Un Anno, Un Giorno 566tc

UN ANNO, UN GIORNO

di

Raffaele Crispino

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Raffaele Crispino on Smashwords

Un anno, un giorno

Copyright © 2013 by Raffaele Crispino

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This book is a work of fiction and any resemblance to persons, living or dead, or places, events or locales is purely coincidental. The characters are productions of the author’s imagination and used fictitiously

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CAPITOLO 1

Faceva caldo. Roberta si avvicinò alla finestra e l’aprì. Dopo aver osservato il panorama, ritornò a sedersi sullo sgabello con l’intenzione di continuare a dipingere. La radio era accesa e la voce del presentatore invitava i radioascoltatori a telefonare. Sentiva di non poter continuare a dipingere. Così si pulì le mani con uno straccio imbevuto di acqua ragia. Restò in posizione di riposo con lo straccio fra le mani a guardare quello che aveva dipinto. Il presentatore della radio locale non le dava tregua e insistentemente invitava gli ascoltatori a chiamare.

Telefonò.

Chiese di ascoltare “Sexy Sadie” dei Beatles.

Aspettò ,ma della sua canzone non sentì neanche una nota. Allora provò di nuovo a telefonare.

Il presentatore King fu evasivo, mentre Edwige si scusò di non poter esaudire quella sua richiesta perché non avevano nei loro archivi questo disco dei Beatles. Per Roberta era un desiderio mancato.

Imprecò, insultò, umiliò Edwige e la sua radio.

Lei aveva “il bianco”, l’album che conteneva il brano sexy sadie , e non

sopportava che una radio non avesse alcuna copia. Edwige fu paziente, anzi chiese a Roberta di registrare su una cassetta alcuni brani dell’album bianco, e di portarla in radio. Così anche gli altri ascoltatori avrebbero potuto gustare le musiche dei Beatles.

Roberta non rispose. Era troppo. Abbassò la cornetta con violenza. Si tolse il camice bianco, e lo buttò lontano.

Bisognava aspettare

Pazientare.

Pensava alla proposta che quella stupida di Edwige aveva osato fare. Proprio ora con tutti i casini che gli giravano intorno, si metteva docile e buona a registrare le canzoni del bianco: trenta brani, un’ora abbondante d’impegno.

Troppo.

Lei ascoltava radio Mnemosin solo perché aveva poche interruzioni pubblicitarie, o anche perché il segnale giungeva forte e chiaro.

Roberta non era riuscita a calmarsi. Non era proprio il caso di dipingere, anche per via del caldo.

Si ò il fazzoletto sul collo sudato.

Avrebbe fatto bene a farsi una doccia, ma pensò che era meglio rimandare di un’ora.

Si versò del caffè freddo nella tazzina, poi andò a rilassarsi in giardino.

La sua casa era una villetta a due piani, situata sulle pendici della collina, poco distante dal borgo medioevale.

Sentì suonare alla porta, ma stava così bene che pensò fosse il camlo di qualcun altro.

Tentò di appisolarsi, ma il suono diventò così forte da non poterlo più ignorare.

Quando aprì la porta, rimase senza parole. Tutto si sarebbe aspettata che non quella visita così imprevista.

Giovanni Astardi sembrava stanco. Quando si mise a sedere sulla soffice poltrona del salone, si sentì completamente rilassato.

Roberta non aveva detto una parola. Erano ati un paio d’anni dal loro ultimo incontro.

“Vuoi bere? Ti porto della coca cola?” chiese.

“Sì, grazie. Una coca cola può andare bene “, rispose a voce bassa Giovanni.

Roberta gli versò la coca cola nel bicchiere e allungò la mano. Lo guardò negli occhi. Si sentì attraversare da un fremito, e ricordò quella prima volta che incrociò il suo sguardo.

Roberta aveva allora trentadue anni quando si presentò da lui per le prove; non era certo una ragazzina, né una che si trovasse a fare quel mestiere per caso. Non aveva avuto fortuna, o non aveva incontrato le persone giuste. Ma era un’attrice, una brava attrice.

Aveva avuto un periodo in cui lavorava molto, ed aveva partecipato anche a film importanti. Poteva ritenersi soddisfatta per quello che aveva fatto e se non era diventata una star di prima grandezza, era riuscita però a costruirsi una buona posizione economica.

Era seguito poi un lungo periodo di stasi, di non lavoro e di attese; sembrava che tutti si fossero dimenticato di lei.

Lavorare con Astardi era il massimo in quei tempi e la fortuna che aveva avuto nell’essere stata scelta , le faceva ipotizzare che non era proprio detto che dovesse per forza di cose continuare ad avere ruoli secondari.

La commedia era di ottima fattura e Astardi era una garanzia di successo; avrebbe girato l’Italia e forse sarebbe arrivato anche il cinema.

Ed invece... ci fu qualcos’altro: l’amore, la ione.

…

“Stai bene?”

“Sì. Sto bene. Volevo vederti.”

Lo guardò negli occhi e ricordò del loro amore. E pensare che era stata una leggerezza a porre fine al loro rapporto.

Un solo errore aveva commesso e fu la fine di tutto.

…

Roberta stava in casa a Roma.

Giovanni era via, fuori città; sarebbe ritornato il giorno dopo. Era un pomeriggio afoso e caldo d’agosto del 1984. La città si era svuotata e lei non ricordava neppure per quale accidenti era rimasta a Roma.

Stava lì nella vasca da bagno a lasciarsi refrigerare le ossa e la carne, quando sentì il telefono squillare. Non avrebbe voluto alzarsi, non avrebbe voluto rispondere, ma poteva essere Giovanni, poteva essere il suo amore; allora, a malavoglia si alzò dall’acqua. Non si asciugò.

Invece era sco, il suo ex fidanzato, il ballerino con cui era stata legata per più di due anni.

Che voleva?

Che chiedeva?

E per quale motivo se lo ritrovò a casa, lì, vicino a lei nel bagno, non se l’era mai spiegato, neanche ora.

Il lungo asciugamano le scivolò all’improvviso di dosso, sco si accostò. Incominciò a toccarla. Roberta sentì la libidine sciogliersi in bocca.

Gli disse di smettere. Lo disse piano, lo disse come per dire di continuare, ma lui non l’ascoltò. La tirò a sé e le mise le mani sui seni . Lei ebbe un ultimo gesto di ribellione, ma sco la baciò forte.

Le piaceva, ci provava gusto . Allora scivolò piano.

Lentamente.

Dolcemente.

Gli baciò prima il collo e poi giù, ancora più giù. sco, che stava appoggiato al muro, infilò le sue dita tra i suoi lunghi capelli neri. Li abbrancò e la tirò su fino a portare di nuovo le sue labbra a contatto con le sue.

Ora era pronta, ora la poteva prendere.

Riuscì a godere.

Roberta indossò l’accappatoio, si guardò allo specchio: era soddisfatta, era contenta, era felice per aver fatto l’amore.

Era stato quel caldo afoso.

Era stato il silenzio della città, e poi lei era sola, ed era il mese d’agosto.

Era stato solo un attimo di follia, un’esigenza della carne, nulla più. Lei non lo amava, lei amava Giovanni.

Avrebbe dimenticato.

Giovanni venne a conoscenza del fatto. Non ricordava se fosse stato sco a dirglielo o glielo avesse confessato lei.

Non la perdonò, ma non la odiò.

Roberta, quando capì che non avrebbe più lavorato con lui, decise di smettere.

Giovanni tentò di farla desistere, ma non ci riuscì

“Oh, non darti pena. Non è tua la colpa. Sappi però che se un anno, un giorno non hai un porto tranquillo dove attraccare la barca della tua vita, io sarò lì ad aspettarti.” gli aveva detto.

Si meravigliò dell’amore che Roberta gli portava. Non le chiese cosa avrebbe fatto e che progetti avesse, né il posto dove si sarebbe rifugiata. La pregò di chiamarlo, di telefonarlo e di scrivergli, se voleva. Non lo avrebbe disturbato, anzi gli avrebbe fatto piacere. Ora la sentiva come un’amica. La confortò e le diede coraggio: in cuor suo temeva che, lasciata sola, potesse commettere qualche sciocchezza.

Roberta si dimostrò forte, decisa, risoluta; scoprì delle doti che prima non pensava di possedere. Si trovò padrona della sua vita. Nei primi tempi ava le giornate a girare per la città, a guardare le vetrine dei negozi e a visitare musei e gallerie d’arte. Incominciava a darsi qualche interesse. Comprò delle tele e dei pennelli. Si mise a dipingere, a buttare colori all’impazzata sulla tela bianca.

Andò a S. Pietro in Vincoli a vedere il genio di Michelangelo, a gustarsi il Mosè, a vedere le forme e la mano con le venature e l’imponenza di quella statua che aveva fatto gridare al suo creatore: parla!

Poi decise che doveva andar via da Roma. Scelse il luogo, comprò il terreno: lì sarebbe sorta la sua villa, lì sarebbe stato il luogo giusto per trascorrere il resto della sua vita. Era felice ed entusiasta, perché vedeva che giorno dopo giorno qualcosa di suo nasceva e prendeva forma; seguì o dopo o il proseguimento dei lavori per la costruzione della sua villa. Aveva fatto bene a scegliere quel luogo; lì a due i dal borgo medievale.

Scoprì il piacere di alzarsi presto la mattina per andare in chiesa, nell’antica cattedrale. Il piacere di sentire il rumore dei suoi i mentre camminava tra le strette e silenziose vie del borgo. Il piacere di sentire la pace quando stava seduta in preghiera in quella cattedrale. Immaginava di vedere con i suoi occhi le donne del 1400 con i loro vestiti medioevali: chissà quanta gente era venuta in quel luogo?

Chi per pregare, chi per chiedere una grazia al Signore, chi per celebrare il suo matrimonio, chi per battezzare il figlio. La gente del luogo in un primo tempo aveva diffidato di quella donna, così bella, così giovane che s’era intrufolata nella loro comunità.

Pensavano che dovesse avere un bel po’ di peccati sulla coscienza da scontare per aver scelto un luogo così fuori mano; poi con il are del tempo era riuscita a conquistarli: ora li conosceva tutti. Uno ad uno. E se qualcuno era chiamato dal Signore, tutti ne sentivano la perdita.

Quella persona faceva parte della loro vita; non come nelle grandi città, dove neanche conosci le persone che stanno sul tuo stesso pianerottolo, dove, magari,

il tuo cadavere resta in parcheggio nella sala mortuaria per giorni, in attesa di un posto libero per la sepoltura.

Chiamava spesso Giovanni, per sentire la sua voce, per sapere come se la ava; poi con il tempo la cosa si era affievolita. Nel periodo di Natale e Pasqua, gli spediva una cartolina sulla quale, per gioco, scriveva: “Un anno, un giorno”

E lui le rispondeva: “Un anno, un giorno. Non ora, non adesso.”

Roberta non aveva avuto alcun uomo, ma i corteggiatori non le mancavano; poi, dopo tre anni da quando aveva preso la decisione di mollare tutto, ebbe un flirt con un maestro di pittura creativa; infine, verso i trentasette anni l’incontro con Andrea Argot, il medico della mutua.

Argot era il suo medico. Lei non ci andava mai, né aveva avuto la bontà di farsi conoscere quando lo scelse come medico. Aveva sempre rimandato di giorno in giorno; sapeva che non faceva bene ad agire così. Diceva sempre che lo avrebbe fatto quando si sarebbe sentita poco bene, ma , per sua fortuna, aveva una salute di ferro. Pensava che fosse venuto per farle firmare qualche carta o per qualche stupidissima pratica burocratica.

“Finalmente ci conosciamo “ disse Argot, quando si presentò a casa sua.

Gli piaceva quella donna. Gli piaceva molto.

Il corteggiamento da parte del dottor Argot iniziò blandamente, come se avesse timore di osare, di chiedere, di aspirare. Iniziò a frequentare il negozio di souvenir ed antiquariato, che Roberta aveva aperto da un paio d’anni.

La prima cosa che acquistò fu un lume antico, poi alcuni quadri di Roberta.

Un pomeriggio approfittò dell’assenza della commessa del negozio per invitarla a cena.

Andrea non dispiaceva a Roberta; anzi, le era simpatico e provava, nascostamente, un po’ di attrazione per lui.

Non era sicura al punto d’impegnarsi; non voleva illudersi, né illudere quell’uomo .

Telefonò a Giovanni che la consigliò e le fu vicino, poi quando venne a sapere che s’erano messi insieme, non poté far altro che congratularsi con lei, augurandole ogni bene.

Giovanni con il bicchiere in mano si avvicinò alla grande vetrata. Da lì si aveva una bella vista della città nuova.

Diede un’occhiata al grande salone ed osservò le cose, fino a fermarsi su di una foto di grosse dimensioni.

C’erano tre donne nude, prese da dietro. Non si vedevano i loro volti.

Chiese chi erano le tre donne della foto.

“Questa, almeno, la dovresti conoscere bene “, disse Roberta, mostrando con un dito la donna al centro della foto.

“Sei tu! E già, mi sembrava una faccia... conosciuta...”

“Stronzo.”

Astardi chiese chi fossero le altre due.

“Quella che sta alla mia sinistra è Giulia Bristol, l’altra è Eleonora Datti.”

“Facce mai viste.”

“Ancora!”

“Scusa. Belle, però. Tutte e tre. Oso? Ma...si! Siete tutte e tre "bone.”

“Eravamo giovani, allora.”

“Ma questa Giulia Bristol è una straniera?”

“No. A quei tempi era di moda usare un nome straniero; faceva più presa sul pubblico. Eravamo nella stessa pensione; tutte e tre, decise, a qualunque prezzo, a sfondare nel mondo del cinema. Questa foto è stata scattata nel 1971 sul set di un film d’avventura in versione erotica. Come puoi intuire, stavamo insieme a tante altre. Tutte giovani e belle: una cinquantina. Ricordo ancora la voce del regista: spogliatele, mettetele nel cortile lì in mostra. Mostratele agli italiani. Godete popolo! Basta che andate al cinema a versare i soldi.

“Già, ricordo. Era un via vai di film a sfondo erotico. Ma questa Bristol mi ricorda qualcuno. Ne avrò sentito parlare da qualche parte.”

“L’avrai letto sul giornale. In cronaca nera.”

Astardi la guardò con aria interrogativa, ma non parlò. Aspettò che fosse Roberta a spiegare.

“Giulia Bristol era la più bella, la più decisa. Quella che ci indicava sempre la via e il modo per arrivare all’obiettivo. Purtroppo per lei, incappò in qualcosa di losco e brutto, e s’incamminò in un tunnel buio e lungo.”

“Droga?”

“Sì. Iniziò a prenderla ad una festa che un produttore aveva organizzato nella sua villa per il lancio di un nuovo film. Lei c’era andata perché le serviva conoscere gente; aveva portato anche noi due. Non abbiamo provato. Siamo state attente. Lei no.”

“Testa di ponte”, disse Giovanni, interrompendola.

“Cosa? Testa di ponte?”

“Certo. Giulia è stata per voi una testa di ponte. Come per l’esercito quando si deve cercare di sfondare una postazione nemica. Si mandano degli uomini decisi a tutto e con alto rischio di finire all’inferno. Se va bene, gli altri vanno in quella direzione ed hanno tutto ormai facilitato, se no, cambiano strada. In gergo militare si dice testa di ponte. Voi avete fatto lo stesso con lei.”, precisò Giovanni.

“Forse. Era la nostra guida. Da quella sera non ci siamo più frequentate, anche se ci vedevamo ogni tanto. Giulia aveva lasciato la nostra pensione e s'era stabilita nella casa di un ricco commerciante di Roma, che diceva che voleva spendere i suoi soldi per farla diventare una star di prima grandezza. Abbiamo saputo poi che stava sul set a fare l’amore con uomini e donne “, disse Roberta un po' stizzita, lasciandosi cadere sulla poltrona.

“Film porno, immagino.” sentenziò Astardi.

“No. Non subito. Si dava a tutti, a tutti quelli che le potevano garantire qualche parte. Partecipava a quei festini o feste di grossi magnati: in pratica, orge organizzate. La droga costa.”

“La polverina bianca quanti danni fa! “, sbottò Giovanni, prendendo dalla tasca la sigaretta di filtro bianco.

“Ma non avevi smesso di fumare? “, chiese Roberta.

“Cosa? Ah, sì! Ho smesso per un paio di mesi; forse per provare a me stesso che avevo la volontà di combattere questo vizio. Una volta accertato che ci riuscivo benissimo, chi me lo faceva fare di restare senza sigarette? Tanto in qualsiasi momento posso buttarle dalla finestra.”

Roberta si alzò; quella faccia di stizza, che aveva, pensando a Giulia, era sparita: era più calma e posata. Andò in cucina a prendere dei biscotti; prese una bottiglia d’acqua minerale, una bottiglia d'amaro e due bicchieri. Mise tutto su un vassoio, che appoggiò sul mobile basso.

Si versò l’acqua minerale effervescente; osservò le bollicine, che salivano dal fondo del bicchiere. Bevve tutto d’un fiato. Aveva la gola secca. Anche se parlare con Giovanni le aveva fatto dimenticare l’arsura . Invece lui era concentrato a bruciare con profonde e lunghe tirate il tabacco della sigaretta.

Roberta alzò la cornetta del telefono ed ordinò una cena abbondante al ristorante “il cigno d’oro”; chiese il servizio a domicilio. Dopo aver fumato fino alla cicca, Giovanni versò nei bicchierini l’amaro e ne porse uno a Roberta; poi aspettò.

“Verso la fine degli anni 80, Giulia ò al porno. Tu non hai mai visto un film di Giulia?”, chiese inaspettatamente Roberta.

Non si aspettava quella domanda, farfugliò qualcosa, poi, candidamente, ammise di aver visto un bel po’ di film porno, forse in uno di questi poteva anche trovarsi Giulia.

“Io sì. Io l’ho visto un film di Giulia. Ho visto come lavorava.” fece una pausa, poi continuò.” Non voglio farti un racconto particolareggiato di quello che faceva nel film. Voglio solo farti capire che si vedeva che quelle cose lei le faceva controvoglia. C’era un contrasto, un forte contrasto tra Giulia e la sua compagna di lavoro. Questa era più brava: faceva bene l’amore. Giulia... no, non ne era capace. Lei faceva all’amore in modo apatico, come in uno stato di costrizione.”

“Spero, almeno, che abbia preso un bel po’ di soldi.”

“Sì. Ne ha presi. Ha fatto solo tre film porno. Poi, non so, penso che i produttori non abbiamo voluto rischiare più. E allora!... Senza soldi e con la droga che ti corrode l’anima, cosa fai?”

“Fai una bella rapina “, concluse Giovanni, accendendosi un’altra sigaretta.

“Non proprio. Furti e scippi. Fu presa. Condannata. Per fortuna ebbe la condizionale. Ma ormai era persa. La convinsi ad andare in un centro di disintossicazione, in una comunità terapeutica. Qualcosa di soldi glieli ho dati anch’io. La cura sembrò andare bene. Giulia ce la fece ad uscire dal tunnel della droga. Poi boom!

“Come... boom?”

“Un colpo di pistola al cervello. L’ha fatta finita: un attimo, un momento e boom.”

Roberta ripeteva quest’ultima parola, tenendo entrambe le mani sulle guance e serrando le gambe in un gesto di stizza. Come se si trovasse lì, vicino Giulia, in quel preciso momento in cui la sua amica puntava la pistola alla tempia e premeva il grilletto.

“Mi dispiace. Non è andata bene. Mi dispiace “, disse Giovanni.

Per un paio di minuti nella stanza ci fu silenzio.; poi Roberta, per allontanare quell’aria triste che s’era posata nell’aria, gli chiese d’indovinare chi fosse l’altra.

“No. Eleonora Datti non mi dice proprio nulla.”

“Sì, certo. Eleonora Datti non ti dice nulla, ma se ti dicessi che il suo nome è Natalia e che è se, capiresti?”

“Dovresti darmi molti più dettagli per riuscire ad individuare questa tua compagna d’avventura “, disse, volgendo lo sguardo verso la foto. Cercava magari da qualche particolare del corpo di riuscire a capire chi fosse in realtà questa Eleonora Datti, se con il nome di Natalia.

“Ebbene, mio caro Gianni, questa non è altro che Natalia Fenrò.”

“La stilista!”

“Appunto, la stilista. Ha un impero ormai. A lei sì che è andata bene.”

“Interessante, molto interessante. E dai! Raccontami qualcosa di quei tempi, di quando stava con voi. Qualche avventura piccante mai raccontata sui giornali.”

“Ti piacerebbe, vero? Vuoi sapere se ha partecipato a qualche orgia, di sicuro?”

Giovanni sorrise.

“ Mai. Nessuna orgia.”, disse, risentita.

Era un po’ scocciata da quello che frullava nella testa del suo ex.

Per Giovanni qualunque donna, che fosse riuscita a sfondare nella vita, doveva per un verso o per l’altro essere ata in chissà quanti letti.

“Senti, sono quasi le otto. Vado sopra a farmi una doccia. Tu, se vuoi, puoi accendere la televisione e vedere una bella partita di calcio; ce ne sono a iosa in questo periodo, o fare qualche altra cosa. Sei il padrone. A più tardi “, disse.

La sentì che saliva le scale; poi silenzio. Giovanni prese il telecomando. Schiacciò un pulsante. Lo schermo della televisione si schiarì, mostrando le immagini di un campo di calcio. Sentì il fischio dell’arbitro: la partita stava iniziando.

CAPITOLO 2

Roberta indossava un top ricamato di perline e una gonna di grisaglia, di colore verde scuro, che arrivava due dita sopra al ginocchio; aveva in mano la giacca di lino bianco. Non le andava di rimanere chiusa in casa. Telefonò al “Cigno d’oro” e prenotò un tavolo annullando quanto aveva chiesto precedentemente. Giovanni spense la televisione; pensava che dovevano uscire subito, ma Roberta disse di avere ancora una cosa da fare. Si avvicinò alla parete attrezzata, dove aveva lo stereo, cercò tra una miriade di trentatré giri e, dopo una ricerca affannosa, riuscì a trovare il “bianco”.

Ora il problema era trovare una cassetta nuova: voleva fare bella figura. Aveva capito, mentre stava sotto la doccia, le difficoltà di quella piccola radio locale. Lei pensava che per ogni domanda ci doveva per forza essere una risposta certa e convincente; non era sempre così.

Quelli, poveretti, a stento riuscivano a tirare avanti con la pubblicità per il salumiere e le pompe di benzina; non potevano avere una discografia completa ed aggiornata. E lei s’era messa pure a fare la stronza. Sì, si sarebbe autopunita, auto flagellata: avrebbe registrato tutto “il bianco” e nei giorni seguenti forse anche i Pink Floyd.

Avrebbe conosciuto questa Edwige, avrebbe fatto qualcosa per radio “

Mnemosin”. Magari avrebbe preso qualche disco d’annata e lo avrebbe regalato alla radio. Si sentiva molto in colpa. Dopo aver pulito il disco con un panno di lana lo mise sul piatto. Alzò il braccio del giradischi e delicatamente appoggiò la punta della testina sul disco. Quando le prime note si levarono nell’aria, lei lo prese con una mano e lo trascinò sul divano.

“Ascolta!”

“Pensi che dovremmo ascoltare tutti brani. Non faremo tardi così?”, chiese Giovanni.

“Ma certo che no! Certo che no! Sono i Beatles, mio caro. E’ il mito che ti sta portando queste note. Registreremo solo la facciata A, circa venti minuti.-

Astardi non protestò.

Roberta avrebbe voluto dire che i Beatles s’erano separati quando potevano ancora stare insieme per chissà quanti altri anni. Eppure avevano smesso prima. Certo, c’erano state anche delle cause esterne, ma in sé la separazione era già in atto. Fermarsi in tempo, fermarsi quando sei tu a decidere e non sono gli altri a condizionare le tue scelte. Altri gruppi, forse meno famosi dei Beatles, ma ugualmente importanti nella storia del rock, avevano continuato a stare insieme.

La loro musica ora non suscita le stesse sensazioni degli anni ati. Stavano per uscire, quando il telefono squillò. Era Argot. Poche parole, poco tempo e un saluto per Giovanni. Astardi stava per prendere la macchina, la Renault quattro, ma Roberta gli disse che non serviva: sarebbero andati a piedi al ristorante “il cigno d’oro”.

Non erano proprio vicino. Il locale si trovava all’interno del borgo e dovettero fare un bel po’ di strada in salita. Roberta sembrava abituata e non mostrò alcun segno di fatica, mentre Giovanni si sentì un po’ stanco. All’altezza del castello semi diroccato, si fermarono. Giovanni, quando vide la panchina nella pineta, si affrettò a sedersi, e così fece anche lei. Da lì, il panorama era molto più esteso e godibile di quello che si vedeva da casa sua. Si vedevano tutte le luci della città nuova e le luci delle auto muoversi in mille direzioni e tanti altri luccichii.

“Qualche volta penso che qualcuno in un dato momento e in una data ora possa spegnere questa visione, qualcuno che dica: il tempo è scaduto. Black out. Fine “, sospirò Roberta.

“Dio santo! Ma la tua è un’ossessione. E pensiamo un po’ a quello che dobbiamo mangiare stasera “, esclamò Giovanni, allargando le braccia.

“Hai ragione. Scusa, scusa. E’ una sensazione che ho voluto trasmetterti. Queste parole forse le avrò sentite da qualche altra parte o da qualche persona importante. Ho voluta dirle, mi sembrava il momento e l’ora per farlo, ma se a te fa questo effetto!”

Astardi la guardò in silenzio; poi si alzò dalla panchina e la invitò a fare lo stesso. Pensò che Roberta aveva sbagliato in quella occasione a vestirsi in modo elegante, vista la traversata...oceanica che stavano per intraprendere. Avrebbe fatto meglio a vestirsi con jeans e giacca e un paio di scarpe da tennis. Poi pensò che aveva scelto quel abbigliamento in suo onore.

Al ristorante non c’era molta gente, ma il proprietario aveva loro riservato il tavolo in un angolo appartato. La cena fu perfetta e soddisfacente. Non parlarono

di cose importanti: un vago accenno alla situazione che Roberta stava in quel momento vivendo con il dottor Argot, al fatto che questi avesse deciso all’improvviso di abbandonare tutti i suoi mutuati e che volesse dedicarsi solo al lavoro di specialista chirurgo. Argot si trovava a Milano per seguire un seminario medico.

Astardi era andato da Roberta per parlare di sé, della sua situazione, per avere una parola di conforto e di incoraggiamento, considerato quello che aveva fatto per lei. Ma non ne aveva avuto l’occasione, anche perché sembrava che fosse Roberta ad aver bisogno di parlare e di sfogarsi con qualcuno. Rientrarono verso l’una meno un quarto. Erano stanchi, ma soddisfatti. Giovanni invece chiese di Natalia.

“Sono stanca e ho sonno. Domani. Ne parleremo domani”, rispose Roberta, mentre si avviava verso la sua camera.

Giovanni si svegliò di mattina presto, nonostante fosse andato a dormire verso le due di notte. Provò una strana e inusuale sensazione: mai gli era capitato di aver dormito sotto lo stesso tetto con una donna e di non averci fatto l’amore. O forse sì, gli era capitato una volta, ma era giovane e stava allora muovendo i primi i nel mondo dello spettacolo. Stava a Torino in una discreta pensione dalle parti della stazione di Porta Nuova. Il suo compagno di... letto era andato via; non ricordava quale fosse stata la causa di quell’assenza; forse un’audizione improvvisa a Milano o una visita ai propri familiari.

Quando rincasò verso le nove di sera, vide una giovane donna che stava seduta nel piccolo salotto con Rossana, l’affittacamere. Salutò. E si stava avviando verso la sua camera, quando Rossana lo chiamò, andandogli incontro. Gli disse se non gli dispiaceva, almeno per quella notte, far dormire quella donna nel letto del suo amico. Figurarsi se poteva dire di no; anzi, Giovanni fu entusiasta di are una notte con Maria, almeno questo doveva essere il suo nome, se non ricordava male.

