Tragedia Dell'assurdo 1h1m2i

Jenny Gecchelin

Tragedia dell’assurdo

TRAGEDIA DELL’ASSURDO Autore: Jenny Gecchelin

Copyright © 2013 CIESSE Edizioni

Via Conselvana 151/E 35020 Maserà di Padova (PD) [email protected] www.ciessedizioni.it - http://blog.ciessedizioni.it

ISBN versione eBook 978-88-6660-074-9

Impostazione grafica e progetto copertina: © 2013 CIESSE Edizioni

Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale. Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

Collana: Green Direttore di Collana: Sonia Dal Cason Editing a cura di: Sonia Dal Cason

Alle persone vicine al mio cuore

PERSONAGGI

Beatrice Sberze Bianca “el bocia” Sberze Angela Sberze, madre di Beatrice e Bianca sco “il Bufala” Sberze, padre di Beatrice e Bianca e marito di Angela Maresciallo Gaetano Amoruso, Comandante della locale Stazione dei Carabinieri Valente Dal Lago, fidanzato di Beatrice Anna Maule, vicina di casa degli Sberze Adele Maule, figlia di Anna Maule Lucia Manozzo, zia materna defunta di Valente Dal Lago Caterina Manozzo, madre defunta di Valente Dal Lago Santo Sberze, zio di Bianca e Beatrice e vicino di casa di Lucia Manozzo Ottavia Sberze, moglie di Santo Michele Sberze, figlio di Santo e Ottavia Ferdinando Corà, compaesano degli Sberze e bracciante di Lucia Manozzo Fortunata Corà, moglie di Ferdinando Giuseppe, Antonia e Stefano Corà, figli di Ferdinando e Fortunata Amelia Collareda, maestra della scuola elementare locale Serafino Cortiana, marito della maestra

Lino Cortiana, figlio di Amelia e Serafino Vittoria, Aldo e Giorgio Cerisara, ragazzini amici di Bianca Pietro Sorgato, sacrestano Celestina Sorgato, perpetua e moglie di Pietro Innocente Sorgato, figlio di Pietro e Celestina Don Mario, parroco Giovanni Luccarda, Podestà del Paese Piero “il Monco” Corà, oste Modesta, moglie di Piero Vittorina Valle, vecchia vedova Primo, Secondino, Terziano e Quartilio Valle, figli di Vittorina Valle

Tragedia dell’assurdo

PROLOGO

«Non me ne resterò qui ad ascoltare le vostre minchiate un solo secondo di più» affermò convinto il Maresciallo Gaetano Amoruso fissando l’uomo in piedi davanti a lui che stringeva il cappello in mano, stropicciandolo nervosamente, e trasferiva di continuo il peso da un piede all’altro. Era, insomma, quasi commovente nel suo palese imbarazzo, non fosse stato per il fatto che l’ubriachezza gli conferiva un equilibrio barcollante che rivestiva di un velo comico tutta la scena. Amoruso lo conosceva fin troppo bene. Sapeva quanto quell’uomo amasse l’osteria, le chiacchiere da osteria, gli avventori dell’osteria e qualsiasi altra cosa riguardasse l’osteria. Inevitabile quindi che eccedesse con il bicchiere, come accadeva a molti suoi compaesani tra quelle montagne del nord Italia. Buon Dio, ma dove l’avevano spedito a lavorare! Capitava fin troppo di frequente, per i gusti del buon Maresciallo, di essere costretto a seccanti rilievi per ubriachezza molesta. «Maresciallo, Comandante, Vossignoria …». «Seee, basta con i titoli, io e voi ci siamo già intesi. Filate a casa da vostra moglie e non infastiditemi oltre. Non si può far perder tempo a un uomo di legge, ho ben altro di cui occuparmi, io! Criminali, ladri, assassini!». «Ma io vi ho pur detto che …». «Ho ben capito cosa avete detto! E domani mattina, quando la sbronza sarà ata, sono sicuro che vi maledirete per esser venuto sin qui a importunarmi con le vostre balorde idee!». «No, no, non sono idee balorde», bofonchiò l’astante con voce intorpidita dall’alcool. «Via, fuori, prima che vi faccia arrestare! Sparite dalla mia vista!». «Ma Eccellenza …».

«Ma quale Eccellenza! Aria, via! Domani mi ringrazierete di non avervi dato retta, razza di sconsiderato!». L’uomo si rassegnò e uscì con mestizia dalla Caserma dei Carabinieri, raggiunta con tanta fatica, accompagnato dalla voce del Maresciallo che gli intimava di “tornare ad arrampicarsi sui suoi benedetti monti”.

PARTE PRIMA

Voce narrante: Bianca

1. BEATRICE E BIANCA

Beatrice e Bianca vennero al mondo nello stesso anno, a undici mesi l’una dall’altra. Dopo parecchi anni trascorsi nella sempre più marcata convinzione che la loro fosse un’unione sterile, i genitori le misero al mondo in sequenza, con frenetica ansia, come se temessero che, concluso quell’anno propizio, non sarebbero più stati in grado di procreare. E così fu, in effetti. In seguito non riuscirono in alcun modo a concepire il tanto agognato figlio maschio, né nessun’altra femmina. Il secolo diciannovesimo si trascinava pigramente verso il suo ultimo decennio quando nacquero le due sorelle Sberze, destinate a crescere quasi in simbiosi tra loro. Beatrice vide la luce nel gennaio del 1889, in un gelido inverno nevoso e ghiacciato, mentre Bianca a dicembre, quando la stagione del freddo era già tornata a visitare quei monti umidi in cui l’estate era sempre breve e avara. Angela e sco Sberze, conosciuto come “il Bufala”, accolsero le neonate con grande entusiasmo. Nonostante la povertà in cui versava la popolazione di quei luoghi lontani dalle grandi città, i figli erano considerati una benedizione. Non averne era per ogni coppia, e in particolare per la donna, un grande disonore. La sterilità non era ritenuta una sfortuna imposta dal destino, ma una sorta di colpa, un peccato di cui vergognarsi, un castigo divino per qualche malefatta o pecca caratteriale. Perciò Angela tirò un sospiro di sollievo quando partorì la prima figlia e non contemplò nemmeno l’ipotesi di concedere al suo corpo il tempo per riprendersi dalla fatica della gravidanza: un secondo figlio lo voleva subito. sco il Bufala non si fece pregare, anche se storse un po’ il naso alla nascita di un’altra femmina.

«Donne a raffica mi dovete partorire, moglie?», chiese infatti alla sua Angela appena sgravata per la seconda volta, poggiandosi le mani sui fianchi e guardandola dritta in viso. Lei, sudata e dolorante, non seppe trattenere un’occhiataccia malevola. «Che dovrei raccontare ora ai miei compari, giù in osteria? Che non sapete darmi un maschio?» aggiunse l’uomo. Per nulla mortificata dalla fredda accoglienza ricevuta, l’ultima nata prese a piangere con vigore, reclamando l’attenzione che le spettava. La madre le porse il seno tutt’altro che turbata, per poi tornare a guardare il marito con aria di sfida. «sco, raccontate quel che volete. Che io sappia è la vostra specialità, questa!» ribatté pungente mettendolo a tacere e dedicando tutte le sue premure alla bambina. È doveroso precisare che sco era noto come “il Bufala” per la sua straordinaria capacità di raccontare frottole. In osteria, dopo qualche bicchiere di denso vino nero, non si controllava più e se ne usciva con trovate che causavano l’ilarità dei compagni di bevute anche per giorni, una volta che la verità veniva a galla. Angela era certa che il bizzarro consorte si convincesse di ciò che raccontava a tal punto da stupirsi quando veniva smascherato, come se scoprisse solo in quel momento di aver mentito. Anche in quell’occasione fece onore al proprio soprannome e, dopo aver rimproverato la moglie, se ne andò a festeggiare con un bel quarto di nero acetoso. «Offro io!» esclamò entrando trionfante nella bettola al centro del paesello montano, «mia moglie mi ha appena sfornato un bel maschietto!». I goti si levarono in aria numerosi e Bianca si guadagnò il suo futuro nomignolo: “el bocia”, ossia il ragazzino. Le due sorelle dimostrarono crescendo di essere tutt’altro che maschiacci: così vicine di età da sembrare gemelle, da bambine erano amate da tutti i compaesani. Piccole, graziose e gentili, avevano ereditato i tratti femminili delicati della madre sottolineati, però, dai colori decisi del padre. I capelli scuri e gli occhi nocciola rilucevano contro la pelle chiara, eredità di avi lontani nel tempo, forse provenienti dal nord. Tra le coetanee si distinguevano per un’illusoria fragilità

che stimolava nei loro confronti un senso di protezione. Ma in barba alle apparenze, erano resistenti e tenaci e giunsero all’età scolare senza quasi aver buscato un raffreddore. Angela era assai protettiva verso le sue preziose figliole: una volta resasi conto che l’arrivo di altri eredi era improbabile, aveva riversato sulle bambine tutte le sue amorevoli cure. sco il Bufala si dimostrò invece più pratico. Se non aveva avuto il desiderato maschio, le due ragazzette avrebbero dovuto fare in modo che non ne sentisse mai la mancanza. Di conseguenza prese a condurle con sé nei campi fin da quando mossero i primi i. Dapprima insegnò loro i mestieri più semplici, pretendendo il loro aiuto malgrado le proteste della madre che le avrebbe volute in cucina al suo fianco. Come se non bastasse, quando la sera sco andava in osteria, esigeva che una delle figlie lo scortasse. Le due sorelle impararono presto a darsi il cambio: trascinare a casa il genitore ubriaco, per giunta dopo aver sorbito qualcuna delle sue storie balzane, non era fatica da poco. Uscendo dal locale il buio era fitto, gli anni della luce elettrica a illuminare le vie dei paeselli erano ancora lontani. Perciò bisognava afferrare saldamente la mano del padre e cercare di condurlo a casa incolume, compiendo uno sforzo al limite del sovrumano. L’omone barcollava e avanzava storto, giungendo talvolta a ruzzolare per terra trascinando con sé la malcapitata. Se dal principio la ricompensa di una spuma le aveva allettate, Beatrice e Bianca iniziarono presto a temere quella consuetudine serale e talvolta, nei loro giochi e scommesse, mettevano in palio proprio quella spiacevole incombenza. Nonostante le oggettive difficoltà, le due bambine crescevano serene, maturando e mostrando sostanziali differenze di carattere che ne avrebbero determinato il futuro.

2. LA MAESTRA COLLAREDA

Le sorelle Sberze, essendo coetanee, iniziarono insieme il loro cammino scolastico. Era il 1895, primo anno di servizio per una nuova maestra, la signora Collareda, che subentrava nell’insegnamento a un parroco. La popolazione attendeva con ansiosa preoccupazione questa laicizzazione della scuola. Erano in molti a considerarla una scelta sbagliata, poiché ritenevano che un religioso fosse più colto e più capace, oltre che più autoritario con i giovani scavezzacollo della zona. I fatti diedero loro ragione, più per fatalità che per regola, dato che altre maestre laiche si erano già insediate con successo in altri paesi del circondario. Con l’inizio della scuola le differenze fra le sorelle divennero palesi. Beatrice si rivelò piuttosto silenziosa e solitaria. Fatta eccezione per Bianca, non gradiva giocare con gli altri compagni di classe. Bianca invece fu fin da subito socievole e vivace, tanto da meritarsi numerosi richiami da parte della maestra che non era un’insegnante molto amante del lavoro e, di conseguenza, era incline a prediligere gli studenti disciplinati e poco problematici. Dover richiamare un alunno per più di una volta le costava un grande sforzo e attirava irrimediabilmente la sua antipatia. La maestra Collareda classificò presto Bianca come insubordinata, mentre per Beatrice, attenta e ubbidiente in ogni occasione, dimostrò una marcata preferenza. La disparità di trattamento non riguardava solo le sorelle Sberze, ma era purtroppo abituale nella condotta della donna che catalogò ogni alunno secondo due categorie: “mi piace” e “non mi piace”. Se a questo discutibile criterio si fosse unita una buona qualità d’insegnamento, forse nessuno avrebbe trovato da ridire. In quegli anni i genitori non osavano mettere in discussione l’autorità dei maestri e qualsiasi punizione, anche fisica, affibbiata a un figlio poco ligio al dovere, veniva applaudita. I giovani scolari imparavano a loro spese che quando venivano puniti o sgridati a scuola, non conveniva riferirlo a casa, pena una seconda razione di rimproveri e botte. Fu presto chiaro che la maestra Collareda non provvedeva in modo adeguato all’istruzione dei giovani montanari, anche se questi, ben lungi dal protestare, evitavano volentieri i noiosi compiti per are i pomeriggi a correre tra i boschi. I genitori dal canto loro non avevano grandi pretese, ma dovettero accorgersi che i figli non imparavano né a leggere né tantomeno a far di conto.

