Indice
Introduzione
Gli anni della sua formazione
La Revolução Farroupilha
La Guerra Grande
Italia
I Mille
Alla conquista del Regno
Mafia
Da Marsala al Volturno
La conquista del Meridione
Delirio
Il Solitario
Il Nazionalsocialismo
Bibliografia
Marcello Caroti
Garibaldi il primo fascista
Le radici del Fascismo nel Risorgimento italiano
Milano, Maggio 2013
Youcanprint Self - Publishing
Titolo | Garibaldi il primo fascista
Autore | Marcello Caroti
Immagine di copertina | © Georgios Kollidas - Fotolia.com
ISBN | 9788891177957
Prima edizione digitale: 2016
© Tutti i diritti riservati all’Autore
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To those who Cultivate Understanding
Introduzione
Questo saggio non vuole essere un’altra biografia di Garibaldi; non credo sia possibile aggiungere nulla di nuovo.
Noi vogliamo proporre una serie di riflessioni sulla persona di Garibaldi, il suo pensiero, la sua vita, i suoi scritti per definire la sua posizione rispetto alle due ideologie che hanno modellato la storia d’Europa, e quindi dell’Italia, negli scorsi due secoli: il Nazionalismo e il Socialismo. Abbiamo deciso di produrre questo saggio perché ci sembra che il contributo che Garibaldi ha dato alla nascita di questo nuovo paese non sia stato illustrato correttamente. Lo scopo del nostro lavoro è la ricerca delle radici del Fascismo nel Risorgimento italiano con particolare riguardo alla persona di Garibaldi.
Nell’ultimo capitolo esamineremo l’evoluzione di questa nuova ideologia dopo la morte di Garibaldi fino alla realizzazione dei primi due regimi nazionalsocialisti in Europa: Nazismo e Fascismo.
Da quando Garibaldi è morto, nel 1882, un po’ tutti hanno cercato di accaparrarsi la sua eredità e hanno preteso essere i più fedeli interpreti del suo pensiero. Il Socialismo, il Fascismo, la Resistenza, i Comunisti si sono tutti appropriati del suo nome e della sua immagine. Del resto dobbiamo considerare che assieme a Leonardo, Colombo e Mussolini è uno degli italiani più conosciuti al mondo; in Italia è sicuramente il più popolare tra i padri della Patria. Ma a quale movimento politico apparteneva, veramente, Garibaldi?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo capire cosa è stato veramente Garibaldi. Se in questo libro tracciamo una sua biografia è perché non è possibile comprenderlo senza esaminare tutta l’evoluzione della sua personalità, inserita
nel contesto politico e ideologico della società in cui è vissuto. Per fare questo dobbiamo innanzi tutto fare una corretta e approfondita de-mitizzazione di questa icona del Risorgimento italiano. Normalmente non è semplice demitizzare un personaggio che in 150 anni di storiografia e propaganda politica ha accumulato su di se una tale stratificazione di leggende da farlo diventare una specie di eroe mitologico ma nel nostro caso una semplice ed elementare ricerca è sufficiente purché sia fatta con mente aperta e senza pregiudizi. Abbiamo utilizzato fonti che sono già da anni disponibili al pubblico perché, è sorprendente, non è necessario fare nuove scoperte ma piuttosto usare correttamente le fonti che già abbiamo.
Noi consideriamo questa nostra opera come un completamento e una prosecuzione del lavoro di Denis Mack Smith. Se il lettore avrà l’impressione che siamo stati alquanto filo borbonici o filo meridionali sappia che non era questo il nostro scopo, non lo abbiamo fatto intenzionalmente. Ci è sembrato necessario chiarire il rapporto tra Garibaldi e la mafia perché molto è stato scritto a proposito ma in un modo che a noi è sembrato molto impreciso e a volte decisamente fantasioso. Per fare questo abbiamo dovuto analizzare il regime borbonico e la società del Regno delle Due Sicilie per poter descrivere in breve la genesi del fenomeno mafioso.
Noi abbiamo citato quante più fonti possibili per fare in modo che il lettore possa ascoltare i personaggi e partecipare alle loro emozioni: le citazioni fanno parte del saggio assieme al nostro testo. In questo modo il lettore può comprendere i personaggi che trattiamo non solo razionalmente ma anche emotivamente.
Innanzi tutto abbiamo citato Garibaldi. Lui fortunatamente ci ha lasciato una notevole quantità di produzione letteraria e, inoltre, le sue azioni e i suoi discorsi sono stati registrati da una folla di amici e/o nemici che, a loro volta, ci hanno lasciato la loro testimonianza. Le sue Memorie sono una fonte utilissima per comprendere l’uomo; colpisce la sua sincerità nel raccontare episodi discutibili della sua vita, episodi che altri non avrebbero neanche menzionato. Dato che non vogliamo fare una completa biografia al lettore è richiesta una conoscenza
almeno scolastica del Risorgimento e della vita di Garibaldi.
Benvenuti nella Storia.
Gli anni della sua formazione
Le Memorie di Garibaldi sono la fonte più importante per chi volesse capire l’uomo e le motivazioni che lo guidarono nella sua attività patriottica. Furono scritte a più riprese, riviste, abbandonate e riscritte.
La prefazione la scrisse nel 1872, aveva 65 anni. Già nella prefazione ci sono alcune cose che colpiscono il lettore:
Un violento anticlericalismo: “Il prete è la personificazione della menzogna. Il mentitore è ladro. Il ladro è assassino: e potrei trovare al prete una serie di infami corollari.” .... “ Il prete! Ah! Questo è il vero flagello di Dio! In Italia esso mantiene un governo codardo in una umiliazione la più degradante, e si ritempra nella corruzione e nelle miserie del popolo!”¹. Un anticlericalismo violento a parole fino al ridicolo resterà una costante del suo pensiero. Da ragazzo ebbe due precettori preti che gli lasciarono una profonda antipatia verso i preti e la Chiesa in generale. Inoltre la mamma, devota cattolica, avrebbe voluto mandarlo in seminario, cosa detestabile per un ragazzo estremamente vivace e propenso all’avventura.
Una profonda amarezza: “Sarò accusato di pessimismo; ma ... avendo creduto per la maggior parte della mia vita a un miglioramento umano, sono amareggiato nel vedere tanti malanni e tanta corruzione in questo sedicente secolo civile.”. Un atteggiamento moralistico-pedagogico è normale nella letteratura del Romanticismo.
Questo pessimismo lo portava a dichiarare: “Repubblicano, ma sempre più convinto della necessità di una dittatura onesta e temporaria a capo di quelle nazioni che, come la Francia, la Spagna e l’Italia, sono vittime del bizantinismo
il più pernicioso”. Anche questo sarà una costante del suo pensiero e della sua azione. Laddove prenderà il potere si nominerà Dittatore sempre restando però un convinto democratico. Una scollatura notevole!
Non era sicuramente un fanatico ideologo: “Tollerante, e non esclusivista, non capace di imporre per forza il mio repubblicanesimo, per esempio, agli inglesi: se essi sono contenti col governo della regina Vittoria, e contenti che siano”. Questa sua elasticità o pragmatismo sarà determinante nel farlo are dalla parte della monarchia perché indispensabile all’unificazione dell’Italia. Sempre lo stesso pragmatismo lo porterà a respingere completamente l’ideologia marxista.
Quello che lascia stupito il lettore è la chiusura alla Prefazione: “Amanti della pace, del diritto, della giustizia – è forza nonostante concludere coll’assioma d’un generale americano: ’La guerra es la vertadera vida del hombre!’”. Nella stessa frase ove si dichiara pacifista non può resistere a dichiarare il suo amore per la guerra. Infatti, alla guerra dedicherà tutta la sua vita. Questa scollatura potrebbe essere interpretata come un caso di demenza senile ma non lo è. Questa è la sua forma mentis che modellerà i suoi pensieri e le sue azioni, in effetti, tutta la sua vita.
Nelle Memorie parla quasi sempre di guerra, poco di se stesso, pochissimo di politica e mai del socialismo.
Nel descrivere la sua giovinezza non dice nulla del come e perché divenne un patriota italiano, lo dà per scontato. “Amante apionato del mio paese, sin dai primi anni, e insofferente del suo servaggio, io bramavo ardentemente iniziarmi nei misteri del suo risorgimento. Perciò cercavo ovunque libri, scritti che della libertà italiana trattassero, ed individui consacrati ad essa.”
Il colpo di fulmine arriva durante un viaggio a Taganrog ove s’incontra con un giovane ligure “che primo mi diede alcune notizie dell’andamento delle cose nostre. Certo non provò Colombo tanta soddisfazione alla scoperta dell’America, come ne provai io al ritrovare chi s’occue della redenzione patria. Mi tuffai corpo e anima in quell’elemento che sentivo essere il mio da tanto tempo: ed in Genova il 5 febbraio 1834, io sortivo da porta della Lanterna alle 7 p.m., travestito da contadino, e proscritto”. Questo è quanto. Non esiste nessuna analisi delle motivazioni che lo convinsero della bontà della causa a cui dedicherà tutta la sua vita.
A questo proposito dobbiamo notare le parole “redenzione patria”, “misteri del risorgimento”, “individui consacrati”. Questi termini sottintendono una fede religiosa.
Il nazionalismo, la Fede nella Patria, era penetrato nella società del Nord Italia portato dal giacobinismo e dagli eserciti napoleonici. Molti giovani italiani s’infiammavano al pensiero che l’Italia (comunque la si volesse definire) era divisa e controllata dallo straniero. Il senso d’inferiorità che questo comportava spingeva molti a rischiare la vita pur di mettere assieme una qualche Patria che potesse rivaleggiare con le altre (Francia, Spagna, Inghilterra, ecc.). Loro non intendevano restare indietro, a qualunque costo.
Garibaldi non ci fornisce alcuna argomentazione per questo suo patriottismo perché non ne aveva. La fede è cieca, non ha ragioni e non le servono. A lei ci si deve dare totalmente, senza chiedere e (soprattutto) chiedersi nulla. Ottanta anni dopo questi avvenimenti 650.000 italiani daranno la vita per redimere Trento e Trieste e dintorni ove la metà della gente neanche parlava l’italiano. Allora, in quel giorno di febbraio del 1834, nessun abitante della penisola avrebbe potuto neanche immaginare dove questa fede li avrebbe portati.
Condannato a morte, fugge in Sud America ove resterà 12 anni. Saranno gli anni della sua formazione personale, militare e politica. Sbarca a Rio de Janeiro sul
finire del 1835.
La Revolução Farroupilha
Garibaldi era già diventato famoso nella comunità di esuli italiani che avevano trovato rifugio a Rio. La sua condanna a morte a seguito della fallita rivolta di Mazzini aveva già fatto di lui un eroe in una comunità ove erano molti quelli che avevano dovuto lasciare il proprio paese per problemi con la giustizia a seguito di attività sovversive.
Uno di questi italiani, che aveva fatto fortuna, gli dà dei soldi per armare una piccola barca con la quale commerciare tra le città della costa brasiliana. Sarà un affare misero. Commercio e finanza non erano il suo forte. Come scrive lui stesso: “ati alcuni mesi in una vita oziosa, eccoci, Rossetti ed io, ingolfati nel commercio; ma al commercio, io e Rossetti non erimo atti”. Traspare da queste parole la noia di una occupazione borghese, cosa particolarmente odiosa per chi si era votato alla redenzione della Patria.
Questa tristezza traspare anche da come lo descrive una giovane nipote del suo finanziatore. Infatti lui e Rossetti frequentavano la sua casa: “Era un giovane biondo e forte. Si distingueva dalla maggior parte dei suoi connazionali per l’espressione di viva intelligenza e l’atteggiamento pensoso. Sovente, nel corso di un’animata discussione, lo sorprendevamo immerso nel suo fantasticare oppure con aria indifferente. I suoi occhi erano quelli d‘un santo, avevano la dolce espressione d’una bontà ideale. In quei momenti non stava in intimità che con i bambini e giocava con loro come se fossero suoi simili.”². Il mito del biondo eroe era appena iniziato.
La Revolução Farroupilha
Nel 1841 Dom Pedro II viene incoronato imperatore del Brasile, ha solamente 15 anni e la cosa provoca un diffuso scontento in tutto l’Impero. La provincia del Rio Grande do Sul era in conflitto con l’Impero per problemi economici. La principale attività della provincia era il “charque”, una carne salata e affumicata che subiva la concorrenza delle produzioni argentina e uruguaiana che non avevano dazi di importazione e non avevano tasse nei loro paesi mentre il charque riograndense era tassato dall’Impero. Approfittando della debolezza del potere centrale e dello scontento nella provincia, Bento Gonzalves occupa la città di Porto Alegre nel settembre del 1835, dichiarando la repubblica e la secessione dall’Impero. L’anno dopo viene catturato dagli imperiali assieme a un suo segretario, Luigi Zambeccari, un nobile bolognese fuggito dall’Italia a seguito dei moti insurrezionali del 1821. Pur essendo in prigione, nel 1837 Zambeccari entra in contatto con Rossetti e Garibaldi convincendoli a entrare nella Rivoluzione degli Straccioni in veste di corsari. In seguito Zambeccari viene graziato dell’Impero, torna in Italia e seguirà Garibaldi fino alla morte nel 1862. Goncalves riesce a evadere e riprende in mano la rivolta fino alla sua definitiva sconfitta nel 1845. La pace si conclude con l’amnistia per tutti i ribelli e un dazio di importazione del 25% sul charque argentino o uruguaiano.
Il Brasile pagherà a caro prezzo l’ospitalità concessa al biondo eroe.
L’Europa stava fornendo in quel periodo al Sud America un piccolo ma costante flusso di emigrati, alcuni per motivi economici altri per problemi politici. Alcuni di questi si sistemano, ma molti altri non si adattano. Questi ultimi sono pronti a qualunque avventura e disponibili a qualunque delitto pur di dare una giustificazione alla loro miserabile esistenza. Inseriti in una cultura geneticamente predisposta alla violenza e al sopruso sono un disastroso elemento destabilizzante, un problema drammatico per quelle comunità che cercavano di costruire una società civile e vivibile nel Nuovo Mondo.
Garibaldi si mette subito nei guai perché dopo pochi mesi riceve un decreto di espulsione.
E’ in questo periodo che s’iscrive alla Massoneria e forse entra in contatto con la marina Inglese.
Non parlerà mai di questo nelle sue Memorie. Queste informazioni devono restare segrete. La Massoneria e l’Inghilterra saranno decisive per i suoi trionfi e per la creazione del suo mito. In quegli anni la Perfida Albione stava pescando nel torbido per destabilizzare quell’area, ed è probabile che abbia favorito Garibaldi per azioni di pirateria. La Massoneria serviva da collegamento.
Questa espulsione per lui non è un problema. Poco prima del suo arrivo era scoppiata una rivolta nel sud del Brasile che aveva dato inizio alla Revolução Farroupilha (La Rivoluzione degli Straccioni). La provincia del Rio Grande do Sul cerca di staccarsi dall’Impero Brasiliano sotto la guida di Bento Goncalves che dichiara la repubblica e si nomina Presidente. Il suo segretario è un fuoriuscito italiano, Luigi Zambeccari; sono tutti massoni.
Si parlava di repubblica e di libertà e Garibaldi s’infiamma immediatamente. Era finalmente arrivata l’occasione che aspettava. Scende in campo si unisce ai ribelli e per sei anni combatterà per la “libertà” della repubblica del Rio Grande do Sul anche se la libertà non c’entrava assolutamente nulla. Goncalves era uno dei tanti liberatori fasulli di cui il Sud America è stato sempre così ricco. Come lo stesso Garibaldi noterà in seguito, il popolo del Rio Grande finirà per odiare Goncalves. Come vedremo questo per Garibaldi era assolutamente irrilevante. “Apparentemente tutti esibivano un amore apionato per la libertà, ma si trattava di una libertà anarcoide, che facilmente sfumava in faziosità e in spietata dittatura”.³
Cos’era che affascinava Garibaldi in questa impresa? Come ci dice lui stesso era l’amore per la guerra: “La vita che si faceva in quella classe di guerra, era attivissima, piena di pericoli ... ma nello stesso tempo bella, e molto conforme
all’indole mia propensa alle avventure”.
Probabilmente anche la persona di Goncalves deve aver avuto la sua influenza. Così lo descrive: “Bento Goncalves era il tipo del guerriero brillante e magnanimo ... Alto della statura e svelto, ei cavalcava un focoso destriero colla facilità e la destrezza d’un giovane ... Sobrio come ogni figlio di quella valorosa nazione ... Valorosissimo della persona egli avrebbe combattuto in singolare tenzone, e forse vinto, qualunque forte cavaliere. D’animo generosissimo e modesto, io credo non aver esso eccitato i rio-grandensi ad emanciparsi dall’impero, con fine d’ingrandimento proprio”.
Questa è una grottesca mistificazione della realtà. Goncalves era un latifondista e schiavista e aveva dato il via alla secessione dall’Impero, assieme agli altri latifondisti, per diventare padroni di tutta la provincia e potersi fare i propri affari senza doverne rendere conto ad alcun funzionario imperiale. E’ solamente una lieve esagerazione definirlo una bestia sanguinaria. Nasce un dubbio, Garibaldi credeva veramente a quello che scriveva? O è un altro caso della sua scollatura?
Se leggete attentamente questa descrizione potete notare che Garibaldi sta descrivendo se stesso. Questo era come lui vedeva se stesso. O meglio, questo era quello che lui avrebbe voluto essere.
Di fatto questo è il personaggio che il mito è riuscito a fabbricare.
Di fatto questo è quello che il mondo pensa di lui dopo due secoli.
Garibaldi e Rossetti armano una barca battezzata Mazzini. Quindi si fanno dare
una Lettera di Corsa dalla nuova repubblica. La lettera di corsa è l’autorizzazione a depredare navi del paese nemico mantenendo una base nel paese che concedeva la lettera. Per questo paese era un modo molto economico di fare la guerra perché le spese dell’armamento erano a carico del corsaro e suoi erano i rischi. Era anche una guerra molto crudele: le uniche vittime erano i civili.
Garibaldi scende in mare con 12 compagni, quasi tutti fuoriusciti italiani, e con un entusiasmo degno di una causa migliore: “Corsaro! Lanciato sull’oceano con dodici compagni a bordo d’una garopera, si sfidava un’impero, e si faceva sventolare per i primi una bandiera d’emancipazione! La bandiera repubblicana del Rio Grande”.
Era uno strano corsaro. Un giorno cattura una barca carica di caffè con diversi civili a bordo, ma “non tutti i compagni miei eran ... uomini di costumi puri; ed alcuni si facean truci per intimorire gl’innocenti nostri nemici. Io mi adoperavo a reprimerli ed a scemare lo spavento de’ prigionieri nostri.”. Forse per questo avvenne che “un eggero brasiliano mi si presentò supplichevole e mi offrì tre preziosi brillanti. Io glieli rifiutai, siccome ordinai non si toccasse agli effetti individuali dell’equipaggio e eggieri. Tale contegno io serbai in ogni simile circostanza ed i miei ordini mai furono trasgrediti, sicuri, senza dubbio, i miei subordinati, ch’io ero disposto a non transigere su tale materia”.
Nessun pirata al mondo aveva mai fatto una cosa simile! Era una cosa assolutamente straordinaria. La fama di queste sue gesta si diffonde in Sud America, rimbalza in Europa e si comincia a parlare di questo guerriero puro e disinteressato che combatte esclusivamente per la libertà dei popoli. Stava nascendo il mito. In Francia, Dumas afferra al volo l’occasione e inizia a fabbricare il personaggio. Garibaldi ancora non lo sapeva ma in Europa stava diventando famoso. E’ forse con Garibaldi che i progressisti europei iniziano a idealizzare i guerriglieri sud americani.
Noi però dobbiamo fare una pausa e chiederci: sarà stato vero? Davvero Garibaldi si comportava così? In fondo lui e i suoi pirati vivevano di rapine. E’ possibile che i suoi pirati abbiano continuato a seguirlo a queste condizioni? Con cosa si sarebbero arricchiti?
Probabilmente era vero. Tutta la storia successiva dimostra che Garibaldi aveva un carisma e un’autorità talmente forti da riuscire a imporsi con facilità alle bande di disgraziati che lo seguivano. Questo non succedeva sempre, i suoi restavano pur sempre una banda di delinquenti ma a volte acconsentivano a soddisfare il loro comandante. Forse, fare (ogni tanto) la figura degli eroi piuttosto che dei pirati non dispiaceva neanche a loro.
In questo caso dobbiamo specificare che il eggero con i diamanti era un brasiliano che aveva venduto le sue proprietà e investito tutto nel caffè per trasferirsi e cambiare vita. Aveva a bordo 428 sacchi di caffè e 4 schiavi. Possiamo supporre che anche lui sarà stato grato a Garibaldi per avergli lasciato la vita e i diamanti quando dopo pochi giorni lo sbarca su di una spiaggia, in miseria ma incolume. Normalmente questi corsari sgozzavano i prigionieri che non potevano essere venduti schiavi.
Ora possiamo iniziare a tracciare il percorso del nostro personaggio per cercare di capire chi era.
Partecipa ad attività sovversive a Genova e il Regno di Sardegna lo condanna a morte. Ripara in Brasile ove l’Impero gli concede ospitalità e i suoi compatrioti gli offrono la possibilità di rifarsi una vita con quello che sapeva fare: il marinaio. Purtroppo le sue attività commerciali vanno male, quindi la sua ione per la guerra prende il sopravvento e si associa alla Massoneria, potentissima società più o meno segreta, inizia operazioni di pirateria o contrabbando utilizzando, sembra, la barca che, sembra in buona fede, gli è stata affidata per operazioni commerciali. L’Impero reagisce e lo espelle. Questi ultimi avvenimenti non sono menzionati nelle Memorie. La secessione del Rio
Grande gli dà la possibilità di fare la guerra concedendogli lettere di corsa in modo da essere ufficialmente un combattente per la libertà e non un delinquente. Qui riprendono le sue Memorie. a a combattere per i secessionisti senza neanche chiedersi se fosse la cosa giusta da fare. Esalta i suoi compagni d’arme con una sfacciataggine che va al di là del ridicolo. Nelle sue operazioni “militari” si sforza di mantenere al minimo i danni ai civili. Deve essere chiaro all’opinione pubblica che, anche se deve uccidere e distruggere, lui non dimentica il suo amore per “il Popolo”. Il suo carisma è enorme: capelli biondi, occhi da santo, viso buono, gioca coi bambini, intelligente, forte e coraggiosissimo. I suoi gli obbediscono e fanno bene, quelli che lo seguiranno fino in fondo saranno portati in Italia per partecipare al Risorgimento e oggi qualche strada in Italia porta il loro nome.
Non si può non concludere che Garibaldi era un genio delle pubbliche relazioni e… un criminale.
Proseguiamo a leggere le sue Memorie: “ Essa (la guerra) non era limitata alla marina soltanto. Noi avevimo a bordo, selle; cavalli ne trovavimo ovunque in quei paesi, ove sono abbondantissimi; e tutt’assieme, quando lo richiedeva il caso, noi erimo trasformati, non in brillante ma temibile e temuta cavalleria. Trovavansi sulle coste della laguna, delle estancias, che le vicende della guerra avevano fatto abbandonare dai loro proprietari. Ivi trovavasi bestiame d’ogni specie per mangiare e per cavalcare”. Quant’è bella l’avventura! Vitto, alloggio e cavalli gratis dando fondo alle risorse abbandonate dai proprietari che erano dovuti fuggire!
Chi erano i suoi compagni? “La gente che mi accompagnava, era vera ciurma cosmopolita, composta di tutto, e di tutti i colori, come di tutte le nazioni. Gli americani, per la maggior parte erano liberti, neri o mulatti, e generalmente i migliori e più fidati. Fra gli europei, avevo gl’italiani tra cui il mio Luigi, ed Edoardo Mutru, mio compagno d’infanzia, in tutto sette, su cui potevo contare. Il resto era composto di quella classe di marinai avventurieri conosciuti sulle coste americane dell’Atlantico e del Pacifico sotto il nome di “Freres de la cote”.
Classe che aveva fornito certamente gli equipaggi dei filibustieri, dei bucanieri e che oggi ancora dava il suo contingente alla tratta dei neri”.
Si deve notare che tra i suoi uomini non c’è nessun riograndense; evidentemente il popolo del Rio Grande non teneva per la secessione. Ci sono gli schiavi negri dei latifondisti arruolati dai padroni con la promessa della libertà; alla fine della guerra, se vincitori, li avrebbero liberati (forse!). Ed erano i più fidati dato che gli altri erano dei delinquenti. I fuoriusciti italiani avevano tutti qualcosa in sospeso con la giustizia (come Garibaldi) e poi i Fratelli della costa. Pirati in fuga, disperati pronti a tutto, reduci dalla tratta dei negri che da pochi anni era stata messa fuori legge dall’Inghilterra. Chissà come si trovavano gli schiavi negri a combattere a fianco dei loro aguzzini. Non sorprende che gli abitanti di quelle terre “liberate” erano tutti fuggiti. Possibile che a Garibaldi non siano venuti dei dubbi sulla bontà della causa per cui stava combattendo? Se il popolo era fuggito e lui si era ridotto a comandare una banda di delinquenti e disperati, se nessun riograndense si era unito a loro, forse la sua causa non era quella giusta! Che scollatura!
Nasce un’altra osservazione. I fan club di Garibaldi, hanno mai letto le sue Memorie?
Il suo amico Rossetti aveva lascito la lotta armata e si era dedicato alla propaganda. Si era stabilito nella capitale degli insorti e stampava un periodico, O Povo, Il Popolo; evidentemente, nonostante quello che ci scrive Garibaldi, pensavano di essere loro “Il Popolo”. Queste iniziative propagandistiche sono importantissime perché si diffondono in Sud America e arrivano in Europa. Sono lette avidamente dai progressisti europei e produrranno lo zoccolo duro del mito garibaldino. Inoltre sono un magnete per i fuoriusciti europei che vanno a combattere per la causa repubblicana. L’uomo che dirigeva i lavori per costruire le barche di Garibaldi era di origine irlandese, John Griggs.
Quest’avventura di Garibaldi sembra presa da Via col vento: “abitavano per
l’estensione della maggior parte del fiume, stendendosi sopra una superficie immensa, le famiglie tutte del presidente Bento Goncales e dei fratelli di lui, … Le estancias ove noi approdavamo erano quelle di Donna Antonia e di Donna Ana, ambe sorelle di Bento Goncales … io posso assicurare che nessuna delle circostanze della mia vita mi si presenta al pensiero con più fascino, con più dolcezza, e più piacevole riminiscenza di quella ata nell’amabilissimo consorzio di quelle signore e delle care loro famiglie”. Che compito gentiluomo!
Una di queste estancias ospitava tre sorelle “ed una di loro, Manuela, signoreggiava assolutamente l’anima mia. Io mai cessai d’amarla, benché senza speranza, essendo essa fidanzata ad un figlio del presidente. Io adoravo il bello ideale in quell’angelica creatura, e nulla avea di profano l’amor mio. In occasione d’un combattimento, ove’io ero stato creduto morto, io conobbi non esser indifferente a quell’angelica creatura; e ciò bastò a consolarmi dell’impossibilità di possederla”. Che romanticone!
Prosegue: “Non indifferenti erano pure le schiave di colore, che si trovavano in quei compitissimi stabilimenti, e quelle potevano adorarsi di un culto un po’ meno divino”⁴. Che disgraziato! Come è possibile scrivere parole di un amore tanto apionato e solo due righe dopo informare il lettore che mentre si struggeva d’amore per una creatura angelica mieteva successi con le schiave.
Non dobbiamo sorprenderci se le schiave non erano indifferenti al fascino del biondo eroe. Infatti se il suo carisma era magnetico sugli uomini sulle donne era devastante. Garibaldi era l’uomo che non doveva chiedere mai e… che non diceva mai di no. Non è esagerato affermare che le donne gli piovevano addosso. Lui le prendeva tutte, belle o brutte, aristocratiche o popolane, ricche o povere, nubili o sposate.
Non deve neanche sorprendere che le padrone delle estancias lo lasciassero fare. Per legge i figli delle schiave erano comunque schiavi chiunque fosse il padre e appartenevano al proprietario della schiava. Con questa legge i proprietari
potevano divertirsi con le loro proprietà e guadagnare sui figli che nascevano. Infatti la vendita dei figli delle schiave era un’entrata molto importante per i latifondisti in situazioni di crisi finanziaria. La tratta degli schiavi dall’Africa era stata messa fuori legge dall’impero inglese nel 1833 e questo aveva fatto aumentare il prezzo degli schiavi presenti in America. L’Impero Brasiliano abolisce la schiavitù nel 1871 con la legge del Ventre Libero: tutti i nati dalle schiave sono da considerarsi liberi. Con questa legge la schiavitù sparisce gradualmente senza sconvolgere l’economia e la società com’era successo negli Stati Uniti.
Siamo sicuri che sia le schiave sia le loro padrone rimasero soddisfatte delle prestazioni del nostro Eroe dei due mondi. Questa dicotomia tra la donna “creatura angelica” e la donna “oggetto della libidine” è tipica del Romanticismo ed è quindi da considerarsi normale per i suoi tempi. Non è affatto normale scriverlo in un modo così sfacciato. Come interpretare questa sfacciataggine di Garibaldi? Un eccesso di sincerità, un’altra scollatura o l’arroganza di chi sa che può fare tutto quello che vuole tanto chi lo ama lo amerà comunque?
Come abbiamo già affermato le sue scollature erano autentiche e peggioravano col tempo. Questa, in particolare, lo metterà in una situazione drammatica quando, dopo la seconda guerra d’indipendenza, sposerà la contessina Raimondi (un’altra creatura angelica: lei 18, lui 53 anni!) per essere informato, subito dopo il matrimonio, che sua moglie era stata appena messa incinta da un altro. I suoi sforzi per ottenere l’annullamento andranno avanti per anni procurandogli dei tremendi dispiaceri.
Comunque noi non possiamo non aggiungere che, anche se non simpatizziamo con il nostro soggetto, nel leggere le sue Memorie non riusciamo a non essere affascinati da queste sue avventure. Possiamo percepire il fascino di questa vita e l’impatto che avrà sui suoi contemporanei. Chissà quanti giovani patrioti hanno sognato di cavalcare nelle pampas sconfinate, combattendo biechi tiranni e corteggiando romantiche donzelle. Chissà quante languide fanciulle hanno sognato di essere possedute da un qualche biondo eroe.
Prima o poi il sogno doveva finire, la fortuna gli volta le spalle e fanno naufragio: “I superstiti, in numero di quattordici, l’uno dopo l’altro tutti aveano approdato. Invano, tra loro, cercai un volto italiano. Morti tutti! Mi sembravo solo nel mondo! Io vaneggiavo, e quasi mi parea pesante quell’esistenza salvata con tanta fatica”. La morte di tutti i suoi compagni italiani gli provoca una crisi esistenziale. Lui non aveva mai pensato al matrimonio perché: “Aver una donna, dei figli sembravami una cosa interamente disdicevole a chi si era consacrato assolutamente ad un principio” (la redenzione della Patria) ma ora deve riconoscere che: “Il destino decideva in altro modo. Io, colla perdita di Luigi, Edoardo, e gli altri miei conterranei, ero rimasto in un desolante isolamento. Sembravami esser solo nel mondo”, conclude che l’unico rimedio a questa crisi era il matrimonio.
Mentre meditava queste considerazioni era ormeggiato nel porto di una piccola città appena conquistata: Laguna. “Io eggiavo sul cassero della Itaparica ravvolgendomi nei miei tetri pensieri; e dopo ragionamenti d’ogni specie, conchiusi finalmente di cercarmi una donna per trarmi da una noiosa ed insopportabile condizione. Gettai a caso, lo sguardo verso le abitazioni della Barra … Là, coll’aiuto del cannocchiale che abitualmente tenevo alla mano quando sul cassero d’una nave, scopersi una giovine. Ordinai mi trasportassero in terra nella direzione di lei. Sbarcai; ed avviandomi verso le case ove dovea trovarsi l’oggetto del mio viaggio, non mi era possibile rinvenirlo: quando m’incontrai con un individuo del luogo, che avevo conosciuto ai primi momenti dell’arrivo nostro. Egli invitommi a prender caffè nella di lui casa. Entrammo: e la prima persona che s’affacciò al mio sguardo, era quella il di cui aspetto mi aveva fatto sbarcare.
Era Anita! La Madre dei miei figli! La donna, il di cui coraggio io mi sono desiderato tante volte! Restammo entrambi estatici, e silenziosi, guardandoci reciprocamente, come due persone che non si vedono per la prima volta, e che cercano nei lineamenti l’una dell’altra qualche cosa che agevoli una reminiscenza. La salutai finalmente, e le dissi: tu devi esser mia. Parlavo poco il portoghese, ed articolai le proterve parole in italiano. Comunque, io fui
magnetico nella mia insolenza. Avevo stretto un nodo, sancito una sentenza, che la sola morte poteva infrangere! ... Io avevo incontrato un proibito tesoro, ma pure un tesoro di gran prezzo! Se vi fu colpa, io l’ebbi intiera! E … vi fu colpa! Sì … si rannodavano due cuori con amore immenso, e s’infrangeva l’esistenza d’un innocente! ... Essa è morta!⁵ Io infelice! E lui vendicato … Sì vendicato! ... Io, errai grandemente ed errai solo!”
Ricapitoliamo questa telenovela: Garibaldi è in crisi esistenziale e riconsidera le sue idee sul matrimonio, conclude che la soluzione alla sua crisi è sposarsi quindi gli serve una donna. Detto fatto, afferra un cannocchiale e individua la donna giusta. Pensate, un colpo di fulmine al cannocchiale! La cerca ma non la trova. Per caso un conoscente lo invita a casa e qui trova lei, moglie di questo suo conoscente. Senza alcun rispetto per il marito le comunica che la farà sua. Qui il racconto s’interrompe e ci parla della sua colpa; quale colpa? Che cosa vuol dire che “s’infrangeva l’esistenza d’un innocente”? Penso che lo si debba prendere in senso letterale: che Garibaldi, o entrambi, abbiano ucciso il marito.
Anita aveva sposato tre anni prima, a 15 anni, il calzolaio Manuel Duarte che era molto più vecchio di lei. Non avevano figli e conducevano una vita molto modesta. Non si fa fatica a supporre che fosse molto sensibile al fascino di un capo dei rivoltosi. Non conosciamo i dettagli di quest’operazione ma comunque da quel momento in poi Anita sarà sempre al fianco di Garibaldi e gli dedicherà tutta la sua vita, letteralmente. I due fanno circolare la voce che Duarte, umiliato da Garibaldi, si era unito agli imperiali per poi morire in guerra chissà dove. Però, quando qualche anno dopo i due decidono di sposarsi, a Montevideo, il prete vorrà avere la prova che Duarte è morto altrimenti non li avrebbe sposati. A quel punto Garibaldi trova la tomba di Duarte. La può trovare perché l’aveva ucciso lui. Garibaldi era il capo dei pirati e rivoltosi che avevano appena conquistato il paese, poteva tranquillamente far uccidere chi voleva. Lui era il Generale Garibaldi e il povero Duarte non era nessuno.
Rivediamo questa storia alla luce di quello che c’è dato sapere. Garibaldi sa di avere un bisogno, identifica la soluzione, trova quello che gli serve, se lo prende,
qualcuno si oppone, lo uccide. Molti anni dopo, nello scrivere le sue Memorie, mette insieme un drammone romanticissimo ove non specifica chiaramente di averlo ucciso lui, ma è talmente pentito che il lettore non può fare a meno di compatire lui, non l’ucciso. Il tutto comunicato con una prosa stupenda. Non c’è dubbio, è un genio!
Ora però, dobbiamo tornare indietro sulle sue Memorie, per analizzare le sue idee sul matrimonio: “Aver una donna, dei figli sembravami una cosa interamente disdicevole a chi si era consacrato assolutamente ad un principio, che tuttoché eccellente, non mi avrebbe permesso, propugnandolo col fervore di cui mi sentivo capace, la quiete e stabilità necessarie ad un padre di famiglia”. Questo è come lui vedeva se stesso, il Grande Sacerdote “consacrato assolutamente” al culto della Patria. A essa avrebbe voluto dedicare tutto se stesso senza alcun legame con donne (a parte i bisogni fisiologici) e figli; quindi niente famiglia come i preti cattolici. Avrebbe voluto essere un asceta del nazionalismo ma “Il destino decideva in altro modo”, quindi cede e fa una cosa peraltro molto naturale. Questo è un elemento molto importante del suo pensiero perché l’ascetismo è un o necessario verso la follia criminale. Invece la sua preoccupazione per “la quiete e stabilità necessarie a un padre di famiglia” ci fa intravedere il figlio di due bravi genitori cattolici. Aveva ragione a essere preoccupato, lui sarà un pessimo padre.
Lasciata Laguna riprende la guerra per mare ma la situazione si fa sempre più pesante per i rivoltosi; evidentemente l’esercito imperiale ha imparato la lezione e incomincia a raccogliere i primi successi. La conseguenza è che la popolazione prende coraggio e inizia a dimostrare la sua ostilità verso i rivoltosi e la sua simpatia per gli imperiali.
A questo punto la guerra civile diventa sempre più brutale. I rivoluzionari occupano la provincia di Santa Caterina “ma l’orgoglioso contegno nostro verso i buoni catarinensi, amici nostri d’apprincipio e nemicissimi alla fine” fa si che alcuni si ribellano alla repubblica. “Coll’avanzarsi dei nemici, grossissimi per terra, ed il contegno prepotente, con cui si erano trattati i catarinensi, spinsero
alcune popolazioni a sollevarsi contro la repubblica, e fra gli altri il paese d’Imiriù .... Il generale Canabarro mi diede l’esoso incarico di sottomettere quel paese e per castigo saccheggiarlo. Io fui obbligato ad adempiere il comando. Ed anche sotto un governo repubblicano è ben repugnante il dover ciecamente obbedire … Io desidero per me, e a chiunque non abbia dimenticato d’esser uomo, di non essere obbligato a dar sacco. Credo che ... impossibile sia narrarne minutamente tutte le sozzure e nefandità. Io mai ho avuto una giornata di tanto rammarico, e di tanta nausea dell’umana famiglia!”. Garibaldi tenterà di limitare i danni, ma nel paese c’era un deposito di alcolici. I suoi uomini si ubriacano e la sua autorità non riesce a farli smettere. “Infine, con minacce, percosse ed uccisioni si pervenne ad imbarcare quelle fiere scatenate”. E anche questo non riesce a scuotere Garibaldi dalla sua fede nella causa.
Ora dobbiamo aggiungere che la guerra di cui si parla era un po’ particolare rispetto a quelle che conosciamo noi oggi: “Dopo i combattimenti, sia i ribelli che gli imperiali spesso si disperdevano, tornando per qualche tempo presso le famiglie. Altra conseguenza di questa situazione era che, per la mancanza di basi sicure in cui custodirli, frequentemente i prigionieri erano sgozzati” .
Lasciato il mare la guerra si trasferisce sulla terra. “Tra le peripezie non poche della mia vita procellosa io non ho mancato di avere dei bei momenti; ... io marciava a cavallo con accanto la donna del mio cuore, degna dell’universale ammirazione, e lanciandomi in una carriera, che più ancora di quella del mare, aveva per me attrattive immense ... La mia Anita era il mio tesoro, non men fervida di me per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa”.
Questa sua fede “per la sacrosanta causa dei popoli e per una vita avventurosa” sarà messa ancora alla prova durante una ritirata: “Quella discesa fu ardua per le difficoltà della strada e le ostilità accanite degli abitanti della contrada, nemici acerrimi dei repubblicani. Cosa strana, eppur verissima: la classe dei contadini, che più d’ogni altra, dovrebbe amare un reggimento repubblicano libero, lo detesta e lo combatte!”. Ora riconosce chiaramente che i contadini si battono contro la repubblica e, pensate, lo trova strano. E ancora non ne deduce che è lui
dalla parte sbagliata!
Da chi erano composte le truppe repubblicane? “La nostra fanteria, composta in totalità d’uomini di colore, meno gli ufficiali, era pure eccellente; e la brama di combattere generale … I coraggiosi liberti, fieri della loro imponenza diventavano più saldi; e vera selva di lance somigliava quell’incomparabile corpo, composto di schiavi, liberati dalla repubblica, e scelti tra i migliori domatori della provincia, tutti neri tranne gli ufficiali superiori”. Dobbiamo supporre che la guerra stesse andando male per la repubblica se gli unici combattenti su cui poteva contare erano gli schiavi dei latifondisti.
E nonostante questo, la guerra ancora lo affascina. Un giorno, l’esercito imperiale e quello repubblicano si trovano di fronte pronti allo scontro: “Giorno più bello e più magnifico spettacolo non erami capitato mai. Collocato al centro della fanteria nostra, nel sito più alto ... lì sotto ai miei piedi tra pochi minuti, sarà decisa la sorte del maggior pezzo del continente americano: il Brasile! Deciso il destino di un popolo! Codesti corpi, sì compatti, sì floridi, sì brillanti a momenti saranno sciolti, disfatti, orribilmente amalgamati e respiranti libidine di distruzione! Tra poco, il sangue, l’infrante membra, i cadaveri di tanta superba gioventù brutteranno i bellissimi e vergini campi”. Eros e Thanatos. Dobbiamo riconoscere che lo scrittore Garibaldi ci sta dando uno stupendo esempio di prosa dannunziana. La guerra, scultrice della storia! Ma cosa pensare dell’uomo? Cosa pensare di questo morboso fascino della morte, del sangue, dei cadaveri? Cosa pensare della sua sacrosanta causa dei popoli? Un pretesto demente per soddisfare la sua libidine di distruzione.
Per la repubblica la guerra stava andando male: “La stella della repubblica tramontava; e la fortuna era nemica al duce nostro … Intanto la situazione dell’esercito repubblicano peggiorava. Ogni dì le urgenze erano maggiori, e maggiori le difficoltà di soddisfarle. In tale stato di cose, gl’imperiali fecero delle proposte d’accomodamento, che abbenchè vantaggiose, considerando le circostanze in cui si trovavansi i repubblicani, non furono accettate, e respinte con alterigia, dalla parte più generosa dell’esercito. Tale rifiuto, però, accrebbe il
malcontento nella parte più transigente e stanca.”.
I repubblicani si devono ritirare attraverso una catena di montagne nella stagione delle piogge: “Furonvi scene da inorridire! Molte donne, com’è d’uso in quei paesi, accompagnavano l’esercito e non mancavano d’esser utili, impiegate alla conduzione delle cavalladas, che eseguivano a cavallo, essendo esse molto pratiche in tale esercizio. Colle donne v’erano naturalmente dei bambini d’ogni età. Pochi bambini dell’età più tenera uscirono dalla foresta! Alcuni pochi furono raccolti da cavalieri, giacché pochi cavalli si salvarono; e molte madri, pure, rimasero morte o morenti di fame, di disagio e di freddo!”. A stento lui, Anita e il figlio Menotti riescono a salvarsi: “Nel più arduo della strada ed al o dei torrenti, io portavo il mio caro figlio di tre mesi in un fazzoletto a tracollo, procurando di riscaldarmelo al seno, e coll’alito”. A questo punto la guerra non è più divertente. Dopo sei anni di inutili massacri e distruzioni Garibaldi era stanco. Si congeda dal Presidente Goncalves che lo lascia andare. Così finisce la sua avventura brasiliana, con una disastrosa sconfitta.
Inutilmente cercherete nei suoi scritti una qualunque riflessione sul dramma cui aveva partecipato. Nessun senso di colpa e nessun risentimento.
La Guerra Grande
Era il 1841, se ne va a Montevideo in Uruguay. Ha 34 anni, una moglie, un figlio e si trova ben presto senza un quattrino. Portava però con sé un capitale enorme in termini d’immagine e relazioni. Anche se era stato sconfitto, il suo coraggio, la sua capacità di comandare e la sua dedizione alla causa (giusta o sbagliata che fosse) gli hanno dato uno statura molto superiore agli altri avventurieri europei che, come delle sanguisughe, si precipitavano sulle ulcere sanguinanti del Sud America per offrire il proprio braccio al miglior offerente.
Cosa ancor più importante Inghilterra e Massoneria avevano deciso che lui era il loro uomo. Nelle Memorie non esiste alcun riferimento a questo sodalizio. La cosa è tenuta segretissima poiché saranno loro che faranno ottenere a Garibaldi i suoi successi. Lui ha una cura maniacale della sua immagine e non vuole dare l’impressione di essere un burattino nelle mani di un paese straniero e di una società segreta: sarebbe disastroso per il suo mito. E’ in questo periodo che porta i capelli lunghi per coprire un orecchio. Sembra che glielo abbiano tagliato per un furto di bestiame. Ora ha adottato una specie di uniforme che porterà tutta la vita, un abbigliamento molto originale per un europeo: un poncho.
Trova lavoro in “Due occupazioni di poco conto veramente, ma che servivano all’alimento, io assunsi frattanto, e furono quelle di sensale mercantile; ed alcune lezioni di matematiche”. Di nuovo la noia di un’occupazione borghese.
Ma il Sud America non può mai essere troppo noioso.
La Guerra Grande
In quegli anni, la scena politica uruguaiana è dominata da due partiti, il blanco e il colorado. Il primo difende gli interessi dei grandi allevatori e il secondo della borghesia imprenditoriale cittadina. L’Argentina è dominata dal dittatore Rosas che è alleato col partito blanco. Nel 1838 la Francia, per motivi legati alla sua politica imperialista, attacca l’Argentina che viene aiutata dai blancos uruguaiani che erano al governo sotto la guida di Manuel Oribe. Per questo, nell’ottobre del ’38, la Francia provoca un colpo di stato in Uruguay portando al governo il colorado Rivera. Oribe, vuole vendicarsi e, aiutato dall’Argentina di Rosas, attacca l’Uruguay per cacciare Rivera. I colorados vengono sconfitti e Montevideo è posta sotto assedio dai partigiani di Oribe alleati con l’Argentina di Rosas. Intervengono Inghilterra e Francia con le loro flotte ma non hanno truppe di terra per respingere Oribe e gli argentini. Inizia così il lungo assedio di Montevideo che durerà 9 anni perché le flotte alleate consentono alla città di ricevere tutti gli aiuti necessari a resistere. Nel 1850 gli alleati, stanchi, ritirano le flotte e la città dovrebbe capitolare ma nel ’51 Rosas viene rovesciato da Urquiza, un governatore di una provincia argentina suo rivale, e quindi Oribe viene sconfitto. Entra in gioco anche il Brasile a fianco dei colorados e Rosas va in esilio nel 1852. Così termina l’assedio di Montevideo. I colorados restano al potere in Uruguay cedendo parte del suo territorio al Brasile. Fino al 1870 il paese è in pace, poi la rivalità tra i due partiti esplode ancora in un’altra guerra civile.
Due anni prima era scoppiata la Guerra Grande: una guerra civile uruguaiana, attizzata dall’Argentina, che poi provocherà una guerra civile anche in Argentina. Quindi: “La Repubblica Orientale (l’Uruguay) m’offrì ben presto occupazione adeguata all’indole mia”⁷. Gli offrono di comandare una piccola squadra navale per una spedizione in aiuto a una provincia argentina che si era ribellata. Così, senza una riflessione, senza una motivazione a da un’avventura all’altra. Quello che conta è vivere seguendo la propria vocazione: fare la guerra.
Aveva appena chiuso il capitolo Brasile ottenendo un’amnistia dall’Impero
grazie all’intercessione di un amico. Questo era necessario perché l’Impero faceva pressioni sull’Uruguay per farsi consegnare i ribelli che si erano rifugiati lì. Ora che non è più un ricercato può aprire un altro capitolo della sua vita.
Questo capitolo si apre male perché l’Uruguay è comandato “dall’imbecille”, il ministro della guerra Vidal e “per completare l’opera di distruzione, io fui destinato a una spedizione, il di cui risultato altro non poteva essere che la perdizione dei legni da me comandati”. E così fu. Forse è per questo che non c’è nelle Memorie nulla di paragonabile alla gioia e all’entusiasmo con cui aveva iniziato l’avventura riograndense, c’è piuttosto una certa tristezza.
La brutalità di questa guerra fa inorridire. Lui è con questa piccola squadra sul fiume Paranà in mezzo al territorio nemico e non si trova un “pratico” che gli desse informazioni. Serve la tortura: “In conseguenza di molte indagini seppesi uno di loro, aver alcune cognizioni del fiume, ma tacerle per timore. La mia sciabola spianò bentosto le difficoltà: ed ebbimo un pratico”.
Arrivano ad un piccolo paese argentino e: “Eranvi alcuni legni mercantili. Noi avevimo bisogno di trasporti e di pratici. Una spedizione notturna coi palischermi ci procurò una cosa e l’altra … Erimo obbligati ad usar di prepotenza: la posizione nostra delicata lo esigeva”. E’ una triste impresa fatta di saccheggi, rapimenti, torture e uccisioni.
Eppure continua imperterrito a recitare la parte del “liberatore” per l’opinione pubblica sudamericana ed europea. Quando era riuscito a entrare nel Paranà aveva mandato al governo uruguaiano un messaggio: “Alle ore dieci del ventisei ho forzato il o di Martin Garcia. Le nostre ciurme hanno dato prova di comprendere che combattono per la Causa dell’Umanità”⁸. Da chi erano composte queste sue ciurme? Con un candore stupendo nelle sue Memorie ci fa sapere che i suoi uomini erano sempre gli stessi: “Negli equipaggi da me comandati vi era gente di ogni nazionalità. Gli stranieri eran per la maggior parte marini, e quasi tutti disertori da bastimenti da guerra. E questi devo confessarlo
erano i meno discoli. Circa agli americani, tutti quanti erano stati cacciati dall’esercito di terra per misfatti e massime per omicidio”.
Ora quindi questi delinquenti, redenti dalla sua guida, avrebbero deciso di combattere per “la Causa dell’Umanità”!
Per comprendere il suo fascino considerate che tutti i progressisti europei allora ci credevano e ancor oggi ci credono.
Le sue navi sono affrontate da una forza navale argentina molto superiore e dopo strenuo combattimento devono essere abbandonate. Gli danno fuoco con alcuni prigionieri argentini a bordo (probabilmente i pratici che avevano rapito) e si avviano per via di terra per raggiungere le forze uruguaiane ma un paio dei suoi sono feriti e li fa strangolare per non lasciarli vivi in mano argentina.
Si fermano un paio di mesi a Santa Lucia ove Garibaldi intreccia una relazione con Lucia Esteche, da questa relazione nasce Margarita che non vedrà mai suo padre.
Intanto l’esercito uruguaiano è distrutto dagli argentini: su 850 prigionieri 150 accettano di are agli argentini, gli altri 700 sono sgozzati. Garibaldi si rifugia a Montevideo che viene assediata. Qui viene costituita la Legione Italiana. A Garibaldi affidano una piccola flotta: “Essendo io al carico della flottiglia, che andava pure organizzandosi, io proposi al comando della legione, un certo Angelo Mancini, d’infame memoria, e quello venne accettato del governo”. Poco dopo Mancini a al nemico con una trentina di ufficiali e soldati, dietro congruo pagamento. Le forze uruguaiane sono comandate dal generale Paz, un argentino oppositore del suo regime che aveva deciso di andare a combattere per gli uruguaiani. Poco dopo sarà costretto a fuggire per le gelosie degli uruguaiani.
Quando l’Argentina sta per vincere entrano in campo Inglesi e si che non vogliono che l’Argentina prenda possesso di tutto il Mar della Plata. Il Ministro Britannico in Uruguay prende contatti con lui: “Quando lavoravo a Montevideo come diplomatico con incarichi speciali, sono stato per due anni in costante contatto con quest’uomo notevole. In qualità di comandante in capo della marina di Montevideo, egli era stato posto dal governo agli ordini degli ammiragli inglesi e si … Al fine di rendere la flottiglia efficiente fu necessario rifornire Garibaldi di armi, munizioni da guerra ed equipaggiamento navale, oppure dei mezzi per procurarsi tutto ciò. Incoraggiato dalla reputazione che già allora Garibaldi godeva non solo come uomo d’armi, ma per qualità di onore e di integrità, decisi di prendere tutti gli accordi con lui personalmente. Naturalmente all’inizio … una certa diffidente cautela mi consigliava di controllare in vario modo i suoi resoconti, e di accertare per via indiretta che le forniture venissero amministrate a dovere. I risultati della mia indagine non avrebbero potuto essere più soddisfacenti, … Ogni prova si risolveva a suo favore e l’esperienza successiva mostrò l’eccellenza del suo giudizio e la prudenza dei suoi consigli. Garibaldi usava venire da me generalmente di sera, sempre avviluppato nel suo poncho o mantello, che non abbandonava per tutta la durata della conversazione. Era una strana abitudine. In seguito venni a sapere la ragione di questo suo venire sempre dopo il calar delle tenebre: il fatto era che non aveva i mezzi per acquistare una lampada per il suo uso privato, e quindi utilizzava finché poteva la luce del giorno per scrivere i suoi ordini, mappe, etc. Da me veniva a lavoro finito. Inoltre teneva sempre addosso il suo poncho per nascondere lo stato pietoso degli abiti … mentre Garibaldi era in condizioni di quasi povertà, Rosas (il dittatore argentino) gli fece le avances più pressanti offrendogli ... un dono di 30.000 dollari d’oro … Ma queste profferte non tentarono minimamente Garibaldi”.
“Garibaldi possiede una qualità eccezionale e della massima utilità: è capace insieme di comandare e di agire … Io potrei citare molti esempi dell’audacia di questo valoroso comandante, come anche della sua abilità e prudenza. L’estrema modestia dei suoi modi tranquilli e alquanto riservati colpiva coloro che lo vedevano per la prima volta, … Naturalmente cortese, umano e gentile, egli sa come mantenere disciplinati i suoi uomini e ottenerne l’obbedienza. Di lui nessuno ha mai saputo che abbia colto alcuna delle molte opportunità di
vantaggio personale … Non solo: egli ha pure sempre rigorosamente vietato ai suoi uomini il saccheggio e ogni altra forma di cattiva condotta” .
Chi scrive è William Gore Ouseley, scrittore e pittore oltre che diplomatico di professione (i suoi quadri hanno ancor oggi delle buone quotazioni). William Gore sta descrivendo un asceta della guerra, un uomo assolutamente fuori del normale. Colpisce che un consumato diplomatico inglese manifesti tanta ammirazione per Garibaldi; è evidente che ne subisce il fascino.
Noi dobbiamo di nuovo chiederci se Garibaldi fosse veramente così.
Noi pensiamo che questa descrizione fosse sostanzialmente vera. Come abbiamo già notato Garibaldi viveva la sua vita con la dedizione di un asceta. Quella cosa che abbiamo chiamato “scollatura” è il risultato del suo ascetismo. Una volta che si decideva ad appoggiare una causa nulla poteva fargli cambiare opinione: quella era la causa “buona e giusta” e la sua dedizione non poteva che essere totale perché lui combatteva per il “bene” e l’avversario era il “male”. Nessun delitto, nessun disastro poteva indurlo a riflettere. In altri termini la sua ottusità era invincibile. Questa sua dedizione totale lo rendeva un “puro” e la purezza ha un fascino irresistibile. Chi ne subisce il fascino lo adora, i pochi che restano distaccati lo ammirano, chi ha subìto la sua opera di “redenzione” lo odia.
Leggiamo la testimonianza di Bartolomeo Mitre, un argentino oppositore di Rosas andato a combattere per l’Uruguay: “Avevo allora ventidue anni, e la personalità di Garibaldi esercitava sulla mia immaginazione una specie di fascino, che mi attraeva irresistibilmente, per le imprese che di lui avevo sentito riferire e per una specie di mistero morale che lo avvolgeva ... Sotto un’apparenza modesta e pacifica celava un genio ardente e una mente popolata di sogni grandiosi. Nel parlare di ciò, il suo linguaggio era apionato e pieno di colorito, rivelando un uomo istruito, dotato più di sentimento che d’idee. La sua parola, benché informata al ritmo della moderazione, era imperativa e dogmatica. L’impressione che ne ricevetti fu di una mente e di un cuore non
equilibrati fra di loro, di un’anima infiammata da un fuoco sacro, votata alla grandezza e al sacrificio. Ne trassi la persuasione che era un vero eroe in carne e ossa, con un ideale sublime, con teorie di libertà esagerate e mal digerite, in possesso tuttavia di elementi per eseguire grandi cose”¹ .
Consideriamo invece com’era valutato Rivera, il presidente dell’Uruguay: “Rivera era stato più umano dei suoi rivali … Ma contro di lui stavano la sua notoria mala fede, la sua mancanza di probità nell’appropriarsi del pubblico denaro, i non scrupolosi mezzi da lui sempre impiegati per mantenere un influsso illegittimo sulla cosa pubblica”¹¹.
E’ impossibile capire il mito Garibaldi se non lo si inserisce nel contesto del mondo in cui viveva. In quel mondo tutti tradivano tutti, tutti erano in vendita e se combattevano lo facevano per un tornaconto personale. Laddove non arrivava la corruzione arrivava la faziosità. La propria persona era sempre più importante della causa e la litigiosità e l’invidia superavano il grottesco.
Grazie ai finanziamenti inglesi Garibaldi mette assieme una piccola flotta, poca cosa a fronte di quella argentina ma sufficiente a mettersi in mare.
Quando la flotta argentina si muove per conquistare un’isola davanti a Montevideo Garibaldi si avanza per contrastarla. E’ una mossa assurda, le forze in gioco sono troppo impari ma Garibaldi non arretra. Quando sembra debba soccombere ecco arrivare una nave da guerra inglese che sbarra il o agli argentini regalando a Garibaldi un’eccezionale vittoria. Con la sua piccola flotta Garibaldi ritorna a fare il pirata con pessimi risultati.
Cattura una goletta statunitense provocando un incidente diplomatico. Cattura una nave brasiliana nonostante avesse firmato un accordo col Brasile di non attaccare più questo paese: fu costretto a indennizzare il Brasile. Si scontra con
un commerciante brasiliano provocando la protesta degli altri stranieri che aiutavano la causa dell’Uruguay: viene messo agli arresti. Per essere liberato firma una dichiarazione ove riconosce il suo errore e s’impegna a non ripeterlo. E’ inutile. La Legione Italiana cattura alcuni brasiliani e il Brasile invia la flotta davanti a Montevideo: il governo uruguaiano obbliga Garibaldi a rilasciare i prigionieri.
Comunque l’Uruguay non può fare a meno di lui e della Legione Italiana. Per l’Uruguay la guerra andava sempre peggio. Il presidente Rivera aveva messo assieme un altro esercito, si era scontrato con gli argentini a India Muerta e aveva subìto un’altra disastrosa sconfitta. Su 2.000 prigionieri uruguaiani 800 vengono sgozzati dagli argentini e altri torturati e bruciati vivi. Non deve sorprendere se in quella guerra fosse una pratica comune uccidere i propri feriti se non li si poteva trasportare, lo stesso Garibaldi ci fa sapere di averlo fatto con alcuni dei suoi: “E’ doloroso confessarlo, un ferito gravemente, fu ucciso per non lasciarlo ad essere sgozzato dall’efferato nemico”¹².
Rivera va in esilio, per ora. Montevideo è di nuovo sotto assedio e il governo affida a Garibaldi la difesa della città. Inghilterra e Francia tentano di mediare una pace ma Rosas rifiuta; gli alleati decidono allora di dare una lezione all’Argentina per costringerla a trattare un armistizio e organizzano una spedizione con le loro flotte congiunte su per il fiume Paranà. Chiedono di avere con loro Garibaldi e la sua piccola flotta. Pensate, un modesto capitano di marina mercantile, condannato a morte nel suo paese, che partecipa a una spedizione assieme alle flotte delle due prime potenze mondiali con l’incarico di comandante della flotta uruguaiana, che carriera! Non è difficile capire il motivo della loro scelta: era l’unico di cui si potessero fidare e che fosse all’altezza dell’incarico. Nelle sue Memorie scrive: ”Nei progetti di operazioni, combinati tra il governo della repubblica, e gli ammiragli delle due alleate nazioni, vi entrava una spedizione dell’Uruguay: ed io ne fui incaricato”. Questo è quanto; potrebbe anche vantarsi un po’ di questo suo incarico ma lui è una persona modesta perché la causa deve sempre prevalere sugli interessi personali. Questo è un elemento molto importante del fascino del personaggio e sarà determinante per lo sviluppo del mito.
Tornato a Montevideo ricomincia a fare il pirata con un certo successo dato che Francia e Inghilterra avevano sequestrato la flotta argentina ma a questo punto sono tutti stanchi. Francia e Inghilterra cambiano gli ambasciatori e insistono per trattative di pace. Gli uruguaiani sono divisi tra gli oltranzisti e i pacifisti. Garibaldi e la sua Legione si schierano con gli oltranzisti, non vogliono perdere il lavoro e temono che il nuovo governo non mantenga le promesse di ricompense con terra e bestiame alla fine della guerra. I pacifisti uruguaiani s’indignano di questa intromissione nei loro affari da parte dei gringos (gli italiani) e chiedono che siano cacciati. Garibaldi, amareggiato da tanta ingratitudine, dà le dimissioni e così termina la sua avventura uruguaiana.
Così sintetizza il suo pensiero scrivendo a un amico a Torino: “Noi continuiamo qui a vivere in guerra, ma in oggi è guerra fiacca, lenta, priva di vita e di gloria … Le discordie, fomentate dall’ambizione ed egoismo di pochi aspiranti, precipitarono in sciagure immense ed offrirono inermi all’esterminio dell’implacabile vincitore popolazioni intere e generose!”¹³ Anche questa guerra non è più divertente.
Era l’estate del 1847, ha 40 anni, sposato con tre figli e non ha un soldo. Anita fa la lavandaia per tirare avanti. La sua gelosia è arrivata all’esasperazione, diceva che teneva due pistole cariche: una per la sua amante e una per se stessa! In quel momento non vede altre guerre all’orizzonte e lui sa fare solo questo. Ha partecipato a due guerre, la prima persa e la seconda sta ancora andando avanti ma a lui l’hanno cacciato. In entrambe le guerre ha ricoperto cariche importanti e si è sempre trovato al centro dell’azione ma la sua dedizione alla causa ha fatto sì che non gli restasse in mano nulla e si ritrova in miseria in un paese straniero che non lo vuole più. E’ opinione diffusa a Montevideo che i legionari hanno contribuito a prolungare la guerra e con i loro eccessi hanno procurato odio verso tutti gli italiani.
Arrivati a questo punto della sua vita lo si potrebbe definire un fallito e oggi sarebbe ricordato con una nota a piè di pagina nella storia del Sud America. Però
ha accumulato una notorietà straordinaria, ha acquisito un’ottima esperienza di guerra fatta di guerriglia e di pirateria, ha imparato a comandare e a uccidere. Sotto la sua guida la Legione Italiana si è battuta bene, non ha vinto ma ha resistito e ha dato un contributo importante alla difesa di Montevideo anche se poi si è fatta odiare per le sue sistematiche violenze e ruberie a danno dei civili. La Francia e l’Inghilterra lo conoscono e hanno apprezzato i suoi servizi, inoltre, a Montevideo si è iscritto alla Massoneria in una loggia dipendente dal Grande Oriente di Francia con il grado di Apprendista.
Ora dobbiamo fare un o indietro e vedere come si era generato in Europa il mito Garibaldi.
La rivoluzione industriale aveva fatto nascere una classe borghese istruita e curiosa di conoscere cose lontane ed esotiche. Particolarmente in Inghilterra, Francia, Germania e Nord Italia era molto aumentata la circolazione di giornali e altri periodici che erano a caccia di sensazioni per soddisfare la fame inesauribile dei loro lettori per novità eccitanti. Il Sud America forniva un’eccezionale miniera di queste novità. L’Europa progressista parteggiava con ione alle avventure di tutti quelli che si battevano per la “libertà”. Come abbiamo visto, nel Rio Grande i fuoriusciti italiani pubblicavano O Povo e qualche copia arrivava in Europa e forniva la materia prima per notizie sensazionali. Le avventure di Garibaldi erano seguite con avidità a causa della sua immagine che abbiamo già descritto. A Montevideo gli italiani pubblicano Il Legionario italiano e anche qui Garibaldi è osannato con dei toni da telenovela: “Con Garibaldi si vince o si muore onorati!” oppure “Garibaldi scaccia da se con uno scrollo, come si fa delle mosche, i piombi nemici”¹⁴.
