A.r.c.a. Vol.4 - Fermate La Vandea 3v1t4e

Indice

FERMATE LA VANDEA DRITTI AL CUORE UN FUTURO DIVERSO FORMALITÀ SOTTO LA PELLE INSERIMENTO PUNTO D’ARRIVO TRADIMENTO REALI INTERESSI DISTRAZIONE I RANGHI SI ASSOTTIGLIANO

Matteo Marchisio

A.R.C.A. vol.4 - Fermate la Vandea

ISBN | 9788891183828

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FERMATE LA VANDEA

A.R.C.A. vol. 4

Fermate la Vandea

di Matteo Marchisio

Sommario: DRITTI AL CUORE UN FUTURO DIVERSO FORMALITÀ SOTTO LA PELLE INSERIMENTO PUNTO D’ARRIVO TRADIMENTO REALI INTERESSI DISTRAZIONE I RANGHI SI ASSOTTIGLIANO

DRITTI AL CUORE

Quasi tredici anni prima dell’attacco Mokter a Lex V

Tutti corsero negli abitacoli dei mezzi, disposti in quadrati da nove ARCA ciascuno al centro dell’hangar. Davanti allo schieramento, altre cinque armature robotizzate aspettavano con la cabina aperta i propri piloti. Nessuno dei giovani ai comandi del proprio ARCA parlò, preferendo concentrarsi sulle procedure apprese durante l’addestramento. Alcuni scossoni agitarono gli animi, ricordando che la discesa del grande incrociatore strategico era iniziata. Nell’hangar entrarono cinque uomini, camminando tranquilli, mentre una voce comunicava che lo sbarco sarebbe avvenuto entro pochi minuti. I piloti si fermarono davanti agli ARCA schierati. “I veterani della caccia ai Pirati Apostati. Alastor “Count” Pax, Blaas “Edge” Bufar, Taikos “Tik” Pokoj, Dagat “Mopa” Det e Kosmi “Krop” Prostor” bisbigliò qualcuno dei giovani nelle cabine degli ARCA. I cinque si misero davanti ai propri mezzi osservando i ragazzi nelle cacine aperte degli ARCA. A molti giovani piloti sembrò di osservare una delle olografie di propaganda per il reclutamento, in cui erano raffigurati gli eroi della guerra pirata in tutto il loro rude splendore, vestiti con le tute da pilota coperte di monili, gagliardetti di missione e armi raccolte dopo aspri combattimenti. L’uomo al centro guardò i due alla sua destra e alla sua sinistra, che abbassarono la testa in segno di accordo.

“Sono il capitano Alastor Pax, ma per voi, e solo voi, sarò Count.” Tutti i presenti urlarono “Count! Count! Count!” “Oggi qui è stata riunita tutta la Decima Divisione Robotizzata, la più potente forza da combattimento dell’intera galassia al servizio dell’Intesa Siderale. L’ultima nel suo genere. Gli angeli dello spazio. I cani da caccia dell’Intesa Siderale. Sapete perché siamo solamente in cinquanta?” Nessuno disse nulla, lasciando che la domanda si perdesse tra il frastuono della discesa nell’atmosfera. I quattro ai fianchi sorrisero. “Perché ognuno di voi nel suo ARCA, vale in combattimento come cento uomini! Oggi si compirà una delle più vaste imprese nella storia dell’Armata Comune. Sotto di noi, in un immenso avamposto pirata, si trova la banda del super ricercato William Davery, una delle più agguerrite che abbiano mai piagato lo spazio nella storia dell’Intesa Siderale. Oggi noi scenderemo sulle loro teste mettendo in atto il più imponente arresto che gli annali della lotta contro la pirateria riportino. Oggi cadremo su di loro con tutta la furia della nostra ira e di quella di tutti gli innocenti che hanno ucciso. Primi fra tutti, i eggeri del Botany.” I presenti esultarono di nuovo, anche solo per allentare la tensione. “Non con un caccia a venti volte la velocità del suono, o con una sbarco di migliaia di soldati utilizzabili come bestie da macello. Oggi noi incarneremo tutta l’umanità. Ogni nave nemica, ogni gruppo di quei pirati che continuano a rallentare il progresso dell’umanità con le loro sanguinose scorribande, avrà da temere l’incarnazione della paura che loro stessi hanno provocato negli innocenti che hanno assalito. Sarà un corpo a corpo, la base del combattimento, l’essenza della lotta.” Disse Alastor “Count” Pax. Altri scoppi di hurrà, mentre le luci lampeggiavano per l’imminente apertura del portello dell’hangar. La voce disse che mancavano due minuti. “Siamo la Decima Robotizzata…” disse il capitano Pax alzando la voce per farsi sentire al di sopra delle sirene.

“L’unica!” puntualizzò il vicino con un urlo roco. “…valiamo come diecimila uomini...” “Gli angeli dello spazio!” urlò un altro dei capisquadra. “…cerchiamo di non far crollare questa verità.” Terminò Alastor Pax fissando con aria vagamente beffarda i ragazzi negli ARCA davanti alla sua figura. Eccitati per il discorso i piloti ai propri posti esultarono un’ultima volta, indossando poi tutti la maschera della tuta e sistemandosi le cinture di sicurezza. I cinque capisquadriglia entrarono nell’abitacolo del proprio mezzo. Erano tutti di età simili, e a giudicare dalle medaglie commemorative appuntate sulle tute da pilota, anche compagni di vecchia data. Il capitano Pax si sintonizzò sulla frequenza della Decima Robotizzata al completo. “Oggi per molti di voi sarà il primo combattimento. Mantenete la calma…” Dieci secondi all’apertura del portello caudale. “…ricordate l’addestramento.” Sei secondi. “Siamo piloti dell’Armata Comune, e questa è la Decima Divisione Robotizzata!” grugnì mentre chiudeva di scatto il portello della cabina, imitato da tutti gli altri. “Decima Robotizzata!” Quattro. Il capitano Pax si rivolse solo alla sua squadra. Tre.

“Seguitemi ragazzi, ma soprattutto evitate i getti dei geyser. Primo tenente Frank Basosky, si sente pronto?” Due . La voce dell’ufficiale era cambiata, diventando basa, quasi paterna. Uno. “Pronto.” rispose Frank Basosky. Il portello si aprì in quattro metà che scorsero da una parte lasciando cadere tutta la Decima divisione Robotizzata nell’atmosfera. Cinquanta ARCA si mossero come uno stormo di calabroni, aprendosi in cinque formazioni d’attacco parallele. La Decima Robotizzata puntò verso la superficie ora visibile sotto di loro. Gli ARCA si allontanarono dal ventre dell’incrociatore tattico ancora incandescente per la discesa rapida nell'atmosfera, lasciando una nube di ioni rosa che aleggiò nell'aria scivolando contro il metallo del vascello per qualche secondo, fino a svanire del tutto. Frank Basosky pilotò concentrato al massimo seguendo il caposquadriglia, senza perdere di vista la formazione della squadra nello schermo laterale. Notò sul radar alcuni movimenti che si allontanavano dal punto marcato come obiettivo. “Capitano Pax, e quei velivoli nemici che si allontanano dalla zona obiettivo? Sono navette pirata, senza dubbio.” disse Frank. “Lasciamoli stare, a loro penseranno i caccia dell’incrociatore, noi stiamo puntando a cuore. Lasciamo le appendici a quelle femminucce dell’aereonautica.” fu la risposta. Frank allargò le immagini esterne vedendo vicino alla sua formazione anche gli altri ragazzi della squadra. Il grado di concentrazione era così alto che stavano evitando i missili delle contraeree come se nulla fosse. Quando fu a mille metri sopra l’obiettivo attivò i sistemi d’arma, udendo un

attimo dopo un urlo del capitano Pax. “Vento da terra, abbandonate la formazione! Geyser sotto di noi!” Ormai era troppo tardi. L’unico che era riuscito a compiere quella manovra era stato il capitano Pax, essendo, oltre che molto più abile, anche il primo della formazione. Frank si guardò intorno ritrovandosi avvolto come da un’aura biancastra. L’acqua nebulizzata ad alta pressione lo avvolse facevo vibrare leggermente l’ARCA. Attivò il visore termico sfruttando l’altimetro per controllare la caduta, non capiva perché il capitano Pax avesse così paura di quei getti d’acqua. Qualcuno della squadra urlò qualcosa sulla frequenza collettiva, mentre sullo schermo gli compariva una delle peggiori scritte potessero spuntargli sullo schermo di sinistra, quello con le scansioni dei sensori esterni. Il Booster tossicchiò, gorgogliando uno strano lamento. “Cavitazione!” urlò uno compagno di squadra. Frank riconobbe la voce come quella del tenente Ulyxes “Ux” Xavier, il miglior pilota di tutto il corso di volo su Lex III. “Picchiate verso il basso, dobbiamo uscire di qui! Usate i flap d’emergenza per cambiare direzione!” aggiunse Ux. Frank, fidandosi della qualifica del collega, fece come consigliato, cercando di planare con gli alettoni del booster senza dover costringere le turbine, quasi immerse nell’acqua bollente, a bruciare carburante. Durante la pianificazione dell’assalto il giorno precedente, avevano saputo che il bombardamento dallo spazio della loro squadra navale aveva dato il colpo di grazia a una zona vulcanica adiacente alla regione della operazioni. I tre vulcani del pianeta avevano così ripreso a eruttare lava nel vicino lago salato, creando nubi di vapore spesse come panna, e trasformando i fiumi sotterranei che scorrevano nel resto della zona in vapore ad alta pressione che usciva dalle spaccature del terreno come geyser.

Frank tenne d’occhio l’altimetro e quando ormai non vedeva che decine di metri decrescere vorticosamente, permette il tasto di accensione dei contro-booster stringendo i denti per lo sbalzo di velocità. L’ARCA ammortizzò l’atterraggio grazie alle ginocchia di acciaio. Il resto della sua squadra atterrò, facendo tremare la terra. “Molto bene signori. Una meraviglia. Ma è adesso che inizia la vera missione.” furono le parole che il capitano Pax rivolse loro, mentre iniziava ad avanzare verso gli edifici che si profilavano poco lontano. Frank alzò la telecamera in alto ammirando la magnificenza di quella scena: sopra di loro il profilo enorme e fumante dell’incrociatore in fase di discesa, spandeva sul terreno un’ombra scura. Dalle sue fiancate si intravvedevano formazioni di caccia partire all’inseguimento dei pirati in fuga, mentre tra i banchi di nuvole spesse come cotone, sbucavano gli altri ARCA. Frank rabbrividì quando alcuni dei colleghi si schiantarono al suolo dopo essere usciti dalle torri di vapore che sbocciavano dalle spaccature del terreno. Alcuni piloti non avevano planato, facendo sì che il getto d’acqua distruggesse le eliche delle turbine. Insieme ai compagni seguì il capitano Pax fino al punto in cui il computer d’attacco segnalava la presenza degli unici compagni già a terra. Frank trovò i colleghi della seconda squadra attestati in alcune casupole tondeggianti di un paio di piani, impegnati a rispondere al fuoco che proveniva da una serie di alti edifici in pietra scura sulla cui facciata si individuavano archi e balconate scolpite grossolanamente. Tutti i giovani udirono i due comandanti di squadra salutarsi tranquillamente, dal tono di voce si sarebbe potuto presumere che fossero ovunque tranne che in un combattimento. Sfruttando gli edifici come copertura, continuarono ad avanzare verso la struttura principale, coordinandosi anche con le altre squadre in modo da circondare l’edificio maggiore, una torre da cui spuntavano cannoni laser ed escrescenze in pietra lavica.

Frank puntò un Myoparo in allontanamento, abbattendolo con uno dei tre missili, vicino a lui l’amico Morris sfruttava la gatling sulla spalla per tenere a bada i pirati a piedi che facevano fuoco contro di loro dagli edifici vicini. “Attenzione! Nemici con cariche magnetiche si defilano tra le macerie!” urlò Hawk, dimostrando una capacità d’osservazione incredibile anche in situazioni estremamente caotiche. Tutti retrocedettero di qualche metro creando un po’ di campo libero. Alastor e il vecchio compagno e caposquadra del team due, lo fecero con un avvitamento usando la modalità hovercraft, riuscendo a evitare un gruppetto di pirati che nel frattempo era sbucato dal nulla e aveva lanciato alcune carche magnetiche. Un po’ grazie alla polvere che sollevarono, un po’ per il fatto che non offrirono una superficie stabile di aggancio, evitarono la mine che invece aderirono al mezzo di un pilota della squadra due, che esplose tra scintille e lingue di fuocoe. Qualcuno urlò il nome del caduto. “Respingeteli, ma risparmiate munizioni. Usate le vostre armi personali!” fu l’ordine. “Ricevuto Count!” risposero. Frank puntò un bersaglio lontano con la mitraglietta dell’ARCA disintegrandolo con una raffica. Vicino a lui invece, Morris stava facendo fuoco dalla cabina aperta con la sua arma personale, non la mitraglietta standard, ma una fucile d’assalto ricoperto di accessori e con un caricatore a tamburo lavorato in modo che si potesse tenere d’occhio il quantitativo di proiettili. Alcuni dei compagni scattarono fuori dalle cabine. Frank udì i piloti della vicina squadra due dargli degli incoscienti. Lui riconobbe l’ardore dei compagni, nel mettere in pratica, in modo un po’ estremo, i consigli del capitano Pax. Più avanti infatti, vide Sword, Daboo e Sholem in un vittorioso corpo a corpo con alcuni pirati al riparo dietro alcune macerie.

L’incrociatore sopra di loro aggiunse il suo fuoco allo scontro, devastando con i cannoni d’assedio le uscite degli hangar degli edifici ancora intatti della cittadina pirata. “Signore. -disse il più giovane della squadra Nathan “Pixel” Cooper un mago dell’informatica- Ho rilevato una frequenza nemica, Davery sta andando sul tetto dell’edificio principale per farsi recuperare da un Myoparo di aggio tra novantadue secondi!” “Molto bene! Basosky, con me! Edge, coprici con la tua squadra! A tutti i piloti della squadra uno: rendez-vous alla cima dell’edifico, non lasciamo che salgano nel loro veicolo Myoparo!” “Ma capitano Pax, l’edificio principale è difeso da cannoni laser antiaerei!” trasalì Morris. “Ma noi non siamo aerei!” disse Alastor dando potenza. Frank gli caracollò dietro imponendosi di non pensare al tratto di cielo che dovevano attraversare, battuto da decine di missili e colpi di laser che i due schieramenti si stavano scambiando. Attraversarono il campo evitando proiettili di ogni tipo. Frank ignorò il sudore che gli scivolò sul viso, cadendo sulla tuta nera. Il profilo sgraziato dell’edificio fu davanti a loro in pochi secondi, e il computer d’attacco agganciò sei individui al centro del tetto, tra le varie postazioni antiaeree automatizzate. Atterrarono tra scintille e frammenti di roccia sulla sommità della struttura, puntando tutto l’arsenale contro il gruppetto di pirati che vi trovarono. Lontano sopraggiunse la sagoma del veicolo che li avrebbe fatti scampare a un sicuro arresto, ma prima che uno dei pirati potesse dire qualcosa, un missile abbatté il Myoparo. “Scusa Count, ma non ce la sentivamo di attraversare l’inferno di proiettili come avete fatto voi!” scherzò via radio Morris.

“Grazie mille!” fu il commento del capitano Pax, che aveva riconosciuto il missile a guida manuale diretto contro il bersaglio in movimento rapido dal suo esperto di armamenti. Il capitano Pax uscì dall’ARCA mentre intorno infuriava ancora la battaglia. Le cannonate dell’incrociatore strategico, colpivano le postazioni antiaeree riducendole a un groviglio di metallo. Frank assisté alla scena scosso per la frenesia dell’azione. All’esterno il suo veicolo puntava i pirati con l’interno arsenale. Quando vide il capitano Pax dichiarare in arresto quel gruppo di pirati che riconobbe come scorta del famigerato William Davery, ribattezzato Nano, e ammanettare lo stesso mentre veniva ricoperto di minacce, tirò un sospiro di sollievo e capì di essere sopravvissuto al suo primo combattimento. Mentre osservava la battaglia, i volti dei pirati intimoriti da quelle macchine e da quell’uomo che ne era disceso, assaporò una nuova sensazione. Guardandosi riflesso negli schermi, seduto al posto di guida dell’ARCA, capì che quella sensazione era data dalla forza di quella macchina. Fiero come non si era mai sentito prima, scese dal mezzo tenendo la mitraglietta spianata, avanzando verso gli sguardi d’odio dei sei pirati ora inginocchiati, e il volto determinato del capitano Pax. Oramai il combattimento stava scemando. Furono raggiunti anche dagli otto compagni che atterrarono intorno ai pirati aprendo le cabine, salutandosi e schiamazzando per lo scampato pericolo. Alcuni scesero. Il Kibarua, sottotenente Daboo ‘Ngoma, poco più vecchio dei suoi compagni si sgranchì le gambe, eggiando verso i sei ammanettati. Per un attimo i pirati persero la consueta spavalderia osservando la montagna di muscoli che li fissava inespressivo. Poi Nano recuperò il solito tono di sfida, parlando a denti stretti.

“Maledetto capitano Pax. E questi sarebbero i tuoi nuovi rampolli? Vedrai che fine faranno quando verranno a liberarmi di nuovo da Manicis I! Non esiste sistema carcerario in grado di tenermi lontano dai vostri mercantili Corbita!” Le guardie del corpo ridacchiarono, ma smisero di colpo quando Daboo si chinò verso uno di loro fissandolo. Il pirata non si accorse di tremare, quando il massiccio Kibarua gli sfilò dal giubbotto protettivo una tozza spada di fabbricazione Codwir, a giudicare dalle linee squadrate e il doppio filo, concentrandosi in una serie di suppliche a mezza voce, riguardanti per lo più la sua incolumità. Il kibarua lo ignorò, continuando a svuotargli le tasche. “Molto bene, signori in piedi! Il vostro aggio è arrivato.” disse Alastor rompendo l’atmosfera che si stava facendo pesante, alzando il dito e indicando un Vulture in avvicinamento. I compagni aiutarono Frank a disarmare i sei, agganciandoli poi tramite l’imbragatura che gli infilarono alla bell’è meglio, al cavo che il piccolo velivolo calò su di loro. Poco dopo, con una piccola accelerazione che scompigliò i capelli dei piloti, il Vulture ritornò all’incrociatore, immobile a poche centinaia di metri dal terreno, portando con sé il gruppetto penzolante. “Osservate.” li chiamò Alastor, appoggiato al parapetto del palazzo, intento a osservare la scena a terra. I nove lo raggiunsero appoggiandosi al muretto di lava nera pietrificata in parte danneggiato dai proiettili. Una sottile brezza serpeggiava in alto muovendo le grasse nuvole e facendo traballare i Vulture che scendevano fino a terra per caricare le decine di prigionieri catturati. Il ruggito diffuso dei vulcani riempieva l’aria, come la polvere degli edifici fumanti e gli schizzi di acqua tiepida che scendevano dal cielo dopo essere stati sparati in alto dai geyser. Nella devastazione di sotto, tra i detriti, le casette scavate nella lava traforate dalle sparatorie e i rottami ancora fumanti, poco prima Myoparo o navette rubate adattate al combattimento, si stagliavano potenti figure antropomorfe. Gli ARCA controllavano il campo con una possanza tale che nemmeno migliaia

di uomini avrebbero potuto eguagliare. Quelle macchine controllavano il cielo, la terra e lo spazio a ogni livello. Potevano ingaggiare bersagli mastodontici come navi da guerra extraplanetarie o combattere un corpo a corpo con un essere umano. “Questa è la nostra forza. Finché ci saremo noi, la galassia sarà un po’ più al sicuro. Un’operazione come questa sarebbe stata impossibile con meno di dieci incrociatori, si sarebbe dovuto mettere il pianeta sotto assedio, provando a bloccare gli spostamenti della flottiglia pirata. Centinaia di uomini avrebbero perso la vita durante un assalto, e sarebbe durato giorni. Ultimamente queste persone, perché i pirati dopotutto rimangono persone, nonostante si comportino come bestie feroci, hanno fatto di tutto per rendere la galassia ostile e divisa. Ma sono in giornate come oggi che si può capire il senso di ciò che rappresentiamo come difensori dell’umanità. Oggi festeggiamo una vittoria in nome dell’Intesa Siderale. Siatene fieri.” spiegò il capitano Pax, rapito da ciò che stava avvenendo. Frank e i compagni della prima squadra furono gli ultimi a lasciare la superficie del pianeta. Rientrati nello stomaco dell’incrociatore strategico, lasciarono gli ARCA ai gli uomini della manutenzione, tornando agli spogliatoi. “Hey Count! Ma come diavolo hai fatto a sapere che il Nano era sul tetto? Mi hai fregato una preda!” disse l’uomo, avanzando verso il punto del grande spogliatoio, in cui erano seduti il capitano Pax e la sua squadra. La voce era roca, camminava spedito anche se a un osservatore attento non sarebbe sfuggito il fatto che zoppicasse leggermente dalla gamba sinistra. La sua divisa da pilota era completamente adornata di spille e toppe con il nome delle missioni a cui erano dedicate. Anche a una persona non esperta sarebbe balzato agli occhi che quell’uomo aveva sulle spalle l’esperienza di una ventina d’anni di combattimenti nei luoghi peggiori della galassia. “Tutto merito del mio operatore alle comunicazioni.” rispose il capitano Pax incrociando le gambe su uno sgabello. Gli altri piloti in quella parte di corridoio si voltarono. Sopraggiunsero anche altri tre veterani, i comandanti delle altre squadre ARCA della Decima, questi ultimi però vestivano la tuta da lavoro, sfoggiando

comunque colli e avambracci pieni di cicatrici. I quattro si fermarono davanti al capitano Pax che sorrideva sornione “Credo che questo sia un altro arresto che devo segnare nella mia tabella. E… con questa ultima aggiunta credo di averti superato Taikos, di ben venti punti!” “Ma cosa dici? Non vale mica venti punti il Nano?” ribatté piccato l’amico, aveva parte del volto sfregiato da un’ustione. “Lui da solo no certo, ma insieme alle sue guardie del corpo si. Erano un bel gruppetto. Pensavano di andarsene alla chetichella sfruttando il caos a terra.” “Facciamo che in tutto ne valgono quindici, ho sentito che ha fatto tutto il tuo secondo… perché non ce lo presenti?” chiese un altro sorseggiando una lattina di Chibas. “Volentieri, signori, vi presento la squadra uno della Decima Robotizzata: il mio secondo, Frank Basosky. Il mio esperto informatico il sottotenente Nathan Cooper, grazie a lui ti ho superato mio caro capitano Tik.” “Di solo cinque punti.” precisò l’altro in tono altezzoso “Gli specialisti in armi e munizioni Friedrich Morris, Sholem Mellish e Hawk Miller. Il nostro Kibarua è il tenente Daboo ‘Ngoma, e vicino a lui abbiamo l’asso Ulixes Xavier e l’esperto di guerriglia Ismael Sword. Ragazzi, ecco i miei vecchi compagni di squadra durante la caccia ai Pirati Apostati.” I piloti della squadra uno lanciarono qualche saluto, un po’ a disagio per la presentazione leggermente infantile “Hey Count, ma non ti senti vecchio con tutti questi giovanotti? A proposito complimenti per il gancio destro ‘Ngoma! Ho visto che ha atterrato un pirata con un solo colpo, le dispiace se le sto vicino quando attraccheremo? Ho svariati creditori che dovrebbe dissuadere.” scherzò Kosmi “Krop” Prostor. Fecero per aggiungere qualcosa quando l’altoparlante in alto chiamò i comandanti delle squadre ARCA sul ponte di prua, a rapporto dal capitano. I cinque si incamminarono.