Maria si spogliò, tenendogli le spalle. Indossava un babydoll e una mutandine fine e trasparente. La vide che ingoiava una pillola, forse un anticoncezionale. Astardi, che stava seduto sulla sponda del suo letto, si alzò. Si avvicinò e da dietro le mise le mani sui seni, tirandola a sé. Maria, calma, allontanò le mani dai suoi seni. Gli disse che il fatto che dormisse nella stessa camera, non l’autorizzava a fare l’amore con lei; quindi che stesse calmo e che andasse a dormire: lei non era una puttana e lui non aveva pagato una lira per pretendere delle prestazioni sessuali.

Giovanni si sentì disarmato: era abbastanza intelligente da capire che quello che Maria aveva detto era logico e veritiero, era abbastanza incosciente da capire che avrebbe dovuto saltarle addosso. Giovanni si mise disteso sul letto, mentre Maria tentava distrattamente di leggere un fumetto, poi Giovanni senza dire una parola si mise a sedere vicino a lei. Allungò una mano ed incominciò a palpeggiarle i seni.

Maria lo riprese e gli consigliò di dormire. Non successe nulla.

Giovanni si riaddormentò , considerato anche che doveva sostenere un provino nel primo mattino e doveva essere sveglio e lucido. Non aveva capito che qualsiasi donna, anche la più puttana di questo mondo, aveva, comunque, bisogno di un minimo di corteggiamento.

Verso le quattro del pomeriggio, poteva anche ritornare in pensione, ma non lo fece. Voleva punirla perché s’era rifiutata. Comprò dei popcorn e si mise a sedere su una panchina. Poco dopo, una ragazza di circa diciotto anni venne a sedersi accanto a lui. Astardi le offrì i popcorn, la ragazza accettò.

Sentendola parlare, pensò che quella giovane fosse un po’ fuori di testa.

Era sarda.

La giovane disse che nella pensione dove alloggiava c’era tanta gente che le usava violenza. Parlò di un negro grande e grosso, che la sera, anche se la porta era chiusa, riusciva a forzare la serratura per violentarla.

Era spaventata ed indifesa.

Aveva bisogno d’aiuto, sia morale sia economico, aveva bisogno di qualcuno che l’aiutasse ad andare via da lì. Giovanni fu cattivo e crudele; più tardi lui stesso riconobbe quanto fosse stato spregevole. Il solo fatto che un negro l’avesse scopata, lo faceva andare in bestia; mentre se fosse stato un bianco ad usare violenza ad una giovane negra indifesa, avrebbe sentenziato che erano cose che accadevano.

Preso da chissà quale impulso libidinoso, trascinò la giovane dietro ad un cespuglio. Le saltò addosso, incominciò a spogliarla; poi incrociò il suo sguardo: erano occhi di paura, d’angoscia e di arrendevolezza.

Si fermò.

L’aiutò ad alzarsi; poi andò via. Rincasò verso le ventidue, la signora della pensione disse che Maria l’aveva aspettato e che poi era uscita.

Maria rincasò verso le ventitré. Si stava avviando nella camera che la signora le aveva preparato, quando Giovanni la chiamò. Maria lo invitò ad entrare nella sua camera. Era incazzata nera. Sapeva che era stata rifiutata.

“Ho scopato con tanta gente, sono stata con molti uomini, ma ti giuro che con uno come te non andrei mai, anche se fossimo solo io e te al mondo ed avessi un impellente bisogno di fare all’amore.”, l’apostrofò.

Lei aspettava qualche parola di scusa, invece...

“ Buona notte”, disse Giovanni, chiudendo la porta.

“Volevi avermi tra i tanti che hai avuto, ed invece mia cara dovrai annoverare questa sconfitta. Dormi troia, dormi e medita sullo smacco che ti ho dato”, pensò un po’ prima di addormentarsi.

Di questa Maria, non ricordava il volto; gli era rimasta solo la sensazione piacevole di quando aveva toccato i suoi seni. Neanche della ragazza sarda aveva impresso i lineamenti: di lei c’era un’immagine amorfa e sfuocata. Giovanni si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra; da lì si vedeva la reggia: la favolosa dimora dei Borbone. E quella macchia verde lunga fino ad arrivare alla collina doveva essere il parco. Non ebbe tempo di gioire di quella bellezza, perché quello che gli era capitato due giorni addietro lo faceva ancora innervosire.

...

Rivide Almedda seduto in quel teatro all’aperto, costruito nel cortile del castello di Sermoneta che teneva tra le mani il giornale sportivo. Ogni tanto dava un’occhiata ai titoli, prestando però bene attenzione a quello che succedeva sul palcoscenico.

“L’Italia può farcela. Può vincere la coppa.” Questi erano i titoli di quasi tutti i quotidiani nazionali.

Ad Almedda, però, piaceva la Germania. Ammirava la sua logica assassina: arrivare comunque in finale, anche giocando male. Ricordava i tedeschi quando vinsero il titolo in “Germania nell’edizione del 72”; per non affrontare il Brasile e l’Olanda di Kroll, si fecero battere dalla Germania dell‘Est.

“Grandi, grandi, grandi questi tedeschi. Scientifici, spietati, calcolatori”. Ripeteva spesso Almedda.

Al contrario dell’Italia: avanti garibaldini.

Così nel 78 in Argentina, si permisero il lusso di battere i padroni di casa per arrivare primi nel loro girone ed essere buttati fuori subito dopo.

Almedda, il regista, ripiegò il giornale e volse lo sguardo verso il palcoscenico per vedere cosa stava accadendo: si stavano provando delle variazioni allo spettacolo estivo, che aveva già debuttato una quindicina di giorni prima. Spettacolo leggero, con ballerine, cantanti e qualche comico. Il compito di Astardi era di fungere da collante tra i vari generi. Questo spettacolo era in cartellone nelle principali località turistiche.

“ Eh, no. Cazzo! “, gridò il regista.

Tutti quelli che si trovavano sul palco si fermarono e guardarono verso la platea. Tutti già sapevano che il regista avrebbe ficcato le sue parole di veleno nel cuore di Giovanni, che da un po’ di tempo sembrava confuso e smemorato: non ricordava le battute e camminava a malapena.

“ Va bene, va bene. O.K. Riproviamo. Sì,…oh, sì. Ho capito di avere sbagliato. Vedrai che andrà meglio “, si scusò Giovanni.

Ma il regista non era soddisfatto di quelle scuse: evidentemente s’era ata la misura.

“ Scusa, un cazzo. Sei un coglione. Non imparerai mai, Giovanni. Ma come te le devo dire?…Tu non sei un novellino. Tu sei un attore. Sei un... grande attore “, sbraitò ,pestando i piedi.

Le prime parole erano state usate con tono duro, poi Almedda aveva cercato di addolcire la pillola ed aveva parlato con tono paternale. Giovanni Astardi invece si sentiva stanco o forse non aveva voglia di sopportare tutte quelle umiliazioni.

“Cosa vuoi? Che cazzo vuoi da me? Eh! Da quando sono in questa compagnia mi stai avvelenando il fegato. Vuoi che me ne vada? Vuoi qualcun altro? E va bene. Se è questo che vuoi tu e… quella puttana che…”, gridò.

Avrebbe continuato a sputare altro veleno se non fosse stato fermato dalla prima attrice della compagnia. Ma Almedda aveva sentito: lui aveva chiamato puttana la sua compagna.

“Puttana? Ma ti sei visto bene in faccia? Sei un fallito. Qualcuno è venuto da me a piangere, a pregare, a supplicarmi di farti lavorare, di darti questa ultima chance. Non lo sapevi. Bella riconoscenza.”

Giovanni non replicò. Si ricompose ed andò via; nessuno lo pregò di lasciar perdere, nessuno lo pregò di restare: del resto già c’era l’attore che avrebbe preso il suo posto.

Astardi salì in macchina, dopo aver preso le sue cose e girovagò senza una meta precisa nella testa; fece chilometri e chilometri; all’altezza di Cassino, si fermò. Andò in un bar e chiamò il suo agente Salimbeni, ma non lo trovò: c’era solo la fredda voce della segreteria telefonica.

“ Sono…Astardi. Ecco…”, disse, poi riattaccò non sapendo quale tipo di messaggio lasciare al suo agente. Si ricordò di Roberta. E fu allora che decise di andare a trovarla nella sua casa in collina: bastavano un centinaio di chilometri. Poi si chiese come avrebbe fatto a trascorrere un’altra estate senza andare al mare e… senza lavoro.

...

“ La colazione è pronta! “, gridò Roberta, senza aprire la porta.

“ Bene “, rispose Giovanni.

CAPITOLO 3

La colazione, che aveva preparato, era ricca e abbondante: caffè, latte, cornetti, fette biscottate, pane fresco, burro, marmellata e miele. Giovanni non perse tempo. Prese le fette biscottate e le bagnò nel caffelatte mentre Roberta diceva di come fosse stata fortunata Natalia. Nonostante fosse la meno bella di loro tre e la più timida e della fortuna che aveva avuto nel far innamorare di sé un produttore. Certo non era diventata una star di prima grandezza, ma aveva lavorato tanto. Giovanni confermò che Natalia non era mai stata riconosciuta come una vera attrice.

“Hollywood non l’ha chiamata mai “, precisò Roberta, che si disinteressò del cibo che si trovava sulla tavola.

Era tesa e nervosa, ma nello stesso tempo provava un certo sollievo quando parlava di Natalia. Giovanni s’era accorto che Roberta aveva qualcosa di grosso nella testa e che parlava di Natalia per arrivare a qualche importante questione che la riguardava .

“Ma Natalia aveva talento; non certo come attrice, ma in un altro campo sì. I suoi modelli erano originali, belli e speciali, anche se, nei primi tempi, aveva bisogno di qualcuno che limasse alcune grossolanità. C’è riuscita! E’ diventata una star. Non un attrice, ma una stilista. E che stilista!”

“Natalia non si è mai interessata di voi, di te e di Giulia?”

“No, mai. Sì, ci tenevamo in contatto. La stessa cosa che è successo con te. Sapevamo qualcosa l’una dell’altra. Ma mai s’è interessata di noi direttamente. E poi sai bene che la vera amicizia esiste quando si è tutti nel fango.” replicò.

“Vuoi dire che non credi nell’amicizia?”

“Ci credo, eccome! Ma nel caso in questione ho notato che ci sentivamo più vicine, e partecipi, e compagne, e complici quando abbiamo iniziato per cercare di sfondare che non dopo, quando ognuno, nel bene o nel male, aveva fatto un bel po’ di strada.”

“Bene.”, disse Giovanni, dopo aver gustato il cornetto alla crema.

Ora si sentiva abbastanza soddisfatto per quello che aveva mangiato, ma Roberta volle comunque che prendesse un’altra tazza di caffè; l’avrebbe presa anche lei. La donna lo invidiava un po’ per il vizio del fumo... perché sentiva il bisogno di fumare, ma lasciò perdere: non voleva ricadere nel vizio e nella dipendenza da nicotina.

Giovanni bevve il caffè; poi si accese una sigaretta: a lui era concesso fumare. Si ritrovarono in giardino.

“Un giorno, non ricordo l’ora, sento il telefono squillare. Vado a rispondere ed immagina un po’ chi era?”

“Natalia!? “, rispose pronto Gianni.

“Bravo. Sì, Natalia. La donna, che non ha neanche un po’ di tempo per andare al cesso, di chi si va ad interessare? Di me. Non le chiedo come sta, né che fa, né perché ha chiamato, né che cazzo vuole. Dice tutto lei. Mi dice che ha parlato con un regista importante per affidare a me”, continuò alzando il tono della voce, “A me capisci, un ruolo importante in un film. Lei è invischiata economicamente nell’operazione, lei crede in me, lei vuole me. A giorni, avrebbe mandato un agente a contattarmi ed a farmi leggere il copione.”

Giovanni si accese un’altra sigaretta e si allontanò da Roberta, che rimaneva ancora seduta sul dondolo. Ora capiva perché era così tesa. L’equilibrio, che faticosamente aveva trovato, rischiava di andare in frantumi. Già le era costato tanto prendere la decisione di abbandonare tutto, ed ora che era riuscita a trovare un suo status di vita, arrivava questa proposta da lontano che le poteva sconvolgere la vita.

Avrebbe fatto salti di gioia, avrebbe corso a perdifiato per chilometri, avrebbe un cero al suo santo protettore se quella proposta le fosse giunta tempo prima.

Ma si sa bene che molte cose arrivano nel momento che meno te l’aspetti.

“...ed è arrivato? “, chiese Giovanni, sempre tenendo le spalle a Roberta e con gli occhi tesi ad osservare l’orizzonte.

”Chi?”

“L’agente.”

“Sì! Alcuni giorni fa. Si è presentato con un mazzo di rose rosse e con un fare gentile ed affabile. Un uomo elegante, sicuro di sé, esplicativo al massimo. E’ arrivato al problema in modo chiaro e conciso. Aveva un modo di fare che, se mi avesse messo sotto gli occhi il contratto, l’avrei firmato senza neanche accorgermene “, disse Roberta, che si fermò per un attimo; forse aspettava una domanda da Giovanni, che non ci fu.

Proseguì.

“Mi hanno offerto cinquecento milioni per fare il film. Una cifra enorme per convincermi ad eliminare ogni resistenza.

“E tu cosa hai deciso? “, chiese, voltandosi e tenendo lo sguardo fisso su Roberta.

“Mi hanno dato del tempo per riflettere. Poco tempo per me, ma un’eternità per loro: quindici giorni.”

“Hai letto il copione? E’ qualcosa di buono per te?” domandò.

“Il copione? L’ho letto, eccome! Ti dico, Gianni, che è la parte che ho sempre sognato d’interpretare. Un ruolo bellissimo, vitale e di grosso spessore. Il meglio per me “, rispose, estasiata.

E questo stato di grazia lo si poteva notare osservando il luccichio dei suoi occhi.

Giovanni le consigliò di accettare. Roberta non rispose, allargò le braccia e le distese sul bordo dei cuscini del dondolo, poi con i piedi diede una spinta e si lasciò cullare, tenendo gli occhi chiusi.

“Torno a Roma “, disse Giovanni, incuneandosi nel silenzio che durava da un paio di minuti.

Roberta annuì.

Solo quando non sentì più il rumore dell’auto, si accorse che era andato via.

Fece una corsa, uscì da casa, arrivò sulla strada. Lo chiamò ad alta voce, ma l’auto era abbastanza lontana. Era stata stupida ed egoista. Aveva pensato solo a se stessa, ai suoi problemi, ai suoi dubbi. Quando Gianni le aveva detto che tornava a Roma, avrebbe dovuto capire che aveva qualche problema.

Bella stronza era stata a comportarsi così.

Ripensò a quello che gli disse quando aveva preso la decisione di smettere: sarò il tuo porto, quando deciderai di smettere di navigare. Certo, sono cose che si dicono in quei momenti; magari se lui avesse deciso di tornare in un mese o al massimo in un anno, lei ne sarebbe stata immensamente felice.

Ma, si sa, le cose cambiano. Cambiano le circostanze, cambia l’ambiente e cambiamo noi stessi.

Ma lei no, non doveva farlo. Non doveva comportarsi così.

Certo aveva, come scusante, la situazione che stava vivendo.

In questo ci si metteva anche Argot, il suo convivente.

Voleva sposarla, voleva tenerla per sé, ma lei gli aveva detto che era meglio convivere, non legalizzare, né tanto meno vivere sotto lo stesso tetto.

Si era sentito inadeguato e non degno di Roberta.

Lei gli aveva tante volte ripetuto che lo amava così, per il suo modo di essere, per il suo stile di vita, ma Argot era insoddisfatto del solito trantran che fino all’incontro con Roberta aveva scandito tutta la sua esistenza. Voleva di più, voleva darle di più.

Così aveva mandato al diavolo i suoi mutuati ed aveva rispolverato la sua specializzazione in chirurgia.

Non aveva mai esercitato. Aveva iniziato a frequentare corsi di aggiornamento a

Milano, a Roma; aveva contattato i suoi amici per trovare lavoro in una clinica privata. Voleva essere degno di lei. Voleva che Roberta un giorno potesse dire: “È un grande chirurgo. Ha salvato molta gente ed è il mio uomo”.

“ No, no e no! Non hai capito niente! Non è questo quello che voglio!”, aveva tante volte gridato per dissuaderlo.

E poi il film. Il contratto. Il fotografo.

“ Sorridi, Roberta. Ancora di più. Brava. Bene.” Sorridere. Piangere. Mostrare un po’ di gamba fuori.

“ Il seno. Dai che l’hai abbondante. Mostralo! Ma... Roberta, che cosa hai questa mattina? Mostra tutto il seno.

Notte. Alzarsi alle tre di notte. Bene. Conferenza stampa. L’intervista alla radio. La televisione.

Fare presto. Altra intervista. Festeggiamenti. Evviva! E’ fatta? E’ andato bene? Bene. O.K. Il viaggio. L’aereo. IL treno. La nave.

No, no e no. Lei non si sarebbe lasciata trascinare in questo vortice. Non ne aveva la forza. Non avrebbe firmato. Ma come lasciare andare alla malora tutto questo?

Cinquecento milioni! La possibilità di entrare dalla porta principale nel mondo del cinema importante, quello che conta, quello d’autore. Un’occasione unica, irripetibile.

Aveva una tempesta di pensieri nella testa e si muoveva nella stanza come un automa. Era irrequieta. Avrebbe fumato ora, ma non c’erano sigarette. Un po’ di whisky le avrebbe fatto bene. Bevve tutto d’un fiato il primo bicchierino e poi il secondo. Si sentiva un po’ stonata. Accese la radio. La solita frequenza: radio Mnemosin. E si lasciò cadere sulla poltrona in attesa che qualche segnale le giungesse. Ascoltò la canzone dei mondiali, ascoltò una canzone di Anna Oxa. E poi sentì: Sexy sadie what have you done. Era la voce di Lennon, erano i Beatles. Quella canzone era sexy sadie. Erano riusciti a trovare “il bianco”. Canticchiò per un po’ la canzone, poi si addormentò.

CAPITOLO 4

Roberta arrivò alla sede della radio Mnemosin verso le otto di sera.

Era il 3 luglio e c’era un gran fermento di gente per la strada. Colpa della partita di calcio, che da lì ad una mezz’ora si sarebbe giocata allo stadio S. Paolo di Napoli: Italia... Argentina, semifinale del Campionato mondiale di calcio.

La porta era aperta. Chiamò varie volte e, non ricevendo risposta, entrò. Una giovane, che stava lavando il pavimento, chiese chi fosse e cosa cercasse e, senza aspettare alcuna risposta, disse di riare il giorno dopo perché la radio stava chiudendo.

“ Sono Roberta. Ho chiamato prima “, disse a bassa voce.

Edwige si scusò per non averla riconosciuta e ,dopo essersi tolta i guanti di gomma, allungò una mano per salutarla. Quando le aveva fissato l’appuntamento, Edwige non pensava che questa Roberta avrebbe realmente rispettato l’impegno.

Edwige si occupava della pulizia dell’appartamento, dove c’era la sede della radio; faceva la segretaria, selezionava i dischi da trasmettere, stilava i programmi e di tanto in tanto aveva l’onore di andare in onda con qualche suo programma.

Non aveva una paga sindacale, né un contratto, ma era l’unica, tra quelli che lavoravano alla radio, a prendere dei soldi: centomila lire al mese. Gli altri conduttori lavoravano per hobby o per ione. Per loro la radio era un ottimo sistema per avere contatti con l’altro sesso; in pratica si riusciva sempre a cuccare.

King era uno di questi conduttori. Capelli ricci, fisico asciutto e prestante, una voce simpatica ed un modo davvero infallibile nello stabilire il contatto con una donna: un casanova.

“Ciao! Mi chiamo Giorgio. Sono il dj King “, disse, quando Roberta entrò nello studio di registrazione.

Giorgio continuò ad armeggiare vicino al registratore a bobina: doveva mandare in onda la registrazione del programma che avrebbe impegnato il tempo fino alla mattina seguente.

C’era il rischio che il nastro s’impigliasse o che il registratore andasse in blocco. Per questo motivo controllava che tutto fosse a posto, se succedeva qualche guaio la radio rimaneva muta per tutta la notte.

Quando ebbe finito, poté dedicarsi a Roberta.

“ Mi deve scusare. E’ capitata in un brutto momento. Ora, però, è tutto a posto “, disse King , mentre scrutava con occhio indagatore la donna dalla testa ai piedi.

“Già“, rispose .

Roberta aveva preso dal suo scaffale un bel po’ di dischi: quarantacinque e trentatré giri. Li aveva messi in una busta e li aveva portati per prestarli alla radio. Il fiore all’occhiello era rappresentato da un quarantacinque giri dei Silver Beatles, comprato al mercatino delle pulci, praticamente introvabile: un pezzo raro. Aveva deciso di dare una mano alla radio Mnemosin, di conoscere Edwige e di parlare con quel chiacchierone di King, ora che il problema del film era stato un po’ allontanato. Infatti l’agente della casa cinematografica, intuendo che Roberta avrebbe deciso per il no, le aveva dato tempo. Poteva dare una risposta definitiva ai primi del mese di settembre.

“Le darei certamente tutto il tempo che vuole, considerato la sua gentilezza per averci portato queste rarità, ma la prego di capire.”

S’interruppe. La osservò. Roberta sorrise. King continuò.

“ Io non so se lei è una tifosa o è apionata del gioco del calcio. C’è l’Italia in televisione. Dobbiamo andare a casa di un nostro amico a vedere la partita. Viene anche Edwige. Perché non viene anche lei? “, chiese King, concitato e nella speranza che dicesse di no.

Ed invece Roberta accettò, anche se sapeva bene di essere un’intrusa, anche se si sarebbe trovata a disagio a contatto con tutti quei ragazzi. Volle provare. Per una volta volle dare ragione al suo istinto, volle abbandonare quella sua logica perbenista che le faceva fare solo azioni equilibrate e razionali.

CAPITOLO 5

La persiana era chiusa e la luce a stento riusciva ad illuminare la stanza. C'era un silenzio piatto, intervallato di tanto in tanto dal rumore di qualche macchina che sfrecciava sulla via vicina. Giovanni era tornato a Roma nella sua casa del centro storico: due camere con cucinino al primo piano.

La casa non era molto grande, e non era neanche arredata bene, ma era funzionale e per lui era questo quello che più contava. Si rigirò dalla parte della donna che dormiva al suo fianco, e con un leggero movimento della mano tolse il lenzuolo che la copriva. Anche se non c'era abbastanza luce da poter vedere bene, sapeva che la sua giovane compagna aveva un bel corpo.

“Bella e giovane”, pensò fra sé, dopo aver ricoperto la giovane con il lenzuolo senza essere nemmeno tentato di toccarla con un dito.

Dopo essere stato per un po' con gli occhi aperti a guardare la staticità delle cose nella stanza, si alzò: aveva la gola secca. Pensò che faceva bene a prendere una

coca cola dal frigorifero. Andò nell’altra stanza, guardò il telefono.

Con un dito mise in moto la segreteria telefonica:

“Ciao. Sono Salimbeni. Per adesso non ci sono novità. Ho qualcosa però sottomano . Sono fiducioso.”

“ Uhm, Salimbeni!” pensò.

In cuor suo lo ringraziava per quello che aveva fatto con Almedda. Salimbeni c’era rimasto male ed aveva dovuto usare tutta la sua diplomazia per evitare di fargli pagare una penale e di aggravare la posizione, di per sé già compromessa, nell’ambiente.

Piegò il giornale, che in prima pagina titolava:

"Giovane donna uccisa a Roma. La donna, dell'età di ventitré anni, è stata accoltellata in via Giulia"

Lo mise sul tavolo, insieme a tanti altri giornali. Si meravigliò di come un semplice fatto di cronaca nera si trovasse sulle prime pagine di quasi tutti i quotidiani del Paese. Sentì di nuovo il piacere di camminare a piedi nudi, di sentire la freschezza della terra sulla sua carne. Pensò che in altri tempi sarebbe stato a gironzolare in lungo e in largo per l'Italia o magari in giro per il mondo in qualche suggestiva e rinfrescante stazione balneare.

Poteva trovarsi seduto ai bordi di una piscina con le gambe distese e con un bicchiere di qualche speciale bevanda rinfrescante in mano, preparata da quei barman che solo in alberghi di un certo prestigio si possono trovare. Invece, si trovava impelagato a strappare la linguetta di una lattina di birra, che non veniva via facilmente e che per poco non gli tagliava un dito. Bevve dal foro della lattina, e, per l'eccessiva fretta o per il nervosismo, parte della bevanda gli scivolò lungo il mento fino a bagnargli il petto e parte dell'ombelico . Con la lattina in mano si avvicinò alla finestra, che affacciava nel cortile interno. Spostò la tenda. Nella finestra di fronte vide una donna affacciata e poi un uomo che tentava di abbracciarla. Si divertì a vedere la scena di quei due che si rincorrevano da una stanza all’altra, sicuri di non essere visti. Non continuò a guardare quello che stavano facendo quei due; non gl'interessavano quelle effusioni amorose. Lui non era un guardone.

Si rigirò con lo sguardo di nuovo nella stanza semibuia e vuota a guardare le cose. E attraverso la porta, che era rimasta aperta, guardò quella giovane donna, che lo aveva seguito a casa sua la sera prima, affascinata più da una prospettiva di lavoro nel cinema che da un'attrazione fisica per lui. Alzò gli occhi ed osservò le lancette dell’orologio a muro: erano le sedici. Sapeva che avrebbe dovuto aspettare ancora un paio d'ore prima di poter attuare il suo piano. Si disgustava al solo pensiero di dover bere quella roba, ma era necessario farlo. Certo quello che si apprestava a fare non era una buona cosa, né l’idea sembrava eccellente. Ma non era il solo ad usare quell’espediente. Qualcuno per vincere qualcosa d’importante e per suscitare la pietà degli altri, s’era finto in fin di vita per vincere un premio letterario.

“Se per un delitto ionale ci sono di questi titoli, pensa un po' tu cosa scriveranno i giornali quando apprenderanno la notizia. Sì. Questo è il momento buono per farlo. C'è una calma piatta negli avvenimenti. Sono convinto che i giornali... E poi il mio amico mi ha spiegato per bene quanto ne devo prendere... Mi salveranno. Sì. Mi salveranno in tempo, e questa ragazza è giunta proprio a proposito”, pensò.

Prese dalla piccola libreria un libro a caso. Lo rigirò fra le mani.

“ Gogol: le anime morte."

Si ricordò di averne letto qualche pagina, o forse qualcosa di più però non si spiegava il titolo. Voleva distrarsi con una lettura più frivola e meno impegnativa, ma era una scusa.

“ Barrieni!... "Cronache di paese"“ , lesse.

Non sapeva chi fosse questo Barrieni e come diavolo gli era venuto in mente di comprare quel libro. Poi vedendo che l'editore non era di quelli che vanno per la maggiore, si ricordò perché aveva il libro in casa. Era stato lo stesso autore a darglielo. Come aveva fatto a dimenticarsi di quel tipo così strambo, e delle sue continue persecuzioni.

Barrieni lo conosceva da circa quattro anni. Era stato il suo agente Salimbeni a farglielo conoscere.

“ Scusa, scusami tanto Giovanni. Ma se non te lo presentavo, questo non me lo sarei tolto dai coglioni. Sapessi che tortura! “, gli aveva detto sottovoce.

“ E già! Ora me lo devo sciorinare io”, gli aveva risposto ironicamente, senza farsi sentire dallo scrittore.

Barrieni si credeva un genio, un uomo di lettere. Diceva sempre che purtroppo questa sua grandezza non poteva venire fuori senza l'aiuto di qualcuno. Gli aveva parlato di tutte quelle stronzate che dicono i grandi scrittori circa il loro debutto.

” Ho mandato il manoscritto. E' piaciuto, e me lo hanno pubblicato. Così è iniziata la mia carriera.”

“ Ecco cosa dicono. Credi a me, sono tutte balle. Poi con il tempo si scopre che questo era amico di quello che conosceva l'editore Caio, che era l'amante della zia o della nipote “ , si sfogava Barrieni.

