Giuseppe Cavallaro
L’Ottava Settimana
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Titolo : L’ottava settimana Autore : Giuseppe Cavallaro Immagine di copertina a cura dell’Autore ISBN: 9788867511884 Prima edizione digitale 2012
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Indice
CAPITOLO I CAPITOLO II CAPITOLO III CAPITOLO IV CAPITOLO V CAPITOLO VI CAPITOLO VII CAPITOLO VIII CAPITOLO IX CAPITOLO X CAPITOLO XI CAPITOLO XII CAPITOLO XIII CAPITOLO XIV CAPITOLO XV CAPITOLO XVI CAPITOLO XVII
CAPITOLO XVIII CAPITOLO XIX CAPITOLO XX CAPITOLO XXI CAPITOLO XXII REBECCA
CAPITOLO I
L’incontro
Era un giovedì mattino di un maggio tiepido e profumato quando la incontrai per la prima volta. Avevo ato la notte insonne a causa di una delle mie solite crisi di emicrania ed ero teso e nervoso. A completare il quadro c’era anche l’auto da poco comprata e pubblicizzata come un miracolo di tecnologia avanzata, che dava problemi d’accensione. Quella mattina avevo appuntamento dal concessionario per lasciarla in riparazione e ritirarne una sostitutiva. Arrivai che erano le nove ate e m’arrabbiai quando mi dissero che l’auto sostitutiva non era disponibile. Me la presi col meccanico, poverino non centrava nulla, dicendogli che a qualunque costo doveva reperire un mezzo in quanto avevo improrogabili appuntamenti di lavoro. Mentre parlottavo con me stesso nel tentativo di scaricare l’adrenalina in eccesso, mi accorsi che una donna sulla trentina elegantemente vestita mi guardava con un mezzo sorriso sulle labbra. Rimasi colpito da quella figura che mi sembrò un personaggio d’altri tempi. Per alcuni lunghi minuti non riuscii a distogliere lo sguardo da lei, provando la netta sensazione di essere solo io e lei in quel posto. Dopo quel momentaneo smarrimento, balbettai al meccanico che poteva avvertirmi della presenza di una così affascinante signora! La ragazza, udendo quelle mie parole, arrossì. Incrociò le braccia e si portò la
mano destra davanti al viso quasi a nasconderlo. In quell’istante un pensiero invadente attraversò la mia mente: si trattava forse di una ragazza madre? Strano quel pensiero! Perché l’avevo fatto? Gli anni che seguirono e le tante cose che accaddero chiarirono il mistero. Facemmo quasi subito conoscenza. Mi disse come anche lei avesse avuto problemi con l’auto e guarda caso, quella mattina doveva lasciarla in officina e averne una in cambio. C’era un problema però, l’auto in questione era la stessa che doveva essere consegnata a me. Per questione di pura cavalleria il titolare dell’autosalone, mio amico, aveva dato disposizione di consegnarla a lei. In altre circostanze, un fatto del genere mi avrebbe mandato in bestia. In quel caso mantenni la calma. Approfittai della situazione e chiesi alla donna se era disponibile a dividere l’auto in due. Rise divertita da quella buffa proposta. Nel ridere, le sue labbra sensuali dal colore rosso purpureo, si aprirono come petali di un tulipano al sole di primavera. Faticai a trattenere la voglia di baciarla lì, in quel momento, fregandomene di una eventuale sua reazione. Allontanata l’idea del bacio, mi prestai per accompagnarla al lavoro in modo da usufruire anch’io dell’auto. In verità, l’intenzione era quella di rimanere solo con lei, per questo aspettai con ansia i pochi secondi che ci vollero per un sì divertito. Quel giorno, inutile dirlo, disertai gli improrogabili appuntamenti di lavoro. Dimenticavo.
Si chiamava Rebecca.
CAPITOLO II
Le tre storie
Le storie sentimentali che ho vissuto, hanno sempre avuto come punto cardine, l’esaltazione sessuale. Considero l’amplesso una di quelle condizioni primarie affinché le due parti separate, il femminile e il maschile, trovino la loro catarsi. In tre di queste storie, ho raggruppato quello che, secondo me, rappresenta ciò che ogni uomo sperimenta nel corso delle sue esperienze amorose.
La bugiarda
Siamo stati amanti per quasi dieci anni, ma non ho mai capito se l’ho veramente amata. Aveva circa ventitré anni e un matrimonio fallito dietro le spalle quando la conobbi. Si chiamava Rosa. Era quella che si dice una gran bella ragazza. Di statura piccola, ma ben proporzionata nelle sue fattezze fisiche. Molto seducente, ma con appiccicato sopra un gran difetto: era una gran bugiarda patologica! Per lei, mentire era talmente naturale da non rendersene neanche conto. Più volte avevo tentato di rompere quel rapporto nevrotico, ma sistematicamente lo rimandavo.
Vi chiederete perché? La sua bellezza, gli orgasmi plateali che raggiungeva, quel corpo nudo che si scatenava come scosso dal “ballo di S. Vito” mentre facevamo l’amore era per me inferno; la mia perdizione dei sensi. Ero talmente preso, che riuscivo a perdonarle tutto. Aveva una vulva con quelle piccole labbra spioventi che sovrastavano le grandi da sembrare una rosa con i petali dischiusi. L’insieme era circondato da una delicata e morbida peluria che ne esaltava l’erotismo. Come potevo resistere a tutto questo? Con lei vissi momenti drammatici, come quella volta che si catapultò fuori dall’auto in movimento senza, fortunatamente, conseguenze. A volte, in piena notte, stazionava sotto la mia abitazione magari mentre fuori imperversava un fortissimo temporale e imperterrita si coricava a terra tra l’abbondante acqua piovana, solo perché il giorno prima le avevo manifestato l’intenzione di rompere quella relazione delirante. Sapevo con certezza che, quando stanco di quel rapporto logorante mi allontanavo da lei, si accompagnava ad altri. Molte volte, rimase incinta; ma non avendo mai la convinzione di chi fosse l’autore del misfatto, abortiva regolarmente. Era fatta così. Forse non era neanche colpa sua. Poverina. Deciso di rompere quell’assurdo e logoro rapporto, privo di qualunque contenuto affettivo, un giorno le feci capire in modo inequivocabile che la nostra storia era finita. Scappò via rabbiosamente scegliendo altre vie.
L’amante
Aveva diciotto anni, si chiamava Giovanna ed era la tipica ragazza di provincia. Era molto formosa e portava una sesta di seno. Non era proprio quella che si dice il mio tipo. Da qualche anno era la mia segretaria, e sapevo che segretamente si era innamorata di me. Malgrado le sue particolari attenzioni, fingevo di non capire. Non volevo rimanere invischiato in un’ennesima storia amorosa poiché in quei periodi ero preso da altre relazioni. Ma non andò così! Un giorno, mentre eravamo soli, iniziammo a parlare di sesso. Inevitabilmente cominciarono le prime effusioni e, mentre il mio pene si ergeva a capo della situazione, sentii la sua mano stringerlo. Mi sbottonò la patta dei pantaloni come un’esperta del mestiere, dando inizio a una manipolazione magistrale. Le mie labbra cercarono le sue, e mentre la baciavo, cominciai a sbottonarle la camicetta bianca merlettata che profumava di bucato. Schizzarono fuori due prorompenti seni. Non portava reggiseno! Mentre li palpeggiavo, sentivo i capezzoli diventare irti e duri come due punte di diamante. Sotto la pressione di quel mio impasto casareccio da fornaio, quel seno sembrava prendere le forme più disparate. La sua testa cominciò a strisciare lungo il mio corpo. La lasciai fare mentre sentivo crescere la voglia di averla. Sentivo le sue labbra umide e calde, schiudersi sul glande turgido dal colore paonazzo. Con maestria impensabile, lo inghiottì facendolo sparire come si fa con un boccone ingoiato di fretta. Il fondo di quella gola era scivoloso come un “sajone” pieno d’acqua.
Slacciò la cintura dei pantaloni che scivolando mi lasciarono a natiche nude, dove lei si aggrappò graffiandole. Ero al massimo! Sentivo prossima l’esplosione in quella bocca infuocata come quella di un vulcano in eruzione, mentre lei, senza alcuna pietà e come nulla fosse, continuava a lambire con la sua lingua calda e umida, il perimetro del mio povero e tumefatto glande. Ero vicinissimo a provare l’attimo sublime dentro quella meravigliosa gola quando, padrona della situazione, ritardava l’evento rimanendo ferma. Era abile! Quando percepiva l’imminente esplosione, cambiava movimenti e cominciava a stringere con i denti la sommità del glande, inzuppandolo da un’orda di saliva. Bastava questa semplice manovra per evitare che arrivassi all’orgasmo. Questo per me, era causa di sofferenza e nello stesso tempo di piacere. Sembrava quasi un gioco sadomaso. Le sue mani manipolavano magistralmente i miei testicoli come fossero due palline da ping-pong. Ero al limite! Capì il mio stato, e smise quella “sacra” tortura cominciando con il solfeggio. arono alcuni minuti e sentii l’universo schiudersi su di me. In quel momento mi sembrò che nulla più esistesse intorno a me. Mi lasciai andare risucchiato da quella forza che aspirò tutto il mio essere, mentre la bocca del sacro vulcano sputò fuori i lapilli incandescenti tanto trattenuti. Le gambe mi tremavano, ero assente e nel contempo vigile e rilassato. Pur essendo abituato a tale performance, non avrei mai immaginato che quella ragazza così sempliciotta potesse avere tali abilità. Si alzò lentamente, mi baciò le labbra, mentre le nostre lingue s’intrecciarono in un connubio di complicità. La storia con Giovanna andò avanti per circa due anni. Volle donarmi la sua verginità, e quando si sposò fui il primo che volle informare.
Ma questa è un’altra storia.
La vittima
Il suo nome non mi piaceva ecco perché glielo cambiai chiamandola Sally. La conobbi un pomeriggio di un marzo primaverile molto bello. Lavorava in un supermarket. Una ragazza vivace, piena di vita, diretta e solare. Aveva circa vent’anni. Alta, atletica, un po’ mascolina. Aveva lineamenti marcati ma eccitanti. Il seno, scarsamente pronunciato, contrastava con le labbra carnose e un bellissimo fondo schiena. Portava i capelli a caschetto e aveva un parlare decisamente dialettale. Ad attirare la mia attenzione, più che il fisico, fu il suo modo di guardarmi. Era talmente intenso. Sembrava quasi mangiarmi. Era chiaro che le piacevo. Oh, Dio! Com’è dolce e triste pensare a quei momenti! La relazione con Sally fu travagliata e complessa. L’epilogo della sua vita rese triste il mio animo. Malgrado con lei vissi momenti intensi di intimità, non entrerò nei dettagli in quanto sacrilego. Mi resi ben presto conto che quella ragazza aveva una serie di traumi affettivi legati alla madre. Sin da ragazzina la sua vita, soprattutto sotto il profilo sessuale, era stata molto travagliata e questo aveva contribuito a renderla infelice. Un giorno, dopo aver riflettuto a lungo, decisi di rompere quella relazione. Eravamo in autunno. Quel giorno il cielo era cupo e una fitta pioggia bagnava la
terra. Mi sentivo triste. Ero preso dalla nostalgia di Sally. Andai a cercarla nel supermarket dove l’avevo conosciuta e pensavo ancora lavorasse. Mi dissero che si era licenziata alcuni giorni prima. La cosa mi insospettì. Aveva bisogno di quel lavoro in quanto viveva da sola. La stessa sera sul tardi mi recai da lei sperando di trovarla in quello che era stato il nostro rifugio d’amore come spesso lei lo chiamava. Erano circa le ventitré quando arrivai sotto casa sua. Pioveva a dirotto. Provai a bussare ma nessuno rispose. Preso da una strana ansia, usai le chiavi che ancora non le avevo restituito. Aprii il portone e salii sopra. Era distesa sul letto. Sembrava dormisse. Mi avvicinai con cautela cercando di non fare rumore, mi adagiai ai piedi del letto osservandola per alcuni minuti. La sentivo respirare in modo strano. Mi alzai e le sfiorai le labbra con un bacio. Erano fredde e secche! Questo particolare m’insospettì. Accesi la luce della stanza. Era madida di sudore malgrado la stanza fosse fredda. La scossi, ma non si svegliò; la chiamai, prima a bassa voce poi con tono più forte. Non accadde nulla! A quel punto provai paura. La mia attenzione fu attratta da un tubetto posato sul comodino vicino al letto. Lo presi, era vuoto. Lessi il nome sull’etichetta e sobbalzai. Era un barbiturico! In quell’istante tutto mi fu chiaro. Mi precipitai su di lei cominciando a scuoterla in modo violento finché non ottenni una sua reazione. Aprì gli occhi, mi guardò, mi riconobbe. Questo fu un buon segno! Con voce flebile mi disse di lasciarla in pace e di farla dormire.
Era quello che volevo evitare! La pregai di non farlo, mentre cercai di sollevarla dal letto. Malgrado fosse di costituzione normale, pesava come un macigno. Con uno sforzo quasi sovraumano riuscii a metterla in piedi e a farla sedere su una poltrona. Mi precipitai in cucina, e preparai del caffè forte e amaro. Riuscii a fargliene bere parecchio e questo fu salutare in quanto vomitò tutto quello che aveva ingerito. Da lì a poco migliorò. La condussi fuori casa, mentre quella notte sembrava che il diluvio universale avesse deciso di precipitarsi sulla terra, e la feci camminare per parecchie ore. Ero stremato e fradicio di pioggia. Non ce la facevo più, ma in compenso Sally si era completamente ripresa. Parlammo fino all’alba. Mi guardava come se un’occulta complicità ci legasse a qualcosa che lei sapeva e che io ignoravo. Ci frequentammo per alcuni giorni poi lei sparì.
Era da poco iniziato l’inverno, e ogni tanto il pensiero volava a lei. Chissà dov’era? Un giorno ricevetti una telefonata. Era Sally! «Ciao» disse con voce rauca, «sono io! Volevo informarti che aspetto un bambino.» Non riuscii a capire il senso di quell’affermazione. Mi sfuggivano i particolari. «Auguri» risposi. «Tu stai bene?» Rimase in silenzio un po’ per poi aggiungere: «Credo sia tuo!» Ero sconcertato! Dopo un attimo di smarrimento replicai: «Cosa vuol dire: “credo sia tuo”?» Irritata da quella domanda rispose: «Quello che hai sentito» e chiuse la telefonata. Per tutto il giorno mi arrovellai il cervello. Cercavo di dare un senso a quello che
aveva detto. Va bene che quella notte, dopo essersi ripresa dall’intossicazione da barbiturici, avevamo fatto l’amore, ma sapevo che nello stesso periodo usciva con un ragazzo più giovane di me con cui andava a letto. Perché, mi chiesi, aveva cercato proprio me? Perché ostentava tanta sicurezza nell’affermare che il padre potessi essere io? A quel punto, ebbi il sospetto che lei fosse confusa su chi l’avesse messa incinta. Cercai di rintracciare Sandro, questo era il nome del ragazzo con cui usciva a quel tempo, per avere conferma di quello che già sospettavo. Avevo ragione! Alcuni giorni dopo la telefonata fatta a me, Sally, si era messa in contatto anche con lui dicendole le stesse cose dette a me. Anche lui sembrava turbato da quella strana storia, in quanto era da parecchio che non si frequentavano. Decisi così di rintracciarla. Riuscii ad avere il suo recapito telefonico. Quando la chiamai per comunicarle la mia intenzione di andarla a trovare in Germania, dove seppi che si era trasferita, sembrò titubare, ma subito dopo in lei esplose la felicità per quella mia decisione. Venne a prendermi alla stazione di Solinghen. Quel giorno faceva molto freddo. Quando scesi dal treno e la vidi corrermi incontro, con quel pancione, provai una grande tenerezza. Mi buttò le braccia al collo. Quando ci divincolammo i suoi occhi erano pieni di lacrime. Vederla in quello stato mi fece sorgere un dubbio. E se la creatura che portava in grembo fosse stata veramente mia? Distolsi subito quel pensiero dalla mia mente. L’incontro avuto con Sandro bastava per allontanare da me quel pensiero. Lei non sapeva di quell’incontro. Ignorava che sapevo della sua telefonata a Sandro. Questo bastò per riportarmi alla realtà.
Rimasi in Germania alcuni giorni. Quando mi accompagnò alla stazione ferroviaria le dissi: «Metti al mondo la tua creatura e fammela conoscere.» Mi guardò con occhi tristi, mentre fui preso da comione. La strinsi e la baciai.
Era ato un anno da quel giorno, e con Sally non ci eravamo più sentiti. Stavo sbrigando alcune pratiche di lavoro quando squillò il telefono. Alzai la cornetta, e dall’altro capo sentii: «Ciao!» Era Sally! Era tornata in Italia e con sé aveva il bambino. Era un maschio. Voleva che lo vedessi senza alcuna pretesa da parte sua. Ero curioso e turbato nello stesso tempo. Mi recai all’indirizzo che mi dette, suonai alla porta e quando questa fu aperta rimasi colpito dalla sua figura. Era dimagrita. Dal suo viso, scarno e sofferente, trapelava un’infelicità di fondo. Strano! Pensai fra me e me, doveva essere raggiante di felicità. Mi condusse nella stanza dove si trovava il bambino. Era piccolo, piccolo e magro. Era di carnagione chiara e con pochi capelli rossicci. Mi resi subito conto di chi potesse essere il vero padre di quella piccola creatura anche se non potevo esserne sicuro al cento per cento. Vero è che Sandro avesse la stessa carnagione e il colore dei capelli di quel bambino, ma anche che mio padre aveva gli stessi tratti. E allora? Cosa pensare? Non mi posi il problema. Sospirai profondamente come sollevato da un peso. Ero convinto che quel bambino non fosse mio. Sally si accorse di quel mio stato d’animo e mi guardò in modo astioso. Forse
anche lei si convinse che non ero il padre della sua creatura. Malgrado tutto, provai tenerezza per quel piccolo e indifeso bambino che poteva anche essere stato mio.
CAPITOLO III
Riflessioni
Molte delle cose che leggerete da ora in avanti, nascono da mie convinzioni e profonde riflessioni. Queste scaturiscono da ragionamenti sia di natura filosofica, sia antroposofica e scientifica. Molte situazioni, possono apparire ermetiche, paradossali o di difficile comprensione. Ma se affrontate con un’ottica acritica la lettura di questo libro, troverete un modo nuovo di osservare le cose. Ho voluto, di proposito, creare un mescolamento tra ciò che è provato scientificamente e ciò che è solo immaginato. L’ho fatto in maniera quasi fantascientifica di modo che ognuno sia libero di provare sensazioni proprie e non indotte dalla convinzione che solo quello che la scienza ci dice è verità assoluta. Ognuno di noi rappresenta un Universo dove regna un Essere interamente impregnato in noi. Nei prossimi capitoli, descriverò questa presenza che chiamo “Corpo Gravitazionale” in modo più esaustivo. Parlerò anche di quella che chiamo la “Grande Madre” e che considero la vera Essenza Sublime del Divino, meta finale della trascendenza dell’Uomo.
Le tre religioni monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islamismo, nell’affermare l’esistenza di un peccato originato dalla disubbidienza dell’uomo verso un Dio unico creatore di tutte le cose, hanno generato, in chi crede che tutto questo sia vero, sensi di colpa e di conseguenza la necessità di espiazione del peccato. Nell’allegoria biblica, Eva corrotta dal serpente, simbolo fallico, mangiò il frutto dell’albero della conoscenza, cosa che Dio aveva loro proibito. Eva convinse anche Adamo a mangiare quel frutto (il femminile quale origine della corruzione e del peccato?). Da questo scaturì la reazione del Dio supremo e creatore (del
bene e del male?). Questa disubbidienza costò loro la cacciata dall’Eden e la maledizione divina. La condanna loro inflitta, fu quella di farli riprodurre affinché potessero moltiplicarsi, in modo che, la maledizione si perpetuasse attraverso la progenie. Dopo molti millenni, Dio mosso a pietà, mandò sulla terra il proprio figlio Gesù, che per liberare l’uomo dal peccato originale si fece uccidere sulla croce.
Darwin, con la teoria sull’evoluzione delle specie tra cui quella umana, ci dice che ogni essere vivente evolve il proprio stato attraverso l’adattamento e dunque nessuna creazione sarebbe mai avvenuta né tanto meno esisterebbe un essere creatore. Nella complessa struttura del cervello umano esistono ancora residui primordiali in quanto la natura nel corso della sua evoluzione non distrugge ciò che le è stato necessario per migliorarsi. Il cervello umano potrebbe essere definito trino per la presenza di quelle parti residuali dei pesci, dei rettili e in ultimo in ordine cronologico ed evolutivo della “neocorteccia”. Grazie a questa “nuova” struttura, l’uomo riesce a svolgere funzioni superiori come quelle cognitive. Alcune riflessioni m’inducono a pensare che tale evoluzione non sia dovuta solo a un processo adattativo, altrimenti non si spiegherebbe perché questo sia avvenuto solo nell’uomo. La struttura neuroplastica del cervello fa in modo che ognuno sviluppi in maniera autonoma la propria soggettività nell’osservare gli eventi. Il nostro sistema nervoso non distingue se un evento è reale o immaginario. Ci si può, per esempio, innervosire per una situazione sgradevole che stia realmente accadendo, e nella stessa identica maniera quando questa è solo frutto della nostra immaginazione. In entrambi i casi, il nostro sistema nervoso centrale, metterà in atto la stessa reazione.
Questa caratteristica del cervello umano potrebbe benissimo essere usata per gestire in modo positivo ed evolutivo l’inganno che chiamiamo realtà. L’uomo non è ancora in grado di comprendere la sua reale natura malgrado personaggi quali Buddha, Gesù, Socrate e in tempi più recenti Krishnamurti, un illuminato filosofo indiano vissuto nel Novecento, ci abbiano indicato la via per raggiungere tale comprensione. L’essere umano, dunque, pur avendo una natura corporale come tutti gli altri animali, è l’unico, grazie alla sua elevazione razionale, a essere consapevole della propria esistenza. Tale consapevolezza lo porta a riflettere sulla transitorietà della propria vita, e dunque, a uno stato di paura e sofferenza. Questo è uno dei motivi per cui ci si aggrappa al concetto dell’eterno. Su queste paure umane molti speculano. Dobbiamo pertanto uscire dalla prigionia mentale di chi ci vuole, con la scusa del peccato, assoggettare a quei condizionamenti capaci di privarci di quella libertà intellettiva che ci rende unici. Da qui, nascono regole e rituali che creano ansie di attesa e vane speranze. Comunque vi pensiate o immaginate, ricordate che siete creature superiori smarrite, e che per ritrovare la via del ritorno dovete solo guardare in voi stessi. Solo attraverso l’attenta osservazione interiore si può arrivare a conoscere colui che ci sta guidando verso il grande salto quantico, ovvero quel vuoto energetico dal quale proveniamo. Non prendere consapevolezza di questo ci condannerà alla ripetizione perpetua dell’inganno esistenziale. Non voglio affrontare argomenti come quelli sull’evoluzione, anzi sono convinto che questa da sola non può spiegare il tutto, in quanto non è materia di questo libro. Esistono centinaia di pubblicazioni cui accedere, se si vuole, dove scienziati di grande prestigio possono soddisfare al meglio l’eventuale fame sull’argomento. Chi, invece, vuole affrontare la lettura di questo libro, deve farlo con mente libera spogliandosi di tutte le conoscenze, siano esse di natura scientifica che
religiosa, in modo da superare tutte quelle barriere cosiddette razionali. Bisogna tornare a essere bambini con la capacità di sognare e di entusiasmarsi, in modo da poter viaggiare verso quella dimensione che abbiamo conosciuto prima che il tempo diventasse battito e respiro, quella dimensione vissuta e dimenticata. Partendo da questi presupposti possiamo trovare quella luce che guiderà il nostro cammino verso la dimensione dell’Amore Supremo.
CAPITOLO IV
Ricerca e immaginazione
Nell’universo conosciuto, fatto di quello che ci hanno detto essere materia ed energia, regna un’intelligenza che definirò fenomenica e ripetitiva. In questa dimensione tutto è doppio, destra e sinistra, caldo e freddo, giorno e notte, maschio e femmina, amore e odio ecc. Tutto segue un ritmo gestito da un suono che per noi si traduce in battito e respirazione. Il tempo che intercorre tra un’inspirazione e un’espirazione, tra una sistole e una diastole lo chiamiamo vita. La luce che arriva sulla terra è luce riflessa prodotta dall’esplosione nucleare di una delle tante stelle che tracciano il firmamento e che chiamiamo Sole. Tutto quello che ha avuto inizio avrà una fine e come tale è perpetuato a ripetersi.
Tutte le galassie che compongono il nostro universo conosciuto, che non credo sia affatto infinito, pare siano solo un quarto di un insieme. Gli altri tre quarti sono composti da un qualcosa che la scienza ufficiale definisce “materia oscura”. Secondo una mia ipotesi, in questa parte inosservabile chiamata materia oscura, si trova un universo che chiamerò “Piano Unificato” da cui ogni cosa prende la sua origine. In questo Piano Unificato, non esistono alternanze. Ogni cosa è unica, senza doppi. La luce che ivi regna è intensa ma non accecante, non è né calda né fredda e i suoi colori variano dall’azzurro, al giallo arancio fino al bianco.
Immersa in questa atmosfera si trova quella che chiamo “Grande Madre”, manifestazione costante di pura armonia. In questo piano, non esiste il tempo né il dolore né la sofferenza. Tutto è “Luce”, “Amore” e appartenenza a sé stessi. Il pianeta in cui viviamo, chiamato Terra, non è che un intimorito puntino in questo universo considerato infinito, almeno così dicono. In questo sparuto puntino, circa 540 milioni di anni fa accadde qualcosa che oggi la scienza chiama “Esplosione del Cambriano”. In seguito a questo avvenimento, apparvero per la prima volta sulla terra i primi animali a “simmetria bilaterale, ossia caratterizzati da una distribuzione di arti e organi sui due lati. Cominciò così il cambiamento? Da forme di vita unicellulare, si ò a forme più complesse? Le cause di questa esplosione risultano ancora in parte misteriose. In tempi recenti, è stato rinvenuto un fossile che pare sia stato uno dei capostipiti dei cosiddetti animali a simmetria bilaterale. Questo microscopico antenato sembra essere il più antico fossile, finora scoperto, di animale con organi bilaterali. Il suo quasi impronunciabile nome è “Vernanimalcula” che visse proprio in quei periodi. In linea evoluzionistica, questi animali rappresentano una delle prime trasformazioni verso quello che è stato il cammino fin qui fatto anche dalla creatura umana. Il “Vernanimalcula” caratterizzato da simmetria bilaterale è costituito da mesoderma, ectoderma ed endoderma, cioè le stesse componenti dell’embrione umano. Ma quale forza o intelligenza ha permesso questi accadimenti? Oggi sappiamo che la cellula, nello stadio embrionale, si riproduce formando altre cellule uguali che si aggregano fra loro come in un macchinario già programmato.
A un certo punto un nuovo programma capace di trasformare un fenomeno ripetitivo e indifferenziato si avvia. Cosa è successo? Succede che l’embrione smette di replicarsi in modo indifferenziato, cominciando a differenziarsi. Nasce così una nuova famiglia di cellule super specializzate che renderanno possibile e compiuta la forma umana. Ma chi dà l’impulso affinché questo nuovo programma si avvii? Chi decodifica questo processo? Una “presenza” che, come verrà chiarito più avanti, dall’ottava settimana di gravidanza in poi, ci accompagnerà lungo il percorso della nostra vita terrena. Grazie a questa presenza, dopo la fine di questa vita si potrà proseguire il viaggio verso la dimensione della Grande Madre.
CAPITOLO V
Sesso di mezzo
Ai nostri giorni si osservano nascite di cui non risulta certa una differenziazione sessuale, nel senso che non si può affermare con certezza se il neonato è un bambino o una bambina. Queste patologie, se così si possono definire, scientificamente si chiamano DSD ovvero “ Disordine della Differenziazione Sessuale”. Questo vuol dire che gli organi genitali esterni sono ambigui. Sono patologie non tanto rare visto che solo in Italia interessano circa 150 bambini all’anno, ovvero uno su 5000 nati. Tali percentuali, sono all’incirca uguali nel resto del mondo. Questi individui, definiti “intersessuali”, creano serie problematiche sociali, mediche, psicologiche e anche di ordine legale. Questa condizione non ha nulla a che vedere con quelli che definiamo “transessuali”, in quanto questi ultimi, nascono con una precisa determinazione biologica ma psicologicamente rifiutano la propria identità sessuale. Sotto un profilo prettamente medico, si può dire che in circa il settanta per cento dei casi di soggetti intersessuati, ci si trova di fronte a una ben precisa sindrome adreno-genitale, detta anche “Pseudoermafroditismo femminile”. In definitiva si tratta di femmine che durante la gestazione sono state sottoposte ad anomala stimolazione di ormoni maschili prodotti dal surrene e che quindi presentano un clitoride ipertrofico che assume sembianza di un piccolo pene. Lo “Pseudoermafroditismo maschile” invece si ha quando i genitali esterni non sono ben sviluppati per un deficit nella sintesi del testosterone.
