Dominio incontrollato
L’affaire Moro e l’Italia dei complotti negli Anni ‘70
di Filippo Ghira
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1^ Edizione Digitale Maggio 2014
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Indice
Prefazione
Introduzione
Parte Prima - Lo scenario internazionale
Capitolo 1 - L’Italia al centro del Mediterraneo
Capitolo 2 - I vincoli di Jalta
Capitolo 3 - L’ENI ed il petrolio
Capitolo 4 - Tra Israele e i Paesi arabi
Capitolo 5 - Moro e l’accordo con i palestinesi
Parte Seconda - Lo scenario italiano
Capitolo 6 - Brigate Rosse e brigate atlantiche
Capitolo 7 - La corte degli israeliani
Parte Terza - Spie e spioni nell’area Sud
Premessa
Capitolo 8 - L’Hyperion di Parigi, una stanza di compensazione
Capitolo 9 - Il Club di Berna e Federico U. D’Amato
Capitolo 10 - Servizi civili e la stabilità del quadro mediterraneo
Capitolo 11 - Servizi militari e l’apparato industriale
Capitolo 12 - CIA e MI6
Capitolo 13 - Brigatisti tra doppio e triplo gioco
Capitolo 14 - I rapporti con la RAF tedesca
Capitolo 15 - Il BND tedesco. Gli occhi sulla Padania
Capitolo 16 - Il Mossad e la salvaguardia di Israele
Capitolo 17 - Gli strani covi romani
Capitolo 18 - L’ultima fase
Capitolo 19 - Il silenzio in cambio della libertà
Capitolo 20 - Il manoscritto Moro e Via Montenevoso
Conclusione
Bibliografia essenziale
Articoli di riferimento
Autore
A Daniela, che mi ha sempre spronato ad andare avanti
Prefazione
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Quelli di “informazionecorretta” saranno felici, un po’ di materiale in più…
Il lavoro di Filippo Ghira compendia, riassume, fa riemergere, in 162 pagine tutto quello che non è corretto compendiare, riassumere e far riemergere sul delitto Moro.
Con uno stile certosino, cuce strettamente gli indizi, gli interrogativi rimasti dietro le quinte e soltanto accennati dai vari Nino Galloni e sco Cossiga, Mino Pecorelli ecc. Tratta le centrali della destabilizzazione coinvolte, le Brigate Rosse e le brigate atlantiche, l’Hyperion di Parigi ed il Club di Berna, la CIA e l’MI6, il KGB e il GRU, i Feltrinelli, i Simioni ed i Markevitch. Si chiede perché mai, dopo i 55 giorni, il cadavere dello statista fu fatto trovare proprio in via Caetani, crocevia di varie e potenti organizzazioni di riferimento angloamericano, gelosi custodi dell’ordine di Jalta e della sua creatura-gendarme mediterranea: Israele.
Ghira fa riemergere le contraddizioni sugli accenni mai chiariti degli approcci e delle infiltrazioni del Mossad all’interno delle Bierre, quelle di Curcio e schini e quelle di Moretti e Morucci.
Ricorda come Moro era allora l’artefice di solidi rapporti stabiliti nel Vicino Oriente tra l’Italia, gli arabi ed i palestinesi. “Una mina vagante per gli interessi di Israele e per la sua stessa sopravvivenza”.
Smonta la tesi peregrina, ma subito diventata corrente vulgata, di un sequestro ed un assassinio voluto per “sabotare il compromesso storico tra DC e PCI” quale elemento della “ristrutturazione neocapitalista” volta a ottenere la pace sociale per il SIM, lo “Stato Imperialista delle Multinazionali”. Irride, di conseguenza, alle “spiegazioni facilone e appena plausibili e tali da non suscitare nei lettori domande imbarazzanti sui legami dei brigatisti con settori del servizi segreti – interni ed esteri – indicati banalmente e semplicisticamente come deviati”… E constata come “tutti i servizi sono deviati” perché, naturalmente, svolgono attività e azioni segrete. Un caso per tutti? Quello dell’intervento dei servizi nostrani sulla camorra per far liberare il consigliere democristiano Ciro Cirillo, rapito appunto dalle Brigate Rosse.
Mette le mani avanti per evitare la vieta accusa di “complottismo”: “la storia dei popoli – scrive – è un grande tavolo da gioco sul quale forze differenti giocano le proprie pedine perseguendo strategie che a volte possono riuscire, altre volte falliscono o che non si realizzano come i loro autori vorrebbero”. Contesta Cossiga che, nel dichiarare che il sequestro Moro era consequenziale con la natura stessa dell’uomo, mentore “anticomunista” della fazione proangloamericana “bianca” di Taviani e dello Stay Behind, esclude che le BR fossero eterodirette. Contraddicendo però se stesso a delitto avvenuto, come se avesse avuto certezza di essere stato manovrato.
Filippo Ghira, insomma, abbraccia evidentemente la tesi che le Bierre di Moretti credevano di essere dei “pupari” ma in realtà erano dei “pupi” manovrati. E cerca di sostenerla con la deduzione, con i mille indizi lasciati qua e là da “organismi che agiscono nell’ombra” e che non sono certo “abituati a lasciare documenti scritti per certificare e ricordare le loro imprese”… “e tantomeno lasciare vivi i testimoni scomodi”.
È notevole la quantità dei riferimenti. A “Gladio”, l’organismo militare e civile legato alla Nato che avrebbe dovuto scatenare l’inferno alle spalle di un esercito sovietico che avesse invaso l’Italia, ed alla sua controparte; alla cosiddetta
“Gladio Rossa”, la struttura paramilitare comunista con interlocutori a Praga e arsenali bellici a disposizione in tutta Italia. A quella “Organizzazione X” restata “coperta” e pilotata dai servizi, da un nucleo della Pastrengo, dall’Ufficio Affari Riservati del Viminale, al Piano Solo ed alla Loggia P2, subentrate alla Gladio – come rileva Cossiga intelaiata su quadri antifascisti - per i lavori sporchi. Ai “partigiani bianchi” – iperattivi fino alla morte per lesa maestà sullo sfruttamento dell’energia, come Enrico Mattei – ma “bruciati” dalle piste giudiziarie dei vari Casson. Ai depistaggi operati dall’UAR (Ufficio Affari Riservati) e dal SID nelle indagini sugli attentati degli Anni Settanta. Ai giochi di domino di Kissinger e Brzezinski sullo scacchiere eurasiatico.
Ma Ghira, soprattutto, a sotto il microscopio la politica mediterranea e le quattro direttrici-sudditanze della politica italiana al riguardo, parallele e… divergenti tra loro. Buone relazioni con i Paesi produttori di petrolio e favore per la causa del popolo palestinese, da una parte, sudditanze alle direttrici atlantiche ed al sostegno allo Stato di Israele, da un’altra, e questione di Gerusalemme e amicizia con il Vaticano in ultimo canto. Secondo la tesi schematica del libro, tutti i politici italiani di governo accettarono (e accettano) la tutela di Israele e l’ossequio alle direttive atlantiche; uno solo, Andreotti, si è mosso, invece, sempre per favorire il Vaticano; Enrico Mattei, solitario, ha operato per l’autosufficienza energetica nazionale; Moro e Craxi hanno agito per una solidarietà politica con i Paesi arabi ed in particolare con i Palestinesi.
Ecco, forse, qui occorre un appunto. È più esatto, se si vuole proprio schematizzare, immettere Enrico Mattei – che era un esponente della “sinistra” democristiana quanto Aldo Moro – con i due Presidenti del consiglio citati.
È lo stesso Moro, infatti, il “padre politico”, non soltanto della tutela del governo libico di Gheddafi, ma anche della fuga delle multinazionali petrolifere dall’Italia (il primo scandalo-petrolio) e sarà poi Craxi il restauratore di accordi bilaterali ferrei con i Paesi mediorientali produttori di petrolio. E non a caso tutti e tre sono i morti eccellenti della cosiddetta prima repubblica.
Emerge, dunque, dallo scheletro dell’interpretazione geopolitica e dunque dal quadro di riferimento internazionale del saggio, un qualche storico sussulto di dignità – se non sovranità – nazionale che ha però portato alla prematura scomparsa dei tre unici suoi protagonisti.
Per sabotare costoro, questa linea indipendente, per bloccare una deriva non gradita agli anglo-americani e agli israeliani nel fronte sud mediterraneo, ecco dunque una serie di rimescolamenti di carte e di personaggi tutt’altro che di secondo ordine. Ferrara al comando dei CC, Vicari alla guida della polizia, D’Amato agli Affari Riservati, Maletti al comando dell’ufficio D del SID: un quadrumvirato filo-israeliano di eccellenza al quale arruolare chiunque possibile, anche nelle estreme ali, a destra come a sinistra… Il comandante Junio Valerio Borghese, ad esempio, “nel cui programma di governo c’era la costituzione di un corpo di spedizione militare italiano da inviare in aiuto di Israele”, ricorda Ghira, “e di un altro da affiancare agli USA impegnati nella guerra del Vietnam”. Con l’apporto di gruppi e gruppetti “anticomunisti”. Tutti naturalmente subito scaricati e ostracizzati.
E non è un caso, chiosa l’autore del libro, che sarà poi lo stesso Cossiga ad affermare in un libro-intervista che la bomba di piazza Fontana fu opera degli americani… che volevano così “ammorbidire” le pubbliche opinioni dei vari Paesi colonia-Nato del sud Europa, l’Italia, appunto, ma anche la Grecia (golpe dei generali), la Spagna (assassinio di Carrero Blanco) e il Portogallo (rivoluzione dei garofani e… restaurazione occidentalista).
Una strage, quella della Banca dell’Agricoltura, imputata “ex lege” prima ad anarchici privi di “adeguate coperture”, e quindi ai neofascisti, tralasciando volutamente ogni altra pista non utile ai teoremi preconfezionati: come accaduto nel caso dell’incursore di marina Franco Fuschi, agente doppio, killer a contratto, reo confesso nel 1996 dell’esecuzione della strage, trovato suicida nel carcere di Alessandria nel 2009…
In Italia era dunque la stagione di stragi manovrate da burattinai senza nome. Sintomatici, ma non certo unici nel loro genere, sia l’attentato del ’73 compiuto da Bertoli, informatore del SID e addestrato in Israele, contro la questura di Milano e sia del treno Italicus… Già: quel treno dal quale, il 4 agosto del 1974, alcuni ignoti agenti fecero scendere Aldo Moro, con la scusa di fargli firmare “carte importanti”.
Di qui, appunto, il sequestro e l’assassinio di Moro. Un uomo troppo addentro ai misteri d’Italia. Lui, la “mina vagante”… da esorcizzare, eliminare. Troppo stretti i rapporti dei nostri servizi, del generale Miceli e del colonnello Giovannone, con i palestinesi, con il FPLP di Habbash e l’OLP guidata da Arafat: una prima risposta del Mossad fu il 23 novembre del ’73 con l’attentato al bimotore Argo 16 del SID, precipitato a Marghera; e via via, fino alla “bomba atlantica” del 2 agosto 1980, per punire l’Italia dall’aver salvato Gheddafi. Una causa-effetto per la “rivincita postuma” di Aldo Moro, visto che la Comunità europea, il 13 giugno del 1980, con la “Dichiarazione di Venezia”, aveva preso atto del diritto dei palestinesi ad avere una patria.
E il tuffo nei marosi oscuri della lotta armata. Soprattutto quella del “secondo brigatismo” quello più “militare” e meno ideale: “funzionale al ruolo che gli era stato assegnato”. Ghira ripercorre nomi e fatti. Dai Gap di Feltrinelli, dal “centro” di Praga al Collettivo Politico Metropolitano alla Sinistra Proletaria, giù giù, fino al “superclan” di Corrado Simioni, collaboratore dell’USIS, alle esecuzioni, al reclutamento di ex di PotOp, alle “contaminazioni” con il PCI, alle “intelligenze a monte delle BR”, evocate, ma mai rintracciate in numerose testimonianze ex post. E “agganci” degli uni e degli altri. Le anomale attività trotzkiste, le triangolazioni con l’Hyperion e con la CIA, i rapporti con il SID di Maletti che “stazionava” nelle bierre propri informatori… e le parallele coperture dei servizi agli estremisti di destra. E tutto con il “visto”, il timbro, del Mossad, il servizio segreto di Tel Aviv.
Se non fosse un saggio difficilmente contestabile nei dati che snocciola, si tratterebbe di un pamphlet… antiatlantico e antisionista, e verrà, di certo, così
dipinto dagli addetti alla tutela di quell’ordine politico nostrano che, nato sulle ceneri dell’Europa sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, è ancora suddito altrui.
Ugo Gaudenzi
Ugo Gaudenzi, nato nel 1949, è giornalista professionista, dottore e cultore di storia moderna e contemporanea. È stato inviato e corrispondente nel Vicino Oriente per l’Ansa e per numerosi quotidiani associati quali: La Stampa, La Nazione, Il Piccolo, Il Resto del Carlino, L’Ora ed altri.
Ha diretto il quotidiano socialista riformista l’Umanità ed è attualmente direttore del quotidiano della sinistra nazionale “Rinascita”.
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Introduzione
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Via Michelangelo Caetani è una traversa di Via delle Botteghe Oscure, strada che ospitava un tempo la storica sede del Partito comunista italiano. Qui la mattina del 9 maggio 1978, dal lato della strada dove ci sono i numeri civici 8 e 9, venne fatta trovare la Renault 4 rossa nel cui bagagliaio c’era il cadavere di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, ucciso dopo 55 giorni di un sequestro sulle cui esatte dinamiche non è stata ancora oggi messa la parola fine.
Gli interrogativi che da allora si ripropongono agli osservatori, agli studiosi, e ai pretesi esperti della vicenda sono sempre i soliti. Quanti e quali erano i brigatisti presenti a via Fani al momento della strage dei cinque agenti di scorta e del sequestro quel 16 marzo 1978? Quanti e quali furono i covi nei quali Moro venne tenuto prigioniero? Quante e quali furono le basi a disposizione dei brigatisti e delle strutture che ne affiancarono e sostennero l’azione? Chi, oltre a Mario Moretti, o al suo posto, interrogò Moro nel “carcere del popolo”? Dove si trovava la reale sede organizzativa del sequestro da cui l’operazione Moro venne gestita? Quali furono le entità italiane e soprattutto estere che riuscirono a mettere una mano dentro la trattativa per la liberazione del politico democristiano per poi indirizzarla verso l’inevitabile tragico finale? Ma soprattutto, chi sono stati i principali beneficiari della morte di Moro e della progressiva fine dell’esperimento politico al quale aveva dato vita? Resta poi l’interrogativo di fondo sul perché alcuni politici che vissero da protagonisti i 55 giorni del sequestro si sono imposti la regola monastica del silenzio sui particolari di una vicenda che per loro rappresenta ancora un’occasione di sofferenza. A cominciare da sco Cossiga.
Da parte loro i brigatisti rossi protagonisti del sequestro hanno fatto il possibile
per presentare ciascuno una versione dei fatti compatibile sia con la singola posizione processuale sia con l’immagine di rivoluzionario puro e duro che si sono costruiti addosso. Gli esempi sono molteplici. Esiste tutta una sterminata pubblicistica di ex brigatisti, all’insegna del “come eravamo”, nella quale menzogne spudorate si mischiano allegramente a reticenze su questo o quel particolare.
La prima autocensura riguarda la stessa Via Caetani, il motivo che spinse i brigatisti a farvi trovare parcheggiata la Renault rossa. I primi comunicati diffusi da radio e televisione, e che poi hanno rappresentato l’interpretazione ufficiale, sottolineavano il fatto che si trattava di una strada collocata tra Via delle Botteghe Oscure, sede del PCI, e Piazza del Gesù, sede della DC. Le Brigate Rosse, e questa era e resta tutt’oggi la tesi dominante, scelsero Via Caetani per ribadire che la loro azione era tesa a far saltare l’accordo tra democristiani e comunisti che implicava l’entrata del PCI nell’area di governo. Un accordo che, nella chiave di lettura che ne davano le BR, avrebbe stroncato qualsiasi possibilità di una prospettiva rivoluzionaria nel nostro Paese. In conseguenza di esso infatti, il PCI, il partito per eccellenza della sinistra, e la CGIL, il primo sindacato italiano per numero di iscritti e presenza nelle fabbriche, in cambio di poche briciole, accettavano di trasformarsi in un puntello dei rapporti di classe esistenti.
Il 16 marzo, Moro era, infatti, atteso a Montecitorio, dove era prevista la discussione sulla mozione di fiducia al governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti con l’appoggio esterno del PCI, oltre che dei soliti PSI, PRI e PSDI. Vi abbiamo lasciato il cadavere di Moro a mezza strada, sembravano voler dire le BR, per fare comprendere a tutti che abbiamo voluto sabotare un’operazione che si pone all’interno di una fase di “ristrutturazione neocapitalista” dell’apparato industriale italiano, per realizzare la quale il SIM, lo “Stato imperialista delle multinazionali”, ha bisogno della pace sociale in fabbrica. Una pace sociale che può essere garantita solamente dal PCI e dalla CGIL, la longa manus del partito nel mondo del lavoro. Basta però osservare qualsiasi cartina stradale di Roma per rendersi conto che tale indicazione su Via Caetani è falsa e fuorviante, Via Caetani non si trova, infatti, tra le sedi nazionali dei due partiti. Di conseguenza, sarebbe stato sufficiente attenersi all’evidenza
dei fatti per giungere ad una conclusione alquanto diversa. Via Caetani porta infatti diritta all’imbocco dello storico Ghetto ebraico di Roma. In particolare la Renault 4 rossa è stata parcheggiata proprio davanti al “Centro italiano di studi americani” al numero civico 32 che dispone di un altro ingresso in Via Funari al numero 31. Una struttura ospitata nel Palazzo Antici Mattei, nel quale si trova anche la sede dell’Enciclopedia Italiana e che ospitava in quel periodo un appartamento dei servizi segreti civili, il SISDE. Un palazzo che, dopo l’arrivo delle truppe anglo-americane a Roma, unitamente all’attiguo Palazzo Caetani, divenne il crocevia dei più disparati interessi, sia culturali che politicoeconomici che trovavano nel mondo anglosassone il loro punto di riferimento. Ma il Palazzo, e questo è un aspetto a dir poco fondamentale, fu un luogo nel quale, si dispiegarono le attività dei servizi segreti statunitensi e britannici, all’insegna della difesa dei valori liberali e liberisti dell’Occidente. E collegata ad essi, era sempre presente, in coloro che vi operavano, la consapevolezza di dover difendere l’esistenza dello Stato d’Israele. Una sorta di missione che tornava imperiosamente in mente ogni giorno in conseguenza della collocazione di quel Palazzo, piazzato proprio all’ingresso del Ghetto.
Una doppia firma sembra essere quindi la spiegazione della scelta di via Caetani. Una firma israeliana e statunitense allo stesso tempo per ricordare e ribadire che il disegno politico di Moro nell’area mediterranea metteva in pericolo gli equilibri strategici internazionali venutisi a creare come conseguenza degli accordi di Jalta. Non solo quelli che facevano direttamente capo agli interessi statunitensi, ma anche quelli relativi alla sicurezza di Israele. Se fosse andato in porto l’esperimento di Moro, che puntava, nell’arco di due anni, a fare entrare ministri comunisti in un governo italiano, il punto di scontro mediterraneo tra NATO e Patto di Varsavia, che all’epoca andava collocato tra l’area balcanica ed il Vicino Oriente, si sarebbe spostato proprio in Italia e Israele si sarebbe trovato messo ai margini. A rinforzare tali timori c’era anche l’esistenza dei solidi rapporti stabiliti da Moro con ambienti palestinesi, grazie ai buoni uffici del responsabile del settore Vicino Oriente, il colonnello del SISMI, Stefano Giovannone, che aveva raggiunto un accordo con l’OLP, Organizzazione per la liberazione della Palestina, affinché il territorio italiano non fosse teatro di azioni terroristiche contro obiettivi civili e militari, generalmente indicati come “occidentali”.
Nel modo di vedere degli israeliani, un accordo del genere tra SISMI e OLP, per forza di cose, aveva implicato un sostegno di tipo logistico o finanziario nei riguardi dei palestinesi e di conseguenza non poteva che dare adito ai più foschi sospetti. Moro si poneva quindi come una mina vagante per gli interessi di Israele e per la sua stessa sopravvivenza. La presenza di comunisti in un ipotetico governo di “solidarietà nazionale”, come tappa finale del processo avviato da Moro, rischiava di far venire meno il tradizionale sostegno italiano a Tel Aviv determinato anche dalla solidarietà atlantica.
Gli approcci del Mossad verso le Brigate Rosse si concretizzarono sin dagli esordi quando l’organizzazione terroristica stava prendendo forma sotto la guida di Curcio e schini ma, secondo le dichiarazioni dei due capi “storici”, furono respinte al mittente. È curioso però notare che su tale questione, i due capi BR sono stati avari di dettagli. Sia nelle dichiarazioni ufficiali che nei loro libri di memorie, gli avvicinamenti del Mossad sono stati liquidati in maniera sbrigativa e imbarazzata. Quello che invece accadde successivamente con le BR gestite da Mario Moretti è invece tutto da verificare, considerati i legami del capo terrorista marchigiano con personaggi quali Corrado Simioni, un tempo suo punto di riferimento nel cosiddetto “Superclan” e poi numero uno della scuola di lingue Hyperion di Parigi, indicata da più parti come un punto di incontro sia delle diverse organizzazioni europee terroristiche di sinistra, sia dei diversi servizi segreti dei Paesi occidentali membri della NATO. Una sorta di zona franca nella quale, all’insegna della difesa dello status quo internazionale, convergevano anche i servizi segreti apparentemente nemici, come il KGB.
Erano infatti anche i sovietici a non vedere con favore un governo italiano con la presenza del PCI, sia pure in funzione di appoggio esterno. Ma non perché ciò avrebbe comportato una sorta di contagio politico-ideologico sugli altri partiti comunisti al potere nell’Europa dell’Est, come affermano taluni studiosi italiani dell’area di sinistra, quanto invece per il fatto che una tale svolta avrebbe obbligato l’URSS a prendere atto della destabilizzazione del Mediterraneo e ad aumentare le risorse per rafforzare il proprio apparato bellico-industriale. Un fatto che avrebbe rischiato di destrutturare gli stessi equilibri interni del potere sovietico, tramite l’assunzione di un maggior ruolo da parte dell’Armata Rossa. Per tale motivo, ma per logiche differenti ed opposte a quelle del KGB, i servizi
militari sovietici, il GRU, si trovarono invece a vedere con favore il disegno politico di Moro ed a cercare di fare fallire il suo sequestro e soprattutto lo sviluppo finale con il suo assassinio.
Se come metodo di interpretazione dei fatti, si assume l’analisi marxiana nella quale la struttura è rappresentata dall’economia e quindi dagli interessi in gioco, si arriva a conclusioni molto più vicine alla verità. In Italia purtroppo, nel caso Moro come per quasi tutti i fatti eclatanti che hanno interessato il nostro Paese, si è finito troppo spesso per usare i parametri dell’ideologia. E questa impostazione mentale ha finito per condizionare anche gli stessi studiosi di scuola marxiana e militanti nell’ex Partito comunista italiano che hanno visto nella morte del presidente della DC la conseguenza del suo tentativo di coinvolgere il PCI nell’area del potere. Un tentativo che sarebbe stato stroncato dai circoli più reazionari italiani e statunitensi.
Gli organi di informazione hanno dato generalmente l’idea di accontentarsi di spiegazioni facilone e appena plausibili e tali da non suscitare nei lettori domande imbarazzanti sui legami dei brigatisti con settori dei servizi segreti di questo o quel Paese estero, ad iniziare da quelli “amici” e alleati, se non addirittura con spezzoni delle intelligence di casa nostra, indicati banalmente o semplicisticamente come “deviati”. Un aggettivo che non significa nulla perché è un fatto noto ed evidente che tutti i servizi segreti sono “deviati” in quanto non si limitano a svolgere l’attività che gli è propria, ossia quella di raccogliere informazioni per difendere il proprio Paese e le sue istituzioni, ma finiscono per svolgere attività e azioni segrete, ai limiti e al di là della legge, e che segrete devono restare. Azioni che sono in funzione degli interessi di questo o quel gruppo economico e politico, sia nazionale che estero, o anche nell’interesse di un singolo uomo politico, come è successo diverse volte nel caso italiano.
Molti studiosi continuano oggi a respingere sdegnosamente la sola idea che le Brigate Rosse fossero dirette da qualche struttura esterna, italiana o estera, e che non agissero per conto proprio. Allo stesso modo, da parte di personalità che hanno ricoperto incarichi istituzionali, si continua a respingere da più parti la
sola idea che nelle Brigate Rosse o nella stessa formazione in azione a Via Fani vi fossero degli infiltrati di qualche formazione terroristica straniera, di agenti di strutture di intelligence italiane o estere, di militari addestrati alla guerriglia o di esponenti della malavita organizzata.
Eppure è la stessa storia ad insegnarci che l’infiltrazione di agenti di apparati dello Stato nei gruppi rivoluzionari ed eversivi è una pratica vecchia come il mondo. Basti pensare alla Francia della Restaurazione nella quale era la polizia dei Borboni, tornati al potere, a creare organizzazioni di bonapartisti per fare uscire allo scoperto i nostalgici e metterli nelle condizioni di non nuocere. La stessa procedura venne usata dall’Ockrana, la polizia segreta degli zar, che creava appositamente gruppi di socialisti rivoluzionari e di menscevichi, per poter così contare la consistenza degli oppositori e le loro velleità rivoluzionarie e in seguito arrestarli tutti. I bolscevichi, è bene ricordarlo, non abboccarono.
Quanto all’utilizzo della criminalità organizzata da parte dello Stato per operazioni sporche, noi italiani siamo veramente gli ultimi che possano pretendere di essere immacolati. Basta pensare all’utilizzo della Mafia per liquidare Salvatore Giuliano e la sua banda ed all’intervento della Camorra per fare liberare Ciro Cirillo, il consigliere democristiano campano rapito dalle Brigate Rosse.
Ma anche i nostri vicini si non è che scherzano. Quando sco Cossiga, che è uno che se ne intende, in relazione alla Francia, ha parlato di “una tradizione di terrorismo di Stato”, si riferisce al famoso, o se si preferisce famigerato, Servizio di Azione Civile con il quale il governo gollista a cavallo degli anni cinquanta e sessanta combatté l’OAS che non accettava la rinuncia della Francia alla sovranità sull’Algeria. L’OAS disseminò la Francia di bombe e i suoi uomini, per finanziarsi, compirono una numerosa serie di rapine in banca, oltre a cercare più volte di uccidere lo stesso Charles De Gaulle. Il governo del Generale rispose in maniera durissima, creando appunto il Servizio d’Azione i cui componenti furono reclutati tra la malavita corsa e che combatterono i membri dell’OAS uccidendoli senza tanti complimenti e ricorrendo alla tortura
per farli parlare. Quando l’OAS fu vinta, il governo sciolse il Servizio e i suoi membri rientrarono nei ranghi. In cambio, l’Unione Corsa ebbe il tacito via libera per svolgere in tutta tranquillità i propri traffici, tra Parigi, la Costa Azzurra e la Corsica. Dalla gestione dei casinò e dei locali notturni allo sfruttamento della prostituzione, dal traffico di sigarette fino al traffico di droga (la cosiddetta French Connection) verso gli USA grazie alle raffinerie clandestine installate nei dintorni di Marsiglia, che vennero poi fatte smantellare nei primi anni settanta da Georges Pompidou, successore di De Gaulle, su esplicita richiesta di Washington e trasferite in Sicilia.
Tali fatti vanno ricordati per comprendere che le vicende politiche di una Nazione sono molto spesso condizionate da fatti che troppo spesso sono occultati, sottovalutati o volutamente ignorati. Da tali circostanze non si deve però concludere che la Storia sia il frutto di complotti o di un Grande Complotto che tutto prevede e tutto dirige. Più semplicemente la storia dei popoli è un grande tavolo da gioco sul quale forze differenti giocano le proprie pedine perseguendo le proprie strategie che a volte possono riuscire, altre volte falliscono o che non si realizzano come i loro autori vorrebbero.
Oggi la Democrazia Cristiana, il partito di Aldo Moro, non esiste più, dopo essere stata cancellata dalla stagione di Mani Pulite. Molti dei suoi principali dirigenti dell’epoca sono morti o sono scomparsi dal teatro della politica. Quello che ancora resiste sul palcoscenico è il senatore a vita Giulio Andreotti, che all’epoca del sequestro Moro era Capo del Governo. Mentre lo scomparso sco Cossiga era di ministro dell’Interno. Ambedue con notevoli competenze ed esperienze di gestione delle strutture di intelligence. Se il primo ha continuato a difendere l’inevitabilità della scelta della maggioranza di governo di rifiutare la trattativa con le BR, pur nella consapevolezza di avere condannato a morte un collega di partito e un amico di lunga data fin dai tempi dell’organizzazione degli universitari cattolici (la FUCI), Cossiga fino alla fine ha insistito sulla “verginità” politica delle Brigate Rosse, sulla loro coerenza rivoluzionaria e sulla loro impronta prettamente italiana. Nessun infiltrato di qualsivoglia servizio segreto nelle BR, ha sostenuto l’ex Picconatore. Le BR, a suo avviso, non erano eterodirette, non c’era insomma nessuna struttura estera che indicasse loro le azioni da compiere e gli obiettivi politici da perseguire.
Nessun Grande Vecchio a manovrarli. Erano semplicemente comunisti puri e duri, è la linea interpretativa di Cossiga, che erano delusi da un PCI ormai avviato verso la socialdemocrazia e che aveva messo in cantina il sogno rivoluzionario. Certo, ha concesso, hanno disseminato di morti il loro cammino ma in ogni caso erano in buona fede e bisogna pure capire da quali ideali ed illusioni sono stati alimentati i loro sogni di una profonda trasformazione sociale della realtà italiana mentre il PCI e la CGIL davano invece l’idea di accontentarsi della gestione dell’esistente e di riforme che non mettevano in discussione i rapporti economici e di classe esistenti. Una sensazione accentuata dal fatto che erano oltre 30 anni che la DC governava il Paese e che il PCI stava all’opposizione. La realtà del cosiddetto “Bipartitismo Imperfetto” per usare il termine coniato da Giorgio Galli. È anche colpa nostra se l’Italia era una democrazia bloccata, voleva dire l’ex capo dello Stato. Partendo da questa analisi e dalla considerazione che tutto ormai è stato chiarito, Cossiga è giunto ad affermare più volte la necessità di un colpo di spugna giudiziario sulle vicende del terrorismo italiano, ad incominciare da quello delle BR per arrivare a quello del terrorismo “nero”. In realtà c’è da osservare che quelle vicende sono tutt’altro che chiare e molti dei suoi retroscena sono totalmente da riscrivere.
Quanto ad Aldo Moro che nella DC era il suo capo corrente e per il quale nutriva un rispetto quasi filiale, Cossiga ha sempre insistito di parlarne come “l’anticomunista Moro”. Anzi l’ex Picconatore ne ha sottolineato la caratteristica di “esperto di servizi segreti” e ha ricordato che, insieme all’ex partigiano “bianco”, cioè cattolico, Paolo Emilio Taviani, era stato uno dei referenti politici di Gladio, la struttura italiana che era parte integrante di Stay Behind, ossia “stare dietro”, l’organizzazione militare controllata dalla NATO che in caso di invasione da parte delle truppe del Patto di Varsavia, avrebbe dovuto scatenare la guerriglia alle spalle degli invasori. Una versione con la quale Cossiga ha inteso ribadire che la scelta di rapire Moro da parte delle Brigate Rosse, non le BR di Moretti ma le BR in quanto tali, era consequenziale con la natura del politico pugliese, che deve essere considerato come perfettamente integrato nelle alleanze politiche e militari occidentali.
Le BR, insomma, nella loro ottica, avevano tutte le ragioni nell’aver rapito Moro e di averlo processato per sapere il maggior numero di segreti sulle strutture
della NATO da lui conosciute come ex capo del governo. Moro era un nemico per le BR ed il fatto che sia stato ucciso, seppure l’assassinio abbia rappresentato una conclusione terribile nella scansione del sequestro, rientra nella logica politica di quegli anni. Cossiga uscì distrutto politicamente e fisicamente da quella vicenda e, in tutti libri e in tutte le interviste in cui è tornato a parlarne, ha dato chiaramente la sensazione di avere sperato fino all’ultimo in una liberazione del sequestrato. Anzi la mattina del 9 maggio, quando arrivò la notizia dell’assassinio, parlando con il socialista Claudio Signorile arrivò ad ammettere di essere stato ingannato all’ultimo momento da coloro che erano in grado di salvare Moro. Un fatto che ha dato adito a molti interrogativi sulla possibilità che Moro possa essere stato consegnato l’ultimo giorno, o negli ultimi giorni, a carcerieri diversi da quelli ufficiali i quali invece di liberarlo l’avrebbero ucciso. Una ipotesi che se fosse dimostrata obbligherebbe a riscrivere tutta la vicenda e cancellerebbe le versioni, compresa quella giudiziaria, che ne sono state date. Ipotesi nelle quali rientra il ruolo svolto da una figura enigmatica come il defunto direttore d’orchestra russo, per la precisione ucraino, Igor Markevitch, che si divideva tra Roma, Firenze, la Francia e la Svizzera. Una personalità di indubbio spessore, di cultura cosmopolita e con ottime entrature in Unione Sovietica ed in Israele. Un ex partigiano, vicino ai GAP comunisti fiorentini nel periodo 1943-45, ma anche agli ambienti liberal progressisti italiani. Un uomo che avrebbe potuto benissimo svolgere il ruolo di trait d’union tra mondi apparentemente avversari per farli infine convergere verso la conclusione che tutti conoscono e che era funzionale agli interessi di entrambi.
Nella sua prima lettera inviata dal “carcere del popolo” Aldo Moro affermava di essere sottoposto ad “un dominio pieno e incontrollato”. Un’affermazione che può essere limitata alla semplice presa d’atto di essere un prigioniero, ma che deve essere semmai interpretata come la consapevolezza di essere finito in un meccanismo più forte della volontà dei suoi sequestratori. Con alcuni dei brigatisti convinti di essere pupari, tanto per usare un termine mafioso, quando in realtà erano dei pupi. In altre parole taluni brigatisti hanno creduto a lungo di essere stati loro, da soli, a indirizzare gli avvenimenti salvo poi successivamente dover prendere atto che erano stati manovrati e che qualcuno di loro, il Mario Moretti del Superclan di Simioni, aveva giocato sporco.
Questo libro vuole essere quindi un contributo per comprendere meglio i retroscena di una vicenda che ha segnato in modo significativo la storia del nostro Paese e che a distanza di oltre un trentennio fa ancora discutere. Taluni fatti sono conosciuti, altri meno ed altri si possono solamente intuire. Dobbiamo infatti tenere conto che taluni organismi che agiscono nell’ombra sono abituati a non lasciare documenti scritti per certificare e ricordare le proprie imprese. E tantomeno a lasciare vivi i testimoni scomodi. Oltretutto si deve pure tenere conto che talune ammissioni dei brigatisti, le loro chiamate di correo, i loro silenzi ed diverse allusioni contenute nelle loro dichiarazioni giudiziarie, hanno rappresentato da un lato una sorta di regolamento interno alle stesse BR. Dall’altro si è trattato del prezzo pagato per sottoscrivere una versione dei fatti che fosse funzionale alla versione ufficiale generalmente accettata e tale da non suscitare nuovi interrogativi sulla dinamica di quei giorni.
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PARTE PRIMA - Lo scenario internazionale
Capitolo 1 - L’Italia al centro del Mediterraneo.
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Fin dall’antichità l’Italia ha goduto di una particolare importanza strategica, trovandosi al centro del Mediterraneo che allora rappresentava il punto nevralgico degli equilibri internazionali, quantomeno del mondo allora conosciuto. Con la scoperta dell’America questo ruolo centrale del Mediterraneo e dell’Italia è venuto meno ed è stato progressivamente sostituito da quello dell’Atlantico trasformato nello scenario dello scontro tra le Grandi Potenze come la Spagna e le emergenti Gran Bretagna e Francia.
L’Italia unita riacquistò una sua centralità mediterranea nel secondo dopo guerra in conseguenza degli accordi di Jalta. Ma, allo stesso modo di cinque secoli prima, si trattò di un ruolo subordinato agli interessi di Stati esteri. Dalla caduta dell’Impero Romano, l’Italia non era mai stata in grado di muoversi in maniera autonoma in quanto mancava uno Stato unitario e l’unica entità che vi riuscì fu la Repubblica di Venezia che venne poi coinvolta dal più generale ridimensionamento dell’intera area. Terra di conquista era allora e tale rimase per secoli. Al termine del secondo conflitto mondiale il nostro Paese, come era fisiologico che fosse, si trovò proiettata nell’orbita occidentale e nella logica delle alleanze atlantiche che si stavano formando. Stalin, realista come era, non ebbe nulla da obiettare sul fatto che, dopo la visita di Alcide De Gasperi negli Stati Uniti all’inizio del 1947, dalla coalizione che governava l’Italia venissero espulsi i comunisti e si desse vita ad un governo centrista. A spingere il capo supremo dell’URSS ad accettare la svolta moderata furono il rispetto degli accordi presi a Jalta e la considerazione di non poter aprire un fronte di scontro con le potenze occidentali (Usa, Gran Bretagna e Francia) non disponendo di una base di appoggio nel Mediterraneo. La Jugoslavia, i cui partigiani comunisti erano riusciti a conquistare il Paese senza il “fraterno” aiuto dell’Armata Rossa, stava già percorrendo con Tito una via autonoma. L’Albania, che non aveva ancora effettuato la svolta filo-cinese dei primi anni sessanta, era troppo piccola
per sostenere il ruolo di testa di ponte delle strategie sovietiche, sia pure disponendo di un ottima base navale naturale come quella nella rada di Valona. Per Mosca restava soprattutto il problema insormontabile di come fare eventualmente arrivare rifornimenti militari via mare ad un Paese finito sotto il suo controllo, dovendo are per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli controllati da un Paese amico e alleato di Washington come la Turchia. Un legame che il governo di Ankara aveva manifestato compiutamente inviando un proprio contingente ad affiancare le truppe USA nella guerra di Corea. L’Italia era quindi giudicata persa dal punto di vista del Cremlino e considerata come irrimediabilmente collocata nell’orbita atlantica. Da parte loro, i governi centristi italiani che stabilizzarono il loro potere dopo la vittoria elettorale del 18 aprile del 1948, quelle con la maggioranza assoluta dei seggi alla DC, si rendevano bene conto che il ruolo dell’Italia non si poteva esaurire semplicemente in rapporti paneuropei e atlantici. L’Italia, anche in base alla collocazione geografica e alla propria storia di terra attraversata e conquistata da popoli diversissimi, voleva e doveva puntare ad essere un ponte tra l’Europa e la sponda sud del Mediterraneo. Due fili, quello atlantico e quello mediterraneo, che si ritrovano sempre nella storia italiana contemporanea e che pure oggi continuano a persistere delineando le direttrici sulle quali si muove a fatica la nostra politica estera. Negli anni cinquanta, questo tipo di approccio, in particolare per merito di Enrico Mattei che usò l’ENI come un secondo Ministero degli Esteri, sicuramente più incisivo della Farnesina, si fece più audace e puntò a crearsi uno sbocco politico ed economico autonomo anche in realtà più distanti come l’Iran che la Gran Bretagna considerava una sorta di protettorato per il grande ruolo che vi esercitava la British Petroleum. Appare quindi molto significativo ed al tempo stesso scontato che, nella attuale fase storica in cui gli Stati Uniti spostano la centralità dei propri interessi economici sul Pacifico, verso il mercato cinese, l’Italia perda interesse per i legami atlantici e finisca per guardare con maggiore interesse di prima a quella aerea che ha sempre avuto davanti a sé dall’altra parte del mare interno.
Il PCI destinato all’opposizione
La seconda considerazione di Stalin sull’Italia era basata sulla sua peculiarità come sede dello Stato del Vaticano e quindi come centro del cattolicesimo, la
prima religione del mondo come numero di fedeli. La famosa frase attribuita a Stalin, che si domandava: “Quante divisioni ha il Papa?”, appartiene in realtà ad una pubblicistica che si accontenta di luoghi comuni e che non vuole fare i conti con la considerazione in cui il politico osseta, che aveva studiato in un seminario ortodosso a Tbilisi, teneva la religione come elemento che impregna la vita di centinaia di milioni di persone. Stalin non poteva sposare l’integralismo ateo dei marxisti ortodossi, ma spinse i comunisti italiani, Togliatti in testa, a ricercare l’accordo con le masse cattoliche, puntando a coinvolgerle alla causa del PCI. Da qui nacque e si sviluppò tutta quella composita aerea di cattolici, il cui esponente più significativo fu Franco Rodano, in seguito consigliere politico di Enrico Berlinguer quando il politico sardo arrivò alla segreteria del PCI. Cattolici per i quali era perfettamente naturale che si potesse coniugare la fede con il marxismo e che vedevano nel capitalismo il primo nemico da combattere, anche in nome di una frugalità e di un pauperismo che in tale visione accomunavano le masse popolari cattoliche a quelle comuniste. Il consumismo televisivo di massa degli anni ottanta non era ancora arrivato, ma questo tipo di mentalità era così diffuso da funzionare da humus politico e culturale per favorire il aggio di molti giovani cattolici nei movimenti della sinistra extraparlamentare degli anni sessanta e settanta e poi alla lotta armata.
Lo stesso Palmiro Togliatti, quando, nei primi anni sessanta, morì uno dei più importanti intellettuali dell’epoca, come padre Giuseppe De Luca, con il quale aveva avuto uno scambio culturale molto intenso, e che, come tale, rappresentava un contatto diretto con gli ambienti della Chiesa, ebbe a dire che si sentiva come colui al quale avessero tagliato un braccio.
In ogni caso, il dittatore sovietico e i suoi successori non volevano che l’Italia venisse destabilizzata sul piano interno e che vi fosse un cambio di governo, peraltro impossibile in considerazione della forza elettorale dei partiti di centro. Tale atteggiamento realista non era comunque in contraddizione con i massicci finanziamenti grazie ai quali l’URSS sostenne per decenni il PCI e tutte le sue organizzazioni collaterali. Una struttura enorme e diffusa capillarmente in tutte le regioni ed in tutti i settori della società e che necessitava di risorse inesauribili. Il ragionamento di Mosca era in tal senso ineccepibile. Il PCI non può e non potrà mai prendere il potere, ma l’URSS deve continuare a sostenerlo per non
fare scomparire il sogno di una prospettiva rivoluzionaria in Italia. Non possiamo confessare ai militanti italiani, né il PCI, né tantomeno il PCUS, che siamo tutti protagonisti di una finzione e che se anche arrivassimo al punto da considerare la “grande spallata” come un’ipotesi concreta, ci sarà sempre qualcuno che farà di tutto per mettere il bavaglio ai militanti più intransigenti. Fa parte quindi in tale ottica anche il “rientrate nei ranghi” ordinato dai vertici del PCI ai militanti che erano scesi in piazza dopo l’attentato a Togliatti del luglio del 1948 e che in numerose aree del Paese avevano dato vita ad una vera e propria insurrezione. Una rivolta che era stata guidata dagli ex partigiani comunisti che avevano tirato fuori dai nascondigli le armi già usate nella Resistenza e che per qualche giorno, soprattutto in Emilia e in Toscana, avevano sognato di poter regolare i conti. Quelli rimasti ancora in sospeso dopo la mattanza di fascisti e dei presunti tali dei giorni successivi al 25 aprile 1945 e quella dei borghesi e degli agrari che continuarono ad essere uccisi nel biennio 1945-47 dagli uomini della Volante Rossa. Nel PCI per decenni continuarono a coesistere in tal modo due tipi di militanti. I primi con un’anima legalitaria e realista e poco incline ai colpi di testa. I secondi che operavano nella struttura militare parallela del partito e che nutrivano pulsioni rivoluzionarie che erano obbligati a tenere sotto controllo. Ogni tanto, qualche militante si spazientiva di aspettare una rivoluzione che non arrivava mai e di conseguenza ci scappava il morto. Significativo in tal senso fu nel 1952 l’omicidio del dirigente della FIAT, Erio Codecà, per il quale furono incriminati diversi esponenti della Volante Rossa, alcuni dei quali trovarono rifugio in Cecoslovacchia che rappresentò a lungo un porto franco per i militanti comunisti dei Paesi europei occidentali che vi trovarono ospitalità e vi vennero anche addestrati alla lotta armata.
Gladio e Gladio rossa
I finanziamenti sovietici vennero utilizzati dal PCI, e dalla sua ala più filosovietica, per far nascere e poi tenere in piedi la cosiddetta “Gladio Rossa”, la sua struttura paramilitare che, pure se dotata di notevoli arsenali di armi, si limitò a costruire una diffusa rete di rifugi nei quali i dirigenti del partito potevano essere ospitati nel caso estremo di un Colpo di Stato o di una trasformazione del sistema politico italiano in senso più autoritario. L’esistenza della Gladio Rossa è comunque importante ai fini di questo libro perché proprio
da tali ambienti e dagli ex partigiani rossi vennero le armi che all’inizio degli anni settanta costituirono i primi arsenali delle nascenti Brigate Rosse che nella loro componente emiliana, quella di Reggio Emilia, era appunto costituite da militanti del PCI delusi dalla rinuncia del partito a qualsivoglia prospettiva rivoluzionaria in Italia. L’esistenza della Gladio Rossa rappresentò comunque per gli apparati dello Stato italiano una sorta di segreto di Pulcinella. I servizi segreti italiani, i vertici della Polizia e dei Carabinieri ne erano perfettamente a conoscenza. Allo stesso modo in cui i vertici del PCI erano a conoscenza dell’esistenza di Stay Behind, o Gladio, l’organismo militare e civile legato alla NATO. Per decenni, insomma, due eserciti contrapposti, bene armati, si sono fronteggiati in Italia all’interno di una guerra non dichiarata che nessuno dei due contendenti voleva che scoppiasse. In Italia c’è stata per decenni una guerra civile a bassa intensità. Una guerra che sul piano interno aveva funzionato come aveva funzionato l’accordo di Jalta sul piano internazionale. La divisione dell’Italia in zone di influenza e quindi l’attribuzione tacita, all’uno e all’altro schieramento, di giardinetti esclusivi nei quali l’avversario si impegnava a non entrare. Esemplare in tal senso fu per decenni il fatto che i partiti di governo chiudessero un occhio e anzi due sulle tangenti che le imprese italiane dovevano pagare al PCI sugli affari conclusi con l’Unione Sovietica e con gli altri Paesi del campo socialista. In cambio il PCI stava zitto sui finanziamenti che le principali aziende italiane versavano ai partiti di governo per assicurarsi gli appalti pubblici. sco Cossiga ha rivelato che disponeva di un informatore all’interno della direzione del PCI che gli faceva avere in tempo reale, a lui che era ministro degli interni, i resoconti delle sedute. Lo stesso valeva per il PCI che disponeva di una talpa all’interno della DC e di un altro dentro il Viminale. Un dato di fatto che sembrerebbe indicare che erano in realtà gli stessi vertici dei due partiti ad inviarsi le trascrizioni dei discorsi che si erano fatti nella sede del partito “avversario”. Un fatto che conferma in pieno l’esistenza di un gioco delle parti per mantenere un equilibrio la cui premessa era che ognuno fosse informato di quello che stava combinando l’altro.