“Ma tu... l'hai mandato a qualcuno questo tuo manoscritto? “, gli aveva chiesto.

“L’ho mandato a qualcuno? A tutti. Non ce n’è uno che mi sia sfuggito. E sa cosa fanno di questo mio lavoro? No? Qualcuno ti manda una lettera nella quale ti dice che se entro quattro mesi non si ha risposta, il romanzo è da considerarsi bocciato. Ora dico io, quattro mesi! Ma se non mi mandate indietro neanche il manoscritto che vi ho mandato, adducendo la mole enorme di racconti o fiabe che arrivano alla casa editrice, come diavolo fate a leggere il mio romanzo in quattro mesi? Almeno ti scrivono, però. Altri: ricevono, firmano la ricevuta e neanche un segnale.”

“Certo che è difficile. Come per tutte le cose. Anche per noi attori non pensare che siano tutte rose e fiori. Iniziare è difficile per chiunque. Bisogna insistere, insistere ed insistere “, gli aveva risposto, sperando con queste parole di chiudere il discorso.

“ Lei mi deve aiutare signor Astardi. Mi presenti a qualche suo amico. Che almeno diano un'occhiata. Sì, lo so che sono grande, che sono un genio. Ma qualcuno me lo deve pur dire un giorno per poterci credere. E’ una bella storia. Magari lei può farne un film.”, gli aveva varie volte detto Barrieni.

Ma allora non poté far veramente nulla per lui. In quei tempi aveva altro da pensare. Aveva da stare con Irene, la sua donna. Quella donna che gli toglieva il sonno e l'anima. E poi quel Barrieni poteva anche essere un bluff. Non aveva neanche voluto leggere il suo manoscritto, per non impegnarsi, per non avere rimorsi di coscienza. Si ricordò anche del giorno che ebbe il libro. Barrieni lo aveva aspettato nei pressi dell'albergo in cui alloggiava allora. Lo aveva fermato. Gli aveva mostrato una copia del libro. Astardi fu contento per lui.

“ Ho pubblicato a mie spese. Ora ho bisogno del suo aiuto. Mi dia una mano. Mi faccia un po' di pubblicità nel mondo dello spettacolo.”

“ Sì, va bene. Mi dia questa copia. Lo leggerò. L'aiuterò. Ma ora ho da fare. La prego di scusarmi. Si metta in contatto con Salimbeni. Fissi un appuntamento “, gli aveva detto, frettolosamente.

Di quel libro non era riuscito a leggere neanche due righe. Ora magari aveva il tempo per farlo. Erano dei racconti: dieci. Incominciò a leggerne uno a caso.

“ Però! Bravo, davvero, questo Barrieni.

Voleva continuare a leggere, ma poi chiuse frettolosamente il libro.

“ E poi se davvero questo è...” , pensò, preso chissà da quale scrupolo di coscienza.

Il tempo era volato via. La giovane donna s'era già alzata. Era andata nel bagno a farsi una doccia. Vide con il pensiero ogni movimento della donna. Sentì il rumore dell’acqua scorrere.

Attese.

Quando non sentì più il rumore dell’acqua, capì che era giunto il momento di agire.

. . .

“ Sono uscita dal bagno. Avevo ancora l'accappatoio addosso. Ho chiamato Giovanni. Non mi ha risposto, poi l'ho visto a terra che si contorceva”, riferì al drappello di polizia, tremante e piangendo, la giovane donna.

“ E poi cosa ha fatto? “, le chiese gentilmente il poliziotto.

“ Ho chiamato aiuto. L'abbiamo messo in macchina, . . . e siamo arrivati quì.”

La giovane lasciò in fretta l'ospedale. Lei non voleva per niente entrare in quella faccenda. Sapeva che se Giovanni fosse morto, l'avrebbero di nuovo chiamata. Ma era una possibilità remota, perché proprio quando stava per lasciare

l'ospedale aveva sentito degli infermieri dire che sarebbe riuscito a cavarsela.

Intorno a lui c'era un bel po' di gente: medici e paramedici. Persino il primario in persona del reparto di cardiologia con altri suoi colleghi s'era precipitato nel pronto soccorso. Ad Astardi era stato subito praticata una lavanda gastrica. Era salvo. Non correva alcun pericolo di vita. Il primario della divisione di cardiologia, però, aveva dato disposizioni affinché il paziente fosse portato nel suo reparto per essere messo sotto osservazione, giacché la diagnosi parlava di una leggera aritmia.

La notte trascorse tranquilla senza che accadesse alcunché.

. . .

“ Ma quello non è. . . ma sì! E' lui. Ne sono sicura . . . però come si è ridotto. . Ma che sta male?”

“ Lui chi? Ma di chi stai parlando?”

“ Astardi. Sì, sto parlando di quell'uomo, che è accanto al letto di mio marito. Lo vedi?

“ Chi? Quello? Si, lo vedo e allora? Perché ti stai scaldando tanto?”

“ Ma come?... Non l'hai riconosciuto? Quello è Giovanni Astardi.”

“ Giovanni Astardi? . . . E' spagnolo? E’ per caso quell’attore spagnolo delle telenovele ?”

“ Ma no, . . . ma no. Quale telenovele! E' italiano, anzi lombardo. E’ un milanese. Astardi è un nome d'arte. Ma tu non hai mai sentito parlare di Astardi?”

“Se è quello delle telenovele, sì. Sapesse quante lacrime ho versato.”

“Ho capito che ti confondi, anche perché questo attore delle telenovele gli somiglia un poco, ma Astardi è un’altra cosa. “

“Astardi, Astardi. Si, adesso ricordo. E' un attore di teatro. Ha fatto anche quella commedia al " Sistina". Oh, come si chiamava quella commedia? No, non mi viene proprio. “

“Ah, bene. Finalmente ci sei arrivata.”

“Sì, sì. Ha fatto tanti film. E' ancora vivo? . . . Pensavo fosse morto da un pezzo.”

“Eh, si! Per te sono tutti morti quelli che vedi in televisione.”

La conversazione tra le due donne, di certo amiche, continuò per un bel pezzo fino a quando non furono zittite dall'infermiere che raccomandò loro di non agitarsi e di non alzare la voce perché avevano avuto solo il permesso di guardare il loro congiunto attraverso il vetro, non di fare baccano.

Giovanni stava bene, neanche quella leggera aritmia era un problema. Il primario era un suo vecchio amico ed aveva volutamente aggravato la cosa per far sì che la stampa s'interessasse un po' . In fondo era stato uno dei migliori attori fino a pochi anni prima. Non gli sarebbe costato nulla. Rimase solo un giorno nel reparto di terapia intensiva, poi fu trasferito nel reparto di medicina generale. Stava bene. Aveva ripreso il suo normale colorito; ora doveva solo costatare quale effetto aveva prodotto il suo gesto disperato.

Stava pensando a tutte quelle cose, quando un infermiere l'informò che il primario lo aspettava nel suo studio. Si alzò dal letto e con o lento s'incamminò lungo il corridoio dell'ospedale. Sfari lo fece entrare.

Prima di sedersi chiese di dare un’occhiata ai giornali del giorno: era stato impedito di leggerli prima, vista la situazione.

“ Ma lascia stare. . . Che t'importa? “ , disse il professore.

“ Perché? . . . Perché non devo leggere i giornali? . . . Nessuno si è interessato di me, vero? Tutti sono in vacanza, tutti sono al mare e per conto loro il signor Astardi può anche morire nel cesso”, sbottò.

“ Ma sì! C'era uno, . . un cronista di un giornale. C’è sempre qualcuno in questi grandi ospedali. Ha scritto un articolo sul "Messaggero". Non t'aspettare, però,

chissà cosa.”

Il professore gli diede il giornale. Astardi incominciò a sfogliarlo frettolosamente alla ricerca di quel articolo che parlava di lui.

“ Ma qui non c'è niente! Dove si trova questo cazzo di articolo? Devo forse prendere la lente d’ingrandimento per trovarlo?”

“ C'è, c'è... Vedi meglio... Uhm, dai a me. Adesso te lo trovo io.”

Giovanni lesse l'articolo che lo riguardava. Era deluso. C'era solo un piccolo trafiletto, niente di più. Gridò forte la sua rabbia. Il professore cercò di calmarlo.

“ Ma come! Abbiamo fatto tutto così bene. L'arrivo dell'autoambulanza, il pronto soccorso, la lavanda gastrica ,e ci abbiamo messo anche l'aritmia. Due giorni sono stato con tutti quei fili appesi e cosa ne ricavo?... Due righe: Giovanni Astardi ricoverato d'urgenza presso l'ospedale "Gemelli" per complicazioni cardiovascolari... e basta. Nessuno parla del tentativo di suicidio. Solo un leggero malore... ma si può? “ ,s'arrabbiò, stropicciando il giornale tra le mani.

“ Si può... si può. E’ andata così. Ma tu, stai davvero così male... Intendevo dire per il lavoro.”

“ Eh, sì! Non vado più bene da nessuna parte. Nessuno mi vuole più. Dicono che sono incostante, che non tiro, che non vado bene, che adesso cercano volti nuovi. Gente pimpante e allegra. Ecco cosa dicono. E poi, per prendermi per il culo,

dicono che sono bravo e che non possono affidarmi ruoli ridicoli e così via... Ma che schifo!

“ Già.” , disse il primario, assecondando il suo discorso.

Giovanni non si dava pace.

“ Ma uno, cosa deve fare per attirare l'attenzione dei media?... Impiccarsi in una pubblica piazza? Sì, sì. E' così. Se muori c'è la possibilità di fare un'intera pagina sull'artista, sulla sua vita, sui suoi film, sui suoi successi ed... insuccessi.

“ Ma tu... sei in difficoltà?... Volevo dire che, se è questione di... soldi, io posso. Sai quanto ti voglio bene.”

“ Oh, che vai a pensare. I soldi, . . . i soldi ci sono. E' che mi manca quel maledetto lavoro: il set, il regista, le attrici, la gente che si congratula con te e... gli applausi del pubblico. Questo mi manca. E’ l’unica cosa di cui ho bisogno in questo momento.”

Invece di soldi ne aveva pochi. Stava quasi a secco, forse una trentina di milioni. Ma questi con la vita pomposa e dispendiosa d'apparenza che conduceva presto sarebbero svaniti nel nulla.

Allora sì che sarebbero stati problemi seri.

Giovanni stava ascoltando le notizie del telegiornale:

"La polizia ha le mani sull'assassino della giovane uccisa in via Giulia. Secondo voci, vicine alla Procura, a momenti dovrebbero scattare provvedimenti restrittivi. Ed ora iamo alla crisi del golfo: New York: Riunito il Consiglio di Sicurezza dell'ONU per la grave crisi del Golfo Persico. Le truppe di Saddam sono a Kuwait City".

Spense la radio: non gli interessava davvero in quel momento né del Kuwait, né di quant’altro. Incominciò a preparare le sue cose per lasciare il reparto di medicina e far ritorno a casa; ne aveva abbastanza di sentire la puzza di garze imbevute di medicinali, e poi l'odore dell'alcool etilico gli pizzicava la gola.

Salimbeni era arrivato; stava sulla soglia della porta e sbirciava nell'interno per localizzare il posto dove si trovasse Astardi.

“ Ah, sei qui! Sei venuto finalmente.” , disse Giovanni, che continuò a preparare la sua roba senza dare grande importanza al suo agente.

Era molto arrabbiato con lui. Salimbeni doveva essere il primo ad accorrere in ospedale per far are la voce, ed orchestrare per bene i giornalisti, ed invece... si presentava proprio ora che stava per andare via. Poi pensò anche che la colpa fosse solo sua: come poteva il suo agente essere lì se non era neppure stato informato della faccenda.

“ Non fare quella faccia. L'ho saputo solo da poco. Vedo però che stai abbastanza bene” , disse Salimbeni, che tentò in qualche modo di scusarsi.

“ Meno male che. . . sto bene. Si vede, no?”

“ Ma tu, veramente volevi farla finita? “

“ Ma no, ma no. E' che volevo lasciare un'impronta. Vedo però che nessuno o quasi si è interessato al mio caso” , disse sconsolato.

“ Già! La notizia è giunta in ritardo. Solo quattro righe. . . Si dà più spazio a quell'omicidio in via Giulia.”

“ Ah, . . . la ragazza uccisa a coltellate? Ho sentito qualcosa. Non seguo la vicenda. . . Tu pensi che riusciranno a prendere l'assassino?”

“ Perché t'interessa tanto? Oh, non mi dire che vuoi di nuovo tentare di...”

“ Che vai a pensare. Scommetto che hai pensato che, se avessero preso subito l'assassino, avrei potuto di nuovo tentare?”

Salimbeni gli chiese se la sua ex moglie, Lucia Calderani, si fosse fatta viva, e se suo figlio Marco fosse andato a trovarlo.

Lucia Calderani l'aveva sposato una quindicina di anni fa. La loro era stata una bella storia d'amore, vissuta intensamente per più di tre anni. Da quella relazione

era nato il figlio Marco, che viveva con la madre che avrebbe potuto meglio di lui dargli affetto e amore, ed un esistenza più serena.

Disse che la donna s'era fatta viva per telefono: lei era molto impegnata a completare la sua abbronzatura. Quanto a suo figlio Marco, era stato lui stesso a convincerlo a non venire: sarebbe stato pietoso vedere suo padre ridotto in quella maniera.

Astardi tornò nella sua vecchia casa. La casa era vuota e desolata, ed ancora di più non era viva perché non c'era amore, non c'era gioia, non c'era una presenza che gli portasse il sorriso.

Giovanni rimase nella completa desolazione per alcuni giorni senza uscire da casa: non aveva neanche sentito la segreteria telefonica.

Si aspettava che qualcuno lo chiamasse, che s'interessasse di lui, di come stava, che gli fe qualche proposta di lavoro.

Il telefono invece in quei giorni rimase muto.

Alla televisione di Stato Everaldo dalla Noce da un angolo della borsa di Milano ci parlava di Bot, cct, future, ed azioni: questo scende , questo sale, capitombolo dei chimici.

“Ci vorrebbe una magia di mercato per guadagnare soldi in pochi minuti. C'è gente che ha fatto miliardi in pochi giorni. Chissà come funziona.” , si domandò.

Voleva tenere impegnata la mente . Pensò seriamente di uccidersi: ne valeva la pena. Qualcun altro non aveva di questi problemi.

Lesse sul giornale negli annunci di necrologia che Silvia Acham s'era spenta improvvisamente nella sua casa di Albano. Si ricordò di lei e dei giorni indimenticabili che aveva vissuto insieme in Spagna; non la sentiva da molto tempo, sapeva solo che s'era ritirata dalla vita pubblica una decina di anni prima.

Allora era giovane, era molto giovane e Silvia era un'attrice molto affermata. Si ricordò del giorno che si presentò per un provino, si ricordò di quel primo bacio che le diede sulla scena.

“ Che tempi! Che emozioni!” , disse ad alta voce.

Silvia lo amò dal primo momento che l'aveva visto, come se una scossa elettrica le avesse attraversato il cuore. Astardi ebbe la sua parte ed anche il cuore di Silvia. Era stata una donna molto importante nella sua vita.

Avrebbe dovuto almeno andare al cimitero, andare a salutarla, ma non aveva la forza di fare nemmeno questo. Per un po' il ricordo dei tempi vissuti con Silvia lo tenne lontano dai pensieri di morte, ma, guardandosi intorno e notando che neanche questo dolore poteva esternare a qualcuno, si convinse di più che non valeva la pena di continuare a vivere.

Fece anche alcuni piani per il modo di come doveva morire, poi. . . lasciò tutto andare alla malora perché si addormentò.

Giovanni lesse l’articolo che riguardava la ragazza uccisa in via Giulia:

"Arrestato il fidanzato della ragazza uccisa in via Giulia. Non ancora trovata l'arma del delitto: un coltello. Sembra che il movente sia la gelosia.

La ragazza aveva una relazione con un altro uomo. Ci sono altri sviluppi sulla faccenda. Non si sa se il giovane sia stato aiutato nel compiere il grave gesto da qualcuno. L'uomo non ha confessato. Gli inquirenti sono convinti che sia lui l'assassino. "

Dubitò che si arrivasse ad una soluzione immediata del giallo. Poi ò a leggere le notizie che riguardavano la crisi del golfo:

L'Italia nella coalizione. Saddam non cede. Il Kuwait secondo il "rais" è una delle province irachene. L'Italia parteciperà all'azione di forza voluta dal Consiglio delle Nazioni Unite. Entro il 15 gennaio Saddam deve lasciare senza condizioni il suolo del Kuwait. Altrimenti.. .

Allora l'Italia s'era lasciata invischiare nella contesa. Pensò.

Sapeva bene che noi Italiani, quando dobbiamo prendere parte a qualche azione internazionale di guerra o embargo o qualsivoglia azione congiunta, stiamo ben attenti a non esserne completamente invischiati. Siamo dei maestri in diplomazia. Come in. . . Crimea: poche migliaia di uomini per assicurarsi l'alleanza della Francia di Napoleone III, e l'Italia poté formarsi come Stato libero ed indipendente. Gli Stati Uniti erano presenti in modo massiccio con

navi, portaerei, esercito; in tutto circa centocinquantamila uomini per far rispettare la risoluzione delle Nazioni Unite ed imporre a Saddam di abbandonare il Kuwait.

L'Inghilterra aveva messo in campo navi, aerei, esercito e circa venticinquemila uomini.

Per la Francia quindicimila uomini erano impegnati.

E l'Italia?

L'Italia era presente con una cinquantina di aerei "Tornado", alcune navi caccia mine, ed alcune navi ospedaliere.

L'importante è esserci e fare la propria parte. Del resto questo spiegamento di forze poteva dare all'ONU e questo dava.

Se vediamo bene, ci furono Paesi che neanche sentirono la necessità di dare un proprio contributo al conflitto.

Giovanni osservò la gente che si precipitava in massa nei super mercati a fare incetta di viveri alimentari di ogni tipo, come se la guerra da un momento all'altro dovesse piombare sulle loro teste: non sapevano che. . . era abbastanza distante da loro. Così come c'era la psicosi degli attentati: si erano rafforzati a dismisura i possibili obiettivi dei terroristi.

Lui non aveva paura; non temeva di rimanere senza mangiare, non temeva di morire con un colpo di pistola magari partito per sbaglio da uno di quei guardiani che stavano fuori all'ambasciata.

Girovagò per Roma con la sua Renault quattro , vecchia di una diecina d'anni e male in arnese. Si fermò al Pantheon ed entrò nel bar. Diede un'occhiata in giro per vedere se ci fosse qualcuno che conoscesse; poi chiese un caffè.

Salimbeni si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla.

Ernesto Salimbeni aveva la faccia più ossuta del solito. Ora quei pochi capelli, che aveva in testa, li aveva sparpagliati a mo' di cespuglio. Era alto più di Giovanni ed indossava un vestito chiaro con una cravatta blu ; e poi aveva gli occhiali scuri.

Astardi gli chiese se c'erano delle proposte di lavoro per lui . I due si misero a sedere vicino ad un tavolo.

“ Ho trovato un lavoro per te. Certo non è una grossa cosa, ma penso che potrebbe andarti bene.” , disse Salimbeni, euforico.

“ Cosa? Che genere di lavoro? “

“ Oggi si lavora molto con le emittenti commerciali.”

“ Ah, bene. Hai trovato qualche scrittura per Canale 5? “

“ No, . . . niente Canale 5.” , rispose Salimbeni, dopo aver messo la tazzina del caffè sul tavolo.

“ Allora Rete 4, . . . Telemontecarlo, . . . Italia uno? “

“ Oh, quelli! Pensa che volevano farti fare della misera pubblicità.”

“ E allora? “

“ Oh, non mi dire che ti sei convinto a fare la pubblicità. In fondo. . .”

“ In fondo? “

“ Eh, sì! In fondo la fanno tutti, e poi si guadagna bene. Quattro parole, quattro gesti ed incassi. Non capisco perché ti rifiuti.”

“ Lo sai bene. Avrei potuto guadagnare una barca di soldi prima, ma non me la sentivo. Ora invece. . .”

“ Ora? E lascia perdere tutti quei tuoi principi. Oh, Giovanni!”, esclamò Salimbeni, che forse vedeva una nuova possibilità di guadagno.

“ E va bene. Se c'è da fare qualche pubblicità. . .”

“ Ah, finalmente!”

“ Mi raccomando che sia solo pubblicità per prodotti alimentari.”, precisò, accendendosi la sigaretta.

“ Oh, che fai? Incominciamo a mettere anche delle condizioni. Ma Giovanni ti vuoi svegliare. Lo vuoi capire o no che sta tutto diventando difficile?”

“Oh, a questo punto lasciamo perdere il discorso. Chiuso. Stop. C'è qualcos’altro?”

Salimbeni non tentò neanche di insistere per convincerlo ad accettare di fare pubblicità; tanto sarebbe stato tutto inutile.

“ C’è un programma su una rete privata: Aika".

Hai mai sentito parlare di questa televisione? Oh, non ti preoccupare sono in ascesa. Fra poco tempo vedrai che televisione! Stanno facendo in questi giorni uno spettacolo sfizioso, un programma sexy.”

“ Sexy? Insomma che cosa è, e quanto pagano?”

“ Pagano bene, pagano bene. Duecento mila a puntata. Tu devi fare solo la presentazione di alcune belle figliole che si spogliano.”

“ Che puttanata! . . . No, non accetterò mai. C'è qualcos'altro?”

Salimbeni rimase per un po' muto. Alzò lo sguardo verso l'alto ,come per dire: solo questo per ora.

Giovanni salì in macchina. Pensò che avrebbe fatto bene a cambiare agente. Con tutte quelle nuove occasioni di lavoro che offrivano le televisioni private, quello non riusciva a fare altro che a procurargli uno spettacolo sexy.

Era vero che aveva bisogno impellente di lavorare, ma arrivare a gettarsi nella merda poi. . .

Erano le sette di sera quando arrivò a casa sua. Tirò fuori dal frigo due uova e una bottiglia d’acqua minerale. Prese dalla dispensa delle scatolette di tonno e la cena era bella e fatta.

Accese la televisione e seguì con attenzione le ultime notizie dal fronte: Saddam sembrava non ne volesse proprio sapere di lasciare il Kuwait.

Poi si divertì a cercare con sintonizzatore quella televisione privata di cui aveva parlato Salimbeni. Ci riuscì finalmente. Gli spettacoli che davano a quella televisione erano davvero scadenti e squallidi: una vera porcata. Spense

disgustato. Rigirò un po' per la stanza non sapendo cosa fare; poi schiacciò il pulsante della segreteria telefonica.

"Ciao. Sono Pamela Vilvood. Ti ricordi di me? Come va? Stai bene? Se vuoi, vieni a trovarmi. Sono sicura che ci divertiremo come ai vecchi tempi.”

Bip. . . Bip. . .

"Hai avuto un’ottima idea a toglierti dalle palle. Peccato che sei ancora vivo”

Bip. . . bip. ..

"Stronzo"

Bip. . . Bip. . .

“Un consiglio da un amico: Buttati nel fiume Tevere”

Non pensò a tutte quelle telefonate anonime e clandestine che lo ingiuriavano, cercò nella sua mente di ricordarsi di questa donna, di Pamela Vilvood. Alla fine si ricordò di lei: era quell'attrice, che aveva interpretato quel film, quasi porno, che aveva fatto scalpore e che le aveva dato nei primi tempi una certa notorietà. Anche lei lo aveva amato, anche lei era stata sua amante per alcune settimane.

“ Si, Pamela. . . Pamela! Mi farà molto piacere venirti a trovare, vederti di nuovo”, pensò prima di tirare su la coperta.

Il pensiero di avere qualcosa da fare l'indomani, quasi che avesse qualche nuovo impegno di lavoro, lo fece addormentare presto: erano le dieci di sera.

CAPITOLO 6

Sulla targhetta del quadrante della pulsantiera era scritto: Signorina Pamela Vilvood, interno due. Il portone era aperto. Giovanni salì le anguste e buie scale dello stabile. Al primo piano c'era solo una piccola luce condominiale. Le porte sul ballatoio erano tre.

Cercò d'individuare quale fosse quella di Pamela. Quando la trovò, schiacciò il pulsante del camlo.

Attese.

“ La porta è aperta. Entra” , gridò Pamela.

Entrò.

“ Pamela . . . Pamela” , chiamò varie volte.

“ Entra. . . entra pure, ma non fare tutto quel casino. Se vuoi puoi bere, lì ci deve essere una bottiglia di Martini. Io sono in bagno. Ti raggiungo subito. “

Giovanni si mise a sedere. Prese la bottiglia di Martini e ne versò tre dita nel bicchiere.

Aspettò.

“ Oh, Dio! Sei tu? Giovanni, . . . Giovanni, scusami! Ecco, non ti aspettavo. Oh, no! Volevo dire un'altra cosa. Come sono confusa. Aspettavo un amico.” , disse Pamela, che aveva l'accappatoio addosso e con ancora i capelli bagnati.

“ Oh, se è per questo, posso tornare qualche altra volta.” , rispose Giovanni, facendo il gesto d'alzarsi.

“ Ma che fai, stupido. Siedi, siedi. . . . Il tempo di vestirmi” , disse Pamela, che lo baciò amorevolmente sulle labbra.

Astardi rimase da solo con quel bicchiere di Martini in mano. Pamela era in un'altra stanza.

La casa era arredata con gusto ed eleganza. Vide anche che su un lato della parete c'era una bella foto di Pamela, nuda.

“Niente male. E' davvero niente male la nostra Pam”, pensò mentre prendeva il

pacchetto di sigarette dalla tasca.

“ Ma come? . . . Non hai avuto un infarto? E ora il tuo medico ti permette anche di fumare? Valli un po' a capire questi professoroni” , lo riprese Pamela, tentando di togliergli la sigaretta dalle labbra.

Pamela indossava un pantalone corto di colore beige, con una cintura molto carina di qualche stilista in voga. Aveva una camicetta bianca merlata con i primi tre bottoni non abbottonati. Non portava il reggiseno.

“ Uhm, lascia stare. E' stato tutto un bluff, e non è servito a niente” , rispose, dopo essere riuscito ad accendere la sua sospirata sigaretta.

“ Vuoi dire che non hai mai avuto l'infarto?. . . E allora? L'ospedale?”

“ Sì, non ho niente. E' stata una mossa. Un abile messinscena per far parlare di me ed invece non ho avuto altro che quattro righe sul giornale. Niente di più” , disse, arrabbiato.

“ E' uno schifo, . . . è tutto uno schifo” , disse la ragazza, che aveva circa ventisei anni, ed era formosa e piacente.

Pamela aveva esordito in un film hard. Non porno. Sì, in alcune scene la si poteva vedere che stava abbracciata con dei giovani prestanti nudi, ma nulla di particolare. Lei consapevole che nel copione c'erano quelle sei o sette scene un po' spinte, quasi al limite del porno.

Ma che doveva fare?

Rifiutare?

Dopo che aveva pagato un forte pedaggio al regista: una notte intera nella sua villa sull'Appia Antica .

Avrebbe dovuto rifiutare?

Poteva anche decidere di farlo, continuando a fare piccole comparse. Il film, l'unico che era riuscito ad interpretare, aveva avuto un ottimo successo. La giovane nei primi tempi aveva il carnet zeppo d'impegni per serate, feste e party particolari.

Conobbe molta gente: uomini politici, finanzieri, manager di successo. In uno di questi party conobbe Giovanni, che allora era ancora un attore richiesto e sulla cresta dell'onda, come si dice in gergo. Pamela pensò che potesse servirle, in un modo o nell'altro per agevolare la sua carriera; magari facendola debuttare in qualche sua commedia.

Così non disse di no, nemmeno quella volta. Rimasero insieme tre settimane.

Astardi non dimenticò quella donna con quelle cosce corpose e quei capelli lunghi ed ondulati e quel seno florido. Era convinto che, con quel gran bene di cose che aveva, non avrebbe avuto la vita difficile: aveva un grande avvenire

sulle spalle.