Un’altra sindrome intersessuale, abbastanza diffusa, chiamata “sindrome di Morris”, si ha quando l’individuo è biologicamente maschio, ma il suo corpo non sentendo l’azione degli ormoni androgeni sembra femmina, pur non avendo né utero né ovaio. Queste situazioni, letteralmente in inglese Middlesex, hanno dato luogo negli Stati Uniti d’America, a delle associazioni chiamate “Intersex Society” che studiano il fenomeno.
CAPITOLO VI
Il ritrovamento
Tutto l’universo, non solo la nostra galassia, sembra essere popolato da forme di vita. Secondo gli antichi greci la nascita della vita dalla “non-vita” era un fenomeno magico di segno divino. Fu il greco Anassagora, vissuto 2500 anni fa, a proporre l’ipotesi della “Panspermia”, secondo cui tutte le forme viventi avrebbero avuto origine dalla combinazione di piccoli semi sparsi nel cosmo e giunti a noi attraverso meteoriti o comete. Ma è solo in questo piccolo pianeta chiamato Terra, che si sta evolvendo la creatura più strana e straordinaria di tutto l’universo? Visiteremo, attraverso il nostro fantastico viaggio, i luoghi da dove abbiamo mosso i primi i come esseri umani, e da dove ci siamo differenziati dalle altre creature a noi vicine. Era il 30 novembre del 1974, quando due paleoantropologi americani Donald Johanson e Tom Gray fecero una scoperta sensazionale. Mentre effettuavano degli scavi in Etiopia, precisamente in una zona chiamata Afar, portarono alla luce uno scheletro fossilizzato e perfettamente conservato che apparteneva a una creatura vissuta oltre quattro milioni di anni fa. La scoperta suscitò molto scalpore in quanto era la prima volta che fu rinvenuto un fossile così ben conservato risalente a un tempo così lontano. Tale rinvenimento era destinato a diventare ancora più grande, quando si capì che il fossile in questione era un nostro lontano antenato.
Dalla conformazione delle ossa del bacino i due scienziati ne dedussero che era appartenuto a una femmina e gli attribuirono il nome di “Lucy” (il nome fu dato anche in onore a un pezzo musicale dei Beatles Lucy in the sky with diamonds). Lucy era alta non più di un metro e dieci centimetri, ed era probabilmente una creatura adulta di circa 20 o 25 anni, a conferma di ciò, l’usura che osservarono nei denti del giudizio e le ossa che mostravano un chiaro principio di artrosi. Secondo i due paleoantropologi, Lucy doveva essere un “Australopithecus afarensis”, il cui nome “afarensis” deriva dalla zona in cui fu scoperta, Afar Etiopia. “Australopiteco” significa “scimmia australe”. Questa classificazione, in realtà non era appropriata in quanto studi più attuali hanno evidenziato che Lucy non era una scimmia ma un bipede umano. Quasi a conferma di quanto sopra, nel 1978 un’altra équipe di paleoantropologi guidati da Mary Leakey, fece un altro ritrovamento altrettanto sensazionale. Mentre realizzavano degli scavi in una zona dell’Africa orientale a sud del lago di Vittoria, l’attuale Tanzania, chiamata Laetoli, portarono alla luce, delle impronte fossili di ominidi su ceneri vulcaniche risalenti a circa 3,7 milioni di anni fa. Queste orme rivelavano una meccanica di locomozione del tutto analoga alla nostra. Questo dimostra che in Africa, circa quattro o cinque milioni di anni fa, esistevano bipedi che camminavano in posizione eretta e che dunque tutte le teorie esistenti secondo le quali i primi ominidi avrebbero assunto tale posizione in seguito a un forte sviluppo cerebrale per potere utilizzare meglio i primi utensili, erano e sono destinate a crollare. Questa scoperta denominata “la eggiata di Laetoli”, è stata dichiarata patrimonio dell’umanità nel 1996. Questi ritrovamenti ci dicono forse che attraverso queste creature ebbe inizio il cammino del genere umano verso la conoscenza della nostra reale natura? Lucy è la “Eva genetica”, cioè la madre che ha dato origine alla nostra specie umana? E se così fosse, con chi si accoppiò?
Prima di proseguire nel nostro viaggio, gradirei chiarire un mio concetto sul significato del nome “uomo”. Credo sia improprio fare distinzioni attraverso termini quali “donna” e “uomo”. Penso invece sia più utile, al fine di capire meglio quanto verrà detto in seguito, che tali termini vengano sostituiti con quelli di “maschio” e “femmina”, facendo così distinzioni a livello sessuale. Da questo momento, ò solo la denominazione di “maschio” o di “femmina”, riservando il termine “uomo” alla creatura che attraverso loro viaggia verso uno stato evolutivo spirituale.
CAPITOLO VII
Autogamia o partenogenesi?
Attraverso Lucy, esploreremo spazi e tempi mai immaginati, fino ad arrivare ai nostri giorni e oltre. Lucy viveva la sua vita con l’istinto alla sopravvivenza e con una strana forza in corpo che periodicamente la spingeva a isolarsi per procurarsi quello che noi oggi definiamo piacere. In poche parole secondo una mia ipotesi Lucy si masturbava. Ma cosa toccava all’atto della masturbazione? La sua conformazione anatomica era più o meno come quella dell’attuale femmina umana: un’apertura verticale nella parte bassa della pancia, precisamente nella zona perineale, ricoperta da folta peluria, la vulva, dove nella parte alta fuoriusciva una protuberanza, il clitoride, riccamente innervata e molto sensibile al tatto. La masturbazione, tutt’ora molto praticata sia dalla femmina che dal maschio, è un istinto residuale tramandatoci milioni di anni fa proprio dai nostri antenati. Quando le due componenti sessuali si trovavano solo nella femmina e, sempre secondo una mia ipotesi, il maschio ancora non esisteva, la masturbazione serviva a Lucy per auto-ingravidarsi. Oggi tutti sappiamo che in seguito a un rapporto sessuale o a una masturbazione si raggiunge uno stato di benessere totale definito “orgasmo”. Questo si manifesta con delle forti contrazioni pelviche che producono un intenso e protratto piacere, molto di più nella femmina. Nel maschio tali contrazioni sono una delle condizioni necessarie affinché possa
emettere il liquido seminale, lo sperma. Nella femmina persistono tali contrazioni anche se lei non emette sperma. Perché? Nel libro della Genesi leggiamo che Dio fece addormentare Adamo da cui tirò fuori Eva. Siamo sicuri che l’Adamo biblico fosse maschio? La conformazione che aveva la creatura chiamata Lucy si può definire “androgina”. Il suo corpo, sicuramente meno aggraziato di quello delle donne di oggi, era minuto. Piccola di statura e ricoperta da peluria lungo il corpo (molte femmine umane attuali, soffrono di un disturbo chiamato “irsutismo” capace di produrre un eccesso di peluria in tutto il corpo), Lucy aveva mammelle piccole e mascelle pronunciate. Gli organi genitali esterni, descritti in precedenza, somigliavano molto a quelli attuali femminili, ma l’apparato riproduttivo interno era notevolmente diverso.
L’ingravidamento
Per concepire un bambino, escludendo le varie tecniche messe a punto in questi ultimi tempi e che considero innaturali cioè la fecondazione artificiale in provetta o qualunque altra novità che escluda il contatto fisico fra i due sessi, una femmina deve congiungersi sessualmente a un maschio, che eiaculando all’interno della sua vagina, se fertile, la ingravida. Gli organi sessuali del maschio sono concepiti in modo da combaciare perfettamente con quelli della femmina. L’organo che nella femmina chiamiamo “vagina”, è strutturata in modo da potere
essere penetrata agevolmente dall’organo sessuale maschile, chiamato “pene”, e nel contempo per essere capace di “espellere”, al momento opportuno, il bambino cresciuto nell’utero. La vagina è un canale di circa dieci centimetri cui è collegato un altro organo che sembra un pene cavo chiamato “utero”. A questo sono collegate due tube chiamate “Trombe di Falloppio” alle cui estremità si trovano delle piccole agglomerazioni chiamate “ovaie”. Ogni ventotto giorni circa gli ovuli maturi e non fecondati vengono espulsi attraverso un meccanismo chiamato “ciclo mestruale”. Nei periodi della ovulazione, definiti periodi fecondi la femmina può essere ingravidata per poi partorire, al nono mese circa, il bambino. Cercheremo di capire, con gli occhi del fantastico e scostandoci da ogni preconcetto sia scientifico che religioso, come le creature simili a Lucy potessero da sole ingravidarsi. Per fare questo, è necessario conoscere la conformazione attuale dell’apparato sessuale del maschio umano. Tale apparato è composto da una parte esterna e una interna. Nella parte esterna si nota, attaccato alla parte bassa della pancia (perineo), un organo di circa dieci o venti centimetri chiamato “pene”. Alla base di tale organo si trovano due sacche chiamate “scroto” al cui interno ci sono i testicoli che producono gli spermatozoi. Il pene è un corpo spugnoso il quale, sotto stimolo sessuale, riempiendosi di sangue dà origine a una erezione. Quando tale organo si trova in questo stato diventa duro e turgido aumentando sia in lunghezza che in circonferenza. La parte interna dell’apparato sessuale del maschio è costituita da una ghiandola chiamata “prostata”, capace di produrre un liquido vischioso chiamato “sperma”, e dall’uretra. L’uretra è un canale d’attraversamento, e non solo, dove a sia l’urina che lo sperma. Affinché il maschio abbia un’erezione, è necessario causargli uno stato eccitativo sessuale, che avviene attraverso stimoli visivi, olfattivi o solo anche
mentali. Per tutta una serie di fenomeni interattivi tra loro, ossia ormonali, neurotrasmettitoriali ecc. il maschio è fortemente attratto dalla femmina e diciamo che se ne “innamora”. La forza che permette tutto questo si chiama “libido”. La perpetuazione delle specie animali sessuate, compreso l’uomo, la dobbiamo proprio a questa forza. Nell’essere umano la libido è consapevole, mentre nelle altre specie rimane istintiva. Dopo avere ato in rassegna le modalità con cui avviene l’ingravidamento e aver trattato la descrizione dell’apparato genitale maschile, credo sia necessario are alla descrizione ipotetica della conformazione genitale della nostra Lucy. La mia ipotesi è che per tutta una serie di trasformazioni avvenute in queste creature, abbia avuto origine il maschio. In Lucy, la vagina era più lunga. A circa cinque o sei centimetri dall’ingresso di questa, dove oggi si trova un incavo a cui molti danno il nome di “punto G”, si trovava collocata una ghiandola capace di produrre gameti. Forse sarebbe meglio dire che in Lucy esisteva un processo oggi conosciuto col nome di “gametogenesi”, processo in grado di produrre nello stesso individuo ovulo e spermatozoo. L’interno della vagina era ricco di piccole ghiandole che nella fase di eccitazione, cioè durante la masturbazione, producevano un liquido che oltre a fluidificarla facilitava il aggio dei gameti. Queste ghiandole, ancora presenti nella vagina della femmina attuale, sono chiamate “ghiandole di Bartolini”, in ossequio al medico che le scoprì. Cerchiamo ora di capire quello che accadde alcuni milioni di anni fa in quelle creature primordiali che furono i nostri antenati chiamati ominidi quali Lucy. Questa “affascinante” creatura periodicamente veniva pervasa da una strana e imponente forza istintiva, descritta in precedenza, che la portava a isolarsi e a mettere in atto una serie di manipolazioni (masturbazione?), in grado di causarle un intenso piacere oggi chiamato orgasmo.
La contrazione dei muscoli pelvici dovuta all’orgasmo, agiva sulle pareti vaginali causando la spremitura della ghiandola all’interno di questa. La spremitura, liberava sostanze biologicamente attive in grado di fecondarla. Tutto avveniva in modo istintivo, senza consapevolezza da parte dell’attrice che, dopo quel processo, partoriva creature del tutto identiche a lei anche nel patrimonio genetico. Vorrei richiamare l’attenzione su una curiosità interessante. Le femmine delle mosche verdi, quando non possono accoppiarsi con il maschio, partoriscono in modo autonomo mosche solo femmine contenenti tutti i geni della madre al cento per cento. Lucy poteva partorire una sola creatura per volta, in modo da poterla accudire al meglio e non avere problemi nell’allattamento. Quando avveniva un parto gemellare, oppure nascevano creature con delle imperfezioni tali da non permettere loro un domani di essere indipendenti, venivano uccise e mangiate. È forse l’origine dell’antropofagismo? È cronaca di questi ultimi tempi il fatto che tante madri uccidano i loro piccoli dopo averli portati in grembo per nove mesi. In quelle creature primordiali che chiamiamo Lucy, questo fatto scellerato avveniva solo per motivi di sopravvivenza. In loro, non c’era una volontà senziente, agivano seguendo un istinto definibile come atto di pietà e di “amore”, verso creature che non potevano sopravvivere e quindi destinate a soffrire. Nel mondo animale, questo fenomeno è ancora osservabile (cani, gatti ecc.). L’atto, invece, compiuto da un essere umano, in particolare dalla madre, è un evento ingiustificabile e imperdonabile. In essa, già da millenni, si sono sviluppati stati superiori quali la consapevolezza e la possibilità di allevare il piccolo senza le difficoltà insormontabili di un tempo ormai lontano dal nostro. Non voglio entrare nei meandri mentali, sicuramente terribili, di chi si macchia di atti cosi esecrabili. Malgrado ciò, ritengo che alla base di questi accadimenti ci sia un retaggio residuale risalente a quei lontani periodi.
Questo non vuol dire giustificare un evento così mostruoso, ma è un elemento che dovrebbe spingerci, quando purtroppo queste situazioni accadono, alla riflessione. Si deve cominciare a indagare su fatti che fino a oggi, grazie al troppo perfezionismo di un certo tipo di scienza, non sono stati ancora presi in considerazione. L’essere umano, si distingue, o almeno dovrebbe, dagli altri animali per tutta una serie di peculiarità quali per esempio, quella di ridere o di piangere, di creare rapporti che danno origine a quei sentimenti che chiamiamo affetti, ecc. Egli impara ad amare le creature che attraverso loro vengono al mondo e che chiama “figli”; è l’unica creatura vivente che si pone l’interrogativo sull’esistenza o meno di un qualcosa a lui superiore, di un’entità Divina e così via. Ma quest’essere capace di slanci comionevoli e caritatevoli, è altrettanto capace di pensieri e azioni distruttive come quella di scatenare guerre che uccidono milioni di creature a lui simili. Avvolto in sentimenti negativi quali l’invidia, la vendetta, il possesso e l’ipocrisia viene trascinato verso la prevaricazione sugli altri, col solo scopo di difendere i suoi meschini ed egoistici interessi. Questa è la natura dell’uomo in questa dimensione dove ogni cosa è opposta all’altra. Riconoscendosi in tale natura, l’uomo rimane prigioniero dei suoi stessi errori.
CAPITOLO VIII
La nascita di Julien
Lucy partoriva creature uguali a lei in tutto e per tutto. Fin quando la situazione si manteneva così, nulla poteva cambiare in lei e nelle altre creature simili. Tutto in loro rimaneva istintuale. Qualcosa di sconvolgente però accadde e dette inizio al processo che ancora ci vede protagonisti. La nascita di una nuova creatura con caratteristiche completamente diverse da tutte le altre. Lucy ormai gravida da parecchi mesi, aveva assunto atteggiamenti mai avuti prima. All’imbrunire quando il buio cominciava a scendere sulla savana e il cielo veniva puntellato da stelle che spaccavano il firmamento, si metteva seduta a osservare la gigantesca luna africana che illuminava la notte profonda come un magico lampadario. Non era mai successo che se ne stesse lì, tutta sola a osservare quella volta incantata facendosi trasportare per la prima volta in vita sua dalla magia del posto. La pelle del viso, gli stessi lineamenti si erano addolciti. La peluria che le copriva il corpo si era notevolmente diradata. Si muoveva, come se avesse la percezione che le stesse accadendo qualcosa di sconvolgente. La nuova creatura che Lucy dette alla luce, che chiameremo Julien, aveva caratteristiche morfologiche diverse da quelle fin lì osservate. Gli organi sessuali esterni si erano modificati. Non c’era più l’apertura nella parte bassa della pancia, la vulva, al suo posto si era formata una protuberanza con due piccole sacche attaccate sotto. Tutto il resto sembrava essere uguale a
quello della madre. Man mano che il tempo ava, in Julien si evidenziavano notevoli differenze sia fisiche che comportamentali che lo rendevano unico in quella piccola comunità. Aveva una statura e una robustezza fisica superiore alle altre creature e anche nei comportamenti era diverso. Aveva l’abitudine di allontanarsi dal gruppo, cosa mai avvenuta prima, rientrando dopo un certo tempo con nuove cibarie. Portava con sé frutti nuovi, piccoli animali uccisi, tuberi mai mangiati prima ecc. Questo di fatto allargò il territorio di appartenenza. Julien non si appartava come facevano le altre creature per procurarsi piacere. Quando ne sentiva il bisogno, cercava una altra creatura del gruppo con organi sessuali diversi dalle sue e con lei si accoppiava. Il solo fatto che, per la prima volta nella storia di questi ominidi, accadeva che due creature si accoppiassero era un evento eccezionale. Cominciarono così le prime pulsioni verso un’altra creatura, fatto determinante per l’evoluzione della futura specie umana. Julien, essendo l’unico nel gruppo ad avere caratteristiche maschili, lo si può identificare come il primo maschio genetico. Le creature che con lui si accoppiavano e che, in un primo momento sembravano sterili in quanto non erano mai riuscite ad avere una gravidanza, in realtà avevano modificato gli organi sessuali interni. Dopo aver dato alla luce Julien, Lucy manifestò un atteggiamento che lasciava intendere l’acquisizione consapevole della maternità. Poneva particolare attenzione verso la sua nuova creatura che proteggeva quasi in modo morboso. Era gelosa e guardinga come qualunque madre lo è verso i suoi piccoli. Si era accorta da subito che in quella creatura c’era qualcosa di diverso da tutto il resto del gruppo e questo sembrava riempirla d’orgoglio. Da quel momento ebbe inizio la consapevolezza dell’esistere. Consapevolezza, che avrebbe fatto dell’uomo quell’essere unico che è.
L’età media di quei nostri antenati doveva essere bassa, circa trenta o quarant’anni, questo comportava una certa precocità nella maturazione delle capacità sessuali e riproduttive. Quando Julien arrivò all’età delle prime voglie sessuali, non sentì più la necessità di procurarsi piacere attraverso la masturbazione, ma cominciò a sviluppare l’attaccamento attrattivo e affettivo verso la femmina del gruppo. Quella capacità nuova che Julien aveva nel provare sentimenti affettivi, permise la nascita della famiglia e della società. La prima compagna che Julien ingravidò la chiameremo Angie, da cui nacquero altre creature strutturalmente simili al padre. Fu Lucy la madre genetica del genere umano? Per capire come fecero a separarsi le due componenti, maschile e femminile, dobbiamo partire dall’ipotesi che tutto fosse stato già predisposto nella struttura corporea di Lucy.
La metamorfosi
Come in un orologio precedentemente programmato, scattò un meccanismo che permise al sistema endocrino di regolare in modo diverso la biologia dell’apparato sessuale di quelle creature. L’utero sceso introiettò in sé la vagina, venendosi così a creare un organo esterno con delle caratteristiche uniche. Questo, grazie alla precedente conformazione cava dell’utero, divenne un corpo spugnoso in grado, quando irrorato dal sangue, di allungarsi e allargarsi diventando una massa dura a cui diamo il nome di pene. Le ovaie scesero dando origine ai testicoli. La ghiandola posta all’interno della vagina di Lucy fu trasferita a Julien, ed è probabile che si tratti dell’attuale prostata.
In quella tribù primordiale, altre creature cominciarono a partorire dopo l’accoppiamento con Julien, e molte misero alla luce altre creature con le stesse caratteristiche maschili di Julien. A loro volta anche questi man mano che crescevano s’incrociavano a creature morfologicamente uguali ad Angie. Si dette così il via a una comunità eterogenea, che portò alla scomparsa di quelle come Lucy. In quella primordiale struttura sociale, cominciarono i primi contrasti, i primi confronti fra maschi, le prime gelosie, le invidie, le lotte per il controllo del territorio ecc. Questi contrasti interni furono la causa dello smembramento della prima comunità. Ebbero così inizio le prime migrazioni alla conquista di nuovi territori. Da lì cominciò il lungo viaggio dell’uomo alla conquista del globo terracqueo.
CAPITOLO IX
Libertà dal razionale
Descrivere che cos’è il “corpo gravitazionale”, da non confondere con quello definito “corpo sottile” o “sensibile”, è un’ impresa non facile. Fu la visione del corpo gravitazionale che fece sorridere il Buddha quando ebbe modo di “vederlo” nel corso delle sue lunghe e profonde meditazioni? Il corpo gravitazionale è come una forza che ci spinge in avanti e sarebbe opportuno che ognuno si preparasse con piena purezza mentale alla sua percezione e futura visione. Entreremo con cautela nell’argomentazione, cercando di capire come il corpo gravitazionale s’intreccia con quello fisico temporale. Per poterlo fare, dobbiamo partire dall’embrione fino alla sua trasformazione in un feto. Più avanti, citerò avvenimenti secondari che ritengo essere utili alla comprensione di questo “sovrannaturale” fenomeno. Esistono fatti e circostanze che hanno dell’incredibile e che affondano le loro radici in fattori non facenti parte di ciò che riteniamo razionale. Tutto quello che osserviamo nel nostro quotidiano, lo diamo per scontato solo perché ci è stato detto e insegnato che solo quello che si vede e si tocca è reale e di conseguenza esistente. Per poter considerare quello di cui stiamo parlando, occorre che ognuno liberi la propria intelligenza da questi condizionamenti, ritornando a essere mentalmente indipendente. Fin da bambino, sono stato attratto da tutto ciò che era fuori da quello che usualmente si definisce comune.
Argomenti conosciuti da pochi iniziati m’incuriosivano a tal punto da farmi trascurare il normale studio scolastico. Tutto quanto studiato a scuola mi sembrava obsoleto e superato in quanto privo di quel mordente capace d’apionarmi. Mi affascinava la lettura dei testi vedici, del tantrismo, del buddismo ecc. Argomenti capaci di farmi uscire da quei compromessi schiavizzanti generati da una società bigotta dove pochi determinano il destino dei tanti. Ero attratto dallo studio della mano con tutti quei segni arcani stampati sul palmo. Attraverso questo studio ebbi la consapevolezza che la mano non è un semplice arto, ma in essa ho visto il lato dove si specchia l’animo umano. Nella nostra ci-vile e vecchia Europa, lo studio e la pratica della chirologia viene considerato un fenomeno da baraccone esercitato da saltimbanchi definiti “chiromanti”. Questi nulla hanno a che vedere con i chirologi per il semplice fatto che non conoscono lo studio logico, morfologico e anatomico della mano. Negli Stati Uniti d’America, esistono varie facoltà universitarie dove questa materia viene insegnata. Personalmente, ho seguito un corso di studi condotto da uno studioso americano che insegnava chirologia alla Chicago Living School of Chirology. Negli States i chirologi vengono interpellati nella selezione del personale, nelle consulenze prematrimoniali ecc. Nella mano, si trovano le orme che rispecchiano i tre elementi che compongono il Sé del soggetto: quello materiale che deriva dalla coscienza del proprio corpo, del proprio ambiente e dei nostri beni; il Sé sociale costituito dalle percezioni o immagini che ognuno presume che gli altri abbiano di lui e dalla visione comune che si ha del mondo; il Sé spirituale cioè la consapevolezza che ciascuno ha di sé stesso e della propria esistenza. Tutto quello che interferisce in positivo o in negativo su questa triade del Sé si riflette sulla mano. Questa è l’unico arto capace di descrivere attraverso la gestualità un ragionamento logico, comportandosi come il pennino di una penna che riesce a scrivere una parola concepita da un essere intelligente.
Dunque, la chirologia è un’arte e una scienza! Un’arte in quanto la sua pratica richiede un’innata capacità intuitiva, mentre la sua veridicità si basa su una scienza chiamata “statistica”. Vorrei citare due studi condotti in due diverse università. Il primo studio fu condotto a Milano su circa 1500 bambini con disturbi del comportamento. In circa milleduecento di loro, fu osservata, all’inizio di quella che comunemente viene definita “linea della vita”, una piccola isola. Approfondendo la diagnosi in questi soggetti si scoprì che, oltre la metà di loro soffriva della cosiddetta “sindrome d’abbandono” (trauma principalmente vissuto a livello fetale). Il secondo studio, più recente, riportato sul British Journal of Psychology, mette in evidenza come la “lettura della mano” specialmente nei bambini, possa evidenziare le attitudini scolastiche di questi. Il dott. Mark Brosnan, direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bath in Gran Bretagna, ha visto come la lunghezza delle dita, in particolare quella dell’indice e dell’anulare determina le abilità linguistiche e matematiche dei bambini. Ma la cosa più sorprendente, che ci conferma ancora una volta la veridicità di quello che stiamo osservando attraverso il nostro viaggio, è che il Dott. Brosnan e i suoi collaboratori hanno messo in relazione queste caratteristiche col quantitativo di testosterone ed estrogeni cui i bimbi sono stati esposti nelle fasi dello sviluppo uterino. In chirologia la mano destra e quella sinistra esprimono significati diversi. La sinistra rappresenta le relazioni con la componente genetica dell’individuo cioè la famiglia di provenienza e le varie eredità genetiche trasmesse. Per antonomasia, rappresenta il lato femminile. È la mano che chiede, il lato spirituale, femminile e materno del soggetto. Le varie linee presenti sul palmo e i vari monti, cioè quelle piccole protuberanze presenti all’inizio delle falangi delle dita, se correttamente interpretate, ci danno una visione chiara delle varie componenti che il soggetto ha ereditato quali il
carattere, la predisposizione alle malattie, l’armonia vissuta a livello fetale, i traumi subiti, ecc. La mano destra, invece, rappresenta il lato maschile, materiale, la mano che dona. Questa deve essere vista come una lavagna vuota in cui l’individuo scriverà la sceneggiatura della propria vita nel bene e nel male. Nei soggetti mancini l’interpretazione è invertita.
Non voglio approfondire l’argomento in quanto non è lo scopo del libro. Ho voluto solo dare un accenno, in quanto ritengo che ci sia una connessione tra le linee tracciate sul palmo delle mani e l’entrata del corpo gravitazionale nel nostro corpo fisico. Un tempo, queste linee venivano considerate come formazioni naturali dovute al fatto che il bambino nel grembo materno tenesse il pugno chiuso. Ma approfonditi studi scientifici hanno evidenziato come queste linee ancor prima che la mano sia completamente formata e dunque in grado di essere chiusa a pugno, siano già presenti. Cosa sono allora quelle linee? Sono il tracciato di una mappa? Avremo modo di capirlo!
Il racconto che sto per fare, che riguarda lo studio di una mano, ha impressionato anche me. Quest’esperienza mi ha dato modo di verificare l’esattezza della chirologia. Un giorno, un mio amico mi parlò della moglie di un suo conoscente che non riusciva a portare a compimento nessuna gravidanza. Voleva farmela conoscere e avere un mio parere su quel caso.
La cosa destò la mia curiosità. In quel periodo, meditavo l’elaborato di questo testo per cui ero particolarmente sensibile a tutto quello che riguardava l’aborto. Il giorno previsto c’incontrammo a casa del mio amico. La signora, accompagnata dal marito, era una donna alta e magra con mani lunghe e magre. Indossava un completo nero che rendeva spettrale quel particolare fascino. Tutto di quella donna sembrava cupo e misterioso. Il suo sguardo era profondo e angosciato. Ci volle poco a capire che si trattava di un soggetto molto disturbato. Era difficile stabilirne l’età. Solo dopo seppi che aveva trentacinque anni. Il marito, un tipo alto leggermente grassoccio con pochi capelli, anche lui di trentacinque o trentasei anni, appariva ben vestito e con un profilo elegante. Era funzionario di una nota azienda di pubblicità. Si divagò su vari argomenti, mentre lei stava seduta con le gambe incrociate e una sigaretta accesa senza mai intervenire. Sembrava estranea a ogni cosa mentre con lo sguardo fissava il nulla. Chiesi al marito come andava il loro rapporto di coppia e cosa provasse ogni qualvolta la moglie abortiva. Lei rimaneva in silenzio come se la cosa non la riguardasse. Lasciò trapelare una certa insofferenza solo quando affrontammo argomenti riguardanti i bambini. La cosa m’incuriosì. Quando le chiesi quali fossero i suoi rapporti con i bambini, la vidi arrossire mentre cercava di mettere le gambe a cavalcioni e contemporaneamente incrociava le braccia quasi a difendersi. Era chiaro che quella domanda l’aveva spiazzata. Perché?
