Giorgio Ronco
A morte piacendo
Mysterious park
Titolo originale: "A morte piacendo" © 2015 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu) I edizione cartacea maggio 2015 ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-653-4 I edizione e-book giugno 2015 ISBN edizione e-book: 978-88-6396-692-3 www.giovaneholden.it
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ISBN: 9788863966923
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Indice
Prima parte Armelie
I II
Seconda parte Prima esecuzione
III IV V VI VII
Terza parte Seconda esecuzione
VIII IX
X XI XII XIII XIV XV XVI XVII
Quarta parte Terza esecuzione
XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII
XXVIII
Quinta parte Quarta esecuzione
XXIX XXX XXXI XXXII
Sesta parte Esecuzione finale
XXXIII XXXIV
Settima parte Conclusione
XXXV
L'Autore
Prima parte
Armelie
I
Il bisogno di punirsi la stava spingendo sulla china del degrado fisico, psicologico, e perfino sessuale. Può succedere, nella vita. Solo che lei era un ispettore di polizia. Quello del cacciatore era stato il suo primo caso di omicidio, un caso di risonanza internazionale, e lei aveva fatto di tutto per prenderlo, quel serial killer. Anche troppo. Per questo una ragazza era stata seviziata e uccisa. E quando alla fine lo aveva ormai in pugno, lei… lo aveva lasciato andare. Anzi, peggio. Così quella poveretta era anche morta per niente. E questo Armelie non avrebbe mai potuto perdonarselo. Quel viso che nonostante tutto le sorrideva, e così le faceva più paura, lei aveva cercato di rimuoverlo, ma non c’era verso, le appariva continuamente, specie di notte e non la lasciava dormire. Perché la morte di un innocente non offre scuse, né attenuanti. Solo incubi. Ce n’era uno di ricorrente. Si trovava in Portogallo, a Cabo de Roca, nel punto più ripido di quell’alta scogliera. E all’improvviso si vedeva sgambettare giù, verso l’oceano spumeggiante e minaccioso. Che d’un tratto si calmava e prendeva le sembianze di quel viso sorridente. Sgambettava e sembrava che il volo non finisse più, scendeva come al rallentatore, e poi un attimo prima di essere inghiottita da quel sorriso, si svegliava in un bagno di sudore. E così la mattina, per rimediare a quegli strazi notturni, doveva darci dentro con il trucco. Ma non ci sapeva fare, e sembrava una prostituta, allora si inventò un disturbo agli occhi, e quando guardandosi allo specchio si faceva pietà, andava al lavoro con dei leggeri occhiali da sole. Continuava ad andarci, in questura, anche se non si sentiva nemmeno più un poliziotto. Aveva perfino pensato di lasciare. Solo che non voleva finisse così, su quel fiasco. La sera fumava per riflettere, e beveva per non pensare. Un disastro. Al mattino il suo alito tradiva quel tormento interiore e le Fisherman’s non c’erano mai quando servivano.
Oltre al bere mangiava male, ciò che trovava, e aveva smesso di fare jogging. Fra una cosa e l’altra in un mese e mezzo aveva messo su quasi tre chili, che ne appesantivano l’elastica figura. Dicevano che era pure meglio così in carne, invece le era venuta una brutta pelle e i pantaloni le stringevano sui fianchi. Ma non aveva voglia di pensarci, così teneva il bottone slacciato e tirava avanti. Insomma, se all’inizio di quel caso dimostrava dieci anni in meno dei suoi trentasette, adesso, neanche due anni dopo, ne dimostrava tre in più. Ma anche così era sempre lei, Armelie. E Federico continuava ad amarla come prima, anche di più da quando aveva visto quel tormento di cui lei non voleva parlare. Ma era per lei che le cose non erano più come prima. E impose al suo boy-friend una pausa di riflessione. Anche la casa che adorava, e dove aveva deciso di mettere le sue radici, aveva cominciato a seguire le vicissitudini della sua padrona, e andava ogni giorno più giù. Era soprattutto quel giardino pazzo e romantico - la sua fonte prediletta di relax - a risentire della sua indifferenza. E a fine giugno era evidente che avrebbe dovuto prendere un giardiniere, se voleva che l’estate arrivasse anche da lei. Ma non si decideva mai a fare quella benedetta telefonata. Se non era per lavoro, il telefono le pesava come fosse di piombo. L’ispettore-capo Armelie Bernardi abitava in una casetta a due piani con giardino in pieno centro, ereditata dalla nonna materna. Un giardino di cui amava in particolare quelle tre strane palme, del tutto avulse dal contesto, forse perché le trovava in sintonia con il suo tratto vagamente egizio. Entrata in polizia verso i trent’anni, dopo l’ennesima delusione all’esame di avvocato, aveva saputo in poco tempo farsi amare da tutti, “una ventata di aria fresca” diceva il commissario Vitale, e concupire da molti (“il più bel culo della questura”). All’epoca, il suo nome veniva stabilmente associato al caso del cacciatore. Il caso che, a partire dall’autunno 2012, aveva tenuto per un anno e mezzo la piccola questura di Pordenone alla ribalta della cronaca internazionale. Il caso che le aveva rovinato la vita. Dopo l’interruzione dei rapporti con Federico, la china di Armelie si era fatta ancora più ripida. E per difendersi dai suoi strazianti sensi di colpa lei si chiuse in se stessa, facendosi ogni giorno più indifferente verso il mondo che la circondava. Lavoro compreso. D’altra parte, dopo il cacciatore, non è che il lavoro offrisse poi grandi stimoli.
Armelie si stava giusto occupando di un paio di scippi e di un caso di induzione alla prostituzione, in cui erano coinvolte due minori del Ghana. Un caso che gestiva in collegamento con i Servizi Sociali e in tandem con Pierandrea Merli, il pm del caso cacciatore, lo stronzo opportunista che era stato all’origine di tutti i suoi guai. E anche il fronte animali, i cui casi finivano regolarmente sulla sua scrivania di vecchia animalista, era per il momento tranquillo. In un periodo di crisi economica, in cui gli uomini cercavano in tutti i modi di sopravvivere, non c’era più tanta attenzione per i problemi degli animali. Evidentemente anche la sensibilità è un prodotto dei tempi migliori. All’inizio di giugno Armelie era entrata in contatto con Laura Frabassi, una vecchia compagna di liceo. Una compagna con cui, per la verità, non aveva mai avuto particolare feeling ai tempi della scuola e che adesso aveva un piccolo studio di commercialista in centro. L’aveva incontrata casualmente una sera all’uscita dal Perla, un american bar le cui ampie vetrate si affacciano sul Ring. Fin dai tempi del liceo Laura era stata una ragazza molto disinibita con i maschi, e adesso da grande, single con alle spalle il fallimento di un matrimonio e di una convivenza, era considerata poco meno che un puttanone a costante caccia di avventure. Ogni tanto Laura si trascinava dietro a forza Armelie, quella vecchia compagna in crisi esistenziale che lei giudicava un capitale sotto-utilizzato, anzi uno spreco assolutamente indecente. Così un giovedì di fine giugno Armelie ricevette in ufficio una telefonata dell’amica. “Ciao bellezza, di che umore sei oggi?” “Mah, il solito, direi, perché?” “Perché stasera un amico festeggia il compleanno al Papillon, e pensavo che sarebbe una buona idea se tu ti aggregassi alla comitiva. Come l’altra volta, ricordi?” “Ma io, veramente, pensavo di andare dai miei, che è un po’ di tempo che non li vedo.” “Su, Armelie, adesso mi vieni fuori con i genitori! E poi, scusa, in disco non è che si va alle nove, giusto? Dai, ti o a prendere verso mezzanotte, e fatti figa.”
“Va bene, se proprio insisti. Ti aspetto a casa.” E Armelie la prese in parola. Camicia bianca su mini nera, tutto in seta e montato su tacco dodici. Più autoreggenti, body nero semi-trasparente, girocollo di perle e anello antico della nonna. E in mezzo lei, capello corto e trucco da gran seduttrice. Verso le due, dopo essersi scatenate a lungo in pista, accaldate e assetate, Laura e Armelie si ritrovarono al bancone-bar del Papillon, luogo di elezione per la caccia notturna. E i cacciatori c’erano. Due commercianti iraniani le abbordarono quasi subito e dopo alcune battute spiritose e galanti, e un secondo giro di beveraggi, i quattro tornarono in pista a ballare. Armelie era già alticcia e perse quasi subito le tracce dell’amica. Il suo cavaliere era il più tarchiato dei due, aveva la testa incorniciata da una massa di capelli ondulati, viso e sorriso dolci, e un fisico da lottatore, sembrava d’acciaio. E sapeva come accendere una donna su una pista da ballo. L’azione continuò su un divanetto appartato, poi andarono via. Armelie lasciò un messaggio per Laura, che probabilmente stava già scopando in qualche auto del parcheggio. Lungo il tragitto verso il centro, ci furono dei contatti pericolosi in auto. E appena entrati in casa, ancora al buio si gettarono l’uno sull’altra, si palparono e si slinguarono, ansimando si levarono i vestiti di dosso, poi lui le aprì il body, se la tirò a cavalcioni e la scopò in piedi sul muro a fianco della porta d’ingresso. L’incendio di Armelie cominciò a scendere, ma non era per niente domato. Ci pensò poco dopo la lunga e alterna scopata che si fecero a letto. Sesso non protetto con sconosciuti. Brava Armelie, avanti così. Prima di crollare addormentata, cercò di ricordarsi se aveva chiuso la porta d’entrata. Ma non ce la fece. Durante la notte lui la svegliò per scopare. Quante volte? Una o due? O la seconda se l’era solo sognata? Si svegliò che saranno state le otto. La luce di giugno aveva inondato tutta la stanza e di lui non c’era più traccia. La porta d’entrata era chiusa e la Beretta era sempre al suo posto. Per fortuna. La sua scopata aveva anche un nome strano, Xaabar o Tsaavar, una cosa così. Non era il primo e non sarebbe stato neanche l’ultimo. Solo che l’altra volta i preservativi c’erano, questo se lo ricordava bene. Adesso avrebbe pure dovuto fare il test
dell’HIV. In ogni caso un’altra notte era ata, senza incubi o rimorsi. Senza pensare. Si trattava adesso di trovare il coraggio di affrontare un altro giorno in questura. Così si mise gli occhiali da sole, più un leggero foulard al collo, e uscì. Armelie si era accorta che in questura, anche se all’apparenza erano gentili come sempre, i suoi vecchi compagni di squadra in realtà si comportavano in modo strano, con sguardi di sottecchi e accenni a mezza bocca. Sentiva intorno a sé perplessità e reticenza. Come se non si fidassero. E a lei questo era proprio insopportabile. Perché avevano ragione.
II
L’ultimo omicidio del cacciatore aveva avuto luogo in Camerun e quando verso la fine di aprile la notizia arrivò a Pordenone, Armelie partì subito alla volta dell’Africa per scoprire se uno dei due indiziati, il professor Furlan o il dottor Romani, fosse stato sul posto al tempo del delitto. Trovò il nome di Giorgio Romani fra le registrazioni dell’hotel Savannah di Garoua (lei era sicura che fosse lui il cacciatore), ma per un impulso inspiegabile non lo disse a nessuno. Poi, durante il viaggio di ritorno fece anche di peggio, sottrasse dai documenti sia il foglio incriminato dell’hotel, sia il foglio della dogana da cui risultava l’entrata del Romani in Camerun. E cominciò così a tradire la sua squadra. Una volta rientrata a Pordenone, Armelie procedette all’interrogatorio dei due indiziati. Il Romani, che non aveva alcun alibi per quei giorni, subì anche un fermo e una perquisizione, da cui però non risultò nulla di rilevante. Quindi Armelie si disinteressò al caso. L’impressione generale fu che lei quel caso lo avesse insabbiato volutamente. In realtà Armelie aveva fatto qualcosa di molto più grave. Aveva taroccato un interrogatorio.
Quel lunedì mattina Mario Biscontin, ispettore-superiore della questura, aveva ricevuto sulla sua scrivania un rapporto di furto dell’agente Suset. Il fatto era successo in un attico del residence Bosco Verde, nell’abitazione del dottor Guerraschi, noto dentista di Pordenone. I Guerraschi l’avevano scoperto la sera prima sul tardi, al rientro da un week-end in Croazia, e subito avevano chiamato la polizia. I ladri avevano raggiunto l’appartamento arrampicandosi lungo una grondaia esterna, poi avevano forzato una porta a vetri della terrazza che non era protetta da un sistema di allarme. Il furto risaliva probabilmente alla notte di sabato, il 28 giugno. Il bottino di contanti, ma soprattutto gioielli, era stato di un certo valore, circa ottantamila euro. Biscontin si recò subito dal commissario. Vitale stava fumando la sua prima
pipa. “Ciao Renato, com’è andato il week-end?” Si sarebbe morso la lingua. In genere Vitale andava da quella povera figlia, che gli stava sparendo a poco a poco. Ma fra loro non ne parlavano mai. “Ciao Mario.” Vitale sospirò. “Cosa dirti? Sabato siamo andati a trovare Marzia in clinica, e poi la domenica l’ho ata a discutere con Anna della situazione. Molto meglio il lavoro. E tu?” “Sabato al mio piccolo orto e poi domenica abbiamo avuto a pranzo i ragazzi con i relativi compagni. Tutti giovani precari in cerca di un posticino al sole. Se penso ai sacrifici che abbiamo fatto per far prendere la laurea a tutti e due… Senti Renato, ho qui una denuncia di furto in casa del dentista Guerraschi, anche un bottino sostanzioso, e vorrei affidare il caso ad Armelie, cosa dici? Mi sembra che ultimamente la ragazza abbia un po’ bisogno di stimoli.” “Sì Mario, può essere una buona idea. Dopo il caso del cacciatore la vedo anch’io un po’ scarica, come indifferente a quel che succede. Mi sembra anche giù fisicamente. Capisco che non è il massimo tornare a occuparsi di scippi e risse, però dopotutto è stata lei ad accantonare le indagini sul cacciatore, una cosa che non riesco a spiegarmi, non è da lei, c’è qualcosa che mi sfugge.” In realtà si erano anche diffuse certe voci su Armelie, poco confacenti a un ispettore di polizia. E quando poi avevano cominciato a volare delle battute, lì in questura, ci aveva pensato lui a far are la voglia. Ma anche di questo non parlavano mai. Il fatto è che i due parlavano poco fra di loro, se non era per stretti motivi di servizio. “È un’impressione che abbiamo avuto un po’ tutti,” riprese Biscontin. Ma cosa vuoi, non è arrovellandoci il cervello che ne verremo a capo. Forse aveva solo bisogno di staccare, superare quella delusione. Okay, intanto le darò il caso Guerraschi.” Biscontin trovò Armelie seduta alla sua scrivania. Davanti, un bloc-notes pieno di ghirigori. “Senti Armelie, abbiamo qui la denuncia di un furto, gioielli di un certo valore ai quartieri alti. Ci sono anche dei pezzi vecchi, molto particolari, che se venissero messi in giro così sarebbero facilmente riconoscibili, quindi pericolosi. Il pm è
Pierandrea Merli, uno che conosci bene. Vorrei che te ne occui tu.” “Va bene Mario, me ne occupo subito. Bisognerà fare presto, prima che smontino le pietre. Proverò anche a sentire i nostri informatori.” Quella stessa sera, al secondo contatto, Armelie fece bingo. Il furto era stato compiuto da alcuni romeni, di cui però l’informatore non sapeva un granché. Ma aveva saputo del ricettatore, nientemeno che un noto gioielliere della città, un insospettabile. Doveva farsi dare subito un mandato di perquisizione. E martedì mattina presto Armelie si recò dal dottor Merli, uno che aveva le avances facili, ma i piedi di piombo (nel caso del cacciatore aveva negato una perquisizione nell’appartamento del Romani, che qualunque altro pm avrebbe dato, facendo così tornare in alto mare un caso che era praticamente risolto). Al momento, Armelie stava lavorando con lui per una faccenda di prostituzione minorile e aveva anche preso a dargli del tu. Arrivata dal pm, Armelie lo aggiornò sugli sviluppi del furto e gli fece il nome dell’insospettabile gioielliere. Subito lo vide sbiancarsi, ma non mollò la presa. “Senti Pierandrea, parliamoci chiaro, il mandato mi serve e subito anche. Se non me lo dai, io la perquisizione la faccio ugualmente. E mi assumo ogni responsabilità.” “Ma Armelie, pensiamoci un attimo. Procedere così…” “Mi è già bastato il caso del cacciatore, non ho nessuna intenzione di fare il bis.” “Ma scusa, nel caso del cacciatore mi pare che la perquisizione te l’ho autorizzata, o no?” “Sì, certo, quattro mesi dopo la prima volta che te l’avevo chiesta. E infatti non è servita a niente, in casa non c’era più nulla, nemmeno il fucile.” “Ah sì, adesso ricordo, gli era stato rubato e lui aveva denunciato il furto.” “Appunto, oltre al danno anche le beffe. Allora, cosa facciamo col gioielliere?” “Fammici pensare.” “Il tempo è cruciale, Pierandrea. Senti, io procedo. Se va male ne subirò le
conseguenze, ma se per caso lo becco in flagrante, sarà un brutto colpo per la tua reputazione.” Il pm si chiuse in un meditabondo silenzio. Poi le sorrise. “E se te lo firmo, io cosa ci guadagno?” Armelie sentì un crampo allo stomaco. “Prima di tutto, fai solo il tuo dovere. E poi, come ti ho detto, non corri il rischio di sputtanarti per tutta Pordenone.” Sospirando il pm firmò il mandato e subito Armelie si scheggiò fuori dall’ufficio. ò in questura, prese un paio di volanti e a sirene spiegate andarono alla gioielleria. Fu più fortunata del previsto. Una volta superata la barriera della moglie e del genero, nel retrobottega trovarono il titolare intento a smontare i gioielli della refurtiva. Colto in flagrante. Lo ammanettarono e lo portarono via sotto gli occhi attoniti dei familiari, di un cliente e dei curiosi fuori del negozio. Si fecero dire l’indirizzo dei ladri e così nella stessa retata andarono a casa dei due romeni e li beccarono che stavano ancora dormendo. Quello dei due che aveva fatto il colpo era un ex-acrobata del circo. Illustre l’arrestato, famosa l’investigatrice, l’indomani tutti i giornali e le TV locali davano ampio riscontro del caso e della sua fulminea soluzione. Per Armelie fu una boccata di ossigeno, un’emozione di altri tempi. In questura ci furono sorrisi e complimenti. Poi però, come la superficie di uno stagno si ricompone inesorabilmente anche dopo la più violenta increspatura, l’umore di Armelie ritornò uguale a prima. Fra i quarantacinque e i cinquanta, Pierandrea Merli era arrivato da Bologna alcuni anni prima, con una fama di donnaiolo che aveva presto onorato anche a Pordenone. Un vizio che alimentava cacciando libelli erotici sulle bancarelle dei mercatini. Ci aveva provato anche con Armelie, naturalmente, ma con scarso successo. Lei era una ragazza un po’ all’antica e detestava quel tipo di uomini. A causa delle sue ambizioni politiche, stava molto attento a non fare i falsi nelle indagini. Lui la chiamava prudenza, per gli altri era solo vile opportunismo.
Non si erano ancora spenti gli echi del blitz di Armelie alla gioielleria, che un
nuovo caso venne a scuotere la questura di Pordenone, l’omicidio di un investigatore privato, tale Luigi Rampin. L’aveva trovato nel suo ufficio la mattina di venerdì 11 luglio la donna delle pulizie. L’ispettore Carlo Bastinelli aveva preso la telefonata della donna ed era intervenuto sul posto col dottor Venturin e la squadra per i rilievi scientifici. Il Rampin era un uomo di mezza età, piccolo e insignificante, perfetto per qualsiasi pedinamento, che poi era quello che in genere gli chiedevano di fare, più qualche fotografia. Lavorava da solo in un bilocale al quarto piano di un fatiscente edificio, dalle parti del policlinico. Nel cucinino dell’appartamento fu trovata anche una piccola camera oscura. A occhio e croce la morte poteva risalire alle otto di sera del giorno prima. La famiglia, non vedendolo rientrare per cena, non si era preoccupata più di tanto. Il Rampin lavorava spesso la sera, a volte anche senza avvisare la moglie. Se poi faceva molto tardi, capitava pure che dormisse in ufficio, dove teneva un letto di emergenza. Era stato colpito alla nuca con un corpo contundente, e poi strangolato con un cordino. Non era un bello spettacolo. Il commissario Vitale si fermò a commentare il fatto con Biscontin. “Questo è il caso che ci voleva per Armelie! Hai visto che sprint ha ritrovato la ragazza con il furto Guerraschi?” “Hai perfettamente ragione. Sono stato perfino sorpreso dal suo intervento dell’altro giorno. Ma non posso assolutamente togliere al giovane Bastinelli il suo primo omicidio. Se no, finisce che mi si suicida. D’altra parte Armelie è stata anche troppo tempo sotto i riflettori, e francamente non so quanto le abbia fatto bene. Vedrai, Renato, magari presto arriverà anche per lei un altro bel caso di omicidio.” Biscontin non avrebbe mai immaginato quanto in realtà fosse stato profetico.
Seconda parte
Prima esecuzione
III
Gino Murolla si era sempre sentito un predestinato al successo. Nato nell’ultimo giorno del Cancro, un segno timido che detestava, si sentiva moralmente un Leone. Né si era mai capito da dove gli venisse tanta sicurezza. Cresciuto in un’affollata famiglia del foggiano, padre ufficiale e madre casalinga, non aveva mai avuto i mezzi necessari per stare al livello dei più fortunati compagni di liceo. Ma questo non gli procurava alcun senso di inferiorità, anzi gli era di stimolo per battersi contro un destino cinico e baro, una sfida che lui era sicuro di vincere. Ambizioso, amante dei numeri e del gioco, ancora fresco di laurea entrò al Banco Giuliano di Pordenone, dove fece di tutto per essere inserito nel settore della consulenza finanziaria e quindi ammesso al gran casinò della borsa. E ci riuscì. Per lui il lavoro diventò presto una specie di emozionante hobby e quanto ai clienti, niente di più facile, le strategie che studiava per sé, poi le riversava su di loro. Analizzava, scopriva correlazioni, inventava algoritmi che prima o poi l’avrebbero fatto arricchire. In realtà guadagnava quando guadagnavano tutti, e perdeva quando tutti perdevano. Con la differenza che lui, non ammettendo di perdere, per rifarsi aumentava l’importo delle sue giocate e immancabilmente perdeva più degli altri. Avanzò anche, senza successo, alcune singolari proposte per trasformare l’organizzazione della banca. Intanto il tempo ava e sulla soglia dei cinquant’anni la vita aveva ormai gettato un bel po’ d’acqua sul fuoco delle sue ambizioni. Gino aveva capito che non sarebbe più diventato amministratore delegato, né direttore generale. Ma il suo incrollabile ottimismo e positività non gli avevano allontanato del tutto la convinzione di potersi almeno arricchire, e quindi continuava a giocare. E pian piano, un po’ per sfiga un po’ per presunzione, finì per perdere tutto quello che aveva. E quando qualche mese addietro la moglie, ignara di tutto, gli diede da mettere in un conto deposito cinquantamila euro della madre, Gino vide l’insperata possibilità di rifarsi e mise i soldi in un conto svincolabile, in modo da poterli utilizzare nel caso si fosse presentata qualche ghiotta opportunità di guadagno. Solo che lui di ghiotte opportunità ne vedeva sempre dappertutto, per cui svincolò quasi subito i soldi e li impiegò in spericolate operazioni di borsa. Dopo un discreto guadagno iniziale, Gino cominciò di nuovo a perdere e ben presto il capitale originario era ridotto alla metà. Per mesi il suo ottimismo si
alternò a crisi di depressione, finché un giorno di fine luglio, dopo l’ennesima speculazione fallita, promise a se stesso che se fosse riuscito a recuperare il capitale della suocera l’avrebbe messo al sicuro da qualsiasi tentazione. E quella stessa sera, recandosi alla settimanale partita di circolo, volle rinforzare il suo proposito, giurando che se fosse riuscito nel suo intento, in cambio avrebbe rinunciato per sempre all’amato bridge. Una rinuncia del tutto accademica, visto che di lì a poche ore avrebbe comunque smesso di giocare. Ma questo lui non lo sapeva. Guidando alla volta di casa, Gino ripensò a quel fantastico sei quadri che si era giocato al circolo proprio nell’ultima mano della serata. Era sempre stato molto bravo nel gioco della carta, e in quella mano era riuscito a fare il contratto, muovendo dalle carte del morto una micidiale compressione sul giocatore di destra. Da manuale. Arrivato al Maglio, dove si trovava il suo complesso residenziale, Gino lasciò l’auto nel parcheggio antistante. Tutta l’area intorno al vecchio parco Galvani era una zona elegante ma senza vita, che di notte si faceva anche un po’ inquietante. Le Torri a quell’ora stavano ormai immerse nel buio, erano illuminate solo alcune finestre, sparse qua e là sulle facciate. Nottambuli della TV, giocatori di carte, romanzi mozzafiato, coppie in crisi. Dopo il temporale che aveva imperversato per tutta la sera veniva ancora una pioggia leggera, così Gino si mise in testa il berretto impermeabile e si avviò verso la sua entrata. Il marciapiede era pieno di pozzanghere, ma era ben illuminato, e lui si mise a scansare l’acqua con un abile zig-zag. Dopo pochi metri, una figura si staccò da un grosso SUV nero parcheggiato lì sotto e cominciò a camminare dietro di lui. Portava un giubbino scuro di tela cerata con un cappuccio sulla testa, teneva le mani in tasca, le spalle curve in avanti e camminava a grandi falcate, accorciando rapidamente la distanza che lo separava da Gino. La cosa curiosa è che quello andava dritto e deciso, affondando le scarpe nell’acqua, così che lo zigzagare di Gino davanti a lui finiva per sembrare un ridicolo balletto. Arrivatogli alle spalle, lo sconosciuto tirò fuori la mano destra dal giubbino e allungò il braccio in direzione di Gino. Un piccolo bagliore segnò la scena accompagnato da un rumore secco e attutito. Gino rovinò in una delle tante pozzanghere che aveva cercato in tutti i modi di evitare. Lo sconosciuto si chinò per alcuni secondi su di lui, poi si alzò, attraversò la strada e sparì nella laterale che costeggiava il parco.
Alle 00.20 di mercoledì 23 luglio un colpo di .22 alla nuca pose fine alle vicissitudini di Gino Murolla. Fu un’esecuzione in piena regola. Unico pubblico, le Torri, mute e indifferenti davanti al teatro delle tragedie umane. Lo ritrovarono poco dopo una coppia di inquilini che rientravano dal cinema.
“Pronto dottoressa, sono Suset, abbiamo ricevuto una chiamata da via del Maglio, c’è stato un delitto. Stanno andando tutti lì.” “Grazie Suset, vado subito.” Armelie chiuse il computer, prese borsa e pistola e uscì. Arrivò sul posto dopo pochi minuti ed effettivamente erano già tutti lì, compreso il dottor Venturin e il Merli (sempre lui!). Il cadavere era illuminato dalle cellule fotoelettriche, gli agenti stavano facendo le fotografie e i rilievi. Il morto giaceva bocconi, con il viso in una pozzanghera e le braccia aperte. Per fortuna aveva smesso di piovere. Le facciate dei palazzi avevano molte finestre illuminate, c’era gente affacciata, e parecchi curiosi erano già scesi in strada. Armelie salutò il pm e il dottore, poi l’agente Ballorin le indicò la coppia che aveva trovato il cadavere e fatto la chiamata in centrale. Armelie tirò fuori il suo moleskine e cominciò a interrogare i due testimoni. Non venne fuori praticamente nulla oltre all’ora del ritrovamento e al fatto che in giro non avevano visto nessuno. Il morto era un loro vecchio coinquilino. Il dottor Venturin anticipò che la vittima era stata uccisa con un colpo di pistola alla nuca e che il delitto era avvenuto pochissimo tempo prima, fra mezzanotte e mezzanotte e trenta. Avrebbe saputo essere più preciso dopo l’autopsia. L’agente Franzina raccolse dalle tasche del morto i vari effetti personali. Il morto era tale Gino Murolla, residente proprio nel palazzo lì di fronte, probabilmente in quel momento la famiglia era pure affacciata alla finestra. Fra i vari oggetti, il Franzina fece notare ad Armelie un foglio stampato, che aveva trovato piegato in quattro nella tasca dell’impermeabile. Si trattava di un sintetico resoconto del famoso crac finanziario dei titoli new economy - quelli legati a internet - e riportante sotto, scritte con un carattere a uso mano, le parole Redde Rationem. Lo strano, a parte il carattere usato, era che le due parole erano messe in modo da sembrare una firma sotto il testo.
Armelie prese il foglio per un angolo, lo lesse e poi se lo mise in tasca. Dopo la rimozione del cadavere la scena venne isolata con i soliti contrassegni, e tutti i presenti cominciarono ad andarsene. Rimase solo lei con l’agente Franzina. Si recarono al quarto piano, dove Armelie diede la notizia alla famiglia che non sapeva nulla, perché le finestre del loro appartamento non si affacciavano sulla strada. Per Armelie quello era di gran lunga il lato peggiore del loro lavoro. Dalla vedova riuscì a sapere che il marito lavorava al Banco Giuliano e quella sera era stato al circolo di bridge. Poteva bastare. Avrebbero parlato con più calma il giorno dopo. Andò poi in questura, dove telefonò ai suoi capi, e si fermò a stendere il rapporto del delitto e il comunicato per le agenzie di stampa. Quando a casa si tolse il giubbino, dalla tasca le scivolò fuori quel foglio di cui si era dimenticata. Lo guardò meglio. Redde Rationem, le sue reminiscenze di latino erano ancora buone, voleva dire rendi conto. Era un’espressione che in genere veniva usata in tono minaccioso e con riferimento a quello che uno aveva fatto, alle sue malefatte, alle sue colpe. Nel linguaggio corrente redde rationem veniva spesso tradotto come resa dei conti. Siamo giunti al redde rationem, il redde rationem è ormai vicino, eccetera. Cosa diavolo significava quel foglio? Si sedette sul divano e si accese una sigaretta. Poteva averglielo dato qualcuno al circolo. Ma perché? O poteva averlo stampato lui stesso e portato al circolo per darlo a qualcuno, che quella sera non era venuto. Ma che senso aveva? E poi quella scritta a mo’ di firma, perfino con le due iniziali maiuscole, come se si trattasse di un nome e cognome. Poteva anche essere che glielo avesse dato qualcuno in ufficio e poi lui se lo fosse dimenticato in tasca, vai a sapere. Bisognava anzitutto verificare se lo aveva stampato lui, quel foglio, o glielo aveva dato qualcun altro. Deciso, l’indomani mattina la prima cosa che avrebbe fatto sarebbe stata quella di far rilevare dal foglio le impronte digitali. Si accese un’altra sigaretta. Il suo secondo caso di omicidio era un bancario, con in tasca il resoconto di un vecchio crac finanziario, le pareva fosse il 2000. Accompagnato da un monito minaccioso. Armelie sentì un brivido lungo la schiena, appoggiò il capo all’indietro e socchiuse gli occhi. Sembrava un nuovo inizio e forse lo era davvero. Non l’avrebbe mai ammesso con nessuno al mondo, ma quel brivido era un misto di adrenalina e di piacere.
Nella notte volò ancora dalla scogliera verso quel viso che sorrideva.
IV
Al mattino, appena arrivata in questura, Armelie portò subito il foglio al laboratorio per la rilevazione delle impronte. Poi, prima di tornare dalla vedova Murolla, chiese a Biscontin il permesso di inviare al Maglio gli agenti Franzina, Suset e Ballarin, per verificare se qualcuno degli abitanti dei palazzi circostanti avesse visto o sentito qualcosa che potesse essere utile alle indagini. La signora Murolla era una brunetta abbastanza insignificante, non si capiva se era più logora o rassegnata. Da quello che raccontò, non doveva essere stato facile vivere per tutti quegli anni a fianco di un uomo che non la riteneva alla sua altezza. Con Gino bisognava solo avere un’incondizionata fiducia nella sua abilità e nel suo infallibile fiuto. Lei aveva capito che qualcosa non andava, e da tempo, ma se l’era dovuto tenere per sé, anche perché ci capiva poco di quella materia così complicata e non avrebbe saputo sostenere con lui alcuna discussione. Con due figli all’università, avevano anche vissuto alcuni momenti difficili, e se non ci fosse stato il suo lavoro alla scuola… Ma, per quanto ne sapeva, non c’era nessuno che potesse avere anche il più piccolo motivo per uccidere il marito. A parte lei, naturalmente, pensò Armelie. Si recò poi al Banco Giuliano per ottenere ulteriori informazioni. E tanto per cominciare scoprì subito che, al tempo del crac della new economy, il Murolla aveva temporaneamente lasciato il lavoro di consulenza. Stava infatti conducendo una verifica nelle diverse aree della banca, per valutare la possibilità di migliorare l’organizzazione dell’istituto. Professionalmente non aveva avuto niente a che fare con il crollo finanziario citato in quel misterioso resoconto. Ma allora quel foglio cosa stava a significare? Armelie lo allungò al direttore, che lo lesse con attenzione, senza però trovarci niente di strano. Certo, ci poteva sempre essere un cliente che per causa sua avesse perso un bel po’ di soldi in qualche altro crac. D’altra parte, in quel settore di lavoro, chi non aveva qualche scheletro nell’armadio? Per saperne di più, si sarebbe dovuto spulciare nell’archivio del Murolla. Ma se era così, perché mettergli in tasca il resoconto di un crac che con lui non c’entrava niente? Armelie era molto perplessa. Verso mezzogiorno tornò in questura, dove ebbe la risposta del laboratorio e
anche quella degli agenti che nel frattempo erano rientrati in sede. E con tutto il suo materiale si presentò alla riunione del pomeriggio con Biscontin e il dottor Merli. Il commissario Vitale non avrebbe potuto essere presente, perché aveva dovuto andar via col questore, ma ci sarebbe stato senz’altro per la riunione dell’indomani. L’incontro, visto il ridotto numero di partecipanti, ebbe luogo direttamente nell’ufficio del dottor Vitale, dotato di un piccolo tavolo rotondo per le riunioni ristrette. Anche se lui non c’era, la sua pipa si sentiva dappertutto. In piedi vicino alla lavagna, Armelie riassunse gli avvenimenti della notte, sempre guardando fisso verso il Merli. Era l’unico modo per non fargli venire lo sguardo da lapdance, poi una volta partita la discussione non c’era più pericolo. Per fortuna Biscontin era lontano anni luce da questo genere di cose e non si accorgeva mai di nulla. Per lui il sesso era sempre stato sua moglie Pierina e forse qualche prostituta ai tempi del servizio militare. Ben altre antenne aveva il commissario Vitale, che infatti il Merli non lo poteva soffrire. Da ultimo, Armelie illustrò quanto emerso nella mattinata. “Dalle indagini di questa mattina sono già venuti fuori due elementi sconcertanti.” Cominciò a scrivere sulla lavagna. “Primo. Le uniche impronte trovate sul misterioso foglio sono le mie. E questo, signori, sapete cosa significa?” “Che è stato lo stesso assassino a metterglielo in tasca,” disse Biscontin. “Esatto. Secondo. La vittima professionalmente non ha mai avuto niente a che fare con il crac finanziario citato nel foglio. Bello, no? E chiariamo subito che altri moventi sono al momento da scartare. Né i familiari, né i colleghi d’ufficio sono riusciti a indicarmi alcun possibile movente per l’uccisione del Murolla.” “Però prima o poi,” disse il pm, “un movente può sempre saltar fuori. E se l’assassino gli avesse messo in tasca quel foglio proprio per sviare l’attenzione dal vero movente dell’omicidio?” “E ammesso che fosse,” fece Biscontin, “uno crea un falso movente, collegando il delitto a un fatto avvenuto nel 2000? Quattordici anni fa? Che senso avrebbe?” Intorno al tavolo calò un improvviso silenzio. “Secondo me, ha ragione Biscontin,” disse Armelie. “In effetti l’assassino
avrebbe potuto citare molti altri crac finanziari più recenti e credibili. No, non si tratta di una falsa pista, Pierandrea, ci deve essere per forza un qualche legame fra quel crac, il Murolla e l’assassino. Un legame che però è tutto da scoprire.” “Può anche darsi,” riprese il pm, “che l’assassino, vittima di quel crac finanziario, ce l’abbia in realtà con la banca e il Murolla sia stato una vittima scelta a caso, una sorta di capro espiatorio.” Gli rispose Biscontin. “Ma ci sarà pure stato un consulente direttamente colpevole dei suoi problemi, no? E allora perché non prendersela direttamente con lui e mettere in mezzo un povero cristo che non c’entrava niente?” “Magari chi l’ha rovinato è morto oppure si è trasferito chissà dove.” “E poi resta comunque il fatto che come vendetta sembra decisamente fuori tempo massimo.” La riunione stava cominciando a girare su se stessa, e Armelie la riprese in mano. “Vorrei concludere con altri due riscontri. Uno. Il bossolo trovato vicino al cadavere ci dice che la pistola è un’automatica, ma l’assenza di qualsiasi impronta sta a significare che per caricare le cartucce il nostro amico ha usato i guanti. Due. Nessuno del vicinato stanotte ha sentito o visto nulla e questo vuol dire che, data la calma che c’è la sera in quella zona, forse l’arma aveva il silenziatore.” “Teniamo anche presente,” disse il Merli, “che a causa del violento temporale la gente ieri sera aveva probabilmente le finestre chiuse.” “In ogni caso,” concluse Armelie, “direi di vederci qui domani a quest’ora con il dottor Vitale, per rifare il punto. Per quell’ora avrò anche l’esito dell’autopsia, e se mi dai subito un mandato, Pierandrea, potrei anche chiedere in banca alcune informazioni sui clienti che avessero subito grosse perdite finanziarie in quel vecchio crac. Sinceramente non vedo che nesso ci possa essere con la morte del Murolla, ma da qualche parte dobbiamo pure cominciare.” Biscontin fu d’accordo con Armelie e prima della riunione dell’indomani avrebbe provveduto lui a mettere Vitale al corrente di quanto emerso fino a quel momento. Il dottor Merli le disse di are la mattina presto in procura per il
mandato. Lungo, solido e grigio, anche nel vestire, Biscontin sembrava un incrocio fra un contadino e un burocrate. Oltre i cinquanta, da anni coordinava tutti gli altri ispettori e aspirava al grado di sostituto-commissario, per andare oltre ci voleva quella laurea che i suoi, gente di campagna con cinque figli da tirar su, non avevano potuto permettersi. Contrariamente a ogni logica previsione, nell’indagine del cacciatore era stata proprio sua l’intuizione che a un certo punto aveva sbloccato il caso. Da quel momento, dopo una distanza pluriventennale, il commissario Vitale aveva preso a dargli del tu. E si lasciava addirittura chiamare per nome.
Sui giornali l’omicidio Murolla fu trattato abbastanza superficialmente, non c’erano ancora elementi sufficienti. Fece comunque una certa impressione la modalità del delitto, che a tutti era sembrato una specie di esecuzione. E parecchi cronisti erano stati visti nella mattina ronzare intorno alla zona del delitto e fotografare le Torri dalle più diverse angolazioni. Quella sera a casa Armelie fece uno sforzo, e cucinò. Sembrava ata un’eternità dall’ultima volta. Per mangiare dovette liberare un piccolo spazio sul piano in granito del vecchio tavolo di campagna. La cucina era piena ovunque di suppellettili sporche. Più che una cucina, sembrava un caotico magazzino, non si salvava nemmeno il focolare del vecchio camino. Riuscì a farsi dei tortellini al burro fuso cui fece seguire, grattando l’abituale muffetta, un po’ di formaggio e salame accompagnati da vecchie fette biscottate. Trovò delle pesche sciroppate, di fresco in casa non aveva niente, e così riuscì perfino a comporre un pasto con tre portate, misere ma almeno ordinate. Doveva assolutamente fare un po’ di spesa. Ci sarebbe andata sabato con la madre, così poi sarebbero anche state un po’ insieme. E doveva assolutamente ricordarsi di fare il test dell’HIV. Dopo cena, sul divano a isola che era sempre stato un po’ il loro rifugio, Armelie sentì un’improvvisa, intensa, nostalgia di Federico. Aveva bisogno di un po’ di affetto, e anche di contatto fisico. Pensò che avrebbe dovuto decidersi a prendere un cane. Anzi due, che si fero compagnia quando lei non c’era. Una bella coppia di cani da guardia, di quelli che all’occorrenza fossero anche in grado di proteggerla.
Più tardi a letto si addormentò fra pastori tedeschi, alani e rottweiler. Non sognò Cabo de Roca, ma una lunga e faticosa escursione in montagna. L’ultimo tratto era a ripidi scalini, che saliva aiutandosi con le mani, presto piene di escoriazioni sanguinanti. Non era abituata, e faceva una fatica tale che le si era perfino annebbiata la vista. Alzò la testa per vedere quanto le mancava alla sommità, e vide il cielo azzurro svanire in un grande viso sorridente. Perse la presa e rotolò fra i massi.
V
Dall’autopsia risultò che la pistola era una .22, calibro che allo sparo fa un rumore secco e leggero. Precisa, maneggevole e silenziosa, la .22 è la pistola più usata dai sicari professionisti. All’interno della ferita erano stati rinvenuti due piccoli frammenti sovrapposti di pelle scamosciata, quasi completamente bruciati. Probabile quindi che la bocca dell’arma fosse avvolta in un doppio rivestimento di pelle, e questo spiegava perché nessuno avesse sentito nulla. L’ora della morte fu confermata fra mezzanotte e mezzanotte e mezza. Infine, poiché la traiettoria del proiettile indicava un andamento quasi del tutto orizzontale, l’assassino doveva essere più alto del Murolla, diciamo sul metro e ottanta. Armelie chiamò subito in questura, si fece are il Franzina e gli disse di fare la lista di tutte le persone come possessori di una ventidue. Si recò quindi al Banco Giuliano con il mandato firmato dal pm e al direttore fece la richiesta di avere i nominativi di tutti i clienti che nel 2000 avessero subito delle grosse perdite finanziarie nel crac dei titoli tecnologici. “Cosa intende esattamente per grosse perdite?” “Mah, non saprei dirlo così su due piedi. Siete voi gli esperti, mi dia lei un valore di riferimento su cui ragionare.” “Ricordo che il crac della new economy fu un’autentica ecatombe per gli investitori. Si farebbe molto prima a fare la lista di quelli che non ci hanno perso. Ma diciamo che saranno meno del dieci per cento quelli che possono aver subito perdite sopra i duecento milioni.” “Duecento milioni, che farebbero più o meno centomila euro. Potrebbe anche andare. Magari, per maggiore sicurezza, potremmo allargare un po’ la fascia e prendere le perdite dai centocinquanta milioni in su. Ma mi serve con la massima urgenza. Pensa di potermi far avere la lista via email questa sera stessa?” “Faremo il possibile, ispettore.”
“E un’altra cosa.” “Mi dica.” “I consulenti bancari che lavoravano qui al tempo di quel crac ci sono ancora ?” “Glielo farò sapere questa sera insieme ai dati dei clienti.” “Grazie, ci conto.” Rientrata in questura verso mezzogiorno, Armelie trovò la lista preparata da Franzina. I possessori di una pistola .22 erano oltre un centinaio nella provincia, di cui trentasei residenti in città. Quel giorno la riunione di aggiornamento si tenne nella sala riunioni del primo piano. Attorno al grande tavolo ovale che la riempiva per quasi tutta la sua lunghezza, Vitale, Biscontin e Merli erano comodamente sprofondati nelle grandi poltrone girevoli in pelle chiara. Armelie, sempre in piedi alla lavagna, mise al corrente i tre superiori di quanto emerso nel corso della mattina, poi cercò di fare il punto della situazione. “Dai primi riscontri investigativi sono emerse due circostanze che orienteranno tutta l’indagine. La prima è che il misterioso foglio trovato nella tasca del Murolla è stato messo lì dallo stesso assassino. La seconda è che il Murolla non ha mai avuto niente a che fare con il crac riportato nel foglio. Una circostanza da cui, secondo il dottor Merli, si potrebbe anche desumere che l’assassino, non potendo vendicarsi direttamente del colpevole, se la sia presa alla fine con la banca, e che il Murolla non sia stato altro che un semplice capro espiatorio.” Il dottor Vitale seguiva facendo ampi cenni di assenso con la testa. “Un capro espiatorio? È possibile, ma prima dobbiamo essere sicuri che non potesse vendicarsi del diretto responsabile.” “Ho già chiesto informazioni alla banca sui consulenti finanziari di quel periodo. Ma se alla fine il Murolla fosse proprio un capro espiatorio, commissario?” In realtà Vitale era già da parecchi anni vicequestore aggiunto, ma guai a chi osava appellarlo con quella sorta di ibrido burocratico.
“Vedremo in quel caso come procedere. Ma per il momento l’incrocio di due parametri oggettivi, come l’aver subito una grossa perdita in quel crac e il possesso di una .22, è già di per sé sufficiente a indirizzare le indagini.” “Ci sarebbero poi un altro paio di punti controversi,” proseguì Armelie,“cui dovremmo dare una spiegazione. Comincerei dal perché uno aspetta quattordici anni per vendicarsi di una fregatura.” “Perché prima non gli era possibile,” disse Biscontin. “Magari era in prigione ed è uscito da poco.” Vitale represse a fatica un moto di fastidio per l’uscita del suo vice. “Non regge, Mario. Quattordici anni non sono uno scherzo. Devi ammazzare qualcuno per finire in galera tutto quel tempo. Se fosse così, vorrebbe dire che ci troveremmo davanti un tizio che si becca una enorme fregatura e poi che fa? Invece di vendicarsi di quello che l’ha fregato, ammazza un altro e va dentro per quattordici anni. Poi quando esce va a cercare quello che l’ha fregato e siccome non lo trova sfoga la sua rabbia contro un suo collega, che oltretutto con quella vecchia storia non ha mai avuto niente a che fare. Non avrebbe senso.” “Può essere, Renato, ma era solo per buttarla lì. Tu stesso ci insegni che nella formulazione delle ipotesi si deve andare a ruota libera, senza censurare in partenza alcuna idea. E poi, scusa, tu allora questa storia dei quattordici anni come la spiegheresti?” Vitale finse di non aver sentito le legittime rimostranze di Biscontin, ma era visibilmente irritato. Visto poi com’è finito il caso del cacciatore, potevo anche risparmiarmi questa stupida situazione di confidenza. Rispose comunque alla domanda. “Secondo me, al tempo del crac il nostro amico non ha fatto nulla semplicemente perché è una persona normale, e quindi non aveva nessuna voglia di finire in galera.” “E allora, perché adesso sì?” fece il pm. “Perché magari adesso le cose sono cambiate. O perché dopo tutto questo tempo non è più così facile risalire fino a lui. Oppure perché è finalmente riuscito a escogitare un piano in grado di tenerlo al riparo dalle indagini. Non so. E poi noi
parliamo di vendetta, ma in realtà potrebbe anche essere qualcosa di diverso. Che però al momento non riusciamo a decifrare.” “L’altro punto controverso,” fece Armelie, “forse la chiave di tutto, è chiederci perché l’assassino una volta uccisa la sua vittima abbia voluto lasciare quel foglio, un indizio molto pericoloso.” “Perché,” fece ancora Biscontin, “voleva farlo sapere a tutti, che si era vendicato di quella vecchia fregatura.” Vitale sorrise fra sé. Come al solito, girano tutti intorno al vero nocciolo del problema, a cominciare dal povero Biscontin. Poi operò uno dei suoi famosi cambi di scena. “Non fa una grinza, Mario. Lui voleva, che si sapesse. Ci sarebbe solo da chiedersi perché. Ma prima c’è un’altra domanda cui dobbiamo rispondere: che messaggio trasmette con quel foglio? Che in occasione di un vecchio crac lui ha preso una fregatura dalla sua banca. E dopo quattordici anni si vendica, prendendosela con un tizio che non c’entra niente con quella storia. La cosa, ce lo siamo detti, può anche essere plausibile sul piano investigativo, ma come messaggio non funziona. Non sarebbe chiaro. E un messaggio che in partenza non è chiaro non serve assolutamente a niente.” “Cosa sta pensando, commissario? Ce lo dica subito,” disse Armelie. “Ho come la sensazione che in questa storia manchi un pezzo.” “Vuol dire che secondo lei non è finita qui?” “No, non può essere finita qui. Non avrebbe senso,” fece Vitale, tormentando la cravatta. Nella sala si creò una sorta di vuoto pneumatico. Poi fu il pm a dar voce all’orrore di tutti. “Un altro serial?” Vitale finì di arrotolare intorno all’indice la cravatta di Marinella. Poi assentì lentamente.
