Maria Antonietta CRAPSI
DONNE PALESTINESI IN GUERRA: da madri della nazione a shahidat.
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Indice
Introduzione Dall’attivismo alla resistenza: lotta nazionalista e guerra per le donne palestinesi. La vera svolta nella partecipazione delle donne palestinesi in guerra. Il cambiamento del ruolo delle donne palestinesi in guerra dagli anni ’90 agli anni 2000: progressi o retrocessione? Conclusioni Ringraziamenti Bibliografia
« La nostra mano arriva solo dove finisce il braccio
Ma il sogno va molto più lontano, Supera la prigione dell’esistenza » Antonio Tabucchi
A zia Cinzia, zia Lucia, zia Dora, nonna Giuseppina, nonna Maria, mamma Loredana, sorella Alessandra, le donne della mia famiglia.
Introduzione
L’obiettivo di questo lavoro è quello di analizzare il ruolo delle donne palestinesi in guerra dagli anni ’20 del Novecento fino al 2002, anno in cui inizia il fenomeno delle donne palestinesi kamikaze. Il desiderio di occuparmi di donne alla fine del mio percorso di studi è diventato più forte negli ultimi quattro anni in seguito a esperienze personali e alla presa di coscienza sullo status delle donne della mia famiglia e la volontà di riscatto per esse, per me e per le donne di tutte le parti del mondo ancora intrappolate in strutture patriarcali e maschiliste. L’interesse per la ricerca sulle donne palestinesi si è concretizzato nel corso del mio periodo di studi presso la Marmara University di Istanbul dove da settembre 2011 a gennaio 2012 ho frequentato diversi corsi grazie al progetto Erasmus. Il corso che ha fatto partire le mie ricerche sulle donne palestinesi si chiamava “Foreign Politics of Middle East” e l’insegnante era una donna che chiedeva ai suoi studenti di analizzare la politica estera di un determinato paese del Medio Oriente partendo dal ruolo giocato da un particolare attore o gruppo sociale di questo stesso paese. Ricordando un scontro tra una donna palestinese e una donna israeliana proposto dalla trasmissione Annozero di qualche anno prima, non ho esitato a proporre l’analisi della partecipazione delle donne palestinesi nella politica estera. In seguito, ho ristretto il campo ad un aspetto specifico del ruolo che le donne palestinesi hanno svolto nel processo di nationbuilding concentrandomi sul loro apporto nell’ambito del conflitto con Israele, chiaramente un fattore prioritario del processo di definizione dell’identità nazionale palestinese dai primi decenni del ventesimo secolo sino ad oggi. Si trattava di stabilire se le donne avessero preso parte alla guerra, in che misura e di come il loro grado di partecipazione fosse cambiato a seconda delle diverse contingenze storiche. Si trattava di capire quanto le donne avessero partecipato spontaneamente alla guerra e quanto fossero state manipolate dagli uomini o da altri attori. A queste questioni si è cercato di rispondere nei tre capitoli della tesi, analizzando estensivamente la letteratura sul tema. La mia incapacità di comprendere la lingua araba mi ha precluso la possibilità di analizzare i concetti
di guerra, resistenza, lotta nazionalista, terrorismo e martirio definiti direttamente dalle donne palestinesi. Nonostante ciò molte informazioni preziose derivano dalle interviste effettuate da studiose occidentali a donne che hanno assunto un ruolo militante nel conflitto e hanno ato in carcere molti anni della loro vita, esposte a violenze psicologiche e fisiche. La tesi sostenuta in queste pagine è che le donne hanno avuto ruoli importanti in guerra e sono ate da essere “care giver” a guerrigliere a kamikaze e hanno avuto come obiettivo primario quello della liberazione della Palestina contribuendo ad essa in diversi modi. Non sono mancate le rivendicazioni femministe e le iniziative di pace ma in generale la lotta di liberazione nazionale ha fatto are in secondo piano la lotta di liberazione di genere e le donne sono rimaste intrappolate in schemi sessisti e sono state manipolate in vario modo per il raggiungimento di fini politici e strategici. Dagli anni ’20 a oggi c’è stata la sovversione del “mito della madre”: la donna palestinese vista come “madre della Nazione”, come madre che mette al mondo i propri figli affinché possano combattere contro l’occupazione israeliana, che trasmette ad essi i valori della cultura palestinese e si dedica alla loro cura e a quella dei mariti, la donna identificata con la terra generatrice capace di mettere al mondo palestinesi come la terra palestinese fa fiorire i frutti profumati citati in ogni testimonianza, diventa una guerrigliera negli anni ’70 e una “sorella degli uomini” negli anni ’80 come dimostra la partecipazione all’Intifada. Dal 2002 la donna palestinese si allontana dalla famiglia per diventare una “shahida”, una martire che commette attentati suicidi per la liberazione della Palestina. Inizia il crollo del mito della madre, nato al tempo del mandato inglese in Palestina, camuffato ma mai veramente scomparso fino al momento in cui, nel 2006, la prima mamma palestinese abbandona i suoi figli per amore di Allah diventando una suicide bomber. L’elaborato è strutturato in tre capitoli in ognuno dei quali sono presenti degli elementi di innovazione e degli elementi di conservazione. Il primo capitolo analizza il ruolo delle donne nella resistenza all’amministrazione inglese e allo stabilimento sempre più consistente degli ebrei nei Territori Palestinesi. Prende in considerazione poi il ruolo di care giver assunto dalle donne durante la nakba e l’attivismo degli anni ’50 e ’60 stimolato dal nasserismo e dal panarabismo.
Nel capitolo si spiega infine la richiesta delle donne di partecipare alle milizie armate in seguito alla Guerra dei Sei Giorni e si individua un particolare tipo di resistenza nella prigionia a cui diverse donne palestinesi sono costrette. Si analizza inoltre la figura di Leila Khaled una guerrigliera che ha partecipato al dirottamento di aerei per la promozione della causa palestinese. Il secondo capitolo analizza il ruolo delle donne nella resistenza all’occupazione israeliana sia nei Territori Occupati sia all’infuori di essi e in particolare in Libano. Si occupa poi dell’esplorazione del ruolo dei quattro comitati delle donne palestinesi affiliati ai diversi partiti dalla fine degli anni ’70 all’Intifada. 1qDell’Intifada vengono analizzati sia gli aspetti positivi per le donne (la partecipazione delle donne di tutte le classi e di tutte le età) sia gli aspetti negativi (il ritiro dalla sfera pubblica e l’imposizione dell’hijab da parte di Hamas). Il terzo capitolo cerca di rispondere a due principali domande. La prima è se ci siano stati progressi o arretramenti nel ruolo delle donne palestinesi nella resistenza dagli anni ’90 agli anni 2000 e per rispondere alla domanda si analizza il ruolo di Hanan Ashrawi nel processo di pace e altri sviluppi politici che hanno portato all’allontanamento delle donne dalla sfera pubblica.La seconda domanda riguarda il ruolo di Hamas nell’arretramento delle donne dalla resistenza e nell’utilizzo della tattica degli attacchi suicidi. Si è scoperto che esistono numerose spiegazioni che hanno provocato un ritorno delle donne alla domesticità e la politica di Hamas è solo una di queste. Diverse concause spiegano anche gli attacchi suicidi e Hamas arriva in ritardo rispetto a milizie come le Brigate di Al Aqsa che reclutano le future donne kamikaze. Questo elaborato si propone di dimostrare la pervasività della guerra nella vita delle donne palestinesi che non ha visto queste ultime solo come spettatrici ive ma anche come protagoniste (aspetto largamente sottovalutato in letteratura) nonostante gli evidenti tentativi di manipolazione da parte degli uomini. Si cerca poi di dar vita a una ricostruzione storica completa, utilizzando un approccio di tipo cronologico, perché la maggior parte dei lavori sulle donne palestinesi si concentra solo su determinati periodi storici senza fornire una
visione d’insieme. In conclusione ci tengo a sottolineare che nonostante questo lavoro si concentri sulle sofferenze del Popolo Palestinese, non sono mai state dimenticate le violenze subite dal Popolo Israeliano. Sebbene questo lavoro si occupi per la maggior parte di guerra e faccia solo brevi cenni alle iniziative di pace, ci si auspica che una maggiore consapevolezza sui problemi del Medio Oriente possa portare a soluzioni pacifiche e veramente realizzabili per il conflitto araboisraeliano-palestinese.
Dall’attivismo alla resistenza: lotta nazionalista e guerra per le donne palestinesi.
The “mother’s generation”: 1920 – 1948 lotta anticolonialista e nazionalista delle donne palestinesi. La guerra può assumere molte forme. Per capire una guerra si deve aver ben presente la sua contestualizzazione storica, le cause e le conseguenze, si devono individuare gli attori locali e esterni che vi prendono parte. Dalla dichiarazione Balfour a oggi la Palestina ha affrontato numerose guerre e “battaglie” e, nonostante i più recenti tentativi di arrivare a soluzioni pacifiche dei vari conflitti e a una stabilità duratura, esse non si sono mai effettivamente verificate tanto che ha preso piede una “guerra continua” interrotta da periodi di pace solo apparente. Una guerra che ha cambiato forma, che si è evoluta e che ha visto anche l’evoluzione del ruolo dei suoi partecipanti e in particolare l’evoluzione del ruolo delle donne di cui si vuole discutere in queste pagine. La militarizzazione della vita delle donne di cui parla Cynthia Enloe nel libro “Maneuvers: The International politics of militarizing women lives” che si è diffusa a partire dalla prima guerra mondiale ha riguardato anche la Palestina: le donne palestinesi hanno partecipato a una guerra mutante (intesa come guerra che cambia forma) fin dagli anni ’20 cercando da un lato di essere protagoniste e sfruttando l’educazione di cui avevano potuto usufruire e dall’altro lato restando legate a una politica di genere che soprattutto nei primi anni le vede al servizio delle ideologie tipicamente maschiliste come quella del nazionalismo. Esse rafforzano l’immagine della donna come madre, una donna che mette al primo posto i diritti sulla terra e non quelli sulla propria persona. Nel paragrafo si descriverà l’attività delle donne nelle prime lotte evidenziandone le contraddizioni.
Il ruolo dell’istruzione nello sviluppo del primo attivismo femminile.
Gli accordi Sykes – Picot e la fine della Prima Guerra Mondiale sanciscono definitivamente il controllo della Gran Bretagna sul territorio palestinese, un controllo che assume la forma dell’amministrazione militare dal 1917 al 1920 e che poi diviene un vero e proprio mandato della Lega delle Nazioni. Il “periodo inglese” è abbastanza ambiguo per la società palestinese in generale e per le donne in particolare. Dal 1920 al 1948 la colonizzazione inglese assume la forma dell’indirect rule, che crea spaccature sociali affidando il controllo territoriale e amministrativo a poche “tribù” e si propone come obiettivo una europeizzazione che non servirebbe tanto a migliorare la qualità di vita dei palestinesi quanto a inserire la piccola economia palestinese nel sistema degli scambi europei. Tutto ciò ha avuto anche un’influenza sulla vita delle donne in quanto la diffusione dei progetti educativi proposti dagli inglesi riguarda solo una parte di esse e ha caratteristiche ben precise. È molto importante partire dal ruolo che l’istruzione ha giocato nella formazione delle donne anche perché questo permette di fare delle distinzioni tra le varie figure di donne che hanno partecipato al primo movimento nazionalista: quello che sembra in generale un movimento filantropico e che è descritto così nella maggior parte della letteratura sul tema, nasconde anche aspetti di partecipazione diretta e di violenza delle donne nelle prime lotte nazionaliste e nella guerriglia e poi nella guerra vera e propria. Anche se nei primi anni questi episodi sono limitati e la partecipazione delle donne in guerra è di tipo più “tradizionale” essi non sono assenti. Partiamo con ordine. L’indirect rule inglese e il desiderio di mantenere lo status quo per facilitare l’amministrazione e imporre il controllo legislativo, giudiziario, militare, delle relazioni esterne e dell’effetto della religione sulla popolazione si affiancano a una politica esplicita sulle donne. Anche essa si pone in linea con il desiderio di mantenere lo status quo e quindi non riguarda miglioramenti politici ed economici ma solo un adeguamento dello status sociale che deve essere in linea con “i principi illuminati riguardanti il trattamento delle donne e dei bambini previsto dall’Amministrazione Inglese”. Il ruolo prestabilito assegnato alla donna è quello di madre, ruolo rafforzato dal sistema scolastico e dai programmi di welfare. Viene regolamentato anche il ruolo delle donne delle classi inferiori come le infermiere, le domestiche, le levatrici e le prigioniere (che spesso pagano con la prigione l’aver commesso crimini di piccola portata). L’immagine della donna araba e più in generale della donna palestinese
pervenuta agli amministratori inglesi viene spesso trasmessa dai viaggiatori e dai missionari che raccontano di una donna arretrata, non in linea con i costumi inglesi e che ha bisogno di essere “civilizzata” essendo lo status di incivile attribuibile alla religione islamica. Su queste immagini si basa la politica del governo inglese e degli amministratori inglesi presenti sul territorio: la parola d’ordine è modernizzare, facendo uscire la donna dall’isolamento tipico dell’harem e liberandola dai costumi tradizionali e quindi dal velo, facendola socializzare con altre donne e avvicinandola ai costumi occidentali e più specificamente inglesi. In questo quadro va posta la politica di istruzione voluta dal governo inglese, una politica il cui obiettivo non è la trasformazione sociale ma il controllo e il miglioramento individuale. Il miglioramento delle condizioni di vita delle persone che vivono nelle aree rurali e dei più poveri non prevede la trasformazione di classe e la mobilità sociale, tanto che il tipo di istruzione impartito alle donne delle aree rurali differisce completamente da quello a cui sono sottoposte le donne delle classi medio-alte. Mentre nel primo caso i programmi scolastici sono incentrati sull’igiene, nel secondo caso si tende a sviluppare il carattere (con riferimento alle attitudini psico-attitudinali inglesi) per formare donne che faranno parte dell’amministrazione civile e saranno intermediarie tra il governo britannico e la popolazione palestinese. È importante notare anche la differenza nei tempi di sviluppo delle scuole: un centro di preparazione per le donne delle classi medio - alte (Women Training Center) è attivo già nel 1919 mentre il sistema delle scuole rurali si sviluppa solo a partire dal 1935, con insegnanti donne che si recano presso i villaggi per impartire lezioni alle ragazze alle quali non è consentito uscire dal contesto del villaggio o rurale. I temi con i quali si ritiene che le donne debbano familiarizzare sono pensati in funzione dei bisogni materiali degli uomini e del mantenimento dello status quo. Alle donne delle classi medio alte non è permesso studiare l’arabo classico, la storia e la geografia. Quello che devono imparare è “la scienza domestica”: devono saper svolgere i lavori di casa, occuparsi della lavanderia e soprattutto della cura dei figli. Quest’ultimo è un aspetto molto importante in quanto in generale viene imposto alle donne di non fidarsi dei consigli delle vicine per quanto riguarda la cura dei bambini ma di recarsi invece da un dottore, cosa impossibile soprattutto per le donne più povere e che vivono nelle aree rurali. Ancora una volta per le donne delle aree rurali c’è una differenza. Il tipo di
istruzione ad esse impartito è ancora più superficiale e discriminatorio delle donne rispetto agli uomini in quanto le mantiene nella propria abitazione in posizione subordinata. L’idea che l’ignoranza delle donne ritardi il progresso si accompagna all’obiettivo di far in modo che le donne apprezzino l’importanza di una casa pulita e ben governata, imparino a crescere i figli rispettando le norme igieniche inglesi e migliorando la loro salute, occupandosi dell’orto e del pollame. A partire dagli anni ’30 la consapevolezza delle donne delle classi medio-alte aumenta ed esse cominciano a richiedere un tipo di istruzione diversa, soprattutto secondaria. Tutto ciò però richiede denaro perché le tasse per partecipare a scuole come il WTC sono molto alte, quindi l’educazione secondaria, più specifica e diversificata rispetto al tipo di insegnamento precedente, si afferma come un’educazione di élite. A partire dagli anni ’30 le donne delle classi medio alte cominciano sempre più frequentemente a chiedere di poter accedere all’istruzione alcune volte ate dai loro padri e dai loro fratelli. Le distruzioni della prima guerra mondiale e in seguito la crisi del ’29 fanno sentire sempre più forte il bisogno di maggiori risorse economiche a disposizione delle famiglie e quindi gli uomini facilitano l’inserimento delle donne nell’amministrazione civile e nelle industrie di famiglia. La nuova donna appartiene alla classe medio-alta, non porta il velo, ha un’istruzione o quanto meno conosce le buone maniere ed è informata. Anche il “mercato del matrimonio” comincia a cambiare: gli uomini che hanno avuto accesso all’istruzione richiedono sempre più donne preparate e viceversa. Inoltre il campo dell’istruzione è inserito nella competizione con gli ebrei che stanno arrivando nei territori palestinesi: essi mantengono un livello di istruzione alto sia per le donne sia per gli uomini, per questo motivo se gli arabi vogliono sentirsi alla loro altezza devono provvedere a sostenere e sviluppare il sistema educativo in quanto si inizia a pensare che lo sviluppo della persona corrisponda allo sviluppo della nazione. Se da un lato c’è una relativa accettazione dell’educazione che le donne stanno ricevendo sia da parte degli uomini, sia da parte delle donne che si sentono più indipendenti e sono sempre più incluse nella sfera sociale maschile, che iniziano ad avere accesso alle università che si trovano al di fuori del territorio palestinese (come l’Università Americana a Beirut), iniziano a viaggiare e a
sperimentare situazioni per loro nuove, dall’altro lato questo nuovo tipo di istruzione viene percepito come “deculturalizzazione”, in quanto allontana le donne dai valori palestinesi tradizionali portandole in un non-luogo culturale. Gli arabi usano un’espressione particolare per definire la politica inglese sull’educazione: “la politica del rendere ignoranti”. Diversamente dalla “deculturalizzazione” inglese nelle poche scuole palestinesi si diffonde lo spirito nazionalista con gli insegnati e le insegnanti che invitano gli studenti a partecipare alla lotta nazionalista. Del nazionalismo si parlerà più precisamente in uno dei paragrafi successivi. In linea con le tendenze caratteristiche degli altri paesi del Medio Oriente nei primi anni del ventesimo secolo le donne istruite appartenenti alle classi medio alte iniziano a dar vita alle prime associazioni filantropiche. Le donne dopo aver frequentato la scuola e aver stabilito un nuovo tipo di relazioni sociali, sono più consapevoli dei problemi della società palestinese e quindi si mobilitano per risollevare la sorte dei poveri e per permettere alle ragazze che non hanno i mezzi economici di poter accedere quanto meno alla prima educazione. Inoltre le donne acquisiscono una nuova consapevolezza sulle mancanze del governo coloniale e sulla scarsa attenzione che esso presta alle politiche sociali. Attraverso le organizzazioni di beneficenza quindi, le donne offrono istruzione e cure mediche. Il maggior coinvolgimento delle donne in questo tipo di attività dipende dal fatto che il capitalismo e l’industrializzazione sta prendendo piede anche in Medio Oriente, per questo le macchine sostituiscono una parte del lavoro prima svolto dalle donne le quali hanno più tempo libero da dedicare alle attività di volontariato. Bisogna aggiungere che la nascita e lo sviluppo dei movimenti nazionalisti che ha riguardato tutto il Medio Oriente e anche la Palestina ha spinto le donne a impegnarsi sempre di più per la causa nazionale. Infine non bisogna dimenticare che anche a livello religioso (ci si rifererisce qui alla religione cristiana, ebraica e musulmana) e culturale la donna è dipinta come un essere che è portato a fare del bene. Anche se questo tipo di attività è stato tradizionalmente escluso dalla politica vera e propria in realtà la particolare attenzione delle donne ai problemi economici e sociali della popolazione palestinese e poi, in maniera crescente, al problema del popolo palestinese in quanto tale che subisce l’influenza negativa del colonialismo inglese e la sfida degli insediamenti ebraici, assume sempre di più un significato politico. Il nazionalismo assume un significato importante per tutte le associazioni e permette di definire una nuova identità che accomuna tutti
i palestinesi anche se appartenenti a religioni diverse. Già dagli anni ’20 il desiderio delle donne è quello del “sollevamento nazionale”. È questa la prima forma di lotta delle donne palestinesi. Una lotta velata, una lotta non violenta ma comunque il primo vero impegno per la nazione e per gli uomini, per i mariti, per i figli. Non a caso la generazione delle donne che sono nate e hanno operato tra gli anni ’20 e ’40 viene definita “the mother’s generation”. Anche se il lavoro filantropico è un lavoro per la maggior parte di élite non bisogna dimenticare il coinvolgimento delle donne delle classi medie che si dedicano a questa attività perché non possono costruire scuole o ospedali con capitali propri. Tuttavia esse sono donne che hanno ricevuto un’istruzione e che appartengono al contesto urbano. Le donne appartenenti all’ambiente rurale sono escluse dalle neonate organizzazioni sia a causa delle loro condizioni sociali ed economiche, sia a causa del fatto che le attività filantropiche si svolgono per la maggior parte nell’ambiente cittadino. Come esempio si possono citare le città di Jaffa, Gerusalemme, Haifa, Acre. L’attività di beneficenza è riconosciuta e accettata dagli uomini che non si oppongono all’allontanamento delle donne dalla sfera domestica per una maggiore partecipazione nella vita pubblica. Tutto ciò perché questo tipo di attività non va ad intaccare le norme patriarcali presenti nella società palestinese e perché l’attività di beneficenza viene percepita come qualcosa che appartiene alla morale e non ha nulla a che fare con la politica, sfera strettamente riservata agli uomini. L’attività filantropica raggruppa sia le donne di religione cristiana sia quelle di religione musulmana e a volte anche di fede ebraica. Tuttavia sono le donne cristiane quelle maggiormente attive. La partecipazione alla sfera pubblica aumenta in seguito alla prima guerra mondiale che ha devastato il paese provocando fame e malattie e il crollo dell’economia. Manifestazioni contro il governo inglese e lettere mandate ai funzionari inglesi sono i principali mezzi di lotta contro l’amministrazione coloniale britannica. In questi anni il problema degli insediamenti ebraici si pone sempre più al centro dell’attenzione e occupa una posizione di primo rilievo anche nelle richieste che
le donne fanno all’amministrazione inglese. A marzo del 1920 ventinove donne mandano una lettera all’amministratore del territorio palestinese in cui condannano espressamente la dichiarazione Balfour. Nella lettera si legge così: “We have read your declarations concerning the Jewish settlement in our country and making in their National home… As this right is detrimental to us in every way… we Moslem and Christian ladies who represent other ladies of Palestine protest vigorously against these declarations that cause the sub division of our country.”. Da queste parole si vede come inizia a prendere forma la lotta nazionalista. A maggio dello stesso anno a Jaffa le donne partecipano a disordini violenti a causa del sospetto che gli ebrei marxisti che partecipano alla manifestazione del primo maggio, stiano agendo contro gli arabi. Entro la fine dell’anno l’azione delle donne diventa ancora più seria. Esse infatti organizzano una grande raccolta fondi per permettere a una delegazione inglese di raggiungere Londra e protestare contro il governo britannico. Il viaggio è pensato dalla più grande organizzazione nazionalista palestinese per chiedere l’abolizione della dichiarazione Balfour, la fine dell’immigrazione ebraica e la creazione di un governo rappresentativo. Da questa breve analisi si può vedere come la prima forma di lotta delle donne assuma una forma molto più soft rispetto a quella che assumerà negli anni successivi, ma si vede anche come questa abbia come obiettivo maggiore la salvaguardia dei territori e del popolo palestinese e si scagli contro la colonizzazione inglese e gli insediamenti ebraici. Questi ultimi fattori sono stati sicuramente fondamentali per lo sviluppo del sentimento nazionalista ma, come si è voluto dimostrare con questo paragrafo, un ruolo molto importante ha svolto anche l’istruzione di cui hanno potuto usufruire le donne anche e soprattutto grazie agli inglesi. Un’istruzione che ha permesso loro di acquisire una maggiore consapevolezza sul loro popolo. E’ proprio di questa consapevolezza e del nazionalismo che si parlerà nel prossimo paragrafo.
Il colonialismo e il nazionalismo nella coscienza del movimento delle donne palestinese.