Invece, le cose non andarono come la nostra giovane attrice aveva preventivato. Sì, tutti la volevano, la coprivano di complimenti, ma tutta quella gente aveva solo un chiodo fisso nella mente: possederla, sbatterla sul letto . Ognuno aveva il desiderio di affondare la lingua tra quelle labbra carnose.

Pamela aveva capito che doveva agire d'astuzia. Sapeva anche che qualche volta doveva cedere , ma a qualcuno che ne valesse la pena. Purtroppo per lei gli incontri importanti per la sua carriera le sfuggirono, e si ritrovò con quel solo film fatto e con i soldi che incominciavano a mancare.

Aveva anche trovato un lavoro presso una televisione privata. Presentava un piccolo spettacolo, ma fu un disastro. Nessuno la vedeva nel ruolo della presentatrice televisiva; tutti la vedevano con le tette di fuori e con le gambe bene in vista. Nelle prime puntate il suo programma aveva un seguito; forse perché c’era la possibilità di vederla nuda in diretta o perlomeno in qualche spezzone del suo film. Dopo alcune puntate, considerato l'indice basso di ascolto, la trasmissione fu annullata, e lei dovette per un po' di tempo stare lontana dalle televisioni per far dimenticare quella figuraccia.

“ Te la i bene.” , osservò Giovanni, indicando con un cenno della mano tutto quell'arredamento di valore.

“ Dici?”

I due vecchi amanti si guardarono per un po' negli occhi. Ognuno cercava di nascondere la verità sul loro fallimento. Ognuno cercava di far capire all'altro

che se la ava bene, che aveva mille offerte di lavoro e che non riusciva a decidersi quale accettare. Entrambi però sapevano quanto fosse buffa e meschina quella messinscena.

Quando vide Pamela alzarsi per andare in cucina a preparargli il caffè, pensò che era una donna da far girare la testa al più intraprendente dei don Giovanni, anche se non era troppo alta, e questo era l’unico difetto che si poteva notare in lei.

Giovanni Astardi aveva cinquantuno anni, portati splendidamente.

Un fisico asciutto ed atletico con ancora tutti i capelli in testa, anche se erano ingrigiti in alcune parti. Avrebbe potuto anche tingerseli, ma sarebbe stata una schiavitù cercare di nascondere con degli artifizi la sua vecchiaia.

Giovanni si annoiò a stare seduto. Così si alzò ed incominciò a girare per l'appartamento, a guardare le stanze. Tutte belle, arredate con gusto, con mobili di valore. Tutte grandi e ariose.

“Eh, sì! Deve arsela davvero bene la nostra Pam. . . Chissà! Forse si sarà impegnata con qualche grande casa cinematografica con un buon contratto”, pensò.

Arrivò nella stanza da letto e lì fu sorpreso di trovare delle riviste porno. Non sapeva di questo vizio segreto di Pamela; poi vide qualcosa che non avrebbe immaginato di trovare lì: c'erano delle foto di Pamela in bianco e nero. In una di queste stava con un uomo nudo, in un altra era in una posizione molto audace . Rimise tutto a posto. Non voleva farle capire di aver visto quelle foto. Non si domandò neanche perché erano così bene in vista sul comodino della sua camera

da letto.

“ Preservativi!” , sbottò.

Ce n'era un consistente numero sopra il comodino. Non c'era bisogno più di capire: la sua Pamela faceva la puttana.

“ Hai capito, vero? “ , domandò Pamela, ferma sulla soglia della porta con in mano il vassoio con le tazze del caffè.

“ Sì, ho capito” , rispose, avvicinandosi.

Pamela incominciò a piangere, prima lentamente, poi a dirotto. Lui cercò di calmarla, di confortarla... di dirle di non farne un dramma... forse le cose sarebbero cambiate. Il telefono proprio in quel momento squillò.

La giovane lo lasciò suonare per un po' fino a quando non fu lo stesso Giovanni a consigliarle di rispondere. Era un suo cliente. Voleva averla subito, ma lei disse di no. Che provasse a chiamare domani.

Giovanni aveva sentito: quattrocento mila lire per un paio d'ore non era una cifra da disprezzare. Cercò di non guardare in viso Pam, come se fosse lui a doversi vergognare di qualcosa; non commentò, non era il caso e poi lui non era un giudice. Si augurò solo che non fe una brutta fine.

“ Le foto me le ha fatte un mio amico fotografo. Non ci sono negativi in giro. Almeno spero. C'è da fidarsi di un figlio di. . . Queste foto servono. Ah, se servono... servono per stimolare la sessualità... di qualcuno non in tiro. Funziona, sai. Con molti ha funzionato.” , disse tra l'ironia e la commiserazione.

Pamela gli spiegò che non era da molto tempo che faceva la squillo di lusso, solo da un paio di mesi. Disse anche che tutte quelle cose che aveva visto nell'appartamento le aveva prese a cambiali, quasi una trentina di milioni, e poi aveva altri impicci. Era stata una pazzia. Lei lo sapeva, ma aveva dovuto farlo per dare una certa immagine ai produttori che la venivano a trovare un po' di tempo addietro. Nonostante tutto, non era riuscita a trovare lavoro, e le cambiali in una maniera o l'altra dovevano essere pagate.

Aveva pensato di prostituirsi solo per poco tempo, per cercare di pagare i suoi debiti ; poi avrebbe smesso o avrebbe accettato come ultima spiaggia di are al porno.

“ Porno? . . . Vuoi dire che. . .”, chiese Giovanni, sorpreso.

“ Eh, sì. Sembra che non ci sia più altro da fare in giro.”

“ Ah, così ti hanno fatto l'offerta. Questi sciacalli sanno sempre tutto. Sanno che il tuo è un nome che tira ancora. Quanto ti hanno offerto?”

“ Cento milioni. . . Una bella cifra, vero? Cento milioni per due soli film porno ed un paio di servizi fotografici per una rivista per soli uomini.”

“ Cento milioni è una bella cifra. Pensi che te li daranno? Io non mi fiderei. Uhm, e tu cosa hai deciso?”

“ Non lo so. are al porno significa fare sempre la stessa cosa. Ho preso tempo; intanto visto che dovevo farmi fottere, tanto valeva farmi pagare.” , disse con stizza, mista a pianto la giovane Pamela Vilvood.

Si sentì il suono del camlo del citofono.

Pamela andò a rispondere: era un cliente facoltoso con cui aveva un appuntamento. Lei se n'era completamente dimenticata. Pamela si scusò. Gli disse che aveva un impegno e che era meglio rimandare il tutto ad un altro giorno. L'uomo insistette, ma poi dovette a malincuore andarsene. Dopo Pamela ritornò a sedersi sul divano. Parlarono ancora per commiserarsi ognuno del momento che stavano attraversando.

Giovanni le parlò della offerta che il suo agente gli aveva prospettato: condurre uno spettacolo sexy.

“ Meglio di niente, no? “ , fece Pamela.

“ Sì, meglio di niente, ma non voglio bruciarmi così. Sono un attore, . . . un attore serio, un uomo di teatro. "Essere o non essere" ( intonò con voce grave): Ah, l'arte! . . . . L'arte ed invece dovrei dire: "Si tolga le mutandine signorina Mistral. Op, op et voilà. Ecco sono qua. Ah, ah, ah! ! ! (facendo la voce gentile ed effeminata) Bah! Aspetterò ancora un po', poi vedremo. Ma tu?... E il tuo agente?

“ Chi? . . . Angelo?

“ Angelo! Si chiama Angelo, il tuo agente? Non lo conosco.”

“ E come vuoi conoscerlo. E' così un figlio di buona donna. E' lui, sai, che mi ha prospettato di are al porno. Dice che non c'è uno, che dico, mezzo spiraglio di lavoro, solo il porno va forte. Così dice lui. Lo sai che mi ha anche consigliato di cambiare nome.

“ Come? Cambiare nome?”

“ Eh, sì! Voleva farmi chiamare Pamela Pittsbrugh, con l'acca. E' carino. Eh, dico, è carino questo nome? "P. P. " è questa la chiave del successo” mi ha detto” Pensa alle grandi attrici: C. C. (Claudia Cardinale, B. B. (Brigitte Bardot), S. S. (Stefania Sandrelli), M. M. , G. G. , K. K. Tutte donne di successo e tutte con la stessa consonante: doppia consonante, doppio successo.”

“ Potrebbe essere una chiave.”

“ Dici? Mah! Io non ci credo, come non credo a quelli che hanno il doppio nome. Ecco, per esempio, tu avresti avuto più successo se ti fossi chiamato "Giovanni Saverio Astardi" Suona bene, no?” , disse Pam, mettendosi la mano davanti alla bocca per trattenere una fragorosa risata.

“ Giovanni Saverio Astardi, . . . però!”

“ Visto. Ne sei convinto anche tu. Vedi come è pomposo. Un nome in più, una "chance" in più. Oh, quanti uomini importanti hanno un nome doppio? Tanti, no?”

“ Sì, tanti, ma anche molti di quelli con un nome solo hanno successo.”

“ E che ne so. Sarà che per questi con un nome doppio hanno le cose più facili. Prendiamo ad esempio il nome di un attore famoso: Giancarlo Giannini. Secondo la teoria di un mio vecchio amico i negativi vitali vengono annullati.”

“ I negativi vitali? Che strana espressione.

“ E lasciami spiegare!

“ Ah, sì. Certo. Scusa. Vorrei solo farti notare che se c'è un negativo, ci deve per forza di cose essere un positivo. “

“ Appunto. Allora consideriamo che in un certo periodo della sua vita le cose non vanno abbastanza bene per Giancarlo Giannini; noi consideriamo che il negativo è Gianni, mentre Carlo rimane sempre positivo. Quindi negativo Gianni, positivo Carlo.

“ Ma . . . “

“ Mettendo il negativo di Gianni e il positivo di Carlo avremo una soluzione neutra, mentre Giannini rimane stabile. Oltre tutto il nostro attore ha anche la doppia consonante: G. G.”

“ Eufemismi. “

“ Eufemismi? . . . E che è?”

“Oh, lascia perdere. E allora i re, i principi: tutti o quasi con quattro nomi.”

“Già. Non ci aveva pensato. Avranno la . . . positività assicurata”, disse Pam, ridendo senza freno.

“ Teniamoci quello che abbiamo. Io, poi, so solo che quando la fortuna ti sta al culo non c'è niente che ti possa colpire. E’ solo questione di fortuna. Sì, certo, devi essere anche bravo.”

“ Sarà come dici tu, e allora. . . aspettiamo la fortuna?”

Giovanni si alzò, voleva andare via: era dispiaciuto che Pamela per causa sua avesse perso quell'occasione con il cliente. Non voleva farle perdere altre occasioni.

Ma Pamela gli disse che non lo disturbava affatto e che le faceva piacere se rimaneva un po', magari tutta la notte.

Aveva bisogno di sentire una voce amica, di avere qualcuno accanto a sé quella notte, e di parlare; magari le avrebbe sollevato un po' il morale .

“ Non ho un soldo, mia cara. Non ho il becco di un quattrino” , disse , cercando di portare sullo scherzo quella loro situazione paradossale.

Pamela fu splendida quella sera. Preparò una cena con i fiocchi, con vino chianti, e per finire aprirono una bottiglia di Champagne.

Erano abbastanza brilli da andare a letto ed addormentarsi.

Pamela si avvicinò al telefono; armeggiò con la segreteria telefonica.

Clic.

"Sono Pamela. Non sono in casa. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico. Vi telefonerò al più presto. "

Clic.

“ Così siamo sicuri di non essere disturbati.” , disse, mentre si spogliava .

Non portava collant, ma solo calze nere a rete.

“ Sei sicura che riuscirò a soddisfarti. In fondo non sono più tanto giovane.” , disse , mentre si toglieva la camicia e i pantaloni.

Pamela si avvicinò. Era già nuda. Sorrise. Si buttò sul letto, si mise al suo fianco.

Nessuno più parlò. Poi lei si accostò, strofinandosi al suo corpo, facendo un leggero movimento: su e giù, su e giù. Un po' avanti e indietro. Lui non voleva prenderla subito, voleva ancora giocare con quel corpo. Vilvood, ora, aveva i seni floridi affondati nel materasso. Giovanni fece scivolare dolcemente la sua mano lungo tutta la schiena e incominciò a baciarle il collo e le orecchie. Pamela non voleva essere iva. Si girò ed aprì le gambe. Lo invitò a prenderla.

I due continuarono a fare all'amore, non curanti dello speaker della televisione accesa nella stanza da letto che parlava di guerra imminente, e di privazioni, e di carestia. Solo quando furono soddisfatti e appagati, si decisero a prestare un po' di attenzione a quello che la televisione di Stato stava trasmettendo. Dopo avere con accanimento seguito i servizi giornalistici sulle ultime novità dal fronte, Pamela incominciò a divertirsi cambiando canale, fino a fermarsi su una televisione privata.

“Ma quella. . . non è?” , chiese Pamela, vedendo il bel volto di una presentatrice.

Cercò, scuotendolo, di attirare la sua attenzione, ma lui già si stava addormentando.

“ Cosa? . . . Cosa stai dicendo? “ , bisbigliò Astardi.

“ Ehi, . . . quella è la tua ragazzina, . . . la tua fiamma. Fino a pochi anni fa ti stava sempre alle costole, ti cercava in ogni luogo; ne ha fatta di strada, nevvero?”

Giovanni si mise gli occhiali: non ci vedeva senza.

“ Eh, sì! Lei almeno ne ha fatta di strada. Non era nessuno ed ora guarda un po'. Deve però sempre ringraziare il vecchio Giovanni Astardi.”

“ Ma il vostro è stato davvero un amore così entusiasmante, così ionale, così travolgente, come si leggeva sui giornali e sulle riviste rosa?” , chiese.

“ Sembra di sì. Almeno spero che sia stato così, che lei non l'abbia fatto per puro calcolo. Ma no! Forse è stato un grande amore anche da parte sua” , disse, infine, Astardi, che prese il telecomando dalle mani di Pamela.

Spense la televisione e tentò di dormire.

CAPITOLO 7

Le palette del ventilatore a soffitto giravano con velocità tale da creare nella camera una soddisfacente sensazione di freschezza.

Ma il rumore provocato dalle palette nel loro movimento infastidì Roberta, che si alzò dal letto. Si avvicinò alla chiavetta e la girò, ponendola sull’indicatore off.

Argot, che dormiva al suo fianco, non s’accorse di nulla e la mancata ventilazione non disturbò il suo sonno.

Roberta, invece, anche se si era sdraiata di nuovo, non riusciva a riprendere sonno e rimase per un bel po’ di tempo con gli occhi aperti ad osservare le palette del ventilatore che rallentavano man mano il loro movimento fino a fermarsi.

Erano le diciassette di un pomeriggio di fine agosto: solo pochi giorni per dare una risposta definitiva.

Natalia, giusto tre giorni prima, l’aveva chiamata al telefono ed aveva aumentato l’offerta a seicento milioni, chiedendole se le avesse fatto piacere essere sua ospite per due o tre giorni nella villa di Capri.

Argot le aveva consigliato di non accettare l'invito e di fare la sua scelta senza condizionamenti.

Roberta, già dai primi giorni d’agosto, per non pensare alla decisione da prendere circa il film, s’era impegnata a frequentare la radio Mnemosin a contatto con la banda di King e compagnia.

Argot voleva portarla in montagna sulle Dolomiti a contatto diretto con le nuvole. Le aveva proposto di girare per una quindicina di giorni d’agosto il mediterraneo su qualche nave da crociera o di restare una settimana in qualche sperduta isola greca. Le aveva prospettato altre mete ed altri itinerari, ma Roberta li aveva bocciati tutti.

Lei doveva rimanere a casa tra le sue mura, tra le sue cose, tra i suoi vizi, tra le sue consuetudini, tra le sue eggiate.

Non doveva allontanarsi dal suo territorio in quel momento.

La compagnia di King le aveva donato l’allegria e l’aveva portata anche a condurre un programma con Edwige.

Lei era riuscita a comprare una quota della radio e a diventare socio di minoranza. L’aveva fatto, non perché volesse diventare la proprietaria, ma per permettere a King di continuare a lavorare. Senza il suo intervento la radio rischiava di chiudere. C’erano state delle defezioni sui contratti pubblicitari e dei guasti abbastanza seri all’antenna di diffusione.

Il proprietario della radio, il macellaio del paese, aveva preteso tre milioni.

I conti, che le aveva presentato, però, non erano reali, perché le erano stati nascosti molti debiti.

Il proprietario considerava, nei primi tempi, la sua radio il mezzo per sfogare la sua ione di presentatore. All’inizio i soldi che vi spendeva erano pochi e non pesavano sul suo bilancio in modo negativo. Ma questa ione gli aveva fatto perdere di vista quella che era la sua fonte principale di reddito: la macelleria.

Allora aveva assunto Edwige e King, disinteressandosi del tutto o quasi della gestione della radio, prediligendo la macelleria.

Così si erano accumulati quei debiti e i tre milioni, presi da Roberta, servivano giusto per rimandare il problema di un mese o due.

Certo, tale guasto non dipendeva assolutamente da King e Edwige, i quali, poverini, si davano un gran da fare.

Non c’era stata programmazione, né alleanze e non s’era sviluppata la rete commerciale. Bisognava girare per fare i contratti, propagandare la propria attività, fare delle offerte promozionali.

La situazione precipitò in maniera tragica e irreparabile, quando avvenne il furto.

I ladri, oltre a saccheggiare l’appartamento, rompendo mobili e quant’altro, avevano portato via la strumentazione e tutti i dischi dell’archivio.

Per fare in modo che il segnale arrivasse comunque agli ascoltatori, avevano affittato parte della strumentazione ed alcuni dischi erano stati prestati dagli amici di Edwige e King.

Roberta, nonostante la situazione, pensava che le cose con pochi soldi si sarebbero aggiustate nel giro di una quindicina di giorni.

Ma il macellaio le parlò chiaro, le mostrò le carte, le chiarì la situazione; lui non riusciva proprio ad andare avanti ed avrebbe ceduto la sua parte ad un industriale del vetro, che s’era fatto avanti.

Considerato che Roberta era socio di minoranza, la prelazione spettava a lei di diritto.

Ma si doveva sbrigare, gli doveva dare una risposta entro quattro giorni.

Un’altra risposta da dare, un altro tempo da contare.

Tra debiti, acquisti di dischi per rifornire il magazzino, strumentazione, arredamento, riparazione dell’antenna in montagna, trasformazione per aumentare la potenza di propagazione ed altre piccole incombenze, esclusa la sua quota, la cifra da sborsare arrivava a circa novanta milioni.

Troppi per una radio che non copriva un vasto territorio e non aveva degli sponsor di alto livello.

Troppi per lei in quel momento, anche perché il suo negozio aveva registrato negli ultimi tempi un calo nelle vendite e il bilancio dei primi sei mesi si chiudeva con una perdita di circa quindici milioni.

Argot si fece avanti, le offrì il suo aiuto: lui i soldi li aveva; era abbastanza ricco da sborsare quei soldi per la sua donna. Le propose un prestito..

Roberta non volle, rifiutò.

Non avrebbe potuto accettare nulla da Argot in quel momento perché questo avrebbe potuto condizionare la sua scelta di accettare o no la proposta di Natalia.

Doveva essere libera di decidere, di accettare, di rifiutare, di buttarsi nella mischia, rischiando in prima persona.

Roberta pensò che con i seicento milioni avrebbe risolto ogni problema: avrebbe acquistato la radio, magari potenziandola come lei desiderava, ed avrebbe fatto il film che tanto sognava.

“Una scelta esclude automaticamente l’altra”, le aveva detto Argot, quando Roberta gli aveva prospettato la cosa.

Certo, certo, era vero. Era così. Se accettava, avrebbe dovuto andarsene per un po’ di tempo lontano da casa; pensare al film, pensare alle promozioni.

E alla radio Mnemosin... chi ci avrebbe pensato?

Sarebbe stato un altro fallimento; grave, molto di più di quelli fatti in gioventù, quando la mente non è protetta dall’esperienza.

Guardò Argot che dormiva sereno lì vicino a lei.

Lui la sua battaglia l’aveva vinta o quasi; almeno era ritornato per combattere, per riprendersi Roberta.

Nei primi tempi dell’infatuazione per la radio Mnemosin, era stato contento perché pensava che, apionandosi a qualcos’altro, Roberta non avrebbe accettato l’offerta di Natalia e sarebbe rimasta con lui.

Ma, quando aveva saputo che un’intera notte l’aveva ata con l’allegra brigata della radio e che gli incontri con il giovane ed affascinante King diventavano sempre più stretti, aveva temuto che Roberta gli sarebbe sfuggita tra le mani in una maniera o nell’altra.

King rappresentava un pericolo per lui. Tra Roberta e King poteva nascere una travolgente e morbosa relazione, magari duratura ed inattaccabile, o poteva esserci una relazione breve come un lampo in una notte buia: intensa, luminosa, ma istantanea.

In entrambi i casi questo l’avrebbe danneggiato, e lui non voleva; l’avrebbe impedito con tutte le sue forze.

Argot si rigirò per un po’ nel letto, aprì per un istante gli occhi e poi li chiuse,

deciso a riaddormentarsi. Ma l’immagine di Roberta che lo fissava gli era entrata nella mente.

“E allora? Mi spieghi come si può dormire in pace , se uno ha due fari che lo scrutano in ogni parte?”, disse, attirandola a sé e baciandola amorevolmente sulle guance.

Roberta sorrise.

Gli diede un bacio veloce sulle labbra e poi si appoggiò alla spalliera, rimanendo seduta.

“Cosa c’è che non va, ora?”, chiese Argot, che aveva visto il viso di Roberta rabbuiarsi, come se fosse preda di dubbi.

La donna lo fissò per alcuni istanti, poi abbassò il capo.

“Non riesco a spiegarmi per quale motivo Natalia ha rilanciato. Di attrici come me ne può trovare a migliaia. Eppure, se ha scelto me per la nostra vecchia amicizia, una volta che ho rifiutato, perché darmi un’altra possibilità? Perché rilanciare l’offerta? Non ti sembra troppo per me?”, chiese con voce piana e diafana.

“Penso che l’abbia fatto per metterti alla prova e per dimostrare che tu non vali niente come attrice. Anche lei era mediocre, però ha lavorato perché è stata più fortunata di voi. Magari tempo fa le avete rimproverato la situazione, le avete

rinfacciato che, se lavorava, lo doveva al suo amico. Non so darmi altre spiegazioni: forse sarà un’infatuazione o veramente vuole darti una chance per valorizzarti come attrice.”

“E, secondo te, spenderebbe tutti questi soldi per uno sfizio?”

“I soldi per quella donna non sono un problema. Anche se li dovesse buttare nel cesso. Lei è cattiva. Lei ti odia e forse vuole dimostrare che nonostante l’aiuto che ti darà, tu fallirai.”

“Sei molto ingiusto nei suoi confronti. Non la conosci neppure e quel poco che sai te l’ho detto io. Come puoi farti un’idea così brutta di lei? E se invece riuscissi a farcela?”, lo provocò, alzandosi dal letto e iniziando a vestirsi.

“Provaci! Accetta, allora. E facciamola finita. Vai, vai da lei. Prendi i soldi e poi compra la radio. Vendi la villa che hai costruito, vendi il tuo negozio e lasciami solo il ricordo di te”, reagì Argot con un po’ di rabbia.

Lui non voleva perdere la sua donna. Per questo motivo aveva mandato a monte il suo sogno di esercitare la professione di chirurgo. Aveva ripreso a lavorare per i suoi mutuati.

Una vita normale, con una donna normale: il cinema, la eggiata e la cena con gli amici.

Quando era venuto a conoscenza di questa proposta, sapeva che, se Roberta

avesse accettato, l’avrebbe persa per sempre. Nonostante lei lo avesse rassicurato che non sarebbe cambiato nulla tra loro due.

Argot si vestì in tutta fretta deciso a lasciare nel più breve tempo possibile quella casa. Aveva sperato che facendo l’amore, tenendola stretta tra le sue braccia, baciandola, accarezzandola, coccolandola, lei avrebbe capito che doveva rinunciare al film, che doveva stare con lui.

E quando vide con quanto amore e ione lei lo aveva baciato, aveva sperato di avercela fatta.

Ma dalle parole di Roberta, non era così, non era come lui aveva pensato.

Che ci rimaneva a fare in quella casa?

Che se la sbrigasse da sola.

Che decidesse cosa fare.

Voleva restare sola per decidere?

E allora che decidesse.

“Ma che fai? Vuoi andare via?”, chiese Roberta.

Argot non rispose.

“Ma! Cosa succede? Che cazzo ti succede? Vuoi lasciarmi sola a decidere?”

“E’ quello che hai chiesto, o forse mi sono sbagliato anche su questo?”

“Ma lascia stare. Lascia perdere. Rimani.”

“Rimango? Allora, va bene. Rimango. Ma devi telefonare ora”, le ordinò Argot, tenendo la mano tesa in direzione del telefono.

“Telefonare a chi?”, chiese Roberta ,confusa.

“A chi? E no, cazzo! Svegliati, Roberta! Decidi ora. In questo momento. Non puoi snocciolare i giorni ed arroventarti il cervello. Guarda che stai minando seriamente la mia psiche. Chiamala!”, gridò.

“Natalia?... Devo chiamare Natalia?”, balbettò Roberta, stupefatta di vedere, per la prima volta, Argot così brutale e cattivo.

“Ce ne hai messo di tempo per capire, eh!”

Roberta era corsa verso il telefono, aveva preso la cornetta tra le mani ed aveva digitato i primi numeri, decisa a dire sì, decisa a punire quell’uomo che si permetteva di governare la sua esistenza; poi aveva abbassato con forza la cornetta al suo posto.

“Stronzo. Coglione. Puttaniere”, gridò forte tra i singhiozzi.

Poi s’era messa a sedere sul letto, tenendosi le mani tra i capelli.

Argot non si avvicinò, non l’accarezzò, non le disse niente: anche se non aveva telefonato a Natalia, sapeva che Roberta aveva preso la sua decisione.

Doveva solo aspettare un po’ per conoscere la sua scelta.

“Pensi che riusciremo a trovare il bianco?”, chiese, sottovoce, Roberta.

Argot rimaneva in piedi, intento ad abbottonarsi la camicia e ad infilarsela perbene nei pantaloni; anche se le stava vicino non era riuscito a sentire bene quanto Roberta aveva detto; forse solo la parola bianco gli era entrata nella mente.

Pensò che aveva sbagliato a reagire in maniera così brutale. Si sentì in dovere di confortarla, aiutarla, consigliarla. Non poteva metterla con le spalle al muro.

“Eh, non rispondi? Allora questo benedetto disco “bianco” dei Beatles pensi che riusciremo a trovarlo in qualche fetente di negozio di dischi o no?”, gridò Roberta.

Ora aveva capito, ora sapeva che Roberta aveva scelto di restare, di rinunciare al film, di rinunciare ai soldi. Aveva scelto lui, Argot, il medico della mutua. Un medico anonimo di paese.

Aveva il cuore che gli scoppiava dentro per la gioia, ma si trattenne, non volle darlo vedere. Continuò a sistemarsi la camicia, ad allacciarsi i lacci delle scarpe.

“Il bianco lo troveremo, starne certa. Dovessi girare tutti i negozi del mondo”, disse Argot, sorridendo.

“Forse Astardi deve averlo. Lui ce l’ha, anche se non lo suona mai. Pensi che convenga telefonargli”, chiese Roberta.

Argot fu sorpreso che Roberta in quel momento pensasse a Astardi; poi capì che era un modo come un altro per far sapere quello che aveva deciso. Era un modo come un altro per comunicare.

“A proposito, come se la a?”, chiese Argot.

“Ah, Giovanni! Male. Se la a male. E’ un buono. E’ un uomo generoso. Se non diventa cattivo, se non tira fuori le unghie, sarà difficile che riesca ad uscire dalla melma in cui si è cacciato.”

“Mi dispiace. Mi dispiace molto per lui”, rispose Argot.