“Fra poco,” fece Armelie, “avrò dalla banca i nomi di coloro che all’epoca hanno subito grosse perdite finanziarie. E sentirò a stretto giro quelli di loro che possiedono una .22. Piuttosto commissario, come ci muoviamo con i media?” “Ci penserò direttamente io con l’ufficio stampa. E gli direi le cose esattamente come stanno, foglio compreso. L’assassino vuole che si sappia, e a noi in questa fase conviene assecondarlo.” Sopra i sessanta, originario di Bari dove aveva visto veramente di tutto, Renato Vitale era scuro e massiccio, e tormentato da un’incipiente calvizie che cercava abilmente di mascherare. Trasferito a Pordenone oltre vent’anni prima, in seguito a un’intemperanza giovanile col suo vecchio questore, viveva la situazione come un immeritato confino. Amava spesso parlare di sé come di una fuoriserie in garage, e non fece una piega quella volta che Il Messaggero con un inspiegabile ritardo di oltre cinque anni arrivò a chiamarlo il Maigret delle grave[1] (anche per via dell’inseparabile pipa). Insofferente alle regole e alle gerarchie, Vitale scavalcava regolarmente il suo vice Biscontin, perché voleva che nelle indagini di un certo rilievo tutti gli ispettori riportassero direttamente a lui. In primis Armelie, la figlia che avrebbe voluto e l’unica in grado di capirlo al volo.
Rientrata in ufficio, Armelie trovò nella posta elettronica le informazioni che il direttore del Banco Giuliano le aveva promesso. I consulenti bancari del tempo del crac erano ancora in servizio nella sede di Pordenone, a parte uno che era andato a dirigere la filiale di Sacile e un altro che era andato in pensione, rimanendo comunque in città. Come dire che se il responsabile di quella vecchia fregatura fosse anche stato uno di quei due, l’assassino avrebbe potuto compiere tranquillamente la sua vendetta. E quindi? Che senso poteva avere ammazzare un altro che non c’entrava niente? Aveva ragione Vitale, a quella storia mancava un pezzo. Per quanto riguardava la lista dei clienti che avevano subito una grossa perdita nel crac dei titoli tecnologici, l’unico di loro che fosse anche possessore di una .22 era un noto mobiliere della zona, tale Sergio Zanfelli, che all’epoca aveva cinquantotto anni, e quindi al presente settantadue. E Armelie non credeva possibile che per una vecchia perdita di centottanta milioni di lire un industriale di settantadue anni - suvvia, un uomo ricco! - avrebbe potuto rischiare la galera. Comunque gli telefonò e prese un appuntamento per l’indomani presso la sua
azienda. Nel corso di quella fugace riflessione, Armelie aveva centrato il punto nevralgico di tutto il caso. Ma non se ne era minimamente resa conto.
La casa di Armelie aveva un soggiorno bianco in seminato veneziano che occupava il pianoterra in tutta la sua lunghezza. A sinistra dell’ingresso centrale, oltre un ampio aggio incorniciato in legno scuro, si apriva la zona salotto dove lei amava are le sue serate vedendo per lo più vecchi film si, una ione che aveva ereditato dalla madre. A destra un altro aggio portava alla zona studio, il suo orgoglio personale, arredata saccheggiando con metodo tutti i mercatini della zona. Lì, sotto una finestra, faceva bella mostra un’elegante scrivania in radica di noce, servita da una lampada anni `30. Era il suo sancta sanctorum, il posto dove lavorava e trafficava. Dappertutto grafiche moderne e poster di film si, più un piccolo caos di libri, riviste e candele profumate. Quella sera dopo cena Armelie si mise al computer con Pampero bloc-notes e sigarette, per studiarsi alcune razze di cani che le erano sempre piaciute. In una lunga analisi del tipo pregi e difetti, arrivò a restringere la scelta a pastori tedeschi e schnauzer giganti, ma si era fatto tardi e così rimandò alla prossima sessione la scelta finale. Una volta a letto, provò a immaginarsi l’effetto che il comunicato del commissario avrebbe prodotto sui media. Come avrebbero interpretato quel misterioso biglietto? Avrebbero fiutato anche loro la presenza di un serial killer? E il caso del cacciatore? Qualcuno lo avrebbe ancora tirato fuori? Sperava proprio di no. Poi si addormentò di botto.
[1] Terreni ghiaiosi formatisi dai materiali di deposito dei fiumi, fenomeno tipico del Friuli occidentale.
VI
NEGLI ULTIMI ANNI AVEVO praticato una feroce attività. Ogni tanto la domenica andavo a caccia. Come tanti, come troppi. Io però cacciavo i cacciatori. Ero diventato l’incubo delle loro domeniche, e della questura di Pordenone. Per loro io ero il cacciatore, uno spietato serial killer. Ma ero anche l’eroe segreto degli animalisti di mezzo mondo. È stato un incubo anche per me, come un lungo stato di trance. Poi se Dio vuole è finita. Così sono rimasto molto stupito quando a fine maggio, cioè neanche un mese dopo, mi sono accorto che quella folle impresa già mi mancava. Mi mancava il suo continuo stimolo mentale, il brivido dell’azione, la tensione della fuga. Ricordo che a un certo punto mi sono sorpreso a fantasticare una nuova crociata contro qualcos’altro, e poi un’altra ancora. Avrei potuto fare il giustiziere in servizio permanente. In fondo, di cose che non vanno in questi tempi corrotti, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta. Per riempire quel vuoto sono tornato alla mia vecchia attività presso il C.A.R.M.A., il Centro per l’Aiuto alle Ragazze Madri. In realtà, la direzione nazionale aveva avuto più di qualche perplessità sul mio rientro. Per la storia con Malika, un’ex assistita, ma soprattutto perché ero finito su tutti i giornali a seguito del fermo che avevo subito all’inizio di maggio. Per alcuni giorni, infatti, il mio nome era stato accostato a quello del cacciatore, e questo aveva fatto il suo effetto, anche se presto tutto si era risolto in una bolla di sapone. Ma siccome non avevano ancora trovato nessuno con cui sostituirmi al Centro, decisero di are sopra alla cosa. La situazione che ho trovato al C.A.R.M.A. dopo otto mesi di assenza era preoccupante. La crisi economica mordeva sempre di più, le ragazze quasi tutte straniere erano in grande difficoltà, il loro degrado sociale e umano sembrava inarrestabile. L’attività al Centro è stata subito intensa e impegnativa, ma non è
riuscita a colmare quel vuoto, non c’era abbastanza adrenalina. Ho poi ripreso a frequentare il poligono di tiro con le pistole della mia collezione e ho scoperto con piacere che non avevo perso la mano. Anzi, ho addirittura fatto due nuovi record con le automatiche di precisione, la Pardini .45 e la Beretta .22. Con i fucili invece ho proprio chiuso. Ho avuto e ho dato, va bene così. Il vuoto lo sentivo soprattutto la sera, quando a casa non avevo niente di interessante a cui pensare, oltre a non avere nessuno con cui parlare. A questo ho parzialmente rimediato adottando in pianta stabile la Buzzi, la gattina tigrata condominiale che ai tempi della caccia mi faceva da spalla durante le mie solitarie elucubrazioni. È stata una sorta di promozione sul campo che si è ampiamente meritata. E con la Buzzi potevo ogni tanto parlare di quei vecchi tempi e sentire meno la nostalgia. Ci sarebbe stata anche un’altra persona con cui avrei potuto parlare di quei tempi, la dottoressa Bernardi, l’ispettore che aveva condotto l’indagine. Ma non mi sembrava proprio il caso. Insomma, ero alla confusa ricerca di una direzione che non riuscivo a trovare. Ma forse era solo ato troppo poco tempo. In verità, lavorare con le ragazze madri è sempre stata una piccola guerra. E così, dopo nemmeno quindici giorni dal mio rientro, ho dovuto occuparmi di uno squallido caso. Per carità, niente di nuovo sotto il sole. Solo che questa volta si trattava di uno di noi, un volontario. La mela marcia di un ambiente sano e impegnato. Si chiamava Umberto Rigalon, era oltre i settanta ma ancora prestante. Di modeste condizioni, era in pensione da molti anni, un periodo trascorso facendo lavoretti qua e là, e soprattutto bazzicando l’area del volontariato. Viveva solo con la moglie, da cui non aveva avuto figli. Era venuto da noi più o meno un anno prima, dopo essere stato per un lungo periodo in una onlus che si occupava di tossicodipendenti. Quand’è arrivato, gli ho fatto il colloquio di inserimento, poi ho anche fatto una telefonata al suo precedente responsabile, un ex pezzo grosso della pubblica amministrazione che conoscevo bene. “Umberto? Non è un genio, Romani, ma si dà da fare. Sempre disponibile, anche fuori sede. Solo che dopo tanti anni si è stancato dei tossici e desiderava un’esperienza nuova. Tutto qua.”
Ma già nei primi mesi che lavorava con noi il Rigalon mi ha trasmesso dei segnali allarmanti. Guardava le ragazze in modo voglioso. E soprattutto le toccava. Magari si limitava a trattener loro la mano, o a prenderle per il gomito, a sfiorare il braccio oppure la spalla, ma non riusciva a trattenersi. Ricordo che una volta ero in ufficio a porta chiusa con una ragazza che gli doveva piacere particolarmente, e lui è entrato con la scusa di chiedermi qualcosa di banale. Poi, mentre io cercavo quello che mi aveva chiesto, lui si era messo a parlare con la ragazza e aveva preso a toccarla, così che lo avevo dovuto allontanare bruscamente. O un’altra volta che una ragazza serba, seduta nella sala d’attesa col bambino di pochi mesi, si era messa ad allattare, e lui con gli occhi fuori delle orbite continuava a fare la spola fra gli uffici e l’entrata. Gli ho lanciato un’occhiataccia, ho fatto una battuta, e la cosa è finita lì. Ma quando poi ho lasciato il Centro, lui deve essersi scatenato. Poco dopo il mio rientro, un giorno di fine giugno che Umberto era fuori, ho incontrato al Centro Dalina, una ragazza albanese in Italia da qualche anno. Corpo da bambina e sorriso di donna, Dalina era stata abbandonata mesi addietro dal suo compagno, rimanendo sola con Symir, il figlio di due anni. Aveva trovato lavoro nel settore pulizie, ma con quello che prendeva non riusciva a pagarsi l’affitto. Così, dopo alcuni mesi di morosità, il proprietario le aveva mandato una lettera, annunciandole che se non avesse regolarizzato i pagamenti le avrebbe dato lo sfratto. Una volta nel mio ufficio, Dalina prese a insistere con una certa forza perché il C.A.R.M.A. le pagasse gli affitti arretrati. Sorpreso dalla sua insistenza, le spiegai che non era compito del Centro assumersi direttamente un onere del genere e che invece bisognava far intervenire subito i Servizi Sociali. Dalina se ne uscì con un pianto disperato. “Ma Umberto ha detto che C.A.R.M.A. pagava.” “Come, Umberto? Lui non poteva dirti questa cosa.” “Ma Umberto, signor Romani, ha detto così, che dopo C.A.R.M.A. pagava.” “Dopo? Dopo cosa?” Dalina mi rispose singhiozzando. “Dopo che io stavo buona… e lui mi toccava. E a casa Symir piangeva. E lui mi faceva le cose, e anch’io dovevo fare, se no C.A.R.M.A. non pagava.”
Rimasi agghiacciato da quelle parole, ma feci in modo di non darlo a vedere. Cercai invece di parlare a Dalina nel modo più rassicurante che potevo. “Tu adesso, Dalina, vai a casa col tuo bambino e stai tranquilla. Io parlerò personalmente col padrone di casa e con i Servizi Sociali e vedremo quello che si può fare. Ma tu stai tranquilla che nessuno ti farà andar via di casa. E intanto nei prossimi mesi cercheremo di trovarti un lavoro che ti faccia guadagnare abbastanza.” Poi chiamai Umberto che nel frattempo era rientrato, gli dissi che sapevo, e lo buttai fuori. “Adesso tu raccogli le tue cose, se ne hai, esci di qui e non ti fai vedere più. Agli altri dirò che ti sei dimesso per motivi di famiglia. E non farti venire in mente di andare a fare il volontario in qualche altra associazione no-profit. La tua carriera di infame finisce qui. Chiuso. Provvederò io personalmente a chiuderti tutte le strade in città. E se per caso vengo a sentire che ti dai da fare in altri comuni, ti rovino. Perché adesso, se non vuoi che ti denunci seduta stante, tu mi firmi anche una confessione.” Firmò senza dire una parola, se ne andò, e non lo vidi più. Più tardi, tornando a casa, venni assalito da uno dei miei soliti sussulti di coscienza. Sicuro di poterti erigere a giudice? Di poter scagliare la tua pietra contro l’infame? E Malika, allora? Non era forse una di loro? E non te la sei fatta e rifatta? Malika è stata una storia del tutto diversa. Fu lei a sedurmi. E lo fece volutamente. E nessun uomo degno di questo nome avrebbe potuto resisterle. Ci vollero due settimane per parlare con tutte le onlus della città e fare terra bruciata a quel vigliacco. E più ne parlavo, più ne ero disgustato. Sentivo una rabbia fredda e impotente. La giustizia umana uno così lo punisce molto relativamente. Quella divina è misericordiosa e uno così, se si pente, lo perdona subito. Neanche Dante, sommo creativo, ha saputo immaginare la giusta punizione per uno così.
Invece sarebbe molto semplice. Basterebbe un colpo di .22 alla nuca. Un buchino piccolo piccolo. Così, giusto per non sporcare troppo il mondo.
VII
A metà strada fra Venezia e Trieste, Pordenone è la classica città a dimensione d’uomo. Puoi andare a piedi dappertutto e hai la montagna a un’ora, il mare a meno e la campagna dietro l’angolo. Ma all’epoca anche a Pordenone la crisi economica cominciava a mordere a fondo, e il collasso di tutto il settore industriale diffondeva pesanti preoccupazioni per la tenuta dei livelli occupazionali della zona. Ciononostante, il tessuto sociale era ancora sano, niente a che vedere con il degrado morale delle grandi città, né con la diffusa violenza che in quel degrado aveva il suo tragico terreno di coltura. Perché in genere nella piccola provincia del nord la vita è comunque meno dura, e i barboni… sono quasi un’istituzione. La gente si saluta, nella piccola provincia del nord, si ferma, chiacchiera, condivide. Alla fine, persino i morti sembrano meno morti, e i poliziotti meno cinici. Oltreate stazione e fiera nel traffico del primo mattino, Armelie uscì dalla zona sud della città, dove subito si incontrano gli insediamenti industriali dei mobilieri. Il cavaliere Sergio Zanfelli - l’unico con arma e movente - era tornato da un viaggio d’affari in Germania proprio la sera del 23, il giorno in cui era stato ucciso il Murolla. Armelie tirò un sospiro di sollievo, l’idea che un noto e anziano industriale potesse diventare un assassino per vendicarsi di una vecchia fregatura finanziaria le sembrava una cosa del tutto assurda. Poteva capire se a causa di quella perdita gli fosse andata in malora l’azienda, che invece non era stata nemmeno sfiorata da quel vecchio crac. Certo, ultimamente c’erano dei problemi. Ma quale azienda non ne aveva? Con meno ordini, debitori che non pagavano, e banche che non facevano credito, non si salvava più nessuno. E anche loro, come tutti, erano in difficoltà. Tornando in città, Armelie meditava su quella crisi economica di cui non si riusciva a vedere il fondo. “È la crisi più grave dopo quella terribile del `29.” E se invece alla fine si fosse rivelata addirittura peggio? Dopotutto quella vecchia crisi che era durata per tutti gli anni `30, prendendo il nome di Grande
Depressione, mica si era annunciata tutta d’un colpo. Si era rivelata anch’essa anno dopo anno, esattamente come questa. Che intanto, fra speranze e rassegnazione, di anni ne compiva sei. E chi ormai non aveva più i soldi per la quarta settimana, si giocava al lotto quelli della terza. Come fu in questura, Armelie notò che dopo il comunicato di Vitale i giornali davano un ampio riscontro del delitto Murolla. Le TV nazionali ne avevano già parlato nei notiziari del mattino. Il suo nome aveva ricominciato a calcare la scena e per associazione, come lei temeva, era venuto fuori anche il caso del cacciatore di cui non si era saputo più nulla. Lei non ne usciva molto bene, e nemmeno Pordenone. Le immagini che corredavano gli articoli e i servizi del nuovo caso, oltre che sul Murolla, si soffermavano molto sulla scena del crimine, dove le Torri del Maglio campeggiavano come lo sfondo ideale di uno spietato e misterioso delitto. Negli articoli il biglietto sul crac finanziario la faceva da protagonista. E soprattutto quella specie di sinistro monito contenuto nelle parole Redde Rationem. Qui tutti si sbizzarrivano, anche se nessuno sapeva trovare il nesso fra la vittima, quel vecchio crac e la banca. E quindi non capivano, come Vitale aveva previsto, il senso del messaggio. Cosa aveva voluto comunicare l’assassino? Ma al di là di ogni altra considerazione, più di qualche giornale si era soffermato sul fatto che, quando in un delitto l’assassino manifesta una esplicita volontà di comunicazione, è facile che ci si possa trovare all’inizio di una strategia omicida. Roma caput mundi. Quale miglior palcoscenico per attirare l’attenzione sul suo messaggio? Lui aveva dei parenti in città, la famiglia dello zio paterno. Così l’aveva visitata più volte in gioventù. E poi anche da grande. Ma conosceva solo il centro e il quartiere Nomentano, dove stavano i cugini. Quella di Roma era un’operazione che andava preparata bene, in particolare doveva risolvere il problema dell’alloggio. Non doveva lasciare tracce. Ma aveva già trovato il sistema, avrebbe dormito dalle escort. Una diversa per ogni sera, avrebbe anche potuto regalarsi il giro dei cinque continenti. Vedeva problemi con l’Oceania, non ricordava di averne mai incontrate. Ma se in Italia ce n’erano, a Roma le avrebbe trovate. Si sfregò le mani. Poi doveva stare attento alla gente, perché in settembre la mezzanotte a Roma è ancora piuttosto movimentata, anche in periferia. A Pordenone gli era andata bene, con quel diluvio durato tutta la sera. Ma a Roma sarebbe stata un’altra cosa.
Bene, avrebbe ato il mese di agosto a studiare i dettagli dell’operazione e a scegliersi le escort. Un divertimento, se solo il mal di testa lo avesse lasciato un po’ in pace. Luglio era stato un mese tremendo.
In quello scorcio d’estate, Armelie aveva continuato a farsi trascinare da Laura nelle sue scorribande notturne. Con annessi e connessi. A dire il vero, qualche volta era anche riuscita a eclissarsi, ma in ogni caso cominciava ad averne abbastanza di quel sesso senza capo né coda. Per un po’, giusto per stordirsi, poteva anche andar bene, ma lei si sentiva molto più tagliata per i rapporti e le relazioni regolari. E quando poi Laura aveva provato a cambiare marcia, proponendole l’eccitante esperienza di qualche club privato, magari fuori provincia, Armelie aveva avuto con lei una vivace discussione. Ma dopo un po’ l’amica era tornata alla carica, così litigarono, volarono anche parole grosse, e interruppero bruscamente i loro rapporti. Di quello squallido periodo, e della sua traumatica conclusione, restò ad Armelie un disgusto che la ripiombò presto nella sua apatica depressione, annullando anche i timidi benefici che la nuova indagine sembrava averle portato. Nel mese di agosto non andò da nessuna parte. Le ferie le fece praticamente in casa, dominata da un senso di fallimento e di sporcizia. E se qualcuno le avesse chiesto cosa avesse fatto in quel lungo periodo, Armelie non avrebbe saputo dire un granché. Aveva letto, sicuramente, ma non le chiedessero cosa. Aveva dormito molto, anche di giorno. Era pure arrivata a decidere il tipo di cani da prendere, due pastori tedeschi. Ma poi le era venuto in mente che avrebbe dovuto tirar su due cuccioli, come avrebbe fatto? Così decise di accantonare il progetto. Un paio di volte era andata dai suoi, che per starle vicini non erano andati neanche loro da nessuna parte. Ma Armelie sopportava a fatica quegli sguardi silenziosi e preoccupati, e così dopo un po’ doveva assolutamente scapparsene via. E trovava tutte le scuse per non farli venire a casa sua, si vergognava. Si era poi occupata del giardino, che adesso infatti andava molto meglio. E lì fra quelle piante era finalmente riuscita a stare un po’ all’aria aperta. E poi? Ah sì, aveva anche fatto quel benedetto test dell’HIV, che per fortuna era negativo. Ma i fantasmi non vanno in vacanza, così aveva continuato a bere. E proprio al
bere era collegato un brutto episodio che le era capitato giusto sul finire delle ferie. Una sera tardi, aveva finito il Pampero ed era uscita per andare al Perla a procurarsene una bottiglia, come aveva fatto altre volte. Prese i soldi e uscì così com’era, lasciando tutte le luci accese. Al bar, aspettando che Filippo le incartasse la bottiglia, un tizio le si rivolse con fare confidenziale. Era un uomo di mezza età, bruno e corpulento, che stava bevendo lì al bancone, appollaiato su un alto sgabello. “Vedo che è un’amante del rhum. Ma c’è di meglio del Pampero. Mi permette di farle provare qualcosa di speciale?” Prese il silenzio di Armelie per un assenso. “Filippo, vuoi dare alla signora uno Zacapa Centenario?” Dopo un paio di bicchieri, Armelie ringraziò lo sconosciuto e presa la bottiglia di Pampero fece per scendere dal suo sgabello. Ma perse l’equilibrio. Il tizio riuscì miracolosamente a sostenerla per un braccio prima che cadesse per terra. Poi all’esterno del bar si offerse di accompagnarla fino a casa. Armelie era combattuta, ma sapeva che non ce l’avrebbe mai fatta da sola, così pensò che in fondo erano poche centinaia di metri e accettò l’offerta. Arrivata al cancello di casa, ringraziò e congedò lo sconosciuto, che restò lì, come sorpreso da quel commiato. Poi, barcollando vistosamente, Armelie attraversò il giardino e superata la bussola a vetri dell’ingresso aprì la porta di casa. Ma appena sulla soglia, si sentì cingere la vita da dietro con un braccio, e spingere dentro, mentre una mano ruvida le scendeva nella canotta. Armelie si divincolò con tutta la sua forza da quell’abbraccio e con la mano che teneva la bottiglia riuscì a vibrare un colpo all’indietro, colpendo in testa l’aggressore. Questi mollò la presa e lei ne approfittò per andare verso lo studio, prendere la Beretta dal cassetto della scrivania e puntarla contro la faccia dell’uomo, che nel frattempo l’aveva seguita tamponandosi con un fazzoletto la fronte sanguinante. Impugnando la pistola a due mani, Armelie tolse la sicura. “Ti do cinque secondi per sparire poi, com’è vero Iddio, ti sparo.” Lo sconosciuto non se lo fece ripetere due volte. L’aspetto più assurdo della situazione era che l’intera scena si era svolta con tutte le luci accese e le tende aperte, pareva di essere in un teatro. Un teatro vuoto. Certo, se avesse avuto due bei cagnoni una cosa così non sarebbe mai successa.
Armelie uscì con la pistola in pugno per controllare che il tizio se ne fosse andato. Poi chiuse il cancello, la porta di casa e mise l’allarme. Una volta entrata, guardò per terra il macello fatto dalla bottiglia di Pampero, che cadendo era andata in mille pezzi. Fra i vetri, la carta e il rhum c’erano anche delle macchie di sangue. Quella scena si impresse nei suoi occhi con un forte significato simbolico, come un segno del destino. Era la sua vita quella che vedeva lì per terra, fra quei pezzi di vetro. Credo che abbiamo veramente toccato il fondo. Basta. Adesso si cambia. E da allora tutto cambiò. Quasi tutto.
Terza parte
Seconda esecuzione
VIII
Alto, calvo e asciutto, Angelo Bartengo aveva un naso adunco che quando sorrideva gli andava in giù, mentre gli angoli della bocca gli andavano in su, dandogli un aspetto un po’ satanico. Dopo il liceo e qualche esame di giurisprudenza, Angelo si era impiegato a Roma presso la DNBank e lì aveva fatto tutta la sua carriera, arrivando verso i sessant’anni a dirigere un brillante team di consulenti finanziari, un gruppo di operatori che lui aveva selezionato e tirato su uno per uno. Sposato, un figlio ancora in casa, Angelo amava il suo lavoro, dove si diceva fosse molto bravo e perfino corretto, sapeva sempre trovare il giusto equilibrio fra gli interessi dei clienti e quelli della banca. Tra i suoi ragazzi spiccava Paolo Franzieri, un quarantenne ambizioso che da anni era il suo insostituibile braccio destro. Col tempo Angelo gli aveva delegato gran parte dell’attività, e lui si limitava a vigilare da lontano che il lavoro procedesse senza intoppi. Insomma, faceva una vita comoda, ma dopotutto se l’era costruita da solo e lui trovava giusto che le cose andassero così. Angelo però aveva un pessimo carattere, era possessivo, e si incazzava come una bestia ogni volta che qualcuno - fosse anche il padreterno - si intrometteva nelle sue faccende. Un giorno lo chiamò Biagio Rossi, il suo capo, entrato in banca insieme a lui e adesso direttore generale. “Ciao Angelo, accomodati che facciamo due chiacchiere.” “Ciao Biagio, che si dice ai piani alti?” “Al momento siamo molto presi dall’acquisizione di quella piccola banca, la Elicredit, penso che tu ne abbia sentito parlare.” “Sì, certo, ho sentito che è una realtà interessante ma tutta da riorganizzare, giusto?” “Esattamente, e da te come vanno le cose? Mi pare che il Franzieri ti stia dando veramente un bell’aiuto, non sei d’accordo?” “Sì, non mi posso lamentare, Paolo sta proprio venendo su bene.”
“Beh, mi pare bell’e maturo, ormai. Senti, Angelo, è proprio di questo che ti volevo parlare. Alla Elicredit c’è da impostare tutta l’area della consulenza e il Franzieri ci sembrerebbe perfetto per questo ruolo. E avrebbe uno spazio tutto suo.” Angelo non riuscì a nascondere il suo fastidio e fece una brutta faccia. “Ma il Franzieri mi serve qui! È ormai un pilastro di tutto il settore, il mio naturale sostituto.” “Appunto, voi due siete praticamente intercambiabili e noi non possiamo tenerci qui un doppione di coordinatori, quando la Elicredit è completamente scoperta.” “Biagio, senza il Franzieri io qui non ce la faccio a gestire tutto, sarebbe un casino. Quasi meglio allora andarsene alla Elicredit! Scusa, ma perché non prendete uno da fuori?” Il dottor Rossi ebbe un moto di impazienza e sbirciò l’orologio. “Costi, Angelo. Costi, cazzo! Senti, facciamo così. Decidi tu chi di voi due debba andare alla Elicredit, ma uno deve andare. Aspetto una tua risposta entro due giorni.” Angelo non volle credere alle proprie orecchie, sarebbero stati disposti anche a perdere lui, pur di risolvere il problema della Elicredit. Secondo lui la direzione bluffava. E così, scaduti i due giorni, provò a fare un contro-bluff. “Va bene Biagio, allora alla Elicredit vado io.” “Come vuoi tu, Angelo. Li chiamo subito e comunico la tua decisione.” Era stato trombato. Anzi si era trombato da solo. Alla sua età, dopo tutto quello che aveva fatto per la DNBank, adesso doveva ricominciare daccapo. E Angelo incattivì. E cominciò a sfogare la sua rabbia su tutti quelli che gli capitavano a tiro, che fossero collaboratori o clienti. Commercianti, professionisti e vecchi pensionati ebbero a lagnarsi dei suoi servizi. E alla Elicredit il settore della consulenza non decollò mai veramente. Dopo qualche tempo Angelo aveva meno personale di
quello che aveva trovato all’inizio, non c’era nessuno che volesse lavorare con lui. Era intrattabile, un vero problema per la banca, che cercò in tutti i modi di liberarsene. Ma Angelo aveva le sue protezioni e sopravvisse ai vari tentativi. Solo che anche le protezioni vanno in pensione, e così un giovedì di metà settembre Angelo ricevette per l’indomani pomeriggio una convocazione dal suo amico Biagio alla DNBank. Quella stessa sera, andando a farsi la sua partita di scacchi settimanale, Angelo si mise a riflettere sulla convocazione, di cui fra l’altro non aveva ancora parlato a casa. Era quasi sicuro che stavano per farlo fuori, però almeno avrebbero dovuto cacciare un bel po’ di quattrini. Fuori, fu fatto fuori. Ma senza beccarsi un soldo.
Per rientrare dal quartiere Nomentano, dov’era il circolo, alla parte alta di Gregorio VII, dove abitava, Angelo attraversò in auto quasi tutta la città. A quell’ora preferiva are dal centro, anziché fare il raccordo anulare. Gli piaceva Roma di notte, con poco traffico e i monumenti illuminati. Certo, gli sarebbe stato molto più comodo frequentare il circolo del quartiere Prati, poco sotto a dove stava lui, ma aveva tutti gli amici lì al Nomentano, retaggio di quando abitavano anche loro in quella zona. L’aria era tiepida in quella notte di metà settembre e Angelo guidava lentamente, col finestrino aperto. Era ata mezzanotte, ma c’era ancora molta gente in giro per le strade del centro. Quando arrivò alla sua strada, un angolo tranquillo fra Gregorio VII e Ubaldo degli Ubaldi, fece un po’ di fatica a trovare un posto per parcheggiare, ma qualche o a piedi lo avrebbe fatto volentieri. Gli serviva a raccogliere le idee in vista del cruciale incontro del giorno dopo. Per la verità, quel pensiero lo aveva distratto per tutta la sera, e infatti aveva giocato da cani. Lasciò la macchina a un paio di isolati dal suo condominio e si incamminò nella notte accogliente. Qualcun altro per strada stava rincasando come lui. O stava uscendo? In prossimità di casa, un tizio sbucato dal nulla si accodò ad Angelo e prese a camminargli dietro. Era un tipo abbastanza alto, barba scura, cappellino da baseball. Teneva le mani nelle tasche del giubbino in jeans. Arrivato al suo
condominio, Angelo scese i gradini del vialetto d’ingresso, che restava defilato alla vista della strada in virtù di una folta siepe di ligustro. L’altro scese anche lui. Angelo colse quella presenza ravvicinata, e d’istinto si voltò. Lo intravide qualche metro più indietro. Non capiva chi potesse essere, anche perché teneva la faccia bassa. Si disse che probabilmente era un nuovo inquilino dell’entrata prima della sua. Probabilmente. In preda a un vago senso di disagio, Angelo si affrettò al suo ingresso in fondo al vialetto. E arrivato alla porta tirò fuori con sollievo il mazzo di chiavi. Ma subito sentì una presenza dietro. E mentre lo stomaco si chiudeva in una gelida morsa, si girò pronto al peggio. Lo sparo della .22 fece un rumore minimo. Ne fece di più Angelo cadendo contro la vetrata del portone, che tremò come quando qualcuno lo sbatteva malamente. Il tizio si chinò su Angelo e sembrò che gli frugasse nelle tasche. Poi si alzò e tornò rapidamente in strada a confondersi con i pedoni della notte. Un inquilino del primo piano, che detestava i maleducati che di notte sbattevano la porta, si affacciò alla finestra per dire qualcosa e così vide Angelo per terra e anche il sangue. Fu lui a chiamare la polizia. Era la mezzanotte e cinquanta di venerdì 12 settembre. Il 113 smistò la chiamata all’Aurelio, il commissariato di zona. La chiamata arrivò al vice-commissario Robeschi che prese nota dell’indirizzo, dirottò sul posto due volanti, più un’ambulanza, avvisò la scientifica e a sua volta partì con un paio di agenti. Il pm e il medico legale sarebbero venuti lì con i loro mezzi. Nel volgere di pochi minuti, una tranquilla zona residenziale fu trasformata in una caotica scena del crimine. In quel vialetto di accesso al condominio non ci si poteva letteralmente muovere, tante erano le persone coinvolte, compresa la coppia di anziani che avevano fatto la segnalazione. C’era anche molta gente affacciata alle finestre e urla. Chi urlava era la signora Bartengo, che un giovane cercava inutilmente di calmare nell’entrata del palazzo. Molti altri visi si sporgevano anche al di sopra della siepe di ligustro che dava sulla strada. La vittima, uccisa da un colpo di pistola alla testa, stava accasciata in modo innaturale contro la porta a vetri dell’ingresso e secondo un primo esame del medico legale era morta da pochissimo tempo, minuti. Mentre gli agenti completavano i rilievi, Tommaso Robeschi raccolse la testimonianza dell’inquilino che aveva visto per primo il cadavere e che era stato svegliato dal
fracasso del portone. Prima dormiva e non aveva sentito alcun colpo di arma da fuoco. Aveva visto qualcuno? Se c’era, lui non l’aveva visto, perché da dove si era affacciato la vista del vialetto e delle scalette era impedita dal terrazzo di un altro appartamento. Poi l’agente D’Ambrosio si avvicinò a Tommaso e porse al vice-commissario, tenendolo da un angolo, un foglio piegato in quattro. “L’ho trovato che sporgeva dalla tasca destra dei calzoni del morto.” Aveva la parte superiore sporca di sangue. Tommaso l’aprì con cautela e gli diede una rapida occhiata. Era il resoconto del famoso crac dei bond argentini, i cosiddetti tango-bond, il terribile caso finanziario che nel lontano 2001 aveva inflitto rovinose perdite a moltissimi risparmiatori italiani. Subito sotto il testo spiccavano, perché scritte in un carattere a uso mano, le parole Redde Rationem. Una sorta di firma. Gli venne subito in mente l’identico delitto avvenuto recentemente a Pordenone. Si ricordava la questura, perché era diventata famosa per il caso del cacciatore. E si ricordava anche dell’ispettore che stava conducendo quelle indagini, sempre lei, la dottoressa Bernardi, la grande star. La stessa che aveva gestito quel vecchio caso di cui avevano parlato le cronache di mezzo mondo. Al commissariato Aurelio se ne vedevano di tutti i colori, come del resto in tutti gli altri commissariati della capitale. Ma un serial killer a loro non era mai capitato. Invece la sua giovane collega di Pordenone era già al secondo in poco tempo. E il primo se l’era pure fatto scappare, la stronzetta. Tommaso chiamò il suo capo, il vicequestore Pieremili, e gli diede la notizia. Poi, rientrato al commissariato verso le due e mezzo, chiamò Pordenone e si fece are la dottoressa Bernardi. Provò un piccolo piacere a svegliarla nel cuore della notte. “Ispettore, penso che quando ci vedremo lei mi debba quanto meno offrire da bere. Sto per regalarle il secondo serial killer della sua carriera.” Come dire, chi tanto, chi niente. Poi le espose i fatti.
IX
Erano quasi le tre, e Armelie fece nell’ordine tre cose. Si alzò, scese per vedere al computer il primo volo per Roma e telefonò al commissario. Benché sorpreso nel pieno del sonno, Vitale non perse colpi e a sua volta disse tre cose. Che lui lo aveva sempre saputo, che questa era la loro rivincita e che sarebbe ato a prenderla con una volante prima delle cinque. Il volo per Roma era verso le sei e mezza. Quando Armelie mise giù il telefono, era ormai completamente sveglia e così tornò davanti al suo Asus con penna e moleskine, per cercare su internet tutti i grandi crac finanziari subiti dai risparmiatori italiani, dopo quello dei titoli tecnologici. Ne trovò altri quattro, compresi fra il 2001 e il 2008. Consultando una tabellina con gli indici di inflazione dei vari anni, abbinò a ciascun crac il valore da assumere come indicatore di grossa perdita finanziaria. ò così dal valore di settantacinquemila euro definito per il crac del 2000, all’equivalente valore di centomila euro per il crac del 2008. Alle cinque meno dieci partirono a tutta velocità per Tessera. In aereo Armelie aprì il suo taccuino e mise Vitale al corrente delle sue prime indagini. Dopo il crac dei titoli tecnologici, gli altri casi erano stati, nell’ordine: quello dei bond argentini nel 2001 (citato nell’attuale biglietto), quello Cirio nel 2002, quello Parmalat nel 2003 e quello Lehman Brothers nel 2008, che poi aveva dato il via alla gravissima crisi finanziaria ed economica in cui si stava ancora dibattendo il mondo intero. “C’è una scarsissima probabilità,” disse Vitale, “che il nostro amico abbia perso un sacco di soldi in due crac così ravvicinati come quello del 2000 e adesso quello dei bond argentini del 2001. E questo mi suggerisce due cose. La prima è che lui usa il resoconto di questi crac non tanto per un motivo personale, ma per un puro scopo di comunicazione. Uccide un rappresentante della categoria dei consulenti bancari, attira l’attenzione su una situazione che simboleggia le loro malefatte, e poi suggella il tutto con un’espressione, Redde Rationem, che ha tutta l’aria di essere da un lato la sentenza che ha dato luogo all’esecuzione e dall’altro un monito ai sopravvissuti. È una precisa strategia.”
“E l’altra cosa?” “L’altra cosa, stando a quello che mi hai appena detto, è che sta usando i crac in ordine cronologico. Infatti i due casi finora citati, se non sbaglio, sono proprio il primo e poi il secondo della lista.” “E questo cosa vuol dire, secondo lei?” “Che forse avremo altri omicidi. Spero solo che non intenda esaurire tutta la lista.”
All’uscita da Fiumicino trovarono ad attenderli un’altra volante, proveniente dal commissariato Aurelio. Durante il tragitto Vitale fece una lunga telefonata al suo vice Biscontin, per metterlo al corrente degli sviluppi del caso. Poi informò anche il pm. Arrivarono a destinazione verso le otto e venti e nell’ufficio del dottor Pieremili trovarono anche il vice-commissario Robeschi e il pm, dottor Giuliani. I romani riepilogarono i fatti della notte, gli altri ricordarono i fatti di Pordenone. Concordarono tutti sull’evidente serialità dei due delitti. “Noi ovviamente,” disse Pieremili, “abbiamo già provveduto a diramare il comunicato relativo al delitto di questa notte. Ma non abbiamo detto ancora nulla del foglietto che prova la presenza di un serial killer. Volevamo prima definire con voi una comune strategia.” “Senti, Pieremili,” disse Vitale, “lascerei subito cadere l’equivoco di una improbabile gestione congiunta del caso. Non funziona. In queste cose ci vuole rapidità e praticità. E le gestioni congiunte sono fatte apposta per complicare le cose. La prassi vuole che siamo noi di Pordenone, città in cui sono iniziati i delitti, ad avere la responsabilità del caso. Altra cosa è tenervi informati sugli sviluppi dell’inchiesta e darvi anche la possibilità di partecipare almeno agli snodi principali dell’indagine. I contatti potrebbero avvenire fra il vicecommissario Robeschi e il nostro ispettore Bernardi.” Di fronte all’esclusione, il dottor Pieremili si scambiò un’occhiata col pm, poi ai tre romani non rimase che abbozzare. Per il loro primo serial killer avrebbero dovuto aspettare ancora. Vitale continuò.
“E poi, Pieremili, per dirtela tutta sono pronto a scommettere che il criminale è uno delle nostre parti. Infatti, quando nasce una strategia seriale, se non c’è uno specifico motivo per procedere diversamente, il luogo del primo delitto è quasi sempre nella città dove abita l’assassino. Il primo delitto è sempre il più difficile, una specie di prova generale, e quindi preferisce giocare in casa.” Poi prese la parola Armelie. “Se siete d’accordo, vi direi adesso le indagini che dovreste far partire subito in loco. Se l’autopsia confermerà che la vittima è stata uccisa con una calibro .22, dovreste buttar giù l’elenco di tutti i possessori di una pistola .22 residenti a Roma. Poi dovreste rilevare se nelle strutture ricettive della capitale ci sono stati nella notte dell’11 settembre clienti di Pordenone. E infine dovreste controllare in tutte le banche della capitale chi sono i clienti che hanno subito grosse perdite in qualche crac finanziario fra il 2000 e il 2008. Con particolare riguardo ai clienti della vittima.” Robeschi e Pieremili si guardarono basiti. “Ma è un lavoro della madonna!” esclamò Robeschi. “E dove troviamo il tempo di fare una simile indagine a tappeto? Vi rendete conto di quante banche ci sono qui?” Armelie colse un invito di Vitale a tener duro e rispose a Robeschi. “Prima di tutto tieni presente che non dovete certo battere tutte le agenzie, ma solo le sedi principali. Ci penseranno poi loro a raccogliere i dati dalle agenzie. E inoltre potreste limitarvi alle banche più importanti, diciamo le prime trenta, tralasciando la miriade di piccoli istituti poco significativi. Poi, quando avrai in mano tutti i dati relativi alle perdite finanziarie, provvedi a incrociarli con il possesso di una ventidue. Dopo la riunione, mi fermerò nel tuo ufficio, ti darò l’elenco dei vari crac che ci interessano e per ciascuno di essi il livello di perdita da controllare.” A quel punto, Vitale aggiunse che l’indomani avrebbe tenuto una conferenza stampa a Pordenone per ufficializzare la presenza del serial killer, e il vicecommissario Robeschi avrebbe già potuto essere presente in rappresentanza dell’Aurelio. Ma lui si schermì, aveva da fare nella capitale, doveva mandare avanti un sacco di cose prima di venir sommerso da quell’indagine sulle banche. Più tardi, mentre Vitale si intratteneva con Pieremili e il dottor Giuliani, Armelie nell’ufficio di Robeschi gli trasferì i dati che aveva tirato giù sul suo moleskine.
“E la bevuta che mi avevi promesso?” “Ogni promessa è debito, caro Tommaso. E infatti domani, dopo la conferenza stampa avevo già pensato di onorare il mio debito a Pordenone, il posto giusto per una bevuta come Dio comanda. Mi pare che sei tu quello che si è defilato.” “Ma prima o poi capito, non ti preoccupare.” “E io ti aspetto.”
In attesa di rientrare a Pordenone, Vitale chiamò ancora Biscontin e gli disse di far diramare gli inviti per una conferenza stampa il giorno dopo alle undici. Gli disse poi di allertare il pm, dottor Merli, per una urgente riunione in serata, al loro rientro da Roma. Dovevano fare il punto della situazione, definire una strategia di indagine e decidere come muoversi nella conferenza dell’indomani. Armelie dal canto suo si mise in contatto con il Franzina, e gli chiese di avviare subito un’indagine per rilevare la presenza di eventuali romani nelle strutture ricettive della città nella notte del 22 luglio, quella del delitto Murolla. Gli disse anche di buttar giù una lista delle banche di Pordenone, indirizzi, telefono, direttore, eccetera. Verso le tre, con in borsa anche il prezioso foglietto originale - i romani le volevano mollare una fotocopia - partirono alla volta di Fiumicino. Durante il viaggio in aereo Armelie fece a Vitale alcuni commenti sull’incontro all’Aurelio. “Non volevano mollare l’osso, vero?” “Verissimo,” rispose Vitale, “d’altra parte loro saranno pure poliziotti della grande capitale, ma un commissariato di zona è un po’ come la questura di una piccola provincia. E un caso di questa importanza potrebbero anche non vederlo mai. Per questo sono convinto che in situazioni del genere è sempre meglio essere in due.” “Sì, mi ricordo. Uno che va avanti, e l’altro che gli copre le spalle.”
Nella sala riunioni del primo piano Armelie fece a Biscontin e a Merli il resoconto dettagliato della spedizione romana. Comprese le due ipotesi avanzate da Vitale sull’uso dei crac finanziari a puro scopo dimostrativo, nonché sul loro
utilizzo in ordine cronologico. “Quindi adesso abbiamo un tizio che uccide dei consulenti bancari scelti a caso, in banche scelte a caso, e che accompagna le sue esecuzioni con il resoconto di un famoso crac finanziario. Questo a sua volta sembra non avere un nesso specifico con la vittima, ma essere solo preso fra quelli avvenuti dal 2000 in poi. All’interno di questa strategia c’è sicuramente anche il vero delitto, la sua vendetta personale, ma non è dato sapere quale sia o sarà. Gli altri delitti è probabile che li usi per depistare le indagini o forse anche per dare un valore più generale a tutta la sua impresa delittuosa. Quasi un valore etico, con tanto di monito. Ed ecco il Redde Rationem.” Vitale era molto soddisfatto della ricostruzione di Armelie. Non solo aveva reso bene le ipotesi che lui stesso aveva formulato, ma aveva anche completato il quadro d’insieme in modo chiaro ed efficace. Biscontin invece era visibilmente perplesso. “Vuoi dire che potremmo avere ancora un certo numero di omicidi? Tanti quanti sono i crac?” “Potrebbero essercene altri tre. Almeno così credo.” “E a questo punto,” disse Vitale, “la rapidità della nostra azione diventa un fattore cruciale, se vogliamo davvero tagliare le gambe a questo criminale. Lei cosa ne pensa, dottor Merli?” Il Merli per la verità era rimasto un po’ silenzioso, come assente. Evidentemente era immerso in tutt’altri pensieri. “Sì, certo… la rapidità dell’azione… è importante.” “Bene,” fece Vitale, “allora proporrei di darci un metodo di lavoro che ci permetta di agire con la massima velocità e decisione. Naturalmente, sempre nel rispetto delle reciproche competenze.” “Sì, certo…” fece ancora il pm, “il rispetto delle competenze.” Vitale espose il metodo che aveva in mente e che aveva già concordato con Armelie durante il ritorno da Roma.
