Marcello Pollono
Trilogia noir
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Indice dei contenuti
Montacarichi Staccialonga Le città sotterranee di Derinkuyu
Montacarichi
Il giorno del collaudo fu una vera festa. Neanche si trattasse di inaugurare l’opera del secolo, destinata a cambiare il futuro del mondo. In realtà, in un certo senso era così, almeno per il mondo costituito dal piccolo condominio di Via Massei 27 a Lido Maggiore, località Setto. Da anni infatti tre famiglie lottavano contro tutto e tutti per avere il loro ascensore, che poi nel tempo per motivi vari era diventato di fatto un montacarichi. Il Comune di Maggiore, da cui Lido dipendeva, era noto per la sua puntigliosità nel valutare qualsiasi progetto edilizio-urbanistico e per la rigidità nel far applicare regole e regolette, cavilli e contro cavilli, salvo poi non aver mai varato negli ultimi anni un vero e proprio piano regolatore. E questo lo si intuiva facilmente osservando diversità e disomogeneità di stili delle abitazioni. Per fortuna però nel suo complesso la località era molto bella e quel montacarichi, pur con tutti i suoi limiti, avrebbe sicuramente cambiato sia la vita dei condomini, in particolare quelli del secondo e del terzo piano, sia il valore dell’immobile. La realizzazione era durata in tutto più di cinque anni ati tra progetti rigettati dal Comune, blocchi dei lavori imposti dai vicini, un’impresa costruttrice non certo stacanovista e beghe burocratiche e fiscali di varia natura. Il fatidico giorno tuttavia era arrivato e le difficoltà del percorso non facevano che enfatizzarne l’importanza. Non che mancassero le polemiche e le discussioni con l’impresario. Innanzi tutto
per motivi economici (il prezzo era chiaramente lievitato nel corso degli anni), ma anche per il suo atteggiamento generale di indolenza che oggettivamente, dopo tutti quegli anni, avrebbe esasperato chiunque. La riunione vedeva tutti presenti, i tre inquilini della palazzina e l’impresario. Era l’inizio di marzo, periodo di Carnevale e di carri. Verificarono dapprima le chiavi di apertura delle porte ai diversi piani, andando su e giù due o tre volte. L’impresario cercava di spiegare loro le peculiarità dell’impianto, ma era chiaro a tutti che il suo utilizzo sarebbe stato sicuramente molto complesso e non privo di sorprese. Se i dubbi del collaudo sembravano dovuti più alla loro prevenzione nei confronti dell’indolente impresario che a reali motivazioni tecniche, i primi viaggi diedero modo di confermare purtroppo tutte le perplessità. Le porte ai piani non chiudevano bene, anche perché non avevano all’interno maniglie che ne agevolassero la presa. Questo si traduceva spesso in porte rimaste aperte ai piani e quindi in montacarichi bloccato e necessità di salire a piedi per sbloccarlo. Ancora più gravi, e via via più frequenti, erano i casi in cui il montacarichi per motivi ignoti si fermava non in corrispondenza dei piani, tenendo così gli sfortunati occupanti intrappolati fino all’arrivo dell’assistenza tecnica. E le cose non miglioravano neppure dopo i numerosi interventi di messa a punto e le piccole migliorie che ad ogni intervento il tecnico apportava. Inutile dire che ben presto i condomini si rassegnarono all’idea di non poter migliorare più di tanto la situazione. Si presero così l’unica possibile rivincita nei confronti dell’impresario: non pagare le ultime rate di saldo fine lavori. La situazione nel frattempo restava tale e quale. Il montacarichi puntualmente si fermava costringendo i condomini ad una serie di accorgimenti e contromisure preventive che ne rendevano l’utilizzo un vero e proprio calvario: bottiglietta d’acqua per resistere al caldo se si bloccava di giorno, cellulare per chiamare l’assistenza, chiave di emergenza per aprire le porte da dentro, scendere separatamente.
Una domenica sera di fine luglio la coppia del terzo piano, lei manager in ambito immobiliare, lui dirigente in un’azienda tessile, si apprestava a tornare a casa su a Milano. Il week end era stato fantastico: non una nuvola, sempre ventilato, mare calmo e limpido. Neppure l’ombra di quelle meduse che erano state il tormentone dell’estate precedente. Come da abitudine avevano cenato ancora al Lido, fuori sulla terrazza di casa. Sarebbe stato un peccato rinunciare a quel rito, mettersi in auto prima di cena per infilarsi quasi subito nel solito serpentone infuocato di auto in coda lungo la via del ritorno. Magari riducendosi a mangiare in piedi una rustichella all’Autogrill. Fatta cena, lavati i piatti e chiuse le valigie, lui si mise a tracolla la borsa del computer, afferrò per i manici i due grossi trolley, diede una voce alla moglie e si diresse sul pianerottolo. Aperta la porta entrò nel montacarichi e iniziò la discesa. Erano le dieci e venti. A casa, a Milano, non sarebbero arrivati prima dell’una, una e mezza. La struttura vetrata del montacarichi permetteva di osservare i giardini verdeggianti delle villette tutto intorno. I vicini erano per lo più dentro casa. Solo quelli di fronte, come spesso accadeva, avevano ospiti ed erano seduti sulle sdraio in giardino. Pochi lumini appesi agli alberi creavano una atmosfera chic ed accogliente. A metà tra il secondo ed il primo piano il montacarichi fece un rumore sordo. La cabina con uno scossone si arrestò di colpo. Eccoci, l’ennesimo guasto. Per fortuna aveva preso come da abitudine il cellulare, una delle varie precauzioni instaurate nella loro lotta impari contro quel dannato aggeggio. Al terzo squillo la moglie rispose con voce trafelata. Scendendo le scale a piedi la donna maledisse a rampe alterne il montacarichi e l’impresario. Giunta al piano terra azionò il pulsante rosso che permetteva lo scarico del pistone idraulico e quindi la lenta discesa della cabina. Questa volta però la cabina non si mosse. Provò di nuovo, stando al telefono con
il marito, ma la cabina continuò a restare ferma. Cosa fare? Il nervosismo cresceva anche perché ogni minuto di ritardo in partenza significava un minuto di ritardo nell’arrivo a Milano, ossia iniziare già sulle ginocchia la lunga settimana lavorativa che li attendeva. Il tecnico non sarebbe arrivato prima di mezzora, ma d’altra parte alternative non ne avevano. La cabina si era fermata proprio a metà strada; fosse stata per lo meno più vicina ad un piano avrebbero potuto aprire la porta con la chiave di emergenza permettendo all’uomo di uscire. Invece no. Dovevano chiamare il tecnico. Composero in tutta fretta il numero di cellulare del pronto intervento. “ … messaggio gratuito, l’utente non è al momento raggiungibile, riprovare più tardi …”. Partì un’imprecazione che fece eco nel vano del montacarichi. I vicini in giardino si voltarono. Questo sì che era un problema. Provarono sul cellulare personale dell’impresario, ma anche quello risultò non raggiungibile. La situazione si faceva complicata. Nel frattempo si erano fatte le undici e un quarto. Cosa fare, riprovare ai cellulari più tardi o chiamare subito i Vigili del Fuoco? arono altri minuti pigiando tutti possibili pulsanti senza ovviamente alcun risultato. Undici e ventitré. In uno scatto di rabbia l’uomo compose il 115, Vigili del Fuoco. Alcuni squilli, poi ecco una voce tranquilla all’altro capo del telefono. Spiegò nervosamente la situazione ma con estremo stupore si sentì replicare che non era previsto questo tipo di intervento a meno di situazioni di emergenza. Un loro intervento in assenza di reale pericolo sarebbe stato a lui addebitato, senza contare i danni che i pompieri sicuramente avrebbero arrecato all’impianto nel cercare di liberarlo.