CAPITOLO 8

Intanto il tempo a disposizione per scongiurare il conflitto era poco. Nonostante lo sforzo delle diplomazie, non si vedeva alcun spiraglio per scongiurare la guerra mentre per il giallo di via Giulia si andava verso l’archiviazione.

Giovanni da quella sera non aveva visto più Vilvood. Di tanto in tanto le telefonava per avere sue notizie, ma nulla di più. Un giorno, leggendo il giornale, fu sorpreso di trovare la sua foto all'interno della cronaca.

Sperava che fosse qualcosa di buono, invece. . .

Vilvood era stata denunciata a piede libero per adescamento e furto.

Ora la sua carriera cinematografica era compromessa e pensò che non le sarebbe rimasta che una sola strada da prendere: are al porno.

Avrebbe anche voluto andare a casa sua per confortarla in quei terribili momenti, ma non se la sentì.

Non era certo la persona più indicata, e poi non poteva rischiare di farsi vedere

con lei.

Gli inquirenti avrebbero potuto coinvolgerlo nella faccenda, e forse considerarlo il suo protettore.

Le telefonò ugualmente.

Quella mattina si svegliò presto. Aveva finalmente qualcosa d'interessante da fare; qualcosa per cui valeva la pena alzarsi a quell'ora: quel giorno aveva finalmente un impegno di lavoro.

Il suo agente, Salimbeni, era riuscito a procurargli un lavoro decente. Non è che avrebbe guadagnato molto, circa un milione, e poi avrebbe potuto are alcuni giorni in albergo senza pagare una lira.

Doveva presenziare l'inaugurazione di un complesso alberghiero dalle parti di Formia e presentare per alcune sere uno spettacolo musicale.

Forse era per questo che non lasciava Salimbeni, per queste sue improvvise. . . offerte.

Decise di andare in treno: lì qualcuno dell'albergo era stato già contattato per andare a prenderlo alla stazione.

Non era mai stato a Formia, prima d'allora.

Quando scese dal treno, fu abbastanza sorpreso di vedere in che stato di pulizia si presentava la stazione ferroviaria: davvero un bel biglietto da visita.

E poi da lì si vedeva un magnifico panorama : tutto il golfo fino a Gaeta.

Arrivò in albergo e fu ricevuto dal direttore in persona. Lì, dopo essersi fatto una doccia ed aver mangiato qualcosa, fu presentato alla piccola orchestra con la quale doveva condurre lo spettacolo serale.

La cantante, una bella giovane di vent’anni, era già tutta elettrizzata di stare accanto al grande attore.

Incominciò a fargli un’infinità di moine.

Giovanni si sentì stuzzicato e, siccome non era di ghiaccio, iniziò a corteggiarla.

Le donne, certo, non gli erano mai mancate; anche se non le cercava, sembrava che fero a gara per entrare nel suo letto.

Quando verso le due di notte si ritirò stanco morto nella sua camera, non fu affatto sorpreso di trovare quella giovane cantante che lo aspettava impaziente.

Fecero all'amore. Lui non deluse la sua giovane fan.

Al mattino, sul tardi, verso le nove e mezzo, Astardi si svegliò.

Si fece la doccia, la donna lo seguì nel bagno.

“ Ti amo... ti amo. Voglio venire con te”, disse con ione la giovane cantante.

“ Ti amo... ti amo. Che parolone! Non ti sembra che sia un po' impegnativo per quello che abbiamo. . “.

La giovane, invece, s'era invaghita o forse fingeva abilmente.

Disse che lui rappresentava la vita, l'evasione da quel grigiore e che lei s’era innamorata, da quando l'aveva visto in quei telefilm alla televisione.

Ma Astardi era troppo scaltro per cascarci di nuovo. Anche con quella sua giovane amante degli anni addietro aveva perso la testa; anche lei gli aveva detto che era il suo uomo, anche lei accorreva da qualunque posto si trovasse appena lui la chiamava.

Lei diceva che era il suo grande uomo, che il suo era un grande amore.

Ci aveva creduto.

Lui aveva creduto all'amore di Irene Mussi.

L'aveva portata in giro per l'Italia in bella mostra.

Lui, un uomo sui quarantasei anni, abbracciato teneramente a quella diciottenne, orgoglioso di poter fare ancora all'amore, di sapere ancora colpire il cuore delle donne.

Invece fino a quanto le poteva servire per conoscere le persone importanti, la gente di spettacolo, fino a quando era stato sulla breccia, fino a quando produceva commedie teatrali, fino a quando lavorava nel cinema o in televisione, gli era sempre stato accanto come una gattona viziosa.

Si prestava a tutto, qualsiasi cosa lui volesse, lei obbediva: fosse stata anche una richiesta stramba e volgare.

Come quella volta quando gli venne la malsana idea di prenderla sul terrazzo di un albergo lungo il mare di Sabaudia.

Anche allora non disse di no.

Con tutta quella gente che stava sulla spiaggia, gli venne l'idea di fare all’amore sotto gli occhi di tutti.

Chissà, forse voleva umiliarla o riaffermare che il padrone era lui. La cosa comunque lo eccitava.

“ Già, Irene.” , pensò, mentre l'acqua gli scorreva sulla pelle.

Era bastato che il suo nome non tirasse più, che non fe più lavori di un certo spessore e tutto andò a farsi fottere.

Certo, Irene gli era rimasta accanto ancora per un anno, ma un bel giorno aveva capito che da quell'uomo, così sicuro di sé, non avrebbe potuto ricavare nulla di più.

E così riuscì a staccarsi : prima un giorno, poi una settimana, poi dei mesi, fino a quando non si fece più vedere.

“Il nostro amore è finito. E' stato tutto bello. E' stato tutto meraviglioso” , gli disse Irene un giorno.

Non ricordava neanche quando.

Seppe alcuni mesi dopo che Mussi s'era messa con un importante produttore cinematografico.

Anche quello sarebbe stato per lei un grande amore.

C'era riuscita. Era riuscita a condurre uno spettacolo presso un’importante televisione privata.

“ Portami con te. Ti starò accanto ogni momento” , lo supplicava la giovane cantante. Lo pregava di darle questa possibilità di andare via da quell'ambiente, di sfuggire a quella vita di balere e di paese.

“ Forse un giorno. Adesso, no” , rispose, deciso.

Non poteva cascarci di nuovo, anche perché sapeva che non avrebbe potuto offrire nulla di quello che la giovane cantante sognava.

In un paio di giorni si sarebbe accorta che era un fallito: altro che vita da sogno, altro che alberghi favolosi, altro che serate magiche.

Non poteva rischiare di fare quella pessima figura; meglio che la giovane cantante rimanesse con il pensiero di aver fatto all'amore con il grande Astardi.

Rimase altri tre giorni a Formia. La giovane cantante lo portò un po' in giro con la sua macchina a visitare i posti più caratteristici del luogo: a Gaeta, alla Montagna Spaccata, alla grotta del Turco.

Andarono a vedere la tomba di Cicerone.

Giovanni si fermò estasiato ad osservare quelle pietre. Il cancello era aperto.

Entrò nel recinto: la tomba di Cicerone era imponente.

Ma anche lì c'era la morte di un tempo ormai ato; la stessa morte che lui sentiva nel cuore. Non si divertiva più.

In altri tempi avrebbe recitato qualche massima antica davanti a quel monumento funereo, ora, invece, era muto. Muto e freddo come le pietre.

La cantante gli si attaccò morbosamente; fece un ultimo tentativo di convincerlo a portarla con sé: il treno già era sul binario della stazione, a momenti sarebbe partito.

“ Avrai qualche altra occasione, ne sono convinto”, le augurò, baciandola teneramente sulle labbra.

Giovanni prese il treno delle sedici e venti.

Si divertì molto in quell'ora e tre quarti che impiegò il treno per arrivare a Roma a leggere sul giornale gli schieramenti militari delle forze in campo sull'inevitabile guerra del Golfo e si divertì molto a sentire il parere della gente su questo interessante spiegamento di forze militari impegnate.

“ Abbiamo tanti aerei, tante navi e Saddam ha solo questo. Non ha una grande

forza militare. Lo distruggeremo. . .”

“ Ma sì! E se poi quello sgancia l'atomica? “

“ L'atomica? . . . Perché, Saddam ha l'atomica?”

“ E chi lo sa? . . . Ma l'URSS con chi sta?”

“ E' neutrale, si è messa da parte. “

“ Oh, allora possiamo farcela. “

“ Sì.. . . Almeno che non intervengano anche i popoli arabi. . . Quelli sono sempre tutti solidali, e vedono gli Americani come il fumo negli occhi.”

“ Perché? Pensi che possano intervenire anche i popoli arabi? “

“ Anche se non interverranno militarmente, i popoli arabi possono sempre aiutare Bagdad con forniture di armi e munizioni.”

“ Già. Allora il conflitto potrebbe allargarsi a macchia d'olio e prendere una brutta piega. “

“ Il pericolo è Israele.” , disse un uomo sulla sessantina, con gli occhiali e con viso da intellettuale, intervenendo nella conversazione tra due giovani eggeri, che da un po' di tempo stavano disquisendo sulle reali possibilità degli alleati di poter liberare il suolo del Kuwait dall'invasione irachena.

L'uomo con gli occhiali stava seduto vicino al finestrino, mentre Astardi si trovava in un compartimento più avanti.

Per vederlo bene in viso, s'era dovuto sporgere un po'.

La carrozza ferroviaria era di seconda classe, a compartimenti aperti.

Tutti i posti a sedere del compartimento erano occupati.

Di fronte all'uomo con gli occhiali c'era: una bella donna bionda di circa quarantacinque anni e un giovane di ventidue anni. Al suo fianco un altro giovane di diciotto anni.

La signora bionda alzò lo sguardo. Lasciò, perdere per un istante la lettura di quelle futili notizie sulla sua rivista rosa e guardò diritto negli occhi l'uomo che aveva di fronte e che certamente doveva sapere molto sull'imminente conflitto del Golfo.

“ Già, Israele...” , disse uno dei due giovani, senza aggiungere altro.

L'uomo con gli occhiali guardò un po’ fuori dal finestrino il paesaggio scorrere sotto i suoi occhi; senza guardare in viso i suoi interlocutori, aggiustando per bene il giornale politico sul piccolo tavolino, iniziò a parlare.

“ Israele è la vera bomba nucleare di questa guerra. E' la miccia incandescente che potrebbe portare il conflitto a dimensioni catastrofiche” , disse con il suo fare di grande conoscitore delle cose, della politica, delle strategie militari.

Ci fu un'altra pausa.

Tutti rimasero in un muto silenzio in attesa che l'uomo continuasse a parlare: capirono che quello ne doveva sapere abbastanza di cose; forse era uno dei servizi segreti o un grande ufficiale dell'esercito in borghese.

“ . . . Per non parlare poi delle armi chimiche, che Saddam ha nei suoi arsenali e che con certezza à. La guerra è guerra, e non si può essere bambini piagnucolosi e pietosi” ,aggiunse l’uomo con gli occhiali.

“ Perché, . . . lei pensa che possa farlo, che Saddam possa usare le armi chimiche? “ , chiese la donna bionda con sottile e debole filo di voce.

Il via era stato dato. L'uomo con gli occhiali aveva pesato i suoi interlocutori. Sapeva che non avevano una grande conoscenza di armi e di politica internazionale. Si poteva sbizzarrire a sciorinare tutto il suo sapere senza il pericolo di essere interrotto o contrastato nelle sue disquisizioni.

La platea era tutta per lui. Tutti, ammutoliti e accorti, si misero a sentire quell'uomo che parlava con così tante cognizioni su quella guerra.

Di tanto in tanto qualcuno faceva delle domande. L'uomo si spazientiva un po', ma poi raccontava, raccontava tutto quello che sapeva sulle armi strategiche, sulle caratteristiche tecniche degli aerei.

Tanto apionava quel gioco di guerra, così lontano, così estraneo, che l'uomo incominciò a scarabocchiare su di un foglio di carta la situazione in caso di conflitto.

Tante truppe, tanti carri armati, tanti aerei per le forze alleate, e tante per le forze irachene.

Prima fase dell'operazione: accerchiamento delle forze di istanza nel Kuwait in modo da far mancare il sostegno logistico.

Seconda fase: bombardamento a tappeto con aerei e con cannoni a lunga gittata delle portaerei di istanza nel Golfo Persico.

Possibile risposta dell'Iraq: impiego di armi chimiche (antrace, peste). Incitamento alla guerra santa contro il nemico americano, cercando di coinvolgere tutti i paesi arabi.

Tutta questa litania continuò fino a quando l'uomo sulla sessantina non prese le

sue cose e si alzò: il treno stava entrando nella stazione di Latina.

I suoi compagni di viaggio furono dispiaciuti; pensavano che avrebbe proseguito fino a Roma Termini.

Lo salutarono con rispetto, misto ad ammirazione. L'uomo si sentì orgoglioso e soddisfatto di aver dato tante spiegazioni; lo si vedeva da quel suo portamento di gran sapientone e dal suo modo altero di camminare.

Neanche Astardi, che aveva di tanto in tanto prestato attenzione al suo discorso, si era fatto un’idea di chi potesse essere; ma forse era solo un nostalgico fascista, amante degli armamenti e della guerra.

Gli altri viaggiatori, che avevano così attivamente preso parte a quella lezione, restarono per un po' in silenzio; forse stavano riflettendo su quello che avevano appreso.

All'improvviso qualcun altro cominciò a domandarsi se l'Italia avesse fatto bene a partecipare a questa missione. E lì ci furono delle violenti discussioni, perché alcuni erano fermamente interventisti e appoggiavano la decisione del governo Italiano di aver scelto di partecipare alla missione, altri invece pensavano che sarebbe stato meglio se fossero rimasti tutti a casa.

Per fortuna il discorso poi scivolò su argomenti più futili e banali, sulle attrici che facevano di quei film porno o giù di lì. Molti trovavano sconveniente che un’attrice come la Pit avesse recitato in quel film un po' hard.

“ A volta nella vita bisogna anche saper rischiare un po', e la Pit ha fatto bene.”

“ Sì, penso proprio di sì. . . E poi ha fatto tanti altri bei film ed è tornata sulla cresta dell'onda.” , disse alla fine uno di questi.

All'arrivo alla stazione Termini, Astardi scese per ultimo dalla vettura. Si meravigliò che nessuno di quei viaggiatori l'avesse riconosciuto, e giustificò il tutto mentendo a se stesso.

“ Se mi toglievo gli occhiali, magari mi avrebbero riconosciuto.”, pensò.

Non venne nessuno a prenderlo. Salimbeni forse aveva altri impegni, e poi non poteva stargli dietro o dopo o; aveva sotto contratto anche altri artisti.

Prese il taxi.

Era mancato solo pochi giorni da Roma ed era felice di ritrovare quella città così viva, così gioiosa e sonnolenta, dove tutto si fa, ma con allegria, eppure a molti pare che nessuno faccia niente.

Quella città da molti invidiata per quel modo di vivere; forse invidiata perché non riescono ad emularla, ma per emularla ci vuole ben altro che la gente. . . Ci vuole il sole, ci vuole la tranquillità di fare le cose, ci vuole la grandezza di chi ha già conquistato il mondo: ecco perché nessuno riesce a vivere come vivono i romani.

Arrivò a casa. Sistemò la valigia sul tavolo e poi gridò quattro o cinque parole, sapendo che non avrebbe avuto alcuna risposta.

“ Oh, oh, . . . bentornato signor Astardi. Come è andata a Formia? Si è divertito? Si è trovato bene? “ , disse, facendo la voce femminile.

“ Sapessi. Sapessi che palla, ma comunque abbiamo guadagnato dei bei soldi.” , rispose a se stesso.

“ Soldi! Soldi! Denaro! Oh, allora stiamo proprio bene. C'è da pagare il condominio, abbiamo tre o quattro rate arretrate; poi c'è la bolletta della luce... e quella bisogna pagarla comunque, il telefono, il gas. Visto che ora abbiamo i soldi che ne diresti di comprare una cucina nuova, non ti sembra che questa faccia schifo?”

“ Già, si dovrebbe. Ma non dobbiamo pagare anche un paio di vestiti che abbiamo preso alla boutique "Paris" dalla signorina Micol?”

“La signorina Micol ti vuole bene, non ti dirà nulla” , disse, ridendo a crepapelle.

Era il 23 dicembre del 1990, fra pochi giorni sarebbe stato Natale, fra pochi giorni sarebbe arrivato l'ultimo giorno dell'anno.

Non sapeva dove andare.

Sulla neve, in qualche posto rinomato, affollato di gente bene, costava troppo: non poteva permetterselo.

A casa di sua sorella gli sarebbe sembrato di essere il fratello povero che si deve circondare di nipotini per avere un po' di calore umano.

A casa del suo agente Salimbeni?

Neanche a parlarne.

Allora, dove?

Prima di prendere qualsiasi decisione e sparire dalla circolazione per un po' di tempo, doveva almeno informarsi se Salimbeni avesse rimediato qualche altro impiego.

Gli telefonò.

Salimbeni chiese come era andata a Formia, e gli disse che c'era al momento solo quella proposta della televisione privata: gli ricordò che dovevano rispondere nei primi dieci giorni di Gennaio.

La giornata stava volgendo al termine: erano quasi le sette di sera. Astardi decise di uscire con la sua Renault4, di andare al solito bar al Pantheon o a piazza Navona.

Avrebbe tirato sul tardi, stando seduto su quelle sedie a vedere la gente are.

Prima di uscire dal palazzo s'accorse che nella cassetta della posta c'era un bel po' di corrispondenza.

Che si fossero improvvisamente ricordati di lui?

C'erano delle lettere ed alcune cartoline, alcune buste con dépliant per l'acquisto di oggetti per corrispondenza.

Una cartolina gliela mandava Irene Mussi con l’augurio di un buon Natale e felice anno nuovo, un’altra Pamela con un simile messaggio.

Su una di quelle lettere il mittente era un certo Stefano Deato.

“ Stefano Deato! E. . . chi è? “ , si chiese fra sé e sé.

Poi, facendo scorrere il suo pensiero sulle vie del ricordo, riuscì a capire chi fosse quel Deato. Aveva aiutato anche lui a farsi strada nel mondo dell'arte. Era un essere insignificante, quando Giulia, glielo presentò.

Giulia era fidanzata con Deato e faceva la ballerina in un suo spettacolo. Gli aveva detto che questo Deato era un bravo scrittore, che aveva scritto delle commedie, che aveva bisogno di essere aiutato. E lui lo aiutò, forse per fare un piacere a Giulia, forse per un suo tornaconto, o forse perché la commedia che quel Deato aveva scritto era di ottima fattura.

Giovanni portò in scena la commedia di Deato, e da quel giorno il giovane commediografo non ebbe più bisogno di lui.

Non si vedevano ormai da anni. Giovanni non riusciva a trovare una spiegazione per quella improvvisa lettera.

Aprì la busta e lesse. Era un invito. Deado voleva che lui asse quei pochi giorni di festa con sua moglie Giulia e sua figlia Angelica.

Non continuò a leggere. Si sentì soddisfatto di quelle poche righe. Qualcuno s'era ricordato di lui. Uno dei tanti che aveva aiutato s'era ricordato di quel bene che aveva ricevuto, era riconoscente ed ora lo invitava a casa sua. Si sentì bene per questa attenzione. Avrebbe accettato l’invito.

Si fermò al solito bar, al Pantheon. Prese un caffè.

Stava per uscire, quando fu attratto dalla locandina degli spettacoli.

Al Sistina "Una domenica in casa con l'amante", commedia con Gino Cesa. Lesse.

Cesa era amico suo. Avevano iniziato insieme la grande avventura nello spettacolo. Avevano fatto la fame nei primi tempi. Avevano diviso la stessa camera della misera pensione a Porta Nuova, a Torino. Era un suo grande amico; certo sarebbe stata una scortesia non andare a trovarlo e non congratularsi con lui.

Giovanni arrivò al teatro che mancava poco per la fine del primo atto.

Quella era una commedia musicale o "Musical"; detto così è più di grande effetto.

Hai visto lo spettacolo?

Sì, certo. Bello. E' una commedia musicale.

Meglio se. . .

Hai visto lo spettacolo?

Sì, certo. E' un "musical"

Gli addetti lo riconobbero e lo fecero are; gli indicarono la strada per arrivare ai camerini degli attori.

Cesa, quando lo vide , fu contento. Lo abbracciò. Lo fece sedere. Gli chiese come andavano le cose.

Cesa sapeva che per Giovanni non c'erano molte occasioni di lavoro. Lui avrebbe anche potuto aiutarlo, ma gli sarebbe costato molto; già era tanto che riusciva tenersi in piedi lui, figurarsi se poteva pensare al suo amico.

L'incontro fu patetico e nostalgico. Giovanni gli ricordò i vecchi tempi, gli ricordò di quella commedia che fecero insieme.

“E poi, te la ricordi Antonella, quella con un bel paio di tette. Eh, che ricordi!”, disse malinconicamente.

“Già, Antonella. Anche lei non è sfuggita alla tua rete. Neanche quella grande attrice brasiliana. Non ti scappava nessuna, eri il più grande, il più Casanova di tutti. Eh, che tempi!” , gli fece eco Cesa.

Lo vedeva tranquillo, sereno il suo amico Cesa; le cose gli dovevano andare proprio bene.

Gli scappò da ridere nel pensare ad un episodio di tanti anni prima.

Lavoravano nello stesso sceneggiato televisivo. Lui era il protagonista, mentre Cesa aveva un ruolo di secondo piano, ma già caratterizzato.

...

“ Hai sentito, hai sentito per caso anche tu questa voce?” , gli aveva gridato Cesa, mentre Astardi si preparava davanti allo specchio del suo camerino per il primo atto di una commedia.

“ Uhm, che voce?” , rispose , mentendo, perché già aveva saputo.

“ Ma come, andavamo così bene. Mi hanno ucciso. Un solo colpo di pistola al cuore; neanche il tempo di andare all'ospedale, di tentare un intervento chirurgico per salvarmi la vita” , riprese Cesa.

“ Ti hanno ucciso, ma che cosa stai dicendo?” , chiese Astardi, cercando di non drammatizzare la cosa.

“ Lascio. Ho chiuso. Sono morto. Gli sceneggiatori hanno detto che devo morire, cioè il mio personaggio deve morire, e quindi muoio anche io. Ma io che faccio?

“ E non te la prendere, dai! Era solo un ruolo secondario. Troverai certamente da lavorare in qualche altro telefilm.” lo rincuorò.

“ Un corno! Io li ammazzo a quei due. Sara e Daniele: lesbica e dongiovanni.”

“ Non fare così. Quelli sono due autori con le palle. Se non ci fossero questi, chi cazzo metterebbe una parola, una conversazione sulle tue labbra”.

“ Uhm, è vero. Ma tu non puoi fare niente per me. Non puoi convincerli che . . . merito di vivere almeno qualche altra puntata?”

“ Ne abbiamo parlato. A che servirebbe. E dai, rassegnati. In fondo ti è anche andata bene. Cerca solo di non creare casini, e accetta la cosa così come è. Se in

giro si sparge la voce che sei un piantagrane, voglio proprio vedere chi cazzo ti darà una parte”, lo ammonì Astardi.

...

“ Fra tre minuti in scena”, si sentì distintamente.

“ Oh, come a il tempo. Neanche un momento per dire quattro parole ad un amico, che. . . Ah, ti raccomando. Non andare via. Aspettami, aspettami che poi andiamo tutti a cena”, lo salutò Cesa, mettendogli una mano sulla spalla.

“ Sì, certo. Ti aspetto”.

Aveva le lacrime agli occhi nel vedere il suo amico che si preparava ad entrare in scena e quasi fu morso dall'invidia per quell'incontro con le masse che per il momento era a lui negato.

Le cose della vita cambiano, cambiano sempre. Allora, tanti anni fa era stato lui a lasciare Cesa lì in quel camerino vuoto e desolato con la sua disperazione, con quella sua faccia cerea, consapevole che per un po' di tempo non avrebbe trovato lavoro, ora. . .

Avrebbe voluto aspettare fino alla fine dello spettacolo. Magari sarebbero andati insieme a mangiare qualcosa, magari avrebbe conosciuto qualcuno.

No, lui lo sapeva. Era troppo orgoglioso. Aveva capito. Non c'era bisogno di vedere altro. Certo che Cesa lo aveva anche divertito, ma aveva visto nei suoi occhi la pietà, la comione.

A che serviva rimanere, a che serviva andare a cena con gli altri; sarebbe stato, comunque, un estraneo.

Quando attraversò lo stretto corridoio che portava all'uscita, sentì distintamente nelle sue orecchie le grida e le risate del pubblico. Si fermò, quasi a voler cogliere qualche parola; poi uscì.

La strada era vuota e bagnata, e il freddo gli toccò le ossa della faccia. Vide un barbone, disteso sotto ad un portone chiuso, che cercava di coprirsi con del cartone e dei giornali. Avrebbe voluto dargli il proprio cappotto, la sua camicia, i suoi pantaloni. Lui si sentiva nudo nell'anima. Anche lui era un barbone della vita, un barbone senza ormai alcuna meta.

“ A che serve.” , borbottò, prima di salire in macchina.

Rimase ancora un po' di tempo a guardarsi intorno, a cercare di capire meglio la sua condizione; poi girò la chiavetta d’accensione e si allontanò da quel luogo di svago e di divertimento.

CAPITOLO 9

Verso le undici del mattino, Astardi era già nei pressi della città di Terni.

Prima di entrare in città, si fermò ad un distributore di benzina.

Mentre faceva il pieno, il suo sguardo si posò sul cartello stradale che indicava la direzione da prendere per arrivare alle cascate delle Marmore. Era indeciso se andare o no a vedere questa meraviglia della natura. Già tante volte nel ato era stato da quelle parti, ma non era mai riuscito a vedere le cascate.

Poi pensò che avrebbe perso molto tempo, e allora proseguì in direzione di Spoleto.

Si fermò nei pressi di un ristorante al valico di Somma.

Ebbe un po' di difficoltà a parcheggiare perché nella piazzola c'erano due TIR fermi, e questo gli fece pensare che quel posto dovesse funzionare anche da albergo. La sala del ristorante era piccola: c'erano circa sei o sette tavoli.

Si mise a sedere e si augurò che in quel trambusto i camerieri si accorgessero di lui e che lo spicciassero presto.

La cameriera, giovane e bionda, si avvicinò con in mano un blocchetto ed una penna.

Ordinò quanto voleva ed osservò con particolare attenzione il movimento sinuoso della donna che si allontanava; pensò che dato il tempo era un po' azzardato vestire con vestiti così leggeri.

Notò anche che c'era un vai e vieni dai piani superiori di cameriere ed avventori. Pensò che fero all'amore.

La giovane cameriera bionda, un po' più tardi, ritornò e mise il piatto sul tavolo, piegandosi in modo da far vedere il seno.

Giovanni fece finta di non avvedersene. Anche quando la donna si strofinò con la coscia vicino alla sua non disse nulla. Mangiò bene e gustò il vino locale.

Quando la cameriera mise il foglietto del conto sul tavolo, non si meravigliò di trovare anche un altro messaggio: “Che ne diresti di are una serata con me? Smonto dal lavoro alle quattro. Mi aspetti?”

Sorrise.

Se non avesse avuto la necessità di raggiungere in breve tempo Perugia, si sarebbe pure fermato e avrebbe fatto conoscenza con quella bella figliola, ma era meglio lasciare perdere.

Nonostante non potesse permettersi laute mance, aggiunse diecimila lire sul conto.

“ Sarà per un'altra volta” , disse, alzandosi.

La cameriera non disse nulla; lo accompagnò con lo sguardo fino a quando non uscì dal locale e pensò che era stato davvero uno stupido a non aver approfittato delle sue grazie.

Giovanni arrivò a Perugia alle tre del pomeriggio. Girovagò un po' per la città, deciso ad aspettare l'apertura dei negozi: voleva comprare dei regali ai suoi amici.

Spese abbastanza in regali. Non voleva far capire di essere male in arnese: era un problema d’immagine.

Si presentò a casa di Deato nel tardi pomeriggio.