“Anzitutto c’è da controllare, città per città, l’alibi di tutti quei possessori di .22 che avessero subito qualche grossa perdita finanziaria. A questo punto, infatti, avremmo sia il movente, che il mezzo. Dovremmo solo cercare di verificare l’occasione, cioè la possibilità di collocare qualcuno di questi tizi sulle scene del crimine. E in caso positivo scatterebbe la richiesta della loro pistola, per vedere o meno se è l’arma del delitto.” “Come sarebbe,” sobbalzò il Merli, “che scatterebbe la richiesta? Questa non potrà mai essere una cosa automatica, si deve valutare caso per caso.” “Certo, dottor Merli,” rallentò Vitale, “procederemo caso per caso. Volevo solo definire uno standard condiviso per le perquisizioni. Di modo che l’eventuale rifiuto della perquisizione venga a costituire l’eccezione, e non la norma.” Il Merli era sempre più perplesso. Ritrovata la concentrazione, questa storia non gli piaceva per niente. Vitale continuò. “Per quanto riguarda l’occasione, cioè la presenza sulle scene dei crimini, potremmo assumere come validi tutta una serie di possibili riscontri. Primo, le eventuali testimonianze oculari. Secondo, la presenza del sospetto in trasferta, rilevata presso le strutture ricettive delle zone interessate. Terzo, la scoperta di alibi falsi. In tutti questi casi, salvo prova contraria da valutare di volta in volta, dovrebbe scattare la richiesta di consegna della pistola.” “Non so,” concluse il pm, “ci devo pensare su.” A questo punto prese la parola Armelie. “Nella verifica degli alibi forniti dagli interrogati, ma anche in tutti quei casi di mancanza di alibi o di difficoltà a ricordare, potremmo integrare le nostre indagini con la rilevazione dell’attività dei loro cellulari nelle zone che ci interessano. Lo trovo un elemento di grandissima utilità. Se per esempio il cellulare ci indicasse la loro presenza nella zona di un crimine, o anche solo la negasse nella zona dell’alibi, potremmo chiedere loro di darci una spiegazione.” “L’analisi delle celle telefoniche, brava!” disse Biscontin. “Per il resto come pensi di procedere?” “Ho fatto rilevare a Franzina la presenza di eventuali romani nelle nostre strutture ricettive per la notte del 22 luglio. E da lunedì cominceremo l’indagine a tappeto nelle banche della città e riguarderanno tutti i crac che vi ho detto. Lo stesso tipo di indagine verrà effettuata anche a Roma.” Poi si rivolse a Vitale. “E
con i giornalisti, commissario, come ci regoliamo?” “Non vedo problemi a dire che c’è un serial killer, di cui non possiamo prevedere le mosse finché non sapremo in quale crac sia personalmente coinvolto. Possiamo solo spiegare come stiamo orientando le indagini. Ma non direi nulla del controllo delle celle telefoniche. Altra cosa. Qualunque sia il metodo usato per scegliere le vittime, il killer ha bisogno di tempo. E se va in trasferta come potrebbe nasconderlo a una famiglia? È un single, al novanta per cento, non occorre aspettare che ce lo dica l’U.A.C.V. Dillo anche a Robeschi di stringere sui single. Ma domani non parliamo neanche di questo. Per finire, vorrei segnalarvi altre due circostanze che presto dovremo approfondire. Uno, come sceglie la città? Due, pedina le vittime o conosce già le loro abitudini? E se sì, come fa?” Nessuno disse nulla, stavano tutti cercando di assorbire quella raffica di nuovi elementi. Poi intervenne Biscontin. “Senti, Renato, io direi di dare subito un aiuto ad Armelie. Anche in questo caso ci sarà da fare un grosso lavoro a computer, e poi indagini a tappeto nell’ambiente bancario e anche molti interrogatori. Io avevo pensato di darle ancora come assistente Oscar Lubotigh, che già aveva lavorato con lei nel caso del cacciatore. E poi le darò la possibilità di precettare tutti gli agenti che le servissero per le operazioni sul campo.” “Ottima idea, Mario, condivido pienamente. Parla tu col Lubotigh.” I quattro si alzarono e si diedero appuntamento per il giorno dopo alle undici. Poi Vitale prese in disparte il pm, se lo portò nel suo ufficio e lì non fece giri di parole. “Senti Merli,” era la prima volta che gli dava del tu, “capisco le tue perplessità sulle mie proposte, ma non deve più capitare quello che è successo nel caso del cacciatore.” “E cioè?” “E cioè che per una tua personale prudenza, chiamiamola così, ci è sgusciato via un serial killer che avevamo già in mano, è stata barbaramente ammazzata una testimone e ci è andato in crisi il nostro più brillante investigatore. Ti basta?”
“Ma io, scusa, sono qui per fare rispettare la legge e non posso certo sputtanarmi per assecondare le vostre fantasie investigative!” Gli occhi di Vitale divennero due fessure. “Penso che ti sputtanerebbe molto di più se si venisse a sapere delle tue spedizioni in certi privè di Treviso e dintorni.” Il Merli si fece paonazzo. Poi con stizza raccolse le sue carte e uscì dall’ufficio. Se l’era presa a morte, ma a Vitale bastava che firmasse. E adesso avrebbe firmato.
[1] Unità per l’Analisi del Crimine Violento.
X
Un tumore al cervello e un anno di vita possono giustificare un sacco di cose. Anche una strage di consulenti finanziari. Erano loro che l’avevano rovinato, facendogli perdere i soldi, la famiglia, la salute. E la dignità. Già da un po’ di mesi Franco aveva dei forti mal di testa, ne era sempre andato soggetto, ma questi non rispondevano ai normali analgesici. Poi un giorno di inizio febbraio litigò al bar con Giuseppe, il cameriere, per un caffè che non gli pareva caldo. “Ma cosa dice, dottore, se è appena uscito dalla macchina! Mi faccia sentire.” Toccò la tazzina. “Ma se scotta anche la tazzina!” Franco bevve il suo moscio caffè e se ne andò. Ma a ora di pranzo, all’Abruzzese, la birra non gli parve fredda come il solito. Non disse nulla, terminò la sua consumazione e uscì. Ma l’indomani mattina si presentò al Pronto Soccorso dell’ospedale. “Non è operabile.” Era già grosso come una noce, proprio lì, in mezzo alla sua testa. La risonanza magnetica era stata chiara, la biopsia spietata. Un glioblastoma al terzo stadio avanzato. Appena fosse entrato nel quarto stadio, l’ultimo, la sua espansione si sarebbe accelerata, si sarebbe infiltrato nelle zone circostanti e tutta la faccenda si sarebbe conclusa rapidamente. “Quanto tempo mi rimane?” “Se non fa niente, pochi mesi. Se fa la radioterapia, può arrivare a un anno.” “E che qualità di vita avrò?” “I dolori di testa saranno più frequenti e intensi. Continuerà a non sentire il caldo e il freddo e avrà continui sbalzi di umore. Potrebbe anche avere delle crisi
epilettiche.” “E la radioterapia cosa comporta?” “In genere perdita dei capelli, e poi nausea e vomito. Potrebbe anche avere sensazioni di spossatezza.” “Quanto tempo ho per decidere?” “Prima lo fa, meglio è. Diciamo che se vogliamo provare a rallentare il tumore, dovremo cominciare la terapia al più tardi all’inizio di marzo.” Era il 20 febbraio 2014. Gli restava più o meno una settimana per decidere se tirarsi un colpo o se invece fare la radioterapia e poi il colpo tirarlo a quel maledetto che lo aveva rovinato. Perché tutto era partito da lì. Tumore compreso.
In realtà, le vicissitudini di Franco con i consulenti finanziari risalivano a molti anni prima, e avevano avuto vari protagonisti. C’era stato chi aveva provato a rovinarlo, ma non c’era riuscito, chi gli aveva inferto un primo terribile colpo e chi gli aveva dato il colpo di grazia finale. Si era trattato indifferentemente di consulenti bancari o di promotori finanziari. E non era successo solo a lui. Di moltissimi altri aveva sentito che erano stati rovinati da cinici operatori di quella bassa finanza. Franco aveva anche riflettuto a lungo sulla faccenda e aveva cominciato a capire. Era tutto il settore che non girava per il verso giusto. Al settore della consulenza finanziaria dovrebbero essere destinate solo persone con un certo profilo, cioè corrette, abili e competenti. Invece vi si può trovare un po’ di tutto, gente cinica o perbene, competente o inesperta, abile o superficiale. Persone molto diverse, che però hanno tutte una cosa in comune, e cioè che per arrivare a fine mese devono sottostare alle direttive che gli vengono calate dall’alto. Come tutti. E allora il problema si sposta lì, nelle alte sfere, dove ti dicono che i clienti devi farli investire di più, dove ti danno come obiettivo di vendere questo o spingere quello. O di liberarti prima possibile di quell’altro, rifilandolo all’amato cliente. Che, per carità, ufficialmente resta sempre il loro idolo, basta leggere lo statuto societario o il codice etico o dare un’occhiata alla loro pubblicità. Ora, puntare l’indice sui grandi capi potrebbe sembrare un’assoluzione, ma non
lo è. Perché di operatori cinici, incompetenti e superficiali ce n’è comunque tanti, troppi. Tutta gente che ci mette anche del suo, per rovinarti. E ci riesce benissimo. I consulenti finanziari sono esposti tutto il giorno, tutti i giorni, al miracolo dei soldi che si moltiplicano, ti arricchiscono partendo da niente, o quasi. E questo produce effetti spesso devastanti. Così ci provano anche loro, e giocano in proprio, ando parte del loro tempo a cercare sui monitor il biglietto vincente. Quando poi pensano di averlo trovato, ci puntano sopra i soldi di famiglia, e siccome sanno di rischiare, hanno bisogno di sentirsi rassicurati. Allora ci sta pure che consiglino ai clienti il loro stesso investimento, così, giusto per convincersi della bontà della loro scelta. E quando poi succede il patatrac, giù tutti apionatamente, loro e noi. Con la differenza che noi non c’entravamo un cazzo. Questo pensava Franco ed era difficile dargli torto. D’altronde, l’esperienza che lui si era fatta in proposito era avvenuta in un periodo molto significativo, fra il 2000 e il 2008. Dal crac dei titoli tecnologici al caso Lehman Brothers. Così non fu difficile per lui prendere quella importante decisione. Anzi, l’aveva deciso subito, davanti a quel responso che lo condannava, che si sarebbe vendicato. Lasciò comunque are qualche giorno, poi telefonò e prenotò la radioterapia. Se aveva vissuto come un bambino viziato, almeno sarebbe morto da uomo. Facendogliela pagare.
Franco Lofusco era un tipo controverso, a partire dal nome. “Ma allora, tu sei franco o fosco?” lo prendevano in giro le compagne di scuola. Poi nel modo di fare. Timido e impacciato, ma abile e intelligente, seduceva con una facilità incredibile. Che si trattasse di ragazze o, più tardi, clienti. Ma la sua prima vittima fu la madre, che lo viziò oltre ogni dire, litigando spesso con il marito, un ufficiale napoletano venuto al nord per fare carriera, e diventato vicecomandante della Divisione Ariete. E controverso infine anche nell’aspetto. Alto, castano, occhi chiari, Franco appariva morbido e indolente. Di testa invece era veloce, pronto, sicuro. Una sicurezza che a volte lo rendeva perfino un po’ troppo sbrigativo e superficiale. Liceo classico al Don Bosco, scienze politiche a Trieste, nel 1977 Franco fu
assunto nell’ufficio pubblicità della Goryex a Spilimbergo, dove si mise in luce per capacità professionale e facilità di relazione. Per lavoro entrò lì in contatto con l’agenzia pubblicitaria J. Walter Thompson (JWT), che nel 1982 lo portò nella sua sede di Milano come direttore clienti. Ritornò a Pordenone nel 1987, a trentasei anni, e qui fondò una sua agenzia, la LFComm, in società con la moglie Patrizia Framarin, rampolla di una dinastia di notai. Era un uomo, ormai, aveva anche due figli, ma sembrava solo un ragazzino cresciuto. Franco sapeva bene che promotori finanziari e consulenti bancari sono figure diverse. I primi sono professionisti al servizio di istituti finanziari (banche o SIM), operano in genere fuori sede, cioè vanno in casa dei clienti, e vengono remunerati a percentuale. I secondi, invece, sono veri e propri dipendenti delle banche e lavorano in uffici interni. Ma per lui erano entrambi pericolosi. I più corretti gli sembravano ancora i promotori, se non altro perché già nel nome dichiaravano la loro ambiguità, così che uno diffidente, se avesse voluto, avrebbe anche potuto cautelarsi. Sarebbe bastato chiedersi: promotori di cosa, o di chi? “Good question” dicono gli inglesi, gente concreta. Proprio in quel periodo aveva anche letto da qualche parte che nel corso dell’ultimo anno svariate decine di promotori erano stati radiati dall’albo professionale. Ma oltre a questi, si chiedeva Franco, quanti altri danneggiavano i clienti con comportamenti scorretti, anche se non sanzionabili? I consulenti bancari, invece, già con il nome ti suggerivano che erano lì apposta per consigliarti. E allora tu, complice una buona dose di ignoranza finanziaria, finivi per fidarti. Perché alla fine, in quello stramaledetto settore dovevi pur fidarti di qualcuno, se volevi investire i tuoi soldi. E invece anche loro erano manovrati e potevano fregarti, tanto quanto gli altri. Anzi, per lui erano perfino peggiori perché, visto che lo stipendio lo prendevano comunque, erano anche meno propensi a sbattersi per gli interessi del cliente. Era pur vero che negli ultimi anni almeno la categoria dei promotori aveva cercato di correre ai ripari, e rifarsi una verginità. La situazione era compromessa, la mancanza di credibilità causata dalla scarsa trasparenza e dai conflitti d’interesse stava mettendo in forse lo stesso sviluppo del settore. Così le istituzioni di categoria avevano cominciato a intervenire. La stessa CE si era fatta carico del problema e nel 2004 aveva emanato la famosa MIFID (direttiva per la tutela del cliente, entrata in vigore in Italia alla fine del 2007). Insomma sembrava che qualcosa si muovesse, ora che il danno era fatto e le
vittime giacevano sul terreno. Ma c’era poi da fidarsi? Il lupo, si sa, perde il pelo… Quanti ancora sarebbero andati in malora, prima che le cose cambiassero veramente? Sulla scia di quelle riflessioni, Franco, che in un primo tempo aveva solo deciso di vendicarsi di quello che lo aveva rovinato, pensò: Già che ci sono, perché non fare qualcosa per evitare che questo scempio si ripeta in futuro? E anziché morire come un cane, uscire di scena alla grande? E pian piano, mentre i capelli cominciavano a cadergli a ciocche, prese ad accarezzare l’idea di are da una vendetta personale a una crociata contro l’intera categoria. Avrebbe potuto rinforzare tutte quelle loro belle intenzioni con un piccolo promemoria personale, un deterrente contro la tentazione di possibili ricadute. Come giustiziare alcuni di loro che pagassero per quelle vecchie colpe. Questo però cambiava tutto. Doveva ipotizzare un dettagliato piano d’azione, per verificare se l’impresa era fattibile, se aveva un senso. Così, per prima cosa definì una serie di questioni basilari. Come ucciderli? Quale arma usare? Come far arrivare il suo messaggio? Come individuare le vittime? Quante operazioni prevedere e di che tipo? Dove compiere le operazioni? E quando? Come evitare di cadere nella rete delle indagini? Quanto tempo calcolare per l’impresa? Poi voce per voce trovò le risposte che gli servivano per mettere in atto quel folle progetto.
Ne usciva un’impresa difficile e complessa. Lunga soprattutto, e lui di tempo ne aveva poco. Un anno, gli avevano detto. Trecentosessantacinque giorni. Quaranta però se n’erano già andati. E altri cento non sarebbero stati utilizzabili (finché il suo aspetto non fosse tornato normale). Per il suo piano restavano così solo duecentoventicinque giorni, che avrebbe dovuto utilizzare tutti, dal primo all’ultimo. Una sfida contro il tempo, sperando nel frattempo di non essere fregato da un ictus. Come dire, a morte piacendo. Era anche evidente che per non essere scoperto subito avrebbe dovuto tenere per ultima la sua vendetta. Si trattava di posticiparla alla fine dell’impresa. Il grande finale. Ma se la malattia avesse dato segni di accelerazione, avrebbe rivisto il piano, non voleva certo rinunciare a vendicarsi. Infine, quell’imprevisto cambio di prospettiva gli creava un altro grave problema, perché lui dopotutto aveva già cominciato a muoversi in una certa direzione. Quindi avrebbe dovuto fare dei pesanti aggiustamenti, con l’insorgere di inevitabili danni collaterali, ma quale guerra non ne aveva? L’importante era che la causa fosse giusta e lui su questo non aveva più dubbi.
Verso le otto di mattina di venerdì 12 settembre, appena rientrato a casa dopo l’esecuzione di Roma, Franco si buttò sul divano. L’allentamento della tensione gli aveva fatto scoppiare un terribile mal di testa. Pareva che gli avessero messo il cranio fra le ganasce di una pressa e sentiva stringere, e stringere. E si mise a premere anche lui con le mani ai due lati della testa. Era insopportabile, e svenne. Per la prima volta.
XI
Quel sabato mattina, Biscontin chiamò a casa Oscar Lubotigh e lo convocò nel suo ufficio. Quando il Lubotigh arrivò, Armelie era già lì. “Ciao Oscar, abbiamo pensato di ricostituire il team del cacciatore anche in questo nuovo caso dei bancari. Ci pare infatti che fra voi due ci sia sempre stata un’ottima intesa. Ti crea qualche problema con il progetto di informatizzazione?” Oscar Lubotigh stava gestendo per incarico del questore un progetto di revisione informatica di tutti gli uffici, un compito delicato e di notevole responsabilità, che andava avanti già da due anni ed era ormai in fase conclusiva. “No, non mi crea alcun problema, perché il progetto si trova attualmente in una fase che posso gestire con relativa tranquillità.” Poi guardò Armelie, che gli sorrise. “Allora, Oscar, pronto per una bella rimpatriata? Come vedi, con me o serial killer o niente.” Oscar sorrise alla battuta, con quel suo ghigno un po’ sinistro, come da duro, e che invece era solo l’effetto di due labbra inesistenti. “Considerami già operativo, Armelie.” “Stamattina,” aggiunse Biscontin “ci sarà la conferenza stampa ed è per questo che ti ho voluto convocare subito, così ti puoi già fare un’idea del caso, dell’atmosfera che c’è intorno e dello sviluppo delle indagini.” “Non chiedo di meglio.” Quando uscirono dall’ufficio di Biscontin, Armelie si scusò con Oscar di non poter restare con lui, doveva rivedere alcune cose per l’incontro con la stampa. Ma subito dopo lo avrebbe introdotto nell’operatività delle indagini.
Alle undici la sala riunioni del primo piano era piena di rappresentanti dei media, per lo più giornali ed emittenti televisive. C’erano anche agenzie di stampa straniere. Sembrava di essere ai tempi del caso cacciatore, evidentemente la questura di Pordenone faceva ancora notizia. Poi un serial killer è una sorta di telenovela dell’orrore, un genere di cronaca nera che fa grandi audience, anche all’estero. E infine, le vittime. Probabilmente la categoria dei consulenti bancari godeva di scarse simpatie e fama discutibile anche in molti altri paesi. Insomma, il nuovo caso prometteva bene. Vitale fece gli onori di casa, sottolineando come Pordenone fosse diventata per i giornalisti un ottimo antidoto contro la disoccupazione. Poi lasciò parlare Armelie. Lei fece un quadro sintetico ma anche molto chiaro del caso e delle indagini in corso. Tacque, come d’accordo, sulle celle telefoniche e l’ipotesi del single. Poi si rivolse ai giornalisti per le domande di rito. Intervenne una giornalista del Tg 5. “Avete qualche idea su come sceglie le vittime?” “Ce lo siamo chiesto anche noi,” rispose Armelie, “ma non abbiamo ancora trovato una risposta. In questo momento siamo più concentrati a individuare una rosa di teorici indiziati, sulla base del riscontro di alcuni parametri oggettivi, come l’aver subito una grossa perdita finanziaria, il possesso di una pistola .22 e la presenza nelle città colpite. È un grosso lavoro, ma l’incrocio di questi dati può essere molto più decisivo di altre piste. Che comunque non trascuriamo.” “Vorrei fare all’ispettore Bernardi due domande.” Era il rappresentante dell’agenzia Reutersche parlava. “Primo. Cosa intendete quando parlate di grossa perdita finanziaria? Secondo. L’ABI[1] si è già fatta viva con voi? E in che termini?” “Il concetto di grossa perdita l’abbiamo definito in comune accordo con gli stessi esperti bancari. E l’abbiamo aggiornato per i diversi anni compresi fra il 2000 e il 2008. Ma il valore che è stato definito fa parte del segreto istruttorio. Per quanto riguarda l’ABI, non mi risultano al momento contatti di alcun tipo.” Fu la volta dell’ANSA. “Avete qualche idea sulla provenienza del killer? Pensate
che sia di Pordenone o piuttosto di Roma? O addirittura di un’altra città?” “Al momento non possiamo sapere se è di Pordenone o di Roma. Né possiamo escludere che possa essere di un’altra città e che queste prime esecuzioni siano solo operazioni di contorno.” “Perché aspettare tutto questo tempo per vendicarsi?” chiese l’inviato del Corriere. “Anche ammesso che il suo crac personale fosse l’ultimo in ordine di tempo, e cioè il crac Lehman Brothers del 2008, sarebbero pur sempre ati sei anni!” Rispose Vitale, facendo l’esempio dell’uomo che sa aspettare il momento giusto, anche per molti anni, e che alla fine esce dall’ombra e colpisce. Ci furono diffusi mormorii di assenso. Vitale colse poi una domanda fuori microfono. “Perché dico uomo? Per la statura, intorno al metro e ottanta.” Chiese poi la parola Renato Ziller del Messaggero Veneto, una vecchia conoscenza della questura, nonché ex compagno di liceo di Armelie. Ziller si rivolse direttamente al commissario. “Se questa storia continua, come dalla vostra esposizione si potrebbe facilmente ipotizzare, che tipo di protezione avete pensato per i consulenti bancari?” “Di sicuro non potremmo dotare di guardia del corpo alcune migliaia di impiegati di banca!” Si sentirono alcune risatine per tutta la sala, Ziller non era nuovo a uscite del genere. “L’unica cosa che possiamo fare è dar loro il consiglio di non uscire di sera o almeno di non uscire da soli. Gli suggerirei anche di cambiare abitudini per un po’, rendendo così più difficile per il killer il poterli intercettare.” “E del caso cacciatore cosa ci dite?” Era l’Associated Press che parlava. “State ancora cercando quel pericoloso killer?” Vitale si scambiò un’occhiata d’intesa con Armelie, voleva capire se la ragazza se la sentiva di rispondere. Armelie gli fece cenno che non c’era problema. “Come ricorderete, alcuni mesi fa, dopo che il cacciatore aveva colpito anche in
Camerun, le indagini si erano focalizzate su alcuni noti personaggi locali, in particolare su un indiziato, Giorgio Romani, che non aveva fornito alibi. C’era stato anche un fermo. Ma alla fine non abbiamo trovato alcun riscontro concreto, neanche una forcina, così abbiamo dovuto lasciarlo andare. Da allora, il killer non si è più fatto vivo. In questo momento,” mentì Armelie, “stiamo riando al setaccio tutto il materiale istruttorio, per individuare altre piste di indagine o trovare eventuali smagliature che ci dovessero essere state nel piano investigativo.” Poi se ne andarono tutti.
Nell’ufficio di Vitale, il commissario scambiò alcune battute con il suo vice. “Hai visto, Mario, come Armelie ha gestito il discorso del cacciatore?” “Con grandissima abilità, e pure mentendo spudoratamente.” “Proprio così. Beato chi la capisce quella ragazza. Riare a setaccio tutto il caso! Dimostra che lei sa benissimo cosa avrebbe dovuto fare e che tutti noi ci saremmo aspettati che fe. Ma non mi risulta che la cosa l’abbia neanche mai sfiorata.” Nel frattempo Armelie si era portata Oscar nel suo ufficio, dove lo mise al corrente di tutto quello che era stato taciuto in conferenza stampa, per non fare arrivare troppe informazioni al criminale. Più si sentiva al sicuro, meglio era, avrebbe potuto fare più facilmente degli errori. Poi guardò con lui l’elenco delle banche di Pordenone che le aveva preparato il Franzina, gli spiegò quello che c’era da fare e si divisero gli istituti da visitare nei prossimi giorni. Ma notò in lui una strana freddezza. Quando Oscar se ne fu andato, Armelie telefonò a Roma al Robeschi e gli disse di controllare gli alibi di tutti quelli in cui una grossa perdita finanziaria si fosse incrociata con il possesso di una pistola calibro .22. Quando dall’altra parte del filo sentì un silenzio che cominciava a farsi pesante, Armelie inviò a Tommaso un potente analgesico. “È sufficiente che controlliate solo quelli della lista che sono anche single.”
Sentì un grugnito di approvazione. “Adesso sì che cominciamo a ragionare!” Il sovrintendente Lubotigh era un tipo taciturno e concreto. Trentadue anni, originario di Cividale, Oscar era alto e magro, aveva capelli biondicci sugli occhi freddi e slavati, e portava sul viso una rada peluria. Mago del computer e campione di pistola, viveva solo da qualche parte e non aveva amici in questura. Il cacciatore gli era costato una brutta cotta per Armelie, non del tutto superata. Anche lui aveva notato il suo cambiamento, anzi lui più degli altri, visto che ne era il principale collaboratore. E quando alle battute finali aveva assistito all’interrogatorio del Romani, pescato di nuovo senza alibi, si era stupito non poco vedendo che Armelie non insisteva più di tanto, non lo torchiava. Lei, che sapeva essere una dura, non cercava nemmeno di farlo cadere in contraddizione. Solo domande di routine, e poi l’immancabile fermo e perquisizione. Che in una situazione del genere stava a rappresentare giusto il minimo sindacale. E il Romani? Si era lasciato fermare con l’aria più imperturbabile del mondo, mancava solo che fosse venuto in questura con il beauty-case. Ma queste cose Oscar se le era tenute per sé.
Fra il sabato sera e la domenica mattina, i media furono invasi dai servizi sul nuovo serial killer dei consulenti bancari. Grande rilievo visivo fu dato ai famosi biglietti, e al Redde Rationem. Il Corriere lo definì il caso del finanziere e da allora tutti lo chiamarono così. Si rividero le immagini sinistre delle Torri, e a fianco quel solitario vialetto d’ingresso di Roma, esso pure particolarmente sinistro, altro posto ideale per un delitto. Anche la stampa straniera dedicava spazi significativi ai due crimini collegati. Numerosi furono gli accenni al cacciatore, il misterioso caso tuttora insoluto. E la macchina di Porta a Porta aveva già annunciato una puntata con il suo team di psicologi e criminologi, più politici e rappresentanti del sistema bancario.
Franco si gustò compiaciuto l’eco delle sue imprese. Gli piaceva il finanziere, suonava bene. Si era anche accorto che gli omicidi erano già stati collegati al fatto che le vittime avessero delle uscite serali ricorrenti. Quasi sicuramente, avrebbero presto capito che lui le selezionava proprio fra quelle che frequentavano un
circolo. Gli operatori finanziari si sarebbero fatti molto sensibili all’argomento, finendo per ricordare il suo interesse in proposito. Avrebbero potuto fare delle segnalazioni alla polizia. Magari anche un identikit. Per questo diventava importante che lui cambiasse spesso i suoi travestimenti.
[1] Associazione Bancaria Italiana.
XII
Aveva sognato Cabo de Roca, da un po’ non succedeva. Era in bilico su quello strapiombo, ed era terrorizzata. Ma stavolta si era svegliata prima di andare giù. Di nuovo aveva mentito davanti ai suoi compagni. Le avevano fatto male quegli sguardi d’intesa e Vitale che alla fine se n’era andato con Biscontin. No, quella ferita che aveva sulla coscienza non si sarebbe mai chiusa. Ma intanto il nuovo caso le aveva cambiato l’umore, scacciando apatia e depressione. E non era poco. Così si era alzata presto, quella domenica, aveva innaffiato il giardino e aveva sistemato la casa che già da tempo, comunque, era tornata ad assumere un aspetto umano. Il giorno prima era stata al Conadcon sua madre e adesso era in cucina a preparare il pranzo e la tavola. Dopo una vita aveva invitato i suoi. Pasta al gratin, scaloppine di vitello con patate arrosto e crema al mascarpone. Accompagnati da un Merlot giovane e un Ramandolo. Suo padre si compiacque per i vini, disse che era un’ottima allieva. Poi parlarono del caso dei bancari e lei commentò in prima persona tutto quello che aveva già detto alla stampa. In questo il padre era un interlocutore perfetto. Pratico di finanza, già da moltissimi anni aveva rinunciato a qualsiasi forma di consulenza e operava in proprio via internet. Sui consulenti la pensava come il finanziere, e non gli sarebbero mancati aneddoti da raccontare. Di quei vari crac aveva sperimentato personalmente solo quello dei titoli tecnologici del 2000. E da allora aveva deciso di cambiare sistema. Ed era anche un esperto di pistole e di tiro. “Se ha avuto tanta cura di non fare rumore, è probabile che abbia usato una .22 a canna lunga, decisamente più silenziosa. L’arma preferita dai sicari professionisti.” “Magari una Beretta 76, la pistola con cui mi hai insegnato a sparare.” “Perché no? Oltretutto è un’arma molto affidabile, in migliaia di tiri non mi si è mai inceppata una volta, e in più è molto diffusa.”
“Papà, finisce che se al tempo di quel crac hai subito una grossa perdita, magari ti devo anche interrogare.” “Grossa perdita, no, ma ricordo che all’epoca mi ha creato dei problemi. Per esempio ho dovuto rinviare di un paio d’anni l’acquisto dell’auto nuova.” “E io, che aspettavo la tua vecchia auto, ho dovuto accontentarmi di restare con il mio catorcio, me lo ricordo bene.” Poi Armelie si mise a chiacchierare di modernariato e vintage con la madre, che fino a quel momento era rimasta ai margini di quella discussione, troppo tecnica per lei. Intanto il punto cruciale del caso aveva fatto capolino per la seconda volta. E per la seconda volta Armelie non l’aveva colto.
Per Franco era ora di cominciare a fare il piano dettagliato della terza esecuzione, quella di ottobre. Era meglio prendersi per tempo, cioè fin che si sentiva relativamente bene, infatti c’erano intere settimane che il mal di testa non lo lasciava in pace. Sarebbe andato a Vicenza, gioiello del Palladio, una città che gli era sempre piaciuta e aveva frequentato da ragazzo ai tempi di Elena. Questa volta si sarebbe trattato di un promotore finanziario, toccava a loro, ed era un ambiente che conosceva meno, non era mai stato in una loro sede. E così, mentre tutti erano concentrati sui consulenti bancari, lui cambiava scena. Già si pregustava le reazioni (si sfregò le mani e accennò un o di twist). Però aveva capito che dopo Vicenza le cose avrebbero preso un’altra velocità e le maglie della polizia avrebbero cominciato a stringersi. Doveva stare molto più attento e curare al massimo i travestimenti, sempre diversi nei vari giorni. Ma aveva solo l’imbarazzo della scelta: parrucche, barbe e baffi non avevano segreti per lui, né aveva problemi a cambiarsi il colore degli occhi. Ai tempi dell’università aveva fatto un’importante esperienza teatrale e il truccatore, suo carissimo amico, gli aveva insegnato filosofia e trucchi del mestiere. Oltre a ciò, sapeva anche assumere le inflessioni dialettali più conosciute. E poi c’era un altro vantaggio. Vicenza non era lontana, sarebbe andato avanti e indietro in giornata, il che significava che avrebbe potuto camuffarsi con comodo in casa sua, diversamente da Roma, dove aveva dovuto frequentare più di un bagno pubblico per i travestimenti, incontrando non poche difficoltà.
La seconda metà di settembre fu tutto un fluire di dati. Il lunedì successivo alla conferenza arrivò l’esito dell’autopsia di Roma. Il calibro del proiettile era sempre il .22. e anche qui erano stati rinvenuti nella ferita i due frammenti di pelle scamosciata. La traiettoria del proiettile era leggermente inclinata dal basso verso l’alto, segno che l’assassino aveva più o meno la stessa statura della vittima. Si confermava così l’ipotesi che il killer fosse alto circa un metro e ottanta. Il foro d’entrata era però laterale, poco sopra l’orecchio destro. Molto probabilmente la vittima doveva essersi girata, proprio mentre l’assassino stava premendo il grilletto. Un rumore, una sensazione, o chissà che. Nei giorni seguenti, subito dopo il picco di audience fatto registrare dalla puntata di Porta a Porta, arrivò anche la situazione dei pernottamenti. Franzina aveva trovato quattro romani a Pordenone la notte del 22 luglio e Robeschi sei pordenonesi a Roma la notte del’11 settembre. Ma dai controlli incrociati fra le due questure nessuno di loro risultava essere possessore di una pistola calibro ventidue. Così Armelie combinò una riunione di aggiornamento per il giorno dopo. Doveva essere un incontro breve, giusto una messa a punto, Armelie non aveva neanche fermato la sala grande. Si ritrovarono tutti e quattro - il dottor Merli non era potuto venire - nell’ufficio del commissario. C’era sempre il solito, tremendo puzzo dei mobili impregnati di fumo freddo, ma era un prezzo ben noto a chiunque nella Divisione Anticrimine avesse avuto la pur minima ambizione di carriera. “Dai primi riscontri è già uscito che i romani e i pordenonesi in trasferta non sono possessori di una ventidue. Niente di niente. D’altra parte sappiamo tutti che l’ospitalità abusiva è un mare magnum, dove chiunque può nuotare indisturbato. Vi ho voluti vedere proprio per dirvi che forse è meglio che lasciamo stare i controlli a tappeto su hotel, pensioni e B&B, è solo tempo perso.” “Sono d’accordo sulla tua osservazione,” disse Vitale. “Se non lo troviamo, non significa nulla, perché potrebbe essersi nascosto. Ma non condivido la tua conclusione. Fare i controlli serve, almeno per il momento. Serve solo se lo troviamo, ma serve.”
Biscontin e Oscar assentirono alle osservazioni di Vitale. “Okay,” fece Armelie, “ per il momento continueremo a controllare.” “Piuttosto,” disse Vitale, “c’è un altro aspetto da prendere in considerazione e che prima avevamo trascurato.” “E sarebbe?” Armelie si era già alzata per uscire, pensava che avessero finito. “Il nostro amico è all’inizio di una strategia delittuosa, che sembra avere come centro un’esemplare punizione verso la categoria dei consulenti finanziari, giusto?” “Giusto, e allora?” “Abbiamo dimenticato che la categoria dei consulenti finanziari non comprende solo i consulenti bancari, ma anche i promotori finanziari, professionisti operanti nelle cosiddette reti, strutture esterne che possono essere di emanazione bancaria, come pure di altre società finanziarie. In genere i promotori finanziari vanno in casa dei clienti e, pur trattando tutti i prodotti, vendono prevalentemente fondi di investimento. E il fatto che le prime due vittime siano dei consulenti bancari, non significa che fra le prossime non ci possano essere anche dei promotori finanziari. Magari è stato fregato proprio da uno di loro, e noi restringendo il campo delle indagini alle perdite riscontrate nel solo ambito bancario, magari ce lo facciamo sfuggire di mano.” Armelie guardò il commissario e poi Oscar, che non aveva battuto ciglio. “Quindi lei ci sta dicendo che dovremmo allargare la ricerca anche a tutti i clienti attuali e ati delle reti di promotori?” “Esattamente. Dobbiamo subito estendere l’indagine anche in questa direzione.” Armelie si fece meditabonda. “E logicamente dovremo dirlo anche ai romani.” “Logicamente. Ma ti darò una mano, li chiameremo insieme.” Sai che consolazione, pensò Armelie. Sangue, sudore e merda a palate. Poi ritornò al suo ufficio con Oscar e gli disse di fare il quadro delle reti di promotori finanziari di Pordenone, come già Franzina aveva fatto per le banche.
Appena lo avesse finito, si sarebbero rivisti per dividersi anche quelle. Poi chiamò il Robeschi a Roma e organizzò per il pomeriggio una conferenza telefonica a quattro con i rispettivi capi. Alle due, appena stabilito il collegamento telefonico, Vitale prese la parola e spiegò ai colleghi romani la situazione. Insistette sull’importanza cruciale di questo nuovo fronte delle indagini. “Un sacco di banche che abbiamo già incontrato hanno anche una rete esterna di promotori finanziari,” disse il Robeschi, “e adesso ci dovremo ritornare. Se ce lo aveste detto subito avremmo risparmiato un sacco di lavoro.” “D’altra parte,” disse Vitale, “il nostro lavoro è fatto di intuizioni, che ti vengono quando pare a loro. E ringraziamo che ci vengano in tempo utile.” “Ovviamente,” aggiunse il vicequestore Pieremili, “questi nuovi dati sono urgenti.” “Noi siamo già partiti,” concluse Armelie. Terminata la telefonata, Armelie si fermò nell’ufficio del commissario. “Commissario, questo criminale ci sta facendo fare veramente un mazzo così! Quando lo prenderemo, gli farò sputare io tutto il sangue che ci ha tolto!” “Vuoi saperne una, Armelie? A me invece è simpatico.” “Simpatico? E perché, se è lecito?” “Perché sta dando una lezione a quegli scellerati. Tienilo per te, ma anch’io a suo tempo mi sono preso una bella fregatura da uno di loro.” “Anche lei, dottor Vitale? Non ci posso credere.” “Sì, coi bond argentini nel 2001.” “Commissario, le do il benvenuto fra i comuni mortali.” “Cosa vuoi dire, scusa?” Ma Armelie gli fece il saluto militare, girò i tacchi e uscì dalla stanza.
XIII
Il bloc-notes di Armelie era una tavolozza piena di ghirigori, parole cubitali, punti esclamativi. Stallo. Bonaccia. Binario morto. Blocco. Vicolo cieco. Ognuna di queste parole poteva spiegare lo stato delle indagini verso la prima decade di ottobre. Le verifiche nelle due città avevano trovato cinque clienti di banca (di cui uno a Pordenone) possessori di una pistola .22, vittime di una grossa perdita finanziaria e anche single. La successiva estensione alle reti di promozione finanziaria aveva trovato altri quattro clienti, di cui uno a Pordenone e tre a Roma. Nessuno dei nove così individuati risultava essere stato cliente del Murolla o del Bartengo. Veniva così a cadere qualsiasi possibilità di un movente diretto. Il finanziere stava colpendo dei puri simboli. Dei due di Pordenone nessuno ricordava cosa avesse fatto la notte del 22 luglio, quella del primo delitto, probabilmente erano a casa. Né avevano alibi per la notte dell’11 settembre, quella del delitto di Roma, secondo loro erano sempre a casa a dormire. Per quanto riguardava i sette romani, solo due avevano un alibi sicuro per la notte del delitto di Roma, e nessuno aveva saputo fornire precise informazioni per la notte del primo delitto, a parte uno che ammise di essere stato effettivamente a Pordenone. “E dov’era, visto che il suo nome non figura negli elenchi forniteci dalle strutture ricettive della città?” Il geometra Leonardo Rossetti di Roma era in visibile imbarazzo. Sui sessanta, separato, titolare di un’agenzia commerciale che si occupava della vendita di prodotti per la casa, era a Pordenone con il suo socio d’affari per un convegno di vendita della Goryex. “Ho dormito da un’amica, che è… sposata. Il marito ingegnere in quel periodo era all’estero per un lungo viaggio di lavoro.” “Ci dia il nome della sua amica, cercheremo di controllare con la massima discrezione, ma dobbiamo sentirla.” La donna confermò la versione del Rossetti.
A cavallo tra la fine di settembre e la prima parte di ottobre, Oscar condusse l’indagine di controllo sulle celle telefoniche, per verificare l’attività dei cellulari degli indagati al momento dei due delitti. Dalla verifica risultò che si trovavano tutti nella loro zona di residenza nelle sere in cui era stato commesso il delitto nell’altra città.
La situazione di stallo era aggravata dalle pressioni che l’ABI già da alcune settimane aveva cominciato a fare su Pordenone, attraverso il ministero del Tesoro. I bancari erano in subbuglio e il questore convocava quotidianamente il commissario per avere notizie. Anche i media stavano mettendo in croce la questura con titoli come Le indagini segnano il o, Bonaccia a Pordenone, e via. E non era d’aiuto il fatto che anche il caso Rampin, quello dell’investigatore, non avesse fatto da luglio un o avanti. In quell’indagine, l’ispettore Bastinelli ci aveva messo tutto lo zelo che si può immaginare da parte di un giovane ispettore al suo primo caso di omicidio. Ma a parte la mancanza di tracce interessanti sulla scena del crimine, e la cancellazione di ogni impronta dalle tipiche superfici di contatto, il problema era quello della difficoltà a individuare il possibile movente del delitto. Famigliari e amici non ne avevano saputo ipotizzare, così le indagini si erano orientate su moventi legati all’attività professionale. Anche qui, scartate le ipotesi di vendette da parte di qualche coniuge adultero sorpreso in flagrante, situazione piuttosto improbabile per un delitto, l’unica pista rimasta era quella suggerita dallo stesso Vitale, e cioè che il Rampin nel corso di un’indagine fosse venuto a conoscenza di qualcosa che non avrebbe dovuto sapere. E quindi era stato ucciso perché non parlasse. Così aveva detto a Bastinelli di studiarsi i dossier riguardanti le indagini degli ultimi sei mesi. Ma non si aspettava granché. Perché uccidere e lasciare il dossier? Al primo aggiornamento sull’analisi dei dossier, Vitale ricordava di essere rimasto colpito da una pratica di pedinamento riguardante tale Alberto Cadonato, consulente bancario alla Pienne Credit. Il committente era un certo Marco Rossi. L’aveva subito associato al caso dei bancari, e ne aveva parlato con Armelie. “E se fosse stato il nostro killer ad affidare il caso al Rampin? Sempre ammesso che il nostro uomo, come io sostengo da sempre, sia uno di Pordenone?” “E, ottenuta la risposta che cercava, avesse ucciso il Rampin per non avere
testimoni?” “Beh, potrebbe essere un’ipotesi, non ti pare?” “Mmh, non credo che sia questo il suo metodo. Però, potrei verificare con il Robeschi se anche a Roma hanno avuto ultimamente l’omicidio di qualche investigatore. Infatti, se fosse vera la sua ipotesi, per ogni caso dovremmo avere un doppio omicidio, il consulente finanziario e anche l’investigatore che l’ha pedinato. Francamente non mi convince, dottor Vitale. E poi, scusi, se aveva già avuto il rapporto sulle abitudini del Cadonato, perché invece di uccidere lui ha invece ucciso il Murolla, di cui oltretutto non è stata trovata traccia nell’ufficio del Rampin?” “Sì, Armelie, non ha senso. Probabilmente si è trattato di una semplice suggestione indotta dal caso dei bancari. Vediamo se da Roma viene fuori qualcosa, se no lasciamo stare. Ah, e vedi anche chi è questo Marco Rossi, sempre che esista.” A Roma non era stato ucciso alcun investigatore. E Marco Rossi, come immaginavano, era un puro nome di comodo per mantenere l’anonimato. Era giusto uno scrupolo, pensava fra sé Armelie, mentre si recava alla riunione di aggiornamento. Erano le quattordici e trenta di venerdì 10 ottobre.
“Purtroppo le indagini si trovano sempre in una situazione di stallo. Come ricorderete, dall’analisi dei cellulari era risultato che tutti quelli che abbiamo interrogato erano nella loro zona al momento del delitto nell’altra città. E d’altra parte l’indagine richiede l’ovvia presenza dell’assassino su entrambe le scene del crimine.” Nella grande sala riunioni, Armelie aprì con questa frase l’incontro con i quattro colleghi seduti davanti a lei. Questa volta il dottor Merli c’era, a testimoniare che anche la procura era fatta oggetto di pressioni di vario genere. Il mondo bancario era potente. Aveva agganci dappertutto e il lucroso settore della consulenza finanziaria era tutto sottosopra. Piovevano le richieste di trasferimento. “Allora cosa possiamo fare,” disse il pm in tono provocatorio, “a parte aspettare qualche nuova esecuzione?”
“A questo punto c’è ben poco che possiamo fare,” rispose Armelie. “Ho anche provato a rivedere il concetto di perdita finanziaria, quello su cui abbiamo costruito il movente dell’indagine. Ma già per il 2000 l’avevo abbassato a settantacinquemila euro, rispetto ai centomila proposti dalle banche. Certo, abbassandolo ancora potremmo trovare molti più clienti, ma finiremmo per annacquare il movente. Per uccidere ci vogliono cifre ben più consistenti. Temo che faremmo solo un grande polverone per niente.” “Se è per questo, ti potrei fare un elenco così, di persone che ucciderebbero anche per diecimila euro,” disse Vitale, che da quando era sceso dall’ufficio del questore aveva un’aria infastidita e il riporto spettinato. “E secondo me,” gli fece eco Biscontin, “la maggior parte delle persone di quell’elenco lo farebbe anche per una cifra molto inferiore.” “Di sicuro,” disse Armelie, “non mancano i disperati, ma scusate, se uno è così disgraziato da uccidere per settantamila euro, o anche meno, allora lo fa d’impulso, mica con una vendetta a freddo sei e più anni dopo. E poi i disgraziati voi li vedete lasciare fogli con scritte in latino? Ed estendere la loro vendetta a una crociata morale contro un’intera categoria? No, amici, qui c’è cultura, e una mente superiore, e quindi anche il bisogno di un buon motivo per uccidere. È fra la gente agiata che dobbiamo cercare.” “Lo penso anch’io,” ammise il commissario. “E se non riuscissimo a trovarlo perché usa una pistola irregolare, un’arma non denunciata? Questo l’avevi considerato?” buttò lì Oscar. “Cioè perché è un delinquente o uno che ha rapporti con la criminalità? Certo, anche fra i delinquenti ci sono quelli che fanno investimenti finanziari, e magari prendono qualche bella fregatura. Ma di nuovo non mi tornerebbe la vendetta a scoppio ritardato, quella è gente che non ci pensa certo due volte a punire chi li ha fregati. E poi il latino? E la crociata morale? No, caro Oscar, questo è un tipo perbene.” “Credo che a questo punto,” disse Biscontin, “ci convenga tornare alle altre piste di indagine che avevamo inizialmente accantonato, e cioè chiederci come scelga le vittime, come scelga la città, dove vada a nascondersi quand’è in trasferta.” “Sì Mario, hai ragione,” concluse Vitale. “In un momento di stallo dell’indagine
principale, approfondire le piste laterali può essere una buona idea. In ogni caso è molto meglio che aspettare con le mani in mano o farsi le pippe sulla giusta entità di una perdita finanziaria.” Si lasciarono con la promessa di rivedersi non appena ci fosse stato qualche riscontro o qualche idea sulle questioni richiamate da Biscontin.
Quella sera a casa, Armelie si mise sul divano a riflettere. Si accese una sigaretta e ripensò alla riunione del pomeriggio con la sua squadra. Avevano cercato un po’ tutti di metterla in difficoltà, ma lei aveva resistito bene, aveva rintuzzato le varie provocazioni. Un povero disgraziato? Un delinquente? Ma dai! Quello era un uomo colto, una mente superiore, un tipo alla Giorgio Romani, il cacciatore. Si guardò intorno. Devo proprio fare il cambio dei cuscini, e tirar fuori quelli invernali, a tinte calde. Posò la testa all’indietro, e lasciò che il suo pensiero andasse a ritroso, al giorno in cui aveva smesso di essere un vero poliziotto. Lo ricordava come fosse stato il giorno prima. Era il cinque maggio, un lunedì.
XIV
Durante il ritorno dal Camerun Armelie si era sentita più volte con Vitale che, incredulo di fronte a quel clamoroso buco nell’acqua, aveva voluto conoscere in anticipo i dettagli della spedizione. E per lunedì aveva già programmato una riunione con tutto il team del cacciatore. L’avrebbero però tenuta nel pomeriggio, perché la mattina doveva accompagnare la figlia Marzia in clinica. Così la mattina del 5 maggio, in attesa di vederli tutti insieme nel pomeriggio, Armelie fece due incontri separati, uno con Biscontin e l’altro con Oscar. Li informò, ne spiò le reazioni, cercò di coglierne le perplessità, e di vendergli la sua versione dei fatti. Quando ci si accinge a mentire, meglio ci si prepara e meglio è. Nel primo pomeriggio in sala c’era anche il dottor Merli, l’unico con cui lei non aveva ancora avuto alcun tipo di contatto. Però era già informato dei fatti. “Insomma, non c’è altra spiegazione: o il cacciatore è andato in Camerun sotto falso nome oppure siamo noi che abbiamo cannato le indagini e i nostri due indiziati il Furlan e il Romani sono in realtà due malcapitati che non c’entrano niente.” “Non può esserti sfuggito il nome?” fece Biscontin. “Dopotutto in un mare di documenti può anche succedere.” “Due volte?” rispose lei. “Sia nei fogli degli hotel, che in quelli della dogana? A ogni buon conto, ho portato indietro la stampa di tutti i file, due raccoglitori così, e posso ricontrollarli o, se preferite, possiamo farli ricontrollare da qualcun altro.” “Non credo sia il caso,” disse Vitale. “Comunque vedi tu se per scrupolo vuoi fare un altro controllo. Piuttosto, come pensi di muoverti adesso?” “Convocherei in questura i due indiziati e li interrogherei per verificare il loro alibi. E se non lo avessero, procederei con fermo e perquisizione. Che è l’esito più probabile, visto che difficilmente potranno ricordare dov’erano il presunto
giorno di un delitto che risale a tre mesi fa”. “Mi sembra l’unica cosa da fare,” disse il pm. “Io intanto li convoco subito per domani mattina,” disse Oscar. Quella sera, subito dopo cena, ma non aveva mangiato praticamente nulla, lei fece quello che si era preparata a fare da quando era partita dal Camerun. Si mise una tuta e un cappellino blu da baseball, uscì di casa e andò lì vicino, a una cabina telefonica di viale Grigoletti. Se in quel momento fosse ato in auto qualche collega della questura si sarebbe stupito non poco di vederla in quella lercia cabina. Lei, la reginetta degli smartphone. Poi fece il numero che sapeva a memoria. Doveva solo stare attenta, Romani era un tipo pericoloso. Uno che non lasciava testimoni. “Pronto, dottor Romani? Sono l’ispettore Bernardi.” “Buonasera, dottoressa. A cosa devo…? Non dobbiamo più vederci domani mattina?” “Sì, sì, ci vediamo, è per questo che la chiamo. Senta, può venire più tardi a casa mia? È una cosa della massima importanza, la sto chiamando da un telefono pubblico. Diciamo verso le undici?” La domanda fu seguita da un certo silenzio. “Va bene, allora. Alle undici.” “Le lascio aperto il cancello.”
