Massimo di Terlizzi
Donne da Nobel
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ISBN: 9788897093169
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Indice dei contenuti
Introduzione Marie Curie (Polonia) Bertha von Suttner (Austria) Selma Lagerlöf (Svezia) Grazia Deledda (Italia) Sigrid Undset (Norvegia) Jane Addams (Usa) Irène Joliot-Curie (Francia) Pearl S. Buck (Usa) Gabriela Mistral (Cile) Emily Greene Balch (Usa) Gerty Cori (Usa) Maria Göppert-Mayer (Germania) Dorothy Crowfoot (UK) Nelly Sachs (Svezia) Betty Williams (Irlanda del Nord) Mairead Corrigan (Irlanda del Nord) Rosalyn Yalow (Usa)
Madre Teresa (Albania) Alva Myrdal (Svezia) Barbara McClintock (Usa) Rita Levi-Montalcini (Italia) Gertrude Belle Elion (Usa) Nadine Gordimer (Sudafrica) Aung San Suu Kyi (Birmania) Rigoberta Menchú Tum (Guatemala) Toni Morrison (Usa) Christiane Nüsslein-Volhard (Germania) Wisława Szymborska (Polonia) Jody Williams (Usa) Shirin Ebadi (Iran) Linda B. Buck (Usa) Elfriede Jelinek (Austria) Wangari Maathai (Kenya) Doris Lessing (UK) Françoise Barré-Sinoussi (Francia) Ada E. Yonath (Israele) Elizabeth Blackburn (Usa) Carol W. Greider (Usa)
Herta Müller (Germania) Elinor Ostrom (Usa) Ellen Johnson Sirleaf (Liberia) Leymah Gbowee (Liberia) Tawakkul Karman (Yemen) Alice Munro (Canada) May-Britt Moser (Norvegia) Malala Yousafzai (Pakistan) Svetlana Aleksievič (Bielorussia) Youyou Tu (Cina)
Dedicato a tutte le donne
Introduzione
Quarantotto donne. Quarantotto storie di vite incredibili, una diversa dall’altra, legate da un unico filo conduttore, quello dell’eccellenza, della tenacia e della ione per la propria materia. Questo libro vuole rendere omaggio a tutte quelle donne che con le loro scoperte rivoluzionarie e il loro operato hanno cambiato per sempre la storia dell’umanità e che per questo sono state insignite dell’onorificenza più prestigiosa, il premio Nobel. Il riconoscimento fu istituito dopo la morte del chimico svedese Alfred Nobel, inventore della dinamite, che volle destinare l’immenso patrimonio accumulato in vita a un’alta causa. Nel suo testamento indicò che avrebbe dovuto finanziare progetti che “contribuivano ad accrescere il benessere comune” attraverso l’assegnazione di cinque premi. Tre di questi erano destinati a segnalare, ogni anno, gli autori delle più grandi scoperte nel campo della Fisica, della Chimica e della Medicina. Un altro era destinato a uno scrittore e il quinto a un personaggio o a un’organizzazione che avesse operato in modo particolare per la pace nel mondo e per la fraternità dei popoli. Nel 1969 fu aggiunta un’altra disciplina, l’Economia, mentre, ancora oggi, non esiste un premio dedicato alla Matematica. * Ogni anno il 10 dicembre (ricorrenza della morte di Nobel, avvenuta nel 1896) si celebra la cerimonia di consegna del premio, che prevede tra l’altro anche l’elargizione di circa 10 milioni di corone svedesi (pari a poco più di un milione di euro). I primi titoli furono conferiti nel lontano 1901. Due anni dopo, per la prima volta, a vincere fu una donna: la carismatica Marie Curie, figura straordinaria di una genialità che ha pochi pari. Nel giro di non molti anni portò a casa ben due Nobel, il primo per la Fisica, il secondo per la Chimica. L’ultima donna premiata, nel 2013, è stata Alice Munro. In mezzo, più di un secolo denso di cambiamenti e conquiste. Scorrendo le biografie si ha la percezione di quanto sia cambiata la società dall’inizio del ventesimo secolo a oggi, anche dal punto di vista dell’emancipazione femminile. Si comprende quanto sia stato complicato per le donne nate a inizio del ’900 avere accesso a un’istruzione superiore ed essere
considerate dai colleghi maschi. Purtroppo, in molti settori quest’atteggiamento è più vivo che mai. In proporzione, tuttora, solo un’esigua percentuale ha ricevuto la medaglia svedese, segno che il cammino per l’uguaglianza dei sessi è ancora lungo. Molte hanno dovuto lottare duramente per affermarsi e far conoscere il loro talento, a dispetto anche della famiglia, che le voleva esclusivamente mogli e madri. Credevano in loro stesse, avevano un sogno che le spingeva a superare qualsiasi difficoltà con un’incrollabile determinazione. Alcune, come Rosalyn Yalow (Nobel per la Fisica) e Sigrid Undset (Nobel per la Letteratura) provenivano da ambiti familiari economicamente disagiati, ma nonostante questo, con il lavoro e il costante impegno, riuscirono a primeggiare ugualmente. Altre dovettero difendersi dal mondo prettamente misogino e maschilista dell’università (è il caso di Gerty Cori, Nobel per la Medicina, e di Maria Göppert-Mayer, Nobel per la Fisica) che le escluse da alcuni ruoli professionali considerati non femminili. In altri casi la spinta e la voglia di cambiare le cose venne da eventi tragici vissuti in prima persona (Mairead Corrigan, Nobel per la Pace, perse la sorella e i tre nipoti in un terribile incidente provocato da un latitante dell’Ira – esercito della Repubblica d’Irlanda, gruppo terrorista che solo nel 2005 ha rinunciato alla lotta armata). A prescindere dal loro mestiere, tutte queste donne, scienziate, scrittrici, organizzatrici o divulgatrici, dimostrano che con la perseveranza e l’apertura verso gli altri si può arrivare dove si desidera e che, come insegnava la grande Rita Levi-Montalcini (Nobel per la Medicina), “ la chiave dell’esistenza umana non è l’amore, bensì la curiosità”.
[*] Oslo o Stoccolma? Nobel decise che i premi di Chimica e Fisica sarebbero stati assegnati dall'Accademia svedese delle scienze, quello per la Medicina dall'Istituto Carolino di Stoccolma, quello per la Letteratura dall'Accademia di Stoccolma e quello per la Pace da un comitato di cinque persone elette dal Parlamento di Oslo e consegnato nella stessa capitale norvegese.
Marie Curie (Polonia)
Nobel per la Fisica 1903 Nobel per la Chimica 1911
La pioniera della scienza Prima donna a ricevere il Nobel, prima (finora ineguagliata) a riceverne un secondo. Prima a ottenere un dottorato di ricerca e a insegnare all’università. Un record dopo l’altro. Una storia sorprendente che comincia negli ultimi 30 anni dell’800 Marie Skłodowska nacque a Varsavia il 7 novembre del 1867. Si provi a immaginare il clima. Era la fine del XIX secolo e alle donne non era concesso avere una vita indipendente con un ruolo attivo all’interno della vita pubblica. L’unica prospettiva loro concessa era quella di essere madri e mogli e occuparsi della casa. In alcuni paesi erano considerate poco più di un elemento decorativo. L’idea poi che potessero studiare confrontandosi alla pari con gli uomini e intraprendere una carriera scientifica era inconcepibile. Naturalmente c’erano delle eccezioni. Marie, la più piccola di cinque figlie, convinta fin da subito a coltivare i suoi interessi, a dispetto di tutti cominciò a studiare Fisica fin da giovanissima. Elemento fondamentale fu la sua famiglia. La madre, pianista e cantante, e il padre, insegnante di Matematica e Fisica, le trasmisero l’amore per la ricerca e lo studio. Crescere in un ambiente di questo tipo è certamente un grande stimolo e Marie non sprecò l’occasione. Il suo processo di maturazione registrò alcune tappe fondamentali. Una delle più importanti fu la morte della madre, malata di tubercolosi, che le fece perdere la fede religiosa. “ La fede non è contro la ragione, ma al di sopra della ragione” recitava San Tommaso d’Aquino. Ebbene, la giovane Skłodowska, non comprendendo il motivo di tanta sofferenza, la ripudiò. Riservò tutte le sue energie alla sua ione, la scienza. Voleva capire i meccanismi che regolano la vita dell’uomo, che influiscono sulla sua esistenza e su quella dell’intero mondo. In questa impresa trovò una preziosa
alleata, la sorella maggiore Bronia, che voleva studiare per diventare medico. I sogni delle due ragazze si scontrarono immediatamente contro un muro che sembrava insormontabile. All’epoca l’Università di Varsavia era tassativamente interdetta alle donne, senza alcuna eccezione. Sia Marie sia Bronia presero una decisione dolorosa: lasciare la Polonia e trasferirsi a Parigi. La Sorbona era il loro nuovo sogno. La prima a partire fu la sorella maggiore. Marie si assunse un compito strategico, senza il quale sarebbero andate incontro al fallimento. Da casa, aiutava Bronia come meglio poteva lavorando come istitutrice e precettrice dei rampolli della buona borghesia della capitale polacca e inviando in Francia il denaro necessario per le tasse universitarie. Finalmente, nel 1892 Marie raggiunse la sorella. La situazione economica cominciò lentamente a migliorare. Non c’erano molti soldi, ma le due riuscirono a sopravvivere grazie ai primi guadagni di Bronia come medico. All’università, Marie s’iscrisse a Fisica e Matematica. Era appena entrata nel suo regno, ne sarebbe diventata la regina incontrastata seguendo l’unico metodo che il periodo storico le concedeva: lavorare sodo, più dei suoi colleghi maschi, oltre ogni limite. Il risultato? Superò brillantemente ogni esame. Qui trovò anche l’amore della sua vita. Divenuta una giovane donna, incontrò Pierre Curie, professore di Fisica, che da subito La affascinò con il suo carattere inusuale. Pierre, infatti, non era andato a scuola, ma era stato educato dalla famiglia. Aveva una formazione insolita e questa si rispecchiava nel suo modo di esprimersi fuori dagli schemi. Il suo interesse per la scienza era totale, come quello di Marie. Giovanissimo, aveva fatto scoperte molto importanti. Nello specifico aveva rilevato che per ogni sostanza esiste una certa temperatura al di sopra della quale si perde ogni proprietà magnetica. Tutt’oggi questa formulazione matematica ha il nome di “Legge di Curie”. Marie e Pierre, un binomio che caratterizzò la ricerca scientifica all’inizio del Novecento, si piacquero subito. Dopo solo un anno di fidanzamento si sposarono. Il viaggio di nozze lo fecero in bicicletta! Un segnale della loro eccentricità? No, una scelta legata alle loro condizioni economiche. Lo stipendio di un docente della Sorbona e di una giovane laureata non permetteva altro. Tornati alle faccende quotidiane, iniziarono a lavorare assiduamente insieme.
Erano due menti aperte e molto, molto flessibili. Allestirono un laboratorio rudimentale, fondamentalmente una baracca di legno di pochi metri quadrati in cui si concentrarono soprattutto sullo studio delle radiazioni. All’epoca si sapeva ancora poco sull’argomento e proprio per questo rappresentava un settore scientifico particolarmente stimolante per i due coniugi. Nel 1885, Röntgen aveva scoperto i raggi X e l’anno seguente Antoine Henri Becquerel ipotizzò l’esistenza di radiazioni invisibili simili ai raggi X prodotte dall’uranio. I Curie adottarono quest’ultima scoperta come base della loro ricerca. La nascita della prima figlia, Irène, non li fermò affatto. Marie si dedicò all’analisi dell’uranio. Scoprì che due minerali (la torbernite e la pechblenda, contenenti uranio) erano ancora più radioattivi e che quindi dovevano contenere un altro elemento chimico fino ad allora sconosciuto. Dopo un lavoro lungo e difficile, Marie e Pierre riuscirono a isolarlo e lo chiamarono “polonio”, in omaggio alla terra che aveva dato i natali alla scienziata. Era il 1889 e nel bollettino dell’Accademia delle Scienze Pierre scriveva: “ Crediamo che la sostanza che abbiamo tratto dalla pechblenda contenga un metallo non ancora segnalato, vicino al bismuto per le sue proprietà analitiche. Se l’esistenza di questo metallo verrà confermata, noi proponiamo di chiamarlo polonio, dal Paese di uno di noi”. Presto si accorsero della presenza di un altro elemento sconosciuto ancora più radioattivo. Nel 1902 riuscirono a individuarlo e lo battezzarono “radio”, per l’intensità delle sue radiazioni (oggi lo si usa in medicina per produrre gas radon, utile per la terapia di alcuni tipi di tumore). Pochi mesi dopo, nel dicembre del 1903, Marie e Pierre Curie ricevettero il Nobel per la Fisica. Quel traguardo non placò la loro sete di conoscenza, anzi. Ritirato il premio, ripresero il loro lavoro. Gli studi continuarono sino alla formulazione di ipotesi rivoluzionarie sull’esistenza di altri elementi con caratteristiche simili al polonio e al radio. Marie li chiamò “radioattivi” perché instabili e perché il nucleo moriva con l’emissione di radiazioni. Comprese che tale attività era un fenomeno subatomico a dispetto delle convinzioni scientifiche del periodo che assegnavano all’atomo il titolo di particella più piccola esistente. Era nata la Fisica atomica. Nel 1903 Marie ottenne, prima donna in assoluto, il Dottorato di ricerca. Pierre intanto era diventato professore emerito alla Sorbona. Ebbero una seconda figlia, Ève. Fu un momento particolarmente felice per la famiglia, almeno fino
all’avvento del 1906, un anno tragico per la coppia. Pierre morì improvvisamente, travolto da una carrozza dopo essere scivolato sulla strada bagnata. Fu un colpo dolorosissimo per Marie. Le qualità intrinseche delle persone emergono proprio da situazioni all’apparenza insuperabili. Così avvenne nella scienziata. Non si arrese al fato che le aveva strappato il marito e, superata una forte depressione, si rimboccò le maniche. Decise di tornare al suo primo amore, la ricerca scientifica. Prese il posto del marito all’università, diventando così la prima insegnante donna. Anche in questo caso, però, dovette scontrarsi col muro delle sciocche convenzioni che regolavano anche la vita accademica della “liberale”, o almeno ritenuta tale dai suoi contemporanei, Sorbona. Infatti, i vertici dell’ateneo non le conferirono neanche uno degli incarichi onorifici attribuiti pochi mesi prima a Pierre. Non solo. L’Accademia delle Scienze (di cui il marito era membro) non la volle eleggere a quel soglio. La motivazione? In un documento ebbe l’ardire di sostenere che tutte le scoperte fatte erano da attribuirsi esclusivamente “all’operato del signor Curie”. Marie, come aveva sempre fatto, non si perse d’animo. Nel 1910 pubblicò il Trattato di Radioattività in cui spiegava i meccanismi con i quali era riuscita a isolare il radio e il polonio puro. Il radio (dal latino radius, raggio) era stato ottenuto, nella sua forma metallica, grazie a un processo elettrolitico che prevedeva una soluzione pura di cloruro di radio, un catodo di mercurio e la distillazione in atmosfera di idrogeno. Nel 1911 Marie venne insignita del Nobel per la Chimica. Nessuno, ora, poteva negare i suoi meriti. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale e dopo aver vinto due premi così importanti avrebbe potuto rimanere nella sua bella casa di Parigi, lontano dall’orrore di un conflitto di quelle dimensioni. Invece sorprese, ancora una volta, amici e benpensanti del tempo. Decise di partire per il fronte con la figlia Irène. Insieme si adoperarono per alleviare le sofferenze dei feriti. Anche in quest’occasione la genialità intrinseca nella loro famiglia emerse prepotente. Madre e figlia allestirono le celebri “Petit Curie”, auto attrezzate con apparecchiature a raggi X, antesignane delle attuali autoambulanze. Ciò che colpisce della storia di Marie Curie è sì il suo eccezionale talento, ma anche la concezione moderna che aveva della scienza. Con le sue scoperte non si è mai arricchita. Non ha mai speculato su qualcosa che riteneva dovesse essere
patrimonio di tutti. Era uno spirito libero e democratico, un’anima generosa che nemmeno negli anni del conflitto mondiale si è tirata indietro. “ Un gran numero di amici – raccontava – affermano che se Pierre Curie e io avessimo garantito i nostri diritti, avremmo conquistato i mezzi finanziari necessari per la creazione di un Istituto del Radio più che soddisfacente. Tuttavia io rimango convinta che abbiamo avuto ragione. L’umanità ha certamente bisogno d’uomini pratici che traggano il massimo possibile dal loro lavoro e che, senza dimenticare il bene generale, salvaguardino i loro interessi. Ma essa ha anche bisogno di sognatori, per i quali il prolungarsi disinteressato di un’impresa è così affascinante che è impossibile, per loro, consacrarsi ai propri benefici materiali”. Grazie a lei si sono aperte le porte di una parte, all’epoca ancora inesplorata, della scienza. La radioattività infatti si applica ai più diversi campi del sapere, dalla medicina alla geologia, fino alle tecnologie militari. Qualche esempio concreto? Prima delle sue indagini si credeva, su indicazione della Bibbia, che la Terra avesse alcune migliaia di anni. Si scoprì invece che era molto più vecchia (qualche miliardo). Altro esempio, particolarmente attuale, è l’uso della radioattività nella ricerca contro il cancro. Alla fine del conflitto mondiale, Marie fondò l’ Institut du Radium, oggi conosciuto come Institut Curie, dedicato allo studio degli effetti provocati dalle radiazioni. Lo diresse fino al 1932, quando le subentrò la figlia. Ancora oggi il Centro rappresenta un’importante istituzione per la ricerca sui tumori. La scienziata morì il 4 luglio del 1934 di anemia perniciosa, conseguenza della lunga esposizione alle sostanze radioattive. Volle un funerale semplice e silenzioso, in un cimitero di campagna, come se la sua vita fosse stata simile a mille altre. Oggi, invece, il suo corpo giace vicino a quello del marito nel Pantheon di Parigi, tra le personalità che hanno reso grande la Francia.
Bertha von Suttner (Austria)
Nobel per la Pace 1905
La baronessa della pace Prima donna a ricevere il Nobel per la Pace. Le sue battaglie contro la guerra sono diventate epiche. Grazie al suo entusiasmo, alla sua curiosità e al suo altruismo è riuscita a lasciare un’impronta indelebile nel cammino dell’umanità La contessa Bertha Sophie Felicita Kinsky von Chlinic und Tettau nacque a Praga il 9 giugno 1843, in una famiglia che rappresentava la società aristocratica di tradizione militare, molto diffusa in quel periodo nell’impero austro-ungarico. Il nonno era Capitano di cavalleria, il padre un Maresciallo di Campo, mentre la madre, una poetessa. Il suo destino, nelle intenzioni dei genitori, era andare in sposa a qualche aristocratico, meglio se di stanza alla corte di Vienna. Il periodo non era dei migliori per quanto riguarda l’autodeterminazione. Sul trono asburgico sedeva sco Giuseppe, che non era proprio un liberale. L’impero d’Austria nel 1848 era popolato da 51 milioni di abitanti (Slavi di ogni genere, Boemi, Magiari, Rumeni, Valacchi, Armeni, Greci, Zingari, Musulmani, Veneti, Lombardi, Piemontesi, Turchi) e si estendeva per circa 700.000 chilometri quadrati. Il suo debito pubblico ammontava a 2 miliardi di franchi, le sue rendite annue superavano di poco i 500 milioni di franchi. Con quelle risorse manteneva 300.000 soldati. Le inquietudini che serpeggiavano tra questi popoli non erano considerate per ciò che erano, ovvero malessere sociale, ma l’opera di associazioni più o meno segrete o sette pseudo religiose. Le donne, anche all’interno di famiglie considerate progressiste, avevano un ruolo di secondo, quando non di terzo, piano. Bertha, come era in uso nella “buona società”, studiò sotto la guida di un tutore. La sua educazione fu in linea con i tempi, molto rigida, focalizzata soprattutto su quelle materie che, secondo i suoi, dovevano esserle utili nella sua futura vita, magari a corte: lingue, musica, disegno e filosofia. Avevano, però, fatto i conti senza l’oste. La giovane contessina coltivava prospettive diverse.
Lettrice molto vorace, aveva un suo sogno segreto: diventare una cantante lirica. Come si addiceva alle nobildonne del tempo viaggiò moltissimo per il Vecchio Continente frequentando cene e feste della nobiltà asburgica e non, ma senza avere alcuna fretta di maritarsi. Ormai trentenne, si rese conto tuttavia che non poteva più sostenersi con la rendita assicuratale dalla madre. Prese quindi una decisione che scandalizzò non poco il suo entourage: cominciò a cercare un lavoro. Rispose ad alcuni annunci economici sino a quando non le venne offerta la possibilità di collaborare come segretaria di un certo Alfred Nobel, allora ancora semisconosciuto chimico svedese, di stanza a Parigi. Quell’esperienza non sembrò, in quel momento, così importante. Assolto il suo incarico, Bertha tornò nella capitale austriaca dove divenne insegnante e dama di compagnia delle quattro giovani figlie del barone von Suttner. Fu quella la svolta della sua vita. Nella loro casa conobbe il giovane Arthur Gundaccar von Suttner, di cui s’innamorò perdutamente. Per quel sentimento, i due pagarono un durissimo prezzo. Prima alle loro famiglie che si opposero con tutte le forze al matrimonio, poi a loro stessi perché furono costretti a lasciare Vienna. Infatti, dopo essersi sposati, Bertha e Arthur trovarono un rifugio per il loro amore addirittura nel Caucaso, dove rimasero per ben nove anni coltivando speranze e sopportando qualche stento. La vita lì non era certo cadenzata da pranzi e cene lussuose. La costante era, anzi, una quotidiana precarietà. Bertha insegnava musica e lingue, mentre Arthur lavorava come ingegnere e dava lezioni di disegno. Vivevano la loro storia secondo il concetto più intenso dell’amore romantico tipico dell’800, ricco di furore creativo e ione, di una elevata intensità sentimentale. Lei cominciò a interessarsi alla scrittura trovandola un mezzo efficace di espressione e diffusione delle sue idee. Interpretò l’attività letteraria non come una piacevole evasione, come una fuga dalla realtà, ma come un approfondimento della sua esperienza quotidiana. I risultati non tardarono. Nel libro Inventaruim einer Seele (Inventario di un’anima) raccolse i pensieri suoi e del marito in merito a scrittori e filosofi. Per la prima volta espresse la concezione di una società il cui progresso doveva avere come fondamento il raggiungimento della pace. Migliorati i rapporti con la famiglia Suttner, la coppia tornò in Austria. Bertha continuò a scrivere. Si dedicò totalmente alla letteratura “sociale”. Non solo.
Fece proprie le idee dell ’International Arbitration and Peace Association di Londra, fondata da Hodgson Pratt (un’organizzazione che si batteva per la soluzione diplomatica dei conflitti). La vita della baronessa e del marito conobbe una svolta. Entrambi i coniugi rimasero affascinati da questa e da altre associazioni simili presenti nel continente, poiché rispecchiavano il loro ideale di società. In quel periodo, in Europa nascevano i primi movimenti pacifisti, alimentati dalle denunce di Henry Dunant sulle sanguinose stragi della guerra di Crimea. A un’analisi storica, la sua opera acquista ancora maggior valore se si pensa che Bertha viveva, anche se ai margini, nella corte di un impero colonialista che voleva espandersi nei Balcani. Tornata a Parigi, incontrò nuovamente Alfred Nobel e lo mise al corrente dei suoi progetti. Lo scambio di idee fu proficuo. Per la prima volta il chimico svedese rese pubblico il suo desiderio di finanziare, con gli immensi ricavi prodotti dall’invenzione della dinamite, un premio da destinare alle eccellenze nel campo delle scienze. Nel 1889, Bertha pubblicò Das Maschinenzeitalter (L’epoca delle macchine), testo che criticava aspramente molti aspetti della società del tempo e metteva in guardia dai nazionalismi e dalla corsa agli armamenti. L’opera successiva, Die Waffen nieder! (Abbasso le armi!), pubblicato nello stesso anno, era invece il racconto di una storia d’amore che s’intrecciava agli orrori della guerra. Nella sostanza, una vibrante condanna di ogni conflitto che suscitò uno scalpore mondiale, tanto da essere tradotta con successo in molte lingue. I riconoscimenti furono unanimi. Lev Tolstoj le scrisse: “La pubblicazione del vostro libro è per me un buon segno. La capanna dello zio Tom ha contribuito all’abolizione della schiavitù. Dio faccia sì che il vostro libro serva allo stesso scopo per l’abolizione della guerra”. Nel 1891 avviò La Società austriaca per la Pace, ne divenne presidente e fu la coordinatrice del primo congresso internazionale. Solitamente a questi incontri la presenza di una donna destava curiosità e sorpresa. Bertha era una signora che, sola tra tanti uomini, aveva una straordinaria ione e coraggio nel manifestare idee così lontane dal sentire dell’epoca. Ovunque andasse suscitava sentimenti contrastanti. Diceva che: “La pace dovrebbe essere l’unico sforzo di tutte le donne. Se ognuna si prodigasse su questa via, il mondo prenderebbe in breve
tempo un’altra direzione”. I militari, naturalmente, contestavano il suo pacifismo “inetto” e “ traditore”. La definivano “la strega della pace”, mentre la stampa maschilista la immortalava in vignette satiriche di cattivo gusto. Lei non si fece intimidire. Si impegnò ancora di più. “Le donne non staranno zitte. Noi scriveremo, terremo discorsi, lavoreremo, agiremo. Le donne cambieranno la società e loro stesse”, divenne questo il filo conduttore della sua vita. Costituì quindi un fondo per la realizzazione dell’Ufficio della Pace a Berna e fondò insieme al giornalista Alfred Fried (vincitore del Nobel per la Pace nel 1911) il quotidiano Die Waffen Nieder in cui commentava fatti d’attualità. Nel frattempo teneva Alfred Nobel costantemente informato sugli sviluppi del suo operato. Insieme al marito, che fu sempre un suo grande sostenitore, s’impegnò nell’organizzazione della Conferenza dell’Aia del 1899, voluta dallo zar, in cui i governi europei si adoperavano a porre le basi per una Corte permanente di arbitrato, embrione di una ipotetica Corte di Giustizia europea. Nonostante il dolore causato dalla perdita del marito avvenuta nel 1902, decise di continuare il suo lavoro, come lui stesso le aveva pregato di fare. Viaggiò molto tenendo discorsi in Europa e Stati Uniti per diffondere il suo messaggio. Nel 1904 partecipò al Congresso mondiale per la pace di Boston e fu ricevuta anche da Theodore Roosevelt. Ebbe un ruolo chiave nel Comitato d’Amicizia Anglo-Tedesco e denunciò i pericoli della militarizzazione della Cina e dello sviluppo dell’aereonautica come strumento militare. “L’Europa è una”, sosteneva la baronessa. Per lei l’unità era il solo modo di scongiurare un conflitto che avrebbe sconvolto, come poi avvenne, il Vecchio Continente. Criticò duramente l’Italia per la conquista della Libia. Il suo cruccio era il pericolo di una guerra che contagiasse il mondo. Nel 1912 pubblicò L’imbarbarimento dell’aria in cui sosteneva la necessità della nascita dell’Unione europea come unico rimedio ai suoi timori. Nel suo testamento Nobel ricordò con affetto la Suttner, designandola “Friedensfreitstragerin”, ovvero colei cui spettava per impegno e volontà il premio per la Pace. Bertha sarà insignita di tale riconoscimento nel 1905, divenendo insieme ispiratrice e prima donna a riceverlo. Già gravemente malata di cancro, le venne attribuito il titolo di “generalissimo” del movimento
pacifista. Morì nel 1914, due settimane prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, catastrofe contro cui aveva sempre combattuto. Le sue ultime parole furono “Giù le armi, giù le armi! Ditelo a tutti”. Le idee di Bertha von Suttner sono state fonte d’ispirazione per innumerevoli istituzioni mondiali per la cooperazione e il mantenimento della pace. Una donna d’ideologia moderna, straordinariamente umile e intelligente, che aveva compreso come la pace fosse l’unico reale mezzo di progresso nel mondo. Nel 2001 l’Austria ha scelto di riprodurre sulla moneta da 2 euro il suo ritratto. “La pace è il più grande dei benefici, o meglio l’assenza della maggiore fra le sciagure, è [...] l’unica condizione che permetta agli interessi della nazione di prosperare” è il messaggio che ha lasciato a tutti noi.
Selma Lagerlöf (Svezia)
Nobel per la Letteratura 1909
La grande scrittrice del Nord È stata la personalità nordica più famosa al mondo nel secolo scorso. Prima donna e primo autore svedese a ricevere il Nobel, affascina tutt’oggi con la sua scrittura tersa e immaginifica Selma nacque a Östra Emterwik, un minuscolo paesino della provincia del Värmland, nel sud della Svezia, il 20 novembre 1858. Trascorse la sua infanzia in campagna, nella tenuta di famiglia di Mårbacka, dove visse in perfetto isolamento sino a 23 anni, quando decise di dare una svolta alla sua vita. Si era accorta che le mancava qualcosa. Che il mondo non era quello in cui i suoi genitori l’avevano allevata. Che c’erano orizzonti che valeva la pena esplorare e per farlo aveva bisogno di un’istruzione che a Mårbacka nessuno poteva garantirle. Nel 1881, contro il parere di tutti i suoi familiari, si trasferì a Stoccolma per studiare e formarsi culturalmente. Sino ad allora il suo atempo preferito era stato sedersi davanti al fuoco ad ascoltare la nonna che le cantava le canzoni popolari o che le raccontava le saghe nordiche popolate da elfi e silfidi, da miti nibelunghi, dei del mare e delle foreste. Aveva vissuto un’infanzia piuttosto spensierata e felice, nonostante una malattia che le aveva lasciato in eredità una leggera zoppia e nonostante la figura controversa del padre. Erik Gustaf, così si chiamava, era una persona sensibile, con un raffinato gusto artistico e di bell’aspetto. Papà Erik aveva tuttavia un grande difetto: era un alcolizzato dal carattere debole. Il suo profilo era fatto di chiaroscuri che ne mettevano in evidenza le contraddizioni: ava dall’esaltazione assoluta alla depressione più nera. Il genitore, tenente a riposo, fu comunque una figura di riferimento importantissima per Selma. Per lui, l’autrice ebbe parole toccanti, anni più tardi, durante la cerimonia di conferimento del Nobel. Arrivata a Stoccolma, Selma Lagerlöf lottò duramente per avere un’istruzione. Non avendo basi su cui costruire un profilo culturale di alto livello dovette cominciare quasi da zero. Grazie alla sua determinazione e, naturalmente, alla
sua intelligenza, in soli quattro anni riuscì a diventare maestra. Riprese e approfondì, allora, una sua vecchia ione: scrivere poesie e racconti. Nel 1890 vinse il primo premio bandito da un settimanale svedese che pubblicò alcuni estratti di Gösta Berlings Saga, il suo primo romanzo. Come spesso accade agli autori sotto ogni latitudine, quella pubblicazione ò nell’assoluta indifferenza di critici ed editori svedesi. L’autrice continuò a insegnare sino al 1895 in una scuola secondaria per ragazze a Landskrona. Il colpo di fortuna avvenne quando il libro fu tradotto in danese. Questa volta, la saga di Gösta Berling ottenne un grosso successo di critica e pubblico, replicato, di rimando, anche in Svezia. La buona diffusione del libro e l’elargizione di un o finanziario da parte della famiglia reale e dell’Accademia svedese permisero a Selma Lagerlöf di abbandonare l’insegnamento e di dedicarsi interamente alla scrittura. Si trasferì quindi a Falun, lontano da Stoccolma e, ancor di più, da Mårbacka. Quella scelta fu un duro colpo per il padre. Selma era la figlia prediletta, l’unica consolazione della sua esistenza di alcolizzato. Poco tempo dopo quel distacco, Erik Gustaf cessò di vivere. La causa, impietosa. Il decesso fu provocato, infatti, dalla cirrosi epatica. La scrittrice però si persuase che la morte del genitore che più amava era dovuta in larga parte al suo allontanamento dalla famiglia. La ione che la sosteneva era tuttavia troppo forte per essere accantonata. Intanto, il suo primo romanzo divenne nel giro di breve tempo un fenomeno editoriale. Appartenente all’ondata di revival romantico, ricevette critiche entusiastiche e fu letto e apprezzato da un ampio pubblico. Gösta Berlings Saga, opera divisa in due volumi, narra la parabola di un prete bevitore (evidente trasposizione letteraria del genitore) e dei 12 cavalieri di Ekeby dediti alla bella vita. Un’epopea romantica cui seguirono subito altri testi ispirati a viaggi accaduti realmente e pieni di pathos: Antikrists mirakler (I miracoli dell’Anticristo), scritto dopo un soggiorno in Sicilia, e Jerusalem, due tomi stesi in seguito alla permanenza in Egitto e in Medio Oriente. Quest’ultimo romanzo narra le speranze disattese di alcuni contadini svedesi che cercano di fondare a Gerusalemme una nuova Terra Santa. L’ennesimo successo di queste opere consacrò Selma come una delle più conosciute e prolifiche autrici europee. Scrisse decine di romanzi, ma anche
novelle e racconti, da cui furono tratte sceneggiature di film muti. Il suo contributo alla Letteratura è vastissimo e di grande rilievo. Suo indiscusso capolavoro è Nils Holgersson underbara resa genom Sverige (Il viaggio meraviglioso di Nils Holgersson attraverso la Svezia), testo di geografia pensato per l’educazione nelle scuole dei più piccoli, ma che conobbe un successo planetario. Uno dei rari casi in cui un testo per ragazzi, grazie alla sua evocatività e ottima scrittura, diventa un libro anche per adulti. Ancora oggi è uno dei più tradotti al mondo. Apprezzata da pubblico e critica, i riconoscimenti non tardarono ad arrivare: nel 1904 le fu assegnata la medaglia d’oro dell’Accademia svedese e nel 1907 le fu conferita la laurea ad honorem dell’Università di Uppsala. Nel 1909 le fu attribuito il Nobel per la Letteratura. Nella motivazione c’era scritto tra l’altro: “Per l’elevato idealismo, la vivida immaginazione e la percezione spirituale che caratterizzano le sue opere...” Con i soldi ricevuti a Stoccolma ristrutturò la casa di famiglia (il feudo a Mårbacka, prima venduto poi riacquistato) cui era molto legata affettivamente. Durante la Grande Guerra si schierò contro il conflitto e la violenza. Diventò una convinta pacifista e visse quel periodo scrivendo romanzi antimilitaristi. In vecchiaia, negli anni in cui in Europa stava per scoppiare il secondo conflitto mondiale, si prodigò per favorire la fuga di diversi intellettuali perseguitati dal nazismo e per trovare i fondi per aiutare il popolo finlandese, invaso dall’Unione Sovietica durante la Guerra d’inverno. Morì nel 1940 in seguito a un attacco di trombosi. Oggi la casa di Mårbacka è diventata un museo. Selma Lagerlöf è per tutti un esempio di donna libera, anticonformista e profondamente umana. Una donna intelligente e modesta che, grazie al suo ricco mondo interiore, seppe coinvolgere ed emozionare un pubblico vasto, dai bambini agli anziani. Ebbe due lunghe relazioni con le scrittrici Sophie Elkan e Valborg Olander, di cui oggi rimane un bellissimo scambio epistolare. Nei suoi romanzi e racconti si percepisce l’amore per l’intero universo creato, in particolare per i paesaggi della sua terra. Un Paese ricco di bellezze naturali, raccontato da meravigliose saghe, anima di una lunga tradizione popolare. Il suo è uno stile lirico e romantico, colmo d’immagini evocative, che mette in luce tutto ciò che vi è di poetico dentro e al di fuori dell’animo umano. Un mondo
che viene anche dalla sfera del sogno e della fantasia e che forse, proprio per questo, resta ancora così attuale.
Grazia Deledda (Italia)
Nobel per la Letteratura 1926
La tenacia del Sud Prima, e finora unica, donna italiana a ricevere il premio Nobel per la Letteratura. Il suo mondo artistico, profondamente radicato alle sue origini sarde, nasce da una caparbia volontà di scrivere La scrittrice nacque il 27 settembre 1871 a Nuoro, in Sardegna. La sua famiglia, molto numerosa com’era costume in quel periodo, apparteneva all’alta borghesia isolana ed era profondamente cattolica. Il padre era un agiato piccolo possidente e imprenditore attivo nel commercio del carbone. Sin da piccola, Grazia mostrò un particolare interesse per la poesia. Non avrebbe potuto coltivarlo se non fosse stata un’autodidatta. Le opportunità di studio offerte alle donne dal Regno d’Italia, seppur governato da rappresentanti della sinistra storica come Agostino De Pretis, Benedetto Cairoli e sco Crispi, erano limitate. I suoi studi regolari si fermarono alla IV elementare. Senza scelte autonome il futuro premio Nobel si sarebbe persa come migliaia di altre fanciulle sue contemporanee. Fu solo il suo impegno che le consentì di darsi una formazione letteraria che si sarebbe sviluppata nel tempo. Tolstoj, Dostoevskij, D’Annunzio, Sue, Hugo, Dumas furono gli autori che la affascinarono. Non si trattò di semplici letture giovanili. Da loro apprese l’arte della scrittura. Dopo aver frequentato la scuola elementare, ricevette lezioni private di italiano e se, sfuggendo così al destino delle donne dell’epoca, di solito escluse dalla cultura. La futura scrittrice, dal canto suo, era un’avida lettrice. Oltre che dalle storie lette nei libri, soprattutto quelli dei romanzieri russi, fu ispirata da tutti quei racconti fatti dai viaggiatori che spesso sostavano a casa sua. Succedeva che narrassero le loro vicende davanti al camino, affascinando immensamente la fantasia di Grazia. Il suo mondo era quello dei pastori, dei signorotti di campagna, di una società, quella sarda, chiusa verso ogni influenza esterna. L’unico elemento che potesse provocare delle crepe su quel muro era la forza travolgente delle ioni che animavano i personaggi di quelle storie.
Divennero un modello che Grazia Deledda adottò in quasi tutti i suoi romanzi, arricchiti da atmosfere in cui colpa e senso fatale del delitto fanno sempre i conti con la morale. Il merito della sua “scoperta” si deve alla sua istitutrice che la incoraggiò a inviare le sue novelle a qualche rivista locale. Il primo testo fu pubblicato quando aveva solo 17 anni, sulla romana Ultima moda. S’intitola Sangue sardo e narra le vicissitudini della protagonista, che uccide l’uomo di cui è innamorata poiché non corrisposta. La pubblicazione del racconto causò uno scandalo terribile nell’ambiente chiuso e ristretto della provincia nuorese. Un’adolescente, per di più donna, che trattava argomenti come quelli era inconcepibile per i benpensanti e i circoli perbenisti della società sarda. La prima produzione della Deledda si rifaceva al tardo romanticismo. Era contraddistinta da alcuni aspetti banali del filone, quelli connessi all’espressione dei sentimenti che trasformano i testi romantici in ghirigori sentimentali e lacrimevoli. Anche la sua vita fu ricca di amori giovanili e sogni sentimentali come quella degli eroi dei libri che divorava. Nel 1892, con la morte del padre, suo grande sostenitore, le venne a mancare un importante punto di riferimento. Senza perdersi d’animo, nonostante l’ambiente letterario guardasse con ostilità e sospetto ogni donna che si affacciava al mondo della cultura, continuò a scrivere modificando leggermente le basi da cui era partita. Le collaborazioni con riviste sarde, romane e milanesi si intensificarono. Particolarmente riuscita fu quella con la rivista Tradizioni Popolari italiane per cui creò le Undici puntate delle tradizioni di Nuoro in Sardegna. Il 1892 non fu solo un anno di lutti. Vide anche la luce Fior di Sardegna, il suo primo romanzo, che ottenne delle buone recensioni. La vera svolta arrivò quando Ruggero Bonghi, critico molto apprezzato dei primi del Novecento, scrisse la prefazione del romanzo Anime oneste. Ben presto la fama della scrittrice sarda si diffuse in Continente, cioè in Italia, e all’estero. Grazia Deledda cominciò ad avere rapporti epistolari con le maggiori personalità intellettuali e letterarie del ’900, tra le quali D’Annunzio, considerato da lei un vero modello culturale, Pirandello e Fogazzaro. La sua attività si fece sempre più
prolifica, con il ritmo sostenuto di quasi due testi l’anno. Nonostante sia quasi scomparsa dalla maggior parte delle antologie scolastiche e appaia dimenticata da buona parte della critica, la produzione della Deledda conta ben 30 romanzi e circa 400 racconti. Scrisse anche per il teatro e fu traduttrice di Honoré de Balzac ( Eugénie Grandet). Dal romanzo Cenere venne tra l’altro tratto un film con Eleonora Duse. Canne al vento, considerato il suo capolavoro, è datato 1913 ed è la storia di tre sorelle sarde appartenenti a una casata nobile decaduta e del tracollo economico che le spinge a vendere la proprietà di famiglia. Un destino cieco e crudele che si scontra contro la fragilità dei personaggi. L’opera è fortemente intrisa di sensi di colpa, del sentimento del peccato e della corrispettiva pena. Temi questi forse derivati dall’educazione impostale dalla madre, intransigente e religiosissima. È curioso notare che tutti i romanzi della scrittrice ebbero una prima pubblicazione su una rivista, per poi uscire come volumi a loro stanti. L’intero universo della Deledda riflette lo spirito del Sud, ancorato alle tradizioni. L’attaccamento alle origini (in casa dei suoi genitori si parlava il logudorese, un dialetto sardo molto vicino al latino) e la religiosità sono alcune delle peculiarità che la contraddistinguono. La sua è una letteratura popolare. Sentimenti forti quali l’amore e l’odio si combinano col dolore. Ma la vita, nonostante tutto, è bella e degna di essere vissuta. L’uomo e la natura, dapprima distanti, si riconciliano per affrontare e vincere il male fisico e spirituale. Da tutte le sue opere, che combinano l’aspetto autobiografico con quello immaginifico, traspare un’inesauribile fede in Dio e nell’uomo. I personaggi spinti da ioni intense si muovono sullo sfondo del paesaggio austero e duro della sua Sardegna. Molto importante per la vita personale di Grazia fu, nel 1899, l’incontro a Cagliari con Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze, l’uomo della sua vita, con cui si sposò ed ebbe due figli (Sardus e Franz). L’unione rappresentò per lei una svolta non solo dal punto di vista affettivo ma soprattutto sociale. Il trasferimento nella capitale le permise di evadere dalla provincia sarda che le andava stretta e le diede anche l’opportunità di entrare in contatto con i
protagonisti della vita letteraria italiana di quel periodo, in un ambiente aperto e stimolante, decisamente differente da quello in cui era vissuta. La sua giornata si divideva tra il compito di madre e quello di scrittrice, cui dedicava costantemente qualche ora ogni pomeriggio. Nel 1926 ricevette il Nobel per la Letteratura. Alla consegna del premio non fece mai il minimo accenno a un sorriso, a conferma del suo carattere estremamente schivo e chiuso. Fino ad allora l’unico italiano che era riuscito a portarsi a casa il prestigioso riconoscimento era stato Carducci, precisamente venti anni prima. Dopo il premio, Grazia continuò a lavorare intensamente, nonostante i segni di una grave malattia, un cancro al seno, che la portò alla morte nell’agosto del 1936. L’ultima opera di Grazia rimane incompiuta. S’intitola Cosima, quasi Grazia ed è un’autobiografia uscita postuma a cura di Antonio Baldini. Le opere della maturità di Grazia Deledda mettono spesso in luce il conflitto tra il vecchio e il nuovo, non solo in ambito sociale. Trasgredire le regole è il frutto di un cambiamento che può essere anche morale. Certamente costringe il protagonista a vedere con occhi diversi il mondo. Il dramma, per alcuni melodramma, nella sua produzione letteraria nasce da episodi in cui violente crisi di coscienza esplodono e conducono al sacrificio supremo. Dopo aver lasciato la Sardegna, la sua scrittura diventa più sicura, si definisce in uno stile originale in cui conserva un solo vezzo, una concessione al dialetto sardo: il verbo alla fine della frase.
Sigrid Undset (Norvegia)
Nobel per la Letteratura 1928
L'arte del racconto È stata uno dei tre scrittori norvegesi (dopo Bjørnstjerne Bjørnson e Knut Hamsun) ad avere ricevuto il premio Nobel per la Letteratura. Intellettuale libera e anticonformista, ha segnato profondamente la storia della narrativa mondiale Leggendo la storia di Sigrid Undset ciò che salta all’occhio è la sua continua e costante evoluzione, sia come persona sia come artista. La scrittrice nacque il 20 maggio del 1882 a Kalundborg, in Danimarca. Suo padre, Ingvald Martin Undset, era un noto e rispettato archeologo, specializzato nell’età del ferro, che per lavoro viaggiava frequentemente in tutto il Vecchio Continente. La madre, Charlotte Gyth, era, anche lei, una persona molto colta, parlava tedesco e se e aveva una profonda conoscenza della cultura nordica ed europea. Sigrid arrivò in Norvegia all’età di 2 anni. La famiglia si trasferì a Oslo quando il padre assunse un incarico al Museo delle Antichità. Il futuro premio Nobel frequentò la scuola gestita dalla signora Ragna Nielsen con la quale ebbe rapporti quasi sempre conflittuali. Lo scetticismo che l’accompagnò per buona parte della sua vita ebbe origine proprio lì. Riporta la sua biografia ufficiale: “Quando mio padre è morto nel 1893, la signora Nielsen ha offerto a mia madre l’opportunità di istruire gratuitamente tutti noi tre figli”. La richiesta naturalmente fu accolta. Rimase valida sino a quando la scrittrice non compì 14 anni. “Mrs. Nielsen – racconta ancora la biografia – mi ha chiamata in un’aula vuota e mi ha detto: ‘Cara Sigrid, tu hai mostrato così poco interesse per la scuola mentre ci sono tanti bambini che amerebbero godere di una istruzione gratuita, che ti chiedo: sei sicura di voler sostenere gli esami di ammissione alle classi superiori?’ ‘No, grazie.’ E questa fu una delle poche decisioni nella mia vita di cui non mi sono mai pentita”. Tutta l’infanzia di Sigrid fu profondamente influenzata dalle condizioni di salute
del padre, ma anche dal suo grande amore per l’archeologia. Da lui imparò i segreti delle saghe norvegesi e i canti popolari scandinavi, che la affascinavano molto. Dopo aver abbandonato l’Istituto di Ragna Nielsen, frequentò la scuola commerciale di Oslo. Le ristrettezze economiche in cui si dibatteva la sua famiglia la costrinsero a lavorare come segretaria per oltre dieci anni alla filiale locale dell’Aeg, l’ Allgemeine Elektricitäts-Gesellschaft, azienda tedesca di elettronica. Di giorno andava in ufficio, notte e ogni momento libero lo dedicava invece alla sua grande ione, la scrittura. Prima di lasciare il suo incarico, a 27 anni, aveva già pubblicato due libri: Fru Marte Oulie nel 1907 e Den lykkelige alder nel 1908. Anche lei, come molte sue coetanee fu un’autodidatta. In particolare rimase incantata dal mondo letterario anglosassone: Shakespeare, Chaucer, Jane Austen e le sorelle Brönte, ma anche da quello scandinavo, in particolare da Ibsen e Strindberg. Tutta la poetica della Undset nasce da una reale necessità espressiva, dal bisogno di raccontare la vita attraverso la letteratura. Fin da subito capì che scrivere era la sua vocazione, il suo destino. Finì il primo manoscritto, frutto di ore di lavoro al lume di candela, quando aveva appena 22 anni. Era ambientato nella Danimarca dell’epoca. Il volume fu bocciato dalla casa editrice a cui lo aveva inviato. Lo stesso destino sembrò segnare, almeno in un primo momento, anche il secondo, due anni più tardi. Fru Marte Oulie, ambientato nella moderna borghesia scandinava, iniziava con una frase al tempo scandalosa e sconveniente: “Sono stata infedele a mio marito”. L’opera, in seguito pubblicata, vendette subito bene (come tutte quelle dell’autrice). L’apprezzamento di pubblico e critica confermò Sigrid Undset come una delle autrici emergenti più interessanti della Norvegia. Per questo motivo ottenne una borsa di studio riservata agli scrittori. Lasciò quindi il lavoro e cominciò a viaggiare in Europa. Particolarmente felice fu il suo soggiorno a Roma, dove avevano vissuto per un periodo i suoi genitori e dov’era stata programmata la sua nascita. La capitale italiana non le aveva dato i natali a causa delle condizioni di salute del padre, costretto a ritornare a Kalundborg. Sigrid rimase a Roma per nove mesi. Qui conobbe il suo futuro marito, il pittore norvegese Anders Castus Svarstad. Dopo il matrimonio, i due trascorsero un
breve periodo a Londra per poi trasferirsi con i due figli in Norvegia. Furono anni molto difficili per la scrittrice. Impegnata con i bambini (doveva badare anche a quelli avuti dal marito, che non aveva divorziato, in un matrimonio precedente) e la grande casa, riusciva a stento a trovare un momento per sé da dedicare alla sua ione. Le difficoltà erano accentuate dai deficit psichici della seconda figlia, gli stessi che affliggevano anche uno dei figli di Svarstad. Continuò a scrivere di notte, quando tutti erano a letto. L’unione non fu felice. Sigrid se ne andò di casa, incinta del terzo figlio. Trovò rifugio in un paesino, Lillehammer, della Norvegia dell’est. Lo scoppio della Prima Guerra Mondiale sconvolse la vita di tutti, compresa la sua. Ebbe una profonda crisi religiosa che la portò a convertirsi dal protestantesimo al cattolicesimo. Questa decisione fu considerata un vero e proprio scandalo (al tempo non c’era praticamente nessun cattolico in Norvegia). Scalpore fece anche la sua decisione di chiedere l’annullamento del suo matrimonio. Pochi avevano compreso che Sigrid era uno spirito libero, incapace di incatenarsi a degli schemi predefiniti. Introversa, timida, ma con occhi capaci di penetrare l’animo delle persone che incontrava, in questi anni maturò profondamente. Tra il 1920 e il 1922 vennero pubblicati due cicli di romanzi ambientati nella Scandinavia medievale del XII secolo, Kristin Lavransdatter e Olav Audunssøn, rispettivamente di 1.400 e 1.200 pagine. Per la loro stesura studiò testi medievali, investigò su chiese e monasteri, per essere il più credibile possibile nella descrizione della vita di quell’epoca storica. Era una persona totalmente diversa rispetto a quella che a 22 anni aveva scritto la sua prima novella ambientata nel Medioevo. Le sue fatiche le valsero il Nobel per la Letteratura nel 1928, secondo la motivazione dell’Accademia “per le dirompenti descrizioni della vita medievale norvegese”. Il ricavato del premio (compresa la medaglia, che vendette) lo devolse in beneficenza a un’associazione che si occupava di bambini ritardati. Kristin Lavransdatter fu tradotto praticamente in tutte le lingue del mondo e ancora oggi riscuote, anche tra i giovani, un notevole successo. La Undset non guardava solo al ato. Era anche un’acuta osservatrice dei suoi contemporanei. Negli anni che precedettero la guerra lanciò l’allarme sui gravi
pericoli insiti nell’ideologia nazista. Allo scoppio del conflitto perse la madre, una figlia disabile e il figlio maggiore, ucciso durante un combattimento. Si schierò pubblicamente contro il Führer e la sua folle ideologia. Naturalmente scattò subito la ritorsione. Le sue opere furono censurate in Germania, gettate al rogo come migliaia di altre. Quando i tedeschi invasero la Norvegia nel 1940, fuggì dalla sua terra e, dopo aver attraversato la Russia, il Pacifico e il continente Nord Americano, si rifugiò a New York. Negli States, dove visse in un piccolo appartamento a Brooklyn, si dedicò alla scrittura e a tour di conferenze per il Paese. Non dimenticò mai le sue origini. Da oltre Atlantico non fece mancare il suo sostegno morale ed economico alla Resistenza norvegese. Terminato il conflitto, tornò in patria dove ricevette la Gran Croce di San Olav per i suoi sforzi patriottici. Durante l’ultimo periodo della sua vita lavorò principalmente alla stesura della biografia di Caterina da Siena, pubblicata postuma nel 1951, e a una sua autobiografia. Morì a Lillehammer nel 1949. Si spense così un’autrice dalla fantastica capacità narrativa, in grado di comprendere i meccanismi della mente umana e della sua natura. I suoi libri sono fonte emozionale e intellettuale da cui attingere. In molti c’è traccia della crisi spirituale che la portò al ritorno al cristianesimo, del suo evidente scetticismo agnostico, della sua inquietudine dolorosa davanti al degrado morale del mondo. La produzione dell’autrice norvegese è ricca e variegata, con più di 36 pubblicazioni tuttora consultate e apprezzate. La sua caratteristica più evidente è forse un’arte del racconto inconsueta e seducente. I temi prediletti restano quelli del rapporto tra uomo e natura, l’esplorazione dei meccanismi che reggono la mente umana, la società contemporanea e naturalmente la storia. I romanzi del periodo 1907-1918 narrano vicende di persone che lavorano, di destini familiari banali, del rapporto tra genitori e figli. Le protagoniste sono le donne, “l’immorale genere” come lei stessa ironicamente le aveva definite, e i loro sentimenti. Eviscera, senza mai cadere nel sentimentalismo, il loro bisogno di calore e di amore e il loro rifiuto di lasciarsi andare. Quelli della maturità hanno certamente un respiro più ampio, ma non perdono mai la precisa definizione psicologica e morale dei loro protagonisti. Kristin
Lavransdatter è, naturalmente, un romanzo storico, ma è certamente qualcosa di più. Vive anche di umane emozioni di felicità e di dolore, amore e disperazione, pur collocate in un’epoca tremenda sotto il profilo sociale e per gli eventi che l’hanno caratterizzata. Quasi una premonizione di ciò che sarebbe accaduto qualche anno dopo con l’avvento del nazismo. Sigrid Undset nacque lo stesso anno di James Joyce e Virginia Woolf, autori profondamente diversi da lei ma con i quali ha in comune la capacità di farsi testimone, attraverso le opere, di un’Europa sofferente e in grave crisi. L’artista è colui che conosce profondamente il presente. In questo senso può essere un profeta, perché comprende l’essenza contemporanea e traccia le linee della generazione futura, pur raccontando storie che si collocano in un terribile ato.
Jane Addams (Usa)
Nobel per la Pace 1931
L'instancabile attivista Prima americana a essersi aggiudicata il premio Nobel per la Pace. Anche grazie al suo attivismo si sono fatti i primi i per cambiare la condizione d’inferiorità della donna all’interno della società USA Tenacia, convinzione nei propri ideali, tanta buona volontà e abnegazione sono le caratteristiche più evidenti di questa leader, che tanto ha segnato la sociologia del secolo scorso. Jane Addams nacque il 6 settembre del 1860 a Chicago, Stati Uniti, in una famiglia numerosa ma benestante. Il padre, John Huey Addams, era proprietario di imprese agricole di grandi dimensioni, falegnamerie, mulini e allevamenti. Soprattutto era un politico di spicco, fondatore del Partito Repubblicano, senatore dell’Illinois, intimo amico di Abraham Lincoln (con cui intrattenne una fitta corrispondenza) e presidente della National Bank of Freeport. L’infanzia di Jane fu segnata da una serie di drammi. Il primo, la perdita della madre, Sara Addams, che morì di parto quando lei aveva solo 2 anni. Tre suoi fratelli, poi, morirono in tenera età, un quarto non superò i 16 anni. A 4 anni fu colpita dalla tubercolosi spinale che le causò una malformazione della colonna vertebrale e una specie di zoppia. Quell’evento la turbò a tal punto che spesso evitava di accompagnare il padre in pubblico per non causargli imbarazzo. John Huey Addams si risposò quando il futuro premio Nobel aveva 8 anni. La giovane Jane sognava di fare qualcosa di utile per il mondo. La lettura dei libri di Dickens l’aveva convinta a diventare un medico. In questo modo pensava di poter vivere e lavorare tra i poveri. Quel sogno rimase tale. Alla morte del marito, a causa di una banale appendicite, la matrigna Anna Haldeman Addams, si trasferì a Philadelphia con i figli. Voleva che i tre giovani potessero realizzare le loro aspirazioni. Il fratello Harry si iscrisse alla facoltà di medicina dell’Università della Pennsylvania, mentre Jane e Alice frequentarono il loro primo anno di scuola al Women Medical College di Philadelphia.
Jane, afflitta da problemi di salute, subì un’operazione alla colonna vertebrale e, colpita da un grave esaurimento nervoso, dovette rinunciare. La famiglia, forse per consolarla, la incoraggiò a fare un tour in Europa (molto frequente all’epoca negli ambienti benestanti) di un paio di anni. Jane era anche una lettrice vorace. Proprio le sue letture l’aiutarono a intraprendere la strada che l’avrebbe portata alla gloria del Nobel. Molto legata alla figura paterna, ne aveva ereditati il filantropismo, la tolleranza e una concezione etica del lavoro. Il desiderio più grande di Jane era avere un’istruzione di livello più alto. Quel viaggio poteva essere l’occasione per una crescita personale cui sentiva di non poter rinunciare. Durante il soggiorno a Roma, la visita delle catacombe in cui uomini e donne di tutti i ceti, senza alcuna distinzione, si riunivano per pregare il loro Dio la convinse che non era necessario diventare medico per aiutare i più poveri. Tolstoj e Mazzini la ispirarono a nuovi concetti di democrazia aperta al sociale. Dal tour europeo la sua storia prese quindi la giusta direzione. Casualmente, mentre era in Inghilterra visitò un centro sociale nei quartieri poveri di Londra. Rimase affascinata dai meccanismi che lo regolavano. Era frequentato da medici che trattavano gli ammalati con assoluta umanità e cortesia, come se appartenessero a classi sociali più abbienti. Tornata in patria si convinse che questa era la sua strada e insieme all’amica Ellen Starr (cui si unirono presto altre intellettuali dell’alta borghesia americana tra cui Helen Culver, Louise DeKoven Bowen, Mary Rozet Smith, Mary Wilmarth e altre) fondò nel 1889 il Social Settlement Hull House a Chicago, un luogo di accoglienza per persone disagiate. Qui sperimentò per la prima volta la pratica della democrazia e della cittadinanza interculturale e interclassista. Voleva offrire la possibilità di inserimento a una popolazione “intrappolata in condizioni di estrema povertà e tagliata fuori dalla cultura”. Secondo la Addams era necessaria la partecipazione di tutti per la costruzione di una società libera e civile che non fosse espressione solo di un’élite. Nel giro di pochi anni il Centro, sorto nel cuore di un quartiere mix di vari gruppi etnici europei che erano emigrati a Chicago intorno all’inizio del ventesimo secolo, divenne un punto di riferimento per la città, offrendo
assistenza sanitaria, legale, aiuto alle mamme e ai bambini più poveri. All’apice della sua attività, Hull House era in grado di ospitare ogni settimana circa duemila persone. La struttura comprendeva una scuola serale per adulti, una scuola materna, classi per bambini più grandi, una cucina pubblica, una galleria d’arte, un caffè, una palestra, un club per ragazze, un bagno e una scuola di musica. La struttura si sviluppò sino a comprendere tredici insediamenti, un parco giochi e un campo estivo, il Bowen Country Club. Successivamente vennero attivati anche servizi culturali, corsi di lingua per immigrati, musica, arte e teatro. Una delle tante iniziative era il Labor Museum, ossia un museo dell’artigianato internazionale organizzato da immigrati che mostravano gli strumenti del loro lavoro insegnando anche ad adoperarli. “Sfruttare le potenzialità di ciascuno”. Questa era per Jane la base per sconfiggere il degrado e la violenza delle zone malfamate della città. Tutti dovevano partecipare attivamente e concretamente per sviluppare una comunità forte e unita. Le sue teorie fecero prima il giro degli States, poi quelle del mondo. La sua Fondazione cominciò a diventare meta di veri e propri percorsi di formazione per chi credeva negli stessi principi. La sociologa incontrò tra gli altri William Lyon Mackenzie King, allora studente appena laureato ad Harvard, che più tardi divenne primo ministro del Canada. Nel 1912 appoggiò la campagna presidenziale di Theodore Roosevelt. Fu una scelta quasi obbligata. Stando infatti a contatto con le realtà e le problematiche dei ceti meno abbienti, Jane Addams si era resa conto della necessità di fare qualcosa non solo in materia di assistenza e carità, ma anche a livello di leggi. Tutti i suoi sforzi si concentrarono quindi in questo senso. Da allora lavorò assiduamente con i suoi referenti politici per ottenere norme di protezione contro lo sfruttamento degli immigrati, per la sicurezza sul lavoro, per limitare le ore di impiego settimanali delle donne e per rendere il diritto allo studio obbligatorio e accessibile a tutti i bambini. L’impegno su queste istanze sociali fondamentali non poteva che portare la Addams a lottare anche per la concessione del diritto al voto alle donne. Fu eletta vice-presidente dell’Associazione americana delle donne per il voto.
Col soprannome di “la santa d’America” divenne una delle donne più famose del Paese (la sua figura era talmente carismatica e spirituale che a Hull House venivano celebrati battesimi e funerali). Naturalmente non tutto filò liscio. Per le sue scelte pubbliche fu molto criticata e osteggiata dai club conservatori, gli stessi di cui aveva fatto parte suo padre. Molti, che in un primo momento l’avevano appoggiata, le ridussero o tagliarono i finanziamenti. Fu anche accusata, nonostante lei rifiutasse qualsiasi etichetta, di essere una comunista e un’anarchica. Pochi le perdonavano la sua relazione con Mary Rozet Smith, sua stretta collaboratrice a Hull House. Per recuperare fondi cominciò quindi a scrivere articoli e a girare gli Stati Uniti tenendo conferenze in college e università. Le fu anche offerto un ruolo accademico, che lei rifiutò per conservare la propria autonomia. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale divenne una pacifista intransigente, prima nel movimento dei social workers poi in quello femminista. Accettò l’incarico di primo presidente del Women’s Peace Party (Lega Internazionale delle donne per la Pace e la Libertà) e partecipò alla conferenza di pace dell’Aia del 1914. Gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati da molti viaggi, scambi culturali e dalla scrittura. Il suo primo libro, pubblicato nel 1910, fu un vero e proprio successo letterario. Si iintitola Twenty years at Hull House (Venti anni a Hull House). Raccontando della sua associazione benefica, delineò non solo i tratti della sua straordinaria esistenza, ma anche quelli della società di quegli anni. A questo ne seguirono molti altri, tra cui due autobiografie, in cui i suoi ideali venivano narrati attraverso storie vere accadute alla Hull House. Fece amicizia con i primi membri della Scuola di Chicago di Sociologia e la sua influenza, attraverso il suo lavoro in sociologia applicata, influenzò pensieri e scelte di quel gruppo di studiosi. Nel 1917, si oppose con tutte le sue forze all’entrata in guerra degli Stati Uniti. Questa scelta le attirò feroci critiche. Già il suo discorso sul pacifismo del 1915 al Carnegie Hall aveva ricevuto commenti negativi dal New York Times, che l’aveva bollata come antipatriottica. La nuova battaglia le alienò le simpatie della middle class americana.
Riprese allora i suoi viaggi, fissando incontri con diplomatici e leader civici di ogni razza e tendenza politica, ribadendo a tutti le sue convinzioni sulla necessità di preservare la pace. Anche Gandhi apprezzò molto il lavoro della Addams per il raggiungimento della pace attraverso pratiche non violente. Quando, nel 1931, le fu conferito il premio Nobel per la Pace, donò il denaro ricevuto alle donne della Lega Internazionale per la Pace e la Libertà perché ancora molti dei suoi obiettivi dovevano essere raggiunti. Jane Addams, caparbia e profondamente umana, combatté tutta la vita in prima linea per un mondo più giusto ed eguale. Al suo funerale arrivarono in migliaia, da tutte gli stati del Paese. Segno, questo, che fu una guida fondamentale per l’evoluzione dell’intera comunità, non solo americana. “Per pace non s’intende semplicemente assenza di guerra, ma il dispiegamento di tutta una serie di processi costruttivi e vitali che si rivolgono alla realizzazione di uno sviluppo comune. La pace non è semplicemente qualcosa su cui tenere congressi e su cui discutere come se fosse un dogma astratto. Essa assomiglia piuttosto a una marea portatrice di sentimenti morali che sta emergendo sempre di più e che piano piano inghiottirà tutta la superbia della conquista e renderà la guerra impossibile”. Siamo ancora lontani da questo sogno, ma questo sogno esiste anche grazie a Jane Addams.