Il mandato della Lega delle Nazioni per il governo britannico prevede lo stabilimento di un “focolare nazionale ebraico”, come dichiarato nella dichiarazione Balfour che però contemporaneamente salvaguardi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche incoraggiando la creazione di istituzioni auto governative. Tuttavia nella dichiarazione non si spiega bene cosa si intende per focolare nazionale ebraico e non si fa alcun riferimento al futuro status politico della Palestina. Essa rimane semplicemente una colonia della Gran Bretagna. La potenza coloniale non prevede un miglioramento della sorte del popolo palestinese. La guerra mondiale e la crisi economica del ’29 aggravano anzi le condizioni economiche del popolo palestinese, in particolar modo delle classi più basse, sempre relegate ai margini della società e senza speranza di cambiamenti futuri. In più l’arrivo degli ebrei contribuisce a peggiorare la situazione, in quanto questo comporta la perdita di terra da parte dei palestinesi. Contro il potere coloniale e contro gli insediamenti ebraici le donne si mobilitano per difendere la Palestina. Ma le donne si mobilitano anche contro la figura della donna promossa dagli inglesi e contro il ruolo che attribuiscono loro nella società. Essi dipingono tutte le donne palestinesi come attaccate alla religione e alla tradizione e rispettose delle strutture patriarcali. Per gli inglesi il ruolo fondamentale delle donne palestinesi è quello di madri che devono prendersi cura dei loro figli e di mogli che devono prendersi cura dei propri mariti. La risposta delle donne è sottile e allo stesso tempo forte. Esse si oppongono al colonialismo manipolando la tradizione, trasgredendola e allo stesso tempo invocandola. Un esempio del primo tipo è la trasgressione delle norme di segregazione sessuale e la conseguente partecipazione in gruppi di lavoro in cui sono presenti anche gli uomini. Un esempio del secondo tipo è l’accusa al governo britannico di costringere le donne a prendere parte alle dimostrazioni anche violente accanto agli uomini e l’invocazione del diritto della separazione dagli uomini negli ambiti pubblici e politici. Una spiegazione più chiara di questa affermazione si può trovare proprio nelle parole delle donne che dopo le dimostrazioni del 1933 hanno incontrato il governatore della città di Nablus: “It is not the custom of Nablus women to leave their houses and interfere in the sphere of politics… and it is not part of the Islamic social tradition for them to sur men and interfere in their affairs, but in the incidents in Nablus and the tribulation that has fallen upon them due to the government’s behavior and
policies had made the Nablus women leave their houses and depart from their sacred tradition to their voices to voices of the men… Muslim women are not allowed to have interviews with men, but they were forced to that to protest the behavior of the police and the government’s policy.”. L’innovazione tattica delle donne che prevede l’utilizzo della tradizione è giustificata col nazionalismo. Esse utilizzano anche la simbologia e quindi il ruolo di madri che è stato loro assegnato dagli inglesi in funzione anticoloniale spiegando che la maternità conferisce loro quella sensibilità che gli permette di mediare tra il governo coloniale e il movimento nazionale. Esse cercano di fare continuo riferimento alla maternità per esempio portando i loro figli alle manifestazioni. La risposta inglese a questa forma di lotta è formalmente di “simpatia” per la causa delle donne e di “dispiacere” per ciò che esse stanno subendo ma in realtà non prendono seriamente in considerazione le loro richieste e anzi mantengono un atteggiamento di superiorità e controllano l’attività delle donne attraverso l’intelligence. Inoltre gli inglesi cercano di creare una collusione patriarcale, un rapporto uomo a uomo utilizzando il loro potere coloniale per riaffermare l’autorità degli uomini sulle donne e quindi tenerle in una posizione subordinata e bloccare la loro autonomia. Il movimento delle donne palestinese si è sin dall’inizio caratterizzato per essere più un movimento nazionalista che un movimento femminista. Nelle parole di molte donne impegnate nella lotta nazionalista emerge quella che Ellen Fleischmann definisce la “two stage liberation theory” ossia il desiderio di conquistare la liberazione dell’intero popolo palestinese e poi quella delle donne, in quanto si pensa che le donne non possano chiedere diritti che non sono assicurati nemmeno agli uomini. La riflessione delle donne palestinesi quindi non è solo guidata dalle questioni di genere ma essa si concentra soprattutto sul nazionalismo. Il nazionalismo è politica, è l’attività dalla quale le donne sono state allontanate, sia dalle strutture patriarcali interne sia dalle strutture patriarcali esterne. È la possibilità di azione politica che le donne vogliono. Esse chiedono, come gli inglesi, una riforma del ruolo della donna ma diversamente da loro desiderano il rovesciamento dello status quo e non il suo mantenimento. Il movimento delle donne palestinesi quindi ha in mente l’immagine di una “donna nuova” che deve preservare la cultura nazionale. Una donna il cui ruolo più importante è quello di una madre che è capace di trasmettere ai propri figli
l’amore per il proprio paese, il coraggio e gli ideali del nazionalismo. Essa è una patriota, una buona moglie e può godere degli stessi diritti e degli stessi privilegi di cui godono gli uomini. Tutto ciò però è pensato per le donne delle classi medio alte. L’ideale della donna nuova è basato sulla classe: sono le donne dell’élite che possono vedere modificato il loro ruolo e non quelle appartenenti all’ambiente rurale che costituiscono la maggior parte delle donne palestinesi, non sono istruite e non partecipano alle dimostrazioni pubbliche. L’élite invece è formata da donne dell’ambiente urbano, istruite, che appartengono alle classi ricche e sono cresciute in famiglie di commercianti, proprietari terrieri, professionisti. Queste donne sono informate sugli sviluppi politici, sulla diplomazia inglese, sull’economia e sulla burocrazia. Anche se le donne dell’élite lavorano per le donne povere e appartenenti all’ambiente rurale, falliscono nell’includerle attivamente nel movimento rafforzando le divisioni di classe. Le motivazioni che le donne adducono per la loro partecipazione politica sono diverse in quanto esse provengono da diversi background ma tutte usano il pretesto della necessità di dover aiutare gli uomini per aver accesso all’ambiente politico. Inoltre donne cristiane e musulmane lavorano insieme giorno per giorno e usano la religione a livello locale in funzione anti-inglese rispettandosi a vicenda. A livello di leadership invece viene attribuita poca importanza alla religione. C’è complicità anche tra donne sposate e donne single anche se le prime ricoprono più spesso ruoli di leader e rimangono attive meno a lungo rispetto alle seconde che invece ricoprono incarichi meno importanti ma più duraturi. Inoltre le donne sposate che partecipano alla lotta nazionalista sono spesso mogli di leader nazionalisti e vivono alla loro ombra, identificate spesso in funzione dei mariti. Il rapporto tra il movimento delle donne e il movimento nazionalista maschile è controverso. Se negli anni ’20 e ’30 gli uomini negano un certo tipo di partecipazione delle donne, a partire dalla metà degli anni ’40 sono proprio gli uomini a richiederne la presenza nel movimento nazionale. Si tratta di un rapporto di collaborazione e competizione, di o e di sfiducia. Tuttavia
molto spesso gli uomini includono le donne nelle loro organizzazioni per richiamare l’attenzione e per la loro capacità di raccolta fondi. Molte volte la collaborazione tra uomini e donne segue le regole dettate dagli uomini, per esempio nel 1933 la posizione delle donne era chiaramente subordinata a quella degli uomini. Tuttavia le donne non esitano a manifestare il loro desiderio di aiutare gli uomini e ostentare il loro credo nazionalista, come testimoniato dalle parole di Mary Shahida, membro dell’ Arab Women Executive in occasione del Congresso del 1929: “We women are not less nationalistic than men. … Women’s duty at this critical stage is to stand by our men.”. Le strategie e le tattiche usate dalle donne nella lotta nazionalista sono creative e originali. In primo luogo giocano molto sui concetti “tradizionale”- “moderno-nuovo”: quando si rivolgono a un pubblico occidentale o all’opinione pubblica araba esse dipingono l’immagine di una donna moderna e politicamente impegnata, quando invece si rivolgono alle autorità governative inglesi invocano il ruolo tradizionale della donna. In secondo luogo le donne iniziano a partecipare in numero crescente e in maniera più attiva alle manifestazioni accanto agli uomini, un’attività dalla quale le donne sono state tradizionalmente escluse per molto tempo e che adesso le può anche portare ad assumere atteggiamenti violenti. Tutto ciò spaventa gli inglesi che abitualmente nelle manifestazioni separano le donne dagli uomini. Essi vogliono difendere la loro immagine di superiorità morale, quindi non possono scagliarsi contro le donne usando la forza fisica. La partecipazione delle donne è quindi un grande impedimento alle loro azioni. La conseguenza sarebbe una delegittimazione sia da parte della comunità palestinese sia da parte della comunità internazionale. Inoltre l’attivismo delle donne potrebbe essere un fattore di destabilizzazione sociale che gli inglesi scongiurano, per questo cercano di ricreare un rapporto con gli uomini, avvicinandoli per affidare loro il controllo sulle donne. Una parte degli uomini accetta, una parte invece richiede espressamente la partecipazione delle donne nelle manifestazioni per scongiurare l’uso della violenza da parte degli inglesi. Tuttavia a partire dal 1935-36 le donne iniziano a richiedere più autonomia e a desiderare di essere separate dagli uomini per vari motivi: ottenere più attenzione pubblica; attirare un maggior numero di donne in ambienti dai quali
gli uomini sono esclusi; riaffermazione di una corrente conservatrice. In terzo luogo un’altra arma usata in modo originale dalle donne nazionaliste è quella della parola. Esse mandano centinaia di lettere e telegrammi al governo inglese, alla Commissione dei Mandati Permanenti della Lega delle Nazioni, ai re arabi e a altre organizzazioni di donne in tutto il mondo. Scrivere è un’importante tattica di protesta e la parola ha grande potere: essa può essere usata senza portare necessariamente le donne nelle strade (la vicinanza tra uomini e donne nella società palestinese non è ancora così accettata); ottiene grande rilevanza nella stampa; può essere manipolata usando un linguaggio formale e riverenze per esprimere in realtà proteste e ribellarsi alle norme della potenza coloniale inglese. Istruzione e nazionalismo diventano quindi negli anni ’20 così legati (e lo resteranno ancora per molto tempo nella società palestinese) che era necessario soffermarsi sulla loro importanza per poter capire quello che è successo in quegli anni e quello che avverrà nelle successive fasi storiche.
1929-1939: Gli anni caldi per le donne prima della nakba. Sebbene la lotta nazionalista inizi già dai primi anni ’20 è nel 1929 che essa diventa organizzata. L’Associazione delle Donne Arabe infatti, il gruppo di donne più attivo in Palestina, comincia a pensare a un Congresso di donne da tenere nel corso dell’anno. Inoltre viene partorita l’idea di un comitato esecutivo che dovrà portare avanti la voce nazionalista delle donne palestinesi. Queste donne oltre a volere un congresso, vogliono organizzare una manifestazione dopo essere state ricevute dalla moglie dell’Alto Commissario britannico in Palestina, in quanto le donne musulmane non possono presentarsi davanti a un uomo. Ma non è compito di Lady Chancellor ricevere le donne che protestano contro la dichiarazione Balfour e l’immigrazione ebraica, il maltrattamento dei prigionieri arabi, la donazione di 10.000 pounds ai rifugiati ebrei e non a quelli arabi. Perciò esse superano le restrizioni tradizionali e si presentano davanti all’Alto Commissario britannico. L’Alto Commissario afferma di avere a cuore la causa delle donne palestinesi e di voler sottoporre le richieste fatte all’attenzione del governo britannico. Tuttavia l’Alto Commissario cerca di trovare un accordo con i leader musulmani
perché essi evitino la manifestazione e quando essi rifiutano minaccia l’uso della forza. Per questo motivo la dimostrazione delle donne avviene nelle automobili, in alcuni punti cruciali di Gerusalemme. Dopo gli scontri del 1929 riguardanti il Muro del Pianto tra ebrei e arabi l’attività delle donne continua. Esse continuano a partecipare alle manifestazioni e oltre alle richieste precedenti chiedono anche la scarcerazione delle persone imprigionate negli scontri. Le donne intraprendono anche azioni violente: nel 1931 per esempio, una donna uccide un poliziotto. Anche nel 1933 la partecipazione delle donne alla manifestazione contro la visita del Generale inglese Allenby è alta. Esse manifestano contro l’imperialismo inglese, cristiane e musulmane, cittadine e contadine. Esse protestano nello stesso anno anche contro l’immigrazione ebraica. Nelle manifestazioni incitano gli uomini ad agire contro gli ordini britannici, urlano e assalgono la polizia. Dal 1933 l’immigrazione ebraica aumenta a causa delle crescenti tensioni in Europa. Nel 1935 vengono scoperte armi illegali, detenute dagli ebrei nel porto di Giaffa. Sempre nello stesso anno viene ucciso Izz al-Din al Qassam, un uomo acculturato e religioso che si scaglia contro l’imperialismo britannico e contro l’immigrazione ebraica. L’episodio provoca una crescita di indignazione e porta alla rivolta del 1936-‘39 che vede un picco nella partecipazione delle donne. In questi anni le donne palestinesi giocano un ruolo importante nella lotta armata: nascondono e trasportano armi e in alcuni casi le usano. La caratteristica più importante della rivolta è il coinvolgimento delle donne delle aree rurali. Già dopo gli scontri del 1929, quando la Commissione di Inchiesta fa il giro dei territori palestinesi, un gruppo di circa duecento contadine protesta agitando gli scialli e urlando contro il Commissario: “Down with the Balfour declaration!”. Durante la rivolta del ’36-’39 però il loro ruolo nella lotta armata è molto più consistente: esse sostengono la resistenza permettendo ai ribelli di nascondersi tra la popolazione rurale, durante i loro lavori abituali (come il trasporto dell’acqua) svolgono un’attività di informazione sull’imminenza del pericolo oppure portano le informazioni sulle colline dove si trovano i combattenti. Esse sviluppano una grande capacità di are velocemente le informazioni e intuire
i movimenti del nemico, trasportano e nascondono armi facilitate anche dagli ampi vestiti affiancate dai bambini che destano meno sospetti e che, a loro volta, sono usati anche come scudi. Molte donne agiscono per proteggere gli uomini, sapendo che una volta arrestate sconteranno una condanna detentiva di durata minore rispetto alla pena inflitta a questi ultimi anche perché si tratta molto spesso di donne in età avanzata. Ma le donne non agiscono solo in funzione degli uomini, esse prendono l’iniziativa e alcune volte partecipano alla resistenza sulle colline per contrastare le azioni inglesi. Un’altra caratteristica propria della lotta delle donne dell’ambiente rurale è la capacità di mantenere segreti: capita che le donne evitano di riconoscere il corpo del proprio marito ucciso per proteggere gli altri abitanti del villaggio. Sembra che le donne delle classi più basse siano più propense a compiere sacrifici rispetto alle donne delle classi medio alte che sembrano essere più caute. Le attività di queste ultime consistono nell’organizzazione e nella partecipazione a manifestazioni, nella raccolta fondi per il finanziamento della rivolta, nel formare comitati nei villaggi per coordinare le risorse, nell’organizzare incontri di o ai militanti, nelle visite di condoglianze e agli ospedali e ai cimiteri, nelle violazioni del coprifuoco, nell’incitare i venditori a chiudere i negozi e partecipare alle dimostrazioni e nelle proteste scritte contro il governo britannico. Esse chiedono il rilascio dei prigionieri, il disarmo degli ebrei, la fine degli attacchi contro i civili e denunciano i metodi di repressione della rivolta da parte degli inglesi come la demolizione delle case, gli arresti, le sentenze di morte, i bombardamenti. Il tipo di attività più diffuso resta comunque la raccolta fondi, eseguita recandosi casa per casa e anche nelle campagne a chiedere donazioni per la rivoluzione e incoraggiando all’acquisto dei soli beni nazionali. Ciò che è più importante però per quanto riguarda la rivolta del 1936-’39 è la partecipazione delle studentesse. Molte di loro hanno preso lezioni da al Qassam e diventano coinvolte nella rivolta. Esse invitano altri studenti e studentesse a partecipare agli scioperi e alle manifestazioni, fanno discorsi pubblici, organizzano il boicottaggio dei beni esteri e spargono addirittura chiodi nelle strade per danneggiare i mezzi di trasporto inglesi. Tutte queste attività comportano talvolta anche l’arresto delle donne delle classi medio alte e delle studentesse. Il fenomeno della grande rivolta del ’36-’39 subisce però una battuta d’arresto a
partire dal 1938. In questo anno infatti i richiami all’innalzamento del livello di moralità tra la popolazione palestinese da parte della componente conservatrice della società divengono più forti. Ci si scaglia contro il modo di comportarsi e di vestirsi occidentale. Le donne vengono invitate a ritirarsi dalle strade e a indossare di nuovo il velo. Anche da parte dei leader nazionalisti viene una richiesta di questo genere: essi chiedono che le donne dell’ambiente urbano si vestano in modo modesto come fanno le donne appartenenti all’ambiente rurale. Nonostante questa brusca sterzata l’attività delle donne non si arresta anche se cambia forma, diventa meno visibile pubblicamente e usa prevalentemente la parola scritta. Un certo fermento rimane, come dimostrano gli avvenimenti degli anni ’40 prima della nakba.
Gli anni ’40 e il movimento nazionalista delle donne: tra panarabismo e discussioni sullo stato. I primi anni ’40 sono di relativa calma per la società palestinese e ciò a causa di vari fattori. In primo luogo la pubblicazione del White Paper (basato sui lavori della commissione Peel) da parte inglese nel 1939, dopo intense discussioni con rappresentanti della società palestinese, ebraica e araba più in generale, che prevede la creazione di uno stato palestinese in dieci anni che non sia ingovernabile a causa delle tensioni tra arabi e ebrei, una restrizione alla vendita di terra agli ebrei e una restrizione dell’immigrazione ebraica. Il Supremo Comitato arabo rigetta il White Paper che però è tacitamente accettato dalla società palestinese, il che contribuisce a mantenere un’atmosfera di stabilità. In secondo luogo il periodo di relativa pace è dovuto anche alla grande richiesta di forza lavoro che segue alla guerra mondiale dopo la quale migliorano le condizioni economiche sia nelle aree urbane sia nelle aree rurali. Inoltre nella prima metà degli anni ’40 c’è un grande fermento culturale. Tutto questo si riflette sulle strategie usate dalle donne nella loro lotta nazionalista che non scompare ma prende un’altra forma: non ci sono più attacchi veementi contro il governo mandatario inglese con la frequenza degli anni precedenti ma l’attività diventa più rivolta alle società palestinese e quindi alle donne, puntando sulla sfera culturale, educativa ed economica. Continua l’attività di denuncia attraverso la stampa, il lavoro a fianco dei prigionieri e
delle loro famiglie, la raccolta fondi per la lotta nazionalista. Anche se c’è una riaffermazione delle norme e delle strutture patriarcali e il comportamento delle donne è più assertivo nei confronti degli uomini, le organizzazioni delle donne proliferano e prendono una forma istituzionale più matura. Un elemento molto importante che caratterizza la prima metà degli anni ’40 e che aiuta la lotta nazionalista è la fioritura del panarabismo femminista. Nato in Egitto esso si diffonde in tutti gli altri paesi arabi grazie alla promozione dell’idea di unicità che si ritiene caratterizzi il mondo arabo e contro l’imposizione di confini artificiali da parte degli europei. Il panarabismo sposa già dagli anni ’30 la causa palestinese e si schiera contro il colonialismo inglese e contro il sionismo. Movimenti delle donne di Siria, Iraq, Egitto e Libano sostengono la rivolta delle donne palestinesi del 1936-1939. Le sorelle arabe sono disposte ad affiancare le palestinesi nella rivolta e a portare a conoscenza la loro attività sia a livello regionale che a livello internazionale. Esse inoltre partecipano allo stesso tipo di attività alle quali si danno le donne palestinesi: manifestazioni, ricerca di fondi, invio di lettere a governi e diplomatici esteri. Dalla fine degli anni ’30 inizia il lavoro di organizzazione di conferenze di o alla causa palestinese e al lavoro di lotta delle donne. La più importante è quella del 1938 presieduta dalla femminista egiziana Huda Sha’rawi e tenutasi al Cairo nell’Ottobre del 1938, che vede la partecipazione di donne dalla Palestina, dal Libano, dalla Siria e dall’Iraq e anche leader del movimento nazionalista maschile. Le donne palestinesi non hanno mai partecipato fino a quel momento a un evento di tale importanza sia sul piano regionale sia su quello internazionale. Alla Conferenza si riafferma la caratteristica della Palestina di essere un territorio “arabo”, si individua l’imperialismo inglese come il maggior problema da affrontare e si conferma la necessità di fronteggiare con l’unità araba la minaccia sionista. Le donne che partecipano alla conferenza chiedono l’abrogazione della dichiarazione Balfour, la fine dell’immigrazione ebraica e della vendita di terre e condannano l’idea di partizione del territorio palestinese e la rappresentazione del problema palestinese così come viene fatta nel mondo occidentale. Esse propongono l’invio di lettere ai leader politici inglesi, il boicottaggio di beni esteri e la formazione di comitati per l’implementazione delle decisioni prese. Un’altra conferenza è pensata da Huda Sha’rawi nel 1944 come espressione di
distaccamento da una visione del femminismo occidentale che domina l’Alleanza Internazionale delle Donne e che non permette una critica dell’imperialismo occidentale e del sionismo. Questa conferenza tuttavia, pur facendo riferimento alla questione palestinese, punta più in particolare alla discussione di alcune tematiche politiche, sociali e economiche riguardanti la vita delle donne. Entrambe le conferenze mostrano come il femminismo palestinese sia diverso da quello degli altri paesi arabi e come la lotta nazionalista sia sempre al primo posto rispetto a quella femminista. Nella seconda metà degli anni ’40 il movimento delle donne acquista nuova energia. Le distruzioni della seconda guerra mondiale e il conseguente crescente arrivo di ebrei in Palestina preoccupano sempre di più la società palestinese. Inoltre la soluzione offerta nel 1946 dalla Commissione Anglo-Americana per la questione palestinese non soddisfa né gli ebrei né i palestinesi. Essa prevede la continuazione del mandato sotto l’egida delle Nazioni Unite e quindi non prevede la formazione di uno stato, garantisce l’entrata di 100.000 ebrei e la vendita di terre a questi ultimi al contrario di quello che era stato stabilito dal White Paper inglese. Nel 1947 le Nazioni Unite decidono per la partizione della Palestina. A questo punto la lotta che le donne devono intraprendere viene ritenuta urgente e prende una forma ben definita nel 1948 dopo la prima guerra arabo-israeliana.
La nakba e il mito di Nasser: le donne da care givers a attiviste politiche. A differenza del periodo che va dagli anni ’20 del Novecento al 1948, l’anno della nakba, gli anni ’50 e i primi anni ’60 non sono abbastanza analizzati con riferimento al coinvolgimento delle donne in guerra. Una guerra che peraltro va vista come lotta nazionalista o “lotta per lo stato” che prende varie forme, a volte meno a volte più violente ma non quanto le azioni delle donne degli anni successivi. L’impossibilità di essere sul territorio e di fare delle interviste alle donne palestinesi e la scarsità di informazioni e testimonianze nella letteratura rendono molto difficile il lavoro di ricostruzione del ruolo delle donne in guerra negli anni considerati in questo paragrafo (1948-1967). Il dolore che hanno provato i palestinesi nel perdere le loro terre, le loro abitazioni, i loro affetti ha provocato diverse risposte da parte loro e ripercussioni diversificate sulle vite
delle donne le quali hanno molto spesso intrapreso percorsi diversi e hanno avuto a volte comportamenti opposti le une rispetto alle altre. È proprio a questi comportamenti che si cerca di dare una storia nelle prossime righe.
Il aggio dal 1948 agli anni ’50. La guerra arabo-israeliana del 1948 è composta da tanti episodi distinti. La guerra inizia in realtà nel 1947 in seguito al rifiuto delle decisioni dell’Onu sulla partizione dei territori palestinesi. Durante la guerra il ruolo delle donne è quello di o agli uomini. Le donne sono “care givers”: esse devono prendersi cura dei mariti e dei figli che stanno combattendo e lo fanno lavorando negli ospedali, curando i feriti, preparando il cibo, occupandosi dei loro vestiti, raccogliendo fondi. Alcune di loro, quelle più organizzate e membri delle associazioni di donne, fanno da corrieri e ricevono insegnamenti per l’utilizzo delle armi anche se raramente le usano. Una delle conseguenze più tristi della guerra del 1948 è il grande numero di profughi da essa provocato, un dato ancora controverso: la storiografia sionista ufficiale parla di 520.000 persone, la nuova storiografia israeliana di 700.000, la storiografia palestinese di 900.000-un milione. I profughi trovano rifugio in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza, in Libano e in Siria e in Iraq. In Israele rimane circa la metà della popolazione palestinese originaria, ossia circa 150.000 persone. Le forme di lotta intraprese dai palestinesi e in particolare dalle donne sono diverse a seconda dei luoghi in cui esse si trovano dopo la creazione dello stato di Israele: all’interno del neonato stato di Israele, negli altri paesi arabi o nei campi profughi. Nei nuovi territori israeliani i palestinesi sono trattati come cittadini di seconda classe. Molti di loro perdono le loro case e le loro terre che vengono usate dai nuovi immigrati ebrei. I palestinesi diventano presenti assenti: presenti perché vivono all’interno dello stato di Israele, assenti perché le loro terre sono usate dall’Agenzia Ebraica per l’insediamento degli ebrei. I palestinesi vengono letteralmente spostati in tre zone principali: la Galilea centrale, il Triangolo e il Negev. Molti villaggi vengono dichiarati zone militari e le persone vengono
confinate nei ghetti per facilitarne il controllo. Esse devono anche essere sottoposte a un processo di rieducazione. Tutto ciò per evitare che possano nascere dei movimenti per la difesa dei propri diritti. Una delle prime risposte delle donne palestinesi a queste violenze, quindi una nuova forma di lotta dal 1948 e negli anni successivi, è l’alto numero delle nascite e quindi l’alto tasso di fertilità. Come è dimostrato da vari studi, donne con un grado di istruzione più alto e con un lavoro retribuito sono meno propense ad avere molti figli. Le donne palestinesi presenti nel nuovo stato di Israele e fuori da esso sfuggono a questa tendenza e continuano ad avere molti figli. Questo si spiega come resistenza alla politica israeliana di controllo delle nascite palestinesi e di incentivo alle nascite israeliane: gli israeliani permettono alle donne palestinesi di svolgere i lavori più umili e di avere un ritorno economico seppur minimo perché pensano che questo ritardi l’età del matrimonio e faccia diminuire nelle donne già sposate la propensione a procreare. Questa tattica israeliana è contrastata dalle palestinesi in Israele. Anche nei territori di Gaza e della West Bank, e in particolare tra i rifugiati, il tasso di fertilità è alto già a partire dagli anni seguenti il 1948 nonostante l’alto livello di istruzione femminile. A questo fenomeno si danno spesso spiegazioni politiche nella letteratura: la prima è che il numero delle persone di cui un popolo è costituito può essere usato come un’arma contro l’occupazione (pensiero che ritorna spesso nelle ideologie nazionaliste); la seconda spiegazione è che le persone in situazioni di conflitto, come in questo caso i palestinesi, desiderano avere molti bambini per sopperire le perdite che ci sono state, che ci sono e che ci saranno in guerra. Un’altra forma di lotta delle donne palestinesi in Israele è la partecipazione nei gruppi nazionalisti e nel partito comunista. Proliferano anche le associazioni filantropiche. Ognuno di questi organismi ha come obiettivo principale la lotta nazionalista e mette in secondo piano la liberazione femminile. Una delle conseguenze più importanti della guerra del 1948 è l’esaltazione del ruolo della famiglia, una delle poche istituzioni palestinesi uscite intatte dal conflitto. Avendo avuto molte perdite materiali la famiglia è l’istituzione che rievoca i valori ideali della società palestinese come la solidarietà. È la famiglia che si pone come garante dell’onore delle donne, minacciato dalla violenza degli israeliani. La famiglia rafforza la memoria collettiva e l’identità nazionale. È proprio per questo motivo che molte donne si ritirano dalla vita pubblica. Nei campi profughi i palestinesi diventano addirittura fanatici riguardo alla questione
dell’onore delle donne, forse perché hanno perso qualsiasi cosa materiale e l’onore è l’unica cosa in loro possesso in quel momento. Dopo la nakba alcune donne si recano negli altri stati arabi come per esempio il Libano e il Kuwait. Lì esse lavorano: il lavoro diventa una importante forma di “lotta per lo stato” in quanto il guadagno è spesso utilizzato dall’intera famiglia della donna che lavora e per questo permette la sopravvivenza della famiglia e più in generale del popolo palestinese. Molte delle donne che lavorano negli altri paesi appartengono alle classi medio alte e hanno un livello di istruzione tale da poter dare lezioni a altre donne, da cercare la mobilitazione nei campi e da stimolare le coscienze politiche. Prendono coscienza anche le donne provenienti dall’ambiente rurale. Più precisamente esse si sviluppano due tendenze: se da un lato le donne credono che una delle cause del disastro del 1948 sia la loro mancanza di istruzione e di consapevolezza e cercano quindi di prendere lezioni e di essere il più possibile preparate, dall’altro avviene un rafforzamento dei costumi tradizionali e un ritorno alla vita di mogli e madri. Nei campi profughi la lotta delle donne contro l’occupazione, la lotta per il proprio popolo è la sopravvivenza. Le donne infatti si dedicano alle faccende domestiche, alla cura dei propri figli e dei propri mariti e sentono che il modo più giusto di contribuire alla causa nazionale è quello di essere mogli e madri. I campi profughi però sono anche luoghi dove la vicinanza e la socializzazione forzata portano a un crescente desiderio di lotta e di ribellione. Se alla fine degli anni ’40 sono per la maggior parte le giovani ragazze a chiedere un ruolo attivo nella rivoluzione contro il nemico israeliano, sfidando l’idea maschile che il ruolo più appropriato per una donna impegnata nella resistenza è quello di “curatrice”-infermiera o “care giver”, a partire dal 1952 con l’ascesa di Nasser e il crescente panarabismo, il ruolo delle donne si rafforza e molte di loro dimostrano di avere “il vento nei capelli”.
Le donne palestinesi negli anni di Nasser. Gli anni ’50 sono gli anni dei leader progressisti e del nazionalismo arabo e del panarabismo. I leader medio-orientali sposano la causa anti-imperialista e quella dell’unità del mondo arabo. La persona più carismatica che riesce a ottenere
consenso grazie all’utilizzo di queste idee è Nasser che sale al potere in Egitto nel 1952. Il culmine delle sue idee anti-imperialiste si ha nel 1955-1956 con il rifiuto del patto di Bagdad nel 1955 e quindi la liberazione della Siria dagli appetiti iracheni e britannici e soprattutto la nazionalizzazione del canale di Suez. L’unità araba è invece formalizzata nel 1958 con la creazione della Repubblica Araba Unita che vede l’unione di Siria ed Egitto. Per Nasser come per altri leader arabi la creazione dello stato di Israele nel 1948 rappresenta una minaccia all’unità araba. La questione palestinese è un test politico per i protagonisti della politica araba dagli anni ’50 ma è anche un’arma che permette loro di ottenere il consenso delle masse e Nasser riesce ad conquistarlo. Secondo Nasser la prosperità può arrivare solo da una politica di sviluppo economico e di autosufficienza, di non allineamento nella competizione tra le due superpotenze e di unità araba. Deve essere combattuto il feudalismo, il reazionarismo, lo sfruttamento da parte di attori esterni e il sionismo. La liberazione della Palestina è un o fondamentale per ottenere la vera unità araba. La voce di Nasser percorre tutti i paesi arabi grazie alle radio e il popolo palestinese istruito e la generazione degli studenti degli anni ’50 può leggere direttamente di questo nuovo e potente messaggio. Sono proprio gli studenti e le studentesse palestinesi che prendono in mano la situazione e combattono per il loro popolo in questi anni. Nelle università e nei college le studentesse si organizzano e manifestano contro Israele e contro le potenze occidentali. Questo avviene anche durante la guerra del 1956. Non mancano episodi violenti. Una studentessa viene ammazzata dalle forze di sicurezza giordane nel 1956 per aver osato togliere la bandiera inglese dal tetto del consolato britannico situato a Gerusalemme Est. Si può affermare che gli anni ’50 siano gli anni degli studenti. Essi hanno molto potere e grazie alla frequenza delle università possono leggere i libri di Lenin, Sartre, Simone de Beauvoir. Le studentesse entrano con molto entusiasmo nei partiti comunista, baathista, nel movimento nazionalista arabo. Anche se è vero che molte volte le loro riunioni avvengono separatamente da quelle organizzate dagli uomini, accade anche spesso che le donne partecipino al lavoro degli uomini, svolgendo lavoro segretariali, facendo propaganda, distribuendo volantini e reclutando le altre donne. Le donne attive negli anni ’50 hanno il vento nei capelli: desiderano
avere la libertà di combattere per la Palestina e di essere uguali agli uomini nel farlo. “Avere il vento nei capelli” è l’espressione usata dal padre di Salwa Salem per indicare le donne “troppo libere” rispetto a quelle che sono le norme sociali tradizionali della società palestinese. Salwa Salem è una donna palestinese che deve lasciare Nablus da bambina in seguito alla guerra del 1948 e che si impegna contro l’occupazione israeliana negli anni ’50 anche grazie al collegamento che il fratello ha con gli ambienti universitari. Anche lei riceve un’istruzione universitaria ma è costretta a lasciare la Palestina e dopo molte peripezie arriva in Italia dove trascorre buona parte della sua vita prima di morire. Per le donne che combattono negli anni ’50 Nasser e i neonati partiti rappresentano una speranza: quella di tornare nella propria terra. Una terra che a volte è stata solo raccontata dai propri genitori e che non è mai stata toccata con mano. Molte donne che partecipano alle riunioni di partito o a quelle studentesche sono in realtà ragazze. Alcune donne poi, sono meno consapevoli di altre di quello che significa la loro partecipazione in quanto il loro livello di istruzione è troppo basso. Quello che sanno però è che ciò che fanno è per la Palestina. È in questi anni che l’immagine della donna ideale cambia: le donne ano dall’essere viste come “ladies” all’inizio del movimento delle donne a “men’s sisters”. Dopo varie discussioni da parte dei diversi governi arabi nel 1963 viene finalmente riconosciuta dall’Egitto di Nasser un’entità palestinese. Qualche mese più tardi, nel 1964, viene fondata a Gerusalemme l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina che sarà in seguito riconosciuta anche da Siria e Arabia Saudita. La Carta dell’Olp parla chiaramente di “elevazione” del ruolo delle donne nella rivoluzione. Al Fatah, che diventerà il gruppo dominante all’interno dell’organizzazione cerca di fare un lavoro di reclutamento delle donne in Egitto, in Siria e in Kuwait. Yasser Arafat, leader di Al Fatah, crede che le donne debbano essere presenti nelle basi militari e vivere lì e combattere. Secondo lui: “the revolution we need women comrades who are intelligent and educated; we cannot reach victory flying on the one wing.”. Nonostante questo invito la società palestinese non vede ancora di buon occhio la presenza delle donne nelle basi militari. Alcune di loro sono considerate delle prostitute dagli uomini a causa della partecipazione in ambienti militari tradizionalmente riservati a questi ultimi.