DOPO CHE FUI ENTRATO in casa, Armelie notò che mi stavo guardando intorno con curiosità. “Cos’è, dottor Romani, le piace l’ambiente?” “Sì, molto. C’è un piacevole equilibrio fra vecchio e moderno, stile e funzionalità. È un ambiente che ti dà subito una sensazione di familiarità, come se uno lo conoscesse già da lungo tempo”.
“Grazie.” Mi fece cenno di accomodarmi sul divano. Poi mise su un tavolino lì vicino una bottiglia di Pampero con due bicchieri e una tavoletta di cioccolato amaro. “Lei fuma?” continuò lei, allungandomi un posacenere. “Sì, grazie.” Ci accendemmo entrambi una sigaretta, eravamo in due a dover controllare la tensione. Poi fu io a rompere gli indugi. “Allora, di cosa voleva parlarmi?” “Del Camerun.” “Del Camerun?” “Alla fine di aprile ci è giunta la notizia che il cacciatore aveva fatto un’altra vittima a Garroua, in Camerun. Il delitto veniva fatto risalire all’1 o 2 febbraio. È stato possibile ricostruire con precisione la data in base agli ultimi movimenti della vittima presso l’hotel dov’era alloggiato. Non so se il fatto è stato riportato anche dai giornali italiani, perché sono partita subito per l’Africa.” “Sì, mi pare di aver letto qualcosa in proposito. Ma perché, dottoressa, mi racconta tutto questo?” “Perché quand’ero lì, Romani, ho trovato il suo nome nel file presenze del Savannah Hotel di Garroua, e anche nei file della dogana all’aeroporto di Douala.” “Sì, ma…” “Prima di parlare, Romani, mi lasci finire quello che ho da dirle.” Mi versai mezzo bicchiere di Pampero e accesi una seconda sigaretta. “Il fatto è che, per un impulso che non riesco tuttora a spiegarmi, ho taciuto con Pordenone questa circostanza, e poi ho anche eliminato i fogli che potevano incriminarla. E se adesso lei se ne viene fuori con la coincidenza che magari si trovava in Camerun per qualche altro motivo, si fotte lei e fotte anche me insieme a lei”.
“Infatti, io ero lì per un safari fotografico.” “Romani, glielo dico subito, questa sua copertura gliela smontiamo in un nanosecondo. Dopodiché resta il fatto che lei, già indiziato, fra tutti i paesi del mondo era proprio lì, capisce, nei giorni in cui il cacciatore uccideva la sua ultima vittima. Io sono stata onesta con lei, Romani, ho giocato subito a carte scoperte. Ci pensi su, se collaboriamo ci possiamo salvare entrambi, altrimenti finiamo in galera tutti e due. Oltretutto, se lei ammette con me di essere il cacciatore, non ha nulla da temere, anche perché se io adesso la accusassi finirei dritta in galera insieme a lei. Forse potrei fingere di essere pentita, magari avrei qualche attenuante, ma sarei pur sempre rovinata.” Mi presi qualche secondo per riflettere su quello che Armelie mi aveva appena detto. “Può dimostrare quello che mi sta dicendo?” “Avevo previsto questa sua domanda. Sì, posso dimostrare che lei è il cacciatore e posso anche dimostrare di averla favorita illegalmente.” Si alzò dal divano e andò in un’altra stanza al di là dell’entrata. Valutai il da farsi. Ero stanco di uccidere. E poi non sarebbe stato così semplice. Tornò poco dopo con alcuni fogli stampati. “Ecco, questi sono i fogli che ho sottratto dai raccoglitori portati dal Camerun.” Li presi e li esaminai con attenzione. Lei continuò. “Come vede sono gli originali, hanno ancora sul bordo i fori della pinzatrice. Sono per lei, li tenga. Io ne ho una fotocopia. Provano che lei è il cacciatore, e che io ho sottratto delle prove, diventando sua complice. Naturalmente, a scanso di ogni tentazione, una copia dei fogli l’ho anche messa in una busta sigillata, da aprire nel caso mi succedesse qualcosa. Sa, come si usa in questi casi.” Per la verità avevo anche notato la sagoma di un piccolo revolver nella tasca posteriore dei jeans. Un dettaglio che non aveva fatto nulla per nascondermi, anzi. Feci la mia scelta. “Va bene, ispettore, ammettiamo che sia. E adesso come ci regoliamo?”
“Semplice. Lei stanotte fa sparire da casa sua tutto, e ripeto tutto, quello che può incriminarla. D’altra parte immagino che lei abbia già fatto sparire tutte le prove fondamentali a suo carico. Deve solo controllare che non sia rimasto nient’altro.” “E poi?” “Domani, quando la interrogherò, lei dirà di non ricordare dov’era quei giorni, d’altra parte sono ati più di tre mesi. Essendo di nuovo senza alibi, saremo costretti a procedere al suo fermo. Faremo una perquisizione in casa sua e non trovando nulla, in capo a un paio di giorni la lasceremo andare. Il suo nome finirà per qualche giorno sui giornali, ma presto tutto rientrerà. D’altra parte, qualche piccola noia deve pur averla messa in conto, no? Ah, e il cellulare? E il computer?” “Il cellulare ho provveduto a mandarlo in riparazione, proprio alla vigilia della mia spedizione in Camerun. E appena tornato ho cambiato il computer”. “Perfetto.” Finii il Pampero che avevo nel bicchiere, spensi la sigaretta e mi alzai. “Adesso sarà bene che vada a lavorare. A domani, dottoressa.” “A domani, Romani, e veda anche di farsi qualche ora di sonno.” “Me lo lasci dire, ispettore, lei è proprio una strana ragazza.” “Se è per questo, neanche lei mi sembra poi tanto normale.”
IL GIORNO DOPO, mentre il professor Furlan seppe dire che nel periodo incriminato stava facendo una vacanza in montagna, io risultai ancora una volta senza alibi. E tutto si svolse esattamente come Armelie aveva previsto. Ci fu il fermo, la perquisizione, il rilascio e il can-can dei giornali. Apparve anche un mio breve profilo. “Giorgio Romani, nato nel 1950, vedovo, una figlia medico, studi di sociologia, dal 1990 responsabile ufficio stampa e comunicazione della PN-G.OP., un’importante azienda locale. Attualmente in pensione e apprezzato direttore del C.A.R.M.A. Apionato di armi ed eccellente tiratore.”
Questo fu quanto. Il dossier del cacciatore fu aggiornato con gli ultimi avvenimenti, poi riprese il suo posto sul lato destro della scrivania di Armelie, dove fu presto sommerso da un cumulo di altre pratiche e documenti.
XV
Finito quel percorso a ritroso nel tempo, durante il quale si trovò a rabbrividire su emozioni che pensava superate, Armelie ritornò al presente, al caso dei crac finanziari e al suo assassino invisibile, un soffio che svaniva nella notte senza lasciare tracce. Un uomo colto, lucido e organizzato. Una mente superiore. Come il Romani. E fu lì sul divano di casa sua, pressata da quella fastidiosa sensazione di impotenza, che Armelie diede vita a un’idea folle, un po’ per associazione di idee, un po’ perché ormai non riusciva più a controllare i suoi neuroni, né il suo senso morale. Un’idea che avrebbe potuto farle rischiare quella galera che aveva da poco evitato. Ma a lei in quel momento interessava solo di trovare il suo assassino, con qualunque mezzo e a qualunque costo. Mente contro mente. Ci meditò su giusto il tempo di una sigaretta, poi uscì di casa e si lanciò anima e corpo in quell’impresa sconsiderata.
STAVO GUARDANDO LA TV, con la Buzzi acciambellata sulle gambe, quando il cellulare che avevo lasciato nello studio cominciò a squillare con insistenza. Pirlo stava per battere la punizione che avrebbe potuto portare in vantaggio la Juve. Mi alzai imprecando, e seguito dalle proteste della mia piccola convivente andai a rispondere. Malgrado la cagnara del goal, riconobbi subito la sua voce. “Pronto, dottor Romani?” In quei cinque mesi non l’avevo più vista, avevo solo notato di recente una sua fotografia sul giornale in relazione a un importante caso che stava seguendo. Ricordo che mi era sembrata un po’ giù. “Dottoressa, che sorpresa! Cosa succede?” “Vorrei parlarle privatamente. Se per lei non è troppo disturbo, potrebbe venire a casa mia, come l’altra volta?”
“Stasera?” “Sì stasera, se può.” “Di che si tratta? Può dirmi almeno l’argomento?” “Niente di grave Romani, volevo solo farle una proposta, che naturalmente è libero di accettare oppure no. Solo che sarebbe urgente. Tutto qua.” Ero preoccupato e diffidente, ma anche incuriosito. “Sempre alle undici?” “Alle undici va benissimo.”
TROVAI IL CANCELLO e la porta aperta, come l’altra volta, così mi limitai a segnalare la mia presenza, bussando discretamente alla porta con le nocche. Armelie mi introdusse in casa, dove ritrovai quel gradevole profumo di cannella, e accompagnandosi con i soliti convenevoli mi pilotò nel salotto. “È un po’ che non ci vediamo, Romani. Come sta? Ho sentito dire che è rientrato al C.A.R.M.A.” “Sto cercando di uscire da quella vecchia storia, e il C.A.R.M.A. mi aiuta. Ogni giorno è una lotta al coltello per evitare a quelle povere ragazze di finire sul marciapiede. Ma con questa crisi che non dà segni di cedimento, quel marciapiede sembra diventare ogni ora più largo. E lei, come va?” “Anch’io porto ancora i segni di quella storia. Anzi, a dire il vero, mi sento del tutto fuori forma.” Aggiunse che purtroppo non aveva niente da offrirmi da bere, a parte una nutrita scelta di bibite. Era un piccolo regime monacale che si era imposta da poco, e che comunque sarebbe continuato per tutta la durata del difficile caso di cui si stava occupando. “E il fumo, è consentito?” Armelie mi fece un largo sorriso. “Certo, ci mancherebbe! Anzi le faccio
compagnia.” E posò fra noi due un grosso posacenere. Fui sempre io a rompere gli indugi. “Allora, ispettore, che genere di proposta voleva farmi?” “Si tratta di catturare un pericoloso assassino.” “Mi spieghi meglio.” Armelie mi spiegò per filo e per segno il caso dei bancari, e mi disse chiaro e tondo quello che voleva da me. “In certi casi è utile cercar di ragionare come ragiona lo stesso assassino, così da poterne prevedere le mosse. E la simulazione, questa l’idea che mi è venuta, è tanto più efficace, quanto più chi la fa ha una certa consuetudine a ragionare in quel modo. E qui entra in scena lei, Romani, una delle menti criminali più brillanti con cui la nostra questura abbia mai avuto a che fare. Probabilmente, la più brillante in assoluto.” “Mi starebbe proponendo di diventare un collaboratore della polizia?” “Non della polizia, Romani, ma mio personale. La polizia non deve saperne nulla, e tutto quello che lei mi dirà, e mi suggerirà, io lo presenterò ai miei colleghi come se fosse una mia idea.” “Ma… è pazzesco! Un rapporto clandestino. Lei, un ispettore di polizia, fa accedere un estraneo, che oltretutto è l’ex-indiziato di un vecchio caso insoluto, a tutta una serie di informazioni coperte dal segreto istruttorio. Ma allora le piace davvero, giocare con la galera! Senza contare che, qualora si venisse a sapere, non ci vorrebbe molto a fare due-più-due-quattro, e attivare in questo modo tutta una serie di sospetti sulla conclusione di quel vecchio caso. Lasci perdere questa idea balzana, e mi ringrazi subito per il consiglio.” “Romani, lei mi delude, la facevo uno con più palle. O si è già imborghesito? E poi è vero che l’ho lasciato libero di accettare o meno, ma è anche vero che lei ha con me un grosso debito morale, che le sto chiedendo di onorare.” “Ha ragione, dottoressa, sono in debito con lei. Va bene, mi lasci un po’ di tempo per pensarci.” “È una cosa urgente, Romani, questo tizio ha già ammazzato due persone, e se non riusciamo a intervenire rapidamente potrebbe presto ammazzarne delle altre.
Lei poi sa meglio di me come vanno queste cose.” Aveva perfettamente ragione, poteva essere sì oppure no, ma doveva essere subito. Per la verità la cosa mi intrigava, la ragazza mi piaceva, e quella proposta avrebbe potuto aiutarmi ad allontanare finalmente il ricordo della caccia. “E se fosse, come penserebbe di procedere?” “Io adesso le presenterei tutta una serie di domande cui non abbiamo ancora dato risposta, lei ci pensa e appena avesse qualcosa da dirmi al riguardo, ci vediamo e ne parliamo. E sarebbe la benvenuta anche qualsiasi altra idea le venisse in mente. Questo per cominciare. Poi la terrei costantemente informato sull’andamento delle indagini e di volta in volta vedrei se e come coinvolgerla. Naturalmente, tutti i nostri contatti avrebbero luogo sempre qui, con la massima discrezione.” “E sempre a suon di tè e coca-cola.” “Sì, sarà una collaborazione assolutamente sobria. Mi sembra un piccolo prezzo, per una grande avventura. Oltre al rischio galera, naturalmente.” “E va bene, mi dica quali sono i compiti per casa.” Armelie mi presentò le questioni sospese, mi lasciò un po’ di spazio per la richiesta di alcuni approfondimenti, mi spiegò meglio, poi ci alzammo per congedarci. Nell’ingresso lei mi porse la mano con una certa solennità, quasi a voler sottolineare la nascita di quello strano patto. “Senta Romani, siccome la storia si preannuncia lunga e difficile, per facilitare la nascita di uno spirito collaborativo, proporrei di darci subito del tu.” Mi finsi stupito. “Ma, in genere, non tocca al più vecchio fare la proposta?” “Cioè a lei, se ho ben capito. Io però sono la polizia, e in questo caso spetta a me. E poi qui sono anche a casa mia. E vediamo di non approfittare della confidenza per cominciare subito a rompere.”
Dopo che fu uscito, Armelie si lasciò cadere sul divano e si mise a riflettere sul suo nuovo socio. Aveva sempre provato una certa curiosità nei suoi riguardi, fin dai tempi del cacciatore. Trovava che fosse una rara combinazione di intellettuale e uomo d’azione. Come età avrebbe potuto essere suo padre, ma lei lo vedeva più come un professore di università. Fisicamente solido, appena ammorbidito dagli anni, dava l’idea di essere ancora scattante e pericoloso. Anche se non lo dava a vedere la sua era una presenza che colpiva, e sentivi che avrebbe potuto colpirti molto di più, se solo avesse voluto.
XVI
Quando nel 1987 aveva aperto a Pordenone la sua agenzia, la LF-Comm, Franco Lofusco aveva grandi ambizioni e un progetto molto chiaro. Un progetto che lo portò rapidamente al successo, ma che poi finì rovinosamente. Per lui fu una tragedia. Per gli altri non fu altro che una delle tante, piccole storie della pubblicità. In quel periodo il mercato pubblicitario era in vertiginoso sviluppo, ma anche il numero delle agenzie era letteralmente esploso in tutto il paese. Il grosso del business, quello dei grandi budget pubblicitari, era saldamente in mano a poche, grandi agenzie di Milano, che lucravano laute provvigioni con brillanti idee creative e relativa fatica. Il resto, che comunque non era poco, se lo disputavano con abili idee e molto lavoro una miriade di piccole e medie strutture sparse su tutto il territorio. Tutte le agenzie, grandi e piccole, si disputavano i budget al coltello. Se li accaparravano partecipando alle cosiddette gare creative, ma il più delle volte attraverso conoscenze, raccomandazioni o canali personali poco trasparenti. La strategia di Franco era molto semplice. Entrare in qualche modo alla Goryex, azienda leader nei prodotti per la casa, facendo leva sulle numerose conoscenze che aveva maturato nei cinque anni di lavoro all’ufficio pubblicità dell’azienda. Poi, una volta ottenuta quella fondamentale referenza, penetrare in tutte le altre fasce di clientela, e lì fare il suo business, magari con l’aiuto di qualche premio creativo, di cui pullulava il mondo della pubblicità. Ovviamente, in attesa di fare i soldi, avrebbe dovuto andar piano con le spese e mettere su una struttura di minime dimensioni. Oltre a lui e alla moglie Patrizia, che però dedicava ancora parecchio tempo a fare la mamma, aveva preso con sé quattro persone: una coppia creativa, un che lo assistesse nei contatti con i clienti, e una segretaria amministrativa, che era coordinata da Patrizia. Si era però concesso un ufficio di cinque stanze in pieno centro, con tanto di saletta per le riunioni. L’entrata alla Goryex fu facilitata dal fatto che proprio in quel periodo l’azienda
stava spostando all’esterno tutta una serie di lavori, che prima erano gestiti dall’ufficio interno di pubblicità. La seconda circostanza fortunata fu che un suo vecchio collega, con cui era rimasto in ottimi rapporti, aveva fatto carriera e stava cercando un’agenzia cui affidare il budget di un piccolo prodotto in fase di lancio sul mercato. Per la verità c’era un’altra agenzia davanti a lui, ma non c’era una gara, l’assegnazione di quel piccolo budget era diretta, e così Franco non ebbe difficoltà a ottenere la preferenza dell’amico Toni Vizzolan. Il prodotto era il Taffree, uno speciale spray per la smacchiatura dei tappeti. Come aveva previsto, quell’ingresso in Goryex funzionò come un vero e proprio apriscatole, e unito alla sua intraprendenza gli procurò in poco tempo un discreto portafoglio di clienti locali. Poi vinse una gara per la campagna pubblicitaria dell’Azienda di Soggiorno di un’importante località balneare. E la campagna gli valse pure il secondo premio nella sezione Press&Outdoor del Key-Awards, riconoscimento cui non furono del tutto estranee alcune sue buone frequentazioni del periodo milanese. I clienti aumentarono ancora, sia in quantità che in qualità e così Franco dovette aumentare le persone e restringere gli spazi. Nel 1991 ci furono i due episodi chiave del suo successo imprenditoriale, la difesa della Goryex e l’entrata alla Pozzanti. All’inizio dell’anno, il suo amico Vizzolan fu mandato a dirigere la piccola filiale di Budapest e venne sostituito dal dottor Marco Policco, uno che veniva dalla zona di Udine e che Franco non conosceva. Prese subito informazioni e scoprì due cose, e cioè che il Policco aveva un debole per le donne e un rapporto di lunga data con Paolo Sarfini, titolare di quell’agenzia di Udine che Franco aveva scavalcato al tempo della sua entrata in Goryex. Un giorno che era andato in Goryex a discutere di un nuovo packaging per il Taffree, Franco intravide il grosso BMW rosso del Sarfini che lasciava l’azienda. Subito dopo trovò il Policco un po’ scostante e sbrigativo, e con una banale scusa si vide spostare l’incontro a una data successiva. Franco fece due-più-duequattro e si rese subito conto che il Sarfini stava cercando di sfilargli la Goryex da sotto il sedere. Poi fece quattro-più-quattro-otto, era veloce in questo genere di cose, e disse al Policco che alla riunione successiva sarebbe venuto direttamente con Olga, la grafica che avrebbe seguito il progetto creativo. E subito registrò un leggero sussulto di interesse. Olga era di Trieste, e prima di entrare in LF-Comm aveva fatto la modella
pubblicitaria in piccole campagne del settore moda. Una volta era anche finita sul Corriere. Aveva da poco lasciato il suo compagno, sembrava per una storia di corna (sue), e al momento si stava godendo la libertà. Appena rientrato in agenzia, Franco la chiamò. “Senti Olga, sempre più spesso oggi si trovano creativi che svolgono anche funzioni di contatto con i clienti, magari limitate a progetti circoscritti. Ci sto pensando anch’io. Ti interesserebbe fare un’esperienza di questo tipo?” “Mah, non so, pensi che ne sarei capace?” “Penso di sì, e poi ci sarei sempre io a coprirti le spalle.” “Beh, se è così…” “Pensavo di farti fare un’esperienza alla Goryex, col dottor Policco, da cui a breve dovrei ricevere le indicazioni per un nuovo packaging del Taffree. È un progetto che seguiresti tu, gestendo in certe fasi anche il contatto con il cliente.” Le inquadrò poi il contesto dell’operazione, di cui per decenza omise solo alcuni dettagli collaterali. “Non ti nascondo che i nostri attuali rapporti con la Goryex sono in una fase delicata, perché il Policco è un nuovo manager preso dall’esterno e perché il Sarfini, che è un suo vecchio amico, sta cercando di farci le scarpe. Così diventa fondamentale che tu ti impegni al massimo e faccia un eccellente lavoro creativo. Anzi, il bonus di quest’anno lo legherò proprio a questo progetto. E se alla fine dell’anno il dottor Policco sarà soddisfatto, avrai un premio di due milioni.” Olga sgranò gli occhi, si segnò il giorno fissato per la riunione, e se ne uscì sculettando. Guardandola andare, Franco si compiacque con se stesso di quella rapida contromossa per tenersi la Goryex. E Olga fece un buon lavoro, andò perfino a vincere il primo premio per il packaging all’Adci Award. Franco si stupì pure, quando glielo comunicarono, il lavoro secondo lui non era proprio a quel livello, ma la differenza l’avevano fatta il nome della Goryex e le pressioni del dottor Policco, su questo non aveva dubbi. E poi aveva notato che Olga in Goryex ci andava sempre di sera, a tutto rimmel e capello sciolto. Probabilmente il Policco se la scopava alla grande, ma tant’è, erano tutti adulti da un pezzo. E a fine anno, visti i buoni rapporti con l’azienda e anche il premio vinto, portò di sua iniziativa il bonus di Olga a tre milioni.
Dei rapporti fra Olga e il Policco Franco ebbe una indiretta conferma, quando il manager lo chiamò in azienda per offrirgli l’opportunità di entrare alla Pozzanti, un grosso industriale della zona di Udine, cliente del Sarfini. Infatti, il direttore commerciale dell’azienda, che era un buon amico del Policco, gli aveva chiesto una dritta per il cambio dell’agenzia, di cui non era più molto soddisfatto. Quello dell’entrata alla Pozzanti fu l’episodio decisivo della sua carriera imprenditoriale, nel bene e nel male. Fu un salto di qualità che gli fece cambiare il livello di business, ma che gli provocò anche un’esplosione dei costi. Il nuovo cliente aveva esigenze quantitative e qualitative che la LF-Comm, così com’era, non riusciva a garantire, e quindi Franco dovette fare tutta una serie di interventi sulla sua struttura. Cambiò la coppia creativa locale con una più titolata e costosa coppia milanese, poi assunse un secondo copywriter, più una persona che seguisse le PR e gli eventi, un settore in cui l’azienda era molto attiva. Lasciò a Olga la gestione completa della Goryex. Dovette infine traslocare in una sede più grande. La moglie Patrizia era molto perplessa, lei sarebbe andata molto più cauta con le spese, ma Franco non voleva sentir ragioni sull’affare della sua vita. Ma al di là dei costi, il problema vero era che la Pozzanti aveva finito per fare il vuoto nel portafoglio clienti dell’agenzia, arrivando a pesare per oltre il settanta per cento sul fatturato totale. In pratica, dei vecchi clienti Franco aveva tenuto solo la Goryex e i migliori nomi della prima ora. Era una situazione sbilanciata e pericolosa, alla quale lui pensava di rimediare cercando nuovi clienti nella fascia media, in modo da riequilibrare il fatturato. Ma il progetto restò una pia intenzione e per tutti gli anni `90 Franco si godette il suo successo, alcuni altri premi, e il nuovo tenore di vita che quel successo gli assicurava. Girava con una potente Audi nera, si era fatto un bel cabinato Comar d’occasione e una stupenda Harley Davidson. Di nascosto da Patrizia, sognava perfino di prendersi un cavallo. Il crollo della LF-Comm ebbe luogo all’inizio del 1999. Come succede spesso, un nuovo direttore commerciale alla Pozzanti si portò dietro la sua agenzia, e di colpo Franco si ritrovò con un buco del settanta per cento nel fatturato. Dovette velocemente ridimensionarsi. Anche nel tenore di vita. Ne uscì tenendosi due giovani grafici, facendo lui stesso il copywriter e coinvolgendo a tempo pieno la moglie Patrizia, che prese la parte amministrativa di quel niente che era rimasto. Olga se n’era già andata alcuni anni prima, aveva messo su una sua minuscola struttura, portandosi dietro la Goryex e un paio di altri clienti. La LF-Comm si trasferì in un piccolo appartamento di periferia. Tutta la vicenda fu un vero
trauma, ma era già tanto che fossero riusciti a non fallire. Quando le cose si fossero rimesse un po’ in sesto, si sarebbero concessi il lusso di un copywriter.
XVII
Per Vicenza Franco aveva già fatto il piano dei travestimenti da adottare nei vari giorni in cui avrebbe dovuto selezionare la sua vittima. Aveva anche già individuato una dozzina di reti di promotori da contattare. Gli mancava solo il sopralluogo, che per la verità aveva programmato già per l’inizio di ottobre. Ma poi gli erano ripresi quei mal di testa che lo tormentavano per intere settimane, così dopo vari posticipi alla fine l’aveva messo in agenda a partire da mercoledì, il 15 ottobre. E a quel punto sarebbe andato avanti in ogni caso, che stesse bene oppure no. Non poteva perdere altro tempo. Non ne aveva. Presa quella decisione, si allungò sulla poltrona sfondata che da tempo gli faceva da cuccia. Aveva un aspetto vagamente pulcioso, ma era pur sempre il suo angolo preferito, in quell’appartamento ai piani alti del Principe - il grattacielo più blasonato della città - regalato dal suocero a Patrizia. Però in quella poltrona ormai non riusciva più neanche a leggere, visto che da quasi un anno la lampada a stelo aveva la lampadina fulminata, e la tapparella della finestra accanto era tutta giù perché la cinghia si era rotta. Si guardò attorno. Per terra vicino alla poltrona c’erano sei lattine vuote di birra, alcune rovesciate, e briciole di patatine, crackers e noccioline. Il senso di disordine e di sporco era dappertutto nel salone. Più lontano, sul tavolino del divano di fronte alla TV, si intravedevano dei piatti con resti di cibo. A volte mangiava anche a letto, ma per fortuna da lì non si vedeva. Nel degradante disordine della casa solo il suo guardaroba si era salvato, ed era impeccabile ed elegante come ai tempi migliori. (Anche ora che la sua vita era una specie di grande palude nera, manteneva quell’assurda abitudine di vestirsi con classe, lo faceva sentir bene). Una volta al mese faceva sistemare l’appartamento da Taiwo, una giovane nigeriana che stava lì otto ore, fra una cosa e l’altra. A volte, quando non ne poteva più di quel lerciume in cui si era confinato da mesi, prendeva un sacco nero delle immondizie, e girava per la casa buttandoci dentro tutto quello che poteva raccogliere senza fare troppo sforzo. Ma in fondo non gliene fregava niente. Non è che lì in mezzo ci dovesse poi stare ancora per molto. L’unica cosa che ormai gli interessava, e gli dava un po’
di pace, era quella cosa lì: spiare, scivolare nel buio, prendere alle spalle quei maledetti, ucciderli senza pietà. Come una belva. Ma come aveva fatto, ad arrivare a tanta ferocia? Lui, sempre così carino e disponibile?
Tutto era cominciato a cavallo del 2000, con la tentata fregatura dei bond argentini e poi con quella, perfettamente riuscita, dei titoli tecnologici. Fu lì che cominciò a giocarsi la famiglia e il suo rapporto con Patrizia, un rapporto da sempre granitico, malgrado quelle avventurette del periodo milanese, quando lei era rimasta a Pordenone a tirar su due bambini piccoli. Avventurette, notti brave. Adesso solo viagra e puttane, e Taiwo, e qualche barista quando stava meglio. Però quella tahitiana a Roma… a Milano ne avrebbe cercata un’altra. Si sfregò le mani. Sullo stereo Dalla navigava sulle note di Itaca, l’inno della nostalgia di casa. Franco lo staccò. Si guardò intorno, anche quel casino in fondo era pur sempre una casa. Ma la struggente nostalgia dei marinai di Ulisse non era fatta di pareti, ma di cose che lui aveva perduto per sempre. Sentì un nodo in gola. Poi chiuse gli occhi e tornò a quel maledetto periodo, e a farsi del male, ancora una volta. Aveva sempre avuto la ione del gioco e delle speculazioni. Che fosse il suo DNA napoletano? Da giovane aveva giocato spesso alla roulette, ma era come un vezzo. La malattia vera e propria cominciò a manifestarsi giusto alla soglia del nuovo secolo, complice anche la crisi in cui era venuta a trovarsi l’agenzia, e al conseguente bisogno di integrare le scarse entrate familiari. In quel periodo il suo interesse era rivolto agli investimenti finanziari, più rapidi e puliti. Anche nel rovinarti. Ma lui questo non lo sapeva, o non lo voleva sapere. Cominciò a frequentare i borsini delle banche, a scorrere le cronache finanziarie, a sentire conoscenti che facevano affari con questo e con quello. Le borse andavano bene, e questa era tutta benzina sul fuoco. Aveva anche fatto qualche operazione mordi-e-fuggi, era andata bene (a quel tempo andavano tutte bene), e questo stimolava in modo irresistibile la sua febbre speculativa.
Nell’estate del ‘99, il padre di Patrizia - il notaio Framarin - era venuto a mancare e in seguito a quel lutto lei aveva ereditato, fra le altre cose, centocinquanta milioni di liquidità. Decisero di impiegarli in qualche investimento che desse dei buoni interessi, in modo da procurarsi un piccolo reddito supplementare. Spiegò la situazione al suo consulente bancario, lo stesso con cui aveva da poco fatto alcune piccole, ma profittevoli, operazioni di borsa e quello gli consigliò subito un investimento in bond argentini. “Offrono ottimi rendimenti, e poi sono titoli di uno stato sovrano.” Fu solo grazie al provvidenziale consiglio di un esperto amico di famiglia che riuscì a schivare quella trappola mortale. “L’Argentina sta andando male, è entrata in recessione, non fidarti.” Capì che avevano cercato di fregarlo, rifilandogli dei titoli pericolosi, così liquidò tutti i suoi conti e cambiò banca. All’inizio del 2000 le borse continuavano ad andare alla grande, trainate dal boom dei titoli tecnologici - quelli legati a Internet - i soldi erano improduttivi sul conto corrente e a Franco prudevano letteralmente le mani. Aveva da poco schivato il pericolo dei bond argentini, si sentiva come vaccinato contro la mala sorte. Quella dei titoli tecnologici era una crescita continua, scandita dalle eccezionali performance del Nasdaq.[1] Tutti i soldi che entravano in quell’orbita in poco tempo si trasformavano in oro puro. Senza eccezioni. E non erano pochi gli individui che non avendo disponibilità proprie si indebitavano per poter investire nel nuovo Eldorado. Certo, da qualche parte alcune cassandre avevano messo in guardia contro il rischio di una bolla speculativa. I valori dei titoli tecnologici si fondavano essenzialmente su delle fantastiche prospettive di sviluppo, ma ormai avevano ben pochi contatti con la realtà. Erano gonfiati all’inverosimile. Anche Franco aveva letto quegli articoli, ma chi se ne importava, mica se li doveva sposare i titoli tecnologici, bastavano solo pochi mesi per guadagnare un sacco di soldi. Fu allora che, indirizzato da un comune conoscente, gli venne a casa l’anziano promotore di un’importante società finanziaria. Parlarono un po’ di tutto, ma quando il promotore si accorse del suo interesse per i titoli tecnologici gli disse
che poteva offrirgli il prodotto che faceva al caso suo, un nuovo fondo di investimento europeo, specializzato in quel tipo di titoli e che aveva in portafoglio le migliori società di tutto il settore. Un fondo le cui quote aumentavano di prezzo giorno dopo giorno, per cui aspettare avrebbe solo voluto dire pagare di più. Così Franco concordò rapidamente le condizioni dell’investimento e dette il via all’operazione. Ma non fu tutto. Perché dopo un mese, in cui il fondo aveva fatto un balzo del dieci per cento con un guadagno di circa quindici milioni, richiamò il promotore e gli fece fare un contratto speculare a favore della suocera, che aveva ereditato dal marito lo stesso capitale della figlia. Anche Franco aveva sentito dire che quando si investe è opportuno diversificare, ma lui aveva una sua filosofia:“Se l’operazione è buona, perché diversificare, riducendone i benefici? Se invece potrebbe non essere così buona, allora perché farla?” Quando nell’aprile del 2000 la bolla dei titoli tecnologici scoppiò, gli effetti furono devastanti. In pochi mesi i titoli, anche i fondi di investimento, persero la metà del loro valore. Anche diversificare non sarebbe servito a niente, perché in poco tempo era venuto giù tutto. Ci furono alcuni insignificanti rimbalzi tecnici, ma all’inizio del 2001 il loro fondo aveva perso più del sessanta per cento. Oltretutto, in quel periodo i responsabili del fondo rassegnarono in blocco le dimissioni. Probabilmente, come se non bastasse, dovevano anche esserci state delle infelici scelte di gestione. “Tu ci hai messo in questa situazione, tu ci tiri fuori,” furono queste le lapidarie parole con cui Patrizia commentò il crollo del loro investimento. Così Franco andò a cercare quell’amico che già l’aveva salvato dai bond argentini e gli chiese un altro consiglio. “Se mi trovassi nella tua situazione, uscirei subito, prima che i valori scendano ancora. Anche oggi, dopo tutto quello che hanno perso, quei titoli restano molto gonfiati rispetto al loro valore reale. Secondo me non è finita qui. Esci.” E lui uscì. Avviò l’operazione per telefono, non aveva nessuna voglia di rivedere quel bastardo che lo aveva rovinato. Lui si era fidato, e quello senza il minimo scrupolo lo aveva steso come un cane, rifilandogli un prodotto scadente di un settore pericoloso. Così, giusto per arrotondare il suo bonus di fine anno. Il promotore eseguì l’ordine senza fiatare, sarebbe ato più avanti per le firme di Patrizia e della madre. Subirono una perdita di circa centottanta milioni sui trecento investiti. Ma fecero bene a uscire. Tutti gli sciacalli che allora
comprarono quei titoli a prezzi di fallimento, negli anni successivi videro a loro volta svanire il loro squallido investimento. Quei titoli precipitarono ancora e non si risollevarono più. Per lui non fu solo un disastro finanziario ma, come si può immaginare, anche una tragedia famigliare. La suocera non lo volle più vedere, e così il resto del parentado. Con la moglie cominciò una lunga convivenza da separati in casa. Economicamente fu un periodo molto duro, anche i figli ne conservavano memoria. Patrizia rimborsò in parte la madre delle perdite, ma non liquidò le proprietà che le aveva lasciato il padre, erano la sua assicurazione, né lui aveva alcuna intenzione di chiederglielo. E quando Franco cercò di ottenere un aiuto da sua madre, non ci fu niente da fare. “Quel puttaniere del generale non mi ha lasciato nulla, giusto la pensione.” Era pur vero che lei, oltre alla casa dove stava, aveva anche due appartamenti suoi, ma quelli erano intoccabili perché i loro affitti le servivano per pagarsi la rumena che la portava in giro. Fu in quel periodo che vennero venduti sia il cabinato che la Harley Davidson. Poi lui e Patrizia si rimboccarono le maniche e provarono almeno a far ripartire l’agenzia.
[1] Indice dei titoli tecnologici della borsa americana.
Quarta parte
Terza esecuzione
XVIII
NEL TARDO POMERIGGIO di lunedì inviai un SMS ad Armelie. Lei lo aprì subito. Ho qualcosa per te. Vengo stasera? Okay. La trovai che stava portando un vassoio con le bibite. “Allora Romani, fatti i compiti per casa?” “Non tutti, ma qualcosa da dirti ce l’ho, e penso che possa esserti utile subito.” Armelie si sedette sul divano. Seguì il rito dell’accensione delle sigarette. Tirai una lunga boccata, poi attaccai. “Comincerei dalla domanda su come sceglie la città. Chiaro che per rispondere con sicurezza bisognerebbe poter conoscere le varie città del suo piano. Ma già adesso, con Roma e Pordenone, possiamo fare alcuni ragionamenti.” “Sono tutt’orecchi.” “Cominciamo da Roma. Perché l’ha scelta? Ci possono essere solo due motivi. O lui è di Roma e lì ha preso la fregatura e doveva fare la sua vendetta. Oppure l’ha scelta perché nel suo delirante piano di comunicazione Roma rappresenta il palcoscenico che gli garantisce il maggior impatto mediatico. Ora, che probabilità c’è che il nostro amico sia proprio di Roma? Una probabilità pari al peso che Roma ha sulla popolazione dei capoluoghi italiani, cioè circa il quindici per cento. Questo significa che per differenza ci sono l’ottantacinque per cento di probabilità che lui non sia di Roma, e che quindi l’abbia scelta per puri motivi mediatici.” “Un approccio interessante. E per quanto riguarda Pordenone?”
“Qui ci si potrebbe chiedere: se l’assassino non è di Pordenone, per quale altro motivo potrebbe averla scelta? Risposta: perché lui vuole terrorizzare tutti gli operatori finanziari, compresi quelli che vivono nelle piccole città. E che probabilità c’erano che fra tutte le piccole città venisse scelta proprio Pordenone? Anche qui ci viene in soccorso la statistica. Perché le città della fascia più bassa - sotto i sessantamila abitanti - sono esattamente quaranta, e quindi la probabilità che Pordenone sia stata scelta a caso fra queste è una su quaranta, che equivale al due e mezzo per cento. Questo significa che molto probabilmente Pordenone non è stata scelta per questo motivo. E allora l’unico altro motivo per cui può averla scelta è che Pordenone sia la sua città. Una tesi confermata dal fatto che il nostro amico ha cominciato la sua impresa proprio da qui.” “Quindi, se ho capito bene, lui sarebbe di qui e Roma sarebbe entrata nel suo piano solo per l’impatto mediatico che garantisce alla sua strategia di comunicazione.” “Diciamo che c’è un’alta probabilità che le cose stiano esattamente così.” “Ottimo, Romani! Vorrei farti conoscere il commissario Vitale, anche lui è sempre stato convinto che il killer sia di Pordenone, ma solo perché ha cominciato da qui. E tu adesso lo dimostri scientificamente. Bravo.” “Ti ringrazio, ma lasciamo stare Vitale, per carità. Ora, se mi permetti, vorrei completare il ragionamento con una considerazione sulle prossime città del suo elenco.” “Vai.” “Troverei strano che non ci fosse Milano, che è la patria della finanza, e anche dei media. E infine, visto che ha già colpito una grande e una piccola città, potrebbe orientarsi su una città di medie dimensioni, in modo da completare il quadro.” “Sono pienamente d’accordo con te, soprattutto per Milano.” “Invece, per quanto riguarda il sistema con cui sceglie i consulenti, non sono ancora arrivato a una conclusione. Avrei bisogno di maggiori dettagli sulle due vittime, per esempio poter conoscere tutti i punti in comune fra di loro, e per far questo dovrei dare un’occhiata ai verbali di interrogatorio. Ma intanto…”
“Hai già scoperto qualcosa?” “Scoperto no, ma ho cominciato a pensarci, e sono già arrivato a un’interessante ipotesi preliminare. Cioè, chiedendoci come sceglie le vittime, forse sbagliamo la domanda.” “Cosa vuoi dire? Certo che le sceglie, in ogni città ha davanti a sé decine di consulenti, se non anche centinaia, e lui ne deve ammazzare solo uno!” “Armelie, ascolta. Non ci sono molti modi per scegliere le vittime, il sistema è quello di accertare la presenza di tutta una serie di requisiti che il consulente deve avere per essere una buona vittima. E il primo che trova in possesso di tali requisiti diventa la sua vittima. Quello che invece non è per niente chiaro, la vera domanda che dobbiamo porci, è: come fa ad accertare questi requisiti? Perché è qui, nel cercare informazioni spesso difficili da reperire, che lui può lasciare delle tracce. Tracce che noi potremmo trovare.” “Cerca di spiegarmi meglio.” “Mi sono detto: se io fossi un serial killer di consulenti finanziari, e avessi scelto quel particolare modus operandi che lui ha adottato, di che informazioni avrei bisogno per fare di un dato consulente una possibile vittima? Sono essenzialmente tre le cose che devo sapere. Primo, se è uno che ha l’abitudine di uscire la sera e quando. Secondo, se esce da solo. Terzo, se al suo rientro lascia l’auto in strada, perché col garage le cose si complicano. Quest’ultimo requisito in realtà potrebbe essere un optional, ma al punto in cui siamo tanto vale considerarlo. E se trovare un consulente non è certo un problema, trovarne uno che risponda a tutti questi requisiti, credimi, non è per niente facile. Può lasciare delle tracce.” “E secondo te, come si procura queste informazioni?” “Questo non te lo so dire, certo è che deve aver sviluppato una precisa tecnica. Escludo, per esempio, che si metta a pedinare tutta una serie di consulenti finché non trova quello che si presta a fare da vittima.” “E perché escludi il pedinamento?” “Semplicemente perché in questo modo ci metterebbe una vita a trovare tutte le informazioni che gli servono.”
“Bene, Romani, cercherò di farti avere i dossier con i verbali. Fingerò di essermeli portati a casa per studiarli con più attenzione. Ma non potrò lasciarteli per molto tempo.” “Non preoccuparti, mi basta poco tempo. Magari, per fare prima, possiamo rivederli insieme qui da te.” “Mi sembra un’ottima idea. Cercherò di combinare la cosa prima possibile, magari domani stesso.” “Infine, c’è un’altra dritta che ti potrei dare, e cioè dove si nasconde in trasferta. Te lo potevo dire già l’altra sera, ma ho preferito rifletterci un altro po’.” “E dove si nasconderebbe?” “Ai tempi del cacciatore, ho dormito a Grosseto da due escort, che ufficialmente erano delle studentesse straniere. Su internet c’è solo l’imbarazzo della scelta. E lui potrebbe fare la stessa cosa. Oltretutto gli permetterebbe di abbinare l’utile al dilettevole.” “Già, sesso e violenza sono sempre andati d’accordo. Così ti divertivi pure, eh Romani? Ma fare un’indagine a tappeto sulle escort romane, che sono migliaia, sarebbe come cercare un ago in un pagliaio.” Lasciai cadere l’allusione personale, e le risposi. “Concordo. Meglio aspettare il pagliaio giusto.” “Cosa intendi?” “Che è inutile cercare a Roma, e poi magari anche a Milano, e perché no?, anche a Napoli. Pensa a quanti bei pagliai ci sono in giro. No, io ei questa teoria del pernottamento dalle escort solo per non dare troppo peso alle indagini su hotel e pensioni. Se però dovesse colpire in una città piccola, e fe l’errore di nascondersi da una escort, allora sì che varrebbe la pena di provare a indagare nell’ambiente. Di sicuro non lascerebbe il nome, ma uno che si ferma a dormire la notte se lo potrebbero anche ricordare. Magari potremmo ottenere un identikit.” “Come dire che quando hai fatto l’operazione di Grosseto ti avremmo anche potuto beccare.”
“Esatto. Ma nessuno ci ha pensato. Evidentemente non era così ovvio.” “In effetti è una buona pista. E se va in una città piccola forse possiamo beccarlo. Faresti una verifica anche su Pordenone?” “Pordenone? No, non mi pare il caso. Sono ormai ati tre mesi, troppo tempo. E poi, non abbiamo detto che Pordenone è molto probabilmente la sua città?” “Sono d’accordo. Domani farò stupire il dottor Vitale. Sono curiosa di vedere le sue reazioni, e anche quelle degli altri. Direi che siamo partiti proprio bene.” Al momento del commiato, in piedi davanti alla porta, Armelie mi sorrise. “Ehi socio, fra studentesse e ragazze-madri, non è che avrai un debole per le ragazzine, eh?” “A essere sincero, a quel tempo non fu tanto una questione di gusti, quanto di occasioni. E se proprio la vuoi sapere tutta, trovo decisamente migliori le donne un po’ più grandi.” Armelie mi puntò l’indice. “Risposta esatta! Bravo, dottor Romani.”
L’indomani, nell’ufficio del dottor Vitale, Armelie presentò ai colleghi - il pm ancora una volta non aveva potuto liberarsi - il frutto delle sue riflessioni. Vitale era sbalordito, e gli altri non erano da meno, anche perché nessuno di loro si era ancora messo a pensare seriamente ai punti proposti da Biscontin. “E stasera avevo anche intenzione di portarmi a casa tutto il materiale raccolto finora. Sono sicura che lì in mezzo, cercando con calma e concentrazione, possiamo trovare qualche altra risposta.” Su queste parole Armelie fece un cenno interrogativo a Oscar, che si era preso il faldone per riportarci l’esito della verifica sulle celle telefoniche. “Te lo riporto subito,” fece lui. “L’ho sempre saputo che era uno di qui!” proruppe Vitale. “E tu adesso l’hai dimostrato. Brava! D’ora in avanti daremo assoluta priorità a questa direzione.
Questo ci semplificherà enormemente il lavoro.” “Potremmo anche mettere in pre-allarme le strutture finanziarie di Milano,” disse Biscontin, “un supplemento di attenzione da parte loro potrebbe tornare molto utile.” “E il discorso della domanda sbagliata?” borbottò fra sé il commissario. “Un’intuizione davvero notevole, potrebbe essere la chiave di volta di tutta l’indagine!” Alla fine della riunione Armelie si attardò qualche minuto con il commissario, e quando rientrò in ufficio, trovò sulla scrivania il faldone dell’inchiesta. Che strano ragazzo, Oscar! Fino a poco tempo prima avrebbe fatto qualsiasi cosa, pur di avere una scusa per stare con lei. Adesso invece cercava di evitarla in tutti i modi. Perfino quando era lei stessa a offrirgli l’opportunità di un incontro, si sottraeva. E spesso aveva con lei un modo di fare scostante. Le sarebbe piaciuto approfondire, ma sapeva che la materia era delicata. Forse col tempo le cose si sarebbero sistemate da sole.