Com’era possibile? L’unica eccezione pareva essere Beatrice che, almeno a detta di sco il Bufala, leggeva con fluidità e districava calcoli inimmaginabili. Anche se le storie del Bufala erano esagerazioni e tutti ne erano consapevoli, Beatrice era davvero più avanti rispetto al resto della classe. Ciò si doveva alla sua natura docile, unita a una discreta intelligenza e soprattutto a una grande forza di volontà. Di contro Bianca, cui la dedizione e l’impegno facevano difetto, dopo i primi due anni di scuola non sapeva ancora né leggere né scrivere e operazioni matematiche anche molto semplici le riuscivano impossibili. Come se non bastasse, in contrada iniziarono a correre voci spiacevoli sul conto della maestra Collareda: chi diceva di averla incrociata più spesso dell’opportuno fuori dall’osteria in orari in cui gli avventori abituali non bazzicavano da quelle parti, chi sosteneva di averla vista mentre si scolava un intero litro di vino nero senza battere ciglio, e altre maldicenze del genere. Le comari più pettegole si azzardarono a sussurrare di una presunta relazione illecita tra lei e il parroco. Qualcuno sembrava aver notato che i due si intrattenevano fin troppo spesso in canonica da soli, oltre ogni limite suggerito dal buon costume e dalle esigenze didattiche. La piccante notizia corse in un lampo sulla bocca di tutti i residenti. «Mia figlia Adele è tornata a casa con i segni delle dita ancora stampati in viso», mormorò accorata un giorno Anna Maule, vicina di casa degli Sberze, mentre scambiava qualche confidenza con Angela fuori dai rispettivi usci. «Uno schiaffo non ha mai fatto male a nessuno!» ribatté quest’ultima, convinta sostenitrice della validità delle punizioni corporali. «La mia, “el bocia” ovviamente perché la Beatrice è sempre brava, per punizione è stata costretta a rimanere inginocchiata sopra i sassi dietro alla lavagna così a lungo che, quando è tornata a casa, aveva le ginocchia peste e ammaccate. Non mi voleva dire cosa era successo, ma a furia di insistere lo ha ammesso!». «Che aveva fatto?». «Aveva rovesciato un’intera boccetta di inchiostro! Con quello che costa!». «Ma la cosa peggiore» aggiunse Adele, ritenendo l’incidente trascurabile e ando oltre, «è che si dice parli male di noi genitori! Che inveisca contro di noi quando uno dei nostri figli combina qualcosa o non risponde alle domande! Ci definisce ignoranti, zotici e cafoni!».

«Questa poi!» saltò su Angela indignata. Che la maestra se la prendesse con i bambini poteva anche essere plausibile, ma insultare i genitori era ben altra cosa. Quando nel 1897 la maestra venne confermata nel ruolo, dopo il biennio di prova, le proteste si fecero più pesanti e alcuni genitori decisero di dar voce alle lagnanze presso il Comune, giù in paese. Non molto tempo dopo, al Provveditorato agli studi fu recapitata una lettera che riportava accuse chiare e pesanti nei confronti della maestra. Le autorità furono costrette a prendere posizione, chiedendo delucidazioni ai genitori dei ragazzi. Alcuni di loro, quelli che già avevano segnalato verbalmente il problema in Comune, furono convocati dal Podestà. Anna Maule era tra loro e, con un altro paio di genitori riluttanti, vi si recò tremando per la tensione. La verità era che gli interpellati della lettera non ne sapevano nulla: quell’invito perentorio e formale negli alti uffici li metteva perciò in forte soggezione. Uomini e donne abituati al lavoro nei campi e nelle stalle si sentivano alla stregua di accusati al banco del tribunale a dover entrare in quelle stanze lucide e profumate di pulito, dove il Podestà li accolse con un sussiego e una solennità fuori luogo. Il primo cittadino, dal canto suo, aveva temuto di trovarsi davanti un branco di montanari inferociti ed era pronto a difendersi con le unghie e con i denti. Si dovette invece confrontare con nulla più di un gruppo di agnellini miti e tremanti. Scambiò un’occhiata d’intesa con il Segretario comunale ed entrambi compresero all’istante, da buoni politici, di avere in mano la situazione. Gonfiarono perciò il petto come pavoni e diedero inizio a un serrato interrogatorio fatto di domande a raffica, poste con voce imperiosa, ma da cui ricavarono ben poco. I convenuti negarono con caparbietà di aver scritto la famosa lettera di accusa. Affermarono non solo di apprendere in quel momento della sua esistenza e di non aver idea di chi l’avesse spedita, ma anche di non poter sostenere le affermazioni in essa contenute. La relazione con il parroco era solo una presunzione, una innocente diceria, prove non ne esistevano e anche l’abuso di alcool era un mero pettegolezzo di contrada. L’unico punto su cui il gruppo di genitori sembrò timidamente concordare fu la scarsa qualità dell’insegnamento e la mancanza di rispetto dimostrata dalla maestra nei loro confronti.

Il Podestà li osservava attento mentre parlavano, tutti con gli occhi bassi e con evidente nervosismo. Tirò un interiore sospiro di sollievo, poiché il problema si dimostrava assai meno spinoso di quel che aveva presentito. Senza quasi più ascoltarli, si risolse di scrivere al più presto di suo pugno un’elegante lettera di risposta al Provveditorato, scagionando la donna a fronte delle sicure informazioni acquisite. In fondo che importanza aveva se la Collareda non era brava nell’insegnamento? In quella contrada aggrappata sui monti, i ragazzini avevano ben altri pensieri che non lo studio. Avrebbe richiamato la maestra solo per suggerirle di tenere a freno la lingua ed evitare in futuro gli insulti ai genitori dei pargoli. Magari l’avrebbe anche esortata a gestire con maggiore discrezione la sua vita privata. Il bravo Podestà era a conoscenza della vera ragione per cui la signora Collareda, per lui Amelia, era stata assegnata a quel posto e ciò gli procurava non poche preoccupazioni. Qualche tempo prima, egli aveva ceduto alle sue lusinghe di donna, indulgendo in una irrilevante scappatella extraconiugale. Forse la moglie avrebbe potuto perdonargli questa debolezza, ma di sicuro non i suoi concittadini nonché elettori. Amelia era considerata in paese una giovanile zitella rispettabile e pudica, non certo una donna di strada. La notizia di un suo coinvolgimento scandaloso con il Podestà avrebbe fatto apparire lui come un profanatore di fanciulle e lei come una verginella gabbata. Così la furba Amelia, che verginella non era davvero, aveva preteso in cambio del silenzio un posto di lavoro sicuro e tranquillo. Egli aveva dovuto assecondarla, badando però a spedirla in un posto isolato come la scuola lontana dal centro del paese che aveva scelto per lei. Ma la donna non aveva smesso di causargli preoccupazioni e mal di capo neppure da lassù. Quando il gruppo di genitori fece ritorno in contrada, la trepidazione generale era grande. I ragazzini li avvistarono per primi mentre camminavano mesti lungo la strada di ghiaino che dal paese si inoltrava lungo le pendici del monte. Le giovani sentinelle di vedetta diedero l’allarme ai compagni, in un frenetico correre e saltare tra i boschi. Bianca stava raccogliendo delle verdure nell’orto dietro casa, come la madre le aveva ordinato, quando la notizia la raggiunse. Fremette trattenendo a fatica una risata, pur rendendosi conto del pandemonio che si era scatenato. La famosa lettera incriminante era opera sua. Non materialmente: la grafia pessima e la grammatica scorretta avrebbero tradito subito lo scherzo di un bambino, ma la pensata era frutto del suo vibrante cervello. Aveva dovuto

coinvolgere tutta la sua piccola banda di ragazzini per realizzarla e aveva architettato una beffa non da poco. Non aveva pensato di spingersi sino a quel punto, infatti l’idea iniziale era stata ben più innocua, ma purtroppo in certi casi gli eventi si concatenano e sfuggono di mano senza rendersene conto e quanto accaduto ne era un esempio eclatante. Una ragazza più grande, Vittoria Cerisara, aveva convinto il fratello maggiore, che studiava in seminario, a insegnarle a scrivere alcune parole che, a sua detta, non riusciva a imparare a scuola. Poco alla volta era stata composta l’ormai famosa lettera, su suggerimento di Bianca che, come un burattinaio, tirava i fili di un ben orchestrato inganno. La più piccolina della banda era anche la più furba e ingegnosa. Infine, il risultato venne raggiunto: una lettera che per proprietà di linguaggio e grafia poteva benissimo essere stata scritta da un adulto, soprattutto se non molto colto come era la maggior parte degli abitanti di quei luoghi montani. Il contenuto era scottante, Bianca lo aveva desunto da sommarie informazioni rubate alle chiacchiere tra la madre e le sue amiche. Fingendo di disinteressarsi ai loro discorsi, aveva origliato e ne aveva attinto ottimo materiale per il suo scopo. Il proposito non era stato di inviare la missiva al Provveditorato, di cui i ragazzini ignoravano tanto l’esistenza quanto la funzione, ma il caso volle mettere il malefico zampino nella vicenda. Una volta scritta e imbustata, la lettera fu affidata a un altro componente della banda di vivaci ragazzini: Innocente Sorgato. Il padre Pietro era il sacrestano della piccola parrocchia, ma era di dominio pubblico che non se la intendeva a meraviglia con il parroco. Tutti i maschi della sua famiglia erano sempre stati fieri di svolgere quella funzione per la comunità perciò egli non aveva potuto esimersi dall’incarico. Tuttavia aveva un carattere burbero e poco socievole e Don Mario, un chiacchierone panciuto dal sorriso sempre stampato sul viso rubicondo, non lo aveva in simpatia e di conseguenza gli negava i piccoli vantaggi in genere derivanti dalla funzione di sacrestano, come ad esempio disporre di una parte del cibo dato in offerta. L’uomo di chiesa preferiva fare dono ad altri di quanto non consumava. Bianca aveva pensato che Pietro, trovando la lettera in cui si insinuava un coinvolgimento del parroco con la maestra, si sarebbe infuriato e avrebbe fatto prendere un bello spavento al prete facendogliela leggere. Secondo questo balzano progetto, il parroco, per timore che quel foglio pericoloso venisse reso pubblico, avrebbe trattato con più riguardo il padre di Innocente e da ciò sarebbero derivati dei benefici per la famiglia Sorgato. Innocente aveva dovuto promettere in anticipo di dividere con i compagni di scorribande le squisitezze

che certo il padre avrebbe portato a casa dopo il concretizzarsi del piano. L’arzigogolato programma non andò a buon fine, con cocente delusione di coloro che vi avevano preso parte. Quando Pietro trovò la lettera piazzata sulla soglia della porta di casa sua, la lesse con una certa difficoltà a causa dei molti paroloni di cui era infarcita. Il senso però gli fu ben chiaro. Per giorni si arrovellò sul da farsi. Doveva tacere? Doveva accusare a viso aperto l’odioso prete e godersi i vantaggi che potevano derivare da un ricatto morale nei suoi confronti? O ancora doveva rendere pubblica la lettera e svergognare l’uomo di chiesa e la spregiudicata amante? Pietro non sapeva davvero come comportarsi e rimase in uno stato di perenne apprensione per qualche settimana, tanto che Bianca iniziò a sospettare di aver preso un granchio. Infine però Pietro decise di chiedere consiglio, da solo non sapeva togliersi dagli impicci. Parlò con l’unica persona del cui silenzio era certo: la moglie Celestina, una donna diversa dalle altre comari del posto per natura chiacchierone e bonariamente pettegole. Silenziosa e taciturna, non amava sparlare alle spalle altrui, cosa che invece entusiasmava la maggioranza delle compaesane. Sempre imbronciata e scura in viso, pareva trovare conforto solo nella religione, cui si dedicava con un’assidua frequentazione della chiesa. Si rammaricava di continuo che il marito non fosse in buoni rapporti con Don Mario, poiché ciò la costringeva a non essere cordiale e servile come avrebbe voluto. Si limitava a rassettare la canonica e a cucinare per il prete senza chiedere nulla in cambio e senza osare appropriarsi della benché minima porzione di cibo, poiché riteneva che macchiarsi di una tale colpa le sarebbe costata la scomunica a vita. Il marito la rimproverava per la frequenza con cui si recava in chiesa a pregare, sostenendo che avrebbe dovuto are più tempo in casa o nei campi a darsi da fare, ma Celestina era inflessibile. La coppia aveva avuto un solo figlio, cosa piuttosto insolita all’epoca. Le comari della contrada, ridacchiando tra loro, insinuavano che Pietro avesse dovuto concepirlo in un momento in cui la donna dormiva, senza che se ne rendesse conto dato che lei vedeva in ogni contatto carnale un peccato gravissimo. Perciò, dicevano tra loro le lingue maligne, non avevano avuto altri eredi: Celestina stava ancora facendo penitenza per quel crimine involontario commesso dieci anni prima. Quando Pietro decise di parlarle della lettera, lo fece con la consapevolezza di infliggere un duro colpo a Celestina. Tuttavia era animato dal sottile piacere di