Già dagli inizi degli anni ’60 le donne raccolgono l’appello di Arafat. Molte di esse si uniscono nella General Union of Palestinian Women. L’unione nasce nel 1965 in seguito all’invito alle rappresentanti della società di Gaza e della West Bank del capo del Dipartimento delle Organizzazioni Popolari dell’Olp a formare un’organizzazione popolare per le donne che avesse come obiettivo la mobilitazione per la lotta nazionale. L’unione ha diramazioni a Gerusalemme, a Gaza, in Libano e in Giordania. Si può diventare membri dell’Unione sia grazie alla hip nell’Olp, sia con l’adesione individuale. Tutti i membri dell’unione ricevono una preparazione militare da utilizzare per la propria difesa, ma alcune donne che lo desiderano possono imparare anche a utilizzare armi pesanti o a partecipare in operazioni di guerriglia. Tutti i membri devono partecipare a un corso di primo soccorso. Le donne dell’Unione si occupano anche di relazioni internazionali e organizzano lezioni per le “sorelle” meno istruite. Esse cercano di coinvolgere il maggior numero di donne possibile nella rivoluzione, soprattutto negli anni dopo il 1967. È dopo il 1967 in particolare che il ruolo delle donne in guerra sarà più violento come si può vedere analizzando la biografia di una delle figure tipiche della resistenza armata palestinese femminile: Leila Khaled.
Il disastro del 1967 e le conseguenze sulla partecipazione delle donne in guerra. La guerra del giugno del 1967 viene identificata dai palestinesi come la “naksa” cioè la sconfitta. Con quella guerra infatti Israele conquista territori vari e relativamente estesi: la penisola del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est e le alture del Golan. Ancora una volta i palestinesi sono costretti a subire l’abbandono forzato della loro terra e delle loro case. L’acqua viene posta sotto il controllo israeliano e sono proprio gli israeliani a decidere come, quando e cosa possono coltivare i palestinesi rimasti nei nuovi territori conquistati. Il lavoro palestinese che si mette a disposizione degli israeliani è sfruttato e sottopagato per cui si va incontro a una crescente proletarizzazione. Molte persone diventano profughi per la seconda volta. Una vera e propria pulizia etnica viene messa in atto dagli israeliani soprattutto con il crescere della resistenza palestinese. Il Generale israeliano Ariel Sharon diventa il simbolo dell’aggressività: chiamato il “Bulldozer” è lui che ordina demolizioni di case e violenze contro i civili. Oltre ai possedimenti privati Israele cerca di prendere
anche il controllo delle istituzioni e dei servizi pubblici come la Jerusalem Electric Corporation e l’ospedale Al Makassed di Gerusalemme. Il Ministro israeliano per gli Affari Religiosi cerca di prendere il controllo della questione musulmana. Ai palestinesi si cerca di imporre anche nuovi curriculum scolastici. Non sono permesse unioni politiche e culturali. La rabbia tra i palestinesi esplode e la resistenza all’occupazione aumenta. Le adesioni a Al Fatah, al Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e al Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina crescono significativamente così come la partecipazione delle donne che da questo momento sono più propense ad utilizzare la violenza.
Le donne dal 1967: partecipazione in guerra e resistenza. L’elemento di diversità nella partecipazione delle donne nella guerra del 1967 rispetto alle guerre precedenti è costituito dalla resistenza armata che continuerà anche negli anni seguenti. Nel 1967 però i metodi tradizionali di resistenza non svaniscono: essi sono non violenti e si basano soprattutto sulla beneficenza. Questo tipo di resistenza è messo in atto da tre tipi di donne: le shakhsiyat, le intellettuali e le donne ordinarie. Le shakhsiyat provengono generalmente dalle classi medio-alte anche se in seguito al 1948 l’appartenenza di classe va svanendo. La loro attività è socialmente riconosciuta perché ricade nei confini socialmente accettati del lavoro sociale. Queste donne sono nazionaliste ma non entrano a far parte dei partiti politici. Esse difendono e promuovono la cultura nazionale stando bene attente a non mettere in discussione le strutture sociali esistenti. Il loro lavoro consiste nel dare lezioni ai bambini trasmettendo loro una coscienza nazionalista, nell’aiutare le famiglie dei prigionieri o comunque bisognose, nell’assicurare cure ai malati e ai feriti, nell’essere vicine psicologicamente e economicamente alle donne creando lavoro basato sulle poche risorse palestinesi come la costruzione di bandiere e la cucitura di vestiti per i combattenti. Le intellettuali invece non sono più solo donne appartenenti alle classi medio alte in quanto l’istruzione ha ormai raggiunto anche le aree rurali. Oltre a promuovere la cultura palestinese esse denunciano le violenze subite dal popolo palestinese. Le scienziate portano all’attenzione pubblica le questioni del deterioramento della salute e della mortalità infantile, della malnutrizione e dei
batteri che colpiscono gran parte della popolazione. Le intellettuali palestinesi protestano contro l’isolamento a cui vanno incontro nelle università israeliane. Le intellettuali mettono anche al centro delle loro lotte la questione femminista che non è più solo subordinata a quella nazionalista. Le donne ordinarie sono quelle che per provenienza (aree periferiche o appartenenza al gruppo dei beduini) o problemi economici non hanno potuto ricevere un alto livello di istruzione (quasi tutte però hanno un’istruzione di livello elementare). Anche queste donne però hanno una buona coscienza politica: partecipano agli scioperi contro i maltrattamenti israeliani nei confronti delle donne sul luogo di lavoro e soprattutto partecipano alla lotta nazionalista. Beduine e donne di tutte le età resistono alla demolizione delle case, cercano di rimanere nei territori natii occupati invece che andar via, si oppongono all’arresto degli esponenti maschi della propria famiglia e si rifiutano di dare informazioni sugli esponenti della famiglia che partecipano alla lotta armata. Esse sopportano il dolore per l’uccisione dei figli. Ma ciò che merita più attenzione è l’elemento innovativo che si può vedere su larga scala nella guerra del 1967 e che si sviluppa negli anni successivi: l’uso della violenza e della resistenza armata per contrastare l’occupazione israeliana. La guerra fa nascere velocemente dentro e fuori dai campi milizie alle quali le giovani chiedono di partecipare. Organizzazioni di massa come la General Union of Palestinian Students affida alcuni compiti alle ragazze per la partecipazione alla lotta armata e i media sostengono la rivoluzione. Le donne impegnate nella lotta armata appartengono per la maggior parte alle nuove generazioni e rifiutano l’idea di una guerra arabo-israeliana che vada avanti per anni. Esse sfidano le norme sociali tradizionali: molte di loro non indossano il velo e rimandano o evitano il matrimonio e la nascita dei figli per frequentare l’università e impegnarsi per la causa palestinese. Queste donne hanno come modelli Mao Tse Tung e i leaders rivoluzionari del “Terzo Mondo” e pensano che la lotta armata sia l’unico modo per liberare la Palestina. Alcune rivoluzionarie ottengono l’incoraggiamento sia dai partiti di sinistra come il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina sia dalle famiglie nazionaliste, che sono spesso socialiste o comuniste ma non islamiste. Tuttavia il rapporto con le famiglie non è sempre così disteso. Le donne devono combattere contro la resistenza degli esponenti maschi a lasciarle partecipare in attività tipicamente riservate agli
uomini. Le famiglie palestinesi sono molto attente alla questione dell’onore che fa riferimento sia alla reputazione sessuale di una donna, sia alla posizione della famiglia nella società. Una famiglia che permette a una donna di partecipare alla lotta armata non è vista sempre di buon occhio. Le donne quindi si trovano impegnate in una lotta su due fronti: contro gli esponenti maschi della famiglia e contro il nemico israeliano. Anche Eisheh Odeh, una delle prime guerrigliere, deve combattere contro la famiglia per andare all’università e poi entrare a far parte della guerriglia. Molte donne che entrano a far parte della resistenza armata svolgono prima un lavoro di mobilitazione popolare in cui dimostrano originalità di pensiero e devozione per la causa palestinese. Secondo Awar Kamal solo quattro di loro entrano direttamente a far parte della guerriglia: Leila Khaled, Fatima Bernawi, Eisheh Odeh e Rasmiyeh Odeh. Le ultime tre vivono nella West Bank quando inizia la guerra del 1967 e entrano subito a far parte della resistenza ma in poco tempo vengono catturate e imprigionate dagli israeliani. Tutte e tre sono condannate alla prigione a vita ma vengono rilasciate dopo dieci anni, la prima per motivi di salute, le altre due in uno scambio di prigionieri. La loro attività continua anche in prigione e nel momento in cui ottengono di nuovo la libertà guadagnano anche un ruolo più alto nel partito. L’associazione principale che recluta le donne per la lotta armata è la General Union of Palestinian Women. L’Unione è stata espulsa da Gerusalemme nel 1967 per le continue proteste, sit-in e manifestazioni contro il mancato impegno della Giordania contro le violenze commesse da Israele nei confronti dei palestinesi. L’Unione ha comunque continuato ad agire in modo illegale offrendo training militare e corsi di primo soccorso anche all’interno dei campi per i rifugiati. Per quanto riguarda i partiti invece, quello che più si occupa di rivoluzione armata e che affida compiti militari alle donne è il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Il Fronte Popolare abbraccia il marxismo-leninismo e dà alla rivoluzione un contenuto di classe. Secondo il Fronte Popolare il potere è nelle masse e una rivoluzione araba armata è il prerequisito per risolvere la questione palestinese. La tattica principale usata dal Fronte Popolare è il dirottamento di aerei di cui si parlerà meglio in seguito facendo riferimento alla figura di Leila Khaled. Molte donne entrano a far parte della resistenza con l’intenzione di combattere fino a ottenere la liberazione dei territori occupati da Israele. È il caso per esempio della pittrice Mona Saudi, di origine giordana, che
si reca in Francia per frequentare una scuola di scultura ma che nel 1968, stimolata dal movimento studentesco parigino, lascia la capitale se per entrare a far parte della resistenza. La donna entra nel Fronte Popolare perché inizia a vedere la lotta armata come una forma di pensiero politico e rivoluzionario, proprio come l’arte. Nel 1967 comincia a mutare l’idea di Al Fatah secondo la quale l’unità araba sarebbe necessaria per la liberazione della Palestina e si inizia a pensare che è solo la liberazione della Palestina che può portare all’unità araba. Per raggiungere questo obiettivo anche Al Fatah ritiene indispensabile la lotta armata. Tuttavia all’interno del partito l’attivismo delle donne è visto in modo più chiuso rispetto a come è visto nel Fronte Popolare. Non si deve dimenticare che Al Fatah è una fazione centrista che fa appello ai valori tradizionali della società palestinese per ottenere il controllo sia della classe media sia della popolazione dei campi. Al Fatah è un partito di massa che recluta le donne senza riferimento a una particolare classe sociale. Nonostante Al Fatah cerchi di non rimanere indietro rispetto allo schieramento delle donne da parte del Fronte Popolare, ingaggiando per esempio Fatma Bernawi che nel 1967 piazza una bomba in un cinema di Gerusalemme che viene trovata prima dell’esplosione e che le costa dieci anni di prigione, la partecipazione delle donne alla lotta militare all’interno del partito è riconosciuta formalmente solo nel 1970. Dal 1968 però le donne, ispirate dalla visione delle donne del Fronte Popolare e dalle idee provenienti dal mondo occidentale sulla liberazione femminile, iniziano a reclamare non solo un riconoscimento del ruolo che attualmente ricoprono ma anche a richiedere un ruolo più attivo nella rivoluzione armata contro il nemico israeliano. Dalla fine del 1968 apre il primo campo per le donne per l’utilizzo di armi leggere. Tuttavia il lavoro delle donne maggiormente riconosciuto continua ad essere quello filantropico e di mobilitazione. Nel Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina la resistenza delle donne assume per lo più una forma non violenta. La partecipazione delle donne alla resistenza armata diviene ulteriormente più ampia dopo l’emendamento della Carta dell’Olp in cui si può leggere che la resistenza armata è l’unico modo per liberare la Palestina. Nel 1970-‘71 le donne partecipano alla guerriglia palestinese contro le forze giordane, una guerriglia che comporterà l’espulsione dell’Olp dalla Giordania e il seguente trasferimento dell’organizzazione in Libano. Anche da questo stato le
donne partecipano alla guerriglia con compiti anche delicati come combattimento e trasporto di armi. Alcune di esse dopo tali azioni vengono considerate eroine o martiri nel caso in cui perdono la vita. Per capire meglio il clima che si respira dal 1967 è bene prendere in considerazione la figura di Leila Khaled, considerata un’eroina da buona parte della popolazione palestinese ma allo stesso tempo anche criticata dagli esponenti pacifisti della società.
Leila Khaled: icona della lotta di liberazione palestinese. Nata nell’Aprile del 1944 ad Haifa, Leila Khaled è costretta a lasciare la sua città natia dopo i combattimenti tra arabi e ebrei nel Marzo del 1948. Appartenente a una famiglia di otto figli Leila Khaled trova rifugio in un campo profughi a Tiro, una città nel sud del Libano che diventerà nel corso degli anni un punto di riferimento per molti palestinesi espulsi dalla loro terra. Leila racconta di campi affollati in cui il rischio di inondazione è sempre presente e può anche uccidere. La gente dei campi è registrata nei registri dei profughi delle Nazioni Unite e quotidianamente fa la fila per avere una razione di cibo molte volte insufficiente. Leila Khaled ritiene che tutto ciò sia umiliante e paragona la vita dei palestinesi nei campi a quella dei mendicanti. Secondo lei la cosa migliore che l’UNRWA abbia fatto è stata fornire un buon sistema educativo. La scuola è vista da Leila Khaled e dai palestinesi in generale come l’unico modo per dimostrare che essi sono esseri umani e non solo numeri. Dopo aver frequentato la scuola anglicana di Tiro, Leila inizia la carriera universitaria presso la facoltà di farmacia dell’American University di Beirut. Tuttavia può rimanere nell’istituzione solo un anno a causa delle ristrettezze economiche. Per questo motivo e per aiutare la famiglia inizia a lavorare come insegnante di inglese in Kuwait. All’età di sedici anni Leila Khaled entra segretamente a far parte del Movimento Nazionalista arabo che crede nella liberazione della Palestina all’interno di un mondo arabo socialista e unito. Visita le parti della West Bank che non sono sotto l’occupazione israeliana e matura l’idea di Palestina che la farà poi diventare una combattente. La guerra del 1967 con la perdita dei territori per i palestinesi e la grande massa di profughi che essa comporta spinge Leila a prendere la decisione di fare
qualcosa di positivo per la causa palestinese e così entra a far parte del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Dal 1968 riceve una formazione militare completa che le permette di essere selezionata e di partecipare, con un ruolo molto importante, alla resistenza attraverso il dirottamento degli aerei. Nella lotta armata le donne devono dimostrare di essere uguali agli uomini e ciò è visibile anche dall’aspetto esteriore: molte foto ritraggono le combattenti (e anche la stessa Leila) che indossano la kefiah e imbracciano un fucile. Nei primi anni della sua resistenza armata Leila Khaled combatte in nome del popolo palestinese non in nome delle donne palestinesi: ancora una volta la questione delle donne assume un ruolo di secondo piano rispetto alla questione palestinese anche se, in riferimento alla combattente di cui si tratta, questo pensiero cambierà nel corso della sua vita. Il 26 Agosto 1969 ottiene l’incarico di dirottare un aereo Boeing 707 della compagnia TWA diretto da Roma ad Atene. Lo scopo è quello di ottenere il rilascio di prigionieri palestinesi trattenuti nelle prigioni israeliane. Viene scelta la tattica del dirottamento per porre la questione palestinese all’attenzione internazionale. In un documentario mandato in onda dalla BBC TV Leila racconta di questo desiderio di ottenere attenzione per la questione palestinese e chiede di non ricevere dal mondo solo tende e vestiti usati ma la consapevolezza di quello che significa per un palestinese essere profugo, lontano dalla propria terra e con uno scenario di morte e distruzione quotidianamente davanti agli occhi. Leila Khaled accompagnata da Salim Issaw (che conosce solo sull’aereo grazie a un prestabilito segno di riconoscimento) prende il controllo dell’aereo che viene dirottato verso Damasco invece che arrivare come previsto ad Atene e dove viene fatto scoppiare con una bomba. Si pensa che sull’aereo ci sia il Generale Rabin che però in realtà ha rinunciato al volo all’ultimo minuto. È solo lui che i due cercano e non hanno alcuna intenzione di fare del male agli altri eggeri come testimoniano i continui annunci fatti da Leila Khaled sull’aereo. Gli annunci inoltre fanno sempre riferimento alle sofferenze causate da Israele al popolo palestinese: <
and Gentlemen, our destination is a friendly country, and friendly people will receive you. Thank you for your cooperation. We wish you a happy journey.>> e alla situazione tra Palestinesi e Israeliani: <<We have hijacked this plane because we want to cut the roots that feed Israel. Don’t go to Israel because there is resistance on land and en route: tell this to your friends. We want to go back to our country and we can live with the Jews because we lived with them before.>> dichiarandosi apertamente contro l’imperialismo americano e contro il sionismo: <
>. Prima dell’arrivo a Damasco l’aereo viene diretto verso Haifa, la città natale dei due dirottatori per permettergli di rivedere almeno dall’alto la terra dalla quale sono stati costretti a fuggire. Per affrontare il secondo dirottamento e sfuggire ai controlli Leila Khaled si sottopone a sei interventi di chirurgia plastica. Il dirottamento si colloca nel piano di dirottamenti multipli del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che inizia il 6 Settembre del 1970, dopo il rifiuto del piano di pace per il Medio Oriente del Segretario di Stato degli Stati Uniti William Rogers. Il piano prevede quattro dirottamenti: quello di un aereo svizzero per chiedere il rilascio di compagni detenuti in Svizzera e di due tedeschi per il rilascio dei prigionieri in Germania e in Gran Bretagna. Il quarto dirottamento riguarda il volo El Al 219 in servizio fra Amsterdam e New York e ha luogo proprio il 6 settembre. Il piano intende dimostrare agli altri paesi che quella dei palestinesi è una guerra legittima che deve essere riconosciuta a livello mondiale. Secondo Leila Khaled è proprio la lotta armata che fornisce l’incoraggiamento giusto per continuare a combattere per la causa palestinese. Leila partecipa alla missione accompagnata dal giovane americano di origine nicaraguense Patrick Arguello membro del movimento sandinista e simpatizzante della causa palestinese. Il progetto però non va in porto perché sull’aereo si trova un generale delle forze di sicurezza israeliane che riesce a uccidere Arguello e a bloccare Khaled. Quest’ultima viene poi arrestata e detenuta in Gran Bretagna. Leila viene rilasciata il primo ottobre in uno scambio di prigionieri. Da quel momento vive in Libano, in Siria e in Giordania, dove costruisce una famiglia, ma continua il suo attivismo prima come combattente e poi come politica per il Fronte Popolare presso il Consiglio Nazionale Palestinese. Negli anni ha attribuito sempre più importanza alle donne ma il suo pensiero sulla questione palestinese è rimasto abbastanza radicale, come riportato in un articolo del
giornale The Guardian del 26 febbraio del 2001: <
>. Il conflitto quindi secondo la Khaled durerà fino a quando i palestinesi non avranno il diritto di auto-determinazione, uno stato con capitale Gerusalemme, ai rifugiati sarà concesso il diritto al ritorno e Israele non si ritirerà dai territori occupati nel 1967.
La prigionia come forma di resistenza: alcune testimonianze. Con la crescita della partecipazione alla resistenza delle donne palestinesi dal 1967 in poi, aumenta anche la repressione israeliana e molte donne vengono imprigionate. Prima del 1967 c’è una certa riluttanza all’imprigionamento delle donne a causa di un diffuso paternalismo e della scarsa importanza che si da all’opinione delle donne e a causa dello scetticismo a piazzare le donne in prigione a fianco ai criminali. Le donne che vengono imprigionate sono spesso accusate di partecipazione a organizzazioni illegali. In realtà si tratta il più delle volte di unioni studentesche o unioni delle donne. Inoltre vengono accusate di essere membri di Al Fatah o del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, di nascondere l’attività dei propri parenti, di spostarsi senza permesso, di partecipare a operazioni militari, di dare cibo ai combattenti, di nascondere armi. Le palestinesi vengono imprigionate anche per opposizione all’occupazione che si concretizza nelle manifestazioni, nell’esibizione della bandiera palestinese o nell’indossare i colori della stessa bandiera o nel canto delle canzoni palestinesi. Oltre alla detenzione con un’accusa precisa, gli israeliani usano anche la detenzione amministrativa: madri di, mogli di, sorelle di uomini che si oppongono in vario modo all’occupazione israeliana vengono arrestate insieme agli uomini per interrogatori e inchieste che possono durare settimane con l’intenzione di poter incolpare l’uomo detenuto, quindi per poter fare pressioni o anche come misura preventiva per evitare che le donne possano partecipare a manifestazioni o partecipare a eventi contro l’occupazione. La detenzione amministrativa non prevede un processo e anche se la sua durata dovrebbe essere solo di sei mesi, molto spesso questa viene rinnovata senza alcun rispetto per le donne. Nei rari casi in cui è concesso un processo questo avviene in lingua ebraica, senza che le donne possano veramente capire di cosa si stia parlando e
con la costrizione di firmare documenti in ebraico a esse incomprensibili. All’interno delle prigioni non c’è alcun rispetto per le donne: esse sono sottoposte a un trattamento violento e disumano. Non c’è alcuna attenzione all’età delle donne che vengono imprigionate: vengono arrestate minorenni così come settantenni e donne incinte o con figli piccoli di cui non può occuparsi nessuno. Secondo Soraya Antonius tra il 1967 e il 1979 sono state arrestate 1.229 donne. Questo dato però non include più di 150 donne delle quali non si hanno dettagli o le donne catturate nella striscia di Gaza e detenute nei campi della penisola del Sinai. Inoltre a meno che non si tratti di donne molto conosciute nella società o che abbiano commesso crimini gravi, molto spesso al loro arresto non viene dato spazio nella stampa per cui soprattutto il mondo esterno non ne è a conoscenza. Le interviste effettuate da Antonius sono utili per capire qual è l’attività delle donne a partire dal 1948 e cosa significa la prigione per le palestinesi. Un esempio della violenza usata contro le donne e il terrore che si suscita in esse è l’esperienza di Issam Abdel-Hadi. Desiderosa di frequentare l’università, il suo sogno viene spezzato dall’occupazione israeliana di Marj ibn ‘Amer nel 1948. Entra comunque a far parte dell’Unione delle Donne Palestinesi e nel 1949 ne diventa segretario onorario. Nel 1948 si impegna ad accogliere i rifugiati e a offrire loro cibo, medicine, materassi e ospitalità nelle scuole e nelle chiese. Nel 1964 viene scelta come figura nazionale rappresentativa per entrare a far parte del Consiglio Nazionale Palestinese e nel 1965 partecipa alla conferenza suggerita dall’Olp per mobilitare le donne palestinesi e lavorare per la liberazione della Palestina. È quindi anche membro della Unione Generale delle Donne Palestinesi che nasce in seguito alla conferenza. Durante la guerra del 1967 si dedica all’aiuto dei feriti e delle famiglie delle persone uccise. Nel luglio del 1967 partecipa alla redazione di memorandum da mandare ai diplomatici, alle autorità ecclesiastiche e alla Croce Rossa internazionale denunciando le torture, gli arresti di massa, la detenzioni amministrative. È proprio a luglio che viene interrogata la prima volta con l’accusa di ospitare i fedayeen in assenza del marito. È interessante riportare un frammento dell’interrogatorio: Soldato israeliano: <
> Issam: <<But we did live as neighbours until you started taking our country
away from us; the 1948 war changed everything. You used to visit your Holy Places, but now can we visit ours in Acre and Haifa, can we? You’ve destroyed them, look at the cemetery in Mamilla Road.>> Soldato israeliano: <
> Questo tipo di interrogatorio si è verificato per altre cinque o sei volte prima dell’arresto. Una notte alla fine del 1968 i soldati pesantemente armati fanno irruzione in una scuola di ragazze dove si trova anche Issam e strappano i capelli a tutte le presenti per verificare che sotto l’aspetto da ragazza non si nasconda un feda’i. Nel febbraio del 1969 Issam partecipa ai sit-in a Gerusalemme contro la tortura di alcuni uomini arrestati, contro il divieto delle proprie mogli di fargli visita in prigione e contro la seguente uccisione di alcune di loro e contro l’occupazione in generale. Un mese dopo nel corso degli arresti di alcune ragazze membri dell’Unione Generale degli Studenti (alcune di loro hanno solo 14 anni), la casa di Issam viene perquisita. I soldati israeliani trovano al suo interno una macchina da scrivere nascosta nella dispensa e considerano il fatto come una prova di colpevolezza di Issam e di sua figlia allora sedicenne (accusata di hip nell’Unione Generale degli Studenti e di appartenenza a uno dei gruppi di resistenza) che vengono entrambe arrestate e condotte alla Prigione Centrale di Nablus. Al loro arrivo le donne trovano altre ragazze arrestate, bendate e con le mani legate dietro alla schiena e con i segni di violenza sul viso. La figlia di Issam entra a far parte di questo gruppo mentre Issam viene trasferita a Gerusalemme nella prigione russa Moscobiya. Qui Issam viene di nuovo sottoposta agli interrogatori con accuse infondate e viene posta tutta la notte in un una stanza dalla quale può sentire le torture e le sofferenze che vengono inflitte agli uomini e pensa che alcuni di essi confesseranno crimini mai commessi solo per non sopportare più tanto dolore. Dopo alcuni giorni Issam viene trasferita di nuovo nella prigione di Nablus dove le prigioniere sono trattate in maniera disumana. Le torture sono pesantissime: alcune donne o ragazze muoiono, alcune non riescono più a camminare, molte vengono sottoposte a violenza sessuale per intaccare l’onore tanto caro alle donne musulmane.
