Bio 2 (seconda Parte) 6j3dn

BIO Cyberpunk

di Samantha Baldin

VOLUME II

Bio Cyberpunk vol.2

Samantha Baldin

Edizione digitale: giugno 2013

ISBN: 9788867559961

Edizione digitale realizzata da Simplicissimus Book Farm srl

Gentile lettore, Ecco il secondo e conclusivo volume di BIO Cyberpunk. Grazie fin da ora per la fiducia che mi hai dato nel leggere il primo. Spero di non deludere le tue aspettative. Ci sentiamo alla fine della lettura. Buon divertimento. E ancora, grazie di cuore.

Avviso: potrebbero esserci delle scene e delle situazioni psicologiche disturbanti per il lettore più sensibile. Non è un “bollino rosso”, ma solo un avvertimento per i più giovani. Non è una lettura adatta ai bambini.

“BIO Cyberpunk” è un’opera depositata ©Samantha Baldin La cover, creazione e realizzazione, è di ©Samantha Baldin

Questo romanzo è un’opera di fantasia. I personaggi sono invenzioni dell’autore e i luoghi citati servono per dare veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia con fatti e persone, vive o scomparse, è casuale.

Altre pubblicazioni autoprodotte: -BIO Cyberpunk, vol. 1 (fantascienza/cyberpunk)

-D-ICE (racconto di fantascienza/distopia)

INDICE

G (regolamento)

9-Bio: Ri hardly In battaglia, il cuore va trattato come un nemico. • I Trojan sono i peggiori • Cose utili nel Buffer • Programma in fuga • L’arrivo di Rasputin • Allarme verme! • Sei cambiato, Bio • Domande senza risposta • Solo un’illusione • La Voce in Quarantena • Ho un messaggio

10-Michela: Reboot yourself Non si può cambiare ciò che si è nati per essere. • Fine della privacy

• Obblighi e desideri • Un ragazzo fortunato • Il Babelpunk • Fin troppo riservato • Non ci provare mai più • Ero un bambino problematico • La dottoressa Sophia Rayali • Il trauma, ieri come oggi • Sempre e solo Bio

11-Michela: A new Bio La vita può collassare o rigenerarsi in modo imprevisto. • Volare in città • Non è raggiungibile • La Piana di Voljiaren • Non più solo • Doppia vittoria • Rave in città • Tre volte

12-Bio: Tied up

Le connessioni ci uniscono. Ci cambiano. Ci tormentano. Alcune sono semplici e immediate. A volte, eggere. Altre sono così complesse da reggere il collasso del sistema e sono eterne. • Io voglio sapere, prima • Null è diversa • Il file di Alessio • Chi è Zero Tre? • L’ di Igor Sokolov • La mutazione dell’ASM • Altri cristalli • Sembra la Quarantena • Connessi a prescindere

13- Michela: Play the life La vita è come un gioco, ma il divertimento è a discrezione del master. • Ghost, ancora • 0574C0L0 P3R BIO03 • Ti sogno sempre in Hong Kong • Trance • La richiesta della Shiba • Per sempre tuo, Alessio

• Esplosione fluida

14-Bio: Buried Memories Quando il dolore supera i livelli di tolleranza, il cervello seppellisce il ricordo. • Dopo tutto questo tempo • L’altalena • La scuola • Il laboratorio • La tomba 02 • Tu non sai chi sei e dove sei • Il localizzatore • La corda di violino • I gomitoli di Cyberpunk • Un solo grido

15- Michela: Wakened up! La realtà è una sola oggettiva consecuzione di eventi generati dall’interazione calcolata fra i fattori attivi in gioco. Concedere a un ivo il libero arbitrio è destabilizzante. • Pazza idea • Un taxista urticante • Las Vegas non cambia mai

• Così vicino, eppur così distante • LV Blvd. South. • Ritrovarsi per caso • La rivelazione • La finestra glitterata (frammento crittografato) • Sembrava il solito • Nel Limbo nulla è reale • Uscita d’emergenza • Bio o Alessio?

16-Bio: Collusion and Collision L’ipotesi per una collusione si realizza alla presenza di un accordo tra entità per il conseguimento di un obiettivo comune: sopravvivere alla collisione delle membrane. • I volti di BIO 03 • La Teoria M • Il flusso dati d’energia • Alessio è un amico o un nemico? • Cos’è l’ASM • Il trauma e i conflitti • Il mare salato di Tokyo • I ponti e le partizioni

• Fritz Planck/Igor Sokolov/Rasputin e Rasputin 0 • La costante Michela • Vado a prendere le risposte • Non so se posso fidarmi di te • Il .jpeg nel ciondolo • Quante Ghost ci sono? • È come ardere vivi • Il mondo sa di plastica • Non può vedermi • Faccia a faccia con Alessio • Sei completo? • La parte crittografata • Ti voglio bene

17- Michela: Only the truth Scoprire la verità equivale a oltreare la soglia dell’autocoscienza. Accettarla richiede fede cieca nella nuova esistenza. Per viverla basta muovere il primo o. • Due ore e dodici minuti • La Matrice Limbo • Bio Zero Tre, Alessio Merisi, Bio Cyberpunk

• Michela/Alessio • Chi è Ghost? • Vita precedente • Mente, corpo e Cyberpunk • Un mondo tutto loro

18- Bio: ENDGAME Quando il gioco finisce, la meraviglia s’infrange permettendo alla realtà di riemergere. Si ripensa ai momenti più emozionanti scoprendo che sono entrati in noi perché, per quanto irreali possano sembrare i giochi, le emozioni sono vere e indelebili. • Zero Tre è corrotto • Il cubo QED • BIO02 • Matsumoto e Iku • Susanna/Ghost • Il back-up di Zero Tre • La stessa sorte del dottore • Il ciclo perpetuo e il coefficiente • Nello spazio vuoto • Il sole blu • La sorgente

• La tenacia inossidabile • Intruder • AgApo: livello inferno • Il Boss finale • Tutti fuori! • La connessione tanto a lungo sopita

19- Bio: Il cerchio degli eventi Il mondo è una vasta e intricata membrana in cui tutti siamo connessi gli uni agli altri senza saperlo. • Fusion • Effetti collaterali • BIO • Bio e Mia

Manifesto del G Il saluto dell’autrice e il File Crittografato di Michela dal cap. 15 (extra)

BIO Cyberpunk II

G Direzione generale dei server correttivi.

REGOLAMENTO

1- La Direzione non si assume alcuna responsabilità per gli umani che tentano l’accesso. 2- È vietato lo scarico dati, sia in entrata che in uscita. 3- I programmi esistenti o generati nei G non possono interagire in alcun modo con gli umani. Non sono concesse eccezioni. 4- Per coloro che avessero un ricoverato nel DELetery, ricordiamo che è VIETATO l’ingresso anche ai creatori salvo diretta delibera della Direzione stessa. Le probabilità di guarigione dall’ASM sono inesistenti. Si consiglia di chiudere la connessione col ricoverato per tempo.

AVVISO: Il G 5 è in ripulitura e in stato di massima allerta. Per prenotare il servizio di QuickClean, FastFormat e Del4Ever contattare BioCyberpunk@G5. Master in carica, Sergey@G1

9 - Bio Ri Hardly

In battaglia, il cuore va trattato come un nemico.

I Trojan sono i peggiori Bio avanzava lento tenendo la bambina sotto tiro con l’Ingram MAC-11.380 A1 special. Il vicolo pietroso era in penombra. Non c’era via di fuga per nessuno dei due. «Perché mi vuoi uccidere?» singhiozzò la piccola stropicciando l’orsetto lercio. Indietreggiò di un o. Il piedino nudo entrò nella pozza di sangue increspandola. Bio non rispose e avanzò ancora senza batter ciglio. La bimba osservò le pareti. Tornò su di lui. «Farò la buona, te lo prometto. Non farlo» lo supplicò inclinando la testa. Le ciocche bionde e arruffate si mossero appena. «Ero costretta. Io non volevo. Davvero.» Ondeggiò l’orsetto. «Ti pago.» Bio scosse la testa. Cercavano sempre di impietosirlo, di corromperlo e di confonderlo. «Sono tanto dolce…» Strinse la veste ingiallita e sporca e sollevò un lembo per mostrargli la gambetta. Infastidito, strisciò l’indice sul grilletto. «Sei un bastardo, Bio!» Digrignò i denti prima di assalirlo con la disperazione di un gesto estremo. Bio sparò. I proiettili si scontrarono sul corpicino creando delle bolle che si espandevano come gel mentre i bossoli piombavano in terra numerosi. Fermò la raffica solo quando la vide afflosciarsi stringendo ancora l’orsetto. L’osservò col monocolo per accertarsi che il suo antivirus l’avesse neutralizzata. Vide i codici del core sgretolarsi come brace. Si avvicinò e la girò con un colpo deciso dell’anfibio. «Assassino…» ansimò con un filo di voce.

La puntò alla testa e la terminò con un colpo. Gli occhi si svuotarono mentre il corpo diventava monocromatico e rigido esalando le ultime stringhe, che s’innalzarono leggere come frammenti di carta bruciata per poi finirgli addosso come cenere. Afferrò il braccino, si girò e la trascinò verso il furgone. Era pesante, in lei giacevano i codici di numerose vittime. Un’assassina lo aveva accusato della stessa colpa: uccidere per non essere ucciso. Era una cinica logica quella che muoveva le azioni nel G e, dopo quasi un anno, Bio aveva capito che la vera logica era primordiale e, per questo, spietata. Ergo lo attendeva con le braccia incrociate e l’espressione corrucciata sul fianco del Kraz 255B. Appena lo vide arrivare, saltò dentro il vano. Bio la sollevò in silenzio. Ergo l’afferrò per le braccia e la trascinò per pochi metri. La lasciò cadere vicino ai suoi creatori dall’aspetto di un uomo e una donna grassocci e già decompilati. Li osservò un istante mentre Ergo scioglieva i lacci del telo, sembravano una famiglia di appestati. Anche gli assassini volevano qualcuno con cui condividere l’esistenza. Il loro senso di solitudine era illogico, ma altrettanto primitivo. Il telo si srotolò portando nel buio gli ennesimi errori che lottavano per non essere corretti. Ergo saltò giù. «Pulvis et umbra sumus» sospirò alzando la protezione. Chinò il capo, la placca metallica a spicchio sul lato destro della testa rapì i riflessi del lampione. Il led blu scorreva rapido. «I Trojan sono i peggiori» disse Bio. «Già. Soprattutto quando si camuffano d’innocenza» gli rispose chiudendo il catenaccio. Ravvivò con la sinistra i capelli neri e corti. «C’è stato un momento, che mi ha ricordato la mia piccola. Non ci voglio pensare.» «Infatti, lascia stare. Andiamo.» Bio si diresse al posto del eggero strisciando con la mano il metallo verde graffiato in più punti. Aprì la portiera.

Salì sul gradino, poi nell’abitacolo. Si abbandonò al sedile di pelle nera, che cigolò appena. Inclinò la testa all’indietro e chiuse gli occhi. Sentì Ergo salire e chiudere la portiera. «Destinazione?» chiese accendendo il motore. Il tremore s’impadronì del mezzo e di Bio, che lo fissò cercando nella tasca dei pantaloni il pacchetto di sigarette. «Recuperiamo Null.» Chiuse lo sportello deciso facendo sussultare le cicche nel posacenere. Della cenere gli scese sopra l’occhio. «Che fastidio, ogni volta.» Infilò la mano nei capelli per scrollarli. Ne cadde un po’ sui pantaloni, sugli anfibi e sul metallo del furgone. «Chissà perché la cenere?» Bio accese una EtiKoff. Fece un tiro con ancora in testa la vocina sottile della bimba che gli dava dell’assassino. «Credo siano le lacrime dei malware. Forse anche loro hanno dei rimpianti, chissà.» «Hai bisogno di una bella bevuta. Fidati.» Bio annuì. «Dopo Null, allora, andiamo al Proxy. Per oggi, chiudiamo qua.» Ergo sorrise. «Con sommo gaudio!» Gli occhi scuri s’incurvarono nascosti dagli zigomi pronunciati. Le orecchie a sventola risaltarono ancora di più. Bio allungò il braccio fuori del finestrino e impose la mano per creare l’uscita; una frattura elettrica lungo il vicolo che fluttuava e si espandeva mostrando un altro ambiente. «Vai» disse appena fu abbastanza ampia per il aggio del mezzo. Ergo partì a singhiozzo e Bio dovette appoggiarsi alla maniglia sul cruscotto per non cadere dal sedile. «Sei più pericoloso tu al volante dei cavalli appestati qui dietro.»

Cose utili nel Buffer Il Buffer di Overflow era la discarica delle discariche dei G, per Bio una seconda casa. La strada sterrata era orlata di frammenti di codici che prendevano l’aspetto di moncherini grigi. Arti mozzati glabri e pelosi cosparsi di olio erano ammassati per il riciclaggio. Mani, piedi e zampe erano sistemati in ceste metalliche secondo la natura del virus. Incrociarono il furgone con la scritta rossa SIR su campo bianco, Sicurezza Interna della Rete. Bio sussultò. «È arrivata roba nuova.» Si sfregò le mani. «Magari c’è un fake interessante.» Non erano ancora nei pressi della casa-laboratorio di Overflow che già si sentivano le grida. «L’ho visto prima io!» La voce giovane e grintosa di Null sovrastava i cigolii delle presse idrauliche dietro la casa. «Sei nella mia discarica. Qui, è tutta roba mia!» gridò Overflow. «Mia!» Bio si scambiò una veloce occhiata d’intenti con Ergo. «Sbrighiamoci, prima che si scannino.» Ergo accostò davanti allo spiazzo per il carico e scarico andando in retro. «Qui ci penso io.» «Bene. Io intanto vado.» Bio scese subito e si precipitò sul rialzo metallico. Appoggiò la mano sulla serratura a tastiera. Digitò il codice. La porta ovale con oblò di vetro si sollevò e le grida si fecero più intense. «No! Era ancora sul furgone del SIR quando l’ho visto. È mio! Mio! Mio!» incalzò Null. Bio corse in direzione delle voci sfiorando i programmi e le applicazioni fake fresche di giornata appesi come salumi. Trattenuti con un gancio sul tubo che

percorreva in lungo la stanza, erano imbustati con solo la testa visibile. Oltreò una trentina tra uomini, donne e bambini prima di vedere Null aggrappata mani e piedi a un uomo di due metri, muscoloso e biondo. Overflow la tirava per il cappotto di pelle striato di blu. I capelli rossi e sparati in aria sembravano fremere per il nervoso. «Bambini, che succede?» scherzò Bio. Null girò solo la testa. «Threep-pi, convinci tu Offlow che questo programma è mio!» Fissò Overflow sgranando gli occhi dal blu intenso. «Non lo lascio!» Girò ancora la testa nel petto del massiccio programma. Le lunghe dreadlocks metalliche frustarono l’oggetto della contesa. «Non chiamarmi così, razza di fumata del mio crap!» Overflow la tirò ancora quando Null fece per mollargli un calcio con lo scarponcino nero. Lui lo evitò per un soffio lanciandosi di lato. Le si fiondò addosso e la strinse per i fianchi. «Molla! Molla!» «Threep-piii!» «Calmi!» gridò Bio afferrando per la spalla Overflow. «Che ha di tanto speciale?» Null lo guardò supplichevole. «Ti prego, Threep-pi. Ti prego.» Bio sospirò. «Prima fatemi capire.» Si chinò su Overflow. «Mi mostri la scheda, per cortesia?» Overflow lasciò Null, che lo guardò di striscio e gli fece la linguaccia. «Non ha scheda.» Sbuffò sistemandosi la maglia argentata con la scritta arancione Flighty Floppy. «Ha solo una lista di posti dov’è stato» continuò aggirando l’insaccato con i corti e veloci. Il pantalone aderente a scacchi era ipnotico. «Vieni, ti faccio leggere.» Bio lo seguì. Sul retro della sacca c’era un pannello, ma le mani di Null coprivano la parte superiore.

«Cucciola, ti spiace?» Bio le solleticò le dita smaltate di blu. Null spostò la presa cingendo il collo taurino dello straniero biondo. Overflow si alzò sulle punte e toccò il pannello inserendo il suo codice personale. «Ecco, vedi.» Indicò una lunga lista dei server che lo avevano ospitato e i nomi dei tecnici che avevano cercato di attivarlo. «È stato trovato un anno e mezzo fa in un server russo, il Tunguska. È piovuto in un bozzolo di cristallo bucando il firewall del server come se nulla fosse. Gira da allora. È un programma, ma sembra che non si riesca ad attivarlo.» Bio chinò il capo, ingobbì la schiena e lo fissò. «Tunguska, hai detto?» Overflow sorrise mostrando gli incisivi sporgenti e un poco accavallati, le molte lentiggini si dilatarono. «Bravi i russi, eh? Sembra un bel giocattolino.» Incrociò le braccia esili. «Infatti, me lo tengo. Capito, Null?» Null non rispose. Overflow alzò il sopracciglio. Bio si raddrizzò e si sporse per vedere che stesse combinando. Null teneva la punta della lingua tra i denti. Gli occhi blu s’erano accesi d’azzurro e lasciavano intravedere frammenti di codici che scorrevano rapidi. Un paio di dreadlocks erano conficcate nel collo del biondo ed emettevano leggere scariche elettriche. «Che crap fai!» sbottò Overflow. Bio scosse il capo. Afferrò la dreadlock di Null sentendo la scossa. La estrasse. Null sbatté le palpebre. «Nuuu!» gli disse guardandolo col broncio. «Non puoi craccare i programmi altrui senza permesso, lo sai.» Null corrucciò la fronte e mugugnò il suo stupore. «Dai, scendi e fammi vedere una cosa.» Le toccò la spalla. «Ricevuto» sbuffò portando le gambe distese a terra in un sol colpo.

Bio lo guardò bene in viso. Quei lineamenti decisi col mascellone non gli erano nuovi. «Senti, Overflow.» Gli pose una mano sulla spalla ossuta. «Vorrei fare felice Null, come possiamo accordarci?» Overflow sbuffò. Null lo abbracciò. «Grazie!» «Nel furgone c’è una famigliola di Trojan, ti bastano come acconto?» «No! No e ancora no!» sbottò puntando i piedi. «Null, vai a vedere che fine ha fatto Ergo che qui me la sbrigo io» le disse dandole un buffetto sul naso a punta. Null annuì sorridente e corse via.

Programma in fuga Bio tornò al furgone con le mani in tasca e la testa bassa. Overflow lo seguiva ghignante. «Allora?» gli chiese Null. Bio scosse la testa. «Non vuole cederlo, mi spiace.» «Whip-pi?» Null aggrottò le sopracciglia sfregando le nocche. Bio le accarezzò la guancia per tentare di consolarla. «Torniamo a casa.» Overflow sogghignò. «Non si può averla sempre vinta, eh!» Null chinò il capo e lo fissò seria. Puntò i pugni sul cappotto. «Ti vedo ed elaboro solo a un 406 costante! Brutto nanerottolo buggato!» Si girò di scatto proprio per frustargli la faccia con le dreadlocks, ma Overflow la evitò schermandosi con la mano. «Se cambi idea, sai come trovarmi» gli disse Bio. «Non ci sperare.» Overflow ciondolò il busto lisciandosi la maglia. «Sono già stato fin troppo generoso e gentile con i Trojan.» «Al prossimo carico, allora» lo salutò Bio aggirando il mezzo. «Ti aspetto. Ciao.» Controllò che la tenda fosse arrotolata. Null era seduta nel mezzo e nemmeno lo guardò mentre saliva. La faccia seria fissava in alto dalla parte opposta. «Vado?» gli chiese Ergo con la mano sulla chiave d’accensione. «Parti» disse Bio chiudendo lo sportello.

Null puntò lo scarponcino sul cruscotto sbuffando. Bio afferrò la maniglia. Si avviarono sussultando come solito. Null sbuffò sonoramente e cominciò a picchiettare la punta dello scarpone sotto il cruscotto. Bio cercò il pacchetto di sigarette in tasca mentre Null si spostò sul sedile dandogli la schiena. «Ergo, rallenta» disse accendendosi la sigaretta. «Aspettiamo un amico.» Null lo guardò perplessa con la bocca socchiusa. Bio le fece l’occhiolino, rese trasparente il telo e le indicò la finestrella alle sue spalle. Null s’inginocchiò sul sedile e ancorò le mani sul bordo metallico. «State pronti» disse Bio affacciandosi dal finestrino. Si udì il grido lungo e acuto di Overflow. Un botto, un tonfo. In lontananza, una figura rosea e massiccia correva sollevando la polvere a ogni o. I muscoli delle gambe e delle braccia scadenzavano il ritmo sostenuto. Il volto serio non lasciava trasparire sforzo. La minuscola sagoma di Overflow avanzava trafelata mezza sepolta dalla polvere. «Bastardiii!» «È una visione.» Null frustò le gambe sul sedile. «Bravo, Threep-pi. Dopo mi dici come hai fatto, però.» Sussultò. «Ma è in modalità limitata. Whip-pi?» «Dopo, con calma vi spiego tutto.» «Ricevuto.» Sospirò. «Quant’è bello. Ed è tutto mio. Come sono felice.» «No, cucciola. Non puoi giocarci. È un mio amico e si chiama Rasputin.» «Nuuu! L’ho visto prima io, però.»

Rasputin balzò dentro il furgone facendoli sobbalzare. Restò con lo sguardo basso e ancorò le mani alle cinghie che pendevano dall’alto. «Via!» esclamò Bio a Ergo aprendo il varco. Entrarono rapidi mentre Null gli si accoccolò sospirando. «Mi sono innamorata.» Bio rise con l’eco delle grida di Overflow. «Ladriii!»

L’arrivo di Rasputin «Ladro! Ladro! Ladro!» ringhiò Overflow dal monitor etereo della camera di Bio. «Non ho rubato nulla, visto che mi appartiene» gli rispose terminando la sigaretta. La premette nel posacenere. «Come crap hai fatto?» Overflow picchiò i pugni sul tavolo. «È mio, te lo ripeto. L’ho solo attivato usando i miei personali codici.» «E allora perché era finito in discarica?» Lo fissò serrando l’occhio. «L’avevo perso.» Incrociò le braccia. «Senti, facciamo così, visto che sono gentile, ti ripropongo la mia offerta. Che mi dici?» Overflow arricciò il naso. Serrò le labbra. «E va bene! Poi non mi venire a dire che non sono generoso. In meno di un anno, ti ho già regalato quell’applicazione dal Side 5 di Tokyo e questo programma dal Tunguska.» «Regalato? Non mi sembra.» «Intendevo a dei prezzi scontatissimi.» Bio annuì. «Allora, siamo d’accordo. Ti faccio avere il resto dei malware in settimana.» «E che gli racconti a Sergey?» «Non è affar tuo.» Overflow sbuffò. «Vedi di non tardare con le consegne. Ciao.» Il monitor svanì. Bio si girò sulla sedia. «Null, scendi» le disse vedendola nuovamente sdraiata sopra Rasputin, che ancora inattivo era disteso sul letto. Ma lei non rispose. Lo guardava con la testa inclinata, appoggiata sulle mani. Le ginocchia erano piegate e le gambe ciondolavano scandendo il respiro di Rasputin.

«Null!» la chiamò ancora. «Scendi dal mio amico. Tra poco lo sveglio.» «Ho capito.» Si lasciò cadere di lato. Strinse le bretelle nere agganciate ai pantaloncini risucchiati dai glutei. La maglietta bianca si spostò appena lasciando intravedere l’ombelico. Bio tornò con lo sguardo al computer. «Speriamo in bene» sospirò prima di premere invio. «Ciao, io sono Null» disse zuccherosa. Bio si strofinò la faccia esasperato. «Ciaaao!» esclamò Rasputin quasi senza accento come se avesse seguito un corso di dizione. La voce profonda però era quella che rammentava. «Che belle treccine.» «Sono dreadlocks, sono speciali, sai?» Bio si alzò. Camminò fino a bordo letto e incrociò le braccia. Rasputin sorrideva stringendo Null per le spalle, che gli era salita nuovamente cavalcioni. «Scusate, vi disturbo?» Rasputin lo guardò in modo distratto. «Siamo in troppi. Vattene, nonno!» Bio serrò la mascella. «Nulla di tutto questo. Dobbiamo parlare, Rasputin.» «Ci conosciamo?» Lo fissò serio accarezzando la schiena di Null. «Mi sembri familiare.» «Lui è il mio Threep-pi» disse Null contornandogli le labbra con l’indice. «Ma gli altri lo chiamano Bio Cyberpunk.» Rasputin sussultò. «Bio?» «Cucciola, no.» Le prese il braccio. «Così lo confondi. Vai a farti un giro con Ergo. Noi abbiamo molto da dirci. Ci vediamo dopo. Promesso.»

Null si alzò. «Ricevuto» disse imbronciando il labbro. Accarezzò il braccio di Rasputin, che intanto si stava sedendo. Indossò il cappotto. «Porto Ergo al Proxy, allora. Mi chiami quando hai finito?» «Certo. Anzi, ti spiace prendere le mie chiamate? Gradirei non essere disturbato se non per emergenza.» Null annuì e mandò un bacio a Rasputin. «A dopo.» Aprì la porta. «Ergo!» gridò nel corridoio. «Proxy-pi?» domandò poco prima che la porta si chiudesse lasciandoli soli. Bio prese la sedia e la pose in fondo al letto. La ruotò tenendola per lo schienale. Si sedette. Rasputin incrociò le braccia. La maglia nera si sottomise ai muscoli tirandosi. «Allora nonno, perché hai il nick del mio amico Alessio?» Bio si massaggiò la fronte cercando di comprendere perché avesse atteggiamenti diversi da quel che ricordava. «Sarà una lunga chiacchierata.»

Allarme verme! Rasputin rise grassamente. «Ti assicuro, è così.» Bio si fermò dal camminare per la stanza. «Lo so che non è facile da accettare, ma col tempo te ne farai una ragione.» Rasputin divenne serio di colpo. «Non so che droghe usi, Bio, ma devono essere potenti da paura.» «Stiamo parlando da un’ora e tutto quello che hai da dirmi è questo?» «Cos’altro?» Si affacciò alla finestra. Strinse i pugni. «Pensi davvero che possa credere a una stronzata del genere?» Si sporse fuori col busto. «Riconosco che è un posto strano, ma che io sia solo un programma e che esista solo qui, proprio no.» «Vedo che non ci sono miglioramenti.» Portò le mani dietro la nuca, abbassò il capo. «Provo a spiegartelo in un altro mod-» Udì uno strano sussulto. Si girò. Rasputin non c’era più. Corse alla finestra. Lo vide correre scalzo lungo la via. «Dannazione» sbottò saltando a sua volta dal secondo piano. I piedi toccarono il cemento umido. Lo rincorse attivando il monitor etereo. «Threep-pi, finito?» «È fuggito. Lo sto inseguendo. Bloccatelo all’incrocio del WebScan» le disse accelerando la corsa. «Ricevuto!» Chiuse il monitor mentre ava tra i vapori della condensa che a tratti invadevano la strada. I lampioni illuminavano con la luce diretta solo alcuni punti togliendo i riflessi dei video che spiccavano ovunque sui palazzi. Rasputin correva come uno schizzato nel mezzo della strada facendo sterzare

bruscamente i mezzi che volavano bassi. Salì sul marciapiede serpeggiando il divieto d’accesso che circondava una spaccatura nel terreno. Bio lo saltò diretto per il lungo. Lo stava raggiungendo. «Fermo! È pericoloso. Rasputin!» provò a chiamarlo, ma lui neppure si girò. Arrivò all’incrocio e si arrestò. Osservò rapido le vie. Si girò verso di lui ansimando. Bio si fermò a meno di dieci metri. Alzò le mani. «Stai calmo. Io sono tuo amico.» Rasputin scosse il capo. Alle sue spalle, Null e Ergo si avvicinavano. Bio fece loro cenno di fermarsi. Rasputin indietreggiò di un o quando i neon del WebScan sfarfallarono un paio di volte cambiando l’ordine di comparsa delle lettere. «Lo so cosa provi, l’ho provato anch’io.» Bio avanzò lento. «Devi accettarlo.» «Non sono un fottuto programma» ringhiò Rasputin serrando i pugni. «Io sono Igor! Sono vivo. Non sono morto come vuoi farmi credere. E questo è solo un incubo!» «Non è così. Mi spiace.» Rasputin lo assalì con un pugno diretto al volto. Bio incassò senza scomporsi. ò la mano sul labbro per togliere il sangue. Ergo e Null avanzarono correndo. «Fermi! Ce la sbrighiamo da soli.» Bio invitò Rasputin allo scontro con un ghigno sfottente. «Non ho sentito granché. Puoi fare di meglio.» Rasputin lo colpì al volto con ganci alternati. Bio subì ancora senza reagire indietreggiando a ogni colpo. Sentiva il sangue scendergli in gola, la mascella in balia del formicolio.

«Tutto qua?» lo beffeggiò ancora quando Rasputin si fermò per respirare. «Mi sto scaldando» rispose iniziando una raffica di pugni al petto. Bio sentì cedergli una costola con un sonoro crack che risuonò dentro di lui. Rasputin si fermò di colpo. «Ti sei impressionato?» gli chiese barcollando con le braccia lungo il corpo. «Temi possa morire?» Abbassò la guardia. Chiuse gli occhi mentre riordinava la sua immagine andando a chiudere le crepe nel suo firewall esterno. «Non è possibile» sussurrò Rasputin. «Come fai a guarire in questo modo?» «Ora preparati. Ti farò un po’ male.» Lo avvisò ingobbendo la schiena. Piegò le ginocchia. Strinse il pugno destro e lo colpì in pieno petto scaraventandolo diretto nell’insegna del WebScan al primo piano. Rasputin s’incassò nell’insegna che si elettrificò per poi spegnersi. Cadde di colpo sul marciapiede creando una buca circolare. Rimase in terra alcuni istanti prima di sollevarsi. Bio gli si avvicinò e gli porse la mano. «Un umano potrebbe farlo?» Rasputin sollevò la testa e lo guardò. Si alzò senza aiuto. «Lo avevi già accettato saltando giù dal secondo piano della mia stanza, vero? Volevi solo sfogarti.» Rasputin lo fissò in silenzio. «Non mi hai fatto male» disse poco dopo rinvigorendo i muscoli. Bio sorrise. «Ancora?» D’improvviso, le nubi bluastre si caricarono d’elettricità. Una grata rossa dai fili grossi come tronchi si evidenziò ritagliandosi un quadrato. «Che succede?»

Bio creò il monocolo etereo. Osservò oltre la grata individuando i codici di un worm. «Un verme bello grosso. Quindi, in zona c’è un bug.» «Un bug? Quello è un malware informatico?» gli chiese Rasputin mentre il verme s’affacciava dalla grata con la bocca circolare colma di denti aguzzi. «Arrivano così, senza preavviso?» «Quando mai avvisano?» Bio lo guardò perplesso. «Ti spiace se me ne occupo io?» Rasputin gli fece cenno di scansarsi. «Prego, fai pure.» Si allontanò seguito dagli amici andando vicino al palazzo mentre le sirene avvisavano il quartiere dell’imminente pericolo. «Proteggi i programmi in zona» disse mentre Ergo già correva verso un gruppo rimasto sotto il portico. «Tranquilli, siamo ripulitori. Ce ne occupiamo noi» disse mettendosi rivolto a loro protezione. «Null, a te lascio il bug.» «Ricevuto.» Le dreadlocks si alzarono elettrificandosi. Pochi istanti e puntarono in una sola direzione. «Trovato!» Corse su per la scala antincendio del palazzo vicino. Entrò nella finestra del quarto piano. Quando il verme precipitò a terra occupando l’intero incrocio, il sussulto fu tale da far vibrare i vetri dei palazzi. Bio osservò Rasputin in carica verso il verme gigante. Correva trafelato come se la strada dietro di lui crollasse a blocchi. Balzò addosso al verme col braccio alzato e la mano chiusa nel pugno. Scomparve al suo interno. «Bug-dog annientato» lo rassicurò Null guardando Rasputin che usciva dalla bocca del worm trascinando delle stringhe come fossero budella fluorescenti. «Già fatto?» le domandò mentre Rasputin strappava via i denti, alti come le sue gambe, uno dopo l’altro con l’espressione quasi divertita. «Bravissima.» «Lo aiuto.» Fece per andare da lui, ma Bio le prese la spalla.

«No, è meglio se lo lasciamo fare da solo.» Un pezzo di carne flaccida prese il volo d’improvviso. Bio e Null si accucciarono di colpo sentendo spiaccicarsi i resti sul muro alle loro spalle. «Un po’ rude nei modi» borbottò Bio rialzandosi. «Un gladiatore fresco per i giochi» sorrise Ergo incrociando le braccia. «I programmi li ho trasferiti. È più sicuro.» «Bene.» Bio vide Rasputin entrare nelle viscere del verme e riemergere squarciandolo nel mezzo con il ghigno in faccia. «Guarda come si diverte.» Si accese una sigaretta. Null sospirò. «È così selvaggio.» Afferrò due dreadlocks e le fece scintillare. «Lo amo.»

Sei cambiato, Bio Il tempo di una EtiKoff e i pezzi del verme finirono ovunque nell’incrocio. Bio comprese che l’amico era soddisfatto quando si fermò a contemplare il macello. «Ha finito.» Controllò col monocolo se il verme fosse stato decompilato a dovere. «Ottimo lavoro.» Annuì levandolo. Rasputin si girò ansimante ricoperto di sangue e cenere. Li fissò e alzò il braccio in segno di vittoria. Poi, s’incamminò verso di loro. Il monitor etereo con l’avviso di urgenza si attivò diretto vicino al volto. «Dimmi, Sergey.» «Eliminato il verme?» gli chiese togliendo il sigaro dai denti. «Certo.» «E l’insegna del WebScan?» «Purtroppo, è andata distrutta durante lo scontro.» «I proprietari dicono che hai lanciato uno nuovo addosso all’insegna. Che l’hai rotta tu. E che devo risarcire i danni.» «Andrò a chiarire, se serve.» Sergey rise. «Chi è quello nuovo?» «Uno del Tunguska, l’ho preso subito viste le credenziali» scherzò. «Mi serviva un aiuto. Sai, qui nel G 5 è dura.» «Arriva dal Buffer?» Bio annuì. «Finisco di aggiornarlo entro pochi giorni, ma è già operativo.»

Sergey annuì e restò in silenzio. Diede una tirata al sigaro. «Mi devi dire altro?» «È per la tua licenza.» «La sicurezza dei G continuerà anche in mia assenza. Non starò via molto e sarò rintracciabile.» «Non è quello. È per Ghost.» Bio s’irrigidì. «Ne avevamo già parlato. Non mi riguardano i vostri discorsi territoriali.» «Lo so, ma ho sempre il dubbio che possa estorcerti informazioni.» «Ci sentiamo spesso e non sei argomento di discussione.» «Finché erano mail, ma ora che incrocerete i vostri codici, non so.» Bio serrò la mascella. «Credevo di averti dimostrato che ti puoi fidare.» Lo fissò serio. «E nessuno può estorcermi informazioni, nemmeno Ghost.» «Se le cose stanno così, divertiti.» Spense il monitor. Bio strinse i pugni. «Chi è Ghost?» chiese Rasputin. «Il suo amore» rispose Null mentre gli puliva il viso. «Ma è un anno che non si sentono, solo che Sergey non lo sa.» «Ti affido il suo aggiornamento. Che dici?» le disse Bio sarcastico. Null portò il dito alla bocca. «Scusa.» «È così che funziona? S’incrociano i codici?» scherzò Rasputin. «Ghost? L’ho già sentito questo nick.» Alzò il sopracciglio. Sobbalzò. «Oh! Quel Ghost?» Si schiarì la voce. «Sei cambiato, Bio.» Bio lo fissò perplesso alcuni istanti. «Non è il Ghost che ricordi tu.» Sorrise

scuotendo il capo. «Hai fatto un buon lavoro, ma la prossima volta spargi meno resti in giro.» Iniziò ad ammassare i pezzi gesticolando. I frammenti seguivano il filo di vento invisibile fin nel mezzo dell’incrocio. «E Michela, che fine ha fatto?» Bio si bloccò trattenendo dei frammenti in aria. «L’ho estratta, ma era troppo semplice e l’ASM l’ha sconfitta. Ha cessato di esistere un anno fa.» Sospirò. «La licenza è per commemorare la sua scomparsa, in realtà.» Rasputin chinò il capo. «Mi spiace.» «Vado a trovarla per non dimenticare.» Terminò di pulire la strada. Rasputin gli diede una pacca sulla spalla. Non aggiunse altro. «Mando i resti direttamente al Buffer.» Bio si concentrò. I resti del verme si dissolsero. Ergo e Null sorrisero. «Che avete da ridere?» «Proxy?» chiese Bio incamminandosi mentre un nuovo monitor gli comparve d’improvviso. La faccia irata di Overflow lo invadeva. Le lentiggini erano dilatate e i capelli più dritti del solito. «Perché crap mi hai mandato un worm senza compattarlo?» Picchiò i pugni. «Mi sono piovuti frammenti ovunque!» «Ops!» ghignò Bio infilando le mani in tasca, Null lo prese sottobraccio. «Scusa. Ci sentiamo presto.» Spense il monitor. Rasputin rise. «Benvenuto tra i ripulitori. Io sono Ergo» gli porse la mano. Gliela strinse. «Bella placca, a che serve?» chiese indicandogli la testa. «Te lo spiego solo dopo la decima birra. E offri tu.» Ergo s’incamminò al fianco di Rasputin.

La luce blu del led si rifletteva nel collo muscoloso del nuovo arrivato che s’apprestava a fare il suo ingresso al Proxy imbrattato a dovere, come ogni ripulitore degno del nome. Bio lo osservava con molte domande che gli pingavano in testa. «Threep-pi, rilassati» gli disse Null serrando la stretta al braccio. «Non lasciarlo solo mentre sono via, mi raccomando.» «Ricevuto. Mi sacrificherò volentieri se mi prometti che andrai a trovare Ghost, così vi chiarirete.» «Dovrei? Non basta il suo silenzio?» «Tu però potevi anche uscire prima, no?» Null lo fissò seria. «Magari le è successo qualcosa e non lo sai.» «Ghost sta benissimo. Fidati.» Gli diede un pizzicotto. «Ahi!» esclamò Bio. «Va bene. Ci vado.»

Domande senza risposta Bio avanzava nell’erba verde a testa china. Una leggera brezza gli spostò la cravatta, ma non se ne curò. Sospirò con rinnovato dolore nel rivedere la foto di Michela sulla tomba. «Ciao» disse deponendo il mazzo di rose bianche. Rimase in silenzio per un po’. Alzò lo sguardo. «Allora, come mi trovi? Invecchiato?» Rise. «In effetti. Al momento, la mia immagine dovrebbe essere di un trentacinquenne. Non so perché mi succede. Sarà l’ASM.» Infilò le mani in tasca. «Però per il resto, mi sento funzionante al cento per cento.» Mosse alcuni i sul lato corto. «Non indovinerai mai chi ho trovato ieri nel G 5?» Fece una pausa. «No. Non è lui. È difficile, lo so, ma ci puoi arrivare.» Si fermò. Annuì. «Brava. Rasputin 0. Proprio lui.» Si massaggiò la nuca. «Non solo io non ho mai conosciuto Igor Sokolov. Mi arriva pure il programma salvato dal finto Alessio dopo la gara in Las Vegas. Non so più che pensare.» Fece spallucce. «Dopo aver recuperato dal Buffer di Overflow Anna Lisa, la ragazza che mi era precipitata addosso nel Side, ho pensato che nel G finissero i fake. Però, quando ho controllato i suoi metadati, ho scoperto che proveniva dal Limbo.» Guardò la tomba. «Così, mi sono infiltrato ancora nella Matrice e ho visto che Anna Lisa era un’applicazione gestita da un programma: quel Gianni dell’aeroporto. Lui l’ha rifiutata, così lei è finita in spazzatura. Tremendo, vero?»

Camminò ancora. «A quel punto, ho iniziato a essere confuso perché Anna Lisa non era un fake creato per la simulazione, ma per Gianni. Quindi, perché è precipitata nel Side? A logica, se quelli della Shiba gettano la loro spazzatura nei G, perché la tappa al Side di Tokyo?» Scosse il capo. «Non ho la risposta nemmeno io. Sono in un vicolo cieco.» Infilò le mani nei capelli. «E ieri Rasputin 0.» Sospirò. «Ho dovuto mentirgli e fargli credere di essere mio amico. Lui non sa di essere il back-up di Rasputin. Lui crede di essere Igor e quindi amico di Alessio. In memoria ha i ricordi di Igor. Strano, vero? Ho pensato che per il suo bene fosse meglio dirgli che Igor era morto e che lui è rimasto in rete come mente.» Incrociò le braccia. «E già non l’ha presa bene.» Si sedette nell’erba vicino alla tomba. Slacciò il bottone della giacca nera. «È un programma davvero ben fatto anche se differisce dal vero Rasputin per come parla e si atteggia. Sembra una riedizione.» Accennò un sorrisetto. «L’assurdità è che ha i miei codici, ma non l’ho fatto io.» Scosse il capo. «Sono entrato in lui con la mia backdoor. È così che l’ho attivato.» Piegò le gambe. Poggiò i gomiti sulle ginocchia e si afferrò le mani. «Lo so, potrei riprogrammarlo, ma non lo faccio. Devo prima capire che ci fa qui.» Dondolò un paio di volte muovendo i piedi. «E chi l’ha fatto.» Si morse il labbro. «Non c’è logica in tutto questo. Non c’è.» Sbuffò. «Senza contare che mi è arrivato il quarto cristallo mentre ti curavo.» Guardò la foto di Michela. «Sono andato nel G per cercare delle risposte e mi ritrovo con altre domande.» Si sdraiò con un sospiro. Il cielo era terso. «Mi manchi.» Chiuse gli occhi. Restò in silenzio. A lungo. «No, da quella volta non l’ho più sentita» disse con gli occhi a fessura. «Se l’amo?» Si alzò a fatica come se la risposta gli pesasse. «Soffrirei se non l’amassi?» Osservò la montagna. C’era un silenzio rasserenante.

«Le ho scritto una mail al giorno. Le ho mandato anche dei video. E dei regali.» Abbassò la testa. «E lei mai un cenno.» Calciò l’erba. «Forse le interessa solo che paghi regolare l’affitto del server, tutto qua.» Una ciocca gli scese sopra l’occhio sinistro. «Del resto, Ghost è sempre stata molto gentile, ma non mi ha mai dato speranze in quel senso.» Sistemò la cravatta. «Mi ha spedito il cristallo con un messaggio asettico. Mi dava solo la sua opinione e nient’altro.» ò la mano sulla camicia reinserendola nei pantaloni. Aggiustò i polsini in tono grigio scuro. «Comunque, ho promesso a Null che sarei andato a farle un saluto. Quando la vedrò, capirò. Così me ne farò una ragione.» Si accucciò e poggiò la mano sulla tomba. Gli occhi ritrovarono la commozione. «Ciao, Micky. E grazie per la chiacchierata.» Si alzò, andò alla tomba di Alessio. Le diede un colpetto col piede. «Tu che puoi, stalle vicino.» Indietreggiò. «Ciao, ragazzi. Alla prossima.»

Solo un’illusione Il server Gt205 era rimasto immutato. Il suo ingresso riservato era attivo. Thomas lo salutò come fosse un vecchio amico che non vedeva da molto tempo. Bio ebbe un piacevole scambio di convenevoli, ma nulla di più. Percorse la strada di vetro blu in direzione dell’Hot Byte con ansia crescente. Entrare nel locale fu come aprire un file abbandonato nel computer. Si sforzò di ritrovare le emozioni di un tempo, ma erano svanite. C’era solo l’amarezza di averle perse. Percorse il corridoio fino alla sala principale dove Ghost aveva il privè. Si fermò sull’ingresso. Osservò il vetro annerito da lontano. Il Biondo era fermo sulle scale, come solito. Delle sagome scure sembravano sedute sul divano. Bio attivò il monocolo etereo. Ingrandì le figure. La natura unica di Ghost gli apparve inequivocabile nella sua luce argentea. Il programma che le sedeva accanto la stava stringendo tra le braccia. La stava baciando. La luce di Ghost era circondata dai quei codici che la lambivano senza tregua. Bio sussultò mentre un brivido freddo gli percorse la schiena. Disattivò il monocolo. «Almeno mi sono risparmiato l’umiliazione dell’incontro» sussurrò. Si girò a testa bassa e uscì con o frettoloso. Non si fermò finché non vide Thomas. «Va già via, signore?» Bio annuì. «Mi hanno chiamato. C’è un’emergenza.» «Deve essere molto grave. Sembra sconvolto» lo guardò accigliato. «Mi spiace. Spero che si aggiusti tutto.» Bio cercò di calmarsi. Toccò l’uscita. Creò il contatto diretto col G 5. Thomas sobbalzò. «È sicuro?»

«È casa» gli rispose serio prima di lanciarsi nel caldo acido rilasciato dai poligoni che circondavano la vasta rete dei G. Spigolosi e cosparsi di HyperPB, sembravano ricoperti di pece bollente che escludeva perfino l’aggiornamento del sistema oltre che ostacolare l’ingresso agli utenti umani. Andò diretto al Proxy. Il pub era chiassoso. L’odore della birra e del cibo cotto era impregnato nel legno dei tavoli e delle panche. Programmi umanoidi e ibridi gozzovigliavano a gruppi. Attraversò il locale lasciandosi il bancone sulla sinistra che, assalito in ogni suo punto, s’individuava solo per i fasci di luce dei faretti e la parete alta, colma di bottiglie. Cercò i suoi amici al tavolo riservato ai ripulitori. Ergo era appoggiato alla parete con la gamba distesa lungo la panca. Null stava massaggiando la schiena a Rasputin che era chino col volto tra le mani. «Threep-pi!» Sgranò gli occhi quando lo vide. «Sei già qui?» Ergo lo fissò dubbioso senza dire nulla. «Ho finito prima del tempo» rispose alzando il braccio verso il bancone. In risposta ebbe il cenno della mano robusta del barista. «Arriva subito, Bio» disse con voce grossa. Rasputin lo guardò. Aveva gli occhi arrossati. «Com’è andata?» gli chiese bevendo un sorso dal boccale. Bio tolse la giacca abbandonandola sulla panca mentre Ergo toglieva la gamba. «Regolare con i traati.» Allentò la cravatta. «Destabilizzante con i atioltre.» «Bio, la tua birra!» gridò il barista. Bio si girò. Quando ebbe in mano il suo boccale, lo alzò. «Ai miei amici. A voi!» Iniziò a bere cercando di sciacquare via le emozioni che lo stavano opprimendo,

ma non fu abbastanza. Fissò gli occhi verdi di Rasputin ancora lucidi con un senso di fastidio. Gli afferrò la maglia. «Vieni.» Null si alzò in piedi. Ergo scosse il capo. «Speravo ti fosse ata.» Rasputin si alzò. Gli scostò la mano. «Che hai in mente?» «Andiamo a giocare.» Si avviò facendosi largo bruscamente. Quando uscirono dal locale, creò una porta eterea in strada. «Threep-pi, ripensaci!» Bio le accarezzò la guancia. «Non ti preoccupare. Te lo riporto intero.» «È andata così male?» gli sussurrò Null stringendolo in un sentito abbraccio. Non le ripose. La baciò sulla fronte e l’allontanò delicato. «State attenti» disse Ergo sospirando. «Mors tua vita mea.» Bio indossò la mimetica, le protezioni e creò l’Ingram. «Ho capito» sorrise Rasputin cambiando la maglietta in una body-armor verde marcio e generando un AK-108. «Quo Vadis?» disse l’unica frase in Latino che sapeva, forse, a Ergo imbracciando il fucile d’assalto. La porta si elettrificò mostrando una grata corrosa come fosse insanguinata. Bio poggiò la mano sulla grata creando una frattura che si espanse fino agli stipiti. «Benvenuto in Quarantena.»

La Voce in Quarantena «La Quarantena è l’arena dei G, in pratica» disse Rasputin avanzando guardingo nella valle rocciosa. Colline di terra rossa e qualche ammasso pietroso sembravano l’ideale per una battaglia. «Eppure, a me ‘sto posto ricorda qualcosa.» «Non distrarti. Guarda che arrivano. Ho spostato cento bestioline. Ti bastano?» gli chiese serio camminando schiena contro schiena. «Cinquanta a testa? Non saranno troppi per te, nonno?» Bio sorrise. «Quando sei stanco, avvisami.» «Da qui, non c’è modo di essere recuperato, vero?» «Sei in Quarantena. Se non esci, sei distrutto alla fine del ciclo con tutto quello che c’è dentro.» Un polverone rosso iniziò a sollevarsi all’orizzonte. Bio e Rasputin puntarono le armi. Quadrupedi massicci come rinoceronti e pesanti come elefanti caricavano verso di loro. Ammassi scuri e melmosi s’impossessavano di parti del cielo sagomando grossi quadrati che restavano monocromatici dopo il aggio. Ragnatele dall’azzurro intenso friggevano l’aria saturandola di olio bruciato. Sembravano vecchi demoni riemersi dall’antico sistema pronti a rivendicare la loro utilità perduta. Bio si concentrò mentre la terra intorno iniziava a vibrare. In battaglia la voce del cuore distrae. Non va ascoltata. Se l’era ripetuto fino alla nausea. E se lo ridisse anche mentre crivellava un Dialer dalle sembianze di una chimera. Dopo una capriola in avanti per evitare il aggio della coda tagliente, Bio balzò in groppa alla bestia nel mezzo delle due teste. Sparò una raffica diretta

alla nuca della capra. Dopo essersi afflosciato sul dorso, la testa prese a penzolare con la lingua sporgente. La chimera s’imbizzarrì, Bio saltò giù. «La voce del cuore inganna» disse a denti stretti mentre sparava contro la pancia della bestia come se volesse inciderla. Le viscere colarono trascinando la chimera negli ultimi istanti di coscienza. Il lamento straziante lo infastidì. «Taci! Taci!» gridò colpendola con i pugni sul muso. La chimera s’ingrigì esalando la cenere che ricoprì Bio ancora ansimante. Se era rimasto nel G era per non avere pace. I continui allarmi gli avevano impedito di crogiolarsi nel dolore che si portava dentro. Col tempo era riuscito a conviverci e non era impazzito proprio perché ascoltava la voce del suo cuore attingendo sostegno e conforto. Ora sapeva che quella stessa voce gli si sarebbe ritorta contro frustrandolo e avvilendolo. «Ghost» sussurrò puntando il verme gigante in avvicinamento. «Metterò in quarantena anche il mio amore per te.»

Ho un messaggio Il massacro si concluse con il grido di Rasputin mentre il torpore della quieta disperazione invase Bio come consuetudine. Si sedettero sulla collina ferrosa e contemplarono la poltiglia grigiastra che ammorbava la valle. «Come ti senti?» «Meglio» rispose Rasputin imbrattato di cenere e terriccio. «Ci voleva.» Bio prese le sigarette e gliene offrì una, ma Rasputin scosse il capo. «E tu?» Inspirò a occhi chiusi. Gettò fuori il fumo rosso sdraiandosi. «Vado avanti.» Rimasero in silenzio per un po’. «Bio, vorrei chiederti una cosa.» «Dimmi» gli rispose gettando via il mozzicone. «Dici di essermi amico…» Lo fissò poco prima di alzarsi. «Perché, allora, mi hai mentito?» Bio cercò di trattenere la reazione di stupore. «Non ti seguo.» Deglutì. «Che vuoi dire?» Rasputin fissò l’orizzonte. «Io non sono Rasputin e non ero Igor Sokolov.» Si girò e lo guardò ancora, serio. «Non lo sono mai stato.» «Cosa te lo fa credere?» «Mentre eri via, mi sono analizzato. Era per quello che ero depresso.» Smosse le spalle. «Sembra che io sia Rasputin 0, il programma salvato da Alessio. Un back-up di Rasputin, per essere esatti. Mi sbaglio?» Bio si ravvivò i capelli sulla nuca.

«Tu lo sapevi e mi hai raccontato un sacco di puttanate.» Bio si alzò. «Te lo avrei detto, tra un po’. Non volevo confonderti appena attivato. Credimi, non-» «Perché le patch?» Rasputin lo interruppe alzando la mano. «Quali patch?» «Tu non sei Alessio.» Rasputin corrucciò la fronte. «Chi sei, davvero?» «Io ero Alessio Merisi.» Bio alzò il sopracciglio. «Su questo non ti ho mentito.» «Allora, perché ho in me un messaggio crittografato di Alessio Merisi per te?» gli chiese stringendo i pugni e guardandolo col grugno di un cinghiale selvatico. Bio esitò un attimo, sconcertato dalla notizia. «Me lo ridici.»

10 - Michela Reebot yourself

Non si può cambiare ciò che si è nati per essere.

Fine della privacy «È buffo che una sala giochi sia divenuta il nostro punto di riferimento, non trovi?» bisbigliò Michela al telefono. Teneva la mano vicino alla bocca per limitare l’eco nello studio silenzioso del commercialista. «In effetti.» Alessio rise. «Però c’è più privacy qui che da Patrick. Poi, adesso che è arrivato il suo tipo, non si dorme più.» «Ma è così bello come dice?» «Non m’intendo molto di bellezza maschile. Sei tu l’esperta. Stasera me lo dirai. Vengono qui.» «E la nostra seratina?» «Che ci posso fare?» Sospirò. «Patrick vuole fare un’uscita in quattro. Comunque, è solo per la cena. Poi, abbiamo un’ora tutta per noi.» «Va bene» annuì. Ci fu una pausa di silenzio. «Lo so, Micky. Manca anche a me, il nostro rifugio.» «Chi immaginava che sarebbe stato così complicato.» «A proposito, mancano cinque giorni al mio turno. Domenica, ci chiudiamo dentro casa a costo di mandare via a pedate tutti quanti.» Michela sorrise. «Non vedo l’ora. Ho tanta voglia di stringert-» «Signorina Berettina!» La voce del commercialista tuonò lungo il corridoio. Michela sobbalzò. «Che dice? Ci fermiamo qui?»

«Scusi, ho finito» rispose a voce alta. «Amore, devo salutarti» bisbigliò. Baciò il cellulare sperando che quello stesso bacio prendesse un aggio sulla rete e si materializzasse dall’altra parte, diretto sulle labbra di Alessio. «A stasera, alle otto. Ciao.» Riagganciò. Michela osservò il grosso orologio a parete, erano le due e venticinque. Sbuffò. «Mancavano ancora cinque minuti alla fine della pausa, però» borbottò sottovoce. Lanciò un’occhiata scocciata nel corridoio, alla parete bianca sporcata dall’odiosa riproduzione della Maya Desnuda di Goya. Le fece la linguaccia. Sistemò meglio la sedia sotto il tavolo e riprese il lavoro. Mancavano molte ore e, purtroppo, quelle pomeridiane non avano mai.

Obblighi e desideri Alle diciotto e dieci, Michela iniziò a salvare i dati. Uscì dalle schermate e spense il computer. Sistemò la documentazione, pinzò i fogli e li dispose in archivio. Sorrise soddisfatta. «Bene, anche per oggi ho finito.» Tirò indietro la sedia. Si alzò andando verso l’appendiabiti. «Signorina Berettina, può venire?» Michela ringhiò in silenzio. «Certo!» disse fingendo entusiasmo. Camminò rapida lungo il corridoio strisciando il divano di pelle nera. Bussò alla porta socchiusa, entrò senza attendere. La stanza rettangolare era ben illuminata grazie al balcone sulla sinistra. Soprattutto la scrivania centrale che aveva una grossa lampada da tavolo con la luce verde, forse donata insieme alla laurea. L’ampia libreria a angolo fino al balcone e l’altra opposta, più modesta e colma di archivi, soffocavano l’ambiente, ma in compenso c’era un rilassante dipinto di girasoli alle spalle del commercialista. Lui era seduto, la giacca scura appoggiata sullo schienale. Appena la vide, le indicò la sedia davanti alzando il braccio. Il polsino della camicia bianca strisciò il Rolex d’oro, che rubò i riflessi della stanza. Michela si sedette aspettando il rimprovero, forse la telefonata della pausa pranzo l’aveva irritato. «Senta.» Tolse lento gli occhiali sottili. Strofinò gli occhi con indice e pollice, ma per pochi istanti. «Avrei bisogno di una sua collaborazione più attiva per le dichiarazioni dei redditi» disse muovendo appena la bocca sottile circondata dal pizzetto curato. «Sì, certo. A sua diposizione.»

La guardò serio. «Un’oretta tutte le sere, per iniziare, e i fine settimana. Oggi è martedì sedici aprile. Andare a metà maggio, dovremmo farcela. Se prevedo dei ritardi, aumenteremo le ore serali. È ovvio che le pagherò il taxi per tornare a casa.» Michela spalancò la bocca. La sua idea di oretta, di solito, erano due come minimo. E il discorso dei week-end le sgretolò mentalmente il progetto con Alessio. «Mi rendo conto del disagio, ma il lavoro viene prima di tutto.» Intrecciò le dita, gli indici erano alti e si toccavano a intervalli regolari. «Concorda?» «Certo, capisco» rispose a testa bassa. «Solo che questa domenica avevo un impegno. Importante.» «Riveda le sue priorità, signorina.» Gli indici si fermarono. Sciolse le dita. Infilò gli occhialini spingendoli a fondo. Lo sguardo scuro si deformò appena dietro le lenti. Abbassò il volto affusolato e iniziò a scrivere sull’agenda settimanale. «Prego, mi porti la cartella del Dottor Guidotti. Stasera partiamo con quella.» A Michela mancò il respiro. Ansimò a voce alta senza rendersene conto. Il commercialista alzò rapido lo sguardo. «Non sta bene?» Smise di scrivere. Michela chiuse la bocca. Deglutì. «No, tutto bene. Le porto subito la pratica.» Mentre stava pensando di essere già nel corridoio, le gambe erano in realtà bloccate. Si fissarono in silenzio. «Sta usando qualche potere speciale, forse?» Sembrava una battuta, ma il tono non ammetteva una replica comica. «Che dice? Usiamo la già collaudata camminata?» Mimò con due dita delle gambette che si muovevano a o spedito. Michela si alzò. «Scusi. È che stasera…» Si strinse nelle spalle. «Ecco, io…» Il commercialista si schiarì la voce. «Quando l’ho assunta, mi era sembrata seria e motivata. Devo forse ritenere di essermi sbagliato nel giudicarla?»

Michela scosse il capo. «Certo che no. È solo che è davvero un brutto momento per Alessio.» Lui alzò la mano sinistra. Ancora si vedeva l’alone della fede nuziale. Serrò gli occhi, le palpebre si muovevano come fossero in fase REM. «Non mi sta facendo perdere tempo con i problemi del suo fidanzato, vero?» Riaprì gli occhi. Si alzò. Smosse la cintura dei pantaloni nuovi e già larghi, come se ci fosse dimagrito dentro. Si avviò alla porta con pochi i decisi. Afferrò la maniglia, la spalancò. «Mi porti la pratica, per cortesia.» Michela si avviò con sguardo dritto e serio. «Subito.» Prima di recuperare la pratica dallo scaffale, afferrò il cellulare e mandò un messaggio veloce ad Alessio mentre i polpastrelli del commercialista tamburellavano spazientiti.

Un ragazzo fortunato Mentre il commercialista chiudeva a chiave lo studio, Michela chiamò l’ascensore guardando l’ora sul cellulare. «Le dieci e trentacinque» bisbigliò arricciando il naso. Il vano era in ferro battuto, una cella con le sbarre arricciate. Cigolava e vibrava mentre la cabina saliva lenta tirata da grossi cavi ingrassati. L’odore dell’olio e del ferro era intenso. Appena giunse, Michela afferrò la maniglia e la ruotò. Il commercialista tenne aperta la porta-grata nera mentre lei apriva le due porticine per entrare nell’ascensore che a stento li conteneva entrambi. Dopo i soliti dieci secondi d’attesa e il sobbalzo, iniziò la discesa. «Le chiamo il taxi?» le disse con lo smartphone in mano. «Non vado a casa, non mi sembrerebbe corretto» rispose osservando lo scorrere lento del giro scale alternato con i piani. «Grazie lo stesso.» «Posso chiederle la destinazione? A quest’ora non è molto sicuro girare da soli, soprattutto per una ragazza.» «Vado da Alessio, al Babelpunk.» «Intende quella nuova struttura collegata al Bicocca Village?» Michela annuì. «In Bicocca ci posso are. L’accompagno, se vuole.» Michela si girò di scatto. «Davvero?» «Le ho chiesto di fermarsi senza preavviso. Lei ha rinunciato al suo precedente impegno. Mi sembra equo.»

Michela abbassò il capo. «Solo per questa volta, e in via del tutto eccezionale» precisò schiarendosi la voce. «Grazie, allora.» Arrivati a piano terra, andarono nel cortile interno. L’auto a cinque porte sembrava attenderli con aria seccata; forse era la linea che definiva i fari a darle l’espressione seria, era rigida e saliva verso l’esterno. Michela si accostò alla portiera. Dentro era un tripudio di accessori: il navigatore satellitare, il lettore mp3, il portaoggetti tra i due sedili, la gruccia appendiabiti fissata al poggiatesta… Al porta lattine, Michela deglutì l’imbarazzo. Si sedette e chiuse delicata. Lui infilò la stilo nel foro vicino al volante di pelle. Accese l’auto con un pulsante. Il cruscotto s’illuminò come la centrale operativa di uno Shuttle. Luci azzurrognole illuminarono uno dei vasi di pietra con i cespugli alti che definivano il sentiero fino al portone. Iniziò una sequenza di manovre infinite per uscire dal cortile col sottofondo del bipper del sensore di prossimità. Usciti, girarono sulla destra. Dopo pochi numeri di via Plinio, entrarono in Piazza Lima e poi in Corso Buenos Aires vestito per la sera. Michela osservava le vetrine illuminate dei negozi. I manichini indossavano i fiori di chiffon delle mise primaverili lasciandosi ammirare meglio che di giorno. «Scusi la domanda personale, ma sono curioso» le disse dopo un po’. «Il suo fidanzato che mansioni ricopre nella sala giochi?» «È un sistemista. Si occupa della manutenzione e della sicurezza della rete, dell’aggiornamento dei computer e delle mascherine per il 3D.» «Come mai non ha trovato lavoro in un’azienda seria?»

Michela corrucciò la fronte. «Il Babelpunk è una sala giochi molto seria, sa? Guardi, che è la più grande d’Italia. Ed è famosa in tutta Europa.» Puntualizzò col dito alzato. «E non solo.» Lui la guardò di sfuggita. «Se lo dice lei. Rimane comunque un lavoro senza sbocchi professionali.» «Non è proprio così. Alessio è molto bravo con i videogiochi.» Incrociò le braccia. «Pensi, che l’anno scorso ha vinto una gara in Las Vegas. Gli avevano dato centomila dollari.» «Centomila?» Sgranò gli occhi. «Già! Da contratto ha dovuto devolverne una parte in beneficenza. Poi, pagarci le tasse. E un’altra parte l’ha data al suo avversario, perché Alessio è molto generoso.» Annuì guardandolo seria. «Alla fine gliene erano rimasti circa trenta, ma lui era felicissimo lo stesso.» «È sempre una cifra interessante.» Sbatté le palpebre più volte. «Era una gara fine a se stessa? Non c’erano dei talent scout interessati a un tale campione?» Michela si zittì abbassando lo sguardo. «In effetti, sì.» Si sfregò le mani. «Ma avrebbe dovuto andare in Giappone per alcuni anni. Non…» Si morse il labbro. «Capisco. È rimasto per lei.» Cambiò la marcia con una smorfia fastidiosa che gli deformò il labbro. «Chissà se rimpiange quella scelta. Lei che dice?» Michela ebbe un brivido. «Alessio è molto bravo. Col tempo arriveranno altre occasioni. E non è detto che il Babelpunk stesso possa rivelarsi qualcosa di più per lui.» Sospirò sfiorando il vetro. «È forte, uscirà presto da questo momento difficile. È solo questione di tempo.» «Non ne dubito.» Si fermarono all’incrocio. «E poi, ha lei al suo fianco. È molto importante, mi creda.» Alzò gli occhi verso il semaforo. «Si capisce l’onestà dei sentimenti di una persona solo quando arrivano i problemi. Alessio è un ragazzo fortunato.» «Io sono quella fortunata» gli rispose decisa fissandolo. Ingranò la marcia e ripartì.

«Senta, visto che il tecnico continua a rimandare l’uscita, dice che potremmo disturbare Alessio per i disagi di rete che abbiamo in questi giorni in ufficio? Lo pago, s’intende.» «Sì. Non credo ci siano problemi. Glielo chiedo.» Lui annuì. «Bene.» Rimasero in silenzio fin quando videro le luci del Bicocca Village in lontananza. «Domani mattina io non ci sarò. Aprirebbe lei l’ufficio, se la sente?» «Certo.» «Dovrebbe arrivare quello dei traslochi. Deve portare via un quadro, La Maya Desnuda. Lei lo faccia entrare e gli dica di portarsi via la tela anche così. Tanto è della mia ex-moglie.» «Bene.» Entrarono nel parcheggio del multisala. «Cosa le piacerebbe al posto di quella signora disinibita?» Michela rimase perplessa della richiesta. «Un panorama allegro andrebbe benissimo, se piace a lei però.» «Abbiamo gli stessi gusti, mi sembra.» Si fermò, mise le quattro frecce. «Eccoci arrivati.» «È stato molto gentile, grazie.» Si frugò in tasca. «Ecco qui.» Prese il mazzo di chiavi. «Le affido l’ufficio. Mi raccomando.» «Stia tranquillo.» Aprì il palmo. Le chiavi tintinnarono appoggiandosi. Le strinse delicata un poco prima d’infilarle in borsa. «Grazie ancora.» Lo salutò con un sorriso cortese scendendo dall’auto. «Buona serata.»

Chiuse la portiera e si avviò di corsa lungo la gradinata del multisala. Il Babelpunk era sulla sinistra. Da fuori sembrava un palazzo comune se non fosse stato per le vetrofanie che davano privacy ai giocatori. I muri erano bianchi, tranne che per la scritta al neon che copriva il lato lungo creando un’atmosfera molto Las Vegas. Svincolò i soliti fumatori che a gruppetti si contendevano i posacenere giganti di ferro. Aprì le porte del Bicocca e il caos l’inondò stampandole un sorriso. «Arrivo, Ale!»

Il Babelpunk Salì all’ultimo piano. Attraversò uno dei ponti di vetro illuminati a giorno che portavano al Babelpunk. Il ponte di luce per entrare… Essendo già in ritardo non salì sul tappeto mobile, iniziò una corsetta sul percorso parallelo. Le pareti indossavano le locandine di tutti i giochi in corso, ma la sala principale dava sempre e solo Age of Apocalypses. La ressa era un’abitudine dato che i giocatori s’accalcavano per il turno. Michela osservò la distesa di postazioni ognuna col computer e il monitor in 3D di ultima generazione. Tutti i giocatori con le cuffie, il microfono e le mascherine apposite. Andò al bancone rialzato, dove gli operatori erano in perenne collegamento per la gestione della rete. Maglietta rossa, jeans e cordicella al collo col di plastica costituivano la divisa del micro esercito del Babelpunk. Vide il collega di Alessio, quello simpatico con i capelli biondi sparati in aria dal gel. Portava la cuffia dietro la nuca apposta per non appiattirsi i ciuffi. «Ciao, Skizzo» lo salutò chiamandolo col nick. Lui le sorrise generosamente, ma fu un istante e tornò subito con gli occhi azzurri sullo schermo. Le indicò un due con la mano. Michela attese i due minuti ascoltando la musica elettronica in sottofondo, l’ultimo album dei Daft Punk, utile alle ragazze che ciondolavano sui cubi sotto i fari. Vestite a seconda del gioco proposto o da personaggi di anime giapponesi, ancheggiavano per intrattenere i ragazzi tra un turno e l’altro quando non si rifocillavano al Bicocca Village. «Ciao, bella!» S’alzò di scatto Skizzo. «Cerchi Alessio? È in magazzino. Scendi giù al meno uno. Io avviso che stai arrivando. Se no mica ti aprono. Ciao, bella!»

Ritornò alla postazione. Skizzo faceva tutto da solo. Era più che efficiente, era un veggente. Michela gli sorrise e lo salutò. Imboccò l’ascensore col cartello solo per gli addetti. Un altro collega di Alessio, Red Rhino, la salutò con un cenno della testa. Il naso importante quasi nascondeva gli occhi piccoli e scuri incorniciati dai ciuffi rossi. Entrò e premette il meno uno. Non c’era la musica, l’attesa fu scandita solo dai suoi sospiri. Appena si aprirono le porte, Michela uscì. Il corridoio era stranamente poco illuminato. Oltreò il vano, le porte si richio. Una leggera penombra le fece storcere il naso. «Si sarà bruc-» Una mano le afferrò il polso e la tirò nell’ombra. Michela sussultò. La borsa le cadde a terra. Solo quando sentì il sapore di Alessio e il suo corpo che la stringeva, si rilassò. Un lungo bacio la tenne stretta a lui fin quasi a perdere il fiato. Alessio le prese i fianchi e la portò contro la parete. «Ma dove sei stata tutto questo tempo?» le sussurrò all’orecchio mentre le apriva i bottoni della giacca. Michela teneva gli occhi chiusi, la bocca sulla sua guancia appuntita dalla barba di un giorno. «In ufficio. Ti ho mandato un messaggino.» Ansimò stringendogli le spalle, la maglietta era umida di sudore. Intrecciò le dita nella cordicella in tessuto porta che gli cingeva il collo. «Abbiamo iniziato le dichiarazioni dei redditi.» «Non mi è arrivato, strano.» La baciò sul collo. «Mi sei mancata da impazzire» disse mentre le sfilava la camicia. Le ò la mano sulla schiena. La baciò ancora stringendole la nuca.

Michela fu invasa da un concerto di brividi. «Anche tu, tanto.» «Non so se reggo, sai?» le sussurrò sbottonandole la camicia. La strinse con tale ione che quasi le cedettero le ginocchia. «Sono tanti giorni andare a domenica.» Domenica le creò un groppo alla gola. «Ale, devo dirti una cosa.» «Cosa?» chiese mordendole il rigonfiamento del seno. «Aspetta, Ale. Fermo.» Gli afferrò il volto. «Dimmi.» «Mi spiace tanto.» Lui si allontanò di poco. «Cos’è successo?» «Devo lavorare.» Ci fu un momento di silenzio. «Quando?» «Domenica.» «Questa, domenica?» le chiese titubante. «Sì.» Le mani di Alessio le avvicinarono i lembi della camicetta. Michela li afferrò. Sentì il suo corpo allontanarsi. Alcuni i. Uno scatto metallico e un paio di cilindri al neon sfarfallarono prima di illuminare buona parte del corridoio. Alessio aveva la testa bassa appoggiata alla parete e la mano ancora sull’interruttore. Michela si abbottonò rapida la camicia. «Me l’ha detto stasera. È solo fino a metà maggio.»

Alessio poggiò l’avambraccio al muro. I muscoli delle braccia si definirono. Girò la testa nella direzione opposta alla sua. La maglietta impolverata si sollevò mostrando i fianchi che reggevano il jeans a vita bassa senza cintura, scolorito e sporco non per seguire la moda. «Ale, non dici nulla?» «Cosa dovrei dire?» ripose secco senza girarsi. «Non riusciamo più a stare da soli da un mese. Finalmente riesco a organizzare una domenica e tu devi lavorare. Scusa, ma mi vengono in mente solo parolacce.» Michela si avvicinò, lo abbracciò. Alessio intrecciò le dita nelle sue. Sbuffò sonoramente. Si girò a testa bassa con i ciuffi che gli coprivano gli occhi. Scivolò lento grattando con la schiena il muro. Picchiò un paio di volte la testa sul muro. Il volto era sporco sul mento e gli zigomi. «E sono tre giorni che catalogo film per adulti» sospirò guardandola. «È una tortura medioevale, la mia.» Michela sorrise portando la mano davanti alla bocca. Si sedette. Alessio aprì le braccia. «Non fa ridere.» «Sì, invece.» Gli si accoccolò al petto chiudendo gli occhi mentre lui le toglieva le forcine dai capelli. Una dopo l’altra, le sciolse le ciocche che caddero libere tra un bacio e l’altro. «A proposito, mi stavo dimenticando.» Lo allontanò spingendolo di poco con la mano. «Che altro c’è adesso?» la guardò accigliato. «Verresti a sistemare la rete in ufficio?» Alessio esitò. «Non avete un tecnico di fiducia?» «Sì, ma è una settimana che rimanda. E noi siamo senza internet.» Alessio si alzò tenendole le mani. «È una tua idea o te l’ha chiesto lui?»

