ISBN: 9781483523743
INDICE
I Am - John Clare
Uno
Due
Tre
Quattro
Cinque
Sei
Sette
Otto
Nove
Dieci
Undici
Dodici
Epilogo
Ringraziamenti
I am! Yet what I am none cares or knows, My friends forsake me like a memory lost; I am the self-consumer of my woes, They rise and vanish in oblivious host, Like shades in love and death’s oblivion lost; And yet I am! And live with shadows tots.
And what is Life? An hour-glass on the run, A mist retreating from the morning sun, A busy, bustling, still repeated dream; Its length? A minute’s pause, a moment’s thought; And happiness? A bubble on the stream, That in the act of seizing shrinks to nought.
JOHN CLARE
UNO
L’universo è fatto di storie, non di atomi
Muriel Rukeyser, The speed of darkness
Ogni volta che salta slancia una gamba, la destra o la sinistra, tanto è uguale, il piede si abbatte regolare sulla smorfia di dolore del suo avversario. Appena affonda un colpo, immediatamente si ribilancia per un’altra violenta stoccata. Ogni tre o quattro colpi l’avversario rovina per terra. Raccolte le forze si rialza. Ma lui, implacabile, lo aspetta ad un palmo ed appena è in ginocchio lo scalcia col disprezzo del vincitore per il vinto. La scena si sussegue regolare fino alla noia, finché in un ultimo sussulto d’orgoglio, l’avversario ormai allo stremo rotola su un lato e sorprendendo il suo carnefice, lo colpisce violentemente con un paio di calci ben assestati. Non appena riavutosi dalla sorpresa, il carnefice colpito riesce in qualche modo a tenersi in equilibrio sulle mani, con la testa in giù e roteando veloce e letale le gambe per aria. Colpisce senza tregua, come una centrifuga, la testa del malcapitato che, infine con fragore, si accascia esanime per terra. La linea della vita è segnata in rosso ed è ormai evidentemente esaurita, mentre Eddie, il carnefice, si lancia in una danza di gioia, sulle mani e sulla testa. D’altronde è sempre così, vince sempre Eddie, è quasi inutile giocare. Lo sa fin troppo bene Paul Etienne che infatti lascia cadere dalla noia il joypad, si massaggia leggermente il callo da playstation sul pollice e pensa che dovrebbe comprarsi un altro gioco. Paul Etienne lancia una rapida occhiata all’orologio, le sei e dieci, ancora presto per prepararsi per andare al lavoro ed ormai stufo di Tekken tre, di GT due o di GTA tre, pensa che potrebbe comprarsi Resident Evil, il seguito. Potrebbe regalarselo per Natale, si dice mentre piscia, dopotutto domani è Natale. Non fa mai regali a nessuno, può permettersi di farsene uno. Si, Resident Evil, l’ideale. Paura e picchiaduro. Paura e picchiaduro. Come la sua vita.
Paul Etienne tira fuori il suo vestito dall’armadio e comincia a spazzolarlo. È un vestito scuro, di lana, elegante ma non particolarmente pretenzioso. Un piccolo affare Facit. Lo spazzola con cura, non vuole vedere neanche un pelo, un capello, un granello. Il caffè viene su gorgogliando e Paul Etienne a maniacale il lucido sulle scarpe. “È già Natale… fanculo.” Prende dalla consolle della camera da letto la pistola e fa scattare il cane due o tre volte, poi tira fuori il caricatore, controlla le pallottole e lo reinserisce. Gli da una veloce pulita e la ripone nella fondina. Beve il caffè, abbottona la camicia bianca, pulita e perfettamente stirata, allaccia la fondina all’ascella, indossa la giacca, ed è pronto per uscire. Si da un’ultima occhiata allo specchio. Il vestito calza perfetto. Non è Armani, ma per il lavoro va bene. Improvvisamente cerca di sorprendersi davanti allo specchio a tirare fuori la pistola dalla fondina. Anche se velocissimo lo specchio non lo sorprendi, è preciso, matematico, puoi provarci un milione di volte. Non lo sorprendi. Paul Etienne esce di casa e si incammina a piedi. Anche in questa zona della città si può vedere che è Natale. Paul Etienne ha dato subito la sua disponibilità per i turni natalizi, non per fare favori, ma perché lavorando dimentica la festa e le feste fanno male. L’aria è fredda, ma la giornata è limpida ed è una bella novità. Via Galliari è ancora vuota, non ci sono tossici o spacciatori da spaventare, non ancora. La città è ancora sul crinale del risveglio, quasi nessuno per strada. Fare questi turni e poi andare due giorni a Fenils, a sparare nei boschi, a caccia di albanesi. Niente mi tocca ora. Niente mi tocca per ora. Basta mettersi d’impegno è la vita può essere facile. Basta capirla, paura e picchiaduro. Paura e picchiaduro. La sala agenti della squadra omicidi è un locale dai muri spogli, oltre ad un crocifisso ed una fotografia di Ciampi. I muri sono bianchi, ma sporchi, con macchie di umidità. Ci sono tre zone di lavoro, con cinque scrivanie. Due paia di scrivanie si fronteggiano, mentre la quinta, quella del vicesovrintendente Viglierco è infilata nel mezzo ad una estremità. Lungo la parete a sinistra c’è una fila di schedari metallici. Contro la parete di fronte, dietro le zone di lavoro, ci sono due uffici con vetrate che si affacciano sulla sala agenti. Uno è l’ufficio del ispettore Paul Etienne Lizzi. L’altra è una stanza per interrogatori, con un tavolo e alcune sedie, intorno al tavolo due agenti, un uomo e una donna prendono un caffè e fumano sigarette.
Paul Etienne entra nella sala comune, viene salutato dagli agenti in servizio e dal vicesovrintendente Viglierco. Senza rispondere al saluto Paul Etienne entra nella sala interrogatori aprendo bruscamente la porta. «Che cazzo fate qui… il caffè prendetelo alla macchinetta… e fumate solo nei corridoi… via, subito.» I due agenti prendono i bicchierini del caffè e si alzano per uscire. «Buongiorno ispettore» risponde con lieve ironia l’agente maschio. «Viglierco, il rapporto dell’omicidio in bruschetteria… lo voglio oggi qui sul mio tavolo!» «Lo sto finendo ispettore, lo sto finendo.» «È una settimana che dovresti averlo finito…» Subito dopo Paul Etienne entra nel suo ufficio e per chiudere la conversazione sbatte la porta. Viglierco si butta a capo chino a terminare il rapporto, battendo con un dito solo una macchina da scrivere vecchia almeno di trent’anni, alle prese con una sintassi che gli sfugge ed un lessico che non gli appartiene. Viglierco ha quarantadue anni, portati in modo tale che non sapresti che età dargli. Ha l’aspetto di un adulto, è magro e alto, ma ha il viso di un bambino, di un bambino brutto, con le guance scavate, uno di quelli del ghetto di Varsavia. A prima vista si sarebbe potuto supporre che in quel momento stesse, chissà con quale contrazione dei muscoli, tirando verso l’interno le pareti carnose del volto, invece la bocca semiaperta e l’espressione immobile rivelano che si tratta del suo aspetto abituale. Ha un naso grosso, che domina la faccia, gli occhi piccoli, e i capelli lisci e unti che ricadono sempre sulla fronte. Sono dieci anni che è vicesovrintendente ed ha capito di essere arrivato al grado più alto della sua carriera. Gli manca la laurea e non ha nessuna intenzione di provare a prenderla. Nella sala agenti, intanto, è piombato un silenzio gelido, affollato solo da un risentimento nascosto nei confronti di un superiore tiranno. Dal canto suo Paul Etienne, nel suo ufficio, ha il computer e aspetta di aprire la posta elettronica e di connettersi con l’intranet del suo posto di lavoro.
Paul Etienne odia Viglierco, lo ritiene viscido e sleale. Ma odia anche gli altri suoi colleghi, sbirri senza ambizioni, arroganti nell’esercizio delle loro funzioni, ma vili nei confronti dei superiori. Così Paul Etienne si è riproposto di essere il peggiore dei loro nemici: ama sentire il timore, la freddezza nei suoi confronti, ama tenerli sulla corda, avvelenare il loro lavoro, rendere scomoda la loro poltrona, scottante la loro scrivania. “La succitata Sonia Livi sporgeva denuncia nei confronti di Mohammed Abdullah di anni 35 dichiarando di essere stata in numerose occasioni minacciata di morte, dal momento in cui aveva interrotto la loro relazione. La già citata Sonia Livi desiderava essere protetta dalla minacciosa invadenza dell’Abdullah che sembrava diventare sempre più perniciosa da quando aveva iniziato ad intrattenere una relazione con il cittadino iraniano Bobak Farsi di anni 32.” Mohammed Abdullah aveva ucciso Sonia Livi sparandole un colpo alla testa e poi un altro nel petto, in mezzo alla sala grande della biblioteca nazionale, poi si era rivolto la pistola contro e si era sparato. Piazzandosi una pallottola in testa senza neanche ammazzarsi, ma rendendosi cieco. Ora Paul Etienne leggeva i rapporti degli agenti, suo compito era quello di scrivere un’analisi finale della personalità dell’omicida e un rapporto completo e definitivo sull’intera vicenda. “Alessandro Tirelli, conosciuto fin dall’età di quindici anni come elemento di spicco di un gruppo neonazista, il cranio rasato, mimetica e anfibi, è stato denunciato in diverse occasioni per aggressione. All’epoca dell’università, la cui iscrizione alla facoltà di Giurisprudenza risale al 1992, gli scontri con esponenti dell’autonomia e dei centri occupati era materia quotidiana. Nel 1999 la svolta decisiva. Tirelli Alessandro si converte all’Islam, si lascia crescere una folta barba e prende il nome di Mohammed Abdullah. Un anno più tardi inizia la sua relazione con Sonia Livi. La relazione con Abdullah-Tirelli comincia quasi subito ad essere un calvario per la signorina Livi, che viene presto obbligata ad indossare un velo davanti alla faccia, denominato chador…” «Ispettore Lizzi…» La testa del vicesovrintendente Viglierco fa capolino dalla porta. Lizzi non gli risponde, ma lo guarda e il suo sguardo schiuma rabbia tanto che Viglierco abbassa lo sguardo: «Una chiamata… è urgente…».
«Va bene, Viglierco… raduna la squadra, vengo subito.»
Paul Etienne, Viglierco e altri due agenti, uno più giovane, Cassini, e uno più anziano, Venturiello, escono nel cortile del commissariato. «Viglierco tu vai con Venturiello… io me ne vado con Cassini… guida tu Nadia Cassini, dai…» Le due coppie di agenti prendono due volanti, la sbarra si alza e sgommano su via Verdi, quindi girano in via Rossini e a tutta velocità, a sirene spiegate si dirigono verso il Mauriziano. Paul Etienne è in macchina con Cassini, un ragazzo giovane, sui venticinque. Sembra venire dalla provincia, a prima vista. È intimidito, non distoglie lo sguardo dalla strada, non guarda in faccia Paul Etienne, di cui ha soggezione, paura. «Di dove sei Cassini?» «Di Fossano.» «Perché non sei rimasto a Fossano ad accudire le vacche, invece che venire a morire qui in città?» «Perché volevo entrare in polizia.» «Guida bene, non voglio finire contro un muro, per colpa di un barotto che sognava di fare Baretta rivoltando il letame in campagna» «Faccio del mio meglio…» «Non voglio arrivare dopo Viglierco… se arrivo dopo Viglierco ti metto in notturna per una settimana…» Il ragazzo non dice più niente. Cerca di guidare meglio che può, ma ormai è talmente immusonito, talmente ha paura di sbagliare che la sua guida è tutta scatti. Le curve le prende larghe, frena all’ultimo e dimentica di scalare, il ragazzo. Ora la volante sta ando per San Salvario, per strada tossici e nigeriani. «Cassini!»
«Dica ispettore.» «Cosa ne pensi dei negri» «Sono persone come tutte le altre, quando delinquono bisogna intervenire… è nostro dovere intervenire… come per gli altri…» «Cazzate!» «Cassini!?» L’ispettore Lizzi alza ancora un po’ il tono, giocando come il gatto con il topo. «Si ispettore?» «Cosa ne pensi dei negri?!» «Non penso niente.» Cassini sta per scoppiare. Sta quasi piangendo e Paul Etienne decide di non infierire, in fin dei conti il ragazzo gli è simpatico. Arrivano a destinazione senza più dire nemmeno una parola. Cassini ferma la macchina davanti al Mauriziano ed è tutto sudato, nonostante il freddo, nonostante natale alle porte, è tutto sudato, si porta un dito al colletto per diminuire la pressione della camicia e far are un po’ d’aria attraverso il collo. I capelli biondicci sono appiccicati alla fronte e gli occhi chiari e acquosi guardano fuori e sono abilissimi nel simulare qualsiasi tipo di pensiero. Lizzi ha già visto la volante di Viglierco ed esce sbattendo la portiera. «Spero che ti sparino gli albanesi una notte di queste, Cassini!» Viglierco va incontro a Lizzi. «È un tentato omicidio, ispettore… una vecchia… ha sparato a suo marito…» Paul Etienne fissa gli occhi negli occhi di Viglierco, che hanno la stessa espressione delle pietre bagnate. «Viglierco, fammi un favore…» «Dica ispettore…» «Parcheggia meglio la macchina, se ti va di giocare a Starsky ed Hutch fallo con qualcun altro, non con me, a me da solo fastidio, ci siamo intesi? Intanto che ci
sei, parcheggia bene anche la nostra, noi andiamo, quando hai finito ci puoi raggiungere» «Come vuole lei ispettore Lizzi.» Si tira indietro la frangia unta dalla fonte, il vicesovrintendente Viglierco, per fare finta di niente, ma Lizzi ha colpito il suo amor proprio, il volto è scuro e tra sé e sé giura che gliela farà pagare, non appena si presenterà l’occasione lo umilierà di fronte a tutti. Prima o poi capiterà, capiterà, è pronto a metterci la mano sul fuoco. Lizzi osserva il cipiglio di Viglierco, lo vede mordersi le labbra dall’offesa e dentro si sente felice, si apre in un sorriso totale. Fuori, con il solito grugno chiama Venturiello. «Venturiello!» Venturiello si trova dietro Cassini, stanno seguendo Lizzi, in fila indiana. Venturiello non sente subito la chiamata dell’ispettore. Paul Etienne si ferma, quasi all’ingresso del pronto soccorso, si gira e vede la carovana dei suoi uomini. Anche i suoi uomini si fermano, smarriti. «Venturiello, Venturiello…» ripete cantilenando Lizzzi. Venturiello questa volta sente e scatta. «Sì, scusi ispettore!» «Venturiello venturiello, a cosa pensavi…?» Venturiello abbassa il capo. «Tu occupati degli infermieri e di chi ha raccolto la chiamata, e quando Viglierco ha finito con le macchine fatti dare una mano. Voglio sapere tutto, un rapporto con ogni dettaglio, se mi accorgo che manca qualcosa vi tolgo le vacanze.» «Sì, ispettore!» «Cassini, tu vieni con me… andiamo a vedere ’sto vecchio.» Cassini fa si con la testa, ma la sua espressione sembra voler maledire il destino che lo vuole di nuovo vicino al tiranno.
L’ispettore e il ragazzo di Fossano attraversano il lungo cortile con i neon al soffitto e il bianco alle pareti che dovrebbe essere bianco ed è invece grigio perché son troppi anni che non viene ritinteggiato. Oltreano una porta con i vetri smerigliati come quella di un box doccia e sono nel reparto chirurgia. Al fondo del corridoio davanti una porta, un poliziotto sta facendo la guardia. L’ispettore e il ragazzo di provincia vanno proprio lì. Dalla finestra della camera d’ospedale si vede corso Re Umberto, si vedono le automobili, gli autobus, il 14, il 14 barrato, si vede qualche ramo spoglio dei platani, si vede qualche erotto che lascia il ramo, che si posa sul ramo. Il vecchio sul letto è immobile, intubato, ha una flebo nel braccio e il suo viso è rivolto alla finestra. Non può girarsi ed è costretto a guardare fuori, il suo movimento, le sue varianti. Ha ato quarant’anni a Torino, ha preso un sacco di volte quel quattordici che lo porta dalla figlia e che ora a sotto la sua camera e mai avrebbe pensato che sarebbe finito al Mauriziano perché sua moglie, un giorno, gli avrebbe sparato. «Chi gli ha sparato signor Antonio?» «Mia moglie» «E perché le ha sparato?» «Perché è una troia!» «È una troia… sua moglie è una troia?» «Sì…» «Ma una di quelle troie che se lei fosse morto non avrebbe nemmeno tenuto pulita la sua tomba?» «Ma non lo so…» Il vecchio lo guarda attonito e probabilmente ciò che ha detto l’ispettore fino a quel momento gli suona come una lingua straniera. «Vede signor Antonio, lo so che in questo momento lei non capisce e forse non lo capirà mai, ma alcuni di noi, e lei e uno di questi, sono nati per vivere morendo. E magari proprio il fatto che lei ritiene sua moglie una troia le ha fatto
premere il grilletto.» Il vecchio ferito ancora non ha chiuso la bocca dallo stupore. «Ma lei…» riesce appena appena ad articolare, ma Lizzi lo interrompe. «Basta! Cassini prendi tu la deposizione del signore. Sono sicuro che saprai farlo benissimo. Io ti aspetto sotto.» Cassini, come il vecchio, non ha capito quasi nulla di ciò che ha detto Lizzi, ma in qualche modo sente crescere la sua ammirazione per quel suo superiore impossibile. Paul Etienne si avvicina alla finestra e guarda un momento il aggio, poi si dirige verso l’uscita, come se un senso di tristezza che viene da molto lontano si fosse impadronito di lui. «Cassini, io prendo il quattordici, ci vediamo in questura.» Paul Etienne esce dalla stanza. «Una sparatoria del cazzo» dice al piantone che lo saluta. Paul Etienne attraversa il pronto soccorso. È annoiato, scocciato. Si sente defraudato da questo crimine di serie b, da queste ioni dozzinali, una vecchia che spara ad un vecchio e non lo ammazza nemmeno, gli buca una spalla. Ma che cazzo! Ha studiato mica per niente. Il male è una cosa seria, mica un teatrino di soap opera. Vede individui pallidi, arruffati, ricoverati in pigiama curiosi, qualcuno zoppica, qualcuno è in barella. Infemieri ano zoccolando e le infermiere tante volte ridono, tante volte sbuffano, odiano i loro clienti e vorrebbero essere da tutta altra parte e vorrebbero fare tutt’altro lavoro. Vede un uomo che gli sembra di conoscere abbracciare una donna che piange, piange, piange inconsolabile, mentre lui cerca di consolarla, abbracciandola. Cerca di consolarla con quegli occhi freddi, azzurri che lui ha già visto da qualche parte. La donna piange davanti al dottorino che gli ha dato la notizia ed ora rimane lì imbarazzato e non se ne va. La donna piange e a lui viene il nervoso e scatta verso il posto di polizia. Entra dai suoi colleghi, che odia, ma che non piangono.
Nel gabbiotto della polizia al pronto soccorso ci sono due agenti dall’aria annoiata e un alberello di natale con le lucine che si accendono e si spengono ad intermittenza. Paul Etienne si appoggia al bancone come se fosse ad un bar ad ordinare da bere. «Come si sta qua?» «Non male ispettore, non male» dice il primo poliziotto, che è giovane e porta gli occhiali che sembra Gramsci. «Ne succedono, però…» «Ci si fa l’abitudine alle stranezze.» «Come una vecchia che spara al suo vecchio perché gelosa.» «Certe cose però, non riuscirò mai a digerirle. Neanche dopo vent’anni di servizio. Cosa ci vuol fare, ispettore, sono troppo sensibile. Per questo non ho fatto carriera…» «Tipo cosa?» «La vede quella donna che piange e il marito che sembra un divo di hollywood non riesce a consolarla?» dice Gramsci. «La vedo. Lui mi sembra di conoscerlo.» «Gli è morta la sorellina. Una bambina di dodici anni.» Il poliziotto anziano non riesce a trattenere una lacrima e un singhiozzo a sottolinearla, come se ci tenesse a piangere, a far capire quanto è sensibile e come proprio non abbia potuto far carriera in polizia. «Com’è morta?» «Soffocata dal vomito.» «Proprio domani è Natale…» e a quel pensiero il poliziotto anziano tira su con il naso e si a entrambi i palmi delle mani sugli occhi. «Come Jimi Hendrix…» sottolinea il giovane.
Paul Etienne guarda il collega che ci tiene a fare il sensibile con una smorfia di disgusto. «Smettila!» Gli dice gelido. «Scusatemi…» si scusa. Il giovane Gramsci guarda l’ispettore con un’ espressione pigra «Fa sempre così.» «Cosa hai detto prima?» «Prima quando?» «Lascia perdere… com’è morto Jimi Hendrix?» «Soffocato dal proprio vomito, a causa di un mix di droga, alcol e medicinali…» «Bravo Gramsci, sei un esperto.» Il giovanotto fa spallucce, per fare il modesto e vorrebbe dire ancora altre cose all’ispettore, altri aneddoti del rock, citare altre morti analoghe, come quella di Janis Joplin, ad esempio, o Brian Jones. Ma non può perché l’ispettore Lizzi è già uscito dal gabbiotto e va spedito dal biondo ragazzone che cerca invano di consolare l’inconsolabile bionda che ha tra le braccia.
DUE
Cerco un segno tuo in tutte le altre
Nel brusco ondeggiante fiume delle donne,
trecce, occhi appena sommersi,
piedi chiari che scivolano navigando nella schiuma.
Pablo Neruda
«Paul Etienne Lizzi, ispettore. Squadra investigativa di Torino…» Lizzi mostra il suo portafogli in pelle aperto, dove dovrebbe esserci il tesserino, ma il ragazzone biondo non fa nemmeno in tempo a vederlo, ancora allacciato alla sua inconsolabile fanciulla. Appena riesce a slacciarsi, però, tende la mano in segno di saluto e, nonostante le circostanze riesce ad aprire un largo, nobile, sorriso al suo interlocutore. Il cinismo di Lizzi per un attimo vacilla di fronte a un sorriso così. Un sorriso da giardino d’infanzia, rassicurante, kitch, una pubblicità. Lui lo ricorda quel sorriso. L’ha già visto, ma non riesce a focalizzare. «Lei è il signor?» «Bernard, Jayme Bernard» e stringe vigoroso, caldamente, educatamente, la mano. «Io la conosco, Lizzi, ci siamo visti spesso anche in negozio.» E non era
probabilmente il caso di ricordargli che, in realtà, si erano già conosciuti da bambini, che conosceva anche la madre. Era inutile e forse avrebbe aperto ferite rimarginate con fatica. Si limita a dire così: «A Susa. In farmacia. Noi abbiamo la farmacia. Farmacia Bernard. Con i miei». Adesso era chiaro. È il farmacista di Susa, ecco chi è il ragazzone biondo, così educato, così perbene, così rassicurante. «Questa è mia moglie, Carla…» presenta la donna, che ha gli occhi lucidi, ma che riesce a controllarsi salutando l’ispettore. E Lizzi, come colto in fallo, come in dovere di scusarsi, accenna un mezzo sorriso: «Condoglianze…». «Il mio collega del pronto soccorso mi ha accennato…» «Sì… quello che è successo è incredibile… ancora non riusciamo a spiegarcelo e Carla non riesce a farsene una ragione.» La moglie si rimette di nuovo a piangere. Non fragorosamente, con dignità. Si gira per non farsi vedere, poi si allontana e si rifugia nei bagni. Paul Etienne non si scompone, ha ripreso il controllo. Non è il dolore a farlo vacillare, è la felicità, piuttosto, o quella che ne sembra una rappresentazione. Il dolore lo conosce, ne è abituato, però lo irrita, è una debolezza di cui siamo responsabili. La manifestazione del dolore, invece, lo manda su tutte le furie. «Si è sentita male durante la notte. Ha incominciato a vomitare. È rimasta a dormire da noi, perché è la vigilia di natale, la vigilia facciamo una festa tra di noi, è la nostra piccola tradizione. Poi domani andiamo dai miei, ci riuniamo, anche con i genitori di Carla e ci scambiamo i regali. La piccola non smetteva di vomitare. Sembrava una normale indigestione. Ma non smetteva. Allora l’abbiamo portata al pronto soccorso. A Torino. All’alba sembrava stare meglio, si è addormentata. Evidentemente ha avuto un attacco durante il sonno ed è soffocata. È morta qui, in ospedale, nemmeno un’ora fa.» «Come si chiamava la piccola?» «Tammi. Voglio dire Manuela. Ma in famiglia la chiamavamo Tammi. Era molto dolce.» «Tutte le bambine lo sono.»
«Lo so, ha ragione, ma lei era la nostra piccola di casa… per noi era così…» Ecco di nuovo. La sicurezza, l’equilibrio che dimostra quell’uomo, la naturalezza verso il mondo, lo colpisce basso, vacilla Paul Etienne, di fronte a tanto agio. Si sente come il povero in casa del ricco. Intimorito di fronte a tutto quello che gli manca. «Può aver ingerito qualcosa a vostra insaputa. Veleno per topi, insetticida, cose così?» «Non credo, ispettore. Tammi era una bambina molto responsabile e attenta, non credo l’abbia fatto. Non lo so…» Intanto Carla è ritornata. Si è ricomposta, ritruccata, senza sbavature. Pallida e bella. Quelle bellezze per cui qualcuno perde la testa, quelle che si dicono mozzafiato, in realtà molto appariscenti, ma in stile barbie, pin up, florida ragazza americana. Ma non tutti ne subiscono il fascino. Ad esempio Paul Etienne. «Verificheremo con l’autopsia…» «È necessario?» È Carla a parlare. «Se si vogliono scoprire le cause del vomito…» «Che cosa ce ne facciamo delle cause…» È sempre Carla che parla, che non possiede il garbo vellutato del marito. «Vedete voi…»
«Antonio Costantini di anni 65, nato a Catania, professione pensionato, offeso all’addome da un’arma da fuoco calibro 22, di proprietà del Costantini stesso, regolarmente registrata alla questura di Torino in data 29 marzo 1972. L’offeso dichiara di essersi trovato in casa, intorno alle 9 e 45 del 24 dicembre 2006, quando improvvisamente la moglie Saveria, detta Citta, Calabrò, nata a Bagnara Calabra, provincia di Reggio Calabria, di anni 62, fronteggiava il marito e in evidente stato confusionale esplodeva due colpi all’altezza dell’addome, di cui solo uno raggiungeva il bersaglio, ferendo in modo serio, ma non letale, il
marito, proprietario dell’arma.» Paul Etienne tiene la faccia sulla scrivania, mentre Cassini gli riferisce diligente il rapporto che ha redatto dopo aver raccolto la testimonianza all’ospedale. Appena Cassini ha finito di parlare, s’irrigidisce e rimane in silenzio in attesa di un commento, di un giudizio dal suo impossibile ispettore. Lizzi, invece, alza di poco la testa, rivelando la guancia arrossata dal contatto con la scrivania. Per un momento osserva Cassini, quindi ripone la faccia sulla superficie dura della tavola, come fosse il più morbido guanciale. «Ripeti Cassini…» «Come?» «Ripeti, ho detto ripeti…» « Ma veramente ispettore… io…» «Cassini, basta, mi hai stufato… e devi discutere ogni mio ordine… evidentemente sei refrattario ad ogni tipo di disciplina… oppure sei in conflitto con i tuoi superiori e non riconosci l’autorità…» «No, io… non intendevo…» «Vai pure alla tua scrivania… preparami tre copie del tuo rapporto… ora vai…» Cassini rimane senza parole, il suo sguardo si intristisce come quello di un bambino deluso dal regalo di compleanno. Quando percepisce che non può più fare nulla, muove i suoi i verso il suo posto. Proprio in quel momento Lizzi lo richiama. «Cassini!» «Sì …» «Dimenticavo… domani mattina sei di servizio… ho bisogno di un agente per gli eventuali sviluppi… di questo caso, non si può mai sapere…» Paul Etienne quasi riesce a sentire il crack interno della delusione, della frustrazione del ragazzo, riesce quasi a leggergli i pensieri, il natale alla centrale, invece che a Fossano, dalla famiglia. La mensa, invece degli agnolotti della mamma. Che
colpo di genio, non l’aveva mica pensata prima, gli è venuta così, spontanea. Gli è persino simpatico Cassini. Ma la soddisfazione che prova, lo vede, lo sente, sta proprio in quel piccolo rimorso in fondo all’anima. È una sensazione fisica, il piacere che gli deriva dal sentire il senso di colpa per la delusione del Cassini. È un piacere raffinato. Adesso si ritiene soddisfatto Paul Etienne. È stata una buona giornata. Andrà a casa direttamente, senza nemmeno spaventare un tossico. Per oggi è a posto. Si concederà una puttana, tutt’al più. Per festeggiare. Una puttana sola. Domani è Natale. Deve lavorare.
“John Philip Cerone, alias John Cironi, alias Jackey the Lackey, ovvero Jackey il servo, nato nel 1914, attualmente vivente. Nel marzo1983 una commissione del senato degli Stati Uniti identifica John ‘Jackie’ Cerone come il boss numero uno della regione. La predisposizione per l’omicidio e la devozione al dovere sono i tratti per i quali Jackey viene molto stimato dai suoi superiori. Viene arrestato per la prima volta nel 1932 e da allora subisce numerosi arresti per rapina, gioco d’azzardo e guida in stato di ebbrezza. Viene sospettato per concorso in omicidio in almeno quattro omicidi, tra i quali la sanguinosa esecuzione del 1961 del gangster e giocatore, William ‘Action’ Jackson. Per anni servì come autista, o ‘pesce pilota’ del potente boss Anthony ‘Big Tuna’ Accardo. Quando Sam Giancana temporaneamente accantonò Accardo dai grossi affari della famiglia, ‘Jackey the Lackey’ gli fu accanto a dargli conforto. Alla fine degli anni sessanta, la devozione di Cerone fu infine ricompensata e la sua ambizione riuscì a farlo diventare numero due della mafia di Chicago. Ma nel 1970 la sua carriera subì uno stop quando una vasta operazione sul gioco d’azzardo lo portò in prigione. Rilasciato tre anni più tardi, per prima cosa Cerone eliminò il testimone che l’aveva incastrato. Benché con una nuova identità e una nuova vita protetta dal governo in Arizona, l’uomo venne fatto saltare in aria da un auto bomba nell’ottobre del 1973…” Paul Etienne si stacca stanco dal computer, si massaggia brevemente gli occhi e guarda l’ora. Sono le nove meno un quarto e sono almeno tre ore che sta lavorando al Catalogo. Si alza in piedi per sgranchirsi. Esce dall’ufficio e da un’occhiata alla sala agenti. Non c’è nessuno. È deserta. Sono andati tutti via senza salutarlo, senza fargli nemmeno gli auguri di Natale. È normale, fin ovvio. Gli viene da ridere. Gli viene da ridere a pensare al loro timore, alla loro
antipatia, alle loro misere vendette. Non può fare a meno di pensare quanto, di gran lunga, preferisca i criminali. I grandi criminali. Quelli di cui si occupa, quelli che inserisce nel Catalogo. Il lavoro che gli ha commissionato il Ministero. Se pensa a Carmine Galante che sta morendo con la pancia squarciata dalle pallottole e continua a fumare il sigaro. Meschini, si sente circondato solo da mediocri e da meschini. Torna nel suo ufficio e spegne il computer. È il momento di andare. Qualcosa veloce per cena e poi una puttana. È Natale. Lo merita, merda!
Alle nove e dieci del 24 dicembre Torino sembra deserta. Fredda e deserta. Le luci per strada, gli alberelli, le decorazioni e quasi nessuno per strada. Attraversa piazza Castello compra due mac royal deluxe da Macdonald e continua a eggiare verso casa. a davanti al Carignano e seduti su una panchina una coppia si sta baciando, lei mostra occhi oltraggiosamente felici e sorrisi in prevalenza di gengive e continua a guardare amorosa un pancione con i capelli brizzolati che ad ogni sguardo rapito le mette la lingua in bocca. Poi lei si a la mano sulla bocca e si asciuga. Paul Etienne sente crescergli quel solito impulso interno che è un misto di rabbia, colica e disgusto verso il prossimo. Solitamente riesce sfogarsi sui sottoposti o contro la pattumiera umana che abita le sue strade, visto che il suo ruolo glielo permette. In questo caso la sua impotenza lo ferisce. Gli verrebbe da tirar fuori la pistola e sparare. A tutti e due. Un po’ di decenza, per lo meno. È una questione di buon gusto. Non rendete l’essere umano una caricatura grottesca. Questo direbbe ai loro cadaveri. Tranquillamente. Ma si limita ad affrettare il o, prima di diventare davvero un serial killer. Allunga il o e si trova in via Nizza di fronte a Porta Nuova. Qui non si tratta neanche più di caricature grottesche, qui sembra di essere in un sottopianeta di una sottogalassia. Anche la vigilia di Natale, o forse proprio perché è la vigilia, i portici sono affollati. Di un sottogenere umano. Ma per loro non sente odio, bensì tenerezza, una sorta di tenerezza. Per queste puttane soprattutto. Hanno forme e sostanze che lui non ha mai visto in natura, se non in questo tipo di natura, via Nizza, ma è un altro pianeta. È la prova vivente della natura naturans, la creazione non è
finita, non finirà mai. Eppure queste forme così diverse dai corpi umani che si vedono sui giornali o nelle televisioni, si mettono in mostra e si mettono in vendita. C’è della grandezza in questo. C’è della grandezza. Va riconosciuto. Alla fine delle sue considerazioni arriva a casa. Senza molestare nessuno. Salirà, mangerà i due mac royal e prenderà l’auto dal garage per le sue scorribande notturne. È già natale.
