarlo in tutta la sua circonferenza. Ma la cosa più straordinaria era che in cima ci stava una minuscola anatra selvatica in una posa da cova. Vedendoli arrivare, il palmipede in miniatura si diede a strepitare:
‘Che volete ancora? Andatevene! Non vi basta quello che avete già combinato?’
Clara, incuriosita, fece un o avanti e chiese con gentilezza:
‘Cosa ci fai in cima a quest’uovo?’
‘Che domanda: lo covo!’
Clara scoppiò a ridere. Era davvero una buffa scena vedere un uovo così enorme covato da un uccello così piccolo! “Chissà se ci crederanno le mie compagne di scuola quando glielo racconterò” pensò divertita.
‘Cosa ci trovi da ridere?’ disse con voce risentita il minuscolo volatile.
‘Oh, niente, niente. Ma dimmi, bella anitrella, quale guaio avremmo combinato secondo te?’
‘Perché, non si vede?’ replicò arcigna quella.
‘Prima che mi colpissero le vostre maledette frecce ero un’anatra felice, una mamma contenta di covare il suo uovo. Ora sono solo un ridicolo uccellino. Persino un calabrone è più grosso di me. E chissà quando riuscirò a portare a termine la cova di questo o...’
‘Oh, ma noi non c’entriamo per niente con le frecce, e anzi ci dispiace moltissimo per ciò che ti è capitato’ s’affrettò a chiarire Clara. ‘Devono essere state senz’altro le guardie reali. Ma perché ce l’avevano con te?’
‘Perché volevano catturarmi e rinchiudermi in una delle loro maledette gabbie, ecco perché. Ma anche se sono stata colpita, sono riuscita lo stesso a fuggire.’
Commossa, Matilde si fece avanti e in tono regale proclamò:
‘Ti chiedo formalmente scusa per quello che ti è successo e ti prometto che farò tutto ciò che è in mio potere per restituirti le tue dimensioni naturali. Così potrai covare il tuo pulcino in tempi più ragionevoli…’
‘Tu chi sei per parlare in questo modo?’ chiese sospettosa l’anitrella.
Lesta lesta, Clara spiegò:
‘Oh, sai, lei conosce molto bene la Regina Matilde, la conosce così bene che qualsiasi cosa le chiede non le dice mai di no.’
‘Davvero?’ fece la minuscola anitra tutta speranzosa.
‘Sicuro! La conosco da quando sono nata!’ disse divertita Matilde.
‘Pensi che mi aiuterà se glielo chiedi?’
‘Quando saprà che c’è di mezzo la vita di un pulcino, ti manderà subito una guardia con l’antidoto che ti farà tornare tale e quale eri prima’ confermò.
‘Lo volesse il cielo!’ sospirò l’anitrella.
‘Non so proprio come ringraziarvi.’
‘Oh, non ce n’è bisogno.’
A un tratto s’udì un gran gracchiare sopra le loro teste. Alzarono gli occhi, ma non videro che rami e foglie.
‘Chi è che grida così?’ chiese Clara al palmipede formato miniatura.
‘Potrebbe essere uno di quei corvi che se ne vanno in giro a depredare i viandanti. Date retta a me, è meglio che vi affrettiate. Questi sono tempi difficili da campare.’
I tre viandanti non se lo fecero ripetere due volte; salutata la simpatica anitrella, ripresero in fretta il cammino. Ma più si allontanavano, più i gridi del corvo si facevano vicini.
‘Giò’ chiese preoccupata Clara, ‘credi che ce l’abbia con noi?’
‘Temo proprio di si’ fu la scoraggiante risposta del giovane hommi.
IL CORVO
‘Crac!... Crac!... Crac!... Crac!’ continuava a gracchiare attraverso il fogliame degli alberi l’invisibile inseguitore.
Spaventata, Matilde suggerì timidamente:
‘Forse sarebbe il caso di tornare indietro…’
Ma Clara replicò risoluta:
‘Non ci penso nemmeno, devo trovare la strega Palmira a tutti i costi.’ E prendendo l’iniziativa, esclamò rivolta verso l’alto:
‘Ehi, tu, lassù, finiscila una buona volta di giocare a nascondino! Non abbiamo tempo da perdere noi!’
Per tutta risposta i gridi si tramutarono in una risata sguaiata.
‘Chi ride degli altri senza motivo, o è un maleducato o è uno sciocco!’ sentenziò Clara perdendo la pazienza. E avrebbe continuato su quel tono se Giò non l’avesse tirata per il vestito e non le avesse intimato di smetterla.
‘Non mi sembra il caso di starlo anche a stuzzicare!’ la rimproverò.
All’improvviso il corvo, simile a una enorme nuvola nera, piombò giù dagli alberi. Il frullare veloce delle sue enormi ali creò un vortice d’aria così violento che i tre minuscoli viandanti, per non perdere l’equilibrio e finire lunghi distesi, dovettero aggrapparsi ai rami dei cespugli più vicini. Clara non avrebbe mai immaginato che si sarebbe spaventata di fronte a un… corvo, ma quello che le stava davanti era il triplo della sua altezza e il suo duro becco rappresentava un’arma assolutamente temibile.
‘Chi vi ha autorizzati a are da queste parti?’ gracchiò il corvo posizionandosi con la sua possente mole in mezzo al sentiero.
Il vento provocato dal suo atterraggio aveva sollevato un nugolo di foglie che ora andavano lentamente ricadendo al suolo volteggiando nell’aria come fiocchi di neve. Il corvo non aveva finito di parlare che Giò, riconoscendolo, esclamò sorpreso:
‘Ma tu sei Cornelio!’
Al che il corvo replicò non meno sorpreso:
‘E tu Giocondo! Che mi prenda un colpo! Dove sono quei mattacchioni dei tuoi amici? E come mai te ne vai in giro in compagnia di queste due smorfiosette?’
‘Le sto accompagnando dalla strega Palmira per una questione che adesso non
ho tempo di spiegarti. E proprio perché abbiamo una certa fretta, dovresti usarci la cortesia di scansarti e lasciarci are…’
‘Oh, ma certo! Come desideri tu. Solo che ci sarebbe da pagare un piccolo pedaggio. Non avertela a male, amico: dipendesse da me, pazienza, ma il mio stomaco, quando è affamato, non sente ragioni.’
‘Non capisco, di quale pedaggio stai parlando?’ chiese meravigliato Giò.
‘Oh, niente di particolare, amico, solo qualche buon boccone. Ma visto che sei tu, per questa volta mi contenterò di un paio di vermi belli grassi con contorno di fragole, e per dessert una mezza dozzina di mirtilli ben maturi. Portatemi queste poche cosucce e potrete tranquillamente proseguire per la vostra strada.’
‘Cos’è, ti sei dato al brigantaggio, adesso?’ lo sfotté scherzosamente Giò.
‘Che vuoi, con gli anni si diventa vecchi e riesce sempre più faticoso lavorare.’
Facendo un o avanti, Matilde si mise a sbraitare:
‘Quando la Regina verrà a sapere di questo sopruso, e posso garantirti che lo saprà di sicuro, non ci sarà nemmeno bisogno di un processo per impiccarti!’
‘Può darsi, può darsi’ rispose pacifico il corvo.
‘Ma prima dovranno prendermi, non ti pare?’
‘Ascolta’ cominciò Clara con voce implorante.
‘Devi sapere che io sono…’ Ma il corvo la interruppe gracchiando:
‘Non m’interessa sapere chi sei, perciò risparmia il fiato!’
Di fronte alla brusca reazione del corvo Clara ammutolì, e a un tratto avvertì tutta la sua impotenza di fronte al nuovo ostacolo. Infatti, a parte il fatto che non sapeva proprio dove andare a cercare fragole e mirtilli, non avrebbe mai trovato il coraggio di prendere in braccio un verme come se fosse un micio o un cagnolino; solo a pensarci le venivano i brividi. E a quel punto sospirò malinconica:
‘E adesso che cosa facciamo?’
‘Lascia fare a me’ le disse sottovoce Giò. ‘Cornelio è un tipaccio ma ha il suo punto debole: è tanto curioso quanto ottuso di cervello. A raggirarlo ci vuole poco. Sta’ a vedere.’ E voltatosi verso il grosso volatile, prese a dire: ‘Cornelio, tu sai cos’è quella cosa che al buio è tutta bianca e alla luce del sole si riveste di mille colori?’
Il corvo, incuriosito, provò a concentrarsi; ma dopo un po’ dovette arrendersi.
‘Adesso non mi viene in mente... Dimmela tu.’
‘Se te la dico, poi mi lascerai are?’
‘Vuoi scherzare?’
‘Allora la soluzione dovrai cercartela da solo. Noi ce ne torniamo indietro.’
L’indovinello, com’era nelle intenzioni di Giò, era penetrato nel cranio del corvo come una pallina in un flipper e aveva cominciato a rimbalzare da una parete all’altra senza trovare una via d’uscita. L’uccello scrollò energicamente la testa per cercare di liberarsene, ma inutilmente. I tre non avevano fatto dieci i, che lo sentirono gracchiare:
‘Ehi, ehi, aspettate un momento. Che fretta c’è?’
‘Se non possiamo proseguire, tanto vale che ce ne torniamo indietro’ ripeté Giò con calma.
‘Il tuo indovinello mi sta facendo impazzire. D’accordo, hai vinto: dimmi la soluzione e ti lascerò are.’
‘E’ la farfalla.’
‘La farfalla…? Perché la farfalla?’
‘Perché il suo corpo durante la sua vita da bruco è completamente bianco, ma quando esce alla luce del sole risplende di mille colori’ rivelò Giò.
‘Giusto!’ approvò Cornelio con sollievo.
‘Ora ci devi lasciar are’ interloquì Clara, avendo fretta di ripartire.
‘E tu che c’entri?’ rintuzzò quello in tono sgarbato. ‘Riguardo a voi due non è cambiato niente: portatemi quanto vi ho chiesto oppure fate dietrofront.’
‘Ah, è così!’ esplose indignata Clara. Ma subito dopo, pensando che con le cattive non avrebbe ottenuto nulla, cambiò atteggiamento. Con una voce sdolcinata, propose: ‘E se anch’io ti dicessi un indovinello, poi mi lascerai are?’
‘Eh no, bella. Adesso basta con gli indovinelli. Mica riempiono lo stomaco.’
‘Però, che peccato!’ pronunciò Clara con malizia.‘Era un bell’indovinello. Ma forse lo conoscevi già…’
‘Come faccio a conoscerlo se non so nemmeno di che stai parlando?’ replicò il
corvo cadendo nel tranello.
‘Che sbadata! Hai ragione. L’indovinello che volevo dirti era questo: cos’è quella cosa che se la guardi ti sorride e se l’afferri di ferisce? Ma visto che a te non interessa…’
‘Ti avevo proibito di dirlo!’ gracchiò arrabbiato il corvo, e per non pensare all’indovinello, prese ad andare avanti e indietro. Ma il nuovo rompicapo, indipendentemente dalla sua volontà, aveva cominciato a ronzargli nella testa senza interruzione… se-la-guardi-ti-sorride-se-l’afferri-ti-ferisce-se-la-guardi-tisorride-se-l’afferri-ti-ferisce-se-la-guardi-ti-sorride-se-l’afferri-ti-ferisce… Alla fine, non potendone più, esclamò:
‘D’accordo, hai vinto: dimmelo e ti lascerò are.’
‘E’ la rosa’ disse Clara.
‘Perché la rosa?’
‘Perché è simile a un bel sorriso, se però cerchi di coglierla, ti punge con le sue spine.’
‘Sì, è vero!’ esclamò il corvo, tutto felice di essersi liberato da quel pesante fardello mentale.
Ora toccava a Matilde guadagnarsi il aggio. Però, per quanto frugasse nei suoi ricordi, a lei non veniva in mente alcun indovinello da proporre. Vedendola in difficoltà, Clara s’affrettò a suggerirgliene uno in un orecchio. Quando Cornelio si accorse da tutte queste manovre che anche l’altra bambina si apprestava a declamare un indovinello, infilò svelto la testa sotto un’ala e gridò:
‘Eh no, carina! Non voglio sentir più niente!’
La piccola regina però non gli diede ascolto e prese a recitare con voce altisonante:
‘Sai dirmi cos’è quella cosa…’
‘Ti ho detto di star zitta, cribbio!’
‘… che non ha braccia…’
‘Smettila, ti dico!’
‘… ha una sola gamba…’
‘Taci, vipera velenosa!’
‘… e porta il cappello?’
‘Maledizione! Ti avevo tassativamente proibito di parlare! Adesso sbrigati a tirar fuori la soluzione o per te saranno guai!’
‘Te la dirò se mi prometti che mi lascerai are’ proclamò irremovibile Matilde, per niente intimorita dalle dimensioni del corvo né dal suo formidabile becco, in grado di stritolarla in un secondo come una nocciolina.
‘E va bene, te lo prometto, ma sbrigati. Cos’è?’
‘Il fungo.’
‘Hmm… il fungo, dici?’ ripeté riflettendo il corvo. E a un tratto, come illuminato, esclamò: ‘Ma certo, il fungo! Infatti i funghi hanno una sola gamba e in cima portano il cappello!’
‘Adesso possiamo are?’ disse Giò.
‘Accomodatevi pure’ rispose il corvo con un tono divenuto improvvisamente affabile. ‘Spero di rivedervi presto. E’ stato un vero piacere avervi incontrati.’