Irène Joliot-Curie (Francia)
Nobel per la Chimica 1935
I geni non mentono Donna talentuosa e altruista, ha ereditato dalla madre la ione per la scienza, in particolare per la Chimica. Le sue scoperte sono tutt’oggi pilastri fondamentali nella conoscenza della radioattività L’intelligenza si trasmette di madre in figlio o sono l’ambiente e gli stimoli esterni a determinare la nascita di una mente brillante? Nel caso di Irène JoliotCurie e dei suoi discendenti, le due ipotesi sembrano essere entrambe valide. La madre, Marie Curie, vinse per ben due volte il Nobel (Fisica e Chimica) e la fece crescere rendendola partecipe attiva del suo lavoro e delle sue scoperte (basti vedere l’invenzione delle celebri “ Petit Curie”, auto attrezzate con apparecchiature a raggi X, durante la Grande Guerra). Ebbe due figli, divenuti anche loro scienziati, Hélène Langevin-Joliot, fisico nucleare, e Pierre Joliot, biochimico. Irène nacque il 12 settembre 1897 a Parigi. La sua formazione fu privilegiata, rispetto a molte donne sue contemporanee. Studiò infatti privatamente alla scuola istituita da alcuni professori della Sorbona per i loro figli e, successivamente, sotto l’egida materna, Fisica all’università della capitale se. Questo percorso fu merito dei suoi genitori che, dopo un anno di istruzione tradizionale, iniziata quando aveva 10 anni, compresero immediatamente il suo talento e decisero che aveva bisogno di un ambiente più stimolante dove coltivarlo. Per questo motivo, la madre Marie chiamò a raccolta i migliori studiosi si, tra cui il fisico Paul Langevin, con i quali fondò “La Cooperativa”. Tutti i soci si impegnarono a educare i bambini di ognuno nelle reciproche scienze. Le lezioni si tenevano a casa di ogni singolo docente. La didattica adottata da “La Cooperativa” era varia e comprendeva non solo i principi della scienza, ma anche aspetti culturali molto ampi, comprese le lingue come il cinese, l’arte e la scultura. Naturalmente grande attenzione era posta nell’espressione di sé e nel gioco. Si educavano dei futuri scienziati, ma anche e soprattutto dei bambini.
Irène non sprecò l’occasione perché aveva nei geni la stoffa della grande ricercatrice. La qualità della donna era indiscutibile. Dopo un periodo trascorso al Collège Sévigné nel centro di Parigi, si iscrisse alla Sorbona. La Prima Guerra Mondiale la costrinse a interrompere gli studi, che riprese subito dopo la fine del conflitto. Nel 1925 conseguì il dottorato, con una tesi incentrata sulle radiazioni del polonio, e poi entrò all’Istituto del Radium con l’incarico di “preparatrice”. Insegnava cioè le tecniche di laboratorio necessarie per la ricerca radiochimica. Qui ebbe l’occasione di conoscere e frequentare un giovane ricercatore, suo allievo, Frédéric Joliot. I due, spinti dalle stesse ioni e aspirazioni, s’innamorarono e si sposarono scegliendo il doppio cognome. Una decisione che rifletteva il loro modo di pensare la vita di coppia: condividevano le stesse idee politiche (di sinistra), l’entusiasmo per lo sport e per la musica. E, naturalmente, una forte fascinazione e curiosità per la scienza, in particolare per la Fisica. Sempre durante la Prima Guerra Mondiale, insieme alla madre, Irène prestò servizio negli ospedali da campo, soccorrendo i feriti e utilizzando le prime tecnologie di lastre a raggi X. Tornata a Parigi cominciò a lavorare come ricercatrice con il marito. Le loro fatiche li portarono a essenziali scoperte sull’azione dei neutroni, sugli elementi pesanti e sulla fissione dell’uranio. Partendo dagli studi di Marie e Pierre Curie, che avevano isolato alcuni elementi radioattivi naturali (radio e polonio), effettuarono la trasmutazione di alcuni materiali (boro, alluminio e magnesio) in isotopi radioattivi sintetici. Bombardando, cioè, elementi non radioattivi con particelle, notarono che emettevano positroni e continuavano a emetterli secondo le leggi del decadimento radioattivo. Avevano scoperto la radioattività artificiale. Per questo furono, nel 1935, insigniti entrambi del Nobel per la Chimica. In seguito, grazie anche alle ricerche inaugurate dal gruppo di Fermi a Roma, si dedicarono allo studio sui prodotti generati dal bombardamento dell’uranio (fenomeno della fissione dell’atomo sull’uranio) con neutroni, ma si rifiutarono di pubblicare i risultati delle ricerche, perché consci della loro importanza nella costruzione della bomba atomica.
Il loro impegno scientifico andava di pari o con quello sociale e politico. La Curie era consapevole dei danni che la crescita dei movimenti fascisti e nazionalisti avrebbe provocato alla vecchia Europa. Nel 1934 aderì al Partito Socialista e nel ’36 al Comité de Vigilance des Intellectuels Antifascistes. Inoltre, sostenne attivamente i repubblicani nella guerra civile spagnola. Poco prima che scoppiasse la Seconda Guerra Mondiale contrasse la tubercolosi che la costrinse a trascorrere lunghi periodi di convalescenza in Svizzera. La tormentava l’idea di lasciare marito e figli nella Francia occupata e per questo motivo affrontò pericolosi viaggi di ritorno a Parigi. Sopportò anche brevi periodi di detenzione da parte delle truppe tedesche che controllavano il confine con la Confederazione elvetica. Infine, nel 1944, quando la permanenza dei suoi familiari nella capitale se era diventata troppo pericolosa, portò con sé anche i suoi figli. Al termine del conflitto, Irène si dedicò soprattutto all’insegnamento (ottenne la cattedra di Fisica Nucleare alla Sorbona, che tenne fino alla morte) e fu molto attiva nel movimento pacifista e femminista. Era profondamente convinta che la donna dovesse avere gli stessi diritti degli uomini e lottò con ione per raggiungere quest’obiettivo. Fu membro della Commissione nazionale dell’unione delle donne si e del Consiglio mondiale per la Pace. Il marito non fu da meno. Durante l’occupazione tedesca a Parigi fu presidente del fronte nazionale, il movimento di resistenza parigino sorto tra i circoli universitari ( World Federation of Scientific Workers). Entrambi non avevano paura di manifestare pubblicamente le loro idee. Per questo motivo furono discriminati in diverse occasioni. Sempre insieme contribuirono alla fondazione del nuovo Centro di ricerca nucleare se a Orsay, nel sud della capitale, dotato di un sincro-ciclotrone di 160 MeV, la cui costruzione proseguì, dopo la morte di lei, sotto la guida del marito Joliot. Irène ottenne tantissimi riconoscimenti. Oltre al Nobel, fu decorata col grado di ufficiale della Legion d’Onore se, collaborò con innumerevoli istituzioni prestigiose divenendo, tra l’altro, sottosegretario di stato alla ricerca scientifica del Gabinetto Léon Blum (Presidente del Consiglio del Fronte popolare nel 1936). Ma una vita a contatto con elementi radioattivi non giovò alla sua salute. In particolare, un incidente avvenuto in laboratorio accelerò il manifestarsi della malattia. Un giorno del 1946, nel suo studio, una capsula sigillata di polonio le
esplose di fronte sottoponendola all’esposizione diretta di radioattività incandescente. Morì nel 1956, come la madre, a causa della leucemia. Il marito le sopravvisse due anni e morì di una malattia al fegato, forse dovuta anch’essa alle radiazioni. A suggello della loro vita esemplare e straordinaria ebbero entrambi funerali di Stato. L’originale scoperta della Curie spianò la strada allo sviluppo della sintesi di radioisotopi, che avranno successivamente un’importanza strategica in diversi ambiti, compreso quello medico. Dalla madre non ereditò solamente il talento scientifico, ma anche una concezione alta della scienza. Una visione legalitaria della società, in cui ogni membro, benestante, povero, uomo o donna che fosse, avesse gli stessi diritti e doveri. Auspicava che tutti si impegnassero al massimo per far progredire in civiltà e benessere l’intera comunità. Credeva in valori forti di serietà, altruismo e dedizione al proprio lavoro. Sir James Chadwick (premio Nobel per la Fisica nel 1935) scrisse a proposito della figura di Irène Joliot-Curie: “ Sapeva quel che diceva e lo faceva apertamente, a volte con franchezza disarmante; ma le sue annotazioni erano dettate da un così profondo amore per la verità e la scienza e da una così totale sincerità d’animo, che non si poteva che avere di lei un enorme rispetto. In tutto il suo lavoro, che fosse in laboratorio, nelle conferenze o in commissione, esigeva da se stessa il massimo, portando a termine i suoi obiettivi con assoluta serietà”.
Pearl S. Buck (Usa)
Nobel per la Letteratura 1938
Tra Est e Ovest Grande e complessa personalità artistica del ’900, fu la prima donna americana a vincere il premio Nobel per la Letteratura. La sua vita, errante e mai monotona, è l’esempio di come possano convivere due etnie e culture profondamente diverse, quella del mondo orientale e quella occidentale Pearl Sydenstricker Buck (il suo nome cinese era Sai Zhenzhu) nacque il 26 giugno del 1892 a Hillsboro, in Virginia occidentale. I suoi genitori, Caroline Stulting e Absalom Sydenstricker, missionari presbiteriani, si trasferirono in Cina subito dopo la sua nascita. Lei aveva appena tre mesi. Crebbe in un ambiente culturale variegato, educata dalla madre e da un maestro cinese, Mr. Kung. Ciò la rese perfettamente bilingue e aperta a stimoli molto differenti tra loro. Trascorse la sua giovinezza a Ching Kiang sul fiume Yangtze. Nel 1900, durante una delle molteplici sollevazioni popolari, fu costretta a trasferirsi, insieme alla madre, a Shanghai, dove visse per svariati mesi l’angoscia di non avere alcuna notizia sulla sorte del padre. Successivamente, Pearl emigrò in Inghilterra, poi in Virginia per terminare i suoi studi. Aveva già deciso di rimanere negli States, quando arrivò la notizia della grave malattia che aveva colpito la madre. Tornò quindi immediatamente in Cina, dove conobbe l’esperto di economia agraria John Lossing Buck, che sposò di lì a breve. La coppia si stabilì a Suzhou, una piccola città sul fiume Huai, nella provincia rurale di Anhwei Pearl. Qui il futuro premio Nobel si dedicò soprattutto all’insegnamento della letteratura all’Università di Nanchino. Il matrimonio fu coronato, nel 1920, dall’arrivo di una figlia. La felicità per quella nascita fu offuscata dalla scoperta che la bambina era affetta da una rarissima malattia, la sindrome fenilchetonurica, che riguarda l’alterazione del cromosoma 12. Aveva rash cutanei, nausea, vomito, eczematosi. Non solo. A livello di sistema nervoso, la malattia si manifestava con tremori, ipertono muscolare e iperreflessia tendinea. A lungo termine avrebbe sviluppato un
progressivo ritardo mentale. La Buck continuò il suo lavoro senza far mai mancare alla figlia tutta l’assistenza di cui aveva bisogno. In quel periodo, la Cina era scossa da una serie di turbolenze politiche che spesso sfociavano in tragedia. Nel marzo del 1927, durante la rivolta di Nanchino ci fu lo scontro fra i seguaci di Chiang Kai-shek, leader delle truppe nazionaliste, e le forze comuniste in cui cominciava a delinearsi la figura di Mao Tse-tung. Anche in quel caso scattò la “caccia” agli occidentali, molti dei quali furono assassinati. Invece di fuggire finché ne aveva il tempo, il padre, in ossequio alla sua funzione di missionario, decise di rimanere assieme a tutti i suoi parenti a Nanchino. Quando la battaglia scoppiò strada per strada, fu solo grazie a una famiglia cinese molto povera che si salvarono. I Buck furono nascosti in una capanna, mentre i rivoltosi saccheggiavano la loro casa. Dopo aver trascorso alcuni giorni in clandestinità e, soprattutto, nel terrore di essere assassinati, furono salvati dalle cannoniere americane arrivate per soccorrere i loro connazionali. La prima tappa di quello che fu considerato il loro esilio fu Shanghai, la seconda, il Giappone, dove rimasero per una decina di mesi. Più tardi, nonostante le condizioni continuassero a essere pericolosamente instabili, tornarono a Nanchino. Nel 1934, tutti lasciarono la Cina. Per sempre. Negli anni ’20, Pearl S. Buck cominciò a scrivere racconti e saggi che pubblicò su riviste, come T he Chinese Recorder, Asia e The Atlantic Monthy. Il suo primo romanzo East Wind (Vento dell’est) non riscosse grandi consensi, il secondo The Good Earth (La buona terra) fu sorprendentemente il libro più venduto del 1931 e 1932: le valse il Pulitzer, la laurea honoris causa dell’Università di Yale e la medaglia di riconoscimento dell’ American Academy of Arts and Letters. A riprova del grande successo, fu addirittura adattato cinematograficamente dalla MGM. Come quasi tutti gli scritti della Buck, il testo è ambientato in Cina. È la saga che abbraccia la storia di quattro generazioni di una famiglia di contadini poverissimi a inizio ’900. Con forte pietas e ampie descrizioni epiche e potenti, la Buck ripercorre la vicenda dalla loro ascesa economica e sociale fino alla decadenza. “ Quando si comincia a vendere la terra è la fine di una famiglia. Dalla terra siamo venuti e
alla terra dobbiamo tornare”. Così Wang Lung, protagonista maschile, ammonisce tra le lacrime i due figli maggiori. Giunto alla fine dei suoi giorni, capisce che il loro scopo è vendere le terre che ha faticosamente messo insieme e difeso durante tutta la sua esistenza per costituire la fortuna della famiglia. La Buck, con lessico scarno e una scrittura asciutta, si sofferma nel descrivere con spirito di solidarietà la difficile condizione delle donne in Cina, le loro fatiche e sofferenze in una società che nega loro ogni diritto. Un esempio che evidenzia a pieno il loro estremo disagio è che ogni neonato, se femmina, viene chiamato semplicemente “la schiava”, non gli spetta nemmeno un nome. Nonostante i prestigiosi riconoscimenti, il 1935 rappresentò un anno difficile sotto il profilo personale. La Buck divorziò dal marito. Ma il tempo delle pene non durò a lungo. Nel 1936 pubblicò L’esilio, ambientato ancora una volta in Cina. Racconta la vita della madre che, sempre al seguito del marito missionario, vive vicende incredibili. Il testo è scritto in una forma originalissima che sta fra il romanzo e l’autobiografia. È un libro che “per il commosso ardore che lo anima” alcuni ritengono sia la sua opera migliore. Nel 1938 ricevette il premio Nobel per la Letteratura, con questa motivazione: “Concedendo il premio di quest’anno a Pearl Buck per le opere notevoli che ha lasciato lungo il suo cammino che conduce verso la simpatia umana nei riguardi di popoli separati da noi da frontiere lontane, e per lo studio di ideali umani ai quali ella ha prestato la sua arte di descrivere così perfetta e viva, l’Accademia Svedese è cosciente di agire in armonia e d’accordo con i propositi che si era prefisso Alfred Nobel”. Nel discorso di ringraziamento, la scrittrice affermò l’importanza del testo a dispetto della mano da cui nasce, sottolineando una visione della letteratura a servizio della storia e della verità: “Un buon romanziere dovrebbe essere innanzitutto tse ran, ovvero naturale e non ostentato, tanto flessibile e variabile da essere sempre disponibile a ogni tipo di materiale che scorra attraverso le sue pagine […] In Cina il romanzo è più importante del romanziere”. Intanto si era sposata con il suo editore, Robert Walsh, che divenne il suo pigmalione. Nel New Jersey comprò una vecchia casa di campagna, Green Hills Farm e adottò sei bambini (ne aveva avuti due dal primo marito). Green Hills Farm oggi è un museo e un centro culturale aperto al pubblico. Pearl sperò che: “appartenesse a tutti quelli che avevano voglia di andarci e servisse come
veicolo di nuovi pensieri, sogni e modi di vita”. Fu sempre attenta e partecipe alle problematiche della società in cui viveva. Nel 1949 fondò la Welcome House (Casa d’accoglienza), la prima agenzia d’adozione internazionale. Il suo scopo era di cercare di eliminare le ingiustizie inflitte ai bambini che, a causa del luogo di nascita, non avevano accesso a un’educazione, a cibo sufficiente e a una casa, diritti che invece dovrebbero appartenere a tutti. Nel corso degli anni l’Associazione ha dato un tetto a migliaia di cinesi, sud e nord coreani, mediorientali. Non contenta, vent’anni più tardi aprì la Pearl Buck Foundation per sostenere tutti coloro che erano non adottabili per legge. La Fondazione, che voleva contrastare la povertà e la discriminazione dei bimbi asiatici, aprì filiali in Sud Corea, Thailandia, Filippine e Vietnam. Non solo. Buck sfidò l’opinione pubblica americana su temi come il razzismo, la discriminazione sessuale e la condizione delle migliaia di bambini nati da donne asiatiche e soldati americani di base in Estremo oriente. Fu un’autrice prolifica. I suoi scritti spaziano dai romanzi, ai racconti, ai saggi. Molti, ancora oggi, sono apprezzati “per le ricche descrizioni, l’ambientazione epica della vita contadina in Cina e perché sono capolavori biografici”. Le sue opere sono state tradotte in più di 30 lingue. Nonostante ciò, in alcuni Paesi è una scrittrice ancora sottovalutata. La maggior parte dei suoi romanzi sono fuori catalogo e il suo libro più famoso, La buona terra, spesso è uno dei pochissimi ancora reperibili. Oltre che alla fiction, la Buck si dedicò alla letteratura per ragazzi, alle traduzioni dal cinese e ad articoli per quotidiani e riviste. Notevole fu inoltre il suo impegno a favore dei diritti civili delle donne, in particolare asiatiche. Si adoperò per far conoscere attraverso i suoi scritti, la condizione femminile, attivandosi in prima persona perché tale situazione migliorasse. Morì nel 1973 per un cancro ai polmoni e con un rimpianto. Durante la Rivoluzione Culturale, era stata tacciata di essere una “ imperialista americana”. L’accusa non fu mai ritirata. La decisione della moglie di Mao Tse-tung e di alcuni alti funzionari del Partito Comunista cinese le impedì di tornare a visitare la Cina durante la storica visita di Richard Nixon nel 1972. Il suo ricordo è ancora vivo tra gli americani che nel 1983 le hanno dedicato un
francobollo e nel 1999 l’hanno designata come donna del mese nel “Progetto di Storia nazionale delle donne”. Oggi Green Hills Farm è annoverata tra gli edifici storici della città e ogni anno ospita 15.000 visitatori.
Gabriela Mistral (Cile)
Nobel per la Letteratura 1945
La poetessa latino-americana È il 1946. L’Europa è appena uscita dalla Seconda Guerra Mondiale, quando Gabriela Mistral riceve il Nobel per la Letteratura. Prima donna sudamericana a essere insignita del premio, è la voce più alta della poesia latino-americana del Novecento Lucila de María del Perpetuo Socorro Godoy Alcayaga nacque il 7 aprile 1889 a Vicuña, nel nord del Cile. Trascorse l’infanzia in un villaggio andino, Montegrande. Gabriela Mistral è lo pseudonimo che la scrittrice scelse in onore di due poeti che ammirava particolarmente, Frédéric Mistral e Gabriele D’Annunzio. La sua vita, come quella di molte altre donne sudamericane, fu segnata da tragedie che ne scandirono l’evolversi. Nonostante tutto, o forse per questo, il suo profilo era quello di una donna tenace, diventata adulta molto presto. Appena adolescente fu capace di mantenersi e mantenere la madre, Petronila Alcayaga, una sarta, verso la quale nutriva un affetto di una intensità incredibile. Il padre, Juan Gerónimo Godoy Villanueva, insegnante, abbandonò la famiglia quando l’autrice aveva solo 3 anni. A 9 Gabriela cominciò a frequentare la scuola, dove scoprì il suo amore per l’arte dello scrivere e della poesia. Iniziò fin da subito a comporre i suoi primi testi. Continuò poi la sua formazione scolastica a casa, grazie all’aiuto della sorella, Emelina Molina, un’insegnante che incuriosita dal suo talento la spronò a continuare a studiare e a trovare un’occupazione proprio all’interno della scuola. Già a 14 anni Gabriela divenne aiuto-insegnante in un istituto di Compañía Baja, vicino a La Serena. A 15 pubblicò i primi poemi: Ensoñaciones, Carta Íntima e Junto al Mar, su El Coquimbo de La Serena, un giornale locale, usando vari pseudonimi. Le due attività le permisero di diventare economicamente indipendente e aiutare finanziariamente la madre.
Ogni suo successo fu però pagato duramente. Innanzitutto, la sua formazione. Per comprendere meglio basterebbe immaginare il clima in cui viveva il Cile nei primi decenni del XX secolo. L’accesso a buone scuole era difficile, soprattutto per i giovani meno abbienti. Nonostante tutto, Gabriela nel 1907, con l’aiuto della sorella, avrebbe potuto frequentare la Scuola Normale. Invece la sua domanda fu respinta, senza spiegazioni. Solo qualche anno più tardi scoprì il motivo. La bocciatura era stata pretesa dal cappellano dell’Istituto, padre Ignacio Munizaga, che aveva letto su alcuni giornali locali i suoi articoli a favore dell’accesso alle scuole per tutte le classi sociali. Ancora giovanissima, una seconda tragedia si abbatté sulla sua esistenza. Conobbe e s’innamorò di Romeo Ureta, un dipendente delle ferrovie. Il loro era un amore ionale, intenso, vero. I due innamorati avevano deciso di sposarsi. Tutto pareva procedere per il meglio, quando all’improvviso scoppiò il dramma. Quando i preparativi delle nozze erano quasi ultimati, Romeo Ureta si suicidò lasciando Gabriela sola e disperata. Fu un dolore enorme per la poetessa, che non si fidanzò né sposò mai più. Quel dramma influenzò molto la poetica della Mistral di qui a venire, acuendo la sua già profonda sensibilità. Il dolore e la morte divennero temi forti, di una consistenza superiore a quella di qualsiasi altro autore latino-americano. Come l’amicizia verso uomini o donne, espressa in modo talmente apionato nei suoi scritti da diventare, a volte, motivo d’imbarazzo. In questo periodo cominciò a collaborare con varie riviste cilene e nel 1914 le fu attribuito il Premio nazionale letterario per giovani poeti, il primo riconoscimento di una lunghissima serie. Lo ottenne con la raccolta Los Sonetos de la Muerte (I sonetti della morte), firmata con lo pseudonimo Gabriela Mistral e dedicata alla tragica esperienza con Romeo. Il successo, sempre contrastato, arrivò anche come insegnante. Nel 1918 Pedro Aguirre Cerda, ministro della Pubblica Istruzione e futuro Presidente del Cile, la nominò dirigente del liceo di Punta Arenas. Insegnò anche a Temuco e poi a Santiago, dove vinse la battaglia contro Josefina Dey del Castillo, candidata dal Partito Radicale nella corsa a direttore del Liceo di Santiago, la scuola femminile più prestigiosa del Cile.
Le polemiche che seguirono alla sua nomina a quell’incarico la convinsero ad accettare un invito a lavorare in Messico. L’offerta le fu avanzata dal ministro dell’Educazione, che la volle come volano di un piano di riforma scolastica che aveva l’obiettivo di far decollare l’istruzione di quel Paese. Nel 1922 venne pubblicata la raccolta di poesie Desolaciòn (Desolazione), considerata l’apice della sua poetica. L’anno dopo vide la luce Lecturas para Mujeres (Letture per signore). In queste opere sono racchiusi tutti i temi più cari all’autrice. Sono poesie tristi, pregne di dolore, di dramma e di ione, sentimenti evocati con una straordinaria potenza di immagini. Ma ci sono anche l’amore, il sogno e la tenerezza, rivolta soprattutto verso i bambini. Desolaciòn la proiettò sul palcoscenico internazionale. Ma mentre sul piano professionale arrivava il successo, su quello personale calavano invece delle ombre. La Mistral soffrì molto della sua condizione di sterilità. Tutto il suo grande amore materno lo riversò sugli altri bambini, attraverso l’insegnamento. Divenne anche la voce emblematica dei problemi e della bellezza della sua terra. Altro tema cardine dei suoi scritti, infatti, è la natura, in questo caso i paesaggi della Patagonia, desolati e aridi, che rispecchiano l’interiorità della poetessa. Tornata in Cile, le fu conferito il titolo accademico di Professore di lingua spagnola presso l’Università del Cile. Successivamente, col crescere della sua statura internazionale, fece un giro di conferenze negli Stati Uniti e in Europa. Tra il 1925 e il 1934 visse in Francia e in Italia. Gabriela amò moltissimo l’Italia, tanto che espresse il desiderio di morire nella Penisola. In quegli anni collaborò con la commissione culturale della Lega delle Nazioni. Tenne lezioni, tra le altre, alla Columbia University e all’Università di Portorico. Durante la sua permanenza nel Vecchio Continente scrisse tantissimi articoli per quotidiani e riviste. Divenne console cileno, svolgendo questo ruolo in diverse città del mondo, tra cui Madrid, Napoli, Lisbona, Petrópolis e Los Angeles. A Buenos Aires venne pubblicata un’altra sua importante opera, Tala, ricca di descrizioni sugli usi e costumi del Sudamerica e dell’Europa mediterranea. Temi ricorrenti di quest’opera sono l’amore, la morte, la maternità, la bellezza della natura, in particolare del Paese natio, e un ardente desiderio di giustizia. I
ricavi delle vendite furono devoluti ai bimbi resi orfani dalla guerra civile spagnola. Nell’agosto del 1943 Juan Miguel, l’amato nipote di soli 17 anni che aveva cresciuto come e meglio di un figlio, si suicidò. Quella ulteriore tragedia la gettò in uno stato di profonda prostrazione dalla quale uscì scrivendo. La morte del giovane diventò il filo conduttore del suo ultimo libro, Lagar, pubblicato postumo nel 1954. Poema de Chile, un volume di poesie editato da Doris Dana, sua amica intima, fu stampato nel 1967. Il poema è il racconto del ritorno nella sua terra d’origine, in compagnia di un ragazzo indio del deserto di Atacama e di un cervo delle Ande. Quando, nel 1945, le fu conferito il Nobel per la Letteratura, la motivazione dell’Accademia diceva: “ …a questa poetessa cilena, che si avvicina nel nostro ricordo a un’italiana altrettanto inizialmente sconosciuta, Grazia Deledda. Le unisce l’oscuro lavoro in condizioni disagiate, le difficoltà rovesciate dalla loro tenacia creativa e dal loro calore umano. E quello sguardo puntato sui piccoli, sui miseri, sulle esistenze che proliferano nell’ombra magica di province in cui si svolge la drammatica lotta tra fede e superstizione, preistoria e modernità”. Una curiosa coincidenza. La Mistral fu insegnante di un altro premio Nobel per la Letteratura (nel 1971) di lingua spagnola, Pablo Neruda che, incontrato quando lui aveva 16 anni, spronò, mediante l’insegnamento, allo studio e all’amore per i classici. Ormai gravemente malata di leucemia, la Mistral fu impossibilitata a viaggiare. Morì a New York nel 1957. In Cile venne indetto un giorno di lutto nazionale. In migliaia si recarono al suo funerale per renderle omaggio. Gabriela è la voce per antonomasia del fiorire della poesia femminile latinoamericana dei primi del Novecento. Una lirica, la sua, intima, raffinata e sentitamente pessimista. Come è comune nella storia delle grandi donne che hanno vinto il Nobel, anche lei si prodigò molto a livello sociale per combattere la disuguaglianza e la povertà che affliggevano la sua terra. Ebbe un ruolo fondamentale nei progetti di riforma del sistema educativo messicano e cileno e si adoperò per tutta la vita a favore delle fasce di popolazione più deboli. Considerava i bambini il “ primo germe dell’umanità futura”, la “pagina bianca
su cui abbiamo l’immensa responsabilità di incidere valori duraturi”. Sulla sua tomba volle queste parole: “ Come l’anima sta al corpo, così l’artista è per il suo popolo”.
Emily Greene Balch (Usa)
Nobel per la Pace 1946
Contro tutte le guerre Grande comunicatrice, ha saputo trasmettere agli altri la ione per la verità e la giustizia. Ha scritto: “Abbiamo una lunga strada da percorrere. Quindi affrettiamoci lungo la via della tenerezza umana e della generosità. A tentoni, possiamo trovare, nel buio, gli uni degli altri le mani” Emily Greene Balch nacque l’8 gennaio 1867 in Jamaica Plain, Boston, da una famiglia di origine austro-ungarica. Figlia di un avvocato di successo, studiò con profitto Sociologia ed Economia in scuole e college privati sia negli States (Harvard, Chicago) sia in Europa (Parigi e Berlino). Primogenita di sei fratelli, aveva un forte senso della morale e dell’etica instillato in lei dai suoi genitori. La sua era una famiglia benestante. Oltre all’attività legale, il padre era segretario di Charles Sumner, senatore degli Stati Uniti. Come molte ragazze sue coetanee e appartenenti alla stessa classe sociale, frequentò scuole private sino alla laurea al Bryn Mawr College nel 1889. L’anno successivo scrisse un saggio di sociologia che le fruttò una borsa di studio in Economia a Parigi. Nella capitale se fu allieva di Émile Levasseur sotto la cui guida redasse Pubblica Assistenza dei poveri in Francia, pubblicato nel 1893. Completò la sua formazione ad Harvard, all’Università di Chicago e a quella di Berlino. Nel 1896 diventò docente del Wellesley College, nel Massachusetts, facendosi subito apprezzare da allievi e colleghi. I primi non solo rimasero impressionati dalla chiarezza del suo pensiero, ma furono entusiasti della sua attenzione verso il sociale. Emily mostrava profonda comione per i diseredati e si impegnava affinché si trovassero soluzioni per alleviare le loro sofferenze. Insisteva poi con i ragazzi perché formulassero giudizi indipendenti su qualsiasi argomento si dibattesse. In quegli anni fece parte di due commissioni comunali che si occupavano di bambini e di pianificazione urbana, e di due statali, una per l’istruzione
industriale, l’altra per il monitoraggio dell’immigrazione. Come se non bastasse, si dedicò con ione al movimento per il diritto al voto delle donne, alla lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile e alle battaglie per migliorare i salari delle classi meno abbienti. Combatté anche sul fronte dell’integrazione razziale. Una sua ricerca, I nostri concittadini slavi, sulle principali concentrazioni di slavi in America e sulle aree in Austria e Ungheria da cui erano emigrati, permise una migliore conoscenza di quel fenomeno. Nel 1899 partecipò alla sua prima Conferenza di pace tenuta all’Aia, bissata nel 1907 quando sull’Europa c’erano i sentori della Prima Guerra Mondiale. Nel 1913 ottenne la cattedra di Sociologia ed Economia all’interno dello stesso Wellesley College. Quacchera (il Quaccherismo è una corrente religiosa del protestantesimo inglese che predica la semplicità della vita evangelica, non riconosce sacramenti né riti e si dichiara contro ogni forma di violenza), fu sempre un’insegnante strepitosa. Era famosa per il suo senso dello humor e per la sua onestà intellettuale. Oltre che un’economista e una sociologa stimata, fu anche e soprattutto una pacifista molto impegnata. Ciò che le premeva maggiormente era arrivare vicino a quell’ideale di società in cui tutti, comprese le donne, gli immigrati e i poveri, hanno un ruolo decisivo e partecipativo alla vita pubblica. Per tutta la vita lottò per un mondo senza guerre, sempre spinta da quel fuoco interiore che, come lei stessa lo definì, non era altro che “the dynamic force of active love” (la forza dinamica dell’amore partecipativo). Benché fosse stata sempre impegnata su quel fronte, allo scoppio del conflitto del 1914 divenne una ancor più convinta sostenitrice della pace. Da allora fu un susseguirsi di impegni e partecipazioni a importanti progetti. Fondò innanzitutto la Commissione Internazionale per la Pace Permanente, poi denominata Lega internazionale delle Donne per la Pace e la Libertà (WILPF). Organizzò una serie di eventi, collaborando anche con Jane Addams (premio Nobel nel 1931) e Alice Hamilton, super esperta di problemi legati al lavoro. Si attivò, infine, per evitare che gli Stati Uniti entrassero nel conflitto mondiale. Nel periodo tra le due guerre si adoperò all’interno di organizzazioni internazionali e commissioni di vario genere per il disarmo, la lotta alle droghe e
la partecipazione degli States alla Lega. Credeva fermamente nella pratica dell’internazionalismo come arma vincente per il raggiungimento della pace. Come la sua ispiratrice, Jane Addams, era convinta che solo la partecipazione attiva di tutti i membri della società potesse realmente cambiare le cose. Non basta fare discorsi teorici, bisogna coniugare l’aspetto socio-economico con il fattore umano e politico. Nel suo anno sabbatico si occupò inoltre di lavoro minorile e del fenomeno dell’immigrazione. Impegno documentato nel libro Our Slavic Fellow Citizen (I nostri concittadini slavi). Dopo aver richiesto un altro anno sabbatico per lavorare nelle organizzazioni, compresa la Fellowship of Reconciliation (associazione non violenta d’ispirazione ecumenica nata nel 1914), fece domanda al Wellesley College per un altro periodo al di fuori dall’insegnamento. Le fu però negato e di fatto venne licenziata. Dopo venti anni trascorsi nella scuola, la Balch cambiò lavoro. Per sostentarsi decise di collaborare, per circa un anno, con la rivista Nation. Subito dopo divenne segretario del Women's International League for Peace and Freedom. Nel 1926, Emily sbarcò ad Haiti e scrisse una relazione sulle condizioni precarie in cui vivevano i locali e sui difficili rapporti con le truppe americane che avevano occupato l’isola. Secondo molti osservatori politici, quel documento convinse il Presidente Herbert Hoover a ritirare i marines. Negli anni pre e post Seconda Guerra Mondiale aiutò le vittime del nazismo chiedendo al governo USA provvedimenti che favorissero la loro immigrazione negli Stati Uniti. Offrì anche il suo sostegno agli americani di origine giapponese imprigionati nei campi di detenzione dopo l’attacco a Pearl Harbor. Il suo sguardo era sempre rivolto a chi più aveva bisogno. Nel 1946, all’età di 79 anni, ricevette il Nobel per la Pace. Fino ad allora solo tre donne l’avevano ottenuto. I proventi del riconoscimento li destinò al Women's International League for Peace and Freedom che rischiava di sparire a causa delle difficoltà nel trovare finanziamenti. Dopo il Nobel continuò, nonostante i problemi di salute, a difendere la causa a cui aveva dedicato la sua intera vita. Proseguì quindi la sua collaborazione in qualità di membro onorario con l’Associazione. Uno dei suoi ultimi progetti fu
quello di organizzare una cerimonia in occasione del centesimo anniversario della nascita di Jane Addams. Morì nel 1961 all’età di 94 anni. Emily Greene Balch era una donna vivace, piena di voglia di vivere e di condividere insieme agli altri. Lo testimoniano i suoi numerosi interessi, tra cui la poesia e la pittura. Costruì rapporti, con amici e parenti, di particolare profondità e umanità. La sua era una vita estremamente ricca e variegata. Molto indipendente, non si sposò mai. All’orrore del nazismo rispose assumendo una posizione inaspettata, ma dettata dalla sua coscienza. Disse, infatti, che questo male inenarrabile doveva essere arrestato assolutamente, anche mediante la guerra. “Non sono totalmente pacifista”, dichiarò. Nonostante questa sua presa di posizione diede pieno appoggio agli obiettori di coscienza e continuò a impegnarsi nella Fellowship of Reconciliation. Il suo idealismo, insomma, aveva una dimensione pratica. La storia della Balch riporta a domande che sono ancora aperte ed estremamente attuali: è davvero possibile un mondo senza guerra? Il conflitto può a volte essere un mezzo necessario per ripristinare la pace?
Gerty Cori (Usa)
Nobel per la Medicina 1947
Le scoperte della biochimica Nonostante le discriminazioni nel lavoro (perché donna ed ebrea) portò sempre avanti la sua ione per la scienza e la medicina, ottenendo riconoscimenti in tutto il mondo. È stata la prima biochimica americana a essere insignita del premio Nobel per la Medicina Gerty Theresa Radniz nacque il 15 agosto 1896 in una famiglia ebrea di Praga (all’epoca territorio austro-ungarico, ora Repubblica Ceca). Suo padre era un chimico. La madre, amica dello scrittore Franz Kafka, fu una donna di sofisticata cultura. Gerty venne educata dapprima in casa, poi frequentò un liceo femminile. Il suo entusiasmo per la scienza la spinse fin da giovanissima a desiderare di diventare medico. Suo zio, un pediatra affermato, la incoraggiò e la spinse a seguire questa sua ione. Gerty, nonostante fossero anni in cui le donne erano emarginate ed escluse da molte opportunità, superò l’esame d’ammissione alla facoltà di Medicina dell’Università Tedesca di Praga. Si laureò con brillanti risultati ottenendo, nel 1926, anche un Dottorato di ricerca. Al campus incontrò Carl Cori, anche lui scienziato. Era il nipote di Ferdinand Lippich, professore di Fisica Teorica a Praga, diventato per qualche tempo direttore della Stazione di biologia marina di Trieste. Gerty s’innamorò subito della sua voglia di vivere e del suo senso dell’umorismo. Si sposarono e si trasferirono a Vienna, dove il futuro premio Nobel lavorò in un’ospedale pediatrico (il Carolin Children Hospital), avviando, contemporaneamente, ricerche sul metabolismo umano e sulla regolazione delle temperature dopo il trattamento della tiroide. Il rapporto con il marito non fu solo sentimentale. Ben presto si trasformò in un inscindibile binomio professionale. Conducevano le ricerche insieme, insieme trascorrevano ore e ore all’interno dei laboratori che li ospitavano, insieme firmavano le conclusioni dei loro studi. Il primo in assoluto fu sull’immunologia del siero umano.
Negli anni successivi alla Prima Guerra Mondiale, l’Europa attraversò un periodo di crisi. Cominciava a diffondersi l’antisemitismo. Odio, sospetto e diritti negati erano all’ordine del giorno. Era difficile addirittura sopravvivere, procurarsi i mezzi primari di sostentamento, come l’acqua e il cibo. Proprio a causa della malnutrizione, la Cori iniziò a mostrare i primi sintomi di xeroftalmia (una malattia provocata dalla mancanza di vitamina A che causa la perdita di lacrimazione nell’occhio). Alla sofferenza psichica dovuta al clima di terrore, si aggiungeva quella fisica. Nel 1922, il marito accettò la carica di biochimico all’Università di Buffalo, New York. Nonostante gli Stati Uniti rappresentassero la “terra promessa”, avevano verso le donne immigrate che cercavano un’occupazione atteggiamenti di ostracismo incredibili, ancora più odiosi di quelli riservati alle native. Gerty dovette combattere a lungo prima di trovare un impiego adeguato alla sua formazione. Carl partì da solo. Quando la situazione in Austria divenne del tutto insostenibile, Gerty decise di lasciare l’Europa e si trasferì nelle Americhe. Ottenne un incarico come ricercatrice medica, con Carl, all’Istituto di Stato per lo studio delle malattie maligne, oggi chiamato Roswell Park Cancer Institute. Tutto risolto? Neanche per sogno. Nel Nuovo Continente la coppia dovette lottare contro i pregiudizi e il perbenismo imperanti. Nonostante fossero continuamente scoraggiati a lavorare insieme (le persone sposate occupate nella stessa struttura erano malviste), Carl e Gerty ripresero subito le loro abitudini viennesi e continuarono nelle loro ricerche, concentrandosi sul processo di metabolizzazione dei carboidrati. Si dedicarono allo studio dell’assorbimento degli zuccheri nel corpo degli animali e sugli effetti di insulina e adrenalina sui glucidici, sugli enzimi e sull’attività della fosforilasi e dei polisaccaridi. I risultati, e i metodi che li avevano determinati, si trasformarono prima in appunti e, successivamente, in articoli che pubblicarono su riviste scientifiche. Erano in laboratorio dalla mattina alla sera. Consumavano lì i loro pranzi e le loro cene. Quando erano stanchi, dormivano nel piccolo ufficio adiacente. Le ore di ricerca erano scandite dalle decine di sigarette che fumavano una dopo l’altra. Il loro interesse era focalizzato in
particolare sul modo in cui il glucosio è metabolizzato dal corpo umano e come gli ormoni regolino questo processo. Su tale argomento solo Gerty scrisse ben 11 articoli. Nel 1929 esposero una teoria, tuttora conosciuta col nome di “Ciclo di Cori”, per cui quasi vent’anni dopo, nel 1947, vinsero il Nobel per la Medicina. Il Ciclo di Cori descriveva per la prima volta come il corpo usi le reazioni chimiche per rompere nei tessuti muscolari i carboidrati, come per esempio il glicogeno (un derivato del glucosio) in acido lattico. Nel 1941, dopo avere pubblicato uno studio sul metabolismo dei carboidrati, i due lasciarono il Roswell per St. Louis, nel Missouri. Anche in questa occasione, il mondo accademico statunitense non smentì la sua fama maschilista. A Carl continuavano ad arrivare richieste di collaborazione da diverse università, Gerty veniva quasi ignorata. Un esempio? In breve tempo Carl divenne membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze, della American Chemical Society e della American Philosophical Society. Gerty Cori ottenne più o meno gli stessi riconoscimenti, ma solo molto tempo dopo. Eppure lavoravano insieme e i risultati di quel lavoro erano riconducibili a entrambi. Nonostante quindi il suo curriculum fosse eccellente, nel 1941 riuscì ad aggiudicarsi solamente un posto come ricercatrice con uno stipendio inferiore di ben dieci volte rispetto a quello del marito. Nel 1943 divenne professore associato di ricerca in Biologia, Chimica e Farmacologia e solo qualche mese prima del conferimento del Nobel le affidarono la posizione di professore ordinario. Carl e Gerty collaborarono con l’Università di Washington, scoprendo un composto intermediario nel processo di rottura del glicogeno, il glucosio 1fosfato (conosciuto anche col nome di Cori Ester), mostrando come questo fosse il primo aggio della conversione del glicogeno in glucosio. Questi sorprendenti risultati rappresentarono un grande o in avanti in medicina e contribuirono fortemente alla comprensione e alla realizzazione di cure per i malati di diabete e altre malattie metaboliche. Poco prima che le fosse assegnato il prestigioso riconoscimento dall’Accademia svedese, Gerty scoprì purtroppo di essere affetta da mielosclerosi, una grave malattia che colpisce il midollo spinale.
Nonostante fosse sofferente, continuò senza sosta il suo lavoro. Fu insignita della Medaglia Garvan (1948), del premio St. Louis (1948), dello Sugar Research Prize (1950), del premio Borden (1951) e del titolo di Dottore honoris causa delle lauree scientifiche dell’Università di Boston (1948), Smith College (1949), Yale (1951), Columbia (1954) e Rochester (1955). Il Presidente Harry Truman la nominò membro del consiglio di amministrazione della National Science Foundation. Si arrese solo qualche anno più tardi, nel 1957, quando morì. La tenacia, l’impegno costante e l’entusiasmo di questa grande donna sono tutt’oggi fonte d’ispirazione per la medicina moderna. Oltre al Nobel, tanti sono stati i riconoscimenti che nel corso degli anni le sono stati attribuiti, l’ultimo nel 2008, quando il servizio postale americano le ha dedicato un francobollo speciale ed è stato dato il suo nome a un cratere della Luna. Inoltre è tra le poche persone a comparire (insieme al marito) sulla prestigiosa Walk of Fame di St. Louis.
Maria Göppert-Mayer (Germania)
Nobel per la Fisica 1963
Il mistero dei numeri magici Ecco un’altra donna che, nonostante il suo immenso talento e le sue conclamate capacità, ha dovuto lottare duramente per riuscire a ottenere un impiego nel suo campo di studio, la Fisica. Per anni, infatti, ha insegnato gratuitamente all’università, prima di guadagnarsi il titolo di professore È stata la seconda donna nella storia a essere insignita del Nobel per la Fisica, dopo Marie Curie. Scienziata apprezzata in tutto il mondo, formulò teorie innovative sulla struttura dell’atomo. Maria Göppert nacque a Katowice, in Slesia (all’epoca impero tedesco, oggi parte della Polonia) il 28 giugno 1906. Il suo destino non poteva che essere quello della scienza e dell’insegnamento, poiché discendeva da sette generazioni di professori universitari. E accadde proprio così, nonostante fosse davvero difficile per una donna a inizio ’900 entrare in un mondo prettamente maschile come quello accademico. Le sue carte vincenti furono il talento, la caparbietà e ottimi insegnanti. Il padre, Friedrich, che esercitava la professione di pediatra, quando lei era ancora piccola si trasferì a Göttingen. Maria crebbe in un ambiente molto stimolante dal punto di vista intellettuale, frequentato da personaggi del calibro di Enrico Fermi, Werner Heisenberg, Paul Dirac e Wolfgang Pauli. In città non c’erano molti istituti che preparavano le ragazze all’esame per entrare all’università e quei pochi avevano cessato l’attività. La crisi economica che affliggeva la Germania, infatti, non aiutava a coltivare speranze per un futuro migliore. Fabbriche e negozi chiudevano. Era l’epoca del famoso Papiermark, quando il collegamento tra il marco e l’oro fu abbandonato. Tra il 1922 e 1923 ci fu un periodo di iperinflazione causato dalla decisione della stessa Germania di pagare i debiti di guerra stampando banconote. Anche la scuola che l’avrebbe dovuta preparare chiuse i battenti a causa di problemi finanziari. Per fortuna, nell’ambiente e tra i docenti scattò un moto di solidarietà, grazie al quale gli insegnanti continuarono a formare privatamente alcune giovani dal grande talento scientifico, istruendole e dando loro consigli
utili. Così Maria riuscì a entrare nell’ateneo di Hannover nel 1924. Successivamente tornò nella sua città dove, all’inizio, scelse di studiare matematica. In quel periodo ebbe l’onore e la fortuna di entrare in contatto con le menti più brillanti del secolo, tra cui David Hilbert e Richard Courant, che erano già amici della famiglia Göppert. Presto, tuttavia, Maria si rese conto di essere maggiormente attratta da un’altra materia, la Fisica. Che in quest’ambito fosse un genio lo si comprese subito. Nel 1931, elaborò la teoria di un possibile assorbimento di due fotoni da parte degli atomi (il TPA è l’assorbimento simultaneo di due fotoni di frequenze uguali o diverse per eccitare una molecola dallo stato fondamentale allo stato elettronico. La differenza di energia tra gli strati coinvolti, inferiore e superiore, della molecola è uguale alla somma delle energie dei due fotoni). La sua intuizione fu confermata sperimentalmente solo nel 1960, più di trent’anni dopo, quando fu costruito il laser. Per onorare il suo contributo fondamentale a questo settore, l’unità per i due fotoni sezione trasversale di assorbimento fu denominata unità di Göppert-Mayer. Nel 1939 completò il dottorato di ricerca con la futura premio Nobel Max Born (fisico e matematico tedesco, formulò l’interpretazione della densità di probabilità per 2 nell’Equazione di Schrödinger della meccanica quantistica). All’esame erano presenti anche altri due premi Nobel, James Franck (fisico tedesco il cui nome è legato alle ricerche sulla conduzione elettrica dei gas e sulla struttura dell’atomo) e Adolf Windaus (chimico tedesco che fece importanti scoperte sull’istamina, la determinazione dell’acido colico e la natura degli steroli). Quando si dice la fortuna di avere dei buoni maestri. Il periodo successivo alla morte del padre mise a dura prova le finanze della sua famiglia, ma le permise di trovare l’amore. I soldi, infatti, cominciavano a non bastare più. La madre, per procurarsi il denaro sufficiente a sopravvivere, affittò alcune camere della loro casa a studenti universitari stranieri. È così che Maria conobbe quello che sarebbe diventato suo marito, Joseph Edward Mayer, assistente di Franck. Una volta sposati i due si trasferirono a Baltimora, all’Università John Hopkins. In America, anche lei come Gerty Cori, dovette subire le conseguenze del sessismo USA e di alcune norme in vigore nel
suo nuovo Paese. Lavorò quindi gratuitamente in qualità di “volontario associato” a causa delle leggi americane contro il nepotismo, che prevedevano che un solo membro della famiglia potesse esercitare nella stessa facoltà. Oltretutto erano gli anni della Grande depressione e si tendeva a favorire, quando ce n’era occasione, i docenti maschi, che così potevano mantenere la propria famiglia. Maria non si perse d’animo. Accettò ugualmente quelle condizioni per il gusto dello studio e della scoperta. Naturalmente sfruttò ogni opportunità che il sistema le offriva. Trovò un posto di insegnante al Sarah Lawrence College e uno di ricercatore alla Columbia University. Trascorse anche qualche tempo al Los Alamos Laboratory. Ogni estate tornava a Göttingen per confrontare le sue ricerche con il suo vecchio insegnante Born, che essendo ebreo, fu costretto, con l’ascesa di Hitler, a lasciare la Germania ed emigrare negli States. Il caso volle che trovasse lavoro proprio nella stessa università con cui collaborava Maria. Alla Hopkins, infatti, le avevano assegnato un piccolo laboratorio. Lì, pian piano, si specializzò nella branca della Fisica sperimentale e della Chimica. Scrisse vari articoli scientifici con Karl Herzfeld (fisico austro-americano) e suo marito. Nel 1946 i due coniugi si trasferirono a Chicago. Qui, per la prima volta, fu trattata non come la moglie di un docente, ma come una scienziata apprezzata per le sue doti. Divenne professore del Dipartimento di Fisica e dell’Istituto per gli Studi Nucleari. Fu inoltre assunta dal Laboratorio Nazionale Argonne (uno dei più grandi e antichi laboratori nazionali di ricerca degli Stati Uniti) in veste di ricercatrice. Un grande o in avanti. Furono anni di studio intenso, grandi soddisfazioni e proficue collaborazioni con Edward Teller ed Enrico Fermi, che spesso la illuminarono aiutandola a risolvere oscuri quesiti scientifici. Nel 1940 pubblicò, insieme al marito, un testo oggi ritenuto ancora fondamentale e che all’epoca venne soprannominato comunemente “ Mayer and Mayer”. Era il Statistical Mechanics, un trattato sulla meccanica statistica. Nel 1948 la scienziata cominciò a lavorare sui numeri magici (nella Fisica nucleare questa espressione si riferisce al numero di nucleoni e alla sequenza in cui sono sistemati all’interno del nucleo atomico), arrivando a formulare delle teorie innovative.
Il fatto che queste fossero in linea con le scoperte di altri tre scienziati, Haxe, Jensen e Suess che non aveva mai incontrato, le dimostrò che le sue ipotesi erano corrette. Con Jensen decise di scrivere un libro sull’argomento, Elementary Theory of Nuclear Shell Structure. La teoria del cosiddetto modello a guscio del nucleo atomico (ipotizzò per il nucleo una struttura a guscio, un modello analogo a quello degli elettroni attorno al nucleo) le valse nel 1963 il Nobel per la Fisica. Commentando la sua vittoria disse che vincere era stato meno eccitante (nemmeno la metà) di quanto lo era stato invece fare il lavoro in sé. Così spiegò la sua scoperta: “Pensate a una stanza piena di ballerini. Supponiamo che si muovano per la stanza in cerchio, ogni cerchio è racchiuso all’interno di un altro. Poi immaginate che in ogni circolo si possano inserire altri ballerini: una coppia va in senso antiorario e un’altra in senso orario. Tutti i ballerini piroettano in tondo come trottole e fanno il giro della stanza, ma solo alcuni di quelli che vanno in senso antiorario ruotano davvero in senso antiorario, mentre gli altri, anche se girano in un senso, in realtà stanno girando nel senso opposto. Tutti fanno qualche piroetta in senso orario e qualcuno in senso antiorario”. Durante gli anni ’40 e i primi Anni ’50, Göppert-Mayer elaborò equazioni in opacità ottica, sui coefficenti di attenuazione o assorbimento di massa, che sono state poi utilizzate nella progettazione della prima bomba all’idrogeno. Nel 1960, insieme al marito, accettò un impiego all’Università di San Diego, California, dove incoraggiò con entusiasmo le giovani ricercatrici a intraprendere la carriera scientifica. Purtroppo, appena arrivata fu colpita da un ictus. Nonostante la sua salute ne fosse stata irrimediabilmente danneggiata, continuò a insegnare e fare ricerca. Morì nel 1972 per le conseguenze di un attacco di cuore. Oltre al marito lasciò anche due figli, Marianne e Peter. A suo nome la American Physical Society istituì un premio, esistente ancora oggi, destinato a giovani scienziate nell’ambito della Fisica. Identica iniziativa fu adottata anche dall’Università di Chicago e da quella di San Diego che annualmente, da allora, ospitano un convegno che riunisce ricercatrici di ogni nazione e colore. Un ulteriore riconoscimento alla sua grandezza fu la titolazione del cratere Göppert-Mayer su Venere.
Dorothy Crowfoot (UK)
Nobel per la Chimica 1964
La chimica dei cristalli Ha donato al mondo le sue scoperte, cambiato il concetto di scienza, in particolare quello della Biologia moderna. Donna poliedrica e determinata, ha lasciato un segno indelebile nei cuori di tutti coloro che l’hanno conosciuta. Nutriva una vera e propria fede nella funzione sociale della scienza Dorothy Mary Crowfoot Hodgkin è uno di quei rari casi in cui la curiosità, l’ingegno, l’altruismo e una grande voglia di vivere si uniscono contribuendo a determinare un’esistenza a dir poco straordinaria. Nacque a Il Cairo il 12 maggio 1910, primogenita di quattro sorelle, da genitori britannici. Suo padre, John Winter Crowfoot, lavorava per il servizio educativo egiziano ed era una vera autorità in materia di archeologia. La madre, Grace Hood, seguiva da vicino e con competenza il lavoro del marito ed era inoltre specializzata in botanica (a tempo perso disegnava la flora tipica mediorientale). Presto la famiglia si trasferì in Sudan. Qui Dorothy e sua sorella parteciparono attivamente al lavoro dei genitori, in particolare agli scavi di una chiesa bizantina a Jerash, disegnando le tessere dei mosaici che ne ricoprivano i preziosi pavimenti. Fin da giovanissima, aveva solo 10 anni, coltivò la sua ione per i minerali, le pietre e il voler “vedere” dentro le cose. Interesse forse acuito anche dalla lettura del testo regalatole dalla madre, Concerning the Nature of Things (Sulla natura delle cose) di Sir William Henry Bragg, che conteneva brillanti disquisizioni di come gli scienziati, attraverso i raggi X, potessero penetrare fino al cuore della materia. Nei momenti liberi era solita trascorrere le giornate raccogliendo sassi e ciottoli nel fiume che scorreva vicino al giardino della casa a Khartum. Portava sempre con sé un kit per analizzare i minerali trovati. Questa sua ione fu incoraggiata da un amico di famiglia che la iniziò allo studio della chimica e con cui esaminò l’ilmenite (un minerale di ferro e titanio). La sua educazione avvenne in Inghilterra, a Geldeston in Norfolk. Anche lei dovette lottare per farsi strada. A scuola, fu una delle poche alunne ammesse al
corso di chimica dei maschi, chiuso sino a quel momento a qualsiasi presenza femminile. Frequentò poi il Somerville College a Oxford. Il primo anno studiò in contemporanea chimica con il professor Brewer (che la fece partecipare a una ricerca sugli alogenuri di tallio) e archeologia (grazie all’amore trasmessole dal padre per questa scienza), analizzando le tessere di vetro di Jerash. Studiò anche a Cambridge sotto la guida di John Desmond Bernal, che ebbe grande influenza su tutta la sua vita e che la iniziò ai segreti della cristallografia a raggi X facendola lavorare con lui ai primi tentativi di codificare la tecnica di analisi della pepsina. Fu una vera rivelazione. Dorothy ebbe la conferma che quello, da lì in poi, sarebbe stato il suo mondo. S’iscrisse quindi a un corso in cristallografia generale (che combina la fisica, la matematica e la chimica), specializzandosi poi in cristallografia ai raggi X (l’immagine, prodotta dalla diffrazione dei raggi X attraverso lo spazio del reticolo atomico in un cristallo, viene registrata e poi analizzata per identificare la natura del reticolo. Questo metodo permette di determinare il materiale e la struttura molecolare di qualsiasi sostanza ed è oggi diventato uno strumento ampiamente utilizzato per stabilire la struttura del DNA). I due anni trascorsi a Cambridge le permisero di farsi nuovi amici e diversificare i suoi interessi scientifici. Riuscì a sostenere le spese necessarie alla sua formazione grazie a una zia, Dorothy Hodd, che le pagò l’intero ciclo di tasse, e a una borsa di studio che le permise di tornare al Somerville College. Qui trascorse gran parte della sua vita a insegnare chimica nell’università per le donne e a lavorare come ricercatrice nel Centro di Mineralogia e Cristallografia. Grazie ai finanziamenti delle Fondazioni Rockefeller e Nuffield continuò la sua ricerca sulla struttura atomica di sali e composti organici. Perfezionò sempre più la tecnica fino a poterla applicare allo studio di molecole più complesse per arrivare a conoscere e capire l’attività a livello molecolare delle proteine. Uno dei primi interessanti risultati fu di determinare la struttura della vitamina B12. Ebbe l’aiuto di un mezzo all’epoca ancora poco utilizzato, il nascente personal computer (fu la prima scienziata a fare analisi basandosi sui calcoli tridimensionali per definire la struttura molecolare). Tra le molecole prese sotto esame (oltre 100) c’erano anche la vitamina D e l’insulina che fotografò, ottenendo dei risultati fondamentali per la biologia moderna.
In quanto donna, però, i risultati del suo lavoro non venivano giudicati obiettivamente tanto che la scienziata non era granché considerata nei suoi interventi ai convegni. Tra il 1942 e il 1949 riuscì tuttavia dove molti suoi colleghi maschi avevano fallito: determinò la struttura del primo antibiotico conosciuto, la penicillina, aprendo nuovi orizzonti sulla sua formulazione. Ciò che segnò un punto di svolta fu l’approccio alla questione. Mentre tutti utilizzavano quello chimico, lei scelse quello fisico. I dati ricavati le permisero di sintetizzare altri antibiotici per la cura delle malattie infettive. Erano gli anni della Seconda Guerra Mondiale e queste informazioni erano molto utili per assistere i feriti. All’inizio il gruppo di sperimentazione era composto da un paio di studenti. Poi divenne sempre più numeroso, con ricercatori che venivano da tutte le parti del mondo. Il laboratorio era stato allestito in un angolo dell’ Oxford University Museum of Natural History (meglio conosciuto per i suoi scheletri di dinosauri e collezioni minerali). La Crowfoot creò un clima entusiasmante dove ognuno, anche se solo un laureando, poteva dire la propria ed essere ascoltato (una curiosità: tra i suoi studenti va annoverata l’ex premier Margaret Thatcher che, divenuta Primo ministro del Regno Unito, nel 1980, installò un ritratto della scienziata a Downing Street). L’elenco delle biomolecole delle quali Dorothy determinò la struttura è lungo. Tra di esse figurano il colesterolo (1937), la penicillina (1945), la vitamina B12 (1954), l’insulina (uno dei suoi progetti più straordinari per la complessità della molecola, iniziato nel 1934 e concluso nel 1969), la lattoglobulina, la ferritina e il virus del mosaico del tabacco. Per le sue scoperte venne insignita nel 1964 del Nobel per la Chimica. Nel corso della sua vita ricevette molti altri riconoscimenti. Venne fatta membro della Royal Society in Inghilterra e nel 1965 fu nominata membro dell’ Order of Merit, onorificienza tra le più alte in Gran Bretagna, fino ad allora ricevuta solo da un’altra donna, Florence Nightingale (fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna). Dopo il premio Nobel, Dorothy continuò a lavorare nella ricerca, finché un’artrite reumatoide pose fine alla sua carriera scientifica. Nonostante la sua ione per la biologia, la ricercatrice aveva mille altri interessi. Era la paladina di molte cause umanitarie. In particolare si occupò della salvaguardia e del
benessere di quelle persone che vivevano in paesi all’epoca ostili (anni ’60 e ’70) agli Stati Uniti e al Regno Unito, come Cina, Unione Sovietica e Vietnam del Nord. Dal 1976 al 1988 fu membro del movimento Pugwash, associazione internazionale formata da un gruppo di scienziati che si poneva contro la guerra e che promuoveva il disarmo e il superamento delle barriere causate dalla guerra fredda. Ispirazione di tale movimento, tutt’oggi attivo e vitale, era il manifesto del ’55 di Albert Einstein e Bertrand Russel, che evidenziava come la guerra, in presenza di armi nucleari, è catastroficamente pericolosa e deve essere per questo rifiutata dall’umanità. Anche Dorothy Crowfoot sosteneva l’eliminazione delle armi e il tentativo di instaurare una pace duratura. Fece inoltre parte dell’Accademia delle Scienze dell’Urss, affiliazione che le procurò l’interdizione all’ingresso negli States per un certo tempo. Gli americani l’accusavano di essere comunista. Lei non faceva nulla per smentirli. Sin da giovanissima aveva subito il fascino del suo mentore, il professor John Desmond Bernal, che ne influenzò la vita scientifica, politica e sentimentale. Bernal era uno scienziato che godeva di grande reputazione nel mondo scientifico. Come molti suoi colleghi era membro del Partito Comunista e tale rimase sino all’invasione dell’Ungheria. Fu uno choc per tutti. Anche per allieva e maestro che, nel frattempo, erano diventati amanti. Dorothy non era, però, succube del suo maestro. Mostrava sempre un atteggiamento pacato, gentile e modesto, ma nascondeva una determinazione di ferro. Lottava per raggiungere i suoi scopi e riusciva a superare gli ostacoli che incontrava lungo il suo cammino. Degli esempi sono la ricerca di fondi che finanziassero il suo lavoro e il non aver mai rinnegato la sua conoscenza di Bernal e di molti scienziati che vedevano nel comunismo una soluzione ai mali della società occidentale. Durante la sua esistenza, tormentata da un’artrosi deformante che la costrinse a lunghi periodi su una sedia a rotelle, ebbe anche il tempo di sposarsi con Thomas Hodgkin e avere tre figli: Luke, Elizabeth e Toby. Tutti ereditarono dalla madre la ione per lo studio e la ricerca: uno divenne matematico, uno botanico, l’altra una storica.
Suo marito era figlio di un profondo conoscitore del mondo africano e arabo e medico specializzato in malattie tropicali. Thomas era docente a Oxford, autore di numerosi libri africanisti fondamentali e, anche lui come Bernal, membro del Partito Comunista. Il matrimonio rafforzò ulteriormente quel vincolo che da sempre la legava al continente africano. Un sentimento di vicinanza che provò fino alla fine, quando morì nel 1994. Per tutta la sua vita fu sorretta da una vera e propria fede nella funzione sociale della scienza. Seguendo questa ispirazione si dedicò con ione alla causa degli scienziati nei paesi in via di sviluppo, specialmente Cina e India. Fu anche una convinta pacifista e si schierò al fianco di coloro che lottavano per il miglioramento delle relazioni Est-Ovest e per il disarmo. Per questa attività fu eletta presidente della Conferenza Pugwash sulla scienza e della World Affairs, un’organizzazione che riunisce scienziati di tutto il mondo per discutere i progressi verso la pace e lo sviluppo della sicurezza internazionale.