La tregua sulla esistenza di Gladio venne rotta l’8 novembre 1990 da Giulio Andreotti che ne parlò apertamente in Senato rivendicandone la legittimità per rispondere all’inchiesta di un magistrato veneziano, Felice Casson il quale, indagando sulla strage di Peteano (31 maggio 1972), aveva raccolto la dichiarazione di un “pentito” che parlava di una struttura militare segreta collegata ai servizi segreti militari ed alla NATO, della quale avrebbero fatto
parte anche militanti del movimento di estrema destra Ordine Nuovo. Immediata fu la reazione del PDS di Achille Occhetto che portò in piazza migliaia di militanti per protestare contro una struttura definita illegale e potenzialmente golpista, indicata come corresponsabile delle peggiori nefandezze.
L’esistenza di Gladio, era la tesi sostenuta dai post comunisti, ha consentito che dai suoi arsenali fossero prelevati armi ed esplosivi, poi forniti ad estremisti di destra ed usati per compiere attentati e stragi di Stato. In realtà, la rottura da parte del PDS del patto tacito su Stay Behind e su Gladio Rossa fu un effetto dei tempi nuovi che stavano per arrivare. Infatti, anche se a Mani Pulite mancavano ancora due anni, era già palpabile la sensazione che un ciclo storico stava per esaurirsi e che anche la centralità e la indispensabilità della DC stavano per venire meno. Questo perché gli ambienti politici e finanziari anglo-americani intendevano puntare su un PCI trasformato in socialdemocratico e realizzare il cosiddetto “Bipartitismo Perfetto” come negli altri Paesi europei. Un modello politico nel quale un partito moderato o conservatore, spesso democristiano, si alterna al potere con uno progressista o socialdemocratico. Un’alternanza che non mette minimamente in discussione gli equilibri economici interni ed internazionali considerato che le politiche dei due schieramenti si differenziano per particolari irrilevanti che non toccano gli interessi dei grandi gruppi finanziari e industriali, ma che puntano su aspetti considerati di dettaglio nella loro ottica, come potrebbero essere le questioni attinenti ai diritti civili, tipo aborto, droga e matrimoni dei gay.
Il PCI, in tale visione doveva diventare il faro della politica italiana, forte del suo legame con il sindacato che poteva garantire la pace sociale nelle fabbriche. Mentre il PSI, responsabile con Craxi dell’oltraggio di Sigonella, doveva seguire il destino dell’ormai condannata DC.
Una svolta che era ben chiara ad un politico attento e lungimirante come sco Cossiga che, forte dei suoi legami di oltre Atlantico, continuava a vibrare dal Quirinale le sue “picconate” al sistema politico per fare capire ai colleghi di partito quello che bolliva in pentola ed il pericolo che venissero
spazzati via. Cosa che puntualmente avvenne tre anni dopo. Quanto ad Andreotti, si può sospettare che la sua rivelazione dell’esistenza di Gladio abbia rappresentato una sorta di cambiale aperta con il PCI-PDS per ottenere nel 1992 i voti di Botteghe Oscure per la sua elezione al Quirinale. Ma poi, come si sa, le cose andarono diversamente.
Per il generale Paolo Inzerilli, che per 12 anni fu a capo della struttura segreta militare, il gioco di Andreotti fu più sottile. Il suo scopo infatti era quello di fare saltare la struttura legittima Gladio, e quindi la rete di Stay Behind della NATO presente in tutti i Paesi europei, per salvare l’Organizzazione X, composta dai Nuclei difesa dello Stato e dalla Rosa dei Venti che dipendevano direttamente dal comandante dei servizi segreti ed erano stati in diretto contatto con l’Ufficio Affari Riservati e con i carabinieri della Divisione Pastrengo di Milano. Inzerilli ha insistito nel sottolineare che questa Organizzazione X e non certamente Gladio è la struttura maggiormente sospettata di avere avuto un ruolo determinante nel pilotare le stragi che per tanti anni hanno insanguinato l’Italia. Egli sottolinea un particolare che definisce interessante. Il fatto che molti dei dirigenti di quelle strutture segrete statali o parastatali dell’Organizzazione X erano iscritti alla Loggia P2, mentre Gladio era del tutto assente dalle liste di Gelli. Una maniera elegante per dire che le stragi italiane nascono da una logica “atlantica”.
Non si può però parlare di Gladio senza ricordare che il settimanale Tempo, molto vicino ai socialisti di Giacomo Mancini, ebbe a dedicare nel 1976 diversi articoli e copertine all’esistenza di Gladio ed in particolare alla base di Capo Marrargiu in Sardegna, vicino ad Alghero, dove i futuri guerriglieri venivano addestrati. “Così preparano la guerra civile” strillava il settimanale in prima pagina pubblicando il disegno di un feroce gorilla pronto ad attaccare ed all’interno riportando una foto di Cossiga che eggiava d’inverno su una spiaggia organizzando chissà quali colpi di Stato. Capo Marrargiu, per la cronaca, era anche la località dove i principali esponenti dei partiti e dei sindacati di sinistra, socialisti compresi, i cosiddetti “enucleandi”, sarebbero dovuti essere deportati se fosse strato reso esecutivo il piano Solo, il Colpo di Stato del 1964 preparato dal generale dei carabinieri, e capo del Sifar, Giovanni De Lorenzo. Un piano che in realtà doveva rimanere soltanto teorico e che con la
minaccia del “tintinnare di sciabole” avrebbe dovuto ridurre a più miti consigli le pretese dei socialisti di partecipare al primo governo “organico” di centrosinistra. Un progetto di Colpo di Stato che si inseriva quindi all’interno di una stabilizzazione del quadro politico italiano ed internazionale e che presupponeva come tappa finale un governo con DC e PSI che continuasse a tenere il PCI all’opposizione. Un disegno che venne tenuto nascosto anche da coloro che lo subirono, i socialisti, e che poi divenne di dominio pubblico quando una manina fece arrivare qualche velina al settimanale l’Espresso che, con il giornalista Lino Jannuzzi, pubblicò una serie di articoli che fecero epoca. Una ulteriore dimostrazione del fatto che nell’Italia dell’epoca tutti sapevano tutto di tutti, ma che la coesistenza pacifica interna obbligava a stendere un pietoso velo sugli avvenimenti. Salvo poi farli emergere quando uno dei partecipanti al gioco giudicava superata la fase del silenzio e cercava di rimescolare a proprio favore gli equilibri del sistema. Nel caso specifico, ci fu chi sospettò Giulio Andreotti di avere fatto filtrare la notizia al settimanale come ritorsione dopo che gli era stata tolta la poltrona di ministro della difesa nel governo Moro III nato alla fine del febbraio 1966. Un sospetto avvalorato dai legami di ferro dell’ex sottosegretario di De Gasperi con una figura come Federico Umberto D’Amato che successivamente sull’Espresso degli anni settanta e ottanta teneva una apprezzata rubrica di recensioni culinarie. Due attività che hanno sempre dimostrato di poter convivere. D’Amato ha infatti scritto un significativo libro intitolato “Dossier e menù” e lo stesso Markus Wolf detto “Misha”, il leggendario capo dei servizi segreti tedesco-orientali (HVA) ha pubblicato a sua volta un libro nel quale la descrizione di come si realizza una ricetta della cucina russa è l’occasione per parlare del mestiere di spia.
Cossiga che ha sempre difeso a spada tratta la legalità di Gladio come struttura legata ad una alleanza militare in cui l’Italia era inserita a pieno titolo, ha tenuto a sottolineare che i gladiatori erano sinceri democratici e che nessuno di loro era di idee o di provenienza fascista. I primi nuclei, ha ricordato, venivano infatti da ex partigiani cattolici come quelli della Osoppo che sul nostro confine orientale si opposero al tentativo di Tito di slavizzare Trieste e tutta la Venezia Giulia. Un tentativo sostenuto invece dal PCI triestino e dal suo allora massimo dirigente, quel Vittorio Vidali che nel corso della guerra di Spagna si era caratterizzato come uno dei più implacabili boia al servizio di Stalin nel massacro di anarchici e trotzkisti. Una figura di netto orientamento filosovietico e che svolse un ruolo significativo, dal punto di vista dell’appoggio logistico, anche nella storia delle
Brigate Rosse. Altri quadri di Gladio venivano dalle fila dei partigiani monarchico-liberali, in particolare da formazioni come la Franchi di Edgardo Sogno o di quelle repubblicano-azioniste che avevano come punto di riferimento Randolfo Pacciardi, futuro ministro della Difesa negli anni cinquanta e fiero avversario del centrosinistra nei primi anni sessanta. Scelta che pagò con l’espulsione dal partito repubblicano di Ugo La Malfa. Poi successivamente, i gladiatori vennero scelti tra semplici cittadini di provata fede democratica o militari della riserva. Tutti comunque fedeli alle istituzioni. Insomma, è la tesi di Cossiga, i gladiatori erano galantuomini e nessuno di loro si è reso corresponsabile di qualsivoglia tentazione golpista. Né tantomeno alcuno di loro ha prelevato armi ed esplosivi per consegnarli ad estremisti di destra che li hanno utilizzati in attentati. E quando, per la fine dell’esistenza del pericolo sovietico, l’organizzazione è stata sciolta, i gladiatori hanno continuato a fare la stessa vita di prima, rinunciando soltanto all’addestramento che gli era stato fino ad allora impartito. Una tesi questa che è stata confermata anche dallo stesso generale Paolo Inzerilli. La sostanza del ragionamento di Cossiga è che l’esistenza di Gladio o le paure di un Colpo di Stato non possono essere utilizzate per giustificare il ricorso alla lotta armata da parte di tanti militanti della sinistra che andarono ad ingrossare le fila delle Brigate Rosse o di Prima Linea. In Italia non c’è mai stato un vero tentativo di Golpe che fosse sostenuto dai partiti di governo o dai potentati economici. Certamente c’è stato chi lo ha creduto, ma sbagliava. Ed ha sbagliato ancora di più quando ha impugnato le armi credendo che fosse in atto una minaccia del genere. Se avesse ragionato in termini di equilibri internazionali, costui sarebbe arrivato alla conclusione che un golpe in Italia era impossibile e che il vero golpe stava invece nel minacciarlo più o meno occultamente per perpetuare quel sistema politico che aveva nella DC il suo punto di equilibrio.
La DC al potere
La Democrazia Cristiana, giunta al potere grazie al trionfo elettorale del 18 aprile 1948, non voleva e non poteva limitarsi a seguire pedissequamente i desiderata degli Stati Uniti. I politici democristiani erano cresciuti alla scuola della solidarietà sociale tipica di organizzazioni come l’Azione Cattolica e al convegno di Camaldoli del luglio 1943 avevano scritto un programma politico
economico per la nuova Italia che sarebbe nata dalla sconfitta militare e nella quale puntavano a rappresentare la futura classe dirigente. Gli uomini della DC sapevano benissimo che una politica liberista non era quello che ci voleva per l’Italia perché avrebbe consegnato le masse popolari nelle mani del PCI. Ci voleva quindi una politica che coniugasse il libero mercato con forti iniezioni di politica sociale. Tipica in tal senso fu la politica dello sviluppo delle case popolari sostenuta in particolare da Amintore Fanfani con la considerazione che i cittadini di umile condizione con una casa a disposizione, possibilmente di proprietà, difficilmente avrebbero votato per il PCI. Questa politica economica di tipo misto, ispirata sia alle teorie di John Maynard Keynes che alla dottrina sociale della Chiesa, favorì lo sviluppo economico italiano e il successivo boom economico a cavallo degli anni cinquanta e sessanta. Gli ambienti economici tradizionali, orientati verso gli USA, guardavano con sospetto e ostilità le scelte della DC, ma poi si dovettero adeguare nell’accettare che fosse un partito di cattolici a gestire il potere e non uno liberale e liberista ortodosso, come nei primi anni del secolo. Ma la DC controllava tutto il settore bancario che di fatto era statale e aveva lasciato agli ambienti “laici” vicini alla FIAT la gestione privatistica di istituti pubblici come la Banca Commerciale, il Credito Italiano e Mediobanca. Anche in questo caso, come in ambito politico, si trattò di una divisione della torta e del sistema di potere. Anche in questo caso il regolamento di conti si ebbe nel periodo 1992-1993 quando i cosiddetti “Poteri Forti” italiani avvallarono in toto la campagna di Mani Pulite sostenuta dagli ambienti finanziari e politici di Londra e di Washington per dimostrare a tutti i partiti che con l’uno o all’altro al governo poco cambiava e che l’unica variabile che contava era e resta sempre quella dell’economia e della finanza. Una concezione che si potrebbe tranquillamente definire “neomarxista”.
Sul piano internazionale, i governi centristi, pur rimanendo fedeli alla scelta occidentale ed all’alleanza militare con gli Stati Uniti, non rinunciarono a ritagliarsi un proprio ampio ed autonomo spazio di manovra che teneva conto della peculiarità del nostro Paese come ponte tra l’Europa da una parte e il Nordafrica e il Vicino Oriente dall’altra. Una politica estera che, sulla spinta del Vaticano, puntò a stabilire buoni rapporti con i Paesi arabi e musulmani al fine di tutelare le locali comunità cristiane. Una politica che in funzione dell’indipendenza energetica, e grazie all’opera dell’ENI guidato da Enrico Mattei, riuscì a stabilire rapporti preferenziali con quelli produttori di petrolio e di gas. Questo ruolo trovò anche una sorta di legittimazione di fatto con la
trasformazione dell’Italia nel luogo fisico dove il petrolio transitava e veniva raffinato. Lo dimostra il grande numero di raffinerie, anche di proprietà di compagnie petrolifere estere, che nacquero come funghi sul nostro territorio. Questa collocazione geografica e questa politica estera ondeggiante tra sudditanza e autonomia non furono senza conseguenza e il nostro Paese, diventato zona di frontiera, si trasformò in terreno di incontro e scontro tra i servizi segreti dei due schieramenti contrapposti e per regolamenti di conti tra quelli israeliani e quelli palestinesi e dei Paesi arabi. Buona parte delle vicende della storia repubblicana non sono spiegabili se non si assume come scontata in esse la presenza delle intelligence dell’Est e dell’Ovest e di quelle del Vicino Oriente. Tutte costoro ebbero la possibilità di compiere atti di ritorsione contro il nostro Paese e contro i suoi organismi statali senza che il nostro governo potesse esprimere rimostranze ufficiali che rimasero appunto a livello di colloqui informali tra governi o tra le rispettive intelligence. Dal caso dell’assassinio di Enrico Mattei agli attentati degli anni settanta, dal sabotaggio dell’aereo Argo 16 alla bomba dell’Italicus. Fino all’episodio più eclatante, la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, una ritorsione dei servizi segreti dello schieramento “atlantico” in quanto l’Italia aveva salvato il regime libico di Gheddafi da un colpo di Stato interno, appoggiato dall’Egitto di Sadat, dagli Stati Uniti e da Israele. Per non parlare ovviamente del sequestro e dell’omicidio di Aldo Moro. La peculiarità del caso italiano, la sua tragedia, sta appunto nel fatto che sono stati gli stessi governi ad imporre il silenzio su certi avvenimenti, non potendo ammettere tutto la realtà che c’era alle loro spalle e non potendo confessare l’inconfessabile. Ossia il fatto che l’Italia era un Paese “a sovranità limitata”. Questa consapevolezza ebbe il suo peso nella volontà di Aldo Moro di coinvolgere il PCI nell’area di governo. Il giorno che venne rapito, Moro si stava recando alla Camera per la discussione sul voto di fiducia all’esecutivo di Giulio Andreotti per il quale Berlinguer aveva garantito l’astensione, riservandosi di valutare volta per volta la politica del governo. Poi sull’onda emotiva provocata dal rapimento e dall’uccisione degli uomini della scorta ed in nome di una nuova unità costituzionale di stampo ciellenistico, che richiamava quindi i valori della Resistenza e dell’antifascismo, il PCI decise di votare a favore del governo Andreotti. Il ragionamento di Moro nasceva dalla considerazione che quella italiana fosse una democrazia incompiuta visto che un partito per il quale votava un italiano su tre fosse condannato a restare sempre all’opposizione, in conseguenza degli equilibri internazionali. Moro pensava che il coinvolgimento progressivo del PCI in responsabilità di governo ne avrebbe favorito la “progressiva” trasformazione in un partito socialdemocratico. L’uomo politico pugliese sapeva, anche attraverso i canali della diplomazia vaticana, che in
Unione Sovietica e nei Paesi satelliti già si scorgevano i primi segnali del futuro tracollo. Senza l’URSS alle spalle, questa era la sua valutazione, il PCI dovrà per forza di cose trasformarsi in qualcosa di altro. Di fatto il governo Andreotti rappresentava una tappa di quel processo di avvicinamento tra DC e PCI che Moro aveva lanciato nel 1969 con il termine di “strategia dell’attenzione”. Per Berlinguer il nuovo governo rappresentava invece una tappa della strategia del “Compromesso storico” secondo la quale il PCI non poteva pretendere di governare l’Italia insieme agli altri partiti di sinistra. Berlinguer partiva dalla lezione venuta dal Cile, dove il socialista Salvador Allende era stato ucciso nel corso di un colpo di Stato, dopo essere arrivato alla presidenza con poco più del 30% dei voti. Berlinguer ne concludeva che l’Italia poteva essere governata soltanto grazie ad un largo accordo tra i due partiti popolari, tra PCI e DC, tra masse comuniste e masse cattoliche. Se Moro, pur partendo da premesse diverse, condivideva questa impostazione di Berlinguer, vi aggiungeva l’assunto che un governo basato sul sostegno di quasi il 70% del Paese, considerando soltanto i due partiti, avrebbe avuto più forza per consentire all’Italia di difendere gli spazi autonomi di manovra che faticosamente era riuscita a ritagliarsi. Ma era quella parola “progressiva” che non poteva essere accettata a Washington dove le aperture all’Occidente dell’eurocomunista Berlinguer erano considerate solo chiacchiere. Da parte loro i settori più moderati della DC intendevano utilizzare la presenza del PCI nell’area del governo per estenuarlo. I comunisti dovevano rimanere nella periferia del potere ed essere portati ad approvare leggi che gli avrebbero alienato il favore e i voti del suo elettorato tradizionale. Fu quello infatti che successe nel 1980 quando il PCI uscì dalla maggioranza e venne ridimensionato di molto nelle elezioni politiche.
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Capitolo 2 - I vincoli di Jalta.
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La questione più importante sulla quale i tre Grandi, i vincitori della Seconda Guerra Mondiale, URSS, USA e Gran Bretagna, si erano accordati nel 1945 a Jalta ed a Potsdam fu il rispetto delle zone di influenza in Europa frutto della vittoria contro la Germania nazista.
Stalin, dai suoi interlocutori, ebbe di fatto il via libera per eliminare i partiti moderati e filo occidentali che erano maggioritari in Paesi come Ungheria e Cecoslovacchia. In cambio lasciò che le forze armate realiste, con l’appoggio della Gran Bretagna, spazzassero via i partigiani comunisti in Grecia che pure avevano sostenuto il maggior peso della resistenza contro i tedeschi. Roosevelt e Churchill prima a Jalta, e Truman e Attlee poi a Potsdam, fecero buon viso a cattivo gioco ed accettarono il fatto compiuto, non essendo in grado di scatenare una guerra di liberazione, una nuova “crociata” (per usare il termine usato da Eisenhower per definire l’intervento americano nel secondo conflitto mondiale) che avesse come scenario una Europa disseminata di macerie. Un’Europa che non aveva alcuna voglia, e nemmeno era in grado, di affrontare un altro conflitto. I casi più eclatanti si ebbero a Berlino Est, con la repressione dei moti di piazza del 1953, e soprattutto con la rivolta di Ungheria, dell’ottobrenovembre 1956. Qui, sull’eco del rapporto di Nikita Kruschev che al congresso del PCUS aveva messo sotto accusa i crimini di Stalin, di cui peraltro lui stesso era stato un complice, si innescò un movimento interno allo stesso partito comunista che presto sfociò in una rivolta popolare contro il governo in carica e la nascita di un nuovo esecutivo che, sulla pressione della piazza, finì per ventilare l’uscita dal Patto di Varsavia. La risposta di Mosca fu durissima con l’invio dell’Armata Rossa, il massacro degli insorti, la nascita di un governo fantoccio ed il processo e la successiva esecuzione dei principali dirigenti che avevano guidato i moti di piazza e il nuovo corso. Politici come Imre Nagy o militari come Pal Maleter.
La reazione dei Paesi occidentali fu di fatto nulla, salvo le prevedibili e scontate dichiarazioni di condanna improntate alla solidarietà per il popolo ungherese, i suoi morti ed i suoi profughi, che si aggiunsero alle trasmissioni di Radio Europa Libera. C’è da ricordare che Mosca, nello stesso periodo, riuscì a vanificare l’attacco degli anglo-si e degli israeliani contro l’Egitto di Nasser che aveva nazionalizzato il canale di Suez. Mosca arrivò a minacciare anche un attacco nucleare se gli occidentali non si fossero ritirati. Per Parigi e Londra, che stavano assistendo impotenti allo sbriciolamento dei loro Imperi coloniali, fu la dimostrazione finale della marginalità del loro ruolo sullo scenario internazionale. Suez rese chiaro che Francia e Gran Bretagna non contavano più niente o contavano ben poco come potenze espressione del cosiddetto Occidente. Gli unici che potevano farlo erano ormai gli Stati Uniti. È ormai assodato che la minaccia dell’uso dell’arma atomica da parte di Mosca fu un bluff giocato da Kruschev con il tacito assenso degli Stati Uniti che volevano mettere i due Paesi “amici” di fronte alla loro irrilevanza. Vi abbiamo salvato dai tedeschi, sembrava voler dire la Casa Bianca, vi abbiamo versato i miliardi del Piano Marshall, senza i quali la vostra economia sarebbe crollata, e adesso pretendete pure di muovervi in maniera autonoma ed andare in guerra da soli, utilizzando le logiche coloniali del secolo scorso? Credete forse di essere ancora una Grande Potenza? I fatti di Ungheria e di Suez rappresentarono in tal senso uno spartiacque. Dopo di essi furono infatti i soli Stati Uniti ad essere in grado di rappresentare i Paesi occidentali. Gli unici a potersi muovere in tutti gli angoli del mondo con le proprie forze armate e con ingenti risorse finanziarie. Gli unici in grado di imporre la propria volontà ai Paesi amici e alleati e a quelli che non avevano alcuna volontà di diventarlo. Del resto, fu anche per bilanciare l’attivismo britannico e se nel Mediterraneo, che Washington favorì il tentativo italiano di ritagliarsi uno spazio autonomo, sia politico che economico con il petrolio e il gas.
Mosca da parte sua preferiva avere un solo interlocutore con il quale trattare piuttosto che due o tre. Un interlocutore in grado di mantenere i propri impegni e con il quale dividersi il mondo. A Francia e Gran Bretagna non restò altro che prendere atto della nuova realtà internazionale, cercare di conservare qualche pezzo delle loro colonie di oltremare avviate sulla strada dell’indipendenza nazionale e, quello che era l’aspetto più importante, mantenere un qualche
controllo sull’economia locale specie se si trattava di risorse energetiche.
L’attuazione della logica di Jalta, accettata da Washington e da Mosca, fu in buona sostanza l’accettazione della difesa del giardino di casa da parte di ognuno dei contendenti, in base al principio: non venite a creare tensioni in casa nostra e noi non lo faremo nella vostra. La vicenda dei missili sovietici a Cuba nell’autunno del 1962 rappresentò un clamoroso infortunio da parte di Kruschev. Il primo segretario del PCUS uscì politicamente a pezzi dalla vicenda e fu considerato dai suoi come un “avventurista” che aveva voluto seguire i generali dell’Armata Rossa nei loro velleitari sogni di gloria e di rivalsa contro gli Stati Uniti. Un’accusa piuttosto pesante quella di avventurismo se fatta da marxisti, considerato che in ato essa aveva fatto cascare non poche teste. Non è un caso comunque che la crisi di Cuba si risolse positivamente, dopo che il mondo si trovò sull’orlo della guerra nucleare, grazie all’intervento della stazione del KGB negli Stati Uniti che riuscì a mediare tra Cremlino da una parte e Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato dall’altra. In tale occasione il KGB, allora guidato da Vladimir Semichastny, dimostrò di essere l’unica struttura sovietica realista e non condizionata dall’ideologia e l’unica in grado di vedere sul lungo termine. Non per niente fu lo stesso KGB nel 1964 a trovarsi al centro del pronunciamento con il quale il Politburo del PCUS detronizzò Nikita Kruschev sostituendolo con Leonid Breznhev. Le implicazioni di queste rivalità tra KGB e Armata Rossa (e quindi il GRU, il servizio segreto militare) si faranno sentire anche nella vicenda del sequestro Moro. Durante i 55 giorni nei quali il politico democristiano fu tenuto prigioniero, il KGB ed il GRU si fronteggiarono operando secondo due logiche divergenti. Il primo nella difesa dello status quo negli equilibri internazionali, il secondo nell’ottica di scavare delle crepe nell’edificio che li sorreggeva. Un fenomeno simile si ebbe negli Stati Uniti con una struttura più politica come l’FBI contrapposta ai vari servizi militari e agli ambienti industriali legati alla Difesa che da un acuirsi delle tensioni internazionali contavano di trarre lo stanziamento di maggiori risorse per forniture di armi e tecnologie. In Italia invece le rivalità tra SISMI e SISDE si evidenziarono quando, negli anni novanta, grazie ad alcune “veline” fatte filtrare da ambienti del SISMI, emersero taluni inquietanti legami tra il covo BR di Via Gradoli e il servizio segreto civile che, tramite società di copertura, era proprietario di diversi appartamenti nello stesso comprensorio. Ma non si deve concludere che anche in Italia si fosse realizzato un legame stretto tra le intelligence militare e le industrie fornitrici della Difesa. E non si può nemmeno
pensare che SISMI e SISDE, all’interno del sequestro Moro, si muovessero di riflesso a quanto facevano i loro confratelli di oltre Atlantico. SISDE e SISMI infatti avevano ai propri vertici dirigenti in perfetta sintonia con le logiche “atlantiche, in quanto erano più o meno tutti iscritti alla Loggia P2 e quindi si muovevano all’unisono. Ma al loro interno c’erano fazioni che avevano un approccio più “mediterraneo” che “atlantico”, come quelle che nel vecchio SID, il servizio militare, erano legate al suo ex capo, Vito Miceli. Certo i due servizi dovettero scontare gli effetti di una completa ristrutturazione che all’inizio del 1978 aveva ridisegnato, ma aveva anche indebolito l’intelligence italiana. Una svolta resasi necessaria dopo gli scandali dei depistaggi operati dallo UAR (l’Ufficio Affari Riservati del Viminale) e dal SID, entrambe finiti sotto accusa per avere coperto i presunti responsabili delle bombe degli anni settanta. Ricordato questo, si deve, però, precisare che alcuni settori del SISMI cercarono sul serio di scovare la prigione di Moro. Si pensi al colonnello Cogliandro o a quei funzionari, come il colonnello Giovannone, che erano legati a Miceli, considerato un “moroteo” e un filo-palestinese, in contrapposizione al generale Gian Adelio Maletti, ex capo dell’Ufficio D (controspionaggio) del SID, considerato un filo-israeliano.
La contrapposizione tra Kissinger e Brzezinski
In relazione ai rapporti tra Roma e Washington si è sempre molto insistito sulle minacce che Moro ricevette nel 1974 durante il suo viaggio negli Stati Uniti da Henry Kissinger, allora Segretario di Stato dell’amministrazione repubblicana. Kissinger avrebbe invitato apertamente Moro a smetterla con la sua politica di progressivo coinvolgimento del PCI nell’area del governo che poi inevitabilmente avrebbe portato all’ingresso a pieno titolo dei comunisti in un esecutivo. Le minacce di Kissinger, secondo una certa pubblicistica di sinistra, sarebbero la conferma della longa manus degli ambienti americani più conservatori e reazionari, quelli repubblicani, nella vicenda del sequestro e dell’uccisione di Moro. Affermazione quanto mai temeraria se si pensa che nel marzo-maggio 1978 alla Casa Bianca governava una amministrazione democratica nella quale il segretario di Stato era Cyrus Vance ed il consigliere di politica estera del Presidente, Jimmy Carter, era il polacco naturalizzato americano Zbigniew Brzezinski.
Nel periodo 1976-78 la stampa italiana di sinistra si esercitò molto sulla contrapposizione della linea Brzezinski con quella di Kissinger arrampicandosi sugli specchi per dimostrare che la nuova amministrazione USA era favorevole all’arrivo al potere in Italia di un PCI eurocomunista. Da qui tutte le dotte disquisizioni sulle differenze tra il progressista polacco contro il conservatore tedesco di origine ebraica. In realtà, proprio queste due origini etniche e le stesse idee dei due esperti di politica internazionale, allora come oggi, stanno a dimostrare che le cose non stanno così. Infatti, Kissinger, ammiratore di Metternich sulla cui politica estera aveva scritto la propria tesi di laurea, e fautore del mantenimento dello status quo, voleva evitare qualsiasi sommovimento che rischiasse di destabilizzare l’Europa e l’area del Mediterraneo e di trasformarle in un teatro di scontri che l’avrebbe disseminata di macerie. A sua volta, Brzezinski, che come polacco era nemico giurato sia dell’URSS che dell’unità tedesca, non voleva che i comunisti fossero coinvolti nella gestione del potere legittimo in Italia, a meno che non avessero rotto totalmente i propri legami con i sovietici e di conseguenza avessero rifiutato i sostanziosi finanziamenti che arrivavano al partito da Mosca per tenere in piedi la mastodontica macchina organizzativa del partito, compresa la struttura della Gladio Rossa. Ma non c’era solo questo aspetto. L’amministrazione Carter voleva che il PCI di Berlinguer operasse una svolta socialdemocratica, abbandonando l’idea di trasformare i rapporti sociali ed economici in Italia e accettando in pieno le logiche dell’economia di mercato con impegni ufficiali presi dai suoi massimi dirigenti. Una svolta troppo pesante perché potesse essere ingoiata dai militanti di base ed in particolare a quelli più legati al mito della Rivoluzione di Ottobre e che sognavano sempre la “spallata finale” che li avrebbe portati al potere. L’idea cardine di Brzezinski, che risalta ancora di più oggi con il suo ruolo occulto di consigliere dell’amministrazione Obama, è quella dell’accerchiamento dell’Unione Sovietica allora e della Russia oggi.
La sorella di Reza Pahlevi, esule negli USA dopo la rivoluzione khomeinista, accusò Brzezinski di avere operato per il successo del cambio di regime in primo luogo perché lo Shah non era abbastanza allineato ai desiderata degli USA, ma soprattutto per provocare un’infezione che, grazie all’effetto domino, si sarebbe riversata nelle confinanti repubbliche a maggioranza islamica dell’URSS tanto da provocarne alla fine il dissolvimento. Peraltro, Reza Pahlavi aveva fatto
l’errore di voler trasformare il porto di Bandar Abbas, realizzato dal gruppo pubblico italiano Condotte, in una base militare, che collocata all’ingresso del Golfo Persico, avrebbe controllato il traffico del petrolio e questo gli USA non potevano accettarlo.
L’altra idea di base di Brzezinski, che in questo riprendeva la vecchia idea del Grande Gioco dell’Impero Britannico, era quella di impedire l’accesso dell’URSS ai mari caldi e di disporre quindi di un porto sull’Oceano Indiano per le proprie navi da guerra.
Fu per rispondere a questa strategia che Mosca invase l’Afghanistan e vi installò governi amici guidati da esponenti del partito comunista locale. Nel 1991 l’URSS si disintegrò sia per motivi strettamente economici, non c’era più un rublo in cassa, sia perché le singole etnie e nazionalità rivendicavano l’indipendenza. Oggi rivediamo che questa idea dell’accerchiamento continua sul fronte ovest con la volontà di fare entrare nella NATO due ex Paesi membri dell’URSS come la Georgia dell’ultra filo-americano Sakashvili, e l’Ucraina che, dopo la vittoria del filo-russo Viktor Yanucovich alle presidenziali di gennaio 2010, ha accantonato decisamente il progetto. Sul fronte sud, gli USA continuano nel tentativo di tenere i piedi nelle repubbliche dell’Asia Centrale che, dopo l’11 settembre, dietro lauto compenso, avevano accettato di affittare le proprie basi aeree per gli attacchi all’Afghanistan dei talebani. Se l’idea di scontro per interposta persona è una caratteristica di Brzezinski che all’epoca del sequestro Moro dettava le linee della politica estera USA, e se quella di Kissinger si risolveva nel mantenimento dello status quo e del contenimento dell’URSS, c’è da domandarsi quale delle due visioni sia stata più coerente con la eliminazione di Aldo Moro dalla scena politica. Gli stessi familiari dell’uomo politico leccese ed i suoi collaboratori più stretti hanno parlato delle minacce rivolte da Kissinger, ma se si considera che nel 1978 Kissinger non era più al governo, allora anche la filosofia di Brzezinski diventa funzionale alla svolta di Via Caetani. Brzezinski era certamente fautore di uno scontro con l’URSS, che avesse come protagonisti i Paesi “ascari” delle due superpotenze, ma non voleva che questo si verificasse nell’area di influenza degli Stati Uniti, cioè in quella Italia che rappresentava e rappresenta il punto di equilibrio nell’area del Mediterraneo. Allora tra Est ed Ovest, oggi tra Europa e i Paesi del Nord Africa.
In Italia questo tipo di considerazioni sono state inficiate dal fatto che il repubblicano Kissinger è stato visto come un uomo di destra e il democratico Brzezinski come uno di sinistra. Inoltre, i più insistenti storici del sequestro Moro sono studiosi che provengono dall’area del vecchio PCI, come Sergio Flamigni, e quindi portati a valutare una vicenda con i parametri dell’ideologia. Ma tale impostazione porta a non capire l’essenziale e cioè il fatto che la politica estera di un Paese come gli Stati Uniti risponde a logiche di difesa degli interessi economici e militari nazionali che qualunque presidente sarà tenuto a perseguire. Non è quindi importante se sia stato Brzezinski o l’accantonato Kissinger a mettere la sua impronta nella vicenda. Basta sapere che una delle manine che hanno manovrato dietro le quinte, non la sola ovviamente, era statunitense.
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Capitolo 3 - L’ENI ed il petrolio.
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Quando nel 1946 venne nominato commissario liquidatore dell’AGIP (Azienda Generale Italiana dei Petroli) Enrico Mattei, già dirigente delle formazioni partigiane cattoliche e piccolo industriale chimico, non aveva ancora le idee molto chiare su quello che doveva fare. La guerra era da poco finita e l’Italia ne era uscita devastata.
Il primo obiettivo da perseguire, fu la sua valutazione, era quello di ricostruire, riavviare la vita economica e permettere alle imprese di operare. Ma per fare tutto questo si aveva bisogno di energia e quindi di petrolio. Le nostre aziende dovevano essere concorrenziali rispetto a quelle estere altrimenti non sarebbero riuscite a ritagliarsi alcuno spazio sul mercato interno e su quelli internazionali. Non aveva senso quindi, anzi era contrario ai nostri interessi mettere in liquidazione l’AGIP. Certo l’azienda pubblica non aveva brillato molto nelle sue ricerche e non era stata in grado di capire che la Libia più che un bel suol di amore era un bel suol di petrolio. Ma di certo poteva rappresentare lo strumento per rendere il nostro Paese non dipendente dalle compagnie petrolifere straniere. Ad incominciare da quelle statunitensi (Exxon, Gulf, Mobil, Chevron e Texaco) per finire a quelle inglesi (British Petroleum) e anglo-olandesi (Shell). In altre parole le Sette Sorelle. Per non parlare di quelle si (Total, Elf e Fina) operanti in particolare nell’Africa del Nord.
Mattei fece molta fatica per imporre il suo punto di vista al governo, ma ebbe la fortuna di essere appoggiato nel suo disegno da una figura come Amintore Fanfani che negli anni cinquanta fu l’uomo politico più potente del Paese. Fanfani, esponente dell’ala più “sociale” della DC e professore di storia economica, capì al volo il senso politico della richiesta di Mattei di non liquidare
l’Agip e della filosofia che lo animava. Un Paese non può avere un’indipendenza politica se non dispone di un’indipendenza economica ed energetica. Fanfani benedisse e sostenne così l’idea di creare un vero e proprio ente pubblico con lo scopo di ricercare ed estrarre il petrolio e il gas necessari per i consumi interni. Nacque così nel 1952 l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, di cui l’Agip divenne una consociata.
Quello che Mattei fece in seguito in Italia nella Pianura Padana, come a Cortemaggiore, per dimostrare ai politici la presenza, spesso e volentieri fittizia, di enormi quantità di metano nel sottosuolo e ottenere finanziamenti per il nuovo Ente, appartiene ormai alla leggenda ed è poco rilevante ai fini di questo libro.
Sicuramente più importante è la politica innovativa che Mattei realizzò all’estero per permettere all’ENI di penetrare nei Paesi produttori e vincere la concorrenza angloamericana. Fino ad allora, i Paesi con grandi quantità di idrocarburi nel sottosuolo, privi di personale tecnico specializzato e non in grado di estrarre da soli il petrolio e il gas, erano stati costretti a rivolgersi alle Sette Sorelle, ed alle compagnie si, che eseguivano tutto il lavoro, ne traevano a loro piacimento i profitti e ne lasciavano una misera percentuale ai governi locali.
La strategia di Mattei fu innovativa verso i Paesi produttori e soprattutto non soffrì di alcun complesso di inferiorità verso le ben più potenti compagnie straniere. L’ENI offrì condizioni molto più vantaggiose che finirono per suscitare un generale atteggiamento di simpatia verso Roma, sul quale ancora oggi, a distanza di oltre 50 anni, l’ENI e l’Italia, vivono di rendita. Mattei previde oltre il 50% di profitti per i Paesi produttori. Inoltre l’ENI stabilì che se le ricerche di un determinato giacimento non fossero andate a buon fine, la spesa sarebbe rimasta a carico dell’Ente stesso.
Ma soprattutto, il gruppo italiano decise di investire sulla formazione e sulla crescita di tecnici locali che furono addestrati alla scuola aziendale di San Donato Milanese. Tecnici che una volta tornati a casa sarebbero stati in grado di
fare da soli ed anche di costituire la spina dorsale di una futura compagnia di Stato. Questo approccio “non colonialista” fu il mezzo che permise all’ENI di entrare in posizione di forza in realtà estere che sembravano inaccessibili.
Per poter agire liberamente a livello internazionale, Mattei fu obbligato a muoversi con una certa spregiudicatezza in Italia in modo da non trovarsi con le spalle scoperte. In primo luogo fece nascere e finanziò una corrente della Dc, la cosiddetta Base, che lo sostenesse in casa e fuori. Poi, ben cosciente dell’importanza del ruolo della stampa, creò un giornale, il Giorno, di proprietà dell’ENI, per sostenere presso l’opinione pubblica la bontà della sua politica.
L’accusa principale che venne rivolta a Mattei fu quella di essere un corruttore. Di avere versato soldi praticamente a tutti i partiti, PCI e MSI inclusi, per zittire ogni tipo di critica all’attività del suo ente. “Uso i partiti come un taxi e quando mi va scendo”, era solito ironizzare.
La stampa cosiddetta liberale e liberista non gli risparmiò critiche. Ma c’è da ricordare che buona parte di tali articoli non era ispirata ai dichiarati desideri di moralizzazione della vita pubblica, ma aveva invece la sua ragione di essere nei finanziamenti che le lobby petrolifere straniere versavano a loro volta a piene mani. A Milano, in particolare, era molto attiva la Esso italiana (consociata della Exxon) guidata da Vincenzo Cazzaniga che vantava non pochi terminali all’interno degli stessi partiti della maggioranza di governo. Tutti, giornalisti e politici, pronti incredibilmente a sposare di fatto gli interessi dei concorrenti di una azienda italiana accusata di essere monopolista sul mercato interno. Particolare acredine venne dimostrata da Indro Montanelli dalle colonne del Corriere della Sera con alcuni articoli pubblicati meno di un mese prima dell’attentato nel quale Mattei trovò la morte il 27 ottobre 1962 nel cielo di Bascapè.
La vicenda di Mattei e la sua tragica fine unita a quella di Aldo Moro, sono comunque esemplari per comprendere quanto sia pericoloso toccare certi
equilibri. Solamente nel 1996 la magistratura italiana, dopo un silenzio di oltre 30 anni, e dopo aver fatto esaminare attentamente i reperti, ha stabilito che si trattò di un attentato. Una verità, però troppo scomoda per poter essere rivelata subito in quanto avrebbe messo sotto accusa le responsabilità di Paesi cosiddetti “amici” e degli interessi delle loro compagnie energetiche e ovviamente la manina di qualche servizio segreto. Ma una verità che apparve subito chiara a chi la voleva vedere ed a quanti non volevano accettare la bufala dell’aereo precipitato.
Le prime ad essere accusate furono le Sette Sorelle delle quali Mattei disturbava i piani con il suo frenetico attivismo. Ma è un’accusa che non convince fino in fondo perché a certi livelli economici un accordo si trova sempre e perché ognuno degli operatori del settore sa quali sono i confini oltre i quali non ci si può spingere. Di conseguenza tale ipotesi assume un senso se in essa vengono inserite variabili di carattere più prettamente politico che hanno a che fare con gli equilibri politici internazionali.
Allo stesso modo, proprio perché basati esclusivamente su questi ultimi, non appare esauriente la spiegazione suggerita di un attentato da parte dei servizi segreti USA avvenuto in concomitanza con la crisi di Cuba, mentre il mondo era sull’orlo di una guerra nucleare.
Mattei, è la tesi contrabbandata, sarebbe stato eliminato in quanto considerato una pericolosa quinta colonna sovietica. Un’accusa in realtà tutta da ridere. Se Mattei infatti poteva essere considerato un terzomondista, aveva per esempio rotto le uova nel paniere in Iran alla British Petroleum, non era sicuramente un comunista. E lo dimostra il suo ato di partigiano bianco, capo di quelle formazioni dalle quali uscirono i quadri di Gladio. Cosa che non gli impedì ovviamente di fare affari con l’URSS. Del resto non è un caso che il servizio interno di sicurezza dell’ENI fosse formato in buona parte da ex partigiani bianchi, uomini di sua assoluta fiducia.
Non sono nemmeno convincenti i sospetti sulla Francia che si appoggiano sulla circostanza che Mattei aveva finanziato il Fronte Nazionale di Liberazione algerino, tanto da mettere a disposizione un appartamento a Roma per il suo presidente, Mohamed Ben Bella. La Francia con De Gaulle aveva, infatti, da tempo avviato il processo per dare l’indipendenza all’Algeria che appariva ormai un traguardo inevitabile che si poneva all’interno del più generale processo di decolonizzazione.
E poi erano stati, in realtà, gli servizi segreti americani a versare non pochi soldi al FLN proprio per buttare fuori la Francia dalla nuova Algeria indipendente.
La pista britannica assume invece un certo interesse. Documenti emersi dagli archivi del Foreign Office testimoniano delle preoccupazioni del governo di Londra e degli ambienti finanziari ed industriali della City per la minaccia rappresentata dall’ENI e da Mattei agli interessi britannici. Londra, molto più lungimirante di Washington, aveva ben chiara l’idea sul come si potevano evolvere gli scenari internazionali in tutta l’area del Vicino e Medio Oriente, se l’uomo di Matelica avesse potuto realizzare i suoi progetti.
La minaccia, nell’ottica britannica, non era soltanto di tipo commerciale. Dava sicuramente fastidio la sua politica che portava ad un generale calo dei prezzi del petrolio e del gas e quindi ad un calo dei profitti delle majors. Una politica che si sviluppava dal Marocco fino all’Iran. Per non parlare degli accordi industriali e commerciali stabiliti con l’Unione Sovietica. Ma la minaccia era molto più sottile e devastante perché si sviluppava, in molte parti del mondo, infondendo nei Paesi produttori e nei loro vicini la sfiducia nei confronti delle compagnie petrolifere occidentali. Una sfiducia economica che poteva trasformarsi presto in sfiducia politica. Questo perché, in parallelo con l’attività squisitamente economica, creando tecnici indigeni nei Paesi produttori, Mattei incoraggiava l ´autarchia energetica a tutto danno di Londra, della British Petroleum e della anglo-olandese Shell. E poi non mancava occasione di svolgere una feroce propaganda contro l´imperialismo e contro le Sette Sorelle, tanto da far sospettare che volesse guidare l’Italia fuori dalla NATO.
Il cosiddetto “Matteism” non poteva piacere ai britannici anche se dai documenti usciti di recente dagli archivi di Londra emerge una sorta di ammirazione per un uomo di indubbie capacità ed al quale si dava atto di non essere un corrotto, di non essersi arricchito ed anzi di vivere in un modo tutto sommato modesto. L’attivismo di Mattei andava quindi ad incidere su alleanze consolidate e sulla stabilità di intere aree ad incominciare dal Vicino Oriente che ancora risentiva della crisi di Suez del 1956.
Gli stessi politici italiani di governo apparivano piuttosto ambigui e sfuggenti nel prendere una posizione su Mattei considerato che era l’ENI allora a determinare la politica estera dell’Italia.
Nell’ottobre del 1961, l’allora presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, cercò di rassicurare i governi americano e britannico, e le stesse majors, sulla non pericolosità di Mattei, ponendo l’accento sulle intese con Mosca che Washington vedeva male più per motivi economici che politici, vista l’antica e cinquantennale presenza della Exxon a Baku in Azerbaijan, il cuore dell’industria petrolifera sovietica. Fanfani si disse pronto ad annullare l’intesa tra ENI e URSS, ma chiese in cambio che il gruppo italiano non trovasse ostacoli in altre parti del mondo per assicurare l’indipendenza energetica al nostro Paese. Richiesta che ovviamente non ebbe seguito.
Resta allora un’altra ipotesi ugualmente concreta e che si allaccia alle vicende interne dell’ENI. Pochi mesi prima di Bascapè, Mattei aveva allontanato dal gruppo il suo braccio destro Eugenio Cefis, anche lui ex partigiano cattolico, dopo aver scoperto che questi aveva stabilito rapporti stretti con Israele, proprio mentre l’ENI era in una delicata trattativa di affari con l’Egitto. Significativo fu dunque, quasi a testimoniare di un cambiamento di rotta di 180°, che dopo la morte di Mattei, Cefis fu richiamato all’ENI questa volta per guidarla ed imprimendogli un indirizzo molto meno spregiudicato che in ato e molto più in linea con le classiche logiche di tipo “atlantico” e occidentale. Un’ipotesi israeliana nel caso dell’attentato a Mattei è molto meno peregrina di quanto si
possa pensare ad una prima affrettata analisi.
In quel periodo, infatti, si era nel 1962, il Mossad compì numerosi attentati, in Germania e nello stesso Egitto, contro tecnici tedeschi che stavano sostenendo lo sforzo missilistico del governo di Nasser. Molti di loro erano ex ingegneri che avevano lavorato con Werner Von Braun a Peenemünde per sviluppare il programma delle V1 e delle V2 lanciate a centinaia su Londra. Furono uccisi da pacchi bomba inviatigli per posta o più semplicemente liquidati a colpi di pistola. Il Mossad, infatti, non si è fatto mai molti problemi di usare mezzi estremi quando è in gioco la sicurezza nazionale e la sopravvivenza di Israele, ed è sempre stato in grado di colpire potendo contare non solo su agenti di prim’ordine, ma anche su una vasta rete mondiale di collaboratori volontari scelti di volta in volta anche solo con compiti logistici, i cosiddetti “sayanim”, prelevati dalle numerose comunità ebraiche sparse per il mondo.