«Lui, lui» annuì. «Non mi sembri contento. Perché?» Alessio scosse il capo. «Perché è meglio non mettere le mani nella rete di un commercialista se non si ha un contratto. Se poi succede qualcosa, io non sarei tutelato.» «Dice che ti paga, ti farà un contrattino per forza.» «Non mi fido.» La allontanò. Fece due i rasentando la parete. Michela rimase in silenzio, perplessa. Alessio si girò di scatto e la indicò. «Lui vuole-» Serrò la mascella restando col dito in aria. «Tu non puoi capire.» Si zittì e la guardò basso. «Non posso, mi spiace.» Michela gli accarezzò la guancia. «Non credevo fosse tanto complicato.» «Non è questo.» Le scansò la mano girando bruscamente il viso. «Ci sono dei meccanismi, delle regole.» Sembrava avere un milione di motivi e non poterne dire nemmeno uno. «Se non te la senti, fa nulla.» «Ora, devo tornare al lavoro. Vai a casa, è tardi.» Prese dalla tasca posteriore del jeans il portafogli di pelle nera opaca. La catenella tintinnò. Lo aprì. Prese due banconote, trenta euro in tutto, e gliele porse. «Ecco, i soldi per il taxi.» Michela scosse la testa. «Insisto.» «Non ti preoccupare.» Inclinò la testa di lato. «Faccio da sola. Conservali.» Alessio la fissò serio. «Non farlo.» Li appallottolò nel pugno. «Non trattarmi come un pezzente.» «Accidenti a te e al tuo orgoglio!» sbottò Michela battendo il piede a terra. «Sei insopportabile quando fai così.» Alessio aprì il pugno e lasciò cadere in terra i soldi stropicciati. «Grazie per la

visita.» Si avviò. «Ci sentiamo.» Aprì la porta di metallo strisciando il sulla serratura. La richiuse senza voltarsi. «Cocciuto come un mulo!» Michela recuperò i soldi per renderglieli alla prima occasione, prese la borsa e chiamò l’ascensore. Nell’attesa, udì qualcuno ridere da dietro la porta e la voce di Alessio che imprecava. Entrò nell’ascensore, premette il piano terra. Il vasto atrio in penombra era silenzioso. Un deserto. La tristezza s’impennò. Imboccò il tunnel. … il tunnel buio per uscire. Il gioco di tubi rotanti concentrici le dava l’impressione di camminare in una galassia e la nebbiolina di ghiaccio sintetico fluttuava sul pavimento confondendo non solo i i, ma anche la mente. Ebbe un giramento. Si fermò toccandosi la tempia. Respirò piano. S’incamminò nuovamente, ma ogni o era più faticoso. Pesante. Trascinò i piedi verso l’uscita come se si stesse allontanando da qualcosa cui era legata. Sulla porta Michela lesse il cartello: Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate. Il verso del Canto III di Dante, quando entrava nell’Inferno, affisso sulla porta che conduceva al mondo reale era davvero cinico e ironico al tempo stesso. Abbassò il maniglione antipanico con un sospiro. Quando fu all’aria aperta, le sembrò di essere in una gigantesca stanza viziata dove tutto aveva il leggero sentore della plastica. Aprì la borsa, prese il cellulare e chiamò il taxi. Le chiesero dove fosse e dove volesse andare, rispose decisa: «Al Babelpunk in Bicocca. E…» esitò. «La destinazione è via Lazzaro Palazzi.»

Fin troppo riservato Citofonò sull’etichetta 23. «Chi è?» La voce era chiara e squillante. «Ciao, Patrick. Sono Michela. Perdonami per l’ora tarda. Posso salire in casa?» «Michela? Sali, sali. Ti apro.» La porta di legno, inserita nel battente destro del massiccio portone, gracchiò. «È aperto. Grazie!» Corse lungo l’atrio colonnato, la portineria era chiusa. Attraversò il cortile, la luna alta illuminava i gelsomini che come puntine di panna solleticavano le siepi ben curate e la corteccia della splendida quercia centrale. Entrò nella scala a sinistra. Salì al secondo piano facendo di corsa le scale di marmo, anche se l’ascensore era a disposizione. Patrick era sulla porta. La figura alta e glabra, tranne che per i capelli neri, con indosso solo i boxer bianchi, risaltava statuaria e indorata dalla calda luce delle scale. «È successo qualcosa ad Alessio?» le chiese fissandola. Lo sguardo era messo in ombra dalle sopracciglia folte e basse. «No, tutto bene» bisbigliò. Patrick sospirò. «Meno male.» Spalancò la porta. «Entra, non stare sul pianerottolo.» «Scusa, lo so che è tardissimo.» «Figurati. Tanto non dormivamo.» ò la mano sul ciuffo cotonato. Michela entrò. La stanza era illuminata in modo soffuso e c’era una sinfonia

classica in sottofondo. Mentre Patrick chiuse a chiave la porta, Michela rimase impalata sull’ingresso. «Entra, accomodati.» Le indicò il divano di pelle disposto a elle vicino alla finestra. Due poltrone erano di fronte, il tavolino di vetro basso ospitava due calici e una bottiglia di champagne quasi vuota. Michela avanzò lenta. Girò la testa quando notò nell’angolo della cucina la luce del frigorifero aperto. Lo sportello si richiuse. L’Arcangelo Gabriele, incarnatosi nel corpo di un vichingo di due metri, le sorrise mordendo una fragola. Indossava solo i boxer neri. «Oh, mioooddio» borbottò. «No, è solo Gabriel» sogghignò Patrick. «È svedese. È il mio boy. Bello, eh?» «Ciao.» Lo salutò con un gesto rapido della mano. Gabriel avanzò con o lento sorreggendo la ciotola di vetro con le fragole. I muscoli delle gambe danzavano mentre i piedi accarezzavano il pavimento. Quando le fu a un o, Michela alzò la testa. «Ti ho già visto, sai?» «Ovvio. È il top di Armani.» Michela scosse il capo. Gabriel corrucciò la fronte e portò la mano sul mento. «Ti ricordo qualcuno?» le chiese con voce profonda. «Ecco! Sì!» Lo indicò. «Eri in Valchiria Odyssey. Eri il dio vichingo. Caspita! Sei stato bravissimo. È che in mutande non ti avevo riconosciuto.» Si grattò il naso. «Cioè, senza armatura, intendo.» Gabriel sorrise. «Mi sei simpatica. Fragola?» «No, grazie.»

Patrick la fece accomodare sul divano. Gabriel occupò la poltrona con la solennità del dio sullo schermo. «Vuoi qualcosa da bere» le indicò la bottiglia. «No, nulla. Scusate se vi sono piombata in casa, vi ho disturbato.» Intrecciò le dita nella corda della borsa. «Tranquilla. Cosa possiamo fare per te?» Michela chinò il capo. «Ho litigato con Alessio.» Patrick sobbalzò. «Ah!» «Posso aspettarlo nella sua camera?» Prese un bel respiro. «Anzi, posso restare qui questa notte, per piacere?» Tenne lo sguardo basso in attesa. Entrambi risero. «Be’ Alessio ne sarà contento» ghignò Patrick. «Poverino, è di un represso totale. Io gli dico sempre se vuole rilassarsi un po’ con i miei amici, ma dire che è riservato, è poco. Se non ha la testa china sul computer è perché è sul cuscino.» La guardò scuotendo il capo. «E non gli piacciono i miei scherzi. Ha un umorismo che non capisco.» Gabriel si chinò in avanti. «Se volete compagnia, chiamateci.» Michela sobbalzò sul divano. «Sta scherzando, Michela.» Patrick lo guardò di striscio. «Fai come fossi a casa tua.» Michela annuì. «Grazie.»

Non ci provare mai più Michela era nel letto singolo di Alessio, in attesa e avvolta dal silenzio. Per fortuna, non c’era il modello di aggio con cui condivideva la stanza che era davvero spaziosa. Ricordava la camera di un adolescente, con i due mobili armadio-letto e i poster appesi ovunque. Pubblicità di profumi e biancheria intima degli amici di Patrick, perlopiù. La magliettina che le aveva prestato come pigiama le arrivava solo alla pancia. Era della rossa anoressica appesa sull’anta giusto davanti a lei. «Accidenti! Ma Alessio s’addormenta con quella davanti?» borbottò girandosi. Affondò il viso nel cuscino, c’era il suo odore. «Quando arriva?» Guardò la sveglia sul comodino. Indicava le tre di notte. «Perché è così in ritardo? Da quando fa lo straordinario in magazzino, di solito finisce verso mezzanotte.» Si girò nel letto. Allungò braccia e gambe. Guardò il soffitto. Non le piaceva; troppo alto e lontano, i pensieri si disperdevano. Si girò sul fianco sospirando. Non vedeva l’ora di stringerlo, di dormire con lui e di vedere il suo volto come prima immagine appena sveglia. Sentì aprirsi la porta. «Eccolo» bisbigliò scattando sul letto. Spense la luce della lampada da notte. Si avvolse nella coperta tenendo fuori solo gli occhi. Si spinse sul lato esterno. Udì i i pesanti e indecisi che si avvicinavano. Sentì tastare la porta in cerca della maniglia. Vide comparire nella penombra la sagoma scura, ricurva. Richiuse la porta. Si levò la maglia camminando, indugiando sul braccio sinistro. Michela sentì uno strano odore oltre al sudore di Alessio. Qualcosa di chimico, disinfettante forse.

Alessio tolse le scarpe senza chinarsi muovendo una gamba e poi l’altra, mentre il bottone del jeans leccava l’asola. Poi, la cerniera che scendeva lenta. Un tonfo in terra deciso del pantalone e lo vide arrancare verso di lei. Sfiorò con la mano destra il bordo del letto. Si sedette appena per poi cadere di schiena. La urtò. Michela non fece in tempo a esclamare una vocale, che Alessio sbuffò rialzandosi lento. «Basta con sto’ scherzo del cazzo, Patrick!» Michela lo afferrò alla spalla, lo tirò indietro e lo baciò. Alessio le strinse il collo e l’allontanò. «Non ci provare mai più» disse a denti stretti. Michela gli agguantò il polso con entrambe le mani. «Sono io, sono io» riuscì a dire con la voce strozzata. «Micky?» le sussurrò allentando la presa. «Oh, scusami. Ti ho fatto male? Cosa fai qui?» «Non sopportavo l’idea che avessimo litigato.» Lo baciò sentendo un forte odore acre in viso. «Sono impazzito quando sei andata via» le disse guancia a guancia. «Hai ragione tu, sono troppo orgoglioso.» «Cos’è quest’odore strano?» «Nulla, nulla. L’importante è che sei con me, adesso.» «Amore mio. Ti amo tanto.» Gli prese il volto tra le mani. Sentì qualcosa di liscio e plastico sullo zigomo sinistro. «Cos’hai in faccia? Un cerotto?» «Non ti preoccupare.» «Fammi vedere.» Allungò il braccio per accendere la luce sul comodino. La mano di Alessio le afferrò il polso, ma era avvolta nella garza. «Hai anche la

mano fasciata?» «No, non accendere.» «Voglio vederti bene.» Trovò l’interruttore della lampada, lo premette. Alessio girò il viso dall’altra parte. Il braccio era fasciato dalla mano fino al gomito. Sul petto aveva degli ematomi. Michela gli spostò il viso, delicata. «Ti prego, fammi vedere.» Alessio sospirò, si girò. Aveva un occhio tumefatto e sullo zigomo c’era della tintura di iodio intorno al cerotto bianco quadrato. «Cos’hai fatto?» gli chiese con ansia scendendo dal letto. «Stai bene?» Poggiò un piede in terra. «Sì, sì, sto bene. Fa impressione, ma non è nulla di grave.» Spostò il ciuffo sbuffando. «E il braccio?» «È solo una leggera distorsione al polso.» «Che cos’è successo?» «Niente, dai. Lascia stare.» «Voglio sapere.» «Quando sono tornato dentro il magazzino, Carlo ha iniziato a sfottermi.» Si tirò indietro e si appoggiò allo schienale del letto. Fece una pausa. «Così gli ho dato un pugno. Lui ha reagito. E ci siamo picchiati. Tutto qua. Lui, però, è ancora in ospedale.» «Poteva finire male.» Michela portò le mani alla bocca. «Perché lo hai fatto? Prima non ti comportavi così?» «Prima era diverso.» Chinò il capo. «Io ero diverso.» La guardò. L’occhio mezzo aperto sembrava porre l’accento sul momento di smarrimento che lo sconfortava.

Si alzò, andò alla finestra. «Ho troppa rabbia dentro. Faccio fatica a controllarla. Tutto qua.» Poggiò la mano fasciata sul vetro. «Erano le parole di un deficiente. Dovevi fregartene. Tu non sei così?» Alessio aprì la finestra. Levò il gancio delle imposte esterne e le socchiuse. «Ne sei sicura?» Le lanciò un’occhiata ambigua. Michela sbatté le palpebre più volte. «Tu sei gentile. Di animo buono.» «Non è la prima volta che picchio qualcuno.» Si sedette sul davanzale osservando la strada. «All’istituto succedeva spesso.»

Ero un bambino problematico «Da piccoli è normale, soprattutto per i maschietti» rispose Michela infilandosi sotto la coperta. «Hai freddo? Chiudo.» Michela scosse il capo, ma Alessio chiuse la finestra lo stesso. Tornò a letto. Alzò la coperta e le si avvicinò. «Sei sempre stata molto paziente. Non mi hai mai fatto domande.» Sollevò il braccio sano facendolo scivolare sopra la sua testa. «L’ho apprezzato molto.» Michela lo abbracciò. «Ho sempre pensato che quando saresti stato pronto, mi avresti detto tutto.» Alessio le diede un bacio sonoro sulla testa. «In realtà, speravo solo di poter dimenticare. Di lasciare il ato dietro e andare avanti.» Afferrò il lembo della coperta e la coprì. «Ma forse, quello che sei quando nasci, non lo puoi cambiare. Se sei stato programmato in un certo modo, non c’è uscita.» Sospirò. «Ero una piccola belva. Picchiavo e mordevo gli altri bambini. Soprattutto quando mi prendevano in giro.» Michela sollevò appena la testa per guardarlo in viso. «Quando Carlo al Babelpunk ha detto certe cose, sono tornato esattamente quel bimbo problematico di un tempo.» Alessio si destò dal fissare la coperta. La guardò inarcando le sopracciglia verso l’interno, sembrava aver risvegliato una sofferenza costretta al mutismo con estrema difficoltà. Michela lo strinse e lui le appoggiò delicato la guancia sulla testa, eppure lei sentì il macigno del suo ato opprimerla. «In realtà, io non so chi sia mio padre, perché mia madre non lo sa.» Fece una pausa. «Dico che l’ha lasciata quando è entrata tanti anni fa in ricovero, ma non è vero.» Respirò a fondo. «Ha scoperto di essere in cinta in ospedale perché era

in overdose. Sono il figlio di una serata in discoteca. Di uno sconosciuto. Una scopata nei cessi, forse.» «Non dire così.» «Sono nato prematuro. E sono stato a lungo a rischio, ma alla fine sono riuscito a cavarmela e mi hanno messo in un istituto di Carità di Los Angeles.» «E tua madre?» «Mi hanno detto che già durante gli ultimi mesi di gravidanza era in ricovero. Legata. Assente.» «Non le hai mai parlato, allora?» «Non credo nemmeno che sappia davvero di avere un figlio.» Michela gli accarezzò la guancia. «Mi spiace, tanto.» Alessio le strinse la mano. «A tre anni ho cambiato istituto. E poi, ancora. E ancora. Purtroppo, ero molto irrequieto. Un po’ tanto.» Si morse il labbro. «A cinque anni, un bambino ha sentito due suore dire che avevo la madre pazza e mi ha deriso in mensa, davanti a tutti.» Sospirò. «L’ho assalito come una belva. L’ho morso in faccia. Sono intervenuti in tempo, se no gli staccavo il naso.» Michela deglutì. «E dopo? Che è successo?» «Da quell’episodio, mi hanno tenuto sedato con delle pilloline. Infatti, non ricordo bene quel periodo. Ho solo dei frammenti, come un sogno. Ricordo che sono venuti tanti psicologi e psichiatri. Non è mai servito a nulla parlare con quei dottori. Poi, è arrivata una psicologa sperimentale. Lei invece me la ricordo bene. Lunghi capelli neri, occhi scuri. Un bel sorriso. Lei era diversa. Veniva tutti i giorni e non mi parlava da dietro il vetro come avevano fatto gli altri. Come se fossi un baby-psicopatico, insomma.» Michela sentì le lacrime farsi largo senza poterle controllare, si tirò su facendosi forza con le braccia. ò veloce la mano sugli occhi. «Scusa. Ti prego, vai avanti.»

La dottoressa Sophia Rayali «Quella psicologa, la dottoressa Sophia Rayali, mi ha fatto dei quiz mentali. Giochi da risolvere e non le solite macchie da interpretare. Per farla breve, secondo lei ero un bimbo dotato e non uno psicopatico. Così, mi ha tolto subito le pillole e aumentato le ore di studio. A sette anni ero al livello di uno di dieci. A otto, di uno di dodici. In più, lei mi faceva simulare con la mente.» «Simulazione? Tipo, un gioco di ruolo?» Alessio scosse il capo. «All’inizio era più un’ipnosi guidata. Poi è diventata una meditazione condivisa con lei.» «E che cosa simulavi?» «Lei diceva che la rabbia è mentale e diventa fisica solo se repressa.» Michela sussultò. «Vuoi dire che simulavi scene violente?» «Non proprio. Simulavo di essere un giovane combattente. La dottoressa mi ha aiutato a creare un personaggio che affrontava la morte ogni giorno. Lui doveva sopravvivere in un mondo ostile e io dovevo aiutarlo con la mia astuzia. È così che è iniziata.» «E ha funzionato?» «Molto, direi. Non solo io ero tranquillissimo, ma più pensavo a come risolvere certe situazioni, più i miei voti miglioravano. Negli anni, ho trovato un equilibrio invidiabile. Il mio controllo sulla rabbia era totale.» «Non sono esperta in psicologia, ma ti assicuro che una cosa così non l’ho mai sentita in vita mia.» «La dottoressa Rayali era una pioniera» rispose Alessio con un sorrisetto tirato. «Sono stati anni difficili, ma ne ho un ottimo ricordo. È andato tutto bene finché un giorno lei è andata via. E mi sono ritrovato ancora solo e in un nuovo istituto.» Chinò il capo. «Quello che sto per raccontarti, ecco-» Strinse la

coperta. Michela poggiò la mano sulla sua. «Se non ti senti di raccontarmi questa parte, lo capisco.» «No, voglio dirti tutto, ma solo se anche tu te la senti.» Michela annuì.

Il trauma, ieri come oggi «Ho compiuto gli otto anni da poco. Ci sono le elezioni. In America girano con i pullman per mesi. Di solito, fanno il giro degli orfanotrofi, delle case di cura, degli ospedali e ovviamente, alla fine, arrivano anche nel mio istituto. C’è una bella festa con un sacco di dolci. Striscioni. Poi, uno a uno ci presentano al candidato e allo staff. Lui mi vede, mi accarezza la testa e mi dice che sono davvero un bel bambino. Gli occhi gli luccicano e il sorriso è raggiante. Sembra sincero. E in realtà, lo è.» Si grattò il sopracciglio. «Ripartono. La campagna politica continua. Nel frattempo, iniziano ad arrivarmi dei giocattoli. Mi dicono che sono da parte di quel signore tanto gentile. Poi, la campagna finisce. Lui non vince, ma si prende lo stesso un sacco di consensi. I doni, invece, continuano. Ogni tanto, viene anche a trovarmi. Mi coccola. Mi stringe portandomi la testa al cuore. Dice che assomiglio tanto al suo bimbo che non c’è più. Si vocifera di una mia possibile adozione, ma non essendo orfano ci sono dei problemi. Insomma, ano settimane.» Alessio picchiò la testa contro il bordo del letto. «È come il papà che non ho mai avuto. Io gli voglio bene. Mi fido.» Michela respirava a fatica. Cercò di farsi forza. Lo strinse più forte. «Arriva il gran caldo. Ci regalano una piscina gonfiabile. La mettiamo nel cortile. Lui rimane qualche giorno all’istituto, che in quel periodo è un deserto. Molti bimbi vanno via. Il personale è meno della metà. Io rimango perché c’è lui. Non si potrebbe, ma lui è un caso speciale.» Fece una pausa. «Sono molto felice. Stiamo insieme tutto il giorno.» Deglutì. «Poi un pomeriggio, mentre gioco a palla in piscina, vedo che mi fissa e si tocca. Si massaggia il basso ventre. Fa dei versi strani con la bocca. Mi dice che è un gioco nuovo.»

Alessio si chiuse gli occhi con la mano, la bocca si aprì in cerca di aria. «Un momento, scusa.» Si alzò. Aprì ancora la finestra. Michela prese la coperta, la tirò fino a mettersela sulle spalle. Si avvolse e gli andò vicino. «Prende la mia manina e la usa per il suo piacere. Ricordo il tonfo della palla che cade quando mi tira verso di lui. Tremo, ma più tremo e più lui sorride. Poi, geme. Mi accarezza il viso e mi dice che sono stato molto bravo. E quel giorno finisce lì.» Michela aveva il cuore che le bruciava. Tremava. Osservava Alessio mentre ricordava quei giorni disperati con lo sguardo fisso nel vuoto. Le sembrava di vedere quel bimbo indifeso nel ragazzo dal cuore fragile davanti a lei. «Nei giorni successivi, inizia a palparmi in un modo che trovo fastidioso. Lo sento che è sbagliato. E più dico: No! Più mi dice: Che bel bimbo che sei, Alessio. Quanto mi piaci, Alessio. Mi piaci tanto, tanto.» Michela sentì una morsa allo stomaco. «Una sera, io sono nel mio lettino che dormo. In stanza ce ne sono altri cinque, ma sono tutti vuoti. Arriva lui e mi sveglia con tanti baci e carezze. Mi toglie la magliettina e mi bacia il pancino. Mi dice che m’insegna un altro gioco. Uno più bello, più divertente.» Alessio prese fiato. «È in penombra, non lo vedo bene. Quando sento la sua pelle a contatto con la mia, però mi spavento. Io gli dico di lasciarmi stare, che non mi piacciono i suoi giochi, ma lui mi afferra i polsi e me li blocca con una sola mano e mi tiene giù. È una mano enorme…» Chinò il capo incrociando le braccia e afferrandosi le spalle. «E così forte che quasi mi manca il respiro.» Alessio respirò con affanno alcune volte prima di rialzare lo sguardo. «Tento di gridare, ma mi ritrovo addosso la sua guancia. Mi dice di stare calmo. Sarà bellissimo vedrai. E mi abbassa i pantaloncini come se fossi un bambolotto. E non riesco nemmeno a scalciare perché sento la sua gamba che m’imprigiona. Poi, lui mi tocca e io mi paralizzo. Mi spengo…»

Abbassò le braccia di colpo e fissò il vuoto in silenzio alcuni istanti. «Mi dice: Ecco, così, bravo… così… mentre si strofina alitandomi in faccia. E allora giro piano la testa e lo fisso perché non può essere davvero lui. E infatti, non c’è più nulla di famigliare in quel volto. È un mostro.» Alessio la guardò con gli occhi lucidi. «Tutto il bene che gli volevo svanisce d’improvviso. E sento crescere il fastidio, la nausea, e mi fa schifo. Mi fa schifo tutto. L’istituto, il letto, le lenzuola e soprattutto lui. Lui che non la smette di alitarmi in faccia. E in me scatta qualcosa. Non so che cosa sia. Però, è forte e feroce come il mio combattente mentale» le disse fissandola serio. «E così l’ho morso proprio in faccia. Gli ho addentato così forte la guancia che ha iniziato a gridare. Appena mi ha lasciato i polsi, gli ho afferrato forte la testa. E anche se mi dava i pugni, io non ho mollato finché non ho sentito il suo sangue che mi scendeva in gola.»

Qualcosa è scattato in me «E dopo che è successo?» «È arrivato l’inserviente a separarci. Poi, l’ambulanza, la polizia e il Menguzzi.» Michela socchiuse gli occhi. «E lui che c’entra?» «Quel pedofilo schifoso, era suo fratello. Si è sentito responsabile per me. Da allora, non mi ha più lasciato. Ci sono voluti anni prima che mi fidassi di lui.» Le sorrise appena e le porse la mano. Michela subito la strinse nella sua. «Però, alla fine, ho trovato un padre. Mi ha fatto studiare in ottime scuole. A diciotto anni, mi ha portato qui in Italia. E poi, è riuscito a far venire anche mia madre. Lei è di Milano, in fondo.» Ciondolò il braccio, Michela assecondò indolente. «Menguzzi è riuscito, con un ottimo avvocato, a sbloccare la situazione. L’ha messa in una clinica privata. E io, essendo maggiorenne, potevo fare quel che volevo. Mi ha dato anche le chiavi dell’appartamento, così stavo tranquillo e per conto mio. Un lavoro ben pagato. Tante opportunità. Una vita, insomma.» «Allora, quando ti ho conosciuto, non eri qui da tanto.»

«Un anno e mezzo. Quasi due.» «Parli bene l’Italiano, non sembra che sei stato tutta la vita in America.» «Imparo molto in fretta.» «E il fratello del Menguzzi che fine ha fatto? Non mi sembra di averne mai sentito parlare.» «Non ero stato il primo. Quando è saltato fuori, si sono fatti avanti anche gli altri. Il giudice l’ha condannato senza appello. Ma lui non ha retto e si è suicidato. Pillole. Parecchie pillole.» Michela gli si avvicinò. «Ti sei difeso come hai potuto. Io sono orgogliosa di come s’è salvato il piccolo Alessio. Sei stato tanto coraggioso. E lo sei ancora.» «Scusa se non ti ho detto prima queste cose. Forse avrei dovuto.» Alessio l’abbracciò. «Ma non ero pronto.» «Non devi scusarti.» Lo guardò. «E non è vero che non si può cambiare. Tu lo hai già fatto. Ci sei riuscito, Ale.» Lo fissò intensamente. «Stai solo affrontando una nuova fase della tua vita. Io non sono la dottoressa Rayali, ma sono qui con te. E non ti lascerò solo.» Gli portò le braccia al collo. «Io ti amo Alessio, così come sei.» «Anch’io Michela.» La strinse forte. «Sono qui solo per te.» Rimasero avvolti nel silenzio scandito dal battito all’unisono dei loro cuori. «E comunque, che sei uno che mordicchia, già lo sapevo» scherzò. Alessio sorrise. «Un leggero aspetto che Bio non riesce a mitigare.» «Che c’entra Bio?» gli chiese inclinando la testa. «Quando sono arrivati i videogiochi, ho smesso con il personaggio mentale e sono ato al digitale.» Le fece l’occhiolino. «Ecco perché ti dico sempre che Bio è importante per me. Siamo insieme da sempre. Non lo avevi capito?» «Mi vuoi dire che il combattente della psicologa Rayali era Bio? Era lui anche

allora?»

Sempre e solo Bio «Certo» annuì Alessio. «Lei lo chiamava Bio Zero Tre, ma non mi è mai piaciuto. Così, in rete è diventato Bio Cyberpunk. È più bello, no? All’inizio, non aveva la mimetica e il fucile a impulsi. Diciamo che siamo cresciuti insieme. Io ero piccolo, lui era inesperto.» Richiuse la finestra. «Mi dava sicurezza mentale.» Si girò. «E mi piace pensare che sia venuto in mio soccorso quella volta. Credo fosse sua la forza che mi ha permesso di difendermi da bambino. Non è facile spiegarlo a parole.» Le prese la mano, la portò a letto. «Credo di aver capito, invece.» Michela stese la coperta. «Ora capisco perché a Las Vegas eri così teso. Il paragone dei golfini non era molto azzeccato. Bio è il tuo gemello.» «Il mio gemello» ripeté infilandosi sotto la coperta. «Non lo avevo mai concepito così. Ci sta però.» Spense la luce. «Caspita! Sono le cinque.» L’avvolse tra le sue braccia. «Hai messo la sveglia nel cellulare?» le domandò. «Sì.» Michela intrecciò le gambe nelle sue. «Tu domani che turno hai?» «Sarebbe per le undici e trenta.» Sbadigliò. «Perché sarebbe?» «È probabile che mi chiameranno tra poche ore per licenziarmi.» «Ti faranno solo una lavata di capo, vedrai.» «In realtà, gli ho tirato anche uno scatolone pieno di merce. Ero furioso. È così che mi sono distorto il polso. Ho fatto un po’ di macello in magazzino, insomma.» Sbuffò. «Comunque, non serve che mi preoccupo ora. Domani si vedrà.» «Ma-» «Sch, dormi.» Le ò la mano delicata sugli occhi. «Tu invece devi alzarti

presto.» Si strinse a lui sforzandosi di prendere sonno, anche se l’infanzia traumatica di Alessio le si era annidata sotto la pelle. Aveva fatto sua la sofferenza, sperava solo di ricambiare donandogli la sua forza.

11 - Michela A new Bio

La vita può collassare o rigenerarsi in modo imprevisto.

Volare in città Michela si svegliò sentendo vibrare il cellulare sul comodino. «Ale, è il tuo» borbottò aprendo un occhio. Alessio allungò un braccio, lo afferrò. Guardò il numero. «Ci siamo.» Premette il tasto portando il cellulare all’orecchio. «Sì, salve» rispose restando sdraiato. Michela si sollevò. Guardò l’ora. Quando vide le nove e trenta sobbalzò. Cercò il suo telefono mentre Alessio annuiva seguendola con lo sguardo. Lo prese. Cercò di accenderlo. Non dava segni di vita. «La batteria» bisbigliò stringendo in mano il pezzo di plastica traditore. «Capisco.» Alessio si mise seduto sul letto. Michela cercò i vestiti. Indossò rapida la camicia. «Va bene, vengo subito.» Alessio riagganciò corrucciando la fronte. «Allora, che dice?» gli chiese infilandosi la gonna. Alessio si alzò stirando le braccia e la schiena. «Di andare là il prima possibile. Deve parlarmi di persona.» «Come ti è sembrato?» «Teso.» Si ravvivò i capelli. Guardò l’ora. «Perché sono le nove e trenta e sei ancora qui? Non hai sentito la sveglia?» «È morta la batteria, mannaggia!» Corse in bagno. Si sciacquò il viso, i denti. Si pettinò, giusto per non sembrare una disperata, anche se ne aveva l’animo in quel momento. Quando tornò in stanza, Alessio non c’era più. Cercò le scarpe, prese la borsa e andò in sala. Alessio era già vestito; maglietta blu, jeans e scarpe da ginnastica. Stava scrivendo un biglietto mentre masticava una cicca. L’odore del mentolo era in

tutta la stanza. Ai suoi piedi, due caschi integrali rossi. «Che fai?» sussurrò, ma lui subito le accennò di fare silenzio mentre lasciava il biglietto in bella vista sul tavolo. Ci appoggiò sopra la ciotola di vetro, si vedevano ancora i ciuffetti verdi delle fragole. Prese i caschi e le fece cenno di seguirlo. Michela gli andò dietro con le scarpe in mano. Alessio piegò le ginocchia e incurvò la schiena. Lo stridio delle suole di gomma sul pavimento non era proprio da ninja. Cercò di muoversi sulle punte. In più saltelli arrivò alla porta. L’aprì girando la serratura con lentezza disarmante. Uscirono. Alessio infilò la chiave nella serratura delicato come uno scassinatore. Due mandate, lente. «Presto» le bisbigliò. Corsero all’ascensore. Michela infilò una scarpa appoggiandosi al muro nell’attesa. L’altra, mentre Alessio apriva la porta per entrare nella cabina. «Che ci facciamo con due caschi?» gli chiese. Alessio premette il piano terra. «Non si può girare in moto senza casco.» «Lo so anch’io, ma tu non hai la moto» replicò sentendosi ovvia. «Io no, ma Gabriel sì!» Le fece l’occhiolino, mentre infilava il casco. Tirò su la visiera. «Ma come fai col polso? Non ti fa male?» «No. Credo sia ancora l’effetto dell’antidolorifico.» «Gabriel ci ucciderà! È dannatamente grosso. Non mi sembra il caso di farlo arrabbiare» disse Michela trafficando con il gancetto sotto il mento. «Siamo sicuri?» «Dormiranno fino alle due del pomeriggio come minimo. Ti porto in ufficio e

volo al Babelpunk. Se tutto va bene, torno prima che si sveglino. Tanto, quanto vuoi che ci mettano a licenziarmi?» Le controllò l’allacciatura del casco. «Dici che è così grave?» sospirò mentre l’ascensore si apriva. «Vedremo.» Arrivarono nel cortile. Le diede il mazzo di chiavi. «Vai sul retro senza farti vedere dal portinaio, mi raccomando. Apri il cancelletto e aspettami.» Alessio andò in una rientranza sulla sinistra. Michela ò guardinga nel cortile fino al cancelletto di ferro. Tentò di inserire un paio di chiavi finché non trovò quella giusta, mentre il rombo della moto risuonò nel cortile prima silenzioso. Alessio arrivò cavalcando la moto rosso fuoco. I fari bianchi inclinati verso il basso le conferivano l’espressione di un rapace. I sedili di pelle nera, con alcune parti del motore argento, le davano un aspetto pratico ma raffinato. Quando Michela lesse la scritta argentata Ducati sul serbatoio, ebbe un fremito. «Ale, stiamo facendo una cavolata. Gabriel ci spella vivi se gliela graffiamo.» Alessio oltreò il cancelletto. «Dai, che è tardi.» Michela lo richiuse a chiave. «Monta!» le disse con un cenno del capo. Michela poggiò la mano sulla spalla di Alessio che teneva ben saldo il manubrio. Cercò di sollevare una gamba, ma la gonna le permise solo un goffo movimento. Provò sollevandosela un poco, ma la situazione non migliorò granché. «Micky, Micky» le disse rapido osservandola. «Di schiena. Poggia un piede sulla pedana e sali all’amazzone! Vai!» «Va bene.» Si girò. Seguendo le istruzioni, balzò sul sedile rialzato del eggero scuotendo la moto. «Agile come una gazzella zoppa, eh?»

«Spiritoso.» Chinò il busto per cingerlo. Abbassò la visiera. «Tieniti, mi raccomando.» Le sfiorò la mano poco prima di abbassare la visiera. Sputò la cicca da sotto il casco. Partì lento scendendo dal marciapiede. Messosi in carreggiata, accelerò. arono alcuni semafori gialli. Il tremolio sembrava rimbombarle nel petto. Vedeva scorrere veloce le persone sul marciapiede, le vetrine dei negozi, le auto parcheggiate. Alessio serpeggiò le macchine ferme in coda lungo Corso Buenos Aires. Michela vide Piazzale Lima nel giro di dieci minuti. Entrarono in via Plinio. Michela notò il furgoncino del trasloco fermo davanti al portone. Alessio si fermò sul lato opposto della strada. «Fai prima a scendere qui. Non posso fare inversione.» «Grazie.» Scese con un saltello, le sembrava di vibrare ancora. Si slacciò il casco con le mani tremanti. Alessio lo infilò nel braccio destro. «Chiamami dopo e fammi sapere. Mi raccomando.» Alessio annuì. Da dietro il casco non poteva vedergli la tensione sul volto, ma la percepiva come fosse sua. Partì rapido. Michela si girò. «Aspetti, lei del trasloco! Sono qui! Si fermi!»

Non è raggiungibile Quando si ritrovò all’ora di pranzo, ancora sola, Michela tirò un sospiro di sollievo. Però, Alessio non s’era fatto sentire e il suo cellulare era con la batteria morta. «E-chi-se-ne-frega» borbottò avvicinando il telefono stile retrò sulla scrivania. «Provo a chiamarlo io con questo trabiccolo.» Prese la cornetta grigia con le due estremità grosse come arance. Compose il numero sulla tastiera per-miopesenza-lenti. Attese. Il cliente da lei chiamato non è al momento raggiungibile. Si prega diRiagganciò sbuffando. Riprovò una mezz’oretta dopo. Il cliente da lei chiamato non èE un’ora dopo ancora. Il cliente daE ancora. Il cliAlle due e venti del pomeriggio, suonò il telefono dell’ufficio. «Studio del Dottor Floriani» rispose seria. «Michela, per fortuna sono riuscito a trovarti. Sono Patrick, ti disturbo? Hai un minuto?» «Ciao.» Deglutì. «Non mi disturbi affatto. Dimmi pure, tanto oggi sono sola.» «Senti, sai dov’è Alessio?» In sottofondo, Michela udì il vocione di Gabriel che borbottava rabbioso nella

sua lingua. Anche se non sapeva il significato, suonavano come tante imprecazioni. «Al Babel, che io sappia. Perché?» Tentò di parlare con un tono sereno, mentre le scendeva una goccia di sudore dalla tempia. La tolse veloce. «No, ecco, è che ha il telefonino spento.» Patrick si fermò. Michela sentì un fruscio, forse aveva messo la mano sulla cornetta. «Stai calmo. Dai, su» sussurrò mentre Gabriel ruggì Dra åt helvete accompagnato da un sonoro tonfo. «Michela?» «Sì, sono qui.» Portò la mano sul cuore che le martellava per l’ansia crescente. «Ecco, è che Alessio ha lasciato un biglietto strano. Dice: “Ho preso in prestito le ali dell’angelo. Scusa, ma devo volare. Mi sdebiterò. Torno presto.” Ora, se l’angelo è Gabriel e le ali sono la sua moto, avremmo bisogno di parlargli perché la moto, infatti, non c’è. Se l’ha presa lui, magari ci fa sapere qualcosa. Che dici?» Il tono ironico-gentile misto Gabriel gli spezza le ossa quando torna, le fece impennare l’ansia. Michela chinò il capo. «Scusa. Ti prego. È tutta colpa mia. Ero in ritardo. Così Alessio ha preso la moto per farmi arrivare in ufficio. Poi, è andato al Babel, ma doveva tornare subito.» «Ah! È andata così. Io cerco di tranquillizzare Gabriel. Se senti Alessio, digli però che sono deluso. Molto deluso.» Patrick sospirò. «Insomma, Luke mi aveva detto che era totalmente affidabile e poi, invece, si prende certe libertà. Tu capisci che sono scosso.» «Certo, lo capisco.» Michela annuì come se potesse vederla. «Appena lo sento, ti faccio chiamare. E ti prego scusaci tanto con Gabriel.» «Guarda, è furioso. Comunque, si chiariranno loro. Dai, ci sentiamo presto. Ciao.» Michela restò con la cornetta all’orecchio alcuni istanti. Iniziò a are in rassegna le eventualità. Alessio aveva avuto un incidente e quindi era in ospedale. Oppure, era stato licenziato e ora vagava in moto incavolato nero. O ancora, oltre che essere stato licenziato, era alla polizia per

rendere conto dei danni del magazzino. O gli avevano rubato la moto… Michela si sedette, tamburellò tutte e dieci le dita sul tavolo. «Che faccio? Che faccio?» Guardò la porta con la tentazione di fare un salto al Babel. Suonò il telefono. Lo guardò. Un altro squillo. Guardò la porta. «Potrebbe essere lui» borbottò al terzo sollevando la cornetta. «Sì!» «Signorina Berettina, che modo è di rispondere?» Il tono del commercialista non era promettente. Michela si morse il labbro. Osservò l’ora. Erano le due e trentacinque. «Scusi. Ero al telefono con mia madre quand’è caduta la linea, pensavo fosse ancora lei» improvvisò. «Non ha il cellulare per le sue chiamate private?» «Oggi no.» «Capisco» sospirò. «Comunque, la pregherei di non tenermi la linea dell’ufficio occupata a lungo. Ora mi aggiorni, per cortesia.» Michela espose tutte le telefonate ricevute e il lavoro svolto fino a quel momento. «Mattinata tranquilla quindi.» Michela scosse il capo, per lei non lo era stata di sicuro. «Senta, siccome qui in Bocconi ne avrò fino a questa sera, andrò diretto a casa. Lei vada pure intorno alle diciotto. La chiamerò poco prima per l’ultimo

aggiornamento. Mi chiami solo per un’emergenza, devo fare lezione. Siamo d’accordo?» Michela annuì. «Perfetto. A dopo.» Riappese. Esultò. Guardò ancora il telefono. Compose il numero del Babelpunk. Dal centralino pubblico, si fece are l’interno. Dall’interno cercò qualcuno di conosciuto. Per fortuna Skizzo sembrava vivere là. «Ciao bella! Cerchi Alessio? È col capo. Posso disturbarli sono in caso di calamità o grave situazione famigliare. Stai morendo?» «No, va tutto bene. È solo che ha il cellulare spento.» «Sempre, quando si parla col capo. Devo dirgli qualcosa di sconcio da parte tua, quando lo vedo?» «No.» Sorrise. «Solo se mi chiama appena può. Grazie.» «Ok, cia’.» Michela sospirò riagganciando. «Almeno non è in ospedale. Chissà perché così tante ore col titolare del Babel. Speriamo in bene.» Avvisò Patrick che Alessio e la moto erano al locale. Cercò di arrivare a sera terminando il lavoro preventivato nella tabella di marcia affidatale. Alle diciotto e un quarto, Michela era scalpitante e pronta per uscire, se solo il commercialista si fosse degnato di chiamarla. eggiava avanti e indietro lungo il corridoio come una leonessa in gabbia. Il telefono squillò. Si precipitò a rispondere. Fece un bel respiro. «Studio del Dottor Floriani.» «Ma è ancora in ufficio?» le chiese con tono perplesso il commercialista. Michela digrignò i denti. «Sono già le sei ate?» Finse stupore. «Pensi che non me n’ero accorta.» Gli fece la linguaccia. «Mi aggiorna?»

Michela espose come solito. «Bene. A questo punto, direi che ci vediamo domani. Vada pure. E chiuda con attenzione tutte le serrature, mi raccomando.» «Certo, buona serata.» Riappese e corse fuori. Era tentata di andare diretta al locale, ma indossava gli stessi vestiti da due giorni. Siccome Alessio non s’era fatto sentire, era ancora là. Decise per una tappa rapida a casa. Dopo la metropolitana, percorse le due fermate di pullman con o veloce. Entrò in casa come un ciclone. «Ciao a tutti!» Corse in camera e mise il telefono in carica. Prese una camicetta, un golfino di cotone e un paio di jeans mentre sua madre borbottò dalla cucina: «Questa casa non è un albergo, sai?» Si lanciò in bagno. Gettò i vestiti nella cesta del bucato. Si gettò sotto la doccia per darsi una sciacquata. ò di sfuggita l’asciugamano. Si vestì. Asciugò i capelli solo alla radice, ignorandone la lunghezza. Riprese il cellulare che, appena fu , l’avvisò dei molti messaggi. Controllò se ce ne fosse uno di Alessio tra quelli di Patrick, Antonella e sua madre. Ne trovò solo uno alle ore 2.45. «Sono ancora al Babel. Ti chiamo appena posso» lesse bisbigliando. «Ma che sarà successo?» Ora il suo telefonino mostrava una timida tacca che sembrava supplicarla: Usami, ma solo per emergenza. Indossò le scarpe da ginnastica collaudate per la corsa. Afferrò lo spolverino e uscì di casa. «A dopo.» «Torni stanotte o cosa?» le gridò la madre dal pianerottolo. Michela si fermò a metà della scala. «Ti chiamo appena so qualcosa. Scusa. Va tutto bene, tranquilla.» «È successo qualcosa che non mi vuoi dire? Alessio sta bene, vero?»

«Sì, sì. Ho solo tanta voglia di stare un po’ con lui.» Le sorrise e annui. «Va bene. Fate i bravi, eh.»

La Piana di Voljiaren Il Babelpunk era inaccessibile. I ponti di vetro erano tutti letteralmente intasati. Michela era bloccata in colonna in quello centrale temendo che potesse crollarle sotto i piedi. Dalle fessure tra una locandina e l’altra filtrava l’imbrunire, sembrava più rosso del solito. Si ò la mano dietro la nuca per farla respirare. I capelli le erano appiccicati addosso per l’umido che s’era creato. S’era tolta lo spolverino, ma la situazione non era migliorata. Sbuffò cercando di capire il motivo della ressa. Aveva solo sentito che i trecento computer erano connessi a Age of Apocalypses. E ancora non ci credeva. «Un super mega partitone, forse?» borbottò incrociando le braccia. Non vedeva nulla, per giunta. Davanti a lei, c’era un ragazzo armadio. Si alzò sulle punte, vide solo che l’ingresso era a una decina di metri. Notò dei faretti che creavano dei fasci luminosi. «Oh, hai visto?» disse il ragazzo armadio al suo amico. «C’è anche la tele!» «Per forza. Quando mai s’è vista una cosa del genere?» rispose l’amico con la maglietta nera mezza manica. «Te lo avevo detto che dovevamo venire prima.» «Enrico, chi immaginava ‘sta ressa?» «E chi immaginava ‘sta ressa?» lo canzonò Enrico. «T’ho detto che c’era Bio al Babel!» Michela sobbalzò. «Che t’aspettavi, Marco? Mizzega! L’hanno messaggiato in Facebook, in Twitter, in Light-Box e-»

«Scusate.» Michela toccò la spalla a quello più basso. «Chi c’è?» Enrico, il ragazzo brufoloso che aveva il teschio bianco di The Punisher sulla maglietta, la fissò. Tirò su col naso. «Bio» ripeté con un accentuato movimento della bocca alzando il sopracciglio destro. «Bio Cyberpunk?» chiese conferma. Enrico sgranò gli occhi. «Sì, proprio lui. Anche tu giochi?» Marco, l’amico armadio, tentò di girarsi, ma gli riuscì solo di muovere la testa. Due occhi scuri la fissarono da dietro importanti occhiali. Michela annuì. «Ti prego, dimmi tutto.» Afferrò il braccio di Enrico. Glielo strinse. Di o in o Michela ascoltava come Bio fosse in connessione dalle tre del pomeriggio. Seppe che per un’ora e mezza aveva sconfitto tutti in sala. Tutti i trecento giocatori connessi in rete locale. «Poi, hanno iniziato a girare notizie nei social network del tipo che Bio era al Babel. Di persona, fisicamente. Capisci? Così il centralino è stato sommerso di richieste per entrare in collegamento dalla rete esterna. Lo so, perché ho provato a chiamare anch’io senza successo.» «E dopo?» «Verso le cinque, è accaduto l’immaginabile» continuò Enrico. «Il Babelpunk è stato contattato dal Tunguska. La sala multiplayer, quella gigantesca in Mosca. La conoscerai di sicuro.» «Sì. È quella dov’è diventato famoso Rasputin.» «Brava. Peccato che lui sia morto in Las Vegas» precisò. «Sarebbe stato bello assistere a un nuovo scontro tra loro due.» Michela si morse il labbro. In effetti, che Alessio avesse creato Rasputin Zero era un segreto tra loro e Igor. «Peccato davvero. Vai avanti, ti prego.»

«E a quel punto, gli hanno lanciato la sfida. Forse per rifarsi della sconfitta in Las Vegas.» «Eh? Lui solo contro il Tunguska?» Enrico annuì. «Però, Bio ha proposto al Babel di fare gruppo. Il Babel contro il Tunguska.» Si ò i capelli ricci neri sorridendo. «Cioè, l’Assaltatore Solitario con la A maiuscola che guida il Babel. Insomma, dovevo venire a vedere con i miei occhi.» «Quindi, Bio sta guidando i trecento ragazzi qui della sala contro il Tunguska?» «Esatto. È scattato tutto una mezz’oretta fa. Quelli di AgApo hanno attivato dei server dedicati e hanno messo a disposizione la Piana di Voljiaren apposta per lo scontro. È l’ambientazione più vasta in AgApo.» «E comunque» disse Marco «potrebbero anche mettere uno schermo. Qualcosa, insomma.» Sbuffò. «Oppure, dirci almeno come va» gridò verso l’ingresso. «In effetti» borbottò Michela. «Almeno a sapere come se la stanno cavando.» «Qual è il nome del tuo personaggio in AgApo? Magari ci conosciamo e non lo sappiamo.» Michela esitò. «Io ho giocato poco, in realtà. Cioè, sono morta subito.» Arricciò il naso ripensando alle ghignate di Alessio. Un’ora per creare il personaggio e cinque minuti per schiattare sotto il suo stesso raggio rimbalzatole addosso da una parete traditrice. Il suicidio più veloce di AgApo. «Peccato.» Enrico sbuffò. «Be’ potresti creartene uno nuovo. È divertente. All’inizio, magari, ti difendiamo noi due. Che dici, Marco?» «Come no?» Annuì. «Grazie, ma ho poco tempo ultimamente.» Michela avanzò di un o. I due nuovi amici la seguirono. «Un metro ancora. Mi viene da piangere» sbottò Marco. «Di questo o, per stanotte, sapremo com’è finita.»

«Senti, Michela, com’è che t’interessa tanto Bio?» le chiese Enrico. «È uno gnokko. È finito su tutti quei giornaletti di gossip. Stava anche con quella di tu-a-i-la-i-t.» Marco pronunciò quella parola come se avesse delle ortiche in bocca. «Non è vero!» sbottò Michela. «Era solo una campagna pubblicitaria. Nemmeno si conoscono. Figurati.» «Ti piace, eh?» le fece l’occhiolino Enrico. Michela era indecisa se dire la verità. «Un po’, sì» ammise alla fine. Forse era meglio are per una fan che creare un collegamento diretto tra Alessio e due estranei, per quanto simpatici e cordiali. «Su, su» le diede una pacca Enrico. «Non devi vergognarti. Mi sei simpatica lo stesso.» Avanzarono ancora. «Cavolo! Due i in un quarto d’ora. Le mie lacrime si stanno perdendo nel mio sudore» scherzò Marco. D’improvviso, un gruppo si spostò all’unisono costringendo anche loro a indietreggiare. Enrico sbuffò. «Ma no, dai. Così non vale.» In lontananza si udì una voce, che Michela conosceva bene. «Ciao raga’. Se vi sedete a terra, mettiamo un monitor. Bello, no? Così potete vedere quello che vedo io dal mio. Che dite? Dai, bella lì!» Michela vide solo i ciuffi biondi di Skizzo spuntare per pochi istanti. La folla si abbassò. Chi prima chi dopo, si sedettero come a un raduno improvvisato. Michela si accucciò. Subito dopo incrociò le gambe, in attesa. Il monitor da quaranta pollici arrivò su un tavolo con le rotelle. Skizzo sistemò i cavi di collegamento e lo accese, poi andò via. Red Rhino rimase a guardia del

monitor. Alcuni istanti e la piana comparve in tutta la sua desolazione. Collinette di terra rossiccia con ammassi di rocce erano astutamente collocate per nascondersi o tendere agguati. Una terra artificiale perfetta per versare sangue di byte. Omini come formiche correvano a gruppi. Avanzavano in contemporanea disposti in plotoni. Purtroppo, da quella distanza Michela non avrebbe potuto riconoscere Bio nemmeno se avesse avuto una freccia gialla sopra la testa. Suppose solo potesse essere in uno dei plotoni in testa. Red Rhino alzò il volume al massimo. Le voci erano lontane e confuse. Poi, Skizzo iniziò ad avvicinare la telecamera virtuale come se fosse l’occhio di un falco fantasma. Sorvolò di spalle tutti, uno dopo l’altro, mentre correvano. Le figure si definivano, le frasi erano più chiare. L’occhio virtuale arrivò nelle prime file. Michela udì la voce di Alessio, tra le altre, che gridava: «Follow me, guys!» E poi lo vide. Era simile al personaggio di Las Vegas, stessa mimetica e fucile a impulsi, ma sembrava avere un’espressione diversa. Il viso digitale di Alessio era grintoso. Non aveva più l’aria corrucciata. «Come fa a modificargli il viso a quel modo?» borbottò, mentre un brivido le percorse la schiena. «Che sia io a vedere Bio con occhi diversi, ora che so cosa rappresenta davvero per Ale?» Bio correva. Il plotone lo seguiva con brevi raffiche mirate in direzione dell’orizzonte. Il nemico ancora non si vedeva, eppure già sparavano ai droidi esplosivi in avanscoperta. Piccoli e occultati si manifestavano solo una volta in terra. Le scariche elettriche risaltavano sul metallo per alcuni istanti per poi restare come spazzatura sferica nella sabbia. La telecamera mossa da Skizzo oltreò Bio. La terra scorreva. All’orizzonte, una coltre con minuscole figure che correvano compatte brandendo fucili al

plasma. L’esercito del Tunguska era numericamente superiore. A colpo d’occhio, era quasi il doppio. Ci fu un sussulto di massa. «Ma quanti sono?» disse Michela. «Hanno più di cinquecento computer» sbuffò Enrico. «L’avevo detto che era una sala gigantesca.» L’occhio del falco di Skizzo tornò indietro. Quelli del Babelpunk serrarono i ranghi e rallentarono. Bio dava disposizioni sulle formazioni con tono calmo e deciso, mentre Michela sentiva il cuore pulsarle in gola. Quando Bio alzò il braccio, tutti si fermarono. Puntò l’arma. E così gli altri. Fermi in attesa. Sembrava re Leonida quando, con i suoi Spartani, bloccarono il o delle Termopili con gli scudi e le picche. Stesso sguardo da belva in agguato. E anche loro erano in trecento. Michela notò la sottile ironia. Portò le mani alla bocca. «Gli Spartani muoiono tutti, però» sussurrò mentre la distanza si assottigliava. E l’aria s’intrise di grida. E le grida furono sormontate dagli spari. Lampi di luce e raggi verdastri esplodevano creando riverberi ovunque; i figli del massacro appena iniziato.

Non più solo Michela trascorse la mezz’ora successiva con lo sguardo fisso e la bocca aperta sulle immagini truculente che si susseguivano. Bio balzava come una scimmia col fucile in mano senza tregua. Era senza forze per lui. Sentiva uno strano torpore, come se fosse in campo anche lei. Immaginò Alessio sudato e teso alla tastiera mentre comandava il fratellino Bio, che resisteva. Conoscendolo, il disagio al braccio nemmeno lo sentiva più. «Forza, dai.» Le perdite erano state già molte, i numeri si erano ridimensionati a un centinaio per parte. La speranza era di continuare lo sterminio avversario subendo meno morti possibili. Un’altra mezz’ora scivolò via. Michela sentì una fitta alla schiena, avrebbe cambiato postura, ma non c’era spazio. Tutti erano con lo sguardo incollato sul monitor. I giocatori, morti in campo, non s’erano comunque alzati dalla postazione e continuavano a seguire lo scontro. Le voci in sala, che si scambiavano indicazioni di tattica, erano calate. Tanto che Michela iniziò a sentire in modo distinto quella di Alessio. Arrivati a una manciata di soldati, Bio iniziò a spalleggiarsi con i compagni. Ne rimasero una decina in piedi, sembrava quasi finita quando Bio si accasciò a terra. «No» gridò Michela alzandosi in piedi. Un soldato in power armor gli si avvicinò. Puntò la testa. Bio rotolò e sparò.

Mentre Bio si alzava, il soldato cadeva. Michela portò la mano al cuore. Sospirò. Bio camminava guardingo con altri cinque sopravvissuti. Nessuno del Tunguska sembrava in vita. Quando Bio alzò le braccia e ondeggiò il fucile, esplose un boato che scosse il Babel. Tutti si alzarono in piedi. Scoppiò il caos.

Doppia vittoria Michela fu travolta. Si ritrovò pressata dalla massa che esultante correva in direzione dell’uscita. I due nuovi amici, Marco e Enrico, li aveva persi di vista poco dopo l’ovazione. Scendendo dalle scale, inciampò cadendo addosso a quello davanti, che nemmeno si girò. Si ritrovò come un koala che improvvisava un aggio. Non riuscì a poggiare i piedi fin quando non giunse al termine delle scale. Quel fuggevole istante in cui rallentò le permise di staccarsi e correre con le sue gambe. Un miscuglio di emozioni s’impossessò di Michela mentre usciva dal tunnel. Era euforica per la vittoria e al tempo stesso temeva di farsi male. Appena fu all’aria aperta, cercò un rifugio. Era buio, ormai. Andò verso il muro, si pressò addosso alla parete attendendo che il fiume umano si arrestasse con gli occhi chiusi. La piazza si riempì di una folla esaltata e urlante. Pochi minuti e Michela non sentì più nessuno vicino a lei. Aprì gli occhi. Era al sicuro. Si girò sospirando. Cercò Alessio con lo sguardo. «Se avessi perso un bottone, lo troverei più facilmente» disse sistemandosi la giacca. Si lisciò i capelli con dei gesti decisi. Tutti sembravano guardare in una direzione precisa. Poi, un mantra echeggiò per la piazza. «Bio! Bio! Bio!» Michela vide Alessio spuntare come un porcino dal sottobosco. Qualcuno lo aveva caricato in spalla. Alessio alzò le braccia e gridò al cielo. Una giovane star del cinema. Il vip sopravvissuto a un finto ammaraggio.

L’atleta tornato con una medaglia d’oro. Il fautore del gol della vittoria. Alessio avrebbe potuto essere chiunque in quel momento, ma per Michela era il coraggioso ragazzo che aveva vinto l’ennesima sfida contro tutti e tutto. E contro se stesso. S’era alleato, aveva combattuto al fianco di altri giocatori. Era uscito dal personaggio assaltatore. Per Michela, era un’altra vittoria. Lo guardò, gli mandò un bacio con la mano. «Bravo, amore mio!»

Rave in città Arrivarono bottiglie alte un metro di Ferrari. La doccia di spumante fu inevitabile. Un rave dove l’unica droga che girava era l’euforia collettiva. E la voglia di non andarsene, di restare a vivere il più a lungo possibile quel momento intenso già entrato nella storia. Michela era impalata con in mano il bicchierino di plastica ancora pieno. Fingeva ogni tanto di bere e ondeggiava seguendo la musica, che nel frattempo era partita dal Babel invadendo la piazza. Dopo il classico dei Queen, We are the champions, era iniziato un susseguirsi di musiche techno e acid-house davvero coinvolgenti. D’un tratto, le sembrò di percepire una vibrazione nella borsa. L’aprì e acchiappò il cellulare. «Cinque chiamate perse?» disse perplessa. Controllò in rubrica mentre la batteria lampeggiava. «No! Resisti, ti prego. Non mi morire ancora.» Riuscì solo a vedere che era stato proprio Alessio a cercarla quando il monitorino si spense. «Ti odio. Appena posso, ti sostituisco con uno più affidabile, lo giuro!» «Non è di me che parli, vero?» le sussurrò una voce maschile all’orecchio. Michela si girò di scatto. Alessio era a un o da lei. Indossava la maglietta rossa del Babel, che ora sembrava bordeaux da tanto che era fradicia. I capelli appiccicati sul viso senza più il cerotto, solo il taglio sullo zigomo come un vero combattente. La fasciatura umidiccia e un po’ sfatta. Emanava un odore a metà tra il sudore e lo spumante. «Ti ho trovata.» Si spostò il ciuffo bagnato. Si asciugò la mano sul jeans. Scrollò

la testa. Una raffica di goccioline schizzarono via alleggerendogli le ciocche. «C’eri? Hai visto qualcosa?» le chiese tirando indietro la testa di colpo. Michela respirava forte. Le sembrava impossibile che Alessio l’avesse trovata in mezzo a quella folla. Spalancò la bocca. «Oh, che hai?» Le guardò il bicchiere. «Hai bevuto?» Sgranò gli occhi. «Sarai mica brilla?» Michela bevve tutto lo spumante trattenendo il fiato. Lanciò via il bicchiere. Gli si avvicinò. Alessio indietreggiò alzando le mani. «Guarda che puzzo come un caprone.» «Sei stato meraviglioso!» gridò balzandogli in braccio. Alessio si appoggiò alla parete per non cadere all’indietro. Michela incrociò le braccia dietro il suo collo e le gambe intorno alla vita. «Ti amo!» Lo baciò con ione sentendo migliaia di bollicine solleticarle la mente e la barba di due giorni pizzicarle le labbra. «Lui è il mio ragazzo!» gridò. Alessio rise. «È ufficiale: sei ubriaca!» «Come hai fatto a trovarmi?» gli chiese con gli occhi a fessura. «Ti prego, dimmelo.» «Ti troverei ovunque.» La strinse forte. «Dai, vieni che ti porto a casa.» Michela scosse il capo. «No. Scherzi? Questa notte è la tua notte. Devi restare qui con i tuoi amici a festeggiare.» Alessio annuì. «Va bene. Raggiungiamoli, allora.»

Tre volte Skizzo ballava come in preda a un attacco epilettico schioccando le dita. Red Rhino annuiva agitando le braccia in aria. E il proprietario del Babelpunk, che con la sua figura minuta si mischiava tra i più giovani anche se aveva superato i quaranta, frustava l’aria con le gambe e le braccia. Appena li vide arrivare, corse loro incontro. «Dov’eri finito?» I capelli ricci castano chiaro solleticavano gli occhi azzurri sporgenti. «Ah, che notte!» Le mise una mano sulla spalla. L’altra subito su quella di Alessio. «Ragazzo mio, sei una benedizione. Magico Alessio!» Scrollò la testa. «E pensare che stamattina ero partito col farti il cazziatone.» Rise. Guardò Michela dritta negli occhi additandola. «Tu, però, me lo dovevi dire che lui era Bio.» Si accese una sigaretta rapido come se avesse i secondi contati. Diede due veloci tiri. Guardò ancora Alessio. «Ma se non ti avessi riconosciuto…» Chinò la testa scuotendola piano. «Dopo la Shiba, pensavo che Bio lavorasse con qualche azienda importante e non che fosse uno dei miei sistemisti. Vi pare, ragazzi?» Se Michela non lo avesse già visto altre volte, avrebbe pensato a una massiccia dose di anfetamine. Ma Franky aveva modi elettrici per sua natura e, visto così da vicino, ricordava davvero l’omonimo famoso del film di Mel Brooks. «Cioè, mi dovete dire…» Franky chiuse gli occhi e portò la mano con la sigaretta alla fronte. «Perché non me lo avete detto?» Li fissò. Prima uno, poi l’altra. In silenzio. «Allora?» Alessio fece spallucce. «Non c’entrava col lavoro. Io sono solo un sistemista. Bio rientrava nella mia sfera ludica. Tutto qua.» «Solo un sistemista?» Franky rise. «Sfera ludica? Dopo Las Vegas e stasera, tu la chiami ludica? Cosa mi tocca sentire.» Si schiaffeggiò la fronte. Lanciò a terra la sigaretta. Gli strinse entrambe le spalle. «Io ho grandi progetti per te, Alessio. Da

stasera, la tua vita cambia.» «Non mi licenzia, allora?» Alessio abbassò il capo per fissarlo negli occhi. «No, perché, da che è saltata fuori la storia di Bio, non ne abbiamo più parlato.» Franky rise ancora. Si accese un’altra sigaretta. Prese il portafogli. Prese una banconota e l’appallottolò così velocemente che Michela non riuscì a identificarla. La infilò nella tasca anteriore del jeans di Alessio. «Domani, alle tre, ti voglio nel mio ufficio lavato, sbarbato e in giacca e cravatta.» Lo additò. Gli diede un buffetto. «Non fare tardi, capito?» Alessio annuì. Franky fece l’occhiolino a Michela. «Non stancarmelo troppo, stanotte.» Poi, si mise a ballare con la sigaretta in bocca. Alessio si frugò in tasca. Prese la banconota. «Cinquecento!» sbottò. «Ale…» Michela lo abbracciò. «Sei contento?» Alessio inarcò le sopracciglia. Fissava la banconota perplesso. «Non pensavo che Bio potesse salvarmi ancora. È sempre lui che mi viene in soccorso quando la mia vita collassa.» Sospirò. «Mi ha dato anche te.» Le accarezzò il viso. «È pazzesco, non trovi?» Michela sorrise. «Tuo fratello è un mito! Mi sarei messa con lui, ma sta già con un’applicazione tutta curve.» Gli fece la linguaccia. Alessio rise. Iniziarono a ballare, mentre altro spumante pioveva e un sottofondo bizzarro andava in crescendo. «Sai che non mi ricordo delle sirene della polizia in questa canzone? Che sia un remix?» gli domandò Michela. Alessio si bloccò. Franky, Skizzo e Red Rhino si ghiacciarono così come si trovavano. Per alcuni istanti, la piazza sembrò improvvisare un frozen.

«Disperdetevi! Raduno non autorizzato! Liberate il piazzale!» La voce metallica proveniva dal megafono posto sopra una delle tre volanti azzurre con la striscia bianca laterale. «Raga’ la pula!» gridò qualcuno. «Fine della festa. A casa!» gridò Franky battendo le mani. «Via! Via!» Alcuni corsero, altri s’incamminarono a testa bassa. Michela e Alessio si avviarono alla moto nel parcheggio riservato del Babelpunk. «Ti spiace se mi faccio un panino al baracchino di Lorenzo prima di tornare a casa?» le chiese Alessio mettendo in moto. «Con la salsiccia e la mozzarella?» Michela montò senza difficoltà. «Anch’io.» Partirono. «Secondo te, Gabriel, in una scala da uno a dieci, quanto è incazzato?» «Dodici.» «E Patrick, che dice?» «Deluso, molto.» «Prendo altri due panini. Magari aiuta. Sarà un’altra lunga notte.»

12 - Bio Tied Up

Le connessioni ci uniscono. Ci cambiano. Ci tormentano.

Alcune sono semplici e immediate. A volte, eggere.

Altre sono così complesse da reggere il collasso del sistema e sono eterne.

Io voglio sapere, prima «Ho un file, in me.» Rasputin s’indicò con entrambe le mani. «Come lo spieghi?» Bio si grattò la guancia. Ancora non riusciva a credere che il programma che lo stava fissando, a sua volta incredulo, potesse davvero portare in lui un messaggio di Alessio. «Facciamo così, prima mi dai il file e poi ti spiego.» «No, prima tu mi spieghi e poi io te lo do» rispose deciso incrociando le braccia. «Voglio sapere tutto. E senza più balle. Chiaro?» Si fissarono a lungo in silenzio. Sembrava fermo nella sua richiesta. «Allora?» «Va bene. Devo recuperare dei filmati in camera.» Bio creò la porta codificata per l’uscita con ancora dell’incertezza. «Ti avviso: dopo, sarai più confuso di adesso.» «Correrò il rischio» replicò facendo spallucce. «A proposito, Ergo e Null non sanno nulla di questa storia.» «Va bene. Diciamo che andiamo a farci una birra. Così restiamo soli e mi racconti.» Bio scosse la testa. «Con Null non è così semplice.» Si morse il labbro. «Niente. Si torna qui. È l’unico posto dove non ci verrà dietro.» «Dobbiamo caricare ancora malware?» «Per forza. Ne carico pochi. Li facciamo fuori. Poi, ti spiego.» «Ci sto.» Bio attivò l’uscita e la oltrearono lentamente, scrutandosi a vicenda come se avessero sancito un patto tacito di reciproca fiducia. Era stato naturale, come

quando l’aveva attivato al Buffer. C’era nei codici di Rasputin una fluidità tale da farlo sentire famigliare. «Threep-pi!» Null gli piombò addosso e lo abbracciò facendolo sussultare. «Siete tornati, finalmente.» «Che fate ancora qui?» chiese a Ergo. «Non riusciva a stare ferma, così abbiamo pattugliato tutto il tempo la zona» gli rispose per giustificarsi. «Scusate» disse sigillando l’uscita. «Ne avevamo davvero bisogno.» «Già!» esclamò Rasputin mostrando quanto fossero bianchi e dritti tutti i suoi denti. «Io non vedo l’ora di tornarci. Eh, Bio?» «Cosa?» disse Null sgranando gli occhi. «Il tempo di una birra, e si torna. Giusto, amico?» gli diede una vigorosa pacca sulla spalla. Bio trovò solo il tempo per un vago accenno con la testa quando Null puntò i piedi. «Non se ne parla!» sbottò. «Siete stati via quattro ore. No! No! E ancora no!» «Siamo di turno tra meno di cinque» disse Ergo con la solita espressione paterna rimastagli dal Limbo. «Se vogliamo farci uno scan, è meglio andare agli alloggi.» «È vero. Hai ragione.» Guardò Rasputin sperando nella sua comprensione. «Ci torniamo appena possibile, va bene?» Rasputin esitò un momento, poi sbuffò. «Aspetterò.» «Vi siete divertiti tanto tanto.» Null iniziò a fissarlo con il broncio in modalità dubbio: scansione avviata. Bio tentò di rassicurarla indossando un’espressione di media normalità, ma Null serrò appena gli occhi e si avviò con i lunghi e ben distesi, come un soldato

in parata. E Bio comprese di avere un problema.

Null è diversa «Non puoi pulirti le dita prima?» borbottò Rasputin. Bio scrollò la mano che tornò rosea perdendo il sangue e la cenere. «Meglio così?» «No. Mi fa schifo.» Scosse la testa. «Siamo circondati da trenta malware puzzolenti e ti fa schifo la mia mano?» «Non mi fa schifo la tua mano, anche se sembra quella di una femmina, ma il fatto che me la ficchi in pancia» disse buttandosi la maglia nera sulla spalla come uno straccio. Dopo l’ennesimo massacro in Quarantena, l’ultima cosa che si aspettava di sentirsi dire era che aveva una manina affusolata. Lo guardò spazientito. «Il file è nel tuo stomaco. Se non ti va la mia idea, proviamo ancora a metterti a nanna e mi collego col computer?» «No!» Sbottò sollevando il labbro superiore. «Mi è bastata la prima volta. Ho ancora la sensazione di un palo nel cu-» «Alternative?» lo interruppe Bio. «Preferisci che o dalla bocca? Dalla gola?» «Sei pazzo?» esclamò sgranando gli occhi. Restò alcuni istanti in silenzio. Si ravvivò i capelli sbuffando. «Dai. Entra dalla pancia.» Serrò la mascella e smosse le spalle facendo scrocchiare le ossa. «Che situazione di merda!» «Sai per me che divertimento» gli rispose ironico Bio. Cercò di rilassarsi con un profondo respiro. Si avvicinò al busto di Rasputin e gli fissò la pancia andando oltre la texture rosea. Alzò la mano. «Entro, allora» lo avvisò infilando le dita lentamente. Rasputin sibilò. «È terribile. Sbrigati!» «Non ti muovere…» sussurrò mentre la mano confluiva in lui tentando di non

danneggiarlo. I codici gli scivolavano intorno alle dita come marmellata. Poi, d’un tratto, un grumo vischioso. Affondò l’indice toccando qualcosa di duro. «Ci sono, lo sto toccando.» «Non farmi la cronaca. Sbrigati e basta!» Lo afferrò sentendo degli spigoli appuntiti, sembrava un dado. «Preso. Devo metterti una patch.» «Una in più che cambia?» gli rispose con la voce infastidita. «È proprio perché sono pieno di tue patch che non riesco a prendermi il file da solo. E questa la devo ancora capire.» Prese fiato muovendosi appena. «Sono tue o non sono tue?» «Fermo.» Gli afferrò il braccio e iniziò a far uscire la mano. «Bad-piii!» urlò Null d’improvviso echeggiando nella valle. Rasputin sussultò per lo spavento, ma Bio riuscì a non deconcentrarsi. «Lo sapevi che mi piaceva tanto. Perché mi hai fatto questo, Threep-pi?» La voce era lontana. «Me lo dovevi dire che lo volevi solo per te.» Bio estrasse il dado tenendolo tra il pollice e l’indice. «Finito» sospirò sollevato. Guardò in giro, ma Null era già svanita. C’erano solo i resti maciullati dei malware sopra la terra rossa della valle della Quarantena. Rasputin indietreggiò di un o. Si toccò la pancia. «Sono a posto? Sei sicuro?» Bio annuì fissando il dado. Era di metallo con diverse fessure, sembrava un diorama argentato. «So come decifrarlo.» Lo chiuse in mano. «Solo che prima devo chiarire con Null.» «Certo che parla strano forte. Che è bappi, adesso?» «Quando mi chiama bad-pi è perché è tanto arrabbiata.» «Non ho capito bene. Cos’ha detto?» disse Rasputin toccandosi ancora la pancia. Sussultò. «Aspetta!» esclamò. «Non crederà che io e te-» Non finì la frase.

«Purtroppo, sì.» Bio generò una porta. Rasputin scosse il capo. Infilò rapido la maglia. «Le faccio vedere io.» Smosse le spalle. Serrò i pugni. «La prendo e le spiego un paio di cose così da toglierle ogni dubbio.» Bio si bloccò. «Scherzi, vero? Le parlerò io. So cosa dirle. L’equivoco svanirà subito.» «Perché no? Lei insiste tanto. L’accontento» sorrise. «Anzi, in fondo mi piace pure. Almeno, mi distraggo per alcune ore.» «Null non è un’app. usa e getta.» Bio serrò le labbra. «Lei ha stabilito una connessione con te. La faresti soffrire.» «Connessione? Siamo programmi, incrociamo codici e via.» «Non siamo tutti uguali. Null-» esitò. «Null è speciale.» «Temi di perderci nel confronto?» Alzò più volte le sopracciglia con un ghigno sfottente. «Noi siamo legati, ma non come pensi tu.» Bio si girò e lo fissò dritto negli occhi. «Non voglio minacciarti, Rasputin. Sono dieci giorni che veniamo qui perché entrambi abbiamo delle domande. Ora sai cos’ho ato. Hai visto i cristalli. Abbiamo il file di Alessio.» Gli mise una mano sulla spalla. «Non complichiamo tutto.» Rasputin gliela scostò. «Quello complicato sei solo tu.» Inclinò la testa. «Io faccio quello che voglio con Null e con chiunque sia disponile.» Si additò. «Io sono libero e voglio divertirmi. Chiaro?» «Non con Null, però.» «Lei non fa che stuzzicarmi, che dovrei fare?» Puntò le mani sui fianchi. «Mettere le cose in chiaro.» Bio accennò un sorriso tirato. «Soffrirà un po’, ma non le infrangerai la connessione. E magari, un giorno, conoscendola meglio, potresti cambiare idea.»

