Facce intorno a me
Ci vuole coraggio talvolta per dimenticare. Perché se un nome, o una data possono anche perdersi negli spazi della mente, le emozioni resteranno lì, sempre impresse, a testimoniare cos'era per noi il ato
Ora che il fluire del tempo inarrestabile ha cancellato molti dei ricordi, sono pochi quelli ancora che capiscono che c’è stato un “prima”. Come una pietra miliare, un prima al volgere del quale tutti gli eventi sono poi precipitati verso questo presente.
Io non ho voluto dimenticare.
Per quanto retorico, forse non ne sono stato capace.
Ognuno ha il proprio ato. Un cumulo distorto di ricordi imprigionati nel tempo. Ma alcuni riaffiorano, costantemente.
Anche per merito del nostro aiuto esistono per contraltare ricordi che rimangono sepolti, vuoi perché poco importanti, vuoi perché è troppo sofferente il farli rivivere. Sono proprio questi ultimi che cerchiamo di dimenticare. Anche se talvolta questo sforzo ce li fa apparire solo più vivi.
Ma c’è un ricordo, sopra tutti, che non posso cancellare. Sottotraccia qualcosa mi spaventa. Qualcosa che si incarna nella persona che ero un tempo. Un essere
ormai lontano e che non sono più. Ma uno spettro sempre presente mi pervade nel profondo se tento di oscurarlo. Sì, il rimorso è la sensazione che mi riempie se riesco ad eclissare totalmente la mia vita precedente.
E con essa quelli che identifico come i miei ricordi. E l’idea stessa di un ato, ammesso, come ho tragicamente constatato, che effettivamente mi appartenga.
Per questo ciò che mi trattiene effettivamente dal dimenticare è più forte della semplice paura.
E' in momenti come questo che i ricordi prendono quasi vita. E un flusso incontrollato di emozioni prende a scorrere senza una precisa direzione, senza una precisa logica, materializzando ciò che credevo sepolto e lontano.
Anno 2.479, ed un mondo che in maniera travolgente iniziò a comprendere le potenzialità della trasmigrazione totale.
Non so cosa mi abbia fatto ridiscendere fino a quella data, so solo che certe cose che oggi diamo per scontate, allora non lo erano affatto. La trasmigrazione, la sua potenzialità innaturale ha cambiato ogni paradigma. Ha sparigliato le carte in tavola direbbe qualcuno.
Vedo Marte, dopo quasi quattrocento anni di estenuante terra-formazione inizia ad avere un'atmosfera compatibile con la vita. Una nuova casa per ospitare l'uomo. Ed un numero incalcolabile di coloni è pronto per partire verso quel grandioso sogno. Ma per me rimarrà per l’appunto un sogno: io non ci sarò.
Un male incurabile mi ha reso schiavo, schiavo in un corpo che non reputo più mio. Un corpo del quale provo infinita comione, ma che mi impedisce contemporaneamente di estraniarmi da esso. E mi tiene prigioniero.
Aspetto impotente, giorno dopo giorno, che una parte di me precipiti in un baratro dal quale mai farà ritorno. Cosa accadrà in quel preciso istante in cui smetterò di esistere? Ci sarà un dio dall'altra parte ad attendermi? O tutto si spegnerà intorno a me rivelando un buio eterno?
Se questo è il mio destino, spero solo di non essere più cosciente dell'inevitabile e travolgente nulla che potrebbe avvolgermi.
Ma esiste una scelta alternativa, direi quasi l'estrema scelta. Il trasmigratore totale potrebbe salvarmi, facendomi uscire da questo pozzo nero. Ma ho paura.
Ho paura del trasmigratore e di cosa sarà di me. E’ una sensazione ancestrale. Temo non solo di perdere il mio corpo, ma con esso di giocarmi anche l’anima.
Per salvarmi dalla morte, la trasmigrazione totale mi attende.