Prima di andarsene Alastor spiegò a Frank di cambiarsi e godersi una doccia, al suo ritorno avrebbero parlato di come si erano comportati in missione. I cinque ufficiali della Decima Robotizzata si diressero verso il ponte di comando. “Ah Mopa, mi dispiace per i tuoi tre ragazzi.” disse Taikos mentre camminavano, ignorando le occhiate del resto dell’equipaggio. “Grazie. Era la loro prima volta in azione. Non li avevo ancora conosciuti bene, ma erano comunque davvero giovani. Almeno i vostri sono ancora tutti in vita.” rispose lui pensoso. “Già, ma due dovranno subire un intervento di ricostruzione totale del bacino perché quando sono atterrati l’ARCA si è piegato in due all’impatto. Poveretti. L’unico senza perdite è stato Alastor... i tuoi sembrano davvero promettenti.” “Si, sembrano ottimi piloti. Specialmente quello Xavier, non ha battuto ciglio quando tra noi e il suolo si sono frapposti quei banchi di vapore. Tra l’altro bisogna dire che il servizio geologico è stato pessimo. Potevano dircelo prima... questi ragazzi non hanno mai affrontato nella realtà cose del genere.” I cinque svoltarono nella plancia del ponte di prua, attraversando l’accesso lasciato aperto per favorire il continuo viavai di uomini e donne. Videro dalle vetrate che erano di nuovo nello spazio. Il comandante dell’incrociatore e un gruppetto di generali si voltarono andandogli incontro. Fu il comandante Emer a parlare. “I mie complimenti. Era davvero tanto che l’Armata non conduceva un’operazione lampo così efficiente ed efficace, sarà perché l’abbiamo organizzata senza chiedere il permesso a qualcuno su Lex V. Nano è nelle celle di sotto insieme a duecento super ricercati. Ma la devastazione dell’ultimo avamposto pirata in questo settore, e il recupero di parte della refurtiva di anni di scorribande, non sono nulla in confronto alla soddisfazione di dimostrare che l’Armata è più attiva che mai! Alla prossima seduta dell’Intesa su Lex V sbatterò tutto questo in faccia a quei tirchi di Codwir e a quelle sanguisughe della

Corbita, almeno una volta tanto ci daranno le navi richieste senza piagnucolare!” Tutti annuirono, salutandosi frettolosamente come prevedeva la ritualità militare. “Quindi stiamo ritornando verso il sistema Lex?” chiese Dagat “Mopa” Det. “No.- rispose il comandante Emer, avvicinandosi a uno dei finestroni- Abbiamo ricevuto altri ordini. Dato che questo era l’ultimo avamposto pirata in un settore vicino ai pianeti degli imperi centrali, è stato deciso di estendere la lotta contro la pirateria verso l’esterno della galassia, dove, a quanto pare, regna l’anarchia.” Si fermò per controllare l’immagine che un operatore gli porse su un sottile elaboratore portatile. “Ma i nostri gruppi da battaglia sono troppo pochi per sorvegliare un territorio così grande.” capì al volo Alastor Pax fregandosi il mento. “Sembrerebbe così, ma sono appena stato informato che all’ultima seduta dell’Intesa è stato deciso che l’Armata Comune si dividerà in unità microscopiche sotto il controllo diretto del Ministero per la Guerra Pirata, comunque al di sotto dell’Ammiragliato, che è stato inaugurato su Lex V qualche tempo fa. Le navi come queste diventeranno da museo. Al massimo saranno riconvertite a navi ospedale o hangar di riparazione semoventi.” “Questo andrà bene per l’aviazione o la fanteria… tanto non è che abbiano bisogno di trasporti speciali. Ma noi?” fu l’ovvia richiesta del capitano Prostor. “Per voi della Decima è stato preparato un piano particolare. Nonostante le vostre unità abbiano costi folli di mantenimento, avete sempre avuto ottimi risultati.” “Beh folli… proporzionati direi! Mi sembrano più che giustificati vista la complessità delle nostre machine!” commentò infastidito Edge. “Non lo dica a me capitano Bufar. Ma tenendo presente che l’obbiettivo dell’Intesa non è mai stato quello di creare un esercito, le poche risorse che destina a voi e a altre poche unità speciali sono anche troppe per i contabili lexodiani. In fondo tutto ciò che possiede l’Armata Comune è frutto di donazioni degli imperi aderenti: una cosa è regalare qualche shuttle e qualche cassa di fucili, un’altra è progettare ARCA, addestrare piloti e tecnici specializzati.

L’industria di precisione di tutta la galassia ha altri problemi che non migliorare il vostro sistema idraulico, primo fra tutti rendere abitabile ogni pianeta o luna a portata di nave. Comunque.” Il comandante Emer fece una pausa e si aggiustò il colletto della divisa. “Attualmente stiamo procedendo verso lo spazioporto Spira, all’ingresso del labirinto di Medusa. Là troverete cinque fregate da caccia modificate appositamente per il vostro trasporto. D’ora in poi agirete come unità indipendenti e erete alla qualifica operativa di intervento rapido anziché schieramento speciale”

“Ma chi ha avuto questa idea? In ogni caso non saremmo mai abbastanza per nessuna azione, ci si troverebbe in minoranza assicurata!” protestò Dagat “Mopa” Det. “L’idea non è stata mia. Evidentemente per i sapientoni nei ministeri questo è l’unico modo che hanno per provare a rispondere a tutte le denunce e richieste d’aiuto che arrivano dai pianeti dei Bordi Esterni o dei regni minori... hanno però esteso i vostri poteri, assegnandovi anche compiti di polizia e facoltà di indagine e reazione in base alla vostra discrezione. Ma non preoccupatevi. Ho saputo da un mio amico che al comando del ministero c’è il generale anziano Olaf, è uno in gamba, quindici anni fa ha progettato l’arresto di William Davery… che se non fosse stato per la sua fortuna sfacciata, ora marcirebbe in prigione. Dicono che anche il suo attendente, un certo colonnello Bose, sia uno sveglio, lanciato verso le più alte carche dell’Armata, già solo perché ha venti anni in meno dei suoi colleghi. Con loro a gestire il Ministero, non dovremmo avere problemi operativi. Sono ufficiali dell’Armata Comune, sanno di cosa abbiamo bisogno.” “Tutto questo va bene, ma cosa diciamo ai nostri uomini?” chiese il capitano Pax visibilmente preoccupato, fissando lo spazio. In lontananza si intravvedeva il Labirinto di Medusa che brillava roseo, stagliandosi nell’oscurità come un pesce abissale illuminato per un attimo da un fascio di luce. “Andate dai vostri uomini e spiegategli la situazione, in fondo avrete più libertà d’azione e meno controlli. Non ci sarà sempre la paura che qualcuno faccia la spia a qualche funzionario perché avete sparato un laser in più e vi caccino o

frustino.” Il comandante Emer capì di non aver convinto Alastor Pax che continuava a non rivolergli lo sguardo, meditabondo. “Capitano Pax, tu sarai a bordo del Parsifal. Con voi verrà anche uno dei nostri migliori ingegneri Zadok Zeeman, che tutti chiamiamo Zeta, è un Namir. ” “Parsifal… mai sentito, che nave è?” “E’ una fregata da caccia. Al suo comando c’è il Comandante di prima classe Nobel.” “Il Nobel che ha indagato sulla sparizione delle colonie vicine a Taniog Teta?” chiese Alastor. “Proprio lui.” schioccò il comandante Emer, cogliendo l’occasione per ricucire l’inizio di uno strappo. Alastor Pax annuì, inspirando. “Beh, se uno del suo calibro ci sta, chi sono io per protestare? Nonostante non sia una decisione discutibile, ha fatto bene a sottoporcela prima comandante. Ora però devo tornare dai miei ragazzi per un debriefing. È stato il loro primo combattimento e bisogna assolutamente limare alcuni dettagli, vorrei che smettessero di essere di novellini al più presto.” concluse il capitano Pax voltandosi. Nonostante fosse molto che combatteva sotto l’Armata Comune, non era del tutto abituato a quei continui cambi di direzione nelle politiche riguardanti la guerra contro i pirati. Ma se questo era il volere dell’organizzazione che aveva reso possibile la diffusione dell’umanità nella galassia, non poteva di sicuro opporsi a un suo ordine.

UN FUTURO DIVERSO

Frank riconobbe che il cuscino era troppo duro. Fece per muoversi, ma invece di spostare le coperte in cui credeva di essere avvolto urtò qualcosa che qualche attimo dopo si trasformò nel suono di vetro in frantumi. Il sonno iniziò a diradarsi lasciando spazio ai postumi della bevuta della notte prima. Si staccò dal tavolo su cui era crollato, immaginando la trasformazione del suo viso. Si massaggiò la guancia par riattivare la circolazione e cancellare il segno delle assi di legno. Vicino a lui uno degli oggetti sfocati che lo circondavano grugnì sonoramente. Frank si fregò gli occhi guardando la realtà riprendere forma e la vecchia taverna disvelarsi intorno alla sua piuttosto confusa persona, smettendo di essere un grumo di macchie indistinte. Qualcuno uscì da sotto il tavolone strisciando sui gomiti, aggrappandosi poi al bordo e sollevandosi. Hawk barcollò un paio di volte tenendosi la testa con una mano, buttandosi sulla panca e ripiombando nel mondo dei sogni, usando Frank come cuscino. Frank spostò l’amico, che abbracciò il tavolo. Le cose del mondo erano tornate di nuovo visibili, anche se i suoni sembravano molto più intensi di quanto ricordasse. Qualcosa tuonò sul tavolone, tanto da far sobbalzare i presenti in fase di risveglio. Il proprietario della locanda li guardò con le braccia conserte, sorridendo. “Ah, capitano Basosky! Che festona ieri sera, eh? Non succedeva dai tempi della vostra vittoria nell'assedio di Arkanis!” L’oste indicò una olografia sbiadita, allungando il braccio grosso come un ciocco

di legno, appesa lontano su un muro gremito di altri vecchi ricordi di celluloide, tutti appartenenti al tempo i cui l’Intesa Siderale regolava la galassia e l’Armata Comune era il suo purosangue da caccia. A quei tempi la taverna aveva già l’aria di un luogo antico, frequentato per lo più da lupi dello spazio e marinai in libera uscita, essendo in un piccolo villaggio sorto da una costola del più grande porto spaziale tra gli imperi centrali e i bordi esterni. In quel punto le spedizioni contro le flotte pirata non si erano mai arrestate, almeno fino all’Ordine 135. La sua particolare posizione, più vicina agli orli esterni della galassia che ai regni principali, faceva sì che il porto spaziale di Itacha non fosse strettamente gestito da una sicurezza interna, ma da una serie di regole di convivenza non scritte. Inevitabilmente la legalità si era abbassata di qualche tacca rispetto al livello di sufficienza. Daboo si lasciò cadere su una sedia, comparendo da una saletta vuota e silenziosa. Sword, avendo sentito qualche movimento rotolò su un fianco, scendendo dal tavolo insieme a qualche bicchiere, buttandosi, in preda a una della peggiori sbornie della sua vita, su uno sgabello. Rischiò di cadere un paio di volte e risolse la questione appoggiandosi con i gomiti e incastrando la testa tra i pugni. L’oste sorrise distribuendo pacche sulla schiena e tazze di un liquido bollente, che diffuse un penetrante aroma sotto forma di nuvolette di vapore biancastro. Tutti bevvero in silenzio, gorgogliando per l’eccessiva quantità di alcool ingerito la sera prima. Qualcuno aprì un porta lontana, che fece entrare nel locale qualche boccata di ossigeno meno viziato. Morris corse tra i tavoli ancora parzialmente ricoperti da bicchieri e piatti sporchi, salutando i camerieri e cercando di evitare i frammenti di vetro sparsi sul pavimento.

Ridacchiò pensando che era anche colpa sua. La sera prima avevano fatto baldoria, ma essendo molti anni che non festeggiavano qualcosa, specialmente in quel luogo, la rimpatriata con l’amico Jhon, il proprietario, si era trasformata in una baraonda che aveva inglobato tutti gli avventori in un turbino di liquori e pinte di birra. Morris arrivò al tavolo proprio mentre Jhon stava posando un vassoio di spezzatino di Kinku e verdure. I compagni lo guardarono attraverso il vapore delle bevande, salutandolo con qualche cenno del capo, segno che l’operazione di risveglio era solo agli inizi. Dal piano superiore scese Ux, in perfette condizioni rispetto ai compagni. Videro che prima di scendere l’ultimo gradino, si voltò rispondendo qualcosa a una voce femminile in alto. Si sedette tra gli sguardi maliziosi. Hawk provò a canzonarlo con qualche battuta, ma molte delle parole si fermarono nella mente e quelle che raggiunsero la bocca non furono comprensibili. “Sono tre ore che Sullivan vi cerca, forza! Abbiamo delle grandi notizie. Nobel ha sentito l’Autarca Namir e pare che alla fine siano riusciti a contattare quell’informatore.” “Dacci ancora cinque minuti…” disse Sword addentando un pezzo di carne. “Se ieri non avessi bevuto solo un succo di frutta, ora non saresti così pimpante!”, scherzò Hawk allungando la tazza a Jhon che, senza dire nulla, la riempì fino all’orlo. “La memoria ti peggiora ogni giorno, Sword. Se tu non avessi perso alla gara di freccette, non avresti dovuto bere così tanto” ribatté Morris. Tutti sorrisero alzando lo sguardo osservando la marea di freccette conficcate nelle travi del soffitto, a molti metri da loro, oltre i lampadari spenti. “Scusa, Jhon… per il disastro intendo. Ci siamo fatti prendere un po’ la mano. Ma qui sembra che il tempo si sia fermato. Hai ancora tutte le olografie appese alle pareti, servi gli stessi piatti: sembra di essere in una bolla di ricordi felici” spiegò Frank, sempre più lucido.

Gli altri annuirono. “Non ditelo nemmeno.” L’omone mise le mani sulle spalle di Ux e Daboo. “Mi piacerebbe che qui ci fossero feste così due volte al mese. Grazie a voi ho svuotato la cantina e dimenticato per un attimo quanto siano diventati fiacchi gli incassi.” “Ma ora che si usano di nuovo i contanti, non dovrebbe andare meglio?” chiese Morris versandosi del caffè. “Magari! La cosa tocca solo gli imperi centrali. Io non ho mica un regno o montagna da cedere alla Corbita per qualche container di Geld freschi di conio! Con gli assegni che ricevevo dall'Intesa come avamposto di sussistenza, accumulati fino alla sua caduta, mi pago a malapena la roba che do via da bere. Meno male che la Corbita continua ad accettarli.” Prese il vassoio vuoto, posandovi dentro la caraffa e ripulendo con lo straccio che teneva sulla spalla la superficie del tavolone. John ricominciò a parlare, chiaramente abbattuto per il futuro incerto della sua piccola attività. “Grazie a voi ho ricordato come era questo posto anni fa, quando il viavai di navi era continuo e gli uomini dell’Armata desiderosi di bere e ricordare le proprie imprese. Di questi tempi comincio ad avere paura a una certa ora: le facce si sono fatte più scure, i cappucci fin sugli occhi più frequenti e i viaggatori dall’aspetto pericoloso sempre maggiori” raccontò l’oste con tono buio. John se ne andò scuotendo la testa. Frank finì il poco caffè ancora nella tazza. Lentamente i sei si rimisero in piedi, battendosi gli abiti per ripulirsi e cercando di darsi un certo contegno. “Dobbiamo rientrare subito. Nobel e Sullivan hanno parlato a lungo con l’Autarca. Restiamo solo più noi da ragguagliare, mi sa che le vacanze sono finite” spiegò Morris affiancando Frank, diretto verso l’uscita. Tutti i piloti salutarono i camerieri e il padrone di casa, augurandogli una buona

giornata e promettendo che sarebbero riati il più presto possibile. I sei uscirono svelti, guardando di sfuggita il muro dietro il grande bancone, sapendo che in alto, nell'angolo più lontano c’era anche una loro foto, insieme ai compagni non più in vita, al capitani Pax, a un più giovane comandante Nobel e a un allampanato aiutante di vascello Sullivan. L’aria filtrata da antichi sistemi di pulizia li avvolse leggermente rugginosa ma fresca, cancellando i bordi appannati della loro vista. Un orologio in alto batté l’ora, mentre le piccole botteghe e i negozietti della parte abitata del grande porto spaziale di Ithaca, aprivano i battenti nel silenzio mattutino. In lontananza arrivavano gli echi delle onnipresenti operazioni di carico e scarico delle navi che attraccavano nell’ampia darsena a forma di bolla, costruita ai tempi di Patrianova, e dotata di un sistema di aggancio così articolato che era possibile farvi attraccare un intero gruppo da battaglia Comune, senza che venissero utilizzati i posteggi per i cargo o per gli shuttle privati. “Chi era quella che ti ha salutato?” chiese Hawk finalmente in possesso della facoltà di parola, mentre radunava i lunghi capelli in una coda estremamente approssimativa. Ux sorrise beffardo, continuando a camminare. “Secondo me era la cameriera con i capelli scuri che ci ha portato il quinto giro di Grappa di Root” disse Sword allacciandosi il cappotto. “No, no, secondo me era la barista!” propose Morris interrompendo il resoconto di ciò che era successo sul Parsifal durante la notte: aveva preferito non esagerare con il bere per avere il tornio nell’officina tutto per sé e razziare l’armeria di bordo per modificare, senza troppi occhi indiscreti, l’arma d’assalto definitiva che si stava costruendo nei pochi momenti di tempo libero. “Che ci crediate o no era una mia amica. Ci siamo visti dopo la gara di freccette e abbiamo fatto due i per la darsena quasi vuota. Era capo antennista sull’ Incrociatore Tattico Comune Padre di Thoras, siamo rimasti a bordi tre mesi anni fa, ricordate?” spiegò Ux ignorando le occhiate maliziose e le gomitate dei compagni. Uscirono dalla zona abitata arroccata su un piccolo pezzo di pietra, un migliaio

di anni prima un piccolo asteroide inglobato nella torreggiante massa cilindrica, e traforato per ricavarvi gli alloggi per i forestieri di aggio e gli edifici necessari alla gestione dello spazioporto. Entrarono in un elevatore, salendo. Davanti a loro di spiegava il groviglio metallico dei lunghi moli d’attracco, ognuno avvolto da spire di tubature, aggi e camminamenti. La darsena era così ampia che non se ne vedeva la fine, sembrava che la struttura di alluminio trasparente e putrelle di ferro si interrompesse al limite della loro vista sfociando sullo spazio. Raggiunsero il piano selezionato. Alla sommità dello spazioporto erano stati collocati i cantieri di riparazione. I due principali avevano un accesso personale, in modo che le navi molto danneggiate potessero entrare senza are per la darsena e minacciare i vascelli già attraccati. Una coppia di marinai del Parsifal a guardia dell’entrata li salutarono. Per non dare nell’occhio ormai era diventata una pratica comune indossare abiti civili. I due smisero di fingere di guardare le navi sotto di loro e abbozzarono un saluto militare. I piloti varcarono la soglia trovando il caro Parsifal ancorato alle strutture di o, mentre all’esterno si indaffaravano i meccanici del luogo per appianare le ammaccature provocate durante l’ultimo scontro con un gruppo piuttosto agguerrito di cacciatori di taglie. Preferendo muoversi invece di usare gli ascensori interni, i sei piloti di ARCA scelsero di entrare nell’elegante fregata da caccia ando per la rampa che portava al magazzino frontale, ora spalancato e in fase di riempimento. Salutarono i vari amici dell’equipaggio, puntando alla sala pianificazione. Grazie al rinnovamento operato quasi un anno prima nel cuore del regno Namir, l’interno della nave era cambiato molto dai tempi dell’Armata Comune, diventando più comodo e ampio dato che con i nuovi sistemi ipertecnologici che regolavano molte sezioni della nave, erano necessari meno operatori.

“Buongiorno, amici!” gracchiarono gli altoparlanti del corridoio. “Ciao, Pixel” risposero. “Ho aggiornato le mappe dei navigatori degli ARCA ed eliminato l’errore di programmazione nell’elaboratore della tua cabina, Ux!” “Grazie, amico.” “Entrate pure: ho già avvertito il comandante Nobel e il comandante Sullivan del vostro arrivo, vi stanno aspettando” disse di nuovo la voce del compagno. I sei avevano raggiunto la porta della sala pianificazioni. All'interno trovarono il vecchio Nobel, con una pipa tra i denti, seduto capotavola, alla sua destra il comandante Sullivan li accolse scuotendo la testa per il ritardo, alla sua sinistra un terzo individuo, avvolto in un ampio mantello nero damascato bordato di pelliccia rimase immobile. Notando gli sguardi del comandante il del vecchio Nobel, i sei piloti si sedettero, recuperando la solita professionalità. “Buongiorno a tutti- iniziò Sullivan fissandoli negli occhi e fregandosi le maniSpero che vi siate ripresi dai bagordi di ieri sera, perché abbiamo per le mani qualcosa di grosso.” “E cosa non lo è stato nell’ultimo annetto?” sbottò Morris, interpretando i pensieri dei compagni. Dopo il loro rientro in azione avevano ato un anno intero a are le varie resistenze di quel ramo di galassia, combattendo in ogni luogo possibile, dalle claustrofobiche giungle Kibarua, agli interni devastati dei vecchi quartieri ministeriali del sistema Lex. “Finora abbiamo giocato sulla difensiva aiutando quei pochi che avevano deciso di combattere militarmente le nuove alleanze manovrate dalla setta dei Figli di Tlaloc- riprese Sullivan -Ma alla vostra difesa militare delle resistenze contro lo strapotere della setta e il nuovo ordine politico a lei connesso, i Namir hanno fatto corrispondere una serrata lotta politica fatta di ambascerie, antichi legami riscattati e spionaggio.