La macchina è una Uno. Una Fiat Uno grigia metallizzata, targata To Z. È usata pochissimo, la usava Eleonora, sua moglie, per andare a lavorare. Talvolta, di sfuggita, sente ancora il suo odore. Allora apre un nuovo Arbre Magic. La macchina è una foresta di Arbre Magic, aperti, esauriti, da finire, Mango, Ananas, Pino Silvestre. Tutti insieme, a formare un unico informe odore. Il suo anestetico. Chi sale sull’auto sente l’esigenza di aprire i finestrini per non rimanere stordito. Paul Etienne, invece, imibile guida, nutrendo la sua rabbia di quella fragranza, sospeso, lontano, un altro sé stesso. È solo un altro piccolo trucchetto per tenere lontano il dolore. Dolore sordo, subdolo, sempre in agguato, magari in una sfumatura, in un inciampo, in una nota di profumo nell’aria di quell’auto che usava lei per andare a lavorare. Paul Etienne la usa solo per le puttane. Quasi sempre in un parcheggio dentro la Uno. Qualche volta, se non deve lavorare, se vuole festeggiare ne porta un paio, una volta anche tre, a casa. Sono le sue donne. I suoi corpi di donna. Quelli che continua ad amare fisicamente. Le uniche persone che non odia. Le riconosce, conosce il loro sapore di strada. La strada di cui ancora sente il battito, il richiamo, il suo pulsare caldo, la sua puzza, la sua violenza, la sua poesia. La strada, la sua casa. Dove è nato e dove è morto. Ed ora è invece solo un capitano Picard, imborghesito, impiegato di un pianeta quieto che ogni tanto sale sulla sua Uno -Enterprise, per un viaggio parentesi nella galassia. Era la sua vita, ora è la sua piccola vacanza. Viaggia lento, sulla corsia di destra di corso Traiano. Prima a le Nigeriane, che non carica neanche per sbaglio. Alzano la gambetta con lo stivale bianco per farsi vedere, nere nel buio, si vede solo il bianco dello stivale di vernice. Dopo due slave brune si ferma. È bionda, gli occhi marroni, incorniciati di nero, sembrano quelli dei cani
quando chiedono il cibo, i suoi capelli sono artificiali, ma sorride sincera. È una puttana bambina dell’est, con il sorriso facile. «Trenta euro in macchina, cinquanta a casa…» Paul Etienne la fa salire. Lei sorride, lui riparte. «Allora, bello. A casa o in macchina?». Dice dolce. «Dove abiti?» «Proprio qui dietro. Gira a destra». Paul Etienne gira a destra. Paul Etienne parcheggia la macchina dove lei gli dice. Fanno in silenzio quei quattro i necessari per arrivare alla porta di casa. Lei apre l’ingresso principale e gli fa segno di entrare e fare silenzio. «Come ti chiami?» dice lei aspettando l’ascensore. Sembrano una strana coppia che torna da una serata andata storta, dove forse hanno litigato e forse la rottura è imminente. «Io mi chiamo Viola…» Lei ha sul naso un sentiero di lentiggini, apre la porta e fa segno di entrare. Paul Etienne sorride duro. Va direttamente in camera da letto dove un asciugamano è steso sul copriletto. Tutt’intorno una folla di peluche, orsetti e pupazzi, cose così. Sulle mensole intorno, foto di lei che sorride, con le amiche, con la mamma, in un paese che non è l’ Italia e che a prima vista Paul Etienne non riconosce. Posa i cinquanta euro sul comodino e continua a guardare intorno. Viola si spoglia subito, via i vestiti, via la biancheria leopardata, nuda si stende sull’asciugamano, a gambe divaricate, il sesso rasato, aperto, giovane, ammiccante. «Spogliati, anche tu…» Paul Etienne rimane in piedi a vedere le fotografie, poi si incanta di fronte a quel sesso aperto e fresco. Si siede sul letto e si spoglia, come se dovesse fermarsi a dormire. Come se quella fosse casa sua. Come se Viola fosse sua moglie. Si stende sull’asciugamano, dalla sua parte. Viola ha in mano un preservativo, lo apre e veloce, con destrezza glielo mette che lui non è ancora pronto, si sente eccitato come un buco in un muro. Ma lei sta lavorando, mica può aspettare.
Prende in bocca quel coso dentro il preservativo finché non lo fa diventare un cazzo più che dignitoso, una specie di Michelangelo che tira fuori il Prigione Ridestantesi dalla pietra. Quando Paul Etienne si sente pronto, si stacca dalla sua bocca. «Fare amore, ora…» «Fare amore…» replica Paul Etienne mentre la gira. La prende da dietro e inizia a pompare, ritmato e potente. Cattivo e potente. Lei inizia a gridare da subito, come le impone il mestiere. Grida e grida «Dai… daiiiii… scopa… scopa…». Lui vorrebbe zittirla e la gira di nuovo. Quando è davanti le mette una mano sulla bocca e lei mugola, sembra un leone in gabbia mentre viene nutrito. E spinge, spinge Paul Etienne, come se volesse andare chissà dove. Poi le toglie la mano dalla bocca e la tocca là sotto su quella collina brulla, su quella cresta di gallo che si offre così ossequiosa alla sua vista, alle sue dita. E poi viene Paul Etienne, senza un cenno, senza un rumore, solo con i suoi ricordi pesanti, solo come fosse un dovere. Mentre Viola, spazientita, continua a ripetergli in tono da supplica, «venire… venire…».
Paul Etienne guida piano, calmo. Si ferma al semaforo rosso. Riparte, tutte le altre auto vanno il doppio più veloce della sua. Costeggia tranquillo il Valentino. È buio e ci sono un sacco di luci colorate. Improvvisamente percepisce l’ odore di lei e immediata sente forte una fitta al petto, come un coreano in pigiama che spezza un mattone con la forza della mano nuda. Svolta in corso Marconi. Parcheggia e apre un nuovo Arbre Magic. Cannella. A mezzanotte le campane suonano festose la natività, Paul Etienne tiene la finestra aperta, è seduto davanti al computer, beve un chinotto e lavora al Catalogo. Tiene la finestra aperta per sentire l’aria della festa. “Ogorzov, Paul, 1913-1941. Germania.” Il tavolo è affollato di libri, aperti, sottolineati e quaderni con appunti e storie. È tutto retaggio dell’università, dei suoi studi in criminologia. Ora è la base del Catalogo. Il lavoro per il Ministero. “Otto donne vengono assassinate tra il 1939 e il 1941 nei dintorni della ferrovia
di Rummelburg, Germania. Le donne venivano stuprate e battute a morte con una spranga di metallo.” Una processione natalizia a sotto la finestra al primo piano di Paul Etienne. Uomini e donne con espressioni penitenti e fiaccole di pece che cantano Stillen Nacht, con occhi che vanno via via incupendosi per il sonno e le torce sembrano emanare meno luce. Dietro il vetro della finestra, Paul Etienne li osserva, le facce di questi penitenti sembrano cipolle appese a un filo. “Paul Orzogov, ferroviere di 28 anni, membro del partito nazista, viene arrestato e portato in giudizio il 24 Luglio del 1941. Il partito Nazista per evitare l’imbarazzo dei vertici organizza un veloce processo. Il giorno dopo Paul Orzogov…” Finalmente la stanchezza arriva, non appena sente gli occhi che si chiudono, Paul Etienne spegne il computer e va a dormire.
TRE
Io ho vissuto ma non l’ho vista mai, la vita
Me l’hanno spolverata via come se fosse polvere.
Dostoevskij
Essere uno, due, tre. Anche di più, avere la possibilità di vivere destini che non calzano, che non appartengono. Vivere sognando di essere morto, combattendo per una donna che non ha mai conosciuto. Essere il poliziotto che indaga e l’assassino che scappa e nello stesso tempo la vittima che muore senza sapere perché. Sono i sogni senza sonno delle mattine in vacanza di Paul Etienne. La cosa che ama di più, appena uscito di casa, è raggiungere la strada dal cortile, aspettare il primo ante e affrontarlo con la mazza da baseball. Se lo colpisce tre o quattro volte di fila, dopo essere caduto a terra, il malcapitato quasi affoga nel suo stesso sangue. Dopo può tranquillamente sfilargli i soldi, quindi allontanarsi veloce, attraversare la strada e fermare la prima automobile che incrocia. Alle volte anche taxi, furgoni, camioncini. Strappare via l’autista dal posto di guida e schizzare via veloce per le strade della città. Sfrecciare senza criterio, prendere tutto quello che a, bruciare i rossi, stirare i anti, tamponare altre auto prima di are da Joey per un lavoro. Questo calma, stende i nervi. I lavoretti di Joey riesce a farli se sono facili, se sono difficili deve provare e riprovare e prima o poi gli riescono. Così si fa carriera come hood della mafia, da giovane teppista all’omicidio facile facile, poi si diventa affiliati, capi, underboss e boss. Questo è il gioco che voleva, quello che gli permette di are dall’altra parte, gli libera la mente, gli fa are veloce il tempo e gli fa ammazzare un po’ di sbirri.
Gta 3, il suo regalo di Natale. Tanto per essere qualcun altro per qualche tempo. Così la mattina, appena si sveglia, in pigiama, con una coperta sulle spalle, seduto sul letto, il joypad in mano, al freddo della casa in montagna, tra i boschi di Fenils. La casa della madre. Lizzi si accanisce attraverso il joy pad su un malcapitato che riduce a brandelli. Stoppa, ha bisogno di uscire. “L’ideale sarebbe trovare un albanese…” pensa Paul Etienne, mentre stringe il calcio freddo della pistola nella tasca del giaccone, nella fredda mattinata di mercoledì 31 dicembre 2004. Le scarpe spazzano le foglie secche dei sentieri nel bosco, un bosco asciutto, assetato, a cui da mesi manca acqua. Non è difficile trovare albanesi che ancora vivono in qualche vecchia, marcia roulotte abbandonata in un bosco. Paul Etienne ne ha già trovati da quelle parti e si è divertito a terrorizzarli, in pugno la pistola e un espressione spiritata, violenta sulla faccia. “Qualcosa troverò a cui sparare…”, intanto tira fuori la Beretta e cammina così, veloce e bellicoso. Talvolta si gira di scatto e punta la canna ad un nemico invisibile e “pum!” spara per finta, soffia sulla canna e riprende il cammino. Finché la voglia di sparare non prende il sopravvento e spara davvero, così solo per rompere il silenzio. Paul Etienne si tiene fermo il braccio che impugna l’arma con l’altro braccio e come un gangster sbruffone di Johannesburg sparerebbe a un rivale, riempie di piombo un cespuglio. Il cespuglio ad ogni colpo che lo raggiunge perde le foglie e resta infine essenziale e minimale come per l’intervento di un designer, la vallata si riempie dei boati prepotenti delle pallottole, amplificandole con l’eco. Mentre si compiace soddisfatto, sente la vallata proiettare un boato ancora di sparo. Come un’eco in ritardo. Paul Etienne ricarica la Beretta e sale la collina verso la fonte dello sparo.
In cima alla collina il bosco si dirada, lasciando spazio ad una piccola radura, dove c’è una vecchia baita ancora integra. Ha il tetto di lose, pietre levigate di montagna, mentre gli infissi sono di legno antico e duro, anche il balcone è di legno, ma non conserva tutte le assi. Davanti alla porta d’ingresso c’è un piccolo cortile e una fontana di pietra, dal tubo di rame esce un rivolo d’acqua. L’insieme restituisce l’immagine di essere disabitata da tempo. Il cielo è chiaro, sgombro di nuvole, l’aria rarefatta, come se nulla si muovesse intorno. Paul Etienne sente forte l’impressione di essere dentro una palla di vetro souvenir, come se da un momento all’altro una mano distante dovesse rovesciarla per far cadere la neve.
Ma, per il momento, rimane l’immobilità e il silenzio. Soprattutto il silenzio. Paul Etienne entra nella casa. Spinge la porta di legno pesante ed entra in uno stanzone poco illuminato. Tutt’intorno un silenzio che sembra una borsa piena di paure. Man mano che procede, Paul Etienne riconosce un tavolo, una sedia sfondata, una vecchia stufa di ghisa, delle coperte su una poltrona sventrata e delle corde sul tavolo. Si muove con cautela, l’ispettore Lizzi, guarda tutto, attento a non far rumore. Vede mozziconi di sigarette e vuoti di bottiglia e macchie sul pavimento, che potrebbero essere vino, ma anche sangue. Nonostante si muova accurato, quasi felpato, un’ asse sconnessa del pavimento scricchiola al suo aggio. Paul Etienne si irrigidisce, fermo, immobile, le orecchie tese a sentire se c’è qualcuno che ha avvertito il rumore. Un paio di secondi di silenzio sembrano eterni. Appena si muove di nuovo, certo che non ci sia nessuno, una voce sgradevole, sguaiata, arriva da un’altra stanza. «Chi c’è! Chi c’è! Chi c’è?» Paul Etienne s’irrigidisce nuovamente, si guarda la mano con la pistola e slancia il braccio, provando a prendere la mira. Coprendosi, come gli hanno insegnato all’accademia di polizia, in un atto da balletto bellico e virile, come spesso si vedono nei film polizieschi, irrompe nella stanza da cui proviene la voce. Il braccio armato teso rimbalza da angolo ad angolo a cercare il bersaglio da tenere sotto mira. «Chi c’e! Chi c’è! Chi c’è!?» Finalmente lo vede. In un angolo. Sta in una gabbia arruginita, ha dei semi in una vaschetta e dell’acqua in un’altra. La vaschetta dell’acqua è un casino, piena di semi e di escrementi. Il pappagallo è giallo, rosso e blu, è un po’ spennato e sembra malato, continua a are il becco da una vaschetta all’altra. «Figlio di puttana! Figlio di puttana! Figlio di puttana!» «Ma vaffanculo!» Ma poi l’attenzione di Paul Etienne viene attirata da un mucchio di stracci ad un angolo. In realtà non sono stracci, ma un reggiseno nero, non una taglia alta e un pullover bianco di donna, macchiato di sangue. Vicino al mucchietto di indumenti, manette e lacci, di seta e di cuoio.
»Duma beive na volta! Duma beive na volta! Duma beive na volta!» Paul Etienne rimane un attimo a riflettere, è un attimo breve e senza tensione. Poi alza il braccio e spara al pappagallo, tanti colpi finché nella gabbia non c’è più niente. Nella valle rimbomba di nuovo l’eco. Il sole si affievolisce sulla linea dell’orizzonte, l’aria tersa si fa più fredda e gli alberi senza foglie sembrano mani ossute che vengono fuori dalla terra. Paul Etienne rientra in casa infreddolito e la testa gli pulsa, come se ogni colpo sparato ora gli risuonasse nella testa, senza aver scoperto niente rispetto allo sparo e al cascinale misterioso. Si prepara un tè caldo, ma il mal di testa non gli a, allora esce, prende la macchina e va a Susa. In farmacia. Paul Etienne prende le curve, i tornanti di montagna nelle ore buie di un pomeriggio invernale, con quel misto di rabbia e impotenza che gli deriva dalla solitudine di un giorno di festa. Quella festa che non gli appartiene e che da sempre ha evitato, anche quando non aveva alibi, ma aveva ancora una moglie, una specie di futuro. Non ora, in ogni caso, non qua. Con un mal di testa che gli divora i desideri e la vertigine attraente di prendere dritta la curva e volare verso valle dalla scarpata. E ritrovarsi dove non sa, ma da Eleonora a festeggiare il capodanno. Punto e a capo. Arriva a Susa, ferma la macchina davanti al bar del Sole. Compra sei arbre magic in tabaccheria ed entra in farmacia.. Il camlo, che suona appena apre la porta sembra una sveglia, un gong, un aggio da una ripresa all’altra, il suono della camla quando finisce la ricreazione, il suono della sirena quando inizia il secondo atto. Secondo atto. La farmacia è deserta, per un momento non sente niente, solo silenzio, poi un singhiozzo strozzato, il singhiozzo di un uomo, non di una donna. Paul Etienne si guarda intorno, dal momento che ancora nessuno sembra preoccupato della sua presenza. Il singhiozzo si ferma improvviso, tanto che Paul Etienne dubita di averlo mai sentito. Eppure. Si schiarisce la gola per farsi sentire. Ancora nessuno arriva. Si aggira fra gli scaffali, osserva tutte le scatole e le tipologie di preservativi, si guarda intorno e
sale sulla bilancia elettronica. Cerca una moneta nella tasca. «Funziona con un euro» gli annuncia una voce dietro di lui. Paul Etienne si gira e vede che finalmente il farmacista è comparso . Camice bianco, sorriso sicuro e sguardo famigliare. Sono vent’anni almeno che va in quella farmacia. Si avvicina al banco. «Vorrei una scatola di moment o una boccetta di novalgina o qualunque cosa faccia are in fretta il mal di testa…» Il farmacista lo guarda e gli sorride, Paul Etienne gli ricambia il sorriso, ma vorrebbe che quel bel ragazzo in camice bianco si sbrigasse, che si voltasse e cercasse tra i suoi scaffali un rimedio contro il suo mal di testa. Il farmacista, però, non si muove, come una statua di sale e un maledetto sorriso. «Ispettore…» ed è in quel momento che Paul Etienne capisce. È il ragazzone biondo che ha incontrato all’ospedale, quello della bambina morta. «Come va, signor Bernard? Va meglio?» «Va un po’ meglio, anche mia moglie sembra essersene fatta una ragione… anzi aspetti un momento che la chiamo…» Il ragazzone, bello, sincero, accogliente gli lascia ancora un piccolo sorriso prima di girarsi e sparire per chiamare la moglie. Rientra e porta con sé la scatola di moment e la moglie che lo segue, “Carla, c’è l’ispettore Lizzi…”, poi incarta la scatola e gliela porge. “Signora…” Paul Etienne gli tende la mano. La signora Bernard lascia stringere la sua, come fosse una pratica a cui non è abituata. È sempre bella la signora, ma sembra più vecchia, i suoi occhi più duri e le sue labbra sembrano aver dimenticato come si sorride. «Buon anno ispettore…» «Buon anno…». Nessuno dice più niente per un momento, si guardano come per studiarsi o come per chiedersi per quale motivo si trovino tutti e tre lì, si sente venire da fuori il rumore elettrico di una sega che taglia la legna per la stufa e quando suona il camlo della porta e una signora entra si sente l’odore del freddo dell’inverno in montagna. «Quanto devo?» «Niente, lasci stare ispettore e torni a trovarci quando è da queste parti, anche se non ha il mal di testa… e buon anno.»
«Buon anno…» Paul Etienne risale la montagna, sente la testa vuota, non riesce a pensare, eppure sente che qualcosa gli sfugge, che dovrebbe esserci un nesso, un legame che non trova. Il giorno è già diventato notte ed è una notte che avvolge, morbida, calma. La luce bianca della luna è fredda e pulita, proprio come la giustizia come ha sempre sognato e come non ha mai trovato.
Le tende sono pesanti di velluto bordeaux, alle finestre e alle porte comunicanti. Così nessuno spiraglio filtra da fuori e l’interno è illuminato da candele, candele ed ancora candele. Non ci sono vere e proprie stanze, bensì un unico ambiente, al centro del quale è allestita come sempre la dark room. Nella dark room c’è una sola donna e quattro uomini, almeno in questo momento. Lei si districa tra tutti e quattro cercando di non dimenticare nessuno e nessuno di loro si dimentica di lei. Intorno alla dark room, poste a cerchio ci sono le nicchie. Tra bicchieri vuoti, pieni e a metà, tra le bottiglie e i piatti di carta rossi, natalizi, uvetta, avanzi di panettoni e pandori, si muovono i corpi delle donne e degli uomini. Per lo più sono nudi. Sono donne e uomini che variano da un’età di trentacinque anni, ai cinquanta. Sono uomini e donne che credono nella loro emancipazione sessuale, sono coppie che si accoppiano con altre coppie. Così si sentono liberi e trasgressivi, anche se la loro carne apisce esattamente come quella di tutti quanti. I sorrisi si spengono, la notte, prossima al termine, copre i corpi nudi di questi banchieri, impiegati, ingegneri, operai, geometri, disegnatori cad, commercianti, imprenditori, geometri, farmacisti che hanno salutato così il nuovo anno in un villino, discreto. Uno dei tanti. In una valle fuori dalla città, una delle tante di questa Italia del 2005.
I colpi alla porta svegliano Lizzi il mattino del 1° gennaio 2005. È un battere secco, forte e disperato. Paul Etienne si alza, ancora non capisce, va alla porta. È in maglietta e boxer e il pavimento della casa di montagna è gelato sotto i piedi nudi, la stufa è fredda dalla notte e l’inverno si fa sentire in pieno. E ancora non capisce chi possa venire a svegliarlo la mattina del primo gennaio. Mentre apre la porta l’abitudine lo porta a chiedere chi è e mentre sente rispondere “apra per favore”.
È una ragazza di circa venticinque anni, bruna, vestita molto semplicemente, con il rossore delle guance a indicare che è del posto. Paul Etienne la conosce di vista, potrebbe dire d’averla vista crescere, anche se non le ha mai parlato. La ragazza dice ancora: “Signor Lizzi…” e poi scoppia a piangere sulla spalla di Paul Etienne, infreddolito, in mutande, all’alba del nuovo anno. Qualche minuto più tardi Paul Etienne è riuscito a infilarsi i pantaloni e a preparare un caffè nella sua cucina spoglia. Mentre aspetta che il caffè salga, accende il camino e mentre il fuoco inizia a scaldare, il caffè è nelle tazze. «Chi sei, e cosa vuoi da me, e perché è così urgente da svegliarmi la mattina del primo dell’anno…» «È ormai l’una…» «Il primo dell’anno è sempre mattina…» «Mia sorella è scomparsa…» Paul Etienne si alza, prende la sua tazza la porta al lavandino e la sciacqua frettolosamente. «Finisci il tuo caffè e poi vai via. Devo lavorare.» «Aveva 14 anni ed era bella. Più bella di me.» «Ritornerà. Sarà a qualche festa di capodanno.» «È scomparsa da tre giorni. Mia mamma crede sia scappata con qualcuno e ha vergogna di andare alla polizia. La conosce mia mamma?» «No…» «Si che la conosce… ha la margeria sul sentiero per il frais… vende le tome e il miele…» «Vai tu alla polizia…» «Tu sei la polizia…»
«No. Vai , ora, ritornerà e se non ritornerà vai alla polizia, a Susa. Io m’informo, posso fare solo questo. Come si chiama tua sorella?» «Giulia. Giulia Chiamberlando.» La ragazza riprende il suo piumino e va verso la porta. Paul Etienne l’accompagna. «Grazie commissario. i da noi quando vuole. A prendere il miele. La toma…» «Non sono commissario…» La ragazza esce. Paul Etienne l’accompagna fuori, così può vedere che il primo gennaio del 2005 è ancora una bella giornata, fa freddo, ma c’è un bel sole.
Il giorno dopo l’ispettore Lizzi è alla scrivania, davanti al computer del suo ufficio. “Nell’agosto del 1980, Mary Lambert di anni 87 muore di un apparente attacco di cuore. Mary Lambert è la nonna della moglie di un rampante businessman di Chicago, Charles Albanese. Dodici giorni più tardi muore anche la madre della moglie Marion Mueller di 69 anni, nello stesso identico modo. La morte improvvisa delle due donne, provoca un’ondata di panico nella comunità del sobborgo in cui vivevano le donne. Qualcuno iniziò a parlare di acquedotto avvelenato. Un anno più tardi anche il padre di Charles Albanese, venne trovato morto nelle medesime circostanze.” Ma proprio in quel momento il telefono sulla scrivania inizia a squillare. «Venga su da me, ispettore… faccia il favore». Paul Etienne grugnisce, salva e si muove.
Il commissario capo è un uomo robusto. Un uomo d’azione che per competenza, senso di fiducia e lealtà si è trovato ad avere un ruolo di comando nella polizia di stato. Ha un viso schietto e duro, guarda sempre dritto negli occhi, come se stesse sempre conducendo un interrogatorio. Viene dalle montagne e si vede, dagli appennini abruzzesi, ha un accento burino, ma è un uomo intelligente. Ha i capelli tagliati corti, in un taglio militare, neri e forti con un ciuffo bianco davanti, la fronte ampia e un po’ stempiata e due rughe sul viso che partono dal
naso che gli danno una lontana somiglianza con Mel Gibson. Viene da L’Aquila e a L’Aquila sogna di tornare, il commissario capo Giorgio Santacroce. Il commissario Santacroce ha una stanza tutta per sé, con la targhetta fuori con il nome, come un professore universitario. Il suo ufficio ha una finestra da cui vede la Mole Antonelliana, un ficus e uno schedario di alluminio. Comunicante una stanzetta con un agente a lui espressamente assegnato. Tutto questo vuol dire essere arrivato in alto, non molto, ma già qualcosa. Ad esempio, se vuole, il commissario Santacroce, può trasferire Lizzi ad altra sede, affidargli o togliergli gli incarichi. Ma il capitano è persona mite, si sente soddisfatto della sua posizione, non ha ambizioni o vendette. Sta dove l’hanno messo e cerca di fare il suo lavoro. L’ispettore Lizzi entra e si siede di fronte al commissario, sedia e scrivania sono suppellettili statali democristiani e anni cinquanta. Alluminio, fòrmica e plastica. «Buon anno, ispettore…» «Il catalogo procede…» «Bene, ma non è per questo che la convoco… dal ministero non mi sollecitano… è un lavoro che può fare con comodo… quando ha tempo. Ha sentito dell’operazione che stiamo conducendo sugli albanesi… abbiamo già effettuato alcuni arresti… come l’hanno chiamata?… “Tirana Connection”… qualcosa del genere…» «Si, so che è in piedi questa operazione… ma io mi occupo di omicidi…» «Lo so, ispettore, lo so… infatti le chiedo qualcosa che un po’ m’imbarazza… ma vede… nonostante il suo pessimo carattere e le lamentele che ricevo continuamente dai suoi sottoposti, per me lei è uno dei poliziotti più efficienti… così mi trovo costretto se voglio ottenere dei risultati ad affidarmi a lei anche se non è di sua competenza…» «Di cosa si tratta?» «Niente di speciale… ma voglio far fruttare questi arresti e non credo che la squadra che si sta occupando dell’operazione sia efficace quanto lei negli
interrogatori. Insomma voglio che sia lei a condurre gli interrogatori degli arrestati. Voglio avere dei risultati, voglio avere tutte le informazioni che si possono ottenere, con qualunque mezzo… sarà coperto…» L’ ispettore Lizzi guarda Santacroce il suo superiore. Lo fissa, poi abbassa lo sguardo e si concentra sulle scarpe. Nota una macchia e si mette a pulirla, come se in quel momento fosse la cosa più importante. «Allora ispettore?» Lizzi si tira su come ricordandosi solo in quell’istante di trovarsi a colloquio con il suo capitano. «Allora facciamo un patto». «Quale?» «Io le tiro fuori tutte le informazioni di cui ha bisogno… poi vado da Crippa, dal p.m., e gli chiedo di aprire un caso e lei mi permette di lavorarci sopra…» «Quale caso?» «Niente di concreto. Solo una sensazione…» «E se il magistrato non ritiene di aprire l’inchiesta?» «È una bambina. È morta di una crisi di vomito». «Potrebbe anche essere stata uccisa dal gigante buono, ma la sua bambina non avrà la precedenza.» «Ci proverò con gli albanesi, ma quelli non aprono bocca…» «Non doveva concludere l’omicidio Livi, ispettore?» «Allora lei non li legge i rapporti?» «Sono troppo noiosi. Preferisco il suo catalogo.» «Torno al mio catalogo». Lizzi si alza e sta per andarsene. «Mi porti dei nomi dagli albanesi…»
«Mi faccia lavorare sulla piccola…» «Non ne voglio sapere niente…» Lizzi è ormai alla porta. «È morta come Jimi Hendrix. Soffocata dal vomito…» «Allora la chiami operazione Purple Haze…» «La chiamo come mi pare» riesce ancora a dire l’ ispettore prima di uscire. Il capitano rimasto solo scuote la testa. «Vaffanculo ispettore Lizzi…»
QUATTRO
“La sua mano sarà contro tutti e quella di tutti contro di lui.”
Genesi 16, 12
Mentre lei abbassa il capo, lui socchiude leggermente gli occhi. Senza chiuderli, anzi si sofferma sulla scriminatura dei capelli. Osserva la radice nera, la ricrescita naturale, la lotta contro la tintura bionda, contro quel giallo così appariscente, così innaturale. Sono capelli forti e giovani, vivaci e neri, fino a dove incomincia la tinta. È il marchio della strada, l’uniforme per cui essere riconosciuta e attraverso la quale nascondersi. Solo quando il nero naturale avrà ripreso possesso della testa, lei sarà di nuovo libera. “Io tengo per i tuoi capelli…” vorrebbe dirle, ma si astiene, si limita a posarle una mano sulla testa, non una carezza, non un gesto ambiguo, ma perfettamente riconoscibile e perfettamente giustificato dalla situazione. Ogni volta, invece, che lei per un attimo si scosta di poco da lui e si lascia guardare, lui la guarda. Guarda l’arco delle sopracciglia, la vera fonte delle sue espressioni. Vede quanto sono nere, in contrasto con i capelli, sono un lusso che può permettersi di portare, non deve tingerle, mentre non può tralasciare il trucco sugli occhi, quei segni marcati di colore, di matite, di pitture. Paul detesta il cattivo gusto di quel trucco, ma ne ama profondamente il significato, lo ama con ione carnale, così come l’odore di questi trucchi, di questi deodoranti dozzinali, di questi profumi che si comprano in tabaccheria. Ama quella donna, la cui testa lui accompagna con la mano aggrappata ai suoi capelli, la ama perché prima di quella tintura da due lire, prima di quel trucco pesante, prima di quei profumi invadenti, prima di tutto questo c’era una bambina e dopo tutto questo c’è una donna, con le sue aspettative, con i suoi sogni da quattro soldi come i suoi profumi. La ama perché viene dalla strada e oltre alla strada non ha altra
prospettiva. La ama perché non ha speranza. La ama perché è esattamente come lui.
Paul Etienne esce dalla rampa del garage, ha lasciato la Uno, la foresta odorosa di arbre magique e i suoi tappetini di ricordi. Con calma, senza fretta di rientrare, cammina verso casa. All’altezza di via Galliari, all’incrocio con via Ormea nota un giovane africano, si avvicina dinoccolato a un’auto parcheggiata, dove qualcuno lo sta aspettando. Solo un lampo negli occhi di Paul Etienne è il segnale. Due i più lunghi ed è alle spalle dell’africano. Lo colpisce alla nuca e contemporaneamente estrae e punta la pistola contro l’uomo bianco nell’auto. Con mezzo cenno del capo lo invita a sparire. In mezzo secondo l’auto si allontana. Paul Etienne ha preso tra le dita i ricci corti dell’africano, gli reclina la testa e gli appoggia la canna della pistola fra gli occhi. `«Fuori le palline, negro!». Un istante di indecisione dell’altro e Paul Etienne lo ha già colpito secco su uno zigomo con il palmo della mano. «Fuori le palline, negro o stasera muori…». Da una guancia, come fossero denti, l’africano fa uscire quattro palline bianche e una sorta di supposta rossa, le sputa sulla mano a coppa e le porge a Lizzi. Paul Etienne le infila in tasca, poi si a la mano sui jeans per asciugarla dalla saliva dello spacciatore. Immediato, lo colpisce secco con la pistola esattamente nel punto in cui la teneva puntata. L’africano sanguina e cade a terra. Quando è a terra Paul Etienne slancia la gamba per scalciarlo, poi cambia idea e non chiude il colpo. «Stasera ti è andata bene negro, sono di buon umore…» Quindi se ne va, Paul Etienne, risistemandosi e controllando in mano il bottino ormai asciutto.
La sala agenti al mattino presto sembra un’aula di scuola, prima che cominci la lezione. Sotto il ritratto di Ciampi, Viglierco e Venturiello stanno prendendo il caffè, con vere tazzine di ceramica. Non molto distante da loro c’è un fornellino elettrico e sopra una caffettiera napoletana.
«Buono Venturiello… proprio buono il tuo caffè…» «Eeehhh… è come me lo faceva mia madre… la stessa ricetta… gli stessi trucchi… altro che quella schifezza che c’è di là…» «Vabbè, quello è un distributore… Ma mi raccomando, fai sparire tutta questa roba prima che arrivi l’ispettore, sennò quello fa una piazzata…» Per un po’ i due agenti rimangono in silenzio, finendo di sorseggiare il caffè, come se soltanto il menzionare Lizzi li avesse pietrificati. Solo dopo che ha lavato le tazzine e fatto sparire tutto l’occorrente per fare il caffè come lo faceva mammà, l’agente Venturiello torna a parlare. «Avete visto Vigliè, che peccato… che è morto il papa… che peccato…» «Aveva anche l’età… era malato…» «Si ma era bbuono… era bbuono… sto papa… polacco, ma bbuono…» «Che azzardo fare un papa polacco… come ha fatto a guidare la chiesa Romana, lo sa solo Dio. Speriamo che il prossimo sia italiano. Il papa deve essere italiano! Grazie a Dio almeno Gesù era italiano…» «Ma che stai dicendo, Vigliè?! Gesù era ebreo…» «Ebreo??!! Adesso il capo dei cattolici era ebreo… No, era italiano. Era Romano.» «Te l’ho già detto. Gesù Cristo era un ebreo. È un dato di fatto…» «Vabbè Venturiello continua a fare il caffè che lo fai bene…» In quel preciso istante, Paul Etienne Lizzi entra nella sala agenti, senza uno sguardo, né un accenno di saluto, veloce come un fulmine, portandosi dietro il freddo della mattina, entra nel suo ufficio. I due agenti si guardano preoccupati. «È arrivato presto stamattina…»
“John George Haigh nasce a Stamford, Lincolnshire, Inghilterra, il 24 luglio del 1909. Haigh cresce oppresso da una stretta disciplina religiosa. I suoi genitori, ardenti seguaci di una severa setta, la Plymouth Brethen, ritenevano peccaminosa qualsiasi forma di intrattenimento, i film, il carnevale, la musica e vietavano anche la lettura di riviste e quotidiani. Haigh fu un brillante studente ed un ragazzo del coro della cattedrale di Wakefield, nei primi anni venti inizia a guadagnarsi la vita come venditore…” Paul Etienne è nero, la mattina ha un sapore acido. Sapeva che con il magistrato non sarebbe stato facile, Crippa l’ha sempre ritenuto un raccomandato e un imboscato, ma stavolta la discussione si è fatta tesa. Crippa gli ha fatto intendere chiaramente che non avrebbe aperto nessuna inchiesta, che la sua era una fissazione, vedere crimini anche nelle situazioni più normali. Si è sentito trattato come un demente, Lizzi, allora non c’ha più visto e l’ha insultato, non ricorda nemmeno più come, ricorda solo che è uscito dal suo ufficio continuando ad urlargli incompetente, incompetente, mentre qualcuno lo spingeva fuori cercando di fargli recuperare la calma. Si strizza gli occhi, digrigna i denti, si stira la schiena, cerca una soluzione, finché si alza dalla sedia, mette la testa fuori dalla porta e urla: «Viglierco!». Nessuna risposta. Paul Etienne esce dal suo ufficio e vede Viglierco al telefono, mentre sta facendo dei cenni con le dita, come per dire “un minuto e sono da lei, finisco la telefonata…”, ma Paul Etienne non gli lascia il tempo, gli strappa la cornetta dalle mani e la lascia cadere. «Quando ti chiamo voglio che mi rispondi, subito! Non mi interessa quello che stai facendo!» Viglierco abbassa il capo, per la rabbia, per l’umiliazione. «Dove sono gli albanesi?!» «Sotto…» «Fra mezzora mi accompagni. Mi bussi delicato alla porta, mi sussurri “ispettore gli albanesi…”, io esco dal mio ufficio, ti do un buffetto sulla guancia come a un vecchio amico e mi accompagni giù. Intesi?» «Si… ispettore…»
«Bene. Ora ritorna pure a quello che stavi facendo…» Si volta e torna nel suo ufficio, attraversando la sala agenti raggelata dopo la sua scenata.