Marte, il mondo nascente, il sogno che mi fu un tempo negato. Milioni di chilometri di territorio vergine e teoricamente abitabile. L'ingegneria genetica aveva compiuto i da gigante, creando specie vegetali in grado di proliferare su quello che pochi secoli prima era solo un imponente arido deserto.
Ancora 2-300 anni e potremo respirare l'aria marziana. Anzi, l'uomo potrà
respirare su Marte, non io naturalmente. Perché tutti i progressi possibili della scienza non sono riusciti a debellare la mia rarissima malattia. Le medicine l’hanno solo scalfita.
Il risultato poi è tutto da valutare. Ho prolungato le mie pene per quattro lunghissimi anni. Un periodo che inizialmente andava oltre lo mie più rosee previsioni, ma nel quale non sono mai realmente riuscito a riprendere a vivere. Sono rimasto in una fase pre-morte per tutto questo da quando mi fu diagnosticato il male. Un male che prima ancora di intaccare le mie carni, aveva già devastato ed annientato la mia psiche.
Il concetto non è che la vita sia breve, il fatto è che talvolta si è già morti parecchio prima che la vita finisca.
Bizzarro e casuale che la mia essenza vitale, la mia anima, fosse impressa su un corpo destinato ad un prematuro deperimento. Per quale inafferrabile motivo la mia esistenza era destinata a durare così poco? Inutile giustificare che nulla avevo fatto per meritare questa condizione. Ma tutto mi si è abbattuto ugualmente addosso.
A poco valeva consolarmi che le mie sofferenze erano analoghe a quelle di milioni di altri esseri umani. La situazione era semplice...
...sarei morto! E a quel punto degli altri, cosa avrebbe potuto ancora interessarmi?
Invidia e paura, due termini che hanno perso molto del loro significato dopo la trasmigrazione.
A fatica cerco di spingere i miei ricordi a ritroso nel tempo, prima della malattia, quando forse non ero altro che uno dei venti miliardi di individui anonimi. Quando ancora in me non si annidava un'avida invidia verso i cosiddetti normali, e l'ombra della morte, lontana da ogni mio pensiero, non destava in me nessunissimo timore.
Guardavo la vita con infinita speranza in un'epoca in cui tutto pareva possibile.
Secoli erano occorsi perché il lungo processo di integrazione umana potesse dirsi felicemente concluso. Mescolamenti razziali e culturali inevitabili su un pianeta eccessivamente sovrappopolato avevano portato alla creazione di un'umanità più omogenea.
Non nell'uomo dovevamo trovare il nostro nemico. Eppure soltanto alla fine era parso il nostro logico destino: dopo troppe devastanti guerre.
Anche in me si combatteva una guerra. Una guerra che, vissuta in prima persona, non reputavo affatto meno crudele.
In quel momento Alain Mud de Fontain, come destato da un pensiero inquietante, si levò rapido dalla poltrona nel quale era rimasto immerso fino ad allora.
Fece alcuni brevi i lungo la stanza nel tentativo di riordinare i ricordi, o forse solo per diradare la sua tensione.
Non si era accorto di essersi fermato davanti all'ampia parete-vetro del sua appartamento. Involontariamente si ritrovò a guardare fuori in direzione della città, particolarmente movimentata quel giorno e a contemplare assorto quel piovoso novembre. Uno dei più piovosi degli ultimi anni.
Sì, molti furono i cambiamenti da allora. Ma da uno in particolare derivarono tutti gli altri. Come è logico è tutto racchiuso in un atto estremo, l'estrema scelta: la trasmigrazione totale.
Mi sembra strano parlarne ancora, dopo così tanto tempo.
Corpo e anima. Pensavo che niente fosse teoricamente così distante.
Anche se la religione aveva già perso molto del suo potere civile e culturale quando ero un uomo nella prima vita, mi sentivo ugualmente vicino e partecipe ad essa. Sentivo il bisogno psicologico di credere nell'esistenza di qualcosa di sovrumano e benevolo, creatore di tutta la materia dell'universo. Forse mi serviva da sostegno morale alla malattia, per farmi pesare meno la mia sorte maledettamente segnata.