Giulia Marchi gli venne incontro: era bella ed affascinante.

Una donna elegante con quel pantalone a gonna nero e con quel maglione dolce vita blu. Gli diede il benvenuto. Lo baciò sulle guance e gli presentò Angelica.

La ragazzina aveva sedici anni. Aveva degli occhi splendidi ed un viso accattivante con dei seni abbastanza sviluppati per la sua età.

Angelica era una sua fan accanita. Sapeva tutto sulla sua vita, sui suoi amori, sui suoi film.

Ignorava solo che sua madre era stata per un breve periodo la sua amante.

Giulia lo accompagnò nella stanza degli ospiti; poi lo lasciò solo.

Astardi, dopo aver sistemato quelle poche cose che aveva messo nella valigia, decise di fare una doccia.

Quando il getto forte dell'acqua calda lo colpì per tutto il corpo, pensò che si sarebbe trovato bene lì. Non si sentiva affatto un estraneo.

E poi Angelica la sentiva sua, come se la conoscesse da chissà quanto tempo, anche se l'aveva vista solo un paio di volte all'età di quattro o cinque anni.

Quando uscì con l'accappatoio addosso si deliziò a stare seduto a guardare la televisione.

Le notizie erano sempre le stesse: il delitto di Via Giulia e l'imminente guerra del Golfo. Le diplomazie occidentali erano alla vana ricerca di una soluzione pacifica del conflitto. Ormai c'era poco da fare.

"Scudo nel deserto". Questa era la sigla che gli Americani avevano dato all'operazione nel Golfo Persico.

Giovanni pensò alla mania degli Americani per la coniazione di questi termini altisonanti e ad effetto, quasi come se quella guerra dovesse essere uno spettacolare film della Metro Golden Mayer.

E poi anche il nome del comandante delle forze alleate doveva essere adeguato al caso.

Non potevano certo affidare un’operazione di così alta portata ad un uomo con nome. . . Che so? . . . Smith o Taylor o Benirdelli, con tutto il rispetto.

No. Anche il nome del comandante delle forze alleate doveva avere un nome di presa sulle masse, sulla storia, sul nemico. Doveva essere un nome fragoroso da far paura solo a pronunciarlo.

E chi, se non l'Orso del Deserto, il possente e strutturato generale "Schwarzkopf”.

Per non parlare poi quando lo si vedeva in televisione con tutte quelle medaglie appuntate sulla divisa, e con quei modi di orso buono e mansueto, pronto a rispondere alle domande dei giornalisti.

Verso le sette di sera arrivò anche Stefano Deato.

L'uomo lo salutò calorosamente, dicendo che lo vedeva abbastanza in forma e che era dispiaciuto per quello che gli era capitato. Avevano anche pensato di venirlo a trovare a Roma, ma gli impegni e tante altre cose avevano fatto slittare il viaggio a data da destinarsi.

La conversazione continuò fino a tardi davanti alla fiamma viva del camino.

Stefano gli parlò del suo lavoro. Gli disse che era un bel po' che non scriveva. Ultimamente stava mettendo mano ad una nuova commedia. Si augurò che ne venisse fuori qualcosa di buono.

Giulia invece era un po' preoccupata che la guerra del Golfo potesse in una maniera o nell'altra sconvolgerle la vita.

“ Penso che la guerra scoppierà. Ormai sia Bush che Saddam sono in un vicolo cieco. Ma non ti preoccupare, l'Iraq è abbastanza lontano. Pensa che la vedremo in diretta TV. La storia erà sotto i nostri occhi senza toccarci.” , disse Astardi con un sorriso.

Nel giorno di Natale al mattino presto Angelica convinse la madre a far sì che Giovanni l'accompagnasse in giro per la città.

La ragazzina era tutta emozionata ed elettrizzata nell’averlo accanto a sé. Lo mostrò alle sue migliori amiche con orgoglio e poi si fece portare in centro, eggiando sotto il suo braccio per le vie storiche della città.

Quella sera Giulia diede una piccola festa con gli amici suoi più cari. La cena fu abbondante e speciale. C'era anche la musica dello stereo che allietava la serata.

Giovanni ballò prima con Angelica e poi con Giulia. Quando l'ebbe stretta tra le sue braccia Giovanni non poté far a meno di stringerla forte.

Giulia avvertì che il suo amico la desiderasse tanto. Vide che si stava eccitando.

Allora si distaccò da lui.

“ Eh, il lupo perde il pelo, non il vizio” , lo redarguì , offrendogli un bicchiere di spumante.

Giovanni non replicò, si limitò a un blando sorriso.

Verso le due di notte tutti andarono a dormire. Angelica, invece, era ancora sveglia. Sentiva tutti i movimenti di Astardi che stava nella camera accanto.

Aveva il cuore che le pulsava forte. Era consapevole di quello che stava per fare.

Si fece coraggio.

Aprì la porta ed entrò.

Quando la vide entrare nella sua camera, Giovanni pensò che si sentisse poco bene e che avesse bisogno d'aiuto. Non fece neanche il tempo a chiedere cosa volesse, che se la trovò accanto nel letto.

Angelica incominciò a strofinarsi con le cosce vicino a lui.

Giovanni non poteva, né voleva fare all'amore con lei.

La sgridò malamente.

Ma Angelica invece di ritrarsi, di fermarsi, lo abbracciò.

Astardi reagì, dandole uno schiaffo, e cacciandola dal letto.

Accese la luce: non voleva che il buio fosse complice di lei.

Ora erano entrambi in piedi.

Angelica s'accorse che, nonostante venisse respinta, Giovanni era eccitato.

Non si diede per vinta, non accettava quel rifiuto.

Era disposta a tutto pur di raggiungere il suo scopo.

Si strappò la vestaglia, mostrando il seno.

“ Ah, è così? E' così? Non vuoi farlo con me? Adesso grido. Dirò che mi volevi violentare. Voglio vedere poi. . . come te la cavi?” , lo minacciò.

Giovanni non sapeva che pesci prendere: la situazione era delicata.

Chi gli avrebbe creduto?

La ragazza aveva ragione: avrebbe rischiato molto.

Allora tentò di farla ragionare. La pregò di non insistere, le disse che lui non valeva niente come amante, che sarebbe stato meglio se avesse scelto uno più giovane.

Angelica fece finta di ascoltarlo: sapeva di averlo in pugno.

Lo accompagnò lei stessa a sedere sulla sponda del letto, fingendo di capire le sue ragioni: non l’avrebbe importunato.

Quando gli fu seduta accanto, riprovò di nuovo ad abbracciarlo.

Giovanni si abbandonò ai sensi e si lasciò guidare dalla giovane. Fece quello che Angelica voleva, quasi che fosse ivo in quell'atto, quasi volesse estraniarsi.

Sentì però il piacere farsi grande quando distrusse la barriera, che si frapponeva tra la giovane e la donna.

Quando tutto finì , Giovanni sentì il peso di quell'azione.

Non avrebbe mai dovuto farlo.

Si sentì male. Pregò Dio che non l'avesse messa incinta. Non aveva usato alcuna precauzione.

Andò nel bagno.

Lo stomaco gli si stava rivoltando dentro. Incominciò a rovesciare del cibo e qualcos'altro.

Angelica si avvicinò e cercò di aiutarlo. Lo pregò di non far rumore, altrimenti i suoi avrebbero potuto sentire.

“ Non ti preoccupare per me. Sono contenta. Sono soddisfatta. E' stato bello. Uhm, molto bello. Sono sicura che la prossima volta sarà ancora più eccitante” , disse , sicura di sé.

Giovanni non le rispose. Aveva le mani nei capelli per quello che aveva fatto; non si perdonava di aver agito d'istinto.

Angelica gli si accostò. Rimase un po' ferma a guardare quel suo primo uomo;

poi lasciò la camera, scivolando silenziosamente via e lasciandolo con i suoi dubbi e rimorsi.

Astardi non dormì per tutta la notte. Si alzava e tornava di nuovo a distendersi sul letto, fumando in continuazione. Aveva anche pensato di vestirsi ed andare fuori a prendere un po' d'aria fresca o magari prendere la macchina ed allontanarsi così senza dire niente, ma poi. . .

Preferì aspettare il mattino: avrebbe trovato una scusa per allontanarsi, per andare via.

Non voleva avere casini, ne aveva fin troppi.

Giulia aveva saputo, aveva capito al solo guardare negli occhi sua figlia.

Non aveva gridato, non aveva malmenato Angelica, non aveva pianto.

Suo marito non c'era; era uscito di mattina presto, e lei rimaneva da sola ad affrontare Giovanni.

Quando se lo trovò davanti, lo assalì a muso duro.

“ Che hai fatto, stronzo? , . . . sei contento, ora? “

Astardi fu sorpreso.

Balbettò qualche parola.

Aveva il viso stravolto.

“ Ma lo sai cosa hai combinato? Si o no? Lo sai, lo sai. E' ancora una bambina.

“ Ti prego, lasciami spiegare. Lo so, lo so che ho sbagliato. Non è che voglia scaricare le mie colpe, ma questa volta, devi credermi, non era mia intenzione. . . Va bene. Vado via. Si, . . . perdonami.

Giulia incominciò a piangere. Avrebbe voluto dire tante cose, avrebbe voluto dirgli la verità, avrebbe voluto parlare di quel giorno di tanti anni fa, quando fecero all'amore. Avrebbe voluto fargli vedere di come Angelica le assomigliasse negli occhi, nelle labbra. Invece non faceva altro che ripetere: è una bambina, . . . è solo una bambina.

Astardi lasciò la casa in fretta. Sapeva di averla fatta grossa. Non aveva capito quello che la donna intendesse dire. Pensava solo alle conseguenze penali del suo gesto. Quelli, se volevano, potevano denunciarlo ai carabinieri: stupro e violenza a danno di minorenne. L'avrebbero spedito in galera per un bel po'. Rabbrividì al sol pensiero di quello che gli sarebbe potuto accadere.

Stefano Deato, quando ritornò a casa, capì che era successo qualcosa di grave, vedendo le sue due donne, mute, sedute sulla panca e con gli occhi pieni di

lacrime.

Chiese.

Domandò.

Giulia non voleva rispondergli, poi, spinta dalla rabbia, esplose come un uragano.

“ Angelica è stata violentata. Questa notte lui è entrato in camera sua e le ha fatto la festa.”

Deato non ci vide più per la rabbia. Si sentì male. Incominciò ad andare in escandescenza. Ruppe il bicchiere sul tavolo. Non chiese neanche come fossero andate le cose. Per lui il colpevole era solo Giovanni.

Sarebbe andato dai carabinieri, dalla polizia, dai magistrati. Lo avrebbe denunciato. Lo voleva vedere in galera.

“ Si, lo denuncio quel bastardo.

“ Ma dove cazzo vai? Dove vai? “ , gridò Giulia.

L'uomo si fermò impietrito sull'uscio della porta. Non sapeva dove andare, non sapeva cosa fare, non sapeva niente di niente.

“ Ma non capisci? Che cazzo vai a fare alla polizia? Pagherà. Certo che pagherà quel porco. Ma ti rendi conto? Ti rendi conto? “

“Hai ragione. La galera è poca cosa per lui. Ho capito cosa devo fare. Ora ho capito.” , disse, salendo le scale.

Stefano entrò nella camera da letto, prese la pistola che aveva ben riposta nel cassetto.

Giulia tentò di fermarlo. Tentò di farlo ragionare. Tentò di calmarlo, ma non ci fu nulla da fare. L'uomo era così preso dall’odio che , se lei non gli avesse lasciato la mano, avrebbe potuto anche spararla.

“ No, . . . questo no. Perché? “ , implorò Giulia, piangendo, mentre Deato saliva in macchina, deciso ad uccidere Giovanni.

CAPITOLO 10

Roberta si presentò con un completo rigato, giacca e gonna, e con una borsa in mano nella sala riunione verso le dieci del mattino.

Erano presenti Argot e il delegato della Net Globe Ass con i rispettivi avvocati, e

una segretaria.

Argot, prima di mettersi a sedere, le comunicò l’ultima offerta che la “Net Globe Ass “aveva fatto.

“ Penso che su questa base, si può trattare. Ma noi chiederemo di più.”, disse Roberta, sicura di sé.

Lei aveva davvero rinunciato a fare il film. Per raccogliere la somma da dare al proprietario della radio Mnemosin, aveva ipotecato la sua villa, riuscendo a prendere circa settanta milioni.

Ma non bastavano e, dato che non avrebbe preso soldi da Argot, questi aveva chiesto di comprare il trenta per cento della quota della radio. E così erano loro due i proprietari della radio Mnemosin, con Roberta quale maggiore azionista.

I primi tempi erano stati duri e pesanti, ma la caparbietà, la volontà, la forza di farcela, avevano dato i suoi frutti. Il segnale di diffusione era stato potenziato al massimo e la zona di ricezione era estesa a quasi tutta la regione. Con questo potenziale, con la professionalità di King e con la simpatia di Edwige la radio Mnemosin crebbe in modo esponenziale, e non c’era, davvero, bisogno di andare nelle varie botteghe del paese a chiedere di stipulare un contratto pubblicitario.

Tanto fu il successo che riuscirono ad avere tra i propri sponsor aziende d’importanza nazionale.

Un fiume di soldi investì la radio Mnemosin, conseguentemente aumentò l’impegno e si dovette procedere all’assunzione di altre quattro persone: due giovanotti e due signorine.

Considerato che la radio Mnemosin era proprietaria di due bande di frequenza, la Net Globe Ass aveva chiesto l’affitto per dieci anni di una delle due frequenze per diffondere il proprio segnale anche in quella zona, sulla base di cinquanta milioni annui.

Il delegato della Net Globe Ass salutò in modo gentile Roberta e le mostrò il contratto per la firma.

La donna lo visionò e rifiutò, gentilmente, la penna che il delegato della Net le offriva.

Questi, che aveva curato ogni dettaglio e che era giunto ad un accordo di massima con Roberta, non si riusciva a spiegare il gesto della donna ed incominciò a temere delle complicazioni.

Farfugliò qualcosa, ma Roberta, guardando in faccia l’uomo, gli fece notare che cinquecento milioni erano una cifra ridicola.

“ Fino a poco tempo fa, abbiamo negoziato su una cifra leggermente inferiore e pare che anche lei fosse d’accordo. E poi, non direi che la somma di cinquecento milioni sia ridicola”, disse il delegato della Net, che arrossì e fece una smorfia di disappunto per poi riprendersi brillantemente.

“ Bene, signori. Se è questo quanto avete da dirmi, vi prego di scusarmi”, concluse Roberta, che fece il gesto di alzarsi, mentre Argot la seguiva senza parole per la grande padronanza della scena.

“ Un momento. La prego, si accomodi. Un solo momento. Ci può dire su quale base vuole trattare?”, chiese il delegato della Net.

“ Un miliardo.”, rispose Roberta, dopo aver fatto trascorrere un bel po’ di secondi senza parlare.

“ Un miliardo! Ridicolo. Lei mi sta dicendo che non vuole trattare. Lei non vuole affittare la frequenza o forse avrà in questi giorni ricevuto qualche offerta di qualche altro network”, disse il delegato, che aveva perso un po’ della sua sicurezza e pazienza negoziale.

“ Aspetterò quindici giorni per ricevere una vostra risposta; poi mi rivolgerò altrove.”, disse Roberta.

Si alzò. Salutò e andò via con Argot.

Quando si trovarono soli in macchina, Argot le chiese cosa le avesse fatto cambiare idea, considerato che prima di quella riunione lei era d’accordo su tutto: sul prezzo e sulla durata.

Roberta gli rispose che era venuta a conoscenza di chi fosse il maggior azionista della Net Globe Ass .

“ E chi è?”, chiese , curioso, Argot.

“ Non riesci proprio ad immaginarlo, vero? E’ Fenrò. Natalia Fenrò è il maggior azionista della Globe. Lei non può darmi solo quei quattro soldi. Lei mi deve dare di più”, rispose Roberta, un po’ stizzosa.

“ Perché? Pensi che riuscirai a farle scucire un miliardo?”

“ Un miliardo, forse no. Ma più di cinquecento milioni di sicuro. Ti chiedi per quale motivo mi ostino tanto? Semplice, mio caro. Questa è la prima volta in tutta la mia vita che sono io a dover imporre qualcosa agli altri. Io dico che voglio. Io comando. E credimi, è una sensazione bellissima.”

Il semaforo era rosso. L’extracomunitario ne approfittò per venderle un pacco di deodoranti, avvolti in un vecchio giornale.

“ Cazzo!” disse all’improvviso Roberta quando lesse casualmente su quel vecchio giornale cosa fosse capitato ad Astardi.

Doveva chiamarlo subito, doveva mettersi in contatto con lui.

Non riuscì a rintracciarlo al telefono.

Chiamò Salimbeni che gli spiegò che in realtà era stata tutta una messinscena e che Astardi l'aveva fatto per attirare l’attenzione su di sé.

Roberta pensò che avrebbe dovuto andare a trovare il suo ex, perché pensava che da una messinscena per un suicidio ad un suicidio vero il o era breve.

L'ultimo dell'anno, Giovanni lo ò a casa di Vilvood.

Non fu un buon fine d'anno perché non riusciva a togliersi dalla mente quello che era successo a Perugia.

Nonostante Pamela fe di tutto per fargli dimenticare quella storia, non riusciva a perdonarsi quella leggerezza.

Nel frattempo vi era grande fermento tra le forze alleate, dislocate nel Golfo Persico.

Gli americani avevano trovato anche il nome all'imminente azione di guerra.

Lo "Scudo nel Deserto" stava lentamente lasciando il posto alla "Tempesta nel Deserto".

Come il mondo era in attesa, anche lui stava in ansia: mancavano solo quindici giorni alla scadenza dell'ultimatum, mentre si andava verso l'archiviazione del giallo di via Giulia.

Di tanto in tanto Giovanni tornava a casa per vedere se ci fossero novità. Aveva paura di vedere da un momento all'altro i carabinieri. Aveva paura del mandato di cattura. Non sapeva di non essere stato denunciato. Temeva comunque che Stefano potesse commettere qualche sciocchezza, che potesse sparargli.

Deato sapeva dove trovarlo. Aveva aspettato per così tanto tempo fuori della sua abitazione.

Ora lo vedeva. Puntò la canna della pistola. Doveva solo premere il grilletto e l'avrebbe fatto secco.

I colpi di pistola non riuscirono a centrarlo, ma Astardi ebbe ugualmente paura.

Rimase fermo, immobile, invece di fuggire.

Deato si avvicinò. Aveva ancora altri colpi da sparare.

Giovanni vide la canna della pistola puntata alla sua tempia. Sarebbe bastato un attimo ed . . . avrebbe visto l'inferno.

Deato invece non sparava, non sparava. Stava ritrovando la ragione. Non voleva trasformarsi in un assassino.

“ Sarebbe bello farla finita subito, vero? No, non sarà così. Tu devi sapere, devi sapere. . . che hai fatto all'amore con tua figlia.”

“ Mia figlia? Che stai dicendo? “ , gridò, rendendosi conto dell'effettiva gravità di quell'affermazione.

“ Sì, te lo volevamo dire. Ti avevamo invitato apposta. Io e Giulia non potevamo portarci dentro questo segreto. Tanto tu non saresti comunque riuscito a portarcela via. Tu sei il vero padre di Angelica.”

Deato lo colpì con la canna al volto e al naso. Giovanni perse del sangue. Rimaneva lì a subire quei colpi. Non diceva niente. Sapeva che doveva pagare.

Stefano sembrò soddisfatto. Gettò a terra la sua pistola e si allontanò.

Giovanni prese la pistola da terra e se la puntò alla tempia. Pensò che era la soluzione giusta a quella vita così. . . disperata.

Ma anche allora non ebbe il coraggio di farlo. Anche allora si mise a piangere. Tornò da Pamela. La donna, quando lo vide in quello stato, si spaventò da morire e si stava affrettando a portarlo all'ospedale.

“ No, niente ospedale” , disse.

Vilvood non sapeva che pesci pigliare. Era indecisa, insicura.

Astardi le chiese di prendere dall’armadietto l’alcool: si sarebbe curato con quello.

Pamela lo pregò di rimanere per alcuni giorni a casa sua.

“ E tu come farai? .” , le chiese.

“ Lascia perdere. Pensiamo a te!” rispose Vilvood decisa.

Giovanni accettò di lavorare in quella televisione privata: l’Aika.

Il direttore artistico lo accolse con un sorriso sulle labbra e gli prospettò un duraturo lavoro. Credeva fermamente in lui e nel suo carisma di grande attore del ato. Era sempre un vanto per una televisione di emissione locale, con un pubblico televisivo non vasto, fregiarsi di una presenza di così grande fascino.

Il proprietario dell'emittente aveva del resto mania di grandezza e soldi da spendere.

Giovanni accettò in ogni dettaglio quello che gli era richiesto di fare. Del resto sapeva di non avere grande voce in capitolo e che non poteva mettere tutta la sua esperienza di attore navigato in quella piccola emittente.

Le prime puntate della trasmissione sexy, circa trenta minuti ogni due sere, andarono bene. Gli spettatori si divertivano, e sempre più numerosi seguivano il programma, anche perché deliziati dalle sue battute sarcastiche sulla partecipazione dell'Italia alla missione in Medio Oriente.

Astardi iniziò a credere in quella trasmissione, che prima aveva un po' snobbato. Diede dei consigli per fare dei tagli e per mandare via questa o quella donna. Era pericoloso fare di quelle cose.

Ci furono dei contrasti con il regista, con il direttore artistico.

La cosa sembrò appianarsi anche perché si riuscì a trovare un punto di convergenza, ma alla fine, adirato, Giovanni mandò tutti alla malora e lasciò perdere quel lavoro.

Ora era di nuovo disoccupato e con l'aggravante di dover pagare una forte penale alla televisione "Aika".

Vilvood lo aiutò. Parlò con il direttore artistico, che era un suo abituale cliente, e il tutto fu messo a tacere.

Giovanni non venne mai a sapere dell'interessamento di Pamela sulla faccenda della sua penale con la televisione, altrimenti. . . certamente l'avrebbe fatta finita.

CAPITOLO 11

Quella mattina, quando si affacciò alla finestra, Giovanni sentì solo il rumore degli aerei che volavano alti nel cielo. La guerra era imminente. Era scaduto l’ultimatum della Nato.

Non c'erano bombe, non c'erano soldati, non c'era molta gente per la strada.

Il telefonò squillò all'improvviso così forte che pensò che fosse il segnale per il via alle operazioni militari.

“ Pronto.” , disse.

Nessuno gli rispose.

ò un po' di tempo ed era questa volta il camlo a suonare.

Non guardò attraverso lo spioncino della porta, aprì e vide Angelica Deato.

La giovane era stravolta. Senza dire una parola si gettò tra le sue braccia piangendo.

Era incinta.

Lei voleva tenere il bambino. Voleva conservare il frutto del loro amore.

Era stata un po' in giro per Roma, . . . poi aveva pensato di venire a casa sua.

Lui non riusciva a capire più nulla. Era così preso da tutti quegli avvenimenti, che non ragionava più.

Sua figlia era incinta e allora. . .

Chi era il padre?

Lui?

No, impossibile.

Doveva stare calmo. Doveva cercare di convincerla ad abortire.

“ Voglio questo figlio”, ripeteva Angelica, che cercò protezione, abbracciandolo.

Giovanni tentò di chiamare al telefono Giulia, ma Angelica glielo impedì. Gli fece capire chiaro che avrebbe portato a termine la gravidanza, anche se lui non fosse stato d'accordo.

“ Ma tu, non senti niente. Non capisci che nel mio corpo sta nascendo una nuova vita. Nel mio corpo c'è tuo figlio, . . . tuo figlio. Ah, . . . che faccia! Sembri ad un funerale. Ti dispiace, vero? “ , gridò Angelica che si sentiva ormai sola.

E senza che Giovanni potesse fermarla, Angelica lasciò la casa.

Astardi prese le chiavi della macchina ed incominciò a cercarla per tutte le strade di Roma.

Le ore scivolavano via senza che riuscisse a rintracciarla.

Andò alla stazione. Pregò Dio che la sua bambina non fosse caduta vittima di quei drogati e nullafacenti, che affollano i dintorni della stazione Termini. Non la trovò. Neanche al Pantheon, neanche a piazza Venezia.

Tornò a casa deluso. Forse faceva bene a chiamare la polizia.

Certo loro l'avrebbero trovata.

“ Macché!” , pensò.

Chiamò Giulia. Le parlò di Angelica e di quello che era successo. Giulia gli disse che sarebbe partita subito per Roma.

Arrivò poco dopo la mezzanotte.

Alle tre di notte l'operazione denominata "Desert Storm" era iniziata.

Le testate di radio giornali, di televisioni private e pubbliche annunciavano in pompa magna che gli aerei delle forze alleate stavano bombardando senza un attimo di tregua la capitale Bagdad.

E questa era una mossa strategica di grande importanza, perché nessuno avrebbe immaginato che gli alleati arrivassero a portare la guerra nel cuore dell'Iraq.

“ Dobbiamo trovare Angelica, prima che commetta qualche sciocchezza.” , disse Giulia, appena lo vide.

Giovanni la fece sedere. A lui premeva sapere la verità. Premeva sapere se fosse davvero il padre di Angelica.

Giulia disse la verità.

Aveva mentito solo per vendetta, dopo aver saputo quello che aveva fatto ad Angelica.

Voleva punirlo per la sua vita balorda, per la sua mancanza di rispetto dell’amicizia, e poi voleva punire se stessa per non essere stata capace di tenerlo d’occhio.

Giovanni la guardò perplesso. Non credeva alle sue parole.

“Ma Stefano mi ha detto, invece... “, borbottò.

Giulia spiegò di aver confidato a Stefano che Angelica era sua figlia solo perché aveva voluto dare una paternità certa alla creatura che aveva in grembo. E poi Stefano aveva accettato la cosa nel miglior modo possibile, sapendo che il padre era Astardi e non un illustre sconosciuto.

“Non è tua figlia! No. Sta’ tranquillo!”, concluse.

Giovanni si sentì sollevato. Accettò la verità di Giulia, senza approfondire la cosa.

Anzi ora che sapeva di non essere il padre della giovane, pensava che non sarebbe stato male che suo figlio nascesse.

Iniziarono a cercarla nei vari "Pronto Soccorso" ed alla fine la trovarono in un letto d'ospedale con una gamba ingessata.

Più tardi seppero che era stata investita da un auto pirata.

“ E il bambino ? “ , chiese Giovanni.

“ Non c'è alcun bambino. E come poteva essere. Se lo è inventato... L'ho portata in clinica perché aveva di queste smanie” , riferì Giulia, accendendosi una sigaretta.

Vedendo sua madre, Angelica si sentì bene. Ora aveva un punto di riferimento.

Giulia chiese a Giovanni di procurarle una camera in un albergo nelle vicinanze dell'ospedale, ma Astardi le disse che poteva stare a casa sua, poteva dormire lì.

Giulia era indecisa, ma alla fine, date le insistenze, accettò.

Quando Giovanni lasciò l'ospedale erano le otto del mattino, mentre. . . la guerra del Golfo stava già producendo i suoi morti "statistici", e l'Italia era pronta con i suoi "Tornado" ad alzarsi in volo.

CAPITOLO 12

Tutta l'Italia era davanti alla televisione, commossa e rattristata nel vedere i volti dei piloti alleati fatti prigionieri, e di più nel vedere il volto tumefatto del pilota Cocciolone.

L'Italia forse aveva anche il suo primo morto: del maggiore Bellini non si avevano notizie.

E pensare che l'inizio della missione dei nostri "Tornado" era stato davvero un disastro.

Prima le avverse condizioni del tempo, poi il difficile rifornimento in volo.

Infine la decisione di Bellini di proseguire lo stesso la missione; e poi l'abbattimento del "Tornado".

Ci si sentiva la rabbia dentro di come era stata catastrofico questo nostro primo impegno. A nulla, penso, servivano gli incoraggiamenti degli alleati sulle nostra, certa, efficienza militare.