A Nablus le accuse che vengono rivolte a Issam sono di partecipazione alla resistenza e di conoscenza del nascondiglio di due leader della resistenza. Issam nega tutto. A questo punto gli israeliani usano il mito della madre, del quale si sono appropriati, contro la donna. Essi piazzano in una stanza Issam e sua figlia, che si trova nella stessa prigione e le intimano di confessare se vuole dimostrare di essere una madre all’altezza di questo nome, capace di proteggere la figlia. Quando Issam si rifiuta i soldati israeliani iniziano a frustare la ragazza prima con delle fruste leggere e poi con quelle più pesanti fino a quando tutto il corpo della ragazza non prende a sanguinare. Inoltre minacciano di usare violenza sessuale contro la ragazza se non si arriva a una confessione. Issam a un certo punto cerca di strappare la frusta ai soldati ma essi usano violenza anche contro di lei e anche il suo corpo prende a sanguinare. In seguito la donna è anche costretta a firmare una dichiarazione in cui c’è scritto che si è procurata le ferite da sola in quanto ai soldati non è stato dato l’ordine di scagliarsi contro la donna. In seguito a questo episodio Issam viene posta in una cella di isolamento dove è sottoposta a una visione raccapricciante: sangue e graffiti sui muri lasciati dagli altri prigionieri fatti con le unghia o col sangue. Dopo quella volta non si verificano più episodi di violenza né contro Issam né conto la figlia. Le due rimangono comunque in prigione per 45 giorni prima di essere rilasciate nel 1970 e essere mandate ad Amman. Da quel momento Issam non può più rimanere nella sua terra e questa rappresenta per lei la più grande sconfitta. In Giordania continua la sua attività nella Unione Generale delle donne Palestinesi. Anche questa però non è cosa facile a causa degli eventi che si verificheranno negli anni successivi. L’esperienza di Issam mostra come gli israeliani usino ogni mezzo, ogni tipo di violenza o minaccia di violenza, psicologica e fisica per intimidire i palestinesi, per porre un freno alla loro attività di resistenza per distruggerne identità e valori ma mostra anche come il desiderio del popolo palestinese e delle donne palestinesi di mantenere la propria cultura e di riconquistare la propria terra sia molto difficile da scalfire. Un’altra testimonianza di questo tipo è quella di Rasmiya Odeh. Nata nel 1948, è costretta a spostarsi all’età di un mese a Ramallah con la sua famiglia. Data la condizione di povertà vive in una tenda insieme ad altre 17 persone della famiglia mentre il padre emigra in America alla ricerca di un lavoro. Il trauma dovuto all’allontanamento del padre si somma a una vita in tenda molto difficile a causa delle difficoltà economiche e dell’occupazione. Solo dopo un po’ di
tempo grazie ai soldi che il padre manda dall’America la famiglia prende in affitto due stanze. Già all’età di dodici anni Rasmiya partecipa alle riunioni del partito comunista e un anno dopo diventa membro del Movimento Nazionalista Arabo. La visione dei massacri del 1967, dei corpi bruciati nelle strade, la distruzione delle stanze affittate a causa di una granata convincono Rasmiya che l’attività militare è più importante di quella sociale e inizia a partecipare alle attività militari organizzate dagli studenti. Rasmiya non è solo interessata alla causa nazionalista ma anche alla questione delle donne che secondo lei devono avere gli stessi spazi e gli stessi riconoscimenti degli uomini nella lotta armata. Questo avviene nella guerra del 1967 quando le violenze subite e la disoccupazione spingono le donne all’attività militare, al desiderio di combattere l’occupazione e di costruire un futuro diverso per il popolo palestinese. Dopo aver studiato Politica Economica all’Università Araba di Beirut ed essere stata in contatto con il responsabile degli affari militari del Fronte Popolare Wadi Haddad, nel 1969 la donna ritorna nella West Bank e piazza una bomba in un supermarket di Gerusalemme Est e due nel consolato britannico per protestare contro la decisione della Gran Bretagna di fornire armi a Israele e per ricordare al mondo intero che il popolo palestinese esiste e non può accettare l’occupazione in silenzio. Per questo motivo viene svegliata nella notte una settimana dopo l’accaduto per essere arrestata e condotta nella prigione di Ramallah, ma dopo alcune ore di interrogatorio viene trasferita a Moscobiya, il campo di tortura. Lì più di dieci agenti segreti iniziano a picchiarla senza porle nessuna domanda. Usano dei bastoni di legno per picchiarla sul corpo e un bastone di ferro per picchiarla sulla testa. Quando perde conoscenza le immergono la testa nell’acqua per farla rinvenire. Nel pomeriggio anche il padre di Rasmiya viene condotto in prigione e gli viene detto che la sua casa sarà distrutta se la figlia non confesserà. Ma la confessione non arriva. Le torture continuano e Rasmiya è costretta a firmare una dichiarazione falsa sulle esplosioni. Tuttavia le violenze non finiscono: la donna è costretta ad assistere alle torture degli altri prigionieri, del suo fidanzato, del padre e delle sorelle per l’estorsione di una confessione che però non può rilasciare. A questo punto i soldati israeliani riferiscono al padre della donna che le attività per cui essa è incriminata non sono politiche ma sessuali. Gli israeliani sono ormai consapevoli
di quanto sia importante l’aspetto sessuale per le ragazze e le famiglie palestinesi e lo usano per scoraggiarle a partecipare alla resistenza. La violenza a cui è sottoposta Rasmiya su questo aspetto non è solo psicologica ma anche fisica: viene denudata, picchiata, presa a calci e sottoposta a violenza sessuale con un bastone. I soldati cercano di forzare la donna e suo padre ad avere un rapporto e quando i due si rifiutano vengono torturati fino a perdere conoscenza. Dopo questi episodi sia Rasmiya sia il padre si ammalano gravemente. Per porre fine a queste violenze i soldati israeliani invitano la donna a diventare una spia in modo che essa possa essere rilasciata e possa ricostruirsi una vita negli USA e che la sua casa non venga demolita (in realtà questo però è già successo). Dopo un ulteriore rifiuto la donna viene trasferita in un’altra prigione, a Ramleh. Anche se qui non ci sono le torture e la prigione è riservata alle donne, le condizioni riservate alle prigioniere sono disumane. Secondo Rasmiya gli israeliani usano tre armi psicologiche: l’allontanamento dalla lotta nazionalista, la trasformazione in docili cittadini di seconda classe e rendere i palestinesi mentalmente sionisti. Essi inoltre cercano di creare tensioni tra donne cristiane e donne musulmane e tra donne appartenenti a partiti o organizzazioni diversi. Rasmiya viene rilasciata solo nel 1979, senza alcun avviso. Nonostante tutto ciò che è costretta a subire in prigione vede la prigionia e la resistenza ai maltrattamenti degli israeliani come una forma di lotta, anche se spera di ritrovare un ruolo nella lotta vera e propria: << Of course my dream was to find, once again, my natural place in the struggle. Prison is a place of struggle too, but it isn’t the natural one. I will remain part of the cause and the cause is part of us and I will play my part in it. Without struggle nothing can be achieved for a good life. >>
La vera svolta nella partecipazione delle donne palestinesi in guerra.
Gli anni ‘70 e ‘80 sono anni di importanti cambiamenti per quanto riguarda la partecipazione delle donne palestinesi in guerra. Questi cambiamenti hanno diverse forme ma riguardano tutte le donne palestinesi: dalle donne che vedono la segregazione in casa e la restaurazione dei valori tradizionali dell’Islam come una forma di resistenza al nemico israeliano alle donne in posizione di leadership e impegnate attivamente nel movimento femminista, dalle donne che vivono nei Territori Occupati a quelle che vivono nei paesi vicini come la Giordania e il Libano. I mutamenti che avvengono non sono sempre positivi: essi non portano necessariamente a un miglioramento della condizione sociale delle donne e all’effettiva eguaglianza con gli uomini nonostante sia più diffusa una coscienza femminista sulle disuguaglianze di genere. Una nuova consapevolezza sul ruolo delle donne e una riorganizzazione formale delle strutture attraverso le quali le donne agiscono nella guerra contro il nemico israeliano porta certamente a una partecipazione più diffusa delle donne di tutte le classi e di tutte le età alla vita sociale ma allo stesso tempo, e ancora una volta, nonostante la crescita del livello di istruzione, la questione delle donne assume una posizione di secondo piano rispetto alla causa nazionalista. La partecipazione delle donne alla guerriglia in Giordania e in Libano, la formazione dei comitati affiliati ai quattro maggiori partiti e il lancio di pietre durante la prima Intifada sono solo alcuni esempi più significativi dei cambiamenti nell’attività delle donne in questi anni. Tutto ciò si scontra con un altro importante fenomeno che avviene nel corso degli anni ‘70 e ‘80: l’affermazione delle forze islamiste. È proprio Hamas a rappresentare un freno alla partecipazione delle donne non solo all’Intifada ma anche agli avvenimenti politici che si verificheranno negli anni successivi.
Lo sviluppo di una coscienza femminista nel movimento delle donne palestinesi dalla fine degli anni ‘60 alla fine degli anni ‘80. Nonostante la guerra del 1967 rappresenti l’inizio di un coinvolgimento militare
più significativo delle donne palestinesi, è solo negli anni ’70 che, con il trasferimento dell’Olp e delle principali istituzioni rappresentative della società palestinese in Libano inizia a svilupparsi una coscienza femminista nelle principali attrici della resistenza palestinese. Ciò avrà ripercussioni anche sulle diverse modalità di partecipazione alla guerra. Sebbene la visione generale della donna continui a essere quella di “care giver”, come dimostra anche la posizione ufficiale dei vari partiti, alcune donne iniziano a chiedere di più. Le donne vogliono sicuramente continuare a combattere per la Palestina ma non vogliono più farlo da una posizione subordinata rispetto agli uomini. Esse reclamano l’uguaglianza degli uomini e delle donne sia per quanto riguarda il campo militare, sia per quanto riguarda il campo politico. Ma l’elemento nuovo e “sconvolgente” per la maggior parte della società palestinese è la richiesta dei diritti anche all’interno dell’ambiente familiare e quindi la sfida di quelle norme tradizionali del popolo palestinese che sono state portate avanti nonostante le guerre col nemico israeliano e che anzi proprio a causa delle guerre e dell’espulsione dai propri territori sono state addirittura rafforzate. Inoltre si afferma sempre di più una sorta di autocritica in quanto le donne dei campi profughi si rifiutano sempre di più di essere prese in considerazione solo nei momenti di crisi e quindi di bisogno sia militare sia per la cura dei feriti. C’è quindi il rifiuto di un attivismo che vede la leadership solo nelle classi medie e si cercano nuove capacità di leadership tra le donne dei campi. La visione della donna di Fatah, che può essere dedotta dalla Carta dell’Olp, dai programmi degli incontri del Consiglio Nazionale Palestinese e dal PLO Bulletin e dalle dichiarazioni dei leaders del movimento è quella di una donna che può giungere alla sua liberazione solamente attraverso la partecipazione alla lotta nazionalista: la partecipazione può dar vita a una nuova concezione delle capacità delle donne che a sua volta può ampliare il loro piano d’azione. Per arrivare a questo punto le donne devono aver sviluppato una coscienza politica nazionalista e aver arricchito il loro bagaglio di conoscenze. Tuttavia la liberazione effettiva delle donne può avvenire solo nel momento in cui la Palestina stessa sarà di nuovo libera. Alcuni esponenti di Fatah danno rilievo soprattutto a quest’ultimo punto: tutte le rivendicazioni che vanno al di là di quelle sui territori palestinesi assumono una posizione di secondo piano: la lotta di genere può avvenire solo nel momento in cui il popolo palestinese si sarà finalmente dotato di uno stato.
Le nuove attiviste di sinistra che operano in Libano negli anni ’70 sono insoddisfatte di questa visione centrista che vede la liberazione delle donne come un prodotto dello sviluppo nazionale. Donne del calibro di Jihan Helou, nota militante di Fatah, e Leila Khaled di cui si è parlato nel capitolo precedente, si scagliano con veemenza contro questa visione del ruolo della donna nella società palestinese e nella lotta nazionalista, senza peraltro riuscire a produrre una rivoluzione generalizzata delle norme di genere. I partiti di sinistra hanno una visione abbastanza diversa di quella di Fatah e danno più spazio ai diritti della donna. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina crede che le maggiori contraddizioni riguardanti la vita delle donne siano le stesse che riguardano la vita degli uomini: l’oppressione nazionale e di classe. Le contraddizioni specifiche per le donne sono insite in un complesso culturale di istituzioni, meccanismi di controllo e ideologie che svalutano la donna e la privano di autonomia. La liberazione della donna rimane parte integrale della lotta di classe perché le origini della sua oppressione sono strettamente connesse alla nascita della proprietà privata e della differenziazione di classe. Il Fronte Popolare sposa l’idea che durante le fasi di trasformazione sociale rivoluzionaria emergono nuovi valori ma questo non significa che bisogna smettere di lottare per la liberazione delle donne. La lotta tuttavia non può portare ad alcun risultato significativo se si basa esclusivamente sul miglioramento della situazione economica e non è accompagnata a una maggior coscienza sia da parte degli uomini sia da parte delle donne. Nonostante la visione del Fronte Popolare le donne a questo partito, molte delle quali hanno anche intrapreso azioni militari significative, sono rimaste comunque intrappolate in schemi sessisti tanto che, paradossalmente, è la capacità potenziale di diventare madre e moglie che rende una donna degna d’onore nelle cellule armate tanto quanto l’uomo. Una potenziale madre infatti, cioè una donna il cui più alto obiettivo nella vita è sposarsi e dare alla luce palestinesi, ha caratteristiche morali rispettabili che nemmeno la vicinanza agli uomini nella lotta armata può scalfire. Sebbene quindi la donna venga direttamente inserita nel contesto della guerra, il mito della madre continua a regolare la sua vita anche se sembra essere nascosto. Le donne che portano avanti più visibilmente gli ideali femministi sono quelle al Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. La loro attività però è perlopiù non militare in quanto l’idea dell’attivismo popolare rispetto a quella della mobilitazione militare attrae molto più facilmente le donne, come a
voler dire che femminismo e attività militare non viaggiano di pari o. Il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina nasce dal distaccamento di alcuni membri dal Fronte Popolare e in particolare per volere di Nayef Hawatmeh. Esso è uno dei maggiori partiti dell’Olp e negli anni ’80 diventa il terzo partito palestinese, ha ispirazione leninista e crede nella mobilitazione popolare delle classi lavoratrici, fase indispensabile del processo di liberazione nazionale. I leaders del Fronte Democratico credono anche che la modernizzazione della società palestinese sia indispensabile per la liberazione nazionale e prestano quindi molta attenzione al ruolo della donna. L’attività del Fronte Democratico nei primi anni ’70 si concentra soprattutto fuori dalla Palestina in quanto essere membri di questo partito è illegale sia in Israele sia nei Territori Occupati. La più grande differenza tra Fronte Popolare e Fronte Democratico, per quel che qui ci interessa, è che il secondo rifiuta la mobilitazione di tipo militare in quanto ritiene le azioni violente costose e difficili da vincere. È proprio questo aspetto che riesce ad attirare moltissime donne che nel 1978 creano all’interno del partito la prima organizzazione di massa delle donne: la Federazione Palestinese per i Comitati d’Azione delle Donne (PFWAC). Il desiderio delle donne al Fronte Popolare è quello di creare un’organizzazione di donne e per le donne indipendente dal partito, perché consapevoli del carattere conservatore della maggior parte delle associazioni di beneficenza e delle resistenze maschili alla partecipazione delle donne a attività del partito in cui sono presenti gli uomini. L’agenda femminista della Federazione Palestinese incoraggia le donne all’indipendenza e all’autosufficienza e attribuisce loro caratteristiche di leadership. A questo scopo chiede un adeguato livello di istruzione per tutte le donne e incoraggia la produzione e la vendita di cibi e prodotti tradizionali che possano comportare un ricavo per le donne. Le femministe riflettono sulla subordinazione delle donne e sulla differenza tra lavoro pagato e non pagato soprattutto in ambito domestico e in varie pubblicazioni si scagliano contro la proletarizzazione degli uomini che ha reso le donne “schiave del lavoro domestico”. Le idee della Federazione Palestinese si distinguono dalle ideologie palestinesi di sinistra di ispirazione marxista secondo le quali l’obiettivo della liberazione nazionale sarebbe al primo posto, quello della liberazione di classe al secondo posto e quello della liberazione di genere al terzo posto e anche dai femminismi che condannano il nazionalismo come falsa coscienza per le donne. La
Federazione Palestinese crede che la liberazione nazionale e la liberazione delle donne viaggino di pari o e che l’impegno per la causa nazionalista contribuisca alla liberazione personale aiutando a rompere l’isolamento e l’ignoranza che hanno permesso la sottomissionedelle donne alle norme patriarcali: “Palestinian women will gain their liberation in part because of their ability to take a strong position in the progressive ranks of our national movement. To the same extent that the organized and the unified women’s movement progresses in its confrontation with the policies of the occupation, and to the extent to which it can fulfill its role as a crucial part of the nationalist movement, Palestinian women in the occupied territories can establish and develop an imposing presence in their society.”. Insomma l’attività di tipo non militare delle donne al Fronte Democratico vista come socializzazione e impegno nella vita quotidiana e contrapposta a azioni sporadiche e violente che non richiedono socializzazione è il punto di forza della Federazione Palestinese. Ciò è anche dovuto al fatto che l’impegno militare delle donne, sebbene sia più accettato rispetto agli anni precedenti, rimane comunque largamente stigmatizzato, in quanto si ritiene che ogni violazione che possa avvenire contro il corpo di una donna sia una violazione contro l’onore di tutta la nazione. Un’altra ragione per cui si ha un aumento significativo dell’attività delle donne all’interno della Federazione Palestinese è il messaggio di modernità che il popolo palestinese vuole mandare al mondo. Infine non bisogna sottovalutare il fatto che l’impegno politico delle donne palestinesi per la causa nazionalista è visto come meno pericoloso rispetto a quello degli uomini da parte degli israeliani: è per questo che quando molti uomini vengono arrestati sono le donne ad assumere posizioni di leadership. Le femministe palestinesi creano continuamente network con le femministe di tutto il mondo. Tuttavia quello che viene costantemente fuori dagli incontri di questi anni è un continuo riferimento alle conseguenze dell’occupazione israeliana per le donne invece che una discussione più ampia e profonda sulle differenze di genere interne al popolo palestinese stesso. Questo rappresenta un significativo elemento di differenza con le sorelle del femminismo transnazionale. Come si è visto quindi il femminismo palestinese vero e proprio rifiuta la guerra
delle armi anche se non mancano gli scontri su altri piani col nemico israeliano come si vedrà nei paragrafi successivi. Tuttavia, anche se meno numerose delle attiviste al Fronte Democratico, non mancano le donne che invece prendono le armi e si scagliano con violenza contro il nemico israeliano, prima nel periodo libanese in occasione dell’attacco ai campi profughi e poi nell’Intifada. L’ampia partecipazione delle donne negli anni ’70 e ’80 subisce un’importante battuta d’arresto con l’affermazione di Hamas alla fine degli anni ’80 e con la creazione di un’Autorità Statale Palestinese che porta a una frammentazione dei partiti, a una ridistribuzione delle cariche delle donne e a un allontanamento di queste ultime dalla base popolare del movimento femminista.
Le lotte precedenti l’Intifada. L’espulsione dell’Olp e delle altre organizzazioni palestinesi dalla Giordania e il conseguente stabilimento delle stesse e di un gran numero di profughi all’interno del territorio libanese e in campi profughi nati negli anni successivi alle prime guerre arabo-israeliane trova da un lato terreno fertile in quanto la società libanese è basata su un precario equilibrio tra le varie sette religiose nel quale i palestinesi si inseriscono facilmente e dall’altro rappresenta l’inizio di nuove atrocità di cui forse l’esempio più noto e drammatico è quello dei massacri di Sabra e Shatila. I palestinesi in Libano sono oggetto di numerosi attacchi da parte delle milizie libanesi, della Siria e di Israele che hanno un comune obiettivo: quello di ridurre al minimo la presenza politica e militare palestinese in Libano in modo da non turbare l’equilibrio di potere regionale e quello di ottenere la massima fuoriuscita dei palestinesi dai campi profughi. È in questo scenario che si collocano le lotte delle donne palestinesi in Libano che si differenziano da quelle delle donne palestinesi che si trovano nei Territori Occupati. In questi ultimi infatti l’attività delle donne è di tipo più tradizionale ed è più strutturata.
Dal periodo libanese a Tunisi. Anwar Kamal definisce il periodo che va dal 1971 al 1974 “periodo di espansione rivoluzionaria” in quanto i campi profughi libanesi danno
entusiasticamente il benvenuto alle forze rivoluzionarie provenienti dalla Giordania. In realtà questa fase di espansione riguarda tutto il “periodo libanese” che va dall’inizio degli anni ’70 all’espulsione dei Palestinesi da parte dei Falangisti libanesi e degli Israeliani del 1982, il cui episodio più atroce è il massacro di Sabra e Shatila. Il numero di donne politicamente attive cresce significativamente e nei periodi di crisi le norme tradizionali che tenevano lontane le donne dalla guerra vengono messe da parte. Le donne sono ansiose di agire tanto che il nuovo motto che le identifica non è più “honour before land” ma “land before honour”: le donne vogliono combattere per la loro Palestina e alcune di esse sfidano le resistenze maschili mettendo persino a rischio la propria reputazione. Varie sono le cause di questa larga partecipazione delle donne: un ambiente sociale e politico più aperto rispetto a quello della Giordania e allo stesso tempo più fragile in quanto basato su un tenue equilibrio tra varie confessioni religiose che hanno consentito un facile inserimento della Resistenza palestinese, la collaborazione tra donne palestinesi e donne libanesi appartenenti a famiglie di notabili come tattica per mantenere il o libanese, l’esigenza di rispondere alle cattive condizioni delle persone nei campi profughi e la proliferazione delle istituzioni di varie organizzazioni legate all’Olp dovuta ai fondi provenienti dai paesi dell’area del Golfo dove in quegli anni lavorano molti palestinesi. La partecipazione delle donne nell’era rivoluzionaria (1969-1982) può essere divisa in due fasi: la prima che va dal 1969 al 1975-76 vale a dire il periodo precedente la guerra civile libanese in cui la politicizzazione e la mobilitazione delle donne è volta al loro inserimento nelle nascenti organizzazioni politiche della resistenza e in cui le donne partecipano perlopiù spontaneamente e temporaneamente, la seconda che va dalla guerra civile al 1982 e che rappresenta l’inizio di un movimento burocratico che prevede l’impiego di diverse donne in strutture create a scopo difensivo per proteggere la popolazione palestinese dagli attacchi delle milizie libanesi, israeliane e siriane. La resistenza quindi reagisce agli eventi piuttosto che seguire un preciso piano ideologico. Sebbene molte donne aderiscano alla resistenza spontaneamente, la mobilitazione in questi anni segue un approccio “step by step” secondo il quale le donne devono lavorare e raggiungere un certo grado di indipendenza prima di fare effettivamente parte della rivoluzione. Questo meccanismo consente non solo alle donne di essere parte attiva nella resistenza ma è anche un modo per sorare le idee conservatrici ancora molto presenti nella società palestinese e
un progetto di ingegneria sociale in quanto consente alle donne che rimangono vedove di mantenere la famiglia e costruisce le fondamenta per la formazione di una donna più autorevole e con più voce in capitolo nel processo di decision making. Le attività cui si dedicano le donne nel periodo libanese sono varie: si a dall’organizzazione nelle università e alle discussioni sul ruolo che la donna deve avere in guerra (Fatah crede che si debba trattare per la maggior parte di un lavoro di beneficenza, i membri del Fronte Popolare insistono sulla lotta armata vista come l’unica strategia adeguata alla risoluzione del problema palestinese) a un lavoro di tipo più pratico con la partecipazione ai funerali dei caduti e la visita nelle case degli stessi per portare aiuto alla famiglia, la cura dei feriti, la ricerca di acqua, la preparazione di pane e vestiti per i combattenti, il lavoro d’ufficio. È importante segnalare a proposito di quest’ultimo punto che il capo ufficio di Arafat in Libano è una donna: Um Nasser. Nel settembre del 1978 varie donne partecipano alle discussioni sugli accordi di Camp David che porteranno al trattato di pace del marzo del 1979 tra Egitto e Israele: le donne della leadership di Siria, Libia e Olp e altre rappresentanti di governo si oppongono al riavvicinamento tra Israele e Egitto e indicono un incontro per la condanna dell’accordo. All’incontro avutosi in Algeria viene eletta Issam Abdel Hadi come capo di un comitato preparatorio di una conferenza in cui si deve discutere la condanna dell’accordo ma l’intervento di Arafat, convinto che gli stati del Golfo e l’area maghrebina non si oppongano all’accordo, convince Abdel Hadi a non accettare la nomina a presidente. Il coinvolgimento delle donne in guerra è ben visibile anche dalle posizioni difensive assunte nei primi anni ’80 in occasione delle numerose incursioni israeliane e poi della guerra del 1982 (i dettagli sulla partecipazione militare si vedranno meglio in seguito) quando le donne svolgono un ruolo chiave nella comunicazione con le forze multinazionali che proteggono i campi. Le fasi di crisi del periodo libanese sono rappresentate dalla guerra civile del 1975-1976 e dall’assedio del campo di Tel al Zater, dall’invasione israeliana del 1978 e dall’invasione israeliana del 1982 e il massacro di Sabra e Shatila. In questi periodi la mobilitazione delle donne cresce di pari o all’allontanamento dai problemi di genere e il “charity work” viene percepito negativamente in quanto si crede non si adegui ai bisogni della rivoluzione
palestinese. Nei periodi di crisi molte donne bussano di propria spontanea volontà alle porte dei vari partiti per chiedere l’inserimento nelle milizie armate, sfidando le ristrettezze sociali. Molte vengono respinte in quanto si richiedono uomini istruiti per il lavoro militare e donne che si occupano della cura dei feriti, dei mariti e delle case. Alcune donne però riescono a entrare nelle milizie armate e a partecipare alla difesa del popolo palestinese in diaspora. Nel 1975-76 alcune donne con un’istruzione universitaria partecipano alla difesa dei campi profughi il Libano. Esse appartengono all’autorevole Brigata degli Studenti. Tuttavia non si deve sottovalutare la partecipazione di donne analfabete alla difesa militare: è il caso di Rula, intervistata da Peteet, che decide di combattere in difesa dei campi nel 1976, dopo l’assedio di Tel al Zater e l’uccisione del padre, delle sorelle e dei fratelli. Rula riceve poche istruzioni sulle tattiche della guerriglia ma combatte molti mesi prima di essere catturata e ferita pesantemente dai falangisti. Imprigionata, viene rilasciata solo nel 1982 in uno scambio di prigionieri. Il desiderio delle donne di combattere rappresenta da un lato la voglia di dimostrare l’uguaglianza con gli uomini e quindi la stessa capacità di lottare e dall’altro è un test del proprio impegno per la causa nazionalista, una manifestazione di quanto si è disposte a fare per la Palestina. Dal 1975-76 al 1982 donne appartenenti a istituzioni o a organizzazioni di massa ricevono una preparazione militare che può durare da due week end a tre settimane e nel periodo precedente l’invasione israeliana del 1982 le ragazze che vivono nei campi profughi e che hanno accesso a un’istruzione superiore ricevono “lezioni di guerriglia” e sono chiamate a combattere contro Israele. L’ampia partecipazione militare delle donne è un segnale importante sia per i palestinesi, sia per gli altri stati. Nel primo caso si tratta di un messaggio ottimista secondo il quale i palestinesi non possono essere mandati via dal territorio libanese o eliminati in quanto le donne sono preparate psicologicamente e fisicamente a sopportare gli attacchi. Inoltre preparare militarmente e armare le donne ha una significativa valenza simbolica: presentare al mondo donne armate vuol dire mostrare come l’atrocità
della guerra abbia cambiato anche gli aspetti più conservatori della società palestinese facendo entrare direttamente in guerra anche gli esseri più protetti della società palestinese. I valori, gli ideali, i simboli importanti per le donne vengono a corrispondere a quelli degli uomini: fucili e bambini. L’immagine di una madre incinta combattente evidenzia la severità del peso palestinese, la pervasività della lotta nazionale nella vita quotidiana e il coinvolgimento di tutti i settori della popolazione. La partecipazione diretta delle donne in guerra ha due conseguenze principali: da un lato un cambiamento degli equilibri familiari e dall’altro una maggiore consapevolezza dell’uguaglianza tra uomini e donne e un riconoscimento maggiore rispetto alle donne che svolgono attività d’ufficio. Infine e paradossalmente, ciò che rende le donne “sorelle degli uomini” non è il possesso di caratteristiche generalmente attribuite alle donne, ma la loro potenziale capacità di essere mogli e madri, il che garantisce un comportamento moralmente corretto e un certo stoicismo di fronte alle avversità. Le donne acquisiscono la considerazione degli uomini anche grazie ai loro atti eroici: Dalal Mughrabi, dopo aver combattuto nel 1976 contro l’esercito siriano entrato in Libano a sostegno delle milizie falangiste, riceve nel 1977 una preparazione militare più approfondita e partecipa nel 1978 a un raid contro un bus che trasporta israeliani diretto a Tel Aviv come protesta contro le discussioni per gli accordi di pace tra Israele ed Egitto. L’episodio provoca la morte di trentasette civili israeliani tra i quali dodici bambini. Grazie a questo avvenimento Dalal Mughrabi diventa un modello per le giovani donne palestinesi ed è considerata una martire e un’eroina nazionale da tutto il popolo palestinese. Lo stesso vale per Amneh, intervistata da Peteet, prigioniera nelle prigioni israeliane per dieci anni, la cui tortura, inclusa la violenza sessuale è stata resa pubblica ma la cui figura è generalmente rispettata e che è considerata una vera combattente per la devozione alla causa palestinese e l’impegno rivoluzionario dimostrato nonostante la lunga prigionia. Nonostante certi meccanismi di controllo, soprattutto da parte delle famiglie, si siano affievoliti, se ne sono ricreati di nuovi: l’autorità è trasferita dalla famiglia
ai gruppi e leader politici. A volte le attiviste sono considerate perdenti dagli uomini e spesso le accuse che sono rivolte alle donne sono a sfondo sessuale e possono avere una conseguenza deleteria per la credibilità politica delle donne. Le donne non sono solo protagoniste nelle crisi del periodo libanese, esse sono anche l’obiettivo specifico della violenza a partire dal 1976. L’assedio del campo rifugiati di Tal al Zater del 1976 dura otto mesi ed è il primo esempio di attacchi diretti contro le donne con l’obiettivo di provocare una fuoriuscita della popolazione palestinese da Beirut Est e di aumentare l’umiliazione e la vulnerabilità del popolo palestinese. Questo tipo di politica raggiunge il picco nel 1982 coi massacri di Sabra e Shatila in cui donne e bambini sono target specifici di violenze, stupri e omicidi. Tutto ciò subisce una battuta d’arresto col trasferimento dell’Olp a Tunisi e il dislocamento delle principali istituzioni palestinesi. Gli anni che vanno dal 1985 al 1988 sono gli anni delle “battaglie dei campi”, in cui i palestinesi rimasti in Libano si scontrano con le forze di Amal. La guerra quindi non termina ma il ruolo delle donne muta rispetto a quello degli anni precedenti. L’invasione israeliana ha comportato la sottrazione di tutti i beni palestinesi di un qualche valore, la distruzione dei libri e di tutto il materiale che potesse permettere una ricostruzione della storia palestinese, la distruzione delle abitazioni, l’arresto di donne e uomini, l’assassinio di donne, uomini e bambini, lo stupro di palestinesi di ogni età. Le donne palestinesi arretrano e il loro obiettivo principale ritorna a essere quello di combattere per la sopravvivenza dei figli e di proteggere i figli maschi dall’arresto e le femmine dagli stupri da parte delle bande armate. Esse inoltre chiedono in prima persona il rilascio dei mariti e dei parenti arrestati e cercano ogni mezzo per dialogare con le associazioni di beneficenza e con i donatori per ottenere gli strumenti per la ricostruzione delle case e soprattutto per la crescita dei figli. Dopo l’abbandono del Libano tutti i documenti ufficiali dei palestinesi vengono distrutti e nuove notizie ufficiali sulle donne arrivano solo nel 1985 da Tunisi, dove si sono trasferite l’Olp e l’Unione delle Donne. La notizia più importante riguarda la perdita da parte delle varie organizzazioni dei membri donne: si parla di un numero che varia dalle 5000-10000 unità alle 25000 unità. Il coinvolgimento delle donne diminuisce fino all’episodio che presenta il tasso più ampio di partecipazione delle donne in guerra: la prima Intifada.