Con l’occhio rivolto alla sicurezza di Israele, il Mossad non poteva non valutare con preoccupazione che l’eventuale scoperta e sviluppo da parte dell’ENI di giacimenti petroliferi in Egitto, avrebbe permesso a Nasser di disporre di nuove e notevoli risorse finanziarie per rafforzare il proprio arsenale bellico ed utilizzarlo in una nuova guerra contro il confinante Stato ebraico.
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Capitolo 4 - Tra Israele ed i Paesi Arabi.
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La politica italiana nei riguardi dei Paesi arabi e di Israele fu condizionata da quattro ordini di fattori. Il primo ovviamente la necessità di instaurare buone relazioni con i Paesi produttori e garantirsi l’approvvigionamento di petrolio. Il secondo, quello di essere conseguenti con le alleanze internazionali atlantiche e quindi sostenere il diritto all’esistenza dello Stato ebraico. Il terzo, parallelo al precedente, la consapevolezza di dover agire per il riconoscimento del diritto ad una Patria e ad uno Stato per i palestinesi che dalla Palestina erano stati espulsi con la forza nel 1948. Quarto ed ultimo, non meno importante, essendoci, nel periodo considerato, un partito di cattolici al governo, era molto sentito come doveroso il compito di salvaguardare lo status internazionale di Gerusalemme come punto di incontro delle tre religioni monoteiste ed al tempo stesso garantire la sicurezza delle comunità cristiane nel Vicino Oriente che, prima della nascita di Israele avevano goduto di una relativa tranquillità.
Si può dire che Enrico Mattei fu l’interprete forte della prima impostazione. Tutti i politici italiani di governo accettarono e fecero propria la seconda. Aldo Moro, unitamente a Bettino Craxi, fu l’interprete della terza. E Giulio Andreotti fu quello che si mosse per la quarta, considerati i suoi rapporti di antica data non solo con gli ambienti della Curia, ma con lo stesso Giovan Battista Montini (il futuro Paolo VI) quando era il consigliere spirituale della FUCI, l’organizzazione degli universitari cattolici. Non che Moro non avesse rapporti strettissimi e quasi filiali con Montini che, dicono molti, probabilmente morì di crepacuore per l’uccisione del suo antico allievo, ma è Andreotti quello che più agì per la tutela delle varie comunità cristiane che fanno capo al Vaticano.
È appena il caso di ricordare che sia Enrico Mattei che Aldo Moro sono stati
assassinati e che, seppure per altri motivi ma che sempre rientrano in logiche “atlantiche”, gli stessi Giulio Andreotti e Bettino Craxi sono stati liquidati politicamente con le inchieste di mafia, il caso Pecorelli e Mani Pulite. La logica che ha impregnato tali regolamenti di conti era che l’Italia, pur essendo piazzata al centro del Mediterraneo, non poteva permettersi di svolgere una politica estera troppo autonoma perché rischiava di destabilizzare gli equilibri esistenti e nuocere agli interessi di quanti “mediterranei” non erano, a cominciare dagli USA.
L’Italia in altre parole doveva restare iva, subire gli avvenimenti ed accettare da funzionare da parafulmine per gli scontri di energie superiori, come quelle delle Grandi Potenze, USA e URSS. Essa doveva anche accettare che il suo territorio fosse il campo di azione per i loro più o meno ossequiosi vassalli, Gran Bretagna e Cecoslovacchia in testa, ma anche per quelle realtà del Vicino Oriente, Siria, Egitto ed Israele, che l’avevano eletta a loro valvola di sfogo.
Non è quindi un caso che il numero di agenti segreti dei vari Paesi abbia raggiunto in Italia livelli mai visti altrove, a dimostrare l’importanza che veniva allora attribuita alla Penisola. Ed è altrettanto significativo che i governi italiani e i servizi di intelligence nazionali, ben coscienti di non poter fare molto per evitare questo ruolo debole del nostro Paese, siano stati costretti ad occultarne le responsabilità ed anche laddove era possibile, fare espatriare gli autori di omicidi ed attentati. Tutta questa cortina di silenzio è stata innalzata anche quando, e questo è l’aspetto più inquietante, il nostro Paese fu oggetto di ritorsioni estere, come nel caso dell’attentato alla stazione di Bologna, o vittima di guerre internazionali non dichiarate, come nel caso dell’aereo Itavia abbattuto nel cielo di Ustica, durante uno scontro tra aerei della NATO, USA e si, e Mig libici.
Ma si può anche citare l’espatrio in Libia di guerriglieri palestinesi, arrestati in Italia e armati di tutto punto, che fu organizzato dal SISMI con un aereo di servizio che venne successivamente sabotato dal Mossad con la morte di tutti gli occupanti. Nel periodo della Guerra Fredda eravamo insomma un Paese a
“libertà vigilata” che ogni tanto, in nome della dignità nazionale, era capace di qualche soprassalto “virile” tanto per dimostrare che non eravamo solamente dei vassalli di Washington. Come dimostrò ad esempio Bettino Craxi nell’ottobre 1985 con i fatti di Sigonella. In linea generale restavamo un Paese che doveva subire ed abbozzare. Se si assume tale chiave di lettura si comprendono allora le reticenze dei vari governi ad ammettere la realtà ed a confessare l’inconfessabile.
Il Mediterraneo, il nostro giardino di casa
L’ostilità verso Aldo Moro da parte degli ambienti politici ed economici statunitensi ed israeliani non può essere, però liquidata come una semplice conseguenza del suo disegno politico di coinvolgere il PCI nell’area di governo e di obbligarlo a trasformarsi in socialdemocratico. Una convinzione “ideologica” del genere sarebbe fuorviante e non servirebbe a comprendere quale era la posta in gioco.
Il vero elemento di disturbo per gli interessi di Washington e Tel Aviv risiedeva nella strategia politica di Moro di stabilire rapporti diretti e privilegiati con Paesi arabi produttori di petrolio, prevedendo in essi anche la possibilità di forniture militari. Questa strategia non dava fastidio solamente ad USA e Israele, ma anche a Gran Bretagna e Francia che hanno sempre considerato il Mediterraneo come una loro riserva di caccia. Come Ministro degli Esteri dal 1969 al 1974, Moro portò la Farnesina a muoversi con lungimiranza essendo in grado di vedere in anticipo come si stava trasformando l’intera area.
Significativo è il rapporto stabilito con la Libia di Muhammar Gheddafi la cui rivoluzione del settembre dicembre 1969 aveva usufruito di un non indifferente sostegno logistico da parte del SID, il nostro servizio segreto militare.
L’espulsione di dodicimila italiani residenti in Libia e l’esproprio dei loro beni
da parte del governo di Tripoli, nel periodo luglio-settembre 1970, incomprensibile partendo da tale premessa, venne spiegata da Moro come un gesto necessario per sottolineare il carattere rivoluzionario del regime e a far scordare all’opinione pubblica “la ritirata ideologica di Gheddafi sul fronte della lotta a Israele”
Moro ebbe con Gheddafi un incontro il 5 maggio del 1971 nel corso del quale il Colonnello parlò di possibili forniture italiane di armamenti e il responsabile della Farnesina replicò che “l’Italia è sempre contraria per un principio generale della sua politica a simili iniziative”. Il politico italiano non escluse però la fornitura di 20 Elicotteri Meridionali CH-47C o di aerei da trasporto ed addestramento (come i 20 Aeritalia G-222 ed i 240 SIAI Marchetti SF-260W) che vennero poi effettivamente forniti a Tripoli a partire dal biennio 1977-78. A questi seguirono anche mezzi corazzati quali trecento blindo FIAT Mod. 6614 e 6616 portati in Libia con mezzi di trasporto navale ed aereo.
Documenti riservati, usciti recentemente dal suo archivio privato, evidenziano che il politico di Maglie era favorevole a vendere armi a tutti i Paesi arabi e quindi non solo a quelli considerati “amici e moderati”. Le forniture di armi e petrolio, pensava Moro, sono strettamente legate e contribuiscono a determinare lo stile e la sostanza delle relazioni internazionali con un singolo Paese. In particolare, per quelli che sono emersi dalla povertà grazie al greggio del sottosuolo e che volevano entrare nella modernità assicurandosi un’adeguata struttura di difesa. In tal modo, un politico che dava l’idea di pensare a lungo ad un problema prima di assumere una decisione, un ministro con una perenne aria imperturbabile ed una espressione enigmatica, era in realtà un politico attentissimo a cogliere tutte le opportunità che si presentavano ed era anzi in grado di aprire nuovi e impensabili canali diplomatici.
Sullo scenario mediterraneo, Moro voleva mantenere l’Italia in equilibrio fra arabi e Europa continentale da una parte, e inglesi e americani dall’altra. In un documento Moro ricordava che l’Italia era il solo Paese che era stato in grado di conservare rapporti diplomatici con tutti i Paesi arabi anche in conseguenza della
sua posizione geografica. La politica a suo avviso non bastava. Non ci si poteva limitare alle buone intenzioni. E se era necessario muoversi con la dovuta discrezione era necessario introdurre come variabile l’aspetto economico. E questo significava essere pronti ad esaudire anche le richieste di forniture militari da lui definite “ragionevoli”. A suo avviso, le Nazioni occidentali dovevano poter ritornare nei Paesi dai quali erano stati buttati fuori. Ma questa strategia, mirata a favorire la presenza nell’area dei tradizionali alleati atlantici dell’Italia non significava però sudditanza nei riguardi di nessuno soprattutto perché Moro non nascondeva l’insofferenza verso la politica di Gran Bretagna e Stati Uniti. Moro faceva l’esempio dei porti tunisini dove erano giunte unità militari navali italiane e si e dove avrebbe visto con favore l’arrivo di quelle turche. Ma Moro non poteva non ammettere di vedere con ostilità l’approdo di navi americane e inglesi. La spiegazione data dal politico democristiano era sorprendente, ma al tempo stesso ineccepibile. Unità del genere a Tunisi sarebbero due corpi estranei, due entità atlantiche. Mentre i tunisini vedrebbero molto naturale i si, come ex colonizzatori, gli italiani come dirimpettai, infine i turchi in quanto mediterranei come gli altri due. È interessante la strategica che emerge da questi documenti perché si rifà ad una visione “mediterranea” piuttosto che “atlantica”. Una visione nella quale l’Italia deve perseguire in maniera autonoma i propri interessi e non semplicemente stare a rimorchio delle logiche USA.
Il significato delle bombe del 1969
Le bombe del dicembre 1969 a Milano e Roma vengono comunemente considerate come l’inizio di quella che venne denominata “la strategia della tensione”. Ossia come il tentativo delle forze reazionarie, politiche ed economiche di ricacciare indietro le forze di sinistra che sull’onda della contestazione studentesca e delle rivendicazioni operaie culminate negli scioperi di quell’anno, il periodo denominato “Autunno Caldo”, avevano alzato la testa e pretendevano maggiori diritti e una rappresentanza politica maggiore e proporzionata al nuovo peso acquisito nella società italiana. In realtà questa interpretazione appare incompleta e non attribuisce il dovuto peso all’incidenza dello scenario internazionale dell’area mediterranea che dopo la Guerra dei Sei Giorni (6 giugno 1967) era radicalmente mutato.
Il vero inizio della fase più nera del nostro Paese deve essere allora fissata nel 27 febbraio 1969 quando a Roma il Presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, incontrò il Presidente USA, il repubblicano Richard Nixon. Saragat, per il suo ato, era un anticomunista di provata fede e lo aveva dimostrato nel 1947 con la scissione di Palazzo Barberini quando i riformisti abbandonarono il PSIUP filocomunista di Nenni e Morandi per fondare, anche grazie ai fondi USA, il PSLI che successivamente divenne il PSDI.
Nell’incontro i due capi di Stato parlarono della nuova realtà che si era venuta a creare nell’area mediterranea e convennero sulla necessità che l’Italia fe la sua parte e abbandonasse le tentazioni filoarabe e filo palestinesi, presenti in vasti settori del principale partito di governo (i “morotei” nella DC), accentuando, invece, una linea atlantica, filoamericana e filoisraeliana. Si voleva cavalcare l’onda di quanto era già successo in Grecia con il golpe dei colonnelli del 21 aprile del 1967. O in Francia, dove la rivolta del maggio del 1968, con operai e studenti nelle piazze, aveva spaventato a morte i moderati e nelle elezioni di giugno aveva portato ad un trionfo elettorale dei gollisti di De Gaulle, consacrato da una maggioranza elettorale e parlamentare mai vista. Era quindi necessario spingere l’estrema sinistra ad alzare il livello dello scontro per poi imporre non tanto una dittatura militare, un traguardo impossibile da realizzare in Italia, quanto la proclamazione dello stato di emergenza, la prima tappa per arrivare alla trasformazione in senso presidenziale delle istituzioni ed alla creazione di un regime autoritario di centro destra.
Gli ambienti militari statunitensi ed italiani temevano infatti che il Mediterraneo potesse divenire uno scenario di scontro tra Est e Ovest e che il secondo, oltre a Israele, non disponesse di basi militari d’appoggio per contrastarlo, ad incominciare da quelle navali.
L’Egitto, dopo la guerra persa con Israele, aveva accentuato la vicinanza con Mosca offrendole la base navale di Alessandria d’Egitto. Una risposta chiara alla dichiarazione del 10 giugno 1967, l’ultimo giorno del conflitto, con la quale
l’URSS ed i Paesi del Patto di Varsavia, esclusa la Romania, avevano interrotto le relazioni diplomatiche con Israele. Un altro fatto che aveva preoccupato non poco Washington era che il governo del Libano, un Paese tradizionalmente neutrale, in quanto guidato da una classe dirigente cristiana e musulmanomoderata, nella primavera del 1967, un mese prima della guerra dei Sei Giorni, avesse impedito alla Sesta Flotta USA di attraccare nei suoi porti.
L’URSS non aveva quindi più bisogno di are per il Bosforo e per i Dardanelli per giungere nel Mediterraneo, ma si poteva appoggiare ai porti egiziani offerti da Nasser ai quali Mosca aveva offerto già 12 mila consiglieri militari. Lo stato d’animo degli Stati Uniti è testimoniato da una dichiarazione di un senatore americano che nel maggio 1969 osservava sconsolato che le ultime due volte che la Sesta Flotta aveva visitato la Turchia si erano verificate violente manifestazioni antiamericane e che questa tendenza dava l’idea di essere sempre più in crescita. Agli USA rimanevano, quindi, Israele, la Grecia (che poi però cercherà di giocare in proprio) ed appunto l’Italia.
Si può ricordare che gli USA si vendicarono della Turchia promuovendo un colpo di Stato militare nel 1970 che dal loro punto di vista rimise le cose parzialmente a posto. Una realtà questa che riecheggiò negli slogan delle manifestazioni della destra italiana, atlantica e filo golpista, tipo: “Ankara, Atene, adesso Roma viene”. Gli Stati Uniti si sentivano franare il terreno sotto i piedi e si rendevano conto che la zona Sud di quel Mediterraneo che nell’ottica di Jalta doveva essere una zona ad influenza occidentale, si stava muovendo da solo e stava pericolosamente ondeggiando tra il neutralismo ed un nascente filosovietismo, che non era però filocomunista, ma consequenziale all’appoggio occidentale ad Israele. Era pure il periodo in cui la Francia gollista era in aperta rottura con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la NATO, a causa degli appoggi offerti da Washington e da Tel Aviv ai gruppi trotzkisti che avevano animato i moti del Maggio. La Spagna era una dittatura che come tale poteva essere utilizzata in situazioni di emergenza ma non in maniera continua ed ufficiale.
Nella zona Sud c’erano Paesi tipo l’Algeria dove il Presidente Boumedienne
parlava di socialismo e riforniva l’esercito di armamenti sovietici. La Tunisia era considerata un Paese sul quale non si poteva contare, mentre la Libia dopo il colpo di Stato militare del 1 settembre 1969, aveva ordinato ai militari americani e britannici di lasciare le loro basi. Eppure era stato un golpe favorito dai servizi segreti militari italiani. In tale situazione, Saragat, dopo l’incontro con Nixon trovò non poche orecchie italiane disposte ad ascoltare le sue preoccupazioni. Sia negli ambienti politici, che in quelli militari. Da qui partì quella strategia che aveva come traguardo una trasformazione in senso autoritario delle istituzioni, con un maggior potere attribuito all’esecutivo che non fosse più bloccato dai lacci e lacciuoli posti dalla legge elettorale, dai veti degli alleati di governo e dall’ostruzionismo dell’opposizione.
Ma più che alla Francia, con il suo sistema di semipresidenzialismo, Saragat pensava al modello della Germania, dove la stabilità del governo era assicurata dalla legge elettorale e dal meccanismo della “sfiducia costruttiva” la quale impedisce che un governo regolarmente eletto possa essere rovesciato se in Parlamento non c’è una nuova maggioranza alternativa pronta a sostituirlo. Al marxista Saragat, che conosceva bene il tedesco ed era vicino al socialdemocratico Willy Brandt, il quale proprio quell’anno sarebbe divenuto Cancelliere, piaceva anche la legislazione vigente a Bonn che permetteva di mettere fuori legge il Partito comunista, ma anche ogni movimento che, a discrezione del governo, avesse connotazioni “eversive”. L’obiettivo che si poneva Saragat era però improbo e finiva per scontrarsi con la volontà di consistenti settori della DC di mantenere un certo quid di politica filo araba e filo palestinese pur non rinunciando alla solidarietà atlantica. Non è possibile, si opponevano i morotei e quelli della sinistra della Base (la corrente di Enrico Mattei), lavorare per una democrazia autoritaria, completamente ossequiosa a Washington nel Mediterraneo ed alle sue implicazioni in campo militare, politico, diplomatico ed economico. Non ci si può schierare per partito preso dalla parte degli israeliani ed ignorare i nostri interessi strategici, ad incominciare da quelli petroliferi. Il ruolo dell’Italia non può essere quello di barcamenarsi fra le ragioni degli arabi e degli israeliani, aggrappandosi ad una presunta difesa dei valori ebraico-cristiani quando anche la stessa Chiesa cattolica si muove con cautela per tutelare le comunità cristiane nel Vicino Oriente ed il ruolo internazionale di Gerusalemme. All’atlantico Saragat non piaceva quindi né il PCI filo sovietico, né il neutralismo cattolico-democristiano Né ovviamente i movimenti politici nati con il 1968 che avevano una loro
precisa caratterizzazione nell’antiamericanismo e nell’appoggio a tutti i movimenti rivoluzionari e indipendentisti del mondo, da quelli sudamericani a quello palestinese.
La guerra dei Sei Giorni aveva provocato diverse ripercussioni in Italia. All’interno del PCI aveva innescato, grazie all’aiuto dell’URSS, un rafforzamento della struttura occulta e militare del partito, la Gladio Rossa, per il timore che si stesse per aprire un fronte di scontro interno. Un timore rafforzato dallo scoppio dello scandalo SIFAR, il servizio segreto militare, dopo le rivelazioni fatte dall’Espresso sul colpo di Stato di De Lorenzo del 1964. Dentro la maggioranza di centrosinistra la guerra aveva fatto emergere la consapevolezza che una nuova stagione stava per aprirsi. E che, se l’Italia non voleva rinunciare all’idea di ritagliarsi uno spazio autonomo, doveva però dare un segnale per tranquillizzare sia Washington che Tel Aviv che i governi italiani, anche se non erano filoisraeliani non sarebbero mai stati capaci di essere compiutamente filoarabi. Da qui si originò la decisione del 1 novembre 1967, sulla spinta dei repubblicani di Ugo La Malfa, di nominare il colonnello Arnaldo Ferrara, fratello di un deputato del PRI, a capo di Stato Maggiore dell’Arma dei Carabinieri un incarico che mantenne fino al luglio del 1977, stabilendo un autentico record. Ferrara, che non aveva mai nascosto le sue simpatie ed i suoi rapporti sentimentali con Israele, rappresentò in quei dieci anni, agli occhi degli USA una sorta di garanzia per contenere le eventuali derive filo palestinesi dei governi e le pressioni politiche del PCI. Insieme a lui, ai vertici militari e dell’intelligence, c’erano altri personaggi che si caratterizzavano per le loro posizioni atlantiche e filoisraeliane. Come l’Ammiraglio Eugenio Henke, già al comando del Servizio segreto militare, ato alla guida dello Stato Maggiore della Difesa; come il capo della polizia Angelo Vicari e soprattutto Federico Umberto D’Amato, capo dello UAR, di fatto i servizi segreti civili e primo referente italiano presso gli USA e la NATO.
In questo approccio filoisraeliano di ambienti consistenti delle istituzioni si inserisce anche l’utilizzo, consapevole e no, di determinati gruppi ed esponenti della destra extraparlamentare italiana che dimostrarono con i fatti essere disposti a divenire parte di strategie autoritarie o paragolpiste. I casi sono molteplici. Basti pensare al golpe da operetta di Junio Valerio Borghese (7-8
dicembre 1970) e del suo Fronte Nazionale, nel cui programma di governo c’era la costituzione di un corpo di spedizione militare italiano da inviare in aiuto di Israele se fosse stato attaccato e di un altro da affiancare agli Stati Uniti impegnati nella guerra del Vietnam. Ma anche negli altri gruppi e gruppetti che operavano nel variegato sottobosco dell’estrema destra c’erano personaggi che, in nome dell’anticomunismo e della paura dei “rossi”, non avevano problemi nel trasformarsi in puntelli degli equilibri politici esistenti e della loro trasformazione in senso autoritario. Non disdegnando, laddove era ritenuto necessario, mettere bombe che nel nostro Paese potevano vantare una tradizione cinquantennale, come insegna la bomba al Teatro Diana di Milano del 1923. In questa chiave di lettura, al di là di chi ha messo materialmente la bomba di Piazza Fontana, la responsabilità va attribuita ad una regia esterna collocata all’interno dei servizi americani ed israeliani, irritati dal fatto che il SID avesse sostenuto il golpe di Gheddafi in Libia.
In un recente libro intervista, “Fotti il potere”, sco Cossiga, uno che se ne intende, ha affermato che la bomba di Piazza Fontana fu opera degli americani. Da quella bomba si dipana un lungo filo rosso fatto di sangue e di lutti che, all’interno di uno scontro svoltosi nel Mediterraneo, metà reale e metà virtuale, tra USA e URSS, si è giocata sulla pelle dei popoli, in primo luogo il nostro, per la salvaguardia di Israele. Uno scontro che ha utilizzato l’Italia come campo di battaglia. Un terreno di scontro nel quale i tre principali operatori hanno riversato tutte le tensioni dell’area con la sicurezza che non sarebbero mai tracimate all’esterno. Questa impostazione ha fatto sì che lo scontro sociale e politico in Italia raggiungesse picchi di violenza sconosciuti altrove, soprattutto perché determinate forze italiane che si agitavano alla sinistra del PCI avevano la precisa percezione che un mutamento non ci sarebbe mai stato.
In tutto questo contesto si pone la storia di Franco Fuschi che venne fermato a Torino il 21 aprile 1996 in quanto coinvolto in un traffico d’armi. Dopo che il procuratore gli comunicò che intendeva arrestarlo chiese di andare in bagno dove si sparò. Sopravvissuto, raccontò ai magistrati di essere stato un incursore della Marina e di essere responsabile di vari omicidi, in Italia e all’estero, sia per motivi propri che come killer del SID, e di aver trafficato in armi con ambienti dell’estrema destra. Ma soprattutto di essere stato lui, sempre per conto di agenti
del SID a mettere la bomba a Piazza Fontana e di avere ucciso Roberto Calvi. I vari tribunali lo riconobbero responsabile solo dei diversi omicidi compiuti di tipo “comune” in Italia per i quali Fuschi fu condannato all’ergastolo ma non vollero credere a tutto il resto di tipo “politico”, come al suo ruolo in Piazza Fontana. Come nella più classica tradizione italiana che si rispetti, Fuschi fu trovato morto nella sua cella nel carcere di Alessandria, suicidio, dirà l’autopsia, il 5 maggio 2009 dopo che aveva chiesto il trasferimento perché diceva di sentirsi in pericolo.
La normalizzazione del 1973-74
Se l’Italia considerava il Mediterraneo e la zona Sud dell’Europa una sorta di giardino casa e si faceva un punto di onore quello di avere ottimi rapporti con i propri dirimpettai, gli Stati Uniti non avevano alcuna voglia di condividere questa politica in quanto consideravano semmai il Mediterraneo come una propria dependance. Il fastidio americano non investiva soltanto l’Italia, ma anche quei Paesi dell’area sud che avevano dimostrato o stavano dimostrando di voler gestire una politica estera troppo autonoma rispetto alla volontà e agli interessi di Washington. Di conseguenza finirono sotto tiro non solo alcuni governi in quanto tali, ma personalità di diverso o diversissimo orientamento o spessore politico, che potevano risultare destabilizzanti per gli equilibri dell’area in conseguenza delle loro scelte. La campagna di normalizzazione in Europa fu iniziata da Richard Nixon, costretto alle dimissioni l’8 agosto 1974 a causa della sua implicazione nello scandalo Watergate, e completata dal suo successore Gerald Ford.
Il primo scenario si ebbe in Spagna il 20 dicembre 1973 con l’assassinio del primo ministro Luis Carrero Blanco da parte dell’ETA, l’organizzazione terroristica basca che ha sempre goduto di sostegni economici e logistici da parte di settori dell’intelligence americana. Una organizzazione che dagli inizi degli anni settanta aveva registrato al suo interno la prevalenza di una componente trotzkista, con rapporti molto stretti con i gruppi trotzkisti si facenti capo a Gauche Proletarienne. Carrero Blanco, indicato come suo successore da un
Francisco Franco avviato ormai ai suoi ultimi giorni, si stava caratterizzando per una modernizzazione economica e amministrativa della Spagna e per una transizione indolore dalla dittatura alla democrazia grazie anche al previsto aggio alla forma monarchica dello Stato da lui sostenuta nella persona del futuro re, Juan Carlos di Borbone. Ma era una figura troppo legata ad una visione nazionale per essere considerato affidabile in una logica di stretta obbedienza atlantica e rappresentava un legame con un ato che si riteneva ingombrante. Oltretutto Carrero Blanco aveva commesso il grave torto di avere rifiutato nel 1973 agli USA l’utilizzo della basi aeree spagnole per rifornire di armi Israele che nei primi giorni della guerra del Kippur (6-22 ottobre 1973) si stava trovando in seria difficoltà dopo l’attacco congiunto da parte di Siria ed Egitto. Il giorno prima di essere ucciso, Carrero Blanco aveva incontrato Henry Kissinger che lo invitò a far tenere alla Spagna un atteggiamento “più ragionevole” in tutta l’area del Mediterraneo. Per tutta risposta Carrero Blanco aveva messo sotto accusa le responsabilità americane per non avere fatto nulla per ostacolare la campagna internazionale di attacco alla Spagna orchestrata dai gruppi trotzkisti sostenuti sottobanco da Israele. Questa peculiarità, aveva spiegato Carrero Blanco, era stata alla base della decisione spagnola di non are il ponte aereo con Israele.
La seconda tappa della strategia americana di liquidazione dei regimi autoritari nazionalisti si ebbe in Grecia nel luglio-agosto 1974 con il “Golpe dei Generali” guidato da Phaedon Gizikis che mise fine al regime dei “Colonnelli” che era andato al potere con il colpo di Stato dell’aprile 1967 dopo aver rovesciato il governo di centro guidato da Georgos Papandreou senior. Il regime militare di Atene era entrato in profonda crisi per due motivi. Sul piano interno per la sanguinosa repressione del 17 novembre dell’anno prima al Politecnico di Atene che aveva spinto il presidente Ioannides a rimuovere Papadopoulos dalla carica di primo ministro. Sul piano internazionale Ioannides aveva perseguito una politica avventurista cercando nel luglio del 1974 di rovesciare l’arcivescovo Makarios III, presidente di Cipro, attraverso un colpo di stato militare condotto dall’organizzazione filo-ellenica Eoka-B. Questo intervento provocò la reazione della Turchia che occupò militarmente la zona nord dell’Isola creandovi una repubblica filo-turca che non venne però riconosciuta dagli organismi internazionali, Nazioni Unite in testa.
Per gli USA che non volevano inimicarsi il più fidato alleato nell’area, e soprattutto un Paese legato a filo doppio con Israele, era veramente troppo. Oltretutto se la situazione fosse sfuggita di mano si rischiava di provocare uno scontro armato tra due Paesi membri della NATO. Una prospettiva che non poteva che fare venire i sudori freddi a Washington, soprattutto in considerazione che la Turchia, confinando con l’Unione Sovietica, rappresentava un avamposto atlantico nell’area sud. Era quindi necessario eliminare alla svelta dei militari che non riuscivano a tenere sotto controllo i propri furori bellici e fare tornare la democrazia in Grecia con le elezioni del novembre 1974 che videro la vittoria di Nuova Democrazia, il partito fondato da una figura storica come Costantinos Karamanlis che divenne così primo ministro.
Se questo è lo scenario ufficiale che appare ad una prima sommaria analisi, altre sono le considerazioni che spinsero Washington a scaricare i colonnelli. Papadopoulos aveva infatti iniziato a portare avanti una politica estera che si caratterizzava in senso troppo filo-arabo con accordi commerciali con Egitto e Libia, che lasciavano sospettare sviluppi in campo più strettamente politico. Accordi che potevano portare all’isolamento di Israele. C’erano già state infatti alcune esplicite e forti prese di posizione a favore del diritto dei palestinesi ad avere una Patria ed uno Stato. Un diritto peraltro sancito dal voto dell’Assemblea delle Nazioni Unite nel novembre del 1947. Un governo come quello di Papadopoulos, quindi, non era più sostenibile dagli Stati Uniti dove Gerald Ford aveva sostituito Richard Nixon.
Altro infine è il caso del Portogallo dove il colpo di Stato dei “Capitani” del 25 aprile 1974 mise fine al regime autoritario di Marcello Caetano succeduto al potere al vecchio dittatore Antonio De Oliveira Salazar, morto nel luglio del 1970 dopo aver installato a Lisbona alla metà degli anni trenta un regime che si ispirava vagamente al fascismo italiano. La deposizione di Caetano e la sua fuga all’estero non nacquero solamente da un’improvvisa presa di coscienza democratica dei “Capitani” e dei loro superiori, ma ebbe la sua ragione di essere nel malcontento suscitato in ambito NATO, di cui il Portogallo era membro, per il rifiuto inizialmente opposto da Caetano, durante la guerra del Kippur del 1973, di autorizzare l’utilizzo dell’aeroporto delle Isole Azzorre per il ponte aereo con il quale gli americani dovevano rifornire Tel Aviv. Certo, bisogna pure
ammettere che i militari, reduci dalla guerra combattuta in Angola e Mozambico contro i movimenti indipendentisti locali, mal sopportavano un regime come quello di Caetano che si caratterizzava per la classica impostazione bigotta e clericale e che, come tale, difendeva gli interessi dei latifondisti. Ma resta il fatto che la mano americana in quella che venne chiamata “la Rivoluzione dei Garofani” si sentì ed eccome. Non per niente, quello che fu il leader del Movimento delle Forze Armate, e che ne rappresentò l’anima più occidentalista, il generale Antonio de Spinola, era membro della Commissione Trilaterale ed aveva scritto un libro: “Il Portogallo e il suo futuro” nel quale si delineava apertamente la necessità di un cambio di regime a Lisbona in senso democratico. Si può anche ricordare che Spinola cercò successivamente di realizzare più che un nuovo Colpo di Stato un pronunciamento interno per emarginare quelle correnti politiche (Vasco Goncalves) e militari (Othelo de Carvalho) che ondeggiavano un po’ troppo a sinistra, verso il Partito Comunista di Alvaro Cunhal.
Spinola fu costretto alla fuga ma poi furono le prime elezioni libere ad assegnare il potere a partiti orientati in senso occidentale come i socialisti di Mario Soares ed i social democratici di Francisco Sa Carneiro.
Secondo un rapporto di Guido Giannettini, nel 1973 sarebbe stata costituita a Bruxelles una centrale terroristica di estrema sinistra, di impronta trozkista controllata dai servizi segreti israeliani. Il suo nome in codice era Think Tank. La prima vittima del Think Tank sarebbe stata appunto Luis Carrero Blanco, Presidente del Consiglio spagnolo. Secondo Giannettini, gli atti di terrorismo organizzati da questa centrale rispondeva all’esigenza del Mossad e del governo israeliano di impedire che nei vari Paesi europei e nei movimenti extraparlamentari di sinistra prevalessero tendenze filo-arabe e anti-israeliane.
Gli USA scaricano gli estremisti di destra
Consequenziale a questa eliminazione dei regimi considerati reazionari vi fu in
Italia l’abbandono al loro destino degli estremisti di destra che fino ad allora erano stati utilizzati come bassa manovalanza sia per tenere alta la tensione di piazza, sia per essere usati come truppe di appoggio a tentativi di Colpo di Stato che si caratterizzavano più che altro per il loro velleitarismo. La psicosi di un colpo di stato venne diffusa dall’estrema destra e dall’estrema sinistra per motivi opposti, ma che in realtà finivano per essere coincidenti. I primi avevano cercato di cavalcare per anni anche ai fini elettorali le paure dei moderati per la svolta a sinistra dell’Italia. I secondi avevano continuato a sfruttare le paure per il ripetersi in Italia di un golpe come quello dei colonnelli in Grecia per gridare al pericolo reazionario. Ad entrambi però era perfettamente chiaro che si trattava di una polemica campata in aria. L’Italia non era certamente la Grecia in quanto non possedeva in primo luogo Forze Armate in grado di realizzare un pronunciamento militare e prendere il potere. In Grecia infatti l’esercito per tradizione aveva sempre rappresentato una vera e propria classe sociale gelosa del suo status e delle sue tradizioni. E poi in Grecia bastava occupare le tre principali città, Atene, Salonicco e Patrasso, per assumere il controllo dell’intero Paese. Mentre nelle isole vi avrebbe provveduto la gendarmeria. Come in effetti avvenne. Senza contare che il Partito comunista greco nel 1967 contava ben poco anche in conseguenza dei ricordi della sanguinosa guerra civile del periodo 1945-1948.
In Italia, come scritto, la situazione era radicalmente diversa. Vi era un partito come il PCI che poteva contare sul 28-30% dei voti, con un milione e mezzo di militanti attivi e ben distribuiti in tutte le città, con un sindacato come la CGIL fortemente radicato nella realtà sociale e in grado di bloccare il Paese. Senza contare le decine di migliaia di militanti dell’estrema sinistra che in quegli anni stava massicciamente crescendo. Per non parlare poi di un esercito quello italiano che, in conseguenza della sua non eccelsa struttura logistica, non era in grado di organizzare alcunché. Per non parlare poi delle migliaia di militari di leva, militanti o simpatizzanti del PCI o della sinistra in genere, che potenzialmente non ci avrebbero messo molto a rifiutarsi di partecipare al golpe e che anzi avrebbero imbracciato le armi contro i loro superiori.
Il desiderio o la paura di un golpe furono comunque uno degli elementi che contribuirono a provocare il aggio alla lotta armata di molti militanti di
sinistra che poi finirono nelle nascenti BR. Lo scaricamento degli estremisti di destra in Italia si realizzò a due livelli. Sul piano internazionale si attuò con la fine delle coperture logistiche, armi ed esplosivi, da parte delle strutture NATO, in particolare quelle delle basi militari del Veneto. Sul piano interno vi fu l’abbandono da parte del governo sia dell’indulgenza giudiziaria fino ad allora praticata, sia delle coperture offerte dagli organismi di intelligence. Da questo abbandono si innescarono reazioni come la strage di Peteano, in cui persero la vita tre carabinieri, sia quella di Brescia che aveva come bersaglio originario sempre i carabinieri, ma che alla fine, a causa della pioggia, coinvolse come vittime i sindacalisti e i cittadini che avevano preso il posto dei militari sotto i portici di Piazza della Loggia.
Il taglio dei rapporti con l’estremismo di destra stava a significare che le istituzioni intendevano concentrarsi sull’estremismo di sinistra che dagli ambienti più oltranzisti veniva avvertita come una potenziale quinta colonna funzionale alle strategie sovietiche. Ma che allo stesso tempo poteva essere utilizzato per effettuare un gioco di sponda.
Un’altra risposta a questo abbandono da parte degli apparati istituzionali fu l’attentato compiuto di fronte alla questura di Milano (il 17 maggio 1973) da parte del sedicente anarchico Gianfranco Bertoli, un informatore del SID, appena rientrato da un soggiorno in un kibbutz israeliano. L’obiettivo dichiarato di Bertoli era l’allora ministro degli Interni, Mariano Rumor, che stava presenziando alla inaugurazione di un busto di marmo, dedicato al commissario Luigi Calabresi, ucciso l’anno precedente sotto casa. Questi legami tra militanti di estrema destra, militari NATO ed israeliani, si ritrovano peraltro anche in una struttura come l’Aginterpress, una agenzia di stampa costituita a Lisbona nel 1966 e chiusa subito dopo la rivoluzione del 1974. Il fondatore era stato Yves Guillou (Guerin Serac) un se, già combattente in Indocina e Algeria, simpatizzante dell’OAS, e che l’aveva trasformata in un centro per creare una organizzazione anticomunista internazionale che come tale fosse pronta ad arruolare chiunque rientrasse in un tale disegno. A dimostrazione che certi meccanismi non sono soltanto italiani, ma che nascono invece da logiche internazionali che vengono applicate alle singole realtà nazionali.
Gerusalemme e le comunità cristiane
La questione di Gerusalemme si concretizzò in tutte le sue implicazioni dopo la guerra dei Sei Giorni dell’aprile del 1967 e la vittoria di Israele che portò l’esercito di Tel Aviv ad occupare militarmente la parte est della città, all’epoca sottoposta alla sovranità del Regno di Giordania. Quella parte di territorio che da Betlemme a Gerusalemme ospita i luoghi santi delle tre religioni monoteiste.
Come il Muro del Pianto, retaggio del Tempio di Salomone. La Chiesa della Natività e quella del Santo Sepolcro. E le moschee della Roccia e di Al Aqsa. L’occupazione da parte di Israele del luogo da dove, secondo la tradizione, Maometto ascese al paradiso, non poteva non avere conseguenze nell’atteggiamento del mondo islamico considerato che Gerusalemme è una delle quattro città sante dell’Islam. In tre anni quindi ebbe radicalmente a mutare quell’atteggiamento di reciproca tolleranza, che aveva favorito nel 1964 lo storico viaggio pellegrinaggio di Paolo VI proprio a Gerusalemme Est per visitare i luoghi dove era nato il cristianesimo.
Per l’appoggio di fatto offerto dall’Occidente ad Israele e per il timore che anche la Chiesa cattolica potesse essere accomunata come sodale a questo, la diplomazia italiana per conto del Vaticano e della Democrazia Cristiana, prese a sostenere una cauta, ma allo stesso tempo attenta politica estera rivolta a tutelare le varie comunità cattoliche e cristiane del Vicino Oriente. Ma non fu tanto Aldo Moro a portarla avanti quanto Giulio Andreotti per conto del Vaticano nei cui palazzi era di casa, fin dai tempi in cui Alcide De Gasperi nel 1944 lo aveva scelto come suo più stretto collaboratore portandolo successivamente meno che trentenne a coprire la carica di sottosegretario alla presidenza del Consiglio.
Per Montini, Andreotti e quindi per Moro, il problema principale era quello di creare le condizioni per permettere che continuassero senza problemi i
pellegrinaggi dei fedeli a Gerusalemme e che essi consentissero il perpetuarsi delle comunità cristiane sia in Palestina che nel circostante Vicino Oriente. La preoccupazione espressa dal Vaticano e dai politici democristiani era che la conquista da parte di Israele dei “luoghi santi” fe emergere negli ebrei un integralismo fino ad allora sopito e che in nome della primogenitura storica come religione monoteista li portasse ad assumere una posizione di sempre maggiore intolleranza nei riguardi dei “fratelli minori” cristiani e musulmani. Da questi timori e dalla consapevolezza di poter agire soltanto di rimessa, deriva la storica e sempre ribadita linea vaticana all’insegna della necessità di preservare il ruolo internazionale di Gerusalemme come Città Santa, culla delle tre religioni monoteiste. E per la quale si doveva pensare ad uno status di “città aperta”, non appartenente a nessuno Stato particolare, con un proprio statuto, e sotto il controllo internazionale di un’autorità nominata e controllata dalle Nazioni Unite. Una linea questa che includeva il no deciso della chiesa cattolica al trasferimento della sede del governo israeliano da Tel Aviv appunto a Gerusalemme. Negli anni di Moro era ancora lontano da venire il giorno in cui Giovanni Paolo II si recò in visita alla sinagoga di Roma, rivolgendosi agli ebrei presenti come i “nostri fratelli maggiori”.Questa posizione vaticana e italiana non dichiaratamente anti-israeliana, ma tale nei fatti, non poteva che irritare il governo di Tel Aviv soprattutto quando la Chiesa, ricordava che Gerusalemme è “la dimora di due popoli, quello israeliano e quello palestinese, ed è il luogo delle loro rispettive aspirazioni nazionali”. Quelle ad avere una terra e una Patria come previsto ben trenta anni prima dal voto dell’ONU che sancì la nascita di Israele e mandò in esilio centinaia di migliaia di palestinesi.che in quella terra erano nati.
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Capitolo 5 - Moro e l’accordo con i palestinesi.
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Dalla sua concezione mediterranea nacque l’intesa che Moro riuscì a stabilire con le componenti più agguerrite della resistenza palestinese. In primo luogo quello con il FPLP, il Fronte popolare di liberazione della Palestina, guidato da George Habbash, un cristiano marxista. Tale accordo presupponeva da un lato un sostegno politico di principio alle rivendicazioni dei palestinesi di avere una Patria e uno Stato propri. Allo stesso tempo l’Italia per vie traverse avrebbe fatto avere sostegni finanziari ai movimenti della guerriglia palestinese. Non ci sono documenti ufficiali che testimonino anche di forniture di armi da parte dell’Italia, ma le carte uscite dall’archivio di Moro non escludono tale possibilità, anzi lasciano intuire che operazioni del genere siano state effettivamente compiute.
Da parte loro, i palestinesi di Habbash si impegnarono a non effettuare dirottamenti nel nostro spazio aereo ed a non compiere in territorio italiano attentati contro obiettivi statunitensi ed israeliani, del tipo di quello del 1974 all’aeroporto di Fiumicino. Questa politica ondeggiante tra lealtà atlantica e difesa degli interessi italiani, petroliferi e vaticani, e tutela delle comunità cristiane, non poteva essere molto gradito al governo israeliano né tantomeno a quello USA che consideravano Moro come una pericolosa mina vagante.
Nelle lettere mandate a politici del suo e di altri partiti per sostenere la necessità di una trattativa per la sua liberazione, Moro si riferisce più volte alla trattativa ed all’accordo realizzato con i palestinesi. E sostiene che è assurdo che il governo italiano invochi la ragion di Stato per dire no ad una trattativa con i brigatisti quando poi in altre occasioni si sono fatte concessioni ben più gravi liberando estremisti presi con le armi in pugno e pronti a compiere attentati in
Italia. In altre lettere ricordava che non una, ma più volte, furono liberati, con meccanismi vari, palestinesi detenuti ed anche condannati, allo scopo di evitare gravi rappresaglie che sarebbero poi state poste in essere, se fosse continuata la detenzione. La minaccia di ritorsioni e rappresaglie era seria, credibile, capace di arrecare danno rilevante alla comunità dopo analoghe azioni terroristiche avvenute in tutta Europa.
Il patto in questione era stato sottoscritto il 19 ottobre 1973, presso l’Ambasciata italiana al Cairo, nel corso di un incontro fra il rappresentante dell’OLP, Said Wasfi Kamal, e diplomatici italiani. L’esponente palestinese aveva chiesto la liberazione dei militanti arrestati per un attentato all’aereo della El Al ed aveva offerto l’impegno formale dell’OLP che nessuna azione dei feddayn si sarebbe ripetuta in Italia dopo che fosse stata concessa la liberazione dei palestinesi detenuti. In precedenza tale proposta era stata esaminata il 25 ottobre, nel corso di una riunione al Ministero degli Esteri, era Aldo Moro a guidare la Farnesina, durante la quale il rappresentante del Viminale, il vicequestore Silvano Russomanno, direttore della Divisione sicurezza interna e numero due dell’Ufficio Affari Riservati, gli “avversari” del SID, aveva sottolineato “la scarsa credibilità” dell’impegno che gli organi ufficiali della resistenza palestinese avrebbero assunto in caso di liberazione dei cinque detenuti. Successe così che il 17 dicembre di quello stesso anno ci fu l’attentato di cinque terroristi di Settembre Nero all’aeroporto di Fiumicino contro un aereo del Pan American in sosta che causò 32 morti. Ma tranne questa eccezione, l’accordo fu sempre rispettato.
Da parte italiana l’accordo presupponeva una perfetta intesa tra governo, SID e magistratura. E se ne ebbe una prova il 31 ottobre 1973 quando due terroristi di Settembre Nero fermati a Ostia da agenti del SID, guidato da Vito Miceli, mentre preparavano un attentato con un missile all’aeroporto di Fiumicino contro un aereo della El Al, vennero scarcerati dalla magistratura e fatti espatriare in Libia a bordo del bimotore Argo 16 del SID. Poi il 23 novembre seguente l’Argo 16, precipitò per un attentato compiuto dal Mossad per ritorsione nei pressi di Marghera con la morte dei quattro membri dell’equipaggio. In seguito dal 1973 al 1975, in tre riprese furono consegnati a Habbash dieci terroristi condannati.
Salvare la vita di nostri connazionali, salvare gli aerei della flotta di bandiera, si domandava Moro nelle sue lettere dal carcere del popolo, è stata forse una disfatta dello Stato o una vittoria dell’intelligenza politica sulla forza bruta?
L’accordo riguardava anche l’impegno dell’Italia ad essere un po’ distratta e non fermare spedizioni di esplosivo attraverso il nostro territorio, se l’Italia non ne fosse stata la destinataria finale ai fini di un attentato. Tanto che sco Cossiga, attraverso Giovannone, nel novembre 1979, ricevette una cortese lettera da un dirigente del FPLP nel quale si lamentava il sequestro ad Osimo di due missili (“state violando i patti”) e se ne chiedeva la restituzione in quanto non destinati all’Italia. A scortare il camion con i missili c’era Daniele Pifano uno dei leader dell’Autonomia Operaia di Roma e del collettivo di Via dei Volsci.
Una componente di un accordo alla quale Cossiga si attaccò per sostenere che l’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 fu determinato in realtà dall’esplosione accidentale di esplosivo “trasportato dagli amici della guerriglia palestinese”. Quando in realtà era stata una bomba “atlantica” per punire il nostro governo di avere salvato Gheddafi da un colpo di Stato interno appoggiato da Washington.
L’Italia in ogni caso cercava di barcamenarsi tra Israele e i Paesi arabi tant’è che il 5 settembre 1973 all’aeroporto di Fiumicino, il generale del SID Ambrogio Viviani, avvertì gli agenti del Mossad che alcuni membri palestinesi di Settembre Nero erano pronti a fare un attentato e poi li fece catturare dalla polizia italiana.