Nelly Sachs (Svezia)
Nobel per la Letteratura 1966
Le parole per salvare il mondo Dolore, persecuzione, esilio e morte sono punti chiave delle sue opere. In uno stile potente e decisamente metaforico la storia del popolo ebraico e della Shoà si erige a parabola del destino dell’uomo, amaro seppur non privo di speranza Paul Celan, con cui ebbe un intenso scambio epistolare, scrisse di lei: “ La Heimat (patria) di Nelly Sachs risiede nelle sue parole scritte”. Questa frase probabilmente è ciò che meglio descrive la poetica dell’autrice, convinta che solo le parole possano dare un profondo significato all’esistenza. Parole, le sue, che l’hanno resa portavoce delle vittime del nazismo nei campi di concentramento. Non ebbe una vita facile, come tutti coloro che rischiarono di essere schiacciati o furono schiacciati dal Terzo Reich. Lei l’ha potuta raccontare. Leonie Sachs nacque il 10 dicembre del 1891 a Berlino, nel quartiere alla moda di Schöneberg, da una famiglia ebrea benestante. I genitori, William Sachs e Margareta Karger Sachs, colti e liberali, appartenevano alla comunità ebraica della capitale, anche se non erano osservanti. Non aveva né fratelli né sorelle. Figlia unica, Nelly non sapeva nemmeno leggere e scrivere in ebraico e non parlava yiddish. Fu educata dapprima a casa con un’insegnante privata, poi frequentò il Berliner Höhere Töchterschule, dove fu introdotta anche alla musica, alla danza e alla letteratura. Voleva fare la ballerina, ma dovette rinunciare perché cagionevole di salute. Cercò allora altri interessi. A 15 anni fu ammaliata dalla lettura di Selma Lagerlöf (premio Nobel nel 1909) tanto da decidere di scrivere alla scrittrice svedese. Questa corrispondenza durò ben 35 anni e le permise di espatriare in Svezia durante il periodo nazista. Assieme alla madre prese l’ultimo aereo disponibile per Stoccolma. Se lo avesse perso, sarebbe finita in un campo di concentramento.
Amava leggere anche Hilde Domin, tra le più importanti poetesse di lingua tedesca del suo tempo. Cominciò a scrivere da giovanissima. Era avida di letture, i suoi riferimenti erano i neoromantici, Goethe, Heine e Schiller. A 17 anni, il suo lavoro, seppur ancora poco visibile, attrasse l’attenzione di Stefan Zweig che la incoraggiò ad andare avanti e curò la pubblicazione di una sua poesia. Il suo primo libro s’intitolava Legenden und Erzählungen (Leggende e Racconti) e narrava storie ispirate alle figure di San sco e di Gesù. Molto del materiale scritto prima dell’esilio (soprattutto su giornali e riviste) è purtroppo andato perso o distrutto. Conduceva una vita molto tranquilla e appartata. Dopo la morte del padre nel 1930, si chiuse ancora più in se stessa, spaventata dalla politica di terrore contro gli ebrei scatenata dal regime nazista. L’angoscia generata dal clima di violenza le provocò la perdita della voce. Al precipitare della situazione, nel 1940, grazie al citato aiuto di Selma Lagerlöf riuscì a riparare con la madre in Svezia. Con sé portava solo un piccolo bagaglio e 10 marchi. Sfortuna volle però che proprio al suo arrivo in Svezia, nel marzo di quell’anno, la Lagerlöf morì. Nelly fu costretta quindi a vivere in un bilocale e ad assistere la madre sempre più ammalata. All’inizio si sosteneva economicamente con piccole traduzioni. Era faticoso ma sopravviveva. Mentre lei era riuscita a scappare dalla furia nazista, altri membri della sua famiglia morirono nei campi di concentramento. Quando divenne padrona della lingua del suo nuovo Paese (diventò cittadina svedese nel 1952), cominciò a tradurre in tedesco romanzi di autori locali come Erik Lindegren, Johannes Edfelt e Gunnar Ekelöf, senza trascurare di scriverne di propri. Ritornò in Germania solo vent’anni dopo, nel 1960, per ritirare un premio letterario, il Droste-Hülshoff Prize. Le sue opere più famose, quelle che le valsero decine di premi internazionali, le scrisse quando aveva quasi cinquant’anni, cioè negli Anni ’40. Tra le più famose il poema teatrale Eli (storia di un bambino di 8 anni, polacco, della sua tragica morte e della ricerca dei suoi assassini), trasmesso in radio nella Germania dell’Ovest, che fu largamente acclamato dal pubblico. La morte della madre nel 1959 fu un duro colpo per lei. Entrò in una profonda depressione che la portò al ricovero in un ospedale psichiatrico. I suoi
esaurimenti nervosi erano caratterizzati da allucinazioni, paranoia e manie di persecuzione. Durante gli attacchi, immaginava di essere ancora un obiettivo dei nazisti. Nonostante la malattia, continuò a scrivere anche durante il ricovero. Quando recuperò un relativo equilibrio mentale tornò a vivere in perfetta solitudine. Il pericolo di una ricaduta era però sempre latente. Fu colta da una crisi quando, durante un viaggio in Svizzera per ritirare un premio letterario, sentì parlare tedesco. Negli anni del dopoguerra si dedicò allo studio della Kabbalah. Un rabbino della sinagoga di Stoccolma le regalò la traduzione dall’originale in aramaico del primo capitolo di Zohar, Die Geheimnisse der Shöpfung (I Segreti della Creazione) di Scholem, che la influenzò profondamente. Nel 1954 iniziò una fitta corrispondenza con lo scrittore Paul Celan, con cui condivideva non solo molte idee poetiche, prima fra tutte la fede nel potere di redenzione della parola scritta (l’unica via di libertà, tra vita e morte, per l’essere umano), ma anche le preoccupazioni sull’olocausto. Lo andò a trovare a Parigi solo nel 1960. In quell’occasione andarono insieme a portare dei fiori sulla tomba di Heinrich Heine. Il loro legame è stato descritto in una delle poesie più famose di Celan, Zürich, Zum Storchen. Quel rapporto così intenso dal punto di vista intellettuale, alimentò le paranoie di entrambi. Nonostante tutte le vicissitudini personali, l’opera di Nelly Sachs trovò un respiro internazionale. Tra le sue raccolte vanno ricordate In den Wohnungen des Todes (Nelle dimore della morte), Flucht und Verwandlung (Fuga e Trasformazione), Zeichen im Sand (Segni sulla sabbia) e Verzauberung (Incantesimo). La sua poetica ebbe riconoscimenti soprattutto svedesi e tedeschi. Nel 1966 ricevette il Nobel per la Letteratura. Nella motivazione dell’Accademia c’era scritto: “per la sua sorprendente lirica e scrittura drammatica, che interpreta il destino di Israele con forza toccante”. La Sachs, dopo il riconoscimento, continuò a vivere nella sua modesta casa di Stoccolma e a comporre con una vecchia macchina per scrivere sistemata su un tavolino, accanto al letto. Morì di tumore nel maggio del 1970. A differenza di altri scrittori, per esempio Primo Levi, testimoni come lei della tragedia dell’olocausto, nei suoi racconti e nelle sue poesie non c’è alcun sentimento di rabbia. La drammatica storia del popolo ebraico si trasforma in un
messaggio di riconciliazione e resurrezione. La parola assume la forma privilegiata della metafora, lo stile è moderno anche se con echi del linguaggio profetico delle sacre scritture. Un idioma salvifico del mondo: ciò che è accaduto non può essere dimenticato, ma custodito e lasciato in eredità come monito per le generazioni future. La sua poesia è lirica e riflette l’influenza del Romanticismo tedesco soprattutto nei suoi primi lavori, che appaiono più ispirati dal cristianesimo che dall’ebraismo. Alcune opere trattano di un amore infelice. Il riferimento dovrebbe essere a un uomo conosciuto da Nelly, poi ucciso in un campo di concentramento. Molti testi si concludono non solo con la morte della persona amata, ma anche con la catastrofe della Shoà. La metafora, di questo si tratta, non nasconde un amante respinto o perso, ma racconta il popolo ebraico e il suo rapporto con la storia e Dio. Il dolore del distacco è in linea con l’immagine della Kabbalah, dove si piange per la separazione del Signore dal suo popolo.
Betty Williams (Irlanda del Nord)
Nobel per la Pace 1976
Contro l'Ira e la violenza Diventa una pacifista per uno strano caso del destino: è testimone della morte di tre bambini, investiti dall’auto di un terrorista dell’IRA in fuga. Prima donna irlandese a ricevere un Nobel, ha dedicato tutta la sua esistenza al raggiungimento della pace e della sicurezza nella sua terra Un mondo senza violenza. Un’utopia? Per Betty Williams più che un sogno irrealizzabile è l’obiettivo del suo lavoro e della sua intera vita. Un impegno costante, portato avanti con ione e dedizione. Ha sempre creduto che ogni essere umano abbia “il dovere di proteggere la vita, e nel caso fallisca, ogni membro della società perde di conseguenza il diritto non solo alla vita ma anche alla gioia”. Ha affrontato con una forza fuori dal comune tutte le difficoltà della sua esistenza, che nel suo caso sono state davvero molte, uscendone sempre con un sorriso. Betty è nata il 22 maggio 1943 a Belfast, nell’Irlanda del Nord. I suoi natali erano modesti. Il padre era un macellaio, la madre, una casalinga. Aveva solo 13 anni quando questa fu colpita da un grave ictus. Dovette quindi abbandonare la scuola per prendersi cura delle sorelle minori. La sua famiglia, come molte altre in Irlanda, aveva già conosciuto la violenza. Il Paese era dilaniato da una strisciante guerra civile scatenata dai terroristi dell’IRA (Irish Republican Army) che volevano l’indipendenza dalla Gran Bretagna. Attentati e scontri si susseguivano senza esclusione di colpi. La lista delle vittime della famiglia era lunga. Suo nonno fu minacciato perché aveva sposato una donna cattolica. Suo cugino Daniel fu ucciso appena diciottenne da estremisti protestanti, mentre un altro cugino fu assassinato dall’ala cattolica. Quando la follia colpisce le menti, paradossi di questo tipo sono all’ordine del giorno. Prima di diventare un personaggio pubblico Betty lavorava come receptionist.
La sua esistenza cambiò radicalmente quando fu testimone di un tragico evento, accaduto il 10 agosto del 1976. Quel giorno, Betty era alla guida della sua auto, mentre tornava da una visita ai genitori insieme con uno dei suoi due figli (si era sposata con Ralph Williams nel 1961), quando sentì all’improvviso un colpo d’arma da fuoco. Voltato l’angolo vide una macchina perdere completamente il controllo e urtare violentemente tre bambini che stavano eggiando con la madre. Tutti e tre i bambini morirono. Al volante c’era Danny Lennon, un latitante dell’IRA, colpito da un proiettile della polizia britannica. Già due giorni dopo quel drammatico evento la Williams riuscì a mettere insieme 6.000 firme per una petizione sulla pace. Insieme a Mairead Corrigan, zia dei poveri bimbi (la loro madre, Anne Maguire, sopraffatta dal dolore e dal ricordo di quella perdita, si toglierà la vita nel 1980 dopo aver inutilmente tentato di rifarsi una vita in Nuova Zelanda) fondò la Women for Peace, che grazie all’appoggio di Ciaran McKewon, diventerà la Community For Peace People (Comunità per Gente di Pace). Le due amiche organizzarono una marcia alle tombe dei piccoli coinvolgendo 10.000 donne sia protestanti sia cattoliche. I membri dell’IRA le accusarono di essere “ dupes of the British” le babbee degli inglesi. Come risposta la Williams e la Corrigan ne organizzarono un’altra, e questa volta aderirono in 35.000. Betty Williams è ricordata soprattutto per la dichiarazione con la quale inaugurò l’attività della sua organizzazione: “Abbiamo un semplice messaggio da dare al mondo da parte di questo movimento per la pace. Vogliamo vivere e amare e costruire una società giusta e pacifica. Vogliamo che i nostri figli – e noi stessi – possano vivere con gioia e in pace in casa, sul luogo di lavoro e di gioco. Ci rendiamo conto che per costruire una siffatta società saranno necessari dedizione, coraggio e tanto lavoro. Ci rendiamo conto che ci sono molti problemi nella nostra società che sono fonte di conflitto e violenza. Ci rendiamo conto che ogni proiettile che viene sparato e ogni bomba che esplode rendono questo compito ancor più arduo. Rigettiamo l’uso delle bombe, dei proiettili e di tutti gli strumenti di violenza. Ci dedicheremo, assieme ai nostri vicini, giorno dopo giorno, alla costruzione di una società pacifica nella quale le tragedie che abbiamo visto siano solo brutti ricordi e moniti perpetui”.
I principi enunciati erano la sua bandiera. Li sventolò ovunque ce ne fosse bisogno, viaggiando, parlando ed educando a una società più giusta. Nel 1976 ricevette il premio Nobel per la Pace insieme alla Corrigan per tutto il suo impegno volto alla risoluzione dei problemi dell’Irlanda del Nord e alla tutela di donne e bambini nel mondo. Dopo aver divorziato dal primo marito sposò nel 1982 James Perkins e si trasferì in Florida. Qui, due anni più tardi, fu nominata oratrice dell’anno e insignita del premio Eleanor Roosevelt. In seguito insegnò alla Houston State University di Huntsville, Texas, dove si prodigò per unire i gruppi etnici e culturali della comunità locale. La sua attività le fece ottenere numerosi riconoscimenti. Quella che un tempo era una tranquilla receptionist diventò dottore in Giurisprudenza a Yale, dottore in Lettere, dottore in Filosofia. Lunga è la lista dei titoli assegnatile che, per citarne alcuni, vanno dal Martin Luther King Award al già citato Eleanor Roosevelt Award, dal Frank Foundation Child Assistance International Award al Rotary Club International “Paul Harris Fellow”, sino al Peace Building Award della Fondazione Gandhi e al premio per la Pace, consegnatole dal comune di Ischia, in Italia. Nel 1993 partecipò alla protesta per la detenzione di Aung San Suu Kyi e nel 2006 fu tra le promotrici della Nobel Women’s Initiative con Mairead Corrigan, Shirin Ebadi, Jody Williams, Wangari Maathai e Rigoberta Menchú Tum. Un movimento composto da donne che hanno vinto il Nobel per la Pace e che attraverso la loro esperienza cooperano per la giustizia e i diritti delle donne nel mondo, rappresentando il Nord America, il Sudamerica, l’Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Nello stesso anno ebbe parole durissime per il Presidente americano George Bush. Affermò infatti che “avrebbe voluto ucciderlo”. Poi, scusatasi per quella frase, sottolineò i danni provocati dalla politica militare USA in Iraq in particolare e nel Medio Oriente in generale. Ancora oggi è molto critica nei confronti dell’amministrazione americana. È convinta infatti che “migliaia di bambini, vedendo distrutte le loro case e le loro famiglie, sono stati spronati a diventare essi stessi dei terroristi. Dobbiamo creare un mondo dove non ci siano missili e dove gli esseri umani non siano degli alieni l’uno di fronte all’altro. Il lavoro che ci aspetta è arduo e faticoso.
L’unica forza che può distruggere ogni barriera è la forza dell’amore e della verità…”. Grazie a una sua idea, nel 2009 è stata costituita la Fondazione Città della Pace per i bambini, una città che possa ospitare i bambini scampati alla violenza nei loro paesi. La sede? In Italia, nei comuni di Sant’Arcangelo e di Scanzano Jonico, in Basilicata, un sito che il Governo italiano voleva trasformare in un deposito di scorie nucleari.
Mairead Corrigan (Irlanda del Nord)
Nobel per la Pace 1976
La forza delle donne “Se vogliamo un raccolto futuro di pace e giustizia, dobbiamo piantare i semi della non-violenza qui e adesso, nel presente”. Fin dal 1976 Mairead Corrigan ha sparso questi semi non solo in Irlanda del Nord, ma in tutto il mondo “Vogliamo disarmare i cuori degli esseri umani, uno per uno, Paese per Paese”. Era il suo grido di battaglia. Poi aggiungeva: “La non-violenza non è solo per una piccola élite, è per tutti. Si tratta di un modo di vita basato sul rispetto per ogni persona umana e per l’ambiente. È anche un mezzo per portare un cambiamento sociale e politico e di resistere al male senza entrare nel male. Si tratta di un modo completamente nuovo di pensare”. Come darle torto. Mairead Corrigan è nata il 27 gennaio del 1944 a Belfast, in una famiglia proletaria del ghetto cattolico. Trascorse un’infanzia serena seppure i genitori, Andrew e Margaret Corrigan, non avessero a disposizione molti mezzi economici. Era la seconda di sette (cinque sorelle e due fratelli). Tanti sono i bei ricordi che la legano a quel periodo della sua vita, a cominciare dai giochi insieme a tutta la famiglia, compresa l’amata sorella Anne cui il destino riserverà una sorte terribile. Mairead visse tutta l’infanzia e l’adolescenza all’interno della comunità cattolica della città. Frequentò la Vincent’s Primary School (privata e gestita da religiosi) fino all’età di 14 anni, cioè fino a quando i genitori non poterono più permettersi di pagare la retta scolastica. Questo non le impedì di proseguire nella sua formazione. Dopo aver lavorato per un periodo come babysitter, decise di utilizzare il denaro guadagnato per iscriversi ai corsi del Miss Gordon’s Commercial College, che le consentirono di ottenere un diploma. Aveva 16 anni quando cominciò a collaborare come segretaria contabile in un’azienda locale. Oltre al lavoro Mairead si prodigava molto anche nella sfera del volontariato, adoperandosi per la Legion of Mary (organizzazione cattolica fondata in Irlanda
nel 1921 i cui membri prestano servizio alla Chiesa in tutto il mondo). ava le serate libere e i weekend con i bambini più disagiati e andando a far visita ai carcerati della prigione di Long Kesh. Ventunenne iniziò a lavorare come segretaria per il birrificio Guinness, dove rimase fino al 1976, anno in cui la sua vita e quella di tutta la sua famiglia fu scossa da un evento tragico che le stravolse per sempre. Agghiaccianti sono i fotogrammi della sequenza che cambiò la sua esistenza. Il 10 agosto Danny Lennon, un terrorista dell’IRA in fuga, fu ferito a morte da un proiettile sparato dalla polizia mentre era alla guida della sua auto nel quartiere di Andersonstown. L’uomo aveva appena scontato tre anni di carcere e se i militari inglesi avessero scoperto che trasportava delle armi da un covo all’altro lo avrebbero rispedito in carcere a pagare una pena ancora più dura. Dopo aver perso il controllo del veicolo e dopo aver sbandato più volte, travolse la sorella di Mairead, Anne, che stava eggiando con i suoi tre figli. Nell’impatto rimasero uccisi tutti i bambini, mentre la madre fu ferita gravemente. Quei corpi lacerati divennero un monito. Quell’evento fu un colpo tremendo non solo per Anne, ma per tutta la comunità nord irlandese. Il segno che non si poteva più proseguire sulla strada dell’odio e della violenza interreligiosa. Erano gli anni in cui lo scontro tra l’ala protestante e quella cattolica era incandescente. La storia d’Irlanda è sempre stata ricca di violenti confronti tra i diversi clan, sin dal XII secolo, quando gli inglesi la invasero. La religione divenne elemento scatenante del conflitto nel 1600 quando i flussi migratori dei protestanti inglesi puntarono sull’isola. Invece di una sana convivenza, tra le due comunità religiose scoppiò una violenza folle che sfociò in un vero e proprio conflitto. La feroce contrapposizione continuò sino al 1921, quando il suo territorio fu diviso in due: la Repubblica d’Irlanda come Paese indipendente nel sud, e l’Irlanda del Nord come parte del Regno Unito. Invece di placare gli animi, quella divisione fu la causa della formazione di gruppi terroristici, soprattutto cattolici, che poi diedero vita all’IRA, l ’Irish Republican Army, che ha insanguinato l’isola sino a pochi anni fa mietendo centinaia di vittime senza distinzione di sesso, età, condizione sociale. Solo 48 ore dopo l’incidente, insieme a Betty Williams (testimone della tragedia
e prima soccorritrice delle vittime), Mairead Corrigan organizzò una marcia per le strade di Belfast che coinvolse migliaia di donne che chiedevano la pace. Da cristiana devota, era convinta che bisognava adoperarsi attraverso l’amore e il sostegno, non odiando quelli che erano definiti nemici. Per questo fu criticata da parenti e amici, tutti di area cattolica, ma lei ripeteva che il pacifismo era l’unica via per venire fuori dal terrore che regnava in Irlanda del Nord. Sempre insieme all’oramai amica Williams fondò la Women for Peace, poi ribattezzata Community for Peace People. L’obiettivo dell’associazione era ambizioso: eliminare la violenza in primo luogo dalle strade irlandesi. La Peace People organizzò le più imponenti dimostrazioni della storia del Paese a favore della pace. Ogni settimana Mairead coordinava marce, comizi e manifestazioni. Con la sua gentilezza e pacatezza di modi riusciva a coinvolgere le persone sulla necessità di abolire la guerra e privilegiare una società più equa e giusta per tutti. In un’epoca in cui cattolici e protestanti camminavano addirittura su marciapiedi opposti, le parole della Corrigan non erano particolarmente ben accette. Fu messa in ridicolo e ignorata. Nonostante ciò, lei proseguì con determinazione per la sua strada, portando dalla sua parte sempre più persone. “Il cammino per la pace giace nel cuore di ognuno”, diceva. Mairead ha sempre predicato l’azione pacifica, convinta che una società civile non possa ammettere alcun tipo di sopruso e prepotenza. In una sala della sede della sua associazione, in Lisburn Road a Belfast, campeggiano foto di Martin Luther King, Gandhi, Aung San Suu Kyi e della grande manifestazione del 1976: migliaia di donne scese in strada per dire basta alla brutalità e alla sopraffazione. Credendo che l’istruzione fosse il punto cruciale per la trasformazione della società, fondò anche il PeaceJam, gruppo non-profit che prevede programmi educativi per ragazzi. Organizzò inoltre campi estivi in vari paesi europei dove giovani cattolici e protestanti avessero la possibilità di confrontarsi e conoscersi meglio, scoprendo in fondo di essere uguali, seppur con idee differenti. È stata membro fondatore del Comitato di Giustizia Amministrativa, un’organizzazione dell’Irlanda del Nord prodiga nel difendere i diritti umani. Ancora oggi viaggia per il mondo tenendo conferenze per sostenere la necessità della non-violenza. Per quanto riguarda la sua vicenda personale, di certo il
dolore per la perdita dei nipoti e della sorella (suicidatasi quattro anni dopo la morte dei suoi piccoli) la accompagnerà sempre. Ha cercato comunque di andare avanti, sposando nel 1981 il vedovo di Anne, Jackie Maguire, e diventando madre di due bambini, John Francis e Luke. Per il suo operato nel 1976 le è stato attribuito, insieme alla Williams, il Nobel per la Pace. Altri prestigiosi riconoscimenti le sono stati assegnati uno dopo l’altro, per esempio molte lauree honoris causa e il premio Pacem in Terris attribuitole nel 1990. Dopo lo storico accordo tra cattolici e protestanti, il Good Friday Agreement del 1998, Mairead si è occupata di altri paesi dove il conflitto e la guerra sconvolgono la vita delle comunità, come per esempio Israele. Ha avuto parole dure per il governo di quel Paese, condannando la sua politica nei confronti della popolazione palestinese. “Chiedo giustizia per i bambini, le donne, gli anziani, gli esseri umani massacrati a Gaza. Chiedo che si onori la loro memoria per ciò che è stata la loro morte, cioè una strage di innocenti”. Mai stanca di proporre soluzioni, nel 2006 fu una delle fondatrici del Nobel Women Initiative, insieme agli altri premi Nobel per la pace Betty Williams, Shirin Ebadi, Wangari Maathai, Jody Williams e Rigoberta Menchú Tum. Il gruppo, composto da sei donne che rappresentano Nord e Sudamerica, Europa, Medio Oriente e Africa, decise di mettere insieme le proprie capacità e le proprie esperienze per un “comune sforzo per la pace mediante la giustizia e l’uguaglianza dei popoli in sostegno dei diritti delle donne in tutto il mondo”. Si oppose anche alla scelta del Presidente americano Barack Obama come vincitore del premio Nobel per la Pace 2009 attribuitogli “per i suoi sforzi straordinari per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”, Mairead sosteneva che Obama fosse colui che continua “la politica di militarismo e l’occupazione dell’Afghanistan, invece di favorire il dialogo e i negoziati con tutte le parti in conflitto”. Attualmente Mairead si batte attivamente contro l’aborto e l’eutanasia all’interno di un movimento pro-life. Nel corso della sua vita ha viaggiato in più di 25 paesi: Stati Uniti, Australia, Giappone, Austria, America Latina… sempre con la determinazione e l’urgenza di chi sente che ciò che sta facendo è giusto. “Credo – spiega – che la speranza nel futuro dipenda da ciascuno di noi, che il concetto di non-violenza debba entrare nelle nostre menti e nei nostri cuori…
alcuni pensano che ciò sia troppo idealistico. Io credo che sia molto realistico. Sono certa che l’umanità si stia evolvendo verso questa concezione. Per chi sostiene che ciò non possa essere attuato, ricordo che l’umanità ha imparato ad abolire la schiavitù… tutto evolve, tutto è possibile. Una grande speranza sta nel fatto che c’è una nuova coscienza nel nostro mondo, soprattutto tra i giovani”.
Rosalyn Yalow (Usa)
Nobel per la Medicina 1977
Volere è potere Fin dall’età di otto anni sapeva che sarebbe diventata una scienziata. Era profondamente apionata alla sua materia, la Fisica nucleare. Le scoperte di Rosalyn Yalow sono state importantissime per molti metodi e trattamenti per la cura delle malattie più disparate Rosalyn Sussman nacque il 19 giugno 1921 nel Lower East Side di New York, in una famiglia di immigrati ebrei dell’Europa dell’Est. Entrambi i suoi genitori, Simon e Clara Zipper, non avevano avuto la fortuna di un’educazione e decisero che, anche a costo di pesanti sacrifici, i loro figli (Rosalyn aveva un fratello) sarebbero andati all’università. Fin da giovane Rosalyn fu un’avida divoratrice di libri (aveva imparato a leggere ancor prima di andare alla scuola materna). Le difficoltà economiche familiari non la fermarono. Siccome in casa non c’erano testi su cui studiare, insieme a suo fratello si recava ogni settimana alla biblioteca comunale per prenderne in prestito. Alcune persone sentono il proprio destino: fin dall’età di 8 anni lei sapeva che sarebbe diventata una scienziata. Su questo non aveva alcun dubbio. La sua non era presunzione, assomigliava alla fede, fede in se stessa. Amava la logica e possedeva la rara capacità di spiegare con semplicità le leggi che regolano il mondo naturale. Andò alla Walton High School dove ottenne ottimi risultati in matematica e chimica. Una volta iscritta all’università, l’ Hunter College, si rese conto, anche per merito di due suoi docenti, Herbert N. Otis e Duane Roller, che il suo vero interesse era la Fisica. Dalla fine degli anni ’30 si dedicò in particolare a quella nucleare. La sua curiosità era già diventata leggendaria. Ogni argomento in cui s’imbatteva la eccitava enormemente e la stimolava a proseguire, a sbriciolare il muro che impediva alla conoscenza di andare oltre i propri confini. “Sembrava che tutti gli esperimenti che facevo potessero portare
al premio Nobel”, disse la scienziata a proposito della curiosità e delle potenzialità intrinseche alla materia. Fu enormemente ispirata dalla lettura della biografia di Marie Curie, scritta dalla figlia Irène. Considerava quel libro un must sulla lista di lettura di ogni giovane donna aspirante scienziata. Altra fonte d’ispirazione fu il seminario, cui partecipò nel 1939, che Enrico Fermi tenne alla Columbia University. La fissione nucleare aveva sì generato il terrore di una guerra catastrofica, ma aveva anche messo a disposizione dei ricercatori radioisotopi per applicazioni pacifiche. A quel tempo la Fisica nucleare era un terreno molto fertile. Rosalyn decise quindi di intraprendere la carriera accademica, nonostante i suoi genitori aspirassero a un lavoro più concreto e sicuro per lei, come quello di maestra elementare. Erano convinti che sarebbe stato molto difficile per una donna scienziato ricavare un qualche sostegno economico. Sua madre era la più decisa in quest’opera di convincimento. Le ripeteva all’infinito che sarebbe stata fortunata se avesse scelto quella strada, nel senso di un impiego onorevole. Per blandirla, Rosalyn la rassicurava sul fatto che qualunque cosa avesse deciso di fare sarebbe andata avanti senza farsi intimorire da nessuno. Madre e padre non avevano tutti i torti, visti i tempi e le esperienze di molte sue coetanee. Ma Rosalyn era molto testarda e determinata. Perciò non si lasciò distrarre. Continuò a studiare con l’incoraggiamento dei suoi professori, finché le fu offerta l’opportunità di un lavoro part-time come segretaria del dott. Schoenheimer, biochimico alla Columbia University. Questa posizione le avrebbe permesso di seguire alcuni corsi universitari. Nell’immediato la costrinse a prendere lezioni di stenografia, anche se non erano il massimo, per le sue aspirazioni. Nel 1941 le fu proposto di diventare assistente in Fisica all’Università dell’Illinois. In quell’anno, Pearl Harbor aveva costretto l’America alla guerra. Negli atenei scarseggiavano studenti e professori, chiamati al fronte o partiti come volontari. I dipartimenti erano stati decimati. Secondo alcuni suoi detrattori, il posto le fu offerto perché, con il conflitto in corso, i giovani che potevano assumere quel ruolo erano davvero pochi. Per lei, invece, fu un grande riconoscimento delle sue capacità. Era l’unica donna tra i
400 membri del corpo docente, l’unica dal 1917. Strappò quindi i suoi libri di stenografia e si dedicò anima e corpo al suo nuovo incarico. Il primo giorno di scuola nel nuovo ateneo conobbe Aaron Yalow, anche lui fisico, figlio di un rabbino, con cui si sposò nel 1943 e a cui diede due discendenti, Benjamin e Elanna. Il primo anno di matrimonio non fu affatto facile. Dal punto di vista sociale e religioso, la sua nuova famiglia conservò culti e tradizioni kosher. Dal punto di vista accademico, Rosalyn bruciò le tappe. Nonostante eccellesse in tutti i corsi e i suoi meriti fossero evidenti, anche lei dovette fare i conti con il puritanesimo americano, con il maschilismo imperante e anche con una buona dose di razzismo. Non fu mai vittima di episodi clamorosi, ma di sottili discriminazioni. Per sminuirne le competenze, un suo professore arrivò a dire che, "siccome nel corso di laboratorio aveva ottenuto A-, ciò dimostrava che le donne non erano capaci di fare un buon lavoro". Dichiarazione infelice perché comunque il risultato di Rosalyn era molto più alto di quello conquistato dagli uomini del suo stesso corso. Dopo aver conseguito il dottorato nel 1945 tornò a New York, senza il marito che doveva ancora concludere la sua tesi. Nella Grande Mela insegnò Fisica, questa volta ai veterani di guerra. Furono anni molto intensi. Si divideva tra l’insegnamento e la ricerca al Veteran istration Hospital (VA) nel Bronx, dove cominciò la collaborazione con Bernard Roswit, direttore del servizio di radioterapia. Nel 1950 abbandonò la docenza e si dedicò totalmente alla sperimentazione sui radioisotopi, in collaborazione con Solom Berson. In particolare si concentrò sulla loro applicazione nella determinazione del volume del sangue, sulla diagnosi clinica delle malattie della tiroide e sulla cinetica del metabolismo dello iodio. In una serie di articoli apparsi tra il 1956 e il 1960 descrisse dettagliatamente il cosiddetto RIA (metodo radioimmunologico), che rivoluzionò la ricerca biologica e medica. La lista delle possibili applicazioni del RIA sono pressoché infinite: permette di valutare se nel sangue donato ci siano vari tipi di epatite, se è inquinato da sostanze cancerogene, di misurarne i livelli di antibiotici e droghe. Permette inoltre di trattare il nanismo con gli ormoni e di evidenziare e correggere i livelli
ormonali nelle coppie sterili. Una curiosità (che è tale solo per chi non conosce lo spirito con il quale la Yalow affrontava la vita e la sua professione): nonostante l’enorme potenziale della loro invenzione, lei e Berson si rifiutarono di brevettarla. Per questa scoperta, nel 1977 le venne attribuito il Nobel per la Medicina. Le potenzialità commerciali del RIA erano enormi. Nonostante le pressioni costanti di alcuni potentati economici, Rosalyn si rifiutò di permetterne a chicchessia lo sfruttamento. Si batté invece perché divenisse patrimonio comune e fosse utilizzato a vantaggio di tutti. Successivamente proseguì la sperimentazione mettendo in luce la fisiologia dell’insulina, facendo chiarezza sull’origine di malattie come il diabete. Dimostrò che questa patologia non è dovuta alla scarsa secrezione d’insulina, ma a una anormale secrezione dello stesso enzima (bizzarro è il fatto che suo marito soffrisse proprio di diabete). Nel corso della sua vita la Yalow ottenne numerosissimi riconoscimenti. Nel 1975, insieme a Berson (che era morto nel 1972), fu insignita del AMA Scientific Achievement Award. Nel 1976 divenne la prima donna a ricevere il premio Albert Lasker per la ricerca medica di base. Dodici anni più tardi diventò membro dell’ American Academy of Arts and Sciences e nel 1988 ricevette la National Medal of Science. Morì nel 2011, nel Bronx, nella stessa casa che aveva acquistato dopo il matrimonio e dove aveva vissuto gran parte della sua esistenza, a soli pochi chilometri di distanza dall’ospedale in cui lavorava. Aveva poco meno di novant’anni. Il suo profilo è quello di una donna determinata e forte, che ha saputo mettere a disposizione del benessere comune le sue doti e il suo talento. Ha aperto la strada a una nuova era dell’endocrinologia, tanto che tutt’oggi il metodo RIA è utilizzato in migliaia di laboratori anche in paesi meno avanzati degli Stati Uniti. Nella sua biografia ufficiale ha scritto: “Ho avuto la fortuna di imparare la medicina, non in una scuola medica convenzionale, ma direttamente da un maestro di fisiologia, anatomia e medicina clinica”. Un omaggio al suo mentore, Solom Berson, che l’ha condotta per mano sino alla
soglia del premio Nobel.
Madre Teresa (Albania)
Nobel per la Pace 1979
Una beata tra di noi Il suo più grande desiderio era “saziare la Sua sete di amore e per le anime”. Madre Teresa, fonte di luce inesauribile, è stata proclamata beata il 19 ottobre 2003. Nel corso della sua vita è stata insignita di numerosi riconoscimenti e onorificenze che ha dedicato ai suoi poveri Anjëzë Gonxhe nacque il 26 agosto 1910 a Skopje in Macedonia. Era la più piccola dei cinque figli di Nikola e Drane Bojaxhiu, coppia benestante originaria del Kosovo. La morte improvvisa del padre, quando Anjëzë aveva circa 8 anni, lasciò l’intera famiglia in condizioni economiche disagiate. Nonostante le difficoltà, la madre cercò di educare tutti i suoi figli all’amore e alla responsabilità. All’età di 12 anni sentì fortissima la chiamata di Gesù. Il suo più grande desiderio era “saziare la Sua sete di amore e per le anime”. Questo pensiero, alimentato dall’impegno in una parrocchia gesuita, influenzò il suo carattere e la sua vocazione. Conobbe l’India e i suoi drammi di povertà grazie ad alcune lettere di missionari attivi nel Bengala diffuse all’interno della chiesa che frequentava. Quelle letture la convinsero che sarebbe valsa la pena di vivere la sua vita solo se l’avesse dedicata a quell’immenso Paese. Decise quindi di diventare missionaria. A 18 anni lasciò la casa per entrare nell’Istituto della Beata Vergine Maria, meglio conosciuto come “le Suore di Loreto” di stanza in Irlanda, dove ricevette il velo di postulante. Dopo pochi mesi, fu mandata a Calcutta, in India, dove arrivò nel 1929. Si stabilì a Darjeeling, alle pendici dell’Himalaya, dove rimase due anni. Studiava l’inglese e il bengalese. Svolse anche diverse attività tra le quali quella di insegnante nella scuola del convento e quella di aiuto-infermiera. Quest’ultimo incarico la proiettò nel mondo dei malati e delle loro sofferenze. Non lo abbandonò mai più. Pronunciò i voti temporanei, assumendo il nome di Maria Teresa, da Santa Teresa di Lisieux. Poi il 24 maggio 1937 fu consacrata, divenendo “la sposa di
Gesù per tutta l’eternità”. In breve tempo, grazie anche alle sue capacità organizzative e alla sua propensione al duro lavoro, le assegnarono l’incarico di direttrice della scuola in cui insegnava, la St. Mary, nel sobborgo di Entally. Insegnava storia e geografia alle figlie dei coloni inglesi che la frequentavano. Lo scoppio della guerra aprì le porte del convento a centinaia di orfani e bambini abbandonati. Un’ala dell’edificio fu anche trasformata in ospedale militare. Insegnare, però, non le bastava più. La sofferenza e la povertà che vedeva ovunque volgesse lo sguardo la indussero a chiedere il permesso di lasciare il convento per dedicarsi ai più poveri tra i poveri della città, sino a quando non fu soggetta alla “chiamata nella chiamata”, come lei stessa la definì. L’impulso a offrirsi totalmente agli “ultimi dei derelitti” si presentò il 10 settembre 1946, durante un viaggio in treno da Calcutta a Darjeeling, per il ritiro spirituale annuale. Ebbe una serie di visioni in cui Gesù le rivelò il suo dolore nel vedere l’indifferenza del mondo verso i poveri. Di quell’episodio raccontò: “Quella notte aprii gli occhi sulla sofferenza e capii a fondo l’essenza della mia vocazione. Sentivo che il Signore mi chiedeva di rinunciare alla vita tranquilla all’interno della mia congregazione religiosa per uscire nelle strade a servire i reietti. Era un ordine. Non era un suggerimento, un invito o una proposta”. Con questo imperativo cominciò la sua vera missione nel mondo. Naturalmente non tutto filò liscio. Dovette lottare per convincere le consorelle e l’arcivescovo di Calcutta che quella era la scelta giusta. Per impedirle di metterla in atto fu anche trasferita, per un breve periodo, ad Asansol. Solo nel 1948 fu autorizzata dal Vaticano a seguire la strada che aveva scelto e a trasferirsi nelle periferie più povere di Calcutta. Fu allora che abbandonò il velo nero delle Suore di Loreto e indossò per la prima volta il sari bianco bordato di azzurro che la caratterizzò per il resto della sua vita. Fu scelto da Madre Teresa perché era il più economico fra quelli in vendita in un piccolo negozio dove si era recata proprio per acquistare un nuovo abito da indossare nella sua missione. Con cinque rupie di capitale, frutto dei suoi risparmi, si installò nello slum di Motijhil, in una capanna, dove cominciò a insegnare e ad assistere i bambini poveri della zona. Aveva un’aurea magnetica. Conquistava il cuore delle persone
che avvicinava. Viste le dimensioni del fenomeno che aveva deciso di affrontare, organizzò una piccola rete di volontari. Le prime a darle una mano furono dodici ragazze, tra cui alcune sue ex allieve della St. Mary. In soli dieci anni quella rete si trasformò in un’entità ben definita, con regole e obiettivi specifici: “prendersi cura dei più poveri dei poveri” e “ di tutte quelle persone che si sentono non volute, non amate, non curate dalla società, tutte quelle persone che sono diventate un peso e che sono fuggite da tutti”. Il 7 ottobre 1959 l’Arcidiocesi di Calcutta riconobbe ufficialmente la Congregazione delle Missionarie della Carità. Lo stile di vita voluto da Madre Teresa per le sue suore fu ispirato al scanesimo. La regola imponeva un’austerità rigorosa, in linea con la condizione di vita dei poveri che si voleva assistere. Il lavoro non mancava mai. Madre Teresa visitava i miseri sobborghi abitati da famiglie, lavava ferite, dava coraggio e curava i più bisognosi, quelli cui nessuno voleva avvicinarsi. Ogni giorno si recava nei luoghi più squallidi per portare Gesù a coloro che non erano voluti e amati da nessuno. Aprì una scuola all’aperto, sotto gli alberi. Dava conforto e cure ai malati terminali e si occupava della vita nascente, offrendo amore, cibo e un tetto ai neonati che spesso venivano abbandonati nei bidoni dell’immondizia. All’inizio della sua straordinaria avventura, la sua casa era una baracca sterrata dove portava i malati che non erano accolti negli ospedali. Successivamente, un funzionario dell’amministrazione statale, Michael Gomes, le mise a disposizione alcune stanze all’ultimo piano di una casa in Creek Lane. Presto, però, quegli spazi diventarono inadeguati. Nel 1953 le suore si trasferirono nella sede della 54A Lower Circular Road, messa a disposizione dall’Arcidiocesi di Calcutta, che ospita tuttora la loro casa madre. Non solo. In quello stesso periodo sorse Casa Kalighat per i morenti (chiamata anche Nirmal Hriday, casa dei puri di cuore). In città c’erano migliaia di malati terminali rifiutati dagli ospedali cittadini. Si trattava di un fenomeno molto frequente, quasi un obbligo viste le condizioni di estrema povertà in cui versava buona parte della popolazione locale. Tutti, a Nirmal Hriday, ricevevano cure e assistenza. L’edificio fu messo a
disposizione, assieme a un piccolo fondo in denaro, dallo stesso Comune di Calcutta. Era un ostello abbandonato nelle immediate vicinanze di un tempio dedicato alla dea Kali (Kalighat). La donazione fu accolta con sospetto dai sacerdoti induisti che accusarono Madre Teresa di “battezzare i malati in punto di morte, senza chiedere il loro parere”. Invece, venivano curati e, se morenti, accompagnati nell’aldilà, secondo i riti della loro fede: ai musulmani si leggeva il Corano, agli indù si dava acqua del Gange, i cattolici ricevevano l’estrema unzione. Suor Teresa non disdegnava di mendicare. Chiedeva cibo e medicine per i suoi poveri. Ovunque fosse possibile e a chiunque fosse disponibile a piccoli o grandi gesti di solidarietà. La sua attività divenne febbrile. Individuò un nuovo fronte contro cui combattere: la lebbra, una delle piaghe che dai tempi biblici hanno afflitto l’umanità, largamente diffusa in India. Realizzò quindi delle cliniche mobili per curare i malati a domicilio. Nel 1958 inaugurò il Gandhiji’s Prem Niwas (Dono d’amore di Gandhi), un centro per i malati di lebbra a Tigarah, in una delle zone più degradate della periferia di Calcutta. Tre anni dopo aprì il villaggio di Shanti Nagar (Città della Pace), dove i malati di lebbra potevano vivere e lavorare, coltivando i campi, allevando animali e svolgendo attività di artigianato. Spesso ripeteva: “ Non ci sono lebbrosi, solo la lebbra, e si può curare”. La sua congregazione crebbe a tal punto che iniziò a inviare le sue sorelle in altre regioni disastrate del mondo. Nel febbraio 1965, Paolo VI concesse alle Missionarie della Carità il titolo di “Congregazione di diritto pontificio” e la possibilità di espandersi anche fuori dall’India. Seguirono fondazioni in Venezuela, Sri Lanka, Tanzania e in tutti i continenti. Aprì case di missione anche in paesi comunisti come l’ex Unione Sovietica, Cuba e la sua Albania. Diceva: “Sono albanese di sangue, indiana di cittadinanza”. Per diffondere più capillarmente la sua missione fondò I Fratelli Missionari della Carità, il ramo contemplativo delle sorelle, i Fratelli Contemplativi e i Padri Missionari della Carità. Non si attivò solo per le esigenze spirituali ma anche per quelle prettamente concrete dei poveri, formando i Collaboratori di Madre Teresa e i Collaboratori
Ammalati e Sofferenti (persone di diverse nazionalità e confessioni di fede che condividevano la preghiera, il lavoro e il sacrificio, attraverso opere umili d’amore). Le organizzazioni erano aperte anche ai laici. Madre Teresa mise in luce la natura non confessionale dell’iniziativa che riguardava i Collaboratori, aperta a persone di buona volontà “di tutte le religioni e tutte le denominazioni”. Nel 1979 le fu assegnato il premio Nobel per la Pace “per il suo impegno per i più poveri tra i poveri e il suo rispetto per il valore e la dignità di ogni singola persona”. Madre Teresa rifiutò di partecipare al banchetto tradizionale organizzato in onore dei vincitori. Chiese e ottenne che i fondi stanziati per quella cerimonia fossero destinati ai poveri di Calcutta, che avrebbero potuto essere sfamati per un anno intero. A chi le chiedeva il perché di quella scelta rispondeva: “le ricompense terrene sono importanti solo se utilizzate per aiutare i bisognosi del mondo”. Nel 1981 fondò il movimento Corpus Christi al quale potevano aderire anche i sacerdoti secolari. Le missioni, intanto, si espandevano rapidamente in Nord America, Australia ed Europa dove ci si prendeva cura di ammalati di Aids, dei senza casa e degli alcolizzati. Vennero aperte case, inoltre, in Asia, America Latina e Africa, terre di grande povertà, vittime privilegiate di catastrofi naturali. Tra i più grandi progetti di Madre Teresa c’era quello di togliere i suoi figli prediletti, i lebbrosi, dagli slum e creare una città intera adatta alle loro esigenze. Grazie ai premi e alle donazioni, oggi esiste la Città della Pace. Sorge sul terreno di Asansol donatole dal governo, offre scuole, giardini, negozi e l’ufficio postale. Durante gli ultimi anni della sua vita, nonostante i problemi di salute, Madre Teresa continuò a guidare con impegno e gioia la sua Congregazione ricevendo visitatori e istruendo le consorelle. Morì nel 1997. La sua scomparsa suscitò grande commozione nel mondo intero. Furono celebrati i funerali di Stato e il suo corpo venne seppellito nella Casa Madre delle Missionarie della Carità. Ancora oggi è un luogo di pellegrinaggio e preghiera per gente appartenente a ogni religione. Sulla sua tomba c’è scritto: “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Madre Teresa era una donna di fede incrollabile, minuta nel fisico quanto forte nello spirito. Simbolo di comione, speranza e testimone “dell’amore assetato
di Dio”. La sua esistenza terrena è stata vissuta all’insegna del sacrificio, a contatto con malattie, dolore e sofferenza. Ma ciò che più colpisce, ed è di esempio per tutti, è il suo aver vissuto con gioia e armonia, credendo fermamente nel valore delle piccole cose e nella grandezza e dignità di ogni essere umano. Pur essendo profondamente cristiana sosteneva le religioni non-cristiane, un tema difficile nel secolo scorso e non solo. Lei però amava ripetere: “ C’è un solo Dio, ed è Dio per tutti; per questo è importante che ognuno appaia uguale dinnanzi a Lui. Ho sempre detto che dobbiamo aiutare un indù a diventare un indù migliore, un musulmano a diventare un musulmano migliore e un cattolico a diventare un cattolico migliore. Crediamo che il nostro lavoro debba essere d’esempio alla gente. Attorno a noi abbiamo 475 anime: di queste, solo 30 famiglie sono cattoliche. Le altre sono indù, musulmane, sikh... Sono tutti di religioni diverse, ma tutti quanti vengono alle nostre preghiere”. Ventiquattro mesi dopo la sua morte, evento eccezionale se non unico nella storia della Chiesa, Giovanni Paolo II avviò il processo che si concluse nell’estate del 2003 con la sua proclamazione a Beata. La celebrazione si tenne il 19 ottobre dello stesso anno.
Alva Myrdal (Svezia)
Nobel per la Pace 1982
Per una politica di disarmo Alva Myrdal è stata una figura preminente del secolo scorso. All’apparenza una donna fragile, tanto minuta quanto salda nelle sue idee e nei suoi propositi. Giocò un ruolo fondamentale, nel dopoguerra, nella costruzione di una società libera, civile e soprattutto pacifica “C’è qualcosa di molto malato nella società in cui viviamo”, disse Alva Myrdal nel discorso fatto in occasione della consegna del Nobel per la Pace attribuitole nel 1982 per il suo impegno in favore del disarmo. “I mass media – aggiunse – giocano un ruolo influente nel dilagare della violenza tra la popolazione”. Queste parole suonano estremamente attuali. Ancora oggi si dibatte sul ruolo che televisioni e stampa hanno sui comportamenti delle popolazioni cui si rivolgono. Pronunciate negli anni ’80 del secolo scorso, hanno un sapore quasi profetico. Alva Reimer nacque a Uppsala, città della Svezia situata a nord di Stoccolma, il 31 gennaio del 1902. I suoi genitori, Albert e Lova, appartenevano alla piccola borghesia locale. Il padre, un imprenditore edile con la ione della politica, era un convinto socialdemocratico. Aveva quattro fratelli. Da entrambi i suoi genitori ereditò uno spirito battagliero assieme a quella che per tutta la sua vita considerò la sua missione: contribuire al miglioramento della società, prima svedese, poi del mondo. Già a Uppsala, giovanissima, si scontrò con l’ottusità di un apparato scolastico ancora ottocentesco che la costrinse, spalleggiata dalla madre, a frequentare alcuni corsi privati. Si laureò all’Università di Stoccolma, nel 1924, in lingue e letterature scandinave e in storia della religione. Lo stesso anno sposò Karl Gunnar Myrdal, un economista di valore, che avrebbe vinto il premio Nobel per l’Economia nel 1974. Due Nobel nella stessa famiglia, non capita spesso: si contano sulle dita di una mano. La loro era una coppia affiatata non solo nel privato ma anche nel pubblico. Ebbero tre figli: un maschio, Jan, e due femmine, Sissela e Kaj. Nonostante il
lavoro impegnativo di entrambi, Gunnar e Alva espressero sempre il desiderio, poi coronato, di essere genitori responsabili. Nel pubblico, influirono nella vita del loro Paese dando, negli anni ’30, un forte impulso alla creazione del welfare nazionale. Insieme scrissero Crisis in the Population Question (La crisi della questione demografica). Premessa fondamentale della loro tesi era individuare le riforme sociali necessarie al raggiungimento della libertà per ogni individuo (specialmente per le donne), alla promozione delle nascite, alla soluzione dei problemi legati agli alloggi e alla scolarizzazione. In campo educativo, Alva Myrdal prese ispirazione da una visita alle scuole sperimentali statunitensi avvenuta nel 1929, anno della Grande depressione, grazie a una borsa di studio promossa dalla Fondazione Rockefeller. In particolare la sua attenzione fu attratta da un programma della Yale University proposto dal professor Arnold Gessel. Ritornò in Svezia un anno più tardi e frequentò un master in psicologia sociale all’Università di Uppsala. Dopo aver lavorato come insegnante a Stoccolma divenne assistente psicologa nella prigione centrale della città. Tre anni dopo fondò l’Istituto Pedagogico Sociale, che diresse fino al 1948. L’Istituto fu il suo braccio armato attraverso il quale promosse le sue teorie sulla cura e l’educazione dei figli, con una variante fortemente progressista. Sosteneva infatti che è compito dello Stato svolgere un ruolo responsabile nella crescita dei giovani svedesi. Non basta. Sosteneva anche che gli insegnanti non dovessero essere solo divulgatori di nozioni, ma formati in psicologia dello sviluppo comportamentale. Il suo modello era quello propugnato da Maria Montessori, contrario a qualunque tipo di pena. Fu anche autrice di numerosi libri che influirono sulle scelte di molti governi. La crisi della questione demografica, per esempio, divenne la base su cui furono costruiti i programmi nazionali di protezione sociale in tutta la Scandinavia. Grazie al suo attivismo, Alva divenne presto un importante membro del Partito Socialdemocratico svedese. Il nazismo, intanto, aveva fatto la sua comparsa in Europa e il futuro premio Nobel ne denunciò i pericoli che poi avrebbe provocato.
Nel 1943 le fu affidato l’incarico di tracciare un programma di sviluppo sociale per il dopoguerra. Nel pieno del conflitto pensava già al futuro. Fu anche un’abile diplomatica. Eletta direttore del Dipartimento per gli affari sociali delle Nazioni Unite nel 1949, due anni dopo si trasferì da New York a Parigi con l’incarico di responsabile dell’Organizzazione per l’educazione delle stesse Nazioni Unite. Sempre a caccia di nuove battaglie da combattere, si fece apprezzare anche quando affrontò il tema delle madri che lavorano. Nel 1956 fissò le sue idee in un libro, poi contestato dalle femministe, scritto con la psicologa inglese Viola Klein, Women’s Two Roles (I due ruoli della donna). Il titolo era il frutto della convinzione di Myrdal, condivisa anche dalla Klein, che le donne nella società moderna vivono due vite, una come madri, l’altra come lavoratrici. I due ruoli, a volte, sono incompatibili e l’uno prevale sull’altro. E mentre Myrdal assegnava alla maternità un compito prevalente, le femministe americane più intransigenti contestavano che quello fosse un compito cruciale. Women’s Two Roles fu tradotto in diverse lingue. Nel tempo libero spese tutte le sue energie a favore della pace. Tra il 1950 e il 1955 fu presidente della Sezione scientifica e sociale dell’Unesco. Divenne ambasciatrice in India, dove conobbe il primo ministro Jawaharlal Nehru. Quell’incontro fu la molla che la convinse a dedicare tutti i suoi sforzi a favore del disarmo e la portò sulla soglia del premio Nobel. Nel 1961 si batté come un leone affinché le superpotenze imponessero il divieto di test nucleari e abbandonassero la folle politica imposta dalla guerra fredda, grazie alla quale migliaia di armi nucleari erano puntate sulle principali città di tutto il mondo. Nel 1962 fu nominata rappresentante delegato per la sua nazione nella Conferenza sul disarmo di Ginevra, ruolo che ricoprì per più di dieci anni. Fu eletta al Parlamento e membro del Gabinetto con il compito speciale di promuovere il disarmo. Tra tutti questi compiti va ricordato anche quello di fondatrice a Stoccolma dell’Istituto per la ricerca della Pace. Per il suo talento e il suo impegno internazionale in una causa tanto importante le venne consegnato il Nobel per la Pace nel 1982. Morì pochi anni più tardi, nel 1986. Alva Myrdal è stata una figura preminente del secolo scorso. Con le sue idee e
soprattutto con azioni pratiche ha reso meno impervio il sentiero che porta alla pace. La sua convinzione profonda era che la violenza e le armi non possano dare la vittoria a una nazione. Sapeva benissimo che parlare di pace duratura tra i popoli è un concetto utopico. Ma il primo o doveva essere fatto. Un obiettivo a medio-breve termine, possibile e doveroso per proteggere la sicurezza, i diritti e la dignità di milioni di persone. Un altro fattore che secondo la Myrdal convalidava la sua tesi era il fatto che l’uso di armi atomiche avrebbe portato a conseguenze che nessuno poteva prevedere. Effetti devastanti non solo per il Paese attaccato ma anche per quello che attaccava. Myrdal proponeva il congelamento di ogni arma e sistema offensivo come primo o plausibile e realistico in una politica di disarmo. “La tecnologia ha una doppia faccia, non è né buona né cattiva ma bisogna imparare a utilizzarla nel modo eticamente più giusto”. Non ci sono invenzioni o scoperte dannose per l’umanità, è l’uomo che ha il dovere, nei confronti di se stesso e dei suoi simili, di agire in modo etico ed equo. A questo proposito la Myrdal citava l’esempio di Alfred Nobel, orripilato dall’idea che la sua invenzione della dinamite potesse essere usata per uccidere delle persone (dopo aver inventato l’esplosivo più potente conosciuto del tempo, diventò pacifista). In sé la nitroglicerina è una cosa buona, per esempio è un farmaco utile nella cura delle cardiopatie croniche. Tutto sta nelle mani dell’uomo e dell’uso che vuole fare della sua intelligenza e delle sue capacità. A leggere la sua biografia, il cammino di Alva Myrdal sembra essere tracciato come un sentiero dritto, senza curve o ostacoli, tanto le erano chiari i suoi obiettivi. Ferree convinzioni e tanta buona volontà. Questo le deve essere servito per prodigarsi così strenuamente e costantemente per la politica di disarmo della popolazione globale. Eppure le difficoltà ci furono. Non fu sicuramente semplice ricoprire negli anni del dopoguerra un ruolo così importante e decisivo, non solo all’interno del governo del suo Paese, ma addirittura nel contesto mondiale. Soprattutto per lei che era donna. Ciò che più colpisce è il suo andare avanti con ostinazione e tenacia verso un fine enorme, quello del conseguimento di un’armonia tra i popoli. Le sue non erano idee teoriche, cercò sempre di attivarsi concretamente e di
valutare in modo pragmatico ciò che pian piano poteva essere fatto. La sua attenzione non era rivolta esclusivamente alla politica di disarmo, ma anche alla connessione tra il problema degli armamenti, l’avanzare della tecnologia e la crescita costante della violenza nella società. Concezioni modernissime, al cui centro sta sempre il mettere al primo posto la salvaguardia e la sacralità dei diritti dell’uomo.
Barbara McClintock (Usa)
Nobel per la Medicina 1983
Nel DNA del granturco Grazie a lei la genetica ha fatto i da gigante. Poco apprezzata durante gli anni di lavoro, ha ottenuto i doverosi riconoscimenti solo quando era anziana e ormai in pensione. Tutto questo perché donna Barbara McClintock nacque ad Hartford, nel Connecticut, il 16 giugno del 1902 da Sara Hardy e Thomas McClintock. Anche lei fu una predestinata che dovette lottare per farsi largo nella società americana impregnata di pregiudizi maschilisti. Però non cedette mai di un millimetro e superò o aggirò gli ostacoli che le convenzioni del tempo ponevano sulla sua strada con feroce determinazione. Assolutamente indipendente, snobbata dal mondo scientifico, esaltò la sua “capacità di essere sola” e si dedicò totalmente alla ricerca. La ione per la scienza l’accompagnò fin dall’adolescenza. La madre era un’artista, pianista e pittrice, mentre il padre un affermato professore in medicina. Il rapporto con i genitori non fu mai facile, soprattutto quello con la madre che aveva per lei progetti diversi da quelli poi realizzati. Dopo aver frequentato le superiori alla Scuola Erasmus Hall High di Brooklyn, decise di iscriversi alla Cornell University, nonostante l’opposizione della madre Sara, convinta che un’istruzione superiore avrebbe influito negativamente sulla bontà del matrimonio di una figlia femmina. Lei invece sapeva già cosa le interessava: approfondire in particolare una branca della scienza, quella della genetica. Lo scontro in famiglia divenne duro, appesantito anche da evidenti problemi economici, sino a quando il padre non si schierò con il futuro premio Nobel e la lasciò partire. Era la prima metà del Novecento. Alle donne molti diritti e opportunità erano ancora negati. A questo si aggiunga che lo studio della genetica era agli albori e non esisteva ancora un corso specifico di approfondimento della materia. Il dipartimento che più si avvicinava, era quello di Miglioramento vegetale, ma l’accesso era vietato al gentil sesso.
Senza scoraggiarsi la McClintock decise quindi di iscriversi a Botanica e specializzarsi in Citologia (settore della biologia che si occupa delle cellule dal punto di vista della struttura) portando Genetica come materia accessoria. Terminò con ottimi risultati il corso di studi, tant’è che dopo la laurea lavorò all’interno dell’Università dedicandosi alla citogenetica del mais. Il lavoro sulle piccole particelle di questo cereale sarà il centro di gravità dei suoi approfondimenti e scoperte scientifiche da qui fino al suo pensionamento. In quegli anni apparvero sulla rivista Science alcuni suoi articoli, in particolare quelli relativi ai cromosomi della pianta di granturco. Nel 1927 conseguì il dottorato di ricerca e venne assunta dalla Cornell come professore, ma non di ruolo. Insieme ad altri colleghi (il gruppo comprendeva Charles Burnham, Marcus Rhoades, George Beadle, premio Nobel nel 1958 per aver dimostrato che i geni controllano il metabolismo, e Harriet Creighton) spostò la sua attenzione sulla ricombinazione genetica del mais, dimostrando che era dovuta a un effettivo scambio di parti di cromosomi omologhi. In questo particolare periodo sviluppò una tecnica che utilizzava il carminio (un pigmento di un brillante colore rosso ottenuto dal sale di alluminio e acido carminico, prodotto dalla cocciniglia) per visualizzare i cromosomi di mais, e ne individuò per la prima volta la morfologia. Nel 1930, McClintock fu ancora la prima a descrivere l’interazione tra cromosomi omologhi durante la meiosi (la divisione cellulare necessaria per la riproduzione sessuale). L’anno dopo dimostrò lo scambio di materiale genetico che avviene durante la stessa meiosi e la ricombinazione dei caratteri genetici, che lascia in eredità un tratto nuovo. Pubblicò quindi la prima mappa genetica del mais, mostrando l’ordine dei tre geni sul cromosoma mais 9. Si trasferì quindi all’Università del Missouri dove ricoprì l’incarico di professore ordinario. Le sue ricerche si concentrarono sullo studio dei cromosomi di mais che avevano subito un danneggiamento in seguito all’esposizione ai raggi X. Osservò la rottura e la fusione dei cromosomi nelle cellule irradiate e il loro processo di ricongiungimento. Questi ultimi studi, ancora oggi, sono utilizzati in alcuni laboratori impegnati nella lotta ad alcuni tipi di cancro. Nonostante il valore delle sue scoperte, la sua carriera accademica languiva. Le
veniva persino impedito, in quanto donna, di partecipare ai consigli di facoltà. Per nulla disposta ad assistere allo sviluppo delle carriere dei suoi colleghi maschi, magari meno dotati di lei, decise di guardarsi intorno e di cogliere l’occasione per lasciare il Missouri e il suo ateneo. Nel 1941 venne chiamata dalla Carnegie Institute of Technology di Washington in veste di ricercatrice. Proprio in quel periodo si concentrò sulle mutazioni cromosomiche del granturco, nello specifico sui comportamenti anomali dei cromosomi. Il suo impegno nella capitale USA fu premiato. Tre anni dopo il suo arrivo fu eletta, terza donna in assoluto, membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze, ventiquattro mesi dopo divenne presidente della Società Genetica d’America. I riconoscimenti la gratificavano, ma non la soddisfacevano del tutto, sentiva che stava arrivando a un punto di svolta. Era vicina a scoprire qualcosa di importante. E così avvenne: individuò l’esistenza dei trasposoni (elementi cromosomici in grado di spostarsi da una posizione all’altra del genoma). Scoperta rivoluzionaria nell’ambito della genetica, in grado di ridefinire tutto ciò che si pensava all’epoca di questa scienza. Fino ad allora, infatti, si credeva che i geni fossero delle entità fisse sui cromosomi assolutamente incapaci di qualsiasi cambio di posizione e pertanto resi immutabili dall’ereditarietà. La McClintock proponeva una visione totalmente innovativa e moderna. Affermava l’esistenza di un modello flessibile e dinamico, influenzabile dall’ambiente circostante. Aveva una straordinaria capacità di osservazione ed era in grado di cogliere ogni piccolo dettaglio. “Il vizio peggiore degli scienziati” diceva “è quello di stabilire modelli assoluti per poi scartare quello che non quadra”. Il suo approccio era totalmente differente. Il suo segreto era quello di “ prestare ascolto al materiale” e di “entrare in sintonia con l’organismo”. Luogo privilegiato dei suoi studi ed esperimenti era una stanza della foresteria di Cold Spring Harbor. Lavorava per il puro piacere della scoperta. Gli studi sulla trasposizione, però, furono accolti con freddezza dalla comunità scientifica e l’interesse dell’epoca sulla biologia molecolare spostò l’attenzione su altri quesiti. Scrisse che la ricezione alle sue ricerche era di “ sconcerto, addirittura di ostilità”. Le tesi da lei sostenute sembravano quasi un’eresia, il mondo non era ancora
pronto ad accettare tale rivoluzione. Le sue deduzioni furono osteggiate e sottovalutate. A ciò si aggiunse il fatto che fosse una donna. Il mondo scientifico di quegli anni, composto quasi esclusivamente da uomini, non credeva nella validità delle idee di uno scienziato dell’altro sesso. Era il 1951, epoca in cui il ruolo delle donne era quasi esclusivamente relegato alle mansioni di casa. Quelle proposte dalla McClintock erano idee troppo lontane e stravaganti. Si pensi che la scoperta della struttura a doppia elica del DNA risale al 1953. La scienziata andò comunque avanti con i suoi studi. Indipendente e solitaria, si pose ai margini della notorietà. Nel 1957, ricevette un finanziamento dalla National Science Foundation e dalla Fondazione Rockefeller per avviare una ricerca sul mais in Sudamerica, una zona ricca di varietà di questa specie. Cinque anni dopo divenne supervisore di quattro scienziati che lavoravano sul mais sudamericano alla North Carolina State University. Con due di loro, Almiro Blumenschein e T. Angel Kato, pubblicò Chromosome Constitution of Races of Maize, considerato uno studio fondamentale sul mais che ha contribuito in modo significativo allo sviluppo della botanica evolutiva, dell’etnobotanica e della paleobotanica. Fu solamente negli anni Settanta che il mondo scientifico cominciò a condividere e apprezzare appieno il suo lavoro. Gli studi di altri ricercatori di biologia molecolare misero in evidenza l’esistenza di elementi trasponibili negli esseri viventi. Aveva avuto ragione e solo allora il mondo le riconosceva i dovuti meriti (ben 35 anni dopo la sua prima pubblicazione). Arrivarono così premi e medaglie. La McClintock ricevette, tra gli altri, importanti riconoscimenti come la National Medal of Science appuntatale dal Presidente Nixon (1970), l’ Horwitz Prize (1981) e il prestigioso Nobel per la Medicina nel 1983 (prima donna ad aver ottenuto l’assegnazione non in condivisione con altri scienziati). Morì nove anni dopo, all’ Huntington Hospital di New York, novantenne. A lei e alla sua vita eccezionale furono dedicati anche degli spettacoli e dei monologhi teatrali, come l’opera Il gene non è una cosa, di Barbara Bonora. L’intera esistenza di Barbara McClintock evidenzia ancora una volta come il cammino delle donne per il riconoscimento di pari diritti sia stato (ed è ancora)
lungo e faticoso. Il desiderio di superare ruoli predefiniti e aspettative è stato in lei più forte di qualunque altra cosa. La madre avrebbe voluto che si sposasse e avesse figli. La scienziata ha dovuto imporsi per condividere all’università esperienze prettamente maschili. Non si è adeguata a una posizione inferiore, ma ha lottato per le sue ioni. Tutte le donne devono un riconoscimento a personalità come lei, che, con il loro talento e la loro forza d’animo, hanno non solo accelerato il progresso scientifico ma anche quello civile e umano.