Dopo alcuni attimi di silenzio, disse che non li sopportava in quanto “rumorosi”. Molte persone non tollerano il chiasso dei bambini, mi parve normale quell’affermazione. Quello che invece mi colpì fu quando le chiesi se li amasse. Mentre gli occhi le si riempivano di lacrime, sbottò in un secco e rabbioso “no!” . Il marito era come inebetito. Non riusciva a capire lo strano atteggiamento della moglie, e perché avesse dato quella risposta. Gettai uno sguardo al mio amico, che se ne stava in silenzio con le braccia incrociate e una mano sotto il mento, mentre mi accostavo a lei. Le presi le mani e cominciai a scrutare prima la sinistra e poi la destra. Il marito, in un evidente stato d’ansia, si muoveva di continuo nel tentativo di trovare una posizione confortevole. Lei era pallida e sudata. L’atmosfera che regnava in quella stanza era diventata pesante. Dopo circa un’ora d’osservazione, mi ero fatto un’idea su quel caso. Chiesi d’appartarci nell’altra stanza, mentre la signora rimase seduta continuando a fumare estranea a tutto quanto stava accadendo. Alcuni segni presenti in entrambi le mani m’inducevano a pensare che un trauma psicologico vissuto nell’infanzia fosse la causa di tutto. Domandai all’uomo se era a conoscenza di conflitti tra la moglie e i genitori in particolare col padre. L’uomo rimase pensieroso per poi parlare dei difficili rapporti tra padre e figlia. Disse che, malgrado non si parlassero da anni, lei era molto legata al padre. Incuriosito da quelle domande, volle sapere cosa centrasse questo con gli aborti della moglie. Non riusciva a collegare le due cose. Sorrisi e continuai. «Essendo lei la primogenita» dissi, «il padre ne fu deluso in quanto desiderava come primo figlio un maschio.» I sensi di colpa che cominciò a provare verso il padre per non essere lei nata maschio, sfociarono in un forte trauma con un conseguente blocco affettivo. Nel
suo delirio, la donna, si sentiva tradita e rifiuta. Sembrava banale come deduzione, ma ben presto si rivelò giusta. La mia ipotesi riguardo gli aborti spontanei della donna era che questi non fossero affatto spontanei ma causati in modo indiretto dalla stessa donna. Non so con quale meccanismo ma era capace di auto-prodursi un tale sovvertimento psicofisico da fare espellere il feto. Se da un lato, voleva soddisfare l’esigenza del marito di diventare padre, dall’altro aveva paura che potesse partorire come primo figlio un maschio che, nel delirio della donna, avrebbe rappresentato una sconfitta per lei e un motivo di soddisfazione da parte del padre che, secondo una sua logica perversa, invece doveva essere punito. La donna veniva così spinta a “uccidere” il feto che portava in grembo. Il marito, che sembrava scioccato, si lasciò andare su una poltrona quasi incredulo a quello che aveva appena sentito. Disse che aveva portato la moglie presso i migliori ginecologi e nessuno di loro era riuscito a trovare qualcosa che spiegasse quegli aborti. Da tutti gli esami effettuati, la donna risultava essere sana. Non c’era nessun tipo di malattia o malformazione che potesse indirizzare gli specialisti a capire perché ciò accadesse. L’avevano indirizzato anche verso psicologi e psichiatri, ma anche loro si erano arresi in quanto la moglie non presentava alcun segno di alterazione mentale. Ecco perché gli riusciva difficile credere a quanto avevo detto. Aveva ragione! Non era facile digerire ipotesi come quella da me suggerita. Non è facile credere cose a cui non riesci a dare una spiegazione razionale. Volli precisare che comunque la mia rimaneva pur sempre un’ipotesi che, secondo me, doveva essere sottoposta alla moglie. Rifletté un po’, e poi si disse d’accordo. Mentre parlavo la signora piangeva. Alla fine del mio discorso, si alzò, andò verso il marito e lo abbracciò. Lui sembrava un ebete. Incapace di qualunque
reazione. Il mio amico appartato in un angolo della sala si godeva la scena compiaciuto. Ci salutammo senza aggiungere altro. Un giorno ricevetti una telefonata. Era il mio amico. Con tono di voce euforico, m’informava che i suoi amici avevano voglia di vedermi e farmi una sorpresa. Avevano organizzato una cena, a sentir lui, in mio onore. Ero sorpreso! Non capivo il perché e questo mi disturbava. Accettai più per curiosità che per altro. Ad accogliermi trovai anche il marito della signora. Lei non c’era. Ero in imbarazzo. Non riuscivo a capire perché non ci fosse. Un dubbio mi attraversò. Forse si erano separati? Era stata colpa mia? Stavo per chiedere, ma non ne ebbi il tempo. Due mani mi lambirono gli occhi come quando si gioca a mosca cieca. Non faticai molto a capire a chi appartenessero. Me la ritrovai davanti, bella, radiosa, sorridente. Indossava un tailleur color sabbia che le dava un’aria da primavera in fiore. Non notai quel prominente pancione che si proiettava in avanti. Rimasi stupefatto nel vedere come fosse cambiata quella donna. Quasi provai vergogna nel sentire il desiderio di lei. Particolare che non le sfuggì. Quel mio sguardo voglioso del suo corpo fu da lei percepito al punto da buttarmi le braccia al collo, e suggellare le sue labbra alle mie. Con la coda dell’occhio guardai verso il marito, non volendo reazioni strane, che non mi sembrò affatto disturbato per l’attenzione della moglie nei miei riguardi anzi, mi sembrò contento. Si divincolò dall’abbraccio, mi guardò con occhi stralucenti di felicità e disse: «Grazie per avermi fatto capire!» Guardai il marito, il mio amico, poi nuovamente lei. La commozione aveva preso anche me.
CAPITOLO X
L’interpretazione
Un ovulo fecondato è composto da una cellula chiamata “zigote” che a sua volta si divide in due, quattro, otto cellule fino a raggiungere una struttura costituita da sedici cellule chiamata “morula”. Si crea, in un secondo tempo, una struttura cava chiamata “blastula”. Questo è il punto di partenza per clonare le cellule staminali. Nella fase successiva le cellule si suddividono in tre foglietti embrionali denominati “ectoderma”, “mesoderma”, e “endoderma” (ricordate gli animali a simmetria bilaterale?), che in seguito diventeranno tessuti e organi del nostro corpo. Da qui, cominceremo a esplorare e conoscere l’“Entità” che ci sta portando a prendere consapevolezza della reale nostra natura in questa dimensione. Attraverso tale consapevolezza, ci viene data la possibilità di uscire dall’inganno di questa transitoria ed effimera realtà superando così tutte le nostre debolezze e manie di onnipotenza. Capire che comione non vuol dire pietà ma interdipendenza, che essere simili non significa essere uguali, ci porterà alla comprensione del fatto che la nostra provenienza è unica. Nel caso contrario, saremmo destinati a perpetuare l’esperienza della vita in questa dimensione fenomenica che, per quanto a volte possa apparire meravigliosa, resta sempre un’esperienza di dolore e sofferenza. Non aspettatevi nessun intervento salvifico da parte di divinità comunque le intendiate. Nessuno in questa dimensione potrà donarvi felicità. Questo processo
deve partire da ognuno di noi poiché è in ognuno che alberga l’Intelletto e lo Spirito della Grande Madre. Le varie religioni hanno creato una visione ingannevole dando l’illusione di un Dio salvifico capace di tirarci fuori dall’inferno di questa dimensione dove, secondo alcuni, stiamo espiando con la sofferenza e il dolore la colpa per un presunto peccato da noi commesso. Non è cosi! Si fosse parlato più di sessualità e meno di religione, credo che oggi ci sarebbero state meno guerre e meno odio. Se si avesse la piena consapevolezza di quante femmine ebree si sono innamorate di maschi palestinesi e quante volte a questi si sono accoppiate, forse oggi quei popoli vivrebbero in pace. Se si avesse coscienza di quanti maschi bianchi hanno amato femmine nere e viceversa, forse non ci sarebbero più odi razziali. Sono state le varie religioni che con le loro ipocrisie e i peccaminosi interessi, hanno inventato un Dio tiranno a cui piegarsi per non incorrere nelle sue ire. Questo è amore? Molti dei “mali” che affliggono la nostra società detta “civile”, riconoscono le loro radici in tutto questo. Basta osservare le guerre causate dai conflitti fra le varie religioni per fugare qualunque dubbio. Con la scusa della “morale”, si costringe l’uomo alla sottomissione e all’ubbidienza generando in esso sensi di colpa verso tutto quello che è piacere. Questo, infatti, viene demonizzato in quanto fonte di peccato. Ci castigano sin da bambini presentandoci il sesso e la “libido” come qualcosa di proibito e peccaminoso. Bisognerebbe invece far capire che proprio attraverso il piacere sotto qualunque lato lo si voglia vedere, gli esseri umani si riconoscono empatici. Il nostro cervello è stato codificato per il piacere. Siamo stati noi che condizionati da vari pregiudizi abbiamo reso infelice il nostro stato.
La società in cui siamo costretti a vivere è falsa e ipocrita in quanto nega questo. Un mondo senza empatia è un mondo dove il male prevale su tutto! Se ci siamo evoluti e se stiamo continuando a farlo, lo dobbiamo a una presenza che all’ottava settimana di gravidanza attraverso la femmina madre entra in ogni essere. Tale presenza ci sta aiutando a ricordare come decodificare al meglio il codice della vita presente nel nostro DNA. Qualunque furono i motivi che ci allontanarono dall’Universo Madre, cioè dalla dimensione dove aleggiava lo spirito della “Grande Madre” rendendo sereno il nostro intelletto privo di qual si voglia forma fisica, non è dato saperlo. È accaduto e basta! Non chiediamoci il perché in quanto ci tormenteremmo inutilmente nel tentativo di trovare una spiegazione che in questa esperienza esistenziale non può essere trovata. È come dire a una persona caduta dal decimo piano rimasta ferita: «Sai sei caduto dal decimo piano.» Cosa volete che importi a questa persona saperlo? Quello che vi si chiede in quel momento è di soccorrerlo e basta. Questo sta facendo per noi il “corpo gravitazionale”. I vari universi fenomenici, tra cui anche il nostro, tentano continuamente di agganciarsi al punto da dove si sono staccati. In questo tentativo, essi si comportano come un cane che cerca di acchiapparsi la coda. Più si avvicina e più questa sfugge. Per capire questo fenomeno basta osservarsi mentre si respira. Quando siamo in fase d’inspirazione la cassa toracica si espande e questo corrisponde all’avvicinamento verso il punto, quando invece espiriamo questa si restringe corrispondendo così alla fase dell’allontanamento. Questa alternanza ci permette l’esperienza chiamata vita.
Ritornando all’embrione, abbiamo visto che dopo la formazione della blastula le cellule cominciano a separarsi per dar vita ai tre foglietti sopra descritti chiamati endoderma, mesoderma, ectoderma (ricordate la Vernanimalcula dell’era del Cambriano?), da cui prenderanno forma tutti gli altri organi. Penso che nessuno creda più che il concepimento di un maschio o di una femmina possa dipendere da riti scaramantici o fasi lunari o a come si alimenta la madre e così via, ma secoli fa questi fattori erano considerati determinanti per l’esito della sessualità del nascituro. La reale conoscenza della determinazione del sesso si ebbe nel Novecento con le teorie sull’ereditarietà di Mendel e con la nascita di due discipline scientifiche: la genetica e l’endocrinologia. Oggi sappiamo che il corredo cromosomico di ogni essere umano è composto di quarantasei cromosomi presenti in tutte le cellule di cui ventitré provenienti da un genitore e ventitré dall’altro. I cromosomi ordinari, detti autonomi sono quarantaquattro appartenenti a ventidue tipi diversi e contrassegnati da numeri, mentre i cromosomi sessuali sono due contrassegnati da lettere: XX per la femmina e XY per il maschio. Nella formazione delle cellule germinali dette gameti che hanno luogo nelle ovaie e nei testicoli, il corredo cromosomico delle cellule progenitrici viene dimezzato. La femmina produce solo gameti, cioè cellule-uovo, del tipo 22+X, mentre il maschio può produrre gameti, gli spermatozoi, di due tipi, 22+X o 22+Y. Si pensa che i due cromosomi X e Y, un tempo identici, forse uniti in un unico individuo, Lucy, si siano differenziati per una progressiva degenerazione dell’Y. Infatti esso contiene alcune decine di geni in confronto ai due o tremila del cromosoma X (femminile dominante?). Benché la formula dei cromosomi sessuali viene già definita nello zigote, la differenziazione sessuale non inizia fino alla sesta settimana di gravidanza, a partire dalla quale l’embrione si sviluppa in senso femminile.
Questo ci dice che ogni individuo è programmato come femmina e solo dopo, se entra in azione un determinato gene, il feto diviene maschio. Il gene decisivo di questo processo è quello chiamato SRY (Sex Region of the Y), anche se ci sono altri geni importanti per la determinazione e la differenziazione sessuale.
Al termine della sesta settimana, la gonade, la ghiandola sessuale, si dice indifferenziata perché comune ai due sessi. Il processo di differenziamento ha inizio con la settima settimana, ma i genitali esterni prendono forma dalle strutture primitive (come descritto precedentemente in Lucy) solo nel corso del terzo mese al termine del quale cominciano a diventare evidenti le differenze. Da questo momento, lo sviluppo di un individuo avviene grazie alla cooperazione dei geni di origine materna e paterna. Questo processo prende il nome di “meiosi”, processo che in Lucy non avveniva, di conseguenza tutte le creature da lei partorite avevano le stesse caratteristiche genetiche della madre. Quello che accadde in quella creatura milioni di anni fa, possiamo definirlo come un “crossover” cioè un salto che dette inizio al processo di meiosi. In poche parole le informazioni in Lucy si separarono dando così vita a una creatura completamente nuova che originò il maschio. A proposito d’informazione, voglio citare due aggi di un libro del fisico Schrodinger: “ La vita è informazione, l’informazione che ti fa diventare uomo oppure tigre e tutto ciò risiede nei cromosomi, le istruzioni della vita”. “ La vita è fatta di molecole e in queste devono esserci le istruzioni per la vita. Ma come si fa a copiare le istruzioni?” Sicuramente deve esserci qualcosa di davvero speciale affinché queste informazioni possano essere interpretate e copiate.
CAPITOLO XI
Il corpo gravitazionale
Nel 1998 due fisici americani, Richard Gott e Li-Xin Li, dell’università di Princeton (Usa), elaborarono l’ipotesi che potrebbe esserci un universo fermo nel tempo e sempre uguale a sé stesso che chiamarono universo madre. L’universo “madre” sarebbe come una grande macchina del tempo in cui futuro e ato si chiudono su sé stessi come in un cerchio. Da questo scaturirebbero, come se fossero generati, sempre nuovi universi tra cui il nostro. Tale ipotesi, a tutt’oggi, non è stata ancora smentita. Tutti questi universi generati da quello che abbiamo chiamato piano unificato (universo madre?), sono privi della presenza della “Grande Madre” che in questo piano vive. Questa assenza fa sì che ogni cosa che in loro si manifesta sia caotica ed entropica. Questo fenomeno è all’origine del nostro stato di sofferenza. Qualcosa d’importante, però, sta accadendo, ed è l’evoluzione sul nostro pianeta chiamato Terra dall’essere umano; evoluzione guidata dal “corpo gravitazionale” che, entrando nel corpo fisico, dovrà ricondurre ai “piani superiori” l’intelligenza smarrita e priva di consapevolezza che alberga in ognuno di noi. L’universo “madre” non è osservabile dalla nostra dimensione, esso viene continuamente collegato con gli altri universi generati da una vibrazione di luce che si accompagna al corpo gravitazionale. Questo è emanante, privo di forma e la sua presenza può essere solo percepita. “Egli” non è visibile, ma impregna tutto ciò che incontra nel suo continuo ed eterno “cammino”. Egli è il messaggero della “Grande Madre” di cui è fatto. Attraverso lui, le intelligenze smarrite nei vari universi fenomenici ritorneranno
a “Lei”. Anche l’uomo potrà ricongiungersi all’universo “madre” da dove è uscito, interrompendo così quello che i buddisti definiscono “ciclo delle rinascite” causa di ogni sofferenza. Questo straordinaria presenza che impregna tutto ciò che incontra al suo aggio, si comporta come l’aria che respiriamo, capace di entrare contemporaneamente in miliardi di esseri viventi pur rimanendo sempre la stessa. Ma l’aria altro non è che la risultanza di un fenomeno dimensionale, o comunque fisico, predisposto a essere modificato, mentre il corpo gravitazionale è perenne, immodificabile, non dovuto a fenomeni fisici, chimici o quant’altro, dunque non può essere sottoposto a nessun condizionamento dimensionale. Nel corso dell’esperienza terrena, attraverso particolari allenamenti, il corpo gravitazionale può essere percepito ma non visto. Solo quando si attraversa la dolorosa esperienza dell’abbandono del corpo fisico si è nella condizione di poterlo vedere. Sarebbe necessario, a questo punto, capire come avviene il processo di “entrata” del corpo gravitazionale in noi. John Stewart Bell, fisico irlandese, nel 1964 mise a punto una sua teoria chiamata “Teorema o diseguaglianza di Bell”. È una teoria molto complessa che richiederebbe la conoscenza di basi di fisica quantica pertanto ne evito l’approfondimento. Ritenendo però che tale teorema possa aiutare a capire di cosa sto parlando per quel che riguarda l’ “intrecciamento” tra il corpo fisico e quello gravitazionale, voglio citare quanto scritto dal fisico David Lindley: “Quand’anche non ci pie la Meccanica Quantica, quand’anche pensassimo che qualche altra teoria potrebbe infine venire a soppiantarla, non potremmo però tornare alla vecchia visione della realtà. Essa semplicemente non funziona: questa è la vera importanza, è il vero messaggio del teorema di Bell”. Il Teorema di Bell ci dice che la realtà nel suo intimo si ribella alla fredda logica razionale con cui abbiamo indagato fino ad oggi, e che dobbiamo accettare la sincronicità oltre alla casualità e la logica del terzo incluso al posto della logica del terzo escluso. Il Teorema di Bell avvicina oriente e occidente, fisica,
religione, filosofia, proclamando il livello di armonia del reale che non riusciamo a cogliere perché troppo abituati ad analizzare in dettaglio il particolare, senza essere capaci di percepire il messaggio che ci viene dal Tutto. Bell reintroduce nella scienza la componente femminile, magica, della realtà che troppo spesso abbiamo sottovalutato. Questo teorema è in grado di conciliare le scienze esatte con quelle umane. Con il Teorema di Bell la fisica, che una volta era partita dal cervello, è arrivata a toccare il cuore. Per questo si ha paura ad accettarne le conseguenze. Si è visto che l’embrione umano fino alla settima settimana di gravidanza si trova in una fase di replicazione sempre uguale. All’ottava settimana avviene un cambiamento. Da processo indifferenziato qual era si comincia a differenziare diventando un feto. Questo è il momento in cui il corpo gravitazionale comincia la sua permeazione in quello fisico o fenomenico cioè il nostro, in modo da farci prendere non solo consapevolezza della nostra reale natura, ma da permetterci il “ritorno” verso quella dimensione da cui ci siamo allontanati. Un po’ come nel caso dell’“epistrophé” di Proclo, filosofo greco vissuto nel quinto secolo d.C.. Proclo fu uno dei massimi rappresentanti della Scuola di Metafisica di Aristotele, che riprendendo la filosofia di Plotino, sostiene la legge generale della realtà come ritmo ternario, costituita cioè di tre momenti, da intendersi però in senso ontologico, non cronologico: ogni principio anzitutto rimane in sé stesso come “monè”, permanenza, poi procede da sé, nel senso che genera il suo effetto, detto “pròodos”, processo, infine ritorna a sé, ossia l’effetto da esso generato ritorna al suo principio, è la “epistrophé”, il ritorno. Questo processo di permeazione si completa alla ventiquattresima settimana. Diventa pertanto di estrema importanza che la futura madre dall’ottava settimana in poi, sincronizzi i suoi pensieri e suoi atteggiamenti in atti positivi nei riguardi del nascituro. Da questi dipenderà il futuro equilibrio psichico, e non solo, del bambino. Purtroppo, però, non sempre questo avviene. In un numero considerevole di casi, quando la femmina scopre di essere incinta, vive questo primo stadio come un trauma.
In lei si manifesta un momentaneo stato di smarrimento e di rifiuto verso quella nuova condizione. Questo stato mentale, se non va oltre l’ottava settimana, non produce nessun danno all’embrione in quanto questo non è in grado di percepirlo. Cosa diversa invece se questo perdurasse oltre tale periodo. Il corpo gravitazionale è particolarmente sensibile e suggestionabile. Esso è come un bambino soggetto a varie paure. Per questo motivo l’atteggiamento mentale della futura madre risulta essere di primaria importanza. L’energia vibrazionale che si accompagna al corpo gravitazionale, entra nel feto attraverso il sistema limbico della madre. Nel caso che quest’ultima nutrisse atteggiamenti negativi o peggio ancora di rifiuto verso il proprio stato, avrà come conseguenza un’alterata sincronizzazione di questa “energia” con notevoli ripercussioni negative sulla futura vita del nascituro. Il sistema limbico è una struttura facente parte del cervello. In tale sistema troviamo l’ipotalamo, chiamato anche cervello primordiale, la ghiandola pituitaria (ipofisi), e l’amigdala. L’amigdala e l’ipotalamo, in particolare, risultano essere i più ricchi in recettori. Ne contengono infatti quaranta volte in più delle altre aree del cervello. In questi due organi, sono stati individuati dei punti definiti “caldi” che corrispondono a nuclei e a gruppi cellulari specifici, identificati dai neurofisiologi come mediatori d’importanti processi. L’amigdala, che studi recenti hanno dimostrato essere la sede della nostra intelligenza emozionale, è la prima con cui il corpo gravitazionale si relaziona. Il corpo gravitazionale è privo di corporeità fisica ed è fuori da ogni concetto dimensionale. La sua realtà vibrazionale non è misurabile con gli attuali mezzi che la scienza possiede. Egli proviene dal “piano unico” e non incontra ostacoli di nessun genere mentre varca i vari universi fenomenici, dove crea consapevolezza nelle creature che in questi incontra, destandoli dal torpore intellettivo in cui sono precipitati. Nell’essere umano convivono due forze estreme. Una che spinge verso una
condizione superiore e sovradimensionale, l’altra, essendo istintuale, ci accomuna a tutte le altre specie animali soggette a fisicità temporanea. A causa di questa “convivenza” e della relativa mancanza di consapevolezza, l’uomo non è ancora riuscito a riconoscere la natura trascendentale del corpo gravitazionale, che in esso convive, e che lo porta a sviluppare sentimenti e capacità quali la tolleranza e l’empatia in modo da fargli superare quei limiti istintuali che lo sovrastano. Se l’uomo è riuscito attraverso la sua intelligenza e la sua inventiva a creare la musica, la poesia e la filosofia, a compiere un ragionamento logico, se in noi coabitano sentimenti quali l’amore, gli affetti ecc., questo lo si deve alla presenza del corpo gravitazionale. Malgrado tutto, siamo ancora lontani dal capire e conoscere profondamente la nostra vera identità. Anche se ci è chiaro che nulla in questa dimensione cosmica ci appartiene e prima o poi si dovrà lasciare tutto quello che con fatica e amore si è costruito, pensiamo e immaginiamo di essere permanenti e dunque immortali. Solo uscendo da quest’inganno possiamo sperare di attraversare il fiume aspro della vita senza farci coinvolgere dalle falsità che si presentano lungo il suo percorso. Il compito del corpo gravitazionale è quello di condurci a tale consapevolezza. Egli, pur stando stretto nel corpo umano o fenomenico, come un piede quaranta in una scarpa trentasei, fa di tutto per slacciarla in modo da liberare l’immensa “energia” intrinseca che ci accomuna.
CAPITOLO XII
La simbiosi
Una parte di noi non scaturisce dai normali processi biologici che conosciamo, ma è la risultanza di un segnale a frequenza non rilevabile facente parte di quello originario che arriva dal piano unificato. Secondo alcune teorie di fisica quantistica, il campo unificato della consapevolezza esiterebbe alla dimensione super-unificata di 10 alla meno 33 cm della scala di Planck la distanza più piccola che si possa definire. Sir Roger Penrose, fisico, matematico e filosofo britannico fu il primo a insinuare che quella che chiamiamo consapevolezza potrebbe in definitiva essere un fenomeno della scala di Planck. Il fisico quantistico John Hagelin afferma che abbiamo bisogno di un qualcosa che connetta la consapevolezza al cervello fisico e ai neuroni per fornire una connessione tra quello che è un organo molto macroscopico, il cervello, e la microscopica scala di Planck. In effetti questa connessione, come ha intuito Penrose, potrebbe essere un fenomeno di scala di Planck. Il professore Stuart Hameroff, direttore del Centro Studi sulla Coscienza dell’Università dell’Arizona, Tucson-Usa, sostiene che siamo un insieme di effetti quantici che governano la consapevolezza. Essi creano l’universo, anche se in scala molto piccola sono presenti ovunque, in qualsiasi dimensione si vada sono lì, e c’è informazione a quel livello, nella scala di Planck. La domanda è se tutto questo è casuale e in grado di controllare i movimenti a un livello più alto, o se si può invece affermare che a questo livello fondamentale, nell’universo, ci sono informazioni e valori platonici. Questa teoria è stata espressa da Sir Roger Penrose che ha chiamato tale dimensione il Reale Platonico. Cos’è il “Reame Platonico”? Una delle caratteristiche essenziali di questo modello di Penrose, è nella scelta dello stato finale in cui si verifica la riduzione da uno stato preconscio a conscio che non avviene né in modo casuale né completamente in modo algoritmico. Invece tale stato viene selezionato da un’informazione che si trova al livello fondamentale dello spazio-tempo
rappresentata dalla scala di Planck. Penrose sostiene che tale informazione è platonica in quanto rappresenta pura verità matematica e puri valori etici ed estetici. Era stato Platone, ad aver proposto tali valori e forme pure in un reame astratto. Sarebbe questo reame platonico, che Penrose collega alla scala di Planck, a determinare il funzionamento della nostra mente. Il segnale che arriva dal piano unificato permette la sincronizzazione del corpo gravitazionale con quello fisico. Inizia così la simbiosi fra l’intelligenza ripetitiva dimensionale e l’intelletto unico non dimensionale. Il corpo gravitazionale, essendo di natura sovradimensionale “vive” in uno stato di consapevole beatitudine. Esso non conosce la sofferenza né il dolore, caratteristiche comuni nell’umano. La fusione di queste due forze consente lo scambio d’informazioni. Vi siete mai chiesti perché ci sono esseri umani che si distinguono per la loro bontà e per la comione che provano verso tutti gli altri esseri viventi, pronti al sacrificio per il bene comune di tutte le creature? Ebbene queste persone hanno riconosciuto la suprema natura presente in loro. Per contro esistono, e purtroppo sono la maggioranza, persone i cui sentimenti sono opposti ai primi. In questi individui alberga l’odio, l’invidia, la mancanza di tolleranza ecc. Elementi questi che ci fanno capire come il processo di riconoscimento sopra accennato non è ancora avvenuto. La presenza di cui parlo, si comporta come un codice capace di guidare e decodificare quello che geneticamente è presente in ogni essere vivente. Voglio citarvi lo stralcio di un articolo apparso su un giornale che riporta notizie di scienza: “Esiste un codice segreto nascosto nel Dna, che va al di là di quello genetico. Un codice che guida i nucleosomi, proteine attorno a cui si arrotola il Dna.