Danni che ovviamente sarebbero stati addebitati a lui. Imprecando contro tutto e tutti chiuse la conversazione e riprese a schiacciare tutti i pulsanti. Lo stesso fece la moglie. Non accadde nulla. Anche i cellulari dell’impresario e del tecnico continuavano ad essere non raggiungibili. Inutile continuare a meno di non volersi far prendere da una crisi di nervi. Ormai era mezzanotte e mezza ata, le speranze che quei due cellulari venissero riaccesi era nulla. L’unica cosa da fare era chiamare i Carabinieri e chiedere il loro intervento. Il tentativo però sortì lo stesso effetto di quello fatto con i Vigili del Fuoco. Senza una situazione di reale pericolo non potevano intervenire. Prima di chiudere la conversazione il carabiniere, intuendo probabilmente cosa stava ando nella mente dell’uomo, disse: “Le sconsiglio vivamente di chiamare il 118 per chiedere l’intervento di un’ambulanza. Probabilmente i sanitari chiamerebbero sia noi sia i Vigili del Fuoco, ma se poi si dovesse rivelare un falso allarme, lei si troverebbe con una bella denuncia per procurato allarme, oltre che la fattura dei Vigili del Fuoco … Buonanotte”. Ok, era chiaro. Basta, si trattava di aspettare l’intervento del tecnico l’indomani mattina. Si misero così il cuore in pace e si diedero la buonanotte. Lui tirò fuori dai trolley un po’ di vestiti, li distese sul pavimento creando un giaciglio di fortuna e vi si distese sopra, tutto rannicchiato viste le dimensioni ridotte della cabina. Ci impiegò un po’ ma alla fine riuscì ad addormentarsi.
Lo svegliò un paio di ore dopo un nuovo scossone. La cabina si stava lentamente muovendo, la luce interna si era accesa. Fuori era tutto buio. Cercò di capire se al piano terra ci fosse qualcuno ad azionare l’impianto, ma non ci riuscì. Nel suo movimento la cabina ò davanti alla porta del secondo piano. A quel
punto l’uomo provò ad aprirla spingendola con forza. La porta non si mosse di un centimetro, era chiaramente bloccata. Questo stava a significare che la cabina era stata azionata per raggiungere il terzo piano e quindi tutte le porte agli altri piani erano state inibite all’apertura. Per un attimo pensò, soprattutto sperò, fosse stata la moglie a chiamare il montacarichi dal terzo piano. La cabina nel frattempo continuava a salire superando del tutto il varco del secondo piano. A quel punto la cabina si fermò di nuovo. Si trovava sufficientemente lontana dal piano da rendere impossibile l’utilizzo della chiave di emergenza. L’uomo si guardò intorno. Nessun segno di vita. Soltanto laggiù, in lontananza, sul tetto del palazzo in costruzione, gli sembrò di scorgere un’ombra. D’improvviso un puntino rosso si accese e si spense. Pochi secondi e di nuovo il puntino si accese e si spense. Abituatisi nel frattempo alla scarsa luce, i suoi occhi distinguevano ora una sagoma scura, chiaramente la sagome di una persona, in piedi sul tetto di quel palazzo. Il lumino doveva essere evidentemente la brace della sigaretta che diventava più luminosa e quindi visibile ad ogni tiro. Quella persona stava fumando. Ogni tanto un luccichio, un riflesso argenteo, come un filo di luce. Non ne capì l’origine. Peraltro era tutto intento a cercare una spiegazione per quella presenza. Cosa ci faceva quella persona sul tetto di quel palazzo in costruzione a quell’ora della notte. Mentre faceva questi pensieri, il lumino rosso, come una minuscola stella cadente, prima si accese di luce intensa, poi con una parabola morbida solcò il cielo scuro della notte, andando a rimbalzare sull’asfalto della strada deserta. Tornò a guardare il tetto e gli parve per un attimo che la sagoma fosse sparita.
Sarà stato un vagabondo che dormiva clandestinamente nel cantiere, oppure un operaio che doveva fare qualche lavoretto abusivo, pensò tra sé e sé. Provò a telefonare all’impresario e questa volta il cellulare risultava e suonava libero. arono dieci interminabili squilli prima che il messaggio della segreteria telefonica si attivasse. Riprovò dopo pochi secondi ed il telefono risultò nuovamente spento. “Stronzo” gli scappò a voce alta. Il giorno successivo gliele avrebbe fatte pagare care, una ad una. Cercò di tranquillizzarsi di riprendere sonno e ci riuscì abbastanza in fretta.
Si svegliò di colpo fradicio di sudore. Guardò l’orologio. Erano solo le otto del mattino ma il sole era già alto in cielo ed i suoi raggi scaldavano la struttura del montacarichi facendo innalzare la temperatura al suo interno. Sarà stato il calore assorbito dalla struttura metallica il giorno prima e rilasciato durante la notte o il calore che lui stesso dormendo nella cabina aveva creato, sta di fatto che il calore iniziava ad essere davvero fastidioso. Non uno spiffero, non un solo filo d’aria. Chiamò immediatamente l’impresario ma il telefono risultava ancora staccato. Imprecò. Chiamò la moglie, anche quel cellulare era staccato. Imprecò due volte. Chiamò il 115. Rispose la stessa voce della sera prima. Si riconobbero subito a vicenda, si scambiarono due convenevoli in un clima misto tra imbarazzo e scherzo. Il vigile ribadì che non sarebbero potuti intervenire per gli stessi motivi della sera prima, con l’aggravante che di giorno il tecnico sarebbe stato sicuramente raggiungibile e quindi sarebbe intervenuto per liberarlo. Stare lì ad aspettare con le mani in mano, impotente, senza fare nulla, non
risultava cosa facile. Aveva mal di pancia, la vescica premeva. Si alzò in piedi, abbassò pantaloni e boxer ed iniziò ad orinare cecando di far are l’urina tra la base della cabina e la struttura del vano montacarichi, così che cadesse giù al piano terreno. Inevitabilmente dopo pochi minuti l’odore di urina, accentuato dal calore, iniziò a farsi sentire causandogli una sensazione generale di nausea. Alle otto e trenta squillò il cellulare. Era sua moglie che prima di chiamarlo aveva già fatto il giro di tutti i numeri dell’impresario, del tecnico, dei coinquilini, tutti però assenti. Dopo il primo scambio di battute sulla notte trascorsa, decisero che, massimo alle nove, avrebbero chiamato di nuovo i Carabinieri e, qualora non fossero intervenuti loro, il 118. Nel frattempo cominciava a mancargli l’aria, aveva sete, la gola era secca. Era sudato marcio. Non arrivò alle nove, ormai stava veramente soffrendo per caldo, sete e stress. Alle otto e cinquantaquattro chiamò i Carabinieri e vistosi respingere nuovamente la richiesta, fece chiamare il 118 dalla moglie. L’ambulanza arrivò dopo diciassette minuti. La moglie nel frattempo era scesa in cortile. Li accolse spiegando loro tutto quanto. La reazione dei sanitari all’inizio fu abbastanza fastidiosa. Sembravano increduli e divertiti per l’accaduto. La moglie rincarò la dose cercando di far loro capire come il marito iniziasse ad andare in sofferenza per il caldo e la sete. I tre allora, temendo di finire sul giornale per aver sottovalutato un’emergenza, chiamarono immediatamente Carabinieri e Vigili del Fuoco. Questi ultimi arrivarono dopo quaranta minuti, i primi invece dopo soli dieci minuti. Peccato però che rovinarono il bello della loro solerzia con una serie di stupide esternazioni, compreso un “…non potevate chiamarci prima …” che suonò davvero come una presa in giro, oltre a fare uscire definitivamente dai gangheri la coppia. Quando la squadra di soccorso fu al completo iniziarono le grandi manovre. Sui
visi di tutti però continuava a permeare un sorrisetto di sufficienza e di scherno. I primi tentativi andarono a vuoto. Sembrava come se la cabina, l’interro impianto, fossero del tutto sordi ai comandi che le venivano impartiti, sia dalle pulsantiere ai diversi piani, sia dalla centralina di comando posta nel vano scale al piano terra. Non funzionava il pulsante di discesa di emergenza, per quanto fosse del tutto meccanico; non serviva a nulla spegnere e riaccendere il quadro generale, non si aprivano le porte ai piani, neppure con l’apposita chiave di emergenza. Insomma, arono altri venti minuti durante i quali i pompieri ripeterono tutte le operazioni fatte la sera prima dai coniugi, ottenendone lo stesso risultato, ossia un bel niente. Tutto ciò irritò notevolmente la coppia, in particolare l’uomo non si trattenne più quando capì che anche i Vigili stavano tentando di mettersi in contatto con l’impresario. A quel punto non ci vide più, si alzò in piedi con quelle poche forze che ancora aveva ed iniziò a tempestare di pugni e calci le pareti della cabina ed i vetri della struttura esterna. Sanitari, Carabinieri e Vigili del Fuoco lo guardarono infastiditi. Fu in quel preciso istante che un lampo, un riflesso di luce, colpì i suoi occhi, attirandone l’attenzione. Si voltò subito verso il palazzo in costruzione, guardò verso il tetto e vide l’origine del riflesso. Un’antenna sottile, lunga, sporgeva da dietro un muretto di mattoni, ancora da intonacare. Di tanto in tanto faceva capolino la sagoma di un cappellino, di quelli sportivi con tesa frontale, di colore scuro. Venne completamente rapito da quella visione, tanto da disinteressarsi completamente di quello che stavano facendo giù a terra tutti quanti. Stette ad osservare ancora. Chiaramente dietro quel muretto, sotto quel berretto, c’era qualcuno che, a giudicare dai movimenti del cappello, stava camminando avanti e indietro. Di colpo apparve la figura di un uomo. Jeans e polo scuri, in mano la consolle di un telecomando dalla lunga antenna metallica. Ne era sicuro. Era lui, l’impresario.