“Nel 1934 sposa Beatrice Hammer, ma il matrimonio durerà solo pochi mesi, fino a quando nel novembre dello stesso anno Haigh viene arrestato per frode. Dopo un breve periodo di prigione, viene rilasciato, ma High continua i suoi metodi truffaldini, fino al 1937, quando viene di nuovo arrestato per estorsione e condannato a quattro anni. Rilasciato nel 1940, High pianifica di fare molto denaro in poco tempo. Si trasferisce in South Kensington, nell’hotel più raffinato e meglio frequentato della zona, l’Onslow Court Hotel, occupando la stanza 404. I residenti dell’hotel sono tutti professionisti in pensione pieni di quattrini e High riesce a spacciarsi come un facoltoso imprenditore e un capace businessman. Ma nonostante tutto, non funziona come dovrebbe, High appare sempre un po’ troppo grossolano per i gusti raffinati dei residenti.” Paul Etienne sposta la tastiera, con un gesto risoluto spazza via ogni oggetto dalla scrivania, guarda la foto di High molto elegante sul desktop del suo computer, ride e dalla tasca tira fuori la pseudo supposta rossa dell’africano. Toglie tutto il nastro adesivo rosso, libera il sacchettino dalla carta igienica che lo ricopre e apre un’estremità con il taglierino. Finalmente apre il sacchetto, dentro ci sono due grammi abbondanti di cocaina, con la tessera di Blockbuster ne prende un po’ e la stende sul retro rilegato di un rapporto di Viglierco. La schiaccia con la tessera e la sminuzza fino a formare due righe generose. Arrotola una banconota da dieci euro, prima una, poi l’altra se le tira su col naso. Poi scoppia a ridere. «Non mi fermi giudice Crippa. Qualcosa non mi torna, e tu non mi fermi!» Ripete l’operazione ingrossando ancora le righe e mentre ha la cannuccia nel naso, mentre sta tirando su la seconda, sente un timido bussare alla porta. « Ispettore… gli albanesi…» «AndiamoViglierco!»
Jayme Bernard con il camice bianco da farmacista ha un portamento regale, sembra il dottor Kildare della val Susa e le signore della valle, che lo sanno, hanno un motivo in più per frequentare la farmacia. Il dottor Bernard è il miglior sogno di molte di queste signore belletti, pellicce e provincia, che diligenti stanno in coda anche solo per una scatola di pastiglie valda. Molte si fanno misurare la pressione, altre la vista, qualcuna più sfrontata compra preservativi. Per tutte Paul ha un sorriso, ma niente di più e questa sua fedeltà aumenta la leggenda, la posta. Come fosse un grande gioco di società, da anni è partita la corsa a chi si aggiudica il trofeo, apparentemente impossibile. Lui gentile e sereno, pare non avvedersene, così come Carla, che sa quanto sia ambito il marito, ma non dà alcun segno di preoccupazione. Solo quest’ombra, adesso. Da natale, dalla morte della piccola, ha lasciato un piccolo velo su di lei, come una pellicola, una patina, impercettibile, di tristezza. Mentre lui è come sempre. A fine giornata è ancora in farmacia, ripone i medicinali appena prezzati, sugli scaffali mobili, archiviati in ordine alfabetico, Aulin, Buscopan, Cebion, Domedil, En, Fluimocil, Guaranà, Ibuprofen, Lexotan, Malox, Novirax, Optalidon, Polase, Roipnol, Saridon, Tailenol, Vivin C, Zytoxyl. Alle sette e mezza chiude, va a a casa, da Carla, poi a giocare a tennis. Mentre sta chiudendo, arriva ancora la signora Chiamberlando, vuole le insuline per il diabete. Jayme che ha già tirato giù la serranda, paziente la tira di nuovo su, prende le insuline e gliele porta. La signora vuole dargli i soldi, lui li rifiuta. «Me li dà la prossima volta signora, ho già chiuso la cassa, non posso farle lo scontrino.» La signora fa sempre così, arriva sempre quando lui è già sulla porta. Non lo fa apposta, vende il formaggio sulla statale per il Monginevro, il tempo di chiudere e di scendere e non riesce mai ad arrivare prima. Praticamente ha le insuline gratis, perché il dottor Bernard non riesce a farle lo scontrino. Così dopo che ha chiuso, definitivamente, fanno un pezzo di strada insieme, la signora Chiamberlando che vende la toma sulla strada e il dottor Kildare della val Susa. «Potrebbe fare E. R.» dicono tutti, lei gli racconta delle sue figlie e lui le racconta di Carla e che forse fra un po’ faranno un bambino. Oltreato il ponte sulla Dora, lei prosegue dritta, mentre lui gira a destra, prende via Roma, che è pedonale, dà un’occhiata alle vetrine, di Dindo, di Olimpic, guarda il Rocciamelone che ha di fronte, innevato anche d’estate, oltrea la ferrovia, ancora cinquecento metri sulla strada per Mompantero, ed
è a casa. Arrivato a casa, una piccola, graziosa villina, rivolta verso il Rocciamelone, con un piccolo giardino, un orto e una tavernetta, i suoi due cani gli fanno le feste. Il segugio, che è un po’ tonto, abbaia come se il suo padrone fosse la luna e fossero mesi che non lo vede, mentre Milady, la cockerina americana, non dice niente, si limita a seguirlo e a leccargli una mano e zampetta, contenta e sculettante fin dentro casa, dove a lei è concesso entrare. Mentre Pluto rimane fuori a continuare ad abbaiare. Dentro casa c’è già Leo, seduto sul divano, beve un Martini insieme a Carla. Jayme, da un bacio a Carla, prende un pistacchio dalla ciotola. «Bevi Martini, così stasera non c’è partita…» «Ti batto anche ciucco…» «Mi cambio e andiamo…» Dopo aver preso un altro pistacchio, sparisce in camera da letto. Leo è un amico d’infanzia, sono cresciuti insieme, giocano a tennis insieme da quando hanno quattordici anni, lui è un rappresentante di medicinali, una volta vince uno, una volta vince l’altro, anche per questo da quindici anni giocano due sere alla settimana. D’estate, invece, girano i tornei della valle, e li vincono tutti, dividendoseli, un po’ uno un po’ l’altro, giocando sempre contro in finale. In doppio, invece, sono imbattibili. «Stasera abbiamo la riunione Amway…» interviene Carla. «È vero, quasi dimenticavo. Ci vediamo direttamente alla farmacia… prendi tu le chiavi…». Poi rivolto a Leo: «Ci sei anche tu, stasera?». «Si… certo… c’è anche Serena…» «A proposito… come va con Serena?» «Ma… per ora va… ne stavo giusto parlando con tua moglie…» Intanto i due uomini escono di casa e Leo tira fuori le chiavi della macchina e con il telecomando accende le quattro frecce della Yaris parcheggiata proprio
davanti. «Prendiamo la mia…» e sale dentro. Una volta salito anche Jayme, la macchina parte. Il Rocciamelone rimane lì, a riflettere la luce lunare e solo chi c’è stato sa, che lassù in cima c’è una statua della Madonna, neanche tanto bella, ma è lassù, sulla cima. A tremila seicento metri.
Il corridoio è lungo e stretto su cui in fila si aprono, come cellette, le stanze per gli interrogatori. Ogni stanza non è niente di eccezionale, spoglia, ci sono una scrivania d’alluminio e formica con sopra una lampada e tre sedie, due da una parte, l’altra dall’altra. La sedia del sospetto è inclinata in avanti, di modo che quando si siede si sente scivolare in avanti e non a proprio agio. Di solito i sospetti vengono portati nelle stanzette, lasciati qualche ora e osservati dall’esterno attraverso uno specchio finto. L’ispettore Lizzi entra insieme a Viglierco nella prima stanza, dove c’è il primo albanese. «Finalmente… arrivati…» Paul Etienne, da dietro, gli prende in mano i capelli e gli sbatte la testa contro il tavolo. Forte con decisa violenza. «Parli solo dopo che io ti ho fatto le domande» Quindi fa il giro del tavolo, si siede, accende la lampada e gli punta il fascio di luce negli occhi. «Allora Viglierco, siamo intesi, io gli faccio le domande, se non mi va la risposta ti dico colpisci e tu colpisci». Viglierco, a cui non pare vero di potersi sfogare, annuisce senza parlare, per non tradire la propria soddisfazione. «Per chi lavorate?» «Nessuno… da soli… lavoriamo da soli…» «Colpisci, Viglierco». Lo dice annoiato, come già previsto, come dicendo “siete tutti uguali”. Viglierco colpisce, con un impegno serio, come chi ci tiene a non sfigurare. Un
pugno solo, con rincorsa, duro, sullo stomaco del malcapitato che s’accascia. Colpisce Viglierco come i poliziotti nei film americani anni quaranta, con quella compostezza, quella stessa serietà. Nel tempo in cui Lizzi ha finito di annoiarsi e in cui Viglierco ha colpito con la sua compostezza da Falcone Maltese, in quel poco tempo Lizzi è riuscito a farsi crescere dentro un’ira furibonda. «Non così Viglierco! Dio santo, buono a nulla!» E si alza, prende in mano la lampada e comincia a sbatterla violentemente sulla faccia dell’albanese tre, quattro, cinque volte, sembra non volersi fermare. Poi si ferma, però. L’albanese non ha più la faccia, né la voce per gridare, è solo una maschera di sangue. «Per chi lavori?» L’albanese sta zitto. Piange, tira su con il naso. «Si sta pisciando addosso…» Viglierco guarda e vede i pantaloni dell’albanese diventare più scuri all’altezza del cavallo. Lizzi gli sputa sulla faccia. «Colpiscilo Viglierco…» Viglierco prende la lampada e gliela sbatte sulla faccia, come aveva fatto l’ispettore, due volte solo. «Non lo si può colpire solo in faccia…» Si alza, tira fuori la pistola dalla fondina, si porta alla schiena dell’interrogato e con il calcio della pistola lo colpisce ripetutamente alla schiena, sei, sette volte. L’uomo non ha più fiato, ma si vede che vorrebbe parlare. «Ora vorresti parlare?» L’albanese annuisce. «Non potevi farlo prima… dovevi sfidarmi… ma vedi adesso c’ho preso talmente gusto, che non mi interessa più…» E parlando gli si avvicina, scosta la sedia su cui è ammanettato e lo colpisce a calci sui testicoli, a ripetizione, a raffiche di tre. «Lo ammetto sono frustrato… e menare quelli come te mi scarica, mi rilassa… finché dura… Viglierco, aprigli le manette…» Viglierco esegue, sussiegoso, sembra un chierichetto che serve la messa. Lizzi dalla tasca della giacca prende una matassa di fil di ferro e si avvicina al prigioniero. Lo guarda in faccia, vede i suoi occhi muoversi dietro la maschera di sangue, pesci che si muovono in una piscina profonda. Lo colpisce con un calcio nello stomaco, e l’albanese, senza più manette a tenerlo alla sedia, cade a terra. Lizzi gli mette un piede sul collo e gli lega strette le mani col fil di ferro
alla scrivania, così che la faccia resti schiacciata al pavimento e non abbia modo di muoversi. Il fil di ferro gli taglia i polsi fino a farli sanguinare. «Andiamo dagli altri, Viglierco…»
Avere le mani legate le suscita brividi che le percorrono tutta la schiena, arrivando fino in fondo, fino al basso ventre. E sentire un’impagabile elettricità all’inguine. La posizione a cui è costretta, non le permette di vedere niente di cosa sta per capitare, la guancia contro il pavimento e lo sguardo non può andare oltre un angolo della stanza, dove vede solo polvere. I lacci le legano i polsi alle caviglie, a loro volta legate alle gambe del tavolo, la posizione la pone con il sedere all’in su, le gambe divaricate e così, nuda com’è, sembra un tacchino il giorno del ringraziamento che aspetta di essere farcito. Lui non c’è. È andato chissà dove. È una sua raffinata perversione, legarla e al momento opportuno, invece di prenderla, andarsene. Questa è una cosa che la eccita terribilmente, come fa lui a saperlo, per lei rimane un mistero. Ma lei lo ama, lo ama, lo ama. Nessuno potrebbe mai darle tanto.
“Nel 1944 Haigh viene assunto da un ricco magnate, W. D. McSwan, come segretario ed autista. In quel periodo Haigh affittava un angusto scantinato che lui utilizzava da ‘laboratorio’, al 79 di Gloucester Road, in Kensington. Ad uno ad un si occupò dei McSwan, per primo il figlio, Donald McSwan, il 9 settembre del 1944, i genitori gli anni seguenti. Quando il signor McSwan e sua moglie manifestarono preoccupazione per la scomparsa del figlio, Haigh fu pronto a dare loro una spiegazione, ovvero che il figlio si era nascosto per evitare l’esercito, pratica non insolita durante la guerra. Il sistema di Haigh era semplice; invitava la vittima a vedere il suo laboratorio, quindi la colpiva a morte e scioglieva il corpo in un’ampia vasca di acido. Nello stesso tempo riuscì con l’imbroglio a farsi intestare a proprio nome alcune proprietà dei McSwan, in Raynes Park, Wimbledon Park e Beckenham, Kent e riuscì anche a rubare almeno 4000 sterline in contanti. Con questi soldi cercò di mettere in piedi un sistema di scommesse sui cani che prometteva vincite sicure. Quando, perse tutto, non gli rimase che nuovamente l’omicidio per risollevarsi.
Questa volta le vittime erano il dott. Archibald Henderson e sua moglie Rosalie, benestanti in pensione, che, nell’Agosto del 1947 cercavano di vendere una casa. Haigh, benché senza soldi, si propose come compratore. Iniziò così un’amabile amicizia fra gli Henderson e Haigh, finché il 12 febbraio 1948, portò il dottore a visitare il suo laboratorio, dove gli sparò alla testa e sciolse il corpo nella solita vasca di acido sulfurico. Subito dopo, tornò dalla moglie, trafelato e le raccontò che suo marito si era sentito male ed aveva bisogno di lei. Una volta al laboratorio le fece fare la stessa fine del marito.” Paul Etienne si stira la schiena, stanco dal tanto scrivere. Lo affascina questo Haigh, la predisposizione entusiastica, ingenua e quasi innocente verso il male, lo rende simpatico. Il suo è un male spontaneo, senza odio, solo per un nobile scopo, il denaro. Banali bugie da bambino, pensa, e intanto tira fuori il sacchettino, distende tre righe generose e se le tira. Sente la botta, sorride e pensa al bonario commissario Santacroce, alla boria del giudice Crippa, ad Haigh, il killer vampiro, come era stato soprannominato all’epoca, e alle sue prossime mosse. Un bussare timido alla porta lo fa trasalire, nasconde in fretta il resto della coca. «Ispettore… se permette…» Viglierco fa capolino alla porta. «Ho le confessioni degli albanesi…» «Entra, Viglierco, mettile sul mio tavolo». «Ha avuto ragione lei, ispettore…» Paul Etienne si è alzato e si stira la schiena. «È per questo che mi vogliono tutti bene, Viglierco…» e avvicinandosi a lui gli da un paio di buffetti sulla guancia. «Perché sono efficiente… efficiente…» Viglierco rimane un momento sorpreso a fissare il suo superiore. «Vai pure, Viglierco…» “Più tardi li porto su” si dice tra sé e ritorna al computer, ai suoi libri e ai suoi appunti. “Con grande abilità, dopo l’omicidio degli Henderson, Haigh riuscì a
contraffarre la loro grafia e spedì ai loro amici e parenti lettere in cui spiegavano che si erano trasferiti in Australia e che di tutti i loro affari si sarebbe occupato Mr. Haigh. I profitti di questa impresa furono molto superiori ai precedenti, soltanto con la vendita dell’auto e della casa ottenne più di 10.000 sterline. Ma nel giro di un anno, Haigh aveva già finito i soldi.”
Giulia Berruti sta tornando a casa. Va a scuola a Torino perché non ha voluto fare il liceo classico, fa l’artistico ed ogni sera alle cinque prende il treno che la porta fino a Bussoleno e da lì l’autobus, perché i treni per Susa li hanno sospesi. Ha diciassette anni, i capelli rossi, disegna bene, ma impazzisce per la creta e la sua materia preferita è modellato. Oggi, però, torna a casa tardi, dopo una pizza con i compagni e prende l’ultimo treno della sera. Fa freddo ed è buio, Giulia scende alla stazione. Alla sua destra vede il Rocciamelone riflettere la luce della luna, si dirige verso destra, deve prendere la strada militare per arrivare a casa. Attraversa il parcheggio come al solito deserto, ma mentre sta per iniziare la salita sente un rumore alle sue spalle. Non fa neanche in tempo a voltarsi che una grossa mano le chiude la bocca e l’altra la spinge verso le vecchie stalle della caserma dismessa degli alpini della brigata taurinense. Una volta dentro la stalla, l’odore dei muli è soffocante, anche se ormai da anni è abbandonata. La mano la spinge a terra, la faccia al suolo, la bocca contro il terriccio, il fieno, i resti del letame. Gli occhi chiusi perché niente gli entri dentro, ed un terrore che è ormai certezza, pregando che finisca presto e che rimanga viva. Il suo aguzzino le ha alzato la gonna fino alle spalle, le abbassa le mutande e con un oggetto che non riesce a identificare le penetra l’ano. Subito dopo lo sente entrare dentro, con forza, con violenza. Subisce almeno cinque minuti questa violenza, fino a che non riesce più nemmeno ad urlare. Quindi improvvisamente smette, le tira indiettro le mani e gliele lega. Strette, sente i polsi scarnificarsi. Quindi le infila una benda per dormire sugli occhi, una di quelle che si usano sugli aerei e la gira verso di lui. Non vede più niente, è tutto buio e una vertigine si è impadronita di lei, le sembra di essersi allontanata dalla realtà, come svenuta, come in sonno. In questo stato, sente che l’uomo le entra in bocca e si agità, finché non raggiunge il suo scopo. Poi sente che se ne va.
Lei rimane lì, nella stalla, legata, la bava alla bocca e le lacrime che le scendono giù dalla benda, mentre piange silenziosa, persa in quel buio e in quella vertigine.
CINQUE
Qui a mordue à la terre, il en conserve le goût entre les dents.
Paul Claudel, Cinq Grandes Odes
Ancora una volta si alza e va a fare pipì. È normale con quanta acqua beve. Si stira la schiena mentre piscia, comincia a fargli male, dopo due ore nella stessa posizione. È mezzanotte, ma potrebbero essere le tre e non ha nessuna intenzione di andare a dormire. Ritorna sul divano, il computer è ancora connesso, da una rapida occhiata allo schermo, nessuna novità, nessun nuovo arrivo. Tira giù una golata di vodka, la bottiglia non è più ghiacciata come due ore fa, il sacchettino è aperto sul tavolo e sembra invitarlo, prendine ancora un po’, ce n’è quanta ne vuoi. Senza pensarci due volte, raccoglie con la tessera una generosa presa dal sacchettino, stende due enormi righe, ne tira prima una, poi due terzi della seconda, quella che rimane la raccoglie con una sigaretta che immediatamente accende. Si rivolge al computer, è arrivata Marina21anni, nel profilo chiede di vedere siti con gang bang, Paul Etienne, clicca su di lei. Entra in pvt, in chat privata, “Ciao Marina”. Aspetta qualche secondo, tira dalla sua sigaretta, controlla lo schermo, non ha risposto, ma non è andata via. Ancora una nota alla sigaretta, un sorso d’acqua, un’occhiata. “Ciao Black Jack.” Ha abboccato, Marina 21anni ha risposto. “Vuoi seguirmi?” rilancia Paul Etienne, “dove?”, Marina fa l’ingenua. “A vedere gangbang”, “certo”, “ok, da dove?”, “Mi, tu?”. “To”, “anni?”. Paul Etienne si ferma un secondo, tira un’ultima boccata dalla sigaretta, quindi la spegne. “28”, “ok, guidami tu”, “dgt extremegals.com”, “sei nero?”, “si, ma ho gli occhi azzurri, mia mamma è della Martinica“ “wow!”, “hai aperto?“, “aspetta, sta caricando”, “ok”, “sarai anche dotato allora?”. Paul Etienne ha trovato la sua preda, continua così a chattare, a buttare giù sorsi di vodka calda, sniffare cocaina, fumare cocaina, guardare siti con gang bang,
commentarli con Marina21anni, bere acqua, pisciare, sniffare cocaina, giocare con Marina21anni, bere vodka, pisciare e ancora sniffare. Finché è l’alba, si stacca dal computer, va a farsi una doccia e si prepara per uscire. Una giornata di lavoro l’aspetta e Paul Etienne per quel giorno ha dei programmi.
Paul Etienne con un cenno della mano manda avanti Cassini, sempre a cenni gli comunica che lo aspetta all’entrata del garage. Non si è ancora tolto gli occhiali da sole e indossa un impermeabile corto, da tenente colombo. L’ha comprato apposta e quando inizia un’indagine lo indossa, un po’ per scaramanzia, un po’ per vezzo. Arriva Cassini con un alfa 75 bianca di almeno dieci anni, si ferma davanti a Paul Etienne, lo fa salire. «Che cazzo di macchina hai preso?» Sono le prime parole che gli rivolge. «È un’ottima vettura…» «Vorrei spararti…» Cassini sorride, la minaccia dell’ispettore sembra quasi affettuosa. «Un giorno lo faccio, al primo scontro a fuoco, vedrai se non lo faccio… per te… lo farei solo per te, per toglierti la penosa incombenza di stare al mondo». Stavolta Cassini non sorride più, l’ ispettore sembra terribilmente serio, deglutisce un po’ a fatica, poi facendo finta di niente, chiede istruzioni: «Dove andiamo ispettore?» «Prendi la Torino-Bardonecchia…» Cassini procede, guida bene questa volta, si sente di buon umore, nonostante tutto stima molto Lizzi e si sente lusingato che abbia scelto lui per questa trasferta, lo tratta male, è vero, ma tratta male chiunque e si sente onorato di essere da solo con lui. Eccitato come per una vera missione e con la possibiltà di imparare qualcosa da un grande poliziotto. Per questo scalpita e non riesce a star zitto, mentre Paul Etienne vorrebbe evidentemente dormire dietro lo schermo degli occhiali da sole. «Abbiamo anche la radio, ispettore…»
«Bravo, tienila spenta». Il primo tentativo è andato male. Cassini incassa il colpo, si morde il labbro, abbandona corso Regina Margherita, imbocca la tangenziale e rilancia. « Le conosce bene le donne, signor ispettore?» Paul Etienne abbassa gli occhiali di poco sul naso, lo guarda in tralice per osservarlo bene da vicino. Si sofferma sulla sua espressione, sugli occhi incollati sulla strada. «Cassini, sai che in questo momento io e te abbiamo qualcosa in comune?» «Cosa, signor ispettore?» «La tua espressione è vuota come il mio cervello». Cassini resta in silenzio, spiazzato, incerto se prendersela a male oppure prenderla come una spiritosaggine, quasi un complimento. Al casello della tangenziale, paga e si fa dare la ricevuta. «Conoscere bene le donne non mi ha mai aiutato… mi ha solo aperto la mente… svegliami quando siamo a Susa».
«Ispettore… siamo a Susa…» Lizzi, però, non da segni di risveglio. Cassini è impaziente e indeciso. Vuole svegliarlo, ma teme la sua ira e ha paura di disturbarlo, dorme così profondamente il suo superiore. «Ispettore… siamo a Susa…». Insiste. Nulla. Decide di scuoterlo, ma accenna solo un tocco leggero, un po’ per paura, un po’ per timore reverenziale, la distanza fra loro due è immensa ma con un tocco può annullarla di colpo. Ma anche così l’ ispettore non si sveglia. Riprova più energico. «Siamo a Susa… ispettore…» «Cssni vffnculo…» riesce a biascicare Paul Etienne. Ora Cassini si sente a posto, ha fatto il suo dovere, l’ha chiamato e l’ ispettore
non è morto. Prende il blocco del rapporto e scrive che alle 10. 38 sono arrivati a Susa. Poi esce dalla macchina e si guarda intorno. Ha parcheggiato in un grande parcheggio praticamente deserto a fianco alla stazione. Intorno montagne. In faccia una montagna più alta di tutte le altre, innevata e con il sole che si riflette sulla neve. Lizzi esce dalla macchina e sembra un morto. «’Diamo, Cassini…» ordina Lizzi con la voce impastata.
Il commissario Locurcio è seduto di fronte a loro, li guarda e parla, parla parla, ha le sopracciglia arcuate verso il basso e sembra triste, ma le palpebre a mezz’occhio lo fanno sembrare sempre imperturbabile, come un direttore di banca che rifiuta un prestito. Parla del tempo, dell’aria pura della montagna, che è meglio di quella di città, che a Susa non c’è traffico, che è molto diverso da dove viene lui. Parla senza pause, senza dare all’interlocutore quel minimo spazio per intervenire. La sua voce ha un tono perfetto e asciutto. Paul Etienne Lizzi ancora non è riuscito a spiegarli il motivo della sua visita. Non si è tolto gli occhiali da sole e potrebbe dormire al suono di quella voce. Cassini fa ampi cenni di assenso con la testa, per educazione. Ad un tratto, Locurcio si interrompe come se improvvisamente avesse finito le parole, a Lizzi non par vero, ma aspetta ancora qualche istante, non si sa mai, magari sta solo deglutendo, il commissario. «Commissario, le devo chiedere un favore, vorrei verificare se è possibile raccogliere degli elementi per poter aprire un inchiesta. Riguarda la morte di una bambina di Susa, probabilmente è una bolla di sapone che si sgonfia in un paio di giorni, ma è uno scrupolo che mi sono fatto venire, A proposito, fatti rilevanti nell’ultimo periodo?» «Susa è una città di frontiera. La sua criminalità è legata a questa condizione, per cui i reati più frequenti sono contrabbando, clandestini, regolamento di conti, pizzo e cose di questo genere. Se volete guardarvi le denuncie e i fascicoli sono a vostra disposizione. Per il resto sono i soliti problemi di una sonnecchiosa cittadina di montagna, c’è la denuncia della scomparsa di una ragazza, ma noi crediamo si tratti di fuga. È la figlia di una donna che fa il formaggio e lo vende sulla statale. È da Natale che non ritorna a casa, ma è comprensibile che una bella ragazza
non abbia voglia di tornare in una margeria in montagna a mungere mucche e confezionare tome…» «La Chiamberlando?» «Si, lei…» « Mentre io mi do un’occhiata in giro, le lascio qui il mio collega a guardarsi gli incartamenti delle ultime settimane, se non le dispiace. La ringrazio per l’aiuto che ci dà, le ripeto che probabilmente è una cosa di pochi giorni». Detto questo, Lizzi, che era rimasto in piedi, stringe la mano al commissario e se ne va. Senza voltarsi, ad alta voce, si rivolge a Cassini, rimasto interdetto, sorpreso a metà di un cenno d’assenso: «o a riprenderti quando avrò finito…». Così esce dalla visuale dei due.
Carla sorride. Allunga una mano e accarezza il viso del marito. «Tu non ti scomponi di fronte a niente, allora?» Adesso anche Jaime sorride e con le mani le blocca la mano sul suo viso. «Sai che non è vero… mi scompongo di fronte a te…» Carla arrossisce, quel tono di voce la scioglie, non riesce a tenere lo sguardo, abbassa il capo e sente invadersi da calore come se lui la toccasse. «Sai che penso sempre a quello che vorrei darti e che non posso…» «Non ci pensare…» «Ci penso invece, ci penso e penso che tu ne hai diritto… penso anche a Tammy…» «Non ci pensare Carla, non serve a niente…» «Voglio solo renderti felice…» «Mi rendi felice…» «Sei sicuro? Vorrei solo che fosse vero…»
«È così… adesso lasciami finire di raccontarti cosa è successo stamattina…» «Finisci il pranzo…» «Si…» Jaime, come per un atto di buona volontà, dà un altro morso al panino, poi riprende a raccontare, gesticolando. «Il ragazzo allora fa, dovevi vedere come era magro, spettrale… capendo che il mio rifiuto era categorico, allora se non mi vuoi dare le insuline…» «Ti piace il panino?» «Si, mi piace molto, ma lasciami finire… “allora se non mi vuoi dare le insuline, dammi almeno la soluzione…”, il negozio era pieno e lui urlava come se fosse un suo diritto…» In quel momento suona il camlo della porta, qualcuno entra nel negozio. «Lascia, vado io, il resto della storia me lo racconti stasera.» Jayme annuisce, la bocca piena di un altro boccone. Carla esce dal retrobottega e raggiunge il balcone. Un uomo è entrato.
Paul Etienne Lizzi entra nella farmacia Bernard, il negozio è vuoto, ma dopo pochi istanti, Carla arriva al bancone. Paul Etienne si avvicina, Carla è bella, ma sembra più vecchia, i suoi occhi più duri. Appena lo riconosce gli sorride, “Buongiorno, ispettore Lizzi”. “Buongiorno”, dice lui, intanto pensa, “Hai dimenticato come si sorride”. «Ha di nuovo mal di testa?» «Suo marito c’è?» «Si… lo chiamo…» Ma non ce n’era bisogno, lui era già lì, il sorriso seducente come sempre, anche con qualche briciola sul camice. «Che piacere, Lizzi…» e gli porge la mano, «sono contento che a a trovarci… se vuole venire una sera a casa, ci fa piacere, la invitiamo a cena…». Carla nota le briciole e le spazza via con un colpo veloce del dorso della mano.
«Non vada via, signora Bernard… quello che devo dire, lo devo dire a tutti e due…» si affretta Lizzi, vedendo che Carla sta rientrando nel retrobottega. «È stata aperta un’inchiesta sulla morte della piccola». Lizzi osa il bluff. I due rimangono senza dire niente. Lei mostra una faccia carica di presagi, guardando prima l’ ispettore, poi il marito, poi di nuovo l’ ispettore. Jayme, invece, rimane così difficile da raggiungere, da colpire, da emozionare. Il silenzio la fa da padrone per qualche momento. Paul Etienne osserva i coniugi Bernard. Il primo a parlare è Jayme, prende la mano di sua moglie e si rivolge con semplice franchezza all ispettore. «Ispettore Lizzi, se un’inchiesta è stata aperta, ci saranno senz’altro ottime ragioni. Per quanto ci riguarda, in linea di principio, non condividiamo. Vorremmo dimenticare questo triste episodio della nostra vita e non crearne un caso. Inoltre, sinceramente, non riesco a capire a cosa porterebbe questa inchiesta.» «Vogliamo chiarire le cause della morte. Probabilmente non si arriverà a nulla, ma vogliamo capire. Volevo che ne foste al corrente.» «Le farete l’autopsia?» È Carla che parla, sull’orlo del pianto. «Non senza il vostro consenso…». Carla fa ampi cenni di rifiuto con la testa. «Per adesso comunque è prematuro parlarne… devo andare, adesso… vi terrò informati.» «L’accompagno, ispettore…» Jayme si affianca a Lizzi che si sta dirigendo verso l’uscita. «Mia moglie è rimasta molto scossa dalla morte della sorellina, in un certo senso si sente responsabile, per questo occorre molto tatto con lei. In ogni caso, torni a trovarci, venga pure a cena, io sarò lieto di collaborare con lei per quanto posso. Solo vorrei lasciarne fuori Carla. Almeno fino alle conclusioni, che penso possano comunque aiutarla ad accettare il fatto.» Intanto, arrivati alla porta, usciti nella piazza, in una luce blu di un sole invernale che sta tramontando, i due uomini si stringono la mano.