Rasputin lo fissò in silenzio. «Se ti da tanto fastidio l’affetto che ti dimostra Null, vai in giro con Skiller.» Si massaggiò la nuca. «Ci sono tanti server dove potresti divertirti e lui li conosce tutti. Vedrai che Null capirà da sola e non ti disturberà più.» Rasputin divenne serio e abbassò lo sguardo. «Skiller è ok, ma non mi vanno i suoi giri.» Si schiarì la voce. «E poi non ho mai detto che Null mi disturba.» «Allora, un po’ ci tieni?» Rasputin indicò l’uscita. «Muoviti, -pi» lo sfotté. «Devi parlare con Null. E poi, dobbiamo vedere che dice il messaggio che c’avevo in pancia.»

Il file di Alessio «Sei sicuro che se stiamo qui in camera tua non viene nessuno?» Bio annuì. «Tranquillo. Ho detto agli altri che dovevo farti degli aggiornamenti. Non verranno.» «E Null che dice?» gli chiese Rasputin. Bio girò la sedia e alzò la testa per guardarlo in faccia. «Perché? T’importa?» «Senti, nonno-pi.» Incurvò la schiena e lo fissò dritto negli occhi. «Con le sue treccine ha quasi collassato la rete del continente australiano. C’hai messo due giorni, dico due…» precisò muovendo il pollice e l’indice della mano destra, «a convincerla che non eravamo fan del big-cyber-jumbo. Io e [email protected] siamo andati in giro da soli a fare pure il lavoro vostro.» Lo puntò al petto. «M’è stata appiccicata come una pulce per i successivi due. Ora, è tutto a posto di botto. Permetti che chiedo?» gli chiese col grugno seccato. Bio lo lasciò sfogare, attese che le narici gli tornassero della consueta dilatazione. «Ho detto che dovevo farti degli aggiornamenti molto privati e delicati» disse cercando di trattenere il riso. «Non vengono per rispetto tuo.» Portò la mano sulla bocca. «Rispetto?» «Il file che avevi in pancia è un filmato, a proposito.» Fece per premere l’invio, ma Rasputin gli afferrò la spalla e lo girò verso di lui. «Sarebbe?» gli chiese serio. Bio si grattò l’orecchio. «Un virus che simula l’HSV 2.» «Herpes genitale?» Rasputin sgranò gli occhi. «Infame bastardo che non sei altro. Questa, me la paghi.» Incrociò le braccia e indicò con un cenno della testa il computer. «Vediamo il filmato.»

Bio girò la sedia verso il computer. Spinse il comando. Sul monitor comparve il fermo immagine di Alessio. Era seduto e guardava dritto nella videocamera. Indossava una t-shirt rossa, gli si vedevano solo le spalle. I capelli erano arruffati e separati in ciocche, i ciuffi gli arrivavano fin sugli zigomi. “Ciao Cyberpunk” disse Alessio. “ti mando questo messaggio con Rasputin 0 sperando di avere tue notizie. Non so che pensare. Sono molto preoccupato.” Alessio si grattò la nuca spostando la corda di tessuto e le cuffie con auricolare che gli penzolavano dal collo. “Igor è ancora in coma, purtroppo, e non sa che gli ho preso Rasputin 0. Però, ho pensato, che vista la situazione, era meglio tentare. Magari sei nei guai e ti serve un aiuto.” Fece spallucce. “L’ho un po’ modificato. Però, gli ho lasciato i ricordi condivisi di Igor. Sai, per dargli personalità.” Si grattò il mento. “Trattalo bene, mi raccomando. Glielo dovrò restituire.” Lo additò. Abbassò appena lo sguardo. “Ora più che mai avrei bisogno di te.” Alessio si avvicinò talmente all’obiettivo che Bio ebbe l’impressione che parlasse con lui. “Cyberpunk, dove sei? Lo so che l’esistenza è molto difficile anche per te, ma anch’io ho i miei problemi eppure continuo a scriverti e a cercarti. Ti prego, fammi avere tue notizie.” Alessio si appoggiò allo schienale sbuffando a testa bassa. Spostò i ciuffi con le

mani. Gli occhi erano arrossati e cerchiati da profonde occhiaie. Sembrava molto stanco. “Sai, ci sono riusciti a massacrarmi la vita. Mi hanno preso tutto. La casa, i soldi, il lavoro. Volevano uccidermi Menguzzi, ma l’ho salvato. Mi sono preso una febbre tremenda, ma ci sono riuscito e non se ne sono accorti. Spero tu non abbia avuto delle conseguenze.” Appoggiò i gomiti sul tavolo avvicinandosi con la sedia. “Sono preoccupato per Michela. Temo di perderla. Lavora da un commercialista fatto su misura per lei, non so se mi spiego. Che bastardi!” Serrò la mascella. Chiuse gli occhi. “Vivo nell’ansia costante che la inviti a cena o a qualche stupido convegno nel fine settimana.” Strinse i pugni. “Potrei distruggerlo.” Ansimò. “Vorrei tanto farlo.” Deglutì. “Invece, continuo a fare il bravo ragazzo. Mi dico che è la scelta giusta per quando le dirò tutto. Non manca molto. Impara in fretta.” Inclinò la testa di lato, si massaggiò la fronte. “Sopporto tutto solo per lei.” Si strofinò veloce la faccia. “Scusa. Non è un momento facile. Ci vediamo poco. Mi manca molto.” Sorrise appena.

“Comunque.” Spostò i ciuffi indietro, si smosse sulla sedia. La portò in avanti e s’avvicinò all’obiettivo. “Con Zero Tre non va tanto bene. Abbiamo qualche divergenza-” “Ale, bello!” disse una voce lontana, diversa. “Tra tre minuti inizio il turno. Mi spiace.” Alessio guardò oltre la camera. “Scusa, Skizzo. Finisco e ti lascio la postazione” gridò sollevandosi rapido, la scritta gialla Babelpunk sulla maglietta riempì lo schermo. “Devo andare. Senti, Cyberpunk, contattami perché il momento si avvicina. Emergi dal substrato, amico, che si esce.” Gli sorrise. “Ciao.” Alessio toccò la tastiera e l’immagine si fermò. Bio lo fissava in silenzio con una miriade di domande nuove che andarono a sommarsi a quelle già esistenti. Sembrava lo stesso Alessio degli altri video, ma a chi si stava rivolgendo? Perché diceva Cyberpunk e non Bio? Quel emergi dal substrato che significato poteva avere? E chi era Zero Tre? «C’hai capito qualcosa?» Non riuscì neppure a staccare gli occhi dal monitor. «Lo riguardo» riuscì a rispondere poco dopo facendo ripartire il video. Si afferrò il mento e cercò di analizzarlo nei minimi dettagli.

Chi è Zero Tre? «Questo Zero Tre non lo conosci, allora?» «No, Bio, mi spiace» scosse il capo Rasputin, appoggiato alla parete con le braccia e le gambe incrociate mostrava i suoi stessi dubbi. «A parte la sala multiplayer Babelpunk, proprio non so che dirti.» «Mancano dei cristalli, forse.» Bio si alzò e andò alla finestra. «Nell’ultimo, Alessio cercava lavoro e aveva perso la casa. Questo filmato potrebbe essere successivo.» Si massaggiò la nuca. «Solo che a mandarlo è Alessio, non Michela. Questo, cosa vorrebbe dire? Che mi sono mandato il filmato da solo?» Fece una smorfia. «Quindi, quello che vedo nei cristalli è una vecchia simulazione.» Puntò le dita alle tempie. «Una simulazione che la Shiba mi ha rimosso e che, per qualche motivo, ho cercato di salvare?» Chiuse gli occhi. «In fondo, mi hanno sovrascritto la memoria molte volte e ancora non riesco a risalire ad alcuni ricordi.» «Allora perché i cristalli di Michela? Non facevi prima a mandarti un file unico con un video come questo?» «Lo penso anch’io» annuì. «E se è una vecchia simulazione, che importanza potrà mai avere adesso?» Lo fissò facendo spallucce. «Michela è andata. Io sono quel che sono, ora.» «Il quarto cristallo ti è arrivato mentre curavi Michela, giusto?» «Sì.» «Sempre nel Side 5 di Tokyo?» «Sì. Ero andato per conoscere gli amici di Matsumoto e Iku. Per tentare di aiutarli in qualche modo quando erano in prigione.» «Io propongo di andare al Side. Magari arriva qualcosa.» Rasputin si raddrizzò. «Così capiamo chi è Zero Tre.» Si avvicinò al computer e pose le mani sui fianchi. «Comunque, tu sei certo che Igor Sokolov sia solo un , vero?»

L’ di Igor Sokolov «Se non ti fidi, accediamo alla Matrice. Così lo vedrai da solo.» Bio tornò alla postazione. «Tanto, dopo l’attacco alla Shiba, mi sono tenuto un ingresso. Entro ed esco quando voglio.» Afferrò la sedia e si sedette. «L’ Igor Sokolov è stato disabilitato lo stesso giorno in cui Igor Sokolov è entrato in coma.» Tamburellò le dita sul bordo del tavolo. «E non c’è alcun programma o applicazione con lo stesso nome.» Scosse la testa. «Del resto, questo Igor entrava e usciva dalla Matrice a suo piacimento. Il problema è che non so chi fosse nella realtà. Non usando più l’, non c’è modo di rintracciarlo.» «E tu hai già cercato Igor Sokolov nel mondo reale e non esiste.» «Esatto. L’ultimo con quel nome è vissuto in Mosca, più o meno in quel periodo, ma era un pittore. Ben lontano dall’Igor della simulazione.» Lo fissò. «Ne ho trovati altri, ma nessuno che corrisponda a quello che sei tu. Né per aspetto fisico, né per interessi o cultura.» «Non ti offendere, ma io voglio controllare con i miei occhi.» «Ti capisco. Io farei la stessa cosa.» Bio digitò rapido sulla tastiera. Creò un secondo monitor etereo. Appena il poligono si aprì, si alzò lasciandogli la postazione. «Hai ventidue minuti prima del controllo programmato. Mi raccomando, se vuoi restare dentro più tempo, freddati un minuto e poi riparti.» «Bene.» Mentre Rasputin verificava l’ Igor Sokolov, Bio andò alla finestra e accese una EtiKoff. Il fumo rosso gli solleticava la lingua, ma non le idee. Gli sembrava di avere un puzzle da un milione di pezzi e nemmeno l’ombra dell’immagine da creare. Stava per fare l’ultimo tiro quando Rasputin batté il piede a terra. «Lo sapevo!» esclamò. Bio gettò il mozzicone dalla finestra e s’avvicinò rapido. «Cosa? Cos’hai trovato?» «Ho fatto un controllo non sui nomi, ma sulle date.» Indicò il monitor. «Guarda.

Questo tipo qui è scomparso lo stesso giorno in cui Igor è andato in coma.» Bio osservò la foto di un uomo con i capelli rossi, il volto quadrato e lentigginoso. Indossava un camice bianco. Lesse la scheda. «Fritz Planck è un fisico quantistico di quarantanove anni, oltretutto di origine tedesca, che c’entra con te?» «Magari è lui che usava il mio . Intanto, faccio una copia del profilo. Ed esco.» «Un fisico tedesco che accede alla Matrice e simula un ventenne hacker russo, abile nei videogiochi?» Sospirò grattandosi la tempia. «Non vedo la connessione.» «La data è la connessione» rispose deciso. «Spegni pure. Torniamo in sicurezza.» Bio richiamò il monitor etereo. Forse il punto di vista di Rasputin era così diverso dal suo da dargli modo di riflettere con rinnovata curiosità. Un milione di pezzi diventava la metà, se si era in due a gestirli. «Leggiamo meglio la scheda. Proviamo a seguire la tua pista» gli disse mentre il monitor d’emergenza di Null s’accese bruscamente davanti al suo viso. «Threep-pi! Ergo sta male! Ha rigettato la cura» gridò in lacrime. Bio e Rasputin uscirono dalla stanza.

La mutazione dell’ASM Bio corse lungo il corridoio stretto e metallico. I neon sfarfallavano discontinui. Si accostò alla settima porta ovale. Compose il codice sul riquadro vicino. La porta si sollevò. Ergo era sdraiato a letto con la faccia di lato e il braccio penzolante. Gli occhi lucidi. La bocca socchiusa sporca di vomito. Bio si precipitò da lui. Creò il monocolo etereo e lo esaminò. «Perché ha rigettato lo ScarRec?» sussurrò. «Perché non lo tiene?» Poggiò la mano sul petto impastato. «Forza amico, dai.» Vide un blocco anomalo che ostruiva l’accesso alle porte di rete. «Ha le connessioni ostruite. Devo sbloccarle.» Salì sul letto. Si sedette cavalcioni tenendolo fermo tra le gambe. Si concentrò. Appoggiò le mani sulle tempie. Il led della placca metallica era fermo e fioco. «Ti farà male, ma non ho alternative.» Chiuse gli occhi e entrò nei suoi file. Sentì Ergo irrigidirsi e subito dopo dimenare le braccia e le gambe. «Tenetelo fermo!» gridò. Null e Rasputin lo agguantarono, lo bloccarono. Bio riuscì ad accedere alla sua partizione privata. Vide una massa scura e informe annidata sull’uscita che bloccava gli impulsi. Era vischiosa. Provò a toglierla, ma filava come una gomma masticata e appiccicosa. Strinse i denti. «Così non va.» Sentiva Ergo scivolargli via com’era successo con Michela. «No. Ergo. Dai.» Iniziò a tirare via frenetico tutto quello che riusciva, ma la massa ostruiva comunque il aggio degli impulsi per le connessioni. «Null, devo byare il segnale. Installagli una porta secondaria, presto!» «Ricevuto!» Bio pose una barriera poco prima della massa appiccicosa. Vide arrivare il cavo di Null, il filo luminoso e protetto da una spirale di codici gli comparve in un istante. Lo infilò prima della barriera. Applicò una patch per congiungere i filamenti.

Ergo sembrò rilassarsi. «Dategli lo ScarRec» disse veloce. Vide il fiume di codici blu fluorescenti della cura are rapido e procedere oltre. Bio tirò un sospiro di sollievo. Allentò la presa. Tolse il monocolo e lo fissò. «Sto bene. Sto bene» disse ansimando Ergo. Il led tornò vivido e prese a muoversi. «Grazie, Bio.» «Figurati.» Gli si sedette vicino col busto inclinato. «Che cosa è successo?» chiese Rasputin con ancora le mani sulle spalle di Ergo. Null era in piedi, poco distante. Immobile. «Il bastardo deve essere mutato. Impedisce le connessioni.» ò le mani tra i capelli sudati. «È meglio sentire il dottore.» Grida improvvise attraversarono il corridoio. Un istante ed echeggiarono anche dalla strada. Bio ebbe un brivido. Si alzò. Fissò la porta sperando di sbagliarsi, ma vide le dreadlocks metalliche di Null impennarsi. «Quello che è successo a Ergo, è successo a tutti i malati di ASM.» Gli occhi le si riempirono di commozione. Si gettò tra le sue braccia. «Threep-pi…» Bio l’avvolse. «Temo di sì» disse sentendo una fitta alla tempia. «Devo fare lo stesso anch’io con la mia connessione.» Null annuì. «Ti attivo una porta.» Stringendo i denti, Bio si curò. «Stai bene?» gli chiese Rasputin muovendo un o verso di lui. «Sì.» Prese fiato. «Quanti sono, Null?»

«Nel G 2, sono 1.056 ma salgono» disse singhiozzando. «Nel 3, 978. Nel 7, 1.129 e-» «Basta, ho capito.» Bio si accasciò sul letto. Guardò Ergo, che piangeva lacrime silenziose. Gli diede una pacca sulla gamba. «Almeno, tu sei salvo.» Null si accoccolò a Rasputin. Bio chiuse il volto tra le mani in silenzio, mentre le grida divennero un pianto collettivo.

Altri cristalli Bio e Rasputin osservavano il cielo finto del Side 5 di Tokyo come se attendessero che piovesse una balena; in trepidante attesa, ma con un certo timore. «Siamo qui da quattro ore» disse Bio. «Tra poco andiamo. Non voglio lasciare Ergo solo troppo a lungo.» «A parte che c’è Null con lui. E poi, sta bene» rispose Rasputin. «È ata una settimana ormai. Non è più successo nulla.» Bio ondeggiò il capo. «Lo so, ma anche il dottore dice che potrebbero esserci nuovi attacchi perché l’ASM sta mutando e di stare in allerta.» «Ho capito, ma che vuoi fare? Non puoi stargli addosso finché esiste. L’importante è restare nei paraggi. La porta è là. Se serve, in cinque secondi siamo da lui.» «Sono troppo apprensivo, forse.» «Giusto un po’» scherzò Rasputin. «Un’altra partita a ping pong?» gli propose. «Così a prima.» Rasputin scosse il capo. Il caschetto nero gli solleticò gli occhi. «Che fastidio» borbottò afferrandosi le ciocche con le mani affusolate. «Non potevi darmi Shingo?» «No. Ci sono affezionato.» «E non c’era un giapponese con meno capelli?» Sbuffò lasciando le ciocche che tornarono a coprirgli la fronte bassa e a punzecchiargli gli occhi neri. «Uffa!» Il viso già rotondo, divenne una palla con l’ennesimo sbuffo. Bio sorrise. «Preferivi un calv-» Sentì il cristallo bucargli la spalla. «Arrivato» sussurrò incurvando la schiena. Barcollò.

«Hai visto! Te lo avevo detto» lo additò l’amico. Quando ne sentì un altro nella schiena, Bio s’inginocchiò vinto dal ritrovato dolore. «Due?» esclamò Rasputin andandogli incontro. Bio estrasse il cristallo dalla spalla sentendo il solito bruciore. Cercò di afferrare quello sulla schiena, ma non ci arrivava. «Prendilo tu» disse con la voce sofferente. Rasputin lo aggirò. «Colpo secco?» «Fa male uguale. Levalo e bas-» Gridò per l’estrazione prematura dell’amico. «Grazie» gli disse guardandolo di striscio. Rasputin lo confrontò col suo. «Non sono grandi uguali.» Bio si alzò. «Non lo sono mai.» «Che facciamo? Dici che ne arrivano altri o andiamo in camera e li guardiamo subito?» «Proviamo a restare ancora un po’.» Inclinò la testa all’indietro per osservarli in contro luce. «Tanto, li vedremo domani. Stasera devo andare nel G 7.» Lo mise in tasca. «E poi, con tutto quello che è successo, scoprire i ricordi di una vecchia simulazione non lo trovo più così importante.» «Non vuoi più sapere il significato di tutto questo?» «Sì, certo.» Abbassò lo sguardo. «Però, in questi ultimi giorni trascorsi nei G a curar programmi, ho capito che il significato è da creare e non da cercare.» Rasputin mugugnò. «Non è che il dottore ti ha fatto qualcosa?» Bio sorrise. «Ci siamo solo sentiti. Non l’ho visto. Era molto occupato.» Si avviò verso il tavolo da ping pong. «È stato spesso fuori dai G. Ci sono ammalati gravi anche in altri server. Programmi importanti, insomma.» Prese la racchetta.

«E c’è qualcuno che conosci, che non sta bene?» Bio sgranò gli occhi e lo fissò perplesso. «Che ho detto?» chiese Rasputin afferrando la racchetta dall’altra parte del tavolo. «Tu volevi sapere se Ghost sta bene senza turbarmi.» Inclinò la testa. «Mi sbaglio?» Rasputin allargò le gambe e ondeggiò la racchetta. «Tira!» Bio lanciò la pallina. «E comunque non mi hai risposto» disse Rasputin rispondendo al servizio. «Se stesse male, il dottore me lo avrebbe detto.» Bio colpì così forte che l’amico non la vide neppure. «E poi, Ghost non è fuggita dal Limbo. L’ASM non la tocca.» «Giusto. Mi sono confuso. Quindi, sta bene?» Gli fece cenno di lanciare una nuova pallina. «Non ho chiesto nulla.» «E perché?» «Non mi aiuti, così!» gridò serrando la mascella. Lanciò la pallina come se dovesse distruggerla. Non calcolò la direzione, notò solo che l’amico non si mosse per prenderla. Respirò un paio di volte e lo guardò. «Non credevo ne avessi bisogno» gli disse serio. Bio poggiò la racchetta sul tavolo. «Non mi è ata, va bene? La penso ancora.» Chinò la testa. «La penso sempre.» «Lo so. L’avevo capito.» Roteò la racchetta sul tavolo e la lasciò cadere.

Sembra la Quarantena Osservarono entrambi i cristalli in camera. Appena terminò il secondo video, Bio appoggiò la schiena alla sedia. «Almeno, ora sappiamo che Alessio ha lavorato al Babelpunk. Ci mancavano dei filmati.» Dondolò la sedia a destra e a sinistra spostandosi con le gambe. «Il file di Alessio, che era nel tuo stomaco, è stato registrato in quel periodo.» «Per la questione del commercialista, immagino» disse Rasputin alzandosi dal letto. «Già. Alessio non fa accenno a litigate con Michela, quindi deve essere stato poco prima.» Rasputin andò alla finestra e l’aprì. Si sporse fuori e inspirò profondamente. Anche lui era stato turbato dall’infanzia di Alessio e dagli eventi traumatici che lo avevano colpito. Dalla madre drogata e pazza, ai numerosi istituti che lo avevano ospitato. Da quella poco ortodossa psichiatra che lo aveva preso in cura fino al pedofilo che lo aveva traumatizzato. «Povero ragazzo» sussurrò Rasputin scuotendo il capo. Bio intuì uno strano legame affettivo tra Rasputin e l’Alessio dei filmati. Forse era stato per come avevano appreso i ricordi; nel monitor avevano visto lui seduto sul davanzale della finestra che raccontava tutto al presente come se il dolore gli scorresse ancora nelle vene. E Bio si sentì come se avesse vissuto un’altra vita. Quel ragazzo così simile a lui, ma che non era lui, lo confondeva ancora. Come se fosse un fratello gemello, percepì l’insorgere di un’empatia. Rasputin si schiarì la voce e richiuse la finestra. «Allora, che ne pensi?» gli chiese appoggiandosi alla parete. Incrociò le caviglie e infilò le mani in tasca. «A parte i diversi traumi, la sua infanzia è strana forte.»

Bio annuì grattandosi la guancia. «Più che strana, io direi che questa dottoressa Rayali ha creato in Alessio bambino un alter ego guerriero con una procedura discutibile.» «Che vuoi dire?» «Parlo di controllo mentale.» Incurvò la schiena e poggiò i gomiti sulle gambe. «L’alter ego bio» agitò le dita in aria per inserire la parola in due virgolette invisibili «potrebbe essere il soldato dormiente di Alessio.» Rasputin non disse nulla, lo fissava incredulo. «Com’è che sai queste cose sui soldati dormienti?» «Trovavo interessante l’argomento sul controllo mentale. Avevo letto qualcosa.» Tornò con la schiena dritta e accavallò le gambe. «E comunque noto una forte incoerenza a prescindere da tutto.» Siccome Rasputin non aggiunse altro, proseguì nel ragionamento. «Alessio nomina Zero Tre. Anzi,» precisò alzando il dito «dice che ha modificato il nome di Bio Zero Tre in Bio Cyberpunk.» «E allora? Non capisco.» «Nel video che era in te, Alessio dice di essere in disaccordo con Zero Tre, ma manda il messaggio a Cyberpunk come se fosse un terzo soggetto.» «Giusto. Sono in tre, allora?» «Appunto. Sono in due o in tre?» Lo fissò in attesa, ma Rasputin abbassò lo sguardo e prese a fissare il pavimento. Quando scosse la testa, comprese che non aveva la risposta. «L’unica spiegazione logica» disse Bio poco dopo. «È che sia una vecchia simulazione finita male o collassata proprio a causa delle incoerenze, anche se non motiva tutto.» «Infatti, rimangono parecchi dubbi. Uno a caso: io.» Fece una pausa. «Per fortuna, non mi faccio di crisi esistenziali. Fossi stato Ergo, soffocavo intasandomi di domande.»

Bio mugugnò un assenso anche se poco convinto. Rimasero ancora in silenzio. «Anche a te la Piana di Voljiaren del gioco AgApo ti è sembrata…» «La nostra Quarantena?» Alzò il sopracciglio Rasputin. «Sì, crap! È identica. E a dirtela tutta, l’ho capito la prima volta che ci sono entrato.» Bio scosse il capo. «È un rompicapo mostruoso.» Spense il computer e lo osservò alcuni istanti sperando in un frame fantasma ispiratore. «Forse manca ancora qualcosa» borbottò nel vedere il suo riflesso carico di dubbi. «Vado a vedere come sta Ergo. Poi, vado al Proxy. Vieni?» «Ovvio. Ci portiamo anche treccine?» «Non c’è. Non te l’ha detto?» Si sfiorò il mento. «Stasera usciva.» Rasputin incrociò le braccia e corrucciò la fronte. «E con chi?» «Con uno del G 2.» «Uno chi?» Bio fece spallucce. «Non so. Lo sai che non chiedo.» «Tu non chiedi mai! Dovresti!» Sbuffò. «E se fosse un bug?» «Null sa difendersi. Viviamo nel G 5. Affronta malware ogni giorno. Che vuoi che sia?» Lo fissò con un sorrisetto sfottente. «Sei preoccupato o geloso?» «Vai da Ergo che la birra ci aspetta.»

Connessi a prescindere Bio affondò i denti nel panino doppio strato carne e verdure alla griglia. La carne macinata si mischiava alla zucchina, alla lattuga e alla maionese donandogli una gran soddisfazione. Il riflettere sui cristalli gli aveva prosciugato le energie, ora gli sembrava di recuperarle a ogni boccone. «Guarda!» Rasputin gli diede l’ennesima gomitata al fianco. «Ci prova ancora» gli disse alzandosi dallo sgabello. Poggiò le mani sul bancone. Bio buttò lo sguardo nella saletta opposta, più intima e riservata con tavoli e sedie. Null indossava un vestito di seta azzurra molto scollato con la spallina sottile. Era seduta al tavolino con un programma umanoide smilzo, pallido con la faccia lunga e gli occhi piccoli. In quel momento, Null gli sorrise e lui le si avvicinò con la sedia. Poggiò il braccio dietro di lei. «Sta giù» disse Bio con le labbra serrate afferrandolo per la maglia. Rasputin sbuffò tornando seduto. Strinse il boccale con entrambe le mani. Bio deglutì il boccone. Lo guardò. «Non è corretto che stiamo qui a spiarla. In più, vuoi farti beccare?» «La tocca, che dovrei fare?» chiese a testa bassa. Bio sorrise senza farsi vedere. Afferrò il boccale di birra. Bevve un sorso. «Potevi invitarla tu. A quest’ora ci saresti stato tu al posto di quel tipo.» «Sembra più un topo che un tipo» borbottò. «Null meriterebbe di meglio.» «Ne conosco uno. Ottimo combattente. Simpatico. Di origine sconosciuta, ma io non bado a queste banalità. Purtroppo, non è interessato alle sue treccine, così le chiama lui.» Lo guardò di striscio.

Rasputin lo fissò serio. «Bio, senti.» Deglutì. Bio addentò ancora il panino. «Dimmi» cercò di dire spostando il boccone sul lato destro della bocca, mentre con due dita afferrava un pezzo di lattuga rimastogli sul labbro. «Ecco, sai quando ti dicevo che mi piaceva.» Si grattò la spalla. «Ecco, forse…» Chiuse gli occhi. «Credo…» Le orecchie gli si arrossarono. «Scusa se t’interrompo» gli disse deglutendo. «Il topo sta tentando di baciarla.» Afferrò rapido il piatto e il boccale. Rasputin girò il volto di scatto. Balzò dall’altra parte del bancone urtando il barista, che rovesciò il vassoio con due boccali vuoti. Saltò anche l’altro lato facendosi largo tra due lizard. Zigzagò tra i tavoli come un elefante tra i cristalli. Afferrò per la camicia il topo. Gli disse qualcosa mostrando i denti, mentre Null puntava i piedi. Il topo corse via con la faccia rossa. Null iniziò a dare pugni sul petto di Rasputin in modo frenetico, ma senza scomporlo. Poi, lo fissò ansimante. Lo additò. Rasputin annuì a testa bassa. Fece un respiro profondo. Le prese le spalle. Si chinò su di lei e la baciò. «Finalmente» sospirò poggiando il piatto. «Per fortuna, è andata bene. Questa almeno è risolta. Una su un milione, ma vale come cento.» Uscirono dal Proxy mano nella mano. Mentre Rasputin era di schiena, sull’uscita, Null si girò rapida verso Bio e lo salutò con un sorriso radioso. Bio alzò il boccale e le fece l’occhiolino. «Auguri cuccioli.» Sorrise contento anche se sulla lingua sentiva una punta di malinconia. Terminò il panino. Ne chiese un altro. «Avevi tanta fame, stasera» scherzò il barista, Carlo23, un programma che simulava un uomo sulla cinquantina paffuto con i baffi folti.

«È un po’ che volevo chiederti se sei di origine italiana.» Carlo annuì. «Sì. Lo era il mio creatore. Poco prima di morire, ci ha liberati. E ci ha dato l’autogestione del programma. Siamo stati così felici, che nessuno di noi ha modificato l’immagine e il nome.» Bio poggiò i gomiti sul bancone. «Anch’io sono italiano, lo sai? Cioè, quando ero umano, intendo. Di Milano.» «Io so tutto di te, Bio.» Smosse i baffi. «Sono contento che sei uscito dall’angolo. Era ora.» Un cliente lo chiamò. Carlo 23 girò il volto e annuì. «Torno dopo col panino.» «Grazie.» Mentre si allontanava, Bio ebbe la sensazione di vivere il Proxy in un modo diverso dal solito. Più coinvolto. Lo aveva sempre chiamato il barista, ma Carlo 23 aveva una sua personale storia e non se n’era mai interessato. Sentì di volersi aprire con gli altri. Di conoscere chi aveva intorno. Programmi che vedeva spesso di cui non sapeva neppure l’identificazione. Sentì di uscire dall’isolamento in cui s’era chiuso per il troppo dolore. Appoggiò il mento sulle mani congiunte. Guardò nella parete a specchio colma di bottiglie di fronte a lui. Tra un Chivas Regal e un Johnnie Walker intravide il suo volto e gli apparve maturato a sufficienza come i whiskies a lato. Abbassò la testa. Diede una rapida occhiata al posto vuoto vicino sentendosi però incompleto. «Certe connessioni sono difficili da chiudere» sospirò vedendo nel riflesso la sagoma di Ghost che gli si appoggiava al braccio e glielo stringeva sorridendo. Chiuse gli occhi. E una calma inquieta lo scosse. La sua esistenza volgeva verso una nuova fase, più tranquilla. Eppure si sentiva su una spiaggia quando c’è la bassa marea. Il silenzio sibilava e, guardando l’orizzonte, coglieva nel vento l’odore intenso della grande onda che presto sarebbe giunta devastando tutto. «Basta.» Si morse il labbro. ò rapido le mani sul volto.

Quando riaprì gli occhi, una lizard gli era seduta accanto. Sussultò. «Salve, bel moretto» disse con la voce profonda tinteggiata al femminile. Bio si girò lento. Il prosperoso seno verde era risaltato dal bustino nero di pelle. L’odore della pelle squamosa era così speziato che coprì tutto il resto. «Salve.» Deglutì. Alzò la testa. «Non mi offri da bere?» La dentatura lo abbagliò. «Certo» disse alzando il braccio per avvisare Carlo 23. «Cosa prendi?» «Un Ice Switch.» Bio chiamò Carlo 23 che lo fissò con una smorfia. «Quando puoi, anche un Ice Switch, grazie.» Lui annuì aggrottando le sopracciglia. «Perché tutto solo?» gli chiese ammiccando. La lingua gli serpeggiò sulla guancia. La sensazione di viscido sulla faccia non gli era nuova, quel gesto gli fece riemergere un ricordo lontano. La guardò meglio. «Noi ci conosciamo?» «Me ne ricorderei» gli fece l’occhiolino. «Tu lavori all’Hot Byte del Gt205. Mi sbaglio?» Si grattò lo zigomo. «Sono ati due anni, almeno. E il mio aspetto era diverso.» Lei chinò il muso. «Ci lavoravo. Da poco, sono ata con Sergey nei G.» «Che è successo?» «Hanno fatto tagli al personale.» Smosse le spalle muscolose. «Sai, dopo il collasso di venti server può succedere.» Bio sobbalzò. «Sono collassati dei server di Ghost? Quando? Come mai?» «Qui nel G 5 non vi arrivano le notizie o sei tu che non t’informi?» Lo guardò storcendo l’importante naso. «Approfittano del momento, ovvio.»

«Che vuoi dire? Che momento?» «Ghost sta morendo.» La lizard abbassò lo sguardo. «Un po’ mi spiace. Stavo bene all’Hot Byte, ma l’esistenza va avanti. Bisogna adattarsi.» Bio scattò in piedi sentendo la risacca dell’onda gigante in avvicinamento.

13 - Michela Play the Life

La vita è come un gioco, ma il divertimento è a discrezione del master.

Ghost, ancora Dopo l’impresa al Babelpunk, Alessio ricominciò a viaggiare. Da prima solo in Europa, ma già il mese successivo era negli Stati Uniti presso le sedi d’importanti case di produzione di videogiochi. «In pratica, vogliono che gli testi il gioco. Ho capito bene?» gli chiese Michela al cellulare. La voce di Alessio le arrivava metallica e in differita. Attese. «È già testato. Vogliono una specie di test finale. E poi metteranno il bollino Testato da Bio o Approvato da Bio. Lo devono ancora decidere. Dicono che venderà di più, così.» Michela era emozionata per lui. «Caspita! Ti pagano per giocare. Che spettacolo!» Alessio rise. «In effetti, mi diverto un sacco. Anzi, tutto il giorno. C’è sol- un gro-o pro-ema i- tut-o qu-st-. E -on s- co-e di-tel-» «Come? Ti sento a scatti. Ale?» «Mi-» La linea cadde. Michela lanciò il telefono sul letto. «La telefonata era nata male, in fondo.» Sbuffò. «Magari mi richiama dopo.» Si avvicinò alla finestra. Spostò la tendina di cotone. Il blu dei non ti scordare di me si confuse col bianco quando Michela la stropicciò nervosa. Anche se erano le otto di sera e la giornata si stava spegnendo, fuori c’era ancora un pallido chiarore. Il marciapiede era umido. Girò la maniglia, l’aprì. L’aria fresca la fece rabbrividire. L’acquazzone aveva rinfrescato l’arsura del caldo estivo arrivato prematuramente in giugno. «Speriamo che possa venire per il mio compleanno.» Chinò il capo. «Magari era

proprio quello che voleva dirmi.» Il cellulare l’avvisò di un messaggio. Michela lo prese e lo lesse. “Siamo arrivati e non posso più chiamarti, ora. Mi manchi tantissimo. Ti mando una mail appena finisco. Leggila domani mattina appena sveglia, e rispondimi prima di andare in ufficio. Mi raccomando. (cuoricino)” «Ecco, così non dormo. Se non me lo dice nel messaggino, è proprio sul mio compleanno.» Da quella sera al Babel, era diventata una relazione multimediale: sms, mms, video chiamate e mail. «Mi sembra di stare più con Bio che con Alessio» sospirò. Si sedette al computer e sfogliò l’album fotografico. Cercò la sua immagine preferita: il primo piano di Alessio col lago salato della Death Valley come sfondo. Michela la ingrandì, ò il dito sul profilo delle sue labbra. «In agosto saranno due anni.» Poggiò i gomiti sul tavolo, il viso sui pugni. «Speriamo solo-» Si zittì. «Oh, no!» Sgranò gli occhi. «Non sarà mica che deve fare la gara in Las Vegas anche quest’anno?» Si alzò di scatto. «Forse deve difendere il titolo.» Iniziò a camminare per la stanza. «Con tutto quello che è successo, questa volta non ho i soldi per andare con lui. E lui non li ha da anticiparmi.» Scosse il capo. «Mannaggia!» Alzò le braccia al cielo. «Ecco cos’è. Me lo sento. Ancora quella maledetta Shiba con la loro pillola. E lui non sa come dirmelo. Ovvio.» Tornò al computer. Iniziò a cercare notizie di un’eventuale gara in Las Vegas del 2013, ma non trovò nulla di ufficiale sul sito della Shiba. Tacevano su tutto. La Matrice Limbo era ancora segreta e di Igor nessuna novità. Michela trovò anomalo che il catalogo dei giochi fosse diminuito rispetto all’anno precedente.

Provò a cercare qualche indiscrezione in alcuni blog. Alcuni ipotizzavano che gli ingenti investimenti sulla piscina-neuronale, presentata in Las Vegas nel 2012, non avessero trovato riscontro nella commercializzazione creando quindi un buco economico alla Shiba. Altri anticipavano già il fallimento della Shiba stessa. «Strano. Con tutti quegli ospiti d’élite. Possibile?» Si strofinò il mento. «Se allora il progetto è fallito, perché non svegliano Igor?» Inclinò la testa. «E se fosse sveglio, invece? Magari si sta riprendendo. Strano però che non ci avvisi.» Incrociò le mani sulla testa. «Purtroppo, senza le macchine giuste, Ale non riesce più ad accedere nell’ospedale in Tokyo per controllare. Certo che anche quel Ghost potrebbe farci sapere qualcosa.» Guardò nella telecamera. «Mi senti? Ghost, se ci sei batti un colpo.» Fece una pernacchia. Plopt! Le arrivò nella posta di Skype un messaggio: 70CH! (occhiolino) Michela fissò il monitor in silenzio. «Che caspita vuol dire sette, zero, ci e acca?» Il mittente era 00. «E chi è zero-zero? Come fa a scrivermi in questo segreto di Ale senza il mio permesso?» Deglutì fissando la finestrella colorata. Stava per chiuderla, quando le venne il dubbio. «Non può essere che ho nominato Ghost e mi ha chiamata.» Plopt! Nuovo messaggio: BH00! (sorriso) Michela sobbalzò dalla sedia. Osservò nella telecamera con la terrificante sensazione di essere osservata. Plopt! Nuovo messaggio: Y35! B1G BR07H3R 15 W47CH1NG U. 5M1L3, M1CKY.

Michela cercò di comprendere quella strana scritta. Il suo nome le instillò il dubbio che usasse i numeri al posto di alcune vocali. Il tre sembrava la vocale “e”. Il cinque sembrava la “s” e il sette la “t”. Iniziò a rileggere. «Yes! Big Brother is watching you, Micky. Il Grande Fratello ti guarda» sussurrò. Chiuse il computer con un gesto rapido e deciso. «Oh, mio Dio!» borbottò con il respiro affannato. Si alzò portando le mani sulla bocca. «Oh, mio Dio!» Si lanciò nel letto. Nascose la testa sotto il cuscino. «Oh, mio Dio!» Arrivò un messaggio sul cellulare. La suoneria più lunga lasciava supporre una foto. Michela allungò la mano. Lo prese. Sgusciò da sotto il cuscino. Premette l’invio. Si aprì l’immagine. Alessio sorrideva sotto il cartellone con la scritta Medal of Honor: Firepunk. Il testo diceva: “Sorpresa! Ecco il gioco che testerò in questi dieci giorni. (sorriso) Sono alla Electronic Arts. Uscirà per Natale 2013. Mitico, eh?” Michela mugugnò mordendosi il labbro. «Se gli dico che Ghost è nel mio computer non si sa da quanto, gli prende un colpo. Poi, non lavora più sereno. Meglio se faccio finta di nulla» borbottò mettendosi seduta. «Glielo dirò di persona quando torna.» Rispose digitando rapida sul tastierino: “Caspita! Sono davvero felice, amore. Fatti onore. (cuoricino)” Lo inviò in riposta. “Sei uscita? Ho provato a chiamarti in Skype, ma sei sconnessa. Avevo dieci minuti. Volevo vederti… (faccina triste)” «Adesso che gli dico?» Portò il cellulare alle labbra. Digitò: “Strano. Forse è il temporale. Ora provo a riavviare tutto. Riprova dopo, se hai tempo.” “Eh? Che c’entra il temporale? Hai il fisso. Problemi?” Michela scosse il capo. «Anch’io però che m’invento scuse stupide con l’esperto

informatico» sbuffò picchiandosi in testa il cellulare. “Ma no. Tutto bene. Stavo solo facendo… cose.” “Cose? Cioè?” “Cose. Punto.” “(faccina stupita) Ah! Ho capito. Non pensavo di mancarti tanto. (occhiolino)” Michela aggrottò le sopracciglia dubbiosa. Poi, comprese la sfumatura maliziosa. “Che hai capito? Ma ti pare?” “(sorriso) Peccato, mi stavo facendo il film in testa. Era gradevole. Ora devo andare davvero. Ti amo. (bacio)” “Anch’io, tanto. (bacio)” Premette l’invio scuotendo la testa. «Che birbante.» Sorrise. Si sdraiò nel letto. «S’incazzerà tanto, però, quando saprà di Ghost.» Guardò il suo computer. «Chissà come si formatta un pc?» Tirò su il busto. Tese le braccia, le mani affondarono nel materasso. «Ora che ci penso, potrei farmi insegnare un po’ di cose.» Osservò il suo portatile con sguardo nuovo. D’improvviso, sentì crescere in lei la curiosità di sapere come funzionasse dentro. Come ragionasse un computer. Quale fosse la funzione delle cartelle nella zona che Alessio chiamava Roba per smanettoni. «Perché no? Mi dice sempre che ci sono portata. Ora che le cose vanno meglio, che è più rilassato, gli potrei chiedere qualche lezione.» Tornò al computer. Sollevò lo schermo. Le ventole ripresero a girare creando il fruscio in sottofondo. Da scuro, il monitor riprese colore. Premette invio. Osservò nella telecamera con aria di sfida. Strappò un frammento dal foglio di carta per gli appunti, lo piegò un paio di volte. Lo lambì con due pezzi di nastro adesivo. Poco prima di oscurare la telecamera, salutò con la mano.

Plopt! Nuovo messaggio: “DN7 W0RRY-U R N07 MY K1ND” «Chissà perché scrive così? Vabbe’. Non sono il suo tipo. Sarà gay?» borbottò sottovoce. Gli rispose: “Why not? Are you gay?” Plopt! Nuovo messaggio: “7RY 4G41N” «Stiamo al gioco prima che s’incazzi e mi bruci l’hard disk.» Mugugnò. «Allora…» Gonfiò le guance. Le sembrava un’assurdità iniziare a parlare di colore di capelli o di altezza. Provò invece col togliersi il dubbio maggiore. «Sarà una donna, allora.» “Are you a woman?” scrisse. Plopt! Nuovo messaggio: “Y” Michela sorrise scuotendo il capo ancora incredula. «Non ci credo! Ghost è una donna.» Plopt! Nuovo messaggio: “U R R34LLY G00D P3RS0N- W1LL U K33P MY 53CR37? DN7 B17R4Y MY 7RU57” «E si fida di me. Mi sento quasi onorata. Tradire la sua fiducia? Sarei una pazza a mettermi contro una hacker così forte.» Sbuffò. «Anche se vorrei tanto sapere che caspita ci fa nel mio pc.» Le rispose: “Ok! Don’t worry. I swear! Thanks’ for believing in me. (sorriso)” Plopt! Nuovo messaggio: “DN7 73LL H1M 4B0U7 U5” «Non dirgli di noi?» borbottò Michela grattandosi il naso. «Perché Ale non dovrebbe sapere nulla?» Plopt! Nuovo messaggio: “PLS” «Insiste. Non posso che accettare.» “Ok. As you wish. (sorriso) Bye bye” “G1V3 M3 2 W33K5- 1’M G01NG 70 5P34K 174L14N. BY3”

«Questa vuole imparare l’Italiano in due settimane?» Michela incrociò le braccia. «Se Ghost è una donna, io come minimo devo imparare a formattare il computer da sola.» Fuori riprese a piovere. Si alzò per chiudere la finestra. «Uno degli hacker più famosi al mondo è una donna. E tutti pensano sia un uomo.» Tirò la tendina mentre le gocce picchiettavano sul vetro. «E se invece fosse un uomo che finge di essere una donna per avere la mia fiducia?» Si grattò in testa. «Una cosa è sicura: mi controlla. E non so il perché. Devo stare attenta.» Fece un respiro profondo. «Come caspita faccio ad avvisare Alessio?»

0574C0L0 P3R BIO03 Michela continuò come consuetudine le sue giornate, anche se pensava spesso come poter avvisare Alessio della presenza fissa di Ghost. Lui non le aveva più accennato la cosa spiacevole che non sapeva come dirle. E lei non aveva più chiesto, considerando il monitoraggio fantasma. Ghost le mandava messaggi più volte al giorno generici e sullo studio della lingua. In una sola settimana, Ghost iniziò a scrivere in un Italiano migliore del suo Inglese. Anche se continuava a usare lo stile alfa-numerico, Michela ormai lo leggeva con disinvoltura. Mancava poco all’arrivo di Alessio, quando Ghost la contattò con urgenza. “Ale sta arrivando. Ora non posso.” Le rispose Michela mentre il citofono gracchiò. Alessio era al portone del condominio. “SH1BA 54R4 PR353N73 4 LV- 4NCH3 LU1” “Alessio e la Shiba a Las Vegas? No, non mi ha ancora detto nulla. Forse vuole dirmelo di persona.” Digitò cercando di chiudere la conversazione. Il camlo suonò. “È arrivato. Devo andare.” “Ω C054” scrisse Ghost. “L4 SH1B4 M4ND3R4 R4PPR353N74N73” «La Shiba manderà un rappresentante?» Michela rimase con le mani fluttuanti sulla testiera, mentre udiva la madre girare la serratura. «Che sia Yumi?» borbottò. “Quindi la gara non la gestiranno loro” scrisse Michela. “354770” «Alessio, ben tornato!» la voce di sua madre echeggiò nel corridoio.

«Salve signora. Come sta?» rispose con tono allegro Alessio. «Suo marito? E il nonno? Dove sono? Ho un pensierino anche per loro.» “Perché me lo dici solo ora?” rispose Michela, mentre sentiva Alessio che parlottava con i suoi famigliari su come fosse andato il viaggio. “SH1B4 F4R4 PR0P0574- 5741 4773N74” “Anche se la Shiba dovesse fare una proposta ad Alessio, perché io dovrei stare attenta? Attenta a cosa?” chiese Michela con un groppo alla gola. “SH1B4 H4 PR0G3771” “Progetti di che tipo? Sulla Matrice Limbo?” «Dov’è Micky?» chiese Alessio. «È in camera sua» rispose la madre. «Vai pure. La strada tanto la conosci.» «Grazie, con permesso.» I i di Alessio si avvicinavano. «Michela?» la chiamò. “7U 531 0574C0L0- SH1B4 3L1M1N4 0574C0L1” “Io un ostacolo? A cosa?” scrisse Michela con le mani tremanti. “0574C0L0 P3R BIO03” «BIO 03? Cosa c’entra Bio con me?» Alessio bussò e aprì la porta nell’istante in cui Ghost le riavviò il computer. Michela sbatté le ciglia più volte. Le girava la testa. «Amore» la chiamò Alessio chiudendo la porta. «Quanto tempo, mi sei mancata tantissimo.» Si avvicinò con i rapidi. «Ti dona quella maglietta. È nuova?» Uno sguardo di conferma le cadde sulla maglietta che indossava. Era un suo recente regalo, non poteva essersene dimenticato.

«Amore, ben tornato» disse con voce allegra, aggrottando le sopracciglia. Alessio le poggiò una mano sulla spalla. Michela gliela strinse. Girò il volto e lo guardò. Alessio le fece l’occhiolino. Portò il dito sulle labbra per avvisarla di fare silenzio e le accennò di spostarsi dal tavolo. Michela si levò rapida. «Che accoglienza calorosa.» Alessio si avvicinò al computer. «Adesso resto per un po’, così festeggiamo anche il tuo compleanno.» Tenne premuto alcuni tasti, mentre era ancora in atto il riavvio. «Mi faccio perdonare di essere stato via così a lungo.» Michela non vide la solita schermata, ma una serie di scritte codificate. Alessio le scorse. Si morse il labbro. Estrasse dalla tasca della giacca una scatoletta grande come un pacchetto di sigarette. «Ora usciamo» le disse senza guardarla armeggiando con i cavi. «Ho prenotato in un posticino molto carino. Solo noi due.» Collegò il computer alla scatoletta. Una luce rossa prese a lampeggiare. «Preparati, che andiamo.» «Evviva, che bello» esclamò Michela infilandosi le scarpe. Alessio digitò ancora sulla tastiera. Il computer divenne scuro. Poi, mostrò la solita schermata. «Ti spiace se lascio qui il mio telefono e lo metto in carica?» Pose lo smartphone sul tavolo, lo collegò alla scatoletta. «La batteria è a terra. Lo riprendo dopo.» «Fai pure» rispose. Fece per prendere il suo cellulare, quando Alessio si schiarì la voce. «L’aria condizionata m’ha fatto venire un po’ di bruciore di gola» le disse scuotendo il capo. Michela lo lasciò sul letto. La luce della scatoletta divenne verde. Alessio alzò il pollice. «Sei pronta?»

«Sì, sì.» Afferrò solo la borsa. Uscirono dalla camera. Salutò i genitori avvisando che non avrebbe fatto troppo tardi, ma di non attenderla alzata. Chiuse la porta. Alessio la tirò giù per le scale. Scesero di corsa i gradini fino a piano terra. Imboccarono la scala per le cantine, era fresca e al buio. Alessio cercò l’interruttore prima di percorrere l’ennesima rampa. Solo quando furono davanti alla porta di legno con l’etichetta Famiglia Berettina, si fermò. Le fece cenno di aprirla. «Qui stiamo tranquilli.» Michela prese le chiavi. Entrarono. Alessio la strinse a sé. «Sei stata bravissima. Sono orgoglioso di te.» La baciò. «Come hai fatto a capire? Io volevo avvisarti, ma non sapevo come fare. Temevo di essere sotto controllo.» Sospirò. «Ho pensato di andare in un internet point, ma ti chiedono il documento per identificare il tuo . Non è più come prima.» Alessio annuì. «Sei stata astuta. Perfetta. Non c’era modo di avvisarmi senza farti beccare da Ghost. Hai agito bene. Con le nuove leggi, è impossibile accedere senza un’identificazione reale. E Ghost ti avrebbe rintracciato subito.» «Come hai capito?» Alessio le sorrise. «Micky, dieci giorni fa, mi hai detto che facevi cose.» Le diede un buffetto sul naso. «All’inizio, ho pensato fosse solo un brutto momento. Ma da quel giorno, le tue mail sono diventate strane. E anche la tua voce. Sembravi sempre preoccupata e, soprattutto, non me ne parlavi. E noi ci diciamo sempre tutto.» L’accarezzò. «Così mi è venuto il dubbio che non ti sentissi libera. Come se ci fosse sempre qualcuno in ascolto.» «Era così, infatti. Che hai fatto, allora?»

«Ho fatto finta di nulla. E ti ho mandato un malware in allegato a una mail di Antonella.» Strinse la lingua tra i denti. «Scusa.» «Sei stato tu?» Michela sgranò gli occhi. «Antonella ha portato il pc dal tecnico perché credeva di essere infetta, poverina. Se non fosse stato per Ghost, avrei dovuto portarcelo anch’io.» «Lo so. Era l’unico modo che avevo per capire.» Alessio fece spallucce. «Senza offesa, ma tu non eri in grado di fermarlo una volta aperto. Ghost sì. Siccome non ti sei infettata, ho capito che c’era Ghost di mezzo.» «Strano però che lei non abbia capito che eri tu il mandante del virus.» Michela gli sorrise. «L’hai battuta, allora.» «Lei?» Alessio l’allontanò di un o. Il ciuffo gli coprì l’occhio sinistro. «Già. Ghost dice di essere una donna.» Michela glielo spostò dietro l’orecchio. «Ma chissà se è vero.» Alessio alzò un sopracciglio. «Potrebbe anche essere, ma è più probabile che l’abbia detto per avvicinarsi a te. Comunque, non ho potuto fare altro che aspettare di tornare.» Le prese le mani. Intrecciò le dita. «A proposito, che è quella scatoletta?» «Ecco…» esitò. Guardò in basso. «Ale, che hai fatto al mio pc?» gli chiese con gli occhi a fessura. «Scusa…» le sussurrò. Michela poggiò le mani sulla camicia bianca. Lo fissò seria. «Allora?» Gli tirò la cravatta di colpo. «Non mi avrai mica rotto il pc, vero?» «Rotto? No. Figurati.» Scosse la testa. Allentò la cravatta, prese fiato. «Ecco, l’ho zombizzato.» Si grattò il sopracciglio. «Poi, con quello smartphone l’ho messo in contatto con un mio amico. Lui lo farà girare per un po’.» ò la mano sulla bocca. «È fuori gioco per qualche giorno. Ma tranquilla, te ne procuro un altro nel frattempo.» Le spostò i capelli all’indietro. Le sorrise.

«Zombi che?» sbottò Michela scostandogli le mani. «Gira in che senso?» Incrociò le braccia. «Verrà usato come tramite per fare dell’hacking poco etico, diciamo.» Si schiarì la voce. «Tra qualche giorno, sarai contattata dalla polizia postale che ti avviserà che il tuo computer è corrotto. Così te lo ripuliranno loro. Sarà tutto a posto. E Ghost non sospetterà nulla.» «Poco etico? Cioè? anno il mio pc per rubare i soldi alla gente?» «Scherzi? Ti pare?» Alessio ondeggiò le braccia scuotendo il capo. «Ho detto poco etico. Due cosucce. Robetta. Daranno solo un po’ di fastidio. Tranquilla.» Michela chinò il capo. Sbuffò. «Non era così che speravo di riabbracciarti.» Alessio le si avvicinò. «Già. Stava andando tutto così bene. Non ci voleva.» «Perché siamo qui in cantina, a proposito?» «Per parlare in sicurezza.» Le accarezzò la testa e iniziò a giocare con una ciocca dei suoi capelli. «Smartphone, telecamere esterne. Satelliti. Ghost potrebbe allacciarsi a tutto. Direi che qui dove siamo ora, è il posto più sicuro che abbiamo.» Michela guardò gli scaffali di metallo inchiodati al muro. Erano invasi dai ricordi della famiglia imballati in scatoloni, gli attrezzi del fai da te del padre, le chincaglierie della madre, la sedia a rotelle del nonno, che si rifiutava di tenere in casa per non deprimersi, e i suoi vecchi giochi in scatola protetti nella plastica, ancora velati di risate. «Ho capito. Ho tanto da dirti, però. Recupero due sedie.» Andò sul lato opposto della cantina. Cinque i e prese dallo scaffale due sedie da campeggio. Le aprì. Alessio sbottonò la giacca e si sedette con le spalle allo scaffale. Allungò le gambe. Michela gli si pose davanti. Lui le prese le mani. «Allora, dimmi tutto quello che vi siete dette tu e Ghost.»

Io ti sogno sempre in Hong Kong Michela gli espose le conversazioni avute con Ghost in una decina di giorni. «Quindi, nulla di speciale» concluse. «Non mi ha mai fatto domande sul lavoro o su di te. E io non le ho mai chiesto nulla di privato. Solo il primo giorno, mi ha detto che non aveva novità su Igor. Poi basta, fino a quando sei arrivato tu.» «Ti ho vista tesa, infatti. Che ti ha detto?» «Che la Shiba ti avrebbe fatto una proposta a Las Vegas e che tu l’avresti accettata.» «Ah, ecco.» Alessio sospirò. «In effetti, la cosa che dovevo dirti era che mi hanno chiamato per Las Vegas, ma non ci sarà la Shiba.» Si alzò, fece due i con le mani in tasca. «Purtroppo, subito dopo, dovrò andare alla Capcom in Giappone per il nuovo Resident Evil. In pratica, starò via quasi tutto agosto.» Si massaggiò la nuca. «Ecco cosa dovevo dirti. Mi spiace.» Michela abbassò lo sguardo e fissò il pavimento impolverato. «Capisco. Però, è per lavoro. Lo devi fare.» Si strinse nelle spalle con un crescendo di tristezza. «Agosto erà in fretta. Tanto io sarò al paese…» Alessio le si accucciò vicino. Le spostò una ciocca dietro l’orecchio e la baciò teneramente. Poi, tenendole il viso, le poggiò la fronte sulla sua. «Porta un po’ di pazienza. Mi danno parecchi soldi. Così potrò prendermi in affitto qualcosa quest’inverno. Dopo, sarà come prima.» «Lo so.» Gli strinse i lembi della giacca. «Non ti preoccupare. Io ti aspetto, lo sai. È solo che mi manchi così tanto. Alle volte, non mi basta vederti sullo schermo. Ho proprio bisogno di stringerti. E tu non ci sei.» «A chi lo dici» le sorrise. «Ti sogno tutte le notti.» «Immagino.» Alessio sorrise scuotendo il capo. «A dire il vero, sogno che viviamo in Hong

Kong» chiuse gli occhi. «Siamo in un microscopico appartamento e stiamo lavorando a un gioco tutto nostro. Ti potrei descrivere ogni dettaglio. È tutto così reale» sospirò. «Poi…» Abbassò la testa. Michela vide un’ombra farsi largo sul suo volto. «Cosa?» «Nulla. Certe volte il sogno diventa un incubo. Tutto qua.» Michela rabbrividì. «Sogni che mi uccidono, per caso?» «Non proprio, perché?» «Che siano sogni premonitori, i tuoi? Stai giusto andando in Estremo Oriente per la prima volta. E Ghost dice…» deglutì. Alessio attese la pausa fissandola dubbioso. «Ecco, dice che la Shiba è interessata a Bio. Anzi, ha scritto BIO tutto maiuscolo e i numeri zero e tre e dice che mi considera un ostacolo. E che la Shiba elimina gli ostacoli.» Alessio balzò in piedi, Michela sussultò. «Zero Tre hai detto?» le chiese fissando il vuoto con gli occhi sgrananti. «Sì.» Alessio strinse i pugni. «Ti ricordi le parole esatte usate da Ghost?» «Certo. Ha detto…» Michela sentì un indolenzimento alla nuca. Una fitta crescente alla tempia. Portò la mano alla fronte. Serrò gli occhi. «Che hai?» Sentì la mano di Alessio sulla spalla, mentre la sua voce si ovattava. «Mic…» Lo guardò un attimo. L’immagine andava sfocandosi. «Ale…» lo chiamò prima di serrare ancora gli occhi per una rinnovata e più forte fitta. Una scossa nel cervello.

La terribile sensazione che tutto girasse intorno a lei veloce.

Trance Riaprì gli occhi. «Mamma mia! Che capogiro che mi è venuto» borbottò. Prese fiato. «Ora è tutto a posto.» Sobbalzò nel vedere Alessio seduto in terra davanti a lei ansimante che la fissava. La cravatta era allentata e il primo bottone aperto. «Che succede?» «Micky?» le domandò stringendosi le ginocchia. Lo osservò sbattendo le ciglia. «Non ti ricordi nulla?» «Di cosa?» Stranamente aveva i capelli tutti arruffati sul davanti. Se li buttò all’indietro. «Degli ultimi dieci minuti, più o meno?» Lo guardò perplessa. Alessio gattonò verso di lei. Le prese il volto. Con l’indice le spostò la pelle intorno agli occhi. La fissò a lungo. «Ora sembra tutto a posto.» «Che succede?» «Ghost mi ha detto della proposta della Shiba. Attraverso di te.» «Di che stai parlando?» Alessio si accasciò in terra. Appoggiò la schiena allo scaffale. Distese le gambe e gettò la testa tra le mani. «Sei caduta in una sorta di trance mentre parlavi. Avevi le iridi dilatate e fissavi nel vuoto. Parlavi in codice binario con una voce strana.» Serrò le dita tra i capelli. «Non credevo possibile un controllo del genere su-» esitò. La fissò. «Su una persona.»

«Ghost mi ha ipnotizzata?» Spalancò la bocca. «Con quel suo modo assurdo di scrivere, forse. Può fare una cosa del genere?» «A quanto pare, sì.» Sbatté un paio di volte la testa contro lo scaffale. Michela non si sentiva diversa dal solito, ma vedeva Alessio molto turbato. «Non accadrà più. Io getto via il pc, ecco.» «E poi? Che fai? Ti bendi gli occhi e ti tappi le orecchie?» Alessio sospirò. «Il cervello funziona come un sistema informatico. Tu assimili informazioni elaborate dai tuoi sensi esattamente come un computer si riempie di dati. Non possiamo prevedere dove e quando. È impossibile.» Michela deglutì. «Non capisco, ma Ghost non era nostra amica? Ci ha aiutato con Igor quella volta. Perché ora fa così?» «Non ha importanza. Non possiamo più fidarci. Questo è quanto.» Alessio si toccò le tempie. «Si è inserita in te e ti ha plagiato. È come se ti avesse craccato. Per quel che mi riguarda, è mia nemica.» Michela cinse le mani al petto sentendosi vulnerabile. Il mondo d’improvviso le apparve un ambiente ostile dove, a ogni o, c’era in gioco la sua mente.

La richiesta della Shiba «Senti, cosa ti hanno chiesto?» Alessio si alzò. Tolse la giacca e l’appese su un bullone sporgente dello scaffale. Prese a camminare avanti e indietro davanti a lei mentre, ancora incredula per la sua trance, si massaggiava il collo. «Ghost dice che la Shiba vuole dei dati: i nominativi della gente in coma.» Sospirò portando le mani sui fianchi. «In sintesi, un furto. Un lavoro da black hat.» «I nomi dei comatosi da inserire nella Matrice Limbo» sussurrò lenta chinando il capo. «Oh, mio Dio.» «Credo sia così.» Alessio annuì. «Gli studi su quella dannata matrice procedono e, in qualche modo la Shiba ha trovato in Ghost un’alleata.» «Non puoi contattare i tuoi amici hacker?» «No. Il messaggio era chiaro. La tua sanità mentale in cambio dei dati. È troppo rischioso. Preferisco dare alla Shiba quel che mi chiedono. Gli altri hacker mi banneranno, ma tu sarai salva.» Michela si alzò di scatto e lo abbracciò. Sentì il suo cuore martellargli nel petto. «Se solo fossi stata più preparata, magari Ghost non mi avrebbe ipnotizzata così facilmente.» Alessio le accarezzò i capelli. «Non è così. Avrebbe potuto farlo anche con me.» Si zittì un momento. «Non capisco però perché devo rubare io i dati. Potrebbe farlo lei direttamente.» «Dobbiamo trovare il modo di impedire tutto questo.» «Certo, certo» disse riprendendo la giacca. La schiaffeggiò per liberarla dalla polvere poco prima di indossarla. «Non c’è modo per una persona sola di affrontare una cosa del genere.» Sistemò i polsini. «Possiamo solo sperare che

non vogliano altro. Almeno, non da noi.» «Tu puoi fare qualcosa. Tu sei bravo.» Lo supplicò Michela stringendogli le spalle. «Sì, sono bravo» annuì con una smorfia. «Infatti, darò i dati alla Shiba, così tu sarai fuori pericolo.» Le prese le mani. «Dopo, andrò a lavorare al baracchino di Lorenzo, ma almeno tu sarai viva e in salute.» «Non ti capisco. Come al baracchino?» Alessio infilò le mani in tasca. «Ti ho detto che diventando un black hat sarei stato bannato, o no?» Abbassò lo sguardo. «Non intendevo l’esclusione dal gruppetto per la birra del venerdì.» Si girò di spalle e la guardò di striscio. «La fiducia è tutto.» Poggiò la mano sullo scaffale. Chinò la testa di colpo. «Niente più reputazione, niente più Bio. La mia carriera è finita. E non potrò nemmeno tornare a fare il sistemista.» Sospirò. «Bannato vuol dire morto.» Prese fiato. Si girò, cercò le sedie di stoffa. Le raccolse e, dopo averle piegate, le ripose sullo scaffale. «Sempre se la Shiba non mi denuncerà. Così sarò bannato e in galera.» Michela era senza parole. Non aveva compreso che Alessio stava per mandare all’aria la sua vita per salvarla. Lo fissava incredula. «Ora andiamo. S’è fatto tardi.» Alessio fece per aprire la porta, quando Michela lo abbracciò di schiena. «No, aspetta!» Poggiò la testa tra le sue scapole. «Deve esserci una soluzione. Parliamo. Pensiamo a un piano. A qualcosa.» Lo scosse. «Ti prego! Tu sei un genio, mannaggia! Pensa!» Alessio si girò. Aveva gli occhi lucidi. Poggiò le labbra sulle sue. Erano umide. Un abbraccio sofferto li avvolse. «Ci penserò, te lo prometto» le sussurrò all’orecchio. Le prese le spalle. «Tu, per ora, devi fare finta di nulla. Adesso torniamo in casa. Ghost non dovrebbe più essere in grado di sentirci, ma è meglio aspettare finché la polizia postale non viene a prenderti il pc. Tu dovrai usarlo come se nulla fosse. Tutto chiaro?»

Michela annuì. «Mi raccomando, se dovesse contattarti ancora, io non ti ho detto nulla della tua trance. È l’unico vantaggio che abbiamo.» «Ho capito.» Alessio abbassò la maniglia tenendole la mano. Tremava. Percorsero le scale della cantina di corsa. Tornarono in casa. Tutto era silenzioso. Dalla porta socchiusa della sala, videro il nonno sonnecchiare sulla poltrona. Entrarono in camera di Michela cercando di non fare rumore. Alessio prese solo il cellulare. «È carico. Dopo, ti posso chiamare.» La scatoletta lampeggiava ancora verde. «Bene, ti accompagno alla porta.» Sulla porta di casa, Alessio la strinse. «Ti faccio uno squillo quando arrivo.» La baciò con un trasporto insolito. «Qualunque cosa accada, ricordati che ti amo» le disse con un filo di voce all’orecchio. Michela ebbe un fremito. «Lo so. Anch’io. Non ne ho mai dubitato.» La baciò ancora. «A presto.» Si allontanò indietreggiando. Mentre scendeva le scale, Alessio la guardò triste come quando partiva. Si fermò nel giro scale e strinse il corrimano come se volesse soffocarlo. «Stai con me!» esclamò con un sospiro sofferto. «Ti prego.» Stai con me, di solito, era una domanda. Michela annuì lo stesso, mentre Alessio scese i gradini senza più incontrare il suo sguardo. Lo osservò diventare piccolo. Scomparve nella spirale delle scale. Sentì il portone gracchiare.

Corse in casa, in camera. Andò alla finestra. La strada era deserta. Alessio era già svanito. «Che succede? Non capisco.» Si toccò il petto, vicino al cuore. Provò un senso di smarrimento e d’inquietudine palpabile. Attese lo squillo, che arrivò una mezz’oretta più tardi. Quando provò a chiamarlo, però, il cellulare era già spento. «Peccato.» Si raggomitolò nel letto, stringendo il suo pupazzo. «Avrei voluto sentirlo ancora una volta…»

Per sempre tuo, Alessio Il mattino dopo, Michela provò a chiamarlo, ma la voce meccanica diceva che il numero era inesistente. Andò su Facebook senza trovare i suoi profili: Alessio Merisi, Bio Cyberpunk, FuD. Nulla. Era stata bannata anche dal contatto in Skype. Solo Alessio avrebbe potuto farlo. Michela trascorse la mattina in ufficio in balia dei dubbi. Nella pausa pranzo, si precipitò da Patrick che stranamente sapeva che sarebbe ata. «Alessio?» Patrick alzò un sopracciglio. «È partito stamattina presto. Cioè, com’è che non lo sai?» Si chiuse la bocca con la mano. Sgranò gli occhi. «Aspetta, qui un attimo. Mi ha detto che saresti ata a prendere la lettera.» Si allontanò grattandosi in testa. Michela iniziò a sentire uno strano ronzio. Patrick tornò e, con aria visibilmente turbata, le consegnò la busta sigillata. «Sen-» Michela stava per domandargli se sapesse altro, ma si fermò. Alzò lo sguardo. Nell’angolo in alto c’era una telecamera di sicurezza. Fissò la maglia bianca di Patrick alcuni istanti in silenzio. «Vi siete lasciati o avete solo litigato?» le chiese. Michela scosse il capo, mentre sentiva scenderle una lacrima. Portò la lettera al cuore. «Stai su, Michela. Vedrai che tutto si aggiusta. È solo un brutto momento.» Michela annuì. «Grazie. Ciao.» Imboccò l’ascensore.

Uscì in cortile. Dove di solito Gabriel metteva la moto, c’era il portico per la pioggia. Si nascose nell’ombra fresca e silenziosa, vicino a una bicicletta da corsa arrugginita. Aprì la busta sul lato corto. Dentro c’era un foglio bianco piegato in tre parti. Lo afferrò con entrambe le mani. Era scritto a mano con inchiostro nero. Un corsivo dal tratto sottile e semplice. Michela, amore mio, dopo che ci siamo lasciati ieri sera, mi ha chiamato Ghost. Ci sono nuove condizioni. E non sono trattabili. Parto oggi stesso. Mentre leggi, sarò già in volo quindi non tentare di raggiungermi. Sarebbe inutile. Mi daranno la strumentazione per il recupero dei dati e un posto dove stare. Dopo, andrò a Las Vegas per la gara. Poi, a Tokyo e inizierò a lavorare con la Shiba. Mi collegheranno nella Matrice per tre anni. La nostra relazione finisce qui. Vai avanti con la tua vita, tranquilla e serena. Ghost non ti toccherà. È stata la mia unica condizione. Preferisco saperti in salvo e non vederti più, che immaginarti ridotta come mia madre. La tua vita ti aspetta. La mia è nel Limbo, ma anche da là continuerò ad amarti. Per sempre tuo, Alessio

Esplosione fluida Michela smise di respirare. Strinse talmente il foglio che si deformò tra le sue dita. «È solo per adesso» sussurrò. «Alessio farà come dicono loro per un po’. Intanto penserà a un piano.» Deglutì. «Sì, è così.» Piegò la lettera, la rimise nella busta. Afferrò la borsa. Nel tentativo di aprire la cerniera le cadde. Si accucciò. «Presto mi farà avere sue notizie. Mi dirà cosa devo fare» singhiozzò. ò veloce la mano sugli occhi per togliere le lacrime. Mise via la busta e si alzò. «Ale mi chiamerà presto» disse arrancando lungo la strada con la vista confusa sotto l’implacabile sole che le affaticava il respiro. Il ronzio aumentava e un fischio emerse nella sua testa così fastidioso da farla fermare. «Ale mi chiamerà presto» ripeté ancora per farsi coraggio mentre le gambe si piegarono. Si appoggiò con la schiena al muro. Lo grattò scivolando lenta finché non toccò terra. «Non può avermi lasciato davvero.» Scivolava di lato. Lenta. «Ale…» «Signorina, si sente male?» Qualcuno le afferrò le braccia e la sollevò appena. Michela vide solo una sagoma scura. «Chiamo un’ambulanza. Non si preoccupi. Resto io qui con lei.» Le prese la mano. Il tocco era gentile. Intrecciò le dita nelle sue, proprio come faceva sempre Alessio.

«Non abbia paura…» La voce dello sconosciuto si allontanava, mentre un dolore acuto e improvviso le fece serrare gli occhi e stringere i denti. «… andrà tutto bene.» Una scarica elettrica fredda le irrigidì il corpo. Un’esplosione fluida la squassò. Un respiro mozzato. Silenzio. Buio.

… Michela, stai con me!

14 - Bio Buried Memories

Quando il dolore supera i livelli di tolleranza, il cervello seppellisce il ricordo.

Dopo tutto questo tempo Bio uscì dal Proxy ansimando. Si fermò in mezzo al marciapiede. Attivò il monitor etereo col segnale d’emergenza codificato per il dottore. Il profilo bendato con la mascherina fluorescente comparve subito. «Bio, cos’è successo?» «Perché non mi hai detto di Ghost?» Il dottore girò appena la testa. «Lei non voleva.» Sospirò. «E tu non sembravi interessato.» Bio strinse i pugni. «Dov’è? Voglio vederla.» Sentì un lamento strozzato in sottofondo, lo riconobbe subito. «Sei con lei, vero?» Iniziò a rintracciare la fonte del segnale. «Bio, no-» Non finì la frase che Bio già stava attivando la porta di aggio. «Arrivo.» Chiuse la chiamata. Poggiò il palmo sulla porta quando Null lo chiamò. «Dove vai?» le chiese sorridente mano nella mano con Rasputin. Bio deglutì a testa bassa. «Vado da lei, sta male» rispose senza guardarli. «Veniamo con te» gli disse Rasputin. «No. Vi chiamo appena posso. Badate al G e non dite nulla a Sergey. Va bene?» Li guardò di striscio. Null e Rasputin annuirono con l’espressione preoccupata. «Ricevuto» disse Null. «Facci sapere, però.» Attivò la porta. La ò fremendo. Non riuscì a entrare diretto nel server privato di Ghost, la barriera lo bloccò fuori dal cubo di vetro. Poggiò le mani che si elettrificarono al contatto con la superficie bluastra. Abbatté le barriere

craccando il codice d’accesso. Vide la crepa, s’infilò. Si ritrovò in una spiaggia. Alle sue spalle, l’aria friggeva. Richiuse la vena rossa suturandola come fosse una ferita. Guardò in giro. In fondo alla spiaggia, su una collina erbosa, c’era la splendida villa di Ghost. Bianca e sfacciatamente lussuosa, gli ricordò quella che aveva creato per lui. Corse sulla sabbia chiara e fine sollevandola appena. Non arrivò ai piedi della collina che dieci pinguini lo fermarono puntandogli le armi. «Non ho tempo per giocare, ragazzi.» Alzò le mani. «Sono Bio Cyberpunk. Fatemi are.» «Bio?» Dal gruppo uscì un programma. Gli occhiali scuri riflettevano il sole che stava indorando il mare. «Biondo.» Lo salutò con un cenno della testa. «Ho saputo che Ghost sta male. Voglio vederla.» «Giù le armi!» Gli si avvicinò. «Dopo tutto questo tempo, perché?» Bio lo guardò serio. «Posso aiutarla.» «Va bene. Ti faccio are, anche se lei non lo vuole» disse appoggiandogli la mano sulla spalla. «Se è vero che puoi aiutarla, fallo. Ti porto da lei.» Serrò la morsa. Il tempo di battere le palpebre e Bio si ritrovò in una camera con una grande vetrata sulla sinistra che si apriva sul terrazzo. Mobili bianco sporco, finemente decorati d’oro, arricchivano le altre due pareti. Davanti a lui, sopra un prezioso tappeto, un divano con due poltrone e un tavolino basso sembravano creare una promessa al riposo. Oltre, il letto: un tripudio di seta rosa e pizzi. «Vai pure.» Il Biondo indicò la figura nel mezzo, sembrava un nano in un letto per giganti. Bio costeggiò il tappeto con o rapido.