L’idea fu immediata nella sua testa. Prese il cellulare, fece scorrere le chiamate recenti, fece per chiamare il numero dell’impresario quando di colpo, con un frastuono, la cabina precipitò di alcuni metri, fermandosi violentemente tra il primo ed il secondo piano. I soccorritori, sorpresi e soprattutto spaventati per quella caduta improvvisa, fecero un balzo indietro. Il colpo provocato dal violento arresto della cabina, provocò il distacco di alcuni grossi tasselli che fissavano la struttura del montacarichi alla facciata della palazzina. Grossi pezzi di intonaco finirono nel cortile colpendo alcuni pompieri. L’accaduto mandò letteralmente nel panico tutti i soccorritori. Gli infermieri abbandonarono immediatamente il cortile uscendo in strada ed andandosi a piazzare di fianco all’ambulanza. Carabinieri e Vigili del Fuoco parlarono animatamente tra loro, quindi presero il nastro bianco e rosso ed iniziarono a delimitare un’ampia zona di sicurezza intorno alla palazzina. Una piccola folla di curiosi nel frattempo si era raccolta a ridosso del nastro. L’agitazione creata da quel crollo improvviso fece sì che nessuno dei soccorritori si preoccue minimamente di quello che avveniva nella cabina, men che meno di quello che accadeva sul tetto del palazzo di fronte. I pompieri nel frattempo avevano chiamato la centrale per farsi mandare una gru con la quale mettere in sicurezza la cabina per prevenirne ulteriori cadute. La struttura metallica del montacarichi, staccatisi in parte dalla palazzina e piegatasi completamente su un lato, iniziò ad emettere rumori sinistri, premonitori di ulteriori imminenti cedimenti. I rumori erano talmente forti da coprire le urla dell’uomo intrappolato nella cabina. Dopo essersi infatti ripreso dalla caduta, stava ora cercando di attirare l’attenzione di Carabinieri e pompieri su quell’uomo in piedi sul tetto del palazzo di fronte. Cercato e trovato il cellulare sul pavimento della cabina, l’uomo compose il numero dell’impresario e non appena sentì il segnale di libero, si voltò e vide l’uomo sul tetto portare la mano sinistra verso il capo. “Eccomi” rispose.
Lui ne immaginò il volto solcato da un sorriso malefico. “Ora ti tiro giù io”. Non riuscì a rispondergli nulla, era completamente paralizzato. A terra nessuno poteva rendersi conto di quella conversazione, di quanto stava andando in scena lassù. La cabina riprese la sua corsa, questa volta molto lentamente, verso l’alto. I due uomini si guardavano negli occhi, i cellulari connessi. Nessuno dei due parlava. Si sentivano solo i respiri, lento e profondo quello dell’impresario, rotto ed affannato quello dell’uomo. La cabina aveva ora raggiunto il secondo piano. Un pompiere, che si era appostato sul pianerottolo del secondo, vedendosi are davanti la cabina provò con tutte le sue forze ad aprire la porta, invano. Dopo alcuni tentativi, vedendo la cabina allontanarsi in direzione del terzo, incominciò a colpire la porta in acciaio con una scure. I vetri saltarono via, cadendo con fragore nel vano montacarichi. A quel punto provò a far are il manico dentro il varco che si era creato così da utilizzare la scure come leva per arrestare la salita della cabina. Ed in un primo momento la cosa sembrò funzionare. La cabina rallentò la sua marcia, per un attimo si fermò. Poi, in un fragore di lamiere che si contorcevano e cavi di acciaio che si tendevano, con un botto il manico si spezzò, finendo anch’esso nel vano ascensore. La cabina era ora al terzo piano. Ma non si arrestò. Continuò la marcia fino al fine corsa. Lì si fermò, nonostante il pistone idraulico da sotto spingesse ancora verso l’alto. Poco dopo il pavimento cominciò a deformarsi, a piegarsi verso l’alto proprio nel centro, dove agiva il pistone. I montanti della cabina cominciarono a piegarsi su se stessi, e così fecero le traverse laterali. Di schianto il tetto della cabina saltò per aria, ricadendo in parte sulla sua testa, in parte precipitando nel cortile. I fine corsa saltarono via.
Senza più arresti la cabina, o meglio quello che ormai rimaneva, riprese a salire verso l’alto. Parte della cabina aveva ormai superato la fine dei montanti della struttura, puntando senza vincoli alcuni verso il cielo. Il pavimento contorto si avvicinava progressivamente e pericolosamente, al soffitto del vano ascensore. Ancora un metro e per l’uomo, ormai raggomitolato su se stesso, non ci sarebbe stata via di fuga, nessuno scampo. Sarebbe rimasto schiacciato come un topo. L’indice della mano destra premette il pulsante di stop e la cabina si fermò. L’impresario si tolse allora il berretto e gli occhiali scuri. L’uomo, piegato in due tra i trolley e le lamiere contorte, lo poteva osservare distintamente. L’impresario portò la mano alla bocca, fece un ultimo tiro con la sigaretta, la fece cadere a terra spegnendola con un rapido gesto del piede. Guardò verso la cabina fino a fissare negli occhi l’uomo. Spense il cellulare, che riprese così la solita litania del messaggio automatico “non raggiungibile”. Fece un ultimo sorriso, poi con un ampio gesto della mano girò la manopola generale su “off”. La cabina iniziò a precipitare come fosse spinta verso il basso da una gigantesca mano invisibile. Lo schianto fu tremendo. La cabina si interrò nel basamento di oltre un metro. I montanti della struttura caddero fragorosamente in cortile portandosi dietro grandi pezzi di intonaco, cavi elettrici e telefonici e alcuni rami dei pini circostanti.
Quando il polverone si dissolse, ai soccorritori apparve una scena apocalittica: lamiere piegate, cavi che emettevano scintille lunghe più di un metro, calcinacci e rami rotti ovunque. Il silenzio surreale che si era creato di colpo fu interrotto da un rumore sordo, quello della pompa idraulica che azionava il montacarichi. Il cilindro idraulico si era rimesso in moto. Dopo pochi secondi dalla fossa spuntò il corpo dell’uomo, trafitto da quello stelo che saliva, lento, verso l’alto.