XIX
ARMELIE MISE IN BORSA il faldone e inviò un SMS. Stasera ho il materiale. Vieni? Le risposi subito. Alle undici. Ormai la cosa mi stava diventando familiare. Dopo che ci fummo seduti e Armelie mi ebbe fatto il divertente resoconto della riunione con Vitale, lei si alzò e uscì dalla stanza. Poco dopo sentii un gran fracasso e un’imprecazione. Dalla porticina alle mie spalle spuntava un trabiccolo metallico. Seguì un secondo colpo contro lo stipite. “Romani, cosa fai lì? Non vedi che sono incastrata? Dammi una mano, Cristo!” La liberai rapidamente. Il trabiccolo era una vecchia lavagna a fogli mobili. “E con questa cosa ci facciamo?” “Può esserci utile. A me, per esempio, aiuta a ragionare.” Con il pennarello Armelie divise il foglio in due colonne, quella a sinistra per le note relative al primo delitto, quello di Pordenone, e quella a destra per il delitto di Roma. Poi aprimmo il faldone e cominciammo a leggere il resoconto degli interrogatori di Pordenone. Due risultarono gli elementi di interesse, entrambi forniti dalla vedova Murolla. Il primo era che il marito, la sera che fu ucciso, stava giusto tornando dal circolo di bridge, dove si recava ogni martedì per la sua partita settimanale. Il secondo era che lui, come faceva di solito quando rientrava tardi, aveva lasciato l’auto nel parcheggio antistante al condominio, anziché metterla in garage. Quindi il Murolla rispondeva perfettamente ai requisiti della vittima ideale, perché usciva tutti i martedì sera, da solo, e poi quando rientrava lasciava l’auto in strada. Nella colonna di Pordenone Armelie cerchiò due note, circolo/
martedì e, subito sotto, auto in strada. “Niente male, eh ispettore?” “In effetti, devo dire che l’avvio è molto promettente.” “Adesso si tratta di capire se questo è stato un caso a sé, oppure rappresenta una precisa tecnica di selezione delle vittime. Controlliamo Roma.” Non era stato un caso. E se a Pordenone si era trattato del circolo di bridge, a Roma la vittima rientrava dal circolo di scacchi, dove si recava tutti i giovedì sera. E anche in quella circostanza l’auto era stata lasciata nelle vicinanze del condominio. Sembrava proprio che il finanziere selezionasse le sue vittime fra quelli che frequentavano un circolo. “Scusa Romani, non è che tu nell’altra vita eri per caso un famoso detective? E dopo ti sei reincarnato in un pericoloso criminale? Leggendo quattro fogli abbiamo già messo le mani su un fatto di grandissimo rilievo investigativo. Non riesco a capire come possa esserci sfuggito.” “Non me ne farei un problema, Armelie. Può succedere, quando le indagini vengono svolte dalla polizia di due diverse città. E poi, come tu stessa mi avevi detto, in quella fase dell’indagine eravate tutti concentrati sull’incrocio fra perdite finanziarie, possesso di una .22 e riscontri logistici. Non eravate interessati più di tanto al sistema di selezione delle vittime.” “Hai ragione, Romani, deve essere stato quello il motivo.” “Piuttosto, c’è un altro aspetto, su cui a questo punto vale la pena di riflettere. Si tratta ancora una volta di un aspetto statistico, una questione di probabilità.” “Ma allora è la tua materia preferita, la chiave per risolvere tutti i problemi!” “In realtà l’analisi delle probabilità non risolve nulla, però serve ad avvicinarti alla soluzione. È un po’ come un navigatore satellitare. Lui ti porta sul posto, senza farti perdere tempo a destra e sinistra ma poi, una volta lì, sei tu che te la devi sbrogliare.” “Sì, capisco. Sentiamo, allora.”
“Il problema è semplice, e riguarda l’iscrizione a un circolo.” “Cioè ti chiedi come il killer possa sapere se uno è iscritto o meno a un circolo.” “In un certo senso, ma non esattamente. In realtà, mi sto chiedendo: quante possono essere le persone che in una data città sono iscritte a un circolo? Poche, credimi. E anche se nel ceto impiegatizio questa percentuale è probabilmente più alta, restano comunque poche. Diciamo, per abbondare… una su venti? Ma è sicuramente molto meno.” “Diciamo una su venti.” “Naturalmente, oltre agli iscritti a un circolo, al nostro amico vanno bene anche tutti quelli che una data sera della settimana si recano al bar per farsi una partita a carte o a biliardo. Questo aumenta le probabilità di trovare qualcuno che esca regolarmente la sera. Ipotizziamo che allora le probabilità non siano più una su venti, ma possano diventare una su dieci. Sempre poche, in ogni caso. Tutto questo significa che per trovare la persona giusta, cioè quella che esce regolarmente, il nostro amico deve contattare in via preliminare una decina, o più, di consulenti.” “Ma vuoi scherzare? Vuoi che lasci in giro una traccia del genere?” “La statistica non ti dà la risposta, Armelie, ma ti dice solo che difficilmente lui potrebbe fare diversamente.” “Cristo, mi stai quasi convincendo.” “E non è finita…” “Cosa c’è ancora?” “C’è che se deve partire da un contatto preliminare con dieci o più consulenti, non può mettersi a fare un’indagine su ciascuno di loro, altrimenti non finirebbe mai.” “E quindi?” “E quindi sono loro stessi che gli dicono del circolo, nel corso del contatto che lui ha con ciascuno di loro.”
“E come riuscirebbe a farselo dire, scusa?” “Qui mi fermo, Armelie. Ma se ci pensi, per le nostre indagini questo aspetto viene ad assumere davvero poca importanza. Evidentemente avrà un certo modo di condurre il colloquio, magari si inventerà qualcosa di plausibile, che non susciti sospetti. Ma quello che a noi importa è che molto probabilmente, prima di ogni omicidio, lui vede tutta una serie di consulenti e si fa dire da loro se frequentano un circolo oppure no.” “Non ho parole, Romani. Chiarissimo. E deve per forza lasciare in giro un sacco di tracce.” “Adesso almeno sappiamo esattamente cosa cercare, e non è poco. Dobbiamo solo decidere dove andarlo a cercare, perché Roma, ad esempio, è un pagliaio gigantesco. Ci sono centinaia di consulenti, anche più, e interrogarli tutti sarebbe un bel problema. Ma, come ci siamo già detti, se dovesse colpire in una piccola città, seguendo questa pista potremmo beccarlo.” “Però, scusa Romani, se noi informassimo l’ABI del problema, e quella a sua volta informasse tutte le banche aderenti, potremmo avere delle segnalazioni spontanee da parte di tutti i consulenti che si ricordano qualcosa, Roma compresa. O no?” “Mi pare un’ottima idea.” “E Pordenone? È una città piccola, potremmo contattarli noi direttamente, risparmiando gli inevitabili tempi burocratici dell’ABI.” “Sì, a Pordenone si potrebbe tentare.”
Romani era un vulcano, e Armelie cominciò a fare una certa fatica nel ribaltare le sue analisi in questura. Mercoledì mattina, durante la sua esposizione, per la prima volta vide Vitale che si prendeva degli appunti, e non era il solo. “Cristo, Armelie,” se ne uscì il commissario, “ci fai sentire come tanti parassiti! Da dove ti arriva questo stato di grazia?” “Commissario, non esageri. Se proprio dovessi darmi un merito, sarebbe quello
di aver approfittato dello stallo delle indagini per rivedermi tutto il faldone del caso. Ma una volta trovati gli elementi di corrispondenza fra i due delitti, tutto il resto è stato solo una logica conseguenza. Chiunque di voi sarebbe potuto arrivare più o meno alle stesse mie conclusioni.” “Mi sembri un po’ troppo modesta,” disse Vitale. “Potremmo mandare un fax all’ABI,” disse Biscontin “e segnalare loro la storia dei circoli, o delle serate fisse al bar, e chiedere che i loro consulenti si mettessero subito in contatto con noi se per caso qualcuno dovesse avvicinarli, magari sotto le vesti di un nuovo cliente, e far loro delle domande in proposito.” “Mi sembra un’eccellente idea,” disse il pm. “Anzi, invierei il fax questa mattina stessa.” “In realtà ci avevo già pensato,” riprese Armelie, “e avevo deciso di non limitarmi a metterli in preavviso, ma di chiedere all’ABI di attivare segnalazioni anche in rapporto ai delitti già avvenuti.” “Perfetto,” disse il commissario. “Nel frattempo io informerò il questore. E mi raccomando, nel fax all’ABIchiedi ancora la massima riservatezza, è bene che in questa fase l’assassino non sappia ancora che gli stiamo arrivando addosso. È importante che lui continui a sentirsi tranquillo.” “Se ho ben capito,” disse Oscar, “adesso dovremmo rifare il giro di tutte le banche di Pordenone e interrogare tutti i consulenti, per trovare quelli che eventualmente avessero ricevuto in luglio una visita di questo tipo. Sempre ammesso che se lo ricordino. E sarà bene che ci mettiamo d’accordo su cosa chiedere esattamente.” “Quando usciamo, Oscar, andiamo nel mio ufficio a buttar giù il testo del fax per l’ABI, poi ci mettiamo anche d’accordo sulle domande esatte da fare. È una fase molto delicata, e ce la dobbiamo giocare bene.” Appena partito il fax per l’ABI, Armelie e Oscar concordarono come muoversi con i consulenti bancari. Avrebbero cominciato subito, il giorno dopo, dividendosi le banche come avevano già fatto in precedenza. “Secondo me,” disse Armelie, “potremmo limitarci a parlare con i direttori, spiegandogli bene la situazione e chiedendo di fare un’immediata
comunicazione a tutti i loro consulenti, per indurli a segnalare se si ricordano di aver incontrato nel mese di luglio qualche nuovo cliente, che magari nel corso dell’incontro avesse portato il discorso sulle loro abitudini serali, circoli, bar, eccetera. Se poi nel frattempo avessero ricevuto la comunicazione dell’ABI, potrebbero girarla ai consulenti con due righe di raccomandazione da parte del direttore stesso. Sarebbe il massimo.” “E nel caso che i consulenti si ricordassero di un eventuale incontro, come procediamo?” “Torniamo con un disegnatore e proviamo a fare un identikit. E ricordiamoci anche di eliminare dai ricordi tutti quei tizi che non avessero una statura corrispondente al nostro assassino, cioè intorno al metro e ottanta. Anzi, Oscar, fammi un piacere, chiedi tu al medico legale qual è il margine di oscillazione che dobbiamo considerare rispetto alla statura presunta.” Uscito Oscar, Armelie chiamò Roma e parlò a lungo con il Robeschi. Lo mise al corrente degli ultimi sviluppi e gli disse cosa doveva fare nel caso avesse ricevuto delle segnalazioni da qualche consulente bancario della città. Disse anche a lui di usare il filtro della statura, e subito sentì il grugnito di approvazione del collega. A dire il vero, tutta la storia della statura era stata per Armelie un puro scrupolo. “Quante probabilità potevano mai esserci che persone di diversa statura andassero in giro a intervistare i bancari sulle loro abitudini serali? Nessuna.” Probabilità. Armelie sorrise fra sé. Romani stava cominciando a fare scuola. Fra venerdì e lunedì ogni consulente bancario d’Italia trovò nella sua casella di posta elettronica una email dell’ABI, che raccomandava di guardarsi da nuovi clienti che fero domande sulle loro abitudini serali. Si aggiungeva anche di segnalare eventuali contatti di quel tipo avvenuti recentemente. L’email era accompagnata da una nota della direzione, che pregava gli eventuali interessati di mettersi subito in contatto con la questura di Pordenone. Per uno scrupolo tardivo di Vitale, pari fax fu spedito quello stesso venerdì anche alla FIPROF, la federazione dei promotori finanziari, benché questi non fossero stati direttamente coinvolti nei delitti. Dal canto suo la FIPROF, prima di procedere, preferì attendere la riunione della Direzione Generale fissata per il mercoledì successivo, e i promotori non ricevettero la segnalazione prima di
venerdì 24 ottobre. Fu solo un piccolo ritardo, ampliato da una normale procedura burocratica. Ma costò la vita a uno di loro.
XX
Quando alle dodici in punto sentì bussare discretamente alla porta, Gianrico alzò la testa dal rapporto di mercato che stava analizzando. “Avanti!” Vide entrare un tipo di mezza età, alto e distinto. Lo colpì, perché notò subito che vestiva in modo elegante, quasi ricercato. Il suo stesso stile. Giacca in cachemire sui toni del verde, camicia bianca brooks brothers, pantaloni grigi di flanella, cravatta a righe verdi e ruggine, polacchini scamosciati. Portava spessi occhialini in tartaruga, aveva capelli ondulati e una bella barba color pepe e sale, e mostrava una brutta cicatrice rossastra sotto lo zigomo destro. Poteva essere un manager o un professionista. Gianrico sbirciò l’agenda. “Lei dovrebbe essere il signor…?” “Fusanti. Dottor Enzo Fusanti. La sua segretaria…” “Sì, Marta mi ha detto che lei voleva un appuntamento in sede. Posso chiederle perché, visto che gli incontri di lavoro possiamo farli più comodamente a casa del cliente? Comodamente per il cliente, intendo.” “Il fatto è, dottor Piscopi, che io vengo da Bologna, dove abito con la famiglia, e non ho un recapito qui a Vicenza. Sto facendo una serie di andirivieni giornalieri, che andranno avanti finché non avrò terminato tutta una serie di incontri che ho in programma di fare.” L’accento bolognese si sentiva appena. Gianrico lo guardò con fare interrogativo. “Cercherò di spiegarmi brevemente. Ho recentemente acquistato un vecchio appartamento in città, alle pendici di Monte Berico, e intendo ristrutturarlo. Andrò avanti per tutto l’inverno, credo, e per allora avrò senz’altro una sistemazione, non so ancora se in albergo o in un residence. In questa fase sto solo incontrando l’architetto e i vari artigiani, per vedere il dettaglio dei lavori da fare e trattare i preventivi di spesa.” “E la Affinvest come può entrare nei suoi programmi?”
“Trasferendomi a Vicenza, dovrò portare qui tutte le attività bancarie e anche quelle più strettamente finanziarie, intendo investimenti. Così in questi giorni approfitto del fatto di essere qui in città, per contattare anche tutta una serie di banche e reti finanziarie e individuare il partner che può fare al caso mio. Alla fine potrei fare tutto con una banca, come faccio adesso, o scindere le due cose, cioè aprire un conto presso una banca e appoggiarmi a una finanziaria, come la vostra, per gli investimenti.” “Capisco. E come intenderebbe procedere?” “In una prima fase vorrei raccogliere informazioni sui prodotti offerti dalle società contattate, per lo più nell’area dei fondi di investimento, e su questa base penserei di selezionare una rosa ristretta di potenziali partner. In una seconda fase riprenderei contatto con le società selezionate, per conoscere le condizioni contrattuali e le modalità più tipicamente operative. Poi, sulla base di queste ultime informazioni, farei la scelta finale.” “Ho capito. Posso farle una domanda, dottor Fusanti, se non sono indiscreto?” “Prego.” “Lei a Bologna ha già un partner per i suoi investimenti. Partner che probabilmente ha una sede anche qui. Come mai non ha pensato di appoggiarsi a lui?” “Diciamo che da un po’ di tempo non sono particolarmente entusiasta del suo servizio. E così, città nuova, vita nuova. Era una buona occasione per guardarmi intorno.” “Chiarissimo. Ora, prima di presentarle i nostri prodotti, di cui le lascerò alla fine ampia documentazione, può giusto darmi un’idea della consistenza del capitale che vorrebbe investire da noi?” “Si orienti intorno ai… duecentomila euro. Ovviamente, l’investimento procederebbe per gradi, anche per vedere come vanno le cose.” “Ovviamente.” Monte Berico era la zona residenziale più chic e costosa della città. E secondo Gianrico il Fusanti aveva da investire molto più di quello che aveva detto. “Bene, allora adesso le farò una breve panoramica dei nostri prodotti. Sono quasi un’infinità, ma mi limiterò a presentarle le varie scuderie di
fondi che trattiamo e le loro tipologie. Poi le dirò qualcosa di specifico sui prodotti più interessanti del nostro portafoglio.” Gianrico partì con una presentazione sintetica ma molto chiara dell’offerta Affinvest. Si vedeva che conosceva praticamente a memoria la lezione. Ma mentre lui parlava, Franco lo ascoltava superficialmente, intervenendo ogni tanto con qualche sottolineatura puramente strumentale. In realtà lo stava studiando, cercava di imprimersi nella memoria la sua faccia tonda, dolce e sorridente, dove però gli occhi non sorridevano mai. Era un soggetto facile da ricordare, perché bilanciava un’ampia calvizie con due baffi pieni e biondastri molto curati. Alla fine dell’excursus, Gianrico fece per alzarsi e andare a prendere il materiale cartaceo dagli scaffali della libreria. Franco gli fece cenno di aspettare un momento. “Posso farle una domanda non strettamente professionale?” “Certo, si figuri!” “Come ho avuto modo di spiegarle all’inizio, quest’inverno mi stabilirò qui per lunghi periodi a seguire i lavori di ristrutturazione. E le sere saranno di una noia mortale. Mi sto organizzando per non arle tutte davanti alla TV, o in qualche cinema. Così sto cercando ogni tipo di informazioni su circoli o ritrovi qui in città. Lei avrebbe qualcosa da segnalarmi? Tenga presente che a me piacciono un po’ tutti i giochi di carte, ma anche scacchi, dama, biliardo. E neppure mi dispiacciono le attività culturali, come arte, storia, cinema e letteratura.” “Beh, in città ci sono vari tipi di circoli. Di sicuro so che c’è un circolo di bridge ben frequentato, e anche un vecchio circolo di storia, ma non saprei dirle niente di più specifico. Posso però dirle che c’è anche un ottimo circolo di scacchi, di cui sono oltretutto vice-presidente. Ci si trova ogni mercoledì sera verso le otto e si va avanti fino a mezzanotte. È in centro, in piazza Castello, da qui sono due i, io infatti ci vado sempre a piedi. Se le interessa, quando avesse intenzione di iscriversi, me lo faccia sapere e sarò lieto di presentarla io stesso al presidente, il dottor Marchetti. Anzi, se fosse in città, mercoledì prossimo c’è in programma un apionante torneo contro il circolo di Bassano, i nostri tradizionali avversari.” “La ringrazio per queste preziose informazioni, dottor Piscopi. Gli scacchi vanno benissimo, sono solo un po’ giù di allenamento, ma penso che mi riprenderei
velocemente. Per quanto riguarda mercoledì prossimo, mi piacerebbe venire, ma in questo periodo cerco sempre di rientrare a Bologna nel primo pomeriggio, prima che si alzi la nebbia.” Gianrico si alzò e prese tutta una serie di fascicoli che allungò a Franco. Sopra il materiale appoggiò anche il suo biglietto da visita. “Per caso, non avrebbe un suo biglietto da lasciarmi?” “No. Purtroppo ho finito i miei biglietti e ne sto aspettando la ristampa.” “Vuole allora lasciarmi il suo numero di telefono?” Davanti a quell’insistenza, Franco ebbe un sussulto di collera, ma si controllò. “Guardi, dottor Piscopi, in questa fase non servirebbe granché.” Prese il biglietto di Gianrico e lo guardò. “Nel caso, ci penserò io a mettermi in contatto con lei. Ma la ringrazio per tutte le informazioni. E se i vostri prodotti dovessero interessarmi, mi rifarò vivo nel giro di pochi giorni per approfondire le condizioni contrattuali e gli aspetti operativi. Arrivederci, e grazie ancora.” Colse l’evidente delusione sul volto di Gianrico, ma non poteva fregargliene di meno. Raccolse il materiale, gli strinse la mano e uscì.
Aveva avuto fortuna, al secondo giorno e sesto incontro aveva già trovato quello che cercava. Gli restava solo da controllare l’abitazione del dottor Piscopi, ma a quello avrebbe provveduto nel pomeriggio. Anche se gli pareva che nel corso del colloquio il Piscopi gli avesse fatto capire che abitava a due i dal circolo. Se era così poteva chiudere in anticipo la ricerca. Con suo grande sollievo, vista la nebbia che da due giorni lo stava tormentando in autostrada. Per trovare la persona con i requisiti giusti, a Roma c’erano voluti quattro giorni, a Pordenone tre. Fece un largo sorriso. Uscito dall’ufficio, gettò tutto il materiale della Affinvest nel primo cassonetto che trovò lungo il tragitto per il ristorante.
XXI
Gianrico Piscopi era figlio di un magistrato napoletano, trasferitosi a Vicenza nei primi anni Ottanta. Qui Gianrico aveva fatto il liceo, poi si era laureato in legge a Padova con pieni voti. Ma aveva uno spiccato interesse per le materie finanziarie, così finì per farsi assumere in una importante banca della città. Era bravo e fece una folgorante carriera, che poco oltre i quarant’anni lo aveva portato alla soglia dell’alta direzione. Intelligente e brillante, Gianrico era anche un bravissimo giocatore di scacchi, la punta di diamante del suo circolo. Poi un giorno, quel maledetto incidente con una segretaria, lui diceva che era consenziente, lei diceva che le era saltato addosso. Comunque era una cosa deplorevole, se l’era scopata in ufficio, misero la cosa a tacere, ma dovette dare le dimissioni. Il fatto gli costò anche la separazione dalla moglie. Così Gianrico lasciò la casa a lei e alla figlia e per sé prese un piccolo attico, un monolocale, proprio in piazza dei Signori. Dopo un anno di crisi, entrò in una rete di promotori finanziari, la Affinvest, e dopo due anni ne divenne il coordinatore provinciale. Ma certi vizi sono duri a morire, e così era stato proprio per incrociare Vilna, la donna delle pulizie che verso sera sistemava gli uffici del piano, che quel mercoledì Gianrico, dopo l’ultimo cliente, aveva fatto una corsa in auto con una nebbia così fitta che non si vedeva la fine del cofano. E dire che poco più tardi aveva pure un importante torneo di scacchi al circolo, la tradizionale sfida con i cugini di Bassano. Vilna era un’albanese sulla quarantina, poco appariscente ma che lui trovava sexy. Occhi scuri leggermente strabici, zigomi alti, e capelli castani trattenuti da una fascetta nera, alla maniera indiana. Più un culo a mandolino che il grembiule non riusciva più di tanto a nascondere, provocando a Gianrico dei veri attacchi di libidine. Ed era sposata. La sera precedente lui non aveva resistito, e per la prima volta le aveva rivolto la parola, attaccando discorso su quella nebbia che da giorni assediava Vicenza. E lei gli aveva risposto, e gli aveva detto il suo nome. Gli aveva anche fatto un mezzo sorriso, triste per la verità, ma l’aveva guardato dritto negli occhi e lui
aveva visto in quello sguardo un po’ di provocazione e forse anche disponibilità. Così quella sera, dopo averle fatto un cenno di saluto fra le scrivanie dello stanzone, Gianrico entrò nel suo ufficio, attaccò il burberry sull’attaccapanni, sistemò due banconote da cento sotto la lampada della scrivania (messe in modo che si notassero), si allentò la cravatta, sbirciò l’orologio, e dopo un po’ la chiamò dentro con una scusa. Le mostrò alcune riviste che intendeva eliminare dalla libreria, poi le fece un complimento sulle belle mani, “veramente sprecate per lo spazzolone”. Vilna sorrise alla galanteria e quando lui come per caso le toccò il braccio, lei non si ritrasse. E c’era una dolce nota di Chanel, sotto l’odore di detergente… Allora lentamente, per darle tutto il tempo di un rifiuto, Gianrico le cinse la vita con il braccio e l’attirò a sé, schiacciandosi contro il suo ventre. Vilna premette a sua volta, e si strofinò leggermente. Era il segno che aspettava. Le aprì il grembiule, era nuda, e si gettò sui lunghi seni, e poi sul resto, mentre lei lo frugava con mani esperte. Alla fine del groviglio,Vilna gli si offrì di schiena, le braccia appoggiate al piano della scrivania. In piedi dietro di lei, Gianrico la guardò, ebbe come un attimo di soggezione. Poi, con calma, si mise a praticarle un omaggio virile… molto osé. E al suo invito soffocato, la penetrò. Era bravo in questo genere di cose, e Vilna sentì presto muoversi come una dolce marea… E mentre avvertiva quella marea espandersi, e salire, la donna inarcò la testa gemendo piano di piacere, e prese a muovere i fianchi con smaliziata abilità. Lui si fermò, lasciò fare a lei. In breve, la silenziosa melodia di quel mandolino gli esplose fino in fondo al cervello, e Gianrico affondò ripetutamente in lei, che lo secondava, con spasmi prolungati di piacere e di possesso. La strinse a sé con forza. Quindi sbirciò l’orologio e si ricompose in fretta, indicando a Vilna le banconote. Le diede un bacio fugace, e scappò via. La sera dopo se la sarebbe fatta meglio, con più calma, magari a casa. Una volta fuori dall’ufficio, Gianrico si fermò da Renzo a farsi due tartine e un bicchiere di vino, e poi via a piedi fino al circolo. Il filetto che aveva tirato fuori a casa se lo sarebbe cucinato l’indomani a pranzo.
Ma non ebbe una seconda chance con Vilna, né col filetto. Perché morì poche ore dopo.
Per farsi un’idea di cos’è la nebbia basta andare a Vicenza, già con i primi freddi, specie di sera. Quando ci cammini in mezzo, immerso nella sua atmosfera ovattata, ne riporti un senso di straniamento totale, non sai più dove sei, ti senti solo, è un po’ come morire. Gli altri, quando li incroci, sono solo ombre che ti appaiono all’improvviso e subito vengono inghiottite da quel nulla, prima che tu sia riuscito a fissarne anche solo i contorni. La nebbia ti circonda, ti avvolge, ma non si accontenta, e allora con la sua umidità ti entra anche dentro, fino in fondo alle ossa. Ti possiede. In città i portici riescono appena a rompere quella coltre compatta, ma poi appena lo spazio si apre la nebbia torna di nuovo a mangiarsi tutto quello che c’è intorno. Quando è meno densa, è come una velina che fa trasparire i fantasmi delle architetture palladiane. Ma se è fitta ti dilata i sensi, e la fantasia. Un tempo, quando dietro di te potevi giusto cogliere l’eco sinistra dei tacchi di cuoio, pensavi a un assassino invisibile che ti seguiva in quel nulla. E se era tardi, rabbrividivi. Ma nella nebbia delle sneakers e delle suole hi-tech, la morte può arrivarti addosso senza preavviso. E senza testimoni. Verso mezzanotte e un quarto, alla fine del torneo, Gianrico con un’ultima abile mossa riuscì a schivare il dottor Marchetti, che in genere veniva anche lui a piedi giù per le piazze, facendogli due palle stratosferiche. Si infilò veloce l’impermeabile, si calcò lo Stetson sulla testa e uscì dal circolo. Subito fu inghiottito dalla nebbia di piazza Castello, non si vedeva niente, ma lui si avviò a o deciso verso casa. Ancora una volta avevano umiliato i cugini di Bassano, e come sempre era stato lui a trascinare i suoi alla vittoria finale. In più quella sera era stato anche particolarmente brillante, malgrado Vilna. Sorrise al ricordo. Mentre transitava sotto i portici di piazzetta delle Poste, Gianrico fu superato da uno che camminava velocemente, avvolto in un giaccone nero col cappuccio rialzato. Teneva le mani nelle tasche del giaccone e dopo due i svanì davanti a lui. Fatti pochi metri, Gianrico svoltò a memoria nella stradina di casa sua e andò quasi a sbattere contro un tizio barbuto che veniva in senso opposto. Fu un’immagine fugace ma strana, che lo turbò. Rallentò il o. La prima cosa che lo aveva colpito fu che quello, incrociandolo, gli aveva sgranato in faccia due occhi così. Come se avesse voluto fotografarlo.
La seconda cosa che lo aveva colpito fu il giaccone nero col cappuccio rialzato. E le mani in tasca. Gianrico provò un brivido. Si irrigidì, fece come per fermarsi. La terza cosa che lo colpì fece un piccolo rumore secco e lo portò molto lontano da lì. Crollò addosso a un cassonetto che trascinò con sé a terra facendo un certo fracasso. Dovevano essere vetri. Franco si chinò furtivamente su di lui: “Il nero muove e vince in tre mosse”. Si alzò piano, guardò il morto, poi si dissolse nel nulla. Gianrico restò solo, e se lo prese la nebbia.
Così lo trovò, un po’ prima dell’alba nebbiosa di giovedì, il maggiore Attilio Brondiani, che abitava due portoncini più avanti in quella piccola strada del centro. Guardò il morto, disteso bocconi fra bottiglie e bottigliette. Poco più in là, uno Stetson rovesciato. Non c’erano colori, gli sembrava la scena di un film in bianco e nero, anche il sangue si era spento. Aveva riconosciuto subito la pelata di Gianrico, una volta ci aveva anche scambiato due parole. Prese il cellulare e chiamò la polizia. Poi fece una telefonata alla moglie e un’altra in caserma. Si era da poco una sigaretta, quando sentì le sirene delle volanti.
XXII
L’ultima impresa del finanziere fece un effetto molto diverso sui vicentini, sui media, sul settore finanziario e sulla squadra di Armelie. I vicentini furono costernati per l’identità della vittima. Gianrico Piscopi era molto conosciuto in città. Apprezzato professionista, aveva tirato su un’intera generazione di scacchisti. In più era un esponente in vista del mondo politico locale, dove si era messo in evidenza prima nella neo-formazione centrista creata da Mario Monti, poi fra gli entusiasti sostenitori della cometa renziana. I media furono sorpresi dall’imprevista apertura del fronte dei promotori finanziari. L’ABI e la FIPROF fecero una riunione congiunta e inviarono ad alti livelli ministeriali una nota di protesta e di preoccupazione per la lentezza delle indagini e il conseguente disagio psicologico dei loro consulenti. Armelie e la squadra di Pordenone (Romani compreso) furono galvanizzati dal fatto che Vicenza fosse una città di medie dimensioni. Un piccolo pagliaio. Forse si poteva cominciare davvero a fare qualcosa. Questa volta il Redde Rationem era collegato al crac Cirio del 2002.
L’Alfa di Vitale procedeva con prudenza nella nebbia che ancora avvolgeva l’A4. “Allora Armelie, cosa mi dici?” “Che Vicenza ci offre ottime opportunità di indagine. E con i colleghi, come ci regoliamo, gli diciamo tutto?” “Direi di sì, dobbiamo assicurarci in tutti i modi la loro piena collaborazione, quindi coinvolgerli è la prima cosa da fare. Poi basta tenere un basso profilo e atteggiamento disponibile.”
“Sì, sono anch’io di questo avviso. Saremo il più possibile concreti e disponibili.” “Eviterei comunque di farli sentire importanti. È sempre controproducente.” “Sono pienamente d’accordo. Anche se, bisogna ammetterlo, dovendo ricorrere a degli identikit, la vicinanza del ricordo è un fattore fondamentale. Da Roma sono ormai ati quaranta giorni e da Pordenone addirittura tre mesi.” Verso le dieci parcheggiarono con qualche difficoltà l’auto davanti alla questura di Vicenza, completamente immersa nella nebbia. Subito furono introdotti nella sala riunioni dove li aspettavano il vicequestore Luigi Lopiero, l’ispettore Paolo Sardenghi e il pm Enrico Lovison. Sardenghi, il giovane collega di Armelie, fece un dettagliato rapporto sulla scena del crimine, sugli orari, e sulla vittima, che al momento del delitto stava tornando dal circolo di scacchi. I media erano stati informati, quelli locali erano già intervenuti, e l’esito dell’autopsia sarebbe stato disponibile il giorno dopo. Alla fine fece anche vedere il foglio rinvenuto in una tasca del morto, con l’immancabile Redde Rationem. A sua volta, Armelie illustrò ai colleghi di Vicenza i vari retroscena del caso, spiegò come il finanziere fosse quasi sicuramente di Pordenone, evidenziò l’ulteriore conferma della tecnica dei circoli e sottolineò che il killer, nel prendere informazioni sulle abitudini dei vari promotori contattati, aveva senz’altro seminato delle tracce. Ed era su quelle che ora tutti avrebbero dovuto focalizzarsi. In una prima fase pensava di sollecitare delle segnalazioni spontanee da parte dei promotori finanziari avvicinati dall’assassino. In base a esse avrebbero proceduto con interrogatori e identikit. Se questa prima fase si fosse poi rivelata insoddisfacente, allora avrebbero cercato i promotori contattati dal finanziere attraverso un’indagine a tappeto su Vicenza. D’altra parte la città, viste le sue ridotte dimensioni, si prestava a consentire interventi che in una realtà metropolitana sarebbero stati del tutto impensabili. Erano tutti attenti e interessati, l’incontro sembrava procedere nel migliore dei modi, restavano da concordare gli adempimenti operativi. Invece scoppiò il finimondo. Cominciò il dottor Lopiero. “Scusa, Vitale, avete detto che oggi c’è stata la conferma che il finanziere seleziona le sue vittime fra i frequentatori di un
circolo, giusto?” “Sì, ormai è certo,” disse il commissario. “Ma se lo sospettavate già, perché non li avete messi in pre-allarme?” “Infatti abbiamo avvisato la FIPROF venerdì scorso,” rispose Vitale sbuffando, “ma evidentemente l’iter burocratico interno non è arrivato in tempo.” “Peccato,” riprese Lopiero,“magari sarebbe bastato solo qualche giorno prima…” È a quel punto che si inserì l’ispettore Sardenghi. “Stavo riflettendo, dottor Vitale, su quella vostra curiosa teoria relativa alla provenienza dell’assassino, che secondo voi è quasi sicuramente di Pordenone. È esatto?” “Esatto, e allora?” “Voi dite che la probabilità che Pordenone sia stata scelta a caso, in quanto piccola città, è di circa il due per cento, e che quindi ci sono il novantotto per cento di probabilità che non sia stata scelta per questo motivo, ma perché è la città dell’assassino.” “Scusi, ispettore, ma non capisco dove vuole arrivare.” “Mi spiego subito. Secondo me, anche Vicenza si trova nelle stesse condizioni di Pordenone. Cioè ci sono anche qui pochissime probabilità che la scelta sia stata fatta a caso fra le città di medie dimensioni. E quindi per differenza ci sarebbero altissime probabilità che Vicenza sia stata scelta per l’altro motivo, e cioè perché è la città dell’assassino. Quello che sto cercando di dire è che secondo la vostra stessa teoria ci sarebbero alla fine le stesse probabilità che l’assassino sia di Pordenone o di Vicenza.” Vitale accusò il colpo. “Però lui ha cominciato da Pordenone, e in genere, se non ci sono altri motivi, è logico partire dal posto più comodo e familiare.” “Ma lui può anche aver cominciato da un’altra città, proprio per non lasciare un indizio così evidente.”
“E poi, dottor Vitale,” era il pm che parlava, “non capisco perché voi abbiate subito scartato la logica della pura casualità nella scelta delle città, quando la casualità lo sappiamo tutti è uno dei tratti più tipici degli omicidi seriali.” “Non è poi neanche vero che abbiano scartato la casualità,” gli rispose Lopiero. “Perché, se ho capito bene, la stessa casualità che hanno subito scartata per Pordenone l’hanno poi ritenuta del tutto plausibile per Vicenza. La verità è che per un qualche motivo loro si sono convinti che il finanziere sia di Pordenone e a questo stanno orientando tutte le spiegazioni.” Di fronte a quell’attacco concentrico, Vitale era ormai in palese difficoltà. Armelie si sentiva in qualche modo responsabile della situazione, dopotutto la teoria contestata era ufficialmente sua. E corse a dar man forte al suo capo. “La provenienza da Pordenone, amici, è solo un’ipotesi preferenziale, non certo esclusiva. Infatti, entrando adesso negli adempimenti operativi, dovrei chiedere all’ispettore Sardenghi tre cose. Primo, rilevare tutti i clienti di banche o finanziarie che in occasione dei cinque crac avessero accusato perdite superiori a certi livelli, di cui gli lascerò specifica. Secondo, verificare quali di questi clienti risultassero anche possessori di una pistola calibro .22. Terzo, interrogare tutte le persone così individuate, per rilevare i loro alibi in corrispondenza dei tre delitti.” Fu come se quella coltre densa e biancastra che si vedeva fuori della finestra fosse improvvisamente entrata nella stanza. Vitale respirò di sollievo e guardò Armelie con ammirazione e riconoscenza. “Comunque,” tirò dritto Armelie rivolgendosi al Sardenghi, “in attesa di segnalazioni dai promotori contattati dall’assassino durante la fase preliminare, potremmo oggi stesso fare una veloce indagine nell’ufficio della vittima, e vedere se lì qualcuno si ricorda qualcosa.” Decisero così che, prima di rientrare a Pordenone, lei e il Sardenghi si sarebbero recati alla Affinvest con un disegnatore. Parlarono con Marta, l’efficiente segretaria del dottor Piscopi. Il suo capo nelle ultime due settimane aveva avuto pochissimi appuntamenti con clienti in sede. In genere i promotori incontravano i clienti quasi sempre in casa o sul loro posto di lavoro, gli incontri alla Affinvest erano una vera eccezione. Controllò sull’agenda e vide che in effetti gli incontri erano stati tre. Due erano già clienti della finanziaria, che per il loro appuntamento avevano preferito arrangiarsi
direttamente col dottor Piscopi. Uno solo era un nuovo cliente ed era ato telefonicamente attraverso di lei. Se ne ricordava, perché quand’era venuto si era fatto riconoscere e lei gli aveva indicato la stanza del suo capo. Era un tipo di mezza età, abbastanza alto, elegante e con la barba. Aveva una brutta cicatrice. E forse gli occhiali. Ma non si ricordava molto di più, perché l’aveva visto solo per pochi secondi, e poi non era neanche fisionomista. E quando era uscito, lei era già andata a casa per il pranzo. Alto, barba, cicatrice. Informazioni di sicuro interesse, ma troppo poco per un identikit. Che infatti non approdò a nulla. Il nuovo cliente aveva detto di chiamarsi Fusanti, un nome che risultò inesistente. All’una i telegiornali locali parlavano già del nuovo delitto del finanziere, anche se erano piuttosto poveri di dettagli. La vittima era un promotore, e non se l’aspettavano. A quel punto tutto il più generale mondo della consulenza finanziaria finiva sotto tiro. Fece poi grande impressione la scena del crimine, con la nebbia, le alogene e tutte quelle bottiglie. Una macabra e surreale scena in bianco e nero. Era anche stata colta la circostanza che la nuova vittima rientrava dal circolo di scacchi, proprio come era stato riscontrato per il delitto di Roma.
Durante il silenzioso viaggio di ritorno a Pordenone, Vitale chiamò Biscontin e gli disse di combinare una riunione verso le quattro in questura e organizzare anche una conferenza stampa per la mattina seguente. Dopo un po’ Armelie fece un tentativo per rompere il ghiaccio. “Statistica a parte, non riesco a spiegarmi l’aggressione che abbiamo subito. Cosa dice, commissario, possono essersi irritati per qualcosa? Forse ho sbagliato approccio, e non ho tenuto il basso profilo che ci eravamo proposti?” “Credo che oggi non sarebbe servito neanche tenerci rasoterra,” disse Vitale guardando la strada.“E comunque, giusto per tirare una morale, diciamo che noi continuiamo a regolarci come se l’assassino fosse di Pordenone. E ci teniamo Vicenza come ipotesi di riserva. Sei d’accordo, Armelie?” “Completamente.” Continuarono in silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri. Riflettendo sulla figuraccia che avevano malamente rintuzzato, Armelie pensò che in fondo anche in casa Romani non era tutto oro quello che luccicava.
In sala riunioni, la prima cosa che fu subito evidente è che alla malcelata eccitazione di quelli che erano rimasti a Pordenone, si contrapponeva la strana serietà dei due che erano andati a Vicenza. Era come se la nebbia gli avesse spento gli entusiasmi. Armelie fece il resoconto del delitto di Vicenza, sorvolando pietosamente su alcuni particolari della riunione in questura. “In conclusione, questo nuovo delitto ci offre alcune interessanti opportunità, anche se al tempo stesso ce ne preclude altre.” “Quali?” fece Biscontin. “Per esempio quella di eventuali pernottamenti dalle escort. Vicenza è infatti abbastanza vicina a Pordenone, da consentire una comoda trasferta in giornata. Ma al tempo stesso abbiamo una città dove se è necessario possiamo fare sui promotori tutti gli interventi a tappeto che ci servono. E in più a Vicenza possiamo contare su ricordi freschi, che sono un ottimo viatico per gli interrogatori e per avere dei buoni identikit.” “A proposito delle persone da interrogare,” disse Oscar, “ho l’informazione che mi avevi chiesto. Per la statura dell’assassino ci possiamo regolare su un’oscillazione di cinque centimetri in più o in meno, rispetto al metro e ottanta stimato.” “Perfetto, Oscar. E con le verifiche su alberghi e pensioni, come ci muoviamo? Secondo me, ora che stiamo procedendo con testimoni e identikit, potremmo anche sospenderla.” “Sì, sospendiamola” fece Vitale. “Cambiando argomento,” si inserì il dottor Merli, “può essere utile farci fare un profilo criminale dall’U.A.C.V. di Padova, come abbiamo fatto per il cacciatore?” “Francamente, non so se sia il caso,” rispose Armelie. “Non vedo qui aspetti oscuri, morbosi, implicazioni psico-criminologiche. Ho paura che sarebbe solo tempo perso. Magari più avanti, se dovessero emergere aspetti di complessa
interpretazione. Lei cosa ne pensa, commissario?” Vitale per tutto il tempo era rimasto silenzioso. “Sono d’accordo con te, Armelie, magari più avanti. Abbiamo finito?” “Veramente dottor Vitale, dovremmo anche decidere come regolarci domani, con i giornalisti.” “In realtà, non mi pare che ci sia molto da decidere, gli diremo le cose come stanno. Cioè, oltre a presentare il nuovo delitto di Vicenza, chiarirei la storia dei circoli e degli approcci preliminari che il finanziere tiene con i consulenti. E da qui la possibilità di lavorare con gli identikit. Lascerei però sempre indeterminata la città di provenienza dell’assassino.” “Scusi, dottor Vitale, ma allora facciamo sapere al finanziere che abbiamo scoperto la sua tecnica di selezione delle vittime. Insomma, scopriamo le carte.” “È vero, volevamo che si sentisse tranquillo, così magari faceva qualche errore. Ma anche sentirsi braccati fa perdere lucidità. In ogni caso non abbiamo scelta, dobbiamo dare ai giornalisti l’impressione che ci stiamo dando da fare.”
Prima di andare a casa, Armelie fece un blitz alla storica pasticceria Peratoner, piccolo tempio del cioccolato che non sfigurerebbe nel centro di Vienna. Voleva prendersi una tavoletta di Sao Tomè settanta per cento, il cioccolato con cui in genere accompagnava le sue degustazioni di rhum. A dire il vero, in quel periodo Armelie si trovava in pieno regime di astinenza alcolica, e il rhum le mancava maledettamente. Specie da quando aveva preso a frequentare Romani (a proposito, doveva proprio ricordarsi di fare quel benedetto cambio dei cuscini). Ma non c’era motivo di rinunciare anche al cioccolato e così, quand’era sola, se lo gustava con l’ausilio di un bel bicchiere di acqua ghiacciata. Non era lo stesso, ma poteva andare.
XXIII
Con una tazza di caffè bollente in mano, Armelie era uscita in giardino a respirare aria fresca e salutare le sue piante, già quasi tutte partite per il lungo sonno invernale. A lei il suo giardino piaceva anche così, spoglio. Un po’ come la sua vita di quel periodo. Ma quel venerdì mattina si sentiva in forma come non le capitava da tempo. Era lucida e piena di energia. Inoltre, grazie all’eliminazione degli alcolici e alla ripresa del jogging domenicale, aveva cominciato a buttar giù parte del peso che aveva accumulato, e anche la pelle era migliorata. L’anomala frequentazione del Romani le aveva perfino regalato qualche fremito imprevisto, si sentiva di nuovo stimolata. Restava sempre sullo sfondo quel lacerante senso di colpa, per la morte della ragazza e il tradimento della squadra, ma aveva trovato il modo di tenerlo a bada, negoziando con la sua coscienza un patto feroce, ma onesto. Così da tempo riusciva anche a dormire la notte, e quello era stato il primo mattone della sua ripresa generale. Dopo la doccia e una ricca colazione a base di caffelatte, burro e marmellata, Armelie scelse per l’occasione un tailleur-pantalone grigio con camicia bianca. Poi, prima di uscire di casa, si fermò un po’ alla scrivania a raccogliere le idee e farsi la scaletta dell’intervento in conferenza stampa.
“Così, una volta capito come il finanziere seleziona le sue vittime, abbiamo attivato tutto un piano di segnalazioni dal mondo finanziario, che dovrebbe permetterci di avere in poco tempo un identikit del killer. Ci aspettiamo molto da questa nuova pista che ci consente di far sentire all’assassino il nostro fiato sul collo. E braccato in questo modo il finanziere potrebbe commettere degli errori, che finirebbero per facilitare ulteriormente la nostra caccia”. Con queste parole Armelie concluse l’aggiornamento del caso ai giornalisti presenti alla conferenza. “Ci sono domande?” Intervenne per prima l’inviata de La Stampa “Vi aspettavate che il killer rivolgesse la sua azione anche ai promotori finanziari?”.
“Sì, tant’è che già dopo il delitto di Roma avevamo esteso la ricerca delle perdite finanziarie anche in questo ambito.” “Avete maturato qualche idea sulla provenienza del killer?” La domanda era stata posta dal giornalista del Tg2. “Qualche idea ce l’abbiamo, ma per il momento preferiamo tenere ancora aperte tutte le strade.” “E a fianco della nuova pista degli identikit, continuerete a seguire anche quella legata alle perdite finanziarie?” Era la Reuters che parlava. “A essere sinceri, finora non ci ha dato grandi frutti. Questo almeno è quello che abbiamo potuto rilevare nelle indagini su Pordenone e Roma. Adesso vedremo se Vicenza potrà darci qualche indicazione in più. Però, sapendo adesso come si muove per selezionare le vittime, abbiamo un’opportunità che prima non avevamo, e cioè di procedere su base testimoniale. Così al momento stiamo privilegiando questa nuova strada.” “E come vi spiegate il fallimento della pista sulle perdite finanziarie?” Si inserì Vitale. “Non è un fallimento, probabilmente dobbiamo solo fare alcune tarature sulla sua impostazione. Ma è una pista fondamentale, che resta sempre aperta.” Fu la volta dell’ANSA. “A questo punto, ispettore, che tipo di protezione avete attivato nei confronti dei consulenti finanziari?” “Abbiamo messo in pre-allarme sia l’ABI che la FIPROF, perché diano disposizioni ai loro associati di segnalarci tempestivamente tutti i contatti con persone sospette, cioè nuovi clienti che con qualche scusa prendessero informazioni sulle loro abitudini serali. E in caso di contatto, abbiamo anche raccomandato agli interessati di evitare il circolo o altri ritrovi fissi serali, fino alla conclusione delle indagini.” Intervenne Il Corriere. “Pensate di ricorrere al o dell’U.A.C.V., come avete fatto per il caso del cacciatore?”. “Secondo noi il caso non presenta ancora un profilo tale da richiedere un
intervento di questo tipo. Forse più avanti.” L’ultima domanda fu dell’Associated Press.”Vi siete fatti qualche idea su dove potrebbe colpire la prossima volta?” “Direi che è del tutto impossibile, anche se abbiamo già raccomandato una particolare prudenza e attenzione agli operatori di Milano. È la capitale finanziaria, e come tale potrebbe essere un obiettivo logico della sua strategia.” Se ne andarono pregustando gli sviluppi mediatici dell’incontro. Ce n’era d’avanzo, adesso potevano sbizzarrirsi.
Nel primo pomeriggio Armelie si incontrò con Oscar e con Danilo Feltrin, il disegnatore che aveva fatto gli identikit di Pordenone. Le anticipazioni di Oscar non erano granché buone, solo due casi e nessun risultato. “Il finanziere si traveste,” esordì Oscar. “Come, si traveste?” “Due casi in due giorni diversi, e due identikit diversi. Di sicuro non sono state due distinte persone a fare domande sulle opportunità di svago serale. È sempre lui, ovvio. Quindi è evidente che si maschera.” “E non si riesce a estrapolare qualche tratto comune fra i due identikit?” “Chiaramente la barba è finta,” disse il disegnatore, “e c’è sempre una parrucca. Infatti una volta è bianco e riccio e un’altra è argentato e liscio. Anche il naso, sempre grosso, una volta è a tubero, e un’altra volta è adunco. E gli occhi, una volta sono azzurri, un’altra scuri. Gli unici tratti che non cambiano sono gli occhialini a montatura spessa, le folte sopracciglia e una vistosa cicatrice sotto lo zigomo destro. Usa un travestimento molto coprente, che mi lascia molto pessimista sulle possibilità di ottenere qualcosa di concreto.” “Che abbia davvero una cicatrice? Questo ci aiuterebbe parecchio.” “Ne dubito,” disse Danilo.” Non è un tratto facile da simulare, ma se uno è bravo lo può fare. E poi se fosse vera l’avrebbe sicuramente mimetizzata.”