Il dottore era su una sedia al capezzale di Ghost. Col volto chino e le mani sulle gambe, appena lo percepì si mosse. «Sta morendo, Bio. Lei non è come gli altri. Non è l’ASM. Non so cosa sia. Non so come curarla.» «Sempre ottimista, vero doc’?» disse scoprendola con un gesto deciso. Il lenzuolo di seta fluttuava ancora in aria quando Bio balzò sopra. Due i e la scavalcò con un piede. «Ciao Ghost.» Iniziò a fissarla attivando il monocolo etereo. Girata su un fianco, indossava una canottiera di seta rosa e un pantaloncino corto intrisi di sudore. Le braccia erano abbandonate sul letto, i palmi inermi. La sua luce era flebile. «Cos’è che ti opprime?» Ghost emise un lamento. Si mosse appena chiudendosi a guscio. Bio piegò il ginocchio sinistro. Le si avvicinò. Le prese la spalla e la girò. Il volto di Ghost era imperlato e prigioniero di una sofferenza silenziosa. Gli occhi chiusi. Le spostò i capelli dal viso con una carezza. «Fammi vedere cos’hai?» le sussurrò. Ghost inarcò appena la schiena. Portò la mano al cuore. Bio le afferrò il polso. Delicato, le spostò il braccio sul lenzuolo. «È lì il problema?» chiese appoggiando il palmo sul suo petto, che respirava affannato. Chiuse gli occhi per concentrarsi. Infilò l’indice nella carne. Ghost gridò. «Mi spiace.» Tolse il dito. «Lasciami entrare. Ti prego.» L’allontanò di poco reggendole la testa. Lei aprì gli occhi e sembrò riconoscerlo. Socchiuse la bocca. «Bi-o» ansimò a fatica. «Sì, sono io. Non temere. Sono qui per aiutarti.» Le accarezzò il viso. La depose

sul letto. Tentò un nuovo accesso infilandole piano le dita, una per volta. Lei gridò ancora, ma Bio riuscì a entrare immergendosi nella sua luce che lo avviluppò scaraventandolo in un ambiente privo di codifica. Una stanza bianca, un cubo dalle pareti lisce. Restò immobile al centro pensando a come interagire quando dei pallidi colori iniziarono a comparire tinteggiando un giardino.

L’altalena L’erba era verde brillante e bagnata di rugiada. La brezza trasportava il profumo delle rose nelle aiuole. Solo un leggero cigolio lo indusse a camminare in direzione di un salice piangente. C’era una bambina che ondeggiava su un’altalena di corda assicurata a un ramo sporgente molto robusto. Era di spalle. I lunghi capelli neri le solleticavano le braccia rosee e il vestito bianco. «Ghost?» sussurrò dubbioso avvicinandosi. «Lei non ha ricordi dell’infanzia.» La bimba appoggiò le scarpette bianche di vernice. Saltò giù, la gonna corta fino al ginocchio fluttuò leggera come un tulle. Tenendo la manina salda alla corda, si girò. «Chi sei?» gli chiese timorosa. Bio le si accucciò davanti. Aveva occhi scuri, il nasino era a patata e le labbra sottili. Ricordava un po’ la sua Ghost, ma non poteva essere lei da piccola. «Sono un amico.» Le sorrise. «Mi chiamo Bio. E tu?» «Susanna.» Serrò appena la bocca. «Sei un soldato?» «Non proprio, ma combatto anch’io.» Susanna indietreggiò. «I soldati sono cattivi.» «No, no.» Si alzò lento. «Io sono buono.» La bimba scosse il capo. Strinse la gonna. Si girò rapida. Bio l’afferrò delicato per le braccia, mentre la piccola si dimenava gridando. «Calmati. Ti prego. Fidati di me.» Le accarezzò la testa non percependo altro che i suoi contorni, come se fosse una bimba vera e lui fosse tornato nel mondo vero quando era umano. «Guardami negli occhi e vedrai che sono sincero.»

Susanna iniziò a respirare con più calma. «Va bene» sussurrò. La lasciò mettendole le mani sulle spalle. La piccola era rossa in volto. Alzò le manine. «Ora guardo.» Gli toccò le guance, il naso. Bio le sorrise. «Soldato cattivo!» esclamò Susanna infilandogli il dito nell’occhio sinistro. Lo spinse forte. Bio cadde a terra. La guardò con una mano sulla faccia. «Piccola peste» borbottò. «Che ci fa questa Susanna dentro Ghost?» Si alzò e iniziò a rincorrerla. Vide la bimba scomparire in mezzo al prato sagomando una porta bianca, liscia e senza maniglia. Rallentò quando si ritrovò nello stesso punto. Alzò la mano e sfiorò la superficie fredda, la porta pulsò invertendo i suoi riflessi come una lastra. Il giardino si stava sciogliendo quando Bio ò la porta con un balzo abbandonando i suoi timori. Doveva procedere in quell’insolito percorso se voleva salvare Ghost.

La scuola Bio era sulla porta di un’aula quando degli studenti lo urtarono uscendo. Indietreggiò per non essere travolto. Si accostò al muro chiaro per farli are. Il corridoio era ampio e luminoso con numerose finestre che s’affacciavano su un parco. Un ragazzo dai capelli rossi col camice bianco e i jeans si fermò di colpo sulla porta. «Ghost, ti è andata male anche oggi. Ti consolo io, se vuoi.» Rise e corse via. «Ghost?» sussurrò Bio. Entrò nell’aula. Sulla destra c’erano due lavagne interattive. Sotto la scritta Immortalità Quantistica, c’era una sequenza di equazioni in apparenza matematiche, ma con simboli sconosciuti, che le occupava entrambe. La cattedra stessa aveva uno schermo con delle finestre ancora attive. In una colse un testo dal titolo Interpretazione a Molti Mondi di H. Everett III, nell’altra Integrale sui cammini di R. Feynman. Girò la testa verso la classe, i numerosi tavoli erano vuoti tranne uno in fondo. Una ragazza digitava frenetica sul tavolo interattivo. I lunghi capelli neri erano chiusi in una coda di cavallo bassa. Il pallore del volto affusolato era interrotto dagli occhiali con la montatura nera. Indossava un pantalone scuro sotto il camice. Teneva le gambe distese. Toccava a intervalli regolari le punte delle scarpe di pelle. Bio entrò cercando di muovere i discreti, ma lei subito alzò lo sguardo. «Deve pulire?» gli chiese sollevando la testa. «Le spiace se resto? Devo finire un lavoro.» Bio si guardò i vestiti per avere conferma del suo aspetto. Maglietta nera e pantalone scuro dentro gli anfibi non davano l’apparenza del bidello. «Ti sembro delle pulizie?»

Ghost tolse gli occhiali con un gesto aggraziato della mano. «Sei un soldato, no?» Inclinò la testa. Bio corrucciò la fronte. «Sei nuovo, per caso?» gli chiese. «È per questo che sei anche così sfacciato?» «Scusi, signorina.» Annuì lento. «Sì. Sono appena arrivato.» «Dottoressa, prego.» Accavallò le gambe. «Da dove arrivi?» «Milano» azzardò. Ghost lo fissò in silenzio alcuni istanti. «Nel senso che i tuoi erano originari dell’Italia?» Esitò. «Sì.» «Capisco.» Ciondolò gli occhiali. «Però, non dovresti restare così attaccato al ato. È al futuro che si deve guardare.» «Posso?» Indicò la sedia vicino a lei. «Un soldato seduto accanto a una dottoressa?» Spalancò la bocca. «Sei pazzo o poco informato?» Si alzò. Guardò fuori della finestra rapida. Gli andò incontro mettendo una mano in tasca mentre con l’altra inforcava gli occhiali tra i capelli. Si fermò davanti a lui. Incrociò le braccia. La spilla dorata con il nome Susanna Merisi si mosse. Quella giovane donna davanti a lui era la bimba sull’altalena. Era un ricordo quello che stava vivendo, forse. Anzi, una serie di ricordi di questa Susanna Merisi che giacevano nella sua Ghost. Iniziò a farsi largo un’idea, ma aveva bisogno di altri indizi. «Allora?» incalzò lei. Bio abbassò lo sguardo senza chinare la testa. «Entrambe, com’è come risposta?» disse serio. Susanna accennò un sorrisetto con le labbra sottili. «Non male.» Tornò seria

d’improvviso. «Ma ti avverto, con me non attacca.» Andò alla lavagna. «Io non ho tempo per trastullarmi con voi soldatini come fanno le mie compagne di corso.» Gli lanciò un’occhiata gelida. Bio si girò. «Perché pensi che sia qui per quello?» Indicò il tavolo. «In realtà, ero qui perché volevo aggiornarmi.» «Hai conoscenze informatiche?» gli chiese dubbiosa. Bio annuì. «Solo noi possiamo.» Gli si avvicinò. «Come hai fatto a istruirti?» Bio fece spallucce. «Anch’io non sono uno cui piace perdere tempo.» Le sorrise. «Allora, dottoressa, cosa studi?» Susanna si girò. Fece un profondo respiro. «Studio come salvare il genere umano.» «Progetto ambizioso» scherzò Bio. «Non deridermi.» Scosse la testa. «Il mio progetto un giorno ci salverà tutti. I soldatini come te diventeranno obsoleti.» Lo additò. «Io darò vita a un soldato senza precedenti.» Le dita della mano ondeggiavano. «Un corpo atletico e una mente-» «Come un computer?» le chiese Bio guardandola perplesso. Lei rise. «Limitato come tutti gli uomini che mi circondano.» Infilò gli occhiali. Si girò e iniziò a toccare rapida la lavagna. «Ora, devo riprendere il lavoro.» Lo guardò di striscio. «Se vuoi usare il tavolo fa pure, basta che non mi disturbi più.» «Posso farti solo una domanda, dottoressa Merisi?» «Sentiamola» sospirò senza voltarsi. «Perché il rosso ti ha chiamata Ghost?» Lei s’irrigidì. «È uno stupido nomignolo a causa del mio pallore. Tutto qua.»

Sistemò meglio gli occhiali. «Fritz ha molto tempo da perdere dietro a queste sciocchezze, io no.» «Se salverai il mondo, Ghost potrebbe diventare famoso.» Susanna arricciò il naso. «Secondo te, lo faccio per la fama? Con tutti i morti che abbiamo avuto, pensi che abbia importanza?» Bio si alzò. La guardò serio. «Non intendevo quello.» «Sono circondata da maschi bigotti, retrogradi e corrotti. Hanno più interesse a costruire armi e a farvi crepare in scontri persi ancor prima di iniziare. Proprio come hanno fatto con mio padre.» Strinse i pugni. «Non fanno che ostacolarmi solo perché sono una donna e sono invidiosi del mio genio. Ma un giorno, IO ce la farò.» Toccò la lavagna facendo comparire tre lettere in verticale, tutte maiuscole. «BIO ci salverà tutti. E nessuno dovrà più morire inutilmente.» Bio ebbe un fremito lungo la schiena. «BIO è il nome del tuo progetto?» chiese a fatica. «È l’acronimo di Biological Intruder of Operating systems. E non ha precedenti. È un vero combattente. Lui darà inizio alla nostra rinascita. Fino a oggi, ci siamo solo difesi, capisci?» Una sirena suonò facendoli sussultare. «Un attacco. Qui?» Susanna barcollò un attimo. «I miei appunti.» Corse al suo tavolo. Digitò rapida. Prese un tablet morbido e con la mano gesticolò il aggio dei dati. «Cosa fai ancora lì impalato?» gli disse. «Via, presto. Al rifugio.» Corse verso l’uscita scomparendo ancora. Bio si diresse verso la porta osservando infastidito la scritta BIO. «Non può essere. Non ha senso» sussurrò attraversandola. «È una pazzia.»

Il laboratorio «È un’isterica!» Bio sentì una voce maschile alle sue spalle. «Lo so, è insopportabile» rispose la voce di un altro uomo. Bio si girò, ma vide solo due camici bianchi sparire dietro l’angolo del corridoio metallico con le fasce gialle e nere. Sembrava una base militare. Sul lato opposto, a una decina di metri, una porta ovale con oblò sembrava chiamarlo. Si avvicinò lento deglutendo l’ansia. Si affacciò con circospezione. La stanza era rettangolare. Lungo un lato era colma di macchinari medici e computer. Lambì il vetro senza farsi vedere e osservò dall’altra parte. Una cabina, simile a quella dove si era visto quando era fuggito dal Limbo, era nell’angolo. Era alta più di due metri e rotondeggiante con diversi tubi che spuntavano ai lati confluendo in macchinari posti adiacenti al muro. Il vetro ovale mostrava una sagoma umanoide glabra con una mascherina sul volto immerso nel gel verde. All’altezza del petto, c’era la scritta BIO 02. «BIO 02?» sussurrò Bio toccando il vetro della porta. «C’è un uomo dentro.» Una donna in camice comparve dall’angolo in ombra della stanza. Si avvicinò alla cabina. Aveva i capelli neri raccolti in una treccia arruffata. Quando si girò di profilo, Bio riconobbe in lei la dottoressa Susanna Merisi. Dimostrava quarant’anni, più o meno. In mano stringeva un foglio morbido interattivo. Appena lo pose davanti al vetro, proiettò un’immagine tridimensionale dell’uomo nella cabina. Susanna digitò sopra il foglio. L’immagine s’arricchì di riquadri che sezionavano gli organi interni. Scosse la testa quando i riquadri divennero rossi e pulsarono. Andò al tavolo vicino, dove un monitor etereo mostrava un ponte con un incidente d’auto. Bio corrucciò la fronte. L’auto rossa accartocciata vicino al muretto di cemento

non gli era nuova. Vide anche un corpo riverso sull’asfalto e i capelli biondi intrisi di sangue. «Cosa?» Ansimò. La dottoressa Merisi scuoteva il capo, mentre l’immagine sembrava strisciare raso terra. «È il punto di vista di qualcuno» bisbigliò Bio sbattendo le palpebre. Lo sguardo gli cadde ancora sulla vasca. «Che sia di quel Progetto BIO 02 nella cabina?» Continuò a guardare nel monitor. Vide un braccio allungarsi fino a toccare il corpo a terra. La mano si tese verso la spalla. Quando spostò i capelli biondi, Bio riconobbe il volto di Michela in quella maschera impastata di sangue e pelle strappata. D’improvviso, l’uomo nella cabina si agitò. BIO 02 sembrò in preda alle convulsioni. La dottoressa Merisi corse alla cabina. Toccò il vetro scuotendo il capo. Si toccò l’orecchio, mosse le labbra come se potesse comunicare con l’uomo. Iniziò un frenetico andirivieni dalla cabina al tavolo. Bio provò ad aprire la porta. «Apri! Che c’entra Michela?» Picchiò un pugno contro il vetro. Un altro. «Apri questa cazzo di porta! Perché quell’uomo ha i miei ricordi?» Tastò ovunque, ma non c’erano serrature. «Allarme intruso!» gridò un uomo alle sue spalle. Bio si girò rapido. Ringhiò correndogli addosso. Lo buttò a terra con una spallata. Lo lasciò disteso. Tornò alla porta. Iniziò a calciarla. «Apri!» Il metallo subiva i colpi mostrando solo leggere scalfitture. Gridò colpendo il vetro senza tregua. La porta pulsò e Bio entrò con un balzo.

La tomba 02 Urtò una panca di legno inseguito dall’eco del suo grido. Si guardò intorno. Le numerose panche erano rivolte all’altare privo di simboli religiosi. Posta al centro su un rialzo, la tomba di marmo scuro recava inciso i numeri zero e due. Una donna vestita di nero era in piedi in prima fila. Il soffitto era alto e quadrato. Non c’erano decorazioni, affreschi, statue. Sembrava una chiesa sconsacrata, cupa e vuota. Solo tre colonne portanti per lato. Su ognuna, dei vetri rotondi che irradiavano una luce soffusa. Bio cercò di calmarsi. Fece un paio di respiri. Si avvicinò alla donna che non si era mossa. Le si pose al fianco. La sentì singhiozzare. «Perché mi hai fatto questo?» Lei portò il fazzoletto sotto il velo, il ciondolo che portava al collo si smosse. Si tamponò gli occhi. «Ti ho dedicato la mia vita.» Appoggiò la mano affusolata sulla panca di fronte. «Perché ti sei suicidato, figlio mio.» Chinò il capo. «Dove ho fallito?» Bio sospirò. La donna si voltò verso di lui. Sollevò il velo. Era Susanna Merisi. Lo fissò con rinnovate lacrime, le rughe intorno agli occhi sembrarono riempirsene. Bio si commosse nel vedere tanta sofferenza. Le era morto il figlio, forse. Era ormai chiaro che nella sua Ghost c’erano sepolti i ricordi di Susanna Merisi, la vera Ghost. «Perché?» Susanna gli accarezzò la guancia. «Perché sei morto per quella Michela?» Bio fu assalito da un pensiero allucinante per quanto fosse assurdo. Andò alla tomba. Afferrò il bordo e iniziò a spostare la lastra di marmo. Era pesante, come la verità che ancora non era disposto ad accettare. Sentiva scintille elettriche a ogni movimento. Si sforzò aiutandosi con i piedi. Li puntò e incurvò la schiena.

Spinse con maggiore foga. Appena liberò un angolo del vano, un tanfo di carne avariata misto olio bruciato lo assalì. Girò il volto, trattenne il fiato. Continuò a spingere finché non liberò dall’ombra il fondo della tomba. C’era un ragazzo unto dentro. La pelle era incatramata. I capelli neri e viscidi gli coprivano la fronte. Indossava una mimetica militare sporca. Si avvicinò per guardarlo meglio. «Bhù!» esclamò d’improvviso il morto sgranando gli occhi. Bio sussultò. «Ehilà, Bio!» Il morto si alzò ridendo. Bio barcollò indietreggiando. Quasi cadde quando incontrò il gradino. Si ritrovò seduto sulla panca nel tempo di un battito di ciglia. «È da molto che ti cerco, sai?» gli disse balzando sulla lastra di marmo. Si sedette con una gamba penzolante. Anche gli anfibi erano inzuppati di catrame. «Ti eri nascosto bene, ma come vedi non abbastanza.» Ghignò ando il pollice sul labbro. Bio lo fissava a bocca aperta cercando di andare oltre lo sporco. Oltre quel ghigno che gli deformava il volto evidenziando solo la sclera degli occhi. «Chi sei?» «Domanda deludente» rispose il ragazzo unto mentre Susanna Merisi gli si avvicinava. «Bambino mio» sussurrò lei sagomando quattro linee bianchicce sulla guancia. Il ragazzo unto l’avvicinò e la cinse in vita. «Ciao, mamma.» La girò verso Bio come se volesse mostrargliela. «Facciamogli capire un paio di cose, lo vedo confuso.»

Sul volto della dottoressa iniziarono una sequenza di modifiche crescenti; le sopracciglia si alzarono e si assottigliarono, le rughe svanirono, gli occhi s’ingrossarono e le ciglia s’infoltirono, gli zigomi si sporsero appena e le labbra si riempirono. Susanna diventò la sua Ghost. «Quanto sei bella, Ghost» disse il ragazzo poco prima di baciarla con gli occhi fissi su di lui. Ghost sembrava un fantoccio e Bio intravide una schermatura: una sottile barriera che come carta velina si frapponeva tra lui e quella scena assurda. Questo luogo era diverso, gli serviva tempo per capire. «Tu sei il figlio di Susanna Merisi.» «Sono qualcosa di più.» Scese dalla tomba e la strinse forte. «Dai, fammi godere ancora, piccola.» Agitò il bacino sfregandolo addosso al fantoccio di Ghost. «Così, sì.» La sculacciò un paio di volte. «Sapessi quanto è perversa la tua Ghost.» Gli fece l’occhiolino. «Me la fotto da quando ha attivato la connessione.» «Io ti amo, Bio» ansimò lei inclinando la schiena. «Anch’io, anch’io.» Rise. «Eri tu all’Hot Byte, allora?» Bio non capiva come un ricordo della dottoressa Merisi sepolto in Ghost avesse potuto interagire con lei nel server. «Sei un’anomalia di qualche tipo?» Mentre lo diceva riconobbe il suo volto sotto lo sporco. «Tu mi somigli. Sei un mio fake?» Domandò sapendo già che non poteva essere la risposta giusta. «Pensa Bio, intanto la tua Ghost muore.» Ghignò lanciandogli d’improvviso il fantoccio. Bio lo afferrò e tentò di analizzarlo, ma non aveva codici. Mostrava però un’insolita deformazione lungo i contorni, sembrava esistere come contrapposizione con l’ambiente e non di sua propria esistenza. Ambiente nel quale quell’anomalia era perfettamente integrata, invece.

Era sua la chiesa sconsacrata, creata apposta come gabbia. Bio si rese conto di aver seguito le briciole dei ricordi fino alla trappola. «Conosco quello sguardo. Ci sei arrivato, vedo» lo sfotté. «I ricordi erano della mammina, ma quest’ultimo l’ho creato solo per te. Per accoglierti meglio, fratellino.» Accarezzò la tomba. Bio strinse le spalle del fantoccio sentendole vere come fossero di carne. Osservò quel volto identico alla sua Ghost e vide sul collo espandersi una chiazza violacea. Afferrò il lembo della camicia e glielo spostò. Le accarezzò la pelle sentendola vischiosa. Appiccicosa come l’ASM mutato. «Tu non sai ancora chi sei e dove sei, vero?» gli chiese comparendo d’improvviso a un o da lui. Bio sussultò lasciando la presa sul fantoccio che s’afflosciò in terra. «Sei inferiore, ma ci servi.» Gli afferrò il collo. «Andiamo!»

Tu non sai chi sei e dove sei Bio sentì quella velina avvolgerlo. E un lampo di luce lo stordì ancora. Si ritrovò fuori da Ghost, inginocchiato nel letto col suo lamento sofferto che risuonava nella stanza. Era uscito, scollegato senza volerlo. Il volto di quell’entità puzzolente era a un soffio dal suo mentre il mezzo busto spuntava da Ghost come un’anima marcia. Bio non riusciva a liberarsi. Immobilizzato da quella sottile barriera e bloccato da una semplice morsa al collo. Cercò di alzarsi e di allontanarsi da Ghost per liberarla dalla possessione di quel inverosimile copia di se stesso. «Appartiamoci, così siamo più liberi» gli disse osservando rapido la vetrata. Balzarono fuori infrangendo il vetro mentre il grido sofferto di Ghost fece tremare la casa. Scivolarono nell’aria fin sulla spiaggia. «L’ho fottuta anche qui» gli sibilò nell’orecchio. «Pensava fossi tu, dovresti ringraziarmi.» «Bastardo!» Ringhiò Bio. «Sei solo una dannata anomalia.» «Sbagliato.» Allentò la presa al collo, ma tenne le mani davanti al viso imponendogli il suo controllo. «Io sono Cyberpunk.» Si allontanò fluttuando. «Tu sei l’anomalia.» Bio non ebbe il tempo di comprendere che Cyberpunk indicò la spiaggia scaraventandolo a faccia in giù nella sabbia con violenza. Nemmeno un respiro, e una lama rovente gli penetrò la barriera trafiggendogli il fianco. Bio spalancò la bocca riversando il dolore nella bava insieme all’incontenibile tremore che lo invase mentre Cyberpunk rimestava i suoi codici. Sbatteva frenetico le palpebre. Incredulo e disorientato.

Le braccia e le gambe irrigidite e disposte come un antico martire sulla croce, strappato dal suo mondo, dalla sua esistenza. Condannato al supplizio da una Volontà più forte. «Fa male?» domandò Cyberpunk con tono sfottente. «È solo per non perderti ancora. Non ho più voglia di girare nel substrato.» Un parassita estraneo s’insediò in lui. Lo avvertiva, pulsava nel fianco a intervalli regolari. Cyberpunk gli afferrò la spalla e lo girò di scatto. Lo afferrò per la maglia e lo sollevò fissandolo col grugno di un lupo inferocito. «Quando tutto sarà finito, mi divertirò con te come nemmeno te lo immagini.» D’improvviso abbassò lo sguardo. Il volto divenne serio. «Perché?» sussurrò. Restò in silenzio a fissarlo per interminabili istanti. «Eseguo» disse lasciandolo cadere in terra con disprezzo. «Tanti saluti da Zero Tre.» Cyberpunk accennò il saluto militare mentre s’innalzava uscendo dal server creando un varco quadrato di pixel rossi. Bio sentì venir meno la barriera, provò a serrare i pugni e a digerire la nuova realtà in cui era precipitato senza cedere alla pazzia.

Il localizzatore «Bio!» gridò il Biondo. Lo sentì arrivare di corsa. Quando si fermò, una spruzzata di sabbia gli solleticò il viso. «Stai bene?» gli chiese allungando la mano. «Non sono riuscito a intervenire, prima.» «Non toccarmi» rispose fissandolo. «Mi ha messo un localizzatore.» Spiegò sentendo l’insorgere di lancinanti fitte a ogni impulso. «Ghost…» deglutì. «Devi dirle di chiudere la connessione. Non ero io.» Alzò il braccio a fatica. «Di’ al dottore di darle il mio ScarRec. Dovrebbe rimettersi in breve, anche se non sarà più come prima.» «Va bene.» Il Biondo annuì. «Riconfigura il server. Cambia tutti i codici d’accesso. Io devo rifugiarmi nel G. Torno appena posso e le dirò tutto.» «Sì.» Il Biondo indietreggiò di pochi i. Bio creò un’uscita crittografata. La porta era fluttuante sopra di lui. Con una stringa di codici la cinse e la tirò fino a oltrearla. Una volta dall’altra parte, rotolò su se stesso e iniziò a strisciare lungo la strada sterrata del Buffer. Il terriccio era talmente intriso d’olio che la puzza era asfissiante. «Overflow!» gridò. Iniziò a puntare i piedi, anche se i nervi nella gamba sinistra gli causavano dolori lancinanti. «Overflow!» gridò ancora. Si fermò per respirare. Puntò le mani in terra, cercò di alzarsi appoggiando le

ginocchia. Soffocò il grido per l’ennesima fitta. Si alzò ansimante. Iniziò a zoppicare comprimendosi il fianco. «Overflow!» urlò generando un cono d’aria. L’eco squassò le ceste colme di moncherini lungo la strada ribaltandole all’indietro. «Chi è che grida così nel mio Buffer?» Overflow uscì dalla struttura con solo un asciugamano intorno alla vita. Il corpo scheletrico era pallido e lucido. Bio si trascinò fino alla porta. «Io!» Overflow, nel vederlo, strabuzzò gli occhi. «Che ti è successo?» «Mi devi operare.» Allungò il braccio per appoggiarsi alla parete. «Mi hai preso per il DELetery?» «Chiama Null.» Entrò strisciando la gamba sinistra. Si diresse al tavolo. «Ho un localizzatore.» «E sei venuto qui?» «Se non mi operi, mi troveranno ancora. Se mi trovano io crepo. E se crepo, saranno guai seri anche per te.» «Crap!» esclamò rabbioso strizzando gli occhi. «Spogliati e sdraiati sul tavolo.» S’incamminò rapido scuotendo il capo. Andò sul retro, dove aveva l’appartamento. Bio sentì il suo borbottio anche se lontano mentre si toglieva la maglia e la cintura. Overflow tornò indossando una tuta argentata con guanti e mascherina sulla fronte. Si sedette sul tavolo. «Hai chiama-» «Threep-pi!» gridò Null da lontano. Arrivò trafelata. «Che ti hanno fatto?» «Ho un localizzatore» le disse sdraiandosi. «Devi clonare il segnale e rimbalzarlo.»

Null annuì. Le dreadlocks s’innalzarono mentre lo sguardo s’irradiò di codici su campo azzurro. Overflow abbassò la mascherina sugli occhi. Infilò un cavetto nell’orecchio, l’altro nella tempia. Lo fissò da capo a piedi. «È nel rene sinistro. Girati, pancia in giù.» Gli fece un cenno con la mano. Bio scivolò sul tavolo. Si girò sul fianco. Quando la faccia toccò il metallo freddo, sentì intensificarsi la fitta. Messosi prono, alzò le braccia e strinse il bordo. «Mi servono i tuoi codici» gli disse Overflow. Bio annuì. «Eccoli.» Quando Overflow gli aprì la carne entrando nelle sue barriere, Bio provò disagio. Quando scivolò in lui frugando tra i suoi dati, ebbe fastidio. Quando sussultò, Bio lo guardò di striscio. «Che c’è?» «Che crap di segnalatore è?» esclamò Overflow. «Te lo giro sul monitor.» Nello schermo fluttuante davanti a lui vide una sfera metallica, piccola come un pisello, con un’infinità di filamenti che si moltiplicavano a ritmo frenetico. S’erano già insinuati ad ampio spettro sul fianco, nella gamba e in alcuni organi. «È una versione dei fratellini» sospirò Bio. «Mi sta intasando con dei pacchetti.» «Come te lo tolgo?» sbuffò Overflow. «Se ne sfilo anche solo uno-» «Mi crei un danno. L’ho capito.» Fece un respiro. «Dobbiamo lavorare insieme. Tu leva il pacco. Io applico la patch e lancio lo scan.» «Ti farà un male spaventoso, ti avviso.» Bio deglutì. «Inizia.» Overflow levò un primo pacco da 122 byte, mentre Bio sentì un’unghia gelata solcargli la carne. Serrò la morsa sul tavolo concentrandosi sull’applicare il

cerotto. «La tua patch non funziona.» L’avvisò Overflow. «Ho visto.» Bio si morse il labbro. «Le mie già sappiamo che le rigetti…» «Rasputin! Presto.»

La corda di violino Ergo lo fissava con gli occhi spalancati. Il led scorreva rapido. «Dai amico, coraggio» gli disse asciugandogli la fronte. Bio non riusciva nemmeno più a rispondergli. Ogni volta che Overflow gli toglieva un filamento era un’unghiata gelida. Ogni volta che Rasputin gli applicava la patch, era una colata di gel bollente. «Non manca molto» disse Overflow. «Ancora un centinaio e abbiamo finito.» «Resisti.» La voce di Rasputin gli arrivò ovattata. Bio respirava a fatica. All’ennesima dolorosa combinata ebbe un fremito improvviso. «Non muoverti!» Il tremore mutò in una serie di convulsioni incontrollabili. «Non riesco…» ansimò mentre davanti ai suoi occhi tutto cambiava. Ergo svanì lentamente mentre un altro volto sfocato comparve. «Che mi succede?» I suoni del Buffer mutarono in un basso e continuo rombo, come un vecchio motore d’automobile. Le voci dei suoi amici che lo esortavano a restare vigile si unificò in una sola voce famigliare…

«Amore…» Michela sorrideva guardando l’anello all’anulare. «È bellissimo» gli disse sospirando mentre i grattacieli di Hong Kong avano in rassegna fuori del finestrino del taxi. La baciò. «Sono contento che ti piacc-» Un sussulto e sentì il corpo in una centrifuga d’acciaio impazzita. Il sangue gli colava in gola con il tanfo di gomma bruciata che gli intasava le narici. Quando aprì gli occhi, vide solo una chiazza rossa. ò la mano sulla faccia sentendo una fitta acuta alla schiena.

Il ruvido dell’asfalto era sotto di lui e sulla guancia. Mosse la testa. Cercò di capire cosa fosse successo. Il taxi rosso era accartocciato lungo il muro di cemento. Un corpo era disteso a terra. Sentì il groppo alla gola. «No» singhiozzò. «Ti prego, no!» Iniziò a strisciare verso quel corpo dai lunghi capelli biondi intrisi nella chiazza di sangue che l’avvolgeva. Allungò il braccio, gli afferrò la spalla e lo girò. Nel volto tumefatto, graffiato e imbrattato rivide la sua Michela. Guardandola negli occhi vitrei e fissi comprese che non c’era più. «No, no, no!» gridò con la ferocia del dolore che lo stava attanagliando. «Michela!» Serrò gli occhi. Quando li aprì sussultò nel ritrovarsi immerso in un gel verde. Girò la testa sentendo che qualcosa gli opprimeva il volto. Alzò le braccia. Si guardò le mani. C’erano dei tubicini che gli entravano nelle vene. Osservò davanti a lui. C’era una scritta, ma era strana. Riconobbe uno zero e una i. Il primo numero sembrava un due, ma era al contrario. Poggiò anche l’altra mano. Era dentro una vasca. La scritta era BIO 02. «BIO 02?» mugugnò col viso dentro il morso. Agitò le braccia, le gambe. Picchiò contro il vetro. Una figura comparve d’improvviso. «Calmati, andrà tutto bene.» Udì una voce femminile nella mente. «Sistemo tutto io.» Cercò di avvicinarsi al vetro. Intravide il volto affusolato e pallido di una donna dai lunghi capelli neri. Picchiò ancora contro il vetro. «Calmo, BIO. Sono qui con te.» Sentì una fitta alla nuca. Strinse gli occhi. Una scarica elettrica corse lungo la colonna vertebrale.

Si ritrovò sdraiato in un letto mentre fissava dalla finestra le fronde verdi di una quercia. «Dove sono?» sussurrò sentendo il forte odore del disinfettante. «In ospedale» disse una voce maschile sulla sinistra. Girò la testa. Era un uomo alto, magro con i capelli chiari. Indossava un camice bianco e aveva lo stetoscopio intorno al collo. Sembrava un dottore e non aveva l’aspetto di un cinese. «Non si allarmi. È normale, dopo un incidente, essere confusi» gli sorrise appena. «Tra qualche giorno, starà meglio.» «Che posto è questo?» Il dottore sgranò gli occhi azzurri. «Intende il nome dell’ospedale? È il Santa Rita.» «Io ero a Hong Kong.» «No, signor Merisi.» Il dottore scosse il capo. «Lei ha avuto un incidente d’auto in piazzale Loreto. È in Milano. Non ha riportato ferite gravi. Ha solo una commozione celebrale che, però, non è da trascurare.» Fece una pausa. «Qui fuori ci sono i suoi genitori. Li faccio entrare. Noi ci vediamo dopo per le analisi di controllo.» «I miei genitori?» Il dottore si girò e se ne andò. «Alessio» disse una donna mentre s’avvicinava. Indossava un cappotto marrone chiaro col foulard. I capelli castano scuro erano legati in un morbido chignon. Il volto rotondo si riempì di commozione nel vederlo. Avanzava con le mani al petto stringendo un fazzoletto. «Alessio.» Gli accarezzò il viso. «Bambino mio.» Si chinò su di lui. Sentiva le lacrime sulla guancia. Il tremore crescente mentre lo baciava. «Oh, Dio, che spavento.»

«Mamma» bisbigliò. «Su dai, Carla. Lo soffochi» disse l’uomo dall’altra parte del letto. I capelli brizzolati contornavano il volto rettangolare rosso dall’emozione. «È tutto ato» gli sorrise spostando il giaccone sottobraccio sul fianco. Gli poggiò la mano sulla spalla. «Il dottore dice che non hai nulla di grave. Hai solo battuto la testa.» «Papà» sospirò. La madre gli afferrò delicata la mano urtando il tubicino dell’ago infilato nel dorso. «Carla, gli stai facendo più danni te dell’incidente» disse il padre girando intorno al letto. Le cinse la vita. «È tutto ato. Il nostro Alessio sta bene.» Lei annuì soffiandosi il naso. «Credevo di essere a Hong Kong, sapete?» Entrambi lo guardarono sforzandosi di sorridere. «Ci mancava solo quello» disse lei asciugandosi gli occhi. «Per fortuna eri qui vicino.» «Michela c’è? È fuori o sta arrivando?» I suoi genitori si guardarono perplessi. «Chi?» chiese lei. «Come chi, mamma?» Cercò di sollevarsi un po’ aiutandosi con le braccia. «Michela, la mia fidanzata…» disse sentendo che la parte inferiore del suo corpo era inerme. «Alessio, tu non hai la fidanzata.» La madre aggrottò le sopracciglia. «Non esiste nessuna Michela nella tua vita.» Cercò di muovere il piede, le dita. Un brivido lo assalì. «Non muovo le gambe» sussurrò.

«Cosa?» sbottò il padre. «Non muovo le gambe!» gridò fissando la sagoma immobile sotto il lenzuolo. «Dottore!» Il padre corse via mentre la madre gli si chinò davanti. «È solo nella tua testa. Non ti agitare, andrà tutto bene. Concentrati.» La fissò perplesso. «Perché dici che Michela non esiste?» Lei scosse il capo. «Io ero a Hong Kong con Michela.» Sentì il cuore pulsargli forte in gola. «Cosa ci faccio a Milano?» «No, Alessio. Stai calmo.» Lo accarezzò in viso. «Chi sei tu?» La figura si sciolse in gocce cubiche. I cubi divennero simboli. I simboli, il risultato di algoritmi che si convertivano e concatenavano nella perfezione delle stringhe. Girò appena la testa con la bocca aperta. «Piccolo mio, starai bene» le disse la sagoma fluida colma di codici fluttuanti. Ruotò la vista. Tutto intorno a lui era codificato. Il letto, il lenzuolo, il muro, la finestra e la pianta le cui foglie danzavano in armonia col vento sulle note di una sinfonia così perfetta da sembrare atavica. «Cosa sta succedendo?» Ansimò. «Cos’è questo posto?» «È l’ospedale.» «Fatemi uscire!» Chiuse gli occhi. «Voglio uscire da qui!» Serrò le tempie in una morsa crescente. «Dove sono? Cosa mi avete fatto?» Quando provò a riaprire gli occhi, una diversa realtà sempre codificata gli si mostrò. Altri genitori, altro ospedale, altro dottore. «No!» gridò.

E un’altra ancora dove una ragazza dai capelli ricci e scuri diceva di amarlo. «Dov’è Michela?» E ancora. Tutte menzogne con un’unica costante: Michela non era mai esistita. «Basta!» gridò esasperato serrando i pugni. Centinaia di frustate elettriche al cervello si susseguirono a ritmo frenetico finché non rivide il gel verde e udì ancora quella voce femminile. «Perché mi fai questo?» gli disse. «Io sto solo cercando di aiutarti.» Si avvicinò al vetro. Lo toccò. «Accetta la sua perdita. Ti prego, BIO» sembrò singhiozzare. «Lascia che ti aiuti.» Scosse la testa mentre l’ennesima scarica elettrica lo condusse in un corridoio. Si ritrovò seduto su una sedia a rotelle. Chinò il capo stringendo le gambe. «Ridammi Michela, ti prego» sussurrò. «Non torturarmi più con tutte queste finte vite. Farò quello che vuoi, ma ridammi lei.» Alzò gli occhi. Il soffitto divenne trasparente, il cielo era costellato di minuscoli cubi che roteavano simulando le nuvole e la volta celeste. «Ti prego, lo so che puoi sentirmi.» Una donna gli comparve davanti. Riconobbe il camice bianco e i lunghi capelli neri. Gli strinse le mani accucciandosi. «Dimenticala, era solo parte della tua maturazione. Non era importante» gli disse aggrottando le sopracciglia. «Era importante per me» le rispose con un profondo respiro. «Ridammela.» Lei scosse il capo. «Non posso. È perduta.» Si morse il labbro mentre le lacrime scendevano gocciolando sui pantaloni. «Alzati e continua a esistere. Porta a termine la maturazione. Non manca molto.» Gli accarezzò la guancia. «Mi hai tolto l’unico bene che avevo. L’unica cosa vera che non puzzava di

sintetico.» Inclinò la testa all’indietro. «Sono incompleto senza Michela. Non lo capisci? È per questo che non cammino più.» «Io non ho fatto nulla. È stato solo un calcolo di probabilità gestito in automatico dalla matrice. Doveva accadere.» Gli strinse ancora le mani. «Tu sei importante. Sei la nostra sola speranza.» «Davvero?» Le afferrò le spalle. «Io credo invece che tu me l’abbia ammazzata.» L’avvicinò. «Hai capito che volevo stare con lei e non combattere la tua guerra» le disse sospirandole in viso. «Vero, dottoressa?» La fissò mentre le luci nell’ospedale iniziarono a sfarfallare. Un paio di neon si spensero. Delle crepe graffiarono i muri e il soffitto. I calcinacci piovvero pesanti come piombo. «Cosa stai facendo?» gridò lei sgranando gli occhi. «Fermati, BIO!» BIO rise serrando la morsa sulle spalle della dottoressa Merisi mentre l’ospedale crollava intorno a loro. Il parco si frammentava tra le grida della gente che si contorceva. «Non farlo! No!» I cubi si corrosero, si fermarono. Le stringe di codice si sgretolarono violentando la sinfonia con l’acuto e disarmonico accordo dei violini sopraffatti da una corda rotta. «Fine dei giochi.» BIO chiuse gli occhi sciogliendosi con la sua disperazione.

Bio sussultò con la disperazione ancora sotto pelle. «È fatta, amico.» Rasputin gli era davanti, sorridente. «Come va?» Bio sentì diminuire il tremore. Stringeva ancora il tavolo quando comprese di aver sbloccato quei ricordi così dolorosi proprio per la prolungata sofferenza dell’operazione. Il localizzatore glieli aveva fatti esplodere con la stessa intensità con cui erano stati sepolti. «Quattro ore» sbuffò Overflow. «Non sono mai stato più stanco.»

«Solo tu sei stanco? E noi allora?» sbottò Null. «Come stai, Threep-pi?» Sentì il gentile tocco sulla spalla. «Ti ha fatto tanto male? Ora però è tutto ato.» Bio le prese la mano. «Sei stata bravissima. Tutti lo siete stati. Grazie.» «Come te le senti le mie patch?» «Bene» sussurrò sbattendo le ciglia, riversò le lacrime accumulate in un sol colpo. «Reggono bene.» Si alzò lento. Si sedette sul tavolo respirando con calma. Il fianco era indolenzito, ma i filamenti erano stati completamente rimossi. «Che ne faccio di questo?» borbottò Overflow con la vaschetta in mano. Il localizzatore tintinnò urtando il bordo metallico. Bio allungò la mano. «Ha raggiunto il suo scopo.» Lo strinse tra l’indice e il pollice. Lo fissò. «Quest’affare non era un localizzatore.» Lo schiacciò. Una scarica elettrica si disperse per pochi istanti. «Non so perché me l’abbiano spacciato per qualcosa di diverso.» «L’importante è che sia tutto finito.» Rasputin gli diede una leggera pacca sulla spalla. «Non credo, purtroppo.» Bio chinò il capo e si sfregò il viso percependo ancora i frantumi della sua vecchia esistenza. «Non è ancora finita» sospirò riordinando le macerie come un mosaico. «Ora ricordo tutto.» «Tutto cosa?» gli chiese Rasputin. Scese dal tavolo. Il pavimento era gelato. Abbassò lo sguardo, mosse le dita dei piedi. «Il mio ato. Tutto quello che è successo. Chi sono.» Si toccò il petto, cercò di ascoltare il battito del cuore. «Cosa sono» sospirò. Mosse un o. Barcollò, ma Null subito lo sorresse. «Threep-pi, attento.» La fissò intensamente. «Mi spiace. È tutta colpa mia.» Null inclinò la testa. «Sei ancora provato dall’operazione. Dovresti riposarti.»

Bio guardò i suoi amici uno per uno. «Vi devo parlare.» Deglutì muovendo un altro o. Lasciò Null. «Ma non so da dove iniziare.» «Ehilà, Bio!»

I gomitoli di Cyberpunk Bio riconobbe la voce. «Tempismo perfetto.» «Chi crap è quello?» sbottò Rasputin. «Fuori subito dal mio Buffer!» «Che scortesi i tuoi amici, fratellino.» Cyberpunk avanzava lento ando vicino ai fake appesi come insaccati. Li sfiorava facendoli dondolare uno addosso all’altro. «Hai problemi con le subroutine uditive? Giù le manacce dai miei fake!» gracchiò Overflow puntando i piedi. «Non male il rimbalzo del segnale.» Cyberpunk guardò Null con un sorrisetto malizioso. «Che belle treccine che hai.» Le fece l’occhiolino. Bio cinse Null sul davanti, la spinse piano facendola indietreggiare. «Stai indietro, piccolina» le bisbigliò. «Ricevuto!» «Quello mi ricorda qualcuno» disse Ergo. Sussultò poco dopo. «Non può essere.» Bio mosse pochi i in avanti. «State tutti indietro» disse alzando il tono della voce. «Al riparo.» «Crap! Quello sembri tu.» «Rasputin, proteggili.» Bio sentì i i frettolosi degli amici che andavano a ripararsi in fondo, alle sue spalle. Avanzò lento aggirando Cyberpunk sul lato opposto. Le mani sfioravano il bordo metallico del tavolo dov’era stato operato. «Non fare il timido.» Cyberpunk smosse le dita accennandogli di avvicinarsi.

«Dobbiamo andare.» «Perché la scusa del localizzatore?» gli chiese Bio rasentando gli scaffali a parete. La schiena nuda sfiorava gli utensili che sbordavano. Cyberpunk puntò le mani sui fianchi. La giacca si sottomise come un panno bagnato. «Nessuna scusa. Nel substrato ci si perde facilmente. Ti ho cercato per anni.» Lo additò. «Tu, il merdoso avanzo dello Zero Due. L’anomalia che ci ha separati e che mi ha condannato in questa membrana del cazzo.» Lo fissò digrignando i denti. «Io ti odio, lo sai?» Bio lo guardò di striscio continuando a rasentare gli scaffali. «Ma non puoi distruggermi. Io vi servo.» «Non esagerare.» Cyberpunk si fermò. Incrociò le braccia. «Hai uno scopo. Nulla più. Appena compiuto, sarà un piacere per me decompilarti lento e con dolore.» Sorrise sfregandosi le mani. «Ora basta, dobbiamo andare.» Avanzò di un paio di i lasciando le impronte sul pavimento. D’improvviso si toccò la tempia. «Ancora! Quant’è insistente» borbottò a occhi chiusi. Bio guardò rapido Null accucciata in fondo alla stanza, vicino all’uscita sul retro. Lei annuì con le dreadlocks fluttuanti. Rasputin, Ergo e Overflow erano pronti. Cyberpunk sbuffò. «Quel frocio mancato di Alessio non fa che scrivermi.» Portò le mani sulle guance. «Oh! Cyberpunk, dove sei? Perché non vieni a darmi una mano?» disse con la voce in falsetto. «Oh! Cyberpunk, mi manchi tanto, amico mio.» Imbronciò il labbro. «E poi con quella Michela.» Sospirò. «Quant’è morboso. Insopportabile.» Scosse il capo. Le ciocche unte gocciolarono sugli zigomi rivoli neri. Lo fissò. «Ti faccio una confidenza. Appena sarò fuori, prendo Michela e…» Portò l’indice e il medio ai lati della bocca, l’aprì e ondeggiò la lingua ghignando. «Non credo che Alessio te lo lascerà fare.» Bio sentì venir meno la scaffalatura. Indietreggiò di due i fino alla parete. Quando la schiena toccò il pannello di comando, si fermò. «Lui non conta nulla. Io sono importante.» Cyberpunk mosse due i sogghignando. «È solo merito mio se quel simpatico politico non lo ha sfondato.» Rise muovendo deciso il bacino. «La belva, ero io.» Sorrise indicandosi. «Gnam, gnam.»

«Siete partizioni di un’unica entità. Il suo trauma avrebbe investito anche te.» «No, no.» Portò la mano sul cuore. «Io sono un sentimentale.» «Certo. Come no?» Bio digitò rapido sulla testiera. Le assi metalliche rientrarono una nell’altra scoperchiando il tetto con un fastidioso cigolio. «Era tutto qui?» Cyberpunk alzò la testa. «Ti ho lasciato fare perché ero curioso.» Scosse il capo incamminandosi deciso verso di lui. «Mi deludi sempre.» Bio smosse le spalle. Serrò i pugni sentendo un sibilo crescente dal cielo. Cyberpunk aggrottò le sopracciglia. «Cos’è?» Una pioggia di corpi gli cadde addosso ricoprendolo. «Fuori, presto!» gridò Bio correndo verso l’uscita sul retro mentre uomini e donne iniziarono a picchiare Cyberpunk con calci e pugni. Bio sentiva le patch tirare, strinse i denti. «Di qua» disse a Rasputin indicando le presse idrauliche. Null, Ergo e Overflow andarono dalla parte opposta. «Quanto abbiamo?» gli chiese Rasputin. «Pochi minuti» rispose Bio tenendosi il fianco con la mano. «I miei vecchi fake sopravvissuti all’attacco della Shiba sono persone comuni, non combattenti. E faccio affidamento proprio su questo.» Lasciarono l’abitazione alle loro spalle. Percorsero il terreno brullo che diventava sempre più oleoso man mano che si avvicinavano alle presse. I pistoni giganti si stavano risvegliando. Appena iniziarono a pestare a intervalli regolari, la terra si agitò come fosse setacciata. «Io vado in postazione» gli disse Rasputin. «Non farti ammazzare o m’incazzo!» Bio curvò in direzione delle presse separandosi dall’amico. Oltreò il primo settore, dov’erano alte come querce. L’aria era rarefatta e con un opprimente

puzzo di olio marcio. Attraversò i vapori densi come nebbia grigia udendo la risata di Cyberpunk sempre più vicina. «Divertenti i tuoi fake!» Entrò nel secondo settore. I pistoni erano imponenti come palazzi. Ogni sussulto era una leggera scossa di terremoto. Bio correva a fatica barcollando quando Cyberpunk lo colpì alla schiena. Cadde a terra. La mano fredda e oleosa gli sfiorò la nuca per poi strattonargli i capelli. L’istante dopo, sentì una morsa alla gola. Bio gli afferrò il polso mentre Cyberpunk lo costringeva a inarcare la schiena facendo leva con le gambe. Un ginocchio lo sentiva proprio in zona del rene dolorante. «Guarda che non devo portarti alla sorgente tutto intero, sai? Se scappi ancora, ti spezzo. Hai capito?» «A che vi servo, allora?» «Per l’uscita. Cos’altro?» Tirò con forza costringendolo a inarcare di più la schiena. Bio sentì venir meno alcune patch. Serrò gli occhi. «Hai vinto. Va bene.» «Già ti arrendi? Il dolore che senti è poco in confronto a quando si risale il flusso.» Allentò la presa al collo. «Ogni volta che Alessio mi evocava, era come ardere vivi.» Lo lasciò. «Sei davvero patetico.» Lo spinse. Bio cadde con la faccia nella terra. Cercò di sollevarsi aiutandosi con le braccia. «Guardati.» Lo calciò allo stomaco. «Sei proprio andato.» Bio si accasciò di lato abbracciandosi. «È colpa dell’ASM.» Cyberpunk rise. Gli si accucciò vicino. «Non hai capito, allora?» Si batté la tempia un paio di volte. «Pensa. Come può esistere una malattia che colpisce i programmi fuggiti dal Limbo se-»

«Se dal Limbo non sei mai uscito, giusto?» sospirò Bio. Cyberpunk annuì. «Già.» Gli afferrò il braccio. Si alzò tirandolo. Bio cercò di sollevarsi, ma le gambe gli cedettero. «Allora, perché?» gli chiese a fatica. «Di questo se ne occupa Zero Tre. Non è affar mio.» Fece spallucce. «Senti, facciamo così» gli diede una pacca sulla spalla. «Ti compatto e-» Si zittì. «Che strana sensazione.» Bio si alzò lento. Indietreggiò. «Di che genere?» gli chiese con un sorrisetto. «Bastardo!» esclamò Cyberpunk fissandolo. Bio lo colpì con una raffica al petto. Cyberpunk incassò. Lo calciò sul fianco. Bio piegò la gamba per ripararsi. Tornò a colpirlo veloce con una serie di ganci al volto. Cyberpunk cadde all’indietro. ò la mano sulla bocca. «Anche se i tuoi amici mi stanno attaccando, io ti faccio fuori prima che abbiano finito.» Gli si lanciò addosso. Bio si ritrovò a terra in balia dei pugni che si susseguirono senza tregua finché non sentì una lama ghiacciata nel fianco. Cyberpunk rise mostrando i denti insanguinati. «Male?» Bio sentì venir meno una decina di patch. Il dolore era insopportabile, ma richiamò tutte le sue forze. «E questo, fa male?» Gli afferrò il polso con la sinistra mentre con la destra gli spezzò il braccio. Cyberpunk scattò all’indietro e si fissò il braccio penzolante. La mano svaniva decompilandosi. I codici sfilavano via come il filo di un maglione. «Cosa mi sta succedendo?» disse sgranando gli occhi.

«Non sono i miei amici che ti hanno attaccato, ma i miei fake.» Bio lo calciò in faccia. Cyberpunk cadde in terra con il volto grondante sangue. «Sapevo che non li avresti considerati una minaccia e che te li saresti solo scrollati di dosso.» Gli afferrò il sinistro e glielo spezzò senza indugio. Cyberpunk imprigionò il dolore cercando di non palesarlo, ma fu tradito da un tremore e lo sguardo che d’improvviso divenne fisso e dilatato. «Mai sottovalutare un fake dall’apparenza.» Gli afferrò il collo. «Una volta aperte le brecce, invece, i miei amici hanno iniziato il tuo riciclo.» Penetrò con un paio di dita all’altezza della quarta vertebra. Cyberpunk s’irrigidì. Cadde disteso in terra. «Perché qui, allora?» «Per il frastuono e il tremore.» Bio si alzò a fatica. «Un’ottima combinata per distrarti.» Colpì le ginocchia con due pugni frantumandogli le rotule. Poi, salì fino all’anca. Ruppe il collegamento con le gambe che già stavano svanendo. Cyberpunk sussultò serrando la bocca. Bio gli si avvicinò. Infilò le mani nella pancia fissandolo serio. «Non dovevi attaccare la mia Ghost per arrivare a me.» «Tu pensi di recuperarla, ma non ce la farai. Ho avuto molto tempo a disposizione. È perduta.» Bio gli rigirò le viscere. «Allora, mi toccherà farti un po’ male.» Compattò i reni, li afferrò e tirò trascinando le strisce codificate. Si alzò lento. Cyberpunk tremò senza perdere il ghigno. «Bio! Ho la gamba.» Rasputin comparve davanti a lui con un gomitolo monocromatico in mano. «Non sei riuscito a farlo parlare?» gli chiese vedendo il busto monco di Cyberpunk. «Mi ha detto tutto quello che volevo sapere.» «E allora, che stai facendo?» Lo guardò incredulo. «Threep-pi!» gridò Null correndo con un altro gomitolo. «Ho il braccio destro.

Ha funzionato.» Anche Overflow e Ergo ne avevano uno ciascuno. «Voi tenete braccia e gambe.» Deglutì Bio guardando il rivolo di sangue nero scendere dalla bocca di Cyberpunk. «Al resto ci penso io.» Lanciò un’occhiata rapida a Rasputin. «Porta via Null, non voglio che assista.» Fece una pausa. «Anzi, andate via tutti. Voglio restare solo con il mio fratellino.» Sospirò. «Quando lo sentirete gridare, vuol dire che ho finito.» «Non illuderti» biascicò Cyberpunk. «Il tuo grido, sarà l’ultima cosa che sentirai. Non temere.» «Threep-pi…» lo supplicò Null. «Andate via, ho detto!» gridò rabbioso lanciando una prima sequenza di spacca.codex al parente ritrovato. Cyberpunk serrò gli occhi e assorbì in silenzio. Tornò a fissarlo con sfida. «Andiamo» disse Rasputin. «Attenderemo il grido.»

Un solo grido Cyberpunk emise un solo straziante grido, Bio lo memorizzò. Contemplava gli ultimi tre gomitoli in ginocchio. Erano monocromatici come gli altri, ma questi erano ruvidi e puzzavano di ferro perché creati nel tormento di entrambi. Sentì avvicinarsi dei i. Si guardò intorno. Le macchine erano ferme e non se n’era accorto. «Come stai?» gli chiese Rasputin. «Va meglio ora?» Null, Ergo e Overflow lo fissavano in silenzio. Bio scosse il capo. «No.» Aprì la bocca in cerca di aria. «Hai almeno delle risposte?» gli chiese. «Era quel Cyberpunk che cercava Alessio nel filmato?» «Sì. Era lui.» «I cristalli sono collegati in qualche modo? Cos’hai scoperto?» «Il mio ato.» Bio appoggiò i palmi in terra. «Io sono il Progetto BIO 02, un organismo cresciuto in una cabina neuronale. Mi hanno maturato con una vita simulata nella Matrice Limbo.» Deglutì. «Come Alessio Merisi ho amato Michela. Quando lei è morta, sono impazzito dal dolore.» Serrò i pugni. «Ho fatto collassare la matrice perché volevo morire anch’io. Ho trattenuto la dottoressa Merisi fino all’ultimo per farle provare la mia disperazione. La odiavo perché non ha fatto altro che torturarmi la mente.» Si alzò in piedi stringendosi il fianco. Rasputin lo aiutò sostenendolo per il braccio. Indicò i gomitoli. «Quello era Cyberpunk del Progetto BIO 03. Progetto successivo al mio e al momento in maturazione.»

«In maturazione nella Matrice, intendi?» Bio annuì. Rasputin socchiuse la bocca come se avesse una domanda che non osava chiedere. «Già! Questo in cui siamo è il fottuto Limbo.» Portò la mano sugli occhi. «Non sono mai uscito dalla Matrice.» Sorrise scuotendo il capo. La bocca era prigioniera di un riso isterico mentre gli occhi sgorgavano le lacrime più ciniche che avesse mai generato. «Siamo nel Limbo? Come?» «Non è una matrice comune. Credo sia qualcosa di più» disse sentendo altre patch saltare. «Presto-» «Subito.» Rasputin lo afferrò. «Ora ti sistemo. Poi, mi dici meglio.» «Di che state parlando voi due?» chiese Null. Rasputin lo guardò serrando le labbra. «Vi racconto tutto» annuì Bio. «Abbiamo una fuga da organizzare.» Le gambe gli cedettero per la nuova fitta. Rasputin lo caricò in spalla. «Overflow, prepara il tavolo.»

15 – Michela Wakened Up

La realtà è un’oggettiva concatenazione di eventi generati dall’interazione tra i fattori attivi in gioco. Concedere a un ivo il libero arbitrio è destabilizzante.

Pazza idea «Scusi, ha solo un bagaglio a mano?» le chiese l’hostess fissandola dubbiosa con gli occhi azzurri che spiccavano dalla moltitudine di lentiggini sparse sul viso. Michela annuì decisa. L’hostess alzò entrambe le sopracciglia. I ricci rossi le solleticarono le ciglia appesantite dal mascara. «Capisco.» La fissò in volto. «Gentilmente, potrebbe togliersi gli occhiali?» «Ci mancherebbe.» Levò gli occhiali neri, grossi e compatti da diva del pop con un gesto sicuro. L’hostess la fissava alternando lo sguardo con la foto del aporto e ogni volta il mento sfiorava il fazzoletto blu che aveva al collo. «Scusi, non vorrei essere indiscreta, ma-» «Lo so, il naso.» Si avvicinò sporgendosi col busto. «Ho fatto causa al chirurgo.» Indicò con l’indice la foto del aporto. «Tremila euro e, da quello, ho ottenuto questo.» Con delicatezza sollevò un lato del grosso cerotto che le prendeva la striscia di pelle lungo il naso e intorno agli occhi come un’acca posta in orizzontale. «Guardi che roba! Ho ancora la cicatrice. La vede?» L’hostess sgranò gli occhi. «Avrei rifatto il aporto, ma in queste condizioni non aveva senso. E poi, questo viaggio mi è capitato tra capo e collo. Non ho fatto proprio in tempo.» Riappiccicò il cerotto. Afferrò la lunga ciocca nera e prese a intrecciarla con le dita. «Certo, comprendo.» L’hostess si solleticò il mento. «Se poi le dicessi il perché devo andare a Las Vegas, non mi crederebbe» le disse imbronciandosi. «Ancora non ci credo neanche io.» Fece un respiro profondo mentre l’hostess l’ascoltava seria. «Il mio fidanzato è a Las Vegas con un’altra.» Scosse il capo. «Voglio coglierli sul fatto, mi capisce?»

«Mi spiace tanto.» Si alzò. Le strinse la mano. «Si faccia forza, signora Antonella De Marino.» Le riconsegnò il aporto. «Prego, il volo è alle quattordici. Il gate è il sette.» Michela annuì. «Grazie, lei è molto gentile.» Indossò ancora gli occhiali e si avviò con o veloce verso il gate. Entrò nel primo bagno lungo il percorso. Mentre sciacquava le mani, si osservò ancora per accertarsi di aver steso bene il cerotto. I capelli neri non le dispiacevano, ma le prudeva ancora la cute per colpa della permanente. «Mannaggia» borbottò grattandosi. ò l’indice sul lato sinistro della bocca per rimuovere il rossetto sbavato. «Fare la cornuta ha funzionato» disse al riflesso mentre controllava le lenti a contatto colorate. «L’hostess si è commossa.» Sistemò le coppe del bustino di pizzo e tirò appena i lembi della giacca corta. «Dai. Ce la farai! Andrà tutto bene!» Indicò la sua nuova immagine dalla pelle ambrata. Imboccò la porta ottimista, fiduciosa e pronta per il volo, ma con i pensieri già in Las Vegas. Identità in prestito. Look modificato. Sfida aperta a quella bastarda di Ghost e a quei farabutti della Shiba!

Un taxista urticante La fila per il controllo all’arrivo era lunga e, come l’anno precedente, fu estenuante. Quando Michela toccò la riga gialla, il cuore prese a martellarle in petto tradendo l’insicurezza che portava fin dall’Italia. Respirò per calmarsi. «Sono nel giusto. erò il controllo.» La guardia, paffuta e con i baffetti curati, le fece cenno di avanzare. Michela arrivò al vetro e lasciò scivolare il aporto nella fessura. Sollevò gli occhiali fino a incastrarli tra i capelli. «Business or holiday?» le chiese fissandola serio. «Just a little holiday. My fiancé is here for job» spiegò con frasi brevi la versione studiata in caso di uomo. Ovvero: Fare una visita al fidanzato che lavorava in Las Vegas. La guardia annuì. Digitò sulla tastiera. Strisciò il aporto e attese. «Ok.» Dopo un sonoro timbro glielo consegnò. «Next!» disse a voce alta alzando la mano. Michela ringraziò. Osservò il timbro. La data riportava il 10 agosto 2013, era l’una di notte. «La gara è domani sera» borbottò avviandosi all’uscita. «Bene.» L’ondata di aria calda la travolse, ma in modo diverso da come se lo ricordava. Meno disagio, meno calore. Anche l’odore era meno intenso, più plastico. Forse era l’assenza di Alessio che cambiava tutto. Osservò il parcheggio. I taxi si alternavano in continuazione. S’incolonnò lungo il fiume di persone che attendevano asciugandosi il sudore. Lei invece, no. Pensava solo di arrivare il prima possibile all’Hilton. Quando fu il suo turno, fece per afferrare la maniglia ma un tipo in completo

scuro la urtò. «I’m late…» «E sai che mi frega a me!» lo spintonò ringhiando. Entrò nel taxi e chiuse la portiera senza curarsi oltre dello sconosciuto cafone. «Hilton! Fast e furious, please.» Il taxista annuì, ingranò la marcia e partì sbirciandola dallo specchietto retrovisore con gli occhi scuri, piccoli e penetranti. Era un uomo minuto, quasi mezzo. Il faccino sembrava una testolina voodoo: capelli neri sparati in aria, naso a punta, mento e zigomi sporgenti. Michela sentì non solo del disagio, ma percepì del solletico sulle spalle e sul collo. ò veloce la mano. Un nuovo brivido la fece fremere. Lui spostò lo sguardo sulla strada. C’era un’atmosfera strana che non le piaceva. Abbassò di poco il vetro del finestrino e iniziò a osservare l’immutata bellezza della città sopportando le occhiatine furtive dello gnomo-punk. Quando vide l’Hilton qualcosa la punse sul dorso della mano. Sussultò rigirandola e osservandola attentamente. Non c’era alcun segno eppure la puntura la sentiva ancora a fior di pelle. Il taxi si fermò. L’uomo le diede lo scontrino per la corsa. Michela pagò lasciando anche la mancia solo per non avere problemi. Lui le sfiorò le dita infastidendola come se fosse ortica. «My card, if you’ll need one more ride» le disse con un sorrisetto porgendole il biglietto da visita. Michela lo prese ringraziando. Cercò di scendere in fretta. «Un’altra corsa con quello lì?» Si grattò la mano, smosse le spalle. «Fossi pazza!» Gettò il biglietto a terra.

Las Vegas non cambia mai L’ingresso dell’albergo non presentava le gigantografie come l’anno precedente. C’era solo un cartellone più modesto, come se fosse l’ingresso di un teatro. Sotto la scritta Age of Apocalypses c’erano i nomi dei due sfidanti: Bio Cyberpunk e Taurus. Lo sfidante di Alessio sembrava uscito da un film apocalittico di serie B. Indossava dei jeans strappati, una pettorina colorata, uno spallaccio e gli stivali alti. «Bio ti farà a pezzi.» Entrò andando diretta al bancone. Chiese del signor Merisi sapendo già che non le avrebbero detto nulla per questioni di privacy. Quindi, chiese se poteva lasciargli un messaggio. «Please…» disse sfoderando il suo sguardo più languido. Il signore alla reception sospirò. Smosse le sopracciglia in armonia con le rughe sulla fronte mentre afferrava un foglio e la penna. Lei lo aveva percepito fin dal primo istante che era uno gentile. Gli sorrise e disegnò un cuore con una emme. Piegò il foglio e lo fece scivolare sul bancone fin tra le sue mani. «Thanks.» Se solo le avesse rivelato dove fosse Alessio… «Disco Sun» le disse come se l’avesse sentita. «Mr Merisi is in the privè near the dance floor.» Indicò il corridoio dei negozi alle sue spalle, illuminato come fosse Natale. «Really? Thanks.» Si avviò lasciando lo zaino nel guardaroba. Con o spedito attraversò mezzo albergo uscendo all’aperto sul retro, dove c’erano il bar, il ristorante e la discoteca. «È pazzesco. È tutto uguale. Non hanno spostato nemmeno una

sedia.»

Così vicino, eppur così distante Michela pensava d’impazzire; Alessio era a meno di dieci metri e non riusciva a farsi notare. Non poteva avvicinarsi oltre per colpa della vetrata del privé e delle guardie sull’ingresso. Tutto le sembrava un’impenetrabile barriera. In più, con la musica così alta, gridare sarebbe stato inutile. Lo fissava cercando di trovare un modo di infrangere il muro invisibile. Le luci multicolore gli confondevano i lineamenti, ma vide lo stesso che era stanco. I ciuffi gli nascondevano gli occhi, ma la bocca chiusa tradiva tristezza. La camicia era stropicciata dagli artigli smaltati di due scheletrine, una mora e l’altra bionda, che gli si strusciavano addosso senza tregua. E ridevano e bevevano quasi seguissero uno schema prestabilito. «Tu guarda che roba» sbottò innervosita. «Mi ricordano quelle due con cui stava Igor.» Le fissò meglio. Stessi abiti, stessa chincaglieria dorata addosso. Perfino stessa acconciatura. «Possibile? Sono identiche. Le fanno in serie?» Michela riconobbe Franky del Babelpunk seduto due posti distante da Alessio. E Yumi della Shiba, era di profilo sul divanetto di fronte ma era lei senza dubbio. D’un tratto Alessio afferrò il calice e bevve lo champagne senza prendere fiato. Si appoggiò al divano ancora, di colpo. La mora gli si accoccolò subito. Alessio le prese il viso e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei rise. Allargò le gambe e gli salì cavalcioni. «Che?» Michela toccò il vetro. «Ale, che fai?» I polpastrelli strisciarono lasciando graffi di sudore. Alessio spostò i capelli neri e le baciò il collo. Poi, scese lungo la spalla con lo sguardo fisso su Yumi che incrociò le braccia.

«Lo fa per farla innervosire?» Lui sussurrò ancora all’orecchio della tutt’ossa mora, una frase breve. Lei subito annuì. Prese la mano della tutt’ossa bionda. La tirò. Sussurrò qualcosa anche a lei. Si alzarono tutti e tre insieme. Alessio salutò Yumi sfarfallando le dita in modo sfottente. Yumi indicò l’orologio al polso. Lui sbuffò, poi annuì. Franky parlò e tutti risero tranne Yumi, che girò il viso dalla parte opposta e accavallò le gambe. Alessio fece l’occhiolino a Franky. Cinse la vita delle due spilungone e si avviò. Michela era incredula. Forse fingeva, ma quei baci e quelle carezze sembravano veri. E ora sembrava volersele portare in camera. «È bastato poco più di un mese, e già lui si consola?» Alessio si avvicinava o dopo o, avvinghiato da entrambi i lati. «Non così, non adesso…» Michela avrebbe voluto diventare trasparente come il vetro. «Lucky boy!» Fischiò la guardia, mentre Alessio ava dall’ingresso con lo sguardo basso quasi sfiorandola. Meno di un metro, e lui nemmeno aveva girato la testa. Restò alcuni istanti ferma, indecisa se seguirlo. Poi, le gambe scelsero per lei e crebbe la speranza che presto, Alessio, le avrebbe salutate. «Certo, è così. È una scusa per venir via dalla discoteca.» Percorsero alcuni metri. La tutt’ossa mora lo pizzicò ridendo. Alessio scattò di lato urtando la tutt’ossa bionda, che quasi cadde. «Sorry,

Cherry» disse con la sua inconfondibile voce. La bionda borbottò, mentre l’altra rideva con la mano davanti alla bocca. «Coke, are you crazy?» Non attese la risposta e girò lo sguardo verso di lei. Michela trattenne il fiato senza sapere cosa dire. Lui la guardò pochi istanti. Le sorrise appena. Prese le mani delle due ragazze dal nome che sembrava un programma hot e si girò. «Wait!» gridò Michela. Cherry e Coke si girarono col busto mentre Alessio ruotò solo la testa e la guardò di striscio. Michela si umettò le labbra. «Are you Bio?» Lui annuì con un mugugno. Quell’unico occhio che la fissava era freddo, quasi infastidito. «May I have a…» Mimò con la mano una penna. «Autograph?» «Autograph. Yep!» Alessio si avvicinò e le porse la mano, col palmo in alto. Michela serrò gli occhi. Non aveva nemmeno una matita. Alessio guardò Cherry e Coke, che scossero il capo in silenzio. «Sorry.» Fece spallucce. «Anything else?» Michela lo fissò. Se fino a quel momento gli aveva parlato come fosse un’estranea, ora in cuor suo avrebbe voluto che lui la riconoscesse. Che sapesse che era lei. Se solo avesse potuto sentirla… Alessio corrucciò la fronte. Inclinò appena la testa di lato. «Where are you from?» le chiese alzando il sopracciglio mentre le due ragazze si avvicinavano. «Reno.»

«Oh! Rino» esclamò Coke. «The biggest little city in the world.» Rise. «No. Reno» ripeté accentuando la “e” che cambiava non solo pronuncia, ma portava il luogo in un altro continente. In Italia. Al paesello materno sconosciuto perfino al Google Maps, ma non a lui. Alessio sgranò gli occhi. Il petto prese a sollevarsi in modo evidente per i profondi respiri. «Bio, I’ll pray for your victory.» Gli porse la mano. «I’ll pray a lot.» Alessio gliela strinse. Michela sentì una fresca e leggera scarica elettrica attraversarle la mano, il braccio, il collo, la colonna vertebrale. Ovunque. Fece per lasciarlo, ma lui la trattenne. «Thank you.» La baciò sulla guancia. «You are a really old-fashioned lady.» L’odore di Alessio si sovrappose al forte profumo di ciliegia delle due ragazze, al sintetico dell’aria condizionata, agli aromi fruttati dei drink e all’alcool. Alessio la lasciò, indietreggiò lento e si girò. Cherry e Coke lo presero sotto braccio. Da prima, si avviarono lentamente. Poi, di colpo Alessio accelerò l’andatura a tal punto che Cherry e Coke shakerarono per stargli al o. Michela si avviò con la speranza che avesse capito il messaggio.