sminuire la figura del parroco avaro e grassoccio agli occhi della moglie che forse sarebbe rinsavita dalla sua smania religiosa. Non si aspettava certo la reazione a cui dovette assistere. Mentre leggeva a voce alta le righe incriminanti, poiché Celestina era quasi del tutto analfabeta, la donna sbiancò in volto e sgranò gli occhi come se avesse visto un fantasma. Pietro pensò che sarebbe scoppiata in lacrime e si sarebbe lasciata andare alla disperazione, invece lei dimostrò una forza di cui il marito non la credeva capace. Si mise ritta e impettita nella sua piccola statura e dichiarò: «Se le cose stanno così, bisogna che i colpevoli di questi peccati terribili vengano puniti», riferendosi certo ai peccati carnali più che alla situazione in cui versavano gli scolari. Con questa frase perentoria si fece carico di sbrogliare la situazione, lasciando di sasso il marito. Celestina si diede un gran da fare nei giorni a seguire. Pietro la vide recarsi in paese più volte, rossa in viso e trafelata. Non aveva idea di cosa stesse combinando. Lo venne a sapere solo quando il Podestà convocò alcuni genitori che in precedenza si erano lamentati della maestra, ritenendo che la lettera fosse opera loro. Celestina a quel punto confidò al consorte di essersi consultata con una parente che viveva in paese, a sua volta insegnante, e che questa, indignata, le aveva suggerito di puntare in alto, essendo la cosa assai grave. La solerte maestra si riferiva in particolare alla scarsa attitudine all’insegnamento e all’educazione della collega, mentre Celestina intendeva punire in primo luogo l’indecenza perpetrata con un uomo di religione. Il risultato fu sostanzialmente il medesimo. La donna si incaricò di inviare la lettera a qualcuno che l’avrebbe presa nella giusta considerazione e così fece, garantendo a Celestina il silenzio e l’anonimato. In tal modo uno scherzo laborioso e pesante ma non catastrofico, almeno nel suo disegno iniziale, si trasformò in un evento scottante. I ragazzini si spaventarono a morte; solo Bianca sembrò non dimenticare il lato comico della faccenda. I monelli giurarono tra loro di non fare parola ad alcuno dell’accaduto. La promessa del silenzio fu così solenne che nessuno fece un fiato, soprattutto perché, giunti a quel segno, le punizioni sarebbero state dolorose per tutti. Perciò il segreto era al sicuro: essendo numerosi i complici, nessuno avrebbe fatto la spia perché avrebbe accusato di fatto anche se stesso. Non ò molto prima che la maestra Collareda venisse a conoscenza delle

accuse che le erano state rivolte. Il Podestà ritenne opportuno invitare anche lei in ufficio per farle una ramanzina che, suo malgrado, si tramutò in un dialogo serrato e ambiguo. Il primo cittadino aveva preferito parlarle a quattr’occhi, adducendo a pretesto il non volerla mettere in imbarazzo. Temeva piuttosto che Amelia se ne uscisse con qualcosa di compromettente e voleva evitare che vi fossero orecchie estranee in ascolto. «Amelia, dovete cercare di essere più moderata nelle vostre espressioni», iniziò l’uomo circospetto e impacciato, strofinandosi vistosamente le mani. «Mi sembra di ricordare che in alcune occasioni gradiste le mie espressioni, come le avete chiamate, un po’ eccessive e colorite», ribatté la donna con una certa impertinenza. Aveva notato il palese imbarazzo del Podestà e questo, unito ai due bicchieri di buon vino scuro trangugiati prima dell’incontro, le diede un coraggio e una sfrontatezza che di norma avrebbe saputo controllare. Amelia Collareda era brava nel fingere di essere ciò che non era. Dissoluta e volgare in privato, sapeva indossare una maschera quasi virginale nei confronti della società. Quando aveva iniziato a insegnare, era animata da buoni propositi educativi, ma ben presto l’ignoranza e la refrattarietà della gente di quelle valli montane e soprattutto l’abitudine al bere l’avevano allontanata da ogni buon intendimento. Aveva perso la ione per i fanciulli e per la loro istruzione e si era dimostrata sciatta e disorganizzata. La sua pigrizia intellettuale faceva in modo che non amasse le sfide e perciò gli studenti difficili venivano trascurati in maniera lampante. Talvolta eccedeva nell’alcool sin dal mattino e al lavoro si lasciava andare a espressioni offensive verso le famiglie di quei monelli. Quando le parole dette le tornavano alla memoria se ne pentiva, ma era tardi: i filtri inibitori abbattuti dal vino non avevano potuto frenare ciò che dal pensiero era ato direttamente alla lingua. «C’è qualcosa di veritiero riguardo i vostri rapporti con il parroco?». Il Podestà osò porre la domanda solo in nome della loro antica confidenza. «Siete forse geloso?» controbatté Amelia fissandolo negli occhi con sfacciataggine. «Sto cercando di fare un discorso serio con voi. State rischiando il posto di

lavoro», cercò di salvarsi il Podestà, signor Luccarda. «Se lo rischio io, lo rischiate anche voi, Giovanni», ribadì pronta e pungente Amelia, con un sorriso sottile sulle labbra. Lo aveva chiamato per nome di proposito, così da sottolineare la sua posizione di potere. Giovanni Luccarda si avvide che non avrebbe ottenuto nulla da quel confronto. Sentì la rabbia crescergli dentro e saltò in piedi. La sedia dall’alto schienale oscillò pericolosamente, rimanendo in bilico per qualche secondo prima di cadere con gran fragore facendo sobbalzare la maestra, che capì di aver esagerato. Abbassò lo sguardo e Giovanni colse al volo quel momento di esitazione. «Tutto quello che voglio, è che non vi siano più chiacchiere sul conto vostro e su quello del prete! È una vera indecenza, sant’Iddio! Se poi riusciste a dimostrarvi un po’ più attenta nel vostro lavoro, se riusciste a far imparare qualcosa a quelle teste di rapa, ve ne saremmo tutti tanto grati!». Il tono di voce era andato alzandosi durante il breve discorso e l’ironia malcelata dell’ultima frase ridiede forza ad Amelia, punta nel vivo. Come è risaputo, la verità è sempre offensiva. «Vorrei che provaste voi a insegnare la matematica, l’italiano, la geografia a un branco di piccoli selvaggi con la testa nei prati e nei boschi anziché sui banchi di scuola! I genitori pretendono che i ragazzi aiutino nei campi e loro certo non si fanno pregare! Pur di non studiare, saltano le lezioni anche per settimane di fila!». La poco solerte maestra non aveva tutti i torti. Spesso i bambini si assentavano da scuola su richiesta della famiglia per contribuire ai molti e faticosi lavori campestri. Tutte le braccia, anche le più piccole e deboli, erano utili nei lavori di agricoltura e di allevamento praticati dalla maggioranza degli abitanti. Tuttavia non era una scusa sufficiente: moltissime piccole contrade, paeselli, persino cittadine avevano il medesimo problema, ma il rendimento scolastico non era così scadente. Altrove i giovani imparavano se non altro a leggere e far di conto, risultati che Amelia era riuscita a ottenere solo da pochi scolari volenterosi. Il Podestà alzò un sopracciglio. Era stanco di discutere con quella donna la cui

sola presenza lo metteva a disagio. «Va bene, Amelia. Grazie di essere venuta. Spero terrete conto di ciò che vi ho detto», concluse con un sospiro, liquidandola sbrigativo. Mentre si incamminava verso la contrada, Amelia rifletteva tra sé. Quegli impiccioni dei suoi compaesani le avevano dato problemi fin da subito. Si sentiva osservata e controllata, non era libera nemmeno di farsi un goccetto in osteria, diamine! Le tornò alla mente il volto rubicondo di Don Mario: tutti sembravano voler attribuirle ogni responsabilità in quella faccenda, ma non avevano pensato che poteva essere stato il buon parroco a circuirla? Nessuno si era permesso di richiamarlo all’ordine e la peccatrice sembrava soltanto lei. Borbottò tra sé qualche termine irriferibile, ricordando quando l’uomo le aveva fatto le prime proposte. Dato che in precedenza la cattedra nella scuola locale era sempre stata occupata da un religioso, egli aveva ritenuto di doverle dare una serie di informazioni di vitale importanza, e l’aveva convocata in canonica. Amelia, per quanto dissoluta, non si sarebbe mai permessa di insidiare un parroco di sua iniziativa poiché era conscia dello scandalo che ciò avrebbe comportato qualora fossero trapelate delle chiacchiere. Tuttavia l’occasione le fu offerta sul classico piatto d’argento e la donna, piuttosto debole dal punto di vista carnale, non poté che cedere. Con la scusa di discutere i programmi scolastici, Don Mario le aveva offerto qualche buon bicchiere di vino della sua cantina, ben rifornita dai paesani. Un po’ brilla, lei aveva aggrottato la fronte quando l’uomo, visibilmente alterato, con le guance arrossate per l’eccitazione e la voce impastata, le aveva poggiato con decisione una mano grassoccia sulla coscia. La sicurezza con cui egli si muoveva le aveva suggerito che non era nuovo al corpo femminile come avrebbe dovuto. Amelia aveva immaginato che altre compiacenti donne del luogo avessero soddisfatto in precedenza le richieste del religioso. Un posto in paradiso va pur sempre guadagnato. La donna decise che avrebbe dovuto parlare con Don Mario: era giusto che sapesse ciò che insinuavano i suoi fedeli, le sue preziose pecorelle. Voleva scaricarsi almeno in parte la coscienza, dividendo il fardello con qualcun altro. L’occasione propizia si presentò qualche giorno dopo. Amelia attendeva di intrufolarsi in canonica dalla porta posteriore grazie al favore dell’oscurità, ma Don Mario non dava cenno di voler congedare la perpetua e la lasciò a lungo

sulle spine. Quando infine la sentì entrare, il religioso sbuffò: era stanco quella sera, e non aveva alcun desiderio di compagnia femminile. «Qualcuno sa di noi. Il Podestà mi ha richiamata senza mezzi termini!» esordì Amelia prima ancora di salutare, piazzandosi di fronte al prete con le mani poggiate sui fianchi generosi. Don Mario abbandonò la sua mole massiccia su una poltroncina rivestita di raso, piuttosto stridente nella casa di un parroco di montagna dove ogni altro elemento d’arredo era rustico e spartano. Sembrò riflettere per qualche minuto. Amelia rimase silenziosa a guardarlo senza riuscire a decifrarne l’espressione. Un istante sembrava indignato, il momento successivo scocciato, poi soltanto snervato dalle preoccupazioni. L’uomo si stava avvedendo che i suoi piccoli peccati di lussuria, di cui non riusciva a privarsi, cominciavano a divenire di difficile gestione. In ato aveva ricevuto le velate minacce di qualche contadino cui aveva insidiato con prepotenza la moglie, perciò aveva stabilito di non approcciare più donne sposate. Gli uomini del luogo non erano gente con cui scherzare, bastava poco per incendiarli ed essere fatti cornuti da un prete pareva un’onta insopportabile. Ma anche trastullarsi con le zitelle aveva dei contro: godevano di più tempo libero e non avevano molto da perdere, fatta eccezione per la loro rispettabilità. Si dimostravano quindi poco prudenti e il rischio di essere scoperti aumentava. Inoltre erano esigenti in termini di attenzioni e Don Mario, in tutta sincerità, iniziava a seccarsi. Decise che la soluzione per risolvere d’un botto tutti questi problemi esisteva ed era anche piuttosto semplice: «Vi dovete sposare, Amelia. È l’unico modo per fugare ogni dubbio. Celebrerò io stesso, dovete solo trovare un marito, ma non credo sarà per voi tanto difficile», concluse con una punta di sarcasmo nella voce. Amelia sobbalzò. Quell’uomo arrogante credeva forse che, se ci fosse stato un partito appetibile in quella contrada dimenticata da dio, lei non avrebbe già puntato i suoi occhi ingordi su di lui prima ancora che sul prete? Don Mario immaginava che la donna, facile all’ira e poco incline a controllare le sue reazioni istintive, avrebbe reagito male. Disponeva però di un’arma potente per farla ragionare, di fronte a un buon bicchiere di vino rosso le sue difese si sgretolavano ed ella diveniva più ragionevole e malleabile.