Un sistema che in qualche modo protegge ma anche controlla l’accessibilità ai geni e quindi la produzione di proteine. Il primo codice, infatti, quello che è noto ormai da tempo è proprio quello attraverso cui il Dna fornisce le informazioni alla cellula per la produzione di proteine. Da tempo ormai genetisti e biologi, stanno approfondendo e arricchendo la visione dei meccanismi cellulari. Per esempio qualche settimana fa è uscita su Nature (una delle più importanti e autorevoli riviste scientifiche al mondo) la ricerca di Minoo Rassoulzadegan, dell’Université de Nice-Sophia Antipollis che intravede in piccole molecole di Rna le responsabili della cosiddetta paramutazione (un processo attraverso cui informazioni ereditarie vengono trasmesse a generazioni successive in assenza dell’allele che codifica tali informazioni). Questo per dire che ancora non si sa tutto sull’ereditarietà. Tutt’altro! Mendel e le sue leggi ci sembrano ormai storia antica eppure, sono molti i fenomeni e le particolarità che continuano a sfuggirci.” Che cos’è questo qualcosa che ancora si sottrae alla scienza ufficiale?
CAPITOLO XIII
I tre traumi
L’essere umano, appena nato viene nutrito, cullato, e rassicurato dalla propria madre. Ben presto però, ci si accorge che questo stadio della vita non è uno dei migliori per il nascituro. Egli piange con facilità, è suscettibile a ogni minima variazione comportamentale nei suoi riguardi, e soffre per tutta una serie di disturbi indotti dall’adattamento a quella sua nuova condizione. Per nove mesi è rimasto immerso in quel mare che è il liquido amniotico dove piccole onde l’accarezzavano. La temperatura di quel mare era gradevole e costante. Era lontano dai frastuoni fastidiosi provenienti dall’ambiente esterno, e veniva rassicurato da un battito costante e armonioso, il cuore della madre! Quel suono ritmato che lo ha accompagnato da quando era embrione fino alla nascita, era il suono della vita. Quella condizione era la felicità!
Esistono tre traumi mai superabili che ci accompagneranno per tutto il corso dell’esistenza terrena: la nascita, la malattia e la morte. Osserviamo il primo visto che gli altri due sono comprensibili a tutti. I primi nove mesi della nostra vita li viviamo all’interno di nostra madre. Questa condizione abbiamo visto essere di assoluta felicità. Non esistono altre
condizioni se non quella. Per poterne vivere un’altra, dobbiamo “uscire” da tale fase. La prima esperienza negativa la viviamo quando all’interno del grembo materno ci posizioniamo a testa in giù preparandoci ad abbandonare quello stato. In questa fase di rotazione, sentiamo il battito del cuore di nostra madre allontanarsi e affievolirsi sempre più fino alla sua totale scomparsa. Questo ci frastorna e ci rende infelici. Incapaci di comprendere quanto sta accadendo, veniamo assaliti dall’angoscia. Crediamo di essere stati abbandonati. A un certo punto la placenta si rompe. Un vortice d’acqua ci risucchia all’esterno, mentre una grande paura ci sovrasta. Vorremmo gridare e piangere ma non possiamo; tentiamo di aggrapparci ma tutto è scivoloso. Questa immensa angoscia non la dimenticheremo mai anche se, nel corso dell’esistenza, non ne abbiamo memoria. La temperatura interna comincia a cambiare. Tutto diventa più freddo, mentre un gorgo ci risucchia incuneandoci in uno stretto cunicolo che ci schiaccia la testa. All’estremità di questo cunicolo un’intensa luce ci abbaglia. Non avendo la percezione del tempo, ci troviamo catapultati in un ambiente sconosciuto fatto di rumori e presenze a noi estranee. Non sappiamo ancora che tra quelle presenze c’è la persona che più ameremo nel corso della nostra “nuova” vita: la madre! La prima reazione sarà il pianto. Esso sgorga come un atto liberatorio che attiva il processo respiratorio, ma nel contempo rappresenta il lamento verso quella nuova frustrante condizione che è la nascita. Dopo essere stati lavati mentre la nostra pelle brucia, veniamo vestiti e adagiati fra le braccia di nostra madre, che con gesto d’amore ci porta al seno. Ed è proprio lì che, risentendo quel battito a noi familiare, ci tranquillizziamo sentendoci più sicuri in quella nuova condizione.
CAPITOLO XIV
L’allattamento al seno
Allattare al seno il proprio bambino non è solo il requisito primario per una corretta alimentazione, ma anche un atto d’amore affinché il bambino abbia una crescita armoniosa e sana. L’allattamento al seno rappresenta per la madre un’esperienza oltre che piacevole anche formativa. La posizione anatomica delle mammelle, vicine al cuore, permette al nascituro di ritrovare in quell’ambiente “ostile” il ritmo armonioso di quel battito che gli dà la certezza di essere amato e accettato. Sentire quel battito mentre poppa, significa per lui tornare in quell’ambiente dove la sua realtà ebbe inizio, mentre per la madre sentire la propria creatura al suo seno, diventa momento di gioia e serenità. Si rafforza così quel filo misterioso che legherà per sempre le loro vite. Purtroppo, per una criminale cultura del guadagno, molte madri in tutto il mondo, con le scuse più assurde, sono state spinte ad allattare sempre meno al proprio seno i loro piccoli. Questo disegno criminoso ha permesso un’alimentazione artificiale, causa di molti disturbi sia di ordine fisico che psicologico. Attraverso l’allattamento al seno, l’organismo della femmina libera due importanti sostanze: l’ossitocina e la prolattina. L’ossitocina è un ormone prodotto dal sistema endocrino in risposta ad alcune emozioni come l’amore e l’apprezzamento. Quando ci si innamora l’ipofisi (o pituitaria), ghiandola facente parte del sistema
endocrino a forma di pera, composta da due porzioni, una anteriore e l’altra posteriore, comincia a liberare da tale porzione, un quantitativo superiore alla norma di ossitocina. Una delle funzioni più importanti di questa molecola è quella svolta nel periodo in cui si crea il legame tra madre e figlio cioè, quando comincia a prodursi l’eiezione del latte. L’ossitocina è uno di quei neurormoni prodotti quando il neonato inizia a succhiare il latte. Infatti, attraverso la poppata e la relativa stimolazione del capezzolo, si inducono particolari neuroni a collegarsi all’ipofisi posteriore. Questi neuroni sono di due tipi, uno controlla l’ossitocina, l’altro un secondo neurormone chiamato prolattina altra molecola importante per la fruizione dei legami affettivi. L’attività di questi due ormoni è al massimo, quando ci si trova coinvolti in emozioni prodotte dall’amore, dal legame affettivo, dall’allattamento e dall’intimità. Pertanto, quando il bambino viene privato dell’allattamento al seno, vengono meno tutte queste funzioni. In questi ultimi tempi, assistiamo a una serie di comportamenti da parte della femmina che definirei di “smadrizzazione”. Più femmine oggi vivono la gravidanza e dunque il parto come uno stato precario nei confronti del maschio. Credo che moltissime femmine sarebbero felicissime se a partorire i figli fossero i mariti anziché loro. Forse è per questo che le femministe sono forti estimatrici dei cavallucci marini. Infatti, in questi graziosi animali a partorire è il maschio. Il maschio di quest’ultima generazione sta assumendo atteggiamenti nei riguardi della propria prole che imitano molto quelli materni. L’allevamento dovrebbe essere di esclusiva competenza materna, invece molto spesso così non è. L’allattamento artificiale è una conseguenza di questi comportamenti. Ormai cambiare il pannolino, pulire il neonato, spingere la carrozzina, magari, mentre la madre fuma, alzarsi di notte mentre il bambino piange a dirotto sono
compiti che sempre più maschi fanno. Non dico questo per mero maschilismo, ma semplicemente voglio evidenziare che, con tali atteggiamenti non bisogna poi stupirsi del perché molti giovani oggi attraversano una forte crisi d’identità. Una cosa è la collaborazione nella gestione dei figli, un’altra è la sostituzione dei ruoli. Un’alta percentuale di disturbi comportamentali dei bambini dipendono molto dai rapporti intrattenuti con la madre nei primi tre anni di vita e da eventuali traumi da questa causati nel periodo fetale. Non voglio inoltrarmi su argomenti che ci porterebbero lontano. Esiste una vasta letteratura in cui il lettore interessato potrà muoversi a suo piacimento.
CAPITOLO XV
Le stagioni della vita
Come molti altri animali, anche l’uomo attraversa vari stadi di crescita che poeticamente chiamiamo “stagioni della vita”. Queste si possono differenziare in quattro fasi: infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia. L’infanzia si può suddividere in due parti, la prima che va da zero a sei anni, mentre la seconda fino ai dodici anni. Nella prima parte, il bambino ha costantemente bisogno della presenza della mamma. Il suo ambiente è molto ristretto ed egli conosce solo la culla e le braccia sicure della propria madre. Le sue necessità sono limitate al dormire e mangiare oltre che, chiaramente, ai bisogni fisiologici. Col progredire dell’età, l’ambiente circostante si espande. Il bambino ha già imparato a camminare e parlare e incomincia le prime esplorazioni del territorio che lo circonda. Nella seconda infanzia comincia a frequentare le scuole uscendo dall’habitat domestico e inizia a prendere i primi contatti con l’esterno in modo autonomo. Impara a conoscere la città dove vive, crea le prime relazioni con i coetanei e ottiene dai genitori le prime concessioni che gli permettono più libertà di movimento.
La stagione dell’adolescenza è l’inizio di una delle fasi più delicate nella vita dell’uomo.
In questa fase, avvengono una serie di cambiamenti fisici e psichici, che lo proietteranno verso quella che sarà l’età adulta. In questo periodo di vita, iniziano le prime e forti pulsioni sessuali che spingeranno l’adolescente verso i suoi primi innamoramenti. La libido diventa l’impulso dominante. Con la creazione di nuove amicizie, comincia il lento distacco dalla famiglia con cui iniziano i primi contrasti.
L’età adulta è quella della massima espansione. Si hanno maggiori responsabilità mentre il mondo diventa un ambiente dove ci si muove con grande facilità. In questa stagione la pulsione narcisistica adolescenziale si modula creando i presupposti per la costituzione di una famiglia propria. La libido, anche se perde un po’ di quell’irruenza dell’età adolescenziale, diventa più equilibrata e selettiva permettendo relazioni affettive più stabili.
Nella fase del declino che chiamiamo vecchiaia, tutto comincia a invertirsi. La libido diminuisce notevolmente per poi sparire del tutto. Il girovagare per il mondo si riduce cominciando anche a restringersi l’ambiente in cui ci si muove. Le amicizie si diradano mentre la famiglia che si era costruita si spezzetta. I figli, ormai cresciuti, si allontaneranno per costruire a loro volta una nuova famiglia. I ricordi diventano il filo conduttore col ato che a volte possono essere fonte di gioia, ma che nella maggioranza dei casi diventano fonte di tristezza. La salute, cominciando a vacillare, ci costringe a vivere nell’ambito, nel migliore dei casi, ristretto della nostra abitazione riportandoci paradossalmente indietro alla prima infanzia. Tutto in questa esperienza fenomenica diventa ripetitivo.
Si parte da una condizione per poi tornare alla stessa da cui si è partiti.
Ma cosa c’è dopo la vecchiaia? L’abbandono del corpo fisico, quel corpo che è stato per noi come l’astronave in cui abbiamo viaggiato che arrivata al termine del suo viaggio si disfà. Ma la creatura che in essa ha viaggiato può disfarsi insieme a lei? Io credo di no. Attraverso il nostro fantastico viaggio, vedremo quello che accade quando questo periplo di vita finisce. Penso sia capitato a tutti di vedere, anche per strada, un animale morto. Se siamo animalisti proviamo un senso quasi di pena. Se invece non lo siamo, la nostra reazione sarà il disgusto. Diremo che quella è una carcassa di un animale morto o addirittura una carogna. Non credo invece sia capitato a molti di noi vedere un essere umano nelle stesse condizioni. La reazione, in questo caso, è molto diversa dalla prima. Quello che si prova è paura, ansia e smarrimento. La percezione che abbiamo di noi stessi è alterata e un senso di malessere ci assale. Anche se non conoscevamo quella persona proviamo dolore. Non emo termini come carcassa o carogna per descriverlo, ma parleremo di cadavere. Cos’ è successo? Perché il nostro atteggiamento è cambiato? Semplice! Abbiamo preso immediata consapevolezza della precarietà dell’esistenza. Abbiamo riconosciuto in quel corpo senza vita noi stessi. In quel momento siamo diventati comionevoli mentre un senso di tristezza ci pervade.
Eppure vi posso garantire che, tra la carogna di quell’animale, e il cadavere di un essere umano, biologicamente non ci sono differenze. Tutte e due andranno in putrefazione e si decomporranno nella stessa forma e maniera. Ambedue in quello stato diventano uguali ed è solo la nostra osservazione consapevole che ce li fa percepire come diversi. La verità è che, in quel corpo umano noi abbiamo abitato ed è li che abbiamo conosciuto il corpo gravitazionale che ci ha permesso di sviluppare sentimenti quali l’empatia e l’amore. È in quel corpo che abbiamo vissuto le nostre emozioni, i nostri momenti belli o brutti, è attraverso quel corpo che i nostri istinti si sono fusi con l’intelletto. Attraverso lui abbiamo amato i nostri cari, ci siamo accoppiati provando l’ebbrezza del piacere, abbiamo percepito i colori che ci circondano, la pioggia che ci bagna, il vento che ci porta messaggi da terre lontane, il piacere del cibo, la gioia del primo sorriso dei nostri figli e la carezza della mano di quella persona che prima di ogni altro ci ha amati: nostra madre. È vero anche, che attraverso quel corpo abbiamo provato il dolore e la sofferenza. Ecco perché lui ci appare più importante di qualunque altra creatura vivente. Ecco perché non vorremmo mai separarcene. Anche se fuggiamo da questa idea, sappiamo che prima o poi questo dovrà succedere. Nessuno può esserne immune, malgrado l’istinto alla sopravvivenza ci allontana da questo pensiero. La morte è l’atto più ignobile e crudele che ogni essere vivente dovrà subire e sperimentare. Fra tutte le altre creature solo l’essere umano ha percezione di questo. Egli soffre in quanto sperimenta questo dolore ancor prima che l’evento si verifichi. Ma cos’è la morte? È il prezzo che si deve pagare per avere ascoltato una favola raccontata da un idiota per degli imbecilli? È lo strano scherzo di un destino bieco? Arriva lì, improvvisa, non ti dà neanche il tempo di un saluto, non ti permette neanche l’ultima carezza a chi più hai amato nella tua vita, rubandoti l’ultimo
sorriso che il mondo ancora potrebbe offrirti. Questo stato di sofferenza è uno di quei tre traumi, visti in precedenza, che non si possono superare. Epicuro, in un suo pensiero dice : “La morte non dovrebbe farci paura in quanto, se c’è lei non ci siamo noi, e quando ci siamo noi non c’è lei”. Semplice a dirsi! L’essere umano è l’unica creatura consapevole della morte. Egli sa, che una volta finita la vita terrena, non potrà più vedere ciò che ha amato, non godrà più delle cose a lui appartenute. Con questo pensiero, si guarda attorno e prova la spiacevole sensazione che tutto quello che lo circonda non sarà mai più visto. Questa consapevolezza è la causa scatenante del malessere esistenziale. L’attaccamento alle cose che si dovranno lasciare genera sofferenza. Si può, volutamente, non pensare a tutto questo ma, di fatto, la sostanza non cambia. La società in cui viviamo ci ha abituati a esorcizzare l’evento. Si fa di tutto per cancellare l’incancellabile dalla nostra mente. L’educazione con cui siamo cresciuti in questa realtà sociale, non ci consente di analizzare con freddezza quello che è ineluttabile e dunque accettarlo. Ci sono civiltà vissute millenni prima della nostra, come quella degli antichi greci, che del morire facevano una riflessione quotidiana, riuscendo ad accettarne pienamente il significato. Questi popoli non solo istruiscono il loro cervello ad abituarsi all’idea della fine e dunque all’inevitabile, ma vivono la loro esistenza in modo gioioso e pieno. Essi vivono nel presente, non valutano il ato né tanto meno riflettono sul futuro in quanto non esistente. L’ultimo trauma è la malattia. Anche se non sempre questa diventa causa di morte e comunque fonte di sofferenza. Gli antichi egizi non davano nome alle malattie in quanto si erano accorti che catalogarle con dei nomi favoriva l’allargarsi della pestilenza. Questo accade tutt’ora anche se ormai nessuno ci fa caso. Non vi deve sembrare sciocco ma a volte le parole hanno la capacità d’influire sulla psiche del soggetto con conseguenze devastanti. Jean-Jacques Rousseau diceva che: “Le parole sono proiettili inesplosi.”
Mai verità fu più vera. Questi comportamenti ci permetterebbero di assaporare meglio l’esperienza che chiamiamo vita. Nell’Ecclesiaste si diceva: “Godete e gioite finché siete sotto la luce del sole, perché dopo ci saranno le tenebre e null’altro”. In questo aggio del Vecchio Testamento, credo che il riferimento fosse all’esperienza che si vive attraverso il corpo fisico, che non bisogna martoriare o vittimizzare ma goderlo fin quando ci troviamo nell’esperienza fenomenica. Se siamo in questa dimensione, non lo siamo per espiare peccati né tanto meno per essere perdonati da presunte colpe, siamo qui per prendere consapevolezza della nostra suprema e reale natura, smarrita e confusa dall’esperienza fenomenologica di cui siamo vittime e carnefici.
CAPITOLO XVI
L’apoteosi
Chi entra nell’esperienza della vita terrena prima o poi ne dovrà uscire. Giunti alla fine della vita corporea, si sperimenterà in modo doloroso quella crisi energetica irreversibile che definiamo morte, processo che non avviene in un unico momento, anche se tale ci appare, ma a fasi. Gli yogi, praticanti dello yoga buddista, attraverso tecniche di meditazione profonda, sono riusciti a sperimentare in modo consapevole queste fasi di transizione finale chiamate “fasi di dissolvimento”. Queste fasi vengono collegate ai venticinque elementi detti “grossolani” ai quali ognuna si associa. Gli elementi grossolani da noi conosciuti come acqua, terra, fuoco, aria ecc. sono parte integrante del nostro corpo fenomenico. Combinando questi dissolvimenti con gli elementi grossolani si ha una descrizione del processo di morte. Per semplificazione, visto che le fasi di dissolvimento che gli yogi hanno sperimentato sono tante, le ho raggruppate solo in quattro. Nella prima fase, l’elemento terra si dissolve nell’acqua mentre la forza fisica comincia ad abbandonare il corpo. Ci si sente sprofondare e indebolire. Tutto l’aggregato materiale comincia a dissolversi e il corpo fisico sembra avvizzire. Quello che prima aveva forma ora appare indeterminato mentre la vista si deteriora e tutto diventa sfocato. La seconda avviene quando l’elemento acqua si dissolve nel fuoco e tutti i fluidi del corpo cominciano a inaridirsi. Questo è il momento in cui le sensazioni
cessano e ci si intorpidisce. L’udito viene meno e non riusciamo più a sentire i rumori provenienti dall’esterno. Ci sentiamo come se una cortina di fumo ci avvolgesse. Quando il fuoco comincia a dissolversi nell’aria ci si trova nella terza fase. Si sente un freddo intenso e tutto ciò che conoscevamo, desideri, emozioni ecc., svanisce dalla nostra mente. La respirazione, e in particolare l’inspirazione, s’indebolisce al punto tale che il nostro naso non riesce più a percepire gli odori, mentre uno scintillio di piccole luci ci circonda. Quando l’aria comincia a dissolversi nello spazio ci troviamo nell’ultima fase, la quarta. A questo punto il respiro si ferma, tutta l’energia che il corpo possedeva si concentra nel sistema nervoso centrale e scompare ogni funzione volitiva. La lingua comincia a ingrossare e i gusti che eravamo abituati a percepire si dimenticano. Il tatto e ogni struttura fisica spariscono e ci si sente come se una tenue luce di candela col suo ultimo bagliore ci avvolgesse. Da questo momento si può essere dichiarati clinicamente morti. Tutto ciò che era elemento fisico se ne è andato, e sia nel cervello che nel sistema circolatorio non vi è più nessuna attività. Tutto questo processo dura circa otto giorni. Al nono giorno avviene la liberazione e il risveglio del “corpo sottile” o anima, cioè quella parte di noi tenuta prigioniera nel corpo fisico. Quando si attraversano le fasi descritte in precedenza, siamo completamente soli. Ogni pulsione, ogni attaccamento a tutto ciò che abbiamo amato svanisce, mentre la rabbia e l’impotenza ci pervade. Ci si trova nella stessa condizione della nascita, ma in senso inverso. In quello stato, l’energia era al massimo della sua espansione, mentre ora comincia a
disgregarsi disperdendosi nello spazio. Il corpo gravitazionale non attraversa queste fasi in quanto fuoriesce dal corpo fisico prima che il dissolvimento avvenga. Essendo un “essere” sovradimensionale, non può essere soggetto a nessuna esperienza dolorosa. Una volta uscito dimorerà, nell’attesa che il “corpo sottile” lo raggiunga, in un territorio dove lo spazio e il tempo si introflettono per poi inabissarsi nell’infinito “assoluto” dove non esiste né un inizio né una fine. Ci si risveglia in una misteriosa dimensione. Non ci ricordiamo nulla e ci sentiamo intontiti. Ci guardiamo attorno senza riuscire a capire dove ci troviamo. La paura prende il sopravvento. Cominciamo a gridare, ma stranamente non riusciamo a sentire le nostre grida. Uno strano silenzio ci avvolge. Tutto sembra ovattato e nessun suono ci arriva. L’angoscia in noi aumenta. Guardiamo il corpo in cui eravamo ma non lo vediamo più. A quel punto presi dal panico tentiamo di correre e di scappare, ma non ci riusciamo. Restiamo lì, attanagliati dalla paura come sprofondati tra sabbie mobili. Un senso di prostrazione ci spinge al pianto ma neanche questo riesce a consolarci. Siamo completamente soli e abbandonati. Non si ha più consapevolezza di quello che siamo stati, di avere avuto affetti, amori e appartenenza alcuna. Mentre tentiamo di capire dove ci troviamo, cominciamo a intravedere uno strano paesaggio attraversato da fitte nebbie. A un certo punto, mentre le nebbie cominciano a diradarsi, dei bagliori di luci
variabili attirano la nostra attenzione. Sembra di trovarsi in una grande radura, invasa da un tremendo caldo che si alterna a un intenso freddo. Sulla superficie di questa radura si osserva un riverbero come quello di un manto stradale sotto un sole cocente dopo aver piovuto. Il grigiore spettrale del luogo a poco a poco lascia lo spazio a una luce rossoarancione, come quella che si osserva all’aurora. Dove ci troviamo? In un territorio di confine tra l’universo fenomenico, che fino a poco tempo fa abbiamo abitato e di cui non ricordiamo nulla, e l’universo “madre” da cui proveniamo; un territorio chiamato “Bardo” dai buddisti, “Entelechia” dagli antroposofici e “Purgatorio” dai cristiani. In questo luogo avviene l’incontro tra il corpo sensibile e quello gravitazionale, che non attraversa il Bardo in quanto essere puro. Si comincia a prendere consapevolezza del territorio dove ci si trova. I contorni del luogo cominciano a delinearsi. L’angoscia, fino a quel momento provata, lascia il posto alla curiosità. Percepiamo degli strani suoni, mentre cominciamo a muoverci lentamente scrutando l’ambiente che ci circonda. La luce, prima offuscata dalle nebbie, comincia a diventare più chiara e percepibile. Non gridiamo più, anzi osserviamo un religioso silenzio come se aspettassimo da un momento all’altro di scorgere o percepire qualcosa. Improvvisamente, uno strano suono ci distoglie da quello stato d’allerta costringendoci a volgere la nostra attenzione verso l’orizzonte. Quel suono comincia a trasformarsi in una dolce nenia capace di trascinarci in uno stato di assoluta serenità e gioia. Mentre ci troviamo in questo stato, una luce intensa ma non fastidiosa si pone d’innanzi a noi. Il colore di questa luce è di un blu intenso al cui interno un’altra di un bianco
brillante fa da contorno a un viso. In un primo momento, non riuscendo a capire a chi questo appartenga, veniamo turbati. Mentre l’osservazione si fa più acuta, ci rendiamo conto che quel viso ci è familiare. La sua fisionomia ci è nota, ma non riusciamo a definirlo. Comincia a sorriderci. A questo punto, ci si rende conto che è lo stesso viso che avevamo quando eravamo prigionieri del corpo fisico o fenomenico. Può succedere anche che il viso che ci appare sia quello di una persona da noi molto amata nella dimensione terrena. Sentiamo in modo predominante la presenza di qualcosa o qualcuno che altro non è che il corpo gravitazionale che ha convissuto con noi nella vita terrena. Si trova lì per invitarci a seguirlo nella dimensione della “Grande Madre”. Se nell’esperienza della vita terrena abbiamo vissuto la sua presenza in noi in modo consapevole, allora lo riconosceremo quando ci troveremo ai confini del Bardo. Questo avrà su di noi un effetto conciliante e armonizzante talmente forte che ci spingerà a dirigerci verso di “lui” interrompendo così quello stato di sospensione in cui ci troviamo. A quel punto, effettueremo insieme a lui quel salto quantico che ci porterà nella dimensione della gioia, quella dimensione dimenticata di cui facciamo parte. Se non si è capaci in tale riconoscimento, proveremo una paura talmente intensa che ci costringerà a scappare da quel posto, con l’effetto di precipitare in quella che sarà una nuova rinascita nella dimensione del ripetitivo e della sofferenza, chiamata reincarnazione. Di questo concetto si parla nella dottrina buddista e sotto molti aspetti, anche nella religione cristiana quando si afferma che attraverso il Cristo i corpi resusciteranno. Nella prima ipotesi, il nostro corpo sottile si annullerà nella nuova dimensione, immerso in una luce stupenda mentre fluttuerà in quello stato di gioia equiparabile a un orgasmo continuo e infinito, godendo della presenza della “Grande Madre”. A questo punto non ci saranno più rinascite né esperienze di sofferenza e dolore.
CAPITOLO XVII
L’aborto
Quando la chiamai al telefono sembrò sorpresa, non se l’aspettava. Aveva ragione. Dal nostro primo incontro e dopo qualche settimana ata insieme, ero praticamente sparito dalla sua vita. Ero in imbarazzo e glielo dissi pure. Cercai delle scuse dicendole che ero stato all’estero per lavoro. Non era vero. Quando la sentii accettare con entusiasmo il mio invito a vederci ne rimasi stupito. Prendemmo appuntamento per il pomeriggio del giorno seguente all’uscita dal lavoro. Eravamo verso la fine di settembre e il sole rifletteva ancora i suoi caldi raggi quando parcheggiai l’auto nei pressi dove Rebecca lavorava. Indossava un abito molto elegante. I capelli ondulati scendevano appena sulle spalle riflettendo la tenue luce solare in un mescolio di sfumature biondo dorato. Mi sembrò più bella dall’ultima volta che ci eravamo visti. Mentre si dirigeva verso l’auto, roteava la testa nel tentativo di scorgermi. Avevo parcheggiato l’auto in una traversina in modo che lei non potesse vedermi mentre io potevo osservarla. Non so se quello fu un gioco sadico o un capire, prima d’incontrarla, quali sensazioni suscitava in me rivederla. Salì sull’auto, avviò il motore, mentre la
freccia di segnalazione cominciò a lampeggiare l’immissione nella carreggiata di marcia. Avviai il motore e cominciai a seguirla. Tra noi, si era frapposta una terza vettura che le impediva di vedermi dietro. Attraverso i vetri dell’altra auto, notai ancora quel suo roteare ansioso della testa. Mi sentivo un bastardo! Godevo nel notare con quanta apprensione mi cercava. L’auto che mi precedeva svoltò a sinistra, ma lei continuò a non accorgersi che la seguivo. Un leggero colpo di clacson attirò la sua attenzione. Riflessi nello specchietto retrovisore vidi i suoi occhi sorridermi. Finalmente, si era accorta che la seguivo. Le feci cenno di accostarsi. Quel gioco mi aveva eccitato come un ragazzino al suo primo appuntamento amoroso. Il cuore galoppava come un cavallo in corsa e mi sentivo stranamente felice. Ero contento di rivederla e credo lo fosse anche lei in quanto scesa dall’auto, mi corse incontro e mi buttò le braccia al collo.
