Altri Occhi Per Me 146k4o

Stefano Santarsiere

Altri occhi per me

Stefano Santarsiere, Altri occhi per me

© Stefano Santarsiere

Collana “Fingerbooks”

Tutti i diritti riservati

Edizioni Esordienti E-book

Strada Vivero 15, Moncalieri (TO)

Prima edizione EEE-Book – 2012

ISBN: 978-88-6690-063-4

Cover: credits Can Stock Photo Inc.

Il presente file può essere usato esclusivamente per finalità di carattere personale. Tutti i contenuti sono protetti dalla legge sul diritto d’autore. EEEBook declina ogni responsabilità per ogni utilizzo del file non previsto dalla legge. I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di

questo e-book può essere utilizzata, riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo senza autorizzazione scritta dell’Autore o dell’Editore.

Uno

Ecco, la luce veniva a svegliarlo attraverso la persiana. Poco per volta gli si accumulò sulle palpebre, lui le sollevò e le sbatté lasciandosi vincere dal nuovo giorno. A breve la madre gli avrebbe portato la tazzina di caffè e un bicchiere d’acqua sopra un vassoio; girando la testa sul cuscino si predispose a quel gesto di benevolenza. Più tardi consumò la colazione e come ogni mattina uscì a eggiare; un rituale che derivava dalla sua infanzia, quando il nonno lo portava in giro mentre la madre metteva in ordine casa e preparava il pranzo. Si avviò dunque per le solite strade, in ricognizione di luoghi e panorami, come per accertarsi che il mondo fosse tutto al suo posto nel nuovo giorno. La gente lo salutava, senza chiedergli più perché mai avesse mollato la scuola; poi le case lasciarono il posto alla campagna e tra vigne e file di cipressi ritrovava un ordine più chiaro, un’armonia che sembrava perduta nei vicoli di facce scolorite dal tempo come stracci vecchi. Tornò a casa a metà mattino. Era estate, il sole picchiava. La madre gli chiese di sbrigare qualche commissione. Il padre arrivò all’ora di pranzo con il giornale – lui se ne impossessò di nascosto per leggere le pagine sportive. Il campionato era finito da un pezzo e cominciavano quei surreali tormentoni di calciomercato. Suo padre non aveva voglia di parlare con lui. Era di ritorno dalla mezza giornata di lavoro giù alla cava, si era sgolato con operai e manovratori e forse non aveva intenzione di mettersi a discutere anche con lui. Del resto, gli argomenti dei loro confronti erano gli stessi da mesi: aveva sprecato un’altra giornata? Non aveva considerato di riprendere la scuola a settembre? Aveva finalmente maturato qualche decisione sul futuro? La madre viveva con apprensione quei momenti e impegnava tutta se stessa a scongiurare l’innesco. Si frapponeva tra loro, sviava i discorsi, metteva la carne a riscaldare lamentandosi del macellaio. Quanti giorni erano ati? Lui li contava a gruppi: quelli con i litigi e quelli senza. Ma a prevalere erano sempre i primi.

Due

Il gatto arrivò come un’inezia, un’increspatura nella quotidianità di rapporti sempre più tesi. Stava attraversando la piazzetta quando un suono attirò la sua attenzione. Un verso effimero, flebile. Si fermò in ascolto. Il miagolio si ripeté più forte, più indignato. Lo individuò fra i rami dell’acero: puntava intimorito le zampette sul legno, poi guardava lui e scoccava i suoi miagolii. Si avvicinò. La bestiola si ritrasse zampettando lungo il ramo. Lui si sollevò sulle punte dei piedi e lo afferrò dalla collottola: l’animale si irrigidì tutto, emise un miagolio rauco e soffiò, ma si fece tirare fuori dai pasticci. Cosa poteva accadere a portarsi il gatto a casa? Suo padre avrebbe rifiutato. Non per contrarietà sincera ma per fargli dispetto. Sua madre si sarebbe schierata con il figlio, per quieto vivere e anche per malizia, perché avrebbe poi preteso qualcosa in cambio, ad esempio che lui si impegnasse a studiare un po’. Sorpresa fu che il gatto entrò in scena senza scossoni. La quinta si aprì, il gatto vi fu introdotto con il benestare dei vecchi, forse inteneriti da quegli occhi vibranti e spalancati, e il sipario si richiuse.

Tre

Funzionò come un magnete per attenzioni e discussioni famigliari. Prendersi cura del gatto, osservarlo divorare scatolette di carne e lambire piattini di latte, era la sponda su cui rimbalzava il cattivo umore dei tre. Il padre tornava a casa e iniziava ad accarezzare il micio con espressione di zucchero. Lui percepiva vagamente che l’idillio non poteva durare a lungo. Appena la novità si fosse affievolita la tensione sarebbe tornata ai livelli precedenti. Uscì di casa dopo pranzo. L’intenzione di farsi un gelato al bar. All’ingresso c’era il tipo che lo prendeva sempre in mezzo. Aveva qualche anno più di lui, poco più che maggiorenne – ma sembrava già un omaccione, con la fronte schiacciata e il naso massiccio come un fermacarte. Lavorava come carpentiere insieme a un altro tizio sulla cinquantina. In genere iniziava con uno sguardo ostinato che lo intercettava seguendolo fin dentro il locale. Non ci badava, ma intanto sentiva una specie di rocchetto avvitarsi nello stomaco. Ordinava il gelato e avvertiva quegli occhi fissarlo dalla porta del bar. L’altro aspettava il tempo necessario, e appena lui si concedeva la prima leccata di gelato, lo apostrofava: “È saporito il denaro di papà, eh?” Trovava opportuno voltarsi e stendere un sorriso di circostanza. Non si capiva mai se il faticatore intendesse quel sorridere come un segnale di resa immediata o una presa per il culo. “Se un domani avrò un figlio come te, il gelato glielo ficco dove non batte il sole. Altroché.” Lui sosteneva quello sguardo perché non avrebbe saputo cos’altro fare, non certo per orgoglio. Cercava il modo per scansare l’idea che quello sciagurato dovesse sempre tormentarlo. Se aveva il suo lavoro, se guadagnava la pagnotta che lui riceveva gratis, se in definitiva considerava se stesso tanto superiore che motivo aveva di perdere tempo un fannullone come lui? “Dopo il gelato ti aspetta il sonnellino pomeridiano?” lo incalzava con un sorriso sprezzante.

Il ragazzo del bar puliva bicchieri e se ne stava prudentemente alla larga. Lui, il rampollo benestante, insisteva nel suo garbato e prudente distacco. Dai che scherza, si diceva, non è che vuole veramente offendere, è solo un modo goffo di prendersi confidenza. Quindi sorrideva e dava una leccata al gelato. Ma dietro la parte conciliante del suo cervello, iniziava a scalciare la parte orgogliosa. È un cialtrone. Dovresti rispondergli per le rime. Al solo pensiero avvertiva accapponarsi la pelle sulla nuca – e si distraeva con un’altra leccata. A quel punto il faticatore esibiva una smorfia disgustata e abbandonava il bar scuotendo la testa; lui attendeva un po’, prima di uscire a sua volta. Malgrado il caldo non rinunciava alla eggiata, ma ormai restava solo il ritmico movimento di gambe e braccia, perché si sentiva svuotato di qualsiasi idea. Era il suo modo per respingere l’umiliazione: pur di bandire dalla mente quell’unico pensiero, espelleva intere schiere di riflessioni possibili.

Quattro

Cresceva a vista d’occhio. Era diventato come quei bauletti che le ragazze di una volta portavano in dote al promesso sposo. Lo avevano chiamato Tom Sawyer, il nome lo aveva scelto papà. In seguito lui avrebbe pensato che ci aveva visto lungo nel battezzarlo con quel nome che evocava avventure e monellerie. La mamma non lo voleva tra i piedi e Tom trascorreva ore appollaiato sul pianerottolo esterno. Osservava la strada sottostante con aria da bullo. Lui lo guardava dal terrazzo e immaginava di sentirne i pensieri: gli aveva donato un linguaggio da baby-gang nei film americani, la voce dello spaccone che vuole farsi la nomea di intoccabile. Sfreccia pure dove cazzo ti pare, borbottava al vecchio postino che transitava in bicicletta. Lascia che mi arrivi a tiro e ti farò are la voglia di circolare nella mia zona. Il figlio del salumiere correva a portare il giornale al bar – e Tom: inizia a mollarmi una scorza di guanciale, specie di piattola, o dovrai inventarti un altro modo per andare in piazza. Tom adorava le scorze dei salumi. E tu? Si rivolgeva alla signora uscita dal forno, con il pane avvolto nella carta marrone. Lo sai che hai una faccia di talpa? Stacca un pezzo di quella crosta che ti spacciano come pane e ti risparmio il lavoretto che ho in mente per le tue caviglie. In quel gioco psichico, il vicolo faceva i conti con un padrino a quattro zampe che scrutava i anti dallo scranno in cima alla scala, seminando tutto il giorno pretese e minacce. Il problema era che Tom ava dai puri propositi (benché proiettati attraverso la mente di lui) alle vie di fatto con estrema disinvoltura. Non di rado scendeva a precipizio per inseguire una bicicletta. A volte se ne stava acquattato sotto una macchina fino al momento in cui, senza una ragione apparente, si avventava ai piedi di un malcapitato.