«Arrivederci». «Arrivederci Lizzi». Lasciato il farmacista, Lizzi si sente spossato. Per via del poco sonno, senz’altro, ma è soprattutto l’effetto che quell’uomo ha su di lui. Deve accumulare tensione di fronte a lui, per comunicare, per evitare di soccombere di fronte a quella placida sicurezza. Ora si sente come dopo un’esame all’università, quel misto di tensione e spossatezza. eggia per distendersi ed è troppo presto per tornare da Cassini e da Locurcio. eggiando a davanti ad una sala giochi. Un sacco di ragazzini e ragazzine fuori dalla sala, schiamazzano e usano i cellulari. Paul Etienne entra dentro. È più tranquillo dentro. C’è meno gente e quelli che ci sono si occupano di cose serie, giocano. Va alla cassa e si fa cambiare dieci euro in gettoni. Poi va ad un gioco con la mitraglietta, uno di quelli da sparare a più non posso. Ogni volta che una testa fa capolino da una finestra, una colonna, una cassa, sparargli e colpirlo. Così si affrontano i problemi nel magico mondo dei video games. Sparare e colpire chi si affaccia. Come nella vita. Quando ha finito, può vantarsi di aver liberato il mondo dai nazisti e dagli zombie, ma è buio. Sono le otto e si è dimenticato di Cassini. Ritorna al commissariato, Cassini è ancora lì con Locurcio, è di schiena, mentre Locurcio fa degli ampi gesti di saluto. «Andiamo Cassini, è tardi…» «Finalmente, ispettore, cominciavo a preoccuparmi…» «Andiamo». Una volta fuori, la notte è nitida e il Rocciamelone restituisce brillante la luce lunare sulla neve. «Allora Cassini, Poirot di Fossano, cos’hai scoperto?» «Una ragazza è stata violentata, l’altra sera». Il freddo comincia a farsi sentire, a pizzicare le guancie, la gente cammina veloce per rientrare a casa, piccole ombre all’ombra scintillante della montagna. «Così in un mese a Susa è morta una ragazzina, una ragazza è scomparsa ed
un’altra è stata violentata». Osserva Paul Etienne entrando in macchina. «Negli ultimi undici mesi, ci sono state sei denunce di stupro a Susa e cinque nella valle…» «Dimmele subito queste cose, Cassini! Le vuoi tenere per te! E cosa ne dice Locurcio?» «Dice che sono i marocchini, da quando sono arrivati loro sono aumentati gli stupri…» «Dove stai andando Cassini?» «A Torino…» «No. Vai verso la Francia. Torna indietro.» «Ma ispettore, io…» «Zitto Cassini. Fai quello che ti dico. Anzi, a proposito, non una parola di tutto questo con Santacroce e con nessun altro, questa è la nostra inchiesta. Solo nostra, capito Cassini? Perché in realtà non abbiamo nessuna autorizzazione.» Cassini deglutisce mentre fa inversione a U con la macchina, e sale sui tornanti che portano in Francia. «Sono aumentati, negli ultimi tempi… e prima quanti stupri sono stati denunciati?» «Non lo so… non ho guardato, ho guardato solo i dati dell’ultimo anno… credevo…» Cassini resta in silenzio e Paul Etienne accenna un sorriso. L’alfa attraversa Chiomonte, verso le ultime case, gira a sinistra e sale fino a raggiungere un casolare isolato. Dall’auto escono Paul Etienne e Cassini, che cerca di darsi un contegno da investigatore anche se è accecato dalla fame. Davanti alla porta d’ingresso Paul Etienne suona il campanaccio che sta appeso. È un campanaccio di quello delle mucche ed è rumoroso come un’intera
mandria. Si sente sciabattare e sbuffare, poi si sente soffiare il naso e la porta si apre. Una donna, il fazzoletto ancora sul naso a completare la pulizia, ha aperto la porta. La donna ha una faccia grigia, con le guance rosse, i capelli di un vago colore, nè castani nè biondi e nemmeno abbastanza chiari da essere grigi, sorride di un sorriso sbilenco come una trappola per topi rotta. «Signora Chiamberlando?» «Sono io…» «Ispettore Paul Etienne Lizzi…» dice mostrando la tessera di riconoscimento. La donna si sposta e li lascia entrare. Indossa una vestaglia di flanella senza forma a tinta pastello di colori indefinibili, per l’usura e la poca pulizia. «È per mia figlia che siete qui?» La voce si fa ansiosa. «In un certo senso si…» «Allora?» «Signora, non ne so niente, ma ho deciso di cercarla…» «Dio la benedica…» «Non vuol dire che la trovi…» «Se la cerca, la trova… dove vuole che sia andata… è brava… senza grilli per la testa… l’unico suo difetto è che è troppo bella… non serve a niente per le tome…» «Ha una foto?» La signora si alza e trascinando i piedi si allontana. «Sedetevi». Ordina. I due poliziotti si siedono sulle poltrone della stanza che serve da salotto. È una stanza grande, con pochi vecchi mobili. Le poltrone sono di pelle, ma quando si siedono si alza la polvere, in un angolo c’è una TV, su un trespolo. Di fronte un tavolino ovale di vetro, anni 50 e un vecchio sofà, coperto da una copridivano all’uncinetto dai colori sgargianti.
La signora torna con un vassoio, due bicchieri di vino rosso, due fette di toma e alcune fette di pane. «Mangiate». Ordina di nuovo. Cassini si illumina. Paul Etienne inizia a spazientirsi. «Signora. La foto…». «Ce l’ho…». Si pulisce le mani sulla vestaglia, dalla tasca tira fuori una fotografia e la porge a Paul Etienne. Paul Etienne si lascia andare sullo schienale, guarda la foto, prende il bicchiere di vino e osserva ancora la foto. La ragazza indossa un costume da Pierrot, sotto il cono bianco con pon pon nero che funge da cappello, i suoi capelli scivolano vaporosi. Nella foto sono scuri, ma si vede che devono essere rossi. È carina. Una faccia comune, una di quelle facce che puoi vedere a dozzine verso l’ora di pranzo, in centro, in città. «Da quanto è scomparsa?» «Dal 28… è andata a Torino, per studiare mi ha detto… poi non è tornata…» «Quando ha denunciato la scomparsa?» «Il mattino dopo… è sempre tornata… sapevo che era successo qualcosa… anche Mara, mia figlia piccola lo sapeva…» «Dov’è adesso Mara?» «Deve ancora tornare…» «Suo marito?» «Non c’è… da tanti anni… me le sono tirate su da sola le ragazze, vendendo le tome sulla statale…» «Alla polizia, qui, che le hanno detto?» «Che sicuramente era scappata con un ragazzo, che ne aveva a basta di stare nelle stalle… ma non è mica vero… lo so… è una brava ragazza Giulia e non
aveva bisogno di scappare… vuole ancora un po’ di formaggio, agente, un altro po’ di vino?» Cassini è soddisfatto dell’accoglienza e ne vorrebbe ancora, ma Paul Etienne è brusco. «Dobbiamo andare, signora. Ci vedrà nei prossimi giorni perché voglio parlare con Mara. Buonasera…» Si alza di scatto e senza voltarsi esce dalla casa. Fuori Cassini quasi deve corrergli dietro. «Dammi le chiavi Cassini, guido io». Cassini gliele lancia, Paul Etienne le prende al volo.
Il cielo è sereno e non minaccia di piovere, Lizzi viaggia veloce, l’autoradio suona una canzone dei Gomez, “In our gun”, ha lasciato Cassini a prendere un pulman per la sua Fossano, finalmente. Nel frattempo è quasi arrivato a Torino, supera il casello e imbocca corso Regina. Si sente sereno l’ ispettore e la musica stimola la sua voglia di avventura. Alla prima nigeriana ferma la macchina. Tira giù il finestrino. «Trenta euro, bocca figa culo…» «Sali…» La nigeriana sale in macchina masticando rumorosamente una gomma, ha una parrucca di capelli lunghi, bocca rosso incandescente, reggiseno a balconcino e stivaloni di lacca bianchi. Appena l’ispettore riparte gli mette una mano sulla coscia e con voce nasale dice: «Gira destra… come ti chiami?». «Cassini, tu?» «Velma…». Poi la mano, con unghie lunghe e colorate, si sposta sul pacco. «Cazzo picolo Cassini…» Paul Etienne fa una smorfia. La macchina entra in un’area industriale dall’aria abbandonata. «Ferma qui…» Paul Etienne, ferma la macchina e spegne il motore. Lei tira indietro il sedile, si toglie la gonna e appiccica la gomma sul cruscotto. Paul Etienne tira indietro
anche lui il sedile, si slaccia i calzoni e li fa scendere alle caviglie, poi si volta e vede Velma togliere dal reggiseno due pallottole di carta di giornale, poi si slaccia il reggiseno a balconcino. «Tu cazzo picolo, io tette piccole…». Mostra due mammelle avvizzite, atrofizzate da chissà quale malattia, e sorride, ingenua, sincera con quella bocca color antiruggine. Paul Etienne quasi si commuove, vorrebbe baciarla, invece accenna un sorriso e le dice: «Solo bocca…».
SEI
né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Eugenio Montale, Satura, Xenia II
Un uomo vestito da donna porta a so sette eleganti cani di razza, la giornata comincia ad illuminarsi, il sole, un altro giorno ancora, sta crescendo sulla città e ci si spalma sopra, freddo e crudele, dopo quattro mesi che non piove. Una macchina vecchia almeno vent’anni sgasa furibonda in un portone, le bancarelle del mercato sono già tutte pronte e qualcuno batte le mani per difendersi dal freddo. Il bar all’angolo con via Madama è aperto e fuori un uomo sta aspettando, ha una faccia di marmo e mani da macellaio e il classico aspetto da veterano di bar clandestino, il corpo massiccio, i capelli tirati indietro con la brillantina e due occhi da cinese che mettono immediatamente sul chi vive. Paul Etienne gli lancia furtivo un’occhiata, ha le mani in tasca e le spalle arcuate, ha freddo e la stanchezza gli si sta ghiacciando addosso. Torna a casa alle sei del mattino e sono quasi tre giorni che non dorme.
Con cura davanti allo specchio si pettina i capelli biondi, alle spalle Carla lo raggiunge, gli pone le mani sul collo e lo massaggia, affonda i pollici profondamente e sale fino alla base della nuca, poi scende fino alle spalle, poi gli aggiusta intorno al collo pallido e sottile, un ascot viola di seta. Jayme si guarda soddisfatto, poi guarda la donna alle sue spalle e le sorride. Si volta, la bacia, “ci vediamo stasera” ed esce. Carla lo segue fino alla porta e lo guarda mentre accarezza il cane festoso che abbaia e vorrebbe seguirlo.
Nel salone il grande camino è . D’inverno è la prima cosa che fa, si alza presto e accende il camino, perché sua moglie ama fare colazione in vestaglia sul divano davanti al camino scoppiettante. Il camino è , nel lungo vaso giallo all’angolo c’è una rosa rossa di almeno quattro giorni, sul pianoforte a coda ci sono piatti con croste di pizza, sui tappeti ci sono pantaloni, una giacca, una cravatta, un asciugamani lercio e lattine di birra. Sul divano dal copridivano damascato è rannicchiato Leo, mezzo nudo, gli occhi gonfi e la barba come la rosa, di almeno quattro giorni. La moglie è andata via, ma il camino lo tiene .
Gianna fa una faccia come se avesse inghiottito un’ape. Non le va, assolutamente non le va il latte bollito. La pelle che si forma, anche quando cerca di toglierla, rimane ai bordi o galleggia minacciosa e quando entra in contatto con le sue labbra le vengono i brividi per il ribrezzo. Ma soprattutto non le va di vedere sua madre partire, restare da sola, anche se la baby-sitter è simpatica, anche se la tratta come un’amica e si diverte, si sente abbandonata, senza famiglia. Sua madre è già pronta. È bellissima, come ogni volta che parte. I capelli sono raccolti in uno chignon, indossa il tailleur, comodo, azzurro, di buon taglio, della compagnia. Ha i capelli neri e la carnagione scura, sempre abbronzata, curata, truccata, proprio come le piacerebbe essere lei, invece di avere quel tipo di faccia che non si abbronza mai, ma che diventa rossa e poi bianca di nuovo. Con tutte le efelidi sul naso che sono proprio come i resti della pelle sul latte bollito. «Gianna, bevi il latte, sbrigati, mi fai arrivare in ritardo…» Gianna, con la sua faccia bianca e le efelidi sta ancora combattendo contro la
pelle perfida del latte, sua mamma ha già il cappotto in una mano e il trolley nell’altra. «Allora Gianna!» Gianna desiste, svogliatamente si alza, prende il piumino e lo zainetto ed esce insieme alla madre. «Hai capito bene, Gianna? Ripeti quello che devi fare oggi quando torni da scuola…» La sua voce viene fuori dalla sua gola, come un uomo malato esce dal letto. «Si ho capito… quando torno da scuola, il pranzo è già pronto in frigo, devo solo metterlo nel microonde. Alle tre viene Carla a prendermi, mi preparo la borsa e vado da lei…» La madre vede la faccia triste della figlia e le accarezza il volto. «Sto via solo un paio di giorni… sono le ultime volte… poi starò a terra, mi trasferiscono a Torino, in ufficio …» I suoi occhi acquamarina hanno un’espressione dura, ma le sue labbra sorridono. Madre e figlia si baciano e si dividono. Una va a piedi verso la scuola, un po’ curva con lo zainetto sulle spalle, l’altra trascina il trolley, la testa alta e il collo lungo come una giraffa, con tutta la sicurezza che riesce ad ostentare, entra in macchina, orgogliosa di portare avanti una famiglia tutta da sola.
Paul Etienne Lizzi siede di fronte allo schermo del suo computer in ufficio. I riflessi dello schermo colorano la sua faccia di una luce blu, che da una parte attenua e dall’altra sottolinea la sua brutta cera. Sembra un marziano esausto, provato dal jet-lag, che si nutre esclusivamente di barre di plutonio che lo rendono fosforescente. Si prende il mento tra due dita, osserva lo schermo e si rimette a scrivere. «Disperato, senza più un quattrino, Haigh siede nella sala da pranzo del Onslow Court Hotel cercando una nuova vittima. Di fronte a lui sta pranzando una ricca matrona in pensione, Mrs Henrietta Helen Olivia Robarts Durand-Deacon. La vedova 69enne sapeva che Haigh faceva
affari vendendo e affittando auto di lusso e credeva che come uomo d’affari sarebbe stato interessato alla sua idea, fabbricare e vendere unghie di plastica. Lo contatta e gli espone il suo progetto, Haigh sembra entusiasmarsi e propone alla vedova di rivedersi e discutere i dettagli nel suo laboratorio. Il 18 febbraio del 1949, Mrs. Durand-Deacon accompagna Haigh all’indirizzo di Gloucester, non appena varca la soglia del laboratorio, Haigh le spara alla nuca, uccidendola all’istante. La spoglia e la getta nella vasca piena di acido solforico. Aspettando che l’acido completi il suo lavoro, Haigh va nel vicino ristorante Ye Olde Ancient Prior’s Restaurant e mangia due uova con toast. Quindi, ritorna al laboratorio e svuota la vasca nel cortile.» Qualcuno bussa alla porta dell’ufficio. Paul Etienne si schiarisce profondamente la gola. «Chi è?» riesce a dire. Sono le prime parole che dice in tutta la giornata. Da dietro la porta si sente una timida voce: «Cassini… la macchina è pronta…». «Entra». Cassini entra con spavalda timidezza. «Siediti, Cassini, ho quasi finito…». Cassini si siede, diligente, sulle spine. «L’omicidio questa volta produsse ben poco denaro per il sempre più bisognoso Haigh. Ottenne poche centinaia di sterline vendendo la pelliccia e la gioielleria della vedova e i soldi gli bastarono appena per pagare il conto dell’hotel e altre spese urgenti, poi si mise in cerca di nuove vittime.». Lizzi distoglie gli occhi dal monitor e guarda Cassini, il viso vuoto, assente. Paul Etienne prende la prima biro che gli viene a portata di mano e gliela tira in mezzo alla fronte. «Andiamo!» Cassini sobbalza sorpreso, ha un sussulto di rabbia che subito inghiotte e risponde:
«Sono pronto». Lizzi salva, si infila l’impermeabile ed esce. Cassini lo segue, in mezzo alla fronte ha un punto blu, che sembra il terzo occhio dei buddisti.
ata la mezza, Jayme appende il camice, infila il cappotto, chiude la farmacia e se ne va a casa per la pausa pranzo. Sul ponte sulla Dora incontra Leo, è appoggiato al parapetto e guarda il eggio, come un qualsiasi sfaccendato. Ha la barba lunga, l’occhio acquoso e perso nel nulla, sembra indeciso sul da farsi, come un sacchetto di nylon spinto dal vento che vola su un marciapiede e non sa dove cadere. «Leo…» «Si?» risponde Leo, distratto, affettato, come un lord inglese disturbato mentre sorseggia il tè risponderebbe “sorry?”. «Sono io… Jayme…» «Sai Jayme… ci ho pensato su… non c’è bisogno di essere un esperto di affari di cuore per capirlo… alle donne non piace dormire da sole…» Jayme lo guarda senza capire. «Vieni a casa con me, pranziamo insieme». «Ho da fare, Jayme… grazie…» risponde pigramente. «a dopo in farmacia…» «Ho da fare… grazie…» risponde abbassando lo sguardo. «o io stasera da te.» «Si… a tu…» «Ci vediamo…» «Ciao…»
Jayme continua la sua strada perplesso, mentre Leo continua a guardare la gente are e sembra rilassato, un bohemien che si gode la vita e non uno che lascia il camino aspettando il ritorno della moglie, che se n’è andata portandosi via pure la Yaris, che questa non gliela perdona. Il cane abbaia e fa festa, Jayme entra in casa, il pranzo è pronto ed è in tavola e Carla ha già mangiato. «Devo andare, per questo ho già mangiato… tu non arrivavi… non ti dispiace, vero?» E come al solito lo abbraccia, lo circonda, lo blandisce, lo accarezza, lo bacia. Jayme la lascia fare, si sente bene coccolato da lei. «Ho incontrato Leo, sul ponte. Guardava la gente are e sembrava fuori di testa. Stasera, appena chiudo, vado da lui, voglio capire cos’ha…» «Devo andare… fra poco la ragazza torna da scuola e non mi trova…» «Com’è la ragazza?» Carka sorride e non risponde. Si infila il cappotto, prende la borsa e di corsa lo bacia sulle labbra. «Stasera voglio farti una sorpresa…»gli dice sulla porta, prima di uscire. Jayme sorride a sua volta e si butta sull’insalata.
L’alfa con Lizzi e Cassini si ferma nel cortile davanti alla baita. Niente è cambiato, il legno vecchio e marcio, il senso di abbandono è lo stesso. I due poliziotti spingono la porta ed entrano. Anche dentro sembra tutto uguale, lo stesso tavolo, la stessa sedia sfondata, la stessa stufa di ghisa. «Cassini, guarda tutto con la massima attenzione… indicami tutto quello che ti sembra strano…» «Mi sembra tutto strano…» «Appunto…»
«Perché siamo qui, ispettore?» aggiunge Cassini e sembra seriamente impaurito, ma quando si volta l’ ispettore non c’è più, c’è solo buio dietro e davanti una stanza ignota da controllare. Il mestiere del poliziotto, appunto. Cassini entra, pistola in pugno, l’ambiente è poco illuminato ed è saturo di un odore forte, di morte, di cadavere. Cassini accende la torcia e la punta sugli oggetti, sulle coperte ammucchiate a terra, sulle corde, su una parete dove si vedono chiare traccie di sangue. Poi trasale Cassini. Vede la gabbia e il cadavere spappolato di un uccello o quello che ne rimane. Trasale, grida “Ispettore!” e si porta una mano alla bocca per non vomitare, prima di uscire dalla stanza. “Ispettore!” grida ancora ed esce dalla baita e va a bere l’acqua ghiacciata dalla fontana in cortile. “Ispettore…”, ma l’ ispettore non c’è, non lo sente o non lo vuole sentire.
Mentre le versa il tè bollente la guarda, la cameriera ha appena portato il vassoio dei pasticcini e lei, è una bambina golosa, ne prende uno prima ancora che il vassoio abbia toccato il tavolo. La guarda, non le stacca gli occhi di dosso, è come Tammy, è uguale a lei, ha la stessa età, la stessa grazia maldestra della bambina che sta diventando donna. Le manca Tammy. Carla versa il tè nella sua tazza, posa la teiera e riprende teneramente, di nuovo, a guardare Gianna che mangia il pasticcino. Ha una faccia piccola, vibrante, con occhi larghi. Una faccia con le ossa subito sotto la pelle, raffinata come un violino. Un viso veramente grazioso. “Sembri un’irlandese”, le dice, “hai i capelli rossi…” “Non sono naturali…”, risponde Gianna, abbassando gli occhi e arrossendo. «Si che lo sono…» Gianna fa no con la testa: «Sono naturali…ma non dirlo a nessuno, giura che non lo dici a nessuno…dico a tutti che è una tinta, perché non mi piacciono i capelli rossi…». «Sono bellissimi». «Li voglio mogano, come mia mamma…» «I tuoi sono più belli… quando sarai grande gli uomini diventeranno matti per
te…» Gianna ha un’espressione incredula, come se gli avessero rivelato un segreto a cui non sa se fare affidamento. Carla sorride e le accarezza il viso. «Ti è piaciuto il film?» Gianna fa si con la testa. «Cosa ti è piaciuto?» « Mi è piaciuto il criminale, il povero buono, i due del cinema, Jimmy due volte perché diceva sempre le cose due volte…» «Ti piaceva il criminale perché era bello…» Gianna scuote la testa vigorosamente per dire che si, era proprio bello l’attore che faceva il criminale. Tiene lo sguardo basso e si mette in bocca un altro pasticcino, mentre gli occhi di Carla non la perdono neanche un istante. Tutt’intorno un’elegante, un po’ formale, campagnola sala da tè, con le cameriere che ano indossando divise buone per le commedie goderecce degli anni 70, con Laura Antonelli e Renzo Montagnani.
Il bar della stazione è il posto migliore se vuoi are un pomeriggio. Puoi sempre partire, se ti viene voglia. Prendere un treno no, non ci sono più, li hanno tolti lasciando la stazione vuota. Un pulmann, al massimo. Da Susa, non si hanno molte destinazioni. Bussoleno è l’unica meta. Certo non è un gran che per chi medita una fuga, ma da li si può prendere un TGV e andare a Torino o a Bardonecchia o in Francia. Così Leo a il pomeriggio, al bar di una stazione vuota, dove non ano nemmeno i treni, sono rimasti i naufraghi a bere birra e fernet ed è rimasto il flipper. Leo beve pastis e gioca a flipper, ma è un flipper vecchio dove se pure fai il record non arrivi nemmeno ad un milione. A centomila, al massimo. Quando esce è già buio, la nebbia si sta diradando e le stelle brillano come stelle artificiali al cromio su un cielo di velluto nero. Sul piazzale Leo si accende una sigaretta, ha il sapore del fazzoletto di un idraulico, la spegne subito e aspetta l’autobus che arriva da Torino, che non riporterà a casa sua moglie, ma qualche ragazzina da qualche scuola della città.
Carla e Gianna sono sul divano. Gianna è stesa sul petto di Carla, che le accarezza i capelli, ai suoi piedi la cokerina americana. Carla guarda nel vuoto e parla piano, con voce dolce, quasi un sussurro nell’orecchio di Gianna. La stanza è buia e le parole ristagnano nell’aria come fumo in una stanza chiusa. «Il 23 dicembre siamo stati a cena a casa dai miei, come ogni natale. Jayme riprendeva con la videocamera, spesso me, ma anche mio papà e mia mamma e molto spesso Tammy, che a lui piaceva molto. E lei era così affezionata a mio marito… si piacevano e andavano d’accordo. Lei mi diceva sempre che quando sarebbe cresciuta avrebbe voluto sposare qualcuno come Jayme. Avevamo ato il pomeriggio a fare l’albero e il presepe con mio papà. Poi come sempre abbiamo mangiato gli agnolotti, abbiamo bevuto lo spumante, anche Tammy ha bevuto il suo bicchiere, per festeggiare. Poi siamo tornati a casa e lei è venuta con noi, le avevamo promesso che poteva dormire da noi. Ti assomigliava tanto Tammy, aveva i capelli belli come i tuoi…» Carla mentre parla, accarezza il viso di Gianna, le guancie, le orecchie, le labbra. «Aveva la pelle bianca e liscia come te… le orecchie piccole… le labbra carnose e rosse… come te…» Gianna è affascinata e si gode le coccole. Sta ad ascoltare con le labbra leggermente socchiuse ed un espressione rapita. «Poi nella notte ha iniziato a stare male, a vomitare che non smetteva più… l’abbiamo portata all’ospedale e da lì con l’ambulanza a Torino… ma è morta… non c’è stato niente da fare… è morta… qualcosa è andato storto…» Gianna si volta, il viso di Carla riesce ad essere sereno, a non dare nessun segno di commozione, i loro occhi si incrociano, Gianna prova molta pena per il racconto di Carla. Ricambia una carezza e con slancio la bacia su una guancia. «Sto molto bene qui con te… quando mia mamma va via, voglio che sei sempre tu la mia baby-sitter…» Carla sorride, si alza e va ad accendere la luce. «Prepariamo la cena… siamo sole io e te… mio marito ha il tennis…» «Sì…» «Vuoi rimanere a dormire qui?» Gianna scuote la testa vigorosamente per manifestare il suo entusiasmo.
«Allora Cassini, cos’hai trovato?» «Finalmente, ispettore, credevo mi avesse di nuovo abbandonato…» «Sono andato a cercare nel bosco… ti avevo detto di guardare in casa…» «C’è un uccello morto…» «Si, lo so, l’ho ucciso io… che altro?» Cassini guarda Paul Etienne come se gli avesse appena confessato di essere il boia di Lione. «Allora?» Cassini si riprende e allunga una mano per mostrare all’ ispettore l’unica sua scoperta. Una mascherina per il sonno, di quelle che danno sugli aerei. «Ho trovato questo… ispettore… magari l’ha usata un criminale per non farsi riconoscere…» dice Cassini azzardando un’ipotesi. «E come faceva a vedere con questa sugli occhi, tonto?!» «Ma no… la fa indossare alla sua vittima… così lei non riconosce lui…» Paul Etienne guarda per un attimo il suo collega e per una ruga e una fossetta all’angolo della bocca si direbbe quasi che sorrida. «Cassini, pensa cosa saresti adesso se avessi usato il cervello tutta la vita…» Lizzi va verso la macchina: “Pensa…”, ed entra in macchina. Cassini sorride ed entra in macchina che l’ ispettore è già quasi partito. L’alfa bianca discende la montagna, la casa di lose, di mattoni e legno marcio sembra l’unico dente di una vecchia bocca. Paul Etienne accende i fari e la valle sembra subito meno scura.
SETTE
Buona notte, buona notte! Separarsi è un sì dolce dolore, che dirò
buona notte finché non sarà mattina
W. Shakespeare
È ancora notte. Buia, nonostante la luna. A fianco alla statua d’Augusto c’è una macchina parcheggiata, i fari spenti. Dentro la macchina ci sono Jayme, vestito da tennis e Leo con una faccia da battaglia perduta. Sta rannicchiato su sé stesso, ha il naso che cola e piagnucola. «Non mi taglio la gola per lei e mi lascio morire dissanguato sulle sue ginocchia…», ma continua a piagnucolare molle e ubriaco su se stesso, Leo. «Adesso basta, Leo.» La voce di Jayme diventa fredda. «Siamo giovani e intelligenti e siamo stati allevati dai lupi. Non ti voglio più vedere così. Adesso vai a casa, dormi, riposa. Domani ti alzi, ti lavi, pulisci la casa e ricominci una nuova vita. Dolorosa, senza di lei, ma che abbia una dignità. Poi si vedrà, magari lei torna, magari non torna, magari trovi un’altra, magari ti fai prete o ti butti nella Dora. Ma così no! Mai più!» Jayme adesso lo guarda duro e severo e nel suo sguardo c’è un’autorevolezza cattiva che colpisce Leo. Come se si vergognasse, come preso in castagna, come poco degno del suo amico, Leo interrompe il piagnisteo e almeno raddrizza la schiena e si mette a sedere sul sedile dell’auto di Jayme. «Hai ragione Jayme, hai ragione… sono uno schifo… hai ragione…». Ora è goffo, deformato dal pianto recente e dalla pena per sé stesso, sembra un vecchio uccello con un mento da coniglio e una bocca grossa come una prugna.
«Ora vai a casa?» Lo incalza Jayme sorridendo, ma il suo sorriso è affilato come i suoi occhi. «Vado a casa…», lo guarda con la coda dell’occhio, non osando guardarlo dritto in faccia. «Vai». «Vado». Esce dall’auto, chiude la portiera e si incammina, le spalle curve, le gambe corte, dondolando come uno scimpanzè sulla salita verso casa sua, senza voltarsi. Jayme lo segue ancora un attimo con lo sguardo, poi accende il motore, parte, senza vedere nello specchietto che Leo si ferma, si gira e guarda in direzione della macchina, come aspettando solo che esca dall’orizzonte.
Jayme rientra in casa. L’appartamento è immerso nell’oscurità. L’ingresso ha odore di crema per mobili, il cocker gli va incontro, subito dietro appare Carla, sorride e si muove piano, fa rumore come le foglie morte che cadono. «Dorme?» domanda Jayme. «Dorme» e gli fa cenno di seguirla. Lo porta nella stanza dove Gianna sta dormendo. Jayme si sofferma un attimo a guardarla. «Tammy era più bella…» «Si» Jayme guarda ancora per un momento la bambina che dorme, poi si china su di lei, le accarezza il viso e la bacia sulle labbra. «Vado a cambiarmi». «Sì» risponde Carla, prende posto accanto a Gianna e comincia ad accarezzarle i capelli.
A fianco al letto una grande finestra guarda verso il Rocciamelone. La luna non è più piena, ma è ancora vigorosa e anche adesso, mentre si nasconde in parte dietro la punta della montagna, illumina di luce bianca e tenue la stanza. Si riflette sul marmo del davanzale e svela metà ovale del viso di Carla e metà del viso di Gianna, lasciando l’altra metà in ombra. Proprio come la luna. Sulla parete il poster di Ultimo tango a Parigi incorniciato, il vetro riflette la luna e il Rocciamelone. Opposta al letto, c’è una scrivania semplice, di quelle Ikea, sulla scrivania un piccolo televisore spento che riflette Carla che accarezza i capelli di Gianna che dorme. Jayme rientra nella stanza, indossa l’accappatoio ed in mano ha la telecamera. «Inizio io a riprendere…»
La notte è ancora a metà strada. Paul Etienne Lizzi torna a casa a piedi da piazza Castello. Cassini l’ha lasciato alla centrale che erano già le dieci, è ato da McDonald’s e ha mangiato in mezzo a ragazzini e a ragazzine di barriera che gli sembrano originari di un pianeta di un altro sistema solare. Ora cammina verso casa, non riesce a smettere di pensare a questo caso, tutto sembra sfuggirgli, in mano ha soltanto la mascherina per il sonno. Un randagio gli si affianca, sembra aver preso tanti di quei calci da poterli scambiare per coccole, così gli allunga una pedata, tanto per aiutare la concentrazione. Ma ancora niente, nessuna intuizione, lampo o barlume. Decide di are sotto i portici di via Nizza, dove riesce sempre a fare buona caccia.
Il marocchino che gli sta intorno continua a sorridergli, ma il suo sorriso è sbilenco. Gli mancano i due denti davanti ed ha la bocca sempre aperta, un po’ perché sorride, un po’ perché cantilena la merce che vuole vendergli. Stavolta Lizzi non ha dovuto nemmeno andarsela a cercare la preda, gli è venuta spontanea tra le fauci. Intorno a lui i portici di via Nizza sono un brulicare di movimenti, di andirivieni, di codici, di affari, è un sommerso stock exchange di cui bisogna conoscere le regole. Il marocchino continua a saltargli intorno. Al momento giusto Lizzi tira fuori la pistola e gli spinge la canna contro la fronte, la
bocca del magrebino si chiude improvvisamente come se stesse per entrargli una mosca. «Dammi quello che hai e non sorridere più…», ma era superfluo, la sua preda ha già smesso repentinamente di sorridere. Ora i suoi piccoli occhi neri sono ostili, respira con affanno e le sue narici sono così larghe da sembrare tane per topi. Il marocchino si sputa nelle mani alcune palline e le a a Lizzi che se le mette in tasca. «T’ammazzo» gli dice. Stavolta è Lizzi che sorride, ma giusto un secondo, quel secondo prima di colpirlo con la pistola in piena faccia. Quando il poveretto è per terra sanguinante, Lizzi lo prende per il collo della camicia e lo trascina in via Galliari che fa angolo con via Nizza. Lo deposita nell’angolo e lo colpisce con tre calci in faccia. Poi si china su di lui, gli appoggia la canna della pistola in mezzo agli occhi, sulla maschera di sangue che lo rende inequivocabilmente diverso e più mansueto rispetto a prima e gli sussurra in un orecchio come un innamorato: «Non sai quanto sei stato vicino ad essere la mia prima vittima, sto per iniziare la mia carriera di serial killer… ma oggi è andata così… è il tuo giorno fortunato… ringrazia allah e ringrazia pure me…». Nessuna risposta. Lizzi con la calma dei giusti, gli piazza ancora un calcio in pieno volto: «Devi dirmi grazie signor padrone…». Niente, dall’altra parte. Gli piazza ancora un calcio. «… se vuoi vivere…». Lizzi arma il cane della pistola e gliela ficca di nuovo in mezzo agli occhi. «Addio verme…». Ma lo sventurato all’ultimo riesce a raccogliere quel poco d’energia e a sussurrare: «Grazie…». Lizzi non ritira la pistola. «… grazie signor padrone…». Ora il sorriso di Lizzi è sincero, aperto, cordiale, mette via la pistola e continua a sorridergli. «Vedi che cominci ad imparare, allora i miei sforzi non sono inutili… ricorda, una persona può vivere per una sola parola e morire per una sola sillaba.». Si china su di lui, gli fa una carezza sul viso, si asciuga la mano sul pantalone e se ne va.