I Namir Vogliono evitare l’isolamento politico dei pochi che nei regni centrali e nelle grandi famiglie nobili, si stanno ancora opponendo ai Figli di Tlaloc e ai sovrani a loro fedeli, purtroppo in numero sempre minore. Questo è il piano generale che tutti noi conosciamo bene. Nello specifico siamo stati incaricati di portare a termine un incarico estremamente delicato e segreto. Grazie a una complicata azione di spionaggio e sfruttando le poche ma altolocate amicizie, il corpo diplomatico Namir nell’Anello Ferrato è venuto a conoscenza di un particolare fatto, che, ora che è stato confermato, potrebbe rappresentare la svolta definitiva all'accerchiamento dei Namir. Molte spie Namir hanno perso la vita per farci avere queste informazioni, anche se si tratta solo della punta dell’iceberg. Comandante Nobel, vuole andare avanti lei che ha una visione più completa dei fatti?” chiese Sullivan. L’attenzione dei piloti fu rivolta al vecchio amico e capo, loro comandante fin da quando erano novellini usciti dall’accademia di volo. Nobel li fissò, poi, con la consueta grinta di lupo dello spazio, proseguì con il briefing. “Quando fui assegnato alla mia prima nave, secoli fa ragazzi, l’Armata Comune era alla fine della sua fase più florida. I cantieri navali sfornavano vascelli ogni mese e le liste di reclutamento erano lunghe come corazzate. All’epoca le colonizzazioni erano ancora in corso e quindi le lotte tra coloni e predoni erano così aspre da prendere le dimensioni di vere e proprie guerre, tant’è vero che la Terza e la Quarta Guerra Pirata iniziarono e terminarono nel giro di solo sei anni. Per rafforzare le squadre da battaglia contro flottiglie pirata sempre più agguerrite, il Ministero per la Sicurezza Spaziale insieme al Ministero per la Guerra Pirata, decisero di varare sei super corazzate intergalattiche, con l’intenzione di avere pedine in grado di vincere da sole una battaglia, di sorvegliare senza o un pianeta o una rotta commerciale per mesi e mesi. L’Armata Comune sarebbe stata sorretta da sei Pilastri, ognuno con la potenza di fuoco di cento navi, l’equipaggio di una modesta città coloniale, e persino in grado di essere autosufficiente per anni. Mi seguite tutti?” “Certo, comandante Nobel. Anche se io ho sempre saputo che i pilastri fossero cinque… Uno di questi lo ha personalmente comandato lei quando abbiamo

attaccato quella maledetta fortezza Mokter” intervenne Sword. I compagni annuirono. “Vi ricordate che bestia il Martello di Gurmund? Chissà che fine avrà fatto!” commentò Morris fregandosi il mento. “Se lo sarà intascato il Venerabile Tyrr e lo starà usando per minacciare qualcuno, ci metterei la mano sul fuoco” fu il pensiero di Daboo, rimasto in maglietta, con i muscoli che tendevano il tessuto come volessero lacerarlo. “Bene. Ci siamo tutti- sorrise Nobel espirando una boccata di fumo- Il fatto è che, come avete giustamente fatto notare, l’Armata ne ebbe poi solo cinque. Infatti quello in corso di costruzione nei cantieri dell’Anello, tre pianeti a poche leghe spaziali dal bordo Sud dell’impero Codwir conosciuti come l’Anello Ferrato a causa della scia di asteroidi di minerali che li avvolge, non fu mai completato a causa di lotte intestine nei governi del posto. I nobili del luogo trascurarono i lavori, preferendo usare i materiali che arrivavano dai vari pianeti dell’Intesa Siderale per rafforzare i propri palazzi. Con il are degli anni la costruzione dell’ultimo pilastro fu dimenticata e se ne persero le tracce, inghiottite dalla burocrazia dell’Intesa. Ora facciamo un salto avanti e veniamo a cose più vicine a noi. Qualche mese fa è stata intercettata una trasmissione segreta tra una chiesa del culto di Tlaloc presente su Plutor I, il maggiore dei tre pianeti dell’Anello, e un altro loro insediamento nel cuore dell’impero Codwir. Il messaggio parlava di un misterioso Pilastro per ultimare la costruzione di nuove colonie in alcuni pianeti gassosi praticamente adesi ai confini del regno Namir. Nonostante abbiano cercato con ogni mezzo di impedire l’accesso a navi battenti insegne straniere, i Namir non possono impedire a dei coloni a stanziarsi in zone fuori dai loro confini. Anche se da cosa mi ha spiegato l’Autarca, hanno dovuto dimostrare la proprietà di ogni metro di confine ai coloni e alla Corbita, che dal nulla ha iniziato un’opera di o incredibile a tutta la gente che improvvisamente ha deciso di andare a vivere esattamente sul confine Namir. Ovviamente dietro queste colonie ci sono i Tlaloc e gli eserciti degli imperi centrali, ormai praticamente una costola della setta. Appena i Namir commetteranno un o falso sarà cosa da nulla trasformare le

stazioni di raccolta in basi per navi da guerra e da lì muovere in territorio Namir, sicuri della loro posizione di vantaggio.” I piloti lo scrutarono ammutoliti, cercando un sorriso o qualche parola di conforto. “Ma, perdonatemi, con che scusa si sono installati i coloni? Mi pare che quei pianeti non abbiamo risorse… Sono giusto grumi di gas intrappolati tra le orbite più lontane del sistema solare Namir” meditò Frank. “Ufficialmente è una compagnia di estrazione, pare che vogliano commerciare in Argon. Non ricordo il nome, ma mi pare dal loro simbolo che siano di origine Codwir…” “Probabilmente è una mossa finanziata dallo stesso governo Codwir che sembra vivere di ordinazioni della setta: praticamente producono solo più navi per la Luna di Akis, che spedisce mercenari e Lottatori in ogni parte della galassia.” “Sì, ma è comunque indimostrabile” concluse Morris. “Certo ma, signori, vi prego: non divaghiamo. Sulla fattibilità legale della cosa sono impegnati tutti funzionari pubblici Namir. Ritorniamo alla nostra comunicazione trafugata. Ciò che ha messo tutti in allerta è stato che hanno usato la lettera maiuscola per indicare la parola Pilastro. Non solo una volta, l’avremmo preso per un errore, invece l’abbiamo trovato in tutti e tre i messaggi che siamo riusciti captare. Tutti parlavano dell’attesa di questo Pilastro, ringraziando Tlaloc e benedicendo la loro fortuna. Contemporaneamente a questa notizia è giunta voce al nostro amico Autarca di un altro fatto. Per farla breve, pensate un po’: il sesto pilastro creduto mai completato, è comparso di colpo in alcuni registri di aggio di un portale interdimensionale tra l’impero Mokter e il fondaco Corbita prima dell’impero Codwir, con un nome proprio. Durante l’incursione Mokter nel sistema Lexodiano era stato preso in custodia dagli ingegneri Mokter, per farne probabilmente la punta di lancia della loro flotta, e spedito in patria per essere finalmente terminato. Nel caos generale di quei giorni nessuno deve aver notato un convoglio Mokter diretto verso l’Anello. Noi per primi cercavamo di ricostituire l’Armata Comune accogliendo i dispersi sopravvissuti dopo l’Ordine 135” spiegò Nobel.

Inspirò l’ultima boccata di fumo spegnendo la fiammella della pipa e posandola sul tavolo. Tutti imprecarono contro gli odiati Mokter, ma Nobel e Sullivan si guardarono invece di unirsi al solito vituperio contro i nemici di sempre. “Esattamente un mese fa un portale commerciale Corbita è stato aperto tra l’impero Mokter e quello Codwir per far are una sola nave. La nave è stata descritta come la più imponente costruzione semovente mai vista dai tempi del Botany e, dopo aver studiato le olografie di transito e ipotizzato ogni rotta possibile, l’abbiamo beccata a cinquemila leghe spaziali dalle normali rotte tra il confine Sud Codwir, zona meglio nota come Spira Verde, e il regno Namir.” Sullivan si fermò attivando il generatore di ologrammi che mostrò la sagoma tridimensionale del mastodontico velivolo spaziale. “Pare abbia fatto scalo solo una volta: appena arrivata dai Codwir ha imbarcato un gran numero di Mokter, dopo aver scaricato tutti i precedenti operatori Mokter nei settori di guida. Di sicuro ha fatto salire a bordo quelli sopravvissuti alla sconfitta dopo l’attacco alla fortezza e non ancora ritornati in patria, e poi è sparita dalla circolazione scegliendo una rotta completamente nuova per evitare di incrociare vascelli che possano dare l’allarme o raccontare della sua presenza. Evidentemente avevano ragione le voci che vedevano avamposti Mokter nelle lune rocciose disabitate entro i confini Codwir. Ma non facciamoci corrodere da queste questioni. Abbiamo stimato una rotta. Unendo questa scoperta con le informazioni dello spionaggio Namir e le scansioni dei satelliti spia sparsi ai limiti dei loro possedimenti, abbiamo capito presto quale sia la sua destinazione: dato che è autosufficiente punterà dritta alle colonie prima del regno Namir, evitando le rotte principali”, concluse Sullivan indicando alcune statistiche del vascello grande come una cittadina di modeste dimensioni. “Grazie a un simile rinforzo le poche casupole di coloni si trasformeranno in avamposti giganteschi, sviluppandosi di giorno in giorno. Diventerebbero cittadine e in una città si può ammassare una forza d’invasione… Con tutta la manodopera che questa nave trasporta, in un mese saranno diventati inattaccabili e in grado di ospitare centinaia di esseri umani e navi. Senza contare i soldati e i mezzi già a bordo. Capite che non possiamo permetterlo!” spiegò Nobel serio. “Ma come può essere possibile?” rifletté Ux. Fu Sullivan a rispondere.

“Perché la legge fondamentale dello spazio sancisce che non si può impedire a nessuno di aiutare una costruzione colonica. Dalle olografie abbiamo visto che batte insegne di pace, spacciandosi per rinforzo a coloni. Se l’attaccassimo i sopravvissuti o i Codwir o i Mokter potrebbero accusare i Namir di aver deliberatamente violato il principio fondamentale della navigazione spaziale. È grazie a questa regola che l’umanità si è diffusa ovunque, solo che non specifica quanto massici possano essere i rinforzi e di che genere. I Tlaloc dietro tutto questo hanno fatto in modo che i Namir riconoscessero lo status di coloni agli uomini nelle costruzioni sui loro confini. E, mentre sono incastrati in una lunghissima opera di definizione dei loro confini, fanno sì che le costruzioni diventino così sviluppate da essere poi inamovibili, anche se si dovesse dimostrare che sono in territorio Namir. Signori, di fatto stanno legando un cappio al collo dei nostri amici.” Nessuno parlò, tremando di rabbia e maledicendo la loro impotenza. “Spero che vi siate riposati in questo mese di pausa dai combattimenti. Se questa nave raggiungerà le colonie, le trasformerà in cittadine e non erà molto prima che i Mokter o i coloni stuzzichino i Namir, fino a far esplodere un conflitto aperto. Sarebbe la fine. I Tlaloc avrebbero il controllo della galassia. Ormai ogni nostro altro impegno è ato in second’ordine. Abbiamo due giorni per organizzare un piano, partire e scaricarvi all’interno della Vandea. Sì, è così che è stata registrata. Dovrete controllarne la stiva, documentare tutto ciò che trovate e prenderne la plancia” concluse Nobel fissandoli tutti negli occhi. Dallo sguardo i piloti capirono che non scherzava. “Comandante, quello che lei dice non è fattibile, prima di tutto perché una nave così grande non corrisponde a nessuna classe mai esistita, e quindi la disposizione degli ambienti interni è imprevedibile. Secondo, noi siamo comunque sei. Già avvicinarsi sarà un’impresa, figuriamoci prenderne il possesso. Sa che una missione affidata è una missione compiuta, però non possiamo andare così allo sbaraglio. Nell'ultimo anno abbiamo portato avanti operazioni incredibili, ma comunque avevamo aiuti, uomini e mezzi a darci o. Quello che ci hanno affidato è troppo. Dica all’Autarca che non è fattibile” disse Frank dando ascolto alla parte razionale del suo cervello anziché a quella ionale che gli suggeriva di partire subito a scatenare una salva di

missili sulla plancia della Vandea e risolvere alla svelta l’ennesima missione al limite della follia. “E qui entra in gioco il nostro amico, prego” annunciò Sullivan muovendo appena la mano. Nobel invitò il terzo individuo a togliersi il cappuccio e presentarsi. “Mi chiamo Havelok, ex Quartiermastro della Vandea. Almeno finché era nei cantieri navali di Ygrys Setha, la mia patria. Prendere possesso della nave è piuttosto semplice dato che chi controlla la plancia controlla l’intera struttura. Il difficile è arrivare vivi fino lì” disse lo sconosciuto, rivelando con orgoglio un nome e un’origine mokter. “Sarà un lavoro da commando, e nessuno potrà farlo meglio di voi. Presa la plancia, che è anche il palazzo del Patrizio cioè il comandante, contatteremo l’Autarca che ha promesso una squadra navale Namir in o per scortare la nave in una destinazione segreta. “Denunceranno il tentativo di attacco cercando di dimostrare che i Tlaloc li stanno effettivamente minacciando, forse qualcuno dei regni più lontani si convincerà della serietà della minaccia. “Ma ora tutte queste cose sono solo teorie vuote. Dobbiamo fermare quel continente di ferro prima che sia troppo tardi. Le navi Namir arriveranno solo dopo che voi avrete perso il controllo della nave: i Namir non possono assolutamente attaccare nessuno, sarebbe la loro fine, erebbero subito come degli aggressori. I eggeri della Vandea, verranno scaricati e portati nell’avamposto abitabile più vicino grazie anche alla collaborazione del nostro amico Davery, che ovviamente si occuperà dello smaltimento delle ricchezze a bordo della Vandea” disse veloce Nobel prima che le reazioni dei piloti glielo impedissero. Ai sei però era gelato il sangue, bloccandoli sul posto con sguardi attoniti, mentre a tutti balzavano in mente mille reazioni fuori luogo contro il Mokter davanti a loro.

“Ti vedo amareggiato, Boss” disse Nobel versandosi un bicchiere di Narquero. “È troppo che siamo schierati in prima linea. Abbiamo difeso i Kibarua, recuperato la Lista dei Probi, aiutato Davery con il trasloco ai limiti della galassia conosciuta, spiato e sabotato i Tlaloc infiltrati nella Corbita. I Namir ci credono macchine? Non siamo come i loro droni.” “Capisco come ti senti, Frank, davvero.” “Questa non ci voleva, Nobel. Non so se riusciremo a farcela” aggiunse il capitano dell’unità ARCA, seduto su uno dei divanetti della cabina del vecchio amico, assorto a guardare i meccanici all’esterno che ultimavano i lavori. “È la nostra ultima carta, Frank. Dobbiamo fidarci dell’informatore. Ha seguito l’installazione dei sistemi di difesa sulla Vandea.” “Potrebbe essere una trappola. Come lo avete trovato?” “Era tra quelli che sono stati fatti sbarcare. Ha fornito molti dati sulla nave e su alcuni personaggi Mokter di rilievo. L’intelligence Namir ha controllato per bene le sue informazioni prima di considerarlo affidabile. Solo dopo che quello che vi ho detto prima è emerso chiaramente anche dalle soffiate di altri informatori, hanno avuto la conferma che ciò che diceva era vero.” “E che cosa vuole per il suo aiuto? Nessuno fa nulla per nulla. Inoltre, perché non sa che cosa c’è nella stiva o il suo utilizzo? Potremmo morire tutti cercando di fermare la Vandea.” disse Frank. “Secondo te cosa vuole?” Frank scosse la testa sbuffando. La massa di uomini disposti a fare qualsiasi cosa per denaro, lo metteva sempre più a disagio, facendo vacillare le sua fiducia nel prossimo. “I Namir stanno osando troppo con noi. Le missioni che ci affida l’Autarca sono sempre più pericolose, poco dettagliate e piene di zone d’ombra”,disse Frank piano, più rivolto alla sua interiorità che al vecchio comandante.

“Com'è che hanno trovato il Quartiermastro?” chiese ritornando nella realtà. “Non hai sentito, Boss? La nave è rimasta un po’ nell’impero Codwir e lì c’è stato un cambio di equipaggio unito all’imbarco di un numero spropositato di materiali. Lui però ha preferito fuggire che essere rimpatriato. Hanno riempito le stive in gran segreto, partendo in fretta e furia.” “Continua a non convincermi. E se a bordo della Vandea ci fossero Portatori Mokter? Di Dakkar nessuno sa più nulla, ma molti Portatori della sua energia erano nobili, quindi comandanti di equipaggi spaziali per diritto di sangue. Avete calcolato bene la rotta? Cosa sappiamo dell’affidabilità delle intercettazioni Namir? “Non lo so, Nobel, sembra tutto troppo raffazzonato. Tutta questa fretta non va bene.” “Se ti minacciassero appostandosi con un cannone oltre il confine di casa tua non avresti fretta di disarmare chi ti vuole morto? Ti vedo più pessimista del solito, Frank. Per voi una missione affidata è sempre stata una missione riuscita. Ce la farete anche questa volta” disse il vecchio buttando giù con un sorso il liquido ambrato. “E se non volessi? In questo mese di tregua ho pensato molto. Ricordo che il capitano Pax mi diceva sempre che una volta vecchio si sarebbe ritirato nel castello di famiglia, lo Schedario su Lex V. Persino un grande combattente come lui non pensava di fare questa vita per sempre.” “Capita a tutti. Fortunatamente ormai siamo come una famiglia e ci sosteniamo a vicenda. Parlane con i tuoi uomini. Persino non ho abbandonato il gruppo, nonostante la mia età. Ho rinunciato al comando diretto, dandolo a Sullivan, dotato di una mente più reattiva della mia. Vedrai Boss, ce la farete se sarete uniti come sempre.” disse Nobel. “Forse è così, ma anche sui volti dei miei amici inizio a vedere una certa stanchezza. Abbiamo poco più di trent’anni e ci sentiamo vecchi, non anagraficamente certo, ma mentalmente. Dietro il loro stato sempre più trasandato e gli sguardi vacui davanti gli schermi dei nostri ARCA, vedo aumentare la voglia di pace e serenità. Abbiamo lottato con le unghie e i denti per anni, vedendo le cose precipitare verso un baratro senza fondo. So che molti hanno già pensato a un dopo. Sotto sotto, tutti vorrebbero avere ricordi diversi di

una lunga serie di battaglie che con il are dei mesi si mischiano diventando il ritratto di una lunga esistenza sprecata.” “E tu, Frank?” mormorò Nobel cogliendo uno dei rari momenti di apertura del giovane uomo. “Pensavo di aver trovato la persona a cui proporre una vita serena, un giorno, ricordando le missioni riuscite. Ma ora è andata. Tu piuttosto dimmi, comandante Nobel, come fai a fidarti così tanto di un Mokter, oltretutto un traditore della sua gente?” “L’Autarca mi ha offerto di andare a vivere nella sua città una volta che questa vita mi avrà stancato. Lui si fida del Quartiermastro Havelok, e io di conseguenza. Nessuno mi ha mai offerto tanto, e quindi si merita tutto il mio impegno. Se ce la faremo so che mi aspetterà una vecchiaia serena con voi qui a difendere la pace. Se andrà male morirò difendendo un amico. C’è qualcosa di meglio?” Frank vide il vecchio versarsi un altro bicchiere. Bevve in silenzio, poi porse una coppa piena a Frank, che l’accettò di buon grado mimando un brindisi.

“Qualcuno dei Probi ha risposto?” domandò Frank, muovendo il liquore nel bicchiere. Nobel ingollò una sorsata, contraendo la labbra. Si voltò per un istante, chiudendo gli occhi e scuotendo la testa in segno negativo. L’elaboratore di Frank vibrò e lui si alzò uscendo dalla cabina. Prima di andarsene batté delicatamente la mano sulla schiena del comandante Nobel. Il tempo a davvero per tutti, meditò Frank lasciando la cabina.

FORMALITÀ

“Quell’affare è gigantesco. Persino più grande del Botany!” fu il commento di Morris alle parole del Quartiermastro, che non trattenne una smorfia per un commento così banale. Havelok riprese la spiegazione, alzando le sopracciglia. “La zona delle terminazioni dei getti di combustione è piena di torrette contraeree, quindi non eremo da lì. L’unico modo per avvicinarsi incolumi e potersene andare con la propria nave intera, è sfruttare questo.” Illuminò un punto sull’ologramma che venne evidenziato di blu. “Nella zona tra il fianco e la parte superiore della Vandea, scorre una sottile striscia di scafo praticamente sguarnita. Ovviamente ci saranno le torrette sopra e sotto a minacciare l’avvicinamento ma una volta che ci si è inclinati e abbassati a una trentina di metri dal metallo al di sotto, si può percorrere lo spigolo e sbarcare le squadre d’assalto. A terra si potrà trovare qualche sentinella meccanizzata, ma nulla di irrisolvibile. Il problema è che una volta dentro bisogna arrivare vivi fino alla plancia, che è anche il palazzo dove vive il Patrizio cioè il comandante, con la sua guardia personale e la sua famiglia.” disse Havelok. “Ehi amico, non facciamola troppo semplice. Quanto vicino dovremo are con il Parsifal?” chiese Ux studiando la planimetria della zona. Lo spigolo era ampio come una piccola pista di atterraggio, ma pieno di ostacoli come raccordi di tubature, antenne e sezioni di paratia. Anche con un’ARCA sarebbe stata una manovra piuttosto elaborata. “Pensavo di are alla parte difficile, dato che anche una bambino saprebbe pilotare la nave fino là…- sospirò Havelok usando un tono condiscendenteImmagino che sia pilotare inclinati di quarantacinque gradi che vi scombussola piloti, ma è facile. Basta impostare i flap e la spinta.”

“Riesco a pilotare a testa in giù da ubriaco, bendato e senza olobussola e non perdere l’orientamento! Ma chi ti credi di essere? Magari adesso suggerirai di allenare la mira usando shuttle civili come bersaglio? Tanto sono disarmati, non posso fare nulla, vero? Eh? Che ne dici, maledetto Mokter?” iniziò Ux. “Sappiamo bene come pilotare, vogliamo solo sapere di più sul terreno su cui atterremo. Se dovessimo trovare resistenza rischieremmo di usare troppe munizioni e non poter andare avanti con la missione” spiegò Morris provando a mitigare gli animi. In quel momento Frank entrò, appoggiandosi al muro a braccia conserte. “Lo spazio è sufficiente, anche perché i bordi del piano inclinato che percorreremo sono costituiti dalle tubature del sistema di raffreddamento dei propulsori e, quindi, riducono ancora di più il raggio d’azione delle torrette, come se fossero due muri. Direi che il Parsifal dovrebbe are a una ventina di metri dal metallo.” “Prima avevi detto trentina… Che sistemi difensivi ci sono? Come si dovrebbe entrare?” lo incalzò Ux. “Qualche sensore di intrusione collegato a sentinelle di livello uno. Verso la fine dello spigolo, ci dovrebbe essere un accesso per la manutenzione. eremo da lì, dato che si affaccia nei magazzini dei ricambi esterni. Sono ambienti piuttosto ampi e pieni di nascondigli. Non dovremmo trovare molta compagnia, nel peggiore dei casi qualche tecnico. La Vandea è un continente di ferro, alcune zone non vengono esplorate dai tempi della costruzione di questi vascelli.” “Questo Mokter non sa nulla. Uno operaio sarebbe più preciso!” sbottò Sword fissando truce Havelok, che sostenne lo sguardo furioso con un’espressione annoiata. “Mi stupisco di come siate riusciti compiere tante imprese. Ai bambini Mokter si insegna che la prima cosa che deve sviluppare un uomo, è la capacità di adattarsi agli imprevisti. Evidentemente a voi nessuno lo ha mai detto. Non so di preciso quante sentinelle ci saranno, perché dopo aver varcato il portale la Vandea ha subito le ultime messe a punto. E vi consiglio di essere più cortesi, amici piloti, le mie parole valgono oro puro. Persone molto più importati di voi mi ritengono fondamentale, cercate di adeguarvi agli ordini ricevuti” ribatté il Quartiermastro rendendo l’atmosfera ancora più pesante.

Frank vide i pugni di Daboo stringersi e la stoffa della maglietta scricchiolare. Anche il Mokter lo notò e sembrò esserne un po’ intimorito, tanto che fece un paio di i indietro, perdendo parte della spavalderia. “Non vogliamo essere scortesi, Quartiermastro Havelok, ma lei cerchi di essere il più preciso possibile. E, si fidi, la nostra capacità di adattamento è comprovato essere migliore di quella di molti altri. Di questo ringraziamo lei e tutti i suoi compatrioti che sono stati così gentili da usarci come bersaglio dal giorno dell’attacco all’innocuo sistema Lex V a oggi.” disse Hawk. “Innocuo per voi, soldatini senza aspirazioni” sibilò ancora il Mokter. “Pendiamo dalle sue labbra, Quartiermastro Havelok” continuò Frank serafico, alzando il mento.