Allora credevo che qualcosa dovesse per forza esistere per custodire gelosamente un giorno tutte le nostre anime.
Ma dopo quanto ho potuto vedere con i miei occhi e in prima persona sperimentare, e alla luce di tutto quello che è venuto dopo e dell'estrema agghiacciante conclusione a cui sono pervenuto, non sono più tanto sicuro che in
me si possa ancora annidare l‘antica fede.
Mi duole pensare che in un epoca di dominio totale della scienza e della tecnica, nessuno strumento medico era riuscito ad estirpare la mia malattia. Dicevano che era in una fase troppo avanzata per potere intervenire, anche se con l’ausilio dell'ingegneria genetica avrei potuto forse salvarmi. Ma nessuna clinica si sarebbe accollata l'onere di pagare le costosissime cure. Fossi stato un uomo sano, e inserito a pieno titolo nella vita, non avrei avuto così tanto tempo per pensare, e forse avrei avuto la forza psicologica di non badare alle parole di chi mi stava intorno.
Parole che dicevano... dicevano... dicevano che ormai mi sarei salvato soltanto trasmigrando.
Non esisteva un vero nome per quella macchina, anche se noi tutti la chiamavamo trasmigratore. Un prodigio che drasticamente stava cambiando faccia al pianeta.
Il suo funzionamento mi era incomprensibile allora, ma devo dire che 250 anni non sono affatto bastati per fare luce nella mia nuova mente.
Già, la mente. Era proprio lì, nella culla di tutti i pensieri, che interveniva il trasmigratore.
Il cervello, la macchina naturale più perfetta dell'universo, veniva sistematicamente sondata dalla macchina artificiale più perfetta dell'uomo. Ogni singolo neurone ed ogni singolo collegamento sinaptico era studiato da capo a fondo ed impresso nella totalità delle sue informazioni nei banchi di memoria del
trasmigratore.
Ciò che ne derivava era il travaso completo del cervello umano, con i suoi ricordi e le sue sfumature e con essi quello che tutti si auguravano, cioè la trasmigrazione dell'anima di colui che l'aveva posseduto.
Corpo ed anima. Poi cervello ed anima. Infine mente ed anima.
Anche se l'anima avesse teoricamente potuto, nell'immaginario di fede, estraniarsi un giorno dal corpo, in contrapposizione con una mente destinata a cancellarsi con la morte dell’individuo, a tutti venne chiesto di credere che il trasmigratore avrebbe annullato ogni problema.
Vedo ancora il ato. Vedo i sotterranei delle cliniche. E vedo milioni di corpi nelle "vasche di stasi".
Vedo pure la speranza dipinta sul volto della gente in punto di morte e vedo ciò che significa per tutti il termine "trasmigratore".
Vedo sempre la stessa cosa e cioè l'unica chiave per la vita eterna.
...vedo me e vedo pure i moduli neurali per poter accedere alle classi che hanno diritto a servirsi del trasmigratore. Come nelle migliori tradizioni l’uomo ama dividersi in classi di merito, dove il “merito” è l’ultima delle variabili prese in considerazione.
...vedo che ben presto giungerà il mio turno. Mancano ancora venti giorni.
...mi rivedo mentre entro nella clinica: mancano sette giorni.
...vedo la mia emozione, e contemporaneamente il timore che infondo sia tutto una beffa. Ma questa volta non sarà così.
...vedo il momento dell'addestramento, ancora quattro ...tre ...due giorni.
...rivedo la vigilia...se il mio dio mi concederà la forza di vivere ancora un giorno, potrò diventare immortale. Infiniti ripensamenti ed infiniti rimorsi, perché comunque vadano le cose io rimango un credente ed il mio contrasto interiore è terrificante. Sto tradendo la mia fede. Mi sto guadagnando l'immortalità da solo, senza un divino consenso.