L’attività delle donne palestinesi nei Territori Occupati. Gli anni ’70 e ’80 rappresentano un periodo florido per l’attività delle donne palestinesi anche nei Territori Occupati. Le cause sono rintracciabili nel conferimento del diritto di voto alle donne palestinesi nelle elezioni municipali ( il Ministro della Difesa israeliano Shimon Peres crede che le palestinesi esprimano preferenze conservatrici mentre in realtà si esprimono in senso nazionalista progressista e partecipano alle attività organizzate dalle municipalità); nell’apertura di nuovi college largamente frequentati dalle donne e che danno impulso al loro attivismo; nell’elezione nel 1977 di un governo israeliano che si identifica col partito del Likud e che aumenta significativamente le misure repressive che incrementano la partecipazione alla resistenza anche delle donne; nelle attività culturali degli anni ’70 che si focalizzano in maniera crescente sulle questioni di genere e che coinvolgono maggiormente le donne. L’8 marzo 1978 comincia a Ramallah, nella West Bank, il Movimento dei Comitati delle donne. Esso nasce in una libreria di Ramallah dalle discussioni di circa trenta donne, appartenenti all’ambiente urbano di Ramallah e Gerusalemme e ai quattro maggiori partiti, su come ci si può organizzare contro l’occupazione israeliana. Il movimento inizia a rimpiazzare la lotta armata. Nell’organizzazione dell’evento Zahira Kamal, membro del Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, ricopre una posizione di primo piano. Nel corso di pochi anni si formano ben quattro comitati a Gaza e nella West Bank: nel 1978 l’Unione dei Comitati d’Azione delle donne fondata da Zahira Kamal, che si è concentrata sul reclutamento delle casalinghe; nel 1981 l’Unione dei Comitati delle Donne Palestinesi affiliata al Fronte Popolare e la cui leader è Maha Nassar, la cui ampiezza è mantenuta segreta ma che raggruppa un numero consistente di studentesse; nel 1981 l’Unione dei Comitati delle Donne Lavoratrici guidata da Amal Khriesheh e promossa dal Partito Comunista che all’inizio si concentra sul reclutamento delle lavoratrici e delle studentesse ma che con il collasso dell’Unione Sovietica e la mancanza di fondi diventa più indipendente e si occupa maggiormente dei diritti umani; nel 1982 l’Unione dei Comitati di Lavoro Sociale capeggiata da Rabiha Diab e affiliata a Fatah e la cui hip è molto variegata. A differenza dei territori al di fuori della Palestina in cui si sono rifugiati i palestinesi e in cui prevale Fatah con le annesse istituzioni, nella West Bank e
nella Striscia di Gaza prevale l'attività dei comitati delle donne affiliati ai partiti di sinistra. Zahira Kamal riconosce l’importanza della mobilitazione di massa per una effettiva contrapposizione al nemico israeliano e convince le altre donne a uscire dalle città e a recarsi nelle aree rurali per ascoltare le donne e discutere con esse dei loro problemi. Quello che le donne appartenenti all’ambiente urbano trovano recandosi in queste aree sono esperienze totalmente diverse dalle proprie: donne analfabete, sovraccariche di lavoro, povere, dipendenti economicamente dagli uomini, inconsapevoli dei propri diritti, concentrate solo sulla cura dei figli e della casa. Ci si accorge che il peso che devono sopportare le donne di queste aree è troppo grande per pretendere che esse diventino parte attiva della lotta nazionalista palestinese e si cercano misure apposite per alleviare la loro sofferenza e per inserirle nel più ampio contesto di lotta contro Israele: si organizzano asili per i bambini e corsi per l’alfabetizzazione delle donne, si forniscono servizi sanitari di base, si inseriscono le donne in un contesto di produzione che consenta loro di avere un guadagno e di essere più indipendenti, si elargiscono informazioni adeguate per lo sviluppo di una coscienza politica nazionalista e femminista. Il sistema dei comitati richiede cooperazione tra le varie organizzazioni e ha una struttura democratica che si basa sul lavoro di piccoli comitati locali in cui ogni donna può far sentire la propria voce e può farla arrivare a livello nazionale. L’apice di questa struttura è rappresentato dall’Alto Comitato delle Donne che raggruppa i quattro maggiori comitati. Il reclutamento avviene tramite visite nelle abitazioni delle donne in cui si discute con loro, si cerca di scuotere la loro coscienza e si invitano alla partecipazione politica cercando di creare un rapporto di amicizia e di assicurarsi il o degli uomini della famiglia come riportano le parole di un’attivista del Comitato di Lavoro Sociale a Gaza: “We usually try to reach the woman in her home, right in her place. We do not burden her to have to come to us. For example, I have a neighbor whose son was arrested, I then go to her at the house and tell her to give me his name and the number of his identity card and I go to inform the Cross. I do not wish to give her the burden of this work. No, on the contrary, I want to make her feel that her son is like my brother. For sure, most of the aware sisters work like this.”. Una donna del Comitato d’Azione delle Donne afferma: “We go at first to the house to visit one who is receptive to be active in the committees. She gathers the women around her. She brings them
one of us who has a good idea about the program. We present the program of the committees. We present what the role of women is, how we will develop ourselves and how we will take part in the national struggle, which cannot be separated from the social struggle, to improve women’s social and economic conditions… After that, through our discussion –there are many people who speak and ask for explanation- we sense who is enthusiastic of the twenty, thirty, or thirty-five who attended. They ask “How could one work?” . Il lavoro dei comitati non è molto diverso da quello che svolgono le associazioni di beneficenza negli anni precedenti: aiuto alle famiglie dei martiri e dei prigionieri, preparazione del cibo e lavoro di primo soccorso, boicottaggio dei prodotti e delle industrie israeliane attraverso la produzione propria e la vendita nei bazaar anche se le donne si occupano maggiormente delle pubbliche relazioni. L’elemento diverso è rappresentato dall’ampia partecipazione delle donne che non appartengono all’ambiente urbano e quindi una maggiore rappresentazione formale in un struttura organizzata della parte più ampia della popolazione palestinese: quella appartenente all’ambiente rurale. Bisogna aggiungere poi il livello di consapevolezza politica che raggiungono le leader dei comitati e il grado di partecipazione anche ai piani più bassi: tutte le donne possono decidere per le questioni politiche che si presentano e che riguardano in maniera maggiore la lotta nazionalista. Inoltre la struttura decentralizzata e gerarchica del sistema dei comitati permette alle donne di continuare la loro lotta nazionalista anche a livello locale qualora le leader venissero arrestate dalle IDF. Sebbene si ritenga ancora che il processo di liberazione delle donne debba avvenire in due fasi (la lotta di liberazione nazionale e la lotta di liberazione di genere) i comitati svolgono un ruolo importante sia negli anni precedenti l’Intifada, sia nell’Intifada stessa. Essi vivono grazie a una tassa di iscrizione e a una tassa annuale, alla vendita di oggetti realizzati dalle donne, alle donazioni sia palestinesi sia estere. Nel 1982 però le donazioni dall’estero vengono bloccate e viene richiesto un permesso dell’ autorità militare israeliana per acquisire i fondi in questione. Da questo momento arresti e interrogatori sono sempre più frequenti, così come più frequenti sono le incursioni nelle sedi dei comitati e nei luoghi di vendita dei prodotti realizzati dalle donne e i rifiuti di avere permessi per lasciare il paese. Con la politica del Pugno di Ferro che ha inizio nel 1985 alcuni comitati locali sono addirittura costretti a chiudere. Tuttavia le politiche israeliane non riescono a distruggerli completamente come dimostra il ruolo che
attraverso le cooperative essi ricoprono nell’Intifada e che trova spazio nelle parole di Hanan Ashrawi: “the grass-root women’s commettees were formed in the late 1970s, not 1980s, and it was this long process of politicization, socialization, and social work activities that gave women in the intifada their strenght.”
“The stones uprising”. << L’Intifada non è separata dalla lotta palestinese precedente, dalla lotta quotidiana che la gente ha sempre condotto. Uomini, donne, bambini e vecchi si sono sempre opposti a Israele, hanno sempre fatto atti di protesta, sabotaggi, attentati. >> Come rivelano le parole di Salwa Salem la partecipazione delle donne alla lotta nazionalista che ha il suo culmine nell’Intifada non è un fenomeno totalmente nuovo e senza radici ma è il frutto dell’evoluzione delle attività intraprese dalle donne sin dai primi anni dell’occupazione israeliana. Grazie al lavoro effettuato dai comitati già dal 1978, la partecipazione delle donne all’Intifada assume enormi proporzioni e sfida, come mai prima, le restrizioni familiari e sociali anche nei territori occupati più conservatori come la Striscia di Gaza. Tuttavia non mancano i problemi, il più importante dei quali è rappresentato dalla minaccia di Hamas che avrà ripercussioni importanti non solo sulla partecipazione delle donne alla lotta nazionalista, ma porrà di nuovo all’angolo la lotta per la liberazione di genere, facendo sprofondare le relative conquiste sul piano sociale raggiunte con fatica dalle attiviste palestinesi.
1987: la prima Intifada, la prima vera partecipazione delle donne di tutte le classi e di tutte le età. L’Intifada, letteralmente “scrollarsi di dosso”, avviene nel periodo che va dal 1987 al 1991 e si caratterizza per la serie di rivolte contro l’occupazione israeliana che si propagano in tutti i territori occupati. L’evento scatenante è rappresentato dalla morte di quattro palestinesi del campo di Jabaliyya in un incidente d’auto provocato da un israeliano a Gaza l’8 dicembre 1987. L’episodio provoca una rivolta che inizia nel campo di Jabaliyya col lancio di pietre contro i soldati israeliani ed ha immediatamente un effetto domino in tutta
la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. Dopo la sconfitta subita in Libano dai palestinesi e la costrizione a lasciare il paese e a stabilirsi a Tunisi e col peggiorare dei dialoghi tra i palestinesi al di fuori dei territori e quelli all’interno degli stessi, i palestinesi che vivono nei territori occupati decidono di prendere in mano la situazione e di combattere contro tutto ciò che comporta l’occupazione israeliana: il proliferare delle colonie, la confisca delle terre, gli arresti e le violenze, la mancanza di servizi, la disoccupazione e la povertà, la chiusura delle scuole. Le donne e i bambini diventano sin da subito parte attiva di queste rivolte e la loro attività più conosciuta nel resto del mondo è il lancio delle pietre contro i soldati israeliani per il quale a molti bambini palestinesi vengono letteralmente spezzate le braccia e le gambe. Si possono individuare quattro fasi dell’Intifada palestinese: una prima breve fase in cui le donne e le ragazze di tutte le classi e di tutte le età partecipano spontaneamente alle manifestazioni contro i soldati israeliani; una seconda fase più organizzata in cui diventa determinante il ruolo dei quattro comitati e del comitato appositamente creato per la gestione dell’Intifada, il Comitato Nazionale Unificato, e in cui il ruolo delle donne non si discosta da quello svolto dalle stesse negli anni precedenti; una terza fase che ha inizio nel settembre del 1988 quando i comitati vengono dichiarati illegali dall’amministrazione israeliana e si inizia a pensare a gettare le basi per le future istituzioni statali e si crea quindi una nuova organizzazione che raggruppa i quattro maggiori comitati e che prende il nome di Alto Consiglio delle Donne che non si accontenta più di offrire servizi ma adotta uno spirito rivoluzionario e recluta le donne per organizzare quotidianamente manifestazioni, scioperi e sit-in contro il nemico israeliano; una quarta fase in cui cresce l’insoddisfazione per le attività intraprese dai partiti e in cui si cerca un approccio più efficace per la risoluzione dei problemi del popolo palestinese e in cui la risposta viene individuata nei gruppi di matrice islamica Hamas e Jihad Islamica. Già dal dicembre del 1987 i volantini che circolano nella Striscia di Gaza riconoscono il ruolo delle donne nell’Intifada e addirittura c’è una chiamata delle donne all’azione da parte del Comitato Nazionale unificato: “Oh people of martyrs… Oh revolutionary giants… Men and students… Our workers, peasants and women… the land should be burned under the feet of the occupiers”. Le donne palestinesi non mancano di rispondere a questa chiamata e in parte agiscono anche spontaneamente. Esse preparano il cibo e i vestiti per le persone imprigionate, coprono i muri di slogan, sventolano le bandiere palestinesi,
donano il sangue, violano il coprifuoco per mettere in piedi un sistema di educazione parallelo, tirano le pietre ai soldati israeliani, trasportano le pietre per gli uomini, costruiscono barricate, bruciano le automobili israeliane, organizzano manifestazioni contro l’utilizzo dei lacrimogeni che provoca la morte di diversi bambini e neonati, mettono a rischio la propria vita per difendere i propri figli e i propri mariti e non solo, perché le donne palestinesi considerano ogni palestinese come un proprio figlio tanto che nel fronteggiare i soldati israeliani le donne usano il motto: <
> e <
>. È opportuno segnalare a questo proposito un episodio che circola in tutta la letteratura sul tema e che testimonia come le donne palestinesi difendono ogni palestinese come se si trattasse di un proprio figlio e secondo il quale una ante palestinese, vedendo che un uomo sta per essere aggredito dai soldati israeliani, finge che l’uomo sia suo figlio e gli pone tra le braccia il proprio neonato rimproverandogli di essere uscito e si allontana. Il soldato israeliano sconcertato dalla scena, lascia l’uomo e non lo aggredisce. Dopo un po’ di tempo la donna ricompare a recuperare il suo neonato. Il compito primario delle donne sembra non essere più quello di allevare figli ma quello di seguirli in strada per proteggerli dai soldati. In un volantino distribuito nei Territori Occupati nel dicembre del 1988 si legge: “Le rôle des femmes palestiniennes a changé, elles sont ées du rôle de matrice de la nation, à celui de combattantes aux côtés des hommes de leur famille. En rompant les chaînes de l’occupation, les femmes ont aussi brisé les entraves de leur propre existence.” Nel tentativo di proteggere gli uomini le donne palestinesi sfidano norme sociali che mai fino al momento dell’Intifada sono state così ampiamente messe in discussione: permettono a uomini che cercano un nascondiglio di entrare nelle proprie case, gli fanno il bagno, gli permettono di dormire nel proprio letto e di indossare i propri abiti. Inoltre di fronte alle accuse a sfondo sessuale che gli israeliani rivolgono alle donne palestinesi e di fronte alle gravissime minacce di violenza sessuale le donne non rimangono più in silenzio ma rispondono con lo stesso tono. Negli anni precedenti le donne che subivano violenze sessuali, all’interno della società o nelle prigioni, non erano viste di buon occhio ed erano allontanate. Nel periodo dell’Intifada invece, in cui è molto frequente che le donne vengano imprigionate e subiscano minacce o violenze vere e proprie, ciò che diventa importante è la devozione per la causa palestinese e le donne
diventano eroine anche per gli uomini. Si assiste a un cambiamento del concetto di onore: ora le donne non devono dimostrare di voler proteggere a tutti i costi la propria reputazione ma devono dimostrare di voler aiutare gli altri Palestinesi. Nonostante tutte queste attività effettuate dalle donne il primo programma destinato alle donne è distribuito solo l’8 marzo 1988 e porta la firma dei quattro comitati e di varie associazioni di beneficenza e chiama le donne a partecipare ai comitati popolari, a boicottare il lavoro israeliano e a creare una home economy basata sulla produzione di cibo e vestiti e a ostacolare l’occupazione e la colonizzazione israeliana: “Our heroic women, mothers of martyrs, the imprisoned and the injured, their wives, sisters and girls. To all the Palestinian women in camps, villages and cities, who are united in their struggle and their political confrontation with repression and terrorism… to all our sisters in the battle where all hostile theories have been burnt… let our activists participate extensively in the popular committees in neighborhoods, cities, villages and camps. Let them participate in making programs to promote the intifada and our steadfast people. Let us send representatives to collect donations and expose the various occupation practices. Let our working women participate in the unions and organize as workers; and step by step we’ll achieve victory. Oh working women, your fellow workers in boycotting work on strike days for you mostly suffer from racism and continuous oppression. Oh heroic teachers, our children’s future is important; the occupying authorities have closed down all our educational institutions. Therefore, unite and confront the policy of closing the educational institutions, whose purpose is to produce an illiterate generation. Mothers, in camps, villages and cities, continue confronting soldiers and settlers. Let each woman consider the wounded and imprisoned her own children. In the name of the great uprising, we ask you all to develop the concept of home economy by producing all food and clothes locally. This is a step in boycotting Israeli goods and paralyzing their economy. We can achieve this goal by going to the land, the source of goodness and happiness.” Sebbene questa chiamata all’azione sottolinei l’importanza prestata alla partecipazione delle donne nella lotta contro l’occupazione israeliana, il ruolo delle donne che operano attraverso i comitati popolari resta per la maggior parte di tipo tradizionale: insegnare e prestare cure ai bisognosi. I comitati delle donne invece operano in diversi settori: agricoltura, medicina,
educazione, fornitura di cibo. Durante l’Intifada la struttura dei comitati diventa più centralizzata e più omogenea. Quest’ultimo aspetto è dovuto al provvedimento del 1988 dell’amministrazione israeliana di chiudere le università. La conseguenza è una ricollocazione delle donne dell’ambiente universitario e un riavvicinamento con le donne appartenenti ad altri ambienti. L’attività di maggior successo dei comitati è la formazione di cooperative produttive come metodo per boicottare i prodotti israeliani e come un mezzo per sopperire la mancanza di cibo e creare una propria economia. Le cooperative hanno una struttura democratica e si occupano del prodotto dalla nascita alla vendita. Riuscita è anche la creazione di una home economy, secondo la quale le donne producono direttamente nelle loro case. La nascita di una formale economia palestinese delle donne provoca un rafforzamento delle relazioni personali tra le donne e quindi a una lotta fianco a fianco delle donne contro Israele. Questo risultato, insieme a una maggiore indipendenza delle donne, non si accompagna però a progressi significativi delle donne sul piano sociale: anche se si fa un continuo riferimento al loro coinvolgimento nella lotta nazionalista esse vengono sempre considerate in relazione agli uomini e ai figli. La donna palestinese quindi viene ancora considerata principalmente una madre, figura promossa sin dagli anni ’20 e non ancora abbandonata. Tutto ciò è particolarmente visibile nella già citata chiamata all’azione delle donne da parte dei comitati dell’8 marzo 1988, in cui si fa più volte riferimento alla figura della madre. Inoltre nel comunicato del 1990 del Comitato Nazionale Unificato, intitolato “The Woman’s call”, si prendono sicuramente in considerazione le azioni di lotta intraprese dalle donne ma non si fa riferimento ad esse in maniera indipendente dalle figure maschili: “Progressive nations celebrate International Women’s Day on 8 March as a day of struggle for the world’s women’s masses, While celebrating this great day, in the name of all the sons of our people, we congratulate the world’s women’s masses and the masses of the Palestinian women’s movement and its vanguard organizations, hailing every working woman, woman struggler and houswife, and especially our imprisoned strugglers. We also pay tribute to the struggling role of the Palestinian uprising’s
women’s movement, to every mother who has lost a son, daughter, husband, or brother, and to every woman who meets with a struggling daughter or a heroic son from behind the Bastille of the Zionist enemy.” Più avanti si parla ancora delle madri facendo riferimento al fatto che è la loro sofferenza che conferisce forza e determinazione alla lotta del popolo palestinese. In conclusione l’Intifada rappresenta un momento chiave per il coinvolgimento delle donne palestinesi in guerra. Come mai prima dal dicembre del 1987 esse sono coinvolte in ampissime proporzioni nella lotta contro Israele. Non sono più solo le donne con un elevato grado di istruzione a scagliarsi contro i soldati e contro i coloni israeliani ma sono ampiamente coinvolte anche le casalinghe, le donne che precedentemente erano confinate nelle aree rurali e quelle che vivono nei campi profughi. Ciò è favorito dall’azione dei comitati e dall’intenzione di costruire le basi strutturali per il futuro stato palestinese. Sicuramente non mancano le azioni violente, la più citata delle quali è forse il lancio di pietre. Tuttavia le attività che hanno più successo sono quelle non violente come evidenzia la nuova home economy. Anche se molte donne hanno sfidato norme sociali tradizionali restrittive bisogna però notare che la necessità di conseguire obiettivi politici ha riportato la questione di genere in posizione subordinata rispetto alla lotta nazionalista e questa è sicuramente una causa diretta della crescita del potere di Hamas e della Jihad Islamica.
L’influenza del fondamentalismo sulla partecipazione delle donne all’Intifada. L’Intifada non comporta solo una partecipazione di ampie proporzioni delle donne alla lotta nazionalista. Durante l’Intifada si assiste anche a un paradossale arretramento delle donne e un loro confinamento alla sfera domestica. Ciò è dovuto a vari fattori: il fallimento dei negoziati per la fine dell’occupazione israeliana genera un senso di frustrazione tra le donne che le allontana dalla sfera politica; la guerra del Golfo ha ampie ripercussioni sulle condizioni economiche delle famiglie palestinesi: prima della guerra molti uomini lavorano in Arabia Saudita e in altri paesi del Golfo e questo garantisce la sopravvivenza delle
famiglie rimaste in Palestina, altre famiglie invece vivono grazie ai finanziamenti elargiti alle istituzioni locali dai paesi del Golfo ma tutto ciò subisce una battuta d’arresto con la guerra e si ha un ritorno alle famiglie allargate che ha conseguenze negative sulla partecipazione delle donne alla sfera pubblica; durante la guerra del Golfo i movimenti nazionalisti perdono la loro centralità e ne risente soprattutto il movimento delle donne palestinesi; la disoccupazione e la povertà aumentano proporzionalmente alla riluttanza israeliana a assumere lavoratori palestinesi; cresce il potere fondamentalista di Hamas e Jihad Islamico. Hamas e Jihad Islamico discendono dai Fratelli Musulmani arrivati in Palestina già alla fine degli anni ’40 per combattere per la causa palestinese come volontari. Tuttavia la crescita del fondamentalismo si ha solo negli anni ’70, sulla scia di quello che sta succedendo in altri paesi mediorientali. I gruppi fondamentalisti creano dal 1967 una solida rete di attività di assistenza basata su scuole, ospedali, centri vocazionali, centri per i giovani e nel farlo sono anche aiutati dai finanziamenti israeliani elargiti con l’obiettivo di fermare l’espansione dell’OLP. Il fondamentalismo palestinese si basa sull’idea di legittimità, desiderabilità e inevitabilità di una Palestina completamente islamica, comprese le aree palestinesi conquistate nella guerra del 1967. Il fondamentalismo prolifera soprattutto nella Striscia di Gaza, area più conservatrice rispetto alla Cisgiordania e dove le condizioni di disoccupazione e povertà sono più marcate, dove il sovraffollamento dei campi dei rifugiati è più consistente e le condizioni di vita in generale sono più dure. Già dagli anni ’70 i movimenti islamici cercano di imporre lo “shari’a dress”, un abito lungo che copre interamente il corpo delle donne e che è accompagnato dal copricapo denominato hijab. Tuttavia questo modo di vestire non ha precedenti nella tradizione palestinese e rappresenta più che altro uno strumento oppressivo usato con fini politici come si vedrà meglio più avanti. Nei primi anni ’80 crescono le pressioni volte a far indossare lo “shari’a dress” ma restano perlopiù confinate in ambienti specifici: l’Università Islamica, le famiglie religiose e alcuni luoghi di lavoro. È solo con l’Intifada che queste pressioni diventano un pericolo per le donne che si espongono nella sfera pubblica col capo scoperto. Inoltre nel 1989 Hamas condanna la partecipazione a tutte le manifestazioni o sollevazioni violente. Per capire perché bisogna capire
qual è la visione dell’Intifada dei gruppi fondamentalisti. Il Jihad Islamico rifiuta la mobilitazione di massa in favore della formazione di una organizzazione segreta impegnata nella lotta armata contro Israele, il Jihad appunto. Hamas assume questo nome nella primavera del 1988 e in agosto pubblica il suo manifesto politico secondo il quale la Palestina storica è un bene sacro, inalienabile ed eterno per la cui liberazione si deve ricorrere al jihad. Hamas non condivide la Dichiarazione di Indipendenza di Arafat, la soluzione dei due stati e la fine dell’utilizzo della violenza. Il gruppo fondamentalista non fa parte del Comitato nazionale unificato e non partecipa agli eventi da esso organizzato contro l’occupazione israeliana ma ne organizza invece di propri. Di questa visione delle cose risentono soprattutto le donne: a partire dal settembre del 1988 aumentano considerevolmente le scritte sui muri che intimano di indossare l’hijab. Le donne non possono più uscire dalle case col capo scoperto altrimenti rischiano seriamente di essere bersagliate da pomodori, uova, pietre e talvolta acido. Questa campagna si estende pian piano anche alla West Bank, dove tuttavia non assume l’ampiezza che ha nella striscia di Gaza ed è più radicata nelle aree conservatrici come Hebron e dove l’utilizzo del velo avviene più spesso su base volontaria. Nel trattare dell’argomento la letteratura fa esplicito riferimento ad Hamas e tralascia la trattazione dettagliata del ruolo del Jihad Islamico in questi eventi. Hamas fa addirittura un tentativo di nazionalizzare l’hijab. Le giustificazioni addotte per le pressioni esercitate vanno dalla necessità del rispetto dei martiri palestinesi caduti durante l’Intifada, all’utilizzo del velo come simbolo dell’identità palestinese e dell’unità nazionale da contrapporre all’occupazione israeliana, al fatto che l’hijab può proteggere le donne dagli attacchi dei soldati israeliani, alla necessità di proteggere le donne palestinesi dagli attacchi dei giovani religiosi. La verità è che Hamas agisce in nome di una Palestina storica islamica per attaccare il secolarismo su una questione molto delicata: quella delle donne. Come a voler indicare il timore che un maggiore coinvolgimento delle donne nelle attività politiche e nella lotta nazionalista e la sfida di norme tradizionali restrittive le possa allontanare dalla causa principale cioè la liberazione della
Palestina e la riconquista dei territori palestinesi sottratti nelle varie guerre e possa far crollare le fondamenta del patriarcato sulle quali si erge la società palestinese. Ancora una volta poi viene utilizzato il mito della madre palestinese: in un documento di Hamas intitolato “The Roles of Muslim Women” si legge: “In the resistance, the role of the Muslim woman is equal to the man’s. She is factory of men, and she has a great role in raising and educating the generations.” La figura della madre è importante non solo per l’educazione dei nuovi palestinesi ma anche e soprattutto per il mantenimento in vita del popolo palestinese. Per Hamas la donna deve procreare e una famiglia completa è una famiglia dove ci sono almeno quattro figli. Ma perché dopo una crescita consistente di consapevolezza da parte delle donne palestinesi questa visione della donna, accompagnata dall’imposizione del velo, ha successo? Innanzitutto ciò è dovuto al potere acquisito da Hamas durante gli anni ’70 grazie alla fornitura di numerosi servizi sociali. Inoltre Hamas offre una risposta alternativa al problema palestinese e fa leva sulla disillusione che molti palestinesi hanno ormai nei confronti dei vari partiti. Hamas propone poi un’immagine di unità e utilizza valori della vita quotidiana per la creazione di una tradizione alla quale molti palestinesi e molte palestinesi si aggrappano e rappresenta un’alternativa all’OLP e al tentativo di arrivare ad accordi di pace con Israele. E ancora Hamas propone un modo di partecipazione alla lotta che non espone le donne al pericolo, come invece fanno le fazioni nazionaliste. Infine il successo di Hamas è dovuto alla debolezza del femminismo e dal timore che combattere Hamas provochi rotture all’interno della società palestinese che possano favorire Israele. La prima risposta alle minacce di Hamas viene in seguito a un episodio avvenuto nel 1989 quando due attiviste operanti nella Città di Gaza e conosciute per la loro reticenza all’utilizzo del velo, ma che in quel momento lo indossano anche se il velo non copre tutta la testa, vengono per questo motivo minacciate e attaccate da due fanatici. Il Comitato Nazionale Unificato condanna l’episodio e le minacce a cui continuamente vengono sottoposte le donne col comunicato numero 43: “The phenomenon of harassing women contradicts the traditions and norms of our society as well as our accepted attitudes about women. At the same
time it denigrates the patriotism and humanity of each female citizen. Nobody has the right to accost women and girls in the street on the basis of their dress or the absence of a headscarf. The Unified National Leadership will chase these hooligans and will stop such immature and unpatriotic actions, especially when it is found that many such hooligans consistently engage in their own suspicious activities.” Anche l’Alto Consiglio delle Donne condanna le minacce di Hamas e gli attacchi alle donne effettuati anche con la collaborazione delle autorità israeliane. Tuttavia tutto ciò non trova una piena rispondenza nella realtà. Sebbene molte palestinesi si scaglino contro la visione della donna promossa da Hamas con la consapevolezza che essa provochi una regressione rispetto ai benefici ottenuti con le lotte precedenti, molte altre invece mettono ancora una volta la questione di genere in secondo piano, timorose di distruggere l’unità della lotta nazionalista: “We couldn’t act earlier in Gaza, because it was not right. The intifada was at the height, and we didn’t want create internal differences while fighting the occupation. Because Hamas will throw stones at us, we will throw stones at them, and the army meanwhile can take a break.” Da una parte quindi questa inazione delle donne e la mancanza di un sostegno significativo da parte delle istituzioni provoca un ulteriore rafforzamento della campagna di Hamas, con l’imposizione dello jilbaab (abito lungo). Dall’altra però nascono importanti iniziative di pace come dimostra la partecipazione di Hanan Ashrawi ai negoziati per gli accordi di pace tra Iraele e la nuova Autorità Palestinese. Da questo momento storico si ha una spaccatura nella società e nella politica palestinese e anche nella partecipazione delle donne alla stessa: da un lato l’estremismo fondamentalista, dall’altro il pacifismo. Nel capitolo successivo si discuterà meglio della questione.