Rita Levi-Montalcini (Italia)
Nobel per la Medicina 1986
La curiosità muove il mondo Una scienziata brillante, divenuta simbolo di talento e lungimiranza. È stata l’esempio perfetto di come lo studio costante possa mantenere il cervello e il fisico giovani. Fu la prima donna a essere ammessa alla Pontificia Accademia delle Scienze ed è stata membro dell’Accademia dei Lincei per le scienze fisiche “La chiave dell’esistenza umana non è l’amore bensì la curiosità”. Proprio questo suo irrefrenabile desiderio di conoscenza portò la scienziata a importanti scoperte scientifiche. Rita Levi-Montalcini nacque a Torino il 22 aprile del 1909. La sua era una famiglia ebrea di origini spagnole. Il padre, Adamo Levi, era un ingegnere elettrotecnico e matematico, la madre, Adele Montalcini, una pittrice. La coppia ebbe quattro figli: Gino, Anna e le gemelle Rita e Paola. Fin da giovanissima, Rita aveva deciso cosa fare da grande: diventare una ricercatrice scientifica. A differenza della maggior parte delle donne dell’epoca, non voleva diventare né moglie né mamma, come avrebbero preferito i suoi genitori (nonostante fossero degli intellettuali, erano convinti che “una carriera professionale avrebbe interferito con quelle di madre e moglie”). Lei preferiva studiare e lavorare, dare il proprio contributo attraverso il suo talento. Contro il volere del padre (proprietario di una fabbrica di ghiaccio) si iscrisse quindi all’Università di Torino, alla facoltà di Medicina. La scelta le fu dettata da un evento che la scosse sotto il profilo emotivo: la scomparsa della sua governante, morta per un cancro. La sua predisposizione alla ricerca emerse subito in modo prepotente. A soli vent’anni fu cooptata nella scuola medica dell’istologo Giuseppe Levi che la iniziò agli studi sul sistema nervoso. Frequentava l’ateneo del capoluogo piemontese in buona compagnia. Due colleghi, Salvador Luria e Renato Dulbecco, sarebbero diventati due premi Nobel. Rita nutrì sempre nei confronti di Giuseppe Levi un sentimento di profonda
riconoscenza per averle insegnato ad affrontare i problemi scientifici in modo rigoroso. Nel 1936, si laureò in Medicina e Chirurgia con 110 e lode e subito dopo si iscrisse alla scuola di specializzazione in neurologia e psichiatria. Era affascinata dalla vita accademica. Peccato che fu costretta a interromperla sul più bello, almeno in Italia. Nel 1938, infatti, il regime fascista pubblicò il “Manifesto per la difesa della razza”, il documento ideologico sul quale si basarono le leggi razziali. Tra le mille altre “amenità”, quei provvedimenti imposero il blocco delle carriere universitarie ai docenti che, pur essendo italiani, non erano ariani. Rita, che lavorava nell’Istituto di anatomia comparata e non aveva ancora terminato la specializzazione in neurologia e psichiatria, fu costretta ad abbandonare l’attività accademica. Con il suo mentore, Giuseppe Levi, emigrò in Belgio decisa, comunque, a continuare le sue ricerche. Per due anni, sino all’invasione del Paese da parte della Wermacht, studiò il differenziamento del sistema nervoso all’Istituto di Neurologia dell’Università di Bruxelles. Con l’ingresso delle truppe naziste nella sua nuova residenza rischiava però di finire dalla padella nella brace, non solo in senso letterale. Allora tornò a Torino dove allestì, in camera da letto, un laboratorio. Qui operava embrioni di pollo e pulcini e ne registrava le reazioni. Di lì a poco fu raggiunta da Giuseppe Levi, anche lui in fuga dal Belgio. Il binomio professore-allieva si ricompose, Rita divenne la prima e unica assistente dello scienziato. Tra le mura domestiche Rita Levi-Montalcini fece le prime scoperte che l’avrebbero presto trasformata nell’esponente di punta della neurologia mondiale. Il primo o fu la rivelazione del meccanismo che porta alla morte di alcune fasce nervose nelle fasi iniziali del loro sviluppo. Quel fenomeno, l’apoptosi, trovò una sua precisa definizione solo tre decenni più tardi. Era il 1941. I continui bombardamenti dell’aviazione angloamericana la costrinsero ad abbandonare la città e a rifugiarsi, assieme alla sua famiglia, nelle campagne dell’Astigiano, dove ricostruì il suo mini laboratorio e riprese gli esperimenti. Ma il suo vagabondare, incalzato dagli eventi bellici, era appena all’inizio. Dopo l’8 settembre del 1943, con le truppe tedesche che avevano invaso l’Italia,
scatenando una vera e propria caccia all’ebreo, il fratello Gino decise di fuggire con tutta la famiglia. Viaggiando di notte assieme alla madre, la giovane moglie e le sorelle, lo scultore si trasferì a Firenze. Il soggiorno nel capoluogo toscano durò sino alla liberazione della città. Naturalmente tutti i Levi-Montalcini furono costretti a giocare al gatto con il topo (con loro nelle vesti dei topi), per evitare la deportazione. Cambiavano spesso abitazione, si mimetizzavano con i fiorentini. In un’occasione si salvarono a stento grazie all’aiuto di una domestica che li fece scappare appena in tempo. A Firenze, Rita entrò in contatto con i partigiani del Partito d’Azione e, pochi mesi dopo, cominciò a lavorare come medico nelle Forze alleate. Assegnata a un campo di rifugiati di guerra in cui era esplosa un’epidemia di tifo addominale, si accorse che l’esercizio diretto della professione medica non era quel che voleva e poteva fare. Il motivo? Non riusciva a essere distaccata nei confronti del dolore dei pazienti. Dopo la guerra tornò a Torino dove riprese gli studi accademici e il lavoro al suo laboratorio casalingo. Qui pose le basi della ricerca che l’avrebbe portata alla sua più importante scoperta, quella che le avrebbe fruttato, nel 1986, il Nobel per la Medicina. Quel traguardo fu comunque il frutto di uno studio continuo e di esperienze che la portarono in giro per il mondo. Viktor Hamburger, biologo di fama planetaria, la invitò a St. Louis come docente di Neurobiologia al Dipartimento di zoologia della Washington University. L’insegnamento non le impedì di continuare le sue ricerche sulle relazioni tra neurosviluppo e periferia organica. Gli embrioni di pollo, che sin da giovane aveva esaminato, le fornirono la chiave di nuove scoperte. Innestò cellule tumorali in alcuni esemplari che reagirono producendo fibre nervose sulle cellule gangliari. Avanzò quindi l’ipotesi che quel risultato fosse dovuto a una reazione chimica scatenata dal tessuto ospite, la stessa attiva nello sviluppo dei neuroni. Quei dati misero in luce l’esistenza di un agente promotore della crescita nervosa. Nel dicembre 1951 presentò le sue tesi alla New York Academy of Sciences. Tre anni dopo isolò una molecola proteica tumorale, sintetizzata dalle ghiandole esocrine, presente nel veleno dei serpenti e nella ghiandola salivare dei topi, e ne scoprì i meccanismi di crescita e differenziazione cellulare. Non solo. Quel sistema, che prese il nome di Nerve Growth Factor (NGF), si dimostrò attivo anche sul differenziamento, il trofismo e il tropismo di determinati neuroni del
sistema nervoso periferico e del cervello. La sua scoperta fu importante per comprendere le varie fasi di crescita di cellule e organismi. Oggi ha un ruolo fondamentale nello studio del cancro e di malattie come l’Alzheimer e il Parkinson. L’NFG è una molecola proteica capace di trasformare una cellula qualsiasi in un neurone. Una scoperta straordinaria che ha permesso di conoscere più a fondo una parte del corpo ancora oggi ritenuta misteriosa: il cervello umano. Una tesi fondamentale, anche perché prospettava una forma di rigenerazione dei tessuti nervosi ritenuti in ato irrimediabilmente distrutti. Gli Stati Uniti diventarono la sua seconda patria. Lì visse a lungo ricoprendo importanti incarichi, tra cui quello di professore ordinario di Neurobiologia fino al 1977. Ma anche in Italia ricoprì ruoli prestigiosi, non solo in veste di ricercatrice. Dal 1969 al 1979, per esempio, diresse il Laboratorio di Biologia cellulare a Roma. Nel 1986 ricevette il Premio Nobel per la Medicina. Nella motivazione si legge: “ La scoperta dell’NFG è un esempio affascinante di come un osservatore acuto possa estrarre ipotesi valide da un apparente caos”. La scienziata devolse parte del premio alla comunità ebraica, per la costruzione di una nuova sinagoga a Roma. Nel 1987 ricevette dal Presidente Ronald Reagan la National Medal of Science, l’onorificenza più alta del mondo scientifico statunitense. Raggiunti i limiti di età per poter continuare a lavorare, collaborò con il Laboratorio di Biologia cellulare come guest professor e dal 1989 al 1995 fu cooptata dall’Istituto di Neurobiologia del CNR con la qualifica di superesperto. Dal 1993, per cinque anni, presiedette l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana e divenne membro di numerose accademie scientifiche internazionali, tra cui la Royal Society. L’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la nominò, nel 2001, senatrice a vita. Quella carica risolse le sue difficoltà economiche, visto che non usufruiva né di pensione né di onorario alcuno per le sue collaborazioni. A 102 anni, Rita Levi-Montalcini si alzava la mattina, andava a lavorare all’Ebri ( European Brain Research Institute) della capitale e scriveva libri (ultimo pubblicato La clessidra della vita, steso insieme alla collaboratrice di sempre Giuseppina Tripodi). E a chi le chiedeva se non fosse meglio, visto l’età
avanzata, andare in pensione e riposarsi, rispondeva: “Il cervello, se continua a lavorare sodo, continua a rinnovarsi e può perfino migliorare. Oggi ritengo di avere più possibilità di quando avevo vent’anni, per profondità di pensiero e intuito”. Le sue ultime ricerche riguardavano un farmaco che potesse bloccare gli effetti devastanti dell’Alzheimer. Provato sui topi, l’NFG aveva dimostrato di essere in grado di rallentare la malattia. Così era stato anche nei pochi casi umani in cui era stato sperimentato. Ma oltre agli interessi scientifici ci sono in ballo, su questa vicenda, anche quelli delle industrie farmaceutiche. La Montalcini si era battuta sino alla fine affinché la cura non avesse costi esorbitanti in modo che tutti potessero usufruirne. La scienziata non si era mai arricchita economicamente. Tutto ciò che possedeva l’aveva sempre messo a disposizione della comunità scientifica. Un atteggiamento di altruismo e civiltà che si legava anche al suo profondo impegno per le cause umanitarie. Insieme alla sorella gemella Paola, ideò nel 1992 la Fondazione Levi-Montalcini (in memoria del padre) che aveva e ha lo scopo di garantire lo studio e la formazione professionale in quei luoghi dove ogni giorno si lotta per la sopravvivenza. La Fondazione eroga borse di studio, soprattutto in ambito medico e scientifico, a donne africane, per aiutarle nel loro difficile cammino di emancipazione sociale. Lo sguardo della Montalcini era rivolto ai giovani e al loro futuro. Il suo lavoro e il suo impegno per promuovere talenti stranieri ma anche italiani erano diventati leggenda. “In Italia”, diceva, “la meritocrazia purtroppo non esiste e il meglio dei nostri cervelli è costretto ad andare all’estero, da dove, trovandosi benissimo, non fa più ritorno”. Un’analisi lucida che evidenzia quanto la scienziata offriva, dando la sua opinione su questioni sia scientifiche sia di ordine sociale. “Non si possono mettere lucchetti al cervello” sosteneva. “Tutti possono allargare le potenzialità cognitive. L’intelligenza non è programmata del tutto alla nascita, non è genetica”. E per quanto riguarda le donne: “ Le donne valgono esattamente quanto gli uomini, anzi sono dotate di una maggiore flessibilità cerebrale. Nel corso della storia purtroppo sono state tenute lontane dall’istruzione. Ma là dove hanno accesso al sapere, i risultati non mancano”.
Un messaggio incoraggiante che dava anche un senso di responsabilità: ognuno di noi ha la possibilità di migliorare le proprie capacità e il dovere di sostenerle per il raggiungimento non solo del benessere individuale ma anche di quello collettivo. Rita Levi-Montalcini è deceduta il 30 dicembre 2012, all’età di 103 anni. È stata sempre lucidissima, sino all’ultimo respiro.
Gertrude Belle Elion (Usa)
Nobel per la Medicina 1988
L’insaziabile voglia di sapere Una scienziata che ha approfondito vari campi del sapere: biochimica, immunologia, fino alla virologia. Ha trovato la formula di numerosi farmaci, dal Purinethol per il trattamento della leucemia, all’Imuran, agente immunosoppressivo utilizzato per i trapianti di organi, fino all’AZT contro l’HIV Gertrude Belle Elion nacque il 23 gennaio del 1918 a New York, “in una notte così fredda”, come lei stessa scrisse in una sua autobiografia, “che i tubi dell’acqua nel nostro appartamento congelato stavano scoppiando”. Il padre, Robert, ultimo di una dinastia di rabbini, era emigrato giovanissimo dalla Lituania. Arrivato nella sua “terra promessa” riuscì a dotarsi di un’istruzione elevata per il periodo. Si laureò, infatti, alla New York University School of Dentistry. La madre, Bertha Cohen, russa, era approdata anche lei negli Stati Uniti per cercare un futuro migliore. La nascita della loro prima figlia fu il coronamento di un sogno d’amore e di speranza. Entrambi furono genitori liberali e aperti, capaci di garantire un’infanzia serena ai loro figli (Gertrude aveva un fratello minore, Herbert, poi diventato ingegnere). Visse i suoi primi sette anni in un grande appartamento a Manhattan, dove il padre aveva il suo studio dentistico, poi si trasferì nel Bronx. Scrisse nella sua biografia: “Siamo andati a una scuola pubblica a pochi i da casa nostra. Le nostre aule erano generalmente abbastanza affollate, ma abbiamo ricevuto una buona istruzione di base”. Ciò che la contraddistinse, sin da piccola, era la sua inesauribile sete di conoscenza. Non era attratta da nessuna materia in particolare, voleva sapere di tutto. Il suo intelletto sveglio era evidente e veniva sviluppato grazie alla lettura vorace di tutto ciò che le interessava. Corse però il rischio di perdersi. A causa del crollo dei mercati finanziari del
1929, aveva appena 11 anni, la sua formazione fu messa in dubbio. I soldi in famiglia non erano molti perché il padre, come tanti appartenenti alla middle class americana in quel periodo, fece bancarotta. Risparmi non ce n’erano più, l’unico sostegno economico erano i pazienti dello studio dentistico di famiglia, ma non bastavano a coprire le spese per la sua istruzione. Nonostante tutto, grazie ai sacrifici dei suoi genitori, riuscì a concludere con successo il primo ciclo di studi. Alla fine della scuola inferiore si trovò di fronte a un dilemma. Essendo interessata a tutto lo scibile umano era indecisa sulla strada da intraprendere. La spinta verso la scienza arrivò da un tragico evento. Suo nonno, cui la legava un profondo affetto, morì di cancro allo stomaco. Gertrude, sconvolta dal dolore, decise che avrebbe fatto qualunque cosa affinché nessuno dovesse più soffrire così terribilmente. Entrò quindi all’ Hunter College e si iscrisse a Chimica. Considerò quella scelta come “un primo o logico per impegnarmi a combattere la malattia”. Ma se non fosse stato che l’ Hunter College era un collegio pubblico e che i suoi voti erano molto alti, non avrebbe mai ricevuto un’istruzione superiore. Nel 1937 si laureò con lode. Alla gioia del primo traguardo accademico conseguito, seguì un periodo di insoddisfazione. Le poche opportunità di collaborazione nei laboratori scientifici le erano precluse a causa del suo sesso. In poche parole visse la stessa condizione di molte donne del suo tempo che erano discriminate da una società maschilista. Non c’erano dottorati di ricerca disponibili per chi, come Gertrude, non portava i pantaloni. Dovette accontentarsi. Lavorò per tre mesi insegnando biochimica nella scuola per infermieri a New York e, ancora una volta grazie all’aiuto economico dei suoi genitori, si iscrisse all’università della stessa città. Lì incontrò un chimico che stava cercando un’assistente di laboratorio. Nonostante il salario fosse bassissimo (meno di 20 dollari a settimana) la Elion accettò, pensando che valesse la pena fare un’esperienza di tal genere. Era il 1939 e lei era l’unica donna a frequentare il corso di chimica. Studiava di notte, nei week end e ogni volta che aveva un minuto libero. Tutti questi sacrifici furono coronati nel 1941, quando fu la prima donna a ottenere il Master of Science in chimica. Anche questa volta la gioia per un nuovo traguardo raggiunto fu offuscata dalla morte, per endocardite batterica, dell’uomo che
amava e che voleva sposare. Si pensi che se la malattia fosse apparsa solo due anni dopo, il fidanzato si sarebbe salvato grazie alla scoperta della penicillina. Gertrude visse quel dolore, che le rimase sempre nell’anima, con molta dignità. “Questo mi convinse ancora di più dell’importanza della ricerca scientifica” disse la Elion, che non si sposò mai più e non ebbe figli. All’epoca, infatti, non era facile avere una carriera e insieme una famiglia. Le madri, si pensava, dovevano rimanere in casa. Nel frattempo era esplosa la Seconda Guerra Mondiale. I chimici cominciarono a scarseggiare nei laboratori industriali. La Elion trovò un’occupazione come analista con il compito di controllo qualità per la Quaker Maid, un’importante industria alimentare del tempo. Qui imparò molto riguardo all’utilizzo della strumentazione, ma lasciò il lavoro dopo solo un anno e mezzo perché troppo ripetitivo. Collaborò in seguito anche con la Johnson & Johnson nel New Jersey. Nel 1944 le fu offerta l’opportunità di diventare l’assistente di laboratorio di George Hitchings alla Burroughs Wellcome, società farmaceutica tra le più importanti degli States. In Hitchings, Gertrude trovò un uomo cordiale e pronto a insegnarle tutto quello che sapeva, caricandola man mano di responsabilità sempre maggiori. Così ebbe modo di spaziare senza limiti, dalla microbiologia alle pratiche della biologia, dalla farmacologia all’immunologia. Intanto, per ottenere il dottorato di ricerca, cominciò a frequentare la sera l’Istituto Politecnico di Brooklyn. La informarono però che se voleva andare avanti doveva dedicarsi a tempo pieno allo studio. Dovette prendere quindi una decisione. Sapeva che sarebbe stata una scelta importante che avrebbe influenzato il suo avvenire. Studiare o continuare il lavoro in laboratorio? Decise per la seconda ipotesi. I fatti, anni dopo, le avrebbero dato ragione. Chiusi nel loro regno, Elion e Hitchings esplorarono nuove frontiere scientifiche. Si sapeva ancora poco sulla biosintesi dell’acido nucleico o degli enzimi coinvolti e ciò permise loro di essere completamente liberi da ogni pregiudizio o teoria già enunciata. L’attività di Gertrude si concentrò in particolare sulle purine (composti azotati presenti negli acidi nucleici). “Era come se fossimo protagonisti di una storia del mistero in cui dovevamo costantemente dedurre i risultati microbiologici” affermava la scienziata ricordando quel periodo.
Le loro scoperte portarono alla messa a punto di nuovi farmaci in grado di combattere gli agenti patogeni (inibendoli o uccidendoli) senza danneggiare le cellule ospiti. Tra questi compaiono il Purinethol, il primo trattamento contro la leucemia, l’ Imuran, il primo agente immunodepressivo usato per i trapianti d’organi, lo Zyloprim contro la gotta. E ancora il Daraprim contro la malaria, il Septra contro la meningite, la setticemia e le infezioni batteriche delle vie urinarie e respiratorie e lo Zovirax che cura l’herpes virale. Fu lei, inoltre, a coordinare lo sviluppo dell’ AZT, il primo medicinale contro l’HIV. Quando i due scienziati videro che i risultati delle loro ricerche si traducevano in medicine utili che avrebbero dato sollievo a milioni di pazienti ne furono immensamente gratificati. Era una sensazione intima, personale, più volte sottolineata, che li esaltava più di qualunque premio o onorificenza. E di riconoscimenti Gertrude ne ebbe moltissimi, a cominciare dal Nobel per la Medicina nel 1988. La donna che aveva dovuto scegliere tra una vita trascorsa in laboratorio o proseguire gli studi per una laurea aveva vinto la sua battaglia. Non solo. I risultati delle sue ricerche le procurarono una messe di titoli. Oltre al Nobel e a venti lauree ad honorem di dottorato, Elion ricevette, nel corso della sua vita, la Medaglia Garvan dall’American Chemical Society (1968), il Judd Award dello Sloan-Kettering Institute (1983), l’ American Chemical Society Distinguished Chemist Award (1985), l’ American Association of Cancer Research Cain Award (1985), l’ American Cancer Society Medal of Honor (1990) e la National Medal of Science (1991). Era membro della National Academy of Sciences, dell’ American Chemical Society e dell’ American Association of Cancer Research, di cui era presidente. Nel 1991, è stata la prima donna inserita nella National Inventors Hall of Fame. Fu chiamata a ricoprire il ruolo di consulente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in comitati che si occupavano di ricerca sulle malattie tropicali. Una pioggia di impegni che non la distolse, tuttavia, dal coltivare altre sue ioni: i viaggi, la fotografia e la musica. Spesso girovagava per il mondo in compagnia dei suoi nipoti e andava all’Opera. Adorava ascoltare la musica, in particolare quella classica. Tutte quelle ore in laboratorio non le pesavano affatto, era felice di lavorare nel suo ambiente. Sempre gentile e allegra, amava le sfide e insegnare ai giovani, trasmettendo loro il più possibile di quello che aveva sperimentato. Diventata
professore di Ricerca di Medicina e Farmacologia alla Duke University, prendeva ogni anno come assistente uno studente di medicina che voleva fare ricerca nei settori della biochimica del tumore e della farmacologia. “ In un certo senso,” diceva “la mia carriera sembra aver chiuso il cerchio: dai miei primi giorni come insegnante a ora che condivido la mia esperienza nel campo della ricerca trasmettendo le mie conoscenze alle nuove generazioni di scienziati”. Anche dopo il pensionamento continuò a collaborare come scienziata emerita e consulente al Dipartimento di terapia sperimentale dei laboratori Wellcome. Nel corso della sua vita ottenne 45 brevetti. Morì nel 1999 all’età di 81 anni.
Nadine Gordimer (Sudafrica)
Nobel per la Letteratura 1991
Tra bianchi e neri Con Doris Lessing è l’altra voce femminile di lingua inglese della Letteratura sudafricana. Attraverso le sue numerose opere letterarie lotta ancora oggi contro ogni forma di razzismo e ingiustizia Nadine Gordimer è nata nell’area urbana mineraria a est di Johannesburg, in Sudafrica, il 20 novembre del 1923. I suoi genitori erano entrambi immigrati ebrei: il padre, Isidore Gordimer, un orologiaio lituano, aveva raggiunto il Sudafrica dopo essere fuggito dalla Russia, la madre, Nan, proveniva da Londra. Fu proprio in famiglia che si formò il suo spirito anti-apartheid. Il padre ricordava la sua esperienza di rifugiato ebreo nella Russia zarista e, pur non approvandole, tollerò le politiche razziali. La madre, la vera anima battagliera del gruppo, fondò addirittura un asilo nido per bambini neri per combattere la povertà e le discriminazioni. La struttura della società sudafricana nel 1930 era al tempo stesso complessa e rigida. Era suddivisa in fasce sociali, senza la possibilità di travasi. Al vertice della piramide erano assisi i coloni inglesi e gli afrikaner bianchi, per lo più discendenti dei primi immigrati olandesi, si e tedeschi. Sotto di loro erano collocati gli immigrati più recenti, magari provenienti dall’Europa dell’est, come il padre di Nadine. I più svantaggiati erano gli africani neri, coloro che lavoravano nelle miniere d’oro della città, cui era negato l’accesso a tutte le strutture pubbliche. Questa separazione di fatto fu codificata nel 1948 quando il Partito Nazionale, dominato dagli afrikaner, vinse le elezioni nazionali e impose l’obbligo di separazione assoluta delle razze. Interi quartieri come Sophiatown furono demoliti per scacciare i neri africani e sostituirli con i residenti bianchi. In quel periodo, la scrittrice visse sulla propria pelle la repressione ordinata dai governi sudafricani contro coloro che erano sospettati di lavorare per l’integrazione. Era ancora adolescente quando la polizia fece irruzione nella sua
casa e confiscò una serie di lettere, diari e documenti che non avevano nulla a che vedere con la lotta anti-apartheid. Giovanissima fu testimone di un altro episodio, che probabilmente accese definitivamente la scintilla del suo cammino verso l’attivismo politico e sociale che poi caratterizzerà tutta la sua vita. Un giorno era in un negozio insieme a sua madre per acquistare delle lenzuola quando entrò una persona di colore. Mentre Nadine poteva toccare liberamente i tessuti, il cliente nero aveva l’obbligo di indicare col dito ciò che gli interessava senza avere nessun contatto con la merce. Situazione paradossale perché al momento del pagamento il commesso non si fece scrupoli di ricevere dalle sue stesse mani il denaro. Il Sudafrica, come detto, era all’epoca una società nettamente divisa tra bianchi e neri. Ai primi (che si erano stabiliti in quelle zone da una generazione solamente) era concesso ogni diritto e privilegio. Ai secondi (veri abitanti di quella terra da centinaia di anni) veniva negato quasi tutto, erano esclusi dalla società che loro stessi avevano contribuito a far nascere. Non potevano frequentare gli stessi luoghi dei bianchi, non avevano diritto ad avere un’educazione e venivano considerati come cittadini di serie b. Gli unici lavori loro concessi erano quelli di minatori, braccianti, personale domestico e fattorini. La società in cui crebbe la Gordimer era quindi segnata da un solco profondo, visibile esternamente ma soprattutto presente nei cuori dei suoi abitanti. Rabbia, repressione, razzismo e ingiustizia erano i sentimenti prevalenti. Come diceva l’ex Presidente Mandela: “Il razzismo è una di quelle barbarie che inquinano le relazioni e avvelenano le menti”. Nonostante le origini ebree, all’inizio Nadine Gordimer fu educata in una scuola cattolica. Aveva una profonda ione per la danza, ma una breve malattia convinse la madre che la figlia soffrisse di cuore. Per questo motivo la ritirò prima dai corsi di danza, poi, e definitivamente, dalla scuola. La sua formazione avvenne quindi tra le mura domestiche. La sua fu un’esistenza solitaria, con pochi amici e, all’inizio, quasi nessuna vita sociale. Lei non se ne lamentò mai, anzi creò un mondo avventuroso e di idee grazie alle sue letture. Si formò con lo studio dei maestri della narrativa europea. Proust, Čechov e Dostoevskij divennero presto i suoi modelli di riferimento. Cominciò a scrivere fin da adolescente. Nel 1937, a soli 15 anni, pubblicò i suoi primi racconti The Quest for Seen Gold e Come Again Tomorrow.
Iniziò poi a frequentare dei corsi di scrittura a Johannesburg, recandosi in treno all’università. Qui c’erano pochissimi studenti neri, ma Nadine si rese presto conto di avere molti punti in comune con loro. Furono anni intensi, frequentò artisti di ogni genere e colore: musicisti, attori e scrittori. Proprio grazie a questi contatti, una volta trasferitasi nella capitale, si impegnò nella politica, in particolare nell’ African National Congress (ANC) quando questo era fuorilegge. Ciò che la spinse definitivamente ad aderire al movimento anti-apartheid fu l’arresto della sua intima amica Bettie du Toit durante il massacro di Sharpeville (il 21 marzo 1960 durante una manifestazione pacifica la polizia sudafricana aprì il fuoco uccidendo 72 persone). Sempre più partecipe alla vita politica del suo Paese, nel 1962 divenne amica di Nelson Mandela durante il processo di primo grado, che sancì la pena dell’ergastolo a Robben Island per il leader sudafricano (quando Mandela fu rilasciato nel 1990, tra le prime persone che volle vedere c’era Nadine Gordimer). Durante il periodo successivo, il governo sudafricano dichiarò fuori legge alcune sue opere. A causa di The Late Bourgeois World ebbe la sua prima esperienza personale con la censura. Il libro fu bandito per un decennio, A World of Strangers per dodici anni. Burger’s Daughter, pubblicato nel giugno 1979, fu bandito dopo appena un mese. In Occasion for Loving, racconto di una donna bianca innamorata di un uomo nero, scatenò le ire dei benpensanti dell’intero Sudafrica. Ironia della sorte, nel 2001, quando al potere c’era Thabo Mbeki, delfino di Mandela, una commissione provinciale di censura rimosse July’s People dalla lista dei libri di scuola, insieme a opere di altri scrittori anti-apartheid, con l’accusa di essere un testo “profondamente razzista”. Gordimer, naturalmente, prese quella decisione come “un grave insulto”. Dal punto di vista affettivo, la vita di Nadine Gordimer si è sviluppata attorno a un grande amore. Dopo un breve matrimonio e la nascita della figlia, Oriane, nel 1954, sposò Reinhold Cassirer, un mercante d’arte ebreo sfuggito alla caccia che anni prima i nazisti avevano scatenato in tutta l’Europa. La loro unione, consacrata subito dalla nascita di Hugo, durò fino alla morte di Reinhold nel 2001.
Dal punto di vista della narrativa si può dire che la Gordimer è stata un’autodidatta. "L’essenziale" come spesso ripete ai giovani emergenti, "è leggere, leggere e ancora leggere i grandi autori del ato". La sua produzione artistica è molto ampia, comprende quindici romanzi, racconti e saggi d’ispirazione politica. Tutti, da The Lying Days del 1953 fino a No Time Like the Present del 2012, sono legati da un filo conduttore: l’analisi lucida e mai retorica degli eventi storici e sociali dell’Africa e non solo. Paesi e culture lontane difficili da comprendere, segnate da terribili conflitti, miseria e corruzione. La scrittrice rende a pieno il clima non solo sociale e politico ma anche umano dei paesi protagonisti delle sue opere (Congo, Egitto, Costa D’Avorio, Botswana, Ghana, Madagascar, Zimbabwe). Ci sono moltissime descrizioni dei prodotti culturali autoctoni, delle tradizioni e dello stile di vita delle popolazioni. Nei suoi scritti (in cui vi è tra l’altro una forte indagine psicologica dei personaggi) esprime le rivolte e i conflitti tra i bianchi e i neri. I paesaggi (le sterminate pianure, le foreste e i lunghissimi fiumi) e gli animali (leoni, elefanti, gorilla e uccelli) non fanno solamente da sfondo alle vicende narrate, ma sono dei veri e propri comprimari. La Gordimer ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti, tra i quali il Booker Prize (1974), il Premio Levi (2002) e nel 1991 è stata insignita del premio Nobel per la Letteratura. Con le parole dell’Accademia dei Nobel: “Nadine Gordimer, attraverso la sua scrittura magnifica ed epica, ha donato un enorme contributo all’umanità”. Nell’era post-apartheid, Nadine Gordimer ha puntato la sua penna contro le contraddizioni di una società in transizione da un ato tragico a un futuro incerto, così come sul dolore provocato dalla sua esperienza affettiva. Anche in questo caso non ha fatto sconti. Con il libro del 1998, The House Gun, ha affrontato il tema della criminalità nel Sudafrica libero. Il lutto personale è invece il filo conduttore di Get a Life, pubblicato nel 2005. I suoi scritti di saggistica sulla storia, la politica e la letteratura sono stati raccolti nei volumi The Black Interpreters, The Essential Gesture, Writing and Being, Living in Hope and History. L’autrice era tra i fondatori del Congress of South African Writers e mantiene
rapporti con l’African National Congress. Per svariati anni ha ricoperto, inoltre, la carica di Goodwill Ambassador delle Nazioni Unite. Oltre a scrivere, ha tenuto conferenze in tutto il mondo in materia di politica estera e discriminazione, sempre con l’intento di arrivare a costituire delle società in cui non vi sia sopruso, ma nelle quali tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti e doveri. Porsi domande senza accontentarsi delle apparenze. Questa è la grande lezione che ha lasciato Nadine Gordimer. Con le elezioni libere del 1994 il Sudafrica è uscito dal regime segregazionista. Mandela ha guidato il suo Paese inaugurando una nuova stagione di pace e democrazia. La Gordimer non ha mai smesso, tuttavia, di far sentire la sua voce, esprimendo la sua opinione sui temi d’attualità politica e continuando a raccontare senza censure la realtà che la circonda. “ Molto è stato fatto”, ha detto la scrittrice, “il Sudafrica poteva sprofondare in una guerra civile e diventare un altro Afghanistan, ma per fortuna non è andata così. Tuttavia c’è ancora tanto da fare”. Ci ha lasciati 13 luglio 2014.
Aung San Suu Kyi (Birmania)
Nobel per la Pace 1991
Contro tutti i dittatori Una donna straordinaria, la cui prigionia e i drammi familiari non hanno intaccato minimamente il suo sogno: rendere la sua terra, la Birmania, un Paese libero e democratico “Lavorare con tutte le forze democratiche, senza perdere la speranza per un futuro migliore”. Queste parole risuonano ancora più profetiche se a pronunciarle è stata Aung San Suu Kyi. Erano contenute nel primo discorso tenuto dalla leader birmana nel novembre del 2011, dopo sette anni vissuti agli arresti. Sono diventate attualissime durante il periodo in cui il premio Nobel hs combsttuto, dall’interno del Parlamento del suo Paese, la lotta per la libertà del suo popolo da una dittatura opprimente. Di prigionia, separazioni e drammi familiari Aung San Suu Kyi ne ha subiti molti. Avrebbero spezzato personalità forti, anzi fortissime, non lei. Nata il 19 giugno del 1945 a Yangon, in Birmania, è la figlia terzogenita di Aung San, esponente e segretario del Partito comunista nazionalista birmano dal 1939 al 1941, considerato il padre della moderna Birmania, e di Daw Khin Kyi. Ancora piccola, una prima tragedia si abbatté sulla sua famiglia. Aveva solo 2 anni quando il genitore fu assassinato. Mandanti ed esecutori militavano tra le fila dei suoi oppositori politici. Gli imputavano l’accordo sottoscritto con il Regno Unito per l’indipendenza della Birmania. Quell’evento doloroso segnò per sempre la sua vita e le sue idee. Da quel momento in poi, tra un lutto e l’altro, si legò ancora di più alla madre, una figura forte e determinata. In quel periodo, anche il fratello Aung San Lin scomparve, all’età di 8 anni, annegato in un laghetto ornamentale adiacente alla casa in cui abitavano. Dopo la morte del marito, Daw Khin Kyi divenne un importante personaggio politico. Ottenne anche la nomina di ambasciatrice in India e in Nepal. Aung San Suu Kyi cominciò così a viaggiare al seguito della madre. Quella condizione
privilegiata le consentì di frequentare le scuole migliori, nel suo Paese e all’estero. Durante la sua infanzia in Birmania, il futuro premio Nobel fu educata in un istituto metodista inglese. Aveva un talento innato nell’apprendimento delle lingue straniere. Dopo aver frequentato la scuola del Convento di Gesù e Maria, a New Delhi, ed essersi laureata al Lady Shri Ram College della stessa capitale indiana, continuò i suoi studi in Europa, allo St. Hugh’s College di Oxford. Qui conseguì con ottimi risultati la laurea in Economia, Scienze politiche e Filosofia. Subito dopo si trasferì a New York, per completare la sua formazione cosmopolita. Frequentava l’università e parallelamente lavorava nella sede delle Nazioni Unite. Erano anni di studio e fatica intensi. Le sere e i weekend li trascorreva come volontaria negli ospedali, aiutando pazienti indigenti e offrendosi nei programmi di lettura e intrattenimento. Proprio in quel periodo conobbe Michael Aris, studioso di cultura tibetana, di cui s’innamorò e che sposò nel 1972. Dalla loro unione nacquero due figli, Alexander e Kim. La loro era una famiglia molto unita. Viaggiavano tra l’Europa, l’Asia e gli Stati Uniti: mentre Michael era impegnato nelle ricerche sulla cultura tibetana e hymalaiana a Oxford, Aung San Suu Kyi si dedicava ai bambini e recuperava materiale per scrivere la biografia del padre. Tra impegni e famiglia il tempo sembrava scorrere veloce, fino a quando accadde un altro evento che sconvolse la loro esistenza. Nel 1988, precisamente il 31 marzo, Aung San Suu Kyi ricevette una telefonata dalla Birmania. Sua madre aveva avuto un ictus ed era in gravi condizioni. Il giorno seguente, il premio Nobel era già sull’aereo che la portava a Yangon. In quegli anni la sua terra viveva uno dei momenti più drammatici della sua storia. Il generale Saw Maung aveva preso con la forza il potere e aveva instaurato un regime dittatoriale. I morti tra i civili erano migliaia. Le manifestazioni che chiedevano la democrazia erano sistematicamente soppresse con la violenza. Aung San Suu Kyi non poté non ascoltare la sofferenza del suo popolo. Era una donna attiva, altruista e lungimirante e decise di contribuire alla lotta per la libertà fondando la Lega Nazionale per la Democrazia, un’associazione che si basava sui principi della non violenza predicati dal Mahatma Gandhi.
Il regime non riconobbe quell’organizzazione e decise di sopprimerla condannando Aung San Suu Kyi agli arresti domiciliari, a meno che non volesse lasciare il Paese. Era un ricatto. Gli “inviti” del governo affinché raggiungesse i suoi familiari, il marito Micheal e i figli, all’estero divennero pressanti. Aung San Suu Kyi sapeva, però, che se fosse partita non le sarebbe stato mai più concesso di tornare nella terra che le aveva dato i natali, per la quale aveva combattuto e si era sacrificato suo padre. Nonostante amasse il marito e i figli con tutta la sua anima, con uno spirito di sacrificio che commuove ancora oggi, decise di restare. La lotta per la libertà divenne sempre più dura. Due anni dopo si svolsero le elezioni e la sua Lega riscosse un enorme successo. La NLD vinse con il 59% dei voti e conquistò 392 seggi su 485 in Parlamento. Finalmente la democrazia avrebbe trionfato: Aung San Suu Kyi sarebbe quindi diventata Primo ministro. Le speranze, come i sogni, a volte, si dissolvono alle prime luci dell’alba. La violenza del regime, deciso a non cedere il potere, esplose con tutta la sua rabbia. Ignorando il volere popolare, i militari rifiutarono di riconoscere il responso delle urne. La Birmania si trasformò in un’immensa trappola, una prigione senza via d’uscita. Il mondo, come spesso accade, chiuse gli occhi e assistette inerte senza abbozzare un qualsiasi intervento. Gli unici a ricordare il coraggio di quella donna minuta furono i membri del comitato che nel 1991 le assegnarono il Nobel per la Pace. Il resto è storia recente. Aung San Suu Kyi utilizzò il denaro ricevuto per costruire una rete sanitaria e di istruzione a favore della sua gente. Dopo cinque anni le venne concessa la semilibertà. Ciò voleva dire che comunque non era libera di viaggiare per il mondo. Cominciò a girare per il Paese, tenendo conferenze e incoraggiando il popolo a resistere e cercare di ottenere la pace e la libertà, senza usare alcuna forma di violenza. Il regime aveva sperato, con la sua condanna agli arresti, che i birmani, non vedendola alle manifestazioni pubbliche, l’avrebbero dimenticata. Ma Aung San Suu Kyi incarnava e incarna un sogno, quello di vivere in una società non violenta e civile. Non era e non è possibile scordarsene. Se qualcuno l’avesse fatto, il suo nome sarebbe tornato prepotentemente alla
memoria. Anche per le sue vicende personali. Nel 1999 una nuova tragedia si abbatté sul suo capo. Un altro grave lutto colpì la sua famiglia. Il marito, gravemente malato di cancro alla prostata in fase terminale, scrisse alle autorità birmane affinché venisse concesso a sua moglie, solo per un’ultima visita, di raggiungerlo negli Stati Uniti. Si richiese un gesto di umana comione, rilanciato da Kofi Annan e da Giovanni Paolo II. Ma il potere arrogante non è mai comionevole. Il permesso venne negato e Michael si spense senza aver avuto la possibilità di stringere ancora una volta Aung San Suu Kyi tra le sue braccia (non la vedeva dalla sua ultima visita, nel Natale del 1995). Le sofferenze spirituali e fisiche del premio Nobel sembravano non avere mai fine. Le sue vicende, però, cominciavano a mettere radici nell’immaginario collettivo del mondo occidentale. La sua figura e le sue battaglie diventavano familiari. Colpiva che questa donna, nonostante la separazione dagli amati figli, dal marito, rinchiusa in casa per anni, fosse così forte e avesse la lucidità di portare avanti la sua causa, nonostante tutto. Nel 2002 l’Onu fece pressioni al regime perché le concedesse maggiore libertà. Aung San Suu Kyi poté circolare di nuovo per il suo Paese. Intanto, in tutto il mondo diventò un’icona della non-violenza. A lei si ispiravano cantanti e gruppi musicali, tra cui i Damien Rice, gli U2, i R.E.M., i Coldplay, il sassofonista Wayne Shorter e il pianista Herbie Hancock, che le dedicarono brani musicali. Gli U2 scrissero Walk On (Vai avanti), che venne bandita dalla Birmania. Non solo. Chi importava illegalmente, deteneva o ascoltava l’album della band irlandese All That You Can’t Leave Behind, che conteneva il brano, poteva essere condannato a una pena da tre a vent’anni di reclusione. L’inganno è un’arte che in Estremo Oriente ha raggiunto la sua sublimazione. Nel 2003 accadde un nuovo evento drammatico. Durante una manifestazione pubblica cui la donna partecipava insieme a centinaia dei suoi sostenitori, i militari cominciarono a sparare sulla folla uccidendo 70 persone (l’episodio è noto col nome di “Massacro di Depayin”). Questa volta le proteste del mondo arrivarono sino alle orecchie del regime, che accusò dello scontro due gruppi politici legati alla stessa Lega Nazionale per la Democrazia di Aung San Suu Kyi. Le Nazioni Unite chiesero un’indagine sulla vicenda, i militari la ignorarono,
dispiaciuti solo che tra le vittime non figurasse anche la premio Nobel, che solo grazie alla prontezza di spirito del suo autista era riuscita a salvarsi. Il regime scaricò ogni responsabilità sulla propria avversaria e la costrinse ancora agli arresti domiciliari. Le condizioni erano questa volta ancora più restrittive. La linea telefonica venne tagliata, la posta negata, le visite impossibili. Quelle limitazioni fiaccarono la sua resistenza psicofisica, le condizioni di salute cominciarono a peggiorare. Scattò allora la mobilitazione. Tutto il mondo fece continue pressioni sui militari affinché rinunciassero a tenerla prigioniera. Ricevette decine di riconoscimenti in tantissimi paesi. Tra questi, per esempio, lauree honoris causa da parte di università americane ed europee e il Congresso degli Stati Uniti la insignì della Medaglia D’Onore. Sembrava quasi che si fosse finalmente giunti alla sua liberazione, quando nel 2009 accadde un episodio strano, mai del tutto chiarito come tanti altri nel panorama birmano. Un fanatico religioso americano entrò nella casa di Aung San Suu Kyi attraversando a nuoto il lago Inya che confinava con la sua proprietà. Il suo obiettivo? Convincere il premio Nobel ad abbracciare la fede mormone e lasciarle una Bibbia. L’intruso era John William Yettaw, 53 anni, veterano del Vietnam. Naturalmente il regime non perse tempo e incriminò Aung San Suu Kyi. L’accusa? Avere infranto gli arresti domiciliari. La pena iniziale di tre anni venne convertita in 18 mesi. La data del rilascio sarebbe scaduta 6 giorni dopo le elezioni. Era evidente che si trattava di una mossa tattica del regime per impedirle di candidarsi. Il vento, però, stava per cambiare. Il 13 novembre 2011, dopo innumerevoli pressioni e insistenze, finalmente Aung San Suu Kyi fu liberata. La prima cosa che fece fu uscire e parlare al suo popolo. Ad accoglierla migliaia di persone che la circondarono incoraggiandola. “La base della democrazia è la libertà di parola” disse in quell’occasione, “insieme decideremo ciò che vogliamo e per ottenerlo dobbiamo agire nel modo giusto. Non c’è motivo di scoraggiarsi, né di provare rancore”. Nella primavera del 2012, in Birmania si indissero nuove elezioni. Quella volta Aung San Suu Kyi potè candidarsi al Pyithu Hluttaw, la Camera bassa del Parlamento birmano, che rappresenta il collegio elettorale di Kawhmu. Il suo partito ottenne 43 dei 45 posti vacanti e dopo qualche settimana Aung San Suu Kyi giurò come parlamentare. In quell’occasione disse che la vera battaglia per
un Paese libero era appena incominciata. C'erano ancora più di 2.000 prigionieri politici in Birmania. L'11 novembre 2015 stravince vince le prime elezioni davvero libere della Birmania dopo più di cinquanta anni di dittatura. Nel marzo dell'anno successivo viene nominata Ministro degli Esteri, della Pubblica istruzione e dell'Energia Elettrica. Dopo pochi mesi, però lascia tutte quelle cariche e diventa Consigliere di Stato. Aung San Suu Kyi ha mostrato con l’esempio della sua vita la via giusta per arrivare a una società equa, libera e pacifica. Attraverso la parola e senza alcuna violenza. Grazie alla sua scelta, oltre al premio Nobel, è stata insignita del Premio Rafto, del Premio Sakharov per la libertà di pensiero, il premio Jawaharlal Nehru per la Comprensione Internazionale da parte del governo indiano, il premio Internazionale Simón Bolívar dal governo del Venezuela. Nel 2007, il Canada le ha concesso la cittadinanza onoraria. Ancora oggi è una delle sole quattro persone al mondo ad aver ricevuto questo onore. Solo il 16 giugno 2012, la leader birmana ha ritirato formalmente, in un’affollatissima cerimonia a Oslo, il premio Nobel conferitole nel 1991. È stato il suo primo viaggio all’estero dopo 25 anni. Nel discorso di ringraziamento Aung San Suu Kyi ha sottolineato che la strada verso una piena libertà politica è ancora lunga. Con un fiore bianco tra i capelli e una stola color glicine intorno al collo sottile, ancora una volta ha stupito tutti affermando che: “Basta la gentilezza a toccare anche il più duro dei cuori”.
Rigoberta Menchú Tum (Guatemala)
Nobel per la Pace 1992
L'amore per l'uomo e la natura Testimone di uno dei genocidi più atroci della storia (quello in Guatemala tra gli anni ’70 e ’80 del 1900), ha saputo raccontare al mondo il dramma del suo popolo, diventando un simbolo, contestato, di pace e lotta per i più deboli Vedersi sterminare, uno dopo l’altro, tutti i membri della propria famiglia. Una tragedia che può portare alla disperazione. Invece, come a volte accade, è la scintilla che fa scoppiare la rivolta e spinge una donna fiera a scendere in campo in difesa dei propri diritti e di quelli di un intero popolo. Questa è la storia di Rigoberta Menchú Tum, nata il 9 gennaio del 1959 nel comune di Laj Chimel, nella provincia di San Miguel in Guatemala. Da giovane ha assistito alla distruzione fisica e morale di tutti i suoi cari, madre, padre, fratelli. Da adulta è stata accusata di aver mentito sulle esperienze che l’hanno portata alla soglia del premio Nobel. Cresciuta immersa totalmente nella cultura maya, Rigoberta viveva in una fattoria, tra le montagne e la Costa del Sur. Terre rigogliose e verdi, dove gli indigeni, per un misero stipendio, lavoravano per i grandi latifondisti: raccoglievano prodotti destinati all’esportazione, come il caffè, lo zucchero e il cotone. Il padre, Vicente, fu sospettato di essere un influente membro della guerriglia, durante la guerra civile guatemalteca, durata dal 1960 al 1996. Di sicuro era un personaggio di rilievo nella sua comunità e combatteva per i diritti della sua gente, lì da millenni. La madre, Juana Tum K’otoja’ era una levatrice. Dai genitori, Rigoberta ha ereditato l’amore e il rispetto per la natura, i frutti della terra e le comunità indigene. Aveva appena compiuto vent’anni quando suo fratello fu arrestato, torturato e ucciso con l’accusa di aver partecipato alle attività della guerriglia. L’anno seguente perse il padre, bruciato insieme ad altre 36 persone nel massacro dell’Ambasciata di Spagna: il 31 gennaio del 1980 i militari incaricati di
reprimere i moti popolari incendiarono l’edificio, occupato pacificamente dai rappresentanti dei contadini della zona ovest del Guatemala e da studenti dell’università). Di lì a poco anche la madre e un altro fratello furono sequestrati e assassinati dall’esercito. Già da adolescente Rigoberta si era dedicata ad attività sociali. Dopo i drammatici avvenimenti di cui fu protagonista, si consacrò all’organizzazione di associazioni in difesa degli indigeni, per il rispetto dei loro diritti e per una riconciliazione tra le varie etnie che formavano il popolo guatemalteco. Aiutava, inoltre, le donne a proteggersi non solo dalle insidie di un governo violento e corrotto, ma anche dal maschilismo insito nella cultura locale. Le spronava a essere partecipi della vita comunitaria, alla pari dei loro padri, fratelli e mariti. A poco a poco divenne un punto di riferimento e mediazione tra culture differenti, un ponte di collegamento tra micromondi apparentemente lontani cui mancavano giustizia e pace. Il 1981 è una data che rappresenta una svolta nella sua vita. Minacciata di morte perché aveva aderito al Fronte Popolare, fu costretta a lasciare il Guatemala. Decise così di rifugiarsi in Messico. Anche se viveva in un territorio straniero, pianificava la resistenza in Guatemala. Non solo. L’eco delle sue battaglie cominciò a diffondersi anche all’interno della comunità internazionale. Lei era diventata la testimone più credibile di ciò che stava accadendo nel suo Paese. Grazie a lei, la lotta per la difesa dei diritti civili delle popolazioni indigene varcò i confini della sua terra. Nel 1982 partecipò alla sottocommissione di Prevenzione delle Discriminazioni e Protezione delle Minoranze della Commissione per i diritti umani dell’ONU. Nello stesso anno pubblicò Me llamo Rigoberta Menchú y asì me naciò la conciencia (Mi chiamo Rigoberta Menchú e così è nata la mia coscienza). Il libro, narrato all’autrice e antropologa venezuelana Elizabeth Burgos, non è una biografia della sua vita, ma una testimonianza sull’oppressione subita dalla sua gente. Tradotto in cinque lingue, suscitò l’interesse internazionale e la rese icona della libertà del Guatemala. Nel 1992, a soli 33 anni, le fu assegnato il premio Nobel per la Pace. Era la prima volta che una donna maya riceveva un tale riconoscimento. Una mossa, da parte del mondo occidentale, che aveva
l’obiettivo di concentrare l’attenzione sul conflitto più lungo e aspro del Sudamerica. Una guerra civile fatta di repressione, abusi, razzismo e ingiustizia durata dal 1960 al 1996 e il cui conto finale dei civili assassinati è impressionante, 200.000. Nel discorso tenuto in occasione della consegna del premio, Rigoberta disse che finalmente si era rotto il silenzio intorno al Guatemala. “Ora vorrei vedere la mia terra in pace, con indigeni e non-indigeni vivere fianco a fianco rispettandosi reciprocamente. Noi, gente indigena non solo del Guatemala, ci meritiamo questo riconoscimento. È un regalo per la vita, per la storia e per il nostro tempo”. Più tardi scrisse un secondo volume, Crossing Borders che raccoglieva gli eventi e i pensieri dal conseguimento del Nobel in poi. Quelli furono anni fervidi: fu tra i fondatori del movimento di opposizione al governo, The United Representation of the Guatemala Opposition (RUOG) e diventò membro del National Coordinating Committee. Decise allora di ritornare in Guatemala, ma nuove minacce di attentati alla sua vita la costrinsero a ritornare in esilio. Questo non le impedì di continuare il cammino che aveva intrapreso. Nel 1996 venne insignita come Goodwill Ambassador dell’UNESCO e partecipò all’iniziativa Health for all (Salute per tutti), che aveva l’obiettivo di offrire farmaci a basso costo ai paesi del Terzo Mondo. Dieci anni dopo la pubblicazione di Mi chiamo Rigoberta Menchú, molte nubi si addensarono sul libro e sulla sua autrice. Rigoberta dovette difendersi dall’accusa di falso lanciatale dall’antropologo David Stoll, che aveva svolto un’inchiesta su quanto aveva raccontato nel suo volume. Stoll aveva consultato documenti governativi, intervistato amici e nemici del premio Nobel. Pubblicò i risultati della sua ricerca nel libro del 1999, Rigoberta Menchú e la storia di tutti i poveri guatemaltechi. Il testo ipotizzava che la Mechú avesse modificato a proprio uso e consumo alcuni episodi della sua vita solo ed esclusivamente per soddisfare le esigenze di pubblicità del movimento guerrigliero. Insomma, che avesse compiuto una becera operazione di marketing. Naturalmente, le polemiche causate dal libro di Stoll ricevettero ampia eco, soprattutto sulla stampa americana. Da più parti questa fu vista come una gigantesca operazione per screditare Rigoberta come
un “terrorista marxista” e per chiedere la revoca del suo Nobel. Purtroppo, però, dopo aver accusato Stoll di essere il paladino dell’esercito guatemalteco che si era macchiato di crimini orrendi, Menchú modificò la sua storia. Per sua fortuna, il Comitato del Nobel respinse la richiesta di revocare il suo premio. “Nessuno” dichiarò “ ha messo in dubbio il quadro delle atrocità commesse dall’esercito”, confermando così le vicende da lei raccontate. Nel 2006 Rigoberta è stata tra le fondatrici del Nobel Women’s Initiative. Con altre sei donne che hanno ricevuto il Nobel (tra cui Jody Williams, Betty Williams, Shirin Ebadi, Wangari Maathai e Mairead Corrigan) e che rappresentano ciascuna una parte di mondo, difende lo spirito di pace e giustizia e a i diritti delle donne in tutto il globo. Rigoberta è membro, inoltre, del Peace Jam, un’organizzazione con lo scopo di creare giovani leader che vogliono attuare nelle politiche locali un radicale e positivo cambiamento. Il suo impegno politico continua. Nel 2007 aveva costituito un partito, Encuentro por Guatemala, e si era candidata alle elezioni presidenziali nel 2007. Se fosse stata eletta, sarebbe diventata il quarto Presidente indigeno dell’America Latina dopo il messicano Benito Juárez, il peruviano Alejandro Toledo e il boliviano Evo Morales. Il voto, però, non le fu favorevole, perse al primo turno. Le elezioni si svolsero in un clima di terrore. Molti candidati della sua lista furono minacciati e due di loro uccisi. All’indomani della chiusura delle urne, Rigoberta apparve in televisione per lanciare un messaggio di pace. Questa scelta mise in evidenza, ancora una volta, la sua personalità estremamente forte e decisa che non rinuncia ai suoi ideali. Scelse, infatti, di ripresentarsi alle elezioni del 2011, con un nuovo movimento, WINAQ, “per aprire una breccia che inauguri un nuovo corso in Guatemala”. Perse ancora, ma giurò di continuare la sua missione.
Toni Morrison (Usa)
Nobel per la Letteratura 1993
Le radici dei neri d'America Ha esplorato ogni genere letterario, utilizzando una scrittura epica ed entusiasmante. I suoi personaggi, tormentati da drammatiche vicende personali, sono all’eterna ricerca di loro stessi e della loro cultura in una società bianca e razzista che spesso li opprime Fiction, teatro, poesia, prosa. Non si può dire che Toni Morrison si sia soffermata su un genere specifico. Il suo amore per la narrazione l’ha portata a sperimentare a 360 gradi un mondo che l’ha affascinata fin da piccolissima. Già da bambina, infatti, era un’avida lettrice. Le piacevano in particolare Tolstoj, Flaubert, Jane Austen e Dostoevskij. Nata il 18 febbraio 1931, Chloe Anthony Wofford cambiò nome perché nessuno riusciva a pronunciarlo correttamente. Secondogenita di quattro figli, crebbe a Lorain nell’Ohio, una città industriale, dove c’era un miscuglio di razze: immigrati europei, messicani e neri del sud come i suoi genitori, scappati dal razzismo delle loro terre in cerca di fortuna e opportunità migliori nel nord degli Stati Uniti. Alle scuole di primo livello s’integrò perfettamente, non subì alcuna discriminazione nonostante fosse l’unica studentessa nera nella sua classe. Con l’aiuto dei genitori s’iscrisse alla prestigiosa Howard University dove seguì i corsi di inglese e latino. Qui collaborò con una compagnia teatrale che la portò a fare diversi tour in giro per il sud del Paese, la terra da cui proveniva. Fu un’ottima allieva, dotata e spontanea. Dopo la laurea conseguita con ottimi risultati approfondì la sua istruzione alla Cornell University dove elaborò la tesi sul motivo del suicidio di Virginia Woolf e William Faulkner. Ciò che ha sempre interessato profondamente la scrittrice era tanto la letteratura quanto l’insegnamento. Per questo, dopo il bachelor si iscrisse all’Università del Texas, dove ebbe l’opportunità di studiare e lavorare come insegnante d’inglese.
A differenza di quanto accadeva alla Howard, in questa sede scoprì che la cultura e le tradizioni nere erano studiate e stimate e non minimizzate. Questo la portò a considerare, per la prima volta, la cultura di colore non come parte esclusiva della sua vicenda personale, ma come elemento importante della storia del Paese. Una cultura che faceva fatica a emergere in quegli anni: molte persone con cui venne in contatto erano direttamente legate ai movimenti per i diritti civili dei neri (tra questi il poeta Amiri Baraka e il politico Andrew Young). In quel periodo si innamorò di un architetto suo compagno di studi, originario della Giamaica, Harold Morrison, con cui si sposò nel 1959. Il matrimonio però, nonostante la nascita di due figli, Slade Morrison, Harold Ford Morrison, naufragò. Toni cercò di evadere dalle difficoltà della sua vita facendosi coinvolgere in un gruppo di scrittori conosciuti al campus, dediti come lei alla letteratura. Il gruppo s’incontrava settimanalmente: ognuno aveva il compito di portare un racconto o una poesia su cui discutere poi tutti insieme. Un giorno, non avendo nulla da proporre, decise di scrivere lei stessa una storia. Ispirata alla sua vita nel Lorain, raccontava di una ragazzina che pregava Dio perché i suoi occhi diventassero azzurri. Intanto il suo matrimonio si sgretolava sempre più velocemente. Incinta del secondo figlio, Toni decise di lasciare il marito e di tornare dalla sua famiglia d’origine in Ohio. Nel 1965 si trasferì con i suoi figli a Syracuse, nello stato di New York, dove cominciò a lavorare come editor associato alla Random House. Curava le opere di autori afroamericani come Gayl Jones, Toni Cade Bambara, Angela Davis e Muhammad Ali. Contemporaneamente, collaborava con una rivista letteraria e teneva conferenze che avevano come focus la cultura afroamericana. Di giorno attendeva ai suoi impegni e si occupava dei figli. La sera scriveva. Riprese in mano il racconto scritto per il gruppo all’università e cominciò a rifinirlo, ampliandolo e approfondendolo. Partendo dai suoi ricordi d’infanzia usò l’immaginazione, le persone reali acquisirono tratti e personalità proprie, diventando personaggi. Il materiale si concretizzò in un romanzo, The Bluest Eye (L’occhio più azzurro): storia d’iniziazione alla vita di un’adolescente nera ossessionata dal
mondo dei bianchi tanto da volere gli occhi blu come quelli di Shirley Temple. Lo stile della sua scrittura era un mix di epico e poetico, soprattutto nelle descrizioni dell’America nera. L’opera fu accolta con entusiasmo dai critici, anche se non ebbe un grande riscontro di pubblico. Per nulla scoraggiata, nel 1973 pubblicò il suo secondo romanzo, Sula, subito selezionato per il National Book Award. È il ritratto di due donne, una ribelle, l’altra conformista. Il filo conduttore è la loro crescita durante le grandi migrazioni degli anni Quaranta, periodo che incise profondamente nelle comunità dei neri. Dal 1976 al 1979 insegnò all’Università di Yale. Nel 1977 pubblicò Il Canto di Salomone (Song of Solomon). Il libro racconta la storia di un ragazzo di colore che parte da Detroit alla ricerca del suo ato. Il Book-of-the-Month Club lo inserì tra il Libro del Mese. Poco dopo, Song of Solomon ottenne il National Book Critics Circle Award. La produzione letteraria della Morrison non conosceva pause. Nel 1981 pubblicò L’Isola delle illusioni (Tar Baby) in cui sottolineava con forza i pericoli dell’alienazione della cultura nera negli anni Ottanta. Nel 1983, dopo quasi vent’anni, lasciò la Random House e si dedicò esclusivamente all’insegnamento e alla scrittura. Il suo capolavoro, Beloved (Amatissima), vede la luce nel 1987. Il testo esplora il tema dell’amore e del soprannaturale. La storia si basa su un episodio di cronaca realmente accaduto più di un secolo prima: Margaret Garner, una donna di colore, scappò dal Kentucky, nel 1851, con i suoi tre figli per sfuggire al suo proprietario. Catturata, pur di non far provare ai suoi bambini le sofferenze legate a una vita in schiavitù, tentò di ucciderli, riuscendo tuttavia ad asse solo la sua bimba. Rifiutò di provare rimorso, tanto era il dolore per la sua condizione di schiava.L’opera divenne un best seller. Fu dedicata a tutti gli schiavi morti durante il Middle age, la traversata dell’Atlantico compiuta dalle navi negriere. Quando fu chiaro che in quell’anno per motivi politici non avrebbe vinto né il National Book Award né il National Book Critics Circle Award, alcuni scrittori protestarono duramente contro quella che definirono una “ colpevole omissione” dei giurati dei due premi. Il libro però viveva già di vita propria. Ne fu adattata anche una versione cinematografica con Oprah Winfrey e Danny Glover. Sull’autrice piovvero decine di riconoscimenti tra cui il premio Pulitzer per la
fiction (1998) e il Nobel per la Letteratura nel 1993. Toni Morrison divenne la prima donna nera a essere insignita di questo riconoscimento. Nominata professore all’Università di Princeton, fu la prima scrittrice di colore a far parte dell’ Ivy League University (che accomuna le otto università private più prestigiose degli States). Il suo amore per l’insegnamento e le nuove generazioni la portarono a organizzare, inoltre, un seminario rivolto a giovani scrittori e artisti, durante il quale incoraggiava gli studenti a creare opere originali, non solo letterarie ma appartenenti a ogni campo del sapere. Un record dopo l’altro, a dimostrazione che la ione e il talento possono davvero cambiare le cose nel mondo. Proprio la genialità e l’estro della scrittrice l’hanno portata a esplorare altri campi letterari, non solo quello del romanzo. Ha scritto e curato libri per bambini e ragazzi, drammi teatrali, libretti per opera (Dreaming Emmett) e poesie. Nessuna delle sue fatiche però ha raggiunto le stesse vette di Beloved. Nel maggio 2006, The New York Times Book Review ha dichiarato Amatissima il miglior romanzo americano pubblicato negli ultimi venticinque anni. Insieme ad Alice Walker, autrice tra gli altri di Il colore viola, la Morrison è considerata tra i massimi rappresentanti della narrativa afroamericana degli ultimi cinquant’anni. Ha una forza vitale che la porta a essere ancora oggi, oltre gli ottant’anni, una voce importante della cultura americana e mondiale. Anche se i suoi romanzi in genere hanno come protagoniste donne nere, non vengono considerate opere femministe. Lei stessa ha dichiarato: “Non condivido il patriarcato, e non credo che dovrebbe essere sostituito con il matriarcato. C’è solo bisogno di un accesso equo alla società e ai suoi vertici, aprendo le porte a ogni individuo che ne abbia la capacità”. Come ha detto Charles Larson, giornalista del Chicago Tribune: “I suoi scritti hanno qualcosa di unico, rappresentano la Letteratura più originale degli ultimi 20 anni. E soprattutto sono infusi di un’urgenza nel raccontare la società, che solo un autore nero può avere”.