Abitava in un piccolo paese incastonato nel verde di una stupenda collina chiamata Belvedere. Il nome era più che giustificato! La collina a est si affacciava su una vallata che completava la sua corsa verso un mare azzurro, mentre dal lato opposto, si ergeva una grande montagna stupendamente innevata fino a tarda primavera. La strada che si arrampicava in collina era circondata da solidi muri in pietra dove sporgevano come chiome al vento piante di glicine che aggiungevano profumo a quello delle zagare dei limoni in fioritura. L’aria, satura di profumi speziati, incitava i viandanti a pensieri di libertà e di
appartenenza ai luoghi. Rebecca viveva insieme alla madre, un’anziana e simpatica signora sempre sorridente che contrastava con l’immagine della figlia seriosa e un po’ triste. La casa dove vivevano si trovava all’inizio del paese abitato da non più di un migliaio di anime; case rurali ben tenute alle cui inferriate dei balconi, fiori dai variopinti colori davano un suggestivo senso di folklore. La zona era tranquilla e silenziosa e bene si adattava al temperamento di Rebecca. Aspettarla all’uscita del lavoro era diventata un’abitudine quotidiana. Una sera, mi sentivo particolarmente eccitato, accostai l’auto sul ciglio di una stradina sterrata costeggiante un fitto bosco di eucalipti, le presi una mano e cominciai a carezzarla, mentre i miei occhi puntavano le sue carnose labbra. Quant’era bella! Presa da quell’atmosfera, Rebecca chiuse gli occhi e si lasciò andare completamente. L’abbandono fu totale come se aspettasse da tempo quel momento. Il bacio fu lungo e ionale mentre la mia mano, quasi in modo autonomo, cominciò a esplorare sotto quell’ampia e lunga gonna. Non mi ostacolò, anzi! A un tratto il contrasto tra le calze sintetiche e il calore della viva carne mi fece sussultare. Portava il reggicalze. Era parecchio che non m’imbattevo in un intimo così raffinato e femminile. Ormai quasi tutte le donne portavano repellenti calze di nailon chiamate “collant”. Quel contrasto accentuò la mia libido.
Le carezze si fecero più insistenti mentre la mano cominciò a impregnarsi di umori. Le sue cosce si muovevano come le anse di una fisarmonica, mentre un mugolio continuo usciva dalle sue corde vocali vibranti di piacere. Eravamo talmente presi, da non renderci più conto né dell’ora né del posto. Sollevai la levetta posta sul fianco del sedile di guida e… tac! Diventò un talamo d’amore. Dalla camicetta uscì come d’incanto un magnifico seno su cui mi precipitai, come un affamato sul pasto tanto agognato. Le mie dita, in modo audace, si fecero largo tra la sua culotte per trastullare quella clitoride dura come un piccolo pene in erezione. I mugolii erano diventati rantoli di piacere. Ormai eravamo presi da un vero e proprio raptus libidinoso. La penetrai con un colpo secco e deciso. Cominciò a dimenarsi in modo forsennato mentre con voce rauca dal piacere diceva cose senza senso. Fu un amplesso veloce, impetuoso, ionale. Ero esausto! Mi catapultai sul sedile smembrato nelle forze. La sentivo respirare in modo affannoso come solo chi ha goduto riesce a fare. Era sfinita anche lei e, mi augurai, anche felice. Non so quanto tempo rimanemmo in quello stato, ricordo solo che ci addormentammo. Il suono di un clacson mi fece sobbalzare. Mi girai, la guardai, dormiva. Fuori ormai era sceso il buio. Guardai l’orologio: caspita! Si era fatto tardi! Rebecca doveva rincasare se non voleva che sua madre entrasse in ansia. Respirava in modo leggero quasi impercettibile. Eppure, anche se a malavoglia, dovevo svegliarla. Mi accostai e le sfiorai le labbra con le mie. Sussultò, aprì gli occhi e chiese cos’era successo. «Ci siamo amati!» risposi con un sorriso.
Si sollevò e si strinse a me. Da dietro il bosco di eucalipti arrivava una fresca brezza marina profumata di alghe e salsedine. Le prime stelle, timidamente, punteggiavano il cielo terso. L’abbaiare di un cane ci riportò alla realtà del luogo che ci sembrò più magico e incantevole del solito. Era ato un anno da quella sera. Di Rebecca avevo imparato a conoscere molte cose. Era una donna dolce ma determinata. Parlava poco e aveva una grande attitudine all’ascolto al contrario di me che eccedevo. Malgrado i suoi occhi fossero sempre sorridenti, lei era una persona triste. Difficilmente si lasciava andare a facili conclusioni e non era avvezza ai pettegolezzi. Quanto l’ammiravo! Quei rari momenti d’entusiasmo che riusciva a vivere venivano quasi sempre smorzati da quel suo ostinato autocontrollo. C’era qualcosa in lei che sembrava impedirle di essere felice. Teneva sotto esame qualunque tipo d’emozione e questo m’infastidiva parecchio in quanto ero l’opposto. Ma si sa, gli opposti si attirano. Nei momenti di particolare intimità, quando tutti si abbandonano al piacere, lei si irrigidiva e piangeva. Perché? Mi chiesi più volte. Era un atto d’espiazione? O che cosa? Astrologicamente era un Capricorno, e molti di quei comportamenti erano compatibili con quel segno. Io, dell’Ariete, fantasioso ed estroverso, mi scontravo spesso con quel suo carattere gentile ma introverso. Mi turbava il pensare che dietro tutto si celasse una delusione per un amore ato. Ero forse diventato geloso? A volte questi pensieri diventavano talmente fastidiosi da rendermi quasi paranoico.
La sottoponevo a lunghi ed estenuanti interrogatori nel tentativo di strapparle qualche improbabile confessione. Ferita, si chiudeva in lunghi e opprimenti silenzi. Molte volte, la voglia di prenderla a schiaffi si faceva strada in me. Quei silenzi mi mandavano in delirio! Poi la guardavo, e vedevo una donna sconfitta. Mi sentivo un verme. Prendevo quelle lunghe e scarne mani tra le mie e le stringevo. Le ritraeva quasi subito indispettita. Aveva ragione. L’avevo selvaggiamente pugnalata con tutti quegli stupidi e infantili sospetti. Sapevo quanto assoluto fosse l’amore che mi donava. Per nessuna ragione al mondo mi avrebbe mentito o nascosto qualcosa. Eppure, non era mai riuscita a dirmi apertamente “ti amo”. Le poche volte che accadeva, lo sussurrava in modo talmente impercettibile che sembrava si vergognasse. In quei momenti la vedevo piangere. Chi aveva graffiato quell’anima gentile in modo così violento? La mia auto era diventata la complice perenne dei nostri incontri amorosi. Quante volte l’alba ci sorprese abbracciati! Oh! Dio mio! Com’era bello quel lento trascorrere del tempo fra le sue braccia e quella fitta pioggia, dolce compagna notturna, che col suo tintinnio sui vetri ritmava i nostri amplessi! Com’erano incantevoli quelle notti! Rebecca sapeva che ero sposato. Malgrado fosse contraria a questo tipo di relazioni, preferiva soffrire in silenzio pur di non perdermi. Col tempo mi resi conto di come quella nostra relazione fosse per lei fonte di sensi di colpa. Si sentiva ladra di un amore che a lei non apparteneva e per il fatto che qualcun’altra per colpa sua soffriva. Era come appropriarsi di un
qualcosa senza averne diritto. Era questo che accentuava quella sua natura pessimista e masochista? Era l’origine di quei comportamenti auto-punitivi? L’ambiguità non faceva parte della sua natura ma era divenuta condizione della sua esistenza. L’avere accettato una simile situazione la frustrava terribilmente. Capire quanto intenso e profondo fosse il sentimento che nutriva per me mi disorientava. Il suo era uno di quegli amori che ti svuotano dentro facendoti accettare situazioni a cui non ti saresti mai sottomesso.
Quell’estate fu una delle più calde degli ultimi vent’anni. Eravamo al mare sotto la calura di un solleone che faceva quaranta gradi. Rebecca in quel periodo era più radiosa del solito, indossava un bikini colore ruggine che sulla pelle abbronzata la rendeva incantevole. Un cappello di paglia proiettava ombra sul viso dove faceva mostra un grande occhiale scuro a protezione dai raggi UV. Mentre la miravo affascinato, notai che il suo seno, normalmente piccolo, faticava a essere contenuto nello striminzito bikini. Quella scena, mi provocò una carica erotica talmente forte che fu causa di un’imbarazzante erezione. Divertita di quello che mi stava accadendo, mi strizzò l’occhio mentre si assaporava le labbra con la lingua. Dovetti fare uno sforzo per non raccogliere quella provocazione altrimenti l’avrei afferrata lì, subito, sul posto. Erano alcune settimane che avevo notato in lei dei cambiamenti a cui non avevo dato particolare significato. Era aumentata di peso, sembrava più bella e appariscente del solito, mentre le sue labbra erano diventate più carnose. La sua vulva era gonfia e il suo appetito sessuale accentuato. Mentre turbinavano nella
mia mente questi pensieri, un dubbio si fece strada. Dubbio che da lì a qualche giorno trovò conferma. Dopo aver cenato a casa sua, decidemmo di uscire. Avevamo pensato di andare al cinema, ma la serata era talmente bella e calda che optammo per una eggiata sul lungomare di una rinomata località turistica. Data l’ora tarda, c’era poca gente in giro e questo a noi piaceva. Mentre eggiavamo su una banchina costeggiante il mare, mi fermai di colpo e mi sedetti sul muretto di cinta che ci separava dalla spiaggia. Trassi Rebecca verso di me cingendola con le gambe. Una leggera brezza arrivava dal vicino mare rendendo piacevole l’aria ancora calda per la forte calura del giorno. Nel cielo reso opaco dal caldo, una grande luna piena rifletteva sul mare il suo colore arancio. Un solitario e notturno gabbiano, forse attratto dalla gialla luce dei lampioni, volava a bassa quota lanciando le sue allegre grida che portavano l’immaginario verso luoghi e mete esotiche. L’aria profumava di spuma di mare e la notte era incantevole. Preso da quell’atmosfera, strinsi a me Rebecca quasi volessi rassicurarla da quello che da lì a poco le avrei chiesto. «Sei incinta?» dissi a bruciapelo. La sentii contrarsi come se una frustata l’avesse colpita. Si staccò da me e confusa mi fissava con sguardo interrogativo. Cercai di riportarla a me, ma oppose una ferma e decisa resistenza. Sembrava arrabbiata e sconvolta. Spiazzata da quella truce domanda pretese, in modo quasi isterico, una spiegazione. Cercai di tranquillizzarla indicandole la luna e il suo splendore. Non ci fu verso.
Continuava a guardarmi con le lacrime agli occhi aspettando una mia risposta. Sapevo di essere stato troppo violento con quella domanda fatta a bruciapelo. Quando le spiegai che quella sensazione mi frullava nella testa da qualche giorno sembrò tranquillizzarsi ma rimase guardinga. «Cosa ti fa pensare che lo sia?» chiese con atteggiamento curioso. «Sei più splendida del solito! Sei ingrassata! Il seno è notevolmente aumentato di volume…» risposi imbarazzato. Seguì una lunga pausa di silenzio mentre col capo chino si venne a sedere vicino a me. Che avesse dei dubbi anche lei? Ruppi il silenzio chiedendole se per caso non avesse dei ritardi del ciclo. Si girò, guardò verso il mare, e con un filo di voce rispose di sì. Erano due mesi che il suo ciclo si era bloccato. Le presi il viso, lo girai verso me, e vidi i suoi occhi smarriti nel nulla. Provai una grande tenerezza. Le asciugai gli occhi con le labbra mentre la stringevo per rassicurarla e proteggerla. La sentii tremare come se un’occulta paura si fosse improvvisamente impossessata di lei. Rimanemmo abbracciati un bel po’. Quando ci divincolammo Rebecca esplose in una fragorosa risata. Rimasi sconcertato! Non capivo perché ridesse. «Se ti vedessi quanto sei buffo col quel rimmel spalmato sul viso!» esclamò. Istintivamente portai una mano al viso, e quando la ritrassi era impiastricciata di nero. Ridemmo per quasi tutto il tempo. Mentre ci dirigevamo verso casa sua, le chiesi se fosse disponibile a effettuare un test di gravidanza. Non rispose.
Si rannicchio su sé stessa e rimase in quella posizione per tutto il tragitto. Non ci sentimmo per circa una settimana. Aveva bisogno di riflettere da sola, anche se il mio istinto mi portava a pensare che lei già sapesse. Una mattina le telefonai. Rispose sua madre. Dopo i convenevoli chiesi di Rebecca e se poteva armela al telefono. Sembrò titubante e in difficoltà. La tolsi dall’imbarazzo dicendole che avrei richiamato più tardi. La ringraziai e chiusi la telefonata. Per tutto il giorno non la cercai più. Ero incazzato! ò un’altra settimana prima che ci risentissimo. Una sera squillò il cellulare. Guardai il display e vidi il suo nome. Non risposi subito come ero solito fare. Ero troppo incavolato e decisi di farlo squillare il più a lungo possibile prima di rispondere. Una voce rauca come di chi abbia pianto per parecchi giorni disse: «Ciao!». Quella voce afona lasciava trapelare una così deprimente tristezza da bloccare qualunque reazione. «Come stai?» chiesi con tono pacato. Non ebbi risposta. Stavo per parlare, quando la sentii chiedermi scusa per non essersi fatta sentire. Desiderava che andassi da lei. Non me la sentivo. Citai l’ora tarda dicendole che se per lei era lo stesso avrei preferito spostare per la sera seguente. Mi sembrò delusa ma avevo deciso così. La sera successiva, verso le ventidue andai a trovarla. Ad accogliermi fu la madre, quando normalmente era lei ad aspettarmi con un sorriso. Ci avviammo
lungo il corridoio che sfociava in cucina. Lei non c’era. Mi sedetti senza dire nulla. arono alcuni minuti prima che si presentasse. Teneva la testa bassa come di chi si sentisse in torto. Forse non voleva si vedessero quegli occhi gonfi e il viso stanco? Malgrado tutto era elegante e ben truccata. Sua madre, silenziosamente, scivolò via lasciandoci soli. Dopo qualche attimo di silenzio le chiesi come stesse. Sollevò lo sguardo: «Non lo so!» fu la risposta. Contrariamente alle altre volte, si sedette al lato opposto del tavolo. Si era creata una forte tensione e mi sentivo sulle spine. L’atmosfera che regnava era tediosa e insopportabile per il mio carattere. Avevo voglia di scappare via! Malgrado si rendesse conto del mio stato, Rebecca non riusciva a parlare. Sembrava bloccata. Tirai il fiato e le chiesi di spiegarmi il perché di quell’assurdo comportamento. «Mi sono persa! Ho paura!» «Di cosa hai paura?» «Di quello che potrebbe succedere!» Finsi di non capire. « In che senso hai paura?» «Se fossi incinta!» Ero disorientato. Come? Tante volte mi aveva parlato della sua felicità qualora avesse avuto un figlio da me…e ora? Perché diceva di averne paura? «Hai per caso fatto il test di gravidanza?» La risposta fu un deciso “no”.
«Non ha senso questo tuo turbamento prima di sapere se lo sei o meno» replicai. La rabbia accumulata mi era sbollita del tutto. Questo mi permise un atteggiamento più razionale. La rassicurai sul fatto che il giorno dopo avremmo fatto il test e solo dopo avremmo affrontato con calma gli eventuali problemi. Quella stessa sera comprai il kit per il test e il giorno dopo di buon mattino mi recai da lei. Si presentò ancora in vestaglia. Aveva il viso tirato e gli occhi cerchiati di chi ha ato una notte insonne. Provai pena nel vederla in quello stato, ma non potei trattenermi dal sorridere quando notai che indossava la vestaglia al contrario. Mi guardò incuriosita. Quando le feci notare la stranezza sorrise anche lei. Bastò questo per allentare lo stato di tensione. L’odore del caffè fumante, dato che era una patita di quella bevanda, rese tutto più facile. Tirai fuori il kit, lo poggiai sul tavolo e domandai dove fosse sua madre visto che ancora non si era vista in giro. Era andata al mercato con le amiche, fu la risposta. Capii. Rebecca prese il kit, aprì la scatola, tirò fuori il foglietto illustrativo. Mentre lo leggeva arrossì. Si chiuse a chiave nel bagno quasi provasse vergogna per quello che stava per fare. Era ato un quarto d’ora e ancora non usciva da quel bagno. Quell’attesa mi snervava! Il test richiedeva solo pochi minuti per essere effettuato, perché impiegava tanto?
Lo scocco della serratura mi fece trasalire. Spensi la sigaretta e aspettai che arrivasse. Era pallida, quasi spettrale. Non ci volle molto a capire che il test era risultato positivo. Mentre la interrogavo con lo sguardo, senza dire nulla mi porse la striscia che segnava due tacche colorate. Lei, col capo chino, singhiozzava. Mi accostai, le poggiai una mano sul capo e le dissi: «Non sei felice di questo?» Annuì mentre si accoccolava a me. Ero confuso! Avevo perso il bandolo di quel gioco. «Hai paura?» chiesi mentre si accendeva una sigaretta. Fece una lunga tirata e rispose: «Non lo so!» Eravamo intimamente turbati. Sarebbe stato meglio affrontare quella situazione dopo una pausa di riflessione. Decidemmo così di trascorrere una giornata tutta per noi in un clima sereno e disteso evitando ansie di qualsivoglia natura.
Arrivai a casa sua alle 7,30 del mattino del giorno dopo. Nonostante vigesse l’ora legale, il sole picchiava già di brutto. La trovai pronta per partire. Indossava un pantalone blu scuro e una camicetta di seta color sabbia. Era splendida malgrado i giorni ati. La camicetta lasciava trasparire il seno a stento trattenuto. Gli occhi, stupendamente truccati, avevano perso la tristezza e lo smarrimento degli ultimi tempi. Il fondotinta esaltava la luminosità del suo viso mentre le labbra, come sempre, erano di un rosso lucente e sul capo il solito cappello di paglia a frange larghe di
colore giallo paglierino. «Stupenda creatura!» pensai. Sorrise imbarazzata dal mio stupore. La voglia di baciarla montò. Fui talmente preso che la piegai al punto tale che il cappello di paglia a frange larghe cadde a terra. Il luogo dove trascorrere la nostra giornata di relax fu una stupenda spiaggia di sabbia dorata che faceva da tappeto a un mare d’incanto. Ci appartammo lontano da occhi indiscreti in modo da vivere in piena libertà i nostri momenti di intimità. Il sole era diventato ancora più cattivo. Ci levammo gli abiti, rimanendo in costume. Rebecca si precipitò subito a fare un bagno. Non sopportava il sudore sul corpo. Io preferii aspettare. Malgrado il gran caldo, non ero affatto sudato. Uscì dall’acqua come una Venere emerge dalle schiume. Quanto era bella! Si distese accanto a me, poggiando le sue labbra dal sapore di sale sulle mie. Il sole accarezzava quel corpo disteso sulla sabbia come fa con una lucertola infreddolita. Vederla distesa a pancia in giù, con quello striminzito bikini che attraversava il centro di quelle splendide natiche, mandò in tilt il mio autocontrollo. Assaporai quelle natiche bagnate di sale, mentre le mie mani scivolavano sotto il suo ventre. Un brivido la percorse, girò la testa, mi guardò come per dirmi “cosa fai?”. Ridemmo. Dietro alcuni cespugli consumammo il nostro banchetto amoroso. Scherzammo tutto il tempo tirandoci addosso l’acqua del mare resa tiepida da quelle giornate di gran caldo. Tutto quel movimento ci aveva messo una gran fame. Decidemmo di pranzare in un
ristorante vicino alla spiaggia. Era un locale piccolo ma molto bello e armonioso. Sulle pareti, reti da pesca e un grosso pesce spada essiccato facevano bella mostra mentre all’ingresso, un banco con del pesce appena pescato si mostrava ai buongustai. Tutto di quel posto era invitante, anche il profumo di calamari fritti che arrivava dalla cucina. Non c’era che l’imbarazzo della scelta! Rebecca, conoscendo bene i miei gusti, in modo altruistico lasciò che a scegliere le pietanze fossi io. Per stuzzicare l’appetito, feci preparare delle “trigliole” impanate e fritte al momento. Quel polipo che vidi muoversi in quel banco lo chiesi bollito e condito con molto prezzemolo e succo di limone. I ricci di mare e gli occhi di bue, dei mitili particolari molto afrodisiaci, li avremmo invece consumati crudi dopo averli insaporiti con del succo di limone e un po’ di peperoncino rosso. Come primo piatto scelsi delle linguine al sugo di vongole veraci e per finire due saraghi ai ferri con del “salmariglio”, una salsina di olio, sale, prezzemolo, origano, e molto succo di limone, il tutto innaffiato da un vinello bianco del posto leggermente frizzante e servito molto freddo. I proprietari del ristorante, una coppia giovane, erano pescatori del luogo. Alla cucina si trovava la madre di lei, una signora sulla cinquantina bella come la figlia, molto brava ai fornelli. Nell’attesa che ci servissero le pietanze, approfittai per tornare sull’argomento che più ci premeva. Mentre versavo del vino nei calici, proposi a Rebecca una visita da parte di un ginecologo. Mi guardò insospettita. La rassicurai dicendole che si trattava di un normale controllo, in quei casi necessario. Sorseggiò il vino, mi prese la mano e guardandomi intensamente disse: «Ti amo tanto!» Finimmo di pranzare che era pomeriggio inoltrato. Il perdurare del forte caldo
all’esterno ci spinse ad attardarci nel locale climatizzato dove regnava una paradisiaca frescura. Sarà stato il pesce o quel vino bianco frizzantello che scendeva giù senza che ci si rendesse conto, la bellezza del luogo e la simpatia dei nostri ospiti, fatto sta che fui preso da una euforia di cui approfittò Rebecca che mi fece giurare di non arrabbiarmi per quello che stava per dirmi. Ero talmente preso che annuii senza neanche rendermene conto. «Sapevo di essere incinta!» disse tutto d’un fiato «ma avevo paura di dirtelo!» Anche se stordito dal vino che tollero poco, quello che disse mi arrivò come una frustata. Avevo i riflessi lenti e non reagii com’ero solito fare. L’ebbrezza del vino mi rendeva calmo. Le chiesi perché me l’avesse taciuto. Sembrò titubare, ma subito dopo cominciò a parlare senza fermarsi. «Quando il ciclo ritardò» disse «non detti molta importanza al fatto, altre volte era capitato. Col are dei giorni, però, cominciarono i primi dubbi. Volevo parlartene, ma preferii aspettare. Quando mi resi conto che potevo essere incinta, fui presa da un tale stato d’ansia che m’impedì di farlo. Mi confidai con mia sorella, la quale mi consigliò di fare un test di gravidanza. Seguii il suo consiglio, feci il test, e risultò positivo. Rimasi scombussolata! Volevo telefonarti ma non ne ebbi il coraggio. Volevo raccontare tutto a mia madre, ma la preoccupazione che potesse riceverne un contraccolpo mi portò a desistere. Di fatto, rimasi sola con tutti i miei dubbi aspettando di trovare il coraggio di parlare con te. ai notte intere a tormentarmi. Volevo capire quali conseguenze questo avrebbe causato al nostro rapporto, pensare al fatto che eri sposato, ai problemi che ti avrei creato ecc. Avevo il cervello in tilt, letteralmente incapace di prendere qualunque decisione. La sola cosa di cui ero certa» continuò «era che tu avresti rotto il rapporto con me, cosa che non avrei mai potuto accettare>> <
ti avrei informato di tutto.» Rimasi interdetto e incapace di qualunque replica verso quella donna che mi stava dando una lezione di umiltà, umanità, e amore. La paura che la nostra relazione potesse finire e nel contempo la consapevolezza di volere quella creatura che era il frutto del suo amore per me, la stavano spingendo verso un sacrificio più grande di lei affinché, né io né la mia famiglia ricevessimo insulto. Non sapevo che dire né cosa fare, mi sentivo solo confuso. Poche volte era capitato di sentirmi così in difficoltà. Si accostò, mi prese la testa se la portò al seno e mi baciò sui capelli. Mi sentivo un bambino impaurito mentre la mamma lo rassicura. Uscimmo dal ristorante tenendoci per mano e silenziosamente ci dirigemmo verso la spiaggia. La stanchezza, il vino, l’abbondante pasto ci trascinarono in un sonno lungo e ristoratore. Ci svegliarono le grida di uno stormo di gabbiani festosi che giravano su di noi. Ancora intontiti, ci guardammo attorno. Il sole era quasi al tramonto e la spiaggia era semideserta. Mi accostai a lei baciandole la pelle che profumava di rosa bulgara. Avevo voglia di quel corpo profumato. Il seno al contatto delle mie labbra s’inturgidì, mentre quel corpo nudo mi mandava in estasi. Ci amammo fin quando il buio non annerì quel magico posto, mentre una timida luna cominciava a illuminare il cielo offuscato dal caldo. Raccogliemmo le nostre cose e ci avviammo verso l’auto. Durante il tragitto nessuno dei due parlò. Mentre guidavo, la tenevo stretta a me fin quando non si addormentò. L’appuntamento col ginecologo fu per un sabato pomeriggio della settimana
seguente. Qualche giorno prima dell’appuntamento, mi recai da Rebecca con la precisa intenzione di conoscere i suoi reali intenti sul prosieguo o meno della gravidanza. Sapevo quanta indecisione serpeggiava nel suo animo. Quell’incertezza, a sua volta causa di pensieri discordanti era all’origine dei suoi cambiamenti d’umore. Era convinta, qualora avesse portato avanti la gravidanza, che tra noi sarebbe finito tutto. Per assurdo, però, pensava la stessa cosa nel caso contrario. Questo l’aveva spinta a cercare una terza ipotesi, quella di trasferirsi definitivamente da sua sorella dove avrebbe potuto partorire lontano da tutti. Questa scelta, secondo lei, mi avrebbe evitato qualunque problematica. C’era anche il problema della madre, anziana e fragile, che sarebbe stata costretta a portare con sé. Questo non era facile da fare. Quella donna aveva sempre vissuto in quei luoghi dov’erano vivi ricordi e affetti che la legavano al posto. Lì era la memoria di una intera vita. Come poteva sradicarla senza cagionarle pena? Sentire quanto diceva mi portò alla conclusione che aveva già fatto una scelta. Preferii, comunque, aspettare che a comunicarmela fosse stata lei stessa. Infatti si disse triste ma non aveva alternative, avrebbe abortito. Rimasi in silenzio. Accesi una sigaretta, la ai a lei che, dopo una lunga tirata, me la restituì. Sapevo quanto le pesava quella decisione! Si accostò, e mi poggiò la testa sulla spalla. Aveva bisogno di carezze.
Quel pomeriggio, quando arrivammo nello studio del ginecologo, era piovoso e triste. Eravamo in anticipo rispetto all’ora prefissata. Volevo che Rebecca familiarizzasse con l’ambiente in modo che potesse attenuare l’ansia che l’attanagliava.
Non era mai stata dal ginecologo per un motivo del genere e questo le causava ansia frammista a pudore. Per tutto il tempo dell’attesa stette aggrappata al mio braccio tesa e pallida mentre cercavo di mantenerla tranquilla raccontandole storielle “zen” che la facevano sorridere. Finalmente arrivò il nostro turno. «Preferisci entrare da sola?» le domandai. No, gradiva che fossi presente. Il ginecologo, un mio vecchio amico d’infanzia, si chiamava Marcello. Era parecchio tempo che non ci vedevamo. Ci salutammo con un abbraccio e le presentai Rebecca. Dopo alcuni convenevoli, gli spiegai la situazione. Con la calma che lo aveva sempre contraddistinto, Marcello mise Rebecca a suo agio, la quale mi sembrò rasserenata dall’atteggiamento amichevole che le manifestava. La invitò a seguirlo nell’altra stanza dove si trovava il lettino specialistico per le visite ginecologiche. Quando la visita fu finita, Rebecca aveva il viso rosso di chi ha provato vergogna. Molte donne si sentono così dopo una visita del genere e a maggior ragione in quella situazione. Seduto dietro la scrivania, un mobile risalente all’Ottocento con intarsi preziosi, Marcello tra il serio e lo scherzoso ci chiese cosa avessimo deciso di fare. «Intanto dimmi della visita» dissi mentre Rebecca seduta in disparte rimaneva in silenzio. Con voce pacata e professionale Marcello mi spiegò che la gravidanza procedeva bene e che era già alla nona settimana. Distolsi gli occhi da lui e guardai Rebecca. Quelle parole l’avevano colpita. Aveva gli occhi pieni di lucciconi e di felicità. Rimasi stupito nel vederla così. Ma come, mi chiesi, aveva deciso d’abortire e ora sembra sprizzare felicità da ogni angolo del viso? Aveva forse cambiato idea?