Il parroco aveva già in mente la persona ideale. Il buon Serafino Cortiana, vedovo da qualche anno e senza figli, aveva un debole per le donne, specie se si mostravano disponibili e compiacenti. Era sicuro di poter convincere Amelia a sedurre quell’uomo ingenuo, fingersi gravida e farsi sposare. Don Mario avrebbe dato un contributo su due fronti: da un lato per ingravidare la sposa, dall’altro per convincere Serafino a fare di lei una donna onesta e a prendersi le sue responsabilità. Era ormai mattina quando Amelia capitolò e accettò controvoglia quella soluzione, non senza accese discussioni. Serafino Cortiana era ben più vecchio di lei, gobbo e storto, oltre che di poca compagnia. Ma era tardi, l’uno doveva celebrare la messa delle sei, l’altra prepararsi per la scuola, perciò si salutarono alla svelta con la promessa da parte della maestra di chinare il capo e accettare quel compromesso scomodo per salvare la faccia a entrambi. Il matrimonio tra Amelia Collareda e Serafino Cortiana si celebrò circa sei mesi dopo: la sposa mostrava un pancione ben evidente, nonostante i tentativi della sarta di celarlo sotto un abito virginale, mentre lo sposo era imbronciato e scuro. Sicuro che non si sarebbe più sposato, ora si trovava in tarda età con una sposa incinta sulla quale in contrada se ne erano dette di tutti i colori. In tanti anni di matrimonio non gli era riuscito di ingravidare la povera moglie e in pochi mesi invece aveva coperto Amelia che si era praticamente tuffata nel suo letto. Ma come rifiutare l’offerta di quelle carni ancora giovani e sode? Nessun uomo degno di tale nome avrebbe potuto farlo. Diavolo, in pratica gli si era buttata addosso! Nessuno si sarebbe tirato indietro di fronte a tanta grazia. Dopo il peccato carnale però, la donna si era subito sentita impura e aveva dovuto confessare il fattaccio al prete che, da buon pastore quale era, aveva tirato le orecchie al parrocchiano. Se aveva osato compromettere una onesta pecorella del suo gregge, ora doveva fare ammenda e salvarne l’onore con un matrimonio riparatore. Serafino aveva aggrottato la fronte: ma non si era detto che tra Amelia e il prete …? Lei gli aveva giurato che si trattava di frottole e di cattiverie. L’aveva sentito dalle comari? Un’orda di invidiose. Fatto certo fu che Don Mario accettò di celebrare le nozze con una sposa in evidente stato interessante, nonostante anni addietro avesse rifiutato di maritare due giovani nella medesima condizione, costringendoli a un matrimonio segreto e lontano da casa. «I tempi cambiano, si evolvono!» fu la sua giustificazione, esposta con tono

offeso a chi glielo fece notare. Dopo un tale epilogo del suo scherzo, Bianca se ne rimase tranquilla per un bel po’ di tempo. Il matrimonio improvviso della maestra era parso così strano che persino alle sue orecchie di bambina era giunta voce che forse era collegato alla famosa lettera, della cui origine non si era più saputo nulla. Temendo di essersi esposta troppo, la monella decise di non farsi notare almeno per un periodo e la famiglia Sberze poté trascorrere qualche anno in relativa tranquillità. Nel frattempo nacque il figlio dei coniugi Cortiana: un bel bambino grassoccio che venne chiamato Lino, in onore del padre di Serafino. Di lui non aveva nessun tratto somatico, ma somigliava alla madre, con di lei notevole sollievo. Amelia aveva temuto per tutta la durata della gravidanza di mettere al mondo un Don Mario in miniatura, con tanto di collarino ecclesiastico al collo, e di vedere così scoperto l’inganno di fronte alla comunità. Per fortuna in genere le somiglianze nei bambini non sono così marcate da denunciare un tradimento coniugale. Il contegno della maestra Collareda, ora signora Cortiana, non era mutato. Amelia da sposata poteva coltivare il vizio della bottiglia in libertà, anche perché disponeva di discrete quantità di vino prodotte dal marito nei vigneti di famiglia. Inoltre la sua reputazione era al sicuro e, di tanto in tanto, riusciva ancora a incontrarsi con il suo religioso amante, approfittando dei momenti in cui Serafino era nei campi o in osteria. Sul lavoro non era migliorata né dava segno di impegnarsi in tal direzione, anzi sarebbe giunta alla fine di una breve carriera, stroncata da morte prematura, continuando a dimostrarsi pigra e indolente. Solo i più capaci e volenterosi riuscirono ad apprendere i rudimenti della cultura. Tra di loro si contava Beatrice, che crescendo si dimostrò sempre più seria e tranquilla. La sorella invece proseguì per la sua strada: i suoi pensieri erano di continuo alla ricerca di qualche nuovo divertimento e si preoccupava poco dello studio, pur essendo piuttosto sveglia. Le sorelle Sberze raggiunsero così l’età di tredici anni e un episodio in particolare segnò il loro aggio dall’infanzia alla giovinezza. In quei tempi il Natale era celebrato solo come ricorrenza religiosa, ma la vera giornata di festa per i bambini era l’Epifania. La notte del 6 gennaio la Befana, una vecchina dal naso bitorzoluto, le scarpe rotte e i vestiti stracciati, volando su una scopa,

buttava giù dal camino di ogni casa i doni per chi si era comportato bene durante l’anno. Tutti i bambini credevano ciecamente in questa sorta di strega buona, bardata con un fazzolettone scuro in testa. La loro ingenuità era tale per cui a tredici o quattordici anni non era insolito che attendessero l’arrivo della vecchina. La sera del 5 gennaio, in casa Sberze, le due ragazze filarono a letto molto presto. Ogni anno i genitori minacciavano che, se le avesse trovate sveglie, la Befana se ne sarebbe andata via senza lasciare nulla in dono. Bianca tuttavia era perplessa: se già l’anno precedente si era posta alcune domande riguardo la strana figura che in una sola notte riusciva a visitare tante case, quell’anno era ancora più scettica. Beatrice la rimproverava, affermando che la sua mancanza di fede sarebbe stata punita con l’assenza di regali. Le due sorelle avevano appeso sotto al camino, dove di solito venivano agganciate le pentole per cucinare, due ceste di paglia, una ciascuna. Sapevano che la mattina seguente le avrebbero trovate zeppe di pacchetti di carta marrone e ruvida. Regali di modesto valore: arance, mandarini, carrube, forse qualche dolce e un piccolo gioco o un ninnolo di legno. Bianca era certa che nella sua cesta avrebbe trovato anche qualche pezzo di carbone, che la vecchia non dimenticava mai di lasciare per ricordarle le varie marachelle. L’emozione che si provava nell’aprire gli involti era indescrivibile, ma bisognava tenere a freno l’impazienza: prima si doveva assistere alla messa delle sei e solo una volta a casa si potevano staccare le ceste dal camino. La notte del 6 gennaio del 1902, Bianca non riusciva ad addormentarsi. Il pensiero della Befana non la abbandonava. A un tratto sentì dei rumori provenienti dalla cucina: era arrivata? Balzò in piedi, sperando di non svegliare la sorella. Invece Beatrice la sentì subito e si mise a sedere. «Torna a letto, stupida!», sussurrò arrabbiata, «se ti vede, non lascia nulla neppure per me, che non ho colpa!». Bianca ignorò le proteste; da settimane aveva notato che nel solaio della loro camera si era aperta una minuscola crepa da cui si riuscivano a intravedere la cucina e il camino. La ragazza, quando l’aveva scoperta, l’aveva allargata un po’ con un coltellino, ben attenta a non esagerare, dato che, se il padre l’avesse vista, l’avrebbe riparata. Bianca si sistemò con il sedere verso l’alto, pronta a sbirciare. «Che cosa stai facendo?».

Beatrice, atterrita, corse vicino alla sorella che già stava guardando ciò che accadeva di sotto. La curiosità ebbe la meglio: se proprio doveva rinunciare a ricevere regali quell’anno, almeno voleva vedere anche lei la Befana. Non poteva essere gabbata due volte dall’imprudenza di Bianca! La sorella si sollevò, con l’espressione vagamente soddisfatta di chi sa di averla avuta vinta. «Guarda, guarda anche tu», mormorò piano a Beatrice. Quando la giovane riuscì a mettere a fuoco ciò che accadeva al piano inferiore, la delusione le apparve sul volto. Il sottile sospiro afflitto che emise fece sentire un po’ male persino Bianca, che si rese conto di aver inferto un duro colpo all’ingenua fanciullezza della sorella. Beatrice rimase per qualche minuto a guardare i genitori che, illuminati dalla luce fioca di una candela, avvolgevano i doni nella carta e li mettevano lesti nelle ceste, parlottando piano e ridendo sommessamente tra loro al pensiero della gioia delle figlie quando avrebbero scoperto il contenuto.

3. IL SIGNOR VALENTE DAL LAGO

In contrada c’era un gran fermento. Come spesso accade nei piccoli paesi chiusi e isolati, ogni novità, anche di poco conto, forniva un argomento di conversazione per distrarsi dalla consueta routine giornaliera dei lavori campestri e domestici. Quel giorno era arrivato un forestiero che sedeva tranquillo nell’osteria di fronte alla chiesa, bevendo con fare indifferente un bel bicchiere di vino scuro e denso che gli tingeva le labbra di viola. Nessuno gli aveva rivolto la parola: la diffidenza insita in quegli animi semplici e abituati a una vita dura aveva subito scurito i volti degli altri avventori presenti nel locale. L’oste, Piero Corà detto il Monco per via della mancanza di due dita alla mano destra, gli aveva servito da bere mugugnando. Non gradiva la presenza di estranei nella sua osteria in cui si trovava assai più spesso che tra le mura di casa, situata al piano superiore. Il Monco, forse a causa del lavoro, aveva il vizio di bere un bicchierino di troppo. Si era tagliato le dita con l’accetta mentre abbatteva un faggio, e l’alcol che gli scorreva in corpo aveva fatto sì che si rendesse conto del dolore solo dopo una decina di minuti, trascorsi a guardare lo sgocciolare del sangue sul legno chiaro e la chiazza rossa che si andava allargando. Neppure il rischio di morire dissanguato aveva cambiato le sue abitudini e l’uomo continuava impunemente a eccedere con il vino e la grappa. Lo straniero, all’apparenza un cittadino, lo rendeva sospettoso, ma ben presto l’alcol lo rese audace e si lasciò vincere dalla curiosità. Chiese con tono piuttosto maleducato: «Cosa vi porta in questo posto dimenticato dal Signore, forestiero? Cosa cercate?». L’uomo lo fissò con un vago sorriso. Storse appena il naso a causa dell’alito puzzolente dell’oste che lo aveva investito a zaffate. «Sono qui per affari», rispose asciutto.