L’avventura che più affascina l’opinione pubblica europea è l’assedio di Montevideo. Le corrispondenze dall’Uruguay sono accompagnate da illustrazioni con i ritratti dei protagonisti, dei paesaggi, delle fortificazioni e delle divise dei combattenti. Il personaggio Garibaldi ha una parte di primo piano nel bene e nel male. A seconda dell’orientamento politico di chi scrive, è “il bandito genovese” o “il beau-ideal di un capo di truppe irregolari”. Gli opposti
schieramenti politici si scontrano sul suo nome e la sua immagine. Per i cattolico-reazionari era l’anticristo, “ladrone di terra e corsaro di mare, il terrore e l’abominazione dei buoni”, mentre Lord Howden dichiara alla Camera dei Lord che: “egli solo era disinteressato tra una folla di individui, i quali non cercavano che il loro personale ingrandimento … un uomo dotato di gran coraggio e di alto ingegno militare”¹⁵.
Molto importante per il mito Garibaldi sarà il romanziere se Alexandre Dumas. Colpito dall’epopea dell’assedio di Montevideo scrive Montevideo ou une nouvelle Troie ove i protagonisti sono descritti come personaggi omerici della guerra di Troia e Garibaldi è il più in vista: “Fisicamente Garibaldi è un uomo di 38 anni, di media statura, dalle membra proporzionate, con capelli biondi e occhi azzurri, naso fronte e mento greci vale a dire vicini quanto è possibile al vero modello della bellezza … Ha movimenti pieni di grazia; la voce, d’una dolcezza senza limiti, ricorda un canto … ma pronunciate davanti a lui le parole ‘indipendenza’ e ‘Italia’ ed eccolo risvegliarsi come un vulcano, gettare fiamme ed eruttare lava. … Al momento dell’azione afferra la prima spada a portata di mano, butta il fodero e si scaglia contro il nemico … Signori giornalisti che avete trattato Garibaldi da capitano di ventura, scrivete a Montevideo … e apprenderete che in questa repubblica di cui voi, repubblicani, patrocinate l’abbandono, nessun uomo è mai stato stimato tanto universalmente”¹ .
Un po’ esagerato e anche un po’ falso, ma questo è il mito.
I patrioti italiani sono alla disperata ricerca di un eroe. Nel 1843 Gioberti pubblica Del primato morale e civile degli italiani, una chiara testimonianza del senso d’inferiorità degli italiani nel confronto con le altre nazioni. Mazzini s’interessa a questo suo adepto e fa stampare in se una difesa di Garibaldi e dei suoi legionari su di un opuscolo da distribuire in Francia ove erano state divulgate notizie non lusinghiere. Infatti, a Montevideo c’era anche una Legione se e naturalmente questo generava polemiche e rivalità tra le due nazionalità. Nel 1846 a Firenze viene lanciata una sottoscrizione per regalare una
spada d’onore a Garibaldi; dopo pochi mesi è pronta e Garibaldi invia una lettera di ringraziamento. Gli sarà consegnata al suo arrivo in Italia.
Questa era la situazione di Garibaldi a Montevideo e del suo mito in Europa quando qualcosa inizia a muoversi in Italia e la sua vita prenderà una svolta inaspettata che lo proietterà a diventare l’Eroe che oggi conosciamo.
Descriviamo questi nuovi sviluppi nel prossimo capitolo.
¹ Giuseppe Garibaldi, Memorie (Milano: Rizzoli, 1982), d’ora innanzi metteremo in corsivo le citazioni prese da questo libro senza ripeterlo, per le citazioni prese da altri libri, metteremo nelle note la fonte.
² Max Gallo, Garibaldi, (Milano, Rusconi Libri, 1982) pag.88
³ Denis Mack Smith, Garibaldi (Milano: Laterza, 1956) pag.16
⁴ sco Carrano, I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Giuseppe Garibaldi (Torino, Unione Tipografica Editrice, 1860) pag. 35. Abbiamo dovuto consultare questa pubblicazione perché questa frase è stata censurata nelle Memorie della BUR, cosa molto scorretta.
⁵ Anita era già morta quando scriveva queste memorie.
Alfonso Scirocco, Garibaldi (Bari: Laterza, 2001) pag.68
⁷ sco Carrano, I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Giuseppe Garibaldi (Torino, Unione Tipografico Editrice, 1860) pag. 84.
⁸ Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano, Rizzoli Editore, 1962) pag.132
Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.204, da Garibaldi in South America: a new Document
¹ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.127
¹¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.27
¹² Giuseppe Garibaldi, Clelia, (Roma: Bariletti Editori, 1990) pag.250
¹³ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.121
¹⁴ sco Carrano, I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Giuseppe Garibaldi (Torino, Unione Tipografico Editrice, 1860) pag. 88,89.
¹⁵ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.129
¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.201,203
Italia
Dobbiamo ora esaminare la situazione dell’Europa alla vigila dei moti rivoluzionari del 1848 e in particolare vedere come in Italia e in Germania si sia evoluto un sentimento nazionalista dal quale avranno origine nel secolo successivo i due primi regimi nazionalsocialisti della storia.
Le armate di Napoleone avevano invaso Italia e Germania per portare anche a quei popoli i sacri principi dell’89: libertà, uguaglianza e fraternità. Portarono di fatto una nuova struttura della società, una società cosiddetta borghese, che mise fine al feudalesimo e avviò l’Europa verso lo stato moderno ma di libertà, uguaglianza o fraternità neanche l’ombra. Portarono inoltre con se il nazionalismo ovvero la fede nella patria che è l’opposto dell’amore per la propria terra. Accadde che popoli italiani e tedeschi furono associati all’impero se per obbligarli a partecipare alle campagne napoleoniche e per dare un “posto” da re a tutti i parenti di Napoleone, fratelli, sorelle, figliastri, cugini, cognati nel più puro spirito feudale e nel totale disprezzo per la volontà dei popoli. Per la Germania l’avventura napoleonica sarà un disastro a causa della sua posizione al centro dell’Europa: per 15 anni gli eserciti in lotta percorrono in lungo e in largo il paese devastando, distruggendo e uccidendo. Napoleone esigeva la coscrizione obbligatoria ai paesi vassalli dell’impero per poi seminare di ossa tedesche i campi di battaglia. La campagna di Russia fu il disastro peggiore perché solamente la metà della fanteria e un terzo della cavalleria erano si, tutti gli altri provenivano dai paesi “alleati” per la maggior parte tedeschi. Il novanta per cento degli arruolati non tornerà a casa, un olocausto mostruoso.
Per l’Italia la cosa fu un po’ meno drammatica perché non si trovava al centro della lotta, comunque sangue italiano fu sparso dalla Spagna alla Croazia per schiacciare i moti popolari antinapoleonici e, in Russia, su 27.000 soldati arruolati a forza nella Grande Armata ne tornarono a casa solamente 1.000.
La pressione fiscale era insopportabile, le guerre continue provocate dalle ambizioni di quel megalomane esigevano un sacrificio senza fine che obbligava i governi a spremere il popolo senza pietà; un disastro economico per tutti gli europei. Alla fine dell’avventura napoleonica sia Germania che Italia si trovarono in miseria. Quando giunse a Milano la notizia della sconfitta definitiva di Napoleone una folla inferocita entrò in casa di Giuseppe Prina, il ministro delle finanze del Regno d’Italia, lo gettò dalla finestra e lo linciò sul selciato.
In Germania tutto questo aveva fatto nascere un forte risentimento contro i si e un apionato amore per la nazione tedesca oppressa. Declamava un poeta: “Unanimità di cuori sia la nostra Chiesa, odio contro i si la nostra religione, libertà e patria i nostri santi, che preghiamo incessantemente!”¹⁷.
Nel 1806 circola in Germania un opuscolo, La più profonda umiliazione della Germania, e un libraio che lo vendeva viene denunciato ai si, lui si rifiuta di rivelare l’autore dell’opuscolo e viene fucilato per ordine di Napoleone. Un monumento fu poi eretto a suo nome sul luogo della fucilazione. Cento anni dopo un giovane Adolf Hitler visita il monumento e poi scriverà nel suo Mein Kampf: “Più di cento anni fa questo posto sconosciuto fu la scena di una tragica calamità che ha coinvolto tutta la nazione tedesca e che sarà ricordato per sempre”¹⁸.
Al termine delle guerre napoleoniche era divenuto chiaro a tutti i piccoli popoli che se non fossero riusciti a unirsi per costituire uno stato-nazione grande abbastanza da resistere alle aggressioni dei grandi imperi il loro futuro sarebbe stato un futuro di oppressione e miseria. Questa necessità era anche esasperata dal dilagare di sentimenti nazionalisti in tutti i paesi e in tutte le classi sociali europee che avrebbe reso il futuro dei piccoli popoli ancora più precario. Era divenuto imperativo unirsi in uno stato-nazione.
Il nazionalismo giacobino, il disastro napoleonico e la diffusione della idea romantica di “Popolo” fornirono alle opinioni pubbliche di Germania e Padania
il catalizzatore che riuscirà a dare la forza e la determinazione per compiere una cosa che non era riuscita in mille anni: costruire uno stato tedesco e italiano.
E’ indispensabile comprendere questa situazione se si vuole capire la determinazione a sacrificare la propria vita (e a uccidere) che conquisterà i patrioti padani e li porterà a costruire un regno d’Italia anche contro i naturali desideri dei popoli che abitavano la penisola. Questa motivazione è espressa chiaramente nell’inno nazionale: Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popoli, perché siam divisi. Raccolgaci un'unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l'ora suonò.
Gli storici anti unitari oggi tendono a presentare i patrioti italiani come dei fanatici giacobini drogati di nazionalismo fino a ignorare la volontà dei popoli schiacciandoli a qualunque costo in uno stato unitario.
Questa affermazione è vera per Garibaldi che, come abbiamo visto nelle prime pagine, non ci dà alcuna motivazione razionale del suo patriottismo. Infatti quella che lui ci fornisce è chiaramente una motivazione ideologica; tutta la sua azione sarà guidata da questa sua “religiosità”. Noi però dobbiamo chiarire che, anche se Garibaldi era uno squilibrato, le motivazioni per uno stato unitario corrispondevano a una necessità reale, immediata e drammatica che qualunque persona sensata avrebbe approvato.
La formazione degli stati tedesco e italiano avverranno con modalità molto diverse perché diversissima era la loro situazione.
In Germania esisteva da mille anni un Sacro Romano Impero della Nazione Germanica e questa idea di appartenere a una nazione era ben diffusa tra tutto il popolo anche se tutti erano fedeli sudditi degli stati in cui era divisa la nazione. In Italia non era mai esistita una nazione o un popolo che si potesse dire italiano,
per questo motivo il primo tentativo di rivolta nel ’48 inizia con una specie di alleanza tra gli stati per costituire una qualche federazione ma questa alleanza si sfasciò subito e quindi il Piemonte prese l’iniziativa di unire tutti gli stati della penisola con varie guerre di conquista che produssero uno stato centralista, opprimente e reazionario perché ora un nazionalismo ottuso è la molla ideologica che guida i “liberatori”. Così il nazionalismo trasformerà l’esigenza di creare uno stato-nazione per resistere alle aggressioni in un regno che farà solamente guerre di aggressione senza essere mai attaccato da nessuno.
La potenza del nazionalismo è tale che i patrioti si inventarono una nazione che non esisteva e questa loro lotta la chiamarono Risorgimento che era un’ assurdità perché non era mai esistita una entità statale italiana e quindi non c’era nulla da far risorgere. Eppure questa idea, il nazionalismo italiano, conquisterà una larga parte degli abitanti la penisola anche se con forti differenze tra le varie regioni.
Nasce così un uomo nuovo: l’italiano.
Ora possiamo tornare alla nostra storia.
Nel 1846 sale al soglio pontificio Pio IX e dà il via a iniziative progressiste senza rendersi conto delle relative implicazioni. Un po’ tutti i sovrani italiani lo seguono, concedono costituzioni e si parla di una federazione italiana con unione doganale; la stessa cosa che stava succedendo in Germania. L’Impero Austriaco punta i piedi e scoppia un ‘48. La città di Milano si solleva e il re Carlo Alberto, con un’astuta mossa di sciacallaggio, si fa avanti per proteggere la rivoluzione. Adotta il tricolore e attacca l’Impero per annettersi la Lombardia.
Garibaldi a Montevideo si eccita immediatamente. Il suo cuore era sempre rimasto sul suolo patrio; le guerre sud americane erano solamente un surrogato della sua missione di redenzione della patria. Scrive a Pio IX e al Granduca di
Toscana per mettersi al loro servizio. Lui per la Patria avrebbe dato la vita; sicuramente poteva sacrificare il suo repubblicanesimo o il suo anticlericalismo. Scrive anche a Mazzini e a tutti quelli che potrebbero fargli avere un posto nella lotta per la redenzione.
Nessuno gli risponde e allora decide di fare una colletta a Montevideo per il viaggio di ritorno in Italia. In effetti, parte senza una meta e senza sapere cosa sarà di lui. Per il Regno Sardo lui era ancora un condannato a morte. Si capisce chiaramente che non ne poteva più di vivere in esilio e in un paese che non lo voleva. Scrive a Medici che era stato mandato avanti: “Terrai presente soprattutto che scopo nostro è di recarci in patria non per contrariare l’andamento attuale delle cose, e i governi che v’acconsentano, ma per accomunarci ai buoni, e d’accordo con essi andare innanzi per il meglio del paese, ma che noi preferiremmo lanciarci ove una via ci fosse aperta ad agire contro il Tedesco, contro cui devono esser rivolte senza tregua le ire di tutti.”¹ . In parole povere voleva un posto in qualunque modo, nel grande dramma del Risorgimento.
Decide di sbarcare a Nizza ove può rivedere la madre e Anita che era stata mandata avanti. Qui viene a sapere che la città di Milano si era da poco liberata dagli imperiali e che Carlo Alberto aveva trovato il coraggio di dichiarare guerra all’Impero. Quindi: “ma si combatteva sul Mincio, e l’ozio era per noi delitto quando i fratelli nostri pugnavano contro lo straniero”. Decide di andare da Carlo Alberto, che era arrivato sul Mincio, per offrirgli la sua spada.
a per Genova e qui inizia una serie di delusioni che lo accompagneranno lungo tutta la sua avventura risorgimentale: “Il popolo di Genova ci accolse, palpitante di gioia e di affetto; le autorità, colla freddezza di coscienza mal sicura; e preludiarono in quella serie di smorfie e temporeggiamenti, che ci accompagnarono nel nostro paese, ovunque ritrovavansi i patteggianti addetti alle idee di mezzo, trascinati al libero reggimento, più dalla paura del popolo che dalla fede e dall’indole dell’anima per il miglioramento umano”.
L’accoglienza del “popolo di Genova” fu senz’altro entusiasta considerando che, poco dopo, lo elessero deputato al Parlamento di Torino con ben 18 voti senza che lui si fosse neanche candidato. Allora solamente l’1% della popolazione aveva diritto al voto; era quindi facile ingannarsi sulla reale consistenza della propria popolarità.
Raccoglie alcuni volontari liguri che sommati ai 63 legionari che lo avevano seguito da Montevideo portavano la consistenza delle sue truppe a 150 elementi. Così si presenta al re, con la sua condanna a morte ancora in vigore: “Lo vidi; conobbi diffidenza nell’accogliermi; e deplorai, nelle titubanze ed incertezze di quell’uomo, il destino male affidato della nostra povera patria.“.
Il re rifiuta il suo aiuto e lo consiglia di andare a Venezia o a Milano ove, forse, lo avrebbero accettato. Così scrive il re al suo ministro della guerra: “m’affretto ad informarvi d’aver concesso oggi udienza al celebre generale Garibaldi, venuto dall’America ed arrivato a Genova, ove ha lasciato sessanta dei suoi discepoli, che m’ha offerto insieme con la sua persona. I precedenti di questi signori, e specialmente del sedicente generale, il suo famoso proclama repubblicano, ci rendono totalmente impossibile accettarli nell’esercito, e soprattutto nominare Garibaldi generale; se fosse questione di guerra marittima potremmo impiegarlo come capo di corsari, ma, altrimenti, sarebbe un disonorare l’esercito. Penso che verrà a Torino … Il meglio sarebbe che se ne andasse altrove, e per incoraggiarlo a questo, lui e i suoi prodi, si potrebbe forse dar loro un sussidio, perché se ne vadano via”² .
Inizia a questo punto a vagabondare alla ricerca, frustrante, di un lavoro.
Anche a Milano cercano di scaricarlo ma alla fine gli offrono il grado di generale di brigata col compito di organizzare un corpo di volontari. Non ci sono risorse quindi sono equipaggiati con divise lasciate dagli austriaci in città. Si rende conto che non lo vogliono: “e respirai giubilante, il giorno in cui sortivo dalla capitale della Lombardia, diretto su Bergamo con un pugno di gente nuda, e mal
armata, un’altra volta per organizzare, destino niente adeguato all’indole mia, ed alle scarse mie cognizioni di teorie militari”. Lui sa di essere un leader e un trascinatore, la disciplina e l’organizzazione lo annoiano ma troverà sempre qualcuno a cui demandare queste incombenze.
A Monza gli giunge la notizia della sconfitta dei piemontesi quindi dell’armistizio e della fuga del re da Milano travestito da monaco. La città e Garibaldi erano soli di fronte all’esercito imperiale: “Armistizio, capitolazione, fuga, furon notizie che ci colpiron come fulmine l’una dopo l’altra; e con esse, la paura e la demoralizzazione, tra popolo, nelle fila e dovunque. Certi codardi, che sventuratamente trovavansi tra la mia gente, abbandonarono i fucili sulla stessa piazza di Monza, e cominciarono a fuggire in tutte le direzioni”. Si ritira verso Como per “far la guerra di bande, se altro non si poteva”; lui non ha alcuna intenzione di cessare la lotta.
Lungo la strada si unisce a loro Mazzini con una banda dei suoi ma lui è diretto in Svizzera ove è al sicuro dagli austriaci e da dove può proseguire per l’Inghilterra. “A Milano io avevo commesso l’errore, che Mazzini mai mi ha perdonato, di suggerirgli non esser bene di trattenere una quantità di giovani colla promessa di poter proclamare la repubblica, mentre esercito e volontari combattevano gli austriaci”. A Milano aveva incontrato Mazzini ma si trattò piuttosto di uno scontro. Garibaldi non voleva che Mazzini insistesse sull’idea di repubblica dato che stavano combattendo a fianco del re di Sardegna. Ma Mazzini era un ideologo irriducibile mentre Garibaldi voleva fare l’Italia in ogni modo e si rendeva conto che solo con la monarchia sabauda c’era una qualche possibilità. La frattura tra i due sarà totale e Mazzini resterà escluso dal progetto risorgimentale.
E’ rimasto solo con pochi uomini: ”Pochi giorni vagammo per quelle montagne, raccogliendo le armi dei nostri disertori, caricandole su carri requisiti, che marciavano colla colonna … e somigliavamo piuttosto ad una carovana di beduini, che a gente disposta a combattere per la sua terra”.
Quando viene a conoscenza dei termini dell’armistizio firmato dal re di Sardegna esplode e pubblica un proclama ove dichiara che continuerà la guerra da solo e accusa Carlo Alberto di viltà: “Se il re di Sardegna ha una corona, che conserva a forza di colpe e di viltà, io ed i miei compagni non vogliamo conservare con infamia la nostra vita”²¹. E’ un delirio, il re prima gli ordina di lasciare la Lombardia, poi che sia arrestato ma lui non si dà per vinto. Farà vedere lui al mondo di che stoffa sono fatti gli italiani!
Ora dobbiamo leggere un’altra testimonianza, è il Giornale ufficiale del Regno di Sardegna, n.21 del 17 agosto 1848: “Il generale Garibaldi ritiratosi a Castelletto sul Ticino con 1.300 uomini si mosse repentinamente di colà la mattina del 14 conducendo seco in ostaggio i due fratelli Minella e certo Barberis, siccome quelli che avevano voce di partigiani dell’Austria, andò ad Arona vi trattenne tutte le barche che vi stavano ancorate, quelle che vi giungevano dalla opposta sponda lombarda, e i due piroscafi, ed impose alla città una contribuzione di lire 100, di 20 sacchi di riso, tre di avena, e 1.285 razioni di pane e partiva a quanto pare per continuare le ostilità contro l’Austria, lasciando gravi apprensioni del suo ritorno. Partendo lasciò bensì in libertà dietro le calde istanze di alcune persone l’ingegnere Barberis, ma trasse pur seco i due Minella summentovati ed un tal Guenzi da lui arrestato in Arona, a nulla giovando l’intervento dell’avvocato Brofferio che colà trovavasi. Si dice poi che sbarcato a Luino sulla sponda lombarda vi fece fucilare contro ogni legge di umanità i tre ostaggi suddetti, e quindi batté un corpo di tre o quattrocento austriaci. Intanto l’amministrazione civica di Arona si richiamava al governo per essere tutelata da simili violenze; ed il governo del Re, sia per assicurare le popolazioni, sia per mantenere la disciplina così gravemente offesa, sia finalmente per non rendersi complice di siffatta violazione dei patti di armistizio fu costretto a provvedere perché la colonna Garibaldi non potesse rientrare nel territorio piemontese”²².
Da Luino a a Varese ove si fa dare una lista di cittadini ricchi e gli chiede 80.000 franchi. Questi si rifiutano, li fa arrestare, quindi prende un contadino qualunque e lo fa fucilare. I ricchi pagano. In Sud America questo era normale. Lui aveva deciso di fare la guerra all’Austria e non poteva farla senza soldi. In fondo lui ci metteva la sua vita e a loro aveva chiesto soltanto dei soldi, maledizione!
Così ricorda quei giorni nelle sue Memorie: “Fu pure commovente spettacolo la marcia nostra, lunghesso la costa occidentale del magnifico lago … Scorgevansi quelle bellissime nostre donne, sporgenti dai balconi delle case, con quei volti graziosissimi, così animate come se avessero voluto volare per raggiungere i prodi che non disperavano di strappare all’oppressore i focolari loro. Noi rispondevamo agli evviva degli amati concittadini ed erimo orgogliosi certamente del loro plauso e della risoluzione nostra.”. Forse ci credeva per davvero.
Intanto gli austriaci hanno ripreso Milano, ora possono dedicarsi a lui e cercano di stringerlo in una morsa.
Sono momenti difficili ma lui si muove in continuazione e riesce sempre a sfuggire agli inseguitori: “Era necessario moversi, e cambiar di posizione quasi ogni notte per ingannare i nemici, che per sventura d’Italia, massime in quei tempi, trovavan sempre una massa di traditori disposti a far loro la spia, mentre per noi, anche con pugni d’oro, era difficile sapere esattamente del nemico. Qui facevo le prime esperienze del poco affetto della gente della campagna per la causa nazionale. Sia per esser essa creatura e pasto di preti, sia per esser generalmente nemica dei propri padroni”.
Per un paio di settimane gioca a nascondino con gli austriaci poi decide di abbandonare il campo; gli restano poche decine di fedeli e il cerchio si sta stringendo sempre più. Garibaldi si traveste da contadino e fugge in Svizzera, erano rimasti in 30.
Termina così la sua partecipazione alla prima guerra d’indipendenza. Era l’agosto del 1848. Attraverso la Francia torna a Nizza ove resta pochi giorni, indisturbato dalla polizia del Regno. Questo è sorprendente perché era ancora un condannato a morte, aveva pubblicamente insultato il re, aveva disobbedito,
aveva fucilato alcuni cittadini piemontesi e lombardi, aveva continuato le ostilità in spregio alle clausole dell’armistizio, aveva saccheggiato e derubato e quindi ce ne era abbastanza per un’altra condanna a morte. E invece, nulla, il governo piemontese non reagisce e lo lascia libero in casa della mamma a curarsi una brutta febbre malarica. Italiani!
A questo punto ci dobbiamo fermare e fare una serie di riflessioni su questi ultimi avvenimenti.
Come abbiamo visto, il mito Garibaldi era stato iniziato dalla stampa europea che aveva creato un personaggio parzialmente reale perché aveva rimosso totalmente l’elemento di follia criminale e sanguinaria delle sue guerre in Sud America. Questo fenomeno riguarda esclusivamente la buona borghesia e nobiltà perché solo una minoranza della popolazione era alfabetizzata e, comunque, quelli che dovevano faticare per vivere non avevano alcun interesse per gli “eroi” del Sud America. Non solo, le guerre napoleoniche avevano richiesto un mostruoso contributo in termini di vite umane e distruzioni che era stato sopportato principalmente dalle classi popolari e queste non volevano più saperne di giacobini, patrioti, o altro. In altri termini, il Romanticismo, con annesso nazionalismo, riguardava esclusivamente le classi abbienti che avevano il tempo e i soldi per leggere, cioè i padroni. Il popolo, quello reale, odiava Garibaldi e i suoi “liberatori”.
Questo per Garibaldi era comunque irrilevante perché solo l’1% dei cittadini aveva diritto al voto ed erano i padroni che gli davano i loro soldi (e i loro figli) per fare la guerra. Come scrive lui stesso, lui era perfettamente conscio “del poco affetto della gente della campagna per la causa nazionale”. La ragione di questo, secondo lui, è “esser essa (i contadini) creatura e pasto di preti” e “per esser generalmente nemica dei propri padroni” che parteggiavano per lui. E’ per questo che quando cerca di estorcere 80.000 franchi ai cittadini ricchi di Varese non fucila uno di loro, che aveva arrestato, ma fa fucilare un contadino che non c’entrava niente. I ricchi alla fine pagano lo stesso, bontà loro.
Questa problematica si ripeterà per tutta la sua avventura risorgimentale. Lui è talmente scollato dalla realtà che lungo tutte le sue Memorie ci parla di folle plaudenti che gli daranno sempre l’illusione di esser amato dal popolo. Un fenomeno non molto diverso dalle folle oceaniche che illuderanno Mussolini sulla reale consistenza della sua popolarità. Si illude colui che vuole farsi illudere.
Un altro spunto di riflessione ci viene dall’accoglienza che riceve al suo arrivo a Genova. “Il popolo di Genova ci accolse, palpitante di gioia e di affetto” è l’1% che lo ha eletto al Parlamento mentre “le autorità, colla freddezza di coscienza mal sicura”. Questi sono i responsabili della città e ovviamente non si sentono a loro agio nel ricevere un condannato a morte e non condividono l’ascetismo e la dedizione di Garibaldi per la “causa santa”. Per loro dover fuggire abbandonando la famiglia e il lavoro in caso di sconfitta, è una prospettiva che si affronta con una certa titubanza. Si può percepire nelle sue Memorie il disprezzo che ha per questi “patteggianti addetti alle idee di mezzo” che si dicevano patrioti ma che non volevano rischiare. Questo disprezzo lo trasmetterà ai suoi garibaldini che affronteranno le sue (di Garibaldi) avventure con un motto che ancora non è ufficiale ma lo diventerà: “me ne frego!”.
Dobbiamo anche notare che lui non si presenterà mai in questo Parlamento ove è stato eletto. Sarà questo tipico di Garibaldi che pur dichiarandosi repubblicano e democratico avrà un totale disinteresse per la vita parlamentare; un disinteresse che si trasformerà col tempo in antipatia e disprezzo. Lui era un uomo di azione e aveva un’istintiva diffidenza per i politicanti che combattono con le parole e sono necessariamente obbligati al compromesso.
Il re Carlo Alberto coglie nel segno quando definisce i garibaldini “i suoi discepoli” quasi si tratti di una setta religiosa. Un aristocratico di antica famiglia come lui non può non disprezzare un bandito sud americano che gli si presenta davanti impunemente nonostante sia un condannato a morte. Lo stesso si ripete a Milano e altrove. C’è una chiara dicotomia tra il suo “popolo” e la classe dirigente (militare o civile) che necessariamente diffida di lui e dei suoi metodi
che ovviamente non può condividere ma che deve tollerare date le circostanze precarie in cui si trova. Tollerano il suo delirio quando dichiara guerra da solo all’Impero e insulta il re che si è arreso. Tollerano i suoi metodi “nazisti” che sono di fatto accettati dalle autorità, prima tra tutte il governo piemontese. Questo continuerà a ripetersi perché, come vedremo, Garibaldi aveva la fucilazione facile, molto facile. Come non bastasse, in quei giorni le autorità piemontesi avevano messo il figlio Menotti in un collegio a Racconigi a spese del contribuente!
Questa tolleranza da parte delle autorità, è un fenomeno di opportunismo perché pensano di poterlo utilizzare più tardi o è il sintomo della loro soggezione di fronte al Grande Sacerdote della Patria? O della loro soggezione di fronte alla sua popolarità? Infatti dobbiamo a questo punto constatare che la sua popolarità è alle stelle. E lo è proprio per questo suo delirio che lo spinge a combattere da solo contro l’Impero quando gli altri si sono arresi. In un colpo solo quest’uomo solitario ha sfidato l’Impero e il Regno Sardo e… la fa franca!
Eccolo tranquillo e sereno a casa dalla mamma a programmare altre avventure. Che gigante!
“Egli si era ormai imposto all’opinione generale come personalità di gran rilievo, in una qualche misura al di sopra della legge, uomo di cui la sincera abnegazione, il reale e capace coraggio, e perfino l’ostentazione senza dubbio splendevano fra gli inganni e i tradimenti del tempo. I suoi proclami, vi piaccia chiamarli lapidari o insipidi, colpivan nel segno e non suonavano del tutto falsi.’ Non chiedete vittoria che a Dio e al vostro ferro; non isperate ne’ vuoti simulacri, ma nella giustizia; non confidate che in voi. Chi vuole vincere, vince’”²³.
Chi scrive questo è senza dubbio un serissimo storico ma a noi sembra che gli sfuggano le implicazioni di queste affermazioni deliranti. Noi dobbiamo evidenziare che sono un tragico anticipo del Trionfo della Volontà. Inoltre, dobbiamo proseguire in questa analisi e dobbiamo far notare che quando
emetteva questi proclami, lui aveva sempre perso!
Appena guarito dalle sue febbri malariche, si guarda attorno per vedere dove può andare per proseguire la lotta. La sua analisi della situazione è abbastanza semplice: “Infine l’Italia tutta, piena d’entusiasmo e d’elementi d’azione, capaci non solo di resistere, ma d’assalire il nemico sul suo terreno, era ridotta alla prostrazione ed all’inerzia, per l’imbecillità e la perfidia de’ reggitori: re, dottori, e preti”.
In quel momento Venezia e Palermo erano in rivolta e resistevano, quindi: Palermo. Affitta un piroscafo se “e con 72 de’ vecchi e nuovi compagni” s’imbarca con destinazione Palermo. Fa scalo a Livorno, ma qui “l’entusiasmo del popolo” lo convince a muovere su Firenze. Qui non lo vogliono (appunto!): “In Firenze, accoglienza magnifica del popolo ma indifferenza e fame per parte del governo; e fui obbligato d’impegnare alcuni amici per alimentare la gente”. Infatti il primo ministro del Granducato scrive: “Sono un diluvio di cavallette. Consideriamoli come una piaga d’Egitto e si operi con tutti i mezzi ove presto ino e contaminino meno luoghi che sia possibile”²⁴.
A questo punto inizia a girare per l’Italia centrale come una scheggia impazzita. Come lui ci dice, nessuno cercava di fermarlo ma nessuno lo voleva. Da Firenze a a Bologna poi attraversa la Romagna, le Marche, l’Umbria, la Toscana e il Lazio, senza rifornimenti affidabili, d’inverno, con la fame e il freddo; i suoi garibaldini lo seguivano e crescevano di numero. “Erimo in novembre. Valeva veramente la pena venire dall’America meridionale per combattere le nevi dell’Appennino. I governi italiani … non erano stati capaci di dare un cappotto ai poveri e prodi miei compagni. Era lamentevole cosa il vedere quei bravi giovani, in quella rigorosa stagione, nei monti, vestiti la maggior parte di tela, alcuni di cenci e mancando del necessario alimento”. E a Ravenna: “Il municipio di Ravenna da cui eravamo mantenuti mi fece sentire che sarebbe meglio, divider tale carico con altre città, e perciò cambiare alternativamente di soggiorno”.
Quando a Dicembre il Papa fugge da Roma e viene dichiarata la Repubblica Romana Garibaldi va a Roma e finalmente trova un “lavoro”: partecipare con i suoi garibaldini alla difesa della repubblica. Ma anche qui non lo vogliono (ancora!): ”nello stesso tempo ricevetti l’ordine di marciare … al porto di Fermo onde guarnire quel punto, che nessuno minacciava e ciò mi provò non cessate le diffidenze dei nuovi governanti, e la volontà di questi di tenerci lontani da Roma”.
Perché nessuno voleva lui e i suoi discepoli che ora chiamava la Legione Italiana?
Lui così ce lo spiega: “Secondo i negromanti (i preti), noi erimo gente capaci d’ogni specie di violenze, sulle proprietà, sulle famiglie, scapestrati senza ombra di disciplina: e perciò temuto il nostro avvicinamento, come quello dei lupi o degli assassini. L’impressione, però, era sempre cambiata alla vista della bella gioventù educata che mi accompagnava, quasi tutto elemento cittadino e culto, poiché ben si conosce che tra i corpi volontari, ch’ebbi l’onore di comandare in Italia, l’elemento contadino è mancato sempre, per cura dei reverendi ministri della menzogna. I miei militi appartenevano quasi tutti a famiglie distinte delle diverse provincie italiane”.
Che differenza rispetto alle bande di delinquenti che comandava in Sud America.
Possibile che la gente avesse paura dei suoi solamente per le maldicenze dei preti? A questo punto ci dobbiamo chiedere: chi erano questi suoi legionari? “In quel periodo i suoi legionari erano un misto di idealisti volti a un’Italia unita e di rissosi. Pochi venivano dalla sua Liguria, e non c’era quasi nessun piemontese o meridionale. Una compagnia consisteva di ragazzi fra i dodici e i quindici anni. Probabilmente la maggior parte era gente che, per ragioni politiche o altrimenti, doveva condurre un’esistenza vagabonda, con nulla da perdere e tutto da guadagnare nella violenza”²⁵.
Un’altra testimonianza ci viene da una signora inglese, Jessie White Mario: “Sembravano una banda di selvaggi o di pellirosse. Davanti era Garibaldi,… Poi seguivano gli ufficiali con camicia rossa, laccio e scudiscio di pelle. E infine la truppa vestita in tutte le fogge ma con gran pistole e pugnali al cinturone, da cui pendevano regolarmente tacchini e galline. Ad ogni alt … i legionari si scatenavano nei dintorni alla razzia col laccio. Tornavano con vitelli, maiali, polli, che venivano squartati e arrostiti sul fuoco di legna. Poi Garibaldi tornava e tutti si mettevano in fila. Nessuno domandava dove si andava. L’obbedienza era pronta , la disciplina perfetta”² .
Come fare a mettere d’accordo queste testimonianze?
Il ’48 aveva stravolto le società di mezza Europa. La borghesia era scesa in strada e aveva fatto le barricate ma verso la fine dell’anno le dinastie conservatrici stavano riprendendo il controllo della situazione e migliaia di borghesi si trovarono di colpo dalla parte sbagliata. Qualcuno finì giustiziato, qualcuno finì in galera, molti emigrarono e tanti altri fuggirono in campagna alla ricerca di una sistemazione anche provvisoria nella speranza che poi le cose si sarebbero aggiustate o forse chissà. Era gente che non aveva nulla da perdere, a parte la propria vita, e Garibaldi gli offriva una compagnia ove potersi associare a gente come loro e tirare avanti in attesa di una soluzione migliore. Dove altro potevano andare? Per lui erano l’ideale perché erano gente istruita che avrebbe sopportato grandi sacrifici e si sarebbe battuta col coraggio della disperazione. E così fecero.
“In Italia nel ’48 agirono circa 350 bande di volontari, formate per lo più da borghesi, in grado di mantenersi, almeno in parte, a proprie spese, o aiutate dalle cospicue offerte di ricchi patrioti”²⁷. La Legione di Garibaldi era una di queste e chiaramente la più importante. Lui era un magnete, nel suo girovagare attraverso l’Appennino raccoglieva elementi di queste bande e le sue file s’ingrossavano nonostante la situazione disperata in cui si trovava. Questo perché lui sapeva tenerli uniti e disciplinati ma soprattutto perché gli dava un ideale che li avrebbe
trasformati da una banda di disperati, a un o dalla forca, in un esercito di “patrioti”. I più dotati, che lo seguiranno fino in fondo, diventeranno generali dell’Esercito Italiano o deputati in Parlamento.
A Roma, comunque, non li vogliono (ancora!) e gli ordinano di accamparsi a Rieti in numero non superiore a 500 perché il misero bilancio della Repubblica non poteva mantenerne di più. Quando i si sbarcano a Civitavecchia li chiamano alla difesa di Roma: erano più di 1.200.
Per comprendere gli avvenimenti dobbiamo dire subito che la Repubblica Romana di romano aveva solo il nome. I dirigenti, gli ispiratori, i promotori, a cominciare da Mazzini e Garibaldi, venivano quasi tutti dal nord Italia. Solo dopo si decideranno a nominare un romano, Rosselli, comandante in capo dell’esercito; Garibaldi lo considerava un incapace ma era romano. Chi erano i difensori della Repubblica?
Quando il Papa era fuggito una parte dell’esercito papalino rimase a Roma e si dichiarò disposto a combattere per la Repubblica, situazione a dir poco ambigua. Il nerbo delle forze era costituito dai volontari che erano piovuti a Roma dal centro-nord Italia appena saputo della nuova repubblica; c’erano anche molti stranieri. I garibaldini erano la parte più consistente perché si battevano bene. C’erano pochi romani, il governo repubblicano decise subito di non introdurre la coscrizione obbligatoria perché fortemente opposta dal popolo romano. Gli appelli alle armi da parte del Triunvirato furono ignorati; nell’ossario del Gianicolo, nell’elenco dei caduti del ’49 solo uno su dieci è romano. In quei giorni i romani approfittarono dell’assenza delle forze dell’ordine per dedicarsi a saccheggi di chiese e conventi, alle vendette e alla violenza. Tutto questo per i patrioti era assolutamente irrilevante, loro volevano la loro patria Italia che era impensabile senza Roma capitale. Quindi, che i romani lo volessero o meno, dovevano diventare italiani anche loro.
La Repubblica Romana fu un’impresa romantica e sconsiderata che non aveva
alcuna possibilità di riuscita. I patrioti pensavano che una repubblica romana avrebbe spinto tutte le genti della penisola a ribellarsi agli “oppressori” e unirsi a loro per fare l’Italia. Eppure loro sapevano perfettamente che questo era impossibile visto che il popolo (quello reale) li detestava. La borghesia romantica e patriottica era troppo debole e minoritaria per realizzare una simile impresa. Ma allora, perché lo facevano?
Mentre i volontari cercavano di arginare le truppe si gli “intellettuali” nell’Assemblea costituente redigevano una costituzione repubblicana che sarà approvata il giorno dell’entrata in città dei si, l’ultimo giorno di vita della repubblica. Garibaldi era stato eletto anche lui a questa Assemblea ma il suo lavoro era la guerra e non aveva molto da dire a proposito di costituzioni. A leggere le Memorie sembra che assero la maggior parte del tempo a litigare, cosa comprensibile considerando che la loro situazione era disperata. Per quanto riguarda la sua persona anche in questa occasione si ripete lo stesso fenomeno già osservato: anche se fu sconfitto, la fama di Garibaldi vola in tutta Europa ove i progressisti trattengono il fiato mentre osservano questa lotta impari e si struggono per il destino dei patrioti. La sua fama cresce a dismisura fino a diventare un’icona.
I garibaldini si battono bene fino all’ultimo, evidentemente è meglio morire da patrioti con l’arme in pugno che di fame e di freddo sull’Appennino. Invece: “Nei corpi di linea, cioè antichi papalini, alcuni s’eran ben comportati da principio; ora, vedendo andare a rompicollo ogni cosa, presentavano quell’aspetto inerte e di mala voglia, che precede la diffidenza od il tradimento: ciocché manifestavano gesuiticamente, secondo la scuola dei preti, colla resistenza ai servizi loro comandati”.
Quando arriva la fine il console degli Stati Uniti gli propone di fuggire su una nave americana ma Garibaldi ha altri progetti: “Io risposi a lui ringraziare il generoso rappresentante della grande repubblica; ma essere disposto di sortire da Roma con coloro che volevano seguirmi e tentare ancora la sorte del mio paese ch’io non credevo disperata” e decide di fuggire da Roma per continuare la
guerra sotto forma di guerriglia sull’Appennino o chissà dove; Garibaldi non si arrendeva mai, non per nulla è una leggenda.
Aveva proposto a Mazzini “di sortire da Roma marciare con tutte le forze disponibili, materiali e mezzi che non eran pochi, verso le forti posizioni degli Appennini. E non so perché ciò non si fece! … I rappresentanti del popolo, per la maggior parte giovani ed energici patrioti, amati nei loro dipartimenti, potevano inviarsi negli stessi, suscitare il patriottismo delle popolazioni, e così tentare ancora la fortuna”. Il problema era che le “popolazioni patriottiche” non esistevano e “le posizioni forti dell’Appennino” fanno pensare alla ridotta della Valtellina. Lui pensava che anche se sconfitti: “forse avrebbe potuto lasciar Roma fregiata dell’onore d’essere caduta l’ultima, cioè: dopo Venezia e l’Ungheria”. Questo è il culto del Supremo Sacrificio.
Questa fuga da Roma verso il nulla è una follia, Venezia e l’Ungheria resistevano ancora ma per poco e tutto il resto d’Italia era pacificato e si stava riadattando ai vecchi governi conservatori.
E’ il 2 luglio del ’49 quando esce da Roma inseguito dai si. Sono con lui circa 3-4.000 uomini tra cui anche alcuni soldati papalini che evidentemente si erano troppo compromessi. C’è anche Anita che l’ha raggiunto a Roma pochi giorni prima. E’ incinta del quarto figlio e nonostante le rimostranze di Garibaldi è decisa a seguirlo. Si taglia i capelli, si veste da uomo e salta a cavallo. Sembra che questo sia dovuto alla gelosia che la divora, non vuole lasciarlo solo.
Inizia così questa marcia disastrosa. La sua scollatura dalla realtà si accentua sempre più: “Sin qui le cose non andavano tanto male … e se lo spirito della generalità: popolo e militi, non fosse stato tanto depresso, avrei potuto per molto tempo fare una bella guerra”. La guerra era bella solo per lui e per i suoi discepoli. Per la gente delle campagne che lui attraversava era un dramma a cui doveva cercare di sopravvivere. Questa realtà s’impone di prepotenza perché questi italiani che anelavano a essere liberati da lui non esistevano: ”Io m’accorsi
ben presto che non c’era voglia di continuare nella gloriosa e magnifica impresa che la sorte porgeva davanti a noi … non solo, non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte come se avessero bisogno di coprire l’atto vergognoso colle sue tenebre, disertavano coloro che mi avean seguito da Roma … Per motivo delle frequenti diserzioni, rimanevano molte armi abbandonate, che si caricavano su muli, ma il numero strabocchevole delle stesse e la difficoltà di trasporto ci obbligarono a lasciarle colle munizioni alla discrezione di quelli abitanti che si credean migliori”.
La sua situazione è aggravata dal fatto che “io non poteva ottenere una guida in Italia, mentre gli austriaci ne abbondavano! Ciò serva agl’italiani che vanno a messa ed a confessarsi da quella bella roba nera che si chiaman scarafaggi!”.
Il colpo più duro glielo dà il suo fedelissimo colonnello Ignazio Bueno che lo aveva seguito dal Sud America; scappa con la cassa e si consegna agli austriaci che lo lasciano tornare in America libero e benestante.
Per capire fino a che punto il suo fascino personale poteva tenere insieme una banda di patrioti, idealisti, studenti, disoccupati e delinquenti, leggiamo il diario di uno dei suoi ufficiali, il tenente garibaldino Gustav von Hoffstetter, uno svizzero di Zurigo: “Le parole del generale hanno operato meraviglie. I soldati lo temono tanto quanto lo amano. Essi sanno benissimo che Garibaldi è capace di farli fucilare senza neppure perder tempo a togliersi il sigaro di bocca. Il generale conosce soltanto due punizioni: un biasimo e la morte … Durante la difesa di Roma avevo avuto molte occasioni di ammirare la fermezza di Garibaldi nel dirigere una battaglia e la rapidità e la precisione con cui sapeva cogliere i particolari ... e per queste cose era un maestro senza rivali in tutto il mondo. La sua energia era sconfinata … Io non ho mai visto un solo caso di disobbedienza, o anche di semplice trascuratezza nell’eseguire un suo ordine. Un soldato (un garibaldino) era stato catturato mentre rubava un pollo ad una donna di questo povero villaggio, ed è stato giustiziato oggi. Quando i colpi risuonarono, Garibaldi si alzò e disse ai soldati attoniti che non erano al corrente dell’accaduto: ‘Ecco come io punisco i ladri! Combattiamo per la libertà o non
siamo che dei predoni? Siamo qui per proteggere il popolo o per opprimerlo?’. La truppa gridò: ‘Evviva Garibaldi’ e sono certo che urlò più forte proprio chi aveva appena mangiato anche lui un pollo rubato”²⁸.
Nessun esercito avrebbe potuto fucilare un uomo per aver rubato un pollo senza rischiare un ammutinamento. Garibaldi poteva farlo.²
Vogliamo aggiungere un episodio che può essere considerato divertente: “Due prigionieri della cavalleria nostra, che andavano in esplorazione, furon catturati dai contadini del vescovo di Chiusi, da un vescovo, capite bene; e, se non erro, Chiusi ha ancora un vescovo oggi (1872). Io reclamai quei miei prigionieri, che certamente credevo in pericolo nelle ugna dei discendenti di Torquemada, e mi furon negati. Feci marciar allora, per rappresaglia, tutti i frati d’un convento alla testa della colonna, minacciando di farli fucilare, ma l’arcivescovo, duro, fece sapere che molta stoffa v’era in Italia per far dei frati, e non volle restituirmi i prigionieri. Credo poi di più: ch’egli desiderava l’eccidio di quei suoi soldati, per spacciarli poi alla canaglia come tanti santi martiri. Io sciolsi i frati allora”. Sembra una storia presa da Don Camillo.
Questa impresa senza senso si sta comunque per concludere, il tenente Hoffstetter ci fa sapere che “ogni giorno il nostro numero diminuiva e il morale s’indeboliva; persino gli ufficiali disertavano … Prima che Garibaldi congedasse formalmente i suoi soldati la colonna si era già disintegrata di fatto”.
A fine luglio è tallonato dagli austriaci e i suoi uomini sono sfiniti. Si rifugia a San Marino e scioglie il suo piccolo esercito che si era ridotto a un migliaio di uomini. La cosa migliore è disperdersi per le campagne e sperare di sfuggire al nemico. Lui comunque non si dà per vinto e decide di proseguire per Venezia, ancora sotto assedio, con 200 dei più fedeli (o dei più disperati). Un problema grosso è Anita che è gravemente malata, oltre ad essere incinta, e che non potrebbe affrontare i disagi di una simile avventura. Lui vuole che rimanga a San Marino a farsi curare e a partorire ma lei è irremovibile: “Quel cuore virile e
generoso si sdegnava a qualunque delle mie ammonizioni su tale assunto, e m’imponeva silenzio, colle parole: ‘Tu vuoi lasciarmi’”³ .
Escono da San Marino di notte sfuggendo agli austriaci; la notte successiva sono a Cesenatico e sorprendono tutto il paese nel sonno. Arrestano i pochi gendarmi che c’erano e fanno aprire le botteghe per prelevare tutto il cibo che può essergli necessario per arrivare a Venezia. Quindi obbligano i pescatori a salpare con i loro bragozzi ma il tempo è inclemente e fanno fatica a prendere il mare “con gente sonnolenta e di mala voglia, che si doveva spingere a piattonate, per farla muovere ed ottenerne il necessario”. Chissà quanto l’avranno odiato quei poveri pescatori! Appena al largo sono intercettati dalla flotta austriaca, la maggior parte dei bragozzi è portata dai pescatori stessi verso le navi austriache ove i garibaldini si devono arrendere ma Garibaldi è deciso a non arrendersi; obbliga i suoi ad arenarsi sulla spiaggia e fuggono a piedi attraverso le valli di Comacchio. Un colpo di fortuna straordinario li fa incontrare con un patriota romagnolo che li aiuta e li accompagna per portarli lontano dalle truppe che li stanno cercando ma Anita è allo stremo, non può più camminare e deve essere trasportata su di un carretto. Gli austriaci sono alle costole ed è chiaro che così non possono are inosservati. Si rifugiano in una fattoria ove Anita muore, o così sembra. Garibaldi deve proseguire nella fuga e Anita viene sepolta, malamente. Pochi giorni dopo il corpo è scoperto, è consegnato alla polizia che esegue l’autopsia e nel rapporto è dichiarato: morte per strangolamento.
Forse non era morta davvero e chi la doveva seppellire l’ha strangolata prima di affidarla frettolosamente alla sabbia. Forse è stato lo stesso Garibaldi che l’ha strangolata per non lasciarla viva in mano al nemico; in Sud America questa era una pratica “normale”. A noi non è dato di sapere la verità; comunque, così finisce, nelle paludi di Comacchio, questa creola brasiliana: una vita stravolta dal biondo eroe.
Ora sono rimasti in due, lui e un certo Leggero, un avventuriero sardo che lo aveva seguito da Montevideo. Lui vuole ancora tentare di raggiungere Venezia ma la sua guida si rifiuta; lo porteranno in Toscana e da lì, via mare, in Liguria.
Ci vorranno circa due mesi ed è un’impresa straordinaria. Per mezzo di una fitta rete di conoscenze tra persone fidate riescono a sfuggire alla caccia di austriaci, papalini e toscani. Alcune di queste persone, che rischiano la vita per lui, sono dei patrioti, ma la maggioranza è gente del popolo che li aiuta per quell’istintivo senso di solidarietà che le persone povere hanno verso i perseguitati. Il più decisivo è un parroco: “Il padre Giovanni Verità, dacché un perseguito dai preti per amore d’Italia, si avvicinava a coteste contrade, era il fatto suo di proteggerlo, di nutrirlo, e farlo condurre, o condurlo lui stesso al sicuro dalle persecuzioni”. Sono portati fino al golfo di Follonica e qui una barca li prende per portarli in Liguria al sicuro nel Regno di Sardegna. Appena arrivato Garibaldi scrive a Don Verità: “le due balle di seta sono giunte a salvamento”.
Anche se è arrivato in salvo non può considerarsi in pace. Il governo sardo era l’unico governo in Italia che non si era rimangiato la costituzione del ’48 ma aveva proibito l’ingresso nel regno a tutti i patrioti che avevano partecipato alla repubblica romana. Non poteva irritare l’Austria e ancor di più la Francia che aveva un qualche risentimento nei riguardi di Garibaldi. Ora non è più un parlamentare perché ci sono state nuove elezioni quindi viene arrestato per “proteggerlo” dalle manifestazioni di entusiasmo dei suoi ammiratori. Il generale Lamarmora che comanda la piazza di Genova chiede istruzioni al governo che risponde: “Si mandi in America se si accontenta. Gli si dia un sussidio. Se non si accontenta lo si tenga in arresto”³¹. Garibaldi accetta un sussidio per la sua famiglia e per lui la somma di 300 lire mensili con un anticipo di 1.200 lire. Lamarmora lo va a trovare e commenta: “Garibaldi non è un uomo comune, la sua fisionomia, comunque rozza, è molto espressiva. Parla poco e bene, ha molta penetrazione; sempre più mi persuado che s’è gettato nel partito repubblicano per battersi, e perché i suoi servigi erano stati rifiutati. Né lo credo repubblicano in principio. Fu un grave errore non servirsene. Occorrendo una nuova guerra è uomo da impiegare”³². E così sarà.
Lui sa di dover andar via ma chiede di poter rivedere sua madre e i figli; lo lasciano andare a Nizza. Saluta la madre e i figli: un figlio è in collegio a spese del contribuente piemontese, l’altro è presso un cugino e la figlia presso alcuni amici. Incomincia quindi a girare per il Mediterraneo sempre ospite di ricchi ammiratori, si parla di mandarlo in Uruguay ove la Guerra Grande era ancora in
corso ma alla fine si decide per l’America del nord. La scelta di andare in America del nord era una scelta obbligata perché in Europa e in Sud America nessuno lo voleva (ancora!). Alcuni suoi amici fanno partire una sottoscrizione per comprargli una nave con cui tornare a fare il marinaio e lo accompagnano a New York ove pensano di acquistare questa nave. Arriva a New York nell’estate del 1850.
Ha 43 anni, è vedovo con tre figli affidati alle cure del governo piemontese e di alcuni amici. Da un punto di vista finanziario non se la a male, un enorme miglioramento rispetto ai suoi anni in Sud America. Inoltre è talmente famoso che non ha problemi a trovare ospitalità nelle case di ricchi ammiratori; ovunque vada trova sempre gente più che disposta a tenerlo con sé per lunghi periodi di tempo e d’ora in poi i suoi ammiratori di tutto il mondo lo colmeranno di regali. L’immagine del povero emigrante in miseria costretto a umili lavori per sopravvivere è una sciocchezza patriottica. Senza alcun dubbio sarebbe potuto diventare un uomo se non ricco almeno benestante ma il suo disinteresse per il denaro e la sua cronica incapacità a gestirlo lo metteranno a volte in serie difficoltà finanziarie ma questo è solo per colpa sua. Ha deciso di riprendere il suo mestiere di marinaio e di fare il comandante di navi mercantili, un mestiere che gli riesce bene e può smorzare la sua sete di avventure ma non gli darà grandi guadagni perché, come lui ci ha già detto, “al commercio, io e Rossetti non erimo atti”.
Non possiamo a questo punto non riprendere in considerazione il fenomeno della sua popolarità. E’ un fenomeno difficile da comprendere perché anche quest’avventura della repubblica romana si conclude con un disastro. E’ vero che si è battuto bene, è vero che la sua fuga da Roma è stata un capolavoro di tattica di guerriglia, è vero che è riuscito a farla in barba a papalini, austriaci e toscani. Ma la repubblica romana è stata annientata e una gran parte di chi lo ha seguito ha pagato con la vita perché la percentuale di perdite tra i garibaldini è molto elevata. Inoltre, mentre nella prima guerra d’indipendenza erano partiti in 1.300 e alla fine si sono rifugiati in Svizzera in 30, ora sono partiti alla difesa di Roma in 1.200 e alla fine in Liguria sono arrivati in 2! In entrambi i casi le imprese in cui si è lanciato si sono concluse con un totale fallimento e lui si è dovuto travestire per mettersi in salvo. Che razza di eroe è questo?
E’ possibile che il mito Garibaldi sia soltanto la montatura di una borghesia drogata di Romanticismo?
A New York è un trionfo, il Daily Tribune lo riceve come: “l’uomo di fama mondiale, l’eroe di Montevideo e difensore di Roma”. La colonia d’italiani mette in piedi un comitato di benvenuto con coccarde tricolori e altro ma lui rifiuta queste acclamazioni e preferisce recitare la parte del perseguitato travagliato dalla nostalgia della sua terra. Rimane ospite di alcuni ammiratori italiani finché si rendono conto che le somme raccolte per comprargli una nave non sono sufficienti. Rinuncia a questo progetto e parte per una crociera di un paio di settimane in Centro America, poi inizia a fare qualche lavoretto per Meucci che aveva avviato una fabbrica di candele e poi… si annoia.
Un imprenditore e commerciante italiano a da New York e lamenta che si lasciasse “deperire un uomo che tanti servigi prestò e tanto onore ha acquistato al nome italiano … egli che la virtù decantata sui teatri mette in pratica si lascia perire nell’oblio, nella miseria; vergogna nostra!”³³. Quindi lo prende con se e se lo porta a Lima in Perù ove aveva degli interessi commerciali. La comunità italiana lo riceve con tutti gli onori e lui decide di fare gli esami per avere dalle autorità peruviane l’abilitazione al comando di una nave mercantile.
In questo periodo riesce a mettersi nei guai. A Lima c’era anche una consistente comunità se e dopo la faccenda della repubblica romana, c’era un po’ di astio tra le due comunità. Un giorno un se pubblica una lettera sul Correo de Lima ove dichiara che i garibaldini erano “eroi di paccottiglia”. Garibaldi va a casa sua e lo prende a bastonate! Accorrono altri si quindi altri italiani e scoppia una rissa. La polizia interviene ma viene respinta; alla fine deve intervenire la cavalleria per separare le due comunità. La cosa finisce in tribunale ma grazie all’intervento dei rispettivi consoli l’affare si sgonfia senza alcuno strascico giudiziario e Garibaldi può prendersi la sua brava patente peruviana. Riesce ad averla in pochi giorni grazie all’aiuto di un massone ed è intestata a: “Don Josè Garibaldi, natural de Gènova y ciudadano peruano”.
Con questa può partire per la Cina con un carico di guano al servizio di alcuni armatori italiani che avevano fatto buoni affari in Perù. Dalla Cina torna in Perù con un carico di “coolies”. Al suo arrivo l’armatore scrive ad un amico che Garibaldi: “m’ha sempre portati i Chinesi nel numero imbarcati e tutti grassi e in buona salute; perché li trattava come uomini e non come bestie”³⁴. Il commercio del guano era un’attività molto redditizia ma non si trovava sufficiente mano d’opera per estrarlo dalle isole del guano per cui le navi che lo portavano in Cina tornavano con un carico di coolies cinesi che erano una specie di manovalanza “usa e getta” perché le condizioni di lavoro erano così brutali che non sopravvivevano a lungo e quindi per ogni carico di guano che andava in Cina serviva un altro carico di coolies dalla Cina. La selezione di quei disgraziati iniziava durante il viaggio perché i comandanti delle navi non si facevano scrupolo di lucrare sul vitto della loro “merce” e molti morivano durante il viaggio. Il fatto che Garibaldi abbia trasportato tutti i suoi in buona salute è sicuramente un fatto eccezionale che meritava di essere menzionato in una lettera. Perché questi cinesi si offrivano per un simile lavoro? Perché in Cina erano arrivati all’ultimo livello di disperazione e in Perù avevano una qualche remota probabilità di sopravvivere a quel lavoro e di farsi una nuova vita. E’ stato notato che nelle sue Memorie Garibaldi specifica con precisione tutti i carichi trasportati durante il suo impiego come capitano ma non cita il carico trasportato in questo viaggio. Evidentemente si vergognava di aver dovuto partecipare ad un commercio che era considerato incivile dall’opinione pubblica progressista.
Sempre per lo stesso armatore trasporta un carico di rame a Boston, da Boston va a New York dall’agente dell’armatore e presenta il conto di quanto gli spetta ma sorgono dei problemi e non viene liquidato, l’affare si concluderà dopo anni di trattative. Offeso abbandona quell’armatore e per conto di un altro italiano porta un carico a Londra, quindi va a Newcastle per portare un carico di carbone a Genova. A Newcastle si viene a sapere del suo arrivo e viene lanciata una sottoscrizione per regalare “al glorioso difensore della repubblica romana” una spada, un telescopio e un diploma d’onore. In questo caso è importante notare che parteciparono alla sottoscrizione 1.047 operai. Come sappiamo il popolo contadino lo detestava, non così il proletariato industriale. Per loro era un eroe. Perché?
I proletari europei iniziavano a convertirsi al socialismo e quindi sentivano una certa affinità verso chi combatteva per “la libertà dei popoli oppressi”. Il popolo contadino italiano non era socialista, non si considerava oppresso se non dalla miseria e comunque non aveva alcuna intenzione di farsi liberare da Garibaldi. Il popolo degli ammiratori di Garibaldi si stava allargando ad altre classe sociali al di fuori dei ricchi borghesi e degli aristocratici progressisti. Un enorme o avanti verso la sua “beatificazione”.
Nel maggio del 1854 arriva a Genova. Eccolo di nuovo in Italia! Anche questa volta qualcosa si sta muovendo in Italia. Vittorio Emanuele II è il nuovo re e Cavour ha preso in mano le redini del regno di Sardegna, ha grandi ambizioni e Garibaldi avrà una sua parte perché Cavour intuisce che Garibaldi potrebbe rinunciare al suo repubblicanesimo e staccarsi da Mazzini. Gli fa sapere che se non provocherà guai potrà restare nel Regno.
Inizia ora una serie di anni che noi definiremmo felici ma per lui saranno anni grigi, anni di preparazione alla prossima guerra di cui non può fare a meno. Rimarrà tranquillo perché i mazziniani lo irriteranno ancora con le loro cospirazioni assurde e con le loro imprese fantozziane. Scoppia una polemica e Garibaldi scrive una lettera ai giornali con cui rompe definitivamente con Mazzini: “Siccome dal mio arrivo in Italia, or sono due volte ch’io odo il mio nome frammischiato a dei movimenti insurrezionali, ch’io non approvo, credo dover mio manifestarlo, e prevenire la gioventù nostra, sempre pronta ad affrontare i pericoli per la redenzione della patria, di non lasciarsi così facilmente trascinare dalle fallaci insinuazioni d’uomini ingannati o ingannatori, che spingendola a tentativi intempestivi, rovinano, od almeno screditano la nostra causa.”.³⁵ Cavour è felice.
In questi anni compra metà dell’isola di Caprera e viaggia in Inghilterra ove frequenta il bel mondo sempre corteggiato dalle signore dell’alta società. Si fidanza con una di queste. Lei gli compra una nave per guidare una spedizione che dovrebbe liberare alcuni patrioti rinchiusi dal Borbone nell’isola di Ponza
ma, grazie alla sua fortuna sfacciata, la nave affonda e lui deve rinunciare all’impresa. Se lo avesse fatto avrebbe fatto naufragare i progetti ambiziosi di Cavour che lo avrebbe di nuovo espulso dal regno escludendolo dai suoi progetti. La sua fidanzata non si scoraggia e gli compra un’altra nave con cui decide di divertirsi e di non provocare guai ma la nave prende fuoco e affonda. Così finisce la sua carriera di marinaio; non farà più il capitano di marina e d’ora in poi impiegherà il tempo libero dalle guerre a coltivare Caprera. Il fidanzamento non funziona perché Garibaldi è troppo “rustico” per adattarsi alla vita dell’alta società. Si fidanza ancora con la figlia di un banchiere tedesco, Speranza von Schwartz. Lei è ricca, elegante e bella ma ha già perso un marito per suicidio e un altro per divorzio. Anche con questa non funziona ma resterà ottimo amico con entrambe e loro faranno sempre del loro meglio per aiutarlo.
Mentre è impegnato in questi fidanzamenti si fa mandare da Nizza una serva. Gli mandano una servetta di 18 anni brutta e analfabeta ma … è inutile, poco dopo è incinta. Mentre è impegnato nella guerra del ’59 nasce una bambina che viene chiamata Anita. La von Schwartz se la prende con se per cercare di darle un’educazione che a Caprera non può avere; la prima fidanzata si era già presa il figlio Ricciotti in Inghilterra e lo ha messo in un buon collegio. Queste si che sono amiche! Era tempestato da lettere di ammiratori e ammiratrici, specialmente benestanti e potenti signore inglesi. Il fior fiore dell’Inghilterra che contava, smaniava per lui: “Non si esagera a dire che la causa del Risorgimento italiano divenne popolare in Inghilterra soprattutto grazie alla fascinosa popolarità di Garibaldi, il quale guadagnò in tal modo al suo paese un punto per nulla ufficiale e tuttavia di grande importanza politica … Ai loro occhi egli era l’eroe romantico di successo, che trattava le donne come fossero già emancipate e con una galanteria per nulla vittoriana.”³ .
A noi questa sembrerebbe una gran bella vita ma questo periodo di astinenza dalla guerra per lui è una tortura. Scrive a un amico di sentire raccapriccio “alla probabile idea di non maneggiar più un ferro od un fucile a pro dell’Italia”. Dato che ha deciso di fare l’agricoltore lo vuole fare con impegno e inizia a scrivere i Quaderni agricoli ove tiene la contabilità della sua azienda agricola e annota tutte le esperienze che sta facendo in questo nuovo lavoro ma non riesce a distrarsi dalla sua ossessione per l’Italia e quindi troviamo in mezzo alla sua
contabilità di ortaggi e bestiame, annotazioni del tipo: “Bisogna fare un’Italia avanti tutto. L’Italia è oggi composta dagli elementi seguenti: Piemonte, repubblicani, murattisti, Borbonici, papisti, toscani e altri piccoli elementi, questi elementi devono amalgamarsi al più forte o essere distrutti; non c’è via di mezzo! Il più forte degli elementi italiani io credo che sia il Piemonte, e consiglio di amalgamarsi a lui. Il potere, che deve dirigere l’Italia nell’ardua emancipazione dal giogo straniero, deve essere rigorosamente dittatorio”³⁷. A Cavour chiede che il re si dichiari dittatore e che prenda il comando supremo dell’esercito e del paese perché secondo lui: “La volontà nazionale ha già scelto il re come nostro duce supremo”³⁸. Evidentemente pensava di essere lui la nazione! Ma Cavour ha altre idee.