La gente del paese iniziava a guardare al gatto con un misto di perplessità e ilare tolleranza. Coloro ne subivano gli attacchi raccontavano l’accaduto ai genitori di lui incontrandoli per strada, senza malevolenza, al massimo con un sottinteso allarme per quello che il gatto rischiava con le sue intemperanze. C’erano ad esempio anziani malfermi in circolazione. C’erano un paio di donne particolarmente fifone, che potevano aversene a male se la bestiola faceva tanto così per avvicinarsi.

Cinque

Imbruniva. Lui era in casa, in attesa della cena, quando sentì dei i pesanti venire su per le scale. Tom era sul pianerottolo e lo si udì soffiare ed emettere uno di quei prolungati miagolii di contumelia. Lui tese le orecchie e colse un insulto pronunciato tra i denti, ma ugualmente udibile, cui il gatto replicò con una specie di guaito che svanì in fondo alle scale. Risuonò il camlo dell’ingresso. Era Aguirre. Cioè, non si chiamava Aguirre. Il suo vero nome era Peppino ‘o zingaro ed era un moscone di paese che vagava tra le case e i campi su un vecchissimo motorino che strepitava come un indemoniato. Lui lo chiamava Aguirre per via del cappello di paglia: chissà per quale ragione, ai suoi occhi lo faceva somigliare a un vignaiolo messicano. Era obeso. Aveva una faccia chiusa e cucita come un pallone di cuoio, gli occhi ridotti a pieghe pelose sotto le sopracciglia. D’estate girava con una maglia color fieno e un vecchio jeans. D’inverno indossava scuri pastrani impermeabili che lo trasformavano in un leone marino. Mai lo aveva sentito pronunciare una parola, anche quando lo intravedeva seduto al tavolo di scopone davanti al bar dei vecchi, giù alla villa comunale. Ma stavolta parlò. “È vostro lu gatt?” “Sì, certo. Volete entrare?” Arrivò la madre con uno strofinaccio in mano. “Chi è?” Nello scorgere Aguirre, l’espressione le si riempì di punti interrogativi. Era l’ultima persona al mondo da cui si sarebbe aspettata una visita. “Buonasera, che succede?” Aguirre dirottò lo sguardo sulla donna. Il pendaglio con la croce dorata che esibiva al collo scintillò, le fessure pelose degli occhi si allargarono svelando due buchetti scuri, urticanti.

“Lu gatt signò. Tenetelo dentro. Oppure ammazzatelo.” “Scusate, e perché mai?” “Mi corre dietro e davanti quando sto sopra a lu motorino, signò.” “Mi dispiace,” si giustificò lei. “Vedremo di fare qualcosa, magari lo teniamo in casa.” “Mi può fare cadere. Me ne importa nu fiche se posso fargli male con le ruote, a lu gatt. È che mi posso fare male io. Signò.” Altro che vignaiolo, pensò lui. Piuttosto il patriarca di una famiglia gipsy dedita a oscuri traffici. A dispetto della profondità del tono, quei ripetuti ‘signò’ risuonavano secchi come colpi di bacchetta contro una mensola di marmo. “Avete ragione. Vedrete che non succederà.” “Lo dite voi,” Aguirre rivolse gli occhi su di lui e in essi c’era disprezzo. O più probabilmente lo sdegno di reazione di chi si vede a sua volta ignorato, snobbato. “Ammazzalo, lu gatt,” sibilò. Lì di fianco la madre gli sfiorò il polso. Era meglio non replicare. “Se mi dai quindici euro lu fazz i stess,” aggiunse malignamente. “Volete entrare?” disse lei in tono rigido. “Io sto finendo di cucinare. Se volete potete venire a prendere un bicchiere di vino.” Aguirre sollevò il mento. “Grazie, no. E buonasera.” Un sorriso che sapeva di avvertimento gli affiorò sulla faccia, mentre distribuiva i suoi sguardi in segno di commiato. Poi le fessure pelose si accostarono e si avviò per le scale. Lui non richiuse la porta fin quando il vecchio non sparì alla vista.

A cena si discusse della visita. Il padre storse la bocca quando identificò chi fosse Aguirre. Erano persone appartate. Gente che veniva da lontano. Di sicuro gran sgobboni (un figlio lavorava in un cantiere che si riforniva alla cava;

compariva alla guida del ribaltabile, caricava la sabbia e poi spariva senza dire niente) ma anche beoni di classe superiore. Abitavano in un rione non lontano, tutt’altro che ben tenuto. Nel frattempo la sua mente si riempiva di immagini. Tom che inseguiva postino, che soffiava alle donne che tornavano dal forno, che se ne stava acquattato sotto un’auto e si avventava sulle caviglie di un ante. Era così attratto dall’indole dell’animale che a volte si metteva a studiarne l’espressione, magari mentre trangugiava le sue scatolette – e puntualmente Tom interrompeva il banchetto e restituiva lo sguardo (cazzo hai da guardare?), gli occhi che si allargavano, si tingevano di una luce sulfurea mentre lui avvertiva un crescente senso di allarme, come se quella luce potesse accendersi in odio, far scattare le zampe e cavargli una pupilla con una sola rapidissima unghiata: szack!

Sei

Era seduto sugli scalini del municipio. L’aria della controra era densa come quella di un opificio. La piazza deserta. La porta del bar ritagliava un rettangolo scuro sulla parete incendiata dal sole. Dall’imbocco del vicolo, sul lato opposto della piazza, veniva un suono furioso che cresceva di intensità. Lo strillo di un indemoniato. Allungò il collo aspettandosi il motorino irrompere nella piazza, con il suo rabberciato parabrezza. Invece udì lo strepito di una frenata, il fragore del motore che echeggiava in più direzioni e infine uno schianto vetroso. Si sentì raggelare. Attese qualche secondo e poi trovò il coraggio di alzarsi per andare a vedere, ma una mano lo afferrò spingendolo nuovamente sui gradini. Alla sua destra c’era Aguirre. I suoi occhi sembravano feritoie di un vecchio e decadente torrione. Un rosario di vetri gli mitragliava la fronte e la guancia destra, conficcati come disordinati piercing orlati di sangue; tagli obliqui spiccavano dall’orecchio sinistro fino alle labbra. “Lu gatt, hai vist?” Balenarono i monconi degli incisivi spezzati. “E mo? Che t’aggia fa, a te?” Sollevò le mani. Lui se le vide davanti e pensò a un’eclissi. Ne fu quasi stregato mentre lo afferravano per il collo. Poteva ancora liberarsi, poteva fuggire, ma lo lasciava fare. L’aria si ingolfò in gola mentre il vecchio stringeva... “Hai vist? Mo fai na brutta fin pur tu.” … fin quando l’aria smise del tutto di entrare, di raggiungere i polmoni... “… pur tu… pur tu…” eppure lo lasciava fare… lo lasciava fare…

Si svegliò di soprassalto – istintivamente si toccò il collo e inghiottì aria. Fuori era ancora buio ma doveva alzarsi, prendere un bicchiere d’acqua. Accese la lampada e quasi urlò nel vedere Tom che lo fissava dal pavimento. Il gatto non fece una piega. Che ci faceva in casa? Allungò una mano per carezzarlo e il gatto si ritrasse. Come sempre, non c’era ombra soggezione nei suoi occhi; tanto meno quel fervore smanioso che talvolta manifestano i cani dinanzi al padrone. Al più un vigile distacco, una ferina e orgogliosa sufficienza come se l’animale ricordasse all’uomo che non basta il dono della parola per sentirsi superiore, quando la natura ti ha donato l’istinto da cacciatore e la capacità di scrutare il buio.