Christiane Nüsslein-Volhard (Germania)
Nobel per la Medicina 1995
Le mutazioni dei geni Ricercatrice tedesca nel campo della biochimica, grazie all'identificazione del gene che controlla lo sviluppo delle mosche, ha svelato alcuni processi misteriosi che regolano l'intero mondo animale e vegetale Ha introdotto nel panorama mondiale il concetto di “ Grande Scienza”, conducendo un ambizioso progetto di mutagenesi su larga scala. Prima di lei la biologia molecolare era ben poca cosa. Si basava, nella stragrande maggioranza dei casi, su esperimenti che mettevano in evidenza principi generali. Infatti, lo stato delle tecnologie dedicate alla ricerca e, soprattutto, la scarsa disponibilità di risorse economiche, non permettevano di approfondire la complessità di qualsiasi sistema biologico. Christiane dedicò anima e corpo alla comprensione dei meccanismi dello sviluppo embrionale del moscerino della frutta, il Drosophila melanogaster, un animaletto all’apparenza insignificante che le permise di vincere il Nobel per la Medicina nel 1995. E non solo. La scienziata è nata il 20 ottobre 1942 a Francoforte. La sua era una famiglia molto numerosa, composta da quattro fratelli, due sorelle e ben 33 cugini. Lei era la secondogenita. Viveva in un appartamento, a sud di Francoforte, vicino alla foresta e questo le permise di entrare subito in stretto contatto con le piante e gli animali. Nonostante la guerra, trascorse un’infanzia felice, sempre incoraggiata dai suoi genitori a scoprire il mondo che la circondava. Imparò anche a suonare il flauto. In quel periodo non circolavano molti soldi. Ce n’erano appena per mangiare. Christiane non aveva giocattoli, ma ricorda con gioia come fosse divertente, insieme ai suoi fratelli, progettarli e realizzarli con ogni tipo di materiale. Insieme si divertivano anche a cucire i loro vestiti e scrivere libretti. Erano stati educati a realizzare da soli quello che serviva, piuttosto che comprarlo. Il padre, Rolf, era un architetto, figlio di Franz Volhard, docente di Medicina e
specialista nelle patologie del cuore e del rene. La madre, Brigitte, era una valente pittrice che aveva rinunciato a una promettente carriera per dedicarsi ai figli e a iniziative sociali. Entrambi i genitori suonavano uno strumento. Spingevano i loro figli a esplorare tutti i campi del sapere, compresa l’arte. Christiane era interessata a ogni cosa. Avida di conoscenza e attenta osservatrice, cercava di capire ciò che le stava attorno, in particolare gli animali e le piante. Aveva la fortuna di vivere nel verde: amava trascorrere le vacanze dai nonni in una fattoria di un piccolo villaggio, dove si occupava del raccolto e della cura degli animali. Adorava trascorrere il tempo in giardino, ma avrebbe voluto accanto a sé una persona che le spiegasse le cose, i meccanismi più reconditi che regolano la vita. Purtroppo nessuno era in grado di farlo. Già all’età di 12 anni decise che voleva fare la ricercatrice in biologia e visto che non trovava chi fosse in grado di rispondere ai suoi quesiti decise di studiare da sé, attraverso l’attenta osservazione e i libri. Nella sua famiglia era l’unica a nutrire un così forte interesse per la scienza; fu incoraggiata e spronata ad andare avanti per la sua strada. Al liceo fu fortunata, trovò degli insegnanti all’avanguardia e capaci che approfondirono la biologia ampliando il raggio di studio fino alla genetica e al comportamento animale. Argomento, questo, che le interessava molto. Dopo aver letto il libro di Konrad Lorenz, all’esame di maturità presentò una tesina sul linguaggio degli animali. Peccato che fosse pigra, tanto che concluse quel ciclo di studi con un voto mediocre. L’inglese era lo scoglio sul quale corse il rischio di naufragare. Per fortuna il giudizio complessivo dei suoi docenti sottolineava che “è dotata al di sopra della media, ha una critica e un giudizio qualificato, e il talento per il lavoro scientifico indipendente”. Il giorno dell’esame fu colpita da un grave lutto. Perse il padre. Quell’evento la lasciò sconcertata circa il suo futuro. Se da un lato era decisa a studiare biologia, dall’altro rimase affascinata dall’idea di conoscere la medicina. Per questo frequentò un corso di infermiera in un ospedale. L’esperienza, tuttavia, la convinse del tutto che non sarebbe mai diventata un buon medico. Considerava i corsi di biologia dell’Università di Francoforte, dove si iscrisse subito dopo, molto noiosi. Le sembrava di sapere già tutto quello che le
insegnavano. Spinta dalla sua curiosità, scoprì la Fisica, la Matematica e la Meccanica teorica. Poi si ricordò che i suoi veri interessi erano verso la Biologia. Nel 1964 lasciò la casa che le aveva dato i natali e si trasferì all’Università di Tubinga che aveva avviato un nuovo programma per la Biologia, unico nel suo genere in Germania. Lasciò alle sue spalle amici e famiglia, ma anche in questo caso non era del tutto soddisfatta. Riteneva che il corso avesse troppe lezioni di Biochimica e Chimica organica e invece poche di Biologia. Nel complesso considerò quell’esperienza abbastanza positiva perché le permise di farsi una solida formazione in chimica fisica, termodinamica, stereochimica, microbiologia e genetica. Nel campus cercava di apprendere più che poteva. Partecipò anche a seminari e letture di scienziati del Max-Planck-Institut sulla biosintesi delle proteine e la replicazione del DNA, come Gerhard Schramm, Alfred Gierer, Karl Friedrich Bonhoeffer, Heinz Schaller, che divenne il suo mentore, e molti altri. La palestra di Heinz Schaller fu quella in cui fece il suo primo “allenamento” come ricercatrice di laboratorio. Le insegnò a pensare in termini quantitativi, di rendimenti e di completezza delle reazioni. Alla fine degli studi cominciò la stesura della sua tesi (che durò 4 anni) sulla caratterizzazione del legame dell’RNA polimerasi di un batteriofago. Era importante per lei utilizzare le conoscenze della genetica per cercare di capire le leggi della biologia. A fine dottorato decise dunque di occuparsi delle mutazioni che modificavano l’informazione genetica della cellula uovo, per studiarne successivamente la morfogenesi dello sviluppo. I risultati della sua ricerca, condotta in collaborazione con Bertold Heyden, furono pubblicati dalla rivista Nature. Nel 1973 si trasferì a Friburgo, dove incontrò Walter Gehring (famoso biologo) e dove si occupò proprio dello sviluppo embrionale. Decise poi di seguirlo a Basilea e portare avanti la ricerca grazie a una borsa di studio a lungo termine. Qui cominciò ad analizzare le mosche, in particolare la Drosophila (il comune moscerino della frutta, molto utilizzato in laboratorio come modello negli studi genetici sia per il suo breve ciclo vitale sia per le dimensioni ridotte). In quel periodo si sapeva ben poco sui meccanismi genetici e molecolari con cui gli organismi pluricellulari si sviluppano dalle cellule singole a forme morfologicamente complesse durante l’embriogenesi. Senza strumenti adatti era
difficile vedere le loro strutture, i segmenti e la loro polarità nell’embrione vivente. Non solo. Non erano disponibili nemmeno metodi di fissazione e di compensazione. Dallo studio su 100 cromosomi, Christiane trovò un mutante chiamato successivamente “dorsale”. Portò avanti la ricerca prima a Friburgo con Klaus Sander, poi a Heidelberg con Eric Wieschaus. Insieme identificarono un numeroso gruppo di mutanti aprendo le porte alla comprensione dello sviluppo embrionale. Battezzarono molti di quei geni con nomi buffi come Riccio, Gurken (in tedesco “cetrioli”) e Krüppel (“zoppo”). In realtà, le loro ambizioni andarono ben oltre la mappatura dello sviluppo di una mosca semplice. Erano partiti dalla scoperta di come una cellula uovo si sviluppa in un organismo complesso fino a diventare una specifica parte del corpo: una zampa, un occhio, o pelle, ma il loro lavoro presto aprì un nuovo spazio per la ricerca sui difetti di nascita umani. Christiane si stabilì poi a Tubinga al Max-Planck-Institut. Qui si rese conto che era impossibile studiare tutti i mutanti in modo completo (erano trecento), quindi decise di concentrarsi su quelli che davano alle cellule un orientamento differente e che formavano poi l’embrione stesso consentendogli di differenziarsi secondo la posizione. In pratica la scienziata produsse mutazioni casuali sottoponendo i moscerini a incroci di ibridazione. Constatando i difetti nello sviluppo (modifiche o assenza) identificò con precisione i geni interessati alle mutazioni rilevando quelli più importanti per il processo evolutivo. Ad alcuni di questi geni impose un nome specifico, per esempio “hedgehog”. Tutti gli esperimenti furono pubblicati su prestigiose riviste scientifiche e le valsero, nel 1986, il premio Gottfried Wilhelm Leibniz del Deutsche Forschungsgemeinschaft, che è la più alta onorificenza tedesca nel campo della ricerca, e nel 1995 il premio Nobel per la Medicina. I suoi studi risultarono fondamentali, infatti, per il controllo genetico dello sviluppo embrionale e per la possibilità di applicarli anche ad altri organismi oltre ai moscerini. In seguito fu trovato, infatti, un parallelismo in altre specie animali, come lo zebrafish, modello per lo studio delle caratteristiche dei vertebrati. Dal 1985 ricopre la carica di direttore di una divisione indipendente del Max-
Planck-Institut, occupandosi prevalentemente di biologia molecolare. Biologia, genetica, biochimica… tanti i campi del sapere che Christiane Volhard ha saputo integrare per arrivare a risultati scientifici inaspettati. Ancora adesso, dice: “Credo nella combinazione di approcci e studi differenti all’interno di uno stesso laboratorio. Ciò permette di porre un punto di partenza straordinario per la comprensione dello sviluppo e della complessità del mondo vegetale e animale”. Quel mondo che fin da piccola l’ha incantata. Oggi vive nei pressi di Tubinga, in un monastero del XIV secolo, dove conserva ancora alcuni pesci zebra oggetto delle sue ultime ricerche. Dopo aver mappato gli invertebrati, da qualche tempo è a caccia di risposte sui vertebrati e il pesce zebra le sembra il candidato ideale a fornirle. Christiane Volhard è una delle poche figure a non aver sofferto il fatto di essere donna in un campo, quello scientifico, dominato dagli uomini. Anzi. Si è sempre posta in una situazione di assoluta parità. E, visti i tempi in cui si è sviluppata la sua carriera, questo è un ulteriore merito al suo talento. È stata sposata, giovanissima, per breve tempo e non ha mai avuto figli. Ha deciso di mantenere il cognome del marito, Nüsslein, solo perché era già associato alla sua immagine professionale.
Wisława Szymborska (Polonia)
Nobel per la Letteratura 1996
L'ironia dell'esistenza La più grande poetessa polacca. Tutt’oggi le sue opere, tradotte in 36 lingue, riscuotono un enorme successo di pubblico nonostante lei affermasse che: “La poesia piace a non più di due persone su mille” “Dei fatti personali non voglio parlare… allo stesso modo non amo che lo facciano altri. Dopo la mia morte sarà tutta un’altra cosa”. Così ha detto a proposito del raccontare di se stessa. Poi ha aggiunto: “Sono, ma non devo esserlo, una figlia del secolo”. In queste pagine sono tracciati brevi tratti della sua storia e della sua poetica. Un piccolo tributo per mettere in luce le straordinarie doti di questa donna così schiva, che, dopo aver rinnegato lo stalinismo, è stata definita il “Mozart della poesia”. Wisława Szymborska nacque il 2 luglio del 1923 a Poznań, nella Polonia occidentale, da Wincenty e Anna. Suo padre era il cameriere del conte Władysław Zamoyski, un patriota polacco molto conosciuto. Dopo la scomparsa del conte nel 1924, la sua famiglia si trasferì, nel 1931, a Cracovia, città cui rimase sempre molto legata e dove visse sino alla morte, avvenuta nei primi mesi del 2012. Quasi tutta la sua attività si svolse per lo più in Polonia. A malincuore accettava di trascorrere brevi soggiorni all’estero, a dimostrazione del suo carattere poco socievole. Cresciuta in un ambiente di forte impronta patriottica, da adolescente fu iscritta dai genitori al liceo delle Orsoline. Nel 1939, con l’invasione tedesca e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, continuò gli studi frequentando corsi clandestini che le permisero, due anni dopo, di diplomarsi. Grazie al suo primo lavoro, era dipendente delle ferrovie, evitò la deportazione in Germania. Gli orrori della guerra e le violenze dell’occupazione nazista non impedirono al suo talento artistico di fare capolino. In quel periodo illustrò un libro di testo in lingua inglese e cominciò a scrivere. Le brutture del conflitto le provocarono una prima crisi di coscienza.
Essendo una cattolica convinta non riusciva a spiegarsi l’atteggiamento della chiesa locale, o di una parte di essa, nei confronti degli invasori. Nella sua mente si insinuarono i primi dubbi sulla fede. Non riuscendo a dissolverli, decise di mettere su carta quelle riflessioni, così intime. L’embrione della poetessa stava prendendo forma e si sarebbe sviluppato negli anni a venire. I suoi primi versi, Szukam słowa (Cerco una parola), furono pubblicati nel marzo 1945 sul quotidiano Dziennik Polski. La cosa alquanto bizzarra è che, sin dall’inizio della sua carriera, prima ancora che diventasse la poetessa più celebre della sua nazione, aveva sempre preferito la prosa alla poesia. Lei stessa affermava: “Ho sempre amato tanto la prosa. Sembra strano, lo so, ma è così. Quando pensavo che avrei scritto, all’eta di dodici, tredici anni, era per me inconcepibile la scrittura poetica. Dio ci scampi dalle poesie! – dicevo – scriverò romanzi, in più volumi, grossi, voluminosi, intere biblioteche di romanzi!”. Queste parole si legano all’idea che la scrittrice aveva della poesia in generale. Non amò mai letture pubbliche o incontri con l’autore. Il poeta era per lei una persona che, eletta dal destino, attraverso l’ispirazione, lo stupore e l’ironia trasforma ciò che è ordinario in “stupefacente”. Tutto questo accadde a lei senza grandi proclami e trattati. Fu solo la sua risposta all’esigenza di pura e semplice parola scritta. Che fosse poetica era del tutto marginale. A chi le chiedeva cos’è l’espressione lirica non sapeva cosa rispondere, se non che il poeta di oggi era per lei “scettico e diffidente verso la società in cui vive”. Finita la guerra, la Szymborska seguì i corsi di Letteratura polacca all’Università di Cracovia. Poi ò a quelli di Sociologia, all’Università Jagellonica. Le sue condizioni economiche la costrinsero tuttavia ad abbandonare gli studi. Il suo interesse per la scrittura la spinse a frequentare comunque gli ambienti letterari della città. Qui incontrò Czesław Miłosz, che ebbe su di lei una profonda influenza. Partecipò attivamente anche alla vita culturale, collaborando per l’inserto del quotidiano Walka (Lotta). Nel 1948 sposò lo scrittore Adam Włodek. La coppia andò ad abitare in una soffitta dell’ostello dei letterati, luogo di aggio delle più grandi voci dell’intellighenzia del tempo.
In quello stesso periodo, le sue poesie cominciarono a essere pubblicate da periodici e quotidiani con regolarità. S’iscrisse al Partito Comunista, una presa di posizione che più avanti definirà “un peccato di gioventù”. Sì, un peccato che la portò a firmare una petizione di condanna contro alcuni sacerdoti accusati di tradimento senza lo straccio di una prova. Dopo aver ottenuto il divorzio dal marito, assunse l’incarico di direttore del settore poesia della rivista Vita letteraria, grazie al quale diede ampio spazio alle nuove voci della cultura polacca del dopoguerra. Lei stessa scrisse articoli per quella rivista, rispondendo nella sua rubrica ad aspiranti scrittori. Contemporaneamente, si era nel 1952, iniziò la pubblicazione di alcune raccolte delle sue poesie (in tutto sono 16) che ebbero un discreto successo di pubblico. La prima fu Dlatego żyjemy (Per questo viviamo) quando aveva 29 anni. Tre anni prima, gli editori avevano rifiutato di pubblicare un suo volume per motivi ideologici. Il libro non aveva superato la censura perché privo dei “requisiti socialisti” indispensabili alla sua divulgazione. Quella paradossale bocciatura non modificò il suo atteggiamento verso il regime comunista che si era appena insediato e che già faceva sentire i suoi pesanti effetti sulle libertà individuali. Come molti altri intellettuali della Polonia post-bellica nella prima fase della loro carriera, anche la Szymborska non sollevò alcun rilievo nei confronti di Stalin, Lenin e del realismo socialista. Anzi, il primo volume di poesie del 1952 conteneva testi patriottici che osannavano gli obiettivi della Rivoluzione di Ottobre. Il futuro premio Nobel non si limitò a raccontare le gesta del regime. Ne fece anche parte. Aderì, infatti, al Partito operaio unito polacco (Polska Zjednoczona Partia Robotnicza), del quale fu membro fino al 1960. Stessa musica suonò con Pytania zadawane sobie (Domande poste a me stessa) del 1954. Dopo l’invasione dell’Ungheria, però, i suoi dubbi sul “fulgore del sol dell’avvenire” cominciarono a diventare talmente intensi che non solo iniziò a prendere contatti con i dissidenti, ma disconobbe i due volumetti. Il vero successo letterario arrivò con la terza raccolta poetica, Wołanie do Yeti (Appello allo Yeti), del 1957 in cui paragonava Stalin a un pupazzo di neve. Ormai era diventata una stella di prima grandezza del panorama letterario
polacco. Continuò a collaborare a numerose riviste, anche a quelle diffuse all’estero da esuli o emigrati, come Kultura, pubblicata a Parigi dall’editore Jerzy Giedroyc. Essere famosa le servì anche per diventare redattrice del mensile di Cracovia Pismo e a scrivere con lo pseudonimo Stanczykówna su giornali d’opposizione. Divenne infine simpatizzante di Solidarność quando questi era ancora un sindacato clandestino. Ebbe anche un’intensa attività di traduttrice dal se e di insegnante, partecipando a incontri con i giovani nelle scuole dei piccoli paesi di provincia. Dal 1980 cominciarono ad arrivarle una serie di riconoscimenti importanti, in patria e all’estero. Fu ammessa nell’organizzazione internazionale degli scrittori PEN Club, ricevette il premio Goethe e la l aurea honoris causa dall’università della sua città natale, Poznań. Il punto più alto lo raggiunse con l’assegnazione del Nobel per la Letteratura consegnatole nel 1996, secondo la motivazione dell’Accademia svedese “per una poesia che, con precisione ironica, permette al contesto storico e biologico di manifestarsi in frammenti di verità umana. Si rivolge al lettore combinando in modo sorprendente lo spirito, la ricchezza inventiva e l’empatia, ciò che fa pensare talvolta al secolo dei Lumi, talvolta al Barocco”. Parole chiave della sua poetica sono arguzia, ironia e paradosso. In liriche piuttosto brevi (massimo una pagina) la scrittrice si pone domande sull’esistenza, argomenti di ampio respiro filosofico come la condizione dell’uomo o l’evolversi della società. L’intensa introspezione intellettuale si lega a uno stile mai pomposo ma diretto e semplice, molto moderno. Ogni dettaglio linguistico viene scelto accuratamente. Attraverso la sua opera la poetessa ricorda che ogni parola ha un suo peso e una sua importanza. “Nella poesia non c’è nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo”. La sua più recente raccolta, Dwukropek (Due punti), è stata pubblicata in Polonia il 2 novembre 2005. In pochi mesi il libro ha venduto più di 40.000 copie tanto da essere scelto come il miglior volume del 2006 dai lettori della Gazeta Wyborcza. Il 1° febbraio 2012, Szymborska è scomparsa mentre dormiva serenamente nella
sua casa a Cracovia. Le sue liriche oggi sono tradotte in tutte le lingue europee, in giapponese, arabo, cinese ed ebraico.
Jody Williams (Usa)
Nobel per la Pace 1997
Contro le mine antiuomo È la terza americana ad aver ottenuto il Nobel per la Pace. ata alla storia per la creazione della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, oggi si occupa di diritti umani in varie parti del mondo più povero “Un vero pacifista è un vero Satyagrahi. Quest’ultimo agisce per fede e, perciò, non si preoccupa del risultato perché sa che è assicurato quando l’azione è sincera”. Queste parole sono di Gandhi e ben si adattano all’ispirazione pacifista che ancora oggi muove l’operato di Jody Williams. Il contributo delle donne per la pace è stato ed è molto importante nella storia dell’umanità. Si pensi a Bertha von Suttner, o alle più vicine temporalmente Rigoberta Menchú Tum o Aung San Suu Kyi. Persone che hanno messo la loro vita a disposizione di una causa che coinvolge l’intera comunità mondiale e che è più che mai attuale in questo periodo di crisi. La pace, come suggerisce la biografia della Williams e quella delle altre donne che sono state insignite della stessa onorificenza, non è un’utopia, ma un progetto concreto e realizzabile. Lei stessa afferma: “I militari dicono che per ottenere la pace bisogna prepararsi alla guerra. Io penso che noi possiamo scegliere. Se vogliamo un mondo dove la pace ha un valore, dobbiamo imparare a credere che la pace non sia una visione utopica ma una reale responsabilità, che deve essere sviluppata da ognuno ogni giorno. Tutti possono contribuire a creare un mondo dove prevalgono pace e giustizia”. Concetti semplici, ma non banali, tanto più se a pronunciarli è una donna come lei che conosce approfonditamente il tema trattato e ha lavorato una vita a favore di questa causa. Jody Williams nasce il 9 ottobre del 1950 a Putney di Brattleboro, nel Vermont. Da giovane voleva fare l’infermiera. Invece, dopo aver frequentato l’Università di Burlington, consegue due master internazionali. Il primo per l’insegnamento di inglese e spagnolo e il secondo in relazioni internazionali alla J ohns Hopkins School of Avanced International Studies. Dopo diventa una convinta pacifista.
Questa scelta avrebbe avuto origine durante la sua adolescenza, quando si batteva per difendere il fratello più grande, sordo, dai bulli del suo Paese. Di quell’esperienza ricorda: “L’ho difeso dandogli una voce che non aveva. Quell’episodio mi ha reso sensibile nel cercare di aiutare gli altri quando le persone più potenti vogliono far loro del male o approfittare di loro”. Diventa un’attivista del movimento già durante la guerra del Vietnam. Per più di dieci anni lavora per la costruzione di una consapevolezza pubblica degli Stati Uniti nei confronti dei problemi che colpiscono i paesi del Centro America. È responsabile di programmi di aiuto umanitario in San Salvador, dilaniato dalla guerra civile, e coordina progetti umanitari e di educazione nel NicaraguaHonduras. Insegna lingue in Messico, dove prende contatto con gli strati più poveri della popolazione, nel Regno Unito e a Washington D.C. Alla fine del 1991, contatta Bobby Muller, presidente della Vietnam Veterans of America Foundation, e chiede il suo aiuto per comprendere meglio gli aspetti che riguardano le problematiche derivanti dall’installazione di mine in tutto il mondo. L’ottobre 1992 segna un giro di boa nel suo percorso. In quell’anno, infatti, dà vita e organizza la Campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo (ICBL). L’obiettivo? Vietare questi ordigni e rivendicare la costituzione di un fondo per le azioni di sminamento e assistenza alle vittime. All’inizio sono solo sei gli organismi non governativi coinvolti (tra cui la Human Rights Watch), insieme alle Nazioni Unite e alla Commissione Internazionale della Croce Rossa. Poi l’iniziativa cresce fino a comprendere più di 1.300 organizzazioni di 95 paesi. Una coalizione di forze senza precedenti per tipologia e dimensione alla quale aderisce, poco prima di morire, anche la principessa Diana. È la svolta. Nel 1997 viene firmato il trattato di Ottawa per la messa al bando totale delle mine antiuomo (entrato in vigore nel 1999). A questo accordo partecipa un elevato numero di paesi (non ancora però Stati Uniti e Cina). Proprio grazie a questo successo, Jody è insignita nel 1997 del premio Nobel per la Pace. Un importante riconoscimento che vuole contribuire alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica su questo drammatico problema. Un fenomeno dalle proporzioni enormi, con implicazioni non solo umane, ma anche sociali ed economiche.
L’impatto che le mine antiuomo hanno sulla vita della popolazione locale è, infatti, devastante. I campi disseminati di questi ordigni non sono praticabili dall’agricoltura. L’economia dei paesi ne risulta quindi sconquassata. Per non parlare degli effetti psicologici sulle persone. Si è calcolato che se anche la comunità internazionale le mettesse definitivamente al bando, ci vorrebbero centinaia di anni per eliminarle tutte. In vari paesi, soprattutto in quelli più poveri e scompaginati da guerre civili e conflitti etnici come Cambogia, Mozambico e Cecenia, ne è stato fatto un uso indiscriminato totalmente al di fuori delle regole tradizionali d’impiego delle forze armate. Ne consegue che ce ne sono tantissime sparse ovunque, su campi, strade, in paesi e città. Il premio Nobel ha scritto: “Le mine si distinguono perché una volta che sono state seminate, una volta che il soldato le arma e si allontana, non comprendono la differenza tra un soldato o un civile – una donna, un bambino, una nonna andata a raccogliere legna da ardere per cuocere un pasto alla propria famiglia. Le mine sono pronte a prendere le vittime. Sono soldati perfetti, le sentinelle eterne dell’orrore”. Grazie al lavoro di Jody Williams e delle organizzazioni che si sono battute contro le mine antiuomo, a 15 anni dalla firma del trattato ci sono stati progressi innegabili. Oggi 155 Stati, più di tre quarti dei paesi del mondo, hanno aderito al documento di Ottawa. Il numero di governi produttori è sceso da 54 a 13. Solo Russia e Birmania hanno costantemente continuato a utilizzare mine antiuomo nelle loro campagne militari. Gli stati firmatari del trattato ne hanno distrutte più di 50 milioni. Non solo. Molti hanno dedicato notevoli risorse per sminare e far ritornare a un uso produttivo grandi appezzamenti del proprio territorio. Attività di sminamento sono in corso in almeno 60 Paesi. Ma l’attivismo di Jody Williams, che ha come centro questa tragica questione, continua ad andare avanti anche in altre direzioni. È una delle fondatrici del progetto Nobel Women’s Initiative, che coinvolge altre donne da Nobel e che si prefigge di prendersi in carico cause che puntano al miglioramento della condizione della donna in ottemperanza ai canoni di eguaglianza e giustizia in tutto il mondo. È anche impegnata nel Consiglio delle Nazioni Unite per la salvaguardia dei diritti umani nel Darfur, che cerca di porre uno stop alla sanguinosa guerra che attanaglia il Paese.
Ciò che più desidera è porre l’attenzione su problemi poco conosciuti ma di grande importanza. Per questo viaggia molto, ha una fitta agenda di convegni internazionali che hanno come tema la promozione delle sviluppo e della sicurezza umana. È inoltre una scrittrice prolifica, i suoi articoli vengono pubblicati dai maggiori quotidiani e riviste, tra cui l’ Herald Tribune e The Wall Street Journal. I titoli? Le conseguenze sociali di un uso diffuso delle mine, La protezione dei bambini contro mine e ordigni inesplosi, oppure Sull’impatto dei conflitti armati sui più piccoli, solo per citarne alcuni. Con Shawn Roberts, è autrice di Dopo che le armi tacciono e L’eredità duratura delle mine (1995), che ha esaminato l’impatto socio-economico sul territorio contaminato da quegli ordigni in 4 Paesi. Oltre al Nobel, la Williams ha ottenuto una lunga serie di premi e riconoscimenti. Per esempio è stata insignita di 15 lauree honoris causa e nel 2004 è stata inserita dalla rivista Forbes tra le 100 persone più influenti del pianeta. Ha ricoperto anche il ruolo di senior editor per il rapporto annuale sulla situazione delle mine antiuomo, che monitora costantemente l’operato e l’evoluzione dell’ICBL. Attualmente è impegnata nella stesura di una raccolta di memorie ispirate al suo impegno di giustizia sociale. Ha scritto della sua dedizione alla causa: “Lavorare per la pace necessita perseveranza e dedizione costante. Tuttavia la giustizia e la sicurezza sono le uniche basi possibili su cui può crescere una società che risponda ai bisogni più profondi dei suoi cittadini”. Oggi, Jody Williams insegna, scrive e tiene conferenze. L’obiettivo è sempre lo stesso: “Ispirare una nuova generazione di operatori di pace che trasformeranno le loro comunità locali, loro stessi, e il mondo”.
Shirin Ebadi (Iran)
Nobel per la Pace 2003
Contro il fondamentalismo Prima donna musulmana a essere insignita del premio Nobel per la Pace. L’amore e l’attaccamento alla sua terra, l’Iran, hanno sempre contraddistinto ogni sua azione e battaglia per i diritti umani Testo principe per conoscere la storia di questa straordinaria donna è Iran awakening (Risveglio iraniano), biografia scritta di suo pugno, in cui il racconto della sua vita s’intreccia alla riflessione sulle vicende storiche dell’Iran degli ultimi sessant’anni. La sua è una personalità forte, capace di tenere testa a un regime sanguinario come quello khomeinista, eppure fiera oppositrice di qualunque intervento straniero nelle vicende interne iraniane. Sembra una contraddizione, invece è la sua àncora di salvezza, il salvagente che le ha impedito di naufragare in un mondo, quello fondamentalista, che considera le donne poco più di un oggetto. Da usare quando e come si desidera. Shirin Ebadi nasce il 21 giugno del 1947 ad Hamadan, Iran, in una famiglia di etnia persiana. Dal padre, Mohammad Ali Ebadi, docente di diritto commerciale, eredita la ione per la giurisprudenza. La sua è una famiglia progressista in cui il talento si coltiva. E lei ne è ben fornita. Basta dare un’occhiata al suo curriculum scolastico. Giovanissima si trasferisce a Teheran dove, una volta ultimati gli studi secondari, s’iscrive alla facoltà di Legge. Dopo la laurea in giurisprudenza sostiene gli esami per diventare giudice. È ancora giovanissima e invece di cercar marito, come alcuni suoi parenti vorrebbero, fa praticantato legale. Dopo appena 6 mesi di lavoro, viene nominata, a soli 22 anni, prima donna giudice del Paese. È il 1970, l’Iran dello Scià, nonostante le forti tensioni interne, o soprattutto per quelle, avvia una riforma dell’area pubblica che ricalca il modello occidentale. Ciò vuol dire che la condizione della donna viene giuridicamente parificata a quella maschile. In un’area che da secoli costringe donne e bambini a mangiare ciò che avanza agli uomini, è una specie di
terremoto che rischia, come accadrà pochi anni dopo, di scuoterla dalle fondamenta. Lei, d’altronde, gode appieno di quel tipo di scelta sociale. È convinta che le riforme siano indispensabili per proiettare l’Iran dal Medioevo in cui ancora versa nel futuro. Infatti, dal 1975 al 1979, ricopre la carica di Presidente di una sezione del tribunale di Teheran. La situazione però cambia radicalmente di lì a breve: le tensioni economiche e sociali e la corruzione legate al regime autoritario sfociano nella rivoluzione khomeinista del 1979, che prende una deriva fondamentalista. Con l’avvento al potere di Khomeini viene stabilito per legge che le donne non sono in grado di amministrare la giustizia. Tutti i sogni di una società più moderna si dissolvono come neve al sole del deserto. A Shirin Ebadi non resta che combattere. Prima è costretta a dimettersi dalla sua carica, a causa delle leggi che limitano enormemente l’autonomia e i diritti civili delle donne (entra in vigore il codice penale ispirato alla legge islamica, la tristemente famosa Sharia). Poi viene declassata a segretaria. La Ebadi considera la retrocessione come un’ingiustizia intollerabile e combatte con tutte le sue forze affinché la sua professionalità venga riconosciuta. Inutilmente. La sua lotta dura dodici lunghissimi anni. Solo nel 1992 ottiene l’autorizzazione a lavorare come avvocato. Con questa concessione apre uno studio proprio. Comincia quindi la sua carriera, sostenendo casi che ottengono grande risonanza mediatica internazionale. Nel corso degli anni difende intellettuali e scrittori dissidenti, molti dei quali sono poi assassinati per ordine del governo. Delitti che creano un clima di terrore nell’intero Iran. È il caso di Dariush Forouhar, ucciso insieme alla moglie, o quello di Ezzat Ebrahim-Nejad massacrato durante una protesta studentesca. Durante il processo la Ebadi è accusata di aver prodotto e diffuso una videocassetta sulla repressione violenta. Per questo motivo i pasdaran la arrestano e la rinchiudono per 22 giorni in un carcere di massima sicurezza. Un altro caso celebre è quello relativo a Ahmad Batebi, lo studente rinchiuso nelle prigioni di Evin (un terrificante luogo delle torture) famoso nel mondo perché una sua foto apparve sull’ Economist nel 1999. Nell’immagine mostrava la maglietta insanguinata di un suo compagno.
Oppure quello relativo alla fotoreporter Zahra Kazemi, seviziata e uccisa proprio per aver scattato le foto del carcere di Evin. Difende anche Parinoush Saniee autore del best seller Quello che mi spetta, romanzo sulla condizione della donna in Iran a partire dagli anni Quaranta. È una donna combattiva che non si arrende nonostante le piovano addosso continue minacce di morte. Le minacce non risparmiano nemmeno il marito Javad Tavassolian e i suoi due figli, Nargess e Negar. Nel 2000 proietta in piazza a Teheran un video in cui un fondamentalista confessa le sue violenze sui dissidenti e dichiara di essere stato ingaggiato dal governo islamico proprio con quell’incarico. Accusata di aver disturbato la quiete pubblica, è quindi condannata alla sospensione della sua carica di avvocato per cinque anni. Il suo forte impegno politico e sociale si traduce anche nella sua devozione alla causa per la difesa dei diritti dei bambini. La Ebadi si è occupata in aula di casi di abuso minorile e ha fondato due organizzazioni non governative, la Società per la protezione dei diritti dei bambini ( Society for protecting the Rights of the Child – SPRC) e il Centro di difesa dei diritti umani ( Defenders of Human Rights Center – DHRC). Ha inoltre collaborato alla stesura del testo di legge contro gli abusi fisici ai minori, approvato dal governo iraniano nel 2002. Proprio per questi suoi sforzi è stata insignita nel 2003 del premio Nobel per la Pace: “Per la sua battaglia in favore dei diritti umani fondamentali. Nessuna società, infatti, merita di dirsi civilizzata se i diritti delle donne e dei bambini non vengono rispettati”. All’epoca la scelta fece scalpore e suscitò non poche critiche. Tra i candidati c’era anche papa Giovanni Paolo II e la decisione dell’Accademia di insignire la Ebadi fu vista da molti come una mera scelta politica. I responsabili del Nobel sottolinearono, però, come fosse importante dare l’onorificienza “a una donna che fa parte del mondo musulmano. Un mondo di cui si può andare fieri, insieme a tutti coloro che combattono per i diritti umani, ovunque vivano”. Secondo la Ebadi l’interpretazione dell’Islam è in perfetta armonia con i concetti di eguaglianza, giustizia e democrazia. Il vivere secondo tali princìpi è anzi espressione di pura fede. Ciò su cui ha sempre puntato è il dialogo fra culture e
religioni differenti. Il mondo si regge, infatti, su valori condivisi; ovunque la vita umana deve essere rispettata. Tuttavia in lei convive un’altra forte spinta, in apparenza in conflitto con le convinzioni appena espresse. Da fervente nazionalista ha sempre auspicato che i conflitti e le dinamiche dell’Iran fossero risolte senza interferenze esterne. L’attaccamento e il senso di fedeltà al proprio Paese sono particolarmente evidenti nelle pagine del libro Il mio Iran, che riguardano gli anni della guerra Iran-Iraq. Il conflitto, durato otto anni, lasciò sul campo di battaglia più di un milione di morti. Nel suo racconto Shirin Ebadi raffigura i sentimenti dei suoi connazionali vittime di un regime di cui non condividono i princìpi, che vedono il proprio territorio attaccato da un regime, quello iracheno, che non è altro che una identica, tragica, dittatura. In un’intervista ha sottolineato che “la battaglia per i diritti umani in Iran deve essere fatta dalla gente del Paese, senza interventi stranieri”. Insomma, ogni nazione ha l’obbligo morale d’intervenire a favore del suo popolo in completa autonomia. Per le sue dichiarazioni la Ebadi e la sua famiglia (è sposata e ha due figli) sono state nuovamente minacciate di morte. Nell’ultimo periodo, caratterizzato da gravi tensioni internazionali, le intimidazioni si sono intensificate. Il premio Nobel ha denunciato il furto della medaglia ricevuta a Oslo, la Legione d’Onore e l’anello donatole dall’Associazione dei giornalisti in Germania. Il suo conto bancario è stato inoltre congelato, ma il ministro iraniano ha negato che sia stata attuata una qualunque azione di confisca. I tempi non sono migliorati, l’Iran e tutto il mondo musulmano stanno vivendo anni di regressione culturale e di forti tensioni. Il compito che si prefigge la Ebadi è quello di continuare a lottare, anche andando in giro per il globo, dall’India agli Stati Uniti, per insegnare, scrivere e parlare al pubblico internazionale aggiornandolo su ciò che accade nella sua amata terra e per cercare di dare una spinta verso un cammino definitivo di civilizzazione e democrazia. Oltre al Nobel, ha ottenuto numerosi altri riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Rafto per i Diritti Umani nel 2001 e, appunto, la Legione d’Onore. Forbes l’ha annoverata tra le donne dotate di maggiore personalità e determinazione. Ha scritto oltre 70 articoli e 12 libri. In Italia sono stati
pubblicati Il mio Iran, Una vita di rivoluzione e speranza, La gabbia d’oro e Tre fratelli nell’incubo della rivoluzione iraniana.
Linda B. Buck (Usa)
Nobel per la Medicina 2004
L'importanza del naso Grazie alle sue scoperte il senso dell’odorato non è più un mistero. La sua ricerca ha dato un contributo decisivo all’identificazione e alla descrizione di un’ampia famiglia di geni implicati nel controllo dei recettori dell’olfatto Linda nacque il 29 gennaio 1947 a Seattle, nello stato di Washington. Una città circondata dalla natura: boschi estesi, il mare e le Montagne Rocciose fanno da sfondo a un’infanzia felice trascorsa insieme alle sue due sorelle. Lei era la secondogenita. Il padre, ingegnere elettronico di origini irlandesi, e la madre, casalinga, discendente da immigrati svedesi trasferiti nel continente USA nel XIX secolo, amavano i puzzle e le invenzioni. A casa c’erano sempre qualche progetto nuovo da portare a termine o rompicapi da risolvere. Quel clima influenzò la sua sensibilità scientifica. Ancora oggi, quando racconta delle sue esperienze in laboratorio o delle difficoltà incontrate nel corso della sua carriera, le paragona a enigmi da districare. Da piccola però non pensava sarebbe diventata una scienziata. Ricorda, nella sua biografia, di aver imparato ad apprezzare la musica e la bellezza dalla madre, mentre la nonna materna la introdusse al magico mondo di fate ed elfi della sua giovinezza in Svezia e le svelò i segreti per “cucire bellissimi vestiti per le bambole”. Suo padre, invece, le insegnò a sviluppare la sua manualità e a realizzare oggetti di ogni tipo. Sottolinea sempre con affetto: “Ho avuto la fortuna di avere genitori meravigliosi. Mi hanno insegnato a pensare in modo indipendente, a essere critica con le mie stesse idee, ed esortato a fare qualcosa di utile con la mia vita, a non accontentarmi di soluzioni mediocri”. All’inizio della sua formazione, il suo obiettivo era studiare una materia grazie alla quale, in seguito, avrebbe potuto aiutare gli altri. Per questo motivo la sua prima scelta cadde sulla facoltà di Psicologia. Una volta compreso che il lavoro dello psicoterapeuta non faceva per lei, cominciò a frequentare altri corsi di studi e viaggiò finché, dopo aver partecipato a lezioni di immunologia, non trovò ciò
che veramente la interessava: la biologia. S’iscrisse prima all’Università di Washington e continuò gli studi al Dipartimento di Microbiologia a Dallas. Qui, grazie al suo tutor Ellen Vitetta, iniziò a capire cosa voleva dire davvero essere una ricercatrice. Già la sua tesi di laurea conteneva le basi su cui si sarebbe poi sviluppata la sua attività negli anni successivi. Si occupò, infatti, delle proprietà funzionali dei sottoinsiemi dei linfociti B che differivano nella classe di immunoglobuline di superficie delle cellule, usate come recettori di antigene. La novità dello studio era che per la prima volta qualcuno pensava in termini di molecole e di meccanismi molecolari alla base di sistemi biologici. Quel qualcuno era proprio Linda Buck. Dopo il dottorato proseguì il suo iter formativo alla Columbia University a New York collaborando a progetti scientifici che le permisero di incrementare la conoscenza della biologia molecolare e affinare tecniche e abilità in laboratorio. La scienziata ha sempre ricordato quegli anni come un periodo di estrema creatività e divertimento, di estenuanti e lunghissime chiacchierate sulla scienza insieme ai molti colleghi e amici. In quel periodo rimase affascinata dall’allora inspiegabile istocompatibilità (MHC) delle proteine nelle risposte immunitarie. Un vero enigma che decise di affrontare concentrandosi su proteine MHC di classe II presenti sulla superficie dei linfociti B e sugli effetti dell’antigene. Fu la scintilla che le permise di comprendere come lo studio dei meccanismi molecolari alla base dei sistemi biologici era quello che le interessava. Chiese e ottenne di essere associata al laboratorio di Richard Axel, cuore pulsante della ricerca biologica della Columbia University. Lo stesso con cui collaborava Eric Kandel, premio Nobel nel 2000. I due docenti si erano concentrati sugli studi molecolari del sistema nervoso dell’ Aplysia, una lumaca di mare. Linda partecipò a un progetto che puntava a sviluppare una tecnica per la clonazione dei geni di una Aplysia. Sembrava la strada che avrebbe percorso, almeno in quella prima fase della sua carriera di ricercatrice. Invece, un giorno s’imbatté per caso nell’articolo di una rivista che si occupava dei meccanismi alla base della rilevazione degli odori. Quell’episodio le cambiò l’esistenza. Era la prima volta che rifletteva sull’odorato e ne fu subito affascinata. La sua vita prese un’altra direzione: cominciò immediatamente a cercare di risolvere questo “enorme puzzle”.
Fino ad allora gli scienziati avevano ipotizzato che il naso contenesse speciali recettori per identificare i vari odori. Il sistema olfattivo è primitivo e molto complesso. L’occhio usa solamente tre recettori per i colori ma è in grado di percepire migliaia di tonalità differenti. Il naso, invece, rintraccia decine di migliaia di odori attraverso migliaia di cellule predisposte. Cercare di individuare l’intera struttura sembrava impossibile. Nessuno c’era riuscito fino ad allora e niente di preciso si sapeva in merito. Si era a conoscenza solo del fatto che gli umani hanno cinque speciali recettori di gusto: amaro, aspro, dolce, salato e umami (in giapponese vuol dire “saporito” e si associa al sapore del glutammato). Un team di ricercatori guidati da Solom Snyder alla J ohns Hopkins University aveva lavorato sul sistema olfattivo negli anni Ottanta senza tuttavia riuscire a venire a capo del problema. La Buck lesse il lavoro di Snyder, ma quello che lei aveva in più era il suo ato da immunologa che le fece guardare la questione da una prospettiva differente. Focalizzò dapprima il suo interesse sull’olfatto dei ratti. La prima domanda cui dare una risposta era: in che modo il naso identifica gli odori? Individuò, quindi, una famiglia di geni situati in una zona circoscritta della parte interna del naso, chiamato epitelio olfattivo. Si adoperava 12, 15 ore al giorno. Era totalmente devota al suo lavoro. I risultati di queste fatiche furono sorprendenti. Nel 1991 pubblicò le sue scoperte. Aveva identificato più di 10.000 geni. Neanche lei stessa si aspettava un risultato del genere. I suoi studi rivelavano che il processo di riconoscimento degli odori era fatto principalmente attraverso un complesso sistema olfattivo più che dal cervello stesso. Se si riflette sulla storia degli animali e dell’uomo ciò ha un senso. L’olfatto, usato al fine della sopravvivenza, è uno dei primi sistemi rilevati in creature poco evolute che avevano un cervello non molto ampio. Il grosso del lavoro doveva farlo il naso. Gli altri processi di percezione, come la vista, arrivarono in seguito, quando i nessi neuronali avevano già acquisito maggiore importanza. La Buck continuò a rifinire il suo lavoro di ricerca mettendo in luce come i neuroni dell’epitelio olfattivo fossero raggruppati in diversi tipi. Circa 5.000 neuroni per ognuno dei 1.000 diversi recettori di odori. Descrisse anche la forma dei neuroni, che si stendono fino a una parte del cervello chiamata bulbo. La sua straordinaria
ricerca andava oltre l’interesse genetico (ha gettato le basi per la comprensione dei meccanismi fisiologici della percezione degli odori, a livello molecolare e cellulare). Per questo motivo nel 2004 le venne assegnato il Nobel per la Medicina. Nella motivazione dell’Accademia si legge: “Il senso dell’odorato è rimasto a lungo il più enigmatico dei nostri sensi. I princìpi base per il riconoscimento e il ricordo di circa 10.000 odori fino a ora non erano stati compresi”. Particolare curioso è che tre anni prima al Simposio dei Nobel la Buck aveva tenuto una conferenza intitolata “La logica degli odori”. Di certo questa le aveva portato fortuna. Nel 1991, però, quel traguardo era ancora lontano. Fu nominata professore assistente del Dipartimento di Neurobiologia alla Harvard Medical School di Boston. Qui continuò le ricerche sul sistema nervoso e collaborò con colleghi futuri premi Nobel come David Hubel, pioniere degli studi del sistema visivo con Torsten Wiesel. Quindi fu chiamata ad Harvard, prima come associato e poi come professore ordinario. Nel 1994, incontrò Roger Brent, da lei definito “un intelletto meraviglioso e collega scienziato che è stato il mio compagno e, da allora, una parte importante della mia vita”. I dieci anni successivi furono determinanti per le sue scoperte e l’ascesa nell’olimpo dei Nobel. La scoperta dei recettori aveva spiegato come il sistema olfattivo rilevava gli odori. Il o successivo fu individuare come i segnali provenienti dai recettori sono organizzati nel cervello per generare percezioni di odori diversi. Il lavoro nel laboratorio messole a disposizione dall’Università di Harvard proseguì senza sosta sino a quando anche quel traguardo non fu raggiunto. Oggi come allora, da sottolineare sono le implicazioni del lavoro della Buck, che hanno portato all’esplorazione di comportamenti e istinti legati all’olfatto. Alcuni odori provocano negli animali reazioni di aggressività, rabbia, oppure al contrario di familiarità e protezione. Nel 2002 la scienziata tornò a Seattle proprio per trovare delle applicazioni dei suoi studi in grado di aiutare la gente. Cominciò a collaborare con il Centro di Ricerca sul Cancro, sviluppando agenti chimici capaci di bloccare l’odore e il gusto terribilmente amaro dei farmaci dedicati a questa tipologia di ammalati. Ma sono tante altre le possibili e utilissime applicazioni dei suoi studi.
Per esempio la riproduzione artificiale di recettori olfattivi in grado di identificare gli esplosivi, o la possibilità di agire attraverso l’olfatto su comportamenti istintivi dell’uomo come la paura, la fame e la riproduzione. Nella sua autobiografia Linda Buck ha messo in luce l’importanza di un pensiero critico e indipendente. “Ciò che ho scoperto l’ho fatto perché ho usato dei modi di ricerca non tradizionali. Ho sperimentato, ho elaborato con la mia testa pensieri nuovi. Con alla base la volontà, insegnatami dai genitori, di non accontentarmi mai, di non sedermi sulla mediocrità ma di cercare di carpire il meglio dalla vita, a costo di rinunce e sacrifici”. Lei stessa poi si augura, sempre nella sua autobiografia, che la sua storia sia di esempio alle donne, che le ispiri a seguire i propri sogni, con coraggio e tenacia.
Elfriede Jelinek (Austria)
Nobel per la Letteratura 2004
La Letteratura si scopre Pop Una personalità controversa e fuori dagli schemi. Ancora oggi continua a regalare una scrittura viva ed estrema, che sfugge a qualsiasi catalogazione stilistica. Le tematiche trattate nei suoi romanzi sono la sessualità femminile, l’abuso che se ne fa e la guerra dei sessi e di relazione Il suo è un carattere complesso, ricco di sfumature, che spesso assumono le forme di veri e propri spigoli contro di cui va a sbattere chi vuole comprendere meglio le ragioni della sua scrittura. È una silfide evanescente, incorporea, che da tempo nessuno vede più. Sono pochi gli eletti che sanno com’è fisicamente oggi. È come se Elfriede Jelinek vivesse in una torre d’avorio, trasparente ma senza alcun accesso. Il rifiuto nei confronti del mondo l’ha portata a un isolamento sempre più forte. Ciò è dovuto in parte al suo disagio psichico (è affetta da agorafobia), in parte a una concezione particolare dell’artista: “ Non mi faccio quasi più vedere in pubblico, come persona io non esisto già da un pezzo”. Queste parole, che possono sembrare incredibili, rientrano nella sua filosofia d’esistenza. Già nel 2004, in occasione del conferimento del Nobel per la Letteratura, invece di recarsi personalmente per ricevere l’alta onorificenza, aveva inviato un video con un discorso registrato. Le apparizioni nella vita culturale del Paese che le ha dato i natali si sono via via diradate e sono ormai rare. Unica chiave di accesso a lei è il web. Il suo sito www.elfriedejelinek.com è l’unica via di scambio tra lei e il mondo circostante. Lei stessa lo aggiorna puntualmente. Qui sono disponibili il suo curriculum narrato, le sue opinioni in merito alla sua esperienza sociale, culturale e politica, e soprattutto è possibile leggere in toto e gratuitamente il suo ultimo romanzo, Neid (Invidia), del 2007. Un esperimento, questo, che ha portato la Jelinek a modificare anche il suo stile letterario.
L’opera infatti è sempre in progress, pronta a essere modificata in ogni momento e libera. Fuori dai canoni dell’editoria tradizionale la scrittrice può esprimere con creatività ogni pensiero. “Col web non devo niente a nessuno e nessuno deve nulla a me e questo mi dà piena libertà”. Una modalità che le ha permesso, tra l’altro, di entrare nelle sue riflessioni più intime e di esporsi più apertamente senza fare uso di maschere, com’era solita fare in ato. La causa del carattere così complesso della Jelinek è da ricercare in primo luogo nella sua infanzia. Nata il 20 ottobre del 1946 a Mürzzuschlag, in Stiria, è però cresciuta è Vienna. Il padre Friedrich, ceco di origine ebraica, era sopravvissuto all’Olocausto solo perché, valente chimico, era impegnato in ricerche ritenute strategiche per il futuro del Terzo Reich. Altri membri della sua famiglia, invece, perirono nei campi di concentramento nazisti. Quell’esperienza segnò tutta la vita del signor Jelinek, morto nel 1969 in una clinica psichiatrica. La madre Olga, che tanto ha contato nello sviluppo della personalità di Elfriede e con cui ebbe un rapporto conflittuale, era di origini austriache. Proprio la madre, che voleva diventasse un piccolo prodigio, si occupò della sua educazione, iscrivendola in scuole cattoliche dove veniva impartita un’educazione con parametri estremamente restrittivi e spingendola allo studio della musica. Per questa materia la Jelinek era molto portata. A scuola imparò a suonare il flauto, la chitarra, il violoncello e si diplomò al Conservatorio della città in organo, pianoforte e composizione. Contemporaneamente agli studi musicali frequentò corsi di teatro e, all’università, storia dell’arte. Qui entrò in contatto col mondo studentesco che le permise di riflettere su tematiche di maggiore critica sociale. Il suo esordio letterario risale al 1967 con la raccolta di poesie Lisas Schatten. Da subito il suo stile si riconosce per l’assoluta originalità. La stessa autrice parla di un metodo letterario dove “si incontrano il blog, l’effimero, la concisione e un’alta densità letteraria”. Gioca con i simboli e i miti della cultura di massa, film, pubblicità, fumetti, soap opera, con un’ironia graffiante ai limiti del paradosso. Uno stile che ricorda le atmosfere delle opere di Kafka, definito da lei stessa come un maestro, e che riprende la lunga tradizione culturale austriaca di raffinata critica sociale, i cui precursori sono Ödön von Horváth, Thomas Bernhard ed Elias Canetti. Al di fuori di ogni possibile catalogazione, l’autrice si scaglia contro la
corruzione del potere e del perbenismo sociale (iscritta al Partito Comunista dal 1974 al 1991, è anche una fiera femminista). Bersaglio privilegiato della sua opera è il suo Paese natale, in cui è amata e altrettanto odiata. Basti pensare all’episodio dell’annuncio del Nobel, uno choc che divise in due l’opinione pubblica. Lei stessa e anche il suo editore non si aspettavano un simile riconoscimento. La motivazione dell’Accademia svedese citava: “Per il suo fluire musicale di voci e controcanti in romanzi e drammi che rivelano con straordinaria abilità linguistica l’assurdità delle convenzioni sociali e il loro potere di soggiogamento”. Bernd Sucher, docente di critica teatrale, cinematografica e televisiva, oltre che di giornalismo, ha spiegato circa il suo stile: “Sono frammenti di un insieme, progettati come brani musicali. Si tratta di composizioni senza musica, ma con accordi con dissonanze e armonie, con leitmotiv e radianti. Ci sono, oltre al duetto, il solista e il coro”. Non tutti sono d’accordo, soprattutto l’intellighenzia austriaca. Knut Ahnlund, nell’ottobre 2005, ha scritto: “Assegnando il Nobel a Elfriede Jelinek la Fondazione svedese ha distrutto il valore di questo premio. Perché l’autrice è un soggetto mono-maniacale. Le sue opere sono costituite da una massa di testo, accumulato senza un approccio artistico alla struttura [...] I romanzi o le commedie [...] di Elfriede Jelinek sono sì costituiti da una fluidità verbale, ma si estendono per decine o centinaia di pagine senza avere qualcosa da dire [...] il degrado, l’umiliazione, lo stupro e il disgusto, il sadismo e il masochismo sono i temi principali del suo lavoro. Tutti gli altri aspetti della vita umana sono esclusi. Questo è il motivo per cui funzionano così male”. Ahnlund non è l’unico ad accusare la Jelinek di essere una scrittrice pornografica, di usare un linguaggio osceno, blasfemo e volgare. Un’impressione che è conseguenza delle tematiche trattate nelle sue opere (la sessualità femminile, l’abuso che se ne fa, il conflitto tra i sessi e le dinamiche di una relazione) e del modo in cui vengono affrontate, con ampio uso di dettagli crudi nelle descrizioni dei rapporti sessuali. Musica e sesso, nei suoi scritti, non rinfrancano mai l’anima, non l’arricchiscono. Sono strutture vuote usate da altri sentimenti (come la rabbia, la solitudine e il disagio) per esternarsi. Neanche il matrimonio con Gottfried Hüngsberg, avvenuto nel 1974, ha migliorato il suo rapporto con gli altri esseri
umani in generale e gli uomini in particolare. Anche perché non è mai riuscita a tagliare il cordone ombelicale che l’ha tenuta legata alla madre per tantissimi anni, certamente sino alla morte di Olga Jelinek avvenuta nel 2000. Del marito ha detto: “Avevo 27 anni, lui 29. Avevo conosciuto abbastanza uomini. La sessualità è, stranamente, l’unico campo in cui mi sono presto emancipata. Il nostro matrimonio vive in due città. È una sorta di Storia di due città, nel senso dickensiano. Faccio la spola tra Vienna e Monaco. Vienna è dove ho sempre vissuto perché i miei amici sono qui e perché non ho mai voluto lasciarla. Monaco è la città di mio marito e così ho sempre viaggiato su e giù, e questo è stato un bene per il nostro matrimonio”. Anche il rapporto con la politica è stato conflittuale. Uscita dal Partito Comunista ha polemizzato con la destra xenofoba di Haider, che una volta l’ha dichiarata persona non grata. Le tensioni create da questo episodio l’hanno costretta a trasferirsi temporaneamente da Vienna, dove è stata insultata per strada, a Monaco di Baviera dal marito. Il velo sollevato dalla scrittrice sull’Austria, da sempre considerata terra da operetta, ne ha mostrato, con toni provocatori, il volto spietato. Il romanzo che forse rappresenta meglio Elfriede Jelinek, quello che racconta tutto il suo mondo, è Die Klavierspielerin (La pianista) del 1983. Incentrato sul rapporto morboso tra una madre e una figlia, ha una connotazione autobiografica. La protagonista, sullo sfondo di una grigia Vienna post-moderna, è imprigionata in meccanismi perversi da lei stessa costruiti. È una outsider, una che la vita ha rigettato. Lei stessa vuole stare al di là dell’esistenza e della “normalità” perché è l’unico modo in cui riesce a sopravvivere. Da questo libro il regista austriaco Michael Haneke ha tratto un film, con Isabelle Huppert, molto aderente all’opera originaria, premiato a Cannes nel 2001. La Jelinek guarda con distacco e disincanto l’intimo erotico e in questo non è certamente amata da tutti. È una personalità scomoda, amante della provocazione e al contempo riservata, che sfugge le platee e la consacrazione istituzionale. Nonostante ciò ha ricevuto numerosi altri riconoscimenti. Il suo lavoro spazia anche sul teatro: una delle sue ultime fatiche è un testo
sconcertante sulla tratta delle donne e la prostituzione presentato al Burgtheater (Über Tiere, Sulle bestie). Ha scritto anche sceneggiature per film e libretti d’opera. È inoltre traduttrice dal se e dall’inglese e collabora con importanti riviste letterarie austriache e tedesche. In qualunque modo si esprima la sua arte, Elfriede Jelinek è una voce originale, fuori dal coro, sicuramente paradigmatica del nostro tempo. Ha vissuto fuori da mode e cenacoli culturali. È stata osservatrice corrosiva degli sconci del potere e della trappola mortale del perbenismo sociale, illustratrice disincantata dell’intimo erotico. Per questo la sua figura è così controversa.