Dal tono era evidente che non intendeva aggiungere alcun dettaglio. Affari? Lassù? Il Monco si risentì. Avrebbe gradito qualche informazione succulenta in più da riferire alla moglie Modesta, che avrebbe poi provveduto a metterne a conoscenza l’intera contrada nel giro di poche ore. Perciò sbatté con malagrazia un altro bicchiere di vino sul bancone e voltò le spalle, deciso a non rivolgere più la parola allo scorbutico estraneo. Quest’ultimo non perse il sorriso. Sorseggiò il vino, si alzò, abbandonò qualche moneta sul bancone con fare noncurante e uscì guardandosi attorno. L’abbigliamento lo identificava come un uomo venuto dalla città: indossava una camicia dal colletto inamidato, chiusa ai polsi con dei gemelli, segno che non era avvezzo al lavoro manuale. Un panciotto dello stesso colore della giacca copriva le bretelle di cuoio che reggevano pantaloni in fustagno ben puliti. Ma soprattutto non portava le consuete calzature da lavoro, i rumorosi zoccoli in legno con tomaia in cuoio rinforzata da chiodi, confezionati in casa. Ai piedi calzava un paio di scarpe che gli abitanti della contrada non avrebbero potuto permettersi neppure per i giorni di festa. Con le mani calate in tasca, l’uomo prese a girellare per la piazza studiando i dintorni. La curiosità degli abitanti era alle stelle e, se lo sconosciuto si fosse reso conto dei molti occhi che lo fissavano nascosti dietro una tenda, un angolo o un muro, sarebbe scoppiato in una sonora risata. Beatrice aveva compiuto da poco sedici anni. La madre quel giorno l’aveva mandata a casa di un’anziana signora, Vittorina Valle. Dopo aver concluso la scuola, la giovane si era dimostrata dotata e precisa nel cucito e nel ricamo e ciò l’aveva resa preziosa per la famiglia. Spesso realizzava dei lavori per le donne della contrada, che avevano presto imparato ad apprezzare la sua minuzia e la sua fantasia nell’inventare motivi delicati e ricercati. Talvolta giungeva persino qualche signora dal paese a valle che aveva sentito tessere le sue lodi. Beatrice era abile e svelta anche nel rammendo e la buona Vittorina, resa quasi cieca dall’età, le affidava spesso i panni dei quattro figli maschi perché li sistemasse. Nessuno dei ragazzi aveva moglie e la vecchia se ne lamentava di continuo. Qualcosa non andava nelle femmine del posto: come potevano non apprezzare i suoi figlioletti? Beatrice sorrideva, certa di non essere scorta, quando Vittorina le parlava di questa sua personale sfortuna, dolendosi di non poter contare sull’aiuto di nessuna donna in casa. Se avesse potuto vedere, gli occhi avrebbero ridimensionato ciò che l’amore materno e la scarsa memoria

concedevano ai ricordi. La vecchietta si sarebbe forse rassegnata al fatto che gli amati pargoli erano ormai degli omoni ben oltre l’età da matrimonio, e si sarebbe avveduta che non erano, loro malgrado, particolarmente dotati né in intelligenza né tantomeno in prestanza fisica. Burberi e scontrosi, non avevano saputo riscattarsi con un carattere gioviale e si scioglievano solo di fronte alla mamma. Beatrice andava comunque volentieri da lei perché la donna le offriva sempre un buon caffè di cicoria caldo e talvolta persino un arancio succulento o una gustosa carruba. Inoltre le garantiva lavoro continuo: calzini, pantaloni, maglioni. Pareva che i figli di Vittorina non sapessero indossare un abito senza danneggiarlo. Bianca la derideva spesso, definendola un’ingenua; era certa che la vecchia signora, assai più astuta di quanto volesse dare a vedere, attirasse di proposito Beatrice in casa procurando danni ai vestiti. Bianca sosteneva che Vittorina coltivasse la segreta mira di maritare uno dei a suo dire meravigliosi figlioletti con la sorella. Nonostante Beatrice avesse notato che la signora Valle tesseva le lodi ora dell’uno ora dell’altro pargolo in sua presenza, non era incline a prestar fede a Bianca, sempre pronta a vedere malizia e sotterfugi ovunque. In ogni caso non si sognava neppure di rifiutare quel lavoro prezioso, facile e ben pagato, solo in base a una supposizione della sospettosa Bianca. Come pagamento era raro che la giovane sarta ricevesse denaro poiché erano ben poche in quegli anni le monete in circolazione. Il baratto era ancora in uso e Vittorina dava a Beatrice e alla sua famiglia verdura, frutta, legna e quant’altro le portavano a casa i suoi uomini, che su di una dote potevano senza dubbio contare: erano gran lavoratori. Nei campi non lesinavano la fatica e aravano, seminavano e raccoglievano senza posa. Nei boschi con la scure non avevano difficoltà e la legna in casa Valle non mancava mai. Angela incoraggiava la figlia ad andare spesso da Vittorina, sapendo che non faceva ritorno a mani vuote. Quel giorno Beatrice si stava giusto dirigendo verso casa dopo una visita a Vittorina protrattasi più del previsto: la donna sembrava non volerla lasciare andar via e la ragazza addusse la scusa di dover aiutare la madre a preparare il pranzo per riuscire a sfuggirle. La giovane reggeva da un lato una cesta con i panni da rammendare e dall’altro una seconda cesta contenente un paio di grosse verze. Beatrice stava attraversando a fatica la piazza della contrada, poiché abitava dal lato opposto del paese, dopo una ripida salita e una altrettanto scoscesa china, quando scorse la misteriosa figura che camminava davanti alla chiesa. Il forestiero attrasse il suo interesse come quello di tutti gli altri. Tuttavia la ragazza non si era resa conto di essere in equilibrio precario e, intenta a guardare più lo straniero che il terreno su cui poggiava i piedi, inciampò

malamente. Ruzzolò a terra con ceste, verze e calzini al seguito. Smarrita e vergognosa, fece il gesto di alzarsi, ma l’uomo le era già accanto e le tese con cavalleria una mano aiutandola a rimettersi in sesto. Quindi, senza una parola, prese a raccogliere ciò che la giovane aveva seminato sulla piazza. Lei rimase a fissarlo inebetita, scordando le buone maniere. Le doleva un ginocchio per la caduta, ma se ne sarebbe accorta solo più tardi, una volta a casa. Guardava con aperta ammirazione quell’uomo distinto ed elegante mentre si spostava da un lato all’altro raccogliendo dal selciato calze e mutandoni bucati. Portava dei baffi curati dello stesso colore castano intenso dei capelli e appena sopra le orecchie e le tempie si potevano scorgere dei fili grigi, a denunciare che non era più un ragazzino. Beatrice si riscosse solo quando lui le fu di fronte e le porse con sussiego le ceste piene. «Buongiorno signorina. Per servivi, Valente Dal Lago», si presentò con una mezza riverenza che la impressionò ulteriormente. Non aveva mai visto nessuno degli uomini della contrada dimostrare una cortesia e un’educazione simili. Il sorriso accattivante di Valente la stregò all’istante. «Buongiorno. Scusatemi, signore. Vi ringrazio per la gentilezza», rispose la ragazza in vistoso imbarazzo. Prese le ceste e, senza nemmeno presentarsi, corse via, rossa in volto e zoppicante. Non era permesso alle giovani parlare con uomini sconosciuti, tanto meno senza la presenza dei genitori o di un altro chaperon. Beatrice non poteva ignorare le regole con cui era stata cresciuta, come forse avrebbe fatto Bianca. Per questo e per l’impaccio in cui si era venuta a trovare, non aveva visto altra soluzione che una precipitosa e liberatoria fuga verso la sicurezza di casa. Il signor Valente Dal Lago guardò con piacere e con un pizzico di ironia la fanciulla che fuggiva goffa trascinandosi dietro i suoi fagotti. L’ondeggiare delle lunghe gonne scure attorno alle gambe sinuose, ben avvolte in spesse e castigate calze di lana, lo stuzzicava. Il rossore che aveva colorito le belle guance pallide l’aveva fatto fremere, da tempo non aveva a che fare con una donna che dimostrasse un sincero pudore. Rimase a fissare la testolina scura finché non fu che un punto lontano e in quel momento la sua aspettativa fu soddisfatta: lei si voltò un istante a cercarlo con lo sguardo. Valente conosceva bene le donne: aveva catturato il suo interesse e lo capì da

quel minimo gesto di resa. Un sorriso di trionfo gli si dipinse in volto. Una tensione al basso ventre gli suggerì che avrebbe cercato di rivedere quella piacevole giovane donna, non avrebbe saputo resistere alla tentazione. Non ne aveva mai avuto bisogno, in tutta la vita. Aveva sempre soddisfatto ogni sua brama. D’altra parte, pensava tra sé mentre continuava a camminare per la contrada, aveva a disposizione un’ottima scusa per frequentare quel luogo isolato anche nei mesi a venire. Da qualche tempo era venuta a mancare la sorella della madre, sua unica parente in vita. Lucia Manozzo era morta zitella e senza discendenza. La madre del signor Valente aveva abbandonato la casa natale molti anni prima, sposandosi poco più che fanciulla con un uomo molto più anziano di lei, un medico che aveva cercato di guarire il loro padre da una grave malattia che l’aveva condotto a prematura scomparsa. Le due sorelle Manozzo, già orfane di madre, si erano trovate sole al mondo. Il medico aveva valutato il caso umano, ma, più di ogni cosa, aveva valutato le due signorine che aveva di fronte. La maggiore, Lucia, bruttina e grassoccia, gli era parsa in grado di cavarsela da sola. La minore, Caterina, bionda e graziosa, era un uccellino spaurito e tremante, un ghiotto boccone per un vecchio e furbo volpone come lui. Aveva quindi deciso di sposarla e, per convincerla, le aveva assicurato che sarebbe potuta tornare spesso in visita alla sorella per aiutarla anche economicamente, ma mai era stato sfiorato dall’idea di portare la cognata in città, nella bella casa signorile dove condusse la giovanissima sposa. In breve tempo Caterina gli diede un figlio, ma le cose non andarono bene come era parso in un primo momento. Il parto aveva fiaccato la donna, già gracile di natura, e Caterina era morta di febbre puerperale nonostante le cure sollecite del novello marito, che si era così ritrovato vedovo e con un pargolo prima ancora di aver goduto appieno della bella mogliettina che si era scelto. A distanza di anni, trentasei per la precisione, quel figlio faceva ritorno alla contrada dove la madre mai conosciuta era nata, per reclamare i possedimenti della zia deceduta. Il signor Valente Dal Lago in realtà non aveva bisogno di quella casa vecchia di secoli, né dei campi che erano appartenuti ai Manozzo. Il padre, già benestante di famiglia, gli aveva garantito ulteriore disponibilità di ricchezze e beni immobili grazie al suo prestigioso lavoro. Ciò aveva contribuito a rendere quell’unico figlio alquanto indolente. Dato che nulla gli era mai mancato, ogni cosa gli pareva dovuta. Non che questo lo rendesse odioso, anzi. Egli sapeva sfoggiare un carattere così amabile e socievole che la sua grettezza d’animo ava in secondo piano, ben celata sotto una sapiente maschera, e si rivelava

solo dopo un’attenta e profonda conoscenza. In ogni caso, forse spinto dalla curiosità o dalla noia, Valente aveva deciso di arrampicarsi fino a quella contrada isolata per controllare ciò che zia Lucia gli aveva lasciato. Avrebbe deciso con comodo cosa fare delle proprietà, venderle e liberarsene alla svelta, immaginava. Ma ora aveva adocchiato qualcos’altro: non erano né case né campi, ma la freschezza spontanea e saporita di una bella montanara.

4. VALENTE IN CONTRADA

Quando videro il forestiero tornare più volte in contrada, molti storsero il naso con disappunto. Piero il Monco si trovò costretto a servirgli di nuovo da bere, ma, memore dell’esperienza precedente, non cercò di fare conversazione. La sua curiosità era già stata in parte soddisfatta da Modesta. La moglie, dopo un’attenta riunione con le comari sue amiche, aveva risolto l’arcano. Quell’uomo distinto era il figlio di una paesana, Caterina Manozzo, che se n’era andata giovane ed era tornata al paese poche volte dopo maritata. Si era in seguito saputo che era morta di parto. Il suo unico figlio era stato visto in occasione di un paio di rare visite alla zia, accompagnato dal padre dottore. L’esimio genitore e il pargolo, impettiti e ben vestiti, dopo una breve sfilata per le vie si erano infilati in casa Manozzo con rapidità e con altrettanta foga erano tornati da dov’erano venuti. Qualche malevolo ricordava che quel nipote snaturato non si era degnato neppure di partecipare al funerale della vecchia Lucia Manozzo. Valente non era stato identificato dall’aspetto fisico, erano trascorsi troppi anni dall’ultima visita, ma grazie al suo primo giro di perlustrazione, in cui aveva dovuto presentarsi a un vicino di casa della defunta. Valente aveva un ricordo piuttosto vago dell’abitazione della congiunta e, pur avendo riconosciuto il caseggiato, non sapeva verso quale porta dirigersi. In quell’occasione, uno dei confinanti lo accolse come se lo stesse aspettando da mesi. Il buon Santo Sberze sbirciava da un po’ l’avvicinarsi dello straniero e, quando lo vide accostarsi alla porta di casa sua, uscì in fretta sull’uscio. Non riuscì a celare il timore nella voce quando chiese: «Buongiorno, signore. Posso aiutarvi?». Il tono tremolante indicava che Santo paventava una brutta notizia o una disgrazia. Non immaginava davvero cos’altro potesse volere un uomo venuto dalla città. «Buongiorno!» reagì gioviale il signor Dal Lago, che già si stava interrogando su come individuare casa e campi della zia.