‘Ah, davvero?’ fece Clara velenosamente, indispettita per il tempo perso. ‘Sai, anche per noi è stato un piacere, e per dimostrarti tutta la nostra simpatia, prima di andarcene voglio dirti, questa volta gratis, un altro indovinello. Ascolta: è
completamente nero, ha poco cervello ed è un gran rompiscatole. Cos’è?’
‘Hmm… ce l’ho sulla punta della lingua…’ disse il corvo tutto concentrato.
‘Pensaci bene: non è poi così difficile’ fece ridacchiando Clara.
Lasciato il povero corvo a lambiccarsi il cervello, i tre ripreso a marciare celermente. A poco a poco il bosco si fece più spazioso e dove non cresceva l’erba si notavano dappertutto le inquietanti impronte dei cinghiali. Per il momento tutto sembrava tranquillo e poterono procedere abbastanza spediti. Finché all’improvviso avvertirono la terra tremare sotto i loro piedi, e allo stesso tempo udirono una specie di rombo prolungato echeggiare nel bosco.
‘Stanno arrivando i cinghiali!’ lanciò l’allarme Giò.
‘Per fortuna non possono vederci, grazie ai nostri vestiti mimetici’ disse Clara.
‘Non ne sarei così sicuro’ la deluse Giò. ‘Dopo il bagno nello stagno, i nostri vestiti hanno perso gran parte della sostanza di cui erano impregnati, perciò temo che ora siamo un bersaglio perfettamente visibile. Il mio consiglio è di cercarci in fretta un riparo.’
‘Oh, poveri noi!’ esclamò smarrita Clara.
‘Niente paura: vuol dire che tratteremo’ disse Matilde con aria sicura. ‘Ci parlo
io, li convincerò che è più conveniente per loro se ci lasciano are. Stipulerò un patto di amicizia tra loro e il mio popolo. Farò delle concessioni vantaggiose a cui non potranno dire di no.’
‘Vostra Altezza ha la stoffa di una grande regina!’ la complimentò Clara, vedendo riaccendersi la speranza di superare quel difficile ostacolo.
‘Se fossi in voi non ci conterei molto’ interloquì di nuovo Giò in tono dubbioso.
‘Sono bestie selvatiche e non credo che capiscano l’utilità di una trattativa.’
L’invito alla prudenza non venne ascoltato dalla piccola regina, la quale, incrociate le braccia, attese a piè fermo l’arrivo dei cinghiali. D’un tratto li videro sbucare dal folto dei cespugli. Correvano a spron battuto proprio nella loro direzione e sembrava che il loro scopo fosse unicamente quello di annientarli senza neppure lasciar loro il tempo di parlare. Considerando le sue attuali dimensioni, che non superavano i dieci centimetri, a Clara sembrò di assistere alla carica di un branco di elefanti infuriati nel bel mezzo di una savana. Spaventata, cercò con lo sguardo un riparo intorno a sé, e vide un gigantesco ippocastano che si ergeva isolato in uno spiazzo polveroso: salirvi era impossibile ma alla base dell’albero emergeva un groviglio di grosse radici che, in mancanza di meglio, potevano offrire un provvisorio rifugio contro l’assalto forsennato di quei bestioni irsuti. E correndo come non aveva mai corso in vita sua, gridò:
‘Presto, ripariamoci tra le radici di quell’albero!’
Quando fu al sicuro, si accorse che accanto a lei c’era soltanto Giò. Entrambi
volsero lo sguardo dove avevano lasciato la piccola regina… e rimasero costernati nel vederla immobile e con le braccia alzate per segnalare ai cinghiali la sua intenzione di parlamentare. La chiamarono con tutto il fiato, ma le loro voci si persero nel fragore degli zoccoli che si andava facendo sempre più assordante.
Vedendo che la carica dei cinghiali non accennava a rallentare, la sicurezza di Matilde cominciò a vacillare. Come aveva detto Giò, quei mostri erano talmente selvatici che non sapevano nemmeno cosa fosse l’arte della diplomazia. La loro regola sembrava essere quella che prima bisognava distruggere il nemico e poi semmai discutere se avevano agito bene o male.
In quel momento di estremo pericolo, Matilde ebbe la presenza di spirito di avvicinarsi a dei ciuffi d’erba che spuntavano qua e là nella radura, nella speranza che il suo vestito conservasse ancora qualcosa della sostanza mimetica. Miracolosamente, o forse per un congenito difetto nella vista dei cinghiali, quelle furie le arono vicino senza neppure sfiorarla. Giunti al limite della radura si voltarono per valutare il risultato del loro aggio. Attesero che la nuvola di polvere si disperdesse, poi, vedendo che qualcosa si muoveva nella direzione del gigantesco ippocastano, tornarono alla carica.
Tutta impolverata, Matilde fece appena in tempo a infilarsi nello spazio vuoto sotto una grossa radice - la stessa dove avevano trovato riparo Clara e Giò quando quell’orda selvaggia ò sopra la sua testa con un fragore così spaventoso che avrebbe messo a dura prova il coraggio di chiunque. Accorgendosi che anche la seconda carica aveva fallito il suo scopo, i cinghiali tornarono indietro per cercare di snidare gli indesiderati stranieri a colpi di zoccolo o intrufolando il muso tra i terreno e le radici.
I tre, tremando di paura di fronte a quei furiosi tentativi e a quei grugniti terrificanti, si appiattirono più che poterono nel loro rifugio. A un certo punto Clara, che era entrata per prima in quella specie di buca, toccò con la punta del
piede qualcosa di estremamente soffice. Contorcendosi, cercò di vedere cosa mai fosse. Malgrado la scarsa visibilità, si accorse che erano penetrati in una tana e che sul fondo c’era un coniglio addormentato.
IL CONIGLIO BIANCO
Il coniglio si svegliò non tanto per lo scalpiccio che stavano producendo gli zoccoli dei cinghiali sopra la sua tana, ai quali ormai era abituato, quanto per il solletico che involontariamente Clara gli procurava sfiorandogli con i piedi i lunghi baffi.
‘Etcì!’ starnuti al contatto, spalancando allo stesso tempo gli occhi che, nella semioscurità, brillarono d’un bel rosa delicato. Era un grosso coniglio bianco dal pelo lungo e morbido. Come del resto tutti i conigli, fece capire già dalle prime battute di possedere un’indole mansueta e sensibile; infatti, anziché adirarsi nel vedere degli stranieri entrare nella propria tana, disse con un tono inconfondibilmente pacifico:
‘Salve, gente. Che cosa vi ha spinto da queste parti? Se c’è qualcosa che posso fare per voi…’
I modi gentili del coniglio ridiedero coraggio a Clara, che subito ne approfittò per dire:
‘Scusa se abbiamo invaso la tua tana senza nemmeno chiederti il permesso, ma il fatto è che ci troviamo in una brutta situazione. Fuori c’è un branco di cinghiali che hanno tutta l’aria di volerci sbranare, sebbene non abbiamo fatto nulla che possa averli offesi.’
‘Non c’è alcun bisogno che vi scusiate, amici: siete i benvenuti in casa mia’ disse il coniglio paciosamente. Ma poi si corresse: ‘A dire il vero questo territorio
appartiene ai cinghiali e quindi io stesso sono un intruso, un clandestino. Vivo nascosto in questa buca la maggior parte del tempo per paura di esser sorpreso e ucciso dai cinghiali che, come vi sarete accorti, hanno un carattere piuttosto scorbutico e diffidano di tutti. Ma per quanto mi riguarda non è stato sempre così. Prima vivevo nella Valle del Sole, dove la terra è ricca d’erba grassa e succulenta, e dove per noi conigli non esisteva alcun pericolo, di nessun genere. Finché un giorno quella dannata Regina degli hommi non ha pensato di mandare i suoi arcieri a catturare tutti i conigli della valle, per avviarli, dopo averne ridotto le dimensioni, a un allevamento per le esigenze alimentari del suo popolo. Ahimè!’
Sentendo ciò, Matilde non poté trattenersi dal dire:
‘So di sicuro che non può esser stata la Regina a dare quest’ordine crudele.’
‘E tu come fai a saperlo?’ chiese il coniglio, alquanto meravigliato.
‘Devo per forza saperlo, visto che sono io la Regina’ dichiarò prima che Clara e Giò potessero impedirglielo.
‘Ah, davvero?’ fece il coniglio, scrutando la piccola hommi con sospetto.
‘Oh, non badarle’ s’affrettò a sussurrargli Clara in un orecchio.
‘E’ un po’… fuori fase. Da quando ha battuto la testa crede di essere la Regina degli hommi.’
‘Capisco…’ bisbigliò comprensivo il coniglio. ‘Una volta a una mia zia è caduta un ramo sulla testa: ebbene quella poverina non si era messa in mente di essere un lupo? Non faceva che ululare tutto il giorno. Comunque’ aggiunse rivolta alla piccola hommi, ‘buon per te che non sei la Regina, altrimenti di avrei scaraventata fuori senza pietà in balia dei cinghiali.’
Comprendendo che non le conveniva insistere, Matilde rimase zitta. Ma Clara, che la stava scrutando preoccupata, indovinò il suo stato d’animo: la sua faccia esprimeva tutta la rabbia per esser stata ferita nel suo orgoglio di Regina.
‘Dunque’ riprese bonariamente il coniglio, ‘tornando alla prima domanda, cosa vi ha spinto ad attraversare il pericoloso territorio dei cinghiali?’
‘Stiamo cercando di rintracciare la strega Palmira’ rispose per tutti Giò.
‘E perché mai la volete rintracciare?’
Sospirando, Clara spiegò:
‘E’ per me. Io sono una bambina umana rimpicciolita dalle frecce delle guardie reali e spero, con l’aiuto della strega, di ritornare al più presto a essere come ero prima. A quest’ora il nonno e la nonna, cui sono stata affidata per il periodo delle vacanze, non vedendomi tornare, si staranno preoccupando. La nonna poi è malata di cuore e ho paura che possa venirle un colpo apoplessico.’ Come si vede, Clara aveva le idee piuttosto confuse riguardo alle parole difficili.
‘Se non ho capito male… stai dicendo che appartieni alla razza umana?’ indagò il coniglio al colmo dello stupore.
‘Infatti’ confermò Giò. ‘Sono state le frecce delle guardie reali a ridurla alle dimensioni di un hommi.’
‘Oh, poverina!’ la compatì il coniglio, sinceramente dispiaciuto.
Poi, mostrando tutta la sua generosità, soggiunse:
‘Se le cose stanno così, allora non c’è tempo da perdere. Ogni minuto che a aumenta il rischio che alla tua povera nonna venga un colpo… apoplessico. In quanto ai cinghiali non dovete preoccuparvi: per nostra fortuna alla loro forza bruta fa da contrappeso una notevole dose di stupidità. Non appena si distrarranno, vi condurrò io stesso alla ricerca della strega Palmira. Sono abbastanza forte da sostenere il peso di tutti e tre e abbastanza veloce da seminare chiunque volesse competere con me nella corsa. A proposito, io mi chiamo Felix. E voi?’
‘Io sono Clara.’
‘Io Matilde.’
‘E io Giò.’
La proposta fu accolta con grande sollievo dai tre. Il coniglio appariva così sicuro di sé, che si disposero fiduciosi a correre il rischio di uscire dalla tana. Due volte Giò s’affacciò per controllare la situazione e due volte dovette ritirarsi in fretta di fronte ai feroci attacchi dei cinghiali, i quali se ne stavano lì in attesa più decisi che mai. Al terzo tentativo le cose andarono meglio. I cinghiali, sicuri del fatto loro, a poco a poco si erano sparsi nei dintorni per mangiare le ghiande cadute dagli alberi, e quando Giò lo riferì al coniglio, questi disse:
‘Bene, amici, è il momento di provarci. Salite a cavalcioni sulla mia schiena e aggrappatevi saldamente alla pelliccia.’
Clara saltò per prima, poi fu la volta di Matilde e Giò prendere posizione sul peloso dorso del coniglio. Prima di uscire, Felix diede una sbirciatina fuori per controllare personalmente la situazione, e vedendo che effettivamente in quel momento nessuno badava a loro, con un balzo uscì fuori dalla tana e si mise a correre più svelto che poteva. Alcuni cinghialetti che stavano gironzolavano nei paraggi, accortisi del tentativo di fuga, lanciarono immediatamente l’allarme strillando con tutto il fiato che avevano in corpo. Un attimo dopo l’intero branco dei cinghiali stava galoppando grugnendo all’inseguimento dei fuggiaschi.
Ma Felix, procedendo a grandi balzi, presto creò un vuoto incolmabile dietro di sé, e solo quando reputò di trovarsi ormai al sicuro rallentò. Clara era talmente entusiasta della corsa che, se non avesse avuto tanta fretta, le sarebbe piaciuto andarsene dalla mattina alla sera a so nel bosco sul dorso del coniglio. Era sicuramente il gioco più divertente che avesse mai praticato!
Usciti dal bosco, apparve dinanzi ai loro occhi una catena montuosa coperta per metà di boschi e per metà di picchi rocciosi, in quel momento immersi nella luce dorata del sole. Poco dopo s’imbatterono nel torrente, e a quel punto, secondo le indicazioni degli scoiattoli, non restava che costeggiare la sponda fino alla
cascata. Senonché, man mano che avanzavano, il terreno diventava sempre più ripido, tanto che il coniglio fu costretto a rallentare. Il suo respiro si era fatto affannoso, ma proprio quando Giò stava per suggerirgli di riposarsi un po’, udirono al di sopra delle loro teste il possente fragore di una cascata.
‘Siamo arrivati!’ annunciò Felix, indicando la bianca colonna d’acqua che precipitava da una rupe.
‘Ah, finalmen…’ aveva appena cominciato a dire Clara, quando un rumore di sassi che franavano le soffocò la parola in gola.