Si presenta a Genova alle elezioni del ’57 ma è sconfitto da un conservatore; in compenso è nominato vice presidente della Società Nazionale, una società che ha lo scopo di unire tutti i patrioti che, al di là delle loro convinzioni ideologiche, siano fedeli alla causa italiana e alla monarchia sabauda. I pezzi del mosaico che Cavour stava costruendo si stavano mettendo assieme. Aveva mandato a Parigi una sua cugina, la contessa di Castiglione, a prostituirsi all’imperatore Napoleone III per guadagnarlo alla causa italiana, “l’imbecille” abbocca e anche questo pezzo va a posto; ora devono solo aspettare che l’Austria aggredisca il Piemonte. Per far questo il re dichiara in Parlamento di non essere insensibile “al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi” e Garibaldi viene nominato Maggior Generale del corpo di volontari chiamato Cacciatori delle Alpi. L’entusiasmo dei patrioti è alle stelle e migliaia di volontari lombardi si precipitano in Piemonte per arruolarsi. “Dopo pochi giorni della mia permanenza a Torino, ove dovevo servire di richiamo ai volontari italiani, io m’accorsi subito con chi avevo a che fare, e cosa da me si voleva. Me ne addolorai; ma che fare. … Garibaldi dovea far capolino, comparire , e non comparire. Sapessero i volontari ch’egli si trovava a Torino per riunirli, ma nello stesso tempo, chiedendo a Garibaldi di nascondersi per non dar ombra alla diplomazia. Che condizione!“. Nei piani di Cavour Garibaldi doveva servire ad attirare in Piemonte i volontari per arruolarli nell’esercito e a provocare la reazione dell’Austria. A Garibaldi avrebbero poi dato gli scarti dei volontari, tanto in quanto forza combattente lui non sarebbe servito a gran che. Questo era anche dovuto al profondo risentimento che i militari piemontesi avevano nei confronti di Garibaldi e dei suoi discepoli. Infatti: “Una commissione d’arruolamento, istituita a Torino sceglieva la gioventù più forte e meglio conformata, dell’età da
18 a 26 anni per i corpi di linea. I troppo giovani, i troppo vecchi, o difettosi, ai corpi volontari”. Ma questo non lo può scoraggiare: “Comunque fosse, noi erimo lanciati alla liberazione della nostra Italia! Sogno di tutta la vita!... Io, e i miei giovani compagni, anelavano l’ora della pugna, come il fidanzato quella di congiungersi a colei ch’egli idolatra”.
Pochi mesi prima, aveva chiesto che venisse composto un inno per i suoi volontari, sarà l’Inno di Garibaldi:
“Si scopron le tombe / si levano i morti / i martiri nostri son tutti risorti”.
Qui dobbiamo notare che la resurrezione dei morti è un elemento fondamentale della dottrina cristiana. Il nazionalismo italiano si appropria di archetipi cristiani e assume connotati di misticismo religioso così estremi da superare qualunque altro nazionalismo europeo in termini di fanatismo e ottusità. Questo è necessario perché, considerata l’opposizione della Chiesa alle idee liberali e al Risorgimento, si deve produrre un misticismo abbastanza forte da superare nei cuori e nelle menti del popolo il dominio finora incontrastato della Chiesa.
Per questo il mito di Garibaldi è fondamentale perché: “La notorietà e l’eclat di Garibaldi furono un ingrediente essenziale nel guadagnare molta gente comune a una causa nazionale che sarebbe altrimenti sembrata remota e senza vantaggi, se pur la capivano. La formazione d’Italia risultò una vittoria degli intellettuali, dei liberali, delle classi medie … Non c’è dubbio che il prestigio di Garibaldi fra la gente ordinaria contribuì a nascondere quello che stava realmente accadendo finché fu troppo tardi per opporsi a esso”³ .
In queste poche parole è racchiuso il vizio di fondo del Risorgimento e del paese che ne nascerà. Pochi anni dopo questi avvenimenti gli abitanti della penisola si troveranno ad essere cittadini di uno stato che la maggioranza di loro non aveva
chiesto e che non voleva. Ma a quel punto sarà troppo tardi per tornare indietro.
Questo è il motivo per cui Garibaldi è il più popolare dei Padri della Patria.
Questo è il motivo per cui oggi molti italiani lo detestano.
Nell’aprile del ’59 l’Austria abbocca e attacca. E’ guerra, alleluia!
Le forze in campo sono 120.000 si e 60.000 piemontesi contro 170.000 austriaci, mentre Garibaldi ha 3.200 volontari; una forza irrilevante. “I volontari erano il solito miscuglio di idealisti e ciarlatani, cavallereschi entusiasti che combattevano fianco a fianco con reietti sociali. Molti erano studenti; alcuni cercavano piuttosto eccitazione, avventure, eroismo; la gran maggioranza meritava ormai veramente il nome di garibaldini, seguaci di un culto nuovo e crescente”⁴ .
Ai Cacciatori delle Alpi viene assegnata l’ala sinistra dello schieramento alleato quindi Garibaldi si trova ad operare nella stessa zona ove ha operato 10 anni prima, una zona che ora lui conosce bene. Entra in territorio lombardo ed emette un proclama: “Chi è capace di impugnare un’arma e non l’impugna è un traditore … L’Italia co’ suoi figli uniti e purgata dalla dominazione straniera ripiglierà il posto che la Provvidenza le assegnò tra le Nazioni”⁴¹. Ora, anche la Divina Provvidenza si sta interessando alle vicende italiane. Anche gli italiani avrebbero avuto il loro posto al sole: Dio lo vuole! I suoi Cacciatori si battono bene, a volte vincono a volte perdono, comunque nulla di decisivo o rilevante per il risultato della guerra. Sarà la battaglia di Solferino a decidere le sorti. I si ne uscirono vincitori ma ad un prezzo talmente alto che Napoleone III ebbe un ripensamento. Forse si era accorto di essersi lanciato in una guerra non utile alla Francia a causa della sua vanità, solleticata dai favori di una cortigiana. Si incontra con sco Giuseppe e concludono un armistizio. Il Veneto resta
all’Austria ed Emilia, Romagna e Toscana devono tornare ai vecchi sovrani.
Nella carriera di Garibaldi questo è un fatto eccezionale, per la prima volta in vita sua ha partecipato ad una guerra vittoriosa. Anche se il suo contributo è stato irrilevante finalmente è un vincitore! Come durante la guerra precedente anche durante questa guerra Garibaldi deve constatare che il popolo non parteggia per i patrioti: “poi, le gloriose battaglie hanno naturalmente poco interesse per gli indifferenti; e la gente della compagna, sinora almeno, è sempre stata indifferente alle pugne italiane, quando non è stata nemica nostra”.
In compenso se le sconfitte subite prima lo hanno reso popolare nel mondo ora che ha vinto diventa un dio. I giornalisti delle testate più importanti del mondo erano arrivati in Italia per osservare questa guerra, persino dalla Russia, e Garibaldi è il personaggio più affascinante. Ora è una leggenda in tutto il mondo.
Durante la guerra i patrioti hanno preso il potere in Emilia, Romagna e Toscana scacciando i relativi sovrani e hanno messo in piedi una Lega Militare per resistere al rientro dei sovrani; chiamano Garibaldi che accetta e va a Bologna. A fine luglio aveva congedato le sue truppe e aveva lasciato il servizio attivo di generale dell’esercito sardo per avere le mani libere. A Bologna si accorge di essere stato messo alle dipendenze del generale Fanti e rifiuta. Essendo a Bologna approfitta per fare una puntata a Comacchio ove raccoglie le ossa di Anita e ottiene il suo certificato di morte che gli consente di risposarsi.
In quei giorni stava pensando al matrimonio. La serva gli aveva appena dato una figlia che lui ha chiamato Anita e stava pensando che avrebbe anche potuto sposarla, inoltre aveva chiesto alla von Schwartz, per l’ennesima volta, di sposarlo. Lei era venuta a Comacchio assieme al di lui figlio Menotti, agli amici di Nizza col di lui figlio Ricciotti che tenevano in casa, per essere tutti assieme alla messa funebre che lui ha chiesto di celebrare in memoria di Anita.⁴² La von Schwartz declina l’offerta ma lui è in corrispondenza epistolare con un’altra amante, la contessina Giuseppina Raimondi (a Bologna aveva avuto una storia
con una vedova trentenne, Paolina Pepoli ma senza conseguenze). Con la Raimondi si erano incontrati tre mesi prima, in piena guerra mentre lui combatteva vicino a Como; lei aiuta i patrioti locali e gli ha portato un messaggio. E’ un colpo di fulmine (ancora!). Lei è la figlia di un piccolo nobile di Fino, ha 18 anni mentre lui ne ha 53. Il giorno dopo lui è ospite a casa del padre che è un patriota con ambizioni politiche; per quattro giorni le fa una corte intensa poi la deve lasciare per tornare dalle sue truppe che in qualche modo stanno combattendo senza il loro comandante. Restano in contatto epistolare.
A fine novembre lei gli scrive e lui si precipita a casa sua a Fino. “Nella notte del 3 lei, fino allora titubante, entra nella camera da letto dell’innamorato. E’ fatta! Una contusione al ginocchio del generale a Fino ritarda il matrimonio, celebrato il 24 gennaio 1860 nella cappella della villa, con Teresita damigella d’onore”⁴³.
Sembra che appena usciti dalla cappella un messaggero abbia portato a Garibaldi una lettera. Lui la legge, prende in disparte la moglie e le chiede spiegazioni. Lei conferma: era incinta ed aveva una relazione con un altro. Lui salta a cavallo e non si farà più vedere. Gli ci vorranno 20 anni per ottenere l’annullamento.
Nelle sue Memorie non è fatta alcuna menzione a questi affari personali.
Nei 6 mesi dopo la guerra, oltre che per i suoi affari personali, gira come una trottola tra Bologna, Firenze, Torino, Genova, ecc. perché vuole approfittare della vittoria e proseguire verso il sud, prendere possesso definitivo di Emilia, Romagna, Toscana, Marche e Umbria (a Roma ci sono ancora i si e quindi non si può) per mezzo di sommosse popolari (ancora!) sperando di avere l’appoggio dal governo piemontese. Questo governo è in confusione e lacerato da varie correnti, Cavour si è dimesso ma tornerà tra poco. Lui preme come un forsennato e lo prendono in giro mandandolo da tutte le parti.
“Quando era stato da Vittorio Emanuele, costui gli aveva lasciato capire che avrebbe potuto spingersi innanzi per conto suo a patto di assumersene la responsabilità e di esser pronto a vedersi ripudiare se si metteva nei guai”⁴⁴. Il re stava sfruttando Garibaldi perché, prima metteva in guardia i diplomatici stranieri contro i garibaldini che stavano per estendere la rivoluzione, poi si offriva di metterli sotto il suo controllo e bloccare lui la rivoluzione, occupando ovviamente i territori occupati da loro. Garibaldi sapeva benissimo di essere sfruttato, ma lui aveva fatto dell’Italia “culto e religione della mia vita intera”. “A Firenze non mi fu difficile capire che avevo da fare con gli stessi uomini, e si cominciò a parlarmi … Poverissimi furbi! Avrei dovuto forse accettar nulla e tornarmene alla vita privata: ma, come dissi prima, il paese era minacciato. E poi? Avevo io per costume di chiedere alcuna cosa, trattandosi d’una causa sì bella! Accettai dunque il comando della divisione Toscana”. Ricasoli, il dittatore del Granducato, non osava comunque licenziare Garibaldi e “aveva buone ragioni di temere che se il governo sfidava quell’idolo delle folle sarebbe caduto in ventiquattr’ore”⁴⁵.
Continua a sognare insurrezioni: “nell’Italia centrale, agli ultimi mesi del ’59, cento mila giovani si sarebbero serrati intorno a me, e con loro si volgeva, certo, favorevole la diplomazia europea; oppure coi soli trentamila allora riuniti nei Ducati e nelle Romagne potevasi decider in quindici giorni la sorte dell’Italia meridionale: fare infine, ciocché si fece coi Mille un’anno dopo“.
A settembre a Cremona lancia una sottoscrizione popolare per l’acquisto di un milione di fucili! E’ una quantità assurda, lui stesso sottoscrisse per 5.000 lire ma ne versò solo 1.000: era a corto di soldi. Ne saranno acquistati qualche migliaio e saranno messi al sicuro in depositi dell’esercito. Ad ottobre è a capo di truppe della Lega sulla frontiera marchigiana per un’invasione dello Stato Pontificio ma il re lo blocca. A novembre arrivano false notizie di un insurrezione nelle Marche e ordina alle truppe di attaccare. I comandanti in capo della Lega ordinano alle truppe di ignorarlo.
A dicembre “si combinò d’istituire una Società, che sotto il nome di ‘Nazione
armata’ accoglierebbe tutte le altre. Sin lì tutto andava perfettamente; e tutti gl’individui appartenenti alle differenti società, che si presentavano a me, aderivano all’idea della fusione, e se ne mostravano contenti”. Lui voleva riunire in una sola società, la Nazione Armata, tutte le iniziative patriottiche che erano sorte in varie città italiane ma al momento di decidere non si riuscì ad ottenere un consenso: “Era idea mia antica, e me ne persuasi sempre più: che per metter d’accordo noi italiani, vi voglion le stangate, e niente meno”.
La Francia non voleva saperne di altre guerre e fa la voce grossa: “La Nazione armata fu come un fulmine per quella miserabile diplomazia che vuole l’Italia debole … Ciò serva ai miei concittadini: e sappiano dunque, che per are dallo stato di conigli, come siamo stati sinora, a quello di leoni da spaventare i preponenti nostri vicini, vi vuole la Nazione armata, cioè due milioni di militi; ed i preti, onestamente occupati alle bonifiche delle paludi pontine. Il re mi fece chiamare, e mi disse: che bisognava desistere da qualunque delle idee progettate. … Non so quando si attuerà cotesto sogno della mia vita, che, con meno i preti, farebbe dell’Italia una potenza di prim’ordine”. E’ una follia, nessuna potenza europea poteva permettersi due milioni di militi.
La diplomazia europea aveva fatto forti pressioni sul governo e il re dovette cessare questa sua personale politica estera fatta contro il suo stesso governo e nascondendosi dietro a Garibaldi.
Dopo il suo matrimonio avrà un altro serio problema quando Cavour e Napoleone si accordano per dare Nizza e Savoia alla Francia e Emilia, Romagna e Toscana al Piemonte. Per dare una parvenza di legalità si affideranno ai plebisciti. Garibaldi è furioso, gli stanno portando via la sua città natale e dovrà diventare uno straniero nella sua patria. Va in Parlamento ove era stato eletto e si scaglia con violenza contro il governo e contro lo stesso Parlamento. Sapeva che i plebisciti erano una frode perché con minacce, corruzioni e azioni di polizia si poteva condizionare qualsiasi voto popolare. Naturalmente queste sue proteste erano rivolte solamente al plebiscito di Nizza; non ebbe nulla da obbiettare ai plebisciti fatti in Italia. Tutti questi plebisciti daranno delle maggioranze
“bulgare” ai progetti dei due governi e l’unica cosa che poté fare fu di dare le dimissioni da parlamentare e chiedere all’ambasciatore degli Stati Uniti di fare qualcosa per far di Nizza uno stato indipendente. Non sappiamo cosa gli rispose l’ambasciatore.
¹⁷ Hagen Schulze, La Germania, (Bari: Laterza, 1990) pag. 210
¹⁸ Adolf Hitler, Mein Kampf, (London: Hurst and Blackett, 1939) pag. 17
¹ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.140
² Gilberto Oneto, L’Iperitaliano, (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.49
²¹ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.144
²² Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.50
²³ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.35,36
²⁴ Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano, Rizzoli Editore, 1962) pag.194
²⁵ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.36,37
² Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.54
²⁷ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.147
²⁸ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.211,213
² Lo stesso episodio è descritto anche in: sco Carrano, I Cacciatori delle Alpi comandati dal generale Giuseppe Garibaldi (Torino, Unione Tipografico Editrice, 1860) pag.145.
³ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001) pag.172
³¹ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.66
³² Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.185
³³ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.192
³⁴ Angela Pellicciari, L’altro Risorgimento, (Ares), pag.229
³⁵ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.205
³ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.60
³⁷ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.78
³⁸ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.70
³ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.68
⁴ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.71
⁴¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.74
⁴² Questo è molto strano per un anticlericale come lui, ma il figlio di due devoti genitori cattolici non può farne a meno.
⁴³ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.229
⁴⁴ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.79
⁴⁵ ibidem
I Mille
L’impresa dei Mille è uno dei più incredibili e stravaganti avvenimenti della storia contemporanea d’Europa. E’ tutta percorsa da un’atmosfera surreale ove mito, fantasia e menzogna si intrecciano con la storia rendendo difficile il discernimento della realtà. Infatti la realtà descritta dai resoconti redatti dai patrioti è talmente diversa da quella descritta dalle teorie revisioniste, che sono fiorite in questi ultimi tempi, da mettere in imbarazzo un osservatore che volesse capire cosa fosse realmente accaduto. Il problema è che tutta questa spedizione è incredibile e anche quando si accerta la verità si fa fatica a crederci. Stranamente Garibaldi dedica a questa avventura solamente un decimo delle pagine delle sue Memorie anche se questa è l’avventura che lo consacra gigante nella storia contemporanea d’Europa.
Iniziamo a presentare i protagonisti.
Garibaldi, è la punta di lancia dell’organizzazione che lo porterà a conquistare un regno, è famoso in tutto il mondo e il suo nome suscita un tale entusiasmo che migliaia di volontari, dagli Stati Uniti all’Ungheria alla Finlandia, si precipitano solamente a sentirlo nominare. E’ una delle forze in gioco nello scacchiere italiano, solo lui poteva raccogliere migliaia di volontari, organizzarli e scagliarli contro eserciti ben addestrati. E’ di fatto una forza militare e politica con cui bisogna confrontarsi. Come al solito non ha alcuna considerazione per le reali aspirazioni del popolo; prima di partire aveva detto all’ambasciatore degli Stati Uniti che: “talvolta la stessa libertà va forzata sui popoli per il loro bene futuro”⁴ . E questo è quello che farà.
Vittorio Emanuele II, ha un buon rapporto con Garibaldi e pessimo col suo primo ministro Cavour. Ha un appetito insaziabile e scarsa considerazione per le sottigliezze diplomatiche. E’ deciso a mandare avanti Garibaldi, allo sbaraglio, per poi sconfessarlo se le cose si fossero messe male. Aveva dichiarato che se i
napoletani lo avessero impiccato gli sarebbe dispiaciuto molto e poi gli avrebbe fatto un monumento.
Cavour, è primo ministro, ambizioso, astuto e corrotto; così lo ha descritto l’ambasciatore americano: “Uno di quei temperamenti tirannici e testardi che nutrono un disprezzo profondo per ogni legge che non sia la loro volontà … totalmente privo di scrupoli nelle parole e nelle azioni … ama il denaro e mentre si occupava degli affari della sua nazione si è costruito un’ingente fortuna privata”. Cavour ha timore di mettersi contro la diplomazia europea perché sa che il re sta facendo una politica estera per conto proprio. Non è proprio sicuro che Garibaldi abbia rinunciato ai suoi sogni repubblicani e teme un intervento della Francia che avrebbe potuto compromettere tutto quello che era stato conquistato. Ha comunque raccolto due milioni di franchi oro per l’impresa e li ha affidati alla Società Nazionale. Ha inoltre mandato l’ammiraglio Persano con due fregate in Sicilia col compito di “aiutare” la spedizione. Ma come avrebbe potuto farlo visto che non erano in guerra col Regno? Infatti non saranno impiegati per operazioni militari, ma “diplomatiche”. Dovevano prendere contatto con gli ufficiali Borbonici, specialmente della marina, per spiegargli che il nascente regno d’Italia gli avrebbe garantito un “posto” con lo stesso grado e stipendio. L’ammiraglio Persano era anche autorizzato a “incoraggiare” gli indecisi con altre offerte; solo per questo Cavour gli aveva dato un fondo di 16 milioni di Euro.⁴⁷ Il Regno Sardo spenderà per l’impresa una somma tra 20 e i 30 milioni di Euro.
La Massoneria, odia i Borbone perché sono la personificazione di una ideologia cattolico-reazionaria. La loggia di Genova, Trionfo ligure, ha finanziato una spedizione mazziniana parallela a quella di Garibaldi al comando di Rosolino Pilo che sbarca in Sicilia un mese prima di Garibaldi. Le logge scozzesi in Inghilterra, Canada e Stati Uniti hanno raccolto, assieme al governo inglese, 3 milioni di franchi si che sono stati cambiati in 1 milione di piastre turche (circa 15 milioni di Euro) perché sono la valuta correntemente accettata nei porti del Mediterraneo. Tutti questi soldi non si raccolgono in pochi giorni quindi era stato deciso da tempo che la spedizione si sarebbe fatta con o senza Garibaldi. Non sappiamo come questi soldi siano stati spesi; i revisionisti dicono che Garibaldi li ha usati per corrompere i Borbonici e i patrioti sostengono che è
falso.
La Mediterranean Fleet, è al comando dell’ammiraglio Mundy e seguirà o o Garibaldi fino a Napoli. Ha avuto l’ordine di “visitare” i porti siciliani per disorientare la marina Borbonica. Da Marsala a Napoli sarà sempre presente per dare il suo aiuto alla conquista.
Il Governo inglese, col ministro degli esteri Lord Russel, dà a Garibaldi l’appoggio diplomatico indispensabile a proteggere la spedizione da “interferenze straniere”. Noi non riusciamo a capire per quale motivo l’Inghilterra fosse così decisa a far fuori i Borbone. Sembra evidente che non aveva alcun interesse a far nascere un’Italia unita che sarebbe diventata una potenza mediterranea con la quale poi si sarebbe dovuta confrontare. L’Inghilterra aveva tutto l’interesse a mantenere indipendente il Regno delle Due Sicilie, un paese debole e facilmente influenzabile. E’ vero che i due paesi erano in forte contrasto sullo sfruttamento delle miniere di zolfo siciliane, un prodotto strategico per la produzione della polvere da sparo, ma di fatto la Perfida Albione era riuscita a imporre la sua volontà e un’Italia unita sarebbe stata meno malleabile. Sappiamo che la Massoneria aveva una presenza massiccia nel parlamento e nel governo inglesi. E’ possibile che l’Impero Inglese si sia mosso contro i suoi interessi, solamente perché spinto dall’odio ideologico della Massoneria? Per dare un’idea di quanto profondo fosse questo odio considerate che il ministro Gladstone aveva scritto, dopo una pretesa visita alle carceri napoletane, che: “Il governo Borbonico rappresenta … la negazione di Dio in terra, la sovversione di ogni ideale morale e sociale eretta a sistema di governo” ma lui non aveva mai messo piede in un carcere napoletano. Dobbiamo anche evidenziare che la sua famiglia era diventata ricca con la tratta degli schiavi.
Gli Americani, con le loro navi, Iroquois, Washington, Oregon, Franklin, Charles and Jane Bahl fanno la spola tra Genova e la Sicilia per rifornire Garibaldi impedendo alla flotta Borbonica di bloccarle semplicemente sventolando la bandiera americana. Il colonnello Colt regala a Garibaldi 100 dei suoi nuovissimi e famosi revolver prima della partenza. La città di New York
contribuisce con armi, provviste e danaro per circa 100.000 dollari. Garibaldi attraversa lo Stretto sul Franklin e quando lascia Napoli si imbarca sul Washington.
E’ possibile che questa avventura sia stata partorita dal Romanticismo dell’opinione pubblica anglosassone?
Noi non sappiamo se c’era e chi fosse il gran burattinaio che coordinava tutti questi protagonisti. E’ possibile che si siano messi tutti assieme guidati dalla mano nascosta della Massoneria? E’ impossibile non notare che buona parte degli attori di questo dramma sono massoni.
Contro questo raggruppamento più o meno spontaneo c’è il Regno delle Due Sicilie.
E’ la più antica entità statale d’Europa, ha 9 milioni di abitanti che sono un po’ più di un terzo di tutta la penisola. Ha avuto un disastroso incremento demografico che ha provocato forti tensioni sociali ma, per motivi che non conosciamo, non ha alimentato una corrente migratoria verso le Americhe come per tutti gli altri paesi europei. Le sue città scoppiano e tutti i viaggiatori stranieri non possono non notare che la miseria e la sporcizia delle città meridionali le mettono in una categoria diversa dalle altre città italiane. Il Regno è considerato dall’opinione pubblica progressista un paese arretrato e incivile con una alfabetizzazione la più bassa d’Europa ma uno studio del 1832 da’ un reddito procapite al meridione un poco superiore ai Ducati emiliani e inferiore al Regno Sardo solamente del 28%⁴⁸. Le tasse sono le più basse della penisola e le sue finanze sono in ordine perché non ha mai avuto velleità imperialiste. Si tiene al o con tutte le innovazioni tecnologiche compatibilmente con le sue possibilità finanziarie, che in un paese non ricco è la cosa giusta da fare. Sia in campo industriale che commerciale che tecnologico che culturale ha conquistato quasi tutti i primati tra i vari paesi della penisola. La sua flotta mercantile è la quarta al mondo. Per sua disgrazia tutta la sua cultura, sia popolare che
aristocratica, è assolutamente antidemocratica e illiberale. Il popolo è ferocemente cattolico e geneticamente ostile all’etica calvinista.
Ha 100.000 uomini sotto le armi e la flotta è la più potente del Mediterraneo ma le sue forze armate sono spaccate. I soldati, analfabeti, sono fedelissimi al re e a Santa Romana Chiesa mentre gli ufficiali sono essenzialmente interessati al “posto”. Pur con molte notevoli eccezioni non hanno nessuna intenzione di rischiare la vita e nessun orgoglio patriottico nei confronti del Regno. Sono il tallone d’Achille del regime Borbonico perché il nascente Regno d’Italia gli può offrire un posto molto più sicuro e prestigioso. Era una pratica comune, per i figli di buona famiglia, comprarsi il grado di ufficiale quindi “un’offerta” da parte del governo sardo li trova interessati. La storia dei Mille è la storia dei tradimenti degli alti gradi delle forze armate e dei ministri napoletani.
Il vero problema del Regno è il re. sco II è re da pochi mesi, ha 23 anni, è uno squisito gentiluomo ma è un incapace patologico e in una monarchia assoluta questa è una malattia terminale. Il lavoro adatto a lui sarebbe stato fare il sagrestano in una piccola parrocchia di campagna. La regina è Maria Sofia, sorella di Sissi imperatrice d’Austria, ha 18 anni, è una ragazza energica e coraggiosa ma non abbastanza da esautorare il marito e prendere in mano le redini del Regno. Per merito di una sistematica propaganda diffamatoria il Regno è completamente isolato diplomaticamente. Anche un osservatore superficiale avrebbe notato che nessuna potenza europea avrebbe alzato un dito per difendere i Borbone. Se c’era un momento giusto per farli fuori, quel momento era adesso!
Noi non sappiamo da chi come e quando sia iniziato il progetto di conquista della Sicilia (e forse di tutto il Regno), sappiamo che a Febbraio del ’60 Vienna avverte Napoli che si sta preparando una spedizione di Garibaldi contro la Sicilia. In quel momento Garibaldi è ossessionato dalla questione di Nizza e odia Cavour e il suo governo. Infatti Cavour sta pensando di affidare la spedizione a un altro che poi si tira indietro e quindi ci si affida a Garibaldi che comunque è molto esitante e con ragione. Non può non ricordare le due spedizioni, fallite
tragicamente, dei fratelli Bandiera e di Pisacane. In entrambi i casi il popolo meridionale si era attivato immediatamente per stroncare queste incursioni e aveva aiutato, con entusiasmo, le forze dell’ordine napoletane a sterminare i banditi.
Solamente i patrioti accecati dal nazionalismo non sapevano che i popoli meridionali erano fanaticamente contrari al giacobinismo e relative ideologie come il nazionalismo italiano. Era chiarissimo che i popoli meridionali erano fedeli alla loro monarchia e a Santa Romana Chiesa.
Faceva eccezione la Sicilia occidentale ove il “sicilianismo”, il desiderio di avere un’entità statale siciliana più o meno indipendente, non si era mai sopito. Questo non aveva niente a che spartire col patriottismo italiano ma le sistematiche rivolte che scoppiavano in quella provincia davano l’impressione che ci fosse un movimento di popolo a favore delle nuove idee liberali e democratiche. Dato che si illude chi vuole farsi illudere, i patrioti avevano sempre considerato queste rivolte come l’espressione di una comunanza di ideali.
Come abbiamo visto più volte, Garibaldi non smetteva mai di sognare rivolte patriottiche ma questa volta ha paura di infilarsi in una trappola come era già successo a Pisacane e vuole avere un qualche riscontro che ci sia per davvero una rivolta in Sicilia. Ai primi di Aprile scoppiano alcune rivolte a Palermo (18 rivoltosi) e dintorni (non conosciamo la loro consistenza) che vengono immediatamente represse. Il siciliano Crispi, da Genova, è in contatto con i rivoltosi (attraverso Malta) e comunica a Garibaldi che in Sicilia la rivolta dilaga. Garibaldi si stabilisce a Genova e decide di partire. Si costituisce un comitato organizzatore e si propaganda l’arruolamento di volontari in tutto il regno sardo. Un fiume di volontari si precipita a Genova ma a fine aprile arriva da Malta un telegramma cifrato ove si comunica che la rivolta siciliana è stata repressa. Nonostante la delusione dei suoi Garibaldi annulla l’impresa e chiede una nave per tornare a Caprera dicendo tra le lacrime: “Sarebbe una follia – esclamava egli, asciugando una lacrima generosa - Pazienza! Verrà ancora la nostra volta. L’Italia deve essere e sarà”⁴ . A questo punto Crispi dice di avere
sbagliato a decifrare il telegramma e dà un’altra lettura ove si comunica che i rivoltosi hanno conquistato Palermo. Garibaldi abbocca, si parte! Così inizia questa avventura, con un imbroglio⁵ . Inutile dire che al suo arrivo non troverà alcuna rivolta in corso.
Ai primi di Maggio si riuniscono nell’abitazione privata (non nello studio perché la cosa deve restare segreta) del notaio Baldioli a Torino: Medici (in rappresentanza di Garibaldi), Rubattino (il titolare della compagnia di navigazione), un avvocato e un generale (in rappresentanza del governo sardo) per la cessione a Garibaldi di due vapori (Piemonte e Lombardo), dietro pagamento di 3-4 milioni di Euro, l’esclusiva del servizio vapore per la Sardegna e altri benefit.
Un antesignano del fascismo
sco Crispi nasce in Sicilia nel 1818, va a Napoli a esercitare la professione di avvocato ma quando scoppia il ’48 torna a Palermo per partecipare alla insurrezione, viene eletto al Parlamento ed entra nel governo provvisorio siciliano. Con la restaurazione borbonica fugge a Torino ove partecipa a una cospirazione repubblicana di Mazzini, espulso va a Malta ove sposa Rosalia Montmasson, una patriota italiana. Espulso va a Parigi ove si iscrive alla massoneria, frequenta rivoluzionari repubblicani imparando la produzione di bombe artigianali. Sospettato di aver partecipato all’attentato contro Napoleone viene espulso dalla Francia. Torna a Londra, poi Lisbona e nel 1859 rientra segretamente in Sicilia per preparare la rivolta che dovrebbe provocare l’intervento del Piemonte. Quando viene a sapere che Garibaldi sta organizzando la spedizione corre a Genova, entra nel gruppo dirigente garibaldino e partecipa alla spedizione assieme alla moglie Rosalia che è l’unica donna tra i Mille. Si distingue come uomo di fiducia di Garibaldi che gli assegna diversi incarichi nel governo garibaldino.
Nel ’61 viene eletto al Parlamento del nuovo Regno d’Italia nella sinistra ma negli anni successivi si trasforma da accanito repubblicano in fedele monarchico. Nel ’73 mette incinta una nobile e ricca ragazza pugliese che sposa nel ’78 sperando di mantenere il segreto ma lo si viene a sapere ed è accusato di bigamia. Riesce a farsi assolvere per un difetto di forma del suo precedente matrimonio; la povera Rosalia resta sola e in miseria. Nell’87 diventa primo ministro e inizia una politica ultra nazionalista e imperialista avvicinandosi al cancelliere tedesco Bismarck di cui diventa un fanatico ammiratore e così il bombarolo rivoluzionario diventa una colonna dell’imperialismo europeo. E’ ossessionato dal prestigio dell’Italia e sotto la sua guida il paese sperpera le sue magre risorse per costruire un esercito che possa essere all’altezza delle sue manie di grandezza mentre nel paese dilagano corruzione, mafia e miseria. A forza di posare a condottiero di un paese grande e potente finì con l’illudersi che ciò fosse vero, provocando una guerra commerciale con la Francia per privilegiare la nascente industria italiana. Il risultato fu una grave crisi economica che mette a repentaglio il suo governo per cui fa sempre più ricorso a metodi autoritari. La situazione è particolarmente disperata nella sua Sicilia ove scoppia la rivolta dei Fasci siciliani. Manda l’esercito e con la legge marziale schiaccia la rivolta a forza di fucilazioni e deportazioni, il Parlamento reagisce e lui lo sospende con un regio decreto dichiarandosi pronto a governare senza il Parlamento con l’appoggio del re; inoltre scioglie il neonato partito socialista. Il suo governo traballa e dato che il patriottismo è l’ultima risorsa delle canaglie, si lancia in un’impresa coloniale senza la necessaria preparazione mandando allo sbaraglio l’esercito che viene massacrato ad Adua nel’96.
A pieno titolo Mussolini lo definirà: “un antesignano del fascismo”.
Il Lombardo è appena rientrato da Napoli ove ha regolarmente acquistato per conto del ministero della guerra sardo varie copie (poche per non destare sospetti) delle carte geografiche della Sicilia e del Regno.
Per quanto riguarda le armi non riescono ad appropriarsi delle nuovissime
carabine acquistate dal progetto del milione di fucili perché il governatore di Milano si rifiuta di consegnarle non essendo il Regno Sardo ufficialmente in guerra con i Borbone quindi Garibaldi si deve accontentare di un migliaio di vecchi fucili malandati. I soldi non mancano, vari documenti di credito vengono cambiati in oro all’ultimo momento e consegnati a Garibaldi all’imbarco, tra questi c’è il milione di piastre d’oro turche. Il cassiere è un certo Bertani; lui resta a Genova per raggiungere la spedizione qualche giorno dopo con i volontari che continuavano ad arrivare e non potevano essere imbarcati nei due vapori. Alla fine dell’avventura sarà un uomo ricco; così è iniziata l’Italia e così ha proseguito.
La notte del 5 Maggio, il giorno dopo il loro acquisto, Nino Bixio fa finta di assaltare le due navi nel porto di Genova con una quarantina di garibaldini perché deve mettere in scena una rappresentazione che convinca la diplomazia europea che tutta la spedizione viene fatta illegalmente contro la volontà del governo sardo. E’ ridicolo perché c’è una folla di gente che assiste allo spettacolo. Le navi vengono portate davanti alla spiaggia di Quarto per imbarcare i garibaldini perché non si può usare il porto: cosa penserebbe la diplomazia? Garibaldi e i suoi devono farsi largo tra una folla di gente silenziosa e commossa, fatta di curiosi, madri e mogli che trepida per quegli eroi che vanno alla conquista di un regno praticamente disarmati.
Infatti non hanno le munizioni che sono state affidate a dei “contrabbandieri” (sempre per dare un’impressione di illegalità) che dovrebbero raggiungere le navi al largo per la consegna ma le navi aspettano e i contrabbandieri non si vedono. Garibaldi parte lo stesso; in fondo, a cosa servono le munizioni? Ma non è tutto, le navi non hanno neanche il carbone sufficiente ad arrivare in Sicilia; ma in fondo, a cosa serve il carbone?
Ora ci fermiamo per chiederci: chi erano questi garibaldini, “i seguaci di questo culto nuovo e crescente”?
Secondo la lista fornita dal Ministero della Guerra italiano sono: 800 padani, 78 toscani, 35 stranieri, 71 siciliani quasi tutti dell’ovest e altri italiani. Avvocati, medici, farmacisti, possidenti, artigiani e commercianti; nessun contadino o operaio e diversi ricercati. Di questi 80 moriranno di cui 34 a Calatafimi. Avranno tutti la pensione nel 1865.
Per descrivere in dettaglio questa impresa ci serviremo dei diari scritti da tre di loro: Cesare Abba, Ippolito Nievo e Giuseppe Bandi. Altri contributi li prenderemo da Charles Stuart Forbes, un romantico viaggiatore inglese e Sir Rodney Mundy, un ammiraglio della Mediterranian Fleet.
Cesare Abba è un giovane piemontese di 22 anni iscritto alla Accademia di Belle Arti, è l’anima candida dei garibaldini afflitto da un romanticismo che non può non commuovere. Durante la conquista di Palermo entra in una casa e butta giù dalla finestra i mobili di una camera da letto per fare una barricata. In questa stanza c’è una ragazza che lo colpisce e, nel suo diario, si mette a fantasticare di sposarla e di portarla in Piemonte ove poi avrebbero ricordato il loro incontro e “essa arrossirebbe chinando la fronte sul mio petto, ed io baciandole i capelli, benedirei il ricordo di quell’incontro casto ed eroico”. Purtroppo non abbiamo modo di sapere cosa abbia pensato la ragazza di questo straniero che le stava distruggendo la stanza. Per lui la Sicilia era “un’isola che brucia in mezzo al mare”. Quando al largo di Trapani avvistano l’isola: “La Sicilia! La Sicilia! Pareva qualcosa di vaporoso laggiù nell’azzurro tra mare e cielo, ma era l’isola santa!”. La sua è una missione religiosa. Il suo animo sensibile di artista percepisce quella terra con una profonda sensualità: “Sotto questo cielo d’ardori inebrianti; all’ombra secolare di questi edifici antichi come la fede, … in mezzo alla fioritura voluttuosa dei giardini, … la voluttà che entra per tutti i sensi prostra lo spirito, e chiedendo misericordia a Dio, la carne trionfa!”. Alla fine di questa avventura il suo romanticismo sarà cambiato, molto cambiato.
Giuseppe Bandi, un toscano di 26 anni, è un patriota ed è stato in carcere. E’ una persona molto concreta e un entusiasta dell’azione. Garibaldi lo vuole come suo ufficiale d’ordinanza, viene promosso sul campo e termina l’impresa col grado
di maggiore. Sempre impegnato in politica morirà assassinato da un anarchico nel 1894. Quando vengono chiamati i volontari lui è tenente dell’esercito sardo e un giorno è seduto nel ”più bel caffè di Alessandria, quando il vecchio Gusmaroli mi si fe’ vicino dicendomi - el general te veul; viente via - ... e senza permettermi di andare a casa, mi trasse di fiato alla stazione, e mi fè salire su una carrozza di seconda classe”. Così si unisce a Garibaldi rischiando una condanna per diserzione.
Abba non ha detto nulla ai genitori e, mentre è a Genova in attesa di partire, incontra un amico e gli dà una lettera per i suoi che deve essere consegnata dopo la sua partenza, poi “mi imbattei nel signor Senatore che mi conobbe giovinetto”. Il senatore è sbalordito di trovarlo in mezzo ai garibaldini: ”Come? Poteva essere che il mondo fosse girato tanto, da trovarsi a simili fatti un giovane uscito dal fondo d’una valle ignota, allevato da buoni frati, figlio di gente quieta, adorato dalla madre! Poi ò alle minacce. Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese son qui; mi avrebbe affrontato all’imbarco, per trattenermi … E io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte, proruppe: Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti! Eppure un suo figlio verrà con noi”.
Mentre a Quarto è in attesa dell’imbarco sente alcuni ragazzi parlare: “Sono Veneziani, giovani belli e di maniere signorili.
-‘Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?’
-‘Da Udine?’
-‘O da Milano, non so. Corse di qua, di là da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando, e tanto fece che lo trovò.’
-‘E lui?’
-‘E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col rimorso d’averla disobbedita.
-‘E la mamma?’
-‘Se n’andò sola.’”.
Per nulla al mondo avrebbero rinunciato a quella che ricorderanno tutta la vita come la loro Grande Avventura.
Diversamente da Abba, Bandi non è affatto romantico. Quando è a Genova in attesa di partire esce con tre amici dalla villa ove abitava con Garibaldi per fare una eggiata e lungo la via incontrano due sacerdoti che parlano tra loro ridendo. Il riso dei sacerdoti li irrita e i suoi amici raccolgono da terra una manciata di sterco e “furono addosso ai malcapitati e, acciuffatili, sigillarono ad ambedue la bocca con un potente ceffone, che non ebbe delle rose né il colore né l’odore”. I preti fuggono sputando lo sterco e lui è talmente divertito che “mezzo morto dal ridere, m’ero avvinghiato ad un colonnino, per non cascare in terra”.
I garibaldini di Bandi sono molto diversi dai garibaldini di Abba, molto!
Bandi ci dice che due giorni dopo la partenza sono a Talamone per prelevare le munizioni da un deposito dell’esercito. Garibaldi si veste con l’uniforme di
generale sardo e il suo fascino riesce a convincere i militari responsabili del presidio a dargliele. Restano due giorni, i garibaldini scendono a terra e iniziano a molestare le donne e a rubare provocando la reazione degli abitanti; i loro ufficiali non riescono a riportarli all’ordine neanche con la minaccia delle sciabole e devono chiedere l’intervento personale del generale. Tutti i garibaldini vengono consegnati nelle navi.
Dopo Talamone vanno a Santo Stefano per rifornirsi di carbone in un deposito della marina sarda ma questa volta non c’è Garibaldi e l’ufficiale responsabile non ne vuole sapere; Bixio gli salta addosso, lo riempie di botte, poi entrano nella carboniera e si prendono il carbone. E’ lo stile garibaldino.
Così fanno rotta verso la Sicilia, alla conquista di un regno di nove milioni di abitanti. Bandi è sul Piemonte con Garibaldi e Abba è sul Lombardo con Bixio.
A Palermo la comunità inglese è informata della partenza e organizza un bel party sulla nave inglese Argus per festeggiare l’avvenimento. Quindi la nave parte diretta a Marsala.
Alla conquista del Regno
Abba ci fa sapere che la navigazione è tranquilla fino al largo di Trapani ove sono avvistati e inseguiti da due navi Borboniche. Mettono tutte le vele al vento. Poi, quando sono al largo di Marsala: “Un piccolo legno veniva da terra. Bandiera inglese. Bixio prese un foglio, vi scrisse sopra qualcosa, fece fendere un pane e nel fesso mise il foglio. Poi quando il legno ò quasi rasente a noi, gettò il pane che cadde in mare. Allora gridò facendo tromba colle mani, ‘Dite a Genova che il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala, oggi a un’ora pomeridiana!’ Sul piccolo legno fu un levar di mani, un battere di applausi, uno sventolare di fazzoletti, evviva, viva, viva!”. Dobbiamo supporre che l’organizzazione stesse funzionando bene e che la decisione di sbarcare a Marsala fosse stata presa prima di partire.
Il porto di Marsala viene scelto per lo sbarco perché la città ha da anni una consistente colonia britannica per la produzione del vino di Marsala molto popolare in Inghilterra. Le aziende che producono e commercializzano il vino sono inglesi ed è plausibile che navi da guerra inglesi siano lì per proteggere i sudditi di sua maestà. Una nave inglese esce dal porto e informa Garibaldi che nel porto non ci sono navi borboniche ma due navi da guerra inglesi. Entrano nel porto mentre le campane di Marsala suonano il mezzogiorno e iniziano lo sbarco.
Abba nota che: “Su molte case sventolano bandiere d’altre nazioni. Le più sono inglesi. Che vuol dir questo?”. Vuol dire che erano stati avvisati dell’arrivo di Garibaldi e per proteggere le loro case dalla lotta che si sarebbe scatenata in città gli stranieri esponevano le loro bandiere. Nessuno avrebbe potuto prevedere che non ci sarebbe stata alcuna lotta. Abba è stupito: “Ma siamo certi di sbarcare, sebbene le due navi ci inseguano sempre. Hanno guadagnato un bel tratto”. Infatti entrare nel porto e iniziare lo sbarco con due navi da guerra borboniche alle calcagna è un suicidio; non c’era il tempo per sbarcare e poi allontanarsi per mettersi al sicuro. Bandi stima che siano a quattro miglia di distanza. Evidentemente Garibaldi sa che qualcuno proteggerà lo sbarco; la sua resta
comunque una decisione rischiosissima e inizia così una serie di eventi incredibili che faranno entrare l’impresa dei Mille nella leggenda.
Il porto di Marsala è molto ampio ma si era mezzo insabbiato e le grandi navi non potevano accostare a un piccolo molo sulla spiaggia, è quindi necessario usare le scialuppe delle navi per portare tutto, uomini e materiali, sul molo: lo sbarco è necessariamente molto lento. Tanto per cominciare il Lombardo si arena in una secca all’interno del porto e non può avvicinarsi al molo come fa il Piemonte. Le scialuppe che fanno la spola tra la nave e il molo devono percorrere più spazio e le operazioni di sbarco sono ancora più lente.
Bandi è al fianco di Garibaldi durante tutto lo sbarco, così ce lo racconta.
Il Piemonte ha iniziato lo sbarco quando incominciano ad arrivare le navi da guerra borboniche che ora sono in tre, e “i due legni inglesi erano ancorati a tanta distanza dal porto ed in tale posizione che non impedivano alla crociera Borbonica veruna manovra, né diedero a vedere che volessero mescolarsi nelle faccende degli altri. … il prospero esito dello sbarco a Marsala non è dovuto che a un contrattempo felice, all’ardire del condottiero e all’inesplicabile decisione de’ capitani della crociera napoletana”. Bandi si rende conto che la città è tranquilla, non c’è stata alcuna rivolta e nessuno verrà ad aiutarli: “io volsi gli occhi a terra, e non scorgendo segno di rivoluzione, né alcun indizio della padronanza dei famosi insorti, mi accorsi subito che se Dio e le nostre mani non ci aiutavano, potevamo chiamarci fritti”. Ha paura delle navi borboniche che stanno manovrando per puntare i cannoni: “Un vapore napolitano era vicinissimo al Lombardo. Guardando col cannocchiale, distinsi i cannonieri che puntavano il pezzo di prua, e distinsi gli ufficiali che ci guardavano com’io guardavo loro”. Implora Garibaldi di abbandonare la nave ma lui gli risponde: “Lasciate che facciano, anche se tirano non ci colgono”. Come fa a essere così sicuro? Sono a breve distanza e non c’è un alito di vento, come è possibile mancare il colpo? Le navi borboniche anziché aprire il fuoco calano una scialuppa che si dirige verso le navi inglesi. Quando anche il Lombardo è stato scaricato Garibaldi si decide a sbarcare assieme al povero Bandi che è
terrorizzato. Appena la scialuppa si stacca dalla nave Garibaldi si ricorda di qualcosa e ordina di tornare indietro, risale sul Piemonte, entra in sala macchine e apre i rubinetti dell’autoaffondamento. Quindi torna sulla scialuppa e ordina di andare sul Lombardo, che è vicinissimo alla corvetta napoletana, per ripetere la stessa operazione; e così sfilano su una barca a remi davanti ai cannoni borbonici. Il povero Bandi è strabiliato: “Andammo verso il Lombardo che era vicinissimo alla corvetta napoletana, e mi parve che andassimo proprio in bocca al lupo. E dicevo tra me e me ‘O quest’uomo si crede fatato o vuole morire innanzi sera’”. Garibaldi entra nel Lombardo mentre Bandi lo aspetta nella scialuppa, torna poco dopo e finalmente si va a terra! Ora i garibaldini assieme a Garibaldi sono tutti sulla spiaggia, le navi borboniche sono schierate coi cannoni puntati e… in silenzio: “non sapevamo che cosa pensare del loro inesplicabile silenzio”. Quando i garibaldini iniziano a muoversi i napoletani iniziano il cannoneggiamento ma le granate non scoppiano e i garibaldini si avviano dentro il paese… cantando! Il bombardamento dei napoletani durerà a lungo e nessun garibaldino sarà colpito, unica vittima un cane. Chissà a chi sparavano.
Garibaldi commenta così l’operazione: “La presenza dei due legni da guerra inglesi, influì alquanto sulla determinazione dei comandanti dei legni nemici, naturalmente impazienti di fulminarci, e ciò diede tempo ad ultimare lo sbarco nostro. La nobile bandiera di Albione contribuì, anche questa volta, a risparmiare lo spargimento di sangue umano; ed io, beniamino di cotesti signori degli oceani, fui per la centesima volta il loro protetto”. Ma cosa c’entrano gli inglesi?
Il comandante delle navi inglesi è una vecchia conoscenza di Garibaldi da Montevideo ove aveva disegnato le uniformi della Legione Italiana. Il comandante dei borbonici è Guglielmo Acton, nato a Castellammare di Stabia da famiglia di origini britanniche, suo nonno era un nobile scozzese che si era trapiantato a Napoli. Mentre i garibaldini sbarcavano i due comandanti si consultavano sul da farsi e sembra che l’inglese abbia detto ad Acton che lo avrebbe ritenuto responsabile dei danni che avesse arrecato alle proprietà di cittadini inglesi. Sembra che furono queste pressioni inglesi su Acton a convincerlo a tenere la sua artiglieria in “quell’inesplicabile silenzio” che aveva stupito Bandi.
Così, per non sciupare qualche botte di vino, la spedizione dei Mille non viene annientata!
A questo punto dobbiamo informare il lettore che cinque mesi dopo questi avvenimenti Guglielmo Acton abbandona i Borbone, entra nella marina da guerra italiana, gli danno il comando di una nave e con questa partecipa, il mese dopo, all’assedio di Gaeta ove il re e la regina si erano rifugiati per l’ultima disperata resistenza. Al comando di questa nave bombarda dal mare il re a cui aveva giurato fedeltà e sembra lo abbia fatto con diligenza visto che molti del suo equipaggio vengono decorati. Acton inizia così una notevole carriera, diventa ammiraglio, deputato, senatore, ministro della marina e inoltre arriverà anche a godere dei favori della Contessa di Castiglione che a quel punto era una matura signora ma pur sempre un buon boccone.
Forse Garibaldi si sbaglia o non è sincero nelle sue Memorie, forse non è stata la bandiera inglese che ha bloccato il comandante Acton. Forse queste “pressioni” degli inglesi sono solo una scusa. Non si può non essere colpiti dalla sua sfacciataggine quando sfila in barca davanti ai cannoni per andare sul Lombardo ad affondarlo: non ha senso affondare una nave insabbiata. Evidentemente sa che quei cannoni non spareranno e la sua è soltanto un’incredibile sfrontatezza.
I Mille entrano a Marsala ove sono accolti “come cani in chiesa”. Garibaldi fa riunire il consiglio comunale e su 30 consiglieri riescono a metterne assieme 10, gli altri erano scappati ma questo non è un problema, a lui sono sufficienti. Li obbliga a dichiarare decaduto il dominio borbonico e a nominarlo dittatore in nome di Vittorio Emanuele re d’Italia. Scriverà nelle sue Memorie a proposito dell’incontro di Teano con re Vittorio di sei mesi dopo: “Ciò inteso, io deposi a mano di Vittorio Emanuele, la dittatura, che m’era stata conferita dal popolo, proclamandolo re d’Italia“. Quei 10 consiglieri di Marsala avrebbero agito in nome di tutto il popolo meridionale, un modo a dir poco stravagante di considerare un mandato popolare.
Intanto Crispi si è appropriato di tutti i fondi che trova nelle casse comunali. E’ stato affermato che la successiva amministrazione “piemontese” si sia resa responsabile del saccheggio delle finanze del Meridione ma non è vero. Questo saccheggio è iniziato da subito con Garibaldi.
La cosa più drammatica è il Proclama di Marsala ove Garibaldi annuncia che verranno assegnate terre ai contadini che si batteranno per lui. Questo è un lurido imbroglio. Le terre citate nel proclama non sono le terre baronali che furono usurpate anni prima dai baroni e che sono la parte più consistente delle terre coltivabili in Sicilia. Le altre terre sono già coltivate in uso comune o da contadini affittuari, per un affitto molto modesto, e non possono essere distribuite a nessuno. Con questo proclama, irresponsabile e criminale, Garibaldi scatena la rabbia dei braccianti siciliani che, cinquant’anni prima, avevano subìto una mostruosa ingiustizia.
La mattina dopo, prima di partire verso l’interno, Garibaldi manda Bandi dal console inglese con alcune lettere che devono essere spedite a Malta e a raccomandargli alcuni garibaldini che sono malati e non possono marciare. Il console assicura Bandi che le lettere saranno spedite immediatamente per tramite di una delle due navi che sono in porto e farà avere ai malati un aporto britannico che li mette al sicuro da una qualunque rappresaglia borbonica. Quindi il console sella il suo cavallo e si avvia con i garibaldini per accompagnarli fuori città ove poi li saluta commosso.
Così Garibaldi si avvia alla conquista di un’isola presidiata da 20.000 soldati borbonici ove non è in corso alcuna rivolta. Lui è sicuro che alla loro prima vittoria il popolo insorgerà e assieme spazzeranno via i Borbone.
A questo punto dobbiamo interrompere il nostro racconto per esaminare la storia recente dell’isola perché altrimenti è impossibile comprendere quello che sta per
succedere e l’impatto che avrà nella storia d’Italia.
Mafia
Alla fine del ‘700 la Sicilia aveva 142 principi, 788 marchesi e 1.500 fra duchi e baroni; aveva più nobili di qualunque altro paese europeo. Questi nobili avevano la signoria feudale su 280 villaggi su di un totale di 360.⁵¹ In nessuna altra regione europea il feudalesimo è ancora così radicato e diffuso. Con le debite eccezioni i nobili sono arroganti, dissipatori, ostili al progresso e assenteisti. Preferiscono vivere in città a dissipare le rendite dei loro feudi mentre la gestione del feudo è affidata ai loro amministratori che tengono in pugno i servi della gleba con metodi feroci e non hanno alcun interesse a fare investimenti per far progredire la coltivazione delle terre.
I nobili hanno pretese autonomiste nei confronti di Napoli perché mal sopportano l’opposizione dei Borbone, peraltro molto debole, alle loro ingiustizie e soprusi ai danni del popolo. Secondo il codice feudale buona parte dell’amministrazione della giustizia è nelle loro mani con dei risultati che erano considerati intollerabili nell’Europa illuminista. Sembra che fosse ancora praticato lo schiavismo. Sul finire del ‘700 i Borbone sono conquistati dagli ideali illuministi e inviano in Sicilia un Vicerè decisamente progressista: il marchese Caracciolo.
In breve tempo Caracciolo si rende conto che la Sicilia era popolata da “oppressori e oppressi” e quasi tutti i suoi mali si potevano far risalire alla “tirannia dei grandi proprietari”. Sa di doversi scontrare con i baroni perché “duecento persone ne avevano ingoiato un milione e mezzo”. Comunque il problema principale per Caracciolo è superare le resistenze al cambiamento dello stesso popolo siciliano che viene sobillato contro i “napoletani” considerati un invasore: “Tanto la lunga servitù degrada l’anima, onde più non risente il peso delle catene”. Considera comunque un suo dovere “toglierli dagli artigli di questi lupi, che lupi sono li baroni della Sicilia”. Si tratta di obbligare i baroni a rispettare le regole del feudalesimo con i suoi diritti e i suoi doveri. Innanzi tutto l’ultima parola spetta al re (cioè al potere centrale) perché è dal re che hanno avuto l’investitura, inoltre hanno il dovere di provvedere al benessere spirituale e
materiale dei loro servi che gli sono stati affidati da Dio. Sia il re che il vescovo hanno il dovere di intervenire e richiamare i feudatari inadempienti. I servi, sia singolarmente che in comunità, hanno un’infinità di diritti promiscui sulla terra che rendono impossibile migliorarne la produttività ma forniscono una protezione dall’arbitrio dei feudatari. Innanzitutto non possono essere licenziati. Il feudalesimo è una struttura asfittica e ingessata ove è impossibile il cambiamento e la sua economia ha una produttività disastrosa. Sin dalla nascita, ognuno sa già quale sarà il suo posto fino alla morte; non possono progredire ma hanno un notevole grado di sicurezza e di stabilità nelle loro vite. Non è una bella vita ma è meglio dell’anarchia barbarica dell’Europa pre-feudale.
Il problema è che la situazione socio-economico-culturale della Sicilia la si potrebbe definire pre-feudale perché chiunque abbia ottenuto un qualche potere non è disposto ad accettare neanche le regole del feudalesimo. E’ una cultura geneticamente predisposta alla violenza e al sopruso ove il diritto è considerato solamente un ostacolo al proprio arbitrio e al proprio capriccio. Tutti quelli che hanno governato la Sicilia si sono sempre scontrati contro le tendenze anarchiche dei baroni e del popolo ma la sede del loro potere centrale è sempre stata lontana. Madrid, Parigi, Torino, Napoli si sono impegnate a far rispettare la legalità ai baroni e hanno sempre perso perché il popolo, che cercavano di aiutare, li ha sempre considerati invasori estranei alla loro isola ed è sempre stato riluttante a collaborare.
Le riforme di Caracciolo hanno un certo successo e i baroni si rendono conto che, se vogliono continuare a mantenere il loro strapotere, devono ottenere una qualche autonomia da Napoli. L’autonomismo siciliano è sempre stato lo strumento dei potenti siciliani per abusare del popolo siciliano a loro piacimento.
Tutte queste iniziative illuministe sono stroncate dalla Rivoluzione se che smantella la struttura feudale della società e fa nascere una nuova società fondata sulla proprietà privata, la legge uguale per tutti, la libera iniziativa e rapporti di lavoro basati sul consenso delle parti e non sui diritti-doveri feudali. Fu un parto molto doloroso. In America questa società si era già sviluppata durante il
periodo coloniale e si era concretizzata politicamente con la rivoluzione americana 30 anni prima. In Europa lo smantellamento del feudalesimo causò dei problemi più o meno drammatici a seconda della realtà socio-economica di ciascun paese. In Italia, a nord di Roma, il feudalesimo era già stato smantellato secoli prima dalla civiltà dei comuni e la proprietà privata, in particolare della terra, non era una novità ma nel Regno delle Due Sicilie c’è tutto da rifare.
E’ indispensabile evidenziare che i romantici patrioti che correvano in Sicilia per “liberare” i siciliani dai Borbone, il feudalesimo l’avevano visto solamente nei romanzi storici molto popolari nella letteratura del romanticismo.
Inizialmente i baroni sono ostili al cambiamento ma non gli ci vuole molto tempo per capire che a loro conviene. Se diventano proprietari della terra ne hanno la completa disponibilità, non hanno più alcun dovere feudale nei confronti del re ma soprattutto nei confronti dei servi. Per il popolo contadino è un disastro. Sono abituati da secoli a dare per scontato il diritto di fare legna nel bosco ma se il bosco a in proprietà al padrone potrebbero esser obbligati a pagare; con cosa? Era scontato che potessero prendere acqua ad un fonte ma se la fonte a in proprietà al padrone potrebbero essere obbligati a pagare; con cosa? Molti villaggi hanno terre comuni ove gli abitanti hanno il diritto di pascolo o di coltivare qualcosa per se stessi ma se queste terre devono essere distribuite, ci sarà terra per tutti? Se non ce n’è, chi resta senza, cosa può fare?
Lo smantellamento del feudalesimo è stato un incubo organizzativo che sarà una manna per gli avvocati e un dramma per il popolo. Molti di loro perderanno tutto il mondo ove da secoli erano vissuti e dovranno affrontare il calvario dei aggi da servo della gleba a bracciante agricolo a proletario industriale nel disperato tentativo di superare la miseria e la fame. Una volta persa la rigida e oppressiva sicurezza della società feudale i singoli individui si trovano nel più completo abbandono. Nel nord Europa una massa di diseredati fugge nelle città ove forniranno il combustibile umano per lo sbalorditivo progresso che darà vita alla nostra civiltà industriale. L’ultima tappa, il proletariato, è la fine del viaggio ed è un binario morto. In questo cul de sac fermenta e nasce una ideologia che
(ovviamente) chiede l’abolizione della proprietà privata: il socialismo.
Nel nord Europa questa evoluzione è possibile perché inizia da subito una sistematica riduzione della natalità e inoltre quelle società favoriscono le iniziative imprenditoriali che in pochi anni creano i posti di lavoro per la massa di braccianti che invade le città. Nel secolo successivo queste società liberali produrranno una classe media che finirà per assorbire il proletariato; ma questo allora nessuno lo poteva immaginare.
In Sicilia questa storia prenderà un corso molto diverso.
E’ il 1812 e re Ferdinando I si è dovuto stabilire in Sicilia perché i si hanno conquistato il Meridione e in Sicilia è protetto dalla flotta e dall’esercito inglesi. I baroni hanno il controllo di fatto dell’isola e lo “ospitano” purché rinunci alle sue iniziative riformiste. Gli inglesi, all’avanguardia del progresso, premono per abolire il feudalesimo e anche i baroni sono d’accordo. Ferdinando sa che sta consegnando le pecore ai lupi ma il “progresso” è inarrestabile e il suo potere è molto limitato. I baroni diventano proprietari di latifondi enormi stroncando sul nascere qualunque tentativo di far avere qualcosa anche ai servi. Intere comunità sono di colpo espropriate dei loro mezzi di sussistenza e si trovano in balia dei padroni che ora, nel nuovo ordinamento giuridico, li possono anche licenziare. Non sono più servi della gleba, sono finalmente liberi… di morire di fame!
Negli anni successivi, tornati a Napoli, i Borbone tentano di far avere un qualche indennizzo ai contadini per i diritti promiscui che hanno perso ma i tribunali sono comunque in mano ai potenti e i poveri non riceveranno nulla. I latifondisti riescono persino a far approvare il principio che spetta ai contadini l’onere della prova; dopo il danno anche la beffa. Varie riforme agrarie furono tentate ma venivano tutte svuotate dalla resistenza iva e a volte attiva di tutti i siciliani. Le tasse gravavano in modo spropositato sui poveri perché l’unica tassa che si riusciva a riscuotere era la tassa sul macinato. I Borbone iniziano quindi un
censimento delle terre per poter tassare i latifondi ma con minacce e corruzione si riusciva a bloccare i funzionari addetti; furono necessari cinquant’anni per portarlo a termine. Ora tutta la Sicilia odia i Borbone e tutte le classi sociali si odiano tra di loro.
Un esempio: “c’era il principe di Villafranca che, quando il comune di Salaparuta nel 1829 lo accusò di appropriazione illegale di foreste comunali, bruciò il bosco per sfida;e sebbene l’intendente lo condannasse, ci vollero settantaquattro anni di cause prima che si potesse togliergli la terra che aveva rovinata”.
E’ una strana situazione. Pensate che a quattro anni dalla pubblicazione delle ricerche di Jenner sul vaiolo, Ferdinando I mandò un medico inglese in Sicilia per dare una dimostrazione dell’efficacia della vaccinazione e, dato che i medici siciliani lo boicottavano, si fece vaccinare lui personalmente. Prima di morire si taglia il codino per rompere con un ato reazionario. Purtroppo fu tutto inutile! “Radunando intorno a sé i loro dipendenti e i loro bravi, sfruttando il patriottismo locale, la xenofobia e la diffusa avversione a ogni legge e regola, i latifondisti cercarono di convincere il popolo che non erano loro, ma gli odiati Borbone, a impedire ogni progresso e a mantenere povera la Sicilia”.
Qui dobbiamo notare che i Borbone ebbero maggior successo nel Meridione ove una realtà socio-culturale meno anarcoide che in Sicilia gli consentì di ottenere notevoli successi con “l’ordinanza che fu chiamata la reintegrazione amministrativa dei domini usurpati al pubblico bene e cioè al legittimo proprietario del pubblico bene: il popolo. … Grandissima è la quantità dei beni usurpati e reintegrati e dei demani ripartiti ai nullatenenti. In quattro anni soltanto, dal 1850 al 1854, furono reintegrati nei demani comunali più di 108.950 moggia di terreni usurpati e divisi in sorte ai bisognosi agricoltori”⁵². Questo successo delle riforme agrarie borboniche nel Meridione ebbe come conseguenza che la classe dei proprietari terrieri, nobili, galantuomini, liberali, ecc., divenne inesorabilmente ostile ai Borbone e per contro consolidò l’attaccamento delle masse popolari verso la monarchia.