Wangari Maathai (Kenya)
Nobel per la Pace 2004
La madre degli alberi Prima donna africana ad aver ricevuto il premio Nobel per la Pace, è stata un’attivista per l’ambiente e per i diritti delle donne. Nella sua opera ha saputo conciliare la difesa dell’ambiente e la giustizia sociale Wangari Muta Maathai, di etnia kikuyu, nacque il 1° aprile del 1940 a Ihithe, distretto di Nyeri, un villaggio situato nell’altopiano centrale del Kenya. I suoi genitori erano dei contadini, poverissimi, che a lungo avevano vagato nelle fattorie coloniali in cerca di lavoro. Nonostante tutto è riuscita a lasciare un’impronta ben marcata nella società africana in generale, keniota in particolare. Ancor più di altri premi Nobel donna, ha dovuto lottare per la propria emancipazione e quella femminile di tutto un continente. La sua grandezza si evince già dal suo percorso di studi, raro a quell’epoca, soprattutto data la sua nazionalità africana. Era dotata di un’enorme energia dettata dalla sua grande voglia di sapere e di agire. Dopo aver frequentato una specie di scuola elementare a Nyeri, all’età di 11 anni si trasferì nella scuola media di Santa Cecilia, un collegio d’ispirazione cattolica. Qui imparò a parlare un ottimo inglese e si convertì al cristianesimo. Aderì anche a un’associazione conosciuta come la Legione di Maria, i cui membri si impegnavano solennemente a “servire Dio servendo gli altri esseri umani”. La vita in collegio le evitò i traumi della rivolta dei Mau-Mau, la lotta scatenata da gruppi appartenenti alla sua stessa etnia contro i colonialisti inglesi. Completò quel ciclo di studi nel 1956. Riconosciuta prima in assoluto del suo istituto e con un talento poco comune, le fu concessa l’ammissione all’unico liceo cattolico per le ragazze in Kenya, il Loreto College di Limuru. Grazie a una borsa di studio, si laureò nel 1964 in Scienze Biologiche al Mt. St. Scholastica College ad Atchison in Kansas e subito dopo ottenne un master in Scienze all’Università di Pittsburgh, grazie al programma “Ponte aereo
Kennedy” (che forniva una borsa di studio ai migliori studenti africani). Per due anni lavorò nella stessa Pittsburgh nel Dipartimento di zoologia della facoltà di Biologia. Proseguì la sua formazione prima in Germania e infine all’Università di Nairobi diventando la prima donna africana a ottenere un dottorato. Fu anche la prima a essere scelta come capo del Dipartimento di anatomia veterinaria e in seguito come professore associato. La sua carriera accademica non fu affatto facile. Si impegnò nella ricerca nel settore medico veterinario all’Università di Nairobi, circondata dallo scetticismo e persino dall’opposizione di studenti e docenti. Non cedette mai. Sino a quando il suo impegno non le venne riconosciuto. Entrò anche a far parte del Consiglio delle donne del Kenya diventandone per sei anni il presidente (dal 1981 al 1987). Proprio in questo periodo cominciò a inseguire un sogno: piantare alberi insieme alla gente della sua terra. Un’idea elementare, forse anche bizzarra. Riflettendo attentamente e, soprattutto, analizzando il suo evolversi, non era affatto così. Si trattava di un pensiero che nasceva da un’esigenza di rinnovamento per l’intero Paese, il Kenya, e di un continente, l’Africa. Gli obiettivi del movimento da lei fondato nel 1977, chiamato Green Belt (Cintura Verde), divennero la lotta contro la deforestazione e la conseguente desertificazione del territorio. E poi il miglioramento della qualità della vita delle donne attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro, e la loro collocazione in posizione di leadership nei contesti rurali. A chi le chiedeva le ragioni del suo attivismo, rispondeva: “Non possiamo rimanere seduti a guardare i nostri figli che muoiono di fame”. Lei non rimase mai seduta, nemmeno per un attimo. Una curiosità. Wangari sposò Mwangi Maathai, un uomo politico locale che inconsapevolmente, secondo i suoi biografi ufficiali, le fornì la base per le sue future attività ambientali. Nel 1974, il marito si candidò a una carica pubblica e promise di piantare alberi in una zona povera della circoscrizione di Lang’ata che rappresentava. Le sue promesse non furono mai realizzate compiutamente. Come il suo matrimonio. Infatti, qualche anno più tardi, abbandonò Wangari e i loro tre figli: Waweru, il primogenito, Wanjira e Muta. Nelle motivazioni che accompagnavano la richiesta di divorzio accusò la moglie, oltre che di adulterio, di essere “troppo educata, troppo forte, troppo testarda, di avere troppo successo ed essere troppo difficile da controllare”. Il futuro premio Nobel, dal canto suo, si dichiarò orgogliosa del suo modo d’essere perché era “particolarmente importante per le donne africane sapere che avrebbero potuto,
anche loro, essere forti e liberarsi dalla paura in una società che le emarginava”. La crescita del movimento Green Belt fu rapidissima. Molte ragazze iscritte a Green Belt diventarono “guardiaboschi senza diploma”, formate in silvicoltura, apicoltura e lavorazione dei generi alimentari. Qualche numero? A oggi si calcola che più di 40 milioni di alberi siano stati piantati intorno a fattorie, scuole e chiese africane. Dal 1986 le iniziative di Green Belt sono state adottate anche da altri Paesi, come Malawi, Etiopia, Zimbabwe e Uganda. Sono stati creati migliaia di posti di lavoro e ciò che più conta è stata diffusa nel continente la consapevolezza della necessità di salvaguardare l’ambiente. La stessa Maathai diceva che negli anni aveva imparato ad avere pazienza, persistenza e impegno. A chi le contestava che un albero ci impiegava troppo a crescere, rispondeva che gli alberi che vedevano erano stati piantati dai loro antenati e che quelli che avrebbero fatto crescere sarebbero stati a beneficio delle generazioni successive alla sua. Piantare un albero significa piantare le radici di un futuro migliore. Lavorare in prima persona sporcandosi le mani con la terra insegna a prendersi cura dell’ambiente in cui si vive e ad avere maggiore responsabilità verso il proprio agire e quello degli altri. Alimentare la cultura della salvaguardia ambientale significa anche proteggere la biodiversità, i diritti civili, la democrazia e la salute. Un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato negli anni Ottanta rivelò che per ogni 100 alberi tagliati solo 9 venivano ripiantati in Africa. Questa mancanza di equilibrio stava e sta tutt’oggi provocando seri problemi. Oltre alla deforestazione, diventa sempre più evidente il ruscellamento del suolo, l’inquinamento delle acque, la difficoltà, anche nei villaggi più isolati, di trovare legna da ardere. Non solo. L’alterazione dell’ambiente causa la riduzione della fauna. Proteggendo il loro ecosistema le donne africane avrebbero garantito un futuro migliore ai loro figli. Era questa l’idea rivoluzionaria della Maathai. Nel settembre 1998, Wangari avviò la campagna mondiale per la cancellazione dei debiti, che soffocavano qualsiasi speranza di crescita, dei paesi del Terzo Mondo. Non disdegnò l’agone politico. Si candidò diverse volte in Parlamento come rappresentante del movimento ecofemminista, ma riuscì a essere eletta solo nel 2002 (con ben il 98% di preferenze) quando il partito di Daniel Arap Moi, padre padrone del Kenya (la Maathai fu vittima di persecuzioni, arresti,
pestaggi e diffamazioni), finì all’opposizione, sostituito da quello di Mwai Kibaki. Dal 2003 al 2005 fu nominata vice Ministro per l’Ambiente. Era divertente notare, come spesso diceva, che le stesse persone, poliziotti e altre forze dell’ordine che prima l’avevano minacciata ora la salutavano con deferenza. Nel corso della sua vita ottenne decine di riconoscimenti, tra cui la Legione d’Onore se e molte lauree honoris causa. Tra questi spicca il Nobel per la Pace consegnatole nel 2004 perché: “La pace nel mondo dipende dalla difesa dell’ambiente e dai diritti dati alle donne. Il suo operato ha ispirato moltissimi altri attivisti, perché ha saputo conciliare la scienza e il lavoro democratico”. La Maathai mai avrebbe immaginato di poter vincere il premio. Ne fu molto sorpresa, perché non credeva che il mondo fosse attento al suo operato. Ma il mondo stava ascoltando. Il comitato che decise di assegnarglielo con questa scelta lanciò un messaggio molto chiaro. Proteggere il nostro pianeta è un o indispensabile nel cammino di pace. Il Nobel non è l’unico premio che ricevette. L’elenco è lunghissimo. Si va dal Sophie Prize (2004), al Petra Kelly, premio per l’Ambiente (2004), dall’ Excellence Award da parte della Comunità Keniota all’estero (2001), al Golden Ark (1994), dal premio Windstar per l’Ambiente (1988), al Woman of the Year Award (1983). Maathai è stata inserita nella Hall of Fame e nominata una delle 100 eroine del mondo che hanno fatto la differenza in campo ambientale. Il suo percorso però fu anche contestato. Era accusata di opporsi alla modernizzazione dell’Africa. Un esempio? Un progetto che le costò il posto nel governo di Nairobi: nel 1989 si scagliò con tutte le sue forze contro la costruzione di un grattacielo di 60 piani a Uhuru Park nel cuore della capitale keniota. Lei sosteneva che l’edificio, destinato a ospitare uffici governativi e alcune stazioni TV, sarebbe costato più di 200 milioni di dollari. Quella stessa cifra poteva essere spesa meglio combattendo la povertà, la fame e le esigenze educative del Paese. Quel grattacielo non fu realizzato. La sua battaglia aveva spaventato i finanziatori che ritirarono il loro sostegno all’iniziativa. Nel 2006 l’attivista africana partecipò alla Nobel Women’s Initiative con altre vincitrici del Nobel per promuovere i diritti delle donne del mondo. A febbraio dello stesso anno, alla cerimonia d’apertura dei giochi olimpici invernali di
Torino, portò, per la prima volta nella storia, insieme con altre sette donne famose, la bandiera olimpica. In agosto, l’allora senatore degli Stati Uniti Barack Obama si recò in Kenya alla ricerca delle sue origini (suo padre era stato educato in America grazie allo stesso programma che aveva utilizzato il premio Nobel). Lei e il futuro Presidente USA si incontrarono e insieme piantarono un albero all’interno dell’Uhuru Park di Nairobi. “Quando cominci a lavorare seriamente per la causa ambientalista – dichiarò in un’intervista – ti si propongono molte altre questioni: diritti umani, diritti delle donne, diritti dei bambini… e allora non puoi più pensare solo a piantare alberi”. Per il suo impegno per un Kenya multietnico e democratico fu diffamata, perseguitata, arrestata e picchiata. Come accadde nel gennaio del 1992, quando più di 100 poliziotti perquisirono la sua residenza a Nairobi. Oppure qualche mese più tardi, quando fu accusata di diffondere insinuazioni sull’allora presidente Moi che, secondo voci non confermate, avrebbe appoggiato un golpe dei militari per evitare elezioni multi-partitiche. Impegno, dedizione e lungimiranza erano solo alcuni degli aggettivi che definivano il lavoro di questo grande personaggio. Infranse molti tabù della società africana, aprendo le porte a tutte le donne alla ricerca di una vita più giusta e libera. Uno dei suoi ultimi progetti riguardava un’altra nobile causa: creare un centro per ospitare le ragazze maltrattate e i bambini. “Molti uomini africani - ha scritto - dovranno essere persuasi che questa non è un’intrusione nella loro cultura. Spesso trattano le donne come proprietà personale, soprattutto coloro che hanno pagato cifre esorbitanti di denaro per una sposa. Quella era è finita. Molti africani dovranno cambiare la loro mentalità e trattare gli uomini che abusano di donne e bambini come trasgressori delle leggi e quindi punirli. D’altra parte, le africane devono essere consapevoli del fatto che sono portatrici di diritti umani inviolabili”. Wangari Maathai si è spenta, dopo una lunga malattia, il 26 settembre 2011 all’età di 71 anni. “Non possiamo stancarci o mollare. Lo dobbiamo alle generazioni presenti e future di ogni razza. Dobbiamo alzarci e andare avanti”. Questo è stato il suo epitaffio.
Doris Lessing (UK)
Nobel per la Letteratura 2007
Per amore della Letteratura Grande narratrice, ha saputo rappresentare il mondo femminile diventando un’icona delle cause anti-colonialiste e anti-apartheid. Per lei la scrittura era l’unica forma conoscibile dell’esperienza La storia di Doris Lessing ha radici in Persia (oggi Iran). Lì nacque, a Kermanshas, il 22 ottobre del 1919 col nome di Doris May Tayler, da genitori inglesi. Il padre, il capitano Alfred Tayler Cook, reduce della Prima Guerra Mondiale durante la quale era stato gravemente ferito (gli avevano amputato una gamba), lavorava nella Banca imperiale del Paese, mentre la madre, Emily Maude Tayler, fu per un certo periodo un’infermiera. I due si erano conosciuti al Royal Free Hospital, l’uno era il paziente dell’altra. A ciò sono legati i ricordi che hanno segnato la sua esistenza. Uno di questi, molto piacevole, riguardava il padre che, ogni mattina, già a cavallo per andare al lavoro, la prendeva tra le braccia e le faceva fare un pezzetto di strada con lui. La criniera e la pelle dell’animale, il suo forte odore erano rimasti a lungo presenti e vivi nella mente di Doris. Il secondo le riportava alla memoria il periodo più duro della sua infanzia/adolescenza. Era ancora giovanissima quando la sua famiglia si trasferì nella colonia britannica della Rhodesia meridionale (l’attuale Zimbabwe) per gestire una fattoria, nella speranza che dalla coltivazione del mais si potessero ricavare risorse utili a finanziare uno stile di vita d’alto lignaggio. Non andò così. Furono anni che segnarono profondamente Doris. Una vita difficile quella nei campi. La scrittrice descriveva sempre la sua infanzia come un insieme di episodi felici e terribili. Se da una parte furono impagabili le giornate trascorse insieme al fratello Harry alla scoperta della natura selvaggia e dei suoi abitanti, dall’altra soffriva terribilmente l’ambiente familiare, che nulla aveva a che vedere con tutto ciò che li circondava. La madre era ossessionata dal pensiero di dover dare un’educazione adeguata ed europea ai suoi figli. A casa vigevano rigide regole
comportamentali d’igiene. Se tutto questo non fosse bastato, fu mandata in un convento domenicano, dove le suore la terrorizzavano con racconti di dannazione e poi in una scuola femminile a Salisbury. Da questo momento in poi, aveva solo 13 anni, iniziò la sua carriera di autodidatta. Come altre scrittrici sudafricane che non si laurearono (per esempio Nadine Gordimer), plasmò la sua sensibilità e il suo talento leggendo tantissimo: D.H Lawrence, Tolstoj, Stendhal, Dickens, Kipling, Stevenson. Leggere era un modo per evadere e cercare una realtà diversa da quella in cui viveva e in cui non si riconosceva. Il padre, afflitto dalle brutalità cui aveva assistito o che aveva subito durante la Grande Guerra, la madre imprigionata da regole che, seppur avessero avuto un qualche valore nel Vecchio Continente, in quella terra selvaggia erano prive di significato. La sua idea fissa era scappare da quella specie di cella che i suoi genitori le avevano cucito addosso. Descrisse la sua infanzia nella fattoria nella prima parte della sua autobiografia, Under My Skin (1994). Doris lasciò la casa paterna a 15 anni. Lavorò come bambinaia in una famiglia borghese. Anche in questo caso conobbe le due facce della medaglia umana. Da un lato il suo datore di lavoro le procurava i libri di cui era avida, dall’altro il fratello dell’uomo che l’aveva accolta la molestava sessualmente. In questo periodo prese ancora più coscienza del suo ruolo di donna e, soprattutto, della sua capacità di giudizio e di elaborazione del pensiero. “C’era – ricordava spesso – un’intera generazione di donne che cessavano di vivere e abdicavano a una qualsiasi autonomia appena si sposavano o avevano figli”. Quella non sarebbe stata la sua esistenza. Nel 1937 si trasferì a Salisbury dove trovò un impiego come operatrice telefonica, stenografa e giornalista. In questo periodo pubblicò i suoi primi racconti. A 19 anni si sposò con Frank Wisdom da cui ebbe due figli, John e Jean. Ma nemmeno cinque anni dopo, sentendosi ancora una volta intrappolata in una realtà non sua, decise di divorziare. Aveva troppe idee e troppe cose da dire per fermarsi e non riuscì a trovare un compromesso nella vita di coppia. S’iscrisse al Partito Comunista (lo abbandonerà nel 1954 in seguito alla disillusione del dopoguerra), impegnandosi nella politica di sinistra non razzista.
Si sposò in seconde nozze con l’attivista politico ebreo-tedesco Gottfried Lessing, leader di un gruppo marxista, conosciuto in un circolo culturale progressista che aveva preso a frequentare. Gottfried Lessing sarebbe diventato l’ambasciatore tedesco-orientale in Uganda, morto assassinato, un quarto di secolo dopo, durante i moti che portarono alla ribellione contro Idi Amin Dada. Ma anche questo matrimonio si rivelò un fallimento. Si separarono nel 1949. Doris si trasferì in Inghilterra col figlio, Peter, avuto da Lessing. Quando era fuggita a Londra aveva lasciato i due bambini avuti durante il precedente matrimonio con il padre in Sudafrica. Circa questa decisione, la scrittrice disse sempre di “non aver avuto scelta”, anzi sottolineava: “Per molto tempo ho sentito che avevo fatto una cosa molto coraggiosa. Non c’è niente di più noioso di una donna intelligente che spende infinite quantità di tempo con i bambini piccoli. Sentivo che non ero la persona migliore per educarli. Avrei finito per diventare un’alcolizzata o un’intellettuale frustrata come mia madre”. Una posizione non condivisibile, ma era la sua. Nella capitale inglese nacque a nuova vita come autrice. Pubblicò il suo primo romanzo, The Grass is Singing (L’erba canta), nel 1950, consacrandosi totalmente alla scrittura. L’opera è la storia di una ragazza bianca, Mary, moglie di un agricoltore bianco, e della sua relazione con un suo servitore nero. Una tragedia basata sull’amore-odio e una rappresentazione degli insanabili conflitti razziali del Sudafrica. Solo scrivendo la Lessing si sentiva realmente libera. Nelle sue opere affrontava tematiche sociali, l’impegno politico, l’emancipazione femminile, lo scontro tra le culture e il conflitto razziale. Il tutto permeato da una forte componente autobiografica, che esplodeva quando raccontava dell’esperienza africana. Criticava aspramente l’ingiustizia e l’iniquità del potere dei bianchi, facendo emergere, nei suoi personaggi, la dicotomia tra la coscienza individuale e quella collettiva. Nei racconti pubblicati negli anni Cinquanta e Sessanta denunciava l’esproprio di diritti e terre agli africani neri da parte dei coloni europei e la miopia della cultura e della politica bianca in Sudafrica. Per questo motivo venne bandita dallo Zimbabwe e dal Sudafrica nel 1956. Tra le sue opere, il ciclo di Martha Quest, Children of Violence (I figli della
violenza) che comprende Martha Quest (ambientato negli anni Trenta, vede come protagonista Martha, che vive in una squallida fattoria sudafricana e poi in città dove regnano i conflitti razziali), A Proper Marriage (Un matrimonio per bene), dove Martha si sposa e affronta dure prove come la separazione dal marito in guerra e la solitudine, A Ripple from the Storm (Echi nella tempesta) e i due volumi non tradotti in italiano Landlocked e The Four-Gated City. Forse la sua opera maggiore è The Golden Notebook (Il taccuino d’oro), un Bildungsroman (romanzo di formazione) che racchiude tutti i temi a lei più cari. Analizzando la vita esterna e interiore della protagonista, Anna Wulf, emergono riflessioni sulla politica, sulla società e la sessualità. Anna Wulf dispone di cinque quaderni su cui annota i suoi pensieri sull’Africa, la politica e il Partito Comunista, il suo rapporto con gli uomini e il sesso, l’analisi junghiana e l’interpretazione dei sogni.La sintesi è che non esiste un solo punto di vista da cui cogliere la totalità delle esperienze della vita. La produzione della Lessing è stata comunque vastissima, si possono annoverare decine e decine di scritti. Ha pubblicato romanzi ma anche racconti, opere teatrali, poesie e libri di fantascienza (tra il 1979 e il 1983 scrisse la serie Canopus in Argos. Il testo analizzava lo sviluppo della specie umana durante il post-guerra atomica: metteva sotto la lente la guerra nucleare e i disastri ecologici, con osservazioni sulla contrapposizione tra principio femminile e maschile e lo sviluppo della specie umana). Scrisse anche due opere autobiografiche, Under my skin (Sotto la pelle, narra i suoi primi trent’anni sottolineando la diversità della cultura africana da quella europea) e Walking in the Shade (Camminando nell’ombra, dall’arrivo in Inghilterra fino al 1962). Per alcuni libri decise di utilizzare lo pseudonimo di Jane Somers, per capire se sarebbe stata pubblicata ugualmente (la risposta fu affermativa). La sua opera più recente è Alfred and Emily (2008), definita da lei stessa come il libro conclusivo della sua carriera. Tanti sono i riconoscimenti e i premi da lei vinti. Nel giugno 1995 ricevette una laurea honoris causa dall’Università di Harvard. Nello stesso anno, tornò per la prima volta, dopo la messa al bando del 1956, in Sudafrica per vedere la figlia e i nipoti. Ironia della sorte, più volte sottolineata dalla stessa scrittrice, fu acclamata per gli stessi argomenti per i quali era stata bandita 40 anni prima.
Collaborò poi con Charlie Adlard, illustratore, per creare il romanzo Giocare. Nel 1996, Love Again fu pubblicato da Harper Collins. In un’intervista, Doris Lessing descrisse la frustrazione provata durante le 14 settimane di tour mondiale per promuovere la sua autobiografia: “ Ho detto ai miei editori che sarebbe stato molto più utile per tutti se fossi rimasta a casa, a scrivere un altro libro”. Nel 1999 fu nominata Companion of Honour. Nel 2001 fu insignita del premio Principe delle Asturie per la Letteratura, uno dei riconoscimenti più importanti della Spagna, per le sue brillanti opere letterarie in difesa della libertà e delle cause del Terzo Mondo. Ricevette anche il David Cohen, premio Internazionale di Letteratura inglese. L’Accademia svedese le assegnò il Nobel per la Letteratura nel 2007 “per l’essere cantrice dell’esperienza femminile, che con scetticismo, ione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa”. "Ognuno di noi" secondo Doris Lessing, "ha dentro un narratore di storie. È l’immaginazione che ci forma, ci crea e ci sostiene. Anche quando il mondo esterno è distrutto, quando siamo sconsolati e a pezzi, è dentro di noi. È colei che fabbrica i nostri sogni, che ci tiene in vita. È la nostra fenice, il punto più alto di noi stessi, la nostra parte più creativa”. È morta il 13 novembre 2013, a Londra.
Françoise Barré-Sinoussi (Francia)
Nobel per la Medicina 2008
In guerra contro l’HIV Una scienziata-attivista, come lei stessa si definisce. Il suo lavoro di ricerca ha portato alla scoperta del virus che causa l’HIV. Ancora oggi collabora con i Paesi più poveri per combattere questa terribile malattia Françoise Barré-Sinoussi è nata a Parigi, nel 19° arrondissement, il 30 luglio del 1947. Il suo interesse per la scienza fu evidente sin da piccola. Lei stessa racconta di quando, nella casa delle vacanze dei genitori, nelle campagne di Auvergne, nel centro della Francia, ava ore nel giardino solo per osservare tutte le meraviglie della fauna che lì vi abitava. Dopo gli studi di scuola superiore, in cui emerse il suo talento per le materie tecniche, si pose il problema di quale facoltà scegliere. Era indecisa tra Medicina e Scienze. Alla fine, e solo per un calcolo pragmatico (il corso di studi durava meno e aveva costi inferiori a quello medico), non volendo gravare troppo sul bilancio familiare, optò per la seconda ipotesi. Verso la fine del suo percorso di studi fatto alla Sorbona, quella scelta fu messa in dubbio dalla difficoltà di trovare un lavoro nel settore per cui si era preparata. Aveva deciso di diventare una ricercatrice, ma pareva che posti disponibili non ce ne fossero. Per mesi continuò a contattare vari laboratori. Tutti i tentativi si rivelarono infruttuosi. Stava per cedere quando un suo amico le suggerì di rivolgersi al gruppo condotto da Jean-Claude Chermann all’ Istituto Pasteur della capitale se, con cui lui aveva collaborato. Finalmente trovò un centro disponibile a ospitarla come assistente volontario, e quindi non retribuito, part-time. Fu la sua àncora di salvezza. Senza quella opportunità oggi ci sarebbe un premio Nobel in meno e tutte le scoperte da lei fatte, è titolare di 17 brevetti internazionali, forse, sarebbero ancora da rivelare. Il Pasteur era uno dei pochi luoghi dove si studiava in modo approfondito la relazione tra retrovirus e il cancro nei topi. Qui fu accolta tra amici. Poté sentire con mano l’entusiasmo per il lavoro, seppur faticoso e lungo. Era nel suo mondo. ava ogni attimo del suo tempo in laboratorio, andando a lezione in facoltà
solo il necessario per superare gli esami. Poco dopo le venne offerto un dottorato di ricerca sull’uso di una molecola sintetica che aveva il potere di inibire la trascrittasi inversa indotta dal virus della leucemia Friend proprio dal professor Chermann. Lo conseguì con eccellenti risultati, tanto che nel 1973 fu invitata al NIH, il National Institutes of Health di Bethesda negli Stati Uniti. L’obiettivo del progetto era identificare la destinazione virale del prodotto genico FV1 implicato nella restrizione genetica di replicazione del virus della leucemia murina. Un progetto difficile a cui partecipò con un entusiasmo contagioso. Dopo solo un anno di permanenza negli Stati Uniti fu nominata membro ricercatore al National Institute for Health and Medical Research in Francia. Ritornò quindi in patria. L’esperienza oltreoceano l’aveva arricchita moltissimo sia professionalmente, sia privatamente, visto che proprio durante il soggiorno negli States aveva conosciuto Jean Claude, l'uomo che poi sarebbe diventato suo marito. A Parigi, sotto la guida di Luc Montagnier continuò gli studi sul legame tra retrovirus e cancro. Erano gli inizi degli anni Ottanta e si cominciavano a registrare, in tutto il mondo, Parigi compresa, i primi casi di una strana e allarmante nuova epidemia, non ancora identificata come AIDS. Françoise Brun-Vézinet, un virologo dell’Ospedale Bichat della capitale, e Willy Rozenbaum, furono tra i primi medici in Francia a osservare come il contagio sembrasse colpire gli omosessuali. I due contattarono Luc Montagnier e il responsabile del Centro Pasteur chiese alla Barré-Sinoussi se fosse interessata a lavorare su questo nuovo caso. L’obiettivo iniziale era determinare se il responsabile della malattia fosse un retrovirus. La ricercatrice, insieme ai suoi collaboratori, analizzò regolarmente una coltura di cellule di linfonodo provenienti da un paziente affetto da “linfoadenopatia generalizzata” (stadio precedente alla comparsa di immunodeficienza profonda). Ciò che voleva appurare era la presenza o meno di un retrovirus. Tale attività fu individuata, ma si legava a morte cellulare. Decise quindi di farsi aiutare da un centro di trasfusioni di sangue per ottenere dei globuli bianchi di donatori, metterli in coltura insieme alle cellule su cui stava eseguendo gli esperimenti e che avrebbero dovuto contenere il retrovirus.
Dagli studi effettuati fu evidente che aveva ragione. Il retrovirus fu in seguito chiamato “virus da immunodeficienza” (HIV). Il primo rapporto scientifico della sensazionale scoperta fu pubblicato sulla rivista Science nel maggio del 1983. Nei mesi successivi, quei risultati furono illustrati dalla stessa Barré-Sinoussi nei più importanti congressi medici del mondo. La scienziata fu invitata dai ricercatori del NIH di Bethesda a discutere i dettagli dei suoi dati. I suoi risultati convinsero la comunità scientifica e le autorità sanitarie mondiali dell’esistenza del virus dell’immunodeficienza umana e del suo essere agente eziologico dell’AIDS. La Barré-Sinoussi continuò a isolare e caratterizzare sempre più puntualmente il virus, determinando, insieme ai biologi molecolari dell’Istituto, la sequenza del genoma. Il 1983 è una data storica. Da quell’anno in poi s’iniziò a conoscere più da vicino la terribile malattia che tuttora miete vittime in tutto il mondo. Nel 1998 la ricercatrice divenne responsabile del suo laboratorio e mise in atto programmi di studio sulle determinanti virali e sulle cellule ospiti coinvolte nella fisiopatologia virale dell’HIV. Ciò che le importava, soprattutto, oltre a conoscere sempre più la malattia per poterla curare, era ed è, ancora oggi, organizzare delle azioni concrete per limitare il suo diffondersi in continenti poveri come l’Africa e l’Asia. Paesi che non hanno abbastanza risorse economiche per poter curare milioni di persone (la maggioranza donne e bambini) infette. La Barré-Sinoussi visitò il Continente nero per la prima volta nel 1985, in occasione della conferenza della World Health Organization nel Bangui. Ne fu sconcertata. Le misere condizioni in cui vivevano le popolazioni le instillarono il desiderio e la necessità di agire in qualche modo con le autorità locali. Dopo quell’esperienza, visitò anche il Vietnam e altre zone dell’Asia, iniziando una lunga collaborazione, oggi ancora viva, fatta di scambi e progetti comuni con giovani scienziati provenienti da quei luoghi. I riconoscimenti per la sua opera e il suo contributo alla scienza mondiale non si fecero attendere. Nel 2006 fu inserita nella Hall of Fame, tra le donne esperte in Tecnologia internazionale. Due anni più tardi, nel 2008, fu insignita del Nobel per la Medicina, assieme a
Luc Montaigner, proprio per la scoperta del virus che causa l’immunodeficienza umana. La motivazione dell’Accademia svedese citava: “Oggi Francoise BarréSinoussi continua a battersi per i diritti dei pazienti affetti da HIV e per limitare il dilagare della malattia”. Che cosa ha di straordinario la sua scoperta? Ha permesso l’identificazione di importanti dettagli della vita dell’HIV e di come il virus interagisce con il suo ospite. Dettagli, ed è questo l’aspetto più importante, che hanno permesso lo sviluppo di metodi per la diagnosi dei pazienti infetti e per lo screening dei prodotti ematici. Non solo. Lo sviluppo di diverse classi di nuovi farmaci antivirali è dovuto proprio alla conoscenza dei dettagli del ciclo di replicazione virale. Questa combinazione ha ridotto la diffusione della malattia e aumentato l’aspettativa di vita tra i milioni di pazienti trattati in tutto il mondo. Ma attorno all’assegnazione del premio Nobel non sono mancate le polemiche. Subito dopo la proclamazione è scoppiato un dibattito che definire vivace è un puro eufemismo. In discussione sono stati messi i meriti dei responsabili del Pasteur Institute e quelli del gruppo guidato da Robert Gallo sulla scoperta del virus. Robert Gallo è un ricercatore degli Stati Uniti, direttore dell’Institute of Human Virology della Scuola di Medicina dell’Università del Maryland a Baltimora, a lungo impegnato nella identificazione dell’HIV. Il premio Nobel in quanto tale era però un forte riconoscimento del ruolo dell’Istituto Pasteur, in particolare di Luc Montagnier e di Françoise BarréSinoussi. I sostenitori di Robert Gallo continuano a criticare la scelta del Comitato per il Nobel e a chiedersi perché gli stessi meriti non sono stati attribuiti anche allo scienziato americano. La Barré-Sinoussi ha ricevuto numerosi altri riconoscimenti nazionali e internazionali tra cui il premio Sovac, il premio della Fondazione Körber per la promozione della scienza europea, quello dell’Accademia se delle Scienze, il King Faisal International Prize e l’ International AIDS Society Prize. È Ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore dal 2006. Nel 2009, la scienziata ha rivolto un appello a Papa Benedetto XVI affinché la Chiesa riveda le sue posizioni sull’uso del preservativo. “ Le tesi cattoliche sui rapporti sessuali – ha scritto al pontefice – sono ormai desuete e non tengono
conto del fatto che un’interpretazione più moderna dei dogmi potrebbe salvare milioni di vite”. Oggi l’obiettivo del suo gruppo di ricerca è quello di individuare i meccanismi di controllo dell’infezione dell’HIV e le modalità naturali di protezione riscontrate, per esempio, nella scimmia verde africana. Nonostante il Nobel, la sua attività non è cambiata, né è cambiato il suo impegno costante per realizzare i suoi obiettivi. D’altronde è il suo carattere, un carattere in cui convivono tenacia e metodo, che non si lascia scoraggiare dagli ostacoli. Ha sempre visto la vita come una sfida e, lungi dal cadere nella trappola di prediligere la via più facile, ha scelto il lavoro e lo sforzo costante che apre la porta al successo. Ci sono caratteristiche nella sua personalità che hanno sempre impressionato i suoi collaboratori. In primo luogo, la devozione al lavoro, sempre messo al di sopra di tutto, anche della famiglia. In secondo luogo, pur essendo un premio Nobel e con una reputazione da far invidia al migliore degli scienziati, è una persona accessibile e alla mano, disposta a condividere i suoi pensieri con chiunque le ponga domande. Forse, tra tutti, è il suo più grande merito.
Ada E. Yonath (Israele)
Nobel per la Chimica 2009
La chimica dei ribosomi Prima donna israeliana a vincere il Nobel. Prima a vincerlo nella Chimica, a distanza di 45 anni, da Marie Curie. Pioniera dello studio dei ribosomi, ne ha rivelato la struttura e le complesse funzioni Ada E. Yonath nacque il 22 giugno del 1939 nel Geula, un quartiere nel cuore di Gerusalemme abitato da ebrei ortodossi. La sua famiglia era molto povera, tanto che non aveva una casa tutta sua, ma condivideva un appartamento con altre persone. Tutti erano emigrati dalla Polonia prima che si costituisse lo Stato di Israele. Il padre, Hillel, un rabbino, trascorreva più tempo in ospedale, a causa della sua salute cagionevole, che a condurre un piccolo negozio di alimentari aperto per sostenere i suoi cari. La madre, Esther Lifshitz, si occupava della casa e della crescita dei suoi figli. Nonostante i problemi economici, i genitori di Ada cercarono in tutti i modi di darle un’educazione di prim’ordine, iscrivendola alla costosa e prestigiosa Beit Hakerem. Fin da piccola Ada era affascinata dal mondo che la circondava. Era sempre pronta a fare esperimenti di ogni tipo per riuscire a capire come funzionavano le cose. Tra questi ci fu il tentativo, maldestro, di misurare l’altezza del balcone portando fuori i mobili della casa e accatastandoli uno sopra l’altro e poi scalandoli. Il risultato? Un braccio rotto e una bella sgridata da parte dei genitori. Quando il padre morì, Ada aveva solo 11 anni. Dovette cominciare presto a prendersi delle responsabilità da adulta. I soldi non bastavano e così iniziò a lavorare. Si rendeva disponibile per ogni tipo di impiego: babysitter, insegnante, donna delle pulizie… Purtroppo anche questi sacrifici erano insufficienti a sostenere la famiglia, così la madre decise di trasferirsi a Tel Aviv, dove poteva contare sull’aiuto delle sorelle. Qui Ada finì il suo iter scolastico. L’istruzione superiore aveva dei costi insostenibili per una famiglia dalle disperate condizioni economiche come la
sua. In suo soccorso venne il desiderio, insito in ogni genitore, di assicurare ai propri figli un futuro migliore del proprio. La sua intelligenza impressionò la sua insegnante Zvi Vinitzky, che la aiutò a frequentare la migliore scuola del Paese senza doverne pagare le costose rette. Anche la madre, con enormi sacrifici, l’aiutò a proseguire nella sua educazione. Concluso l’anno di leva militare (in Israele è obbligatorio per uomini e donne compiuto il diciottesimo anno di età), Ada s’iscrisse così ai corsi di Medicina, Biochimica e Biofisica dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Si pagò parte degli studi dando ripetizioni di matematica. Essendo brava, gli allievi non le mancavano. Laureata, cominciò prima un master in Biochimica, poi, nel 1968, un dottorato di ricerca al Weizmann Institute. Il primo obiettivo scientifico assegnatole era rivelare la struttura in alta risoluzione del collagene. In questo periodo nacque Hagit, sua figlia, del cui padre si sa poco data la riservatezza di Ada. Continuò il lavoro sulle proteine fibrose alla Carnegie Mellon University di Pittsburg, in Pennsylvania, poi al Massachussetts Institute of Technology (MIT) e alla Harvard University, dove ebbe modo di frequentare il laboratorio di ricerca di William Lipscomb Jr., futuro premio Nobel. Trascorse negli States un anno, giusto il tempo di concludere il post dottorato. Tornò quindi in Israele, al Weizmann Institute, nella veste, questa volta, di ricercatrice. Qui mise in piedi, insieme ai suoi collaboratori, il primo laboratorio di cristallografia, il solo nel Paese per circa una decina di anni. Filo rosso della sua ricerca era lo studio della biosintesi delle proteine. Un argomento molto complesso che si lega a migliaia di disquisizioni scientifiche. Il suo fu un lavoro durato vent’anni, fatto di successi, battute d’arresto e anche sberleffi da parte della comunità scientifica. Mette sotto la sua lente il ribosoma, un organulo in grado di sintetizzare proteine leggendo il codice genetico della cellula. È un processo che Ada vuole approfondire. Per farlo, però, deve prima definire con estrema cura la struttura del ribosoma che sono purtroppo sono instabili e si deteriorano rapidamente. Persino i Nobel Watson e Crick avevano fallito nel tentativo di cristallizzarli. L’impresa era considerata impossibile. Di conseguenza, Ada una folle per il solo volerci provare.
La scienziata israeliana iniziò questi studi in collaborazione con il prof. H. G. Wittmann del Max Planck Institute for Molecular Genetics di Berlino, che sostenne finanziariamente il progetto. Certamente il budget era modesto. Nonostante tutto, i risultati non tardarono ad arrivare. Di lì a pochi anni, grazie ai fondi messi a disposizione anche da Helen Kimmel, erede di un impero immobiliare, fu costituito un centro studi macromolecolari e, di conseguenza, in Israele arrivò un folto gruppo di ricercatori provenienti da ogni angolo del globo. Tutti sotto la guida di Ada Yonath. Il suo interesse era focalizzato sui ribosomi, per comprenderne prima di tutto la struttura e poi le varie funzioni. Ma cosa sono i ribosomi? Sono componenti cellulari formate da due subunità. Composti prevalentemente di RNA (acido nucleico simile al DNA), sono capaci di leggere le istruzioni codificate nel DNA per costruire le proteine, che servono a tantissime funzioni differenti: trasportano ossigeno, digeriscono il cibo, veicolano informazioni, sono essenziali per i movimenti e molto altro ancora. Ogni cellula ha, al suo interno, tantissimi ribosomi, quelle umane milioni. Ecco perché i ribosomi sono così importanti, perché sono alla base di ogni comportamento cellulare, sono centrali nella vita di qualunque essere. Per molto tempo gli scienziati di tutto il mondo avevano cercato di capire com’erano fatti e come si comportavano, senza però venire mai a capo di nulla. Le difficoltà nella loro identificazione erano intrinseche nella struttura stessa dei ribosomi, straordinariamente complicata e intricata. Infatti non è nemmeno simmetrica e stabile, ma flessibile, eterogenea e in continua evoluzione. Il primo bagliore che illuminò e chiarì il mistero lo si deve proprio alla Yonath. Tutto cominciò agli inizi degli anni Ottanta, quando riuscì a creare i primi micro cristalli di ribosoma. Ciò che fece la differenza nel lavoro della Yonath rispetto a quello di tutti gli altri ricercatori è l’aver inventato una tecnica d’indagine estremamente efficace. La geniale intuizione le venne leggendo un articolo sugli orsi polari, che hanno sviluppato una tecnica per conservare i loro ribosomi quando vanno in letargo. Per osservare i ribosomi, infatti, non bastano nemmeno i migliori microscopi. Unico metodo funzionale è l’uso della cristallografia basata sulla diffrazione dei raggi X. Ma i raggi X distruggono i ribosomi. Allora la Yonath concepì la criocristallografia, un processo di raffreddamento dei cristalli che consiste nel sottoporli a temperature estremamente basse (-185°) per ridurre al minimo la
disintegrazione della loro struttura sotto i raggi X. Le applicazioni in medicina delle sue scoperte sono al di là di ogni aspettativa. Innanzitutto le tecniche da lei inventate sono ormai di uso comune nei laboratori di tutto il mondo. In secondo luogo tali scoperte rappresentano la base necessaria per sviluppare ogni tipo di antibiotico e ottenere risultati rilevanti nella cura delle malattie infettive. Un o da gigante nella realizzazione di componenti in grado di arrestare le malattie, una speranza per cercare di fermare i patogeni finora resistenti ai farmaci. Ciò che lascia sconcertati è l’atteggiamento del mondo scientifico del tempo nei suoi confronti. Agli inizi degli anni Ottanta, la Yonath creò i primi cristalli micro ribosoma seguendo un metodo sviluppato appositamente per questo e lavorando prima su ribosomi provenienti da organismi che si riproducono in condizioni difficili, e poi su ribosomi presi dai batteri resistenti che vivono negli ambienti estremi del Mar Morto. In questo modo riuscì a produrre i cristalli iniziali di micro ribosoma in tempi piuttosto brevi. Un successo straordinario che però le lasciò l’amaro in bocca. Quando descrisse i risultati delle sue ricerche, come già detto, molti illustri scienziati accolsero le sue conclusioni con sarcasmo e incredulità, bollandola come una sognatrice o, ancor peggio, la sciocca del Paese, la cosiddetta scienziata pazza. Ben presto, però, si prese la sua rivincita. Le scoperte della Yonath furono pubblicate su Nature nel 2001. Otto anni dopo, nel 2009, le venne conferito il Nobel per la Chimica, per aver mappato i ribosomi e per aver fornito un’arma contro uno dei problemi medici più pressanti del Ventunesimo secolo: la resistenza dei batteri agli antibiotici. Quando ricevette la fatidica chiamata da Stoccolma, creva che fosse uno scherzo, e continuò a lavorare in laboratorio finché non fu interrotta da colleghi e amici che volevano festeggiarla: era la prima donna israeliana a ricevere un Nobel! Tanti sono gli altri riconoscimenti internazionali che le sono stati conferiti, come il prestigioso Wolf e l ’Israel Prize. È stata anche eletta all’Accademia israeliana per la Scienza e Filosofia. Recentemente le è stato chiesto quali siano i suoi programmi per il futuro. “ Io e i miei collaboratori – è stata la sua risposta – a bbiamo intenzione di guardare al ato remoto. I ribosomi sono presenti in ogni essere vivente – dai lieviti e
batteri ai mammiferi – e le strutture dei loro siti attivi sono state straordinariamente ben conservate durante l’evoluzione. Abbiamo identificato una regione all’interno del ribosoma contemporaneo che sembra essere la traccia del dispositivo primordiale per la produzione di legami peptidici ed essenzialmente dare origine alla vita. Ma come si cominciano a produrre le proteine? Come hanno fatto a evolversi verso le fabbriche di proteine sofisticate che vediamo oggi in cellule viventi? Abbiamo intenzione di rispondere a tutte queste domande”. La scienziata a 77 anni lavora ancora al Weizmann Institute. Chissà se la madre aveva previsto per lei una carriera così prestigiosa. Di certo i suoi sacrifici non sono stati fatti invano. Da parte sua, la Yonath aveva e ha una cosa fondamentale per riuscire nella vita: la curiosità.
Elizabeth Blackburn (Usa)
Nobel per la Medicina 2009
La regina dei telomeri Ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca scientifica, scoprendo la natura molecolare dei telomeri e la ribonucleoproteina telomerasi. Per questo è stata definita “la regina dei telomeri”. I suoi studi hanno portato a ipotesi di farmaci che potrebbero sconfiggere molte delle piaghe dell’umanità, tra cui il diabete e il cancro La vicenda umana e professionale di Elizabeth Blackburn porta a una considerazione mai banale: anche le donne in carriera possono avere una vita familiare ricca e soddisfacente. Basta saper trovare un equilibrio tra la sfera pubblica e quella privata. La scienziata è un punto di riferimento per tutte le donne che decidono di indossare il camice bianco e cercano di coniugare ambizione professionale e famiglia. Più di 250 pubblicazioni scientifiche all’attivo, innumerevoli riconoscimenti internazionali, un marito, John Sedat, e un figlio, Benjamin David. La Blackburn è una scienziata dall’inconsueto talento, la cui ricerca tutt’oggi si sofferma su uno degli argomenti più caldi della comunità scientifica: lo studio dei telomeri. Elizabeth nacque il 26 novembre del 1948 a Hobart in Tasmania, Australia. L’amore per la scienza probabilmente le fu trasmesso attraverso i geni: i nonni erano geologi e i genitori, Harold Blackburn e Marcia, come pure i suoi zii, erano medici. Fin da piccola espresse un’inusuale curiosità nei confronti del mondo vegetale e animale. Nella fattoria in cui viveva insieme ai suoi sei fratelli e sorelle (Andrew, Katherine, John, Barbara, Caroline e Margaret) curava conigli, pesci, oche, maiali, cani e gatti, pappagallini, canarini, pesci rossi, un vero serraglio. Non disdegnava l’osservazione delle formiche, che catturava nel giardino di casa, o delle meduse raccolte sulla spiaggia di Snug. E la coltivazione di girini che custodiva in vasetti sistemati sul mobile del salotto. Durante la sua preadolescenza rimase affascinata dai libri scientifici scritti per i
giovani, che divorava, e dal concetto più nobile di ricerca scientifica. La scintilla che fece scoccare l’incendio fu generata dalla lettura della biografia di Marie Curie, un testo che ha segnato e ispirato tantissime donne scienziate di tutto il mondo, che Elizabeth lesse e rilesse più volte. Frequentò la Broadland House School e completò l’istruzione secondaria a Melbourne, dove si trasferì con tutta la famiglia. Quella scuola, pur eccellente, aveva però un neo. Non aveva corsi di Fisica. Senza perdersi d’animo, Elizabeth Blackburn frequentò corsi in quella materia offerti da una scuola pubblica locale. Anche la musica era una delle sue ioni. Imparò a suonare il pianoforte e per qualche tempo s’immaginò concertista. Poi, quando si rese conto d’essere brava, ma non un talento, si dedicò totalmente alla scienza. Al momento di decidere a quale facoltà iscriversi non ebbe dubbi: Biochimica. Dopo aver ottenuto la laurea con lode, le venne offerto, dal presidente del Dipartimento di Biochimica, Frank Hird, un posto di ricercatrice nel suo laboratorio. Lì si confrontò con il metabolismo della glutammina nel fegato di ratto. Ricorda il premio Nobel: “Frank Hird ha insegnato ai membri del suo laboratorio la gioia e l’estetica della ricerca. Secondo lui ogni esperimento avrebbe dovuto avere la bellezza e la semplicità di una sonata di Mozart”. In quel periodo conobbe Fred Sanger (aveva fatto le ricerche sugli aminoacidi in Gran Bretagna) che le offrì un dottorato nel laboratorio di Biologia Molecolare al Darwin College di Cambridge. Allontanarsi dal suo ambiente e dalla famiglia fu un o molto importante che l’aiutò a maturare anche come persona. Fu ospitata dai suoi zii, medici, che vivevano proprio a Cambridge. In Inghilterra ebbe modo di immergersi completamente nella materia. Le sue giornate trascorrevano tra un susseguirsi di ricerche e discussioni con i colleghi sulle diverse soluzioni che era possibile adottare per risolvere i quesiti che quotidianamente le si ponevano davanti. “ Mi sembrava – raccontò in seguito – di essere al centro della biologia molecolare. Il mondo scientifico cominciava a ipotizzare la scoperta di sequenze di DNA e io ero incantata dalle sue possibilità”. In Inghilterra incontrò John Sedat, anche lui biologo, con cui si sposò nel 1975. Fu il classico colpo di fulmine che scombussolò tutti i suoi piani. Invece di cominciare la programmata borsa di studio con Howard Goodman e Herb Boyer
alla UCSF (Università della California), seguì il marito e intraprese un post dottorato nel laboratorio di Joe Gall all’Università di Yale. In questo periodo cominciò a interessarsi allo studio dei telomeri, argomento che la seguirà nel corso di tutta la sua vita. Lì avviò subito la ricerca di una metodologia per realizzare il sequenziamento del DNA che si trova nelle regioni terminali del gene-lineare ribosomiale. Terminato il post dottorato, i coniugi Sedat si trasferirono a San Francisco, California. John era stato nominato professore associato all’UCSF. Elizabeth bussò inutilmente a numerose porte per ottenere un posto in un laboratorio o come docente. Fu a lungo respinta. Un’esperienza scoraggiante, che però non scalfì la sua determinazione. Fu la stessa UCSF che aveva assunto il marito a offrirle un incarico nel Dipartimento di Biochimica nell’Unità di Genetica diretto da Herb Boyer. Qui proseguì la sua ricerca sui telomeri tetrahymena e le loro proteine associate che aveva avviato nel laboratorio di Joe Gall a Yale. Infine, dopo anni di sacrifici, divenne professore associato al Dipartimento di Biologia Molecolare all’Università di Berkeley. Fu il primo direttore donna e lo presiedette dal 1993 al 1999. La ricerca in laboratorio era ed è la parte più intrigante e coinvolgente dell’esperienza scientifica, come lei stessa ancora oggi sostiene. Il focus dei suoi studi era appunto capire la natura dei telomeri. Questi sono la parte terminale dei cromosomi delle cellule eucariote che fungono da parti protettive del materiale genetico. Si sa che grazie alla replicazione del DNA le cellule possono duplicare il loro patrimonio genetico, distribuito poi alle cellule figlie, che saranno identiche alla cellula madre. L’enzima polimerasi non è tuttavia in grado di sintetizzare e copiare le parti finali di un frammento di DNA. Per evitare la progressiva perdita d’informazione genetica le cellule hanno un meccanismo di difesa. Sono appunto i telomeri. Sequenze di DNA poste alle estremità dei cromosomi che, a ogni fase di replicazione, vengono accorciate prevenendo la perdita di DNA. I telomeri sono quindi essenziali nel determinare la lunghezza di vita di una cellula, sono una sorta di orologio biologico cellulare. Il laboratorio di Elizabeth è stato il primo a cercare di identificare queste
proteine protettive usando frazionamenti biochimici di estratti dal nucleo di tetrahymena. Sin dal 1979, più e più volte ha fatto tentativi per purificare le proteine telomeriche da nucleoli, i corpicini all’interno del nucleo tetrahymena che ospitano i minicromosomi attivamente trascritti dal rDNA. I suoi primi tentativi, naturalmente, furono un vero fallimento. Questo però la rese ancora più determinata nell’individuare il giusto approccio per capire il significato biologico delle sequenze alle estremità dei cromosomi. La ricerca su questo cruciale argomento, cominciata negli anni Ottanta, ha visto come protagonista non solo la Blackburn, ma anche una sua allieva, Carol Greider. Anzi, proprio la Greider suggerì l’acquisto di una colonna di vetro molto grande per cromatografia per preparare il gel di filtrazione delle colture delle cellule. Grazie a entrambe si è scoperta la telomerasi, una proteina dotata della capacità di sintetizzare le sequenze dei telomeri. Insieme le due scienziate, per i loro rivoluzionari studi, hanno ricevuto nel 2009 il premio Nobel per la Medicina, aprendo così la strada a una branca della ricerca che negli ultimi anni si è espansa notevolmente. Le sue implicazioni cliniche sono infatti molto interessanti. Si pensi che il cancro potrebbe essere curato spegnendo la telomerasi, ma anche altre malattie congenite potrebbero essere curate con farmaci che sfruttano gli stessi princìpi. Uno studio particolarmente interessante, sempre condotto dalla Blackburn, ha evidenziato una stretta relazione tra l’attività dell’enzima telomerasi e un forte stress psicologico. Ma ce ne sono tantissimi altri che se portati avanti potrebbero condurre a soluzioni mediche rivoluzionarie. Un altro aspetto importante nella vita della Blackburn, oltre alla famiglia, è il suo impegno etico-sociale. Nominata nel 2001 presidente del Consiglio di Bioetica, ha sempre sostenuto che la scienza deve essere accompagnata da senso di responsabilità, integrandosi e dando benessere all’umanità a prescindere da interessi economici e politici. Anche in questo la scienziata segue le orme di Marie Curie, che all’epoca lottò affinché le sue scoperte potessero essere d’aiuto per qualunque persona, a prescindere dalla classe sociale. La Blackburn, nell’incoraggiare la ricerca sulle cellule embrionali umane, si pose in collisione con la visione conservatrice
dell’allora Amministrazione Bush. Il suo mandato fu quindi revocato. Fu estromessa dal Comitato di bioetica statunitense per motivi politici nel 2004, suscitando lo sdegno di moltissimi scienziati. Il Nobel ha costituito certamente una sorta di riscatto nei confronti di chi ha voluto intralciare il suo percorso alla ricerca della verità scientifica. Oltre al Nobel ha ottenuto una miriade di altri prestigiosi riconoscimenti, tra cui l’ Albert Lasker Award. È stata membro della Royal Society, dell ’American Academy of Arts and Sciences e nel 2007 è stata indicata dal Time come una delle 100 persone più influenti del pianeta. Oggi la Blackburn è membro di facoltà e docente di Biologia e Fisiologia all’Università di San Francisco, California. Studia ancora i telomeri e si dedica a questioni di bioetica. Sulla sua carriera racconta: “Devo molto a Barbara McClintock [premio Nobel nel 1983] per le sue scoperte scientifiche. Ma in aggiunta, Barbara McClintock mi ha anche dato una memorabile lezione: in una conversazione che ho avuto con lei nel 1977, durante la quale avevo raccontato i miei successi inattesi con le sequenze finali rDNA, mi ha esortato a confidare sulla mia intuizione nell’analizzare i risultati. Questo consiglio è stato sorprendente perché per me, il pensiero intuitivo, non era qualcosa che al momento ammettevo essere un valido aspetto di un ricercatore di biologia. Il suo consiglio invece riconosce un profilo importante e talvolta trascurato dei processi intellettuali che sono alla base della ricerca scientifica, e per me aveva un aspetto liberatorio”. Osserva poi su di sé e sulla sua famiglia: “Mio marito, John Sedat, mi ha sempre spinto a scavare più a fondo dentro di me e trovare le riserve di forza necessarie a proseguire il mio lavoro. Quel suo modo di incoraggiarmi mi ha aiutato negli anni a fare scienza. Nostro figlio Ben mi ha costretta a trovare il modo di combinare la vita familiare e quella scientifica senza rinunciare all’una e nemmeno all’altra. Infine, i miei genitori. Da loro ho assorbito il senso dell’importanza di servire la gente così come si può. Continuo a credere che la bioetica, fatta bene e sostenuta dalle migliori evidenze scientifiche disponibili, possa essere una parte importante della nostra società”.
Carol W. Greider (Usa)
Nobel per la Medicina 2009
Un futuro senza cancro Insieme alla sua insegnante, Elizabeth Blackburn, ha condiviso la ricerca sui telomeri e il Nobel per la Medicina nel 2009. Per la prima volta un’allieva ha ricevuto nello stesso anno del suo mentore lo stesso premio. Il suo contributo alla scienza avrà conseguenze che dureranno per generazioni a venire Anche nel caso di Carol Greider si può parlare di un perfetto equilibrio tra la sfera privata e quella professionale. Seppur ricercatrice di fama internazionale ha sempre messo al primo posto la famiglia, occupandosi del marito Nathaniel Comfort (uno storico della scienza di Cold Spring) e dei due figli, Charles e Gwendolyn. Per tutte le donne è un magnifico esempio di come il successo e la realizzazione personale non vadano a discapito di una vita privata piena e felice. Carol è nata il 15 aprile del 1961 a San Diego, California. I genitori erano entrambi scienziati: il padre, Kenneth Greider, fisico nucleare e la madre, Jean Foley, botanica. Tutti e due si erano laureati a Berkeley. L’uno dedicandosi all’alta energia, l’altra alla micologia e alla genetica. Nominato docente alla facoltà di Fisica a Yale, Kenneth Greider prima trasferì la sua famiglia a New Haven in Connecticut, poi, sempre a causa degli impegni di lavoro, a Davis in California. Qui, insieme al fratello Mark, Carol crebbe in un ambiente capace di sviluppare il suo forte senso d’indipendenza. La madre morì quando lei aveva solo 6 anni e questo evento approfondì ulteriormente la sua voglia di scoprire e di fare le cose in autonomia. Gli anni della scuola non furono semplici. Anche se all’epoca non lo sapeva, soffriva di dislessia. Non riusciva a sillabare e credeva di essere stupida. Per un’ora la settimana doveva seguire delle lezioni particolari di spelling e ciò la faceva sentire diversa dal resto della classe. Con il are degli anni capì, tuttavia, che quel difetto poteva essere un valore aggiunto alla sua personalità. Cominciò ad avvicinarsi agli altri studenti ritenuti degli outsider, sviluppando una sensibile capacità di giudizio indipendente. Caratteristica che la porterà in seguito a decidere tra l’altro di avviare ricerche su
organismi inusuali come la tetrahymena, un genere di protista ciliato comune nell’acqua dolce, dotato di due differenti nuclei, uno per la riproduzione, l’altro per il suo stesso funzionamento, utilizzato come modello nella ricerca biomedica. Durante il periodo delle scuole superiori trascorse un anno a Heidelberg in Germania, per seguire il lavoro del padre. Qui conobbe una cultura totalmente differente dalla sua. Non conservò un buon ricordo delle scuole locali. I voti che prendeva erano particolarmente bassi, soprattutto in inglese. Non c’era feeling con l’insegnante, che si limitava a dettare brani che i suoi allievi dovevano scrivere nella lingua della regina Elisabetta. A Carol quell’esercizio sembrava inutile. Altro paradosso del sistema scolastico tedesco era l’ora di religione in cui si doveva dichiarare se si fosse cattolici o protestanti (come se quelle fossero le uniche scelte). Qui conobbe Jiska, uno dei pochi ragazzi ebrei nella scuola, che era stato dispensato dall’ora di religione. Anche in questo caso si sviluppò tra di loro una forte amicizia, tutta al di fuori delle convenzioni sociali. Nonostante tutto e grazie alla propria autonomia, Carol imparò “a vestirsi e a parlare come un tedesco”. Vicino a Heidelberg c’era una grande base dell’esercito americano, ma il futuro premio Nobel si preoccupava di non essere scambiata per “ figlia dell’esercito”. Voleva essere trattata come un americano che capisce la cultura di Wagner. Per questo motivo imparò a parlare tedesco in modo fluente, anche se, per sua stessa ammissione, la scrittura e la grammatica di quell’idioma le sfuggivano. Tornata negli States terminò le scuole superiori ponendosi come obiettivo il conseguimento di tutte A nel giudizio dei suoi docenti. Lavorando sodo e sollecitata dal padre, (che non smise mai di ribadire, a lei e al fratello, che la conoscenza avrebbe offerto loro molte più opportunità della non conoscenza), ci riuscì. Prima di iscriversi al College of Creative Studies all’Università di Santa Barbara fece un tour in numerosi atenei. Non voleva fare una scelta banale o dettata dall’opportunismo. Incontrò quindi Beatrice Sweeney, che aveva conosciuto e lavorato con la madre a Yale. Beatrice era una biologa cellulare di professione e una profonda conoscitrice della natura. Un giorno, durante una eggiata sulla spiaggia vicino a casa sua, le raccontò storie affascinanti circa la biologia di tutti
gli animali marini. Carol ne rimase colpita e decise di studiare Ecologia marina all’Università della California. Stimolata dalla Sweeney, cominciò a lavorare in un laboratorio già al primo anno. Trascorse quel periodo a studiare le popolazioni di granchi di Santa Barbara. Quell’esperienza non la gratificò particolarmente. Decise di diversificare. Si occupò quindi dei cloroplasti durante i cicli circadiani buio/luce in Pyrocystis. Poi si dedicò alla dinamica dei microtubuli. Ne rimase affascinata. Essere in grado di manipolare le molecole e capire i meccanismi di come funzionassero, era quello che cercava. Il lavoro in laboratorio si concentrò sulla comprensione delle molecole e la loro interazione. Decise di are un anno di studio all’estero, scegliendo come meta Gottinga in Germania. Non sapeva ancora che sarebbe diventata una scienziata di primissimo piano. Le sembrava di non avere il fuoco sacro, come altre sue colleghe da Nobel. Sapeva solo che voleva fare qualcosa di diverso, anzi al di fuori dell’ordinario. Tornata a Santa Barbara fece domanda per l’ammissione a otto corsi di specializzazione ricevendo molte risposte negative. Solo due istituti vollero approfondire e la sottoposero a una serie di interviste. Ognuno dei dieci docenti del California Institute of Technology che la incontrarono le chiese perché, nonostante le esperienze in laboratorio che aveva accumulato, avesse voti così bassi. Tutto si riduceva alla dislessia e alla sua allergia per i test standardizzati, fu la sua risposta. A quel punto i responsabili della Berkeley accettarono la sua candidatura e le fissarono un appuntamento con Elizabeth Blackburn. Dopo quel colloquio decise cosa avrebbe fatto da grande: avrebbe lavorato con Elizabeth Blackburn. Era stata affascinata dal modo in cui la scienziata parlava dei suoi studi sui telomeri. Entrò nel suo laboratorio, sebbene non sapesse molto del DNA. Presto le sue conoscenze e le sue capacità progredirono, portandola a collaborare assiduamente e con profitto con la sua insegnante. Il primo progetto di cui si occupò riguardava l’idea di clonare telomeri dai tripanosomi di leishmania. Quando cominciò, la Blackburn e Jack Szostak avevano già dimostrato che i telomeri di tetrahymena funzionavano come quelli nel lievito nonostante tetrahymena e lievito siano filogeneticamente diversi. Carol usò la stessa tecnica per cercare di catturare frammenti dei telomeri di leishmania.
Di quella esperienza racconta: “ Ho imparato molte lezioni. Per lo più, ho imparato l’importanza di mettere in discussione i propri presupposti. Ho imparato che ottenere la risposta corretta è più importante che ottenere una risposta. Ho imparato a farmi da parte e analizzare i miei dati attraverso gli occhi di uno scettico”. La Blackburn parla della sua allieva come di “una persona sempre entusiasta e curiosa con cui è meraviglioso conversare di scienza”. Le loro discussioni duravano giorni interi, finché una non convinceva l’altra delle sue tesi. Un lavoro di squadra che cominciò nel maggio del 1984 e che portò nel giro di breve tempo a dei risultati considerevoli. Insieme a un gruppo molto affiatato di collaboratori scoprirono l’attività della telomerasi (enzima che riallunga, per trascrittasi inversa, i telomeri accorciati in modo da mantenere integri i cromosomi). All’inizio non si sapeva ancora delle implicazioni mediche che questa scoperta avrebbe avuto. Dopo aver completato il post dottorato entrò nel laboratorio di Cold Spring Harbor a Long Island, New York, dove produsse il primo modello di topo senza telomerasi. Successivamente, nel 1997, divenne professore all’Università Johns Hopkins a Baltimora. Collaborava, con l’incarico di direttore, con il Dipartimento di Biologia molecolare e Genetica (come racconta la stessa Greider, non fu facile conciliare gli impegni familiari e un lavoro a tempo pieno in laboratorio. Fortunatamente chi fa il ricercatore può permettersi di avere orari flessibili, lavorando talvolta anche da casa). Da capo del Dipartimento cercò di dare la sua impronta mettendo in evidenza l’importanza di impegnarsi interagendo insieme. “La scienza”, diceva infatti, “non è mai fatta da soli. I progressi ottenuti sono il frutto di un lavoro orchestrale. L’ispirazione a provare certi esperimenti è spesso suggerita dalle chiacchiere con i colleghi”. Altra linea guida da lei impostata fu quella di far entrare in laboratorio non tanto professionisti affermati ma studenti appena laureati, molto più reattivi e aperti. Parallelamente la Greider portò avanti i suoi progetti di ricerca sul fenomeno della telomerasi. Questi, nel 2009, le valsero il premio Nobel per la Medicina in condivisione con la sua insegnante, Elizabeth Blackburn. Per la prima volta nella storia dell’Accademia svedese un’allieva ricevette l’onorificenza in
concomitanza con il suo mentore. Oggi Carol Greider fa ancora ricerca. Si è scoperto molto negli ultimi 25 anni, ma c’è ancora tanto da capire. Solo ora si cominciano a comprendere le implicazioni cliniche dei telomeri (utili per provare a debellare malattie come il cancro, il diabete, o ancora la discheratosi congenita, un raro disturbo ereditario). Agli inizi della sua carriera aveva a che fare solo con un microrganismo, la tetrahymena. Oggi lo studio dei processi dei cromosomi sta portando a scoperte rivoluzionarie. “Ciò che conta”, ha sempre affermato la scienziata, “ è la curiosità. È questa che muove a spingersi oltre. E la verità. Non è tanto importante, infatti, avere in laboratorio la conferma delle proprie ipotesi, ma arrivare alla giusta risposta, a quella vera e reale”. Della sua lunga e fortunata carriera ha detto: “ Non l’ho mai pianificata” e nonostante tutto ha ispirato le donne di tutto il mondo a non aver paura nella loro ricerca della conoscenza e a trattare gli ostacoli come un altro pezzo del puzzle. Un puzzle da completare. Tassello dopo tassello.