Riprende via Nizza, Paul Etienne, dove tutto continua come prima, come se niente fosse successo. Cammina sollevato lungo i portici, allineate come cani in scuderia pronti a partire, le puttane di via Nizza, dalle forme dilatate dagli anni e dalle diete abbondanti. Una le si avvicina, lo ferma, gli posa una mano sul petto. Ha un sorriso così tirato e rigido, come tutta la sua figura, che sembra che a toccarla si possa ridurre in polvere. Alle orecchie ha delle pietre colorate e numerosi e pesanti anelli alle dita, inclusa un’acquamarina e uno smeraldo in una cornice d’argento, che sembrano veri a prima vista, ma a guardarli meglio sono la bigiotteria che trovi dai cinesi al balôn. E poi le sue mani sono secche e scure e neanche così giovani e sicuramente non adatte a portare anelli. In fin dei conti non ha un brutto corpo, se ti piacciono quelle che sono perlomeno quattro volte più grosse di quanto dovrebbero essere. Gli sorride di nuovo, sembra più vecchia di un antico egizio, ora: «Andiamo?» dice con voce profonda e rauca dal fumo. Lizzi si ferma. Giusto per un attimo i due si guardano l’un l’altro con limpidi innocenti occhi di una coppia di navigati venditori di auto usate. «Si…» dice infine Paul Etienne, per la forza d’abitudine. Lizzi segue la sua puttana dentro un portone angusto e puzzolente di urina umana. Sale le scale dietro di lei perché l’ascensore è rotta, infine entra in casa e lei lo accompagna nella stanza da letto. La donna esce e promette di tornare subito. Lizzi capisce che non è sola nell’appartamento. La stanza ha un che di remoto, senza cuore, non abbastanza sporca, non abbastanza pulita, non abbastanza odore umano che stanze così sempre hanno. Lizzi si spoglia pigro. La donna con gli anelli sbagliati e il sorriso del fossile ritorna nella camera da letto. Indossa un camice da dottore aperto e sotto si vede la biancheria nera, la pelle secca, generosa di macchie. Appeso al collo ha uno stetoscopio. Lizzi la guarda. Lei fa la vezzosa: «Mi piace giocare al dottore…». Lizzi si stende sull’asciugamani sul letto e guarda il soffitto. Il soffitto ha delle crepe causate dall’umidità che sembrano dei disegni, riconosce la silouhette di un uomo con la barba, simile alla classica iconografia di Dio.
Sono crepe che lo riportano indietro nel tempo, a Genova, alla casa nei carrugi divorata dall’umidità, alle ore ate sul letto a guardare le crepe sul soffitto come fossero nuvole. Si dimentica del dottore che si sta occupando di lui e gli viene in mente Valeria, il travestito con cui divideva l’affitto e le crepe sul soffitto. “Chissà che fine ha fatto…” pensa, mentre la donna che sembra un antico egizio sta sopra di lui e si dimena. Ha un fucile da cecchino, l’obbiettivo più lontano diventa così vicino che mancarlo è davvero difficile. Il suo compito è quello di impadronirsi dell’aereo e volare via, lo aspettano a Malta, al comando alleato. Ma prima deve far fuori tutti i nazisti della base. Un colpo con il fucile da cecchino e stende il primo nazista che vede, è abbastanza facile, è scoperto e non se lo aspetta. Ma non appena fa qualche o, non sa chi, non sa da dove, lo crivellano di colpi. Allora stoppa, la sigaretta che tiene in bocca ha due centimetri di cenere, appena si muove gli cade addosso. Infastidito Paul Etienne a il dorso della mano sulla camicia, ma riesce solo a spandere la cenere. Si fa un’altra stagnola con la roba del marocchino. Quegli schifi c’hanno solo roba. Gli occhi quasi gli si rivoltano, il senso di benessere caccia la nausea e la nausea caccia il benessere. Riprende l’attacco alla base. Inquadra nel mirino il soldato nazista, ma invece di sparargli si addormenta. Si risveglia qualche secondo dopo. Si mette in bocca una sigaretta, vorrebbe alzarsi ma cambia idea. Ha gli occhi senza fondo di un sonnambulo, è proprio come ai tempi di Genova, solo che allora non la fumava. Sorride di questa sua madeleine, di questo suo amarcord, di nuovo gli torna in mente Valeria. Si accende la sigaretta. Quando lei tornava dalle marchette veniva nella sua stanza. Lui era fuso e le dava quello che avanzava dalla sua pera. Poi lei si stendeva accanto a lui e insieme guardavano le crepe sul muro. Era bello, a suo modo. Dopo un po’ facevano sesso, cominciava lei che tornava sempre eccitata dal lavoro e lui la seguiva, ma ora non ricorda più niente. Era il periodo che stava andando alla deriva, ma era bello perché ancora doveva incontrare Eleonora, ma quella era tutta un’altra storia. Troppo triste da ricordare. Si sente un nodo alla gola che non riesce ad inghiottire, proprio come fosse un casco di banane. La sigaretta è solo un tubetto di cenere che sta aspettando di cascargli dalle labbra. È ancora notte. Il mondo dietro le finestre è un mondo nero. Paul Etienne Lizzi in silenzio piange, senza accorgersene, mentre i nazisti ne approfittano e lo
crivellano di colpi. Gianna sta sognando di essere in un ambulatorio medico, dove è tutto bianco e sterile e odora di cloroformio. L’ambulatorio non è piccolo, non è grande, ma sembra molto professionale. C’è un’infermeria con la porta di vetro e molti medicinali dentro. Una scatola alla parete con sopra la croce rossa, il lettino, una gruccia per la flebo, un carrellino con sopra una scatola di latta aperta con dentro lacci emostatici e siringhe ipodermiche di vetro. Una larga scrivania con sopra un tagliacarte di bronzo, un portapenne di una marca di medicine, un’agenda e nient’altro eccetto i gomiti di un uomo seduto che si prende la faccia tra le mani e lei non riesce a vedere chi sia. Poi, improvvisamente, l’odore del cloroformio diventa forte, fortissimo, una luce abbagliante e tutto scompare intorno, come quando vieni operato e dopo l’anestesia l’ultima cosa che vedi sono le luci sopra di te. Ma lei si sente comunque sveglia, viva e aspetta che qualcosa succeda. Sente una voce soffice che viene da chissà dove: “attenta alla respirazione” dice, poi la voce diventa ancora più soffice, “prendila dai piedi…”. Poi sente qualcosa di caldo sulla faccia, qualcosa che lecca e sa di ferro e di sale. Poi una piscina di buio si apre ai suoi piedi, molto, molto più scura della notte più scura. Si sente gettare dentro e sembra non avere il fondo.
Il salone ha un tappeto al pavimento con i colori soffici di un antico Persiano, sedie bianche e bordeaux, un tavolino nero di fronte al divano, alte librerie piene di volumi e tende color crema alle finestre. Non c’è niente di femminile in quell’appartamento, a parte uno specchio a figura intera nell’ingresso. Paul Etienne sta mezzo seduto e mezzo sdraiato sul divano, le gambe allungate sul tavolino, in mano il joypad della playstation, un mozzicone di sigaretta in bocca, gli occhi abbassati a metà palpebra. Sul tavolino resti di numerose stagnole, una bottiglia di Absolut. Non sembra in buona forma, non gli fa bene ricordare i vecchi tempi, non gli fa bene l’eroina. Ricorda che tante volte Valeria si sedeva di fronte a lui, tra le mani il mento che aveva sempre qualche ombra ancora di barba dietro il fondo tinta. Si tirava la
gonna su fino al bacino e gli mostrava le gambe. «Trovi che ho le ginocchia grosse… e le mani… sono troppo grosse?» diceva con voce profonda. I suoi occhi scuri e ombrosi erano ingentiliti dal mascara e i capelli erano lunghi e di quel rosso rame che andava molto negli anni novanta. Era alta, aveva lunghe gambe ed a suo modo era bella. Certo le ginocchia erano grosse e le mani da uomo, ma lui non glielo diceva. Anzi tanti uomini si giravano per la strada e la scambiavano per una vera donna. Per molti uomini era una bella donna. Lei gli lasciava un po’ della sua cena e andava a lavorare. Gli dava un bacio sulla bocca prima di uscire. «Non ammazzarti nel frattempo» ed usciva, lasciando dietro di sé un odore forte di naftalina, di quello sapevano i suoi vestiti perché li teneva con cura in un armadio zeppo di naftalina. Paul Etienne non si alzava nemmeno dal divano. Fumava. Qualche volta, in momenti difficili, gli aveva chiesto soldi in prestito, altre volte, in momenti ancora più difficili, glieli aveva rubati. Per un momento chiude gli occhi del tutto Paul Etienne, si compiace di sentire i piccoli insignificanti rumori che vengono dalla strada. Si lascia andare per un momento lentamente, così come lentamente ti abbandonano i sogni del mattino, quando ti svegli con il sole in faccia e la gola secca per aver bevuto troppo la sera prima. Adesso è a casa, in un mondo che sa di polvere e di fumo, l’odore del mondo in cui in genere vivono gli uomini soli e in questa notte che sembra non voler finire è un mondo addormentato, un mondo placido come un gatto che dorme. Mentre il sonno si sta impadronendo di lui, sorride Paul Etienne a ripensare a Valeria, nel modo dolce e goffo in cui gli salvò la vita, sorride e si addormenta e il suo sorriso è così sereno e le sue dita si muovono nel sonno come farfalle morenti. Intanto l’alba sta arrivando e il rumore del traffico dalla strada si sente ad ondate, come la nausea.
Un oscuro sentimento che un avvenire da qualche parte debba pur esistere. Nel frattempo immerge il croissant nel cappuccino e la testa fin quasi nella tazza per andare incontro al croissant. É l’alba di una grigia mattina, la nebbia è alta e la giornata sembra svogliatamente promettere pioggia. Una pioggia che tutti stanno attendendo con ansia da mesi, la stessa ansia con cui Leo attende il proprio
avvenire. Il bar della stazione è poco frequentato alle sei di mattina, giusto qualcuno che sembra dover ancora andare a letto. Leo prende una sigaretta, le sue dita tremano, mette la sigaretta tra le labbra e l’accende con cura. Il velo del fumo che gli esce dalla bocca e dal naso è quasi un solido alleato dalla sua parte. Intanto si guarda le scarpe. «Leo vai a casa…» gli dice il barista vedendolo addormentarsi al tavolino. Leo non si muove, la testa bassa, sprofondato nel sonno. «Leo vai a casa…», sembra un educato agente FBI in un vecchio film, un po’ triste, ma molto virile. «Leo vai a casa…», sembra il ritornello di una canzone di sanremo cantata sotto la doccia. Leo si riscuote come preso in fallo. «Mi piacciono le ragazze timide… ho un debole per loro… non posso farci niente…» risponde con gli occhi ancora chiusi, parlando tra veglia e sonno. Il barista sorride, il suo primo sorriso della giornata, è uno di quei tipi che di solito se ne concedono quattro al giorno. Il primo è andato e la giornata è ancora lunga. Il barista fa un caffè, lo porta al tavolino dove Leo sta dormendo. Lo scuote brusco. Leo apre gli occhi, ma non sembra capire bene dove si trova. «Beviti questo, poi porta il culo lontano da qui… arrivano i clienti e io ci tengo a fare bella figura». Leo beve il suo caffè, si alza e si trascina fuori. Ha le scarpe sporche. Fuori c’è un sole pallido, anche oggi non pioverà. Leo stringe gli occhi, gli da un po’ fastidio la luce. Si guarda intorno, guarda il Rocciamelone, decide di andare a casa. Il mondo non sembra portargli rancore.
OTTO
L’ultima notte che visse
Era una notte comune
Salvo il morire - che a noi
Mostrò la natura diversa -
1100- Emily Dickinson
Quel giorno il commissariato di polizia di via Verdi sembrava più pulito e più chiaro, con questo non si vuol dire che fosse pulito ed illuminato, ma in ogni caso sembrava meglio del solito. Il ritmo è blando, gli agenti si muovono in una bolla di torpore e noia e si ha l’impressione di vederli attraverso una maschera da sub. Alcuni vanno e vengono portando attraverso l’edificio fogli ciclostili, altri parlano al telefono, altri parlano e basta, mentre altri semplicemente tacciono. Su una panca sul lato sinistro sono sedute tre persone in borghese, una donna e una coppia di studenti, attendono il loro turno per fare una denuncia. Al lato opposto della panca, invece, seduto ad una bassa scrivania ministeriale anni 60 metallo e formica, un uomo in uniforme lavora ad una macchina da scrivere con due dita e il pollice. Mentre scrive ripete ad alta voce quello che scrive e sbadiglia.
«… Ad un tratto un’autovettura di piccola cilindrata colore scuro, di cui sconosco marca e targa, che giunta alla nostra altezza, dal lato guida, con mossa fulminea un individuo di cui non so dare nessuna descrizione, cercava di strapparmi il mio zaino, che avevo a tracolla… Ci siamo fino a qua, giovanotto?» L’uomo che racconta le sue disavventure è alto ed esageratamente magro. Ha piccoli, affamati, lividi occhi, come se non si fosse mai riposato. Non sta mai fermo. Gira la sua sedia, incrocia le sue gambe fini, mostra un paio di ridicoli calzini con topolino e minnie, infine si mette a guardare intensamente fuori dalla finestra. il cortile della Cavallerizza. Più avanti, oltre l’agente che raccoglie le denunce, Viglierco alla sua scrivania, Cassini che parla al telefono annoiato, mentre Venturiello carica la pistola. Alla sinistra della scrivania di Viglierco si apre un minimo corridoio che porta a una porta a vetri. Sulla porta sta scritto Ispettore Paul Etienne Lizzi, attraverso il vetro smerigliato si intravede la sagoma di Lizzi chino al suo computer.
“Schmid, Charles Howard, Jr. (AKA: Smitty), 1942Charles Smith, alto 1 metro e 63 cm era ossessionato dalla sua statura. Per migliorare la sua immagine diventa un devoto ginnasta, fino a riuscire a vincere i campionati dello stato durante il liceo. Ancorato al suo complesso di inferiorità, prende l’abitudine di raccontare strane storie per incantare le ragazze di Tucson, Arizona. Ma le fantasie di ‘Smitty’ Schmid diventano brutalmente realtà nella primavera del 1964. Sembra che le ragazzine amiche di Schmid sapessero che il loro eroe era diventato un assassino, ma che non abbiano mai rivelato il segreto a nessuno. La più affezionata devota di Schmid era Mary Rae French, diciott’anni. Spesso usavano il suo piccolo cottage, quando la madre non c’era, per organizzare vere e proprie orgie, a cui lei partecipava attivamente. La sera del 31 maggio del ‘64, French, Schmid ed un altro amico, John
Saunders, parlavano dei numerosi exploit di Schmid con le ragazze, quando lui improvvisamente annuncia: «Voglio uccidere una ragazza… penso di poterlo fare e farla franca…». French suggerisce come possibile vittima la quindicenne Alleen Rowe, perché sua madre lavorava fino a tardi e lei era a casa da sola. Suona il telefono, Paul Etienne Lizzi risponde. «Ispettore Lizzi… vengo… vengo subito…». Salva, chiude ed esce dalla stanza.
Lizzi entra nell’ufficio del commissario capo. Il commissario Santacroce è seduto alla sua scrivania, con una mano invita Lizzi a sedersi di fronte a lui. Lizzi guarda il commissario. In silenzio si tengono gli occhi addosso. Santacroce lo guarda con una strana remota aria di speculazione, come se si chiedesse quanto tempo ancora gli resti da vivere. «Ispettore che mi dice della sua operazione Purple Haze?» «Di cosa stiamo parlando?…» «Io preferirei starne al di fuori, ma cosa è successo con il giudice Crippa» Paul Etienne tira su col naso prima di parlare, poi con espressione furba alla Richelieu: «Non lo so… ho dimenticato i dettagli…». Il commissario Santacroce gira la testa, guarda la Mole attraverso la finestra polverosa, indugia, pensa. «Lei mi delude Lizzi, con le sue capacità… comunque ispettore le comunico che è a capo della squadra operativa numero uno, la due la prendo io, entro quarantotto ore voglio chiudere con gli albanesi. Stasera alle sei la riunione per i dettagli dell’operazione… in questi giorni ho paura che non avrà molto tempo, ispettore…» «Meglio così, capitano, fa bene distrarsi ogni tanto, non si può pensare solo al
lavoro…». « Lizzi… le do un consiglio, rientri nei ranghi, sta cominciando a stancarmi…» «Lei ha un cuore grande, commissario…» dice sorridendo Paul Etienne. Adesso il suo sorriso è sincero, ma a Santacroce ancora non piace. «Può andare ispettore, ci vediamo alle sei». Paul Etienne lascia la stanza di Santacroce e ritorna nel suo ufficio con la curiosa sensazione di aver parlato con qualcuno che in realtà non esiste.
Seduti al tavolo della colazione Carla e Jayme sono distesi e silenziosi. Gianna entra in cucina trascinando i piedi, ha il viso stropicciato, si strofina gli occhi e indossa la camicia da notte da cui si può intuire la crescita dei seni. Prima ancora di Jayme vede la sua ombra contro il muro, sta dietro il tavolo come l’ombra di un enorme pezzo nero degli scacchi. Non si aspetta di incontrarlo, le fa un po’ paura… è un uomo! Si rifugia fra le braccia di Carla, le da un bacio su una guancia, i suoi capelli sono ancora un po’ bagnati e profumano di shampoo. Si sente più al sicuro e saluta Jayme. «Ciao…» «Ciao… tu sei Gianna?» Gianna annuisce con la testa vigorosamente. Jayme le sorride rassicurante, le offre la mano. «Felice di fare la sua conoscenza, signorina…» Gianna nasconde il suo viso in quello di Carla, per non mostrare di arrossire. «Non mi sento bene…» le sussurra in un orecchio. Carla guarda Jayme. «Cos’hai, piccola?» «Ho male… ma mi vergogno…» sussurra ancora, terrorizzata che senta Jayme. «Ho fatto anche un sogno stanotte…» Carla e Jayme continuano a guiardarsi.
«È un sogno bello o brutto?» «Un sogno che prima è bello, poi diventa brutto, molto, molto brutto…» «Allora non dire niente, dicono che se racconti i tuoi sogni, poi si realizzano». Gianna per istinto si tocca la zona pelvica. «Mi fa male, Carla…» le dice ancora in un orecchio. «Vieni… andiamo in bagno…», mentre escono Carla e Jayme si guardano una volta ancora.
Fa scorrere il biglietto sui denti come un bastone contro una ringhiera. Ha i capelli lunghi fin quasi a metà schiena, neri, corvini, sopracciglia sottili, occhi neri, profondi, il naso piccolo e una bella bocca, con denti bianchi e labbra fini. Porta una gonna lunga e gli anfibi alti, sorride sempre e quando cammina sembra danzare. Alla fermata Satti a quell’ora c’è un sacco di gente. Un lungo tratto di marciapiede lungo la strada è affollato, ragazzi che vanno a scuola e pendolari, le coppiette svenevole sono vampiri gli uni sul collo degli altri, le ragazze gridano e si rincorrono, hanno orecchini al naso, alle sopracciglia, alle labbra, alla lingua, poi zeppone alte una spanna, capelli scintillanti, trucco pesante e tatuaggi sui seni. La voce di questa moltitudine divide l’aria del mattino come un’ascia. a in mezzo a quella folla, a e lascia una scia di legno di sandalo quello che per lei è l’uomo più bello del mondo. É alto e biondo e le sorride. Il cuore le salta come un gattino nervoso. È il sorriso del farmacista, lei non può staccare gli occhi da quel sorriso. Un giorno quell’estate l’ha capito. Sua madre giocava a tennis a fianco alla piscina dove lei nuotava. I bagni erano lontani e di tirarsi fuori dall’acqua per andare a pisciare in una turca puzzona non le sembrava così allettante. Inoltre c’è come una regola non scritta che ti permette di pisciare in acqua, così lei lo fa senza vergogna ed anzi le piace sentire il flusso dell’ urina calda lungo la coscia. Sua madre in doppio è brava. Lella dal trampolino può vederla mentre è sotto rete, il gonnellino che le si alza
mentre infila una volèe, così corto che le si vede la biancheria. Che lei si sente in imbarazzo per sua madre. Fuori dal campo da tennis, all’ombra sotto gli alberi, la gente aspetta per l’ora dopo. Vede il farmacista, è così bello. Sa che a sua madre piace e si sente ancora più in imbarazzo a pensare al suo gonnellino. Lella ha un corpo compatto, il busto a triangolo da nuotatrice e il seno duro che sta su da solo. Il farmacista guarda lei tuffarsi e non il gonnellino di sua madre. Quando esce fuori dall’acqua è ora di andare. Sua madre posa la racchetta, il farmacista entra in campo, sua madre sorride al farmacista. Ancora bagnata va nello spogliatoio, come al solito ha dimenticato le ciabatte. Le mattonelle sono fredde e bagnate, ma il peggio è che deve di nuovo andare in bagno ed è lì che rimpiange le ciabatte, il pavimento è disgustoso. Sente che si prenderà le verruche. Alla fine fa pipì, accucciata sulla turca, a piedi nudi. Quando esce dalla piscina e raggiunge sua madre, guarda i giocatori di tennis. Il farmacista sorride, lei vorrebbe indossare una gonna diversa da quella che indossa, lunga fino alle caviglie, a fiori, ma tanto è sicura stia sorridendo a sua mamma, che ricambia il sorriso e il gonnellino corto si muove che sembra la danza di un cobra. «Andiamo Lella» dice sua madre e la voce le sembra riverberare nello spazio ed arrivare a lei e sorprenderla tra gli alberi, tra il campo da tennis e la Dora che scorre a fianco, per costringerla a mollare lo sguardo da quell’uomo che gioca a tennis. Guarda in basso, sorpresa, i suoi piedi prima di muoverli e le appaiono sporchi anche se non lo sono. Ma è così che li sente, dopo aver camminato scalza nel bagno e prima di andarsene le sembra proprio che il farmacista le stia guardando i piedi, ridendo.
Un grande autobus blu si ferma alla fermata della Satti. Dopo un po’ l’aria, satura di lacca, è un oceano di profumi da quattro soldi. Le coppiette svenevole, per un momento sembrano tenere i loro denti lontani dal collo del loro partner per salire sull’autobus e prendere posto, nella confusione degli zaini, delle cartelle, degli urletti, dei risolini isterici. Lella si guarda gli anfibi, si morde il labbro e questa volta non sale.
Paul Etienne è nel suo ufficio. Mastica amaro e guarda la strada dalla sua finestra. Fuori sembra deserto, non c’è nessuno, eccetto due uomini che stanno osservando un ippocastano come se studiassero come portarselo via. È di umore così nero che gli viene da pensare ai poliziotti, finti uomini duri con il gel ai capelli e atteggiamenti spacconi, oppure quelli dietro le scrivanie, grassi e prosperi con la voce da impiegati alle Poste. Oppure magri e intelligenti, ma morti, che con tutta la loro intelligenza non sono riusciti a finire il lavoro e sono saltati per aria, stecchiti, cadaveri, a pezzi, come il padre di Eleonora. Pensa ancora a lui, a come gli ha cambiato la vita. Poi il pensiero va ai medici corrotti, a tutti i modi per procurarsi le droghe, alle cose giuste ed ingiuste della vita, agli indiani, ai cowboys, ed infine inevitabilmente a Eleonora. E il suo umore diventa ancora più nero. Allora pensa che ha bisogno di un negro, di una puttana, di un’assicurazione sulla vita, di una vacanza, di una barca a vela. Quello che invece ha, è una Uno, una scorta di arbre magic e una pistola. Ed ora non sa cosa gli sia più utile. Suona il telefono. «Abbiamo trovato la Chiamberlando…» È Locurcio da Susa. «Dove?» «Sopra Mompantero… lungo la strada verso il Rocciamelone…» «La mulattiera?» «La mulattiera». «Com’è?» «Morta» «Morta?» «Morta».
L’alfa bianca arriva fino a dove una macchina può arrivare. Poi ci vorrebbe il mulo. La nebbia si è appena diradata, l’aria umida è fredda come le ceneri di un amore. Lizzi e Cassini arrancano a piedi, senza una parola, solo sbuffi di fumo escono dalle loro bocche. Capiscono di essere arrivati quando raggiungono un folto gruppo di persone che non sono cercatori di funghi, ma che anche il primo sguardo di un profano riconoscerebbe per poliziotti. Un po’ per le divise, un po’ per le biffe da galeotti. Non tutti sono in divisa e non tutti sono poliziotti, in ogni caso. C’è anche un medico, un giornalista, il proprietario del terreno, un prete, un curioso e, ovviamente, il cadavere. Ora anche Lizzi e Cassini. Locurcio si avvicina e stringe la mano a Cassini, Lizzi non riesce ad intercettarlo perché si è già chinato ad osservare il cadavere da vicino. Lizzi osserva la ragazza, intorno c’è odore di salvia e di erba umida. La ragazza ha sugli occhi una maschera per dormire, una di quelle che danno sugli aerei. Lizzi solleva la maschera, la ragazza ha gli occhi aperti, ma morti, grigi come acqua ghiacciata a metà, i lobi delle orecchie scuri, il naso affilato, la faccia bianca come l’interno di un’ostrica. La ragazza indossa solo un reggiseno nero, semplice e senza pizzi, ha ematomi evidenti in varie parti del corpo. Intorno al collo mostra segni di strangolamento. Un agente la fotografa. Lizzi si alza, ma continua a guardarla, senza emozione. Locurcio si affianca. «L’ha trovata stamattina il proprietario del terreno, ma il medico dice che è morta da un po’ e il freddo l’ha conservata…» «È la Chiamberlando?» «È la Chiamberlando…» «Vorrei avere i rapporti dei medici e dell’autopsia, Locurcio, e che mi teneste aggiornato sull’indagine.» Locurcio annuisce. Paul Etienne volta le spalle e riprende la mulattiera verso la valle, Cassini lo segue, Locurcio lo incalza. «Ispettore… non vuole interrogare il proprietario… fare il punto… un
brainstorming… una strategia…» Nemmeno si volta Lizzi. «Non ho tempo …i sentiamo domani, grazie, Locurcio…» Scende veloce la mulattiera Lizzi, aiutato dalla discesa, come se corresse incontro alla libertà. Cassini che fatica a stargli dietro, quasi grida per farsi sentire. «Ispettore io credevo… non era meglio approfondire… interrogare…» «Ci aspettano gli albanesi, Cassini… poi le preferisco vive…» «Gli albanesi?» Cassini si ferma un momento, come se non riuscisse a camminare e a farsi una domanda nello stesso tempo. Quando riprende la strada l’ ispettore è già fuori dalla sua vista.
«Hei…», finalmente la finestra si apre, dopo aver tirato almeno una ventina di sassolini, ha sentito e ha aperto la finestra. «Mi fai entrare?» «Lella che ci fai qua?» «Non sono andata a scuola… fammi entrare…» «Aspetta». Giorgina scompare dalla finestra e dopo poco ricompare alla porta per far entrare Lella. Giorgina è in camicia da notte ed è la migliore amica di Lella. «È mezzogiorno ato e stavi ancora dormendo?» «Ho lavorato fino a tardi stanotte…» «Seee… lavorato…» Giorgina ha i capelli corti, le guance paffute e rosse, la pelle bianca e poche efelidi intorno al naso. Stringe Lella da dietro e la bacia sul collo, poi corre a piedi nudi fino alla sua camera e salta sul letto. Lella la raggiunge, ha uno sguardo colpevole in contrasto con l’eccitazione dell’amica. Lella si morde l’interno della guancia.
«Ho conosciuto un uomo…» Giorgina sorride mostrando i denti, la sua faccia da bambina, i suoi occhi liquidi e sinceri. «Sei così bella…» «Stronza…» «Tu stronza…» «Gli hai fatto un pompino?» Lella sorride a metà, sollevata, poi sospira. «Sono innamorata…» «Puttana…». La prende per il collo e la trascina sul letto. «Lo so…» «Qualcosa gli hai fatto… cosa hai fatto?» «Tua madre?» «In coma, ma con manicure perfetta…» Adesso Lella ha la testa nel grembo di Giorgina, la guarda e la vede al contrario, lei le accarezza l’attaccatura dei capelli. Per la curiosità Giorgina è luccicante come marmo nuovo. «Allora… gli hai fatto un pompino?» Lella sorride e continua a sorridere guardando quella faccia al contrario.
Dietro quel bancone riceve la sua comunità, non come un sindaco, ma come un sintomo di benessere. Tutti lo amano, non importa l’età, nè il sesso, nè il ceto, è un’infatuazione collettiva. Serve, come qualcosa per cui andare fieri, per darsi un’identità. Al di sopra di tutto, compresi i pettegolezzi, Jayme. Può permettersi di tornare a casa facendo la strada con la signora Chiamberlando, oppure di arrivare al
negozio chiacchierando con Lella, che ha appena quindici anni, gli occhi grandi e lo guarda come fosse una cosa rara, una zebra rosa. E lui parla e parla e la gente lo ascolta, come fosse un oracolo, poi si mette dietro il bancone e dispensa analgesici, antistaminici e consigli senza ricetta. Alla fine della giornata, quando torna a casa non sa cosa ha detto, probabilmente parole, ma non sa quali. Oggi è il giorno del tennis se Leo si è ripreso ed è in condizioni di giocare. Appena chiude erà da lui a vedere come sta.
Lella e Giorgina stanno fumando una sigaretta su una panchina lungo la Dora, davanti al cinema. È già buio, ancora di più in questo tratto dove il lampione è spento. L’unica luce che si vede è quella delle sigarette e del telefonino di Giorgina, che sta mandando un messaggio. «Mi ha scritto che a anche stasera… mi accompagni, vero?» «Non posso, devo tornare a casa… non sono neanche andata a scuola oggi…» «Inizio a lavorare alle sette… io ti ho accompagnata davanti alla farmacia…» «Andiamo adesso, allora…» «È troppo presto!» «Anche se arrivi dieci minuti prima…» Le ragazze iniziano a camminare. «Ha già ventanni, però… pensa che va allo chalet già da cinque anni…» «Vabbè… solo cinque anni… cosa dovrei dire io…» Le ragazze camminano veloci, la nebbia sta scendendo, il freddo e l’umido riscalda i volti delle ragazze. «Più cresci più assomigli a tua madre» dice Giorgina a Lella. «Ma va!» «Pensa come sarai bella a vent’anni…» Lella non risponde, pensa se fra cinque anni, sarà ancora innamorata del farmacista, se lui la trova bella, se le parlerà
ancora come ha fatto quella mattina. Intanto arrivano allo Chalet, la birreria dove lavora Giorgina. Lella frettolosa bacia sulla guancia Giorgina e scompare quasi subito nella nebbia che si è fatta fitta.
Leo a casa non c’è. Jayme ha suonato e suonato, lo ha chiamato, ha fischiato, ha provato anche a telefonare. Nessuna risposta. È scomparso senza dirgli niente, forse si è offeso per l’altra sera. Questo pensa Jayme scendendo nella nebbia la discesa da casa di Leo. «Peggio per lui…» pensa, e pensa anche che è talmente affamato che ruberebbe il cibo a un cane, sentendo l’odore di patate fritte che viene dalla birreria. Che quasi si fermerebbe a prendere un aperitivo. Fa freddo e il fumo gli esce anche dal naso. Pensa a Carla che è a casa da sola e decide di non fermarsi. Le mani nelle tasche, va avanti nella nebbia dove non si vede un accidente. Eccetto una piccola ombra davanti.
NOVE
First time I shot her
I shot her in the side
Hard to watch her suffer.
But with the second shot
She died.
Johnny Cash – Delia’s gone
La notte cola rapidamente. È come fumo tossico che esce da un tubo di scappamento e satura l’aria limitata di un garage, non si vede quasi più niente, tranne qualche barlume luccicante di stelle. Una nuvoletta di vapore ancora gli esce dal naso per il freddo della sera quando entra in casa. Stranamente neanche una luce accesa, il cane non gli va neppure incontro. Sono da poco ate le otto, non sente la solita televisione accesa che a quell’ora trasmette il telegiornale. Non sente Carla in cucina trafficare con la cena. Jayme si pulisce sui pantaloni la mano umida di calore e non fa neanche in tempo a chiedersi cosa succede, quando vede Carla accucciata sul divano. Nonostante il buio si accorge che sta piangendo.
«Cosa c’è? Cosa succede, amore?» Jayme pieno di amorosa premura, riesce a raggiungere la sua guancia calda di lacrime con una sincera carezza. «Ho paura… ho paura della morte e della disperazione…, ho paura del buio, di essere niente, di non essere degna di te, Jayme…» Così dicendo si getta in singhiozzi tra le braccia del marito.