Il colonnello Giovannone
Il colonnello dei carabinieri Stefano Giovannone, classe 1921, già responsabile dei Sismi in Libano è morto il 17 luglio 1985. Dal 1972 al 1980 si occupò dei rapporti con i gruppi e le nazioni mediorientali, quasi sempre inviato come “antenna” del SID in quell’autentico inferno che era il Libano. Era anche stato responsabile della sicurezza della ambasciata italiana a Beirut. Giovannone pagò caro l’essere stato il tramite tra il governo italiano e l’OLP. Venne accusato nel 1983 di falsa testimonianza, favoreggiamento e di rivelazione di segreti di Stato dai giudici romani Giancarlo Armati e Renato Squillante per la scomparsa e la uccisione in Libano di due giornalisti italiani, Italo Toni e Graziella De Palo, ad opera di una formazione estremista palestinese indicata dagli inquirenti come vicina al FPLP di George Habbash. Una indicazione peraltro mai provata perché il Libano dell’epoca era una terra di nessuno percorsa dalle milizie armate, tutte dedite ai più diversi traffici. Giovannone nei suoi rapporti inviati al capo del SISMI, Giuseppe Santovito, avrebbe invece diffuso la versione che a rapire i due giornalisti erano stati alcuni miliziani della Falange cristiano-maronita. Una tesi che divenne anche la versione ufficiale sostenuta dallo stesso presidente del Consiglio dell’epoca, Arnaldo Forlani.
La figura di Giovannone all’interno della vicenda del sequestro Moro assume una certa importanza perché è lo stesso uomo politico democristiano che ne parla in una sua lettera dal carcere indirizzata al collega di partito Flaminio Piccoli, ai fini di uno scambio di prigionieri. Ossia scambiare lo stesso Moro in cambio di alcuni dei brigatisti detenuti. Giovannone era insomma più “moroteo” di quanto non lo fosse lo stesso Miceli. Tanto che il presidente della DC, in una lettera inviata all’ex Sottosegretario alla Giustizia, Erminio Pennacchini, esprime il suo rammarico per il fatto che Giovannone durante il sequestro non si trovi in Italia. “Vorrei che fosse qui” scrive Moro. Volendo significare: “Giovannone saprebbe attivare i canali giusti per la mia liberazione”.
Nel febbraio 1985 invece il colonnello venne raggiunto da un mandato di cattura, ma gli vennero concessi gli arresti domiciliari per motivi di salute, da parte del giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni con l’accusa di favoreggiamento aggravato nel traffico di armi e corruzione. In buona sostanza l’accusa era quella di avere chiuso un occhio nel 1978 sul traffico di armi provenienti dalla Bulgaria che, attraverso il Vicino Oriente, alimentava gli
arsenali delle Brigate Rosse. L’episodio specifico è quello del famoso viaggio di Mario Moretti con una piccola imbarcazione fino a Beirut per trasbordare in acque internazionali armi offerte da parte del FPLP per le BR. L’accusa a Giovannone era quella solo di non avere voluto vedere quello che succedeva ma anche, rivelandone ai palestinesi l’esistenza, di avere bruciato una missione di alcuni funzionari dell’Ucigos a Beirut inviati in loco appunto per indagare sulla vicenda. Giovannone, da parte sua si difese sempre da queste accuse negando di avere mai rivelato segreti e ribadendo comunque di avere sempre agito su ordine dei suoi diretti superiori, in primo luogo lo stesso Giuseppe Santovito, del quale Giovannone era arrivato ad alludere che fosse coinvolto in quel traffico di armi dalla Bulgaria. Una ipotesi o un messaggio preciso a ignoti destinatari che, se fosse dimostrato, implicherebbe che i servizi segreti militari italiani non avevano niente in contrario a che le Brigate Rosse si rifornissero di armi e le utilizzassero contro obiettivi italiani.
Moro fatto scendere dall’Italicus
In una intervista a Tele Serenissima, il 19 aprile 2004, Maria Fida Moro ha aggiunto un altro tassello inquietante alla vicenda del padre, raccontando che, il 4 agosto 1974, Aldo Moro era salito a bordo del treno Italicus a Roma per raggiungere la famiglia in vacanza in Trentino, ma prima che il convoglio partisse alcune persone lo fecero scendere per fargli firmare delle “carte importanti”.
Sullo stesso treno, l’Espresso Roma-Brennero, una bomba ad alto potenziale esplose alle 1:23 nella vettura numero 5 provocando 12 morti e una cinquantina di feriti. L’attentato venne rivendicato dall’organizzazione Ordine Nero,
C’è da domandarsi quindi se si trattò solo di una coincidenza, o come è più probabile, di un intervento di agenti legati a Vito Miceli che volevano salvare il politico DC, ma che non fecero nulla per impedire l’attentato che era diretto proprio contro di lui.
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PARTE SECONDA - Lo scenario italiano
Capitolo 6 - Brigate Rosse e brigate atlantiche.
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La storia delle Brigate Rosse è esemplare per prendere atto che anche nell’ambito di un gruppo terroristico si sia manifestata quella predisposizione molto italiana a riversare nelle proprie azioni un miscela esplosiva di grandi aspirazioni a cambiare il mondo e di disponibilità a spendersi in prima persona. Ma anche una non indifferente dose di velleitarismo, di approssimative analisi politiche e sociali, di amore individualista per il bel gesto e per l’azione esemplare, unite alla inevitabile tendenza a farsi strumentalizzare dagli stessi ambienti contro i quali la propria azione doveva essere diretta. Derive quasi fisiologiche se si tiene conto che le BR nacquero dalla convergenza di militanti provenienti da diversi ambienti della sinistra italiana che vi riversarono le loro differenti visioni del mondo, dei rapporti umani e di quelli di classe. Oltretutto, dopo il 1974-75, quando la vecchia guardia storica più contrassegnata dall’ideologia venne spazzata via dalle retate delle forze dell’ordine, nelle BR vi fu l’irruzione di nuovi quadri provenienti dalla cosiddetta Autonomia Operaia, in buona sostanza militanti del disciolto Potere Operaio, che vi introdussero un alto livello di indisciplina e che non volevano sottomettere più di tanto il proprio comportamento rivoluzionario ai dettami classici e schematici del marxismoleninismo ed alla rigida organizzazione sulla quale le aveva strutturate il nuovo capo, Mario Moretti.
La storia delle BR fu quindi soprattutto una storia di uomini mossi da una grande idealità che si unirono gli uni agli altri, che si scontrarono e finirono per assumere posizioni antitetiche. E soprattutto, in linea con quella che è la più tragica maledizione della Sinistra italiana, dopo aver dato vita a continue rotture, scissioni e riavvicinamenti in nome di un furore ideologico che sembrava non avere mai pace. Militanti che ancora oggi, a distanza di un trentennio, si rinfacciano errori, tradimenti e delazioni. Tutti ormai consapevoli che la lotta armata non poteva avere sbocchi, ma preoccupati di mantenere un minimo di
rispetto per se stessi e non potendo ammettere di essere stati strumentalizzati ed usati da meccanismi incontrollabili. Ad esempio, la contrapposizione tra Alberto schini e Mario Moretti non nasce soltanto dai sospetti che l’ex militante della FGCI di Reggio Emilia ha sempre nutrito nei riguardi di quello che da diversi testimoni dell’epoca del periodo marchigiano è stato indicato come un ex militante della Giovane Italia, ma deriva anche dal senso orgoglioso di essere stato parte di un partito, il PCI, che ai propri militanti aveva offerto la speranza di cambiare il mondo.
Finita la reclusione in carcere, schini è andato alla riscoperta delle sue radici, lui che veniva da una famiglia di comunisti puri e duri e che aveva vinto un viaggio premio a Mosca come militante dell’organizzazione giovanile del partito, i Pionieri. In questa che è stata anche una dolorosa discesa dentro se stesso, schini ha sempre continuato a spiegare il aggio alla lotta armata con il mito di quella rivoluzione che era emersa dalle lotte della Resistenza, ma che poi era stata tradita dai dirigenti del partito in nome della real politik.
Il brigatismo rosso, visto da tale prospettiva, finisce per collocarsi coerentemente nella storia della Sinistra italiana, con molti militanti che non potevano e non volevano accettare che le possibilità e le prospettive di una trasformazione sociale si scontrassero con valutazioni opportunistiche da parte del PCI sulla impossibilità di spingersi oltre un certo limite. In questo album di famiglia il primo brigatismo rosso ha svolto la funzione di canalizzare le pulsioni di una generazione che voleva cogliere la rivoluzione prima che fosse ormai impossibile realizzarla. Il secondo brigatismo, ricercando lo scontro armato aperto con lo Stato è stato invece funzionale al ruolo che gli era stato assegnato. Quello di stabilizzatore degli equilibri politici ed economici italiani ed internazionali. La lunga scia di sangue che i brigatisti rossi hanno lasciato dietro di sé ed i lutti che hanno provocato, non hanno infatti minimamente indebolito il nocciolo del potere reale. Le uccisioni di magistrati, poliziotti e carabinieri, uomini politici e dirigenti industriali non potevano infatti trovare sostenitori in una Italia dove la maggioranza della popolazione è costituzionalmente moderata e mai avrebbe seguito fino in fondo le velleità rivoluzionarie dei brigatisti. Anzi, avrebbe finito per scaricarli. Soprattutto quella classe operaia alla quale le BR
intendevano rivolgersi e che agli esordi le aveva considerate con una certa simpatia. Soprattutto quando i brigatisti nel 1971 avevano preso a bruciare le auto dei cosiddetti “capetti”, i quadri intermedi che per conto delle aziende controllavano e spiavano gli operai.
Il sistema economico allora egemone è uscito quindi rafforzato dal fenomeno del brigatismo rosso perché è riuscito a guadagnare tempo mentre la trasformazione dell’apparato produttivo gettava le premesse per la trasformazione della realtà sociale. Quanto al sistema politico di allora. ed ai partiti nei quali esso si identificava, ebbe poco più di un ventennio per resistere alle pressioni interne e soprattutto a quelle esterne.
La realizzazione nel periodo 1989-1992 della previsione ed allo stesso tempo della famosa maledizione di Moro: “Il mio sangue ricadrà su di loro”, ossia sulla Democrazia Cristiana, si concretizzò con la fine della Prima Repubblica e con la eliminazione della classe dirigente della DC e del PSI attraverso lo strumento di Mani Pulite. Ma essa deve essere collocata nella inevitabile venuta meno della centralità e della indispensabilità dei due partiti nel quadro italiano, europeo e mediterraneo, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine dei regimi comunisti dell’Est che avevano rimescolato tutte le carte. Quando Moro proferiva quel monito ai suoi colleghi di partito, pensava in primo luogo a quella che considerava la unicità del suo ruolo come interprete di quelle mediazioni e di quel consociativismo di fatto che accomunavano la DC (con il PSI) da una parte e PCI dall’altro. Ma non è stato certamente per la mancanza di Moro che la DC ha finito per sgretolarsi, ma perché, a causa del nuovo quadro internazionale verificatosi dopo il crollo del Muro di Berlino, la sua presenza non era più necessaria, anzi paradossalmente poteva essere sostituita da quella di un PCI trasformato in partito socialdemocratico.
Se sono quindi le variabili internazionali ad aver condizionato i cambiamenti politici in Italia, il primo centrosinistra, ad esempio, nacque con l’avallo di Washington, non ci si deve stupire che anche le Brigate Rosse abbiano finito per interpretare con i loro nuovi capi, dal 1974 in poi, un ruolo di stabilizzazione del
quadro politico sia pure all’interno di una serie di azioni che dovevano dare ai militanti l’idea o l’illusione di essere gli interpreti di una rivoluzione. Quando si parla di “brigate atlantiche” non ci si riferisce quindi soltanto a talune inquietanti frequentazioni di questo o quel capo brigatista, come Mario Moretti con personaggi come il Corrado Simioni del Superclan e dell’Hyperion. Oppure dei rapporti di Giovanni Senzani con funzionari dei nostri servizi di intelligence. Ma si tiene conto del ruolo che le Brigate Rosse hanno finito per interpretare, eliminando un personaggio come Aldo Moro che costituiva una mina vagante che metteva in crisi gli equilibri che si erano stabilizzati nell’arco di tre decenni nell’area mediterranea. Che poi l’uccisione di Moro abbia risolto non pochi problemi anche alla dirigenza sovietica non deve apparire contradditorio con questa chiave di lettura anzi ne è il necessario completamento. Se Stati Uniti e URSS si dividevano infatti il mondo, un elemento di disturbo nel territorio dell’uno, nella sua sfera di influenza, poteva comportare conseguenze spiacevoli anche nel giardinetto dell’altro. Diverse strutture si sono quindi attivate e messe all’opera per indirizzare gli avvenimenti in una certa rotta e lasciando che fosse la manovalanza, consapevole o meno, a fare il lavoro sporco. Altre compagini hanno garantito un o logistico che ha svolto una funzione fondamentale per portare al tragico finale di Via Caetani. Altre ancora si sono preoccupate di creare una cortina fumogena, sia a livello istituzionale che mediatico, grazie alla quale non è stato possibile distinguere le verità dalle mezze verità o dalle menzogne spudorate. Ancora oggi, nonostante siano ati più di 30 anni dalla morte di Moro, porsi l’interrogativo sul come si siano svolti veramente gli avvenimenti, genera un senso di fastidio. Questo dipende dal fatto che ci sono taluni pubblicisti che su una ben determinata versione dei fatti hanno basato le loro fortune. Ci sono poi altri, in particolare uomini politici di governo dell’epoca come sco Cossiga, che non tollerano l’idea che la versione sulla completa autonomia delle BR nella gestione del sequestro Moro possa essere messa in discussione. Eppure ci sono molti elementi che evidenziano che un intervento esterno a più livelli ci sia stato e che sia stato determinante per mettere una pietra tombale sulle speranze di Moro di essere liberato. Sono stati comunque gli stessi brigatisti rossi a sollevare dubbi ed interrogativi. Da quelli storici in carcere a quelli che hanno partecipato a Via Fani e che progressivamente hanno incominciato a maturare il sospetto e poi la certezza di essere stati strumentalizzati. Fino ad altri che, pur senza partecipare alla “Operazione Moro” hanno militato nelle seconde Brigate Rosse e che hanno appreso fatti e particolari che gli hanno fatto dubitare di questo o quel personaggio ed ipotizzare che la verità non era quella delle versioni ufficiali.
A tali considerazioni si potrebbe giustamente replicare che la vita degli individui è fatta anche di invidie e di rancori e che a distanza di anni i ricordi si affievoliscono e le immagini si appannano. Ma nella vicenda delle BR sono gli stessi fatti a parlare e i protagonisti e gli spettatori possono al massimo aggiungervi particolari che però servono a illuminare la scena e a confermare aspetti che in precedenza erano apparsi poco chiari.
I militanti delusi del PCI di Reggio Emilia
Fra coloro che confluirono nelle Brigate Rosse, il gruppo più consistente fu quello di Reggio Emilia, formato da militanti del PCI e della FGCI, che imbevuti dei miti della Resistenza non intendevano più aspettare che il mutamento della realtà sociale creasse quelle condizioni necessarie ad un mutamento rivoluzionario e che non sopportavano più l’attendismo del Partito. A condizionare la scelta di are alla lotta armata fu anche il ricordo dei 5 dimostranti uccisi in città nel luglio del 1960 dalla polizia durante le dimostrazioni di piazza organizzate dai partiti di sinistra e dai sindacati per protestare contro il congresso del MSI a Genova, nella fase in cui il partito erede del fascismo appoggiava il governo monocolore democristiano di Fernando Tambroni e che di lì a poco, in conseguenza appunto di quei morti, fu obbligato a dimettersi. “Morti di Reggio Emilia\ uscite dalla fossa\ pronti a cantar con noi\ bandiera rossa”, dicevano le parole di una canzone di Fausto Amodei divenuta molto popolare.
La rinuncia del PCI ad operare l’attesa “spallata” per rovesciare il sistema nel suo complesso economico e politico, spinse diversi di questi militanti a cercare un’altra via che fosse più consona ai propri ideali. Nacque così a Reggio Emilia all’inizio del 1969 il cosiddetto “Collettivo politico operai-studenti”. Da parte sua il PCI locale, imbevuto del tradizionale bacchettonismo comunista, incominciò a chiamarlo sprezzantemente il “gruppo dell’appartamento”, insinuando che più che un’iniziativa politica fosse solamente un porto di mare nel quale i residenti ed i frequentatori abituali potevano sfogare le proprie
pulsioni giovanili ad incominciare da quelle sessuali. Esso riuniva non soltanto giovani militanti del PCI e della FGCI usciti dal partito su posizioni critiche verso la segreteria di Luigi Longo ma anche cattolici del dissenso, il gruppo di “One way”, imbevuti da una forte ideologia terzomondista e che avevano come mito rivoluzionario l’esperienza del prete guerrigliero Camillo Torres che in Sudamerica aveva acquisito una grande popolarità come alfiere delle lotte dei poveri e dei campesinos. Un ambiente di cattolici progressisti che avevano il loro referente politico in una figura come Corrado Corghi che svolse una funzione importante nella trattativa per la liberazione del giudice Mario Sossi in cambio dei militanti carcerati del gruppo “XXII Ottobre” che a Genova si erano resi responsabili di diverse rapine in una delle quali era stato ucciso un fattorino, Alessandro Floris.
Tra i militanti del PCI c’erano Alberto schini, Roberto Ognibene, Fabrizio Pelli, Ivan Maletti, Attilio Casaletti, Loris Tonino Paroli e Prospero Gallinari. Tutti costoro, in misura differente, finirono per diventare militanti delle BR o di quell’area che ne fu contigua. Come sempre succede in questi casi la volontà di condividere la propria esperienza e i propri sogni con altre persone sulle stesse posizioni, spinse i militanti reggiani ad allacciare contatti con gruppi che in altre città, pur venendo da storie e realtà diverse, condividevano gli stessi ideali. In tale ottica il punto di riferimento era indubbiamente Milano sia per la presenza delle fabbriche e di una agguerrita classe operaia che in quell’anno stava incominciando a prendere coscienza di se stessa in quello che fu chiamato “Autunno Caldo”, sia per la presenza di una Università che era il crocevia di tutte le istanze rivoluzionarie di studenti che volevano utilizzare le conoscenze acquisite per cambiare il mondo. Fu nel settembre-ottobre del 1969 che iniziarono i primi contatti tra quelli di Reggio Emilia e i loro futuri sodali nelle BR che stavano cominciando a farsi le ossa nelle piazze. Una fase che portò il potere economico e quello politico a comprendere che qualcosa nel mondo del lavoro era radicalmente cambiato e che i dipendenti pubblici e privati volevano che se ne prendesse atto. L’anno seguente, e non fu un caso, ma un segno dei tempi, il Parlamento su proposta del Ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, approvò lo Statuto dei Lavoratori scritto da Gino Giugni. Una legge che allora venne considerata da alcuni come qualcosa di totalmente eversivo, ma che in realtà, a volerla giudicare oggi, non rappresentava altro che il riconoscimento di diritti elementari che per troppo tempo erano stati ignorati e calpestati.
Gli intellettuali dell’Università di Trento
C’era poi il gruppo di Renato Curcio e Margherita Cagol (Mara), che avevano studiato sociologia all’Università di Trento e che pensavano di disporre del bagaglio tecnico e culturale per comprendere i mutamenti in atto nella società italiana.
La realizzazione di un ateneo a Trento era stata voluta con forza dalla Democrazia Cristiana, ed in particolare da Flaminio Piccoli che ne era il leader locale, per allevarvi la futura classe dirigente cattolica in una regione fortemente caratterizzata in senso religioso e che attribuiva una percentuale di voti quasi “bulgara” al partito di governo. Trento di conseguenza era vista come un’isola felice nella quale era ritenuto impossibile che potessero alimentarsi istanze culturali e politiche estremiste e meno che mai rivoluzionarie. In realtà l’Università, in particolare la facoltà di Sociologia, finì involontariamente per formare laureati che a contatto con le ultime novità della cultura internazionale imboccarono tutta un’altra strada. Insieme a Curcio, che vi giunse nel 1962, ed alla Cagol, studiarono a Trento Mauro Rostagno, futuro dirigente di Lotta Continua poi ucciso dalla mafia a Trapani, Marco Boato altro dirigente storico di Lotta Continua e Giovanni (Vanni) Mulinaris che rientra nella storia delle Brigate Rosse come esponente prima di Sinistra Proletaria ed in seguito del cosiddetto Superclan.
Come spesso succede fu il caso a decidere il aggio alla lotta armata di Curcio che nel 1969 aveva la prospettiva di diventare assistente del sociologo sco Alberoni e di imboccare la strada della carriera universitaria. Quello che era stato uno studio attento e frenetico della società, ma pur sempre teorico, trovò l’occasione di essere calato nella realtà pratica, quella del mondo del lavoro e dei suoi cambiamenti, in seguito all’arrivo a Trento di una delegazione dei CUB, i comitati unitari di base, della Pirelli di Milano. A guidarli era una figura mitica del sindacato come Raffaele De Mori che invitò Curcio e gli altri laureati di Trento ad essere coerenti con lo slogan ritmato continuamente in tutte
le università e le piazze italiane, ossia: “studenti ed operai uniti nella lotta”. Uno slogan che presupponeva uno stesso destino di sfruttamento per operai e studenti da parte del sistema capitalista. I primi destinati a spaccarsi la schiena alla catena di montaggio. I secondi obbligati ad apprendere in modo acritico conoscenze che poi avrebbero permesso il loro inserimento nel processo produttivo, come quadri o funzionari, in modo tale che potessero controllare gli operai e contribuire al perpetuarsi dei rapporti di classe. De Mori invitò quindi Curcio e gli altri ad abbandonare Trento che si evidenziava solamente come un centro di elaborazione di idee e di recarsi invece a Milano, o a Torino, per rendersi conto come nelle principali fabbriche, tipo Pirelli, Alfa Romeo e la Fiat, in conseguenza del cambiamento dei processi produttivi, si stessero realizzando le premesse per uno scontro di classe, quindi per una rivoluzione, che i teorici alla Curcio ritenevano invece ancora molto lontane da venire.
Si sta realizzando e si sta per realizzare, fu il monito di De Mori, una profonda trasformazione sociale che da Trento non potete afferrare in tutte le sue implicazioni. Fu in conseguenza di questo incontro che si determinò il destino di Curcio, Cagol e di altri ed anche la dinamica della storia italiana finì per risentirne.
I tecnici delle fabbriche milanesi
Fondamentale fu l’apporto del gruppo dei tecnici delle fabbriche di Milano come Mario Moretti della Sit Siemens ed alcuni ingegneri dell’IBM, come Gaio Silvestro, i quali potevano offrire un’analisi vista dall’interno di come stavano cambiando i processi di produzione con l’introduzione di macchinari sempre più automatizzati che potevano fare a meno della mano dell’uomo. Questo tipo di mutamento non è da poco per valutare la scelta di are alla lotta armata e di diventare militanti delle Brigate Rosse. Se infatti la macchina è destinata a soppiantare il lavoratore, questo significa la scomparsa inevitabile sul lungo periodo dell’operaio massa e la sua sostituzione con un tecnico specializzato che verrà gratificato da uno stipendio più alto. Se però scompare l’operaio massa e con lui la classe operaia tende a trasformarsi in un nuovo ceto medio, questo
significa la fine di ogni prospettiva rivoluzionaria secondo i canoni classici del marxismo-leninismo. Alcuni studiosi del fenomeno brigatista hanno quindi sollevato l’ipotesi che la scelta armata, quantomeno nei tecnici, fu determinata in realtà dalla volontà di cogliere la possibilità di una rivoluzione prima che i suoi potenziali beneficiari, a causa del processo tecnico, venissero espulsi dal mercato del lavoro o trasformati in qualcosa di altro e che di conseguenza i militanti non avessero più una realtà sociale sulla quale lavorare.
Frequentando gli ambienti degli operai e dei tecnici della Sit Siemens e della Pirelli, Curcio ebbe in tal modo la conferma di quanto gli aveva detto Raffaello De Mori.
Da questo tipo di approccio nasce l’insistenza dei futuri brigatisti ad utilizzare nei propri comunicati i due termini “ristrutturazione neocapitalista” e “Stato imperialista delle multinazionali”, il cosiddetto SIM. Due concetti strettamente legati l’uno all’altro. Per quanto riguarda il primo, il suo utilizzo era da intendersi sia in senso propriamente tecnico che finanziario. Il progresso tecnologico, pensavano i futuri BR, sta per cambiare drasticamente la catena di montaggio e la vita in fabbrica. Di conseguenza le aziende saranno portate a produrre in quei Paesi dove i governi ed i sindacati non pongono ostacoli ad una svolta che comporterà un risparmio di costi ed un minore ricorso alla forza lavoro. Quindi licenziamenti di massa.
È appena il caso di ricordare che in una azienda come la FIAT l’ingresso della robotica nella catena di montaggio fu un fenomeno in atto fin dal 1972 con l’installazione di 16 robot sulla linea di produzione della 132, mentre il Robogate, il sistema robotizzato di assemblaggio delle scocche, era del 1978.
Sotto l’aspetto finanziario, tale svolta, prevedevano De Mori, Curcio e gli altri, avrebbe comportato una più redditizia allocazione delle risorse delle aziende portandole ad operare come delle multinazionali. Il concetto di SIM fu una conseguenza diretta di tale analisi. Se infatti un progresso tecnico, che non ha
uguali con il ato, sta per irrompere in fabbrica, esso riguarda tutte le aziende dei Paesi del blocco occidentale che verranno obbligate a fare fronte comune per vincere le resistenze dei sindacati e le ritrosie dei governi. Una alleanza che farà sentire tutto il suo peso all’interno dei singoli Stati nazionali cambiandone i rapporti di forza e gli equilibri economici e sociali. Il concetto di SIM ebbe una notevole fortuna pubblicistica fino al momento in cui le Brigate Rosse morettiane decisero di abbandonarlo come strumento ormai inadeguato a spiegare compiutamente le dinamiche del capitalismo internazionale e di considerarlo poco di più che una leggenda metropolitana. Appare quindi quanto mai soso che, anni dopo, un industriale come Piero Bassetti, esponente della DC lombarda, abbia scherzosamente rimproverato i brigatisti rossi per aver abbandonato un concetto che invece poteva aiutarli meglio a comprendere le dinamiche economiche in corso. “Ma come fate a dire che il SIM non esiste – gli fece osservare Bassetti – ve lo dico io che partecipavo regolarmente alle riunioni della Commissione Trilaterale”. Ossia una di quelle strutture organizzate, l’altra più nota è il Bilderberg, nelle quali finanzieri e industriali internazionali di un certo peso si incontrano per discutere dei problemi e dei mali del mondo. Riunioni dove, ai politici, preferibilmente di governo, che di volta in volta vi vengono cooptati ed invitati, vengono “suggerite” le soluzioni per risolverli e che generalmente coincidono con gli interessi degli stessi suggeritori. Un concetto quello di SIM che, in tale logica, appare perfettamente in linea con l’analisi marxiana, nel quale la politica non rappresenta altro che una sovrastruttura dei rapporti economici e finanziari dominanti. E allo stesso tempo l’esistenza del SIM è del tutto logica con le dinamiche proprie del capitalismo che non può tollerare che vi siano ostacoli a livello nazionale che impediscano il trasferimento di tecnologia sul mercato globale e la libera circolazione di materie prime, merci, prodotti e forza lavoro.
Appare quindi quanto mai curioso che i brigatisti, abbiano deciso di accantonarlo. Evidentemente, i dirigenti delle nuove BR morettiane, a differenza dei capi storici, avevano maggiore dimestichezza con l’azione che con i libri e con lo studio. Semmai questa sorta di mutamento antropologico del brigatista di prima e seconda generazione può aiutare a comprendere meglio anche il cambiamento delle strategie brigatiste. Con Moretti infatti venne progressivamente abbandonato il rapporto con le fabbriche e con la realtà sociale, questa fu una delle accuse che gli mossero Curcio e schini, per are invece ad una dimensione nella quale l’aspetto militare appariva ed era
predominante. I dietrologi di professione hanno trovato anche in questo tipo di mutamento una conferma ai propri sospetti che le BR di Moretti fossero qualcosa di ben diverso rispetto al gruppo originario. Infatti l’azione brigatista dal 1974 in poi non fu più tesa ad una “disarticolazione” delle strutture produttive industriali, quelle che nei documenti brigatisti venivano definite come il “tecno-fascismo”, quindi il cuore del capitalismo italiano. Si puntò invece a colpire figure della struttura intermedia dell’apparato statale italiano (magistrati, carabinieri, poliziotti e agenti di custodia) privi di un reale ed autonomo potere decisionale. Certo le BR colpirono e uccisero molti dirigenti e funzionari industriali, ma basta andare a rileggersi i documenti di quegli anni e le dinamiche dei ferimenti e delle uccisioni per rendersi conto che erano azioni giustificate più che altro dalla necessità di offrire un nemico da colpire ai militanti che non vedevano l’ora di sporcarsi le mani di sangue per dimostrare la loro determinazione rivoluzionaria. Resta in ogni caso questo sradicamento dalla realtà delle fabbriche e quindi la lontananza dal cambiamento tecnologico nei processi produttivi con l’inevitabile richiudersi dei brigatisti rossi nel microcosmo di una banda armata sempre più isolata ed autoreferenziale.
Il Collettivo Politico Metropolitano
La prima struttura nella quale gli esponenti di quei tre gruppi ebbero occasione di incontrarsi fu il Collettivo Politico Metropolitano di Milano fondato nel settembre 1969 da Renato Curcio e da Corrado Simioni, un ex dirigente milanese del Partito Socialista Italiano da cui era stato espulso nei primi anni sessanta per motivi mai completamente chiariti. La figura di Corrado Simioni è in ogni caso fondamentale per capire il mutamento degli indirizzi operativi delle BR dal 1974 in poi, soprattutto in considerazione degli stretti rapporti da lui stabiliti con Mario Moretti.
Il M nacque dall’esigenza di mettere insieme i molti fermenti che si stavano sviluppando nell’ambiente della sinistra extraparlamentare milanese.
Il Collettivo aprì una sede in un vecchio teatro abbandonato e fu un laboratorio nel quale, in tutta libertà e senza tanti controlli, di fatto era un porto di mare, dove si producevano iniziative culturali, teatrali e musicali all’insegna del tipico approccio sperimentale dell’epoca. Ma poi, dopo il 12 dicembre 1969, con la bomba di Piazza Fontana e le altre a Milano e Roma, quelle istanze si tramutarono nel desiderio di creare qualcosa di più concreto, di più politico ed organizzato che rispondesse al nuovo corso politico e sociale che gli attentati sottintendevano. Bombe che venivano interpretate come una risposta del potere, alle istanze di rinnovamento che nascevano dalla società. Un potere che veniva inteso come un Moloch economico e politico onnicomprensivo. L’occasione fu offerta dal convegno di Chiavari a fine dicembre alla pensione Stella Maris cui si decise la trasformazione in un nuovo gruppo che venne denominato Sinistra Proletaria.
Sinistra Proletaria
La nuova struttura in realtà non era un gruppo vero e proprio, ma un conglomerato in cui confluivano diversi gruppi e collettivi politici milanesi. La svolta comunque ci fu perché Sinistra Proletaria si dotò di un agguerrito e militarizzato servizio d’ordine che non aveva nulla da invidiare a quelli degli altri gruppi della nascente sinistra extraparlamentare e che costituì la palestra in cui si allenarono i giovanili furori dei futuri brigatisti.
In tale struttura, a differenza di altre, le donne (definite le “zie rosse”) partecipavano attivamente dimostrando una determinazione spesso superiore a quella dei militanti maschi. Ma Sinistra Proletaria fu anche l’occasione in cui si presero le misure delle due anime delle future BR. Quella più centralistica ed elitaria di Simioni e Moretti e quella invece più movimentista di Curcio e schini, fermamente convinta della necessità di un più stretto legame con il mondo delle fabbriche e degli operai in nome dei quali ci si proponeva di are all’azione.
L’occasione fu offerta dal convegno di Pecorile (Reggio Emilia) nell’agosto 1970 in cui si decise il aggio alla lotta armata. La spaccatura in Sinistra Proletaria si verificò in quanto Curcio e schini teorizzarono che il futuro gruppo dovesse organizzarsi dal basso, partendo dalla realtà sociale delle fabbriche e con un’azione di penetrazione nelle masse. Mentre Simioni riteneva invece che queste non fossero ancora pronte per una rivoluzione e che andavano quindi educate e guidate. Per tale motivo voleva che il servizio d’ordine di Sinistra Proletaria fosse ulteriormente militarizzato e che incominciasse ad effettuare azioni eclatanti ed esemplari.
Simioni, una volta tornato a Milano dopo che la sua linea era risultata minoritaria, senza dire nulla a nessuno degli altri dirigenti, cercò di convincere i militanti a lui più legati a compiere azioni eclatanti, omicidi compresi, che fero comprendere ai tanti potenziali rivoluzionari che c’era una struttura in grado di raccogliere e indirizzare le loro istanze. Una decisione ritenuta folle da Curcio e schini in quanto era inconcepibile che azioni illegali e attentati venissero fatte da una organizzazione come Sinistra Proletaria che era inserita in un movimento molto più vasto e nel quale chiunque poteva entrare. Di conseguenza, le forze dell’ordine, che disponevano di infiltrati in tutti i gruppi extraparlamentari milanesi, sarebbero state subito in grado di identificarne i responsabili e di colpire i vertici ed i militanti dell’organizzazione.
Il Superclan
Simioni voleva creare quindi una struttura ultrasegreta e “superclandestina”, da qui il termine Superclan coniato ironicamente da Curcio e schini, alla quale assegnava il compito di infiltrare tutti i gruppi alla sinistra del PCI e di guidarne in seguito dall’esterno tutti i militanti più agguerriti e motivati per farne i protagonisti della futura rivoluzione. In altre parole aveva la pretesa di egemonizzare e coordinare le varie organizzazioni extraparlamentari e promuoverne la trasformazione in gruppi terroristici. Simioni, per rafforzare le sue tesi, si appoggiava ad uno studio fatto da tecnici dell’IBM, i quali avevano previsto che, entro un paio di anni, all’incirca nel 1973-74, il sistema capitalista
sarebbe stato colpito da una grave crisi e che di conseguenza in Europa sarebbe nata una situazione sociale ed economica degradata con una disoccupazione di massa. Una situazione ideale perché poteva essere il terreno fertile per una svolta insurrezionale e per la presa del potere da parte di un proletariato guidato da una avanguardia rivoluzionaria. Si deve tenere presente a tale proposito che nel ferragosto del 1971, Richard Nixon proclamò la non convertibilità del dollaro in oro, dando il via alla destabilizzazione di fatto del sistema monetario internazionale che fino al quel momento si era sorretto sul rapporto di cambio fisso dei 35 dollari l’oncia come stabilito a Bretton Woods nel 1944. Erano infatti troppi i petrodollari in circolazione perché gli Stati Uniti potessero rischiare di vedere prosciugate le proprie riserve auree. Di conseguenza fu inevitabile che nel 1973, a seguito della guerra del Kippur vinta da Israele contro Egitto e Giordania, i Paesi arabi produttori di petrolio, come ritorsione per l’appoggio occidentale a Tel Aviv, e prendendo atto che il dollaro era quasi carta straccia, dettero il via ad una politica mista di blocco delle forniture e di gigantesco aumento dei prezzi. Una scelta che mise in ginocchio l’economia dei Paesi più industrializzati e che portò in Europa ad un razionamento della benzina per le autovetture ed una inflazione a due cifre che in Italia toccò quasi il 20%. Una deriva dei prezzi che in realtà venne diretta e sostenuta, e nemmeno tanto di nascosto, anche dalle compagnie petrolifere anglo-americane che giudicavano i prezzi del greggio praticati dai Paesi dell’Opec troppo bassi per giustificare i prezzi di vendita molto più elevati praticati al consumatore finale. Delle due l’una: o i tecnici dell’IBM, un’azienda americana, erano dei geni nel prevedere cosa sarebbe successo entro tre anni o disponevano di notizie di prima mano. Ma oltre a valutazioni diverse sulla struttura che avrebbe dovuto praticare la lotta armata, schini e Curcio nutrivano parecchi sospetti anzi certezze sulla figura di Simioni. Innanzi tutto non si riusciva a capire con quale tipo di entrate vivesse considerato che appariva sempre pieno di soldi. Inoltre, ad Atene, il 2 settembre 1970, per un difetto del timer di una bomba che doveva servire ad un attentato contro l’ambasciata statunitense, erano morti i due potenziali terroristi all’interno della loro auto. Particolare interessante è che il timer usato era un Lucerne, ossia dello stesso tipo che due anni dopo causò la morte di Feltrinelli a Segrate. Simioni si fece sfuggire di essere stato lui ad organizzarlo. Ed un’altra cosa grave era che Simioni aveva prospettato alla stessa Mara Cagol, moglie di Curcio, di parteciparvi. In seguito al suo rifiuto vi aveva invece mandato Maria Elena Angeloni, e lo studente greco cipriota Giorgio Christou Tsikouris entrambi militanti di Sinistra Proletaria, che vi avevano rimesso la vita.
Ancora più grave era che Simioni fosse stato conseguente alle sue idee creando una sua struttura segreta di cui gli altri dirigenti di Sinistra Proletaria sapevano poco o niente. La situazione in tal modo non poteva continuare. Nel novembre del 1970 avvenne la rottura. schini, Curcio e Cagol isolarono Simioni che se ne andò sparendo letteralmente dalla circolazione e portandosi dietro Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Françoise Tuscher, Innocente Salvoni, Franco Troiano, Sandro D’Alessandro, e due ex militanti della FGCI di Reggio Emilia, Ivan Maletti e Prospero Gallinari, arrivati a Milano percorrendo la stessa strada di schini.
C’erano in ogni caso persone che, rimaste a metà del guado, informavano Curcio e schini delle discussioni interne del gruppo di Simioni, in particolare, del progetto di creare la famosa struttura chiusa e sicura, appunto “superclandestina”, che potesse entrare in azione come gruppo armato in un secondo momento. L’ex militante socialista nei suoi discorsi ironizzava su Curcio e schini, ritenuti troppo approssimativi nelle loro analisi politiche e sociali, e troppo disorganizzati nell’azione sul campo e prevedeva che sarebbero stati tutti catturati una volta che avessero provato a darsi un minimo di organizzazione per superare la caotica situazione in cui ci trovavano. Una conclusione che arrivò puntuale con l’arresto di Curcio e schini a Pinerolo nel 1974 e con il aggio dei poteri nelle capaci mani di Mario Moretti. Non era comunque i soli schini e Curcio a non vedere di buon occhio Simioni. Nell’ambiente dell’estremismo milanese alla fine del 1970, il capo del Superclan non godeva di molto credito, per gli stessi motivi per i quali schini non si fidava di lui. I movimentisti di Lotta Continua lo consideravano un informatore della polizia, mentre i trotzkisti di Avanguardia Operaia lo accusavano di avere rapporti con il SID, i servizi segreti militari dell’epoca. schini inoltre, riferendo nel marzo del 1999 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia, ricordò che i suoi sospetti presero già consistenza quando lo conobbe come esponente di quel M che aveva fondato insieme a Curcio. Quello che meravigliò l’ex militante della FGCI di Reggio Emilia approdato a Milano fu che, già nell’autunno del 1970, Simioni insisteva molto con la necessità di are alla lotta armata e tanto per cambiare all’insegna del famigerato e molto italiano “armiamoci e partite”, ossia lui nell’ombra a cospirare ed a dare ordini, gli altri a compiere le azioni. E schini portò come esempio la proposta, fatta nel settembre 1970, di uccidere Junio Valerio Borghese, ex comandante della Decima Mas e capo del Fronte Nazionale, nel
corso di un comizio di Avanguardia Nazionale a Trento. Il grave è che Simioni voleva che l’uccisione, che sarebbe stata effettuata da cecchini non meglio identificati scelti da lui, fosse rivendicata da Lotta Continua. Questo, avrebbe provocato una reazione dei fascisti e dello Stato contro il movimento di Sofri che però, questo era il ragionamento, sarebbe stato obbligato a scegliere di abbandonare la strada della mezza illegalità per are apertamente allo scontro armato. La scelta di Trento peraltro era quanto mai sospetta visto che poteva essere interpretata come una firma dello stesso Curcio che vi aveva studiato. Non contento di questo, Simioni propose a Curcio e schini di partecipare all’uccisione di due alti ufficiali della base NATO di Napoli per salutare in tal modo l’arrivo in Italia del Presidente Usa, il repubblicano Richard Nixon. Anche in questo caso Simioni assicurava di avere preparato tutto, ma poi si guardava bene dal dire chi fossero queste persone, i killer di sua fiducia. Curcio e schini decisero di rompere con Simioni e con il suo ambiente e di restare ancorati al mondo delle fabbriche. E come prima azione firmata dalla organizzazione decisero di bruciare la macchina di un capo reparto della Sit Siemens, guarda caso la fabbrica dove aveva lavorato Moretti. Un’azione di basso livello, ma rivolta ad un funzionario, un “capetto”, visto con ostilità dagli operai e che contribuì a guadagnare simpatie alle nascenti Brigate Rosse.
Curcio e schini
Dopo l’uscita di Simioni, Curcio e schini dettero vita alle Brigate Rosse puntando a creare nuclei nelle tre città del triangolo industriale del Nord Italia: Milano, Torino e Genova. La prima azione eclatante fu l’incendio alla pista prove della Pirelli a Lainate nel marzo 1971. A seguito di quell’attentato rivendicato con la firma della stella a cinque punte, si fece rivedere Mario Moretti, lo stesso che se ne era andato via da Sinistra Proletaria prima di Simioni accusando Curcio e schini di non essere dei rivoluzionari. Moretti tornò apparentemente con il capo cosparso di cenere affermando di essersi sbagliato e che dopo aver incrociato Simioni aveva concluso che era un inconcludente. Dopo averlo messo alla prova i due brigatisti storici lo cooptarono nel direttivo delle BR. A distanza di anni, un schini inviperito, continua a sparare a zero contro Moretti come infiltrato di Simioni nelle Brigate Rosse e di conseguenza come agente provocatore. E utilizza due questioni per sostenere la
sua tesi. La prima è che in meno di tre anni tutto il gruppo storico delle BR venne arrestato, Moretti escluso. E che in seguito le BR morettiane finirono per trasformarsi in una struttura centralistica e molto compartimentata, in altre parole “superclandestina”, e disposta a are all’azione compiendo omicidi eclatanti. Proprio quella che era la vecchia idea di Simioni. A rafforzare questo suo convincimento, unito alla certezza che nelle prime BR vi fossero infiltrati, schini cita la gestione del sequestro Sossi nel corso del quale Moretti fu quello che più si era pronunciato per l’uccisione dell’ostaggio, a dimostrazione che il terrorista marchigiano era del tutto favorevole ad un cambio di strategia ed ad alzare il tiro. Un sequestro che si risolse invece con la liberazione dell’ostaggio perché i brigatisti che lo custodivano, schini in testa, si erano resi conti che la “prigione del popolo” era stata scoperta e temevano che fosse imminente una irruzione dei carabinieri con la morte di tutti i presenti, ostaggio compreso.
L’altra questione sulla quale schini si esercita è quella di sottolineare che una volta che lui e Curcio vennero arrestati a Pinerolo nel 1974, Moretti divenne il capo delle BR e le indirizzò su una linea di scontro aperto con lo Stato, attraverso azioni eclatanti e sanguinose come quelle predicate da Simioni e che si concretizzarono nell’uccisione a Genova di sco Coco, procuratore capo della Repubblica, il magistrato che aveva detto no allo scambio di Sossi con i membri della banda XXII Ottobre. L’idea che si era fatta schini è che Moretti fosse effettivamente un infiltrato ed un provocatore e che il sequestro Moro fosse stato organizzato nella scuola di lingue Hyperion, fondata a Parigi nel 1976 da Simioni, e che lo stesso Moretti prendesse ordini dall’ex militante socialista nel quadro di una strategia “atlantica”.
schini si è detto convinto che Moretti dopo il sequestro Moro andasse regolarmente a Parigi per incontrare il suo mentore. “Dopo”, perché durante il sequestro Moro, l’Hyperion aveva aperto una sua succursale a Roma in Via Nicotera 26 che venne frettolosamente chiusa dopo qualche mese, e di conseguenza Moretti non aveva ragione di andare così lontano quando aveva il suo capo a portata di mano. C’è pure da ricordare che alcuni membri del gruppo di Simioni, come Ivan Maletti, nel periodo del sequestro Moro, erano a Roma dove, appoggiandosi ad un appartamento situato in Viale Angelico, diffondevano
il periodico “Nuova Polizia” diretto da Franco Fedeli.
Lo sconcerto dei brigatisti storici è comunque accentuato dalla consapevolezza che c’erano ambienti del PCI che erano perfettamente a corrente dell’attività delle nascenti Brigate Rosse e che volevano fermarne la strategia rivolta a contrastare la politica del “Compromesso Storico” lanciata da Enrico Berlinguer nell’ottobre del 1973 con un celebre articolo pubblicato sulle pagine di Rinascita, il settimanale culturale del partito. Un articolo nel quale, prendendo spunto dalla lezione offerta dal golpe cileno contro il governo di Unità Popolare guidato da Salvador Allende, andato al potere con un misero 35% dei voti, Berlinguer insisteva sul fatto che il PCI non poteva aspirare alla guida del Paese pensando allo stesso tempo di voler mandare la DC all’opposizione come volevano gli ambienti dì estrema sinistra. Era invece necessario un accordo, un incontro tra i grandi partiti popolari, tra le masse socialiste, comuniste e quelle cattoliche, in una nuova strategia che Berlinguer definiva appunto un “Compromesso Storico”. L’unica soluzione per rinnovare l’Italia ed evitare, come successo in Cile, una reazione durissima da parte degli ambienti conservatori. Il PCI, fu il giudizio dei brigatisti, vuole la pace sociale in fabbrica e vuole quindi accordarsi con il padronato. L’unica risposta deve essere quella di sabotare un simile disegno. Così nel dicembre 1973 le BR decisero di colpire a Torino e sequestrarono per una settimana Ettore Amerio, che era un dirigente del personale della Fiat. L’incredibile successe dopo la fine del sequestro, nel gennaio 1974, quando inviati del PCI contattarono schini e Piero Morlacchi, un militante delle BR legato al PCI, che aveva, inoltre, due fratelli che lavoravano all’Unità. Ai due brigatisti venne suggerito di consegnarsi ai magistrati perché ormai le BR erano avviate a compiere azioni sempre più pesanti e che di conseguenza erano da prevedere arresti in massa. Morlacchi e schini come ex militanti avevano diritto ad un occhio di riguardo da parte del PCI. Siete compagni di fiducia ed affidabili, gli venne detto, siete recuperabili, non avete compiuto ancora gesta sanguinose. Ma il vostro arresto potrebbe danneggiare il partito. Gli altri non li conosciamo e non ci interessa salvarli. Nella sostanza, ai due venne suggerito di consegnarsi ad un magistrato specifico, cioè Ciro Di Vincenzo, e di nominare come avvocato difensore niente di meno che Alberto Malagugini, all’epoca responsabile del PCI per i problemi della giustizia. È appena il caso di ricordare che Malagugini era il suocero di Duccio Berio, il numero due di Simioni. Curioso è semmai prendere atto che il PCI fosse perfettamente al corrente di quanto bollisse in pentola nei due gruppi,
rapine e attentati compresi, e che volesse di conseguenza evitare problemi giudiziari per la figlia di uno dei suoi parlamentari ed evitare tutto il clamore che si sarebbe originato da un eventuale arresto. Si potrebbe ipotizzare pure che la soffiata al PCI sia arrivata proprio da quel canale del Superclan con il fine di togliere dalla circolazione uno dei due capi storici delle BR e favorire l’ascesa del superclandestino Moretti. In ogni caso i brigatisti rifiutarono l’offerta e, schini riferisce di avere saputo che i componenti del Superclan, Simioni e Berio inclusi, andarono invece dal magistrato, fecero dichiarazioni i cui verbali evidentemente sono ancora oggi introvabili, confessarono qualche peccatuccio veniale (del tipo: abbiamo soltanto cospirato, erano soltanto chiacchiere), chio tutti i loro conti con l’Italia, e se ne andarono a Parigi. Per il schini dell’epoca Simioni e gli altri di quel giro erano dei provocatori al servizio di un qualcuno non meglio identificato. E per come lo aveva conosciuto all’epoca, “Simioni più che altro era un avventuriero”. I sospetti veri vennero dopo.