Marcello, fiutando l’atmosfera che si stava creando e conoscendo bene il mio temperamento, disse: «Festeggeremo l’evento fra nove mesi oppure avete altri programmi?» Guardai Rebecca, che assentì con la testa, e spiegai a Marcello che una serie di circostanze imponevano la drastica decisione dell’aborto. A quel punto approfittai per chiedergli se a eseguire l’eventuale aborto poteva essere lui. Chiarì subito che era un obiettore di coscienza. Nel salutarci, volle fare gli auguri a Rebecca la quale sembrava completamente distratta. Uscimmo dallo studio come scossi da una guerra interna. Rebecca, e forse un po’ anch’io, si trovava nella zona dove un conflitto diventa sofferenza. Quella zona in cui una persona rimane sola con sé stessa e con le sue indecisioni. Mi sentivo in colpa verso quella donna forte ma tanto fragile. Con impeto, l’afferrai per un braccio, la guardai e dissi: «Per un attimo dimentichiamo tutto! Domani a mente serena rifletteremo sul da farsi.» Mi regalò un sorriso, mentre c’incamminavamo verso il buio della notte. La rividi una sera di due giorni dopo. Sembrava spenta malgrado la sua eleganza e l’ottimo maquillage. Come al solito restammo in auto a parlare fino all’alba. Alla infine, anche se sofferta, la decisione finale fu presa: aborto! Accettai senza dire nulla. Per certi versi mi sentii rinfrancato. Quella situazione era diventata insostenibile. L’unica cosa che mi chiese fu quella di poter eseguire l’aborto fuori dall’ambito ospedaliero. Il giorno dopo telefonai a Marcello pregandolo di indicarmi una clinica di sua fiducia cui rivolgermi, vista la ritrosia di Rebecca verso la struttura pubblica. M’indirizzò in una struttura privata dandomi anche il numero telefonico
personale del primario a cui dovevo rivolgermi.
L’intervento fu fissato per un sabato mattina. La sera prima rimanemmo fino a tarda notte nel mio ufficio. Facemmo l’amore cercando di non pensare a quello che ci attendeva il giorno dopo. Ci presentammo in clinica di prima mattina. Tutto era stato predisposto. Dovendosi sottoporre a una leggera anestesia, Rebecca fu invitata a un breve colloquio con l’anestesista, mentre io m’intrattenevo col primario che doveva eseguire l’intervento. Fu molto gentile nel rassicurarmi che tutto sarebbe andato per il meglio invitandomi, qualora volessi, ad assistere all’intervento. Ringraziai sottraendomi all’invito. L’intervento durò circa due ore. Per primo uscì il primario che venne a tranquillizzarmi dicendo che tutto era andato bene e che Rebecca sarebbe stata trattenuta ancora un po’ in modo da potersi riprendere completamente dall’anestesia. ò ancora un’ora prima che lei uscisse. Era pallida e instabile nella postura mentre un’infermiera la sosteneva per un braccio. Interrogai con lo sguardo l’infermiera, la quale mi rassicurò che si trattava di un effetto transitorio dovuto all’anestesia e che da lì a qualche ora sarebbe rientrato tutto nella norma. Non la portai subito a casa sua preferendo farla rimanere con me l’intera giornata. Andammo nel mio ufficio dove un comodo divano letto l’avrebbe aiutata a riprendersi dal recente trauma.
Telefonò alla madre informandola che sarebbe rimasta fuori fino a sera. Arrivammo che era mezzogiorno ato. Rebecca non poteva mangiare nulla in quanto c’era il rischio che rimettesse. Le era stato consigliato di bere molta acqua in modo da smaltire velocemente l’anestetico. Il frigo-bar del mio ufficio era fornito come quello di un hotel a cinque stelle. Dormì fino sera inoltrata. Le rimasi vicino fin quando non la vidi riprendersi completamente. Fortunatamente tutto andò per il meglio.
CAPITOLO XVIII
La crociera
Agosto stava per finire ma l’estate continuava col suo caldo equatoriale. Rebecca e io avamo intere giornate al mare senza mai parlare di quanto accaduto. Il nostro rapporto, dopo un breve periodo di crisi, era tornano alla normalità. Rebecca ormai sembrava avesse superato quella leggera forma depressiva dovuta all’aborto. Un giorno, mentre ci arrostivamo sotto un sole cocente, proposi una crociera sul Mediterraneo. Sembrò perplessa. «Ma come, con questo meraviglioso sole e questo splendido mare perché andare in altri posti?» disse meravigliata. «Pensavo che un periodo lontano da questi luoghi avrebbe fatto bene al nostro rapporto» le risposi. Per alcuni giorni continuai a insistere su questo argomento, fin quando anche lei non sembrò eccitata all’idea. Era stato sempre un suo sogno nascosto quello della crociera, ma non si era mai permessa di manifestarlo. Mi fece tenerezza vederla gioire come una bambina al suo primo regalo importante. Mi domandai quanti sogni infranti albergavano nell’animo inquieto di questa splendida creatura. È proprio vero che su queste persone sensibili e generose si abbatte la mano misteriosa del destino con la precisa intenzione di rendere le loro vite piene di
tristezza e solitudine? Era questo che mi spingeva ad amarla. Salpammo dal porto di Palermo un venerdì di un bellissimo settembre. Ci sentivamo carichi di energia. Quell’energia che scaturisce dal sentirsi felici. Grazie al mio lavoro, non mi fu difficile giustificare a casa quei giorni di assenza che la crociera imponeva. La nave, bella e suggestiva, aveva completamente rapito Rebecca, che ò tutto il tempo sul ponte di comando a osservare il golfo di Palermo mentre la nave si allontanava. Da lì, si ammirava tutta la bellezza di quel golfo dove la città si specchia ogni giorno e la magia della Conca d’Oro in lontananza. Si navigava di notte mentre il giorno la nave rimaneva ferma nei porti d’attracco. Il primo porto dove attraccammo fu quello di Napoli, seguì Genova e da lì salpammo verso la Spagna. La navigazione si svolse tranquilla, se si esclude l’attraversamento del Golfo del Leone dove il mare è quasi sempre agitato e quella notte lo era! Rebecca, che non aveva mai viaggiato in nave, fu colta da un tremendo mal di mare che la costrinse a fare uso di un farmaco specifico che la fece dormire profondamente. Si svegliò quando la nave ormai si trovava ormeggiata nel porto di Barcellona. Ci rimase male, amava assistere all’attracco della nave. Barcellona era una città bellissima. Vi ammo l’intera giornata visitando i musei e il villaggio Olimpico. Fummo rapiti dalla maestosità della Sagrada Familia. Attraversammo viuzze dove zigani e musicanti, con i loro violini e chitarre magiche, estasiavano l’animo dei vacanzieri. La sera, l’organizzazione della crociera aveva programmato uno spettacolo dove ballerini di flamenco e suonatori di musiche gitane rapivano noi semplici spettatori. Fu uno spettacolo stupendo che Rebecca non smise per un attimo di filmare.
L’unico neo di quella serata fu una di quelle mie solite e tremende crisi di emicrania. Il giorno seguente visitammo Palma di Maiorca, famosa per le perle che lì venivano coltivate e lavorate. Visitammo il museo dove antiche e rare collezioni di perle facevano mostra. Regalai a Rebecca un collier e dei pendenti che la resero felice. Seguì Ibiza, famosa nel mondo per le sue notti trasgressive e le discoteche zeppe di ragazzi provenienti da mezzo mondo. Quella notte la ammo in un piccolo Casinò a giocare qualche spicciolo. L’ultima tappa della crociera, prima del rientro definitivo a Palermo, era Tunisi. Quella notte, mentre facevamo rotta verso la Tunisia, Rebecca la ò insonne. Un insolito stato di eccitazione la teneva sveglia. Perché Tunisi la stimolava tanto? Approdammo verso l’alba. Rebecca era ansiosa di sbarcare per un’escursione della città. Quando scendemmo dalla nave, una miriade di ragazzini ci accerchiò come in un assedio. Volevano venderci di tutto pur di guadagnare qualche spicciolo. La loro estrema povertà ci commosse. La prima tappa fu la città vecchia, fu un’esperienza unica! Entrarvi era come fare un salto di tremila anni. In quei posti è proibito filmare e fotografare e questo è un vero peccato in quanto lo scenario che si presentava era irripetibile. Sarebbe stato bello rivivere quei luoghi attraverso il filmato. La seconda tappa furono gli scavi dell’antica Cartagine. Proprio in quei posti ebbero inizio le prime stranezze di Rebecca che definire misteriose sarebbe un eufemismo. Eravamo un gruppo di venti persone, guidati da un professore universitario che lo stato tunisino metteva a disposizione come guida dei turisti stranieri. Uno dei primi luoghi che visitammo, a sentire la guida, era considerato sacro dagli antichi Cartaginesi. Gli scavi effettuati in quel posto avevano messo in evidenza alcuni loculi e cripte
che gli antichi abitanti utilizzavano per seppellirvi i nati morti e i feti abortiti. Mentre scattavo alcuni fotogrammi fuori della città vecchia, dove era consentito, mi accorsi che Rebecca era rimasta lontano dal resto del gruppo. La chiamai facendole cenno di raggiungerci. Sembrava non sentirmi né vedermi. Incuriosito mi avvicinai a lei e la vidi guardare, come assorta nel nulla, nel fondo di uno di quegli scavi. Le domandai cosa stesse facendo lì tutta sola; non rispose. La presi per un braccio e cominciai a scuoterla. A quel punto sobbalzò e cominciò a fissarmi. Era chiaro però, che non mi vedeva. I suoi occhi erano velati e arrossati come se avesse pianto. Domandai cos’era successo ma continuò a non rispondere. Appariva frastornata e intontita. La presi per mano, avviandomi verso il resto del gruppo che già si era allontanato parecchio da noi. Per tutto il resto del giorno Rebecca sembrava in un continuo stato di sovrappensiero. Ero frastornato. Non riuscivo a capire cos’era successo in quello strano posto, e perché lei continuasse a essere così turbata. Ritornammo alla nave che era quasi buio. Da lì a qualche ora avremmo salpato alla volta di Palermo. L’attraversata notturna da Tunisi a Palermo sanciva ufficialmente la fine della crociera. Quella notte, come da consuetudine, si sarebbe svolto il gran galà del Capitano. In quella occasione, i partecipanti alla crociera sarebbero stati ospiti del Comandante che avrebbe consumato la cena insieme a loro così come il resto degli ufficiali.
Mentre ci preparavamo per il galà, la mia mente tornò a quanto accaduto quella mattina in quegli scavi a Tunisi.
Rebecca si aggirava nuda per la cabina alla ricerca di un abito da indossare per l’occasione. Quel corpo annullò i miei pensieri lasciando il posto al desiderio di lei. La cabina della nave era composta da due letti separati con al centro un tavolo dove sopra era appoggiata sempre della frutta esotica. Ci sdraiammo sul suo letto aggrovigliando i nostri corpi, mentre assaporavo la sua pelle morbida e abbronzata. Fummo talmente presi, da dimenticare il gran galà del Capitano. In quel momento volevamo starcene rintanati nella nostra cabina facendo l’amore per il resto dell’attraversata. Ma la stanchezza accumulata durante il giorno e l’intenso amplesso ci giocarono un brutto scherzo. Stremati da tutto questo cademmo in un stato di profondo sonno. Ci svegliammo ancora abbracciati come in un unico corpo. Guardai l’orologio e le dissi che se voleva eravamo ancora in tempo per il gran galà. Dopo una rapida doccia, ci vestimmo in tenuta da sera e ci recammo nel salone ristorante dove si sarebbe svolta la festa di fine crociera. Una dolce musica ci accompagnò fino a tarda notte. Rientrammo barcollanti più per la stanchezza che per lo champagne bevuto. Era stata una bella serata! Durante la notte un grido lancinante mi scaraventò fuori dal letto. Mi sentivo la testa bloccata e non riuscivo a capire cosa stesse succedendo né dove mi trovassi. Fortunatamente, nella cabina della nave, una tenue luce notturna rimaneva accesa. Confuso guardai l’orologio. Segnava le cinque e trenta del mattino. Mi girai verso Rebecca e vidi che dormiva. Strano! Possibile che lei non si sia svegliata? Cercavo di coordinare le idee nel tentativo di capire chi avesse potuto gridare in
modo così spaventoso. Avevo forse sognato? Stavo rimettendomi a letto quando sentii Rebecca farfugliare nel sonno. Avevamo dormito insieme molte volte, ma questa era la prima volta che ciò accadeva. Attribuii il fatto all’abbondante cena della sera prima e a qualche bicchiere bevuto in più. Ormai ero completamente sveglio. Mi accostai al suo letto senza svegliarla, cercando di capire cosa stesse borbottando. Inaspettatamente emise un urlo che mi catapultò all’indietro. Era lo stesso grido che mi aveva svegliato di soprassalto. Sentivo il cuore galoppare, mentre lei come se nulla fosse continuava il parlottare. Erano parole confuse e incomprensibili. Improvvisamente spalancò gli occhi puntandoli su di me. La paura fu tale che feci un salto all’indietro. Non stava fissando me, il suo sguardo era diretto verso qualcosa o qualcuno dietro me. Mi girai di scatto, non c’era nessuno se non la porta della cabina. Non era sveglia, sembrava in uno stato di trance. La chiamai a bassa voce ma sembrava non sentirmi né vedermi. Una strana ansia frammista a preoccupazione mi assalì, mentre i pensieri si accavallavano. Ero tentato di svegliarla, ma avevo paura. Cosa poteva succedere viste le sue condizioni? Avevo letto che in caso di sonnambulismo essere svegliati può essere pericoloso. Decisi di non fare nulla. Rimasi immobile a osservarla, quando la sentii esclamare in modo chiaro e percepibile queste parole: «Ti prego! Perdonami! Non volevo. Ti amavo tanto!» I suoi occhi cominciarono a roteare come se stessero seguendo delle immagini.
Istintivamente alzai la testa e guardai all’insù. Era chiaro che non vidi nulla. Mi sentii uno stupido. Cosa dovevo vedere? Il suo era un chiaro caso di sogno a occhi aperti. Questo pensiero mi tranquillizzò. Dopo alcuni minuti, Rebecca richiuse gli occhi ripiombando nel sonno. Rimasi a osservarla, e quando ebbi la certezza che dormiva profondamente, andai nel mio letto. Ormai il sonno era completamente sparito, ma la paura provata rimase. Mi vestii e uscii. L’aria fresca del mattino e la leggera brezza marina attenuarono l’ansia accumulata. Mi feci servire un espresso forte e bollente e andai a sedermi su una delle tante panchine poste lungo il ponte. Eravamo già in acque italiane e mancava qualche ora di navigazione per l’arrivo al porto di Palermo. Data l’ora, la nave sembrava deserta. Questo mi aiutò a focalizzare meglio quanto accaduto qualche ora prima. Era probabile che Rebecca avesse avuto un incubo magari dovuto alla stanchezza della notte precedente. Lo scroscio dell’acqua della doccia e l’odore del suo profumo mi tranquillizzarono. Sentì la porta della cabina aprirsi e dalla doccia chiese se ero io. «Si!» risposi, tranquillizzandola. Mi distesi sul letto, accesi una sigaretta e aspettai che uscisse. Un accappatoio bianco le copriva il corpo nudo e umido mentre i capelli ancora bagnati le scendevano sulle spalle. Si avvicinò al letto, si sedette al mio fianco e mentre si chinava per baciarmi disse: «Buongiorno tesoro! Dove sei stato? Mi sono svegliata ma non c’eri.» Si alzò, prese il suo beauty-case e tornò in bagno.
Era chiaro che non ricordava nulla. Forse era meglio così. Con questi pensieri mi assopii. Mi svegliò il forte suono della sirena della nave, che segnalava l’entrata nel porto di Palermo. Cercai con gli occhi Rebecca, non c’era. Forse era uscita silenziosamente a bere un caffè. La doccia mi aiutò a svegliarmi del tutto. Mi rasai, feci alcuni esercizi per sgranchirmi le articolazioni e spruzzai un po’ del mio solito “Antaeus”. Cercai Rebecca sul ponte per fare colazione. Sarebbe stata l’ultima su quella che, per una settimana, era stata la nostra arca d’amore. Sbarcammo nel pomeriggio. Andammo a riprenderci l’auto lasciata in un’autorimessa e ci dirigemmo verso l’autostrada. Non avendo tanta voglia di tornare alla routine di tutti i giorni, cercavamo di ritardare l’arrivo in paese fermandoci in ogni autogrill che incontravamo. Sembra sia normale sentirsi un tantino tristi alla fine di una crociera. Durante il tragitto non accennai mai a quanto accaduto sulla nave anche se, sinceramente, ero tentato di farlo. Arrivammo a destinazione in tarda serata. Come al solito ci accolse sua madre felice di rivederci. Rebecca l’abbracciò, mentre io mi limitai a stringerle la mano. Sapendo del nostro arrivo, poverina, aveva preparato la cena. Non avevo assolutamente voglia di mangiare. Sentivo la necessità di rientrare a casa, fare un bagno caldo e dormire. Quella crociera mi aveva stressato parecchio. Rebecca, intuendo la mia riluttanza a cenare, mi spinse con dolcezza a fare un piccolo sforzo in modo da non deludere la madre che chissà con quanto calore aveva preparato quella cena. Rimasi.
CAPITOLO XIX
I sogni
Il trillare insistente del cellulare mi svegliò mentre ero immerso in un profondo sonno. Nel buio della stanza cercai l’interruttore della luce. Volevo capire chi rompeva a quell’ora della notte. Accesi la lampada posta vicino al letto, guardai l’orologio, segnava le tre del mattino. «Cazzo!!» pensai «Chi poteva essere?» Il cellulare lo tenevo nella tasca interna della giacca appesa all’appendiabiti. Mi alzai, presi il telefonino, guardai il display e vidi il suo nome. Rebecca? Strano! Non era mai successo che mi chiamasse a quell’ora insolita. Conoscevo la sua discrezione e non l’avrebbe mai fatto se non per un motivo più che serio. «Ciao Rebecca!» dissi con voce rauca «Cosa è successo?» Dall’altro capo del telefono, la sentii singhiozzare. «Cosa è successo?» ripetei. Si scusò per avermi svegliato, ma aveva assoluto bisogno di vedermi. Pensai fosse successo qualcosa all’anziana madre. «No!» mi rassicurò. Era lei che aveva bisogno di me.
Ancora assonnato, mi vestii e andai in bagno a rinfrescarmi il viso. L’acqua fredda mi svegliò del tutto. Era da qualche mese che vivevo da solo. Avevamo deciso, insieme a mia moglie, di prenderci un periodo di riflessione per quel che riguardava il nostro traballante matrimonio. Così, senza problemi, scesi in garage, avviai l’auto e mi diressi a tutto gas verso casa sua. Data l’ora, il traffico sulle strade era praticamente inesistente. Questo mi spingeva a pigiare sull’acceleratore. Un quarto d’ora dopo ero da lei. Era sull’uscio della porta che mi aspettava. La scrutai dalla testa ai piedi. Tutto mi sembrò nella norma. Indossava una vestaglia chiara e delle pantofole rosa. Aveva i capelli arruffati di chi si fosse ato le mani sulla testa. Il viso tradiva un forte stato ansioso mentre la voce era tremula. Le presi una mano chiedendole cos’era successo. Mi guardò e stringendosi a me disse: «Ti spiegherò tutto!» «Credo proprio!» pensai. Anche sua madre era sveglia, mi salutò scusandosi anche lei. Non notai nulla di anomalo se non una strana agitazione in Rebecca. Ci sedemmo in salotto, mentre continuavo a guardarla in modo interrogativo, disse di avere avuto un incubo così brutto d’averle scatenato una crisi di panico. «Ed era un buon motivo per svegliarmi in piena notte?» pensai. Fece un cenno a sua madre che salutò e se ne tornò a letto. Non voleva sentisse quello che da lì a poco mi avrebbe raccontato. Andò a preparare del caffè caldo, di cui credo ce ne fosse proprio bisogno. Nel vassoio di porcellana, due tazzine di caffè fumante e dei biscotti aspettavano di essere consumati.
Presi la tazzina, sorseggiai il caffè e accesi una sigaretta. Altrettanto fece lei. Uno strano silenzio aleggiava in quella stanza che sembrava più fredda del solito. Provai una strana sensazione di paura. «Raccontami» dissi. Era visibilmente turbata. Aveva difficoltà a parlare e se ne stava con la testa prona. Mi avvicinai a lei, e la sentii che tremava! L’accarezzai e la baciai sulla testa. Tanto bastò a sbloccarla. «Ero andata a letto dopo aver chiuso la telefonata con te» cominciò col dire. In effetti quella sera eravamo stati per oltre due ore a conversare. «Mi sentivo strana, irrequieta» continuò, «per questo presi un tranquillante. Dopo circa un’ora, mi svegliai in preda al panico fradicia di sudore. Gridavo così forte che per poco quella poverina di mia madre non ci rimase secca. Ero in uno stato di forte agitazione. Mi resi conto di essere in preda a una crisi di panico. Cercai di mettere in atto il controllo della respirazione, come mi avevi insegnato» disse «Finalmente, grazie a questo, riuscii a calmare la crisi. Avevo bisogno di averti vicino, ma non volevo crearti problemi chiamandoti.» «Ma l’hai fatto!» pensai. «Tornai a letto cercando di riprendere sonno. In questa seconda fase successe un fatto sconvolgente.» Fece una pausa di silenzio, riprese fiato, e continuò nel racconto: «Quando mi svegliai la prima volta, stavo sognando di aspettare un bambino. Mi vedevo col pancione mentre correvo felice in un prato pieno di margherite di vari colori. Un sole giallo brillava in un cielo azzurro attraversato da un grande arcobaleno composto da una miriade di colori mai visti prima. Al centro del prato, c’era una piccola radura dove non crescevano le margherite, qui si trovava una vecchia altalena di legno che dondolava come se sopra ci fosse seduto qualcuno. Appena mi avvicinai, questa smise di oscillare. Provai paura! Improvvisamente sentii una voce di bimbo, che diceva “vieni mamma, vieni a giocare con me, sono tanto solo!” Mi guardai attorno, ma non c’era
nessuno. Mentre cercavo di capire da dove provenisse quella voce, l’altalena ricominciò a dondolare. La paura era sparita lasciando il posto a una sensazione di felicità che mi attraversava il corpo. Mentre mi avvicinavo, l’altalena si fermò di nuovo. Mi ci sedetti sopra e cominciai a ciondolarmi. Mi sentivo sospesa come fra le nuvole. Socchiusi gli occhi e mi abbandonai a quel cigolare. Ero felice! Un’improvvisa folata di vento mi fece aprire gli occhi. Vidi, davanti a me come fosse sbucato dal nulla, un bambino che gridava gioioso “mammina sei bellissima!”. Fermai l’altalena, stavo per scendere quando inciampai e caddi. Mi ritrovai a terra con la pancia in su, mentre la luce del sole batteva forte sul mio viso. Sentivo il ventre pulsare, guardai verso la pancia e vidi che si stava gonfiando in modo abnorme. Non ebbi neanche il tempo di stupirmi, che si aprì. Da dentro cominciarono a uscire margherite e suoni melodiosi. Non provai paura. Ero come trascinata ed estasiata da quello spettacolo. Di colpo il cielo divenne cupo mentre grosse nuvole si addensavano rincorrendosi. Il sole era sparito e le margherite del prato erano apite. Guardai verso l’altalena e vidi il seggiolino penzolante da una parte a causa di una corda spezzata. Stavo male! Sentivo il ventre contorcersi e un freddo intenso mi attanagliava il corpo. Un forte e improvviso vento cominciò a soffiarmi sul viso come volesse lacerarlo. A quel punto, mi svegliai in preda al terrore.» Ascoltai il racconto di Rebecca, in religioso silenzio, cercando di dare un significato logico a tutto quello che aveva detto. Ma non era finita lì! «Mi rimisi a letto» continuò «dopo aver preso un tranquillante. Ero in una fase di
dormiveglia quando alcuni rumori provenienti dalla casa mi fecero sobbalzare. Avevo tenuto accesa la luce per darmi coraggio. Cercai di capire da dove provenissero quei rumori. In un primo momento» disse «pensai fosse Lady, la mia cagnolina pechinese, che dorme nella stanza di mia madre e che forse era andata in giro per casa. Mi alzai per verificare. Tutto appariva tranquillo. Sia Lady che mia madre dormivano. Pensai di essere ancora sotto l’effetto del sogno precedente e non volli dare peso alla cosa. Mentre mi dirigevo verso la mia stanza, ricominciarono i rumori che capii provenire proprio da lì. Arrivata sull’uscio per poco non svenni! Seduto sul mio letto c’era un bambino che appena mi vide, con fare triste disse: “mamma perché non mi vuoi bene?”. Per subito dopo dissolversi nel nulla. Cominciai a gridare! Corsi verso la stanza di mia madre catapultandomi sul suo letto e stringendomi forte a lei.» Ero sconvolto da quello che avevo sentito. Il dubbio che Rebecca fe uso di sostanze allucinogene si fece strada in me e con cautela glielo chiesi. Si offese. Aveva ragione! Ero stato uno stupido solo a pensarlo. Verificai che il tranquillante usato prima non causasse come effetti collaterali le allucinazioni. Era un innocuo ansiolitico di uso comune e privo di attività psicotropa. Ci fu un attimo di silenzio totale. Eravamo assorti in pensieri e riflessioni non facilmente sondabili. In quella stanza continuava ad aleggiare una strana sensazione tra la paura e l’angoscia. «C’è una cosa che da tempo volevo dirti» disse Rebecca rompendo quell’inquietante silenzio «non l’ho fatto prima in quanto avevo paura che mi giudicassi pazza.»
La guardai incuriosito. Perché diceva questo? Continuò a parlare senza alzare la testa quasi provasse vergogna a guardarmi. «Ti ricordi» continuò «a Tunisi in quel sito archeologico dell’antica Cartagine?». Assentii, mentre lei continuava a parlare. «In quel posto sacro dove…» A quel punto del racconto ammutolì. Il suo viso si contorse in una smorfia di sofferenza mentre i suoi occhi fissavano un punto all’infinito come volessero rivivere una scena già vista. Quello sguardo mi rimase impresso! Era lo stesso che aveva quando la trovai come persa nel nulla mentre fissava il fondo di quello scavo. «Si ricordo!» esclamai con tono di voce alto per scuoterla dall’oblio dov’era caduta. Si ravvide quasi subito e disse: «Ero esterrefatta! In quello scavo, improvvisamente, apparvero dei bambini intenti a giocare seduti a terra in forma di cerchio. In un primo momento pensai che a causa del forte sole stessi avendo un’allucinazione, ma mi dovetti ricredere. A un tratto, uno di quei bambini si alzò allontanandosi dal gruppo e venne verso di me. Mi sorrise e disse: “mamma” mentre con la mano mi salutava come se già mi conoscesse. Rimasi scioccata. Quando ti sei avvicinato, non ti vidi né ti sentii. Se non mi avessi quasi trascinata via credo che mi sarei buttata giù verso quel bambino.» Riflettei qualche attimo su quanto Rebecca stava raccontandomi, e in quel momento la situazione mi apparve chiara. Ero certo che Rebecca stesse vivendo il trauma dell’aborto.
Rimasi con lei fino a tarda mattinata, rassicurandola che avremmo affrontato insieme la situazione, e qualora si fosse reso necessario ci saremmo fatti aiutare da uno psicologo. ai il resto della giornata mezzo intontito. Ero privo di sonno e poi quelle storie mi avevano scosso.
Mi convinsi che Rebecca viveva l’aborto in modo traumatico. Il tentativo di rimuoverlo dalla mente, probabilmente, aveva causato in lei uno stato conflittuale che si scaricava attraverso la via onirica. Qualunque altra spiegazione ci avrebbe condotto su un terreno viscido e pericoloso che era quello dello squilibrio mentale. arono alcuni mesi senza che quei sogni a occhi aperti si ripresentassero. Rebecca era tornata tranquilla, mentre il nostro rapporto continuava con alti e bassi. Qualcosa in lei era cambiato, anche se non riuscivo a capire cosa. Un giorno, approfittando dell’assenza della madre ospite di un’altra figlia che viveva al Nord, facemmo l’amore nel suo letto a baldacchino, adornato di veli che lo rendevano simile a un’alcova da mille e una notte. Fu un’amante focosa e ionale. Era la prima volta, da quando la conoscevo, che assumeva comportamenti e performance di cui non la credevo capace. Volle mettere in atto alcune posizioni sessuali viste in precedenza nel testo indiano Kama Sutra. Ero sbalordito! La tanto riservata Rebecca chiedeva cose che non mi sarei mai immaginato osasse fare. Pretese di fare l’amore più volte concedendomi parti di sé che non aveva voluto mai fossero violate e raggiunse l’orgasmo ripetute volte cosa mai accaduta in precedenza. Ero esterrefatto ma felice!