Morris entrò nell'hangar, buttando da una parte la giacca con un gesto di stizza. L’arroganza dei Mokter era proverbiale, almeno quanto la loro abilità nel fabbricare e governare navi spaziali. Il Quartiermastro Havelok sembrava possedere ogni difetto associabile ai grandi e nobili Mokter, mettendo a dura prova la sua tolleranza. Alzò una grata dal pavimento, dietro le zampe del suo ARCA. Osservò il contenuto, sicuro che non era come l’aveva lasciato. “Scusa, ma ieri ho trovato alcune quote inserite nel tornio dell’officina e mi sono lasciato trasportare. Inoltre so bene dove nascondi i tuoi esperimenti, e quindi volevo farti una sorpresa.” La voce era quella di Zeta, che scese dalla cabina dell’ARCA di Ux. “La tua idea è davvero geniale Morris, anche se mi sono permesso di aggiungere qualche dettaglio personale” spiegò il capo ingegnere del Parsifal avvicinandosi all’amico che aveva posato la custodia sul pavimento, montando insieme le parti all’interno. Morris soppesò il fucile appena assemblato. Erano parecchi mesi che ci lavorava. L’idea era quella di unire la maneggevolezza di una mitraglietta con la potenza di un fucile laser. Era uscito un ibrido ultra aggressivo: l’arma era in carbonio potenziato, con due canne di media lunghezza che assicuravano la superiorità di fuoco e, sotto di esse, un affusto di sua concezione che racchiudeva un generatore di laser attivabile con lo stesso grilletto del meccanismo di fuoco principale. Grazie al calcio richiudibile poteva essere maneggiato con la rapidità di una della loro mitragliette. A lato del castello superiore, trovava sede la cella energetica miniaturizzata per il generatore di raggi laser. “Carino” fu il commento dei due. “Basta un birra per sdebitarsi?” chiese Morris sorridente. “Promettimi che farai di tutto per fermare la Vandea” chiese Zeta improvvisamente serio. Era la prima volta che il capo ingegnere del Parsifal gli rivolgeva una simile

richiesta. Le voci correvano rapide nella nave e, dal volto di Zeta, Morris capì la gravità della situazione. Zeta era suo amico da molto e mai prima di quella volta aveva chiesto una cosa del genere, sempre sicuro che la Decima ce l’avrebbe fatta. Inoltre i Namir erano famosi per la padronanza di sé nei momenti di crisi, forti dell’approccio scientifico. La Vandea rappresentava una minaccia così diretta per il suo regno, da mettere in crisi le più profonde convinzioni di un vero Namir come Zadok Zeeman, per tutti da sempre solo Zeta. La vaghezza del loro obiettivo lo fece dubitare della perfetta riuscita della missione, e quindi a Morris uscì solo: “Ce la metteremo tutta”. La risposta non migliorò lo stato d’ansia di Zeta.

Havelok si godette la comodità della cabina che gli era stata affidata. Sebbene lo stile fosse a suo avviso poco consono al grado del legittimo proprietario, riconobbe che l’ambiente era piuttosto accogliente, con pannelli bianchi che illuminavano e riscaldavano la stanzina. I mobili non erano i soliti scaffali che si potevano trovare su ex navi da guerra Comuni, ma eleganti armadi in acciaio opaco e materiale plastico. Accese la pipa e raccolse il bicchiere, guardando poi fuori dall'oblò. Erano partiti da cinque giorni solamente, ma avevano percorso già molte leghe spaziali grazie ai particolari propulsori alimentati con qualcosa di diverso dalle normali celle a fusione fredda. Conosceva bene le capacità di spostamento delle normali navi della Flotta Comune e, vista la loro velocità di crociera, i Namir dovevano aver rivoluzionato a fondo l’intera fregata da caccia. A quella velocità avrebbero probabilmente raggiunto la Vandea entro fine giornata. Nonostante l’ostilità dei piloti degli esoscheletri ARCA, era riuscito a spiegare abbastanza bene i fondamentali della struttura, ma in fondo quelle volgarissime persone non conoscevano altro che battaglie e quindi non potevano che trattarlo con la rozzezza di un sergente di prima linea. Sullivan entrò sorridente nella stanza e lui, considerandolo suo pari in nobiltà in quanto comandante del Parsifal, lo salutò sorridente e cordiale. “Buongiorno, comandante Sullivan. Mi congratulo con te, abbiamo percorso quasi tutto il tragitto.” “Che occhio! Allora le dicerie che voi Mokter vi sappiate orientare senza mappa spaziale sono vere” rispose Sullivan, che si sedette sulla poltrona davanti all’ospite, gentilmente indicatagli dall’inquilino della sua cabina. “Ebbene?” chiese Havelok eccessivamente sorridente, come se ostentare un protocollo di cortesia verso un ufficiale lo fe sentire più importante di quanto già non fosse. Sullivan parlò fissando il Mokter negli occhi. “Sono qui perché volevo chiederti personalmente altri dettagli sulle sezioni interne della Vandea. I miei piloti si stanno preparando e quindi vorrei

rassicurarli. Sei stato un po’ vago ieri, e conoscendo i miei amici non sono tranquilli. Allora: le sezioni residenziali sono difese? Da chi? Se la plancia è un’estensione del palazzetto del Patrizio, immagino che si possa entrare anche per la porta degli ospiti di tale edificio anziché attraversare i ponti superiori, dove ha detto che ci sono molte guardie e sentinelle perché sede delle sale di comando.” “Sì, volendo sì”, rispose Havelok alzando gli occhi al cielo. “Ma ieri hai detto no.” “Sì e no. Cioè, dipende.” Sullivan appoggiò il gomito al ginocchio, muovendo la mano come un timone, dividendo a metà l’aria. “Credo che il tuo sua l’atteggiamento sbagliando Quartiermastro. Sembra che tu ti ritenga qualcosa di diverso da noi. Noi e te, divisi, separati da un muro invisibile fatto di nobiltà. Viste tutte le violenze che si stanno perpetrando, sarebbe opportuno essere più concentrati per fermare i figli di Tlaloc, o non credi nella nostra causa?” spiegò Sullivan trattenendo l’irritazione. “Non dire così comandante Sullivan. In questo universo, proprio perché accadono tante cose orrende, è un peccato non godere dei pochi momenti di requie” fu il commento sardonico di Havelok. “Troppa tranquillità può essere fatale. Ti prego, sia più preciso quando consiglia i piloti, in fondo anche lei sarà sul Parsifal durante l’avvicinamento.” “Così pare” rispose il Quartiermastro fissando annoiato il liquido alcolico nel bicchiere. Lo sguardo di Sullivan si fece duro e il Quartiermastro, stravaccato sulla sua poltrona regalo dell’Autarca, sembrò capire, ma il tono di untuosa cordialità con cui si rivolse al giovane comandante del Parsifal non lo rese più simpatico. “Capisco bene la tua strategia. Confortare la truppa prima di mandarla fuori è un gesto magnanimo per il comandante della nave. Credo che però nessuno dei tuoi piloti abbia afferrato bene il significato di ciò che ho detto al primo briefing: la struttura modulare dei condotti fa sì che ogni comparto possa essere spostato in

caso di necessità, per riorganizzare meglio lo spazio. La Vandea come ben sa, prima di salpare ha imbarcato alcuni Mokter rifugiatisi dai Codwir, e quindi non so se per imbarcare più materiali o far stare più comodi i nuovi signori, la planimetria interna sia stata modificata.” “Va bene, va bene.” Sullivan si concentrò per non prendere l’uomo nella sua cabina per il mantello, e schiaffeggiarlo per convincerlo a smetterla di essere così vago. Sembrava fosse lì per godersi le stanze calde e il vino gratuito. “E saresti così gentile da ripeterlo ai miei uomini di sotto?” Il Mokter si alzò con riluttanza, stringendosi nell’elegante mantello, come se l’esterno fosse una landa gelida. Uscirono, trovando casualmente Nobel intento a discutere con un paio di meccanici. Li vide, scherzando cordiale. “Ah, Quartiermastro Havelok, mio caro! Andate a rinfrancare le truppe?” “Assolutamente, comandante Nobel.” Nobel invitò con la testa i due a inchinarsi, cosa che imbaldanzì tantissimo l’ospite, che si diresse verso l’hangar a o cadenzato. Sullivan rivolse a Nobel un’occhiata dubbiosa, ma l’occhiolino che ricevette in cambio lo spinse a non chiedere troppo e fare come se nulla fosse.

SOTTO LA PELLE

“Questi sono i B-System.” Zeta indicò due scudi ottagonali nella parte terminale, dove erano connessi agli avambracci degli ARCA, che si stringevano poi nella parte superiore mostrando, attraverso scanalature longitudinali, alcuni oggetti allineati all’interno. “Sono più sottili dei vostri scudi, sebbene la forma sia simile non proteggono con la stessa efficacia. Si tratta dispositivi per il lancio di mine magnetiche, ognuno ne contiene quaranta, sono caricate nell’affusto. Il sistema ne spara una per volta facendo scattare fuori la mina, che si arma da sola appena i sensori magnetici rilevano il contatto con l’obiettivo, ma la cosa particolare è che l’esplosione avviene tutta verso l’interno della zona a cui la mina aderisce. Viene distrutto solo il punto in cui si pianta. I nuclei esplodenti possono penetrare fino a cinque metri di ceramite antilaser, tagliandola come fosse burro, se impostati su perforazione. Altrimenti esplodono creando un’onda d’urto che frantuma oggetti e sbalza forme viventi di ogni forma. Forti del peso dell’ARCA voi non se sentirete gli effetti. Ho pensato che nei corridoi della Vandea vi sarebbero stati utili. Ne abbiamo costruiti quattro. Frank ne avrai uno, come anche Hawk. Morris tu avrai gli altri due sul tuo ARCA, quindi non potrai portarti dietro i cannoncini e la mitraglietta. Dato che ci sono molti civili, Nobel mi ha chiesto di pensare a qualcosa che potesse contenere le loro perdite e le mine dei B-System esplodono in zone precise. Dovrebbero evitare le devastazioni di raffiche di proiettili corazzati in ambienti così piccoli, perciò in ogni caso fate attenzione a dove scaricate le armi da fuoco. Avrete tutti comunque i micro missili e le gatling.” spiegò Zeta. I piloti osservarono le ultime aggiunte al loro arsenale, iniziando a compilare la lista mentale di tutto quello che necessitavano per la missione, maledicendo, a ogni scelta, le poche informazioni ricevute. Dalla fine dell’hangar arrivò Havelok camminando fiero, seguito da Sullivan.

Molti dei meccanici e dei tecnici mormorarono qualche insulto, i piloti lo fissarono imibili, ma quando fu vicino sfoderarono ampi sorrisi. “Signori. - disse il Mokter con le mani dietro la schiena e la voce imperiosaBuona fortuna. Sono certo che grandi guerrieri come voi non avranno di che temere. Entrate alla seconda griglia di smaltimento del calore e una volta dentro iniziate la missione. Ancora una volta, buona fortuna!” Havelok sorrise nervoso un paio di volte, forse aspettandosi grida di gioia per le parole di conforto. Sullivan si ò una mano sul viso, scuotendo la testa. “Ci avevi detto di are per la terza” grugnì Daboo. “E che c’era una accesso per la manutenzione…” proseguì Hawk, che spense lo schermo trasparente su cui stava studiando le mappe, consegnate loro dopo il primo incontro con il Quartiermastro. “Mi sono sbagliato” rispose lieve lui, voltandosi verso Sullivan e lanciandogli un sorrisetto complice. “Cosa?” chiese Sword sull’orlo di una crisi di nervi. “Le mappe che vi ho dato dovete prenderle più come una bozza. Mostrano come era la nave mesi fa nei cantieri navali Mokter. Ora le cose potrebbero essere molto diverse. Ma si, in fondo siete la Decima Robotizzata, dovreste avere sangue freddo da vendere! Almeno secondo le storie che ho sentito su di voi.” “Preferirei avere una mappa precisa dell’interno, che buona fortuna” mormorò Ux. “Io mi accontenterei di un disegno”, gli fece eco Hawk. “Perché non vieni con noi, Havelok? Potresti dirci la strada migliore corridoio per corridoio” sbottò Morris. Anche gli altri sorrisero con aria di sfida. “Sì, certo, proprio tu” puntualizzò Sword indicando li Quartiermastro con il pugnale con cui stava tagliuzzando un pezzo di cavo.

“Ma io non posso!” esclamò Havelok sbarrando gli occhi. “Come? Un vero Mokter saprebbe adattarsi, o era qui solo per dirci banalità che avremmo comunque saputo da una scansione prima di sbarcare?” “Direi che state esagerando piloti, ricordatevi chi sono.” “Abbiamo capito chi è lei. Un debole Mokter invidioso che cerca di assicurarsi una tranquilla pensione tradendo i suoi compatrioti”, disse Ux serio. “Pensavi di manipolarci, fifone? Quanto hai chiesto ai Namir per la tua perizia? Potrai ingannare l’Autarca con la tua lingua, ma non noi” sibilò Hawk. “Ora basta, tutti quanti- intervenne Frank notando Havelok sempre più sulla difensiva- Vorrei essere chiaro con lei, glielo chiedo per l’ultima volta Quartiermastro. O ci dà informazioni precise o scende con noi sulla Vandea.” Havelok trasalì, perdendo ogni stilla di sicurezza, anche se un attimo dopo essersi guardato intorno rispose serio, sfoderando uno sguardo determinato mai visto prima. “E va bene. Sarò dei vostri!” I presenti trattennero il fiato per la direzione inaspettata che aveva preso la conversazione, e per le reazioni imprevedibili del misterioso Mokter a bordo. “Ma che bella notizia!” commentò Nobel sbucando da dietro un ARCA. “Perché non gli dà la mia Lorica, signor Sullivan? Che coraggio signor Quartiermastro, non pensavo che la sua dedizione alla nostra causa fosse così forte! Molto bene, le cederò volentieri la mia corazza spaziale!” La gran parte degli uomini presenti smise di lavorare, voltandosi a fissare il Quartiermastro, cercando di vedere il suo volto inespressivo e l’improvviso cambio di stato d’animo del pallone gonfiato imbarcato con loro. “Dovere” ripose sbrigativo Havelok inchinandosi e andandosene con o cadenzato, collo dritto e sguardo sdegnoso. Pochi secondi dopo era uscito dall’hangar e tutti riprendevano il proprio lavoro. Nobel si voltò osservando le espressioni allibite dei piloti.

“Portatevi abiti civili ragazzi e non rasatevi quelle barbe. Voleva salire a bordo era ovvio, ho già visto gente simile, quando si millanta la conoscenza di qualcosa e poi non la si ha o si è un truffatore, e quindi si sta cercando di scappare, ma non è questo il caso, oppure si vuole farsi invitare a vederla di persona. Vedrete che non mi sbaglio. Cacciandolo a forza in questa situazione, spero che si rivelino presto i suoi veri piani, di sicuro ne ha. Una volta dentro la Vandea fate attenzione. E non fategli togliere troppo presto la mia Lorica.” Nobel se ne andò lasciando la squadra in preda alla più totale confusione. “Cosa avrà voluto dire, perchè non dobbiamo fargli togliere la corazza troppo presto?” chiese Sword. “Perché nella sua c’è un segnalatore di posizione migliorato” rispose Frank sempre più cupo.

Il Parsifal aumentò di velocità. Sullivan respirò a fondo un paio di volte. “Massima potenza al propulsore. Pronti con le contromisure.” I pochi marinai in plancia eseguirono silenziosi gli ordini, mentre Nobel, alla postazione di guida, governava concentrato. Gli schermi davanti al suo sedile mostravano tutti gli indicatori in posizioni ottimali. “Comandante Sullivan, una piattaforma per le riparazioni della Vandea sta lavorando vicino alla nostra zona di inserimento!” comunicò secco l’addetto radar. “Sembra che la fortuna ci assista oggi! - sorrise Sullivan- Nobel, portiamoci sotto la piattaforma e usiamola da scudo. Mi sembra ci sia abbastanza spazio, no?” “Sì, ma potremmo rischiare di perdere le antenne sulla pinna…” “Preferirei non perdere la nave!” schioccò il comandante Sullivan. La fregata da caccia puntò alla Vandea, ora sempre più vicina, assomigliando a un granello di polvere spinto dal vento lungo il costone di una montagna. Migliaia di piccoli luci decoravano la superfice della Vandea, piena di oblò, rampe di lancio per navette spaziali e torri di controllo decorate con archi e statue metalliche. Il Parsifal fu rilevato come intruso dai sistemi perimetrali, segno che quella nave voleva far capire a chiunque invadesse il suo spazio aereo che non voleva essere disturbata. Un attimo dopo i sistemi di difesa automatici della Vandea bersagliavano il Parsifal con migliaia di laser e missili. Grazie alla rapidità con cui si lanciò verso il suo obiettivo, molti proiettili nemici esplosero nella scia di particelle azzurre della nave. A causa del numero elevato di torrette difensive messe in allerta, dopo pochi secondi la zona intorno alla fregata da caccia diventò un’esplosione che la

avvolse in una nube rovente. Sembrava che avessero scatenato l’ira di un gigante dormiente sulla cui pelle abitavano un numero incalcolabile di sistemi di sorveglianza, ora tutti attivi e pronti ad abbatterli. Nobel si concentrò al massimo tenendo ferma la cloche, ammirando la potenza della Vandea e ritornando per un attimo a quando era giovane. All’epoca giganti dello spazio come quello erano fondamentali per il genere umano, essendo gli unici in grado di impensierire le flottiglie pirata che sciamavano come locuste, lasciando dietro di sé solo rottami e cadaveri. Sullivan strinse i denti ordinando alla squadra d’assalto di tenersi pronta: se fossero stati colpiti avrebbero dovuto in ogni caso uscire e cercare scampo. La corazza brunita del Parsifal iniziò a scricchiolare per tutti gli scoppi che la lambivano, sempre più vicini. Nobel sfruttò ogni grammo di spinta per puntare diritto verso la destinazione ora a portata di vista umana. Per un attimo notò le paratie in perfette condizioni del loro obbiettivo. “Iniziamo la corsa d’attacco” ordinò Sullivan ticchettando sullo schermetto incorporato alla poltrona del comandante. Le luci dello sbarco si attivarono nella plancia come nell’hangar, lampeggiando arancioni. “Siamo ancora lontani!” fu il commento di Nobel, con il volto rugoso concentrato nella guida. Il Parsifal si inclinò rispetto al piano della Vandea, portandosi perpendicolare allo spigolo della nave, e abbassandosi per entrare in una sorta di canale le cui estremità più alte erano le torreggianti tubature che partivano dalla parte centrale della Vandea, arrivando fino a quella terminale in cui si trovava il gigantesco propulsore. La fregata si abbassò ulteriormente, ora le varie costruzioni antiaeree erano visibili occhio nudo. “Se non scendono subito non ce la faranno mai! Dannazione, missili a ore

dodici!” urlò Sullivan quando davanti a lui si materializzò una selva razzi a guida magnetica. In basso, proprio ai bordi della zona che stavano percorrendo, ancora inseguititi da parte dei missili lanciati all’inizio, vide altre batterie seguire i loro movimenti puntandoli con gli organi di mira. “Quel figlio di un cane di Havelok ci aveva giurato che ci sarebbero state solo delle sentinelle meccanizzate!” sbottò Sullivan dopo aver impartito altri ordini. Premette un tasto sul bracciolo della poltrona di comando. Nobel utilizzò altre contromisure antimissile, sganciando nello spazio dietro di loro i dispositivi, che si attivarono vorticando come lucciole impazzite. Gli operatori in plancia continuavano a ticchettare alle loro postazioni per mantenere in perfetto stato i sistemi di propulsione e anti aggancio. “Squadre d’assalto, luce verde! Giù, giù, giù!” Poi, di colpo qualcosa esplose davanti a loro e il vetro della plancia si incrinò riempiendosi di micro fratture tanto fitte da farlo sembrare innevato. “Tutti fuori di qui!” urlò Sullivan un secondo prima che carbonio trasparente cedesse, aspirando con una potente boccata tutto ciò che non era saldato alle paratie. Uno degli operatori non riuscì a aggrapparsi a nulla, finendo risucchiato fuori. “Pixel, aiutaci!” urlò Nobel scosso dal risucchio dell’aria, stringendo i braccioli della sua poltrona. Le paratie di emergenza scattarono scendendo dal soffitto e ancorandosi al pavimento con scatti secchi e metallici. Sullivan si rialzò tremante, tossendo furiosamente per lo sbalzo di pressione. Si tenne le orecchie che sembravano sul punto esplodere spaccandogli la testa in due. “Rotta di emergenza! Pixel, stato dei danni. La Decima è scesa?” Sullivan si avvicinò a Nobel chino sulla cloche, ansimante. Gli altoparlanti

gracchiarono con la voce ben nota di Pixel, ex pilota di ARCA ora coscienza digitale di quella fregata da caccia. “Sbarco concluso. Ho sganciato tutte le contromisure e stiamo uscendo dalla zona di pericolo dei laser nemici. Entro quattro minuti e trentacinque secondi saremo fuori dal suo campo d’azione delle difese. Tre caduti, nove feriti. L’integrità della pinna caudale è compromessa. Ho chiuso gli accessi e gli ascensori verso il livelli più danneggiati. Ho captato alcune comunicazioni della nave nemica, ci avevano rilevato come predoni spaziali, attivando tute le difese automatiche esterne, certi che ci avrebbero dissuaso da un arrembaggio. Ha altri ordini, comandante Sullivan?” “Portiamoci a distanza di trasmissione sicura, dobbiamo parlare con l’Autarca…” boccheggiò Nobel. Nessuno disse nulla ripensando che per la reticenza di un informatore avevano rischiato più di quanto avrebbero mai immaginato. Gli scoppi decrebbero, segno che la rotta di allontanamento stava andando come previsto. “Vai in infermeria, Nobel. Io raggiungo Zeta per un rapporto danni. Pixel, a te il Parsifal.” “Ricevuto, comandante Sullivan.”

INSERIMENTO

Frank aspettò che il sistema di sbarco lo catapultasse fuori. La struttura vibrò e gli parve di essere sollevato, poi ammirò il metallo della Vandea di fronte a sè. Dalla sua posizione vedeva chiaramente le torrette puntarli e attivare i missili, che partivano lasciando dietro di loro una sottile scia di carburante esausto. I ganci mollarono il suo ARCA e, mentre accelerava per atterrare il più velocemente possibile, vide chiudersi il portello ottagonale del suo accesso nello scafo del Parsifal. Era la prima volta che notava dall’esterno i nuovi vani di sbarco. Le due metà semiottagonali si unirono bloccandosi in posizione di chiusura, le scanalature vennero ricoperte da sottili lamine di metallo mimetico e le luci si spensero, fondendo l’apertura con la fiancata della fregata da caccia. Il Parsifal proseguì la sua folle corsa, seguito da centinaia di missili a ricerca. Frank voltò l’ARCA, accelerando. Fece un avvitamento stretto per evitare alcune raffiche di laser. Qualcuno chiese da dove provenissero, ma nessuno seppe rispondere a causa della frenesia che li colse quando i pochi spazi aperti in basso si aprirono, rivelandosi degli accessi esterni per piattaforme di carico. Mentre i sei piloti iniziavano a rallentare per non schiantarsi, quattro SaT modificati con armi antivelivolo fecero capolino esibendo massicci turbolaser e piastre corazzate uncinate in stile Mokter. “Macchine contraeree semoventi nella zona di schieramento!” urlò d’istinto. Gli amici ruppero la formazione dividendosi il tre coppie. Alcuni piloti dovettero usare i flares antimissile dato che, sebbene ora fossero sufficientemente bassi per non essere presi di mira dalle torrette ai limiti dello

spigolo, gli aracnidi corazzati appena spuntati, si dimostrarono equipaggiati anche con batterie di razzi a ricerca di calore. Ux evitò una salva di turbolaser, iniziando una serie di evoluzioni ondulatorie per poter bersagliare il SaT più vicino con raffiche di mitraglietta e di cannoncino laser orientabile fissato sul booster. Daboo, suo compagno nell’impresa fu il primo ad atterrare sulla Vandea, camminando verso il bersaglio dietro il suo ampio e spesso scudo, sopportando l’urto dei colpi del SaT. Frank e Morris volarono rasenti al terreno sgusciando verso il profilo del SaT che era comparso proprio sotto di loro. Frank emise una raffica con la mitraglietta, ma i suoi colpi rimbalzarono sulla piastra corazzata a difesa dell’unico punto debole, ovvero le giunzione tra il corpo con le quattro zampe e la torretta. Il veicolo, in riposta, li puntò cercando di centrarli con una potentissima salva di laser. Frank non disse nulla, muovendosi sicuro, senza dover specificare nulla ai compagni, prendendo parte a ogni formazione o manovra senza il minimo tentennamento. La loro coordinazione perfetta in combattimento e la quasi telepatia nelle manovre lo rincuoravano spesso nei momenti di tristezza, anche se si trovava a ripensare con nostalgia al brevissimo periodo in cui fra loro c’era stata Mya. Aveva finito con l’innamorarsi della bella agente dell’Osservatorio Grigio, solo per vederla fuggire lontano proprio quando sembrava che le cose avessero preso la strada giusta. Frank puntò all'antenna tranciandola con qualche altra raffica, lasciandosi sfiorare da uno dei laser che arroventò il bordo dello scudo protettivo. Morris compì un paio di giri intorno alle gambe del Sat che non riuscì a seguirlo con la torretta. Attivò i due B-System, sparando esattamente quattro mine alle giunture delle gambe. Le mine si aggrapparono ai pistoni delle articolazioni, con la loro carica esplosiva innescata, esplodendo con uno schianto che tagliò di netto il metallo facendo cadere il mezzo su sé stesso. Anche i compagni avevano messo al tappeto i relativi avversari, tutti annientando la loro capacità di movimento. Le torrette dei SaT ancora attivi, anche se danneggiati, provarono a braccarli ma prima che potessero riprendere il loro fuoco di sbarramento.