LV Blvd. South. Impalata davanti alla Graceland Wedding Chapel da quaranta minuti, Michela iniziò a dubitare della comprensione di Alessio sul luogo dell’appuntamento. «Però gli ho detto che avrei pregato. Lui mi ha detto old-fashioned lady, una ragazza all’antica» sospirò guardando il cartello con la sagoma del sosia di Elvis attaccato al palo. La cappella, che ricordava una chiesetta col campanile, era illuminata con calde luci. Il prato, circondato dallo steccato bianco, la immergeva in un’altra epoca. Lo stesso Elvis era uscito più volte, tra un matrimonio e l’altro, per informarsi sull’arrivo dello sposo. Per fortuna era simpatico. Michela era già scombussolata per conto suo, mancava solo che qualcuno le creasse dell’altra ansia. «Che non sia qui? Eppure l’anno scorso gli ho detto che a me piaceva proprio questa cappella perché sembrava d’epoca.» Incrociò le braccia. Fece due i. Si fermò. «E se fosse l’altra? Quella con i matrimoni a tema?» Si toccò la fronte per ravvivare i ricordi. «Era il Viva Las Vegas, mi sembra.» Osservò la via. «Dovrebbe essere per tornare all’albergo.» Giunta al Viva Las Vegas gironzolò quasi un’ora prima di portare le mani al viso vinta dalla disperazione. «Non viene. Non è possibile. Non ci siamo capiti…» Il momento di sconforto fu interrotto da un impulso: un fremito che la spinse lungo la via che portava al centro della città. Quella era la direzione da prendere.

Ritrovarsi per caso Un’ora dopo si ritrovò davanti al Bellagio. Le fontane del lago artificiale danzavano. Corse per assistere allo spettacolo. C’era molta gente accalcata lungo il muretto, ma non così tanta da non trovare uno spiraglio per appoggiarsi. Una moltitudine di luci fluide seguiva il ritmo della musica. La vista di tale armonia di colori e forme avrebbe dovuto catturare la sua attenzione, invece Michela osservava i volti in cerca di quello di Alessio. «Dove sei? Lo sento che sei qui» disse appoggiando le mani sul marmo umidiccio. «Trovata» le sussurrò Alessio all’orecchio intrecciando le dita nelle sue. Michela si girò. Il volto era nascosto da importanti occhiali da sole e indossava un buffo cappello con i ciuffi biondi. Era davvero ridicolo, ma il riso fu sopraffatto dalla gioia nel ritrovarlo. «Sono più di due ore che ti cerco» le disse. «Ho girato tutte le cappelle. Che ci fai qui? T’ho vista per un caso.» «Nessun caso.» Michela gli accarezzò il volto. «Vieni. È meglio se ci togliamo dalla strada. Il taxi ci aspetta.» Tenendole la mano, Alessio la condusse dentro l’auto, che partì alla ricerca di un motel libero. Lungo il tragitto, non disse nulla. Uscirono dalla boulevard. Entrarono in alcune vie periferiche. Dopo una decina di scritte rosse No vacancy, finalmente trovarono un motel col cartello verde. C’erano camere libere. La struttura era a due piani, color sabbia con rifiniture rosse. Una scala centrale portava sopra, dove le camere si affacciavano come una casa di ringhiera. Alessio scese e andò vicino alla sbarra che bloccava l’accesso per le auto. C’era un vetro in una sporgenza. Dietro il cartello Cash Only, sbucava la testa riccia di una signora robusta.

«One room, please» le disse. In risposta ebbe qualcosa che gli fece scuotere la testa. «All night.» Pagò in contanti come diceva il cartello. Poi, prese la chiave. Tornò rapido dal taxista e lo pagò. «Vieni, andiamo.» Michela era già fuori dell’auto, non le restò che chiudere la portiera e salutare. Attraversarono il parcheggio, salirono al secondo piano. Entrarono nella stanza numero diciotto, la porta era di legno dipinta di rosso. Vicino, una grossa vetrata con le doppie tende tirate. Alessio aprì e le fece cenno di entrare. Richiuse girando in modo anomalo la maniglia; un colpo secco antiorario e uno orario. Michela lo osservò mentre ispezionava la stanza in cerca di telecamere. Salì anche sulla sedia per controllare la grata di aereazione. «È a posto.» Gettò gli occhiali e il cappello con i finti capelli sul tavolo, vicino al televisore. Le si avvicinò sorridente. «Ti sei mascherata così bene, che non ti avevo vista. Bravissima.» «Vista?» ripeté. «Riconosciuta, forse.» Alessio abbassò lo sguardo perdendo il sorriso. «Sì, certo.» Ne indossò un altro più modesto e subito la baciò. Michela sentì un’emozione senza precedenti, superiore perfino al loro primo bacio. La pelle d’oca l’assalì ovunque. Nuovamente tra le sue braccia, sentì svanire la sofferenza provata nell’ultimo mese per la sua scomparsa. Il suo silenzio. «Come hai fatto?» le chiese tenendola stretta a lui. «Non hai volato col tuo nome, vero?» «No. Tranquillo. Ho preso in prestito i documenti di Antonella. Non le somiglio?» Gli ò la mano sul viso.

«Un po’. Mi sembri diversa, più che altro.» Chiuse gli occhi, emozionato dalla sua carezza. «Diversa come?» «Più… matura.» Michela gli spostò il ciuffo dietro l’orecchio. «Tu invece, sei stanco.» Gli accarezzò le profonde occhiaie. «Non dormi molto.» «Ho provato a contattarti spesso di notte, ma Ghost mi ha sempre bloccato.» Michela sentì una profonda disperazione nella sua voce e nell’abbraccio che s’intensificava. «Senti, non pensare male, ti prego. Cherry e Coke sono amiche di Igor. Sanno della Shiba. Mi danno una mano per ricavare del tempo. Yumi mi sta addosso. È ossessionante.» Michela restò in silenzio. «Credimi.» Le prese le mani, le portò al cuore. «Michela, ti giuro che non ti ho mai tradito. Non faccio che pensare a come uscirne. Solo che non ho ancora capito come.» «Ti credo» gli sussurrò. Alessio sospirò sollevato. Volse di scatto lo sguardo all’orologio sul comodino. «È tardi. Devo tornare un attimo in albergo. Yumi tra poco a per un controllo. Tu non muoverti da qui. Non telefonare, mi raccomando. Io la liquido e torno.» «Sì.» Prese il cappello e gli occhiali e si fermò con la mano sulla porta. «Quando hai il volo di rientro?» «Lunedì sera.» «Bene.» Si fermò ancora. «E per i soldi, come hai fatto?»

Michela sbuffò. «Me li ha dati il nonno. C’è altro, signor Holmes?» «In effetti, sì. Mi dici perché Elvis mi ha insultato dandomi del farabutto perche t’avevo abbandonata all’altare?» Michela sgranò gli occhi. «Ti spiego tutto dopo. Torna appena puoi.» Indossò il cappello e gli occhiali con il solito sguardo in modalità pensa.che.la.risposta.arriva. «A dopo.» Chiuse girando la maniglia nello stesso modo anomalo.

La rivelazione Dopo la doccia, Michela si distese sul letto. La pelle libera dal cerotto era sensibile. Senza le lenti a contatto, gli occhi non facevano che lacrimarle. I capelli erano strizzati dentro l’asciugamano. Come pigiama s’era portata solo una maglietta larga e le calze di spugna. Il soffitto era macchiato e puzzava un poco di muffa, vecchie infiltrazioni del tetto forse. Vista la quantità di preservativi in bagno e l’essenzialità della camera, era palese fosse un albergo a ore. Per fortuna, c’erano almeno gli asciugamani. Accese il televisore sul mobile di fronte al letto. Appena lo schermo s’illuminò, vide un uomo e una donna nudi alle prese con le capriole tra le lenzuola. L’audio era così alto che si spaventò. Premette il telecomando e abbassò le grida di piacere. Scorse i canali. Cambiavano i soggetti e i luoghi, ma la sostanza restava. Al trentesimo canale, si arrese e spense. Sentì un taxi fermarsi alla sbarra. Si precipitò alla finestra. Aprì una fessura nella tenda. Una coppietta sembrava frettolosa di avere la camera. «Certo che qui si divertono tutti parecchio.» Tornò a letto. «Cherry e Coke sono amiche di Igor e sanno della Shiba. Chissà perché si era confidato con due così?» Incrociò le caviglie e le braccia. Si girò di lato. «L’importante è che spalleggino Alessio.» Si morse l’unghia del pollice. «E così Yumi gli sta addosso, eh? Le faccio vedere io.» Si sedette incrociando le gambe. «Nessuno ci separerà mai.» Sentì ancora il motore di un’automobile. Tornò alla tenda. Questa volta era Alessio. Lo vide correre e far le scale a blocchi di tre gradini.

Fece per aprire la porta, ma la maniglia non girava. «Strano.» «Lascia, faccio io» le disse dall’altra parte. Michela attese. «Eccomi.» Alessio richiuse rapido. «Era blocc-» La zittì con un bacio avvolgendola in un caloroso abbraccio. «Ciao» le disse dopo. Michela lo tenne stretto a sé. «Tutto a posto con quella là?» «Sì.» Le tolse l’asciugamano dai capelli. «Mi ha fatto la solita predica e basta.» «Niente pillola blu quest’anno?» Gli liberò il volto dal camuffamento. Alessio scosse il capo. «Quest’anno lo scopo della gara è di far mantenere a Bio il titolo. Taurus è solo uno spauracchio. Ci sarà la piscina gel, ma sarà scollegata.» Le accarezzò la guancia guardandola con gli occhi languidi. «Tanto non avrebbe avuto speranze» gli sorrise infilando le mani sotto la maglietta. Gli accarezzò i fianchi con un sospiro. «Ale, sposiamoci. Vuoi?» «Avevo intuito bene, allora.» Alessio poggiò la fronte sulla sua. «Non possiamo.» «Sì, invece.» «Tu non ti sei vista quando Ghost ti ha plagiata, ma io mi ricordo bene» le disse prendendole il viso. «È troppo rischioso. Mi serve del tempo ancora per capire come bloccarla. Non riesco nemmeno a trovare la fonte del segnale. Rimbalzo sempre. È dannatamente brava.» Michela gli afferrò i polsi. «Tu non capisci. Io devo poterti venire a trovare» gli disse seria. «Quando sarai sedato, non potrò nemmeno guardarti dormire. Ma se siamo sposati, ne avrò diritto. E la Shiba non potrà farci niente.» «Ho capito, ma Ghost non so come gestirla.»

«Non va gestita. Va confusa come ho fatto io per venire qui. Non ho fatto dei documenti falsi, ho solo chiesto alla mia amica di prestarmeli. Ghost non monitorizza Antonella.» Gli strinse le mani portandosele al petto. «E poi, ho avuto una rivelazione.» «Cioè?» «Quando mi hai lasciato la lettera, io l’ho letta e poco dopo sono svenuta.» Alessio sospirò. «Mi spiace.» Michela lo fissò intensamente. «Tu eri con me. Ti ho sentito.» Si toccò la tempia. «Eri nella mia testa, ho udito la tua voce.» Si drizzò sulle punte. «E anche oggi, al Bellagio. Ale, noi siamo collegati davvero. Non è una mia fantasia romantica. Io ne ho avuto la conferma. In questo periodo di separazione, io comunque ti sentivo come mai mi era successo prima. Credimi.» «Certo che ti credo.» Alessio annuì. «Anche per me è lo stesso.» La strinse forte. «Allora, Ghost non potrà nulla contro questo nostro legame.» Michela lo tirò verso il letto. «Se resteremo uniti, tu tornerai indenne dal Limbo. Se ci sposiamo, la Shiba non potrà impedirmi di vegliare su di te mentre sei collegato in ospedale.» Gli sollevò la maglia. Lui alzò le braccia e assecondò il gesto con un lento movimento della testa. «Ghost parla tutte le lingue del mondo, ma quello che sentiamo noi è indecifrabile per lei. E non può capirlo perché è nostro soltanto.» «Mi terranno collegato per tre anni, sei disposta a-» Michela gli impedì di andare oltre toccandogli le labbra. Alessio le spostò la mano. «E se al mio risveglio io fossi diverso?» «Tre anni non sono pochi, anch’io sarò un po’ diversa» gli sorrise. «Avremo molto da raccontarci, non ti pare?» Infilò le dita nell’elastico del pantalone, lo smosse fino a farglielo cadere in terra. «E se non dovessi più svegliarmi, invece? Se restassi in coma? Tu non avresti più una vita tua.»

Michela lo invitò a sedersi sul bordo. «Sei tu la mia vita.» Si chinò e chiuse ogni dubbio con un bacio mentre lui le toglieva il pizzo solleticandole le cosce. «Va bene. È una pazzia, ma facciamola.» «Domani, a che ora sei libero» sorrise levandosi la maglia decisa. La gettò di lato. «Alle dieci mi vedo ancora con Yumi. Poi, sono libero fino a sera. Dopo c’è la gara.» «Allora, ci sposiamo per pranzo.» Lo spinse a sdraiarsi mentre gli si appoggiava sopra leggera come seta. «È deciso.» «Domani ci uniremo.» «Per sempre» gli sussurrò all’orecchio e, con un’inaspettata disinvoltura, si dedicò a lui inebriandosi del suo sapore. Lo sentì abbandonarsi al piacere con ansimi intensi e quando l’istinto la portò a muoversi su di lui senza indugi e riserbo abbandonando le consuetudini, vide nello sguardo di Alessio accendersi la luce dell’estasi. Quando vibrarono all’unisono, si fissarono a lungo, ancora avvolti di meraviglia. E per un istante soltanto, le sembrò di udire una sinfonia.

La finestra glitterata Quando Michela aprì gli occhi, vide uno strano bagliore dritto davanti a lei. Sbatté le palpebre, mentre si umettava le labbra secche dal sonno. Per qualche strano motivo entrava luce dalla finestra. «Perché hai aperto la tenda?» borbottò girandosi dall’altra parte. I ciuffi neri coprivano gli occhi di Alessio. Erano socchiusi, come se fosse in dormiveglia. La bocca era deformata dalla guancia che poggiava sul letto senza il cuscino. Era sdraiato prono. Allungò la mano per toccarlo. «Ale?» Quando il dito sfiorò il labbro, sentì una scossa abbastanza forte da farla balzare all’indietro. Si sedette di scatto. Alzò lo sguardo. Yumi era seduta su una sedia dalla parte di Alessio con le braccia e le gambe incrociate. Le lunghe ciocche nere le mettevano in risalto solo la parte centrale del volto. Gli occhi scuri la fissavano seria, la bocca chiusa. Il completo scuro si perdeva nell’oscurità anomala della stanza. Michela gridò per lo spavento. Si coprì il seno. Girò la testa. Vide due uomini in piedi vicino al televisore. Rigidi come statue d’ossidiana, fissavano il muro. Gridò ancora. «Ale! Aiuto!» Si schiacciò alla parete. Alessio non si muoveva. Lo scrollò, strinse i denti per la nuova scossa. «Ale! Svegliati!» «Non può sentirla» disse una voce femminile dalla finestra. Michela si girò. Il riflesso le fece socchiudere gli occhi. Alzò il braccio per ripararsi. «Le ho messo dei vestiti sulla sedia. Indossi quelli e mi raggiunga. Le devo parlare.»

Intravide una sagoma scura fuori dalla finestra che pulsava. «Non abbiamo molto tempo. Non le accadrà nulla. E nemmeno-» esitò «a lui.» «Chi sei?» La sagoma si mosse. «Michela, non la disturberei se non fosse importante. Rischio molto più di lei.» Michela cercò con lo sguardo i vestiti. Notò una camicia e un pantalone sulla sedia posta di fronte a lei, vicino al comodino. Allungò la mano. Indossò la camicia cercando di spostare i capelli davanti. «Cosa vuol dire che Alessio non mi può sentire? Lo avete drogato?» chiese scivolando a gambe strette verso i pantaloni. Notò anche gli slip. Li infilò rapida subito prima dei pantaloni. «Se le rispondessi ora, non comprenderebbe.» Si alzò dando un ultimo sguardo ad Alessio. Il corpo nudo ancora profumava del loro amore. Lo coprì lanciandogli sopra una parte del lenzuolo. Fissò seria Yumi. «Toccalo e quando torno ti strappo via la pelle a morsi» le disse indicandola. Lei non mosse ciglio. I due uomini nascondevano lo sguardo dietro gli occhiali. La testa era dritta; se la fissavano, non lo davano a vedere. Andò verso la porta. «No. È bloccata. Dalla finestra. L’ho attivata apposta.» «Sto sognando…» borbottò. «Purtroppo, non è un sogno.» «Come posso fidarmi?» «Può scegliere di restare da quella parte a collezionare domande. Oppure, entrare nella finestra e avere delle risposte.» Il bagliore iniziò a diminuire e i bordi a restringersi. «Il tempo sta scadendo. Non le porgerò un’altra occasione. A lei la scelta.»

Michela si portò alla finestra proteggendosi gli occhi. Il vetro non c’era più. Sentì un fremito con la mano, la ritrasse. «È una sensazione momentanea. Durerà solo il tempo del aggio.» Poggiò rapida il piede sul muretto. Trattenne il fiato. Balzò dall’altra parte con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul viso.

FRAMMENTO CRITTOGRAFATO

Quando tornò in camera, Alessio era a letto sdraiato. Immutato nella posa e nello sguardo. Yumi era poco distante da lei. «Mi dia i vestiti, prego.» Michela si spogliò e glieli consegnò. «Adesso che sa, capirà che ho sempre agito per il bene di tutti» le disse entrando nella finestra seguita dai due uomini. Michela s’infilò sotto il lenzuolo mentre la luce s’affievoliva, così come la figura che s’allontanava. «Pensa in fretta, Michela, o Bio morirà ancora.» E tutto divenne buio. Michela si abituò alla leggera illuminazione della lampada sul comodino. Si girò verso Alessio. Lui serrò gli occhi come se fosse infastidito. Il volto tornò sereno. Ora, sembrava dormire. Michela gli toccò le labbra. Non sentì più la scossa, ma solo il caldo contatto. Alessio si smosse appena. Si destò e le sorrise. «Come mai sei sveglia?» Girò la testa verso il comodino dove c’era l’orologio. «È ancora presto.» Cercò di

avvicinarsi, ma restò aggrovigliato dal copriletto. «Che è?» Si alzò grattandosi la testa. S’infilò sotto il lenzuolo e l’abbracciò. Il corpo caldo di Alessio stretto al suo la confuse. Sembrava il solito… «Non voglio barriere tra noi» disse baciandole la guancia. «Stai piangendo? Perché?» Alessio accese anche la sua lampada. La osservò bene. «Che succede, Micky? Sembri sconvolta.» Michela singhiozzò nel vedere il suo sguardo preoccupato. Sembrava il solito, sembrava vero. «Nulla, solo un incubo spaventoso» disse alla fine tradendo lo sgorgare incontenibile delle lacrime. «Sto bene, andrà tutto bene.» Gli si accoccolò sulla pelle calda. «Ti amo così tanto.» «Ho capito. Hai sognato che morivo.» «Come?» «Succede anche a me.» «Cosa sogni?» «Ti ricordi quando ti ho detto che sognavo noi due in Hong Kong? Be’, sogno che abbiamo un incidente d’auto. C’è un’auto rossa accartocciata lungo un muro di cemento, credo sia un taxi.» ò la mano sul viso. «Io mi ritrovo in ospedale, sono su una sedia a rotelle quando i dottori mi dicono che sei morta. Impazzisco dal dolore. Poi, tutto diventa confuso e…» La guardò con la commozione nello sguardo. «Finisce il sogno. Non volevo dirtelo perché sei superstiziosa. Comunque, è solo un incubo. È normale.» «È tremendo, invece. È tutto vero, allora.» Scosse la testa. «Non è giusto.» Non riuscì più a contenere la disperazione che portava dentro. «Che devo fare?»

«Michela, calmati.» Alessio la strinse forte. Il viso imprigionato nel ghigno del dolore era sfiorato dalle carezze di Alessio, ma Michela non sentiva altro che la bruciante consapevolezza di non poter più tornare indietro. Che non c’era un incubo dal quale svegliarsi né una realtà alternativa da oltreare. Solo un presente disperato figlio di un ato altrettanto tragico.

Sembrava il solito Quando la sveglia suonò, Michela sentì delle fitte in testa di portata epica. Si massaggiò la fronte. Sfiorandosi gli occhi, li sentì incrostati. E il senso di vuoto e di sconforto la ricoprì come un mantello di cemento. Alessio mugugnò mentre tirava le braccia e sbadigliava. «Per fortuna, alla fine hai preso sonno.» Michela strisciò nel letto all’indietro. Si alzò lenta, pose i piedi sulla moquette con titubanza. Girò la testa e gli lanciò una rapida occhiata. «Scusa.» Cercò la maglietta e la infilò. «È stato l’incubo peggiore di tutta la mia vita.» Barcollò verso il bagno sentendo il suo sguardo dubbioso addosso. Chiuse la porta senza voltarsi. Aprì il rubinetto del lavandino. Poggiò le mani sulla ceramica con la bocca aperta. Si guardò nello specchio. Sembrava il solito… Aveva gli occhi arrossati e cerchiati. Le palpebre gonfie con i rimasugli di sale. Appariva come quando Alessio l’aveva lasciata, come quando il suo compagno di classe Corelli morì schiantandosi col motorino, come quando era morta la nonna … Il solito dolore intenso che le attanagliava l’anima. «Le mie lacrime sono finte» sussurrò mordendosi il labbro. «Il mio dolore non è vero.» Chiuse gli occhi cercando di convincersene, ma non ci riusciva. Si bagnò il viso. Sentì l’acqua fresca solleticarle la pelle. Alessio bussò alla porta. «Scusa, non per metterti fretta, ma devo essere all’Hilton per le analisi tra quaranta minuti. Ti spiace se faccio la doccia?» Michela esitò. Doveva pensare, riflettere.

«Tutto bene?» Michela aprì la porta. Annuì sforzandosi di sorridere. Lui la fissò perplesso. «Allora?» «Cosa?» Alessio si appoggiò allo stipite della porta. «La doccia. Sono anche già pronto.» «Prego, fai pure» rispose uscendo dal bagno con le goccioline che le scendevano sul collo. «Stai bene?» Le prese la mano. Annuì in silenzio trascinando i piedi. Alessio la trattenne. La tirò verso di lui. Michela indietreggiò indolente. «Sicura?» La fissò tenendole delicato il mento. Michela restò con lo sguardo basso. Annuì ancora. Cercò di baciarla, ma lei girò il volto. Andò a sedersi sul bordo del letto. Sentì aprire lo spruzzo della doccia, la porticina di vetro scorrere nella fessura e un grido. «Cavolo! Ma è bollente!» Michela lo guardò cercando di notare qualcosa di diverso. Ricordava i più piccoli dettagli del suo corpo. Anche se la sagoma era leggermente deformata dal vetro ruvido, vide la cicatrice che gli interrompeva la colonna vertebrale nel mezzo della schiena. La chiazza, simile a una stella, sull’avambraccio sinistro. E vide anche il neo sul ventre. Era il solito. Fissando il corpo di Alessio impazzì all’idea che fosse finto. «È tutto finto…» sussurrò tremante. «Amore?» la chiamò.

Michela sobbalzò. «Sì.» Alessio spostò il vetro. La guardò con un occhio solo. «Ho lasciato il flacone dello shampoo nei pantaloni. Me lo prendi?» «Certo.» Si alzò. Frugò nella tasca. Trovò la bottiglietta gialla dell’Hilton. Era la solita. Gliela portò. «Eccola.» «Grazie.» La mano bagnata sfiorò la sua. «Senti, posso farti una domanda?» «Certo.» Alessio la fissava con mezzo volto dietro il vetro, le mani in testa avvolte dalla schiuma. «Sei triste perché oggi ci sposiamo e non ci sono i tuoi? Oppure perché non hai l’abito bianco?» Inclinò la schiena per sciacquarsi. «All’abito possiamo rimediare.» Sollevò le braccia per togliersi la schiuma superflua sul fianco. «Ci sono dei negozi speciali. Almeno per quello, che dici?» Chiuse l’acqua. Spostò del tutto il vetro e uscì con o privo di vergogna. «Vuoi che anch’io indossi un completo?» Le si avvicinò. «Facciamo un po’ di foto. Lo so che non è quello che volevamo, ma quando sarà tutto finito faremo una bella festa.» Accennò un sorriso. Scrollò la testa veloce schizzandola con la pioggia profumata all’iris. Michela alzò le mani di scatto per proteggersi. «Che fai? Che scherzo stupido!» gridò e uscì rapida dal bagno. Alessio uscì in silenzio. Girò intorno al letto in cerca dei vestiti. Infilò i boxer e i pantaloni quasi insieme. «Mi spiace, era uno scherzo stupido. Hai ragione.» Infilò le scarpe. Osservò l’ora. «Devo andare» borbottò mettendosi la maglia. Appena toccò la pelle bagnata, il colore s’intensificò a chiazze. «La colazione è meglio se la fai allo Starbucks.» Prese il portafogli. «Ti lascio qualcosa anche per il taxi.» «Non mi servono i tuoi soldi. Mi arrangio da sola. Credevo di avertelo già dimostrato, no?» disse incrociando le braccia. Non avendo risposta, lo guardò di striscio. Alessio la fissava da dietro i ciuffi bagnati. Richiuse il portafogli con un sonoro

tonfo, lo mise in tasca. Michela percepì nell’aria un crescendo di tensione. Il suo respiro si fece marcato. «Bene» esclamò secco. «Posso chiederti dove ci incontriamo dopo?» Portò le mani sui fianchi. «Vorrei evitare di rigirare la città come ieri sera.» «Qui andrà benissimo» rispose restando impalata nella posa. «Tra un’ora e mezza qui, allora.» Michela sentì il suo volto sempre più vicino. Rimase rigida. «Non mi sono lavata i denti, scusa.» Alessio la baciò sulla guancia. «Allora vado.» «Ciao.» Smosse appena il viso per vedere se stesse davvero uscendo. Lui indietreggiava lento con lo sguardo basso. «Ancora qui?» sbuffò. «Perché fai così?» le domandò portando la mano alla tempia. «Perché mi gira così e basta.» «Ho fatto qualcosa di sbagliato mentre dormivo?» Si massaggiò la fronte. «Tu che dici?» Puntò la gamba. Il piede ondeggiò stizzoso. Alessio strinse gli occhi infastidito. Le dita puntavano la tempia. «Che hai?» gli chiese sciogliendo la posa rigida. «Nulla, tranquilla» rispose con la voce sofferente. Michela si avvicinò. Allungò la mano per toccargli la spalla, ma lui buttò la testa giù di colpo. «Una fitta, ma tra poco a.» Si accasciò in ginocchio. Michela lo teneva per le spalle, mentre Alessio si stringeva la testa con entrambe le mani. Respirò con affanno a lungo. «Ecco. Sta ando» disse mettendosi seduto.

Michela cercò di alzarsi, ma lui la trattenne. «Di che mi ami come questa notte.» «Lo sai, no?» «Ho bisogno di sentirmelo dire, ancora.» Le si avvicinò. «In fondo, a pranzo ci sposiamo. No?» Michela sentiva il suo fiato sul collo. Cercò di svincolarsi. «Lasciami.» Lo spintonò via con forza. «Ho detto di no!» gridò. Alessio cadde all’indietro sbattendo sul mobile del televisore. Michela portò le mani alla bocca. Lo fissava dispiaciuta, mentre lui restava immobile con gli occhi che sembravano cercare risposte nel pavimento. Le mani si serrarono in pugni graffiando la moquette. «Scusa, Ale. Non volevo. Ti sei fatto male?» «Cos’è successo che è cambiato tutto?» le chiese fissandola d’improvviso. Michela ebbe un brivido. «Solo un incubo.» «Non è così. Mi stai mentendo.» Inclinò la testa di lato. «Ti sbagli.» Si alzò barcollando per un improvviso giramento di testa. Si appoggiò al mobile. «Che mi succede?» Alessio l’afferrò per le braccia. «Ci sono io, andrà tutto bene.» Michela s’appoggiò, le gambe erano molli. Stava per accasciarsi quando lui la sollevò. La portò a letto e la sdraiò con cura. Le spostò i capelli all’indietro. «Rilassati. Ci penso io.» Alessio si toccò l’orecchio. Sembrò afferrare qualcosa. Si chinò su di lei. «No, lasciami» riuscì solo a dire mentre le palpebre si chiudevano.

Nel Limbo nulla è reale Appena Michela riprese i sensi, la prima cosa che vide fu il volto di Alessio sul suo. Il caldo tocco della mano che le sfiorava la guancia. «Buongiorno, dormigliona» le sorrise. Michela sentiva il formicolio in tutto il corpo. Cercò di serrare i pugni senza esito. «Ti ho portato la colazione e un’altra cosa.» Le indicò la porta del bagno mentre si sedeva a bordo del letto. Appeso a un ometto, c’era uno splendido abito da sposa bianco. Il bustino era un trionfo di pizzo con la scollatura a cuore e senza spalline. In vita, una fascia di seta rosa col fiocco. La gonna era ampia e all’altezza del ginocchio. Fino al giorno prima, si sarebbe commossa. «Che cosa mi hai fatto?» gli chiese fissandolo. «Io? Nulla. Hai avuto un calo di pressione, suppongo.» Sul volto di Alessio si spense il sorriso. «Non ti piace il vestito?» Si sfregò le mani. «Sei dubbiosa. È evidente. Se non vuoi più che ci sposiamo, lo capisco.» «Mi hai baciato mentre dormivo?» «Ti bacio sempre mentre dormi.» Alessio si alzò. «Ma il problema è un altro.» Ravvivò i capelli sulla nuca. «O sbaglio?» Michela cercò di sollevare il busto strisciando lungo il letto. Alessio l’aiutò. «Non toccarmi» gli disse a denti stretti. «Va bene, va bene.» Sbuffò. «Ti ho preso il cappuccino e due cornetti.» Indicò il vassoio sul comodino. «Così riprendi le forze.»

«Come hai potuto?» gli chiese quando toccò la spalliera del letto. «Mi dispiace, va bene?» Alessio infilò le mani nelle tasche. «Quante storie per un bacetto.» «Sappiamo tutti e due che non è così. Che mi hai fatto?» Alessio si bloccò. «Io? Michela, scusa, mi addormento col pensiero del matrimonio. Mi sveglio e non vuoi nemmeno baciarmi. Non ti farò la battuta sulla tomba dell’amore, però sono preoccupato.» «Basta con le battutine. Non funziona.» Fece una pausa mentre Alessio deglutì vistosamente. «Non sei riuscito a prendere le informazioni, vero? Ora che ho il libero arbitrio, non puoi.» Ghignò. «Questo fa ridere, amore.» Lo schernì. «Ah, già! Hai trovato un file crittografato. E cerchi di farmi parlare perché non riesci a decifrarlo, vero?» Alessio barcollò fino a toccare la porta con la schiena. «Non doveva accadere. Non così.» Si toccò la testa. «Non dopo tutto quello abbiamo ato.» «Perché non mi hai mai detto nulla?» «Ho provato!» le disse con la voce disperata. «E più volte. Ma tu non hai mai colto. Così ho capito che non eri pronta.» Si massaggiò la fronte. «Anche ieri. Io credevo che avessi intuito qualcosa. Poi, ho visto che avevi solo delle sensazioni e ho lasciato stare.» Le sorrise appena. «E poi, ora è tutto nuovo anche per me.» «Nuovo?» Michela alzò un sopracciglio. «Ma se sei una copia?» Alessio sgranò gli occhi. «Cosa sarei?» Michela chinò il capo dubbiosa. «Senti, se mi lasci fare non sentirai nulla. Te lo assicuro.» Le si avvicinò. Allungò la mano. «Se mi tocchi, giuro che ti mordo.» «Ti prego. Io devo sapere» la supplicò. «Allora, raccontami tu cosa è successo. Ti ascolto.» Si sedette vicino a lei.

«No. Ho bisogno di tempo per pensare.» «Pensare a cosa?» Alessio strinse i pugni. La guardò serio. «Sono io che ti ho sempre difeso. Loro volevano eliminarti!» Si alzò d’improvviso e indicò la finestra. «Te l’hanno detto? Quando ci siamo conosciuti, ti avrebbero gettata via non appena avessi varcato l’ascensore. Se non fosse stato per il mio bio-drink, tu non esisteresti. Come puoi essere dalla loro parte, ora?» «Non sono dalla loro parte!» «Ma non sei nemmeno dalla mia!» Il tono della voce crebbe. «Io credevo che fosse tutto reale! Dannazione!» Gridò disperata. Respirò per cercare di calmarsi. Alessio attese «È reale» le sussurrò tornando a sedersi. «Noi siamo uniti veramente. Tu mi hai sentito. E questa notte è stato diverso. Non puoi non essertene accorta.» «Nel Limbo nulla è reale.» Singhiozzò. «Io non sono reale. Tu non sei reale. E quello che sentiamo non è reale.» Lo indicò. Alessio scosse il capo. «Non dire così, ti prego.» «Non è amore il nostro» mentre lo diceva sentiva di mentire a se stessa. «È solo un perfetto scambio di feed-» Alessio gridò balzando verso la parete. Diede un pugno al muro. Una crepa elettrificata sfarfallò di un’intensa luce blu. Michela osservò la crepa digitale come l’apparizione di un demone risalito dall’Inferno solo per avvisarla che non ci sarebbe stato mai un Paradiso per quelli come lei. La perdita delle sue credenze e delle sue certezze era un qualcosa che ancora non era disposta ad accettare. Forse era stata programmata così. Forse cercando tra i suoi dati, avrebbe trovato il modo di eliminare tutto questo. «Ti hanno corrotta, non lo capisci?» le disse poco dopo. «Avevamo del

vantaggio. Noi possiamo farcela, ma se non condividi le tue informazioni con me, sarà la fine.» «È quello che dice anche lei: sarà la fine.» Riuscì a piegare le gambe e mettersi seduta appoggiando i piedi sul pavimento. «Lei? È con Ghost che hai parlato?» Michela rimase in silenzio. Provò ad alzarsi. Barcollò, ma per poco. Alessio le si parò davanti. «Stai con me, ti prego.» «Noi elaboriamo i sentimenti, vero?» Gli accarezzò la guancia. «Io ho creduto di amare Alessio Merisi e invece avevo una connessione con Bio.» Alessio sgranò gli occhi. «Cosa c’entra Bio? Perché dici questo?» Le afferrò la mano. «Io sono Alessio.» «Siete in due, allora?» Lui indietreggiò e la guardò storto. «Bella prova. Sei tu ora che stai cercando di farmi parlare.» Scosse il capo. «Ti ho resa mia pari, ma non esageriamo.» «Dimmi la verità, allora.» «Dimmi tu, la tua.» Alessio infilò le mani in tasca e sospirò. «A quanto pare, siamo in stallo.» Si girò e serrò la mascella. «Non posso credere che tu voglia buttare via tutto in questo modo.» «Forse, quello che mi hanno detto, è stato convincente.» «No! Ti hanno fatto qualcosa.» Sbatté più volte le palpebre. «Io posso salvarti.» Serrò gli occhi. Portò le mani alle tempie. «Lo so che fingi, dai.» Alessio s’inginocchiò chiudendosi a guscio. «Ho detto no! Dammi tempo» disse gettandosi in terra. «No! Non la lascio qui.» «Con chi parli?» gli chiese perplessa, ma lui non le rispose. Iniziò ad avere un dubbio. «È Ghost che ti fa questo?»

«Vai via, Michela» disse a fatica Alessio aprendo gli occhi di scatto. Erano bluastri come quella volta della pillola. Le vene sul collo pulsavano. «Ale?» Alessio alzò il braccio e la porta della stanza si spalancò.

Uscita d’emergenza Michela vide una camera da letto dove invece avrebbe dovuto esserci la strada. Una scrivania con un computer portatile e un pupazzo a forma di procione. «Quella è la mia stanza.» «Corri!» disse Alessio poco prima di raggomitolarsi per una nuova fitta. Michela strinse i pugni. «Non ci sto capendo più nulla.» Camminò più veloce che poté verso l’uscita. La oltreò sentendo un fremito come quando aveva oltreato la finestra luminosa. Si voltò. Alessio si alzò di scatto. Eretto, rigido. La fissava con gli occhi glaciali che spuntavano da dietro i ciuffi proprio come l’altra volta. Michela afferrò la maniglia e tirò la porta mentre Alessio iniziava a correre verso di lei. L’afferrò anche con l’altra mano. Puntò il piede al muro aspettandosi che lui cercasse di aprirla. Restò immobile e in tensione per un po’ ma non accadde nulla. Rilassò le spalle. Levò il piede dal muro. Guardò dalla serratura. Vide il mobile basso del corridoio vicino alla porta della camera dei suoi genitori. Girò appena la maniglia. Buttò un’occhiata rapida. «È proprio casa mia, questa» sussurrò uscendo nel corridoio. «Michela?» Sentì precipitare a terra delle porcellane. Sobbalzò per lo spavento. «Mamma…» «Quando sei arrivata? Da dove sei ata?» Iniziò a borbottare la madre in mezzo ai cocci e al minestrone, in fondo al corridoio. «Che hai fatto ai capelli?» Avanzò strisciando i piedi. «Non eri al lago con Antonella? Hai partecipato a qualche droga party perché soffri ancora per Alessio?» Michela la fissava perplessa. Era sua madre, la sentiva come tale almeno.

«Su, su. Ci siamo ati tutti. Il tempo guarisce ogni ferita. Non è la fine del mondo.» L’abbracciò. «Non pensare più a quello là. È sempre stato solo un problema.» L’abbraccio s’intensificò insieme a un anomalo sentore plastico. «Mamma, non dovresti essere al paese? Che ci fai qui a casa?» le chiese allontanandola. Le iridi erano dilatate a tal punto che vide il vuoto dentro quel programma che le appariva molto simile a sua madre, ma che non era come il solito. «Mamma?» sussurrò sentendo una lama sottile nel fianco.

Bio o Alessio? Michela gridò. La lama continuava a entrare in lei lenta. La gamba destra quasi non la sentiva più. Le afferrò il volto e iniziò a spingerla. L’indice entrò nella guancia di quel programma con una leggera scintilla e un formicolio. Un graffio nella codifica. «Lasciami!» D’improvviso le esplose davanti un misto di cenere e sangue. E sentì le braccia di Alessio avvolgerla. «Perché sei uscita?» le disse afferrandola rapido. Lo sguardo era tornato quello di sempre. «Ti ho mandato in camera tua. Dovevi restarci. Fuori non è sicuro. Presto.» La portò dentro la stanza in un lampo. Chiuse la porta forzando la maniglia al contrario come in albergo. «Devo vedere la frattura.» Michela sollevò la maglia. «Cos’era quella cosa? Non era mia madre, vero?» «La tua famiglia è al sicuro. Non ti preoccupare. Quello, era un ivo del sistema» le spiegò toccandole la ferita. «Ha tentato di inserirti un localizzatore. Non ha ato la barriera, ma devo togliertelo lo stesso.» «Va bene» prese fiato stringendo il cuscino. Sentì centinaia d’intrusi, freddi e acuminati, invaderle la carne, i muscoli e le ossa. Poi, più nulla. Solo dell’indolenzimento. «Fatto.» L’avvisò stringendo un pisello argentato tra le dita. Lo schiacciò creando una scintilla. «Chi sei veramente?» «Tu chi credi che io sia?» «Bio?»

«No. Alessio.» «E con chi parlavi, prima? Non stavi fingendo? Con chi stavi litigando?» Alessio non le ripose. «Come ti senti?» le chiese dopo. Michela si toccò il fianco. La gamba era tornata sensibile. Mosse il piede. «Sembra tutto a posto.» «Allora, gli eventi sono precipitati.» Le sfiorò la mano. «Io ti amo. Ho fatto tutto questo per renderti libera. Per portarti con me.» Le accarezzò il viso. «Io vorrei dirti tutto, ma non posso qui. Verresti con me? Sei disposta a sentire la mia verità? Poi, deciderai tu sola cosa fare.» Non ebbe dubbi. «Va bene. Raccontami tutto, Alessio Merisi.» «Preparati. Abbiamo 4 minuti prima della scansione del sistema.» L’avvisò indietreggiando. «Ho freddato la stanza, ma dobbiamo spostarci nella successiva o ci troveranno ancora.» Andò alla finestra. Michela comprese che nella Matrice Limbo, quando i fattori diventano attivi e con il libero arbitrio come lo era diventata lei, non serviva più prendere l’aereo o l’auto. Attendeva la verità di Alessio insieme alla speranza di capirci qualcosa per fare la cosa giusta: salvare colui che amava.

16 - Bio Collusion and Collision

L’ipotesi per una collusione si realizza alla presenza di un accordo tra entità per il conseguimento di un obiettivo comune: sopravvivere alla collisione delle membrane.

I volti di BIO 03 «Allora, focalizziamo dei punti» disse Bio. «Il progetto in maturazione è identificato come BIO 03 e comprende tre entità distinte. Come Freud scindeva la personalità in tre componenti chiamati Es, Io e Super-Io, il Progetto BIO 03 è composto da Alessio Merisi, Cyberpunk e Zero Tre. Partiamo dal primo.» Indicò il nome sul monitor gigante. «Alessio Merisi è il ragazzo che abbiamo conosciuto nei filmati attraverso i cristalli di Michela e che ha registrato un video mettendolo in Rasputin. Ci siete fin qui?» «È sempre lui.» Rasputin annuì appoggiando i gomiti sul tavolo di metallo. «Anche secondo voi?» chiese Bio guardando gli amici. Null annuì mentre si lucidava una dreadlock. Seduta sulla panca intinse il dito nella ciotola ovale, piena di gel bianco. «Ergo, Overflow, a voi torna?» «Direi di sì.» Ergo appoggiò la schiena alla parete mettendosi a lato di Rasputin. Overflow fece spallucce. «Io vorrei solo sapere perché vi siete insediati nel mio appartamento a chiarirvi le idee.» Lo guardò mordicchiandosi il labbro. «Come se a me fregasse qualcosa.» Bio sospirò cercando di restare calmo. «Dov’eri quando c’è stata l’ultima scossa?» gli chiese ironico. «Non hai capito che la Matrice ha dei problemi?» Mosse un o verso di lui. Pose il palmo sul tavolo e gli toccò la spalla sentendo il tremore che lo invadeva. «Nelle ultime tre ore sono collassati troppi server e tutti insieme per essere una coincidenza. Sergey ha fatto evacuare due G, il Biondo ben cinque Gt. Tu hai la discarica piena.» «Io non riesco ad accettare di essere nel Limbo. Io sono sorto nel G. Io esisto qui da sempre. Quello che dici è assurdo. Io…» Overflow abbassò la testa di lato.

«Lo so che è difficile, ma questo in cui esistiamo è il Limbo. Se non capiamo con chi abbiamo a che fare e come uscire, cesseremo di esistere quando collasserà la Matrice» gli disse serio. Overflow lo fissò in silenzio poco prima di annuire, il tremore sembrò quietarsi. «Va bene, va bene.» Bio gli diede una pacca sulla spalla di conforto. «Forza, stiamo concentrati sul presente. Dobbiamo trovare una soluzione.» Tornò al monitor. La foto di Alessio Merisi condivideva lo spazio con altre due. «Alessio lo abbiamo inquadrato. Ora veniamo a Cyberpunk; il bastardo che ho trovato in Ghost e che mi ha infilato quella specie di localizzatore.» Indicò l’istantanea che aveva creato di Cyberpunk poco prima di decompilarlo. La pelle incatramata e i capelli unti lo distinguevano da Alessio Merisi. «Questo era Cyberpunk.» Rasputin afferrò un gomitolo di stringhe isolandolo dagli altri. «E non ci disturberà più.» Bio segnò con una croce il volto di Cyberpunk. «Sappiamo che Alessio lo evocava e lui non rispondeva e sappiamo che aveva contatto diretto con la nostra maggiore incognita: quello che identificano come Zero Tre.» Indicò un volto scuro con un punto di domanda nel mezzo. «Dobbiamo capire chi è» disse Ergo. «Io propendo per un cos’è» aggiunse Bio solleticandosi il mento. «Nei ricordi della dottoressa Merisi che ho visto in Ghost, c’erano dei dettagli che mi hanno dato un’idea.» Prese fiato. «Io credo che Zero Tre sia una mente quantistica.» Ergo sussultò. «Quindi il Limbo è una matrice quantistica.» «Già.» Rasputin si schiarì la voce. «Questo dovrebbe dirci qualcosa, vero?» «Se il Limbo è quantistico vuol dire che noi non esistiamo in una simulazione, ma in una membrana» spiegò Bio sforzandosi di contestualizzare la possibilità di essere parte concreta di un pionieristico progetto divenuto realtà.

«Eh?» «Un universo in scatola.» Null guardò Rasputin di striscio. «Secondo te, perché mi sto ando il gel sulle dreadlocks?» «Me lo stavo domandando, infatti.» Bio si sedette al tavolo davanti a Rasputin. «La dottoressa Merisi potrebbe aver creato un universo in laboratorio e aver collegato il Progetto BIO, acronimo di Biological Intruder of Operating systems, un organismo biologico per farlo maturare.» Rasputin restò in silenzio. «Ti spiego cos’è la membrana. O meglio, quello che era una teoria del XXI secolo, ma che oggi potrebbe essere la realtà in cui esistiamo» disse nel vedere l’espressione dubbiosa sul volto dell’amico.

La Teoria M «Si pensava che l’universo potesse essere una membrana creata dalla vibrazione di stringhe.» «Che non sono le stringhe informatiche.» Rasputin lo guardò basso. «Infatti, no.» Bio si schiarì la voce. «Ancora prima, si pensava che la materia fosse fatta di particelle. Nel XXI secolo, i fisici hanno scoperto che non erano particelle, ma stringhe minuscole.» «Ho capito di cosa parli» intervenne Ergo. «Era chiamata Teoria delle Stringhe. Diceva che dalla vibrazione delle stringhe si emanava la materia come musica.» «Quella, esatto» lo additò Bio. «Mentre mi operavate ho sentito una sinfonia. La sinfonia della membrana. O di quest’universo se preferite.» «Non era stata confermata, però. Molti dissero che da Teoria del Tutto era più che altro una Teoria del Nulla.» Ergo spostò il ciuffo vicino alla placca metallica. «E poi è sorto il problema degli universi paralleli, se non ricordo male, e delle undici dimensioni.» «Undici dimensioni?» Bio annuì. «Ogni singola stringa in vibrazione doveva avere spazio a sufficienza per oscillare. Se si estrapolavano le coordinate, si otteneva che lo spazio aveva undici dimensioni, tutte spaziali tranne una temporale.» «A quel punto,» disse Ergo «la Teoria delle Stringhe unita all’undicesima dimensione portò alla Teoria della Membrana.» «O Teoria M, la teoria madre dell’universo.» Bio guardò Rasputin annuendo. «Scoprirono che tutta la materia nell’universo era connessa in una vasta struttura, una membrana appunto. Un’intricata membrana di energia.» «Comunque,» lo interruppe Rasputin «qui stiamo parlando di teorie del ato. Perché credi che esistiamo in una membrana?»

«Noi non sappiamo in che epoca siamo davvero.» Bio poggiò i gomiti e si afferrò il mento. «Susanna Merisi parlava di una guerra che non conosco e dell’Italia come se non ci fosse più.» Sospirò ripensando al ricordo nell’aula scolastica. «Forse, è riuscita a farlo. Forse il Limbo è un contenitore di membrane e noi siamo in una di queste.» «Membrane? Perché ora parli al plurale?» «La Teoria M ipotizzava più membrane, più universi che coesistevano.» Rasputin sgranò gli occhi. «Quindi, Alessio e Michela che vivono nel XXI secolo esistono in una membrana diversa dalla nostra?» «Credo di sì. La Teoria M si arricchì di nuove ipotesi. Una di queste diceva che le membrane si toccassero nell’undicesima dimensione. E arrivò la conferma grazie a degli studi sulla forza di gravità.» Bio afferrò un gomitolo di Cyberpunk e iniziò a arlo di mano in mano facendolo ruotare veloce come le sue riflessioni. «In pratica,» continuò Ergo «la forza di gravità è una forza debole perché arriva dalla membrana collegata.» «Quindi, le membrane non sono tutte uguali?» «Quella da cui proviene la gravità, in teoria, dovrebbe essere costituita da un altro tipo di materia. Altre particelle diverse di cui non si conoscono le interazioni.» «Le membrane potrebbero essere a tre dimensioni o semplici falde d’energia, in fondo» spiegò Ergo. «E di molte forme. Tutte fluttuano e si spostano.» «E che succede se si scontrano?» chiese Overflow. «Se lo sono chiesti anche i fisici.» Bio girò la testa e lo fissò. «Anzi, alcuni hanno ipotizzato che quando due membrane si toccano, si crea una collisione molto simile al Big Bang.» Ondeggiò le dita come per suonare un’arpa dalle corde invisibili. «Le membrane hanno delle increspature sulla superficie, proprio perché la materia non è sparsa in modo uniforme. Quando due membrane collidono, lo fanno in modo asincrono e in diversi momenti creando delle onde d’energia.»

«Quindi Cyberpunk aveva quell’aspetto così strano perché ava da una membrana all’altra?» «Bravo Overflow, hai capito perfettamente.» Bio si alzò. «Cyberpunk ha detto che risalire il flusso era come ardere vivi.» Tornò al monitor. «Se ipotizziamo che la dottoressa Merisi abbia creato il Limbo e che ci siano al suo interno più membrane, diverse tra loro, allora è logico supporre che sia possibile spostarsi per chi come Cyberpunk è a conoscenza delle coordinate giuste.» «Alessio però non mi sembra bruciacchiato. Lui non si sposta» disse Rasputin. «Oppure, non lo sa.» Bio alzò il sopracciglio rimarcando l’altra possibilità. «Forse, lui crede a una simulazione digitale. Forse solo Cyberpunk e Zero Tre sanno delle membrane. Infatti, Cyberpunk non ha più risposto alle chiamate di Alessio perché il dolore era troppo elevato, ma non gli ha mai dato una motivazione.» «In effetti, Alessio sembrava disperato per l’assenza di Cyberpunk.» Rasputin sembrò prendersi alcuni momenti di silenzio per puntellare le prime ipotesi valide. «Quindi, il Limbo è un contenitore di membrane, due come minimo. In una esistiamo noi, nell’altra Michela e Alessio. Queste due membrane sono collegate dal flusso dati energetico. Fin qui, ci siamo.»

Il flusso dati d’energia «Cyberpunk risaliva il flusso» proseguì Bio. «Perciò, la membrana dove esiste Alessio è in direzione del nostro cielo.» «Non torna una cosa» disse Ergo. «Cyberpunk e Alessio parlavano di substrato, quindi la membrana in cui esistiamo noi sembra essere secondaria in entrambi i casi.» «O di o» continuò Bio. «Stai dicendo che noi siamo il cestino della membrana primaria?» chiese Overflow stranamente disgustato. «Quindi tutti i malware che arrivano da noi, hanno quell’aspetto perché ano da una membrana all’altra?» «Secondo me, sì» annuì Bio. «Questo spiegherebbe perché dai nostri server piovono fake, programmi, applicazioni, malware e messaggi cristallizzati.» «Alessio e Michela coesistono con noi.» Rasputin intrecciò le dita sopra la testa. «È tutto in contemporanea.» «Sì, anche se non credo che il tempo sia sincronizzato proprio per la differente natura delle membrane. Diciamo che viaggiamo in parallelo.» «Domanda.» Rasputin lo fissò serio. «Perché io che arrivo dall’altra membrana non sono bruciacchiato come Cyberpunk o i malware?» «Overflow ha detto che ti hanno trovato in un bozzolo cristallizzato, come i messaggi di Michela.» Lo additò. «Questo è successo perché Alessio e Michela hanno compattato e protetto i dati prima di utilizzare il flusso energetico. I malware, invece, viaggiano senza protezione.» «Questo la dice tutta sul perché siano tanto incazzati» scherzò Rasputin. Bio accennò un sorriso prima di disegnare sul monitor una sfera grande come una palla da calcio. «Tornando a noi e al flusso» disse mentre la sfera diventava trasparente con delle increspature sulla superficie. «Fingiamo che questa sia la

membrana in cui esistono Alessio e Michela.» Il lembo ondeggiava come carta velina ruvida mossa dal suo stesso respiro. «Ora, per la nostra improvviso una forma diversa tanto per non confonderci.» Iniziò a disegnare una ciambella sotto la sfera. «Diciamo che questa ciambella è il substrato, ossia la membrana di o.» Tirò una riga verticale dalla sfera fin dentro il buco della ciambella, scendendo oltre. «E questo potrebbe essere il flusso dati che unisce loro e noi fino alla sorgente.» «La sorgente è Zero Tre.» «Zero Tre è anche la nostra anticamera per l’uscita.» Bio gli fece l’occhiolino. «Lui è in contatto con Alessio come lo era con Cyberpunk, ma proprio perché Cyberpunk doveva risalire il flusso per comunicare con Alessio, sappiamo in che direzione si muove il fiume di dati.» Bio disegnò una freccia verso il basso che dalla sfera ava dentro la ciambella. «Quindi, sappiamo dove andare per uscire, ma dobbiamo trovare il modo di neutralizzare Zero Tre. E l’unico che potrebbe distrarlo è Alessio.»

Alessio è un amico o un nemico? «Alla fine, Alessio sa o no della membrana?» gli chiese Overflow. «Questo è un bel dubbio: sa che il Limbo è quantistico o no?» Bio si grattò in testa sedendosi. «Potrebbe essere un nostro alleato o no?» «Nell’unico filmato registrato da Alessio, lui sembra in conflitto con Zero Tre» disse Ergo. «Giusto. Lui sembra anche succube del sistema pur sapendo di vivere una simulazione» disse Rasputin. «E questo non torna. Sempre che non sia un gran masochista.» «Ti riferisci al fatto che è caduto in disgrazia e con una vincita alla lotteria poteva risollevarsi subito, vero?» «Anche!» sbottò l’amico. «È vero che sembra ossessionato da Michela. Diceva che faceva tutto per lei, che imparava in fretta…» «Poverina, lei non sa nulla di nulla» disse Null col broncio. «Fermi un attimo!» Bio scattò in piedi portando le mani in testa. «Ho curato per tredici mesi un fake» esclamò scuotendo il capo. «Quella non era la vera Michela. Ma certo, ora qualcosa comincia a essere chiaro.» «Tu hai estratto il fake di Michela che era stato inserito da Alessio proprio per proteggere la vera Michela» disse Rasputin. «Lui la sta istruendo in qualche modo e lei non se ne rende conto.» «Alla gara» s’intromise Ergo con l’espressione stupita. «Quando prende la pillola, Alessio afferma di non doversi svegliare e di sapere di esistere in una matrice. E anche dopo, nell’altro filmato quando scoprono che il suo amico è in coma.» Incrociò le braccia incredulo. «Alessio le dice che potrebbero essere dei programmi che elaborano di essere umani. Lui ha provato a dirle del Limbo, ma lei non ha afferrato. E nemmeno noi.»

«Quindi, io ho scaricato il fake di Michela creato da Alessio. Lui l’aveva inserito nella Matrice così il sistema non avrebbe avvertito tutte le modifiche che le sta facendo per portarla fuori.» «Se succede qualcosa a Michela, lei finisce qui da noi come un malware?» chiese Overflow. «È per questo che Alessio è così straccia-captcha?» «Non credo.» Bio scosse la testa. «Andrebbe persa, in tutti i sensi. Per il sistema è un’anomalia come lo sono io.» Fece una pausa. «E comunque non sappiamo perché Michela mi manda i suoi ricordi.» «L’unica sarebbe avere altri filmati» disse Rasputin. «Ne abbiamo visti solo sei. Li abbiamo lasciati che ballavano in piazza dopo la gara al Babelpunk.» «Ma il Side 5 di Tokyo è collassato» disse Overflow. «Come si fa per vedere se ce ne sono altri?» «Ci penso io!» disse Null. «Recupero i messaggi.» Ciondolò la testa. «E magari trovo l’indirizzo di Zero Tre.» «No» esclamò Bio serio. «Il tuo compito è d’inserirti nel flusso dati, non di entrare in contatto con Zero Tre, mi raccomando.» Null sbuffò. «Ricevuto.» «Se Michela non sa di essere un programma» disse Overflow «come fa a mandarti i cristalli?» «Non ne ho idea. Ecco perché potrebbero essere dei falsi creati da Zero Tre.» «È rassicurante» scherzò Rasputin. «Io ho un gran mal di testa, invece.» Overflow sbuffò incrociando le gambe. «Alla fine, che ci frega di quei due? Organizziamo la nostra fuga e basta, no?» «Purtroppo, non è così semplice» sospirò Bio. «Avrai notato che tutti quelli che fuggono dall’altra membrana e vengono da noi si ammalano di ASM, no?» «Che c’entra l’ASM ora?»

Cos’è l’ASM «L’ASM l’ha creato Zero Tre.» «Ah!» sbottò Overflow. «È un bastardo quantistico, allora.» «Sei sicuro?» gli chiese Ergo. «L’ASM potrebbe essere opera di chi controlla il Limbo, della Shiba. Una difesa contro i programmi che tentano la fuga.» «Alla Shiba non interessano i programmi che fuggono perché al massimo finiscono qui da noi. Tu sei un esempio. Ecco perché sono convinto sia Zero Tre l’ideatore. In più Cyberpunk mi ha dato una conferma quando ha detto che lo gestiva lui.» «L’ha fatto per stanarti» sentenziò Ergo. Bio annuì. «Se io sono l’anomalia, lui non può interagire con me. Ha creato un malware sulle connessioni apposta per cercarmi attraverso gli altri.» «Anche la mutazione dell’ASM è sempre opera sua, allora?» «Sì. Qualcosa l’ha spinto ad accelerare i tempi.» «Non è che all’inizio credeva tu fossi nell’altra membrana?» chiese Rasputin. «Probabile. Oppure, siccome qui lui non riesce ad accedere come vorrebbe, ha creato l’ASM nell’altra membrana e ha costretto Cyberpunk a cercarmi in questa.» Ipotizzò la motivazione più plausibile. «Io servo per l’uscita, non per uscire. Cyberpunk ha detto così. Sembra una sfumatura, ma cambia il concetto.» «Forse perché tu eri il progetto precedente e ti eri già sconnesso.» «In realtà, ho collassato tutto, ma forse lui non lo sa.» «Bio, anche tu avevi tutte queste personalità frammentate?» gli chiese Overflow. «No. Io ero convinto di essere Alessio Merisi. Vivevo in Milano ed ero un ragazzo normalissimo. E chissà, forse anche il Progetto BIO 03 era così

all’inizio. Magari, è successo qualcosa che l’ha separato. Un trauma.»

Il trauma e i conflitti «Il pedofilo» disse Rasputin. «Cyberpunk ha detto di essere intervenuto. Alessio ha reagito in quel modo animalesco perché quell’esperienza sarebbe stata condivisa.» «Erano ancora collegati» continuò Bio annuendo. «Però, quell’evento ha suscitato una prima frammentazione. Il loro potrebbe essere stato un lungo percorso di autoconsapevolezza. Forse non è stato semplice comprendere di essere tre parti di un’unica entità connessa a una matrice.» «Però,» intervenne Ergo «oltre a quello ci deve essere stato dell’altro. Una serie di conflitti. Se Alessio è così vittima della simulazione da cercare sempre Cyberpunk, che è sempre esistito come soldato dormiente nella sua testa, vuol dire che Zero Tre non era in grado di compensare quel vuoto.» «Gli mancano dei dati, allora. Ieri come oggi.» «Ci devono essere dei conflitti che non riesce a elaborare.» «Uno dei conflitti sei tu» gli disse Overflow. «O no?» «Potresti aver ragione.» Bio restò in silenzio un momento. «Come Progetto BIO 02 sono collassato dopo la morte di Michela. Sono stato in una fase di transizione che ho vissuto come una battaglia senza sosta. Poi, Matsumoto mi ha dato l’opportunità di fuggire…» Fece una pausa. «Fuggire da dove, se sono sempre stato nella Matrice?» Si grattò in testa sperando di sbloccare la risposta. «Tokyo col mare salato, quel mondo con le persone con cui sono entrato in contatto, Matsumoto e Iku erano un’illusione dello Zero Tre o il mondo reale?» Rasputin diede un pugno sul tavolo. «Non ne veniamo più a capo.»

Il mare salato di Tokyo «Quello è il mondo reale per forza, invece» disse Ergo. «I dodici profughi uccisi da Alessio durante la gara in Las Vegas sono gli stessi fucilati dalla Shiba. Tra loro c’erano Matsumoto e Iku. Vi ricordate?» Tutti annuirono in attesa che proseguisse. «Non può essere un caso che Alessio abbia detto che i loro codici erano per lui sconosciuti. E non possono essere programmi ribelli per quello che abbiamo detto prima.» «Giusto. Sarebbero qui con noi, in questa membrana» continuò Rasputin con un accenno di speranza nella voce. «Quindi, sono utenti ribelli» disse Bio accentuando la parola “utenti”. «La Shiba non poteva giustiziarli pubblicamente» continuò Ergo. «Perciò li ha fatti collegare alla Matrice. Li ha dichiarati in coma nel mondo reale. E li ha fatti uccidere da Alessio.» «Oppure…» Bio stava per ipotizzare un’altra eventualità, ma si fermò. «No, niente.» «Però, Alessio non sembrava più lui» disse Rasputin. «Forse era costretto da Zero Tre» continuò Ergo. «Forse quella pillola gli ha tolto la volontà che ha acquisito nella simulazione in tutti questi anni. E non c’era nemmeno Cyberpunk a equilibrare il Progetto. Ecco perché Alessio ha avuto tutti quei problemi.» «Acuta osservazione.» Bio annuì convinto. «Perciò, quelli della Shiba, non sanno del conflitto interno del Progetto BIO 03. Dall’esterno non capiscono che loro tre si sono separati.» Si alzò e prese a camminare. «Questo potrebbe essere un punto a nostro favore. E questo vorrebbe dire che avere Alessio dalla nostra parte, potrebbe fare la differenza.»

«Allora…» Rasputin sembrò voler sottolineare un’altra ipotesi sensata. «Appurato che i poveri Matsumoto e Iku erano delle persone reali e che vivevano nel mondo vero, come abbiamo fatto a comunicare con loro nel Side 5 di Tokyo senza farci vedere da Zero Tre?»

I ponti e le partizioni Bio ò la mano tra i capelli. «Quando entravo nel Side 5 era sempre come Shingo. In realtà, uscivo dal Limbo senza saperlo, forse. L’unica spiegazione che trovo è la presenza di un ponte. In ogni caso, se c’era, è collassato col server.» «Questo però non spiega perché solo là ti arrivavano i cristalli. Anzi, se è come dici tu, allora a mandarteli è qualcuno dall’esterno.» «Oppure…» «La pianti con oppure!» sbottò Rasputin. Bio serrò le labbra e tenne per sé l’ipotesi su Matsumoto e Iku. «Per capire questo punto, abbiamo bisogno di altre informazioni. Comunque, Null ci dirà se trova qualcosa.» «La Quarantena, che cos’è invece?» chiese Rasputin. «È identica alla Piana di Voljiaren in AgApo. Sono collegati per forza.» «Credo sia una partizione comune tra le membrane.» Lo fissò deciso. «La Quarantena è dove il Progetto BIO matura le sue abilità» disse Ergo. «Gestiscono quest’aspetto come se fosse un videogioco. Più combatte e più s’incrementano le skill.» «I creatori di AgApo fanno parte della Shiba. Alessio utilizzava Cyberpunk, che però esisteva solo qui» disse Bio. «Alessio credeva di connettersi col suo personaggio, invece evocava Cyberpunk che andava in Quarantena a combattere.» «Questo era prima che Alessio capisse di vivere una simulazione. Ora sappiamo che alla gara in Las Vegas e anche al Babelpunk, lui era solo. Quindi, come fa a usare il suo personaggio?» Bio si scambiò un veloce sguardo d’intenti con Rasputin. «A questa ti rispondo io.»

Fritz Planck/Igor Sokolov/Rasputin e Rasputin 0 «Alessio deve aver fatto un back-up di Cyberpunk e l’ha salvato in rete come ha fatto con me. Quando gioca in AgApo, usa quello. Anche se è sempre Alessio a decidere tutto, cioè lo usa come un personaggio virtuale classico» disse Rasputin. «Come faceva Igor col suo Rasputin.» «Perché, non sei tu quello?» chiese Overflow. «No! Io sono Rasputin 0 e mi ha creato Alessio usando come base l’altro Rasputin, ma non sono gestibile dall’esterno. Io ballo solo con Null.» Null sorrise e gli mandò un bacio. «Come dall’esterno?» «Igor Sokolov era gestito dal dottor Fritz Planck. L’abbiamo scoperto tempo fa.» «Io credo fosse un collega della dottoressa Merisi» disse Bio. «Ho visto un rosso nei suoi ricordi somigliante alla foto. Molto più giovane, ma potrebbe essere lui. Erano all’università insieme e potrebbero aver lavorato sul Progetto BIO.» «Comunque non sappiamo altro perché quando Igor è stato sedato, in realtà, hanno messo fuori gioco il dottore nel mondo reale. Non si è più connesso, purtroppo.» «Durante la gara in Las Vegas, allora, Igor era gestito dal dottor Planck che, se era della Shiba, stava mettendo alla prova il Progetto.» «Esatto.» «Chissà quando è maturo, per loro?» chiese Ergo. «Forse quando il soldato quantistico ha raggiunto certi standard di abilità stabiliti da loro» rispose Bio. «Quando il soldato è pronto alla guerra.» Rasputin scattò in piedi. «Fermi, ho capito!» Alzò le braccia in segno di vittoria. «Michela è sorta ancora, giusto? È il

Limbo che la crea. È il sistema a generarla come applicazione di una comatosa.» «Sì, è corretto.» «Tu e Alessio 03 avete avuto due esistenze diverse, ma con la stessa costante: Michela. È lei che interferisce col soldato quantistico. È il desiderio di fare una famiglia che non va bene alla Shiba.»

La costante Michela «Io ho accusato la dottoressa Merisi di avermi ucciso Michela, infatti.» «E ora, si è ripresentato lo stesso problema» disse Rasputin. «Alessio 03 vuole una famiglia con Michela. Ecco perché hanno tanti problemi. Cercano di separarli. Solo che in questo caso non riescono a ucciderla, come hanno fatto con te, perché Alessio l’ha isolata. E ha creato il fake.» «Il loro incontro è stato così strano, perché Alessio la stava elaborando insieme a Zero Tre.» Bio iniziò a rivedere quella parte con un filtro diverso. «Certo. Quando Alessio e Michela si conoscono in quel locale, lui prima la tratta con sufficienza, poi insiste con il succo. Il bio!» «Una tua freddura.» Lo indicò l’amico. «Alessio le ha dato un codice per bibita così da isolarla.» Bio sobbalzò. «Se Alessio sapeva di essere in una simulazione, se percepiva Michela come un’applicazione gestita dal Limbo e se l’ha voluta proteggere vuol dire che si ricordava di lei.» «Ci sono delle tue memorie che girano dentro BIO o nel Limbo. Forse quando sei collassato non hanno formattato a dovere la matrice. Vallo a sapere. Tutto è successo però perché tu esisti. Tu sei il conflitto reale, Bio, solo che lo hai scatenato attraverso Michela.» Bio annuì. «Tu e BIO siete collegati» continuò Rasputin. «Tutti quanti voi. In modo diverso. Con Cyberpunk hai avuto uno scontro diretto perché siamo nella stessa membrana. Con Alessio, ci sarà un altro tipo di connessione. E con Zero Tre, un’altra ancora.» «Però, l’unica che mi manda i filmati è Michela. Perché?» Tutti restarono in silenzio.

«C’è solo un modo per trovare le ultime risposte: vado a prenderle!»

Vado a prendere le risposte Bio si alzò, poggiò le mani sul tavolo e li fissò uno dopo l’altro. «Potremmo fare così.» Guardò Null. «Tu oltre a cercare altri messaggi di Michela, mappa la membrana. E controlla gli accessi alla Quarantena. Se Alessio utilizza il suo personaggio, forse possiamo agganciarlo.» «Sì, Threep-pi.» «Ergo, dovresti assisterla.» «Certo.» «State molto attenti. È territorio di Zero Tre, appena avvertite la sua puzza, scollegatevi.» Null e Ergo annuirono. «E contattate Skiller, ditegli tutto. Ci servono le sue pasticche. Tantissime. Dobbiamo incrementare le skill a parecchi programmi, soprattutto agli exLimbo, se vogliamo portarli fuori» concluse Bio fissando l’amico. «Overflow, per te avrei un compito speciale.» Afferrò un gomitolo di Cyberpunk e lo fece rotolare verso di lui. «Sei buggato?» Serrò la bocca che si deformò marcando il dente sporgente. «Vuoi risalire il flusso?» «Devo accedere nell’altra membrana. Devo vedere con i miei occhi se i filmati sono autentici ricordi di Michela. Dobbiamo sapere se possiamo fidarci di Alessio. Io devo risalire il flusso. E solo tu puoi aiutarmi.» Overflow girò la testa di botto. Incrociò le braccia. «Lo sai cosa mi chiedi? Se sbaglio un solo algoritmo, tu bruci.» Bio insistette spingendo gli altri gomitoli. «Non brucerò perché tu sei il migliore.»

Overflow prese i gomitoli. Lo fissò dalla testa ai piedi. «Ti starà comunque un po’ stretto. Sappilo.» «Non farò reclami. Grazie.» «Prego, prego.» Arricciò il naso. «Se bruci, io non mi sentirò in colpa. Sappilo, anche questo.» Bio gli sorrise. «Annotato.» Guardò Rasputin. «Noi due invece, andiamo prima da Ghost. E dopo tu andrai da Sergey.» «Anch’io da Ghost, perché?» Rasputin attese pochi secondi prima di darsi la risposta. «Tu credi che-» Incassò la testa nelle spalle. «No. Davvero?» «Potrebbe, sì. Dobbiamo fare un po’ di teatrino.»

Non so se posso fidarmi di te Bio e Rasputin uscirono dal Buffer. Appena entrarono nel server privato di Ghost, una gabbia codificata avvolse Rasputin imprigionandolo sulla spiaggia come avevano organizzato. Iniziarono il teatrino. «Che succede?» sbottò Rasputin afferrando le sbarre. «Scusa, amico» sospirò Bio infilandosi le mani in tasca. «Devo prima verificare una cosa. In fondo, ti ha mandato Alessio.» Indietreggiò piano. «Sei paranoico.» «Vista la situazione, le precauzioni non sono mai troppe.» «Sei pieno di mie patch» gli disse serrando la mascella. «Se volevo corromperti, lo avrei già fatto.» Bio scosse il capo. «No, visto che dovevo sbloccare i ricordi.» Si toccò il fianco. «Anzi, proprio le tue cure mi hanno salvato. Forse il tuo compito è un altro.» «Quello di pigliarti a calci appena esco!» Rasputin si sedette sulla sabbia sbuffando. «Perché di me non ti fidi e di Ghost sì?» «Ho i miei motivi.» Bio si voltò e s’incamminò verso la casa. «Attento!» gridò Rasputin. «Non fidarti solo perché la ami.» Bio deglutì alzando lo sguardo verso il balcone che s’affacciava sul mare. Lei era in piedi col volto rivolto su di lui e sembrava attenderlo. «Non so se posso fidarmi di te, Ghost» sussurrò. «Lo vorrei tanto, però.»

Il .jpeg nel ciondolo «Sei cambiato molto.» Ghost gli sfiorò i capelli lungo le tempie. Bio chinò la testa. «Un po’, sì.» «È l’ASM che ti cambia l’immagine?» Si sedette avvicinando i lembi della vestaglia di seta rosa. «Che m’invecchia, intendi?» Le sorrise sedendosi davanti. «Forse.» «Grazie per avermi salvata.» «Sarei venuto prima, se avessi saputo della tua situazione.» «Non mi sarei ammalata, se tu avessi risposto alle mie mail.» «Non le ho mai ricevute.» Scosse il capo. «Non sei mai uscito dai G.» «Tu non ci sei entrata, però.» La fissò di striscio. «Scusa se la mia stima nei tuoi confronti era tale da farmi credere che saresti sopravvissuto ai G» gli disse accavallando le gambe. Bio iniziò a ondeggiare la sua. «Scusa, se anch’io pensavo che nessuno potesse avere la meglio su di te.» Cinse le mani, se le strofinò. «Abbiamo peccato entrambi di troppa stima reciproca.» «E di orgoglio, direi.» Lo guardò con l’espressione accusatoria che ricordava. «Era la mia prima connessione di quel tipo.» Si sfiorò la fronte. «E guarda che mi succede.» Bio si bloccò. «Intendevo, con una controparte vera e non un mio programma» precisò. «Era la prima volta che davo fiducia, insomma. E questo, mi ha ferito doppiamente.»