Staccialonga
Quando riuscirono a fermare il grosso asino grigio lanciato in una folle corsa giù lungo la strada che collega Vico del Gargano al lungo mare di San Menaio, del povero corpo del vecchio rimaneva ormai poco di riconoscibile. La ricostruzione dell’accaduto fatta dai Carabinieri recitava: “L’asino per motivi ignoti si imbizzarriva provocando la perdita di equilibrio da parte del defunto il quale tentava invano di rimanere in sella all’animale. Nel fare ciò il defunto rimaneva imprigionato nelle redini di governo dell’asino, prima con gli arti superiori come dimostrano i lividi su braccia ed avambracci, successivamente con il collo risultandone conseguentemente strangolato a morte. L’asino ormai privo di controllo e ulteriormente imbizzarrito a causa del peso del corpo esanime del defunto che gravava sulle briglie, continuava la sua folle corsa per chilometri due lungo la strada vicinale Vico del Gargano-San Menaio, procurando in questo modo numerose ferite lacerocontuse sul corpo del defunto e rendendone le sembianze non riconoscibili a prima istanza”.
Ad accorrere sul luogo ed a fare la macabra scoperta furono alcuni villani che abitavano in case coloniche lungo la strada percorsa dall’asino, svegliati in piena notte dai ragli dell’animale. Il resto lo fecero le circostanze. Il luogo innanzi tutto, e poi il vecchio. L’asino infatti si era andato a fermare proprio di fronte all’abitazione dell’uomo dove, calmatosi di colpo e raggiunto dai villani, era stato facilmente bloccato ed imbrigliato. Da sempre quella casa aveva attirato dicerie e pettegolezzi vari su quanto fosse avvenuto ed ancora avvenisse al suo interno ad opera del vecchio proprietario il quale, già di suo, attirava da sempre commenti di ogni genere per il suo modo di vivere da eremita in quella casa isolata.
Ora, la sua morte violenta, la sua personalità oscura, il luogo dell’accaduto, tutto insomma avrebbe sicuramente fatto rifiorire nuove dicerie e voci sui malefici di quei luoghi. Sarà per questo, sta di fatto che il giorno del suo funerale nessuno si presentò al Camposanto, neppure il fratello, unico parente che ancora aveva in vita.
La giornata era iniziata molto presto quel giorno, intorno alle sei e trenta, ossia all’ora in cui il fontaniere aveva suonato il camlo. Era giorno di irrigazione. Il fontaniere era un soggetto particolare, perfettamente in linea con la professione che svolgeva. Una volta ogni tre mesi faceva il giro delle abitazioni sulle alture a ridosso di Rodi e San Menaio, portando con sé la valvola che permetteva agli abitanti di collegarsi per qualche ora alle tubazioni provenienti dal bacino idrico situato qualche chilometro più a monte, nel territorio di Vico. Questo consentiva loro di attingere l’acqua per irrigare gli aranci e gli ulivi che ricoprivano le colline. Era quello il modo più economico, la cui sola alternativa consisteva infatti nel richiedere un’autobotte di acqua a qualche privato che l’avrebbe fatta pagare a peso d’oro. Camillo era riuscito ad anticipare il proprio turno, inizialmente previsto per il giono di Ferragosto, anche se in quel preciso istante se ne stava pentendo amaramente visti i bagordi notturni della sera precedente. Prima che i fumi dell’alcool rendessero la cosa impossibile si erano comunque ottimamente organizzati: Camillo avrebbe aperto la porta al fontaniere alle sei e trenta, collegato i vari collettori, predisposto i lunghi tubi gialli in gomma che permettevano di raggiungere tutti gli angoli del giardino, quindi sarebbe tornato a dormire. Alle otto e trenta Giulio, l’amico di Torino che Camillo ospitava con moglie e figlia, si sarebbe alzato, avrebbe iniziato ad irrigare la parte bassa del giardino, quella più estesa ed irta. Arrivato a metà dell’opera (diciamo intorno alle dieci, dieci e mezza) Giulio avrebbe dovuto svegliare tutti quanti così che, prendendo in carico ognuno una zona di giardino, avrebbero potuto terminare l’opera entro
mezzogiorno, orario in cui il puntualissimo fontaniere era solito ripresentarsi per staccare il collettore principale. E così andarono filate le cose. La giornata era poi proseguita con un brunch sul patio di fronte alla foresteria, ossia la camera degli ospiti dove dormivano appunto Giulio e famiglia. Poi un sonnellino di un’oretta per riprendersi dalle fatiche del mattino, quindi la solita discesa in spiaggia culminata con l’aperitivo al tramonto sulla terrazza in legno di Cala Paracuru. Poi su a casa, doccia all’aperto con luci spente per vedere le stelle, grigliata di carne sul barbecue del patio e mirto finale parlando del più e del meno.
Verso le due e mezza della notte Giulio fu svegliato da alcuni rumori provenienti dal patio di fronte alla loro stanza. Lì per lì non ci fece caso. Sembrava ci fosse qualcuno che camminava lì fuori, sicuramente Camillo o sua moglie sca. Fece per girarsi dall’altra parte e riprendere sonno ma qualcosa glielo impedì. Ragionandoci su, cosa ci facevano lì fuori a quell’ora? Non era certo per prendere qualcosa dal frigo in cucina visto che anche nel loro alloggio al primo piano avevano un frigorifero ben fornito. Tese meglio l’orecchio. Ora che era più sveglio e più presente, si rese conto che quei i erano troppo pensanti e cadenzati per essere quelli di una persona. Pensò quindi subito ai due cani bracchi di sca, ma anche i loro i non potevano essere così rumorosi. Tese ancor più l’orecchio. Era un rumore famigliare, che aveva sentito altre volte. Un calpestio duro, come di zoccoli in legno. Badando di non svegliare la moglie si alzò dal letto e si accostò alla finestra. Inclinò lentamente le persiane sforzandosi di scorgere qualcosa nel buio della notte fonda. Il rumore era forte, vicino, ma non riusciva a vedere nulla per quanto i suoi occhi
si stessero progressivamente abituando all’oscurità e cominciassero a riconoscere distintamente i vari oggetti presenti nel patio: il tavolo, le panche in pietra, le sedie a sdraio.
“Ahhhhhhhh!!!!!!!!!!” Il grido gli si strozzò in gola. Fece un mezzo balzo indietro andando a sedersi sul bordo del letto. L’urlo soffocato e l’urto con la base del letto fecero rigirare la moglie che, praticamente dormendo, gli si rivolse con tono fastidiato: “Giulio, ma che fai?! Torna a letto, è notte fonda!”. “Elisa, svegliati, qui fuori nel patio c’è un …” “…asino che vola, su dai!!”, disse lei anticipandolo e dicendo quello che solitamente dicevano loro alla figlia Vittoria per distrarla quando faceva i capricci. “Sì!” fece lui con un filo di voce “Un asino, ma questo non vola”. “Seh dai, buonanotte Giulio” rispose lei biascicando le parole dal sonno. Quindi si rigirò dandogli le spalle e riprese a dormire con un respiro profondo. Boh, inutile insistere oltre, era chiaro che la moglie non gli avrebbe dato ulteriore corda. Effettivamente l’asino c’era, come ebbe modo di verificare riavvicinandosi cautamente alla finestra. Prima, mentre cercava di scrutare nel buio, se l’era trovato di fronte tutto d’un tratto, le narici aperte, le labbra dischiuse a mostrare una perfetta dentatura, gli occhi sgranati e le pupille dilatate, anche lui per vincere l’oscurità. Da lì lo spavento e l’urlo atterrito. Adesso che era più tranquillo iniziò a guardarlo meglio. Si trattava di un grosso asino grigio, sellato, con briglie lunghe che dal collo scendevano fino a sfiorare il selciato. Si aggirava lentamente nel patio.