Il cambiamento del ruolo delle donne palestinesi in guerra dagli anni ’90 agli anni 2000: progressi o retrocessione?
L’Intifada rappresenta un evento cruciale per la storia palestinese perché comporta una riorganizzazione significativa della struttura sociale e politica palestinese e apre scenari che sono impensabili per il popolo palestinese fino a qualche anno prima. Questi scenari sono molteplici e complessi e purtroppo con questo lavoro non si possono analizzare in profondità, sia per esigenze di tempo, di spazio, di materiali e di risorse, sia per l’obiettivo principale che si propone questa tesi: esplorare il ruolo delle donne palestinesi nella lotta di liberazione analizzando come questo è cambiato nel tempo. Si possono comunque individuare due principali tendenze apparentemente opposte: da un lato il desiderio di porre fine alle sofferenze alle quali il popolo palestinese è quotidianamente esposto e quindi l’avvio di un processo di pace il cui culmine è rappresentato dagli accordi di Oslo e dall’altro il bisogno di non abbassarsi ad Israele e a tutto ciò che la politica israeliana continua a imporre al popolo palestinese e quindi la volontà di usare la forza come mezzo per raggiungere risultati politici duraturi. Su questo sfondo si collocano da un lato l’OLP e la neonata Autorità Palestinese, dall’altro Hamas. Da entrambi i lati c’è una importante partecipazione delle donne. La figura femminile palestinese più significativa per il processo di pace è rappresentata proprio da colei che, prima come autonoma e poi come portavoce dell’OLP, ha partecipato alle discussioni sulla possibilità della pace tra Israele e popolo palestinese e poi ai negoziati che hanno portato alla famosa stretta di mano avvenuta presso la Casa Bianca il 13 settembre 1993 tra Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e Yitzhak Rabin, Primo Ministro israeliano: Hanan Ashrawi. Gli esempi più significativi della seconda tendenza invece sono senz’altro rappresentati dall’utilizzo della violenza da parte delle donne palestinesi e dal loro desiderio di diventare martiri (che diventa realtà per la prima volta il 27 gennaio del 2002) facendosi esplodere e cercando di uccidere il maggior numero
possibile di israeliani: si tratta di coloro che nell’ambiente palestinese e nei media arabi vengono descritte come shahidat e che provocano reazioni diversificate sia da parte della popolazione e dei leader palestinesi sia da parte dei media occidentali e arabi. Nonostante questa partecipazione delle donne è difficile capire quale portata essa abbia, nel primo caso perché le donne che intendono agire tramite le istituzioni per la soluzione della questione israelo-palestinese e per l’arrivo a un equilibrio duraturo trovano ancora molti limiti e nel secondo caso perché non è facile comprendere se le donne siano vittime o carnefici, se agiscano autonomamente oppure vengano reclutate per fini politici e diventino strumenti nelle mani degli uomini, se la difficoltà dell’occupazione israeliana abbia un peso più importante di quello che le norme patriarcali hanno sulla vita di queste donne. Una delle analisi più interessanti del terrorismo palestinese è quella di Robert J. Brym e Bader Araj dell’Università di Toronto. Partendo dalle analisi degli anni ’80 e da quelle più recenti di Pape sul terrorismo, i due ricercatori propongono spiegazioni innovative del fenomeno. Partendo con l’analisi delle interviste a persone che auspicano di diventare martiri e con la ricostruzione delle biografie di coloro che ci sono riusciti, i due rifiutano l’idea che i suicide bomber siano affetti da un livello di psicopatologia più alto rispetto a quello del resto della popolazione. Sminuiscono anche l’importanza della teoria della deprivazione. Se negli anni ’90 gli attacchi suicidi palestinesi sono effettuati da persone soggette a un certa deprivazione come povertà e disoccupazione, profondamente legate al fondamentalismo islamico e propense a usare la violenza, dagli anni 2000 il profilo dei suicide bomber cambia e i futuri martiri vengono scelti nelle classi medie e tra persone con un alto livello di istruzione (spesso universitaria). Questo è in larga parte dovuto al fatto che la prevenzione israeliana basata sulle esperienze degli anni ’90 ha comportato un cambiamento di strategia da parte dei reclutatori palestinesi. Anche l’idea che la cultura e in particolare la religione influenzino le scelte dei suicide bomber, vacilla secondo i due ricercatori: se è vero che un certo tipo di cultura può aumentare le probabilità di un attacco suicida, non si può dare troppa importanza a questo aspetto. La cultura islamica infatti non accetta il suicidio e questo atto è stato usato poco nella storia dell’Islam. Inoltre anche gruppi
palestinesi non apertamente religiosi reclutano suicide bomber. La teoria di Pape secondo la quale gli attacchi suicidi rispondono a motivazioni strategiche in cui gli elementi di razionalità sono rappresentati dalla tempistica (gli attacchi avvengono in corrispondenza di eventi importanti e in una quantità minima di tempo), dagli obiettivi politici da raggiungere e dal successo che ottengono gli attentati, viene criticata. La tempistica non sempre massimizza i risultati ma li può addirittura minimizzare e molto spesso gli attacchi suicidi sono eventi reattivi che non sono pianificati molto tempo prima. Le motivazioni dietro a un attacco suicida sono variegate e non riconducibili solo a obiettivi politici. In realtà secondo i due ricercatori i motivi forniti da un suicide bomber prima dell’attacco sono la vendetta per azioni commesse dagli israeliani contro parenti o amici, la vendetta per azioni commesse contro il popolo palestinese in generale oppure contro i musulmani o contro l’islam, il desiderio di ricostruire la propria reputazione distrutta da comportamenti disonorevoli come la collaborazione con gli israeliani, il desiderio di raggiungere un obiettivo religioso come la difesa e la promozione dell’islam, anche se tra le ragioni che portano alla scelta di effettuare un attacco suicida che figurano tra quelle apportate dai leader c’è sicuramente il perseguimento di obiettivi tattici e strategici. I risultati dell’operazione possono essere minimi o addirittura assenti e le conseguenze di un attacco suicida possono essere deleterie per l’intero popolo palestinese, differentemente da quanto suggerisce Pape secondo il quale gli attacchi suicidi sono caratterizzati da un basso costo e da un alto successo. Secondo i due ricercatori gli attacchi suicidi contribuiscono a rafforzare l’identità israeliana e aumentano il o per Israele a livello internazionale. Pur non avendo la pretesa di dare una spiegazione esaustiva a queste questioni, la discussione nei prossimi paragrafi si propone comunque di fare un po’ di luce sui fenomeni citati e in particolare di esplorare quale particolare ruolo svolgono le donne all’interno del fenomeno del terrorismo suicida in Palestina.
Dalla guerra alla pace: il caso di Hanan Ashrawi. I colloqui per un possibile accordo di pace con Israele iniziano proprio nel periodo della prima Intifada su iniziativa di un gruppo ristretto di persone che poi viene allargato e ottiene la legittimazione dell’OLP.
Per la prima volta dal 1948, l’esasperazione del popolo palestinese porta a una così consistente ricerca della pace piuttosto che a un desiderio di vendetta per i palestinesi uccisi, le case distrutte, le persone torturate e stuprate, gli insediamenti, la confisca delle terre, il divieto delle attività politiche, l’impossibilità di muoversi liberamente all’interno e all’esterno dei Territori Occupati, la chiusura delle scuole e delle università (volendo citare solo alcuni dei disagi che l’occupazione israeliana ha comportato per il popolo palestinese). La figura femminile che più spicca in questa ricerca della pace è Hanan Ashrawi e le informazioni che riguardano la sua attività sono tratte per la maggior parte dal suo libro “La mia lotta per la pace”. Il termine “lotta” presente nel titolo preannuncia ciò che ha comportato per Hanan Ashrawi la ricerca della pace: un impegno personale per lo sviluppo della sua cultura, il confronto con la rabbia dei giovani a cui insegna, la necessità di rappresentare le donne palestinesi nei cui occhi legge ciò che molte di loro non possono esprimere a causa delle ristrettezze delle norme tradizionali, lo sforzo di far emergere l’umanità dei delegati con i quali interagisce nel presentare la questione palestinese, le pressioni dell’OLP che deve cercare di mediare nel momento in cui ne diventa portavoce, la rappresentazione e la richiesta di riconoscimento di un popolo palestinese martoriato che non può e non vuole più accettare l’occupazione israeliana e tutto ciò che essa comporta ma la cui causa è molto spesso sottovalutata nel corso delle trattative, sia da parte degli israeliani sia da parte dei mediatori statunitensi. Una serie di eventi della sua vita personale dimostra come nonostante le difficoltà incontrate anche a causa della sua identità e della sua attività, la dedizione di Hanan per il popolo palestinese non sia mai stata intaccata e la lotta per la pace, con mezzi non violenti e soprattutto grazie all’utilizzo della parola, sia stata una costante nella sua vita. Hanan Ashrawi nasce a Nablus l’8 ottobre 1946 in una famiglia cristiana agiata. Il padre Mikhail, di origini contadine, è un ufficiale medico nell’esercito della Palestina e la madre ha origini libanesi. I due si sposano nonostante le proteste dei propri genitori per la provenienza della donna e l’incongruità della loro situazione economica provenendo la madre di Hanan da una famiglia più ricca di quella del padre. La famiglia della donna riesce a lasciare Nablus prima del 1948 e si sposta prima a Tiberiade poi a Ramallah.
La casa dei genitori offre grandi opportunità di arricchimento culturale e politico: il padre infatti è una persona istruita e aperta, rispettosa dei diritti umani e attenta al rispetto dell’uguaglianza tra uomini e donne, aspetto che ritorna spesso nei discorsi di Hanan in cui fa riferimento alla famiglia composta da cinque sorelle e alla figura del padre. Inoltre in casa si tengono le riunioni di formazione dell’OLP e le riunioni del Partito Socialista che provocano l’arresto del padre. Hanan frequenta l’Università Americana di Beirut e si laurea in Letteratura Inglese. È proprio a Beirut che ha inizio la sua attività politica. La guerra del 1967 la coglie quando si trova in Libano, lontana dalla sua famiglia, che non potrà rivedere per sei anni a causa delle restrizioni israeliane. L’attivismo di Hanan inizia subito dopo la guerra, nello scenario della rivoluzione palestinese e della lotta armata. Sotto la guida di Jihan Helou, affiliata a Fatah e attiva nell’organizzazione della resistenza, Hanan inizia a lavorare nei campi profughi, impara a scavare rifugi e trincee e subito dopo la guerra dei Sei Giorni si dedica anche ad attività di tipo più intellettuale come la discussione delle questioni di genere e la creazione di strutture rivoluzionarie femminili, la scrittura dei volantini, i colloqui coi giornalisti e la guida degli stessi nei campi profughi. Hanan viene eletta capo dell’Unione Generale degli Studenti Palestinesi ed è proprio in occasione di una riunione dell’Unione avvenuta nel 1969 ad Amman, che Hanan (l’unica delegata eletta tra circa duecento maschi) conosce Arafat del quale individua subito l’aspetto “umano e cordiale” e col quale rimane in contatto negli anni a venire. Nel 1970 si trasferisce in Virginia grazie a una borsa di studio dell’Università Americana di Beirut e lì si specializza in Letteratura Medievale. Anche negli USA Hanan dà libero sfogo al suo attivismo e si dedica alla conoscenza dei gruppi più svariati: dai gruppi femministi a quelli contro la guerra del Vietnam, dai gruppi degli studenti palestinesi a quelli degli studenti neri o dei minatori degli Appalachi. È solo dagli Stati Uniti che Hanan può ricongiungersi telefonicamente con la sua famiglia, dato che Israele impedisce ogni contatto tra i paesi arabi e i Territori Occupati.
Alla fine del percorso di studi in Virginia, dopo un difficile viaggio di ritorno (viene fermata all’aeroporto di Parigi perché viene scambiata per Leila Khaled e trattenuta per ventiquattro ore all’aeroporto del Cairo) ottiene un permesso per ricongiungersi con la famiglia a Ramallah. Hanan diventa docente all’Università di Bir Zeit dove continua la sua attività politica, attraverso la partecipazione a gruppi studenteschi e a gruppi femministi che la coinvolgono nei primi processi e dalla metà degli anni ’70, dopo la guerra dello Yom Kippur, attraverso i primi dialoghi con alcuni attivisti israeliani. Nel 1975 si sposa con Emile Ashrawi, un artista che dedica la sua vita alla difesa dei diritti umani e alla lotta pacifica per la liberazione del popolo palestinese. Dal loro amore sincero e non ostacolato dalla famiglia nascono due figlie: Amal e Zeina. L’invasione israeliana del Libano nel 1982, i massacri di Sabra e Shatila e le violenze perpetrate dai falangisti e dagli israeliani nei confronti dei rifugiati palestinesi e l’espulsione dell’OLP dal Libano avvicinano paradossalmente la pace. A ciò concorre anche l’Intifada che secondo Hanan comporta un aggio dalla lotta armata alla disobbedienza civile, da una rappresentanza palestinese che si trova fuori dalla propria terra al desiderio di uno stato palestinese e alla spinta per “l’offensiva di pace”. È così che iniziano le conversazioni per eventuali accordi di pace sponsorizzati da paesi terzi. Nei mesi precedenti l’Intifada e nei mesi immediatamente successivi le incursioni nelle università aumentano. Molti studenti vengono catturati e imprigionati e Hanan cerca di difenderli grazie a un Comitato di Assistenza Legale. Tuttavia molte volte è proprio lei il bersaglio dei soldati israeliani. Nel 1988 le università vengono chiuse e Hanan si dedica all’attività sovversiva delle lezioni clandestine. È nello stesso anno, proprio nel pieno dell’Intifada, che ha inaspettatamente inizio il cammino verso gli accordi di pace. La necessità di informare il mondo sulla realtà palestinese dà vita a una campagna di informazione nell’ambito della quale, nella trasmissione “Nightline” di Ted Koppel, si avanza l’ipotesi di un incontro tra palestinesi e israeliani. I diversi partiti palestinesi rifiutano di mandare delegati a un incontro con gli israeliani perciò la discussione ha inizio a Gerusalemme tra tre autonomi palestinesi, tra cui Hanan Ashrawi, e quattro
israeliani. Subito dopo viene formata una commissione politica a cui partecipa anche Zahira Kamal. “Abbiamo cercato la pace come possono solo coloro che hanno vissuto in sua assenza. La costruivamo con le parole, la portavamo nelle nostre borse ai seminari: erano proposte politiche, esortazioni pubbliche, strumenti di persuasione da utilizzare con i nostri dirigenti, la nostra gente, i nostri amici e nemici” scrive Ashrawi. La volontà di costruire la pace viene rafforzata dalla Dichiarazione di Indipendenza palestinese avvenuta ad Algeri il 15 novembre 1988 che riconosce la soluzione dei due stati. Aumenta il numero delle conversazioni sponsorizzate dai paesi terzi e su suggerimento di Arafat, Hanan in veste di rappresentante del popolo palestinese, avvia un dialogo con il Dipartimento di Stato americano per migliorare i rapporti tra USA e OLP. Nel frattempo nasce a Bruxelles un’iniziativa di incontri tra donne israeliane e palestinesi che dà vita a un percorso di reciproco riconoscimento nonostante i problemi interni esistenti tra i vari gruppi di donne. Iniziative per la promozione della pace nascono anche a Milano e vedono la partecipazione di gruppi di donne di tutto il mondo a una grande manifestazione per la pace che avviene a Gerusalemme nel 1990. Il 1990 però, è anche l’anno in cui i palestinesi riprendono a preoccuparsi per la stabilità della regione a causa dell’invasione dei Kuwait da parte dell’Iraq avvenuta il 2 agosto. La commissione politica per la pace lancia un messaggio univoco: la condanna dell’occupazione e dei mezzi militari in qualsiasi luogo. Hanan Ashrawi ottiene l’incarico di scrivere memorandum per i membri della comunità internazionale e di incontrare la comunità diplomatica a Gerusalemme per scongiurare una guerra nella regione. Sollecita anche l’OLP ad adottare la proposta pacifista. Tutte queste iniziative però ottengono numerose critiche a causa del famoso bacio tra Abu Ammar e Saddam Hussein.
Lo scoppio della Guerra del Golfo provoca l’immediata imposizione del coprifuoco da parte israeliana. A risentirne sono soprattutto i palestinesi dei campi per i rifugiati. Peggiorano anche le condizioni economiche e sociali nei Territori Occupati a causa del blocco economico e del blocco politico nei confronti dell’OLP. La Guerra del Golfo però apre anche nuovi scenari per il futuro grazie al desiderio americano di esplorare le prospettive di pace in Medio Oriente. Su proposta del console generale di Gerusalemme Philip Wilcox, si inizia a discutere della disponibilità palestinese a incontrare il Segretario di Stato americano James Baker. Dopo un’iniziale reticenza la maggior parte delle forze politiche è propensa a avviare discussioni (il partito Comunista partecipa solo alla prima riunione) mentre Arafat è contrario ad impegnarsi. Il primo colloquio con Baker si ha il 12 marzo 1991. L’intenzione di Baker è quella di arrivare a una soluzione del problema tra Israele e Territori Palestinesi in linea con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza n. 242 e n. 338, la prima adottata dopo la guerra del 1967 che si riferisce all’inammissibilità dell’acquisizione di territori con lo strumento della guerra e la seconda presa dopo la guerra del 1973 che riafferma la risoluzione n. 242 e auspica la soluzione del problema attraverso una conferenza in cui siano presenti gli opportuni mediatori. Il ruolo di Hanan Ashrawi nelle discussioni è alquanto innovatore: essa propone un nuovo linguaggio palestinese “in grado di dar voce alla realtà intima palestinese, anziché lasciare che altri parlassero per noi”. Nelle riunioni che seguono i temi caldi sono rappresentati dalla questione dell’autodeterminazione palestinese, dagli insediamenti israeliani, dalla questione di Gerusalemme e da quella dei diritti umani palestinesi. Hanan si sposta freneticamente da una nazione all’altra cercando di raccogliere le volontà dei gruppi palestinesi e di Arafat per il quale prova rispetto e affetto ma dal quale riconosce di essere a volte usata per il raggiungimento di particolari obiettivi politici. L’incontro del 10 ottobre a Washington trova una forte resistenza interna da parte
di Hamas, del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina e di una parte del Fronte Democratico. Negli Usa si discute di una delegazione congiunta composta da Giordania e palestinesi per le negoziazioni con gli Israeliani, del riconoscimento dell’OLP e della questione di Gerusalemme Est. Ashrawi in ogni incontro si occupa dei dettagli più spinosi. In questo caso richiede il riconoscimento dell’OLP pena l’assunzione dell’ONU della responsabilità del pagamento delle spese della conferenza, l’esclusione dei coloni e degli Israeliani che hanno commesso crimini contro i Palestinesi dai dialoghi, la regolarizzazione dei aporti dei membri palestinesi, della loro immunità e della loro sicurezza. Segue la prima conferenza ufficiale, quella di Madrid il 30 ottobre 1991, alla quale Hanan può partecipare solo come portavoce grazie a una decisione di Arafat in quanto Israele si era rifiutato di trattare con rappresentanti del popolo palestinese in possesso di una carta d’identità di Gerusalemme come è il caso di Hanan. La delegazione palestinese decide di vestire in modo non convenzionale per rappresentare la vera identità del suo popolo e questo creerà dei problemi per uno dei delegati. È Hanan che prepara il discorso da leggere alla Conferenza di Madrid: “Veniamo a voi da un paese torturato e in nome di un popolo fiero ma assoggettato, poiché ci hanno chiesto di negoziare con i nostri occupanti; abbiamo lasciato i ragazzi dell’Intifada e un popolo sotto occupazione e coprifuoco che ci hanno scongiurato di non arrenderci o dimenticare. Mentre parliamo, migliaia di nostri fratelli e sorelle stanno languendo nelle prigioni o nei campi di detenzione israeliani, in gran parte trattenuti senza prove, accuse o processo, molti crudelmente maltrattati e torturati durante gli interrogatori, colpevoli unicamente di aspirare alla libertà o di aver osato sfidare gli occupanti. Parliamo a loro nome e diciamo: liberateli. Mentre parliamo, le decine di migliaia che sono stati feriti o resi permanentemente inabili stanno soffrendo. Lasciate che la pace sani le loro ferite. Mentre parliamo, gli occhi di migliaia di profughi palestinesi, deportati e sradicati dal 1967 ci perseguitano perché l’esilio è un destino crudele. Riportateli a casa, hanno il diritto di tornare. Mentre parliamo il silenzio delle case demolite riecheggia attraverso i corridoi fin nelle nostre menti. Dobbiamo ricostruire le nostre case nel nostro libero stato…”. La conferenza di Madrid lascia la delegazione palestinese in preda a due
sentimenti opposti: da un lato l’euforia per aver ottenuto un posto nelle discussioni delle altre nazioni, dall’altro la delusione per l’assenza di risultati concreti. Il successivo incontro è previsto a Washington il 4 dicembre ma ci sono disaccordi tra i Palestinesi sulla data e sulle modalità di partecipazione. Israele pretende una delegazione giordano-palestinese, ma su questo punto la protesta di Ashrawi è netta. La donna richiede fermamente una discussione su binari separati. I negoziati riprendono solo il 13 gennaio in seguito alla condanna del Consiglio di Sicurezza delle deportazioni di palestinesi ordinate nel frattempo da Shamir. Ashrawi intende presentare quotidianamente agli israeliani un elenco delle violazioni dei diritti umani, violazioni che Israele si rifiuta categoricamente di accettare. Dopo altri incontri a Mosca e Stoccolma crescono i problemi per la continuazione di discussioni proficue per la risoluzione dei conflitti tra Israele e popolo palestinese. Le elezioni negli Stati Uniti e in Israele cambiano gli attori con i quali ci si deve rapportare. Inoltre aumentano gli insediamenti israeliani e le deportazioni di massa dei palestinesi che i palestinesi non vogliono accettare per alcuna ragione. Parallelamente però si stanno segretamente sviluppando le conversazioni di Oslo che portano all’elaborazione di una Dichiarazione dei Principi grazie al canale stabilito da Hanan Ashrawi tra gli israeliani Ya’ir Hirschfeld e Ron Pundik da un lato e il palestinese Abu Ala dall’altro, con il sostegno del Ministro degli Esteri norvegese Johan Holst. Nel frattempo Arafat propone una smobilitazione dell’occupazione israeliana in due fasi, la prima delle quali prevede che gli israeliani lascino la Striscia di Gaza e Gerico: ciò risponde a motivazioni strategiche perché permette di collegare Gaza alla Riva Occidentale e di raggiungere Gerusalemme. A questo proposito il nuovo Segretario di Stato americano Christopher avanza la proposta di trattare direttamente con Arafat. Hanan decide quindi di presentare le dimissioni perché da questo momento entra direttamente in gioco nei negoziati il rappresentante dell’OLP e si raggiunge uno degli obiettivi principali della portavoce palestinese: quello di avviare trattative direttamente con l’OLP.