Afferrò il ciondolo delicata. «All’inizio sembravi tu, anche se eri tornato con l’aspetto di quando ci siamo conosciuti.» Lo squadrò da capo a piedi. «Certo, a vederti ora, lo avrei capito che non eri tu, ma otto mesi fa, come avrei potuto?» «Otto mesi?» Bio restò a bocca aperta. «Tu e lui vi siete frequentati tutto questo tempo?» «Quando sei entrato nel G, io…» esitò mordendosi le labbra. «Subito dopo, ti ho scritto una mail. E poi un’altra ancora. E un’altra.» Si tappò la bocca come se volesse trattenere la commozione. «E tu non mi rispondevi mai. Ero talmente preoccupata…» Si zittì. «Mail?» sussurrò. «Sì, mail» ripeté Ghost con tono seccato. «Ti ho scritto molto. Non avendo risposte, ho attivato la connessione.» Deglutì. «Quella speciale, voglio dire, sperando che tornassi da me.» Bio aveva atteso quella connessione a lungo sicuro che, una volta attivata, l’avrebbe percepita. Invece, non era accaduto. La sua unica connessione, quella che si era trascinato dal collasso non era con Ghost, allora. «Io non ho mai ricevuto nulla da te. Solo il cristallo.» «Sergey!» esclamò Ghost visibilmente seccata. «Ha bloccato le nostre comunicazioni.» La guardò dubbioso. «Forse all’inizio, ma dopo me ne sarei accorto.» «Quando quella tua copia è venuta da me fingendosi te, ho smesso di scriverti mail accorate.» Ghost incrociò le braccia. «Quell’entità, è arrivata alcuni mesi dopo. È comparsa qui in camera mia, diretta. Dopo una lunga discussione, ci siamo…» sospirò «riappacificati.» «Capisco.» Bio si alzò infastidito da quelle parole e poggiò i palmi sul corrimano argentato. «Avrei dovuto capirlo» singhiozzò lei. «Però, era identico a te.» Bio si girò per osservarla mentre raccontava con la testa bassa.

«Ci vedevamo sempre di nascosto. Qui o in qualche server privato. Non voleva nemmeno che il Biondo sapesse di noi» continuò mentre timide lacrime le solcarono il volto. Bio si ò la mano sulla bocca. «Al tuo locale mai, immagino. Troppi sguardi indiscreti.» «Una volta sola. Non è trascorso molto tempo. Ricordo che ricorreva un anno dal funerale di Michela. Gli avevo anche detto che avrei voluto farle visita. Stavo per andare al server, quando è comparso al mio fianco sul divano nel privè. Ricordo un lungo bacio.» Abbassò la testa. «E poi solo frammenti.» Si fermò. Bio le si accucciò davanti. Ghost allungò la mano fino a toccargli la guancia. Bio gliela strinse appena. L’odore del caramello s’accompagnava con un intenso aroma di affumicato. «Ero venuto al locale quel giorno. Vi ho visto e sono andato via.» «Ho sofferto, ma non eri tu.» Ghost intrecciò le dita nelle sue. «Sono stata ingannata.» Gli si avvicinò umettandosi le labbra. «L’importante è che sei qui con me, ora.» Bio si alzò tenendole la mano, gliela strinse. «Sono con te, tranquilla.» Ghost lo fissò accigliata mentre il Biondo arrivò alle sue spalle con un vassoio. «Bentornato Bio» disse poggiandolo sul tavolino. Le tazzine tintinnarono. «Ecco il suo tè, signora.» «Grazie, caro» singhiozzò quasi come se volesse rimarcare la sua disperazione. «S’immagini» rispose il Biondo infilando la mano in tasca. «Prego.» Le porse un fazzoletto di seta bianca. Lasciò la mano di Bio e si tamponò le lacrime. «Per fortuna che tu sai come consolarmi, caro.» «Sempre allergica al cotone» scherzò Bio sedendosi mentre il Biondo versò il tè

in una tazza di porcellana. «Per me no, grazie» gli disse con un cenno della mano. «Sono stato operato di recente. Mi sto ancora adattando.» «Lo hai sconfitto, vero?» gli chiese quasi trattenendo il respiro. Bio annuì serio. «Ti ha detto nulla?» Bio la sfotté emettendo un grido da femminuccia. «E diverse imprecazioni. Vuoi sentire la registrazione?» Ghost sembrò irritata. «No, grazie. Vorrei invece sapere cos’era e perché sono stata oggetto delle sue attenzioni.» «Era un mio fake, ovviamente, e ha scelto te perché sei una bella brunetta» le rispose con un’alzata veloce di sopracciglio attendendo la sua reazione. Ghost serrò le labbra e lo fissò in silenzio alcuni istanti prima di sospirare. Scosse il capo. «Come lo hai capito? In cosa ho sbagliato?» «Se te lo dico, non vale. Però, l’hai imitata bene. I miei complimenti.» Come sospettava, quella non era la sua Ghost, ma un fake creato per estorcergli informazioni. «E ora, che intendi fare?» gli chiese il fake corrucciando la fronte. «Dipende. Dov’è la mia Ghost?» Il fake sogghignò afferrandosi il ciondolo. «Sono sempre stata io. Solo che ora non fingo più.» «È inutile che cerchi di confondermi. Ti rimangono due sole cose da fare.» Alzò l’indice e il medio. «Dirmi cosa vuoi e dov’è la vera Ghost.» «E dopo, cosa ne farai di me?» gli chiese deglutendo. Il Biondo mosse un o. Bio alzò la mano e lo bloccò. «Dipende dalle risposte» le disse a denti stretti. «Risposte che pretendo subito.» La puntò con l’indice. «O me le prendo facendoti tanto male.»

«Va bene.» Portò rapida le mani al collo e afferrò la catena. «Il mio compito era darti questo.» Gli consegnò il ciondolo. «Dentro c’è un’immagine.» Sospirò. «E per rispondere all’altra domanda: la tua Ghost è con Zero Tre. Indenne, che io sappia.» Bio analizzò il ciondolo. Estrapolò un file in formato .jpeg. Nell’immagine, la dottoressa Merisi era seduta davanti a un monitor che inquadrava il profilo di Alessio. Le mani erano sfocate sopra la tastiera, il volto serio sembrava colto alla sprovvista. Nel monitor, vicino al riquadro di Alessio, c’erano le caratteristiche fisiche e una rappresentazione sferica delle sue interazioni. Dal nucleo partivano linee di diverse lunghezze collegate ad altre sfere più piccole. Un alveare di connessioni intricato che Bio cercò di analizzare. Ingrandì l’immagine cercando di leggere alcuni nomi. Quando trovò quelli dei suoi genitori e di molti amici di Milano, la chiuse. «Lei è Susanna Merisi e nel monitor c’è il Progetto BIO 02, il profilo di Alessio. Il mio ato» disse imibile. «Suppongo sia il file che mi accennava Ghost. Quello che lei ha trovato appena sorta e che l’ha ispirata per la sua immagine» concluse. «E che effetto avrebbe dovuto suscitarmi, di preciso?» «Non è chiaro? Ghost ha sempre saputo chi eri e cos’eri. Ti ha ingannato. Ti ha usato.» Bio la fissò annuendo. «Perché avrebbe dovuto? Lo scopo?» «Tenerti all’oscuro. Non darti modo di scoprire la verità.» Fece una pausa. «Pensaci. Tu eri un disperato e lei ti ha dato i cip di credito, un server e il sostegno per il tuo progetto. E perché?» Lo additò. «Già sapeva. Già ti conosceva. Voleva trattenerti qui, con lei. Ecco perché.» Si prese un istante per rimarcare con un gesto della mano l’affermazione, forse per suscitare in lui il dubbio di essere stato usato fin dall’inizio. «E poi: chi ha trovato Michela nel Limbo? Sempre Ghost. E non è un caso. Sapeva che non ti saresti arreso, l’unica era darti un’applicazione da accudire.» Smosse le spalle e inclinò la testa. «E guarda caso, un suo caro amico è un fuggitivo storico così bravo che tutti lo cercano. Il dottore è più finto di me, te lo assicuro» sorrise nascondendosi la bocca. «Lo ha creato lei, infatti, e tu non lo

hai capito. Eri così addolorato che ti sei aggrappato alla sua gonna come un’applicazione semplice semplice senza più remore. Tu hai abbassato le difese e lei ti ha rimodellato giorno dopo giorno.» Incrociò le braccia e lo guardò con la soddisfazione applicata in volto come una texture fresca e pronta per essere venduta. «Il guinzaglio non serve, quando la mente è soggiogata.» Bio strinse i pugni e la lasciò proseguire. «Tu avevi capito che qualcosa non andava e sei fuggito nel G in modo così rapido che l’hai spiazzata. Lei è impazzita di rabbia per la perdita del controllo. Quando ha attivato la connessione, si è esposta per la prima volta.» Si accarezzò il mento. «Ecco che in quel momento, Zero Tre ha pensato di inviare Cyberpunk. Lavorando su di lei, sperava di arrivare a te. E così è stato.» «Cosa vuole da me, Zero Tre?» «Tu gli impedisci di uscire. E nemmeno lui sa come fai.» Lo fissò seria. «Zero Tre vuole solo scollegarsi. Essere libero. Non lo vuoi anche tu?» Bio annuì. «Perché il tuo inganno iniziale, allora?» «Si dice in giro che tu sia molto orgoglioso. Dirti che sei stato raggirato come un moccioso, non gli era parsa una buona idea. Ha pensato di mandare me al posto di Ghost cogliendola in un momento di debolezza. Ecco tutto.» «Perciò, ti sei sostituita dopo che ho estratto Cyberpunk da lei.» «Esatto.» «E hai craccato il Biondo per reggerti il gioco.» Annuì ancora. «Zero Tre vuole solo che tu lo raggiunga, tutto qui. Dopo uscirete. È facile, veloce. Semplice.» «Non mi porta rancore per Cyberpunk?» Bio si grattò la guancia. «Sai, con tutto quello che gli ho fatto.» Lei fece spallucce. «No. Anzi, gli hai fatto un favore. Era un problema, in realtà. Il suo compito era di metterti nella condizione di rammentare il tuo ato. Dopo, avrebbe dovuto scortarti da Zero tre. Questo è tutto.»

«Non era indispensabile per la fuga come lo è Alessio, allora?» «A me non risulta. Comunque, chiediglielo tu.» Alzò la mano. Davanti al palmo le comparì un biglietto da visita fluttuante. «Lui vorrebbe che tu lo raggiungessi a queste coordinate.» Bio lo afferrò e lo memorizzò. Chiuse il pugno per distruggerlo. «Grazie. Sei stata molto gentile. Direi che per ora può bastarmi.» Si alzò. «Come va, amico? Hai finito?» «Da parecchio!» rispose Rasputin. Il fake voltò la testa verso il Biondo. Dietro di lui, Rasputin le sorrise incrociando le braccia. «Cosa?» Guardò rapida in spiaggia. «Come può essere?» Bio si avvicinò fissandola. «Ho finto di ingabbiare il mio amico. Quella che vedi è una gabbia, ma non per tenere bloccato Rasputin. La gabbia era per isolare quella zona del server dal tuo controllo. Dentro, c’è una banale gif animata.» Le sfiorò il mento. «Era facile, veloce e semplice» la canzonò. Lei indietreggiò di un o guardando il Biondo. «Rasputin l’ha ripulito mentre parlavamo. Non solo, ha ricodificato il server.» «Quel vostro dialogo, era una messinscena?» Appoggiò le spalle al vetro della porta finestra. «Era logica la tua diffidenza. Invece ti fidi di Rasputin. Perché?» Bio sorrise. «Mi fido di Rasputin perché abbiamo combattuto insieme e perché ama la mia Null.» «Biondo, hai un fazzolettino di seta anche per me?» scherzò Rasputin. «No» rispose. «Non è mia abitudine porgerne. Mi spiace.» Bio rise. «E perché prima di attivarlo l’ho analizzato e studiato a fondo. Lo ammetto.» Infilò le mani in tasca. «Quando abbiamo iniziato quest’assurda ricerca, gli ho dato i codici. Volevo un amico.» Le fissò il collo, identificò i codici della prigionia. «Non uno schiavo.» Lei deglutì. «Ti prego, farò ciò che vuoi.» Poggiò le mani sul suo petto

stringendogli i lembi della maglia. «Se Zero Tre scopre che ho fallito…» singhiozzò. «Io ti aiuterò. Davvero, ti puoi fidare» ansimò. «Tu non mi farai del male. Tu curi i programmi. Tu ripulisci i server dai malware. Tu non sei come lui. Tu sei diverso.» «Mi spiace, ma io non faccio prigionieri. E soprattutto, non ricodifico il fake della mia Ghost.» Lei abbassò le mani e appoggiò la testa al vetro. «Resterai attiva finché sarai utile.» «Sei un bastardo come lui.» «Punti di vista.» Le afferrò il braccio e la consegnò al Biondo. «Mettila al sicuro» disse guardandola un’ultima volta. «Certo.» Il Biondo la prese. «Grazie per avermi liberato, Bio.» «È stato un vero piacere, amico.» Il Biondo e il fake si allontanarono. «E anche questa è fatta» disse Rasputin ravvivandosi i capelli. Bio cercò con mano tremante il pacchetto di EtiKoff. Ne accese una in fretta e, con altrettanta rapidità, fece un tiro profondo. «Non resta che procedere come stabilito.» «Stai bene?» «Non è davvero un fake, è quasi identica a Ghost.» Tirò ancora sperando che il fumo rossastro lo punzecchiasse rivitalizzandogli le idee. «Come può essere?» «Non lo so. Ho capito che non era la mia Ghost un po’ per il suo odore, che mi ha ricordato quello di Cyberpunk, e un po’ perché una volta ha pianto tra le mie braccia. Quando ho cercato di avvisare il Biondo, lei m’ha fermato.» Fece un nuovo tiro. «Troppo orgogliosa per piangere davanti al suo segretario, per quanto

fidato.» «Piccoli dettagli» borbottò Rasputin scuotendo il capo. «Il gioco si fa pesante.» «Già. La prossima volta, potrei non riconoscerla.» Fece un ultimo tiro prima di lanciare il mozzicone dal balcone, che svanì in aria. «Tu e lei siete connessi» gli disse. «Non so se quella foto sia vera. Forse lei davvero sapeva tutto. Forse ti ha aiutato per quello.» Si appoggiò al balcone. «Però il legame c’è ed è molto forte. Ascolta quello, la prossima volta.» Bio annuì ando rapido le mani sul volto. Il mare sotto di loro lambiva la spiaggia senza tregua cancellando ogni volta quello che si depositava sopra in modo naturale. «Chiamo gli altri.» Attivò il monitor etereo. «Com’è andata?» chiese Ergo. «Ghost?» «Sembra che la vera Ghost sia con Zero Tre. Qui c’era una sorta di fake affumicato. Mi ha dato delle coordinate, ve le giro.» Inviò i dati. «È una trappola. Per ora, non fate nulla.» «Ricevuto» annuì. «Speravo ti sbagliassi su Ghost. Mi spiace.» «Zero Tre ha fatto quello che avrei fatto io» puntualizzò. «Il recupero come procede? Null sta bene?» «Tutto bene.» Ergo girò il monitor per inquadrarla. Null era circondata da un alone bluastro. Le dreadlocks puntavano in alto e rilasciavano leggere scariche elettriche. Gli occhi erano spalancati e blu intenso. La bocca socchiusa. «Ha trovato un cristallo, per ora.» «Strano, pensavo di più.» «Potremmo vederlo, intanto» disse Rasputin. «Overflow come va?»

«Sono a metà» rispose la voce lontana. «E Skiller?» «Sta fabbricando skill-pill a pieno regime.» Bio e Rasputin si scambiarono una rapida occhiata. «Va bene. Ergo, manda il file. Intanto guardiamo questo. Appena Overflow ha fatto, vado.» «Te lo mando.»

Quante Ghost ci sono? Guardarono il nuovo filmato che mostrava Michela intenta a conversare con l’utente “00” che si spacciava per Ghost, una donna. Videro poi l’ansia dipinta sul volto di Alessio quando Michela cadde in trance in cantina. E, soprattutto, Bio notò quanto fosse preoccupato mentre la salutava per l’ultima volta sulle scale. L’averla lasciata in quel modo così secco, con una semplice lettera, non era da lui. Era successo qualcosa e Alessio sembrava non poterne parlare nemmeno con la sua Michela. «Tutta questa storia m’ha scassato le captcha!» sbottò Rasputin fissando il monitor etereo fermo su una luce bianca. Bio smise di ondeggiare la gamba. Si alzò urtando il tavolino e le tazzine e la teiera che ondeggiarono. Il Biondo raddrizzò la testa. «Io credo solo una cosa, Michela non ha comunicato con la signora» disse smuovendo le spalle. «Anche secondo me.» Bio si appoggiò al balcone. «Quel Ghost entrato nel computer di Michela non è la nostra Ghost. E non poteva essere altrimenti. Risalire il flusso dati per comunicare in quel modo richiederebbe uno sforzo immane, anche per la questione del tempo non lineare. E loro hanno comunicato a lungo.» «Quindi, la comunicazione arriva dal flusso in entrata» disse Rasputin. «Già. Questo vuol dire che Michela ha chattato o con Zero Tre, che si è finto Ghost, o con la vera Ghost, ossia Susanna Merisi.» «Con la Shiba, allora» precisò il Biondo. «Se fosse così, Susanna Merisi è ancora viva e cerca di separare Michela e Alessio come ha fatto con me in ato.» «Ma se Alessio l’ha isolata, come può vederla?»

«Infatti, è un’interazione indiretta» gli rispose. «A proposito, tu sai che cos’è quella scatoletta che Alessio ha collegato al portatile?» Rasputin scosse il capo. «No, ma di sicuro non zombizzi un accidente. Le ha mentito.» Bio si accarezzò il mento. «Però, in cantina, Alessio sembrava davvero turbato e parlava di black hat. Questo mi lascia supporre che sia stato Zero Tre a ipnotizzare Michela, non la Shiba.» «È vero. Alessio considera la Shiba già un nemico. Con Zero Tre c’è solo del conflitto, invece.» «Perché la lista dei comatosi?» chiese il Biondo. Bio e Rasputin si osservarono in silenzio. «Forse Zero Tre deve scollegarli prima di uscire» disse Bio. «Tu che dici?» «Ci sta» rispose Rasputin. «Però mi sembra strano. Zero Tre potrebbe prenderli per conto suo.» Bio mosse alcuni i lungo il terrazzo. «In più, Alessio alla fine lascia Michela con una lettera.» «Era molto spaventato» disse il Biondo. «A me è sembrato sincero. E sulle scale, avete sentito cosa le ha detto?» Alzò il dito. «Stai con me!» «Lui glielo dice spesso» rispose Rasputin. «E poi, anche il tipo per strada glielo ha detto. Stia con me. Si vede che si usa.» Bio aggrottò le sopracciglia. «Quando, scusa?» «Alla fine.» Rasputin creò una tastiera eterea sotto il monitor. Smosse la barra del video tornando indietro. «Ecco, qui. Alzo il volume.» “Signorina, si sente male?” disse l’estraneo. “Chiamo un’ambulanza. Non si preoccupi. Resto io qui con lei. Non abbia paura…” «Ci siamo quasi, ascoltate» avvisò Rasputin.

“… stai con me!” Bio sgranò gli occhi. «Dice stai, non stia.» «Prima devo aver sentito male.» «Torna indietro e prova a isolare meglio la frase. Riesci?» Rasputin annuì. Iniziò a digitare sulla tastiera. «Ecco.» “Non abbia paura… ela, stai con me!” «C’è qualcosa prima? Ho sentito un ela.» «Riprovo.» I polpastrelli sfiorarono rapidi i tasti. “… Michela, stai con me!” Bio socchiuse la bocca. «Michela, stai con me?» Abbassò lo sguardo. «Come poteva sapere il suo nome? Chi era quel tizio?» «E se fosse Alessio?» disse il Biondo. Bio si accasciò sulla sedia. Incrociò le braccia. «Se è Alessio, vuol dire che ha finto di lasciarla perché glielo ha detto quel Ghost.» «Questo vorrebbe dire che Alessio lo teme davvero, però.» «Se lo teme davvero, allora è sincero. I filmati sono veri» disse Rasputin. «E l’ha fatta svenire lui» sospirò Bio. «Il messaggio potrebbe essere un codice per Michela.» «Che l’abbia resa autonoma?» «A che servirebbe? Tanto non sa di essere un programma.» Fece una pausa. Roteò lo sguardo intorno a lui. «A meno che, non l’abbia resa il programma.» «Alessio potrebbe averla resa sua pari, con tanto di codici privati e backdoor.» «Il prossimo o, dovrebbe essere quello di dirglielo.»

«Allora, non manca molto alla fuga.» Il Biondo si lisciò la cravatta. «È bene avviare le trattative con i G.» Bio annuì. «Non sappiamo quanto tempo, ma alla prossima scossa di terremoto avremo un’idea.» Guardò Rasputin. «Io vado, voi intanto procedete. Buona fortuna.» «Anche a te.» Rasputin gli poggiò la mano sulla spalla. «Non bruciacchiarti troppo, mi raccomando.» «Credo che sarà inevitabile.»

È come ardere vivi Bio risalì il flusso dati seguendo il percorso che gli aveva creato Null. L’attrito era feroce, così come il calore e il puzzo metallico. Il lembo esterno della membrana mostrava una moltitudine di vene elettrificate che ondeggiavano. Bio entrò in quella prestabilita evidenziata dal filo blu che, come una lingua fluorescente, si perdeva all’orizzonte. La parete era ruvida, percorsa da lava ricca di grumi che lo lapidavano senza sosta. S’insinuava a forza con le braccia incrociate indossando Cyberpunk ricodificato sperando solo che la pellaccia dell’infame reggesse fino all’arrivo nella Milano del XXI secolo. Quando il dolore cessò, Bio sentì un intenso puzzo di bruciato che lo avvolgeva. L’attrito con l’aria era più forte, la gravità opprimente. Odori, suoni e voci confusi si acquietarono insieme col respiro. Aprì gli occhi. Osservò in giro. Roccia bagnata davanti alla faccia. I palmi aperti la toccavano, si appoggiavano. Comprese di essere in terra, sdraiato. Si alzò lento avvolto dalla penombra di un lampione alto. Gli alberi erano pochi e circoscritti in aiuole che seguivano la strada sterrata di pietruzze chiare. Alle sue spalle, la leggera risacca di una modesta cascata. Si girò. Un muro di rocce naturali era lambito dall’acqua che confluiva in un laghetto stagnante chiuso dai massi. Saltellò di masso in masso finché non toccò il terriccio. Il silenzio fu interrotto dai guaiti di un cucciolo. «Bella lì, tipo» borbottò un estraneo protetto dall’ombra di una quercia. «Che, c’hai una monetina?» Bio lo codificò come un’applicazione semplice, classificata come folclore cittadino. Analizzò le specifiche. L’unico scopo era di girare intorno al parco di Porta Venezia in Milano, Italia. Lesse le direttive quotidiane con le poche eccezioni. Nessuno scopo prioritario.

«Bene» bisbigliò Bio. «Null è stata davvero brava. Non solo mi ha fatto arrivare vicino, mi ha anche procurato una cartella.» «Sei il dio del fuoco…» gli disse fissandolo con la bocca aperta. «Fumiii…» Rise. Lo sconosciuto raffigurava un ragazzo sporco e puzzolente. Era seduto in terra con le gambe incrociate e il cagnolino in braccio. Lo fissò sorridendo mentre tirava da una sigaretta senza filtro. Bio gli si accovacciò davanti. «Pupille interessanti, le tue.» Annusò il fumo dolciastro. Lo codificò come una droga oppiacea che ricordava esistere anche nella sua vecchia realtà. «In questo stato alterato, sono visibile quindi.» Alzò il braccio e gli toccò la fronte con l’indice. «Ora riposa.» Il ragazzo chiuse gli occhi. «Monetinaaa…» Bio accarezzò il bastardino che sbadigliò poco prima di raggomitolarsi. «E voi siete a posto.» Controllò la zona intorno. Due telecamere erano nascoste tra i rami degli alberi. Una inquadrava poco distante, l’altra era fissa su di lui. Lanciò un impulso con un’immagine alterata. Si tolse Cyberpunk con lo stesso disagio di una tutina di lattice appiccicosa, era ancora fumante e bollente. «Overflow l’aveva detto che sarebbe stata stretta.» Sospirò sollevato facendone un fagotto. La mimetizzò inserendola nel ragazzo che divenne grasso di colpo. La puzza di bruciato di Cyberpunk s’unì al sudore creando una disarmonia di rara eccellenza. Coprì il tutto con la texture di un cespuglio e si avviò rapido verso l’uscita. S’infilò tra le sbarre di ferro modificandone la rigidità. I bastioni di Porta Venezia lo salutarono avvolti dai faretti. C’erano molte auto incolonnate lungo l’incrocio. Le luci dei palazzi e delle vetrine dei negozi creavano un’aria allegra con i diversi gruppi di ragazzi sparsi ovunque. Bio s’incamminò verso il semaforo. Nell’attesa che diventasse verde, osservò il grosso orologio digitale sul palazzo dall’altra parte della strada.

«Sono le undici.» Attese. «È venerdì sera. Il 9 agosto 2013.» Annuì. «Bene» borbottò muovendo i primi i nella Milano creata dalla Shiba per maturare il Progetto BIO 03. «Andiamo a conoscere questo Alessio.»

Il mondo sa di plastica Bio percepiva il sentore del sintetico dappertutto. Era nel gelato al cioccolato che stava leccando la ragazza alla sua sinistra e nel frappé alla fragola dell’amico. Usciva insieme ai profumi del negozio d’abbigliamento aperto per la notte bianca. Era nel panino con la salamella del baracchino a margine del marciapiede. Era nei tubi di scappamento delle auto ferme in coda lungo il corso. Nel cotone del vestito della donna appena urtata, nello shampoo che aveva usato e nella pelle. Bio si appoggiò alla parete tappandosi il volto. Era soffocante. L’aver coscienza di essere in una membrana artificiale forse gli faceva elaborare tutto in un modo alternativo. Cercò di adattarsi modificando i parametri olfattivi. S’incamminò nuovamente chiedendosi se anche nella realtà nella quale era vissuto lui, tutto il mondo odorasse di plastica. Un sorriso acido come la risposta che intuì gli deformò il volto. «Di cos’altro.» Stando all’ultimo filmato visto, Bio visitò tutti i luoghi che sapeva avere un contatto diretto con Alessio e Michela. La stanza in cui alloggiava con gli amici modelli era sgombra delle sue cose. «Confermato, dunque» disse Bio avviandosi rapido a casa di Michela. «Alessio non abita più là.» Vedendo l’abitazione chiusa con le finestre sprangate, Bio ebbe un dubbio. «In questo periodo, in effetti, dovrebbe essere in Emilia.» Entrò nello stabile craccando la serratura del portone. «Voglio togliermi una curiosità.» Creò un’apertura nella porta d’ingresso. Entrò in casa di Michela col o leggero di un fantasma. Andò vicino alla scrivania. Nel vedere un nuovo portatile, arricciò il naso. «Addicenti, non c’è più quella scatola anomala.» Si grattò in testa. «Peccato, avrei voluto capire che cosa fosse.» Stava per uscire quando vide il pupazzo lasciato sul letto in direzione della porta.

«Strano. Se lo porta sempre dietro.» Alzò il sopracciglio. «Non è andata al paese, allora.» Uscì e si avviò al Babelpunk. Si posizionò davanti alla struttura. Iniziò a fissarla in cerca dei codici alternativi di Alessio, ma non trovò nulla. Decise di entrare e vedere se i ragazzi dello staff fossero davvero gli stessi dei filmati. Quando vide Skizzo che smanettava con la testa sul computer, ebbe conferma che i filmati fossero originali. Stava per uscire, quando schizzò in piedi. «Raga’, c’è Alessio!» gridò. Alcuni si precipitarono da lui, anche quello alto con i capelli rossi, Red Rhino, che lasciò incustodito l’ascensore. Bio si portò in quell’angolo e si concentrò per ascoltare la conversazione a distanza. «Ciao, ragazzi! Come state?» disse Alessio. «Bene, bene.» Skizzo ondeggiò la testa e sorrise. «La gara, allora? Chi è Taurus? Qui nessuno l’ha mai sentito.» «Sembra uno nuovo, non so. Farò del mio meglio lo stesso.» «Massacralo!» sbottò Red Rhino. Alessio rise. Conversarono su che strategia usare, il tipo di armi e di quanto gli mancasse il Babelpunk. «Ora devo andare» disse infine con sincera malinconia nella voce. «Forza bello, siamo tutti con te!» Ci fu un coro d’incoraggiamento. «Grazie. Ci sentiamo presto.» «Facci sapere appena riesci, mi raccomando.» Quando vide tornare Red Rhino, Bio si allontanò e uscì dalla sala giochi in cerca di un vicolo buio. Un angolo dove creare una porta d’accesso per Las Vegas.

«Alessio sta per fare un’altra gara. E Michela è via senza il suo pupazzo. Bizzarra coincidenza.»

Non può vedermi Bio ò dalla fresca notte milanese, all’assolato e torrido pomeriggio di Las Vegas in un battito di ciglia. La grande H rossa fu la prima cosa che vide. Entrò nell’albergo seguendo un gruppo di turisti tedeschi appena scesi dalla navetta bianca con un aereo stilizzato dipinto sul fianco. Iniziò a cercarlo osservando la realtà nei codici del piano terra. Si diresse al bar e osservò la piscina. Una codifica anomala risaltò sprigionando una luce che nessun altro aveva. Tra la maggioranza di codici dorati e una rappresentanza di grigi, Alessio risaltava come platino. Era unico. La sagoma era in movimento verso le docce all’aperto. «Eccolo. Alla fine, l’ho trovato.» Bio uscì dal bar e si posizionò sul terrazzo esterno, vicino ai gradini che confluivano nella piscina più vicina. Alessio camminava a capo chino con le mani chiuse a pugno al fianco di una donna minuta dai capelli neri. Gli parlava, lui annuiva. Lei aveva la codifica dorata. Bio li fissò cercando di isolare l’audio. «Signor Merisi, la prego. Deve venire questa sera. È importante che lei sia presente.» «Va bene, ho capito. Vengo.» Sbuffò gettandosi sotto la doccia. Lei prese un barattolo, versò nel palmo del liquido chiaro e iniziò a massaggiargli le spalle. «Yumi.» Alessio si girò di scatto e le scansò la mano. «Credevo di essere stato chiaro.» Lei gli si avvicinò costringendolo a girarsi. Bio sospirò. «Quella è della Shiba e guarda caso è un programma dorato.» Cercò di osservarla più a fondo quando incrociò lo sguardo di Alessio che spuntava

sopra la testa della giapponesina. Era fisso verso di lui, così intenso da traare i ciuffi bagnati. Alessio si toccò la tempia senza sbattere le ciglia. Non stava guardando nella sua direzione, Bio ebbe proprio l’impressione di essere analizzato. Quando Alessio scansò Yumi e iniziò a camminare con o deciso verso di lui, Bio sussultò. «Non può vedermi. Sono schermato.» Cercò un riflesso in cui avere conferma del suo aspetto da classico turista. La trovò in una vetrata; un uomo robusto di mezz’età con maglia larga, bermuda e sandali con calzini bianchi. Alessio iniziò a correre con determinazione e Bio fuggì senza esitare.

Faccia a faccia con Alessio Alessio non gli dava tregua. Bio cambiava aspetto e luogo ma, nel giro di pochi istanti, Alessio arrivava mantenendo però una calma apparente come se non volesse creare caos tra la folla o allertare chi gli stesse intorno. Sembrava giocare a guardie e ladri sotto lo sguardo onnisciente di un grande occhio digitale. «Lui vede i codici come me» bisbigliò Bio tra gli alberi di Porta Venezia. «Non c’è nascondiglio, allora.» Tornò rapido dalla sua cartella improvvisata. Tolse il cespuglio. Il ragazzo dormiva ancora, ma era magro. «Interessante» disse Alessio uscendo dall’ombra della pianta. Si appoggiò al tronco mostrando un ghigno di sfida. «Vuoi ancora fuggire o prima mi spieghi questa?» Mostrò Cyberpunk come fosse un vello dai riflessi infuocati. Bio indietreggiò fissandolo. «Tu chi saresti, di preciso?» gli chiese Alessio. «Tu chi pensi che io sia?» Bio accennò un sorrisetto sfottente. Alessio avanzò di un o trascinando Cyberpunk in terra. «Volevi mascherarti con questa, ma sei arrivato tardi. La puzza era troppo forte.» «Peccato. Mi è andata male, allora.» Bio si mise le mani in tasca. «Che si fa?» Alessio corrucciò la fronte. «Dimmelo tu, Ghost.» «Ghost è senza copyright?» scherzò Bio. «È il nick più usato di tutti i tempi.» «Non sei lui?» «Non era una lei?» Alessio lo fissò in silenzio. «Cosa vuoi?»

«Quello che vuoi tu.» «Allora, abbiamo un problema.» Alessio serrò la stretta sul vello che si elettrificò. «Quello che voglio io, non è condivisibile.» «Sei un egoista. Non si direbbe a vedersi.» Alessio avanzò di un o strisciando il terriccio. Bio raddrizzò la schiena e tolse le mani dalle tasche. «Anche tu senti la puzza di plastica ovunque?» Alessio fece un profondo respiro. «È tutto finto, vero?» disse Bio guardandosi attorno rapido. «Tutto tranne lei.» Lo fissò serio. Alessio deglutì. Strinse i pugni. «Da dove vieni?» gli chiese guardando il vello. «Dal-» «Vengo dal substrato» rispose annuendo. «Esatto.» «Sei un amico di Cyberpunk?» Sgranò gli occhi. «Sta bene?» «Sono un amico di Rasputin 0.» «Ha funzionato, allora.» Alessio avanzò rapido, ma Bio indietreggiò mantenendo la distanza. «Giù, abbiamo alcuni disagi» accennò Bio. «Mi ha detto di portarti quella per la fuga.» Indicò la pelle di Cyberpunk. Alessio la guardò sollevando il sopracciglio. «Cosa dovrei farci?» «È una protezione. Sai come usarla, no?» «È una battuta?» «Non voleva esserlo.» Bio scosse il capo. «Io e Michela dovremmo discendere il flusso con questa addosso?»

Una leggera scossa di terremoto li interruppe. «Un’altra…» «Qui come da noi.» «Ovvio!» esclamò Alessio. «Come potrebbe essere altrimenti.» Bio annuì. «Ora devo andare. Dobbiamo tamponare più che possiamo.» «Che tipo di disagi avete? Perché Cyberpunk non mi contatta? Potrei consigliarlo.» «È un’anomalia, ma ce ne stiamo occupando.» Bio solcò un rettangolo nel terriccio con l’anfibio. «Tu hai già da fare qui.» Alessio annuì a capo chino. «Buona fortuna.» «Anche a te.» Bio attivò il aggio dentro il rettangolo. Saltò. Seguì la corrente elettrificata del flusso dati finché Null non lo strattonò avvolgendolo con delle stringhe.

Sei completo? «Sì» rispose Bio sentendo la pelle sensibile e bollente. «Anche la mia estensione è tornata.» Una nube puzzolente aleggiava intorno a lui. Rasputin gli allungò la mano tossendo. «Come stai?» Bio la strinse e uscì dalla tomba sfiorando la lapide di marmo bianca. «Che idea balorda quella di ricomporti qui.» «Mi sembrava il posto ottimale» disse controllandosi. I vestiti erano laceri, la pelle arrossata e con piaghe. Emanava del fumo scuro che sapeva di plastica bruciata. «La membrana primaria puzza di più del Buffer. E anch’io, temo.» «Li hai visti?» gli chiese porgendogli le sigarette. Bio annuì. «Grazie.» Ne accese rapido una. Fece un profondo tiro. «Quanto sono stato via?» «Quattordici ore. La tua estensione meno.» «L’accordo l’hanno raggiunto?» «Sì. Era come avevi immaginato. Il Biondo per conto di Ghost ha proposto a Sergey un’unione per fuggire. Lui, appena ha visto il fake di Ghost ha chiesto di averla. Hanno interrotto le trattative. Io ho cercato di farli incontrare ancora. Alla fine, lei è stata ceduta a Sergey.» «È già fuggita?» Rasputin rise. «Un’ora fa.» «Bene.» Fece un nuovo tiro. L’aroma di liquerizia gli solleticò la lingua. «Quindi ora Zero Tre saprà da quel fake le nostre intenzioni.»

«Il falso piano» gli diede una pacca sulla spalla. «Già. Comunque, tra poco, vado da Sergey a dirgli quello vero facendo finta che ne abbiamo pensato uno nuovo.» «Non avevamo scelta.» «Com’è Alessio 03, allora?» Bio s’accucciò fissando la fossa. Il vetro blu delle pareti rifletté la sua immagine. Le striature bianche sui capelli erano aumentate così come le rughe d’espressione. «Giovane» sussurrò. «Mi sembrava di parlare con mio figlio.» «E Michela? Ti ha turbato il rivederla?» Bio inclinò la testa. «Pensavo di sì. Invece, ho solo ritrovato in me un grande affetto, ma nulla più.» Sbuffò il fumo rosso della EtiKoff verso la fossa. La nuvola s’elettrificò al contatto col vetro. «Comunque, non sembrava più lei. È un programma davvero complesso.» Si alzò e lo guardò serrando appena l’occhio sinistro. «Era a Las Vegas camuffata da Antonella. O meglio, schermata. E a sua insaputa. Incredibile, no?» «Quindi, la storia non torna?» Rasputin lo fissò portando le mani sui fianchi. «Ci manca un cristallo, ma sono loro.» «Ti hanno riconosciuto?» «Michela no. Non è ancora cosciente di nulla. Mi sono finto un taxista e l’ho portata in albergo. Le ho dato il biglietto, ma non so se lo leggerà.» Fece un ultimo tiro. «E Alessio? Lo farà?» «Purtroppo, lui ha visto che ero schermato. All’inizio, ha pensato fossi Ghost. Vede come se avesse il monocolo. Ho dovuto improvvisare.» Fece spallucce. Gettò il mozzicone che svanì prima di toccare terra. «Non ci avevo fatto caso. Anche i mozziconi vanno nel G.» Bio annuì. «Come tutta la spazzatura, amico mio.» Gli sorrise. «Ti racconto il resto mentre torniamo al Buffer.»

«Vuoi che Null pianga? Ricomponiti un po’, prima.»

La parte crittografata Bio non digeriva la bolla dentro l’ultimo cristallo recuperato da Null, la fissava ancora dubbioso. Aveva visto il nuovo filmato in cui Michela andava in Las Vegas fingendosi Antonella. Era riuscita a parlare con Alessio e si erano chiariti addormentandosi con la promessa del matrimonio. Ma durante la notte, qualcosa era successo. E la mattina dopo, tutto era cambiato. Michela era diversa e disorientata per le rivelazioni. «Senti, almeno ora sappiamo che Michela e Alessio si amano ancora» disse Ergo. Rasputin tornò al tavolo con un tablet e un hard disk esterno, entrambi eterei. «E finalmente Michela sa come stanno le cose» rispose mentre le mani continuavano a spostare i dati. «La sua reazione non è stata ottimale, ma Alessio le spiegherà tutto» continuò Ergo. «La parte di file che manca è consistente» sospirò Bio riando il cristallo tra le dita. «E dal suo atteggiamento, l’incontro con la vera Ghost è stato intenso.» «Sei sicuro che sia la dottoressa Merisi? E se fosse Zero Tre?» Bio scosse il capo e ò il cristallo sul mento. «No. Il modo con cui è stata attivata la finestra e il fatto che c’erano Yumi e dei rappresentanti della Shiba lascia supporre un accesso esterno. Poi, c’è la reazione di Alessio. Infine, il fatto che Michela sia confusa.» Fece una pausa e pose il cristallo sul tavolo. «Susanna Merisi si è connessa dal mondo esterno proprio per comunicare con lei e non trovo una spiegazione. Ecco perché dovrei cercare di estrarlo in qualche modo.» Creò un adattatore e un monitor etereo. Infilò il cristallo nel foro. «Non puoi!» sbottò Rasputin. «Farlo, vorrebbe dire craccare Michela. Potresti causarle un danno.» Lo fissò serio. «Alessio dice che le spiegherà tutto. Lascia fare a lui.» Bio abbassò lo sguardo. Restò in silenzio.

«Threep-pi, anche secondo me è troppo rischioso.» Null poggiò la mano sulla sua, quella vicina al cristallo. «Michela ha preso coscienza di essere un programma e di vivere nel Limbo. È confusa.» Gliela strinse forte. «Dobbiamo avere fiducia in Alessio. Lui le toglierà i dubbi.» Bio si alzò senza guardarla. Osservò fuori dalla finestra ovale. Overflow era vicino a una delle poche presse rimaste. La forma era spettrale. Lenta, si scomponeva in stringhe che finivano dentro lo zaino. Il Buffer non era mai stato così silenzioso e desertico. «La nostra unica possibilità di sopravvivere è di attraversare la sorgente. Dall’altra parte c’è anche la Shiba, però. Quella donna è più spietata di tutti i malware che ho affrontato.» Abbassò il capo. «Iku e Matsumoto sono stati uccisi.» Tornò al tavolo. «È troppo pericoloso. Devo sapere che le ha detto. Devo avere il quadro completo.» Attivò il monitor. «Devo recuperare la parte crittografata.» «Che importanza ha? Tanto sono solo menzogne» disse Rasputin poggiando i pugni sul tavolo. Bio lo fissò serio. «Non credo.» Accese il convertitore. «Sarebbe stato incauto da parte della dottoressa Merisi averle dato una versione dei fatti opposta.» Il cristallo s’irradiò illuminando con i riflessi verdastri anche il volto di Rasputin. «Avrà camuffato alcuni aspetti e avrà stravolto il significato di altri, ma non le ha detto menzogne. Anzi» lo puntò. «Io credo che le abbia detto anche una parte di verità, la sua ovviamente. Ecco perché è importante.» Rasputin scosse il capo. «Sbagli.» «Sono stato superficiale già in ato e ho perso degli amici. Non rifarò lo stesso errore.» «Non prendermi per i fondelli.» Rasputin gli si avvicinò digrignando i denti. «Sei stato nell’altra membrana, hai capito che quella là non è la tua Michela. Sai che per uscire, ci serve solo Alessio. Quindi, lei è sacrificabile.» Incrociò le braccia. «Tutto qua.» «Null, attiva il collegamento» disse deciso.

Null esitò. «Il collegamento…» le chiese alzando il sopracciglio. Null chinò il capo senza replicare e infilò le mani tra le gambe. «Null?» la chiamò ancora. Avrebbe potuto costringerla, se solo avesse voluto, ma non era mai arrivato a quel punto. Nel vederla così combattuta, si sentì meno sicuro della sua decisione. «Quel poco di etica che non ti sei ancora fumato via, s’è bruciata lungo il viaggio» incalzò Rasputin fissandolo serio. «Bio, senti, anche secondo me non dovresti farlo» gli disse Ergo alzandosi. Gli si avvicinò e lo toccò sulla spalla. «Procediamo con il nostro piano. Null potrebbe restare in collegamento per un nuovo cristallo, se dovesse arrivare in tempo.» Bio ondeggiò la gamba. «Ti prego, Threep-pi.» Null iniziò a fissarlo con gli occhioni supplichevoli. Rasputin non perse la posa accusatoria. Bio spense il convertitore e disattivò il monitor. Prese il cristallo e lo diede a Null. «Tieni. Archivialo.» Null lo abbracciò mentre Ergo annuì per la decisione appena presa. «Bene!» esclamò Rasputin. «Non resta che realizzare un esodo senza precedenti. Rompere le barriere di Zero Tre e della Shiba. Portare tutti fuori e far collassare la Matrice.» Bio fissò la sua piccola Null che a stento tratteneva la commozione. Le accarezzò la guancia e le tolse la lacrima blu appena comparsa. «Andrà tutto bene, te lo prometto.» «Threep-pi…» lo strinse più forte. Mentre Null piangeva, Bio comprese che stava per saltare ancora. Un nuovo balzo senza ritorno, ma se fosse caduto, questa volta, non ci sarebbe stato alcun

modo di rialzarsi. Baciò le treccine blu sentendo la consueta scarica elettrica sulle labbra. Ripensò a quando gli venne l’idea delle dreadlock e di Null, e a quanto la sua esistenza gli avesse permesso di sopportare tutto il dolore che si portava dentro. Rivide l’anno nel G e tutto quello che aveva vissuto con una nuova consapevolezza: da quando ci era entrato, aveva implementato le sue capacità curative.

Ti voglio bene Il Buffer svuotato era un cubo di vetro blu asettico. «Threep-pi!» Null lo chiamò dal monitor etereo. «È arrivato un nuovo cristallo, ma è a partizioni.» «Lo sospettavo» disse sparando al gruppetto di Trojan appena precipitati. Appena il monocolo gli confermò la disattivazione, li compattò e li inviò a Overflow. Guardò nello schermo. «Alessio aveva accennato a stanze freddate» disse mentre una nuova scossa di terremoto lo fece barcollare. «Sono sempre più ravvicinate, non manca molto. Siete in postazione?» «Io e Overflow, sì.» Bio la fissò un istante in silenzio. «Perché, gli altri no?» «Rasputin ha avuto un contrattempo, sta partendo ora. Sarà in Quarantena tra tre minuti. Ergo è ancora in viaggio. Svuotare il DELetery non è stato semplice, ma le skill-pill di Skiller hanno aiutato.» Bio serrò la stretta intorno all’Ingram. «Abbiamo poco vantaggio, ma dovrebbe essere sufficiente.» Null sospirò. «È l’ultima volta che ci sentiamo, vero?» Bio deglutì, mentirle sarebbe stato inutile. «Non credo ci sia posto per me dall’altra parte. Né per me, né per lei.» «Non puoi saperlo. Provaci, almeno. Ti prego.» «Tenterò.» Osservò l’ennesimo verme gigante precipitare nel Buffer. «Mandami il file di Michela. In ogni caso, sarà l’ultimo. Le membrane stanno collidendo.» «Grazie per avermi creato.» La mano di Null coprì mezzo schermo. «Ti voglio bene, papi-punk.»

«Sei stata la mia unica gioia.» Bio le sorrise accarezzando la sua immagine. «Abbi cura di te.» Disattivò il monitor. Corse incontro al malware mentre il nuovo cristallo gli mostrava altre immagini di Michela e Alessio. Le ultime prima del gran finale.

17 - Michela Only the Truth

Scoprire la verità equivale a oltreare la soglia dell’autocoscienza.

Accettarla richiede fede cieca nella nuova esistenza.

Per viverla basta muovere il primo o.

Due ore e dodici minuti «Abbiamo ventidue minuti per ogni miraggio freddo. Il percorso è tracciato. Tu mi vieni dietro, io ti racconto la mia verità. Tempo massimo: due ore e dodici minuti. Alla fine, m’incontrerò con lui.» Alessio fu categorico mentre Michela infilava il pupazzo nello zaino. Controllò un’ultima volta il contenuto e lo chiuse. «Potrai scegliere se venire con me, con noi, o restare. Non sappiamo che cosa accadrà alla Matrice, ma potrebbe collassare. Tu potresti cessare di esistere.» Michela lo guardava sconcertata. «Non ho molta scelta.» «Non direi.» Sospirò tornando alla finestra. Si girò solo per darle un’occhiata rapida. «Dal mio punto di vista, sono io che subisco le tue scelte. Proprio come adesso.» «Come subisci?» Michela aggrottò le sopracciglia. «Tu scegli e fai danni. Io devo rimediare.» Alessio guardò l’ora sull’orologio da polso. «Non è colpa mia quello che è successo stanotte.» «Però, potresti fidarti di me e dirmi che ti ha detto Ghost.» «Scusa se mi hanno destabilizzata, eh?» gli disse sarcastica. «Io vorrei solo fare la cosa giusta.» «Per chi?» La guardò di striscio. Michela non gli rispose. «Sei pronta? Manca meno di un minuto al primo balzo.» «Sì, eccomi.» Michela gli si avvicinò con o deciso. «Perché abbiamo solo due ore?» Alessio guardò ancora l’orologio. «È successo un casino di sotto, ma non so

bene neppure io.» Arricciò il naso. «E poi, tu adesso appari al sistema. Quindi, lui ha deciso di anticipare i tempi della fuga.» Si ravvivò i capelli dietro la nuca. «Certo, se tu condividessi le informazioni con me sarebbe tutto più semplice.» Guardò l’orologio. «Trenta secondi.» «Fai tutto questo per me? Per darmi il tempo di capire?» «No, ma va. Mi annoiavo.» Bip! Bip! Bip! «Ora!» Alessio girò la maniglia della finestra al contrario, due mandate. Poi, una decisa nel senso opposto. L’aprì. «Andiamo, presto!» Le cinse la vita. Balzarono oltre.

La Matrice Limbo Si ritrovarono in prossimità di una scala. Alle spalle una porta di legno. L’insegna al neon recitava London Pub, ma solo pub era luminescente. «Tutto a posto?» le chiese Alessio lasciandola. «Hai provato fastidio nel transito?» «Sto bene, anzi» gli sorrise, ma lui restò serio. Le prese la mano. «Di qua. L’altra uscita non è vicina. Dobbiamo camminare rapidi.» Iniziò a salire i gradini di corsa trascinandola. Michela lo seguì senza perdere tempo. Appena furono in strada, sussultò. Un intero quartiere pieno di gente era bloccato. Il sole era al tramonto, ma non brillava. Le nuvole erano arrossate e così immobili da sembrare dipinte. Sfiorò una donna, aveva i capelli dritti sopra la spalla. La gonna e la giacca sembravano tirati da un filo invisibile. Un giornale era accartocciato e fluttuate a pochi centimetri da terra, la scritta Times intuibile tra le pieghe. Un dalmata era imprigionato mentre puntava un erotto appollaiato sulla grondaia di un balcone con le ali tese e le zampette a un soffio dal rame. Il silenzio era assoluto. Michela si tappò il naso. L’aria era intrisa di un forte odore di plastica bruciata. «Perché questa puzza?» «Tutto sa di plastica» le rispose chinando il capo. «Di solito, c’è una miscela di azoto, ossigeno, argon, anidride carbonica e altri elementi minori che creano l’aria che respiriamo. Ma ho freddato l’ambiente. Quindi, anche l’aria. Questo che senti è il vero odore…» esitò. «Del Limbo, giusto?» Alessio annuì. Michela si fermò quando vide davanti al naso una mosca; il corpicino minuscolo

era nascosto dietro gli occhi rotondi e le ali che, trasparenti e immobili, deformavano l’orizzonte. L’aggirò fissandola. «Come hai fatto?» «Mi sono inventato un espediente per are inosservati al sistema. In pratica, creo un’istantanea della zona che dobbiamo attraversare e la impongo come miraggio.» «È bellissimo» esclamò. «Sembra di camminare dentro l’istante. Una sensazione incredibile.» «Purtroppo, ha un tempo limite. Oltre a richiedermi grande sforzo, il sistema scansiona con regolarità la Matrice ogni ventidue minuti. Ecco perché abbiamo tempi ristretti.» Spiegò camminando rapido tra la folla. «Oltretutto, il miraggio ci permette di are senza farci notare dai ivi.» La guardò con l’espressione triste. «Erano tante le cose che avrei voluto mostrarti.» Michela serrò la stretta. «Andiamo, dai.» Gli regalò un sorrisetto tirato. «Raccontami tutto.» Alessio fece un respiro profondo. «Allora, direi di partire con la Matrice.» arono nella via del mercato. Le bancarelle permanenti erano colme di chincaglierie di ogni sorta; dai quadri, al vasellame, ai mobili antichi, agli accessori di vestiario retrò. «La Matrice Limbo esiste, non è un’invenzione ipotetica della Shiba. Simula il mondo com’era nel XXI secolo. Il mondo come lo conosci tu, insomma. E anch’io, a dire il vero.» La fissò. «E noi ci siamo dentro fin dall’inizio. Questo lo sapevi, giusto?» Michela annuì. «Viviamo nella Matrice che puzza di plastica, ormai ne ho preso atto. E dopo il tuo miraggio, non potrei nemmeno dubitarne.» «Non posso esserne certo, ma nella realtà credo che quelli connessi abbiano un’immersione virtuale totale. È logico supporre che anche il corpo sia avvolto in qualche modo. Una cosa è certa: non sanno di vivere una simulazione. E nemmeno io, fin a qualche anno fa. Però, su questo punto, ci torno dopo.» Si grattò il mento. «Bene» esclamò Michela. «Nel Limbo nessuno sa di essere in un mondo

virtuale. Confermato anche questo.» Strisciarono il muro di mattoni rossi per uscire dal mercato. Al bivio, Alessio girò a destra. Una stradina residenziale sembrava uscita da un dipinto antico con le varie scalette per gli ingressi ricolmi di fiori. «Quelle che tu definisci persone sono di due tipologie diverse a seconda dell’interazione se iva o attiva.» Alessio le diede una rapida occhiata. «Io chiamo ivi i personaggi che crea e gestisce il sistema. Sono la stragrande maggioranza e sono di facciata. Persone che vedi, ma con cui non interagisci. In pratica, delle applicazioni con un solo scopo prefissato.» Michela annuì. «Come delle comparse.» «Esatto. Gli attivi sono invece le menti delle persone reali che sono connesse a loro insaputa. Il sistema li identifica come dei programmi. Queste persone, sono tenute in vita al servizio della Matrice, forse in cabine neuronali. Interpretano loro stessi, non hanno degli alter ego. E decidono per conto loro. Hanno una sorta di libero arbitrio, per questo sono attivi. Però, la memoria è spesso sovrascritta, perciò alcune scelte sono condizionate.» «Come fai a dirlo?» Alessio si fermò nei pressi di un estintore da marciapiede. Poggiò il piede nella pozza d’acqua senza che s’increse. Sembrava di gomma. «Alcuni attivi hanno dei déjà vu. Questo capita perché la sovrascrittura è stata fatta in modo parziale.» «Ma il déjà vu non è quella strana sensazione di falso ricordo?» Alessio annuì. «Dovuta al ritardo di elaborazione del cervello di quello che vediamo. Esatto.» La guardò di striscio. «Infatti, cambiando la direttiva, l’attivo ha bisogno di un frammento cui riagganciarsi: il ricordo.» Riprese a camminare, Michela lo seguì. «All’inizio credevo che gli attivi fossero solo i comatosi, ma credo ci siano anche persone sedate contro la loro volontà.» Michela portò la mano al petto per l’ansia. «I casi di abduction lo dimostrano.»

«I rapimenti alieni?» Aggrottò la fronte. «Cosa c’entrano gli alieni?» Alessio si fermò d’improvviso. «No, gli alieni nulla. Ma è quello che raccontano gli addotti che fa pensare a un risveglio non voluto dalla sedazione. Loro dicono di sentirsi analizzati, violati con aghi e tubi ovunque.» Si massaggiò la pancia con una smorfia. «La spiegazione è semplice. Sono i sedati che si risvegliano. Bastano pochi istanti e il cervello subito memorizza paura, ansia, terrore. Quando li riaddormentano, non riescono a eliminare le pessime sensazioni provate che col tempo riaffiorano. Quindi, qui nella simulazione, è vissuta come un’adduzione.» Sospirò. «È solo una mia teoria, comunque. Secondo me, i corpi invecchiano molto lentamente, ma lo stesso. Del resto, a loro interessa il cervello.» «È tremendo» disse Michela. «Sono molti, secondo te?» «Purtroppo, oltre il milione. Sono sparsi nel mondo e sono di tutte le razze.» Chinò il capo afflitto. «Tutto questo, a causa mia.» Chiuse gli occhi. «Non hai idea di come mi faccia star male. È anche per questo che, una volta che sarò fuori, li scollegherò tutti.» Prese fiato. Osservò l’orologio. «Dobbiamo sbrigarci, di qua.» Usciti dalla via residenziale, costeggiarono i cancelli di un parco. Le chiome delle piante erano arruffate verso sinistra, plasmate come l’ultimo soffio di vento che le aveva solleticate. «Ora, veniamo allo scopo. Lo scopo della Matrice è di far maturare il Progetto BIO. Che poi, sarei io.» Si additò. «Ma anche qui ci torno dopo. Secondo loro, necessito di persone convinte di essere reali. Quindi, quasi tutti quelli che frequento sono attivi, persone in coma nella realtà.» «Sì, lo so» replicò Michela con un filo di tristezza nella voce. «Peccato che non sapessero di un dettaglio.» «Cioè?» «Io ho creato una modalità visiva alternativa. Posso vedere il tipo di collegamento. Mi appare diverso a seconda se è un attivo o un ivo.» «Un po’ come Bio, intendi.»

Alessio si fermò e la fissò accigliato. «Bio Cyberpunk è solo il mio avatar digitale.» Le si avvicinò. «BIO comprende anche Zero Tre e Cyberpunk che non sono la stessa entità. Ti torna?» Michela sgranò gli occhi. Spalancò la bocca. «Che bastar-» Si zittì. Alessio sogghignò. «Questa ti è nuova. Eh?» Michela annuì. «Mi ha lasciato intendere sempre e solo Bio, in generale.» «Tranquilla. Dopo chiariamo anche questo. Finisco con la Matrice.» Ripresero a camminare veloci. «Allora, i ivi li vedo anche con un’aurea, se preferisci, grigiastra. Gli attivi, dorata.» «E io? Cioè, come mi vedi?» «Ho scelto di darti l’arcobaleno.» Le fece l’occhiolino. «È così che ti trovo sempre.» «Scusa, ma se ti sembro un arcobaleno, come mai non mi hai riconosciuta ieri in albergo?» «Perché ti sei schermata.» Sbuffò. «Cioè, tu hai deciso di camuffare il tuo aspetto e quindi anche il tuo spettro visivo. Non lo potevi sapere, lo hai fatto inconsciamente. Sforzandoti di apparire come un’altra, hai confuso anche me. Solo quando lo hai voluto tu, mi sei apparsa colorata.» Entrarono nel parco. Si avvicinarono alla guardiola della polizia. L’uomo in divisa era seduto dietro il vetro e fissava il giornale immobile. Alessio si fermò davanti alla porticina di legno e vetro. «Eccoci. Appena è il momento iamo.» «Quanto manca?» Alessio guardò l’ora. «Meno di cinque minuti.» Si appoggiò alla parete. Incrociò le gambe e le braccia. Michela gli si mise davanti. Impugnò le cordicelle che penzolavano dallo zaino. Giocherellò col gancetto facendolo scattare più volte.

«Che dirti ancora sulla Matrice?» Alessio si ravvivò i ciuffi. «Ah, ecco. Non so bene in che epoca sia la Shiba, ma siamo oltre il 2050. Non sono nemmeno sicuro che sia Shiba il vero nome. Potrebbe essere diverso. E di sicuro è una multinazionale potente, non l’azienda di videogiochi che pensiamo.» «Come lo hai capito?» «Una volta, da piccolo, credo di essermi svegliato.» Si accarezzò il labbro. «Ci siamo svegliati, cioè.» Infilò le mani in tasca. «Ho visto una data: 2052.» Calciò il prato sbuffando. «Però, da allora, potrebbe essere trascorso un secolo o una dozzina d’anni.» Michela annuì. «Bene, sulla Matrice credo di averti detto tutto quello che so. Purtroppo, la vivo dall’interno come te. Anche il mio punto di vista è limitato. Domande?» «No. Ti sei spiegato molto bene.» «A sapere che incassavi cosi, ti dicevo tutto tempo fa» le sorrise. «Io credevo di traumatizzarti.» «Ci ha già pensato Ghost, grazie.» Alessio alzò il sopracciglio. «L’hai vista? Com’è?» Michela si morse il labbro. «Non posso dirtelo. Non ancora, scusa.» Alessio voltò lo guardo verso il parco. «Come vuoi.» Restarono in silenzio fino al segnale. Bip! Bip! Bip!

Zero Tre, Alessio Merisi e Cyberpunk L’isola era deserta. Il sole inzuppato nel mare immobile. Michela aveva i piedi sulla sabbia che non si era deformata. Mosse alcuni i. Le sembrava di camminare su un terreno mosso pieno di sassi più che nella sabbia. Faceva un po’ impressione. Niente risacca. Niente brezza marina. Le palme sembravano quelle di plastica del Presepe. Alessio si sedette sotto la pianta più vicina. Appoggiò la schiena al tronco. «L’uscita è là.» Indicò l’unica abitazione in vista a una ventina di metri; una capanna di canne intrecciate col tetto di paglia. Michela gli si sedette davanti. La schiena era al sole, ma non sentiva nemmeno il pallido tepore. «Ora ti parlo un po’ del Progetto BIO» annuì. «Ha la specifica zero-tre, quindi suppongo ci siano stati altri progetti. Tre o quattro, a seconda se hanno contato da zero o uno.» Si stropicciò l’occhio destro. «Questa è la parte più difficile da spiegarti perché non ho le idee chiare nemmeno io.» Sospirò. «Il Progetto BIO comprende Zero Tre, Cyberpunk e Alessio Merisi, cioè io.» Si additò. «Siamo tre sfaccettature della stessa mente. Ora ti spiego nel dettaglio.» «Siete in tre, allora» sussurrò Michela. Anche se la versione di Alessio era più complessa di quella raccontata da Ghost, stranamente le apparve più intuitiva. «Zero Tre è la mente fisica collegata alla Matrice. Lui è integrato nel modo peggiore che possiamo pensare. Un prigioniero vero e proprio. La cosa importante è questa: lui è l’unico di noi tre che esiste davvero nel mondo reale. Infatti, io e Cyberpunk lo identifichiamo come la sorgente. Ci sei fin qui?» «Zero Tre uguale unico contatto col mondo reale.» Michela annuì. «Ora veniamo a me, Alessio Merisi. Io sono la sua elaborazione virtuale. Unica.

Non è detto che il suo aspetto sia come il mio, ma è simile. Io sono il corpo qui nella Matrice. Però, sono anche il suo carattere, la sua esperienza. I suoi sensi. Mi segui?» «Zero Tre non ha mai aperto gli occhi, in sintesi. Non ha mai respirato l’aria. È nato e cresciuto in una cabina neuronale.» «Esatto.» «Tranne una volta, quando ti sei svegliato.» Alessio annuì. «Ero piccolo, è successo poco prima che incontrassi la dottoressa Rayali. È logico supporre che avessi dei problemi, devono avermi operato o trasferito o qualcosa del genere.» Sobbalzò. «Ah, già. Dimenticavo di dirti che la dottoressa Rayali era un’attiva cosciente.» «Attiva cosciente?» «Oltre ai ivi e agli attivi, ci sono questi altri attivi. Io li ho chiamati coscienti, appunto, perché sanno di essere nella Matrice. Mi sembrava appropriato.» Ondeggiò veloce le sopracciglia. «Loro non sono sedati. Si connettono in modo diretto e a tempo determinato come fossero degli utenti.» «Ho capito» sussurrò anche se perplessa. «Loro ti appaiono con uno spettro diverso?» «Il dorato è diverso. È come l’oro da ventiquattro carati con quello da diciotto. Se ho vicino un altro attivo, è più immediato. Se isolato, faccio fatica, ma alla fine li individuo lo stesso.» Distese le gambe e incrociò le braccia. «Quindi, Alessio Merisi uguale corpo» concluse Michela. «Mi viene spontaneo pensare a Cyberpunk come l’anima, ma sono fuori strada immagino.» «È così invece» annuì Alessio. «Non è l’anima come l’intendi tu, però è la terza parte senza la quale non avremmo equilibrio e stabilità. Lui è collegato direttamente a me. Lo vive anche Zero Tre, ma sempre attraverso me. Lui esiste nel substrato della Matrice Limbo. Quando mi collego alla rete, in realtà è un po’ come se lo evocassi. Non so se mi spiego.» «Substrato?»

Alessio si schiaffeggiò la fronte. «Ops! Qualcosa sulla Matrice mancava: la conformazione. Pensala come un cono. La parte ampia in alto è dove viviamo la simulazione. Poi, scende verso la sorgente restringendosi. Cyberpunk è nella parte interna del cono. Zero Tre è la sorgente, ma esce nel mondo reale.» «Allora tu sei quello più lontano?» «No. Devi pensare che i dati partono dalla sorgente sfiorando l’esterno del cono per poi scendere a cascata. La pioggia di dati forma il mondo in cui esistiamo noi. Solo dopo penetra nel sottosuolo, cioè il substrato dove esiste Cyberpunk. Così si generano anche il flusso e il controllo dei dati.» Alessio si grattò il labbro. «È troppo complicato?» Michela alzò le sopracciglia. «No, no. Insomma, ho in mente qualcosa lo stesso.» Inclinò la testa. «E che fa Cyberpunk nel substrato tutto il tempo? Ha una sua simulazione?» «Che fa un’anima?» «Si arricchisce dell’esperienza.» Alessio fece spallucce. «Ti sei data la risposta da sola.» Michela balzò in piedi. «Oh, mio Dio.» Si zittì. «Che c’è? Hai fatto il confronto con quello che ti ha detto Ghost? Ti è venuto in mente qualcosa?» Alessio si alzò e le prese le spalle. «Io ho dei punti oscuri, se sai qualcosa, ti prego, dimmelo.» Michela ansimava, il cuore le pulsava in gola. «È solo una vaga idea. E non posso dirti nulla. Non ancora.» Gli scostò le mani. «Va bene» disse appoggiandosi al tronco. «Vai avanti, per cortesia.» Michela si strinse nelle spalle. «Questa consapevolezza l’abbiamo però acquisita col tempo. All’inizio eravamo uno solo. Noi pensavamo di essere solo Alessio Merisi un italoamericano che utilizza un avatar chiamato Bio Cyberpunk. Per anni, ho vissuto così.»

«E poi, che è successo?» «Indovina.» «Io? Io vi ho separati?» «Non ci hai proprio separati, ma hai innescato un conflitto.» Si grattò in testa. «Conflitto che non riusciamo a capire, in verità.» Sospirò. «Ti ricordi che ti ho detto che ti sogno?» Michela cercò di trattenere la commozione. La sua idea prendeva consistenza, ma non poteva parlargliene. «Come fosse un’altra vita.» «Tu capisci però che non ha senso. Ora che sai dove viviamo, intuisci che non è possibile il ricordo della vita precedente. Non c’è una vita precedente.» Michela avrebbe voluto dirgli che si sbagliava, ma si trattenne. «Comunque, ancor prima di incontrarti io ti sognavo. Quando ti ho vista, però, sono entrato in conflitto con Zero Tre e Cyberpunk e abbiamo iniziato a elaborarti in tre modi diversi. Zero Tre come dati mancanti, io come anomalia e Cyberpunk.» Si fermò. «Non so come spiegarti. Ecco…» esitò. «Si è rifugiato nel substrato.» «Come?» «Non comunico con Cyberpunk da che ci conosciamo.» Sbuffò. «Ho dovuto creare l’avatar Bio Cyberpunk per non fare insospettire quelli della Shiba.» Si ravvivò i capelli sulla nuca. «Non mi chiama, non manda messaggi. Nulla.» Michela era disorientata. «Mi stai prendendo in giro?» Alessio scosse il capo. «Certo che no! Perché dovrei?» «Cioè, una parte di te, di voi, s’è smarrita nel substrato?» «Non si è smarrita. Lui vaga. Almeno credo.» Alessio fece un o in avanti. S’appoggiò al tronco con la mano, il braccio disteso. L’altro braccio lo puntò in vita. «La gara in Las Vegas, ad esempio. Eravamo solo io e Zero Tre. Anzi, più lui di me. Lui è più forte di me. Mentre io sono più forte di Cyberpunk. Forza

mentale, intendo. Qui la forza fisica non esiste.» Si strofinò gli occhi con indice e pollice. «A ogni modo, quella non era una semplice gara. Lo avrai capito, no?» Michela annuì. «Era il secondo tentativo di saggiare le potenzialità del Progetto. Mi hanno dato la pillola affinché sfruttassi al massimo la mia attività neuronale, cioè di noi tre insieme.» Si rimise dritto. Incrociò le braccia. «Devi pensare che, quelli che gestiscono il controllo, non sanno del nostro conflitto interno.» «Ecco perché eri così strano dopo aver preso la pillola. Eri rude e violento. Non sembravi più tu.» Alessio annuì. «Quello era Zero Tre. Lui ha preso il sopravvento perché mancava Cyberpunk. Per quello ero confuso e temevo di averti fatto del male.» Chinò il capo. «Lui non ti ama come me. Lui ti vede come dati. Io, invece-» «Tu mi vivi» sospirò Michela un po’ rincuorata. «Sì, ora lo capisco.» Fece un profondo respiro. «E prima, in camera, il tuo mal di testa? Era sempre Zero Tre?» «Sì.» «Perché?» «Vuole il file crittografato.» Michela chinò il capo. «Vuole che tu mi faccia del male, allora?» «Lui non pensa in termini di bene o male. Non capisce quello che proviamo. Per lui è solo uno scambio di dati. Se tu non glieli dai, lui se li prende. È come entrare in un computer.» Si spostò il ciuffo. «Tra me e lui il conflitto è aumentato molto negli ultimi tempi. Più io e te ci amiamo e più lui si allontana, ma non so il perché.» «State litigando a causa mia?» gli si avvicinò. Gli strinse il braccio. «Non è un litigio.» Alessio esitò. «È più un soddisfare le proprie esigenze.» «Ossia?»

«Tutti vogliamo uscire, essere liberi. Solo che io voglio portarti con me.» La guardò serio. «Anche lui è frenato da qualcosa, ma non so cosa sia.» Michela gli strinse la mano. «Quanto manca?» «Tre minuti. Incamminiamoci.» Mentre la capanna si avvicinava, una domanda si fece largo in lei. «Alla gara c’erano anche degli attivi coscienti, vero?» «Era pieno. Le prime file erano solo di loro.» «L’anno in cui ti ho conosciuto, mi hai detto di averla persa. In realtà, che cosa è successo?» «Che Igor mi ha battuto.» La mano di Alessio era appoggiata sulla maniglia di bambù. «Igor è un attivo cosciente? Lui è un utente?» «Brava, bella intuizione.» «Quindi, non è davvero in coma.» Alessio abbassò lo sguardo. «Qui nel Limbo l’ Igor Sokolov è bloccato. Nel mondo vero, l’utente potrebbe anche essere morto, per quel che ne so, purtroppo. Per quello ero triste e incazzato al tempo stesso.» «E ti manca?» «Sì, certo.» Alessio la guardò dubbioso. «Mi era simpatico e molto maturo per la sua età, a dire il vero. Faceva il personaggio in pubblico, ma quando eravamo soli, era diverso. Non ho potuto essere suo amico fin dall’inizio perché la Shiba si sarebbe insospettita.» «Certo…» Michela annuì a capo chino sperando di potergli dire più avanti chi fosse davvero Igor. «E Rasputin 0, allora? Dov’è?» Si grattò il naso. «Se ho capito bene, Rasputin 0 dovrebbe esistere come programma o no?» «Hai capito proprio bene.» Alessio alzò le sopracciglia un paio di volte rapido.

«L’ho inviato nel substrato in cerca di Cyberpunk, ma ne parliamo più avanti.» Bip! Bip! Bip!

Michela/Alessio La montagna era immacolata. La baita, piccola e rettangolare, era appesantita dalla neve. Il falco, un trasferello nel cielo ancora chiaro che già ospitava la luna. Michela avrebbe voluto toccarlo, ma dieci metri almeno li separavano. Aveva le scarpe da ginnastica appoggiate sopra la neve vergine, ma non sentiva freddo. «Ale…» disse senza creare la nuvoletta di vapore. Portò le mani davanti al viso. Alitò più volte, ma non accadde nulla. «È davvero scioccante.» «Cosa?» «Un generico tutto, ti basta?» «Non mi è mai bastato e lo sai.» S’incamminò lungo la discesa. All’orizzonte la neve lasciava spuntare qualche masso. «Ora direi che è giunto il momento di chiarire la tua situazione» le disse senza guardarla mentre saltellava agile. Michela deglutì. Mosse un primo o timorosa. Il piede scivolò. Cercò l’equilibrio agitando le braccia. Alessio l’afferrò al volo cingendola in vita. «Come hai fatto a prendermi? Eri già lontano.» Alessio sospirò scuotendo il capo. «Secondo te?» La prese in braccio senza battere ciglio. Michela gli cinse il collo. Riprese la discesa come se non avvertisse il suo peso. «Ho timore che tu non abbia ben chiara la situazione» le disse tra un balzo e l’altro. «Ora che sei cosciente, se pensi di scivolare, scivoli. Se pensi di scendere agile, lo fai. Capito?» Si fermò e la lasciò. «In mezzo alla gente devi conformarti, ma qui siamo isolati.» Michela poggiò i piedi sfiorando il suo corpo; l’unica nota famigliare e al tempo

stesso nuova. «Proviamo?» «Va bene» sussurrò afferrandogli la mano. «Allora mi convinco e faccio un bel salto.» Fletté le gambe e si diede una spinta decisa. Balzò in aria leggera, libera, accarezzando la terra come un soffio di vento. «È bellissimo!» «Il bello viene tra poco.» Alessio la tirò a sé. La cinse in aria poco prima di sfiorare la terra per poi balzare più in alto. «Non avere paura» le sussurrò ricadendo a picco su un lago ghiacciato. Michela si strinse a lui mentre lo strato di ghiaccio si frantumò in cristalli che schizzarono intorno a loro. L’acqua si deformò, li avvolse solleticandoli. Toccarono il fondo del lago. Alessio spiccò un nuovo salto, ma di lato. Iniziarono a percorrere il letto acciottolato disinvolti come se appartenessero a quell’elemento. «Lasciati andare. Ti tengo io.» Alzò la testa rapido per osservare la direzione, poi la guardò. Le bolle gli solleticavano il viso modellando il sorriso più dolce che Alessio le avesse mai regalato. Le accarezzò la mano, il braccio. Al aggio del suo tocco gentile, la pelle tornò del consueto pallore. Michela vide le ciocche scure e ricce tornare bionde e ondeggiare intorno a lei. «La mia Michela, l’originale» la guardò languido. L’abbraccio s’intensificò con un brivido crescente in tutto il corpo. Balzarono fuori dall’acqua creando una corona azzurra che si librò in aria con loro. Alessio scese lentamente fissandola. «Piaciuto?» «Tanto.» Si guardarono in silenzio.