Ad un certo punto si girò ed iniziò a puntare prima verso l’aranceto in giardino, quindi verso il campo del vicino. Giulio, incuriosito da quanto stava capitando, calzò di fretta le infradito, afferrò dal comodino la piccola torcia elettrica e uscì sul patio. Iniziò così a seguire a distanza l’animale che non si curava più di tanto della sua presenza. L’asino sembrava muoversi lungo un percorso consueto, famigliare. Di tanto in tanto si fermava per brucare qualche sterpaglia secca qua e là. Dal campo del vicino l’asino puntò poi la strada. La attraversò e, superato il muretto a secco che la delimitava, riprese la via dei campi in corrispondenza di un canale di scolo dell’acqua piovana, praticamente secco in estate. Giulio continuava a stargli dietro pur mantenendosi a distanza di sicurezza per non spaventarlo. Di tanto in tanto accendeva la piccola torcia elettrica giusto per il tempo necessario ad individuare la sagoma scura dell’animale là dove la vegetazione diventava più fitta. Ad un certo punto, giunto nel mezzo di una piccola radura, l’asino si fermò e con esso si arrestò anche il rumore che emettevano i suoi zoccoli calpestando la pietraia del canale. A quel punto fu possibile percepire un altro rumore, sordo, che si ripeteva ad intervalli regolari, pochi secondi uno dall’altro. Giulio si accovacciò, avanzò carponi piano piano cercando di non far rumore. Nell’oscurità riuscì a scorgere la sagoma di un uomo. Curvo, la testa china, era intento a zappare il terreno. Restò immobile ad osservarlo incuriosito da quella insolita attività notturna. Ad un tratto l’uomo si fermò, ripose a terra la zappa, si chinò verso il terreno proteso verso un oggetto scuro ai suoi piedi. Faticosamente iniziò a spingere quella cosa fino a che non scomparve all’interno della buca appena scavata. A quel punto prese nuovamente in mano la zappa e iniziò a ricoprire la fossa. Finito il lavoro l’uomo si voltò, fissò la zappa ad apposite fibbie della sella e con
fatica si issò sul dorso dell’asino. Sollevò le briglie tirandole a sé e iniziò a guidare l’animale in direzione della strada. Aveva fatto solo pochi metri quando d’improvviso la sagoma di un altro uomo spuntò da dietro un ulivo. Con un movimento fulmineo cinse il cavaliere alla vita facendolo cadere all’indietro. Il vecchio non ebbe il tempo di riprendersi dalla caduta, che la sagoma scura gli fu sopra. Con un rapido movimento del braccio gli girò intorno al collo le briglie dell’asino quindi diede a quest’ultimo una forte pacca sul dorso, probabilmente usando un oggetto appuntito a giudicare dal raglio che l’animale cacciò fuori. L’asino cominciò a correre imbizzarrito trascinandosi dietro il corpo del vecchio, sbatacchiato qua e là contro massi, alberi, muretti e tutto ciò che l’asino si trovava davanti nella sua folle corsa. Giulio inorridito fece un balzo all’indietro. Il rumore attirò immediatamente l’attenzione di quell’uomo che si girò all’istante verso di lui. D’istinto Giulio pigiò il pulsante della torcia e puntò il tenue fascio di luce contro di lui. Lo sguardo che incrociò non fece che aumentare il suo senso di angoscia e paura. Uno sguardo perso, gelido, malefico. Si alzò, fece per girarsi e scappare ma perse l’equilibrio e cadde. La torcia volò via a qualche metro di distanza. Lui crollò a terra, di spalle. Non riusciva a muoversi per il terrore. L’uomo iniziò a camminare verso di lui. Ne poteva ora sentire distintamente i respiri profondi.
Giulio si svegliò di soprassalto, tutto sudato. Era nel letto della foresterie, nel suo letto. Intorno a lui il buio ed il silenzio della notte. Accanto a lui sentiva chiaramente il calore del corpo della moglie. Guardò l’ora. Erano le quattro e dieci. Prese il bicchiere d’acqua dal comodino e bevve un lungo sorso. Impiegò qualche minuto per riprendersi dall’angoscia e dallo sgomento di quel brutto incubo. Poi, alla fine, stremato, riprese sonno.
Il giorno dopo, mentre facevano colazione tutti insieme, Giulio raccontò agli amici del sogno fatto e per tutti fu ovvio ricondurlo agli ultimi discorsi della sera prima, sorseggiando il solito mirto. Camillo aveva infatti raccontato la storia del vecchio Natalino Pinticchio e della sua morte orribile, strangolato dalle briglie del suo asino dopo esserne stato accidentalmente disarcionato. Effettivamente Giulio lì per lì non ci aveva pensato, ma il nesso era davvero banale, tanto più che lui personalmente era stato impressionato non poco da quella vicenda. Gli ritornò in mente anche che Camillo, per rafforzare il racconto, era salito al primo piano e ne era ridisceso con alcune foto di Natalino. I classici ritratti di famiglia di inizio secolo. In particolare ricordò quella in cui Natalino era fianco a fianco con il fratello, Giuseppe. Lo aveva colpito in particolare lo sguardo freddo ed inespressivo del fratello, come se fosse in trance, rapito da chissà quali pensieri. Ne era rimasto turbato ed ecco quindi spiegato il perché di quel brutto incubo. Si alzò. Entrò in foresteria per prendere quella foto che Camillo aveva dimenticato poi sul tavolo e che lui aveva portato in camera per ripararla dall’umidità della notte. Ecco la prova del nove.
La faccia del fratello, quell’espressione inquietante che anche ora lo turbava, coincidevano alla perfezione con il viso dell’uomo apparso nel sogno. Ci fecero sopra delle grosse risate. Finirono di fare colazione e si prepararono per quello che era purtroppo l’ultimo giorno di mare, almeno per Giulio e famiglia. Vacanze finite, la mattina dopo sarebbero ripartiti per Torino. La giornata ò serena, così come la serata e la nottata. Anche il sonno fu sereno e rilassato, merito anche del vino bianco, bello ghiacciato, bevuto durante l’ottima e consueta cena al trabucco.
Le valigie erano tutte chiuse, mancavano solo le ultime cianfrusaglie da mettere nello zainetto. Erano pronti orami per i saluti quando Giulio chiese: “Qualcuno ha visto la mia torcia? Pensavo di averla messa nello zainetto ma non la trovo”. Seguirono dieci minuti di ricerche, dapprima il solo Giulio, quindi la moglie insieme a sca. Puntualmente la colpa venne data alla piccola Vittoria, rea a detta di Giulio di aver giocato e perso la torcia in giardino. Giulio rientrò in camera, volgendo lo sguardo ovunque alla ricerca della sua torcia. I suoi occhi intenti a perlustrare ogni singolo anfratto della stanza incrociarono per un attimo gli occhi di Giuseppe, nella foto. Un brivido gli percorse la schiena. Sentì chiaramente la pelle d’oca diffondersi su gambe e braccia, drizzandogli letteralmente i peli. Un morso gli strinse lo stomaco. Uscì di corsa dalla stanza. Senza dire nulla agli amici che lo guardavano ora perplessi, iniziò a correre in direzione del cancello già aperto e da lì su per la strada verso l’incrocio con la strada vicinale Vico-San Menaio. Camillo e gli altri si guardarono negli occhi con fare interrogativo.
Lui continuava a correre lungo la strada senza mai voltarsi indietro. Stava sudando, la milza gli faceva male, il respiro era rotto ed affannato. Riconobbe ad un certo punto il canale di scolo in corrispondenza del quale, nel suo sogno, l’asino aveva abbandonato la strada per ributtarsi nei campi. Saltò oltre il muretto e ripercorse a memoria il tragitto fatto nel sogno per seguire l’asino. Presto si trovò in mezzo ad una piccola radura. Cercò con lo sguardo il cespuglio usato da quell’uomo per nascondersi. Lo individuò. Iniziò poi a scrutare il terreno lì intorno. Ci vollero cinque minuti buoni, ma alla fine la trovò. Prese la piccola torcia in mano. Pigiò il pulsante. I led si accesero. Bene, funzionava ancora. Potevano partire.