Con una ostinazione che non si può non ammirare Ferdinando II tenta ancora di far funzionare in Sicilia le riforme agrarie ma ora c’è un nuovo nemico che stroncherà definitivamente qualunque tentativo: il Risorgimento italiano. “Il governo cercò di continuare ad attuare la sua politica di riforma finché la rivoluzione del 1848 non mise fine a un periodo di dispotismo più o meno illuminato. Questa diffamata fase dell’amministrazione Borbonica costituì l’ultima occasione per quasi un secolo in cui un governo tentò di elaborare un serio ed equilibrato programma di riforma agraria”.
Quando scoppia il ’48 la Sicilia è in una situazione di semi anarchia. I baroni hanno perso la gestione della giustizia feudale ma la cosa non li preoccupa perché la giustizia non gli era mai piaciuta. Da tempo immemorabile esercitano il loro potere per mezzo di bande di sgherri che spadroneggiano nel feudo in barba a qualunque diritto. Ora con queste bande di delinquenti cercano di ottenere il controllo e poi la proprietà su tutta la terra su cui riescono a mettere le mani usurpando i diritti dei villaggi o scontrandosi con il proprio vicino.
Anche i servi e i villaggi cercano di organizzarsi e mettono assieme delle squadre che si oppongono a quelle dei baroni. Queste bande sono comandate da individui astuti e spietati che col tempo si svincolano dalla sudditanza del latifondista o del villaggio e assumono in proprio il controllo della squadra. Ora anche i padroni possono essere vittime dei loro soprusi. Naturalmente i latifondisti hanno una qualche possibilità di difendersi assumendo altre squadre di delinquenti ma per i villaggi o per i piccoli proprietari non c’è nessuno scampo. Gli tocca chinare la testa e adattarsi ai soprusi.
Questi capi squadra non sono interessati a diventare proprietari dei latifondi; hanno capito che la proprietà ha senso solo se c’è una giustizia imparziale che ne faccia rispettare i relativi diritti. Loro sanno di poter facilmente controllare i tribunali con l’intimidazione o la corruzione, quindi sanno che il potere reale lo hanno loro. La proprietà può essere un punto di debolezza perché espone il proprietario alle estorsioni; molto meglio non possedere nulla e controllare tutto.
Nasce un nuovo tipo di potere, è un potere “nascosto” che si esercita dietro le quinte con la corruzione, l’intimidazione e il delitto. Queste squadre si ispirano al feudalesimo e alla Chiesa. Chi entra nella squadra a attraverso rituali e giuramenti. Sono rituali di iniziazione che stabiliscono una sudditanza a vita e una fedeltà che solo la morte può spezzare. Naturalmente è un mondo ove tutti tradiscono tutti e qualunque giuramento è fatto per essere infranto; l’unico collante di queste strutture è l’applicazione spietata della pena di morte. Loro si considerano “uomini d’onore” perché rischiano la loro vita tutti i giorni, mai si abbasserebbero a lavorare, il loro “onore” è sfruttare il lavoro dei servi che hanno quello che si meritano perché sono dei codardi.
E’ un’etica presa dall’Europa dei regni barbarici che in Sicilia si era innestata sulla disastrosa cultura arabo-bizantina dopo l’invasione dei normanni. Un’etica che in Sicilia non era mai tramontata.
Il nostro lettore deve considerare che mille anni fa questa era l’etica che dominava tutta l’Europa. La cultura prevalente che si era affermata durante i secoli bui, dopo il crollo della civiltà greco-romana, considerava depositari del potere quelle autorità che potevano dare la morte sia del corpo che dell’anima. Era la paura, o meglio il terrore della morte e delle torture, l’attributo che nei cuori e nelle menti dei popoli definiva l’autorità, il detentore del potere a cui si deve obbedienza e rispetto. Lo stato di diritto con la sua cultura della legalità è ancora molto lontano, saranno necessari diversi secoli di evoluzione per realizzarlo.
Un secolo dopo gli americani chiamano queste strutture “criminalità organizzata” che è una definizione tecnicamente corretta ma troppo riduttiva. E’ impossibile comprendere il fenomeno se non si comprende la sua componente etica.⁵³
Quando scoppia il ’48 l’autorità dei Borbone subisce un tracollo dal quale non si riprenderà più. Le squadre saltano fuori e marciano su Palermo e i Borbone
abbandonano l’isola che si dichiara indipendente. E’ un’indipendenza che gli indipendentisti siciliani pagano accettando le squadre nel nuovo ordine. “Alcuni capibanda erano già divenuti eroi di ballate popolari, erano stati nominati colonnelli onorari e, per placare i loro seguaci, erano stati loro conferiti persino incarichi speciali di pubblica sicurezza in cui avevano la più ampia possibilità di avvalersi della loro familiarità con la malavita. Scordato e Di Miceli furono autorizzati a giustiziare la gente a loro arbitrio”.
Questi sono i “patrioti” a cui Garibaldi voleva unirsi prima di andare a difendere la Repubblica Romana.
Viene insediato un parlamento siciliano a Palermo ove entrano Crispi, La Masa e La Farina. Questo parlamento dichiara la Sicilia indipendente e rifiuta una qualunque sudditanza nei confronti di Napoli, rifiutando altresì di partecipare all’unità d’Italia. Loro vogliono un regno di Sicilia.
Ovviamente non funziona e quando l’anno dopo l’esercito Borbonico sbarca nell’isola le squadre abbandonano gli indipendentisti e così si chiude questa breve esperienza di autogoverno siciliano.
Ma Crispi, La Masa e La Farina hanno capito che per cacciare i Borbone e assicurare una qualche autonomia all’isola è necessario l’aiuto di una potenza straniera. Fuggono dall’isola e Crispi e La Masa si mettono con Garibaldi mentre La Farina si mette con Cavour. Ufficialmente loro sono dei patrioti italiani che lottano per cacciare i Borbone e ottenere una qualche autonomia per la Sicilia ma sono in perfetta malafede perché è impossibile supporre che il nascente Regno d’Italia voglia concedere alcuna autonomia. Nel ’48 loro hanno avuto rapporti con le squadre e sanno a chi rivolgersi per sollevare i “patrioti siciliani” quando arriverà il momento giusto.
Sono questi gli “insorti siciliani” che si uniscono a Garibaldi nell’impresa dei Mille.
Dopo il ’48 i Borbone sono completamente scoraggiati e anche loro si adattano a compromessi con le squadre e rinunciano ad ulteriori tentativi di riforma. La loro autorità sull’isola si è talmente indebolita che il capo della polizia accetta la “collaborazione” delle squadre: “Scordato, il contadino analfabeta che era capo di Bagheria, e Di Miceli di Monreale furono tra i capibanda ora assunti con l’insolito compito di esattori delle imposte e guardiacoste, e nell’esplicarlo si fecero una fortuna”. Inoltre, migliaia di “galantuomini” avevano approfittato del vuoto di potere provocato dal ’48 e avevano arbitrariamente “privatizzato” ampie estensioni di terre comuni dei villaggi usurpando i diritti degli abitanti. Sono i nuovi ricchi che hanno saputo cogliere al volo le buone occasioni e hanno qualche squadra nel libro paga.
I Borbone si trovano di fronte al dilemma se obbligare con la forza le classi dominanti in Sicilia, baroni, galantuomini e squadre, a restituire le terre agli abitanti o trovare un compromesso con loro. Il compromesso con gli usurpatori avrebbe portato a una illegalità inarrestabile con la perdita finale dell’isola. L’impiego della forza avrebbe richiesto un intervento sistematico dell’esercito per un lungo periodo di tempo e con un risultato a dir poco incerto ma sicuramente con un bagno di sangue. Infatti i siciliani hanno sempre rifiutato il servizio militare e quindi ne sono stati esentati; l’esercito sarebbe stato composto da soli napoletani provocando l’accusa di essere una forza di invasione. Questo esercito si sarebbe trovato a combattere contro tutti e sarebbe stato coinvolto nelle guerre tra le squadre. Inoltre una guerra prolungata avrebbe sicuramente attirato l’intervento degli sciacalli piemontesi o inglesi o si.
E’ impossibile capire l’atteggiamento rinunciatario e disfattista di sco II se non si considera la situazione drammatica in cui si trovava. Qualunque cosa avesse fatto avrebbe comunque provocato un bagno di sangue e una grande ingiustizia e lui è re per grazia divina e ha dei doveri nei confronti del suo popolo. I patrioti non hanno queste remore, per loro i bagni di sangue sono il
“Crogiolo delle Nazioni” e vanno affrontati con orgoglio. Quanto alle ingiustizie… è colpa dei Borbone!
Negli anni prima del crollo i Borbone si dedicano ad opere di pubblica utilità come settecento miglia di telegrafo elettrico e diversi cavi sottomarini o la sistemazione di qualche porto o la costruzione di qualche strada e completano il censimento delle terre. Intanto l’isola sfugge sempre più al loro controllo.
Quando Garibaldi sbarca a Marsala Crispi e La Masa riprendono i contatti con le squadre che ora partecipano alla “liberazione” dell’isola ed entrano a pieno titolo tra le forze che hanno fatto l’Italia.
Inizia così la collusione tra la politica e la criminalità organizzata in Sicilia e di conseguenza in Italia.
Una volta entrata nel Regno d’Italia la Sicilia si trova in una situazione del tutto nuova. Il governo italiano è molto più accentratore di quello napoletano, la pressione fiscale è almeno raddoppiata e non si transige sull’obbligo del servizio militare. La delusione di aver perso anche quel poco di autonomia che avevano da Napoli aliena la popolazione da un qualunque senso di fedeltà nei confronti della nuova patria che li stava governando col governo più reazionario e repressivo d’Europa. Le campagne sono piene di renitenti alla leva che vanno ad ingrossare le squadre che iniziano a riscuotere tributi da tutti quelli che si trovano nei loro territori spodestando l’autorità dello stato. “Se si considera la Sicilia nel suo insieme, il numero degli assassini era dieci volte maggiore che in Lombardia o in Piemonte”. E’ un potere che si consolida negli anni su di un fiume di sangue.
Rispetto al regno Borbonico la novità principale è che ora ci sono elezioni a un parlamento nazionale e giurie nei tribunali. Per le squadre manipolare le elezioni
o i tribunali è un gioco da ragazzi e hanno già delle discrete credenziali poiché hanno partecipato all’impresa dei Mille. Ora attraverso i rappresentanti del popolo possono arrivare a Roma, al centro del potere. Una cosa che sotto i Borbone non si potevano neanche sognare.
“Nel 1863 una commedia in dialetto che descriveva la vita nelle prigione principale di Palermo ottenne un enorme successo: si chiamava ‘I mafiusi della Vicaria’, e questo titolo rese popolare una parola del gergo della malavita di un suburbio di Palermo”.
Così questo fenomeno ha trovato il suo nome, mafia.
Per mezzo della elezioni le cosche mafiose possono infiltrare tutte le istituzioni dello Stato e ottenere un controllo del territorio che scoraggia una qualunque iniziativa imprenditoriale. Come abbiamo visto nel nord Europa la massa di braccianti prodotta dallo smantellamento del feudalesimo ha trovato rifugio nelle città lavorando nelle fabbriche. In Sicilia questo non è possibile; non è possibile sviluppare una economia industriale e dei servizi sotto il tallone della mafia. Gli imprenditori siciliani che non vorranno scendere a compromessi dovranno emigrare nel Nord Italia o all’estero.
I governi italiani portano avanti la politica di laicizzazione dello stato “sciogliendo alcuni monasteri e confiscando le proprietà ecclesiastiche. Si sarebbe incamerato così un decimo della superficie totale della Sicilia” privando così il popolo dell’unica forma di assistenza sociale esistente sull’isola e consolidando la sua alienazione da questa nuova patria. “Ma l’opposizione maggiore fu quella suscitata proprio nella Chiesa. D’ora in avanti l’ostilità verso l’Italia e l’inosservanza verso la legge e l’ordine ricevettero l’appoggio ecclesiastico; così a volte lo ebbe la stessa mafia”. Ora il controllo del territorio da parte della mafia svuota e ridicolizza il potere dello Stato; sono loro che raccolgono le tasse e amministrano la giustizia a modo loro. Ora il potere della Mafia ha una certa consistenza “morale” che, in un certo qual modo viene
accettato e riconosciuto dal popolo con la benedizione di Santa Romana Chiesa. Ci vorrà più di un secolo perché la Chiesa esprima una condanna chiara e inequivocabile della mafia.
Nelle campagne, grazie all’autorità delle cosche mafiose, i padroni tengono i braccianti in una situazione di completa soggezione che non trova l’eguale neanche nel più cupo Medioevo. Uniche vie di uscita: la morte o l’America. In America arrivano anche i mafiosi che hanno perso nella lotta tra le cosche per il potere. Qui trovano una società talmente aperta e garantista che fa esplodere il fenomeno a livelli impensabili. La mafia penetra nella società americana e compie un’ulteriore evoluzione. Scopre altre aree da conquistare: i sindacati. Scopre e impara ad usare un’altra arma di ricatto e di estorsione: lo sciopero. Il resto lo conoscete, è cronaca dei nostri giorni.
Da Marsala al Volturno
Lasciata Marsala, Garibaldi si avvia verso Salemi in direzione di Palermo. Sembra più una gita in campagna che una operazione militare. Per Abba Garibaldi è un dio: “E il Generale seduto a piè di un olivo, mangia anche lui pane e cacio, affettandone con un suo coltello, e discorrendo alla buona con quelli che ha intorno. Io lo guardo e ho il senso della grandezza antica”.
Queste sono le prime impressioni di Abba sulla Sicilia: “Per una via sonnacchiosa, ando innanzi a certe casucce, dove la miseria si ridestava nelle stanze terrene semiaperte e schifose, riuscimmo alla campagna del lato opposto. … Anche qui la miseria invade e la fame, ed ad ogni o ti s’appresenta il tristo spettacolo della mendicità. Pare che nel popolo lo spirito predominante sia la religione guasta dall’ignoranza. In tutte le parti d’Italia non si troverebbe una casa povera come quella d’un siciliano”. Quando arrivano a Salemi: “Vasta, popolosa, sudicia, le sue vie somigliano colatoi”.
Il giudizio di Bixio è decisamente più violento, scrive alla moglie: “Che paesi! Si potrebbero chiamare dei veri porcili! Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandarli in Africa a farli civili”.
A Salemi Garibaldi assume solennemente la dittatura di Sicilia in nome di Vittorio Emanuele, fa affiggere il decreto per le vie mentre i banditori lo leggono ad alta voce, quindi si affaccia a un balcone per arringare la folla. Bandi ci informa che i garibaldini sono perplessi e preoccupati perché non hanno visto alcuna sommossa e non c’è alcuna rivolta in corso. Lui accusa il siciliano La Masa di aver mentito quando a Genova aveva insistito che la Sicilia era in fiamme e si doveva accorrere ad aiutare i rivoltosi. La Masa gli risponde: “Aspetta a dire; tu vedrai tra due giorni o tre ch’io non fui bugiardo … La rivolta fu spenta … ma vedrai che a riaccenderla cento volte maggiore basta un fiammifero”. Quindi per ordine di Garibaldi La Masa parte verso l’interno per
reclutare le squadre che lui ben conosce. Si vanterà in seguito di essere riuscito ad arruolare ben 6.000 “rivoltosi”.
Abba annota l’arrivo dei primi “insorti siciliani”: “Nella notte sono arrivati a squadre molti insorti, armati di doppiette da caccia e di picche bizzarre. Parecchi vestono pelli di pecora sopra gli altri panni, tutti paiono gente risoluta, e sono messi con noi”. Il giorno successivo continuano ad arrivare: “Le squadre arrivano da ogni parte, a cavallo, a piedi, a centinaia, una diavoleria. … Ho veduto dei montanari armati fino ai denti con certe facce sgherre, e certi occhi che paiono bocche di pistole. Tutta questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota”.
Bandi viene salutato al grido di “Viva la Talia” che sarebbe “Viva l’Italia” ma lui li chiama: “quei beduini”. Si capisce che né lui né Abba sono contenti di avere questa gente in mezzo a loro. Non hanno la più pallida idea chi siano questi rivoltosi ma capiscono che è gente di malaffare e che dell’Italia unita non gliene importa nulla; sono completamente indisciplinati e obbediscono solamente ai loro capi.
Ippolito Nievo era stato incaricato da Garibaldi di tenere la cassa e la contabilità della spedizione. In una lettera a una cugina, Nievo scrive: “A Marsala squallore e paura; la rivoluzione era sedata dappertutto o, per dir meglio, non avea mai esistito: solo qualche banda di semi briganti, che qui chiamano squadre, avevano battuto e battevano ancora qualche provincia dell’interno con molta indifferenza del governo e qualche paura dei proprietari. Il giorno dopo nelle vicinanze di Salemi cominciammo a raccozzare alcuna di cotali squadre”⁵⁴. Per Nievo Salemi: “E’ una vera città, anzi una topaia, saracena … Incontriamo i primi frati; ci accorgiamo di essere in pieno medioevo”.
Qui Nievo sembra aver intuito qualcosa della situazione ma si sbaglia quando dice che il governo (borbonico) era indifferente; lui non ha ancora visto le squadre in azione. I borbonici sanno, da pluriennale esperienza, che le squadre
possono scatenare una ferocia mostruosa che può arrivare anche al cannibalismo e ne sono terrorizzati. E’ giusto dire che “la rivoluzione non avea mai esistito” se si parla di una rivolta patriottica italiana perché non c’era mai stata in Sicilia una rivolta patriottica italiana e il governo non poteva certamente esserne preoccupato, di rivolte sociali invece ce ne erano state quante lui non poteva immaginare.
Ha ragione Abba quando dice che “questa gente è condotta da gentiluomini, ai quali ubbidisce devota”, il problema è che quei criminali obbediscono solo ai loro gentiluomini che sono i capisquadra e sono delle bestie sanguinarie. E’ evidente che i nostri eroi non hanno la benché minima idea di quale sia la situazione in Sicilia.
Possiamo supporre che Garibaldi si trovasse a suo agio con questa gente; in fondo si trova in una situazione molto simile a quella del Rio Grande ove comandava bande di criminali al servizio di latifondisti. Comunque sia lui ha un assoluto bisogno di dimostrare all’opinione pubblica anglosassone che il “popolo siciliano” è con lui e si sta sollevando contro i Borbone. Ordina ai suoi di dare alcuni dei loro pochissimi e preziosissimi fucili ai “rivoltosi”. I garibaldini obbediscono, di malavoglia.
Lasciano Salemi e il giorno dopo si scontrano con i borbonici a Calatafimi. I borbonici sono comandati dal generale Landi che ha 68 anni ed è malato ma sono quasi il doppio e molto meglio armati. Inspiegabilmente Landi tiene la maggior parte delle sue truppe nel paese a tre chilometri dal campo di battaglia ove i borbonici sono inferiori di numero: Garibaldi ordina di attaccare senza sosta. Eppure ad un certo punto sembra che i garibaldini stiano per essere circondati e sopraffatti. Bandi ci racconta: “Sirtori giunse proprio allora … e chiese al generale: ‘Generale che dobbiamo fare?’ Garibaldi guardò intorno e con voce tremante gridò: ‘Italiani, qui bisogna morire’” e continua ad attaccare. Bandi si rende conto che, anche se sembra un suicidio, questa è l’unica tattica che si possa adottare. Lui vede che le alture intorno al campo di battaglia sono piene di siciliani che aspettano di vedere chi sarà lo sconfitto per saltargli
addosso e prendergli tutto. E’ chiaro che ritirarsi sarebbe la fine. Quindi “Era necessario farsi largo tra i nemici, o saper morire ripetendo il grido dei fratelli Bandiera: Chi per la patria muor / vissuto è assai!”. Questo è lo spirito garibaldino: il Culto del Supremo Sacrificio. E’ per mezzo di questa vocazione al martirio che riescono a vincere, infatti i borbonici si ritirano e abbandonano il campo: loro, se hanno un culto, è quello della Vergine Maria che non vuole che nessuno si faccia ammazzare.
Secondo Bandi la ritirata dei borbonici fu dovuta alla vigliaccheria dei loro ufficiali perché se avessero continuato a combattere avrebbero finito per avere la meglio: evidentemente si sono battuti molto bene. Le squadre dei “rivoltosi” siciliani si sono dileguate o si sono comunque tenute lontano dalla battaglia quindi ora i borbonici sarebbero più del doppio se Landi fe intervenire tutte le sue truppe. Invece si ritira e accetta la sconfitta.
Secondo lo storico filo borbonico De Sivo il generale Landi fu comprato con una polizza di 14.000 ducati (che poi si rivelerà falsificata) ma i figli del generale, che fanno la loro carriera nell’esercito italiano, ottengono da Garibaldi una lettera di smentita. Noi non sappiamo se Landi fosse un corrotto oppure no; comunque si comporta come se lo fosse stato. Dopo il calar della notte non si ritira semplicemente ma fugge verso Palermo come se fosse un esercito in rotta. Perché fuggire? Con questa battaglia, minuscola, si decidono le sorti della spedizione, tutto il mondo vede che Garibaldi vince e i borbonici fuggono.
Quando Landi a per Partinico sulla strada per Palermo la gente vede che sono sconfitti e in fuga e li attacca. E’ una strage. Tre giorni dopo Abba attraversa Partinico e vede: “Cadaveri di soldati e di paesani, cavalli e cani morti e squarciati fra quelli. Al nostro arrivo le campane suonavano non so se a gloria o a furia; le case fumavano ancora; il popolo esultava tra quelle ruine; preti e frati urlavano frenetici evviva. Le donne si torcevano le braccia furenti; e intorno a sette od otto morti, rigonfi e bruciacchiati, molte fanciulle danzavano come forsennate a cerchio, tenendosi per le mani e cantando”.
Per il Regno delle Due Sicilie è l’inizio della fine.
Nievo inizia a capire in quale inferno si sono cacciati: “i Napolitani di Landi assaliti di fianco dalla squadra di Partenico si ritirano lasciando alcuni morti e feriti che sono squartati, abbruciati e dati da mangiare ai cani in questo paese. Altro fatto simile a Borghetto e sotto Montelepre. … Marcia per Partenico. In questo paese i cani sono ancora occupati a mangiare i Napoletani abbrustoliti – non è un sintomo di civiltà”⁵⁵.
Così Garibaldi commenta l’episodio: “Miserabile spettacolo! noi trovammo i cadaveri dei soldati Borbonici, per le vie, divorati dai cani! Eran cadaveri d’italiani da italiani sgozzati, che, se cresciuti alla vita dei liberi cittadini, avrebbero servito efficacemente la causa del loro oppresso paese; ed invece, come frutto dell’odio, suscitato dai loro perversi padroni, essi finivano straziati, sbranati dai loro propri fratelli, con tal rabbia da far inorridire le jene!”. E’ chiaro che per Garibaldi è tutta colpa dei Borbone; è colpa loro se in Sicilia c’è tanto odio. Questo atteggiamento mentale sarà una costante del pensiero politicosociale dei patrioti italiani che per 150 anni continueranno a ripetere che la questione meridionale è un’eredità di epoche ate di oppressione e malgoverno borbonico. Chissà per quanti secoli ancora sarà colpa dei Borbone.
Ora Garibaldi punta su Palermo che è presidiata da almeno 20.000 borbonici mentre lui ha 800 garibaldini e forse 2.000 o 3.000 rivoltosi siciliani. Questi rivoltosi si sono dimostrati inutili in battaglia, loro sanno sparare nella schiena o appiccare incendi di notte ma quando si trovano a combattere in campo aperto disobbediscono e fuggono. La presenza delle squadre dà sempre dei problemi: una notte rubano a Garibaldi le sue coperte, poi fanno infuriare Bixio quando li sorprende a derubare il cadavere di un garibaldino. E’ un rapporto molto difficile. Ma questi sono i siciliani che si sono messi con lui e in questo momento non può farne a meno: senza una partecipazione del “Popolo” la sua conquista non sarebbe legittima.
Garibaldi è arrivato sulle colline che circondano Palermo e con una mossa geniale riesce a scansare un tentativo di aggancio dell’esercito napoletano poi spedisce un piccolo drappello dei suoi verso l’interno facendo finta di fuggire e lascia che diverse migliaia di soldati napoletani inseguano questo drappello, pensando di averlo in pugno, mentre lui si avvicina alla città che è comunque presidiata da almeno 15.000 borbonici mentre i suoi garibaldini non sono neanche 800. Pur essendo in una situazione a dir poco precaria, lo spirito dei suoi è alle stelle e non hanno alcun dubbio che Lui li porterà alla vittoria. Un episodio raccontato da Abba ci mostra la forza del legame che li tiene uniti: “Aveva appena finito di confortare quei poveri soldati, che gli fu presentato dal capitano Cenni suo carissimo, uno dei giovani della spedizione, il quale portava una manciata di fragole in un canestrino fatto di foglie ‘Generale, questo cacciatore delle Alpi vi offre le fragole’, Garibaldi guardò Cenni, guardò il giovane, poi sorrise un poco, crollò la sua bella testa e gli domandò: ‘Di dove siete?’, ‘Genovese’, rispose il giovane quasi tremando. E allora il Generale in dialetto genovese: ‘E avete ancora la madre?’, ‘Generale sì’, e gli occhi del giovane videro allora molto lontano, ‘Cosa direbbe’, continuò Garibaldi ‘se fosse qui a vedere che mi piglio le vostre fragole?’. Ma intanto tese la mano e ne levò due o tre per gradire, soggiungendo: ‘Andate, andate, godetevele voi, che vi parranno più buone che a me’”⁵ .
ano il o di Renda e giungono in vista di Palermo; sono accampati in attesa di attaccare e Abba nota che alcuni picciotti delle squadre fanno la guardia a un uomo che è sdraiato a terra con mani e piedi legati e suscita la curiosità dei garibaldini: “I garibaldini che andavano a vederlo, sentivano dire che egli era un tale Santo Mele, il quale sin dallo scoppio della rivoluzione aveva principiato a correre la campagna con alcuni ribaldi, rubando le casse pubbliche e assassinando la gente. Aveva fino incendiato il villaggio di Calamina. E tutto aveva fatto in nome di certa sua giustizia che gli pareva d’aver diritto d’esercitare; anzi se ne gloriava. I siciliani … dicevano che colui doveva essere Maffioso; e spiegavano ai compagni la natura d’una tenebrosa società che aveva le sue fila per tutta l’isola … Piace rammentare che i continentali scusavano l’isola … e dicevano … che sarebbe ata anche la Maffia. Quel Santo Mele il giorno appresso sparì. Forse la Maffia potentissima gli aveva dato aiuto fin in quello accampamento”. Così i padani vengono a conoscenza di questo fenomeno e naturalmente pensano che la loro rivoluzione avrebbero fatto are anche la Maffia assieme al “malgoverno” dei Borbone. Quanto si sbagliavano!
Cercano di unirsi alla banda di Rosolino Pilo che era partita da Genova un mese prima ma questa banda è stata intercettata dai borbonici e distrutta.
Ora per conquistare la città Garibaldi conta sull’appoggio del popolo palermitano e degli alleati angloamericani. Un paio di navi americane sono arrivate a Palermo e la Mediterranean fleet ha circa una decina di navi tra la Sicilia e Napoli ma, soprattutto, a Palermo c’è il vice-comandante della flotta l’ammiraglio Bundy sull’Hannibal. La rada è piena di navi di tutte le nazioni che non vogliono perdersi lo spettacolo.
Mentre sono fuori città prima di attaccare Garibaldi ci dice nelle sue Memorie che “vi furono vari stranieri, nel nostro campo, massime inglesi e americani, manifestando molta simpatia per la bella causa dell’Italia. Un giovane ufficiale americano, si staccò un revolver dal cinturone e me l’offerse gentilmente come pegno dell’interesse che prendeva a noi”.
Anche Abba incontra questi stranieri: “Queste notizie ce le hanno portate alcuni ufficiali delle navi americane e inglesi ancorate nel porto di Palermo. Un atto di amicizia che ci ha fatto gran bene. Hanno parlato col Generale, poi si sono messi a girare pel campo. Che strette di mano franche e fraterne! … Gli abbiamo caricati di lettere, di foglietti strappati qua e là e scritti a matita; saluti, gridi d’affetto, che essi faranno capitare alle nostre famiglie, col primo legno che salperà da Palermo. … Si sa che hanno portato al Generale la pianta di Palermo, co’ segni dove sono barricate o posti di regi”.
In città c’è l’ungherese Ferdinand Eber che ufficialmente è un corrispondente del Times ma in realtà è un agente britannico che tiene informato Garibaldi sui movimenti borbonici.
Con queste informazioni Garibaldi attacca di notte su una porta delle mura della città ma manda avanti le squadre dei siciliani che si mettono a sparare in aria e ad urlare dando così l’allarme ai borbonici. Per sua fortuna i borbonici sono al comando del generale Lanza che ha 75 anni ed è un massone. Anziché mandare truppe in soccorso a quelle che presidiano le porte si ritira chiudendo i suoi in tre palazzi all’interno delle mura e distanti tra di loro frammentando il suo esercito e abbandonando di fatto buona parte della città. I garibaldini riescono a sfondare la porta nonostante le strenua resistenza dei pochi soldati rimasti isolati a difendere la posizione e occupano i quartieri abbandonati.
Così Nievo descrive alla cugina la conquista di Palermo: “Che miracolo! – Ti giuro, Bice! Noi l’abbiamo veduto e ancor esitiamo quasi a credere! – I Picciotti fuggivano d’ogni banda: dentro pareva una città di morti; non altra rivoluzione, che sul tardi qualche scampanio. E noi soli, ottocento al più, sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati senz’ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?) alla conquista d’una città contro venticinquemila uomini di truppa regolare”⁵⁷.
La popolazione vede che i garibaldini vincono mentre i borbonici si ritirano e insorge. Così in poche ore Garibaldi è entrato a Palermo e assedia 20.000 borbonici con 800 garibaldini e con un qualche appoggio da parte della popolazione. Ci rendiamo conto che è grottesco, ma è andata così.
Già nel ’48 Palermo era insorta e gli indipendentisti siciliani si erano adattati a collaborare con le squadre. Per il popolo di Palermo non è una novità vedere arrivare queste squadre al seguito di un qualche liberatore.
Per un paio di giorni Lanza fa qualche timido tentativo di rompere l’assedio dei garibaldini, poi chiede all’ammiraglio Bundy di fare da mediatore per una tregua con Garibaldi. L’ammiraglio accetta volentieri. Le trattative si tengono a bordo dell’Hannibal e ci partecipano i comandanti delle squadre navali che sono in rada: si, sardi e americani. Il 30 si tratta la tregua. Lanza non si è potuto
muovere e ha mandato il generale Letizia per trattare con Garibaldi che si è vestito in divisa da generale sardo.
Le condizioni di questa tregua concedono a Garibaldi di occupare il palazzo del Banco delle Due Sicilie. Crispi si precipita e preleva, in ducati d’oro, una somma stimata in 80 milioni di Euro. Garibaldi lascia alla banca un biglietto come ricevuta, che, ovviamente, non sarà onorato. Così i palermitani che avevano depositato i loro capitali nella banca perdono tutto.⁵⁸ Garibaldi chiede altri soldi a Bertani che è ancora a Genova, ma lo deve raggiungere con altri volontari. Sembra che i soldi non gli bastino mai. Questa tregua è provvidenziale perché Garibaldi è rimasto senza munizioni. Gli americani gliene danno un po’ dalle navi che hanno in rada mentre gli inglesi spediscono da Malta 1.500 fucili con munizioni; intanto da Genova sbarcano in Sicilia altre migliaia di volontari trasportati dalle navi americane e questa volta sono armati benissimo.
Mentre entrambe le parti si preparano a sfruttare la sosta concessa dalla tregua arrivano a Palermo le forze borboniche che si erano fatte ingannare da una finta di Garibaldi e si erano allontanate da Palermo inseguendo verso l’interno un piccolo drappello di garibaldini. Tornano indietro di corsa, sono furiosi e attaccano le difese garibaldine senza neanche contattare il generale Lanza. Travolgono la resistenza degli insorti, entrano in città e arrivano a poche centinaia di metri dal Palazzo Pretorio ove risiede Garibaldi. Hanno la vittoria a portata di mano quando arrivano due ufficiali borbonici che avvertono il comandante, colonnello Bosco, che c’è una tregua appena iniziata e lui si deve fermare. Abba è presente e vede la scena: “Laggiù, in fondo alla via, in mezzo a quelle facce torve di stranieri, si vedeva il colonnello Bosco aggirarsi furioso, come uno scorpione nel cerchio di fuoco. Oh s’egli avesse potuto giungere mezz’ora prima! Entrava difilato, e se ne veniva al Palazzo Pretorio quasi di sorpresa, con tutta quella gente, che aveva la rabbia in corpo della marcia a Corleone, fatta dietro le nostre ombre. Chi sa che fortuna sfuggiva di mano a questo Siciliano, giovane, ardito e di ricco ingegno?”.
Ferdinando Beneventano del Bosco è il rampollo di una nobile famiglia di
Siracusa ed è fedele al suo re.⁵ Non può essere comprato ed è l’unico ufficiale borbonico che combatte con decisione. Sarà l’unico che darà del filo da torcere a Garibaldi, ma lui da solo non può rovesciare le sorti di un regno in disfacimento e governato da un re idiota. E’ bella l’analogia di Abba dello “scorpione nel cerchio di fuoco” con la rabbia di Bosco che sa di avere la vittoria in pugno ma deve obbedire agli ordini e fermarsi, restando così anche lui assediato dentro Palermo. E’ un tragico destino il suo, dovrà bere altre volte il calice amaro del tradimento e della sconfitta, fino alla sua ultima conclusione. E’ bello anche l’omaggio che fa Abba a questo nemico “giovane, ardito e di ricco ingegno”, un piccolo riconoscimento all’unico borbonico che si è battuto con valore.
Con Bandi presente, il 31 Garibaldi riceve nel Palazzo Pretorio il generale Letizia e il colonnello Buonopane che vogliono prolungare la tregua senza una scadenza. Garibaldi naturalmente accetta, questa tregua sembra fatta apposta per lui che ha un disperato bisogno di tempo per ricevere i rinforzi e i rifornimenti che stanno per arrivare. Offre dei sigari e poi mentre sbuccia un’arancia con un suo coltellino si lamenta che i soldati napoletani hanno provocato qualche scontro; in risposta Letizia protesta che stanno facendo del loro meglio per tenere disciplinati i loro uomini. Si capisce che i soldati napoletani si sentono umiliati da questa tregua vergognosa, disprezzano gli ufficiali che li hanno condotti a questo disastro e sono impazienti di prendersi una rivincita. Garibaldi offre uno spicchio a entrambi infilzandolo sul suo coltellino e porgendolo mentre discutono. Letizia parla con la bocca piena e sembra una tranquilla conversazione tra amici di vecchia data.
All’improvviso scoppia un rumore di fucileria. Sono i siciliani che come al solito non obbediscono e si sono messi a sparare per proprio conto. Garibaldi è seccato e ordina che cessino immediatamente. I due borbonici sono terrorizzati, temono per la propria vita: “I due ufficiali parevan più morti che vivi ‘Oh Dio! Generale’, esclamò Letizia ‘fate davvero che cessino. Non ci date più diacciacuori!’ … ‘Sì generale, per carità, è tempo che si finisca’, soggiunse il Buonopane, giungendo le palme in atto di preghiera”. Garibaldi li rassicura: “siete in casa di un galantuomo”. Che razza di soldati!
Letizia si congeda dicendo che sarà a Napoli il giorno dopo per far approvare dal re l’armistizio con cui tutta Palermo è lasciata a Garibaldi mentre loro si ritirano nel castello e sotto il monte Pellegrino. Ora Garibaldi è padrone della città. In rada ci sono 50 navi da guerra di tutte le nazioni. E’ arrivato l’ammiraglio Persano che si mette immediatamente al lavoro con ottimi risultati.
Il Palazzo Pretorio dove risiede Garibaldi diventa la meta di una folla di visitatori.
Bandi viene sorpreso dall’arrivo di una folla di ecclesiastici. “Era l’Arcivescovo di Palermo, che con tutto il clero della città veniva a far riverenza al dittatore”. Lui tiene a freno il suo odio per i preti ed educatamente fa entrare questa folla di visitatori mentre i garibaldini presenti si eccitano e non mancano di manifestare il loro sdegno. Prima che si possa verificare un incidente Bandi corre da Garibaldi. “Avvisai subito il generale, ed egli uscì dalla sua stanza e mosse incontro a quel vecchietto piccin piccino, col quale favellò amorevolmente … consolandolo come meglio seppe e potè; indi con bella e chiara voce e con parole oneste arringò tutti quei preti; e quando poi li accompagnò in cima alle scale per accomiatarli, erano innamorati pazzi di lui e lo avrebbero santificato”. Qui abbiamo un altro esempio del fascino del nostro eroe. Era ben noto il suo odio per la Chiesa eppure, con poche parole, è riuscito a conquistare vescovo e preti; un successo che lascia stupiti.
Arriva Alexandre Dumas con al seguito una puttanella che avrebbe potuto essere sua figlia. E’ arrivato a Palermo con il suo panfilo e si ferma a pranzo. I garibaldini sono molto irritati dal fatto che, senza alcun rispetto, la puttanella si siede alla destra del generale e i due mangiano in modo smodato. Garibaldi sa quale influenza abbia Dumas sull’opinione pubblica se e lo tratta con la massima considerazione, non per nulla è un genio delle pubbliche relazioni. Dopo pranzo il povero Bandi deve accompagnare Dumas sul suo panfilo per prendere in consegna un aiuto che Dumas ha portato dalla Francia per il suo amico Garibaldi. Sono delle armi che Bandi vorrebbe buttare a mare tanto sono vecchie e arrugginite ma ha capito quanto Garibaldi tenga all’amicizia di Dumas
ed educatamente carica quelle poche cose su un carretto e se le porta via.
La tregua prevede lo scambio dei prigionieri e i garibaldini sono portati a Palazzo per essere interrogati da Garibaldi. Arrivano tutti contenti di essere stati liberati ma Garibaldi non la vede così. Li interroga chiedendo loro se sono stati feriti; loro rispondono di star bene. Allora Garibaldi gli domanda perché si sono lasciati prendere prigionieri e a questo punto non sanno cosa rispondere. Garibaldi è furioso, gli dice che sono dei vigliacchi e che non sa che farsene di gente come loro! Bandi è dispiaciuto e addolorato ma in sostanza è d’accordo con Garibaldi. Secondo l’etica garibaldina loro si battono per la Redenzione della Patria e questo comporta che un garibaldino non si deve arrendere mai, solamente una ferita debilitante può giustificare la resa. Altrimenti, il Culto del Supremo Sacrificio comporta che ci si batta fino alla morte. Questo è quello che Garibaldi ha sempre fatto e pretende che i suoi facciano lo stesso. Per lui il Supremo Sacrificio non è un’espressione poetica presa dai romanzi, è un impegno d’onore che va portato fino alle estreme conseguenze.
Per iniziativa di Bixio nasce una piccola rivolta perché loro hanno famiglia e devono pur fargli avere qualcosa: “Il generale ha certe sue idee stupende intorno al disprezzo del danaro … e tutti sappiamo che riesce appena a distinguere un soldo da una lira”. A loro sta bene battersi per la gloria, ma le famiglie hanno bisogno di mangiare. La cosa era particolarmente irritante se si considera che i siciliani delle squadre venivano pagati regolarmente altrimenti sarebbero tornati a casa. Con molto timore si azzardano a chiedere di essere pagati ma Garibaldi risponde che a lui non serve essere pagato e questo deve star bene anche a loro. I poverini sono desolati e angosciati, cosa faranno avere ai loro cari? Due giorni dopo sono informati che il generale ha deciso che ogni garibaldino riceva la paga in uso nell’esercito sardo. L’atmosfera si distende.
Bandi approfitta della tregua per eggiare per la città, vede le squadre che agli ordini di La Masa si sono acquartierate in un palazzo del centro con tanto di sentinelle all’entrata. Sembra quasi che vogliano stabilire un centro di potere alternativo. Lui detesta quei delinquenti mentre ama i ragazzi di Palermo che
presidiano le barricate. Lui sa che di loro ci si può fidare.
Il generale Letizia è tornato da Napoli ove ha avuto il benestare del re per la tregua. Garibaldi lo riceve e a un certo punto Bandi capisce di essere di troppo, Letizia intende disertare e are con loro ma non ne vuole parlare davanti ad altri. Bandi esce dalla stanza.
Arriva La Farina da Genova. Lui lavora per Cavour e insiste per fare immediatamente un plebiscito per l’annessione al Piemonte. Cavour ha paura che Garibaldi si monti la testa e prenda iniziative repubblicane o, peggio, che i palermitani riconsiderino i loro desideri di autonomia. Garibaldi e i suoi sono indignati per questa mancanza di fiducia, i siciliani sono perplessi. Loro non hanno mai chiesto di diventare italiani e temono che la situazione si evolva in una direzione imprevista. Temono che i loro desideri di autonomia finiscano nella spazzatura. Garibaldi punta i piedi e non se ne fa nulla.
ano alcuni giorni senza che i napoletani facciano nulla e i garibaldini, senza munizioni, non hanno nessun interesse a riprendere i combattimenti. Poi il 6 giugno, senza una precisa ragione, considerando che da Napoli non arrivano ordini precisi, il generale Lanza cede e abbandona la città imbarcandosi con tutti i suoi uomini e tutte le sue armi. Bixio viene comandato di presidiare il porto con 400 volontari mentre i borbonici si imbarcano. Sfila il generale Von Mechel, uno svizzero che è rimasto a combattere per i Borbone ed è fedele al suo dovere. Von Mechel è inferocito per l’umiliazione e: “giunto davanti a Bixio esclamò … ‘Ci rivedremo!’. E Bixio rispose alzando il dito: ‘Ti rivedrò a Napoli!’. La soldatesca rispose a quella sfida del prode genovese con un ruggito“.
Quando il generale Lanza si imbarca vuole tutta la sua truppa al porto per avere gli onori che spettano al Viceré. Evidentemente la parola “vergogna” non è nel suo vocabolario. E’ una scena grottesca perché i borbonici sono 30 volte più numerosi dei garibaldini. Un soldato “rompe le righe e si para davanti al cavallo del generale … ‘Eccellenza, vi quante simmo? E ce ne jammo accussì?’ …
‘Quell’uomo è ubriaco’ dice il generale rivolto ai suoi aiutanti e prosegue verso l’imbarco” .
Tre mesi dopo, a Napoli, Lanza andrà a rendere omaggio a Garibaldi per congratularsi col suo fratello massone della bellissima vittoria. Saranno necessari 13 giorni per evacuare via mare tutti i borbonici col loro materiale.
Garibaldi ha stravinto, è sbarcato con 1.000 uomini armati malissimo e in meno di un mese ha sbaragliato l’esercito borbonico che presidia l’isola con almeno 20.000 uomini ed è armato benissimo. Ha sollevato migliaia di patrioti siciliani e con loro ha conquistato la capitale dell’isola a furor di popolo. Queste sono le notizie che il telegrafo diffonde nel mondo. Nei paesi anglosassoni esplode l’entusiasmo.
Si promuovono collette e si offre l’incasso di spettacoli, si muovono Florence Nightingale e Charles Dickens, le fabbriche degli Enfield offrono un cannone, gli operai di Glasgow e gli scaricatori di Liverpool fanno turni di lavoro gratis per rifornire Garibaldi.
Sul New York Times sia Marx che Engels lodano Garibaldi per la meravigliosa marcia da Marsala a Palermo e la conquista della città è definita “una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo”. Altri lo definiscono il Washington d’Italia e scrivono che: “nessun fatto simile si riscontra nella storia, neanche tra le gesta degli eroi mitologici”. Il generale Avezzana, che aveva combattuto per la repubblica romana, accorre da New York con un gruppo di volontari americani; arriveranno in tempo per combattere sul Volturno.
In Francia i conservatori sono esitanti perché temono che questo radicale cambiamento della situazione geopolitica nel Mediterraneo potrà creare dei problemi alla Francia, ma l’entusiasmo popolare travolge ogni dubbio. La
Francia progressista non riesce più a contenere la sua gioia e il cretinismo dilaga.
Scrive George Sand che “Garibaldi non assomiglia a nessuno ed è in lui tal sorta di mistero che fa meditare!”. Secondo lei la vita di Garibaldi “assomiglia a un poema: quest’uomo diventa, quasi da solo, l’uomo dei portenti. Fa tremare i troni, è lo stendardo dell’era novella. L’Europa intera lo tiene d’occhio e destandosi ogni mattina, si chiede dov’è egli, che cosa ha fatto il giorno prima. Poiché egli porta in se la fede dei tempi eroici, riappaiono in pieno XIX secolo le meraviglie dell’antica cavalleria”.
Victor Hugo si domanda: “qual è la sua forza? Che cosa lo fa vincere? Cos’ha con sé? L’anima dei popoli. Egli va, corre, la sua marcia è una scia di fiamme, il suo pugno d’uomini pietrifica i reggimenti,… egli ha la Rivoluzione con sé; e di tanto in tanto, nel caos della battaglia, tra il fumo, tra i lampi, come se fosse un eroe d’Omero, si scorge dietro di lui la dea“. I cattolici europei sono titubanti, temono per lo Stato della Chiesa, ma come forza politica sono sulla difensiva.
Partono raccolte di denaro dalla Svezia al Portogallo e dagli Stati Uniti al Cile. Ora sembra che tutto il mondo voglia partecipare all’abbattimento dell’odiata tirannia borbonica; volontari accorrono da Algeria, Turchia, India, Canada e naturalmente Stati Uniti e Inghilterra.
Persino nella Russia ultrareazionaria la notizia della conquista di Palermo suscita entusiasmi. Bakunin, che era in esilio in Siberia, dirà poi che ad Irkutsk la marcia dell’Eroe era seguita con trepidazione. Nella Polonia oppressa dal dominio zarista l’immagine di Garibaldi entra nelle case come quella di un eroe nazionale. “A Varsavia, nell’autunno, un’erbivendola, che chiede la liberazione del figlio, arrestato per motivi politici, grida al capo della polizia che tra una settimana arriverà Garibaldi e il figlio lo libererà lui” ¹.
Una signora di Palermo chiede ad Abba: “se avessi mai visto l’angelo che coll’ali para le schioppettate a Garibaldi”. In tutto il mondo Garibaldi è un’icona, il santo protettore di tutti i diseredati e gli oppressi.
Nessuno nel mondo ha la più pallida idea di cosa stia succedendo realmente in Sicilia.
Torniamo in Sicilia. Ora Garibaldi è padrone di quasi tutta l’isola, i borbonici si sono asserragliati nei forti di Messina, Catania e Siracusa con una strategia che si può definire disfattista. Hanno 22.000 uomini sull’isola e hanno ancora una flotta che, almeno sulla carta, è la più potente del Mediterraneo; eppure l’azione più ardita che gli viene in mente è di assoldare un bandito calabrese per asse Garibaldi. I loro soldati sono fedeli e chiedono una rivincita; il re dovrebbe eseguire una decisa epurazione delle alte gerarchie militari e andare all’attacco, e invece progetta assassinii.
Inutilmente la regina cerca di spronare il re: “Monta a cavallo, sco. Io verrò con te. Cavalcherò al tuo fianco. La tua presenza galvanizzerà i soldati e quei maledetti filibustieri saranno ricacciati in mare!” ². E’ inutile. Le forze sull’isola sono affidate al generale Clary che si è rifugiato nella fortezza di Messina, non ha ancora un piano ma ci sta pensando. Non farà nulla. Probabilmente è paralizzato dal fermento popolare che scuote tutta l’isola e minaccia di provocare una ribellione generalizzata contro il governo napoletano senza rendersi conto che questa inazione dell’esercito napoletano eccita sempre più la popolazione.
I garibaldini sono ridotti a poche centinaia di combattenti hanno pochissimi fucili e sono senza munizioni, la loro situazione sarebbe disperata se i borbonici avessero un minimo di coraggio. I volontari siciliani delle squadre si sono dimostrati inutili in battaglia e difficili da controllare. Qui Garibaldi deve affrontare una situazione per lui nuova. In Sud America non aveva mai avuto alcun problema a comandare bande di delinquenti, il suo carisma era sempre
riuscito a tenerli sotto controllo e a farli combattere per lui ma qui in Sicilia il suo fascino non funziona. Le squadre hanno ampiamente dimostrato che loro obbediscono solamente ai loro capi e dell’Italia unita non gliene importa nulla; per loro Garibaldi non è niente più di un burattino. La gente di Palermo si è dimostrata affidabile quando si trattava di cacciare i napoletani ma quando hanno sentito parlare di annessione si sono molto raffreddati e anche con loro il fascino di Garibaldi non funziona: come per i Borbone anche per Garibaldi si rifiutano di pagare le tasse e di fare il servizio militare. Nelle sue Memorie ci ha sempre detto che la gente delle campagne era ostile a lui e alla sua causa ma ora non fa alcuna menzione di queste sue difficoltà con i siciliani.
Il 13 giugno scioglie le squadre ed emana un proclama ove si chiamano alle armi i siciliani per completare la liberazione dell’isola. Sembra che voglia sostituire le squadre con un esercito preso dal popolo siciliano. Evidentemente Garibaldi pensa di avere più successo dei Borbone. Resterà deluso; sono pochi quelli che si presentano e questi rubano le armi e scappano. Anche lui, come i Borbone, deve rinunciare ad avere un esercito siciliano.
Ma adesso c’è un problema, Abba nota che: “Questo popolo che ci ha fatto la luminara la notte del 25 maggio, quando eravamo pochi e con poche speranze, adesso non ci riconosce più. Ma che cosa abbiamo fatto? Non lo dicono e non si può indovinarlo. Parlano, sorridono, sono gai; discorrono con noi, ma a gesti impercettibili se la intendono tra loro. Che abbiano dentro parecchie anime? Fra Pantaleo ha messo il dito sulla piaga,lui! Questa gente ci si è fatta nemica per la coscrizione decretata dal Dittatore”. Ora il popolo siciliano è diventato ostile: “Bixio lamentò che -la Sicilia non dà soldati, non paga imposte, e se delle domande d’impieghi se ne fe tela vi sarebbe da coprire l’intera isola-. Si lamentava inoltre la diffusione del contrabbando e il fatto che si rubavano armi e munizioni per rivenderle sul mercato nero.” ³.
Per Garibaldi questo non è un gran danno, oramai l’opinione pubblica, sia padana che anglosassone, ha metabolizzato l’idea che il popolo meridionale anela a essere liberato da lui e non deve più giustificare la conquista con una
reale partecipazione popolare. A questo punto il suo carisma è tale che si segue il ragionamento inverso: è la lotta di Garibaldi che giustifica il desidero di libertà dei popoli, se Garibaldi è sceso in campo evidentemente il popolo vuole essere liberato da lui!
Garibaldi non può conquistare l’isola con le poche centinaia di uomini che gli sono rimasti ma la situazione viene velocemente riequilibrata dall’impegno degli alleati angloamericani, dal patriottismo padano, dal romanticismo europeo e… dalla corruzione .
Mentre Cavour ha già iniziato la sua massiccia campagna acquisti fra i borbonici a Londra viene aperto il Fondo per Garibaldi. Assieme ad altri fondi, per un totale stimato in due miliardi di Euro, si comprano 5 vapori in Inghilterra e 3 a Marsiglia nonostante i furti perpetrati a danno di questi fondi siano leggendari. Le navi battono bandiera inglese o americana e iniziano un ponte marittimo che in un paio di mesi porta in Sicilia fino a 20.000 padani che daranno vita a un esercito che Garibaldi chiamerà Esercito Meridionale. Molto importante è anche il contributo di volontari europei, sono migliaia tutti infiammati dai poemi di Byron; vogliono vivere anche loro la loro avventura romantica.
Un paio di queste navi sono intercettate dai borbonici e portate a Gaeta. La diplomazia inglese si attiva immediatamente e fa notare che battono bandiera americana e i loro eggeri sono diretti in Sardegna. Napoli deve arrendersi e deve rilasciare navi e eggeri che vengono portati a Genova e da qui reimbarcati per Palermo ove arriveranno con qualche giorno di ritardo.
Cavour ha aperto conti presso banche di Londra e di Napoli. Per mezzo di informazioni che riceve da un diplomatico napoletano traditore gli interventi sono mirati su ufficiali dell’esercito e della marina che dovrebbero avere una mente aperta alle “novità”. Un successo strepitoso lo ottiene Persano quando convince il comandante del Veloce, una corvetta napoletana armata con i modernissimi cannoni a canna rigata, ad andare a Palermo e consegnarsi a
Garibaldi. Qui sorge un problema quando i marinai si rifiutano di aderire al tradimento e chiedono di essere lasciati liberi di tornare a Napoli. Inutilmente Garibaldi cerca di convertirli a questa nuova patria ma loro non intendono tradire il re a cui hanno giurato fedeltà. Quasi tutti gli ufficiali tradiscono e quasi tutti i marinai restano fedeli. Garibaldi li lascia andare e li sostituisce con marinai sardi mandati in licenza (per salvare le apparenze) dalle navi di Persano e con pescatori presi dal porto. La nave viene ribattezzata Tuckory, e così ora Garibaldi ha anche una modernissima nave da guerra. “In una lettera del 6 agosto Persano comunica a Cavour che: ‘Gli Stati Maggiori di questa marina si possono dire tutti nostri, pochissime essendo le eccezioni’’” ⁴.
Nei pochi giorni che resta a Palermo Garibaldi si mette a giocare al dittatore illuminato e avvia riforme progressiste compresa l’abolizione della tassa sul macinato, senza considerare che senza tasse nessuna riforma sarebbe stata possibile. Come al solito ignora il valore del denaro e non può fare altro che rapinare sistematicamente tutte le casse che ne hanno un po’: banche e amministrazioni pubbliche. Istituisce un Comitato per il sequestro dei fondi delle esattorie con il quale lascia all’isola solamente gli occhi per piangere.
Il suo genio per le pubbliche relazioni lo spinge a cercare un accomodamento con la Chiesa siciliana perché sa quanto il popolo sia attaccato alla fede cattolica: i suoi genitori erano così. Per la festa di Santa Rosalia partecipa, in rappresentanza di Vittorio Emanuele, a una messa solenne con la camicia rossa, il poncho e la spada sguainata. Si stanca di La Farina, lo arresta e lo imbarca per Genova rispedendolo al mittente Cavour. La Farina lo controllava perché sa che intende utilizzare le sue conquiste come trampolino di lancio verso Roma e Venezia, cosa che Cavour non può permettere. Inoltre spedisce a Cavour rapporti che denunciano il saccheggio delle finanze dell’isola il suo stato di anarchia e il dilettantismo del governo garibaldino. Da Genova gli mandano Depretis che assume il titolo di Prodittatore, prende la direzione del governo garibaldino rivelandosi una perfetta nullità e così non darà alcun fastidio a Garibaldi che ora può riprendere la conquista dell’isola.
Divide le sue forze, che crescono ogni giorno, in tre gruppi, uno attraversa l’isola in direzione di Catania, un altro fa un giro più ampio verso sud e il terzo lungo la costa nord in direzione Messina. Si tratta di stabilire l’autorità del nuovo governo su tutta l’isola. Ma come fa a sapere che i Borbonici non attaccheranno queste piccole forze garibaldine? Hanno ancora almeno 20.000 uomini sull’isola.
In effetti buona parte di queste truppe presidiano la parte orientale dell’isola per tenere a freno il fermento popolare eccitato dal successo di Garibaldi: tutti i contrasti sociali accumulati nei secoli ati vengono, per la millesima volta, alla superficie minacciando una qualunque legalità. Le sue irresponsabili dichiarazioni di cessione di terre ai contadini hanno scatenato di nuovo la violenza. Le squadre sono state allontanate da Palermo e quando tornarono a casa l’anarchia tornò nelle campagne. “e quando Garibaldi promise di riparare a questo genere di torti si verificò un movimento spontaneo per occupare porzioni dei vecchi latifondi. Come lupi guidati dalla fame, individui scatenati vestiti di pelle di capra scesero dalle montagne e qualunque possidente che non fosse riuscito a scappare correva il rischio di venire assassinato al grido di, Viva l’Italia!, in un caso estremo uno fu bruciato vivo e il suo fegato arrostito e mangiato” ⁵.
Nievo rimane a Palermo e sembra abbia finalmente capito la situazione: “Tutta la rivoluzione è concentrata nelle bande campagnole chiamate qui Squadre e composte per la maggior parte di briganti emeriti che fanno la guerra al governo per poterla fare ai proprietari. Tanto è vero che adesso noi dobbiamo farla da carabinieri contro i nostri alleati di ieri”. Al povero Nievo viene ordinato di restare a Palermo perché è incaricato di gestire la contabilità dell’amministrazione garibaldina in Sicilia, un incarico che a lui non piace affatto. Al termine della conquista, quando i suoi compagni sono ormai tornati a casa, il governo piemontese gli chiede di tornare a Palermo per portare tutti i documenti a Napoli per essere controllati dai nuovi amministratori piemontesi. Ma la nave affonda per cause sconosciute e Nievo, con tutti i documenti contabili della spedizione, sparisce in fondo al mare. Sparisce, assieme a questo scrittore-patriota, la documentazione dell’impiego del milione di piastre turche raccolto dalla massoneria e donato a Garibaldi. Non possiamo più sapere quanto fossero fondate le accuse dei borbonici a Garibaldi circa la corruzione degli
ufficiali napoletani. Un tragico incidente o la mano misteriosa della massoneria con un qualche aiuto della mafia? Misteri italiani!
La colonna ove è Abba traversa il centro dell’isola dirigendosi verso Catania e avrà a che fare con questi problemi. Sono guidati da Ferdinand Eber l’ungherese che era corrispondente del Times. Affascinato dalla epopea garibaldina getta la penna e si unisce a Garibaldi che lo nomina generale di brigata. Le esperienze che farà in questo genere di guerra non saranno affatto romantiche.
Abba incontra i primi briganti: “avano baldi su certi stalloni neri, carboni accesi negli occhi, le criniere che davano sui petti. Tenevano alte le teste guardandoci appena, avevano gli schioppi a tracolla, pistole e pugnali a cintola, nastri essi ai cappelli e all’arnese delle cavalcature. Il capo che camminava innanzi non mi tornava nuovo. … ‘Chi sono quei sette?’ Chiesi ad un signore. … ‘Patriotti signorino, non avete visto?’”. Mente. Un garibaldino gli corre dietro e li arresta, sembra siano la banda di Santo Mele. C’è un processo: “E non ci è stato verso di trovar uno che abbia voluto dire la verità! … ‘Io brigante? Eccellenza! Ho combattuto contro i Borbonici, ho dato fuoco alle case dei realisti, ho ammazzato birri e spie, dai primi di aprile servo la rivoluzione: ecco le mie carte! … Ma il consiglio non lo mandò libero”. Viene spedito a Palermo ove sarà fucilato. Così è iniziata l’Italia e così ha proseguito.
Nessuno vuole parlare, nessuno dice la verità, tutti si tengono i loro risentimenti e l’odio esplode improvviso e imprevedibile. “Ho visto partire in gran fretta il battaglione Bassini. A Prizzi, che deve esser un villaggio poco lontano, vi è gente che si è messa a far sangue e roba, come se non vi fosse più nessuno a comandare”.
Più avanzano verso l’interno e più sono coinvolti nei disordini: “Il povero maggiore Bassini l’hanno pigliato pel giustiziere. Egli dovrà partire di nuovo per un villaggio chiamato Resotano, dove alcuni tristi fanno tremare la gente. … Quei di Bassini sono tornati … Narrano che capitati a Resotano intorno alla
mezzanotte, vi trovarono il popolo in armi risoluto a non lasciarli entrare. Bassini … procedé cogli accorgimenti, e poté mettere le mani addosso a undici scellerati, rei di mille prepotenze e di sangue. Uno riuscì a fuggire, ma un siciliano come un demonio, lo cacciò, lo arrivò e l’uccise”.
I padani sono sempre più soli: “Fatti i conti, dei siciliani che ci seguirono da Palermo in qua, un mezzo centinaio se ne sono già andati, alcuni portando via anche le armi. Sono contadini che si accendono come paglia e presto si stancano. Il Consiglio di guerra li condanna a morte; si appiccano le sentenze come lenzuola alle cantonate, ma si lascia che i condannati se ne vadano alla loro ventura, purché lontano”.
Sembra incredibile ma il suo patriottismo non ne viene intaccato, scrive: “ati noi la libertà verrà spazzando tutto questo strascico di medio evo”. Possibile che non si renda conto che è arrivato in un altro paese con un altro popolo di cui non ne sa nulla e non ne capisce nulla? Come fa a pensare che sta facendo la cosa giusta? Come si fa a essere così ottusi, presuntuosi, arroganti? Finalmente arrivano a Catania che sembra un posto tranquillo, ma il peggio deve ancora arrivare.
Bandi è nella colonna, comandata da Medici, che percorre la costa nord verso Messina, ora non è più ufficiale di ordinanza di Garibaldi ha il grado di maggiore e ha un suo comando.
Ora sono armati benissimo e si fermano un giorno per addestrarsi all’uso delle nuove carabine. All’altezza di Milazzo si scontrano con un piccolo contingente borbonico. Il generale Clary ha mandato circa 6.000 uomini al comando del colonnello Bosco ad affrontare i garibaldini. Non si capisce perché abbia inviato un contingente così piccolo e non abbia approfittato della sua superiorità numerica. Forse voleva liberarsi di Bosco e prendere tempo per considerare con calma altre possibilità di carriera.
Si scontrano all’altezza di Milazzo che è una penisola che si allunga nel mare per 8 chilometri con in cima la città di Milazzo e una bella fortezza in mano ai Borbone. Bosco vince e ferma l’avanzata dei garibaldini. Bandi è desolato, senza la presenza fisica di Garibaldi loro non sanno combattere, si invoca la sua presenza.
Garibaldi è a Palermo e sa benissimo che non può permettersi neanche una piccola sconfitta. Le squadre di tutta l’isola stanno osservando e se giudicassero che i Borbone potrebbero riprendere il sopravvento salterebbero addosso ai rivoluzionari, che ora sono i garibaldini, come hanno già fatto nella rivoluzione del ’48. Garibaldi si precipita da Palermo sulla nave inglese City of Aberdeen con 2.000 volontari appena arrivati in porto mentre altre migliaia sono inviati via terra al comando dell’inglese Speeche. Prima della battaglia arriva la Queen of England da Liverpool e scarica ingenti quantitativi di armi e munizioni. La Tuckory è presente al largo di Milazzo assistita a una certa distanza dalle navi da guerra di Persano che non dovrebbe intervenire nei combattimenti ma è lì per salvare il salvabile se i borbonici dovessero travolgere i garibaldini.
Garibaldi attacca senza sosta e riesce a respingere i borbonici verso la fortezza in cima al promontorio ma a un certo punto è in difficoltà perché Bosco contrattacca con vigore e lui ha avuto perdite troppo elevate. Allora corre sulla spiaggia, si fa portare con una barca a remi sulla Tuckory e la manovra verso il fianco dello schieramento borbonico. Bandi vede arrivare la Tuckory e col binocolo vede Garibaldi in cima alla coffa che dirige la nave; “quando escì dalla città (Milazzo) una colonna per rinnovare l’assalto, il Tukeri pigliò a fulminarla di fianco coi suoi grossi cannoni, e la costrinse a tornarsene rotta e sgominata dentro le mura”. Bosco è intrappolato in un piccolo spazio e non può rispondere al fuoco della Tukory; la sua artiglieria da campagna non può duellare contro i cannoni rigati. Chiede aiuto a Clary che a Messina ha almeno 10.000 uomini e sono solamente 25 chilometri ma Clary non si muove. Chiede aiuto al comandante della fortezza che gli risponde che lui è superiore in grado e non vuole favorirlo. Bosco sa di essere circondato da traditori e se deve arrendersi vuole sentirselo dire dal re. I combattimenti si fermano per un paio di giorni.
A Napoli la confusione è tale che non ci è possibile stabilire le responsabilità, il re ha promulgato di nuovo la costituzione del ’48 e ha adottato il tricolore con lo stemma dei Borbone al centro per fare concorrenza ai Savoia. Patetico!
Il 23 luglio arriva la flotta borbonica al largo di Milazzo e Garibaldi mette al riparo la Tuckory che da sola non può affrontare una flotta. Ora i borbonici potrebbero spazzare a cannonate i garibaldini dalla penisola e invece mandano una delegazione da Garibaldi per trattare la resa!
Bosco avrà l’onore delle armi ma perderà il suo bel purosangue. I garibaldini hanno avuto perdite sei volte superiori ai borbonici ma hanno vinto! Così scrive Garibaldi: “Il trionfo di Milazzo fu comprato a ben caro prezzo. Il numero de’ morti e feriti nostri fu immensamente superiore a quello dei nemici“.