Sette

La buttò lì, mentre staccava con la forchetta un altro boccone di pasta al forno. “Perché nel pomeriggio non vieni alla cava?” Guardò il padre e rifletté se rispondere nel modo conveniente o in quello sincero, e le due alternative risultavano parecchio distanti. L’altro continuò, spezzettando la pasta: “Potresti studiare com’è organizzato il lavoro, gli operai, i mezzi che utilizziamo.” Si versò un bicchiere d’acqua. Dall’atteggiamento della madre intenta a consumare il suo piatto a capo chino era chiaro che ne avevano parlato. “Vorrei anche mostrarti la parte amministrativa. Oggi pensavo che non hai ancora messo piede nei nuovi uffici.” “Quali nuovi uffici?” “Come quali?” il padre lo guardò sorpreso e lui si ricordò che il mese prima avevano istallato dei nuovi prefabbricati nella cava, più ampi e confortevoli, dopo che i tempi delle estrazioni erano stati ripianificati e di conseguenza prolungati. Il suo vecchio storse la bocca, e tornò a dedicarsi al piatto. “Forse puoi scoprire che ti interessa,” intervenne la madre. Lui torturava un rigatone croccante senza decidersi di infilarlo in bocca. “Guarda che il lavoro di papà è bello. Ci sono un sacco di cose da fare, tante persone con cui parlare, pensa solo ai clienti, agli imprenditori che vengono a trattare le forniture di sabbia.” Volle strizzargli un occhio approfittando che lui alzava lo sguardo dal piatto. “Allora che ne dici?” Lasciò la forchetta. “Va bene, si può fare,” se ne pentiva nell’attimo stesso in cui lo diceva. “Forse posso dare una mano a papà.” “Bene.” “Perché Tom era in casa stanotte?” domandò.

I genitori si guardarono a bocca aperta, come se avesse posto una domanda sulla rivolta in Libia. “Che c’entra adesso? Lo abbiamo lasciato dentro.” “Era in camera mia stamattina.” “Non ne farai un dramma,” disse la madre. “No, ma mi chiedevo se…” “Ieri abbiamo ricevuto un’altra lamentela,” spiegò il padre. “Il gatto si è infilato in casa di Vito Bardaro e ha rovesciato un centro tavola di porcellana.” “Volevamo risarcire ma Vito sé è rifiutato,” aggiunse lei. “In cambio ha preteso che tenessimo il gatto sotto chiave.” Stava per scoppiare a ridere immaginando la faccia tutta congestionata di Bardaro mentre Tom imperversava per il salone, ma l’idea della cava gli cancellò quell’accenno di buonumore.

Otto

Odiava gli insetti. Gli bastava il ronzio di una mosca sul vetro per sentirsi assalire dal voltastomaco. La vista di una vespa o un calabrone che volava nella sua direzione, poi, gli causava un moto di panico. Invece Tom li cacciava. Se ne stava sul terrazzo, acquattato nelle sottili zone d’ombra sotto i vasi più grandi, la coda che spazzava il pavimento. Intorno a lui lo spazio si apriva in una luce compatta. Coglieva un movimento nell’angolo e si bloccava, appiattiva il capo sulle mattonelle, puntava insistentemente. Sei mio, diceva con la sua voce strafottente, è inutile, non ti mollo. Il moscerino, la cimice, il ragno di turno si spostava nell’angolo, si metteva alla luce e magari iniziava a scalare la parete. Tom seguiva quei movimenti stringendo le iridi verdi (va’ dove ti pare… va’), sollevava e abbassava il muso in attesa del momento. E tutt’a un tratto balzava. Senza il minimo rumore. Fra il balzo e la fase successiva in cui masticava la preda non sembrava esserci null’altro: l’attimo in cui afferrava l’insetto sul muro era impossibile da cogliere, tutto troppo lesto. E lui scopriva tutta la sua ammirazione per quell’abilità. L’animale occupava una sfera dell’esistere dove le possibilità erano maggiori di quelle concesse a qualunque umano, a cominciare guarda caso proprio da lui.

Nove

Si rassegnò ad accompagnare suo padre alla cava. Durante il tragitto il suo vecchio disse poche parole, tutte rivolte a un nebuloso concetto di futuro che sembrava allignare nella sua testa e che al figlio era del tutto oscuro, benché riguardasse proprio lui. Al cantiere ritrovò quello che aveva iniziato a definire il megasfregio. Restava sempre colpito dalla collisione tra le attività estrattive e il contesto in cui avvenivano: il fianco lussureggiante della collina era sventrato come la pancia di un animale macellato; il bianco viscerale della montagna si mescolava ai rivoli d’acqua che venivano desabbiati con l’ausilio di draghe meccaniche e turbine. Simili a mezzi di occupazione militare, i camion ribaltabili circolavano spediti nel perimetro della miniera raccogliendo la sabbia o scaricando attrezzature per gli scavi. Gli operai fronteggiavano la parete con martelli pneumatici, prelevavano e saccheggiavano il tesoro renoso della collina. E su tutto aleggiava una nube biancastra che aggrediva occhi e gola malgrado le mascherine protettive: lo strenuo tentativo di difesa di quella natura oltraggiata. Dopo aver salutato il capo cantiere e due operai anziani, il padre lo condusse nel prefabbricato dove aveva allestito l’ufficio. A dispetto del grosso ventilatore l’ambiente era surriscaldato. Sulla scrivania c’erano cartelle porta-documenti e un computer portatile . Lui prese posto sulla sedia di plastica imbrattata di polvere e il padre firmò un paio di bolle di consegna, spiegando che si trattava dei moduli componibili per un nuovo canale di scolo. Il ragguaglio richiamava già un inizio di apprendistato. Lui annuì. Uscirono e furono investiti dal rumore innaturale del megasfregio. Nella luce abbacinante del pomeriggio si faticava a scorgere un’essenza umana tra quei fantasmi che si scambiavano grida e gesti. Il capocantiere si avvicinò nuovamente e stavolta il padre lo informò che avevano un nuovo collega. Nel dirlo gli batté la spalla e lo guardò con una luce di incoraggiamento negli occhi. Con quel gesto, avviava il figlio maschio sulla strada del genitore, dichiarando dinanzi al più stretto collaboratore che un giorno tutta la squadra avrebbe dovuto rispondere a lui, il rampollo.

Reagì guardandosi intorno, e vide la nube sospesa, la luce, il rumore. E quel verde cupo che orlava la ferita della collina. Nella zona integra della montagna notò il mistico gioco di ombre che s’intrecciavano come vive, si torcevano, in attesa di essere risucchiate dal mostro. Lo accompagnarono in mezzo agli operai. Gli sembrava volessero convincerlo a firmare un contratto capestro, esibendo sorrisi, ripetendogli che era una grande e preziosa attività, essenziale all’economia dell’intera regione. All’improvviso la voce spaccona di Tom si fece udire nella sua mente; così repentina che lui si guardò intorno aspettandosi di vedere il gatto lì vicino. Sarai ancora vivo… eppure… già ridivenuto polvere. Il padre lo stava conducendo verso la zona di accantonamento, dove si accumulava la sabbia in attesa di essere consegnata ai compratori. Diventerai una mummia come questi qui… ripeté la voce. Sì, ma avrebbe guadagnato quella pagnotta che per adesso il convento gli ava gratis, benché con insofferenza crescente. Più nessuno gli avrebbe mancato di rispetto. I lazzi del faticatore si sarebbero spenti, il suo sguardo torvo si sarebbe ammansito sapendolo finalmente a lavoro. Mettiamo che ti lasci incastrare in questo inferno, quanto credi di resistere? Stai fresco se pensi di avere la stoffa. Davanti alle dune di sabbia imponenti come palazzi, mentre il padre gli spiegava le diverse granulometrie dei materiali, lui si ò la lingua sulle labbra. Era vero, gli uomini non si sarebbero mai affidati a lui. E non solo perché gli mancava la fermezza per essere un capo: in realtà non si riconosceva in quel genere di impresa. Suo padre capeggiava uno sciame che aggrediva montagne, le trasformava in gusci vuoti e poi ripartiva verso la preda successiva – lui non voleva essere complice di quella ingorda erosione. E allora parla maledetto pappamolle! Vuoi farti seppellire vivo da tuo padre senza nemmeno fiatare? Ma non disse nulla. Non aveva il coraggio di deludere la buona vena del suo vecchio, lasciò che continuasse a spiegargli a sommi capi il funzionamento della

miniera; il tutto mentre Tom, accucciato in un angolo della sua mente, lo scrutava severo.

Dieci

Per ora non si guadagnava nessuna pagnotta e le vecchie ragioni del faticatore erano tutte al loro posto. Se lo ritrovò in piazza di buon mattino con una sigaretta tra le labbra (perché non era al lavoro?) e il fumo gli corrucciava l’espressione: il sorriso di scherno spiccava come una stonatura in mezzo a quella faccia contratta. Rammentò che stava per diventare un imprenditore minerario e in quel pensiero cercò l’autostima che gli occorreva. Non degnò il faticatore di uno sguardo. Gli ò anzi molto vicino sollevando il mento e accelerando l’andatura. L’altro lo seguì con gli occhi, lo scherno diventò irritazione. Gettò la sigaretta – in due i lo raggiunse e lo agguantò da un braccio, rigirandolo come un manichino su una base circolare. “Non si saluta per buona educazione?” “Non ti conosco,” rispose. “Non saluto gli sconosciuti.” Il giovane spalancò gli occhi, l’espressione di chi contempla un fenomeno da baraccone, e subito s’infuriò. “Ah, non mi conosci?” gli puntò un dito sotto il naso. “Hai perso la memoria?” Lui accartocciò le spalle come se fosse esploso un petardo. “Ma si può sapere che vuoi da me?” “Non rivolgerti al sottoscritto con quel tono!” “Dimmi una buona volta cosa ti ho fatto!” “Mi devi salutare! Devi portarmi rispetto, non so se mi spiego.” Confusamente gli venne da pensare a Fedro. Il lupo. Il dannato agnello. Si convinse che se anche lo avesse salutato, quell’uomo avrebbe trovato all'istante un altro pretesto per tormentarlo, per esempio che l’aveva guardato storto.