Chi era Simioni
Corrado Simioni è morto nell’ottobre del 2008 a Truinas nella regione della Drome, nel Sud Est della Francia, dove gestiva un bed&breakfast insieme alla sua compagna Giulia Archer, già militante del Collettivo Politico Metropolitano ed all’epoca legata a Sandro D’Alessandro (uno del Superclan) futuro editore nel 1994 con la casa editrice Anabasi del libro di Mario Moretti “Brigate Rosse, una storia italiana”. Un libro edito da un seguace di Simioni e che è un estratto incompleto e risistemato ad hoc dell’intervista concessa a Rossana Rossanda ed a Carla Mosca, nel quale si insiste sulla tesi delle BR pure e dure e prive di qualsivoglia regia esterna o straniera. Nessun giornale ha parlato della morte di Simioni e la notizia è stata resa pubblica dal giornalista Giovanni Fasanella, che alla storia delle BR e dei misteri politici italiani ha dedicato più di un volume, e che ne era venuto a conoscenza per caso alla fine del 2009. “Macché Grande Vecchio, ma quali Brigate Rosse, l’unica cosa in cui credo è il buddismo tibetano”, continuava a ripetere Simioni dal suo eremo se, a quanti cercavano di avvicinarlo per ottenere qualche luce sui misteri italiani.
Simioni, era nato a Venezia nel 1934. Dopo gli studi si trasferì a Milano dove svolse attività politica nella federazione giovanile del Partito Socialista Italiano, militando nella corrente autonomista di Pietro Nenni insieme a Bettino Craxi e Silvano Larini. Nel 1963 però, così narrano le cronache, venne espulso con l’accusa non meglio precisata di “indegnità morale”. Ma lui ebbe sempre a smentire la circostanza. Il termine più corretto sembra invece essere quella di “condotta immorale” e potrebbe riferirsi ad una storia di donne, forse avances rivolte alla compagna di un militante. Anche il PSI dell’epoca era bacchettone come i cugini del PCI. Nel 1965, Simioni si trasferisce a Monaco di Baviera, per approfondire gli studi di latino e teologia, e dove lavora a Radio Europa Libera che con le sue frequenze riesce a inondare di informazioni “democratiche e atlantiche” i Paesi comunisti dell’Est. Poi nel 1967 ritorna in Italia. Qui lavora per la Mondadori, ma anche per l’USIS ((United States Information Service) un ente informativo degli USA, in altre parole una succursale della CIA. Diventa quindi significativo, potenza delle coincidenze, prendere atto che una delle sedi romane dell’USIS è situata proprio in quel Palazzo Antici Mattei al numero 32 di Via Caetani, esattamente di fronte al punto dove venne lasciato la Renault Rossa con il cadavere di Moro.
Dopo l’USIS, Simioni divenne il leader di un collettivo operai-studenti e poi dette vita al Collettivo Politico Metropolitano, quindi a Sinistra Proletaria ed infine al Superclan. Piuttosto curioso è l’atteggiamento nutrito nei suoi confronti da Bettino Craxi che nel 1980, ad una domanda sull’esistenza di un ipotetico “Grande Vecchio” che tirava i fili del terrorismo italiano, dichiarò testualmente: “Quando si parla del Grande Vecchio, bisognerebbe riandare indietro con la memoria, pensare a quei personaggi che avevano cominciato a far politica con noi e che poi, improvvisamente sono scomparsi. Magari sono a Parigi a lavorare per il partito armato”. Una dichiarazione che sembrava indicare nemmeno troppo velatamente Corrado Simioni, ma che successivamente, nel 1982, il leader socialista si premunì di correggere indirizzando una lettera aperta all’ex militante del PSI nella quale negava di aver voluto riferirsi a lui e nella quale lo salutava “fraternamente”. Un’espressione quanto mai curiosa se rivolta da un uomo di governo ad una persona sospettata di essere il cervello occulto delle BR e il mentore di Mario Moretti, ed inseguito in quel momento da un mandato di cattura per banda armata emesso dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia. Una richiesta di arresto emessa per le attività del Superclan e che riguardava anche Duccio Berio e Vanni Mulinaris: tutti e tre comunque furono prosciolti nel 1990.
Mastelloni, unitamente al giudice Rosario Priore di Roma sospettava che i tre fossero stati un tramite fra le Brigate Rosse e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e che inoltre, come responsabili della scuola Hyperion di Parigi, avessero svolto una certa attività a Roma proprio alla vigilia del sequestro Moro.
Simioni da parte sua aveva fatto spallucce, e da Parigi aveva puntualizzato di avere conosciuto Bettino negli anni sessanta. Forse, aveva ipotizzato, Craxi voleva cautelarsi dalle accuse di connivenza che gli alleati di governo potevano rivolgergli. Quando in Italia si è cominciato a parlare del trio Simioni, Berio e Mulinaris che complottavano a Parigi, il Segretario socialista potrebbe aver pensato che gli conveniva andare all’attacco. Per evitare di essere attaccato lui.
“Caro Corrado – gli aveva scritto Craxi nel 1982 – testimoniando al processo Moro ho per l’ennesima volta precisato che in nessuna occasione avevo chiamato in causa l’Hyperion (di cui ignoravo l’esistenza) e la tua persona (di cui da tempo immemorabile avevo perso le tracce pur conservando ricordi giovanili)...Ti faccio molti auguri e spero un giorno di incontrarti. Fraternamente”.
C’è però da ricordare che il 14 marzo 1993, in una intervista a Repubblica, era stato un socialista milanese come Silvano Larini, un craxiano doc, ad indicare Simioni come il Grande Vecchio. Il politico socialista ricordava di avere conosciuto all’università tutti quelli che iniziano a fare politica negli anni cinquanta. Craxi, i fratelli Spazzali e Corrado Simioni, il quale aveva tali capacità da essere fin da quel periodo un “leader carismatico”. Larini ricordava che quando si scoprì che a Parigi la scuola Hyperion aveva tra i suoi dirigenti anche Corrado Simioni, lui ne parlò con Craxi e, senza che lui replicasse, gli disse che Simioni era il vero capo delle BR.
In seguito, riferendosi a Moretti, in un’intervista all’Espresso, Simioni aveva spiegato che a suo avviso la lotta armata in Italia era finita da anni, da quando
avevano arrestato Curcio, schini e gli altri fondatori. Due terroristi ma pur sempre due politici con i quali lui non ha avuto mai niente a che fare. Il resto, compreso il caso Moro, è stata un’altra cosa con il trionfo della tecnocrazia militare. Curcio era un politico mentre Moretti non lo è mai stato. Semmai, concludeva Simioni all’interno di un sottile gioco delle parti, “Moretti era un tecnocrate e un uomo sorprendentemente privo di cultura che alle idee ha sempre anteposto il fanatismo”.
Ma a giudizio di schini, in quell’intervista Simioni dava di sé un quadro assolutamente irreale visto che arriva ad affermare di essere sempre stato un pacifista e un intellettuale. Una cosa abbondantemente smentita dalla sua storia personale.
E Moretti, all’interno di quel gioco, ha affermato che lui non sopportava il modo di fare di Simioni che aveva la mania della segretezza ed appariva un po’ millantatore ed un po’ suggestionato dai romanzi di spionaggio. Voleva coinvolgerlo in avventure non trasparenti e non controllabili dai singoli militanti. Quando si accettano dei livelli di segretezza, aveva aggiunto Moretti, si accetta una gerarchia. C’è da osservare che in verità, è proprio su questo modello di segretezza che il capo brigatista ha impostato le “sue” Brigate Rosse.
Nel 1994 l’ex Segretario della DC, Flaminio Piccoli, parlò alla commissione stragi di un “quarto uomo” nei giorni del sequestro Moro. Un insospettabile che era legato al “livello elitario” delle BR e che avrebbe affiancato Gallinari e Moretti nella gestione della prigione e del processo a Moro. Un chiaro riferimento a Simioni. O in alternativa a Giovanni Senzani. Della stessa idea il generale Dalla Chiesa per il quale Simioni era “una intelligenza a monte delle Brigate Rosse”. In altre parole era quello che dava ordini a Moretti.
Resta il fatto che Simioni, sbarcato a Parigi nel 1974, diventò un personaggio quanto mai in vista negli ambienti politici, religiosi e intellettuali. Non c’era solo l’Hyperion per il quale un rapporto dell’UCIGOS del 1979 sollevava il sospetto
che fosse “il più importante ufficio di rappresentanza della CIA in Europa...”. Ma i suoi legami con Innocente Salvoni e con la moglie Françoise Tuscher, nipote dell’Abbè Pierre, mitico fondatore della comunità di Emmaus, lo portano a fare parte di una delegazione che accompagnò l’abate in visita a Giovanni Paolo II nel novembre 1992. Una fotografia di gruppo li ritrae tutti insieme ed è parte integrante dell’intervista rilasciata al giornalista dell’Espresso, Mario Scialoja.
Resta il fatto che Simioni, stabilendosi a Parigi, riuscì a sfruttare a pieno il tradizionale senso di ospitalità che la Francia ha sempre dimostrato nei confronti dei rifugiati politici. A ciò si aggiunse, dal 1981 in poi, la Dottrina Mitterrand che faceva poche distinzioni tra estremisti ricercati per reati come associazione sovversiva e partecipazione a banda armata con terroristi responsabili di omicidi e di rapine. Un modo di vedere che permise a centinaia di italiani ricercati per gravissimi reati compiuti nei cosiddetti “anni di piombo” di rifugiarsi senza problemi a Parigi. Un atteggiamento di benevolenza quello se, che peraltro continuò anche con i governi di centrodestra, anzi iniziò con la presidenza di Giscard D’Estaing, e che Simioni ed i suoi sfruttarono in pieno per agire indisturbati e per trasformare l’Hyperion in un luogo di transito per i più disparati interessi e traffici di brigatisti rossi, di militanti di gruppi estremisti di mezza Europa e del Vicino Oriente, ma anche per agenti delle intelligence dell’Est e dell’Ovest.
Moretti
Mario Moretti è un’altra figura controversa della storia brigatista. I suoi biografi, ad incominciare da Sergio Flamigni, l’ex senatore del PCI ed ex componente della Commissione stragi, ne hanno sottolineato le ambiguità. Quelle che nascono dall’impronta data alle Brigate Rosse di cui era diventato il capo e dalla modalità di gestione del sequestro Moro, fino al suo ato di adolescente nelle Marche quando professava idee fasciste e militava addirittura nella Giovane Italia. Una realtà che si scontra con quanto da lui affermato nel libro-intervista: “Brigate Rosse. Una storia italiana” dove afferma invece la matrice comunista
della sua famiglia e degli ambienti che frequentava da giovane. Ma questa tendenza ad andare a scavare nel dna delle persone è un vecchio vizio italiano e se portato alle sue estreme conseguenze porterebbe a vedere un complotto dietro ad ogni vicenda, il tutto in un meccanismo senza fine. Quello che è invece sicuro è che Moretti, terminato l’istituto tecnico dove si diplomò perito industriale con specializzazione in telecomunicazioni, si trasferì a Milano dove nel gennaio del 1967 venne assunto alla Sit Siemens e nell’ottobre dello stesso anno si iscrisse alla facoltà di economia e commercio dell’Università Cattolica.
La nuova presa di coscienza politica di Moretti avvenne ovviamente con l’avvio del Movimento Studentesco del 1968 e con il parallelo insorgere di moti di rinnovamento nelle fabbriche. Moretti che è un tecnico, e che quindi appartiene ad una categoria che, almeno per il contenuto della busta paga, si sente al di sopra degli operai, assume progressivamente una coscienza di classe che lo porterà ad iscriversi al sindacato di stampo cattolico dei metalmeccanici FIMCISL. Da qui parteciperà ai primi scioperi dove pochi tecnici si uniscono agli operai e a costituire anche gruppi di studio per valutare le conseguenze del progresso tecnico sulla qualità del lavoro in fabbrica sia per gli operai, che per i tecnici.
In quel grande magma in continua trasformazione che fu il biennio 1968-69 nel quale gli operai più politicizzati, e critici della linea ufficiale dei sindacati, si incontravano e discutevano con i militanti della sinistra extraparlamentare, Moretti insieme a Gaio Di Silvestro, un ingegnere della Sit Siemens, finì per entrare nell’autunno del 1969 nel Collettivo Politico Metropolitano. Nell’aprile del 1970 Moretti lasciò il M accusando il gruppo di essere un massa di inconcludenti e di aver abbandonato ogni vera volontà di are all’azione ed alla rivoluzione. Con Moretti se ne vanno altri militanti con i quali, così dirà in seguito a Curcio e schini, svolgerà attività illegale compiendo anche rapine.
Nemmeno dopo che le Brigate Rosse, il 17 settembre 1970, effettuarono la loro prima azione eclatante firmata, bruciando il box auto di un dirigente della Sit
Siemens, Moretti si fece rivedere a differenza di Simioni che si lamentò di non esserne stato messo al corrente. Ma Curcio e schini gli fecero chiaramente capire di non volere a che fare più niente con lui. Simioni continuerà quindi a gestire l’attività della struttura del Superclan dedita in quel periodo a numerose rapine per autofinanziarsi.
Nella primavera del 1971, dopo il clamoroso attentato alla pista prove della Pirelli di Lainate, Moretti si rifece avanti con i due capi storici brigatisti raccontando di avere svolto attività illegale insieme a degli esuli sudamericani, ma di non avere mai incontrato Simioni nei dodici mesi nei quali non si era fatto vedere.
Curcio e schini, dopo qualche ripensamento, lo fecero entrare nella organizzazione che si stava costituendo unitamente a due tecnici della Sit Siemens come Pierluigi Zuffada e l’ex carabiniere Corrado Alunni. Da parte sua Moretti, dimostrando indubbie capacità organizzative si fece strada nelle Brigate Rosse salendone i gradini della scala gerarchica ed arrivando ad un livello pari quasi a quello di Curcio e schini.
L’ex militante della FGCI di Reggio Emilia a distanza di anni continua oggi a ricordare episodi che a suo avviso confermerebbero l’ambiguità di Moretti. Il primo episodio è quello relativo ad una disattenzione compiuta da Moretti che, nell’aprile del 1972, una settimana prima delle elezioni politiche del 7 maggio, provocò a Milano l’arresto di una ventina di militanti brigatisti proprio mentre l’organizzazione stava preparando il sequestro del democristiano Massimo De Carolis, uno dei leader della cosiddetta “Maggioranza silenziosa”, il movimento di opinione che voleva contrastare l’apparente cedimento della DC di fronte all’avanzata delle sinistre nelle fabbriche, nelle università e nelle scuole.
Il secondo è quello dell’errore marchiano compiuto da Moretti nel tracciare la stella brigatista sul cartello appeso al collo di un dirigente dell’Alfa Romeo del giugno 1973.
Moretti infatti invece di quella a cinque punte tracciò quella ebraica a sei punte che è anche presenta nella bandiera di Israele. schini che all’epoca giudicò Moretti un idiota ora interpreta invece quell’errore come voluto, ossia come un messaggio preciso inviato agli israeliani che avevano cercato di allacciare contatti con i brigatisti.
Il terzo episodio fu quello relativo al sequestro, compiuto il 18 aprile 1974, di Mario Sossi, il magistrato genovese che aveva sostenuto l’accusa contro la banda del XXII ottobre. Durante la detenzione di Sossi nella prigione del popolo e mentre le BR avviavano una trattativa con lo Stato per la liberazione di quelli della XXII ottobre, Moretti fu colui che, in disaccordo con Curcio e schini, sosteneva la necessità di uccidere l’ostaggio considerato che a suo avviso era impossibile ottenere qualsiasi concessione. E in questo atteggiamento schini, sembra a distanza di anni, vede le prove generali del come venne gestito in seguito il sequestro di Aldo Moro, conclusosi con il ritrovamento del cadavere a Via Caetani.
L’ultimo episodio, portato ad esempio sempre da schini, è quello più famoso. Il suo arresto e quello di Curcio, l’8 settembre 1974, ad opera dei reparti speciali dei carabinieri a Pinerolo dove i due brigatisti avevano appena incontrato il frate guerrigliero Silvano Girotto che aveva chiesto di entrare nella BR potendovi portare la sua esperienza di battaglia acquisita nelle lotte a favore dei campesinos in America Latina. Girotto, in realtà, aveva contattato le BR in accordo con i carabinieri. Ad arresto avvenuto giustificò la sua azione accusando i brigatisti di essere degli avventuristi e dei piccoli borghesi che giocavano a fare la rivoluzione, gente dalla quale gli operai si dovevano tenere ben lontani per non essere condotti al macello e ritrovarsi poi vittime di svolte politiche reazionarie. Se questa era la versione sostenuta da Girotto, i sospetti di schini si accentuarono quando anni dopo emerse che i carabinieri avevano assistito agli incontri precedenti ai quali aveva partecipato pure Moretti ed avevano fotografato tutti e tre i capi brigatisti. Soltanto che le foto in cui figurava Moretti non sono mai state consegnate alla magistratura o rese pubbliche come se si volesse coprire l’esistenza del Moretti capo brigatista.
Altro aspetto inquietante della vicenda è che, il 5 settembre 1974, tre giorni prima dell’arresto, qualcuno fece filtrare negli ambienti contigui alle BR la notizia che Curcio e schini sarebbero stati arrestati. La voce arrivò anche Moretti che aveva incontrato il 7 settembre i due compagni in una riunione nella quale era stato confermata la decisione, presa all’indomani della fine del sequestro Sossi, di estrometterlo dall’esecutivo delle BR e che Moretti era stato costretto ad accettare.
Moretti in seguito affermò di essere andato in giro tutta la giornata per cercare Curcio e schini dalle parti di Pinerolo, ma di non essere stato in grado di rintracciarli ed avvertirli. schini osserva che il duplice arresto spalancò a Moretti il posto di comando nelle Brigate Rosse che, da allora, incominciarono ad alzare il tiro ed a utilizzare gli omicidi come arma politica. La stessa linea, come già scritto precedentemente, sostenuta a suo tempo da Simioni con l’idea del Superclan e che vide la sua prima vittima nel procuratore capo di Genova sco Coco, insieme agli uomini della sua scorta. Lo stesso magistrato che aveva negato la libertà ai membri della banda XXII Marzo.
schini si è anche domandato chi fossero quelli che avevano fatto filtrare la notizia dell’arresto imminente e la sua risposta è che con molta probabilità si trattava di apparati dello Stato che non volevano che le BR compissero il salto di strategia e che continuassero nella loro attività che, fino ad allora, tranne l’uccisione dei missini Mazzola e Giralucci a Padova, considerata dai brigatisti uno spiacevole “incidente sul lavoro”, era andata avanti senza morti e senza particolari traumi. La tesi di schini, sostenuta anche dagli storici di area PCI, è che le Brigate Rosse originarie avessero una loro impronta ben specifica, mentre quelle di Moretti erano qualcosa di ben diverso. Le prime erano una struttura fatta da uomini che volevano cambiare la società ed i rapporti di produzione e che, nonostante gli errori commessi e le valutazioni sbagliate, affondavano le loro radici nella storia della Sinistra italiana. Quelle di Moretti invece erano qualcosa di assolutamente diverso, una struttura militarizzata che non aveva ormai più alcun rapporto con la realtà sociale delle fabbriche e che soprattutto rispondevano ad una logica esterna ad esse. In altre parole erano eterodirette.
Nell’estate del 1975 era stato lo stesso Gian Adelio Maletti, capo dell’Ufficio D del SID, ad avvertire i suoi superiori che, da informazioni ricevute da alcuni infiltrati nell’organizzazione, le BR erano impegnate nel tentativo di riorganizzarsi sotto forma di un gruppo ancora più segreto e clandestino, costituito da persone insospettabili, sia per origine sociale che per cultura. Il tutto nella logica di rilanciare la loro attività con programmi più cruenti. È appena il caso di ricordare che quell’anno erano caduti tre brigatisti del nucleo storico come Attilio Casaletti e Pierluigi Zuffada (arrestati il 18 giugno) e Paola Besuschio (catturata il 30 settembre). E che, il 24 dicembre a Pavia, grazie al metodo della perdita d’acqua che tracimava nell’appartamento vicino, reso poi famoso da Via Gradoli, venne individuato un covo brigatista e arrestato un altro BR storico come Fabrizio Pelli, indicato come il responsabile dell’uccisione dei due militanti missini a Padova.
Le segnalazioni di Maletti servirono a poco visto che l’11 luglio sempre del 1975, il generale Enrico Mino, comandante in capo dell’Arma dei Carabinieri decretò lo scioglimento del nucleo speciale antiterrorismo guidato da Carlo Alberto della Chiesa che tanti successi aveva ottenuto con l’arresto di buona parte dei brigatisti storici. Insomma proprio mentre le BR sbaragliate, stavano trasformandosi in “superclandestine” sotto la guida di Moretti, qualcuno in alto si preoccupava di abbassare la guardia dello Stato. Quel periodo coincise peraltro con la definitiva uscita di scena di Renato Curcio. Il capo brigatista, già arrestato a Pinerolo l’8 settembre 1974 unitamente a schini, venne fatto evadere dal carcere di Casale Monferrato il 18 febbraio 1975 da una squadra delle BR guidata da Mara Cagol. Ma poi venne ripreso a Milano il 18 gennaio 1976 in un covo che, per motivi di sicurezza compartimentale, Mario Moretti non avrebbe mai dovuto conoscere e nel quale invece, dopo molte insistenze, ò la notte prima dell’arresto di Curcio.
L’anno dopo, il 12 gennaio 1977, Prospero Gallinari, un altro dei “superclandestini” di Simioni riuscì ad evadere dal carcere di Treviso dove era detenuto. Secondo mezze ammissioni fatte dallo stesso Dalla Chiesa, l’evasione venne favorita per poter arrivare a Moretti. Ma evidentemente quella speranza
rimase tale e Gallinari andò a rinforzare il nuovo nucleo di comando delle BR.
Lo smantellamento della struttura antiterrorismo dei carabinieri, proprio nel momento in cui i brigatisti si riorganizzavano, trovò un suo momento speculare a cavallo tra il 1977 e il 1978 quando, dopo le polemiche sulle coperture offerte dal SID a taluni esponenti dell’estremismo di destra, verranno totalmente riorganizzati i nostri servizi di sicurezza con la nascita di SISDE e SISMI coordinati dal CESIS. Fu una fase che coincise con una inattività di fatto delle nuove strutture e su una loro assenza dal campo operativo. Andarono quindi perse non poche competenze e conoscenze acquisite (come quelle del Servizio di Sicurezza di Emilio Santillo, già Ispettorato Generale Antiterrorismo) che sarebbero tornate utili per impedire una operazione eclatante come il sequestro di Moro, scoprirne subito i responsabili e anche impedire tutto quello che ne seguì.
Feltrinelli ed i GAP
La storia delle Brigate Rosse e di altri gruppi italiani della sinistra rivoluzionaria è strettamente legata nei loro esordi alla figura di Gian Giacomo Feltrinelli. L’editore ha rappresentato una figura molto controversa per i suoi legami internazionali. Quelli con la Cuba di Fidel Castro e con i movimenti rivoluzionari dell’America Latina fino ai contatti con gli ambienti militari della Cecoslovacchia. E per l’attività svolta in Italia con la fondazione dei GAP (Gruppi d’Azione Partigiana), con la sua vicinanza alle BR degli esordi, ma anche ad un gruppo come Potere Operaio che finanziò a piene mani.
Nella sua autobiografia: “Che cosa sono le BR”, Alberto schini ricorda che la morte di Feltrinelli provocò conseguenze che si fecero sentire in tutto il variegato mondo a sinistra del PCI. Innanzitutto determinò la fine dei finanziamenti da lui versati in abbondanza ad Potere Operaio ed a Lotta Continua. Venne meno, spiega schini, soprattutto la possibilità di unificare la sinistra rivoluzionaria attorno ad un progetto politico che Feltrinelli poteva
guidare in ragione del carisma che gli veniva riconosciuto. Un progetto politico, e qui ritorna il schini comunista del PCI, che tendeva a collocare quell’area politica sotto la protezione del “campo socialista”. Una svolta che, insiste ancora schini, venne ulteriormente accentuata nel 1974 dalla morte di Pietro Secchia l’uomo che nel PCI rappresentava la componente più legata all’URSS ed allo stalinismo e che da sinistra aveva sempre criticato Togliatti ed il suo successore Luigi Longo. Con Feltrinelli, ha osservato schini, scomparve l’uomo che poteva curare per le BR i rapporti internazionali. E qui, curiosamente, schini usa l’espressione “gattini ciechi” per definire lo stato d’animo dei brigatisti che si trovarono privi del padre putativo che li finanziava, senza però che questo significasse una dipendenza economica. Il curioso è che “gattini ciechi” è l’espressione usata da Stalin per rimproverare gli altri membri del Politburo del PCUS di non essere stati in grado di rendersi conto dell’esistenza del presunto complotto dei medici ebrei del 1953. Una dimostrazione che la linea di schini nelle BR era figlia dell’ortodossia comunista internazionalista e perfettamente conseguente alla tesi, sostenuta dagli ex partigiani, della Resistenza tradita dalla dirigenza del PCI e dall’abbandono di una via rivoluzionaria. A giudizio del brigatista reggiano, la morte di Feltrinelli accentuò la disgregazione di Potere Operaio che, infatti, di lì a poco si sciolse e incrinò non poco la tenuta di Lotta Continua che ne seguì la sorte qualche anno più tardi. Dal punto di vista brigatista, la morte di Feltrinelli accentuò il ricorso alle rapine in banca ai fini dell’autofinanziamento. Una svolta, nota velenosamente schini, per la quale fece particolari pressioni Mario Moretti.
Sulla morte di Feltrinelli, il 14 marzo 1972, sul traliccio di Segrate, schini, anche citando la testimonianza di alcuni militanti dei GAP che si trovavano in zona con l’editore, sposa in pieno quella che è la versione ufficiale, cioè quella di un incidente sul lavoro per lo scoppio anticipato del timer collegato all’esplosivo con il quale voleva impedire lo svolgimento del concomitante XIII Congresso Nazionale del PCI nel corso del quale Enrico Berlinguer venne eletto alla carica di Segretario Generale. Ma poi schini finisce per sollevare qualche interrogativo sulla possibilità che Feltrinelli sia stato tradito proprio da uno dei suoi uomini di fiducia, quel Gunther (o Gunter), che doveva fare saltare un traliccio a Gaggiano, ma che non vi riuscì perché il timer non funzionò. E schini nota che i timer usati a Segrate e Gaggiano erano dello stesso tipo di quelli forniti da Simioni per l’attentato di Atene contro l’ambasciata USA e
che costò la vita a Maria Elena Angeloni. Quanto a Gunther, di cui schini ha sempre ignorato il nome, si sa soltanto che era un ex partigiano cattolico delle brigate dei Fratelli Di Dio e che viveva in Valtellina e come rivelato in un libro da Carlo Feltrinelli, figlio dell’editore, sarebbe morto nel 1977.
Dopo la tragedia di Segrate, Curcio e schini incontrarono Gunther, lo accompagnarono in Svizzera a frugare in una cassetta di sicurezza di cui Feltrinelli teneva soldi e documenti, risultata vuota, e gli dettero dei soldi per procurargli armi, ma poi lui sparì e non si fece più vedere. La conclusione inevitabile, che schini, però non arriva ad esplicitare, è che Gunther, anche in virtù del suo ato di partigiano bianco, potrebbe essere stato un infiltrato che poi alla fine avrebbe tradito Feltrinelli per conto di qualche servizio “atlantico”. Non è un mistero infatti che i primi quadri di Stay Behind, cioè Gladio, siano stati tratti dalle formazioni partigiane cattoliche tipo la Osoppo che sul confine orientale si scontrò con i partigiani comunisti titini, sloveni e croati, per difendere l’italianità di Trieste e della Venezia Giulia. Resta comunque il fatto che Feltrinelli e il suo gruppo dei GAP erano tenuti sotto controllo dalle intelligence italiane. Federico Umberto D’Amato il capo dell’Ufficio Affari Riservati (UAR) del Ministero degli Interni, anni dopo la morte dell’editore ebbe a rivelare che lo UAR svolse una pressione psicologica su Feltrinelli per indurlo a are all’azione e che a tal fine nel febbraio 1972 fece pure pubblicare un libello “Feltrinelli, guerrigliero impotente” nel quale
si insinuava pesantemente che l’editore avesse gravi problemi sessuali che erano alla base delle sue velleità rivoluzionarie. Lo stesso D’Amato ebbe successivamente ad ammettere che si trattava di una provocazione per spingerlo ad agire concretamente. Si voleva farlo uscire allo scoperto e causare uno shock psicologico a Feltrinelli che giocava alla rivoluzione senza rischiare in prima persona, sosteneva il superpoliziotto.
Se questi due elementi si uniscono l’uno all’altro allora anche la morte di Feltrinelli può essere interpretata all’interno di un gioco di eliminazione di personaggi scomodi.
L’editore, agli occhi di Curcio e schini, che in quel periodo lo incontravano una volta a settimana, appariva come una personalità contraddittoria. Aveva pubblicato “Il dottor Zivago” di Boris Pasternak, contro il volere del PCUS, ed anche “Il Gattopardo” che era stato respinto dalla Einaudi, la sussiegosa casa editrice di matrice culturale azionista e marxista. Ma Feltrinelli era comunque un sostenitore del ruolo guida dell’URSS. Era anche convinto che in Italia fosse imminente un colpo di Stato e che la Sinistra rivoluzionaria dovesse prepararsi per rintuzzarla. A tale fine aveva creato i GAP che anche nella sigla richiamavano il nome delle formazioni comuniste della Resistenza e che avrebbero dovuto costituire la base di partenza per la costruzione del futuro esercito proletario. Convinzione che i due brigatisti non condividevano persuasi come erano che una rivoluzione in Italia dovesse contare soltanto sulle proprie forze. Quanto all’esercito proletario, era un’idea irrealizzabile. Meglio un partito armato che si ponesse come avanguardia del proletariato. Feltrinelli nonostante la sua mania della segretezza era sempre disponibile in consigli e sostegni economici, i brigatisti, però li rifiutarono sempre. Soprattutto l’editore era sempre pronto ad incontrare militanti di sinistra che a diverso titolo condividessero i suoi timori su una svolta reazionaria e golpista in Italia. Feltrinelli aveva avuto contatti con Curcio e Simioni già all’epoca del M nel 1969-70. Ed è molto probabile che dai contatti con quest’ultimo sia derivata la fornitura di quel timer che poi gli fu fatale.
Altrettanto significativi furono i rapporti che l’editore ebbe con i militanti della struttura militare di Potere Operaio, denominata “Lavoro Illegale” con Valerio Morucci in testa che ne era il responsabile, che nello stesso periodo si recavano nel Nord Italia ed in Svizzera per rifornirsi di armi. Lo stesso Morucci che poi fu uno dei protagonisti del sequestro Moro e che all’epoca, per sua stessa ammissione, aveva militato nei GAP. Interessanti sono i racconti dei futuri brigatiste sulle frequentazioni con l’editore, iniziate nel dicembre 1971, nelle sue proprietà in Austria dove possedeva vasti terreni con boschi, Feltrinelli era anche industriale del legname, che si estendevano da una zona adiacente al confine italiano fino a quello cecoslovacco e che potevano funzionare da corridoio di transito per forniture di armi dai Paesi dell’Est, in primo luogo la Cecoslovacchia. E ovviamente nelle speranze di Feltrinelli potevano rappresentare una via di transito per un aiuto “fraterno” ai rivoluzionari italiani
da parte delle truppe del Patto di Varsavia. In ogni caso, “Osvaldo”, il nome da guerrigliero che si era scelto, suscitava molta simpatia politica ed umana per quelli di Potere Operaio, al di là della gratitudine per i finanziamenti che aveva versato in modo cospicuo. Simpatia che venne dimostrata anche dall’articolo di fondo in prima pagina sul giornale del gruppo che titolava “Un rivoluzionario è caduto”, quando l’editore saltò in aria a Segrate. Più critico all’epoca era invece il giudizio espresso dal giornale di Potere Operaio sulle strategie delle Brigate Rosse. Significativo fu l’articolo “Mordere non basta” nel quale si accusavano le BR di essere poco conseguenti alle dichiarate premesse rivoluzionarie. Il titolo riprendeva lo slogan scritto regolarmente sui cartelli appesi al collo dei dirigenti aziendali sequestrati, ossia: ”Mordi e fuggi, nulla resterà impunito. Colpiscine uno per educarne cento”.
Feltrinelli, terrorizzato dalla paura di un colpo di Stato imminente, andava in giro con il necessario per poter are subito alla guerriglia da quella clandestinità in cui aveva scelto di vivere e di muoversi. Tale clandestinità, come era successo nel periodo della Resistenza, doveva vedere nuclei di partigiani che si muovevano dalle loro basi in montagna. La concezione militare di Feltrinelli, come ricordava Renato Curcio, era una idea guerrigliera di stampo guevarista per la quale l’azione dei nuclei combattenti doveva servire a propagandare la giustezza delle lotte e provocare una corrente di simpatia e di sostegni da parte della popolazione e in particolare degli operai. Si trattava però di una concezione superata e legata sia alla realtà della guerra partigiana, sia all’esperienza della guerriglia sudamericana che però era nata in Paesi governati da dittature militari come Brasile, Argentina, ed Uruguay e che in Paesi come la Bolivia aveva una matrice più contadina che operaia. Una concezione che aveva i suoi primi sostenitori nei vecchi quadri partigiani comunisti legati al mito della “Resistenza Tradita” e che avevano il loro punto di riferimento politico in una personalità come Pietro Secchia che era stato di fatto emarginato da tempo dalla dinamica interna del PCI.
In tale ottica appare quindi significativo che Feltrinelli finisse per arruolare nei GAP alcuni ex capi partigiani come il genovese Giovan Battista Lazagna. Da qui la creazione anche di intensi rapporti anche logistici con altri gruppi rivoluzionari, ETA basca, Action Directe se e RAF tedesca che avevano
deciso di are alla lotta armata. Rapporti che continuarono a sussistere anche dopo la morte di Feltrinelli e che permisero successivamente alle BR di creare una rete di solidarietà internazionalista. La posizione di Feltrinelli in materia di lotta armata non era però condivisa né da Potere Operaio, né dalle stesse Brigate Rosse. Il gruppo guidato da Oreste Scalzone e Franco Piperno, disponendo di una organizzazione ufficiale conosciuta e che agiva alla luce del sole, pensava che ai fini di una rivoluzione ci dovesse essere una struttura legale ed un’altra militare separata. Dalla struttura ufficiale si dovevano sviluppare le lotte nella realtà delle fabbriche nelle quali spingere gli operai più politicizzati ad organizzarsi in piccoli nuclei che funzionassero da avanguardia e quindi da esempio per tutti gli altri per poi confluire nella struttura illegale militare. Le Brigate Rosse invece ritenevano che la stessa organizzazione dovesse essere contrassegnata da una unità tra l’aspetto più propriamente militarista e quello politico. Queste diverse concezioni non impedirono però alle BR di stabilire rapporti stretti ed operativi con i GAP per compiere azioni in comune. Con la morte di Feltrinelli i GAP si dissolsero mentre lo scioglimento di Potere Operaio per mancanza di fondi lasciò sulla strada parecchi militanti che decisero di continuare in proprio sotto altre sigle l’attività di “Lavoro Illegale”. Diversi di loro, Morucci, Faranda, Braghetti, Maccari, Seghetti, Balzerani, Lojacono e Casimirri finirono nelle Brigate Rosse e parteciparono a diverso titolo al sequestro Moro.
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Capitolo 7 - La corte degli israeliani.
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Gli israeliani, hanno raccontato Curcio e schini, cercarono di prendere contatto nel dicembre 1973 con le BR tramite Antonio Bellavita direttore del periodico Controinformazione ed Aldo Bonomi, un sociologo che dopo aver studiato all’università di Trento con Curcio, in quel momento lavorava nel giornale. Bellavita comunicò a Curcio e schini che gli israeliani erano interessati a prendere contatto con le BR, ma i due rifiutarono. Il secondo tentativo di abboccamento si concretizzò nel fare sapere ai brigatisti che gli israeliani, insomma il Mossad, erano interessati alla stessa esistenza delle BR senza voler però entrare nel merito delle loro azioni e dei loro attentati e senza peraltro aver nulla da suggerire su eventuali obiettivi. Però, era l’offerta concreta, possiamo fornirvi armi e denaro. Anche a questa offerta le BR risposero di no. Ovviamente i brigatisti si posero l’interrogativo di chi fosse l’intermediario del Mossad. schini a distanza di anni fa due nomi. Il primo è quello del padre di Duccio Berio, un medico milanese che secondo quanto diceva il figlio, parlava tranquillamente dei suoi legami con il Mossad, i servizi segreti israeliani incaricati dell’attività di spionaggio all’estero. Il secondo, al quale schini attribuisce maggiore credibilità è quello di Rolando Antonio Bevilacqua un medico che lavorava in un Paese dell’hinterland milanese, morto qualche anno fa.
L’interesse degli israeliani per le Brigate Rosse si poneva nella più generale attività di infiltrazione alla fine degli anni sessanta nei movimenti della sinistra extraparlamentare europea per impedirne la trasformazione in strutture filopalestinesi e filo-arabe e di conseguenza anti-israeliane. Particolare attenzione venne rivolta dal Mossad ai gruppi trotzkisti che in Paesi come la Francia erano risultati maggioritari tra gli studenti all’interno del movimento del Maggio 1968. Un predominio giustificato da quella particolare cultura politica laica e libertaria che ha caratterizzato la Francia come eredità della Rivoluzione e della Comune
di Parigi.
In Italia invece, un Paese nel quale la politica è sempre stata impregnata di una forte componente ideologica, originata dalla cultura cattolica, che porta a ragionare per dogmi, il trotzkismo non è mai stato maggioritario. Da qui la necessità per il Mossad di cercare altre strade.
In questo tentativo di aggancio da parte degli israeliani, si inserisce anche il clamoroso infortunio di Mario Moretti nel giugno 1973 in occasione del sequestro, già citato, del dirigente dell’Alfa Romeo di Arese Michele Mincuzzi, che venne abbandonato legato ed imbavagliato con il classico cartello brigatista attaccato al collo sul quale non figurava la stella a cinque punte, ma quella a sei, la stella di David simbolo di Israele.
schini racconta che lui e Curcio si arrabbiarono molto con Moretti dandogli dell’imbecille e lui si scusò dicendo che si era sbagliato e che poteva capitare.
A distanza di anni schini arriva ad una diversa valutazione ed, anche rifacendosi ad una confidenza che gli aveva fatto in carcere un ufficiale dei carabinieri, ipotizza che Moretti aveva sbagliato volutamente e che voleva fare sapere al Mossad che lui, contrariamente al rifiuto espresso da schini e Curcio, era pronto ad accogliere le offerte dell’intelligence israeliana.
L’ipotesi di lavoro suggerita da schini è quindi quella che Moretti, essendo un agente provocatore che perseguiva obiettivi differenti da quelli degli altri brigatisti, abbia gestito le “sue” BR, in particolare durante il sequestro Moro, legandole a logiche “atlantiche” e sioniste.
I semplici militanti che in “buona fede” hanno obbedito alle sue direttive non si sono mai accorti della sua natura di agente doppio se non proprio triplo. Un equivoco nel quale sono caduti sia i brigatisti della prima generazione, che in buona parte furono rastrellati dalle forze dell’ordine, sia quelli della seconda ondata che da Moretti furono spinti ad alzare il tiro ed a are alla stagione delle uccisioni indiscriminate.
Come spesso succede, i brigatisti responsabili della stagione morettiana, una volta arrestati e condannati, non hanno mai voluto riconoscere anche quegli elementi che facevano sospettare che ben poco o nulla fosse limpido e chiaro, soprattutto per non dover ammettere con se stessi di essere stati strumentalizzati. A questo si sono poi aggiunte le condizioni non dichiarate, ma “suggerite” da organismi istituzionali, per usufruire dei benefici di pena.
Non tanto bisognava ammettere la partecipazione ai delitti commessi ed accusarne gli altri responsabili, quanto confermare la versione ufficiale del rapimento e dell’uccisione di Moro. Quella che stabilisce la dinamica della vicenda lungo il triangolo Via Fani, Via Montalcini e Via Caetani. Una ricostruzione che fa acqua da tutte le parti e che proprio nella sua ultima tappa, una strada all’imbocco del Ghetto, contiene invece i suoi elementi più significativi ed interessanti. L’identificazione di Aldo Moro come un avversario di Israele era già stata delineata dal Mossad in conseguenza della politica estera condotta dal politico pugliese. Giovanni Galloni, uno dei più stretti collaboratori di Moro dentro la DC, nel luglio del 2005, rilasciò un’intervista televisiva nella quale rievocava una confidenza fattagli prima del sequestro. “La mia preoccupazione - aveva detto Moro - è questa: io ho per certa la notizia che i servizi segreti, sia americani che israeliani, hanno degli infiltrati all’interno delle BR. Ma non ci hanno rivelato niente, altrimenti avremmo trovato i covi”.
Si intuisce la preoccupazione di Moro che la CIA ed il Mossad stessero muovendosi in maniera autonoma sul territorio italiano, ossia all’interno di un Paese amico ed alleato. Considerato che le BR agivano solamente sul territorio nazionale, questa attività occulta delle due intelligence nei timori di Moro poteva
significare soltanto una cosa: stanno organizzando qualcosa contro l’Italia o meglio contro qualche uomo politico italiano. E Moro aveva la netta percezione di essere lui stesso il primo bersaglio nel mirino delle nuove BR.
Resta da domandarsi chi fosse la fonte da cui Moro aveva ricevuto l’informativa. Una fonte che, evidentemente, aveva byato le normali procedure gerarchiche per fare arrivare l’informazione direttamente nelle sue mani. E il primo nome al quale non si può non pensare è quello del colonnello Stefano Giovannone. In alternativa, ci potrebbero essere alcune strutture dell’allora SISMI che, come erede del vecchio SID guidato da Vito Miceli, ne aveva conservato la già sperimentata impostazione filo-palestinese e cercava di contrastare la linea filoisraeliana e atlantica che in precedenza era stata interpreta dal capo dell’ufficio D, Gian Adelio Maletti.
Per rafforzare i sospetti espressi da Moro su una infiltrazione del Mossad dentro le BR ci si può riferire anche ad un’intervista di Giovanni Pellegrino (presidente della Commissione Stragi) del novembre 1999 a Panorama, nella quale si afferma che certo le BR sono state un fenomeno nazionale, ma allo stesso tempo sono state controllate, intercettate e contaminate da servizi segreti stranieri. Da quelli dell’Est per ragioni di affinità ideologica e da quelli occidentali per ragioni geopolitiche. Questo perché Paesi come Gran Bretagna, Francia e Germania, ma anche Israele avevano tutto l’interesse a mantenere l’Italia in una situazione di instabilità. I primi tre per motivi soprattutto economici. Israele per timore di trovarsi isolato sul fronte del Mediterraneo.
In base a tale lettura la presenza all’interno od all’esterno delle BR di uno o più agenti di influenza israeliana, capaci cioè di indirizzarne le attività secondo i disegni di Tel Aviv rappresenta un approdo quasi inevitabile viste le premesse di partenza.
Secondo Erich Salerno, autore del recente “Mossad Italia”, l’Italia a causa di un accordo raggiunto negli anni cinquanta con i capi del Mossad (ad incominciare
dal mitico Isser Harel), ancora oggi è costretta a chiudere gli occhi alle operazioni clandestine compiute dagli agenti israeliani sul nostro territorio. Tanto per dimostrare che anche nei confronti di un’entità piccola, seppure potente, come Israele, l’Italia resta ancora un Paese a “sovranità limitata”.
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TERZA PARTE - Spie e spioni dell’area Sud
Premessa
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In Italia, per tutto il periodo della Guerra Fredda, si è combattuta una conflitto sotterraneo non guerreggiato, nel quale due schieramenti contrapposti, partiti moderati e centristi da una parte e comunisti dall’altra, si sono fronteggiati essendo entrambi a conoscenza delle rispettive strutture armate segrete. È emerso infatti dalle ammissioni degli interessati ed anche da documenti usciti fuori dagli archivi che il PCI era a conoscenza dell’esistenza di Stay Behind, la struttura NATO più nota da noi come Gladio e che la DC e gli alleati sapevano a loro volta dell’esistenza della Gladio Rossa.
Paradossalmente, questa conoscenza della forza dell’avversario funzionò da elemento stabilizzatore delle tensioni interne ed impedì che il livello dello scontro politico e sociale si spingesse a livelli troppo elevati.
Il PCI guidato da Enrico Berlinguer, arrivato alla segreteria del partito nel 1972, era perfettamente al corrente di quanto si muoveva alla sua sinistra e soprattutto in quei settori, come appunto le nascenti Brigate Rosse, che avevano deciso di are alla lotta armata. Significativo è in tal senso l’invito fatto arrivare ai brigatisti di provenienza PCI a costituirsi ad un giudice ritenuto “amico”, ossia vicino al partito come Ciro De Vincenzo, che stava indagando su di loro, il quale avrebbe avuto un occhio di riguardo limitando quindi i danni giudiziari che gli si sarebbero abbattuti addosso quando la lotta armata avesse alzato il tiro. Il PCI sapeva che le BR erano state identificate ed erano vicine ad essere in qualche modo ramazzate. La risposta dei brigatisti storici, schini ovviamente, ma anche Curcio che non era un ex militante del partito, fu negativa e da lì a pochi mesi i due fondatori furono arrestati e le BR finirono nelle mani di Mario Moretti.
Dall’altra parte della barricata c’era la DC che aveva sempre utilizzato l’estremismo di destra o gli oltranzisti atlantici. I primi come bassa manovalanza per creare tensione nel Paese salvo poi gridare agli opposti estremismi. I secondi per creare prospettive apparentemente concrete di una trasformazione autoritaria delle istituzioni. Gli uni e gli altri vennero strumentalizzati per gridare agli “opposti estremisti” e per dimostrare che in fin dei conti la soluzione migliore era sempre e comunque la centralità della DC. Significativo è che nel 1974 il governo dell’epoca, con Giulio Andreotti a Palazzo Chigi e Paolo Emilio Taviani agli Interni, non abbia avuto remore per fare filtrare alla magistratura torinese documenti che attestavano i velleitari sogni golpisti di un monarchico-liberale come Edgardo Sogno, medaglia d’oro della Resistenza.