“Ma i testimoni,” riprese Armelie, “non colgono questo look così posticcio?” È questo il bello,” fece Danilo, “entrambe le testimonianze riferiscono di un tipo molto distinto ed elegante.” “E questo cosa vuol dire, scusa?” “Vuol dire che il travestimento è fatto a regola d’arte,” rispose Danilo, “in modo da sembrare del tutto naturale. Una evidente mascheratura darebbe un senso di grottesco, non certo di distinto. E poi c’è anche un altro problema…” “E quale?” Armelie si afflosciò sulla poltroncina. “Che una volta terminato l’identikit, nessun intervistato è soddisfatto. Sui singoli dettagli si ritrovano, ma restano incerti sull’identificazione.” “E come te lo spieghi?” disse Armelie. “Ieri ci ho pensato parecchio e sono giunto alla conclusione che i tratti non mascherati intendo la forma generale del viso, e poi gli zigomi, la fronte, la forma degli occhi e della bocca se da un lato hanno un’influenza determinante sull’identificazione del viso, dall’altro non possono essere percepiti a livello cosciente, perché i testimoni sono distratti dai tratti finti, molto più forti. Un esempio evidente è dato dalla cicatrice, che catalizza l’attenzione, indebolendo così la percezione degli altri connotati. E lavorare sui tratti di un viso, senza un valido aiuto da parte del testimone, significa che per fare un identikit si dovrebbero esplorare migliaia di combinazioni possibili. Ingestibile.” “Secondo me,” fece Oscar, “sarebbe importante poter trovare due segnalazioni provenienti dallo stesso giorno, in modo da poter almeno evitare i cambi di travestimento.” “Ma la difficoltà a percepire i tratti sottostanti resterebbe comunque,” ribadì Danilo. “Forse,” disse Armelie,“ il problema è accentuato dal fatto che Pordenone è un po’ troppo lontana nel tempo, e questo oltretutto appiattisce i ricordi. Lunedì dovremmo avere anche i risultati di Roma e forse saremo più fortunati.” “Certo che due segnalazioni mi sono anche sembrate un po’ poche,” continuò
Oscar. “Il tempo fa cadere i ricordi,” concluse Armelie. “Inoltre qui la gente pensa ormai di essere in zona franca, e allora perché rompersi tanto le scatole? La polizia in fondo è sempre meglio evitarla, no? E poi chi ci dice che il killer non abbia trovato la vittima già ai primi contatti?” Danilo Feltrin aveva fatto l’Istituto d’Arte, dove aveva dimostrato una particolare predisposizione per la ritrattistica. Conosceva tutti i segreti di un viso. Così era diventato il disegnatore ufficiale della questura. Ma questo tipo di funzione era ormai completamente computerizzata, e si avvaleva di programmi americani che in pochi secondi potevano cambiare un lineamento della faccia, offrendo numerose alternative. E così la sua originaria abilità ritrattistica gli serviva più che altro a fare le caricature dei colleghi che per vari motivi se ne andavano dalla questura. Un’ora più tardi Armelie e Oscar andarono in sala riunioni, per incontrarsi con il resto della squadra e commentare quelle anticipazioni dell’operazione identikit. “Se Feltrin dice queste cose, c’è poco da stare allegri.” Vitale picchiò il pugno sul tavolo. “Porca puttana! E dire che solo qualche ora fa abbiamo venduto a mezzo mondo la pista degli identikit come la probabile soluzione del caso!” “Beh, commissario, non fasciamoci la testa prima del tempo. Lunedì intanto avremo anche i risultati di Roma, e presto ci sarà anche Vicenza, che ci porterà un bel serbatoio di ricordi freschi. Le conclusioni potremo tirarle dopo.” Biscontin e il pm erano d’accordo, ma delusi come tutti. “Io intanto, se siete d’accordo,” continuò Armelie, “vorrei verificare gli alibi per Vicenza dei due nominativi che avevamo trovato a Pordenone, quando abbiamo incrociato perdite finanziarie e possesso di pistola .22. Dopotutto non avevano fornito alibi per i primi due delitti, c’era solo l’indagine telefonica a scagionarli, ma su queste cose non si può mai sapere.” “Procedi,” concluse Vitale, “e ritroviamoci lunedì quando avrai i risultati di Roma. L’indomani i media si sbizzarrirono in lungo e in largo. Il finanziere fa il casting, L’assassino va al circolo, L’indagine cambia strategia, Presto l’identikit del
killer. Venne accesa una luce sui circoli e sulla cultura associativa. Ci fu un risalto notevole anche sui media internazionali, l’ambito finanziario interessava e la storia dei circoli incuriosiva i lettori. Così ne parlarono un po’ tutti, il N.Y. Times come il Guardian, Le figaro come El Pais e la Bild Zeitung.
XXIV
Dal telefono di Armelie la voce roca di Tommaso Robeschi frantumava le ultime illusioni dei pordenonesi. Oscar era una maschera impenetrabile e Danilo annuiva rassegnato. Armelie scorreva il rapporto sugli identikit ricevuto via email da Roma. Nella capitale c’erano state quattro segnalazioni, di cui due relative a contatti avvenuti nella stessa mattina, mercoledì 3 settembre. Quella circostanza era subito sembrata di buon auspicio, finalmente avrebbero potuto confrontare due diverse testimonianze senza avere il disturbo di due diversi travestimenti. Anche a Roma era risultato evidente che l’assassino si presentava agli incontri con diverse mascherature, tutte molto coprenti come già era stato riscontrato a Pordenone. “Ora,” diceva il Robeschi, “se si può capire che di fronte a diversi travestimenti due testimoni possano fornire descrizioni discordanti, che so, della forma della bocca o degli zigomi, è difficile capire come questo possa succedere con due testimoni che hanno avuto davanti la stessa identica persona. Sono arrivati perfino a dire, uno che aveva gli occhi chiari, e l’altro che li aveva scuri, un casino. Tutti e quattro i testimoni invece ricordavano gli occhiali e la cicatrice, un evidente camuffamento. Diciamo che l’effetto distrazione provocato dai tratti finti è stato anche qui molto forte, tant’è che alla fine nessun testimone era soddisfatto del risultato ottenuto. Ma teniamo anche presente che sono ati quaranta giorni. Infine, come ti ho già anticipato nella email, tutti parlano di un tipo dall’aspetto molto distinto. Questo è quanto, Armelie. Cosa dici, può bastare per il momento?” “Sì Tommaso, può bastare, ormai ci hai rovinato tutta la settimana.” Armelie chiuse la comunicazione. “Era prevedibile,” commentò Danilo, “con un travestimento del genere non c’è ricordo che tenga, per quanto recente possa essere.”
“Comunque,” concluse Armelie,” anche da Roma è ato un mese e mezzo, che per questo genere di cose non è poco. Aspettiamo Vicenza. Ma ormai nemmeno io spero più nei miracoli.” Poco più tardi Armelie ricevette sulla casella postale l’esito dell’autopsia di Vicenza. Un referto che si segnalava per un’assoluta mancanza di originalità. Calibro .22, mezzanotte e trenta, traiettoria orizzontale che confermava la statura più alta, frammenti di pelle scamosciata nella ferita. La pistola era la stessa usata nei precedenti delitti. Insomma, una formalità. In tarda mattinata, dei due tizi di Pordenone che erano stati convocati per la verifica degli alibi su Vicenza, uno disse che la notte del 22 ottobre aveva giocato a carte in casa di amici. L’altro, tale Maurizio Ferlet, un maturo commercialista vedovo, era a casa a dormire. Come le altre due volte. E Armelie fece subito verificare a Oscar la localizzazione del suo cellulare nella sera in cui c’era stato il delitto di Vicenza. L’aggiornamento del primo pomeriggio nell’ufficio di Vitale, in collegamento telefonico con il pm, fu una cosa veloce. Ma non una formalità, perché quello che si sentì in quella stanza rimase a lungo scolpito nella memoria dei presenti.
Il resto della settimana fu scandito dalle notizie di Vicenza. Si trattava delle famose segnalazioni provenienti dall’ambito dei promotori finanziari. Vennero registrati quattro casi, due relativi alla mattina di mercoledì 15 ottobre e due per il giorno successivo. Subito Paolo Sardenghi intervenne con il suo disegnatore e il lunedì mattina venne personalmente a Pordenone a riferire ad Armelie l’esito degli identikit. In pratica, il terzo flop. “Insomma, i ricordi sono discordanti e in più alla fine nessuno dei testimoni si è detto particolarmente soddisfatto dell’identikit. Evidentemente non siamo stati in grado di definire i tratti naturali del viso, anche qui da noi cannibalizzati dai tratti finti che dominavano la scena. Se poi devo essere sincero, non è che noi a Vicenza abbiamo questa grande tradizione in fatto di identikit, e questo è oltretutto il primo caso in cui ci troviamo di fronte a un travestimento. Anche se il nostro disegnatore mi dice che non c’è santi, con una mascheratura così coprente non c’è nessuno che potrebbe fare più di tanto.”
“Anche a Pordenone,” gli rispose Armelie, “abbiamo un’esperienza abbastanza relativa in materia. A Roma non so. Ma in ogni caso le opinioni di tutti convergono sul fatto che neanche un super-esperto in una situazione del genere potrebbe risolvere il problema. Per caso, qualche testimone ha menzionato una cicatrice?” “Tutti e quattro.” “Che strano. Tutto può cambiare, ma questo particolare anatomico è sempre presente, quasi un marchio dell’assassino. Chissà perché?” “Te l’ho detto, Armelie,” fece Danilo. “Perché distrae l’attenzione del testimone da tutto il resto”. “È vero. Com’è anche vero che se insiste ancora lo becchiamo. Oggi stesso farò un fax ad ABI e FIPROF segnalando questo importante dettaglio a tutti i consulenti finanziari.” “E con gli identikit come pensate di procedere?” fece il Sardenghi. “Non so, ci dobbiamo pensare. Francamente non ci aspettavamo di trovarci di fronte a una situazione del genere. Oggi nel primo pomeriggio teniamo una riunione di aggiornamento sulle indagini, dove affronteremo il problema degli identikit. Se puoi fermarti, Paolo, sei il benvenuto. Così potrai riferire a Vicenza gli sviluppi del caso.” “Grazie, Armelie, mi fermo volentieri.”
Alle due nella sala riunioni c’era tutta la squadra, rinforzata dalla presenza di Danilo e dell’ispettore Sardenghi. Ritrovandoselo davanti, Vitale ebbe un impercettibile moto di fastidio, che solo Armelie fu in grado di cogliere. Una volta seduti, lei introdusse brevemente l’argomento della riunione. Poi, andolo per un gesto di ospitalità, lasciò la parola al Sardenghi. “Così potremo ascoltare direttamente da lui il risultato degli identikit di Vicenza.” Sardenghi non si fece pregare e rigirò in lungo e in largo il coltello nella piaga di Vitale. “Quindi, benché il ricordo a Vicenza sia molto più recente, ci siamo trovati di fronte allo stesso problema che è già stato riscontrato a Pordenone e
Roma. ” “Insomma,” ruggì Vitale rivolgendosi al Sardenghi e a Danilo, che per combinazione erano anche seduti vicini, “dopo aver faticosamente scoperto come il finanziere seleziona le vittime, dopo aver appurato che si muove sul campo seminando tonnellate di tracce, dopo aver messo sulle sue piste i disegnatori di tre diverse questure, dopo aver raccolto una montagna di testimonianze, voi mi state dicendo che non riusciamo minimamente a utilizzare il materiale che abbiamo raccolto? È questo che mi state dicendo?” Nel silenzio che seguì molti sguardi scivolarono sul tavolo. Vitale continuò. “E cosa dobbiamo fare? Dobbiamo mandarvi tutti a fare un corso di formazione dagli americani? O è meglio che facciamo venire qui un disegnatore americano a sbrogliarci la matassa?” “Dai Renato,” fece Biscontin, “non è che adesso ce la possiamo prendere con i disegnatori solo perché il killer è un professionista dei travestimenti. Sono sicuro che troveremo un modo per risolvere la situazione.” “In realtà,” aggiunse Danilo, “qualcosa si potrebbe anche fare con i dati che abbiamo raccolto.” “E cosa vuoi che ci facciamo, Feltrin?” ringhiò Vitale. “Quello che non possiamo togliere lo possiamo sempre aggiungere… ” rispose Danilo. “Togliere, aggiungere, ma che cazzo stai dicendo, Feltrin? Qui stiamo finendo in un vicolo cieco, e tu ti metti pure a parlare per enigmi? Cerca di essere chiaro, Cristo!”. Danilo non era abituato alle riunioni con i capi, e di fronte a quel profluvio era diventato paonazzo, ma tenne il punto. “Volevo dire che se non possiamo togliere i tratti finti, perché finiremmo in un foglio bianco, potremmo però sempre aggiungerli su una base preesistente, come la foto di un individuo sospetto. E se il sospetto fosse effettivamente il killer, avremo un identikit che potrebbe essere riconosciuto con sicurezza dai vari testimoni, dandoci così la prova testimoniale che stiamo cercando.”
Un ragionamento lucido, ma non immediato. Tutti si misero a riflettere su quelle parole. Il primo a riaversi fu Vitale. “Sì, può funzionare. Non mi pare una cattiva idea, anzi. Salverebbe la pista degli identikit integrandola con quella delle perdite finanziarie. Certo, questo vorrebbe dire tornare subito su questa prima pista, capire cosa non va, tararla, e cercare altri clienti sospetti. Nuove facce da sottoporre all’identikit, sovrapponendogli la mascheratura ricordata dai testimoni. Ho capito bene, Feltrin?” “Perfettamente, commissario.” Danilo era sempre più paonazzo. “Mi sembra una buona sintesi della situazione,” fece il pm. “E in ogni caso,” fece Biscontin, “abbiamo saputo dai testimoni come lui approccia la questione. Lo fa sempre nello stesso modo e questo ci permette di trasferire un’altra utilissima informazione all’ABI e alla FIPROF per proteggere i consulenti.” “Sì, anche questa è una buona idea,” ammise Vitale. Armelie andò sul concreto. “Farò subito la segnalazione ai due organismi di categoria. E aggiungerò anche il dettaglio della cicatrice. Poi potremmo già controllare la foto del dottor Ferlet, senza alibi anche per il terzo delitto, benché la verifica del cellulare ne escluda la presenza a Vicenza la notte del 22. Proporrei di andare lì con una sua fotografia e provare a partire da questa per costruire gli identikit. Se non altro ci servirà da esercizio. Oscar, puoi occupartene tu?” “Penso di poter fare tutto in un paio di giorni. Nel frattempo, ispettore Sardenghi, può mettere in pre-allarme i testimoni?” “Senz’altro,” gli rispose il Sardenghi. “E io subito dopo la taratura riprenderò l’indagine sulle perdite finanziarie, che avevo momentaneamente accantonato per gli identikit.” “E veda di fare presto,” lo rincalzò Vitale, “non vorrei che nel frattempo mi finisse ammazzato qualcun altro.” Vitale non è stato carino, pensò Armelie. Evidentemente non gli era ancora andata giù la figura che il Sardenghi gli aveva fatto fare a Vicenza.
Nel giro di due giorni, come preventivato, Oscar fece l’indagine supplementare sulla base della foto del Ferlet. E non approdò a nulla. Come aveva detto Armelie, fu solo un utile esercizio per ricostruire l’identikit di un travestimento, partendo da una fotografia. Ne parlarono in riunione il venerdì mattina, ma senza patemi, tanto nessuno si aspettava di fare centro al primo tentativo. “Ero quasi sicura che non avresti combinato un granché,” fece Armelie. “Forse la prossima volta puoi andare tu personalmente,” le rimandò Oscar. Armelie si rese conto di non aver avuto un’uscita molto felice. Ma l’acidità di Oscar la colpì ugualmente. Vitale tagliò corto a quella schermaglia. “Adesso, Armelie, vedi di capire cosa non funziona nel sistema che abbiamo adottato per le perdite finanziarie e procedi a una taratura. E fai presto perché Vicenza aspetta, e a Pordenone e Roma dovremo riprendere tutto daccapo.” “Comincerò a guardarci subito.”
Oscar si era accorto di essere acido e aggressivo con Armelie, ma non poteva farci niente. Credeva che la sua cotta si fosse attenuata, ma adesso che li avevano messi di nuovo a lavorare insieme, si rendeva conto che in pratica non era cambiato niente. E ce l’aveva con lei, per il comportamento spregiudicato che stava tenendo con gli uomini. Lui l’aveva sempre messa su un piedistallo, come una dea, e aveva sofferto non poco quando in questura si era saputo che era uscita con Piero Barzin, uno sposato, e poi quelle altre voci… A quel punto avrebbe potuto farsi avanti anche lui, gli argomenti non gli mancavano, anzi. Ci aveva pensato per intere serate, di provarci con Armelie, ma non ci sapeva fare, ed era anche più piccolo. Alla fine non ne aveva fatto niente, e così gli restava solo quella frustrante gelosia.
XXV
Per molti giorni dopo Vicenza il mal di testa non l’aveva più abbandonato. Più forte del solito. Aveva anche temuto un ictus, il suo segreto terrore. Quell’andirivieni giornaliero nella nebbia, più lo stress dell’esecuzione in condizioni proibitive di visibilità, l’avevano gettato completamente a terra. Solo adesso che erano ati più di dieci giorni aveva preso a sentirsi meglio, quasi normale. Aveva conservato tutti i giornali del week-end successivo alla conferenza stampa. Li aveva letti più volte in quel periodo, alla ricerca di tutte le informazioni che potessero essergli utili nella prosecuzione della sua impresa. E sprofondato nella sua cuccia, dopo l’ennesima lettura di quegli articoli che parlavano di lui, e che ormai conosceva quasi a memoria, Franco si fece una lunga sorsata di birra, poi chiuse gli occhi per riflettere. Uno. Erano arrivati a capire come lui selezionava le vittime. Due. Avrebbero sentito i testimoni e avrebbero cercato di fare degli identikit. Tre. Dai testimoni avrebbero anche appreso come lui faceva a farsi dare le informazioni che gli servivano. Che valore dargli? L’aver scoperto che sceglieva le vittime fra i soci di un circolo aveva un’importanza relativa, l’aveva già messo in conto che prima o poi sarebbe successo. Neanche gli identikit lo preoccupavano. Aveva studiato un mascheramento assolutamente coprente, non sarebbero mai riusciti a ricostruire il suo viso, mai. Ma adesso la cicatrice era diventata troppo rischiosa, non appena l’avessero vista l’avrebbero senz’altro segnalata. Bastava rinunciarci. Si sfregò le mani. L’unico aspetto veramente critico di tutta la faccenda era rappresentato dal nuovo atteggiamento delle potenziali vittime. Messe in allarme, sarebbero state anzitutto molto prudenti nel muoversi la sera e poi avrebbero diffidato di tutti i nuovi clienti che chiedessero informazioni non strettamente professionali. Per il primo aspetto, la prudenza, aveva già provveduto, programmando un forte
intervallo di tempo prima della prossima esecuzione, quella di Milano. Avrebbe colpito a fine febbraio, quindi con un intervallo di quattro mesi dalla precedente esecuzione. Se si pensava che i primi tre omicidi erano praticamente avvenuti con un intervallo di un solo mese fra l’uno e l’altro, questo lungo intervallo di quattro mesi avrebbe potuto far pensare che le esecuzioni fossero finite. In fondo, era sempre una possibilità. E in ogni caso dopo tutto quel tempo l’attenzione si sarebbe allentata. E questo era quello che a lui bastava. Ma con i circoli era finita, doveva escogitare un nuovo sistema per intercettare di notte le sue vittime. Non lo trovò subito, ma quando il pavimento intorno era ormai diventato un cimitero di lattine, gli venne un’idea così ovvia da obbligarlo a chiedersi perché non gli fosse venuta prima. Perché, cazzo? Scagliò con rabbia una lattina vuota dall’altra parte del salone. Ma subito si calmò. Ovvio. Non ci aveva pensato, perché quel sistema avrebbe potuto funzionare solo con i promotori finanziari. Ma la prossima vittima, guarda caso, non sarebbe stata proprio un promotore? Franco sapeva che i promotori abitualmente vanno a casa dei clienti. Così sarebbe bastato dargli un appuntamento sul tardi a un indirizzo fasullo. Avrebbe giustificato l’ora con una scusa. Ovviamente non lo avrebbero trovato, così avrebbero cercato un po’ intorno e poi se ne sarebbero tornati a casa. Dove ci sarebbe stato lui ad aspettarli. L’unico problema di questa soluzione era che sarebbe stato costretto a colpire prima del solito, diciamo non oltre le undici. E quindi sarebbe stato fondamentale scegliere una vittima che abitasse in una zona tranquilla. Mentre per quanto riguardava l’ultima vittima, ancora un consulente bancario, non doveva fare nulla perché aveva già tutte le informazioni che gli servivano. E poi avrebbe colpito di nuovo a Pordenone, chi se lo sarebbe aspettato? Chiuse gli occhi e sorrise. Nemmeno gli alibi, poi, lo avevano mai preoccupato più di tanto. Era un single di mezza età, e quindi poteva sempre dire che all’ora dei delitti era a casa a dormire. E se per caso avessero controllato la presenza del suo cellulare nelle zone dei crimini, non avrebbero trovato nulla, visto che per precauzione in trasferta non lo usava mai. Certo, potevano sempre chiedergli come mai il cellulare risultasse inattivo anche a Pordenone, dove aveva detto di essere. Ma
bastava dicesse loro che in genere lo usava pochissimo e che non c’era mai nessuno che lo chiamasse, né rispondesse quando vedeva una sua chiamata sul display. Che era la pura verità. A ogni buon conto, in occasione della trasferta di Milano lo avrebbe anche incidentato. Poi all’ultima esecuzione non avrebbe più avuto alcuna importanza. In conclusione, avrebbe potuto continuare a uccidere fino in fondo. Senza esitazioni, né falsi scrupoli. Uccideva gente che non gli aveva fatto niente? Perché, lui aveva forse fatto qualcosa a quei farabutti che lo avevano rovinato senza fare una piega? E solo per un piccolo, squallido tornaconto personale? Poi il suo caso non era certo un’eccezione, molti altri ce n’erano stati. E se quelli che ammazzava a lui non avevano fatto niente, magari avevano rovinato qualcun altro. In una guerra non c’è mai niente di personale. Si ammazza e basta, finché non è finita. Non ci si chiede ogni momento se è giusto ammazzare tizio o caio, se no finisce che si perde la guerra. Un soldato è un soldato, o è di qua o è di là. Punto. E se invece fossi io il principale responsabile delle mie disgrazie e dei miei ripetuti fallimenti? Io con la mia immaturità e superficialità? E i consulenti finanziari non fossero altro che dei puri capri espiatori di colpe che sono fondamentalmente mie? Fu un raro sussulto di onestà intellettuale, un dubbio che lo fece vomitare per tutta la notte. Poi al mattino rimosse tutto. No, va bene così, sono tutte pippe, devo solo stare più attento e portare a termine quello che ho cominciato. A quel punto Franco non vedeva più grandi problemi davanti a sé. L’unico serio problema ce l’aveva alle spalle, quel male mortale che lo seguiva come un’ombra.
XXVI
Dopo l’uno-due micidiale del quasi fallimento della LF-Comm nel 1999, e le perdite subite con il crac dei titoli tecnologici del 2000, Franco ricordava di aver vissuto tempi durissimi, sia in casa che sul lavoro. Ma pian piano, lavorando sodo, stando attenti ai costi e dando all’agenzia un nuovo posizionamento sul mercato, lui e Patrizia erano riusciti a superare la crisi. Da piccola agenzia a servizio completo, avevano trasformato la LF-Comm in un’agenzia specializzata nella Pubblicità per il Punto Vendita, ormai del tutto estranea al più prestigioso, e rischioso, settore della pubblicità sui mass media. Mantenendo il personale al minimo erano riusciti a ricostituire un portafoglio clienti, piccoli per lo più. Lavoravano in velocità e a basso costo, senza ridurre più di tanto la qualità del servizio. Sui piccoli lavori divennero presto molto competitivi. Si trattava di essere ben organizzati e Patrizia era molto brava in questo. Le entrate avevano cominciato a girare per il verso giusto e dopo alcuni anni erano anche riusciti a rimettere insieme un piccolo capitale. Si trattava pur sempre di oltre novantamila Euro, che sul finire del 2007 si erano andati accumulando sul conto corrente. Franco li aveva lasciati là, dopo l’esperienza dei titoli tecnologici non aveva più voluto saperne di speculazioni, azioni, fondi di investimento, neanche obbligazioni, niente. Però l’inflazione era quasi al tre per cento e il suo lento lavoro di erosione cominciava a farsi sentire. Doveva fare qualcosa. Così un lunedì di fine settembre andò in banca a parlare con un consulente. L’idea di partenza era quella di rinegoziare gli interessi del conto corrente, una miseria. In alternativa, si sarebbe aggiornato sulle operazioni Pronti contro Termine o sulle condizioni dei conti di deposito. Magari avrebbe chiesto qualche informazione anche su BOT e CCT. Uscì dalla banca con un investimento in obbligazioni Lehman Brothers, settantamila euro con scadenza novembre 2008. Non era quello che aveva in mente, ma gli era parsa un’ottima operazione, e neanche troppo lunga, un anno. Gli suonava anche bene, l’opposto dei Buoni Postali, così irrimediabilmente proletari. E poi il dottor Cadonato gli ispirava fiducia, un tipo aperto, stile college, con l’aria del giovane padre di famiglia.
“È uno dei migliori investimenti nella logica rischio-rendimento. Hanno un ottimo rating,[1] sono pubblicizzate dall’ABI e distribuite in Italia dalle migliori banche. Molti risparmiatori le praticano da anni con piena soddisfazione. Anzi, stiamo rapidamente esaurendo anche la tranche che abbiamo in collocamento. Capisco le sue perplessità, dottor Lofusco, ma consideri che la Lehman Brothers è una delle migliori banche americane, mica una piccola azienda come la Cirio o la Parmalat. E se proprio volessimo pensarle tutte, anche le più catastrofiche, sa cosa le dico? Che non la lascerebbero mai fallire. È troppo grande.” Se solo si fosse fermato un momento a riflettere, Franco avrebbe potuto facilmente realizzare che un giovane padre di famiglia ha, per l’appunto, una famiglia da mantenere, e probabilmente anche un mutuo da pagare, e magari anche le rate per l’improrogabile acquisto di un’auto più spaziosa. E avrebbe subito concluso che uno così ha in realtà molto più bisogno di soldi che non il più gaudente dei single. E il Cadonato, per vendere quelle obbligazioni su cui la banca faceva i suoi bei guadagni e lui maturava premi a cui non poteva rinunciare, non disse a Franco una serie di cose, a partire dal fatto che la Lehman Brothers era una delle banche più esposte sui famosi mutui sub-prime, i mutui spazzatura, quelli erogati a clienti che difficilmente avrebbero potuto onorare i loro impegni. Era Patrizia che aveva proposto i Buoni Postali, rendevano meno, ma recuperavano l’inflazione e si potevano rivendere in qualsiasi momento, senza problemi. Ma era anche stanca e quando Franco le disse delle Lehman Brothers, fece spallucce e continuò le sue faccende. In primavera la figlia Elisa, che faceva l’assistente in uno studio legale, comunicò ai genitori che dopo un anno di convivenza in un appartamento arredato, lei e Mauro avevano deciso di metter su casa sul serio, in affitto o comprandola col mutuo. Così un giorno le due famiglie, che già si erano conosciute, si incontrarono a pranzo e discussero insieme con i due ragazzi del loro progetto. Spinsero entrambe per l’acquisto, soluzione senz’altro migliore, e si offrirono di dar loro una mano. Li consigliarono anche di cercare una buona casa, definitiva, non una tanto per cominciare e poi cambiare. “I soldi spesi per la casa sono sempre ben spesi, il migliore di tutti gli investimenti possibili.”
Le due famiglie avrebbero messo a disposizione un capitale liquido di settantacinquemila euro ciascuna. Al resto delle spese avrebbero dovuto provvedere i due figli, accollandosi l’onere di un mutuo. Da subito sarebbe partita la fase di ricerca, l’orizzonte temporale dell’operazione fu fissato in otto mesi, cioè per la fine dell’anno, in modo che tutti potessero regolarsi. Settantacinquemila euro, in pratica l’importo che Franco aveva investito nelle obbligazioni Lehman Brothers. Cominciarono così a venirgli alcune ansie e si recò in banca dal dottor Cadonato. Gli spiegò dell’impegno che si era preso e gli chiese se non era meglio liquidare tutto. Il consulente lo sconsigliò, era un peccato, mancavano pochi mesi alla scadenza, e poi le obbligazioni quotavano un po’ meno del prezzo di acquisto, e questo avrebbe compromesso il rendimento dell’operazione. Insomma lo tranquillizzò. Franco tornò in luglio, i mercati erano in agitazione, rifece la stessa domanda e ottenne la stessa risposta. “Stia tranquillo, le agenzie di rating non hanno fatto nessuna rettifica, il punteggio delle Lehman Brothers è sempre ottimo, e anche in questi giorni la gente continua a comprarle, esattamente come prima”. Poco dopo le ferie, era il 15 settembre, la Lehman Brothers fallì, innescando sui mercati la più grande crisi finanziaria dopo quella terribile del `29. Franco sentì qualcosa rompersi dentro. Le obbligazioni Lehman Brothers non vennero più trattate, l’unica possibilità per recuperare almeno qualcosa era affidarsi a un esasperante iter legale, ma sarebbe stata una questione di anni, non certo di mesi. Franco non sarebbe stato in grado di far fronte ai suoi impegni. Andò da Cadonato. Quello gli disse che era molto dispiaciuto e che la banca avrebbe fatto tutto il possibile per are i suoi clienti in quel drammatico frangente. Ma non si prese nessuna responsabilità. “Chi poteva prevedere, la colpa è tutta delle agenzie di rating, sono molti i clienti che si trovano oggi nella sua stessa situazione. Io stesso e altri miei colleghi abbiamo perso parecchi soldi in questa brutta faccenda.” Si dispiaceva, il maledetto. Franco non credette nemmeno per un momento che lui avesse perso dei soldi. Se ne avesse avute, di quelle fottute obbligazioni, sarebbe stato capace di venderle il giorno prima a qualche imbecille come lui.
Avrebbe voluto strozzarlo con le sue mani, lì, seduto alla scrivania. Lentamente. Scacciò quei pensieri. Si alzò e uscì sbattendo la porta su Cadonato, su quell’ultima fregatura, e sulla vita. Oltre ad attingere ai suoi fondi personali, Patrizia dovette vendere due campi ereditati dal padre e in questo modo onorò gli impegni presi con la figlia. Poi fece le valigie e se ne andò a stare dalla madre. Se ne andò anche dall’agenzia. La figlia lo evitò come un appestato e il figlio Marco, da anni per mare, era assente giustificato. Già fallito come professionista, adesso era fallito anche come padre e marito. E come uomo. Franco restò solo, e si aggrappò all’agenzia, il solo punto di riferimento che gli fosse rimasto. Cercò di tenerla a galla, facendo anche la parte di Patrizia. Ma verso la fine del 2009 la crisi prese a mordere e la LF-Comm cominciò a perdere clienti. Anche perché in quella nuova situazione lui aveva fatto più di qualche casino sul piano amministrativo, creando notevoli imbarazzi. Ma seppe stringere i denti, rinunciò a uno dei due grafici e in qualche modo riuscì a tirare avanti. Nel 2010 (o era stato nel 2011?) gli arrivò la pensione, non era ricca, ma aiutava. Il problema fu che il perdurare della crisi aveva fatto ridurre fortemente i lavori dei pochi clienti che gli erano rimasti. Così l’affitto dell’agenzia e lo stipendio del grafico stavano mangiandosi anche quei quattro soldi che gli erano rimasti sul conto. E all’inizio del 2012 (o era il 2011?) gli toccò licenziare il grafico e sbaraccare l’agenzia. Portò l’archivio in casa e cominciò a usare il bar come ufficio. La LF-Comm si ridusse a una realtà meno che fatiscente. Lui, se stesso e la sua rabbia. Così, a sessant’anni suonati, non gli restò che andare a bussare alla porta dei vecchi clienti per raccattare qualcosa da fare. E quelli, per pura comione, gli davano dei minuscoli lavori, come biglietti da visita o i volantini delle offerte speciali. Un modo per toglierselo di torno e non fargli pesare più di tanto quel po’ di elemosina che gli facevano. Un’umiliazione da cui non lo consolò nemmeno il botto del Sarfini, il suo storico concorrente, sorpreso dalla crisi in un momento di forti investimenti. Carico di debiti e con il fatturato al lumicino, non gli era rimasto che svendere tutto e portare i libri in tribunale. Nell’ambiente si
diceva che avesse messo su qualcosa in Oriente e al momento vivesse fra Singapore e Bali. Alla fine di quegli anni vissuti come una lunga notte d’insonnia, perso ormai anche il riferimento dell’agenzia e del lavoro, Franco si afflosciò. E cominciò a morire. Fu una lunga agonia, molto più lunga di quello che pensava. La vita a un certo punto ebbe pietà di quel povero fallito e, nel pieno della sua depressione, gli mise in mano la Beretta .22. Ma era anche un vigliacco. Cominciò invece a bere, quel tanto che bastava ad aiutarsi, e soprattutto a casa. Poi un giorno gli dissero che il suo tempo era finito e lui d’un colpo ritrovò tutto il coraggio, la lucidità e la cattiveria che non aveva mai avuto.
[1] Giudizio espresso da alcune agenzie internazionali specializzate sulla solvibilità del debito di società e Stati.
XXVII
Aveva deciso. Prima di morire avrebbe ammazzato Alberto Cadonato, quel bastardo che l’aveva mandato in rovina. Adesso che non aveva più niente da perdere, si sarebbe finalmente vendicato. Per cinque lunghi anni si era sentito crescere dentro quell’odio e quella rabbia che avevano finito per consumarlo. Giorno dopo giorno, umiliazione dopo umiliazione. All’inizio di marzo doveva cominciare la radioterapia, poi avrebbe regolato la questione. Verso giugno probabilmente, non appena il suo aspetto fosse tornato normale. Però si sarebbe concesso il piccolo lusso di far fare a qualcun altro tutto il lavoro preparatorio. Lui sarebbe intervenuto solo per la fase finale, come un grande chirurgo.
Rampin Investigazioni, diceva la scritta sulla porta del secondo piano di quell’anonimo palazzo in zona policlinico. Erano le undici di mercoledì 26 febbraio. Franco aveva preso l’appuntamento per telefono giusto la sera prima, probabilmente il suo Marlowe non era poi così impegnato, pensò fra sé. Chissà se gli somigliava, piedi sulla scrivania, birra, sigarette, e tutto il resto. Quando suonò il camlo, l’apriporta scattò automaticamente. Entrò in una stanza maleodorante, dove una serie di porte metteva in comunicazione l’ufficio con il resto del piccolo appartamento. Sulla parete di destra, una grande scrivania prendeva luce da una finestra, la cui tenda avrebbe fatto fare gli straordinari a un laboratorio di analisi sanitaria. Davanti alla scrivania due poltroncine bisunte in similpelle nocciola facevano a pugni con un grande tappeto geometrico sui toni del grigio. A sinistra della porta d’entrata, sei vecchi classificatori metallici - tre a calendario e tre alfabetici - con le probabili corna di mezza città. Sul muro di fronte, fra le due finestre, una moderna fotocopiatrice introduceva nell’ambiente uno strano tocco hi-tech. Uniche note di colore, un grande poster sull’impressionismo dietro la scrivania, un calendario
a muro di una banca locale e una serie di palle di neve sopra i classificatori. Ce n’era una anche sulla scrivania. Come Franco entrò, il dottor Rampin uscì da una porta sulla destra e gli venne incontro, tendendogli la mano. Luigi Rampin era un tipo di mezza età, piccolo e magro, con un vestito grigio di taglio dozzinale, camicia azzurra e un’indistinta cravatta sul bordò. I capelli neri con la scriminatura tradivano una certa familiarità con la forfora. Franco si chiese come cazzo avesse fatto a trovare un tizio del genere e provò mentalmente a riare l’annuncio che aveva letto sulle Pagine Gialle. Gli pareva Luigi Rampin Investigazioni. Un annuncio che gli era piaciuto perché gli suggeriva uno che lavorava da solo (come lui preferiva) e anche per il tono minimal, le investigazioni devono trasmettere discrezione e basso profilo. Ma non pensava così basso. Gli diede la mano con una certa riluttanza e sempre con riluttanza si accomodò su una delle due poltroncine, mentre il Rampin prendeva posto alla scrivania. “Quindi lei sarebbe il signor Marco…?” Franco lasciò cadere la domanda e prese l’iniziativa. “Dottor Rampin, vorrei che lei pedinasse un tizio che le dirò, e poi mi riferisse il dettaglio delle sue uscite serali. Preferirei restare anonimo e fare tutti i pagamenti in nero. Le darò cinquecento euro in contanti oggi, e altri cinquecento alla conclusione delle operazioni. Per lei potrebbe andar bene?” “Ma lei deve, fidarsi di me. Sono il suo investigatore! Se già in partenza non c’è fiducia… E poi un dossier anonimo attira molti più sospetti. Lo dico nel suo stesso interesse.” “Va bene, scriva Marco Rossi allora.” “Può darmi un documento, così ne faccio una fotocopia per il dossier?” “Senta, Rampin, io sono venuto qui perché lei faccia un’indagine per me, non su di me. Ma se lei non vuole…” Franco fece il gesto di alzarsi. “Per carità, signor Rossi, può andar bene così. E adesso mi dica: chi devo pedinare?”
In breve Franco ò tutte le informazioni necessarie. Alla fine il Rampin fece un estremo tentativo. “Può lasciarmi un recapito telefonico, in modo che possa avvisarla quando sarò in possesso delle informazioni che mi ha chiesto?”. Avrebbe potuto strozzare quel vermiciattolo con una sola mano. “Guardi Rampin, io adesso sono in partenza per un viaggio che mi porterà fuori tre o quattro mesi. Al mio ritorno mi metterò io in contatto. Penso che per allora avrà senz’altro tutte le informazioni.” “Va bene, signor Rossi, aspetterò che si faccia vivo lei.” Franco posò sulla scrivania cinque banconote da cento, poi salutò e uscì, ignorando la mano che il Rampin gli porgeva. Una volta gli era bastata.
Durante il week-end morì sua madre e Franco dovette rimandare la prima seduta di terapia per il funerale e le pratiche più urgenti. Gli venne anche uno scatto di rabbia contro un destino che lo arricchiva stupidamente mentre stava morendo. Ma se non altro la casa e i due appartamenti sarebbero serviti a sanare il debito morale ed economico che aveva con la moglie e la sua famiglia. E poi gli affitti degli appartamenti gli avrebbero fatto comodo subito. In aprile, quando ormai gli effetti della terapia erano così evidenti da farlo stare quasi sempre in casa, e fra una crisi di emicrania e l’altra aveva un sacco di tempo per pensare, gli venne quell’attacco di grandeur che glifece trasformare una vendetta personale in una crociata contro l’intera categoria dei consulenti finanziari. Quel radicale cambiamento di strategia produsse varie conseguenze. La più drammatica di queste fu che diventava necessario eliminare il Rampin, diventato a quel punto un testimone troppo pericoloso. È vero che gli aveva dato un nome falso, e che lo aveva chiamato con una carta SIM anonima, ma il Rampin l’aveva visto in faccia. E quando fosse venuto fuori che qualcuno ammazzava di notte dei consulenti finanziari che tornavano da un circolo, quello non ci avrebbe messo molto a collegarlo a lui. Avrebbe potuto denunciarlo, o l’avrebbe cercato per ricattarlo. Quindi, se voleva portare a termine la sua impresa, doveva sbarazzarsi di lui. In guerra li chiamano danni collaterali. E poi dubitava fortemente che qualcuno avrebbe potuto rimpiangere più di tanto un tipo del
genere. Così un giorno di luglio, quando i capelli avevano cominciato a ricrescergli, dandogli un aspetto quasi normale, lo chiamò al telefono e con una scusa gli fissò un appuntamento verso le otto di sera, ora in cui c’è poca gente in giro. Il Rampin non fece obiezioni, anzi gli sembrò piuttosto contento. Quando entrò in quel tremendo ufficio, il Rampin era alla scrivania. Gli fece cenno di accomodarsi, poi sporgendosi sul piano gli diede la mano. Gli chiese come stava, dov’era stato di bello, magari qualche posto esotico? Poi gli disse che lui aveva completato l’indagine già a fine marzo. Era stata un’indagine molto noiosa, con lunghi appostamenti sotto casa durati per molte sere, perché il Cadonato non usciva molto spesso dopo cena (secondo Franco, il Rampin stava cercando di spillargli un extra). A parte alcune uscite estemporanee, e quelle del mercoledì al circolo di burraco, non c’era stato nient’altro. Nessun incontro galante o di natura equivoca. Un tipo pulito. Rampin aveva davanti a sé un foglietto dattiloscritto su cui leggeva. “Ecco, qui c’è tutto quello che c’è da sapere: date, posti, persone, orari di uscita e di rientro.” “Potrei avere l’intero dossier?” “Certamente.” Il Rampin si alzò dalla scrivania e si avviò verso i classificatori alfabetici. Anche Franco si alzò, come per accompagnarlo. E mentre Rampin, chino su un cassetto, faceva scorrere le dita fra i dossier, Franco lo colpì violentemente alla nuca con la palla di neve che aveva preso sulla scrivania. L’investigatore crollò sul cassetto e scivolò sul pavimento. Subito Franco si chinò su di lui, gli ò intorno al collo un cordino plastificato che si era portato dietro - lui odiava il sangue - e lo strangolò. Cercò nello schedario il dossier di Marco Rossi, che trovò subito. Non lo aprì, così non si accorse che era solo una copia. L’originale era contenuto nei vicini classificatori per anno, ma neanche di quello Franco si era accorto, del doppio sistema di archiviazione. Incrociando i due archivi, l’ispettore Bastinelli avrebbe potuto facilmente scoprire che quello di Marco Rossi era il dossier dell’assassino, l’unico cui mancava la copia alfabetica. Ma quello che al celebre Poirot avrebbe suggerito la brillante soluzione del caso, a Bastinelli non l’aveva nemmeno sfiorato: perché
mai l’assassino avrebbe dovuto portarsi via una copia, lasciando l’altra in ufficio? Poi Franco ripulì delle sue impronte tutto quello che poteva aver toccato, anche la prima volta, prese l’agenda degli appuntamenti, e uscì.
XXVIII
NEL MESE DI NOVEMBRE le indagini ripartirono da capo e i miei rapporti con Armelie si allentarono notevolmente, riducendosi a una serie di sporadici aggiornamenti telefonici. Per lei in realtà quel periodo fu una sorta di incubo. Anzitutto dovette tarare tutti i livelli già definiti per le perdite finanziarie. Armelie aveva sempre pensato che in quel modo si sarebbero senz’altro trovati nuovi nomi, ma a prezzo di un indebolimento del movente. Secondo lei, nessuna persona di una certa levatura si mette ad ammazzare in serie per pochi soldi. E il finanziere non era certo un disgraziato qualunque. Così, dovendo in ogni caso fare una taratura, pensò in un primo momento di abbassare il livello del minimo, il dieci per cento. Ma che senso avrebbe avuto ricominciare tutto daccapo per così poco? Procedette quindi a una taratura del venti per cento. In questo modo la perdita da considerare nel crac dei titoli tecnologici del 2000 si abbassò da settantacinquemila euro a sessantamila e così via per i vari crac, fino ad arrivare nel 2008 al crac Lehman Brothers che ò da centomila a ottantamila euro. Naturalmente la taratura riguardò Pordenone e anche Vicenza, dove questo tipo di indagine non era ancora partita. D’accordo con Vitale lasciò invece fuori Roma, che tutti ormai ritenevano fosse entrata nella faccenda per puri motivi mediatici. In conclusione, dal nuovo incrocio fra perdite finanziarie e possesso di una .22, vennero fuori due nomi a Pordenone e ben sei a Vicenza, dove d’altronde i livelli di perdita esplorati comprendevano sia la nuova fascia che la fascia di partenza. Nelle successive verifiche degli alibi si riscontrarono più o meno le stesse situazioni già rilevate in precedenza. Qualcuno ce l’aveva, la maggior parte era a casa a dormire, ma la verifica delle celle telefoniche risultò poi del tutto compatibile con quelle dichiarazioni. Dei clienti privi di alibi venne comunque usata la foto, per fare nuovi identikit con i promotori di Vicenza che avevano visto il finanziere. Ma non ne uscì niente di utile.
Alla fine del mese ci vedemmo a casa sua e in quell’occasione Armelie mi fece un esauriente resoconto delle ultime indagini. Fu una serata abbastanza moscia, la delusione era palpabile. Alla fine ci lasciammo con il proposito di riflettere sulla situazione, ed eventualmente rivederci quando ci fosse venuta qualche idea. Ma c’era stanchezza, l’euforia di ottobre sembrava ormai lontana anni-luce. Oltretutto - le disgrazie non vengono mai da sole - all’inizio di dicembre non trovai di meglio che fratturarmi una gamba sciando, un incidente che mi costrinse a un lungo periodo di immobilità in casa. Fronteggiai l’emergenza prendendo con me una giovane somala assistita dal C.A.R.M.A., Juba, un caso che a suo tempo aveva fatto grande scalpore. Juba era arrivata incinta a Pordenone due anni prima, dopo che durante la traversata in barcone aveva perso i due fratelli, assassinati, e per giorni era stata stuprata dal branco.“Tu sei figlio del mare,” diceva sempre al bambino, che aveva chiamato Mediterraneo. Uno strazio che conoscevo bene, e di cui mi ero spesso occupato al Centro. Mi pare che con Armelie ci sentimmo pure un paio di volte, ma non c’erano idee, né voglia. E a quel punto, tra le frustrazioni di tutti e qualche problema con le gerarchie ministeriali, l’indagine andò in letargo. Se novembre era ato con l’ansia che il finanziere fe una nuova vittima, a dicembre ci fu il terrore che il killer colpisse sotto Natale. Poi con gennaio le acque si calmarono, dopotutto il finanziere poteva anche aver terminato la sua delittuosa impresa . Ma verso la fine del mese, non si sa come né perché, Il Corriere se ne uscì con un articolo molto critico, che oltretutto accostava lo stallo dell’indagine sul finanziere al flop della precedente indagine sul cacciatore, sortendone un effetto disastroso. Subito gli altri giornali, evidentemente a corto diargomenti stuzzicanti, seguirono a ruota quell’iniziativa.Qualcosa apparve anche sul Guardian e la Frankfurther Allgemeine Zeitung. Ne derivò un’ondata sismica di notevole intensità che dalle alte sfere scese giù lungo tutta la scala gerarchica, fino ad arrivare ad Armelie, che non sapendo a quel punto che pesci prendere non trovò di meglio che convocarmi con urgenza, visto che nel frattempo mi ero pienamente ristabilito. “Ciao Giorgio.”
Era la prima volta che mi chiamava per nome. “Anzitutto, come stai?” “Adesso non mi posso lamentare, ma mi è sembrata veramente lunga. Per fortuna Juba è stata molto brava, così non ho sentito più di tanto i disagi della situazione.” “Juba, hai detto? Beh, sarà andata bene a te, ma in fondo anche per lei i tuoi guai sono stati una bella opportunità. Adesso invece, con la guarigione…” “Sì, quei soldi le facevano proprio comodo. Comunque non l’ho licenziata su due piedi. Abbiamo concordato che continuerà a venire un paio di volte alla settimana per le pulizie. Certo, non è la stessa cosa, però aiuta.” Armelie non seppe nascondere un moto di fastidio e cambiò subito argomento. “Bene, Romani, veniamo a noi. Al momento sono in grande difficoltà e mi serve urgentemente un tuo guizzo d’ingegno.” Poi mi rifece il punto della situazione e io le dissi quello che pensavo della faccenda. “Senti Armelie, in questo lungo periodo, dopo che tu mi avevi informato sulle difficoltà dell’indagine, avevo già fatto qualche breve riflessione per conto mio e sono giunto alla conclusione che ciò che non funziona nel nostro piatto non è tanto la ricetta, ma qualcosa negli ingredienti.” “Cosa intendi dire?” “L’idea di Danilo di partire da una faccia per trovare la maschera dell’assassino è geniale, il classico uovo di Colombo. A loro volta gli ingredienti per trovare la faccia giusta sono molto semplici, e si basano sul possesso di una .22 più un determinato livello di perdita finanziaria. Ora, se il sistema non funziona, e la faccia non si trova, secondo me vuol dire che almeno uno dei due ingredienti è sbagliato. E siccome non può essere il possesso della pistola - che è incontrovertibile - l’errore non può che essere nella determinazione della perdita finanziaria.” “Ancora! Ma se l’ho tarata due volte, una già all’inizio e un’altra adesso!” “Non so cosa dirti, ma è lì che concentrerò la mia verifica. Lasciami solo un po’ di tempo e poi ti farò sapere.”