Tutto sapeva tanto di Corea, quando quel minuscolo dentista ci infilò con quel secco diagonale, nonostante il volo plastico e stilisticamente impeccabile del nostro valido portiere Albertosi.

Tutta la comunità internazionale ne avrà fatta di risate. . . sulla nostra potenza calcistica. Mentre gli altri piloti italiani fremevano per dimostrare la loro preparazione bellica, gli Americani ci presentavano il risultato delle loro imprese.

Il generale Schwarzkopf ci faceva vedere i filmati degli obiettivi militari iracheni colpiti.

La televisione ci mostrò anche quelle scintillanti immagini di Bagdad sotto il fuoco degli aerei alleati.

Tutti ci dicevano che il bombardamento era mirato, come un intervento chirurgico: il bisturi rimuove solo le cellule malate senza toccare la parte sana del corpo.

Questo può accadere qualche volta, non sempre.

Comunque, questa propaganda andava bene alle nostre coscienze; eravamo convinti che nessun bambino veniva colpito.

Oltre a "Desert Storm" non penso sia stato coniato qualche altro termine ad effetto per il bombardamento su Bagdad.

Si sarebbe potuto chiamare la missione "Desert Fire"; invece si aveva solo notizia di "Friend fire"; tutto questo a netto svantaggio dell'operazione cosiddetta" chirurgica".

Gli italiani aspettavano l'entrata in campo dei nostri "tornado".

Ciò traspariva dai volti dei vari conduttori televisivi che annunciavano l'entrata in azione dei nostri aerei da un momento all'altro o mentre facevano "le interviste" al comandante della nostra base militare.

Si vedevano i nostri ragazzi tesi, ma nello stesso tempo decisi; proprio come alla vigilia di un importante partita di calcio. Ci mancava solo che si dicesse che i ragazzi stavano in perfetta forma e che tutti speravano in un risultato positivo. . .

un pareggio a reti inviolate poteva ancora andare bene.

E quando questo avvenne si tirò un sospiro di sollievo nel costatare che l'obiettivo era stato raggiunto e che tutti gli aerei erano tornati a casa.

Nei giorni seguenti, solite interviste e massimo riserbo sulla. . . formazione dei piloti da mandare in campo.

Forse qualche pensiero nemico sperava che perdessimo qualche altro aereo ed invece. . .

Invece... fu come in Spagna, ai campionati mondiali di calcio dell'82.

Dopo una fase eliminatoria stanca e senza nerbo, dove tutti ci davano per spacciati davanti all'Argentina di Maradona e al Brasile di Zico e Junior, e alla fantastica Polonia di Boniek fino alla granitica Germania teutonica, si arrivò ad alzare la coppa.

Poi tutti. . . si congratularono.

“ My name is Maurizio Cocciolone, my name is Maurizio Cocciolone.”

Astardi spense la televisione. Sì sentì un po' nauseato; aveva la barba in faccia da almeno tre giorni.

“ My name is Giovanni Astardi e. . . sono uno stronzo.” , gridò.

Era di nuovo solo in casa. Giulia era tornata con sua figlia a Perugia.

L'aveva rassicurata; le aveva detto di non preoccuparsi di quel momentaneo allontanamento di Stefano. Era uno che ragionava. Non era uno stronzo come lui .

Lo capì lui stesso di quanto fosse irrazionale e malvagio. Dal momento in cui aveva saputo che Angelica non era sua figlia, l'aveva di nuovo vista nelle vesti di una donna, di una donna attraente e desiderabile.

Ora era solo, ma lo sarebbe stato ancora per poco.

Era pronto ad andare al diavolo; un essere come lui non doveva esistere, doveva fare le valigie ed andare via.

Aveva deciso di suicidarsi. Era da un po' di tempo che beveva. Anche allora era ubriaco. Non immaginava che avrebbe trovato piacere ad ingoiare quella roba.

Doveva morire bene: una morte indolore. Se fosse morto con l'energia elettrica, non avrebbe sofferto molto.

Aveva già preparato il filo e lo aveva collocato alla sedia. Era tutto pronto, doveva solo sedersi sopra. La corrente era inserita. Si mise a sedere, ma non accadde niente.

Il filo s’era staccato.

Doveva provare con il gas.

“ Sì, il gas! Il gas è la soluzione giusta; così proverò lo stesso supplizio che hanno avuto quelle centinaia di ebrei nelle camere a gas” , farfugliò.

Voleva per forza avere una morte nobile. Non si rassegnava a morire stupidamente, ma anche il gas non andava bene.

Pensò che la casa poteva esplodere, facendo morire delle persone innocenti. E questo non era giusto.

La sua morte non doveva procurarne altre.

Il veleno?

Non era da scartare. Non si vedeva, però, con lo stomaco in subbuglio. Avrebbe potuto chiedere aiuto o andare all'ospedale, dove con una lavanda gastrica si riesce sempre a farla franca.

Impiccagione?

Anche questa soluzione poteva essere giusta.

Ma non c'era una corda robusta che potesse sopportare il suo peso.

Morire di Aids sarebbe stata una buona morte. Ma bisognava aspettare per morire di questa malattia e non andava bene.

Non gli veniva nessuna idea, morire per propria mano gli doveva essere molto difficile.

Si avvicinò alla piccola libreria ed incominciò a dare uno sguardo ai titoli dei libri per vedere se c'era qualcosa che andasse al caso suo.

"Il nome della Rosa". . . No. Impegnava molto la mente.

"La steppa". Neanche.

"Come vivere felici". Questa poi!

Non c'era alcun libro che faceva al caso suo. Lui voleva morire in modo intelligente, come diceva la pubblicità; le cosiddette partenze intelligenti, (dove tutti, convinti, partono all'ora consigliata dalla pubblicità, trovandosi intrappolati in un ingorgo gigantesco, mentre gli altri che hanno fatto sempre di testa loro trovano il campo libero), e la sua era una partenza.

Tra quei libri, trovò delle cassette VHS di alcuni suoi film.

Pensò con rabbia che quel suo lavoro non poteva più essere riciclato: era già stato lautamente pagato per quelle prestazioni. Non poteva fare come fanno gli scrittori. Prima l'uscita in grande stile del loro libro, poi l'edizione economica, e poi ancora la raccolta di uno stesso genere di vari autori in un unico libro: soldi e ancora soldi.

Ma lui che cazzo poteva riciclare?

Aveva con quel suo lavoro di attore accumulato milioni e milioni; aveva comprato terreni e case in Sardegna.

Non doveva vendere le sue case a basso prezzo. E poi non doveva essere generoso. Aveva sperperato una fortuna.

Allora si sentiva forte ed invincibile. Era ben pagato. Aveva soldi e donne; era ricercato dalla società più esclusiva dell'epoca.

No. Lui non avrebbe mai pensato che un giorno avrebbe fatto quella fine, che

avrebbe dovuto elemosinare qualche parte. Era stato uno stupido a non pensare, ed ora era questo quello che si meritava.

“ Magari potessi fare il regista.” , pensò, stringendo tra le mani la custodia della cassetta VHS.

Si ricordò allora di alcune riprese fatte con la sua telecamera: erano tutte le sue donne, riprese di nascosto, quando facevano all'amore con lui.

Ogni cassetta un nome: Melanie di New York, Stefania, Enrica, Claudia Uno, Claudia Due, Claudia Tre di Roma, e Irene Mussi di Milano.

“ Irene, Irene. Lei almeno ha sfondato. E' ora una bella e brava presentatrice. Che corpo! Che donna!” , sospirò.

Prese la cassetta, la mise sul tavolo. Voleva rivedere di nuovo Irene con quelle sue tette e quel suo pelo morbido. Voleva gustare il tempo ato. Ma si sentiva stanco, non riuscì nemmeno ad infilare la cassetta nel video registratore, forse lo avrebbe fatto il giorno dopo.

CAPITOLO 13

Sembrava che lo sbarco degli alleati a Kuwait City fosse solo questione di ore, ed invece arono alcuni giorni, mentre continuavano i bombardamenti su Bagdad.

Giovanni, da par suo, aveva trovato il modo di morire: sarebbe arrivato fin sul terrazzo del suo stabile e da lì un volo fin giù, fino al contatto con la madre terra, che avrebbe assorbito tutto il suo sangue.

Immaginava la scena delle persone che commentavano e s'interrogavano sulla sua morte. Vedeva il suo corpo disteso sul selciato.

"Che cosa è successo? "

"Ho sentito delle grida"

"Sì, anch'io ho sentito. Ma qualcuno si è buttato giù? "

"Sì. Qualcuno si è buttato giù"

"Oh, lì c'è un sacco di gente. Andiamo a vedere. "

"Si è suicidato. E' Astardi, l'attore. "

Sentiva il rumore assordante delle sirene delle autoambulanze e della polizia.

E le domande rivolte dagli inquirenti ai suoi condomini.

"Lei lo vedeva spesso. Quando è stata l'ultima volta che l'ha visto? "

"Non lo vedevo molto, solo qualche volta. Stava sempre fuori. Forse l'ultima volta che l'ho visto sarà stato un tre giorni fa. "

"Aveva mai dato segni di squilibrio? Aveva qualche problema? Lo vedeva nervoso?"

"Sì. Non è che stesse molto bene in questi ultimi giorni. Era nervoso. Penso che questo suo nervosismo era dovuto al fatto che non lavorava"

Magari qualche sua accanita fan avrebbe fatto di tutto per tagliargli qualche ciocca di capelli, così per portare un ricordo a casa sua.

E poi i fotografi accanirsi con le loro macchine fotografiche su quel suo corpo disteso a terra in mezzo al sangue.

E i giornalisti, arrivati sul posto, comunicare ai loro direttori la sua morte.

"Avete il materiale su Astardi? Cercate negli archivi: amori, film, avventure e quanto di altro c'è da cercare”, avrebbe tuonato il direttore del giornale ai suoi collaboratori.

Sul suo volto apparve un leggero sorriso di soddisfazione nel pensare a quanto avrebbe ricevuto da morto.

“ Sì. Questa volta sono certo che la notizia arriverà in prima pagina, e poi ci sarà un lungo ciclo di film in TV”, disse.

Poi pensò che c'era quella maledetta guerra che assorbiva tutto, che divorava le altre notizie.

Forse l'articolo sulla sua morte sarebbe apparso in quarta pagina, o avrebbe trovato spazio nella pagina degli spettacoli: magari quattro righe.

Capì che non sceglieva neanche il momento buono per morire, ma, nonostante questo, era deciso a farla finita: notizia o non notizia.

Aveva deciso di prepararsi bene all'incontro con la vecchia signora; non poteva certo presentarsi con quel fetore addosso.

S’infilò sotto la doccia, si lavò il collo, le mani, le gambe.

S’insaponò per bene il viso e ò il rasoio, usa e getta, per ben due volte sulla sua faccia. Fece lo shampoo ai capelli; se avesse avuto ancora un po' di tempo avrebbe chiamato il barbiere: i capelli erano abbastanza lunghi.

Aprì l'armadio e tirò fuori un bel vestito grigio ed una cravatta blu; poi, come un

condannato a morte, rilesse quanto aveva scritto su un foglio di carta: era il suo testamento.

Lasciava tutte quelle sue misere cose ad Angelica Deato, tutti i suoi ricordi, le foto con le altre attrici andavano a lei. Era certo che suo figlio Marco avrebbe capito e che non si sarebbe opposto.

Diede un ultimo sguardo alla stanza con la consapevolezza che non vi sarebbe tornato più. Stava per aprire la porta, quando sentì il telefono squillare. Rimase un po' incerto su cosa fare, ma non si fermò. Aprì la porta ed uscì. Salì i primi gradini della scala, nonostante il telefono continuasse a squillare.

Non voleva rispondere, non voleva che qualcuno interferisse sulla sua decisione.

“ E se fosse stato Salimbeni? . . . Magari con una nuova offerta di lavoro? “ , si domandò, rimanendo fermo.

Allora tornò indietro; tanto rispondere non gli costava niente.

Era Pamela disperata che chiedeva aiuto. Le era successo qualcosa di terribile.

La rincuorò.

Le disse che sarebbe andato subito da lei.

Non poteva suicidarsi proprio in quel momento.

C'era qualcuno che aveva bisogno di lui.

Non impiegò molto tempo ad arrivare a casa di Pamela.

La donna aveva il viso stravolto e i capelli in disordine, e non aveva quasi niente addosso.

Non fece neanche in tempo ad entrare in casa che Pamela si strinse forte a lui, piangendo a dirotto e pronunciando delle parole incomprensibili.

“ Calma, ti prego di stare calma. Non è niente. Adesso ci sono io. Cosa è successo?” , chiese, stringendola ancora più forte a sé per farla sentire al sicuro. La fece sedere, poi prese un cappotto e l'avvolse attorno al corpo di Pam, che tremava ancora: non si sapeva se per il freddo o per la paura.

Quando si fu abbastanza calmata, Pamela sembrò sul punto di dire qualcosa, ma si bloccò di nuovo. Tremava e, nonostante i suoi sforzi, dalla sua gola non usciva alcuna parola.

Non riuscendo a comunicare con le parole Pamela lo prese per una mano e lo portò fino alla sua camera da letto.

Lì c'era un uomo grande e grosso, nudo, disteso sul letto di traverso.

Sulle prime Giovanni cercò con gli occhi qualche coltello o lamina appuntita.

Guardò Pamela , poi si avvicinò al corpo dell'uomo e s'accorse che non respirava : era morto.

“ Infarto? “ , chiese, convinto; non voleva minimamente pensare che fosse stato ucciso da Pamela.

“ Uh, infarto. Sì, penso che sia stato un infarto”, balbettò Pamela.

“ Ma. . . come, come è successo? E chi è questo uomo? “

“ Glielo avevo detto che non sarebbe riuscito a farlo. Lo avevo avvisato, ma lui voleva farlo per forza. Aveva deciso di farlo, diceva che non si sarebbe dato pace se non l'avesse fatto.

“ Voleva fare! . . . Voleva fare cosa? Non riesco a capire; insomma spiegati.”

“ Voleva fare di nuovo all'amore...Per la terza volta. Non si sentiva soddisfatto.”

“ Ma tu, . . . perché hai accettato? Potevi dirgli di no”, gridò, fuori di sé.

“ Certo, potevo dirgli di no...Le cose sono cambiate da quella ultima volta che ci siamo visti. E' andato tutto storto, tutto gira contro di me. Che sfortuna, che sfortuna”, rispose, calma e rassegnata, Pamela.

“ Che cosa vuoi dire? Vuoi forse dire che non avevi più clienti, che nessuno veniva più a casa tua? Possibile, . . . possibile?”

“ Oh, certo. C'era tanta bella gente che mi cercava. Evidente che si sono stufati presto. Sono stata costretta ad abbassare la tariffa: né un milione, né tanto meno quattrocento. . . . E' stata tutta quella faccenda che mi ha rovinata. Molti non si fidavano più a venire a casa mia. Tutta gente di rispetto che non avrebbe certo avuto difficoltà a sborsare quella cifra. Avevano paura di finire in pasto ai giornali. Nessuno voleva più rischiare. I soldi sono soldi e ne girano sempre meno. Accidenti! A malapena trovavo qualcuno disposto a darmi centomila lire. “

“ Ma tu, non avevi quella offerta? Non dovevi fare quei film porno? Pare che ti avessero offerto quasi cento milioni. Avresti risolto molti dei tuoi problemi.”

“ Sì, è vero. Ma la cifra non era più quella. Hanno detto che m'ero sputtanata e che non valevo quella cifra. Hanno rifatto l'offerta: venti milioni per quattro film porno ed alcuni servizi sulle riviste specializzate, e chissà quale altra trappola c'era sotto. Mi sono sentita. . . fottere.”

“ Allora non hai accettato. Pensavi che avresti guadagnato di più abbassando la tariffa ed avresti così potuto pagare le tue cambiali. Invece. . .”

“ Sì, è andata come dici tu.”

Chiese di quell'uomo: chi era e come era morto.

Pamela gli spiegò che quello era un suo. . . "fan" ed aveva sognato da una vita, da quando l'aveva vista in quell'unico film, da quando aveva visto il suo corpo. Avrebbe voluto stare con lei per ore ed ore. Lei lo aveva sconsigliato. Gli sarebbe potuto venire un accidente, considerato che non era più giovane. Aveva chiesto un altro milione. Era convinta che quello non avrebbe avuto la possibilità di pagare e che si sarebbe rivestito per andare via.

Ed invece, non s'era per niente scomposto; aveva aperto la sua ventiquattrore ed aveva tirato fuori i soldi: un pacchetto di centomila da dieci.

A quel punto non poteva rifiutarsi, non poteva tirarsi indietro, e poi un milione le faceva comodo; in fondo aveva fatto un prezzo e questo era stato accettato senza battere ciglio.

Erano fatti suoi se non ce la faceva.

Aveva poi visto l'uomo annusare della polverina bianca.

“ Cocaina? Eh, dico, era cocaina? “ , chiese Giovanni.

“ Sì, era cocaina. Me ne ha dato un po' da annusare. Non avrei sentito dolore

quando lui avrebbe. . .”

“ Eh, tu hai preso cocaina? “

“ Cosa? Coca? Non capisco. Dici cocaina? No, no, non lo so. Forse. Devo averne presa un po'. Io, io non capivo niente. Ero tutta imbambolata. I soldi, la coca e quell'uomo che stava sopra di me, che sbuffava. Non lo so proprio cosa ho fatto in quei momenti. Si, avrò sniffato un po' di roba. Ma poco, sarà stata poca cosa.”

“ Uhm, va bene. Adesso non fartene una colpa. Cosa è successo poi?”

“ E' riuscito ad avere una buona erezione..”.

“ Sì, e allora? “

“ Stavamo facendo l’amore quando ho sentito il suo respiro farsi affannoso. Non respirava bene. Ho cercato di farlo smettere, ma lui, nonostante questo piccolo malore, voleva ancora continuare , voleva arrivare fino in fondo, fino a. . . “

“ Fino a che?”

“ Fino a quando non è morto.”

Quell'uomo aveva avuto certamente un infarto, o forse era morto a causa della cocaina; poteva benissimo essere un cocainomane. Lui non ne capiva un granché, non era un medico.

Si fece coraggio, e si avvicinò per vederlo bene in viso. Vide anche che alla base del collo dalla parte della schiena aveva un tatuaggio: un serpente a sonagli.

Rabbrividì.

Non lo toccò; poi vide la valigia ventiquattrore; l'aprì: c'erano altre banconote, altri milioni.

Chi poteva essere quell'uomo che andava in giro con tutti quei soldi e che mestiere faceva?

Non se lo domandò per molto fino a quando in un doppio fondo della valigia ventiquattrore non scoprì la cocaina.

Quell'uomo era un corriere o un grosso spacciatore; ora erano entrambi in un grosso casino.

“ E adesso che facciamo? Lo sapevo, lo sapevo che non poteva andare bene.” , si rammaricava Pamela.

Astardi cercò di essere calmo. Certo non era un cuor di leone, ma non poteva

permettersi debolezze. Doveva dare sicurezza a Pamela. Chiese se l’avesse visto prima e come fosse venuto a conoscenza del suo indirizzo. Ma Pamela lo guardava senza rispondere e Astardi pensò che in quelle condizioni non potesse essergli d’aiuto.

Le consigliò di vestirsi, al resto avrebbe pensato lui.

Loro non sapevano se quell'uomo avesse detto a qualcuno che si recava da Pam, magari a qualche complice.

Astardi cercò nelle tasche dei vestiti dell'uomo qualche documento per vedere chi era. Trovò il portafoglio, ma , prima di vedere, si convinse che era meglio non sapere, e così lo rimise al suo posto. Trovò delle chiavi di una macchina, dal marchio del portachiavi doveva essere una" Volvo", tipica marca svedese. Non sarebbe stato difficile trovarla.

Pam non sapeva quali intenzioni avesse, quando le chiese di aiutarlo a vestire l'uomo, né capì quando le disse che sarebbe andato a prendere la macchina.

“ Per fortuna che è una Volvo, sarebbe stato molto più difficile trovarla se fosse stata una fiat "Uno"“ , disse, prima di lasciare la casa.

Pamela lo trattenne. Non voleva essere lasciata sola con quel morto. Aveva paura, ma Giovanni la rassicurò. Non avrebbe impiegato molto tempo.

Quando ritornò a casa trovò Pamela che stava in piedi vicino alla porta. La

macchina era ad un centinaio di metri da casa loro. Avrebbero aspettato la notte per portarlo fuori.

Giovanni prese la valigia e la mise da parte.

Pam non era d'accordo, non voleva prendere niente da quell'uomo che dal momento in cui era entrato in casa sua, non aveva fatto altro che procurarle dei guai.

Ma Astardi riuscì a convincerla.

Verso le due di notte Astardi andò a prendere la macchina, facendo attenzione a non lasciare impronte digitali e la parcheggiò a pochi i dall'ingresso della palazzina, dove abitava Pam.

Scese dalla macchina, guardandosi in giro per vedere se qualcuno lo vedesse, cercando di avere un'aria più naturale possibile; poi insieme a Pam portò l'uomo fin dentro la macchina.

Dopo averlo nascosto con una coperta, si mise alla guida della macchina, mentre Pamela stava al suo fianco.

I due tremarono al solo pensiero che potessero incappare in qualche posto di blocco della polizia. Quelli, al solo vederli, avrebbero scoperto tutto.

Quando partì, non aveva ancora bene in mente il luogo dove avrebbe portato il morto; poi, strada facendo, decise che avrebbe fatto bene a dirigersi verso la stazione Prenestina: era abbastanza fuori mano ed isolata.

Ad una cinquantina di metri dall'ingresso della stazione, si fermarono, presero l'uomo e lo misero al posto di guida. Tirarono il freno a mano e misero la testa del morto sul volante, come se stesse dormendo.

Erano pronti per andare via.

Via?

Ma come?

A piedi?

Imprecò contro se stesso. Si mise le mani nei capelli e si diede dello stronzo.

Pamela gli disse che era inutile arrabbiarsi a quel punto, e che facevano bene a togliere quel morto dalla macchina, e a tornare a casa a prendere la sua auto.

Così fecero: il morto fu messo in un fossato, tanto a quell'ora e in quel posto difficilmente sarebbe stato scoperto, e poi fecero il tragitto al contrario.

Pamela prese la sua auto e lo seguì a distanza di sicurezza.

Quando arrivarono alla stazione Prenestina presero il morto dal fossato e lo misero nella macchina, affrettandosi a lasciare quella zona.

Qualcuno nella mattinata avrebbe notato l'uomo ed avrebbe avvertito la polizia con una telefonata anonima.

arono l'intera giornata in casa, tenendo la radio accesa, nella speranza di sentire qualche notizia su quel morto alla stazione Prenestina; invece non ci fu neanche un flash d'agenzia.

Avevano paura a restare in quella casa. Giovanni convinse Pamela a trasferirsi a casa sua, lì sarebbero stati più tranquilli; nessuno l'avrebbe cercata, almeno per il momento.

Ma, anche lì, Pamela non si sentiva affatto sicura; avevano quella maledetta valigia con i soldi e la cocaina.

Magari Astardi sarebbe stato tentato di mettere quella roba sul mercato, e sarebbero di sicuro arrivati altri guai.

Tutta quella roba poteva valere una fortuna: un chilo di cocaina.

Era ormai notte e loro si sentivano stanchi e spossati, ed alla fine cercarono di

dormire.

Ma in quello stato di agitazione Pamela difficilmente sarebbe riuscita a prendere sonno; aveva bisogno di qualcosa di forte, di qualche calmante, di qualche psicofarmaco; forse se avesse annusato un po' di coca si sarebbe sentita meglio.

Era troppo stressata. Ne avrebbe preso solo un po'; di certo l'avrebbe aiutata a dormire.

Lui non le disse niente, la lasciò fare.

Pamela si sentì subito bene: allegra, euforica, piena di forze.

Si mise vicino al suo compagno ed incominciò a strofinarsi al suo corpo . Cercava un po' di calore. Giovanni la coccolò. Le accarezzò il viso e la coprì di baci, e lentamente Pamela scivolò in un sonno dolce e riposante.

La notizia era in cronaca nera:

"Trovato il corpo senza vita alla stazione Prenestina.

E’ Antonino *** , noto trafficante di sostanze stupefacenti, pregiudicato per tentato omicidio. E’ stato trovato alla guida della sua auto alla stazione Prenestina. "

Pamela si sentì ancora più nervosa nel conoscere la vera identità di quell'uomo. Ora temeva seriamente che i soci sarebbero presto andati a cercarla, e ne avevano due validi motivi : i soldi e la cocaina.

Giovanni cercò di darle coraggio, dicendole che forse Antonino non aveva rivelato ai suoi complici che si recava a casa sua.

“ Ci credo poco, ci credo poco. E' nella natura dell'uomo, specialmente di quella razza, vantarsi di... imprese amorose”, disse Pamela, mordendosi il labbro inferiore. Aveva la sensazione che l'avrebbero trovata e che gliel'avrebbero fatta pagare cara, che l'avrebbero uccisa.

Astardi prese la busta con la coca, prese i soldi, prese la valigia; aveva sbagliato a tenere quella roba, avrebbe dovuto metterla nella macchina di Antonino.

Verso le tre del pomeriggio Giovanni andò a casa di Pamela per prendere dei vestiti. Era solo.

Quando aprì la porta, vedendo in che stato era stata ridotta la casa, capì che Pamela era stata individuata.

Doveva andare via e portare Pamela in un luogo sicuro, lontano da quella città. Doveva aspettare che le acque si calmassero.

Stava per salire in macchina, quando un uomo con i baffi gli fece sentire la

canna della pistola alla schiena.

Gli intimò di salire in macchina senza tante storie e di portarlo dalla sua amica.

Astardi fece finta di non capire.

“Volete i soldi. Aspetta. Aspetta. Li prendo, ma lasciatemi in pace”.

“Non ci siamo capiti, eh. . Portami dalla puttana” ringhiò di brutto l’uomo con la pistola.

Astardi cercò in ogni modo di far capire all'uomo che s'erano sbagliati e che lui quella puttana che cercavano non la conosceva affatto.

Aveva paura di morire; lui che fino a pochi giorni prima aveva cercato il modo di lasciare questo mondo, ora aveva paura di lasciarci la pelle.

Arrivò a casa sua, Pamela aprì la porta. Vide quell'uomo grande e grosso, che stava dietro a Giovanni, e per poco non svenne.

L'uomo con i baffi fece una telefonata. Avvisò i suoi complici che Pamela era stata trovata.

Quelli erano persone pericolose e certamente appartenevano a qualche potente organizzazione.

Lui e Pam difficilmente sarebbero scampati a quella vicenda.

Dopo circa un'ora nell'appartamento entrarono altri tre brutti ceffi.

“E la roba?” , chiese uno di questi, afferrando con una mano la gola di Giovanni.

“ La roba... è lì, è lì. Non ho toccato niente. E' tutto a posto, è tutto OK”, riuscì a dire, indicando il posto dove aveva nascosto la valigia; per conto suo potevano prendere anche i soldi e quanto altro volessero.

“ Ah, bene, bene”, rispose l'uomo, che gli diede un sonoro ceffone, prima di prendere la valigia.

Quando riuscirono a trovare quello che volevano, Giovanni pensò che se ne sarebbero presto andati e che li avrebbero lasciati in pace. Ma non fu così. Uno di questi si avvicinò a Pam, le toccò il viso.

“ Ah, la bella signora! Allora, li vogliamo tirare fuori questi soldi?”, chiese con un lieve sorriso sulle labbra.

“ Qua. . . quali soldi?”, balbettò Pam.

“ Ma mia cara, i soldi del caro estinto.” , riprese l’uomo.

“ Io, . . . io ho lavorato. Ho lavorato. Quei soldi non sono vostri. Sono miei, capito?”, disse Pamela con forza, presa da un’insolita rabbia, covata dentro sé per molto tempo.

“ Hai lavorato? Ma anch'io lavoro, cara... Alle volte, sai, la roba se ne va in fumo ed io che cazzo ci posso fare? Pazienza”.

“ Quei soldi sono miei”, ripeté Pam.