«Sono Valente Dal Lago. Mia zia, Lucia Manozzo, viveva qui, ma non riesco a ricordare con esattezza dove. Sono l’unico erede», rivelò infine. Il sospiro di sollievo di Santo fu così palese da stupire il nuovo venuto. L’uomo gli rivolse un sorriso sin troppo cordiale e gli andò incontro a braccia tese tanto che Valente, per un istante, temette che l’avrebbe abbracciato. Invece si fermò a pochi metri da lui proclamando: «Ma certo! La casa di vostra zia è quella che confina con la mia. È chiusa da un po’, quasi un anno credo. A proposito, condoglianze». «Vi ringrazio», tagliò corto Valente, «è chiusa a chiave?». «Sì, c’è un chiavistello, ma non vi dovete preoccupare. Le chiavi le ho tenute io. La porta è stata chiusa dopo il funerale di vostra zia, per evitare che i ragazzini o qualche vagabondo si infilassero in casa. Tutto è rimasto com’era». Valente interruppe l’interlocutore, ma il sorriso che gli rivolse fece subito scordare la sottile maleducazione. «Sapreste anche indicarmi quali sono i suoi terreni, per caso?». Santo ebbe un’esitazione nella voce. Sapeva bene che parte dei campi della vecchia Lucia erano coltivati da Nando ed era incerto se rivelarlo. Rifletté per qualche istante: prima o poi il forestiero ne sarebbe comunque venuto a conoscenza. Decise che gli conveniva essere lui a dare l’informazione, in fondo il signor Dal Lago possedeva la casa adiacente alla sua e ingraziarselo avrebbe potuto tornargli utile. «Quando vostra zia era in vita, lasciava che fosse Ferdinando Corà a coltivare buona parte delle sue terre, perché lei non aveva marito e non era in grado di provvedere da sola. In cambio lui le dava una quota del raccolto e tagliava un po’ di legna in più per lei nei boschi. Dopo la sua morte, Ferdinando ha cercato di sapere chi fossero gli eredi per chiedere il permesso di continuare a usufruire delle terre di Lucia, ma nessuno ha saputo indicarglieli». Un tono di leggera scusa permeava la spiegazione, come se Santo sentisse la necessità di giustificare il compaesano. L’ultima affermazione era frutto della fantasia. Nando non aveva neppure lontanamente pensato di cercare i nuovi proprietari: «Se non vogliono che continui a coltivare quelle terre, che vengano a dirmelo! Neanche al funerale si sono fatti vivi, quei cafoni!», aveva affermato

convinto dopo la morte della vecchia Manozzo. Santo sapeva che Nando aveva sempre dato a Lucia solo una misera parte di ciò che coltivava, non per cattiveria, ma perché la vecchia signora necessitava di poco per vivere, sola com’era, mentre l’uomo doveva nutrire tante bocche affamate. Per diritto acquisito aveva quindi continuato a usare i campi e nessuno ci aveva trovato nulla di male. Anche Santo lo giustificava e avrebbe fatto lo stesso al suo posto. L’evidente ricchezza del signor Dal Lago lo rassicurava e gli faceva sperare che non si sarebbe adirato per ciò che gli era appena stato confessato. Non si sbagliava. «Certo, capisco. Vorrei solo vedere i terreni», ribatté Valente imibile e sempre sorridente. Santo trascorse l’ora successiva a mostrare al nuovo venuto i possedimenti della famiglia Manozzo: circa venti are di terra fertile, collocate in uno dei pochi punti pianeggianti della zona sulla sommità di una collinetta. Quasi tutta l’area era coltivata. La comodità data dalla vicinanza alla contrada e dalla mancanza di pendenza la rendeva un ghiotto appezzamento per qualsiasi contadino del luogo. La casa di Lucia era invece simile alle altre: affacciata su un’ampia corte in ghiaino e poggiata contro l’abitazione di Santo da un lato e contro un fienile appartenente ai Corà dall’altro. Sul retro era stato costruito un ampio fienile collegato alla vecchia stalla, ora inutilizzata. Di tre piani più una bassa soffitta, era piuttosto spaziosa, anche se il tempo ato senza il calore di un fuoco a riscaldarla l’aveva resa gelida e umida. Topolini di campagna avevano costruito le loro tane nei solai e fuggivano ora terrorizzati dall’ingresso di persone dopo un lungo periodo di tranquillità. Nei bauli erano ancora riposti ben piegati i poveri abiti della vecchia signora e in cucina i tegami di rame pendevano dai ganci appesi al muro, quasi in attesa che la proprietaria fe ritorno per utilizzarli. Valente osservava tutto con noncuranza, stupendosi della miseria in cui viveva quella gente e confrontando ogni cosa con le comodità di cui disponeva nella sua bella casa linda di città, dove il fuoco, sempre nei camini dalla servitù, manteneva un piacevole e costante tepore. Non si sarebbe mai trasferito in quella contrada dispersa a vivere di stenti e difficoltà e a farsi congelare le ossa dall’umidità. Tuttavia, mentre esplorava le camere, decise che avrebbe atteso prima di liberarsi dei beni. Gli occorreva un pretesto per tornare in contrada

ancora per qualche tempo, in modo da rincontrare la bella giovane che aveva conosciuto. Santo spiava di nascosto le reazioni dell’uomo: fremeva dal desiderio di sapere quali fossero le sue intenzioni. Voleva forse vivere lì? O avrebbe venduto la casa? A lui non sarebbe dispiaciuto comprarla, se il prezzo fosse stato onesto. Ma nulla nel contegno del forestiero gli dava indicazioni in merito e Santo non sospettava che i pensieri dell’elegante signore fossero tanto lontani dai suoi. Quando uscirono sulla corte, Nando Corà era in piedi davanti a loro. Nell’attesa si stropicciava nervoso le mani. La notizia che il forestiero era nipote della vecchia Manozzo e che era venuto per visionare le sue proprietà aveva già fatto il giro della contrada, veloce e silenziosa. Quando Nando aveva saputo che il signor Dal Lago era lì, si era messo in allarme, temendo che gli avrebbe revocato i privilegi di cui si era indebitamente appropriato. Perciò, appena lo vide, gli si fece incontro presentandosi con mestizia. «Buongiorno, signor Dal Lago. Sono Ferdinando Corà. Voi non mi conoscete, ma ero un buon amico di vostra zia. Il fienile qui accanto è mio». «Il signor Sberze mi ha già riferito del servizio che avete reso a mia zia. Vi ringrazio di aver provveduto a lei in questi anni», interruppe subito Valente. Il lieve tono sarcastico fece intendere tanto a Santo quanto a Nando che l’uomo non si era lasciato trarre in inganno e aveva capito che il presunto favore era tale solo di nome. Tuttavia fecero entrambi un sorriso forzato. «Grazie. Mi chiedevo se, adesso che siete venuto a controllare, aveste qualche idea riguardo i terreni». «Nulla in particolare, per ora. Ma continuate con le vostre coltivazioni. Quando avrò deciso qualcosa, non mancherò di farvelo sapere», tagliò corto Valente. I due uomini si guardarono in modo eloquente. Quel signorotto di città voleva tenerli sulla corda, senza capire che per loro si trattava di una questione importante, addirittura vitale. Era ormai pomeriggio inoltrato e per Valente era tempo di fare ritorno a casa. Ne aveva avuto abbastanza di quei due, decise. Li salutò e si incamminò deciso verso la piazza, dove avrebbe raggiunto la strada che conduceva in paese.

In quegli anni le prime automobili carrozziformi iniziavano ad apparire in pubblico in sporadiche occasioni. Nel primo decennio del 1900, qualche ricco borghese avrebbe potuto permettersi persino di comprare una delle prime macchine in circolazione. Per il momento, però, Valente doveva rassegnarsi a percorrere la strada a piedi. In città disponeva di una carrozza trainata da una coppia di splendidi cavalli, ma preferiva non dare nell’occhio in contrada più di quanto già non fe. Senza contare che la via era piuttosto dissestata. Nonostante le numerose richieste dei cittadini, la mulattiera che congiungeva la contrada al paese era in condizioni disperate. Frequenti piogge causavano frane di detriti che nessuno rimuoveva e i rovi mangiavano a ogni stagione qualche decina di centimetri di sentiero senza che alcuna lama provvedesse a estirparli. La legge in vigore prevedeva l’obbligo per gli enti pubblici di rendere praticabile ai carri almeno una via di comunicazione tra frazioni e capoluoghi, ma il Podestà e le varie autorità parevano ignorarla e il problema sarebbe stato risolto solo nel corso del nuovo secolo. Valente Dal Lago si adattò a percorrere sulle proprie gambe quella distanza e ben più di una persona si stranì nel veder eggiare con tanta foga quell’uomo vestito di tutto punto. Ma egli aveva i suoi buoni motivi, come ben presto tutti ebbero modo di intendere. Quando Valente venne a sapere che Santo Sberze era lo zio della bella ragazza su cui aveva messo gli occhi, ringraziò la sua consueta buona stella. Accadde in una delle occasioni in cui l’uomo si venne a trovare in contrada. La moglie di Santo, Ottavia, si era presa la briga di accendere il fuoco nel camino di casa Manozzo e Valente la osservava. Era abituato a essere servito e quindi non si era fatto riguardo a chiedere alla donna di provvedere al camino quando, arrivando davanti a casa, l’aveva vista sulla sua soglia intenta in qualche lavoro domestico. Ottavia l’aveva fissato accigliandosi: l’aveva forse scambiata per una serva? Poi aveva ricordato le parole del marito: «Cerca di essere gentile con quel tizio! È un signore, potrebbe esserci utile avere il suo appoggio». Santo coltivava la speranza che il Dal Lago avrebbe deciso di vendere la casa della zia e che, pur di liberarsene in fretta, avrebbe accettato l’esigua offerta che intendeva fargli. Avrebbero così potuto disporre del doppio dello spazio, un’opportunità da non gettare al vento. Ottavia fece spallucce e inghiottì il suo orgoglio di donna di montagna in nome di un possibile guadagno futuro. «Certo, signore. Se volete, posso dare anche una veloce ripulita», rispose

mettendosi all’opera con vigore. Beatrice e Bianca arrivarono dopo una decina di minuti poiché, ando da quelle parti, volevano salutare zia Ottavia. La intravidero nella casa di Valente e Bianca entrò, non immaginando che il padrone di casa fosse lì a fissare la donna mentre rassettava, celato in un angolo scuro. «Zia Ottavia, buongiorno! Cosa state facendo? Il riccone vi ha commissionato le pulizie della baracca? Non preferisce portare qualche servetta inamidata dalla città per i lavori domestici?» salutò scherzosa. «No, mi va benissimo la signora Sberze, che è stata così gentile da offrirsi di rendere vivibile la baracca», esclamò pronto Valente alzandosi dal suo angolo mentre Ottavia sbiancava in volto. Bianca rimase annichilita per qualche secondo, mentre cercava un modo per riscattarsi dalla figuraccia. Tossicchiò, mentre già gli angoli della bocca le si increspavano in una risata involontaria e irrefrenabile. Un istante dopo, stava ridendo di gusto. «Bianca! Incorreggibile maleducata! Scusati subito con il signor Dal Lago! Che modi sono mai questi! Quando lo saprà tua madre!» sbottò Ottavia contrariata, fissando la sfrontata nipote con ira. Quella peste non perdeva occasione per far vergognare la famiglia con un contegno a dir poco disdicevole. Nonostante fosse ormai quasi un’adulta, non c’era verso di correggere quel carattere ribelle. Si rivolse poi a Valente: «Perdonatela, signor Dal Lago! Non sa quel che dice! Non badate neppure alle sue parole!». Bianca non cercava più di frenare la risata e lacrime di divertimento le erano già spuntate agli angoli degli occhi. Beatrice, richiamata dal vociare, fece capolino sulla porta, dopo aver chiesto con educazione il permesso per entrare. Scorse subito l’uomo poco discosto: dopo il primo incontro, era informata sulla sua identità e non si stupì di rivederlo. Sentì un rimescolio nello stomaco, una sensazione nuova che la turbò tanto da farle abbassare lo sguardo. Valente osservò deliziato l’improvvisa visione comparsagli di fronte. Con piacere riconobbe la fanciulla che anelava.