Le città sotterranee di Derinkuyu
Camini delle fate, meringhe, città rupestri e città sotterranee. La lista dei POI, Point of Interest, o meglio delle “cose da non perdere” come recitava la guida Lonely Planet era lunga abbastanza da riempire i tre giorni che avevano deciso di dedicare alla tappa in Cappadocia. Il Caravanserraglio trasformato in hotel era d’altra parte così scenografico ed accogliente da rappresentare di per se stesso un ottimo motivo per una sosta ristoratrice dopo le centinaia di chilometri percorsi in sella alle loro moto, tra Italia, Grecia e Anatolia Centrale. Pareti in pietra chiara, soffitti a cassettoni, arredi in legno massiccio, tanto semplici quanto ben inseriti nel contesto. E poi il patio, quel giardino lussureggiante di piante e fiori colorati a far da contrasto con la desolazione del paesaggio desertico tutto intorno. Infine lei, la piscina, da cui mai si sarebbero staccati. Il ristorante dell’hotel serviva colazioni buone ed abbondanti; a fianco dei cibi internazionali ogni mattina scoprivano una o due prelibatezze della tradizione locale. Anche la cena, servita nel giardino a bordo piscina, sapeva stupire ogni sera tanto da non far venir rimorsi per il fatto di restare in hotel anziché andare in cerca di ristorantini alternativi. D’altra parte le giornate erano lunghe e faticose. I quarantadue gradi si facevano sentire tutti così che la sera, dopo una bella nuotata in piscina ed una doccia rigenerante, poca era voglia di risalire in sella alla moto per uscire a cena. La scelta dell’albergo infatti aveva privilegiato il fascino della location (il Caravanserraglio riattato per l’appunto) e la sua posizione strategica, baricentrica rispetto ai siti che volevano visitare, rispetto alla vicinanza al centro abitato, che risultava non raggiungibile a piedi. L’assenza totale di un servizio taxi o similari faceva o il resto.
arono il primo giorno a camminare tra le meringhe, come vengono chiamate le strane formazioni calcaree tipiche di quella regione: delle specie di montagnole dalle forme morbide e sinuose, scolpite dal vento e dalle rarissime ma impetuose piogge. Una di seguito all’altra, viste da lontano assomigliano appunto ad una distesa di meringhe. La seconda giornata fu invece dedicata ai camini delle fate, così chiamati per la loro forma affusolata ed allungata verso l’alto, e nel pomeriggio alle case rupestri. Mentre nel primo caso però fu sufficiente una comoda camminata pianeggiante e scattare una ventina di belle fotografie, nel caso delle case rupestri la gita si rivelò particolarmente faticosa. Come prima cosa dovettero scendere lungo un sentiero scosceso che li portò sul fondo di uno stretto canyon, decine di metri sotto il livello della strada dove avevano parcheggiato le moto. Quindi dovettero seguire un cammino tortuoso dal fondo sconnesso e pietroso che alternava tratti in salita, per raggiungere l’ingresso delle case rupestri scavate nei fianchi del canyon, a tratti in discesa che riportavano al fondo, a quello che doveva essere il letto di un fiume ormai secco. Fortunatamente in alcuni tratti l’antico corso d’acqua in qualche modo faceva ancora sentire la sua influenza. Di tanto in tanto incontravano infatti piccoli gruppi di palme verdeggianti, non tanto alte né tanto fitte, ma sufficienti a fare ombra e rinfrescare l’aria, garantendo loro così la possibilità di qualche sosta ristoratrice. Per fortuna avevano portato acqua da bere a sufficienza. Non incontrarono infatti sul fondo del canyon né i tradizionali chioschetti, né tantomeno quei personaggi con bacinella d’acqua a tener in fresco le bibite a cui erano stati abituati durante la vacanza. Evidentemente la fatica del percorso scoraggiava anche i pur sempre molto fervidi venditori locali. Le case rupestri avevano il loro fascino, vere e proprie nicchie scavate nel cuore della roccia, ricche di affreschi ed iscrizioni. Nel visitarle la mente non poteva non andare indietro nel tempo cercando di immaginare quale potesse essere l’utilizzo reale di quei luoghi (vere case? Luoghi di culto? O di sepoltura?), quali le usanze, i riti quotidiani in un’epoca priva di tutti i confort moderni.
La sera però non fu il fascino dei luoghi a tenere banco, a cena, bensì la profonda stanchezza a cui li aveva ridotti quella faticosissima escursione. Così le tradizionali chiacchiere del dopo cena furono sacrificate a favore di un buon sonno ristoratore, non prima però di aver espresso i migliori propositi per la gita del giorno successivo, l’ultima in quella regione meravigliosa: le città sotterranee di Derinkuyu. Svegli di buon’ora, discussero un po’ delle similitudini tra le città sotterranee che si apprestavano a visitare ed altri luoghi magici che avevano visto insieme alcuni anni prima a Matmata, in Tunisia. Poi, chiusi i bagagli e caricate le moto, partirono lasciandosi alle spalle quel meraviglioso hotel.
All’ingresso del sito trovarono un po’ di coda per l’acquisto dei biglietti. Erano arrivati infatti insieme ad un pullman di turisti giapponesi e, per quanto convinti di essere più rapidi di un gruppone di sessanta persone, si dovettero arrendere alla superiorità organizzativa nipponica. Tempo infatti di mettere i caschi nei bauletti ed il blocca disco alla moto, ed il serpentone giapponese era già schierato di fronte alla biglietteria. T-shirt o polo bianche, pantaloncini neri al ginocchio, calzini corti e sandali aperti. Immancabili le macchine fotografiche al collo e le videocamere strette in pugno. L’attesa di alcuni minuti fu resa più leggera dalle scenette che solo i giapponesi sanno regalare nel farsi le foto, assumendo le posizioni e le espressioni più ridicole. Quando fu il loro turno, comprarono i biglietti e si andarono a sedere al bar per bere qualcosa di fresco. Sarebbe stato assurdo iniziare subito la visita accodandosi a quel serpentone umano. Le città sotterranee erano infatti costituite da una serie infinita di cunicoli, alcuni dei quali così stretti e bassi da non permettere il aggio di più di una persona per volta. Il percorso, almeno quello della visita, era illuminato da una serie di lampade. La loro distanza tuttavia, unita alla tortuosità dei cunicoli, faceva sì che in molte aree regnasse una penombra diffusa, il che rendeva ancora più affascinante la
visita. Iniziarono a scendere la prima rampa di scale, strettissima, uno dietro l’altro, la schiena ricurva in avanti. In lontananza, dalla profondità di quel buco, si sentivano arrivare le voci giocose dei turisti giapponesi che li precedevano. Inevitabilmente quell’insieme di tunnel faceva l’effetto delle canne di un organo, mescolando tra loro suoni diversi e facendoli riecheggiare lungo tutta la loro estensione. arono attraverso alcune delle prime stanze, piccoli slarghi scavati nel ventre della terra: la sala delle cerimonie, la stanza delle riserve di grano, i dormitori … Erano ormai dentro da una mezzoretta, affascinati non solo dalla bellezza dei luoghi ma anche dall’ingegno di chi aveva scavato centinaia di metri di cunicoli in modo tale da garantire un continuo e naturale ricambio dell’aria, cosa che rendeva possibile a decine e decine di persone di restare ore lì dentro senza che ci fossero problemi o limitazioni nel numero o nella durata. Il tutto per di più , con i pochi mezzi dell’epoca ,e probabilmente, con meno conoscenze di oggi.