Sempre in quegli anni morirono, uscendo così di scena due personaggi che, dall’una e dall’altra parte, avevano rappresentato un volano per convogliare le istanze rivoluzionarie ed autoritarie degli irriducibili, Pietro Secchia, già capo della corrente più filosovietica del PCI e Junio Valerio Borghese, esule in Spagna dove si era rifugiato in quanto inseguito da un mandato di cattura per il golpe fallito del dicembre 1970. Un tentativo di colpo di stato per coloro che lo avevano orchestrato, Borghese in testa, finalizzato a rimettere ordine in Italia dopo la bomba di Piazza Fontana attribuita agli anarchici. In realtà una trappola tesa agli estremisti neri dal governo che lo voleva utilizzare per favorire una trasformazione autoritaria dell’Italia in senso presidenziale e per salvarla, questa era la versione che sarebbe stata rivenduta all’opinione pubblica, dalla Sinistra bombarola e dalla Destra golpista e neofascista.
Come in tutte le morti eccellenti che si rispettano anche per quelle di Secchia e Borghese si è parlato insistentemente di una manina esterna, un avvelenamento, ma niente di sicuro si è saputo o si è voluto che si sapesse. Resta il fatto che due personalità che erano titolari di segreti e collettori di istanze destabilizzanti morirono quasi in contemporanea. Non è un caso che questa normalizzazione italiana del 1972-74 si svolse in contemporanea con quella che si ebbe nell’Europa del Sud alla quale si è accennato nella prima parte. Era infatti tutta un’area geografica che si voleva tenere sotto controllo e impedire che le sue
potenzialità eversive si manifestassero e scavassero crepe a tutto quell’edificio che, pure con qualche scossone, resisteva da 30 anni.
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Capitolo 8 - L’Hyperion di Parigi, una stanza di compensazione.
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La scuola di lingue Hyperion di Parigi situata in Quai de la Tournelle numero 27, venne fondata nel 1976 dagli esponenti del Superclan. Corrado Simioni, Duccio Berio, Vanni Mulinaris, Innocente Salvoni e la moglie Françoise Tuscher, nipote di Henry Groues (l’Abbè Pierre). Una parentela non da poco quella con il fondatore della comunità di Emmaus, già membro attivo della Resistenza e che nell’immediato Dopoguerra era stato deputato del MRP (Mouvement répubblicane populaire), la democrazia cristiana se. Una figura importante quella di Groues e capace di attivare i canali giusti. Tanto è vero che nei giorni successivi al sequestro Moro, quando il governo italiano diffuse le fotografie delle persone ricercate come possibili responsabili dell’agguato di Via Fani, e tra queste c’era appunto Innocente Salvoni, l’Abbè Pierre si precipitò a Roma per proclamarne la totale estraneità alla vicenda. Le sue rimostranze, più che essere convincenti, furono accompagnate da tali e decise pressioni politiche da parte della Francia, che il nome di Salvoni venne depennato dalla lista.
All’Eliseo in quel periodo c’era il tecnocrate liberale Valéry Giscard d’Estaing, sostituito nel maggio del 1981 dal socialista Francoise Mitterrand. Entrambi i loro governi dimostrarono una curiosa predisposizione a bloccare qualsiasi indagine approfondita che avesse come oggetto la scuola parigina. Il governo se usò in maniera estensiva quella che venne poi chiamata la “Dottrina Mitterrand” e, in nome della tradizionale ospitalità offerta sul proprio territorio ai dissidenti politici di tutto il mondo, incluse nella schiera dei perseguitati anche i brigatisti rossi ed i loro sodali stabiliti da tempo a Parigi. Da qui il rigetto di qualsiasi richiesta di estradizione, da parte delle autorità di un Paese amico e alleato, di persone che in Italia si erano rese responsabili di uccisioni di magistrati e agenti delle forze dell’ordine o di avversari politici.
Nel caso dell’Hyperion la questione appare invece più complicata e la sollecitudine dell’Eliseo di coprire Simioni nasconde ben altro tipo di considerazioni sulla natura stessa della scuola di lingue.
Cosa era dunque l’Hyperion? La risposta più convincente è che essa sia stata una sorta di valvola di sfogo dei vari servizi segreti civili dei Paesi occidentali, israeliani compresi, una sorta di zona franca di incontro per risolvere questioni di interesse comune. Una struttura nella quale, e questo è l’aspetto più sconcertante, potevano accedere anche i servizi sovietici, e nel caso specifico il KGB.
Lo stesso Giovanni Pellegrino presidente della Commissione Stragi per sette anni, ha suggerito nel suo libro “Segreto di Stato” che l’ Hyperion in realtà costituisse un punto d’incontro tra Servizi segreti delle nazioni contrapposte nella Guerra Fredda, necessario nella logica di conservare gli equilibri derivanti dagli accordi di Yalta. L’Hyperion quindi sarebbe stato un mezzo per azioni comuni contro eventuali perturbazioni dell’ordine di Yalta, come avrebbe potuto interpretarsi la politica di apertura al PCI di Moro.
Ma allo stesso tempo l’Hyperion era un crocevia dei gruppi europei della lotta armata come i baschi dell’ETA, gli irlandesi dell’IRA, i tedeschi della RAF, i si di Action Directe, le Brigate Rosse e alcuni gruppi palestinesi.
Una realtà del genere evidenzia che le intelligence dell’una e dell’altra parte, al di là delle dichiarazioni di facciata dei governi, erano più impegnate a mantenere lo status quo che a farsi la guerra. Questo non significa ovviamente che non vi fosse l’attività di raccolta di informazioni sul potenziale nemico ed il tentativo di minarne la presenza nei vari angoli del mondo, dove scatenare anche guerre locali per dare respiro alla propria industria degli armamenti. Ma in Europa, questo era l’accordo tacito, le tensioni non dovevano mai superare un certo limite per evitare di finire di trovarsi in una situazione senza uscita nella quale lo sbocco inevitabile era lo scontro armato. Inoltre, l’esistenza dell’Hyperion evidenzia anche un ruolo attivo ed in buona parte autonomo della Francia
nell’ambito delle relazioni internazionali nell’area Sud dell’Europa e quindi nel Mediterraneo mentre l’Italia ne rappresentava il ventre molle e ivo.
Dal punto di vista di alcuni brigatisti pentiti come Michele Galati, l’Hyperion venne creato con lo scopo non soltanto di dare protezione a vari latitanti delle BR e di altre organizzazioni estremiste italiane, ma anche per stabilire collegamenti con organizzazioni quali l’IRA, l’ETA e alcuni settori minoritari dell’OLP per la fornitura di armi. Una tesi che venne confermata da un altro pentito come Antonio Savasta, che, pur riportando notizie avute da Moretti, sosteneva che la rete messa in piedi da Simioni era stata utilizzata da brigatisti costretti a espatriare e soprattutto che i contatti fra le BR e Simioni erano gestiti in prima persona da Mario Moretti. Il capo brigatista, a tale proposito nei suoi aggi a Parigi, ha sempre tenuto a sottolineare di non avere mai incontrato Simioni e tantomeno di essersi recato all’Hyperion, ma di avere soltanto incontrato militanti di altre organizzazioni estremiste europee o palestinesi. L’una e l’altra delle tesi sostenute, un crocevia di servizi e un punto di transito di estremisti, non sono comunque in contraddizione, anzi possono benissimo completarsi a vicenda, altrimenti non si spiegherebbe perché fu proprio Silvano Russomanno, che era stato il numero due di Federico Umberto d’Amato all’Ufficio Affari Riservati, a fare filtrare nel maggio 1980, la notizia che la magistratura italiana, grazie anche alle rivelazioni di Patrizio Peci, stava indagando sull’Hyperion ed i giudici Priore e Calogero erano in procinto di recarsi a Parigi. La velina venne ata al giornalista del Messaggero, Fabio Isman, che la pubblicò con grande clamore, suscitando l’immediato irrigidimento del governo se che bloccò qualsiasi iniziativa di collaborazione con la magistratura italiana. Russomanno e Isman finirono in galera e poi sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio.
Nei primi anni ottanta Simioni, Berio e Mulinaris, vennero accusati dal giudice Carlo Mastelloni di Venezia di banda armata assieme ad Antonio Bellavita e ad altri di aver costituito all’estero un vero e proprio ufficio di collegamento, appunto all’Hyperion, tra BR, ETA, RAF tedesca, IRA irlandese ed OLP con il fine di fornitura di armi e di appoggio logistico ai militanti. Bellavita, lo ricordiamo, era lo stesso direttore del periodico Controinformazione che nel dicembre 1973 unitamente al sociologo Aldo Bonomi, ex studente
dell’università di Trento, comunicò agli stessi Curcio e schini che gli israeliani erano interessati a prendere contatto con le BR.
Moretti ha sempre tenuto a precisare che con Simioni lui aveva chiuso fin dai tempi del M, e di non averlo più visto. Salvo poi ammettere che a Parigi c’erano alcuni compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegare le BR con tutti i movimenti rivoluzionari di una certa consistenza. Si potevano incontrare più o meno tutti i residenti, spiegò il capo BR, e lo si poteva fare attraverso canali riservati che però non erano segretissimi. E poi le BR vantavano un credito che consentiva loro di incontrare chi volevano. Significativo è comunque che l’ex capo brigatista abbia tenuto a precisare che lui incominciò a recarsi a Parigi saltuariamente dal dicembre del 1978 fino al 1981, rimanendoci al massimo un giorno o due. Insomma, a sentire lui, si recò a Parigi dopo la fine del sequestro Moro. Con questa affermazione Moretti voleva fare intendere che l’Hyperion e Simioni, il suo ex capo nel Superclan, non avevano avuto alcun ruolo nel sequestro e che lui non si era recato Oltralpe a prendere ordini o direttive. Peccato che Moretti non ricordi che l’Hyperion avesse aperto una sua sede a Roma proprio nel 1978 e che di conseguenza Simioni e soci avessero Moretti e l’altro ex “superclandestino” Gallinari a portata di mano.
Moretti arriva poi pure a schermirsi affermando che seppure le BR avessero dimostrato una grande capacità operativa incontravano però grandi difficoltà politiche che nemmeno questi rapporti internazionali a Parigi erano stati in grado di risolvere. Quindi il capo brigatista si permette di fare lo spiritoso rivelando che si recava in Francia con documenti falsi per poi tornare la sera usando l’aereo e che quindi era sottoposto ogni volta a quattro controlli che ava tranquillamente nonostante fosse tra i brigatisti più ricercati. Ero forse matto, come gli dicevano i suoi amici palestinesi? O forse si deve pensare che era protetto da qualcuno che lo lasciava girare liberamente?
L’asse Parigi-Vienna
Quando si parla della realtà dell’estremismo di sinistra se bisogna tenere conto della sua particolarità. Il gruppo predominante, lo stesso che guidò i moti di piazza del maggio 1968 contro De Gaulle, fu il gruppo trotzkista di Gauche Proletarienne. A differenza dell’Italia dove il gruppo trotzkista più consistente, quello di Avanguardia Operaia, non fu mai maggioritario, il trotzkismo impregnò fortemente il movimento del maggio parigino. Una presenza che si fa sentire ancora oggi nella politica di Oltralpe se solo si tiene cono che alle elezioni presidenziali del 2007 vinte dal postgollista Nicolas Sarkozy, i candidati espressi dalla galassia trotzkista hanno ottenuto quasi il 10% dei voti.
Questa peculiarità dipende dal tipo di cultura politica vigente in Francia che si picca di essere laica e libertaria, ma anche dal fatto che il Paese di Oltralpe si è dimostrato ospitale con i rifugiati per motivi politici e religiosi. Tale approccio ha favorito il formarsi di una consistente comunità ebraica per la quale il trotzkismo, con la sua idea di una rivoluzione mondiale transnazionale e del superamento degli Stati nazionali, offriva molti motivi di attrazione. Allo stesso tempo, però, il legame con la terra d’origine restava molto forte e questo spiega come mai molti ex militanti trotzkisti ebrei non abbiano incontrato problemi nell’assumere un ruolo di o, anche occasionale come “sayanim”, ad operazioni impostate dal Mossad o che avessero come obiettivo ultimo la difesa degli interessi di Israele o la sua stessa sopravvivenza.
Proprio per questa impostazione libertaria ed internazionalista, i trotzkisti si non potevano prendere nella minima considerazione un partito monolitico e dalle venature staliniste come il PCF guidato da Jacques Duclos e Waldeck Rochet e dal 1972 da George Marchais. Molto più appetibile appariva invece il Partito Socialista che François Mitterrand aveva risollevato dalla disastrosa sconfitta delle elezioni politiche del giugno 1968 prendendone in mano le sorti e rifondandolo al congresso di Epinay del giugno 1971. Un entrismo che fu tenacemente perseguito al fine di condizionare le scelte future del PSF. Mitterrand, arrivato all’Eliseo nel 1981, sconfiggendo Valéry Giscard d’Estaing, presidente in carica dal 1974, volle da subito accreditarsi, in un certo senso, come un erede del principio della “Grandeur” se, quello che era il tasto patriottico sul quale aveva sempre battuto De Gaulle. I suoi quattordici anni di permanenza alla presidenza si caratterizzarono per la ricerca di un sempre
maggiore ruolo della Francia sullo scenario internazionale e ovviamente nel Mediterraneo. In particolare, Mitterrand, in una sorta di continuismo con Giscard, sin da quando stava all’opposizione, ricercò una intesa con il cancelliere austriaco Bruno Kreisky nell’ottica di un asse Parigi-Vienna, un accordo operativo per svolgere un ruolo determinante nelle vicende del Vicino Oriente, sostenendo la fazione “moderata” dell’OLP, guidata da Yasser Arafat.
In verità, Kreisky, Cancelliere dal 1970 al 1983, era una curiosa figura di ebreo mitteleuropeo, del tipo di quelli descritti da Stefan Zweig ne “Il mondo di ieri” che avevano visto con notevole fastidio la nascita del movimento sionista in seguito al famoso articolo di Theodor Herzl, considerandosi prima di tutto tedeschi o austriaci e soltanto in seconda battuta ebrei. Non per niente, l’ideologia sionista agli inizi del Novecento aveva incontrato invece un largo favore tra gli ebrei dell’Europa orientale, sparsi tra i ghetti delle grandi città ed i villaggi come gli “shtetl” e che molto spesso erano imbevuti di idee socialiste e che, come tali, costituirono i primi nuclei che diedero vita all’esperienza dei kibbutz. Kreisky non aveva particolare simpatia per un Israele guerrafondaio, in privato anzi confessava di essere contrario alla stessa esistenza dello Stato ebraico, affermando testualmente che: “La nascita di Israele ha aperto nel Mediterraneo una ferita molto difficile da risanare”. Partendo da questo presupposto, Kreisky voleva che fossero rispettati i diritti dei palestinesi e l’aspirazione ad avere uno Stato ed un territorio proprio. Ed in questo aveva trovato un punto di intesa con Giscard prima e con Mitterrand poi.
I rapporti tra i governi si con la comunità ebraica e con Israele sono stati sempre molto contrastati. A seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967, De Gaulle, che aveva assistito alla vittoria di Israele, grazie ai Mirage si prodotti da un ebreo come Marcel Dassault, ordinò un embargo nelle forniture militari a Tel Aviv. Nel 1969 divenne presidente Georges Pompidou che, pur mantenendo l’embargo, cercò di migliorare i rapporti con Tel Aviv grazie anche al suo ato di alto dirigente della Banca Rotschild. Il suo successore Giscard effettuò una svolta, si schierò dalla parte dei Palestinesi, incontrò Yasser Arafāt e sostenne l’ingresso dell’OLP all’ONU come unico rappresentante dei palestinesi. Mitterrand rafforzò nel suo primo settenato (1981-88) i rapporti con Israele e fu il primo presidente a visitare Israele. Altra musica nei suoi secondi sette anni,
con il presidente socialista che volle ritagliarsi un più ampio campo di manovra sugli scenari internazionali e nel Mediterraneo. Tanto che il figlio Jean Christophe, dopo la morte del padre, ebbe a dichiarare che Mitterrand si lamentava in privato degli attacchi ricevuti dalle “lobby ebraiche”, in quanto era stato il primo capo di Stato a pronunciare il termine OLP davanti alla Knesset, il Parlamento israeliano e perché aveva sempre cercato una soluzione al problema palestinese, pur nel rispetto della sicurezza di Israele.
Anche un altro politico se di spicco, come Michel Jobert, gollista di “sinistra”, Ministro degli Esteri nel periodo 1973-74 con Pompidou all’Eliseo, si trovò in aperto contrasto con gli ambienti politici ed economici americani a causa della sua freddezza nei riguardi di Israele durante la Guerra del Kippur del 1973. Ma anche per avere denunciato come un gioco delle parti a danno dell’Europa le scaramucce di facciata tra USA e URSS e per essersi opposto alle ingerenze di Henry Kissinger negli affari europei. Una presa di posizione che lo portò anche a rifiutare la revisione del trattato NATO, ma che gli attirò tali e tanti attacchi, sia livello internazionale che interno, da stroncarne la carriera politica e vanificare le sue ambizioni di presentarsi come il successore di Pompidou all’Eliseo.
La questione dell’asse Parigi-Vienna la si ritrova in due documenti attinenti alla storia delle Brigate Rosse. Il primo, che venne sequestrato, nel gennaio 1982, al momento della cattura, a Giovanni Senzani che fu il capo delle BR nel periodo successivo all’arresto di Mario Moretti. In esso si esprimeva l’opinione che il KGB fosse in grado di “pilotare” l’attività delle maggiori organizzazioni terroristiche europee e palestinesi, in funzione anti-occidentale. A giudizio di Senzani, l’URSS era interessata a far fallire l’asse euro-socialista instaurato tra Kreisky e Mitterrand e la politica di attenzione nei confronti dell’ala moderata dell’OLP, capeggiata da Arafat. Questa veniva considerata contraria agli interessi sovietici nello scacchiere mediorientale, in quanto perseguiva un accordo di pace. Per questo il KGB avrebbe fornito appoggi alla fazione capeggiata da Abu Nidal, contraria a qualsiasi trattativa. A sua volta, Alberto schini, nel libro intervista “Che cosa sono le BR” ricordava: “A Parigi si discuteva di geopolitica, dei grandi giochi dell’Est e dell’Ovest, innanzitutto sulla scacchiera europea e mediterranea. E dei grandi giocatori. Non solo URSS e USA, ma anche, per fare
un esempio, un asse socialista franco-austriaco, un terzo giocatore, l’asse Mitterand-Kreisky…”.
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Capitolo 9 - Il Club di Berna e Federico U. D’Amato.
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Il Club di Berna era ed è ancora oggi un comitato di coordinamento e di consultazione tra i servizi segreti civili facenti parte dell’Alleanza Atlantica.
Dalle carte trovate abbandonate nel novembre 1996 in un deposito sulla Via Appia a Roma, contenente un’enorme mole di documenti proveniente da vari uffici dipendenti dal Ministero degli Interni, emerge che questo organismo, che non aveva una struttura ben delineata, implicava la costituzione di una sorta di alleanza tra FBI, l’Ufficio Affari Riservati del Viminale ed i servizi segreti si, contrapposta a quella fra CIA, NATO e servizi militari del mondo occidentale.
La CIA era inclusa tra i servizi militari proprio perché ha sempre avuto la disponibilità di un ampio apparato militare segreto, che nel periodo della “Guerra Fredda” portò avanti diverse campagne clandestine contro i governi dei Paesi nemici. E quando era necessario, compiva azioni per obbligare i Paesi “amici” un po’ troppo autonomi a rientrare nei ranghi.
Fra le questioni trattate vi erano anche i metodo di infiltrazione nei movimenti extraparlamentari di sinistra. All’epoca del sequestro Moro, il Club di Berna era diretto da Federico Umberto D’Amato, fino al 1974 responsabile dell’Ufficio Affari Riservati (UAR) del Ministero dell’Interno. In altre parole, uno degli antenati di quella struttura che venne creata all’inizio del 1978 e che si chiamò Servizio Informazioni Sicurezza Democratica (SISDE) ossia i servizi segreti civili.
La rimozione di D’Amato, che fu destinato a guidare la polizia di confine, si realizzò curiosamente due giorni dopo la strage di Piazza della Loggia a Brescia (1974) attribuita dagli inquirenti al gruppo di Ordine Nuovo. La spiegazione che se ne potrebbe dare è che si trattò di una punizione in quanto il prefetto non aveva adeguatamente controllato gli estremisti di destra. Da questo punto di vista non era infatti la prima volta che D’Amato finiva sotto accusa per la sua vicinanza a tali ambienti.
Già negli anni sessanta e nei primi anni settanta, i vertici del Movimento Sociale Italiano, Arturo Michelini e Giorgio Almirante in testa, avevano accusato il Viminale e più in particolare lo stesso D’Amato, di avere protetto e sovvenzionato con notevoli finanziamenti le attività di Avanguardia Nazionale, l’organizzazione guidata da Stefano Delle Chiaie, ai cui iscritti il MSI attribuiva il ruolo di “provocatori”. È appena il caso di ricordare che i militanti di questo stesso gruppo, nella notte del Golpe Borghese, si erano introdotti nei sotterranei del Viminale, quindi sotto l’ufficio di D’Amato, per occuparlo e che soltanto dopo l’imprevisto ordine di rompere le righe si erano frettolosamente allontanati. Pur non essendo più formalmente alla guida delle intelligence civile, e apparentemente emarginato, D’Amato continuò però a svolgere un ruolo di indirizzo non indifferente sui servizi segreti italiani facendo anche da consulente dei Ministri dell’Interno. E questo sia per la sua autorevolezza e competenza conquistate sul campo che per la molteplicità dei suoi legami internazionali. D’Amato, nato a Marsiglia nel 1919 e morto a Roma nel luglio 1996, poteva infatti vantare un curriculum non indifferente e tale da caratterizzarlo come molto addentro agli ambienti delle intelligence occidentali, a cominciare da quelle statunitensi, ma anche quelle si, come quelli con il famoso capo dello SDECE, Alexander De Marenches, tanto che il governo se lo insignì della Legion d’Onore per i suoi meriti verso la Francia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, tra la Svizzera e l’Italia, D’Amato era stato agli ordini del famoso James Angleton che comandava l’OSS (Office of Strategic Services), l’antenato della CIA. Una attività che gli valse una notevole considerazione ed il riconoscimento americano e che funzionò da trampolino di
lancio per la sua carriera successiva in strutture di collegamento tra l’Italia e l’Alleanza Atlantica.
L’ufficio al quale la figura di D’Amato è legata resta però quello dello UAR al quale approdò nel 1957 e del quale, a partire dal 1960, fu il signore incontrastato. Qui vi svolse un’intensa attività di intelligence. Da un lato collaborò nei primi anni sessanta con i servizi segreti si per colpire gli estremisti dell’OAS che avevano scelto l’Italia come luogo di rifugio. Ma ovviamente il suo primo compito fu quello di tenere sotto controllo la sicurezza interna e quindi le attività dei movimenti di estrema destra e di quelli della nascente sinistra extraparlamentare che nel 1968-1969 con la contestazione studentesca e con l’autunno caldo sindacale, trovò l’occasione di svilupparsi. Ma dal dover controllare, il non poter controllare e al non voler controllare, il o è breve. Perché, come spesso succede, l’attività degli estremisti è stata sempre utilizzata dai partiti di governo e dagli establishment economici al potere per dimostrare all’opinione pubblica che la scelta migliore è sempre quella di difendere lo status quo. Anche se il sistema vigente non è in grado di scaldare i cuori ed offrire prospettive a quanti vogliono cambiare gli assetti sociali esistenti. Secondo le accuse che gli piovvero addosso, D’Amato fece di peggio e soprattutto nel periodo dal 1969 al 1974, la sua gestione “ufficiale” dello UAR si caratterizzò per un disinvolto modo di condurre le indagini sugli attentati e sulle stragi che caratterizzarono quel periodo. Dalle bombe sui treni dell’agosto 1969 alla bomba di Piazza Fontana del 12 dicembre alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, da quelle messe lo stesso giorno all’Altare della Patria, alla Banca Commerciale a Milano ed alla Banca Nazionale del Lavoro a Roma, fino alla bomba contro la Questura di Milano ed a quella di Brescia.
L’accusa rivolta a D’Amato dagli ambienti di sinistra, governativi e no, era che l’alto funzionario invece di cercare i responsabili, mandanti ed esecutori, avesse depistato le indagini e coperto quindi chi aveva messo gli ordigni. Eppure nonostante tutta questa fama negativa, D’Amato aveva entrature in ambienti politici ed editoriali che, per coerenza, avrebbero dovuto vederlo come il fumo negli occhi. Famosa rimase per anni la sua rubrica culinaria sull’Espresso, un settimanale che delle inchieste sull’estremismo di destra, da lui protetto, aveva fatto uno dei suoi cavalli di battaglia. Una presenza piuttosto curiosa quella
nell’Espresso anche in considerazione dell’appartenenza del prefetto alla Loggia P2 di Licio Gelli. La stessa struttura che da sco Cossiga è stata definita “la culla di un certo oltranzismo atlantico”. Curiosa perché in un settimanale di peso come l’Espresso una presenza del genere, non poteva non essere interpretata in determinati ambienti come una sorta di avvertimento e cioè che il Prefetto disponeva di una tribuna con la quale far conoscere le sue verità.
Quando si afferma che D’Amato non volle impedire le attività dell’estremismo di destra non si fa altro che una affermazione a metà. Perché D’Amato già nel 1974, quando le Brigate Rosse rapirono il giudice Mario Sossi, si lasciò sfuggire una imprudente ammissione: “Noi (dello UAR) i brigatisti li conosciamo tutti, uno per uno”. Una affermazione che poteva denotare solamente tre cose. La prima: lo UAR o altri organismi statali hanno propri infiltrati nelle BR e ne conoscono quindi i capi e i militanti. La seconda: aspettiamo che compiano qualcosa di eclatante per tirare le reti ed arrestarli tutti. La terza, difficile da ammettere per un funzionario di tale livello: l’esistenza delle BR ci è indispensabile per poterne indirizzare l’attività contro obiettivi scelti da noi. Fatto sta che quella ammissione contribuì a fare perdere a D’Amato la guida dello UAR, perché non c’è niente di peggio che un funzionario investito di una tale responsabilità si faccia sfuggire segreti del genere. A meno che l’infortunio non sia stato cercato volutamente. E in effetti infiltrati nelle prime Brigate Rosse, quelle di Curcio e schini, ce ne erano eccome e uno di loro, sco Marra, partecipò anche al sequestro Sossi. Per non parlare dei giovani carabinieri e agenti di polizia che, sotto copertura, vennero iscritti nelle principali università italiane e che cercarono di infiltrarsi in gruppi extraparlamentari di sinistra e da qui tenere sotto controllo una potenziale area di reclutamento dalla quale, dal 1976 in poi, le BR morettiane attinsero a piene mani.
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Capitolo 10 - Servizi civili e la stabilità del quadro mediterraneo.
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Se il Club di Berna è stato un crocevia delle attività dei servizi civili europei ed americani, ci si deve porre l’interrogativo di come mai servizi segreti dello stesso Paese finiscano per operare con logiche diametralmente opposte e come mai finiscano per diventare in un certo modo avversari. La realtà è che i servizi segreti civili delle Grande Potenze, all’epoca URSS e USA, ragionavano in termini soprattutto politici. Il loro obiettivo era quello di mantenere lo status quo esistente in una zona di confine tra le diverse aree di influenza come era appunto l’Italia e non permettere che fattori esterni potessero venire a destabilizzarlo. Il fatto che tali strutture dipendano generalmente dal Ministero degli Interni porta a far sì che i servizi civili abbiano un approccio più squisitamente politico alle questioni di cui si occupano e che siano condizionati dalla necessità di dover rispondere ad un ministro, un sottosegretario o un funzionario che devono pensare anche a guardarsi dai propri avversari. Conseguenza inevitabile è che i servizi segreti civili finiscano per muoversi su un doppio binario. Il primo è quello istituzionale che si concretizza nella difesa delle istituzioni e del cosiddetto “ordine democratico” con la raccolta di informazioni sui movimenti eversivi. Il secondo è molto più vischioso e sfuggente ed ha a che fare con valutazioni di convenienza e di opportunità. Questo secondo approccio in Italia si è disperso in mille rivoli con le cosiddette “barbe finte” che si sono trovate fin troppe volte a chiudere un occhio o anche due sulle attività illegali che avrebbero dovuto contrastare. Anzi troppo spesso le intelligence civili hanno sfruttato i movimenti eversivi all’interno di un gioco la cui posta era il potere politico in Italia. Un’attività che è stata realizzata anche lasciando che i terroristi compissero le loro azioni, od in alternativa infiltrando propri uomini in quei gruppi per tenerne sotto controllo i militanti o peggio cercando di indirizzarne le azioni in modo da favorire il potere di questo o quel partito o addirittura di un uomo politico specifico. Niente di nuovo sotto il sole comunque, cose che succedono in tutti i Paesi. Purtroppo in Italia, dove si fa un grande uso di termini che sembrano voler dire tutto, ma che non significano niente, questo tipo di attività, che in buona sostanza sono fisiologiche ed inevitabili, ha fatto nascere la
favola buonista sui servizi segreti “deviati”. I servizi che, secondo una certa pubblicistica di sinistra, non si limiterebbero a compiere il loro dovere istituzionale ma farebbero ben altro secondo logiche italiane ed internazionali tutte da accertare. In realtà, se partiamo dalle considerazioni precedenti, tutti i servizi segreti sono “deviati” e ci sarebbe da meravigliarsi se non fosse così. Se il ruolo delle intelligence civili è quello di preservare il sistema politico vigente, è inevitabile poi che le strutture dei Paesi “amici” trovino un punto di intesa e di incontro per risolvere problemi di sicurezza di carattere comune. Il Club di Berna nacque proprio da questo tipo di considerazione e la collaborazione dello UAR con i si SDECE (il servizio segreto estero) e DST (il controspionaggio), ma anche con un’accolita di autentici delinquenti e assassini quale era il Servizio di Azione Civile, in funzione anti OAS, ne è la più evidente dimostrazione. Allo stesso modo, ma per un altro tipo di considerazioni, dall’analisi delle attività dei servizi segreti civili italiani e si, in riferimento al caso Moro, emerge una inquietante loro predisposizione ad una attività di protezioni nei riguardi di persone che hanno svolto un ruolo primario nel sequestro dell’uomo politico pugliese. Basti pensare alla presenza di società di copertura del SISDE in diversi appartamenti di Via Gradoli 96 dove abitava Mario Moretti durante il sequestro Moro. Alla presenza di un appartamento del SISDE in via Caetani 32, dentro Palazzo Antici Mattei, di fronte a dove venne trovato la Renault rossa. O alle protezioni offerte dall’Eliseo e dal DST all’Hyperion, dal quale Corrado Simioni dirigeva l’attività dei suoi uomini dentro le BR.
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Capitolo 11 - Servizi militari e apparato industriale.
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Altra è invece la logica che muove le azioni dei servizi segreti militari, quelli cioè legati agli interessi delle industrie degli armamenti. Questo tipo di approccio era però diverso negli Stati Uniti e in Unione Sovietica. Negli Stati Uniti l’influenza dell’industria degli armamenti è enorme negli ambienti del Congresso, attraverso le centinaia di lobbisti che vi si aggirano e che versano sostanziosi contributi a senatori e deputati. Poter contare su una costante domanda di armi ad alta tecnologia è fondamentale sia per garantirsi alti profitti, ma anche, e questo non va mai scordato, per poter continuare ad investire nella ricerca. Un’azienda che nelle proprie armi non includesse un certo quid di innovazione e di efficienza non servirebbe a nessuno. E meno che mai al proprio Paese. Questo è quanto la Casa Bianca ed il Cremlino chiedevano e chiedono oggi alle industrie nazionali. Evitare che, in nome della difesa degli equilibri internazionali, il gap tecnologico fosse troppo elevato. Una eventualità del genere avrebbe infatti destabilizzato gli equilibri strategici in tutto il mondo e quello che veniva indicato come “l’equilibrio del terrore”. Il principio insomma per il quale una guerra nucleare sarebbe stata impossibile, in considerazione dei prevedibili danni subiti da entrambi, finché uno dei due avversari non avesse avuto la disponibilità di una tecnologia molto superiore a quella dell’avversario con il quale si divideva il mondo. Con una differenza però sostanziale. In America le aziende collegate al Pentagono sono tutte private e vivono di commesse pubbliche. In Unione Sovietica le aziende inserite nell’apparato militare industriale erano tutte pubbliche e per il loro funzionamento era necessario il trasferimento di enormi risorse sempre e comunque pubbliche. Era in ogni caso una situazione che non poteva durare e che l’elezione di Ronald Reagan nel 1980 finì per mettere in profonda crisi quando venne dato il via libera al programma per la realizzazione del sistema di difesa missilistico di “Guerre Stellari” e l’URSS per mancanza di risorse adeguate non riuscì a stargli dietro. Poi ovviamente c’era l’aspetto non indifferente che un Paese, improntato al libero mercato ed al profitto individuale come sono gli USA, è in grado di stimolare e di far raggiungere a dei ricercatori risultati che uno Stato totalitario,
non è in grado di ottenere dai proprio tecnici, spesso ridotti a burocrati. Questo tipo di considerazione non vale sempre, basti pensare ad alcuni settori in cui l’URSS è sempre stata all’avanguardia come nel caso di armi da fuoco, tipo il mitra Kalashnikov, nato da una intuizione individuale, o la pistola Tokarev. Ma anche aerei come i MIG (acronimo di Mikoyan-Gurevic) sono sempre stati considerati con rispetto dagli avversari della NATO. In ogni caso il principio cardine è quello della necessità di continui investimenti nella ricerca, nello sviluppo e nella realizzazione di armi sempre più sofisticate. E collegato a questo, deve esserci qualcuno che apra i cordoni della borsa
Un’altra differenza tra i due sistemi riguardava il ruolo dei servizi segreti militari. Se infatti negli USA i vari servizi militari erano condizionati nella loro attività degli interessi delle industrie degli armamenti, il loro compito diventava quello di proteggere le conoscenze tecnologiche delle aziende nazionale ed accertare il livello di consistenza delle forze armate sovietiche e lo stato di avanzamento della loro tecnologia bellica. E in questa attività si svolgeva e si svolge con ampia autonomia rispetto ad un organismo come la CIA che si occupa anche di spionaggio militare all’estero, creando a volte la possibilità di una sovrapposizione o di una interferenza. Tanto che le attività dei servizi militari e dell’FBI possono arrivare a scontrarsi in conseguenza dei differenti interessi perseguiti. Ad esempio, quando la filosofia che ispira l’azione della Casa Bianca non è la stessa del Pentagono.
Analogo il compito degli agenti del GRU, il servizio segreto dell’Armata Rossa che, almeno formalmente, doveva però essere sottoposto alla supervisione ed al controllo del KGB e quindi del Politburo dell’URSS. Con una differenza sostanziale, però, perché il KGB era perfettamente cosciente che al GRU dovesse essere lasciato un certo spazio di autonomia. Lo stesso guinzaglio lungo che l’URSS aveva concesso ai servizi militari e civili dei Paesi “fratelli” nell’azione di destabilizzazione dell’Occidente. Un’azione per interposta persona nella quale, in caso di situazioni imbarazzanti scoperte dalle intelligence dei Paesi NATO, Mosca non sarebbe apparsa ufficialmente come corresponsabile. Questo tipo di considerazioni sulle differenti logiche che ispirano le intelligence civili e militari, ritornano imperiose nella vicenda Moro dove appare evidente la presenza di strutture dello stesso Paese o dello stesso schieramento che hanno
agito contemporaneamente seguendo però un obiettivo opposto. Il KGB ha svolto una attività che aveva come obiettivo finale la morte di Moro. Il GRU invece ha remato contro e, basandosi su alcuni brigatisti con i quali aveva allacciato rapporti di antica data, come alcuni che avevano un militanza nel vecchio Potere Operaio, ha cercato invece di salvare l’uomo politico, sabotando l’azione dei vari Simioni, Senzani e Moretti.
Quanto alla CIA che, come si è detto, è anche un servizio militare, la sua valutazione del sequestro Moro fu politica. Il presidente della DC doveva essere eliminato perché rappresentava un elemento di disturbo nel Mediterraneo. In grado quindi di fare saltare non soltanto gli equilibri politici internazionali, ma anche quelli militari. E questo non poteva essere consentito.
Quello che può valere per i servizi civili e militari di URSS e USA non vale però per le intelligence civili e militari italiane. Il nostro è stato sempre un Paese, lo ricordiamo, a “sovranità limitata” e l’operato dei nostri servizi ha dovuto scontare questo legame. Quindi non una dipendenza alle logiche e agli interessi di un apparato bellico industriale molto limitato rispetto a quelli di Washington e di Mosca, ma l’obbligo di muoversi in conformità alle logiche di una alleanza militare e politica, sia pure con la possibilità di ritagliarsi margini di manovra autonomi in funzione dei propri interessi all’interno dell’area mediterranea e all’interno del quadro politico italiano. Sembrano bizantinismi, ma solo partendo da tale assunto si possono comprendere alcuni fatti connessi alla vicenda Moro ed i comportamenti di alcuni brigatisti che nel corso del sequestro hanno assunto iniziative inspiegabili anche agli occhi dei militanti della loro fazione dentro alle BR.
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Capitolo 12 - CIA e MI6.
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Quando si parla di servizi segreti operanti in Italia il primo pensiero corre alla CIA americana ed a tutte le operazioni, vere o presunte, per destabilizzare o stabilizzare il nostro Paese. Eppure la “stazione” italiana del SIS (il Secret Intelligence Service) britannico, meglio conosciuto come MI-6, per numero di effettivi, anche all’epoca del sequestro Moro, era molto vicina a quella dei colleghi di oltre Oceano.
La reputazione del MI-6 è in ogni caso molto alta e coinvolge anche quella del MI-5, la struttura addetta al controspionaggio interno. Una reputazione basata su una storia ultracentenaria fatta di successi in tutti gli angoli del mondo, resi possibili dalla sempre attenta conoscenza da parte degli agenti di Londra delle singole realtà nazionali. Una peculiarità che rappresenta una conseguenza del ato coloniale il quale aveva permesso il formarsi di una vasta classe di funzionari che hanno vissuto a lungo nei possedimenti di oltremare e che li ha messi a contatto con la cultura e le lingue delle popolazioni locali in Asia come in Africa. La perdita dell’Impero non ha fatto venire meno questa eredità che i quadri delle ex colonie hanno trasmesso ai loro eredi. Non è un caso che i più seri Istituti di affari internazionali si trovino a Londra e che in essi lo studio dei Paesi esteri sia strettamente legato alla difesa degli interessi nazionali.
I britannici hanno sempre guardato con un certo atteggiamento di superiorità ai cugini della CIA vantandosi di essere stati loro ad insegnargli il mestiere dello spionaggio, in particolare durante la Seconda Guerra Mondiale. L’appunto che l’MI-6 muoveva alla CIA era soprattutto quello di essere vittima dell’approccio mercantile della società americana e quindi della convinzione che ogni cosa ed ogni persona abbiano il loro prezzo e possano essere comprate. “In America –
ironizzava Oscar Wilde – conoscono il prezzo di ogni cosa, ma ignorano il valore di tutto”. Per questo i servizi USA hanno incontrato non pochi problemi a comprendere le realtà estere essendo poco inclini a recepirne le diversità. Basti pensare alla difficoltà di comprendere la cultura del mondo islamico che per comodità ed anche per una forma di insofferenza veniva sbrigativamente considerato come un unicum monolitico. Per non parlare poi dell’incapacità di comprendere le peculiarità dei movimenti di estrema sinistra che vennero a svilupparsi in Europa dopo il 1968. La spiegazione di questa difficoltà di approccio sta soprattutto nel fatto che la cultura predominante negli Stati Uniti è quella protestante che, per come si è sviluppata, porta a ragionare per assoluti, amico-nemico o cristiano-infedele, ed è poco incline a considerare che in tali categorie possano esserci delle differenze. Non è un caso quindi che le due personalità che negli ultimi quarant’anni hanno dato l’impronta alla politica estera americana, e di riflesso all’attività dei servizi segreti, siano stati due immigrati come l’ebreo tedesco Henry Kissinger ed il polacco Zbigniew Brzezinski, entrambi consiglieri di politica estera della Casa Bianca. Due personalità provenienti da quella vasta area dell’Europa dove si sono incontrati e scontrati l’elemento tedesco, quello slavo e quello ebraico. Di conseguenza i due studiosi, per aver respirato le diversità etniche e culturali sin dall’infanzia, sono stati favoriti nel sapere interpretare meglio di altri le dinamiche delle relazioni internazionali come riflesso delle realtà nazionali. E hanno spesso impedito al loro Paese di adozione di fare molti i falsi e controproducenti per gli interessi nazionali.
L’approccio nei riguardi dell’Italia si caratterizzò con imbarazzi ed incomprensioni perché politici, studiosi e spie statunitensi non disponevano del background necessario per comprendere come nella Democrazia Cristiana vi potessero essere posizioni così divergenti, ed anche antiamericane, e come potesse ricoprire una funzione così rilevante una figura come Aldo Moro che parlava ricorrendo a ragionamenti visti come fumosi e bizantini. Il fatto che anche un Henry Kissinger, al di là dell’avversione per il progetto dell’incontro tra DC e PCI, non sia riuscito minimamente a comprendere il modo di ragionare di Moro testimonia di una incapacità di base nel rapportarsi ad una realtà, come quella italiana, che a volte dava apertamente l’idea di non volersi allineare agli interessi e alle richieste degli USA.
Da parte loro i britannici hanno sempre guardato con interesse al Mediterraneo, e di riflesso all’Italia. Non fosse altro perché per il Mare interno avano le rotte del petrolio proveniente dal Golfo Persico attraverso il canale di Suez. Fino al 1956, quando Nasser nazionalizzò il Canale, Londra controllava di fatto il Mediterraneo. Disponeva di una base navale ad Alessandria di Egitto ed una Gibilterra, quindi alle due estremità. Aveva altre basi navali in Libia ed a Malta, quindi al centro del Mediterraneo ed altre a Cipro di fronte a Siria, Libano e Israele.
Dopi il 1956, come in un crescendo Londra perse l’Egitto e nel 1969, dopo il colpo di Stato di Muammar Gheddafi dovette chiudere la base navale di Bengasi. Mentre nel 1978, mancava appena un anno alla chiusura annunciata della base navale NATO di La Valletta dopo che il Primo Ministro socialista maltese, Dom Mintoff, aveva deciso di avvicinarsi alla Libia in nome di una Terza Via che doveva svilupparsi tra capitalismo e comunismo.
Nel 2009, il Foreign Office, il Ministero degli Esteri britannico, ha reso pubblici diversi fascicoli inerenti ad Aldo Moro ed al suo progetto di coinvolgere il PCI nell’area di governo. Documenti che provengono dall’ambasciata di Roma. In uno di questi, di fine febbraio 1978, si fa riferimento ad una operazione segreta (“covert action”) che gli USA di Carter volevano mettere in piedi per “frantumare il PCI” ed eliminare in tal modo il pericolo che il partito di Berlinguer potesse entrare nel nuovo governo Andreotti che sarebbe nato a metà marzo successivo.
I britannici concordavano con l’analisi dell’ambasciatore americano a Roma, Richard Gardner, che temeva “una grave ricaduta dell’ordine pubblico in una Italia dove si contavano a decine gli attentati terroristici e gli omicidi da parte delle organizzazioni paramilitari nere e rosse. In sostanza, l’ambasciata britannica svolgeva una interessante e dettagliata analisi della situazione. In essa si definiva “ambivalente” la posizione del PCI. In pubblico, infatti, Berlinguer aveva chiesto più volte un governo di emergenza nazionale, come traguardo inevitabile della proposta del “Compromesso storico”. Gli analisti britannici a
Roma, quindi anche gli uomini del MI-6, citando non meglio identificate “fonti segrete”, interne evidentemente alla direzione del partito, si dicevano convinti che, di fatto, i dirigenti comunisti, anche se forti del 34% dei voti ottenuti alle elezioni politiche del 1976, erano tutt’altro che ansiosi di partecipare al governo.
A Botteghe Oscure si temevano molto sia le conseguenze interne sia quelle esterne di tale svolta. Berlinguer e gli altri dirigenti avrebbero preferito attendere che la situazione maturasse lentamente, fino al punto in cui un ingresso nel governo non sarebbe risultato traumatico. Le carte britanniche riflettono comunque il vasto dibattito che si svolse tra Londra e Washington sul caso italiano. Carter e Brzezinski a parole non volevano ripetere le interferenze che la precedente amministrazione repubblicana con Nixon, Ford e Kissinger aveva svolto in Paesi come il Cile con il golpe del 1973 che rovesciò Salvador Allende, ma al tempo stesso non volevano dare l’idea che la Casa Bianca apparisse indifferente rispetto ad una partecipazione del PCI al governo.
Nelle note dell’ambasciatore britannico a Roma, Alan Campbell, emergeva l’analisi della contrapposizione tra falchi e colonne nel National Security Council alla Casa Bianca, tra quelli che volevano mettere in campo una operazione pesante contro il PCI e quelli invece più propensi ad evitare un’altra “fase cilena”.
Ai britannici Moro non piaceva affatto. Nel novembre 1974, l’ambasciatore a Roma, Guy Millard, definiva Moro come “intensamente latino e italiano” precisando però che si tratta dell’esatto opposto della figura retorica del “meridionale ardente”.
E anche se dava l’impressione di essere sempre ammalato godeva tuttavia di “una cagionevole salute di ferro”, affermazione che suona macabra visti gli sviluppi successivi. L’analisi degli uomini del MI-6 si fermava poi a valutare la religiosità di Moro osservando da un lato che si recava a messa ogni giorno e citava le opinioni correnti sul fatto che la fede cattolica lo aveva portato a
convincersi che non bisognasse aspettarsi niente di buono dalle persone. Per i britannici questo modo di sentire non rappresentava certamente una buona premessa politica e li portava a concludere che l’azione di Moro fosse alimentata dall’immobilismo e dalla fiacchezza. Un modo di essere e di sentire più orientato alle parole che ai fatti. E gli agenti britannici citavano il famoso discorso di sette ore al congresso DC di Napoli del 1962 nel quale di fatto non aveva detto nulla tranne che bisognava fare il governo di centrosinistra con il PSI. In Italia, osservavano causticamente i pragmatici britannici, parlare in pubblico per ore senza dire niente è un dono da non sottovalutare.
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Capitolo 13 - Brigatisti tra doppio e triplo gioco.
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Le diverse anime del brigatismo rosso trovarono nel sequestro Moro un ampio terreno di scontro, determinato sia da diverse valutazioni sul fine ultimo dell’operazione, sia dalla volontà di indirizzarne verso altri traguardi le varie fasi in cui esso si doveva sviluppare. Non si tratta in ogni caso della differenza di posizioni tra brigatisti del nucleo storico detenuti, tipo Curcio e schini, e quelli operativi a piede libero tipo Mario Moretti ed i suoi sodali come Gallinari. Per non parlare dell’ambiguo ruolo esercitato da Giovanni Senzani. Da rivedere totalmente è infatti anche la parte svolta da tutti quei militanti del disciolto Potere Operaio che confluirono nelle BR su invito di Mario Moretti nel periodo 1975-1976. I vari Valerio Morucci, Alessio Casimirri, Alvaro Lojacono Baragiola, Bruno Seghetti e Germano Maccari.