...vedo la discesa nei sotterranei...è il mio giorno.
...rivedo la titubanza mischiarsi al desiderio di onnipotenza mentre mi avvicino alla vasca di stasi recante il mio nome.
...mi rivedo mentre sto per congiungermi al trasmigratore.
...vedo per l'ultima volta da uomo uno scampolo di mondo, mentre le pareti della vasca si richiudono su di me.
...ed ora non vedo più niente.
I miei padri invidiavano un'unica cosa alle ipotetiche generazioni future. E cioè che sarebbe arrivato il giorno in cui le persone, a differenza di loro, sarebbero vissute per sempre.
Ebbene, quel momento è giunto. Io sono la manifestazione del loro sogno più recondito e profondo.
… ma nessuno, fino ad ora, aveva ancora parlato del duro prezzo da pagare!
arono 25 anni prima che potessi rivedere la luce. Un'inezia di tempo per chi è destinato ad esistere per sempre. Un insignificante sfumatura, credevo allora.
25 anni perché la mia "anima", contenuta in banchi di memoria non più grandi del palmo di una mano, venissero ritenuta nuovamente idonea a riavere un corpo.
Eravamo ben consci che il processo di trasmigrazione non fosse reversibile. Non era possibile travasare le memorie dei banchi in un nuovo cervello umano. Il cervello di un homo sapiens quantomeno.
Tutti sapevamo che se volevamo un nuovo corpo questo non poteva che essere bio-meccanico. E il livello della robotica poteva offrire modelli umanoidi praticamente perfetti per ospitare le nostre "anime".
Ormai dal giorno in cui Alain Mud de Fontain ha smesso di essere homo sapiens, sono ati 250 anni. Ed il mio corpo non ha risentito che in maniera infinitesimale del trascorrere di questo abisso temporale.
Nessun agente esterno è riuscito ancora ad intaccare le dure leghe che compongono i miei arti. Ma se in un futuro, per quanto remoto, questo dovesse accadere, non vi è parte di me che non possa tranquillamente essere sostituita.
Per assurdo, se dovesse rendersi necessario, l'intero mio cervello potrebbe essere ospitato in un nuovo o umanoide.
Ma c'è una cosa che oggi più di ogni altra mi spaventa: arriverà il giorno in cui un'insignificante sezione del mio apparato celebrale inizierà a dare qualche problema ed il tutto verrà semplicemente risolto copiando la mia mente in un nuovo cervello elettronico.
E' questa la fonte ora di tutte le mie preoccupazioni. Perché se è possibile copiare una mente, cioè una banalissima concatenazione di dati, anche per una sola volta, ciò significa che il processo è ripetibile per altre 10, 100, 1000 volte.
Ma allora, cosa accadrà nel momento in cui si copieranno contemporaneamente due Alain Mud de Fontain?
La risposta è crudele nella sua semplicità! In quel momento non esisterà più Alain Mud de Fontain!!
Qualcosa deve essere andato storto 250 anni fa, poiché è impossibile sdoppiare la propria essenza vitale.
Più ano gli anni, e più le mie supposizioni diventano certezza. L'anima non è riuscita a trasmigrare. E' rimasta imbrigliata chissà dove.
Questa è la mia dura conclusione: 250 anni fa Alain Mud de Fontain è morto nel trasmigratore. E per quanto difficile sia per me accettarlo, di lui oggi posseggo solo i ricordi.
Per oltre un secolo quaranta miliardi di individui hanno subito la sua stessa sorte. L'estinzione totale del genere umano per rincorrere la follia dell'immortalità terrena.
Con quest'ultimo estremo atto si è cancellata la più perfetta delle creazioni di ogni dio. Forse era questo il prezzo da pagare per aver volontariamente tradito il Padre Celeste.