Dopo ore infuocate di emozioni e godimenti, amore e possesso, sentimenti e libidine, arrivammo stremati al rilassamento totale, rimanendo incastrati come una figura geometrica di forma indefinita. Eravamo imbrattati di umori profumati, mentre il suo respiro, reso affannoso dal godimento, aumentava in me l’eccitazione mentale, considerando che quella fisica si era esaurita dopo quella “guerra” di sesso. Mi divincolai da quel groviglio di carne calda, scesi dal letto posizionandomi su di lei formando un otto capoverso simbolo dell’infinito. In quella posizione mi abbeverai di quel nettare copioso che fluiva da quel grembo, dove la natura ha posto in schiavitù il maschio. Un altro violento orgasmo la raggiunse liberandola da quell’ansia trattenuta per troppo tempo. Ero da poco rientrato dopo una giornata stressante. Feci una doccia e andai a letto. Ero stremato! Il trillo del cellulare mi destò dal pesante sonno in cui ero piombato. Cercai di accendere la luce del lume posto sul comò che, dopo una rovinosa caduta, si accese. Guardai l’ora. Segnava le tre e quindici del mattino. Senza neanche chiedermi chi fosse risposi con voce rauca. Neanche il tempo di finire la parola “pronto” che un acuto e violento grido per poco non mi ruppe il timpano. Che cazzo stava succedendo! Chi gridava in modo così bestiale a quell’ora del mattino? Cominciai a gridare anch’io, un po’ per lo spavento e nel tentativo di riportare alla ragione chi si trovava all’altro capo del telefono. Ebbi l’effetto sperato. Avevano smesso di gridare. Chiesi chi era e perché gridasse tanto. La risposta arrivò sotto forma di uno strano lamento che si trasformò in una
flebile voce che diceva: «Ti prego vieni subito! È qui con me!» Rimasi di stucco! Era Rebecca! Aveva ricominciato con i suoi incubi? L’orologio segnava la stessa ora dell’ultima volta. Questo m’inquietò. Cercai di calmarla. Chi era lì con lei? «Il bambino!» esclamò. Sentii un brivido percorrermi la schiena. Questa volta ero certo. Rebecca era impazzita! Provai paura, ma non persi la calma. Diversamente dall’ultima volta, non la trovai ad aspettarmi. Suonai e dopo qualche minuto apparve lei, pallida, con gli occhi incavati e i capelli arruffati. Sembrava in trance. Rimasi impressionato nel vederla. Entrai, chiusi il portone, mentre lei stava con le spalle al muro e la testa china.
Dov’era il bambino che diceva di avere visto? Non rispose. Le sollevai il capo, la guardai negli occhi e con raccapriccio vidi che non aveva più le pupille. Mi staccai da lei precipitandomi ad accendere la luce del corridoio. Con la luce più intensa, quella macabra visione sembrava sparita. Meno male, pensai. Probabilmente la poca luce era stata la causa di quella terrificante impressione. Era assurdo non avesse più le pupille! Continuava a non rispondere alle mie richieste di spiegazioni. Rimaneva con la testa china mentre il singhiozzare le scuoteva il torace. «Mi vuoi rispondere per favore?» insistetti.
Aprì gli occhi, e tra i rivoli di lacrime che le solcavano il viso, mi parve di scorgere delle strane chiazze rossastre tra il naso e gli zigomi. Le chiesi cosa fossero quelle strane macchie. Come un automa rispose: «È stato lui!» Ero perplesso! Non capivo! La presi per mano e la condussi in cucina. Le feci bere dell’acqua in modo che s’idratasse un po’. Pretesi che mi raccontasse tutto con calma e precisione. «Dormivo da non più di un’ora» disse «quando cominciai a sognare di trovarmi in una sala seduta su una grande panca che leggevo un libro. Improvvisamente cominciai a scivolare dalla panca verso il pavimento senza che potessi far nulla per fermarmi. Avevo una grossa pancia come quella di una persona incinta pronta per il parto. Una volta a terra la pancia cominciò ad aprirsi e da lì cominciarono a uscire tanti uccellini colorati che si libravano in volo. Era uno spettacolo bellissimo, che mi faceva sorridere. All’improvviso, come nell’ultimo sogno, la pancia cominciò a richiudersi in una violenta implosione. Una nube scura uscita dall’ombelico si andò a posizionare sul mio viso. In quell’istante sentii come se qualcosa o qualcuno me lo stesse tirando. Vidi due grandi mani che opponevano resistenza a qualcosa che le tirava dall’alto. Queste si aggrappavano al viso, mentre una voce di bimbo mi gridava di non lasciarlo da solo. Mi svegliai gridando, uscii dal letto e accesi la luce. Con raccapriccio vidi, accovacciato ai piedi del letto, lo stesso bambino visto a Tunisi che mi guardava in modo triste e piangente. Non scappai, com’era naturale fi, lo guardai e, senza provare alcuna paura, mi avvicinai a lui chiedendogli chi fosse e cosa fe lì. Il bambino alzò la testa, mi guardò, sorrise e alzatosi mi cinse per i fianchi. Mi venne istintivo accarezzargli la testa. In quel preciso istante» continuò Rebecca «il bambino cominciò a trasformarsi. Il corpo cominciò ad allungarsi fin quando il suo viso non combaciò con quello mio.
Mi fissava intensamente mentre io, paralizzata, ero incapace di qualunque movimento. Avevo il cuore in tumulto. Improvvisamente quella ectoplasmatica figura, dopo un grido animalesco, si trasformò in un ammasso nebuloso che con prepotenza entrò nella mia bocca sparendo. Presa da una forte crisi isterica, scappai da quella stanza, chiusi a chiave il salone e ti telefonai.» Mentre raccontava, il suo corpo era tutto un tremare. Sinceramente non sapevo cosa fare né cosa pensare. Era evidente, ormai, che Rebecca si trovava in preda a una sindrome da stress post traumatico. La stessa diagnosi fu fatta dallo psichiatra che la visitò alcuni giorni dopo quell’ultimo episodio. Le fu prescritto un trattamento a base di antidepressivi e qualche blando sonnifero. Il trattamento, ci disse lo psichiatra, doveva essere protratto per almeno tre mesi e poi voleva rivederla. Rebecca era restia all’uso degli psicofarmaci in quanto, avendone fatto uso in una precedente occasione, aveva avuto degli spiacevoli effetti secondari. Rassicurata sul fatto che questi ultimi farmaci facevano parte di una nuova generazione i cui effetti collaterali erano molto contenuti, iniziò il trattamento con riluttanza anche se i primi benefici non tardarono ad arrivare. Quei brutti sogni si affievolirono fino a sparire del tutto. Ormai stava bene. Voleva smettere il trattamento in quanto, disse, non ne aveva più bisogno. Io ero di parere opposto e insistei affinché continuasse. Il rischio di una ricaduta era notevole e per rafforzare quanto le dicevo, pretesi che ne parlassimo col medico. Continuò la cura ma si disse convinta che quanto accaduto non fosse solo frutto della sua immaginazione o dovuto a squilibri di natura emozionale ma che fosse
anche un po’ vero. Non detti peso a quelle parole anche se, a distanza di tempo, dovetti ricredermi. L’evento che descriverò, l’ho vissuto in prima persona e non trova nessuna spiegazione logica né razionale. Il fatto mi convinse, che quanto accadeva a Rebecca non era frutto d’immaginazione onirica o isterica, ma fatti veri e concreti fuori da ogni logica terrena.
CAPITOLO XX
La levitazione
Eravamo a fine aprile, ed era ato oltre un anno da quando Rebecca si era sottoposta all’aborto. In quel periodo si teneva una fiera di prodotti naturali verso cui avevo degli interessi di lavoro. Quell’anno avevo deciso di portare con me Rebecca. Volevo farla distrarre e are con lei un’intera settimana lontano dai soliti luoghi. Non prenotai nessun albergo in città com’ero solito fare, preferendo un piccolo albergo in periferia molto carino e caratteristico. I primi giorni trascorsero sereni. Dopo la giornata ata in fiera, ci fermavamo in città a cenare. Una sera decidemmo di rientrare prima, cenare in albergo e starcene in intimità nella nostra stanza. Quella sera, accadde qualcosa che ebbe dell’incredibile e che mi spinse a riflettere seriamente su quanto, da un po’ di tempo, succedeva a Rebecca. Finimmo di cenare verso le ventitré e trenta. La cena fu sobria anche perché nei giorni precedenti ci eravamo lasciati un po’ andare col cibo. Fumammo qualche sigaretta, parlammo di tante cose e ci ritirammo in camera nostra. Eravamo talmente stanchi, che ci preparammo velocemente per andare a dormire. Una volta a letto, come per magia, il sonno che sembrava avesse preso il sopravvento sparì lasciando il posto a un prorompente desiderio di fare l’amore. Rebecca indossava una leggera vestaglia di seta trasparente. Sotto un piccolo slip
esaltava la sua femminilità. Quel corpo profumato da una tenue e persistente fragranza floreale era causa dei miei turbamenti erotici. Mi accostai al suo corpo morbido e setoso, cominciando ad accarezzarlo. La vestaglia scivolò via, lasciando alle mie labbra la nudità di quella pelle. La sentivo leggera sul mio corpo, sotto quelle lenzuola che profumavano di lavanda. Il turgido seno giocava con la mia lingua, mentre le sue unghie rigavano la mia pelle. La tenue luce che regnava nella stanza rifletteva sui muri le ombre in movimento. Ero disteso su di lei, quando ebbi la netta sensazione che qualcosa si era frapposto tra i nostri corpi. Sentivo qualcosa spingermi verso l’alto. Mi scostai e facendo pressione con le mani sul materasso mi sollevai per guardare cosa stesse succedendo. Rimasi sbalordito! La pancia di Rebecca stava gonfiandosi e mi spingeva verso l’alto. La guardai incredulo cercando di capire se anche lei vedeva e sentiva quanto stava accadendo. Teneva gli occhi chiusi e dalle leggere smorfie del viso, si capiva che stava godendosi quelle nostre effusioni come se nulla fosse. Neanche il tempo di riflettere, che la pancia cominciò a sgonfiarsi e mi ritrovai nuovamente abbracciato a lei. Non avevo bevuto alcool né fatto uso di sostanze strane, non è mia abitudine, ma quello che avevo visto era reale! Continuammo ad amarci in quel miscuglio di effluvi profumati. Avevo per un attimo dimenticato quanto accaduto che sentii il suo corpo sotto il mio scivolare e dirigersi verso la testata del letto. Si ergeva verso l’alto, mentre una strana e improvvisa voce invase la stanza dicendo “è solo mia!” .
Mi scostai e vidi Rebecca sollevata in aria come sospesa nel nulla. Provai a chiamarla, ma pareva non sentire la mia voce. Aveva gli occhi rossi e lucenti. Una strana voce dal tono cupo e maschile usciva dalla sue labbra dicendo: «Sono tuo! Nessun altro ti può appartenere.» Ero nel pallone! Non sapevo cosa fare. Mi sembrava d’assistere al film L’esorcista. L’unica cosa intelligente da fare in quel momento era scappare da quella stanza. Provai, ma qualcosa me lo impedì, mentre Rebecca continuava a rimanere sospesa in quello stato di levitazione. Provai a strattonarla afferrandola per le caviglie nel tentativo di riportarla giù ma non ci riuscii. Scesi dal letto e mi precipitai verso la porta d’uscita che, stranamente, non riuscii a trovare. Un gioco di luci e suoni come delle nenie si diffuse nella stanza, mentre lei lentamente ritornava supina nel letto. Ero impaurito e nel contempo affascinato da quello che stava accadendo. Cercavo di darmi una spiegazione a quanto stava accadendo ma non ci riuscii. Rebecca frattanto era tornata distesa sul letto. Aprì gli occhi come se nulla fosse accaduto, mi guardò e stupita chiese cosa fi fuori dal letto. Ero perplesso! Possibile non si fosse accorta di nulla? Balbettando risposi che ero andato in bagno. Fece un gesto d’invito a tornare a letto. Disteso accanto a lei, sentivo il mio corpo tremare. Tutto in me si era afflosciato! Seduta sopra di me, mi chiese se per caso non la desiderassi più. Incuriosito le domandai come stesse. Sembrò stupirsi. Non capiva perché glielo chiedessi. Tirai un lungo sospiro e feci finta di nulla.
Era chiaro, sembrava non essere consapevole di quanto accaduto. Cominciò a baciarmi nelle parti più intime cercando di stimolare in me una qualche reazione. Ma ben presto si rese conto di non riuscirci. Si distese su un fianco e mi chiese se preferivo dormire. Risposi di no. Avevo solo bisogno di un attimo di riposo. Aveva voglia di masturbarsi e mi chiese il permesso. «Certo!» risposi. Si mise supina, allargò le gambe e cominciò a trastullarsi la clitoride. Nel sentire i mugolii e i leggeri movimenti del suo corpo, l’erezione fu quasi immediata. Cominciai a masturbarmi anch’io. Quando la sentii abbandonarsi in un rantolo prolungato, segno del raggiungimento orgasmico, le saltai sopra penetrandola in modo quasi violento. Ci amammo tutta la notte. L’alba ci trovò abbracciati e sfiniti dal piacere. Dormimmo fino al tardo mattino. Mi svegliai con la testa che pareva scoppiasse. Andai in bagno e mi lasciai andare sotto l’acqua fredda della doccia. Quando rientrai in camera, Rebecca era già sveglia. Mi avvicinai e le accarezzai il viso. La tenerezza di quel gesto la commosse, mi buttò le braccia al collo e con un sussurro disse: «Sono felice!» Si alzò e corse in bagno. Lo scroscio della doccia mi portò a fantasticare su quel corpo nudo accarezzato dall’acqua. Accesi una sigaretta, mi sdraiai sul letto mentre i pensieri si concentravano su quanto accaduto quella notte. Erano pensieri opachi, confusi, che si rincorrevano come dei fotogrammi. La sensazione era quella di aver sognato senza però che riuscissi a focalizzare il sogno. Tutto di quella notte mi appariva nebuloso. Ero indeciso se chiederle cosa ricordasse, oppure starmene zitto sperando che fosse lei a parlarmene. Mentre supino sul letto ero immerso in queste riflessioni, fui attirato da uno
strano luccichio proveniente dal lato alto della testiera del letto. Incuriosito mi alzai. Mi portai al punto del luccichio e rimasi sorpreso nel vedere incastrato nell’intarsio del legno uno degli orecchini di perle di Rebecca. Disincastrai il pendente dal legno e mi accasciai sul letto. Come mai si trovava in quel posto? Improvvisamente tutto mi fu chiaro, non avevo sognato! Cercai di mantenere la calma. Misi l’orecchino nella tasca della giacca e aspettai che Rebecca uscisse dal bagno. Era raggiante e felice. Preferii non dirle nulla del pendente ritrovato. Nel vederla così serena mi sembrava un delitto scuoterla su cose cui neanche io riuscivo a dare una logica spiegazione. Fu durante la colazione che le restituii l’orecchino. Dissi di averlo trovato ai piedi del letto. Sorrise mentre se lo rimetteva come se nulla fosse. A quel punto mi resi veramente conto che non ricordava nulla di quella diabolica notte.
Dopo l’esperienza angosciosa vissuta in quella stanza d’albergo alcuni mesi prima, qualcosa nel nostro rapporto era cambiato. Rebecca, che aveva smesso di assumere psicofarmaci, non presentava più segni di stress, ma qualcosa in lei era diverso. Non riuscii mai a capire cosa. Dopo tutto quello accaduto in quegli anni, anche a me successero una serie di eventi che definirei negativi. Una notte mentre rientravo a casa, dopo essere stato da lei, fui coinvolto in un gravissimo incidente stradale con danni gravi alle persone. Mi separai da mia moglie anche se da un pò non convivevamo più insieme, attraversando una forte crisi d’identità. Mi sentivo stanco e invecchiato. Avevo perso quella grinta che mi aveva sempre contraddistinto. Sentivo il bisogno di uscire da quella situazione.
Avevo la netta percezione che qualcosa di negativo aleggiasse su Rebecca e che mi stesse coinvolgendo. Non volevo lasciarla! Le volevo ancora bene e sentivo il bisogno di averla con me. Ma nulla più giocava a nostro favore. Rebecca si era dimagrita parecchio. Quelle macchie sul viso si erano estese prendendo sembianze a forma di occhiale, mentre sul labbro superiore si era formata come una scottatura che ne aveva sovvertito la struttura. Ero convinto che Rebecca stesse avendo uno sconvolgimento del sistema immunitario. Era possibile che un aborto avesse potuto causare tutto quello che vidi accadere? C’era qualcosa d’arcano, d’insolito che necessitava di essere indagato per capire se c’era un nesso. Rebecca aveva abortito dopo l’ottava settimana, era questo il motivo? Non fu facile capire.
CAPITOLO XXI
Catarsi
Gli anni che seguirono alla fine del nostro rapporto furono di riflessione e ricerca. Cercavo di trovare un nesso tra l’aborto e gli accadimenti che ci videro protagonisti. Interrogai molte donne che avevano abortito sia prima che dopo l’ottava settimana. Estesi le mie ricerche oltre l’ufficialità della scienza, andando a esplorare il mondo del paranormale. Quel mondo dove vengono relegati tutti i fenomeni a cui non si riesce a dare una risposta razionale e scientifica. Mentre andavo avanti con le ricerche, mi resi conto che uno degli errori più vistosi che si commettono è quello di voler dare una spiegazione logica a tutto. La nostra stessa vita di per sé è illogica! Che senso ha nascere per poi morire? Chi ci ha obbligato a tali scelte? Molte di quelle donne che vissero esperienze analoghe a quelle di Rebecca avevano un comune denominatore: avere abortito dopo l’ottava settimana di gravidanza. Non trovai le stesse risposte in altre a cui l’aborto fu praticato prima del compimento dell’ottava settimana. In loro si era verificata solo qualche leggera forma depressiva ben presto superata. La curiosità di capire perché questo accadeva mi spinse ad approfondire cose e situazioni mai volute sperimentare prima.
Nei capitoli precedenti abbiamo osservato come l’embrione si replichi in modo indifferenziato. Dall’ottava settimana in poi questo subisce un cambiamento diventando un feto. Le cellule cominciano a differenziarsi specializzandosi per dare forma a quello che siamo. Per svariati motivi, cui non volgiamo la nostra attenzione, può succedere che la femmina umana decida di non portare avanti la gravidanza e si sottoponga a un aborto.
Il processo d’impregnazione del corpo gravitazionale in quello fisico inizia dall’ottava settimana di gestazione. Da quel momento un aborto, oltre che causare la distruzione del corpo fisico in formazione, interromperà questo processo. Che fine faranno, sia il corpo gravitazionale che quello sensibile vista la loro natura sovradimensionale e immortale? Dopo tutto quello che vidi accadere a Rebecca, mi posi spesso questa domanda a cui non era facile dare una risposta. Ero convinto, qualora ci fossi riuscito, che trovarla avrebbe pacificato il mio animo rimasto inquieto malgrado gli anni che erano ati da quegli eventi. Cosa fare dunque? Dove cercare la risposta? Di sicuro non nel mondo razionale dove ogni cosa deve trovare una conferma scientifica. Dovevo esplorare altre vie. La conoscenza delle esperienze che gli “Yogini” facevano attraverso la meditazione buddista, mi portò alla convinzione che usando lo stesso sistema avrei potuto rivivere quanto accadde quel lontano giorno di tanti anni fa durante l’aborto praticato a Rebecca. Erano anni che praticavo la meditazione trascendentale, e pur conoscendo quella buddista non l’avevo mai messa in pratica. Sapevo che, attraverso quel tipo di meditazione si potevano raggiungere livelli di consapevolezza superiori a
qualunque altra tecnica meditativa. Dovevo trovare un posto tranquillo, lontano dai rumori della città dove potermi allenare a quella pratica. Era un’impresa difficile, ma ormai era diventata un’ossessione. Volevo capire e vedere cosa accadde quel giorno. Ci sarei riuscito?
Presi in affitto una piccola baita in montagna. Era settembre inoltrato e l’autunno si annunciava piovoso. Ogni giorno raggiungevo la baita, dove molte volte mi fermavo anche di notte per allenarmi. Ci vollero circa due settimane, durante le quali riuscii a sperimentare stati mentali mai provati prima. C’erano momenti in cui perdevo completamente la concezione dello spazio e del tempo. Sentivo il corpo privo di peso librarsi in aria come volasse. Tante volte provavo paura. A volte mi svegliavo da quello stato gocciolante di sudore e col respiro affannoso di chi ha vissuto un incubo. Il risultato che volevo raggiungere richiedeva sacrifici, mentre la sfida che avevo intrapreso con me stesso mi spronava ad andare avanti. Una sera mentre ero immerso nella profondità della meditazione, sentii sfiorarmi il corpo come se qualcuno o qualcosa mi stesse toccando. Fui preso dal panico ma rimasi con gli occhi chiusi e non mi mossi dalla posizione assunta. Improvvisamente sentii una voce che diceva: «Vai avanti!» Aprii gli occhi guardandomi intorno. Il silenzio era assordante, in quel momento capii che ero pronto a fare il salto. Aspettai che fosse sabato, lo stesso giorno in cui Rebecca si sottopose all’aborto, per portare a compimento il mio esperimento. La notte prima pernottai nella baita. All’alba mi alzai, feci alcuni esercizi di Yoga e respirazione, bevvi un bicchiere d’acqua e mi posizionai per meditare.
La consapevolezza del tempo nella meditazione si annulla. Non so dirvi in quale momento avvenne quello che state per leggere.
Mi ritrovai in una stanza non molto grande. Dentro regnava un acre odore di cloroformio frammisto agli odori che si sentono nelle infermerie. In quella stanza, si trovavano un gruppo di tre persone chine su uno strano lettino da dove fuoriuscivano due gambe nude penzolanti. Regnava un gran silenzio. Mi avvicinai verso quel gruppo di persone che indossavano delle mascherine e dei camici verdi, per vedere cosa stessero facendo. Pur essendo vicinissimo a loro sembrava non mi vedessero. Continuai la mia esplorazione sporgendomi con la testa sopra di loro per vedere a chi appartenessero quelle gambe penzolanti. Feci un balzo all’indietro quando sdraiata su quel lettino vidi Rebecca. Ero entrato nella fase profonda della meditazione dove ato, presente e futuro diventano un tutt’uno. Quello che stavo vedendo era l’aborto a cui si era sottoposta Rebecca oltre cinque anni prima. Era una fase delicata quella in cui mi trovavo. Dovevo essere consapevole del fatto che quello che stavo osservando non era reale, ma che non era neanche un sogno. Tecnicamente si potrebbe definire uno stato alterato della mente che, non indotto dall’uso di sostanze stupefacenti, era dovuto a una tecnica millenaria capace di portare la mente a livelli molto profondi di esplorazioni extrasensoriali. Rebecca era addormentata dall’anestesia. Indossava un camicione di colore verde molto corto che la copriva fin sopra l’ombelico. Da lì in giù era nuda e depilata. Aveva le gambe sollevate che si piegavano all’altezza dei ginocchi sotto i quali si trovavano i due trabiccoli del lettino ostetrico.
Mi posizionai davanti a lei in modo da poter vedere e seguire l’intervento che da lì a poco sarebbe avvenuto. Le tre persone che si trovavano su di lei cominciarono a prendere posizione. Uno si mise dietro la testa di Rebecca, capii che si trattava del medico anestesista. Il secondo, una donna, forse l’infermiera, si mise al lato del lettino dove si trovava un carrello con sopra i ferri chirurgici. Il terzo uomo si sedette su uno sgabello metallico davanti alle cosce aperte di Rebecca. In mano teneva quello che mi sembrò essere un grosso cucchiaio d’acciaio. Era chiaro che si trattava del chirurgo che stava per praticare l’aborto. Dalla posizione in cui mi trovavo potevo osservare ogni fase dell’intervento che non mi sembrò affatto così cruento come immaginavo potesse essere. Il tutto durò all’incirca mezz’ora. Ma quello che successe in quella mezz’ora e che gli altri non videro né sentirono, non potrò mai dimenticarlo. Quello che vidi in quella stanza confermò quello che avevo sempre pensato. Tutto quanto accaduto a Rebecca era causa di quell’aborto.
L’intervento era iniziato da alcuni minuti. Il chirurgo manipolava all’interno della vagina di Rebecca con i ferri chirurgici per staccare dall’utero il feto che lì stava crescendo. Tutto sembrava tranquillo, quando all’improvviso un grido come di qualcuno che si fosse fatto male attirò la mia attenzione. Mi girai istintivamente cercando di capire da dove provenisse quel lamento. Improvvisamente, un secondo grido più lancinante del primo mi spinse a guardare verso Rebecca. Era lì, immobile, senza nessuna reazione, così come anche gli altri. Ero solo io a vedere e sentire quanto stava accadendo. Quelle grida provenivano proprio da lei! Ma era sotto anestesia non poteva farlo. Chi stava gridando allora? Non feci in tempo a completare la domanda che vidi una coltre fumosa che usciva dal ventre di Rebecca, mentre quei lamenti si facevano più lancinanti.
Non provavo paura. Osservavo quello che stava accadendo in modo distaccato. La coltre fumosa si fermò a circa cinquanta centimetri sopra la testa di Rebecca. Più che fumo, sembrava una nuvola bianca. In quell’istante, un altro lungo lamento più intenso del primo accompagnò l’uscita di un’altra coltre caliginosa molto più scura della precedente che si avviluppò subito all’altra nube bianca posta sulla testa di Rebecca. Vidi che la prima nube, raggiunta dalla seconda, s’attorcigliò su sé stessa come se tentasse di scappare per non farsi aggrovigliare ma non ci riuscì. Si formarono così due livelli di nebulose. Nella parte alta, si trovava la prima di colore quasi bianco, mentre attaccata alla sua base c’era l’altra di colore scuro. La prima si comportava come si volesse liberare dalla presa attorcigliandosi su sé stessa e cercando di risalire verso l’alto. L’altra, era evidente, non voleva staccarsi e si gonfiava come volesse fare da contrappeso. Non riuscivo a capire cosa stava succedendo né tanto meno cosa significassero quelle strane figure. Neanche il tempo di completare la riflessione che quelle strane sostanze cominciarono a prendere una forma quasi umana mentre uno strano singhiozzare, come quello di un bambino che piange, arrivava da loro. Posizionate sulla testa di Rebecca, la guardavano in modo quasi implorante. Sparirono appena lei si svegliò dall’anestesia. A quel punto tutto si oscurò. Ebbi dei sussulti e uscii dallo stato di profondità in cui ero entrato. Rimasi nella posizione che avevo assunto all’inizio della meditazione per almeno un’altra ora. Ero rientrato nel mondo razionale e immettermi subito nella realtà sarebbe stato rischioso e pericoloso come quando un sub che, dopo essere rimasto in apnea per un periodo di tempo, riemerge senza rispettare la gradualità della risalita. Quando riaprii gli occhi e ripresi coscienza dello spazio e del tempo in cui ero
rientrato, mi accorsi che era già tardo pomeriggio. Ero rimasto in quello stato per circa nove ore. Sbalorditivo! Rimasi nella baita fino a tarda sera, cercando di dare un significato a quanto avevo vissuto durante quel viaggio fuori dallo spazio e dal tempo. Avevo visto l’aborto a cui fu sottoposta Rebecca cinque anni prima? Quello che vidi accadere fu una proiezione olografica di una esperienza extrasensoriale? Sono convinto che quello che accadde quel giorno di cinque anni fa in quella stanza, da me rivissuto durante la meditazione, è quello che successe veramente. Rebecca era perseguitata da quella coltre nuvolosa uscita dal suo ventre mentre veniva ucciso il bambino che era in lei.
Era notte fonda quando lasciai la baita. Sentivo il bisogno di mangiare. Ero stremato dall’impegno mentale sostenuto per tutto quel tempo. Non avevo mangiato né bevuto dal giorno prima, per ottenere una purificazione. Arrivai in città oltre la mezzanotte. Mi recai alla mia solita panineria, che sapevo rimanere aperta fino a tarda notte, feci preparare il mio solito panino alla “Melo” con la solita bionda grande alla spina. Volevo concedermi una pausa senza pensare a nulla, godendomi quel panino e quella birra ghiacciata che l’accompagnava. Quella notte dormii profondamente senza fare sogni. A svegliarmi ci pensò il mio cane che, senza nessun pudore, saltò sul letto e cominciò a leccarmi il viso. Faceva così quando omettevo di fare qualcosa per lui. Avevo dimenticato, povero cane, di dargli da mangiare la sera prima! Dopo aver soddisfatto la giusta richiesta del mio unico migliore amico, feci una lunga e bollente doccia. Mentre l’acqua scivolava sul mio corpo assonnato, ai in rassegna
l’esperienza vissuta in quella baita. Avevo bisogno di condividerla con qualcuno di cui mi fidassi. Ero indeciso se parlarne al mio amico frate scano, cui mi legava una grande stima e amicizia malgrado i nostri continui litigi su problemi di religiosità. La sua mente aperta poteva essermi d’aiuto per meglio capire quanto accaduto, e non solo, su in baita.