La guida Lonely Planet riportava fedelmente la piantina del percorso di visita, cosa che li lasciò molto sorpresi tenuto conto delle innumerevoli volte in cui nei loro viaggi le mappe si erano rivelate completamente sbagliate, anche in città famose e conosciute. Ad un certo punto incontrarono un piccolo cunicolo sulla destra, anche quello segnato sulla piantina. A giudicare dalla scala di misura, si doveva trattare di tre tratti da venti metri di lunghezza ciascuno, formanti angoli di novanta gradi l’uno con l’altro, Una grande C che partendo dal percorso principale finiva per ricongiungersi allo stesso una ventina di metri più avanti, in pratica un circuito chiuso. Essendo del tutto privo di luci, suscitò immediatamente un gioco di provocazioni tra i quattro: chi avrebbe avuto il coraggio di are da quella deviazione sfidando il buio totale e le eventuali creature mostruose che in esso sicuramente vivevano? Tira tu che tiro io, finirono per accordarsi così: le due ragazze avanti sul sentiero principale, i due ragazzi via dentro l’oscura deviazione. Tempo stimato per il
ricongiungimento uno, massimo due minuti. Com’era inevitabile sia gli uni che le altre pensarono immediatamente di fare uno scherzo all’altro gruppo. Le ragazze partirono spedite con l’intento di non limitarsi ad aspettarli all’uscita della deviazione bensì di ripercorrerla a ritroso andando loro incontro con l’obiettivo di far prendere un bello spavento ai due spavaldi esploratori. Allo stesso modo i due ragazzi avevano un bello scherzo in mente. Non uscire dal cunicolo, restare nascosti nell’oscurità, in silenzio, mandando così in ansia le due. Così, senza fretta alcuna, i due ragazzi percorsero il primo tratto, quello trasversale al percorso principale, fino a che, come previsto, non andarono a sbattere contro il muro. Come da piantina, lì il tunnel curvava di novanta gradi a sinistra dando inizio al tratto parallelo al percorso di visita. Vi si infilarono e sempre lentamente iniziarono a procedere al suo interno. Nel frattempo le due ragazze avevano raggiunto l’uscita del cunicolo, vi si erano infilate e dopo aver percorso quasi tutto il tratto si accingevano ad appostarsi per l’imboscata. Il buio era totale, così come il silenzio. I venti metri di tunnel che avevano percorso erano infatti sufficienti per far decadere completamente la luce, già di per se stessa fioca, delle lampade del percorso di visita.
Il tempo ava ed a quel punto a tutti e quattro era ben chiara la “partita a scacchi” in corso. Nessuno però voleva fare la prima mossa, nessuno voleva cedere il o all’altro, ando da artefice a vittima dello scherzo. La situazione di stallo, l’aspettativa crescente di un qualcosa che sbloccasse quell’attesa snervante, il buio avvolgente ed il silenzio assoluto fecero ben presto salire il livello di adrenalina del gruppo. L’eccitazione dello scherzo da fare, mista a quella di finire vittima di quello altrui, piano piano, minuto dopo minuto, iniziarono a trasformarsi in ansia. Perché tutto quel silenzio? Perché non si muovevano?
Lo scherzo è bello finché dura poco, così si dice in genere. Bene, quello stava iniziando ad essere un brutto scherzo, da una parte e dall’altra. Nessuno dei due gruppi voleva però mollare l’osso. ò ancora qualche minuto senza che nulla accadesse, poi tutto d’un tratto, come se si fossero messi d’accordo, i due gruppi iniziarono a muoversi, uno verso l’altro. Le due ragazze svoltarono a destra, i due ragazzi si mossero in avanti. Il percorso fu però molto breve per entrambi. Le due giovani si trovarono la strada sbarrata dopo pochi i. Com’era possibile? Girando a destra infatti si sarebbero dovute trovare nel secondo tratto della deviazione, quello parallelo al percorso di visita, anch’esso dritto e sgombro per venti metri. A destra ed a sinistra si aprivano invece altri due cunicoli. Allo stesso modo i ragazzi si erano trovati il percorso bloccato da un muro, più o meno a metà del percorso, un muro che chiaramente non doveva essere lì, almeno non stando alla piantina. Iniziarono a chiamarsi reciprocamente, ma a dispetto delle aspettative di essere a pochissimi metri gli uni dalle altre, le voci sembravano lontanissime, tanto da non capire se provenissero di fronte, dalle loro spalle o addirittura dai lati del cunicolo. Che fare? Procedere e, quasi sicuramente, incontrare gli altri dopo qualche curva erroneamente non segnalata sulla piantina del tunnel, o tornare indietro evitando qualsiasi imprevisto? Le due ragazze prudentemente optarono per la seconda soluzione. Fecero in tutta fretta dietro front e dopo pochi i si ritrovarono all’angolo tra il secondo ed il terzo tratto. Fecero per svoltare a sinistra per poi puntare dritte al tunnel principale ma con gran sorpresa, e soprattutto con profondo sconforto, si resero conto di portar svoltare solamente a destra. Non era possibile! Avevano fatto quella svolta solo pochi istanti prima e
soprattutto, dopo averla fatta, avevano percorso si e no cinque o sei metri senza incontrare ulteriori deviazioni. No, non era possibile! Qualcosa non quadrava. Sembrava come se qualcuno avesse rigirato tutto il tunnel! Lo sconforto lasciò il campo alla paura, presto al panico. Come potevano essersi perse in pochi metri di strada?! Va bene il buio, va bene la totale mancanza di punti di riferimento, ma cinque metri sono cinque metri e poi la deviazione, come diceva la mappa, era un quadrato privo di insidie o di deviazioni. I ragazzi nel frattempo avevano deciso di andare avanti, di andare incontro alle due giovani convinti che il muro che avevano incontrato allungasse il loro percorso in realtà solo di pochi metri. Trovandosi anche loro di fronte ad un bivio decisero di separarsi, uno a destra ossia nella direzione che allontanava dal tunnel principale, e che per questo veniva giudicata quasi sicuramente errata, l’altro a sinistra in direzione del tunnel principale del quale però, guardando avanti, non si vedeva la luce. Onde evitare di peggiorare la già complicata situazione decisero di muoversi in sincronia contando insieme i propri i in modo da tracciare i propri movimenti e la distanza che li separava. Iniziarono a camminare e a contare: “Uno, due, tre …”. Man mano le voci diventavano più tenui. “… dieci, undici, dodici …”. Max, che era andato a destra, dopo quindici i urto frontalmente con un muro. Unica possibilità di movimento era di nuovo la destra ossia, almeno in teoria, un nuovo tunnel parallelo a quello primario, ma distante da questo circa trentacinque metri, che tornava indietro. Convinto che il suo non fosse il tunnel giusto decise di fermarsi e di chiamare l’amico che a questo punto doveva essere sulla strada buona. Cos’ si fermò, in silenzio, ad ascoltare. L’amico, come da accordi, stava continuando a contare i propri i “… quindici, sedici, diciassette, …”.
Lo chiamò: “Alex! Alex! Fermati! Io ho trovato una nuova svolta a quindici i!”. “ … diciannove, venti, ventuno, …”. “Alex!! Alex!!!”. L’amico sembrava non sentirlo. Eppure lui ne sentiva distintamente la voce, anche più di quello che potesse aspettarsi essendoci tra loro presumibilmente più di trenta metri di distanza. “… ventitré, ventiquattro, venticinque, ..:”. Un attimo. Com’era possibile?! Alex era arrivato a venticinque i ma i quattro lati del quadrato erano lunghi più o meno venti metri. Avendo scelto la direzione che tornava verso il tunnel principale Alex avrebbe dovuto già averlo incontrato! “… ventinove, trenta, trentuno, …”. Forse l’amico stava procedendo a piccoli i sicché metri e i non coincidevano. Anche in questo caso però si sarebbe dovuto ormai trovare in prossimità del percorso di visita. “… trentacinque, trentasei, trentasette, …”. E poi come poteva lui sentire l’amico distintamente contare i i ed allo stesso tempo non essere però da lui sentito? Riprovò: “Alex!! Alex!!”. Niente, niente di niente. “… quarantuno, quarantadue, quarantatre,…”. La voce dell’amico lentamente svanì, ora la distanza era tale che non poteva più sentirlo. Decise allora di tornare indietro di corsa, ripercorrere la strada fatta da Alex e ricongiungersi almeno a lui. Si girò su se stesso e incamminandosi cominciò a contare a ritroso cercando di mantenere una falcata pari ad un metro: “Quindici, quattordici, tredici, … , nove, otto, sette, … tre, due, uno, zero, uno due, … cinque, sei, sette, …”.