Bandi assiste alla resa del forte, vede i borbonici uscire per imbarcarsi sulle navi si che li porteranno a Napoli, “gli ufficiali salutano con le sciabole, ma dai loro sguardi si conosceva che molto più volentieri ce l’avrebbero confitte nel cuore”. Quando esce Bosco urla, fischi e imprecazioni e i garibaldini lo devono difendere dalla folla. Mentre i borbonici sono nel porticciolo di Milazzo in attesa dell’imbarco i garibaldini si mescolano a loro per convincerli a disertare: “in conclusione forse dieci o dodici, su cinquemila, tanti furono quelli che restarono a terra mescolandosi con noi”. Come se non bastasse, appena le navi si staccano dal molo partono alcuni colpi di fucile contro di loro tale è la rabbia dei soldati borbonici per una sconfitta così vergognosa e non meritata, loro si sono battuti bene.
Durante la pausa delle ostilità Garibaldi fa arrestare il comandante del Tuckory e istituisce un tribunale militare per giudicare l’ufficiale accusato di insubordinazione di fronte al nemico, pena prevista: la morte. Garibaldi gli aveva ordinato di fare una manovra che avrebbe portato la nave sotto ai cannoni
del forte di Milazzo e l’ufficiale non aveva eseguito. Bandi fa parte di questo tribunale e si capisce che è in serio imbarazzo. Iniziano l’interrogatorio e l’ufficiale spiega che si era rotto un cilindro della macchina e avrebbe dovuto eseguire la manovre con le sole vele rimanendo troppo a lungo sotto il fuoco del forte e aveva giudicato la cosa troppo rischiosa. Lui è stato addestrato ad aver cura della sua nave e questa manovra sarebbe stata giudicata un suicidio. Sia Bandi che gli altri giudici sono esitanti, non sanno cosa fare. Sanno che Garibaldi lo vuole morto ma si rendono conto che il suo comportamento è stato ragionevole e non se la sentono di mandarlo a morte. Allora uno di loro propone la soluzione: loro non ne sanno niente di come si manovra una nave e quindi il tribunale si può dichiarare incompetente. Per Bandi è una soluzione geniale ma Garibaldi non si dà per vinto: riconvoca il tribunale con un nuovo presidente. Questo presidente è un polacco che parla male l’italiano e prima dell’udienza spiega agli altri che l’ufficiale ha disobbedito e va condannato. Così ottiene l’effetto contrario. Bandi è irritato di essere scavalcato da un polacco che parla male l’italiano e alla fine il tribunale emette ancora la stessa sentenza: incompetenza del tribunale. Garibaldi è furioso ma accetta la sentenza, l’ufficiale è spedito a Palermo ove viene giudicato da un tribunale composto da ufficiali della marina sarda e assolto.
L’ufficiale in questione è un veneto che viene dalla marina austriaca e non ha aderito al Culto del Supremo Sacrificio. E’ stato addestrato a calcolare i rischi e a tenerne conto. Ma non è questo il modo di combattere di Garibaldi, tutta la sua vita è ispirata dalla vocazione al martirio per la patria ed esige che tutti i garibaldini si comportino allo stesso modo. Gli adepti a questo culto sanno che la vita del singolo non ha alcun valore e se lo ha è solamente in funzione del raggiungimento della meta che è la Redenzione della Patria. I suoi devono sempre attaccare senza contare le forze del nemico e senza far caso ai propri morti. A noi oggi, dopo due guerre mondiali, questo modo di considerare la vita umana ci può sembrare fanatico e criminale ma questa era la fede di Garibaldi ed è con questa fede che vince. Di fatto lui ha vinto e i borbonici hanno perso. Se avessero considerato i rischi dell’impresa l’avventura dei Mille non sarebbe neanche iniziata. Garibaldi sa perfettamente che se non riesce ad inculcare questa fede nei suoi uomini, non ha nessuna speranza di vittoria.
Dobbiamo notare che anche se è furioso per aver dovuto cedere Garibaldi cede. La sua sintonia con i suoi garibaldini è stupenda, Garibaldi sa fin dove si può spingere, come quando a Palermo ha ceduto e ha dato uno stipendio ai suoi. Anche ora sa che la corda potrebbe spezzarsi e cede. Non ci sarà mai nessuna frattura tra lui e i suoi, il suo mito resterà sempre intatto e per i suoi discepoli lui sarà sempre un Dio.
Bandi è d’accordo con Garibaldi quando deve rischiare la sua propria vita e lo ha sempre fatto ma non se la sente di mandare a morte un'altra persona. Il nazionalismo non è ancora penetrato sufficientemente a fondo nella psiche degli europei per dare a delle persone normali la determinazione di uccidere un’altra persona che si è comportata in modo non coraggioso ma comunque ragionevole. E’ chiaro che nella mente di Bandi c’è ancora un limite che il suo senso di umanità si rifiuta di superare. Come vedremo tra poche righe, questo limite sta per essere superato.
Lasciano Milazzo per andare a Messina. Bandi osserva il territorio intorno a Milazzo e si rende conto dell’inettitudine dei generali Borbonici, “vedemmo da vicino il gran pericolo che avevamo corso e meravigliammo che, signori di quelle stupende posizioni, i generali Borbonici ci lasciassero in pace nei due giorni che dimorammo in si piccol numero presso il villaggio di Meri”. Arrivano a Messina senza colpo ferire, a Napoli hanno deciso una ritirata strategica e hanno abbandonato l’isola. Hanno lasciato nella fortezza di Messina un piccolo presidio che non deve disturbare le operazioni garibaldine e non sarà attaccato. Ora Garibaldi e i suoi sono sullo stretto e si deve trovare il modo di superarlo.
Torniamo da Abba che è arrivato a Catania. Ora i contrasti tra siciliani si fanno sempre più drammatici. Tutta la zona a ovest dell’Etna è sconvolta da torme di disgraziati che eccitati dai proclami di Garibaldi sulla restituzione delle terre al popolo si sono scatenate.
Sono bande di disperati che non hanno più nulla da perdere avendo già perso
tutto, forse anche la morte può sembrargli una liberazione. Sono completamente disorganizzati, compaiono dal nulla e nel nulla spariscono.
Il paese di Bronte è al centro della tempesta. “La notizia di Catania sollevata mise maggior fermezza in Bronte. Sentirono morte le speranze i pochi Borboniani, presero animo i liberali, e nel 29 giugno il Comitato inviava a Garibaldi un indirizzo: ‘Gradite adunque i voti del popolo Brontino che gioisce delle vostre vittorie e grida a tutta gioia: Viva l’Italia unita! Viva Vittorio Emanuele! Viva Garibaldi! Bronte, 29 luglio 1860’ … Coll’indirizzo inviato al Dittatore il paese accettava ufficialmente il nuovo governo. La plebe però non vedeva solo nel Garibaldi il liberatore dalla tirannide borbonica, ma il liberatore della più dura tirannide, la miseria; ed impaziente aspettava che fosse tolta la tassa sul macinato, fatta la divisione del demanio comunale, già ordinata dallo stesso Borbone e novellamente dal Garibaldi col decreto del 2 giugno. Di ciò i reggitori non s’erano punto curati, per naturale indolenza e per non ledere l’interesse di parecchi civili, che si erano fatti usurpatori delle terre vulcaniche del Comune.
La restaurazione borbonica nel 1849, a Bronte, come altrove, aveva dato adito ad intrighi ed abusi, ed essendovi dappertutto sofferenti ed oppressi, da tutti s’agognava vendette e riparazioni” .
Nessuno di loro poteva immaginare che il futuro sarebbe stato di gran lunga peggiore di quello che avevano fino ad ora sofferto. Ora il popolo si scatena.
Questo è quello che ci racconta Abba: “A Bronte, divisione di beni, incendi, vendette, orge da oscurare il sole, e per giunta viva a Garibaldi. Case incendiate coi padroni dentro; gente sgozzata per le vie; nei seminari i giovanetti trucidati a piè del vecchio Rettore; uno dell’orda è là che lacera coi denti il seno di una fanciulla uccisa … Quei feroci son presi, legati, tanti che bisogna faticare per ridursi a sceglier i più tristi, un centinaio … E i rei sono giudicati da un Consiglio di guerra, Se vanno a morte, fucilati nel dorso con l’avvocato
Lombardi, un vecchio di sessant’anni, capo della tregenda infame. Fra gli esecutori della sentenza v’erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa. Che dolore! Bixio assisteva cogli occhi pieni di lagrime. Dopo Bronte, Randazzo, Castiglione, Regalbuto, Centorbi ed altri villaggi lo videro, sentirono la stretta della sua mano possente, gli gridarono dietro: Belva! Ma niuno osò più muoversi … Se no ecco quello che ha scritto: ‘Con noi poche parole; o voi restate tranquilli, o noi in nome della giustizia e della patria nostra, vi struggiamo come nemici dell’umanità’”.
Ora leggiamo le cronache di Bronte.
Quando Garibaldi arriva in Sicilia, i territori intorno a Bronte sono di proprietà della ‘Ducea’, cioè degli eredi di Orazio Nelson che aveva avuto la Ducea in dono dai Borbone per averli rimessi sul trono dopo l’invasione se. Buona parte di queste terre sono contese tra la Ducea e i paesi limitrofi che sostengono che le terre erano state occupate illegalmente e dovrebbero tornare a disposizione dei comuni. Le comunità brontesi erano in causa per quelle terre con un processo che durava da 350 anni! Siamo in Sicilia. L’avvocato Lombardo era a capo dei Comunisti o Comunali e nei tribunali portava avanti le rivendicazioni dei comuni ma con scarsi risultati.
L’arrivo di Garibaldi, i suoi proclami irresponsabili, la sua totale ignoranza della situazione socio-economica dell’isola fanno precipitare la situazione. Il 2 di agosto la città è assediata da gente che vuole avere quello che Garibaldi ha promesso: la restituzione delle loro terre. E’ gente venuta dalle campagne circostanti assieme a delinquenti che sono fuggiti dalle carceri: “Arringò la moltitudine il Lombardo, esortandola all’ordine, promettendo che si sarebbe adoperato a pacifica e legale divisione; ma la folla si diradò scontenta”.
Tra il 3 e il 4 agosto questa folla decide di farsi giustizia da se, si scatena, brucia 46 case e uccide 16 borghesi tra cui il notaio e il contabile della Ducea. Il 5 arrivano truppe da Catania e nonostante la loro scarsa efficienza cessano i
massacri, il 6 i rivoltosi fuggono. I proprietari della Ducea sono inglesi e in quei giorni sono in Inghilterra; tramite il console inglese di Catania chiedono una punizione esemplare. In quei giorni Garibaldi è accampato sullo stretto e ha una assoluta necessità della collaborazione della flotta inglese per superare il blocco della flotta borbonica. Spedisce il suo cane da guerra Bixio con l’ordine di dare un esempio; l’impresa dei Mille non può permettersi di essere coinvolta in questioni sociali che lui non conosce e non ha tempo per capire.
Bixio arriva il 6. Ordina alle truppe di Catania di andarsene e chiede subito l’arresto dell’avvocato Lombardo. Il comandante delle truppe siciliane capisce l’aria che tira, fa sapere al Lombardo che deve fuggire e prima di partire scrive un biglietto a Bixio ove spiega che Bronte era oramai liberata e “Io raccomando all’Eccellenza Vostra un popolo sì docile e sì buono”. In fondo gli abitanti sono stati anche loro vittime dei disordini ma Bixio deve obbedire e vuole la sua rappresaglia. L’avvocato Lombardo non ascolta i consigli di fuggire e si presenta da Bixio per spiegargli la situazione. Bixio non lo fa parlare e lo arresta immediatamente; viene istituita una Commissione mista eccezionale di guerra. Dopo un processo farsesco il 9, con accuse false, 5 persone sono condannate alla fucilazione, tra cui Lombardo: tutte innocenti. Il giorno dopo si esegue la sentenza con un plotone d’esecuzione formato da garibaldini.
Abba ci dice che gli esecutori “erano dei giovani dolci e gentili, medici, artisti in camicia rossa”; dalle sue parole traspare lo sgomento di dover uccidere degli innocenti eppure questi giovani dolci e gentili hanno obbedito e hanno premuto quel grilletto. Quel limite del senso di umanità che Bandi non ha voluto superare è stato superato e questi bei giovani padani che sono partiti da Genova disubbidendo alla mamma si sono trasformati in aguzzini. Così finisce il romanticismo.
Dobbiamo notare la logica garibaldina per cui le loro fucilazioni sono fatte “in nome della giustizia e della patria nostra” e sono quindi fucilazioni progressiste mentre quelle borboniche (poche) erano fucilazioni reazionarie. Nonostante il dolore che prova per queste fucilazioni Abba sembra giustificarle e sembra
orgoglioso della “mano possente” di Bixio. Non mostra neanche alcun rimorso per l’epiteto “Belva!” che dei civili innocenti gli hanno lanciato e sembra orgoglioso del risultato: “Ma niuno osò più muoversi”. Con questo suo racconto Abba vuole giustificare agli occhi del lettore la brutalità di Bixio esagerando la barbarie dei rivoltosi; è molto improbabile che Bixio avesse “gli occhi pieni di lagrime”.
Charles Stuart Forbes, non era presente, e questo è quello che gli fu riferito: “Garibaldi … non avrebbe potuto scegliere un uomo più adatto di Bixio, che … arrivato con la sua brigata nel centro della rivolta, uccise 32 rivoltosi prima di mezzogiorno ... Si racconta una storia, caratteristica di Bixio, forse il soldato più inflessibile di questo esercito, che sparerebbe a suo fratello sui due piedi se pensasse che non stesse facendo il suo dovere. All’arrivo a Bronte, gli fu portato prigioniero uno dei capi della rivolta mentre le sue truppe stavano mangiando dopo una lunga marcia. Dopo essersi convinto della colpa dell’uomo, Bixio disse, ‘Bene, ora non posso disturbare i miei uomini’ ed estratto il suo revolver, gli sparò in testa” ⁷. Tenete presente che Forbes, un romantico viaggiatore inglese, nelle sue memorie non esita a lodare il rigore di Bixio mentre non perde occasione di mostrare il suo disprezzo verso i borbonici incivili e corrotti.
Lo squadrista perfetto
Nino Bixio nasce a Genova nel 1821, a nove anni è orfano di madre e ha seri problemi con la matrigna. Cresce con un carattere violento e rissoso per cui a 13 anni viene espulso dalla scuola e deve imbarcarsi come mozzo su una nave diretta in America. Resta in mare 3 anni e quando torna a Genova la matrigna non lo fa entrare in casa. Vive per la strada aiutato dai fratelli che gli ano del cibo di nascosto finché la matrigna decide di usarlo per surrogare nel servizio militare un altro fratello che doveva entrare nei gesuiti. Nino si rifiuta ma lei riesce a farlo arrestare e mettere in prigione finché nel 1837 lui si rassegna ed entra ‘volontario’ nella marina del Regno di Sardegna. Qui riesce a studiare per diventare un buon marinaio e sette anni dopo un suo fratello riesce a tirarlo fuori
dalla marina militare. Nino torna a Genova e trova ingaggio come comandante in seconda su un mercantile diretto in Brasile ma la sfortuna si accanisce contro di lui e a Rio la nave è venduta a un altro armatore che decide di usarla nella tratta degli schiavi. Il nuovo armatore gli offre il comando della nave ma lui si rifiuta, abbandona la nave e con questo mette fine alla sua carriera di capitano della marina mercantile. Si imbarca come nostromo su una nave diretta in estremo oriente agli ordini di un quacchero con cui ha un violento litigio e deve abbandonare la nave, cade prigioniero di tribù selvagge e viene venduto schiavo ma il capitano ci ripensa e lo riscatta. In qualche modo riesce ad andare a Parigi dal fratello che lo aveva aiutato e qui la sua vita ha una svolta perché conosce Mazzini che lo converte alla causa della Patria. Partecipa alla prima guerra d’indipendenza e poi alla difesa della repubblica romana ove è agli ordini di Garibaldi. Per Garibaldi Bixio diventa un “cane da guerra” ideale, sempre obbediente, sanguinario e violento ai limiti della follia.
Bandi ci racconta che nel settembre del ’60, mentre Garibaldi è già entrato a Napoli, lui è agli ordini di Bixio in Calabria e la sua divisione si deve imbarcare a Paola per raggiungere Napoli il più presto possibile. Bixio è fuori di se al pensiero che qualcuno possa arrivare a Napoli prima di lui e prendersi il merito della conquista. Quando arrivano a Paola la divisione di Medici si sta imbarcando e Bixio interviene e li blocca facendo are avanti le sue truppe. Prima che scorra del sangue Bandi e altri riescono a convincere Medici a lasciar correre. Bixio si rende conto che non tutti i suoi possono entrare nella nave e ordina che tutti restino in piedi e si stringano il più possibile ma il comandante fa sapere a Bixio che non è sufficiente e decide di partire senza di lui. Bixio è furioso, sale sulla nave e vede che sul ponte molti uomini sono stesi; sono degli stranieri che erano lì da tempo e stanno dormendo stanchi delle lunghe marce. Bixio afferra un fucile e picchia questi uomini come un forsennato: uno muore all’istante e altri 5 sono portati via in fin di vita. I loro compagni si svegliano e saltano addosso a Bixio per linciarlo ma Bandi e altri riescono a portarlo via. Arrivati a Napoli l’episodio viene riferito a Garibaldi che chiama Bandi per sapere la verità e Bandi conferma. Garibaldi scuote la testa: “Bixio! Oh che uomo! Che uomo!”. Pochi giorni dopo Bixio è di nuovo al comando delle sue truppe. Era lo squadrista perfetto.
Questo episodio di Bronte non è una fatalità, non è un danno collaterale della conquista.
Come abbiamo visto Garibaldi ci ha sempre detto che la gente delle campagne era ostile a lui e alla sua rivoluzione mentre i padroni erano con lui. Ora in Sicilia Garibaldi si schiera con chi è sempre stato dalla sua parte: con i padroni.
“Garibaldi in pratica non prese mai nei confronti dei latifondi ex baronali una posizione così precisa com’era stata quella dei Borbone; e perciò alcuni proprietari che finora erano stati neutrali o ostili cominciarono a pensare che la collaborazione con Garibaldi e con il Piemonte poteva costituire l’unica speranza di restaurare l’ordine e conservare quanto più era possibile del ato. Dimostrando di esser pronto a tenere a freno una delle forze più potenti della rivoluzione siciliana, Garibaldi riuscì così inaspettatamente e decisivamente ad associare molti membri dell’aristocrazia conservatrice, i “galantuomini” e le elites sociali, alla causa dell’unità d’Italia” ⁸.
Il mito Garibaldi ha insegnato a generazioni di italiani che mentre Garibaldi amava il popolo, è stato per colpa dei successivi governi del Regno d’Italia, reazionari, se le speranze di rinnovamento sociale sono state tradite.
Questo è falso: il tradimento delle speranze di una società più giusta è iniziato da subito con Garibaldi. Inizia da subito una politica ultra reazionaria e ultra repressiva che avvierà la Sicilia verso gli anni più tragici della sua storia.
Ora Garibaldi è fermo sullo Stretto e sta cercando un modo di superare lo sbarramento della flotta borbonica. In quei giorni tutta la diplomazia europea è in agitazione per gli sviluppi imprevisti della situazione italiana, sviluppi che stravolgono gli equilibri della regione.
Bandi è vicino a Garibaldi quando arriva un aiutante di campo di re Vittorio con una lettera per Garibaldi e la legge: “Voi sapete che io non ho approvato la vostra spedizione, alla quale sono rimasto assolutamente estraneo” e gli chiede di fermarsi in Sicilia e di non are lo Stretto. Garibaldi risponde al re che lui ha il dovere di proseguire a causa dello “imbarazzo (che) mi porrebbe oggi un’attitudine iva in faccia alla popolazione del continente napoletano, che io sono obbligato di frenare da tanto tempo, ed a cui ho promesso il mio immediato appoggio”. Menzogne; assurde, sfacciate menzogne da entrambe le parti. Con un’altra missiva segreta re Vittorio lo incoraggia ad andare avanti e per quanto riguarda la popolazione napoletana che Garibaldi avrebbe dovuto “frenare”: grottesco!
A Genova, Bertani sta ancora raccogliendo fondi e volontari; Garibaldi decide di cambiare strategia e progetta di mandare quelle truppe alla conquista di Roma con uno sbarco sulle coste del Lazio. Interviene la Francia e Napoleone III manda una nave da guerra sullo Stretto in aiuto alla marina borbonica, sembra deciso a difendere il Papa. Cavour con un sotterfugio, a loro insaputa, spedisce gli uomini di Bertani in Sicilia. Al loro sbarco ci sarà un ammutinamento ma oramai è fatta; Garibaldi deve accontentarsi di Napoli e il suo odio per Cavour arriva al parossismo.
A questo punto interviene l’Inghilterra e fa sloggiare i si dallo Stretto aprendo a Garibaldi la via per Napoli. Così Garibaldi sintetizza quegli avvenimenti nelle sue Memorie: “Quel partito (Cavour), basato sulla corruzione (ma pensa!), nulla avea lasciato d’intentato. Esso s’era lusingato pria, di fermarci al di là dello stretto, e circoscrivere l’azione nostra nella sola Sicilia. Perciò aveva chiamato in sussidio il magnanimo padrone (Napoleone III), per cui già un vascello della marina militare se era comparso nel Faro (sullo Stretto). Qui ci valse immensamente il veto di Lord John Russel (ministro degli esteri inglese), che in nome d’Albion imponeva al sire di Francia di non mischiarsi delle cose nostre”.
Il 19 agosto, dopo il tramonto, Bandi è sulla nave americana Franklin assieme a Garibaldi con 1.200 uomini mentre Bixio si imbarca sul Torino con 3.000 volontari. Sul Franklin, assieme a Garibaldi, c’è anche Origoni un amico di Garibaldi che lo ha seguito dal Sud America e ora è ammiraglio della flotta garibaldina. Alle 2 del mattino sono sulla costa calabrese e iniziano lo sbarco senza aver incontrato le navi borboniche. Anche questa volta Bixio fa arenare la sua nave ma il mare è calmo e può sbarcare utilizzando le lance della nave. Garibaldi tenta di disincagliare il Torino con il Franklin ma non ci riesce. Sta per arrivare l’alba e decide di tornare in Sicilia mentre Bixio si avvia su per i boschi a nascondersi. Sulla via del ritorno sono intercettati da due navi borboniche, la Fulminante e l’Aquila. Il Franklin è inerme e si deve fermare. La Fulminante aveva già incontrato il Franklin due mesi prima e lo aveva sequestrato portandolo a Gaeta da dove poi lo avevano dovuto rilasciare per le pressioni inglesi. Questa volta il comandante borbonico è più prudente e le due navi mettono in mezzo il Franklin senza sparare. “Ad un tratto Garibaldi gridò: ‘Origoni, alzate bandiera americana’“. Dal Fulminante chiedono: “’di dove venite?’ … Origoni, impugnato a sua volta il portavoce, rispose in lingua inglese ‘Non vi capisco’“. La Fulminante mette in mare una lancia che accosta al Franklin. “Una voce rinnovò di sulla lancia la domanda: ‘Di dove venite?’“. Origoni risponde qualcosa ma la sua voce è coperta dal rumore delle macchine, Garibaldi ha dato l’ordine di ripartire e ignorare i borbonici che a questo punto li lasciano andare. “Per verità in quel momento fu miracolo che qualche cannonata non volasse da’ fianchi della Fulminante ma la bandiera americana seppe fare quel miracolo“. Mentre si allontanano lentamente vedono il Fulminante dirigere verso il Torino e distruggerlo a cannonate, era l’unico modo con cui potevano sfogare la loro rabbia. Il commento di Garibaldi: “Ecco le loro battaglie”. Ma che faccia tosta.
Quando Fulminante e Aquila sono usciti di scena, Garibaldi torna indietro e sbarca in Calabria. E’fatta.
La marina borbonica è ormai paralizzata e non oppone alcuna resistenza: gli ufficiali sono stati tutti acquisiti alla causa italiana. Sulla nave Fieramosca esasperati dai continui cedimenti i marinai si ribellano e chiudono gli ufficiali nella stiva. Fanno rotta verso Napoli e consegnano gli ufficiali a un tribunale
militare ma il tribunale dà ragione agli ufficiali e fa imprigionare i marinai.
Bandi si avvia lungo la Calabria, secondo lui l’esercito borbonico è ancora forte di 80.000 uomini ma le truppe in Calabria si sfasciano: “Da Reggio su su per la Calabria fin presso Cosenza, non si vedevano se non torme di Borbonici, che vagavano per la campagna sordi a qualunque preghiera, a qualunque rampogna, e irremovibili nel proposito di volersene tornare alle loro case.” Garibaldi piange: “Peccato! Che bei soldati sarebbero! Che bel marciare sarebbe con questa gente alla volta di Roma!”. Solamente la sua mente malata poteva immaginare che i soldati napoletani avrebbero potuto muovere contro il Papa.
Per i borbonici è arrivato il “tutti a casa!” Il regime si sta sfasciando e la truppa non ha più rispetto per l’autorità degli ufficiali. Ora succede quello che succederà in Italia 80 anni dopo, l’8 settembre 1943, quando un altro regime si sfascia e ogni italiano dovrà decidere, da solo, da quale parte vuole stare. La vendetta dei Borbone.
A Mileto i soldati sentono il generale Brigante dare ancora un ordine di ritirata: lo linciano. E poi, cosa potevano fare?
A Soveria, Bandi vede alcuni gendarmi Borbonici vendere i loro cavalli nel mercato della città. Un colonnello garibaldino si avvicina a loro e gli propone “dieci scudi a testa se avessero consentito a conservare i loro cavalli e a formare un bello squadrone di cavalleria al servizio di Garibaldi … Non uno di que’ gendarmi volle accettare quei patti … Uno di que’ gendarmi mi rispose … ‘Noi abbiamo capitolato e vogliamo andarcene alle nostre case. Che dobbiamo incaricarci della vostra Italia!’”. Quel soldato non poteva sbagliarsi più di così, non sa cosa vuol dire: “guai ai vinti!”. Negli anni successivi sarà il Regno d’Italia che si “incaricherà” dei meridionali agnostici come lui.
Per capire quanto i soldati borbonici fossero ostili alla causa nazionale, dovete considerare quanto fosse disperata la loro situazione. Forbes ci racconta che mentre sta correndo verso Napoli, incrocia queste torme di borbonici disfatti; lui sa che non avevano soldi per comprarsi da mangiare eppure: “La loro condotta è stata assolutamente esemplare; non hanno né rubato né invaso i villaggi … Io credo che il contadino italiano … sia onesto e paziente al massimo; alcuni sono allegri, ma la maggior parte di loro non ci lascia are senza fare il gesto … che significa “sto morendo di fame”. Molti sono vestiti di stracci, scalzi e malati per essersi addormentati nelle zone malariche … Ce ne sono circa 25.000 di questi poveri disgraziati sulla strada e molti di loro moriranno” .
Forbes nota che solo in pochi casi gli ufficiali napoletani sono riusciti a convincere i loro soldati a disertare; lui ha visto in quale situazione si trovassero eppure lui non accetta la diserzione anche se fatta per una buona (per lui) causa: “Comunque sia la cosa urtava i miei sentimenti. Non è possibile rispettarli”. Questo è quello che resterà attaccato ai meridionali dopo l’avventura garibaldina. Il mondo non ricorderà il sacrificio di quei soldati che hanno affrontato la morte per non tradire; è con questo ultimo giudizio che il mondo si ricorderà di loro: disprezzo.
L’esercito garibaldino corre verso Napoli sia per via di terra che per via di mare. Oramai il mare è tutto sotto il loro controllo come ci dice Garibaldi nelle sue Memorie: “Altra circostanza ben favorevole alla causa nazionale, fu il tacito consenso, della marina militare Borbonica, che avrebbe potuto se interamente ostile, ritardare molto il nostro progresso verso la capitale. E veramente i nostri piroscafi trasportavano liberamente i corpi dell’esercito meridionale, lungo tutto il litorale napoletano, senza ostacoli, ciocchè non avrebbero potuto eseguire con una marina assolutamente contraria”.
Garibaldi deve affrettarsi perché Cavour lo sta precedendo con i suoi emissari per convertire quanti più napoletani possibile alla sua causa e bloccare un’eventuale velleità garibaldina di attaccare Roma o, peggio, dare vita ad una realtà politica autonoma rispetto al Regno di Sardegna.
Cavour aveva scritto il 3 agosto a Persano: “Faccia quanto può per far scoppiare il moto in Napoli prima dell’arrivo del generale Garibaldi, non solamente per spianargli la via ma anche per salvarci dalla diplomazia. Ove poi giungesse prima, prenda senza esitazione il comando di tutte le forze navali, andando d’accordo col generale, ma anche senza il suo consenso, se ciò è necessario”⁷ .
Cavour ha acquisito alla causa italiana lo zio del re, il ministro dell’Interno Liborio Romano, l’aiutante di campo del re generale Nunziante e il ministro della guerra Pianell. Con questa gente Cavour tenta di far scoppiare una rivolta o un colpo di stato a Napoli prima dell’arrivo di Garibaldi. Aveva dato istruzioni a Persano di appoggiarsi a Liborio e Nunziante: “Credo che possiamo fare assegnamento su loro: sul ministro perché vecchio liberale unitario; sul generale perché ho tanto in mano da farlo impiccare se occorre”⁷¹.
Navi della marina da guerra sarda sono nel porto di Napoli con due battaglioni di bersaglieri mentre armi e munizioni sono pronte per aiutare i ribelli; ma il tentativo naufraga nella totale indifferenza del popolo e lo zio del re e il generale Nunziante si devono rifugiare sulle navi sarde. Solo il carisma di Garibaldi può scatenare rivolte più o meno popolari.
sco II ha ancora 50.000 uomini che al comando di Bosco potrebbero affrontare Garibaldi davanti a Salerno ma il 5 settembre decide di abbandonare Napoli e con un proclama spiega che vuole salvare la sua capitale “dalle rovine e dalla guerra, salvare i suoi abitanti e le loro proprietà, i sacri templi, i monumenti, gli stabilimenti pubblici, le collezioni di arte, e tutto quello che forma il patrimonio della sua civiltà e della sua grandezza, e che appartenendo alle generazioni future è superiore alle ioni di un tempo”⁷². Ordina a Bosco di ritirarsi e di andare a posizionare l’esercito sulla linea del Volturno a nord della capitale. Ma che senso ha tutto questo? Salerno è a 70 chilometri da Napoli e una battaglia non avrebbe potuto recare alcun danno alla città. Non solo lascia a Garibaldi la capitale senza combattere, gli lascia anche tutte le finanze del regno e persino il suo patrimonio personale! Che senso ha lasciare tutto a
Garibaldi per ritirarsi e poi affrontarlo con un esercito indebolito e scoraggiato al confine settentrionale del regno? Pensate che, per dimostrare la sua buona volontà, pochi mesi prima aveva fatto rientrare a Napoli la somma di 50 milioni di franchi oro che suo padre aveva depositato a Londra per il “non si sa mai”.
Eppure, nonostante questa sua strategia disfattista e sconclusionata, i soldati e i marinai restano fedeli e lo seguono denotando un attaccamento che è difficile comprendere. Come si fa a restare così fedeli a un idiota? L’ammiraglio Mundy è arrivato a Napoli con tutta la sua flotta e questo è il suo giudizio su sco II: “In città si sapeva che il re si stava preparando a partire, ma purtroppo non per mettersi alla testa dei suoi fedeli soldati, che avevano e avrebbero ancora combattuto eroicamente per la sua dinastia, ma per mettere al sicuro la sua persona e quella della sua coraggiosa regina … Che occasione persa per il più giovane sovrano d’Europa di farsi un nome che non sarebbe mai stato dimenticato dalla storia! Il ricordo del coraggio mostrato dalle sue truppe a Milazzo avrebbe dovuto renderlo sicuro che non avrebbero abbandonato la bandiera del re se guidati in modo appropriato; e un atto di risoluto coraggio da parte sua avrebbe fermato l’onda dell’invasione e gli avrebbe guadagnato l’approvazione del mondo”⁷³.
Il 6 settembre il re lascia Napoli su di un paio di navi spagnole per rifugiarsi nella fortezza di Gaeta con tutta la sua famiglia. Le navi ano vicino all’Hannibal da dove l’ammiraglio Mundy osservava la partenza: “Lasciò il palazzo dei suoi antenati e si diresse verso il porto in mezzo a una grande folla, ma non una lacrima fu versata, né fu udito un ‘Dio ti benedica!’. Era la desolazione dell’indifferenza. Uno spettacolo davvero melanconico che mi addolorò moltissimo”.
Prima di partire il re aveva dichiarato: “Ai napoletani non resteranno che gli occhi per piangere, io non so come il rimorso non uccida tutti quelli che mi hanno tradito”. Le navi da guerra napoletane restano nel porto per essere acquisite nella marina sarda, ma buona parte degli equipaggi abbandona le navi per seguire il re.
Garibaldi si precipita, va in nave a Salerno e qui prende il treno per Napoli; è solo con altri 5 compagni. Le truppe garibaldine più vicine sono a due giorni di distanza ma non ha paura perché prima di arrivare a Salerno aveva incontrato un emissario del governo inglese e aveva mandato Alessandro Dumas col suo panfilo a Napoli per prendere contatto con il ministro dell’Interno Liborio Romano, un fratello massone. Nel porto di Napoli c’è l’ammiraglio Mundy con l’Hannibal e altre navi da guerra inglesi che possono prenderlo a bordo se necessario; mentre per la sua sicurezza personale sa già a chi si può affidare: alla Camorra!
“Garibaldi ha infatti da tempo preso contatto con Liborio Romano, che è ancora formalmente membro del governo reale: è lui che gli procura il contatto e l’accordo con Salvatore De Crescenzo (detto Tore’e Criscienzo), che è il capo riconosciuto della Camorra e che è detenuto in carcere. Romano patteggia con De Crescenzo la sua liberazione e quella di tutti i camorristi detenuti in cambio dell’aiuto “rivoluzionario” a Garibaldi, consistente nella eliminazione “per coltello” dei delegati di polizia e della presa di controllo della città”⁷⁴.
Il pomeriggio del 7 settembre arriva alla stazione di Napoli. C’è una folla enorme ad aspettarlo. I forti della città sono presidiati da 6.000 soldati borbonici ma hanno avuto l’ordine di non sparare, qualcuno avrebbe potuto farsi male. Assediato da una folla in delirio Garibaldi sale su una carrozza preparata dalla Camorra: “L’onorata società sistemò i suoi uomini tutto intorno per assicurare, contemporaneamente, il calore della gente e la disciplina nel manifestarlo. In prima fila, appena davanti ai cavalli del traino, Michele “’o chiazziere”, che normalmente, ritirava le tangenti dagli ambulanti della piazza. Sull’altro lato “’o schiavutiello”, che sembrava un saraceno. In mezzo Salvatore, il fratello di Marianna (detta “la Giovannara”, proprietaria della bettola dove si riuniva il gotha della Camorra), “Tore ‘e Criscenzo”. Guardiani della malavita, padrini dell’Unità d’Italia”⁷⁵.
Così fa il suo ingresso trionfale a Napoli e quando a davanti ai forti
presidiati dai borbonici, i soldati, non solo non aprono il fuoco ma… presentano le armi. E’ una scena grottesca e surreale. Anche a Napoli come a Marsala i cannoni borbonici restano in silenzio. Sarebbero sufficienti un paio di cannonate e Garibaldi con annessa Camorra volerebbero diritti in cielo. Anche qui come a Marsala non si può non commentare: un coraggio straordinario o un’incredibile sfacciataggine?
Così Garibaldi commenta il fatto nelle Memorie: “Eppure il plauso, ed il contegno imponente del grande popolo, valsero nel 7 settembre 1860 a mantenere innocuo l’esercito Borbonico, padrone ancora dei forti, e dei punti principali della città, da dove avrebbe potuto distruggerla”.
Non fu merito del grande popolo ma della grande corruzione. I borbonici rimasti a Napoli sono al comando del generale Cataldo che tiene i suoi uomini in silenzio e chiusi nei forti. Due giorni dopo consegna i forti senza colpo ferire ai primi garibaldini che arrivano in città. L’esercito italiano si rifiuterà di assumere Cataldo che sarà messo a riposo ma… con stipendio.
Nei due giorni che precedono l’arrivo delle truppe garibaldine Napoli è di fatto in mano alla Camorra.
Secondo lo storico filo borbonico De Sivo: “Subito il ministero camorrista mise generali camorristi incontro al Nizzardo; fece da’ suoi uccidere per le vie gli uffiziali della precedente polizia; creò anzi poliziotti gli stessi ucciditori; mise camorristi Intendenti al governo delle provincie, alle direzioni, alle amministrazioni, a’ tribunali”.
Secondo il cronista garibaldino Forbes: “Nulla può superare la carnevalata – non può essere descritta col termine entusiasmo - che i napoletani hanno messo in scena nei due giorni successivi all’arrivo di Garibaldi. Non solamente furono
interrotti tutti gli affari, ma l’intera popolazione si abbandonò a uno stato di frenesia, confinante con la pazzia, qualche volta ridicola, ma altre volte pericolosa, essendo stati commessi numerosi assassini. Tutta la popolazione era per le vie di giorno e di notte; carrozze piene di “putanas” vi offrivano l’alternativa o di una pugnalata, o del grido allora universale di “una”, simbolo dell’unità italiana. Bande di lenoni in camicia rossa invadevano gli alberghi e i caffè e con le armi alla mano forzavano tutti a unirsi alle loro orge”⁷ .
Così finisce Napoli capitale di un regno, assieme a Londra e Parigi era stata una delle più antiche capitali d’Europa. Come in Sicilia anche a Napoli il crimine organizzato entra nelle istituzioni sull’onda della vittoria garibaldina. Così è iniziata l’Italia e così ha proseguito.
Il 9 arrivano le prime truppe garibaldine che prendono possesso dei forti da dove i borbonici escono inquadrati e con le loro bandiere. L’ammiraglio Mundy è presente: “Al tramonto le truppe reali lasciarono la città e si misero in marcia verso Capua. Mi ero messo all’estremità di via Toledo per assistere alla loro partenza. Fu data loro ogni opportunità per disertare i ranghi e are nelle file della Rivoluzione, ma pochi se ne avvalsero. C’era un’ostinata e sprezzante determinazione negli sguardi e nel contegno di quegli uomini che non costituiva certo prova di simpatia per la causa del Dittatore”.
Lentamente, con l’arrivo delle truppe garibaldine le violenze della Camorra si placano ma chi proteggerà Napoli dalle violenze dei garibaldini? Così De Sivo descrive il loro arrivo in città: ”Tutto è lor lecito. Per loro castelli, reggie, arsenali, monasteri e case; ogni cosa è di questi usciti da tutte le parti del mondo; seguitati da siculi e calabresi prezzolati o delinquenti, già masnadieri, già galeotti, calpestatori di ogni diritto, bestemmiatori d’ogni Dio, ignoranti d’ogni legge. Si spandono per palagi, paesi e ville: derubano ogni arnese, minacciano ogni vita, sfregiano ogni monumento, insultano ad ogni grandezza. Napoli che mai non vide Vandali, vide i garibaldini!”.
Per complicare le cose iniziano le prime rivolte anti italiane; così ci informa Garibaldi nelle sue Memorie: “Le prime colonne dell’esercito meridionale, arrivate appena nelle vicinanze di Napoli, furono dirette verso Avellino ed Ariano, a sedare alcuni moti reazionari, suscitati da preti e da Borbonici. Il generale Turr ne fu incaricato, ed adempì perfettamente”. Laconico e brutale.
Dobbiamo dedurre che la situazione fosse abbastanza grave se Garibaldi ha dovuto deviare da Napoli le sue truppe. Inizia così il massacro dei popoli meridionali. Non è stata colpa della “ottusità dei Piemontesi” se il regno d’Italia iniziò, immediatamente dopo la conquista, una guerra di repressione dei movimenti anti unitari; questa repressione è iniziata da subito con Garibaldi.
Quest’odio implacabile che i patrioti hanno nei confronti dei “reazionari anti italiani” si era già manifestato pochi giorni prima. A fine agosto, prima di arrivare a Salerno, Garibaldi aveva ordinato l’eliminazione di quei civili che avevano combattuto contro Pisacane quando, 3 anni prima, era sbarcato vicino Sapri con i suoi 300 delinquenti per dare inizio ad una rivolta di popolo che nessuno voleva. Nei giorni successivi vengono assassinate 4 persone nel paese di Sanza: due guardie urbane, un farmacista e un contadino. Probabilmente questi erano gli unici abitanti che avevano trovato in paese.
Anche Abba arriva a Napoli: “Grande, immensa, varia da perdervisi, e fastosa fin nello sfoggio della miseria. Non vidi mai sudiciume portato in mostra così! Ho dato una corsa pei quartieri poveri; c’è qualcosa che dà al cervello come a traversare un padule. La gente vi brulica, bisogna farsi piccini per are, e si vien via assordati” Sembra che nulla sia cambiato in questi 150 anni.
Napoli resterà per un paio di mesi sotto amministrazione garibaldina. E’ impossibile esagerare il disastro che questa amministrazione provocò nella città e nel regno. Solo alcuni esempi.⁷⁷
Immediatamente, il 7 settembre, Garibaldi si attribuisce con decreto dittatoriale mano libera sui depositi pubblici del Banco delle Due Sicilie che ammontano a più di 500 milioni di Euro e li fa sparire in pochi giorni. Si concedono pensioni e vitalizi a tutti quelli che possono pretendere di aver sofferto per la causa dell’unità come la figlia di Pisacane o la vedova di Agesilao Milano che 4 anni prima aveva tentato di asse il re. Viene indennizzata la Rubattino per i piroscafi impiegati nell’impresa anche se erano già stati pagati ed erano anche stati restituiti alla società; ma il signor Rubattino, comunque, protesterà di non essere stato ricompensato adeguatamente. Il 23 ottobre mette a disposizione di tutti quelli che avessero subìto “ingiustizie” dai Borbone i beni della Casa Reale. Vengono saccheggiati anche i beni privati dei Borbone. Tra le persone indennizzate per le ingiustizie ci sono le mogli dei vertici della Camorra a cui fa avere un vitalizio di 2.000 Euro mensili. Inoltre fa avere alla Camorra una somma di 17 milioni di Euro da distribuire al “popolo”. Una menzione speciale la merita Alexandre Dumas che si fa nominare responsabile degli scavi di Pompei ed Ercolano con un compenso astronomico.
Esaurito il danaro contante si da’ un “posto” a tutti quelli che pretendono di essersi battuti per la causa nazionale riempiendo tutti gli enti pubblici fino all’inverosimile primo tra tutti l’Esercito Meridionale che arriverà ad avere un ufficiale ogni 4 soldati. Bertani ora è a Napoli e si riempie le tasche senza alcun ritegno. Garibaldi non si accorge di niente o fa finta. Dichiarerà più tardi: “Se non fosse per fare uno scandalo leverei la cassa a Bertani”. Non lo fece e alla fine dell’avventura Bertani sarà uno degli uomini più ricchi d’Italia. Complessivamente la massa di risorse finanziarie distrutta dai garibaldini è stata valutata in 2.000 miliardi di Euro.
Così finisce l’oro di Napoli.
Una storia a parte è quella delle ferrovie meridionali. Il padre di sco II aveva dato inizio a un grande programma di costruzioni ferroviarie considerando che il regno era molto indietro rispetto agli altri paesi europei. Quando Garibaldi prende il potere il progetto era già stato approvato, i capitali erano già stati
accantonati dalla “corrotta” amministrazione borbonica, l’appalto era già stato regolarmente assegnato a una ditta se e molti lavori erano già iniziati. Garibaldi cancella immediatamente questo appalto e non dimentico dei suoi fratelli massoni fa avere l’appalto a una coppia di banchieri, Adami e Lemmi fratelli massoni oltre che cognati, a un costo superiore a quello già appaltato. Questi banchieri avevano finanziato la sua spedizione e quella di Pisacane inoltre Lemmi si era recato a Palermo con una lettera di Mazzini per Crispi (ministro dell’interno e delle finanze del governo garibaldino): “Fratello, il portatore, Adriano Lemmi, è nostro buonissimo amico mio da vent’anni e fece sacrifici considerevoli per la Causa. Ei viene a trattar cosa importante concernente la concessione fatta recentemente per le vie ferrate all’Adami. Uditelo, vi prego; spiegherà egli ogni cosa. Io soltanto vi dico che dove altri farebbe suo pro’ d’ogni frutto dell’impresa, egli mira a fondare la Cassa del Partito, non la sua. Vogliatemi bene”⁷⁸. Questa raccomandazione è fatta con la motivazione che Lemmi non avrebbe agito solamente per il suo personale interesse ma avrebbe anche contribuito alle casse del loro movimento (repubblicano). Quest’appalto sarà cancellato da Cavour perché le sue clausole garantivano ai due banchieri dei profitti enormi e i relativi capitali erano stati distrutti. I due comunque riusciranno a finanziare vari giornali mazziniani tra cui il Popolo d’Italia ma questa è un’altra storia.
In mezzo a questa orgia di distruzione Garibaldi sembra non accorgersi di nulla; lui ha sempre disprezzato il denaro. Preferisce godersi un'altra ondata di popolarità. A Londra sono state vendute un milione di copie di un suo ritratto. A Napoli riceve un gruppo di signore inglesi e gli concede un bacio e il taglio di una ciocca di capelli mentre il generale Turr gli sistema i capelli con un pettine. I suoi più stretti collaboratori gli hanno messo accanto una guardia del corpo per allontanare le ammiratrici troppo insistenti.
In quei giorni Cavour, Vittorio Emanuele e la diplomazia stavano lavorando alacremente per fare in modo che la conquista si sistemasse nella maniera migliore possibile. Cavour riesce a convincere Napoleone che la cosa migliore per tutti è che l’esercito piemontese vada in soccorso a Garibaldi che deve ancora affrontare l’esercito borbonico ando per lo stato della Chiesa e annettendosi il regno delle Due Sicilie. Così si evita che Garibaldi possa
proseguire verso Roma o che possa mettere in piedi un’entità statale autonoma rispetto al Piemonte. A metà Settembre l’esercito piemontese varca il confine dello Stato della Chiesa senza una dichiarazione di guerra e sconfigge un piccolo esercito che il Papa gli ha inviato contro ma con l’ordine di non farsi male.
A questo punto Garibaldi si deve muovere e se vuole proseguire verso Roma deve sconfiggere l’esercito borbonico che gli sbarra la strada, prima dell’arrivo delle truppe piemontesi. Inoltre le rivolte popolari contro di lui stanno dilagando e la situazione potrebbe sfuggirgli di mano.
Al primo di Ottobre lo scontro ha luogo lungo il fiume Volturno e si conclude senza che nessuno dei due riesca a sopraffare l’altro. Fino all’ultimo l’esito della battaglia è stato incerto, sco II non riesce a sfondare per riprendersi Napoli e Garibaldi non riesce a sconfiggerlo per completare la conquista e proseguire verso Roma.
Ora l’esercito borbonico è ancora intatto e, ancora peggio, le truppe che Garibaldi aveva mandato nel Sannio al comando del colonnello Nullo per sedare le rivolte anti italiane sono state massacrate dalla popolazione che è rimasta fanaticamente fedele al suo re. Cinquecento garibaldini sono massacrati dai contadini, il peggior tributo di sangue di tutta la spedizione. Questo è quello che ci racconta Abba: “Pettorano, Carpinone, Isernia, meritereste che su voi non venisse più né pioggia né rugiada, fin che durerà la memoria dei nostri, ingannati e messi in caccia e uccisi pei vostri campi e pei vostri boschi! Tornarono gli avanzi della colonna Nullo; non si regge ai loro racconti; non sanno dire che morti, morti, morti! Par loro d’aver ancora intorno l’orgia di villani, di soldati, di frati che uccidevano al grido di Viva sco secondo e Viva Maria. Povero Bettoni! … Se ne veniva indietro ferito su d’una carrozza; cavalcavano ai suoi lati Lavagnolo e Moro, pensando di poterlo porre in salvo a Boiano, e tornar poi a spron battuto dove Nullo combatteva, e i nostri morivano qua, là a gruppi, da soli, sbigottiti dalle grida selvagge, dalla furia delle donne cagne scatenate, più che dalla moltitudine degli armati che innumerevole si avventava. Poveri cavalieri! Il giorno appresso il tenente Candiani li trovò morti, nudi, oltraggiati
sulla via. Ah! quel Sannio!, quel Sannio!”
Una descrizione drammatica che rende con esattezza l’odio che queste popolazioni nutrivano nei confronti di questi liberatori che nessuno aveva chiamato; è impressionante la “furia delle donne cagne scatenate”. Usavano vari “inganni”, ad esempio un gruppo di donne sole accoglieva i soldati stanchi e gli offriva da bere. Questi lasciavano i fucili in un canto e si sedevano. A questo punto le donne tiravano fuori i coltelli, li sgozzavano, spogliavano i cadaveri e li gettavano sulla strada mutilati. Poi fuggivano. Ora Abba sa di essere odiato e odia anche lui.
Il 9 ottobre l’esercito piemontese varca il confine del Regno delle Due Sicilie, senza una dichiarazione di guerra, e marcia contro l’esercito borbonico. La diplomazia europea aveva protestato contro questa conquista fatta con un inganno ma l’Inghilterra interviene e il ministro degli esteri invia un telegramma alle principali cancellerie europee affermando che: “Il Governo di Sua Maestà Britannica non vede ragione sufficiente a giustificare il severo biasimo con cui l’Austria, la Francia, la Prussia e la Russia hanno bollato gli atti del Re di Sardegna”. Chi di lor signori vuole sfidare l’Inghilterra?
Garibaldi si è reso conto che il suo Esercito Meridionale non può sconfiggere l’esercito napoletano né può reprimere le rivolte popolari. Svanisce il suo sogno di una marcia trionfale su Roma e di poter restare a capo del suo esercito. A metà ottobre approva e dà inizio ai plebisciti per l’annessione al Regno di Sardegna. Il 20 ottobre l’esercito piemontese sconfigge l’esercito borbonico e il 26 Garibaldi va incontro a Vittorio Emanuele in viaggio verso Napoli: cede la Dittatura e il comando del suo Esercito Meridionale.
Così termina la sua avventura.
Deve restare a Napoli ancora pochi giorni per are le consegne ai piemontesi e a re Vittorio. Sono giorni molto tristi perché sia i militari piemontesi che il re non perdono occasione per umiliarlo. Cavour ha nominato luogotenente a Napoli il generale Farini che si vanta pubblicamente di non aver mai dato la mano a Garibaldi. I militari dell’esercito sardo detestano i garibaldini con un’intensità che lascia stupiti. Sia il re che i militari devono far vedere ai napoletani e agli stranieri che loro non hanno bisogno di Garibaldi e si comportano come se il Regno delle Due Sicilie lo avessero conquistato loro. In quei giorni l’esercito piemontese ha iniziato l’assedio delle fortezze di Capua, Gaeta, Civitella del Tronto e Messina che sono in mano ai borbonici e si rifiutano di arrendersi. Tranne Capua, Garibaldi e i suoi sono esclusi da queste operazioni.
L’imbarazzo aumenta quando re Vittorio e Garibaldi si muovono assieme perché la gente cerca solo Garibaldi e solo a lui fa festa mentre il re viene ignorato. Garibaldi cerca di farsi da parte per non dare l’impressione che gli italiani sono divisi tra loro. Abba ci fa sapere che: “Ieri il Dittatore non andò a colazione dal Re. Disse d’averla già fatta … E questa dev’essere la spina del suo gran cuore che voleva un milione di fucili da dare all’Italia, e l’Italia non diede che ventimila volontari a lui.”.
Però prima di partire Garibaldi ottiene dal re che verrà a are in rassegna l’Esercito Meridionale prima che venga disciolto. Il 6 Novembre davanti alla reggia di Caserta piove e fa freddo. Garibaldi si è vestito per le grandi occasioni e i garibaldini sono schierati in attesa di essere ati in rivista dal re. Restano per delle ore sotto la pioggia finché Garibaldi annunzia che il re non verrà e non ha mandato nessun altro a rappresentarlo. Sarà quindi Garibaldi da solo che erà in rassegna l’Esercito Meridionale. Abba è presente: “Ah! Quello che cavalcava alla testa non era il Re: era Lui col cappello ungherese, col mantello americano”. Quindi i garibaldini sfilano avanti a Garibaldi “Così si andò verso il Palazzo reale, a sfilare dinnanzi al Dittatore piantato là sulla gran porta, come un monumento. E si sentiva che quella era l’ultima ora del suo comando. Veniva la voglia di andarsi a gettar ai suoi piedi gridando: Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa! ... Il Generale pallido come forse non fu visto mai, ci guardava. S’indovinava che il pianto gli si rivolgeva indietro e gli allagava il cuore.”
Il 9 novembre all’alba Garibaldi lascia Napoli con la nave americana Washington per tornare a Caprera. Prima di partire va a visitare l’ammiraglio Bundy sulla sua nave, l’Hannibal. L’ammiraglio aveva avuto istruzioni di far sapere a Garibaldi che l’Inghilterra non voleva un’altra guerra in Italia e lo aveva già avvertito due mesi prima. Ora fa un ultimo tentativo per dissuaderlo dal suo proposito di attaccare i si a Roma ma questa è la sua reazione: “Esclamò con veemenza ‘Prima che cinque mesi siano ati io sarò di nuovo sul campo di battaglia! A Marzo dell’anno prossimo noi dobbiamo avere un milione di uomini sotto le armi e il lavoro di redenzione del mio paese sarà completato’”⁷ . Bundy si rende conto che è inutile parlare con Garibaldi e si rassegna. Prima di congedarlo lo prega di firmare il libro dei visitatori di bordo ove Garibaldi lascia un saluto caloroso scritto in se, quindi sale sulla scialuppa che lo porta sul Washington.
⁴ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.87
⁴⁷ Roberto Martucci, L’invenzione dell’Italia unita, (Milano, Sansoni , 1999) pag.191
⁴⁸ Gilberto Oneto, La strana unità (Rimini: Il Cerchio, 2010), pag.168. Da questo studio si può rilevare che, se si esclude il Lombardo-Veneto, il reddito procapite del Meridione è allineato con la media italiana. Infatti il reddito procapite del Lombardo-Veneto è superiore al doppio di questa media. Quindi non era vero che il Meridione fosse così povero come oggi si ritiene, era piuttosto il Lombardo-Veneto a essere una delle regioni più ricche d’Europa.
⁴ Giuseppe Bandi, Da Genova a Capua, (BUR Milano 1960), pag.20
⁵ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.239. L’episodio è confermato da Bandi.
⁵¹ Per i dati e le citazioni di questo capitolo: Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, (Editori Laterza, Bari 1973) Volumi II e III.
⁵² Carlo Alianello, La conquista del Sud, (Milano: Rusconi Editore, 1972), pag. 121
⁵³ Se il lettore pensa che la nostra società abbia superato questa etica barbarica lo invitiamo a guardare Il Padrino
⁵⁴ Ippolito Nievo, Diario della spedizione dei Mille, (Ugo Mursia Editore, Milano 2010) pag.58
⁵⁵ Ippolito Nievo, Diario della spedizione dei Mille, (Ugo Mursia Editore, Milano 2010) pag.29
⁵ G.C.Abba, Storia dei Mille, (Bemporad, Firenze 1928) pag.140
⁵⁷ Ippolito Nievo, Diario della spedizione dei Mille, Ugo Mursia Editore, Milano 2010 pag.61
⁵⁸ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.127. La banca conserva ancora questa ricevuta
⁵ Oggi i turisti possono ammirare il palazzo della famiglia Beneventano a Siracusa
Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.128
¹ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.260-264.
² Arrigo Petacco, La Regina del Sud, (Milano: Mondadori, 1992) pag.96
³ Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, (Bari: Editori Laterza, 1973) Vol.III pag.592
⁴ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.132
⁵ Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, (Bari: Editori Laterza, 1973) Vol.III pag.593
Benedetto Radice, Memorie storiche di Bronte, può essere scaricato da: http://www.bronteinsieme.it/2st/mo_601.html
⁷ Charles Stuart Forbes, The campaign of Garibaldi in the Two Sicilies, (Blackwood and Sons: London 1862), pag.127
⁸ Denis Mack Smith, Storia della Sicilia medievale e moderna, (Bari: Editori Laterza, 1973) Vol.III pag.593
Charles Stuart Forbes, The campaign of Garibaldi in the Two Sicilies, (Blackwood and Sons: London 1862), pag.212
⁷ Giuseppe Bandi, Da Genova a Capua, (BUR Milano 1960), pag.400
⁷¹ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.157
⁷² Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.288.
⁷³ Sir Rodney Mundy. H.M.S. “Hannibal” at Palermo and Naples. (London: Murray, 1863), pag.230
⁷⁴ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.158
⁷⁵ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.160
⁷ Charles Stuart Forbes, The campaign of Garibaldi in the Two Sicilies, (Blackwood and Sons, London 1862, pag.237
⁷⁷ Per un elenco dettagliato e relativa documentazione vedi: Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.160-173
⁷⁸ Mario Costa Cardol, Ingovernabili da Torino (Milano: Mursia 1989), pag 46
⁷ Sir Rodney Mundy, H.M.S. “Hannibal” at Palermo and Naples. (London: Murray, 1863), pag.282
La conquista del Meridione
Dobbiamo ora lasciare un attimo il nostro eroe per esaminare quello che è stato fatto e le conseguenze che porterà nel nuovo Regno d’Italia.
Come abbiamo visto Garibaldi è arrivato al limite di quanto lui potesse fare con i suoi garibaldini. Ora tocca al nascente Regno d’Italia dare il colpo di grazia al regime borbonico e affrontare il problema della integrazione dei meridionali in questa nuova entità statale annientando i movimenti anti unitari. Partito Garibaldi la nuova amministrazione piemontese si trova di fronte ad una situazione disastrosa. Quasi tutto ciò che ha fatto Garibaldi viene cancellato. Dumas perde la gestione degli scavi di Pompei e molti dei generosi vitalizi e stipendi concessi a chi era riuscito a farseli dare vengono revocati, tranne quelli dati alla Camorra; evidentemente i nuovi amministratori hanno ancora bisogno di loro. Ma i capitali spariti non si possono più recuperare.
Il re da parte sua ha dovuto prendere atto del disastro: è furioso.
Negli anni precedenti il Piemonte ha speso cifre esorbitanti per i suoi progetti patriottico-imperialisti e la sua situazione finanziaria è vicina alla bancarotta. Avevano già saccheggiato le finanze degli stati appena annessi, Modena, Parma, Romagna e Toscana ma era tutto finito nelle tasche degli agenti di Cavour e neanche un centesimo era entrato nelle casse del povero Piemonte. Il governo piemontese contava sull’oro di Napoli per sistemarsi. Scrive Vittorio Emanuele a Cavour: “Come avete visto ho liquidato rapidamente la sgradevole faccenda Garibaldi, sebbene – siatene certo - questo personaggio non è affatto così docile né così onesto come lo si dipinge, e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua, e il male immenso che è stato commesso qui, ad esempio l’infame furto di tutto il denaro dell’erario, è da attribuirsi interamente a lui, che si è circondato di canaglie, ne ha seguito i cattivi consigli, e ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa“. Il re
prosegue descrivendo i problemi che ha avuto per sciogliere l’esercito garibaldino, problemi provocati dall’odio che i vertici militari piemontesi nutrono contro i garibaldini: “Se non fossimo intervenuti io e la maggior parte dei generali di Garibaldi, avremmo avuto un’insurrezione armata e sarebbe stato necessario versare del sangue. Questi sventurati, che a torto o a ragione credevano di aver fatto grandi cose, sono stati trattati come cani. Fanti (generale luogotenente di Napoli) li trattava in pubblico con sovrano disprezzo (l’ho visto malmenare dei mutilati che chiedevano l’elemosina) ... sappiate che ne ho sofferto immensamente. … se foste stato tra loro come me, se aveste visto l’allegria e la buona volontà con cui andavano a battersi, se aveste visto milleottocento di loro mutilati, forse avreste provato i miei stessi sentimenti e avreste elogiato il valore di questi sventurati, quello stesso valore che Fanti metteva in ridicolo in pubblico”⁸ .
Mentre Garibaldi naviga verso fama imperitura il re ha dovuto prendere nota del “male immenso che è stato commesso qui” che “ha piombato questo infelice paese in una situazione spaventosa”. A Napoli l’odio dilaga: tra militari e garibaldini e tra padani e napoletani. Questa nuova nazione inizia male.
Per avere un’idea del perché i militari piemontesi odiassero così tanto i garibaldini dobbiamo fermarci ancora una volta ad esaminare il mito Garibaldi e leggiamo come Luise Colet, una scrittrice se, descrive Napoli dopo la partenza di Garibaldi: “e quando scoppiava una lite tra loro (garibaldini) e i soldati piemontesi, il popolo se la prendeva sempre con questi ultimi. Tutti i rancori e tutti i malumori ricadevano sul governo regolare. … la città era pervasa da un’atmosfera cupamente triste che colpiva tutti gli osservatori; i canti, le grida patriottiche, i cortei alla luce delle torce erano svaniti quasi istantaneamente. … La Napoli del re non aveva più per me il fascino della Napoli di Garibaldi; erano scomparsi quella spontanea agitazione, quell’allegro brusio, quella visibile emozione di un intero popolo liberato e felice”⁸¹. Quindi nonostante il disastro lasciato da Garibaldi ora i “piemontesi” non solo devono mettervi riparo ma devono anche subire il risentimento dell’opinione pubblica mentre Garibaldi è sempre osannato come un Dio: potenza del mito. Ma oltre a questo c’è il fatto che l’esercito piemontese non aveva vinto, né vincerà, alcuna battaglia del Risorgimento quindi per dei militari di carriera andare a Napoli a raccogliere le
conquiste dei garibaldini è di fatto, molto umiliante. Ce ne è abbastanza da diventare furiosi.
L’odio da parte dei meridionali nei confronti dei liberatori padani era già esploso con le rivolte popolari di cui abbiamo parlato, ora è esasperato dai plebisciti indetti da Garibaldi che vengono copiati da quelli già fatti negli altri territori conquistati. Questi plebisciti erano chiaramente una farsa dato che Garibaldi aveva già emesso un decreto che dichiarava: “Le Due Sicilie, che devono la loro redenzione al sangue degli italiani e che mi hanno eletto loro dittatore, fanno parte integrante dell’Italia, una e indivisibile, con il suo re costituzionale Vittorio Emanuele e i suoi discendenti”. Si trattava quindi di obbligare i meridionali ad umiliarsi nell’accettare un fatto già stabilito dalle armi e sanzionato da un suo decreto. Le votazioni erano fatte in pubblico con tre urne, due contenevano le schede, con stampato il SI e il NO, da dove gli elettori dovevano prendere la scheda desiderata e depositarla nella terza urna; questo era fatto su di una piattaforma sotto gli occhi di tutti ma soprattutto del presidio di garibaldini o di altri militi (presi dalla camorra) che erano incaricati dell’ordine pubblico. Il clima di intimidazione era pesantissimo e i brogli andavano al di là del ridicolo. Manifesti affissi nelle strade dichiaravano “Nemico della Patria” chi avesse votato per il no; i garibaldini e i camorristi votavano quante volte fosse necessario ed erano pronti a bastonare o asse quanti si ostinassero a non adeguarsi.
Così lo descrive il filo Borbonico Giuseppe Buttà: “A Napoli l’unanimità fu garantita dai bastoni dei camorristi chiamati dai liberali a sostenere il nuovo governo e in seguito premiati con la concessione di pensioni e di licenze per la rivendita dei tabacchi. Garibaldi e i suoi si divertirono a votare più volte e le modalità del voto scandalizzarono i pur benevoli osservatori stranieri”. L’ammiraglio Mundy osservò tutto lo svolgersi del plebiscito e si sentì in dovere di rendere pubblica la sua opinione: “un plebiscito regolato da tali modalità non può essere ritenuto veridica manifestazione dei reali sentimenti del paese”. Senza ombra di imbarazzo, i risultati verranno pubblicizzati con un entusiasmo trionfale: 99% di SI. I patrioti non ebbero alcun dubbio che i meridionali approvassero la perdita della propria indipendenza e la cacciata di un re nato a Napoli, che parlava in napoletano e che era meridionale da quattro generazioni,
in favore dell’annessione da parte di un sovrano che pensava, parlava e scriveva in se: ora la parola è alle armi. Inizia adesso la vera conquista del Meridione.
La conquista si sviluppa in due direzioni: l’annientamento dello esercito borbonico e la repressione delle rivolte popolari anti unitarie.