Il primo a rendersi conto di ciò che stava accadendo fu Giò, che gridò:
‘Al riparo, presto! Ci sta venendo addosso una valanga!’
LA STREGA BUONA
Clara, Matilde e Giò fecero in tempo a ripararsi dietro un masso roccioso, sicché quando la frana si esaurì avevano riportato soltanto qualche graffio superficiale. Felix invece fu meno fortunato. Data la sua maggior mole, la pietra dietro cui aveva cercato riparo non era abbastanza grande e così fu parzialmente investito dalla frana, che lo ricoprì di detriti e polvere procurandogli varie escoriazioni. Inoltre un sassolino doveva averlo colpito sulla testa, poiché appariva confuso, lo sguardo stralunato.
‘Come va?’ gli chiese Clara premurosa.
Il coniglio scosse un paio di volte la testa in modo energico, come per rimettere ogni cosa al proprio posto, infine rispose:
‘Mi sembra che non ci sia niente di rotto, a parte qualche graffio. Ma che accidente è successo?’
‘Ci è caduta addosso una frana’ disse Matilde, accorgendosi solo allora di accusare un acuto dolore alla spalla destra.
‘Una frana?’ fece sorpreso il coniglio. ‘Non dovrebbero essercene in questa zona, o almeno non in una giornata così tranquilla. Di sicuro è opera di qualcuno che non gradisce la nostra presenza.’
A quelle parole tutti sollevarono lo sguardo verso l’alto e videro una figura di
donna avvolta in un mantello nero che con un bastone cercava di far leva su un grosso masso per farlo rotolare contro di loro. “Proprio come nel film Biancaneve e i sette nani”, pensò meravigliata Clara.
‘Ma… ma quella è la strega Palmira!’ esclamò Giò, riconoscendola. Poi, agitando le braccia verso l’alto, gridò: ‘Ehi, Palmira, sono io, Giò! Smettila di giocare: siamo amici.’
Dopo una breve pausa, la strega rispose:
‘Sei proprio tu, Giò? Perché sei venuto? Hai per caso bisogno di un filtro d’amore? O che altro?’
‘Aspetta che saliamo e te lo dico.’
‘Si, ma vieni soltanto tu. Degli altri non mi fido.’
Mentre Felix si leccava le ferite e Matilde si lamentava della lussazione alla spalla, Clara, l’unica rimasta illesa, sentì Giò che diceva, parlando alla strega:
‘Con noi c’è una bambina umana che è stata colpita dalle frecce delle guardie reali. Ha bisogno del tuo aiuto per ritornare alla sua statura naturale. E’ Barbaverde che ci manda.’
Con gioia, Clara udì la strega rispondere:
‘Se è Barbaverde che vi manda, siete i benvenuti. Anche se non l’ho mai conosciuto, so che è la persona più cara e più buona che esista al mondo. Mia madre in gioventù è stata sua allieva e quindi tutto quello che conosco in fatto di magia l’ho appreso indirettamente da lui. Su, chiama i tuoi amici. Vedrò cosa posso fare.’
L’invito fu immediatamente accolto. Arrancando uno dietro l’altro raggiunsero la strega, che li invitò a entrare in fretta nel suo rifugio segreto per paura di esser scoperta dalle guardie della Regina. Il rifugio era una grotta nascosta dietro la cascata, completamente invisibile dall’esterno. Un paio di torce appese lungo le pareti illuminavano uno scenario incredibile: sparsi in un disordine pazzesco, c’erano ossicini di animali, striscioline di pelli, schegge di corni, peli, unghie, code, e poi erbe secche, scorze d’albero, insetti intrappolati nella resina, ampolline ripiene di liquidi e di polveri colorate e un’infinità di altre cianfrusaglie. Nell’aria ristagnava un odore nauseabondo.
Alla luce tremolante delle torce, con sua grande sorpresa Clara notò che la strega non era affatto una vecchia rinsecchita col naso lungo e storto, e non aveva neanche il mento aguzzo, denti mancanti e la voce stridula, come è scritto nella fiabe. Al contrario quella che aveva davanti era grassoccia, aveva un aspetto simpatico e l’espressione del viso perennemente sorridente e affabile.
‘Dovete scusarmi se vi ho accolti in malo modo’ disse premurosa. ‘Credevo fossero arrivati gli arcieri della Regina, così ho reagito per difendermi. Come sapete hanno l’ordine di arrestare tutte le streghe che riescono a trovare nel bosco. Per questo quando vi ho visti salire ho perso la testa. Ma fatemi vedere le vostre ferite. Ho qui alcuni rimedi che vi rimetteranno a posto rapidamente.’ Poi, rivolta a Matilde, s’informò in tono preoccupato: ‘E tu, cocca, cos’hai alla spalla?’
‘Pensa prima al coniglio’ rispose generosamente Matilde. ‘Lui sta peggio di me.’
La strega sembrò apprezzare quel gesto altruistico, poiché il suo sguardo si riempì di tenerezza. Prese un vasetto che conteneva una crema di colore giallo limone e lo diede a Clara affinché lo spalmasse sulle ferite del coniglio, poi ne prese un altro con dentro una crema di colore azzurro cielo e cominciò a spalmarla con delicatezza sulla spalla di Matilde. Entrambe le pozioni diedero immediato sollievo agli infortunati.
Matilde, sfinita dalla fatica e dalle tante emozioni provate, a poco a poco, sotto l’effetto rilassante del delicato massaggio della strega, abbassò le palpebre e si addormentò. Nel sentire quel corpicino abbandonarsi completamente tra le sue braccia, in un impulso materno Palmira intonò con voce tenera e carezzevole la seguente filastrocca:
Soffia il vento nel camino,
la notte è buia nel giardino.
Gufo gufino che gridi sopra il mulino,
grillo grillino che stridi sull’alto pino,
zitti, zitti, per favore,
parlate piano, non fate rumore...
Dorme tranquilla la bambina
con la mamma a lei vicina.
Sta sognando un burattino
in sella a un bel cavallino.
Con la spada e il parrucchino
sembra proprio un principino.
“Vieni con me - dice alla piccina
e un dì sarai Regina…”
‘Ehm… ehm…’ l’interruppe Clara a questo punto, volendo richiamare l’attenzione su di sé, sebbene le pie moltissimo ascoltare le filastrocche.
‘Anche tu sei stata ferita?’ la interrogò premurosa Palmira, volgendo lo sguardo su di lei.
‘No, ecco, io volevo…’
‘Ah, ho capito. Tu saresti la bambina umana. Cosa vuole che faccia per te Barbaverde?’
‘Che mi aiuti a trovare un fiore raro che si chiama la Delizia Purpurea. Gli occorre per preparare l’antidoto che mi farà ricrescere. Lui dice che soltanto le streghe sanno dove trovarla’ rispose sinteticamente Clara.
‘Hai molta fretta di tornare nel tuo mondo, vero? Beh, lo capisco: io farei la stessa cosa al tuo posto. Si, credo di poterti aiutare, ma dovrai attendere che faccia buio, mia cara.’ E indicando una fessura nella parete in fondo alla grotta, spiegò:
‘Vedi quell’apertura? E’ l’ingresso di una lunga galleria che porta direttamente nel mio giardino segreto: è là che coltivo e curo la crescita delle piante più rare che solitamente uso per i miei rimedi, compresa la Delizia Purpurea. Ma prima di raggiungere il giardino la galleria attraversa una grande caverna abitata da migliaia di pipistrelli e se non vuoi are dei guai, ti consiglio di attendere che faccia notte, quando i pipistrelli escono per farsi una scorpacciata di frutta e insetti.’
‘Beh, se si tratta di aspettare un paio d’ore…’ sospirò rassegnata Clara.
‘Vuoi dire un paio di giorni, dolcezza’ puntualizzò Palmira, e aggiunse: ‘Una volta che avrai superato la caverna e ti troverai nel giardino segreto, dovrai aspettare che faccia giorno per cercare la Delizia Purpurea. Ma a quel punto i pipistrelli saranno tornati e così dovrai nuovamente attendere che scenda la notte prima di riattraversare la caverna.’
‘Ma io non posso aspettare tutto questo tempo!’ esclamò.
‘Mi dispiace, cara, ma non vedo altre soluzioni.’
‘Oh si, invece’ reagì Clara con decisione. ‘Affronterò il pericolo.’
‘Non sai quel che dici, pazzerella! I pipistrelli ti ridurranno in mille pezzi e si disputeranno le tue misere spoglie, ecco cosa succederà se entri nella caverna di giorno’ disse la strega, immaginando con raccapriccio l’orribile scena.
‘Non rimarrò qui ad aspettare mentre la nonna rischia l’infarto’ ribatté puntigliosa Clara. ‘Tu dimmi soltanto com’è fatta la Delizia Purpurea.’
Palmira abbozzò uno schizzo della rosa su un pezzetto di carta e glielo consegnò dicendo:
‘Non puoi sbagliare, è il fiore più bello del giardino. Il suo colore è di un rosso purpureo intenso e il suo delicato profumo è deliziosamente inebriante: è per questo che la chiamano la Delizia Purpurea. Ma, come ripeto, stai commettendo una pazzia.’
Clara non aveva bisogno di sentire altro. Staccò una torcia dalla parete e s’avviò decisa verso la fessura che conduceva nel giardino segreto.
‘Aspettami, vengo con te’ le urlò dietro Giò, non volendo lasciarla andar sola. Adocchiato un attizzatoio accanto al fuoco, se ne impadronì e la seguì nel tunnel.
NELLA CAVERNA DEI PIPISTRELLI
All’inizio il tunnel era così angusto che dovettero procedere curvi per non rischiare di battere la testa contro il soffitto, ma man mano che s’inoltravano diventò sempre più spazioso, tanto da consentir loro di camminare più comodamente in posizione eretta. La luce tremolante della torcia si rifletteva debolmente sulle pareti scintillanti di umidità e sui volti dei due intrepidi speleologi, mentre davanti e dietro di loro il buio appariva nero come l’inchiostro.
‘Quanto sarà lunga questa galleria, Giò?’ chiese Clara, rompendo il silenzio insopportabile che regnava in quel luogo tenebroso. La sua voce echeggiò nel tunnel e si perse sempre più debolmente in lontani anfratti.
‘Non lo so.’
‘La strega dice che è abitata da migliaia di pipistrelli, ma finora non ne abbiamo incontrato nemmeno uno.’
‘Si, però ha anche detto che si trovano in una grande caverna e che a quest’ora del giorno dormono. Quando saremo là dovremo cercare di are inosservati.’
‘Giò, non avresti dovuto seguirmi in questa missione. E’ troppo pericolosa.’
‘Andrà tutto bene, Clara, sta tranquilla. E poi io vado matto per le missioni pericolose. Almeno avrò qualcosa da raccontare ai miei nipotini quando sarò
vecchio.’
Clara non aggiunse altro sull’argomento, ma tra sé si reputò fortunata di avere al fianco un giovane così coraggioso. Le sarebbe piaciuto avere un fratello maggiore simile a lui nella sua vita da umana: sarebbero andati insieme a pattinare sul ghiaccio o in bicicletta o a comprarsi un gelato. Giò possedeva un carattere generoso, simpatico, allegro e soprattutto riusciva a trasmettere un senso di sicurezza a chi gli stava vicino. Era il fratello più grande che tutti i bambini del mondo avrebbero voluto avere. “Chissà” continuò a pensare “cosa dirà la mamma quando le racconterò tutte le strane cose che mi sono capitate. Papà di sicuro non ci crederà. Mi pare già di sentirlo brontolare che leggo troppi libri di fiabe e che è tempo che mi decida a crescere…”
Clara cominciava a credere che quel tunnel non avesse mai fine, quando il suo naso fu investito da un disgustoso odore di guano. Ancora pochi i e si trovarono in una vasta caverna la cui volta, alla debole luce che spandeva la torcia, era completamente ricoperta di pipistrelli, tutti appesi a testa in giù, avvolti nelle ali. Nonostante l'altezza, apparivano spaventosamente enormi rispetto a loro. Disturbati dall’improvviso chiarore, i grossi volatili cominciarono a dare segni di insofferenza. Giò disse in tono allarmato:
‘E’ meglio affrettarci o fra poco ce li avremo tutti addosso.’
‘Ma da che parte dobbiamo andare? Con questa torcia non si riesce a vedere molto.’
‘Dobbiamo camminare accostati alla parete finché non troviamo il aggio che conduce nel giardino segreto.’
Dopo alcuni i Clara afferrò istintivamente la mano di Giò. Mentre procedevano, si ricordò di aver già vissuto un’avventura simile attraverso la lettura di un libro, ma in quel momento di paura e di tensione non le veniva in mente il titolo. Mentre cercavano di individuare il proseguimento del tunnel non perdevano di vista i pipistrelli, il cui movimento si andava facendo via via sempre più concitato. Dopo un po’, al rumore dello sbattere delle ali si aggiunse quello altrettanto concitato delle loro acute grida. Ormai tutta la comunità era svegliata e stava concentrando l'attenzione sugli intrusi. I più baldanzosi cadevano in picchiata sopra le loro teste virando solo all’ultimo istante, in parte intimoriti dalla fiamma fumosa della torcia che Clara teneva alta, in parte resi prudenti dai cerchi che Giò andava disegnando nel vuoto con l’attizzatoio. Ma era chiaro che se i pipistrelli li avessero attaccati in massa, quelle due sole armi non sarebbero bastate a frenare la loro furia. Rendendosene conto, Giò disse:
‘E’ troppo pericoloso continuare. E’ meglio tornare di notte, quando volano fuori.’