“La prossima volta ti saluto,” ansimò. “Niente affatto. Ti tocca salutarmi adesso, non la prossima volta.” “Buongiorno! Va bene?” esclamò con la faccia tutta compressa aspettandosi un manrovescio. L’altro fece di no con la testa, non era per niente soddisfatto e si preparò a dire qualcosa. Il ragazzo del tabacchi era venuto fuori dal negozio e alcuni anziani si erano fermati a contemplare la scena. Uno di loro disse al giovane di lasciar perdere. Nella sua mente fiorì un’umiliazione ancora più grande scoprendo che i paesani si godevano la commedia. E in effetti il faticatore lo allontanò con una spinta: “Ma va’, va’. Togliti dai coglioni che mi fai solo perdere tempo.” Per qualche istante si arrischiò a sostenerne lo sguardo, quel tanto da renderlo un po’ meno codardo a se stesso, poi si raddrizzò la camicia e si allontanò a capo chino.

Sentiva bruciare la fiamma della vergogna, e stavolta le sue fragili strategie mentali non gli erano di aiuto. Odiava quell’uomo! Immaginava di farlo cadere in una trappola e di trascinarlo in un luogo buio. La fantasia gli allestiva una situazione in cui il faticatore era suo prigioniero per giorni e giorni. Talvolta scendeva laggiù e gli favoriva ogni sorta di sevizie. Utilizzava un attizzatoio. Non sapeva in che modo, nel marasma rabbioso della sua mente non trovava soluzioni solide, più che altro frammenti di idee malsane: per esempio che l’attizzatoio era affilato oppure arroventato e che il faticatore veniva costretto a piegarsi offrendo il deretano. Poi immaginava grida echeggianti, implorazioni, maledizioni. Giorni e giorni di torture, cazzo! Era consolante e spaventoso abbandonarsi a quei pensieri, per lui che non era abituato all’odio. E sembrava che quei nuvoloni che si andavano addensando sopra la sua testa mentre camminava lungo la strada di campagna, rispecchiassero la sua rabbia confusa, inadeguata. Ricordò un’altra occasione in cui aveva provato sensazioni simili. Tre o quattro anni prima, al mare, suo padre gli aveva rifilato uno schiaffo davanti ai suoi amici; ne aveva dimenticato il motivo. Non che gli avesse procurato tanto dolore, almeno non fisicamente. Come oggi, aveva sofferto di più per la vergogna di aver dato spettacolo a un mucchio di spettatori casuali e certamente

divertiti.

Undici

Quel giorno Tom si presentò con uno squarcio sul lato destro del collo. Era la prima volta che trascorreva la mattinata fuori casa dopo le lamentele di Bardaro e Aguirre. Si era anche discusso di castrarlo, per renderlo più mansueto, e l’idea stessa aveva un che di oltraggioso in rapporto a quella creatura così libera. Si accorse della ferita rientrando per il pranzo, trovando il gatto riverso sullo zerbino davanti alla porta. Una lacerazione circolare che si apriva sulla carne viva, stranamente priva di sanguinamenti: sembrava una finestra aperta su un tramonto. Con ogni probabilità il morso di un cane. Il respiro del gatto era ridotto a un rantolo. Caro il mio pappamolle… stavolta… mi hanno fottuto… Corse a cercare il numero del veterinario del paese, che gli disse di portarlo subito in ambulatorio; così lo avvolse in una vecchia coperta e lo trasportò in braccio. Tom lo fissava tra le pieghe come se diffidasse di cavarsela e si preparasse a lasciargli qualche filosofica considerazione sulla vita. Il veterinario gli misurò la febbre, gli praticò subito un’anestesia e pulì la ferita. Quindi rasò il pelo sul lato destro del collo e suturò con una quindicina di punti. Il gatto restò immobile per tutto il tempo; la punta della lingua che spuntava di lato lo rendeva sinistramente simile a un esemplare finito sotto le ruote in una curva. Alla fine il dottore ebbe parole rassicuranti, la bestiaccia era forte. Prescrisse degli antibiotici in polvere da mescolare con il cibo e li fece accompagnare entrambi – lui e il gatto – dalla figlia, una ventenne luminosa e sbrigativa con un taglio alla maschietta e una canottiera in microfibra. Seduto di fianco a lei, con quel gatto tra le braccia come fosse un figliolo malato, combatteva la tentazione di sbirciarla guardando fisso la strada, mentre la macchina scivolava verso casa. In auto era un tragitto breve, tre minuti al massimo – sufficienti a scoprire quanto fuori luogo riusciva a sentirsi con una donna accanto che non fosse la madre. Solo per caso gli sfuggì un’occhiata. Per un istante le pupille scivolarono sulle cosce bianche, lievemente distanziate nel relax della guida. Colse la peluria che le velava. Ripescando lo sguardo ebbe

modo di notare il leggero sorriso sulla bocca di lei: forse si era accorta della sbirciatina. Dal fagotto salì la debole voce di Tom: Dille qualcosa, pappamolle che non sei altro. Fatti sotto! I suoi occhi guizzarono a sinistra, spiarono il profilo della ragazza e subito tornarono alla strada. Gesù santo, sei la vergogna dei gattari. Si trovavano a poche centinaia di metri da casa. La ragazza non aveva detto una sola parola. Ora sembrava presa da pensieri tutti suoi e il sorriso aveva ceduto a un’espressione assorta. Fu proprio questo distacco a fornirgli il coraggio necessario: prese fiato e disse “Ti ringrazio.” Lei si ridestò dalle meditazioni. “Ma figurati.” L’auto rallentava tra le case. “Non eri obbligata,” aggiunse lui. “Di certo avevi di meglio da fare.” “Sono in vacanza, non ho problemi a dare una mano a papà con i clienti.” Imboccarono il vicolo che portava alla piazza dove si sarebbe dovuta fermare e farlo scendere. “Pare che molto presto anch’io dovrò dare una mano a papà,” osservò con malcelata contrarietà. Oh, andiamo! Ti metti a fare la vittima proprio adesso? “Lavorerai alla cava?” chiese lei con interesse. “È scritto.” “Nelle stelle?” gli sorrise. “Nelle leggi dell’ereditarietà, e scusa se è poco.” Giunsero nella piazza stipata di automobili. La ragazza non spense il motore, tirò il freno a mano e si rivolse a lui che finalmente ammirò i riflessi color miele delle iridi, alla luce che irrompeva nell’abitacolo.

“Non ti piace? Mi sembra una buona cosa.” “Sei di quelle che pensano sempre a chi sta peggio?” Lei inclinò il capo in un gesto di plauso. “Ti fai subito il quadro completo, tu,” e lo guardò di traverso. “Scusami,” disse imbarazzato. “Ti sei offesa?” “No, tranquillo. Ma nemmeno alla sottoscritta a per la testa seguire le orme del pater. Studio legge, farò l’avvocato. E non qui.” “Ci mancherebbe,” osservò lui. “Ti occuperesti di che? Liti per il solco di confine? Paraurti ammaccati?” La ragazza assentì. “Ci siamo capiti.” Si soffermò su queste tre inedite parole, ci-siamo-capiti, pronunciategli da una donna. Proprio a lui. Vagamente si chiese se i peli vellutati che aveva sulle labbra gli conferivano un’aria troppo acerba. “Ti ringrazio,” ripeté. “Ti ho detto che non c’è problema.” Esci da questa macchina e non fiatare più. È un miracolo se fin qui non hai pestato una merda, però sei ancora in tempo… Obbedì infatti. Ma con un vago scontento, che implicava già una qualche rivalsa.