Tutta la situazione era nel complesso piuttosto divertente. Le risa istintive e irriverenti, a loro modo intriganti, di una spontaneità rara in una femmina e poi il pudore, in netto contrasto, non mancò di colpirlo per la seconda volta. Avrebbe voluto allungare una mano per sfiorare il viso chiaro chinato verso terra, sollevarlo e guardare quegli occhi intensi che ricordava bene. «Signor Dal Lago, non finirò mai di scusarmi per questa scena incresciosa. La sfacciataggine di mia nipote non ha confini». Ottavia interruppe i pensieri dell’uomo facendo le presentazioni, dopo essersi rammaricata per il comportamento villano di Bianca, che ignorò il tentativo della zia di fare in modo che si scusasse. C’era forse qualcosa di male nel dire ciò che pensava? Rivolse la parola al forestiero, curiosa di sapere qualcosa in più sul suo conto: «Intendete trasferirvi qui, signor Dal Lago? Nella casa della vecchia Lucia?». «Insomma! Sei davvero impertinente! Basta così! Non dare noia al signore!». «Non ha importanza, signora Ottavia. Vostra nipote è diretta e sincera, come piace a me. Sa andare subito al nocciolo delle questioni che le interessano», la bloccò Valente. «Non ho ancora deciso, signorina Sberze», si rivolse a Bianca, «ma vorrei trascorrere del tempo quassù per capire se la prospettiva abbia qualche attrattiva per me». La prospettiva che lui aveva in mente era ben diversa da quella che intese Bianca. «Quassù? In questo posto? Sono sicura che, dove vivete, ci sono attrattive ben maggiori, e divertimenti, e gente ben vestita! Cosa volete venire a fare qui?». Se non fossero state dette con voce cristallina e ridente, le parole di Bianca sarebbero parse quanto mai scortesi. Nel frattempo Beatrice, credendosi ignorata, studiava Valente mentre la sorella ciarlava. Con gli occhi ancora bassi, percorse le gambe di lui, soffermandosi sul fondoschiena più di quanto la comune decenza avrebbe trovato accettabile, poi risalì fino alla nuca e ai capelli. Si riscosse solo a un brusco movimento dell’uomo e, vergognosa, strinse le mani l’una nell’altra quasi a punirsi per

quelle sbirciate eccessive e impudenti. Il signor Dal Lago, da vecchio volpone qual era, non aveva mancato di notare le occhiate. Le due giovani se ne andarono quasi subito, avviandosi fianco a fianco verso casa. «Hai visto che bell’uomo, Beatrice? Non trovi anche tu?». «Che cosa dici? È vecchio!». «Non è vecchio! Deve avere solo dieci o quindici anni più di noi! Ma hai visto com’era vestito?». «Non sta bene parlare così della gente!». Bianca si zittì e rimase pensierosa qualche secondo a guardare la sorella che teneva ostinata gli occhi puntati sui piedi. Beatrice sentiva quello sguardo indagatore: Bianca la conosceva meglio di chiunque altro e le era sempre difficile nasconderle qualcosa. «Ti piace!» quasi urlò Bianca trionfante dopo alcuni minuti, «ti piace! Lo sapevo!». «Non dire stupidaggini, non è vero!». Il tono sottilmente arrabbiato di Beatrice non fece che confermare i sospetti della sorella. «Sono sicura che anche tu non gli sei indifferente! Ti ha lanciato un paio di sguardi di fuoco!». «Smettila! Mi imbarazzi! E poi lo interessavi molto di più tu, non hai sentito che cosa ha detto? Che parli con sincerità, come piace a lui!». «Già ti ingelosisci, dunque! Non ti preoccupare, lo lascio a te cara! Di un damerino simile io non me ne faccio proprio nulla!». Bianca scherzava come di consueto, ma Beatrice sentiva la rabbia montarle in petto. Il fatto di non saper accettare le burle della sorella le suggerì che qualcosa era cambiato: Valente Dal Lago si era già appropriato dei suoi pensieri di

giovane donna.

5. MOGLIE E BUOI DEI PAESI TUOI

Valente si presentò in casa Sberze una sera di qualche settimana dopo. Una lunga riflessione l’aveva condotto a tale mossa. Non aveva intenzione di sposarsi ed era giunto indenne all’età di trentasei anni, senza che nessuna delle sue numerose conquiste fosse riuscita a intrappolarlo in una scelta stupida come il matrimonio. I begli occhi di una montanara non avrebbero cambiato le cose. Tuttavia era consapevole che le donne di quei luoghi non erano compiacenti e accondiscendenti come quelle di città. Meglio così. Valente amava le sfide e più la conquista si prospettava ardua, più sarebbe stata gustosa la ricompensa. Una buona fetta del piacere che sapeva dargli una femmina consisteva nell’essere irraggiungibile e proibita. Una volta conseguito, l’obiettivo perdeva gran parte del suo valore. Se era necessario mentire, Valente non avrebbe esitato a farlo. L’unico modo per convincere la sua Beatrice ad avere a che fare con lui era chiedere il consenso ai genitori per frequentarla. In genere quando un uomo aveva scelto la donna che gli interessava e le sue intenzioni erano serie, per farle la corte aveva bisogno della benedizione del padre. Valente non aveva intenzioni serie nell’accezione consueta del termine, ma era seriamente intenzionato a sedurre Beatrice, benché non fosse sicuro che la comune morale intendesse questo. In ogni caso indossò la sua maschera più affidabile sopra un sorriso sornione e disonesto e bussò alla porta di legno di casa Sberze. Venne accolto con grande sorpresa: nessuno si aspettava di vederlo lì, meno di tutti l’ignara fanciulla. La sua richiesta lasciò sbalordito sco il Bufala, che balbettò qualche parola incomprensibile mentre versava un bicchiere di vino scuro all’inatteso ospite. La moglie Angela per poco non lasciò cadere il piatto che reggeva e dovette posarlo sul tavolo, come se non riuscisse a sopportarne il peso. sco recuperò il controllo: «È una richiesta che ci coglie impreparati, signore. Non pensavamo che voi aveste, ecco … un interessamento per nostra figlia. Siamo gente semplice, di montagna». Mentre il marito parlava, Angela prese ad annuire, certa che sco stesse cercando parole non offensive per rifiutare.

«Quindi non siamo abituati ai modi della città. Dovete lasciarmi del tempo per discutere con la mia famiglia. Penso che, nonostante la decisione finale spetti a me, sia il caso di parlarne anche con mia moglie. Beatrice è giovane e non avevamo ancora considerato la possibilità che si fidanzasse», concluse. Le cose non stavano proprio così: Angela e Beatrice da anni confezionavano con pazienza capi preziosi e curati per la dote di entrambe le sorelle. Ma gli Sberze avevano sempre immaginato che le figlie sarebbero andate in moglie a due bravi e onesti lavoratori della contrada, qualcuno della loro gente. Chi poteva immaginare che sarebbe arrivato un riccone dalla città a chiedere una delle due creature in sposa? Inoltre Angela era sempre stata perentoria con il marito: quando fosse stato il momento, avrebbero chiesto anche il parere delle ragazze e loro stesse avrebbero scelto un corteggiatore gradito, purché si trattasse di persona retta e accettabile. Valente fu congedato alla svelta con la richiesta di tornare dopo qualche giorno, in modo da permettere alla famiglia di discutere l’argomento. Non appena l’uomo fu uscito, Bianca si alzò di scatto, facendo quasi cadere la sedia e volgendosi verso la sorella: «Che ti avevo detto? Gli piacevi, era chiaro!» gridò trionfante all’indirizzo di Beatrice, con meraviglia dei genitori. Sapevano dell’incontro con il signor Dal Lago, ma Ottavia aveva raccontato loro solo la pessima figura di Bianca e non sospettavano che le figlie si fossero curate dell’estraneo. Angela, dal canto suo, era sicura che il marito non avrebbe accettato e che Beatrice non avrebbe nemmeno considerato l’ipotesi di fidanzarsi con il forestiero. Ma si sbagliava. Quella sera i coniugi Sberze si scontrarono sull’argomento. Angela si pettinava i capelli con cura, avvolta nella lunga camicia da notte, mentre sco camminava con nervosismo accanto a lei, avanti e indietro. La donna non poté ignorare la sua inquietudine, ma lo mantenne sulle spine per un po’ prima di iniziare a parlare, per capire quali fossero le sue intenzioni. Infine poggiò la spazzola e si voltò verso di lui, mentre con gesti esperti intrecciava per la notte i capelli, un tempo scuri, nei quali gli anni avevano intessuto numerosi fili argentei. «Checo, cosa vi tormenta?» lo interrogò, pur conoscendo la risposta. «È un buon partito, non possiamo negarlo», esordì lui certo che la moglie

sapesse bene a cosa si riferiva e seguendo il corso dei suoi pensieri, «è ricco, molto ricco, a quanto ho sentito dire in osteria!». Angela alzò scettica un sopracciglio, le notizie che il marito apprendeva in osteria non erano quasi mai affidabili. I fiumi di vino che scorrevano sul bancone e la natura del Bufala tendevano ad alterare la realtà. Tuttavia, in questo caso doveva ammettere che anche le comari sue amiche le avevano riferito la medesima cosa: il signor Valente era più che benestante e possedeva case, terreni, persino una carrozza e dei cavalli. Qualcuno aveva persino bisbigliato, con reverenziale timore, che disponeva di diverse persone stipendiate al suo servizio in città. Nonostante la certezza che sposando il signor Dal Lago Beatrice avrebbe garantito a se stessa e magari anche alla famiglia una vita agiata e lussuosa, senza le fatiche e le privazioni cui sarebbe stata condannata rimanendo in contrada, Angela non si sentiva tranquilla. Il suo istinto materno era in allarme: in quel distinto signore, tanto educato e sorridente, c’era un non-so-che che non la convinceva. Ma non riusciva a dare un nome alla sensazione e sco non avrebbe mai compreso le sue apprensioni di madre. «Non so, Checo. Non è del posto, non mi piace pensare che nostra figlia sposi qualcuno di città. Siamo così diversi. Come potrebbero andar d’accordo?». Angela avanzò la protesta con poca convinzione e il marito se ne avvide subito. «Angela, non dite stupidaggini! Anch’io preferirei avere le mie ragazze vicine, ma è un’occasione imperdibile per Beatrice! Non dovrà spaccarsi la schiena nei campi come abbiamo fatto noi!». «Lo so, avete ragione. Ma è così vecchio rispetto a lei! È una bambina! Lui è un uomo fatto!». A quanto aveva potuto sapere la donna, il signor Dal Lago doveva avere almeno il doppio degli anni delle sue bambine. La differenza di età tra uomo e donna non era insolita all’epoca, era normale che la moglie avesse otto, dieci anni in meno del marito. Ma in quel caso il divario le sembrava eccessivo e, unito alla diversa provenienza sociale, costituiva un ostacolo da non sottovalutare. «Questo è vero. È vecchio! È più vicino alla nostra età che a quella delle ragazze!» sbottò il Bufala, quasi se ne fosse reso conto solo in quell’istante.

«Non esagerate, Checo. Noi ormai andiamo per i cinquanta. D’altra parte chi provvederà alle nostre bambine, quando noi non ci saremo più? Siamo anziani ormai». Angela esternò un pensiero improvviso che la coglieva per la prima volta, contraddicendo da sola quanto detto l’istante prima. Considerando le età anagrafiche, si era resa conto di non essere più così giovane. Come avrebbero potuto cavarsela da sole le ragazze? I soldi del Dal Lago sarebbero stati utili, ma mettere a tacere il tarlo che le insinuava mille dubbi nella testa non era semplice. La soluzione le balenò nella testa chiara e irrefutabile. «È inutile ragionarci tanto, Checo. Mi avete sempre promesso che non sceglierete in nome e per conto delle nostre figlie. Sarà Beatrice ad avere l’ultima parola. Se lei accetterà la corte di quell’uomo, voi darete il consenso. Ci sono vantaggi e svantaggi in questa unione, ma se lei pensa di poter vivere in città con un marito ben più vecchio, allora non abbiamo motivo di opporci. Sembra una brava persona, in fondo». Angela si bloccò sulle ultime parole, quasi la lingua le si fosse aggrovigliata nel pronunciarle. L’apparenza faceva supporre che Valente fosse degno e stimabile, ma Angela sentiva dentro di sé che non era così. Ammetterlo e convincere il marito a negare il consenso avrebbe però comportato la perdita di un’occasione preziosa per la figlia e lei desiderava con tutto il cuore che la vita delle sue amate ragazze fosse diversa dalla sua, più facile e agiata. Quale madre non aveva lo stesso desiderio? Non aveva fondate ragioni per supporre che l’uomo fosse male intenzionato, perciò cacciò via la sensazione sgradevole che sentiva salire in fondo alla gola quando pensava al signor Dal Lago. «Va bene, donna. Faremo così!» concluse il Bufala soddisfatto e ignaro dei pensieri che turbavano la moglie. Egli già pregustava le espressioni stupefatte dei compagni di osteria quando, il giorno seguente, avrebbe raccontato che la figlia aveva ricevuto una proposta dal ricco damerino. Non gli avrebbero creduto, vista la sua fama, ma quando si fossero resi conto che era la verità, avrebbero dovuto ingoiare un bel rospo e rodersi per l’invidia! La coppia attese qualche giorno prima di parlare con Beatrice per darle tempo di riflettere, poi Angela la affrontò. Dentro di sé coltivava la timida e nascosta