‘Tu torna pure indietro, Giò’ rispose Clara in tono comprensivo.
‘Io continuo da sola.’
‘Ma ti faranno a pezzi!’
‘Devo assolutamente trovare la Delizia Purpurea prima che sia troppo tardi.’
‘Non ho mai conosciuto una ragazzina più ostinata di te. D’accordo, faremo come vuoi tu. Non posso certo lasciarti sola. Rimaniamo vicini: uniti ci difenderemo meglio.’
Con quel poco di luce che la torcia emanava, ripresero a ispezionare palmo a palmo la parete della caverna. Intanto la pressione dei pipistrelli continuava a crescere e le loro agghiaccianti grida avevano finito per riempire la caverna di un rumore assordante. Con le spalle appoggiate alla parete, Clara e Giò si difendevano dagli attacchi dei pelosi volatili nell’unico modo possibile, agitando l’una la torcia e l’altro vorticando alla cieca l’attizzatoio sulla propria testa. A un certo punto Clara, dopo aver cambiato braccio diverse volte, sentì che le forze la stavano abbandonando. Era giunta allo stremo.
‘Giò, non ce la faccio più!’ si lamentò angosciata.
‘Cerca di resistere o siamo perduti!’ la esortò il compagno.
‘E’ inutile… sono troppo stanca…’
Giò ebbe un attimo d’incertezza, poi disse:
‘Allora spegni la torcia.’
‘Ma se la spengo, poi come faremo al buio?’
‘Non discutere, fai come ti dico!’ ripeté Giò in tono imperioso. ‘Non abbiamo altra scelta.’
Clara obbedì a malincuore, poiché senza luce non avrebbero potuto scoprire il aggio che conduceva nel giardino segreto, né tornare indietro. Spenta la torcia, intorno a loro si fece buio completo.
‘O Gesù mio, se sto sognando fa che mi svegli subito!’ invocò Clara, tremando dalla testa ai piedi; e subito aggiunse: ‘Anche se non saprò mai come va a finire questa storia, non me ne importa niente.’
‘Sss!’ la zittì Giò. ‘Non dobbiamo né muoverci né parlare.’
Si ripresero per mano per farsi coraggio e rimasero in trepida attesa. I pipistrelli, immersi di nuovo nelle tenebre, a poco a poco tornarono ad acquietarsi. Ciascuno riprese il proprio posto sulla superficie della volta e presto smisero di squittire.
‘Devono essersi addormentati’ bisbigliò Giò dopo un po’ che ascoltava.
‘Che cosa ne sarà di noi, Giò?’ sospirò malinconica Clara. Era al colmo dello sconforto.
‘Dobbiamo solo avere pazienza’ cercò di infonderle coraggio Giò.
‘Non vedendoci tornare, Palmira verrà sicuramente a cercarci e ci tirerà fuori da qui.’
‘Anche se fosse così, sarebbe comunque troppo tardi’ sospirò di nuovo Clara. ‘A quel punto la mia famiglia mi crederà morta. Ah, che guaio! Chissà se il cuore della nonna reggerà nell’apprendere la triste notizia.’
Con il pensiero rivolto alla famiglia, Clara cominciò a piangere sommessamente. Giò, non sapendo come consolarla, la lasciò sfogare. Poco dopo, sentendo un soffio d’aria sul collo, si alzò in piedi per cercare di individuarne la provenienza.
‘Che c’è, Giò?’ chiese Clara allarmata, alzandosi anche lei.
‘Deve esserci un’apertura qui vicino: ho avvertito una leggera corrente d’aria sul collo. Sembra che provenga dall’alto. Stammi vicino, provo a salire sulla parete.’
Arrampicandosi sulla parete rocciosa, raggiunsero un piccolo cunicolo in cui scorreva una fresca corrente d’aria. Nella speranza di aver trovato finalmente il aggio che conduceva nel giardino segreto, vi s’introdussero e s’incamminarono carponi nel buio. Man mano che avanzavano, le tenebre si andavano sempre più dileguando, finché, vedendo un fioco chiarore in fondo alla galleria, affrettarono il o, e poco dopo uscirono dal tunnel. L’improvviso abbaglio del sole li costrinse a tenere gli occhi chiusi per un paio di minuti. Quando li riaprirono, rimasero sorpresi dalla bellezza del posto. Intorno a loro cresceva una vegetazione varia e lussureggiante come non avevano mai visto prima: fiori d’ogni genere, visitati da una svolazzante moltitudine di farfalle multicolori, emanavano i loro profumi delicati, mentre tra le copiose chiome degli alberi uccelli dai colori sgargianti diffondevano nell'aria, con i loro gorgheggi, una musica dolce e riposante. Clara avanzava come incantata in mezzo a quello scenario da fiaba.
‘Che meraviglia!’ pensò ad alta voce. ‘Non credo di aver mai visto prima niente di simile, nemmeno quando con la scuola siamo andati in gita all’Orto Botanico.
Certo, si vede che manca la mano di un giardiniere che faccia un po’ di pulizia e metta un po’ d’ordine. Sembra che tutto vi cresca confusamente, senza rispettare alcuna regola. Eppure, a pensarci bene, la bellezza di questo giardino sta proprio nello stato di abbandono in cui versa. E’ come se seguisse un suo ordine naturale: non ci sono siepi allineate e gli alberi non sono mai stati potati, ciononostante non ho mai visto niente di più incantevole.’
Poi il senso del tempo che scorreva la richiamò alla realtà. Mentre Giò si allontanava per perlustrare i confini di quel giardino fuori dal mondo, prese dalla tasca il pezzo di carta su cui la strega aveva disegnato la Delizia Purpurea e cominciò a confrontarlo con le innumerevoli specie di fiori che riempivano il giardino. Gardenie, fiordalisi, orchidee, giacinti, petunie e tanti altri bellissimi fiori torreggiavano alti sui loro sottili gambi. Torreggiavano così alti, che Clara fu costretta, in considerazione della sua minuscola statura, ad alzarsi sulla punta dei piedi e ad allungare il collo, per poter are in rassegna quello straordinario e variopinto campionario di fiori.
Dopo un po’ scoprì in cima a un cespuglio spinoso una bellissima rosa, i cui petali vellutati apparivano di un rosso particolarmente intenso. Dalla descrizione che le aveva fatto la strega sembrava proprio la Delizia Purpurea. Trasse dalla tasca il disegno per confrontarlo con il fiore, e lanciò un grido di esultanza nel vedere che combaciavano perfettamente.
‘Ehi, Giò, ho trovato la Delizia Purpurea! Dove sei? Vieni a darmi una mano.’
Il giovane, riapparendo tra i ciuffi d’erba, contemplò il fiore con indifferenza.
‘Che ti prende?’ esclamò Clara, sorpresa che Giò non manifestasse alcun segno di soddisfazione nell’aver finalmente trovato, dopo tanta fatica e tanti rischi, ciò che stavano cercando.
‘Non ti servirà a molto il tuo fiore, Clara’ rispose malinconicamente. ‘Anche aspettando che i pipistrelli escano durante la notte, non riusciremo mai ad attraversare la caverna al buio. Possiamo solo sperare che Palmira venga a soccorrerci quando comincerà a preoccuparsi di non vederci tornare.’
‘Te l’ho detto che non posso aspettare tutto questo tempo. Dobbiamo trovare un altro modo. Scenderemo giù dalla montagna.’
‘Impossibile. Ho appena fatto un giro di ricognizione qui intorno e ho scoperto che da ogni parte la parete scende a strapiombo ed è perfettamente liscia. Mi dispiace dirlo, ma non esiste alcuna possibilità di scendere dalla montagna senza un’attrezzatura adeguata.’
‘Eppure ci deve pur essere un modo…’ disse Clara riflettendo. Un attimo dopo il suo viso s’illuminò. ‘Ho trovato!’ esultò. ‘Scenderemo col paracadute. Ho notato che qui intorno ci sono foglie abbastanza larghe da essere usate come un tessuto.’
‘Cos’è un paracadute?’
‘Fai quello che ti dico, Giò. Lo vedrai quando sarà finito.’
UNO STRANO PARACADUTE
Clara scelse due foglie abbastanza grandi, si procurò un certo numero di sottili fili d’erba e, sotto lo sguardo incuriosito di Giò, cominciò a confezionare due strani oggetti. Usando la punta dell’attizzatoio in mancanza di forbici, diede alle foglie una forma il più possibile rotonda, poi, lungo il bordo, praticò a distanza regolare diversi buchi, a ciascuno dei quali annodò l’estremità di un filo d’erba. Infine fissò l’altro capo dei fili a un’assicella che, almeno nelle sue intenzioni, doveva svolgere la funzione di sedile. La conoscenza di Clara di un paracadute era piuttosto approssimativa, tuttavia ricordava perfettamente che per stabilizzarne la discesa bisognava praticare un foro al centro, in modo da evitare pericolose sbandate, con il rischio che si capovolgesse. Fatto ciò, chiese a Giò di aiutarla a cogliere la Delizia Purpurea. Questa svettava in pieno sole molto al di sopra delle loro teste e Giò, avendo cura di evitare le spine, ne flesse il gambo con tutta la forza delle sue braccia fino a portare il prezioso fiore alla portata di Clara.
‘Coglierò soltanto un petalo’ disse Clara, che non voleva assolutamente danneggiare in alcun modo una simile meraviglia.
Ne staccò uno con delicatezza, ne apprezzò il soave profumo e la vellutata morbidezza, ne ammirò il meraviglioso colore, infine lo ripiegò accuratamente in quattro come un fazzoletto e se lo mise al sicuro in tasca.
‘E adesso si vola!’ annunciò elettrizzata.
Ma Giò era piuttosto restio a gettarsi nel vuoto appeso a quel… coso e fissava Clara come se cercasse di capire se per caso non fosse improvvisamente uscita di senno.
‘Sei proprio sicura che funzionerà?’ chiese in tono scettico.
‘No, ma devo provarci lo stesso’ rispose Clara, ben determinata a portare a compimento la sua audace impresa.
‘Tu però non sei obbligato, Giò. Non te ne vorrò se non te la senti, te lo giuro. Hai già fatto tanto per me. Ora però devo proprio andare. Speriamo che non mi rompa l’osso del collo!’
Senza aggiungere altro, trascinò la foglia sull’orlo del precipizio, infilò le gambe tra i fili d’erba allacciati al pezzetto di legno, più o meno come se si accomodasse sul sedile di un altalena, infine si fece il segno della croce e si gettò nel vuoto. All’inizio cadde di peso e le sembrò che dovesse sfracellarsi sul fianco della montagna da un momento all’altro, poi avvertì uno strappo che per poco non le fece lasciare la presa… e da quell’istante cominciò una dolce discesa. La foglia, gonfiandosi, la stava trasportando lentamente giù. Tenendo le mani strettamente attaccate ai fili d’erba, nell’attesa di toccare terra Clara guardò in alto per vedere se Giò si era buttato dietro di lei. Con gioia lo vide oscillare nel vuoto sopra la sua testa appeso alla foglia gonfia d’aria.
Un vento dispettoso prese a spingerli verso nord, poi, cambiando direzione, li sospinse a est, infine a sud. A tratti una corrente fredda li faceva scendere a una velocità eccessiva, e quando ormai credevano di precipitare, la corrente diventava improvvisamente calda e la foglia, gonfiandosi, li trascinava di nuovo in alto. Nonostante la situazione fosse piuttosto precaria, quel volo sembrò a Clara la cosa più straordinaria che le fosse capitata da quando era iniziata quella strana avventura nel bosco, e così piacevole da dimenticarsi persino di avere una gran fretta di tornare a casa. Era davvero bello andarsene a so nel cielo, guardare il mondo dall’alto, ammirare il mutevole panorama… Provava un senso di libertà e una gioia così inebrianti, che non poté trattenersi dall’esclamare ad
alta voce:
‘Adesso so cosa mi piacerebbe fare da grande: la pilota di aeroplani!’
Poi il vento, stanco di giocare, li lasciò cadere su un terreno disseminato di felci, tra le cui sottili foglie i due paracaduti andarono a impigliarsi. Se ne liberarono e con un salto piombarono sul morbido terreno del sottobosco. Per fortuna il rifugio della strega non era lontano e bastò che risalissero un tratto roccioso per raggiungere di nuovo la cascata e quindi la grotta che era nascosta dietro. Lo stupore degli occupanti nel vedere Clara e Giò rientrare dall’ingresso principale dopo esser scomparsi nel tunnel, fu indescrivibile.
‘Questa è senz’altro opera di un mago!’ sentenziò esterrefatto Felix.
‘Ti sbagli’ lo corresse Clara: ‘siamo scesi dalla cima della montagna col paracadute.’
‘Cos’è un… paracadute?’ chiese Matilde.
‘E’ una cosa che ti fa galleggiare nell’aria’ spiegò con entusiasmo Giò.
‘Galleggiare? Allora deve trattarsi di una specie di barca!’ esclamò il coniglio, che non finiva di stupirsi.
‘A proposito, hai trovato ciò che cercavi?’ domandò la strega.
‘Si, ce l’ho qui nella tasca’ rispose Clara. Nel timore di sciuparlo, prese delicatamente il petalo con la punta delle dita e lo mostrò soddisfatta alla strega.
‘Brava, è proprio la Delizia Purpurea!’ confermò Palmira. ‘Adesso però devi affrettarti a tornare da Barbaverde, prima che apisca e perda il suo potere.'
‘Come posso raggiungere velocemente la Capitale?’ chiese ansiosa Clara.