Raggiungono lo stabile in via Saluzzo e lo circondano. Sono almeno quindici volanti. È un’operazione in grande stile come non ne vedeva da tempo. Spettacolare per compiacersi. Di sera, per fare il pienone. Lizzi raggiunge l’edificio sulla volante con Cassini, Viglierco, Venturiello e un omone che non ha mai visto. Gli hanno detto che viene dalle Vallette ed è specializzato in operazioni come quella. È il tipo giusto, sembra uno che per cinque euro ti spara, per dieci ti taglia la gola e per venti è disposto a gettarti nel Po con i piedi nel cemento. Il gruppo di sbirri esce dall’auto e si apposta nell’androne del palazzo, tenendo la posizione per l’irruzione. Prima di iniziare la salita, Paul Etienne concede ancora un’occhiata all’energumeno che sta dalla sua parte. Pensa che essere uno sbirro è un modo sensibile di vivere la vita. Iniziano la salita cercando di non fare rumore, sono silenziosi esattamente come una cinquantina di sbirri in tenuta da commando. Ad ogni piano i curiosi escono sul pianerottolo, loro cercano di tranquillizzarli mantenendo il silenzio. Sembrano boyscout ad una caccia al tesoro. O un gruppo di colleghi ad una festa a sorpresa. Il palazzo, pitturato di recente lascia odore di pittura fresca che va ad aggiungersi a quello indistinto e variegato della cena del condominio. Si sentono i telegiornali serali, bambini che piangono, donne che litigano, risate a crepapelle, telefonate d’amore e i i delle forze dell’ordine salire le scale, che fanno il rumore delle mosche che camminano sulle finestre. Si fermano, infine, davanti all’unica porta in silenzio. Lo stesso commissario Santacroce si occupa di bussare alla porta. Niente. Il commissario si volta un momento a guardare i suoi uomini. È fiero come se li avesse allevati lui. Ed ora li sta guidando ad una grande impresa. Apre la bocca larga e i suoi denti mostrano tutto lo scintillio che viene dall’essere stati tutta la
notte in un bicchiere in una soluzione che li sbianca: «Avanti ragazzi…» urla sottovoce. Qualcuno apre la porta, la mandria di uomini in tenuta da combattimento entra nell’appartamento, stavolta rompendo la consegna del silenzio, come se si fosse finalmente davanti al festeggiato e la sorpresa è riuscita. Nella prima stanza non c’è nessuno. Nella seconda invece, un manipolo di uomini, sorpresi, ma non felici. Colti in fallo davanti ai loro bilancini. Non sono molti. Qualcuno più svelto tira fuori una pistola, ma non spara, piuttosto viene centrato e cade. Si muovono tutti veloci, sapendo benissimo cosa fare. Lizzi appena entra si ferma, osserva quel frenetico movimento dominato dalla paura. Intorno a lui immobile tutto si muove. L’albanese davanti a lui è paralizzato dal terrore. Lo guarda con un’espressione che sembra chiedergli cosa debba fare. È un uomo sottile e tranquillo, sui 50 anni, con i capelli lisci e brizzolati, gli occhi freddi e maniere distanti. Indossa una cravatta rossa a pallini neri e Paul Etienne non riesce a distogliere gli occhi da quei pallini. L’uomo con la cravatta spalanca gli occhi, alza le sopracciglia, implora: «Non c’entro…io non c’entro…per caso…lasciami andare…prego…». Alza così tanto le sopracciglia che sembra che tutta la faccia sia impegnata in quel lavoro. «Ti prego…ho i figli…». Ha un tipo di voce lagnosa e carezzevole come un asciugamano da doccia umido. Finalmente Lizzi riesce a staccare lo sguardo dai pallini della sua cravatta e lo guarda negli occhi. «Tu mi fai ridere.» Gli dice senza ridere. L’uomo sorride, mostra un molare d’oro, si sente sollevato, quasi salvo. Per questo neppure per una frazione di secondo vede il pugno che si abbatte sul suo occhio. Soltanto un lampo di luce ad accompagnare il dolore. Mentre il calcio che lo centra ai testicoli gli strappa un ghigno e il corpo gli si piega in due. Poi un altro colpo gli mozza il respiro. L’uomo dalla cravatta si affloscia perdendo i sensi, come fosse un pupazzo che si sgonfia. Così i colpi che continuano a piovere su di lui non può più sentirli. Intorno le cose si stanno mettendo a posto. Una fila di uomini è ammanettata, su un tavolo ci sono numerosi sacchetti di polvere bianca e bruna, bilancini, pistole e un mitra, mazzi di banconote di diverse valute. Molti poliziotti si danno ancora da fare a perquisire l’appartamento. Tra questi anche il commissario Santacroce, il più solerte. «Guardi sotto il letto» gli dice sfrontato Lizzi. Ma il commissario, senza paura del ridicolo, ci guarda davvero sotto il letto. «C’è nessuno?» continua Lizzi.
Il giorno dopo è una splendida giornata di sole. Gelida e ventosa, ma ancora secca, e secca è la valle, secca la montagna e la pelle e le labbra delle persone seccano nel vento. È l’una, l’ora di pranzo. Jayme ha chiuso la farmacia, ha il tennis prenotato. La borsa con la racchetta sulle spalle, prende la salita che lo porta a casa di Leo. Alla sua sinistra la statua di Cesare Augusto indica il cielo con un’arancia sopra l’indice. Lo chalet è chiuso. Di giorno è veramente una squallida baracca, di notte si ravviva e diventa il ritrovo dei giovani della valle. Jayme arriva davanti alla casa di Leo. Le persiane sono chiuse, come se dentro non ci fosse nessuno. Jayme fischia. Non è possibile non ci sia. Jayme fischia ancora. La tapparella che si alza è il primo segno di vita, poi esce fuori sul balcone, Leo. Infastidito dalla luce del giorno strizza gli occhi, ha lo sguardo vuoto, la barba lunga. «Che vuoi?» Quella era la sua voce, o almeno, veniva fuori da lui. «Il tennis…». Leo ride, come se l’altro avesse detto qualcosa di spiritoso. «Ho fatto tardi stanotte…» «Prendi la racchetta…andiamo…» «Mi è sembrato di sentire le campane…» Jayme guarda l’orologio, è l’una e mezza, il tocco della campana è quello della mezzora. «É l’una e mezza…» La campana batte ancora un tocco. Poi un tocco ancora. Poi è chiaro che non ha nessuna intenzione di fermarsi. Lugubre continua a scandire il suo tocco. Leo fa finta di pensare, si gratta il mento non rasato, scuote la testa. «No» dice «io torno a dormire…». Chiude la finestra, abbassa la serranda e scompare. Le campane continuano a battere a morto.
Paul Etienne continua a mantenere un’espressione di noia paziente, il bicchiere di plastica con il caffè bollente in mano e la stessa camicia bianca da tre giorni. Il commissario vorrebbe tenere una strategia nell’interrogorio degli albanesi e gliela illustra davanti alla macchinetta del caffè. Lizzi tiene in mano il bicchiere bollente e aspetta che si freddi. Continua a guardare quel marchigiano tenace, noioso come una canzone dei Jethro Tull, quando vede Cassini avvicinarsi. Si ferma davanti a loro e non osa interrompere il commissario che parla, ma sta lì, non invitato ad acoltare una conversazione riservata tra due superiori. «Cosa vuoi?» gli ringhia Paul Etienne per tirarlo fuori da quella situazione imbarazzante. «Hanno chiamato da Susa, ispettore…hanno trovato una ragazza…morta… sembra…». Ìispettore guarda Santacroce, che adesso sta zitto e dubbioso spinge la lingua contro il labbro inferiore e guarda il suo ispettore che guarda il suo agente, che, non si sa bene perché, sotto sotto trionfa, e il suo sorriso delicato che si forma agli angoli delle labbra è fragile e silenzioso, come quello di un bambino che cerca di catturare un fiocco di neve.
Santacroce è seduto dietro, Cassini guida con stile compunto. Paul Etienne guarda davanti a sé la riga bianca che divide la carreggiata che stacca con il nero della notte. Una notte fredda, stellata e senza luna. Cassini pensa che a quell’ora dovrebbe essere a casa già da un pezzo a guardare Biscardi e quel barlume di soddisfazione per aver portato la notizia si è spento con rimpianto. «Commissario, scommettiamo che la ragazza la troviamo con una mascherina per il sonno sugli occhi?», Lizzi si gira verso Santacroce. Il commissario grugnisce, ma non scommette. All’uscita dell’autostrada si ritrovano nel traffico dei pendolari, niente di impossibile, un traffico normale da suburbe benestante del ventunesimo secolo. Uomini stanchi guidano macchine polverose, attaccati al volante, alla noia, alla strada. Guidano verso la famiglia, la cena, la partita della nazionale della sera, a casa li
attendono bambini viziati e mogli cicciottelle e sciocche. Grandi bisarche rallentano il traffico e ad ogni semaforo quando devono ripartire sembrano ruggire come i leoni dello zoo. L’alfa bianca con i tre uomini a bordo arriva a Susa, l’ora di cena è già ata e la cittadina sembra immobile e statica. Trovare il luogo del ritrovamento non è difficile, è l’unico posto illuminato e affollato di gente, che sembra un set cinematografico. Oltre i soliti curiosi, i carabinieri e la polizia, ci sono un bel po’ di cronisti, di giornali locali e nazionali e un paio di troupe televisive. Cassini, Lizzi e Santacroce faticano a raggiungere il luogo, a farsi largo tra la folla. Il pub a due i dal cadavere è più affollato del solito e fa affari d’oro. Una cameriera piange la morte dell’amica. Il cadavere è sotto la statua di Cesare Augusto, che ha un’arancia sull’indice e punta al cielo, come se non volesse vedere quel che c’è ai suoi piedi, ai suoi calzari di marmo. Tutt’intorno orti coltivati, che in quella stagione sono spogli, sopravvive solo qualche cavolo e la salvia selvatica. Paul Etienne guarda da vicino la ragazza morta e sente intenso l’odore della salvia, come se arrivasse da lei. La ragazza ha la mascherina sugli occhi, Lizzi la solleva per vederle il viso. La gialla maschera della morte comincia ad irrigidirle i lineamenti. Gli occhi scuri sono occhi morti, che ora guardano un cielo senza luna e agli angoli della bocca scuro sangue secco. Paul Etienne alza la testa oltre le montagne, poi guarda la folla intorno tenuta a distanza dagli agenti. Nessuno parla, tutti guardano sperando arrivi una risposta. Un uomo grasso, in tuta da sci, a, si ferma e osserva con quella tipica indolenza che solo le persone grasse possono avere. Un altro, invece, ha gli occhi rossi e non fa che tirare su col naso. Sui vent’anni, quasi uno e novanta, magro come un filo di paglia, si muove a scatti, tira su col naso e soffia con la bocca e ha l’aria di uno molto infelice. Una donna oltrea il cordone dei poliziotti e avanza verso di lui, ha un microfono in mano, un uomo con una telecamera e un altro con un faro di luce la seguono. La donna è truccata in modo eccessivo, è bianca e luccica. Si muove così a disagio e con tale preoccupazione che sembra un gatto su un pavimento bagnato. Paul Etienne la guarda avvicinarsi senza misericordia, lentamente, con un coltello negli occhi. Lei è bella, ma è ato un bel po’ da quando è stata ragazza, fin dal primo sguardo si vede che è una veterana di mille letti. Alla fine, dunque, arriva da lui e le ficca il microfono sotto la bocca, la telecamera si accende ed ha il faro puntato sugli occhi. È una cosa improvvisa a cui non è abituato. Quando lei apre la bocca, questa fa click e poi aggiunge:
«Gli abitanti della valle sono sotto shock e spaventati, crede si possa parlare di un serial killer che opera nella zona? Cosa ci può dire la polizia?» Lei guarda la telecamera e poi guarda lui, i suoi occhi contengono una delicata minaccia mentre dicono “la polizia”. «Vorrei essere come Philo Vance, ma sono diverso…» si lascia andare Lizzi in un eccesso di narcisismo, poi si volta e repentino, con un gesto squisitamente carino, carino come chiudere gli occhi di un uomo dopo averlo pugnalato, offre le spalle alla telecamera e guarda indietro verso il cadavere. Un uomo piazza con un pennellino la polvere per le impronte digitali e soffia via quella che non gli serve più. Santacroce, accompagnato da Locurcio, che sbrigativo caccia i giornalisti, si avvicina a Lizzi. «Crippa ha chiamato. Ci vuole vedere al più presto. Riunione domani mattina alle otto in commissariato.» Lizzi annuisce, si guarda le scarpe e si sente vuoto, come una spugna strizzata
Un uomo a fischiettando Volare con eleganza e virtuosismo, le mani in tasca, la pancia prominente e lanciando certe occhiate alle puttane marocchine, con i capelli imbionditi dall’acqua ossigenata, come se fossero reincarnazioni di Marilyn Monroe sotto i portici di via Nizza. Paul Etienne non riesce a credere a tanto ottimismo. eggia lentamente verso casa. Sono tornati da Susa molto tardi e domani l’incontro con Crippa è troppo presto. Eppure non ha voglia di andare a casa. È una di quelle sere in cui sente la bestia agitarsi dentro. Dovrebbe andare a casa a dormire per svegliarsi presto. Ma quella notte Paul Etienne non è umano. Esce dai portici e aspira la notte tersa. Niente luna, quella sera, nessun rumore, solo una lontana fontanella gocciola, nessun odore, eccetto il vago indescrivibile selvaggio odore della neve lontana, in montagna. Èuna sera di niente. Un niente profondo e pericoloso. E Paul Etienne non è umano quella sera. Vede un africano al solito angolo. Si avvicina e lo guarda negli occhi, l’altro sostiene lo sguardo e muove appena le labbra, ma si legge chiaro “bamba?”. Paul Etienne fa cenno di si con la testa. L’africano recita la parte. «Venticinque a pallina. Cento un grammo. Duecento l’intiera, due grammi e mezzo…», lo dice con una voce così strozzata che sembra Orson Welles con la bocca piena di crakers.
«Dammi tutte quelle che hai…» È calmo come un mattone, Paul Etienne ma gelido. L’africano lo guarda un istante, come se non avesse capito bene, poi si sputa nelle mani due palline piccole, una media e una piuttosto grande. «Fa trecentocinquanta…», ora parla con la voce normale. Paul Etienne gli prende un orecchio e lo trascina verso di sé. «Ora i soldi…». Il pusher indugia. Paul Etienne non molla la presa, ma gli molla una ginocchiata in bocca. Il moro sanguina lentamente, sembra squagliarsi come un gelato alla fragola nella canicola di luglio. Si a il dorso di una mano per pulirsi, ma non dice niente. Ha gli occhi gonfi di lacrime. Paul Etienne è sul punto di regalargi un’altra ginocchiata, ma l’altro è abbastanza svelto da tirare fuori un rotolo di banconote dalla tasca. A Paul Etienne basta, gli lascia andare l’orecchio e gli fa cenno di argli le banconote. Il moro esita ancora un momento, poi allunga la mano con le banconote. Gli allunga quei soldi con aria molto triste. Ma non può fare altrimenti, la persona davanti a lui non concede sconti, lo legge nel suo sguardo. Paul Etienne si infila le banconote in una tasca e si allontana. Non è umano quella notte ed è solo l’inizio.
Nella stanza grande, luminosa, con vista sulla Mole del commissario capo Santacroce ci sono, altri quattro uomini. Uno di loro è il giudice PierMatteo Maria Crippa, 38 anni, magro, elegante, sguardo tagliente di chi è abituato a dividere le persone in 36 parti come le caselle della roulette. Sembra così sicuro come se non dovesse dimostrare mai niente a nessuno. Porta in giro un’aria di manifesta superiorità in un impeccabile completo Caraceni. Nessuno parla. Gli altri tre uomini, invece, sono piuttosto simili tra loro. Quasi calvi, pizzo volitivo, completo blu con taglio alla moda, ma non particolarmente costoso, cravatte sobrie. Con piglio Crippa prende la parola. «Vediamo al punto, commissario. Ora come è evidente siamo di fronte ad una realtà diversa rispetto a qualche settimana fa. Ora pare evidente che siamo di fronte ad un serial killer, o almeno ne è convinta la stampa, ed è quello che conta. Cioè ora noi ci troviamo di fronte ai riflettori di tutti i media nazionali, che a quanto pare, attenuatasi la vicenda di Cogne, ha un nuovo osso da gettare alla sua clientela, il mostro di Susa. Solo a dirlo mi viene da ridere, ma questa
adesso è la nostra chiamata. Quindi cerchiamo una soluzione tutti insieme il più presto possibile e fare una buona figura. Ne va, oltre al resto, anche della nostra reputazione. A questo proposito ho fatto venire da Roma un team di specialisti, sono tutti superesperti che si sono formati all’ I.C.A.A., l’International Crime Analysis Assiociation, perché il fallimento non è un’opzione che prendo in considerazione. Se collaboriamo tutti insieme non dovremmo avere problemi… Manca qualcuno, però, o mi sbaglio?» «L’ ispettore Lizzi, sta arrivando. Sarà qui fra breve. Ieri sera abbiamo finito tardi a Susa e stamattina ha dovuto fare dei riscontri…», si arrampica sugli specchi cercando una qualsiasi giustificazione, il commissario. «Non poteva farli fare a un suo uomo?» obbietta uno dei tre. «Si fida solo di sé stesso, l’ ispettore…» «Sarà meglio che impari a collaborare…» taglia corto il magistrato. «L’ ispettore ha un metodo d’indagine molto, molto personale, ma è il migliore investigatore che abbiamo. È un criminologo, molto esperto e sta compilando un database per l’UACV. Sono convinto che possiate lavorare bene insieme.» «Non ho molta stima dell’Unità per l’analisi del crimine violento, ma forse potremmo lavorare insieme lo stesso se solo si fe vivo…» conclude non senza arroganza uno degli uomini con il pizzo. «Comunque arriva il nostro Lizzi?» lo incalza Crippa. Il commissario fa si con la testa, mente annuendo. Mentire annuendo è sempre una bugia, ma una bugia più facile.
È una tiepida giornata di Gennaio e il sole è caldo, anche in montagna. Si riflette sulla neve e il tepore dei raggi, si mescola piacevolmente al freddo secco. Paul Etienne è arrivato fino a dove la sua macchina ha potuto portarlo, dopo c’è solo più neve e il sentiero per il Melezet. Tiene la portiera aperta, una custodia di cd sul sedile dell’autista e sta con il culo per terra e la testa appoggiata all’auto a respirare la brezza fresca della montagna al mattino e a ricevere i raggi caldi del sole. Ogni tanto gira la testa verso l’abitacolo, si china sulla custodia del cd dove
ha steso un bel po’ di righe bianche e ne tira su una, con una banconota da dieci euro arrotolata. La notte non è finita presto e Lizzi non aveva voglia di trovarsi davanti Crippa proprio quando avrebbe avuto bisogno di andare a dormire. Alle sei del mattino lasciata la casa di Lory si mette a vagabondare, prende l’autostrada e si lascia andare fino a Bardonecchia. Lory l’ha raccattata in corso Unità d’Italia, vicino all’ospedale Sant’Anna. In realtà non aveva voglia di un travestito, ma quando ha fermato la macchina a fianco a lei e le chiesto quanto voleva, si è accorto che non era una donna. Ma a quel punto era troppo tardi, non gli sembrava gentile fare un o indietro. Così ha lasciato che Lory lo portasse a casa sua. La casa era carina, meglio di tutte quelle puttane dell’est con tutti quei pelouche e quell’armamentario kitsch che sembrano le case delle nostre nonne da giovani. La casa di Lory è carina, ben arredata, senza l’asciugamano sul letto. Lei anche è carina e simpatica e italiana. È alta, come difficilmente può esserlo una donna, ma sembra proprio una donna, non fosse per le giunture, le ginocchia, i polsi che sono inequivocabilmente maschili. Anche quando si spoglia si vede chiaramente il suo lato maschile, anche se indossa sexy lingerie femminile. Lo fa sedere accanto a sé e con un certo savoir faire glielo tira fuori dai pantaloni, poi inizia a succhiarlo senza nemmeno mettergli il preservativo. A questo non è abituato, Lizzi, allora glielo dice, sorpreso, divertito. Lei allora, si stacca e con voce profonda e rauca: «Non ne ho più, piccolo. Poi sai, per denaro potrei fare qualunque cosa. Anche sederti sulle ginocchia e cantare stupide canzoni si, se lo desideri». «No, no, va benissimo. Continua pure a fare quello che stavi facendo.» Lei riprende, Paul Etienne mette le mani sui suoi seni, enormi e duri, ma freddi e veri come la Venezia di Las Vegas. Poi chiude gli occhi e l’immagine di una ragazza con la maschera per dormire e due rivoli di sangue agli angoli della bocca, e una notte senza luna e l’odore della salvia e l’arancia sul dito di Cesare Augusto sono quello che gli rimane. Lizzi si gira di nuovo verso l’interno dell’automobile, arrotola la banconota e tira su tutto quello che c’è sulla custodia del cd. Poi si alza e va a fare pipì. Il calore della pipì scioglie la neve e alza un piccolo fumo. Paul Etienne ha la testa abbassata e osserva con cura questo fenomeno, orgoglioso come un super-eroe con il potere di sciogliere i ghiacci. Poi sente un liquido caldo scendergli dal naso. Si a il bordo della mano per asciugarsi e se lo ritrova rosso vermiglio. Sente la testa girare, la terra mancargli sotto i piedi. I sensi evaporano dai suoi
occhi e collassa come un sacchetto di sabbia mezzo vuoto. La faccia sulla neve.
DIECI
La verità esiste, la menzogna è un’invenzione.
George Braque, Le Jour et la Nuit
Qualche raggio di sole filtra dalle poche fessure della persiana abbassata. Sono quei tagli di luce che mettono in evidenza il pulviscolo mentre danza impazzito nell’atmosfera. Gira su se stesso, non sa dove andare, lo muove solo la corrente d’aria casuale. Un po’ come per alcuni stare al mondo. Guarda caso uno di questi raggi va a cadere proprio su uno dei due occhi chiusi di Leo. Scende dal letto, si porta alla finestra ed alza la tapparella. Il sole è al tramonto. Un tramonto livido e invernale, con raggi brillanti e un cielo pervinca. Leo si trascina fino alla cucina e cerca un bicchiere poco sporco per bere dell’acqua. Il camino davanti al divano è spento. Non l’accende più. Sul pianoforte, come dappertutto, sporcizia e rifiuti hanno preso il sopravvento. Leo si aggira indossando la vestaglia della moglie cercando qualche crosta ancora commestibile, ma non la trova. Beve l’acqua direttamente dal rubinetto. Va a fare pipì che l’acqua scorre ancora. Mentre scroscia il getto d’urina Leo si gratta la barba e si guarda intorno. Non sembra nemmeno triste, solo annoiato. Senza nemmeno tirare l’acqua va agli armadietti. Ci sono tutti gli oggetti ancora della moglie, le creme, i trucchi. Prende un rossetto e se lo a sulle labbra, si guarda allo specchio, atteggia la bocca a culo di gallina e definisce bene i bordi. Si trova carino e continua. Si trucca gli occhi con la matita e il mascara. Si a il fondotinta dove non ha la barba e si rimira allo specchio. Ha le occhiaie profonde, occhi scuri, quasi opachi, senza luce e non è ancora morto. Torna in camera da letto. Apre un armadio. Ci sono ancora molti vestiti della moglie appesi. Apre un cassetto della cassettiera e sceglie con cura la biancheria intima, sceglie quella che a lui piaceva di più che lei indossasse. Si apre la vestaglia e infila il tanga blu con i pizzi e il reggiseno del completo. Il tanga gli
sta stretto, anche perché l’operazione lo eccita, ma il reggiseno gli sta largo, o meglio è troppo vuoto lì davanti. Ci mette della carta, tanto per riempire. Infila le gambe in un paio di autoreggenti bianche, traforate, forse le stesse del matrimonio, ma non ricorda bene. Si mette la minigonna di pelle che un po’ gli sta stretta, ma ci entra e sceglie una camicetta di seta, che lascia aperta per mostrare il reggiseno. Trova un paio di stivali, che riesce a calzare, anche se al limite. Si guarda e si trova perfetto. Un giro di perle attorno al collo, praticamente sua moglie. Anzi meglio. A parte la barba. In quel momento suona il camlo. Ed è una cosa strana, perché nessuno suona mai. Fischiano o tirano sassetti alla finestra. Scosta la finestra e guarda chi ha suonato.
Cinque uomini entrano nel commissariato di Susa. Uno è il commissario capo Santacroce, gli altri quattro sono vestiti di scuro. Santacroce fa le presentazioni, Locurcio li guarda ad uno ad uno con attenzione. «Il giudice Crippa, titolare dell’inchiesta, forse vi conoscete, accompagnato dagli esperti arrivati da Roma, dott. Verzeni, dott. Quaglini e dott. Matteucci.» I tre dottori, diligentemente, una volta nominati offrono una vigorosa stretta di mano a Locurcio. Quando le presentazioni sono finite, Locurcio si gratta nervosamente la testa con l’indice e sembra sia l’unica cosa che possa fare al momento. «Bene, mettiamoci subito al lavoro» prende risoluto l’iniziativa il giudice Crippa.
È l’ora in cui i bambini escono da scuola. Le strade e i marciapiedi sono invasi da mamme, papà, macchine in doppia fila, pokemon e zainetti. I bambini saltano su e giù, pikachù dappertutto, corrono avanti e indietro, verso i padri e le madri e vogliono bere, soldi, gelati, patatine, baci, oppure sdegnati chiedono giustizia per qualche torto da niente. Davanti al bar del Sole in piazza del Sole c’è una Fiat Uno parcheggiata di punta, male, le ruote e il muso sul marciapiede appena lasciano lo spazio per poter are. Dentro l’auto un uomo con la testa contro il volante dorme, oppure è morto. Di fronte al bar c’è un negozio di acconciature,
Marisa acconciature. Una bella donna con i capelli molto curati e la tinta bionda piena di nuances esce dal negozio e tira giù la serranda. Si avvicina alla macchina. Prova a bussare al finestrino senza ottenere nessuna reazione. Bussa ancora. Ancora niente. Apre la portiera e scuote l’uomo. Non si sveglia, ma lo riconosce. Pallido, con la bava alla bocca, ma respira. Riesce a spostarlo nel sedile a fianco e si mette alla guida.
Nella sala riunioni del commissariato di Susa, Santacroce, Locurcio, il giudice Crippa e i super esperti dell’I.C.A.A. da un paio di ore stanno facendo il punto della situazione. Il commissario Locurcio ha fornito tutte le denunce di stupro degli ultimi anni a Susa. “Considerando che la città di Susa conta poco più di 6500 abitanti dobbiamo considerare il numero di denunce per stupro estremamente elevato, specialmente dopo il 1995. Vediamo qui una denuncia del ‘95, novembre. Nel 1996 una in febbraio, una in aprile, due a giugno e così via in crescendo. Non ci aveva mai fatto caso, commissario Locurcio?” “Dott. Crippa, Susa è una città di frontiera e specialmente prima del trattato di Schengen era una stazione di transito per illegali che avano in Francia, ho sempre considerato l’elevato numero di stupri dovuto ai clandestini.” “D’accordo Locurcio, ma dalle descrizione dei verbali, nemmeno una ricollega l’assalitore ad un probabile clandestino. Ad esempio, questa datata 23 dicembre 1997 descrive l’assalitore altro più di un metro e ottanta, carnagione chiara, ben rasato e senza tatuaggi. Qualche elemento per insospettirsi c’era, visto che dando una rapida occhiata mi sembrano tutte di questo tenore. Questi documenti li facciamo analizzare al dott. Verzeni e al dott.Matteucci, vediamo se in breve tempo riescono a darci un profilo criminale. Il dott. Quaglini nel frattempo lavorerà sulle tracce rinvenute ieri sul luogo del delitto…” Nel frattempo un agente bussa ed entra in sala riunioni. “Dott. Locurcio, può venire un momento, è urgente…” Locurcio esce nel corridoio. « Ha chiamato qualcuno che, dice di aver visto la vittima con un uomo, la sera
del delitto. Cosa facciamo commissario?” “Ci penso io”. Locurcio rientra nella sala riunioni.
Jayme esce dalla farmacia e chiude il negozio. Oggi è domenica e chiude all’una, ora può tornare a casa. Prima, però, decide di are da Leo. Davanti al monumento di Augusto, la zona è chiusa dal nastro della polizia e alcuni poliziotti stanno ispezionando la zona. Le persiane della camera di Leo sono abbassate. Evidentemente il suo amico sta ancora dormendo. Prova a fischiare, ma inutilmente. L’ha presa proprio male la rottura con la moglie, pensa.
Quando Paul Etienne si risveglia è in una stanza che non conosce, in una casa che non riconosce. Capisce di essere a Susa perché vede il Rocciamelone dalla finestra. Il silenzio abbraccia la stanza come il fumo acre di una sigaretta. Paul Etienne si alza dal letto, gli gira la testa, ma è lucido. Come in hangover si sente teso e straordinariamente sensibile alle percezioni esterne. I suoi ragionamenti gli sembrano incredibilmente profondi, capaci di arrivare all’essenza delle cose, se solo non si sentisse così stanco e avesse voglia di pensare a qualcosa. In realtà tutto quello che sente, a parte il mal di testa, è una sensazione di sollievo per essere ancora vivo, una specie di tregua verso il suo dolore più sordo. È in mutande e i suoi pantaloni sono accuratamente ripiegati su una sedia. Con fatica li indossa, gli calzano come se avessero un’anima e non solo un oscuro ato. Esce dalla stanza che si trova ad un secondo piano di una casa a due piani. Sotto sente il rumore di una televisione accesa. È buio e non si muove bene in una casa che non conosce, ma raggiunge le scale e poi il salotto dove una donna, che non conosce, sul divano sta guardando la televisione. La donna lo vede, toglie il sonoro, si alza dal divano e va incontro a Lizzi. Lui la guarda per cercare di capire. La donna, sui trentacinque, è una ex ragazza che ancora non si rassegna al tempo che a, ha i capelli biondi di diverse tonalità, la pelle abbronzata dalla lampada, il trucco evidente, un paio di jeans closer, stretti alle caviglie, gli stessi degli anni ottanta. Gli stivaletti bianchi corti con le
frangie. Lizzi è sicuro che è una di quelle che quando va al mare si fa fare le treccine. O i tatuaggi con l’henné. «Si sente meglio, Paul Etienne?» L’ispettore si sorprende, non solo per essere stato chiamato per nome, ma anche per la voce. Perché la voce la conosce bene, ha una marcata inflessione piemontese, ma non strascicata, brusca piuttosto, di montagna. «Chi sei?» «Non mi riconosci più, non è ato così tanto tempo… sono Luisella…» «Luisella…» Certo che la ricorda Luisella. Era la figlia dei padroni di casa. L’ultimo ricordo dettagliato che ha di lei è di aver visto a casa sua il Live Aid di Bob Geldof, quello del 1985. Su un divano mezzo sfondato con una bella compagnia di sedicenni. Gli viene da ridere. «Perché ridi?» «Ce l’hai ancora quel portachiavi nell’ingresso con la scritta Ciau?» Luisella sorride senza sapere perché. «Cosa ti è successo? Sembravi morto in macchina…» «Tante cose sono accadute, alcune belle, altre brutte, molto brutte. Non so cosa farci…» «Sei un poliziotto…» «Anche…» «Ti senti meglio?» Lizzi accenna un sorriso di pudore. Fa un cenno con la testa che nemmeno lui sa cosa vuol dire. Lei si avvicina. «Sei ancora pallido.. Vuoi un tè?» «No grazie, devo andare, ora»
«Dove?» «Sto andando da Jayme Jayme Bernard, lo conosci?» Luisella sorride amara. Adesso sa perché sorride. «Perché quell’espressione?» «Se lo conosco… siamo stati insieme quasi cinque anni…» La sua smorfia si fa sempre più amara. ”Poi?” “Poi niente, ci siamo lasciati… vado a prepararti un te” taglia corto Luisella. Lizzi la trattiene per un braccio. Luisella lo guarda un’istante e subito il suo sguardo si abbassa, timida come avesse ancora quindici anni. Lui non accenna a lasciarla e lei si muove verso di lui. Il tutto avviene come fosse un movimento di salsa, e lei tira indietro la testa come fosse al Sabor Latino di sabato sera alla ricerca del cavaliere giusto e del casché perfetto. Ma in questo caso non era l’uno né l’altro. «Perché vi siete lasciati?» incalza Paul Etienne sempre trattenendole il braccio. «Come siamo curiosi, commissario» dice avvicinandosi ancora fino a trovarsi alla distanza in cui i loro fiati si confondono. A quel punto Pul Etienne la lascia con un gesto secco. «Non abbiamo più quindici anni, Luisella. A me interessa solo sapere che tipo è Jayme…» Luisella si riscuote, come quando alla fine di ogni danza il tuo cavaliere diventa un sconosciuto qualsiasi da cui accomiatarsi con un sorriso di circostanza. A piena mano si ravviva i capelli. «Non è come sembra.» «Cosa vuol dire.»
«Pensavo fossi un poliziotto: vai a vedere tutte le mie denunce per maltrattamento e abusi sessuali. Ce ne saranno almeno una dozzina, dal 1990 al 1993 quando l’ho lasciato… ne vedrai delle belle…» «Jayme?» «Proprio lui…» «Adesso devo proprio andare…» «Mentre Elvis Costello cantava All you need is love stavamo per baciarci, ricordi, poi è entrata mia madre, se non entrava forse sarebbe stato diverso…” «Forse… All you need is love?» «All you need is love…»
Jean Cristophe Baroni li accoglie all’interno del suo cinema vuoto. È come quelli di una volta, pesanti tendoni di velluto bordeaux, odore di polvere e marmo e caramelle frizzanti. Le seggioline sono basse, di legno e scomode. Alle pareti poster di film di recenti stagioni ate. Matrix, Il Signore degli Anelli, Masters and Commanders. Ai lati della cassa, le entrate in platea, a lato ancora, l’entrata in galleria. Baroni li porta in platea. Crippa, Santacroce e Locurcio si siedono sui seggiolini pronti ad ascoltarlo. Alle pareti grosse colonne e quasi al soffitto maschere della commedia dell’arte. Prima dello schermo, un ampio palcoscenico perfettamente inutile. «Allora?» esordisce Locurcio. «Era sera. Saranno state le sette e mezza. Stavo salendo la salita che porta allo chalet. Lui scendeva e parlava con lei. Anche lei scendeva. Lui parlava, sembrava insistente. Lei, timida, sembrava sottrarsi.» Baroni ha una faccia maligna, piatti occhi neri e pelle bianca e grigia e un naso che sembra proprio una conchiglia. «Ma chi è lui?»
Baroni si guarda intorno, come per assicurarsi che quell’uomo di cui sta rivelando l’identità non sia nel cinema. «Leo…» e lo dice a voce bassa come se si trovasse ad un funerale di alta classe. «Leo…?» «Leo Fornari».
Adesso i commissari e il giudice sono fuori dal cinema. Davanti alla Dora grigia e impetuosa che copre le parole. «Che facciamo ora con il sospetto?» È costretto ad alzare la voce Santacroce. «Lo andiamo a prendere, che altro…» risponde altrettanto ad alta voce Crippa e poi riprende: «A proposito, che fine ha poi fatto il suo ispettore?». «Non ho più avuto nessuna notizia … sono preoccupato…non vorrei fosse successo qualcosa…» «Lei si fida di quell’uomo?» «È il nostro investigatore migliore. Ma è strano. È un buon poliziotto, ma è fragile. Sua moglie era la figlia del giudice che hanno fatto saltare con l’autobomba, dieci anni fa, lei è saltata insieme al padre, ricordate?». I due fanno ampi cenni di assenso con la testa, ricordano, eccome ricordano. Sotto i calzari di marmo di Cesare Augusto alcuni uomini guidati dal dott. Quaglini scrutano palmo a palmo il teatro dell’omicidio. Raccolgono i reperti che chiudono in bustine trasparenti e fotografano ogni angolo del giardino.