Dodici

Tom fu sistemato nel ripostiglio a smaltire la sua convalescenza. Lui si dedicò a disegnare. Era la sua vecchia ione. Disegni a matita con tratti marcati che componevano quadretti in chiaroscuro. Si rendeva conto che era un modo per allontanarsi da una realtà racchiusa tra due ferree coordinate: la cava, e gli occhi ambrati della figlia del veterinario. Poli magnetici che si contendevano i suoi pensieri tingendoli continuamente di ansietà o di illusione. Quindi si concentrava sui disegni, che rappresentavano sempre lo stesso soggetto: il gatto. Lo raffigurava più elegante di come appariva dal vero, più magro e flessuoso. L’espressione era più aderente alla voce da bullo con cui gli parlava; gli disegnava occhi stretti, labbra all’ingiù, faccia da duro. Talvolta andava a sbirciare nel ripostiglio. Se non dormiva, Tom sollevava la testa per osservarlo nel buio. Aveva la sensazione che gli ammiccasse. Ti piace, eh? Al vecchio Tom puoi dirlo… Poi gli venne un’altra idea. Illustrare come avrebbe punito il faticatore. Disegnò un albero molto alto e un corpo che veniva calato a testa in giù dalla cima. Assiepati ai piedi dell’albero c’erano sciacalli che seguivano il tragitto del corpo digrignando i denti. Disegnò varie volte la stessa scena, abbassando ogni volta il corpo, fino all’ultimo disegno dove la testa arrivava a tiro degli animali. Il penultimo disegno era uno strazio di morsi che facevano a pezzi la testa; l’ultimo raffigurava il corpo in primo piano, adagiato sull’erba e con la faccia simile a un fiore spampanato.

Tredici

Il padre lo portò alla cava, senza difficoltà o ritardi. Anzi l’atteggiamento era apparso del tutto interessato. Costruttivo, finanche. Ma perché era così rassegnato? Si convinse che dipendeva dal non avere progetti alternativi. La figlia del veterinario studiava legge, voleva diventare avvocato. Era un progetto. Era un’idea coerente che suo padre non aveva motivo di respingere. Lui non aveva nulla da opporre ai propositi del suo vecchio se non un rifiuto immotivato, al quale sarebbero seguiti giorni di conflitti familiari. Andò quindi alla cava, ma con il pensiero di crearsi al più presto una scappatoia; e con questo pensiero sorrise al padre mentre gli batteva una mano sulla spalla invitandolo varcare la soglia dell’ideale caveau di famiglia. Il guaio era che faticava a capire i meccanismi, a cogliere i legami fra le varie operazioni e il ruolo di ciascuno nei gironi danteschi della miniera. Gli occorreva preliminarmente sanare il contrasto che si era aperto tra lui e quel catino fervente di moto e rumore: il contrasto cioè tra la parola e il fatto. A lui piaceva riflettere e parlare (più riflettere, a dirla tutta); lì dentro c’era bisogno soprattutto di fare. Gli veniva richiesta un’attitudine che non aveva sviluppato. Di ciò sentiva di rimproverare proprio quel padre che ora lo obbligava a trasformarsi in un dinamico caposquadra. Aveva sempre fatto tutto al suo posto, il vecchio, dall’iscrizione alla palestra all’acquisto dei libri scolastici e perfino dei vestiti (in collaborazione con la premurosa moglie). I rari problemi che aveva creato per via di qualche marachella, li aveva risolti puntualmente il padre. Ai lavori in casa ci pensavano operai e falegnami amici di famiglia, magari gratuitamente perché lavoravano alla cava, e nessuno si era proposto di insegnare qualcosa a lui. Non era stato incoraggiato a costruire nulla, a cimentarsi con l’elettricità, con il legno, con le macchine telecomandate, con un televisore scassato. Perfino l’uso del computer si attestava a un livello ludico e all’accesso superfluo e ripetitivo ai social network. Tutto qui. Ma tu non potevi farti sotto? Le cose devi sapertele prendere, bellezza!

Però un ragazzino va anche coinvolto. È un compito preciso degli adulti. Stronzate. I ragazzini di solito sono curiosi, tu sei sempre stato un poltrone. Tornando a casa si sottopose alle esternazioni entusiaste del padre, che gli ripeteva come avrebbe imparato in fretta e si sarebbe fatto valere. Lo incitò a esprimersi sulla giornata di lavoro, lui gli diede soddisfazione. “È andata bene, papà. C’è parecchio da fare.” Poi uscirono dall’auto e incrociò l’espressione raggiante del suo vecchio. Si sentì come mai in tutta la sua vita. Avrebbe voluto che sapesse leggergli il pensiero per scoprire l’infelicità che lo affliggeva. Anzi no, non lo voleva… Sarebbe stato terribile per il genitore scoprire che disprezzava quell’opportunità, che scansava la fortuna offerta proprio a lui, uno sfaccendato con il solo merito di essere l’unico figlio a ereditare.

Quattordici

Papà aveva avuto il buon senso di non imporgli la giornata piena e lui poteva ancora impiegare la mattina come gli piaceva. Così arono giorni scanditi dalle eggiate di routine e dai pomeriggi alla cava. Misericordia e supplizio quotidiani. Scoprì che soffriva il caldo, a sera si ritrovava la polvere del cantiere in ogni angolo del corpo; soprattutto gli faceva male agli occhi, era costretto a sgocciolarsi litri di collirio per lavare le pupille da quella limatura biancastra. Di notte faceva sogni apocalittici. Da un cielo di neve cascavano fogli disegnati con figure bigie di operai, macchine mostruose, gatti con il collo squartato. Tutti quei pezzi di carta turbinavano sospinti da un vento che sapeva di polvere e faceva tossire. Si sentivano tante voci mescolate in una sola, una voce polifonica e straniante che univa papà, la figlia del veterinario, il faticatore e perfino Tom. “IL GELATO GLIELO FICCO DOVE NON BATTE IL SOLE CHE NON HAI MESSO PIEDE NEI NUOVI UFFICI E NEMMENO ALLA SOTTOSCRITTA A LONTANAMENTE PER LA TESTA PAPPAMOLLEEEE” diceva la multivoce in un tono demoniaco che si alzava con il vento e nel vortice dei fogli. L’unico episodio che alterò per un poco lo svolgersi di quel regime, fu una scoperta alla cava. Verso le sei del pomeriggio gli operai del lato sud si fermarono di colpo e vennero a chiamare capo cantiere e proprietario. Erano tutti eccitati. Nella sezione di una roccia era apparso un fossile. Una specie di cimice primordiale che affiorava debolmente dalla patina biancastra della pietra, come uno dei suoi disegni a matita. Convocarono il geologo, un tale che si chiamava Aldo Ferrara, il quale osservò con i suoi occhiali tondi e disse che si trattava di un trilobite: un artropode di ambiente marino, antico milioni di anni. La riprova di come in era paleozoica al posto della valle ci fosse il mare. Lui osservò affascinato quel reperto. Tra le linee curve che formavano il disegno notò due occhi. Pensò che quella traccia di esistenza si era conservata per un oceano di tempo soltanto per arrivare a lui, per guardarlo con i suoi occhi morti tra le polveri della cava – e ricordargli il destino di chi si arenava in quel remoto angolo di universo.

Quindici

Il giorno dopo incrociò il gatto nel corridoio. Uscito dal ripostiglio si trascinava verso la cucina, con la testa infilata in una specie di imbuto. Si rallegrò nel vederlo, significava che dopotutto era sulla strada della guarigione. Lo raggiunse, fece per accarezzarlo. Il gatto si fermò e sollevò appena il capo irrigidito dall’imbuto, un gesto che a lui sembrò di freddezza. Non mi toccare, razza di smidollato. Se avessi più forze ti staccherei il pollice. Si accovacciò per accarezzarlo con entrambe le mani, gli lisciò il mantello sulle spalle e la parte posteriore del corpo. Il pelo era meno morbido: così debilitato, Tom non riusciva a farsi le sue lunghe tolette con la lingua. Ti sei lasciato infinocchiare con la storia della cava… Non ti ho insegnato proprio nulla. Oh, ma guarda che ho un piano per uscirne. Proseguì le sue carezze lungo le zampe posteriori. Il gatto lo lasciava fare, senza abbandonare l’espressione di sdegno. Non hai nessun piano. E se ce l’hai non è roba per te. Fidati, posso farcela. Anche se molto probabilmente non ci vedremo mai più. Sai che perdita! Non faceva le fusa. Tom si risparmiava quelle moine. Sembrava rifiutare perfino le carezze: se ne prendeva quel tanto che occorreva ai suoi leziosi padroni, per farli contenti, ma si vedeva benissimo che le detestava. Potrebbe cambiare tutto, dopo, lo sai? Non cambierà proprio nulla perché non farai nulla.

E a quel punto il gatto si divincolò, continuando il percorso verso la cucina, attirato dall’odore del soffritto di fegatini.