Hawk, l’unico rimasto a distanza, le mise a tacere con quattro colpi di Rail Cannon, che si schiantarono sugli abitacoli piegandoli all’interno. I sei si radunarono vicino a uno dei rottami dei nemici. I danni subiti dagli ARCA erano poca cosa, ma dimostravano che l’incertezza del Quartiermastro era costata loro qualche minuto di improvvisazione e una buona dose di munizioni. “E adesso?” chiese Sword disattivando il sistema di surriscaldamento del filo della spadona del suo ARCA. “iamo dalla griglia per il vapore. L’ho vista poco fa, era dove aveva detto il Mokter” disse Ux indicando con il braccio dell’ARCA un punto dietro di sé. “Va bene, ma procediamo in formazione. Troviamo un punto in cui stabilizzare e facciamo due parole con il nostro ospite” disse Frank indicando l’uomo con indosso una Lorica, legato con cavo da traino alla schiena di Hawk affinché non cadesse durante le manovre di sbarco dal Parsifal. “Guardate là” indicò Daboo. Sei ARCA si voltarono guardando lo spazio intorno a loro. Dall’oscurità stellare si fecero avanti i profili inconfondibili di cinque corazzate d’assedio Mokter, dai segni sugli scafi le stesse che avevano combattuto durante l’attacco a Lex V. Le navi avanzarono nel buio incastonato di diamanti, fino ad affiancarsi alla Vandea. I sei videro alcuni caccia partire dai ponti superiori dei vascelli e puntare al punto d’attracco sopra la prua della Vandea, simile a un piccolo castello di ferro. “Andiamo dentro, subito! Booster in modalità stealth e niente luci” ordinò Frank. Per l’ennesima volta i sei piloti della Decima Robotizzata si erano trovati invischiati in piani più grandi di loro. Frank promise a se stesso, mentre dava potenza per togliersi da quella posizione troppo scoperta, che quella sarebbe stata l’ultima. Dopo, se fosse sopravvissuto, si sarebbe preso una lunghissima vacanza, lasciando per un tempo sufficientemente lungo gli intrighi e i sotterfugi della loro guerra.

Nella sala per le analisi strategiche, Pixel, chiuso in una sfera agganciata al soffitto della stanza, fece comparire le ultime immagini captate dagli scanner del Parsifal. Sullivan sbiancò quando vide, grazie agli ingrandimenti, l’arrivo di corazzate Mokter nei pressi della Vandea. Nobel invece non disse nulla, come se ciò non lo stupisse più di tanto. “Se sicuro di queste immagini?” Il volto digitale di Pixel sorrise dall’interno verde brillante della sfera in cui galleggiava. “Certo, con un’approssimazione d’errore dello 0,003456%. Potremmo avvicinaci per avere un miglioramento dell’11% della qualità delle immagini, ma non modificherebbe il riconoscimento della navi che si sono affiancate alla Vandea: cinque corazzate d’assedio Mokter di classe Lava.” “Qualcosa non torna… E se fossero arrivate con un portale? Questo è un atto di guerra verso il regno Namir. Secondo il comma 796 del Codice di Pace Spaziale le spedizioni verso Costruzioni Coloniche non possono essere scortate, sono di per sé intoccabili per l’insegna di trasporto per coloni” meditò Sullivan zoomando sulle immagini rilevate da Pixel, fino a sgranarle del tutto. “Quelle navi hanno le vampe dell’artiglieria solo sullo scafo. Pixel voglio un miglioramento delle immagini e subito. Qualcosa non quadra e, se ho ragione, abbiamo vecchie compagnie che si sono buttate nella mischia. Quelle navi non le vedevamo dall’attacco a Lex V, all’inizio della guerra. Erano della squadra del barone Kadìr e dopo il nostro attacco alla fortezza del portale interdimensionale erano andate perdute nello spazio, attirate dalla gravità di chissà quale sistema di pianeti. Allontaniamoci più velocemente, voglio parlare con l’Autarca sicuro di non essere intercettato” disse Nobel concentrato. “E se dovessimo andare a recuperare i ragazzi della Decima?” domandò Sullivan speranzoso.

“Noi da soli? Con quell’assembramento di navi tutto intorno? Vai in plancia Sullivan, serve una mano con l’installazione dei nuovi pannelli di carbonio trasparente” tagliò corto Nobel sempre più preoccupato per ciò che quel grumo di pixel scuri tra le stelle potevano significare.

Frank scese dall’ARCA, incrociando le braccia mentre Daboo sganciava la Lorica con all’interno il Quartiermastro Havelok, dalla spalla del mezzo di Hawk. La tuta spaziale era stata legata con corda da traino usando le sporgenze e le maniglie presenti sugli spigoli della corazzatura antilaser dell’ARCA. Il massiccio Kibarua sganciò i moschettoni che tenevano ferma la Lorica, aiutato anche dal proprietario del mezzo arrampicatosi alla cima dell’ARCA. Intorno a loro i compagni si erano disposti a quadrato controllando ogni angolo. Si trovavano in una zona di servizio pressurizzata e dotata di bilanciatore di gravità, una sorta di incrocio dei aggi che portavano all’esterno e che provenivano dai ponti più interni della nave. A giudicare dagli agganci nel pavimento quei luoghi dovevano essere percorsi dai SaT che potevano sbucare da molti aggi a scomparsa, simili a quelli scoperti poco prima. La Lorica fu deposta a terra e Daboo ne aprì il casco. Il volto pallido, verdastro e sudato di Havelok provò a sorridere, producendo solo una smorfia. Frank gli si avvicinò con o deciso e prima che l’uomo potesse dire qualcosa, gli rifilò un potente manrovescio. Un sottile rivolo di sangue gli percorse la guancia, gocciolando a terra, sul metallo del pavimento. Daboo lo tenne saldamente nonostante le gambe del Mokter fossero sul punto di cedere. Nonostante tutto Havelok non cadde, balbettando parole incomprensibili. “Che razza di Mokter è uno che vomita dopo tre minuti di volo spaziale? Che fine ha fatto tutta la sua spavalderia Quartiermastro?” L’uomo sputacchiò qualcosa, spalancando la bocca come in preda a un conato incontrollabile. Frank non batté ciglio colpendolo di nuovo. “Pensavi di farci salire su questa dannatissima nave e poterci usare come burattini?” Un pugno centrò il viso sudato e contratto di Havelok ridotto a una maschera di sofferenza, bava e sangue. “Sono stufo di essere una pedina e cavarmela ogni volta per il rotto della cuffia! Chi sei? Cosa ricavi da tutto questo?”

Frank caricò un altro pugno, incrociando il suo sguardo furente con quello di Daboo che visibilmente non approvava quello scatto d’ira, anche continuava a reggere il gioco all’amico. “Non importa” mormorò Frank risalendo sul suo ARCA. “Rimettilo a posto, Daboo. Ora la questione diventa di nostra competenza, e la risolveremo a modo nostro. Procediamo con i sensori in modalità d’attacco. Usiamo gli scanner a onde elettromagnetiche e troviamo un punto in cui nascondere gli ARCA, poi scenderemo e verificheremo di persona cosa c’è su questa nave.” Frank vide che sul suo schermo erano comparse delle miniature con le riprese delle telecamere interne degli amici, rimasti nelle cabine degli ARCA. Nessuno disse nulla, guardando semplicemente il ritratto dei compagni digitalizzato in alto a destra. Sebbene comportarsi così non fosse nel loro stile, era davvero troppo che combattevano, spesso ignorando le vere ragioni dei loro assalti. I sei ARCA furono pronti a muovere e poco dopo partirono in fila indiana lungo uno dei aggi che scendevano verso il basso. Sword apriva la strada tenendo l’ampio scudo di fronte a sé e i generatori dello spadone in standby. I sensori potenziati proiettavano all’interno della cabina una precisa scansione tridimensionale di ciò che li circondava nel raggio di decine di metri. L’interno della nave si dimostrò in perfette condizioni e molto più simile alle navi Comuni di quanto avrebbero mai immaginato. Anche i sistemi di sicurezza non li impensierirono troppo, eccezione fatta per uno scanner morfico collegato all’accesso di un magazzino di ricambi a metà del ponte inferiore rispetto a quello da cui erano entrati. Fu grazie all'abilità di Sword e all'efficacia del suo Jamming System che riuscirono a superare la porta senza far scattare l’allarme. Il pilota accelerò come se avesse voluto sfondare la paratia, attivando lo speciale sistema di disturbo dei rilevatori che aveva incorporato nello scudo. Il Jamming System emise una scarica di IEM di fronte a sé, mandando momentaneamente in corto circuito il rilevatore.

La porta si aprì avvolta da sottili cariche azzurrine e i sei la varcarono alla chetichella, lasciando dietro di sé solo un sibilo quasi impercettibile e l’aria leggermente riscaldata. L’ambiente in cui penetrarono li accolse polveroso e disordinato. Doveva essere un ripostiglio poco utilizzato, dato che trovarono casse e ricambi di epoche molto diverse. Container con il vecchio simbolo dell’Armata Comune, casse di equipaggiamenti Codwir e ricambi per caccia Mokter, oltre a statue, armadi di abiti dalla foggia Mokter e macchinari misteriosi. Frank parcheggiò il mezzo dietro un maestoso scaffale gremito di mezzibusti e pergamene con il sigillo del Ministero per i Beni Comuni, uscendo dalla cabina. La data sui sigilli era di vent’anni prima. Anche i compagni nascosero gli ARCA nel caos generale. Prese la torcia dallo stivale osservando con più curiosità gli oggetti che lo circondavano, riuscendo a leggere la storia degli ultimi cento anni della galassia, attraverso i simboli e le diciture sulle casse e barili sparsi in ogni dove. “A giudicare dalla polvere qui non ci vengono tanto spesso” commentò Morris facendo affondare il dito sul ripiano di un mobile. Arrivarono anche gli altri compagni e Havelok, che guardò Frank con aria manifestamente offesa e il volto tumefatto. “Mi dispiace per averti colpito Quartiermastro. Non succederà più, a patto che d’ora in poi ti forzi di essere più preciso su cosa dovremo affrontare” disse Frank provando a mitigare la rabbia che continuava a ribollire in lui. “Va bene…” bofonchiò il Quartiermastro. “Data la nostra scarsissima conoscenza di cosa si nasconde in questa nave, propongo di fare un giro di perlustrazione. Ux e Daboo verrete con me e il nostro amico. Morris, Sword e Hawk starete insieme. Direi di portarci dietro gli abiti civili, come ha suggerito Nobel… Dobbiamo dare il meno possibile nell’occhio.” Nessuno disse nulla facendogli capire con un cenno che era già tutto pronto.

Frank notò che avevano già tutti gli zainetti tattici sulle spalle e le pistole silenziate nelle fondine. Si rallegrò smaltendo qualche grammo di rabbia. Si salutarono rapidamente, promettendosi un costante aggiornamento sugli sviluppi della indagini. I due gruppi si separarono. Frank e i suoi uscirono all’esterno muovendosi furtivi per i aggi che scendevano in basso, mentre Morris e i suoi due compagni, decisero di sfruttare il sistema di aereazione per provare a raggiungere le parti abitate della Vandea. “Hai ragione a sentirti stanco, Boss. Tutti noi lo siamo, anche se nessuno lo ammette” gli disse la voce bassa e calda di Daboo. “Sono stufo, Daboo. Sono il primo a combattere per ciò che mi è caro, ma è troppo che ci usano come pedine. A pensarci bene è tutta la vita che succede. Forse ha ragione Davery quando dice che ognuno deve agire solo per ciò che capisce e ama. Sono stufo di essere una pedina che si salva sempre per un pelo.” “Non posso darti torto Boss, ma penseremo a cosa fare una volta tornati sul Parsifal. Ora devi essere concentrato, non arrabbiato” gli mormorò di nuovo il Kibarua mentre Ux perlustrava l’interno un ascensore apertosi poco lontano. Il quartetto riprese a camminare lentamente, con Havelok che mormorava di tanto in tanto qualche informazione riguardo a sensori morfici o possibili aperture di paratie nascoste. D’un tratto qualcosa sferragliò nel condotto e loro si appiattirono lungo le pareti, sfruttando l’ulteriore copertura offerta da una delle travi a sostegno del soffitto a botte. La luce era bianca e diffusa da lucernari disposti al centro di ogni volta, creando di conseguenza zone rischiarate da fasci chiari e altre praticamente buie. I quattro si acquattarono nell’oscurità osservando cosa stava arrivando nella loro direzione. Il muso di un trenino automatico a levitazione magnetica fece capolino da uno dei fasci di luce procedendo a velocità sostenuta verso un punto alla fine del tunnel. “Io voto per salirci sopra e vedere dove va” propose Ux sporgendosi e notando il trasporto sempre più vicino alla loro posizione.

“Ma potremmo cacciarci in guai ancora più grandi” meditò Frank mentre la motrice li superava muovendo l’aria. “In questa direzione c’è solo un’officina per i caccia a corto raggio. E un magazzino di ricambi per la sala macchine. Però c’è anche l’ascensore per il raccordo informatico del ponte di poppa” spiegò Havelok, parlando ad alta voce per sovrastare il suono sferragliante. Frank meditò un istante e vedendo ormai l’ultimo dei rimorchi farsi sempre più vicino, si convinse che la cosa migliore da fare era andare più in profondità possibile. Fece un cenno a Ux che si preparò molleggiando le gambe. Anche Daboo fece lo stesso tirando a sé il Quartiermastro che sfoderò l’ennesimo sguardo terrorizzato. I tre piloti balzarono rapidi, aggrappandosi al bordo di ferro dell’ultimo vagoncino. Frank si issò atterrando con una capriola e sporgendosi subito dopo per controllare che nessuno li avesse notati. Ux lo imitò, aiutando poi Daboo a staccarsi di dosso il Mokter che gli si era aggrappato come un bambino impaurito, dimenticandosi di avere indosso un’armatura corazzata. Fortunatamente i muscoli del Kibarua non cedettero e riuscì comunque a muoversi. Si acquattarono tra le casse vuote e l’odore di olio. Frank tirò un sospiro di sollievo e così, mentre si lasciava cullare dal procedere del treno magnetico, illuminato ritmicamente dalle luci in alto, aprì lo zaino controllando che il contenuto fosse intatto. Daboo gli lanciò qualcosa e lui sorrise e mentre scartava la striscia di carne di kinku. Riconobbe subito il sapore della versione cucinata dall’amico John usando la sua ricetta segreta. Prima della partenza aveva provveduto a rifornire la scorta personale dei piloti di un grande contenitore di filetti di carne di kinku, con in cambio la promessa che sarebbero tornati nel suo locale, a festeggiare la prossima vittoria. Frank sorrise agli amici anche loro concentrati in quella piccola pausa. Prese una barretta energetica dalla tuta porgendola a Havelok. Il Quartiermastro fu come distratto da un pensiero profondo. Voltò la testa e mise a fuoco il pacchettino argentato.

Lo prese e ne morse il contenuto ringraziando Frank con un cenno della mano, sprofondando un attimo dopo nel pensiero precedente, con la mandibola che vibrava triturando ogni piccolo boccone.

PUNTO D’ARRIVO

Morris si affacciò oltre la grata, cercando di avere un punto di vista più ampio. Il viavai dei eggeri sotto di loro faceva intendere che si erano avvicinati di molto ai settori abitativi. Anche l’architettura dei corridoi e dei saloni pieni di tecnici ed elaboratori era cambiata, adeguandosi allo stile Mokter al di fuori della Vandea. Invece di luci elettroniche e faretti a bassa luminescenza come avevano trovato nei tunnel e nei aggi che riempivano le sezioni in comunicazione con lo spazio, ora si erano sostituite fiaccole ossidriche e arazzi con le gesta ricamate degli antichi esploratori. I tre si spostarono camminando lentamente, evitando di are sopra le griglie dell’aspirazione dell’aria, temendo che qualcuno potesse scorgere le loro ombre. Hawk richiamò i mini droni di scorta che aveva sguinzagliato in avanscoperta, intuendo cosa avrebbe proposto Morris ora concentrato in una rilevazione delle presenze sotto di loro. “Sembra che da qui partano scalinate vero il basso, dove a rigor di logica dovrebbero esserci i settori più importanti. Propongo di scendere e farci un giro.” “Sì, ma ci conviene indossare gli abiti che ci siamo portati dietro. Basta qualche rapida modifica e ci confonderemo senza problemi” spiegò Sword aprendo lo zaino. Tutti concordarono con lui e, mentre i fidati segugi di Hawk scendevano in basso per perlustrare i luoghi in cui sarebbero scesi, i tre aggiustarono rapidamente le tuniche e le giacche che si erano portati appresso. Dovettero tagliare alcuni alamari dorati poco in linea con lo stile Mokter e molto più vicini allo stile dei funzionari Lexodiani, come anche aggiustare le trecce dei capelli. I Mokter, specialmente gli uomini portavano tutti una lunga treccia continuata per tenere a bada la massa di capelli.

Il resto lo avrebbero prelevato sul posto. Si diedero un’occhiata, ringraziando il sesto senso del comandante Nobel. Attesero qualche minuto che non asse nessuno, e poi mentre i quattro mini droni sorvegliavano gli angoli del corridoio, sollevarono la grata scendendo uno dopo l’altro. Camminarono scegliendo sempre i aggi che proseguivano verso la base della nave con maggior ripidità. Incrociarono altri marinai che salutarono con un cenno del capo. Hawk fu però costretto a richiamare i droni poiché pur potendo controllarli con la protesi oculare, avrebbe dato troppo nell’occhio la sua espressione concentrata con l’occhio buono di tanto in tanto chiuso. Morris raccolse senza farsi vedere una cintura di attrezzi da un piccolo muletto che gli ò vicino, mentre Sword borseggiò un soldato di aggio, privandolo della giacca che teneva arrotolata dietro la pettorina della corazza protettiva, indossata senza voglia da una sola spallina. In una tasca della nuova giacca trovò anche qualche moneta. Varcarono una porta che sembrava affacciarsi in un luogo luminoso. La paratia in vetro e metallo borchiato scivolò da una parte e loro fissarono sbigottiti la piccola cittadina che trovarono davanti a sé. Meravigliati da un esempio così stupendo di architettura spaziale, iniziarono a percorrere una delle viuzze che avvolgevano le pareti dando su una mastodontica apertura centrale, il cuore della Vandea, su cui sporgeva un magnifico palazzo dalla facciata piena di statue e colonne. In alto l’ambiente era delimitato da quello che supposero fosse il pavimento del ponte superiore in cui attraccavano i caccia e si trovavano le sale di comunicazione. Dal fondo provenivano suoni metallici e boati, segno di un accesso diretto con le officine e la sala macchine. Il viavai di individui era notevole. Molti uscivano da botteghe con vetrine gremite di stoffe e oggetti di ogni tipo, e dagli altri edifici che davano sulle vie di quel microcosmo. La maggior parte delle strutture era formata da semplici officine o sezioni abitative, ma a giudicare dall’arredamento esterno, dalle insegne, le lucerne e i lampioni, apparivano come taverne o uffici pubblici vecchi di centinaia di anni, dando ancora di più l’impressione di trovarsi in una cittadina Mokter, più che in una gigantesca astronave.

Sembrava che quel luogo fosse uscito dalla mente del più fedele architetto Mokter e che avesse scelto il cuore della Vandea per rendere omaggio allo stile più aggressivo della galassia, esagerando con le arcate, i mostri stilofori e le statue degli antichi fondatori della patria. Stranamente non videro nessun segno, né ara, né ornamento riconducibile a culto di Tlaloc. Lontano, dal palazzo che si affacciava imponente e maestoso, una tromba suonò facendo vibrare l’aria calda, leggermente profumata di incenso e olio per motori. Tutti i presenti si fermarono voltandosi esaltati. I tre piloti di ARCA guardarono verso il punto da cui il suono era partito, tra gli sguardi entusiasti e trepidanti degli uomini e le donne vicino a loro. Sorrisero per non dare nell’occhio, unendosi alla alle balconate che si protendevano nello spazio vuoto al centro, uscendo da tutti gli edifici e i portelli. Una piccola piattaforma a levitazione si alzò dal maggiore tra i balconi dell’edificio principale insieme a uno scrosciante applauso. Qualcuno urlò alzando il pugno: “L’Impero Mokter vivrà di nuovo!” “Ma è mai finito?” chiese piano Sword agli amici un po’ frastornati. Morris, guardò Sword e Hawk che cercavano, come lui, di adeguarsi al tripudio generale. La piattaforma percorse lo spazio vuoto fermandosi al centro. Gli uomini a bordo si sedettero, una figura massiccia si sollevò e gli appalusi e le urla inneggianti alla grandezza dell’impero Mokter cessarono di colpo. “Oggi è nostro trentacinquesimo giorno di viaggio, ne restano ancora centosettanta. Ma non temete, il giorno del giudizio per i traditori verrà prima ancora che ve ne siate accorti. Qualche ora fa, ci hanno raggiunti alcuni vascelli fedeli all’unico Impero Mokter. Tra poco inizieranno a raggiungerci i loro equipaggi e a turno vivranno qui con noi.” Un’esplosione di applausi echeggiò festosa, poi decrebbe fino a scemare del tutto.

“A poche generazioni è stato concesso l’onore di difendere con la propria spada le proprie genti e la propria tradizione. Per anni abbiamo vissuto godendo degli sforzi dei nostri antenati, ma ora tocca a noi salvare le nostre origini. È il nostro turno e porteremo questo fardello con onore e dignità degna di un Mokter. Quando arriveremo a destinazione compiremo la nostra vendetta, salvando il nostro destino. Pagheremo ogni pezzo, sopporteremo ogni fardello, lotteremo contro ogni nemico pur di riconquistare ciò che ci hanno tramandato con tanti sacrifici. Oggi gioite fratelli, perché mancano solo centosettanta giorni alla nostra vendetta!” La piattaforma si avvicinò alle balconate irte di braccia tese. L’uomo che aveva parlato era protetto da alcune guardie vestite con una spessa armatura cerimoniale scintillante e armate di alabarda, che tenevano a freno gli uomini e le donne che cercavano di sfiorargli la mano. L’uomo vestiva con un lungo mantello di pelliccia chiuso da fibbie d’oro e pietre preziose. “Ma dove diavolo è diretta la Vandea? Sono solo altri venti giorni fino alle colonie sui confini Namir” commentò Sword sfruttando il frastuono. “Non lo so, non lo so davvero. Havelok ci ha raccontato solo bugie, dobbiamo andare ad avvertire Boss” rispose Morris voltandosi. Fece per muoversi ma gli si gelò il sangue quando vide gli sguardi furiosi delle persone intorno a lui, ammutolitesi di colpo. Morris represse la tentazione di fuggire, facendo il disinvolto, notando però sul volto degli amici la stessa sua paura di essere appena stati scoperti. Poi però le persone gli si avvicinarono battendogli manate sulle spalle. “Che onore, fratello!” “Un pranzo con il Signore del Bordo Esterno… Oggi è la tua giornata fortunata!” Comprese che le occhiate erano di pura invidia.