Il riconoscimento dell’OLP è contenuto anche nella Dichiarazione dei Principi di Oslo: “Abbiamo ottenuto vantaggi strategici e politici, in particolare il fatto che questo è un accordo con l’OLP e non solo con una delegazione palestinese e il riconoscimento dei palestinesi come popolo con diritti politici” dice Ashrawi. In generale però, Hanan Ashrawi giudica gli accordi di Oslo carenti e difficili da attuare e decide di allontanarsi dal processo di pace che sta prendendo una piega diversa da quella originale, non prima però di aver ottenuto il riconoscimento dell’OLP anche a Washington. L’accettazione della Dichiarazione dei Principi deve avvenire a Washington il 13 settembre 1993. La delegazione palestinese però si accorge pochi minuti prima dell’inizio della cerimonia che la Dichiarazione è stata modificata e che essa non prevede il riconoscimento dell’OLP come attore con il quale si deciderà il futuro di Israele e Territori Palestinesi. È in quel momento, in cui la delegazione palestinese rimane col fiato sospeso, che entra in gioco Hanan Ashrawi: si fa dare una copia del documento e cancella tutti i riferimenti alla “delegazione palestinese”, alla “squadra” o alla “delegazione congiunta giordano-palestinese” e li sostituisce con “Organizzazione per la Liberazione della Palestina”. Dopo istanti critici gli Israeliani accettano di firmare il documento modificato. Firmano Shimon Peres e Arafat e lo stesso Arafat e Rabin si stringono la mano in presenza del Presidente americano Bill Clinton. Dovrebbe essere l’inizio di una nuova epoca ma nel cuore di Hanan si celano perplessità riguardo a ciò che sarà il futuro perché troppe cose rimangono in sospeso: la questione di Gerusalemme, la questione degli insediamenti e dei rifugiati palestinesi, la questione della sicurezza e dei confini. Cisgiordania e Gaza vengono divise in tre zone che prevedono l’esercizio del controllo da parte di Israele o dell’Autorità Nazionale Palestinese o del controllo congiunto. Israele e OLP firmano tuttavia Lettere di riconoscimento. Finalmente avviene il riconoscimento del popolo palestinese nell’arena internazionale. “Per anni avevo tentato di trasformare la nostra realtà da un aggettivo a un nome, da palestinese a Palestina e d’introdurre nel discorso globale l’uso del termine <<popolo>> quale riconoscimento della nostra umanità in congiunzione con la nostra patria Palestina come realtà contemporanea e non quale astrazione geografica.”
L’attività politica e la lotta per la pace di Hanan Ashrawi continuano anche e significativamente dopo gli Accordi di Oslo. Tuttavia quello che si è voluto segnalare con questo paragrafo è come la determinazione e l’attivismo di una donna palestinese indipendente dai vari partiti politici siano rilevanti per l’innesco del processo di pace, tanto che Hanan viene scelta come portavoce dell’OLP da Arafat e rappresenta la voce del popolo palestinese in tutto il mondo. Hanan ha vissuto fin da giovane le guerre a cui è stato sottoposto il popolo palestinese ed ha partecipato ad esse sempre tramite attività non violente che hanno cercato di restituire speranza nei cuori dei palestinesi. Nella sua lotta però, non si può non individuare un certo grado di manipolazione, seppur limitato e al quale lei cerca di ribellarsi, da parte di Arafat, un leader che in certi momenti del processo di pace si trova con le mani legate e che nonostante ciò ha dimostrato anche profonda stima e affetto nei confronti di questa donna dallo straordinario coraggio.
Le donne all’interno del nuovo quadro istituzionale palestinese: arretramento o partecipazione? Dopo gli accordi di Oslo si a dalla lotta per avere uno Stato all’impegno per la costruzione delle istituzioni statali e civili. A questo scopo le donne sono impegnate in prima linea e lottano affinché all’interno del nuovo Stato palestinese possa continuare la lotta nazionalista e siano garantiti i diritti femminili che la lotta di liberazione nazionale, soprattutto durante il periodo libanese e durante l’Intifada, ha fatto are in secondo piano. Inoltre la piena autonomia palestinese non è ancora raggiunta e le donne vogliono lottare per essa dall’interno delle istituzioni. Affinché questo succeda, diversi gruppi di donne e le donne appartenenti ai comitati elaborano la Carta delle Donne, approvata nel 1994 dall’Assemblea Nazionale Palestinese, che ricorda l’impegno delle donne nella lotta nazionalista e chiede il riconoscimento dell’uguaglianza delle donne e degli uomini nel campo dei diritti politici, civili, economici, sociali e culturali.
La Carta delle Donne tuttavia, non è sufficiente a garantire un’adeguata partecipazione delle donne nelle nuove istituzioni e nuovi fenomeni ostacolano il proseguimento della lotta nazionalista. Un primo sviluppo al quale si deve far riferimento nel parlare delle lotte delle donne palestinesi negli anni ’90 è il declino dei partiti, marginalizzati dal controllo dell’OLP da parte di Al Fatah di Arafat. Questo fenomeno ha contribuito al declino dei comitati e allo sviluppo di organizzazioni non partitiche come le Organizzazioni Non Governative che da una parte sono indipendenti dai partiti grazie all’aiuto di donatori esterni, soprattutto europei, e si possono occupare maggiormente di questioni di genere e dall’altra falliscono nel promuovere la lotta nazionalista e di genere a livello nazionale ricadendo spesso nell’impegno a livello locale. A guidare l’attività delle ONG è il Women’s Affair Technical Committee, nato dopo la conferenza di Madrid con l’obiettivo di creare una struttura per le donne all’interno dell’Autorità Nazionale Palestinese e diretto da Zahira Kamal. Attraverso il WATC le ONG promuovono la partecipazione delle donne al processo elettorale sia come votanti sia come candidate, sia a livello nazionale sia a livello locale, proponendo l’idea delle quote all’interno del Consiglio Nazionale Palestinese (che non viene accettata). Sebbene l’attività delle ONG sia consistente, il gap tra la partecipazione di donne e uomini all’interno delle nuove istituzioni rimane grande. Ciò produce un senso di frustrazione tra le attiviste che cominciano a operare a livello locale piuttosto che nazionale e a livello individuale piuttosto che generale. La “ONGizzazione”, come la definiscono alcuni autori, è una delle cause dell’arretramento delle donne nella sfera pubblica palestinese. In primo luogo l’ampiezza delle vecchie associazioni è decisamente superiore rispetto all’estensione della hip nelle ONG che richiedono il contributo di personale altamente qualificato. Inoltre le vecchie associazioni hanno sentimenti di appartenenza forti e soprattutto una causa da difendere e obiettivi nazionalisti da raggiungere che gli consentono di mobilitare e organizzare le masse attraverso il contatto diretto con esse mentre le ONG agiscono attraverso conferenze, media e workshop che si indirizzano a gruppi specifici per periodi di tempo limitati. Ciò comporta interventi meno consistenti e cause più frammentate. Un secondo fenomeno a cui si assiste è la penetrazione del conservatorismo all’interno delle neonate istituzioni statali palestinesi che provoca una
sottovalutazione delle questioni di genere e un allontanamento delle donne dalla sfera pubblica. Immediatamente dopo gli accordi di Oslo, Hanan Ashrawi nota già una certa dose di corruzione e di personalismi nell’istituzione delle nuove cariche governative. Questa tendenza è ancora più visibile negli anni successivi. La patriarchia si installa all’interno dell’Autorità Palestinese, Arafat sceglie i ministri anche in base alle logiche dei clan più influenti, dei favori personali e del o a Fatah e distribuisce a sua discrezione le cariche di più alto livello come riconoscimento di servizi prestati in ato e senza attenzione per particolari qualifiche. Solo due ministeri vengono conferiti alle donne: quello del Lavoro Sociale a Intissar al-Wazir e quello dell’Istruzione Superiore a Hanan Ashrawi (che si dimette nel 1998 per essere stata spostata al Ministero del Turismo). Nei 24 Ministeri istituiti si trovano solo 8 donne. Anche nei consigli locali si assiste a una limitazione dell’accesso delle donne. Permangono norme come la dipendenza nella cittadinanza della donna dalla cittadinanza del marito e l’omicidio d’onore. Si assiste poi a un rafforzamento della religione anche negli aspetti più intimi della vita delle donne. Ciò è dovuto in parte all’utilizzo della religione da parte di Hamas per l’invenzione di una tradizione palestinese. Si arriva così al terzo fenomeno cui si assiste negli anni ’90: il rafforzamento del potere di Hamas dovuto al consenso che il Movimento di Resistenza Islamico ottiene grazie all’opposizione a Israele. Hamas promuove una divisione tradizionale dei ruoli di genere costringendo le donne a rimanere lontane dalla sfera pubblica, aspetto che però subirà un cambiamento dopo i primi anni della seconda Intifada.
Il ruolo delle donne palestinesi nella Seconda Intifada.
L’arretramento delle donne nella Seconda Intifada: colpa di Hamas? Hamas acquisisce potere a partire dalla prima Intifada e si rafforza già con la conferenza di Madrid del 1991 in quanto ottiene consenso grazie all’opposizione agli accordi di pace basati sulla risoluzione n. 242. Per gli stessi motivi Hamas rifiuta la cooptazione all’interno dell’OLP. Nel 1992 Hamas intensifica i colpi contro obiettivi militari israeliani proprio con l’obiettivo di ostacolare il processo di pace. Ciò comporta la decisione israeliana di espellere quattrocento islamisti
palestinesi e di inviarli in Libano, l’arresto di Yassin e la sospensione dei colloqui di pace per tre mesi. Con la guida spirituale Yassin in prigione e i membri più rilevanti di Hamas in Libano, c’è modo di pensare a una nuova strategia per il Movimento di Resistenza Islamico. Nel 1993 viene inglobata una nuova generazione di professionisti in grado di intraprendere nuovi rapporti col mondo esterno. Nonostante l’instaurazione dell’Autorità Nazionale Palestinese avvenuta nel 1994, il popolo palestinese è consapevole che gli accordi di Oslo contengono tante questioni non risolte, tuttavia non riesce a vedere alternative al processo di pace. Nel cercare di adattarsi a questo sentimento Hamas si trova di fronte a due esigenze contrapposte: da un lato convivere con l’Autorità Palestinese e ridurre l’utilizzo della violenza, dall’altra soddisfare le giovani generazioni cresciute con l’Intifada che richiedono la lotta armata. Dopo la firma degli accordi di Oslo che secondo Hamas non rispondono agli interessi del popolo palestinese a causa del rinvio di questioni fondamentali come la rimozione degli insediamenti, il ritiro degli israeliani e il controllo di Gerusalemme Est, si a a un maggior pragmatismo e a quella che viene definita la “politica delle fasi” al posto del jihad: in una lettera dalla prigione Yassin annuncia che la lotta non deve essere più verso l’esterno e non deve colpire direttamente il nemico israeliano ma deve avvenire dall’interno delle neonate istituzioni palestinesi. Il massacro della moschea Ibrahimi di Hebron per opera del colono Baruch Goldstein che causa la morte di 35 palestinesi il 25 febbraio 1994 provoca però un ritorno alla violenza, questa volta non più diretta verso obiettivi militari ma civili e si apre una fase di attacchi suicidi perpetrati dai palestinesi in centri affollati israeliani. Nonostante gli inviti alla moderazione, il peggioramento delle condizioni economiche palestinesi unito ai finanziamenti del governo israeliano ai coloni, provocano l’accanimento dei fondamentalisti sia palestinesi sia ebrei, i primi attraverso attacchi violenti contro gli insediamenti e i coloni, i secondi contro membri di Hamas e civili palestinesi. Si innescano dei cicli di distensione e di violenza. Dal punto di vista palestinese le fasi di violenza sono dovute in larga parte al senso di frustrazione per il peggioramento delle condizioni di vita dovuto alle politiche governative israeliane noncuranti degli accordi di pace
firmati precedentemente. L’operazione Grapes of Wrath intrapresa nel 1996 da Israele contro le milizie di Hezbollah in Libano provoca una strage di Palestinesi. L’elezione di Benjamin Netanyahu come Primo Ministro nello stesso anno rappresenta un freno per le trattative di pace. Contrario alla creazione di uno Stato palestinese autonomo, al ritorno dei profughi palestinesi e a un ristabilimento dei confini pre-1967 attraverso lo smantellamento degli insediamenti israeliani illegali, Netanyahu rallenta il processo di pace e sostiene la colonizzazione come testimoniato dalla costruzione del quartiere Har Homa attorno a Gerusalemme. Il fallimento dei negoziati di Camp David nel luglio del 2000, che potrebbero rappresentare un importante punto di arrivo per il processo di pace, è in realtà l’inizio di una discesa agli inferi come Alain Gresh descrive in un articolo apparso su Le Monde nel luglio del 2002 l’inizio degli avvenimenti degli anni successivi. Si crea un clima di tensione e un rafforzamento delle forze estremiste come Hamas che culmina nella seconda Intifada, una sollevazione popolare che provoca scontri diretti con militari e civili israeliani. L’episodio scatenante è rappresentato dalla visita, ritenuta provocatoria, del capo del Likud Ariel Sharon al Monte del Tempio, nella città di Gerusalemme il 28 settembre del 2000. Il consenso per la strategia utilizzata da Hamas, quella di colpire obiettivi civili israeliani, aumenta. Aumentano anche gli attacchi suicidi. La lotta di Hamas però prevede l’esclusione delle donne da questo tipo di operazioni e il loro ritorno alla domesticità: ritorna l’enfasi sul dovere proprio delle donne, quello di essere madri e mogli, e la richiesta di uguaglianza con gli uomini sia nella partecipazione al nuovo contesto istituzionale, sia nell’utilizzo delle armi, viene vista come una contaminazione occidentale che deve essere estirpata dalla società palestinese attraverso il ritorno alla morale tradizionale dell’Islam. Nei primi due anni dell’Intifada si ha solo una scarsa partecipazione delle donne alla sollevazione e le donne ritornano ai loro ruoli tradizionali come testimoniano le parole di Eisheh Odeh, la nota attivista di cui si è parlato nel primo capitolo, imprigionata per dieci anni e rilasciata nell’ambito di uno scambio di prigionieri: “Quando sono tornata la gente era alle finestre
sventolando le bandiere. … In questa Intifada mi sento di nuovo imprigionata. Tutte le trasformazioni sociali, le rivendicazioni delle donne, le nostre lotte per migliorare le condizioni di vita si stanno sgretolando. La società palestinese, chiusa a chiave dall’occupazione israeliana, si è richiusa a sua volta nella tradizione, nella fede, nella sfiducia reciproca. In altre parole, la perdita di libertà sta causando una progressiva perdita d’identità, la retrocessione a capisaldi religiosi ed il collasso dell’equilibrio di un’intera società.” Il primo atto eclatante di violenza da parte delle donne che testimonia la loro partecipazione alla seconda Intifada si ha il 27 gennaio del 2002 quando Wafa Idris si fa esplodere causando la morte di due israeliani. Questo episodio rappresenta l’inizio di una serie di martìri e di accoltellamenti da parte delle donne (e nel secondo caso spesso di donne minorenni) palestinesi diretti contro civili israeliani. Tuttavia Hamas è lontano dal rivendicare l’attività delle suicide bomber. I primi martiri sono rivendicati dalla Brigata dei Martiri Al Aqsa legata a Al Fatah. È solo nel 2003 che Hamas riconosce il primo attentato suicida di una donna: la diciannovenne Hiba Daraghmeh come testimonia la tabella riportata a sotto .
La volontà di Hamas di riservare un certo tipo di attività agli uomini si ritrova nelle parole del leader spirituale di Hamas, Shaykh Ahmad Yassin. Tuttavia in seguito alle numerose richieste effettuate dalle donne per poter ottenere la preparazione necessaria per colpire il nemico israeliano, Hamas apre le porte alle donne (anche se le donne continuano a non essere molto richieste a causa della sovrabbondanza di uomini che vogliono immolarsi per la causa palestinese) e lo stesso Yassin giustifica questa decisione. In un’ intervista rilasciata il 13 dicembre 1996 a Anat Berko e a suo marito, Yassin distingue tra suicidio e martirio e afferma che il primo è vietato dall’Islam: “The person who kills himself in one of many ways, by shooting or taking drugs or to escape from life and its problems, because of personal distress, that is suicide, but the person who goes to fight an enemy who fights him, who took his land, his country, or who took his property, fights him and is killed, such a person is considered a shaheed (martyr for the sake of Allah) and
not someone who committed suicide.” In seguito al martirio di Wafa Idris Yassin afferma: “in this phase of the uprising, the participation of women is not needed in martyr operations, like men”, “we can’t meet the growing demands of young men who wish to carry out martyr operations” e “women form the second line of defence in the resistance to the occupation” e ancora “a woman’s appropriate role in the conflict was to the fighters”. Dopo il martirio della seconda donna palestinese, Deerin Abu Ayshee, che avviene il 27 febbraio 2002, Yassin preoccupato per la perdita di consenso da parte di Hamas rispetto alle Bigate di Al Aqsa che rivendicano i primi due attentati, afferma che né nel Corano né nella tradizione islamica esistono norme che vietano alle donne di essere attive nei combattimenti. La crescita di domande da parte delle donne e la crescita di sostegno attorno al fenomeno delle suicide bomber causa un cambiamento di strategia che si riflette nelle parole di Yassin: “The fact that a woman took part for the first time in a Hamas operation marks a sinificant evolution. … The male fighters face many obstacles on their way to operations, and this is a new development in our fight against the enemy. The holy war is an imperative for all Muslim men and women, and this operation proves that the armed resistance will continue until the enemy is driven out from our land. This is revenge for all the fatalities sustained by the armed resistance.” In un’intervista rilasciata da Yassin dopo i primi attentati delle donne emerge anche la questione delle ricompense che spettano loro nella nuova vita: le donne sono destinate al Paradiso dove diventano più belle delle settantadue vergini che di norma sono promesse agli uomini che si qualificano come martiri. Inoltre se la donna è nubile essa sposerà in Paradiso un uomo puro e avrà la possibilità di far entrare in Paradiso settanta membri della famiglia che in questo modo non soffriranno le torture della tomba. Se la donna è sposata essa sarà raggiunta dal marito in Paradiso. Secondo Yassin le donne hanno il diritto e il dovere di partecipare a attentati suicidi per distruggere il nemico e costruire uno stato islamico su tutta la Palestina. Le ragioni per cui le donne decidono di farsi esplodere saranno discusse meglio nel prossimo paragrafo. Quello che occorre rilevare qui è che secondo Yassin la vendetta per i torti personali subiti non è una giustificazione per la ricerca del
martirio: si diventa shahidat solo se Allah lo vuole e solo se si è disposte a immolarsi per l’intero popolo palestinese. Tuttavia se in un primo momento Yassin annuncia che nelle operazioni contro Israele la donna deve essere necessariamente accompagnata da un uomo, successivamente diventa più flessibile anche su questo punto e afferma che la donna deve essere in compagnia di un uomo (spesso un conoscente) solo nel caso in cui per motivi organizzativi essa debba rimanere fuori tutta la notte. In caso contrario, e cioè nel caso in cui essa debba intraprendere il percorso del martirio in cui quasi sicuramente perderà la vita, la donna deve essere sola perché la presenza di un uomo potrebbe solo risultare d’intralcio. In conclusione è vero che nei primi anni della seconda Intifada c’è un visibile arretramento delle donne, cioè una scarsa partecipazione delle stesse ed è vero anche che la crescita di potere di Hamas -con la sua ideologia sulla donna il cui ruolo principale è quello di aiutare l’uomo e di essere madre, allevare figli a cui deve trasmettere i valori tradizionali della cultura islamica-palestinese e a cui è preclusa l’uguaglianza con l’uomo e che non può pretendere la libertà di partecipazione promossa dalle femministe occidentali (criticate da Hamas)- ha avuto un ruolo importante in questo arretramento. È anche vero però che si sono verificati altri sviluppi che hanno ridimensionato la partecipazione delle donne in guerra: nella seconda Intifada non c’è più un’organizzazione come quella del Comitato Nazionale Unificato che pianifica le attività di lotta, i partiti hanno perso potere rispetto alla prima Intifada e i comitati delle donne che dirigono molte attività durante la prima rivolta sono ora in declino. La delusione causata dallo scarso coinvolgimento delle donne nella sfera pubblica e nelle nuove istituzioni si riflette in un loro ritorno alla domesticità. Le Organizzazioni Non Governative invece si dedicano perlopiù a attività non violente e alcune di esse cercano un dialogo con le organizzazioni pacifiste delle donne israeliane. La grande partecipazione delle donne alla prima Intifada non è ostacolata dagli uomini (estremisti esclusi) in quanto le donne partecipano alla difesa dei figli e dei mariti unicamente grazie all’utilizzo del proprio corpo e hanno a disposizione come armi soltanto le pietre. Ciò che si verifica nella seconda Intifada invece è molto diverso: l’istituzione dell’Autorità Palestinese è stata accompagnata dall’istituzione di forze di sicurezza e di polizia che sono legalmente dotate di armi. La circolazione delle armi è proprio ciò che preoccupa gli uomini: secondo la legge islamica le donne non possono avere accesso ad esse ed è per questo che non devono partecipare alle sollevazioni violente come la seconda Intifada. Infine Al Fatah è il partito dominante e il suo capo, Yasser
Arafat, è il Presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il presidente è sottoposto a due tipi di pressioni: quelle esterne di Israele e Stati Uniti che premono affinché Hamas venga sconfitto e quelle interne di Hamas che ha un’agenda molto vasta e chiede innanzi tutto la lotta con la forza contro Israele e poi una riconfigurazione della società palestinese compatibile con la “tradizione inventata” secondo la quale le donne occupano un ruolo di secondo piano rispetto agli uomini. Dato che Arafat non riesce sempre ad accontentare Hamas sul primo punto, ci prova a farlo sul secondo e tiene lontane le donne dalla sfera politica e pubblica in generale. Pur ammettendo che Hamas ha avuto il suo peso nella scomparsa delle donne nella seconda Intifada, esistono numerose altre cause che hanno contribuito a essa. Questo stato di cose inizia a mutare nel 2002. In quell’anno è proprio Arafat che fa un invito al sacrificio delle donne e secondo alcuni osservatori sono proprio le sue parole che portano al martirio della prima donna: Wafa Idris.
Il fenomeno delle shahidat: vittime o carnefici? Il 27 gennaio del 2002 Arafat fa un discorso a Ramallah in cui per la prima volta invita chiaramente le donne a sacrificarsi e a morire per la Palestina, arrivando fino a Gerusalemme e diventando martiri. Nel suo discorso Arafat afferma non solo che le donne sono le benvenute nella lotta contro Israele, ma anche che si conta su di esse per la partecipazione alla resistenza armata contro l’occupazione israeliana. Arafat identifica le donne in armi come “l’armata delle rose”: “Femmes et hommes sont égaux” e diretto alle donne: “Vous êtes mon armée de roses qui écrasera les tanks israéliens. … Vous toutes, vous représentez l’espoir de la Palestine. C’est vous qui libérerez de l’oppression vos maris, vos pères et vos fils. Vous qui vous sacrifierez comme le femmes se sont toujours sacrifiées pour leur famille.” Per la prima volta Arafat declina al femminile (shahida) un nome tradizionalmente usato al maschile: shahid, cioè martire. La folla finisce col ripetere con lui: “Shahida, shahida…jusqu’à Jérusalem.”. Dal pomeriggio dello stesso giorno ha inizio la serie di attentati suicidi perpetrati dalle donne palestinesi. Queste azioni sono definite in maniera differente nei media occidentali e nei media arabi.
Nel mondo occidentale queste donne sono identificate come terroriste mentre nel mondo arabo esse sono rappresentate come shahidat o martiri. La nozione del martirio entra nella coscienza di ogni palestinese, maschio o femmina che sia, sin dalla tenera età. La morte a cui si va incontro combattendo contro l’occupazione israeliana è vista come un atto di eroismo da una gran parte del popolo palestinese tanto che anche alcuni difensori dei diritti umani approvano il martirio. Essa procura un’immensa gioia alla famiglia di colui o colei che diventa martire e dona una grande soddisfazione al futuro martire, in primo luogo perché la sua operazione provoca danni ai civili israeliani e in secondo luogo perché le ricompense che si avranno nel paradiso sono enormi. Se nei media occidentali le persone che diventano martiri sono viste come persone deviate e con problemi psicologici, nei media arabi esse sono viste come migliori rispetto alle altre: più belle, più intelligenti, più acculturate, più religiose. Nel cercare le spiegazioni al fenomeno dei suicide bomber i media occidentali ricadono molto spesso in determinismi biologici: le donne sono viste come più deboli e come prede di più facili condizionamenti rispetto agli uomini e si pensa che la loro spiccata sensibilità possa incidere molto nelle azioni che intraprendono. Così se una donna si fa esplodere ci sono sicuramente alla base ragioni personali, qualcosa che non va nella sua personalità o nella società in cui vive mentre le ragioni che portano un uomo a compiere un attentato suicida sono senza dubbio politiche o religiose. Nei media arabi invece le ragioni che portano al martirio sono tutte legate alla durezza e alle sofferenze procurate dall’occupazione israeliana. Molti media occidentali mostrano la differenza nell’abbigliamento delle donne prima di essere ingaggiate dalle organizzazioni che le preparano al suicidio e nel momento della registrazione del video antecedente il martirio. Si a da abiti semplici alla divisa militare e al fucile accompagnati dall’immancabile kefiah: risulta quindi evidente una certa manipolazione delle donne anche nell’abbigliamento. Dipingendole come guerrigliere e enfatizzando la loro capacità di maneggiare le armi, le immagini delle future shahidat possono ottenere una certa attenzione nel resto del mondo: le donne appaiono decise a usare la violenza nella lotta per la causa palestinese. Questo drastico contrasto sarebbe per i media un evidente esempio di manipolazione. L’idea di manipolazione emerge chiaramente anche in un articolo di Giles Foden apparso sul Guardian nel 2003: “Are men in fact to blame for women in terrorism? Litvak certainly believes the role of women in Muslim suicide
bombing is a function of patriarchal control: “Those who send these women do not really care for women’s rights,” he says. “They are exploiting the personal frustrations and grievances of these women for their own political goals, while they continue to limit the role of women in other aspects of life.” He also thinks that the use of women in terrorism has a simple practical application for their leaders. “They believe that women can evade security checks more easily than men, since they arouse fewer suspicions.”” Secondo gli osservatori occidentali insomma la manipolazione delle donne è possibile proprio perché il loro desiderio di libertà da rigide norme patriarcali e il desiderio di uguaglianza rispetto agli uomini le porta a dire sì a esperienze che le rendono apparentemente libere e uguali agli uomini nella lotta e nella morte. È interessante notare però che questa particolare visione dell’uguaglianza è criticata persino da Leila Khaled che vede da sempre la lotta armata come l’unico strumento per la liberazione della Palestina e ritiene indispensabile la partecipazione delle donne alla lotta per la liberazione della Palestina: “Je continue à penser que la seule façon de revendiquer notre terre e par la lutte armée. Les hommes et les femmes doivent se battre à égalité pour notre patrie parce que nous souffrons à l’égalité sous l’occupations.” Ma “When the religious leaders say that women who make those actions are finally equal to men, I have a problem. Everyone is equal to death – rich, poor, Arab, Jew, Christian, we are all equal. I would rather see women equal to men in life.” Secondo osservazioni arabe invece, le donne prendono la decisione di diventare martiri in piena autonomia, nessuno può decidere per loro perché è Allah che decide se e quando una donna deve morire come martire. Inoltre si sottolinea sempre che le shahidat sono persone intelligenti e molte volte hanno addirittura una preparazione universitaria, un elemento in più, a mio avviso, usato come pretesto per dimostrare che le donne scelte per il martirio sono in grado di decidere da sole e che non si lasciano influenzare da chi le recluta. Molte volte non è così, come si vedrà meglio analizzando i casi. Queste descrizioni diversificate delle donne che compiono attacchi suicidi contro civili israeliani, viste come terroriste o mostri da alcuni e martiri, shahidat, angeli da altri o addirittura paragonate a Gesù Cristo da qualche giornalista egiziano, contribuisce al mantenimento dello status quo e al rafforzamento dei pregiudizi sul conflitto tra Israele e Palestina riproponendo una inquadratura vecchia per un fenomeno nuovo.