Innanzi tutto si devono conquistare le fortezze di Gaeta, Messina e Civitella ove i borbonici si sono asserragliati per una resistenza tanto eroica quanto inutile. I piemontesi hanno i nuovissimi cannoni rigati che hanno una gittata superiore ai cannoni lisci delle fortezze e quindi è solo una questione di tempo e di soldi. Ora i militari borbonici daranno una dimostrazione di fedeltà e di spirito di sacrificio che lascia stupiti. Ma se erano così decisi a dare la vita per il loro re, perché non l’hanno fatto prima? Quasi tutti daranno la vita piuttosto che abiurare al loro giuramento di fedeltà e affronteranno torture e morte senza vacillare. Una tale fedeltà verso una causa persa è un caso unico nella storia d’Europa. A Gaeta ci sono il re e la regina e quando il porto fu bloccato dalla flotta italiana tutti gli ufficiali della fortezza esortavano sco II alla resistenza e sottoscrissero in dicembre un messaggio che si concludeva con le seguenti parole: “Che il nostro destino sia presto deciso o che un lungo periodo di sofferenze e di lotte ci attenda ancora, noi affronteremo la nostra sorte con docilità e senza paura, colla calma fiera e dignitosa che si conviene ai soldati; noi andremo incontro alle gioie del trionfo o alla morte dei prodi, innalzando l’antico nostro grido di Viva il Re”.⁸²
Il 14 febbraio ’61 Gaeta si arrende e re e regina vanno in esilio a Roma che è protetta dai si.
Il 13 marzo si arrende Messina. I soldati fanno a pezzi le bandiere borboniche e ognuno ne nasconde un pezzo addosso per non lasciarle al nemico.
Il 20 marzo si arrende Civitella. Il comandante italiano (il 17 marzo è stato dichiarato il Regno d’Italia) manda un telegramma a Cavour: “A S.E. Primo ministro Cavour-Torino, le nostre truppe entrarono ieri alle 11 a.m. nella piazza di Civitella. La guarnigione a discrezione tradotta prigioniera ad Ascoli, si arrestarono tutti i malfattori. I guasti prodotti dalla nostra artiglieria sono immensi, il forte è un mucchio di rovine”.⁸³ E così ora i soldati Borbonici che sono rimasti fedeli al loro paese sono diventati: “i malfattori”. Alcuni di loro che si erano distinti nella resistenza sono fucilati immediatamente. Il comandante viene mandato in prigionia grazie alle insistenza di Napoleone III che aveva protestato per questi atti barbarici ma sarà comunque ucciso dopo pochi mesi.
Inizia ora il calvario dei militari Borbonici prigionieri.
Foglie secche
A Roma la famiglia reale dei Borbone viene ospitata da Pio IX al Quirinale poi vanno a palazzo Farnese di loro proprietà. Un diplomatico vaticano commenta che “L'intera società reale mi è parsa a San Pietro come foglie secche ammucchiate dal vento”. La regina Maria Sofia è decisa a vendicare la sconfitta subita e si attiva per organizzare la rivolta dei popoli meridionali mentre sco sprofonda nel suo fatalismo. A causa di un piccolo problema fisico e per paura di una piccola operazione non aveva avuto ancora rapporti con la moglie. A Roma Maria Sofia si innamora di Armand, un nobile belga che faceva servizio negli zuavi pontifici, e poco dopo resta incinta. La famiglia di Maria Sofia è decisa a nascondere lo scandalo e porta la regina in un convento in Baviera ove partorisce due gemelle. Armand non si rassegna alla perdita e cerca di entrare clandestinamente in Baviera attraverso le montagne, a piedi e in pieno inverno, ma viene colpito da una tormenta, si ammala e contrae la tisi di cui morirà qualche anno dopo. Riuscirà comunque a vedere le figlie ma non la sua amata. Le ragazze diventano ufficialmente figlie, una di Armand e l’altra della sorella di Maria Sofia, Henriette sposata con Luigi di Baviera. Maria Sofia decide di restare in convento e scrive due lettere una ad Armand pregandolo di
uscire dalla sua vita e una a sco raccontandogli tutta la storia. Lui le manda un telegramma, “Ti aspetto”, e finalmente trova il coraggio di farsi quella piccola operazione. Maria Sofia torna a Roma e partorisce una bambina che muore dopo pochi mesi per i maltrattamenti subiti da una governante pazza: i due lasciano Roma e si separano. sco è in preda a un misticismo maniacale che gli impedisce di avere rapporti normali col suo prossimo. Viaggia in incognito e muore ad Arco di Trento nel 1894. Solo allora gli abitanti sapranno che quell’uomo modesto e gentile, che tutti i giorni andava a messa e si comunicava, era l’ultimo re di Napoli. Maria Sofia a il resto della sua vita a complottare con rivoluzionari anarchici per vendicarsi del Regno d’Italia, vive a Parigi ove ogni tanto ospita le due gemelle che vanno a trovare la loro “carissima zia”. Solo di recente sono venuti alla luce i documenti che testimoniano questo dramma romantico: tutti i protagonisti avevano mantenuto il loro segreto per tutta la vita.
E’ una storia tristissima: si tratta di completare l’annientamento dell’esercito Borbonico. Secondo il ministro della guerra italiano sono 80.000 (il 90%) i soldati Borbonici che si rifiutano di are nell’esercito italiano. Di questi, 40.000 si erano sbandati durante l’avanzata garibaldina, erano tornati alle loro case e si rifiutavano di tornare sotto la armi per un re straniero. Molti di loro forniranno il nucleo dei guerriglieri che si batteranno nei 10 anni successivi contro l’invasore. Così li descrive il generale italiano Tito Battaglini che studia i documenti dell’epoca per produrre una storia approfondita del crollo del Regno: “Ormai i soldati napoletani avevano nella maggioranza, deciso nel proprio intimo: o col proprio re al Volturno o ritornare alle loro case, dove alcuni di essi, disoccupati, perseguitati, disorientati, credettero difendere il proprio sovrano col darsi al brigantaggio politico, odioso retaggio borbonico, con tanta fede, che un nostro colonnello nel combatterli, impressionato dal loro impavido contegno, esclamò: ‘Se a costoro si apre il cuore, non si può non trovarvi l’effige del loro re, sco II’”⁸⁴.
Nei 5 mesi di operazioni militari successive all’invasione del Regno delle Due Sicilie l’esercito piemontese prende prigionieri dai 20 ai 30 mila soldati che vengono mandati in varie fortezze del nord per tentare di piegare la loro
resistenza con i maltrattamenti e la fame. Solo il 5% di questi accetterà di servire sotto il Regno d’Italia e molti di loro riusciranno a fuggire verso Francia, Svizzera, Roma o Veneto.
Così descrive la sua odissea il soldato borbonico, Giuseppe Conforti nato a Catanzaro nel ‘36: “Nella mia uscita fu principio la guerra del 1860, dopo questa campagna che per aver tradimenti si sono perduto tutto e noi altri povere soldati manggiando erba dovettimo fuggire, aggiunti alla provincia della Basilicata sortí un prete nemico di Dio e del mondo con una porzione di quei giudei e ci voleva condicendo che meritavamo di essere uccisi per la federtà che avevamo portato allo notro patrone. Ci hanno portato a un carnefice Piemontesa condicendo perché aveva tardato tanto ad abbandonare quell'assassino di Borbone. Io li sono risposto che non poteva giammai abbandonarlo perché aveva giurato fedeltà a lui e lui mi à ditto che dovevo tornare indietro asservire sotto la Bandiera d'italia. Il terzo giorno sono scappato, giunto a Girifarchio dove teneva mio fratello sacerdote vedendomi redutto a quello misero stato e dicendo mal del mio Re io li risposi che il mio Re no aveva colpa dei nostri patimenti che sono stato le nostri soperiori traditori; siamo fatto questioni e lo sono lasciato. Allo mio paese sono stato arrestato e dopo 7 mesi di scurre priggione mi anno fatto partire per il piemonte. Il 15 gennaio del 1862 ci anno portato affare il giuramento, in quello stesso anno sono stato 3 volte all'ospidale e in pregione a pane e accua; principio del 1863 fuggito da sotto le armi di vittorio, il 24 sono giunto in Roma, il giorno 30 sono andato alludienza del mio desiderato e amato dal Rè, sco 2 e li ò raccontato tutti i miei ragioni”.
Si può stimare in circa 20.000 il numero degli irriducibili che affronteranno il martirio per non tradire il giuramento di fedeltà a sco II. Così ce li descrive il generale piemontese La Marmora in una lettera a Cavour: “I prigionieri napoletani dimostrano un pessimo spirito. Di 1.600 che si trovano a Milano non arriveranno a 100 quelli che acconsentono a prender servizio. Sono tutti coperti di rogna e di vermina, moltissimi affetti da mal d’occhi e quel che è più dimostrano avversione a prendere da noi servizio. Ieri a taluni che con arroganza pretendevano il diritto di andare a casa perché non volevano prestare un nuovo giuramento, avendo giurato fedeltà a sco II, gli rinfacciai altamente che per il loro Re erano scappati e ora per la patria comune, e per il Re
eletto si rifiutavano a servire, che erano un branco di carogne che avessimo trovato modo di metterli alla ragione. Non so per verità cosa si potrà fare di questa canaglia … i giovani forse potremo utilizzarli, ma i vecchi, e son molti, bisogna disfarsene al più presto”. E questo è quello che faranno.
Non possiamo non mettere in evidenza che in bocca a un militare di carriera queste sono parole ripugnanti. Lui dovrebbe conoscere il valore di un giuramento.
La rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica denuncia queste barbarie: “Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad un espediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane ed acqua ed una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e d'altri luoghi posti nei più aspri luoghi delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sì caldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimare di fame e di stento per le ghiacciaie. E ciò perché fedeli al giuramento militare ed al legittimo Re".
Il problema è che nel Meridione infuria la rivolta e questi prigionieri non possono essere rimandati a casa. Il Regno d’Italia cerca di trovargli una sistemazione all’estero ma nessuno li vuole. Unica eccezione gli stati confederati americani che si stanno preparando alla guerra civile. Circa 3.000 prigionieri sono spediti a New Orleans prima che la flotta unionista blocchi i porti confederati poi questa via di uscita si chiude. Sono inquadrati nei Bourbon Dragoons e, ironia della sorte, si scontreranno con una Garibaldi Guard che combatte per i nordisti. I Borbonici si batteranno fino in fondo per una guerra che non li riguarda; anche questa persa. Tragico destino. Così, in pochi anni, l’esercito Borbonico viene annientato.
Nella Memorie di Garibaldi, nei suoi scritti, lettere od altro non esiste alcuna
menzione di questo dramma. Assolutamente nulla.
L’analisi delle rivolte popolari e della resistenza all’invasione padana è più complicata e per comprendere quello che è accaduto dobbiamo tornare indietro nella storia là dove tutti questi problemi si sono originati: la Rivoluzione se.
All’inizio sembrava essere la versione europea della Rivoluzione Americana, l’istituzione di una repubblica democratica e capitalista ispirata agli ideali dell’Illuminismo ma quando i giacobini prendono il potere la rivoluzione se assume i suoi propri connotati: il primo tentativo in Europa di costruire uno Stato Totalitario. Lo stato laico, separato dalla religione, diventa uno stato persecutore della religione esistente che si cerca di rimpiazzare con un Pantheon di nuove divinità: la Patria, la dea Ragione, la Virtù, il Popolo, eccetera. Si stabilisce una nuova datazione degli anni che parte dall’inizio della rivoluzione anziché dalla nascita di Cristo, si cambiano i nomi ai mesi e alle stagioni, si creano nuovi simboli e nuove icone. Si inizia un’attività di indottrinamento del popolo per obbligarlo a rendere omaggio a queste nuove divinità con una ostinazione che neanche il senso del ridicolo riesce a moderare. La Patria giacobina, il nazionalismo, è di gran lunga la più importante e assieme a “il Popolo” (tutto questo sarà esasperato dal Romanticismo) entrerà nella psiche degli europei diventando un avversario con cui il cristianesimo si dovrà confrontare e a cui dovrà cedere il campo. Gli alsaziani sono obbligati a studiare e a parlare il se; la loro lingua da tempo immemorabile, il tedesco, non va bene si devono uniformare perché la Patria non può che avere una sola lingua. Inizia così il calvario dei popoli stanziati lungo le frontiere delle nazioni che ora sono determinate a non cedere neanche un centimetro del Sacro Suolo della Patria. L’Alsazia e la Lorena in particolare saranno l’oggetto di una contesa che trascinerà l’Europa nelle guerre mondiali. All’interno del paese la paranoia dilaga perché i nemici della rivoluzione sono dappertutto.
Quindi oltre al trauma dello smantellamento del feudalesimo ora il popolo deve anche subire il trauma dello sradicamento di una cultura che ha coltivato da
secoli. Nelle regioni ove è più profondo il sentimento cattolico esplode la rivolta. Nella Vandea questa rivolta si consolida e va avanti per anni con un tremendo spargimento di sangue. Un comandante vandeano, Francois de Charette, nel 1795 pochi mesi prima di essere fucilato⁸⁵ pubblica un manifesto che a tutt’oggi è la più poetica espressione del rifiuto del totalitarismo:
”La nostra Patria sono i nostri villaggi, i nostri altari, le nostre tombe, tutto ciò che i nostri padri hanno amato prima di noi.
La nostra Patria è la nostra fede, la nostra terra, il nostro re.
Ma la loro patria, che cos’è? Lo capite voi?
Vogliono distruggere i costumi, l’ordine, la Tradizione.
Allora, che cos’è questa patria che sfida il ato, senza fedeltà, senz’amore?
Questa patria di disordine e irreligione?
Per loro sembra che la patria non sia che un’idea; per noi è una terra.
Loro ce l’hanno nel cervello; noi l’abbiamo sotto i nostri piedi, è più solida.
E’ vecchio come il diavolo il loro mondo che dicono nuovo e che vogliono fondare sull’assenza di Dio …
Si dice che siamo i fautori delle vecchie superstizioni … Fanno ridere!
Ma di fronte a questi demoni che rinascono di secolo in secolo, noi siamo la gioventù, signori!
Siamo la gioventù di Dio.
Siamo la gioventù della fedeltà”.
La storia ha classificato col nome di Insorgenze queste rivolte popolari contro i giacobini e poi le ha archiviate senza dargli una grande importanza ma non è corretto perché sono state le rivolte più autenticamente popolari della storia europea. Sono anche state dei tremendi spargimenti di sangue.⁸ Non sono strettamente legate a una cultura cattolica ma è nei paesi cattolici che l’impero se trova la più feroce opposizione. In Italia il Meridione si era già distinto con un’insorgenza che all’inizio aveva costretto gli eserciti napoleonici alla ritirata e poi gli ha impedito di consolidare il loro potere. Assieme alla Spagna il Meridione aveva dato all’Impero le sconfitte più sanguinose.
Questa tragedia si ripete con l’arrivo dei padani. Come ci ha così elegantemente illustrato il comandante Charette, i padani la loro patria ce l’avevano nel loro cervello drogato di nazionalismo, i meridionali la loro patria ce l’avevano sotto i loro piedi da 800 anni e senza alcun nazionalismo perché la loro fede l’avevano già dedicata a Santa Romana Chiesa. Hanno scritto i fratelli Goncourt che “Le menti mediocri che giudicano l’ieri da quello che è l’oggi, si stupiscono della
grandezza e della magia della parola Re … essi credono che fosse solo servilismo, ma il Re rappresentava la religione popolare di allora, come la patria è la religione di oggi”.
I meridionali non volevano questa nuova religione e il loro re lo avevano già.
Oltre a questa profonda differenza culturale la rivalità dei meridionali era anche esasperata da una fiscalità esosa come loro non avevano mai conosciuto. Enrico Panirossi, un ufficiale dei carabinieri che partecipò alla repressione, ha scritto: “In Basilicata, le imposte dirette e indirette assommano a ben 15 lire sulle scarse 50 di reddito … Ma le tasse sono le stesse che pagano tutti gli italiani! E’ questa l’estrema ingiustizia, perché quei tributi che appena sfiorano le ubertose pianure dell’alta Italia qui stremano e sfibrano una superficie in tanta parte alpestre, boschereccia e incolta, non irrigua e insidiata da tante intemperie. Lungo i cinque anni della Liberazione, si triplicarono addirittura le imposte, ma la terra non triplicò i suoi frutti né crebbe il loro valore”. Il problema era che il Regno d’Italia era sull’orlo della bancarotta e doveva ad ogni costo far pagare il prezzo dell’Unità ai popoli liberati. Questo ai patrioti sembrava più che giusto, loro avrebbero dato la vita per la Patria e al popolo chiedevano solamente dei soldi. Ma i meridionali non avevano mai chiesto di essere liberati e vedersi strappare il pane di bocca diventava un affronto intollerabile. Un alto ufficiale piemontese, il conte di Saint Jorioz, lamenta che: “Le leggi del registro e bollo, diritto graduale, decimo di guerra, ecc. hanno desolato queste popolazioni … chi compra profitta del bisogno di chi vende, non paga il giusto prezzo ed aggrava sulla proprietà l’imposta della legge. In pochi anni le proprietà si conteranno appena sulle mani dei ricchi, degli speculatori, degli usurai e dei manipolatori. … Il 1860 trovò questo popolo vestito, calzato, con risorse economiche. Il contadino possedeva una moneta. Egli comprava e vendeva animali, corrispondeva esattamente gli affitti, con poco alimentava la famiglia, tutti in propria condizione vivevano contenti del proprio stato materiale. Adesso l’opposto”. Per la prima volta nella sua storia il contadino si vide sequestrare il campo, la capanna, il mulo, il maiale, gli attrezzi, e non da un feudatario spietato e violento, ma da questa nuova patria che lo aveva “liberato”. Avendo perso tutto gli restava solo la vendetta. Panirossi ci fa sapere che “In un solo biennio, l’Unità d’Italia ha bruciato in Basilicata oltre duemila uomini”⁸⁷.
Dobbiamo a questo punto are nel campo avverso e vedere come i padani consideravano i meridionali.
Un esempio ce lo dà l’ambasciatore inglese a Torino Sir James Hudson quando consiglia Cavour di non annettere il Meridione perché: “i napoletani sono eccessivamente corrotti, e l’intera loro amministrazione civile e militare è così abominevole che la loro unione all’Italia settentrionale (dove l’onestà è una regola nei pubblici uffici) non produrrebbe altro che una decomposizione sociale, seguita poi da una putrefazione politica”⁸⁸. Queste affermazioni erano condivise da decine di viaggiatori e diplomatici europei. Per l’ammiraglio Nelson “Napoli è l’unica città africana priva di un quartiere europeo”; per il poeta Shelley la popolazione del napoletano “non potrebbe essere più ignominiosa e irritante”; per l’ambasciatore sardo a Napoli “la massa è stupida e brutale, in fondo monarchica; la regalità è ancora una religione per questo popolo abbrutito”. Tutti concordavano che era colpa dei Borbone, nonostante fosse palesemente falso, e così i patrioti italiani si sentivano in obbligo di cacciare i Borbone per “redimere” il Meridione con un generoso slancio di solidarietà patriottica. E’ con queste idee ben piantate nella testa che i padani invadono l’ex regno borbonico per sostituire la sua corrotta amministrazione, redimere il popolo da un ato oscurantista ed elevarlo alla loro civiltà in nome della patria comune. Del resto, la grottesca sconfitta subita ad opera di Garibaldi non poteva non far dubitare che i meridionali fossero una specie di razza inferiore. La parola d’ordine è: piemontizzare.
Nel novembre del ’60 mentre il re Vittorio entrava a Napoli assieme a Garibaldi, il generale piemontese Pinelli entrava in Abruzzo per prenderne il controllo e pubblicava nei paesi della piana di Avezzano il seguente proclama:
“1) chiunque sarà colto con arma da fuoco, coltello, stili od altra arma qualunque da taglio o da punta e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle autorità costituite sarà fucilato immediatamente;
2) chiunque verrà riconosciuto di aver con parole o con denari o con altri mezzi eccitato i villici a insorgere sarà fucilato immediatamente;
3) eguale pena sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto del Re o la bandiera italiana. Abitanti dell’Abruzzo Ulteriore, ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardo o tosto sarete distrutti”⁸ .
Così il generale incitava i suoi a sradicare i traditori: “Ufficiali e soldati! … Un branco di quella progenie di ladroni ancora si annida tra i monti, correte a snidarli e siate inesorabili come il destino. Contro nemici tali la pietà è un delitto”. Bisogna considerare che pochi giorni prima la colonna garibaldina di Nullo era stata massacrata da quelle parti. Si può stimare sul migliaio i civili fucilati dal generale Pinelli; un lavoro duro ma poi sarà premiato con una medaglia d’oro al valor militare.
Cavour è infuriato per queste rivolte che non comprende e nel dicembre 1860scrive al re Vittorio Emanuele: “lo scopo è chiaro; non è suscettibile di discussione. Imporre l’unità alla parte più corrotta (senti chi parla!) e più debole dell’Italia. Sui mezzi non vi è pure gran dubbiezza: la forza morale (incredibile!) e se questa non basta la fisica”. In un’altra lettera al sovrano aggiunge: ”Ora che la fusione delle varie parti della Penisola è compiuta mi lascerei ammazzare dieci volte prima di consentire a che si sciogliesse. Ma anziché lasciare ammazzare me, proverei ad ammazzare gli altri … non si perda tempo a far prigionieri” . Inizia il macello.
Nel ’61 si chiama alle armi la prima leva dell’Italia unita per un servizio militare che dura 5 anni; nel Meridione solo il 30% dei chiamati si presenta, una cosa mai successa sotto i Borbone.
Si hanno anche le prime elezioni al Parlamento. Nel Meridione solo lo 0,9% va a votare; Garibaldi si presenta a Napoli e prende 39 voti.
I parlamentari sono quasi tutti massoni e dato che solo i ricchi potevano votare o essere eletti i nuovi parlamentari meridionali sono l’espressione di una classe sociale che da anni era ostile ai Borbone per il problema della distribuzione delle terre. Come in Sicilia, anche se in modo meno drammatico, anche nel Meridione lo smantellamento del feudalesimo aveva fatto nascere una classe di latifondisti che intendeva utilizzare tutti i mezzi, leciti e non, per accaparrare quanta più terra possibile defraudando il popolo contadino dei suoi più elementari diritti.
Come abbiamo visto quando abbiamo parlato della mafia, i Borbone avevano avuto un discreto successo nel Meridione nel togliere ai nobili latifondisti le terre usurpate durante l’occupazione se restituendole a chi ne aveva un legittimo titolo: il popolo contadino. La classe dei “galantuomini liberali” non vedeva l’ora di liberarsi dei Borbone per prendersi la rivincita. Loro avevano visto come Garibaldi avesse stroncato in Sicilia le rivolte popolari e aspettavano l’arrivo del Regno d’Italia che era considerato l’erede ideologico dei giacobini per acquisire definitivamente le terre strappandole al popolo dei villaggi. Questi parlamentari meridionali daranno il loro sostegno incondizionato al nuovo regime che schiaccia senza alcuna pietà il popolo contadino, fedele ai Borbone, e così ora si innesca una lotta di classe che farà sbandare il Parlamento italiano verso la reazione più sanguinaria. Una situazione assolutamente nuova per tutti i popoli della penisola abituati al paternalismo illuminato degli stati pre-unitari.
Ma non tutti i parlamentari meridionali erano così. Il deputato di Casoria, sco Proto duca di Maddaloni, era un liberale che aveva partecipato, sempre per il distretto di Casoria, al parlamento napoletano del ’48 e quindi era fuggito in esilio. Rientrato a Napoli viene di nuovo eletto. Nel novembre del ’61 presenta una mozione parlamentare per denunciare la mostruosità di questa conquista insensata. Sono 20 pagine di un appello apionato e drammatico. ¹ Senza mezzi termini, denuncia la corruzione, il malgoverno e il regime di terrore
con cui gli italiani stavano devastando il Meridione:
“E che facevano invece gli uomini di stato del Piemonte e i partigiani loro che qui nascevano? Hanno corrotto quanto vi rimanea di morale, hanno infrante e sperperate le forze e le ricchezze da tanto secolo ammassate; hanno spoglio il popolo delle sue leggi, del suo pane, del suo onore, e sin dal suo stesso Dio vorrebbero dividerlo. … Hanno insanguinato ogni angolo del regno … Il governo del Piemonte toglie dal banco il denaro dei privati, e del danaro pubblico fa getto fra i suoi sicofanti; scioglie le Accademie, annulla la pubblica istruzione; per corrottissimi tribunali lascia cadere in discredito la giustizia; al reggimento delle provincie mette uomini di parte, spesso sanguinosi ladroni … Bella unificazione è quella di una contrada, cui si affoga in un mare di sangue, cui si crocifigge in un letto di miserie … come all’ombra di un vessillo tricolore facilmente possa violarsi il domicilio, il segreto delle lettere e la libertà personale manomettere; … e gli accusati tenersi prigionieri e ingiudicati lunga pezza, e mandare a morte senza neppur procedura di giudizio, per solo capriccio di un caporale, o per sospetto, o per la delazione di uno scellerato”.
Denuncia 20.000 civili trucidati e 13 paesi distrutti per rappresaglia.
La Presidenza della Camera invita il deputato di Casoria a ritirare la sua mozione e ne vieta la pubblicazione negli Atti Parlamentari perché espressione “della più bieca reazione“(!). Nella stessa seduta è impedito al deputato di interpretare ancora una volta le insurrezioni nelle provincie meridionali come una guerra civile. Il Governo non intende discutere su questo argomento. Lo stesso Presidente del Consiglio Ricasoli interviene ed invita la Camera a "non fare discussioni inutili: il promuovere la questione delle piaghe delle provincie meridionali sarà un perder tempo prezioso, sarà il ripetere una storia dolorosa di cose che purtroppo, sappiamo".
Pochi mesi prima, un’altra voce si era levata per denunciare questa politica criminale. Questa voce è del piemontesissimo marchese D’Azeglio che era stato
primo ministro e ora parlamentare. In una lettera aperta a un giornale parigino dichiara: “A Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno …. Ma, si dirà, e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, so che al di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve quindi o cambiar principi o cambiar atti e trovar modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia, ma agli Italiani che, rimanendo Italiani non volessero unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate” ².
Sono parole ovvie che qualunque persona sana di mente avrebbe dovuto accettare ma così non fu.
Il duca di Maddaloni lascia il suo seggio per non farsi complice di questa mostruosità, poi lascia il Regno d’Italia e va a Roma a tenere compagnia al re contro cui si era ribellato 15 anni prima.
Il marchese d’Azeglio muore pochi anni dopo.
Il Meridione sprofonda sempre più nel terrore e nella miseria.
Qui dobbiamo notare l’utilizzo del termine “reazione”. Secondo i patrioti reazionario è il duca di Maddaloni che denuncia il massacro dei contadini mentre progressista è colui che, suo malgrado naturalmente, è costretto dall’arretratezza del popolo a spingerlo a fucilate, purtroppo, sulla strada del “progresso”. Noi non sappiamo quando il termine “reazionario” sia entrato nel lessico progressista italiano o europeo ma questo è sicuramente un inizio. I reazionari sono quelle persone che reagiscono contro il progresso dei progressisti a causa della loro
malvagità. Sono la personificazione del male e vanno combattuti senza esitazione e senza alcun compromesso. Un fenomeno simile si ripeterà in Russia quando Lenin sarà costretto, suo malgrado naturalmente, a sterminare i kulaki per la loro ostinata resistenza contro il sistema sovietico. Il punto è che il popolo contadino è naturalmente ostile alle ideologie progressiste mentre è ostinatamente attaccato alla sua fede religiosa, cattolica o ortodossa, e dalla rivoluzione se in poi si è sempre trovato dalla parte delle vittime.
Ora la guerra di conquista dei padani ha innescato una guerra civile nel Meridione tra le classi abbienti e il popolo perché il Regno d’Italia ha continuato la politica ultra reazionaria iniziata da Garibaldi in Sicilia per appoggiarsi (oltre che alla camorra) alle classi sociali che sono sensibili al fascino del nazionalismo: gli “agrari” e gli “intellettuali”. Le classi che erano tradizionalmente ostili ai Borbone. Gli agrari avevano il problema di mantenere il controllo sulla terra usurpata e assoldarono quei braccianti che avevano scelto di mettersi con i padroni piuttosto che con i briganti. Queste “guide indiane” saranno un elemento determinante per la sconfitta dei briganti; loro conoscevano il territorio e potevano guidare i piemontesi a stanare i briganti dai loro rifugi oppure fornivano ai prefetti le informazioni giuste che tenevano i piemontesi al corrente sulle loro mosse. Per i briganti è la fine.
Quando 60 anni dopo il regime fascista prese il controllo del Meridione non dovette fare alcuna fatica, era già tutto a posto: il popolo schiacciato e gli agrari saldamente al potere.
Citiamo solo un episodio per illustrare con quanta disinvoltura si potesse ammazzare i meridionali.
A Pietrarsa, vicino Napoli, c’era la più grande industria metalmeccanica d’Italia con più di mille dipendenti contro i 480 dell’Ansaldo di Genova. Produceva dai binari alle locomotive al materiale bellico. Qui fu costruita la prima locomotiva italiana e fu da questa fabbrica che il Piemonte acquistò sei locomotive quando
avviò il suo programma di espansione delle ferrovie. Dopo l’annessione il Regno d’Italia porta quasi tutta la produzione al nord e inizia la crisi dell’azienda. Nell’agosto del ’63, il nuovo direttore messo su dai piemontesi aumenta l’orario di lavoro a 11 ore al giorno, riduce lo stipendio e fa alcuni licenziamenti. Molti operai decidono di andarsene e chiedono il certificato di benservito ma il direttore si rifiuta. A questo punto 600 operai incrociano le braccia e si radunano, il direttore impaurito fugge a chiamare i bersaglieri “perché accorressero a ristabilire l'ordine in Pietrarsa, non sappiamo in che modo narrando l'avvenimento al comandante. E così accorse un maggiore con una compagnia di bersaglieri. Nel frattempo un capitano piemontese, addetto a dirigere i lavori dell'opificio, uomo onesto e amato dagli operai, mantenne questi in quiete, aspettando che arrivasse qualche autorità di Pubblica Sicurezza o la Guardia Nazionale per esporre le loro ragioni. Ma ecco che invece giunsero i bersaglieri con le baionette in canna: gli operai stessi che erano tutti inermi aprirono il cancello, ed i soldati con impeto inqualificabile si slanciarono su di essi sparando i fucili e tirando colpi di baionetta alla cieca, trattandoli da briganti e non da cittadini italiani, qual erano quegli infelici! Il capitano che dirigeva i lavori, e del quale abbiamo accennato più sopra, si fece innanzi con kepi in mano, e gridando a nome del Re fece cessare l'ira della soldatesca …. Cinque operai rimasero morti sul terreno, per quanto si asserisce: altri che gettaronsi a mare, cercando di salvarsi a nuoto, ebbero delle fucilate nell'acqua, e due restarono cadaveri. I feriti sono in tutto circa venti” ³.
Il governo italiano non può più ignorare le proteste che si levano sia in Italia che in Europa e finalmente, dopo qualche decina di migliaia di civili trucidati, riconosce che forse c’è un problema e nomina una commissione parlamentare d’inchiesta che vada nel Meridione a esaminare la situazione. Nel gennaio del ’63 la commissione Massari s’imbarca per Napoli per prender contatto con le classi dirigenti locali: sono dei padroni che vanno a chieder ad altri padroni cosa c’è che non va nel popolo. Ovviamente non ci fu alcun tentativo di dialogo con gli insorti essendo questi dei reazionari. La relazione è letta al parlamento in seduta segreta: “La sola miseria non si sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borbone creò ed ha lasciati nelle provincie napoletane. Questi mali sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata, e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia” ⁴. Queste parole lasciano senza fiato: era colpa dei Borbone!
Naturalmente segue un meraviglioso elenco di grandiosi investimenti di lungo periodo che avrebbero definitivamente portato il Meridione all’altezza del resto dell’Italia risolvendo così il problema ma per il momento era necessario affrontare le rivolte con la forza. Il verdetto finale fu il risultato che ci si poteva aspettare da un parlamento ultra reazionario: briganti!
Viene dichiarato lo stato d’assedio nel Meridione e nel settembre del ’63 viene approvata la legge Pica, un parlamentare meridionale ovviamente. Si abolivano tutte le garanzie costituzionali, s’istituivano otto tribunali militari ove il collegio di difesa era costituito da militari e le sentenze erano inappellabili, si definiva un nuovo reato di brigantaggio che prevedeva la pena di morte ed era definito in un modo così generico che i militari al comando potevano uccidere chiunque volessero. Donne e bambini, se parenti dei briganti, potevano essere normalmente coinvolti nelle rappresaglie. Questa legge resterà nella storia perché nessun parlamento europeo ha mai approvato una legge così repressiva e sanguinaria. E’ necessario notare che i Borbone non avevano mai fatto simili mostruosità.
A migliaia i meridionali furono costretti a rifugiarsi sui monti per sfuggire a una persecuzione insensata: “Ci avete tolte le armi a tradimento, e siamo briganti combattendo senz’armi e a viso aperto? Briganti noi, combattendo a casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi, venuti qui a depredare l’altrui? Il padrone di casa è il brigante, o non piuttosto voi, venuti a saccheggiare la casa? … Senza soldo, senza onori, senza ufficiali si combatte; e anche il prigioniero morendo sotto spietate fucilazioni, cade gridando: ‘Viva il Re!’ tra gli aneliti di morte” ⁵.
Le perdite tra i meridionali sono state stimate fino a 250.000 che è il 3% della popolazione del paese. E’ una cifra enorme; possibile che gli italiani abbiano fatto un simile macello? Un’altra cosa che sorprende sono le perdite tra i soldati italiani che sono state stimate essere superiori alle perdite subite in tutte le guerre del Risorgimento messe assieme. La grande maggioranza di questi erano
reclutati tra i popoli padani che fornivano la maggior parte dei soldati. Possibile che piemontesi, toscani, emiliani, lombardi abbiano continuato a fornire, per anni, carne da cannone a questa nuova patria senza ribellarsi? Possibile che non abbiano provato ripugnanza a trucidare, per anni, gente che non conoscevano e che non gli aveva fatto nulla?
Con l’unità d’Italia si verifica un fenomeno che è difficile comprendere ed è che la gente del centro-nord accetta senza protestare gli enormi sacrifici che una monarchia guerrafondaia e una borghesia drogata di nazionalismo imponevano a un popolo povero e arretrato. Se si paragona l’Italia alle altre potenze europee non è esagerato affermare che gli italiani erano il popolo più sfruttato e peggio servito dalla sua classe dirigente eppure non solo la gente del centro-nord non si ribella ma accetta questi enormi sacrifici quasi avesse fatta sua la missione che gli veniva imposta dall’alto: fare gli italiani.
Assieme all’Italia, proprio in quegli anni, stava nascendo in Europa una nuova nazione: la Germania. Gli equilibri di potere del Vecchio Continente stavano cambiando radicalmente e tutte la nazioni europee, piccole o grandi, si eccitano e iniziano a competere tra di loro in tutti i campi, dal colonialismo alla ricerca scientifica, alle competizioni sportive, alla crescita industriale per non essere sopraffatte. Di là dal confine c’è il nemico che è sempre più minaccioso, gli eserciti si gonfiano, le spese militari crescono. La paranoia penetra in tutte le classi sociali e per salvare la Patria al popolo vengono chiesti sempre più sacrifici dalle classi dominanti che avevano il diritto di voto.
Il popolo meridionale non voleva partecipare a questa gara e non voleva sostenere quei sacrifici: un ulteriore elemento di contrasto con i padani.
Ora che l’unione era stata realizzata i patrioti italiani non potevano tollerare che la loro patria restasse indietro in questa competizione e come aveva proclamato Garibaldi avrebbero assicurato all’Italia “il posto che la Provvidenza le assegnò tra le Nazioni”. E questo lo avrebbero fatto… a qualunque costo!
Questa sarà l’unica battaglia del Risorgimento vinta dall’esercito italiano. Era impensabile che quei quattro cafoni analfabeti potessero impedire che si realizzasse il disegno della Divina Provvidenza. Se si leggono i rapporti e i racconti dei militari impegnati nella repressione, se si guardano le fotografie che documentano ampiamente la ferocia di questa guerra, non si può non percepire un certo compiacimento, quasi un piacere, nell’accanimento con cui i militari italiani infierivano su quei disgraziati.
Un tragico avvertimento di quanto sia facile diventare “nazisti”.
“O brigante o emigrante” dicevano i cafoni. Inizia così l’emigrazione di massa dal Meridione ma non è stata un’emigrazione, è stata una fuga.
Grazie a un inesauribile rifornimento di carne da cannone il Regno d’Italia riuscirà a piegare i meridionali e questo dà un aspetto grottesco al patriottismo delle genti padane. Anche se tutti i popoli europei si stavano prestando alle avventure nazionaliste e imperialiste delle loro classi dirigenti, la gente del Centro-Nord Italia si distingue non solo per l’entità dei sacrifici ai quali si sottopone: è che questi sacrifici erano fatti nel nome di una nazione che non esisteva!
Dieci anni dopo l’avventura garibaldina la rivolta si esaurisce. Resterà un popolo spezzato, insicuro della propria identità, con un’economia devastata. Un disastro da cui non si riprenderà più. Il popolo meridionale sarà infine convertito alla causa nazionale nel secondo dopoguerra e questo sarà fatto con l’INPS e con “il posto”. Da Trieste a Trapani tutti i “posti” nello stato e simili saranno presi da meridionali, una situazione che non esiste in nessun altro paese al mondo. E’ stato così che i popoli del Meridione sono stati trasformati in un popolo di “terroni”.
Nelle Memorie di Garibaldi non esiste alcun accenno, alcuna menzione di questo dramma. Lui era stato il principale responsabile dell’unione e ci si aspetterebbe un riesame critico di quanto aveva fatto. Assolutamente nulla. Abbiamo un breve accenno a questo disastro in una lettera che Garibaldi scrisse nel 1868 ad Adelaide Cairoli: “Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Sono convinto di non aver fatto male, nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio”.
Era ancora convinto di aver fatto la cosa giusta e la colpa era di un qualcuno che non viene specificato.
⁸ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.235
⁸¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.234
⁸² Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.129. Lo si può scaricare da: http://www.ilportaledelsud.org
⁸³ Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.133
⁸⁴ Tito Battaglini, Il crollo militare del Regno delle Due Sicilie (Società Tipografica Modenese, Modena 1938), pag. 102
⁸⁵ Prima dell’esecuzione gli offrirono di esprimere un ultimo desiderio e lui chiese di poter dare lui stesso gli ordini al plotone di esecuzione
⁸ E’ stato stimato che per schiacciare la rivolta in Vandea fu massacrato il 15% della popolazione della regione
⁸⁷ E.Panirossi, La Basilicata. Studio amministrativo, politico ed economia pubblica, (Verona 1868) da C. Alianello, op.cit. pag 128
⁸⁸ Denis Mack Smith, Storia d’Italia (Edizioni Laterza, Bari 1972) pag. 253
⁸ Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.205
Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.123
¹ Questo documento è sfuggito all’oblio con una pubblicazione fatta a Nizza e poi riportata integralmente in “Le Ragioni del Sud” del Prof. Tiberiis; oggi la potete scaricare da Internet.
² Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.124
³ Giuseppe Ressa, Il Sud e l’unità d’Italia, Maggio 2011, pag.193
⁴ Denis Mack Smith, Storia d’Italia (Edizioni Laterza, Bari 1972) pag. 121
⁵ Giacinto De Sivo, I Napoletani al cospetto delle nazioni civili: da Alianello op.cit., pag. 164
Delirio
Il 9 novembre del 1860 Garibaldi sbarca a Caprera dalla nave americana Washington. Ha 54 anni, una moglie da cui è separato di fatto, tre figli avuti da Anita (i due maschi lo seguono nelle sue avventure mentre la figlia vive a Nizza) e una figlia avuta dalla serva l’anno prima che viene rispedita con la madre a casa sua.
Prima di lasciare Napoli aveva incontrato l’ammiraglio Persano e si era lamentato che “Degli uomini si fa come degli aranci: spremutone il sugo sino all’ultima goccia, se ne getta la buccia in un canto”. Questa osservazione non è giusta, lui non è stato spremuto. E’ stato sicuramente l’elemento più importante del successo ma non l’unico. Inghilterra, Massoneria, Cavour, sono stati elementi determinanti ed è anche per merito loro se lui ha vinto. Eppure ora fa la vittima; sembra che sia colpa di Cavour se non può proseguire alla conquista di Roma. Questo è palesemente falso perché è evidente che il suo Esercito Meridionale non ce la fa più. Non è riuscito a sconfiggere l’esercito napoletano e per quanto riguarda la repressione della rivolta popolare antiunitaria non ha nessuna possibilità di farcela. Bisogna considerare che negli anni successivi l’esercito italiano impiegherà fino a 120.000 uomini contro i briganti.
Bandi è rimasto a Napoli al comando di un’unità di garibaldini per collaborare con l’esercito piemontese all’assedio di Capua. Ci fa sapere nelle sue memorie di avere seri problemi di disciplina con i suoi. Più volte ha dovuto chiedere l’intervento di ufficiali superiori per farsi obbedire dai suoi uomini. I padani idealisti e romantici sono tornati a casa, quelli che sono rimasti non sono una forza combattente su cui si possa fare affidamento. Dopo Capua garibaldini e piemontesi erano venuti alle mani ed era scorso del sangue; i piemontesi non vorranno più avere i garibaldini con loro e Cavour cercherà di sciogliere l’Esercito Meridionale il più velocemente possibile.
Garibaldi nutre un violento rancore contro il governo che agli occhi dell’opinione pubblica era giustificato dal modo sprezzante con cui era stato trattato ma l’opinione pubblica non sapeva del disastro commesso da Garibaldi nei territori conquistati; un disastro di cui Garibaldi stesso non si era neanche accorto. La realtà è che lui odia il governo per avergli portato via la sua Nizza e per avergli impedito (secondo lui) di avanzare verso Roma e realizzare infine il sogno della sua vita. Ora recita la parte della vittima che è un’ottima trovata per conquistare l’opinione pubblica. Ma forse non stava recitando, forse ora si è montato la testa e ci crede per davvero che è stato lui solo a conquistare il Meridione e che avrebbe potuto proseguire fino a Roma e sconfiggere l’esercito se che la presidiava. La sua scollatura dalla realtà che abbiamo già notato, prende il sopravvento e la sua mente sembra avviarsi verso un delirio di onnipotenza. L’opinione pubblica mondiale è conquistata da questo suo atteggiamento, è in sintonia con lui e lo spinge irrimediabilmente verso il delirio.
Dopo aver ceduto la Dittatura a Vittorio Emanuele il re lo voleva ricompensare con una montagna di regali purché rinunciasse al suo esercito: un titolo nobiliare, la promozione a generale d’armata, un castello, una nave, una tenuta per Menotti, una dote per Teresita, la nomina di Ricciotti ad aiutante di campo del re. Lui rifiuta tutto perché non vuole regali. Il suo ascetismo non cede mai perché lui è il Grande Sacerdote della Patria e disprezza i regali. Lui vuole il suo giocattolo, l’Esercito Meridionale, per fare le sue guerre di liberazione.
Quando si viene a sapere che il conquistatore di un regno ha rifiutato tutti i regali e se ne torna a fare l’agricoltore l’opinione pubblica mondiale va in delirio: Cincinnato e Washington sono i termini di paragone. Quando Garibaldi si imbarca per Caprera il Punch di Londra scrive che mentre Vittorio Emanuele cavalcava verso il trono, Garibaldi “solo prendeva possesso di un trono più alto e di una più nobile corona”. Praticamente un Dio.
Il giorno prima di partire da Napoli si era congedato dai napoletani con questo proclama: “Io ritornerò in mezzo a voi da qui a qualche mese; mi rivedrete ancora, ma allora mi abbisognerà una prova del vostro amore … Seguitemi
allorquando ci riuniremo per liberare i nostri fratelli di Roma e di Venezia … Addio, alla fine di marzo ci abbracceremo”. Ma a quali napoletani era indirizzato quel proclama? Gli unici napoletani che avevano collaborato con lui erano stati i camorristi e non lo avevano fatto per amor di patria. La rivolta dei popoli meridionali contro l’unità era già iniziata e inoltre supporre che i napoletani avrebbero potuto marciare con lui per spodestare il Papa era chiaramente assurdo.
La sua scollatura dalla realtà sta peggiorando sempre più fino ai limiti del delirio.
Come arriva a Caprera dà subito sfogo al suo risentimento verso l’esercito e il governo italiani regalando la sua divisa di generale a un bracciante che lavorava per lui e riprendendo il suo stile di vita bucolico-rivoluzionario che fa impazzire l’opinione pubblica mondiale. Nelle dichiarazioni fiscali si definisce “agricoltore” un lavoro cui si dedica con impegno e mentre il suo mito dilaga nel mondo riprende a compilare i suoi Quaderni Agricoli, vanga, sarchia, semina, pota e raccoglie. Il ministro plenipotenziario degli Stati Uniti scrive al suo governo che: “pur non essendo altro che un individuo solitario e privato, in questo momento egli è in se e per se una delle grandi potenze del mondo” .
Tutte le settimane arrivano sull’isola con il postale una torma di visitatori e una valanga di lettere. Molte delle lettere non sono affrancate e lui dovrà pubblicare sui giornali un appello al pubblico di non mandargli lettere senza francobollo perché non può permettersi di pagare la relativa multa. Caprera diventa una delle più frequentate mete di pellegrinaggio in Europa. Arrivano vecchi amici, commilitoni, socialiste russe, nobildonne inglesi, emancipatrici americane, deputazioni patriottiche, politicanti, rivoluzionari, emissari occulti di Mazzini, agenti segreti del re e tanti emigrati dai territori italiani non ancora “redenti” che lo invocavano di andarli a liberare. A tutti rispondeva: “A primavera!”. Caprera è letteralmente sommersa da una montagna di regali dei suoi ammiratori che vanno dalle salse inglesi fatte in casa ai montoni merinos agli alberi da piantare. A Brighton, in Inghilterra, diciassettemila persone offrono un penny a testa per
fargli un regalo. Sempre dall’Inghilterra gli mandano un famoso giardiniere per consigliarlo a coltivare Caprera. Da Melbourne, Australia, gli mandarono l’ennesima spada d’onore.
Lady Shaftesbury lo implora di mandarle una ciocca di capelli e lui le risponde che gliene avevano tagliati così tanti che bisognava aspettare che ricrescessero. “Era una forma ripugnante di culto degli eroi, quella delle aristocratiche dame straniere che gli tendevano l’agguato per un bacio e andavano in cerca della sua stanza per raccogliere ritagli di unghia e capelli dal pettine” ⁷. Arriva una delegazione di garibaldini che erano riusciti a trovare un buon posto nell’esercito o nel parlamento italiano: Bixio, Medici, Turr, Cairoli ed altri. Gli portano in regalo una stella di brillanti con sopra scritto “I Mille della prima spedizione al loro Duce”.
Nel gennaio ’61 arriva sul suo lussuosissimo panfilo il terzo duca di Sutherland, il più ricco e potente aristocratico britannico. Sua Grazia era un entusiasta sostenitore delle nobili cause che avessero come scopo la libertà dei popoli oppressi. E’ venuto per studiare con Garibaldi un suo progetto di attaccare sia l’impero austriaco che quello ottomano per liberare tutti i popoli da Venezia a Costantinopoli. In quei giorni i Balcani erano nel mirino: “I rivoluzionari radicali non lo sapevano, ma negli ultimi anni della sua vita Cavour aveva contrabbandato grosse partite d’armi nei Balcani per una futura guerra contro l’Austria; e quando le armi furono catturate prima di arrivare a destinazione, aveva protestato con indignazione la propria innocenza, accusando Garibaldi” ⁸. Nel marzo ’61 viene eletto al Parlamento nel Partito d’Azione con un programma non ben definito di concordia e unità nazionale ove l’obiettivo principale è il completamento dell’unità del paese con Roma e Venezia: “Io non mi curo che il ministro si chiami Cavour o Cattaneo … ciò che mi preme … si è che il primo marzo 1861 trovi Vittorio Emanuele alla testa di cinquecentomila soldati”.
Le sue dichiarazioni pubbliche di odio verso Cavour e disprezzo per il Parlamento vanno ad aumentare la frattura tra la politica parlamentare e
l’opinione pubblica italiana perché mentre Cavour sapeva manipolare il Parlamento, Garibaldi sapeva eccitare la folla infiammandola con domande retoriche che provocavano risposte ardenti di ione patriottica. Secondo Charles Suart Forbes: “Tra Garibaldi e le masse c’è una specie di profonda consonanza di spiriti, che è elettrizzante al massimo grado. Esse guardano al generale come ad una sorta di intermediario tra se stesse e la divinità, una sorta di padre che perdona le colpe minori e che, pur essendo uno di loro, è di gran lunga al di sopra di loro” . Il problema è che le masse si sentono in sintonia col suo disprezzo per le istituzioni. Secondo lui il Parlamento è una “conventicola di venduti e di parolai” e la sua politica è “sporca e volpina”. Più lui denuncia e insulta il Parlamento più aumenta la sua popolarità anche tra quella parte del popolo che fino a poco tempo prima gli era stata ostile. Una disastrosa ipoteca sullo sviluppo democratico del paese. Secondo lui il governo di Cavour era composto di “codardi” e la Camera era “un’assemblea di lacchè”. Eppure ad aprile gli toccò andare a Torino in Parlamento per chiedere un “posto” per i suoi garibaldini che Cavour stava congedando.
Si presenta in camicia rossa, poncho e sombrero: un inutile insulto alla rigida etichetta della Camera. Quando il presidente gli dà la parola inizia a parlare in modo pacato per perorare la causa dei suoi garibaldini, ma dopo poco perde la memoria, esita, e cerca inutilmente nei fogli che si era portato di riprendere il filo del discorso nonostante due suoi amici che gli erano accanto cerchino di aiutarlo mostrando sui fogli i aggi che aveva saltato. A questo punto getta i fogli e inizia un attacco virulento contro Cavour per aver ceduto la sua Nizza alla Francia, insultando tutto il governo. La Camera è in tumulto, la seduta è sospesa e poi a fatica il presidente riesce a far riprendere il dibattito. Alla fine Garibaldi denuncia lo scioglimento del suo esercito garibaldino e così termina il suo intervento andandosi poi a sedere all’estrema sinistra. Cavour non fa fatica a evidenziare che era palesemente assurdo mantenere due diversi eserciti: la Camera votò contro Garibaldi 194 a 79.
La scollatura di Garibaldi dalla realtà si fa sempre più preoccupante, come è possibile chiedere al governo di mantenere due eserciti di cui uno sarebbe stato fedele a lui?
Tornato a Caprera resta comunque in contatto con Cavour e nelle sue lettere continua a insistere sulla costituzione di un esercito-nazione e di far assumere al re la dittatura, indispensabile secondo lui alla realizzazione dell’unità e al governo del paese. Eppure lui ora è il punto di riferimento dei democratici italiani che evidentemente hanno le idee molto confuse ma di fatto il prestigio per legare le correnti democratiche a un unico progetto lo ha solo Garibaldi. D’ora in poi, qualunque cosa dica o faccia, lui resterà il punto di riferimento dei democratici in Italia e dintorni.
In questo periodo Garibaldi inizia i contatti con il socialismo internazionale e riceve a Caprera il socialista tedesco Lassalle, presentato da Karl Marx. Ferdinand Lassalle, figlio di un ricco ebreo, era stato inizialmente un seguace di Marx ma poi aderisce al progetto di unificazione della Germania chiedendo il suffragio universale maschile in modo che i proletari potessero partecipare alla vita politica del nuovo paese e quindi prenderne il controllo attraverso il Parlamento senza alcuna rivoluzione. Le attività imprenditoriali avrebbero dovuto essere delle cooperative operaie fondate con capitali dello Stato. Nel ’63 fonda la Associazione generale degli operai tedeschi, il nucleo di partenza del partito socialdemocratico tedesco. Marx, naturalmente, si oppone con violenza a questa iniziativa e rompe i rapporti con lui. Lassalle a ai nazionalisti e cerca un accordo con Bismarck per inserire la sua associazione operaia tra le forze che stanno costruendo la Germania ma muore nel ’64 in un duello provocato da una storia d’amore. Lassalle arriva a Caprera accompagnato dalla sua amica, la ricca contessa Hatzfeld. Gli vuole proporre un piano di invasione dell’impero austriaco con rivoluzioni diffuse in tutte le città; Garibaldi avrebbe dovuto marciare su Venezia.
Non se ne farà nulla, Garibaldi ha le sue idee a proposito della partecipazione della classe operaia alla vita politica del suo nuovo paese. In quei giorni lui era presidente di un Comitato di provvedimento per Roma e Venezia, un’associazione operaia patriottica, a cui aveva già espresso la sua opinione: “Gli operai non devono interessarsi di politica”. Nel dicembre ’61 l’associazione si riunisce a Genova per dibattere la questione e stabilisce che gli operai non solo
dovevano interessarsi di politica ma dovevano diventare una forza determinante nello sviluppo del paese. Garibaldi, furioso, manda le sue dimissioni.
Cavour è morto a giugno e ora a Torino non c’è più la sua astuzia e la sua autorità per porre rimedio alle iniziative incoscienti e velleitarie del re e di Garibaldi. Il nuovo primo ministro Ricasoli, un uomo d’ordine, gli propone di formare una commissione per organizzare le Guardie Nazionali e il Tiro a Segno Nazionale sperando così di tenerlo occupato e distrarlo dai suoi progetti guerreschi che non vuole assecondare. Garibaldi accetta: queste attività gli sono congeniali. Lui ha sempre insistito in tutte le occasioni possibili che il popolo deve essere addestrato all’uso delle armi. Così si esprime nelle sue Memorie: “E ciò serva di stimolo alla gioventù italiana per esercitarsi; e si persuada che non basta il valore sui campi odierni di battaglia, bisogna esser destri nel maneggio delle armi, e molto”. Queste sono le attività cui il popolo deve dedicare il suo tempo, non la politica, dannazione!
Ricasoli sapeva che c’era un nuovo paese da costruire e non voleva avventure militari ma non sa con chi ha a che fare. Il re, finalmente libero del “freno” di Cavour, complottava le sue imprese assurde con chiunque volesse ascoltarlo senza informarne il governo com’era abituato a fare. Quando Ricasoli venne a sapere che c’erano delle intese segrete tra il re e Napoleone protestò e il re lo licenziò. A questo punto il re si cerca un primo ministro adatto a lui e lo trova in Rattazzi che si era distinto quando aveva tolto il re da un impiccio con una sua amante sposandola lui stesso dietro espressa richiesta del re. Nel marzo del ’62 il re nomina Rattazzi primo ministro con l’appoggio di Garibaldi e si sente finalmente libero di dar sfogo alle sue velleità geopolitiche. Quello che avverrà nei mesi successivi è quello che ci si può aspettare da un governo condizionato dal re e guidato del suo ruffiano. Gli avvenimenti che seguono sono talmente sconclusionati che sono difficili da raccontare.
A marzo Garibaldi va a Torino, s’incontra col re e con Rattazzi che, sembra, gli propongono di mettersi alla testa di due battaglioni di volontari per attaccare l’Austria partendo dalle coste Dalmate o dalla Grecia in direzione dell’Ungheria
e assestare un colpo mortale all’impero. Lo avrebbero rifornito di ottime armi e finanziato con un milione di lire. Era un’iniziativa stupida e velleitaria; sembrava che il re fosse d’accordo con Napoleone ma probabilmente non era vero. Garibaldi non ne può più di restare inerte e forse pensa che si stia ripetendo quella politica di sotterfugi che aveva reso possibile la sua impresa dei Mille. Il governo gli mette a disposizione treni speciali per viaggiare da Genova attraverso la Lombardia, ufficialmente sembra, per propagandare l’addestramento del popolo alle armi. A ogni fermata è travolto da una folla in delirio, a Milano gli ci vuole un’ora per arrivare dalla stazione all’albergo, la folla grida “Roma e Venezia” e lui risponde: “Sì, Roma e Venezia son nostre e se saremo forti le avremo.”. “Ovunque andasse, sindaci e prefetti gli offrivano banchetti ufficiali e tenevano fioriti discorsi patriottici. Gli andò alla testa, questa incandescente atmosfera; gli diede l’illusione di sentire il polso della nazione, mentre in realtà tutti i discorsi e gli applausi per Venezia e per Roma, altro non erano che rumore e furore, che nulla significavano”¹ .
Garibaldi, eccitato da questo entusiasmo, non poteva accontentarsi di discorsi e acclamazioni popolari, lui è un uomo d’azione. E’ accompagnato dai figli e da ufficiali garibaldini mentre vari volontari battevano la Lombardia per raccogliere vestiario e sottoscrizioni per non si sa cosa ma tutti pensano che si stesse preparando un’altra avventura. Quando si ferma a Trescore tiene una riunione segreta con i suoi garibaldini e gli illustra un progetto di conquista di Venezia che dovrebbe iniziare con uno sbarco in Dalmazia. La maggior parte dei suoi sono contrari, temono una trappola organizzata dal re e da Napoleone per liberarsi di lui mandandolo allo sbaraglio. Erano già stati arruolati un centinaio di volontari al comando di Nullo e si trovavano a Sarnico, non lontano dal confine del Trentino austriaco, quando scoppia lo scandalo.
Alcuni giorni prima, a Genova, alcuni rapinatori avevano svaligiato la banca Parodi ed erano fuggiti a bordo di una barca che era stata segretamente noleggiata dal colonnello Catabene per conto di Garibaldi; la polizia la cattura e tra le carte trova un piano preparato da Garibaldi per un attacco al Trentino che sarebbe dovuto iniziare dopo pochi giorni. L’esercito italiano interviene il 14 maggio, arresta Nullo con i suoi volontari e li porta in prigione a Brescia. Garibaldi corre alla prefettura di Bergamo per spedire un telegramma a Torino
per far liberare i suoi. La folla è con Garibaldi, non crede al governo e tutti sospettano che sia stato tradito. Lui sembra voler scatenare una rivolta ma i suoi ufficiali riescono a fermarlo. Intanto a Brescia la folla assedia le carceri per liberare i prigionieri e i militari aprono il fuoco: tre morti e un ferito restano sul terreno. L’Italia è in subbuglio e l’opinione pubblica è con lui contro il governo. Pochi giorni dopo Garibaldi è a Torino e Rattazzi riesce a fargli scrivere una lettera ove dà una spiegazione dei fatti che scarica il governo dalle sue responsabilità e spiega che tutto era dovuto a un equivoco. E’ una spiegazione ridicola, il Parlamento insorge contro il primo ministro ma Garibaldi lo appoggia e Rattazzi riottiene la fiducia. Dopo pochi giorni Nullo e i suoi sono liberi.
Nelle sue Memorie non esiste alcun cenno a questi fatti e nessuno è riuscito a scoprire cosa fosse realmente successo. Resta il sospetto che Garibaldi o i suoi avessero deciso di finanziarsi da soli non avendo ancora ricevuto il milione di lire promesso e non fidandosi del progetto di invasione della Dalmazia avessero deciso di attaccare da soli l’Austria nel Trentino per mettere il governo di fronte al fatto compiuto e costringerlo ad unirsi a loro. Se questa è la verità si tratta di un progetto demente: non si può finanziare una guerra rapinando le banche e l’esercito austriaco non è quello di schiello.
Garibaldi si mette tranquillo per alcuni giorni ma l’eccitazione popolare è incontenibile. “Parlando sui morti nella chiesa di S.Fermo a Como vide la folla singhiozzare e poi urlare “Roma e Venezia!”; egli stesso, spiegazzando il suo cappello, si lasciò sopraffare dalla commozione e non riuscì a continuare”¹ ¹.
Non è possibile restare ivi di fronte a tanto entusiasmo popolare quindi, dopo un altro incontro-scontro col re e con Rattazzi, Garibaldi torna a Caprera e a fine giugno parte per Palermo con i suoi fedelissimi su una nave delle società Rubattino (ancora!). Nessuno dei suoi sa il motivo di questo viaggio e a chi gli chiede spiegazioni risponde: “Andiamo verso l’ignoto. Dopo, sarà quel che sarà!”. A chi lo accompagna, lui sembra sicuro di quel che fa ma questa volta non c’è Cavour, non c’è l’Inghilterra e non c’è la Massoneria. Questa volta è veramente da solo. In Sicilia la situazione è disastrosa. L’opinione pubblica è
fortemente delusa dal governo italiano che è più accentratore di quello Borbonico e c’è chi chiede il ritorno dei Borbone. L’esercito italiano deve presidiare tutta l’isola che è sull’orlo dell’anarchia. Nonostante sia stato lui a provocare tutto questo, anche in Sicilia Garibaldi è considerato il paladino dei deboli e degli oppressi e il suo arrivo scatena un’isteria popolare ancora più esagerata che in Lombardia: il mito Garibaldi non finisce mai di stupire.
A Palermo c’è una parata in suo onore e lui si scatena con un discorso incendiario contro il Papa e Napoleone. A Torino il Parlamento inizia a protestare e Rattazzi licenzia il prefetto di Palermo, amico di Garibaldi, ma a lui lo lascia fare. Lui si lancia in una sorta di pellegrinaggio attraverso i “luoghi sacri” ove aveva combattuto due anni prima. A Marsala arringa la folla incitando il popolo a seguirlo a Roma e dalla folla parte il grido: “Roma o morte!”. Sono manifestazioni difficili da comprendere se si tiene conto che due anni prima, quando era sbarcato, tutta la gente si era chiusa in casa e lo aveva evitato. Ora Garibaldi attraversa la Sicilia e ogni discorso si chiude con: “Roma o morte!”. Tornato a Palermo, trova riuniti 3000 “volontari” che lo accolgono al grido “pane, pane!” ma lui li arringa con “Fatiche, disagi, pericoli, sono le solite mie promesse”. Sembra deciso a partire verso un’altra avventura con questi nuovi volontari. Da Torino il governo non dà istruzioni e in Sicilia le autorità non sanno cosa fare, l’esercito avrebbe potuto fermarlo ma non si muove: non ci sono ordini. La gente è convinta che siano tutti segretamente d’accordo come nel ’60 e iniziano ad arrivare i volontari. Anche i soldati dell’esercito iniziano a disertare per unirsi a lui alla conquista di Roma. “La missione era santa, le condizioni erano le stesse, e la generosa Sicilia … rispondeva col solito suo slancio, al grido di “Roma o morte” … Corrao ed altri egregi, procuravano armi. Bagnasco, Capello, ed altri illustri patrioti formavano un comitato di provvedimento … presto nuovi Mille si trovavano in campo, disposti come i primi ad affrontare la tirannide sacerdotale certamente assai più nociva della Borbonica”.
Il re emana un proclama che condanna l’iniziativa e invita tutti a tornare a casa ma nessuno ci crede.
L’opinione pubblica si rifiuta di pensare che Garibaldi, il biondo eroe, stia delirando. Tutti sono sicuri che siano segretamente d’accordo. Ma i suoi stretti collaboratori conoscono la situazione e gli si fanno attorno per convincerlo a desistere da quella follia. Lui è irremovibile e prosegue nel delirio: “Ebbimo il veto della monarchia nel 1860 e l’ebbimo nel 1862. … E nel 1862 , ciocchè si proponevano le solite camicie rosse era di buttar giù dal papato, … il più fiero ed accanito nemico dell’Italia, ed acquistare la naturale capitale nostra, senz’altra meta, senz’altra ambizione , che quelle di fare il bene della patria”. Ora circola voce che Garibaldi abbia un talismano: una carta scritta dal re che Garibaldi teneva in un astuccio di metallo legato da un filo di seta bianca. Nessuno lo aveva mai visto né lo aveva letto e Garibaldi non ebbe mai bisogno di mostrarlo.
A Catania c’erano alcune unità della marina militare e l’ammiraglio ricevette dal governo le seguenti istruzioni: “Agite a seconda dell’occasione, ma tenete sempre in mente il bene del vostro re e del paese”. Un suo ufficiale dichiarò di aver visto il talismano e così la marina militare rimase inerte mentre Garibaldi e i suoi andavano all’arrembaggio di un paio di navi da carico, all’ancora nella rada, con delle barche a remi rubate nel porto. Una di queste era italiana ma l’altra era se. Quell’ammiraglio dovrà dare le dimissioni dalla marina.