“Sono nelle tue mani, Giorgio.” “Allora, incrocia le dita.” Poi uscii. Era freddo a quell’ora, ma la notte era stellata.
Quinta parte
Quarta esecuzione
XXIX
“SENTI BUZZI, ADESSO NOI ci facciamo una bella seduta, come ai vecchi tempi del cacciatore, ricordi? Solo che stavolta non si tratta di fregare la polizia, ma di dare una mano ad Armelie.” La domanda a cui dobbiamo rispondere stasera è questa: quand’è che una perdita finanziaria può diventare un movente? Quanto deve essere grande la perdita? Per facilitare il ragionamento, prendiamo un solo crac per tutti, l’ultimo, quello della Lehman Brothers. Il ragionamento lo faremo solo su questo, ma il risultato raggiunto si intenderà poi esteso a tutti gli altri crac. Okay? Cominciamo. Sappiamo che in un primo momento Armelie aveva definito come movente le perdite pari ad almeno centomila euro. Ma fra i clienti che presentavano perdite di tale entità non aveva trovato nessuno che fosse sospettabile. Poi nella successiva taratura è scesa a ottantamila euro, e ancora non ha trovato nessuno. Allora, dov’è finito il nostro amico? Da qualche parte deve pur essere! Ancora più giù? Sembrerebbe poco verosimile. Dice Armelie: come può essere che una persona di una certa levatura si metta a commettere omicidi a ripetizione per vendicarsi di una perdita inferiore a ottantamila euro? Una domanda plausibile. Ma intanto, cosa vuol dire persona di una certa levatura? Provo a rispondere: un tipo con una mente colta, lucida e organizzata. Anche fine psicologo, basta vedere la storia dei travestimenti. E poi uno così, anche se nella vita dovrebbe aver avuto un certo successo professionale, non è detto che sia ricco o anche solo agiato. Per tutta una serie di motivi potrebbe anche avere possibilità economiche limitate. “Tanto da uccidere in serie per una perdita di settantamila euro o sessantamila o anche solo cinquantamila?” “Ma se questi soldi fossero tutto quello che aveva? O quasi tutto quello che aveva?” Cristo! Rimango impietrito. Per mesi abbiamo rincorso un concetto di perdita
assoluta, cioè quanti soldi erano stati persi, mentre avremmo dovuto prendere come riferimento un concetto di perdita relativa, cioè la percentuale di soldi persi rispetto a quelli investiti. Infatti, se ci pensi Buzzi, uno che perde cinquantamila euro su settantamila investiti finisce per subire una perdita molto più incisiva di un altro che perde duecentomila euro su un milione. “Ma allora possiamo dire che chi perde novemila euro su diecimila investiti, che equivale a una percentuale del novanta per cento, potrebbe tranquillamente diventare un assassino?” “No, non funziona. Anche la cifra perduta ha il suo peso.” “E quindi, come dobbiamo procedere?” “Bisogna che oltre alla percentuale elevata anche la cifra perduta sia significativa. Solo così la perdita può tradursi in un grave danno per chi la subisce. Eccolo qui il busillis! Il movente non è tanto la perdita finanziaria, ma il danno che ne deriva! Mi segui?” La Buzzi, che mi ha fatto da spalla per buona parte del cammino, di fronte a questo profluvio di concetti logico-matematici, si è addormentata. Ma ormai la mente si è aperta. Continuo da solo. E presto arrivo alla soluzione. Sono le undici e mezza, più tardi del solito. Mando un SMS ad Armelie. Ho avuto il guizzo, cosa faccio? Vengo adesso o rinviamo a domani? Vieni. Mi vesto, prendo l’auto e prima di mezzanotte sono già nel salotto di Armelie. In breve, con l’aiuto della lavagna a fogli mobili, le spiego il ragionamento della perdita relativa, fino a concludere che come movente non bisogna prendere la perdita, ma il danno. “Chapeau! Però non mi basta, Romani.” “Lo so, alla fine ti serve anche un numero.” “Esatto, non posso fare un’indagine su un concetto.” “Non preoccuparti, io un numero in testa ce l’ho, ma vorrei che ci arrivassimo
insieme.” “Va bene. Dai, comincia.” “La prima cosa che il danno causato da una perdita finanziaria mi fa venire in mente è l’impossibilità di realizzare un progetto programmato. Un progetto importante.” “Ti seguo. Puoi farmi qualche esempio?” “Che so, non certo l’acquisto di un’auto, troppo frivolo. Ci vorrebbe qualcosa di serio. Meglio ancora se il progetto coinvolge altre persone, perché in questo caso aumentano le responsabilità.” “A cosa pensi?” “Per esempio, potrei pensare al progetto di studio di un figlio, magari all’estero. O l’aiuto a un figlio per avviare un’attività. Sto parlando di qualcosa intorno ai cinquantamila euro. Oppure anche l’acquisto di una casa, dove la cifra perduta potrebbe essere la parte in contanti di un mutuo. Anche qui potremmo parlare più o meno di una cifra simile.” “Sì, mi ritrovo. Escluderei il progetto studi, perché l’impegno finanziario sarebbe scaglionato su più anni, ma l’aiuto per l’avvio di un’attività o la casa andrebbero bene. Persa la cifra, caduto il progetto. O drasticamente ridimensionato. Oppure rimandato a chissà quando.” “Ovviamente, questi sono solo degli esempi. In realtà ci possono essere infiniti tipi di progetti personali, ma qui non ci interessano più di tanto. L’importante è che adesso abbiamo gli elementi per definire meglio il livello di perdita su cui dobbiamo lavorare.” “E quale sarebbe questo livello?” “Come dicevo, intorno ai cinquantamila euro, che è esattamente la metà di quello che avevi originariamente definito per il crac Lehman Brothers. E andrebbero dimezzati anche tutti gli altri crac. Ma lascerei stare quello dei titoli tecnologici del 2000, che fu di natura essenzialmente azionaria. Quindi più rivolto a investimenti speculativi, che poco si prestano a essere collegati a un progetto.”
“Bene. Allora dimezziamo tutti i valori di partenza.” “Ma c’è dell’altro.” “Vai.” “La perdita diventa un danno tanto più grave, quanto più uno riteneva prossimo il rientro del capitale investito.” “Perché?” “Perché in vicinanza di tale scadenza il progetto da finanziare sarebbe probabilmente in una fase organizzativa molto avanzata. E fermare tutto potrebbe creare un danno enorme, sia materiale che psicologico. Anche affettivo, se è coinvolta la famiglia.” “Quanto dovrebbe essere vicina questa scadenza?” “Se prendiamo l’esempio della Lehman Brothers, il cui crac è stato nel settembre 2008, possiamo ritenere che le persone che ne hanno avuto maggior danno siano state quelle le cui obbligazioni sarebbero scadute nei tre o quattro mesi immediatamente successivi”. “Ti compro anche questa, Romani. Quindi, riepiloghiamo. Primo, lavoriamo solo sui crac obbligazionari. Secondo, cercando perdite pari alla metà di quelle definite inizialmente. Terzo, che rappresentino almeno il settanta per cento del capitale investito.Quarto, avendo particolare attenzione ai clienti con scadenze ravvicinate.” “Sei un’allieva molto brillante e perspicace.”
FINITA LA SESSIONE, ci alziamo a malincuore e ci spostiamo in entrata. “Complimenti, Romani, adesso capisco perché allora ci avevi messo in così grande difficoltà.” “Non fu tanto una questione di bravura, quanto il fatto che avevo al mio fianco una aiutante veramente fuori dal comune.”
“E di grazia, chi sarebbe questa criminale che mi era sfuggita?” “Era la Buzzi, la nostra gatta condominiale, che adesso è venuta a stare da me. E che mi ha aiutato anche stasera.” “Una gatta? E come ti aiutava, scusa?” “Ascoltandomi, mentre io ragionavo a voce alta. Mi aiutava a fissare meglio i concetti. Spesso mi facevo anche il contraddittorio. Evidentemente devo avere un sistema uditivo molto sviluppato.” “Ma Romani, quello uditivo è il sistema percettivo più tipicamente femminile!” “Sì, lo so.” “E lo ammetti, pure!” “Cos’è, vuoi una prova di virilità?” Armelie mi guarda in modo strano. “E se fosse?” Sapevo che sarebbe successo, prima o poi. “Mmh, non credo che sarebbe una buona idea. Potrei però esibirti alcune ottime referenze.” Armelie mi punta l’indice. “Quelle te le incarti, socio, sei troppo bravo a intortare la gente!” Ridiamo entrambi alla battuta. Poi lei si fa seria, e piega la testa di lato. “Perché no, Romani?” “Perché no? Perché finirebbero per scoprirci, Armelie, e andremmo dritti in galera, io per omicidio plurimo e tu per favoreggiamento.”
E mentre nel segreto del loro patto scellerato Armelie e Romani percorrevano i meandri di quel difficile caso, e di loro stessi, ebbero senza saperlo un testimone d’eccezione. Perché lì fuori c’era Franco Lofusco, il finanziere.
XXX
Era già successo che la sera tardi Franco andasse a casa di Armelie, a spiarla da fuori. L’ultima volta, per vedere meglio, si era anche portato un piccolo binocolo. Lui sapeva che alla fine sarebbe stata lei mandarlo a morire in prigione. E questo aveva fatto nascere in lui un morboso interesse, voleva sapere tutto di lei. Inoltre, gli piaceva scivolare nella notte come un’ombra. E così aveva fatto quel giovedì di inizio febbraio, quando verso mezzanotte era andato a piedi in quella tranquilla stradina del centro. Aveva anche trovato il cancello aperto, e così era entrato in giardino e lì, al riparo di un piccolo gruppo di alberi, si era messo a guardare col binocolo attraverso una finestra illuminata. Gli scuri erano accostati, ma lasciavano aperta un’ampia fessura da cui si poteva vedere dentro. Da dov’era, Franco vedeva solo una piccola porzione di stanza, che non gli diceva niente. Stava stufandosi, e pensava di andar via, quando vide Armelie attraversare quel breve spazio e sparire sulla destra. Franco allora si spostò più a sinistra, fino a vedere Armelie in piedi vicino a una lavagna a fogli mobili. Aveva un pennarello in mano e parlava con qualcuno sulla sinistra. Dodici, forse tredici metri, una distanza da cui Franco avrebbe saputo piazzare tutti i colpi della sua .22 nell’ovale di un viso. Poi Armelie tornò da dov’era venuta, incrociandosi con un uomo che a sua volta venne a scrivere sulla lavagna. E quando il tizio si girò verso sinistra, probabilmente si stava rivolgendo ad Armelie, Franco poté vederlo di profilo. Lo riconobbe subito. Era Giorgio Romani della PN-G.OP., un suo vecchio cliente. Franco ricordò che il Romani era anche stato il maggior indiziato del caso del cacciatore, gli pareva che lo avessero addirittura fermato e la cosa aveva fatto un grande scalpore in città. Cosa ci faceva lì, a quell’ora di notte? Per cercare di capire, mise a fuoco il foglio con le scritte. C’era tutta una serie di frazioni, e vicino a ciascuna era riportata una percentuale. Quello che però lo colpì maggiormente fu la parola scritta in cima al foglio. La parola era Finanziere,ed era riquadrata. Stavano
lavorando sul suo caso! Riavutosi dalla sorpresa, Franco se ne andò via, non gliene fregava niente di scoprire se fra i due ci fosse anche dell’altro. Quello che aveva visto gli bastava. Armelie Bernardi e Giorgio Romani erano l’intelligence del suo caso. Un’intelligence segreta. Se non fosse stato così, si sarebbero incontrati in questura, magari con qualcun altro, non certo da soli a casa di Armelie. E a quell’ora, poi. Arrivato a casa, andò con una birra a riflettere nel suo pensatoio. Giorgio Romani. L’aveva incontrato nel 2005, quando il Romani l’aveva chiamato in azienda per dargli un lavoro semplice ma urgente, che l’agenzia della PN-G.OP. PN-G.OP. non poteva seguire, in quanto presa dall’organizzazione di un grosso evento. Ricordava di aver fatto un buon lavoro, pulito veloce ed economico, che gli valse l’entrata in azienda come agenzia di riserva per le emergenze. Avevano lavorato insieme fino al 2008, poi, con quello che era successo, e la nuova crisi della LF-Comm, la collaborazione finì. Tornò da lui un anno dopo, poco prima che il Romani andasse in pensione, e riuscì a farsi dare un piccolo progetto, che non seguì neanche bene. Cosa c’entrava Romani con il suo caso? Per quanto si sforzasse, non riusciva a capire. Però era evidente che in quella faccenda c’era qualcosa che non andava, e che la dottoressa Bernardi vi era coinvolta. Franco pensò che nella sua situazione non gli sarebbe costato nulla lanciare un sasso in piccionaia, magari avrebbe fatto inceppare l’inchiesta. E avrebbe guadagnato tempo. Guardò per terra un giornale con la foto di Armelie, fece un gesto osceno e sogghignò. Il giorno dopo, praticamente alla vigilia del lungo sopralluogo che aveva programmato su Milano, Franco mise in atto il suo proposito. E verso le undici del mattino, da un Internet Point della città inviò il seguente messaggio: A:
[email protected] Egregio dottor Vitale, la informo che ieri notte la dottoressa Bernardi si è incontrata nella sua abitazione con il dottor Giorgio Romani, sua nota conoscenza, e insieme si sono fermati a lungo a lavorare sul caso del finanziere. Un cittadino.
Quando Vitale vide quella email speditagli da
[email protected], il cui oggetto diceva Armelie Bernardi, l’aprì subito e dovette leggerla più volte, prima di convincersi di quanto stava succedendo. Una denuncia anonima, su un fatto incredibile e gravissimo. Un proiettile sparato con fredda lucidità al cuore della sua squadra. Un cittadino? Il finanziere, chi altro? Magari Armelie era pure in pericolo. Chiamò Orietta. “Senti Orietta, mi spiegheresti un’altra volta come si fa a stampare una email? Ecco, stampami come esempio questa di Biscontin.” E Orietta con pazienza spiegò al suo capo. Rimasto solo, Vitale si stampò la email che aveva appena ricevuto, poi la cancellò dalla sua casella postale. Si accese la pipa. Voleva quagliare la cosa prima della riunione che era in programma nel pomeriggio. Pensò, sbuffò, e ripensò. E alla fine capì. Tutto. Ogni cosa entrava nella casella giusta. Cose nuove e cose vecchie. Si sbalordì. Cosa stava facendo quella benedetta ragazza ? E cosa aveva combinato in quel vecchio caso? Si tenne la fronte fra le mani e stette così per alcuni secondi. Poi cercò di ricomporsi. Doveva riconoscere che quell’inedita e illegale collaborazione con il Romani stava dando eccellenti risultati. E lui, che era un pragmatico, per di più insofferente alle regole, questo lo apprezzava enormemente. Sarebbe stato un peccato rinunciarvi proprio alla vigilia di un’altra illuminante riunione. E poi? Ogni cosa a suo tempo. Quello che era certo è che una scoperta del genere non poteva assolutamente condividerla con Biscontin, funzionario ligio al dovere, dotato di scarsa immaginazione e con capacità trasgressiva pari a zero. Se gliene avesse parlato, avrebbe perso in un solo colpo il suo vice, più un eccellente collaboratore esterno, e per finire il migliore dei suoi ispettori, che per lui era come una figlia. In breve, sarebbe stato un disastro. E poi avrebbe finito per fare il gioco del finanziere. Deciso, ne avrebbe parlato in privato con Armelie, ma più avanti. Molto più avanti. Neanche Vitale in fondo era poi tanto normale, ma questo Franco non poteva saperlo.
La riunione del primo pomeriggio, su nella grande sala del primo piano, segnò la svolta del caso.
“Insomma, a forza di arrovellarmi sul perché non avessimo trovato niente di niente, pur avendo tarato tutti i livelli delle perdite finanziarie, mi è venuta questa sorta di illuminazione che ci permetterà di fare una seconda, più drastica taratura. E questa è la volta che lo becchiamo sul serio.” Nel silenzio che seguì non si sarebbe sentita volare una mosca. “Caspita!” fece Vitale. “Questo cambia l’ottica di tutta l’indagine. Adesso ci siamo ragazzi. Brava Armelie, anzi bravissima!” Vitale si compiacque di aver soprasseduto al chiarimento con Armelie. Mi piacerebbe proprio conoscerelo, questo Romani, che non ho mai avuto l’occasione di incontrare. Che mente! Lui sì che sarebbe stato il mio perfetto braccio destro, altro che quel pesce lesso di Biscontin. Tutta la squadra applaudì la performance di Armelie. “E adesso come pensi di procedere?” fece il commissario. Comunque, alla fine del caso un discorsetto voglio proprio farglielo, alla ragazza. Anzi, un discorsone... “Dovremo tornare dalle banche e dalle finanziarie che abbiamo già contattato e chiedergli di farci l’elenco dei clienti colpiti nella nuova fascia di perdite individuata. Mettendo vicino all’entità della perdita anche l’incidenza percentuale sul capitale investito, e completando il tutto con la data di scadenza dei titoli posseduti. Farei però togliere dall’analisi il crac dei titoli tecnologici. Fu una bolla speculativa, di tipo essenzialmente azionario, nessuno fonderebbe su titoli del genere un progetto di vita. E lascerei fuori Roma, come abbiamo già fatto l’altra volta”. “Sono d’accordo,” disse il commissario. Chissà se scopavano pure, quei due sciagurati. “Non credo che a questo giro ci offriranno il caffè,” aggiunse Oscar. Armelie ebbe un attimo di perplessità, le punzecchiature di Oscar cominciavano a darle fastidio.
“Non solo dovranno offrirci il caffè, ma gli converrà pure metterci vicino dei buoni pasticcini, se vogliono tornare a uscire tranquilli di sera,” gli rispose secca. “Ben detto!” le fece eco Vitale. Poi, al momento di sciogliere la riunione, Vitale fece cenno ad Armelie di seguirlo nel suo ufficio. “Senti Armelie, come sei messa a sicurezza? A casa, intendo,” fece Vitale, appena Armelie gli fu seduta di fronte. “Mah, commissario, niente di che. Non ho cani da difesa, se è questo che intende. Ho un impianto di allarme, che però attivo una volta sì e una no.” “Bene. D’ora in avanti sarà il caso che lo attivi sempre.” “Perché dice questo? Mi vuole impressionare?” “La storia del finanziere, Armelie, sta entrando nella sua fase finale. E se le cose andranno per il verso giusto, come credo, si sentirà braccato. D’altra parte lui sa che colpendo te potrebbe rallentare l’indagine, così magari non sta nemmeno a pensarci su due volte. E il tuo indirizzo non è un mistero per nessuno.” “Okay, dottor Vitale, quando sarò in casa starò attenta. E terrò sempre la Beretta carica a portata di mano. Può bastare?” “Per il momento sì, ma non escludo di farti proteggere da un paio di agenti.” Tornata in ufficio, Armelie chiamò Oscar. Era un po’ che voleva farlo e non poteva più rimandare. “Eccomi, Armelie. Cosa mi volevi dire?” “Veramente sei tu che mi dovresti dire. Su, siediti e sputa il rospo.” “Il rospo? Che rospo?” “Il rospo di un giovane poliziotto che d’un tratto si fa lontano e indifferente, e in più acido e polemico nei riguardi del suo capo. Che succede? E fammi il favore di sederti.”
Più che sedersi, Oscar si lasciò cadere sulla sedia. “Niente Armelie, veramente non capisco.” “Dacci un taglio, Oscar. Sono un poliziotto, e i reticenti li fiuto lontano un miglio. Avanti.” “No, è che…” “Che, cosa?” “Ma no, è che ti vedo diversa. Strana.” “In che senso, scusa?” “Per la storia… di Barzin. E poi anche le altre voci. Quelle che girano in questura.” “L’ispettore Barzin? Le altre voci? Ma di che cazzo stai parlando, scusa? Non starai mica parlando dei miei fatti personali, spero! E poi cosa c’entrerebbe tutto questo col tuo lavoro?” Oscar si guardò le scarpe. “Sì, è vero, sono fatti tuoi, però io…” Armelie sospirò. “Allora, sovrintendente Lubotigh, chiariamo subito alcune cose. Primo. Un buon poliziotto sta sui fatti, e non sulle voci, giusto? Secondo. Un buon poliziotto deve seguire il gioco di squadra, e non stare da parte a farsi le seghe mentali. Terzo. Un buon poliziotto i suoi fatti personali li lascia fuori dalla questura. Quarto. Il fatto che ci diamo del tu è solo per rendere più fluidi i rapporti di lavoro e non ti dà alcun diritto a immischiarti nelle mie faccende private. Io in questa indagine sono il tuo capo e tu sei il mio braccio destro, chiaro? E al momento mi sembra di essere senza un braccio.” Oscar rialzò la testa. “Hai ragione, Armelie.” “E ricordati che è fondamentale muoversi sempre con la massima professionalità.” “Sicuro. Ma Romani, allora?” Armelie ebbe un sussulto e cercò di controllarsi.
“Romani? E che c’entra Romani, adesso?” “Quando l’abbiamo arrestato, ricordi? non l’hai nemmeno torchiato come avresti potuto. Sembrava già tanto che l’avessi interrogato.” Armelie tirò un sospiro di sollievo, poi andò giù decisa. “Senti, Oscar. Avevo da poco scoperto che una ragazza era morta per colpa mia. E quel giorno poi ero appena tornata dal Camerun, dove avevo avuto una forte delusione professionale. Ero stanca. Ma tu dov’eri, scusa? Non eri forse lì con me? E non certo per prendere appunti! Partecipavi all’interrogatorio, o mi sbaglio? Allora, perché non sei intervenuto tu a fare quelle domande che secondo te non avrei fatto io?” Oscar fissò lo sguardo sulla scrivania. “Hai ragione Armelie, avrei potuto farlo. Solo che…” “Senti Oscar, parliamoci chiaro. Tu sei un giovane poliziotto, hai davanti a te le prospettive di una bella carriera. Mi pare che ti abbiano affidato un incarico di grande fiducia e responsabilità. Godi già di un trattamento superiore a quello di tutti gli altri tuoi colleghi sovrintendenti. Sta a te adesso darci dentro e afferrare questa opportunità o continuare a farti le seghe e invecchiare pattugliando le strade di Pordenone o di qualche altro posto. Capito? E da adesso avanti tutta, vai!” Oscar scattò in piedi. “Messaggio ricevuto, capo!” Fece il saluto militare, e uscì. Per la prima volta da quando lavorava con lei, Oscar aveva visto in Armelie non più l’oggetto del desiderio, ma il capo da cui si era preso una bella riata. Si sentì uno stupido. E ne venne fuori.
Quella stessa sera, Franco ebbe un violentissimo mal di testa. Forse la tensione della notte prima fuori della casa di Armelie, più la email a Vitale. O semplicemente una crisi del suo male. La pressa stringeva, e stringeva, e invece gli avevano spiegato che era esattamente l’opposto, cioè era quella massa che cresceva e finiva per comprimere il cervello contro le ossa del cranio. All’improvviso un ago sottile gli penetrò proprio lì in mezzo alla testa. E svenne, per la seconda volta.
Si riebbe a notte fonda, rannicchiato sul pavimento davanti alla poltrona. Ricordò la fitta e fu preso dal terrore. Il terrore di un ictus. Il fantasma che lo aveva accompagnato per tutti quei mesi. La fine dell’impresa, niente vendetta finale. Si sentì soffocare. Si alzò e barcollando andò in cucina, dove prese un bicchiere d’acqua e un Valium. Forse era meglio lasciar perdere Milano e procedere subito all’esecuzione del Cadonato. Prima che fosse troppo tardi. Si trascinò a letto dove crollò vestito. Quando il sabato mattina si svegliò, era come se quella crisi notturna non ci fosse mai stata. Si sentiva ottimista, di buonumore. Così, un po’ perché adesso era convinto che tutto sarebbe andato bene, un po’ perché era sempre stato un tipo ordinato, e le cose gli piaceva portarle a termine nell’ordine stabilito, ritornò sulla sua decisione. Anche perché, a Milano, ci voleva andare. Infatti, che senso avrebbe avuto colpire a Pordenone, a Roma, a Vicenza, se poi non colpiva a Milano, la capitale della finanza? E adesso che sapevano come si muoveva, magari erano pure lì che lo aspettavano. Milano era la grande sfida. O forse dopo tutto quel tempo ormai non lo aspettavano più? Alla fine concluse che se non avesse più avuto altri attacchi l’indomani pomeriggio sarebbe partito a quella volta, come da programma. E così fu.
Con l’inizio della settimanaArmelie e Oscar fecero ripartire l’indagine presso le banche e le finanziarie di Pordenone. Sardenghi fece lo stesso su Vicenza. Venne anche data la massima urgenza, ma era comunque un lavoro più lungo delle altre volte. Ci furono dei prevedibili mugugni, ma tutti si misero sotto. In fondo si trattava della loro pelle.
XXXI
“Cappuccino e brioche naturale,” disse al cameriere, che era venuto a sgomberare il suo tavolo e a prendere l’ordinazione. Erano le otto e un quarto di mercoledì 11 febbraio, e dalla vetrata Franco poteva vedere il frenetico andirivieni della Centrale. E sopra di quella, il cielo tutto grigio. Gli era sempre piaciuto quel grigio milanese, fin dai tempi della gioventù, ci aveva ato la bellezza di cinque anni a Milano, all’epoca della JWT. E che anni! Era stato allora che aveva messo le basi professionali della sua carriera di imprenditore della comunicazione. E poi c’era comunque tornato spesso per lavoro. Ma quella mattina forse si preparava una nevicata, e il cielo era di un grigio così triste, che veniva quasi voglia di fargli una carezza. Quello era il terzo giorno di ricognizione. Dei sei promotori che aveva incontrato nei giorni precedenti, già tre presentavano una situazione abitativa favorevole. Nel pomeriggio avrebbe controllato l’abitazione degli altri tre con cui aveva appuntamento quella mattina. Se ce ne fosse stato anche uno solo di buono avrebbe potuto sospendere il sopralluogo. Con quattro nominativi in mano era sicuro che almeno uno avrebbe accettato il falso appuntamento serale con cui pensava di attirarlo fuori casa. E poi la sua notte tahitiana se l’era già fatta con Vanina, e gli sarebbe bastata per un pezzo. Quel mattino era un architetto insoddisfatto della sua banca, che stava cercando una finanziaria.
Alle dieci e trenta, mentre era al telefono con la moglie Sara, Mino intravide nello specchio della porta la sagoma di qualcuno, che bussava discretamente sullo stipite per attirare la sua attenzione. Mino si girò completamente in direzione della porta e vide un tizio che non conosceva. Probabilmente il nuovo cliente che stava aspettando. Con la mano gli fece cenno di attendere un momento e quello subito si ritrasse in corridoio. “No, Sara, ti ho detto che domani sera non posso. Ho il circolo di storia, e
oltretutto c’è pure uno studioso straniero che viene a farci una relazione.” Seguì una breve pausa. “Venire più tardi? Non se ne parla, dovresti sapere che prima di mezzanotte e mezza non riesco mai a tornare a casa. No, i casi sono solo due, o dai Boschetti ci vai da sola, o rimandi a un’altra sera, possibilmente non di giovedì.” Chiuse la telefonata e andò a prendere il nuovo cliente. “Prego, si accomodi, e mi scusi se l’ho fatta aspettare.” Franco si fece avanti e gli porse la mano. Mino lo squadrò, nel loro mestiere era di fondamentale importanza farsi subito un’idea dei nuovi clienti, soprattutto per capirne il reale spessore economico. Il nuovo venuto era un tipo abbastanza alto, di mezza età, ma ancora nel pieno vigore. Una massa argentata e riccioluta gli incorniciava il viso, munito di spessi occhialetti neri e arricchito da un bel pizzo. Indossava pantaloni di velluto a coste color nero, una camicia a quadri neri e marrone e un cardigan di cachemire grigio. Ai piedi, timberland a trazione integrale. Gli dava l’idea di un tipo benestante e creativo. Forse un architetto? Franco era stato fortunato, perché aveva trovato un altro frequentatore di circolo senza neanche cercarlo, e in più dalla sua telefonata con la moglie aveva saputo tutto quello che c’era da sapere. Così avrebbe potuto operare con le solite modalità, e quindi in un orario meno pericoloso. Doveva solo verificare la situazione abitativa. Incrociò le dita e sorrise. Se andava bene sarebbe stato lui, Guglielmo Balignaga, la sua prossima vittima. A quel punto era quasi sicuro di poter rientrare a Pordenone già la sera stessa. Si apprestò diligentemente alla parte che si era preparato e strinse con vigore la mano che Mino gli porgeva. “Melvini, architetto Alessio Melvini. Piacere.” Guglielmo (Mino per gli amici) era il rampollo sfigato del ramo cadetto dei Balignaga, una dinastia di industriali calzaturieri dell’Alto Milanese. L’azienda, che esportava in tutto il mondo, era stata lasciata dal nonno allo zio. Il padre Pietro, scapestrato in gioventù, era stato liquidato con soldi, palazzi e un ruolo dirigenziale in azienda, più alcune quote della società. I Balignaga maschi avevano una specie di marchio di fabbrica, erano tutti alti, magri, forti e pelati, con una faccia lunga e triste da alano. Mino odiava l’azienda e benché fosse stato indirizzato a forza verso gli studi tecnici, coltivò a lungo il sogno di iscriversi poi a Sociologia. Ma al dunque, il padre fu secco: “Scordati di andare con i miei soldi a farti imbottire la testa da quei quattro comunisti del cazzo”. Riuscì a trovare un compromesso su Scienze Politiche, dove si laureò con modesto punteggio. Poi, grazie alle relazioni dello zio, e su pressione della
famiglia, Mino trovò un buon posto nella sede di una grossa banca di Milano. E con scarsissimo entusiasmo cominciò la sua vita di pendolare. Al circolo di storia della sua città, Mino conobbe Sara, una bella ragazza di classe decisamente inferiore, diplomata maestra, che alcuni si erano già fatti nella zona, anche dentro lo stesso circolo. Lei lo ava per libertà di spirito e quanto poi a trovarsi un buon partito, Sara sapeva bene come accalappiare quel cagnolone triste di buona famiglia, che rideva in ritardo per le battute più cretine. Scoprì presto che Mino era anche ben dotato (un’altra caratteristica dei Balignaga) e questo certo non guastava, ma per il resto era una frana. Pazienza, un po’ avrebbe sopperito lei, e un altro bel po’ si sarebbe dovuta accontentare. D’altra parte nella vita ognuno deve aver chiare le proprie priorità. Avevano circa dieci anni di differenza e si sposarono quasi subito, malgrado la feroce resistenza dei Balignaga, che non volevano saperne di avere in casa quella proletaria opportunista, o peggio. E poi, quando si erano sposati Sara era già incinta di Damiano, che sarebbe stato il loro unico figlio. I tre cominciarono così la loro odissea di sopportati all’interno di quella famiglia dell’alta borghesia lombarda. La loro occasione di riscatto veniva regolarmente al momento delle ferie, quando andavano per un mese d’estate alla villa di famiglia sul promontorio sopra Portovenere, una meraviglia con un grande giardino che si affacciava sul Golfo dei Poeti, e un sentiero posteriore che in pochi minuti li portava sul versante delle Cinque Terre. E quando scendevano in paese si sentivano finalmente qualcuno, e avevano un sacco di amici che li invidiavano e li riempivano di attenzioni, e a loro non pareva vero, anche se poi quelle gratificazioni dovevano farsele bastare per tutto l’anno. Perché neanche in banca Mino godeva di grande considerazione, era come un pesce fuor d’acqua. Nei primi anni 2000 Pietro Balignaga, ormai in pensione, vendette un condominio che avevano a Legnano e con il ricavato comprò a Milano, zona Monterosa, gli ultimi due piani di un’elegante palazzina in costruzione. Nell’attico si installarono i genitori, mentre nel piano sottostante, diviso in due appartamenti, trovarono posto le famiglie dei due figli maschi, che lavoravano entrambi in città. Verso la fine del decennio la banca, in occasione di un ennesimo giro di vite sull’organico, aveva fatto fuori anche Mino. Gli avevano dato dei soldi e gli avevano offerto di entrare nella rete di promotori finanziari che si era costituita
da poco. Mino accettò, dove altro poteva andare? Seguirono anni di grande frustrazione e anche di preoccupazione, troppo era il tempo che ancora gli mancava alla pensione. Successe così che un mercoledì di febbraio, una sera che Sara era andata al cinema con un’amica, il vecchio Pietro chiamò su Mino. “Ciao Guglielmo,” per lui sarebbe sempre stato Guglielmo, “siediti e facciamoci un bicchiere di porto.” Mino non si fece pregare e versò due bicchieri di Ramos Pinto. “Allora papà, che succede?” “Abbiamo venduto Portovenere.” “Cosa?” “Abbiamo ricevuto un’offerta che non si poteva rifiutare e abbiamo venduto.” “Così, senza dirci niente.” “Cosa vuoi Guglielmo, certe cose se poi cominci a discuterle tutti insieme, finisce che i tempi si allungano, i compratori si scocciano e l’affare sfuma. D’altra parte senti, i tuoi fratelli ormai non ci vanno più da anni, noi siamo troppo vecchi per salite e discese, la manutenzione costa sempre di più e non potevamo certo tenere immobilizzato un capitale del genere solo per le ferie di voi tre. E poi era un amico, ha detto fai tu il prezzo, capisci, un’occasione così non si ripresenta più.” “Ma papà, Portovenere era la nostra vita, abbiamo più amici lì che a Milano. E poi non è vero che ci stavamo solo per le ferie. Nella bella stagione andavamo lì tutte le volte che potevamo. Se ce lo avessi detto, magari avremmo potuto comprarla noi.” “E con che soldi, scusa? Dai Guglielmo, lascia stare. E fatevene una ragione, ormai è fatta.” Mino scese in casa con una morsa allo stomaco, a parte la perdita di Portovenere era terrorizzato dalle prevedibili reazioni di Sara e del figlio: “Non si tratterebbero così neanche dei domestici!” Non ci voleva pensare. In ogni caso,
in famiglia l’avrebbe detto l’indomani sera. Anzi, siccome aveva il circolo di storia, l’avrebbe detto il giorno successivo, venerdì. Per Mino, domani era sempre un altro giorno. Di quel giorno, però, lui stavolta vide solo pochi minuti. Infatti alle 0.40 di venerdì, mentre ritornava dal circolo, Mino divenne la quarta vittima del finanziere.
Causa la neve che ancora ingombrava i bordi delle strade, quella sera Mino aveva dovuto lasciare l’auto un po’ più lontano del solito, e si era avviato pensoso per il marciapiede imbiancato. Durante il breve tragitto era stato assalito da quel pensiero che l’ossessionava dal giorno precedente. Come avrebbe fatto a dirlo in famiglia? Ormai non poteva più rimandare, l’indomani sarebbe arrivata la resa dei conti. Sospirò, in qualche modo avrebbe fatto. E poi, che andassero tutti a quel paese, era stufo di farsi carico delle frustrazioni dell’intera famiglia. Era assorto, e così non si avvide di quel tizio che uscendo dal buio prese a camminargli dietro. Ma quando quello gli arrivò sotto, lo scricchiolio della neve alle sue spalle riportò bruscamente in sé Mino che, iperreattivo com’era, si girò di scatto. Non ebbe il tempo di aver paura. Forse neanche di capire. Il colpo di .22 lo fece cadere malamente all’indietro, mandandolo a sbattere con violenza la testa contro lo spigolo del muretto vicino al cancello di casa. Finì bocconi sulla neve che si era da poco rappresa e che subito si tinse di rosso. Franco si chinò su di lui e veloce gli infilò nella tasca del giaccone il suo Redde Rationem. Poi si dileguò nella notte. Mino lo trovò dopo mezz’ora un altro inquilino che come lui, quando rincasava tardi, preferiva parcheggiare l’auto in strada.
XXXII
Sulle prime non sembrò neanche un omicidio. Pareva che fosse scivolato sulla neve ghiacciata, andando a rompersi la testa sullo spigolo di quel basso muretto. Così il tizio che lo trovò chiamò il 118, anziché la polizia. Furono gli infermieri che, constatando la morte di Mino e mettendolo supino, videro quel piccolo foro sulla fronte da cui si era rappreso un rivolo di sangue. Subito chiamarono la polizia, che nel giro di pochi minuti arrivò con due volanti. Gli agenti isolarono la scena del crimine, tenendo a distanza i curiosi che avevano cominciato ad affollare il marciapiedi. Quelli della scientifica, arrivati poco dopo, presero subito a scattare le foto e rilevare le tracce. Nel frattempo il dottor Marini del Commissariato Centro si mise a interrogare il testimone che aveva rinvenuto il cadavere. L’aveva trovato verso l’una e dieci, e lo conosceva, il dottor Balignaga, anzi le mogli erano anche buone amiche. Che tragedia! Gente su, di ottima famiglia, industriali. In un primo momento aveva pensato a un incidente, quella maledetta neve da una certa ora in poi diventava una lastra di ghiaccio, e spesso era difficile mantenersi in equilibrio. Il medico legale constatò il decesso per arma da fuoco di piccolo calibro. La morte doveva essere stata istantanea. Il colpo di scena arrivò quando l’agente Ballerini portò il foglio trovato nel giaccone, con il crac Parmalat e la firma Redde Rationem. Una scoperta subito confermata dall’esame dei documenti del morto, da cui risultava che Guglielmo Balignaga era capo-area di una rete di promotori finanziari. Il commissario Marini commentò il fatto con il pm, sopraggiunto nel frattempo, quindi chiamò il suo capo, il dottor Pepe, per informarlo della situazione. “Dottor Pepe, il finanziere si è rifatto vivo e ha assassinato un promotore finanziario, tale Guglielmo Balignaga. C’è anche il solito biglietto con annessi e connessi.”
“Quei Balignaga? Gli industriali? Va bene Loris, adesso finisci i rilievi e segnala il delitto ai media. Fai un comunicato essenziale, senza parlare del finanziere, e domani mattina ci troviamo subito col pm e decidiamo come procedere. Fa in modo che ci siano anche quelli di Pordenone. Questo omicidio farà molto scalpore in città. I Balignaga sono gente in vista, dovremo gestire la faccenda con molta discrezione.” “Va bene, mi muovo subito con Pordenone. Poi avviserò la famiglia che abita proprio qui davanti. Probabilmente saranno già tutti svegli.” In effetti, le sirene dell’ambulanza prima e quelle delle volanti dopo, avevano svegliato tutti i palazzi circostanti, c’erano molte luci accese. Nella palazzina di Mino l’attico era tutta una luminaria. Il vecchio Pietro Balignaga, che di notte dormiva poco, era stato uno dei primi a mettersi alla finestra. Ma anche i due appartamenti sotto avevano le finestre illuminate. Sara e Damiano si rifiutarono di credere alle parole di Marini e vollero scendere in strada per rendersi conto di persona. Lì davanti al corpo di Mino ebbero una violenta reazione, poi cercarono di farsi forza a vicenda. Mino era il loro unico aggancio a quel mondo dorato che da sempre li considerava poco più che due intrusi. Salirono poi nell’attico a dare la notizia ai genitori di Mino. C’erano anche il fratello con la moglie. La madre irruppe in un pianto disperato, e strinse a sé il nipote. Il vecchio Pietro fece una faccia di circostanza, sembrava addolorato, ma restava molto composto. A Sara parve perfino di vedere una luce malvagia negli occhi del suocero, ma forse era solo il frutto della sua vecchia paranoia. In realtà, Pietro stava pensando che Mino come figlio non gli aveva mai dato grandi soddisfazioni. Frequenti imbarazzi piuttosto, per via di quella famiglia che si era messo su. Chissà se aveva detto alla moglie di Portovenere, ma pensava di no, ne avrebbe già sentito le lamentele. Mino non era certo un coraggioso e aveva sicuramente rimandato quella fastidiosa incombenza. Bene, ci avrebbe pensato lui, dopo il funerale.
“Questa volta i media ci massacreranno, Armelie.” “Lo penso anch’io, commissario.”
“Come siamo con il nuovo giro di banche e finanziarie?” “Non è ancora arrivato niente. Ma dovrebbe essere questione di pochi giorni.” “Forse sarà il caso di accelerare. Solo quando avremo quei nomi potremo dirci a buon punto.” “Buon punto? Dottor Vitale, questo significa solo avere un nuovo elenco di clienti, nulla più. Per trasformarli in indizi concreti dovremo procedere con gli interrogatori, e poi usare le loro facce per costruire gli identikit. Vuol dire giorni. E in ogni caso dovremo anche aspettare le segnalazioni dei promotori finanziari di Milano, perché i testimoni di Vicenza hanno un ricordo dei fatti che ormai risale a quattro mesi fa. Potrebbero essere utilizzati giusto come riserva.” “Speriamo che a Milano le cose vadano per il verso giusto. Sono d’accordo con te, quando dici che abbiamo bisogno dei loro identikit per concludere la faccenda.” “Perché, lei pensa che la concluderemo?” “Ne sono arcisicuro, Armelie. Questa volta ci siamo. Con la ridefinizione che hai fatto del movente e l’ulteriore taratura delle perdite finanziarie, non ci può più scappare. Anche perché, in caso contrario, saremmo noi a dover scappare. Piuttosto, c’è una cosa che non mi quadra in tutta questa faccenda.” “E sarebbe?” “Come ha fatto questo tizio, la vittima intendo, a cadere nella trappola? Con tutti gli avvertimenti che avevamo diramato? E su Milano, poi! Avevamo anche preavvisato l’ABI e la FIPROF che proprio Milano sarebbe stata un probabile teatro delle operazioni. Ma dove ha la testa questa gente? Non potevamo mica mettere sotto scorta tutti i consulenti d’Italia!” “Ma commissario, sono ati quattro mesi! E se anche i consulenti all’inizio saranno stati molto diffidenti, poi l’attenzione si sarà certamente allentata. Anche noi a un certo punto avevamo ipotizzato che forse il finanziere aveva terminato le operazioni. Non ricorda?” “Sì, sì, mi ricordo.”
“Piuttosto, commissario, ai milanesi chiediamo anche tutte le solite cose, cioè analisi delle perdite finanziarie, possesso di .22, verifiche degli alibi, eccetera ?” “Sì, per carità, non vorrei pensassero che escludiamo in partenza che il finanziere possa essere di Milano. Fra l’altro Milano-finanziere ci starebbe anche bene, no? Sia chiaro, non voglio correre il rischio che venga fuori una storia come quella di Vicenza. E stiamo alla larga dagli argomenti statistici, ne ho già avuto abbastanza l’altra volta.” Erano le sette e trenta di venerdì 20 febbraio e stavano transitando in autostrada all’altezza di Brescia. Si fermarono per un secondo caffè e poco dopo le nove erano al commissariato di Milano Centro. Come di prammatica, all’inizio furono i milanesi a presentare i fatti della notte. Poi Armelie fece loro il punto dell’inchiesta, dalla delusione dei primi identikit, alla scoperta dei travestimenti, alle due successive tarature delle perdite finanziarie, i cui ultimi sviluppi erano in dirittura d’arrivo. “Se ho ben capito,” fece il dottor Pepe, “voi vorreste usare la tecnica dell’identikit non tanto per scoprire una faccia, quanto per ricostruire una maschera. E per far questo intendete partire dalle foto di alcune facce reali, per poi cercare di rivestirle con il mascheramento di volta in volta ricordato dai testimoni. Alla fine, l’assassino sarà quello la cui faccia meglio si presterà a ricostruire la maschera ricordata dai testimoni. Giusto? Chiaro che prima dovete trovare delle facce di potenziali sospetti da sottoporre al trattamento.” “Questo, infatti, è il senso dell’ultima taratura che abbiamo fatto sulle perdite finanziarie,” disse Armelie. “Ci aspettiamo di trovare tutta una serie di nuove facce. E se lui è lì in mezzo non può sfuggirci.” “Un approccio inedito e interessante,” concluse Pepe. “Per muoverci,” si inserì Marini, “oltre alle facce di possibili indiziati avremo anche bisogno delle segnalazioni dei promotori contattati a Milano dal finanziere.” “Esatto,” fece Vitale, “e speriamo che ne arrivino presto un certo numero.” “Farete una conferenza stampa?” chiese il pm.
“Dopo questa improvvisa ripresa delle esecuzioni,” rispose Vitale, “dovremo sicuramente farla, probabilmente domani stesso in tarda mattinata. E il dottor Marini potrebbe partecipare per il vostro commissariato.” “Perché non la fate qui da noi?” riprese il dottor Fusi. “Perché,” rispose Vitale che si aspettava la domanda del pm, “non so se è il caso di coinvolgervi così direttamente. Dopo gli attacchi orchestrati dal Corriere a fine gennaio non ci aspettiamo niente di buono da questo incontro con i media. Ci spareranno addosso ad alzo zero. E poi Milano è la patria dei media e della finanza, due ambienti dove in questo momento non godiamo di grande popolarità. No, dottor Fusi, le partite difficili è meglio giocarle in casa.” Dopo la riunione, Armelie diede a Marini le istruzioni per le indagini da condurre in loco. Nell’attesa dei risultati, lei avrebbe cominciato intanto a lavorare sugli identikit dei nuovi nomi trovati a Pordenone e Vicenza. Adesso che il finanziere era tornato a colpire, non c’era più tempo da perdere.
Al rientro a Pordenone, verso le quattro del pomeriggio, Armelie venne sequestrata da Oscar. “Dimmi Oscar, che succede?” “Stamattina, appena saputo dell’ultimo delitto, ho fatto un giro telefonico con banche e finanziarie, per vedere a che punto erano.” “E cos’hai trovato?” “Che erano tutte indietro con le verifiche. Allora ho spiegato loro la nuova situazione, dicendo che con la ricomparsa del finanziere non c’era più un minuto da perdere, e ho chiesto loro di chiudere subito la verifica.” “E loro?” “Hanno protestato, naturalmente. Poi hanno cercato di negoziare sui tempi.” “Com’è finita?”
“Gliel’ho messa giù dura, Armelie. Ho anche minacciato un intervento suABI e FIPROF. Lavoreranno il week-end e ci faranno avere i risultati al più tardi entro domenica sera.” “Grande, Oscar! Me l’aveva chiesto anche Vitale, di anticipare. E hai notizie da Vicenza?” “Prima di intervenire mi ero sentito con Sardenghi e avevamo deciso di adottare la stessa linea d’azione. Anche Vicenza avrà i dati domenica sera,” “Ottimo. Diciamo allora che lunedì mattina potremo partire con gli interrogatori. Vieni, portiamo la notizia in riunione ” Gli altri membri della squadra li stavano aspettando nella sala riunioni. In attesa di Armelie, Vitale aveva già informato Biscontin e il dottor Merli sull’esito della loro spedizione di Milano. Ascoltarono le ultime notizie di Armelie e Oscar, poi prese la parola Vitale. “Ho voluto vedervi prima della conferenza stampa per definire insieme la strategia da seguire durante l’incontro. Un incontro difficile e delicato. Ho anche già parlato col questore e domani mi ha assicurato la sua presenza”. Il commissario fece una pausa a effetto, poi continuò. “Con i media ci eravamo lasciati sugli identikit e sulle speranze che quella nuova pista aveva sollevato. Così diremo dei travestimenti e spiegheremo le difficoltà che ne sono derivate. Caduta la possibilità di partire dalla mascheratura per arrivare alla faccia, spiegheremo allora il tentativo di partire dalla faccia per arrivare alla mascheratura. Diremo della prima taratura delle perdite finanziarie, che ci ha fornito nuove facce ma senza risultati. E diremo anche dell’ulteriore taratura, da cui stiamo per ottenere tutta una serie di nuove facce su cui lavorare. E ci fermiamo qui, senza entrare in concetti complessi come quello delle perdite relative. E se i media ci aspetteranno al varco come belve che avvertono l’odore del sangue, ricordiamoci che anche noi adesso siamo armati. Guardiamoli negli occhi, allora, e facciamoglielo capire”.