Alle quattro del pomeriggio Crippa, Locurcio e Santacroce sono di nuovo nella sala riunioni del commissariato di Susa per fare il punto della situazione con gli esperti venuti da Roma. Inizia il dott. Verzeni a parlare.
«Gli stupratori seriali sono creature insolite, invariabilmente agiscono in una sorta di strana, privata fantasia, così che i dettagli dei loro crimini sono riconoscibili. Questo è risultato evidente anche nell’analisi delle denunce riscontrate a Susa negli ultimi anni. Ad esempio qui vediamo che spesso sono appena scese da un pulman, vengono approcciate da dietro, il loro assalitore è brutale, ma non per questo le ha sempre tecnicamente violentate, talvolta le ha soltanto assalite sessualmente, ad esempio in un caso l’ha penetratasolamente con le dita. Spesso usa penetrazione anale, mai abbiamo riscontrato penetrazione vaginale. La descrizione combacia sempre, ed è quella di un uomo giovane ben curato, con un sorriso affascinante, profumato e con un buon alito. La denuncia di una ragazza di qualche giorno prima di Natale del 1997 sostiene che il suo offender è alto più di un metro e ottanta, ben rasato e senza tatuaggi. Un altro dei dettagli ricorrenti è la descrizione dell’auto. Una Yaris blu…» «Cosa è venuto fuori dalle tracce di sperma?» chiede Crippa. «Il tipo di sangue, non è molto, lo colloca fra il 12.8 per cento della popolazione maschile…» risponde il dott. Quaglini. «Probabilmente non è molto… ma abbiamo anche la deposizione di un testimone oculare…» continua Crippa. All’improvviso un silenzio pieno di buone intenzioni cade nella sala riunioni del commissariato di Susa.
Sono quasi le sei quando suonano il camlo di Fornari Leo, di anni trenta, di razza bianca caucasica. «Vado a prepararle un Martini, ispettore, intanto che aspettiamo Jayme…» Lui la segue fino alla porta della cucina, si guarda intorno e guarda lei. Carla indossa una corta gonna bianca e una blusa di seta bordò e sopra, una giacca di velluto nera con le maniche piuttosto corte. I suoi capelli sono un torrido tramonto. Al polso ha un braccialetto d’oro e topazi e orecchini di topazio e un anello di topazio a forma di scudo. Lo smalto alle unghie è dell’esatto colore della blusa. Come se avesse impiegato un paio di settimane a vestirsi. «Vuole una fetta di salame?» Paul Etienne non risponde e lei taglia qualche fetta, le mette su un piattino e gliele porge. Lei, invece, prende unlimone dalla fruttiera,
colma di arance, mandorle e arachidi. Taglia il limone con un coltello forse troppo grosso. Lui non smette di guardarla. Ha le mani bellissime. Le belle mani sono rare, più delle palme in Danimarca. Deve essere che sente il suo sguardo, si distrae, lo guarda anche lei, giusto un momento, abbastanza perché il coltello le scivoli sul dito. Viene fuori una goccia di sangue. Lei si mette il dito in bocca e lo lecca. «Mi piace il gusto del sangue» dice soffice. I martini sono pronti, lei li mette su un vassoio. «Andiamo in salotto…» Il salotto è un salotto normale con una lampada ‘Parentesì che diffonde la luce sul soffitto. Un arco aperto divide il salotto dalla sala da pranzo. Ci sono sedie in teck e un tavolo di legno massiccio, al centro del tavolo diverse riviste, mai viste prima. Posa il vassoio sul tavolino davanti al divano. Si siede e accavalla le gambe. «Siediti» e si lecca un’altra perla di sangue dal pollice. Prende il suo Martini, beve un sorso, poi guarda ancora Paul Etienne, che ancora non si è seduto e gli dedica il suo sorriso del sabato sera.
Nella stanza c’è solo un tavolo. Da un lato una sedia dall’altro due. Un uomo con la barba vestito da donna è seduto dal lato di una sedia sola. Ha la classica espressione corrucciata dell’uomo che si aspetta un disastro da un momento all’altro. Dall’altro lato un uomo è seduto, un altro in piedi. L’uomo seduto ha i capelli rossi, sopracciglia molto scure e una faccia bianca da morto con profondi occhi neri. È in maniche di camicia e porta una pistola dentro la fondina ascellare. L’altro sta in piedi, si agita molto, cammina avanti e indietro e talvolta sbatte le mani sul tavolo. Ha un naso spropositato, è del tutto privo di sopracciglia e ha i capelli unti come l’interno di una scatola di sardine. I due spesso si guardano come se si odiassero. L’uomo vestito da donna li osserva senza perdersi un movimento, con lo sguardo impersonale di un collezionista che sta studiando uno scarafaggio impalato. Il commissario Santacroce, Crippa e i suoi super-esperti guardano non visti la scena da dietro un vetro. Santacroce scuote la testa: «Ci vorrebbe l’ispettore Lizzi».
L’ispettore Lizzi si pulisce la bocca con il tovagliolo e beve un sorso di vino. Jayme cortesemente gli riempie di nuovo il bicchiere, senza far cadere nemmeno una goccia. «Vuoi ancora una fetta di arrosto,?». Paul Etienne annuisce, Carla gli aggiunge una fetta nel piatto e la copre con la salsa di nocciole. «Tu, Jayme?» «Anch’io, si, grazie. Come sta il ragazzo, non l’ho più sentito da quella volta che è caduto dal tetto del garage?» Lei lo guarda stupita e la punta di un’anemica lingua esce fuori tra le labbra come cercando qualcosa furtivamente. «Il figlio del sindaco?» Jayme annuisce, poi si rivolge a Paul Etienne. «Te lo ricordi Marco. Giocava insieme a noi a pallone?» Paul Etienne ci pensa un attimo. «Marco Banana?» «È diventato sindaco…» «Marco Banana?» «Si» «Pensare che Marco Banana sia diventato sindaco mi fa diventare nervoso» «Della Lega. E ha lasciato la moglie ed ora sta con una di dieci anni meno di lui. Di Gravere.» Carla scuote la testa disapprovando. «Tutti uguali gli uomini» «Anche le donne. Dopo le prime nove…» ribatte Paul Etienne. Carla scoppia a ridere. La sua risata suona come il mare che si rompe sulle rocce nella nebbia. Jayme ride di una risata onesta e cristallina. Carla si alza.
«Faccio il caffè». Anche Jayme si alza e porta in tavola alcune bottiglie di grappa. Tra queste una con una pera dentro. «Questa l’ha fa il padre di Leo», detto questo si rabbuia Jayme. «Sono ato da lui stamattina e non mi ha risposto. Sono ato da lui stasera e non c’era. Mi hanno detto che l’hanno arrestato» «Arrestato?!», Carla si stupisce allarmata. «Si. Non si sa perché. Ma tutti pensano per la storia della ragazzina». Paul Etienne lo guarda come se fosse venuto fuori dall’oceano con una sirena tra le braccia.
Il giorno dopo Paul Etienne alle sei del mattino si alza. Si fa una doccia veloce, si rade con cura, indossa uno dei due vestiti scuri che ancora possiede, quello pulito. Si fa il nodo alla cravatta, beve il caffè appena è un po’ meno bollente ed esce. L’aria è fredda, il vento soffia dalle montagne, ma è ancora una giornata serena, senza nessuna possibilità di pioggia. Cammina baldanzoso per le strade ancora poco frequentate che da S. Salvario conducono al commissariato di via Verdi. Quando entra nella sala comune i due agenti che ci sono non lo salutano, lui fa altrettanto ed infine è nel suo ufficio. Lascia la porta aperta perché vuole vedere quando arrivano i suoi colleghi. Non accende il computer, ma prende un foglio e una penna e scarabocchia. Cerca di recuperare il filo della vicenda. Sente che c’è qualcosa di sbagliato. Pensa a Luisella, ai baci che non si sono mai dati. Pensa alla sera prima, pensa a Jayme, alla sua naturale modestia per cui non ci sono ostacoli, che sembra non dover mai lottare per ottenere qualcosa. Pensa alla confessione di Luisella e scuote la testa. Intanto scarabocchia e scrive, sempre la stessa frase, «penso, dunque vorrei essere qualcun altro…penso, dunque, vorrei essere qualcun altro…penso, dunque, vorrei essere qualcun altro…». Intanto suole di gomma cigolano sul pavimento, almeno quattro paia di suole, che gli fanno alzare la testa e vedere avanzare verso di lui, come Doc Holliday, Wyatt Earp e i suoi fratelli verso l’Ok Corral, il commissario Santacroce, il pm Crippa e i tre tizi di Roma. Si fermano proprio davanti alla sua scrivania. Lui alza lo sguardo.
«Buongiorno Commissario.» «Ispettore Lizzi.» L’ispettore si alza in piedi e stringe la mano al pm. «Buongiorno dottor Crippa.» Con un cenno della testa indica i tre tizi dietro di lui. «Sembrano comparse di Distretto di Polizia…» «Fa sempre così ridere, ispettore…» dice Verzeni con una smorfia. «L’aspettavamo due giorni fa…» puntualizza Crippa. Paul Etienne fa un mezzo sorriso, uno di quelli indisponenti. «Ho avuto la colite.» «Abbiamo arrestato un uomo.» «Abbiamo forti sospetti su di lui.» «Il suo profilo psicologico, la descrizione e anche la sua automobile calzano con il sospetto…» Paul Etienne non riesce a trattenere un altro sorriso identico a quello precedente. «Inoltre abbiamo un testimone oculare…» «E sua moglie è scomparsa da diversi giorni…» «Cosa volete di più…» «La sua confessione…» «Avete provato ad interrogarlo…» «Vorrei ci provasse lei. Tante volte è riuscito ad ottenere dei risultati, proprio quando sembrava impossibile.»
Lizzi sorride alla lusinga, ma senza entusiasmo. «Grazie commissario.»
Sono di nuovo nella stanza adiacente a quella dell’interrogatorio, dietro il vetro, il capitano, l’ispettore, Crippa e i suoi uomini. Verzeni a un documento a Lizzi. «Sono le dichiarazioni del Fornari dall’interrogatorio di ieri. Naturalmente si dichiara estraneo ai fatti.» Vedono la porta che si apre, entrano l’agente con i capelli rossi e quello senza sopracciglia, Leo ammanettato, veste una tuta Asics e li segue con l’infinito languore di un decadente aristocratico a suo agio nel suo castello diroccato. I due agenti escono. Dietro il vetro guardano le reazioni di Leo, ancora ammanettato, seduto sulla sedia inclinata che lo trascina giù ed ogni mezzo minuto lo costringe a tirarsi indietro. Lo guardano per mezz’ora, come fosse un delfino dell’acquario di Genova. «Che ne pensa, Lizzi?» Gli chiede Santacroce. «La paura è il randello della società» risponde senza staccare gli occhi dall’esaminato. Lo osservano ancora una mezz’ora. Poi Lizzi si muove. «Ora vado»
Paul Etienne entra nella stanza proprio nel momento in cui Leo sta cercando per l’ennesima volta di tirarsi su sulla sedia. Chiude la porta e gli sorride. Leo per educazione o perché rincuorato risponde al sorriso. Lizzi si avvicina e veloce e improvviso gli molla uno schiaffo con il dorso della mano. «Ho detto tutto ieri ai suoi colleghi». Lizzi fa una smorfia. «Lo so. Ho letto il verbale. Ma manca qualcosa in quello che hai raccontato»
«Che cosa?» «La verità». Ora Lizzi lo guarda direttamente negli occhi e accenna un sorriso freddo. «Avanti…», sembra dolce e comprensibile come un padre benevolo. Leo abbassa gli occhi.
UNDICI
Ma non dimenticare che vedere non è sapere, nè potere,
bensì ridicolo un altro voler essere che te.
Giovanni Giudici-La vita in versi
Si chiama Il Tisaniere, è una specie di caffè specializzato in tisane, come si può facilmente dedurre dal nome. In realtà è proprio un caffè, o meglio, un salotto borghese di provincia. Pretenzioso, wannabe, nell’angolo dell’angolo dello sgabuzzino del mondo. Ma ha tappeti sul pavimento, luci soffuse, poltrone imbottite, tendoni di velluto rosso alle finestre, vassoi con torte che sembrano raffinate e prezzi altissimi. Musica classica soffice e chiacchiere pettegole a bassa voce fanno da continuo sottofondo. L’argomento del giorno è l’arresto del mostro, l’uscita dall’incubo della bella società segusina. Diversi tavolini sono occupati, gentili signore si occupano degli affari altrui, come se zfossero a Vienna nel 1912. In un tavolino un uomo e una donna si dividono un herbal tea al ginger e cardamono. Lui appare disgustato, lei deliziata. Lui è calvo, emana caldo aroma di whiskey, con un naso grasso e larghe spalle in un doppiopetto completamente abbottonato, sembra un potente businessman di Odessa. Talmente riservato che potrebbe morire senza un lamento per non disturbare. Lei è così decadente e blasé che si atteggia a cortigiana internazionale, ad abituè del jet-set, una che avrebbe potuto essere sposata sei volte con sei migliardari diversi e la cui idea di brivido è probabilmente sedurre un facchino in canottiera. Veste completamente di nero, cappello nero di paglia a larghe falde con l’ angolo piegato, il colletto della camicia di seta bianca ripiegato con cura sopra il colletto della giacca, il collo
bronzeo nudo ed elastico, senza gioielli e una bocca rossa fiammante come un camion dei pompieri nuovo di zecca. Lei lo guarda e tutto quello che le viene in mente è: un giorno avrai un attacco di cuore, così finirai e forse poi discuteremo del necrologio sul giornale, ma se qualcuno d’importante morirà lo stesso giorno, avrai così poco spazio, uomo. Invece dice: «Ho il bridge, non mi aspettare per cena, torno tardi» L’uomo grugnisce e tira fuori il portafogli, prende venti euro e li posa sul tavolo. «Mi lasci qualcosa, amore…», un piccolo grazioso sorriso rimane dopo quelle parole, come l’odore della polvere nell’aria dopo lo sparo di una pistola. L’uomo stringe gli occhi per la soddisfazione e le a cento euro. Poi i due si alzano ed escono dalla sala da tè, lei cammina saltellando, come convinta di essere elegante e dinamica, come convinta che quello e solo quello è il modo giusto di camminare. Lui, invece, si muove con la stessa grazia di una ballerina con una gamba di legno. Fuori l’aria è fredda, è buio, poche luci, pochi negozi e la nebbia che scende abbassa ancora di più la visibilità. L’uomo bacia frettoloso la moglie e va verso il ponte, l’esatto opposto di lei che prende via Roma, che è pedonale. Mentre cammina guarda le vetrine, quelle due o tre rivendite di liquori per turisti si, sarebbe perfetta per sex and the city, se il destino non l’avesse relegata in quella crudele frontiera. Attraversa la statale e prende la militare. Non deve fare neanche troppa strada che è già arrivata. Suona il camlo, mentre risponde al citofono inutilmente sorride e le viene aperto. Lui l’attende sulla porta. Lei ha gli occhi scintillanti di pagliuzze d’oro e una piccola soffice bocca che non aspetta altro che essere baciata. Appena arriva, la cinge in vita e baciandola con ione la trascina dentro casa. Dentro uno stretto corridoio dalle pareti spoglie, illuminato male da una lampadina senza lampadario. Lui è giovane, ha trent’anni al massimo, ha la faccia come un coltello affilato, i capelli lisci lunghi legati in una coda di cavallo. Ha radi baffetti e un po’ di barba sul mento, è alto, muscoloso e ha glaciali occhi blu. A lei sembra bello come un attore di hollywood. È il suo sex and the city che si realizza. I due come in un balletto senza musica si trasportano fino alla stanza che fa da cucina e sala da pranzo. Levandosi via via i vestiti. L’aria stagna del profumo aromatico di frutta quasi marcia. Lui in un crescendo di cliché che
va osservato, come fosse un questionario da riempire, la rovescia sul tavolo. Lei, la testa all’ingiù è inebriata dalla foga, dal sangue alla testa e dalla frutta quasi marcia che ha proprio accanto al naso. Ride a scatti, mentre lui segue le sue gambe fino alla lingerie nera. Lei a mano a mano che il suo amante la raggiunge reagisce con sospiri, fino a che la sorprende un singhiozzo, poi un altro singhiozzo ancora, languido e pacifico come una brezza estiva. Lui la ama lento come una tartaruga al galoppo e il sorriso di lei è l’esatto contrario di un anestetico.
Paul Etienne ha lasciato la porta del suo ufficio aperta, è seduto davanti al computer , il solitario davanti. Lo fissa, ma senza giocare. Ha la bocca aperta, ma non parla, gli occhi aperti ma non vede. E un tarlo in testa. Ha ancora in mente Jayme. È andato a salutarlo e a dargli notizie di Leo. Non riesce a togliersi dalla mente il farmacista. Lo invidia per quella sapienza innata nello stare al mondo. Lo sente così radicato e sicuro, mentre lui si sente così fragile e incerto e tutto gli sembra inutile e marcio tanto che non riesce a tenere la rotta. E sente immane la fatica di essere sempre il più duro possibile, per non lasciarsi travolgere. Sorride al pensiero di quanto Jayme forse potrebbe insegnargli. Pensa anche a Carla, incantevole e forte. Inaspettatamente forte, che in breve tempo è riuscita a superare il lutto per la sorellina, a portarlo dentro senza permettere di farlo uscire allo scoperto. Ha celato il suo lutto trasferendo l’amore per quella ragazzina di cui si occupa. L’ha sostituita con la sorellina. Quando è andato a salutarli, lei era con quella bambina e la stava riportando alla madre, dopo che aveva ato la notte da loro. Come sembrava dolce con quella bambina, dolce e protettiva. Una creatura che sembra avere particolarmente bisogno di protezione. Così emaciata e pallida, gli occhi spenti e le occhiaie. Non stava bene e lamentava mali indefiniti. Le ha fatto anche un po’ pena. Vive da sola con la madre che fa la hostess ed è continuamente sballottata da una parte e dall’altra. Non deve essere facile crescere così. Paul Etienne vorrebbe essere come Jayme, invece è come Leo, scomposto nelle reazioni di fronte al dolore. Ecco cosa non riesce a togliersi dalla testa. Lentamente, molto lentamente, come fosse sotto l’effetto di un sedativo volta la testa e guarda la sala affollata di suoi colleghi. Li guarda e non riesce a soffocare
il senso di nausea. Vede i loro sguardi duri e senza significato come hanno sempre avuto, non abbastanza crudeli, ma lontani anni luce dalla gentilezza. Lo sguardo di uomini poveri di spirito, benché orgogliosi del loro potere. Poliziotti, pronti a scrutare senza vedere, maleducati ma senza malizia. Guarda loro e guarda se stesso, non vorrebbe riconoscersi uguale, ma sente verso di sé un’indistinta eco di delusione, come, ma non sa come, si fosse tradito. Guarda la stanza spoglia.
Le persiane abbassate, il ficus con la polvere sulle foglie, il calendario di Frate Indovino del 2001, il tavolo di formica e acciaio, gli schedari. L’odore di vecchio e di polvere sta sospeso nell’aria come una piatta e banale intervista a un calciatore a fine partita. La stessa aria di promessa non mantenuta di una vita felice. Ad un tratto sente bussare alla porta, un bussare convenzionale, di buona educazione. Quando alza la testa Lizzi vede che il commissario è entrato nel suo ufficio. È raggiante e sorride. «Abbiamo avuto i complimenti dal capo della polizia, e dal ministero. Questo è anche grazie a lei Lizzi che ha sentito puzza di bruciato a Susa.» Lizzi non fa una piega, non risponde e rimane seduto come uno dei leoni di pietra fuori dalla Public Library a New York. «L’ha visto il telegiornale, ispettore? Ha sentito che anche i media l’hanno chiamata operazione Purple Haze?» Ora Lizzi spalanca gli occhi, come sorpreso, come se all’improvviso ricordasse qualcosa. Ora Lizzi stringe gli occhi, si morde il labbro superiore e fa cenni di assenso con la testa. «Tutto perfetto, commissario, solo che il Fornari non c’entra niente…». Lo diceva ed era la sua voce, ma qualcuno, probabilmente, aveva usato la sua lingua come cartavetro.
È molto più tardi del previsto. A suo marito dirà che il bridge s’è trascinato quella sera. Ma poi ci ripensa, non deve dire nulla e se lui domanda lei gli farà una scenata e
alla fine lui le chiederà pure scusa. Ci pensa e si mette a ridere, non ha più personalità di un bicchiere di carta, suo marito. La notte è fredda ma serena, non c’è nessuno in giro e Susa è molto silenziosa a quest’ora. Sente un brivido in più, ma il maniaco è stato arrestato ed è contenta. Quando vede l’ombra sotto il lampione, un sussulto non riesce a nasconderlo, ma poi lo riconosce è un vecchio amico e faranno la strada insieme. «Mi scorti fino a casa?» Gli dice sorridendo, mentre la luce gialla del lampione sembra essere inghiottita dai suoi occhi neri. «Da dove arrivi?» Dice l’uomo e lei gli offre il braccio. «Dal bridge» Lui la osserva sotto la luce del lampione e della luna. «Ti vesti sempre di nero?» «Certo» risponde lei, «è molto più eccitante quando mi spoglio» E ride, tirando indietro la testa. I due camminano nella notte come una vecchia coppia affiatata. ano il parcheggio e poi il ponticello, poi è davvero buio, solo lo spicchio di luna ed è davvero isolato. Lui si ferma all’improvviso. «Cosa c’è?» Chiede lei. «Mi è sembrato di sentire un rumore» «Dove?» «Da quella parte» Lei gira la testa, lui le mette una mano sulla bocca, con una presa forte e sicura la trascina nel cortile della casa abbandonata che è proprio a fianco al ponticello. Rapido e con gesti precisi le chiude la bocca con il nastro americano, poi la sbatte con la faccia contro il muro. Da qualche parte si sente il rumore di un auto, ma sembra lontana come Marte e così senza senso come le chiacchiere incomprensibili delle scimmiette nella giungla brasiliana. Poi il rumore sfuma e per un momento il silenzio è completo. E nessuna luce, fatta eccezione per la luna. Lui le ha alzato la gonna sulla schiena, abbassato i collant e il tanga ed ora ansima dietro di lei e impreca mentre entra violento laddove è più difficile. Per pochi cristallizzati istanti è come se la scena fosse imprigionata nel ghiaccio e niente possa cambiare. Finché lui non ha finito. Allora la gira, lei lo guarda e ha lacrime che scendono dagli occhi fino al nastro
color dell’argento. Lui ricambia lo sguardo e la sbatte con la schiena contro il muro, quindi la colpisce violentemente, ripetutamente, che gli sembra di colpire una zucca. Lei cade, si piega sulle ginocchia, la testa le ciondola molle; poi lentamente, un centimetro alla volta, riesce a rialzarsi. Sembra un miracolo che possa stare in piedi e ancora respirare. Ma alza la testa e tremando alza le braccia e le tiene alzate, come se così potesse essere risparmiata. Rimane davanti al suo aguzzino, ferma. Prova anche a dire alcune sconnesse parole, ma viene colpita da un uppercut diretto sotto il mento. Si sente un distinto cr-aack e cade giù con tutto il corpo con un tonfo. E questa volta non si rialza.
I nemici si muovono in modo troppo prevedibile. Basta essere svelti e conoscere gli schemi e si può andare avanti per ore. I giochi degli anni ottanta sono noiosi. Space Invaders lo divertiva una volta, ora i mostriciattoli che scendono in linea sembrano seguire una coreografia di don Lurio. Per cui lascia perdere. Prende il bicchiere con la vodka e va nella sala da pranzo, dove non va mai. La sala da pranzo di Paul Etienne Lizzi è come quella di certe anziane vedove, uguali da vent’anni e mai più usate da quando è morto il marito. Anche lui non la usa mai ed è rimasta uguale a quando sua moglie era viva. Non è niente di eccezionale. Un tavolo di legno massiccio in mezzo alla sala, una ampia libreria con le vetrine alle pareti. Nella libreria invece dei libri, ci sono i servizi buoni. C’è una cassettiera con i cassetti pieni zeppi di documenti, fogli, cose perdute da anni, cimitero degli oggetti inutili che non hanno posto. In un antina in basso, invece, c’è una scatola di scarpe, piene di fotografie. Nell’aria persiste il solito calmo odore di polvere. Paul Etienne va verso l’antina, prende la scatola di scarpe e la posa sul tavolo. Si sente freddo come i piedi di Giordano Bruno il giorno che lo bruciarono, si guarda intorno come se qualcuno potesse vederlo, infine apre quella scatola piena di ricordi con la tenerezza di una giovane levatrice al suo primo parto. Sfoglia le sue foto ed è come se si levasse lembi di pelle. Eleonora sorride, Eleonora imbronciata, ma forse finge, una foto a Parigi, un’altra al mare, in Sardegna, probabilmente. Eleonora e suo padre, sorridono, sullo sfondo la scorta, inutile, saltati per aria anche loro. Le solite foto, come hanno tutti.
Chiude la scatola con rabbia. Non le ha mai riguardate quelle foto e ha fatto bene. Quella sera si è lasciato andare, ma non succederà più. Prende la scatola e la porta in cucina. Tira fuori dal forno una teglia e la posa sul gas, sopra ci pone la scatola. Inzuppa la scatola di alcool e le da fuoco. Sta li a guardare, finché non rimane un mucchietto di cenere. Ma non si sente affatto meglio. ‘Almodovar, Anibal (AKA Terry), 1916-1943, Stati Uniti Almodovar era un marinaio Portoricano che viveva a New York. Una ione, le donne e una moglie, Louise Petecca Almodovar, una cameriera di 25 anni che incontra suo marito al Rhumba Palace a Manhattan. Lei lo trova molto bello e lo invita a ballare. Dopo qualche danza è già innamorata di lui e dopo poco tempo i due si sposano. Ma bastano poche settimane che lei lo accusa di vedere altre donne. Lui esplode e se ne va di casa. Poco tempo dopo, Louise, chiama Terry e gli chiede un incontro per riappacificarsi. Almodovar dà un appuntamento a sua moglie a Central Park. Proprio a Central Park, presso la 110ma strada, nell’erba alta, la polizia trova il corpo di Louise Almodovar, il 2 Novembre 1942. Strangolata.’ Il telefono suona. È il commissario Santacroce. «Venga su nel mio ufficio, ispettore, è urgente». Lizzi salva, chiude il programma, attraversa la sala piena di agenti e sale le scale, verso l’ufficio del commissario Santacroce. Paul Etienne Lizzi e il commissario Santacroce entrano nella stanza d’ospedale. Le ampie vetrate danno sulla collina e sul monte dei Cappuccini e fanno entrare più luce di quanta ne sarebbe necessaria e i raggi di sole mostrano la danza impazzita delle particelle di polvere. La stanza è piccola e bianca come una stanza d’ospedale. Sul letto c’è una donna dal viso tumefatto, senza alcun segno di vita, se non per i tubi, le macchine e il monitor che mostra graficamente il legame con questo mondo. Seduto c’è un uomo con la stessa giacca stile Odessa che indossava l’ultima volta che ha visto sua moglie in piedi, fuori da una pretenziosa sala da tè a Susa. La stanza è avvolta in un silenzio pesante. L’uomo sta in attesa dell’evento, del miracolo, del risveglio, senza fare nulla, senza vedere nulla, pensando e ripensando sempre gli stessi ormai vecchi e inutili pensieri.
«Rimane speranza?» Il commissario domanda, ma l’uomo sembra non sentire. D’altronde non è una vera e propria domanda, è solo per sentire il suono della propria voce. Quelle parole cadono nel silenzio come una testa stanca cade addormentata sul cuscino. Il gentiluomo di Odessa sembra proprio non sentirle. Continua a guardare verso il letto dove giace la donna, mordendosi le labbra senza mai cambiare espressione, come lei del resto, ma lei non ha scelta. Sta seduto su una di quelle sedie d’acciaio che si trovano solo più negli ospedali e nelle scuole, così piccola che sembra un ultraripetente della scuola serale. Ha la faccia bianca e rossa, fresca come quella di una fanciulla in fiore degli alpeggi. Gli occhi gli stanno mezzi aperti con le palpebre a metà ed è evidentemente la sua espressione conclamata di tristezza. Lei invece ha gli occhi chiusi, ma sembra guardare un angolo del soffitto, pur senza muoversi mai. Lui sorprendentemente riesce a stare quasi immobile come lei, senza un suono e solo un piccolo stanco sorriso gli stira le labbra. Si prende il labbro inferiore fra i denti e lo morde crudelmente ed è così evidente quanto gli sia difficile respirare. Paul Etienne si sente a suo agio come una bestia che sta per essere marchiata a fuoco. «Questo è quanto resta di lei?» Dice tanto per dire qualcosa, anche lui. Il commissario conferma con un cenno. Lizzi guarda quell’uomo grosso distrutto dal dolore che guarda sua moglie tumefatta vegetare senza speranza in un letto d’ospedale e sente nascere un brivido d’eccitazione.
L’acqua nella pentola sta bollendo, Paul Etienne butta mezzo pacchetto di spaghetti. Apre il frigo, ci scruta dentro, ma per quanto si sforzi resta sempre desolatamente vuoto e non potrebbe essere altrimenti, visto che nessuno si procura di riempirlo. Si gratta la testa con l’indice e prende un pezzo di burro avvolto nella carta. È giallo e deve aver ato tanto tempo dentro quel frigo. Nel cassetto della verdura trova anche un po’ di salvia, piuttosto nera che verde, ma salvia. Mette il burro nel piatto, sciacqua la salvia e mette le foglie insieme a quel condimento giallo che potrebbe disgustare un palato più raffinato. Appena la pasta è pronta, la scola e la butta direttamente nel piatto. È senza sale e ha il sapore antico di qualcosa di rancido, ma Paul Etienne la mangia. Sa solo di salvia e chissà perché l’odore della salvia gli fa pensare all’odore di uomo morto
e ad un cielo senza luna. Tira fuori dal freezer la bottiglia di vodka e beve. Uno tre cinque bicchierini. Accende la radio, suona ‘Atlantis’ di Donovan. Paul Etienne fruga nelle tasche della giacca e trova, infine, quello che cercava. Una pallina. La apre e la rovescia su un cd. Ne ha abbastanza per la serata. Beve ancora di seguito due bicchierini. Tira una, due, tre righe e si prepara una sigaretta. La radio trasmette ‘Wild horses’, Rolling Stones. Paul Etienne fuma la sigaretta guardando le macchine are sotto la sua finestra, guarda le scie di luce dei fanali e gli spot di luce gialla dei lampioni. Poi torna al cd, stende ancora tre righe. La radio a ‘Vision of Johanna’, Bob Dylan. Paul Etienne beve due bicchierini ancora, arrotola dieci euro e si tira su due strisce. Arrotola meglio la banconota per tirarsi su la terza. Alla radio ora è il momento di ‘Purple Haze’ di Jimi Hendrix. Lizzi si tira su. Posa la banconota, spalanca gli occhi che luccicano. Si alza, rinuncia al terzo tiro. Frenetico va in cucina e apre l’acqua, beve dal rubinetto quanto riesce, poi infila la testa sotto l’acqua. Si infila la giacca ed esce. È notte inoltrata. Fuori è freddo e Lizzi ha i brividi, i capelli bagnati e si stringe nella giacca leggera. Ma è anche attraversato da ondate di caldo e suda. La nebbia è una coltre che avvolge la notte. Lizzi sale sulla Uno e prima di mettere in moto apre un arbre magic. Quindi si avvia. a Corso Unità d’Italia e tutte le eggiatrici che di solito attraggono la sua attenzione. Ma questa volta ha altro per la testa Paul Etienne. Prende la tangenziale. La nebbia si è alzata, nello specchietto vede la città, è un lungo tappeto di luci che sembra non finire. Paul Etienne guida a velocità sostenuta. In mezz’ora vede le montagne avvicinarsi e la campagna schizzare via ai suoi lati. Ogni tanto sente gli occhi che vorrebbero chiudersi a cercare riposo, ma non glielo permette. Per combattere il sonno si tira dei pugni sempre più violenti sulle cosce. Per cinque minuti funzionano, il dolore lo risveglia. Ma finito l’effetto, di nuovo è più forte la tentazione di assopirsi. Allora aumenta la velocità e la violenza dei suoi pugni. Finché non vede l’indicazione dell’uscita per Susa. Prende lo svincolo senza ridurre l’andatura. È quasi l’alba e una leggera nebbiolina sta scendendo, rendendo il paesaggio grigio e l’asfalto bagnato. Il rumore del motore è l’unico apparente rumore nella valle. L’auto non regge la velocità in quella curva e inizia a sbandare.
Paul Etienne scala le marce, ma è tardi. Controsterza e frena, ma è inutile, il pedale va giù a vuoto, il motore gira a vuoto, le ruote stridono sull’asfalto bagnato e l’auto infine ferma la sua corsa contro il guardarail. Lizzi viene sbattuto in avanti, rompe il parabrezza con la testa e batte il petto contro il volante. E rimane così, inanime.
DODICI
(Silenzio)
Vladimir: Cosa dicono?
Estragon: Parlano delle loro vite
Vladimir: Aver vissuto non gli basta
Estragon: Hanno bisogno di parlarne
Vladimir: Essere morti non gli basta
Estragon: Non è sufficiente
Samuel Beckett, Aspettando Godot
«Vuoi litigare, Elena, è questo che vuoi? Non hai ancora imparato a comportarti con me, devo insegnarti le buone maniere, una volta per tutte?» La voce dell’uomo che sentiva dalla sua camera era adirata e metteva paura.