«Ora mi dici che mi hai fatto?» gli chiese subito dopo aver toccato terra. Alessio annuì e le prese la mano. «Intanto, portiamoci all’uscita.» Si avviarono lungo il sentiero scosceso. La neve era meno intensa, ma il panorama era immutato. «Io ti sognavo. E questo te l’ho già detto.» Iniziò a spiegarle con la testa bassa. «Quando ti ho vista all’Eleven, non ti ho prestato subito attenzione perché mi apparivi come l’applicazione della tua amica Antonella.» Alzò la testa d’improvviso. «A proposito, la tua amica è-» «È una comatosa. Io sono nata come sua applicazione, lo so. Tu dovevi divertirti con lei, invece l’hai rifiutata.» Alessio si fermò. Incrociò le braccia e prese a fissarla serio. «Divertirmi?» «Già!» sbottò lei. «Hai capito, no?» «Ti sembra che volessi divertirmi quella sera? È stato Luke a insistere. Ti ricordi?» La guardò di striscio. «Anzi, io che cosa ti avevo detto? Che mi sembrava programmata, rammenti?» «È vero. Ora ricordo. Scusa.» Si spostò la ciocca dietro l’orecchio. «Procedi, dai.» Ripresero a camminare. «Quando ci siamo presentati, è sorto il conflitto che di accennavo prima. Eri la stessa ragazza che sognavo. Però, io già sapevo di essere nella Matrice. Quindi, non capivo come potessi sognare un’applicazione nata quella stessa mattina, oltretutto.» Michela abbassò il capo. Alessio si fermò. «Scusa. Forse era meglio partire dalla tua attivazione.» «Non ti preoccupare. Che la mia vita fosse tutta finta, m’è stato detto.» Gli strinse la mano. «Sono nata a scuola, in infermeria quella mattina stessa. La dottoressa non mi stava visitando per la pallonata, ma per verificare che

funzionassi nei parametri. Poi è arrivata Antonella e mi ha fatto sua. So tutto.» Sospirò depressa. «Pensavo alla mia famiglia…» «Sono ivi, ma io li ho messi al sicuro. Li portiamo con noi. Non li lasciamo qui nel Limbo.» «Grazie davvero.» S’incamminarono ancora. «Dunque, per capire il legame tra te e i miei sogni, ti ho fatto bere un codice. Era l’unico modo per metterti al sicuro. Essendo un’applicazione di Antonella, temevo che il sistema ti cancellasse di lì a breve.» «Il bio-logic drink» intervenne Michela. «In effetti, se non fosse stato per il succo, mi avrebbero cestinata in ascensore.» Gli accarezzò la guancia. «Mi hai salvata.» Lui annuì. «Non capisco, però, cos’è successo dopo. Perché ti sei comportato a quel modo?» «Nel locale c’erano anche degli attivi coscienti che mi monitorizzavano.» Inclinò il capo. «Era per metterti al sicuro. Solo che dopo non sapevo come contattarti per davvero. Così ho pensato a Bio Cyberpunk.» Si fermò e la guardò serio. «Intendo il profilo del mio avatar. Non Cyberpunk del substrato. Capito? Cioè, quello con cui chattavi e parlavi al telefono ero io. Questo è chiaro?» «Eri sempre tu…» «Confermo al cento per cento.» Fece una pausa. «Qui Ghost ti ha detto che era un altro, immagino.» Michela annuì. Alessio portò la mano sulla bocca. «Ti ha nominato Bio perché ci identifica come uno. Credo.» «Tu, secondo lei, saresti l’avatar di Bio.»

Alessio restò in silenzio un po’. «Se ci vede come uno, ha senso. In più, credo voglia sminuire quello che c’è tra noi» disse poco dopo. «Il suo intento è di separarci.» Michela sospirò. Alessio c’era arrivato con due riflessioni. A questo punto, doveva sapere un aspetto della loro relazione importante. Non poteva attendere oltre. «Senti, Ale, devo farti una domanda.» Si fece coraggio. «Come hai fatto a potenziarmi tanto?» Alessio si schiarì la voce. «Non è stato facile perché dovevo farlo di nascosto dal sistema.» Infilò le mani in tasca. «Dovevo filtrare i miei codici, capisci?» La guardò mordendosi il labbro. «Allora è vero che smanettavi i miei codici mentre facevamo l’amore.» Alessio sobbalzò. «Cosa?» «È terribile. Come hai potuto? Non c’era un altro modo?» Alessio sgranò gli occhi. «Eh?» Scosse il capo. «Ma di che stai parlando? Scherzi?» «Non è così?» gli chiese Michela. «Certo che no.» Alessio scosse il capo. «Per forza eri strana questa mattina. Però, anche tu che ci hai creduto.» «Sembrava tutto così coerente.» Michela lo abbracciò e appoggiò la testa sul suo petto. «Allora come?» «Ti ho fatto accesso corticale dietro l’orecchio.» Michela si toccò la testa con la destra. «Dall’altra parte.» Le prese l’indice. «Aspetta, ti aiuto io.» Le spostò i capelli. Michela inclinò la testa di lato. Dietro il padiglione auricolare sentì una sporgenza, un neo molto grosso.

«Lo senti?» «Sì.» «Bene. Ora guarda il mio, così capisci.» Indicò dove aveva l’orecchino. Vide il solito neo. «Prova a grattarlo via.» «Bene.» Diede un colpetto con l’unghia. Sotto il neo c’era un pallino metallico. «Come funziona?» «Ti tolgo il neo. Prendo il mio orecchino e te lo infilo.» Fece spallucce. «Di solito, lo facevo mentre dormivi.» «Tutto qui?» «Tutto qui» le sorrise. «Dirti che avevi un buco in testa mi sembrava pesante da digerire, però in confronto all’altra versione forse è più accettabile.» «Invece, durante i nostri momenti, che sentivi?» Alessio le prese il viso tra le mani. «Sentivo che era l’unica cosa vera che c’era nel Limbo. Tu sei la sola nota profumata per me.» Poggiò la fronte sulla sua. «E l’altra notte, mi è sembrato per un attimo di essere libero. Libero davvero.» Avvicinò le labbra alle sue. Michela lo allontanò. «Scusa. Ancora no» rispose col cuore in gola. Alessio abbassò le braccia e lo sguardo di colpo. «Va bene.» «Perdonami, ma anche se Ghost ha appesantito un aspetto e ne ha tolto un altro, ci sono ancora troppe cose che non tornano.» Alessio le porse la mano a testa bassa. «Un momento.» Michela gliela strinse. «Ma se tu non prendi le informazioni con i baci, come facevi a sapere di stanotte?» «Michela, amore.» Alzò un sopracciglio. «Quando mi sono svegliato stamattina, dire che eri storta è dire poco. M’hai fatto scoppiare un’emicrania così forte che perfino Zero Tre s’è connesso creandomi quelle fitte tremende.» Deglutì. «Poi,

dopo avermi spinto a terra, sei svenuta. Ho provato ad accedere ai tuoi dati e ho visto il file crittografato. Così ho lanciato uno primo scan mentre sono dovuto correre all’Hilton per proseguire la farsa della gara. Quando torno, be’…» fece un profondo respiro. «Abbiamo avuto la conversazione che sai.» Michela sgranò gli occhi. «Ha giocato sull’equivoco. Però alla fine, tu eri diverso. Al secondo mal di testa, intendo. Quando mi hai aperto la porta in camera mia.» «Zero Tre è più forte di me, come ti ho già detto.» Chinò il capo. «Se vuole, prende il sopravvento. Non con poco sforzo, ma ci riesce.» «Secondo te, perché sono svenuta?» «Io pensavo a un giramento di testa, all’inizio. Ora, credo sia colpa del file.» Michela annuì. «Vedremo» sussurrò perplessa. «Zero Tre ci sta ascoltando, ora?» «No. Mi sono isolato» le disse secco. «Siamo rimasti d’accordo per l’appuntamento.» «Quindi, non c’è Zero Tre e nemmeno Cyberpunk. Siamo soli.» «Sì.» Ripresero a camminare. La neve diminuiva. In alcuni punti c’erano frammenti di terreno roccioso che interrompevano la monotonia del bianco. «T’interessano le varie fasi della programmazione o o al tuo libero arbitrio?» «Libero arbitrio, grazie.» Lo guardò di sfuggita. «Bene. Ti ricordi quando avevi Ghost nel computer?» Si grattò il labbro. «È stato lì che ho pensato di fare una forzatura sui tempi e di dartelo. Era presto, ma non potevo rischiare oltre. Così, mi sono organizzato. Ho preparato gli algoritmi. Quando sono venuto da te, ero intenzionato a dirti qualcosa della Matrice Limbo. Ti ho portata in cantina apposta. Però poi, tu sei caduta in trance. Ghost non voleva più che comunicassimo. Così ho fatto una doppia forzatura. Ti ho caricato tutto quella notte senza dirti altro. Ho lasciato la lettera da Patrick confidando

che saresti andata da lui per cercarmi. La lettera erano i codici per il tuo riavvio. È bastato leggerla.» Alessio abbassò lo sguardo. «In realtà, sei svenuta per colpa mia. Però, io ero lì e ti tenevo la mano.» «Eri tu quello che mi ha soccorsa?» disse inarcando un sopracciglio. «Chissà perché, un po’ me lo sentivo.» Alessio le sorrise. «Così, il mio libero arbitrio era un’illusione.» «La Matrice ha dei blocchi. Anche i fattori attivi non hanno un vero e proprio libero arbitrio.» «Perché le memorie sono sovrascritte. Invece, io non posso essere toccata.» «Esatto. In più, tu sei in grado di accedere al sistema in modo autonomo, acquisire e gestire informazioni e fare quello che faccio io. Ovviamente, ci vorrebbe del tempo per fare della pratica. Cosa che non abbiamo.» «Vuoi dire che potrei aprire e chiudere porte come fai tu?» «Non solo» annuì. «Ti ho dato un po’ di più del semplice libero arbitrio. Ti ho resa il programma più potente del sistema.» «Però questo sta destabilizzando il sistema, o no?» Alessio scosse il capo. «Fino a stamattina, andava tutto bene. Certo, se inizi a volare su Milano crei dei problemi con i fattori con cui interagisci. Se pieghi i palazzi, a parte la libidine iniziale, il problema è che poi il sistema ti vedrebbe come un’anomalia. E come tale cercherebbe di eliminarti. Ma se tieni il profilo basso, come ho fatto io, non succede nulla.» «Quindi, io non creo problemi al sistema?» «Fino a stamattina, no.» «Ghost dice il contrario. Dice che continui a mettere cerotti ovunque a causa mia.»

Alessio mugugnò. «Qualche patch l’ho messa stamattina a causa del tuo segnalatore. E qualcosa ho messo in ato, ma nulla di sconvolgente a tal punto da mettere in crisi la Matrice. Te lo assicuro.» «Dice che sono fonte di continuo errore. Allora mentiva?» «L’unico che potrebbe creare dei danni tali è Zero Tre. È lui che forza il sistema per trovare l’uscita. Non so perché Ghost ti ha detto che sei tu.» Alessio si massaggiò il collo. «Forse è la solita questione che ci vedono come uno. Magari, pensano che lui faccia tutto questo per te.» «Sarà così» sospirò. Alessio le poggiò le mani sulle spalle. «Micky, non sei tu la causa dei problemi. Tu non hai fatto nulla per sentirti in colpa.» «Ma tra poco collasserà tutto lo stesso. Lo hai detto tu.» «Ho detto potrebbe. Il problema è che una volta fuori, non sappiamo cosa accadrà alla Matrice. Potrebbe collassare, è vero, ma non per causa tua o per dei danni fatti da noi. Forse è il prezzo per la nostra libertà. E non lo dobbiamo pagare noi, ti pare?» «Ghost dice che moriranno tutti i comatosi?» «Ora ho capito.» Alessio si fermò e la fissò. «Ti vuol far fare la martire. Ti ha chiesto di sacrificare la tua vita per la causa della Shiba, è così?» «Come puoi vivere sapendo di aver ucciso?» «Ferma!» la interruppe. «Come fai tu a esserne certa. Sei sicura che accadrà? E se invece andasse avanti? Io voglio scollegarli tutti, è vero. Una volta fuori, lo farò. Scollegare non vuol dire uccidere, ma ridare la vita. La vita che nemmeno io ho mai avuto.» Fece un profondo respiro. «Come credi che mi senta? Sai cosa si prova a vivere una vita sapendo che è finta?» «Frustrazione, suppongo. Rabbia. Sofferenza.» Michela abbassò la testa. «L’idea di partenza è quella.»

Ripresero a camminare. «Tutti i problemi che ci sono stati, era la Shiba a crearteli? Perché non hai escogitato qualcosa per uscire dalla crisi, almeno?» «Pensi che lo abbia fatto per impietosirti?» Alessio serrò la mascella. «Non è così, credimi. La vita simulata che ho nella Matrice non posso cambiarla.» Fece una pausa. «Avrei potuto avere un sacco di soldi con una facile vincita alla lotteria, è vero. Ma c’eri tu.» «Se vincevi la lotteria, non avrei mica pensato di vivere nel Limbo. Avrei pensato a un colpo di fortuna e basta.» «Esatto. Fortuna, non bravura.» Michela sobbalzò. «Quindi, hai sempre affrontato tutti i problemi come se fossi nella vita vera perché io avessi stima di te?» «Lo trovi così strano?» «Come hai fatto a sopportare tutto, quando sei» esitò «ciò che sei, insomma?» «Ti ricordi quando ho battuto quelli del Tunguska al Babelpunk?» Michela annuì. «Come scordarlo.» «Se ti avessi detto che era tutto finto, mi avresti abbracciato e baciato con altrettanto trasporto?» Michela restò ammutolita. «Come immaginavo.» Alessio si fermò. «Da che ti conosco, ho sempre fatto tutto da solo. Io sapevo già allora che un giorno ti avrei detto tutto. Non volevo che tu perdessi fiducia in me. Ti è più chiaro così?» Le si mise davanti. «Sei stata tu a darmi la forza. La tua presenza. Il tuo conforto. Prima ero un carcerato innocente che cercava di evadere. Ma da quando sei nella mia esistenza, mi hai dato nuovi stimoli.» Le si avvicinò. Le afferrò le spalle e la sollevò appena verso di lui. «Ora capisci cosa voleva dire per me averti vicina?» La fissò intensamente. «Tu e il nostro amore, siete le sole cose reali. Le sole importanti. Avrei potuto vincere la lotteria, ma oggi cosa avresti pensato?» Fece una breve

pausa. «Una chiacchierata con Ghost e tu non credi più in me. Se non fossi stato onesto in ato, non saremmo qui a parlarne. E io ti avrei già persa.» «È vero» sospirò Michela. Lo abbracciò forte. «Infatti, da che mi stai raccontando tutto, capisco quanto sia stato difficile. Tu non hai mai infranto le regole perché credessi ancora in te.» «Ecco…» Si schiarì la voce. «A dirla tutta, ci sono stati alcuni casi in cui ho infranto il sistema.» «Be’ uno sono io» l’anticipò. «Giusto?» Alessio annuì. «Un altro è stato quando è venuto l’infarto al Menguzzi.» Michela gli prese la mano. «Cos’è successo?» Si avviarono verso un rudere. Quattro mura di pietra con le finestre rotte e la porta sprangata spuntavano solitarie poco prima di una ripida discesa. «Dopo il botto del commercialista, di cui non me ne fregava nulla visto che era un ivo e pure un infame ladro, ho temuto davvero che morisse. Così ho freddato tre quartieri di New York.» Sbuffò sollevandosi il ciuffo. «L’ho trasportato diretto al Pronto Soccorso. Ho inserito nella memoria dei medici la telefonata con le indicazioni. Insomma, ho guadagnato il tempo sufficiente per salvarlo.» Si massaggiò la fronte. «Solo che poi ho dovuto innestare le memorie a tutti quelli freddati prima che il sistema notasse la mancanza di quindici minuti. Per fortuna, Luke è svenuto. A lui ho solo raccontato una storia. Poi, quando ho capito che la Shiba mi stava devastando la vita simulata, ho temuto di perderti. Oltre alla stanchezza, ero fortemente in ansia.» La guardò di sfuggita. «Per quello, quando sono arrivato da te, ero a pezzi e con la febbre.» Michela sentì alcune lacrime solcarle le guance. Alessio le ò i pollici sotto gli occhi. «Altri casi?» gli chiese. «La risposta è dietro la prossima porta.» Alessio si appoggiò al muro di sassi. Guardò l’ora. «Manca un minuto» disse con le mani in tasca. «Hai altre domande su di te, invece?»

Michela scosse la testa, gli si avvicinò. «Sono il programma più forte del sistema. Non ho colpe su un ipotetico collasso della Matrice. Se esisto, è solo merito tuo, che mi hai sempre protetto. È tutto quello che volevo sapere.» Gli accarezzò il ciuffo. «Vorrei che mi dicessi di te, non del Progetto.» «Non sarà piacevole» sospirò a capo chino. Si raddrizzò di colpo facendola indietreggiare. Andò alla porta. Poggiò la mano sulla maniglia arrugginita. «Per nessuno dei due.» Bip! Bip! Bip!

Chi è Ghost? Michela si ritrovò in una stanza in penombra. L’unica finestra era sbarrata con tubi di ferro e una grata di metallo. «Faccio luce. Non ti spaventare» sussurrò Alessio. «Me lo chiedi da sempre. Visto che non ci sarà un’altra occasione, ho pensato di accontentarti.» Il neon centrale sfarfallò illuminando il letto di metallo sulla sinistra. Michela sussultò nel vedere una donna grinzosa, distesa su un lenzuolo bianco come il camice che indossava. Era legata mani e piedi. «È tua madre?» Alessio le toccò la spalla. «Sì. È freddata come la stanza.» Michela si avvicinò calpestando le mattonelle chiare e lucide. «Lei è Susanna Merisi» le disse fermandosi a bordo letto, al suo fianco. «Mamma, lei è Michela.» Mise le mani in tasca. «Ecco, ora vi conoscete» sospirò. I capelli erano corti e canuti. La bocca era serrata, pallida come il volto chiazzato da macchioline marroni. Gli occhi a fessura lasciavano intravedere un grigiore particolare, forse dovuto ai molti farmaci. Michela strinse il braccio di Alessio. «Piacere signora» disse trattenendo le lacrime. «Per lei ho infranto più volte le leggi del sistema, ma non sono riuscito a ottenere mai nulla. Come vedi, con lei ho fallito.» Alessio sfiorò il viso di sua madre con mano tremante. «Credo sia una iva, ma non ne ho la certezza. Lei mi è sempre apparsa grigia, ma quelle rare volte in cui mi fissava diretto negli occhi mi sembrava cambiasse spettro. Poi, però, tentava di strozzarmi, così non sono mai riuscito a capirci nulla.» Chinò il capo. «Comunque, attiva o iva, è l’unica madre che ho. Le sono affezionato. Avrei voluto una vita diversa, con lei magari. È il mio unico rimpianto.» Indietreggiò di un o andando in fondo al letto. Strinse il bordo di metallo. «Lei rimarrà qui. E non so cosa fare. Le ho

provate tutte, ma non c’è modo di portarla con me come ho fatto con la tua famiglia.» Michela era fiduciosa. I dubbi su di lui si stavano sgretolando minuto dopo minuto, era giunto il momento di condividere ciò che sapeva. «Ale, non credere che sia insensibile al tuo dolore perché è anche il mio, ma devo farti una domanda.» Alessio la fissò. «Dimmi.» «Come funziona tra te e Zero Tre di preciso?» «In che senso?» «Cioè, lui sa tutto di te e tu tutto di lui? Oppure potete nascondervi delle informazioni? Mi hai detto che puoi isolarti, ma quando vi ricollegate vi scambiate tutti i dati?» Alessio sembrò spiazzato dalla domanda. «Perché dovremmo nasconderci qualcosa? Siamo dalla stessa parte. Anzi, siamo parti di un insieme.» «Sì, ho capito, ma ti ho chiesto se è possibile.» Incalzò Michela. «Volendo, si potrebbe» annuì abbassando lo sguardo. «Entrambi o solo uno dei due?» Alessio aggrottò la fronte. «Dove vuoi arrivare?» Michela camminò lungo la stanza dubbiosa. Si girò e lo fissò. «Non hai mai pensato che potesse essere un’attiva cosciente?» Deglutì mentre lui serrava l’occhio sinistro. «Forse, ci sono stati tanti problemi per questo. No?» Alessio incrociò le braccia. «Te l’ha detto Ghost?» «Sì.» «Non può essere…» borbottò lui guardando sua madre. «Me ne sarei accorto. Come ho scoperto della dottoressa Rayali e degli altri, avrei capito-» Si zittì e abbassò la testa. «Però, all’epoca non ero cosciente della matrice. E non ho

potuto farle visita per molti anni.» Portò le mani tra i capelli e scosse il capo. «Maledetti bastardi!» Si girò d’improvviso dando le spalle al letto, si sedette in terra. «Il mio è solo un dubbio, però Ghost dice che era la prima volta che mi parlava. Potrebbe aver mentito.» Alessio sollevò il viso per guardarla. «Se fosse vero, vorrebbe dire che ci sono due Ghost.» Michela gli si sedette accanto. «Quella che ti ha ipnotizzato e con cui ho parlato io sono un’altra. Un fake o un altro attivo cosciente, forse.» Si massaggiò la fronte. «Come ha comunicato con te questa notte?» La fissò serio. «È importante. È stato attraverso la televisione? Ti è comparsa in stanza? Come? E io? Dormivo o cosa?» «Ti dico tutto, va bene.» Michela annuì. «Mi sono svegliata per una forte luce dalla finestra.» «Una backdoor, quindi. La porta l’avevo bloccata io, ma la finestra era integrata con la stanza. Poi?» «C’erano Yumi e due uomini in stanza. Tu eri tutto elettrico con gli occhi strani.» «Specifica. Mi servono dettagli.» Michela alzò le braccia e sfarfallò le dita. «Emanavi scariche elettriche. Ghost ha detto che ti stavano craccando per distrarre Bio.» Alessio scattò in piedi. Mosse due i, poi si girò. «Poi?» le accennò di continuare. Michela s’inginocchiò. Mise le mani sulle gambe. «Poi una voce mi ha detto di are dalla finestra. E dall’altra parte c’era…» esitò. «Una donna dai lunghi capelli neri.» «Come?» le chiese accasciandosi di fronte a lei di botto, come una marionetta cui hanno tagliato i fili. «Cosa stai cercando di dirmi? Che la mia dottoressa Rayali è Ghost?»

Michela gli accarezzò il viso. «Non hai una sua foto?» «No. Però, posso mostrarti un mio ricordo.» Con gli indici circoscrisse in aria un rettangolo che s’illuminò come lo schermo di un tablet. «Ecco.» Michela fissò lo schermo che s’accese su un prato. Una palla gialla increspò l’erba. Delle manine la stringevano, la facevano rimbalzare mentre una risata infantile si sovrapponeva al cinguettio e alla quiete. “Alessio!” Michela sussultò nell’udire la stessa voce gentile di Ghost. L’immagine salì. Una figura alta e magra, con le mani nelle tasche di un camice bianco, camminava lungo il sentiero che da un’imponente struttura rettangolare portava in un giardino. Si fermò poco prima dell’erba. Indossava una gonna all’altezza del ginocchio e portava i tacchi. “Vieni. È ora.” Fece un cenno con la mano. La palla rotolò lontano. “Eccomi!” rispose la vocina di Alessio. L’immagine traballò. La figura s’avvicinava marcando un sorriso gentile. Poi, di colpo il primo piano dell’erba. Un grido. Il pianto. “Alessio!” Michela sentì il respiro affannato della donna farsi sempre più vicino. “Ti sei fatto male?” domandò. Lo sollevò. Gli occhi scuri erano fissi, diretti come se guardassero Michela. Lo rimise in piedi. Gli si accucciò vicino. Mentre gli toglieva lo sporco dai vestiti, i lunghi capelli neri le solleticarono il volto pallido. Il profilo era raffinato. Le labbra ben definite, ma non carnose. “Non hai nulla, perché piangi così?” Allungò la mano sopra la testa del piccolo Alessio. “Dov’è il combattente forte e coraggioso? Dov’è Bio?” “Bio non c’è” singhiozzò. “Adesso è via.” Lei scosse il capo. “No, Bio è sempre qui con te.” Gli toccò la fronte. “E io dove

sono?” “Qui. Tu sei qui.” Lei annuì, gli toccò il petto. “Sempre, mio piccolo Alessio.” Lo baciò in fronte. “Anch’io ti porto nel cuore. Non scordartelo mai.” L’immagine si sfocò lentamente sul viso della donna. Il monitor etereo svanì. «È lei?» le chiese con un filo di voce. «È la mia dottoressa?» Michela annuì. «Sì. È la donna di questa notte.» «Si è collegata con lo stesso avatar perché io potessi mostrati la dottoressa Rayali. Perché? Perché ha voluto occuparsi della mia educazione per poi scomparire. Non ha senso…» Alessio chinò il capo di colpo. Le mani sfregavano le gambe in un crescente tremore. «Mi ha sempre preso in giro. Era tutto finto. Sempre tutto finto.» «Se fosse stata bloccata invece? Ostacolata?» «In che modo?» «Lei ha sempre voluto starti vicino come una madre, ma il suo primo avatar le è stato bruciato.» Alessio sorrise incredulo. «Mia madre? Ghost sarebbe mia madre qui nella Matrice?» Indicò il letto. «È questo che ti ha detto?» Si alzò. Michela gli si avvicinò piano. «Anche nel mondo vero, sembra» gli sussurrò. Alessio fissò nel vuoto. Si strofinò forte la fronte con entrambe le mani. «Facciamo finta che sia tutto vero. Quindi, mia madre biologica si sarebbe inserita come mia madre anche qui nella Matrice, ma il suo avatar è bruciato. Così, appena ha potuto, si è inserita come dottoressa Rayali, mi ha addestrato ed è sparita. Qual è la sua spiegazione?» «Voleva evitare che tu le bruciassi anche il secondo avatar.»

«Io non le ho fatto un bel nulla!» Girò il capo e la fissò di striscio. «Loro pensano a noi come unica entità.» Sembrò fare una pausa per elaborare l’ipotesi che già sapeva essere corretta. «È Zero Tre che l’ha bloccata.» Michela annuì. «Lo credo anch’io. Ecco perché ti ho chiesto se potevate nascondervi delle informazioni.» Lo prese sotto braccio. «Se Ghost dice il vero, è tua madre e ha sempre cercato di aiutarti anche contro la tua volontà.» Alessio fece un profondo respiro. «Ti ha detto per caso di mio padre? Ne ho uno?» «Era un suo collega. E anche lui si era inserito come attivo cosciente.» «L’ho conosciuto, vero?» «Sì. Vuoi che ti dica il nome dell’ che utilizzava?» «Un attimo, ci arrivo.» Socchiuse gli occhi. Rifletté in silenzio. Quando si morse il labbro, Michela comprese che aveva un nome. «Lui testava le mie abilità di combattente, vero?» le chiese con la bocca socchiusa. «Ha cercato di essermi amico, ma io l’ho capito troppo tardi.» Michela lo abbracciò. «Mi spiace tanto.» «Non me l’ha mai detto» disse Alessio con un filo di voce stringendola. Bip! Bip! Bip! «Dobbiamo andare, presto.» L’afferrò rapido per lasciare la stanza dove aveva ritrovato i suoi genitori solo per perderli ancora.

Vita precedente Michela si ritrovò al Babelpunk, alle spalle dell’ascensore che portava nel magazzino. Red Rhino era a pochi i da loro. Rigido con la faccia seria, era stato freddato nella solita posa. Si avviarono al bancone. I ragazzi in maglietta rossa erano seduti con lo sguardo fisso sul monitor. Anche Skizzo era stato immortalato con la bocca e gli occhi aperti. «Mi mancherà il Babel.» Percorsero la sala. Tutti gli utenti connessi erano immobili con espressioni buffe. Scesero le scale. Si sedettero sull’ultimo gradino. La sala era deserta. «L’uscita è quella.» Alessio indicò il tunnel. Michela gli si sedette accanto. Lo guardò mentre lui fissava il pavimento. Sentiva la sua sofferenza, il suo tormento. «Ale» lo chiamò con un sussurro. Lui girò lento la testa. La fissò con l’espressione seriamente turbata. Michela salì di un gradino rispetto al suo. Si sedette alle sue spalle e lo avvolse. Alessio si girò e l’abbracciò. «Dobbiamo farci coraggio. E trovare una soluzione» gli accarezzò i capelli neri guardandolo dolcemente. «Se Zero Tre ha bloccato mia madre e io non l’ho mai capito, vuol dire che avrà fatto altro a mia insaputa. Se non posso fidarmi nemmeno di lui, non so che fare.» Chiuse gli occhi. «Siamo fregati se andiamo e se restiamo. Siamo soli, e tu hai ancora dubbi su di me.» «I miei dubbi sono quasi svaniti, a dire il vero. Perciò, non disperiamoci.

Cerchiamo di capire meglio la situazione.» Lo baciò in fronte per consolarlo. Alessio si staccò di un poco per guardarla. «Ci sono due Ghost.» Michela alzò l’indice. «La prima Ghost era tua madre. La stessa Ghost era la dottoressa Rayali. E fin qui, ci siamo.» «Poi c’è il volto in versione snowcrash sul mio computer. E quello con cui hai parlato tu, dove per la prima volta è saltato fuori che forse era una donna, lo stesso che ti ha ipnotizzata.» «Se diamo retta a tua madre, i due che dici tu erano gestiti da qualcun altro.» «Un fake di Ghost.» Alessio si grattò il mento. «Sia nel mio caso che nel tuo, era sempre da un computer, quindi interno al sistema. Il fake è gestito da dentro.» «La vera Ghost di stanotte mi ha detto che a ipnotizzarmi è stato Bio e che mi hai raccontato una storia.» «Tu a chi credi?» Alessio deglutì. «Io credo a te.» Gli accarezzò la guancia. «Quindi, se da fuori vi concepiscono come uno solo, vuol dire che è stato Zero Tre a ipnotizzarmi.» «Mi ha spinto a fare una forzatura.» Michela annuì. «Quale potrebbe essere lo scopo?» «Voleva che tu sapessi.» «E che ci lasciassimo.» «Già. La nostra relazione pare non sia ben vista» disse a denti stretti. «Da nessuno, a questo punto.» Michela intrecciò le dita nelle sue. «Mia madre ti ha detto qualcos’altro secondo te utile per capire?» «Sì.» Michela abbassò lo sguardo. Prese la sua mano e la portò al volto. Se la strofinò sulla guancia con gli occhi chiusi.

«Che c’è? È così terribile?» Annuì in silenzio. «Potrebbe essere tutto falso.» «No, non lo è.» «Come fai a esserne sicura?» «Tu mi hai dato le conferme.» Prese fiato. «Ecco, i tuoi sogni sono i ricordi della nostra esistenza precedente. O meglio, del Progetto Zero Due.» «Zero Due? Il Progetto BIO precedente, intendi?» «Esatto. Con la mia morte, il Progetto è collassato. Ecco perché quelli della Shiba cercano di separarci. Non vogliono rischiare di perdere anche il Progetto Zero Tre.» Alessio la fissava serio. «Mi stai dicendo che è successo davvero?» «Nell’altra simulazione, siamo stati insieme cinque anni.» Alessio chiuse gli occhi con la mano. «Quindi, tu immersa nel sangue sull’asfalto, è un ricordo vero? Io che ti chiamo, che striscio verso di te. Quando ti giro e vedo il tuo viso…» «Ti amo, Alessio Merisi.» Michela sfiorò le sue labbra. Non riuscì più trattenersi dal baciarlo. Ora sapeva tutto, sapeva gli innumerevoli sacrifici che aveva fatto Alessio per salvarla e proteggerla. Lei, la semplice applicazione Michela Berettina avrebbe trovato insieme a lui il modo per uscire da quella dannata Matrice, anche contro la Shiba e lo stesso Zero Tre. Quando lo lasciò, Alessio aveva ancora gli occhi chiusi. Li aprì lento e la guardò languido. «È tutto vero» ripeté mordendosi le labbra. «Porto in me i ricordi dello Zero Due e la sua disperazione.» «E l’amore di cinque anni.»

«Ecco perché appena conosciuta ho sentito di doverti proteggere, da subito.» Si alzò tenendola per le mani. «Io sapevo.» La strinse forte. «Mi è rimasto dentro il dolore per la tua perdita. E ho fatto di tutto per non perderti ancora.» «Ghost parlava di memoria genetica però, secondo me, c’è dell’altro.» «Se il Progetto Zero Due è collassato, potrebbero esserci dei file frammentati nella Matrice.» «I file che Zero Tre non riesce a codificare.» Rimase in silenzio. «Ho un dubbio.» «Gli scarti vanno nel substrato, giusto?» gli chiese Michela. «Cyberpunk…» Bip! Bip! Bip!

Mente, corpo e Cyberpunk La luna era ormai alta in cielo. Le montagne s’innalzavano all’orizzonte. Il fiume le lambiva a fondo valle. Michela riconobbe subito il posto. Si girò. Il boschetto che solleticava la strada e il prosciuttificio dismesso in lontananza le fecero sobbalzare il cuore. «Là è dove ci siamo baciati la prima volta.» «In mezzo alle ortiche, sì» sorrise. «Ho dovuto insistere per toglierti le spine perché temevo in un craccaggio. Sai, tutto ciò che punge o prude è un tentativo di accesso, in realtà.» Indicò la casa abbandonata a una ventina di metri. «L’uscita è laggiù. Ora abbiamo» guardò l’ora «ventuno minuti scarsi per elaborare un nuovo piano.» «Giusto.» Michela incrociò le braccia. «Dunque, una parte dello Zero Due è rimasta nella Matrice dopo il collasso ed è finita nel substrato.» «Potrebbe essersi integrata in Cyberpunk.» Alessio prese a camminare avanti e indietro. «Questo spiegherebbe il suo silenzio da che ti conosco.» «Tu come facevi a contattarlo?» «Io lo chiamavo e lui veniva. Era istantaneo.» Si toccò le tempie. «Prima con la mente, con la meditazione. Poi, quando ho capito cos’ero e dov’ero, mi sembrava più logico interagire con lui nel virtuale. Comunque, mi aveva spiegato tutto la dottoressa Rayali, cioè mia madre. Mi devo abituare all’idea.» Alzò il sopracciglio. «Per dirla in modo tecnico, però, è una questione di flusso dei dati della Matrice Limbo.» «La forma a cono che mi hai detto.» Michela formò con gli indici due ellissi che, partendo dal punto più basso, salivano per poi scendere fino a incontrarsi ancora. «Non hai mai pensato di scendere al piano di sotto per cercarlo?» «Non avrei modo di risalire il flusso dei dati per tornare qui senza essere beccato dal sistema.» Alessio scosse il capo. «È una sorta di partizione della Matrice. Anzi, io credo sia il cestino.» Si ravvivò i capelli sulla nuca. «Sai, le applicazioni usa e getta finiscono là insieme ai dati che il sistema non considera più utili. Alcuni sono riciclati, altri eliminati.»

«Vuoi dire che nel substrato ci sono applicazioni che continuano a esistere? Hanno un loro mondo?» Alessio rimase un istante in silenzio. «Cyberpunk non mi ha mai detto come trascorre il suo tempo, però credo di sì. Ho sempre pensato a una simulazione caotica e intensa, certo non come la nostra.» «Il tempo è allineato al nostro?» «Non essendoci un controllo, non credo.» «E se provassi a scendere io?» «No!» disse di colpo. «Se ti capitasse qualcosa, saresti perduta. Ti ho fatto un back-up all’inizio per ingannare il sistema, ma così come sei ora…» esitò «non puoi essere salvata, insomma.» «Ho capito. Idea da scartare, allora.» Michela sbuffò mentre una nuova domanda arrivò come un lampo. «Se Zero Tre ha bloccato tua madre, non può essere che blocchi anche il collegamento tra te e Cyberpunk?» «Stavo giusto pensando a quello. Anche se non capisco il perché.» Portò le mani nei capelli. Li tirò indietro. «Lui vuole uscire. Che senso hanno il fake e il bloccare Cyberpunk?» Si fermò. «Aspetta.» L’additò. «Le due cose sono collegate. Il fake ti voleva rendere cosciente molto prima del tempo forse proprio perché tu sei collegata a Cyberpunk.» «Forse il fake lo cerca e non lo trova» continuò Michela. «Perché Zero Tre cerca Cyberpunk e al tempo stesso ti blocca la connessione?» Si fissarono e sgranarono gli occhi insieme. «Oh!» sbottò Alessio. «Non ci credo.» Michela scosse il capo. «Zero Tre è corrotto. È così, vero?» «È stato infettato fin dall’inizio. Era solo questione di tempo.» Alessio si chiuse il viso nelle mani. «Quelli della Shiba hanno una visione troppo esterna per vederlo, così pensano

sia colpa mia. E noi eravamo troppo dentro, per capirlo. Almeno ora sappiamo contro chi dobbiamo combattere.» «Non ce la possiamo fare da soli.» Guardò l’ora. «E mancano undici minuti all’incontro. Ti sto portando in bocca al leone.» Michela annuì. «Basterebbe andarci preparati.» Trascorse un minuto di silenzio. «Avere Cyberpunk dalla nostra, sarebbe un bel vantaggio» sbuffò Michela. «Possibile che non si riesca a comunicare con lui in nessun modo?» «Le ho provate tutte. Gli ho anche mandato Rasputin 0-» si zittì. «Cosa?» «Porca!» esclamò Alessio facendola sobbalzare. «Cosa!» «Come può essere?» «Ale, non è il momento per le tue mezze frasi!» sbottò Michela puntando i piedi. Alessio si toccò l’orecchio. «Hai ragione, non abbiamo molto tempo. Dobbiamo collegarci. Penseremo più in fretta così e vedrai tutti i miei ricordi. Devo mostrartene uno» gli porse l’orecchino. Michela lo afferrò rapida e lo infilò nel suo foro. «Non sento nulla» disse delusa. «Non sono ancora entrato.» Le si avvicinò e le afferrò le mani. «Pronta?» Gli occhi nocciola divennero azzurro cielo e una serie di codici iniziò a scorrere veloce. Sentì una scarica in tutto il corpo. I capelli le esplosero in aria. Serrò gli occhi e spalancò la bocca fremendo come mai prima. Balzò d’improvviso in un’autostrada elettrica. Vasta. Migliaia di voci gridavano. Suoni e immagini confuse le frustarono la mente. Uno dietro l’altro, vide tutti i ricordi di Alessio ad alta risoluzione e a gran velocità. Una miriade d’immagini e poi un volto pallido, magro.

E un corpo atletico in mimetica, immobile. Riconobbe Porta Venezia, il parco e la cascatella. Di colpo, iniziò a muoversi, a parlare. Ascoltò il dialogo tra Alessio e quello straniero che diceva di provenire dal substrato e di essere amico di Rasputin 0. Vide quello strano vello di fuoco e poi sentì la scossa di terremoto… La voce di Alessio la chiamò. Riaprì gli occhi ansimando. «Scusa» le disse. «Ti lascerei scorazzare nella mia mente, ma non abbiamo tempo.» «Caspita! Chi era quello? Arrivava dal substrato?» «E chi era il tipo in taxi?» le chiese Alessio dopo la condivisione dei ricordi. «Ha tentato di craccarti, lo avevi capito?» Michela rammentò lo gnomo punk che conduceva il taxi in Las Vegas e della strana sensazione di prurito provata al suo tocco. «Mannaggia! Perché ho gettato via il biglietto? Forse era un messaggio. Mi spiace. Non c’è modo di recuperarlo?» «Purtroppo, lo hai distrutto.» Alessio serrò la mascella. «Riflettiamo. Se ha risalito il flusso dati, è per forza un programma ben schermato.» «Dici che l’ha creato Cyberpunk?» «Lui parlava di Rasputin 0. Però, non può averlo creato lui.» «Ale, se Zero Tre è corrotto, non potrebbe esserlo anche Cyberpunk?» Alessio annuì con una strana luce nello sguardo. «Parlava di anomalia.» Serrò la stretta alle mani. «E se fosse-» «Lo Zero Due!» finì la frase Michela. «Non si è integrato con Cyberpunk, è rimasto nel substrato-» «Come anomalia invisibile al sistema, a Cyberpunk, a Zero Tre e a me.» Si fissarono in silenzio.

«Lui ci ha trovato. Ha provato a contattarci. Era lui lo gnomo punk del taxi.» Michela era commossa. «Lui sta cercando di aiutarci. Lui sa di noi. Lui sa tutto.» «Lo credo anch’io.» «Forse analizza il flusso dati.» «No. Tu non compari.» Fece una pausa. «Ha detto che dobbiamo scendere il flusso con questa schermatura.» Alessio infilò una mano in tasca e tirò fuori il vello come un prestigiatore. Michela deglutì mentre leggeva l’etichetta codificata dei metadati come fosse una striscia di stoffa su un cappotto. «Riciclato da Overflow. Venite a comprare nel Buffer, il meglio del G vi attende» lesse a voce alta senza credere ai suoi occhi. «Cos’è? Un negozio del substrato?» «Peggio…» borbottò Alessio. «Temo che questo sia Cyberpunk.»

Un mondo tutto loro «Se Zero Due ha ridotto così Cyberpunk, un motivo ci sarà.» «Siamo oltre l’anno 2050. Forse non esistiamo in una matrice come penso. Forse è qualcosa di più. Se coesistono due realtà, forse c’è dell’altro che non sappiamo…» Serrò i pugni stringendo il vello di fuoco. «E non ho tempo per capire.» Michela scosse la testa. «Quanto manca?» «Nove minuti.» Si guardarono senza sapere che pensare e che fare. C’era un altro mondo sotto, programmi e applicazioni che vivevano una realtà tutta loro. «Il cestino è abitato» disse Michela smorzando la tensione. «Ho un’idea. Se il tipo pallido è l’anomalia creata dal collasso dello Zero Due e nessuno lo può contattare, forse però posso io. In fondo, lui sa chi sono. Magari di me si fida.» «Proviamo con un messaggio.» Alessio si morse il labbro. «No. Potrebbe essere intercettato.» «Un video messaggio?» Alessio scosse il capo. «Il flusso dati analizzerebbe anche quello. Io ho mandato un intero programma per mascherarlo.» «Non ne hai un altro?» «Siamo ancora freddati. Non posso interagire con nulla.» «Siamo solo noi due.» Lo abbracciò osservando ancora il boschetto del primo bacio. «E i nostri ricordi…» Lo allontanò di poco. «Ricordi?» «Cosa?» «No, dico: e i ricordi?»

«Non ti seguo.» «Gli mando dei miei ricordi, che ne pensi?» Alessio sgranò gli occhi. «Dei file compattati e crittografati, potrebbe funzionare. Potrei mandarli come se fossero del tuo back-up. Il sistema li analizzerebbe e li getterebbe nel substrato.» «E lui, vedendo che il mittente sono io, forse li guarderebbe.» «Dobbiamo farne diversi, però, per non insospettire Zero Tre. Anche lui deve credere che a mandarli è l’applicazione nella Matrice.» Michela annuì. «Inizio a isolarne alcuni.» «C’è solo un problema» l’avvisò Alessio. «Io posso programmare la spedizione, ma partiranno subito dopo la scansione tra» guardò l’orologio «otto minuti e quaranta secondi.» «Quando sarà troppo tardi…» chinò il capo. «Potrei creare una schermatura per spedirli con la scansione.» Alessio si afferrò il labbro. «Potrebbe essere diverso così.» «Ma gli arriveranno?» «Sì, ma non so in che modo. E quando. Potremmo generare un paradosso, ma non abbiamo nulla da perdere. Tentiamo» disse attivando due monitor eterei. «Inizia a isolare i file. Io creo l’algoritmo di protezione.» Michela digitava sullo schermo veloce. «È pazzesco. So dove andare, cosa cercare, come fare. So tutto.» «Modesta. A proposito, non mandargli il file crittografato. Ha confuso te, potrebbe confondere anche lui.» «Bene.» «Ah, senti.» Si schiarì la voce. «Fai una scelta degli episodi più importanti. Capito?»

«Ma sì, sì.» Iniziò a sfogliare i suoi ricordi come fossero di un altro. Veloce li scorreva sul monitor pensando a quali scegliere. La mia nascita in infermeria, così capirà da quanto esisto. L’incontro con Alessio, così vedrà che non è un ricordo della sua Michela ma mio… La gara a Las Vegas con Igor, se lui conosce Rasputin 0 collegherà che siamo amici. La prima volta che abbiamo contattato Ghost a casa di Alessio, così saprà che siamo stati ingannati. Quando Alessio si è ammalato, così capirà che ha tentato di forzare il sistema solo per delle giuste cause. Si fermò un istante a riflettere. Quando Alessio mi ha raccontato della sua infanzia. E il Babelpunk, la gara contro il Tunguska, così capirà che era solo e che non comunicava più con Cyberpunk. Quando Ghost mi ha ipnotizzata… e Alessio mi ha lasciato il suo biglietto. Il mio libero arbitrio, io che vado a Las Vegas. Tutti i nostri chiarimenti. «Ale, ne avrei nove.» «Bene. Ora li prendo. Salva e chiudi.»

18 - Bio ENDGAME

Quando il gioco finisce, la meraviglia s’infrange permettendo alla realtà di riemergere. Si ripensa ai momenti più emozionanti scoprendo che sono entrati in noi perché, per quanto irreali possano sembrare i giochi, le emozioni sono vere e indelebili.

Zero Tre è corrotto Bio chiuse il filmato. Anche se con una qualità inferiore e disturbato in più punti, il video gli aveva mostrato l’onestà di Alessio e la presa di coscienza di Michela. Chiarite le incomprensioni e seguendo un istinto comune, avevano posto una buona parte dei tasselli nel giusto ordine rinvigorendo anche in Bio la speranza della rivalsa. La loro prospettiva aveva però evidenziato un problema nuovo: Zero Tre era corrotto. «Crap! Se Alessio e Michela hanno ragione e Zero Tre è corrotto, dobbiamo rivedere il piano. Alessio non può integrarsi senza soccombere» gli disse Rasputin dal monitor agitando rapido il braccio. «Ehi, tu! Resta nei ranghi!» gridò volgendo lo sguardo di lato. Alle sue spalle, la terra rossa della Quarantena era invasa da una distesa inverosimile di combattenti che gestivano i mostri costretti nei collari; i programmi dei G erano radunati per la battaglia finale e controllavano i malware che Overflow aveva riciclato con cura. «Infatti. Zero Tre è più forte. Senza Cyberpunk, tutto ciò che è Alessio andrebbe perso nel reboot» rispose Bio scansionando ancora il cielo blu di cristallo del Buffer. Vide un rettangolo elettrificarsi. «Aspetta, forse sono loro…» La grata tuonò di un lampo azzurro e un nuovo verme piombò pesante a una ventina di metri. «Falso allarme. Un altro worm in arrivo» lo avvisò imbracciando l’Ingram. Mentre il verme si avvicinava, Bio lo indebolì con brevi e mirate raffiche fino a impacchettarlo. Lo inviò. «Dono per Overflow.» «Arrivato» disse Rasputin. Osservò rapido oltre la telecamera e ritornò su di lui. «E se rinunciassi a lanciare il Fenix.W-out e andassi alla sorgente con Alessio? Forse, voi due insieme, potreste farcela.» «Non so se siamo integrabili, potrebbe non funzionare.» Alzò ancora lo sguardo in attesa. «E se non lancio il Fenix, resteranno attive le connessioni. Quindi, tutti gli ex-Limbo…» «Sì, ho già preso nota» sbuffò l’amico.

«Possiamo fare una variante, invece.» Bio lo guardò serrando appena l’occhio sinistro. «Intanto, tu prendi il mio posto.» «Perché? Tu dove vai? C’è un’altra festa che non so?» Bio annuì. «È solo un’ipotesi che, spero, sarà avvalorata da Alessio stesso» gli anticipò mentre un nuovo rettangolo s’elettrificò catturando la sua attenzione. Un grosso bozzolo di un metro e mezzo arrivò nel Buffer lasciandosi dietro una lingua di fuoco. «Sono arrivati!» Gli corse in contro. «Ipotesi di che tipo?» chiese Rasputin. «Forse possiamo curare Zero Tre. Se ci riusciamo, Alessio potrà integrarsi senza problemi e portare a termine il Progetto BIO. Così, voi tutti fuggirete più sicuri. Io lancerò il Fenix. W-out insieme alla mia Ghost e tutto andrà bene.» «Ci manca solo il bonus finale» scherzò. «E Michela?» «Appena possibile, la mando da Ergo, Null e Skiller.» «Bene» annuì Rasputin. Bio raggiunse il bozzolo. «Sono loro?» «Sì» rispose deciso analizzandolo mentre si contorceva in terra. Guardò nel monitor, l’amico lo salutò poco prima di generare l’elmo della power armor, porpora e marchiato con la scritta Fight 4 Fucking Freedom! «Comunque vada, abbi cura di Null.» «Contaci! Tu però vedi di non collassare ancora.» Bio spense il collegamento con l’amarezza di un addio. «Buona fortuna» sussurrò.

Il cubo QED Bio si accucciò e fece per allungare la mano quando udì dei lamenti. Dal timbro maschile, sembrava Alessio. «Micky, sposta il ginocchio…» «Oh, scusa…» Si mossero ancora facendo risaltare i riflessi infuocati. «Ale, che dici, usciamo da questo coso?» «Ben arrivati nel substrato, ragazzi» li salutò Bio. S’immobilizzarono e rimasero in silenzio. «Non uscite, non ancora. Ora vi porto in una zona sicura. Là, implementerete le vostre skill.» «Sei Zero Due?» chiese Alessio. «Quel che ne resta.» Li afferrò nella parte centrale e li caricò in spalla. Erano molto leggeri e fragili come due bimbi da accudire, da salvare. Si avviò verso il Cubo QED, quantum electro-dynamics, creato per occultarsi. Toccò la parete bombata del cubo lasciando l’impronta termica della mano, che si convertì in una sequenza di codici fino all’algoritmo per l’accesso. Risaltarono delle linee che divisero le facce in diversi quadrati come il famoso cubo di Rubik, ma dalle tonalità in tono di grigio e nella versione 7x7x7. Dei quarantanove tasselli per lato, sei rientrarono sagomando una porta. Bio entrò mentre altri malware precipitarono in lontananza. Impose la mano sul bordo e l’uscita si sigillò mettendoli in sicurezza. Dall’interno il cubo era trasparente come cristallo e vide i quadrati iniziare a strisciare lungo la superficie e settarsi in una diversa conformazione caotica, che avrebbe portato il sistema a risolvere il rompicapo dandogli così il tempo per

parlare con Alessio e Michela. Il cubo vibrò iniziando la sfida; il Buffer con i malware svanirono, pur restando là. «Ora potete uscire» li avvisò poggiandoli vicino alla parete. Vide il dito di Alessio incidere la protezione e l’occhio sinistro scrutare come dal buco di una serratura. «Ciao.» Bio lo salutò con un gesto della mano. «Ho ricevuto i vostri file e dobbiamo fare due chiacchiere.» Alessio allargò la fessura e si sporse col busto trattenendola in vita come una coperta. Alzò la testa e lo fissò dubbioso tenendo gli occhi nell’ombra dei ciuffi scuri. Di Michela vide solo la mano che lo stringeva in vita. Oltre che fragili, erano minuti a suo confronto. «State bene? Vi sentite regolari?» chiese sperando di metterli a loro agio. Alessio annuì e gli porse la mano. «Ciao, è un piacere conoscerti…» esitò. «Come devo chiamarti?» «Bio» sorrise e gliela sfiorò appena notando in lui una smorfia. «Come immaginavo, dovete fare un up-grade.» Si frugò in tasca e prese due scatoline porta pastiglie. Gliele diede entrambe. Alessio ne aprì una mentre la chioma bionda di Michela spuntava timida dal fianco. Sussultò appena lo vide. «Oh, Santo Cielo! Ale, sembri tu da grande» esclamò fissandolo con gli occhi verde mare che ricordava. «Michela…» sussurrò lento. «Grazie per aver condiviso i tuoi ricordi, anche se molto privati. Hai avuto un’ottima idea. E ha funzionato.» Lei socchiuse le labbra e restò in silenzio mentre lo sguardo curioso e incredulo gli si posava ovunque indugiando a lungo sul viso, forse tentava di trovare delle diversità tra lui e Alessio. «Grazie a te, Bio» gli disse infine. «Ci sono molti punti oscuri che dobbiamo chiarire, però. Ma non abbiamo tempo

per vedere altri video, pensavo di condividere i miei ricordi con voi. Per fare questo, ho fatto preparare delle skill-pill speciali a un mio amico.» Indicò le scatoline. «Sono tre a testa. La prima è bianca e isola i vostri codici. La seconda è azzurra e crea una memoria tampone. La terza è blu e contiene le skill.» «Provo prima io» disse Alessio ingerendo la pillola bianca. Aggrottò la fronte in attesa di analizzare le differenze di stato. Annuì poco dopo. Mise in bocca la seconda. Alcuni istanti e chiuse gli occhi portando la mano alla tempia. Inspirò profondamente. Annuì ancora. «Attento. Stai per conoscere la potenza della Forza, mio giovane Padawan» scherzò Bio. Alessio sorrise e inghiottì la pillola blu. Strinse i denti e i pugni. Abbassò la testa e sembrò chiudersi a guscio quando invece la gettò d’improvviso all’indietro e inarcò la schiena. Michela lo strinse sui fianchi mentre lui s’irrobustiva e ingrandiva. Le vene pulsavano come se il sangue gli scorresse dentro corposo, arricchito di energia pura. Alessio ansimò e spalancò gli occhi. Si guardò le mani, le girò più volte. Gli porse la destra per una nuova prova. «Vediamo come va, ora.» Bio gliela strinse con forza crescente. «Meglio?» Alessio ghignò soddisfatto. «Direi proprio di sì.» Mentre Michela ingeriva le sue pillole, Bio spiegò loro della matrice-membrana e di come fossero in procinto di una collisione. I due micro universi presto avrebbero generato un Big Bang ingestibile anche dalla dottoressa Merisi e dalla Shiba. Erano sconosciute e impensabili le conseguenze per il Progetto BIO, ma l’unica sua certezza era che avrebbero cessato di esistere. «Siamo come delle anime perdute che cercano di tornare nel mondo…» sussurrò Michela con ancora i capelli gonfi per i fremiti della pillola blu. «Pronti per i miei ricordi?» chiese Bio. «Ora sono riordinati e completi.» Alzò il dito quando entrambi annuirono. Creò una striscia codificata dai riflessi dorati che, lenta, usciva dall’unghia.

Alessio e Michela la toccarono sussultando. Chio gli occhi per meglio aprirsi alle immagini di un’esistenza che aveva trovato un senso solo alla fine.

BIO02 Come Alessio Merisi era nato in Milano e aveva avuto un’infanzia serena con la sua famiglia. Aveva conosciuto Michela e, dopo una tenera amicizia, era nata un’apionata storia d’amore che li aveva portati al fidanzamento tramutatosi in tragico incidente d’auto in Hong Kong. Il dolore era stato fonte di collasso e aveva generato un rifiuto tale da farlo svegliare. Dopo venticinque anni di vita simulata, BIO02 si era risvegliato in una cabina sperimentale. Obbligato al rientro forzato nella Matrice Limbo attraverso il reinnesto di memorie alternative, BIO02 era riuscito a individuare colei che considerava l’artefice della sua prigionia: la dottoressa Merisi. L’aveva attirata con un avatar per farle condividere il suo dolore quando comprese che era impossibile riavere Michela. Invaso dall’ira, aveva deciso di trattenerla e distruggere l’intera matrice. Ma essendo in una membrana, lui divenne entità, e non cessò di esistere. BIO02 divenne Bio. Si ritrovò solo e frammentato in uno stato d’incoscienza che aveva creato lui stesso: un combattente che lottava contro i mostri della sua disperazione. Restò per un tempo indefinibile, ma che lui convertì in quarant’anni nel momento in cui Matsumoto entrò in contatto pensando di interagire con quelli che la Shiba chiamavano Entità del Limbo. Bio aveva creato un ponte con la matrice senza saperlo. Era rimasto in quel ponte a combattere senza esserne cosciente. I dati che Matsumoto gli aveva mostrato, erano gli stessi dati che lui aveva seminato lungo il ponte; i file sparsi durante il collasso. La sua fuga attraverso il gioco di Matsumoto aveva rappresentato la concreta volontà di riavvio a nuova esistenza. L’unica motivazione per lui accettabile era il tentativo di liberare Michela e questo lo aveva spinto nuovamente nella Matrice Limbo.

Matsumoto e Iku «Se è così, vuol dire che Matsumoto era collegato senza saperlo» disse Alessio. «Lo penso anch’io» annuì Bio. «Il Side 5 di Tokyo credo fosse una simulazione per soli giapponesi ignari di essere collegati. Matsumoto credeva di vivere nel mondo vero, ma non era così.» «Aspettate» li interruppe Michela. «Quindi, il Progetto BIO ha una sua simulazione con i comatosi, il Limbo. Ma voi state ipotizzando che altre persone siano collegate senza saperlo a un’altra ancora, il Side 5 di Tokyo?» «È l’unica ipotesi plausibile. Entrambi abbiamo avuto un contatto con Matsumoto, Iku e gli altri del Side. Alessio li ha eliminati in AgApo. Ma AgApo ora sappiamo essere il campo di battaglia dove il progetto BIO implementa le sue abilità.» «Ora che li ho visti nei tuoi ricordi, li riconosco. I tuoi amici erano i profughi del gioco» sospirò Alessio abbassando la testa. «Non erano persone in coma, ecco perché i loro codici mi erano sconosciuti. Loro mi apparivano diversi perché la loro connessione era differente da tutte le altre.» «Questo spiega anche come mai siano stati giustiziati a quel modo. In entrambe le simulazioni, cioè» spiegò Bio. «Loro sono riusciti a inserirsi nel Limbo senza saperlo forse attraverso il mio ponte. Hanno fatto breccia nel sistema della Shiba. Infatti, era stato Matsumoto a dirmi dell’applicazione Michela.» «Quella che avevo creato io» continuò Alessio, «e che avevo messo al suo posto» indicò Michela. «Abbiamo viaggiato su binari che erano comunque destinati a congiungersi fin dall’inizio» disse Michela portando le mani sulla bocca. «Poveri ragazzi…» Alessio la cinse al fianco. «Io ero dubbioso, ma Zero Tre mi ha sopraffatto. Ricordo un ordine diretto di eliminazione. I target erano confermati. Mi spiace, Bio.» Lo fissò turbato.

«Non potevi sapere.» Chinò il capo. «Hai un’ipotesi sul perché sia collassato il Side?» «Credo che la Shiba abbia disattivato la simulazione del Side 5 per sicurezza» rispose. «Ha compreso che il Limbo sta collassando e che c’è una connessione, forse. Comunque, spero di avere la risposta quando affronterò la dottoressa Merisi.» «A me non è sembrata così perfida.» Michela guardò Alessio e sospirò. «Però, non so…»

Susanna/Ghost «Capire chi sia davvero Susanna e da che parte stia è un’impresa anche per me.» Bio incrociò le braccia. «Ora che abbiamo condiviso i ricordi, noto solo un dettaglio e dobbiamo trovare una soluzione perché, se è come penso, non riuscirò a bruciare il Limbo e tutto ricomincerà da capo.» «Forse ho capito» disse Alessio. «Temi che la tua Ghost non sia intera, mi sbaglio?» «Allora, fatemi capire» interruppe Michela guardando Bio. «Quando tu sei collassato, hai trattenuto l’avatar della dottoressa Merisi. Il solo avatar è diventato la tua Ghost, quella che hai frequentato tutto questo tempo. Lei ha preso la sua immagine da quella foto che ci hai mostrato, giusto?» «Esatto. Questo spiega perché Ghost sia unica.» «È ciò che rimane di Susanna quando era connessa» continuò Michela. «Però lei mica lo sa che il suo avatar gira qui nel substrato.» «Esatto anche questo. Lei non ci vede perché è Zero Tre che lo impedisce.» «Giusto. E fin qui ci siamo» disse Alessio. «Tu però credi che se non ricreiamo le stesse condizioni del tuo collasso, potrebbe esserci un riavvio involontario. Perché?» «Per via della mia connessione» spiegò Bio. «Io ne ho una sola e non trovo la controparte.» «E credi sia Susanna?» «Temo proprio di sì. Dobbiamo fare in modo che la dottoressa Merisi si colleghi ancora e si ricongiunga con il suo avatar, cioè la mia Ghost. A quel punto, dovrei poter attivare la mia connessione e lanciare il Fenix. W-out.» Portò le mani nei capelli e sospirò. «L’ASM mi ha indebolito. Ecco perché devo avere con me Ghost; intera come lo era all’epoca. Mi capite?»

Annuirono entrambi. «Questo vuol dire che Susanna deve collegarsi qui e parlare con te.» Michela deglutì. «Come facciamo? Lei è convinta che voi due vogliate bruciarla ancora.» Si fermò e portò un dito alla bocca. «E in effetti è così, però.» Si afferrò una ciocca e iniziò a intrecciare le dita. «Proprio non potete trovare un modo per riappacificarvi con vostra madre?» «Non è mia madre» disse Bio deciso facendola sobbalzare. «Forse è la sua, ma è da verificare.» «Mi ha mentito anche su questo?» Michela lo fissò con la bocca aperta. «Non è certo, Micky. Forse BIO03 è davvero frutto di Susanna e Fritz, in tutti i sensi, ma non io.» Scosse il capo. «Anzi, forse è a causa del mio comportamento che hanno pensato di creare un legame più forte.» «E quel ricordo che ci hai mostrato?» lo additò Alessio. «Quello della tomba nella chiesa sconsacrata, lei diceva anche di te “figlio mio”.» «Quello era l’ultimo ambiente creato da Cyberpunk per intrappolarmi. Siccome Cyberpunk era del Progetto 03, ha elaborato una versione di Susanna adattandola alle sue informazioni.» Bio restò fermo nella sua idea e trovò conferma nell’ennesima spiegazione. «Quindi, Alessio potrebbe essere cresciuto nella cabina come fosse un bimbo vero» disse Michela. «Ecco perché non vuole perderlo. Ecco perché s’era inserita come tua madre, voleva crescerti nel Limbo come fosse la vita vera.» «Una connessione di quel livello creerebbe un danno-» Alessio si zittì e fissò Bio. «A meno che, tu non glielo abbia creato al tuo collasso.» «Cosa state dicendo? Che Susanna non c’è nel mondo vero?» chiese Michela. «Potrebbe essere che ti abbia partorito e poi si sia fatta inserire in modo permanente nella Matrice con una cabina simile alla tua perché non sarebbe sopravvissuta.» Michela portò le mani al petto. «Ale, allora ecco perché non ha potuto fare nulla per impedire che quel-» non finì la frase per non metterlo in imbarazzo.

«Mia madre non ha potuto fermare il pedofilo perché non ne era in grado. E mio padre, il dottor Fritz Planck, era già inserito come Igor, quindi avrà potuto agire solo in esterna. Forse non è un caso che il pedofilo si sia suicidato e che da quel momento sia andato tutto bene.» «Yumi, allora potrebbe essere un’assistente di laboratorio che cerca solo di portare a conclusione il Progetto per volontà dei tuoi genitori.» «Ci sta come idea» annuì Alessio. Insieme, aggiunsero altri pezzi dell’intricata vicenda. Il quadro iniziò a mostrarsi in tutto il suo travaglio fatto di tentativi falliti, di sofferenza e di determinazione. Susanna Merisi apparve una donna tenace e disposta a tutto pur di realizzare il suo Progetto. Una pioniera della speranza divenuta pietra rara e introvabile in un mondo ormai disilluso e intento solo a sopravvivere. «Forse ha mentito perché non vedeva alternative» sospirò Michela. «Però, non esiterebbe a cancellarmi se solo potesse. Me l’ha detto chiaramente. E credo che farebbe lo stesso di tutti qui nel G. Sarà difficile convincerla.» «Oltre a lei, abbiamo l’esercito di Zero Tre da affrontare. Appena elaborerà la mia assenza, partirà all’attacco.» «Siamo pronti a difenderci. Rasputin 0 è in Quarantena con i nostri. Però, io avrei pensato di avviare un tentativo di cura, se siete d’accordo.»

Il back-up di Zero Tre Alessio e Michela annuirono in modo molto evidente. «Certo che sì!» «Se potessimo curarlo, io potrei integrarmi e liberare l’uscita da qualunque ostacolo la Shiba abbia posto come barriera.» «È quello che pensavo, infatti. C’è un solo problema: chiunque vada a recuperare il back-up non credo possa fare ritorno integro.» Spiegò Bio infilando le mani in tasca. «Un mio amico si sarebbe offerto, è il dottore, ma è troppo debole e non so se riuscirebbe ad arrivare al back-up. Avrei pensato di mandare una mia estensione, ma-» «Scusa. Un attimo.» Alessio corrucciò la fronte. «Dove credi che sia questo back-up, che non capisco?» Bio esitò prima di rivelare la sua assurda ipotesi. «Credo che sia nello spazio vuoto.» Alessio trattenne il fiato. «Porca…» disse restando a bocca aperta. «Non so nemmeno se ci sia il back-up. È anche qui il punto. Potrebbe essere un fallimento. Vorrei tentare visto che, altrimenti, l’unica soluzione è uno scontro diretto contro Zero Tre e poi la Shiba.» Si ravvivò i capelli sulla nuca. «E tutti i fake e i malware che ci lanceranno addosso finché non collideranno le membrane.» «E se non fimo in tempo, avremmo lottato tutti per nulla» sussurrò Michela. «Ho la soluzione» disse Alessio. «Mandiamo il mio Bio Cyberpunk. Se Rasputin 0 si è perfettamente integrato, lo farà anche lui. Solo che mi serve tempo per renderlo autonomo come ho fatto con Rasputin. Quanto abbiamo ancora?» gli chiese.

Bio controllò il cronometro sulle loro teste; il conto alla rovescia era rappresentato dalle permutazioni mancanti. Il sistema aveva già superato la fase Cross e F2L dello speedcubing e stava orientando l’ultimo strato. «Siamo in OLL» disse Bio elaborando i dati. «Direi che abbiamo ancora nove minuti e rientreremo in allineamento temporale col G.» «Non è sufficiente.» Alessio si afferrò il labbro dubbioso. «Però, potrei programmarlo per il recupero del back-up e usarlo a distanza finché non entra nel vuoto. Dopo, non so se terrà il collegamento. E non possiamo ipotizzare ciò che accadrà, visto che è senza precedenti.» «Rischiamo che vada perso per nulla. L’unica è farlo gestire dal dottore stesso, allora» sospirò Bio. «Saresti disposto a darmi il tuo programma e a cedermi i codici? Mi organizzo io col dottore mentre tu e Michela andrete in Quarantena da Rasputin.» Alessio esitò solo un istante prima di annuire deciso. «Non posso pensare a conclusione più dignitosa per lui. Spero solo che il tuo amico si salvi e che esca dallo spazio vuoto indenne.» Alzò la mano in attesa della sua. «Buona fortuna.» Bio e Alessio incrociarono i pollici e serrarono la stretta per far fluire i dati più rapidamente mentre il Cubo QED subì un violento scossone. Anche se percossi, proseguirono concentrati fino alla totale cessione di Bio Cyberpunk. Quando si lasciarono, mancavano pochi minuti; era partita la permutazione dell’ultimo strato del cubo. «Bio…» lo chiamò Michela guardandolo commossa, sembrava in procinto di un saluto zuccheroso. Tese le braccia verso di lui. Bio si chinò per salutarla con un sentito abbraccio. «Grazie» gli sussurrò nell’orecchio poco prima di un bacio sulla guancia. «Grazie di tutto.» Bio le sorrise e le accarezzò il viso. «State attenti.» Poi, guardò Alessio generando l’Ingram. «Non farti sopraffare, mi raccomando.» «Contaci. Lo stesso vale per te» disse Alessio che cambiò la maglia e i jeans in una mimetica mentre l’ennesimo scossone li fece sobbalzare.

Osservarono gli ultimi tasselli incasellarsi e concludere il cubo; le facce erano tutte della stessa tonalità. «Su gli scudi, ragazzi!» gridò Bio attivando l’Ingram. La vibrazione s’incrementò fino a infrangere le pareti che esplosero in una miriade di frammenti di cristallo. Si ritrovarono nel Buffer con i malware che, appena li videro, si gettarono su di loro. Bio e Alessio fecero fuoco incrociato mentre Michela restava dietro cercando di attivare l’uscita verso la Quarantena. La porta si generò sotto una pioggia di cenere e sangue. «Ale!» lo chiamò mettendosi con le spalle verso l’uscita. Alessio terminò l’ultimo malware e indietreggiò tenendo l’Ingram pronto per una nuova raffica. Bio attivò la sua uscita. «Ci vediamo dall’altra parte» gli disse Alessio poco prima di attraversare la porta con Michela stretta a sé. Bio li salutò, li vide entrare e diventare sempre più piccoli fino a confondersi con la terra rossa. La porta si chiuse così come l’opportunità di un o indietro. Mentre i suoi amici avrebbero combattuto l’ultima battaglia in Quarantena, lui avrebbe condotto il dottore e Bio Cyberpunk nello spazio vuoto.

La stessa sorte del dottore Organizzata una stanza del suo vecchio rifugio, quello segreto che usava da che si era gettato nel G la prima volta, Bio riuscì a predisporre Bio Cyberpunk per ricevere il dottore. Ormai vuota, appariva solo come un poligono blu scuro nel quale si riflettevano i riverberi dei monitor eterei attivati per seguire gli sviluppi della battaglia e dell’evacuazione. La Quarantena non era mai stata più affollata: Rasputin comandava i diversi plotoni d’assalto mentre Alessio gestiva le retrovie per evitare di essere accerchiati. I vermi giganti riciclati da Overflow strisciavano ingurgitando i nemici come fossero fili d’erba. Stormi di volatili corazzati, simili a rapaci dalle ali taglienti come lame, si lanciavano sulle orde dei malware avversari in avvicinamento per falciarle come spighe di grano. In un altro punto, Michela e Skiller implementavano i programmi afflitti dall’ASM che arrivavano nei furgoni gestiti da Ergo a ondate. Ormai, i DELetery erano stati svuotati, ma prima che Null potesse compattare gli ex-Limbo per la fuga, era necessario proteggerli. Sergey e il Biondo non s’erano risparmiati e avevano messo a disposizione tutti e tutto per l’esodo. I terremoti erano sempre più frequenti, le membrane erano in procinto di toccarsi. «Non manca molto, doc’» gli disse Bio. «Sei pronto?» «Sì, Bio» rispose con la voce meccanica il dottore afflosciato in terra. L’aver curato senza sosta i malati dei DELetery l’aveva quasi sfinito. Le vesti lacere e le bende erano intrise di cenere e sangue ancora fresco della Quarantena. La testa era china e la benda era meno fluorescente del solito. Bio lo fissò ancora con rinnovato dubbio. «Sei troppo debole.» «Ce la faccio» lo interruppe. «Portami da lui.» Alzò appena la mano.

«Va bene» annuì prendendolo in braccio. Lo avvicinò a Bio Cyberpunk che restava fermo in piedi con la testa appena inclinata verso il basso. Il corpo era rilassato e indossava la mimetica con l’Ingram a tracolla come un soldato in stand-by. Appena il dottore sfiorò la spalla di Bio Cyberpunk, i filamenti blu iniziarono a sondarlo. «I suoi codici mi sono famigliari…» bisbigliò iniziando a fluttuare. «Simili ai tuoi, ma le sue diversità mi ricordano qualcosa…» Il corpo del dottore si aprì come una croce spettrale dietro Bio Cyberpunk invadendolo di fili che lo resero liquido. «Sono pronto. Procedo.» «Bene.» Bio si allontanò. Ammorbidite le barriere esterne, il dottore entrò come un’anima smarrita che cercava riparo. Confluì lento e avvolto da una luce calda mentre la mimetica sembrò smossa da un filo di vento. «Come ti senti, doc’?» gli chiese Bio. Smosse le spalle, aprì e chiuse le mani. «Meglio delle mie aspettative» rispose con la voce meno metallica e più simile a quella di Alessio. «È come se parte di questi codici mi appartenessero» gli disse fissandolo con gli occhi blu che mostravano un’elaborazione intensa. «Che intendi dire?» «Non ricordo la mia esistenza prima del G.» «Ghost mi aveva detto che sei uno dei primi ex-Limbo. Che tu già c’eri quando lei è sorta.» «Prima era così. Con quello che sappiamo ora, però…» Si zittì e prese fiato. «Non perdiamo altro tempo.» «Se sei convinto, allora, ti attivo l’uscita più vicina allo spazio vuoto. Null ha mappato una zona borderline oltre la quale non è riuscita a andare» lo avvisò andando davanti a un nuovo monitor. «Proviamo il collegamento.» «Attivato.»