‘Puoi continuare a servirti del coniglio’ le consigliò Palmira. ‘E’ senz’altro il mezzo più veloce e in più ce l’hai sottomano.’
‘Ma certo!’ disse Felix. ‘Grazie alla tua miracolosa pomata mi sono già rimesso dall’infortunio. Puoi senz’altro contare su di me, Clara.’
‘Io vengo con voi’ dichiarò Matilde, sulla quale la cura aveva prodotto lo stesso effetto miracoloso.
‘No, tu è meglio che resti con me, cara, sei ancora così debole’ si oppose Palmira in tono premuroso.
‘Non mi sono mai sentita meglio in vita mia’ replicò Matilde. Ma la strega insisté, manifestando lo stesso stato d’animo di una madre nei confronti della figlia in procinto di affrontare un pericolo.
‘No, ti prego, non andare, è troppo pericoloso. Potresti cadere sotto le grinfie della Regina. Non puoi neanche immaginare a quali tremende torture potrebbe sottoporti quella perfida creatura.’
A sentir ciò le guance di Matilde si fecero di porpora, sgranò gli occhi, spalancò la bocca e urlò fuori di sé:
‘Ora basta con questa storia! Io non sono una perfida creatura, e nemmeno un serpente velenoso o… o uno scorpione… Sono stufa di sentirmi dire tutte queste brutte cose…’
‘Certo che non sei un serpente velenoso, tesoruccio mio’ s’affrettò a rassicurarla la strega. ‘Tu sei la bambina più buona e più cara che abbia mai incontrato, dolcezza mia.’
‘… e sono anche stufa di nascondermi’ continuò sullo stesso tono Matilde. ‘Voglio che tutti sappiano che io sono la Regina!’
Palmira guardò Clara e Giò per avere la conferma di ciò che stava pensando, e cioè che la bambina soffrisse di qualche disturbo mentale. Quando però capì dalle loro facce che la piccola non stava affatto vaneggiando, si fece prendere dalla paura e cominciò a tremare in tutto il suo tondo corpo.
‘Oh, ti prego, non farmi del male’ supplicò in preda a una incontrollabile agitazione. ‘L’hai visto… io non sono una strega cattiva. Non ho mai fatto del male a nessuno ma solo del bene. Tutti mi conoscono e possono testimoniarlo. I rimedi che preparo sono ricavati da piante mediche e non possiedono alcun potere malefico. Non ho mai usato filtri per scopi malvagi, lo giuro sui miei
occhi: che possa diventare cieca all’istante se mento.’
‘Stai tranquilla, Palmira, non hai nulla da temere’ dichiarò magnanima la piccola regina.
‘Sei stata buona con noi e io te ne sono grata. D’ora innanzi nessuno ti perseguiterà più: sei libera di vivere come meglio credi. Se lo desideri, puoi venire a stare con me nel mio palazzo. Potresti diventare la mia dama di compagnia: ne avrei proprio bisogno, ora che non c’è più la mamma. E anche tutti gli altri non avranno più nulla da temere. Ridurrò il numero delle guardie reali allo stretto necessario e solleverò Porfirio dalla sua carica di Primo ministro. D’ora in avanti streghe, fattucchiere e chiromanti potranno esercitare la loro professione liberamente. Anche Barbaverde, se lo desidera, potrà tornare a fregiarsi del titolo di mago. I rospi non dovranno più temere di veder trasformare la propria pelle in un tamburo e agli scoiattoli non sarà più imposto di raccogliere noci o nocciole per gli hommi. I castori potranno tornare tranquillamente alla loro diga dopo che avrò annullato l’ordinanza che li obbliga a sgobbare per noi. Ogni forma di schiavitù sarà abolita e m’impegno fin d’ora a promuovere la pace e la fratellanza fra tutti gli abitanti del bosco. Come vedete, è assolutamente necessario che torni il più presto possibile a Talpimpopoli.’
‘E’ vero, Maestà’ fu prontamente d’accordo Clara. ‘Abbiamo entrambe seri motivi per raggiungere al più presto la Capitale.’
‘Vostra Altezza parlava seriamente quando mi ha invitata a stabilirmi nel suo Palazzo Reale?’ chiese ancora incredula Palmira.
‘Certo che parlavo seriamente: sarai la benvenuta’ confermò Matilde, abbracciandola con tenero affetto.
‘Oh, che gioia! Vivrò per sempre accanto alla mia Regina!’ esclamò Palmira con voce emozionata.
‘Se non sono di troppo’ fece Giò a quel punto, ‘mi piacerebbe venire con voi.’
‘Sicuro che puoi venire, Felix è abbastanza robusto da trasportarci tutti’ rispose di slancio Clara, fremendo dall’impazienza di mettersi in viaggio. ‘Ora però non perdiamo altro tempo, per carità.’
Il coniglio, venuto a conoscenza della vera identità della piccola hommi, pensò che anche lui aveva tutto il diritto di chiedere delle garanzie per quanto riguardava la sua specie. Perciò disse:
‘Scusate un momento, signori. Prima di accettare quest’incarico desidero sapere, Maestà, se anche per i conigli intende sospendere l’iniqua persecuzione che è in atto da qualche tempo nei nostri confronti.’
‘Ma certo’ disse subito Matilde. ‘Anzi, sarà una delle prime decisioni che prenderò.’
‘E verrà restituita a ciascun coniglio la sua grandezza naturale?’ s’informò ancora dubbioso Felix.
‘Torneremo qui e raccoglieremo altri petali della Delizia Purpurea, se sarà necessario, ma ti garantisco che tutti riavranno, oltre alla libertà, il loro aspetto
naturale.’
‘E potremo tornare a vivere nella Valle del Sole?’
‘Ci puoi contare, mio buon amico.’
‘Bene, allora. Salite pure sulla mia schiena: io sono pronto!’ affermò soddisfatto il coniglio, appiattendosi più che poté per facilitare la salita ai suoi piccoli amici.
DI NUOVO NICCODEMO
All’inizio Felix, col suo carico di eggeri sulla groppa, scese a i cauti lungo i fianchi della montagna, ma appena la forte pendenza accennò a diminuire iniziò a correre più svelto che poteva. Attraversarono di nuovo il territorio dei cinghiali, ma stavolta senza incontrare alcuna difficoltà; infatti, scorgendoli da lontano, quegli enormi bestioni si limitarono a lanciare qualche grugnito di protesta. Mentre stavano percorrendo un tratto di terreno ricoperto di felci, sentirono gracchiare dal ramo di un albero:
‘Ehi, voi, aspettate.’ Era Cornelio, il corvo.
‘Vi dispiace dirmi la soluzione dell’indovinello? Ci sto diventando matto! E’ tutto nero, ha poco cervello ed è un gran rompiscatole. Che cos’è?’
‘Come, non ci sei ancora arrivato? Ma sei proprio tu, zuccone!’ rispose con una gran risata Clara, fidando nella velocità del coniglio contro un’eventuale reazione del corvo.
‘Ah, è così! Dunque io sarei un rompiscatole e per giunta senza cervello, eh?’ gracchiò incollerito il corvo, resosi finalmente conto di esser stato preso in giro.
‘Canaglia d’una bricconcella! Adesso ti aggiusto io!’
Spalancò le ali e scese in picchiata. Ma quando appoggiò i piedi a terra, Felix s'era già infilato in un fitto cespuglio di rovi sparendovi dentro. Poco dopo
raggiunsero la parte del bosco ricoperta di lecci, dove incontrarono di nuovo il popolo degli scoiattoli. Avendoli riconosciuti, quei simpatici acrobati non solo non li disturbarono ma li salutarono nel modo più festoso e li accompagnarono per tutta la lunghezza della loro giurisdizione saltando da un albero all’altro con i loro spettacolari balzi.
Appena giunsero sulla riva dello stagno, Felix si fermò e con aria imbarazzata confessò di non saper nuotare. Naturalmente - disse - poteva in alternativa aggirare lo stagno, ma questo significava allungare notevolmente il percorso e prima di avviarsi voleva conoscere il loro parere. Clara, che non stava nella pelle dalla voglia di arrivare, scartò subito quella soluzione e si sforzò di trovarne un’altra. Guardando davanti a sé, vide galleggiare tra le piante palustri un piccolo tronco d’albero dall’aspetto abbastanza solido da sopportare il peso di tutti e cinque. Indicandolo, disse:
‘Quel tronco potrebbe farci da barca. Accostiamolo alla riva. Giò, aiutami, per favore.’
Gettando sassi nello stagno e servendosi di lunghi rami secchi, a poco a poco riuscirono ad avvicinare il tronco alla riva. Mentre Giò lo teneva fermo, Clara, Matilde e Palmira, una dietro l’altra, vi saltarono sopra. Felix esitava timoroso.
‘Forza, amico, il tempo corre!’ lo sollecitò Clara.
Al che il coniglio si fece coraggio e saltò. Sotto il suo peso il tronco sussultò e traballò paurosamente, mentre la parte visibile si ridusse a una piccola superficie. Tuttavia non affondò. Giò saltò anche lui sulla precaria imbarcazione e usando una lunga asticella cercò di dirigerla verso la riva opposta. Ma nonostante tutto il suo impegno il tronco si muoveva con esasperante lentezza. Di quel o, pensò con angoscia Clara, sarebbero stati sorpresi dall’oscurità
prima ancora di raggiungere il centro dello stagno!
‘E’ destino che non debba arrivare in tempo!’ esclamò scoraggiata.
In quel mentre emerse dall’acqua il muso del loro amico castoro, che squittì:
‘Vedo che avete bisogno di una spintarella. Tenetevi forte, ci penso io.’
Appoggiando la punta del muso contro la poppa dell’insolita imbarcazione, cominciò a spingerla verso il largo. Il tronco acquistò subito velocità, fendendo la superficie immobile dello stagno come un motoscafo. Felix era terrorizzato al pensiero di cadere in acqua e annegare, sicché, man mano che la riva si allontanava, il suo corpo era scosso da tremiti sempre più violenti, il che contribuiva a rendere ancora più precario l’equilibrio dei minuscoli eggeri. Per calmarlo, Clara prese ad accarezzare il suo morbido pelo bianco e a sussurrargli parole rassicuranti. Quando finalmente la punta del tronco urtò contro la riva opposta, Felix fu il primo a balzare sulla terraferma, dove ritrovò immediatamente tutto il suo coraggio. Ringraziato il castoro, i quattro tornarono a posizionarsi sul dorso del coniglio, che riprese subito a sgambettare in direzione di Talpimpopoli. Mentre si allontanavano dalla riva, udirono gracidare:
‘Ehi, voi, che ve ne pare della mia voce? Vi sembra abbastanza intonata?’
Si trattava di una loro vecchia conoscenza e cioè del rospo vanitoso. Si stava ammirando nel riflesso dello stagno, appollaiato sullo stesso masso su cui l’avevano lasciato l’ultima volta. Naturalmente nessuno si prese la briga di rispondergli.
Erano ormai giunti in prossimità di Talpimpopoli, quando all’improvviso ebbero una sgradita sorpresa. Da certi bassi cespugli di felci videro emergere lentamente una massa confusa, i cui contorni, man mano che si avvicinava, diventavano sempre più nitidi. Presto ci si accorse con sgomento che si trattava di un drappello di guardie reali. Avevano già sollevato gli archi e erano pronti a colpirli con le loro micidiali frecce.
‘Alt, in nome della Regina!’ intimò l’ufficiale che li comandava, con una voce che suonò subito familiare alle orecchie di Clara, Matilde e Giò. Infatti si trattava di Niccodemo. Con la grossa pancia in fuori, il corpulento ufficiale prese ad avanzare verso di loro con aria marziale.
‘La Regina sono io’ si fece riconoscere Matilde. ‘E già che siete qui, vi ordino di scortarci fino al Palazzo Reale.’
‘Bene, bene’ mormorò il grasso ufficiale lisciandosi con aria soddisfatta i lunghi baffi, e senza prestare attenzione alle parole della piccola regina, continuò: ‘Quanti pesci in una sola volta! Questo è davvero il mio giorno fortunato. Vediamo un po’: se gli occhi non m’ingannano, insieme all’impostora sono finiti nella rete anche la bambina umana e il giovane ribelle evaso. E… che mi prenda un colpo se questa non è la strega Palmira!’
‘Miserabile… come osi chiamarmi impostora?!’ s’inalberò Matilde. ‘Pagherai caro questo affronto oltraggioso! Tu sai benissimo chi sono: l’altra volta mi hai perfettamente riconosciuta.’
‘L’altra volta sei riuscita a ingannarmi, furbacchiona, lo ammetto’ ribatté pronto Niccodemo. ‘Del resto la rassomiglianza è davvero impressionante: chiunque ci
sarebbe cascato. Ma quando ho riferito il fatto al Primo ministro, per convincermi che mi ero sbagliato mi ha condotto dinanzi alla vera Regina e così l’ho potuta vedere coi miei occhi. E ci ho anche parlato. Perciò è inutile che continui la commedia. Ho l’ordine tassativo di condurti in catene nelle prigioni reali. Ma non sarai sola, ti faranno buona compagnia i tuoi degni compari.’
‘La Regina che il Primo ministro ti ha mostrato è soltanto la mia ancella Gaia’ cercò di spiegare Matilde, reprimendo con un grande sforzo la sua indignazione. ‘Sei rimasto ingannato perché il suo volto è coperto da una maschera che mi somiglia.’
‘Adesso basta con le chiacchiere’ replicò Niccodemo con fare annoiato. ‘Scendete subito da questo… bestione peloso o sarà peggio per voi.’