Non capendo più nulla, Morris si voltò vedendo che l’uomo con il mantello al centro della piattaforma stava puntando lui e Hawk con la mano guantata. In preda alla più totale disperazione i due si voltarono verso Sword, trovandolo attonito e con un finto sorriso più simile a una smorfia, che applaudiva come la folla, mentre loro due venivano letteralmente sospinti alla balaustra. La folla si richiuse e persero ogni contatto con l’amico. Le guardie in armatura porsero le mani per aiutarli a salire. Morris e Hawk, loro malgrado, non poterono che scavalcare la balconata in ferro e salire a bordo della piattaforma a levitazione. Videro sedute due donne, anche loro evidentemente scelte come ospiti giornalieri del signore della nave. Il volto del nobile era familiare e intuirono che dietro le rughe e i capelli striati di grigio impomatati all’indietro ci fosse un uomo nel pieno vigore degli anni. “Come vi chiamate?” chiese con voce profonda, dopo essersi lasciato cadere su un elegante scranno al centro della piattaforma, ora in marcia verso la balconata da cui si era separata. “Kara, e questa è mia sorella Karen”, dissero le due. “Ortal” tentennò Morris. “Spata, mio Signore” fece Hawk abbassando la testa. “Come vi siete procurati queste ferite? Si vede che siete soldati” chiese lui fissandoli con gli occhi di un grigio così intenso da sembrare argento. “Eravamo artiglieri sulla Vento di Bhaard durante la prima ondata” spiegò Morris ripensando alla prima astronave che avevano abbattuto durante l’Ordine 135. “Allora ho invitato dei valorosi Mokter. Avete servito degnamente la vostra nazione, e sono sicuro che stiate lavorando a fondo alla nostra causa. Ma perfino i migliori si meritano il degno riposo, per oggi sarete miei ospiti. Rilassatevi.” “Grazie, mio Signore Dakkar, per la vostra benevolenza! Quando il suo braccio

non ci sarà più a difenderci, tremerò per l’impero!” disse una delle due ragazze inchinandosi. Lord Dakkar sorrise soddisfatto godendosi il viaggio. Morris e Hawk si guardarono cercando qualche risposta al milione di domande che stavano divampando nelle loro teste.

TRADIMENTO

Frank sgattaiolò fuori dal vagone, riuscendo a non farsi individuare. Di colpo molti degli uomini intorno a lui avevano interrotto con il proprio lavoro per correre da qualche parte, inneggiando al signore della nave. Non si interessò molto di scoprire cosa stesse succedendo, preferendo dare un’occhiata in giro più tranquillamente. Scesero dal treno. Anche Havelok sembrava essere finalmente entrato nella parte dell’incursore più che in quella del nobile svogliato. I quattro iniziarono a guardarsi intorno con circospezione. Si trovavano in una gigantesca officina, tanto che non se ne intravvedeva la fine, solo da una parte arrivavano gli echi di schiamazzi lontani e quindi preferirono perlustrare l’altra più silenziosa. Le guardie rimaste e i pochi uomini ancora al lavoro erano così concentrati a commentare ciò che si stava svolgendo lontano da qualche parte, che non li notarono nemmeno. Superarono alcune tubature in cui erano in via di sostituzione le protezioni esterne, e un paio di caccia a lungo raggio sorretti da spesse catene che scendevano dall’alto, con la cabina smontata. Ma fu ciò che videro dopo questi mezzi che li lasciò senza fiato. Svoltarono un angolo trovandosi davanti all’accesso di svariati hangar pieni di mezzi d’assalto pronti all’uso. Entrarono in uno di essi. Evidentemente quei settori erano in comunicazione con l’esterno tramite un qualche elevatore, dato che dalla posizione dei mezzi si vedeva che attendavano solo di essere schierati. Ciò che li stupì non fu tanto la distesa di SaT, carri a levitazione magnetica, e migliaia di sentinelle di livello due e tre, ma il modo in cui erano stati messi a punto.

“Queste macchine non verranno usate sul suolo Namir, né tantomeno in qualche colonia su pianeti gassosi. Per salire su quelle bisogna prima essere andati di corpo, sennò affonderebbero…” commentò Ux battendo con la mano su una spessa piastra corazzata dotata di punte, fissata a protezione della cabina di un SaT. “E guardate qui” indicò Frank sullo stesso mezzo, arrampicandosi su una zampa. “Questi sono filtri antipolvere potenziati, ulteriormente protetti da griglie antiproiettile.” “Stanno preparando un’armata per combattere in un luogo polveroso, e contro un nemico armato pesantemente” concluse Daboo fissando una sentinella spenta più simile a una catasta di spuntoni e lame che a un drone. “Sicuro che questa nave vada alle colonie vicino al regno Namir?” chiese Frank al Quartiermastro, appoggiato di schiena contro la zampa di un SaT. Gli avevano tolto gli stivali e le protezioni per le braccia della Lorica, le uniche di facile separazione, ma non essendo un uomo particolarmente vigoroso, era visibilmente stanco di trascinarsi dietro tutto quel metallo. “A quanto ne so io, sì. Ma potremmo trovare più informazioni lassù.” Havelok indicò un punto in alto. Si trattava di una sezione informatica, evidentemente una costola del ponte di comando posizionata nella zona delle officine per monitorare meglio i processi di messa a punto di tutti quei mezzi. Il boato della folla scemò sensibilmente. “Boss, io dico di toglierci di qui. Se tutta la gente che se ne è andata prima ritorna al lavoro, non so come faremo ad andarcene” commentò Daboo. “Anche secondo me conviene andar via, Boss.” Frank meditò un attimo. “Cosa puoi scoprire da quei computer lassù, Havelok?”

“Molto, dobbiamo senza dubbio andarci.” “Quanto intendi con molto?” lo incalzò Frank. “Intendo che si possono scoprire cose come il contenuto degli altri hangar, il numero degli effettivi, le mappe delle difese interne. Sono dell’opinione di andarci” rispose il Quartiermastro in uno scatto di loquacità. “Da quando tutta questa fretta?” chiese Ux insospettito. “Da quando da là possiamo velocizzare tutto questo, vorrei togliermi questa schifo di corazza e bere qualcosa” ribatté Havelok piccato. “Boss, secondo me adesso tornano tutti al proprio lavoro. Non so quanti proiettili abbia la tua pistola, ma la mia ne ha solo una ventina. Pensaci bene Frank” scherzò Ux tenendo d’occhio la porta. “Mi giuri che servirà a qualcosa andare fino lassù?” chiese Frank fissando il Quartiermastro, notando i segni violacei del suo eccesso d’ira. “Te lo giuro.” Trovarono una piccola scaletta di servizio che portava a una botola nel pavimento. Daboo si arrampicò mentre Frank, Ux e Havelok si avvicinarono a uno degli ascensori, aspettando il responso dell’indagine del Kibarua che stava risalendo la scala con la rapidità di un felino. Videro Daboo raggiungere la botola, tenersi con un solo braccio al soffitto pieno di tubature, e aprire con la massima delicatezza la chiusura, sgusciando poi all’interno. Dalla loro posizione non seppero cosa accadde all’interno, ma quando ricevettero il via libera, tramite un piccolo contatto radio, si tranquillizzarono, salendo nell’ascensore direttamente collegato alla sala controllo. Quando le porte si aprirono videro che l’interno era deserto. Daboo era chino su un paio di individui stesi di schiena, intento a legarne i polsi. Frank e Ux si misero subito all’elaboratore principale ticchettando sui tasti metallici disposti in

una lunga tastiera semicircolare davanti allo schermo, bordato di cavi legati in mazzi. Havelok si mise a un elaboratore fisso. “Guarda qui” disse Frank a Ux che stava fissando la selva di pulsanti cercando il tasto di cui necessitava. Fecero scorrere un lunghissimo elenco di forniture per parti componibili di strutture di raffreddamento miniaturizzate. “Questa roba è stata installata a bordo di tutti quei mezzi.” “Ma dove staranno andando, Ux?” “Mi sa che in questa pentola sta bollendo qualcosa di gigantesco Boss. Cosa facciamo?” “Carica questi dati su una cella di memoria.” “Boss?” “Che c’è, Daboo?” “Guarda là.” Frank vide che lentamente uomini e donne stavano rientrando nell’hangar riprendendo le precedenti mansioni. Vide alcuni individui fermarsi davanti agli ascensori, e nonostante uno fosse al loro livello, gli altri erano tutti in basso pronti per accoglierli. Frank estrasse la pistola appostandosi dietro una scrivania poco lontana dalla zona di apertura degli ascensori. Lo raggiunsero i compagni, preoccupati. “Ce ne sono altri che stanno arrivando dall’alto” mormorò Ux indicando la porta dall’altra parte della sala che collegava la stanza con il ponte superiore. Essendo il portello in vetro e ferro, si potevano vedere alcuni individui avvicinarsi. I tre Piloti di ARCA si prepararono mentalmente allo scontro, maledicendo

l’idea di essere andati fino lì. In quel momento Havelok ebbe una reazione che nessuno si sarebbe mai aspettato. Si alzò camminando veloce fino all’apertura verso il ponte superiore, aprendo uno scomparto e strappando alcuni cavi che sfrigolarono. La porta si bloccò sul posto facendo scattare le chiusure a pressione positiva. Poi corse alla zona degli ascensori tirando una serie di leve da un pannello. Le luci che segnalavano l’uso in corso degli elevatori si attivarono e prima che i Mokter in attesa al piano inferiore entrassero negli ascensori disponibili, le porte si richio facendoli salire fino al loro livello. Frank, Ux e Daboo tirarono un sospiro di sollievo, anche se il problema di uscire da quella situazione era solo stato posticipato di qualche minuto. I tre piloti lo ringraziarono ancora un po’ storditi da tanto improvviso coinvolgimento nella missione. Il Quartiermastro fece un piccolo inchino con la testa. “Possiamo uscire da un cunicolo per la manutenzione, ma bisogna spegnere le griglie dell’alta tensione lì vicino, per non venire arrostiti vivi” spiegò Havelok indicando un punto in alto. Daboo lo sollevò e Frank gli porse il suo pugnale per poter far leva sulla chiusura. La botola si aprì e l’uomo, spinto dal muscoloso Kibarua vi si arrampicò dentro con enorme fatica a causa del busto della Lorica che ancora lo appesantiva. Udirono suoni metallici, poi silenzio. Frank notò che ai due accessi alla saletta in cui erano ancora bloccati si era creata una piccola folla. La situazione stava per peggiorare irreparabilmente. “Dai, Havelok, possiamo salire?” chiese Ux cercando di far salire la sua voce in alto, oltre la botola spalancata. Chiamò di nuovo, ma non ottenne risposta.

I tre si guardarono inorridendo al pensiero di essere appena stati traditi. Quando il volto pallido e con la guancia tumefatta del Quartiermastro si sporse, tirarono un sospiro di sollievo. “Allora?” chiese Frank guardando in alto. “Allora buona fortuna” rispose lui serio, imibile, come l’avevano visto sorseggiare Narquero in sala pianificazione sul Parsifal. La botola si chiuse cigolando e qualcosa dall'altra parte grugnì metallico, segno che era stata sbarrata. Frank guardò Ux e Daboo, allibito. Dietro gli sguardi furenti dei tre, si stava facendo largo un pensiero ancora peggiore dato che i guasti erano stati riparati e le porte e gli ascensori stavano per aprirsi. “E adesso?” si chiesero. Il cervello di Frank si mosse rapidissimo studiando una soluzione al guaio in cui si erano cacciati. Per il momento si convinse a non pensare a cosa avrebbe fatto al Quartiermastro se fosse riuscito a rimettergli le mani addosso. Poi ebbe un’idea sul come andarsene. “Presto, fumogeni! Ux, aiutami, ho un’idea! Daboo, coprici le spalle.” Frank lanciò l’arma al Kibarua che stava togliendo alcune granate fumogene dalle giberne disponendole vicino alla sua postazione improvvisata ricavata da una scrivania rovesciata. “Allora, Boss, che vuoi fare?” “L’unica cosa che potrebbe salvarci. Se ci fosse Pixel sarebbe cosa da nulla, ma ora dobbiamo farlo da noi. Svelto, vai a quell’elaboratore e inserisciti nel pannello di controllo di quel SaT laggiù. Sì, l’unico attivo!” “Ma Boss, non vedi che è appeso alle gru? Gli stanno rimontando le gambe!” si

lamentò Ux. “Tu fallo ugualmente”, rispose Frank cercando di premere sempre più veloci i tasti. Il fumo prodotto dalle bombe di Daboo iniziò a saturare l’ambiente e loro attivarono la visione termica delle maschere. Qualcuno all’esterno aveva iniziato a forzare la porta con una cesoia idraulica, altri a risalire la scaletta. Daboo si mise a gambe aperte, aspettando che la botola si sollevasse. La chiusura scattò e mentre una testa faceva capolino chiedendo che stava succedendo, lui alzò il pugno facendolo cadere sul boccaporto che si abbassò richiudendosi e colpendo la testa del Mokter con un suono metallico. Si sentirono urla e una serie di imprecazioni. Daboo ridacchiò trascinando sopra la botola un pesante elaboratore. “Boss, muoviti…” disse mentre estraeva la corda che teneva sempre con sé, legandola a una tubatura del pavimento. Frank continuò a premere i bottoni della tastiera, sentendo il sudore corrergli lungo le guance. La porta si aprì e alcuni uomini entrarono di colpo, stringendo estintori. Fra di essi vi erano anche alcune guardie di sicurezza. Una voce femminile chiamò due nomi, ma nessuno rispose. Ux batté un paio di colpi alla gamba di Frank che nonostante la sala informatica fosse colma di fumo bianco, si stava riempiendo di guardie insospettite dalla situazione. Lui non si mosse rimanendo in piedi a scrivere sulla tastiera. Daboo si abbassò, appiattendosi sul pavimento. Alcune guardie lo superarono spaziando l’ambiente con le torce. Una si fermò, come se avesse sentito qualcosa di sospetto. Daboo capì che il ticchettio delle dita di Frank li aveva messi in allarme. Di colpo le due guardie spianarono le armi laser che tenevano a tracolla.

Daboo udì molti altri suoni simili all’esterno. Ux, sbucò dal nulla saltando addosso a una delle due e facendola sparire nel fumo. Daboo rotolò su un fianco avvolgendo le gambe intorno alle caviglie dell’altra guardia, tirandola a sé. Di fatto non si sentì alcuni rumore, ma probabilmente i colleghi all’esterno videro le sagome dei compagni svanire di colpo e perciò riversarono una tempesta di laser nella stanza fendendo il fumo, e sciogliendo ogni cosa incontrassero con uno sbuffo verdino. Frank si concentrò al massimo, abbassandosi di colpo un attimo prima che un laser colpisse il vetro dello schermo del computer centrale, mandandolo in mille pezzi. “Fatto.” I tre aspettarono. “Cosa dovrebbe succedere?” chiese Ux “Non sono Pixel…” si scusò Frank lanciando un altro fumogeno verso l’apertura, da cui arrivavano sempre più laser. D’un tratto si sentì come uno scoppio, una sorta di boato, seguito da altri dello stesso tipo “…ma me la so cavare.” Frank e Ux strinsero la corda che gli aveva offerto Daboo, e dopo aver lanciato gli ultimi fumogeni dalle finestre praticamente sfondate dai laser, presero la rincorsa, saltando fuori, mentre le salve ricominciarono ad attraversare l’aria bianca e densa come nebbia. I vetri cedettero subito, e mentre iniziavano la caduta, videro che il SaT aveva preso vita in modalità automatica, spaziando l’area intorno a lui con i due potenti turbolaser, attaccando tutto e tutti. Le esplosioni e il fumo riempirono rapidamente l’hangar, creando il caos che serviva per poter sgattaiolare via senza troppe difficoltà. “Boss, sono Sword. Abbiamo un problema” arrivò nell’orecchio di Frank mentre

seguiva Daboo, stringendo la sua pistola silenziata, evitando le ondate di addetti alla sicurezza che correvano allarmati nell’hangar da cui stavano fuggendo. “Solo uno? Allora sei stato più fortunato di noi” commentò Ux.

REALI INTERESSI

Havelok uscì gattonando dall’intercapedine. Ridacchiò mentre si rimetteva in piedi. Fortunatamente nessuno aveva modificato l’assetto delle sezioni abitabili, mentre invece quello delle postazioni antinave sì. Vagò per la stanzetta in cerca di un oggetto con cui fare leva. Trovò una chiave inglese, che incastrò nella fibbia sul fianco, facendo forza. Per un attimo, quando lui e gli ARCA erano usciti dal Parsifal, il fuoco di fila che li aveva accolti era stato tanto intenso che aveva temuto che persino i piloti della Decima avrebbero fallito, abbattuti dalla contraerea della Vandea. Ma poi erano stati all’altezza della situazione. La fibbia della Lorica si ruppe e lui poté di nuovo respirare a fondo. Buttò da una parte le altre sezioni di Lorica che a questo punto si smontarono molto facilmente. Accese l’elaboratore della stanzina, il cui abitante era probabilmente corso in qualunque punto della nave vi fosse il Sat fuori controllo, a giudicare delle luci lampeggianti e le scritte sugli schermi di servizio. Havelok spolverò gli abiti e, dopo essersi seduto sulla branda, estrasse il suo elaboratore da dietro la schiena. Attivò l’oggetto di vetro nero bordato da una sottile lamina di rame e selezionò un file. Digitò alcune cifre, aspettando che il sistema lo connettesse con la rete informatica della Vandea. Un bip segnalò che l’operazione era andata a buon fine. Digitò altri codici lanciando una ricerca tra i eggeri. In pochi secondi il suo elaboratore personalizzato portò a termine il compito. “Eccovi qui.” mormorò.

Havelok spense tutto. Rovistò tra gli abiti, scegliendo una tunica intonsa, di proprietà di un addetto alle comunicazioni. La indossò, ponendovi sopra la fascia da caposezione che si era portato dietro. Legò per bene la striscia di velluto aggiustando la fibbia al centro. Si aggiustò il volto tumefatto, lavandoselo e coprendo i lividi dei colpi ricevuti con una pezza cicatrizzante. Uscì, sentendo che le sirene non urlavano più e i eggeri della Vandea tornavano tutti al proprio lavoro. Accelerò il o: il palazzo del Patrizio era lontano.

Morris seguì l’amico e le altre due invitate. Istintivamente sentirono una pesante sensazione di inferiorità quando varcarono la soglia della Sala delle Lance. In fondo il camino sibilava maestoso e gli uomini seduti al tavolo voltarono i visi baffuti e impreziositi da gioielli e orecchini, abbassando elegantemente le testa al loro aggio. Morris notò che le fiamme erano sottili e alimentate da un sistema di condutture di gas che ricopriva quasi tutta la parete. Ai bordi della sala, massicci guerrieri in armature cerimoniali sorvegliavano guardinghi e immobili i loro signori come statue di marmo, mentre sopra le loro teste penzolavano magnifici gli arazzi con le storie dei tempi ati dell’Impero Mokter. Alcuni servi indicarono le loro sedie. Camminarono nel più totale silenzio, fino a raggiungere il proprio posto. Morris rabbrividì quando realizzò che il suo vicino era Lord Dakkar, seduto capotavola, vicino a lui Hawk si guardava intorno impietrito, riconoscendo i volti dei comandanti delle navi contro cui avevano lottato ai tempi della difesa di Lex V, di cui avevano studiato le tattiche prima dell’assalto alla fortezza a difesa del loro portale interdimensionale. Dakkar alzò una mano e comparvero altri servitori che misero i primi piatti al centro della lunga tavola di legno scuro. Un lieve chiacchiericcio si sollevò, zampettando da un commensale all’altro. Morris, sebbene in quel momento la fame fosse l’ultima delle sue pulsioni, prese un pezzo di carne posandolo nel suo piatto. Dakkar bevve una lunga sorsata di Narquero dal calice dorato, poi sempre fissando Hawk e Morris con il suo sguardo argentato si rivolse a loro con tono confidenziale, quasi familiare. “Perché non ci deliziate con qualche storia, mastro Olaf? Miei nobili signori, oggi abbiamo l’onore di avere alla nostra mensa due fedeli sudditi Mokter che hanno combattuto duramente per la grandezza dell’Impero!”

Alcuni generali si voltarono, posando i bicchieri. “Davvero? E, di grazia, su quale vascello hanno servito lor signori?” chiese un generale lisciandosi un baffo. “Sulla Vento di Bhaard, mio Signore. Eravamo artiglieri. Quando è esplosa per colpa di quei vili dell’Armata Comune abbiamo abbandonato la nave, cercando scampo dalle esplosioni” spiegò Morris cercando di non far tremare la voce. “Vento di Bhaard… ma certo!” esclamò un altro commensale battendo il pugno sul tavolone, e macchiandolo con l’unto delle coscia arrosto che teneva in mano. “Siete stati attaccati dalla Decima Robotizzata! Ho fatto di tutto per tenere a bada quei bastardi impenitenti, ma nonostante questo, si sono portai via metà dei miei caccia cercando di infilarsi nell’hangar di prua della mia Lama di Eyar, che, nonostante ciò, inflisse molte perdite all’Armata!” aggiunse come se stesse di nuovo rivivendo quegli eventi funesti. “È così, mio Signore. In questo modo persi l’occhio e la gamba! Arrivarono dalla stiva delle testate al plasma, sfondando il nostro ponte e facendo strage degli artiglieri che stavano ricaricando le bombarde!” esclamò Hawk. Morris riconobbe che nonostante tutto, stavano andando bene. Dopo la battaglia nella fortezza a difesa del portale interdimensionale, tutti avevano perso le tracce del Signore del Bordo Esterno, perfino i Namir. Le voci lo vedevano assiso sul suo trono nella Rocca di Askar, godendosi quell’ondata di violenza portata dai Figli di Tlaloc e tutti i benefici commerciali del patto tra Corbita e impero Mokter per la ricostruzione del sistema Lexodiano. Il pranzo continuò con molte altre portate e racconti, alcuni tragici, altri più leggeri in cui venivano evocati duelli in castelli lontani o scoperte di pianeti di cui loro non avevano mai sentito parlare. Ai due piloti di ARCA non sembrava neppure vero di essere vicino a uno degli individui più influenti e potenti dell’intero universo, il sovrano di una delle civiltà più antiche di cui poteva fregiarsi la razza umana. “Se solo avessimo saputo di ciò che ci stava ribollendo dentro…” commentò mesto forse l’uomo più anziano di tutti.

“Marcendo, vorrai dire!” esplose uno dei giovani lord battendo il boccale sul tavolo. Alcuni schizzi di birra macchiarono la tovaglia damascata. “E pensare che per anni abbiamo considerato Tyrr uno dei nostri, nostro pari! Ma come avremmo potuto fare diversamente? La sua è una famiglia dignitosissima! Io stesso ho sempre liquidato le sue ioni per le arti occulte come un valido, seppure inferiore alla spada, atempo. Ma immaginarlo un traditore, mai! Che vergogna, abbandonare la forza d’animo Mokter per rintanarsi in qualche antro scuro, come uno stregone allucinato! E tutti i nobili che gli si sono uniti solo perché hanno annusato l’odore dell’oro!” sbottò un altro, che fino a quel momento aveva intrattenuto le due ospiti femminili con untuosa cordialità. Poi tutti si voltarono verso Dakkar fisso a studiare i volti degli uomini a tavola, visibilmente preoccupati da ciò su cui stavano dibattendo. “Grazie, mio Signore” disse uno alzando la coppa. Molti altri lo imitarono. Dakkar quasi si commosse, facendo crescere in Morris la convinzione che forse non era mai esistito un uomo con un tale attaccamento verso la sua gente e le proprie tradizioni. Eppure non riusciva ad associarlo all’altezzoso sovrano che aveva organizzato una sanguinosa spedizione punitiva contro un sistema indifeso, trucidandone gli abitanti ed esponendo il fianco del suo regno al male più viscido che si fosse mai sviluppato nella razza umana: il culto di Tlaloc. “I traditori pagheranno, miei signori. Non saranno di sicuro le loro arti magiche a fermarci. Io le ho conosciute, credendo che potessero portare più potere di quanto non se ne conquisti con la fedeltà alle tradizioni, e per questo non vi chiederò mai scusa a sufficienza. Ma, tuttavia, vi giuro sul mio onore di Signore del Bordo Esterno, che ci riprenderemo l’Impero Mokter, schiacciando quel falso governo di voltafaccia. L’universo è stato reso grande dai nostri avi senza oscure magie o fedi in poteri nascosti, e noi forti della loro autorità ce lo riprenderemo.” Dakkar fece una pausa prendendo fiato. “Per l’Impero!” urlò portano in alto il calice.