Herta Müller (Germania)
Nobel per la Letteratura 2009
Letteratura e impegno politico Ha descritto con profondità e amarezza lo stato di emarginazione e sofferenza della minoranza tedesca in Romania sotto il regime di Ceauşescu. Dal 1990, ha un posto centrale nella scena letteraria internazionale, il che spiega la traduzione delle sue opere in più di 20 lingue Herta Müller nacque il 17 agosto del 1953 a Niţchidorf, territorio di lingua tedesca situato nella regione del Banato, che era ata dall’impero austroungarico alla Romania in seguito alla Prima Guerra Mondiale. Suo nonno, un tempo ricco mercante, si vide confiscare tutti i suoi beni dai comitati rivoluzionari comunisti. Suo padre, che aveva combattuto nelle Waffen-SS durante la Seconda Guerra Mondiale, salvata la vita, lavorava come camionista, mentre la madre all’età di 17 anni fu costretta ai lavori forzati in Unione Sovietica, in un campo situato nell’attuale Ucraina, dal 1945 al 1950. Herta crebbe quindi in un Paese oppresso dal regime comunista, in un ambiente squallido e desolante (Ceauşescu sino al 1989 ne fu il dittatore, poi trucidato senza processo, a conclusione di quella che è comunemente definita “rivoluzione rumena”). Ha poi raccontato in La mia patria era un seme di mela, autobiografia in forma di intervista scritta con Angelika Klammer: "Paura e bruttezza. Paura dell’onnipotente polizia segreta, la Securitate, che ti poteva arrestare o «suicidare» impunemente. E bruttezza della vita quotidiana che rendeva la Romania un paese tetro, grigio, con un popolo sovrano ma cencioso e con vetrine che esponevano solo penuria e merci tristissime." Le dolorose esperienze dei familiari la portarono presto a una concezione pessimistica della vita, con poche speranze per il futuro, accentuata dalla consapevolezza di vivere in una società priva dei più elementari principi di libertà e democrazia. Per Herta Müller la militanza di suo padre come soldato SS
nella Panzer Division Frundsberg era l’esempio più tangibile e a lei vicino di come gli individui possano essere corrotti da ideologia e opportunismo. S’iscrisse all’Università di Timişoara alla facoltà di Letteratura rumena e tedesca. Qui fece amicizia con gli autori dell’ Aktionsgruppe Banat, un gruppo di scrittori contrari alla dittatura di Ceauşescu e alla cultura ufficiale del partito al governo. Herta era nata sì in Romania, ma la lingua in cui pensava e si esprimeva era il tedesco. Imparò il rumeno a scuola, dagli insegnanti, e non a casa. Una straniera nella sua terra, così si sentiva. Era parte di quella minoranza etnica che non era tedesca ma nemmeno al cento per cento rumena. Come molti scrittori ebrei tedeschi del ’900, anche la Müller si può ascrivere agli artisti “senza casa”. Quegli autori, cioè, il cui destino è sentirsi stranieri in ogni dove, che non hanno una specifica terra d’appartenenza e che per questo motivo hanno l’anima eternamente lacerata. Dopo aver conseguito la laurea, Herta iniziò a lavorare come traduttrice in un’azienda ingegneristica, dalla quale fu tuttavia licenziata nel 1979 per aver rifiutato di collaborare con la Securitate, i servizi segreti di Ceauşescu. Avendo perso il lavoro, l’autrice si guadagnò da vivere facendo la maestra d’asilo e insegnando la lingua tedesca. Nel 1982 fu pubblicata la sua prima raccolta di racconti brevi, Niederungen, che, come la maggior parte delle pubblicazioni di quel tempo, fu censurata. Due anni più tardi, la versione integrale dello stesso libro vide la luce in Germania. Contemporaneamente, in Romania, diede alle stampe Drückender Tango. In entrambe le opere, la Müller descrive la corruzione, l’intolleranza e la repressione che regnano sulla vita di un piccolo villaggio di lingua tedesca. Naturalmente l’intellighenzia locale, allineata con le posizioni del regime, fu molto critica nei suoi confronti. Al di fuori dei confini della Romania, invece, la sua opera fu accolta positivamente. Il risultato? All’autrice fu vietato di pubblicare nuovi lavori nel Paese che le aveva dato i natali. Non solo. Convocata dalla Securitate fu accusata di essere una prostituta, di praticare il mercato nero e minacciata di morte se avesse continuato a “denigrare” il governo rumeno. Nel 1987, dopo vari permessi negati, Herta e il marito Richard Wagner (anche lui scrittore), riuscirono a trasferirsi nella Germania Ovest, a Berlino, dove lei
tuttora vive (i due coniugi hanno successivamente divorziato). Qui continuò a scrivere e ricevette molte proposte per tenere lezioni e conferenze in svariate università estere. Nel 1995 fu accolta nell’Accademia tedesca di Letteratura e Poesia, mentre due anni dopo abbandonò il PEN Club per protestare contro la decisione di riunire le associazioni che facevano capo alla Germania Est e Ovest prima del crollo del Muro di Berlino. Fin dalla prima pubblicazione appare evidente che il leitmotiv che lega la sua poetica è la tragica condizione del suo habitat, quello della minoranza tedesca del Banato. Ne svela la miseria, la crudezza e l’arretratezza culturale, mettendo in luce, in particolare, la condizione della donna, costretta non solo a vivere in un ambiente politico e sociale di terrore ma anche a subire il ricatto sessuale, praticato abitualmente negli ambienti di lavoro. È questa la quotidianità, che la Müller racconta nei suoi romanzi. In La mia patria era un seme di mela assume un sapore ancora più amaro. Il vissuto è fatto di sospetti, di miseria, tra carrieristi del partito e spie carnefici, in cui si registra la morte dei sentimenti. L'unica libertà, è il sesso, praticato con troppa disinvoltura in un paese senza anticoncezionali, dove l’aborto era severamente punito perchè Ceauşescu pretendeva che ogni donna partorisse almeno cinque figli. Così migliaia di bambini indesiderati nascevano per essere rinchiusi in orfanotrofi-lager. Il suo non è mai un atteggiamento di chi abbassa la testa, anzi. La Müller descrive le rivolte e le proteste del mondo cui appartiene, ponendosi ai margini delle vicende descritte. È convinta, però, che il comportamento umano sia frutto di dettami e leggi cui è impossibile sottrarsi. Gli esseri umani sono solo marionette cui è negata ogni specificità. Sopravvivono e basta, dedicandosi ogni giorno agli stessi gesti, alle stesse occupazioni e agli stessi pensieri. Anche l’ambiente circostante rispecchia questa desolazione: la natura non consola, ma è cruda e brutale. I suoi personaggi sentono freddo, sono malati, muoiono. Non c’è alcun conforto, si a dal gelo pungente al caldo soffocante, a odori e sapori spiacevoli. “Credo di essere nata con un senso di disgusto per la vita”. Questa affermazione della scrittrice evidenzia più di altre il suo modo di porsi nel
mondo. Unico barlume di positività sta nell’infanzia, ma solo perché non ha esperito ancora la disumanità del vivere quotidiano. Tematiche amare queste, che emergono attraverso una scrittura minuziosa che si crogiola nella descrizione del dettaglio, quasi a voler rivelare che il mondo non ha senso. Le sue fonti d’ispirazione sono state per lei gli autori tedeschi e rumeni del ’900, Kafka e l’austriaco Thomas Bernhard. Del suo lavoro ha scritto: “ I libri su tempi difficili sono spesso letti come testimonianza. I miei libri infatti raccontano di vite amputate da una dittatura, della vita quotidiana di una minoranza e della sua successiva scomparsa attraverso l’emigrazione in Germania. Per molte persone i miei libri sono dunque testimonianza. Ma io quando scrivo non mi sento testimone. Ho imparato la scrittura attraverso il silenzio e il tacere. È lì che ho cominciato”. Tra le sue opere più famose c’è L’altalena del respiro (Atemschaukel) in cui descrive il viaggio di deportazione di un poeta, Oskar Pastior, verso i gulag sovietici e che assurge a parabola esistenziale di tutta la minoranza tedesca in Romania. Le vicende che la Müller narra partono tutte da eventi realmente accaduti. Il paese delle prugne verdi (Herztier) è per esempio ispirato alla morte di due amici della scrittrice, uccisi secondo lei dai servizi segreti governativi. Quando riuscì a leggere il dossier della Securitate che la riguardava, l’autrice scoprì che c’erano ben 914 pagine su di lei, che era chiamata col nome in codice “Cristina” e che veniva definita un pericoloso nemico da combattere. La colpa? Distorcere in modo tendenzioso, con i suoi romanzi, l’immagine del Paese. Nonostante venisse così dipinta in patria, oggi la Müller è una delle artiste più conosciute in Germania e in Europa. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Kleist Prize e il Werfel Human Rights Award, le sue opere sono tradotte in più di 20 lingue. Nel 2009 ha ottenuto il Nobel per la Letteratura “ per la concentrazione della poesia e la franchezza della prosa con cui ha rappresentato il mondo dei diseredati”. La consegna del riconoscimento è avvenuta lo stesso giorno del ventesimo anniversario della caduta del comunismo. Forse una mera coincidenza, ma Herta Müller non ha mai creduto in questo tipo di coincidenze…
Elinor Ostrom (Usa)
Nobel per l’Economia 2009
Il governo dei common Scienziata politica americana, è stata la prima donna a vincere il Nobel per l’Economia, quarant’anni dopo l’istituzione del premio. Le sue ricerche vertono su un tema fondamentale per il nostro presente e futuro: la gestione delle risorse primarie del pianeta Ha riformato l’economia pubblica fornendone una chiave di lettura originale. Esperta nel campo dell’organizzazione e della pubblica amministrazione, ha generato una branca separata della politica economica. Sposata dal 1963 con Vincent Ostrom, economista di fama mondiale, è scomparsa il 12 giugno 2012 all’età di 78 anni a Bloomington, in Indiana, Usa, a causa di un tumore al pancreas. Elinor Claire Awan nacque il 7 agosto del 1933 a Los Angeles, in California. Crebbe negli anni della grande depressione. I suoi genitori (il padre Adrian, di religione ebraica, la madre Leah Hopkins, protestante) avevano a disposizione, come tutti, poche risorse economiche. Giovanissima frequentò sia ambienti di cultura protestante sia famiglie kosher. Le due differenti religioni non le crearono mai alcun problema, né di convivenza, né di comprensione. La miseria era l’unico comune denominatore, almeno in quel periodo. Si cercava di aiutarsi vicendevolmente sfruttando al meglio ciò che era disponibile. La sua famiglia aveva un piccolo giardino con alberi da frutto e un orto, che tanto li aiutò a sostentarsi durante gli anni più difficili. Elinor imparò a coltivare, seminare e raccogliere ciò che offriva la terra. La condivisione di risorse e l’aiuto reciproco in momenti di crisi furono una lezione importante che mise a frutto più avanti quando elaborò le sue teorie economiche. All’inizio, anche lei dovette combattere contro i luoghi comuni di una società che escludeva i diversi e chiudeva le sue porte in faccia alle donne che cercavano nello studio e nella professione un’occasione di emancipazione. Durante tutta la fase della sua formazione subì, reagendo sempre con tenacia, i tentativi di emarginazione messi in atto da chi credeva di poterla prevaricare.
Fin da piccola soffrì di balbuzie e, come spesso accade, questa debolezza l’aiutò a superare i suoi limiti. Per sconfiggere il disturbo che la affliggeva facendola sentire diversa dagli altri, s’iscrisse a un gruppo di studio che aveva come obiettivo l’apprendimento delle regole per un’efficace comunicazione. Le sue prime letture furono di poesie, ma presto, mentre frequentava la Beverly Hills High School, imparò a parlare in pubblico brillantemente. Ciò che ricordava con piacere, come lei stessa raccontava, era dibattere. In quelle occasioni non solo bisognava esporre le proprie tesi ma guardare il problema da più prospettive, essere critici, cercando di argomentare il meglio possibile. Era affascinata da tutto questo, soprattutto dall’oratoria politica. Con il suo gruppo partecipò anche a competizioni in tutto lo Stato della California, piazzandosi a volte ai primi posti. Per pagarsi il college dava lezioni di nuoto, sua principale attività ricreativa, ed era la promotrice di un team dedicato a questo sport. Proprio i dibattiti e lo sport furono la palestra in cui Elinor si esercitò alla vita professionale e familiare. Nessuno si stupì quando all’università s’iscrisse alla facoltà di Scienze Politiche. Siccome i genitori non si potevano permettere di sostenere le tasse universitarie, si pagò gli studi facendo la commessa in una libreria. Di quel periodo racconta: “ Poiché il 90 per cento degli studenti della Beverly Hills High School andava al college e anche se nessuno nella mia famiglia aveva vissuto un’esperienza simile, mi sembrò che andare all’università fosse la cosa ‘più normale’ da fare dopo il liceo. Mia madre invece era di tutt’altro avviso e non vedeva alcuna ragione che giustificasse il suo sostegno. Fortunatamente, le tasse dell’UCLA a quel tempo erano estremamente basse e per pagarle lavorai in biblioteca e in libreria. Sono riuscita a completare il mio corso senza andare in debito. Mi sono laureata in tre anni partecipando a sessioni estive multiple e frequentando tutti i corsi supplementari”. Dopo la laurea, cercò un impiego. Si ritrovò totalmente immersa in un ambiente, quello del lavoro, in cui la discriminazione imperava. Ciò che le veniva richiesto ai colloqui non era quali fossero le sue capacità o i suoi talenti, ma, in quanto donna, se sapeva battere a macchina e fare altri compiti manuali. Elinor ne rimase scioccata. Non per questo rinunciò. Non si diede per vinta e si rimboccò le maniche iscrivendosi a un corso per corrispondenza che le insegnò a scrivere sotto dettatura, cosa che le servì poi per
raccogliere i suoi appunti durante i progetti di ricerca. Alla fine riuscì a trovare un’occupazione come assistente del direttore del personale in uno studio legale di Boston, che fino ad allora aveva assunto donne solo in qualità di segretarie. Spesso ricorda: “Credo che la mia volontà di ottenere un ottimo lavoro già a vent’anni mi abbia aiutata più tardi, quando ho deciso di frequentare corsi postlaurea ed eventualmente fare domanda per un posto di assistente di ricerca o per l’ammissione a un dottorato di ricerca. Ho imparato a non considerare i rifiuti iniziali come ostacoli permanenti alla voglia di andare avanti”. Decise anche di continuare a studiare, ma all’epoca l’università era riluttante ad accettare domande di dottorato per donne. “Scoraggianti” definì le sue discussioni iniziali con i responsabili del Dipartimento di Economia e Commercio dell’UCLA. Alla fine comunque riuscì nell’impresa. Fu ammessa in una classe di 40 studenti con altre tre donne. Solo dopo che ebbe iniziato il programma seppe che c’era stato uno scontro, definito molto , tra i vertici della facoltà e il Comitato Dipartimentale, per l’accettazione di “tutte quelle donne” a quel corso. Per fortuna, i suoi compagni incoraggiarono lei e le sue colleghe a proseguire la loro battaglia. Tra di loro c’era il suo futuro marito, Vincent Ostrom, laureato come lei in scienze politiche. La tesi finale di Elinor aveva come contenuto, condiviso dallo stesso Vincent, la gestione dell’acqua in California. Dopo un breve soggiorno a Washington si trasferì, ormai sposata, all’Università dell’Indiana a Bloomington, cittadina con poco più di 70.000 abitanti, che aveva offerto un posto di docente al marito. Per fortuna l’ateneo le assegnò il ruolo di assistente. Se Vincent fosse tornato all’UCLA, sarebbe stata esclusa da qualsiasi ruolo di docenza o ricerca. All’inizio faceva lezione ogni martedì, giovedì e sabato alle sette e mezza del mattino. Dopo poco il suo lavoro diventò full-time e acquisì il titolo di professore ordinario. Nei primi quindici anni in Indiana i suoi studi si concentrarono sulle politiche industriali negli States e poi sui beni comuni, i cosiddetti common. Il percorso che la portò ai vertici dell’economia mondiale ebbe inizio quando il Consiglio Nazionale delle Ricerche creò un comitato speciale che aveva il compito di rivedere la ricerca empirica proprio sui common. Certo, molti studi
su quell’argomento erano stati condotti, ma erano suddivisi per disciplina, settore e regione. Quella realtà dava luogo a veri e propri paradossi. Studiosi che raccoglievano dati sulla pesca costiera in Africa non conoscevano i risultati di altre ricerche sulle risorse della stessa Africa e nemmeno della stessa zona. I sociologi non conoscevano i lavori degli economisti e viceversa. “Partecipare a quel comitato – ha scritto nella sua biografia ufficiale – e scoprire le ricerche che erano state fatte, ma non sintetizzate, mi insegnò una lezione importante. Il modo in cui organizziamo l’università americana moderna frammenta le nostre conoscenze. Non solo siamo divisi per disciplina, ma siamo divisi dai metodi che gli studiosi utilizzano. Gli economisti che si servono di dati statistici a livello nazionale sono criticati dagli economisti che adoperano laboratori sperimentali per testare la teoria. Gli studiosi che fanno ricerca sul campo criticano l’uso di qualsiasi altro metodo”. Un vero e proprio guazzabuglio a cui la Ostrom cercò di porre riparo. Insieme al marito, mise in piedi un Workshop di teoria e analisi politica. Un gruppo aperto a tutti gli studenti di economia, scienze politiche e altre discipline che avevano voglia di lavorare insieme e condividere i propri dati. Ma cosa sono i beni comuni? Sono le risorse che si utilizzano quotidianamente: l’acqua, l’aria, l’energia, la rete web, i pascoli, le foreste, le aree di pesca. Insomma tutto ciò che serve a uomini e donne per sopravvivere e sostenersi. Elinor Ostrom, nelle sue ricerche, cercò di dimostrare che c’è una possibilità di mantenimento e sviluppo per i beni collettivi diversa rispetto alla tutela a opera dello Stato o alla privatizzazione. La loro importanza era che ipotizzavano l’esistenza di una terza via tra Stato e mercato. Aveva teorizzato le condizioni che devono valere affinché una gestione “comunitaria” possa rimanere sostenibile nel lungo termine. Una lezione di particolare importanza oggi a proposito dei beni collettivi globali, come l’atmosfera, il clima o gli oceani. Ma molto significativa anche per l’attuale crisi finanziaria, che si può leggere come il saccheggio di una proprietà comune: la fiducia degli investitori. Espose le sue teorie nell’ormai famoso Governing the Commons del 1990, testo tra i più letti dagli economisti odierni. Con uno stile eclettico, combinò discipline
differenti per argomentare le sue tesi, la teoria dei giochi, la geografia e la sperimentazione psicologica. Alla base del suo lavoro c’erano ricerche sociologiche e antropologiche fatte all’interno della cultura occidentale, ma anche in economie primitive (riserve degli indiani d’America, comunità di pescatori africani, agricoltori e pastori in Nepal). Un lavoro estremamente complesso e ricco che indicò soluzioni alternative e innovative, strettamente legate alla politica e alle scelte da fare per il futuro di tutti i governi. Alla base c’era e c’è l’idea di una “governance democratica” in cui tutti sono tenuti alla tutela del bene in comune. Una forma basata su principi ben precisi. Caso emblematico è quello relativo al villaggio svizzero di Torbel, che dal 1517 governa comunitariamente il pascolo alpino secondo la regola per cui “in estate nessuno può pascolare più vacche di quante riesca a mantenerne in inverno”. La Ostrom, da esperienze come quest’ultima, ricavò un elenco delle condizioni che permettono il governo comunitario dei common. Sottolineò che sia la privatizzazione sia la gestione pubblica di un bene possono fallire, la gestione comunitaria no. Esemplificativa la circostanza di un pascolo diviso tra Mongolia, Russia e Cina, sottoposto rispettivamente al governo comunitario, alla gestione statale e a quella privata. Le immagini satellitari svelarono il degrado di quello russo e di quello cinese. Gli studi della Ostrom sono diventati rilevanti per una serie di problematiche divenute impellenti nel nostro tempo, come la salvaguardia degli oceani e il controllo del cambiamento climatico. Per le implicazioni delle sue ricerche le è stato assegnato il premio Nobel per l’Economia nel 2009. È stata ed è la prima e unica donna ad aver ottenuto un simile riconoscimento. Oltre al già citato Governing the Commons, la Ostrom è autrice di numerosi saggi che spaziano dal campo della politica a quello dell’economia, dalla scienza alla pubblica amministrazione. Ancora oggi, dopo più di 30 anni, il Workshop fondato insieme al marito è attivo. È diventato un centro di ricerca all’avanguardia, dove ogni studente, di qualsiasi facoltà, è accolto con entusiasmo. Ripercorrendo le varie fasi della sua vita, ancora una volta emerge un elemento fondamentale che la accomuna alla stragrande maggioranza di donne che, come lei, hanno raggiunto i vertici del proprio settore di competenza.
Anche per la Ostrom si sono dimostrati fondamentali, per raggiungere il successo, il talento, la determinazione, il dialogo tra materie differenti e la partecipazione di menti giovani. Un ampio spettro di prospettive che hanno permesso un grande salto in avanti nella scienza economica.
Ellen Johnson Sirleaf (Liberia)
Nobel per la Pace 2011
La "Lady di ferro" È stata la prima donna a essere eletta Presidente di uno Stato africano. Combatte con ione e tenacia per sostenere i diritti delle donne e il diritto allo studio, indispensabili per garantire un futuro migliore al suo Paese La storia di questa donna è paradigmatica per tutte quelle persone che, partendo da contesti sociali o geografici disagiati, hanno saputo lottare arrivando a posizioni di rilievo all’interno della vita del loro Paese e non solo. Attraverso la sua vita si ripercorrono i momenti salienti della Liberia, dagli anni bui delle guerre civili, fino al periodo democratico che tutt’oggi caratterizza la nazione. Ellen Johnson Sirleaf è nata il 29 ottobre del 1938 a Monrovia, in uno degli stati più poveri del mondo. Il padre era Jahmale Carney Johnson di etnia Gola. Pur essendo di origini indigene, Ellen aveva la pelle più chiara per via di un nonno tedesco (quest’ultimo fu costretto all’esilio quando la Liberia – per lealtà verso gli Stati Uniti – dichiarò guerra alla Germania nel 1917). Già da bambina mostrò grande coraggio e determinazione. A 9 anni chiese alla nonna di prepararle una “pozione per combattere meglio”. Lei le fece dei piccoli tagli sul polso cospargendo le ferite con un unguento. Quei segni sono ancora visibili sulla sua pelle, quasi a ricordarle di non smettere mai di sfidare le convenzioni per arrivare alla verità, alla giustizia. Frequentò le scuole della città in cui viveva, studiò economia al College of West Africa, una scuola metodista, e in parte all’Università di Monrovia. All’età di 17 anni sposò James Sirleaf, l’uomo che amava, negli Stati Uniti, che gli diede tre figli: Charles, Robert e Fombah. Non trascurò però di continuare il suo iter formativo. Si iscrisse all’Università del Colorado e conseguì un master in Amministrazione pubblica alla Harvard J.F.K. School of Government. La vita familiare, però, non era quella che aveva sperato. A casa le tensioni erano forti, il marito beveva. Era diventato addirittura aggressivo e la picchiava. Decise quindi di lasciarlo e di ricostruire la propria vita affettiva.
La sua terra le mancava tantissimo. Tornò allora in Liberia dove lavorò come assistente al Ministero delle Finanze con il governo dell’allora Presidente William Tolbert. Lei stessa diventò Ministro delle Finanze nel 1979, incarico che mantenne fino al colpo di Stato del 12 aprile 1980, guidato dal sergente Samuel Doe, che pose fine a decenni di relativa tranquillità. Per rendersi conto della personalità della Johnson basterebbe ricordare il discorso pronunciato davanti ai membri della Camera di Commercio della Liberia poco tempo dopo il suo insediamento. In quell’occasione sostenne che le principali aziende del Paese danneggiavano l’economia della Liberia inviando all’estero i loro profitti. Non male come inizio. Il vero problema in quel periodo era Doe. La lotta per il potere, come spesso avviene in Africa, ha aspetti tribali che non bisogna mai dimenticare. Doe rappresentava il gruppo etnico dei Krahn. Fu il primo Presidente liberiano non discendente dalla élite rappresentata dalla comunità degli ex-schiavi americani. Nel decennio che seguì, l’etnia Krahn prese possesso della vita pubblica liberiana e ne regolò tempi e ritmi. Con feroce violenza. Subito dopo la presa del potere da parte di Doe, Tolbert fu assassinato e tutti i membri del suo Gabinetto fucilati. La Johnson inizialmente accettò un posto nel nuovo governo come presidente della Banca liberiana per lo sviluppo e gli investimenti, ma dopo pochi mesi, nel novembre 1980, dopo aver criticato pubblicamente Doe e il Consiglio Redenzione del Popolo per i loro metodi, abbandonò la Liberia. Andò in esilio a Nairobi, in Kenya, dove lavorò per la Citybank. Nel 1985 tornò a Monrovia per candidarsi alle elezioni indette dal regime per darsi un’aura di democrazia che non aveva. Appena arrivata fu però subito arrestata per aver accusato pubblicamente il regime di crimini contro l’umanità. Dopo un processo farsa fu condannata a dieci anni di reclusione e graziata solo per la sollevazione internazionale in suo favore. Le elezioni furono vinte da Doe, ma la Johnson ottenne un seggio in Senato che rifiutò di occupare per protesta contro i brogli elettorali. Dopo un tentativo di golpe contro il governo Doe, organizzato da Thomas Quiwonkpa il 12 novembre, in cui pare avesse un qualche ruolo, Sirleaf, nonostante le smentite, fu arrestata e imprigionata di nuovo. Rimase in carcere sino al luglio 1986. Una volta libera si rifugiò negli Stati Uniti per evitare la persecuzione del
regime. Doe aveva imposto di fatto una dittatura militare, rendendo difficile la vita a chiunque si opponesse alla sua leadership. A Washington, Ellen lavorò per la Banca Mondiale in qualità di economista, diventando vice-presidente del ramo africano di Citybank. Negli States continuò la sua carriera negli organi internazionali fino a occupare la poltrona di Direttore dell’Ufficio Regionale del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Intanto in Liberia scoppiò una nuova guerra civile tra i seguaci di Doe e i militanti del Fronte Indipendente Patriottico guidati da Prince Johnson, tristemente famoso per la crudeltà con cui ordinava gli omicidi di chiunque criticasse il suo operato, e Charles Taylor, feroce signore della guerra. Le stragi e gli orrori compiuti dalle opposte fazioni insanguinarono a lungo la Liberia. Solo la morte di Doe, ucciso selvaggiamente dagli uomini di Johnson, mise fine al conflitto ma non alla violenza (la tragica fine di Doe è documentata in alcuni video che fecero il giro del mondo. In uno di questi, si vede Doe sottoposto a torture dinnanzi a Prince Johnson che lo interroga e ordina ai suoi uomini di tagliargli le orecchie). Subito dopo l’assassinio di Doe, Johnson si autoproclamò Presidente della Liberia, ma aveva fatto i conti senza il suo alleato-rivale, Charles Taylor, che riuscì ad assicurarsi l’appoggio della maggioranza dei ribelli. In Liberia tornarono i massacri. Charles Taylor, laureato al Bentley College negli Stati Uniti, diventò Presidente nel 1997. Alle elezioni si era presentata anche la Johnson, nel frattempo tornata in patria. La futura premio Nobel fu battuta grazie a un sistema corrotto. Taylor aveva terrorizzato la popolazione per spingerla a votarlo, riuscendo nell’impresa. Ben presto si trasformò in un dittatore ancora più feroce di Doe. Fu la causa dello scoppio di una seconda guerra civile. Questa terminò solo nel 2003 con l’esilio di Taylor in Nigeria, accusato dalla comunità internazionale di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Si calcola che il numero delle vittime, dal 1989 al 2003, fu circa di 250.000 persone. All’inizio la Johnson aveva sostenuto Charles Taylor nella lotta contro Doe, contribuendo a raccogliere fondi per la guerra. Appena però lo conobbe meglio, divenne il suo più tenace oppositore. Nelle elezioni indette nel 1997, la Johnson tornò nella natia Liberia come candidata presidenziale per il Partito di Unità. Si
piazzò seconda con il 25% dei voti, Charles Taylor ne ottenne il 75%. Decise quindi di andare in esilio ad Abidjan. Nel 2005 si candidò per la seconda volta alle elezioni, le prime considerate libere nella storia della Liberia. Questa volta vinse il ballottaggio con l’ex giocatore di calcio George Weah. Tutte le sue energie furono impiegate per ricostruire il Paese: case, scuole, ospedali, uffici, infrastrutture e organi istituzionali per la sicurezza e l’economia. La Liberia aveva un disperato bisogno di recuperare credibilità agli occhi del mondo. Le misure adottate furono all’insegna dell’equità e della giustizia sociale. Incrementò il numero e l’ammontare delle borse di studio, strinse rapporti forti col mondo della politica internazionale, ottenendo in dote ben 350 milioni di dollari (molti rispetto agli 80 degli anni ati). Cosa non da poco, riuscì a mantenere stabilità e pace dopo 14 anni di guerra civile. Nel 2010 Newsweek Magazine l’ha inserita tra i leader migliori al mondo e la rivista Time tra le 10 donne più influenti e autorevoli. La Johnson è autrice, tra l’altro, di numerosi saggi e articoli centrati su temi di sviluppo economico e sociale, sui diritti umani e delle donne (sua la legge che stabilisce pene detentive per chi commette stupro). Ha ricevuto moltissimi riconoscimenti, tra cui il Nobel per la Pace nel 2011 “per la sua battaglia non violenta a favore della sicurezza delle donne e del loro diritto alla piena partecipazione nell’opera di costruzione della pace”. Sostiene che le donne al comando hanno una marcia in più rispetto agli uomini perché portano nelle loro attività quotidiane una dose extra di sensibilità per il fatto di essere madri (lei stessa ha quattro figli ed è nonna di undici nipoti). Partono da una prospettiva diversa, per loro è possibile comprendere meglio le necessità dei giovani e delle altre donne. Nel suo Paese la Johnson viene definita “la madre della nazione e la lady di ferro”. Afferma sempre che “se si vuole costruire qualcosa di duraturo non si possono fare distinzioni sessiste. C’è bisogno del contributo di tutti, ciascuno è chiamato al suo dovere per far crescere la Liberia e quindi avere gli stessi diritti”. Tra le altre cose, ha firmato una proposta di legge sulla libertà d’informazione unica nel suo genere in West Africa. Nell’ottobre del 2011 Ellen Johnson Sirleaf si è ricandidata alle elezioni. Alla
vigilia del ballottaggio il candidato dell’opposizione, Winston Tubman, ha invitato a boicottare il voto in segno di protesta contro i presunti brogli elettorali del primo turno. Ci sono stati manifestazioni e scontri che hanno portato a morti e feriti tra la popolazione. L’assegnazione del Nobel alla Johnson durante la campagna elettorale non ha di certo sedato gli animi. Tubman ha definito il premio “una interferenza nella politica del Paese”. Lei si è difesa affermando che la tempistica fosse solo una coincidenza e ha evitato di menzionarlo durante gli ultimi giorni della campagna elettorale. Fatto sta che ha vinto. Subito dopo ha rilanciato una sua vecchia idea, “un’iniziativa di riconciliazione”, guidata dal premio Nobel Leymah Gbowee, per affrontare le divisioni e riportare in Liberia quel dialogo tra le varie etnie senza il quale nessun futuro è possibile.
Leymah Gbowee (Liberia)
Nobel per la Pace 2011
Sciopero del sesso per la pace Avvocatessa dei diritti civili, pacifista e con una grande convinzione: le donne, se unite, possono fermare le guerre e rendere il mondo più giusto. Ha contribuito alla fine del conflitto civile nel suo Paese e alle successive elezioni democratiche Leymah Gbowee è piccola e di carnagione più chiara rispetto alle sue connazionali (per questo motivo è definita “la rossa”). Nelle foto che appaiono sui giornali e sul web ha sempre un sorriso che sembra illuminare tutto ciò che le sta intorno. Eppure la sua vita è stata segnata da situazioni drammatiche. Era diventata schiava dell’alcol, della povertà e del dolore. Proprio grazie a questi momenti bui è scattata in lei la ferrea volontà che l’ha portata a diventare un simbolo delle donne che lottano per un’Africa più libera, con maggiori diritti e pari opportunità. Il tutto per la necessità di fare qualcosa, qualunque cosa, per sé, per i propri figli e il proprio Paese. Leymah è nata il 1° febbraio del 1972 a Monrovia, nella Liberia centrale. Aveva 17 anni quando scoppiò la prima guerra civile. In quel periodo stava tentando di costruire una propria famiglia. Per sfuggire agli orrori del conflitto, uno tra i più sanguinosi della storia dell’Africa, insieme al compagno Daniel e ai figli, di cui uno appena nato, si trasferì in Ghana. Cercava protezione e un minimo di tranquillità. Trovò invece un nuovo inferno. Fame, inedia, malattie la accolsero a braccia aperte. Lei e i suoi parenti vissero come senzatetto. Leymah era costretta a dormire nei corridoi degli ospedali con il suo neonato perché non aveva nessun altro posto dove andare. Resistette finché poté, poi quasi morta di fame decise di riportare i suoi cari in Liberia, dove vivevano ancora dei parenti. Lo scenario che si ritrovò davanti era spaventoso. La sua terra era ormai devastata dalla guerra e da atrocità inenarrabili. Case, ospedali, edifici pubblici erano ridotti in macerie. Le donne venivano stuprate, i bambini fatti prigionieri e
sotto l’effetto di sostanze stupefacenti erano addestrati a combattere. I figli uccidevano i padri o erano uccisi. Unico baluardo contro tanta violenza era la Chiesa, che si adoperava per aiutare la popolazione senza distinzione di etnia o di schieramento. Leymah ebbe la prima “vocazione“: diventò volontaria della Congregazione luterana di San Pietro che aveva frequentato da adolescente. Il progetto cui partecipò si chiamava “Programma di riconciliazione e cura dei traumi” e segnò l’inizio del suo percorso di pacifista. Il compito assegnatole era di grande importanza. Lavorava per riabilitare gli ex bambini soldato e le donne abusate dai militari. Gli si dedicò anima e corpo. Lei ha sempre sostenuto l’importanza di credere in qualcosa di spiritualmente superiore. Che sia Maometto, Gesù o Buddha non ha nessuna importanza. “È necessario avere fede – racconta ancora oggi – e credere in qualcosa su cui si possa contare sempre per superare le difficoltà della vita”. Nella primavera del 1999, il suo supervisore, il reverendo Bartholomew Colley, la presentò a Sam Gbaydee Doe (nessuna relazione con l’ex Presidente liberiano dallo stesso nome e cognome), direttore esecutivo della WANEP, la prima organizzazione dell’Africa dedicata al raggiungimento della pace. Gbowee cominciò a documentarsi sul tema, approfondendo letture come La politica di Gesù del teologo mennonita John Howard Yoder e le opere di Martin Luther King Jr., Gandhi e Hizkias Assefa. Alla fine di quell’anno, a una conferenza in Ghana, conobbe Thelma Ekiyor, un avvocato nigeriano specializzato nella risoluzione alternativa delle controversie. Tra le due scoppiò la scintilla dell’amicizia, trasformata in un fuoco sulle cose da fare. Di quell’incontro Leymah ricorda: “ Thelma era un pensatore, un visionario, come Bartholomew Colley e Sam Gbaydee Doe, ma lei era una donna, come me”. Fondò quindi con l’amica un’organizzazione, la WIPNET, collegata a quella di Doe, che accoglieva donne di tutte le zone del Continente nero. Era la prima volta che ci si focalizzava sulle donne e sull’emergenza pace, legando due aspetti dello stesso problema. Leymah diventò coordinatrice del movimento. Tra le tante iniziative che realizzò, la più conosciuta fu quella di schierarsi davanti alla residenza del Presidente Taylor con migliaia di donne proclamando
lo sciopero del sesso affinché mettesse fine alla guerra. Lo sciopero in sé non ebbe grandi effetti, ma ottenne un grandissimo riscontro internazionale. Le pressioni interne ed esterne furono tanto insistenti che Taylor fu costretto a ricevere Leymah al tavolo delle trattative. La Gbowee continuò poi a coordinare incontri e iniziative non solo in Liberia ma anche in altre nazioni africane. Nella sua terra, la guerra aveva causato centinaia di migliaia di morti, in maggioranza donne e bambini. I sopravvissuti affollavano i campi profughi. La malnutrizione e le malattie, tra cui il colera, dilagavano. Senza contare le terribili conseguenze psicologiche di chi era scampato ai massacri. Leymah si occupò soprattutto di questo aspetto, come aveva sempre fatto: cercare di riabilitare le menti traumatizzate dei suoi connazionali. Si appellò alla comunità internazionale e all’ONU per gli aiuti, sostenendo la necessità di disarmare i contendenti e di dare contributi economici alle realtà locali e non ai funzionari esterni incapaci di gestire le risorse. Nel giugno del 2003, guidò una delegazione di donne liberiane in Ghana per fare pressione sulle fazioni in lotta impegnate in una conferenza di pace priva di risultati concreti. Quando si rese conto che i colloqui si trascinavano senza alcun progresso, mentre in Liberia le violenze continuavano, portò un centinaio di sue seguaci all’interno dell’hotel che ospitava le delegazioni e le fece sedere davanti alla porta a vetri della sala riunioni. Quindi inviò un messaggio al mediatore, il generale Abubakar (ex Presidente della Nigeria), informandolo che avrebbero incrociato le braccia e sarebbero rimaste sedute nel corridoio tenendo i delegati in ostaggio fino a quando un accordo di pace non fosse stato raggiunto. Abubakar, che aveva già dichiarato la sua solidarietà alle donne, annunciò al mondo, con un certo divertimento: “ La sala della conferenza di pace è stata sequestrata dal generale Leymah e dalle sue truppe”. Quando gli uomini cercarono di lasciare la sala, Leymah e il suo gruppo minacciarono di strapparsi i vestiti di dosso. I n Africa, è una maledizione terribile vedere una donna sposata o anziana che, deliberatamente, si denuda. La guerra in Liberia si concluse ufficialmente alcune settimane più tardi, con la firma del Comprehensive Peace Agreement di Accra il 18 agosto 2003.
La guerra civile lasciava alle sue spalle solo macerie. 250.000 persone erano morte, un quarto erano bambini. Un sopravvissuto su tre era uno sfollato, in 350.000 vivevano in campi profughi e il resto andava ovunque trovasse riparo. Un milione di persone, soprattutto donne e bambini, era a rischio di malnutrizione. Focolai di diarrea, morbillo e colera scoppiavano quotidianamente a causa della contaminazione nei pozzi. Più del 75 per cento delle infrastrutture era distrutto. Leymah espresse ai suoi interlocutori internazionali particolare preoccupazione per il danno psichico subìto dai liberiani. Scrisse: “I giovani non hanno idea di chi siano, senza una pistola nelle loro mani. Diverse generazioni di donne sono vedove, sono state violentate o hanno visto le loro figlie e madri violentate, o i loro figli uccidere ed essere uccisi. I vicini si sono scagliati contro i vicini, i giovani hanno perso la speranza e gli anziani tutto quello che hanno faticosamente realizzato”. Nonostante avesse a lungo lavorato come peacekeeper, non aveva alcuna preparazione specifica sulle materie inerenti la risoluzione dei conflitti o le strategie di pace da adottare in paesi dilaniati dai conflitti. Leggere il libro della pace di Louise Diamond, Il viaggio verso la riconciliazione ( The Journey Toward Reconciliation) o Il piccolo libro della trasformazione dei conflitti ( The Little Book of Conflict Transformation), entrambi scritti da John Paul Lederach, non le bastava più. Decise quindi di frequentare una scuola di specializzazione e si trasferì in America. Aveva sentito parlare dell ’Eastern Mennonite University (EMU), un college americano cristiano con una lunga tradizione nella formazione di giovani africani. All’inizio alloggiò quattro settimane al Summer Peacebuilding Institute definendole “momento di trasformazione”. Poi si iscrisse a un master. La lontananza dalla famiglia e i traumi che lei stessa aveva subito in guerra, però, la perseguitavano. Finiti i suoi corsi all’EMU, nell’aprile del 2007 tornò in Africa. Di quel periodo trascorso in Virginia ricordava di averlo vissuto con “ un freddo addosso che non è mai andato via, assalita a volte da panico, tristezza e da un buio vorticoso”. I cambiamenti nella sua vita avevano messo a dura prova i rapporti con i suoi compagni, con i suoi figli e i suoi familiari. Una sera, di fronte agli amici riuniti per celebrare il 14° compleanno della figlia maggiore, Amber, fu chiaro a tutti
che Leymah era diventata un’alcolizzata. Nel suo libro di memorie, Gbowee spiega che, per circa un decennio, il vino era stato “l’unico rimedio per far fronte alla solitudine di separazioni costanti dalla sua famiglia, l’antidoto alla povertà, l’anestetico dei traumi della guerra”. Corse quindi il rischio di perdersi. Prima di naufragare si rivolse alla sua famiglia, l’àncora di salvezza cui aggrapparsi per non affogare. Comprese che i suoi figli avevano bisogno di lei e non potevano sopportare un altro abbandono. Si curò e guarì. Ricominciò a tenere conferenze nel Paese. Il suo lavoro favorì anche l’elezione di Ellen Johnson Sirleaf come primo capo di governo donna africano, salito al potere nelle elezioni più libere e democratiche che la Liberia avesse mai conosciuto. La risonanza internazionale del suo operato crebbe sempre più, arrivarono riconoscimenti da tutto il mondo, fino al Nobel per la Pace nel 2011. L’evento, di questo si trattava, fu significativo. Da tempo si chiedeva che il premio fosse assegnato a una africana proprio per accendere i riflettori sulle condizioni di difficoltà in cui versano le donne nel Continente nero. Il Nobel ha rappresentato un prezioso contributo per dare il giusto valore a coloro che lottano per una società più civile e democratica. Nelle comunità dell’intero continente ci sono mille difficoltà. Oltre alla povertà, alla fame e alle malattie le donne sono tradizionalmente emarginate ed escluse dalla vita pubblica. Senza parlare della violenza consentita in casa e alle mutilazioni cui vengono tutt’oggi sottoposte. Anche se il conflitto in Liberia non era religioso, era permeato da un sottofondo religioso che aveva generato tensioni. Le stesse che esistevano quando le prime donne cristiane e musulmane si riunivano per decidere il da farsi contro la guerra. Leymah si rese conto che nulla si sarebbe realizzato senza colmare il gap culturale esistente. Invece di sottolineare le differenze, prese come punto di partenza l’unica cosa che quel gruppo di pioniere aveva in comune, la femminilità. Quando cominciarono a conoscersi, esaminarono il Corano e la Bibbia per comprenderne i precetti. Ciò che impararono è che non potevano semplicemente continuare a essere spettatrici. “Indipendentemente che voi preghiate o meno – diceva Leymah – durante la
guerra le nostre esperienze come comunità e come madri sono le stesse. Patiamo la fame, veniamo stuprate, i nostri figli vengono uccisi. Una pallottola non distingue un cristiano da un musulmano. Per crescere, c’è bisogno di pace”. E allora che pace sia.
Tawakkul Karman (Yemen)
Nobel per la Pace 2011
La rivoluzione dei gelsomini Prima donna araba a vincere il Nobel. Seconda musulmana dopo Shirin Ebadi e in assoluto la più giovane ad aver ricevuto il prestigioso premio (32 anni). Attivista yemenita, guida migliaia di ragazze e ragazzi verso la via della libertà e della giustizia Tawakkul Karman è il volto riconosciuto, in campo internazionale, della rivolta yemenitadei gelsomini, una delle tante che hanno caratterizzato la primavera araba nel 2011. I suoi connazionali, come quelli della Sirleaf, l’hanno definita “ donna di ferro” oppure “ madre della rivoluzione”. Il suo nome completo è Tawakkul Abdel-Salam Karman. È nata il 7 febbraio del 1979 a Mekhlaf, nella provincia di Ta’izz nello Yemen. Suo padre è Abd alSalam Khalid Karman, avvocato, leader dei Fratelli Musulmani, ex Ministro degli Affari Giuridici del governo di Ali Abdullah Saleh, ed ex membro del Consiglio della Shura. Sua madre è Anisah Housain Al Asoadi. Ha due fratelli, uno poeta, Tariq, e uno giornalista di Al-Jazeera, Safa. Sposata con Mohammed al-Nahmi, è madre di tre figli. Tawakkul è cresciuta a Ta’izz, la terza città più popolosa del Paese, considerata la capitale culturale dello Yemen. Lo Stato che le ha dato i natali, da secoli è dominato da una società che non riconosce alcun diritto alle donne. La violenza su di loro non è considerata reato. Non solo. Non possono decidere alcunché, come se fossero minorenni a vita e bisognose di un tutore. Tutte le scelte per conto loro, infatti, vengono prese da un guardiano, generalmente il genitore o il parente più prossimo, che può decidere di darle in matrimonio quando sono ancora solo delle bambine. In media ogni donna yemenita ha più di 5 figli. È una società patriarcale, sessista e conservatrice. I suoi primati negativi comprendono anche un tasso di mortalità post parto altissimo, un reddito medio pro-capite di soli 16 dollari l’anno e un terzo della popolazione che soffre la fame. In Parlamento siedono solo tre deputate.
Tawakkul poteva inserirsi nella società solo in due modi: obbedire in silenzio alle sue leggi oppure esprimere il suo dissenso e ciò che pensava realmente. Ha scelto la via più difficile, piena di sfide e momenti di sconforto. Finita in prigione, ha rischiato più volte di essere uccisa. Prima però ha ottenuto la laurea in Scienze Politiche all’Università di Sana’a in un Paese dove solo il 13% delle matricole è di sesso femminile. Si è comunque sposata e ha tre figli. Di lei sono famose le azioni di protesta che hanno suscitato tanto clamore internazionale e che hanno fatto in modo che altre donne, nella sua stessa situazione, la seguissero. Uno dei primi gesti eclatanti è stato quello di togliersi il tradizionale niqab (velo integrale) durante una conferenza nel 2004, e da allora ha esortato “le altre donne e le attiviste a levarselo”. Lei predilige un velo colorato che copre solo i capelli. Una caratteristica che la contraddistingue e la rende riconoscibile anche nelle manifestazioni è proprio un foulard rosa o azzurro con i fiorellini annodato in testa. Nel 2005 ha fondato il gruppo di difesa dei diritti umani Giornaliste senza catene con l’obiettivo di proteggere la libertà d’espressione. Questa infatti, secondo Tawakkul, è l’unica via per la democrazia e la giustizia. La libertà di parola coincide con la libertà di azione. “Agire. È questo il modo per avere la società che vogliamo e consentire allo Yemen di esprimere a pieno tutte le sue potenzialità” dice sempre più spesso. Tawakkul è stata vittima di minacce e tentativi di corruzione da parte delle autorità governative. La sua risposta? Ha denunciato il divieto del Ministero dell’Informazione di creare un nuovo giornale e una nuova radio. Anche i suoi familiari hanno subito intimidazioni. Mai doma, ha organizzato e partecipato a decine di sit-in e manifestazioni non violente. Durante le sommosse popolari del 2011 ha coordinato raduni di studenti contro il governo. Per questo è stata arrestata e poi, grazie alla sollevazione popolare che la sua detenzione ha provocato, liberata sulla parola. Invece di rinunciare alle sue idee, pochi giorni dopo si è messa a capo di una nuova protesta e ha lanciato un appello per “il giorno della collera” indetto il 3 febbraio 2011, ispirato a quello della rivoluzione egiziana e provocato a sua volta dai moti tunisini dell’anno precedente. È stata nuovamente arrestata, ma
non si è arresa. Pochi mesi dopo ha scritto un articolo per il New York Times intitolato La rivoluzione incompiuta dello Yemen nel quale ha attaccato l’Arabia Saudita e gli States per aver sostenuto il regime yemenita. “ Stati Uniti e Arabia – ha sottolineato nel testo – usano la loro influenza per garantire che i membri del vecchio regime rimangano al potere e perché lo status quo sia mantenuto. Le agenzie statunitensi di controterrorismo e il governo saudita hanno una salda presa sullo Yemen al momento. Sono esse, e non il popolo yemenita e le sue istituzioni costituzionali, che controllano il Paese”. Ciò che interessa particolarmente la Karman è il destino delle donne e del loro anelito di democrazia. Per questo ha sostenuto una legge che vietasse i matrimoni al di sotto dei 17 anni d’età. In molte famiglie è tradizione dare le figlie in spose già da piccolissime. Molte non studiano e soffrono di malnutrizione perché i genitori preferiscono sostenere il maschio. Una situazione che Tawakkul non ha mai accettato. E non è la sola. Il sogno di dare pari diritti alle donne e attivarle nella vita pubblica in società musulmane è ormai un patrimonio comune ad alcuni strati di quelle popolazioni. Soprattutto tra i giovani che si organizzano attraverso i social network e altri mezzi di comunicazione per strutturarsi e darsi degli obiettivi, agendo indipendentemente. In Tunisia, in Siria, in Egitto e in tutto il Mediterraneo arabo c'era in quel periodo uno spirito di innovazione che, si sperava, avrebbe coinvolto e sconvolgere anche il ruolo della donna nella società. Il problema è però politico e, come si è visto durante gli anni successivi, culturale. Karman ha scritto: “Chiediamo solo che vengano rispettiate le regole internazionali sui diritti umani e i diritti del popolo yemenita alla libertà e alla giustizia. A nome di molti dei giovani coinvolti nella rivoluzione dello Yemen, io assicuro che siamo insieme possiamo eliminare le cause dell’estremismo e la cultura del terrorismo mediante un rafforzamento della società civile e l’incoraggiamento dello sviluppo e della stabilità”. La Karman è membro anziano del partito d’opposizione Al-Islah. Una posizione controversa, la sua, per alcune idee espresse dall’ala più conservatrice di quel gruppo politico proprio sulla condizione delle donne e sul fatto che è sospettato di finanziare il terrorismo internazionale. Lei ha sempre tenuto a precisare che la sua persona, sebbene appartenga a un gruppo, è tuttavia indipendente. “I
giovani” dice “non possono porsi contro ogni forma di partito, perché hanno bisogno di una guida nel loro percorso di cambiamento”. Nel 2011 è stata insignita del premio Nobel per la Pace, “per aver giocato un ruolo strategico nella lotta per i diritti alle donne e per la democrazia e la pace nello Yemen”. Solo se le donne avranno in tutto il mondo gli stessi diritti la società potrà progredire a tutti i livelli. Il riconoscimento è stato importante quindi per tutto il genere femminile. Tawakkul è rimasta molto sorpresa del Nobel. Ha affermato che è una vittoria per il mondo arabo e in particolare per le donne. Lo ha dedicato a tutti gli attivisti della primavera araba. Dopo essersi recata a Oslo per la cerimonia di consegna è volata a New York per consegnare una lettera al Segretario generale dell’ONU e al Consiglio di sicurezza affinché venissero congelati i beni del Presidente yemenita e dei suoi collaboratori. Ha organizzato una manifestazione di fronte al Palazzo di vetro affermando che non avrebbe lasciato la città se non dopo aver raggiunto il suo obiettivo. I traguardi a cui la Karman aspirava erano ancora molti, ma il mondo sta cambiando e lei, una delle protagoniste attive di questa rivoluzione, di fatto è stata messa in un angolo. Il fatto di vedere per le strade dello Yemen, un Paese dove generalmente le donne erano ridotte a marionette silenziose, migliaia di loro marciare in difesa dei propri diritti era una prova tangibile delle speranze alimentate dal suo impegno. Il manifesto che sintetizzava quella fase era nelle sue parole: “Le donne devono smettere di essere o di sentirsi parte del problema e diventare parte della soluzione. Sono state a lungo emarginate: ora è il momento di alzarsi in piedi senza bisogno di chiedere il permesso. Questo è l’unico modo per restituire alla nostra società una dignità e allo Yemen di raggiungere le grandi potenzialità che ha”. Peccato che solo dopo pochi anni dalla consegna del Premio Nobel, lo Yemen è stato investito da una bufera che sembra averlo dissolto. Il 22 gennaio 2015, infatti, in seguito a un tentativo di colpo di Stato da parte della minoranza zaydita Huthi, il presidente, ʿAbd Rabbih Manṣūr Hādī, e il Primo ministro, Khālid Baḥāḥ, uomo di compromesso fra il ato regime e le figure uscite dalla Primavera Araba, hanno rassegnato le dimissioni.
Il 25 marzo 2015, per fermare l'avanzata degli Huthi nella guerra civile yemenita, ingenti forze armate dell'Arabia Saudita hanno invaso il paese, nel tentativo di restituire il potere a Abd Rabbih Manṣūr Hādī. Nell'ottobre dello stesso anno, Amnesty International ha accusato l'Arabia Saudita di crimini di guerra in Yemen, in particolare per l'uso di bombe a grappolo e bombardamenti di scuole ed altri obiettivi civili, accuse rilanciate nel 2016 da Human Rights Watch. Le bombe hanno spazzato tutti i sogni della madre della rivoluzione dei gelsomini.
Alice Munro (Canada)
Nobel per la Letteratura 2013
L'ossessione per la scrittura Donatrice di sangue, cameriera, raccoglitrice di tabacco e impiegata di biblioteca. Sono i lavori che Alice Munro ha svolto per mantenersi nei due anni trascorsi all’Università di Western Ontario. Era ancora una bambina quando alla madre venne diagnosticato il morbo di Parkinson che in breve tempo la immobilizzò a letto. Alice badava alla genitrice e alla casa. In più andava a scuola. Quel dramma l’ha segnata per tutta la vita ed è diventato la fonte d’ispirazione di alcune sue opere Di strada ne ha fatta tanta. Da Wingham, cittadina della regione dell'Ontario, vicina al lago Huron, dove è nata nel 1931, sino al Premio Nobel per la Letteratura 2013. Come molte altre donne che hanno caratterizzato l’ultimo scorcio del secondo millennio e l’inizio del terzo, Alice Munro non ha vissuto una vita facile. Nascere durante la Grande Depressione o poco dopo, purtroppo, non doveva essere semplice per nessuno. Suo padre, Robert Eric Laidlaw, gestiva una fattoria in cui allevava volpi argentate e la madre, Anne Clark Laidlaw, ex insegnante senza più alunni perché nessuno aveva soldi per comprare libri e quaderni, andava a vendere le pellicce per aiutare la famiglia. I suoi clienti? Puttane, malavitosi e tutta la strana fauna che faceva la spola tra l’Ontario e il Michigan trasportando merci di contrabbando. La loro casa si trovava in una specie di periferia suburbana. Ricordando la sua infanzia, l’autrice di Lives of Girls and Women in una intervista ha confidato: “La mia vita conteneva una certa dose di pericolo. Vivevamo al di fuori di ogni struttura sociale, in una specie di piccolo ghetto di contrabbandieri, prostitute e scrocconi. Una comunità di fuoricasta. Però era una vita interessante, provavo un grande senso di avventura”. Quel tipo di vita, da un lato le regalava una sensazione di libertà, priva com’era di vincoli e regole. Dall’altro la faceva sentire una outsider, vista la sua posizione sociale non proprio brillante. Il periodo meno felice della sua esistenza
coincide con la sua pubertà. Era ancora una bambina quando alla madre venne diagnosticato il morbo di Parkinson che in breve tempo la immobilizzò a letto. Alice badava alla madre e alla casa. In più andava a scuola. Non aveva tempo per uscire, per giocare con i suoi coetanei. Per sfuggire a qual mondo che le sembrava troppo chiuso, quasi claustrofobico, cominciò a scrivere: “Scrivere da adolescente mi diede la più grande felicità” raccontò in seguito. I fronti su cui combatteva erano due. Il primo riguardava appunto la madre. Il secondo si riferiva alle sue relazioni sociali. Non voleva essere tagliata fuori ma vivere come tutte le altre ragazze della sua età: avere amici, uscire, divertirsi, sposarsi. Trascorreva ore e ore, soprattutto quelle notturne, a fare sogni a occhi aperti. Si immaginava eroina di mille avventure. Fu la lettura di Andersen e Brontë che la spinse a scrivere. Dell’autore de Il brutto anatroccolo le piacevano quasi tutte le fiabe. Amava la Piccola fiammiferaia, in cui a volte si identificava. Di Brontë impazziva per Cime Tempestose. Con la maturità aveva di fronte due strade, quella del matrimonio, comune a milioni di donne, che le avrebbe regalato una vita forse più tranquilla, certamente più banale, o quella dell’artista. Scelse la seconda. Cominciò a divorare Tolstoj, Čecov, Proust, James, ma anche Erica Jong. Grazie a una borsa di studio, si iscrisse all'Università di Western Ontario. Aveva solo 35 centesimi al giorno per mantenersi. Per guadagnare qualche dollaro divenne donatrice di sangue, cameriera, raccoglitrice di tabacco e impiegata di biblioteca. Quelli furono anni duri, ma li viveva “ come una piccola vacanza dalla mia vita di casa, e la volevo godere in pieno. Studiavo, scrivevo e leggevo. Adoravo Eudora Welty, Flannery O’Connor, Katherine Ann Porter, Carson McCullers. Mi sembrava che le donne potessero scrivere dei freaks, degli emarginati”. Un anno dopo, nel 1950, il suo primo racconto fu pubblicato su una rivista studentesca, ma ò quasi inosservato. Due anni dopo lasciò gli studi perché non aveva i soldi per continuare. Decise allora di sposare James Munro, conosciuto nella biblioteca dell’ateneo, e si trasferì con lui a Vancouver. Il marito proveniva da una famiglia dell’alta borghesia canadese e aveva una brillante carriera di avvocato davanti a sé. Si unirono in matrimonio contro il parere dei genitori di lui. “Ci sposammo a venti e ventidue anni. Scappammo
via, ci trasferimmo a Vancouver: il posto più lontano senza dover uscire dal Canada” ricorda. Lì nacquero le sue tre figlie. Cominciò a pubblicare con continuità i primi testi che trovarono spazio su riviste e settimanali. “Non intendevo diventare una scrittrice di racconti”, dichiarò qualche tempo dopo, “ cominciai a scriverli perché non avevo tempo di scrivere nient'altro, avevo tre bambine”. Persa la madre, morta nel 1959 proprio a causa del morbo di Parkinson, quattro anni dopo si trasferì con tutta la sua famiglia a Victoria, nella British Columbia, dove aprì la libreria Munro's Books. Era James che la incoraggiava a continuare a scrivere. Due anni dopo la nascita della prima figlia, Sheila, arrivò Catherine e con lei scoppiò la tragedia. La secondogenita sembrava affetta dalla sindrome di down. I genitori decisero quindi di darla immediatamente in affido “per non ostacolare la carriera di scrittrice della madre”. Ma la bambina, nata senza reni, morì dopo appena quindici ore. Quel dramma le provocò a lungo degli incubi che non la facevano dormire. Nel 1955 nacque Jenny e nel 1966 l’ultima figlia, Andrea. La scrittura era quasi un’ossessione, anche se tra i suoi conoscenti pochi sapevano della sua ione. Di fronte a loro si comportava come una moglie e madre esemplare. In realtà sacrificò alla scrittura il rapporto col marito e le figlie. A un certo punto rischiò di perdere la sua vena creativa e questo la portò vicino alla depressione: “Iniziavo ad avere una nozione più realistica delle mie capacità, unita alla consapevolezza di non avere tempo per scrivere, e nessuno che riconoscesse il mio lavoro, a parte mio marito”. La svolta arrivò con la scomparsa della madre, Anne Clark Laidlaw, cui era legata da un profondo affetto. La segnò talmente da diventare argomento di uno dei racconti pubblicati nella raccolta Dance of the Happy Shades del 1968, La pace di Utrecht, in cui narra del difficile rapporto con la madre invalida e della sua morte. Il libro riscosse critiche entusiaste e vinse in quello stesso anno il Governor General's Literary Award. Nel 1971 arrivò in libreria il suo unico romanzo: Lives of Girls and Women, costituito da storie interconnesse di gente che lotta contro la povertà e l’isolamento. Da subito, la sua scrittura risultò essere caratterizzata da una capacità del dettaglio inconsueta. Colpì il modo con cui raccontava, disegnava i
particolari dei suoi personaggi. Ne mostrava paure, debolezze, errori. Li metteva a nudo, interiormente. Presentando il libro invitò i suoi lettori a “guardare i personaggi dei suoi racconti con comprensione... perché posso immaginare che io stessa, in certe condizioni, potrei comportarmi in maniera disonorevole”. Nel 1973 cominciò a insegnare scrittura creativa. Dodici mesi dopo pubblicò Something I've Been Meaning to Tell You, una seconda raccolta di racconti. Gli anni Settanta furono un periodo di grandi cambiamenti. Si trasferì a Clinton, Ontario, dove nel 1976, dopo aver divorziato dal primo marito, di cui conservò il cognome, sposò Gerald “Gerry” Fremlin, un geografo. Nello stesso anno, il padre morì a Toronto e, qualche settimana dopo, l'Università di Western Ontario le concesse la laurea ad honorem in Lettere e i suoi racconti furono pubblicati sul The New Yorker. Da allora fu un crescendo. Nel 1978 vide la luce Who Do You Think You Are? con cui vinse il Governor General's Literary Award per la seconda volta, poi ecco The Moons of Jupiter, nel 1986 The Progress of Love, nel 1990 Friend of My Youth, nel 1994 Open Secrets, nel 1996 Selected Stories, una selezione di vent’otto racconti dalle sue sette raccolte precedenti, nel 1998 The Love of A Good Woman. “La vita reale – amava ripetere – non erano la mia casa, i figli, il marito. Ciò che era reale era la mia scrittura, come si sviluppava nella mia mente e poi sulla pagina. Una realtà cui non ho potuto rinunciare, mai”. Quali sono i soggetti delle sue opere? Sono adolescenti, sono donne che vivono o hanno vissuto. L’autrice ne racconta i rapporti con la famiglia, i loro legami con l’ambiente di una piccola città, i loro matrimoni, i loro figli, i loro divorzi. Affronta i problemi dell'età di mezzo, delle donne sole, della vecchiaia. Sotto la sua lente c’è il aggio del tempo e i residui che lascia. Su tutti. La plastilina con la quale crea i suoi personaggi è quella delle donne. Nei suoi racconti, gli uomini sono parte ingombrante delle loro vite, sono traditori, violenti, incapaci. Sono il fardello che le accompagna per un tratto del percorso. Un altro grande tema è la povertà, anzi, la vergogna della povertà, quella che rende “invisibili”, che fa perdere la dignità. Spesso è un sentimento che si associa al senso di colpa. C’è per esempio chi si vergogna di dover accettare qualcosa da mangiare, perché non rappresenta un diritto ma un dono, che è uno scambio insidioso, nel senso che presuppone un contro dono che il povero non
può ricambiare. Il terzo tema riguarda l’essere donna e artista. Qual è la funzione che esprime al meglio i valori individuali e quale le aspettative, anche quelle più nascoste? Nei ritratti che la Munro traccia, di solito, l'artista è una donna in una piccola città, una poetessa o una violinista, o una vecchia insegnante di piano. È la colonna di una famiglia archetipica. La madre è dotata di una certa eleganza, il padre onesto ma privo di colore e calore. L’architettura dei racconti è piena di trabocchetti e inganni. Quella che inizia come una descrizione, o rievocazione, di una tranquilla scena familiare, prende poi la piega inaspettata del dramma, della tragedia, una tragedia a volte rimossa, altre volte ossessivamente presente a impedire ogni percorso di vita. Per molti le sue storie sono un continuum autobiografico. L’esempio sarebbero le sue ragazze vissute nei quartieri più poveri della città che cercano di farsi strada nel mondo. Certo, l’essere cresciuta in una cittadina di provincia durante la Depressione, la sua adolescenza, le sue relazioni sociali quasi sempre complicate sono stati l’archivio principale dal quale ha tratto la maggior parte dei suoi racconti. "Il materiale su mia madre è il materiale centrale della mia vita” ha sempre detto la Munro. Che poi aggiungeva: “ Nelle piccole città, ognuno sta sulla scena per gli altri, non esiste privacy, tu hai un ruolo, un carattere, ma è quello che ti hanno dato gli altri”. Le differenze con molti autori sono la qualità della scrittura e la personalità mai estrema, semmai ordinaria, di uomini e donne che popolano i suoi racconti. Ha un taglio rigoroso con il quale squarcia l'apparenza delle loro vite, rivelandone i risvolti straordinari e oscuri. È una scrittura visiva, cinematografica. Nulla è come appare in superficie. I protagonisti vivono nell'autoinganno, nelle bugie che dicono a loro stessi su chi realmente sono. Spesso l’irrealtà dura per sempre, manca la presa di coscienza. Pur essendo molto letta e molto premiata, per anni è stata considerata un’autrice di secondo piano solo perché scrive di ragazze, di donne e dei loro conflitti. Il Premio Nobel l’ha inserita tra i grandi della letteratura mondiale. Una “maestra delle storie brevi contemporanee” ha spiegato l’Accademia Reale svedese proclamando la sua vittoria. Una curiosità che ormai ha fatto storia.
La Munro, al momento dell’annuncio del Nobel, avvenuto quando in Canada erano le 4 del mattino, stava dormendo. Per comunicarle che aveva vinto il premio, l’Accademia di Svezia le aveva inviato un tweet con il quale l’avvertiva di averle lasciato un messaggio nella segreteria telefonica. Il Nobel non è l’unico alloro che la Munro ha in bacheca. Al suo fianco ci sono tre Governor General’s Literary Award, il principale premio letterario canadese, e mille altri riconoscimenti. Durante il tour organizzato nel 2006 per promuovere La vista da Castle Rock (The View from Castle Rock), l’autrice aveva annunciato che non avrebbe più scritto. Nello stesso anno, al T oronto International Film Festival fu presentato il film Away from Her (Lontano da lei), interpretato da Julie Christie e Gordon Pinsent, tratto dal racconto The Bear Came Over the Mountain.