Sia il re che Rattazzi avevano paura a intervenire e probabilmente sapevano di essere un poco responsabili di quella pazzia per non aver chiarito le loro intenzioni con Garibaldi dopo l’incidente di Sarnico ma quando Napoleone si decise a prendere posizione e si dichiarò deciso a difendere il papato allora Rattazzi trovò il coraggio di ordinare al generale Cialdini di fermare Garibaldi. A Cialdini e ai suoi non gli sembrava vero di poter finalmente sparare su Garibaldi: obbedirono con entusiasmo.
Il giorno dopo circa 2000 volontari sbarcano sulle coste calabresi e iniziano la marcia su Roma ma adesso l’esercito italiano gli va incontro e spara. Garibaldi si rifiuta di spargere sangue italiano e fugge sui monti ma non ha provviste, piove e tutti si riducono a mangiare patate crude raccolte in terra. Ora gli sono rimasti poche centinaia di uomini e il 29 agosto sono intercettati da 3000 bersaglieri. Lui
dà ordine di non sparare, si mette davanti ai suoi con la sua camicia rossa e il suo poncho americano, è impossibile non vederlo. Lui pensa che non oseranno sparare su di lui ma si sbagliava, parte la scarica e lui è colpito alla gamba e al piede. I garibaldini rispondono al fuoco e poi si arrendono dopo dodici morti e trentaquattro feriti. Sei soldati italiani che avevano disertato per seguire Garibaldi sono fucilati mentre circa 2000 dei suoi volontari sono internati nelle fortezze alpine a tener compagnia ai soldati borbonici superstiti. Settantasei soldati italiani saranno decorati per questo piccolo scontro che non ebbe nulla di eroico.
Garibaldi è in arresto ed è portato alla fortezza del Varignano vicino a La Spezia ove 23 dei più famosi chirurghi al mondo andarono a visitarlo per estrarre la pallottola che era rimasta nel malleolo. Tutto il mondo trepidava per lui. Scrisse l’inglese Daily News: “Se Napoleone è stanco di regnare e di vivere, basta che tocchi un capello di Garibaldi”¹ ². Fiumi di sigari e di lettere gli erano spediti da tutto il mondo e le bende macchiate dal suo sangue erano una reliquia che poteva essere venduta a caro prezzo. “Egli era un personaggio pubblico, forse in quel momento la persona vivente più conosciuta e più amata al mondo”¹ ³. Tutta l’opinione pubblica mondiale è con lui e condanna il vile tradimento del malvagio governo italiano. A ottobre 100.000 persone si radunano a Londra per una manifestazione di o all’eroe.
Il governo all’inizio voleva processarlo ma poi si rese conto che avrebbe esposto al pubblico l’incoscienza del re e la cialtroneria del primo ministro per il modo in cui avevano condotto la faccenda e alla fine Garibaldi fu amnistiato. Il risultato fu che Garibaldi si convinse di essere al di sopra della legge e di poter fare qualunque cosa senza incorrere nell’ira della giustizia italiana. Un elemento disastroso per il suo equilibrio mentale.
A dicembre del ’62 è di nuovo a casa sua a Caprera in convalescenza.
Tutto il 1863 resta a Caprera in attesa di riprendere l’uso completo del piede. E’
sempre un punto di riferimento per tutti i rivoluzionari schizzati d’Europa. Ora complotta contro la Russia per la liberazione della Polonia, poi contro la Turchia per la liberazione dei paesi balcanici. Dato che si muove con difficoltà a il tempo a scrivere proclami: ai polacchi che si erano ribellati ai russi, ai russi perché disertassero, agli operai si perché si ribellassero a Napoleone, ecc. Riceve a Caprera patrioti polacchi per una spedizione da Costantinopoli verso la Galizia e per questo mandò, non si sa a far cosa, il figlio Menotti a Costantinopoli con delle armi che aveva lì a Caprera. Arriva una signora per conto di Mazzini da Londra per proporgli un attentato contro Napoleone per cui gli avrebbero dato trentamila franchi ma lui rifiuta.
Nel ’64 accetta gli inviti di vari comitati garibaldini britannici per una sua visita in Inghilterra. Il primo ministro inglese era contrario, aveva timore che qualche organizzazione operaia o democratica potesse sfruttare Garibaldi per manifestare contro il governo ma finì per accettare. Il governo italiano era terrorizzato, cosa avrebbe potuto combinare lontano dal loro controllo?
Fu un trionfo mai visto. Arriva il 13 aprile e riceve subito delegazioni di aristocratici, rivoluzionari, proletari e artisti. A Portsmouth la flotta inglese fece un’esercitazione a fuoco solo per lui. Arriva a Londra con un treno speciale. Mezzo milione di persone lo aspettavano, avevano atteso tutta la mattina. La sua carrozza impiegò sei ore dalla stazione alla casa del duca di Sutherland che lo ospitava, tant’era la folla. Il fior fiore dell’aristocrazia britannica era in fila dietro di lui con le sue carrozze, mentre lungo la strada erano rappresentate tutte le componenti del proletariato inglese e in continuazione bloccavano la carrozza di Garibaldi per toccarlo stringergli la mano, baciarlo. Alla regina non piacque. Si disse “quasi vergognosa di governare una nazione capace di simili follie”.
Karl Marx era presente e giudicò la cosa “un miserabile spettacolo d’imbecillità”. Brutta cosa l’invidia. Nessuna folla di proletari gli concederà mai una simile accoglienza. La sinistra socialista, intellettuale e dottrinaria, detestava Garibaldi quanto lui detestava loro.
Più umano e realista Lord Clarendon. Giudicò lo spettacolo grande “perché opera esclusiva delle classi lavoratrici, che guardavano a Garibaldi come a un vero eroe in quanto egli si era sollevato dalla loro stessa condizione e in quanto era povero”. Ma doveva esserci qualcosa di più perché inglesi di qualunque classe sociale impazzivano per lui. Il fatto è che nessuna persona al mondo era riuscita come Garibaldi a impersonare in tutta la sua vita l’ideale romantico dell’eroe. Puro come un fanciullo. Disinteressato come un cavaliere medievale. Combattente per la libertà in paesi esotici come il Brasile, l’Uruguay, l’Italia. Vincitore! L’Inghilterra romantica e vittoriana aveva trovato il suo eroe.
La modestia di Garibaldi è tale che nelle sue Memorie questo trionfo non è neanche menzionato.
Per due settimane l’aristocrazia cercò di monopolizzarlo per non dargli occasione d’incontrare organizzazioni proletarie ove avrebbe potuto combinare qualche pasticcio e mettere il governo in imbarazzo. Ma lui si comportò benissimo e fu un ottimo ospite “Insolitamente garbato e perspicace, era al tempo stesso l’eroe dal cuore sincero e il cortese gentiluomo, con giusto mezzo fra modestia e dignità”¹ ⁴, lui amava l’Inghilterra. Anche quando lo scrittore rivoluzionario russo Herzen lo invitò a pranzo facendogli incontrare la crema dei rivoluzionari europei rifugiati a Londra, al quale Marx si rifiutò di partecipare, si astenne da alcuna dichiarazione incendiaria. Anche a Londra ebbe modo di ascoltare progetti di complotti e invasioni perché persino in Inghilterra il re gli aveva mandato dietro un suo emissario per sondare la sua disponibilità a un’invasione della Galizia e Garibaldi si dichiarò interessato ma ne avrebbero riparlato in Italia. Riuscì a un certo punto a svincolarsi dall’abbraccio soffocante dell’aristocrazia, andò in una celeberrima birreria di Londra e brindò ai lavoratori del mondo. Andò anche a incontrare alcuni dei primi leader sindacali e “in un discorso dichiarò di desiderare maggiormente di incontrarsi coi lavoratori comuni, ‘la classe a cui ho l’onore di appartenere’ perché ‘mi piace essere chiamato fratello degli operai in ogni parte del mondo’”¹ ⁵. Andò anche a far visita a Louis Blanc, un rivoluzionario se, irritando pericolosamente Napoleone. A questo punto tutto il corpo diplomatico non volle incontrarlo tranne quello americano e turco e gli ambasciatori italiano e austriaco mostrarono la loro disapprovazione. Quando il governo inglese iniziò a essere
imbarazzato da una tale popolarità che non cessava di manifestarsi e venne a sapere che Garibaldi aveva accettato cinquanta inviti da varie città inglesi gli fece capire che era tempo di tornare a casa.
Garibaldi obbedì e quando il 22 aprile lasciò Londra una folla enorme cercò di bloccarlo gridando: “Non partite generale, non partite!”. Ma il panfilo del duca di Sutherland lo aspettava per portarlo a Caprera ove poi rimase qualche mese a sua disposizione. Prima di partire aveva fatto una sua dichiarazione d’amore all’Inghilterra che era un po’ stravagante perché dopo aver elogiato la legalità, l’ordine, la libertà e il senso di sicurezza del paese, lodò il suo esercito per essere “mondo ancora di quella lebbra dei tempi moderni che porta il tristo nome di militarismo”. Considerando che sull’impero inglese non tramontava mai il sole questa sembra un’affermazione un poco strana e inoltre, detta da uno che stava ancora cercando di mettere assieme un milione di fucili per armare un Esercito Nazione, che senso aveva? A Caprera gli arrivano in regalo dall’Inghilterra un panfilo e un somma di denaro per comprare l’altra metà dell’isola.
Dobbiamo ora aggiungere un piccolo dettaglio per evidenziare il fascino di Garibaldi. Lui era rimasto due settimane ospite del duca di Sutherland e dopo il suo ritorno ricevette varie lettere da parte della duchessa madre, 58 anni: “come vi vorrei qui! … ogni mio pensiero ogni mia idea vola a Caprera!” e anche da parte della duchessa moglie, 26 anni: “Vi amo di un amore che durerà sempre e poi sempre”. La signora Seely che aveva organizzato il viaggio gli scriveva: “Andai a rivedere il vostro piccolo letto piena di emozione. Stavo mesta a contemplarlo quando mi accorsi che vicino al capezzale era il fazzoletto che voi avete usato …. Deh, ditemi che me lo donate”¹ . Considerate che Garibaldi aveva 58 anni, era tormentato dall’artrite e parlava malissimo l’inglese.
Inoltre, prima di proseguire nel racconto, dobbiamo fare un’altra osservazione. Non si può fare a meno di notare che, con l’occasione di avere Garibaldi lì a Londra, tutti questi nobili illuminati e tutti questi rivoluzionari socialisti avrebbero anche potuto spendere una parola con lui per intercedere a favore delle popolazioni meridionali che in quel momento subivano il massimo impatto
della legge Pica che era entrata in vigore da una anno. Gli inglesi erano perfettamente al corrente della situazione del Meridione. L’anno prima Lord Lennox era andato a Napoli e aveva visitato alcune prigioni ove erano rinchiusi quei disgraziati in condizioni disumane e aveva relazionato la Camera dei Comuni: “Sento il debito di protestare contro questo sistema. Ciò che è chiamata unità italiana deve principalmente la sua esistenza alla protezione e all’aiuto morale dell’Inghilterra … e però in nome dell’Inghilterra, denuncio tali barbare atrocità … la descrizione delle condizioni dei torturati nell’Inferno di Dante darebbe la più perfetta idea della scena che si presentava in quella prigione”¹ ⁷. Lo stesso anno, il deputato Mc Guire dichiarava in Parlamento: “Voi potete piuttosto sperare di unire le varie nazioni del continente europeo in una sola nazione che unire l’Italia del Sud a quella del Nord e rendere i napoletani contenti di vivere sotto il giogo di un popolo che disprezzano come barbaro e che odiano come oppressore. … Intanto, qual è il risultato? In luogo di pace, di prosperità, di contento generale che si erano promessi e proclamati come conseguenza certa dell’unità italiana, non si ha altro di effettivo se non la stampa imbavagliata, le prigioni ripiene, le nazionalità schiacciate e una sognata unione che in realtà è uno scherno, una burla, una impostura”¹ ⁸. Il problema era che i briganti meridionali erano disprezzati perché fedeli ai Borbone e quindi “nemici del progresso” e questo atteggiamento mentale era condiviso sia dagli aristocratici illuminati sia dai rivoluzionari socialisti quindi: nessuna pietà per i reazionari.
Appena Garibaldi arriva a Caprera il re Vittorio Emanuele riprende immediatamente, sempre all’insaputa del governo, i suoi progetti assurdi di attacco all’impero austriaco in Galizia per prendere l’impero alle spalle. “Per un tipo irresponsabile come Vittorio Emanuele, avere un servitore ubbidiente nel prendere le botte e nel are i guadagni era una tentazione troppo forte”¹ . La Galizia è una regione dell’Impero Austriaco tra la Polonia e l’Ucraina e il re sta insistendo così tanto perché sta cercando un “posto” da re per un suo figliolo. Se Garibaldi avesse staccato la Galizia dall’impero austriaco i galiziani liberati avrebbero chiesto a re Vittorio di dar loro un suo figlio per re: questa era la speranza di re Vittorio. A noi sembra comunque strano che Garibaldi avrebbe potuto accettare considerando che era un convinto repubblicano e qui non si trattava di liberare l’Italia. Ma per Garibaldi pianificare ed eseguire guerre è una tentazione a cui non sa resistere. Nonostante quello che era successo due anni prima, continua a dar retta al re attraverso emissari più o meno segreti. Il suo
problema è che dopo i disastri di Sarnico e Aspromonte è diventato un emarginato nella scena politica nazionale. L’Esercito italiano lo odia, il governo è terrorizzato da qualunque sua iniziativa perché sa di non poterlo controllare e sa che un suo disastro avrebbe comunque compromesso il governo facendolo cadere. Solo quell’incosciente di re Vittorio era ancora interessato a utilizzare i servizi di Garibaldi. E’ per questi motivi che, nonostante il suo accanito repubblicanesimo, Garibaldi accetta di prendere in considerazione il progetto: solo il re gli poteva offrire un lavoro e senza una guerra la sua vita non ha senso.
Ora vive a Caprera circondato da ammiratori aristocratici e da collaboratori contadini. Lui ospita tutti e tutti mangiano assieme come fossero un’allegra brigata. Arrivano il duca di Sutherland (senza la moglie), la principessa di Oppen Schilden con damigella di scorta, il conte polacco Manke e tanti altri. C’era sempre un posto in tavola per tutti.
Ci sono tre servizi d’informazione che lo controllano a sua insaputa: Mazzini lo controlla tramite un fedele garibaldino per cercare di riconquistarlo alla causa repubblicana e coinvolgerlo nelle sue cospirazioni, il re lo controlla con un suo emissario che fa la spola tra Torino e Caprera e anche il governo italiano ha una sua spia. Questa è il suo fedelissimo garibaldino Canzio che ha sposato sua figlia Teresita. Canzio viene pagato profumatamente per questo servizio e mette a punto un codice segreto per poter comunicare col prefetto di Genova tramite il telegrafo della Maddalena senza destare i sospetti dei telegrafisti. Canzio era stato istruito di controllare in special modo l’emissario del re che a maggio era andato quattro volte a Caprera. Infatti, il progetto della Galizia va avanti. Il re gli offre un milione di lire (ancora!) e tutte le armi che vuole per questa impresa che dovrebbe partire da Costantinopoli. Garibaldi si deve consultare con i suoi collaboratori più fedeli e indice una riunione a Ischia per prendere una decisione su questo progetto. Ischia viene scelta perché lì può fare i fanghi per l’artrite che non gli dà pace e il panfilo del duca di Sutherland è ancora a sua disposizione. Il governo prende velocemente in affitto un appartamento nel palazzo ove soggiorna Garibaldi e lo riempie di spie. A questo punto la confusione dei progetti di Garibaldi è tale che non riusciamo a raccontarli: possiamo dire che riguardo alla Galizia i suoi sono assolutamente contrari e qualcuno di loro fa trapelare la notizia alla stampa. Scoppia lo scandalo e il re deve desistere dal
progetto e lasciare in pace Garibaldi dopo che il suo emissario e un garibaldino si erano battuti a duello per gli insulti che si erano scambiati. Dopo questo scandalo Garibaldi torna a Caprera e deve trovare altri sbocchi alla sua esuberanza.
Seguono mesi di inattività; ora è proprietario di un lussuoso panfilo in legno di teak e potrebbe divertirsi un po’ ma la salute non glielo permette e dopo pochi anni lo dovrà vendere. L’inattività lo assilla e cerca cause nobili e belle per cui battersi: ad esempio potrebbe andare in Messico a combattere per la sua indipendenza a fianco di Benito Juarez. Non se ne farà nulla. Allora chiede al re di essere nominato dittatore delle province meridionali ove con il suo carisma avrebbe messo le cose a posto. Il re lascia cadere la proposta.
Nell’aprile del ’65 arriva a Caprera sca Armosino. Garibaldi aveva chiesto a un amico in Piemonte di mandargli una serva ma che fosse brutta perché lì c’erano troppi uomini con poche donne e una bella donna avrebbe creato dei problemi. Quest’Armosino era rimasta in cinta da un carabiniere che poi si era rifiutato di sposarla e dopo aver abbandonato il figlio si era ridotta a fare la serva in una piccola pensione. Era brutta e analfabeta ma astuta e determinata e Garibaldi non sa dire di no. Dopo pochi mesi è incinta: diventerà la sua terza moglie e gli darà tre figli.
Finalmente nel 1866 la Prussia e l’Austria entrano in conflitto per l’egemonia sul mondo germanico. E’ guerra! L’Austria sa che la Prussia è un nemico formidabile e cerca di tenere l’Italia fuori da questa guerra offrendogli immediatamente il Veneto se fosse rimasta neutrale. Il governo italiano rifiuta con sdegno, mai si sarebbe fatto comprare. “In parecchi manifesti rivolti agli italiani nel 1864 e nel 1865, Garibaldi aveva esortato ‘alla concordia del sacrificio e del dovere in attesa del giorno invocato delle battaglie’ concludendo: ‘Gli è ancora una volta il fascio romano che lo chiede agli Italiani; possa il loro cuore intendere la santità delle mie intenzioni’”¹¹ Se Venezia doveva essere riunita alla Patria non poteva essere con un regalo, l’onore esigeva che la “redenzione” fosse fatta col sangue. In quei cinque anni di esistenza il Regno
d’Italia aveva speso cifre esorbitanti per la guerra strappando, letteralmente, il pane di bocca al popolo con un fisco esoso. La sua marina era forte di 12 corazzate e l’esercito era armato al meglio: era finalmente arrivato il momento di usarli. Ad aprile il governo guidato dal generale La Marmora conclude una alleanza con la Prussia ma a causa dell’anarchia regnante nel governo italiano e del palese disprezzo dei prussiani verso gli italiani non si riesce a coordinare le rispettive strategie e così il Regno d’Italia si avvia verso il disastro. Un piccolo anticipo di quello che succederà 80 anni dopo.
Il re fa sapere a Garibaldi che ci sarà da fare anche per i suoi garibaldini ma gli ordina di restare a Caprera, La Marmora non lo vuole tra i piedi. All’inizio si pensa di usare Garibaldi per uno sbarco in Dalmazia per sollevare i croati e dare il via a una rivoluzione all’interno dell’impero ma La Marmora non vuole rivoluzioni e non vuole dare briglia sciolta a Garibaldi, vuole tenerselo vicino. Garibaldi era entusiasta del progetto: “Che magnifico orizzonte si presentava all’oriente per noi! Sulle coste dalmate, con trentamila uomini, v’era proprio da sconvolgere la monarchia austriaca; quanti elementi simpatici ed amici trovavamo noi in quella parte dell’Europa orientale, dalla Grecia all’Ungaria! … internarci nel cuore dell’Austria e gettare il tizzone del risorgimento alle dieci nazionalità che compongono quel corpo eterogeneo e mostruoso”. Continua a sognare insurrezioni popolari. Non soddisfatto di quello che è successo nel Meridione è convinto, anzi lo dà per scontato, che anche i dalmati, i croati o i bosniaci siano in attesa che lui li vada a liberare.
Alla fine il governo decide di dare a Garibaldi l’ala sinistra dello schieramento per un’offensiva alla conquista del Tirolo. Si trattava di attaccare in mezzo alle montagne in direzione di Trento, un’operazione difficile e sanguinosa, non adatta a un esercito di volontari. Garibaldi accetta senza obiezioni e un fiume di volontari si presenta per essere arruolato: molti più di quanti La Marmora fosse disposto ad armare per lui. Nonostante tutto quello che era successo il fascino di Garibaldi è intatto.
Il governo gli consente di lasciare Caprera per unirsi ai suoi volontari solamente
dieci giorni prima dell’inizio delle operazioni perché teme che possa prendere qualche iniziativa. Al suo arrivo trova una situazione disastrosa. Si sono presentati in 30.000 ma il governo non gli ha dato armi ed equipaggiamento sufficienti e, quel che è peggio, non gli vuole dare i suoi ufficiali che ora sono generali dell’esercito italiano perché non si fida di lui. In pochi giorni riesce comunque a mettere insieme una forza combattente, sembra, di 10.000 uomini. Alcuni hanno addosso i loro vestiti, le armi sono pezzi da museo e non sono inquadrati da ufficiali esperti eppure lo seguono immediatamente all’attacco delle formidabili posizioni austriache. Di fronte a loro ci sono i Kaiserjaeger, sono la metà dei garibaldini ma sono armati benissimo e decisi a difendere la loro terra. Loro sono sulla difensiva perché le sorti della guerra si decidono in Baviera ed è lì che l’Austria impegna il grosso delle sue truppe, in Italia devono solo difendere il loro territorio.
Il 24 giugno mentre Garibaldi ha già iniziato ad attaccare, l’esercito italiano viene sconfitto a Custoza pur essendo due volte più numeroso di quello austriaco e preso dal panico fugge lasciandosi dietro ingenti quantità di materiale anche se nessuno lo inseguiva, trasformando così una piccola sconfitta in un disastro.
La Marmora invia a Garibaldi un telegramma: “Disfatta irreparabile, ritirata di là dall’Oglio, salvate l’eroica Brescia e l’alta Lombardia”¹¹¹. Così il massacratore di meridionali ci dà una dimostrazione delle sue capacità militari. Quella piccola sconfitta non era affatto irreparabile e non si doveva salvare nulla perché gli austriaci non hanno alcuna intenzione di attaccare, ovviamente preferiscono mantenere le loro posizioni al riparo delle fortezze del quadrilatero: sono pur sempre la metà degli italiani. Ora chiede aiuto ai garibaldini che tanto disprezza e Garibaldi deve lasciare il Trentino e tornare in Lombardia per salvare Brescia: è una manovra inutile. Quando ai generali italiani si schiarisce la mente Garibaldi è rispedito in Trentino ove riprende ad attaccare.
Il 3 luglio gli austriaci subiscono una disastrosa sconfitta da parte dei prussiani a Sadowa e devono iniziare trattative per l’armistizio. Per loro la guerra è ormai persa. In Trentino Garibaldi deve compensare la vergogna di Custoza e attacca
senza sosta l’esercito austriaco che ora cerca solamente di limitare i danni e trattenere gli italiani fino al prossimo armistizio. Garibaldi si espone in prima fila e viene ferito, non può più cavalcare ma non si scoraggia e si fa trasportare in carrozza sul campo di battaglia: spera di arrivare a Trento prima della fine delle ostilità. La sua tenacia è sbalorditiva: ha 59 anni, è ferito e consumato dall’artrite ma non si ferma mai.
Il 20 luglio per l’Italia c’è un’altra sconfitta questa volta sul mare, a Lissa la flotta italiana pur avendo dodici corazzate è sconfitta dalle sette corazzate della Marina Austro-Veneta. In realtà la battaglia di Lissa è l’ultimo trionfo della marineria veneta. Il nome ufficiale della flotta è Marina Austro-Veneta perché gli equipaggi sono quasi completamente veneti; il comandante pur essendo austriaco doveva parlare veneto perché gli ordini erano dati in veneto. Al comando della flotta italiana c’è l’ammiraglio Persano che ha fatto carriera come sappiamo, per meriti non proprio militari. Sarà processato, degradato, espulso dalla Marina e privato della pensione: la vendetta dei Borbone.
Quando il 10 agosto arrivano i termini dell’armistizio tra austriaci e prussiani Garibaldi è arrivato al piccolo paesino di Bezzecca, ha fatto solo 20 kilometri in territorio nemico e a un prezzo altissimo; le sue perdite sono 10 volte superiori a quelle degli austriaci che evidentemente si sono battuti molto bene. La dedizione dei suoi garibaldini alla causa della redenzione patria è sorprendente. Non sono equipaggiati per il clima della montagna e le loro armi sono assolutamente inadeguate a confronto del nemico, devono attaccare posizioni difficilissime presidiate da soldati decisi e disciplinati eppure non hanno mai esitato a lanciarsi avanti e farsi massacrare. Hanno una fiducia cieca in Garibaldi che riesce ancora a farsi obbedire fino al Supremo Sacrificio. I termini dell’armistizio stabiliscono che il Trentino resti all’Austria quindi quel sacrificio fu completamente inutile.
L’Austria consegna il Veneto alla Francia con la clausola di fare un serio plebiscito e di consegnarlo all’Italia in caso affermativo. Ma la Francia non aveva intenzione di impantanarsi nelle questioni italiane (“un’altra sconfitta e mi chiederanno Parigi” disse Napoleone) e consegna subito il Veneto. Il plebiscito
lo faranno gli italiani col risultato di un 99% a favore. Il suo corpo di volontari viene sciolto con una buonuscita di sei mesi di paga. Lui torna a Caprera ove diventa padre per la sesta volta a sessant’anni.
Anche durante questa campagna Garibaldi dovrà notare che nessun Trentino è ato a combattere con lui e come al solito, per l’ennesima volta, hanno occasionalmente parteggiato per l’Austria. “Non un solo contadino s’era presentato volontario per combattere. Evidentemente la classe italiana più vigorosa e lavoratrice, che era di gran lunga anche la più numerosa, si considerava neutrale o addirittura dalla parte del nemico”¹¹². La cosa lo ferì ma, naturalmente, non provocò in lui alcuna riflessione sulla reale popolarità delle sue iniziative perché, come abbiamo già evidenziato, la sua ottusità è invincibile.
Ha dovuto prendere atto che neanche il Veneto è stato conquistato con un moto popolare ma piuttosto da una fortunata alleanza. Era ormai chiaro che l’unità d’Italia era il risultato di una serie di circostanze più o meno fortuite legate al concerto della politica europea e non era stata la conquista di un popolo deciso a costruire la sua Patria come era invece successo per la Germania. Questo fatto produrrà negli italiani un grottesco complesso di inferiorità nei confronti dei tedeschi che avrà degli effetti drammatici nel secolo successivo. Il motivo di questa situazione per lui è chiaro. E’ colpa della Chiesa che ha avvelenato la mente del popolo rendendolo ostile alla fede nella Patria che per lui è l’unica vera fede. E’ indispensabile fare qualcosa per conquistare i cuori e le menti del popolo: “Il giorno in cui i contadini saranno educati nel vero,i tiranni e gli schiavi saranno impossibili sulla terra”. Di qui la necessità di indottrinare le masse affinché possano anche loro conoscere “il vero”: cioè essere anche loro posseduti dalla sua fede. Ora il suo ascetismo compie un o innanzi e decide di affrontare la Chiesa sul suo stesso terreno: la fede.
Un anno prima di quest’ultima guerra la capitale d’Italia era stata portata a Firenze a seguito di un accordo con la Francia che avrebbe ritirato le sue truppe da Roma dietro un impegno dell’Italia di non attaccarla. Ora la città è presidiata da volontari cattolici provenienti da vari paesi europei, principalmente dalla
Francia, che lui definisce: “poche migliaia di mercenari, scoria di tutte le cloache europee, dovevano tener a bada una grande nazione ed impedirla di far uso de’ suoi diritti i più sacri”. A Garibaldi sembra sia arrivato il momento giusto per assestare il colpo definitivo al potere temporale dei papi. All’inizio del ’67 ci sono nuove elezioni e Garibaldi decide di impegnarsi a fondo per far vincere la sinistra, il partito della rivoluzione, contro una destra troppo timida, prudente e succube della diplomazia per affrontare il Papa. E’ indispensabile che questa volta la spinta alla liberazione di Roma venga del popolo e quindi è necessario che lui scenda in campo per un’opera di proselitismo politico che, nella sua mente semplice, si concretizza in un attacco alla Chiesa coprendola d’insulti.
Inizia a viaggiare in Italia e nei suoi discorsi si scatena contro la Chiesa che definisce: “la negazione di Dio” o “una pestilenziale istituzione” o “un vivaio di vipere”. Ma non basta, per scalzare la superstizione cattolica dalla mente del popolo inizia a mescolare i suoi discorsi con “strane frasi riguardanti una nuova rivelazione e una religione naturale del Cristo, che faceva a meno di preti, altari e dottrine. Sembra che anche in questo trovasse buon pubblico; gli applausi gli diedero l’illusione di essere il promotore di una rinascita religiosa con se stesso come profeta”¹¹³. Lui così ce lo spiega: “Lo scopo è di illuminare sulle elezioni politiche le popolazioni, non solo, ma di seminare il germe della emancipazione della coscienza che può portare l’Italia ad un nuovo primato, ad una nuova iniziativa che conduca l’umanità alla distruzione di quel tabernacolo d’idolatria e d’impostura che si chiama Papato, guidandola sulla via della religione del Vero”¹¹⁴. Pur essendo una persona semplice e modesta, Garibaldi si prendeva sempre molto sul serio e quando alcuni genitori gli portarono i loro figli per essere battezzati in nome di questa sua religione lui li battezzò con la massima serietà e nessuno dei presenti si mise a ridere.
Come al solito era solamente uno spettacolo a cui nessuno credeva tranne lui: la destra vinse le elezioni, nessuno dei candidati che lui raccomandava fu eletto, solo lui, perché era lui lo spettacolo. Il primo ministro è di nuovo Rattazzi. La cosa lo ferì profondamente: “E Venezia! Come Roma, come le altre sorelle italiche è degenerata! La mia comparsa in quella città predicando i principi santi di libertà e del vero, riuscì di poco frutto. Grida sfrenate vi si udirono al mio aggio, ma i fatti poco o nulla corrisposero alle grida. Invece di deputati che
io raccomandai buoni, furono inviati quasi tutti servili. I preti che io dipinsi quali erano, colle loro turpi malvagità, eggiano insolenti e riveriti come prima”¹¹⁵.
La sua amarezza e il suo disprezzo per il popolo reale aumentano ma non si scoraggia e si lancia in una frenetica attività per organizzare la conquista di Roma. Il governo Rattazzi è sempre incerto e lui è più ottuso che mai. Ricominciano gli equivoci, i suoi collaboratori cercano di fermarlo mettendo in luce l’ambiguità e la malafede del governo ma, ovviamente, è inutile: Garibaldi non ascolta nessuno. L’eccitazione dei patrioti è tale che a giugno ’67 parte una banda di un centinaio di volontari, senza di lui, che viene fermata dai papalini e dall’esercito italiano. Lui fissa la data della sua invasione al 15 settembre quando un’ipotetica insurrezione popolare (ancora!) avrebbe fornito il pretesto per l’intervento.
Il 17 settembre è a Firenze per dare inizio alle operazioni ma a Roma non c’è alcuna rivolta (ancora!) e i suoi gli chiedono di desistere perché il governo ha dichiarato, ufficialmente, la sua contrarietà all’impresa ma lui non si dà per vinto. Il 23 parte per iniziare l’invasione ma viene arrestato e portato nella fortezza di Alessandria con un treno speciale. I soldati della fortezza lo accolgono col grido “Roma, Roma”, l’Italia è in rivolta e il governo potrebbe cadere. Gli offrono la libertà se si impegna a ritirarsi a Caprera, lui rifiuta e allora lo spediscono sotto scorta a Caprera ove viene sorvegliato da nove navi da guerra che dovrebbero impedirgli di tornare sul continente. Non saranno sufficienti.
Garibaldi era talmente sicuro che Roma fosse sull’orlo della rivolta e aspettava solamente un piccolo incoraggiamento dall’esterno, che era riuscito a convincere sia i suoi che il governo. Incredibile ma vero. I garibaldini hanno iniziato l’operazione il 7 ottobre senza di lui armati segretamente dal governo Rattazzi che faceva il doppio gioco sperando di ingannare la Francia provocando una “rivolta spontanea” a Roma. Infatti l’accordo con la Francia prevedeva che l’Italia non avrebbe attaccato militarmente lo Stato della Chiesa ma non escludeva la possibilità che il popolo romano avrebbe potuto “liberarsi” con una
rivolta spontanea: è una politica cialtrona e fantozziana. I garibaldini sono al comando del figlio Menotti e sono penetrati nello Stato della Chiesa senza incontrare alcuna resistenza da parte dell’esercito del Papa. Purtroppo a Roma non ci fu alcuna rivolta (ancora!) e il governo non se la sentì di proseguire con un’invasione illegittima ma, a questo punto, si accorse che non aveva il potere di far tornare indietro i garibaldini mentre in Francia i cattolici invocano l’intervento. Finora tutta questa storia è una farsa ma ora entra in scena Garibaldi.
Era riuscito a nascondere un piccola barca vicino casa e la notte del 14 ottobre, approfittando della complicità di alcuni amici, sale in barca da solo, rema con un solo remo in mezzo alle navi italiane in silenzio, riesce a are, sbarca alla Maddalena, sfugge alle sentinelle che la sorvegliavano e finalmente si nasconde in casa di un’amica inglese. Quindi a in Sardegna e poi, dopo varie peripezie, arriva Canzio che lo porta in Toscana con una sua barca. Il 20 è arrivato a Firenze e arringa una folla in delirio in piazza Santa Maria Novella mentre il governo, a pochi i da quella piazza riceve un telegramma dal comandante la squadra navale a Caprera: “Nulla di nuovo, il generale tiene il broncio in casa”. Rattazzi dà le dimissioni. Nelle sue Memorie questa fuga è raccontata in dettaglio ed è uno stupendo racconto di avventure: non per nulla Garibaldi è un mito (ha appena compiuto 60 anni!).
Il governo italiano è paralizzato e lui è libero di fare quello che vuole: il 23 è alla testa dei suoi 8000 garibaldini e avanza verso Roma sicuro che alla sua comparsa il popolo romano caccerà l’odiato Pontefice dalla capitale d’Italia. Questi suoi garibaldini non sono i Mille. Non c’è il fedele Bandi o il nobile Abba e non c’è nessun romantico europeo. Probabilmente gli imbrogli e le ipocrisie degli ultimi anni hanno allontanato da lui i sinceri patrioti che erano stati i protagonisti delle sue prime avventure; ora sono una banda di delinquenti e disadattati. “Alcuni erano gli stessi cafoni e disoccupati buoni a nulla, che in altri momenti storici contribuirono a gonfiar le schiere dei condottieri, dei fascisti e in certi casi perfino dei partigiani. Garibaldi riconobbe pubblicamente questo fattore e i vergognosi atti commessi”¹¹ . La Francia di fronte a una così chiara malafede perde la pazienza, tutta l’Europa stava a guardare, e manda un corpo di spedizione in aiuto al Papa. Il re Vittorio è indeciso se mettersi contro la Francia
o contro Garibaldi ma dopo un po’, come ha sempre fatto, condanna l’invasione garibaldina e manda l’esercito sul confine per bloccare eventuali rinforzi che comunque non c’erano. Poi l’esercito a il confine per “restaurare l’ordine” ma senza osare di intercettare Garibaldi.
Mentre la sua armata di liberazione avanza verso Roma, quattro squadre di garibaldini tentano alcuni colpi di mano all’interno della città sperando di cogliere i papalini di sorpresa e di provocare la rivolta della popolazione. Uno cercò di impadronirsi del Campidoglio ma fu respinto, uno cercò di introdurre un carico di armi ma fu catturato, uno fece esplodere una caserma ma ebbe scarsi risultati, il più consistente, di settantacinque elementi, fu intercettato a Villa Glori e respinto con gravi perdite. Nessun abitante di Roma alzò un dito per aiutare questi liberatori. Assolutamente nulla.
Garibaldi sa di non potere attaccare la città di Roma perché le sue forze non sono sufficienti. Roma non è Palermo: non c’è la flotta inglese, non ci sono gli americani, non c’è la massoneria e non c’è nessuno da corrompere. I romani non hanno alcuna intenzione di farsi liberare, la città è difesa dagli svizzeri, dai regolari papalini e dai volontari cattolici che non sono un gran che come combattenti ma non si possono comprare e sono decisi a battersi. Inoltre, i si stanno arrivando. Lui ha bisogno di una base operativa vicino a Roma e attacca di sorpresa il piccolo paese fortificato di Monterotondo ma viene respinto. La sorpresa non riesce perché tutti gli abitanti della zona, non solo si rifiutano di collaborare, ma addirittura tengono informati i papalini delle sue mosse. “E’ incredibile lo stato di cretinismo e di timore in cui il prete ha ridotto cotesti discendenti delle antiche legioni di Mario e di Scipione! Io già lo avevo provato nella mia ritirata da Roma nel ’49, ove con oro alla mano non mi era possibile trovare una guida. E così successe nel ’67. Quando si pensa: in una città italiana come Monterotondo ... non trovarsi un solo individuo capace di darci relazione su ciò che esisteva dentro, mentre noi erimo italiani per Dio! pugnando per la liberazione patria“.
I poveri villici dell’agro romano ancora non lo sapevano ma erano diventati gli
eredi delle legioni di Mario e di Scipione e d’ora in poi si pretenderà da loro di esserne all’altezza. Se ne accorgeranno subito perché due giorni dopo, conquistato il paese, i garibaldini puniscono la popolazione per la sua mancanza d’italianità. “Successe in Monterotondo ciò che successe in una città presa d’assalto, e che poca simpatia s’era meritata, per il mutismo e l’indifferenza, quasi avversione, manifestata verso di noi. E devo confessare che disordini non ne mancarono”. C’è qualcosa di terribile in questa frase. Garibaldi sembra giustificare le violenze alla popolazione civile perché, non considerandosi italiana, non ha collaborato non lui.
Acquartieratosi a Monterotondo Garibaldi aspetta l’insurrezione del popolo romano per attaccare la città, si avvicina alle mura, si scontra con alcuni papalini ma non c’è alcuna insurrezione (ancora!) e quindi deve rientrare a Monterotondo. Nonostante questo, nelle Memorie scrive: “Il popolo romano, oppresso, massacrato ne’ suoi tentativi insurrezionali, gridava vendetta, e si preparava con nuovo animo, ... a cooperare co’ suoi liberatori di fuori, a farla finita con preti e mercenari. Tutto prometteva, infine,la caduta del prete, nemico del genere umano”. Questo lo scrive poco dopo averci raccontato quanto i villici romani gli fossero ostili e dopo aver toccato con mano che a Roma non c’era alcuna insurrezione. Il suo delirio è fuori controllo, seguono due pagine d’insulti contro il Papa, Napoleone, la Francia, il governo italiano, l’esercito italiano ma soprattutto contro Mazzini che sarebbe stato responsabile, secondo lui, delle diserzioni dei suoi volontari. Infatti, i suoi volontari si sono resi conto che non ce la possono fare e metà di loro getta le armi e torna a casa. Mazzini non c’entrava nulla, è la sua mente che sta delirando. Secondo lui il regno d’Italia avrebbe dovuto scendere in campo al suo fianco e affrontare una guerra con la Francia per annettersi Roma: un suicidio.
Ora lui si trova schiacciato tra la città di Roma e l’esercito italiano che staziona sulla frontiera e gli impedisce di ricevere rifornimenti. I si sono sbarcati a Civitavecchia, stanno arrivando e lui, come al solito, non si arrende. Decide di continuare la sua campagna e affrontare i si: spera forse che l’Italia si sarebbe destata e sarebbe accorsa in suo aiuto? Raccoglie le forze che gli sono rimaste e si sposta verso Tivoli per avere le montagne alle spalle ove poter fuggire in caso di sconfitta. Lungo la strada, il 3 novembre, viene intercettato dai
papalini vicino a Mentana, i papalini si battono con accanimento e sono appoggiati da alcuni reparti si. La vista dei si e il chiasso dei loro fucili a ripetizione scoraggiano i garibaldini che iniziano a fuggire. Secondo lui questo è dovuto alla propaganda disfattista dei mazziniani e dei preti, è per questo che non riesce a fermare i fuggiaschi e ad attaccare: “Malvagità umana! Io esclamerò. E quanti malvagi non vi sono da purgare in questa società Italiana, tanto corrotta dei preti, e dagli amici dei preti!”. Come sappiamo, lui non si arrende mai, è a cavallo e cerca di raccogliere i suoi: “Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?”. Il suo genero Canzio è vicino a lui, afferra le briglie e lo ferma: “Per chi vuol farsi ammazzare, generale? Per chi?”. I garibaldini hanno lasciato sul campo 150 morti contro 20 dei papalini e due dei si. Così termina questa avventura.
Due giorni dopo è su un treno verso Firenze per tornare a Caprera ma alla stazione di Figline i carabinieri lo arrestano. Lui si rifiuta di seguirli, loro lo sollevano di peso, lo caricano su un treno e lo portano alla fortezza del Varignano. A fine novembre può tornare a Caprera ove lo aspetta la figlia Clelia nata da pochi mesi.
Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.110
⁷ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.111
⁸ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.119
Charles Stuart Forbes, The campaign of Garibaldi in the Two Sicilies, (Blackwood and Sons, London 1862), pag.118
¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.122
¹ ¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.123
¹ ² Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano, Rizzoli Editore, 1962) pag.473
¹ ³ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.130
¹ ⁴ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.137
¹ ⁵ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.138
¹ Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano: Rizzoli Editore, 1962) pag.505
¹ ⁷ Gilberto Oneto, La strana unità (Rimini: Il Cerchio, 2010), pag. 159
¹ ⁸ Carlo Alianello, La conquista del Sud, (Milano: Rusconi Editore, 1972), pag. 204
¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.144
¹¹ Mario Costa Cardol Ingovernabili da Torino (Milano, Mursia editore 1989) pag.319
¹¹¹ Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano, Rizzoli Editore, 1962) pag.515
¹¹² Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.151
¹¹³ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.154
¹¹⁴ Giuseppe Garibaldi, Clelia, (Roma: Bariletti Editori, 1990) pag.175
¹¹⁵ Giuseppe Garibaldi, Clelia, (Roma: Bariletti Editori, 1990) pag.230
¹¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.161
Il Solitario
Mentre era in piena attività per organizzare la spedizione su Roma, all’improvviso, il 9 settembre aveva lasciato al figlio Menotti la direzione di questa “rivolta popolare” con relativa invasione di incoraggiamento, ed era andato a Ginevra al congresso della Lega internazionale per la pace e la libertà ove sarà presente il fior fiore del progressismo europeo. E’ deciso a mantenere su di se i riflettori per presentarsi all’opinione pubblica mondiale come il “Profeta di un mondo migliore”. Vuole superare il personaggio del guerriero leggendario perché sa di avere delle idee e le vuole propagandare per promuovere il miglioramento della umanità. Questo Congresso era un evento eccezionale, cui parteciparono 6.000 persone, che avrebbe dovuto istituire la Lega per la Pace e la Libertà. Gli organizzatori lo avevano chiamato per assumere la presidenza onoraria con la motivazione: “Questo nome è il più chiaro dei programmi. Esso vuol dire eroismo e umanità, patriottismo, fraternità dei popoli, pace e libertà”¹¹⁷. Eppure, era di pubblico dominio che proprio in quei giorni Garibaldi stava organizzando una spedizione militare per conquistare Roma. L’irrazionalità e la malafede dei pacifisti non finisce mai di stupire.
Arriva a Ginevra con un’accoglienza trionfale. Al Congresso è tra i primi a prendere la parola per presentare i suoi 12 articoli che dovrebbero essere inseriti nel programma della Lega: si dichiara che tutte le nazioni sono sorelle, si mette al bando la guerra che dovrebbe essere resa impossibile da istituzioni repubblicane, le contese tra le nazioni saranno giudicate da un organismo eletto con metodo democratico, si condanna il papato e inoltre: “7) La religione di Dio è adottata dal congresso e ciascuno dei sui membri si obbliga a propagarla. 8) Supplire al sacerdozio delle rivelazioni e della ignoranza col sacerdozio della scienza e della intelligenza. 9) Propaganda della religione di Dio, attraverso la istruzione, l’educazione e la virtù” e alla fine c’è l’articolo che giustifica la guerra che lui si appresta a fare: “12) Lo schiavo solo ha il diritto di far la guerra al tiranno”. E così lui sarebbe giustificato perché, nella sua mente malata, è lui che decide chi è schiavo e chi no. Come abbiamo visto, gli abitanti di Monterotondo sono dei “cretini” perché non vogliono essere liberati da lui e quindi in questo caso lui ci ha già fatto sapere che “talvolta la stessa libertà va
forzata sui popoli per il loro bene futuro”. Così con questo psicotico meccanismo mentale lui sarà sempre “il Giusto”.
La platea è divisa: c’è chi lo chiama “uomo di verità”, chi afferma che i suoi tratti “ricordano la figura del Cristo”, Bakunin lo abbraccia mentre la folla applaude. Il giorno dopo lascia il congresso e non partecipa al dibattito sulla sua proposta perché deve correre a Firenze per iniziare la sua guerra al Papa. Il suo carattere dittatoriale gli rende impossibile discutere con altri delle sue idee, lui lancia le sue idee e se ne va. Di fatto si dimostra arrogante e ottuso ma cosa importa, lui è Garibaldi e gli altri non sono nessuno. A molti congressisti la cosa non piacque, pochi giorni dopo Auguste Blanqui scrive: “Quanto al congresso della pace, fiasco completo e fragoroso. Una mortificazione ridicola. Garibaldi ha fatto un errore madornale. E’ un bambinone … Fatto si è che i poveri oratori sono ripartiti più in fretta di quanto non fossero venuti e Garibaldi ha dato il segnale dello sbandamento. Il Congresso della pace era un’idea balzana”¹¹⁸.
Non deve sorprendere se d’ora in poi Garibaldi si sentirà molto solo.
La sua solitudine ideologica è esaltata dalle sue idee sulla religione. I tre articoli riguardanti la religione che aveva presentato a Ginevra sono presi dall’ideologia giacobina quando, durante il Terrore, Robespierre parlava della dea Ragione e della pratica della Virtù. E’ un atteggiamento razionalista che andava molto di moda a quei tempi ma lo avrebbe escluso dal socialismo a cui lui avrebbe voluto appartenere. Dai suoi discorsi e dai suoi scritti emerge una religiosità violentemente anti cattolica e talmente razionalista che il suo misticismo deve alimentarsi esclusivamente al misticismo nazionalista e al culto della sua personalità.
Nasce il “Garibaldinismo” che ha delle manifestazioni grottesche. Le sue camicie rosse usate, i suoi attrezzi, i suoi capelli e le sue unghie tagliate vanno a ruba e vengono acquistate per essere conservate come reliquie. La figlia Clelia ci racconta con quanta religiosità tutte queste reliquie erano raccolte e conservate
da sua madre sca per poi essere vendute.
Chiamava la sua religione, la “religione del Vero”.
Non era ateo, lui avversava il “miserabile materialismo”. Dio esiste perché “una fabbrica mi annunzia un architetto; una macchina in moto mi annunzia un meccanico. Il moto e l’armonia dei mondi mi annunziano un Regolatore”. Secondo lui i “veri ministri di Dio” erano Galilei, Keplero, Newton. La sua la si potrebbe definire una religiosità “naturale”. Così ci descrive lo stile di vita che si teneva a Caprera: “l’assenza dei preti è la maggior benedizione dell’isola. Dio vi si adora come si deve, col culto dell’anima, senza sfarzo, nel grandioso tempio della natura che ha il cielo per volta e gli astri per luminari”. Aveva una grande ammirazione per l’uomo Gesù: “e qui per Cristo m’intendo l’uomo virtuoso e legislatore, non quel Cristo fatto Dio dai preti, che se ne servono per coprire l’oscenità e la fallacia della loro esistenza”.
Nel 1869, in concomitanza con il Concilio Vaticano, gli anticlericali italiani organizzano un Anticoncilio a Napoli. Non potendo recarsi di persona Garibaldi manda una lettera di saluto: “Qui nella contaminata vecchia capitale del mondo, si disputerà sulla verginità di Maria che partorì un bel maschio sono ora 18 secoli, ... sull’eucaristia, cioè, sul modo d’inghiottire il reggitore dei mondi, e depositarlo poi in un Closet qualunque. Sacrilegio, che prova l’imbecillità degli uomini che non regalano di un pugno di fango il nero, che sì sfacciatamente si beffa di loro. Finalmente sull’infallibilità di quel metro cubo di letame che si chiama Pio IX. Là nell’antica Partenope, si riuniranno gli apostoli del vero, gli alunni di Newton, di Keplero, di Voltaire, di Franklin, gli sterminatori delle torture e dei roghi, le superbe colonne della dignità umana! Che contrasto!”.
A mano a mano che aumenta il suo odio per la Chiesa si immedesima sempre più nel ruolo di profeta di questa nuova religione e dedica tempo ed energie a raccogliere proseliti. Da un discorso tenuto a Frascati: “E noi otterremo tale stupendo risultato sostituendo a tutte le religioni rivelate o mentitrici la religione
del vero, religione senza preti basata sulla ragione e la scienza. La religione del vero, mi chiederete, spiegatecela, e lo farò in poche parole. Scendendo nel fondo della vostra coscienza non vi sarà difficile distinguere il vero dal falso. Per esempio, chi può credere vera l’infallibilità del papa? ... Invece vera è la grandezza della vecchia Roma le di cui vestigia si trovano dovunque ... Vi sono poi le tante verità matematiche: due e due fanno quattro, chi lo può negare?”. E’ un’argomentazione non molto esauriente. Si deve notare che nel suo pensiero l’antica Roma assume una statura da contrapporre alla miserabile superstizione del papato, quasi che il culto della romanità potesse fornire un’ispirazione religiosa.
Come Garibaldi prendeva sul serio se stesso, così fecero i suoi ammiratori. Ci fu chi scrisse una specie di preghiera: “Nelle caserme e nei campi di battaglia sia fatta la Tua volontà. Dacci le nostre munizioni quotidiane. Non indurci in tentazione di contare il numero dei nemici. Ma liberaci dagli Austriaci e dai preti”.
Chi scrisse una specie di catechismo:
D. Come compensa Garibaldi coloro che amano l’Italia?
R. Con la vittoria.
D. Cosa si ottiene vincendo?
R. La vista di Garibaldi in persona e ogni genere di piacere senza dolore.
D. Quali sono le tre distinte persone di Garibaldi?
R. Padre della nazione, figlio del popolo e spirito della libertà.
D. Come si fece egli uomo?
R. Prese un corpo e un’anima proprio come noialtri, nel ventre benedetto di una donna del popolo.
D. Perché si fece uomo?
R. Per salvare l’Italia.
C’era anche un decalogo:
“Non uccidere, se non i nemici d’Italia.
Non fornicare , se non a danno dei nemici d’Italia.
Non desiderare il territorio nazionale altrui.
Onora la patria, affinché tu possa viverci per sempre”¹¹ .
Il secondo articolo potrebbe sembrare un’incitazione allo stupro delle donne del nemico.
Garibaldi non smentirà mai queste grottesche manifestazioni di idiozia. Anzi, sembrava assecondarle. Questo problema era aggravato dal fatto che lui era totalmente privo del senso dell’umorismo. Chi lo conosceva diceva che non lo aveva mai visto ridere e che era assolutamente incapace di comprendere le barzellette. Alla fine lui stesso giunse ad accettare la sua propria leggenda perché credeva troppo facilmente in quello che i suoi ammiratori asserivano di credere. Anche se spontaneo e non provocato da un apparato propagandistico, era nato un vero e proprio culto della personalità a cui lui si era adattato perfettamente.
Negli anni successivi all’impresa romana vive relegato a Caprera sempre controllato dalla flotta italiana e riempie le giornate scrivendo perché l’artrite gli impedisce di lavorare la terra. sca Armosino gli ha fatto il vuoto attorno; la casa e le sue dipendenze sono occupate dai suoi familiari che ha fatto venire dal Piemonte. I nuovi arrivati hanno allontanato quel fiume di visitatori che tenevano costantemente compagnia al generale e riempivano di allegria le sue giornate. Questo aumenta ulteriormente la sua solitudine ma gli dà una cosa che non aveva ancora avuto: una famiglia. E’ una cosa di cui lui ha un gran bisogno perché l’artrite avanza e lo sta paralizzando; a le giornate a letto e, anche se con una certa difficoltà, a il tempo a scrivere. Nel ’69 nasce la figlia Rosita che morirà due anni dopo, mentre nel ’73 a 66 anni nasce Manlio, l’ottavo ed ultimo figlio: una prestazione notevole.
Nel luglio del 1870 la Francia subisce una disastrosa sconfitta per mano della Prussia e abbandona il Papa al suo destino. Il Regno d’Italia ne approfitta per occupare Roma senza invitare Garibaldi a partecipare. Forse è per questo che nelle sue Memorie non c’è alcun accenno a questo fatto che comunque era il coronamento del progetto a cui aveva dedicato tutta la sua vita. Anche in questa
occasione non ci fu alcuna rivolta popolare e il suo disprezzo per il popolo italiano, quello reale, aumenta sempre più.
In Francia l’Impero è caduto e si sta cercando di mettere in piedi una repubblica. Lui non resiste al richiamo della guerra e anche se ha 64 anni, corre in aiuto alla repubblica, evade il controllo della flotta italiana e sbarca a Marsiglia il 7 ottobre del ’70. Nessuno lo ha invitato, fa tutto di sua iniziativa. In quei giorni la situazione della Francia era disperata. Quasi tutto l’esercito se che aveva iniziato la guerra è caduto prigioniero dei prussiani, il nord est della Francia è in mano loro, Parigi è assediata e tagliata fuori dal resto del paese. La città si difende con una milizia cittadina, la Guardia Nazionale, che elegge i propri ufficiali molti dei quali sono stati conquistati dalle idee del socialismo e dell’anarchia mentre la repubblica, che ha sede a Tours e poi a Bordeaux, ha raccolto i voti della provincia ed è dominata dai conservatori, in particolar modo cattolici monarchici. La repubblica sta mettendo assieme un altro esercito ma non ha ufficiali ben addestrati e il suo armamento non è all’altezza di quello prussiano. Questi stringono d’assedio Parigi dall’inizio di settembre e sono decisi a prenderla per fame o, se necessario, con i bombardamenti: sanno che la città ha viveri per 2 o 3 mesi. Mentre l’esercito se cerca di sfondare l’accerchiamento da sud, senza riuscirci, i prussiani premono verso sud per allontanare i si da Parigi.
Garibaldi viene accolto molto male dal governo repubblicano e ancora peggio dai militari. All’inizio non lo volevano tra i piedi poi gli affidano un corpo di 4.000 volontari che deve operare nella zona di Digione. Installa il suo comando ad Autun ove organizza il suo “esercito dei Vosgi” con dei volontari che sono bande di delinquenti di tutte le razze e di tutte le nazioni. Così li descrive un magistrato della città: “una masnada di vandali, banditi, malandrini, miserabili, iene in cerca di cadaveri che paralizzano la difesa di Autun, fanno solo la caccia ai galloni, in un mese sono costati 1.250.000 franchi e conducono una dolce vita partecipando a loschi traffici sulle frontiere”¹² . La provincia se, conservatrice, detesta Garibaldi e si sente profondamente offesa a dover accettare l’aiuto di un filibustiere straniero che si era anche dichiarato socialista. Il prefetto del Dipartimento scrive al governo repubblicano:”Gli italiani che girovagano a Lione da sei settimane col pretesto di formare l’armata di Garibaldi
si abbandonano ad a ogni sorta di eccessi. Hanno appena ucciso due uomini nella stessa notte … Bisogna assolutamente che Lione sia purificata di questa gentaglia”. L’esercito se è ancora più ostile e quando Garibaldi condanna a morte un colonnello se per insubordinazione l’esercito regolare interviene e lo libera. Nonostante questi suoi volontari non siano affidabili Garibaldi riesce a tenerli assieme e a impegnare un certo numero di soldati prussiani; a volte vince a volte perde e al momento dell’armistizio le posizioni sono rimaste inalterate.
Il 18 gennaio del’71 i prussiani sono a un o dalla vittoria e proclamano l’impero tedesco nella reggia di Versailles.
Non si può non osservare che non aveva senso che l’unità del popolo tedesco venisse celebrata nella reggia dei re di Francia. Non lo fecero per rendere omaggio alla grandezza della Francia, la cosa fu fatta solamente per umiliare i si. Sempre in questa ottica, le clausole dell’armistizio del mese successivo stabiliscono che l’esercito tedesco non entrerà a Parigi se non per celebrare la sua vittoria con una parata sugli Champs Elyseé: i tedeschi avranno il loro trionfo ma lo faranno su di una strada deserta. Inizia così un’insensata catena di vendette che porterà l’Europa alle due guerre mondiali.
Alla fine di gennaio la città di Parigi è rimasta senza viveri, hanno mangiato gli animali dello zoo, tutti i cani, gatti e topi che sono riusciti a prendere e hanno tagliato tutti gli alberi dei viali per riscaldarsi: si arrendono. Dalle clausole dell’armistizio è stata esclusa la zona di Digione forse per dare ai prussiani il tempo di far fuori Garibaldi ma lui non si dà per vinto e riesce a tenere assieme la sua banda di disgraziati ritirandosi in buon ordine nel territorio se senza farsi agganciare. Ai primi di febbraio lascia al figlio Menotti il comando del suo piccolo esercito, che ora ha più di 10.000 uomini, e va a Bordeaux per presentarsi alla Assemblea Nazionale ove è stato eletto in ben cinque dipartimenti anche se non si era candidato. La sua persona scatena la rivalità tra destra e sinistra; si chiede il conservatore Le Figaro: “per quale stortura mentale gli elettori abbiano potuto prendere sul serio questo fantoccio, per metà soldato
coraggioso, per metà giocoliere da baraccone”.
Garibaldi aveva scritto al presidente che si sarebbe presentato “coll’unico intento di portare il mio voto all’infelice repubblica” e comunque rassegnava le sue dimissioni. La maggioranza dell’Assemblea era conservatrice ma c’era una forte presenza della sinistra ed era già evidente la spaccatura che da lì a pochi giorni porterà la Francia alla guerra civile. Ne farà le spese Garibaldi quando si alza a parlare alla fine della sua prima seduta. I conservatori lo detestano e viene accolto da rabbiose proteste per il suo strano abbigliamento e per il suo rifiuto di togliersi il cappello.
Il presidente gli nega la parola perché, essendo dimissionario, non era membro dell’assemblea. Scoppia un tumulto tra chi vuole che parli e chi è contrario e alla gazzarra partecipa anche il pubblico. Non riesce a parlare, lascia l’Assemblea, lascia la Francia, torna a Caprera.
Il 18 marzo 1871 Parigi insorge contro il governo nazionale quando l’esercito se entra in città per prelevare i cannoni che i parigini erano riusciti a non consegnare ai tedeschi che si sono ritirati da pochi giorni. Sono soldati di un esercito sconfitto, umiliato e ostile ai propri ufficiali e al governo; fraternizzano con la Guardia Nazionale (parigina), si ribellano ai propri ufficiali e fucilano due generali che erano rimasti fedeli al governo nazionale.
I Socialisti
La Prima Internazionale Socialista nasce a Londra nel 1864 a seguito dell’incontro di delegazioni operaie inglesi e si. Inizialmente era partecipata da anarchici, socialisti rivoluzionari e utopistici, repubblicani mazziniani e altre associazioni operaie. I due personaggi di maggior rilievo sono
Karl Marx e Bakunin. I mazziniani escono poco dopo e diventano forti oppositori della Internazionale perché contrari alla lotta di classe: i problemi sociali li si doveva risolvere con la solidarietà nazionale. All’interno dell’organizzazione prosegue il confronto tra i socialisti rivoluzionari, utopisti, marxisti e anarchici.
Allo scoppio della guerra il socialismo era diviso (principalmente) tra anarchici e marxisti e a Parigi entrambe queste correnti parteciparono al governo della città: fu proprio a seguito della sconfitta della Comune che il socialismo ebbe la sua prima seria scissione e gli anarchici furono espulsi dall’Internazionale. In particolare, in Francia la corrente del socialismo rivoluzionario non era capeggiata da Marx, che era un ebreo tedesco trapiantato nel mondo anglosassone, ma dal se Auguste Blanqui. Auguste Blanqui era nato da una famiglia benestante della provincia se e sin da giovane aveva aderito al socialismo. Era considerato uno degli esponenti di spicco del socialismo utopistico, orientato verso tendenze comuniste e libertarie. Era un uomo d'azione più che un elaboratore di teorie, egli era convinto che il proletariato potesse creare una società di liberi e di uguali solo mediante un'insurrezione armata guidata da una piccola minoranza ben organizzata e decisa ad imporre la propria dittatura. Blanqui dedicò la sua intera esistenza a questa causa senza lasciarsi scoraggiare né dall'esilio né dal carcere cui fu ripetutamente condannato. Blanqui fu sempre stimato e ripreso anche da ambienti del Fascismo rivoluzionario e dallo stesso Mussolini. Sulla testata de Il Popolo d'Italia, giornale fondato da Mussolini, veniva riportata la massima "Chi ha del ferro ha del pane" propria di Blanqui.
Inizia così una piccola guerra civile che durerà solo due mesi ma erà alla storia per essere stata la prima rivolta ispirata dall’ideologia socialista: la Comune di Parigi.
Il governo nazionale ordina immediatamente a tutte le truppe ancora fedeli di abbandonare Parigi temendo che anche loro ino dalla parte dei rivoltosi e si
ritira a Versailles. Il Comitato Centrale della Guardia Nazionale (parigina) dichiara: “I proletari di Parigi in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi devono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari”¹²¹. Ora il governo della città di Parigi è in mano al Comitato Centrale.
Non deve sorprendere se per prima cosa, il 24 marzo, Garibaldi viene acclamato come generale in capo dell’esercito rivoluzionario e viene chiamato a Parigi; sono molte le cose che hanno in comune oltre al colore rosso.
Non è possibile esporre in breve le idee che hanno scatenato questa rivoluzione perché la galassia del Socialismo era talmente eterogenea e confusa che è difficile dare una precisa connotazione ai suoi attori. Il punto di partenza è il nazionalismo se umiliato e frustrato da un regime imperiale che ha portato la Patria al disastro e da una repubblica borghese che ha accettato una resa vergognosa: da qui la necessità di disfarsi delle classi dominanti. Questo disastro aveva distrutto l’ordine costituito e quindi aveva reso possibile alle idee socialiste, che erano coltivate da una banda di “svitati” tenuti in galera o al margine della società, di emergere e impadronirsi del governo. Nei suoi due mesi di vita la Comune non ebbe tempo di produrre un programma sociale ben definito, tutte le sue forze erano assorbite dalla difesa. Si può solo affermare che un’enfasi particolare era data a una “repubblica sociale” che sarebbe stata diversa da quella borghese perché sarebbe stata più “giusta”. Nessun comunardo aveva teorizzato questa nuova società, quindi non esisteva alcun elemento per giudicare se sarebbe stata più o meno giusta: era dato per scontato che una società che scaturisce da una rivoluzione socialista era di per se più giusta, ovviamente!
Questo era un principio, la giustizia, a cui Garibaldi era particolarmente dedicato e all’inizio accetta il comando ma dopo pochi giorni ci ripensa e manda una lettera ove declina l’incarico per motivi di salute ma comunque li mette in guardia dalle divisioni interne consigliandoli di dare tutto il potere a un solo uomo e affidarsi a lui. Era la sua solita ricetta: il dittatore. Il motivo del suo
rifiuto lo si può capire dalla lettera che invia al figlio Ricciotti che era rimasto in Francia per liquidare l’armata dei Vosgi. In questa lettera gli fa sapere di essere pronto a intervenire solo se fosse ripresa la guerra contro i tedeschi “ma se rimane una questione tra si e si non te ne immischiare”. Lui era contrarissimo alla guerra civile perché nulla deve incrinare l’unità della Patria. Era questo un principio fondamentale che lo renderà irremovibile nella sua opposizione al socialismo rivoluzionario. La Patria innanzi a tutto.
La rivoluzione procede senza di lui e senza un leader. Il leader socialista riconosciuto dai Comunardi era Auguste Blanqui ma era stato arrestato pochi giorni prima dal governo se e messo al sicuro. Inutilmente la Comune cercò di scambiare Blanqui con l’arcivescovo di Parigi, che aveva preso in ostaggio assieme ad altri, perché il governo si rifiuta categoricamente di consegnarlo. Quando le truppe governative riescono a entrare in città inizia una lotta casa per casa e i governativi ano per le armi tutti i ribelli che oppongono resistenza. I comunardi rispondono fucilando il vescovo con alcuni ostaggi. Alla fine di maggio la città è tutta sotto il controllo del governo e iniziano le fucilazioni e le deportazioni dei ribelli. Le stime parlano di qualche decina di migliaia di morti e 7000 deportati in Nuova Caledonia. Fu una piccola rivoluzione ma era l’anticipo di quello che arriverà in Europa mezzo secolo dopo su di una scala enormemente più grande.