Sabato 21 febbraio, ore undici e trenta. Nella grande sala al primo piano c’era il pienone delle grandi occasioni. Anche la squadra di Armelie era al gran completo, con Sardenghi a rappresentare Vicenza e Marini per Milano. Mancava
il Robeschi, ma i romani avevano capito che non c’erano opportunità in quel caso che Pordenone si teneva stretto, e in più da loro era morto uno qualsiasi. Vicino a Vitale c’era il dottor Guarnielli, il questore. Terminati i convenevoli, Vitale fece intervenire il commissario Marini per presentare i fatti di Milano. Poi fu il turno di Armelie che fece il punto delle indagini, così come avevano stabilito il giorno precedente. Poi lasciò la parola ai giornalisti. All’inizio ci furono un paio di domande di riscaldamento, per lo più tese ad approfondire la nuova strategia degli identikit. Poi cominciarono le bordate pesanti. “Ispettore,” era la Reuters che parlava, “pensa che questa terza definizione del livello di perdite finanziarie sia anche l’ultima, o ce ne potrebbero essere altre?” Rispose direttamente il commissario. “Ce ne saranno finché lo troveremo.” “Certo che se foste partiti subito più larghi…” Il commissario ignorò la provocazione. “Altre domande?” Fu la volta di Renato Ziller del Messaggero. “Ricordo che Milano era una città che vi aspettavate. Come mai il finanziere ha potuto colpire impunemente?” Armelie rispose al suo vecchio compagno di liceo. “Perché dopo quattro mesi lo stato di allerta che avevamo attivato si è prevedibilmente allentato. Forse gli interessati pensavano che ormai fosse tutto finito. Giusto quello che il finanziere si proponeva con questa lunga sospensione.” Intervenne Il Corriere. “Dalla pista delle perdite finanziarie siete poi ati alla pista degli identikit. Adesso state provando a integrare le due piste. Dobbiamo aspettarci altri cambiamenti sull’indirizzo delle indagini?” Intervenne di nuovo Vitale. “Lei ha detto bene. L’indagine si muove fra le perdite finanziarie e gli identikit. Questo è il suo ambito naturale. Con approcci variabili a seconda degli elementi di cui via via entriamo in possesso. Non capisco il problema. Altri?”. “E del cacciatore, avete notizie?” la domanda era del Tg1.
“No. Al momento il caso è chiuso. Abbiamo finito?” Avevano finito.
La domenica mattina Armelie uscì presto di casa per andare a comprarsi un po’ di quotidiani e vedere che aria tirava sulla sua indagine. L’idea era quella di regalarsi una colazione alla pasticceria Peratoner e lì dare un’occhiata ai vari articoli. Ma i titoli dei giornali le mandarono per traverso la colazione. Vitale non era stato particolarmente tenero in conferenza stampa ed era stato ricambiato di ugual moneta. La polizia raschia il barile, Il finanziere fa ballare Pordenone, Vitale è sicuro: lo prenderemo. Ma quando?, La polizia annaspa. E intanto la gente muore, Cacciatore e finanziere, la musica non cambia. Nel tardo pomeriggio arrivò dalle banche e dalle finanziarie la nuova lista di clienti coinvolti in qualche crac. Di essi, tre a Pordenone e cinque a Vicenza risultarono possessori di una pistola .22. Otto facce nuove. Avrebbero dovuto presentarsi lunedì mattina nelle rispettive questure. Quella sera Armelie andò a cena dai suoi, ma l’incazzatura del mattino, più la nervosa attesa del pomeriggio, le avevano fatto perdere l’umore e l’appetito. Per fortuna l’indomani, con la nuova serie di interrogatori, l’indagine avrebbe ripreso la sua piena operatività. E se le cose andavano come sperava, sarebbe cominciata la caccia all’uomo.
Sesta parte
Esecuzione finale
XXXIII
Quel lunedì mattina davanti allo specchio Alberto si osservò più a lungo. Aveva quarantacinque anni ma non li dimostrava. Il fisico si era un po’ ammorbidito, e c’era qualche filo bianco fra i capelli castani, specie sulle tempie. Un tocco che non alterava più di tanto l’aspetto complessivo, semmai lo rendeva più interessante. Ma a parte la sostanziale tenuta fisica, Alberto non aveva molto altro di cui rallegrarsi. Non lavorava più volentieri come una volta, i figli se lo filavano sempre meno, e i rapporti con la moglie erano logorati da una situazione economica che non decollava, mentre le spese aumentavano continuamente. I soldi, sempre i soldi, il filo conduttore della sua esistenza. L’unica nota leggera della sua vita era il torneo di burraco del mercoledì al Caffè Municipio. Una piccola parentesi settimanale, una cosa tutta sua. Quella settimana al circolo c’era anche la serata conclusiva del master semestrale della Feburit, che vedeva impegnate otto squadre di quattro giocatori. E la sua squadra si giocava la volata finale contro i favoriti di Maniago. Il dottor Alberto Cadonato, malgrado l’età relativamente giovane, lavorava alla Pienne Credit da oltre vent’anni, metà dei quali ati nel settore della consulenza finanziaria. All’inizio era stato felice di quella assegnazione, perché il settore era brillante e gli permetteva di maturare con relativa facilità importanti incentivi. Sembrava che fosse molto portato nei rapporti con la clientela, cui si proponeva con una buona infarinatura economico-finanziaria, oltreché con la sua aria di bravo ragazzo stile Oxford, un look che secondo lui gli avrebbe facilitato la carriera. Per fare strada bisognava poi seguire le indicazioni che arrivavano dall’alta direzione, e lui era sempre il primo. Ma con la crisi del 2008 tutta la consulenza era entrata in difficoltà, e i premi avevano cominciato a diventare qualcosa di molto aleatorio. Aveva anche cercato più volte di cambiare funzione, in particolare aveva provato con i fidi, ma non c’era stato niente da fare. “Lo so che è dura, dottor Cadonato, ma se anche i combattenti come lei abbandonano la nave, qui crolla tutto. Tenga duro, vedrà che fra non molto verranno tempi migliori.” E Alberto teneva duro, ma con due figli adolescenti da accontentare non era uno
scherzo. E poi c’era la moglie Marisa che aveva dovuto accettare il part-time. Per tenerlo buono, venerdì il direttore aveva anche rilanciato: “Abbiamo pensato di allargare le sue funzioni, e farle coordinare tutta l’area della consulenza”. Sai che prospettiva, pensava Alberto, coordinare l’area più in difficoltà della banca. Più rogne e vantaggi zero virgola. Ovviamente ringraziò, ma pensò che ormai fosse proprio giunto il momento di guardarsi intorno, anche fuori Pordenone.
Alle undici e trenta di quella stessa mattina, Armelie aveva già concluso gli interrogatori dei tre clienti emersi dall’ultima indagine sulle perdite finanziarie. Nessuno di loro aveva ricordi sui primi delitti. Per Milano uno dei tre aveva un alibi inconfutabile, mentre con gli altri due le cose erano andate come al solito, ricordavano di essere stati a casa a dormire. Di questi due, il geometra Natel era un tipo ossuto e sofferente, già vicino ai settanta, vedovo, che aveva di fatto lasciato nelle mani del figlio l’agenzia immobiliare di cui era proprietario. Guardandolo, Armelie non riusciva nemmeno a immaginarlo con in pugno la grossa .22 sportiva di cui risultava possessore. L’altro, il dottor Lofusco, la colpì per motivi del tutto opposti. Poco oltre la sessantina, separato, era ancora un bell’uomo, da giovane aveva sicuramente fatto strage di cuori femminili. Tipo dolce e intelligente, suggeriva una grande disponibilità e facilità di relazione. Cioè esattamente il contrario di quello che raccontava, e questo la incuriosì. “Ricorda se nella tarda sera del 19 febbraio ha ricevuto o fatto delle telefonate?” “Mi lasci pensare. No, non mi pare di ricordare telefonate.” “Può darci il suo numero di cellulare per un controllo?” “Non c’è problema. Ma sono sicuro che non troverete niente. In realtà il cellulare lo uso ben poco. In genere nessuno mi chiama e io stesso lo faccio solo in caso di stretta necessità. E ho anche il sospetto che quando qualcuno vede il mio numero sul display nemmeno risponde.” “E come mai questo stato di isolamento?” “È una storia molto lunga.”
Armelie colse negli occhi di Franco un piccolo momento di fissità, come se la sua mente fosse andata lontano, da qualche parte. “Perché non prova a raccontarmela?” “Un’altra volta, ispettore, magari davanti a una bella birra. Per il momento, se possibile, preferirei rispondere a delle domande più specifiche.” Armelie e Oscar si scambiarono un’occhiata. Poi Armelie guardò il foglio che aveva davanti. “Allora, vediamo. Qui si dice che lei ha subito una grave perdita nel 2008 con il crac della Lehman Brothers, giusto?” “Sì, lo ricordo bene, mi trovai con settantamila euro di obbligazioni congelati. Di cui, se mi va bene, forse riuscirò a recuperare qualcosa. E l’assurdo è che mi mancava giusto un mese alla scadenza.” “Si ricorda se da quella perdita, già di per sé consistente, le sono poi derivati dei problemi particolari?” Franco esitò un attimo. Poi pensò che era meglio lo dicesse lui, piuttosto che lo sapessero da Patrizia. “Sì. Non ho potuto onorare l’impegno per l’acquisto della casa di mia figlia e del suo compagno. Ha dovuto provvedere mia moglie, vendendo alcune sue personali proprietà.” “E poi si è separato.” Franco socchiuse gli occhi, e prese a massaggiarsi la tempia con le dita. “Sì, dopo pochi mesi.” “Va bene, dottor Lofusco, può bastare. Oscar, vorresti accompagnare il dottore?” Anche l’altro teste aveva avuto dei problemi dalla perdita finanziaria, ma si era trattato di rinunciare all’acquisto di un nuovo SUV. Ben altra cosa il Lofusco, che si era giocata la moglie, e forse anche l’intera famiglia. Ed era finito solo come un cane. E come se non bastasse, il nome del consulente bancario che l’aveva messo nei guai, il dottor Cadonato, le era suonato familiare fin da subito, domenica, quando aveva ricevuto da Oscar l’elenco dei vari clienti, con a fianco i nomi dei
consulenti che avevano condotto le operazioni incriminate. Oltre ai due sospetti di Pordenone, altri tre clienti senza alibi erano stati trovati negli interrogatori del Sardenghi a Vicenza. Su tutti e cinque Armelie fece fare a Oscar l’indagine per la localizzazione delle celle telefoniche al tempo del delitto di Milano e anche di quelli precedenti. Chiese anche al Sardenghi di trasmetterle per via telematica le foto dei tre di Vicenza. Nel frattempo l’esito dell’autopsia di Milano inviatale dal Marini non aveva offerto alcun nuovo elemento di interesse. Alle quattordici e trenta, nell’ufficio di Vitale, Armelie e Oscar informarono i due superiori sui fatti del mattino. Il pm non aveva potuto venire e il commissario non era di grande umore, probabilmente aveva ato la domenica a leggere e rileggere gli articoli sulla conferenza stampa. “Bene,” fece Vitale, “ci siamo. E auguriamoci che questo giro sia veramente quello conclusivo. Quando avremo il riscontro delle celle telefoniche?” “Nel giro di una settimana,” rispose Oscar. “Prima non riusciamo?” “Se ci limitiamo a far controllare solo Milano, potremmo anticipare qualcosa. Diciamo giovedì, forse mercoledì pomeriggio.” “Allora chiediamo solo Milano. E d’ora in avanti noi quattro costituiremo una sorta di gabinetto permanente di crisi. Precedenza assoluta. Questo ufficio diventerà la nostra base, e tutte le note che via via dovessimo scrivere sulla lavagna non saranno più cancellate fino alla soluzione del caso. E adesso partite.” “Commissario,” intervenne Armelie, “sono alcuni giorni che mi ronza nell’orecchio il nome del consulente bancario che ha rovinato il Lofusco. Si chiama Cadonato, e non mi ricordo dove l’ho già sentito. A lei dice niente?” “Cadonato? Fammi pensare. A dire il vero, anche a me sembra di averlo già sentito, ma non riesco a mettere a fuoco niente di preciso. E a te, Mario, dice niente?”
“È la prima volta che lo sento,” rispose Biscontin.
Subito dopo l’incontro in questura a Franco era cominciato un forte mal di testa, che era andato crescendo per tutto il pomeriggio. Era lo stress dell’interrogatorio, e anche la netta sensazione che ormai gli stessero addosso. Aveva letto anche lui sui giornali quella storia degli identikit a rovescio. Non sapeva se avrebbero funzionato, gli dava un po’ l’idea di un esperimento disperato. Ma non si poteva mai sapere. In ogni caso adesso avevano in mano la sua foto, più un valido movente. Dopo cena, in un accesso di male, sentì di nuovo quell’ago sottile traargli il cranio, com’era successo alla vigilia del sopralluogo di Milano. Solo che stavolta non perse i sensi come allora. Però venne assalito dal solito terrore, il terrore di non fare in tempo a terminare la sua impresa. Cominciò a sudare, mentre il cuore gli andava per conto suo. Era stato un imbecille a perdere tempo con Milano, anziché sistemare subito la faccenda di Cadonato. In effetti il periodo che gli avevano pronosticato era già scaduto da qualche giorno. “Può arrivare a un anno,” gli avevano detto. E lui stava giocando con la morte. Nel piano che si era fatto, aveva previsto di uccidere il Cadonato la settimana successiva, la prima di marzo. Invece avrebbe anticipato. Che stesse meglio oppure no, la faccenda andava chiusa subito, quello stesso mercoledì.
XXXIV
Martedì 24 febbraio. Ore 07.00 Quella notte Franco aveva dormito male, con incubi, si era svegliato un sacco di volte. E adesso aveva già mal di testa, brutto segno. In genere la notte gli portava sollievo e nel primo mattino le cose andavano un po’ meglio, salvo poi cambiare nel corso della giornata. Ma oggi era diverso, era come se il male si fosse impossessato di lui e non volesse più lasciarlo. Fece con grande fatica quello che doveva fare, il caffè, lavarsi, tentare una colazione. Poi andò alla scrivania a prendere il dossier di Cadonato. La prima cosa che doveva fare quel mattino era un sopralluogo all’abitazione di quel bastardo. Ricordava che abitava in via Damiani, pieno centro. Un fatto positivo, perché così al caffè Municipio ci sarebbe andato a piedi, come gli aveva riferito il Rampin, e questo facilitava la sua operazione. Ma doveva tirarsi giù il numero civico, che gli serviva per definire con precisione dove nascondersi e dove colpire.
Ore 9.30 Il sopralluogo fu per Franco una vera sofferenza. Aveva dovuto rifugiarsi in un piccolo anfratto di quella via trafficata per comprimersi con le mani il cervello che pareva dovesse schizzargli fuori dalla testa. Ma la verifica andò bene, trovò tutto quello che cercava. Inoltre studiò il posto migliore dove parcheggiare l’auto, in modo da potersi poi dileguare nel più breve tempo possibile. Salutò anche una persona che conosceva e che fece finta di non vederlo. Ore 11.30 Armelie, Oscar e Danilo erano tutti nell’ufficio di Armelie, chini sul PC di Danilo, a vedere le cinque facce che avrebbero fatto da base per gli identikit. Il disegnatore aveva fatto un eccellente lavoro, non restava che aspettare le segnalazioni da Milano. Che non arrivavano. Ore 14.15
Nell’ufficio di Vitale Oscar fece vedere al commissario e a Biscontin le facce elaborate da Danilo. “Ora,” disse Armelie, “dobbiamo solo aspettare che ci arrivi qualche segnalazione da Milano.” “Come mai non è ancora arrivato niente?” chiese Vitale. “Non ho idea,” gli rispose Armelie. “E sì che i promotori contattati dal killer nella sua ricognizione preliminare già venerdì avevano saputo che un altro di loro era stato ucciso.” “Questo è davvero molto strano,” fece Biscontin. “Armelie,” disse il commissario, “mettiti in contatto oggi stesso con la direzione della FIPROF e chiedi loro di sollecitare con urgenza le segnalazioni degli interessati.” “Okay commissario, mi muovo subito.” Ore 16.00 Franco approfittò di una breve tregua del suo male per preparare tutto quello che serviva per l’esecuzione dell’indomani. Era meglio prendersi avanti. Aprì il resoconto del crac della Lehman Brothers, lo completò con la firma Redde Rationem e lo stampò.Poi caricò la pistola, tagliò due pezzi di pelle scamosciata e con questi costruì un piccolo cappuccio che strinse con tre potenti elastici intorno alla bocca dell’arma. Alla fine mise tutto sul bancone vicino all’ingresso. Ore 17.10 Dopo vari tentativi, Armelie riuscì finalmente a parlare con il direttore generale della FIPROF con il quale Vitale aveva avuto più di un contatto nel corso dell’inchiesta. Lei non ci aveva mai parlato, ma lo trovò gentile e disponibile. E anche preoccupato dalla piega che stava prendendo la faccenda, sembrava che adesso fossero proprio i suoi associati a essere finiti nel mirino. Così non fu difficile ottenere da lui un immediato intervento per sollecitare le segnalazioni di cui avevano bisogno. Avrebbe fatto subito una email.
Ore 21.45 Franco andò allo stereo, lo accese e schiacciò il tasto Repeat. In pochi secondi le note di Itaca invasero la stanza. Poi andò nella sua cuccia portandosi alcuni vecchi album di fotografie. “Mi sono presa anche qualche fotografia,” gli aveva detto Patrizia il giorno che era tornata a prendere le sue cose. In realtà della loro storia si era portata via quasi tutto, a lui aveva lasciato poche foto, le più brutte. A parte due scatti del matrimonio lei non c’era mai, ah no, eccone qui uno in cui gli faceva gli sberleffi, forse un ultimo messaggio. C’erano però tutte le foto della sua famiglia, la madre, il padre in divisa, lui da piccolo, la laurea. E c’erano tutte le foto dell’agenzia, del cabinato e della Harley-Davidson. Poche anche le foto dei figli, comunione, cresima, le poche in cui erano con lui - in genere era lui che faceva le foto - poi Elisa sulla Harley e Marco al timone del Comar. Era lì che gli era nata quella ione che poi lo aveva portato per mare. E ancora, Marco in divisa di cadetto di Marina ed Elisa il giorno della laurea. Era poca roba, ma sempre abbastanza da fargli venir voglia di piangere. E pianse. Poi si addormentò al ritmo ossessivo del tamburo.
Mercoledì 25 febbraio. Ore 6.40 Franco si svegliò in poltrona, il male sembrava ato, si stirò, rimase lì un po’ ad ascoltare la voce di Dalla, gli ritornò la voglia di piangere. Poi ebbe uno scatto. “Basta con i piagnistei! Oggi è il grande giorno, il giorno della vendetta. Oggi finirà la mia crociata. E una volta tanto potrò dire di aver fatto qualcosa anche per gli altri.”. Si alzò dalla poltrona e andò in cucina a mettere su il caffè. Strano. Al tamburo di Itaca faceva eco come un secondo tamburo. Nella testa. Come una pulsazione interna che si muovesse allo stesso ritmo dello stereo. O era la sua immaginazione? Tornando dalla cucina, Franco si fermò in entrata dove sul bancone c’era il foglio con il crac Lehman Brothers. Si mise a leggerlo di nuovo. Osservò che quella era la prima volta da quando aveva cominciato la sua impresa che lui, la vittima e il crac erano realmente collegati. Sorrise. La fitta che a tradimento gli attraversò il cervello, facendogli piegare le ginocchia, più che da un ago sottile sembrava provocata da un grosso punteruolo, e si diramò in
tutte le direzioni. Si aggrappò al bancone. Poi si fece buio, e il tamburo si fermò. Ore 10.50 Il telefono della scrivania prese a suonare. Armelie che era fuori della porta a parlare con Oscar corse dentro e prese la comunicazione. “Pronto, ispettore Bernardi.” “Ciao Armelie, sono Loris Marini.” “Ciao commissario, hai qualche buona novità?” “Una buona e due cattive.” “Sempre meglio di tre cattive. Vai.” “Quella buona è che finalmente ci sono arrivate delle segnalazioni. Quella cattiva è che sono solo due.” “Fin qui sono sopravvissuta. E l’altra?” “È quello che mi hanno detto entrambi i promotori, quando gli ho chiesto perché non si fossero fatti vivi prima.” “E sarebbe?” “Hanno detto che loro non si sarebbero mai fatti vivi, se non avessero ricevuto ieri sera una perentoria disposizione dalla direzione generale della FIPROF.” “Motivo?” “Perché il tizio che poi hanno segnalato in realtà non aveva avuto alcun comportamento sospetto. Il colloquio si era mantenuto su un piano strettamente professionale. Argomenti privati non erano neanche stati sfiorati. Poi, niente cicatrice. E non era di fuori, ma uno di Milano.” “E allora perché lo hanno segnalato?” “Diciamo per uno scrupolo, un eccesso di zelo. Perché era un tipo distinto, di mezza età e aveva barba, occhiali e folta capigliatura. Insomma, avrebbe anche potuto essere abilmente camuffato.”
“Ha cambiato sistema, il maledetto! E così ora le segnalazioni diventano molto più aleatorie.” “Non so cosa dirti, Armelie. Questo è quello che abbiamo. Tieni però presente che in entrambi i casi l’incontro è avvenuto nella settimana precedente al delitto. Una coincidenza interessante, no?” “Ho capito. Meglio di niente. Fammi parlare con i miei e poi ti faccio sapere come intendiamo muoverci.” “Aspetto una tua chiamata.” Ore 11.30 Il gabinetto di crisi prese atto della situazione. “Non ci resta che sperare,” fece Armelie, “che il tizio segnalato sia comunque lui, solo con un tipo di approccio diverso da quello tenuto nei contatti precedenti. Dopotutto i giornali li avrà letti anche lui e senz’altro avrà preso le sue contromisure. Anche l’assenza della cicatrice potrebbe far supporre un preciso ripensamento, quel particolare era diventato pericoloso.” “Con le celle telefoniche, come siamo?” chiese Vitale. “Per ora niente,” rispose Oscar. “Al più presto potremo avere qualcosa in serata.” “Anche le ore sono preziose, procediamo!” disse il commissario.“Vuol dire che controllerete tutte e cinque le facce. Se poi nel frattempo arriveranno le informazioni sulle celle, potremo sempre farvi una telefonata che vi permetta di escludere qualcuno.” “Vista la situazione,” concluse Armelie,” ci toccherà fare un controllo anche con i promotori di Vicenza. A Milano potrebbe anche non uscire niente. Metterò in pre-allarme il Sardenghi.” Ore 12.10 Armelie chiamò Vicenza e disse al Sardenghi di avvisare i suoi testimoni che in serata avrebbero potuto essere contattati per la verifica di un identikit. Poi
chiamò Milano. “Ciao Loris. Allora, noi partiamo adesso e nel primo pomeriggio siamo da voi. Viene anche il nostro disegnatore con tutte le facce da controllare.” “Ma Armelie, qui a Milano abbiamo fior di disegnatori!” “Sì Loris, lo immagino. Ma quello che faremo è una specie di esperimento che è stato ideato proprio dal nostro disegnatore. Lui lo conosce meglio di chiunque altro anche perché lo ha già provato. E questo ci farà risparmiare tempo prezioso.” “Okay, Armelie, vedi tu. Ti dispiace se faccio venire un nostro disegnatore, giusto per seguire l’operazione?” “Non c’è problema.” Ore 12.30 Armelie, Oscar e Danilo partirono in velocità alla volta di Milano. Alla guida l’agente Mattiussi. Ad Armelie sembrava di essere in un film d’azione, Oscar aveva un’aria decisa e concen-trata e Danilo si teneva in grembo il suo PC come fosse una creatura da proteggere. Il Mattiussi guidava con sicurezza, come se non avesse fatto altro in vita sua, e appena vedeva dei tratti a traffico lento innestava subito la sirena. Durante il viaggio fecero una breve sosta all’autogrill di Verona, poi Oscar diede il cambio a Mattiussi, volando nel traffico lento con pari sicurezza. Armelie non l’avrebbe confessato neanche sotto tortura, ma più di una volta chiuse gli occhi per non vedere. Per distogliere lo sguardo dalla strada, aprì la cartella che aveva in grembo e si mise a guardare le carte che riportavano gli ultimi sviluppi dell’indagine. L’ultimo foglio era quello che conteneva i nomi degli otto clienti di Pordenone e Vicenza che erano stati interrogati lunedì. I cinque sospetti, cioè quelli senza alibi e di cui Danilo custodiva gelosamente le facce, erano tutti evidenziati in giallo. Alla destra di ciascuno c’era il nome del consulente che gli aveva tirato il bidone. Lofusco-Cadonato. Di nuovo quella strana sensazione. Armelie chiuse gli occhi e abbandonò la testa all’indietro. Dopo un po’ ebbe un sorriso di trionfo, si rimise dritta e chiamò il commissario. “Dottor Vitale, si ricorda di Cadonato, quel consulente bancario di cui le avevo
parlato l’altro giorno?” “Sì, mi ricordo che me ne avevi parlato, ma non mi è più venuto in mente niente. Perché, ti sei ricordata?” “Il caso dell’investigatore, si ricorda? Fra i suoi dossier c’era anche un pedinamento che riguardava proprio questo Cadonato. Lei aveva ipotizzato che magari era stato proprio il finanziere a commissionare il lavoro. Ma io l’ho convinta a lasciar cadere l’ipotesi, anche perché non sembrava molto credibile come modus operandi dell’assassino.” “Sì, adesso ricordo! Il caso Rampin! Un caso che è ancora insoluto. Brava Armelie! Ma se è così… sarebbe Lofusco il nostro uomo, e il Cadonato una prossima vittima. Se non addirittura la prossima. E Lofusco a quel tempo si sarebbe affidato a un investigatore, perché se l’avesse pedinato lui magari il Cadonato avrebbe potuto riconoscerlo. Poi, una volta ottenuta l’informazione che cercava, avrebbe ucciso il Rampin per liberarsi di un pericoloso testimone. Tutto quadra. Cosa facciamo?” “Si metta in contatto con il Cadonato, commissario, gli spieghi che sta correndo un grave pericolo e lo dissuada dal fare uscite serali nei prossimi giorni.” “Provvedo subito.” Ore 14.30 Vitale chiamò in ufficio il Cadonato, poi informò Biscontin e insieme andarono alla sede della Pienne Credit a parlare con il consulente. “Stasera non può mancare al torneo di burraco? Ma non se ne parla nemmeno!” Vitale era paonazzo. “Ma si rende conto di quello che rischia? Questo è uno che non scherza, e visto che probabilmente si sente braccato, starà accelerando tutti i suoi programmi. E lei c’è, nei suoi programmi.” “Commissario, a parte il fatto che il killer sembra ora concentrato sui promotori finanziari, le ho spiegato che questa sera ho il torneo conclusivo di una competizione durata sei mesi e se io mi ritiro obbligo tutta la mia squadra a ritirarsi. Creerei un inutile danno a gente che non c’entra niente, e in più si dovrebbero rifare tutti i tavoli. Un casino. Già immagino il cazziatone della
presidente…” “Credo che cento cazziatoni sarebbero comunque meglio di un colpo di .22 in testa, o sbaglio?” fece Biscontin. “Perché non mi date una scorta?” disse il Cadonato. “Un par di balle!” sbottò Vitale. “Adesso mettiamo a disposizione una scorta anche per far giocare la gente a carte!” “Potremmo sempre provare a parlare con la moglie,” fece Biscontin rientrando. “Magari lei riesce a convincerlo.” “Figurati. Con uno così non servirebbe a niente.” “E allora?” “Anzitutto aspettiamo le notizie da Milano. Poi al limite, se scopriamo che è proprio Lofusco il nostro uomo, stasera manderò un paio di agenti al circolo per guardare le spalle a questo coglione.” Ore 15.50 Nella saletta del Commissariato Centro, Danilo e il primo testimone erano già davanti al computer. In piedi dietro di loro Armelie, Oscar, Marini e il suo disegnatore. “Comincia dal Lofusco,” disse Armelie. “Sai mai che siamo fortunati.” Furono fortunati. Dopo poco più di mezz’ora di tentativi, il testimone fece esultare tutti i presenti. “Non ho dubbi, è lui, l’architetto Melvini!” disse consultando l’agenda. Il secondo promotore si ricordava un tizio completamente diverso, ma il risultato finale fu un altro riconoscimento senza incertezze. “È l’ingegner Banfioli, me lo ricordo come se lo avessi davanti.” I tre poliziotti ringraziarono il teste, e Marini, poi volarono giù per le scale fino al parcheggio. Uscirono dalla città a sirene spiegate. Ore 17.00
Appena in auto Armelie chiamò il commissario. “Ce l’abbiamo dottor Vitale, è lui, Franco Lofusco.” “Ottimo ragazzi, adesso lo andiamo a prendere.” “Comunque io una conferma da Vicenza la prenderei. Dirò al Sardenghi di incontrarci in autostrada, così gli lascerò Feltrin per fare un identikit anche con qualche loro testimone.” “Mi sembra una buona idea. Noi comunque ci facciamo dare un mandato dal dottor Merli e procediamo all’arresto.” “Sì commissario, ma…” “Vorresti esserci anche tu.” Il silenzio di Armelie confermò la sensazione di Vitale, che continuò. “Va bene, facciamo così. Noi andiamo lì e presidiamo la situazione. Se esce lo becchiamo. Se non esce ti aspettiamo per l’irruzione.” “Grazie, commissario. Conto di essere lì verso le otto.” Poi, per non guardare, finse di dormire. E a occhi chiusi si mise a rivivere le varie fasi attraverso cui era ata quell’estenuante indagine. Pordenone, Roma, Vicenza, Milano. Più Rampin. Ce l’abbiamo fatta, Romani! Si sentiva leggera ed era la prima volta da molto tempo. Troppo tempo. Ore 17.30 Nell’ufficio del dottor Merli, Vitale mise al corrente il pm degli ultimi sviluppi dell’inchiesta. Alla fine gli chiese il mandato per andare a prendere il Lofusco e perquisire la sua abitazione. “Ma siete sicuri che con gli attuali indizi…” Vitale non gli lasciò finire la frase. Lo guardò male. “Più che sicuri. Dai Merli, firma questo cazzo di mandato.” E il pm firmò. Ore 18.00
Rientrato in questura, Vitale chiamò gli agenti Franzina e Ballorin e li mandò a presidiare l’appartamento di Lofusco, con l’ordine di arrestarlo, se appena avesse messo il naso fuori della porta di casa. Nel frattempo lui e Biscontin sarebbero stati nel parcheggio sotto il Principe, in attesa dell’evolversi della situazione. Mise anche altri due agenti alle costole del Cadonato. Dovevano seguirlo con discrezione da quando fosse uscito di casa, fino a quando fosse rientrato dal circolo. Ore 18.20 Le due auto della polizia, quella di ordinanza con i due agenti e quella di Vitale, arrivarono quasi contemporaneamente al parcheggio del Principe, sotto gli sguardi stupiti degli avventori del bar e di alcuni anti. In breve si creò una piccola folla che Biscontin fece subito sciogliere. Intanto i due agenti, indossati i giubbetti anti-proiettile entrarono nel palazzo. Dopo pochi minuti il commissario ricevette sul walkie-talkie una comunicazione di Franzina. “Il nostro amico è in casa. C’è la luce accesa e la chiave non è nella toppa. Si sente della musica. Abbiamo anche incrociato degli inquilini che si sono lamentati del rumore continuo. Più volte hanno suonato per protestare, ma non ha mai risposto nessuno. Stavano giusto pensando di chiamarci.” “Bene Franzina. Adesso rimanete in attesa. Se esce sapete cosa fare.” Ore 18.40 Al casello di Vicenza Ovest Danilo venne prelevato da una volante, e trasferito a sirene spiegate in questura, dove lo aspettavano con i testimoni. Ore 19.45 Un po’ prima del casello di Portoguaro, Armelie prese una chiamata sul cellulare. Era Danilo da Vicenza. “Dimmi Danilo.” “Ne ho un altro, Armelie. Il primo che ho verificato l’ha riconosciuto subito. Devo continuare con gli altri?” “No Danilo, non serve, basta così. Bravo! Puoi rientrare.”
Ore 20.10 Oscar parcheggiò la pantera sotto il Principe e Armelie entrò subito in contatto con Vitale e Biscontin. “È ancora lì?” chiese Armelie al commissario. “Non si è mosso. A Milano, allora, tutto bene?” “Benissimo, e anche a Vicenza. Direi che possiamo andare.” I quattro poliziotti indossarono i giubbetti anti-proiettile, quindi Vitale preavvisò gli agenti nel palazzo dell’imminente irruzione. “Se non apre, abbiamo gli attrezzi per forzare la porta?” “Sì, Franzina ha portato qualcosa.”
Sul pianerottolo davanti alla porta, Franzina con la Beretta in mano suonò il camlo. Dietro di lui Oscar e Armelie con le pistole in pugno. A seguire tutti gli altri. Nessuna risposta. Franzina bussò con forza alla porta. “Dottor Lofusco, apra. Polizia!” Dall’interno veniva la percussione di un tamburo. Franzina guardò Armelie e il commissario, che gli fece cenno di procedere. L’agente prese dalla tasca uno strano attrezzo e in un attimo la porta fu aperta, non era nemmeno chiusa a chiave. Franzina e Oscar entrarono con le armi spianate. Dietro di loro Armelie cercava di sbirciare all’interno. Subito i due poliziotti abbassarono le pistole. Poi Oscar voltandosi verso Armelie e gli altri disse: “È qui”. Un attimo dopo erano tutti dentro. Franco Lofusco era per terra, accovacciato contro il basso muretto dell’ingresso. Indossava una tuta da casa e aveva un rivolo di bava all’angolo della bocca. Per ore e ore Franco era stato braccato dalla polizia e dal suo male. Una specie di
macabra gara. E alla fine era arrivato prima il cancro. Armelie si accucciò vicino a lui e gli pose i polpastrelli sul collo a cercare il battito. “È vivo!” Mentre Biscontin chiamava l’ambulanza e Franzina fermava lo stereo, Armelie indicò a Vitale sul ripiano del muretto la Beretta .76 incappucciata e il foglio con il crac Lehman Brothers. “Era già pronto per colpire.” “Già,” fece Vitale. Poi chiamò gli agenti che aveva mandato di scorta a Cadonato e li liberò. Dopo che gli infermieri ebbero portato via il Lofusco, i poliziotti presero il foglio e la pistola, sigillarono la porta e rientrarono tutti in questura. Vitale disse ad Armelie di andare a casa e di rinviare il rapporto al giorno dopo. Intanto avrebbe pensato lui al comunicato per le agenzie. Ma lei insistette per restare e fare tutto di persona. Ore 23.30 Fatto il comunicato e anche il rapporto, Armelie chiamò l’ospedale per avere notizie di Lofusco. “Abbiamo trovato un grosso tumore al cervello, che è la probabile causa dell’ictus devastante che ha avuto. Doveva essere lì già da parecchie ore. Adesso è in coma irreversibile, per lui non c’è più niente da fare.” Ore 23.50 Prima di rincasare Armelie ò dal Perla e si fece incartare da Filippo una bottiglia di Pampero. Una volta a casa si rifece del tempo perduto, si sbracò sul divano e si ubriacò. Almeno quel disgraziato ha finito di stare solo come un cane, fu il suo ultimo pensiero. Poi perse conoscenza, sprofondata fra quei cuscini glicine e lavanda
che non aveva mai trovato il tempo di cambiare.
Settima parte
Conclusione
XXXV
L’indomani mattina, anziché andare in questura, Armelie si recò direttamente all’appartamento del Lofusco, dove la sera prima si era data appuntamento con Oscar e Franzina. Dovevano fare una perquisizione accurata e cercare tutte le prove che ci fossero state. Fu una pesca eccezionale, il Lofusco non si era minimamente curato di nascondere le tracce. Il bagno di servizio sembrava un camerino di Broadway, dal grande specchio orizzontale con lampadine sui lati, al completo kit per il mascheramento sparso un po’ dappertutto. Sulla scrivania trovarono una cartellina con le copie dei fogli relativi ai vari crac, più un bloc-notes con il piano dettagliato dell’impresa, le tipologie dei travestimenti e perfino il resoconto dei vari sopralluoghi. Ma la vera chicca fu il dossier di Cadonato, ancora dentro la cartella sospesa con la quale era stato prelevato dallo schedario del Rampin. La prova provata dell’omicidio, perché mai il Rampin glielo avrebbe consegnato così, quel dossier. Era evidente che se lo era preso lui. Quando verso le dieci rientrarono in questura, trovarono Danilo che davanti al distributore del caffè era circondato da un gruppo di colleghi che gli chiedevano e si complimentavano. Ma, ubi maior minor cessat, quando videro are Armelie tutti si girarono verso di lei e dimenticando il povero Danilo presero a congratularsi, e a chiedere e a dare pacche sulle spalle. Ci fu anche un piccolo applauso. Lei per un po’ stette al gioco, poi con la scusa che l’aspettava il commissario fuggì via restituendo a Danilo la sua scena. Vitale era con Biscontin e il dottor Merli. Armelie li informò di aver già effettuato la perquisizione del Lofusco e di aver trovato molte altre prove, compresa quella dell’omicidio Rampin. “Perfetto,” disse Vitale. “Ma per quest’ultima riunione proporrei di spostarci tutti in sala grande. Fai venire Oscar e Danilo, e chiama anche l’ispettore Bastinelli
che segue il caso Rampin.” Più tardi, alla fine del resoconto dettagliato della perquisizione, il commissario a nome di tutti fece le congratulazioni ad Armelie per la brillante soluzione di quel difficile caso e Armelie si prese il secondo applauso nel giro di pochi minuti. Poi Vitale entrò nel merito dell’incontro con la stampa. “Alla conferenza stampa, che è già fissata per domani mattina, potremo finalmente rifarci. E con gli interessi, visto che abbiamo risolto al volo anche il caso Rampin.” “Sì, però non dimentichiamoci,” precisò Armelie, “che è stato Bastinelli, con la sua indagine sui moventi professionali, a metterci sulla pista del Cadonato.” “Più che giusto,” fece Vitale guardando il giovane ispettore, il cui evidente imbarazzo per i complimenti non meritati fu preso per timidezza. Poi tornò ad Armelie. “Mi stavo quasi dimenticando, Armelie, che poco fa mi ha chiamato il responsabile dell’Anticrimine di Milano per un aggiornamento da fare ai loro disegnatori. Sono rimasti colpiti dalla tecnica dell’identikit rovesciato.” “Ma io cosa c’entro, scusi? È Danilo che dovrebbe fare questo intervento.” “Anzitutto è importante inquadrare la tecnica all’interno di un caso. E poi mi hanno chiesto espressamente di te.” “Comunque dovrei portarmi Danilo, in un intervento di questo genere ci sono specifici aspetti tecnici che solo lui potrebbe affrontare.” Vitale stava per dire qualcosa, ma Armelie tagliò corto. “Ne parlerò domani con Marini, che sarà senz’altro presente alla conferenza stampa.” Armelie ò il pomeriggio aggiornando il rapporto sul caso e preparando l’intervento per la conferenza stampa. Prima di andare a casa, ò dall’ospedale. Davanti alla camera di Lofusco salutò Suset che era di piantone, e appena entrata vide una donna matura, ancora molto bella, seduta su una sedia vicino al letto. In piedi vicino a lei una giovane donna le teneva una mano sulla spalla. La moglie e la figlia. Si sentì un’intrusa, girò sui tacchi, e uscì a testa bassa urtando l’agente.
Come aveva detto Vitale, alla conferenza si rifecero con gli interessi. Armelie stupì i giornalisti raccontando la caccia all’uomo, il successo degli identikit, l’agonia del finanziere, e la soluzione del caso Rampin, che diventava un corollario del caso principale. Poi lasciò spazio alle domande. Il primo fu Renato Ziller del Messaggero Veneto. “Considerando la data dell’omicidio Rampin, è evidente che il finanziere aveva fin dall’inizio tutte le informazioni per potersi vendicare del Cadonato. Perché ha aspettato tanto?” “Perché sapeva che se avesse cominciato dal Cadonato saremmo potuti arrivare a lui abbastanza rapidamente, impedendogli di realizzare il suo piano delittuoso.” Fu la volta dell’ANSA. “Ispettore Bernardi, qual è stato secondo lei il punto di volta dell’indagine?” Armelie non ebbe esitazioni. “L’aver spostato il movente dalla perdita al danno.” “Può spiegarci meglio?” “Volentieri. A un certo punto abbiamo capito che il movente non era tanto rappresentato dall’entità della perdita finanziaria in sé, quanto dal danno che ne poteva derivare. E subito è stato evidente che una perdita di cinquantamila euro su settantamila investiti può fare più danno e quindi più movente di una perdita di duecentomila euro su un milione. Questo ci ha permesso di abbassare drasticamente i livelli di perdita finanziaria da prendere in esame, arrivando così a intercettare l’assassino”. “Quella dell’identikit a rovescio è una tecnica del tutto nuova?” domandò l’Associated Press. “Non saprei dirlo in assoluto. In Italia probabilmente sì. Lo dimostra il fatto che ci hanno già chiamati a Milano per spiegarne il funzionamento e l’utilizzo.” “Qual è stata la vostra arma vincente?” chiese la giornalista di Canale 5. Alla domanda, Armelie arrossì visibilmente. Vitale lo notò.
“Il gioco di squadra, non ho dubbi. Che per esempio ci ha permesso di condurre una caccia all’uomo su più fronti con una perfetta unità d’intenti. Ma direi che in tutta l’indagine ognuno ha dato il meglio di sé nell’interesse comune.” L’ultima domanda fu della Stampa. “Pensate che a causa della malattia il finanziere fosse diventato pazzo?” Rispose direttamente Vitale. “A dire la verità, il criminale ci è apparso sempre molto lucido e razionale. Lo dimostrano il piano, i contatti preliminari con i consulenti, i travestimenti e le stesse esecuzioni. Certo la sua grave malattia lo aveva messo nella condizione di non aver più nulla da perdere, ponendolo al di là di ogni convenzionale distinzione fra il bene e il male.” Nel pomeriggio arrivarono i fax di congratulazioni dell’ABIe della FIPROF In particolare, il direttore generale di questa telefonò ad Armelie per ringraziarla personalmente.
STELLA STESSA SERA ricevetti un SMS da Armelie. Ci vediamo per la conclusione del caso? Volentieri. Alla solita ora ero da lei e notai subito la novità, c’era anche da bere. Armelie versò due generose porzioni di Pampero e quindi, dopo la rituale accensione delle sigarette, mi raccontò le fasi conclusive dell’indagine, con la tragica fine del finanziere. “Devo infine girarti tutti i complimenti, gli applausi e le congratulazioni che ho ricevuto per merito tuo. E farti anche i miei più doverosi e personali ringraziamenti.” “Beh, in fondo anch’io in questa faccenda ho avuto il mio tornaconto personale.” Armelie arrossì violentemente. “E sarebbe?” “Sarebbe che questa indagine segreta e apionante, durata mesi e mesi, è riuscita finalmente a farmi uscire dai panni del cacciatore. Mi si erano come
incollati addosso e stavo facendo fatica a liberarmene.” “Posso immaginare.” Notai una punta di delusione e cercai un diversivo. “Propongo un brindisi alla conclusione del finanziere e al brillante futuro dell’ispettore Bernardi. Cin cin!” “Cin cin! E brindiamo anche alla ritrovata libertà del povero Giorgio Romani, precettato da un ispettore di polizia bisognoso di aiuto.” “È stato un piacere, ispettore. Vorrà dire che in futuro verrò a trovarti come semplice amico. E poi penso che qualche altro omicidio possa sempre capitare, giusto?” Armelie si alzò e andò a prendersi un nuovo pacchetto di sigarette. “Senz’altro. E in ogni caso non pensare di smobilitare. Sei cooptato in servizio permanente.” “Più che volentieri. E visto che ti piace il rhum, la prossima volta ti porterò un ottimo Zacapa.” “Non nominarmi lo Zacapa, Romani. Mai! Ho già dato.” “Certo, ispettore, che per essere una ragazza sei proprio piena di misteri.” “E chi ti ha detto che sono una ragazza?” “Ah, sì, dimenticavo. In realtà sei una settantenne ben rifatta.” “Romani, sta’ attento…” La squadrai da capo e piedi. “Sì, devi proprio avere un gran chirurgo.” Il pacchetto mi prese di striscio. Ma era rigido e lo sentii. Poi ci ridemmo su e continuammo a ridere e scherzare, a punzecchiarci e prenderci in giro fino a notte fonda.
I giornali del sabato fecero giustizia di mesi e mesi di amarezze e frustrazioni. Vitale mantiene la parola, L’ispettore Bernardi risolve il caso, Risolto il caso del finanziere, Pordenone fa scuola, Brillante operazione dell’ispettore Bernardi, Finanziere: la squadra vince, Preso il finanziere, la finanza respira. La stampa estera non fu da meno. E siccome da cosa nasce cosa, anche la settimana successiva fu densa di brillanti sviluppi. Vitale si prese le interviste con la stampa finaziaria, in particolare si incontrò con Il Sole 24 Ore e con Milano Finanza. Armelie dal canto suo fece un’intervista con SKY e con le testate dell’Espresso e Poliziamoderna. Il commissario le ò anche una richiesta del Ministero dell’Interno per un intervento a un corso per gli agenti di polizia. E per finire venerdì sera Armelie fu contattata dai giornalisti di Porta a Porta, che la volevano in trasmissione per la conclusione di quel caso, la cui presentazione aveva fatto a suo tempo registrare un forte picco di audience. Porta a Porta era il massimo, e lei gli assicurò una risposta entro lunedì.
Quando lunedì mattina Armelie si affacciò all’ufficio del commissario, Vitale stava scrivendo qualcosa. Come la vide, la invitò a entrare. Ridendo si scambiarono i commenti su quell’incredibile settimana, in cui sembrava che mezzo mondo non desiderasse altro che mettersi in contatto con loro. Poi Vitale prese alla sua destra l’email anonima che gli aveva spedito Lofusco. Guardò Armelie. “Insomma, il caso si è concluso in modo brillante e la questura si è rifatta il look. E dopo il cacciatore lo sa Dio se ne avevamo bisogno!” Diede un’ultima scorsa all’email che aveva in mano. Quindi abbassò il foglio, e alzandosi gli occhiali sulla fronte la guardò di nuovo. “A proposito poi della nostra arma vincente…” Ma come vide una ruga impietosa tagliarle la fronte, deviò il discorso. “Anzi no, dimmi di te piuttosto, come ti senti adesso che tutto è finito?” “Contenta, ovviamente, ma anche molto stanca. È come se a un certo punto il cacciatore e il finanziere mi fossero cascati addosso insieme.” “Ti capisco, e più di quanto immagini. E lo vedo, che sei stanca. Senti, perché non ti prendi una bella vacanza?” Vitale aprì un cassetto e vi lasciò cadere l’email.
“Ci ho già pensato, dottor Vitale. Era tanto che volevo regalarmi una crociera sul Nilo.” “Sul Nilo? Splendida idea! Parti subito Armelie, qui ci penso io.” Armelie posò un fascio di carte sulla scrivania. “Parto stasera, commissario. Ho già qui il mio biglietto Venezia-Cairo, via Roma.” “Ti invidio, ispettore, anch’io è tanto che volevo portarci Anna. Quanto viene il biglietto?” “Duecentocinquanta.” “Che in due fanno cinquecento, un prezzo niente male. Anzi, ottimo direi… Last minute, vero?” “No Vitale, sola andata.”
L'Autore
Giorgio Ronco è nato a Vicenza, risiede da molti anni a Pordenone. è sposato e ha una figlia. Una laurea in sociologia e una lunga carriera nella comunicazione pubblicitaria. Attualmente è responsabile del Centro Ascolto di quartiere. Nel 2013 ha pubblicato il thriller Controcampo, Albatros, con cui ha vinto il Premio Speciale della Giuria al concorso letterario nazionale Scriviamo Insieme, 2014.