Clara, alquanto contrariata da quel contrattempo, disse rivolta ai suoi amici:
‘E’ inutile cercare di convincerlo. Se non vogliamo marcire tutti in una segreta del Palazzo, dobbiamo cercare di filarcela alla svelta.’
‘Stupidaggini’ rispose Matilde in tono fiducioso. ‘Porfirio mi riconoscerà senz’altro. Vedendomi, si accorgerà subito che sono io la vera Regina. Su, coraggio amici, scendiamo. Appena questo increscioso incidente verrà chiarito, sarete miei graditi ospiti al Palazzo Reale.’
Così dicendo, scivolò lungo il fianco del coniglio e si consegnò alle guardie. Palmira e Giò fecero altrettanto, sebbene meno convinti. Clara invece non si mosse. Qualcosa le diceva di non fidarsi. Le sembrava impossibile che il Primo ministro, dopo quanto gli aveva rivelato l’ufficiale, non si fosse accorto che il
volto della falsa Regina era, per quanto ben fatta, ricoperto da una maschera. Invece era più probabile che volesse approfittare di quell’occasione per togliere di mezzo la piccola regina e impossessarsi del potere. Se i suoi sospetti corrispondevano al vero, la loro sorte era segnata: sarebbero sicuramente marciti in una buia cella per il resto dei loro giorni, se non addirittura condannati alla pena capitale.
Con questi pensieri nella testa, Clara non ebbe alcuna esitazione: spronò il coniglio con i talloni come se cavalcasse un destriero, gridando:
‘Coraggio, Felix, fuggiamo prima che sia troppo tardi!’
Spinto più dalla paura che dall’ardimento, il coniglio obbedì. Con un balzo superò la barriera delle guardie e si mise a correre a perdifiato.
‘Colpiteli! Non lasciateli scappare!’ urlò Niccodemo, sorpreso da quell’improvvisa fuga.
Un nugolo di frecce sibilò dietro i fuggitivi ma solo due giunsero a segno. Una si conficcò nei posteriori del coniglio, l’altra punse Clara a un braccio. Clara s’aspettava preoccupata di vedersi rimpicciolire ancora, ma per fortuna ciò non avvenne. “Probabilmente” pensò con sollievo “la sostanza di cui sono imbevute le punte delle frecce non ha più alcun potere su di me. E’ come se fossi vaccinata.”
Nel coniglio invece cominciò subito a produrre il suo deleterio effetto. Clara sentiva la sua cavalcatura rimpicciolire sempre più, finché i suoi piedi toccarono il suolo. Poi rimase a contemplare il povero coniglio che diventava sempre più
piccolo, senza poter far nulla per aiutarlo.
‘Oh, che guaio!’ esclamò dispiaciuta. ‘E’ stata tutta colpa mia. Non dovevo esortarti alla fuga.'
Il coniglio replicò con un flebile squittio:
‘Non ti preoccupare per me. In fondo preferisco esser rimpicciolito piuttosto che finire in una prigione. E poi tu hai il petalo della Delizia Purpurea: possiamo ancora sperare di tornare come eravamo prima se riusciamo a raggiungere Barbaverde.’
‘Hai ragione’ disse rinfrancata Clara. ‘Dobbiamo riprendere subito il cammino.’
Clara aveva appena incominciato a correre quando, voltandosi, si accorse che il coniglio era diventato troppo piccolo per riuscire a starle dietro. Una foglia, un ciuffo d’erba o un rametto ormai costituivano per lui un faticoso ostacolo da superare. Di quel o l’avrebbe sicuramente perso di vista. Tornò indietro, se lo prese in braccio e riprese a correre, e mentre correva pensò: “Però che buffo, a quanto pare la situazione si è completamente capovolta: prima ero io a essere trasportata da Felix, adesso è lui a viaggiare comodo tra le mie braccia. E’ proprio vero quello che dice la nonna: nella vita non si può mai sapere cosa ti può succedere da un momento all’altro.”
LA POZIONE MIRACOLOSA
Tenendo con delicatezza il coniglio tra le braccia, Clara giunse in prossimità di Talpimpopoli tutta ansimante per la gran corsa. Gli accessi alla città erano stati accuratamente mascherati in modo da risultare invisibili dall’esterno, ma a Clara, che ormai aveva fatto l’occhio agli abiti mimetici degli hommi, bastò seguire da lontano una colonna di schiavi che trasportavano i loro pesanti carichi nei sotterranei della città, per scoprirne uno nascosto sotto il tronco di un grosso albero abbattuto da un fulmine. Non appena vide la guardia che scortava la colonna sparire nel aggio segreto, si avvicinò con circospezione e assicuratasi che tutto era tranquillo, penetrò senz’altro nel pertugio.
Clara percorse furtivamente i vicoli che conducevano al Palazzo Reale e poco dopo, attraversato il aggio segreto, si trovò dinanzi al laboratorio di Barbaverde. Girò la maniglia e la porta, che non era chiusa a chiave, si aprì. Il vegliardo, tutto assorto nei suoi esperimenti, si accorse della presenza di Clara solo quando la sua voce, risuonando all’improvviso alle sue spalle, per poco non lo fece cadere giù dallo sgabello.
‘Ci sono riuscita!’ annunciò in tono squillante la bambina.
‘Eh?... che cosa succede?!’ sobbalzò spaventato l’anziano alchimista.
‘Sono io, Clara. Non mi riconosci?’
‘Nessuno ti ha insegnato a bussare? Avresti potuto farmi venire un infarto. Dov’è la Regina?’
‘Le guardie la stanno portando in prigione.’
‘In prigione?!’ ripeté incredulo Barbaverde.
Clara gli fece un frettoloso resoconto di quanto era accaduto, infine concluse in tono preoccupato:
‘Temo che il Primo ministro voglia approfittare di quest’occasione per sbarazzarsi di lei.’
‘Io l'avevo detto!’ esclamò con disappunto Barbaverde. Dopodiché, grattandosi la testa pelata, prese a camminare avanti e indietro con aria assorta, farfugliando fra sé: ‘Bisognerà fare qualcosa… ma cosa? Non mi viene in mente niente. Siamo davvero in un bel pasticcio…’
Clara interruppe quelle sterili riflessioni per dire:
‘Scusa, non potresti nel frattempo preparare la pozione che fa ricrescere? Anch’io sono in ansia per la sorte della Regina, ma purtroppo devo assolutamente tornare a casa prima che faccia notte.’
Detto ciò, depose il coniglio sul pavimento e infilata la mano nella tasca della gonna, tirò fuori il petalo della Delizia Purpurea. Da parte sua il coniglio aggiunse:
‘Se permettete, anch’io avrei una certa urgenza di tornare a essere quello che ero prima. Credo di meritare un po’ d’attenzione, dopo tutto!’
‘Oh, ma certo, scusatemi. Avete assolutamente ragione’ rispose premuroso Barbaverde. ‘Capisco perfettamente la vostra situazione. Dunque siete riusciti a trovare la Delizia Purpurea. Complimenti! Non deve esser stata un’impresa facile.’
Prese con delicatezza il prezioso petalo, lo immerse in una vaschetta che aveva riempito a metà con un liquido azzurrognolo e vi aggiunse alcune misteriose polveri. A contatto con le polveri il liquido entrò in ebollizione sprigionando nuvole di vapore. Barbaverde mescolò il tutto, poi disse:
‘La pozione sarà pronta tra qualche istante. Ma attenzione: dopo che l’avrete bevuta, dovete ritornare in superficie più in fretta che potete. Avete a disposizione solo pochi minuti prima che cominci a fare effetto. Vi avverto, se non uscite in tempo, finirete per rimanere intrappolati nella città sotterranea e in breve morirete per mancanza d’aria.’
L’avvertimento produsse un brivido lungo la schiena di Clara, che s’affrettò a replicare:
‘Oh, di questo non ti devi preoccuparti. Soffro di clastofobbia, perciò sarò velocissima.’
‘Bene. Ora puoi cominciare a berla. Devi mandarla giù d’un sorso, così non
sentirai il sapore amaro’ suggerì Barbaverde, porgendole la vaschetta.
Mentre Clara afferrava emozionata il recipiente con entrambe le mani, Felix si eresse sulle zampe posteriori in tutta la sua lunghezza e appoggiando quelle anteriori sulle ginocchia della bambina, disse con un tono supplichevole:
‘Non scordarti di lasciarne un goccio anche a me.’
Clara ne trangugiò circa tre quarti, il resto l’offrì alla fedele bestiola, cui riconosceva gran parte del merito se ora la speranza di tornare a casa stava per avverarsi.
‘Che cattivo sapore’ disse Clara, esibendo una delle sue buffe smorfie. ‘E’ amaro come il veleno!’
‘A volte i piccoli sacrifici portano grandi benefici’ sentenziò solennemente Barbaverde. ‘Ma ora andate, prima che sia troppo tardi.’
‘Che cosa ne sarà della Regina?’ chiese con tristezza Clara.
‘Se le cose stanno come dici tu, non prevedo nulla di buono. Ma ciò ormai non ti riguarda più. Su, fate presto. Da questo momento ogni indugio potrebbe costarvi caro.’
Il tempo di ringraziare l’anziano alchimista e subito s’immersero nel dedalo di
gallerie, viuzze e cunicoli che li separavano dal mondo esterno. Senonché la loro corsa veniva sempre più rallentata dalla folla che stava accorrendo numerosa verso la sala del trono, in direzione opposta. Si era sparsa la voce della cattura di tre pericolosi banditi, tra cui, si diceva, c’era una bambina che aveva cercato di ingannare le guardie facendosi are per la Regina. Si vociferava che la sua rassomiglianza con la Regina era impressionante. Questo spiegava l’eccezionale affluenza: erano tutti curiosi e eccitati di vedere coi propri occhi l’impostora e conoscere quale condanna le sarebbe toccata.
Ascoltando ciò, Clara si sentì rimordere la coscienza. La piccola regina era in pericolo e lei stava scappando! Cominciò a pensare che doveva fare assolutamente qualcosa per aiutarla se non voleva che il rimorso le pesasse sulla coscienza per il resto della vita. Urlò a Felix, in mezzo alla confusione:
‘Tu continua. Io vado a vedere cosa succede e poi ti raggiungo.’
‘Sei matta?!’ squittì sorpreso il coniglio. ‘Hai sentito cosa ha detto Barbaverde? Se non ci sbrighiamo a uscire resteremo intrappolati per sempre.’
‘Ho ancora qualche minuto a disposizione prima che l’antidoto faccia effetto.’
‘Non farai in tempo!’
‘Si che farò in tempo. Appena sento che sto iniziando a crescere uscirò, sta’ tranquillo. Adesso va’, ci vediamo tra poco.’
‘Questa è la decisione più stupida che abbia mai sentito’ brontolò il coniglio, riprendendo a lottare contro la corrente tumultuosa della folla.
Clara invece si lasciò trascinare fino alla sala del trono, riuscendo appena in tempo a entrare prima che le porte si chiudessero per mancanza di spazio. Le guardie, strette l’una all’altra, avevano creato un solido cordone per arginare la pressione della folla, le cui voci riempivano la sala di un brusio assordante. All’apparire della corte, con la Regina e il Primo ministro in testa, il rumore cessò spontaneamente. Appena la Regina ebbe preso posto sul trono, nel silenzio echeggiò la chiara e forte voce del cancelliere, che pronunciò:
‘Introducete gli accusati!’
Dalla grande porta da cui era entrata la corte, due guardie spinsero al centro della sala Matilde, Giò e Palmira, tutt’e tre incatenati. Gli sguardi dei presenti si concentrarono sulla bambina e subito scoppiarono esclamazioni di grande meraviglia: la prigioniera e la Regina, in effetti, si rassomigliavano come due gocce d’acqua!
GIU’ LA MASCHERA!
Siccome il clamore non accennava a diminuire, Porfirio, in piedi a fianco della Regina, minacciò di far sgomberare la sala se non si fosse fatto silenzio. Quando finalmente tornò la calma, con voce stentorea il cancelliere espose brevemente i capi d’accusa. Subito dopo prese la parola Porfirio, che disse:
‘La corte si è riunita in via del tutto straordinaria per giudicare tre pericolosi individui, e cioè un evaso dai lavori forzati, una strega sovversiva e una piccola impostora che, per il solo fatto di rassomigliare alla Regina, ha avuto la sfrontatezza di farsi are per lei. Le loro colpe sono così evidenti e così gravi che non occorre aggiungere altro. Quindi suggerirei alla nostra amata Sovrana, cui spetta il compito di emettere il verdetto, di applicare nei loro confronti la massima pena, ovverosia la condanna alla decapitazione.’
‘Un momento!’ gridò con una voce piena di sdegno Matilde, cercando di sollevare le mani appesantite dalle catene. ‘Se permettete, anch’io avrei qualcosa da dire.’
‘Davvero?’ fece in tono sarcastico Porfirio con gli occhi che gli brillavano, come se godesse della scena che aveva davanti a sé.
‘Io sono la vera Regina’ continuò Matilde assumendo un atteggiamento e un tono regali, ‘mentre quella che siede sul trono non è altri che la mia ancella Gaia. La sua rassomiglianza con me è solo apparente, essendo il suo volto ricoperto da una maschera. Toglietegliela e avrete la prova che dico la verità.’
La sala piombò di nuovo in un silenzio carico di attesa. Tutti aspettavano col fiato sospeso la decisione che avrebbe preso il Primo ministro.
‘Se Sua Maestà è d’accordo…’ pronunciò infine.