Sedici

La eggiata durò meno del solito. Avvertiva l’urgenza del disegno, cui affidava il bandolo dei suoi pensieri, l’alveo dove farli scorrere per trovare uno sbocco coerente. Si rinchiuse in camera con matite e carta, piegato sulla scrivania. Il primo foglio lo riempì con uno scenario di fiume e salici lungo le sponde. Contemplò il disegno e lo mise da parte, insoddisfatto. Il secondo era soggetto più vicino: uno scorcio del vicolo di casa sua. Vi si vedeva la porta del garage e la scala con i vasi di fiori sui gradini, vicini al muro. Più avanti c’era un’altra costruzione, con archi sul pianerottolo al secondo piano e panni stesi ad asciugare. Studiando il risultato si convinse che doveva disegnare l’interno del garage. Qui trovò qualcosa, che nella realtà non c’era. Un tavolo di legno proprio in mezzo alla rimessa. Sul tavolo visualizzò degli attrezzi, cose che non sapeva riconoscere, o meglio che aveva visto ma di cui non conosceva i nomi. Si trattava di strumenti appartenuti al nonno materno, che negli ultimi anni di vita si era dedicato alla falegnameria restaurando i vecchi mobili dei suoi genitori. Gran parte di dei suoi lavori, perlopiù cassettoni, comò a specchio, credenze e perfino una madia, erano stipati in soffitta; altri erano finiti a casa degli zii. Ma gli attrezzi del nonno, molti dei quali acquistati l’ultimo anno di vita, erano tuttora in cantina e papà diceva che funzionavano perfettamente, tanto che li avrebbe utilizzati lui da pensionato. La sua memoria si soffermò su un attrezzo particolare, del quale ricordava anche il nome. Un lungo e sottile seghetto, incredibilmente affilato, con un’impugnatura che sembrava una pistola. Si chiamava gattuccio. Un appellativo fin troppo gentile per un simile arnese. Rammentò un’occasione in cui il nonno lo aveva sgridato pesantemente solo perché si era avvicinato, accennando a sfiorare la lama con un dito. Paragonava quell’attrezzo a una verdesca adagiata sul fondo della barca, apparentemente sopita ma ancora in grado di tranciare la mano del pescatore con un ultimo, fulmineo morso. Disegnò il tavolo e vari oggetti, compreso il gattuccio. Poi contemplò l’opera e

si rese conto perché la sua mente lo aveva condotto nel garage, davanti agli utensili del nonno. Ne ricavò un senso di estraneità, come se non fosse lui, realmente, a formulare quei pensieri. … Non farai nulla. Invece sì.Se ci provi finisci come minimo all’ospedale, se non peggio… E se riesco? Allora potrò ricredermi su di te. Non ti chiamerò più pappamolle… Non bastava disegnare l’ambiente polveroso del garage e quegli attrezzi. Fece anche lo schizzo di una vanga appoggiata nell’angolo, che nel garage c’era davvero perché serviva a suo padre per raccogliere i residui della legna da ardere, mano a mano che i cumuli arretravano durante l’inverno. Ora gli occorreva una strada di campagna. La via delle vigne, un altro scenario che conosceva a memoria. La disegnò con un enorme tramonto sullo fondo e si sforzò di dare agli alberi e alle viti un’ombreggiatura lunga che sapeva di luce dileguante, di notte che incombeva. Infine disegnò un altro vicolo del paese, non lontano dalla sua casa. Una zona più sciatta, fatiscente. Abitata da gente povera e rumorosa. Un posto dove un bullo come Tom avrebbe trovato pane per i suoi denti. Vedremo...

Diciassette

Nel pomeriggio accompagnò il padre alla cava. Fu meno opprimente delle ultime volte; lo fecero montare su un escavatore a muovere leve su quadro di comando. Era quasi come giocare al computer, con la differenza che i movimenti della pala meccanica erano reali e apparentemente meno precisi. Gli uomini si erano già abituati alla sua presenza, il padre lo aveva presentato a tutti gli operai fissi e gran parte di quelli saltuari. Dopo i primi sorrisi ognuno era tornato al proprio lavoro senza prestargli più attenzione. Lui pensava a cosa scrivere nella lettera. Cercava parole facili. Dopo cena si dedicò a scriverne una bozza al computer. Alla luce della lampada a stelo lavorò per più di un’ora, prima di giungere a un’accettabile versione definitiva che stampò e piegò in due spillandone i lembi. Tom era entrato in camera. Ormai approfittava della convalescenza per gironzolare liberamente per la casa. Nessuno se ne curava, tanto meno mamma che anzi vedeva nella presenza forzata del gatto un pericolo in meno per la collettività, e per adesso preferiva così piuttosto che ricevere lamentele. Era in un angolo avvolto dalla penombra, e sembrava studiarlo tra curiosità e scetticismo. Stai pensando proprio a tutto, eh? È il mio senso di protezione, amico mio. Puah! mi fai venire il vomito. So badare a me stesso. Piuttosto pensa a te, pappamolle… Dalla sua scrivania lo guardò di sbieco. Davvero? Allora devo concludere che quel crepaccio sul collo te lo sei aperto tutto solo. Per tutta risposta il gatto uscì dalla stanza. Lui ridacchiò tra sé mentre infilava il foglio stampato in una busta da lettere. Poi si fermò a riflettere su quello che

stava facendo. Un confuso stupore fiorì nella sua mente, si interrogò sulle qualità che stava rivelando a se stesso. Per la prima volta si scopriva intento a concepire e porre in atto un progetto concreto. Era dunque proprio quello il suo talento? Molto presto lo avrebbe scoperto.

Diciotto

Si concesse un ultimo giorno. Un risveglio tranquillo con la luce che filtrava attraverso la persiana, il caffè di sua madre, la solita eggiata nella luce del mattino. Per fortuna non si era imbattuto nel faticatore e questo significava che non lo avrebbe infastidito mai più. Mentre camminava si rese conto di affrettarsi troppo, di non riuscire a godersi l’aria e lo scenario della campagna. Allora rallentò sforzandosi di non pensare, di lasciarsi pian piano invadere dalla bellezza che lo circondava: il sole che si alzava nel cielo come una divinità, l’odore caldo della vegetazione, il ronzio delle api e tutto quel cinguettare. Mentre si obbligava a focalizzare ciascuno di quei particolari, certi interrogativi si fecero ugualmente strada nella sua mente, come quegli sfacciati che sgomitano per raggiungere la prima fila al concerto. Il primo interrogativo era ‘cosa sarebbe stato, dopo’. Per esempio, avrebbe potuto ancora soddisfare la sua ione per la natura? Era una domanda che implicava una risposta pessimistica, quindi la bandì dal suo cervello. Ma subito si fece avanti un altro pensiero: avrebbe sofferto? Che sciocco, certo che avrebbe sofferto. E chi altri avrebbe sofferto? Molti altri. Ma che importava? In fin dei conti la sua vita si era consumata all’insegna dell’esclusione, tanto valeva arrivare in fondo e fregarsene. Escludersi del tutto, senza ripensamenti. In un certo senso, per tutta la vita si era comportato come un ragno, però al contrario: aveva tessuto tele che non imprigionavano altri che se stesso, riparandolo dal resto del mondo, escludendolo dalla mischia; non c’era ragione per preoccuparsi delle conseguenze delle sue scelte proprio adesso. Sei bravo a inventarti cazzate; ogni idea che ti viene in mente dovrebbe a dare senso all’inverosimile, vero pappamolle? a dimostrarti che puoi fare qualcosa, a differenza di quanto s’è visto fino ad ora… Sì, lo ammetteva. Aveva vissuto anni e anni di inerte confusione. Ma adesso sapeva come uscirne, per la prima volta sapeva come dare seguito a un’idea, come sfuggire al destino del trilobite. Quindi sì, poteva. Poteva eccome!

E visto che non c’era modo di tenere a freno la sua immaginazione, con buona pace dello spettacolo in cui era immerso, pensò bene di ricapitolare tutto. Utilizzò i disegni ripescandoli dalla memoria e posizionandoli nell’ordine giusto, come lo storyboard del film che si preparava a girare: il garage con il tavolino e gli attrezzi (simbolicamente, perché tanto non se ne sarebbe fatto nulla di quelle cose), la strada delle vigne al tramonto, il vicolo fatiscente, poi di nuovo il garage con la vanga nell’angolo, infine un primo piano dell’unico attrezzo utile allo scopo: il gattuccio. Quei pensieri gli rimasero in circolo per tutto il pomeriggio. C’era un contrasto ancora più stridente tra la fervida attività della cava, così razionale e finalizzata, e l’oggetto delle sue meditazioni. Mentre gli illustrava un elenco di fornitori e varie scadenze di pagamento, suo padre lo richiamò alla realtà facendogli notare che sembrava svagato. Gli domandò se capiva quello che stava spiegando. Lui assentì paziente. Tanto era l’ultima volta che si trovava prigioniero in quell’inferno. Una volta a casa, salì in camera e prese la lettera già chiusa, in cui aveva inserito il denaro (solo metà, il resto era previsto a lavoro concluso). Scese nel vestibolo e disse che doveva uscire un momento, sarebbe tornato nel giro di cinque minuti. La madre lo avvertì di non fare tardi perché la cena era quasi pronta. Con il cuore che batteva forte e il sudore che colava giù per la schiena, puntò verso vicolo fatiscente. Tre o quattro minuti di corsa durante i quali non incontrò anima viva. Il portone di legno verde era incorniciato da una corona di buganvillea con i fiori viola, un abbellimento quasi ironico dove abbondavano calcinacci negli angoli, muri scrostati e odore disgustoso di cipolla stufata. Sforzandosi di non pensare cercò la cassetta delle lettere. Non ce n’era traccia. Allora studiò quel portone, temendo di essere avvistato. La finestra al primo piano era spalancata. La luce si stampava sul muro di fronte, voci che gridavano parole incomprensibili ne fluivano come da un girone infernale. Ebbe solo un istante di incertezza. Vacillò, ma non nella determinazione, bensì nel modo. Capì quanto vicino si trovasse sia alla salvezza sia alla perdizione, come in bilico su in crinale di montagna sferzato dal vento. Poteva cadere da una parte o dall’altra; arrivò perfino a misurare l’enfasi del momento, e quanto fatalmente decisiva risultasse ogni microdecisione che adottava in ciascuno dei secondi successivi.