CAPITOLO XXII
Esegesi
L’appuntamento fu in un bar di periferia. Un posto tranquillo dove dei tavoli appartati ci garantivano una certa privacy. Andavo spesso in quel posto dove il proprietario, persona simpatica e discreta, mi chiamava “il professore”. Non ho mai capito il perché visto che non lo ero! Il prete, mio amico, si chiamava Mauro. Aveva qualche anno più di me, piccolo di statura e con due occhietti furbi che quando ti guardavano sembrava t’interrogassero su qualcosa a cui non avresti saputo rispondere. Parlavamo spesso di astrazioni metafisiche, e ogni volta rimaneva attratto, parole sue, da quelle che definiva le mie teorie. Ogni tanto, conoscendo bene i miei atteggiamenti sessuali, si comportava da frate dandomi delle dritte morali e religiose di cui, diceva, avevo bisogno. Sapevo che con lui potevo confidarmi parlando a ruota libera senza alcun problema. Era quello che volevo. L’unico problema ero io, in quanto non sapevo da dove cominciare viste le tante e vaste cose di cui volevo discutere. Venni preso da un blocco riflessivo. Mauro mi lanciò uno sguardo, e quando capì le mie difficoltà, ruppe il silenzio, chiedendomi dov’ero stato negli ultimi tempi visto che non mi ero più fatto sentire.
Entrai in uno stato mentale difficile da descrivere. Era come se di colpo la mia attenzione si fosse distolta da lui e da quello che diceva. Incominciai a parlare senza rendermi conto di averlo bruscamente interrotto. Parlavo come un fiume in piena quasi volessi liberarmi da un qualcosa che per anni era stato come un chiodo fisso nella mia mente: perché accaddero tutte quelle cose dopo quell’aborto? Gli parlai di Rosa e di quello che mi raccontò quanto la rividi dopo alcuni anni dalla fine della nostra relazione. Si era sposata nel tentativo di dimenticarmi ma era stato un fallimento. Lui l’aveva lasciata dopo averle fatto mettere al mondo un bambino. Era lei che aveva voluto quella gravidanza, per riscattarsi dai numerosi aborti fatti nel periodo della nostra relazione. Mi disse che la sua vita era un inferno. Il bambino che le era nato, ben presto si rivelò avere delle turbe mentali che lei, stranamente, attribuiva agli aborti praticati in precedenza. Disse di non essere mai riuscita a dimenticare la nostra storia e quanto ancora mi amasse. Mi pregò di concederle di vedersi con me, anche saltuariamente, in quanto era infelice. Non potevo, non provavo più niente per quella donna. Non avevo dimenticato quanto fosse bugiarda. Anche riguardo a quello che diceva, ero convinto che stesse mentendo. Ormai il solo sentimento che riuscivo a provare per quella donna smarrita e vittima dei suoi stessi inganni era solo pena. Raccontai di Giovanna e di quanto quella ragazza mi avesse amato. Anche lei si era sposata, ma circa cinque anni dopo era tornata a cercarmi. Malgrado la sua vita coniugale scorresse tranquilla e avesse due splendidi marmocchi, non amava suo marito. Gli voleva bene, questo sì, ma non lo amava. In lei era rimasta la nostalgia di quell’amore che avrebbe voluto vivere con me. Ogni qualvolta si accoppiava con
suo marito, era me che stringeva al suo corpo. Tornammo amanti per circa un anno. Stanco di quello che consideravo un tradimento verso un uomo, suo marito, che non conoscevo e che, ignaro di tutto, amava quella donna, le dissi che quella situazione doveva finire e che non dovevamo più vederci. Pianse. Mi buttò le braccia al collo e mi baciò.
Un giorno, mentre mi trovavo in un bar insieme a un’amica, sentii qualcuno che picchiettava sulla mia spalla destra. Mi girai di scatto, ritrovandomi con il viso a sfiorarne un altro. Mi ritrassi all’indietro, e la vidi guardarmi dritto negli occhi. Aveva il viso scavato come segnato da una profonda stanchezza. Quando mi resi conto chi era rimasi stupito. Non mi sarei mai aspettato che fosse lei: Sally! Senza darmi il tempo di parlare, stese le braccia verso di me, mostrandomi il palmo delle mani e disse: «È con queste mani che faccio la puttana a Roma!» e si precipitò verso l’uscita. Rimasi interdetto, confuso, non riuscivo a capire né il gesto né il senso di quello che disse. Scusandomi con la mia amica, uscii fuori dal locale. La trovai appoggiata al muro che piangeva. Mi avvicinai a lei che si scostò dal muro dirigendosi dietro l’angolo dell’edificio. La seguii e la presi per un braccio. Senza porre alcuna resistenza, si girò fissandomi con occhi tristi e piene di lacrime scusandosi per prima. Ero sempre più confuso erano ati tanti di quegli anni…Cosa faceva lì? E come mai sapeva dove mi trovavo? Glielo chiesi. Da qualche mese si trovava a casa di sua madre e in tutto questo tempo mi aveva cercato. Ricevette una telefonata da un suo amico, non volle dirmi chi era, che l’avvisava dove mi trovassi in quel momento. «Perché mi cercavi?» le chiesi.
Abbassò il capo e dopo qualche attimo di silenzio, chiese se potevamo vederci il giorno dopo. Aveva bisogno di parlare con me. Mi ricordai dell’amica lasciata al bar senza alcuna spiegazione. Dovevo correre da lei e scusarmi.
Andai a prendere Sally da sua madre, e ci dirigemmo con la mia auto verso il mare dove eravamo soliti incontrarci al tempo della nostra relazione. Non scendemmo dall’auto diversamente da come facevamo ai tempi in cui ci frequentavamo. Allora ci piaceva rincorrerci sulla spiaggia per poi cadere esausti sulla sabbia e fare l’amore. Quei tempi ormai erano lontani! Mentre la scrutavo con piglio interrogativo incominciò a parlare. Mi raccontò di come visse la sua gravidanza dopo la visita che le feci in Germania. Quei giorni che stetti con lei, mi disse, erano stati i più belli della sua vita. Era veramente convinta che il padre della creatura che portava in grembo fossi io. Questo pensiero e la mia vicinanza, per la prima volta in vita sua, la fecero sentire parte di una famiglia tutta sua. Sapere che il padre della sua creatura era Sandro e non io, causò in lei un senso di rifiuto verso quella creatura che portava in grembo. Tentò l’aborto attraverso l’assunzione di psicofarmaci. Fortunatamente salvarono lei e la creatura, ma nessuno mai riuscì a curare la sua anima ferita. Ormai era tardi per tentare di interrompere quella gravidanza che accettò a malincuore. Quando il bambino nacque, in un ospedale tedesco, voleva darlo in adozione, ma alcune sue amiche, emigranti anche loro, in particolare una ragazza spagnola che Sally mi presentò quando andai a trovarla in Germania, anche lei allora gravida, la convinsero a desistere. Era andata a convivere con un ragazzo bulgaro innamorato di lei, che l’aiutò a
crescere il bambino. Le domandai di suo figlio ormai cresciuto che, non nego, ero curioso di vedere. Mi guardò, gli occhi si velarono di pianto, ma non mi dette risposta. Non insistetti. Era tornata in Italia in quanto sua madre era stata male e lei non la vedeva da circa sei anni. Mi fece capire di non avere mai smesso d’amarmi anche se, ormai consapevole, indietro non sarebbe stato possibile tornare. Fu curiosa di sapere se stavo insieme alla ragazza del bar. Abbozzai un sorriso senza darle risposta. Seguì un lungo silenzio mentre i nostri sguardi s’incrociavano come fari che scrutano l’orizzonte . Il luogo dove ci trovavamo mi riportò alla mente l’episodio di quando tentò il suicidio. Era lo stesso posto dove quella notte, mentre pioveva a dirotto, la feci camminare per ore. Non le dissi nulla di quei miei pensieri. Improvvisamente alzò le mani col palmo verso di me e con un sorriso ripeté quello che mi disse il giorno prima: «Con queste mani faccio la puttana!» A quel punto la presi per i polsi, la tirai a me e le chiesi una spiegazione sul perché dicesse quelle cose. Dalla mia stretta capì che non era il caso di scherzare e che pretendevo da lei una risposta. Mi pregò di lasciarla perché le facevo male. Mollai la presa, e con delicatezza le presi le mani fra le mie. Sembrò rassicurata da quel gesto. Disse che avevano raccontato a sua madre che si prostituiva e che io ne ero a conoscenza. Rimasi stupefatto! Mi sentii offeso da questo. Erano anni che non sapevo più niente di lei, né cosa fe né dove vivesse. Chi poteva aver detto quelle idiozie? «Per questo mi hai cercato?» domandai.
«No!» fu la sua risposta. Aveva bisogno di vedermi perché sapeva che non ci saremmo mai più rivisti. Rimasi sconcertato nel sentirlo. Non riuscivo a capire perché lo dicesse. Quando seppi che la trovarono morta ammazzata per strada davanti a una stazione di una grande città del Nord, capii perché mi aveva cercato: voleva sapessi come si era ridotta ma non ebbe il coraggio di dirmelo. Provai una grande pena e un grande rammarico per quella donna che visse infelice e morì in modo tragico per non avere mai accettato una gravidanza che non le apparteneva.
Il problema aborto era per me un’ossessione. Ero alla continua ricerca di una verità possibile. A volte venivo assalito da sogni allucinanti a cui ben presto mi abituai pur non avendo mai avuto la certezza che si trattasse solo di sogni. Come si spiegava il fatto che cominciai a elaborare teorie su argomenti di cui ero completamente ignaro? Com’era possibile che certe mie intuizioni le ritrovavo, dopo un certo tempo, pubblicate su autorevoli riviste scientifiche come fossero delle scoperte recenti? C’era qualcosa di sottile che mi sfuggiva. Raccontai a Mauro, il mio amico frate, di quella notte, di quando mentre fuori imperversava una tempesta di lampi e tuoni, fui svegliato di soprassalto in un bagno di sudore, da un incubo terrificante, e dopo avere la luce e guardato l’orologio, vidi che segnava le tre del mattino, l’ora in cui Rebecca anni fa viveva i suoi incubi. Mi sentivo stordito. Mi alzai, andai in cucina, misi sul fornello la caffettiera e accesi una sigaretta. Fui scosso da un sibilo acuto e continuo. Era la caffettiera che mi avvertiva che il caffè era pronto. Non tornai a dormire. Mi sedetti sulla poltrona del soggiorno, e mentre sorseggiavo il caffè e fumavo la mia sigaretta, cominciai a riflettere su quei sogni che da tempo si ripresentavano.
Uno su tutti era imperante: una strana creatura, con sembianze tra la scimmia e un essere umano, mentre partoriva. Malgrado vivesse con altre creature simili, a partorire era sempre lei. In un primo momento collegai questo sogno alla figura di Rebecca che, malgrado non ci sentivamo da anni, era sempre presente nella mia mente. Una volta lessi un articolo su una rivista scientifica, che parlava del ritrovamento di uno scheletro risalente a circa quattro milioni di anni prima quasi in un perfetto stato di conservazione. Gli scienziati che lo scoprirono accertarono che si trattava di una creatura di sesso femminile. Era probabile che fosse un Australopiteco. La chiamarono “Lucy”. Non so spiegare il perché, ma fui attratto da quello che lessi. Da quel giorno intensificai le mie ricerche per sapere tutto su quella scoperta che ritenni fantastica. Mentre procedevo con le mie ricerche, mi resi conto che la creatura che appariva continuamente nei miei sogni frammisti a incubi era proprio “Lucy”. Dopo questa constatazione, cominciò a fluire nella mia mente tutta una serie di ricostruzioni a ritroso nel tempo. Mi convinsi che quella creatura fosse l’origine della nostra specie umana e che attraverso lei si separarono le due sessualità dando origine al maschio. Era lei la madre genetica! Mi fermai per prendere fiato e solo allora mi accorsi di come Mauro mi guardava. Aveva gli occhi stralunati di chi si sente confuso. Lo guardai e sorridendogli dissi: «Tranquillo! Non sono impazzito!» continuando nel mio racconto.
«Ero convinto» dissi «come attraverso quella creatura sia iniziato il percorso del genere umano verso la sua reale origine.» Gli parlai del piano unificato, del corpo gravitazionale, della grande madre, di quello che succede dopo che il corpo fisico muore e del Bardo. Di come l’aborto
dopo l’ottava settimana sia una delle maggiori cause dell’infelicità e dei molti mali che affliggono l’umanità mentre attraversa l’esperienza che chiamiamo vita. Di quello che vidi accadere in Rebecca dopo quell’aborto ecc. Non avevo consapevolezza di quante ore avevo parlato. Ero esausto! Riempii un bicchiere con dell’acqua minerale, che mandai giù in un unico sorso, mentre Mauro appariva sempre più stravolto. Non avevo ancora finito. Dovevo raccontargli di quello che vidi su in quella baita. Era questo il motivo principale per cui l’avevo cercato. Volevo, attraverso lui che era prete, una spiegazione plausibile a tutto quello. Mi avrebbe creduto? Pensava che ero diventato schizofrenico? Non m’interessava né glielo chiesi. Era necessario sapere che qualcuno mi stesse ascoltando, il resto era relativo. In quella baita avevo visto quanto mi bastava per spiegarmi i comportamenti e le visioni che Rebecca ebbe dopo l’aborto. Mi resi conto che qualcosa di trascendentale ormai guidava i miei pensieri. Tutto quello che elaborai non poteva essere spiegabile con la razionalità. Ormai ero convinto, e lo dissi a Mauro, che l’interruzione di gravidanza dopo la trasformazione dell’embrione in feto rappresenta una tragedia non solo sotto il profilo etico o religioso, cosa che per me ha poca rilevanza, ma per l’equilibrio di tutto il genere umano. La visione di quelle due forme nebulose, una chiara e l’altra scura, che uscivano dal ventre di Rebecca, rappresentavano l’abbandono dal corpo fisico, ucciso durante l’aborto, del corpo gravitazionale e del corpo sensibile. I due corpi, pur essendo simili, hanno livelli di consapevolezza diversi. Il corpo sensibile, schiavo del condizionamento e delle continue rinascite, ha smarrito la conoscenza del proprio intelletto. Il corpo gravitazionale, invece, essendo nella pienezza della sua consapevolezza
è un essere puro privo di qualsivoglia condizionamento. Il corpo sensibile, dopo le varie esperienze karmiche dovute alle rinascite, è diventato un’entità cattiva, arrabbiata e distruttiva. Il corpo gravitazionale quindi è privo di esperienze fenomeniche avvenute in altre dimensioni, non prova sentimenti quali invidia, rabbia o possesso. La sua natura è fatta di luce e puro amore. La distruzione del corpo fisico causata da un aborto nella fase in cui le due entità cominciano a prendere contatto, rappresenta un disastro i cui effetti, nell’immediato, saranno a carico della femmina in cui l’aborto avviene, e in un secondo tempo sull’intera umanità.
I due corpi risucchiati fuori in quello che chiamo “abbraccio spettrale”, rimangono in uno stato di sospensione interattivo con la nostra dimensione. La femmina che ha subito l’aborto, comincia a provare stati d’animo che definirei di “privazione affettiva”. Diventa abulica, disinteressata quasi a tutto e in preda a una forma di distimia. La durata di questo stato è variabile in quanto dipende molto dalla natura emozionale del soggetto. Dopo un certo tempo, quando sembra che la donna abbia superato il trauma, cominciano in lei una serie di manifestazioni che si accompagnano a strani fenomeni. Comincia a provare l’angosciante percezione di presenze attorno a lei specialmente quando è sola. Sente delle voci di cui non riesce a capire la provenienza, mentre strani rumori la scuotono. I suoi sogni diventano angoscianti, capaci di scatenarle crisi di panico. Tutto questo diventa causa di un grave disagio psichico che può sfociare in un disordine mentale più serio. Più a il tempo, più assillanti diventano queste presenze fin quando, sia le
voci sia le altre percezioni diventeranno nitide. Una voce in particolare porterà queste femmine alla quasi pazzia e sarà quella che ripetutamente le chiamerà “mamma”. A volte si sentiranno sfiorare il viso come se qualcosa o qualcuno le stesse facendo una carezza. Può succedere che vedano e sentano dei bambini attorno a loro che le angosciano. Molte di queste femmine, alla presenza di questi eventi impazziscono o si tolgono la vita, altre invece si sottopongono a cure psichiatriche sperando di trarne beneficio. Questi fenomeni, se non risolti in altra maniera come ad esempio con una nuova gravidanza portata a compimento, possono durare anni. Ma cosa sta succedendo in realtà? Sono fenomeni psichici o hanno un’altra spiegazione? Certamente viene da pensare che disturbi del genere iniziano dopo un aborto e in un soggetto che non ha mai presentato disturbi di natura psichiatrica. Cosa succede realmente nella testa di questi soggetti? Nulla! Tutto quello che accade è reale anche se non tutte le femmine in cui questi eventi si manifestano si confidano a terzi per paura di essere giudicate pazze.
Il corpo gravitazionale e il corpo sensibile risucchiati all’esterno dopo la distruzione del feto, rimangono orbitanti in uno stato di fluttuazione che avvolge la femmina in cui l’aborto è avvenuto. Questi non sono visibili in quanto si trovano in uno stato intermedio tra la nostra dimensione e quella che chiamerò “dimensione zero”. I due corpi, non riuscendo
a staccarsi completamente dalla femmina da cui sono stati “cacciati”, comunicano con lei attraverso il suo cervello emozionale. Se lei, entro il periodo che va dai quattro ai sette anni successivi all’aborto, dovesse rimanere nuovamente incinta, anche se fecondata da un maschio diverso dal precedente, e portasse a termine la gravidanza, i due corpi, espulsi dal precedente feto e rimasti in quello stato di sospensione fluttuante, rientrerebbero all’ottava settimana della nuova gravidanza nel nuovo feto in formazione. La creatura che nascerà sarà uguale a quella che non è nata in quanto abortita. Il concetto di uguaglianza va riferito ai due corpi non fisici quali quello gravitazionale e quello sottile espulsi con l’aborto. Sotto il profilo prettamente fisico, invece, il nuovo nascituro avrà le stesse caratteristiche dei suoi attuali genitori. Se il nuovo parto avviene in un tempo relativamente vicino all’interruzione della prima gravidanza, è probabile che il nuovo nascituro non ne risenta molto nella sua vita futura sia a livello affettivo che relazionale. Cosa diversa invece, se questo avvenisse in data distante dall’aborto. In questi casi, l’esperienza che chiamo “privante della madre”, che i due corpi sospesi in quello stato dimensionale intermedio vivono, si ripercuoterà sia sulla madre che sulla nuova creatura nata. Normalmente in questi bambini è osservabile un particolare segno, come ho avuto modo di segnalare precedentemente, sul palmo di una delle due mani. Questo segno avrà la forma di un’isola collocata a metà, tra lo spazio che separa il pollice dall’indice, tra l’inizio delle due linee che in chirologia vengono definite “linea della testa” e “linea della vita”. Quel particolare segno indica che quel bambino soffrirà di un disturbo del comportamento chiamato “sindrome d’abbandono”. Molte donne che conobbi in seguito alla mie ricerche, e di cui ho parlato all’inizio del libro, hanno partorito figli con queste caratteristiche, così come quella signora che non riusciva a portare avanti nessuna gravidanza in quanto
odiava i bambini causandosi aborti al terzo mese. Ma le conseguenze potranno riguardare l’intera umanità per due motivi. Innanzitutto da queste esperienze profondamente traumatiche, potrebbero nascere creature che a causa delle “ferite affettive” subite a livello fetale, potrebbero sviluppare nel futuro una serie di comportamenti lesivi per l’intera umanità. Nella nostra recentissima storia, per esempio, si sono avuti personaggi con tali caratteristiche, che con la loro crudeltà sono stati gli artefici di interi genocidi. Inoltre questi corpi espulsi e non più richiamati rimarranno “arrabbiati” e “orbitanti” in una dimensione interattiva con la nostra, capace d’influenzare i comportamenti di tutto il genere umano. Quando finii il mio racconto, vidi Mauro con un’espressione meno stravolta di prima. Mi guardava tra l’ammirazione e lo sconcerto. Non disse nulla! Levò il gomito dal tavolo che gli faceva da sostegno al viso, incrociò le braccia e continuò a osservarmi. Aspettavo che parlasse, mi dicesse qualcosa, invece nulla. Era lì, silenzioso, sembrava stesse riflettendo su qualcosa che voleva dire ma non disse continuando nel suo silenzio. Ero sconcertato per quel suo strano atteggiamento. Non capivo perché te. Sinceramente la cosa mi stava rendendo nervoso, per questo chiesi: «Non hai niente da dirmi?» Aprì le braccia, appoggio il palmo delle mani sul tavolo e con voce calma e profonda, mentre i suoi occhi s’illuminavano di una strana luce, rispose: «Scrivi tutto quello che mi hai raccontato!» Un sorriso fu la mia risposta.
REBECCA
Erano strascorsi dieci anni da quel nostro ultimo incontro. Non ci eravamo più visti né sentiti. La nostra storia finì così, logorata da quell’aborto da cui Rebecca non si riprese mai più. La nostalgia di lei rimase per anni, malgrado la mia vita sentimentale ebbe altri risvolti. C’erano momenti in cui sentivo il bisogno di lei. Sentivo quella voglia di rivederla, di parlarle, di chiarirci sulle tante cose rimaste buie. Ero convinto che anche in lei ci fosse questa voglia. Tante volte, ripercorsi quella strada serpeggiante che portava in quel paesino incastonato su quella magica collina dove ancora lei viveva. Rivedere quei luoghi, risentire i profumi di glicine e zagare in fioritura, era causa di una struggente nostalgia. Ero stimolato da quei posti e da quei profumi che furono complici dei nostri momenti pieni d’amore. Le volevo ancora bene? Forse sì. Ma era un bene diverso dal quel sentimento profondo che mi aveva totalmente legato a lei. Sentivo che qualcosa di forte era rimasto. Stazionavo spesso con l’auto nei pressi della sua abitazione nella speranza di vederla. Un pomeriggio di un autunno uggioso questo accadde. Mi sembrò smagrita e sofferente. Possibile soffrisse ancora per fatti accaduti tanto tempo fa? Provai l’impellente istinto di scendere dall’auto, andarle incontro, stringerla a me e poterle dire che non avevo nessuna colpa se la nostra storia era finita. Raccontarle tutte quelle esperienze che avevo vissuto e conoscerle sarebbe servito anche a lei. Desistevo dal farlo.
Mi rendevo conto di quanto assurdo fosse un comportamento del genere. Ormai vivevo con un’altra donna, ed ero pur certo che lei sapesse. L’avrei ferita per l’ennesima volta! Mi bastava vederla ogni tanto anche se da lontano, sebbene rivisitare quei luoghi che ci videro amanti era per me fonte di forti emozioni che mi stremavano.
Un giorno seppi che sua madre non c’era più. Provai un senso di tristezza, per quella signora che era stata, per un periodo della mia vita, come una mamma. Rebecca rimase sola. Chiusa nel suo dolore e nei suoi ricordi. Conoscendola percepivo la sua sofferenza, come la vivesse nel silenzio della sua anima. È stata sempre una donna schiva e riservata, a cui non piaceva mettere in mostra le proprie emozioni qualunque ne fosse la loro natura. Non avrebbe mai cercato pietosismi o consolazioni varie. Sapevo quanto desiderasse restare chiusa nel proprio dolore. Non era orgoglio ma espiazione. Col tempo, avevo capito come Rebecca si negasse la possibilità di gioire di fronte a un’emozione in grado di renderla felice. Si sentiva di non meritare sentimenti come l’amore. Una parte del motivo per cui si castigasse così tanto l’avevo capita, ma l’altra rimase sempre un mistero. Personalità complessa quella di Rebecca. Era una di quelle poche donne vere, capaci di sentimenti difficilmente scalfibili dal tempo. In forza di queste mie certezze, decisi di telefonarle e dirle che le ero vicino in quel difficile momento.
Non so se finse o fu vero, fatto sta che non riconobbe subito la mia voce. Quando le dissi chi ero, rimase in silenzio. Le domandai come stava, le dissi che ero dispiaciuto per sua madre e che le ero vicino. Mi ringraziò con molta garbatezza. Continuammo a parlare usando parole di circostanza, e notai come fosse tremula la sua voce. Ero imbarazzato ma determinato a tenerla al telefono il più possibile, visto che erano anni che non la sentivo. Le dissi di quanto fossi dispiaciuto di averlo saputo in ritardo. Ci avrei tenuto a esserle vicino in quei momenti. Dal suo silenzio capii il turbamento provato nel sentire quelle mie parole. Provai, con molta cautela conoscendone la riservatezza, ad allargare il discorso su di lei. Disse che era stata molto male e che stava cercando di curarsi. Non capii se stava male per la recente perdita di sua madre, o se ci fosse dell’altro. In effetti c’era un altro problema che quella perdita aveva aggravato. Ero nel dubbio se chiederle se volesse parlarne di persona. Non me ne dette il tempo. Come se avesse intuito la mia richiesta, la fugò immediatamente dicendo che non si sentiva di parlare con me. Stordito da quelle parole, non fui capace di replicare. Seguirono attimi di silenzio penoso. Ero tentato di chiudere quella telefonata ma non ne ebbi il coraggio. Mi sentii ferito da quelle parole. Forse mi aspettavo da parte sua un atteggiamento meno ostile. Potevo pretenderlo? Troppe delle tante cose accadute tra noi l’avevano ferita. Consapevole di questo risposi: «Capisco!»
Mi scusai per la telefonata, forse, non gradita, dicendo che non l’avrei più disturbata. Stavo per chiudere, quando sentii dirmi che se volevo potevo telefonarle un altro giorno. Tanti pensieri si affacciarono in me. Forse non era sola? Era ato tanto di quel tempo dalla nostra relazione che poteva anche essersi sposata o chissà che. Stranamente provai un senso di gelosia. Era come se fra me e lei non fosse mai accaduto nulla e ancora stessimo insieme. Con un’inconsueta calma, risposi che mi avrebbe fatto piacere risentirla, a una condizione, che per lei non rappresentasse un disturbo. Mi conosceva troppo bene, per non aver capito dal mio tono di voce che me l’ero presa, ecco perché rispose con dolcezza che l’avrebbe gradito. La richiamai dopo qualche mese, e non volendo rischiare come l’ultima volta, domandai se fosse sola in casa. «Certo!» esclamò. Non so perché, ma fui contento nel sentirglielo dire. Rimanemmo al telefono per un’ora circa. Quando chiudemmo la telefonata, mi resi conto che ormai tra me e lei era veramente tutto finito, anche i ricordi. Rebecca si era ammalata di una malattia autoimmune che l’aveva costretta a rinunciare di ritirarsi all’estero con la sorella dove poter ricominciare, se non proprio a vivere come prima, almeno a non essere sola. Circa dodici anni prima, a distanza di qualche anno dall’aborto, avevo notato in lei quei strani segni sul viso. Ricordo di averla fatta visitare da un dermatologo senza che questo riuscì allora a capire di cosa si trattasse, malgrado l’avessi indirizzato nella diagnosi. Fu lei a ricordarmi l’episodio. Ero convinto allora, e ne sono sicuro oggi, che la patologia accusata da Rebecca sia stata la conseguenza del forte trauma, mai superato, dell’aborto, e degli accadimenti che si succedettero.
La sua peculiare personalità, quel suo essere giudicatrice di sé stessa, il caricarsi di sensi di colpa, hanno minato il suo fisico. Quel bambino tanto agognato e mai nato, forse per colpa di entrambi, la perseguiterà per sempre. Quello che mi raccontò di lei in tutti quegli anni ati lontano da me sconvolse la mia anima. Sentii di colpo il peso delle mie responsabilità mai capito prima. Era tardi per rimediare. Non le dissi quanto desideravo incontrarla, a maggior ragione dopo quello che mi raccontò. Sapevo che, per paura che avessi fatto quel gesto solo come un atto di pena verso di lei, non avrebbe mai accettato. L’unica pena che in quel momento provavo era verso me stesso. Poterla rivedere sarebbe stato dimostrarle tutto il bene che ancora le volevo. Non ne ho avuto il coraggio! Quando chiudemmo la telefonata, mi accorsi che stavo piangendo. Rebecca oggi ha circa cinquant’anni. Non si è mai sposata. Vive da sola in quella casetta incastonata su quella collina affacciata sul mare. Sola con i suoi ricordi, fatti di nostalgia e amarezza per quel che poteva essere e non è stato.