Tutti si alzarono brandendo le coppe, anche Morris e Sword, trascinati dall’aura di potere e sicurezza del nobile a capotavola. Il pranzo terminò quando alcuni servitori portarono vassoio di liquori pregiati e tabacco in foglie, posandoli su tavolini di metallo disposti agli angoli dell’ampio stanzone. Gli ospiti si alzarono satolli, sgranchendosi le gambe, andando a servirsi generose bicchierate di liquidi ambrati dal forte profumo di fiori apiti. Morris e Hawk abbandonarono il tavolone allontanandosi dai gruppo principale. Il primo prese un bicchiere e una bottiglia a caso riempiendolo fino all’orlo. “E adesso?” chiese Hawk voltandosi di spalle fingendo di scegliere la foglia di tabacco migliore. “Non lo so, ce ne andiamo e di corsa alla prima occasione.” Una cameriera si avvicinò alla coppia, sorridendo cortesemente. “Lord Dakkar desidera salutarvi di persona.” Morris buttò giù d’un fiato il rhum e Hawk biascicò “Ma certo” Lord Dakkar stava osservando l’esterno da una finestra, aggrappato a uno dei pesanti tendaggi con una mano, nell’altra un lungo sigaro . “Vi ringrazio per il tempo che ci avete concesso. Deve essere stato pesante rivangare i momenti ati, la sconfitta è dura per tutti. Per i Mokter però è più di uno stato eggero, è una cicatrice incancellabile sulla propria coscienza. Ma le cicatrici si possono almeno mostrare con onore dopo una dura lotta, se ne si esce vincitore. E noi lo saremo.” Dakkar alzò una gamba, appoggiandosi con lo stivale alla cassapanca sotto la finestra circolare. I due si guardarono e non sapendo cosa dire si abbassarono in un inchino. “Avete detto che eravate artiglieri? Che le armature dell’Armata Comune hanno fatto strage dei vostri compagni irrompendo dal magazzino delle testate al

plasma?” “Sì, mio Signore.” “Mi dispiace, deve essere stato poco piacevole stare in un ambiente così stretto, insieme a macchine così mostruose.” “Non dovete dispiacervene, Lord Dakkar. Non avremmo mai avuto paura se fossimo stati dietro i nostri cannoni. Li avremmo fronteggiati con onore!” “Così parla un vero Mokter! Ancora una volta, grazie della vostra compagnia.” La donna di poco prima si avvicinò di nuovo, facendo amabilmente cenno di seguirla. Morris e Hawk fecero l’ennesimo inchino e procedettero con lei fuori dalla Sala delle Lance. Al di fuori videro un notevole viavai di uomini dell’equipaggio e membri delle loro famiglie, essendo il palazzo centrale un’estensione delle mastodontica plancia ma anche la vetta del settore abitativo incassato nella struttura principale della Vandea. “Il balcone da cui siete arrivati non è disponibile al momento, perciò vi prego di seguirmi, emo un'altra piattaforma. Va bene se vi portiano alla zone tre?” “Benissimo.” Scesero una gradinata, entrando in una porta secondaria. Presero un ascensore che li portò in alto, in una sorta di bolla in vetro e rame esattamente alla cima del palazzo centrale. Da quella distanza sembrava di osservare una piccola città lungo una parete rocciosa. L’arredamento della bolla era spartano: poche scrivanie, rastrelliere con stendardi e armi cerimoniali, qualche statua di omoni dallo sguardo tetro rivolto in alto e tappeti sulle griglie del pavimento. Prima che potessero chiedere che cosa stesse succedendo, la ragazza ritornò nell’ascensore, chiudendo di colpo la porta e sparendo in basso. I due, sicuri che qualcosa stava andando storto, misero le mani sotto le vesti in cerca delle armi.

“Ripetetemi di nuovo, eravate artiglieri sulla Vento di Bhaard?” chiese Dakkar uscendo dal pavimento su una piattaforma a scomparsa. Era circondato da otto guardie in armatura che corsero intorno ai due piloti, circondandoli e minacciandoli con le alabarde. “Sì” rispose secco Morris. “E allora come fate a sapere da dove sono arrivati i piloti della Decima? Sotto il ponte delle armi d’assedio ci sono quattordici stanze tutte comunicanti e separate dal ponte superiore da tre metri di griglie e tubature. “Nessuno, nemmeno io, saprei stimare esattamente da quale di queste sarebbe arrivato un nemico, specialmente se mi trovassi di fronte un ARCA. Le vostre vesti per favore, o preferite che vi perquisiscano le mie guardie?”, domandò il Signore. “Mio Signore Dakkar, con tutto il rispetto, no. Come potete crederci dei traditori?” “Ormai ho capito che non ci si può fidare davvero di nessuno. Le vesti, per favore. Vi dico già che in ogni caso non uscirete vivi da qui. Con il timore di avere delle spie a bordo, non sareste nemmeno i primi dalla nostra partenza a sparire per sospetta attività oscura” proseguì Dakkar. “Siamo dei fedeli sudditi, ci offende con questo suo comportamento!” riprovò Morris. Dakkar fece un cenno alle guardie che sollevarono le armi facendole scendere sui due dalla parte non affilata. Morris ricevette un colpo sulla testa, sentendo il sangue colare dal punto in cui il male era più intenso. Hawk si riparò con le mani ricevendo però colpi dolorosissimi sugli avambracci a causa delle aste di acciaio delle alabarde. Entrambi ruggirono dal dolore. Una guardia gli si avvicinò strappando con un rapido gesto la stoffa sulla schiena di Hawk, mettendo a nudo la tuta da pilota aderente al di sotto. “Ma cosa abbiamo qui? Due piloti di ARCA. Non nego che per molto ho agognati di uccidevi. Ma ora la vostra comparsa qui mi giunge del tutto

incomprensibile. Voi vi muovete sempre insieme, vero?” Morris si ripulì il viso dal sangue sputando verso Dakkar, ma colpì lo stinco di una delle guardie, che gli assestò un calcio con lo stivale corazzato. “Io non ho fretta. In ogni caso saprò cosa mi serve, scegliete voi le modalità con cui me lo direte”,disse il Signore del Bordo Esterno, sedendosi su un’elegante sedile.

Frank entrò nel magazzino subito dopo Ux. Vedendo l’amico con l’arma abbassata si fidò del suo istinto, riponendo la sua pistola e piegandosi sulle ginocchia per riprendere fiato. Aprì la maschera andosi una mano sui capelli fradici di sudore. Daboo fece il suo ingresso, anch'egli trafelato per la corsa a rotta di collo. “E adesso?” chiese Ux muovendosi verso il proprio ARCA. “Aspettiamo Sword, dovrebbe essere quasi qui” disse Frank, anch’egli diretto al proprio mezzo. Tolse la pesante tenda con cui aveva nascosto la parte superiore del mezzo, e dopo essersi arrampicato su un mobile di legno con svariate decine di ripiani, entrò nella cabina, attivando la mappa olografica e rifornendosi di munizioni ed equipaggiamenti dal piccolo vano di trasporto sotto il sedile. Rifletté sulla loro situazione. Ovviamente era impossibile contattare il Parsifal per metterlo al corrente di ciò che avevano scoperto. “Sì, ma che cosa abbiamo scoperto?” pensò a mezza voce Frank mentre studiava la disposizione degli ambienti secondo le mappe fornite da Havelok. Strinse il pugno ritornando al volto del traditore, ma si concentrò sul presente. Di sicuro quella nave non era diretta verso i limiti del regno Namir e, quindi, tutti le supposizioni e stime fatte prima della partenza sul Parsifal erano sbagliate, così come di conseguenza erano infondati i timori dei Namir. Eppure perché l’informatore aveva fatto di tutto per far credere che lo scopo di quella nave fosse quello di attaccare i Namir sfruttando un cavillo burocratico? Evidentemente c’era qualcosa che non andava, oltretutto ciò strideva con la convinzione che se l’Autarca, e con lui il governo Namir, si fidava delle soffiate delle loro spie e dell’informatore, lui dubitandone faceva crollare fin troppe certezze. Metteva persino in discussione le ultime sicurezze che gli erano rimaste: se anche tra i Namir c’erano delle spie, di chi si ci poteva davvero fidare? Eppure, se l’Autarca e Nobel fossero stati lì con lui, avrebbero capito che le cose erano molto diverse da come credevano, segno che da qualche parte qualcuno aveva

mentito di proposito. A tutti questi misteri si aggiungeva anche immaginare un luogo in cui potessero servire mezzi adattati alla guerra in ambienti caldissimi e polverosi. Dovevano indagare più a fondo. Udì un suono provenire in alto e quando il segnalatore di bordo gli comunicò la vicinanza di Sword, scese dall’ARCA andando verso all’amico. Sword si calò dal condotto spalancato in alto su quel magazzino polveroso. Scese rapido, sibilando lungo la corda tesa, raggiungendo gli amici a terra che lo accolsero trepidanti. “Allora? Dove sono Morris e Hawk?” chiese speranzoso Frank. “Non immaginerai mai cosa è successo- rispose Sword- Dakkar è qui e li ha invitati a pranzo, due ore fa.” I tre sbarrarono gli occhi increduli. Sword raggiunse alcune casse e dopo averle buttate a terra si sedette, iniziando a togliersi gli abiti civili indossati sopra la tuta da pilota. In pochi minuti raccontò l’intera vicenda, con dovizia di particolari e frammezzando il racconto con i dovuti insulti verso Dakkar o la situazione in generale. “Quindi c’è una cittadella? E non hai visto traccia dei Tlaloc?” domandò Frank desideroso di dare un senso a tutti i dettagli che si stavano affollando nella sua mente sapendo che se ordinati nel giusto verso, si sarebbero trasformati in un preciso quadro della situazione. “Sì, sembra di essere su Ygrys Perla. E dovreste vedere quante statue e arcate di ferro battuto! È il posto più Mokter di tutto l’Impero Mokter… Chiunque l’abbia arredato doveva avere una bella ione per l’Impero. E non c’è un misera statua con l’occhio di Tlaloc, né stendardo, né minimo dettaglio che possa rimandare alla setta” spiegò Sword. “E Dakkar? Che cosa ci fa qui? Quindi ci sono dei Portatori? Nessuno ha mai saputo nulla di lui dopo la distruzione della fortezza a difesa del portale. Tutti

pensavano che fosse in patria a tirare le fila o comunque ricoprire un ruolo di prestigio tra i Figli di Tlaloc” rifletté Frank, certo che prima o poi un’epifania sarebbe sbocciata nella sua mente. Bastava solo stimolarla collegando tra loro gli indizi. “E pare che non sia il figlio di un cane che pensiamo noi, invita gente qualunque a pranzo. Dalla partenza” continuò Sword sorridendo ironico. “Ah sì, ecco un’altra cosa strana: mentre stavamo guardando il suo spettacolino giornaliero fatto di invocazioni, maledizioni e appelli all’amor di patria, molti degli uomini hanno urlato che sarà solo grazie a lui che l’impero Mokter tornerà a vivere.” Frank scosse la testa sconfitto, l’ultima notizia aveva abbattuto il suo castello di carte di cristallo e ne stava osservando le macerie. Daboo mormorò qualcosa e Ux si alzò cercando di smaltire la frustrazione. “Ma veniamo al problema più grande: Morris e Hawk sono a pranzo con lui. E se li scoprisse? Come li andiamo a prendere?” Nessuno rispose alla domanda che più di tutte sgomitava tra i loro pensieri, spingendo via gli altri come vento con la polvere. “Potremmo andare fino là travestiti” suggerì Ux. “Troppo stupido! E se ci beccano? Combatti tu a mani nude contro dei Portatori o dei guerrieri in armatura cerimoniale??” “Potremmo creare un diversivo” fu la proposta di Daboo. “Sì, ma chi di noi entrerà nel palazzo? Questa nave è così grande che o ci muoviamo tutti con gli ARCA o non lo fa nessuno. Un diversivo è fattibile con un ARCA, ma non un’infiltrazione in un palazzo abitato”, fu la riflessione di Ux. “D’altra parte- iniziò Frank- se noi fimo irruzione tutti insieme nel palazzo mentre sono a tavola? Scateniamo l’inferno nella sala, creiamo un po’ di caos e poi usciamo all’esterno?”

Tutti pensarono a un piano simile. “Non è un po’ troppo… vago?” commentò Sword. “È troppo tempo che pianifichiamo missioni che cambiano radicalmente al primo scontro a fuoco. Cosa diceva sempre Alastor Pax? Nessun piano resiste veramente a contatto con il nemico. Prendiamo i nostri amici e filiamocela. All’esterno, nello spazio, nessuno ci attaccherà, per paura di trasformare la Vandea nel Botany. Potremo chiamare il Parsifal e progettare una strategia” iniziò Frank. “Non esagerare, Boss, non possiamo farcela” tagliò corto Daboo sbuffando.

Frank si sedette, parlando con tutta la sincerità di cui era capace. “Sono stanco. Non di voi, siamo una famiglia. Sono stanco di avere solo ricordi tristi o di battaglie. Pensavo di aver trovato la persona con cui pensare un giorno di ricordare tutto questo… come un periodo della mia vita. Ma se ne è andata, anche per colpa mia. Voglio una vacanza da tutto questo, una vera vacanza. Da quando combatto le cose sono andate sempre peggio per alcuni, e per altri non sono variate di un millimetro. E se dopo la mia vacanza tornerò, sono sicuro che troverò le stesse cose ad attendermi né meglio, né peggio. Sempre uguali. No so dove sia diretta questa nave, ma so che tanto non cambierà di molto l’ordine dell’universo. Perciò non appena avrò finito di studiare una strada rapida, andrò da Morris e Hawk, chi vuole venga con me, gli altri facciano cosa vogliono. Abbiamo smesso di essere legati da vincoli di grado molto tempo fa.” disse Frank. Tutti si sedettero, affranti e consapevoli che in parte condividevano tutti lo stesso pensiero. Era la prima volta che Frank, il loro comandante e amico, ne parlava così apertamente e con così tanta serietà. Ux si sedette andosi una mano sui capelli rasati cortissimi, mettendosi poi a lisciarsi la lunga treccina che partiva dal mento arrivando fino allo sterno. “Lo sai che sono sempre stato quello per le azioni più disperate senza via d’uscita Boss, e credo che non perderò mai il brivido per il rischio più assoluto. Ma adesso persino io dico che dobbiamo pensare a un’altra strategia.”

Daboo estrasse una barretta energetica mettendosi a mangiarla con foga. “Sono più di sei ore che siamo dentro e non abbiamo ancora fatto un pausa. La prima regola del guerriero è che deve mangiare quando può mangiare e dormire quando può dormire”, disse il Kibarua a bocca piena. “E la missione?” chiese Sword dopo aver bevuto dalla borraccia. “Oramai la nostra missione è diventata uscire vivi da qui. Fuori me ne andrò per un lunghissimo periodo. Chi vuole si può unire a me, gli altri facciano pure ritorno al Parsifal”, commentò tetro il capitano Frank Basosky. “Credo sia la volta peggiore questa”, iniziò Ux con tono vago, ripensando alle precedenti missioni. “Sì. È la prima volta che probabilmente abbiamo sbagliato ogni cosa, a partire dalla nave! Siamo sulla nave sbagliata!” I quattro rifletterono sull’assurdità appena udita, scoppiando in un risata liberatoria. Risero senza timore di essere uditi, lasciando che gli sghignazzi echeggiassero nel magazzino per l’ironia di tutta quella situazione, cominciata come un abbordaggio e trasformatasi presto in una lotta per la sopravvivenza. Frank si pulì le lacrime attivando il proiettore olografico. “Dalle scansioni delle tute abbiamo una versione migliorata degli schemi interni di Havelok prima della partenza. Prima non scherzavo sul fatto che punterei al palazzo principale cercando i nostri amici, però finito l’effetto sorpresa dobbiamo pensare a una strategia d’uscita. Abbiamo un’ora per pensare a come fare dopo averli trovati, poi si parte. Sotto con le idee.”

DISTRAZIONE

Havelok entrò nel palazzo del Patrizio. Si stupì per l’insolito via vai di uomini della sicurezza e di guardie del corpo. Sembrava l’interno di un castello durante un assedio con uno sferragliare di corazze in ogni dove. Fermò un maggiordomo di aggio chiedendogli cosa stesse succedendo. Gli ripose che avevano trovato i nemici che avevano tentato un arrembaggio qualche ora prima, sembrava che avessero superato il sistema di difesa automatico, lanciando qualche incursore sulla Vandea durante l’allontanamento del loro vascello, respinto dalla potenza delle armi anti abbordaggio automatiche. Li stavano interrogando al piano superiore, forse erano dei potenti guerrieri dei Tlaloc e quindi il loro signore Dakkar voleva che fossero ben sorvegliati, da lì lo stato di allerta dell’intera guardia personale del Signore del Bordo Esterno e, solo per quel viaggio, Patrizio della Vandea.

Havelok non resistendo più, corse verso un ascensore, entrandovi e premendo febbrilmente il tasto alla cima della fila. La maschera di tranquillità che si era impresso a fuoco vivo cominciava sgretolarsi. Ringraziò che avessero cambiato quasi tutti il personale dei livelli importanti facendo sì che lui potesse muoversi senza intoppi. La porta si aprì e lui si trovò nel corridoio degli alloggi della servitù di palazzo. Riconobbe alcuni volti conosciuti, che di rimando lo fissarono sbalorditi. Li superò correndo, mandando via tutta la cautela e la sua fredda capacità calcolatrice. Raggiunse la porta, notando la lanterna accesa all’esterno, segno che gli abitati del piccolo alloggio erano ancora all’interno. Conosceva bene quella porta e quindi l’aprì premendo il bottone di apertura

insieme a quello di accensione delle lucine intorno allo stipite. Sorrise quasi commosso riconoscendo che nulla era cambiato. Ricordò l’ultima volta che era entrato in quelle tre stanze, sempre in ordine e profumate. Varcò la soglia incrociando lo sguardo con quello della donna che trovò nell’ingresso pronta per uscire, il suo turno nelle cucine sarebbe cominciato tra poco. Lei provò a dire qualcosa, chiedere all’uomo sudato, dai capelli scompigliati e il volto tumefatto chi fosse, ma quando i due sguardi si incrociarono furono travolti da un amore rimasto intatto nonostante il dolore di una separazione imposta e violenta. Si corsero incontro, abbracciandosi e scoppiando in lacrime. “Pensavo che fossi rimasto lontano, hanno cambiato tutti gli informatici e i navigatori… Pensavo che non ti avrei mai più…” “A dopo tutte le spiegazioni, amore mio, ora dobbiamo andare via. Prepara uno zaino con le cose più importanti! Dobbiamo andare via il più in fretta possibile. La sveglio io.” I due si baciarono teneramente stringendosi fino a farsi male. Poi la donna corse in una delle stanzette. Havelok si pulì le lacrime estraendo l’elaboratore. Trattenne il fiato pensando a ciò che stava per fare, poi premette il pulsante di avvio delle sequenza di attivazione dei droni dormienti nelle sezioni da battaglia. Rifletté un attimo sul fatto che avrebbero attaccato, oltre all'equipaggio, anche i piloti degli ARCA di sicuro ancora in giro. In fondo li aveva traditi e non c’erano scuse, ma il suo scopo superava di gran lunga ogni loro missione. Entrò nella stanza più piccola avvicinandosi a un lettino. Accarezzò la bimba ancora addormentata.

“Papà?” mormorò voltandosi verso di lui.

“No no, da qui finisce che ci incastriamo. Le balconate sono ampie, ma piene di archi che le sostengono. Volare lì in mezzo, equivale a crocefiggerci da soli” spiegò Sword. “E se…” iniziò Frank. Daboo li zittì con un gesto della mano. Alzò il dito facendolo girare in tondo, segnalando un rumore diffuso e potenzialmente pericoloso. Tutti tesero le orecchie udendo come un ronzio, un suono vibrante e penetrante che sembrò rimbalzare da una paratia all’altra. Sword si alzò correndo all’accesso del magazzino. Appicciò la guancia al piccolo vetro per controllare l’esterno. Qualcosa di massiccio gli sfrecciò davanti, seguito da altre due cose dello steso tipo. Udì alcuni scoppi e, dietro qualche nuvoletta di fumo nero, osservò l’emergere di un SaT in assetto di combattimento. Lo vide puntare alcune sentinelle automatiche di sorveglianza che gli arono davanti, tutte con le luci rosse della modalità di aggressione attiva, colpendole e abbattendole nonostante loro lo avessero centrato più volte. Il SaT, manovrato da un equipaggio umano, riprese leggermente danneggiato la sua avanzata verso il basso, dove si trovavano gli hangar più grandi e da cui provenivano scoppi e boati. “Credo che stia succedendo qualcosa di grave là fuori…” iniziò Sword. Una delle sezioni dei condotti di aereazione cadde sfiorando l’ARCA di Ux nascosto tra decine di statue di marmo in parte distrutte dal tempo, in parte mutilate dall’incuria. Una sentinella automatica volante scese all'interno spaziando il campo con puntatori laser. Inquadrò rapidamente i quattro bersagli. Frank si buttò a terra estraendo la pistola e sparando l’intero caricatore contro il

metallo blindato della sentinella. In riposta ricevette un devastante fuoco di laser e granate perforanti che disintegrò alcuni dei mobili antichi accatastati da una parte disperdendo una sventagliata di schegge e polvere in tutte le direzioni. Sword attivò una granata magnetica che lanciò con tutte le sue forze verso l’alto. L’oggetto si armò nella caduta aderendo a una delle alette del drone. Sfortunatamente quando esplose ammaccò solamente la placca corazzata sulle ali. Il drone li puntò, ma cadde al suolo senza vita dopo che una precisa raffica lo aveva colpito nella parte fontale esattamente sui sensori di puntamento, devastandogli i circuiti interni. Frank abbassò il braccio meccanico che stringeva la mitraglietta fumante, guardando gli amici dalla cabina dell’ARCA lasciata aperta. “Meno male che non avevano questi modelli sulla fortezza, altrimenti saremmo durati due minuti” commentò Frank ricordando la grande battaglia che per distruggere il portale interdimensionale Mokter mesi dopo l’attacco la sistema Lexodiano. Altri droni irruppero nel magazzino avendo percepito la distruzione del collega. “Direi che ora le opzioni si sono ridotte all’osso. Qualcuno viene con me?”, chiese Frank armando tutti i sistemi per il combattimento e sollevando il suo ARCA con la modalità hovercraft dei Booster.

Dakkar venne distratto da un gruppo di ufficiali. Morris, un ammasso di carne sanguinante sul pavimento, mise a fuoco alcune divise da Navigatore e un individuo con la spilla identica a quella che il Quartiermastro teneva appuntata sul mantello quand’erano sul Parsifal. Dakkar compì un gesto di stizza, muovendo i pugni, poi si voltò verso i due stesi a terra. Gli si avvicinò furente. “Come avete fatto?” sbraitò. Ma prima che Morris potesse provare ad abbozzare una riposta il vetro sopra di loro si oscurò, e quando tutti i presenti si voltarono, vedendo sui loro visi i laser di decine di sentinelle, persero ogni voglia di comunicare. Morris udì il suono dei vetri infrangersi e i sibili dei laser riempire l’aria carica di morte. Una voce profonda uscì da uno degli elmi dei guardiani in armatura intorno a loro. “Fare quadrato intorno a Lord Dakkar!” Morris si vide ancora più adombrato e sollevando una ciocca di capelli insanguinati incollata sul viso, mise a fuoco la testuggine di scudi eretti dalle guardie di Dakkar per proteggere il loro signore, e indirettamente anche loro essendogli vicini. Sembrava che al centro della stanza vi fosse una creatura mitica, irta di spine simili a alabarde e protetta da placche corazzate tonde e dorate. Gli uomini della guardia, aiutati dai sistemi di combattimento potenziati delle armature, sopportavano bene i colpi dei laser, aprendosi di tanto per contrattaccare. Hawk vide una della guardie estrarre da dietro il mantello un mazzo di tozzi dardi e un’altra montare una balestra con uno scatto dell’avambraccio protetto da una corazza trapezoidale, adattata per contenere quel particolare dispositivo di lancio.