“ Tuoi? Vuoi dire “nostri”. Adesso mi sono un po’ stufato di ascoltare le tue lagne. Dimmi dove cazzo hai messo i soldi?”, gridò , tirando con forza i capelli a Pamela.

“ Daglieli, daglieli”, intervenne Astardi, che vedeva la situazione diventare maledettamente pericolosa.

Pamela, suo malgrado cedette.

Presero tutto quanto c’era da arraffare: denaro, oro, anelli, collane. Pensava che andassero via, che sparissero, ma i malviventi non erano soddisfatti di quello che avevano fatto.

Incominciarono a malmenare a dovere Astardi.

“Volevi fregarci, eh?”

Giovanni cercò di dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo perché gli arrivò un pugno giusto sulle labbra.

Sanguinò.

Un altro gli diede un calcio nelle palle.

Pamela guardò inorridita quanto accadeva, ed ancora di più, quando l’uomo con i baffi le guardò insistentemente le gambe. Aveva uno sguardo che non faceva presagire nulla di buono.

L'uomo con i baffi insieme ai suoi compari si avvicinò a Pamela.

“ Che volete ancora? Lasciatemi stare. Andate via. Viaaaa!... viaaaa!!” gridò Pamela con quanta forza aveva in gola nella speranza che qualcuno sentisse le sue grida. Intuì cosa le volessero fare.

Ma nessuno poteva sentirli, quelli avevano alzato il volume dello stereo.

Due uomini le bloccarono le mani, mentre l'altro incominciò ad approfittare di Pam.

“ Adesso mi voglio divertire. Voglio provare le stesse sensazioni del mio caro amico. Solo che io non pago, non pago “ , disse l'uomo, toccandole il seno.

Giovanni rimaneva in uno stato di semi incoscienza con il volto tumefatto ed il respiro affannoso a vedere, impotente, la violenza che subiva Pamela.

Vedeva le cose come un brutto film.

In quei momenti avrebbe preferito essere morto.

Quando un malvivente gli mise la canna della pistola sulla fronte, aspettò il colpo di grazia come una liberazione.

Invece, fu solo una crudele messinscena. I malviventi si sentirono appagati di quello che avevano fatto. Andarono via.

Ora erano soli.

Erano salvi.

Pamela si sentiva bagnata; per la paura aveva urinato . Astardi riuscì a malapena ad alzarsi e ad avvicinarsi; le accarezzò il viso.

Pamela aveva le lacrime agli occhi. Accennò un sorriso, poi ebbe la forza di alzarsi e di arrivare fino al bagno. Si sentiva sporca ed inutile: quella violenza non riusciva a sopportarla.

Quando capì, era ormai troppo tardi: Pamela s'era tagliata la vena giugulare.

Non ci fu più niente da fare.

Pamela Vilvood, bella e giovane e promettente attrice, era morta.

La sua carriera, iniziata per caso in un film quasi porno, era miseramente finita in un bagno .

CAPITOLO 14

Astardi vide Irene Mussi. La vide alla televisione.

Lei era bella, era famosa: una donna in carriera.

Aveva fatto strada. Presentava un programma riguardante la guerra del golfo con

tanti ospiti, con tante persone importanti.

La guerra era finita. Il Kuwait era stato liberato. Le prime immagini di Kuwait City, che apparvero sullo schermo televisivo, erano apocalittiche; nonostante si fosse a mezzogiorno e il sole fosse alto nel cielo, sembrava di trovarsi in un pomeriggio buio di una giornata d’inverno.

Astardi prese la cassetta VHS e la mise nel videoregistratore. Era stanco di vedere tutte quelle immagini di guerra e quei volti di militari sfiniti.

Aveva voglia di distrarsi un po', e cosa c’era di meglio, in quel momento, se non di vedere il bel corpo di Irene.

Sullo schermo ora c'erano le immagini di Irene, nuda, mentre faceva all'amore.

La si vedeva quando si avvicinava, quando lo baciava.

Sentì una grande rabbia per non poterla ormai più possedere. Irene aveva sempre detto che lui era il suo grande amore, che non avrebbe desiderato per tutta la vita nessun altro uomo.

“ Puttanata, . . . sciocchezze.” sbuffò.

In fondo non la giudicava male. Lei era una donna che sapeva il fatto suo; lo sapeva già da quando lo aveva adocchiato.

Era stata più furba di Pamela, molto più scaltra, o forse era stata più fortunata.

Irene aveva avuto solo lui. Era la sua puttana. Lo seguiva ovunque; poi una volta conosciute le persone giuste, una volta arrivata al cuore dell'ambiente, una volta che era apparsa sui giornali, aveva cambiato rotta.

Lui era un perdente, un perdente, però, che aveva fatto in tempo a spianarle la strada. Non doveva giudicarla male. Pensò anche che non sarebbe venuta al suo funerale.

Ebbe un gesto di stizza. Avrebbe voluto prenderla per i capelli e trascinarla a terra, magari le avrebbe volentieri dato un calcio nello stomaco.

Tanto una carognata in più non gli avrebbe sporcato la coscienza.

Già si sentiva responsabile della morte di Deato, travolto ed ucciso sulle strade di Roma da un’auto.

Ora era diventato più cinico e malvagio. Era diventato cattivo.

Aveva pensato anche di mettersi a spacciare droga, di entrare in qualche banda di spacciatori di cocaina: seminare morte ed avere il potere sulle persone.

Per sua fortuna capì che non sarebbe stato capace di fare nulla di buono e di non essere abbastanza smaliziato da saper schivare i tranelli di quello sporco mestiere.

Meglio elemosinare e chiedere la carità davanti alle chiese.

“ Sì. Fate la carità ad un povero uomo che non sa più cosa fare nella vita. Aiutatemi. E, se volete, sputatemi pure in faccia prima di cacciare dalle vostre luride sacche le cento lire”, diceva, biasimandosi.

Perché limitarsi ad elemosinare quando gli stava venendo in testa un’idea malvagia e cattiva, che l’avrebbe fatto felice quanto un miscuglio di droga indiana?

Ora aveva una certa idea su Irene Mussi che gli avrebbe dato tante soddisfazioni.

Questa volta sarebbe stata la bella Irene a pagare il pedaggio.

In fondo qualcosa gli doveva pure se era arrivata a fare quello che faceva.

Chi sarebbe stata senza il suo aiuto?

Duplicò la cassetta.

Fece un bel pacco e lo spedì all'indirizzo di Irene.

Sapeva che Irene, appena avesse visionato la cassetta, gli avrebbe telefonato.

Irene, invece, non gli telefonò. Si presentò lei stessa a casa sua verso le sei del pomeriggio.

Aveva negli occhi tanta rabbia che a stento riusciva a trattenere, ma, comunque, cercava di mantenersi calma per quanto poteva.

Temeva che qualcun altro avesse potuto vedere quel filmato, nel quale lei compariva nuda e faceva all'amore.

La sua immagine sarebbe di sicuro stata danneggiata. La sua immagine di donna perbene e lavoratrice, costruita pezzo per pezzo, giorno per giorno con tanti sacrifici sarebbe andata a farsi fottere.

Quando Giovanni aprì la porta, Irene non disse niente di particolare.

Bisbigliò solo un "ciao" moscio e difficilmente udibile.

La giovane donna mise la cassetta VHS sul tavolo ed aspettò in piedi che Giovanni le dicesse qualcosa.

Notò il disordine che regnava in quella casa. Lo guardò bene in viso. Fu un brutto colpo per lei vedere come l'amante degli anni addietro si fosse ridotto.

Astardi aveva la barba lunga ed i capelli non curati e sporchi.

Aveva dei cerchi grandi e acquosi agli occhi, e le rughe che aveva sulla fronte sembravano tanti tagli di bisturi.

Se Irene si fosse avvicinata ancora un po', avrebbe sentito l'alito cattivo e maleodorante di vino non completamente digerito.

Mussi era bella.

Mussi era solare con quegli occhi azzurri e quei capelli biondi che arrivavano fin sulla spalla.

Le sue labbra erano piccole, ma sensuali e quelle lentiggini sparse sotto gli occhi e sul naso la facevano apparire ancora più bella e desiderabile.

Indossava un vestito grigio con una camicetta bianca, ed aveva un girocollo nero con al centro un cammeo bianco.

Non portava oro: né collane, né bracciali.

Portava solo un microscopico orologio da polso.

“ Cos’ è questa? “ , chiese, indicando la cassetta.

Giovanni non le rispose, o forse non gli andava di dare tante spiegazioni.

Vedeva nel volto e nel portamento della donna, che era stata sua, il proprio fallimento.

Ora si sentiva ancora più male. Si sentiva a disagio.

Quando vide la sua immagine riflessa nello specchio, notò in che stato era.

Si scusò.

Andò in bagno.

Si ò lo spazzolino sui denti; poi prese il dentifricio.

Si lavò la faccia. Si ò la spazzola nei capelli.

Ora stava meglio. Ora aveva un aspetto più decente, anche se avrebbe fatto bene a farsi una doccia e a mettersi dei vestiti puliti, ma non c'era tempo. Non aveva più tempo.

“ Questo è un regalo. Quella cassetta è l'unico ricordo che mi rimane di te” , disse, mettendosi una sigaretta tra le labbra.

“ Non capisco. . . Non sapevo che avevi di questi vizi. Bene. Cosa vuoi da me?” , chiese Irene, cercando di non apparire nervosa.

Lui non voleva soldi.

Voleva la donna.

Non è che fosse particolarmente eccitato da dovere per forza di cose fare all'amore. Lui voleva possedere Irene.

Voleva violentare il suo successo.

Voleva violentare la sua sicurezza.

Voleva violentare la sua immagine.

Astardi abbassò la testa, non riusciva a guardarla negli occhi.

Era impacciato. Non riusciva a parlare. Fece un sorriso di compiacimento, come per dire che la sua richiesta era evidente, era lampante.

Irene capì.

Prese il carnet degli assegni dalla borsa.

“ Bene. Quanto? E dove si trova l'originale? “ , chiese, alzando lo sguardo .

“ Allora non hai capito niente. Non hai capito un tubo. Che me ne faccio dei soldi che mi darai. Soldi! Ah, se si potesse aggiustare tutto con i soldi. Eh, no... mia cara!”, rispose Giovanni, stizzoso, mentre schiacciava con forza, rigirandolo varie volte, il mozzicone di sigaretta nel posacenere.

“ Ma! . . . Allora, . . . cosa vuoi da me? “ , chiese Irene, sorpresa.

Giovanni le fece capire che voleva lei, che la merce di scambio era il suo corpo.

Voleva fare l’amore.

Irene non immaginava che sarebbe arrivato a tanto: ricattarla per avere il suo

corpo.

Si sentiva male.

Si allontanò.

Si avvicinò alla finestra, dando uno sguardo fugace fuori; poi si voltò lentamente e lo fissò .

“ Ma perché? . . . Perché sporcare tutto quello che c'è stato tra di noi. Sporcare quei giorni, quelle sensazioni, quei momenti indimenticabili.”, chiese Irene, con le lacrime agli occhi, anche perché sentiva di essere trattata come una puttana.

Astardi fece pochi i. Poi si fermò.

Non sapeva quale sentimento provava per quella donna che aveva davanti e che era stata la sua compagna per tanto tempo. Abbassò la testa, poi l’alzò.

Era arrabbiato.

“ A volte mi chiedo se tu mi abbia davvero amato. . . Amato me. Me. Giovanni Astardi. Non l'attore famoso, non l'uomo di successo. Mi chiedo se fossi stato uno qualunque, un impiegato, un operaio, un facchino. . . Mi chiedo se tu mi avresti lo stesso amato.”.

Irene abbassò lo sguardo. Si sentiva a disagio. Si rigirò di nuovo verso la finestra.

“ Io non lo so. Sarebbe stato diverso. Ma penso che se avessi avuto l'occasione d'incontrarti nei panni di un impiegato o di un operaio. . . ti avrei amato lo stesso.” , disse in un fiume di parole.

Poi ci furono degli istanti interminabili di silenzio.

Irene si avvicinò .

“ Ma io, . . . ti voglio bene”, continuò.” Ma non capisci che le cose sono cambiate. Non capisci? Sì, hai ragione. E' vero. L'amore tra noi è finito da un pezzo. Ma credimi,. . . io ti voglio bene. Ti voglio aiutare. Se hai dei problemi, ti voglio aiutare. Vorrei poter fare qualcosa per te” , riprese Irene, alzando il tono della voce.

Astardi non si lasciò incantare dalle parole mielate della donna.

“ Merda, merda”, gridò, varie volte, in modo impetuoso.

Irene capì lo stato mentale in cui si trovava.

Lei non avrebbe mai fatto l'amore lì. Era il modo, le circostanze che le davano fastidio.

“ Me ne vado. Vado via. Della cassetta fai quel che vuoi. Non m’interessa”, disse Irene, rassegnata.

Ci furono attimi di silenzio; poi Irene riprese a parlare.

“ Povero Giovanni, . . . quanto mi fai pena. Ma ti sei visto bene in faccia. Ridursi in questo stato per avere... una donna. Il seduttore! Il dongiovanni! Sei pazzo. Sei solo un povero fallito”, gli gridò , mentre prendeva la sua roba per andare via.

“ Ah, bene. Alla signora ora faccio schifo. Non sono alla sua altezza. La signora ha dei gusti particolari. Finalmente dimostri la tua vera natura. Ma allora quando te lo chiedeva l’attore famoso non dicevi mai di no” , le gridò , prendendola per una mano.

“ E che credevi! Sono stata una stupida ad innamorarmi di te. Per mia fortuna che ho scoperto in tempo con che specie di uomo stavo, altrimenti. . . sarei nella merda come ci sei tu”, gridò Irene.

“ Ah, bene! Brava, la mia piccola puttana. E’ per questo che ti sei messa con il direttore artistico? Era il tuo grande amore anche quello, vero? Ma no! Il direttore artistico non serviva più. Hai lasciato anche lui. Per chi altro. . . eh?”

“ E lasciami stare. Lasciami che mi fai male al braccio. Lasciami, ubriacone. Puzzi da un miglio lontano”, replicò Irene, che tentò di divincolarsi.

Giovanni si sentì sconfitto ed umiliato. Lasciò perdere la presa. Poi, stizzito, la riprese di nuovo.

Non doveva lasciare andare via quella donna. L'attirò verso di sé. Tentò disperatamente di baciarla.

Ora non ragionava più. Incominciò a strattonarla. Le diede anche uno schiaffo. Le afferrò i capelli.

Irene cadde a terra. Lui le fu sopra. Incominciò a toccarla, cercando di alzarle la gonna, poi le mise una mano sul petto.

Le strappò la camicetta bianca.

Irene cercò di difendersi al meglio, ma in quelle condizioni avrebbe potuto fare poco . Cambiò tattica.

“ Va bene. Ho capito. Vuoi scopare? E scopa! Ma lascia che sia io a togliermi i vestiti. Così non fai che farmi del male.”, disse.

Giovanni si fidò.

Lasciò perdere la presa. Lasciò perdere la camicetta che aveva in mano.

Irene si alzò da terra, ed incominciò a togliersi quei pochi brandelli di vestiti che le erano rimasti addosso.

Ora era nuda. Nuda, bella e desiderabile. Lei stava lì ad offrirsi all'uomo.

Giovanni si avvicinò. Le toccò i seni, tenendosi distante, quasi volesse assaporare fino in fondo quello che stava facendo.

Poi non si trattenne più e la prese tra le sue braccia. Incominciò ad accarezzarla, a baciarla.

Irene era paziente. Collaborava. Lo abbracciava. Lo baciava; poi Giovanni sentì una fitta alla schiena.

Ebbe appena il tempo di vedere il coltello che Irene aveva in mano e che si abbassava a ripetizione sul suo corpo.

Si afflosciò, cadde a terra.

Pensò che questa volta non avrebbe avuto più scampo e che sarebbe morto.

Irene, quando vide il sangue, si rese conto di quello che aveva fatto e presa dal terrore, buttò via il coltello.

Non prestando ascolto alle parole d’aiuto di Giovanni, si rivestì in fretta, prese le sue cose ed uscì come una furia dall’appartamento.

Sulle scale urtò una donna , ma non si fermò a chiedere scusa.

Roberta lanciò un’imprecazione forte contro Irene che le aveva macchiato la camicia bianca di rosso.

Ma che cosa era quel rosso?

Era sangue.

In qualche appartamento di quello stabile era successo qualcosa di terribile. Ebbe uno strano presentimento. Avanzò il o ed arrivò davanti all’appartamento di Astardi.

La porta era aperta.

Chiamò varie volte, poi entrò.

Giovanni stava a terra, imbrattato di sangue, e sembrava non respirasse più.

Si avvicinò, gli sollevò il capo.

Vide che respirava; forse, nonostante tutto, era arrivata in tempo.

Giovanni poteva farcela.

Telefonò al pronto soccorso, chiamò la polizia.

Poi si avvicinò a Giovanni, che aveva la gola secca e che diceva parole insensate. Lo confortò, tentò di tamponare la fuoriuscita di sangue.

Imprecò contro se stessa per aver fatto are così tanto tempo prima di andarle a trovarlo. Ma lei aveva aspettato perché voleva presentarsi a casa sua con qualcosa tra le mani, con qualche buona proposta di lavoro. Sapeva come stava e quello che gli era capitato, e andare da lui senza avere niente, non avrebbe fatto che aggravare lo stato di sconforto e di abbandono di Astardi.

Dopo aver costretto Fenrò a cedere e a versarle un congruo anticipo sui settecento milioni pattuiti per l’affitto della frequenza della sua radio, Roberta, d’accordo con Argot, aveva deciso di are a produrre qualche vecchia commedia di Giovanni.

Ed ora sembrava che anche quella possibilità dovesse andare a farsi fottere.

CAPITOLO 15

Era ato un bel po' di tempo da quel tragico pomeriggio.

Astardi era stato operato d'urgenza: aveva perso molto sangue, ma si salvò.

Anche se dovette rimanere immobile per molto tempo in quel letto d'ospedale. Si dispiacque di aver subito delle trasfusioni.

Con i tempi che correvano c'era una buona probabilità di essere contagiato dal virus dell'Aids, o nella migliore delle ipotesi da un'epatite.

Invece il suo corpo non fu contaminato da nessuna malattia.

Lo seppe sei mesi dopo quando fece le analisi.

Quando aprì gli occhi e vide una schiera di fotografi e giornalisti, capì che la guerra del Golfo era finita per davvero, e che la morbosità della gente su quella storia di sesso e sangue con la bella presentatrice aveva prodotto il suo effetto.

Lo capì di più quando quel settimanale gli offrì cinquanta milioni per avere

l'esclusiva sull'intera vicenda.

Anche per Irene le cose non andarono poi così male.

Fu grazie a Roberta, la quale testimoniò dicendo che Irene, placatosi da quel raptus, aveva fatto di tutto per prestare soccorso a Giovanni e che era stata lei a chiamare l’autoambulanza.

Non disse che Irene era scappata e che era ritornata un bel po’ di tempo dopo nell’appartamento.

Questa testimonianza ammorbidì di molto la sua posizione processuale. Certo, era stata in prigione, ed aveva subito anche un processo. Ma i giudici erano stati molto teneri con lei, anche perché aveva molte attenuanti.

Fu dura per Irene stare in prigione, sopportare le privazioni. Ma ne uscì bene da quella terribile esperienza. Ora poi che stava scrivendo un libro sull’intera vicenda con succosi particolari sulla sua vita privata, non riusciva neanche ad avere un giorno tutto per sé.

Per Giovanni le cose s'erano messe al meglio, e Salimbeni aveva il suo da fare per vagliare le infinite proposte di lavoro per il suo cliente.

Ora lavorava, aveva un nome. Era lui: Astardi l'attore.

Rilesse ancora una volta quell'articolo sull’inchiesta "Mani Pulite" e della clamorosa svolta che avevano preso le indagini con arresti di politici, manager e pubblici funzionari.

Erano gli altri, i potenti, i politici, i grossi manager di potenti società, a soffrire le pene dell'inferno per le denunce e gli arresti.

Andò nel bagno. Si fece una doccia, poi ritornò nella sua camera da letto.

La giovane donna stava ancora dormendo.

Si avvicinò, le sussurrò qualcosa nell'orecchio; poi le diede un bacio e si allontanò.

Si guardò le mani. Si guardò gli occhi. Si aggiustò la cravatta. Era, nonostante tutto, ancora attraente ed affascinante. Anche se aveva ceduto alla tentazione di tingersi i capelli.

Non aveva però un amore stabile, una donna che amasse con il profondo dell'anima. Anche quella giovane, che stava lì nel suo letto, presto sarebbe andata via.

Quello era il suo unico giorno libero. Salimbeni gli aveva ricordato che l'indomani doveva andare a Venezia, ma lui non conosceva nemmeno il motivo di quel viaggio.

Aveva una casa tutta sua; con i soldi guadagnati aveva acquistato un bel tre camere dalle parti della Cassia.

Aveva imparato la lezione, doveva avere delle proprietà... per i momenti critici.

Aveva dei soldi in banca, ed aveva lì sul tavolo il nuovo libro di Barrieni. Lo aveva aiutato lui.

Credeva in quello scrittore. Aveva anche chiesto alle persone giuste di valutare la possibilità di ricavare un film da quel romanzo.

Vide il copione che gli aveva mandato Gino Cesa. Lo sfogliò un po' senza leggere.

Cesa lo aveva pregato di lavorare nella sua compagnia perché le cose per lui negli ultimi tempi non andavano tanto bene. E, vista la popolarità che aveva acquistato Astardi, s'era precipitato a proporgli di far parte della sua compagnia.

Giovanni non sapeva se accettare o no, anche perché Salimbeni gli aveva detto di lasciare perdere, perché c'erano degli impegni più importanti.

Ma, conoscendosi, avrebbe finito con l'accettare.

Irene gli aveva telefonato la sera prima. Si sarebbero rivisti a Venezia.

Non aveva rancore verso quella sua. . . antica fiamma; in fondo. . . gli aveva fatto del bene.

Alzò lo sguardo verso la parete che aveva di fronte.

Aveva messo una grande fotografia di Pamela che sorrideva. Era davvero bella Pam; forse l'unica donna che l'avesse davvero amato come uomo.

Non aveva avuto fortuna.

In fondo lui era stato fortunato. Stava per morire ed invece si trovava a vivere di nuovo.

Tutto era andato bene.

Troppo bene.

Sapeva che, generalmente, in questi casi c'è sempre un prezzo da pagare.

Uscì di casa, chiuse la porta senza far rumore.

Era una bella giornata, piena di sole, piena di gente, ed era un piacere eggiare lungo quel bel viale alberato.

Sentì di nuovo la vita, la gioia di vivere, la gioia di vedere quella gente che camminava, i bambini che giocavano, gli amori giovanili, che nascevano.

Pochi giorni prima non aveva nulla nelle sue mani. Ora, invece, aveva tutto, tutto quello che il suo cuore desiderava.

Era felice. Ora che quel brutto momento era ato era felice. Pensò ancora una volta ad Angelica.

Non si domandò mai se potesse essere davvero sua figlia; del resto lui aveva avuto molte avventure, e se ogni ballerina che aveva frequentato gli avesse detto di avere avuto da lui un figlio. . .

Certo qualche volta aveva cercato di ben figurarsi nella mente il volto di Angelica, per cogliere qualche piccola sfumatura che potesse convincerlo che magari era sua figlia.

Ma non poteva permettersi il lusso di pensare a ciò.

I tavolini era fuori al bar. Si mise a sedere.

Ordinò un caffè.

Lo bevve lentamente per gustarlo a fondo.

Quando vide due giovani di bell’aspetto entrare nel bar, non pensò lontanamente a quello che da lì a qualche minuto sarebbe successo.

Stava per accendersi la sigaretta, quando sentì un trambusto e delle grida, quasi soffocate.

Si alzò. Arrivò fino sulla soglia di porta del bar. Non si rese conto di quello che stava accadendo.

“ Ma che succede? . . . Chi ha gridato? C'è qualcuno che si sente male?” , disse, rimanendo fermo ad impedire, involontariamente, con la sua persona la fuga dei due rapinatori.

Non aveva visto la pistola.

Non aveva capito che stavano facendo una rapina.

“ . . . E levati, stronzo!” , minacciò uno di questi che sparò.

Astardi vide solo quei due che stavano correndo e che si allontanavano dal bar.

Non si rese conto di essere stato colpito.

Poi vide il sangue. Non riusciva a capacitarsi che quello era il suo sangue.

La vista gli si annebbiò.

Cadde a terra.

Il barista cercò di soccorrerlo, gli si avvicinò, gli alzò la testa, gli disse che da lì a poco sarebbe arrivata l'autoambulanza.

Ma Giovanni non poté sentirlo: era morto.

La polizia arrivò per prima sul posto; poi arrivò l'autoambulanza.

Il medico si precipitò verso l’uomo disteso a terra. Vide che non respirava. Capì che non c’era più niente da fare.

Ci fu una calca di gente.

Ognuno voleva sapere. Chiedeva cosa fosse successo?

“ Ma ! Chi è stato ucciso? “ , chiese un giovane dall'aspetto da bullo.

“ Ma come? Non lo conosce? Non l'ha visto in televisione? E' Astardi, l'attore”, rispose la donna, meravigliandosi che quel ragazzo non conoscesse un attore così famoso.

“ Ah sì! Astardi, l'attore” , disse il giovane, che si allontanò.

“ Allora cosa è successo? “ , chiese la giovane donna, seduta sulla moto.

“ C'è stata una rapina. C'è anche un morto. Un certo Astardi” , rispose il giovane, che si mise alla guida della potente moto, che poco dopo partì a razzo.

Ma la giovane donna già non lo sentiva più. S'era infilata la cuffia dello stereo nelle orecchie.

La musica le inondava la mente mentre la moto sfrecciava veloce tra le strade della città.

E le chiese, i monumenti, la storia scivolavano via tra i suoi lunghi capelli biondi.

CAPITOLO 16

Quando apprese la notizia dalla radio, Roberta stava dipingendo.

Sembrò non farci caso, come se Astardi fosse uno sconosciuto per lei.

Invece in cuor suo non voleva, né poteva accettare la sua morte.

Lasciò perdere i colori e la tela e si alzò dallo sgabello, si avvicinò alla finestra.

Piangeva. Il suo era un dolore lento e senza rumore. Sapeva che con Giovanni andava via una parte della sua vita.

Così come per Argot, vittima di uno stupido incidente stradale.

Andò con la mente a quel tragico giorno, quando tremante si recò al pronto soccorso dell’ospedale.

Non un gesto, non un abbraccio, né un saluto, in un attimo Argot l’aveva abbandonata.

King le era stato accanto.

L’aveva confortata, l’aveva aiutata a superare quei momenti terribili e dolorosi. E poi questo stare insieme, questo sentirsi uniti, li aveva portati all’amore; non fu un rapporto fugace e istintivo come un lampo in una notte scura.

Roberta s’innamorò di King, ricambiata, anche se nei primi tempi aveva dubitato che tra loro due ci potesse essere un rapporto affettivo oltre a quello sessuale.

Certo, la differenza di età tra loro due era notevole e lei sapeva bene che il tempo non giocava a suo favore. Sapeva che un giorno qualsiasi King sarebbe andato via, che avrebbe avuto qualcun’altra. Era cosciente di quello che sarebbe successo, ma non voleva pensarci ora. Le interessava solo vivere intensamente ogni attimo di felicità che quell’unione le offriva.

Lei non avrebbe mai accettato di essere messa in disparte. L’avrebbe fatto lei. Un po’ prima, sarebbe stata lei ad andarsene.

“ Devo tornare a dipingere. Devo colorare il cielo di blu”, disse.

*****

Thank you for taking the time to read my book.

L ‘ Autore

Raffaele Crispino è nato a Frattaminore (Napoli ). Vive a Formia, città di mare e

sole.

E’ l’autore del Il disoccupato doc (ovvero l’arte di non fare niente );( narrativa umoristica)

Prima che cominci il giorno; (narrativa) Le interviste alla storia; (narrativa umoristica)

L’ascensore. Boston (thriller)