«Sono stufa! Stanca e stufa marcia! Puoi colpirmi, picchiarmi quanto vuoi, solo quello…», sua madre strillava e la sua voce era una voce spaventata, ma nello stesso tempo piena di coraggio ed era quasi in falsetto, ma ancora si alzava di tono, come un motore col minimo alto. «Forse ti piace prenderle…non fai altro che provocarmi!» «Voglio che vai via. Stasera, subito! Vattene. Via, lasciami, non mi toccare…» «Merda!», poi si sente il rumore di uno schiaffo. «Me ne vado, puttana. Ma torno e ti svuoto la casa e ti va bene se non ti ammazzo di botte!» Finalmente sente la porta di casa sbattere e si sente sollevato. Esce dalla sua stanza e va ad abbracciare la madre che piange. Piange anche lui, tra le sue braccia, Paul Etienne. Ha nove anni ed è abituato a scene come quella, ma questa sarà l’ultima. L’ultimo uomo di sua madre, Salvatore, è stato il peggiore di tutti, parassita e violento, ava le giornate in casa a guardare la televisione, mentre sua mamma era al lavoro. Era pieno di rughe come un vecchio sacchetto del pane e nonostante gli sembrasse una mela cotta, ne aveva paura e quando tornava a casa da scuola si rifugiava in camera finché sua mamma, non tornava. Ora se ne è andato e non tornerà più, ma per molto tempo ha vissuto con la paura che tornasse e che mettesse in pratica le sue minacce. Non mangiava e non dormiva e diventava sempre più magro e pallido. Pallido e magro. Questo bambino pallido e magro che sembra chiedere aiuto, che vede attraverso gli occhi chiusi, è lui stesso trent’anni prima, piange silenzioso e con gli occhi grandi e aperti. In quel momento li riapre, gli occhi. Paul Etienne è dentro la sua auto, ha rotto il parabrezza con la testa, il volante si è piegato contro le sue costole. Si a una mano sulla fronte che si bagna di sangue. Esce dalla macchina, mentre si tiene la ferita. Intorno a lui tutto sembra girare. La Uno è distrutta. Entra di nuovo dentro, prende una fotografia dal cruscotto e la mette in tasca. Zoppicando, una mano sulle costole, l’altra sulla testa abbandona lo svincolo e raggiunge la statale. Paul Etienne si guarda intorno, ma non a nessuno. L’alba è una striscia di cielo sopra le montagne. Sta fermo e aspetta, a pochi chilometri da Susa.
Finalmente una macchina arriva e Paul Etienne la ferma. È una Bmw nuova, station wagon, e sta viaggiando in direzione di Susa. «Ho avuto un incidente…mi può portare fino a Susa?» chiede Paul Etienne all’umo alla guida. L’uomo annuisce. «La porto all’ospedale» «No. Alla stazione. Mi porti alla stazione.» «Sanguina…» «Non importa…»
La Bmw entra a Susa. L’uomo alla guida sembra non sapere bene dove andare, si ferma, poi fa un’inversione a U nel posto più vietato e pericoloso. Una fila di case con l’orto si distende sulla destra, dalla parte del eggero. Lizzi ha bisogno d’aria, abbassa il finestrino e sporge fuori la testa, tre rane gracidano in coro e nell’aria c’è odore di cavolo e lavanda. L’uomo alla guida è vestito da sera, ha uno smoking di buona fattura che riesce a nascondergli leggermente il grosso stomaco, e non smette di fumare. Ha sopracciglia spesse e ispide che si congiungono tra loro sopra il naso, ha capelli bianchi e fini, una faccia rosa, irritabile, come di cera e gli occhi blu opaco, senza luce interiore. Ha una voce piuttosto bella, calda e liquida. «Cosa fa nella vita?», e senza neanche aspettare una risposta continua. «Io suono il pianoforte, ho uno Steinway a coda. Mozart, Bach e Beethoven sopra tutti. Non può neanche immaginare quanto sia difficile Mozart. Alle volte, sembra facile a sentirlo, così fluido, naturale, invece, ragazzi…!» e fischia per essere più efficace, «… se è difficile…» «Lei mi sembra sprecato da queste parti, dovrebbe stare a Salisburgo» «Con il mio Steinway…» «Già…»
Al bar della stazione ci sono tanti marocchini che sembra di essere a San Salvario. Paul Etienne ha appena la forza di guardarli. Chiede un caffè corretto grappa e si siede a un tavolino. La fronte non gli sanguina più, ma gli resta un grosso taglio e il sangue raggrumato gli appiccica i capelli. Di fronte a lui un vecchio derelitto beve Fernet e fuma una N 80 senza filtro, la cicca è quasi alla fine e dovrebbe bruciargli le dita, gialle come canarini, se avessero ancora sensibilità. Il vecchio guarda Paul Etienne di fronte a lui e pensa "Quest’uomo è messo proprio male”. Poi gli offre il migliore dei suoi sorrisi sdentati e tira un’altra boccata da quella sigaretta senza fine. Lizzi si alza e torna al bancone, il barista, sta strofinando uno strofinaccio lercio su un banco più lercio ancora, chissà cosa crede di ricavarne. «Un telefono pubblico?» Il barista tira fuori da sotto al banco, come se da lì sotto potesse far comparire qualsiasi cosa gli venga richiesta, un telefono a ghiera con tanto di contascatti incorporato. Quindi grugnisce qualcosa che Lizzi capisce perfettamente. Lizzi fa il numero, come si faceva una volta seguendo con il dito tutto il giro della ghiera. «Pronto, commissario?…»
«Poiché destinata un giorno a strangolare l’orso selvaggio, cioè il diavolo, seguendo l’esempio di Davide, nel giorno del battesimo i suoi genitori scelsero il profetico nome di Orsola. ò gli anni dell’infanzia e crebbe fino a sviluppare un carattere forte e deciso nell’età della maturità. Fino al punto in cui, cresciuta, il mondo le risultò ripugnante, imbevuta com’era dagli insegnamenti degli evangelisti. Ma oltre a possedere questi ed altri doni di grazia spirituale, questa vergine sacra non aveva rivali in quanto avvenenza e sensualità. Suo padre, Dionotus, re di Cornovaglia dopo averla promessa sposa a Conan Meriadoc governatore pagano dell’Armorica, la imbarca su una nave verso la Bretagna insieme alle sue 11.000 ancelle. Grazie ad una tempesta miracolosa la nave arriva a destinazione in un solo giorno. Ma a questo punto Orsola decide di
intraprendere un pellegrinaggio per tutta l’Europa, prima del matrimonio. Raggiunge Roma, Ravenna, Bisanzio, Avignone fino ad arrivare a Colonia assediata dagli Unni, dove viene uccisa e tutte le sue ancelle decapitate. Nel 383.» Giorgio Santacroce prova davanti allo specchio la vita di Sant’Orsola. È domenica mattina, Santacroce indossa l’accappatoio e un paio di babbucce a forma di orso, grandi e comode. La famiglia non è ancora rientrata dalle vacanze di natale e lui se ne sta un po’ sciatto a ripetere la vita di Sant’Orsola, la santa che si è scelto. Nel pomeriggio fanno le vite dei santi nella sua parrocchia e a lui non piace farsi trovare impreparato. Nuovamente si mette davanti allo specchio, i fogli in mano, l’accappatoio aperto davanti a lasciare libero agio al ventre, quando squilla il telefono. «Ah è lei Lizzi…» «…» «Cazzo è domenica, Lizzi!…»
Jayme ha appena indossato il suo camice, appuntato la spilla con il simbolo di Ippocrate e la scritta dott. Bernard, messe le biro nel taschino e aperto la cassa. Va ad aprire la porta dove una mezza dozzina di pensionati sta già aspettando. Li serve ad uno ad uno con chiacchiere, sorrisi e cortesia. Poi il negozio resta vuoto, Jayme rimane dietro al banco ancora per una mezz’ora. Quindi va nel retro. Apre un cassetto da uno degli armadi e prende una scatola bianca con scritte rosse. È una scatola di vecchi ormoni maschili, ormai fuori commercio, ACTH-B complex. Prende una siringa da insulina da un altro cassetto. Spezza una fiala, apre la siringa e raccoglie il liquido con l’ago. Poi si fa l’endovenosa di B-complex e acqua sterilizzata nel braccio destro, perché, come diceva suo padre, mai bucarsi dalla stessa parte del cuore. È un metodo più vecchio, ma sicuramente più efficace del Viagra. Ecco fatto, tra tre ore ce l’avrà delle dimensioni di una lattina e gli rimarrà così per dodici ore. Sorride e va a vedere se qualcuno è entrato in farmacia.
Carla si sveglia tardi. Sono le undici quando si toglie dagli occhi la mascherina
per dormire. Non è mai abbastanza buio per il suo riposo. Si alza, indossa il kimono e va a farsi la doccia. Rimane a lungo sotto l’acqua calda e si lava anche i capelli. Quella sera ha l’incontro Am-Way, quindi deve essere bella, ieri ha anche comprato un vestito di Prada a Torino e stasera lo indosserà. Fa colazione come al solito con il latte e i Weetabix, con l’accappatoio e l’asciugamano sulla testa. Poi si infila slip e reggiseno, si asciuga con cura i capelli col phon e prova il vestito. Si guarda e si riguarda allo specchio, le sta bene e si sente bella. È già mezzogiorno quando si prepara un vermouth per aperitivo e si compiace come una Bond girl con il Martini in mano e il vestito scollato del colore del ghiaccio. È appena ato mezzogiorno quando sente suonare il camlo.
Il commissario Santacroce lancia un’occhiata al volume sul tavolo, la Raccolta di Vite di santi dal XIII al XVIII secolo di Boesch Gajano e sente il formicolio dell’irritazione che gli arriva fino alle orecchie si sente a suo agio come se guidasse contromano sulla Torino-Milano. In venticinque anni in polizia è riuscito a lavorare di domenica pochissime volte, può contarle sulle dita di una mano. È questione di organizzazione. Ci tiene, è anche per questo che ha una così bella famiglia. Ed anche se a dirlo sembra appartenere ad un’altra epoca, la domenica è il giorno del Signore, non bisognerebbe lavorare. L’ultima volta è stato nel novanta, se lo ricorda benissimo, ed era colpa di Pacciani. Ora è tutta colpa di Lizzi, che non ha nessuna idea di metodo e quando decide di fare una cosa la fa e basta, senza considerazione per gli altri, specialmente i suoi colleghi. Lizzi dice di essere arrivato alla conclusione. Voglio proprio vedere, pensa Santacroce, andiamo a vedere se è un altro buco nell’acqua. Dice che ha visto la soluzione negli occhi di una bambina. Va bene, Lizzi, va bene. Adesso sei anche sensitivo, ma qui ci vogliono le prove per mettere dentro le persone, non stiamo giocando e nemmeno compilando un dannato Catalogo. «E vai avanti che è verde!» È già in macchina, Santacroce, e ora se la prende con il traffico pigro della domenica. Ho dovuto chiamare don Franco all’ultimo momento e dirgli che avrebbero dovuto fare a meno di me oggi, e della vita di Sant’ Orsola, che è peggio. Tutto perché Lizzi vuole provare il bluff. Il bluff! Ma santo cielo, stiamo mica giocando a poker. È convinto di riuscire a farla confessare, che entro oggi faremo gli arresti. Vediamo, Lizzi, vediamo. Spero per te che tu abbia ragione. Perché non avrai più un’altra occasione. Non hai più scampo Lizzi, ora dovrai
rigare dritto. Andiamo organizzare le squadre adesso. Vediamo chi è di servizio in via Verdi oggi. Maledetto Lizzi.
Paul Etienne Lizzi è riuscito finalmente a darsi un tono. È ferito, acciaccato, dolorante, ma determinato. Ha gli occhi tristi e il labbro spaccato quando suona il camlo. È appena ato mezzogiorno, si volta un attimo a guardare il Rocciamelone alle sue spalle e pensa: “Sembra l’inizio, invece è la fine”. Poi Carla apre la porta.
Carla è bella e profumata come non si aspettava di trovarla. Ha un vestito che stordisce e nonostante l’evidente sorpresa, lei gli sorride, lo fa accomodare in casa e il suo sorriso rimane incantevole. «Cosa hai fatto alla testa?», le si avvicina e gli tocca i capelli vicino alla ferita. Paul Etienne ha un brivido. «Sono caduto.» «Ti devo medicare.» «No, sto bene.» Paul Etienne cammina sulle uova, si sente come il cafone che entra in chiesa. «Vuole un vermouth, ispettore?» «Sì.» Carla va in cucina, mentre Paul Etienne rimane nel salotto e si guarda intorno. Lei gli parla dalla cucina, con un tono più alto. «Come mai da queste parti?» «Mi sono ricordato di quando ero bambino». Carla ritorna da lui e gli porge il suo aperitivo. Lei beve il suo vermuth, Paul Etienne osserva le sue labbra contro il bicchiere, osserva come il suo respiro appanni il vetro e un lento sorriso si
vada formando sulla sua bocca. «È freddo stamattina» aggiunge al sorriso, come ghiaccio nel vermuth. Lui la guarda duro. Non c’è modo di entrare nella sua anima. È calma, oscura e maliziosa e tutte le miserie della vita sono nei suoi occhi. Tuttavia continua a rimanere gentile. «Sei mai stato sposato, ispettore?» Pensa a tutti i modi in cui potrebbe rispondere. A tutte le donne che gli sono piaciute, a quelle che non gli piacevano e ancora non gli piacciono. Ad Eleonora e a questa che ha davanti. Non si trova nello spirito per provare emozioni, ma solo rabbia. Una rabbia sorda gli cova dentro, ancora una volta.
«Alcune donne mi hanno gettato le braccia al collo, mi hanno baciato e così via.» «Stiamo parlando come in un film in bianco e nero.» «Certe cose non riesco a dirle, sono troppo sensibile.» «Il sesso è una cosa meravigliosa quando non si riescono a trovare le parole.» Lei lo fissa e si porta la punta dell’indice alla bocca, tormentandosi il labbro inferiore, nel più smaccato e banale immaginario di seduzione. Senza osare nulla al di fuori di un cliché da soap opera, lo guarda come un gatto guarda il pesce rosso nella boccia. Con la stessa golosa velleità di averlo. I cenni di assenso che Paul Etienne fa con la testa potrebbero sembrare che abbia capito, ma intanto la guarda come fosse tappezzeria ed è a se stesso che annuisce, mentre si ripete di mantenere la calma. Finalmente si dirige verso di lei e lo fa con freddezza, nel silenzio ostinato di quella casa. «Che vestito incantevole…» La faccia di lei denuncia una piccola tensione, sembra una regina minacciata. Non senza paura, ma con la paura di mostrare paura. «Prada… quattromila euro…», un sorriso lotta per farsi largo in quella faccia. Paul Etienne non si trattiene dal toccarle il vestito. «È bello toccare un vestito da quattromila euro.» Lei sorride ancora e abbassa lo sguardo, fingendo umiltà, quindi si avvicina ancora di più a lui.
Improvvisamente, ma senza una vera ragione, smette di essere bella. Finalmente, la sua bocca già mezza aperta, arriva alla bocca dell’ ispettore e la sua lingua è un serpente sinuoso. Ha una bocca calda come deve essere una bocca e le sue labbra bruciano come ghiaccio secco. I suoi occhi sembrano enormi tanto sono vicini. Con uno scatto Lizzi si scosta, con una spinta violenta la spinge sul divano, la raggiunge e le tira su il costoso vestito di Prada fin sulla testa a coprirle la faccia, la stende con la schiena sul divano e le ginocchia per terra, le tira giù il tanga annodandoglielo alle caviglie. Quindi si slaccia la cintura e la fa are sopra la sua testa viola di rabbia prima di farla ricadere su di lei. La colpisce con furia e sembra non doversi fermare mai, finché non ritorna in sè. Allora il braccio si ferma da solo e gli cade esausto. Il sedere di Carla è una grossa piaga viola e lui ansima spaventato, come se solo in quel momento si rendesse conto. Le libera le caviglie e le rimette il vestito a posto. Lei ha gli occhi chiusi e sembra svenuta, Paul Etienne va in cucina prende un bicchiere d’acqua e uno straccio bagnato. Le a lo straccio dove più l’ha colpita e tenendole la testa fra le mani gli versa piccoli sorsi d’acqua dentro la bocca. Per tutto il tempo ripetendo parole affrante di scusa. Finché lei non riapre gli occhi. «No…no…», lei sussurra appena. «Non volevo…veramente non volevo…non so cosa mi abbia preso…» «Non parlare…» e gli porta l’indice alle labbra, «non dire che ti dispiace…», lo bacia, gli morde la lingua. Si scosta di nuovo Paul Etienne, gentilmente, questa volta. E scuote la testa, due volte, guardandola dritta negli occhi. «Non è per questo… non è per questo…» «Cosa…» L’espressione nei suoi occhi è languida e fiera nello stesso tempo. «Non è per questo che sono venuto» «Vattene!» E lo dice con una voce che avrebbe potuto usarsi per rimuovere la vernice. «Mi chiedevo cosa avesse quella bambina che ho visto qui qualche volta.» «Vattene», il tono è più basso, meno convinto.
«Come si chiama?» «Gianna?» «… Gianna… sempre così pallida… muta… spaventata. Mi sono ricordato di quando ero bambino e mi sono preoccupato. Ne ho parlato con sua madre e l’ho convinta a farla visitare…», Carla ora si è irrigidita, lo guarda attentamente e non si perde una parola. «Vuoi sapere cosa ne è venuto fuori?» «Cosa?» dice senza voce. «Che è stata violentata.» Ora gli occhi di Carla sembrano aver perso colore, mentre le dita galleggiano nell’aria cercando di accompagnare le parole, come fossero semplici contrazioni dei muscoli. Parole che sembrano i suoni striduli di un gatto affamato. «Chi? Gianna? Non è possibile… non è veramente possibile. Dovrei saperlo, perché sua madre non mi ha detto niente? Non riesco a crederci, proprio non posso crederci.» L’ispettore la lascia parlare, le sembra un pesce arenato sul bagnasciuga. Poi affonda. «Improvvisamente mi sono ricordato di Tammy. Della piccola sorellina e del nostro primo incontro e della terribile morte, così simile a quella di Jimi Hendrix. Solo che sicuramente la piccola non aveva lo stesso stile di vita. Non è così?» E sorride, crudele. «Stai diventando cattivo» dice lei, ma qualcosa dentro la sta divorando. «Strano. Di solito sono così amabile…» Lei guarda per terra. Si morde il labbro e guarda il pavimento. «Dimmi cosa è successo.» E lo dice in un tono secco, che non accetta repliche. Nessuno più di lei in quel momento poteva assomigliare a Lady Macbeth. E rimane in silenzio.
Gli ci sono voluti esattamente 23 minuti per raggiungere via Verdi, salire nel suo
ufficio e prendere in mano la cornetta del telefono. Da quel momento un’ora e tre quarti, invece, per raggiungere il pm Crippa ed ottenere i mandati di arresto. Ancora una volta con il magistrato ha dovuto metterci la faccia lui. Ha dovuto pregarlo, adularlo, metterlo in guardia, Crippa ovviamente non ne voleva sapere. E glielo diceva con quel fare mellifluo e supponente cadenzato con l’accento brianzolo. «Commissario Santacroce…», proprio così Commiss-AAArio diceva aprendo e strascicando il più possibile queste aaa. «Commissario Santacroce… stiamo facendo un buco nell’acqua… non lo vede anche lei… si deve sempre far infinocchiare da quel Lizzi. Come è arrivato a questa conclusione, mi faccia capire…» sottolineando tutte le a di capire, caaapire, come se girasse il coltello nella piaga. «Mi faccia capire, è arrivato a quella conclusione attraverso un sogno!? Ma mi faccia il piacere Santacroce, non aveva niente di meglio da fare questa domenica?» «Non un sogno, non un sogno, lui dice che, mezzo svenuto, in seguito ad un incidente di macchina, ha rivissuto una situazione dolorosa della sua infanzia… Ha ripensato alla bambina che ha visto dai coniugi Bernard… dice che è probabile che la piccola sia stata violentata… Lo so che è tutto fuori dalle regole, dalle procedure, ma Lizzi è così… e senza dubbio è uno dei nostri migliori…» «Se questo è uno dei migliori…» Alla fine ha ceduto, Crippa, non sa come, ma ha ceduto, forse per sfinimento o forse perché si è convinto. Ora può partire per Susa. E senza altre alternative che tenere per Lizzi. Maledetto Lizzi.
EPILOGO
Dove è finita la neve dell’altro ieri?
François Villon
Come un giorno mi disse un terrone saggio e frocio: «Certa gente fa schifo». Non potevo che dargli ragione. Sono io lo sbirro che viene a capo di questo mistero? Mi guardo allo specchio. Non vedo una bella fronte, equilibrata, calma, placida, sicura e rassicurante dell’investigatore, quello che si vede nei telefilm. La fronte che vedo io è alta abbastanza da contenere parecchie righe orizzontali che più che rughe sembrano cicatrici da coltello. I miei occhi sono abbastanza aperti e non piccoli, ma duri, freddi, calcolatori. Sono blu, ma c’è un’ombra di quel blu che li porta verso il viola. C’è qualcosa nella mia faccia che provoca esitazione nelle persone, se non proprio timore e non ricordo da quanto tempo nessuno mi chiede un’informazione. Non sono il tipo a cui chiedere un’indicazione, evidentemente. Ma se guardo nello specchio abbastanza a lungo e se ci penso profondamente posso vedere un’altra faccia. La vecchia sembra dissolversi e al suo posto appare la faccia di un bambino di otto anni, luminosa, aperta e innocente. Vedo un caschetto di capelli biondi, un paio di occhi azzurri e un naso inquisitorio. Mi vedo ritornare a casa da scuola, quartiere Santa Rita, un interno di via Filadelfia, un sacco di famiglie, un sacco di bambini ed io così diverso. Entrare in casa sperando che mia madre sia sola, che non ci sia nessuno dei farabutti che di volta in volta nemmeno provano a far finta di farmi da padre. E soprattutto che non ci sia Salvatore. Chiunque abbia un cucchiaio di immaginazione, a questo punto può vedere quel bambino che torna a casa da scuola, immaginarlo in un liceo, poi all’università o in accademia, entrare in polizia, qualche buona promozione e infine prendere posto ad una comoda scrivania con il grado di ispettore ed arrivare
brillantemente alla soluzione di un caso scabroso e complicato. Ebbene non è andata così. Il percorso che ho seguito dalla scuola fino alla scrivania da ispettore e la risoluzione del caso è una linea a zig-zag, una di quelle che gli esperti di statistica usano per seguire l’alzarsi o l’abbassarsi della temperatura o le fluttuazioni della borsa di New York. Ogni volta ho fatto un giro improvviso, uno scarto inaspettato. Mi sono trovato come la pallina del flipper, rimbalzando senza senso da una parte all’altra, senza senso per me, ma la sua destinazione era chiara fin dall’inizio, arrivare in questa buca, non c’era altra alternativa. Non c’era altra alternativa, dovevo arrivare qui di fronte a te e inchiodarvi. Forse tutto questo è iniziato quando avevo sette anni e per la prima volta ho giocato con Jayme, forse quello è stato l’inizio. E di sicuro questa è la fine. Vedi Carla, ripensando al bambino che ero mi sono ricordato di quanto fossi infelice e di questa infelicità erano responsabili gli adulti che mi circondavano. Non voglio commuoverti con la storia della mia vita, ma quando mia madre si è portata in casa quel Salvatore, un vizioso mezzo camorrista, la mia vita è peggiorata ulteriormente. Spaventato dalla sua presenza e dai suoi abusi, ho cominciato a diventare taciturno, fragile e a perdere peso. Ho visto la mia stessa paura negli occhi di quella ragazzina oggi. Ecco perché sapevo che era stata violentata prima ancora delle analisi. Ora ti propongo un patto, tu mi dici cosa è successo e la tua posizione si alleggerisce. Possiamo anche far are che tu eri una sorta di vittima della situazione, troppo debole e spaventata per ribellarti. Dipende da te. Puoi cavartela a buon mercato o andare giù fino in fondo condividendo fino all’ultimo il destino di Jayme. Hai le spalle al muro, ma hai ancora una via di scampo.
«Tammi è stato un incidente. Amavo la mia sorellina. Voleva essere il mio regalo per Jayme. Io lo amo quell’uomo. Lo amo per quello che è. Quando lo vedo mi viene caldo, sento il sangue arrivarmi alla testa e potrei fare tutto per lui. Gli ho dato tutto quanto ho potuto. Ma una cosa non mi è mai uscita dalla testa. Per quanto lo amassi, per quanto volessi essere creatura nelle sue mani, c’è una cosa che non ho potuto dargli. È il mio cruccio, il mio rammarico. Non che lui me l’abbia mai chiesto o si sia mai lamentato. Ma io so che è così, che sarebbe la cosa più grande e impossibile.» Paul Etienne la guarda, non è sicuro di capire, non ancora, ma la lascia parlare.
Da quando per l’ultima volta gli ha detto «Avanti» con voce calda e bassa, piantandogli gli occhi negli occhi, è come se avesse aperto il vaso di Pandora. Carla ha iniziato a parlare, senza fermarsi, raccontando tutti i particolari, anche i più insignificanti, raccontando il matrimonio e tutti gli invitati e il vestito e il pranzo, di quando lui le ha confessato di aver stuprato una ragazza al liceo. Di come lei si sia eccitata a quel racconto. Di come lei abbia iniziato a incoraggiarlo. Lui non l’ha interrotta ed ora sta parlando di Tammi. «Volevo dargli la mia verginità, ma non potevo più. Ho ato giorni e notti a pensarci, non potevo dirmi totalmente sua, non totalmente. Ed era un’idea che non potevo sopportare. Finché un giorno ho capito. Potevo dargli mia sorella. Sarebbe stato un gesto di riparazione. Così ne ho parlato con lui. Lui si è dimostrato entusiasta. Solo che non volevamo far soffrire Tammi. Così abbiamo deciso di drogarla, di renderla incosciente. Ma qualcosa è andato storto. Una dose troppo forte. Forse è andata così.» «Il tentativo vi è poi riuscito con Gianna…» A quel punto Carla inghiotte saliva e una specie di risata esce dalla sua gola, il tipico suono che ti viene quando non sai bene se ridere, piangere o che altro. «Fammi finire, ispettore.» Poi continua. «Quella sera non abbiamo fatto niente, abbiamo ato la notte al pronto soccorso. Abbiamo deciso di aspettare l’’occasione giusta. Ed è arrivata con Gianna. Abbiamo dosato bene il sonnifero ed abbiamo fatto tutto senza che lei se ne accorgesse. Così è come se avessi dato a Jayme quello che gli spettava. Da allora ogni notte che la bambina dormiva qui, per noi era una festa. Abbiamo registrato tutto, abbiamo un mucchio di cassette…» «È terribile…», Lizzi continua a guardarla come se guardandola potesse capire, il suo sguardo sembra una domanda, un insieme di domande, tanto che Carla alza le spalle. «È andata così. È la nostra natura, la nostra ione. Il nostro modo di essere esseri umani. Io e Jayme abbiamo scelto di viverlo. C’è gente che baratta la vita con l’esistenza e l’ambizione con la sicurezza. Gente civile senza un vero interesse per niente. Per noi è stato diverso. Non siamo peggiori degli altri.» Paul Etienne annuisce.
«Faccio una telefonata…» «Fai pure…» Lizzi chiama il commissario Santacroce. Il commissario è già a Susa, pronto con due squadre, uno per Carla. L’altra per Jayme. Lizzi si è consultato con lui la mattina, gli ha detto che aveva una forte sensazione e che voleva provare il bluff. Lanciarle un’esca e l’esca ha funzionato. Ora potevano andarli a prendere. Carla, ormai svuotata, Jayme ignaro e tutte quelle cassette. E mandare uno psicologo alla bambina. Carla prende da un cassetto della credenza una busta e la a all’ispettore. «Così vedrai che anch’io ho dei sentimenti… Paul Etienne… confesso che mi sei piaciuto dal primo momento che ti ho visto, mi sei piaciuto veramente tanto. Peccato. Un vero peccato.» L’ispettore annuisce di nuovo. «Tanto non avresti avuto più niente da darmi.» La guarda ancora una volta Paul Etienne, prima di andarsene. Lei è seduta sul divano e sembra veramente dispiaciuta. Quindi se ne va e la lascia da sola con i suoi pensieri che sono, probabilmente, piccoli, brutti e ributtanti, come lei.
Quando Paul Etienne arriva davanti alla farmacia, alcune volanti sono già davanti al negozio. Anche qualche curioso si ferma, ma solo per un attimo, tanto non c’è niente da vedere. Lizzi entra dentro al negozio. Il commissario Santacroce ed alcuni agenti sono dentro. Jayme è ammanettato. Ha la pelle tirata e la faccia sembra essere solo ossa ed ha un colorito giallastro che non sembra neanche lui. Guarda il commissario che gli sta ripetendo le solite formule relative all’arresto. Poi improvvisamente vede l’ispettore e il suo sorriso si illumina, come se fosse la sua salvezza. «Buongiorno Paul Etienne! Come stiamo oggi? Scusami se non posso stringerti la mano. Pare che stavolta ce l’abbiate fatta a prendermi. Per qualche tempo ho pensato di essere imprendibile… infallibile… qualcosa del genere…è un po’ quello che ti capita con questo genere di attività…scusami, ma non mi sento al
massimo della forma…poi francamente non me l’aspettavo. Anzi mi ero già preparato per la serata. Pazienza, ormoni sprecati…» «Andiamo…» dice il comandante e gli agenti lo scortano fuori. «Dispiace però, ora che c’eravamo ritrovati…potevamo essere amici…non è vero?» «Meglio così, Jayme. Non sono un buon amico. Ho la tendenza a farmi gli affari miei e la gente che mi conosce non parla bene di me» «Non è tanto difficile piacere agli altri ispettore…», e la fine della frase non riesce a sentirla perché i due uomini in divisa lo fanno uscire dal negozio. L’ispettore e il commissario si guardano. Quindi Lizzi, come se improvvisamente ricordasse qualcosa, tira fuori da una tasca la busta.che gli ha consegnato Carla. La apre e la legge. «Come ci sei arrivato ai coniugi Bernard, Lizzi? Secondo me c’è qualcosa che non hai detto…» Lizzi a la lettera a Santacroce, che la legge ad alta voce. «“Cara mamma e papà, Questa è la lettera più difficile che abbia mai scritto e voi probabilmente mi odierete dopo averla letta. Ho tenuto questa cosa dentro per così tanto tempo che adesso non posso più nascondere. Sia io che Jayme siamo responsabili della morte di Tammi. Jayme era ‘innamorato’ di lei e voleva avere sesso con lei. E voleva che l’aiutassi. Voleva dargli delle pillole per farla dormire. Mi minacciava e abusava di me sia fisicamente che emotivamente. Non ci sono parole che posso dire per farvi capire come mi abbia coinvolto. Così stupidamente ho accettato. Ma qualcosa, forse la combinazione fra le pillole e la cena della vigilia, l’ha fatta vomitare. Ho provato in tutti i modi a salvarla. Mi dispiace. Ma purtroppo non ci sono parole per farla tornare indietro. Volentieri darei la mia vita per la sua. Non mi aspetto che mi perdoniate, per il semplice fatto che nemmeno io mi perdonerò mai.
Carla – VVTB.” E questo cosa vuol dire?» «Non lo so. Forse voleva farci sapere che si è pentita…» «Forse… Allora Lizzi si può sapere come l’hai capito che erano stati loro?» «Non l’ho capito. Ho avuto un incidente d’auto e svenuto ho avuto un sogno che mi ha messo sulla giusta strada. Ho bluffato con la moglie e lei ha parlato. Sembra facile da dire. Ma abbiamo avuto fortuna.» «Un sogno, eh?» «Un sogno.» «Mia nonna diceva che i sogni non hanno logica, sono poesie del subconscio» «Mia nonna neanche sapeva cos’è il subconscio…»
«Jayme Bernard (1960- ) Italia. Era troppo bello per essere vero. Nel 1993 Carla si fidanza con Jayme Bernard, il farmacista di Susa. Lo scapolo più ambito della valle, bello, sofisticato, benestante. Sarebbe stato un incredibile matrimonio. Uno di quelli che la famiglia e gli amici non dimenticano. Lei lo ama alla follia, troppo, forse. È così unico e selvaggio. Lei farebbe qualsiasi cosa per lui, proprio tutto. Il fatto è che Jayme non sopporta che Carla non sia più vergine. Da questo punto di vista, diventa legittimo per Jayme richiedere che lei faccia di tutto per offrirgli la verginità della sorellina, Tammi, senza ovviamente il suo consenso. Alcuni lo chiamano stupro. Ma dal momento che Carla accetta la logica, il resto è facile, anche l’idea di riprendere con una videocamera l’intera operazione, sembra avere senso per lei. Dopo tutto si riprendono i momenti importanti che si vogliono ricordare. Jayme possiede una farmacia, non è dunque troppo difficile procurarsi un sedativo qualunque per addormentare la bambina. Scelgono di usare alothane, un
anestetico che viene usato per addormentare gli animali durante le operazioni. Forse perché è insapore, o forse perché lei è piccola, pesa più o meno come un grosso cane. Il 24 dicembre 2004 Jayme e Carla brindano al natale con la famiglia e la piccola Tammi. Ma nel suo flûte di champagne le hanno sciolto due pastiglie di Halcion. Gli effetti del sedativo e dell’alcool fanno presto effetto e Tammi va a dormire nella camera che, come ogni anno Carla e Jayme hanno preparato per lei. Quando gli altri membri della famiglia vanno a casa, la coppia inizia il lavoro su Tammi. Jayme tiene la videocamera mentre la stupra, lasciando che Carla, di tanto in tanto, appoggi sul naso della sorella un fazzoletto impregnato di alothane. Poi Jayme ordina alla moglie di fare avances sessuali sulla sorellina addormentata. All’improvviso Tammi vomita.» Paul Etienne si ferma, si strofina gli occhi, guarda fuori dalla finestra. È l’alba, il cielo è quasi chiaro, brillante pervinca ed un’altra giornata di sole sta per sorgere. Prende in mano il biglietto da dieci euro arrotolato, gli rimane una striscia ancora. Ma lascia perdere, posa il biglietto, salva, spegne il computer e va a dormire.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare Giuseppe Caldi e Carlo Ossola per avermi cresciuto alla letteratura. A loro devo tutto.
Vorrei ringraziare Nicola Rondolino per la lettura, i consigli, i suggerimenti, i punti di vista, lo stile di vita e l’amicizia. A lui devo la pubblicazione.
Un grazie infine ad Andrea Cotti che con garbo mi ha aiutato a portare il testo alla sua forma definitiva.