Dopo questa premessa su come vengono viste le donne palestinesi che commettono atti suicidi torniamo al discorso di Arafat del 27 gennaio del 2002. Nel pomeriggio del 27 gennaio Wafa Idris si fa esplodere. È difficile stabilire con certezza se ci sia un legame tra il discorso di Arafat e il martirio di Wafa e se quindi l’attentato della prima suicide bomber sia stato un atto premeditato perché le testimonianze post mortem sulla vita, i pensieri e le azioni di Wafa Idris sono contrastanti tra di loro e sono state anche modificate in seguito all’identificazione di Wafa come martire. Nel cercare di spiegare le ragioni che hanno portato le shahidat a fare la scelta del martirio si possono individuare due principali risposte: la prima basata su fattori meramente personali come sofferenze e disagi causati dalle norme della società patriarcale palestinese e che vede le donne come vittime che vengono manipolate dagli uomini con la giustificazione che il martirio costituisce l’unica strada per la gioia e per il riscatto personale e familiare e la seconda basata più su fattori esterni e in particolar modo sul ruolo che ha l’occupazione israeliana nell’influenzare le emozioni delle persone infliggendo sofferenze talmente esasperanti e insopportabili che le donne decidono volontariamente di immolarsi per la causa del popolo palestinese. La prima visione delle cose emerge soprattutto nei commenti occidentali sul tema, di cui l’esempio più significativo è senza dubbio il libro della giornalista americana Barbara Victor “Shahida, Femmes kamikazes de Palestine” oppure nei commenti israeliani come la spiegazione delle interviste alle donne che hanno tentato di compiere un attentato ma la cui missione è fallita della ricercatrice israeliana Anat Berko. Un esempio del secondo tipo di spiegazione (che si ritrova generalmente nelle analisi arabe) è rintracciabile nel capitolo di Katherine VanderKaay “Girls interrupted: the making of female palestinian suicide bombers” contenuto nel libro di Judy Kuriansky “Terror in the Holy Land, Inside the anguish of the Israeli-Palestinian Conflict”. La prima shahida, Wafa Idris, nasce nel 1975 nel campo rifugiati di Al Amari, dove vive la sua infanzia. Secondo Barbara Victor, i genitori decidono di farla sposare molto presto perché non hanno nulla da offrire come dote e l’unica cosa che può dare valore alla figlia è la sua giovane età. Nel 1991 Wafa si sposa con suo cugino Ahmed che riesce a sopravvivere grazie a un allevamento di polli. Dopo sette anni di tentativi finalmente Wafa riesce a rimanere incinta ma dopo sette mesi il figlio nasce morto. Dopo l’accaduto un medico annuncia che Wafa è incapace di generare figli. A causa delle ristrettezze economiche non viene
consultato nessuno specialista per un’analisi più approfondita dello stato di salute della donna. Wafa cade in una profonda depressione, non si alza più dal letto, non mangia più, non parla più. Il marito Ahmed comincia a essere oggetto di derisioni: gli dicono che è troppo debole e incapace di far crescere bambini nel corpo di Wafa. Data la depressione di Wafa, Ahmed chiede l’intercessione del fratello della donna ma nonostante l’intervento del fratello essa non riesce a tornare a una vita normale. A questo punto Ahmad si reca a chieder consiglio all’imam il quale gli da una cassetta da far vedere alla moglie nella quale si mostra come dovrebbe comportarsi una buona moglie. Wafa non reagisce perciò l’imam consiglia al marito di picchiarla con un bastone ma mai sul viso o con una violenza tale da procurarle fratture o grosse ferite. Anche questa volta Wafa non reagisce. Allora l’imam consiglia ad Ahmad di allontanare la moglie. Nel 2000 i due divorziano e Wafa è costretta a tornare nella sua famiglia d’origine. Un avvenimento del genere comporta delle grandi derisioni e critiche nei confronti di una donna palestinese e questo è esattamente il caso di Wafa, criticata pesantemente per la sua incapacità di generare soldati che possano combattere contro l’occupazione israeliana. Dopo il ritorno a casa, Wafa inizia a lavorare per la Croce Rossa e con questo lavoro tocca con mano la brutalità degli scontri tra israeliani e palestinesi che si abbatte su adolescenti e bambini ferendoli e uccidendoli. Essa stessa viene colpita alla testa durante il lavoro. Sono proprio i traumi provocati dal lavoro che secondo la madre di Wafa la portano a scegliere di diventare martire. La sorella testimonia che Wafa esprime spesso la sua volontà di diventare martire piuttosto che vivere nell’umiliazione. È il fratello a raccontare che dopo le numerose pressioni di Wafa affinché la metta in contatto con la Brigata dei Martiri di Al Aqsa, lui si mette in contatto con l’organizzazione che accetta la donna per la sua prova di coraggio e resistenza mostrata attraverso il suo lavoro. Più tardi un membro di Al Fatah e il fratello stesso affermano che il dovere di Wafa sarebbe solo quello di accompagnare il fratello che dovrebbe essere il vero martire. Non si sa cosa fa cambiare la direzione degli eventi. Il pomeriggio del 27 gennaio 2002 dopo aver dato l’arrivederci alla madre, Wafa si dirige verso Gerusalemme, vestita all’occidentale e truccata. Si fa esplodere in un negozio di scarpe in via Jaffa.
Appena dopo il martirio Al Aqsa è scettica sulla rivendicazione dell’attentato che avviene solo dopo la presa di coscienza del consenso che l’attentato suicida ha tra i palestinesi. La sera del 27 gennaio membri di Al Aqsa si recano dalla famiglia di Wafa Idris per porre le condoglianze. Iniziano i festeggiamenti per il martirio della prima donna palestinese. Wafa non lascia alcun video, come accade per le altre shahidat. Tuttavia vengono diffuse le sue foto ritoccate in cui la donna imbraccia un kalashnikov. Dopo il martirio gli eventi della vita di Wafa vengono rimodellati. Sua zia per esempio afferma che Wafa ha chiesto il divorzio non per l’impossibilità di avere figli ma perché essa non li desidera e preferisce studiare. Inoltre Wafa non sarebbe debole e depressa ma una donna combattente e patriota. Dopo la morte di Wafa Idris, Saddam Hussein decide di far costruire una statua in suo nome. Nei Territori Palestinesi viene formata una nuova cellula di donne desiderose di diventare suicide bomber: il Gruppo Wafa Idris. Il martirio di Wafa Idris è secondo Barbara Victor chiaramente un caso in cui una donna con evidenti problemi personali derivanti dalle pesanti norme patriarcali presenti nella società palestinese, che indubbiamente sente il peso dell’occupazione israeliana lavorando come infermiera alla Croce Rossa, è manipolata in primo luogo dal fratello e poi dalle Brigate di Al Aqsa per il raggiungimento di fini politici. Katherine VanderKaay ha invece un parere diverso: i ripetuti traumi causati dalla visione di donne e bambini feriti e uccisi e il fatto che lei stessa venga sparata tre volte, portano Wafa a scegliere la via del martirio. Le cause che l’hanno portata a questa decisione sono dunque esterne alla sua persona e derivanti dalla durezza dell’occupazione israeliana. Un altro caso che dimostra che è l’esistenza di problemi personali e la manipolazione degli uomini a portare a partecipare a azioni violente contro Israele è secondo Barbara Victor quello di Ahlam Araf Ahmed Tamimi, nata nel 1980 in Giordania. Sin da adolescente Ahlam si ribella a alcune regole imposte dalla sua famiglia: il velo, il tradizionale abito lungo, il dovere di sposare un uomo scelto dai genitori e desidera diventare reporter per vivere lontana dalla sua famiglia. Le relazioni con la famiglia peggiorano nel momento in cui rifiuta di sposare un
uomo scelto da suo padre. Poco dopo un fratello seguendola scopre che essa incontra di nascosto un altro ragazzo di origine egiziana. La famiglia decreta allora che non si può avere fiducia in lei e che non bisogna lasciarla sola. Le si vieta inoltre di proseguire gli studi. Durante il periodo di segregazione in casa, Ahlam si accorge di essere incinta. Cerca di tenere nascosta la situazione il più a lungo possibile sperando di poter scappare con l’uomo che ama ma costui, spaventato dalle reazioni della famiglia della donna, scappa lasciandola da sola. Il timore di Ahlam di essere ammazzata quando il resto della famiglia scopre che lei aspetta un bambino è forte ma per fortuna il padre sceglie il male minore e decide che la figlia può rimanere relegata in casa e dare alla luce il bambino. Tuttavia una volta che il bambino nasce esso viene affidato a un fratello della ragazza che ha già altri figli e viene identificato come figlio del fratello. Il dolore di Ahlam è enorme e secondo le testimonianze da quel momento la sua vita perde significato. Da Amman a Ramallah si diffonde la voce che la famiglia Tamimi ha problemi con la figlia. Il Tanzim (un braccio armato di Fatah) coglie immediatamente l’occasione per reclutare Ahlam autorizzandola a iscriversi all’università dopo aver compiuto delle missioni, se sopravvive alle quali la sua famiglia verrà salvata dal disonore. Ahlam accetta immediatamente la proposta, si trasferisce a casa di una cugina a Ramallah dove lavora per il marito, membro del Tanzim, per il quale raccoglie informazioni. Dopo un primo periodo a all’azione perché le viene affidata la missione di aiutare altre donne a compiere attentati in Israele. In un’intervista rilasciata dalla stessa Tamimi emerge che lavorando per il Tanzim la donna si sente libera, per la prima volta nella sua vita. Il Tanzim però non è soddisfatto della sua attività. Dopo aver conosciuto Hassan, un membro di Hamas, all’università Bir Zeit ed essersi innamorata di lui, entra anche lei a far parte di Hamas. È la prima volta che Hamas accetta che una donna entri a far parte dell’organizzazione. Ahlam entra a far parte di Hamas soprattutto a causa dell’amore che prova per Hassan mentre lui la vede solo come complice per il compimento di attentati, infatti la ragazza scopre che Hassan ha moglie e figli. La prima operazione a cui partecipa Ahlam per conto di Hamas è il posizionamento di una bomba in un supermercato di Gerusalemme. Nonostante la bomba non uccida nessuno, ad Ahlam viene comunque affidato il compito di accompagnare un futuro suicide bomber (Izzedine al Masri) da Ramallah a Gerusalemme. Secondo Hamas dopo questa operazione Ahlam può anche decidere di diventare lei stessa una shahida.
La manipolazione è evidente nella promessa che la ragazza riceve da Hassan: nel caso in cui essa si faccia esplodere lui la raggiungerà in paradiso dove si potranno amare per l’eternità. L’attentato provoca quindici morti e centotrenta feriti. Dopo l’attentato Ahlam non rivede mai più Hassan. Viene condannata a venticinque anni di prigione per aver accompagnato due donne che falliscono nella loro missione suicida, aver piazzato una bomba in un supermercato di Gerusalemme, esser stata complice di Izzedine al Masri che compie un attentato suicida in una pizzeria Sbarro di Gerusalemme il 9 agosto del 2001. Dalle parole del fratello emerge che la sua famiglia è orgogliosa del fatto che Ahlam abbia aiutato un uomo a raggiungere il Paradiso. Un altro caso di questo tipo è quello della shahida Dareen Abu Ayshee descritto da Barbara Victor. Nata in una famiglia privilegiata che risiede in un villaggio vicino Nablus dal dopoguerra del 1948, Darine è una studentessa brillante all’Università Al Najah che rifiuta tutte le richieste di matrimonio per proseguire gli studi in Letteratura Inglese. Nonostante questo la frustrazione di Dareen è significativa: le pressioni della sua famiglia affinché si sposi sono considerevoli ma lei si rifiuta costantemente di diventare schiava di un uomo. Un evento influenza significativamente la sua vita: fermata a un posto di blocco dai soldati israeliani si trova davanti al divieto dei soldati di lasciar are una mamma con un bambino gravemente malato. Dopo numerosi tentativi di numerosi presenti di convincere i soldati a permettere ai due di raggiungere l’ospedale, i soldati israeliani lanciano un ultimatum: solo se Dareen bacia suo cugino che l’accompagna, i soldati lasciano are la donna e suo figlio. Dareen considera la richiesta estremamente umiliante, tanto più che i soldati le strappano il velo. Tuttavia Dareen cede perché quella di baciare il cugino è l’unica soluzione per salvare il bambino. Questa scelta però disonora sia Dareen, sia tutta la sua famiglia. La sera dello stesso giorno il cugino chiede la mano della ragazza per salvarla dalle conseguenze negative che il bacio fuori dal matrimonio può significare per lei. Ma per Dareen la libertà di proseguire gli studi invece che sposare un uomo che non ama è più importante. Il cugino allora la aiuta a trovare una soluzione alternativa per salvarla dal disonore e la invita a diventare shahida. Dareen si fa esplodere in prossimità di un posto di blocco israeliano vicino a Gerusalemme il 27 aprile del 2002. Ancora una volta secondo Victor è evidente come un uomo e un’organizzazione come la Brigata Al Aqsa che rivendica l’attentato, abbiano manipolato la disperazione di una donna per fini politici. Secondo Katherine VanderKaay Dareen è una musulmana devota e il suo
desiderio di farsi esplodere nasce da diversi episodi tutti collegati all’occupazione israeliana: la morte di un cugino di diciassette anni in un attentato suicida, la visita a un sito dove uomini appartenenti a milizie palestinesi vengono uccisi dai soldati israeliani, il bacio forzato con il cugino. Anche il caso di Ayat al Akhras può essere visto da due diversi punti di vista. Ayat vive a Gaza in una famiglia relativamente agiata in cui il padre lavora in un’impresa israeliana che si occupa della costruzione degli insediamenti. Con lo scoppio della seconda Intifada tutta la famiglia comincia a essere oggetto di critiche e di minacce sia da parte dei vicini sia da parte delle Brigate di Al Aqsa. Le difficoltà crescono. La famiglia non può più uscire di casa, non si può recare al mercato, il padre non può lavorare perché accusato di aver venduto il popolo palestinese per il miglioramento della propria condizione economica. Ayat si sente allora in dovere di salvare la sua famiglia e lo può fare solo attraverso il martirio. Si mette in contatto con le Brigate di Al Aqsa che poco dopo la sceglie come futura kamikaze. Il 29 marzo del 2002 Ayat si fa esplodere al supermercato Supersol di Gerusalemme. Ancora una volta è un problema familiare estremamente doloroso che spinge una donna a volersi immolare. Di altro avviso è Katherine VanderKaay secondo la quale il desiderio di Ayat di diventare martire si rafforza quando tre membri della famiglia affiliati ad Hamas vengono uccisi dai soldati israeliani, il fratello viene ucciso durante un raid israeliano e un amico viene ucciso mentre cerca di piazzare una bomba nei pressi di un insediamento israeliano. L’evento decisivo è tuttavia rappresentato dall’uccisione di un uomo che gioca con suo figlio davanti alla sua abitazione. Il caso più tragico è però secondo Victor quello di Andalib Takatka perché si tratta di una donna facilmente influenzabile e la sua grande ione per le donne kamikaze la rendono una facile preda per i reclutatori. Sua mamma la definisce come una giovane dolce ma non particolarmente intelligente, per questo motivo la sua famiglia cerca di controllarla per evitare che diventi preda di uomini intenzionati ad avere con lei relazioni fuori dal matrimonio. Andalib però non cede mai su questo punto. La continue incursioni che avvengono nella sua abitazione in seguito alla scoperta da parte dei soldati israeliani del fallimento di due attentati suicidi di cui dovrebbero essere protagoniste le sue cugine e le umiliazioni che esse comportano per la sua famiglia, appartenente a uno dei clan più attivi nel contrasto dell’occupazione israeliana, la rendono così vulnerabile che è proprio lei che al funerale di Ayat, chiede a un membro delle Brigate di Al Aqsa di essere accettata come futura suicide bomber. L’accettazione della proposta di Andalib richiede più tempo del solito perché i
membri delle milizie vogliono essere sicuri della sua preparazione psicologica: la donna è sottoposta a numerosi interrogatori per verificare la serietà delle sue intenzioni, è costretta a are diversi test psicologici e si fanno numerose ricerche approfondite sulla sua vita coinvolgendo anche gli amici attraverso la richiesta di rispondere a diverse domande. Una delle ultime prove consiste nel lasciare la donna da sola di notte in un posto isolato, col compito di farle scavare una buca in cui si deve stendere per farla abituare all’idea della morte. Anche nel momento immediatamente precedente la sua morte, nel girare il video che circolerà dopo il martirio, Andalib è costretta a leggere un discorso che è stato preparato per lei. Andalib si fa esplodere il 12 aprile 2002 al mercato Mahane Yehuda di Gerusalemme. Il suo è il caso più evidente di manipolazione da parte degli uomini. Nel capitolo di Katherine VanderKaay si spiega invece che le ragioni per cui Andalib decide di diventare shahida sono individuabili nel fallimento degli attacchi suicidi delle due cugine e nel desiderio di diventare la prima martire donna nella sua famiglia. Tuttavia l’evento scatenante è rappresentato dalla costrizione dei soldati israeliani di far sedere suo padre e suo fratello sul pavimento senza muoversi per ore nel corso di un’incursione nella propria abitazione. La causa scatenante è quindi legata all’occupazione israeliana. Anat Berko, proseguendo sulla linea di Barbara Victor e partendo da interviste rilasciate da donne i cui attentati suicidi sono falliti, specifica quali sono le problematiche di tipo personale che attanagliano la vita delle donne palestinesi che decidono di commettere un atto così estremo come quello di togliersi la vita: il permanere della famiglia come unità centrale della società, che è sempre disposta ad aiutare la donna ma dalla quale la donna non può essere indipendente; la necessità di rispettare il proprio onore (in termini di condotta sessuale e di rapporto con gli uomini) e la reputazione della famiglia; le restrizioni sociali; il possesso dei padri della podestà sui figli; l’impossibilità di raggiungere un certo grado di indipendenza economica. Entrambe queste visioni sono incomplete, perché le cause che portano le donne palestinesi a scegliere di diventare shahidat sono molteplici come dimostrano analisi dettagliate delle interviste alle donne che hanno provato a diventare martiri ma non ci sono riuscite e che ora si trovano a scontare la loro pena nelle prigioni israeliane. I problemi personali, la manipolazione da parte degli uomini
per il raggiungimento di fini politici e strategici, il fondamentalismo religioso sono tutte cause che prese separatamente non sono in grado di spiegare cosa accade dal 2002 nella lotta delle donne palestinesi contro l’occupazione israeliana. La rivendicazione del primo attacco suicida di una donna da parte di Hamas avviene solo nel 2003, forse solo per caso e non per precisi motivi organizzativi, politici o strategici come dimostra per esempio la proposta avanzata a Ahlam secondo la quale la donna avrebbe potuto farsi esplodere già nel 2001 se l’accompagnamento di Izzedin Al Musri si fosse svolto secondo i piani. Da quel momento i tentativi delle donne di diventare shahidat aumentano in maniera esponenziale e viene capovolto un mito che per anni ha caratterizzato il ruolo delle donne palestinesi in guerra: quello della madre. Donne sposate e con i figli decidono di farsi esplodere per amore di Allah e soprattutto per la liberazione della Palestina. Bisogna tenere ben presente però che la facilità con cui le donne, vestite all’occidentale e truccate, riescono a evadere i controlli dei posti di blocco israeliani è una delle ragioni più importanti per cui le diverse organizzazioni decidono di reclutare le donne ed è un esempio evidente del fatto che proprio nel momento in cui le donne che si fanno esplodere sembrano libere e uguali agli uomini, sono in realtà vittime di uomini che le usano per il raggiungimento di fini politici attraverso l’utilizzo della forza. La prova della manipolazione è evidente dal fatto che il reclutamento avviene in base alla conoscenza dei problemi delle donne e non tramite una scelta casuale delle donne che chiedono di diventare shahidat. Inoltre molte volte gli uomini che reclutano le donne chiedono in cambio gli averi in possesso di queste ultime, promettendo una protezione degli stessi e un loro utilizzo per la causa palestinese. Il tempo che intercorre tra il reclutamento e l’operazione è molto breve per evitare che le donne abbiano dei ripensamenti ed esse sono accompagnate da altre donne che sorvegliano le martiri per evitare che ci siano cambiamenti nei loro pensieri per tutto il periodo che va dal reclutamento all’operazione prestabilita. Le stesse famiglie, e in particolare i membri maschi, sono complici nello spingere le donne a intraprendere la strada del martirio sia a causa della volontà di essere salvate da un eventuale disonore (soprattutto nei caso degli attentati suicidi delle prime donne), sia a causa del compenso economico che la famiglia del martire ottiene dopo la morte del soggetto prescelto. Una volta che il martirio è stato compiuto, l’organizzazione reclutatrice si reca presso la famiglia della
shahida dove ha inizio una cerimonia durante la quale viene elogiata la martire e si esprime la gioia per l’avvenuta operazione. Ai bambini vengono distribuite caramelle e viene organizzato un finto funerale (il corpo dei martiri che muoiono nel territorio israeliano non viene restituito alla famiglia) durante il quale si sventola la bandiera palestinese e si cantano inni nazionalisti palestinesi. La maggior parte delle testimonianze dei familiari delle vittime esprimono la soddisfazione della famiglia e mascherano il fatto che la perdita di una persona cara viene ricompensata col denaro. Dalle testimonianze poi, emerge che molte donne che provano a farsi esplodere ma la cui missione fallisce e che scontano la pena nelle prigioni israeliane acquisiscono consapevolezza del significato della loro azione mostrando scetticismo sul fatto che un tale atto possa avvenire per volontà di Allah, dichiarandosi pentite e esprimendo la volontà di non voler mai più compiere questo tipo di azioni in futuro. Tuttavia bisogna tenere in mente che potrebbe essere anche la durezza delle condizioni di vita a cui sono esposte le donne palestinesi nelle prigioni israeliane a causare tali ripensamenti.
Conclusioni
La serie di attentati suicidi delle donne palestinesi che ha avuto inizio nel 2002 non si è ancora avviata verso la fine e organizzazioni diverse da Al Aqsa come Hamas e Jihad Islamico hanno sfoggiato le proprie shahidat. Il fatto più interessante però è rappresentato dalla scelta di Fatima Omar al Najar, una nonna che si fa esplodere il 23 Novembre del 2006. Per la prima volta dagli anni ’20 si ha la sovversione del mito della madre cha ha caratterizzato tutto il percorso di inserimento delle donne palestinesi in guerra dal tempo dell’amministrazione inglese in Palestina e che, fino al 2006, è stato solo minimamente accantonato. La promozione della figura di una madre che si adeguasse alle norme di comportamento imposte dagli inglesi e che si dedicasse alla cura dei figli e della casa, pensata fortemente per il mantenimento dello status quo all’interno dei Territori Palestinesi è stata al centro dei programmi scolastici previsti dall’amministrazione inglese. Quando le donne delle classi medio alte hanno acquisito la consapevolezza del modello di deculturalizzazione che veniva loro proposto, hanno combattuto contro il modello somministrato dall’amministrazione inglese e contro l’arrivo dei primi coloni ebrei, creando associazioni di beneficenza, usando l’arma della parola e soprattutto manipolando la tradizione per i propri fini. L’arrivo sempre più massiccio di ebrei, durante e in seguito alla seconda guerra mondiale, ha comportato una rielaborazione palestinese del mito della madre. Una madre paragonata alla terra palestinese e il cui onore non deve essere violato, una madre che si dedica alla cura dei figli e del marito nel momento dell’esodo palestinese. La madre palestinese è la custode della cultura dell’intero popolo. È lei che trasmette ai figli i valori palestinesi. È lei che mette al mondo i palestinesi che combatteranno contro l’occupazione israeliana. Sebbene il mito della madre sia messo in discussione dalla metà degli anni ’50, quando molte donne e soprattutto molte studentesse, incoraggiate dalla voce di Nasser che risuona nelle radio, si organizzano nelle associazioni e nelle
università per combattere contro l’occupazione israeliana, la resistenza delle famiglie a questa loro partecipazione è molto forte: “honour before land” è il motto che guida la resistenza palestinese. L’onore della famiglia diventa essenziale per i palestinesi. Dopo la guerra del ’48 e la perdita di case, terre e affetti l’onore della famiglia sembra essere l’unica cosa che possa sopravvivere. Anche la creazione della General Union of Palestinian Women e l’inserimento delle donne nelle milizie armate non fa tramontare completamente il mito della madre: paradossalmente è proprio la capacità potenziale delle donne di mettere al mondo figli e di essere mogli rispettabili che fa guadagnare loro il rispetto da parte degli uomini impegnati nella resistenza armata. La capacità delle donne di essere madri garantisce il rispetto di certe norme morali palestinesi. Il dirottamento di aerei di Leila Khaled, la resistenza delle donne nelle prigioni israeliane (che mette in crisi il concetto di onore in quanto le donne possono subire violenze sessuali da parte dei soldati israeliani), la partecipazione delle donne alla prima Intifada, sembrano far vacillare il mito della madre: le donne ano dall’essere “madri della nazione” all’essere “sorelle degli uomini” in quanto scendono nelle strade al loro fianco per combattere contro l’occupazione israeliana. La crescita di potere di Hamas e la sua visione della donna però, unite a una reinvenzione della tradizione palestinese, riportano in vita ancora una volta il mito della madre. Esso rimarrà in vita per tutti gli anni ’90 nonostante le lotte di liberazione di genere delle donne e il tentativo di sorare una figura della donna di tipo tradizionale e maschilista. L’inizio degli attacchi suicidi da parte delle donne rappresenta un fatto sconvolgente e nuovo per gli osservatori ma non mette ancora seriamente in discussione il mito della madre e il concetto di onore della famiglia. Le donne che diventano shahidat sono quelle che secondo la società palestinese non possono diventare buone mamme e buone mogli e la cui condotta disonora la famiglia. Il rovesciamento del mito della donna madre palestinese avviene solo a partire dal 23 novembre 2006 con la complicità di Hamas che rivendica l’attentato della prima nonna suicida, la cinquantaseienne Fatima Omar al Najari.
Iniziative pacifiste per il rovesciamento del mito della madre e di schemi sessisti, che rifiutano il fondamentalismo e la violenza sono in atto dagli anni ’60. Le figure più rappresentative dei tentativi di rovesciamento citate in questo lavoro sono Zahira Kamal e Hanan Ashrawi. Non mancano però iniziative di donne che lottano pacificamente ogni giorno per la liberazione di genere e per la liberazione palestinese. I dialoghi tra donne palestinesi e donne israeliane sono più frequenti nonostante Hamas abbia guadagnato sempre più potere. Una maggior consapevolezza da parte delle donne palestinesi, israeliane e del resto del mondo può contribuire alla formazione di ponti tra i due popoli e alla salvaguardia della salute mentale e fisica dei palestinesi e degli israeliani di oggi e di domani, permettendo alle donne di essere madri per scelta e non per costrizione e soprattutto non perché spinte a mettere al mondo soldati per la liberazione della Palestina. Una maggior consapevolezza può inoltre evitare che le donne scelgano, con o senza la manipolazione degli uomini, l’atto estremo che permette loro di diventare shahidat facendosi esplodere con l’obiettivo di uccidere il maggior numero possibile di civili israeliani.
Ringraziamenti
Il mio ringraziamento più grande e più sincero va alla professoressa Marcella Emiliani che mi ha trasmesso la ione per il Medio Oriente. Ringrazio poi la dottoressa sca Biancani per aver accettato la mia proposta di occuparmi di donne. Grazie di cuore al mio ragazzo Valentino Occhilupo che più di ogni altro ha subito le conseguenze negative del mio stato di tensione accumulato nei mesi di preparazione della tesi. È lui che mi ha ascoltata e ha condiviso con me il mio entusiasmo, le mie lacrime e ha cercato di alleviare il mio nervosismo. Infinite grazie a Lucia Grandinetti che mi ha sorpresa regalandomi un gelato dopo giorni di “forzata clausura”. Con lei riesco a lasciarmi andare come si può fare solo con le amiche. Lei perdona la mia ione e la mia foga nel parlare, il mio apparire e scomparire costante durante i periodi di stress. Grazie a Anna Gabellone, il cui coraggio è l’esempio per i miei viaggi futuri, che consistano in spostamenti materiali o intellettuali. Grazie a Diana Takacs che non ha mai smesso di incoraggiarmi. Sinceramente ringrazio sca Gabellone, la prima persona a esprimere il desiderio di leggere la mia tesi e a metterlo in pratica, seguita da Maddalena Erriu. Grazie a Linda Ruth Demessong, la voce dell’Africa. Esempio dall’inestimabile valore di calma e determinazione. Grazie a Yozif von Quarat, una persona dalla cultura impressionante e soprattutto con un equilibrio invidiabile. Capire e sopportare una persona come me è estremamente difficile ma ci tengo a ringraziare chi prova a farlo comunque, dalle mie coinquiline, alla mia famiglia,
ai miei cugini, agli amici. Grazie a mia nonna Giuseppina che nonostante la perdita di mia zia Cinzia è rimasta attiva in un paese spopolato e sperduto. Lei è la formica che non ha timore dell’inverno. Grazie a mia nonna Maria che grazie ai suoi racconti ha contribuito alla formazione della mia memoria storica. Grazie a zia Cinzia, la mia grande e amata rivoluzionaria. Grazie a zia Dora. Fedele. Mi piace descriverla così. Grazie a zia Lucia, sempre avida di sapere, sempre tenera, sempre disposta ad accogliere tutti. Grazie a mio padre, ai suoi sorrisi e alle sue lacrime, alla sua umanità e ai suoi sbagli. Grazie a mio fratello. Un uomo saggio anche se la sua età anagrafica potrebbe suggerire altro. È lui che riesce a tirarmi su il morale anche nei momenti più brutti. Grazie a mia sorella. Trovarla, una donna così… Non ho parole per ringraziare mia mamma. La donna le cui esperienze di vita motivano le mie lotte. La donna a cui non avrò mai chiesto abbastanza: “Perdono!”. Ogni donna che ho incontrato nella mia vita mi ha donato qualcosa. Questo lavoro è troppo poco per ringraziare tutte ma il desiderio di far sentire la voce di tutte influisce sostanzialmente nelle mie scelte. Non aver citato alcune persone non diminuisce la loro importanza nella mia vita e la loro levatura.
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