In particolare Morucci, entrato nelle BR nel 1976, nelle sue dichiarazioni processuali, che gli hanno consentito di vedersi ridotta a 30 anni la condanna all’ergastolo in quanto “dissociato”, ha sempre tenuto a sottolineare la sua contrarietà all’uccisione di Moro del 9 maggio 1978. Una esecuzione che venne comunicata da Moretti il giorno prima ai responsabili delle colonne romane delle BR nell’appartamento covo di Via Chiabrera. Una posizione peraltro ribadita da Morucci nei suoi due libri di memorie (“Ritratto di un terrorista da giovane” e “La peggio gioventù”). In un film sul sequestro, Morucci è rappresentato come un brigatista così costernato dalla piega che stanno prendendo gli avvenimenti, da essere quasi in ogni momento sul punto di scoppiare a piangere. Certo, un film va preso per quello che è, come una interpretazione del regista, ma questa pretesa contrapposizione tra irriducibili ed umanitari non sta davvero in piedi. Morucci non era infatti un terrorista di primo pelo. Aveva partecipato all’agguato di Via Fani ed all’uccisione dei cinque uomini della scorta e come responsabile in precedenza della struttura occulta di Potere Operaio aveva provveduto a rifornire di armi l’arsenale dell’organizzazione dove comandava la struttura
armata nota come “Lavoro illegale”. Oltretutto i militanti romani del gruppo extraparlamentare non avevano incontrato alcun problema nell’usare tali armi per gambizzare avversari politici o ucciderli come successo a Roma con il missino Mikis Mantakas o addirittura bruciarli vivi come i fratelli Stefano e Virgilio Mattei, figli del segretario della sezione romana del MSI di Primavalle.
Se queste sono cose più o meno note, più interessanti risultano essere i contatti stabiliti a suo tempo da Morucci con Gian Giacomo Feltrinelli che fu largo di finanziamenti con Potere Operaio. O i viaggi in Svizzera per rifornirsi di armi, sfruttando le conoscenze e le entrature di un militante di Potere Operaio come Alvaro Lojacono la cui madre era svizzera. Durante un trasferimento di armi, Morucci ebbe un infortunio nel novembre del 1972 facendosi arrestare alla frontiera dalla polizia elvetica con un auto imbottita di armi, anche se poi gli svizzeri decisero di scarcerarlo e di espellerlo dalla Confederazione. Questa tendenza all’attivismo non mediato da considerazioni politiche, unita alla consapevolezza che la vita era qualcosa che andava goduta in tutti i suoi aspetti, e che anche gli operai ed i rivoluzionari dovevano farla propria, era un qualcosa che cozzava con il grigiore burocratico delle BR morettiane che videro entrare nell’organizzazione militanti che non gradivano di essere imbrigliati.
La contrapposizione tra queste due anime delle BR non può essere ridotta solo a questo. L’ipotesi a cui si deve lavorare è che il gruppo di Morucci abbia perseguito la salvezza di Moro per motivi tutt’altro che umanitari. Se si assume come dato di partenza che Moretti abbia calato nelle sue decisioni le strategie di diversi ambienti internazionali che puntavano al mantenimento dello status quo, i servizi segreti civili come CIA, KGB e Mossad, non è azzardato assumere come ipotesi, sulla quale lavorare, che Morucci, consapevolmente o meno, abbia invece agito per creare destabilizzazione e per perseguire tale fine voleva salvare Moro.
Vi è infatti una vicenda in tal senso esemplare ed è quella di Via Gradoli. Il 18 aprile, una doccia lasciata volutamente aperta nell’appartamento situato nella traversa della Via Cassia e nella quale dimoravano Mario Moretti e Barbara
Balzerani provocò l’inondazione dell’appartamento al piano di sotto e la scoperta del covo BR. Lo stesso giorno peraltro del ritrovamento del falso comunicato del Lago della Duchessa con il quale si comunicava l’avvenuta uccisione di Moro. Siamo stati forse disattenti, cercarono di minimizzare i due brigatisti. È appena il caso di ricordare che l’appartamento era collocato in una palazzina in cui vi erano diversi altri appartamenti di proprietà di società di copertura del SISDE. E che al civico numero 35 c’era un appartamento in cui si incontravano i membri del gruppo delle Formazioni Armate Comuniste (FAC), filiazione armata di Potere Operaio, create nel 1975. E ancora, nello stesso appartamento occupato da Moretti, un anno e mezzo prima aveva soggiornato lo stesso Valerio Morucci, il quale con tutta probabilità ne aveva conservato le chiavi. Chi è quindi che era entrato nel covo brigatista e che vi aveva lasciato aperta la doccia? Forse, qualche servizio segreto concorrente del SISDE che voleva bruciare le BR? O militanti del vecchio Potere Operaio che, per conto dello stesso Morucci, volevano sabotare il percorso lungo il quale il sequestro si stava dispiegando? Quello di Via Gradoli non è infatti una questione da poco. Essa dà un’impronta particolare a tutto il sequestro e non può essere liquidata, come ha fatto lo stesso Moretti, attribuendo la perdita d’acqua a difetti del fabbricato dovuti alla voracità dei costruttori romani che avevano voluto risparmiare utilizzando materiali scadenti. La stessa famosa seduta spiritica del 1978 a Bologna, con la partecipazione di Romano Prodi, nella quale, grazie al gioco del piattino, emerse il nome Gradoli come località in cui Moro era tenuto prigioniero, è stata interpretata come un modo scelto da parte di ambienti dell’Autonomia bolognese, nella quale figuravano molti ex militanti di Potere Operaio, di fare filtrare un preciso segnale a chi lo voleva e lo poteva cogliere, utilizzando uno dei partecipanti che si prestò alla bisogna. Non era infatti possibile che l’informazione, che venne girata al governo, potesse arrivare in maniera diretta, rivelandone la fonte. In tale ottica i due fatti risultano strettamente legati e coincidenti nell’obiettivo finale, quello di fare fallire la strategia di Moretti che prefigurava l’uccisione di Moro come ultima tappa. Se Morucci e i suoi volevano salvare Moro, questo non può essere attribuito ad un travaglio morale ed esistenziale sulla sorte del politico democristiano quanto invece alla condivisione di un disegno strategico opposto a quello di Moretti e dei servizi civili dell’una e dell’altra parte.
La premessa di questa chiave di lettura è che Potere Operaio abbia in qualche modo ereditato i contatti e le relazioni di Feltrinelli con i servizi militari dell’Est
europeo, in primis quelli di Praga, e che tali rapporti abbiano costituito una variabile indipendente che all’interno delle BR abbia agito come elemento di disturbo delle logiche morettiane e “atlantiche”. Su tali relazioni lo stesso Morucci non è stato molto generoso di particolari, limitandosi a ricordare i suoi rapporti più che amichevoli con “Osvaldo” e con gli ambienti di ex partigiani che gli ruotavano intorno. Resta il fatto che Morucci è uscito sostanzialmente indenne dalla sua esperienza di terrorista.
Il 18 gennaio 1985 al processo di appello per il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro, l’ex militante di Potere Operaio lesse un documento di dissociazione dalla lotta armata firmato da lui e da oltre 150 detenuti. La Corte ne tenne conto e trasformò la sua condanna di primo dall’ergastolo in quella di 30 anni. Altri 10 anni li prese il mese successivo per l’attività delle FAC. Nel 1990, dopo appena 11 anni di reclusione Morucci e la Faranda ottennero la semilibertà e da lì incominciarono la loro collaborazione a puntate con le autorità e le rivelazioni ai giornali. Prima in una intervista all’Espresso del 1991, quasi a rimarcare le differenze tra lui militante delle BR ed i vertici dell’organizzazione, Morucci dichiarò che se nella prigione di Moro era entrata una quarta persona (oltre a Moretti, Braghetti e Gallinari), cosa che a lui non risultava affatto, questa non poteva che appartenere alla ristretta cerchia dei capi BR. Una dichiarazione fatta evidentemente per sviare qualsiasi sospetto dall’amico Germano Maccari. Poi nel 1993, pur senza farne il nome, Morucci e Faranda confermano che, in effetti, nella prigione del popolo, per sentito dire ubicata in Via Montalcini, era presente anche un quarto uomo. Un nome, però, subito dopo, Morucci lo fa ed è quello della latitante Rita Algranati, anche lei una ex di Potere Operaio e moglie di Alessio Casimirri, nome presente a Via Fani, insieme ad un’altra persona non indicata. Con le quali nella sua versione dei fatti i brigatisti presenti erebbero da sette a nove, quando nella versione iniziale di Morucci questi erano addirittura dodici.
Peraltro il nome di Maccari verrà suggerito dallo stesso Mario Moretti nel suo libro intervista del 1994 nel quale, riferendosi al quarto uomo, parla di un compagno molto conosciuto nell’ambiente romano. A quel punto gli inquirenti messa sotto pressione una Faranda in lacrime, riescono a tirarle fuori il nome di Maccari. Questa schermaglia postuma tra brigatisti veri e propri e quelli acquisiti
dall’ex Potere Operaio sembra riflettere non solo una questione di appartenenza, ma anche le diverse anime delle BR. A giudizio di Alberto schini, Morucci che viene generalmente considerato un dissociato, in realtà è un pentito che ha adeguato le sue dichiarazioni alla versione ufficiale.
In alcuni documenti inviati in Italia dalla magistratura se, Morucci è stato indicato come membro di una organizzazione chiamata “SEPARAT” una sorta di braccio operativo della strategia terroristica dei servizi segreti sovietici e di quelli dell’Est ad essi più collegati come la STASI e il HVA della Germania Est e l’STB (Statni Tajna Bezpecnost) della Cecoslovacchia.
Morucci, insieme ad Adriana Faranda, venne arrestato nel maggio 1979, in un appartamento di viale Giulio Cesare, a Roma, da dove gestiva le attività del Movimento Comunista Rivoluzionario da lui fondato con altri militanti di Potere Operaio dopo la fuga dalle BR. L’appartamento era di proprietà dell’astrofisica Giuliana Conforto, figlia di Giorgio Conforto, uno dei più importanti agenti del KGB in Europa. E dalle mezze ammissioni di Cossiga, sarebbe stato lo stesso Conforto, pur cosciente di stare inguaiando la figlia, a fare arrivare alla polizia la segnalazione che nella casa di Viale Giulio Cesare c’erano Morucci e la Faranda. Se Morucci di fatto lavorava per il GRU sovietico o per i cecoslovacchi del STB, e se Conforto lavorava per il KGB, allora nell’ottica della difesa di certi equilibri anche quell’arresto assume una sua logica. Esemplare è anche la vicenda della fuga di Alessio Casimirri, presente a Via Fani, raccontata da lui stesso.
Se ne andò dall’Italia alla fine del 1980 quando seppe che qualcuno aveva fatto il suo nome. Poi l’arrivo a Parigi e la seconda e successiva fuga nel 1981 a Mosca dove aspettò due giorni all’aeroporto per poi prendere l’aereo diretto nel Nicaragua dei sandinisti. C’è da osservare che la Mosca di allora non era quella di oggi e che era impossibile che uno straniero potesse fermarsi all’aeroporto senza che nessuno lo fermasse e lo identificasse. Se questo successe, significa che Casimirri godeva di protezioni da parte di qualche struttura di intelligence sovietica e diventa conseguente pensare che, in virtù della comune militanza in Potere Operaio, si trattasse del GRU che lo protesse fino al momento della
partenza per Managua.
I giorni prima del sequestro
Con il senno del poi anche per il sequestro Moro sono emerse rivelazioni su voci ed informative che, anche tramite gli ambienti carcerari, erano giunte alle forze dell’ordine, ai servizi segreti ed al governo sul fatto che le BR stavano per compiere una grossa operazione a Roma. Alcuni dei protagonisti dell’epoca hanno respinto l’accusa di avere sottovalutato tali voci. Ma sarebbe bastato tenere conto della “Risoluzione numero 4” delle BR per trovarvi delle indicazioni precise su quelli che avrebbero potuto essere gli obiettivi dei terroristi. In tale documento si affermava chiaramente la necessità di colpire gli uomini del sistema di potere democristiano “a partire dagli organismi centrali”. E infatti Moro era presidente del partito.
Il politico democristiano temeva per la sua incolumità ed aveva chiesto al suo discepolo sco Cossiga, in quanto Ministro degli Interni, di assegnargliene una. Dopo Via Fani, pure su tale questione c’è stato un rimpallo di responsabilità ed è stato sollevato l’interrogativo se il ritardo nell’assegnazione dell’auto blindata sia stata dovuta ad una trafila burocratica, che Cossiga era perfettamente in grado di risolvere, o se qualcuno all’interno del Viminale o delle strutture di sicurezza, abbia agito con l’obiettivo che Moro quel 16 marzo fosse sprovvisto di una vettura in grado di proteggerlo. Di una vettura blindata peraltro era invece fornito regolarmente Giulio Andreotti. E questa, fu una delle motivazioni addotte dalle BR per giustificare la scelta di rapire Moro, oltre a quella che il sequestro di Andreotti presentava maggiori anzi insormontabili problemi per il fatto che abitava in pieno centro di Roma in una zona ad alto traffico e da cui era praticamente impossibile allontanarsi con rapidità.
I familiari di Moro e quelli di alcuni degli agenti di scorta raccontarono agli inquirenti che attorno all’abitazione di Via del Forte Trionfale ed allo studio di Via Savoia erano stati segnalati strani movimenti che lasciavano intendere che
qualcuno stava valutando le abitudini e gli spostamenti.
In particolare, il maresciallo Leonardi, da anni il responsabile della sicurezza di Moro, si era sfogato con i familiari rivelando tutte le sue preoccupazioni perché a Roma era stata segnalata la presenza di brigatisti di altre città. E la famiglia ha sempre insistito nel ricordare le ripetute richieste di Moro di avere l’auto blindata. In effetti, qualcuno degli apparati di sicurezza poteva pure prevedere che il giorno in cui alla Camera sarebbe stato sancito l’accordo tra DC e PCI, qualcuno, appunto le BR, potesse compiere un’azione dimostrativa. Peraltro le voci di una azione delle BR contro un esponente democristiano non meglio identificato circolavano da tempo nel mondo della sinistra extraparlamentare romana. Una cosa piuttosto curiosa visto che le BR disponevano di una struttura piramidale e compartimentata. Ma qualcosa evidentemente filtrò visto che quella mattina da una emittente radiofonica romana, come Radio Città Futura, vicina al gruppo trotzkista di Avanguardia Operaia, venne trasmessa la notizia che le BR quel giorno avrebbero tentato qualcosa di grosso. Addirittura contro Moro. Il direttore dell’emittente, Renzo Rossellini, in seguito trasferitosi negli Stati Uniti, una volta interrogato dagli inquirenti cascò dalle nuvole affermando di non ricordare se si trattò di una sua considerazione all’insegna della pura ipotesi o se si trattò invece della telefonata di un ascoltatore. Resta però la realtà di una segnalazione rivolta a mettere sull’avviso le forze dell’ordine ad impedire il sequestro. Il problema è quindi di capire da chi venne la segnalazione e se essa venne fatta filtrare da quelli stessi ambienti, interni o fiancheggiatori alle BR, che pur essendo molto attivi nella pratica della violenza come strumento di lotta politica, erano però contrari a quella conclusione che il sequestro minacciava di avere.
L’ipotesi da approfondire è quindi se furono persone vicine al gruppo di Potere Operaio a fare girare le voci per fare alzare il livello di protezione di Moro e rendere così impossibile il sequestro o se invece fu un altro gruppo, tra i tanti della galassia extraparlamentare, che voleva evitare una reazione poliziesca e giudiziaria che coinvolgesse senza troppi distinguo tutto l’ambiente dell’estrema sinistra.
Anche il KGB aveva messo un suo agente alle costole di Moro. Si chiamava Fedor Sergey Sokolov e, da studente iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, frequentava regolarmente, all’inizio del 1978, le lezioni che il politico DC teneva all’Università di Roma. Una volta addirittura si presentò e Moro in seguito non nascose le sue preoccupazioni con i suoi assistenti dando per scontato che si trattasse di un agente sovietico messo lì per sorvegliarlo, con tutto quello che un fatto del genere comportava. Poi, ovviamente, dopo il sequestro. Sokolov sparì e tornò a Mosca.
I brigatisti sconosciuti di Via Fani
L’identità dei brigatisti rossi presenti a Via Fani la mattina del 16 marzo è stata ufficialmente sancita dalle ammissioni e dalle chiamate di correo dei partecipanti. Ma i diversi processi nei loro gradi di giudizio non hanno stabilito una verità dei fatti.
Riassumendo, secondo la versione “storica”, Mario Moretti guidava la 128 bianca con targa del Corpo Diplomatico, che obbligò l’auto di scorta e l’auto di Moro a rallentare e fermarsi all’angolo con via Stresa. A sparare furono Valerio Morucci, Franco Bonisoli, Raffaele Fiore e Alvaro Lojacono Baragiola. Presenti con compiti di copertura c’erano Alessio Casimirri, la moglie Rita Algranati, Barbara Balzerani e Prospero Gallinari. Infine, Bruno Seghetti guidò la macchina che portò via Moro fino a Piazza Madonna del Cenacolo dove il politico democristiano venne trasbordato, in pieno giorno, sul furgone che si recò alla Standa di Via dei Colli Portuensi nel cui parcheggio sotterraneo venne fatto un ulteriore cambio di vettura con la Citroen Ami 4 della Braghetti fino alla prigione di Via Montalcini. Compiuta l’azione i brigatisti non romani presero il primo treno per le rispettive località di provenienza
Ma la ricostruzione fatta lascia molto a desiderare sia per le incongruenze che saltano evidenti anche in riferimento ai minuti immediatamente successivi alla sparatoria ed alla fuga, sia alle modalità della stessa strage. Lo stesso Morucci
all’inizio aveva parlato di 12 brigatisti presenti salvo poi correggersi e ridurre il numero a 10. Ma la ricostruzione di Morucci e quelle successive di Moretti fanno acqua da tutte le parti. Infatti, nel sequestro Sossi del 1974, dove non ci fu spargimento di sangue e non venne sparato un solo colpo di arma da fuoco, i brigatisti che parteciparono al sequestro furono ben 16. Il magistrato venne prelevato a forza sotto casa di sera e con il buio e caricato su una macchina e da qui fino alla villa nell’entroterra genovese dove venne tenuto prigioniero. Per una azione come quella di Via Fani, realizzata in pieno giorno, con uno scontro a fuoco nel quale era prevedibile che gli agenti della scorta cercassero di reagire, è impensabile che i brigatisti utilizzati siano stati appena 10 o 12. La complessità dell’operazione con i due trasbordi ufficiali previsti, la necessità di nascondere le auto utilizzate in zona e poi farle ritrovare, necessitava di un o logistico quasi doppio. Anche perché, tutti i manuali di intelligence insegnano che i responsabili di una operazione debbano allontanarsi in fretta dal luogo della sparatoria e cercare di andare il più lontano possibile. Vi è poi un’altra realtà inquietante ed è la presenza a Via Fani di un’arma che ha messo a segno ben 49 dei 96 proiettili sparati. Secondo la perizia dell’ottobre `93, ordinata nell’ambito del processo “Moro quater”, si è stabilito che in via Fani spararono sette armi, e da entrambi i lati della strada.
Morucci aveva parlato di sei armi e di colpi provenienti da un solo lato. Una precisione che era alla portata soltanto di un tiratore più che esperto, non certamente dei brigatisti presenti. Si pone quindi l’interrogativo sulla presenza di altri personaggi molto versati con l’uso delle armi, non militanti delle Brigate Rosse e assoldati per quella azione specifica. Subito dopo l’agguato di Via Fani il Viminale diffuse una lista, con tanto di fotografia, dei brigatisti ricercati tra i quali emergeva il nome di Giustino De Vuono, che fino ad allora era un perfetto sconosciuto. Un calabrese che era stato nella Legione Straniera se e che come tale disponeva di tutta la preparazione per operare con successo a Via Fani. Un personaggio che si è volatilizzato nel nulla e del quale qualche anno fa sono rimbalzate notizie che ne segnalavano la presenza in Paraguay. Il primo interrogativo da porsi è sul come e sul perché il nome di De Vuono sia finito sulla lista dei ricercati e quale struttura statale abbia fornito al governo le informazioni per farvelo finire. La questione non è da poco perché testimonia della tendenza dei servizi di intelligence a remare ognuno per proprio conto anzi a farsi le scarpe gli uni con gli altri.
La seconda domanda da fare è attraverso quali canali Giustino De Vuono possa essere stato contattato dalle BR di Moretti e convinto a partecipare all’azione. Su De Vuono ha fornito un riferimento anche Mino Pecorelli che su un numero di OP lo indica semplicemente come “De”.
Il secondo nome che è stato fatto, e che attraverso canali ancora tutti da verificare è finito nella lista, è quello di Antonio Nirta, un esponente della Ndrangheta calabrese, la cui presenza a Via Fani provocherebbe inquietanti interrogativi sui rapporti di alcuni militanti delle BR con ambienti della malavita organizzata. Una delle ipotesi fatte a tale proposito è che questo legame con la Calabria possa essere stata originato dal forte radicamento di Potere Operaio nella regione alla cui università di Cosenza, Arcavacata, insegnava fisica uno dei fondatori del movimento e cioè Franco Piperno.
In ogni caso è stato il pentito della Ndrangheta, Saverio Morabito, a segnalare, per sentito dire, la presenza di Antonio Nirta nel commando ed a confermarlo poi al processo “Moro quater”. Una segnalazione alla quale si è aggiunta la voce che sarebbe stato il generale dei Carabinieri sco Delfino, un calabrese nativo di Platì in Aspromonte, il paese dei sequestri di persona, ad infiltrare Nirta nelle Brigate Rosse.
Anni fa l’ex deputato democristiano Benito Cazora rivelò di essere stato contattato pochi giorni dopo il sequestro da alcuni suoi informatori calabresi che lo condussero nei pressi di via Gradoli, spiegandogli che lì era tenuto Moro. Un’altra storia inquietante alla quale va ad aggiungersi il fatto che esisterebbero delle foto, scattate da un abitante di Via Fani subito dopo il sequestro, consegnate alle forze dell’ordine, ma poi sparite misteriosamente, che testimonierebbero della presenza di Nirta o di altri non citati nel copione ufficiale a Via Fani il 16 marzo.
Terzo ed ultimo nome italiano è quello di sco Marra, un ex paracadutista che partecipò al sequestro del magistrato genovese Mario Sossi, prelevandolo sotto casa insieme ad altri tre brigatisti. È stato Alberto schini che ebbe Sossi in custodia durante il sequestro, a fare il nome di Marra come quello del super killer di Via Fani. schini ha sempre insistito sulla qualità di Marra come di un infiltrato dell’Ufficio Affari Riservati dentro le BR con il nome di battaglia di “Rocco” ed anche una sentenza giudiziaria ha finito per dargli ragione. Tanto che per sua stessa ammissione, Marra ha ammesso di essersi infiltrato nelle BR per conto del brigadiere Atzori, braccio destro di Delfino. A rendere comunque ancora di più inquietante l’azione di Via Fani vi è la presenza in zona al momento della strage, del colonnello Camillo Guglielmi, un ufficiale del SISMI che addestrava militari alla guerriglia e alla controguerriglia nella base di Capo Marrargiu. Che ci faceva a quell’ora di mattina in via Fani? Guglielmi si è giustificato affermando che aveva ricevuto un invito a pranzo. Un po’ in anticipo per un invito fissato quattro ore più tardi. Ma su tale incongruenza chi doveva investigare non ha voluto o non ha potuto approfondire più di tanto. Le ipotesi possono essere due. Guglielmi era in zona per verificare, dal punto di vista “professionale”, come avrebbero agito i brigatisti che di fatto erano funzionali ad una strategia condivisa dai cugini del SISDE. O in alternativa, Guglielmi doveva controllare che tutto andasse bene e che il guerrigliero super addestrato svolgesse il compito che gli era stato assegnato. Nell’una e nell’altra ipotesi, si arriverebbe a conclusioni devastanti e difficili da accettare per molti.
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Capitolo 14 - I rapporti con la RAF tedesca.
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Ma per il 16 marzo vi è anche l’ipotesi della partecipazione come killer di un militante della RAF, la Rote Armee Fraktion. La presenza di un terrorista tedesco a Via Fani è stata indicata da più testimoni, ma non è stata mai un’ipotesi di lavoro sulla quale gli inquirenti abbiano avuto la voglia di indagare più di tanto. Gli indizi in tal senso non sono pochi. Vi è innanzitutto la circostanza che l’azione di Via Fani ebbe modalità molto simili a quelli del sequestro dell’anno precedente di cui rimase vittima Hans Schleyer, il presidente della Confindustria tedesca, la cui scorta venne annientata, e che venne ritrovato morto come Moro. Logico concludere che le BR abbiano voluto utilizzare le competenze acquisite dai loro colleghi tedeschi per quella che doveva rappresentare un’azione altrettanto eclatante. Alcuni testimoni poi hanno assicurato di aver sentito uno dei killer, quello che mise a segno un impressionante numero di colpi, gridare frasi in una lingua che a loro parve tedesco. Tanto che lo stesso Messaggero di Roma, il giorno dopo titolava in prima pagina: “C’è chi dice: qualcuno parlava tedesco”. In quei giorni poi, persone legate in qualche modo alla RAF vennero segnalate tra Roma e la Toscana. Del resto numerosi erano stati i rapporti delle BR con esponenti della RAF. Ma su tale punto Moretti ha detto e non detto, rivelando di avere incontrato un paio di volte militanti della RAF che erano immancabilmente donne e rimproverandosi del suo inconscio maschilismo per non averle riconosciute come tali al primo appuntamento che si erano dati.
Il killer di Via Fani potrebbe quindi essere Willy Peter Stoll del quale è stato accertato che era in stretto contatto con Moretti, ma che ebbe la sventura di farsi uccidere dalla polizia tedesca nel novembre 1978 e di evitare quindi di trasformarsi in pentito o di essere obbligato ad ammettere circostanze imbarazzanti. Oltretutto, anche la storia della RAF è costellata di episodi inquietanti che testimoniano di aiuti logistici dai Paesi dell’Est, in primo luogo attraverso la Stasi (Staat Sicherdienst) la polizia politica della Germania
comunista guidata da Erich Mielke. Ma che fanno sospettare anche l’infiltrazione di uomini del BND e del Mossad, tramite la solita filiera trotzkista.
La determinazione di Moretti nel negare altre presenze di terroristi mai identificati a Via Fani, siano essi stranieri che reclutati tra la malavita comune, è coerente con la versione da lui sempre rivenduta che le BR fossero un fenomeno esclusivamente italiano e che se rapporti ci sono stati con la RAF, questi erano funzionali ad un semplice scambio di idee sul come condurre il processo rivoluzionario od al massimo in accordi di tipo logistico come la fornitura di armi.
La versione del capo brigatista viene, però, smentita dalla circostanza dell’arresto a Zagabria, l’11 maggio 1978, due giorni dopo Via Caetani, di quattro militanti della RAF, due uomini e due donne, reduci dall’Italia. Mentre il 21 marzo un furgone di un sospetto militante della RAF, molto legato a Willy Peter Stoll, era stato segnalato a Viterbo con diverse persone a bordo. In precedenza, il 18 aprile, la Tv austriaca aveva denunciato la presenza in Via Fani di tre militanti della RAF, due donne e un uomo, questo indicato come Christian Klar.
In ogni caso la RAF, i cui militanti fruirono di appoggi logistici da parte di intelligence orientali, a Berlino Est erano di casa, come molte organizzazioni del genere, vantava un alto livello di infiltrazione da parte degli organi di sicurezza tedeschi che, come spesso succede in questi casi, le hanno lasciate agire finché ciò poteva servire per creare tensione in Germania, salvo poi liquidarle quando non servivano più.
La presenza di un killer tedesco a Via Fani, tipo Willy Peter Stoll o Christian Klar, può essere quindi spiegata con la strategia del governo Schmidt, che prevedeva la partecipazione della RAF ad una azione che si sarebbe svolta all’estero ed organizzata da un gruppo straniero come le BR, le quali se ne
sarebbero assunte la responsabilità. Soprattutto un’azione in grado di assestare per via indiretta un colpo decisivo e mortale alla strategia di Moro, osteggiata con forza dai socialdemocratici tedeschi, di portare i comunisti nell’area di governo e di lì a due anni affidare incarichi da ministri ad esponenti dello stesso PCI.
Resta sintomatico che la versione di un militante della RAF a via Fani non abbia mai goduto di particolare favore da parte degli “esperti” italiani del settore. Più gradita è stata la versione che ipotizzava la presenza di un ex legionario come Giustino De Vuono, di un ex paracadutista come sco Marra o addirittura di un esponente della Ndrangheta calabrese come Antonio Nirta. Queste altre ipotesi dal loro punto di vista sono preferibili perché rispondono alla semplicistica interpretazione del sequestro in chiave anticomunista.
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Capitolo 15 - Il BND tedesco. Gli occhi sulla Padania.
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Quando si parla della presenza di servizi segreti stranieri nelle vicende del nostro Paese si è portati a citare i soliti noti: CIA, KGB, MI-6 e Mossad. In genere qui ci ferma e non si considerano altre strutture. Se volessimo usare i canoni interpretativi marxiani ci dovremmo domandare quale Paese europeo era più motivato, in virtù dei suoi interessi economici, a mettere le mani nelle nostre vicende interne. E la risposta è ovvia: la Germania che da sempre è la prima potenza economica continentale.
Negli anni sessanta e settanta molti soldi sono arrivati in Italia dalla Germania, in particolare dalla Baviera di Franz Joseph Strauss, per finanziare le forze politiche più moderate in particolare quelle della DC lombarda. O dalla SPD per finanziare la scissione socialista del luglio 1969 con la quale Saragat, dopo appena tre anni, separò il PSU (poi PSDI) dal PSI di Nenni, Lombardi e Mancini. Ed altri soldi sono successivamente arrivati a cavallo tra gli anni ottanta e novanta per finanziare la Lega Nord e rompere l’unità italiana, per legare la Padania produttiva all’Europa del Nord e lasciare che il Sud seguisse la sua deriva “levantina”.
I tedeschi hanno sempre considerato la Pianura Padana come una propaggine della Baviera e si sono mossi senza dare molto nell’occhio e senza pubblicità. Alcuni curiosi episodi testimoniano di questa attenzione della Germania e della sua intelligence, in primo luogo il BND (Bundes Nachrichten Dienst), nei riguardi dell’Italia.
Il 20 settembre 1972 alla frontiera tedesca venne fermato l’estremista di destra Gianni Nardi unitamente ad un altro estremista di destra, Bruno Stefano ed una cittadina tedesca Gudrun Kiess. La famiglia Nardi possedeva una fabbrica di elicotteri e di componenti di aerei per uso militare ad Ascoli Piceno. Nardi, grazie ad un identikit che sembrava essere stato disegnato sulla sua fotografia, venne incriminato per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi, avvenuto pochi giorni prima, ma poi successivamente venne scagionato. Il curioso di tutta la faccenda è che anni dopo, Guido Giannettini, l’ex agente Zeta del SID, in un intervista al settimanale L’Espresso, rivelò che ad uccidere Calabresi erano stati i servizi segreti tedeschi in quanto il commissario aveva scoperto un traffico di armi dalla Germania all’Italia, che era organizzato dallo stesso BND. Una rivelazione che se da un lato potrebbe scagionare Adriano Sofri e gli altri militanti di Lotta Continua, ma alla quale la magistratura non ha mai dato peso, deve essere letta in realtà come l’attestazione che un traffico d’armi esisteva e che nella logica delle cose era destinato a sostenere le strutture militari italiane legali o paralegali, come Gladio o la Rosa dei Venti, da utilizzare in funzione anticomunista e antisovietica.
La socialdemocrazia tedesca, allora al governo con Willy Brandt, poi sostituito dall’ultra atlantico Helmut Schmidt, membro della Commissione Trilaterale, non ha avuto mai problemi ad usare il pugno pesante con i comunisti. Lo testimonia il suicidio collettivo “assistito” dei tre militanti della RAF nel carcere di Stammheim nell’ottobre del 1977, o l’eliminazione nel 1919 dei capi spartachisti Karl Liebnecht e Rosa Luxembourg.
Vi è un lungo filo rosso sangue che unisce questi due fatti e che evidenzia l’impronta anticomunista dei socialdemocratici. La tesi di una mano tedesca nel traffico di armi e di esplosivo in arrivo in Italia è stata rilanciata recentemente dall’ex capo del reparto D del SID, il filo-israeliano Gian Adelio Maletti che, in un libro intervista (“Piazza Fontana, noi sapevamo”), ha affermato che l’esplosivo usato per compiere diversi attentati proveniva dalle basi americane in Germania e con il concorso del BND era stato inviato in Italia. Maletti vi include anche quello di Piazza Fontana e punta il dito sui militanti di Ordine Nuovo del Veneto. Su una agenda sequestrata ad un terrorista tedesco di aggio a Roma nel 1976 c’era scritto: “appuntamento con Al.Ma”. Secondo Silvano
Russomanno, la sigla venne interpretata come Alter Man, in tedesco “uomo vecchio” e da lì trasformata in “Grande Vecchio”, un nome che ha goduto di grande notorietà. Lo abbiamo inventato noi, ha ironizzato Russomanno. Era soltanto una ipotesi di lavoro e guardate cosa ne hanno tirato fuori. Dove il “noi” sta per i servizi segreti civili nei quali la spia ricoprì incarichi di prestigio. Nel 1980, al momento dell’arresto per la soffiata sull’Hyperion, Russomanno era infatti il numero due del SISDE. Ma anche questa indicazione lascia il tempo che trova visto che, nelle BR, Mario Moretti era conosciuto anche come il “Vecchio”, proprio per la sua autorevolezza.
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Capitolo 16 - Il Mossad e la salvaguardia di Israele.
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Il Mossad è uno dei servizi segreti più famosi del mondo e sicuramente uno dei più efficienti, se non addirittura il più efficiente e se necessario il più spietato quando si tratta di difendere l’integrità e la sicurezza di Israele. Questa fama è dovuta ad una lunga serie di operazioni compiute all’estero. Da quelle nei Paesi arabi confinanti come l’Egitto, a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, per uccidervi gli scienziati tedeschi ex nazisti che stavano impostando il programma missilistico del presidente Nasser, fino alla caccia in tutta Europa ed alla eliminazione dei guerriglieri palestinesi che alle Olimpiadi di Monaco del 1972 avevano sequestrato e ucciso alcuni atleti israeliani. In Italia, ad esempio, ancora si ricorda l’uccisione nell’ottobre del 1972 di Wail Zwaiter, rappresentante dell’OLP a Roma.
Ma l’operazione più eclatante, soprattutto per il significato che assunse agli occhi degli ebrei di tutto il mondo, fu nel 1960 il rapimento in Argentina e il trasporto via aerea in Israele di Adolf Eichmann, il responsabile organizzativo della deportazione per ferrovia degli ebrei europei nei campi di concentramento e di sterminio. Il processo ad Eichmann, conclusosi con la condanna a morte e l’impiccagione, fece epoca ed attribuì al Mossad la patente di essere un servizio in grado di raggiungere ed eliminare i nemici di Israele in ogni angolo del mondo.
Le azioni del Mossad vennero e vengono ancora oggi favorite in tutto il mondo dalla presenza di numerose comunità ebraiche dislocate in numerosi Paesi del mondo dalle cui fila vengono prelevati agenti occasionali che possono offrire un o logistico, un’auto o un appartamento messi a disposizione, o una consulenza per la loro esperienza in un settore specifico. Si tratta dei cosiddetti
“sayanim” che anche nel caso del sequestro Moro hanno svolto un ruolo essenziale.
Ma nell’ottica della intelligence di Tel Aviv il problema della sicurezza non ha mai potuto essere limitato al contenimento delle volontà di rivalsa dei profughi palestinesi e dei Paesi arabi, ma è stato inteso in una concezione più ampia allargando il raggio di azione a tutti quei Paesi dell’area mediterranea che per le più diverse ragioni o interessi potevano are da un appoggio ad Israele all’interno di una ottica atlantica ad una ostilità vera e propria. L’Italia per la sua posizione geografica e per i suoi interessi politici e strategici si trovava ovviamente in prima linea e veniva tenuta particolarmente sotto controllo per la sua propensione ad assumere una politica autonoma. Il tentativo del Mossad di contattare le Brigate Rosse dell’origine rientra nella strategia di tenere sotto controllo, e possibilmente infiltrare, i movimenti di sinistra dei Paesi europei che in qualche modo minacciavano di procurare non pochi problemi portando migliaia di militanti ad abbracciare posizioni filo-palesinesi e decisamente ostili alla causa di Israele.
Un altro pesante riferimento ad una presenza del Mossad nell’uccisione di Moro viene fatta da Mino Pecorelli che sul numero di OP del 23 maggio si esibisce in una fantasiosa ricostruzione del ritrovamento della Renault con il cadavere del presidente in Via Caetani. Una signora romana, osservando la scena, si esercita in alcune curiose riflessioni sul fatto che oltre il muro di fronte a Palazzo Antici Mattei ci sono le rovine del teatro di Balbo, il terzo anfiteatro di Roma che occupava tutta l’area. La nobildonna, parlando a se stessa, ricorda di avere letto che in epoca romana gli schiavi fuggiaschi e i prigionieri vi venivano condotti perché si massacrassero tra di loro. “Chissà cosa c’era nel destino di Moro perché la sua morte fosse scoperta proprio contro quel muro?”, scrive Pecorelli. Le considerazioni del giornalista e della signora sono state interpretate come un riferimento a Gladio considerato che chi combatteva nel teatro di Balbo erano appunto i “gladiatori”. Ma la spiegazione sembra in verità tirata per le maniche perché il riferimento successivo sembra essere invece molto più preciso. Pensa la nobildonna: “Il sangue di allora è il sangue di oggi, quel sangue ricade anche su di noi”. Una citazione della maledizione lanciata da Moro a quei democristiani che non lo volevano libero. Ma anche un richiamo al famoso o del Vangelo
(Matteo, capitolo 27), nel quale Pilato sorpreso dal fatto che gli ebrei volessero che Gesù fosse crocifisso finì per lavarsi le mani dicendo; “Non sono responsabile di questo sangue” e si sentì rispondere “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli”. Una frase che assunse un significato particolarmente macabro dopo la scoperta del genocidio degli ebrei nella Seconda Guerra Mondiale.
L’attenzione su una possibile prigione di Moro, nella zona del Ghetto di Roma, e su un covo lì delle Brigate Rosse, incominciarono nel settembre del 1978 dopo l’arresto ai primi giorni di luglio di Elfino Mortati, latitante per l’uccisione di un notaio a Prato, una singolare figura che mischiava l’estremismo con la delinquenza comune. Al magistrato che lo interrogava, Mortati rivelò di essere stato in contatto con elementi vicini alle Brigate Rosse durante il sequestro di Moro e di essere stato ospitato a Roma nei suoi quattro mesi di latitanza prima in un appartamento di via dei Bresciani, e poi ospitato da alcuni brigatisti in un appartamento in una zona a ridosso del Ghetto. I due magistrati Rosario Priore e Ferdinando Imposimato finirono per accertare che tale appartamento si trovava proprio all’ingresso del Ghetto in via di Sant’Elena numero 8 ed era stato preso in affitto da Laura Di Nola. Le indagini sulla Di Nola, militante del Partito Radicale, morta nel luglio del 1979, accertarono che la stessa era molto vicina agli ambienti dell’Autonomia Operaia romana, conosceva anzi era amica di diversi esponenti del disciolto Potere Operaio. Ma soprattutto, a detta del marito, si recava spesso in Israele dove aveva lavorato per il Mossad e collaborato all’organizzazione di Simon Wiesenthal, specializzata di dare la caccia in tutto il mondo ai criminali nazisti.
La Di Nola, una “sayan”, peraltro era proprietaria di una casa a Trevignano a nord di Roma, una delle località che durante il sequestro erano state segnalate come luogo della prigione di Moro. Località frequentata da Settimio Cecconi, un ex di Potere Operaio legato alla Braghetti.
D’altra parte gli inquirenti hanno ipotizzato che la prigione dove Moro venne tenuto negli ultimi giorni, sia stata il retrobottega di un negozio di tessuti in
Piazza Paganica adibito alla bisogna e di proprietà del padre di Laura Di Nola.
Del resto sugli abiti di Moro e sul parafango della Renault rossa vennero individuati evidenti frammentini fibra tessile. Oltre che residui di fango che una perizia accertò essere di provenienza di una zona ex vulcanica, quale era appunto quella intorno al lago di Bracciano dove si trova Trevignano.
Da parte sua Pecorelli aveva aggiunto un altro tassello al suo puzzle volutamente oscuro ed allusivo. In un numero di OP dell’ottobre 1978 scrisse che durante i 55 giorni del sequestro era stato un generale (Dalla Chiesa indicato come Amen) a dire a sco Cossiga, Ministro degli Interni, che “Moro era tenuto prigioniero dalle parti del Ghetto”. Una altra traccia che portava nel Ghetto venne ritrovata nel covo brigatista di Via Gradoli. Una chiave di una vettura Jaguar, appena venduta, e di un talloncino di carta che riportavano il nome di Bruno Sermoneta, un commerciante che gestiva un negozio di biancheria e tappeti con doppio ingresso in via Arenula e in via delle Zoccolette, sempre quindi nel Ghetto ebraico.
Le indagini in ogni caso andarono avanti in maniera disordinata tra segnalazioni vere e false e suggerimenti ad andare a curiosare in questo o quel posto. A dimostrazione che c’era chi lavorava per trovare e liberare Moro e chi non voleva che ciò succedesse. Soprattutto a indirizzare le indagini contribuivano anche le veline di Pecorelli, che aveva parlato di un o carraio con due leoni situato appunto nella zona del Ghetto da dove sarebbe transitata la Renault rossa con il cadavere di Moro. Come a voler dire che in quel palazzo c’era la vera prigione di Moro. Le indagini si indirizzarono così su via Monte Savello, dove al numero 30 c’era un o carraio con accesso a palazzo Orsini da cui si arrivava a un garage. È appena il caso di notare che la porta di accesso al Palazzo in Via di Monte Savello è sormontata da due orsi, emblema degli Orsini. Il che nel linguaggio di Pecorelli potrebbe essere un messaggio cifrato. Peraltro lo stesso Morucci nelle sue dichiarazioni ha fatto diversi ed ambigui riferimenti a Via di Monte Savello quando ha descritto la strada percorsa dalla Renault Rossa proveniente da Via Montalcini, alla quale all’altezza del Tevere lui si era
affiancato con un’altra auto per poi dirigersi a Via Caetani.
Durante il sequestro, al colonnello Demetrio Cogliandro del Sismi arrivò una segnalazione su un ruolo nel sequestro di tale Igor Caetani e di conseguenza di andare ad indagare nell’omonima via. Quello che si riuscì ad accertare era che esisteva semmai un Igor Markevitch (vedi il capitolo 11.3).
Dopo il ritrovamento del cadavere di Moro, gli investigatori poterono accertare che c’era un altro o carraio al numero 32 di Palazzo Antici Mattei ed un altro in Via dei Funari numero 31 per i quali la Renault rossa avrebbe potuto transitare. Allo stesso modo c’è un altro o carraio in via delle Botteghe Oscure numero 32 nell’attiguo Palazzo Caetani dove c’erano diverse sedi diplomatiche coperte da immunità territoriale. Peraltro c’è da osservare che anche Palazzo Orsini è attaccato alle rovine di un Teatro, quello di Marcello, nel quale combattevano i “gladiatori”. A dimostrazione che Pecorelli, oltre a tutto il resto che gli è costato la vita, amava fare un ricorso estremo alle allusioni ed ai giochi di parole.
C’è comunque un altro sconcertante episodio che ricollega l’attività delle Brigate Rosse al Ghetto di Roma. Il 12 dicembre 1980, potenza dei ricorsi, le BR rapirono Giovanni D’Urso, direttore generale della Divisione Carceri del Ministero della Giustizia. L’alto funzionario venne fatto ritrovare il 15 gennaio successivo, legato dentro un auto lasciata parcheggiata in Via del Portico di Ottavia, proprio nel cuore del Ghetto. Un’operazione che venne gestita dal solito Mario Moretti unitamente a Giovanni Senzani, leader in ascesa delle BR, e che come scenario ultimo ebbe la stessa zona della vicenda Moro.
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Capitolo 17 - Gli strani covi romani.
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La storia dei covi romani delle Brigate Rosse operativi durante i giorni del sequestro Moro, è esemplare per evidenziare tutte le zone d’ombra che hanno caratterizzato la vicenda. I due covi più conosciuti sono quello di Via Gradoli 96, una traversa della Via Cassia e quello di via Camillo Montalcini 8 al Portuense. Altri due covi erano quello di Via Salvini nel quartiere di Monte Sacro ed un altro in Via Chiabrera nel quartiere di San Paolo in prossimità della omonima basilica.
Via Gradoli
Nell’appartamento di Via Gradoli, dove aveva abitato anche Valerio Morucci, al momento di Via Fani, risiedevano Mario Moretti (sotto l’identità di “ingegner Borghi”) e Barbara Balzerani. La scoperta del covo, che in quel momento era vuoto, con l’irruzione della polizia che forzò la porta per entrare, fu determinata dalla famosa perdita d’acqua sulla quale in molti si sono esercitati. Ma è un punto fondamentale per cercare di comprendere le dinamiche del sequestro. Quando la televisione dette la notizia, la Balzerani si trovava nel covo di Via Chiabrera insieme ai due brigatisti che vi risiedevano abitualmente e cioè, Valerio Morucci e Adriana Faranda. Secondo il loro racconto la Balzerani sbiancò in volto vedendo le riprese dell’interno dell’appartamento dove si trovava poche ore prima.
Quanto a Moretti quella mattina era partito in treno per una località del Nord Italia per incontrarvi altri brigatisti. Sulla destinazione il capo brigatista è stato
quanto mai vago giocando allo smemorato e parlando in un primo tempo di Firenze per poi ripiegare su Rapallo. Secondo schini, il capo brigatista non aveva voluto bruciare la struttura fiorentina che invece, con Giovanni Senzani, avrebbe svolto un ruolo di rilievo nel sequestro. C’è da sottolineare infatti che è poco credibile che Moretti non si ricordi cosa stesse facendo il giorno in cui la polizia fece irruzione in casa sua, obbligandolo a scegliere un’altra sistemazione e continuare a gestire in prima persona il sequestro come se nulla fosse successo. Peraltro Via Gradoli era diventata un posto a rischio dopo la famosa segnalazione originata dalla seduta spiritica a cui aveva partecipato Prodi il 2 aprile e che aveva spinto le forze dell’ordine a fare irruzione in forze il 6 aprile nel paese di Gradoli, in provincia di Viterbo alla ricerca della prigione dove era detenuto Moro. Se nella testa di Moretti, dopo il raid nel viterbese, non era suonato il classico camlo d’allarme, vuol dire che il capo brigatista si sentiva perfettamente tranquillo che nessuno sarebbe mai venuto a cercarlo lì.