Questa inattesa disponibilità insospettì Clara, che aveva già notato con una certa preoccupazione lo strano comportamento dell’ancella, la quale, col pollice infilato nella bocca, stava recitando con eccessivo zelo la sua parte. Alle parole del Primo ministro, Gaia fece seguire immediatamente un cenno d’assenso con la testa. A quel punto Porfirio allungò una mano sul suo viso facendo l’atto di strapparle - se ci fosse stata - la maschera. Ma nulla accadde.
‘Come vedi non ci sono maschere di sorta, quindi è chiaro che l’impostora sei tu!’ affermò Porfirio a voce alta, in modo che tutti potessero udire.
Tremando dalla rabbia, Matilde gridò:
‘Insomma, Gaia, perché non dici niente? Parla, dunque!’
Gaia si tolse per un momento il dito dalla bocca e proclamò pomposamente:
‘Io sono la vera Regina, e in quanto tale condanno te e i tuoi amici alla massima pena: la decapitazione. Che la sentenza sia eseguita immediatamente.’
‘Traditrice! Carogna! Figlia di un serpente velenoso! Bugiarda! Assassina! Ti sei
venduta… sei d’accordo con lui!’ prese a urlare fuori di sé Matilde. Al suo fianco Giò e Palmira si unirono a lei e inveirono pesantemente contro l’ancella, contribuendo a far crescere il clamore che nel frattempo si era scatenato nella sala.
‘Portateli via!’ ordinò Porfirio con aria soddisfatta.
L’istante successivo una voce squillante, elevandosi al di sopra del chiasso, ammutolì la sala. Era Clara che disse:
‘Io posso testimoniare che la prigioniera è la vera Regina!’
Porfirio si girò di scatto e fissò la bambina che stava avanzando tra la folla. Riconoscendola, esclamò:
‘Ma tu sei la bambina umana fuggita dal Palazzo! Guardie, arrestatela e conducetela al patibolo insieme agli altri. Così, invece di tre, saranno quattro le teste che vedremo cadere oggi.’
Di fronte al nuovo colpo di scena l’eccitazione tra i presenti diventò incontenibile. Molti cominciarono ad avere dei dubbi e volevano saperne di più su quella faccenda. I più coraggiosi si misero a gridare:
‘Lasciatela parlare! Vogliamo sentire anche la sua versione!’
Livido di rabbia, Porfirio fissò con odio la folla che aveva preso a urlare e a battere i piedi in segno di protesta. Era chiaro che non avrebbero smesso finché non si fosse consentito alla bambina umana di dire quello che sapeva. Calcolò che fossero più di trecento, mentre le guardie presenti nella sala non arrivavano a venti; questo lo persuase che non era il momento di are alle maniere forti. Mandò immediatamente una guardia a chiedere rinforzi, nell’attesa cercò di guadagnare tempo. Assumendo un’espressione bonaria, urlò al di sopra della gazzarra:
‘Fedeli sudditi, ascoltate. Vi prego, un attimo di silenzio!’ Non appena le proteste s’affievolirono, con voce che si sforzava di apparire paterna, proseguì: ‘Ciò che chiedete è una procedura contraria alle leggi dello Stato e alle nostre antiche tradizioni. Il popolo non può imporre la propria volontà, così come non può mettersi dalla parte dei delinquenti. Il compito di amministrare la giustizia è una prerogativa che spetta soltanto alla Regina. Tuttavia… tuttavia sono certo che per una volta Sua Altezza, nella sua magnanimità, farà un’eccezione e consentirà all’accusata di parlare.’
Gaia, cogliendo al volo un’occhiata imperiosa del ministro, fece prontamente di si con la testa.
‘Prima però lasciate che vi metta in guardia’ riprese Porfirio. ‘Come ognuno di voi sa, chiunque si trovi in una situazione di pericolo è pronto a mentire su tutto pur di salvarsi. Perciò, qualunque cosa l’accusata vi dirà, non potranno che essere delle spudorate menzogne!’
Fatta questa premessa, fece cenno alla prigioniera che poteva cominciare a parlare. Clara, stretta tra due guardie, si rese conto di non avere alcuna possibilità di avvicinarsi a Gaia per cercare di strapparle la maschera dal viso, come in un primo momento aveva pensato, quindi non le rimase che rivolgersi al pubblico presente per convincerlo a schierarsi dalla loro parte. Esordì dicendo:
‘Giuro su ciò che ho di più caro che la prigioniera è la vera Regina e che quella che è seduta sul trono è l’ancella Gaia. La maschera che le copre il viso è stata costruita per permettere alla Regina di uscire dal Palazzo senza che nessuno la notasse, poiché desiderava conoscere i suoi sudditi più da vicino e rendersi personalmente conto dei problemi di ciascuno di voi. E tutto questo al solo scopo di migliorare le condizioni di vita del suo popolo. Ora però il Primo ministro vuole impedirle di tornare in possesso della sua identità, con il segreto proposito di usurparle la corona e instaurare il suo personale e tirannico potere. Egli sa benissimo che colei che siede sul trono in questo momento è solo un’ancella. Quando l’ha scoperto ha pensato di sfruttare l’opportunità che gli veniva offerta su un piatto d’argento, sapendo che una volta eliminata la Regina sarebbe stato più facile impossessarsi del trono. Quindi, in piena coscienza, io accuso il Primo ministro del reato di cospirazione contro la Regina e contro il suo popolo! E inoltre accuso l’ancella Gaia di complicità nella realizzazione di questo turpe disegno!’
Terminata l’arringa, Porfirio si mise a ghignare.
‘Tutto qui?’ esclamò in tono sprezzante. Poi, rivolto alla folla, gridò indignato: ‘Bene, ve l’avevo detto che avrebbe pronunciato solo delle spudorate menzogne. Guardie, procedete immediatamente all’esecuzione dei condannati.’
‘Che fretta c’è?’ disse una vocina stridula tra la folla. E subito s’aprì un varco per lasciar are la curva figura di un vecchio avvolto in un mantello scuro. Tutti riconobbero in lui l’anziano alchimista di corte per via della lunga barba verde.
‘E tu che c’entri?’ l’aggredì irritato Porfirio.
‘Sono venuto a portare la mia testimonianza’ rispose Barbaverde, senza lasciarsi intimidire.
‘Ah, davvero? E su cosa vorresti testimoniare, di grazia?’
‘Sulla verità, signor Primo ministro. Quello che diceva poc’anzi questa innocente bambina è tutto esatto. Lo so perché sono stato io a costruire la maschera dietro esplicita richiesta della Regina, una maschera che riproduce esattamente le sue fattezze e che io stesso ho applicato sul volto dell’ancella Gaia, che ora siede illegalmente sul trono.’
‘Davvero una bella storia!’ replicò Porfirio in tono sprezzante. ‘Peccato che non sia vera. Come tutti hanno potuto vedere, io stesso ho appurato che la Regina non porta nessuna maschera sul viso. Non vorrai mettere in dubbio la mia parola, spero.’
‘Oh no, non mi permetterei mai, Eccellenza’ rispose Barbaverde continuando a sostenere imibile lo sguardo fiammeggiante del Primo ministro. ‘Però, modestamente, credo di aver fatto un buon lavoro con quella maschera. Ho usato una sostanza resinosa molto speciale e è difficile toglierla una volta che aderisce alla pelle. Quello che voglio dire è che ci vuole una certa tecnica per tirarla via, una tecnica che nessuno può conoscere meglio di me che l’ho costruita. Se Vostra Eccellenza permette…’
‘Eh no… sono io che non permetto!’ strillò a quel punto Gaia, balzando in piedi. Si era talmente immedesimata nella parte che stava recitando da convincersi di essere davvero la Regina, o forse era stata la paura di essere scoperta a averle suggerito quell’ultimo disperato tentativo. A ogni modo continuò: ‘Io sono la Regina e chiunque affermi il contrario è un bugiardo, un sovversivo, un pericolo pubblico e perciò merita di essere messo a morte. Guardie, conducete i
prigionieri direttamente al patibolo. E già che ci siete, portate via anche questo vecchio rimbambito!’
La voce tuonò così autoritaria e regale che intimidì tutti i presenti. Clara, Barbaverde, Palmira, Giò e la stessa Matilde erano rimasti completamente spiazzati dalla reazione di Gaia. Persino Porfirio guardava l’ancella con un’espressione di profondo stupore, e quando si rese conto che tutto ciò veniva a capovolgere a proprio favore una situazione ormai compromessa, ne approfittò per intimare alle guardie:
‘Che cosa aspettate? Obbedite alla Regina! Che siano immediatamente condotti al patibolo.’
Ci furono vivaci scambi di opinioni nella sala, dove regnava una grande incertezza. Molti erano convinti che la prigioniera fosse un’impostora, altri invece pensavano esattamente il contrario, sicché l’ago della bilancia pendeva ora da una parte ora dall’altra. All’improvviso irruppero nella sala una cinquantina di arcieri comandati da Niccodemo, e a quel punto ogni discussione cessò.
‘Fuggi!’ gridò Barbaverde rivolto a Clara. ‘Qui si sta mettendo male. Salvati prima che sia troppo tardi!’
Ma era già troppo tardi. Clara non ebbe neppure il tempo di fare un o, che si sentì afferrare saldamente per le braccia, e mentre le guardie si davano da fare per applicarle le catene ai polsi, sospirò: “Stavolta è proprio la fine. Ora è sicuro: non rivedrò mai più la mia casa, il babbo, la mamma, i nonni, le mie amiche, rimarrò per sempre nel regno degli hommi, e quando morirò, ignorando il luogo della mia sepoltura, non ci sarà nessuno che porterà dei fiori sulla mia tomba!”
Mentre malinconicamente rifletteva sulla sua triste sorte, notò che la guardia incaricata di ammanettarla si trovava in difficoltà. Guardando con più attenzione attraverso le lacrime che le scorrevano dagli occhi, vide che i suoi polsi si erano ingrossati al punto che la catena risultava troppo corta; era questo il motivo per cui la guardia non riusciva, malgrado i suoi sforzi, a bloccare il lucchetto. Questo significava forse, si chiese, che stava tornando alla sua grandezza naturale? Sembrava proprio di si, a giudicare dalle esclamazioni di indicibile stupore che si levavano dagli hommi presenti nella sala, i quali erano abituati a vedere le persone e gli animali rimpicciolire ma finora non avevano mai assistito al fenomeno inverso. Spaventati da una possibile ritorsione della prigioniera che stava crescendo a dismisura, cominciarono a correre chi di qua chi di là in una confusione indescrivibile, gridando, spingendosi e calpestandosi nel tentativo di guadagnare l'uscita.
Anche il Primo ministro e Gaia stavano scappando, ma Clara, con la testa che già sfiorava pericolosamente il soffitto, fu svelta ad afferrarli l’uno con la mano destra e l’altra con la sinistra, e infine a sollevarli in aria. Prima di morire soffocata voleva almeno togliersi la soddisfazione di punire la loro malvagità. Le guardie la stavano bersagliando con i loro archi per farla rimpicciolire, ma inutilmente, essendo ormai del tutto immune all’azione delle frecce.
‘Adesso sono proprio stufa!’ esclamò e la sua voce rintronò potente nella sala come se parlasse attraverso un megafono, tanto da far tremare le pareti e oscillare la fiammella nelle lucerne. ‘E’ venuto il momento per ognuno di riprendere il proprio posto!’
A quell’annuncio si fece un timoroso silenzio. Tutti gli sguardi si appuntarono sulla gigantesca creatura umana al centro della sala per ascoltare ciò che aveva da dire.
‘Per prima cosa tu, ingrata, togliti subito la maschera’ ordinò Clara all’ancella che stringeva nella mano sinistra, ‘altrimenti ti sbriciolo come un biscotto.’
Terrorizzata, Gaia obbedì all’istante. Tra la sorpresa generale, con uno schiocco secco si scollò da sola la maschera dal volto. All’apparire del viso dell’ancella seguì nella sala un’unica esclamazione di meraviglia:
‘Ohhh!’
‘E tu, Matilde’ continuò Clara imperterrita ‘siediti sul trono che ti appartiene per diritto di nascita. In quanto a te’ concluse rivolta al Primo ministro che stringeva nella mano destra, ‘sarà la Regina, come prevede la legge, a decidere della tua sorte.’
OGNUNO AL SUO POSTO
‘Niccodemo!’ chiamò Matilde rivolta al panciuto ufficiale. Questi, frastornato da tutti quei continui cambiamenti, si guardava intorno con aria smarrita, non sapendo più cosa pensare.
‘Maestà… ?’ rispose incerto.
‘So che sei un bravo ufficiale e che in questa storia sei rimasto ingannato al pari di tutti gli altri dalla perfidia del Primo ministro, dimmi, vale ancora il giuramento di assoluta fedeltà e obbedienza che un giorno pronunciasti dinanzi a mio padre e a mia madre?’
‘Non ho mai pensato nemmeno per un istante di venire meno a quel giuramento, Maestà. Piuttosto preferirei morire’ rispose senza alcuna esitazione Niccodemo, e nello sforzo di inginocchiarsi il suo grasso viso diventò rosso come un melograno.
‘Bene, allora ti ordino di liberare immediatamente me e i miei amici dalle catene e di prendere in consegna questo traditore fino a quando non verrà presa una decisione nei suoi confronti.’
‘Sarà fatto, Maestà. E l’ancella?’
‘Che sia rinchiusa in una segreta anche lei. Servirà a rinfrescarle le idee.’
Appena Niccodemo ebbe eseguito gli ordini, Matilde, riprendendo il suo posto sul trono, disse in tono premuroso:
‘E adesso occupiamoci della nostra salvatrice. Oh, mia carissima amica, come potrò sdebitarmi con te? Qualunque cosa mi chiederai non sarà mai abbastanza per ricompensarti adeguatamente.’