Questo è l’ultimo episodio bellico a cui partecipa Garibaldi e qui si chiudono le sue Memorie: gli eventi sociali o politici o personali non meritano di essere registrati, solo la guerra. Per questi ultimi anni della sua vita le citazioni sono prese dalle sue lettere e dai suoi romanzi.
Nel 1868 aveva iniziato a scrivere il suo primo romanzo, Clelia,ovvero il governo dei preti, e nella prefazione ci dice che lo fa per ricordare all’Italia quei valorosi che lasciarono la vita nei campi di battaglia, per mostrare alla gioventù italiana “le turpitudini ed i tradimenti dei governi e dei preti” e infine per “campare un po’ anche col mio guadagno”.¹²² Era un pessimo romanzo, fece fatica a trovare un editore, non ne ricavò un gran che e il libro fu poi usato
principalmente dai suoi avversari per criticarlo. E’ ambientato nella Roma di quegli anni, ancora sotto il governo della Chiesa, ed è uno dei più chiari esempi di quanto il nazionalismo possa rendersi ridicolo.
Clelia, l’eroina, è una bellissima ragazza di 16 anni figlia di uno scultore di Trastevere “che discendeva dai vecchi Quiriti”. Il malvagio è “il Cardinale Procopio, factotum e favorito di Sua Santità” che ordisce un complotto per rapire la ragazza perché “essa sola può alleviare le mie noie e bearmi la stupida esistenza che trascino al fianco di quel vecchio imbecille (il Papa)”. Clelia ha un fidanzato, il ventenne Attilio, “il coraggioso rappresentante della gioventù romana, non della gioventù effeminata, data alle dissipazioni, piegata al servaggio, ma di quella onde usciva un giorno il nerbo di quelle legioni davanti alle quali la falange macedone indietreggiava”. Attilio è un cospiratore “poiché il dispotismo dei preti è il più esoso di tutti, il più degradante ed infame”. Assieme ai suoi compagni cospiratori Attilio riuscirà a strappare Clelia dalle grinfie di Procopio. Questi si avvale dei servizi di personaggi abbietti: “il miserabile eunuco, tale egli era, giacché simili ai Turchi quei perversi (i cardinali) non confidano le loro donne che a castrati, mutilati dall’infanzia, col pretesto di farne dei cantanti”.
La descrizione della Roma dei Papi è ancor più colorita. Infatti ci fa sapere che quando lui era a Roma a difendere la repubblica, “Nel 1849 … io ho assistito a delle ricerche nei penetrali di quelle bolgie che si chiamano conventi, e in ogni convento non mancavano mai gl’istromenti di tortura e l’ossario dei bambini. Cosa era quel nascosto cimitero di creature appena nate o non nate ancora? Un senso d’orrore rivolta ogni anima che non sia di prete dinanzi a tale spettacolo”. Erano i cimiteri dei bambini nati da rapporti illeciti di preti e monache. “E così, nata, strangolata o macellata e sepolta era una creatura umana per nascondere la libidine di chi si era consacrato alla castità. La terra, i fiumi, il mare certo nascondono a milioni le vittime della scelleraggine e dell’impostura”. Non solo i conventi romani avevano i loro cimiteri per neonati, avevano anche sotterranei, sconosciuti alla popolazione, ove venivano relegate le persone indesiderate per farle sparire con una morte atroce. Questo è il racconto di un personaggio perseguitato dai preti: “Sollecitai il o, ma a poca distanza, Dio mi perdoni! Che orrore! Alle pareti del carname chi io percorreva, una massa di creature
umane, incatenate per il collo, alla cintola e per ambe le braccia, penzolavano la maggior parte cadaveri più o meno imputriditi.”. Secondo lui la tortura era una pratica comune nello Stato della Chiesa nel 1860: “Sì! La tortura! Dacché nella famiglia umana vi furono uomini che svestirono le forme umane per farsi impostori, cioè preti, dacché vi furono preti nel mondo, vi furono torture. … Sì! In Roma, ove siede il vicario del Dio di pace, del redentore degli uomini, v’è la tortura come ai tempi di San Domenico e di Torquemada! Ed in questi giorni di convulsioni politiche e di paure pretine, la corda e la tenaglia erano all’ordine del giorno negli orridi sotterranei di Roma”.
Il romanzo è stracolmo di personaggi vittime innocenti di preti dominati dalla lussuria e dall’avidità di danaro. Gli insulti nei riguardi dei preti si ripetono con una monotonia maniacale; si fa fatica a seguire la trama degli avvenimenti perché il racconto non ha una trama: è tutto sconclusionato e incredibile.¹²³
L’unica parte interessante è quando lui stesso entra in scena, in terza persona, con il nome de “il Solitario”. Il Solitario abita nell’isola Solitaria (Caprera) e si unisce ai nostri eroi per aiutarli nelle loro peripezie. Questo testo è interessante perché qui lui descrive se stesso e la vita che fa nella realtà. Così descrive la vita che il Solitario fa a Caprera: “Così i pochi suoi abitatori, i quali vivono non splendidamente, ma in una abbondante agiatezza, coi prodotti della pesca e della caccia, un po’ coll’agricoltura e molto mercé la generosa provvidenza d’amici che dal continente inviano il necessario”. Il Solitario così descrive se stesso: “Cosmopolita, egli ama però svisceratamente il suo paese, l’Italia, e Roma con idolatria. Odia i preti, come istituzione menzognera e nociva”. Scarica la sua rabbia su tutto e tutti, anche sul popolo italiano. Quando il Solitario viene a sapere che Roma è ancora in mano al Papa: “Oh! Vituperio dell’era moderna; esclamò il Solitario. Italia! Un dì emporio di tutte le glorie! Oggi di tutte le vergogne! Giardino del mondo un giorno, oggi cloaca! Oh! Giulia! Un popolo disonorato è un popolo morto!” Nonostante la pessima accoglienza che il pubblico fece a Clelia, scrisse altri due romanzi che erano ancora peggiori ed ebbero un’accoglienza ancora peggiore.
Ora ci dobbiamo chiedere perché Garibaldi vedeva se stesso come un solitario pur essendo uno dei personaggi più famosi e ammirati al mondo. La sua solitudine era ideologica e politica perché nessuno condivideva appieno le sue idee.
Abbiamo già visto che nelle elezioni del ’67 i suoi sforzi non ebbero alcun successo eppure lui continuò a impegnarsi a divulgare queste sue teorie sociali, religiose e politiche senza però essere capace di un dialogo con i suoi interlocutori, lui non ascoltava mai nessuno. La sua incapacità di confrontarsi con gli altri e la sua scollatura dalla realtà lo avevano isolato anche se era sempre osannato come il maggior eroe del Risorgimento, sia in patria che all’estero: era il suo mito che la gente osannava, lui era sempre più ignorato.
La sua solitudine spirituale è esasperata dai problemi economici. Vende lo yatch che gli inglesi gli avevano regalato ma affida il ricavato, una somma notevole, a un suo fedele garibaldino che fugge in America con i soldi. Inoltre i figli Menotti e Ricciotti sperperavano capitali in imprese avventate e si trovò costretto a contrarre un prestito dal Banco di Napoli con un’ipoteca su Caprera. Garibaldi non rimborsò mai questa somma e il Banco non ebbe il coraggio di pignorare l’isola. In quegli anni anche il genero Canzio va fallito. In compenso la sua compagna sca, a sua insaputa, accantonava regolarmente somme importanti con alcuni suoi commerci che faceva per conto proprio investendo il ricavato in immobili nell’Astigiano. Nel ’74 il governo gli assegnò un vitalizio e altri benefit che lui rifiutò trattandosi di un governo di destra ma accettò il tutto nel ’76 dal nuovo governo di sinistra. Inutile dire che amici e ammiratori non gli facevano mancare nulla.
In questi ultimi anni della sua vita si dedica anima e corpo alla divulgazione delle sue idee scrivendo un’infinità di lettere. Oramai non può più fare guerre e quindi scrive e viaggia molto più di quanto il suo medico gli consigliava: anche ad un’età così avanzata e semiparalizzato dall’artrite lui non si ferma mai.
Non trascura i suoi fratelli massoni e accumula una quantità di titoli da tutte le logge che glieli vogliono dare. Persino il titolo di Grande Hierofante del Rito Egiziano del Memphis-Misraim dalla loggia del Grande Oriente Nazionale d’Egitto. Non contento della sua situazione non florida si imbarca in avventure imprenditoriali assurde come la deviazione del corso del Tevere o una bonifica del delta del Po che non furono mai approvate. Per questi progetti e per farsi annullare il suo matrimonio con la Raimondi andò tre volte a Roma ma tutto gli andava storto: i suoi progetti furono respinti e l’annullamento non glielo diedero. A questo punto minacciò di abbandonare l’Italia e andare in Francia ove avrebbe ripreso la cittadinanza se con cui era nato e lì avrebbe ottenuto il divorzio. Con questa minaccia riuscì finalmente ad ottenere l’annullamento nel 1880 e a sposare la sua sca; poteva così dare il suo nome ai due figli avuti da lei e lasciare loro i suoi averi che erano l’isola di Caprera.
Nel ’74 viene eletto deputato e nel ’75 va a Roma. A Civitavecchia lo devono caricare di peso sul vagone e a Roma devono lavorare sodo per caricarlo sulla carrozza che lo porta all’albergo. Anche a Roma la folla è in delirio e la sua carrozza è trasportata a braccia fino all’albergo. Come al solito, in queste occasioni lui pronunciava un discorso alla folla da una finestra o da un balcone. Questa volta pronuncerà il discorso più breve della sua carriera di oratore: “Romani, siate seri!”. Non aveva perdonato al popolo romano la sua ostilità quando sette anni prima gli avevano chiuso in faccia la porte della città e lo avevano lasciato solo contro i si.
Partecipa a diverse sedute della Camera per promuovere i suoi progetti e per darci ancora un esempio della sua scollatura quando chiede al governo italiano di farsi promotore della “assoluta abolizione delle guerre tra nazione e nazione” e poi promuove forti stanziamenti per la costruzione di grandi corazzate che raccomanda di fare più potenti e più veloci. Così ci spiega come si doveva organizzare l’Europa: “Date un’Unione europea delle nazioni, con un rappresentante per ciascuna e uno statuto fondamentale il cui primo articolo suoni:”La guerra è impossibile” ed il secondo: “Ogni lite fra le Nazioni sarà liquidata dal Congresso”. Ecco veramente la guerra, flagello e vergogna umana, divenuta impossibile. Allora non più eserciti permanenti ed i figli del popolo che si guidano al macello, coi boriosi nomi di patriottismo e di gloria, resi alle loro
famiglie ed ai campi … Ecco quali sono le credenze del Solitario, e confesso anche la mia”¹²⁴. Queste idee si scontravano con il nazionalismo che in quegli anni si stava impossessando dei cuori e delle menti degli europei e quindi lo isolavano da gran parte della opinione pubblica ma, quel che è peggio, queste idee suonavano incredibili sulle labbra di un uomo che aveva dedicato la sua vita alla guerra e al trionfo del nazionalismo italiano. Quando denuncia i “boriosi nomi di patriottismo e di gloria” non si rende conto che i suoi seguaci si sono lanciati all’attacco e hanno dato la loro vita proprio per questi “boriosi nomi”. Così si aliena le simpatie della destra senza ottenere consensi a sinistra.
Nell’aprile del ’79 accetta la presidenza della Lega della democrazia anche se la sua forma di governo ideale dovrebbe essere accolta con ostilità dai democratici: “Per lui (il Solitario), i peggior nemici della libertà dei popoli, sono i dottrinari democratici o repubblicani, che hanno predicato e predicano le rivoluzioni per mestiere e per avanzamento proprio, e ritiene sien stati loro che hanno rovinato tutte le Repubbliche, non solo, ma screditato il sistema e il nome repubblicano. … Quanto a lui, crede che Repubblica sia: il Governo della gente onesta … Non crede però alla durata del Governo Repubblicano composto da cinquecento individui (i parlamentari). Egli è d’avviso che la libertà d’un popolo consista nella facoltà di eleggersi il proprio Governo, e questo Governo, secondo lui, dev’essere dittatoriale, cioè d’un uomo solo. … Vuole poi limitata a tempo determinato la Dittatura … In nessun caso accorderebbe ereditario il potere”¹²⁵.
Garibaldi ci propone una democrazia esercitata per mezzo di un dittatore a tempo che dovrebbe cedere il potere al termine del mandato. E’ una proposta assurda: i dittatori non cedono facilmente il potere. Come pensava di regolarsi se il dittatore non avesse ceduto il potere? Chi sarebbe intervenuto? Affermava che si sarebbe dovuto scegliere un uomo onesto. E se non lo era? E se alla prova dei fatti si fosse dimostrato un incapace? Non sorprende che i “dottrinari” gli fossero ostili.
Tramite questa Lega della democrazia si impegna per il suffragio universale: “Noi dobbiamo pur dare calorosa adesione al suffragio universale. Esso innalza a
dignità di cittadini i diseredati, restituisce loro il diritto fondamentale, … per esso il proletariato sinora escluso dalla rappresentanza legislativa, potrà reclamare giustizia”. Parole ispirate e molto giuste che purtroppo restarono inascoltate a causa della situazione di isolamento che lui si era creata. Considerando la stravaganza delle sue teorie nessun parlamentare era disposto a dargli retta.
L’esempio più eclatante della sua scollatura dalla realtà e della sua incapacità al dialogo, cioè ad ascoltare l’interlocutore prima di rispondere, ce lo dà a proposito del socialismo. Quando il termine “socialismo” entra nell’uso corrente lui si dichiara socialista senza avere la più pallida idea di cosa significasse. Scrive ad un giornale: “il mio repubblicanesimo differisce da quello di Mazzini, essendo io socialista”. Dichiarò di aderire all’Internazionale Socialista anche se non ne condivideva le idee e i programmi.
Il marchese Pallavicino gli aveva scritto criticando i suoi giudizi sull’Internazionale e mettendo in evidenza il fatto che non sapeva di cosa stesse parlando. Così gli risponde Garibaldi: “’Ma la conosci tu l’Internazionale?’ questa è la prima questione da te fattami. Io appartengo all’Internazionale da quando servivo la repubblica del Rio Grande e di Montevideo, cioè molto prima di essersi costituita in Europa tale società”. Cioè la conosceva prima ancora dei socialisti stessi! La prima Internazionale Socialista è del 1864. Prosegue elencando le idee dell’Internazionale a cui lui è contrario: “Io non tollero alla Internazionale, come non tollero alla monarchia, le loro velleità antropofaghe. E nello stesso modo che manderei in galera, chi studia tutta la vita il modo di estorquere la sussistenza agli affamati per pascere grassamente i vescovi, io vi manderei pure gli archimandriti della società in questione, quando questi si ostinassero nei precetti: Guerra al capitale, la proprietà è un furto, l’eredità un altro furto e via dicendo”. Questi infatti erano i principi fondamentali sanciti dall’Internazionale Socialista in quegli anni.
E’ molto efficace l’appellativo di “antropofago”, mangiatore di uomini, con cui chiama le monarchie e i dirigenti dell’Internazionale. Quando lui scriveva queste
parole nessuno poteva neanche immaginare quanti uomini sarebbero stati divorati sia dai nazionalismi che dalle rivoluzioni più o meno socialiste nel secolo successivo. Quindi prosegue con un candore sbalorditivo: “Nessuna ingerenza ho io nell’Internazionale, e certo perché sanno non approvar io tutto il loro programma, sarà motivo, per i capi, a tenermi escluso”. Ma pensa! Poi spiega al marchese che se l’Internazionale fosse stata come la voleva lui allora “io sarò con l’Internazionale”.
Inutilmente i suoi amici protestavano che l’Internazionale non era come la voleva lui. Inutilmente gli ribattevano che si era costruito un’immagine del socialismo che esisteva solo nella sua mente. Il direttore del La Roma del Popolo gli osserva: “Se togliete all’Internazionale la negazione della nazionalità, della proprietà, della famiglia, che cosa gli rimane di proprio?”. Infatti i principi fondanti del socialismo erano la lotta di classe che doveva oltreare i confini delle nazioni includendo tutti i proletari del mondo, l’abolizione della proprietà privata e della famiglia.
In una lettera all’amico Arthur Arnold ci spiega cosa lui voleva che fosse l’Internazionale: “Ma consideriamo questa associazione con pacatezza; lasciamo da banda certe massime inaccettabili, ad esempio queste: la proprietà è un furto, l’eredità è un altro furto, massime le quali, a parer mio, non meritano neppure d’esser discusse, e di cui certo le generazioni odierne non vedranno l’adempimento nei fatti. La Internazionale avrà tuttavia a fondamento del suo programma: …” ed elenca cosa vorrebbe lui dall’Internazionale, cioè: la fratellanza universale tra le razze e le nazioni, niente preti, niente eserciti permanenti, solo milizie popolari e governi sul tipo della Comune di Parigi.
“Ciò che vorrei e che vorranno al certo gli uomini onesti, si è che tutti i governi senza distinzione, prendessero l’iniziativa eglino stessi, di ciò che v’è di buono in quella società, e che abbiamo accennato più su, per esempio: l’abolizione della guerra, degli eserciti permanenti, dei preti, dei privilegi. Che i cannoni , le bombe, le corazze siano fusi per farne aratri, picconi, macchine utili d’ogni maniera. E i milioni di soldati, che si mantengono per la rovina degli stati, e per
distruggersi a vicenda, sian resi all’industria e all’agricoltura”.
Anziché ostinarsi nel voler realizzare un’ideologia inumana, l’Internazionale avrebbe dovuto “migliorare la società umana con progressi graduali ed attuabili ... Invece di cullare le masse con codeste massime, irrealizzabili, guidarle sul sentiero pratico, senza far loro perdere molto tempo per trascinarle a un cataclisma sociale che nessuno di noi vorrebbe testimoniare”¹² . Parole profetiche le sue, ma il “cataclisma sociale” arriverà puntualmente il secolo successivo e oggi milioni di persone potrebbero testimoniarlo. Garibaldi aveva abbastanza intelligenza e buon senso per percepire quell’elemento di follia criminale insito nell’ideologia socialista; prevedeva chiaramente il disastro a cui il “socialismo reale” condurrà diversi paesi europei nel secolo successivo.
Purtroppo, allora nessuno lo ascoltava perché il socialismo è una dottrina e un socialismo non dottrinario arriverà qualche tempo dopo col nome di Socialdemocrazia: ai tempi di Garibaldi non esisteva.
Il suo era il socialismo del buon senso, pieno di umanità e sinceramente interessato a un realistico miglioramento della vita delle classi meno abbienti, ma assolutamente ostile ai principi della dottrina socialista. Dobbiamo notare che il suo atteggiamento mentale nei confronti del popolo non aveva nulla di socialista; piuttosto era molto simile a quello dell’aristocrazia illuminata e paternalista degli stati italiani pre-unitari, primi tra tutti i Borbone. Che ironia!
“Si contenti l’Internazionale di ciò che è diritto per lei, senza toccare alla proprietà o eredità degli altri. Ed allora dica essa altamente ai prepotenti della terra: Io vengo ad assidermi ad un banchetto ove ho diritto come voi. Non tocco il patrimonio vostro, benché più pingue del mio; ma non toccate questo poco, che stillo dalla mia fronte cogli odiosi mezzi che avete impiegato finora, di tasse sul macinato, sul sale e tante altre ingiustizie che gravitano sulla mia miseria”¹²⁷. Belle parole e dette in modo stupendo ma possibile che non si rendesse conto che questa era la posizione della Chiesa che lui tanto odiava?
Avrebbe potuto essere lui l’iniziatore di un movimento socialdemocratico?
No, l’amore per la guerra e per le armi lo mettevano su di una posizione che sarebbe stata inaccettabile per i socialdemocratici.
Scrive al Direttore della Gazzetta della Capitale: “Quando io accenno alla trasformazione dell’esercito permanente in Esercito-Nazione, non si creda che io consigli il disarmo. Tutt’altro: mentre una dozzina di maestose famiglie mantengono il mondo nello stato d’anarchia in cui lo vediamo oggi, i deboli massime non possono parlare di disarmo. … Tutt’altro, ripeto, che disarmare, mentre vi sono a capo dei popoli certi caporali che vorrebbero cinger l’universo di corazze e di cannoni … Ma militarizzarla la nazione, e fare d’ogni cittadino capace di portare le armi un milite. E chi diavolo sognerà d’invadere l’Italia coi suoi due milioni di militi … Ogni comune abbia le sue compagnie di militi ed invece di mandarli la domenica nella bottega del prete, li mandi al campo di Marte, per istruirsi nelle manovre, maneggi d’armi, ginnastica ed istruzione letteraria”. L’istruzione scolastica avrebbe dovuto accompagnarsi all’addestramento militare in modo che i giovani “giunti all’età del milite, si presenteranno nei ranghi già istruiti … Il giorno in cui gli eserciti permanenti saranno trasformati in esercito nazionale, le invasioni diventeranno impossibili”.
E’ un piccolo ma autorevole anticipo del “libro e moschetto”.
E’ escluso che i socialdemocratici avrebbero potuto prenderlo come loro leader.
Secondo lui l’Esercito-Nazione avrebbe ridotto le spese militari ma chi avrebbe pagato per due milioni di militi? O pensava davvero che questi militi li si potesse utilizzare solo la domenica? Era un’idea assurda che richiama alla mente i balilla
di Mussolini con i suoi otto milioni di baionette.
Nei suoi scritti si parla di diventare leoni, far paura ai vicini, potenza di prim’ordine, timore di aggressioni. Nessuno, in quel momento, stava minacciando l’Italia; era piuttosto l’Italia che minacciava gli altri. Il suo patriottismo si era trasformato in un nazionalismo ove era sempre più evidente una componente paranoica. Lui parla sempre più frequentemente di un’Italia umiliata dagli stranieri, indebolita dalla sua stessa diplomazia, minacciata da potenze straniere, paralizzata da una classe politica vigliacca e bizantina, impotente a causa di un popolo imbelle. Insomma, tutto l’universo tramava contro questa sua Italia per impedirgli di riconquistare “il trono da cui i nostri padri dominavano il mondo”.
Era inevitabile che lentamente si fe strada l’idea che solo l’Uomo del Destino avrebbe potuto spezzare queste catene. Questo elemento di paranoia non era presente solamente nel suo pensiero. Tutti i nazionalismi europei si stavano avviando su questa strada. La paranoia nazionalista stava penetrando in tutti gli strati sociali di tutti i paesi europei. Nel secolo successivo esploderà in due guerre mondiali sconvolgendo l’Europa e tutto il resto del mondo. Considerando tutte queste sue teorie è naturale che i dirigenti dell’Internazionale non volessero averlo tra i piedi e che lui si sentisse isolato. Fu un peccato perché Garibaldi denunciava, insistentemente e con piena ragione, il malgoverno del Regno d’Italia. Infatti, se si dovesse dare un giudizio sugli stati italiani pre-unitari e il nuovo regno, è impossibile non affermare che questo nuovo regno era il peggiore di tutti.
Avrebbe voluto una estensione del suffragio, tasse più giuste, spese pubbliche dedicate alla bonifica delle paludi piuttosto che ad avventure imperialiste, e tanti altri provvedimenti che avrebbero portato questa nuova Italia sulla via del progresso. Parole sprecate!
Nel tentativo di portare avanti queste sue idee diventa uno dei fondatori del
Fascio dei lavoratori che avrebbe dovuto raccogliere varie associazioni operaie, libere dalle follie dei dottrinari, ed organizzarle per promuovere una politica sociale orientata al miglioramento delle condizioni di vita del nuovo proletariato industriale che stava affollando le città italiane. Con questo “robuste et redoutable faisceau” tenterà di organizzare in un unico corpo tutte le associazioni, più o meno di sinistra, che avevano per scopo il “miglioramento dell’umanità” ma la sinistra era troppo anarcoide per lasciarsi organizzare e le idee di Garibaldi erano troppo confuse, contraddittorie e impraticabili per costituire un punto di aggregazione per le forze di sinistra al di fuori del socialismo.
Da parte sua l’Internazionale non resterà in silenzio; nel 1874 lancia il seguente proclama: “Non ascoltate Garibaldi. Il socialismo come lui lo intende è un equivoco. Ciò che egli chiama esagerazioni dei socialisti non sono altro che i nostri principi fondamentali … Egli vorrebbe che le associazioni operaie non fossero altro che società di mutuo soccorso. Esse non sarebbero allora che raggruppamenti meschini e ristretti di cui riderebbero i borghesi … Proletari d’Italia , avanti!”¹²⁸.
Garibaldi continuerà a dichiararsi socialista per tutta la vita.
Un altro elemento che consolida la sua solitudine è il culto della romanità.
“Oh! Roma! Patria dell’anima! Tu, sei veramente la sola! L’eterna! Al di sopra d’ogni grandezza umana, anche oggi, sotto qualunque degradazione! Il tuo risorgimento non può esser che una catastrofe da mettere a soqquadro il mondo!”¹² . Il culto della romanità iniziò che era giovanissimo. Nel 1825, in occasione dell’anno santo, accompagna il padre per un trasporto di vino a Roma. Mentre il pio genitore gira per le chiese ad accumulare indulgenze, lui gira per le rovine dell’antica Roma. Ne rimane soggiogato.
“Roma! E Roma non dovea sembrarmi se non la capitale d’un mondo! ... La capitale d’un mondo, dalle sue ruine, sublimi, immense, ove si ritrovano affastellate le reliquie di ciò ch’ebbe di più grande il ato! … La Roma ch’io scorgevo nel mio giovanile intendimento, era la Roma dell’avvenire; Roma! di cui giammai ho disperato: naufrago, moribondo, relegato nel fondo delle foreste americane! La Roma dell’idea rigeneratrice d’un gran popolo! Idea dominatrice, di quanto potevano ispirarmi il presente ed il ato, siccome dell’intiera mia vita! Roma è il simbolo dell’Italia una, sotto qualunque forma voi la vogliate”.
E ancora: “Com’ero fiero d’esser nato in Italia! ... ove da molti secoli, perché caduti dal trono da cui i nostri padri dominavano il mondo, ... c’imponevano il rettile nero della teocrazia, per umiliarci, depravarci, corromperci ... come se il loro regno di pigmei fosse per durar per sempre, mentre il tempo, con sue fredd’ali, spazzava anche il gigante di tutte le grandezze umane, ate, presenti e future, le cui macerie risorgono oggi sui sette colli”.
Questo riferimento ai colli fatali di Roma non è casuale. Garibaldi amava associare gli italiani del suo tempo agli antichi romani. Secondo lui il popolo italiano avrebbe dovuto rigenerarsi modellandosi sulle glorie dell’antica Roma. I suoi italiani erano “caduti dal trono da cui i nostri padri dominavano il mondo” ma “risorgono oggi sui sette colli”. Si parla di dominare il mondo: velleitario, patetico e criminale! Cosa è che oggi risorge sui sette colli? Ma è la gloria dell’Italia!
Questo culto della romanità avrebbe potuto esser accettato dalla destra imperialista, ma lui la detestava. Per la sinistra invece, alla quale lui avrebbe voluto appartenere, era una bestemmia.
Lui era un solitario perché il movimento politico che sintetizzasse queste sue idee doveva ancora nascere.
¹¹⁷ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.359.
¹¹⁸ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.216
¹¹ Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.169
¹² Montanelli-Nozza, Garibaldi (Milano, Rizzoli Editore, 1962) pag.558
¹²¹ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.363.
¹²² Giuseppe Garibaldi, Clelia ovvero il governo dei preti, Bariletti Editori, Roma 1990
¹²³ Noi questo romanzo lo abbiamo dovuto leggere due volte
¹²⁴ Giuseppe Garibaldi, Clelia ovvero il governo dei preti, (Bariletti Editori, Roma 1990) pag. 139
¹²⁵ Giuseppe Garibaldi, Clelia ovvero il governo dei preti, (Bariletti Editori, Roma 1990) pag. 138
¹² Denis Mack Smith, Garibaldi, (Milano: Laterza, 1956) pag.178
¹²⁷ Alfonso Scirocco, Garibaldi, (Bari: Laterza, 2001), pag.369.
¹²⁸ Max Gallo, Garibaldi, (Milano, Rusconi Libri, 1982) pag.446
¹² Giuseppe Garibaldi, Clelia ovvero il governo dei preti, (Bariletti Editori, Roma 1990) pag. 202
Il Nazionalsocialismo
Garibaldi muore a Caprera il 2 giugno del 1882.
Gli ultimi anni della sua vita sono stati alquanto tristi e pieni di rancore perché l’Italia che stava prendendo forma non era quella che lui voleva. Come succede ai rivoluzionari la realtà non voleva adeguarsi al suo sogno e aveva finito per disprezzare la creatura che lui stesso aveva contribuito a generare. Scrive nel 1880: “Tutt’altra Italia io sognavo nella mia vita, non questa miserabile all’interno ed umiliata all’estero ed in preda alla parte peggiore della nazione”.
Il suo Testamento Politico agli italiani è il riflesso di questa delusione. All’ultimo punto scrive: “l’Italia deve proclamarsi Repubblica, ma non affidare la sua sorte a cinquecento dottori (i parlamentari), che dopo d’averla assordata con ciarle, la condurranno a rovina. Invece, scegliere il più onesto degli italiani e nominarlo dittatore temporaneo, con lo stesso potere che avevano i Fabi ed i Cincinnati. Il sistema dittatoriale durerà sinché la Nazione italiana sia più educata a libertà, e che la sua esistenza non si trovi più minacciata da potenti vicini. Allora la dittatura cederà il posto a regolare governo repubblicano”. Con questa triste raccomandazione si congeda dagli italiani. Del resto la dittatura è stata sempre la sua ricetta preferita, anzi, la sua sola ricetta.
Queste frasi contengono solo il punto di arrivo della sua attività politica e da sole non basterebbero a definire la posizione di Garibaldi nello schieramento politico italiano. Quello che si deve invece notare è che c’è un elemento ideologico che collega tutte le fasi della sua vita. Per quanto si possa ammirare l’uomo, per quanto si possa esserne affascinati, è impossibile non rilevare che nel suo pensiero, nella sua vita, nel suo modo di fare politica, vi sono tutti gli elementi di quell’ideologia che anni più tardi il mondo conoscerà con il nome di Fascismo.
L’amore per l’avventura, senza curarsi dell’impatto che questa avventura avrà sulla vita della gente comune, senza nessuna considerazione per la striscia di sangue, lacrime e distruzione che si lasciava dietro. E questa avventura sarà sempre intrapresa con una totale improvvisazione contando sulla fortuna ma, soprattutto, sullo spirito di sacrificio dei suoi “discepoli”.
Il disprezzo per il sistema parlamentare e per gli intrighi dei politicanti senza capire la difficoltà di ottenere il consenso e quindi la necessità di adattarsi a scelte che non si condividono. Questo darà agli italiani l’illusione che altri sistemi, autoritari, avrebbero potuto risolvere il problema.
L’idea che il popolo italiano fosse indegno della libertà e che solo un dittatore, l’Uomo del Destino, avrebbe potuto far risorgere l’Italia e portarla all’altezza delle altre nazioni. Questo è un vero e proprio complesso d’inferiorità che è insito nel nazionalismo italiano a causa del modo in cui l’Italia è nata. La paura di non essere all’altezza delle altre nazioni europee si somma all’insicurezza insita nella coscienza, repressa, di appartenere a una nazione “artificiosa”. Questo darà agli italiani la determinazione di fare qualunque sacrificio pur di non restare indietro.
Il culto della romanità, senza rendersi conto di quanto fosse ridicolo paragonare la plebe italiana, affamata e analfabeta, ai legionari romani.
Un nazionalismo paranoico, vissuto con il fanatismo e l’ottusità di una fede religiosa. La “causa santa dell’Italia” era la sua religione e il suo Dio cui tutto si doveva sacrificare. Era una ione totale che non conosceva né dubbi né incertezze. Chi era con lui era un eroico patriota, chi non era con lui era o un vigliacco traditore oppure un povero ignorante, “creatura e pasto dei preti”. Garibaldi e una buona parte degli strati sociali più elevati del Nord Italia vivevano il Risorgimento come una missione divina alla quale tutto il popolo doveva sottomettersi, anche contro la sua volontà.
Un anticlericalismo, violento a parole fino al ridicolo, ma pronto al compromesso nella pratica. Questo anticlericalismo non è fine a se stesso, è il preludio a una nuova religiosità “positivista” che diviene un elemento fondante dello Stato Totalitario e si esprime col Culto della Nazione.
La donna oggetto. Garibaldi era solito dichiarare che la donna “è la più perfetta delle creature” ma lo diceva perché tutte le donne si adattavano a lui perfettamente. Bandi, che ò molto tempo al fianco di Garibaldi, ha osservato che: “Garibaldi fu cortesissimo colle donne, e gli piacquero le donne oltre misura, per quanto non solesse attribuire alle donne altro valore al di là di quello che esse hanno per il comune degli uomini”. Non ebbe mai alcuna remora ad accoppiarsi con qualunque donna fosse disponibile, tanto è la donna che resta incinta. Se aveva un problema con le donne era come fare a mandarle via: “Dovunque apparisse Garibaldi, ivi correvano in frotte le donne, … sotto gli occhi di quell’uomo le donne usurpavano agli uomini il coraggio e spesso si facevano animose e terribili … felicissima quella, che riuscisse ad aver da lui una stretta di mano, o meglio ancora a baciarlo facendosi strada tra la folla”. Il problema era che Garibaldi si considerava al disopra delle leggi, delle regole e delle consuetudini. “Garibaldi, il quale non avea idea giusta del valore delle monete, né del valore delle leggi, né delle entità di certe norme e di certi usi sociali, rispettatissimi da altri, non dava alla dimestichezza d’una donna e neanche al matrimonio l’importanza che la generalità degli uomini suol dare a quella od a questo”.
Il Popolo. Garibaldi affermava sempre di combattere per il popolo. Eppure è evidente che quando parlava di emancipazione dei popoli non si riferiva alla gente reale. Il popolo per cui lui combatteva era piuttosto la proiezione del suo sogno romantico. Ma sarebbe più realistico dire del suo delirio. Per questo i suoi giudizi sugli italiani oscillano sempre tra l’esaltazione e il disprezzo. Una classica manifestazione di un nazionalismo paranoico frustrato dalla inadeguatezza della gente reale a fronte del suo sogno.
Il Culto della Personalità, che porta con sé un atteggiamento di cieca obbedienza al capo che diventa per i suoi discepoli l’Uomo del Destino che è un individuo al di sopra delle leggi le quali sono fatte solo per il Popolo perché è il popolo che ha il Dovere.
Il culto del Supremo Sacrificio, una droga che avvelenerà generazioni di europei trasformandoli in carne da cannone e strumenti dell’imperialismo perché questo culto porta con sé la vocazione al martirio. Abbiamo visto Abba che, a Caserta dopo che Garibaldi ha ato in rivista i garibaldini, chiede a Garibaldi di portarli a morire: “Veniva la voglia di andarsi a gettar ai suoi piedi gridando: Generale, perché non ci conducete tutti a morire? La via di Roma è là, seminatela delle nostre ossa!”.
L’amore per la guerra, che è fine a se stesso perché le giustificazioni che si dava erano palesemente incredibili. E’ un amore vissuto e alimentato da una profonda sensualità: “Io, e i miei giovani compagni, anelavano l’ora della pugna, come il fidanzato quella di congiungersi a colei ch’egli idolatra.”. Oppure: “Codesti corpi, sì compatti, sì floridi, sì brillanti a momenti saranno sciolti, disfatti, orribilmente amalgamati e respiranti libidine di distruzione! Tra poco, il sangue, l’infrante membra, i cadaveri di tanta superba gioventù brutteranno i bellissimi e vergini campi”. Lungo tutte le sue Memorie questo amore è espresso con un candore infantile e viene affermato assieme a proteste di pacifismo. In continuazione lui si dichiara pacifista e senza il benché minimo imbarazzo. Se lui ha dovuto are la vita a fare guerre è perché “ho trovato sul sentiero della mia vita gli austriaci, i preti e il despotismo”. Non era sua la colpa, ma degli altri!
Queste ultime citazioni vanno considerate assieme a quello che lui ci ha detto nella Prefazione alle sue Memorie ove dichiara che “La Guerra è la vera vita dell’uomo”. Se prendiamo queste dichiarazioni, tutte assieme, e se osserviamo la sua vita, nella sua interezza, non può non venire a mente Freud con la sua antitesi Eros-Thanatos: morte, sangue, cadaveri, ossa, putrefazione, sensualità, libidine, giovinezza, bellezza, verginità. Tutto questo è la fondazione di quel
movimento culturale che sarà espresso dal “romanticismo” nazi-fascista: l’ubriacatura che spingerà una generazione di italiani e tedeschi a scatenare l’inferno.
Più importante di tutti è l’elemento ideologico. Lui è stato il primo che ha realizzato nel suo pensiero la sintesi tra Nazionalismo e Socialismo e ha vissuto questa sintesi dedicandogli tutta la sua vita nonostante fosse assolutamente irrazionale e lo isolasse dalla comunità socialista. Lui detestava i dirigenti socialisti ed era profondamente avverso alle loro idee, una rivalità ideologica che segnerà profondamente la civiltà occidentale.
Garibaldi è stato il primo uomo politico italiano di rilievo che ha espresso in modo ben definito, in tutta la sua vita, sia nei suoi atti che nel suo pensiero, gli elementi di questa ideologia: il Fascismo.
Ora dobbiamo percorrere gli anni successivi alla morte di Garibaldi per rintracciare quel filo conduttore che porterà l’Italia e l’Europa a realizzare questa nuova ideologia. Questo filo conduttore corre lungo la storia del socialismo.
Come abbiamo visto Garibaldi si dichiarava socialista e difendeva questo nuovo movimento contro tutti i suoi amici anche se i dirigenti della Internazionale lo avevano sconfessato. Ma cosa era il socialismo per Garibaldi? E’ difficile rispondere a questa domanda ma qui è la chiave per comprendere. Era chiaro che lui era assolutamente contrario ai principi della dottrina socialista così com’erano stati enunciati dalla prima Internazionale che aveva fatto sue le teorie del marxismo. Queste teorie, in breve, proponevano una società completamente diversa dalla società che l’homo sapiens aveva sviluppato in migliaia di anni di evoluzione. Abolizione della famiglia e della proprietà privata: tutto è posseduto dalla comunità rappresentata dallo Stato Totalitario che avrebbe provveduto a tutti secondo i “bisogni” di ciascuno. Qui è necessario usare il condizionale perché Marx non ha mai elaborato i suoi principi per definire come sarebbe stata organizzata in realtà questa nuova società; la sua visione era sostanzialmente
anarcoide poiché non proponeva nulla di concreto. Questa nuova società doveva nascere da un evento traumatico, la Rivoluzione, non poteva nascere con metodi democratici; sarebbero stati i proletari del mondo che, alleandosi tra loro per mezzo del movimento socialista, avrebbero distrutto le nazioni realizzando un’unica società mondiale governata dalla Dittatura del Proletariato. Il nazionalismo e la religione erano un imbroglio con cui la borghesia irretiva i proletari per asservirli e distrarli dal loro obiettivo che era appunto la rivoluzione mondiale. Questa rivoluzione poteva avere successo solamente se guidata da un partito unico con metodi assolutamente violenti e senza le limitazioni di strutture democratiche. Col tempo, dopo questa fase di transizione, sarebbe stata la dittatura del proletariato a darci la vera democrazia!
La grande maggioranza dell’opinione pubblica, compresi i socialisti, era d’accordo con Garibaldi che tutto ciò era una follia, eppure il socialismo continuava a crescere. Cresceva perché molti aderenti, come Garibaldi, aderivano al socialismo ignorando, più o meno inconsciamente, la sua dottrina e “trasferendo” sul socialismo i propri “desideri”. Il come e perché tutta questa gente avesse un così disperato bisogno del socialismo da “rimuovere” le sue teorie, affermate dai dirigenti del movimento, per innestare sopra questa “idea” i propri “desideri” è un problema molto complesso che andrebbe studiato esaminando l’evoluzione del cristianesimo nei suoi 1800 anni di vita. Questo studio non fa parte del nostro saggio, per ora prendiamo atto del fatto che assieme a Garibaldi molte altre persone, alcune in modo completamente inconscio, si proclamavano socialiste mantenendo comunque la loro fede nella nazione, anche se questo era chiaramente assurdo se si considera che il nucleo centrale della fede socialista era l’annientamento della frammentazione dell’umanità in nazioni. Non deve sorprendere se la vita di questa nuova fede, il socialismo, sarà molto travagliata.
Il primo scontro all’interno del movimento si ha tra anarchici e marxisti dopo la sconfitta della Comune parigina e gli anarchici sono espulsi dall’Internazionale: gli anarchici non erano d’accordo sul partito unico e sui metodi dittatoriali all’interno del movimento. Restano nel partito i social-nazionalisti e i socialisti veri e propri. Trattandosi di un delirio, queste definizioni sono necessariamente approssimate.
Dopo la morte di Garibaldi, verso la fine dell’800, inizia a svilupparsi una corrente socialdemocratica.
Era successo che le teorie di Marx sull’accumulazione del capitale si stavano dimostrando irrealistiche perché le nuove società “liberali” del nord Europa stavano producendo una miriade di imprenditori, di tutte le dimensioni, frammentando il capitale globale della società e inoltre la proprietà delle grandi industrie aveva cambiato consistenza attraverso la polverizzazione del capitale in azioni scambiate nelle Borse mondiali e il vero controllo delle imprese non era più in mano ai capitalisti ma a una nuova classe di professionisti, i dirigenti. Ma forse l’elemento più importante è stata l’America. Milioni di europei erano riusciti a evadere dalla miseria o dall’oppressione semplicemente emigrando. Questo, assieme ad una drastica riduzione della natalità, toglie da sotto ai piedi del socialismo lo zoccolo duro dei disperati disponibili a qualunque avventura. Cresceva sempre più il numero di socialisti che guardavano con una certa apprensione alla prospettiva di un evento violento come una rivoluzione per avviarsi verso un traguardo oscuro come la dittatura del proletariato.
Era sotto gli occhi di tutti il fatto che la società si stava evolvendo e quindi gli obiettivi dell’abolizione della famiglia e della proprietà si potevano realizzare con riforme ottenute con metodi democratici consentiti dal suffragio universale che dava anche ai proletari la possibilità di cambiare pacificamente la società. L’istituto della famiglia lo si poteva svuotare col divorzio e l’emancipazione femminile. Le donne acquistano potere col lavoro e grazie all’aborto e ai contraccettivi possono controllare la propria fertilità e quindi la propria dipendenza dall’uomo. La proprietà privata la si può castrare con le tasse e i regolamenti. Dato che questi obbiettivi li si poteva realizzare (magari parzialmente) in pace e con comodo, molti socialisti si rifiutavano di farsi trascinare, come ci ha detto Garibaldi, verso “un cataclisma sociale che nessuno di noi vorrebbe testimoniare”.
La situazione cambiò nel corso degli anni e la pubblicazione nel 1899 da parte di
Eduard Bernstein de I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia diede inizio a una profonda revisione del pensiero marxista e l'abbandono della necessità della prospettiva rivoluzionaria. Malgrado le divergenze i socialisti riformisti e quelli rivoluzionari rimasero uniti fino allo scoppio della prima guerra mondiale. Anche i social-nazionalisti, come Garibaldi, rimasero nel movimento e, per restare in Italia, esaminiamo un paio di illustri esempi: Edmondo De Amicis e Giovanni Pascoli.
Edmondo De Amicis all’inizio della sua vita da adulto è un patriota ed entra nell’esercito come militare di carriera, poi si dedica al giornalismo e pubblica il suo libro Cuore che è un’ode al nazionalismo più grottesco. Dieci anni dopo, nel 1896, entra nel partito socialista senza però ripudiare il suo ato e senza neanche tentare di produrre una sintesi delle idee che avevano modellato la sua vita.
Giovanni Pascoli si iscrive a 22 anni nell’Internazionale e diventa un attivista anarco-socialista ma finisce in prigione nel 1879 e quindi abbandona la politica. Alcune sue opere sono intrise di una struggente ione patriottica, altre di un’intensa comione per le sofferenze della povera gente. Ci ha dato una definizione interessante del suo personale socialismo perché lui dichiarava di sentirsi “profondamente socialista, ma socialista dell’umanità, non d’una classe”. Nel 1911, in occasione della guerra in Libia, pronuncia un discorso che erà alla storia: La grande Proletaria si è mossa. Strabocca di un nazionalismo a volte patetico, a volte grottesco e a volte commuovente. S’inneggia alla gloria di Roma e si esalta il lavoro degli umili che sembra un accostamento un po’ stravagante ma diventerà di moda 20 anni dopo. Il complesso d’inferiorità degli italiani pervade tutto il discorso e produce un forte risentimento nei confronti delle altre nazioni europee come se fosse colpa loro se l’esercito italiano non aveva vinto alcuna battaglia del Risorgimento o se il popolo italiano veniva affamato da un sistema economico parassitario e corrotto: anche questo diventerà di moda 20 anni dopo.
Questo discorso resterà nella storia perché, per la prima volta, il termine
proletario viene attribuito a una nazione piuttosto che a una classe di individui. Pascoli sposta sostanzialmente i termini dell’analisi marxista dai rapporti di forza fra le classi sociali alla lotta fra le nazioni. E poiché l’Italia è il proletario tra i popoli, la nazione povera che ha fatto sempre arricchire gli altri, non le si disdice un riscatto attraverso le conquiste coloniali che renda finalmente giustizia al "popolo più faticante e industrioso e parco del mondo" e metta fine alle miserie della emigrazione.
Come abbiamo visto, per dei motivi che sono difficili da analizzare essendo la cosa completamente irrazionale, il movimento socialista è stato sin dagli esordi fortemente partecipato da elementi nazionalisti, in tutti i paesi d’Europa, anche se il nazionalismo era chiaramente condannato dalla dottrina socialista. Fino allo scoppio della Grande Guerra il partito socialista conserva tutte le sue anime: socialisti, comunisti, nazionalisti e socialdemocratici in un equilibrio precario ma senza altri scismi dopo gli anarchici.
La Grande Guerra esplode nel maggio 1914 e tutta l’Europa è travolta da una psicosi nazionalista.
Il nazionalismo stravince, spazza via tutte le altre fedi, religioni, ideologie o ideali sociali. La religione, cattolica o protestante o ortodossa, si deve piegare e rinunciare alla sua vocazione per l’amore del prossimo rassegnandosi a concedere la benedizione alle armi di entrambi gli schieramenti. L’internazionalismo liberale sparisce dalla scena e anche i liberali devono partecipare a malincuore all’orgia di distruzione. Il movimento socialista deve affrontare le sue contraddizioni e di fronte a un cataclisma di quelle dimensioni le sue diverse anime si dividono.
I comunisti, denunciano la guerra “borghese” e fiutano l’occasione che aspettavano per dare il via alla loro rivoluzione. Iniziano un’opera di proselitismo e si infiltrano nelle forze armate di tutti gli schieramenti come anche tra i lavoratori delle fabbriche. Loro se ne infischiano se i borghesi li
considerano dei traditori; da tempo loro hanno consegnato la propria fedeltà al Partito.
I socialisti, denunciano la guerra “borghese” ma rinunciano sia alla resistenza iva del pacifismo sia ad azioni di propaganda marxista che potrebbero essere considerate come un tradimento del proprio paese.
I socialdemocratici, dichiarano la loro fedeltà alla patria e si schierano a favore della guerra in tutti i paesi europei. I socialisti riformisti scelsero infatti di appoggiare i rispettivi governi nazionali in occasione dell'entrata in guerra, cosa che per i socialisti rivoluzionari significò un vero e proprio tradimento ai danni del proletariato perché si tradiva il principio secondo cui i proletari di tutti i paesi dovevano essere uniti nella loro lotta al capitalismo rifiutandosi di prendere parte ai conflitti fra i governi capitalisti. Si ebbero perciò violenti scontri fra i due schieramenti; questa nuova posizione e la successiva Rivoluzione russa del 1917 portarono ad una frattura all’interno del movimento socialista con i socialdemocratici che abbandonarono i metodi rivoluzionari e i socialisti rivoluzionari marxisti che presero il nome di comunisti.
I nazionalisti, colgono al volo l’occasione e lasciano il partito socialista per iniziare un nuovo movimento politico e una nuova cultura. Il primato per questa novità spetta all’Italia con Benito Mussolini.
Prima di proseguire vogliamo offrirvi, come spunto di riflessione, una descrizione di Garibaldi data da Edward Dicey, presidente della Cambridge Union, che a nostro parere si adatta perfettamente anche a Mussolini: “mancante di educazione politica, senza cognizione di principi di governo, privo di quella rozza intelligenza che spesso serve agli ignoranti a mascherare l’odio. Non avendo la capacità di valutare i caratteri né quella di resistere all’adulazione, egli era ingannato da tutti coloro che un’elementare prudenza avrebbe consigliato di diffidare. Il fatto che il suo pensiero fosse limitato e le sua mente non potesse afferrare più di un solo aspetto per volta di un problema, gli dava quella
concentrazione di intenti e quella intensità di fede necessaria a formare un leader popolare”¹³ .
Benito Mussolini ha 17 anni quando, nel 1900, si iscrive al Partito Socialista Italiano. Due anni dopo fugge in Svizzera per non fare il servizio militare, si iscrive al sindacato dei muratori di cui diventa il segretario e si distingue per il suo attivismo e la sua posizione estremista a favore del socialismo rivoluzionario. Nel 1904 torna in Italia per usufruire di un’amnistia e fa il suo servizio militare. Il suo temperamento violento e arrogante, il suo disprezzo per le leggi e il suo attivismo per il socialismo rivoluzionario lo mettono spesso nei guai con la legge e viene arrestato più volte. Ha un talento per l’oratoria e la scrittura. Collabora a diverse pubblicazioni di ispirazione socialista distinguendosi per la sua violenta intransigenza contro il socialismo moderato. Nel 1910 è segretario del partito socialista di Forlì ove dirige il settimanale Lotta di classe e partecipa a violente manifestazioni contro la conquista della Libia che definisce “un atto di brigantaggio internazionale” mentre il tricolore è “uno straccio da piantare su un mucchio di letame”. Finisce ancora in prigione ma viene rilasciato e nel 1912 ad un congresso del PSI si fa promotore di una mozione per l’espulsione dal partito di alcuni socialisti moderati che vengono espulsi. Diventa un dirigente del partito fino a essere nominato direttore del suo organo ufficiale l’Avanti! a soli 29 anni. Nei due anni della sua dirigenza il giornale raddoppia le vendite.
Allo scoppio della guerra Mussolini mantiene sull’Avanti! la posizione ufficiale del partito contro l’intervento in guerra dell’Italia con il suo solito stile imperioso e violento: “non un uomo, non un soldo!”. Ma nei mesi successivi avviene una “conversione” sorprendente per cui il 18 ottobre 1914 pubblica sull’Avanti! un articolo, Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva e operante, ove si dichiara che i socialisti avrebbero dovuto essere a favore dell’intervento perché la guerra avrebbe creato le condizioni necessarie al proletariato per iniziare la rivoluzione contro la società borghese.
Il giorno dopo Mussolini, avendo constatato di essere il solo nella direzione del
partito ad aver cambiato idea, presenta le dimissioni da direttore dell’Avanti! e così, in un colpo solo, perde tutto quello che aveva ottenuto quando era divenuto uno dei più giovani dirigenti del Partito Socialista: si ritrova solo e senza un soldo. Questa è la forza della fede, una fede che oramai lo possiede e che non lo lascerà più.
Alcuni gruppi industriali intervengono immediatamente e gli danno i finanziamenti per aprire un suo quotidiano, Il Popolo d’Italia, nel novembre 1914. Nel sottotitolo de Il Popolo d’Italia c’è scritto “giornale socialista” e quindi due citazioni: “la rivoluzione è un‘idea che ha trovato delle baionette” (Napoleone) e “chi ha del ferro ha del pane” di Blanqui, il socialista rivoluzionario leader spirituale della Comune parigina.
Deve essere chiaro a tutto il mondo che lui, Mussolini, è sempre stato e sempre sarà un socialista rivoluzionario.
Dal suo giornale Mussolini attacca il partito socialista che il mese dopo lo espelle; la sinistra rivoluzionaria interviene in suo aiuto.
Antonio Gramsci, un socialista rivoluzionario, debutta pochi giorni dopo come giornalista sul Il Grido del Popolo con l’articolo Neutralità attiva e operante appoggiando la tesi di Mussolini.
Pietro Nenni, un repubblicano rivoluzionario, era stato in carcere assieme a Mussolini a seguito della loro opposizione alla guerra in Libia e pochi mesi prima, nel giugno del ‘14, aveva lottato al suo fianco nella settimana rossa quando i rivoluzionari italiani pensarono che era giunto il momento di rovesciare il regime monarchico e borghese. Era stata una rivolta anti militarista, anti borghese e anti monarchica ma non sortì alcun effetto, si spense dopo violenti scontri e senza aver minimamente intaccato l’assetto istituzionale. Ora Nenni
collabora con lui al giornale ma questa volta è in favore della guerra!
Il Popolo d’Italia non va bene e ben presto sono necessari finanziamenti da parte dei servizi segreti alleati che hanno un disperato bisogno di un intervento dell’Italia contro gli imperi centrali.
Ora dobbiamo fermarci per una riflessione su quanto è successo perché questa “conversione” di Mussolini ci sembra sorprendente. Infatti, nel suo ato socialista non c’è alcun elemento che potesse farlo sospettare di simpatie nazionaliste, tutt’altro, era chiaro che lui si metteva all’estrema sinistra del sindacalismo più becero e violento e se si fosse dovuta fare una previsione lo si sarebbe visto partecipare al movimento comunista. Abbiamo già visto in queste pagine il fedele garibaldino Crispi are dalla sinistra rivoluzionaria e repubblicana al nazionalismo monarchico e anche il socialista tedesco Lassalle, amico di Garibaldi, eseguire un ribaltone analogo. Entrambi i casi potrebbero essere considerati fenomeni di opportunismo poiché avano dalla parte della classe dominante. Nel caso di Mussolini non c’era nulla di opportunistico perché buttava via una posizione importante con una mossa rapida e imprevedibile. Evidentemente un avvenimento epocale come la Grande Guerra aveva provocato una rielaborazione delle sue idee portandolo su una nuova base ideologica che modellerà tutto il resto della sua vita.
Noi possiamo solamente prendere atto di quello che è successo e far notare che evidentemente socialismo e nazionalismo hanno una radice in comune nel profondo della psiche umana che noi non sappiamo analizzare.
Torniamo a Mussolini che dopo l'uscita dal Partito Socialista, a fine anno, partecipa alla fondazione dei Fasci di azione rivoluzionaria e ci dà un’altra definizione di questa nuova cultura definendo il proprio pensiero politico di quel periodo: Sindacalismo Nazionale.
Con una rapidità sbalorditiva ora Mussolini si scatena con la sua consueta violenza contro tutti coloro che si oppongono alla guerra: “Questi deputati che minacciano pronunciamenti alla maniera delle republichette sud-americane, questi deputati che diffondono – con le più inverosimili esagerazioni – il panico nella fedele mandria elettorale; questi deputati pusillanimi, ciarlatani … questi deputati andrebbero consegnati ai tribunali di guerra! La disciplina deve cominciare dall'alto se si vuole che sia rispettata in basso. Quanto a me, sono sempre più fermamente convinto che per la salute dell'Italia bisognerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena, qualche dozzina di deputati, e mandare all'ergastolo un paio almeno di ex ministri. Non solo, ma io credo con fede sempre più profonda, che il Parlamento in Italia sia un bubbone pestifero. Occorre estirparlo”. Ci riuscirà.
La spinta interventista ha la meglio sul pacifismo cattolico-liberal-socialista nonostante questo rappresenti la grande maggioranza degli italiani e l’Italia entra in guerra nel maggio 1915. Mussolini parte volontario.
Come avevano previsto Mussolini, Gramsci e Nenni (oltre a Lenin), il trauma della guerra eccita le masse popolari che ora hanno una certa dimestichezza con le armi e nel 1917 in Russia il Comunismo spazza via i socialdemocratici e impone il regime sovietico. In Italia e in Germania, per motivi diversissimi una ha vinto l’altra ha perso, esplode la rabbia delle masse popolari e i Comunisti tentano di afferrare il potere mentre gli altri partiti non riescono a mantenere il controllo.
In Italia Mussolini fonda i Fasci italiani di combattimento nel marzo del ’19 con lo scopo dichiarato di fermare l’avanzata dei Comunisti. La maggior parte dei partecipanti erano reduci che avevano dovuto affrontare il difficile rientro nella vita civile e che prima della guerra avevano militato in formazioni di sinistra (socialisti, repubblicani, sindacalisti, ecc.). Il manifesto dei Fasci viene pubblicato a giugno:
“Ecco il programma nazionale di un movimento sanamente italiano. Rivoluzionario, perché antidogmatico e antidemagogico; fortemente innovatore perché antipregiudizievole.
Noi poniamo la valorizzazione della guerra rivoluzionaria al di sopra di tutto e di tutti Gli altri problemi: burocrazia, amministrativi, giuridici, scolastici, coloniali, ecc. li tracceremo quando avremo creata la classe dirigente”.
E’ un programma fortemente di sinistra ove si chiede, tra l’altro il suffragio universale con voto alle donne, giornata di lavoro di 8 ore, paga minima, gestione ai lavoratori delle aziende pubbliche di servizi e la costituzione di una Milizia popolare: il sogno di Garibaldi. Questo programma chiedeva inoltre: ”Una forte imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze”. Eppure in molti ci hanno creduto!
Antonio Gramsci, esce dal Partito Socialista e fonda il Partito Comunista d’Italia nel gennaio del 1921 assieme ad altri socialisti rivoluzionari. Sarà arrestato da Mussolini e poi morirà di malattia 15 anni dopo restando sempre fedele al Comunismo.
Pietro Nenni, entra pochi anni dopo nel Partito Socialista, diventa il direttore dell’Avanti! e deve fuggire in Francia per non essere arrestato da Mussolini. Durante la guerra viene preso dalla Gestapo e consegnato a Mussolini che lo manda al confino a Ponza. Dopo la guerra diventa segretario del Partito Socialista.
Mussolini, sarà ammazzato dai comunisti 24 anni dopo.
Qui possiamo vedere come queste allucinazioni, nazionalismo e socialismo, si combinino in modo imprevedibile nella mente umana e producano risultati diversi in persone diverse scatenando l’odio ideologico che mette uno contro l’altro anche persone che avevano lottato assieme perché nessun odio può uguagliare l’odio tra fratelli che considerano l’altro il traditore della fede.
Infine, nel novembre del 1921 i Fasci italiani di combattimento vengono fusi nel Partito Nazionale Fascista e pochi anni dopo nasce il primo regime Nazionalsocialista della storia. Questo termine fascista non è di per se indicativo dell’orientamento del partito. Il nome che esprime correttamente la natura di questo nuovo movimento ce lo darà Adolf Hitler.
In Germania Hitler segue con molta attenzione l’avanzata di Mussolini: “A quel tempo – lo ammetto apertamente - ho concepito una profonda ammirazione per quel grande uomo al di là delle Alpi, il cui ardente amore per il suo popolo lo ha ispirato a non mercanteggiare con i nemici interni dell’Italia ma di usare tutti i mezzi possibili per distruggerli. Quello che mette Mussolini tra i più grandi uomini del mondo è la sua decisione di non condividere l’Italia con i Marxisti ma di redimere il suo paese dal Marxismo distruggendo l’internazionalismo. Quali miserabili pigmei appaiono i nostri politici in Germania al suo confronto. E come è nauseante assistere alla presuntuosa sfrontatezza di queste non-entità che criticano un uomo che è mille volte più grande di loro”¹³¹.
Dopo la guerra inizia a militare in un partito minuscolo della sinistra nazionalista il DAP (Partito dei Lavoratori Tedeschi) poi nel febbraio del 1920 ne prende la guida e lo trasforma nel Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (Nationalsozialistische Deutsche Arbeiterpartei, abbreviato in Partito Nazista), mettendo assieme alcuni piccoli partiti di orientamento socialista, statalista, anticapitalista e nazionalista.
Così questo nuovo movimento politico, sociale, culturale ha trovato il suo nome: il Nazionalsocialismo.
Il nazismo esprime una concezione dello stato nazionalista e totalitaria con mire operaiste-populiste (völkisch), opposta al socialismo internazionalista di stampo marxista, e si concretizzò quale reazione all’umiliazione della sconfitta e al successivo disastro economico. Come per il fascismo, anche nel nazismo delle origini è presente una componente ideologica di stampo collettivistico e socialisteggiante, che riuscì ad attirare consensi anche da militanti dei partiti comunisti. Tra i punti programmatici i principi del ‘Blut und Boden’ (Sangue e Terra) e del ‘Brot und Arbeit’ (Pane e Lavoro) che vedeva nello stato il garante supremo della prosperità economica della nazione, della sicurezza lavorativa dei cittadini, dell’abolizione delle disparità salariali, del mantenimento della pace sociale, del giusto profitto degli industriali, del controllo ferreo delle banche e delle finanze.
Il Nazionalsocialismo (sia italiano sia tedesco) cambia la logica marxista e mette al centro della storia i conflitti tra le nazioni al posto dei conflitti di classe. Ci sono nazioni sfruttate e nazioni sfruttatrici: questa è la fonte del Male. Le nazioni sfruttate si devono riscattare con un evento traumatico: la guerra. Per fare questo tutte le sue componenti sociali devono essere solidali quindi il nemico principale della nazione è il marxismo che la vuole frantumare con la lotta di classe. E’ quindi indispensabile che i conflitti sociali siano risolti dallo Stato Totalitario che decide il giusto salario e il giusto profitto: niente scioperi, niente contrattazioni, niente libero mercato, è un’economia dirigista e statalista ove trionfano i monopoli. Di fronte allo stato tutti i cittadini sono uguali, a prescindere dalla classe sociale e dalla loro ricchezza, perché tutti sono figli della Nazione. La proprietà privata e la famiglia sono tutelate solo in quanto possono partecipare alla crescita della Nazione ma allo Stato Totalitario spetta comunque l’ultima decisione su tutto e sia la proprietà sia la famiglia subiscono limitazioni alla libertà individuale che sono considerate intollerabili nei paesi capitalisti. Nel paese si vive in un’atmosfera da stato d’assedio perché la sintesi di socialismo e nazionalismo produce un effetto drammatico.
Il Nazionalsocialismo somma all’odio di classe marxista l’odio etnico del nazionalismo producendo l’Apoteosi dell’Odio.
La paranoia raggiunge livelli parossistici dando al regime il controllo della mente dell’individuo rendendo così possibili follie altrimenti inimmaginabili. Lo Stato entra in competizione con la religione con il suo Culto della Nazione e la paranoia gli consente di farlo sia per una nazione di sicura consistenza come quella tedesca, sia di dubbia consistenza come quella italiana, sia completamente inventata come la nazione ariana. La mania di persecuzione fabbrica nemici esistenti ma non attuali come la Perfida Albione e anche nemici totalmente inventati come la Cospirazione Sionista.
Questo odio contagia prima l’Europa e poi si espande negli altri continenti perché ora la famiglia Socialista è spaccata in due.
I Nazionalsocialisti odiano i Comunisti perché tradiscono la Patria frantumandola con la Lotta di Classe e la indeboliscono rendendola vulnerabile agli attacchi delle altre nazioni.
I Comunisti odiano i Nazionalsocialisti perché tradiscono il Socialismo e il Proletariato e bloccano l’avanzata dell’Umanità verso il Sol dell’Avvenire e la vera democrazia che si può realizzare solamente con la Dittatura del Proletariato.
E’ un odio tra fratelli che si alimenta da solo dalle loro stesse allucinazioni e fornirà la spinta ideologica ai grandi criminali del XX secolo.
La Grande Guerra scaraventa sul palcoscenico della storia le masse popolari obbligandole a partecipare a un olocausto che è stato qualcosa di più di una guerra: è stato il suicidio collettivo di una civiltà. Fornisce al Socialismo il catalizzatore che fa nascere due mostri, Comunismo e Nazionalsocialismo che, nella storia dell’umanità, daranno all’Europa (e non solo) diversi primati nel
campo della follia criminale.
¹³ Gilberto Oneto, L’Iperitaliano (Rimini: Il Cerchio, 2006), pag.268
¹³¹ Adolf Hitler, Mein Kampf (Hurst and Blackett, London 1939) pag. 519
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