Quindi si chinò e lanciò la busta sotto il portone. E corse via. Gli sembrava di aver sentito le voci attutirsi: forse avevano colto il fruscio della busta in fondo alle scale. Entro dieci secondi avrebbero aperto la lettera.

Sognò il nonno materno, morto. Il silenzio solenne del cadavere, pieno di quella dignità congelata che hanno i defunti. C’erano i famigliari intorno al letto. La mamma singhiozzava, ma compostamente. Papà aveva la faccia pallida e si dava da fare con quelli delle pompe funebri. Gente del paese si affacciava alla porta per fare il segno della croce e raccogliersi un momento in preghiera. Nelle loro espressioni affiorava lo stupore e la lieve apprensione nel contemplare la morte. Lui osservava quei volti, poi tornava a guardare il nonno e il sogno prendeva una piega imprevista. Il nonno era seduto sul letto, nel suo vestito gessato. Aveva la faccia livida, le labbra scure come orli di una ferita, i capelli pettinati – e guardava lui. Spaventato, studiò un momento le facce dei presenti, ma nessuno si rendeva conto del prodigio. Nella penombra continuavano a pregare, a contemplare il capezzale con il cappello in mano. Il nonno parve rimproverarlo in silenzio. Poi sollevò un braccio, gli puntò l’indice e disse con voce roca: “Attento alla lama, ti taglierai!”

Diciannove

La mattina iniziò con Tom. Era uscito i casa, per la prima volta da giorni, e gli aveva portato in dono un ero morto. Lui notò quell’uccello mentre scendeva dal letto e restò di stucco. Il gatto lo aveva posato sul pavimento e ora fissava il suo padrone con gli occhi tondi come uva. I miei omaggi. E che la fortuna ti arrida. Avvolse l’uccello nella carta igienica e lo buttò nella spazzatura. Era un miracolo che sua madre non si fosse accorta dell’impresa. Poi controllò l’orologio. Era ancora presto: nella lettera aveva precisato ‘dopo le otto e mezza’. Quindi si preparò la colazione. Sentiva la tensione mordergli lo stomaco mentre ingollava i biscotti inzuppati nel latte. Colse il tremore della mano e si sforzò di non farci caso. Si rese conto che era più silenzioso del solito, si chiese se conveniva dire qualcosa per non attirarsi qualche domanda sospettosa della madre – ma non gli venne niente e pensò perlomeno di evitarne lo sguardo. Quand’ebbe finito la colazione controllò di nuovo l’orologio. Le otto e venti. Corse a vestirsi. Il gatto lo seguiva con lo sguardo. Sta calmo… credi che sarà puntuale come un treno svizzero? Rallentò un poco ma si vestì comunque alla svelta. Si guardò un attimo allo specchio. Era pallido, aveva ombre scure sotto gli occhi. Chi se ne frega! Uscì dalla stanza con l’intenzione di andare nel ripostiglio e aprire la botola che accedeva direttamente alla cantina, e da lì infilarsi nel garage. Sua madre lo incrociò. “Stai già uscendo? Andresti a comprare della carne di manzo e un po’ di piselli?” Serrò i denti fino a farli scricchiolare.

“Carne e piselli?” ebbe un colpo di tosse. “Ti servono subito?” “Che intendi per subito?” “Intendo immediatamente, fra un secondo, ora…” si accorse di parlare come un isterico; e infatti la madre lo guardò perplessa. “Ma che hai?” “Nulla. Voglio uscire all’aria aperta, tutto qui.” “E chi te lo impedisce? Va, va pure.” La donna gli voltò le spalle per tornare in cucina. “È per il secondo?” disse lui, conciliante. “Sì, per quello.” “Vado subito,” e la oltreò. Guardò l’orologio: le otto e ventiquattro. Sentiva gocce di sudore pizzicarlo lungo l’attaccatura dei capelli. Afferrò le chiavi da un portaoggetti sulla scarpiera e uscì. Avrebbe preferito accedere al garage dall’interno per evitare che qualcuno lo notasse, ma tanto non c’era nessuno nel vicolo. E anche se qualcuno lo scorgeva da qualche finestra, che differenza poteva mai fare? Proprio nessuna, vero Tom? Già, amico mio. Il dado è tratto… Infilò la chiave nella serratura e aprì la porta centrale del garage. La vanga era nell’angolo a destra. Si poggiò l’anta alle spalle. L’ambiente piombò nella semioscurità, ma dalla fessura della porta socchiusa fluiva abbastanza luce per andare a recuperare agevolmente il gattuccio dal camino, dove lo aveva nascosto la sera prima. Tornò di fianco alla porta, mise il seghetto vicino ai piedi, prese la vanga e restò in quella posizione: ritto come una candela e con l’attrezzo fra le mani.

Venti

Come spesso accadeva nei momenti in cui aveva bisogno di non pensare, puntualmente pensava. E molto. Adesso era ossessionato dalla richiesta di sua madre. Aggiungeva altra attesa, quella della donna, alla sua attesa personale. Creava una zavorra supplementare all’ansia che avvertiva, conseguenza della responsabilità di mettere la donna in condizioni di cucinare. Poi calcolò che lei non avrebbe iniziato prima delle dieci e questo gli dava un po’ tempo: in teoria gli era stato concesso di andare a eggio prima di are al supermercato. Ma un altro problema si affacciò alla sua mente lasciandolo di sasso. Quel pomeriggio erano attesi i camion della ditta Labiola, la più importante impresa di costruzione della valle. Suo padre era assente per affari e gli aveva raccomandato di seguire le consegne di sabbia e di prendere nota delle quantità di carico. Aveva precisato che nessuno lo avrebbe fatto al suo posto, neanche il capo cantiere. Toccava proprio a lui segnare sui moduli i quintali prelevati. Alla fine gli sfuggì un sorriso, mentre se ne stava nell’ombra con quella vanga tra le mani e qualche raro ante faceva udire i suoi i nel vicolo. Non c’era proprio un bel niente da calcolare o annotare: quel giorno non avrebbero pranzato affatto e papà se ne sarebbe infischiato della consegna della sabbia. Quei timori così effimeri gli servivano per allontanarsi dallo scopo per cui si trovava in garage. Ruotò leggermente la vanga tra le mani. Eccolo il nucleo incandescente della sua paura! Altro che gli stronzi piselli e i quintali di sabbia. I guai sono altrove. Anzi, sono proprio qui. Quelle preoccupazioni di second’ordine erano come piccoli vulcani in eruzione, dirottavano per altre vie il magma della sua ansia, lasciandogli credere che il problema non fosse in ciò che stava mettendo in atto bensì nelle conseguenze derivate. Strinse quell’arnese e lo sollevò un poco. Guardò l’orologio: nove e dodici.

E se non fosse arrivato? All’improvviso quel pensiero. Lui era pronto, vigile, ben consapevole di cause ed effetti; aveva pianificato ogni dettaglio eppure aveva trascurato proprio l’essenziale: in effetti il tipo poteva intascarsi il denaro e guardarsi bene dal presentarsi all’appuntamento. Se fosse accaduto, il piano sarebbe andato in malora e non certo per colpa sua. Non avresti nulla da rimproverarti. Un angolo della sua mente iniziò a sperarlo. Ma potresti sempre riprovarci… Assentì tra sé. In effetti a quel punto avrebbe dovuto trovare un’altra soluzione. Perché era il suo lavoro. Era la sua via di fuga per evitare il calappio della cava – oltre che per difendere la libertà di Tom. Un’ombra oscurò lo spiraglio della porta. Il battente si aprì con un cigolio e l’ambiente s’inondò di luce; qualcuno entrò e fece risuonare un colpo di tosse. Fu così repentino che gli mancò il respiro. Era rintanato nell’angolo tra la porta aperta e il muro; si sporse a spiare, e per un istante si convinse che fosse entrata un’altra persona. Ma era lui. Lo riconosceva dal cappello. Portava con sé odore frammisto di stoppie e ruggine e vino secco. Attese che si allontanasse mezzo metro e con la punta del piede richiuse il battente. Il garage tornò nell’oscurità. Vide quel testone voltarsi a destra e sinistra alla ricerca di punti di riferimento. “Uagliò…” Sollevò la vanga, e con un gemito da tennista che affronta la pallina lo centrò sul cranio: BUNG! Il tocco di una campana col battaglio avvolto di stracci. Il cappello volò in fondo al garage rotolando sotto la poca legna rimasta alla fine dell’inverno; il vecchio si piegò in avanti, barcollò, ma riuscì a voltarsi nella sua direzione. Pur nell’oscurità lui vide quegli occhi avvitarsi come spirali, riempirsi di una vacua meraviglia. Avanti! DI NUOVO!