‘Ho fatto solo il mio dovere, Maestà’ rispose con modestia Clara, costretta a tenere il collo piegato per non ferirsi la testa contro il soffitto. Ora capiva quale angosciosa sensazione doveva aver provato Alice nel suo straordinario viaggio nel paese delle meraviglie!
‘Maestà’ rivelò a quel punto Barbaverde, con la voce che gli tremava dalla commozione, ‘questa coraggiosa bambina poteva mettersi in salvo dopo che le ho dato da bere la pozione che fa ricrescere e tuttavia non l’ha fatto. Quando ha saputo che eravate in pericolo, ha preferito correre in vostro aiuto piuttosto che fuggire. E ora, purtroppo, per la sua generosità dovrà morire.’
Nell’udire quelle parole Matilde rimproverò Clara con la voce rotta dai singhiozzi:
‘Sciocca che sei… avresti… avresti dovuto pensare prima di tutto a te stessa!’
‘Ormai non ha più alcuna importanza, Maestà’ rispose tristemente Clara.
‘Ma i tuoi genitori cosa penseranno non vedendoti ritornare?’
‘Oh, si rassegneranno col tempo’ sospirò l’infelice.
Con le guance irrorate di lacrime, Giò si rivolse rispettosamente alla Regina per supplicarla:
‘Maestà, dobbiamo fare qualcosa per salvarla.’
‘Si, qualunque cosa…’ aggiunse Palmira con aria afflitta. ‘Oh povera cocca!’
Anche tutti i sudditi presenti scongiurarono la Regina di fare qualcosa per salvare la coraggiosa bambina umana. Matilde si rivolse a Barbaverde per chiedergli:
‘Tu che ne pensi?’
Barbaverde rifletté alcuni istanti, poi disse:
‘Avremmo potuto risolvere il problema facendola di nuovo rimpiccolire, ma, come abbiamo visto, le frecce non producono più alcun effetto su di lei, essendone diventata immune. A questo punto possiamo soltanto scavare una buca verso l’esterno abbastanza larga da permetterle perlomeno di respirare. Questo possiamo farlo, anche se non so se si farà in tempo. Occorreranno non meno di due ore di lavoro, ma è probabile che a quel punto i suoi enormi
polmoni abbiano consumato tutto l’ossigeno presente non solo in questa sala ma in tutta la città, mettendo così in pericolo le nostre stesse vite.’
‘Farò evacuare la città, se sarà necessario’ disse con fermezza Matilde. ‘Qualsiasi cosa pur di non restare a guardarla morire lentamente.’
Clara continuava a crescere a vista d’occhio; aveva già occupato metà della sala e costretto una parte dei presenti a uscire per mancanza di spazio. Il suo respiro si stava facendo sempre più affannoso. Mentre intorno a lei si discuteva sul modo migliore di effettuare gli scavi, a Clara venne in mente il coniglio e, sospirando, pensò ad alta voce:
‘Speriamo che almeno Felix se la sia cavata.’
Nell’udire quelle parole il viso di Giò s’illuminò di un’improvvisa speranza, e subito esclamò:
‘Ma certo, il coniglio! Che stupido a non averci pensato prima.’ E mentre tutti lo guardavano sorpresi, spiegò: ‘Se la pozione che fa crescere ha funzionato su di lui come su Clara, allora il problema dello scavo è risolto: scavare buche e gallerie è la specialità dei conigli. Quindi, se vogliamo aiutarla, non dobbiamo fare altro che andare a cercarlo e sperare che sia cresciuto. Quando saprà che la bambina umana ha bisogno del suo aiuto, sono sicuro che non si farà pregare.’
Matilde ordinò che si andasse subito a cercare il coniglio, promettendo una grossa ricompensa a chi l’avesse trovato per primo. A quell’annuncio furono moltissimi i volontari che si unirono alle guardie e in breve la sala si svuotò.
Matilde, Barbaverde e Palmira stavano in ansiosa attesa quando, trascorsi venti interminabili minuti, udirono uno strano rumore provenire dal soffitto: tum tum tum… sembrava come se qualcuno stesse raspando la terra con le unghie. Di lì a poco riapparve Giò con la straordinaria notizia che a produrre quel rumore era proprio Felix. Era riuscito a trovarlo con l’aiuto dei suoi amici che aveva incontrato nel bosco, e ora il coniglio stava scavando una buca, e lo faceva così fretta che non ci avrebbe messo molto a sfondare il soffitto. A quella notizia i pochi che erano rimasti nella sala esplosero in un urrà! di gioia. Poi a un cenno della Regina si zittirono e rimasero tutti in ascolto di quella specie di tambureggiamento che si avvicinava sempre più.
Tutt’a un tratto una parte del soffitto cedette e si aprì un piccolo varco, attraverso il quale videro sbirciare l'occhio roseo del coniglio.
‘Tutto bene là sotto?’ s’informò con una nota di apprensione nella voce.
Dopo aver respirato una boccata d’aria pura, Clara rispose scherzosamente:
‘Se tardavi ancora un minuto… mi avresti trovata morta.’
‘L’avevo immaginato che sarebbe finita male e non me la sono sentita di abbandonarti, e così, dopo aver recuperato la mia statura naturale, sono rimasto nei paraggi. Quando Giò mi ha riferito cosa ti stava accadendo, non ho perso tempo, ho cominciato a scavare più in fretta che potevo. Per fortuna i miei calcoli sull’ubicazione della sala del trono si sono rivelati esatti.’
‘Meno male!’ esclamò Clara. ‘Adesso, mio buon amico, devi farmi un ultimo favore: quello di allargare ancora un po’ la buca affinché possa uscire e tornarmene a casa.’
‘Con immenso piacere.’
Felix si rimise volenterosamente all’opera e in appena un quarto d’ora allargò la buca quel tanto da far are Clara. Camminando carponi, Clara raggiunse la superficie, si alzò in piedi e cominciò a darsi una sistemata. Il vestito era tutto ricoperto di terriccio, di fili d’erba e di foglie secche e dovette scrollarselo diverse volte prima che tornasse ad assumere un aspetto decente. Matilde ordinò che si richiudesse accuratamente la buca, per scongiurare il pericolo che qualche umano di aggio scoprisse la città sotterranea degli hommi.
‘Adesso devo proprio andare’ annunciò in tono di scusa Clara. ‘Rimarrei molto volentieri con voi, ma devo correre subito dai nonni per rassicurarli che non mi è successo niente. Del resto non avete più bisogno di me. Tu, Matilde, sei diventata una vera Regina e i tuoi sudditi ora non sono più sotto il giogo del Primo ministro. Palmira non dovrà più temere nulla e Barbaverde potrà dedicarsi a esperimenti meno bellicosi e più utili al benessere del popolo degli hommi e, se ancora lo desidera, fregiarsi del titolo di mago. In quanto a te, Giò, meriteresti la nomina a Primo ministro per tutto quello che hai fatto. Siete stati tutti molto buoni con me. Senza il vostro aiuto non so proprio cosa avrei fatto.’
Clara s’inginocchiò e tese in segno di saluto il dito mignolo a Matilde, ma la minuscola regina non si mosse. Scorgendo sul suo viso un’ombra di tristezza, Clara cercò di consolarla e accompagnando le parole con un sorriso, disse:
‘Suvvia, non fare quella faccia: questo non è un commiato definitivo. Tornerò a trovarvi tutti i giorni, a partire da domani. E’ una promessa. Naturalmente potrò
venire soltanto d’estate, durante le vacanze della scuola…’
Ma il lillipuziano popolo degli hommi, raccolto ai suoi piedi, accolse quelle parole con un silenzio imbarazzato.
Clara, meravigliata, si rivolse a Giò e ai suoi amici e chiese:
‘Ehi, che vi succede? Dov’è finita la vostra voglia di scherzare? E tu, Palmira, perché mi guardi a quel modo? Insomma, si può sapere che cosa avete tutti quanti? E Barbaverde dov’è andato?’
‘Sta arrivando’ rispose con voce mesta Matilde. ‘E’ andato a prendere una cosa per te.’
‘Davvero? Cos’è, un regalo?’
‘E’ una bevanda speciale.’
Poco dopo riapparve Barbaverde. Reggeva una coppa con entrambe le mani.
‘Cosa contiene?’ chiese incuriosita Clara.
‘Uno sciroppo.’
‘Devo proprio berlo?’
‘E’ necessario’ rispose la piccola regina.
‘Ma a che serve?’
‘Ti farà dormire e quando ti sveglierai ti sembrerà che tutta questa storia sia stata soltanto un sogno.’
‘Ma io non voglio dimenticarvi!’ esclamò contrariata Clara.
‘Sta’ tranquilla, questo non accadrà; solo ci ricorderai come personaggi di una fiaba e non come esseri reali. E’ una precauzione che serve alla nostra sicurezza, ma serve anche a te affinché tu possa continuare a crescere e a maturare attraverso nuove e diverse esperienze, come tutti i bambini; esperienze che un giorno ti consentiranno di diventare una persona adulta’ disse saggiamente la piccola regina.
‘Non m’interessa. Quello che desidero è venire qui a trovarvi tutte le volte che ne ho voglia.’
‘Piacerebbe moltissimo anche a me, davvero, ma purtroppo nel nostro regno ci sono regole precise e io ho il dovere di farle rispettare; quindi ti prego di bere questo sciroppo.’
‘No, non voglio!’ ribatté disperata Clara. ‘Lo so perché volete che beva questa roba, avete paura che vi tradisca. Ma io sono pronta a giurare che non lo farò mai. Resterà un segreto tra me e voi, qualunque cosa accada!’
‘Arcieri!’ chiamò la piccola regina.
Una decina di guardie armate di archi si avvicinarono e a un suo cenno intinsero la punta delle frecce nella coppa che reggeva Barbaverde.
‘Che cosa volete fare?’ domandò Clara guardando con preoccupazione a quelle strane manovre.
‘Mi spiace moltissimo ma è necessario’ ripeté in tono triste Matilde. ‘Buona fortuna, mia dolce amica. Ti auguro tanta felicità, con tutto il cuore.’ A un cenno di Niccodemo gli arcieri, schieratisi dinanzi a Clara, scoccarono le loro minuscole frecce imbevute del misterioso sciroppo.
‘Ahi!’ strillò Clara, sentendosi pungere. ‘E adesso che cosa mi succederà?’ chiese massaggiandosi nei punti in cui era stata colpita.
‘Dormirai’ disse Barbaverde ‘e quando ti risveglierai, penserai che tutto ciò che ti è accaduto sia solo frutto della tua fantasia. Non ti sembreremo più esseri reali ma solo immaginari, proprio come i personaggi di una fiaba. Sogni d’oro, mia cara.’
‘Ti aspetterò nel bosco’ disse Giò con voce accorata. ‘Anche se tu non potrai vedermi, io sarò lì accanto a te per proteggerti, te lo prometto.’
‘E ci saremo anche noi” aggiunse Nasodipecora con un tono insolitamente serio. “E anche se, come ogni cosa, il ricordo del nostro incontro tenderà a sbiadire nel tempo, ci penseremo noi a rinfrescarti la memoria solleticandoti le orecchie con un filo d’erba, o facendoti sentire il suono di un piffero tra il lieve sussurrare delle foglie, o cantandoti delle buffe canzoncine, ciò affinché tu possa continuare a sognarci e noi a esistere nel meraviglioso mondo della tua fantasia ancora per moltissimi anni.”
“Oh, sì!” approvarono in coro Risolino, Corbezzolo, Ruspante, Russaforte e Bruco. “Ti canteremo delle buffe canzoncine che ti faranno sorridere nel sonno.”
‘Addio, cocca mia!’ salutò Palmira, asciugandosi gli occhi. ‘Non ti dimenticheremo!’
Il coniglio annusò l’aria come se fiutasse un pericolo.
‘Fate presto: sento che si sta avvicinando qualcuno!’ annunciò.
‘Ahhh… che sonno’ sbadigliò Clara. Si sentiva stanca di tutto quel parlare. ‘Scusate, ma ho bisogno di fare un riposino prima di riprendere questa strana conversazione. Secondo me quello che dite non ha alcun senso. Ci sarà pure un modo per ritrovarsi… ahhh… e stare di nuovo insieme… un modo che non abbia tutte queste assurde complicazioni…’
IL RISVEGLIO
Clara si era appena appisolata, quando a un tratto si sentì scuotere per una spalla. Spalancò gli occhi e nel vedere due facce che la fissavano, esclamò con disappunto:
‘Giò! Matilde! Per piacere, non potreste lasciarmi dormire ancora un po’?’
Ma osservandoli con più attenzione si accorse che non erano né l’uno né l’altra. Il suo viso esprimeva tutto il suo stupore.
‘Che ti prende, Clara? Hai forse visto gli spiriti?’ domandò sco, accompagnando le parole con una fragorosa risata.
‘E’ più di un’ora che ti stiamo cercando e tu ti sei addormentata in mezzo al bosco!’ la rimproverò da parte sua Tina. ‘Stavamo rincorrendo un coniglio bianco quando ti abbiamo trovata. Tommy lo sta ancora inseguendo, ma non credo che riuscirà ad acchiapparlo: correva veloce come il vento.’
‘Ahhh!’ sbadigliò Clara. ‘Devo essermi addormentata. Sapete, ho fatto un sogno davvero strano… C’era appunto un coniglio bianco e io ero diventata piccola piccola e… ma adesso è meglio che corra subito a casa, prima che i nonni comincino a preoccuparsi di non vedermi tornare. Il mio sogno ve lo racconterò un’altra volta.’