Spero solo che con la sua infinita misericordia abbia comunque riservato un posto in cielo dove custodire tutte le anime di quei disgraziati.
Non mi resta che pregare per loro, poiché più nessun uomo vive...
...intorno a me io vedo solo facce di robot.
Accadde in un piovoso novembre del ‘56
Caro diario…
…quella di oggi sarà una storia un po' diversa. E' la storia di un incontro!!
Come vedi nemmeno questa volta ho resistito all'istinto di prendere una penna e buttar giù qualche riga... e così mi ritrovo a scrivere a te, mio palco e mio pubblico.
Ti racconterò di questo pomeriggio e di uno strano incontro, almeno ora che ho ancora in testa tutte le emozioni. Mi spiace, ma non è una storia lunga! Purtroppo mi intratterrò con te soltanto per poco. Oddio, ripensandoci ora non saprei dire nemmeno quanto il tutto sia durato. Vedi, già i ricordi iniziano a sfumare. Devo imprimerli prima che scompaiano.
Sai, mi ero ritrovato quasi per caso a eggiare in un luogo molto affollato. E’ misterioso come nonostante tutto mantenesse un silenzio ed un ordine quasi religioso. Era simile ad una piazza e molte persone mi circondavano. Anziani. Bambini. Signore di mezza età e, buffo, anche qualche ragazzo con la divisa militare.
Ho girato parecchio fra la gente. E guardandone le facce ho cercato di immaginarne la loro vita, la gioventù e le fatiche, le aspettative come i desideri.
Involontariamente cercavo punti di contatto, magari caratteri simili, come potessi immedesimarmi in quei volti che scorrevano e ricomparivano silenziosi ed anonimi. Ma più mi guardavo attorno più mi sentivo turbato, nonostante fossi tra semplici concittadini. Ho avuto la sensazione di essere d’impiccio con la mia presenza. Lì a pretendere di poter vagliare e confrontare.
Invano ho sperato di incrociare lo sguardo di qualche conoscente, perché riderai, ma per lunghi istanti mi sono sentito scosso. Ho avuto la netta sensazione che esistesse un solco incolmabile tra me e quelle facce anonime! Ho avuto la sensazione di essere solo…
…fino a che non ho visto LEI…
Era lì, leggermente in disparte. Una coetanea. Una ragazza che con la sua timida espressione mai avrebbe potuto armi inosservata. Vedendola mi sono subito avvicinato e ne ho studiato silenzioso i lineamenti, mentre lei inconsapevole si lasciava guardare. Chissà, forse non mi aveva nemmeno notato. Con un po’ di coraggio mi sono fatto ancora più avanti in modo che non potesse ignorarmi.
Le stavo di fronte, e lei non aveva più di vent’anni, spensierata e bella, con capelli castani e un po' raccolti. E un viso dolce e delicato, e due occhi scuri e vivi. Penso di essere arrossito mentre mi fissava!
Aveva pelle liscia come porcellana e una bocca atteggiata in un lieve sorriso. Impresso in lei, come nella mia mente, indelebile.
Era il più bel fiore di quella piazza ed ho pensato a tutta la sua infanzia, a cosa aveva in testa e quali sarebbero stati i suoi progetti per il futuro. A cosa avrebbe
fatto domani.
Poi sono scappato.
Ora sono sepolto nello sconforto in casa. Sai come ci si sente? Vero? Perché mentre fisso il soffitto mi a continuamente davanti agli occhi quel viso, signorile ed aggraziato. Il viso di quella ragazza spensierata e bella.
Anche se l'ho salutata e non mi ha risposto, penso che comunque questa sera scriverò una storia per lei. Temo di essermi un po' innamorato della sua dolcezza.
A pensarci bene forse l'ho salutata per l'ultima volta. Non so quando troverò le forze per rivederla. Anche se lei rimarrà sempre lì. Silenziosa a fissarmi in quel cimitero, il cui nome non ricordo, e dove l'ho incontrata per la prima volta.