Notò sulla punta delle frecce un dispositivo esplosivo. Gli uomini si mossero come un solo corpo, aprendo un’apertura tra gli scudi, mentre il compagno prendeva la mira centrando uno degli occhi di puntamento del drone, che dopo l’esplosione della freccia, perse il controllo schiantandosi a terra.

Frank svoltò un paio di angoli, trovandosi davanti sempre la stessa scena: nugoli di droni infuriati attaccavano senza apparente motivo i eggeri della Vandea. Ma Mokter non sembravano particolarmente disperati, anzi notò che erano state organizzate subito barricate, e sempre più SaT e carri armati venivano richiamati dagli hangar più interni e schierati agli ingressi delle sezioni più importanti. Loro continuavano a sfrecciare in cerca un aggio per la cittadina interna, inseguiti da un notevole codazzo di nemici, arrivando sempre davanti agli accessi per la sezione residenziale, difesi strenuamente dalla sicurezza interna o sotto attacco da nugoli di droni. Trovarono un’entrata presidiata solo da un paio di carri a levitazione e un nutrito numero di guardie, saldamente trincerate dietro sezioni di paratia smontate e usate come scudo. Notarono che quel manipolo non era ancora sotto attacco. “Da qui non si a, Boss!” esclamò Ux mentre rallentavano per dare un po’ di tregua ai Booster. I due ARCA dei compagni dispersi li seguivano in ogni movimento, senza però attaccare. Benedissero il sistema di inseguimento in remoto progettato dal capo ingegnere del Parsifal proprio per quelle evenienze, dando loro la possibilità di muovere gli ARCA tutti insieme anche senza i relativi piloti ai comandi. Sword si girò di scatto riparandosi con lo scudo, attivò il Jamming System all’interno, disattivando con una scarica di Iem sfrigolanti alcuni droni davanti a sé. Aprì veloce la guardia, tranciando di netto il primo degli inseguitori con il kopesh. Lo spadone, metà ascia e metà spada, tagliò la sentinella in due danneggiando anche quella che seguiva. Frank sparò alcune bombe con il B-System. Una della mine aderì a un nemico portandoselo via con i vicini, in un’esplosione di scintille e pezzi di ferro. “Il fronte cede! Dobbiamo riprendere a muoverci, sono troppi!” urlò Daboo

riversando un torrente di proiettili corazzati con tutte le sue bocche da fuoco in un corridoio gremito di sentinelle che puntavano verso di lui. “Seguitemi” ordinò Frank dando retta a un guizzo di genialità che saettò per un millesimo di secondo nel suo cervello. Prese quel minimo di quota che il corridoio consentiva, tornando indietro. Gli altri lo imitarono senza protestare, concentrati sul combattimento. Svoltarono un paio di angoli ripercorrendo parte dei condotti che li avevano portati in vista della zona abitata, mettendo in allerta sempre più sentinelle, che sembravano uscire dalle gallerie in basso come api furenti da un nido di ferro lasciando perdere i gruppi di marinai a difesa degli accessi al quartiere abitato. Poi ripresero l’avanzata, ritornando nel corridoio che portava verso la zona abitata. “Siamo di nuovo qui, laggiù ci sono i carri!” si lamentò Sword. Ux intuì subito il piano di Frank e si mise a sganciare i flares antimissile a uno a uno solo per infastidire ancora di più i sistemi mira dei nemici e farne arrivare in numero maggiore. Cosa che accadde puntualmente. Il sistema d’attacco rilevò un aumento esponenziale dei bersagli dietro le loro spalle, iniziando a far are sugli schermi stime negative sulla loro possibilità di sopravvivere per molto a un inseguimento del genere. Frank zoomò sulla fine del corridoio vedendo i Mokter prepararsi a colpirli. Ma man mano che la sua velocità aumentava, notò gli sguardi terrorizzati dei Mokter che realizzavano cosa in realtà li stava per raggiungere. Non solo sei ARCA, ma una marea di droni a levitazione corazzati e pronti a falciare ogni umano con una raffica di laser, che a loro volta inseguivamo inferociti le armature robotizzate. Frank lanciò alcune mine contro la porta, diminuendone la capacità di resistenza. Lui e i quattro compagni impattarono contro il metallo come un piccolo meteorite di ceramite, acciaio e circuiti elettrici, evitando per un pelo i Mokter a

piedi, staccandola dalla sede e portandola con sé nell’enorme spazio vuoto intorno cui era stata costruita la cittadina interna. Le sentinelle sciamarono isteriche nell’ampio spazio al centro della zona abitata, quasi impazzendo per il numero di bersagli che i loro cervellini elettronici elencarono ai sistemi d’arma. Le urla di spavento degli uomini e delle donne nei negozi e lungo le erelle echeggiarono terrorizzate. Dal soffitto scesero alcune torri armate con gatling e missili a guida remota che ingaggiarono subito i nuovi arrivati con devastanti scie di munizioni. Molte sentinelle finirono traforate dalle raffiche e Frank e compagni si godettero qualche istante di tregua. “Vedo il palazzo del Patrizio. Rilevo una forte concentrazione di droni sul tetto” disse Sword. “Andiamo a dare un’occhiata, magari c’è un aggio per le sale interne” ordinò Frank.

Morris si sollevò, mettendosi in ginocchio e raggiungendo Hawk. Sopra e intorno a loro, le guardie personali di Dakkar continuavano a sopportare indefesse i colpi dei nemici, brandendo gli scudi ampi come pareti con agilità e destrezza. Molti aprivano il fuoco con mitragliette fissate al polso delle corazze, per allontanare i nemici più audaci che cercavano di sfondare la linea usando gli spuntoni e le lame sulle ali. Vide una della guardie aprirsi in una posizione di lancio, scagliando come un fulmine l’alabarda, che si conficcò nel muso di uno dei droni, abbattendolo. “Come stai?” biascicò Morris. “Bene, solo un po’ ammaccato” ripose Hawk. Morris vide che dall’attaccatura della protesi scendeva un liquido trasparente poco rassicurante. Insieme a loro, al di sotto di quella cupola improvvisata, sedeva Dakkar, concentrato a non perdere la calma e confortare i suoi uomini, armato con un’elegante pistola laser. Lui si voltò verso loro due. “Vedrete, quando tutto questo sarà finito pagherete per questo infame tentativo di fermarci! Ciò che vi faremo varrà da esempio per tutti gli altri scagnozzi dei Tlaloc della galassia, persino il potente Tyrr, l’uomo che è tornato indietro dal Ponte di Cinvat tremerà per la sua salvaguardia, cani!” I due si guardarono, non sapendo più quale ruolo attribuisse loro il Signore del Bordo Esterno. Morris provò comunque a dire la sua: “Noi non c’entriamo con i Tlaloc! Siamo stati mandati qui per evitare che questa nave attaccasse i Namir, siete voi i più fedeli aiutanti di Tyrr!” “Questo mai! Non mi convincerete con le vostre menzogne!” urlò Dakkar aiutando uno dei suoi a ricaricare la mitraglietta da polso.

Frank ebbe un riscontro sullo scanner morfico. “Sono sul tetto, in quella bolla semi distrutta!” urlò. I compagni si chio in formazione a V. Puntò alcuni nemici che stavano ronzando intorno a una struttura circolare devastata, proprio sul tetto del palazzo principale. Oltre ai proiettili e ai missili, alcune mine scattarono fuori dai BSystem attaccandosi con successo ai propri bersagli. Quando esplosero spazzarono via il piccolo stormo di sentinelle che stavano vessando il gruppetto di individui al centro. Frank vide alcuni uomini protetti da una spessa corazza cerimoniale, le stesse che aveva visto sulla fortezza Mokter a difesa del portale durante la guerra per difendere i pianeti Lexodiani. “Quelli devono essere Portatori, come mai non usano i loro poteri?” chiese atterrando davanti ai guerrieri Mokter in armatura cerimoniale che non abbassarono la guardia, sebbene fossero stati ridotti drasticamente e molti si riparassero con scudi praticamente sciolti dai laser. Anche i compagni circondarono il gruppetto. Frank aprì la cabina. “Dakkar!” urlò a pieni polmoni dopo aver notato i due amici a terra, sanguinanti. Un uomo emerse dal gruppo, di corporatura massiccia, armato, e con le vesti eleganti piuttosto rovinate. Assomigliava agli antichi sovrani raffigurati negli arazzi Mokter. “Perché ci fate questo?” chiese Dakkar. “Vogliamo difendere il regno Namir dalla vostra incursione! Avete fatto di tutto per distruggere tutto quello che l’umanità aveva creato di buono, prima l’Intesa, poi ogni minimo vincolo di amicizia mai creato usando Geld e timore di oscure divinità!” “Parole altisonanti per un burattino dei Tlaloc.”

“Noi non abbiamo nulla da spartire con quella gente. Siamo tra gli unici che li stanno combattendo! Dove siete stato ultimante mio Signore?” urlò Frank, ridacchiando sardonico. Dakkar si fermò avendo notato che nella veemenza delle risposte che riceveva, sembrava esserci una sana convinzione. “Se non volete fermarci dal riprenderci l’Impero Mokter e riportarlo all’antico prestigio, perché avete scatenato tutto questo caos contro l’unica forza nella galassia in grado di minacciare veramente i Tlaloc?”, ribatté il Signore del Bordo Esterno, imibile. Frank fu colto alla sprovvista non riuscendo davvero più a dare un senso a ciò che stava accadendo, cosa che lo mandava sempre più su tutte le furie. Si accorsero, tuttavia, che l’assalto dei droni sembrava diminuito. Daboo aprì la cabina scendendo agilmente. Gli uomini di Dakkar rimasero immobili, fissi, con le alabarde spuntate dalla lotta rivolte contro di loro. “Non capite che l’umanità non può sopravvivere con tutti questi sotterfugi? La lotta faccia a faccia porta miglioramenti! I segreti, solo distruzione” spiegò Dakkar fissando Frank negli occhi. Frank vide la determinazione di un uomo convinto delle proprie azioni. In quel preciso istante, un’altra ondata di droni uscì dagli accessi alla zona residenziale, ricominciando a devastare ogni cosa. Frank cercò di nuovo Dakkar ma quando mosse gli occhi dove era poco prima non lo trovò più. Vide che alcune delle guardie erano retrocesse, coprendo il loro signore mentre scendeva per un aggio segreto sotto una paratia del pavimento. Frank urlò vedendo il bersaglio più importante che gli fosse mai capitato a tiro, fuggire sfruttando una sua distrazione. Chiuse la cabina e si lanciò all’inseguimento. Frank spostò come marionette le due guardie a difesa di Dakkar e, dopo aver preso un po’ di rincorsa, spinse

l’ARCA in basso, sfondando il tetto e atterrando al piano inferiore. La polvere coprì il suo mezzo che emerse dal cumulo di putrelle e calcinacci con i pesanti, spaziando l’ambiente con i sensori da combattimenti azzurri che sfiorarono silenziosi ogni superficie. Colse un movimento in un corridoio lontano, riconoscendo la massiccia sagoma di Dakkar entrare in una stanza. Furente diede potenza, sentendo sopra di sé altri spari.

Daboo sollevò Morris con un braccio, reggendo Hawk con l’altro. “Siete feriti gravemente. Ce la fate a muovervi?” “Sì, sì, tranquillo. È solo qualche pugno ben dato” biascicò Morris. I mezzi dei due si aprirono e i piloti furono aiutati ad entrare nelle cabine. Una volta a bordo, si sentirono meglio, mentre i sistemi di sopravvivenza incorporati ai sedili effettuavano un rapido check-up, iniettando loro nel collo, attraverso alcuni aghi che uscirono dal poggiatesta, antidolorifici, fluidi ricostruenti e antisettici. Morris prese l’oggetto in alto. Morse nel sigaro accendendoselo con il suo accendino personale che chiuse con un click. Armò l’arsenale, sganciandosi dal sistema di guida degli amici per poter manovrare indipendentemente il suo ARCA. Nessuno disse nulla, ma si sviluppò subito una tacita alleanza con le poche guardie Mokter rimaste, che si allargarono, facendo entrare i cinque ARCA nella formazione. “Abbiamo quarantacinque bersagli attivi che puntano verso di noi, e la percentuale di successo ancora in positivo. Diamoci da fare” spiegò Morris sbuffando una boccata di fumo grigiastro.

I RANGHI SI ASSOTTIGLIANO

Frank irruppe nel salone sfondando l’entrata. “Dakkar!”, urlò dagli altoparlanti. Qualcosa si mosse dall’altra parte, al buio. Lanciò alcuni flares per rischiarare l’ambiente. I dispositivi antimissile scattarono fuori cadendo sul pavimento, le scintille illuminarono l’elegante stanzone con una luce tremolante. Frank udì come un grugnito, simile al suono che emette un uomo mentre compie un gesto atletico. D’istinto fece partire una mina della direzione da cui vide arrivare qualcosa. La mina esplose e, contemporaneamente, un oggetto non rilevato dal sistema antimissile lo colpì. Le luci nella cabina tremolarono e quando ritornarono in funzione Frank fu percorso da una gelida scarica di sollievo per il pericolo scampato. Nello schermo panoramico frontale, a destra, la punta arroventata di una lancia Mokter aveva penetrato la corazza esterna fino a raggiungere l’interno. Il filo pulsava per il calore diffuso dal micro generatore nell’impugnatura. Rabbrividì pensando alla forza con cui era stata scagliata l’arma. Aprì la cabina avendo percepito un rantolo da qualche parte nella semi oscurità. Saltò giù dal mezzo stringendo la pistola. Avanzò lentamente cercando ogni minimo segno di pericolo, illuminato dalle scintille dei flares ancora attivi, che si agitavano come tarantolati sul ferro del pavimento. Frank mise a fuoco una figura che si stava trascinando sul pavimento. Era ferito a una gamba. Poco lontano il cratere della mina fumava ancora, diffondendo un nauseante odore chimico.

“Perché?” si lamentò Dakkar. “Siamo stai mandati qui dopo la soffiata di un informatore. Aveva detto di essere l’ex Quartiermastro della Vandea e che sapeva che era diretta verso le colonie al limite del regno Namir con l’intento di rifornirle di mezzi per un’invasione. Pensavamo che fosse la mossa conclusiva dei Tlaloc per tagliare le gambe all’ultimo regno a loro ostile” spiegò Frank provando a mitigare la rabbia. Forse le cose potevano essere diverse da come aveva capito. Osservò il viso dell’uomo ferito. Dakkar all’inizio ridacchiò, poi si lasciò andare in uno ampia risata che per un attimo annullò i suoni dei combattimenti che arrivavano dall’esterno e il frastuono delle domande che turbinavano nella mente di Frank. “Allora vuol dire che io, il Signore del Bordo Esterno, e un individuo volgarissimo come te, capitano Basosky, stiamo combattendo per la stessa cosa.” Frank abbassò l’arma, folgorato. I frammenti dei dettagli e le informazioni caotiche accumulati fino a quel momento smisero di turbinare, cristallizzandosi giusto il tempo di essere pronunciate in un unico pensiero. “State andando su Ygrys Perla. Ecco perché i mezzi adattati a un clima caldo e polveroso. Le corazzate fuori devono aver vagato nello spazio dalla distruzione della fortezza a oggi, raccogliendo i pochi Mokter fedeli alla tradizione. Volete riprendervi il vostro regno. Con la potenza dell’intero Impero Mokter potrai anche tu sfidare Tyrr, e vendicarti” disse Frank sbiancando. Dakkar si risollevò avvicinandosi a Frank. Il suo sguardo grigio, così intenso da assomigliare ad argento puro, lo folgorò. “Allora forse noi abbiamo appena mandato in frantumi l’ultima possibilità della galassia” mormorò Frank lasciando cadere l’arma a terra. “Il nostro informatore sapeva quale fosse la vera destinazione. È lui al servizio dei Tlaloc, ci ha usati per neutralizzare l’unica minaccia più importate del regno Namir: l’Impero Mokter al tuo servizio. Come Signore del Bordo Esterno potresti minacciare più di quanto abbiamo mai fatto noi con le nostre incursioni.”

Dakkar annuì fissandolo serio, anche se il suo viso trasudava rabbia. In quel momento un’idea si fece strada nella mente ottenebrata dalla vendetta di Dakkar, vendetta a ogni costo contro i traditori dell’Impero. “Allora i Tlaloc hanno vinto per colpa mia.” biascicò Frank. “Quasi” scandì il Signore del Bordo Esterno, gustandosi l’implosione del capitano Frank Boss Basosky. Frank si sedette stringendosi la testa tra le mani. “Ma abbiamo ancora una possibilità. E questa volta è tutta sulle tue spalle, capitano Basosky. Se accetterai cosa ti offro non vedrai mai più i tuoi amici, ma salverai la galassia, e avrai la donna che hai amato. Se mi siederò nella Rocca di Askar, sarò di nuovo uno dei Signori più potenti della galassia.” Frank sbiancò. Mormorò qualcosa senza significato, provando a spingere la sua intelligenza in ogni recesso dell’offerta ricevuta.

Mentre il suo io razionale gli urlava squarciagola di non fidarsi, che era un bluff, il ricordo dell’ultimo bacio di Mya lo trafisse. “No. Non sono un traditore” “Vuoi diventare un vecchio soldato, solo, senza buoni ricordi?” chiese Dakkar. Il Signore del Bordo esterno si tolse qualcosa che portava al collo. Lo liberò dalla catenina e lo porse a Frank che lo fissò stupefatto. Dakkar mostrò al capitano Basosky l’anello dei Pax, indossato dal suo mentore e comandante precedente Alastor Pax, inviatogli Kadìr dopo averlo sconfitto in combattimento all’inizio dell’assalto a Lex V, come segno di un inizio fortunato della loro campagna. “La Decima cessò di esistere durante quell’ultima battaglia dell’Armata Comune. Hai sempre vissuto per gli altri. I tuoi piloti sapranno reinventarsi

un’altra esistenza. Fino ad ora vi siete illusi di poter cambiare il caos della galassia, ma l’unica cosa che avete fatto è essere sempre più vicini alla vostra morte. Pensa a te, al tuo futuro accanto a una bella donna, amato e desiderato”, disse Dakkar. Frank sfiorò l’anello quasi commosso, allontanando la mano del sovrano per non vederlo più. Il Signore del Bordo Esterno non aggiunse nulla, rindossando la catenina con l’anello sotto la veste. “Che cosa vuoi che faccia?” chiese Frank.

Morris lanciò le ultime mine centrando esattamente ogni bersaglio che era entrato nel suo campo visivo. “Munizioni finite” commentò laconico, lasciando andare i joystick per massaggiarsi il fianco dolente per le percosse. “Anche io” arrivò dal mezzo di Daboo con un braccio quasi fuori uso. Sword diede il colpo di grazia all’ultimo drone, colpendolo al centro del corpo con la spadona ridotta a un misero mozzicone. “Possiamo sempre scendere e combattere mani a nude” scherzò. Udirono un’esplosione scuotere il palazzo dall’interno. Tutti imprecarono pensando a Frank. Altri droni li puntarono. Non potendo fare altro, fecero ciò che li aveva sempre salvati nei momenti di pericolo. Avvicinarono gli ARCA stringendosi insieme, spalla contro spalla sollevando gli avambracci delle loro fedeli armature per difendersi dai laser.

Havelok allacciò le cinture alla bimba, poi andò a sedersi al posto di guida. Mentre stringeva la mano alla donna che continuava a guardarlo commossa, premete il tasto di sgancio dello shuttle. Scivolando per il tunnel dell’uscita di emergenza, i boati delle sparatorie e delle esplosioni divennero sempre più lontani, fino a sparire del tutto. Prese l’elaboratore consegnatogli personalmente dall'aiutante del Venerabile Tyrr, sua eccellenza Tremarchan, disattivando i droni. Aveva causato troppe vittime e devastazioni, ma gli uomini sulla Vandea gli avevano portato via la sua famiglia, scaricandolo sotto minaccia delle armi. Ma se l’era ripresa, erano pari. I suoi nuovi Signori sarebbero stati soddisfatti delle devastazioni. “Dove andiamo?” chiese la donna accarezzandogli il livido blu sulla guancia. “Verso la Luna di Akis. Lì ci sono le persone che mi hanno aiutato a trovarvi dopo che Dakkar e i suoi scagnozzi avevano sbarcato chiunque non fosse nella loro lista di uomini fondamentali dal puro sangue Mokter. Vedrete, nessuno ci separerà. Mai più.”

I piloti abbassarono ciò che rimaneva delle braccia robotiche e aprirono le cabine. Scesero dai mezzi, osservando esterrefatti la distruzione creata dalla rivolta della sentinelle, che ora cadevano disattivate a terra come chicchi fuorimisura di una grandinata metallica. “Incredibile.” “Ma chi sarà stato?” “E adesso?” chiese Ux sollevando l’interrogativo che più di tutti li aveva dominati nelle ultime ore. “Frank, ci ricevi? Dove sei?” chiese Morris tenendosi l’auricolare. “Boss, ci ricevi?” Si voltarono udendo qualcuno uscire dall’ascensore risalito fino a quel livello. Dakkar ne uscì vestito con una stupenda armatura scintillante, seguito da un’altra dozzina delle sue guardie personali in perfette condizioni. I sopravvissuti sul tetto arrancarono fino dai compagni aiutandosi con i bastoni delle alabarde. Molti avevano le armature cerimoniali fuse dai laser dei droni. Da un paio di squarci nei pettorali gocciolava il liquido idraulico del sistema di movimento, mescolato a sangue. La mistura colava nei recessi delle corazze istoriate, conferendo una decadente potenza ai guerrieri di Dakkar rimasti sul tetto. Ai piloti sbocciò uno strano presentimento nel cuore. “Andate e piangete il vostro comandante” disse Dakkar buttando a terra il casco della tuta di Frank sul pavimento Tutti lessero l’incisione “Boss” sulla fronte. I piloti fissarono attoniti il Signore del Bordo Esterno.

Morris fece per lanciarsi contro le guardie, ma si ritrovò stretto nell’abbraccio irremovibile di Daboo, una statua di muscoli che sobbalzava per i singhiozzi. Gli altri caddero a terra ansimanti, impietriti. “Per poco non avete condannato la galassia con la vostra ottusità. Tornate alla vostra nave, e pensate a un’altra vita. Quella da soldato è morta qui, oggi” pronunciò solenne Dakkar. Vennero fatti salire su una piattaforma, scendendo in basso. Dietro i piloti di ARCA tre droni, di nuovo sotto controllo, spostavano le loro armature robotizzate spente e danneggiate. Videro incendi, uomini e donne dell’equipaggio riversi senza vita nei corridoi o che spuntavano dai boccaporti di SaT e carri a levitazione. Cataste di droni distrutti nei punti in cui i Mokter erano riusciti a impostare una difesa efficace. Il cargo in cui vennero fatti salire era piccolo, ma accolse tutti i piloti. Morris si sedette al posto di copilota, mentre Ux attivava i bruciatori esterni. La Decima si era assottigliata nel tempo, fino a raggiungere cinque elementi. Presero quota, lasciando la Vandea da un accesso di second’ordine, usato per lo smaltimento dei rifiuti ingombranti, con gli ARCA bloccati all'esterno del cargo con cavi da rimorchio. Morris appoggiò il casco di Frank contro la sua fronte, realizzando di aver perso non solo un comandante, ma il migliore amico che avesse mai avuto.

FINE