Arrivato a nove picchiò una violenta facciata contro un muro che lo fece cadere indietro. Il dolore al viso era forte. Ebbe nettamente l’impressione di sanguinare non capendo tuttavia se a sanguinare fosse il naso, la bocca o la fronte che aveva sbattuto contro il muro. Di nuovo l’incredulità prese il sopravvento su tutto il resto. Aveva sentito l’amico contare i i oltre i quaranta senza mai comunicare, come da accordi, bivi o deviazioni, segno che il tunnel da lui preso era dritto. Ora invece, dopo soli nove i, lui si era trovato il percorso sbarrato da un muro! Ok, correndo sicuramente aveva fatto i più lunghi di quelli dell’amico ma non certo quattro volte tanto. Oltretutto, al di là dello stordimento dovuto alla forte botta e al panico che ormai lo stava pervadendo, continuava a non sentire più la voce di Alex.
Le due ragazze nel frattempo erano ormai in preda al terrore. Si abbracciavano, piangevano, gridavano i nomi dei ragazzi con tutta la forza che avevano ancora in corpo. Erano completamente bloccate dalla paura. Davanti a loro un nuovo bivio, destra o sinistra, tutto tranne quello che banalmente doveva essere, ossia pochi maledettissimi i dritti e via nel tunnel principale. Senza una parola si separarono, una a destra, una a sinistra. Elena esitò un attimo, si girò e disse: ”Roby, conta fino a cento, se non trovi niente torna indietro e ci rivediamo qui. Io farò lo stesso”. “Ok!” disse Roby “Ci rivediamo qui fra poco allora”. Fu l’ultima volta che si parlarono. Non si sarebbero riviste mai più e forse, una parte di loro, piccola, lo sapeva.
Ripresosi dalla facciata, Max si sedette spalle al muro. Si sforzò di far tornare il respiro alla normalità. Cercò di capire l’entità della ferita. Doveva essere un taglio non molto esteso, ma sicuramente profondo, proprio in mezzo alla fronte. Calmo, doveva sforzarsi di restare calmo. Quante volte aveva ragionato sull’importanza della lucidità nelle situazioni di pericolo, unica vera probabilità di sopravvivenza. Ma cosa stava succedendo? Come potevano essersi persi, in quattro, in venti metri di cunicolo? E dov’erano le ragazze? Perché a parte i primi istanti non si erano mai più sentite le loro voci? Sicuramente anche loro li stavano cercando e sicuramente avevano provato a gridare i loro nomi. E Alex, in quale diramazione del tunnel si era ficcato per non aver trovato subito il percorso di visita dopo i primi venti i? Inutile porsi tutte queste domande, doveva staccarsi mentalmente dall’assurdità di quanto stava vivendo e provare a concentrarsi in modo razionale sul da farsi per venire fuori da quella brutta situazione e poi tirarne fuori anche gli altri. Primo punto: star fermo o riprendere a muoversi? Se uno degli altri tre infatti avesse trovato la via giusta, sicuramente avrebbe avvertito i soccorsi, per cui star fermo era la soluzione migliore. Ma se fossero stati anche gli altri nella sua stessa situazione, peraltro cosa molto probabile? Allora avrebbero atteso tutti quanti dei soccorsi che non sarebbero arrivati mai. Muoversi allora, ma in quale direzione? Ormai era evidente che le mappe erano sbagliate e che c’erano parecchie diramazioni che non avevano visto percorrendo la prima volta il tunnel, ma in cui si erano inavvertitamente infilati nel tornare indietro. Prevalse lo spirito secondo cui “Ognuno è artefice delle proprie fortune”, che calato nel suo grottesco quanto tragico contesto si traduceva in “Per uscire da qui puoi contare solo su te stesso”. Accantonò quindi una volta per tutte l’ipotesi che gli altri tre potessero mandargli i soccorsi e si impose di non mettere in dubbio le scelte che avrebbe
preso lungo la sua fuga verso l’uscita, verso la salvezza. Avrebbe lasciato decidere all’istinto, destra o sinistra. Soltanto all’istinto. Prese un lungo respiro e partì. Tornò indietro dei nove i fatti prima dello schianto, girò a sinistra e trovò il tunnel. Altri dieci i. Ora il tunnel secondo la piantina avrebbe dovuto girare a destra e poi dritto fino al percorso di visita. Ok, la svolta a destra c’era, ora dritto fino all’uscita. Fatti dieci i, cominciò a scorgere in lontananza una luce fioca. “Ci siamo” disse a mezza voce, quasi con un gesto di rabbia. Si sforzò di non correre, di stare calmo. La luce restava fioca e soprattutto non si allargava come avrebbe dovuto fare se lì ci fosse davvero stato lo sbocco sul tunnel principale. Superò abbondantemente i venti i. La luce, sempre fioca, era ancora distante da lui. Man mano che le si avvicinava, intuiva che doveva trattarsi di qualcosa di diverso dalle lampade che illuminavano il percorso di visita, qualcosa di più piccolo. Ecco perché la luce risultava così tenue. Quando ormai le era a ridosso, il suo piede destro urtò contro qualcosa per terra. Perse l’equilibrio e cadde. Ebbe appena il tempo di buttare in avanti le braccia per attenuare la caduta. L’urto non fu violento. Qualcosa smorzò l’impatto con il terreno. D’istinto afferrò quella piccola sorgente di luce e se la portò al viso. Era un telefonino cellulare, ma ovviamente senza campo. Sul monitor un’immagine che riconobbe subito. Erano loro quattro amici, in piedi di fronte all’ingresso di una casa rupestre. Era la foto che Alex aveva fatto fare ad un turista tedesco il giorno prima e che poi, a cena, aveva impostato
come sfondo del cellulare. “Alex …” mormorò. “AAAlex!!!” il grido riecheggiò nel tunnel. Girò il display del telefonino verso il basso ed intravide il corpo dell’amico. Era inciampato nelle sue gambe ed ora gli giaceva sopra. Portò più in alto in telefonino in modo da illuminare un metro più in là. Il viso di Alex era deformato da una smorfia, gli occhi sbarrati, una schiuma biancastra sul lato della bocca. Cos’era capitato? Si erano separato solo pochi minuti prima!! Accanto al viso di Alex scorse un oggetto. Subito non lo riconobbe ma poi, alzando ancora di più il cellulare, capì. Era una scarpa. Si alzò e si sporse in avanti. Il corpo di un uomo giaceva davanti a quello di Alex. Fece ancora qualche o, cercando di non perdere l’equilibrio. Altri corpi giacevano ammassati gli uni agli altri, a decine. I visi che poté vedere erano tutti uguali, tutti deformati in smorfie disumane. Di fondo sentiva ora un odore di uova marcie.
Allora capì. Tutto fu d’improvviso chiaro. Smise di respirare, si girò su se stesso ed iniziò a muoversi velocemente indietro. Gas. Sicuramente gas. Li aveva uccisi tutti. Ad ogni o la necessità di respirare aumentava, sia per lo sforzo che stava facendo per correre senza cadere sopra quell’ammasso scomposto di corpi, sia per il fuoco che stava bruciando nei suoi polmoni. Sicuramente aveva inalato un po’ di quel gas che fuoriusciva chissà da quale anfratto delle rocce. Ancora pochi
i e sarebbe stato fuori da quel cunicolo avvelenato. D’improvviso sbatté frontalmente contro qualcosa, là dove non avrebbe dovuto esserci nulla. Alzò il cellulare e vide il viso pallido e tumefatto di Roby. Gli occhi fissi, assenti, come pietrificati. Dalle labbra un piccolo rivolo biancastro le solcava mento e collo.
Lei gli si accasciò addosso trascinandolo con sé a terra, cingendolo in un ultimo, eterno, abbraccio.