Sollevò e colpì in piena faccia. Stavolta il dorso metallico della vanga sbatté con rumore di un piatto contro una superficie in mattoni – e l’uomo piombò a terra, “Ohimuè!”; le pupille gli saettarono come lampadine prossime a fulminarsi mentre si puntellava sul gomito sinistro. Lui si avvicinò. Sentiva forza. Sentiva odio, sentiva libertà e anche un intenso senso di giustizia. Ed erano sentimenti che provava per la prima volta nella sua vita, benché fosse del tutto evidente che premevano da sempre dietro una parete nascosta del suo cuore, in attesa di tracimare e dilagare in ogni angolo del suo corpo. Scrutò Aguirre che tentava di mettersi in posizione seduta. Ci riuscì con enorme sforzo, quindi lo occhieggiò ansimante, con quell’espressione che tendeva all’incredulità. Aveva un taglio sotto l’occhio sinistro. Il sangue colava dal taglio e dalle narici e anche dalla bocca contratta dal dolore dove spiccava il nero di un incisivo saltato via, raccogliendosi sul mento come le acque reflue della cava. Lui si concesse un istante per fissare quella faccia: era diversa da come l’aveva sognata. Non faceva paura, non aveva vetri conficcati sulla fronte e di sicuro non esprimeva alcuna collera omicida. Ma in certo modo produceva un effetto persino peggiore, perché faceva…

Forza pappamolle, non ti fermare proprio ora, FINISCI IL LAVORO! Impugnò la vanga, la sollevò sopra la spalla destra come il battitore di una strana versione del baseball; chiuse forte gli occhi per sentire quella corrente che percorreva ogni fibra del suo corpo, ascoltò l’ansimare dei polmoni, il tambureggiare del cuore, il pulsare della vena nel collo, poi li riaprì e vide che Peppino lo osservava terrorizzato; ebbe un attimo di esitazione … perché faceva…

non ti fermare… finisci il lavoro FINISCI IL LAVORO… Vibrò il colpo con tutta la forza. “Uhnk” Il vecchio stramazzò e le gambe si sollevarono e ricascarono con un tonfo.

Era il momento. Mollò la vanga e corse a prendere il gattuccio. Lo impugnò, tornò dal vecchio Peppino che giaceva a terra esanime. Solo adesso notò che gli spuntava il lembo di una corda dalla tasca destra del pantalone: era proprio deciso ad ammazzarlo lu gatt, e si era attrezzato alla bisogna. Si accovacciò accanto alla faccia, di nuovo si soffermò sulla maschera di cuoio insanguinato e non seppe bene dove colpire. Ti manca solo l’ultimo o, non pensare, non pensare, non pensare. Afferrò la testa del vecchio per i capelli, la inclinò e gli espose la parte destra del collo. Notò che era straordinariamente liscia in confronto alla faccia rugosa. La collana appariva come una cerniera dorata e sporca di sangue, la croce era riversa sulla spalla sinistra. AGISCI! Strinse l’impugnatura della sega, digrignò i denti risucchiando aria in un sibilo feroce e… La luce del sole invase il garage. Alzò uno sguardo attonito alle pareti, si sentì afferrare e strappare la sega dalla mano (fra le urla riconobbe la voce di Vito Bardaro); in un attimo lo allontanarono dal vecchio e nella sua mente si formulò qualcosa di simile al pensiero, confuso, di un ringraziamento, in nome e per conto di Aguirre…

… perché faceva pena.

Ventuno

Sognava di essere assistito legalmente dalla figlia del veterinario. La immaginava in tailleur gessato che veniva a spiegargli bizzarre strategie difensive nel giardino sul retro, parlando fino a notte fonda. Ma il processo non iniziava mai e quelle tattiche restavano inutilizzate. Allora provava a farle capire che era tempo perso discutere di atti processuali e interrogatori, e cercava di spostare la conversazione su questioni personali. Il desiderio di averla era sempre più intenso: se lei avesse compreso che non c’erano processi in vista, che nessuno si sarebbe preso la briga di giudicare un balordo come lui per l’aggressione a un vecchio analfabeta, magari avrebbe placato la sua foga professionale e alla lunga si sarebbe concessa. Ma erano i soliti depistaggi del suo cervello. In quei sogni si distraeva dal problema principale e i suoi crucci deviavano su questioni di ordine secondario: sugli appetiti insoddisfatti, piuttosto che la galera. Ma la realtà lo attendeva al mattino, puntuale. La luce che adesso veniva a svegliarlo non era benevola come una volta.

La parola ricorrente era: Perché. Perché aveva fatto una cosa così orribile? Perché aveva tentato di uccidere quell’uomo? Perché aveva provocato quel dolore ai suoi genitori e alla famiglia di Peppino? Tanti Perché che si radunavano come cani randagi e venivano a reclamare cibo alla sua porta. Proprio a lui, che stentava a dare risposte perfino a se stesso. Aveva trascorso tre settimane senza dire una sola parola. Non era un silenzio difensivo, malgrado quello che affermava lo psichiatra. La verità era che non aveva proprio nulla da dire. Dopo alcuni giorni di carcere minorile, il suo avvocato – tanto per cambiare un amico del padre, molto in vista nella regione – aveva ottenuto gli arresti domiciliari invocando l’assenza del rischio di reiterazione e anticipando la temporanea infermità mentale come approccio

difensivo. Avevano quindi già deciso per lui: era impazzito, e aveva tentato un omicidio senza senso. Il ragazzo andava solo curato e mai più avrebbe fatto del male a qualcuno. Era forse per questa ragione che l’unico a non chiedergli mai Perché era proprio l’avvocato, al quale il suo silenzio ostinato faceva gioco. Al contrario, lo psichiatra insisteva per tirargli fuori qualcosa; con garbo, con una studiata e insinuante cautela, ma senza mollare un colpo. Anche se non chiedeva mai nulla in relazione al suo gesto (non citava mai Peppino o il garage) era proprio lui il re dei Perché. Si presentava con vecchie fotografie e chiedeva di ricordare le circostanze in cui erano state scattate. Lui si limitava a guardarle – e non provava alcunché. Oppure lo psichiatra rievocava un episodio della sua infanzia – di sicuro rivelatogli dalla madre – e lo declinava come gli pareva fingendo di essere nella sua testa, immaginando quello che aveva pensato lui in quei momenti o ipotizzando conseguenze che esistevano solo nella sua boria di strizzacervelli. A volte giocava le sue carte e diceva “Giusto? Sei d’accordo con me?” e lo guardava, aspettando una risposta, prima di ricominciare gli sproloqui. I suoi Perché erano indiretti, dunque. Cercavano lunghe e complicate strade alternative per giungere alla sua porta, mascherati da agnellini, ma pur sempre con la bava alla bocca e lo sguardo affamato.

A sera lui restava solo. E finalmente tornava Tom. Non metteva mai il muso nella sua stanza se c’erano avvocati, medici o genitori. Se ne stava alla larga da quella manica di parassiti. Poi faceva capolino silenziosamente attraverso la porta socchiusa, si stiracchiava un momento e gli saltava in grembo, facendo le fusa. In esclusiva per te, su questa rete. Lui lo carezzava, ma non troppo, perché non voleva tirare la corda. E quando era proprio sicuro che non ci fosse nessuno nelle vicinanze, quando non sentiva più i i pesanti di suo padre lungo il corridoio o le lacrime sommesse della madre, sintonizzava la sua mente con quella del gatto. E gli assicurava che no, non aveva dimenticato i suoi impegni. Puoi stare tranquillo, non sono più un pappamolle.

E per dimostrarlo tirava fuori i fogli nascosti nel cassetto della scrivania, pensando con un sorriso al povero psichiatra che non ne sospettava l’esistenza. Posava Tom sul letto e gli metteva davanti quei fogli. Bravo, ora sì che ti riconosco. Il gatto fissava gli occhi di smeraldo sul primo foglio: la porta del bar nella piazza, il pergolato, i tavolini esterni. Il muretto perimetrale che delimitava l’angolo con la strada provinciale.

E lì di fianco, con il suo grugno prepotente, la sigaretta tra le labbra e le mani tasca, il faticatore attendeva nella luce gloriosa del pomeriggio.