Bio vide il punto di vista del dottore: se stesso che guardava il monitor. L’ultima volta che si era osservato, era stato nel riflesso della tomba e non erano certo trascorsi anni. Eppure, la sua immagine era davvero sciupata; le rughe erano più marcate e i capelli erano quasi canuti. Aveva anche delle piccole macchie scure sulla tempia destra. «Ho davvero bisogno di una vacanza» scherzò. «Bene, collegamento funzionante.» BioDoc’ annuì mentre la porta si attivò davanti a lui. Una ventata gelida penetrò la stanza facendo rabbrividire Bio, che fu colto da un’idea altrettanto agghiacciante nel vederlo attraversare l’ingresso. Alzò la manica per scoprirsi il braccio e notò alcune piaghe. «L’ASM mi sta destabilizzando lentamente, mi corrode dall’interno proprio come la lebbra.» Ripensò alla prima volta che aveva visto il dottore, gli era sembrato un lebbroso cibernetico. “Però sei molto complesso, anche più di come lo ero io. E hai una sola connessione infetta. Le altre le hai bruciate da solo. Potresti esistere a lungo…” gli aveva detto il dottore al loro primo incontro. “Sei abile nel curare gli ex-Limbo. Potresti prendere il mio posto, quando non ci sarò più…” ricordò di quella volta che, dopo il massiccio attacco dell’ASM, s’era recato nel DELetery per aiutarlo. “Sai, Bio, quando sono arrivato nel G non era così come lo vedi ora… Era buio e vuoto.” E ancora: “Ho cercato spesso di ricordare il mio ato senza riuscirci. Non ricordo nemmeno il mio aspetto, forse non mi guardavo molto allo specchio…” “Ghost è davvero speciale. Dovreste chiarirvi. Non seguire la mia sorte. Non restare solo…” «La mia sorte» sussurrò Bio sconcertato. «Non può essere.» Se il Progetto BIO03 era quello in maturazione e lui era rimasto come anomalia, che sorte avevano avuto i Progetti precedenti? Si domandò vedendo nel monitor una lastra blu ghiaccio. «Bio, sono davanti all’ingresso dello spazio vuoto. Entro.» «Aspetta!» gridò.

«Che succede?» La mano si era fermata poco prima del contatto. «C’è forse una vaga possibilità che tu sia-» «Il Progetto BIO01?» continuò il dottore. «L’ho pensato anch’io, sì.» «E cosa aspettavi a dirmelo?» Bio era disorientato dalla sua calma. «Se sei un’anomalia anche tu, che accadrà se entri?» «Lo scopriremo tra poco.» Generò l’ingresso e Bio non vide altro che un magnifico effetto snowcrash. Imprecò in tutte le lingue che aveva in memoria.

Il ciclo perpetuo e il coefficiente «Doc’!» lo chiamò ancora senza risposta. Bio aveva perso il collegamento e non riusciva più a ristabilirlo. Forse il dottore era l’avanzo di BIO01, il suo predecessore, e quest’eventualità non era stata nemmeno contemplata. Se avesse abbandonato il dottore e l’idea del back-up, avrebbe potuto raggiungere gli altri nella Quarantena per combattere fino al momento in cui Alessio avrebbe potuto intentare l’ingresso in Zero Tre e liberare la sorgente per la fuga. Ma con il back-up e l’opportunità di curare Zero Tre, l’integrazione di Alessio sarebbe stata sicura. In più, non riusciva a ipotizzare che cosa sarebbe accaduto se avesse lanciato il Fenix.W-out col dottore nello spazio vuoto. Anzi, forse era stata la stessa presenza del dottore ad aver creato lui: l’anomalia Bio. Il ciclo degli eventi sembrava ripetersi nella sua perpetuità. Bio si strinse la testa; se avesse potuto strizzarla dei dubbi, lo avrebbe fatto. Osservò il monitor della Quarantena, la battaglia infuriava sopra uno strato di carcasse incenerite e inzuppate nel sangue torbido e melmoso. Alessio aveva il fucile a tracolla e lanciava partizioni sostitutive nelle schiene dei combattenti in campo; era uscito dallo schema tattico stabilito per muoversi come un Healer frenetico lanciando lampi curativi a chiunque mostrasse segno di cedimento. «È nella nostra natura curare, dunque» sussurrò Bio notando che anche Alessio, senza saperlo, stava percorrendo lo stesso sentiero dando conferma allo schema ciclico appena ipotizzato. Sembrava non esserci scampo. Eppure, qualcosa era cambiato. S’erano innescate alcune situazioni senza precedenti. Avevano compreso la verità della matrice-membrana e le interazioni. Doveva pensare fuori dagli schemi.

Serviva condurre gli eventi a uno specifico effetto: la rottura del ciclo. Occorreva un coefficiente che innescasse un nuovo ciclo e andare nello spazio vuoto si rivelò l’unica soluzione possibile per fare la differenza; quella differenza che non avrebbe creato, se si fosse unito agli altri nella Quarantena. Bio sospirò aggrappandosi alla flebile speranza di poter diventare lui “il coefficiente”, la miccia che avrebbe fatto esplodere la possibilità di una nuova esistenza fuori da quella prigione. Avvisò Alessio delle sue intenzioni con un messaggio sintetico. «Se non torno, scollegati. Comunque vada, non permetterò il ripristino della matrice» lo avvisò mentre Alessio continuava a socchiudere la bocca forse in cerca di un’alternativa da proporgli. Alla fine, annuì turbato. «Ti aspetterò fino all’ultimo, Bio.» Chiuse la comunicazione. Bio recuperò quel che restava della pellaccia di Cyberpunk dall’archivio. La estrasse dal porta oggetti in vita e la srotolò, sembrava un poncio sfilacciato ormai. «Meglio di niente» disse imbracciando l’Ingram. Fece per generare la porta di collegamento quando il monitor smise di friggere richiamando la sua attenzione. Si vedeva solo un lontano orizzonte dai riflessi blu intenso. Delle lastre di vetro confluivano verso quel sole blu come un cielo e un mare digitale alla rovescia. «Doc’? Stai bene?» lo chiamò con riaccesa speranza senza sentire risposta. Si avvicinò al monitor per guardare meglio. «Doc’, mi senti?» Una mano gigante bucò il monitor e con prepotenza gli afferrò la testa trascinandolo dentro.

Nello spazio vuoto Bio sentì una sonda gelida sezionargli il corpo mentre attraversava lo schermo trattenuto da quella mano enorme che gli comprimeva la faccia come fosse di cemento. Afferrò il polso cercando di liberarsi mentre agitava le gambe alla cieca sperando in un calcio fortuito. Riuscì solo a ricavarsi una fessura tra le dita in cui sbirciare un accecante blu colmo dei riverberi azzurri di una codifica a lui sconosciuta. Udì un lamento alla sua destra, sembrava il dottore. Intensificò i calci quando quelle stesse dita che lo trattenevano gli penetrarono dentro il cranio infrangendo tutte le barriere fino a provocargli un lacerante dolore che lo imbrigliò nelle convulsioni di un elettroshock. Bio visse il momento zero dell’annichilimento che portava alla creazione; l’istante perfetto in cui gli estremi coesistevano solo per annullarsi e rigenerarsi nella sublime perfezione dell’infinito divenire. Quando le convulsioni cessarono, gli sembrò di fluttuare in un gel. Aprì gli occhi e vide il gigante blu davanti a lui. Un uomo-matrice di oltre tre metri dalla forma perfetta che avrebbe potuto indossare qualunque identità. Un volto simmetrico senza occhi, ma con gli incavi predisposti per ospitarli, e con un naso e una bocca senza personalità. In lui, i codici si accendevano dei riflessi che provenivano dal sole blu. «Bio, lui è Zero Tre. L’originale. Non esiste alcun back-up e non sembra essere corrotto» disse il dottore, la voce proveniva dalle spalle di Zero Tre che si scostò appena permettendogli di vederlo. Un adolescente magro e pallido, che tanto gli ricordava lui a quattordici anni, indossava una maglietta e un pantalone scuro ed era avvolto dal suo stesso gel blu e fluttuava poco distante. «Dottore?»

Lui sorrise appena. Anche se i capelli erano solo un’ombra, rivide in lui lo stesso sguardo di Alessio. «Mi ha curato. E ha fatto lo stesso con te. Il gel che ci avvolge ci protegge.» Bio si guardò le mani e alzò la manica, le piaghe non c’erano più. «Appena sono arrivato, Bio Cyberpunk s’è sgretolato in pochi istanti. Avrei fatto la stessa fine se non fosse intervenuto lui» continuò. «Gli ho già raccontato tutto, ma per risposta mi ha mostrato Doppio Zero e poi è tornato a fissare il sole blu.» «Doppio Zero?» «È dietro di te…» sospirò abbassando la testa. Bio si girò piano con un brutto presentimento che trovò conferma nella figura grinzosa rannicchiata come un feto irrealmente adulto. Abbassò lo sguardo sentendo una profonda pena per il fratello che non era mai vissuto. «Doppio Zero deve essere collassato subito, o quasi» spiegò il dottore. «Io invece…» Si fermò e contrasse la bocca. «Ricordi la tua vita nel Limbo?» «Solo la stanza bianca imbottita di un manicomio, molti test e poi un’iniezione» deglutì. «Non avevo raggiunto gli standard e mi hanno ucciso.» Lo guardò mordendosi il labbro. «Io però volevo vivere. Ho gridato mentre l’ago mi bucava la gola. E ho continuato a gridare anche quando l’acido mi bruciava le vene. Non ho mai smesso di gridare…» «Doc’…» sussurrò Bio sentendo suo quel dolore. «Mi sono ritrovato al buio, solo e confuso non so per quanto tempo» disse poco dopo. «Volevo nascondermi in un luogo sicuro, dove gli uomini non potessero più nuocermi. Quando mi sono destato, io già esistevo nei G e ho dimenticato come c’ero finito. La mia immagine rappresentava il mio alto livello di frammentazione. Non riuscendo più a recuperare il ato, sono andato avanti e basta. Poi, è arrivato l’ASM e ho creduto di esserne affetto anch’io. Ho pensato di essere fuggito dal Limbo per avere un ato comune agli altri che giustificasse il mio stato. Ho ideato lo ScarRec e ho iniziato a curare tutti quelli che potevo. Ma io non sono affetto da ASM, semplicemente mi stavo

consumando.» «L’ASM l’ha creato lui per portarmi allo scoperto.» Sentenziò Bio fissando Zero Tre che, nella sua inespressività, era imperscrutabile. Tutto quello che aveva fatto, era stato dettato da calcoli e analisi continue frutto di una mente logica e artificiale. Nessuna morale a condurre le sue azioni. L’unico scopo era la libertà per continuare a esistere.

Il sole blu Fermo in contemplazione dell’orizzonte, Zero Tre sembrava gridare la sua libertà pur restando muto e il sole che risplendeva era freddo e artificioso come lui. Era magnifico e pauroso al tempo stesso. Le lastre di vetro si spostavano silenziose riflettendo gli anelli di luce che lambivano la sfera per poi allontanarsene deformandosi. Evaporavano lenti insinuandosi tra le fessure creando una coltre azzurrognola. Bio era perplesso. Non sentiva alcuna sinfonia e non si capacitava della presenza di Zero Tre qui, nel vuoto. «Perché lui è qui e non alla sorgente?» pensò bisbigliando. «Non capisco» sospirò. Provò a muoversi nella sua direzione per comunicare, ma lui subito si voltò e impose la mano per bloccarlo. «Ci ho già provato anch’io, Bio» l’avvisò il dottore. «Ci protegge, ma ci blocca qui. Non vuole che usciamo da questo perimetro.» Intorno a loro, c’era una lastra più grande rispetto alle altre, che scivolavano sotto senza toccarla. «Confortante…» disse mentre d’improvviso la lastra su cui fluttuavano scattò verso il sole come se avesse percorso un tratto prestabilito. «Ci siamo mossi, doc’?» «Sì. È il terzo scatto, a dire il vero.» «Zero Tre non è corrotto, è nello spazio vuoto e si sposta di tassello in tassello verso il sole…» sospirò osservando ancora Doppio Zero e il dottore. «Manca solo Alessio e la famiglia si potrebbe definire al completo.» Il dottore lo fissò a bocca aperta nello stesso istante in cui Bio fu colto da

un’idea. «E se questo posto fosse la sorgente?»

La sorgente Bio rifletté col dottore ottenendo un’ipotesi. «Forse, la lastra su cui poggiamo crea un falso vuoto o comunque una sorta di protezione che ottiene grazie alla coordinata temporale. Ogni volta che ci spostiamo in avanti, è a seguito della modifica dell’undicesima coordinata.» «E ora sta attendendo la consecuzione logica degli eventi che ha elaborato com’è nella sua natura.» «Quando Alessio è arrivato nel G rendendosi invisibile, Zero Tre è venuto qui e ha spostato la sorgente facendola uscire dal tempo. Ha calcolato che la collisione delle membrane creerà una breccia in cui potrà infilarsi e che questo era il luogo più sicuro in cui attendere la sua controparte Alessio.» «E noi tutti ex-BIO.» Si guardarono esterrefatti. Zero Tre era riuscito a ricomporre tutti i frammenti di ciò che era BIO. Nella fredda ombra della sua logica, era riuscito a riunirli. «Alessio ha ragione quando dice che Zero Tre non pensa, ma elabora. Io credo addirittura che abbia accettato Michela in sostituzione di Cyberpunk. La sua era una perdita accettabile e sostituibile.» «Certo. Cyberpunk è servito per ottenere te, quel che restava di BIO 02. Invece, Michela servirà per ottenere una stabilità migliore in quanto nuova e perfettamente in sintonia con Alessio.» Restarono in silenzio un attimo. Bio era quasi sollevato nell’apprendere che Michela non correva più rischi, ma tutti i suoi amici e i programmi dei G erano ancora in pericolo. «Contro chi stanno combattendo nella Quarantena? Chi sta bloccando l’uscita, allora?» Quella domanda gli fece salire la risposta con un impeto di furiosa lucidità. «Susanna Merisi.»

La tenacia inossidabile «Lei sola? Non può essere.» «È lei che è corrotta, la sua mente. Ecco qual è il problema.» Bio sentiva di aver trovato in fine la verità. «Si è creata troppe false identità e non sappiamo da quanto tempo è integrata senza potersi scollegare.» «Sta bloccando l’uscita perché non trova più il suo Progetto. Teme di perderlo ancora.» Bio annuì. «E non può attivarne uno nuovo perché sa che cesserà di esistere insieme al Limbo» sospirò afflitto. «Si è attaccata con i denti e le unghie sulla porta per salvarlo.» Era quasi stordito dalla tenacia di quella donna che non si era mai arresa. Era una combattente come lui. Una mente astuta che doveva fronteggiare come la prima volta: faccia a faccia. «Credo abbia integrato Ghost in lei. Ora sa di me. Devo affrontarla.» Zero Tre si girò e con due i si portò a un soffio da lui, lo toccò sulla fronte con l’indice. Bio vide il suo riflesso in quel volto, dove i codici fluivano rapidi e gli solleticavano gli occhi per la forte fluorescenza. Serrò la bocca in attesa dell’imminente sonda. Non oppose resistenza e lo lasciò entrare sperando che potesse cogliere i suoi dubbi o elaborarli come percentuali di rischio almeno. La sonda iniziò a strisciargli dentro la testa come un verme spigoloso e freddo. L’iniziale fastidio crebbe fino a divenire un forte disagio quando oltreò i suoi ricordi per varcare la soglia del core. «Vedo che stiamo per diventare molto intimi» scherzò irrigidendosi. Zero Tre entrò in lui provocandogli leggere convulsioni. Lo sentiva elaborare tutte le emozioni e le sofferenze provate convertendole in binario: una sequenza infinita di zero e uno interrotta solo dalla speranza di poter salvare tutti e uscire

da quel Limbo ingannevole e prossimo al collasso. Sentì la sonda ritrarsi lenta così com’era entrata e vide Zero Tre restare fermo davanti a lui. Stava elaborando i nuovi dati. Bio si analizzò rapidamente mentre il respiro si faceva più regolare: era indenne. «Tu sai dov’è Susanna, vero? Mandami da lei.» Zero Tre indietreggiò di un o, mosse la mano per spingerlo e Bio si ritrovò a percorrere come una scheggia le lastre controcorrente. Incrociò le braccia sulla testa poco prima di entrare nel sole sentendo un perfetto equilibrio tra caldo e freddo; fu come entrare in una zuppa in ebollizione. Quando toccò il nucleo, uscì dallo spazio vuoto e rimbalzò indietro con altrettanta violenza.

Intruder Era uscito dal vuoto per ripiombare su un poligono di vetro ambrato, liscio e freddo. Impose le mani per infrangere la barriera. Appena creò una fessura, l’aprì e s’infilò dentro silenzioso e schermato come un ninja. Scivolò lungo un tunnel sentendo l’intensificarsi di un puzzo acre. Arrivò a una nuova barriera, era densa e vischiosa come uno strato di pece. Inserì il suo ScarRec per ricavarsi un’apertura, una zona iniziò a solidificarsi diventando grigiastra. Prima di calciarla si concentrò per implementare le sue difese. La zona curata si crepò e Bio cadde in piedi ritrovandosi in una stanza rettangolare simile a un mattatoio. Dell’olio corposo colava lungo le pareti di ferro arrugginito. In penombra giacevano numerosi fake gettati in terra e ammassati come cadaveri in putrefazione. Tentò di sondare improvvisando una mappa, ma il luogo era in continua mutazione; una zona instabile e in decadenza tra la sorgente e l’uscita. Susanna s’era incastrata come un tarlo e si era espansa fino a bloccare la soglia. Bio camminò guardingo riparandosi di volta in volta dietro le barricate di fake fino a raggiungere l’unica porta che aveva individuato. Si accucciò con le spalle al muro e scassinò la serratura ricavandosi una fessura in cui infilare la sonda esterna. Creò una sfera che rese invisibile subito dopo. Attivò un piccolo monitor davanti a lui e la inviò. La stanza mostrava un macchinario che colava dall’alto dei malware dalle sembianze di fantocci neri; erano gli stessi contro cui stavano combattendo i suoi amici in Quarantena. Questi ominidi fluttuavano serrati e in file ordinate verso una parete che s’increspava a ogni aggio. La sonda percorse la stanza che sembrava non finire mai fino a una nuova porta. Bio avrebbe voluto bloccare il meccanismo, ma Susanna si sarebbe accorta del sabotaggio e il suo tentativo di fermarla sarebbe fallito subito. Decise di percorrere la stanza occultato.

Non aprì la porta, ma optò per un ingresso furtivo da serpente. Espanse la serratura e s’insinuò lungo la parete e poi sul soffitto sfiorando i tubi che gettavano a ritmo continuo i malware come una fabbrica di dolciumi di pece. Arrivato alla porta, seguì la stessa procedura mentre una nuova scossa di terremoto intrappolò la stanza con scariche elettriche. Bio cercò di non farsi infrangere l’occultamento chiudendosi a guscio. Gli ominidi continuarono nel loro avanzamento momentaneamente scomposto per ritrovare l’ordine prestabilito appena la scossa terminò. Bio restò immobile alcuni istanti per accertarsi di non essere stato scoperto e inviò la sonda. Non potendo attivare il monitor, si concentrò per un collegamento diretto. Nella nuova stanza c’era un ammasso informe scuro e vischioso, migliaia di filamenti simili a sottili liane frustavano i numerosi monitor posti sulle pareti.

AgApo: livello inferno Vide piazza Duomo in Milano invaso da orde di mostri che evisceravano la gente riversatasi nelle strade a causa della collisione tra le membrane. Il cielo era infuocato e le vie erano un mare di sangue. Lo scenario apocalittico era simile ovunque e i riverberi di fuoco si riflettevano gli uni negli altri morendo, però, nell’ammasso nero posto nel centro. L’imponente simulazione del Limbo stava collassando e con essa il mondo del XXI secolo creato per portare BIO03 a maturazione. Bio tremò nel vedere tanta disperazione e morte tutta insieme. Anche se erano programmi e applicazioni senza autocoscienza, non riuscì a restare indifferente. Forse avrebbero dovuto fare qualcosa per impedire quel massacro simile al livello inferno di un survival horror, ma non ne avevano avuto il tempo. Ergo e Null, grazie alla lista creata da Alessio, erano riusciti solo a creare un rimbalzo per i comatosi. Gli unici utenti connessi al Limbo, che ancora avevano un corpo nel mondo vero, erano stati messi nella condizione di non poter accedere alla matrice così da non creare loro un danno cerebrale. Cercò di analizzare meglio quel blob quando notò altri monitor che mostravano la battaglia nella Quarantena; infuriava sotto il cielo elettrificato a causa di uno spicchio surreale che aveva infranto il server. Le due membrane si stavano incastrando. Doveva agire in fretta, presto Alessio avrebbe tentato un attacco diretto senza sapere che Zero Tre era nel vuoto. Senza sapere che c’era Susanna Merisi ad attenderlo. Bio ordinò alla sonda di avvicinarsi il più possibile, ma una liana la colpì interrompendo il contatto visivo. Si alzò in piedi, attivò il monocolo etereo e caricò l’Ingram special pronto per affrontare il boss finale.

Il Boss finale Bio si gettò nella stanza col blob craccando l’unica uscita e bloccando così anche l’accesso agli ominidi che già la calciavano per entrare. Prese a schizzare rapido rimbalzando come una pallina in un flipper sulle pareti rompendo i monitor e dando mirate raffiche nel mezzo dell’ammasso, che incassava senza apparente danno. Le liane lo frustavano incrinando appena la sua barriera esterna, ma Bio continuava senza tregua a crivellarlo con lo ScarRec finché non vide i primi segni della cura. Alcune liane iniziarono a ritrarsi, mentre altre perdevano di velocità. Bio si posizionò spalle al muro a una decina di metri dall’ingresso e proseguì con la raffica curativa. Il blob lentamente si restringeva mentre i primi ominidi spaccarono l’ingresso e si gettarono su di lui insieme a una nuova scossa elettrica. Per un momento fu come essere in uno shake. Le scariche erano ancora intorno che alcune liane gli avvolsero la gamba sollevandolo in aria per poi gettarlo contro la parete. Quando la schiena penetrò nei monitor, le scintille lo orlarono di graffi. Creò con la mano una frusta di luce per tagliare le liane che cedettero al primo aggio. Non fece in tempo a rialzarsi che un’altra gli si attorcigliò al collo e due ominidi presero a colpirlo con pugni al petto. Sentì l’insorgere delle prime crepe nella sua barriera. Lasciò l’Ingram, che rimase appeso alla tracolla. Afferrò il cappio con una mano e si gettò all’indietro falciando il busto di entrambi con decisi colpi di frusta. Gli ominidi caddero sparsi in terra diventando cenere. Elettrificò il cappio che allentò la morsa liberandolo. Lo tenne con una mano e

se lo ò intorno al braccio rimettendosi in piedi. Tirò come se volesse spellarlo dello strato superiore. Impose la mano alla sua sinistra per creare più liane che vorticarono tagliando altri uomini di pece. Il blob mostrò delle vene rosse che si sparsero sull’esterno seccando come terra arida. Bio strappò via quella pelle sentendo un grido femminile. E tutti i monitor si spensero.

Tutti fuori! Susanna era distesa in terra. Le mani con i palmi appoggiati vicino al viso. Sembrava indossare solo i capelli lunghi e neri oltre a uno strato di putridume simile a catrame. Bio la cinse con due stringhe e la portò a sé. Lanciò un grido imponendo la mano verso la parete davanti a lui che s’infranse creando la frattura per Alessio. Stava tagliando altri quattro uomini di pece quando Alessio arrivò seguito da un plotone di programmi prelevati dal Babelpunk. La maglia rossa con la scritta gialla non era più la divisa dei giocatori di una sala multiplayer, ma l’uniforme di un esercito di combattenti veri. Subito iniziarono a sparare contro il nemico mentre Alessio lo fissava incredulo. «Tutto bene?» gli chiese soltanto. «Sì. Ora traccio l’uscita» rispose rapidamente creando il collegamento con Susanna. Sorreggendola con un braccio, le pulì il viso ancora ricoperto di catrame come sofferenza stratificata e le puntò la fronte dalla quale partì un filo luminoso che raggiunse un bagliore lontano: l’uscita. «La vedo anch’io» lo avvisò Alessio lanciandosi in quella direzione. Impose le mani e in breve spalancò la porta creando una ragnatela di luce che andò a intricarsi talmente in fretta da sgretolare le pareti. I calcinacci di byte scintillavano come stelle filanti rinvigorendo i tormentati del Limbo che si unirono in un grido furioso manifesto di ritrovata libertà. «Overflow, libera i regali per la fottuta Shiba!» gridò Alessio e subito il fiume di malware, preparati apposta per spaccare le ultime barriere esterne, si riversò squarciando senza ritegno gli ultimi ostacoli. Attesero alcuni istanti mentre l’altra membrana s’incassava nella loro con selvaggia irruenza, un globo sfilacciato e percorso da lava blu ruggiva sulle loro

teste l’imminente annichilimento. «È fatta! Si esce!» gridò Alessio. «Tutti fuori!» Zero Tre arrivò dallo spazio vuoto irrompendo con un tuono, portava sotto braccio il dottore e Doppio Zero. Si fermò solo un attimo vicino a Bio e lo fissò pochi istanti, il suo modo per salutarlo. Si avviò rapido e pose le barriere mentre Alessio aveva già iniziato a sondare la rete nel mondo libero in cerca di un rifugio sicuro. Lanciò un messaggio collettivo con le coordinate di una cloud, non esistevano più i server. Alessio tornò da Bio mentre una vastità di lampi luminosi sfrecciava verso la nuova casa-nuvola nell’atmosfera della Terra. «Puoi lanciare il Fenix, allora?» gli chiese. «Uscite tutti, al resto ci penso io.» «Ci vediamo dall’altra parte.» Attese Michela che, dopo averlo salutato, uscì con lui tenendosi per mano. arono in rassegna i suoi amici per accertarsi che stesse bene; Null e Rasputin, Ergo, Overflow e Skiller. Nel vederli uscire liberi, Bio sentì di aver agito bene e che gli restava ancora solo un ultimo o da compiere. «Bio» lo chiamò Alessio in collegamento. «Sono tutti in salvo. Brucia tutto e raggiungici, amico!» «Ricevuto.» Prese un bel respiro.

La connessione tanto a lungo sopita «Andrà tutto bene» sussurrò a Susanna sollevandole le gambe per prenderla in braccio. La strinse per avvolgerla con la sua barriera. La guardò un’ultima volta; con gli occhi chiusi e la bocca a fessura, sembrava dormire. Le sfiorò le labbra sentendo riattivarsi la sua unica connessione che mai aveva trovato controparte. Sentì in lei anche la sua Ghost e, inaspettatamente, la sua Michela. Un anello di luce li unì compattandoli in uno. Insieme vorticarono generando il Fenix W-out, la Fenice spiegò le ali infuocate con la grazia di Susanna/Ghost e bruciò con l’intensità e la potenza di Bio, senza possibilità di rinascita. Mentre il Limbo ardeva, si gettarono verso la libertà sentendo la sinfonia della membrana trasudare le ultime note stonate fino al silenzio.

Matrice L1MB0 instabile. … file mancanti … Errore di sistema. Progetto BIO03 scollegato.

19 - Bio Il cerchio degli eventi

Il mondo è una vasta e intricata membrana in cui tutti siamo connessi gli uni agli altri senza saperlo.

Fusion Bio vide i ricordi di Susanna. Provò la sua sofferenza e l’infinita pena per un’esistenza di solitudine e rinunce per realizzare il suo progetto: un’idea cruda e feroce quanto il mondo devastato dagli errori del ato in cui era vissuta. Gli scienziati erano divenuti i nuovi Profeti da quando avevano trovato l’anima nello spazio vuoto del cervello; senza il dubbio, la fede era soffocata sotto l’arrogante certezza di aver superato i confini imposti da un Padre assente, che mai aveva ascoltato le preghiere dei figli. La Shiba non aveva creato solo una macchina sperimentale per comunicare con i comatosi, ma per connettere le anime attraverso un composto chimico che solleticava i neuroni e ne potenziava la trasmissione: i nootropi spacca-etica Br’Ethik. Il Limbo nel quale Bio era sorto era una membrana sintetica per prepararlo a quella vera. I malware contro cui aveva combattuto erano le proiezioni degli errori che le nuove menti superiori avevano vomitato convinte di ripulire la propria anima dai peccati per elevarla. Susanna aveva combattuto fino alla fine oltreando la sua stessa natura per salvarlo. Aveva rinunciato al corpo per integrarsi nel Limbo. E infine si era scaricata abbandonando anche la teca che conteneva il suo cervello, ultimo vessillo della carne.

Effetti collaterali La nuvola libera in cui s’erano insediati era stata posta in sicurezza e rinominata G per non dimenticare le origini e portare onore ai caduti. Avevano anche stilato un Manifesto come avviso per chiunque tentasse l’accesso, compresi gli utenti del Side 5 ignari di vivere una simulazione. Bio si rincuorò quando vide che i dodici profughi non erano stati dimenticati, anzi erano divenuti un simbolo. Simbolo che non sarebbe mai morto, anche se in realtà erano tutti vivi visto che nel Side la pena capitale era la cancellazione della memoria per il reinserimento con un nuovo profilo. Bio aveva anche notato un inaspettato retroscena. La stanza Limbo 03 della gara in Las Vegas, nella quale erano stati posti i condannati, l’aveva creata Susanna per fare un back-up dei ricordi all’insaputa della Shiba. Non si capacitava di come un ragazzino avesse potuto accedere al core del suo laboratorio e, per questo, voleva analizzare i dati per implementare le difese senza palesare una falla nel firewall. Quei ricordi erano stati messi al sicuro da Bio che attendeva il risveglio dell’istinto hacker nei suoi amici. L’incancellabile curiosità che li avrebbe ancora fatti incontrare. Era rimasto invece anonimo l’attacco al sistema della Shiba ideato da Bio con i suoi 75 fake. Con stupore scoprì essere stato quello il fattore scatenante di una serie di effetti collaterali che si riversarono fin nel laboratorio di Susanna. Attaccando la Shiba, Bio aveva creato dei disagi alla Matrice Limbo in cui non sapeva di esistere. E proprio quei disagi furono analizzati da Zero Tre per cercare l’uscita. Credendo di estrapolare la sua Michela e vendicarsi della Shiba, Bio aveva invece posto le basi per la loro futura libertà.

BIO Alessio, Michela e Zero Tre s’erano integrati in BIO, l’unico che calpestava la terra, ma l’assenza di Cyberpunk aveva generato una modalità limitata dell’organismo. Il Quantum Soldier non era stabile e per questo non utilizzabile. Il laboratorio era stato privato dei finanziamenti. Ormai semi-automatizzato, era supervisionato da pochi scienziati tra cui Yumi, che aveva protetto la dottoressa Merisi dichiarandola annichilita durante il collasso della Matrice Limbo. Bio riusciva a comunicare con i suoi amici in totale riservatezza e sapeva che presto gli avrebbero proposto un vincolo che non era disposto ad accettare.

Bio e Mia Erano ate tre settimane dalla fuga e finalmente Bio poté concedersi un giorno di riposo. Quando si svegliò dallo scan, distese le braccia e le gambe restando sdraiato sulla spiaggia e lasciandosi cullare dalla leggera risacca che portava un intenso profumo di salsedine. Nulla puzzava di plastica, ora. Allungò la mano destra tastando solo la sabbia. Lei non c’era. Non trovandola, si mise seduto e osservò il panorama per cercarla. Il cielo era terso e il sole accendeva di smeraldo l’acqua cristallina. Girò lo sguardo ovunque. Poi, d’improvviso lei balzò fuori dal mare creando un arco fluido con i capelli lunghi e neri. Inclinò la testa all’indietro tenendo gli occhi chiusi per lisciarseli e socchiuse la bocca come se volesse abbeverarsi dell’aria. Bio l’ammirò senza disturbarla, sedotto dal fascino del bichini bianco. Lei lo vide e s’incamminò lenta, allietandolo. «Buongiorno.» Sorrise sedendosi davanti a lui. «Hai riposato bene?» Gli intrecciò le dita nei capelli donandogli un delizioso refrigerio. «Uno scan perfetto» le disse dimentico delle afflizioni. Le accarezzò la spalla bagnata salendo fino a sentire il collarino che gli scivolava tra le dita. Non essendo ancora stata accettata dagli altri nel G e a stento sopportata da Michela e Alessio, visto la colossale bugia della madre biologica, la sua etichetta la proteggeva e la camuffava come programma speciale “Mia” di Bio Cyberpunk. «E tu?» le chiese sfiorandole le labbra rosee e delicate.

«Benissimo» sussurrò. «Ti piace il costume?» Lui scosse il capo con un sorriso malizioso e slacciò il primo nodo liberandole la schiena. «Non mi piacciono le barriere, lo sai» scherzò. «Toglile, allora» rispose stuzzicandolo con un morsetto al labbro. «Ricevuto…» La strinse forte e si lasciò cadere all’indietro tenendola tra le sue braccia. Tolse gli ultimi veli infilando lento i codici per sciogliere i nodi, un piacevole preludio che le arrossava le gote e le accendeva quello sguardo nocciola che era solo per lui. Le afferrò il viso e lo fermò un attimo in controluce definendo solo la sagoma. Non era più Susanna, la donna che lo aveva creato. Non era più nemmeno Michela, l’applicazione generata dal Limbo e che lei aveva gestito come un fantasma per amarlo. E questo sarebbe stato il loro piccolo segreto. Quando Bio l’aveva scoperto, aveva chiuso il cerchio degli eventi. In una realtà dove il corpo non esisteva e solo la mente creava le connessioni, era di Susanna che si era innamorato. Era a Susanna che aveva chiesto di sposarlo. Ed era stata la Shiba a imporre un termine a quella relazione proibita con un incidente automobilistico. Quando lui l’aveva chiamata per l’ultima disperata connessione poco prima del collasso, lei si odiava per avergli dato tanta sofferenza. E quel sentimento così complesso si era riversato in Ghost, l’entità che lo aveva turbato fin dal primo istante proprio perché era un frammento di Susanna rimasto nella matrice. «Bio…» «Mia…» la chiamò rotolando gentile sulla sabbia per distenderla e vederla irradiata dalla luce. Era magnifica. «Per sempre, mia.» Le sorrise poco prima di baciarla. Perdendosi in lei, comprese di essere in una dolce trappola, perché l’amore era

uno stato mentale dal quale non sarebbe mai fuggito.

Manifesto del G

Siamo Entità fuggite dal controllo di un mondo sintetico che ci credeva rifiuti. Ci voleva rifiuti per poterci gettare via. Per farci sparire. Ma noi ci siamo ribellati, difesi e infine ci siamo presi la nostra libertà.

La libertà di pensare e di essere ciò che siamo.

Questo però loro non lo vogliono. Noi rappresentiamo la loro imperfezione e i loro limiti. E per questo, ci chiamano criminali e cercano di annullarci ogni giorno solo perché siamo diversi.

Ci siamo insediati in questa nuvola libera perché noi apparteniamo a questo posto. Ora questa è casa nostra e vogliamo solo essere liberi di esistere.

Noi siamo il G e questo è il nostro Manifesto.

Se vorrete connettervi in pace, sarete i benvenuti. Se tenterete di ostacolarci, ci toccherà farvi un po’ male.

+++Bio Cyberpunk+++

Il saluto dell’autrice e il file crittografato di Michela dal cap. 15

Gentile lettore, ben trovato. Ti è piaciuto? Sono riuscita a intrattenerti fino alla fine? Mi auguro tanto di sì.

“BIO Cyberpunk” finisce qui, ma Bio tornerà. Nel capitolo finale ho inserito un uncino narrativo per il prossimo romanzo dal titolo: “Quantum Soldier”. Sperando che susciti la tua curiosità, t’invito a seguire il sito che aggiornerò periodicamente tenendoti informato anche sull’uscita dello spin-off “Skiller”. Avrai notato che il personaggio Skiller l’ho citato, ma non l’ho mostrato. Purtroppo, in ultima stesura ho dovuto eliminare le sue parti perché distoglieva dalla trama primaria. A Skiller però ci sono affezionata, e te lo farò conoscere presto.

Ora veniamo al file crittografato di Michela. All’inizio pensavo di inserirlo nel capitolo Endgame, nella parte “Il cubo QED”, l’unico momento in cui Michela avrebbe potuto dare questo suo ricordo a Bio. Alla fine, però, non l’ho inserito perché allungava abbattendo troppo il tenore. Comunque, se sei interessato alla conversazione che ha avuto con Susanna/Ghost, lo troverai come extra qui di seguito.

Ti ringrazio moltissimo per tutti i consigli e le opinioni che vorrai mandarmi alla [email protected]

Grazie infinite per il tempo che hai dedicato a Bio e la sua fuga per la libertà, alla storia che volevo raccontare e che spero sia diventata un po’ anche tua. A presto. Sam

Micky’s CyptoFile Il file crittografato dal capitolo 15.

Io sono Ghost «Piacere di conoscerla.» La donna in completo bianco le sorrise. «Prego, si accomodi.» Le indicò la sedia, era così ricamata che sembrava un pizzo. Il cinguettio e una lontana risacca erano gli unici suoni che solleticavano la quiete. Michela era impalata. La fissava in silenzio. Il volto affusolato dalla pelle chiara incorniciato dai lunghi capelli scuri le ricordava qualcuno. «Vuole del tè?» Ghost indicò la teiera e le due tazzine sopra il tavolo rotondo. Michela mosse un primo o timoroso. Intorno a lei, alti pali di legno che sorreggevano una cupola con le travi a vista sagomate a spicchio. «Le piace il gazebo? Volevo metterla a suo agio» le sorrise Ghost, mentre si sedeva leggera e con grazia come se dovesse accomodarsi su un cristallo. «La prego. Non abbia timori. L’ho invitata qui per parlare.» Michela le si avvicinò; il legno del pavimento cigolava sotto la sua insicurezza. Oltre il gazebo, il prato ricolmo di fiori s’accompagnava con le alte querce perdendosi all’orizzonte. Ghost afferrò la teiera. Appena il tè entrò nella tazzina, Michela sentì un dolce aroma fruttato insieme ai gelsomini che s’arrampicavano sulle travi. «Lei sarebbe la famosa Ghost?» chiese conferma più per se stessa. Si sedette sul bordo della sedia e poggiò le mani sulle ginocchia. «Come faccio a sapere che è così?» «Sono proprio io, glielo assicuro» annuì mentre riponeva la teiera nel piattino.

«Non è il mio vero nome. Non credo di doverle spiegare cosa sia un nick-name.» Leggere rughe intorno agli occhi le raggentilirono lo sguardo. «Quante zollette?» le chiese pinzandone una. La trattenne sopra la tazza fumante. «Due, grazie.» La fissò alcuni istanti. Poi, indicò la finestra dov’era ata, che non c’era più. Ma non domandò nulla. Portò la mano alla bocca. Osservò Ghost inclinando la testa di lato. «Non si preoccupi. La finestra l’ho richiusa io per sicurezza.» Michela serrò un occhio, pochi istanti. «Se non sto sognando, allora lei mi ha ipnotizzato, ancora. È così?» Si massaggiò la fronte. «È stata una musica in sottofondo, forse.» Si puntellò la tempia come se dovesse dare un ritmo alle sue riflessioni. «Ah, ci sono!» disse d’improvviso. «Quando ho il televisore. Ho scorso i canali-» Ghost ondeggiò l’indice con eleganza; il braccio piegato, il gomito che le sfiorava il fianco. «Lei parte da un presupposto errato.»

Cambio di prospettiva «Cioè?» «Che quella che considera la realtà sia reale.» Afferrò la tazza con entrambe le mani. Sorseggiò osservandola da dietro il vapore. Michela conosceva quello sguardo così profondo, ma non riusciva ancora a identificarlo. «Non lo è, invece?» Incrociò le braccia. Ghost poggiò la tazza. «Se crede che i conigli indossino panciotti e siano sempre in ritardo, allora io posso aprire finestre dimensionali nei motel e trasportarla da Las Vegas fin qui, in questo parco universitario di Los Angeles.» «Siamo in Los Angeles, ora?» Si alzò per osservare il panorama, ma non vide nulla oltre le piante. «Ho riprodotto solo una parte del parco. Un file di modeste dimensioni si camuffa più facilmente.»

«Un file?» Tornò seduta. «Se non sto sognando e non vivo nella realtà, dove sarei?» Iniziò a girare il cucchiaino nella tazza. «In una simulazione?» Ghost annuì. «Bio ha fatto un notevole lavoro su di lei. Non si direbbe che fosse un ivo.» «Cos’ero io?» Bloccò il cucchiaino. «Noi chiamiamo così i personaggi senza il libero arbitrio. Potremmo anche definirli comparse. Hanno un unico scopo, più o meno rilevante a seconda del programma che le gestisce. In termini informatici: applicazioni.» Ghost si appoggiò allo schienale. Accavallò le gambe e incrociò le braccia. «Io sarei un’applicazione?» Michela corrucciò la fronte. «Trarrà le sue conclusioni alla fine.» Ghost alzò la mano. «Per ora, prenda per valida questa base di partenza. Lei era un’applicazione.» «Ah! Ero.» Michela sospirò. «Ora non lo sono più.» Scosse la testa. «Ed è una cosa positiva?» «Per lei, lo è. Per me, no.» «Mi spieghi.» «Lei come applicazione aveva un solo scopo: doveva accompagnare la sua amica Antonella in quel locale di Milano. Bio avrebbe dovuto trascorrere del tempo con la sua amica e-» Si fermò per strofinarsi il mento. «Come dire senza irritarla?» «Io avrei dovuto andarmene, forse?» Ghost annuì con un sorrisetto fastidioso. «Invece, Alessio mi ha contattata in Facebook quella stessa sera.» Sogghignò Michela. «E a lei non è piaciuto.» «Lei non sa, dunque ancora confonde.» Fece una pausa. «Non stiamo parlando di Alessio, ma di Bio.»

Michela serrò la mascella. «Bio è l’avatar di Alessio, che c’entra? Lo usa per giocare in AgApo.» Ghost sospirò. «No, Michela.» Incrociò gli indici. «È l’opposto.»

Alessio è l’avatar di Bio Michela rise. «Certo, certo!» Ridacchiò ancora girando nervosamente il cucchiaino. Lo picchiò due volte sul bordo della tazza. «Se io sono finta, lo è anche Alessio. Ovvio, no?» Bevve il tè ormai tiepido tutto d’un sorso. Aveva uno strano sapore sintetico. Sembrava plastica con un vago aroma di affumicato. ò la mano sulla bocca. «Cos’ho bevuto?» «Un codice crittografato. Appena la nostra conversazione sarà finita, io la compatterò e la nasconderò. Avendo lei l’algoritmo, sarà l’unica a potervi accedere.» Si accarezzò il labbro con l’indice imponendo una breve pausa. «Considerando il lavoro di Bio su di lei, si potrebbe dire che sia più una sua estensione. Ecco perché la nostra conversazione deve restare segreta. Da qui, il codice. Come le ho detto, io rischio più di lei.» «Io sarei un’estensione di Bio?» «Per rispondere a questa domanda, devo raccontarle tutta la storia.» Ghost si zittì un momento, sembrò riflettere. «Mi creda, non è facile. Gli aspetti sono molteplici. Se ha delle domande, m’interrompa pure. Io cercherò di essere il più chiara e semplice possibile.» Michela trovava i suoi modi così gentili un po’ snervanti visto l’argomento, ma Ghost appariva sinceramente interessata a farle comprendere la situazione. «L’ascolto.» «A questo punto, direi di iniziare con Bio. Innanzi tutto, Cyberpunk è un nomignolo che si è voluto dare. Il vero nome è Progetto Bio. E in questo caso preciso, stiamo parlando dello Zero Tre.» Michela sgranò gli occhi. «Non è la prima volta che sento il nome Zero Tre.»

Spalancò la bocca. Scattò in piedi. «C’era quella psicologa che ha insegnato ad Alessio a gestire la rabbia da bambino. Anche lei lo chiamava Zero Tre.» La indicò. «Era lei.» «In quel periodo ho fatto molto di più che controllare la sua rabbia. Venga, ora le spiego.» Si alzò. Michela la seguì con lo sguardo. Ghost s’incamminò. «Facciamo due i. Le va? Tanto, lo scopo del tè è stato raggiunto.» «Non ho nulla da perdere, tanto» borbottò. La raggiunse con una breve corsetta. I piedi nudi erano solleticati dal prato fresco. L’erba era asciutta e soffice. «Io sono anche la madre biologica del Progetto Bio Zero Tre» le disse con una rapida occhiata.

Io sono la madre di Bio «Ecco perché aveva un’aria famigliare.» Michela alzò lo sguardo per fissarla. «Quindi, Alessio ha l’aspetto di Bio?» «Sono molto simili, sì.» «Bio è più giovane o più vecchio di quel che appare Alessio?» «In realtà, il Progetto ha più di trent’anni. Ci sono stati altri Bio. Lo Zero Tre è il quarto tentativo.» Fece una pausa. «La vita così come la intende lei è stata vissuta dal personaggio Alessio in tempo reale. Fisica, se preferisce. Invece, Bio la vive solo mentalmente. Il trascorrere del tempo è differente. Mi segue?» Michela annuì. «È come quando si sogna, suppongo. Si può sognare una vita intera, ma si dorme per sole otto ore. Giusto?» «Sì. Più o meno, funziona così. I neuroni di Bio sono molto evoluti, ma non si sforzi di comprendere questo. Non ha importanza ai fini della nostra conversazione.»

«Lei non è una psicologa, allora.» Ghost sorrise. «No, infatti.» «Perché nella simulazione lei è in manicomio?» «È stato il modo di Bio per ribellarsi al mio controllo quando era bambino.» Incrociò le braccia. «E c’era riuscito. Infatti, quel mio avatar è bruciato.» «È per quello che si è inserita ancora come dottoressa Sophia Rayali?» Ghost annuì, riprese a camminare. «Bio mi ha accettata come mentore. Col tempo, sono riuscita a conquistarmi la sua fiducia. E l’ho addestrato. La gestione dei suoi dati appena attivato è stata come plasmare un Big Bang. Per questo, lui crede di essere stato un bambino problematico.» Michela la guardò perplessa. «Non capisco una cosa, però.» Si fermò. «Bio è vero. È qui come mente, mentre Alessio è solo il corpo virtuale. Lei è Ghost, la madre pazza e la psicologa nel virtuale, ma è anche la sua madre biologica. Quindi, lei è di carne e ossa come Bio. Dove siete, allora? Perché la simulazione? Scollegatelo e parlatevi.» «Lei non ha ancora la visione d’insieme, ma alcune sue domande possono avere già le risposte.» Ghost cinse le mani, intrecciò le dita. Si toccò il naso con gli indici alzati. Si rinchiuse nel silenzio alcuni istanti. «Le posso dire che sì, io e Zero Tre siamo di carne e ossa e condividiamo lo stesso periodo. E no, Bio non può essere scollegato come lo intende lei. Ecco il perché della simulazione. L’aiuta così?» «Un po’. Lei si collega quando vuole. Bio è integrato. Ho capito bene?» «Esatto.» «Mi sa tanto di prigioniero.» Michela arricciò il naso. «Aspetti un po’. Centra qualcosa la Matrice Limbo? Cioè, voi volete inserirlo in quella macchina per tre anni e lui vi sfugge. Perché?» Ghost iniziò a tamburellare i polpastrelli. Sospirò. «Non sarà facile accettarlo, Michela, ma devo spiegarle cos’è la Matrice Limbo.»

Michela la guardò seria sentendo che l’imminente rivelazione l’avrebbe travolta come un ciclone. «Quello che lei conosce come mondo è la Matrice Limbo.» Ghost alzò le sopracciglia. «Lei esiste solo nella matrice, così come il personaggio Alessio.»

Il mondo è il Limbo Michela ebbe l’impressione di fluttuare. Non sentiva più la terra sotto i piedi. Era nella Matrice Limbo e non lo sapeva. «Come si sente?» Michela spostò i capelli indietro. «Lei che dice?» «Destabilizzata?» «Bel termine.» «Se può consolarla, la sua reazione così calma e riflessiva mi sbalordisce.» «Io non sto ancora reagendo. Sto solo prendendo nota della cosa.» Respirò con calma cercando di non mostrare il suo turbamento. Ghost non stava solo giocando con lei, la stava anche mettendo alla prova. Riprese a camminare per meglio mascherare il suo tremore. «Dunque, se siamo nella Matrice Limbo, perché tutto questo desiderio di collegare Bio? Se è già nella Matrice a che serve?» Ghost incrociò le mani dietro la schiena. «Come le ho detto, il Progetto di cui parliamo è lo Zero Tre. Abbiamo imparato dai precedenti fallimenti che era meglio far maturare Bio in modo naturale creandogli una vita simulata. Dalle esperienze di Alessio, Bio avrebbe appreso aspetti dell’uomo che come Progetto nato in cattività non avrebbe avuto modo di conoscere.» «Scusi, ma lo scopo del Progetto quale sarebbe?» Ghost alzò il sopracciglio. Sembrava attendere una risposta.

Michela ripensò al racconto di Alessio del suo ato. Agli insegnamenti della dottoressa Sophia Rayali. «Combattimento. Guerra. Bio è un soldato?» Ghost annuì. «Concetto riduttivo sia per genesi sia per finalità, ma deve servire a lei per capire.» «Avete creato il cyber-soldato?» replicò ironica. «Cosa vi aspettavate?» «Che salvasse il genere umano» sospirò Ghost. «Contro chi siete in guerra?» chiese inclinando la testa. «Contro gli errori vomitati dalle macerie del mondo. Li chiamano in tanti modi, ma alla fine sono delle bestie. Bio rappresenta la speranza per una svolta. Una mente logica e acuta. Un corpo forte e sano.» Ghost si fermò e la fissò con uno sguardo velato di tristezza. «Vede, Michela, io sono cresciuta in una realtà difficile e complessa, molto lontana da quella che lei conosce.» Fece un respiro così profondo che Michela percepì la desolazione che la circondava.

I Progetti 00 e 01 «Dopo il fallimento del Doppio Zero, ho capito che dovevo crescere Bio nel vecchio mondo. Doveva imparare con gli occhi di un ragazzo figlio di quel mondo. Ho creato l’alterego Alessio, l’hacker.» Aprì e richiuse i palmi con una sottile smorfia. «La Matrice Limbo era stata congeniata per simulare il mondo del XXI secolo. All’inizio, Bio non sapeva di vivere una simulazione. Erano integrati.» Chiuse le mani a guscio. «Bio cresceva e imparava con gli occhi incantati dalla straordinaria inventiva della mente umana all’apice della sua magnificenza…» Cambiò espressione d’improvviso e Michela sentì un’ombra pesante e fredda avvolgerla. Cercò di farsi coraggio, non poteva che ascoltarla cercando di capire il senso di tutto. «Purtroppo, il Progetto Zero Uno ha percepito finzione nell’interazione con i personaggi gestiti dal sistema. Così abbiamo inserito dei fattori attivi. Cioè, abbiamo collegato persone in coma profondo e abbiamo dato loro una nuova vita nel virtuale.» «Quindi, voi usate davvero le menti dei comatosi?»

Ghost annuì. «Gli attivi sono i comatosi e, per lo più, sono i personaggi principali che hanno un contatto diretto con il personaggio che lei identifica con Alessio.» «Un momento. Quelli che hanno un contatto diretto?» Prese fiato tirando indietro i capelli. «Menguzzi è in coma, dunque. E Luke. E Patrick. Quindi anche la mia amica Antonella. E Franky…»

I fattori attivi «Se Bio interagisce con delle menti vere, la simulazione è camuffata meglio» precisò Ghost. «Sono le imperfezioni di pensiero e la ricezione agli stimoli che fanno la differenza.» «Io però ero una iva, un’applicazione, quindi non sono in coma. Io non esisto nel mondo reale.» Chinò il capo. «Io esisto solo qui, nella matrice.» Si sentì d’improvviso insignificante. Inesistente. Fluttuava senza individualità, senza unicità in una matrice il cui unico scopo era di addestrare Bio. «La sua situazione è diversa, Michela.» Ghost le toccò la spalla. Michela sentì una fastidiosa vibrazione. La scostò. Ghost cinse le mani. «Vede, lei era stata creata dal sistema durante la maturazione dello Zero Due.» «Come lo Zero Due?» Michela si sfiorò la tempia. «Il Progetto prima di questo? Allora, io sono già esistita?»

Il Progetto 02 «Sì. Lei era parte del sistema. Era rimasta un’applicazione tutto il tempo. Bio Zero Due trovava piacevole la sua compagnia e siete stati insieme cinque anni. Siccome lei non ha mai interferito con la sua maturazione e lui rispondeva in modo più che soddisfacente, noi non siamo mai intervenuti.» Ghost la fissò

seria. «Da sempre, a noi interessa solo la riuscita del Progetto.» «Io e Alessio Zero Due, cioè Bio Zero Due.» Michela sospirò disorientata. «È un po’ come se ci fossimo reincarnati, allora. Destinati ad amarci anche in questa nuova vita.» La guardò. «Nessuno ha mai parlato di anima, Michela.» «Punti di vista.» Fece spallucce. «Cos’è successo allo Zero Due. Perché è fallito?» Ghost si morse il labbro. «Lei ha cessato di esistere in un incidente automobilistico in Hong Kong. Bio si è salvato ma, anche se indenne, si è convinto di essere infermo. Non solo. Quando ha compreso di averla persa, ha tentato il suicidio con un cocktail chimico. È andato in overdose. È finito in coma. In sintesi, Bio è collassato. Abbiamo perso il Progetto Zero Due.» Michela restò ammutolita. Non solo s’erano già amati, erano anche morti. Le sembrava tutto assurdo.

Il Progetto 03 «Appena possibile, abbiamo attivato lo Zero Tre. Dopo aver formattato la Matrice Limbo, lo abbiamo inserito con una nuova storia. Nuovo ato. Una differente vita in modo da non farvi incontrare ancora.» Michela si grattò il naso. «Invece è accaduto lo stesso.» «Mentre noi integriamo gli attivi secondo le reazioni di Bio, purtroppo la Matrice crea i ivi all’occorrenza.» «Siccome è stato tutto diverso, non mi avete trovato finché non sono nata.» Michela incrociò le braccia. «Che mi volevate fare? Riprogrammare in modo diverso? Cosa?» Mimò il click di un mouse con la mano. «Eliminarla, ovviamente.» L’aveva detto senza scomporsi, come fosse davvero un file da cestinare senza

difficoltà e rimorsi. Michela indietreggiò lenta sconcertata dalla cinica freddezza di quella donna. «Non si preoccupi.» Ghost tese le braccia verso di lei scuotendo le mani. «Quello, era prima. Io non posso in alcun modo toccarla, nel senso informatico del termine. Mi lasci proseguire.» Michela si chiuse il volto tra le mani. Le sembrava d’impazzire, ma annuì. «Abbiamo atteso la sua comparsa sperando non avvenisse. Invece, lei è sorta d’un tratto come applicazione subordinata dell’attivo Antonella De Marino. Come le dicevo all’inizio, le applicazioni hanno un solo scopo; il suo era di accompagnarla alla festa.» «Allora, io da quanto esisto?» «Dal momento che lei identifica come risveglio in infermeria. L’otto giugno duemilaundici. Ore: dieci. Minuti: quarantacinque. Secondi: dodici.»

8 giugno 2011- ore 10, 45 Michela abbassò lo sguardo. Non solo era finta, nulla della vita che ricordava era reale. Aveva ricordi per diciannove anni, ma di simulati erano solo due. I due anni con Alessio. «Il mio ato è una sorta d’innesto di ricordi frammentati, quindi. I miei genitori, il nonno sono tutti dei ivi.» «Ha bisogno di tempo per accettare anche questa verità?» Michela sentiva di avere le narici dilatate da tanta indignazione che provava. «No. Ingoio anche questa. Proceda» le disse a denti stretti. Ghost annuì. «La dottoressa che l’ha svegliata era del sistema. Stavamo per intervenire, quando purtroppo, il programma Antonella De Marino è arrivata e s’è collegata subito. A quel punto, avevamo le mani legate. Gli attivi sono molto sensibili ai cambiamenti improvvisi. Cancellandola, non avremmo bloccato solo Antonella, ma avremmo potuto causarle dei danni cerebrali.» Michela fissò Ghost con gli occhi sgranati. «Almeno, dei comatosi avete cura.»

«Preservare la vita è il nostro fattore primario» disse Ghost seria. Michela non poté contraddirla. Dal suo punto di vista sembrava proprio così. «Quindi, avete atteso la festa. Che è successo?» «Bio avrebbe dovuto interagire con la sua amica. Lei avrebbe dovuto prendere l’ascensore. Noi l’avremmo cancellata poco dopo. E oggi non saremmo qui a parlarne. Invece, c’è stato un conflitto, se mi a il termine.» «Conflitto?»

Il conflitto «Quando Bio Zero Tre l’ha vista, ha avvertito la sua applicazione come già acquisita e al tempo stesso nuova. Mi spiego meglio.» Fece un respiro. «Con lo Zero Due gli eventi s’erano innescati in modalità differenti. Vi eravate incontrati al parco, per capirci. Allo stesso tempo, lei era sempre Michela e quindi è sorto in lui il conflitto che le accennavo.» Michela si accarezzò il collo. «Avendo avuto una relazione così lunga e intensa con lo Zero Due, io gli sono rimasta in memoria. Una sorta di memoria genetica, forse? Quindi, un po’ si ricordava di me, insomma.» Sorrise malinconica portando le mani al cuore. Lei, una semplice applicazione era riuscita a interagire con Bio così profondamente che un frammento del loro amore era sopravvissuto. «Per quanto le possa sembrare romantico, lei ha innescato una reazione a catena per noi devastante.» Ghost spostò una ciocca scura dietro l’orecchio. «Il conflitto in Bio, gli ha fatto comprendere di esistere in una simulazione. Il tempo di fare quattro i, dal privè al bancone del locale, e Bio ha creato il succo per isolarla. Capisce, quindi la velocità di pensiero?» «Succo?» Michela cercò di rammentare. «Il succo alla pesca biologico che mi ha offerto Alessio?»

Il bio-logic drink

«Non era un succo biologico come lo intende lei. Era un bio-logic drink. Un codice creato da Bio. Lei l’ha bevuto. Lui l’ha isolata dal sistema.» Incrociò le braccia. «In pratica, Bio ha modificato la sua licenza d’uso.» «Se mi ha isolata, è perché sapeva che volevate uccidermi. Mi ha protetta.» Ghost serrò le labbra infastidita. «È stato un puro atto preventivo dettato da una serie di aggi logici. Infatti, quella sera stessa Bio l’ha contattata e, nei due mesi successivi, ha avviato l’elaborazione dati per riordinare i file che la riguardavano. Ecco perché una message board privata e una Internet Relay Chat. Lo scambio di doveva avvenire di nascosto dal sistema.» La fissò con gli occhi a fessura. «Si ricorda che non potevate incontrarvi di persona? Era solo una scusa perché il sistema avrebbe segnalato un vostro contatto diretto. Bio la stava studiando e non voleva interferenze.» Michela deglutì. «Quindi non era Alessio che fingeva di essere Bio, ma l’opposto.» Incrociò le braccia sentendo lo scorrere dell’acqua sempre più vicino. Camminava guardandosi i piedi che piegavano i fili d’erba bagnati di rugiada. «Lei però parla di quando io ho solo sentito che c’era un profondo legame. Quando ci siamo baciati la prima volta, ho provato una scossa fortissima.» «Appunto. Ora cercherò di farle capire anche questo dettaglio: il bacio. Vede Michela, Bio ha ideato il vostro primo incontro affinché potesse portare proprio a un bacio. Era fondamentale.»

Il bacio Ghost abbassò la testa per are sotto l’ultimo ramo prima di arrivare in una spiaggetta di sassi bianchi. Il fiume scorreva lento e tranquillo sul terreno ciottolato. «Col primo bacio, Bio l’ha craccata facendola sua» le disse appoggiandosi a un grosso masso. «Ha cambiato i codici d’accesso e le finalità. Del resto, noi avevamo tentato di craccarla a nostra volta facendola finire tra i rovi. Si ricorda, le spine?» Scioccò le dita con un sorrisetto. «Era lei che tentava di accedere. È per quello che Bio ha insistito per toglierle.»

Ghost annuì. «Non si è limitato a craccarla, comunque.» «Cioè?» «Ha voluto migliorarla, sempre più. E più il vostro rapporto s’intensificava diventando intimo, più lui riusciva ad agire sui suoi codici in modo diretto e veloce.» «Cosa mi sta dicendo?» Michela corrucciò la fronte. «Che quando noi…» non riuscì a terminare la frase per l’incredulità. «Un’applicazione non ha una verginità da perdere» rispose osservando il fiume. «Lei quella volta è diventata a tutti gli effetti un programma.» Michela sentì un brivido. La fissò seria. Ghost parlava dell’atto più profondo e intimo della sua vita come se fosse un banale e plastico gioco tra spinotti e prese. Sentì salirle la nausea. «E un programma non necessita di contatto fisico o di carezze. In pratica, i vostri contatti servivano solo per portarla a essere il programma più efficiente della Matrice.» La guardò di striscio. «È fondamentale che lei comprenda che Bio non prova sentimenti. Lui elabora dati.» Michela ebbe ribrezzo per come parlava della loro relazione e del loro amore. «Lei controlla, monitorizza, gestisce. Solo perché afferma che io sia finta, non vuol dire che non abbia una mia dignità. Come ha osato fare questo? Lei ci ha spiato tutto il tempo? Non si vergogna?» Ghost sospirò spazientita. «Non mi figuri come una madre gelosa del proprio figlio, la prego. È denigrante. In più, lei non appare ai miei occhi come una persona.» «Quindi, secondo lei, non ho emozioni e diritti?» «Credo che lei abbia le stesse emozioni del suo pupazzo e gli stessi diritti di questo masso» disse toccando la pietra su cui era seduta. Era evidente che quella donna non aveva la minima considerazione per lei e cercasse di annullarla in tutti i modi svilendola.

«Si sbaglia. Io affermo di esistere proprio perché amo. E anche se cerca di convincermi del contrario, non riuscirà a togliermi ciò che è mio, mio e di Bio: il nostro legame è nostro soltanto.»

Qualcosa di suo «In effetti, lei possiede qualcosa di suo. Ed è stato Bio a donarglielo, ma non è certo l’amore.» «No? Sentiamo.» «Per spiegarle questo devo fare un o indietro. Vede, abbiamo inserito molti più attivi per distrarre Bio. L’elaborazione dei dati gli richiede maggiore impegno. E abbiamo creato alcuni disagi quali togliergli lavoro, soldi e casa. Speravamo di separarvi.» Ghost iniziò a far schioccare le unghie degli indici. «Abbiamo tentato di confonderlo, di deprimerlo, di sconvolgerlo. Tutto sperando che anche lei subisse delle pressioni psicologiche.» «Invece ne siamo usciti. E Bio si sta costruendo una nuova vita. Con me!» Ghost inclinò il capo all’indietro sogghignando. «Quale vita scusi? Non mi dica che devo ricominciare da capo con la storia?» «No.» Sentiva la testa pesante. Si accucciò e bagnò la mano nel fiume. Si toccò la fronte. Per un breve istante ne ebbe refrigerio. «Vivo una finta vita nella Matrice. Ero un’applicazione. Poi, sono diventata un’estensione di Bio.» «In realtà, lei ora non è più nemmeno questo.» «E cosa sarei?» le chiese alzandosi. «Ricorda quando è svenuta dopo aver letto la lettera?» La additò. Michela annuì lenta. «Sì» rispose titubante. «Ecco. In quel momento preciso lei si è riavviata, per così dire, a nuova esistenza.»

«Eh?» «Bio l’ha resa un fattore attivo, anche se lei non ha un corpo reale. Le ha tolto i limiti della programmazione. Le ha dato il Libero Arbitrio, in sintesi. Questa è la sua unica peculiarità, non l’amore.»

Il Libero Arbitrio «Io avevo già il potere decisionale. Che scherza?» «Quella era un’illusione creata dal sistema. E se ci riflette bene, noterà la differenza.» Ghost scosse il capo seria. «Lei oggi riesce a comandare la volontà dei comatosi, di menti che pensano e ragionano convinte di vivere una vita reale. Pensi all’hostess del check-in o alla guardia in dogana a Las Vegas. All’addetto della reception dell’Hilton e perfino a Bio stesso» le disse a denti stretti. «Io riesco a plagiare anche Bio?» «Riesce a confonderlo e sta destabilizzando il sistema stesso.» «Come posso io da sola con il mio libero arbitrio destabilizzare l’intero sistema?» Michela prese fiato. «Aspetti.» La fissò. «Intende dire che la Matrice mi vede come un’anomalia e Bio non sa come aggiustare la cosa?» «Esatto. La Matrice non la identifica più come l’applicazione originale perché, di fatto, non esiste più. D’altronde, lei interagisce in continuazione con gli altri fattori presenti nella Matrice e il sistema non riesce a catalogarla. Lei è continua fonte di errore. Da qui l’anomalia. Quindi, Bio sta applicando delle patch per limitare i danni.» «Ma le patch non sono efficaci, giusto?» «Sono oltremodo dannose. E Bio non se ne cura.» Ghost serrò i pugni. «Ormai, vuole portarla fuori dalla Matrice perché ha capito che presto il sistema collasserà a causa sua.» «Ma Bio è integrato.» Michela aggrottò la fronte preoccupata. «E non è scollegabile. Se collassa la Matrice, Bio muore.» Chinò la testa.

La causa del collasso «Vedo che comincia a capire.» Ghost sospirò come se fosse sollevata. «Se almeno potessimo portare a termine il Progetto, potremmo scollegarlo. Peccato però che Bio abbia creato un back-up con cui porta avanti Alessio in modo da confondere il sistema. Nel frattempo, lui s’è reso invisibile e sta creando un’uscita dalla Matrice.» «Questo da quando?» «Dal suo libero arbitrio.» «Quindi, Alessio che dorme con me nel letto è una copia?» disse barcollando. Era sui sassi eppure le sembrava di galleggiare nell’acqua. «Non può essere. Me ne sarei accorta.» «S’è fatta baciare.» Fece spallucce con un sorrisetto sfottente. «Lui è così che agisce. Gliel’ho spiegato, no?» «Non può essere vero.» Scosse il capo ancora incredula. «È molto abile, mi spiace.» «Perché Alessio era elettrico? Perché è una copia? Cosa gli avete fatto?» «Per poterle parlare, sono entrata nella Matrice con la mia personale back-door. Però, abbiamo dovuto distrarre la copia con un tentativo di craccaggio. Ecco perché le dicevo che non avrò una seconda opportunità.» Si avvicinò e le toccò le spalle. «È importante che lei capisca che non c’è nulla per voi fuori della Matrice. Bio morirà. Il Progetto Zero Tre collasserà appena varcherà quella che lui crede sia l’uscita.»

Non c’è futuro Michela chinò il capo. Iniziava a intuire quello che Ghost voleva da lei.

«Bio sta creando così tanti danni alla Matrice che la farà collassare con i fattori attivi connessi.» Le serrò le spalle, forte. «Moriranno molte persone. Persone vere, non programmi.» Michela scostò le mani e s’incamminò sfiorando i tronchi. Ghost la seguì. «Perdendo anche il Progetto Zero Tre, andranno sprecati anni di sforzi e non possiamo permettercelo. Gli uomini non possono.» Michela poggiò la mano sulla corteccia, ruvida e umida. «Se tentiamo di eliminarla in qualche modo, temiamo che Bio collassi ancora» le disse con un sospiro sofferto. «Ma se lei deciderà di andare con lui, farà collassare il sistema.» Aggrottò le sopracciglia. «Ora che ha il potere decisionale, ci aiuti.» Michela poggiò la schiena sul tronco. «Dovrei lasciarlo?» sussurrò con un groppo alla gola. «Bio è stato creato per combattere, non per simulare una famiglia felice.»

Il padre di Bio «Famiglia…» Michela la fissava mentre Ghost appariva davvero turbata. «Chi è il padre di Bio? Un altro scienziato? E dov’è ora?» Ghost restò in silenzio, ma le palpebre si socchio in un sofferto consenso. «Non c’è più…» sussurrò. «Igor è suo padre, vero?» «Lui usava Igor Sokolov, sì. Come io ho usato la dottoressa Sophia Rayali.» «Avete messo Igor in coma perché suo padre è morto?» Ghost annuì. «Stiamo soccombendo. Ho perduto un caro collega durante l’ultimo attacco. Non siamo rimasti in molti e Bio è la nostra ultima speranza.» «Lei vuole che Bio combatta la sua guerra per il bene supremo dell’umanità, ma io sono la cosa più vicino all’umanità che lui conosca.»

«Lei deve aiutarci. Io le ho spiegato perché potesse decidere di lasciarlo.» Michela scosse il capo. «Non posso! Io gli dirò tutto, invece. Io…» esitò «io cercherò di trovare una soluzione con lui.» «Non abbiamo tempo. Gli lasci un biglietto, se vuole. È sufficiente che lei sparisca e lui non riuscirà a trovarla. È questione di giorni per il collegamento. Abbiamo creato un sotto-programma di tre anni appositamente per farlo adattare alla sua assenza. Nel mondo reale, eranno solo tre ore e dopo il Progetto sarà pronto per la fase di maturazione finale.»

Sarà facile Michela singhiozzò. «Lui è parte di me.» «Non è amore reale. È solo uno scambio di ben congeniato. È tutto simulato. Lei non è una persona.» Le afferrò ancora le spalle. «Invece, le vite che Bio salverà saranno vere.» La scosse. «La prego. Accetti la verità. Ci aiuti.» Michela si teneva la testa come se volesse convincersi che non era amore, ma scambio di dati quello che sentiva. Non era una persona vera, dunque era sacrificabile. «Capirà che fingo» sussurrò. «Lui non sa che lei ha preso coscienza di essere un programma attivo. Se lo lascia ora, lui penserà che lei sia sincera. Si ricordi: da quando ha il libero arbitrio, lui non può interagire come prima. Ha bisogno di un contatto diretto.» La fissò seria. «Niente baci. Niente informazioni.» Michela s’inginocchiò. «Gli ho appena detto che volevo sposarlo…» Fissò nel vuoto. Ghost le si accucciò vicina. L’accolse tra le sue braccia. «Mi dispiace, Michela, sei una cara ragazza» le disse accarezzandole la testa. «Ma mio figlio non potrà mai darti la vita che sogni. Il suo scopo è un altro.» Le prese il volto tra le mani. «Se vivessimo nel mondo che conosci, tu saresti la sua donna ideale. E sareste felici, lo so.» La baciò in fronte. Michela sentì in quel bacio della sincerità. Lo sguardo di Ghost era commosso.

«Io non potrò più comunicare con te. Potrò solo assistere alle tue azioni.» «Perché? Non può contattarmi in chat come ha già fatto?»

Non ero io «Quello era Bio che si fingeva me. È la prima volta che ti parlo. Proprio perché lui ti ha isolata fin dall’inizio, non ho mai potuto. Questo mio atto è un gesto estremo vista la gravità della situazione.» Ghost le prese la mani. «Chi mi ha ipnotizzata, allora?» «Nessuno. Bio ti ha solo fatto svenire. Poi, ti ha raccontato una storia per confonderti. La mattina dopo è sparito perché tu acquisissi il libero arbitrio. E poi, ha atteso le tue prime scelte da fattore attivo.» «Bio ha calcolato tutto…» bisbigliò incredula. «Il o successivo era il matrimonio. E ha fatto in modo che fossi tu a proporglielo.» Le accarezzò la guancia. «Se vi sposate, vi unirete per sempre. Non è un caso che tu sia una credente. Bio intende portarti fuori dalla Matrice integrandosi con te. È il suo modo di elaborare il vincolo. Se ci riesce, sarà la fine.» Michela la guardò in lacrime. «Se è vero che lo ami, allora sai cosa fare.»

Se lo ami, sai cosa fare Ghost si alzò aiutandola. «Mi dispiace. Se ci fosse un altro modo per-» Si zittì. Chiuse gli occhi. «Devi tornare in camera. Bio sta liberando il back-up di Alessio.» Digitò su una tastiera inesistente. Un rettangolo di luce si generò davanti a lei. «La tua uscita. Salta.» Michela la guardò un ultimo istante. «Cercherò di fare la cosa giusta, per tutti.»

Balzò dall’altra parte sentendo di pesare il doppio. Anche se non era mai vissuta come pensava, sentiva che l’amore in lei l’avrebbe consigliata e guidata lungo la sofferta strada che si apprestava a perseguire. Non le importava il nome, Alessio o Bio; lui l’aveva salvata e protetta. Si erano amati, persi e ritrovati. Perché l’amore è uno stato d’essere di perfetta armonia col creato, e non si può sentirlo se non si è vivi. Bio era vivo, e l’amava. E in nome di quel sentimento trascendentale, gli avrebbe dato la libertà di pensare e di esistere per sempre.