La scoperta del covo di Via Gradoli coincise con il famoso e falso comunicato delle BR con cui si comunicava che il corpo di Moro giaceva sul fondo del Lago della Duchessa. Un comunicato che secondo le ultime rivelazioni di Steve Pieczenik, assoldato all’epoca come consulente del Viminale, in un comitato ad hoc per gestire l’emergenza sorta con il sequestro, sarebbe stato il frutto di un suo suggerimento per fare saltare i nervi ai brigatisti, condurli alla morte di Moro e stabilizzare la situazione italiana. Tanto è vero che il 20 aprile, due giorni dopo, le BR diedero l’ultimatum allo Stato che rispose di non volere e di non poter trattare.
Peraltro, oltre all’interrogativo se sia una coincidenza che lo stesso giorno si scopra Via Gradoli ed arrivi il falso comunicato, si può rilevare il significato simbolico del 18 aprile, il giorno che per la DC rappresentò la vittoria alle elezioni politiche del 1948 e l’inizio della sua occupazione quarantennale del potere. Un altro particolare curioso è che in quei mesi, a via Gradoli al numero civico 89, abitava Arcangelo Montani, un sottufficiale dei carabinieri ed al tempo stesso agente del SISMI, nato anche lui come Mario Moretti a Porto San Giorgio e quindi, presumibilmente, in grado di riconoscerlo.
Via Montalcini
L’appartamento di via Montalcini che per 55 giorni rappresentò la prigione ufficiale di Moro venne acquistato l’anno precedente da Anna Laura Braghetti, già militante di Potere Operaio, con soldi fornitigli dall’organizzazione brigatista. Insieme alla Braghetti vi risiedevano Prospero Gallinari e Germano Maccari, anche lui un ex militante di Potop e molto legato a Valerio Morucci che lo aveva reclutato proprio con il compito di fare di notte la guardia al prigioniero salvo poi di giorno presentarsi regolarmente al lavoro. Era stato lo stesso Maccari a firmare il contratto per la fornitura di elettricità con l’Enel firmandosi come ingegner Altobelli, tanto che fu una perizia calligrafica ad incastrarlo.
Ma pure su Via Montalcini ci sono molte cose che non tornano. Innanzi tutto c’è il fatto che il covo, che l’anno dopo venne venduto dalla Braghetti, salì agli onori delle cronache soltanto qualche anno dopo, in seguito alle ammissioni dei dissociati Valerio Morucci e Adriana Faranda. Ma che esso abbia costituito l’unica prigione in cui è stato tenuto prigioniero Moro è molto difficile da sostenere. I motivi sono molteplici e due di essi si legano all’uccisione del politico democristiano. L’autopsia ha infatti accertato che Moro è stato ucciso al massimo due ore prima del ritrovamento della Renault rossa a Via Caetani intorno alle 13. Mentre i brigatisti hanno sostenuto che Moro è stato ucciso tra le sei e le sette di mattina nel box in cui l’auto era parcheggiata. L’autopsia ha anche accertato che il cadavere non presentava quelle caratteristiche di un principio di atrofizzazione degli arti minori tipico di chi è obbligato a vivere in uno spazio molto angusto, come era la presunta prigione ricavata nell’appartamento. Peraltro il corpo denotava una particolare pulizia personale che per nulla si concilia con le dichiarazioni dei brigatisti per i quali Moro si lavava esclusivamente con un catino che i suoi carcerieri gli portavano di volta in volta.
È poi difficile accettare l’idea che se un auto rossa è uscita da Via Montalcini di prima mattina per andare a Via Caetani nessuno la abbia notata e nessuno abbia
segnalato alle forze dell’ordine di avere visto lo stesso tipo di macchina che era stata mostrata centinaia di volte in televisione. Sull’appartamento di Via Montalcini circola peraltro una sorta di leggenda metropolitana in virtù della quale l’appartamento era stato collocato appositamente in quella zona perché essa era “controllata” da esponenti della Banda della Magliana che abitavano numerosi nei dintorni e che di conseguenza avrebbero costruito un cordone sanitario protettivo intorno al covo e alla prigione. Tale tesi non sta però in piedi se solo si considera che sono ben poche le persone in una grande città che conoscono gli abitanti della palazzina di fronte e addirittura a volte ignorano l’identità dei propri condomini. E poi Via Montalcini si trova in una zona residenziale del quartiere Portuense e non alla Magliana che come quartiere popolare può vantare un maggiore coesione sociale e l’esistenza di vincoli di solidarietà tra gli abitanti. Il fatto poi che ambienti della DC che volevano la liberazione di Moro abbiano contattato esponenti della Banda della Magliana per ottenere notizie su una possibile prigione cambia poco. Allo stesso modo ha poca rilevanza, anzi sembra una infantile vanteria, che un esponente del gruppo criminale, peraltro ucciso dai suoi soci, abbia dichiarato di averla individuata, ma che poi era arrivato l’ordine di fermarsi perché c’erano altri settori che operavano perché Moro non venisse liberato ma che anzi venisse ucciso.
Via Chiabrera
Semmai c’è un altro covo romano delle Brigate Rosse che appare legato alla Banda della Magliana ed è quello di Via Chiabrera. Questo perché nella stessa strada c’era un bar nel quale i membri della Banda si ritrovavano ogni giorno per trattare affari e che era una sorta di loro quartiere generale. Una strada nel quale le forze di polizia non si avventuravano perché alcuni agenti del commissariato di zona, poi sanzionati per questo, erano sul libro paga della banda. Via Chiabrera era quindi una sorta di porto franco per permettere ai malavitosi di realizzare i propri traffici e di riflesso lo era anche per i brigatisti rossi. È comunque interessante ricordare che fu proprio in Via Chiabrera che l’8 maggio 1978 ci fu una riunione nella quale Mario Moretti comunicò ai capi colonna delle BR romane la decisione dell’esecutivo dell’organizzazione di uccidere Moro. Dal punto di vista operativo era quindi un covo importante proprio perché in esso si gestiva sul piano romano la dinamica del sequestro. Vi è poi un aspetto
curioso che riguarda certi silenzi ed omissioni su Via Chiabrera che in una vicenda così complicata come il sequestro Moro possono suscitare più di un interrogativo e di un sospetto. Nel suo libro di memorie “L’anno della tigre”, Adriana Faranda è generosa di particolari verso i covi di via Montalcini e Via Gradoli indicati più volte con il numero civico, ma è invece avara con Via Chiabrera per il quale esso appare un particolare privo di importanza. Una omissione che solleva più di un dubbio visto che la brigatista vi ha abitato per diversi mesi.
In ogni caso, tornando a Via Montalcini, l’aspetto più sconcertante è che tutti e quattro i brigatisti che secondo la versione ufficiale erano presenti in Via Montalcini, e cioè Braghetti, Gallinari, Moretti e Maccari, hanno fornito versioni contraddittorie ed incompatibili le une con le altre sull’arrivo della vettura che portava il rapito dalla Standa dei Colli Portuensi al covo prigione. Valerio Morucci da parte sua ha sempre sostenuto di non essere mai stato in Via Montalcini ed anche di non aver mai saputo durante i giorni del sequestro che la prigione di Moro si trovasse lì. Tutto questo per motivi di compartimentazione e di sicurezza. Un’affermazione difficile da accettare visto che uno dei carcerieri “ufficiali” era Maccari, quindi un suo amico intimo di vecchia data. Morucci ha spiegato che dopo la strage di Via Fani il suo compito si esaurì nel portare unitamente a Moretti il furgone con Moro nel parcheggio della Standa e caricarlo sulla Citroen Ami 4 della Braghetti, che veniva parcheggiata abitualmente nel garage di Via Montalcini dove la notte dell’8 maggio sarebbe stata sostituita dalla Renault rossa rubata. Ugualmente contraddittorie ed incompatibili le une con le altre, ma anche con la logica sono le ricostruzioni sull’uccisione di Moro e sul suo trasporto con la Renault rossa a Via Caetani dove l’auto venne rinvenuta per l’ultimo atto della sceneggiata.
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Capitolo 18 - L’ultima fase.
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Gli ultimi carcerieri
Se Moro non venne tenuto prigioniero sempre nello stesso posto, e se il covo di Via Montalcini fu probabilmente soltanto un carcere provvisorio, resta l’interrogativo di quale fu l’ultima prigione e di quali furono i suoi ultimi carcerieri. Se questi erano persone di fiducia di Moretti che gli aveva consegnato il prigioniero e se il loro nome non è mai emerso, ne consegue che non erano conosciuti dagli altri brigatisti che avevano partecipato al sequestro. Secondo l’autopsia, al momento dell’uccisione il fisico di Moro si trovava in buone condizioni fatto che mal si concilia con la presunta detenzione in un luogo angusto come era la prigione di Via Montalcini.
Il punto centrale è che, per motivi logistici e di prudenza, il luogo di detenzione di Moro dovesse essere per forza di cose nella zona in cui la Renault 4 venne ritrovata. Unito a questo c’era la necessità di disporre di basi di appoggio e di persone fidate nei dintorni per attivare una rete di copertura. E a questo potevano risultare utili i legami con gli ex militanti di Potere Operaio residenti in zona e legati in qualche maniera al Mossad che, a differenza di Morucci, non potevano che perseguire la morte di Moro piuttosto che la sua liberazione. Fatta questa considerazione ne deriva che nel sequestro Moro intervennero diverse persone e diverse strutture che fino ad un certo punto collaborarono insieme, salvo da un certo punto in poi, assumere il ruolo che gli era stato assegnato all’insaputa dei compagni occasionali.
Quello che si deve capire è che in quei 55 giorni si svolse un sottilissimo gioco delle parti nel quale molti dei protagonisti, specie i brigatisti in “buona fede” che pensavano di stare compiendo una guerra rivoluzionaria, non si resero conto di quello che stava veramente succedendo.
Gli interrogatori a cui venne sottoposto Moro durante il sequestro, la rivelazione di segreti di Stato, tipo quelli sulla NATO e su Gladio, dei quali non si trovarono traccia tra le carte ufficialmente sequestrate ai brigatisti di Via Monte Nevoso a Milano, rappresentarono per Moretti una carta da giocare con i suoi referenti di oltre frontiera. Sia quelli atlantici che quelli sovietici. E la cosa non deve sembrare contraddittoria. Ai sovietici, infatti, del KGB importava poco di sapere dell’esistenza di Gladio che era un segreto di Pulcinella. Semmai gli interessavano notizie di prima mano sulla NATO. È stato lo stesso capo del KGB Vladimir Kriuchkov ad ammettere, nell’estate del 1990 in un incontro con il capo del SISMI, Fulvio Martini, che Mosca non voleva il PCI al governo e che di conseguenza non aveva alcuna intenzione di destabilizzare l’Italia. Da parte nostra, spiegava Kriuchkov, abbiamo sempre rispettato gli accordi di Jalta.
La trattativa per la liberazione
Il giornalista Giovanni Fasanella ha riferito di una confidenza di Claudio Signorile, che nel 1978 era vice segretario del PSI. La mattina del 9 maggio era con Cossiga al Viminale. I due politici stavano aspettando che arrivasse la notizia della liberazione di Aldo Moro. Al Ministro degli Interni venne invece comunicata la notizia della intercettazione della telefonata di Valerio Morucci al professor Franco Tritto, assistente di Moro all’Università, con la quale si annunciava che a Via Caetani c’era una Renault rossa con il cadavere del rapito nel bagagliaio. Secondo quanto riferisce Signorile, Cossiga impallidì e mormorò sconsolato qualcosa di molto simile a: “Mi hanno fregato”.
Una frase che rappresenta la conferma del fatto che una trattativa era in corso attraverso canali ultrasegreti e che grazie ad essa erano state attivate diverse
strutture di intelligence, tali da rendere sicuro Cossiga di una conclusione positiva del sequestro, nonostante le BR con diversi comunicati avessero ribadito in precedenza la loro volontà, e quella della struttura che li dirigeva, di uccidere Moro. Il primo punto da appurare resta però quello della contropartita chiesta dai brigatisti e dai loro mentori, sempre che la richiesta di tale contropartita fosse reale o invece un semplice cortina di fumo. La seconda questione è quella di identificare la persona attraverso la quale ava questa trattativa, insomma chi era l’intermediario ed in base a quali logiche era stato scelto. Dopo la morte di Moro, Cossiga si dimise da Ministro degli Interni per non essere stato in grado di salvare il suo maestro politico. In seguito, a causa della sofferenza, subì un travaglio psico-fisico che lo segnò profondamente. Agli osservatori più attenti, l’uomo politico sardo ha però sempre dato l’idea di avere un quadro chiarissimo di quello che è successo durante quei 55 giorni. Un’idea chiarissima di quali erano le forze e gli interessi in gioco a livello internazionale (statunitensi, sovietici ed israeliani) e del perché il sequestro abbia avuto quel tragico epilogo. Ma allo stesso tempo Cossiga, che ha rapporti molto stretti con gli ambienti politici e culturali statunitensi e tedeschi, si è reso conto di non poterlo dire ancora a distanza di più di 30 anni. Sarebbe infatti davvero imbarazzante dover ammettere che l’intelligence di una Nazione amica, o legata al nostro Paese da profondi legami economici, abbia operato nell’ombra per fare uccidere un uomo politico italiano di rilievo. Da qui nasce l’insistenza di Cossiga per un generale colpo di spugna sull’Italia degli anni di piombo. Un’amnistia generale che coinvolga terroristi rossi e neri, ad incominciare da quelli responsabili di numerosi omicidi. Sul tipo di quella che Togliatti, Ministro della Giustizia, nel 1946, prima del referendum istituzionale e delle elezioni per l’Assemblea Costituente, varò per i fascisti ed i partigiani responsabili di reati gravi durante gli anni della guerra civile.
Cossiga ha giustificato la sua proposta spiegando che nelle vicende del terrorismo brigatista tutto è ormai chiaro e che non ci sono segreti da nascondere. Ad incominciare dal caso Moro. L’ex Picconatore ha ribadito che a suo avviso le BR erano un fenomeno squisitamente italiano, non erano una struttura gestita da centrali occulte all’estero, non erano insomma etero dirette, ma si muovevano ed agivano in maniera autonoma. Erano rivoluzionari autentici, ha concesso Cossiga, e lo Stato ha combattuto contro di loro una lunga e sanguinosa guerra. Ma erano in buona fede perché le loro istanze di cambiamento nascevano da una cultura politica, quella del vecchio PCI,
fortemente radicata in vasti strati della popolazione. Seguivano un sogno rivoluzionario, hanno sbagliato le loro analisi e le loro azioni sono da deplorare perché hanno sparso sangue e dolore, ma sono ormai ati tanti anni e si deve voltare pagina. Un discorso di pacificazione nazionale nel quale Cossiga ha voluto includere anche gli esponenti del terrorismo nero dei NAR, in particolare Giusva Fioravanti e sca Mambro, dei quali non manca mai l’occasione di proclamare l’innocenza, nonostante la condanna definitiva in Cassazione, per la strage alla stazione di Bologna. Una scelta, però, con la quale Cossiga sembra anche lui voler stendere un velo pietoso sulle vicende del ato ed imporre una chiave di lettura storica che sia accettata da tutti e che risulti tranquillizzante per le coscienze di chi ne è stato protagonista.
Ma chi è entrato nella trattativa? Cossiga, che per le cariche che ha ricoperto e per interesse personale, è un grande esperto di problemi di intelligence, ha raccontato al senatore Giovanni Pellegrino, Presidente della Commissione Stragi, che durante il sequestro Moro, ebbe un colloquio con Markus Wolf (1923-2006), detto “Misha” il leggendario capo del HVA (Hauptver Waltung Aufklärung), il servizio segreto per lo spionaggio all’estero, della DDR, la Germania comunista. Wolf lo avrebbe rassicurato, dicendogli che il Mossad, il servizio segreto israeliano, avrebbe liberato Moro. I legami con il Mossad derivavano dal fatto che Wolf apparteneva ad una famiglia ebrea tedesca perseguitata dai nazisti e fuggita in Unione Sovietica. Un’appartenenza che non avrebbe permesso a Wolf di fare carriera in quanto costituiva un handicap nella DDR, ma che Wolf seppe compensare con qualità operative che lo resero indispensabile e che facevano di lui un autentico maestro. Una figura mitica e leggendaria e tale da essere adombrata in molti romanzi di spionaggio scritti in Occidente.
Dopo la riunificazione tedesca Wolf venne processato dal governo di Bonn per spionaggio e tradimento. Poi rendendosi conto dell’enormità che stavano facendo in quanto processavano un funzionario di un ex Stato sovrano, i giudici lo assolsero salvo infliggergli una condanna proforma di due anni, mai scontati, per corresponsabilità nella morte di cittadini tedesco orientali che fuggivano in occidente. In quel periodo, quando crollò il Muro di Berlino e la Germania si riunificò, Wolf ricevette delle offerte dal governo israeliano per stabilirsi in
Israele e mettere la sua esperienza a favore di Tel Aviv e del Mossad. Un’offerta, alla quale se ne aggiunse una analoga degli USA. che la dice lunga sulla generale considerazione di cui Wolf godeva negli ambienti della intelligence e sul fatto che l’impegno preso con Cossiga presupponeva legami di antica data con Israele e tali da poter essere attivati in ogni momento. Legami tali da portare ad un accoglimento se non proprio della richiesta di liberazione di Moro quanto meno di un interessamento per una svolta positiva. Ma se nemmeno il mitico Misha fu in grado di intervenire a favore di Moro, significa che gli interessi in gioco erano tali da soverchiare qualsiasi intervento esterno sia pure fosse di quella rilevanza.
A fronte di taluni ambienti ufficiali dell’apparato istituzionale italiano che si stavano attivando per la liberazione di Moro, quelli che nel SISMI erano rimasti legati alla vecchia gestione filo palestinese di Vito Miceli (e del suo uomo di fiducia (Stefano Giovannone), ce ne erano invece altri che, in una logica atlantica si muovevano in direzione opposta. Esemplare in tal senso appare la richiesta fatta da ambienti democristiani a Cosa Nostra di dare una mano per trovare la prigione di Moro, una richiesta che fu inoltrata a Stefano Bontate che all’epoca era la figura più autorevole delle cosche siciliane. Una collaborazione nella quale venne coinvolta anche la Banda della Magliana e che si interruppe quando, così raccontano alcuni pentiti, pervennero richieste di tutt’altro tenore e che chiedevano di non fare nulla. Pippo Calò, rappresentante di Cosa Nostra a Roma, avrebbe, infatti, detto a Bontate: “Ma non lo capisci che sono i suoi stessi colleghi di partito che lo vogliono morto?”.
Da parte loro i familiari di Moro cercarono di attivare attraverso il colonnello Giovannone i canali da lui già stabiliti con gli ambienti palestinesi e tramite questi arrivare ai brigatisti. Qualcuno della famiglia si recò addirittura in Siria per cercare di attivare i giusti contatti, ma dalle difficoltà incontrate ebbe la sensazioni che qualcuno, a livello di governo, avesse sabotato l’iniziativa. Da qui si sarebbe originato il rancore della famiglia Moro, in particolare del figlio Giovanni, nei riguardi di Andreotti e di Cossiga. Pure quello delle iniziative della famiglia Moro durante il sequestro è una storia ancora tutta da scrivere. È stato accertato, lo ha detto Cossiga, che Don Antonello Mennini, il sacerdote amico di famiglia dei Moro, incontrò almeno una volta il prigioniero nel luogo
dove era tenuto e che gli somministrò pure la comunione. Oggi Mennini risiede a Mosca dove ricopre l’incarico di nunzio apostolico, cioè di ambasciatore del Vaticano in Russia.
La stessa famiglia rimase comunque interdetta quando Paolo VI, nel corso della tradizionale benedizione della domenica alla folla in Piazza San Pietro, si rivolse alle Brigate Rosse chiedendo la liberazione di Moro “senza condizioni”. Una iniziativa curiosa quella di Montini che contribuì a mettere una pietra tombale sulla possibilità di uno scambio di prigionieri, come era stato richiesto nei primi comunicati, unito ad un riconoscimento delle BR da parte dello Stato, come interlocutore politico.
Una iniziativa incomprensibile se solo si pensa al rapporto di affetto quasi paterno che legava Montini a Moro e che risaliva ai tempi della FUCI, l’organizzazione degli universitari cattolici. Un legame così intenso che contribuì all’aggravarsi delle condizioni di salute del Papa che infatti si può dire che morì di crepacuore di lì a poco, il 6 agosto successivo.
Resta così l’interrogativo su quali persone e in che termini gestirono la trattativa e sul perché politici esperti come Cossiga furono tratti in inganno. Politici in grado di comprendere dalle sfumature di una frase o dall’uso di una parola al posto di una altra che una trappola era dietro l’angolo.
Lo stesso Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos, il guerrigliero venezuelano attualmente in carcere in Francia per terrorismo, dichiarò nel giugno 2008 all’agenzia ANSA che, nonostante il divieto del governo, i servizi segreti italiani trattarono con esponenti delle Brigate Rosse il rilascio di Aldo Moro in cambio della scarcerazione di alcuni brigatisti. E che la trattativa fallì nella notte precedente al giorno dell’omicidio. Una tesi che coincide con quanto dichiarato da Signorile.
L’ammiraglio Fulvio Martini, numero due del Sismi all’epoca, ha rivelato che in quelli ultimi giorni, oltre al pagamento di un riscatto, era in atto una complessa azione per la liberazione di Moro attraverso lo scambio tra esponenti della RAF prigionieri in Jugoslavia e detenuti BR detenuti in Italia. Lo stesso Martini andò in Jugoslavia per prendere in carico gli uomini della RAF e portarli a Beirut, dove un aereo dei servizi segreti italiani (secondo Carlos a bordo c’era il colonnello Stefano Giovannone) aspettava in un angolo appartato dello scalo. La destinazione finale era lo Yemen, da dove agiva lo stesso Carlos. Ma poi qualcosa saltò.
Il democristiano Franco Mazzola, che all’epoca era sottosegretario alla Difesa, ha aggiunto qualche particolare a tale vicenda affermando che se il governo diceva di non poter trattare alla fine poi trattavano tutti: la DC, il Papa, la Caritas. E che se il maresciallo Tito si prestava ad un’operazione del genere, lo faceva con l’accordo del governo italiano. Agnese Moro ha rivelato che a un certo punto si parlò anche di un possibile espatrio di suo padre, in cambio della liberazione dei brigatisti detenuti o degli uomini della RAF. Qualcuno ne parlò alla famiglia, ma Agnese non ricorda se furono politici, magistrati o qualcuno dei servizi, in ogni caso era un’ipotesi fatta anche dal padre nelle lettere. Nelle quali affermava di voler lasciare la vita politica se mai lo avessero liberato.
Don Pasquale Macchi, segretario di Paolo VI, tramite un intermediario aveva messo in piedi una trattativa con le BR per la quale Moro libero si sarebbe fatto portare da Don Antonello Mennini in Vaticano e lì, preso in custodia di una commissione internazionale indipendente, composta dalla Croce Rossa Internazionale, la Mezza Luna Rossa algerina e altri soggetti, avrebbe aspettato la definizione di una trattativa tra governo italiano e BR. Per Corrado Guerzoni, a lungo capo della segreteria di Moro, le BR non hanno fatto tutto da sole ma “hanno gestito un appalto”.
Mentre per Sereno Freato, uno dei più stretti collaboratori del presidente della DC, a cambiare le tutte le carte in tavola, arrivò un ordine dall’alto. L’ipotesi è che Moro sia stato liberato dalle BR e consegnato a persone non meglio
identificate, a qualche struttura delle istituzioni o dei servizi segreti internazionali. Lo stesso Cossiga, nel corso di una audizione in commissione Stragi nel 1997, rivelò che anche Andreotti, la sera dell’8 maggio, sperava in una soluzione positiva.
Claudio Signorile che era in contatto con gli ex dirigenti di Potere Operaio, Lanfranco Pace e Franco Piperno e quindi indirettamente con Morucci, ha ribadito che “tutto si giocò nelle ultime 48 ore e nell’ultima notte”, quella tra l’8 e il 9 maggio del 1978. A suo avviso le BR rapirono Moro in autonomia, secondo una loro logica, ma senza l’intenzione di ucciderlo: ne é prova il fatto che lo interrogassero a volto coperto. Ma dopo pochi giorni il sequestro cambiò di significato, naturale quindi anche la conclusione fu diversa.
La mattina del 9 maggio il Presidente della Repubblica Leone doveva firmare un provvedimento di clemenza a favore di Alberto Buonoconto, militante dei NAP con gravi problemi di salute e per la brigatista Paola Besuschio. E la stessa mattina il presidente del Senato Fanfani avrebbe pronunciato un discorso alla direzione nazionale della DC, che di fatto avrebbe aperto una crisi politica e forse anche di governo, allineandosi contro la linea della fermezza, sostenuta dal PCI, e spingendo la DC a sposare la linea della trattativa, proposta dal PSI di Bettino Craxi. Cossiga ebbe in seguito a dire che le BR non si resero conto di avere vinto e che potevano di conseguenza liberare Moro.
Che una trattativa “seria” fosse in atto è dimostrato anche da una telefonata intercettata dalla polizia la mattina del 9 maggio tra Eleonora Moro e Sereno Freato con la prima che rivolta al secondo, quando però il marito era già stato ucciso, diceva: “Se si riuscisse a comunicare con questa gente e a dirgli, diciamo così: ridatecelo, che non gli permetteremo di dare più fastidio nel mondo”. Frase che detonerebbe che Moro, che già aveva detto di voler abbandonare la DC e di stracciarne la tessera, avrebbe addirittura fatto sapere di essere intenzionato a ritirarsi a vita privata.
Il ruolo di Markevitch
Il direttore di orchestra russo naturalizzato italiano, Igor Markevich (nato a Kiev nel 1912 e morto in Francia ad Antibes nel marzo del 1983) entra prepotentemente nella vicenda Moro quando alcuni agenti del SISMI vengono incaricati di indagare su un certo Igor Caetani che avrebbe avuto un qualche ruolo nel sequestro e che per questo motivo si recano in Via Caetani. È il colonnello del SISMI, Demetrio Cogliandro, a muoversi utilizzando una informativa del suo sottoposto, il capitano Antonio Fattorini. L’aspetto interessante è che Fattorini era conosciuto come molto vicino al Mossad. È quindi gioco forza pensare che siano stati gli stessi israeliani a fare pervenire a Cogliandro quella informazione.
A via Caetani il primo maggio 1978 vengono quindi mandati due agenti, Antonio Ruvolo e Giuseppe Corrado, che accertano diverse cose. Non esiste alcun Igor Caetani, ma esiste un Igor Markevitch che ha sposato nel 1948 Topazia Caetani dalla quale si è poi separato, che era la figlia unica di Michelangelo Caetani e che era morta nel 1977.
Il proprietario di buona parte di Palazzo Caetani e anche dell’Oasi di Ninfa con relativo castello era invece in quell’anno l’americano Hubert Howard, vedovo di Lelia Caetani, cugina di Topazia. Interessante era la circostanza che durante la guerra a Firenze, Howard e Markevitch si erano frequentati lavorando il primo per l’OSS, i servizi segreti statunitensi, e Markevitch per i GAP, i partigiani comunisti. I due futuri cognati avevano collaborato nella Firenze occupata dai nazisti per la salvezza dei tesori della città. I due agenti del SISMI si recano anche a Ninfa dove viveva Howard, ma non riuscirono ad ottenere che poche informazioni, come che Howard e Markevitch, parenti acquisiti, si frequentavano ormai molto poco. In ogni caso le indagini si bloccarono per colpa di un non meglio identificato “ordine superiore”, molto probabilmente impartito dal superiore di Cogliandro, il capo del SISMI Giuseppe Santovito (uno dei tanti militari “atlantici” iscritto alla Loggia P2), ed ai due agenti, non restò che abbandonare la pista che avevano imboccato.
In seguito, nell’ottobre dello stesso anno il nome di Markevitch riemerse negli ambienti del Senato, sempre come Igor Caetani, come persona che aveva avuto un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle Brigate Rosse e che avrebbe condotto tutti gli interrogatori di Moro. Da lì a tornare su Igor Markevitch il o fu breve. Ma quello che i servizi vollero o poterono accertare furono fatti risaputi, come che era un famoso direttore d’orchestra, nato in Russia e diventato cittadino italiano dopo il matrimonio con Topazia Caetani.
Verso la fine degli anni Novanta, fu il dissociato Valerio Morucci a parlare, per sentito dire, della presenza alle riunioni del Comitato Esecutivo delle Brigate Rosse, che si teneva a Firenze, di un personaggio di primissimo piano. Morucci parlò di un “anfitrione”, un personaggio misterioso che aveva messo a disposizione delle Brigate Rosse per le loro riunioni la sua villa vicino a Firenze. Dalle indagini emerse che questa persona poteva essere appunto Markevitch.
Il presidente della commissione stragi, Giovanni Pellegrino, affidò una indagine ad uno dei migliori elementi del ROS dei Carabinieri, il maggiore Massimo Giraudo che accertò tutta la serie di relazioni che Markevitch aveva avuto tra Italia, Francia, Unione Sovietica e Israele. Pellegrino in base alle sue conoscenze ha finito per attribuire al direttore d’orchestra il ruolo di “semplice” intermediario, in fondo lo stesso che aveva ricoperto durante l’occupazione tedesca. Un intermediario per arrivare alla liberazione di Moro. Ma come spesso succede, tutto in Italia appare confuso con persone diverse che entrano in gioco e sembrano svolgere ruoli diversi. Era stato comunque il comunicato numero 4 delle Brigate Rosse a fare un riferimento preciso alla discesa in campo di “misteriosi intermediari”.
Ma perché proprio Markevitch, un direttore d’orchestra. un artista cosmopolita di idee comuniste, ricevuto a corte dai reali inglesi, decorato dalla Francia con la Légion d’Onore, un russo in contatto con la sede parigina del KGB, ben accolto a Mosca e a Praga e nella Germania comunista, e al tempo stesso un fervente amico di Israele? Un uomo che era fuggito con la famiglia dalla Russia dove era
scoppiata la Rivoluzione del 1917.
Alla sua figura è stato dedicato un libro: “Il misterioso intermediario” di Giovanni Fasanella nel quale, pur avendo tracciato uno scenario più che interessante e verosimile, gli interrogativi finiscono per rimanere senza risposta. Markevitch era quindi un uomo dalle vaste relazioni internazionali. Notori erano i suoi rapporti con lo Stato di Israele nel quale aveva pure soggiornato negli anni cinquanta, tornandone a dir poco entusiasta, ma all’inizio degli anni sessanta aveva ripreso i rapporti pure con l’Unione Sovietica inviandovi il figlio Oleg a studiarvi musica. Durante la guerra era stato molto vicino ai partigiani comunisti fiorentini e questo gli aveva permesso di stabilire rapporti con gli ambienti del PCI. Ma anche con tutto quel mondo “liberal” di simpatie e di cultura anglosassone, legato agli ambienti ruotanti attorno a Benedetto Croce e che già nel periodo 1943-1945 avevano avuto rapporti con i servizi segreti inglese e americano. Il genero di Croce, Raimondo Craveri, era il capo dell’ORI, il servizio segreto della Resistenza.
Sia Pellegrino che Fasanella, il primo per le sue conclusioni, il secondo per il suo libro, si attirarono non pochi attacchi e accuse che per Pellegrino erano soprattutto quelle di sprecare soldi pubblici per appurare il nulla. Per Fasanella di giocare troppo con la fantasia, visto che nel sequestro Moro tutto era da ritenersi ormai chiaro.
La persona che in questa vicenda ha riservato ancora un’altra e più grande sorpresa è stato sco Cossiga che in una intervista del novembre 2007 sul Corriere della Sera è arrivato ad affermare che Igor Markevitch, ospitò probabilmente nella sua casa di Firenze la riunione in cui venne decisa la morte di Moro. Precisando inoltre, che la casa della ex moglie in via Caetani rappresentò per i brigatisti soltanto un punto di riferimento, un luogo conosciuto dove lasciare la Renault rossa, tra Botteghe Oscure e Piazza del Gesù. Due affermazioni che a prima vista appaiono contraddittorie. Perché se fosse vero il riferimento a Firenze, vorrebbe dire che Markevitch ha lavorato per la morte di Moro e non già per la sua liberazione. E se così fosse, perché lasciare la Renault
rossa proprio in Via Caetani e sotto le finestre di Palazzo Antici Mattei, un fatto che costituiva una chiara firma? All’ingresso del Ghetto ebraico e di fronte al centro italiano di studi americani.
Per conto di chi si muoveva Markevitch e come era riuscito ad attivare un canale per arrivare alle Brigate Rosse? E poi, come poteva essere determinante il suo intervento? Se si muoveva sotto una direzione sovietica, di che tipo era questa direzione: il KGB o il GRU? E se invece nel suo intervento c’era una regia israeliana, che come tale voleva la liquidazione di Moro, si deve concludere che fu mandato a perseguire un risultato quando invece, a sua insaputa, il risultato da ottenere era esattamente l’opposto? Questa ultima ipotesi è la più credibile perché la Renault rossa fu trovata proprio sotto Palazzo Antici Mattei, una firma che riportava appunto allo stesso Markevitch. Un palazzo, attaccato a Palazzo Caetani, e nel quale, come si è detto, c’era una delle sedi romane dell’USIS, struttura legata alla Cia per la quale nella seconda metà degli anni sessanta aveva lavorato Corrado Simioni, il capo del Superclan e dello stesso Mario Moretti.
Si può osservare che in quell’intervista, Cossiga afferma che deve essere data una interpretazione “capovolta” del famoso comunicato del Lago della Duchessa del 18 aprile 1978, frutto di una idea di Steve Pieczenik. “Era una mossa per salvarlo” afferma testualmente Cossiga, precisando che da quel momento crebbe la commozione e la paura per la sua sorte. E i “brigatisti” lo uccisero senza accorgersi che in realtà avevano vinto.
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Capitolo 19 - Il silenzio in cambio della libertà.
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Oggi i brigatisti rossi responsabili della morte di Moro e degli uomini della sua scorta e autori di decine di omicidi, anche quelli condannati a più di un ergastolo, dopo poco più di 10-15 anni hanno ottenuto la libertà vigilata potendo uscire di giorno dal carcere per andare a lavorare e rientrare poi in cella alla sera. Pentiti e dissociati hanno invece ottenuto forti sconti di pena e hanno visto di fatto cancellati i loro reati in cambio della collaborazione piena o parziale offerta agli inquirenti. Certo tutto questo è stato favorito dalla norma della Costituzione che prevede che lo Stato debba offrire al colpevole di un reato la possibilità di redimersi e di reinserirsi nella società. Ma resta il fatto che molti brigatisti, e in particolare i capi tipo Moretti e Senzani, hanno offerto una ricostruzione dei fatti a loro uso e consumo, nascondendo fatti e circostanze che avrebbero aperto scenari imbarazzanti non soltanto per le BR ma per lo stesso mondo politico italiano.
La versione delle Brigate Rosse come gruppo autonomo e responsabile in prima persona delle propria gesta è stata rivenduta sia dai capi BR della seconda fase, quella avviata nel 1974 dopo l’arresto di Curcio e schini, sia dai semplici militanti che hanno compreso che non conveniva a nessuno agitare le acque, rilevare particolari inediti, o sollevare dubbi su questo o quell’episodio. Se era lo stesso Cossiga a sposare la linea delle BR come organizzazione fatta di comunisti puri e duri, delusi dal PCI, è stato inevitabile che anche la maggioranza dei semplici militanti si adeguasse alla versione ufficiale. Ma se si tiene conto che alcuni dei capi e dei militanti brigatisti avevano legami esteri coltivati esclusivamente da loro e che non intendevano condividere con gli altri e che di tali questioni hanno mai parlato, nasce la certezza o quantomeno il sospetto che la verità vera sia ben diversa da quella ufficiale. Recita un vecchio adagio che “la verità non è altro che una bugia che non è stata ancora scoperta”. Il silenzio ha anche investito quei militanti nei quali è nato il sospetto di essere
stati strumentalizzati. Ma è stato soprattutto un dirigente della prima ora, come Alberto schini, che ha vissuto la genesi e lo sviluppo delle BR e l’entrata successiva di militanti come Moretti che, dopo l’arresto in massa dei militanti del nucleo storico, ha ricordato che i nuovi capi impostarono una nuova fase nell’organizzazione.
schini che in una intervista del 1991 si domandò se inconsapevolmente abbia fatto il gioco di qualcuno. I suoi dubbi, ha ricordato, sono cominciati quando alcuni settori della DC hanno cominciato ad andare nelle carceri a trovare i brigatisti detenuti. Ma più che cercare di fare tutti insieme chiarezza e comprendere quanto era successo, davano invece l’idea di voler conquistare i silenzi e di accreditare la versione ufficiale. Un silenzio su quelle zone ancora oscure della vicenda Moro in cambio della libertà vigilata e forse con la prospettiva futura di una amnistia che però nessuno ha visto, nonostante le continue richieste in merito di Cossiga. Un silenzio che spesso sembrava essere funzionale al ruolo che i vari servizi segreti avevano svolto durante il sequestro. Un silenzio che ad esempio ha interessato il ruolo svolto dai brigatisti toscani e da quel comitato esecutivo delle BR che si riuniva a Firenze. Ma dove si riuniva? A casa dell’architetto Giampaolo Barbi, o a casa dello stesso Markevitch come ha invece suggerito Cossiga? Il ruolo di Firenze non è, infatti, da poco perché a Firenze risiedeva Giovanni Senzani che assunse la guida delle BR dopo la cattura di Moretti nel 1981. Quel Senzani che, per motivi di lavoro, era un criminologo, aveva avuto non pochi contatti con il Ministero della Giustizia (di cui era consulente). Ma anche con gli USA (dove era andato a specializzarsi nel 1977) e con ambienti dei servizi segreti italiani. Quel Senzani che incontrava regolarmente Moretti a Firenze, dove venivano battuti i comunicati delle BR che accompagnarono i 55 giorni del sequestro. Nessuno però si preoccupò di approfondire gli indizi che portavano a cercare nella zona di Firenze. Proprio in un covo brigatista in città vennero trovate carte che riportavano l’indicazione di conti correnti bancari svizzeri nella disponibilità dei brigatisti fiorentini. Quella stessa Svizzera dove i brigatisti provenienti da Potere Operaio potevano contare su vasti e consolidati legami logistici, grazie anche ad Alvaro Lojacono-Baragiola.
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Capitolo 20 - Il manoscritto Moro e Via Montenevoso.
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La questione della prigionia di Moro e dei segreti che avrebbe rivelato ai suoi sequestratori si lega indissolubilmente a quella del memoriale scritto dal politico democristiano, delle bobine e dei dattiloscritti contenenti il resoconto degli interrogatori ai quali fu sottoposto. Come in ogni storia oscura che si rispetti anche in questa sono presenti alcuni classici elementi del genere. Come le bobine originali sparite, Mario Moretti dice che furono bruciate, e una copia incompleta degli interrogatori che furono trasformati in una sorta di memoriale nel quale il presidente della DC parlava in prima persona. Copia di questi documenti venne trovata in due diverse riprese nel covo brigatista di Via Montenevoso a Milano. Il 1 ottobre 1978 vi fecero irruzione i carabinieri arrestando i brigatisti presenti e sequestrando una mole di documenti che incominciarono un curioso giro per i palazzi del potere politico romano prima di essere consegnati alla magistratura, dopo una attenta selezione. Il 9 ottobre 1990 altri documenti con il memoriale di Moro vennero scoperti “per caso” da un operaio che stava lavorando nell’appartamento dietro una intercapedine. E da lì, con la considerazione che i nuovi fogli erano diversi per quantità e contenuto da quelli trovati 12 anni prima, si innescò una polemica sulla quale la pubblicistica si è molto esercitata. Sotto accusa è finito lo stesso Carlo Alberto Dalla Chiesa che diresse l’irruzione nel covo BR e che, secondo una versione, dopo averli letti e fotocopiati, avrebbe preso i fogli originali del memoriale Moro e dell’interrogatorio e li avrebbe portati a Roma consegnandoli in visione all’allora capo del governo Giulio Andreotti. Se così fosse, i casi sono due. O i fogli contenevano qualcosa di imbarazzante per lo stesso Andreotti o contenevano rivelazioni fatte da Moro sulla struttura NTO in Italia e in Europa e quindi pure su Gladio. In ambedue i casi quei fogli non dovevano arrivare alla magistratura milanese in quanto rappresentavano un segreto di Stato. Volendo portare questo ragionamento più avanti, si potrebbe pure ipotizzare che qualcuno dei brigatisti rossi, il nome più ovvio è quello di Mario Moretti, abbia venduto a qualche entità esterna gli originali del carteggio Moro. Il problema è appunto quello dell’identità di tale entità e se tale cessione abbia garantito a Moretti di crearsi
una cambiale per la vecchiaia in caso di arresto. Non si tratta di una questione di poco conto perché la gestione del carteggio riveste un’importanza non trascurabile. C’è comunque da tenere presente che anche l’appartamento di Via Montenevoso è uno di quei covi BR la cui esistenza si caratterizza come il classico segreto di Pulcinella. Le forze dell’ordine lo tenevano sotto occhio da parecchio tempo. Ed anche altre persone. Lo dimostra l’uccisione in Via Mancinelli a Milano la sera del 18 marzo 1978 di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, due militanti della sinistra extraparlamentare che frequentavano il centro sociale Leoncavallo. La coincidenza incredibile, che tale in realtà non è, sta nel fatto che Tinelli abitava in Via Montenevoso numero 9 proprio di fronte al covo brigatista. Un omicidio che può e deve essere letto quindi come una ritorsione indiretta per Via Fani, e come una minaccia o un messaggio di avvertimento lanciato da qualche struttura di intelligence ai brigatisti sul fatto che erano sorvegliati. A provarlo c’è la dinamica di un omicidio che, come testimoniarono alcuni anti, venne compiuto da professionisti che si premunirono di raccogliere i bossoli esplosi dalle loro pistole. Evidentemente però i brigatisti non seppero cogliere la sfumatura del messaggio che gli era stato indirizzato.
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Conclusione
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A distanza di 30 anni la vicenda delle Brigate Rosse, e quindi del sequestro e dell’uccisione di Moro, resta lo spartiacque con il quale le dinamiche della storia italiana vennero ridisegnate. A causa della progressiva scomparsa dei protagonisti politici dell’epoca e del ritorno dei brigatisti ad una vita quasi normale, essa finirà inevitabilmente per trasformarsi in uno dei tanti episodi del quale gli storici italiani e stranieri saranno portati a sminuire l’importanza. Del resto, basta osservare la carta geografica del globo per rendersi conto che l’Italia con tutti i suoi travagli interni, presenti e ati, è ben poca cosa rispetto a quello che succede altrove dove si determinano i reali rapporti di forza geoeconomici.
Era vero allora ed è ancora più vero oggi, che il baricentro economico e politico globale si è ormai spostato nell’area del Pacifico.
Certo, come italiani, vorremmo sapere tutti cosa è veramente successo prima, durante e dopo quei 55 giorni. Ma sarebbe una pia illusione sperare che da qualche archivio possa uscire un documento desecretato che illumini le numerose zone d’ombra.
I registi di queste vicende non sono abituati a lasciare testimonianze scritte né dei loro progetti, né tantomeno della loro attuazione pratica. A loro volta, i brigatisti che sapevano e che non hanno parlato all’epoca dei vari processi per Via Fani e Via Caetani, hanno scelto di continuare a fare scena muta e di confermare la versione ufficiale che è stata sancita dalle numerose sentenze. Ma
una verità giudiziaria non è necessariamente la “verità” e meno che mai in una vicenda come quella di cui si è occupato questo libro.
In Italia, purtroppo, in conseguenza di una cultura politica “dogmatica” portata a ragionare per assoluti, vi è la disdicevole tendenza ad imporre una verità ufficiale, di Stato, che deve essere universalmente accettata. Il tragico è che tali pseudo verità vengono avallate e sostenute oggi anche da quei politici che all’epoca del sequestro Moro erano poco più che ragazzi.
È significativo, quindi, che siano stati esponenti del centrodestra ad insorgere con toni indignati per rimarcare le dichiarazioni di Giovanni Galloni in merito alla certezza di Moro che nelle Brigate Rosse vi fossero infiltrati della CIA e del Mossad. Laddove la pietra dello scandalo non è tanto la presenza della CIA, tirata sempre e comunque in mezzo come regista occulto nelle opere dei vari pubblicisti che sull’affaire Moro si sono esercitati, quanto quella dei servizi segreti israeliani.
C’è, infatti, da domandarsi: perché se qualcuno mette sotto accusa l’intelligence USA, od in alternativa il KGB sovietico, è una cosa normale, ma invece una responsabilità di Tel Aviv non deve essere nemmeno ventilata? Tali reazioni isteriche testimoniano del fatto che ci sono persone che, senza nessuno che le abbia ingaggiate, si offrono spontaneamente come sostenitori di una tesi su Via Fani, Via Caetani e dintorni, che in realtà fa acqua da tutte le parti.
Tutto questo conferma che siamo e restiamo un Paese a “sovranità limitata”, condannato ad essere tale e a non poter nemmeno reagire quando uno Stato ritenuto “amico” o “alleato” avalla un’azione contro obiettivi civili, banche e stazioni ferroviarie, o addirittura, come nel caso Moro, contro nostri politici di primo piano.
È però indegno e immorale che ci siano politici di governo e dell’opposizione che vadano a prostrarsi di fronte ai capi di Paesi responsabili in ato di attentati, che hanno causato decine e decine di morti in territorio italiano, senza nemmeno provare a chiedere o a pretendere chiarimenti o spiegazioni.
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Bibliografia essenziale
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Articoli di riferimento
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G. M. Bellu: “Una sede Sisde a Via Caetani” (Repubblica 9-5-2001).
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F. Sarzanini: “Gallinari evase col placet di qualche Pm” (Corriere della Sera 192-2000).
M. Fida Moro: “Mio padre era salito sull’Italicus, ma venne fatto scendere” (intervista a Tele Serenissima 19-4-2004).
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Filippo Ghira è nato a Roma nel 1955. Laureato in Scienze Politiche, giornalista professionista dal 1999, ha lavorato all’Umanità, all’Avanti e al Giornale d’Italia. Attualmente è capo servizio agli Interni del quotidiano della Sinistra nazionale, Rinascita.
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Per Smashword la Fuoco Edizioni ha pubblicato:
L’artiglio del Drago
Iran, prossima guerra?
Il mistero di Calatubo
La seconda vita di Bettino Craxi
Chi muore si rivede
L’Estate in tavola
I segreti del debito pubblico
Il cuore di Sarah
La guerra dell’acqua
Italia, Potenza globale?
Il ritorno dell’Impero di Mezzo
Sahara sabbia e sangue
Il lato oscuro dell’America
Celeste nostalgia
Gli italiani nella guerra di Corea
Oro blu
Portaerei Italia
Verso la fine dell’economia
Guerra economica e intelligence
Il Vangelo secondo sco
Assassinio sull’Isola delle oche
Un’economia più umana
La fredda notte di Babbo Natale
La ballata dei Dead Cats
Quando suona il gong
Odissea nella nebbia
Cina la grande seduttrice
Claridade
Atomo rosso
Turchia ponte d’Eurasia
Cosmopolit@n
L’ALBA del Nuovo Mondo
Bandits
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