May-Britt Moser (Norvegia)
Nobel per la Medicina 2014
Il Gps del cervello “Attraverso il duro lavoro, insieme con colleghi fantastici, ho lavorato per realizzare i miei sogni e rendere chiara la visione della mia infanzia: volevo comprendere come l'attività neurale del cervello genera comportamento e cognizione.” È la prima norvegese, assieme al marito Edvard Moser, a vincere il premio Nobel, per le scoperte riguardanti il sistema che permette al cervello di orientarsi. Che cosa significa? Dopo anni di studi, i due scienziati hanno identificato delle “cellule griglia” nella corteccia entorinale, contigua all’ippocampo, cellule che creano le coordinate spaziali e rendono più efficiente il “sistema di navigazione” interno, permettendo così di muoversi. In parole povere hanno individuato il Gps del cervello. Il loro gruppo di lavoro sta perciò cominciando a svelare l'organizzazione funzionale del circuito composto da “cellule griglia” e la formazione della memoria nell'ippocampo. I Moser sono una delle cinque coppie, nella storia, che hanno vinto il premio Nobel. Le altre sono: Maria e Pierre Curie, per la Fisica nel 1903; Irène e Frèdèric Joliot Curie, per la Chimica nel 1935; Gunnar e Alva Mirdal, rispettivamente per l’Economia nel 1974 e per la Pace nel 1982: Carl Ferdinand e Gerty Cory, per la medicina nel 1947. Grazie alla loro scoperta dovremmo poter rispondere a domande del tipo: Come facciamo a sapere dove ci troviamo? E come riusciamo a memorizzare le informazioni che ci fanno ritrovare una strada? La coppia ha condiviso il Nobel per la Fisiologia e la Medicina con il loro mentore John O'Keefe pioniere delle ricerche in questo campo, che, qualche anno prima, aveva scoperto che, quando un animale si trova in un determinato punto di una stanza, nel suo cervello si “accende” un neurone e, quando la sua posizione cambia, se ne accende un altro. I Moser sono andati oltre. Hanno indagato le correlazioni tra la struttura anatomica dell'ippocampo e l’apprendimento sociale nei ratti. In questo modo hanno individuato, vicino all’ippocampo, alcuni tipi di cellule che sono
importanti per la rappresentazione spaziale. L’insieme di queste cellule, chiamate di “posizionamento” formano una mappa che viene memorizzata. Il lavoro dei due scienziati ha dato la possibilità di acquisire nuove conoscenze sui processi cognitivi e deficit spaziali associati a condizioni neurologiche umane come il morbo di Alzheimer. May-Britt Moser è nata a Fosnavåg, nelle vicinanze di Romsdal, in una piccola azienda agricola di una minuscola citta su un’isola sulla costa occidentale della Norvegia, il 4 gennaio 1963, in una delle più belle zone del paese. Il padre era un falegname, la madre, oltre all’azienda, curava la piccola May e i suoi quattro fratelli più grandi. Il lavoro dei genitori era duro, l’economia domestica non brillante visto che bisognava dare da mangiare a cinque figli. Nonostante le difficoltà, ricorda la May-Britt nella sua biografia ufficiale “ ero una bambina felice, curiosa con un sacco di sogni e con una buona stella sopra la mia testa.” I suoi non potevano permettersi di mandarla in vacanza, come facevano i genitori dei suoi amici, così trascorreva l’estate studiando gli animali, compreso il comportamento delle lumache mentre mangiavano l'erba. “ Mentre guardavo” ricorda il premio Nobel, “mi chiedevo sempre le ragioni di ciò che l'animale stava facendo.” Non era lo studente migliore della scuola, anzi, ma i suoi insegnanti non hanno mai smesso di incoraggiarla. Non solo alle primarie, anche al liceo. Tutto questo ha fatto la differenza. Nonostante May trascorresse troppo tempo con gli amici, come tutti gli adolescenti le piaceva divertirsi, aveva i voti necessari per iscriversi all’Università, alla facoltà di medicina. Il merito va condiviso con sua madre che l’aveva avvertita che se non avesse lavorato duro sarebbe diventata una casalinga. Quel pensiero l’aveva fatta inorridire. La madre voleva diventare un medico. Un sogno che aveva riposto nel cassetto per allevare i suoi cinque figli, che poi ha trasmesso alla piccola May. Amante degli animali, da bambina, il futuro premio Nobel voleva diventare veterinario. Superato il liceo, dove dimostrò di essere un’apionata di matematica e fisica, non aveva le idee molto chiare sul percorso da intraprendere all’università. Si iscrisse a quella di Oslo, perché lì vicino abitavano due sorelle maggiori. Un’opzione era studiare biologia o geologia e diventare un insegnante, ma l’abbandonò subito. Per un certo periodo, influenzata da un fidanzato, si iscrisse
a Odontoiatria, ma poi decise di non proseguire nemmeno questo corso. Correva il rischio di perdersi, se il destino non fosse intervenuto a indirizzarla lungo un percorso ben preciso. In che modo? Un giorno, in un centro commerciale di Oslo, incrociò Edvard che era in visita all’università, prima dell’inizio dell’anno accademico. May lo riconobbe: era uno dei ragazzi, forse il più intelligente, che avevano frequentato il suo stesso liceo. Anche Edvard si ricordava di lei. Tra i due scoccò subito la scintilla. Decisero così che avrebbero studiato psicologia insieme. La nuova materia affascinò immediatamente la giovane studentessa che iniziò così la sua conoscenza con il cervello. Una conoscenza che le fece riemergere dalla memoria i suoi sogni di bambina, quando era ansiosa di capire “perché si fanno le cose.” Già al primo anno i due pubblicarono il loro primo articolo “ Gli effetti di interazione di personalità e di genere in piccoli gruppi: Una prospettiva mancante nella ricerca”. Il testo affascinò così tanto il professor Skårdal che il docente li incoraggiò a dedicarsi totalmente a psicologia sociale. Loro ringraziarono ma rifiutarono l’invito. “No grazie, vogliamo studiare il cervello!” fu la risposta. Stavano gettando i semi di una futura, feroce, determinazione. Intanto la loro relazione si trasformò in un rapporto più solido. La promessa di amarsi non fu recitata in un luogo qualunque, no. Fu pronunciata in cima al Kilimanjaro, nel cuore dell’Africa. Quella meta affascinava entrambi. Edvard amava e ama i vulcani, May, affascinata sin dalla sua infanzia dagli incontri con i missionari norvegesi che tornavano dalle missioni nel Continente Nero, aveva da sempre voluto visitarlo. Si sposarono il 27 luglio 1985, quando non si erano ancora laureati. Assieme alle promesse di matrimonio, ribadirono il loro impegno nella ricerca scientifica e soprattutto nella scoperta dei segreti più nascosti del cervello. Intanto si erano messi a studiare l'iperattività nei ratti nel laboratorio di Terje Sagvolden. Giunti alla fase di preparazione della tesi, i due si resero conto che se avessero proseguito su quella strada avrebbero perso molte possibilità di studiare direttamente il cervello. Capirono che avevano bisogno di lavorare in un’altra branca della medicina, quella delle neuroscienze il cui dipartimento, allora, era diretto da Per Oskar Andersen. Però, c’era un problema, anzi due. Primo, che
tutto il personale del Dipartimento di Neuroscienze, a quel tempo, erano medici e non psicologi; secondo, che il suo gruppo di ricerca era completo. Nonostante le premesse, i due scienziati non si persero d’animo, anzi. Quando finalmente riuscirono a parlare con Andersen, May-Britt non aveva alcuna intenzione di lasciare la stanza fino sino a quando il luminare non li avrebbe accettati come ricercatori. E quando il docente si rese conto che non si sarebbe liberato di loro tanto facilmente, li sfidò a costruire in laboratorio un labirinto d’acqua. Se il tentativo fosse stato coronato da successo, allora gli avrebbe permesso di fare una tesi di laurea nel suo staff. La sfida fu raccolta e vinta. May ed Edvgar costruirono il loro labirinto di acqua letteralmente da zero – era un serbatoio di 2 metri di diametro di 50 cm di altezza - con l’aiuto di un fratello di lei che li aiutò a reperire i materiali per la sua realizzazione, compresa una pompa capace di immettere 1.250 litri di acqua dal serbatoio. Per non farsi mancare nulla, i due studiavano psicologia durante il giorno, lavoravano in laboratorio durante la notte. Per Oskar Andersen, che voleva studiare LTP nel cervello vivente, gli insegnò come si rafforzano le connessioni tra i neuroni, scoperte nel 1966 da Terje Lomo, allievo dello stesso Per. L’impegno per due giovani, che non sapevano molto circa l'anatomia del cervello, fu notevole. Per prima cosa fecero una dissezione del cervello su un cadavere umano, poi cominciarono a fare lesioni dorsali e ventrali in parti dell'ippocampo dei topi in modo che una fetta di ippocampo veniva lasciata su entrambi i lati dello stesso cervello. L'idea era che sarebbe stato più facile rilevare LTP nel cervello vivo se l'area in cui possono verificarsi tali modifiche era limitata. Fu così che scoprirono che quando i topi avevano una lesione nella parte dorsale dell'ippocampo non imparavano alcunché, ma se avevano una lesione nella parte ventrale potevano ancora navigare perfettamente. Per questo motivo, conclo che era solo la parte dorsale dell’ippocampo quella coinvolta nell'apprendimento spaziale e la memoria, e che lo stesso ippocampo ha funzioni eterogenee. I risultati della ricerca furono pubblicati su The Journal of Neuroscience e divennero le basi anche della tesi, scritta insieme, che portò entrambi alla laurea. L’esperimento sollevò la questione: “ Se la parte dorsale è coinvolta nella memoria, che cosa fa la parte ventrale?” e ne approfondì un’altra: “Qual è la natura delle connessioni tra la corteccia entorinale e la dorsale e le parti ventrali
dell'ippocampo?” Terminata la tesi, entrambi decisero di rispondere a quei quesiti con un dottorato di ricerca. La sfida, in quel caso fu: come ottenere due borse di studio per continuare a studiare con Andersen? In quel periodo era molto difficile ottenere questo tipo di finanziamento. Il loro professore era certo che solo una domanda sarebbe stata accolta, e affidò ai due coniugi la decisione su chi di loro l’avrebbe accettata. May-Britt, generosa e innamorata, la lasciò a Edvard. Poi, lo stesso docente suggerì alla ricercatrice di collaborare con un suo collega, Jørg Mørland, del Dipartimento di Tossicologia, per studiare quello che accade alle sinapsi dell'ippocampo se si dà dell'alcol a un animale. Ma la giovane rifiutò il consiglio. Non le piaceva l’argomento, non si vedeva a ubriacare i ratti per verificare se avessero o meno qualche reazione. Era invece molto interessata al fatto che si sarebbero potute vedere le sinapsi con un microscopio con focale Laserscanning. Nessuno, nemmeno Andersen, che cercò in tutti i modi di impedire l’invio della proposta al Consiglio di ricerca, credeva che fosse possibile vedere le sinapsi con quel tipo di apparecchiatura. May era invece convinta che fosse possibile. E aveva ragione. Era sempre molto gentile ed educata, ma se voleva davvero qualcosa, nessuno poteva fermarla. La sua determinazione era alimentata da una fiducia illimitata nelle proprie intuizioni, che si era sviluppata in quegli anni. Nonostante l’opposizione di Andersen, ottenne il dottorato e costruì una specie di casa dei ratti che aveva piani diversi e ambienti diversi. Era il 1991. Quell’anno, in giugno, nacque la prima figlia, Isabel, che la accompagnava quando May sperimentava le sue teorie sui topi, quando costruiva tutta una serie di giocattoli per gli animali, quando creava nuovi ambienti in cui gli stessi animali potessero collocarsi. Isabel c’era anche quando la madre prelevava fettine di ippocampo e ne riempiva le singole cellule con speciali coloranti che le permisero di visualizzare e contare le spine in 3-D. Il numero delle spine variava tra i topi che avevano vissuto in un ambiente arricchito e gli altri. Non solo. Gli stessi animali immessi nel labirinto d'acqua, dimostravano di ricordare meglio i percorsi nel labirinto d'acqua. Finito il dottorato, nel 1995, nacque Ailin. Due figlie avrebbero potuto rallentare la carriera accademica di Britt-May e del marito, ma non accadde. La scienziata
non aveva alcun problema a portarsi le piccole con sé ai convegni scientifici, di allattarle in pubblico, o portarle al laboratorio. Edvar non si creava problemi ad accudirle quando la moglie non c’era. Le bimbe non erano in alcun modo un ostacolo alle loro ricerche. “Noi” rivelò Edvar “abbiamo un sogno. È un sogno di coppia. Un progetto comune ed entrambi bruciamo per raggiungerlo. Dipendiamo uno dall’altro per conquistarlo. La ricerca sul cervello è la nostra terza figlia, e noi la curiamo con amore e attenzione, come facciamo con le altre due.” L’anno successivo, nel 1996, sempre assieme al marito, la scienziata approdò in Scozia, dove seguì un corso di formazione post-dottorato con Richard Morris presso il Centro di Neuroscienze dell’Università di Edimburgo e frequentò il laboratorio di John O'Keefe della University College di Londra. Fu quello l’incontro che cambiò le prospettive accademiche dei due coniugi. O'Keefe, infatti, era allora un pioniere delle ricerche sul cervello: nel 1971 aveva scoperto le “cellule dello spazio” nell’ippocampo che si attivano nel cervello dei ratti quando gli animali si spostano e creano una mappa mentale dell’ambiente. Lo scienziato accolse i due ricercatori norvegesi, che trentaquattro anni dopo avrebbero scoperto le “cellule griglia” nella corteccia entorinale che creano le coordinate spaziali e permettono di muoversi, e ne divenne il mentore. La curiosità è che le “cellule griglia” dei coniugi Moser interagiscono con le “cellule dello spazio” di O'Keefe. Il soggiorno a Londra, nel laboratorio di John O'Keefe, a detta della stessa BrittMay fu uno dei periodi più ricchi di apprendimento nella loro vita. John gli insegnò tutto ciò che conosceva sulle cellule cerebrali. Lavorò con loro in sala operatoria, gli mostrò come trasformare le tetrodi, come fare le registrazioni, come raggruppare i dati, come avvalersi della letteratura pubblicata sino a quel momento sull’argomento. Finito il post dottorato, May-Britt diventò professore assistente presso l'Università norvegese della scienza e della tecnologia, NTNU, dove anche a Edvard fu offerta una posizione simile. Entrambi poi, nel 2000, furono promossi professori ordinari e membri della Royal Society norvegese di Scienze e Lettere, e dell’Accademia norvegese di Scienze tecnologiche. Sino all’assegnazione del Nobel, Edvar era il direttore dell’Istituto Kavli per la
neuroscienza sistemica presso l’Università della scienza e della tecnica, a Trondheim, considerato uno dei centri scientifici più importanti dell’intero pianeta. Il condirettore dello stesso Istituto era lei, May-Britt. I due occupavano le stesse posizioni al Centro di Biologia della Memoria, co-fondato dalla stessa May. Ma, da quando, agli inizi del 2016, hanno annunciato che stanno per divorziare, le posizioni potrebbero cambiare. Prima del premio Nobel, May-Britt ha ottenuto decine di importanti riconoscimenti, a partire dal 1999 con il Premio per i giovani scienziati assegnatole dalla Accademia Reale Norvegese delle Scienze e delle Lettere; nel 2005 l’ Alden Spencer Award da parte del Collegio dei Medici Chirurghi della Columbia University; nel 2006 il Betty e David Koetser Award per la ricerca sul cervello dall’Università di Zurigo e, sempre nello stesso anno con il Liliane Bettencourt pour les Sciences du Vivant della Fondazione Bettencourt, Parigi, nel 2013 il Louisa Gross Horwitz per la biologia e biochimica (in comune con Edvard e O'Keefe). Ha scritto nella sua biografia: “Attraverso il duro lavoro, insieme con colleghi fantastici, ho lavorato per realizzare i miei sogni e rendere chiara la visione della mia infanzia: volevo comprendere come l'attività neurale del cervello genera comportamento e cognizione. Con la scoperta della rete delle “cellule griglia”, abbiamo improvvisamente capito qualcosa di fondamentale sul mistero del cervello, cioè come genera una mappa universale dell'ambiente. Nella stessa la corteccia entorinale, abbiamo anche scoperto altri tipi di cellule funzionali che segnalano i confini dell'ambiente, cellule che segnalano la direzione verso cui l'animale si muove e cellule che combinano i diversi segnali.” E infine: “ Ho avuto la fortuna di vivere una vita favola, con un partner e collaboratore di lunga data, Edvard Ingjald Moser, che mi ha sostenuto e aiutato a realizzare i miei sogni fin da quando ci siamo incontrati. Oggi abbiamo due figlie meravigliose, Isabel Maria Moser e Ailin Marlene Moser. Essendo uno scienziato riconosciuto a livello internazionale, con loro ho viaggiato in tanti posti diversi e, con loro, ho imparato tanto.” Un viaggio e un apprendimento che l’hanno portata sino al premio Nobel.
Malala Yousafzai (Pakistan)
Nobel per la Pace 2014
Il diritto all'istruzione «Non mi importa di dovermi sedere sul pavimento a scuola. Tutto ciò che voglio è istruzione. E non ho paura di nessuno. » È il simbolo della lotta per il diritto all’istruzione delle donne, nel martoriato mondo islamico. Grazie a lei, migliaia di bambine pakistane, afgane e di molte altre zone del pianeta a cultura islamica possono ancora permettersi di andare a scuola e di coltivare la speranza di un futuro migliore. È anche il più giovane premio Nobel della storia. Malala Yousafzai ha ereditato il suo nome da Malalai di Maiwand, un'eroina pashtun, una specie di Giovanna d'Arco afghana. Malalai è un personaggio storico. Al seguito del padre e del suo promesso sposo, nel 1880, a soli diciassette anni, partecipò alla battaglia di Maiwand, uno degli scontri più cruenti della seconda guerra anglo-afgana in cui i seguaci di Ayub Kan sconfissero l'esercito britannico. Resasi conto che i suoi connazionali stavano per essere battuti, Malalai corse sul campo di battaglia, afferrò la bandiera dalle mani del portabandiera ucciso dalle fucilate inglesi e cominciò a incitare i suoi gridando: “Giovane amore! Se non cadi nella battaglia di Maiwand allora, in nome di Dio, qualcuno ti sta risparmiando la vita affinché tu diventi simbolo di vergogna!” Gli afghani vinsero la guerra, ma Malalai fu colpita a morte. Quello che oggi Malala tenta di sconfiggere è l'oscurantismo dei talebani nei confronti delle donne cui vogliono negare l'istruzione. Una battaglia lunga che non si prevede quando potrà finire. Secondo un rapporto dell'Unesco sui danni provocati dal regime degli studenti coranici, durante gli anni che ha oppresso l’Afganistan, infatti, “l’editto emesso sull'educazione femminile ha portato a un calo del 65% nelle loro iscrizioni. Nelle scuole gestite dal Direttorato dell'Educazione, solo l'1% degli studenti è composto da ragazze. Anche la percentuale di insegnanti donne è scivolata dal
59,2 per cento del 1990 al 13,5 per cento del 1999”. Con la cacciata del mullah Mohammed Omar e con i governi che si sono succeduti alla guida del Paese, la situazione non è migliorata. E non è migliorata nemmeno all’interno delle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan, dove appunto, viveva Malala. La sua storia è una specie di leggenda. A undici anni, sotto falso nome, era l’autrice di un b cui raccontava, per la rete britannica Bbc, la vita quotidiana di una bambina nella valle dello Swat. A tredici è stata insignita del Premio Nazionale dei Giovani per la Pace, conferitole dal Primo Ministro Pakistano Yousaf Raza Gilani. Nell’ottobre dello stesso anno ha avuto la nomination per l’ International Children Peace Prize e ha cominciato a rilasciare interviste ai media internazionali, denunciando le storture del sistema sociale talebano. A quindici anni gli stessi talebani hanno cercato di ucciderla proprio mentre si recava a scuola. Volevano trasformarla in un simbolo da punire, si sono rivelati essere fondamentali per la sua ascesa tra i simboli positivi di un mondo per certi versi ancora dominato da faide tribali e di genere (discriminazione per sesso). Malala Yousafzai nasce il 12 luglio 1997, da Tor Pekai Yousafzai e Ziauddin Yousafzai, a Mingora, in Pakistan, nel distretto di Swat, in quello che è oggi il Khyber Pakhtunkhwa, un territorio circondato da montagne, ricco di laghi e praterie, rinomato per gli alberi da frutto. Il suo paese natale era un tempo luogo sacro ai buddisti e meta di villeggiatura prediletta dalla borghesia pakistana, per i suoi laghi e i panorami incantevoli. I primi anni della vita di Malala trascorrono tranquillamente. Poi inizia un vero calvario. Una guerra, combattuta fra il 2007 e il 2009, fra i militari dell’esercito pakistano e gruppi fondamentalisti talebani, devasta l’intera area costringendo oltre due milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Il 5 maggio del 2009, Malala e la sua famiglia, per aver salvare le proprie vite, sono costretti a lasciare la loro casa. Diventano sfollati e vanno a cercare sicurezza a miglia e miglia di distanza da Swat. Tornano nell’agosto dello stesso anno, dopo la conclusione delle operazioni militari, assieme a circa 1,6 milioni di persone che finalmente hanno la possibilità di rientrare nel loro paese. Mentre la madre, Tor Pekai Yousafzai, è un personaggio sempre rimasto ai margini della vita pubblica di Malala, non si può raccontare la sua storia senza citare il padre, Ziauddin Yousafzai, consulente speciale per l'istruzione globale
alle Nazioni Unite, poeta, insegnante e responsabile della Khushal Public School, che le trasmette il valore dell’istruzione. Un valore che, immediatamente, lei fa suo e difende sino a rischiare la propria vita. Infatti, quando gli studenti coranici cominciano ad attaccare, con editti e con le armi, le scuole femminili di Swat, Malala che allora aveva solo undici anni, pronuncia un discorso a Peshawar, in Pakistan, nel settembre 2008, dal titolo: “Come osano i talebani privarmi del mio diritto fondamentale all'istruzione?” La reazione degli estremisti è immediata. Cominciano le provocazioni che spesso sfociano in vera violenza. All'inizio del 2009, con lo pseudonimo di Gul Makai per proteggere la sua identità, la ragazzina lancia un blog per la BBC in cui descrive la sua vita nello Swat: sempre più scuole femminili chiuse, una presenza militare talebana sempre più opprimente, l’imposizione di una legge islamica molto severa che penalizza soprattutto le donne. È un amico di suo padre, Abdul Hai Kakar, corrispondente radiofonico della BBC con sede a Peshawar, che sta cercando qualcuno che voglia scrivere un diario per raccontare la vita sotto l’incubo talebano, a convincerla. L’obiettivo è mostrare il lato umano della catastrofe che si sta compiendo nello Swat. È così che, all’età di undici anni, Malala inizia a combattere contro la politica dei talebani attraverso il suo b urdu. Le sue denunce sono precise e dirette. In un post del gennaio 2009 dal titolo “I may not go to school again” (“potrei non tornare più a scuola”) rivela che il suo preside non ha fissato la data di riapertura dopo le vacanze invernali e spiega: "non ci ha informato sui motivi, ma io credo che i talebani abbiano vietato l’educazione per le ragazze a partire dal 15 gennaio". In quel periodo, i talebani distruggono o chiudono circa 400 scuole, in tutta la regione. Il suo anonimato come blogger non dura molto. La sua identità viene scoperta nel dicembre dello stesso anno, grazie a un documentario realizzato per il New York Time. Durante lo stesso periodo, nella regione dello Swat, la televisione e la musica sono vietate, alle donne è addirittura impedito di andare a fare la spesa, infine viene imposta la chiusura della scuola che il padre, Ziauddin, dirige. Nonostante le minacce di morte, (Malala e suo padre sperano che trattandosi di una bambina, i fondamentalisti non avrebbero osato farle del male) genitore e
figlia continuano a parlare di diritto allo studio, di diritto alla speranza di un mondo migliore. Diventano, così, una spina nel fianco dei talebani che non possono permettersi avversari di quel genere in un territorio da loro controllato. Le loro regole sono severissime: nessuno può opporsi all’imposizione della loro distorta legge coranica. Come detto, per il suo coraggio, nel 2011, Malala riceve il Pakistan’s National Youth Prize e viene candidata all 'International Children's Peace Prize, premio assegnato da Kids Rights Foundation per la lotta ai diritti dei giovani e dei ragazzi. La sua crescente popolarità provoca la durissima reazione dei leader talebani che decidono di farla uccidere. L’agguato scatta il 9 ottobre 2012. Malala e suoi amici stanno tornando a casa da scuola. Un uomo armato e mascherato sale sul loro bus e chiama Malala per nome. Appena lei si gira, il killer spara, dall’alto verso il basso, da distanza ravvicinata.Un proiettile attraversa la testa, il collo e la spalla della ragazza. Due suoi amici rimangono feriti nell'attacco. Il sicario dei talebani fugge, protetto dai suoi complici. Le condizioni della ragazza appaiono subito critiche. Trasportata in un ospedale di Peshawar, le viene rimossa una parte di cranio affinché si possa ridurre la pressione del cervello lacerato dal proiettile. È in fin di vita. Per lei, però, si mette in moto una catena internazionale di solidarietà. Tenuta in coma farmacologico, è trasferita a Birmingham nel Regno Unito e ricoverata in un centro specializzato in lesioni militari, dove è sottoposta a interventi chirurgici multipli, tra cui uno per la riparazione di un nervo facciale che le paralizza il lato sinistro del volto. Rimane in ospedale sino al gennaio 2013 quando, guarita, è raggiunta dalla sua famiglia, madre, padre e due fratelli più giovani di lei. Nel marzo dello stesso anno, inizia a frequentare la scuola a Birmingham. Il tentativo di asse Malala è condannato in tutto il mondo. L’intero Pakistan, per una volta, protesta unito contro la barbarie talebana. Nelle settimane dopo l'attacco, oltre due milioni di persone firmano una petizione per il diritto all'istruzione. Il Parlamento approva una legge che riconosce come obbligatorio e gratuito il diritto all’istruzione. La sua storia fa il giro del pianeta e la trasforma in un simbolo. Il 12 luglio 2013,
in occasione del suo sedicesimo compleanno, Malala parla davanti ai rappresentanti delle Nazioni Unite riuniti nel Palazzo di vetro a New York. Indossa lo scialle appartenuto a Benazir Bhutto e, dal pulpito sul quale è salita, lancia un appello per l’istruzione dei bambini di tutto il mondo: "Lasciateci prendere in mano i libri e le penne. Sono le armi più potenti. Un bambino, un maestro, una penna e un libro possono fare la differenza e cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione ai mali del mondo. L’istruzione potrà salvare il mondo». Parlando del suo attentato, si rivolge direttamente ai talebani, chiarendo che “se pensavano di farmi tacere con l’uso dei proiettili, non ci sono riusciti”. Il suo discorso è accolto da un’ovazione dei presenti che si alzano tutti in piedi per un lunghissimo e caloroso applauso. Il diritto all’istruzione è uno dei diritti fondamentali della persona ed è sancito da moltissimi documenti internazionali, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, che recita, all’articolo 26: "Ogni individuo ha diritto all’istruzione gratuita e obbligatoria almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali". Un principio reso giuridicamente vincolante dal Patto sui diritti economici sociali e culturali delle Nazioni Unite, che fissa cinque punti fondamentali: - tutti hanno diritto all’istruzione di base (elementare) in una qualche forma, ivi compresa l’istruzione di base per gli adulti; - essa deve essere gratuita e obbligatoria; - lo Stato ha l’obbligo di tutelare questo diritto dalle intromissioni di terzi; - esiste libertà di scelta dell’istruzione senza interferenze da parte dello Stato o di terzi; - le minoranze hanno diritto all’insegnamento nella lingua di loro scelta, in istituti al di fuori del sistema ufficiale della pubblica istruzione. Durante il 2013 Malala e il padre Ziauddin istituiscono il «Fondo Malala» che in breve diventa punto di riferimento per i milioni di bambine cui viene negata un’educazione a causa di fattori sociali, economici, legali e politici. Nell’ottobre dello stesso anno, il Parlamento Europeo assegna alla giovane attivista pakistana, il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, e decide di sostenere la sua battaglia per il diritto all’istruzione di donne e bambini.
“Il Parlamento europeo riconosce l’incredibile forza di questa giovane donna. Malala coraggiosamente sostiene il diritto di tutti i bambini a un’equa istruzione. Diritto che è troppo spesso trascurato quando si tratta di ragazze”, dichiara Martin Schulz, presidente dell’assemblea. Per lui, il premio conferito a Malala è “il migliore investimento per il futuro perché ci ricorda i nostri doveri e la responsabilità per il diritto all’istruzione di circa 250 milioni di ragazze nel mondo che non possono recarsi liberamente a scuola”. Il riconoscimento provoca l’immediata reazione dei talebani. “Non ha fatto nulla per guadagnarsi un premio per i diritti umani” tuona il loro portavoce Shahidullah Shahid, “i nemici dell’Islam la stanno premiando perché ha abbandonato l’Islam ed è diventata laica”. Poi la minaccia: “tenteremo di nuovo di ucciderla che si trovi in America o in Gran Bretagna”. Sempre nel 2013 pubblica “Io sono Malala” la sua biografia, scritta insieme alla corrispondente di guerra Christina Lamb. Il 2014 è l’anno in cui la ragazza riceve il riconoscimento più alto di tutta la sua vita, l’Accademia svedese le attribuisce il premio Nobel per la pace condiviso con l’avvocato Kailash Satyarthi, che difende i diritti dei bambini indiani. Malala investe il contribuito ricevuto, più di un milione di dollari, per finanziare la creazione di una scuola secondaria per ragazze in Pakistan. Accettando il Nobel, spiega che il premio “non è solo per me. È per quei bambini dimenticati che vogliono l'istruzione. È per quei bambini spaventati che vogliono la pace. È per quei bambini senza voce che vogliono il cambiamento.” Appena diciassettenne, Malala diventa quindi la persona più giovane della storia a ricevere il Nobel per la Pace. Nel congratularsi con lei, il primo ministro pachistano Nawaz Sharif dice: “Ha reso i suoi connazionali orgogliosi. Il suo successo è senza precedenti e senza eguali.” Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon la descrive come “un difensore coraggioso della pace, che attraverso il semplice atto di andare a scuola è diventato un insegnante globale”. Qualche mese dopo, il neo-premio Nobel festeggia il suo 18° compleanno in Libano, inaugurando la "Malala Yousafzai All-Girls School" costruita, grazie alle risorse del " Fondo Malala", vicino al confine siriano. La scuola garantirà l'istruzione secondaria di qualità a più di 200 ragazze siriane che vivono nei campi profughi della Valle della Bekaa.
“Sono onorata di celebrare il mio 18° compleanno con le «ragazze coraggio» della Siria. Sono qui in nome dei ventotto milioni di bambini che sono tenuti lontani da una scuola a causa di conflitti armati. Il loro coraggio e la dedizione per continuare gli studi in condizioni difficili ispirano le persone in tutto il mondo ed è nostro dovere essere al loro fianco” ha detto Malala in questa occasione. Non è l’unica iniziativa. Malala ha anche chiesto ai leader mondiali di investire ulteriori 39 miliardi di dollari - l'equivalente di soli otto giorni di spesa militare in formazione, per garantire a ogni bambino dodici anni di formazione scolastica libera, primaria e secondaria di qualità. "In nome dei bambini del mondo, esigo che nostri leader investano in libri, invece di proiettili. Libri, non proiettili, apriranno la strada verso la pace e la prosperità. Le nostre voci continueranno a gridare sempre più forte fino a quando non vedremo i politici e i nostri governi investire nella formazione dei loro giovani, piuttosto che nella guerra” ha detto presentando il progetto. Oggi, il "Fondo Malala" è diventato una organizzazione che finanzia progetti di educazione in sei paesi e collabora con partner locali nell’investire in soluzioni innovative per garantire un'istruzione secondaria di qualità per tutte le ragazze. Non tutti nel suo paese condividono la sua attività. Il 20 novembre 2014 in occasione della giornata nazionale dei diritti dei bambini e delle bambine, un'associazione di scuole private pakistane ha indetto contro di lei il "I am not Malala day". Nello stesso Pakistan c’è chi la considera portatrice di idee contrarie all’Islam tanto che otto dei dieci talebani condannati all’ergastolo per il suo tentato omicidio sono stati recentemente scarcerati.
Svetlana Aleksievič (Bielorussia)
Nobel per la Letteratura 2015
Gli orrori della guerra «Se si guarda indietro a tutta la nostra storia, sia sovietica, sia post-sovietica ci si rende conto che si tratta di una enorme fossa comune, un lungo bagno di sangue, un eterno dialogo dei carnefici e le vittime» Figlia di un militare bielorusso e di una insegnante ucraina, Svetlana Aljaksandraŭna Aleksievič è nata il 31 maggio 1948 a Ivano-Frankovsk, importante città dell’Ucraina occidentale, ai piedi dei Carpazi, fondata attorno al XVII Secolo dai polacchi della dinastia Potocki. La futura scrittrice, dopo il congedo di suo padre dall'esercito, si trasferì con la famiglia in Bielorussia, in un piccolo villaggio sorto ai margini di una foresta sempreverde, composto da due file di case di legno. Qui, mentre padre e madre lavoravano come insegnanti, visse la sua adolescenza sognando di diventare, da grande, giornalista. La piccola Svetlana, che spesso indossava una spilla raffigurante Lenin, trascorreva le giornate ascoltando un gruppo di donne del villaggio, vedove di guerra, che, sedute sui muriccioli che separavano i loro poveri orti, parlavano tra di loro prima d’andare a dormire. Tutte si attardavano, tutte trovavano nuove scuse per non lasciare le loro vicine. Tutte avevano paura di rimanere da sole nelle loro case buie. Così parlavano degli orrori della seconda guerra mondiale, di Stalin, delle loro esperienze, della loro sopravvivenza in un mondo che, tutto attorno, sembrava morto. Raccontavano storie che non erano nei libri di storia, raccontavano dettagli, dettagli di vita vera. Una aveva particolarmente colpito la piccola Svetlana: quando il paese, con tutti i suoi abitanti, era stato dato alle fiamme, i superstiti si erano nascosti nelle paludi. Al loro ritorno non avevano trovato nulla, solo cenere e alcuni cavalli dimenticati negli orti. “Come può un essere umano bruciare suoi simili fino alla morte, così, di fronte a questi cavalli che guardano in silenzio?” Si chiedevano le donne.
Le sofferenze patite da quelle piccole figure avvolte in panni neri, cominciarono a far vacillare il mito, forse idealizzato da parte del futuro premio Nobel, di Lenin e dello stesso Stalin. Il terrore le aveva investite e loro non sapevano né come, né perché erano sopravvissute a tanta crudeltà. Basti pensare che primo attacco tedesco all’Unione Sovietica, nel luglio del 1944, era avvenuto proprio in Bielorussia, e che durante il conflitto, circa l’ottanta per cento delle città e dei comuni bielorussi, erano stati completamente distrutti, più di 5.000 villaggi bruciati, insieme con molti dei loro abitanti. Quelle donne avevano vissuto la più grande tragedia del Ventesimo secolo, una tragedia che si era aggiunta a quella del 1930 quando migliaia di bielorussi erano stati trucidati per ordine di Stalin. “Ci sono voci intorno a me, centinaia di voci” ha scritto Svetlana “sono sempre state con me, fin da bambina. Sono cresciuta in campagna. Mi piaceva giocare all'aperto, ma la sera, le voci delle donne del villaggio stanche che si riunivano mi attiravano come calamite. Nessuna di loro aveva mariti, padri o fratelli. Non mi ricordo di uomini nel nostro paese dopo la seconda guerra mondiale: durante i conflitti, uno su quattro bielorussi è morto, sia combattendo al fronte o con i partigiani. Dopo la guerra, noi bambini vivevano in un mondo di donne. Quello che mi ricordo di più, è che le donne parlavano di amore. Raccontavano di quando avevano detto addio agli uomini che amavano il giorno prima che andassero partissero, parlavano della loro attesa e di come stavano ancora aspettando. Erano ati anni, ma continuavano ancora ad aspettare.” Fu allora che Svetlana Aljaksandraŭna Aleksievič decise che quelle storie dovevano essere diffuse. Così, l’idea di diventare giornalista si consolidò sempre di più nella sua mente. Già durante gli anni della scuola secondaria, scrisse alcune poesie e molti articoli poi pubblicati dal giornale della scuola. Ottenuto, nel 1965, il diploma, iniziò a collaborare con una rivista di Narovl. Quell’esperienza le fu davvero utile, perché le servì, dopo due anni di lavoro, per iscriversi al Dipartimento di Giornalismo dell'Università di Minsk, nel 1967, dove, cinque anni dopo, si laureò. Durante il periodo universitario vinse diversi premi letterari legati però a opere giovanili. Con la laurea in mano, cominciò subito a lavorare per un giornale di Brest, vicino al confine con la Polonia, manifestando immediatamente l’esigenza di scavare dentro i lati più oscuri della storia del suo Paese. Fece anche una scelta
di campo: si schierò dalla parte dei più deboli, contro il potere. Sin dall’inizio denunciò i danni che le guerre avevano lasciato nel fisico e lella psicologia delle persone, dando voce ai sopravvissuti. Contemporaneamente iniziò a insegnare Storia nella scuola locale. A quel punto aveva di fronte tre opzioni: continuare la tradizione familiare di insegnamento, intraprendere una carriera scientifica, o dedicarsi completamente al giornalismo. Non era una scelta facile, scelta che fu resa ancora più difficile quando, dopo un anno vissuto a Brest, a causa delle sue opinioni, fu costretta a tornare a Minsk dove grazie ad alcuni conoscenti trovò impiego al giornale rurale " Sel'skaja Gazeta". In quello stesso periodo cominciò la raccolta dei materiali per il suo primo libro War's Unwomanly Face (Il volto poco femminile della guerra) pubblicato nel 1985, che si basa su interviste a centinaia di donne che avevano partecipato alla seconda guerra mondiale. Quando consegnò il primo manoscritto di War's Unwomanly Face, l’autrice fu accusata di ledere l’immagine delle donne sovietiche, che l’iconografia del regime dipingeva senza paura e sempre disposte al sacrificio in nome della patria. Fu considerata una giornalista dissidente con sentimenti anti sovietici. Il Comitato centrale del partito comunista bielorusso ordinò di distruggere le bozze del libro pronto per essere stampato. Il futuro premio Nobel ebbe problemi anche nella redazione del giornale in cui lavorava. “Come si può scrivere sulla nostra rivista” la rimproveravano “con questi punti di vista e perché non sei ancora membro del partito comunista?" “Come potevo ignorare quello che era successo. Più di un milione di donne sovietiche avevano vissuto in prima linea la seconda guerra mondiale” ricorda Svetlana. “ Erano di età compresa tra quindici e trenta anni. Avevano imparato le varie professioni militari: erano diventate piloti, carristi, mitraglieri, cecchini. Non erano solo infermiere e medici, come nelle guerre precedenti. Tuttavia, dopo la vittoria furono dimenticate. Gli uomini le rubarono la vittoria. Nel mio libro le donne soldato parlano di aspetti della guerra, che gli uomini non hanno mai menzionato, aspetti sconosciuti. Dopo conflitto, hanno dovuto combattere un'altra guerra: hanno nascosto i loro meriti militari e tutte le loro ferite perché volevano sposarsi.”
Per fortuna, con l’avvento di Michail Gorbačëv e della perestroika, il vento liberale soffiò anche sulla Bielorussia e il suo primo romanzo fu pubblicato (a oggi ha venduto circa due milioni di copie). Fu seguito nei successivi tre decenni altre quattro opere: “Last Witnesses” (1985), “ Zinky Boys: Soviet Voices from the Afghanistan War” (1992), “ Voices From Chernobyl: The Oral History of Nuclear Disaster” (2006) e “ Secondhand Time” (2013). Tutti insieme, questi libri, costituiscono un grande ciclo, "Voices of Utopia", in cui la vita in Unione Sovietica e nei paesi satelliti, è raccontata dal punto di vista del singolo: voci umane che permettono di approfondire la comprensione di un'intera epoca. È un tentativo, riuscitissimo, di trasmettere la cronaca quotidiana in Unione sovietica (ando dalla rivoluzione ai gulag, dalla seconda guerra mondiale all’Afghanistan, da Chernobyl alla caduta del comunismo) riportando le voci di persone comuni, persone sulla cui pelle la Storia è davvero ata. A costoro, ai sopravvissuti, gli storici non hanno mai chiesto qualcosa, sorvolando sul fatto che il socialismo sovietico si è concluso dopo aver versato un fiume di sangue e lasciato come eredità una montagna di cadaveri. Gli stessi risultati prodotti dell’invasione nazista. Nei suoi libri, Svetlana Aljaksandraŭna Aleksievič si occupa dei dettagli lasciati in disparte mentre le montagne di cadaveri delle purghe staliniste, degli orrori della seconda guerra mondiale, della tragedia di Cernobyl, dell'invasione dell’Afghanistan si accumulano. Descrive gli shock subiti dagli altri, dai sopravvissuti. In uno c’è il consiglio di una ragazza, quasi morta di fame, di mangiare sterco di cavallo (“ quando è mezzo congelato”, dice, “è abbastanza gestibile, gli odori sanno di erba secca”). La guerra vista attraverso le donne e gli occhi dei bambini proposta dall’autrice bielorussa ha aperto una nuova area di sentimenti e idee. Basti pensare che dell’incidente nucleare di Cernobyl ha cercato una “ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti“. Sono due gli autori che maggiormente l’hanno influenzata. Oltre a Vasil' Vladimirovič Bykov, veterano della seconda guerra mondiale che si era rifiutato sin dai suoi esordi di utilizzare i toni trionfalistici con cui la prosa del periodo bellico e del primo dopoguerra raccontava l'eroismo e la vittoria del popolo sovietico, Svetlana Aleksievič deve qualcosa ad Ales Adamovich, che con Yanka
Bryl e Vladimi Kolesnik, ha pubblicato nel 1975: “I’m From Fire Village”, un romanzo collettivo che si compone esclusivamente di voci reali della gente, un libro di ricordi di coloro che, insieme con le loro famiglie, sono state incendiate dai nazisti all’interno dei loro villaggi, ma miracolosamente sono riusciti a sopravvivere. A causa delle sue critiche al regime, Svetlana Aleksievič ha vissuto a lungo all'estero, in Italia, Francia, Germania e Svezia. I suoi libri erano stati banditi in patria ed era stata costretta a lasciare, nel 2000, il suo Paese perché invisa al presidente Aleksandr Lukašenko, unico ad aver votato contro l'accordo proclamava la nascita del CSI (la Confederazione degli stati indipendenti nata dopo la disgregazione dell’Unione Sovietica), che la considerava un’agente della CIA. Solo di recente è tornata a vivere a Minsk. In una delle sue interviste, ha detto: "La realtà mi ha sempre attratto come una calamita, mi ha torturato e volevo catturarla. Così mi sono subito appropriata di confessioni, di testimonianze di testimoni e documenti. Così ho ottenuto un coro di voci individuali e un collage di dettagli quotidiani. In questo modo tutto il mio potenziale mentale ed emotivo si è realizzato al massimo. In questo modo ho potuto essere contemporaneamente uno scrittore, un giornalista, un sociologo, uno psicologo e un predicatore." Un modo di essere che ha trovato una rappresentazione, una vera rappresentazione teatrale. Infatti, in occasione del 40° anniversario della Seconda guerra mondiale è stata realizzata una versione teatrale de “La poco femminile faccia della guerra”, grazie alla quale, il teatro di Omsk ha ricevuto il Premio di Stato. Subito dopo il lavoro è stato riproposto in molti altri teatri bielorussi e russi. Un ciclo di documentari prodotto in base allo stesso libro ha ricevuto la Colomba d'argento al Festival di Lipsia del Cinema Documentario. Anche la vita di “Zinky Boys : Soviet Voices from the Afghanistan War”, un’altra straordinaria opera di Svetlana Aljaksandraŭna Aleksievič sulla criminale guerra sovietico-afghana, celata dal popolo sovietico per dieci anni, non ha avuto vita facile. Per raccogliere il materiale per il libro, l’autrice ha viaggiato in tutta la Russia per quattro anni per intervistare le madri delle vittime e i veterani della guerra afghana. È stata anche nello stesso Afghanistan. Li ha ascoltato e registrato i racconti di più di un centinaio di ufficiali e soldati che partecipavano a questa guerra incomprensibile.
“Mi sono subito resa conto” ha ricordato l’autrice, “come ai confini del mondo, est e ovest si stavano scontrando in un duello crudele e senza speranza. Anche il tempo ava in modo diverso lì, il calendario era diverso: era quasi 200 anni indietro. Poi è arrivato l’11 Settembre e l’intero mondo è cambiato radicalmente in un solo giorno: invece di muoversi in avanti, si è mosso verso l'uomo armato, piuttosto che verso l'uomo disarmato. Uno dei personaggi di Zinky boys dice alla fine: "Quelli che erano lì non vorranno mai più combattere. Si dovrebbero combattere le idee piuttosto che le persone. Si dovrebbero uccidere le idee, che rendono il nostro mondo così inospitale e spaventoso, e lasciare in pace la gente…" Il libro era pronto per andare in stampa quando alcuni militari e militanti comunisti hanno avviato un procedimento giudiziario nei confronti dell’autrice, concluso con un nulla di fatto solo qualche anno più tardi. Anche questo libro è diventato la fonte di ispirazione di film, documentari e commedie. Altro tema affrontato da Svetlana Aljaksandraŭna Aleksievič è quello dell’ondata di suicidi registrata nei paesi dell’ex Unione Sovietica dopo la caduta del regime comunista. Protagoniste del libro Incantati dalla morte, le persone che non volevano tradire gli ideali socialisti, e che non erano in grado di accettare il nuovo ordine, il nuovo paese sorto dalle ceneri dell’ex impero sovietico. “Se si guarda indietro a tutta la nostra storia, sia sovietica, sia post-sovietica” ha dichiarato in una intervista post premio Nobel, “ci si rende conto che si tratta di una enorme fossa comune, un lungo bagno di sangue, un eterno dialogo dei carnefici e le vittime. Che cosa si deve fare e di chi è la colpa. Della rivoluzione, dei gulag, della seconda guerra mondiale, della guerra sovietico-afghana nascosta alla gente, della caduta del grande impero? E Chernobyl? È una sfida per tutti gli esseri viventi. Questa è la nostra storia e questo è il tema dei miei libri, questo è il mio percorso, i miei cerchi dell'inferno”. Svetlana, prima del Nobel, ha ottenuto numerosi altri riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Nikolay Ostrovsky ricevuto a Mosca nel 1985, il Kurt Tucholsky (Stoccolma 1996), il Premio Andrei Sinyavsky e il Triumph (Mosca 1997), il Leipziger Buchpreis Zur (Lipsia 1998), il Das Politiche Buch (Brema 1998), il Premio Herder (Vienna 1999), l’ Horpiel Robert Geisendorfer preis (Berlino 2000), il National Book Critics Circle Prize (New York 2006), il Premio Masi Grosso d’Oro Veneziano (Venezia 2014). È anche Grand’ufficiale delle arti e delle lettere della Repubblica se (2014). Le sue opere sono state
tradotte in più di quaranta lingue. Per il suo 50 ° anniversario ha pubblicato una raccolta in due volumi delle sue opere. Nell'introduzione il critico Lev Anninsky ha scritto: " Questo è un lavoro unico nella cultura sovietica e post-sovietica: l'autrice ha tracciato e registrato la vita di diverse generazioni di popolo sovietico, e la realtà stessa dei settanta anni del socialismo: dalla rivoluzione del 1917 attraverso la guerra civile, i giovani e l'ipnotismo della grande utopia, il terrore di Stalin e dei gulag, la grande guerra patriottica, e gli anni della caduta del socialismo fino ai tempi attuali. Si tratta di una storia di vita raccontata dalle persone che l’hanno vissuta, raccolta da una cronista onesta e di talento". Una cronista dei principali eventi dell’Unione Sovietica della seconda metà del XX secolo: seconda guerra mondiale, guerra in Afganistan, Cernobyl, disfacimento dell’Urss, raccontati in presa diretta. Una cronista che l’8 ottobre del 2015 è stata insignita del premio Nobel per la letteratura per aver realizzato, con i suoi libri “un monumento alla sofferenza e al coraggio del nostro tempo”. Quattordicesima donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura, è la prima bielorussa a vincerlo e la seconda di origini ucraine, dopo Shumuel Yosef Agnon, ebreo rifugiatosi in Israele, che lo vinse nel 1966. “Ho vissuto in un paese in cui è stato insegnato ai suoi cittadini a morire fin dall'infanzia” ha scritto Svetlana sul suo sito ufficiale. “Ci è stato insegnata la morte. Ci è stato detto che gli esseri umani esistono al fine di dare tutto quello che hanno, per sacrificarsi per la patria. Ci è stato insegnato ad amare le persone con le armi. Se fossi cresciuta in un paese diverso, non avrei potuto intraprendere questo percorso. Il male è crudele, bisogna essere vaccinati contro di esso. Siamo cresciuti tra carnefici e vittime. Anche se i nostri genitori hanno vissuto nella paura e non ci ha detto tutto - e più spesso non ci hanno detto niente - l'aria stessa della nostra vita è stata avvelenata. Il male ha mantenuto un occhio vigile su di noi. Ho scritto cinque libri, ma sento che sono tutti un solo libro. Un libro sulla storia di un'utopia. Ho tre case: la mia terra bielorussa, la patria di mio padre, dove ho vissuto tutta la mia vita; l’Ucraina, la patria di mia madre, dove sono nata, e la grande cultura della Russia, senza la quale non riesco a immaginare me stessa. Tutte sono a me molto care. Ma in questi tempi è difficile parlare di amore.”
Youyou Tu (Cina)
Nobel per la medicina 2015
Nemica giurata della malaria «Il lavoro era la priorità ero pronta a sacrificare senza tentennamenti la mia vita privata e la mia famiglia, per la mia ricerca. Il periodo trascorso nell'Hainan mi aveva colpita profondamente. Ho visto molti bambini ormai allo stadio finale della malaria, e quei bambini morivano velocemente. Dovevo fare qualcosa per loro» È la prima cittadina della Repubblica Popolare cinese a vincere il Nobel per la medicina. Non ha frequentato né le grandi università americane e nemmeno quelle europee. Solo altri cinque scienziati cinesi, nati nella Cina continentale o discendenti di cittadini cinesi, hanno ottenuto il Nobel per la fisica, ma solo dopo aver fatto la loro carriera scientifica in Occidente. Lei, invece, non ha pubblicato i suoi studi su importanti riviste tipo Science e compagnia bella, e nemmeno frequentato i salotti accademici che contano. Ha studiato e lavorato esclusivamente in Cina. Dopo essere stata quasi dimenticata, Youyou Tu, ha raggiunto il vertice della fama mondiale nell’ambito della medicina grazie alle sue ricerche su un principio attivo dell’Artemisia annuale, da lei denominato nel 1972 “qinghaosu”, battezzato in Occidente “artemisinina”. Poi ha sviluppato un secondo composto antimalarico, il “dihydroartemisinin”, che è un metabolita bioattivo della stessa “artemisinina”. L’Artemisia annuale è un'erba utilizzata da tempo immemorabile nella medicina tradizionale cinese per tentare di curare le febbri provocate dalla malaria. Prima delle scoperte di Youyou Tu, gli estratti della pianta erano ottenuti bollendo le foglie in acqua. Il calore però era responsabile della modifica della molecola attiva che perdeva l’ottanta per cento della sua efficacia. La scienziata cinese, è riuscita a mettere a punto un sistema per estrarre i principi attivi a bassa temperatura e a rendere i farmaci antimalarici molto più efficaci. Un bel successo, non c’è che dire. Per rendersi conto dell’importanza della scoperta di Youyou Tu basti pensare che
molte gravi malattie infettive sono provocate da parassiti e diffuse dagli insetti. La malaria è causata da un parassita unicellulare chiamato Plasmodio e si trasmette esclusivamente attraverso le punture di zanzare femmine infette di tipo Anopheles, presenti in Africa, in America Centrale e del Sud e in Asia. Nel corpo umano, i parassiti della malaria si moltiplicano nel fegato e quindi, dopo una incubazione di qualche giorno, infettano i globuli rossi provocando febbre alta. Se non trattata con i farmaci appropriati, la malaria può diventare pericolosa per la vita di un essere umano perché interrompe il flusso di sangue agli organi vitali. È la più importante parassitosi e la seconda malattia infettiva al mondo per morbilità e mortalità, dopo la tubercolosi. Il numero di persone a rischio infezione ha raggiunto circa tre miliardi ed è in aumento. Ogni anno si registrano 500 milioni di nuovi casi clinici e 1, 3 milioni di morti. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, circa il 40% della popolazione presente sul globo, vive in aree in cui la malaria è endemica. Per combatterla, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), già nel 1955, aveva lanciato una serie di campagne per la sua eradicazione. Purtroppo quelle campagne furono interrotte per motivi tecnici ed economici alla fine degli anni ’60. Negli anni successivi si è assistito a una recrudescenza della malaria, a causa della resistenza dei parassiti Plasmodium falciparum alla clorochina e ad altri vecchi farmaci antimalarici. La medicina tradizionale cinese, come detto, usava da tempo l’assenzio distillato dall’artemisia nella terapia antimalarica. Nel 1970, la svolta che ha aperto la strada a una migliore cura. Per la prima volta, Youyou Tu, finalmente, è riuscita a estrarre a basse temperature per conservarne tutti i principi attivi, una sostanza, l’artemisinina appunto, capace di inibire il parassita che provoca la malattia. Da quando il suo metodo è stato codificato, i farmaci a base di artemisinina hanno contribuito alla sopravvivenza e al miglioramento della salute di milioni di persone nei Paesi sub tropicali e ovunque la malaria sia un flagello sociale. Da allora, la scoperta di Youyou Tu è considerata come una delle innovazioni più significative della medicina tropicale del 20° secolo. Come è nata? Youyou Tu cominciò a lavorare sull’artemisia negli anni ’60 e ’70, durante la Rivoluzione culturale cinese. Un forte impulso le arrivò nel 1967,
quando, durante la guerra in Vietnam, Ho Chi Minh, leader del Vietnam del nord, chiese al premier cinese Zhou Enlai aiuto nello sviluppo di un trattamento contro la malaria, già divenuta resistente alla clorochina, che falcidiava i suoi soldati e mieteva più vittime di quanto non fero i proiettili nemici. La malaria non uccideva soltanto nel vicino Vietnam. Era anche una delle principali cause di morte nelle province meridionali della Cina, tra cui Hainan, Yunnan, Guangxi e Guangdong. Zhou Enlai, importante dirigente del Partito comunista Cinese, e capo di governo della stessa Repubblica Popolare cinese sin dal 1949, convinse Mao Zedong ad appoggiare un piano di ricerca di nuovi farmaci. Il progetto era segreto, ed era indicato solo con il numero “523” (un "codice" che indica semplicemente la data di inizio delle ricerche: 23 maggio 1967). Ma il massimo esperto della Cina nel campo della ricerca sulla malaria, come migliaia di altri cinesi in quel periodo storico di grandi cambiamenti politici, era stato etichettato come “di destra” e inviato in un campo di rieducazione. Per due anni centinaia di scienziati cinesi analizzarono ogni molecola sintetica conosciuta, ma senza risultati significativi. Il leader cinese si rivolse allora all'Accademia di Medicina Tradizionale di Pechino e Youyou Tu, ricercatrice esperta anche di medicina occidentale, fu incaricata di seguire il progetto e inviata sull’isola di Hainan a studiare i pazienti che erano stati infettati dalla malattia. Il compito non era per nulla agevole. «Quando iniziai, erano già stati testati 240 mila composti in Cina e Stati Uniti, senza risultati positivi» ha spiegato il premio Nobel in un'intervista. Due anni dopo, nel 1969, Tu, allora trentanovenne, ebbe un’intuizione. Insieme a tre assistenti, iniziò a fare lo screening di tutte le erbe utilizzate nella medicina tradizionale, studiò le soluzioni adottate dai medici cinesi nella storia, visitò i più importanti professionisti della medicina tradizionale cinese presenti in tutto il paese. " La maga delle erbe", come veniva chiamata, viaggiò a lungo tra i villaggi rurali, trascrivendo a mano le ricette della medicina cinese tramandate oralmente dagli anziani. Un lavoro titanico che però diede i suoi primi frutti. Youyou Tu raccolse le sue scoperte in una specie di diario titolato “Collezione di prescrizioni pratiche per terapie anti-malaria” che conteneva circa 640 prescrizioni. Non solo. Quell’esperienza le lasciò in eredità più di 2.000 ricette medicinali tradizionali.
Successivamente, le informazioni raccolte permisero al suo team di sperimentare sui topi almeno quattrocento nuovi estratti di erbe. Uno di questi, ottenuto dall’Artemisia annuale, testato su pazienti affetti da “febbri intermittenti”, da malaria, lasciava ben sperare. Fu allora che Youyou Tu presentò il risultato delle sue ricerche a un seminario. In un primo momento, però, i risultati furono modesti. Il motivo? Il principio attivo dell’artemisia era poco efficace perché la pianta veniva messa a macerare in acqua bollente. La scienziata cinese allora si concentrò su un processo di estrazione a bassa temperatura. Fu quella la chiave di volta per isolare una sostanza antimalarica più efficace dall’Artemisia, una pianta che cresce abbondante sulle montagne di Wuling, nel centro-sud della Cina. Youyou Tu non si assunse il pieno merito della scoperta, anzi. Ne attribuì gran parte a una fonte fitoterapica tradizionale cinese, che l’avrebbe influenzata. Si trattava, a suo dire, del “ Manuale di prescrizioni per trattamenti di emergenza”, scritto nel 340 da Ge Hong, in cui si affermava che, per avere gli effetti sperati, questa erba doveva essere immersa in acqua fredda. Fu così che Youyou Tu mise a punto un metodo che utilizza etere a bassa temperatura, massimo 35 gradi centigradi, capace di estrarre dall’Artemisia il composto più efficace. I test sugli animali dimostrarono la sua efficacia. "La vera scoperta, infatti" raccontò in seguito la dottoressa Tu, "fu il sistema di preparazione. La ricetta diceva: fare un infuso con una manciata di qinghao in due litri di acqua, spremere il succo e bere. Ecco, il trucco sta nello “spremere”, altrimenti non si ricava la sostanza capace di uccidere il Plasmodio della malaria". Non fu facile quindi isolare il principio attivo dalla pianta o meglio, dalle foglie dove si concentra in massima parte. Per la sperimentazione sull’uomo, Tu si offrì come cavia, chiese cioè di essere il primo soggetto umano a sottoporsi a una terapia a base di “artemisinina”. Era sicura del successo. Scongiurate controindicazioni, la sostanza fu testata su lavoratori che avevano contratto la malaria durante la permanenza in aree a rischio. A trenta ore dall'assunzione, la febbre diminuiva e i parassiti sparivano dal loro sangue. Inizialmente le fu impedito di pubblicare i risultati a causa delle restrizioni sulla diffusione di informazioni scientifiche che erano in atto in Cina in quel
momento. Trattandosi poi di un progetto militare, la segretezza doveva prevalere su tutto. Solo nel 1977, Youyou Tu pubblicò la sua ricerca in forma anonima, per enfatizzare il lavoro di gruppo in un contesto in cui la collettività contava più del singolo individuo. Finalmente, nel 1981, ne presentò i risultati in un incontro con l'Organizzazione Mondiale della Sanità. Dovettero però are vent’anni, si era nel 2000, prima che la stessa l'Organizzazione Mondiale della Sanità raccomandasse l'uso di artemisinina nelle terapie farmacologiche anti malaria. Il Nobel per la medicina le è stato assegnato il 5 ottobre 2015, trentaquattro anni dopo quel primo annuncio. Assieme a lei il premio è andato anche a William Campbell e a Sathoshi Omura per i loro studi sulle infezioni causate sui parassiti intestinali. Quattro anni prima aveva ricevuto il Lasker Award 2011 nella medicina clinica, un prestigioso riconoscimento scientifico assegnato a chi si distingue nel campo della ricerca medica. Prima di allora, il suo nome era quasi sconosciuto, persino tra gli addetti ai lavori. Una riservatezza che ha origine in parte dalla modestia della ricercatrice, in parte nel periodo storico in cui la donna ha condotto i suoi studi. "Il Nobel" ha dichiarato in una intervista rilasciata subito dopo l’annuncio da parte dell’Accademia di Stoccolma, "non mi ha fatto un’impressione particolare e non mi ha sorpreso troppo. È un onore reso a tutti gli scienziati cinesi, un regalo alla medicina tradizionale dell’Oriente e alla popolazione del pianeta: ma non deve frenare la curiosità e la creatività dei ricercatori, fermare le conquiste della tecnologia, rallentare le lancette del progresso". Si tratta però di un traguardo straordinario per una donna nata a Ningbo, una delle città più antiche della Cina, porto commerciale sulla via della seta, nella provincia dello Zhejiang, il 30 dicembre 1930. Unica donna tra cinque figli, è riuscita a frequentare la scuola media e il primo anno di liceo, prima del trasferimento nella Ningbo Middle School, a diciott’anni. Dal 1951 al 1955, è stata iscritta alla Peking University School of Medicine, dove si è laureata in Scienze farmaceutiche. In quegli anni, in Cina, non esistevano corsi post laurea o dottorati di ricerca, quindi non poté continuare gli studi. Ottenuta la laurea, Youyou Tu si dedicò quindi all’apprendimento della medicina tradizionale cinese lavorando presso
l'Accademia di Medicina Tradizionale Cinese, a Pechino. I primi anni li dedico allo studio della schitosomiasi, patologia causata da vermi parassiti che infettano le vie urinarie o l'intestino, che era molto diffusa nella prima metà del 20° secolo nel sud della Cina. La sua carriera? Molto, ma molto lenta. Forse perché donna, forse perché emarginata dal sistema accademico cinese. Nonostante la sua scoperta, solo un quarto di secolo dopo fu promossa “ricercatore”, il più alto rango della docenza in Cina, equivalente al grado accademico di professore ordinario. Nel 2001 fu nominata consigliere per i dottorandi. Attualmente è il Chief Scientist presso la stessa Accademia. Nonostante il contributo dato alla scienza, infatti, Youyou Tu era stata “ quasi completamente dimenticata dalla gente” raccontò la rivista Wen Wei Po di Hong Kong che ne tracciò un ritratto nel 2007 e ne raccontò le condizioni di vita. Il suo ufficio era in un vecchio edificio nel distretto di Dongcheng, a Pechino, un edificio “incline alla carenza di riscaldamento, con due soli elettrodomestici, un telefono e un frigorifero”, che la scienziata utilizzava per conservare campioni di erbe medicinali. Non solo. Gli stessi scienziati cinesi la snobbavano perché era priva di laurea specialistica, non aveva pubblicato alcuno studio o vissuto un’esperienza di ricerca all'estero, non apparteneva a nessuna accademia nazionale cinese, né all’Accademia delle Scienze, né a quella di Ingegneria. Prima dell’assegnazione del premio Nobel, veniva a malapena considerata come una figura rappresentativa della prima generazione di medici cinesi dopo l'istituzione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949. Il suo nome, caduto nel dimenticatoio, è stato rispolverato e finalmente legato alla scoperta dei grandi benefici prodotti dalla artemisinina, nel 2005. Prima di quell’anno, nessuno in Cina e nel mondo conosceva il suo nome, né lo legava all'erba officinale. È stato un ricercatore sulla malaria americano a compiere uno studio approfondito grazie al quale ha riscoperto Youyou Tu e l’ha proposta all’attenzione del mondo scientifico internazionale. Sposata con Li Tingzhao, un ingegnere metallurgico condannato negli anni ’60 ai lavori forzati, oggi Youyou Tu, prostrata dal diabete e sulla soglia degli ottantasei anni, abita a Pechino. Lei e il marito erano compagni di classe alla Xiaoshi Middle School. Hanno tre figli, un maschio e due donne. La più giovane
vive a Pechino, la maggiore negli Stati Uniti, insieme con il marito e la nipotina. Il maschio lavora in una società farmaceutica in North Carolina. Il nonno materno di Tu, Yao Yongbai, è stato il primo direttore della National Treasury, dopo la sua riforma, mentre suo zio, Yao Qingsan, è stato un economista e banchiere, il primo keynesiano in Cina. Per dedicarsi alla sua ricerca, Youyou Tu ha dovuto compiere enormi sacrifici. Primo fra tutti, forse il più grande: lasciare la figlia di quattro anni in orfanotrofio. Infatti, poco dopo essere stata chiamata a coordinare il progetto 523, fu inviata a Hainan, nel profondo sud della Cina, dove la malaria mieteva numerose vittime. L’obiettivo era: osservare gli effetti della malattia con i propri occhi. Poiché il marito, Li Tingzhao, a quell'epoca era stato rinchiuso in un campo di rieducazione, la scienziata dovette affidare la figlia di quattro anni all'orfanotrofio locale. La stessa scienziata narra che quando tornò a Pechino sei mesi dopo, la figlia non la riconobbe e, all’inizio, non voleva tornare a vivere con lei, nella loro casa. "Il lavoro era la priorità» racconta oggi, «ero pronta a sacrificare senza tentennamenti la mia vita privata e la mia famiglia, per la mia ricerca. Il periodo trascorso nell'Hainan mi aveva colpita profondamente. Ho visto molti bambini ormai allo stadio finale della malaria, e quei bambini morivano velocemente. Dovevo fare qualcosa per loro". Quello che ha fatto l’ha portata sul gradino più alto della scienza medica.