speranza che la giovane rifiutasse. «Hai pensato a quello che è accaduto l’altra sera, Beatrice?» chiese la madre, dopo aver intimato all’invadente Bianca di lasciarle sole. La ragazza era uscita sbuffando spazientita. Sapeva ciò di cui avrebbero parlato e non sopportava di essere esclusa. Beatrice non si era voluta sbottonare con lei, nonostante l’avesse tormentata con mille domande curiose. «Sì, madre, l’ho fatto. Cosa avete deciso voi e mio padre?». «Vogliamo sapere la tua opinione. Poi tuo padre deciderà», rispose Angela imibile, cercando di non influenzare la figlia in alcun modo. «Se voi riterrete che il signor Dal Lago sia accettabile, io sarò d’accordo», comunicò la ragazza, abbassando con pudicizia lo sguardo. Angela sentì suonare l’ennesimo camlo d’allarme, ma questa volta mise a tacere con fermezza ogni sospetto. Sua figlia aveva fatto una scelta ed era inutile tormentarsi oltre. La notizia del fidanzamento tra Valente Dal Lago e Beatrice Sberze era un pettegolezzo così ghiotto che nel giro di poche ore l’intera contrada non parlava d’altro. Persino i bambini, sentendo quei nomi sulla bocca dei genitori, li ripetevano tra loro senza comprendere bene il significato del termine “fidanzati”. Il Monco aveva saputo dal Bufala la notizia in anteprima, ma come prevedibile aveva insultato il compare definendolo “el solito conta balote” e aveva archiviato il tutto con una bella risata. Ma non appena uno dei bevitori dell’osteria gli aveva confermato il fatto, aveva sgranato gli occhi. Possibile che quel ricco signore avesse deciso di prendere per moglie una semplice ragazza di montagna? Perché mai aveva dovuto andarsi a cercare una sposa fin lassù? Non c’erano dunque donne da maritare in città? Tutti avevano una propria opinione: qualcuno diceva che Valente volesse onorare la memoria della madre sposando una donna della sua stessa contrada, qualcuno che volesse ricalcare le orme del padre, i più romantici che si fosse innamorato a prima vista della fanciulla. «È una ragazzina! Lui è un uomo fatto, è troppo vecchio!» brontolava qualche comare con astio, maledicendo tra sé la sorte che non aveva indotto l’uomo a invaghirsi di una delle sue figlie anziché di una di quelle degli Sberze.

«A quell’età non ha ancora moglie! Ci deve essere qualcosa che non funziona in lui!» ridacchiavano le donne più mature, mentre le ragazzette non capivano cosa volessero intendere. Chi accolse la notizia con maggior delusione fu la signora Valle. Vittorina si lasciò cadere scoraggiata su una sedia quando una vicina le rivelò il saporito pettegolezzo. Tutti i suoi piani e i suoi progetti erano sfumati! Tutto quel tempo impiegato a ordire le sue trame inutilmente! Rimaneva l’altra sorella, Bianca, valutò con un sorriso ironico. Ma non era adatta ai suoi ragazzi, troppo strana, troppo vivace, aveva già combinato un sacco di guai in pochi anni di vita. Inoltre da quanto raccontavano le comari, sua madre Angela se ne lamentava spesso perché in casa era un disastro: non era brava a cucinare, né a rammendare, né a cucire. A cosa le sarebbe servita una tale nuora? Scosse il capo, persa nei suoi pensieri. “In fondo non è ancora detta l’ultima parola. Finché non la vedrò maritata, non crederò a questo fidanzamento improvviso” pensò. Era una donna testarda, la buona Vittorina Valle. Le amiche delle sorelle Sberze si rodevano in segreto: perché quel bell’uomo, distinto, ricco ed elegante, aveva scelto proprio Beatrice? Non era così bella, insinuavano tra loro con invidia. La gelosia le rendeva poco obiettive, la fanciulla infatti si distingueva per il bel viso armonioso e per la figura snella e attraente. Beatrice e Bianca erano entrambe due splendide ragazze, con folti capelli scuri e intensi occhi nocciola ereditati dal padre. “El bocia” non poteva nascondere il proprio carattere ribelle neppure nel fisico, traspariva dalle espressioni più marcate del volto, dalle labbra volitive e dall’inconsapevole esibire le forme del corpo con fare più provocatorio e sfacciato. In ogni caso, non c’era da stupirsi che Valente avesse adocchiato una di loro, o forse entrambe. Anche altri ragazzi della contrada le guardavano spesso con desiderio: tra di loro la notizia del fidanzamento venne accolta con astio. Non era gradito ai giovani di un paese che un uomo di un altro luogo, anche vicino, fe la corte alle ragazze della loro contrada o del quartiere. Era consuetudine, vista la mancanza di mezzi di locomozione che costringeva a spostarsi a piedi e quindi per distanze limitate, che la fidanzata fosse scelta nei dintorni di casa. Una paesana corteggiata da “uno di fuori” era un affronto. Come si permetteva un forestiero di “rubare” una ragazza che altrimenti sarebbe andata in sposa a qualcuno della contrada? La mentalità era contadina e rurale e la donna era considerata di proprietà prima

del padre e dopo del marito, perciò il suo parere contava poco. Non aveva importanza se gradiva le attenzioni dello spasimante in questione, i compaesani ritenevano di dover difendere ciò che era loro: onore, territorio, donne. Valente Dal Lago, dopo aver avuto il consenso degli Sberze per far visita a Beatrice, entrò in contrada un sabato pomeriggio con atteggiamento di trionfo. I giorni in cui un fidanzato poteva andare a casa della sua bella erano stabiliti: martedì, giovedì, sabato e domenica e ci si doveva attenere a questa regola non scritta. Con il petto gonfio, l’uomo si apprestò ad attraversare la piazza pregustando la compagnia di Beatrice e sperando che, poco alla volta, l’avrebbe convinta a stare un po’ da sola con lui. Confidava che, dopo i primi tempi e dopo l’iniziale diffidenza, non sarebbe stato difficile persuaderla a raggirare la madre per indurla a trovarsi qualche altra occupazione per un po’. Perso in tali piacevoli pensieri, si avvide solo all’ultimo istante del gruppo di ragazzotti che lo fissava. Alti e imponenti, le spalle larghe di chi è avvezzo al lavoro duro, stavano ritti al margine della strada a braccia incrociate. Mentre lui si avvicinava, rallentando impercettibilmente, si spostarono minacciosi al centro della via. Riconobbe solo Michele, figlio di Santo Sberze e cugino della novella fidanzata. Non conosceva ancora abbastanza gli abitanti della contrada per distinguere gli altri: sembravano tutti uguali con quelle espressioni accigliate e le braccia muscolose intrecciate davanti al petto. C’erano Giuseppe Corà, figlio di Nando, invaghito in segreto di Beatrice e ansioso di vendicarsi per il torto subito e di cui lui solo era a conoscenza. Il fratello Stefano, un po’ più giovane, era stato costretto da Beppe a seguirlo, ma si era ben calato nella rabbia del gruppo in cui aveva trovato sufficiente motivazione. Innocente Sorgato, figlio del sacrestano, e Giorgio Cerisara, un altro compare, completavano il quadro. Cinque uomini imberbi pieni di forza e di ira vendicativa. Guardarono torvi il Dal Lago che si avvicinava. Avevano già annusato l’odore della sua codardia. L’uomo però sembrò riprendersi alla svelta, si raddrizzò e riprese ad avanzare con convinzione. «Buongiorno, ragazzi! C’è qualcosa che non va?» salutò con un tono gioviale ma di proposito non cordiale.

«Lo domandate? Voi venite tutto fiero dalla città e ci portate via le nostre donne! Siamo montanari ma non stupidi! Se vi troviamo ancora da queste parti, vi facciamo assaggiare i nostri pugni!» aveva preso la parola Beppe Corà che, in qualità di innamorato di Beatrice, si sentiva più in diritto degli altri. I compari annuirono con convinzione per sottolineare le sue parole. Si erano accordati sull’atteggiamento da tenere: a nessuno si poteva negare l’opportunità di salvarsi e quindi quel giorno si sarebbero limitati a un avvertimento. Se Valente avesse desistito senza bisogno di are alle maniere forti, tanto meglio per lui. In caso contrario, avrebbero provveduto a suon di botte. Detto ciò che dovevano dire, si scostarono dal centro della strada, facendo are l’uomo in un varco piuttosto stretto, come se volessero fargli sentire la potenza dei loro muscoli. Valente non si scompose e, senza proferire altro, continuò il cammino fino a casa Sberze. Mentre procedeva spedito, prese a ridacchiare sommessamente: pensavano di essere stati furbi quei ragazzotti pieni di ormoni, ma avevano perso l’unica occasione che avrebbero mai avuto per sopraffarlo. Per cavalleresca cortesia, avevano peccato di ingenuità. La visita di Valente fu piuttosto breve dato che i genitori delle ragazze erano presenti e, dopo qualche chiacchiera di circostanza, egli capì che intendevano rimanere lì per tutto il tempo. Non si scoraggiò, ma promise di fare ritorno il giorno seguente e Angela si sentì in dovere di invitarlo a pranzo, giacché veniva da tanto lontano per incontrare Beatrice. «Un pranzo semplice, nulla di particolare», si giustificò in anticipo, conscia che l’uomo doveva essere abituato a ben altro genere di alimentazione. Bianca e Beatrice si guardarono di traverso: sapevano che la madre avrebbe ato l’intera mattina a darsi da fare per cucinare un pasto degno del forestiero. Si sarebbe alzata presto per partecipare come di consueto alla messa delle sei, poi si sarebbe dedicata anima e corpo alla cucina, coinvolgendo le figlie. Bianca sbuffò, ricevendo in cambio un’occhiata di rimprovero dal padre. La giovane iniziò a sospettare che quel nuovo fidanzato non avrebbe portato nulla di buono. Valente Dal Lago tornò come da accordi il giorno seguente. La seconda messa del mattino si era conclusa da poco e molta gente si trovava ancora in piazza per scambiare qualche chiacchiera con i compaesani. L’uomo ò indenne per il centro, rispondendo educato ai cenni di saluto delle persone che incrociava sulla via.

Quando imboccò la stradina in ghiaia che conduceva alla corte dove vivevano gli Sberze, il gruppo del giorno precedente gli si parò davanti. Valente se l’aspettava e teneva le mani calate in tasca, con fare noncurante. «Vi avevamo avvertito, signore. Ma vi siete infischiato di quello che vi abbiamo detto ieri. Pensate forse che scherziamo?» sibilò Beppe Corà, avvicinandosi minaccioso. Aveva chiarito in precedenza con i compari che il primo pugno spettava a lui: nessuno si azzardasse a sfiorarlo prima. Alzò il braccio pronto a colpire, ma al gesto repentino di Valente si fermò a mezz’aria con un’espressione stupita sul viso. L’uomo di fronte a lui aveva appena estratto dalla giacca una rivoltella e la caricò rapido, in modo che i ragazzi sentissero il rumore secco e inconfondibile della pallottola che raggiungeva il suo alloggiamento. I giovani si guardarono tra loro, Giuseppe ancora fermo in una posizione poco naturale. Sapevano usare le armi, in casa gli schioppi circolavano da sempre, ma quella pistola a canna corta, costruita non certo per cacciare animali, li immobilizzò. Un’altra legge non scritta della gente di montagna, rude ma onesta, stabiliva che un duello per motivi di onore dovesse essere combattuto a mani nude. Lo scopo non era uccidersi, ma solo darsi una reciproca lezione e stabilire le gerarchie. Le armi erano per i codardi, non certo per le persone leali. Valente toccò il petto di Beppe con la canna della pistola, spingendo un po’; il giovane indietreggiò, raggiungendo i compagni. «Bene, vedo che avete già cambiato idea, ragazzi. Non volete più battervi?» ghignò Valente. «Siete un codardo e un infame. Combattete a mani nude, se siete un uomo», intervenne il cugino delle sorelle Sberze, Michele. «Uno contro cinque? Direi che quello sleale non sono io. Mi sono limitato a portare dei rinforzi, come avrebbe fatto chiunque al mio posto», ribatté l’uomo continuando a sorridere. Erano già accaduti fatti del genere in contrada. Il corteggiatore indesiderato, avvertito del pericolo, aveva fatto ritorno accompagnato da altri ragazzi e i due gruppi se le erano date di santa ragione. Alla fine, il giovane aveva comunque sposato la sua bella, ma solo dopo essersi guadagnato il rispetto dei paesani a forza di pugni. Con quel gesto, invece, Valente aveva compromesso ogni futuro

rapporto con la gente del posto: un simile affronto, di cui presto sarebbero stati messi tutti al corrente, non sarebbe stato perdonato né tantomeno dimenticato. «Ricordatevi, amici miei, che verrò sempre accompagnato da questa signorina. Fossi in voi, eviterei di infastidirmi, nel prossimo futuro», intimò infine Valente con voce graffiante, carezzando l’arma che teneva ancora puntata. Innocente Sorgato tentò un ultimo attacco: «Non avreste mai il coraggio di sparare! Siete solo un damerino infiocchettato, quella non la sapete nemmeno usare!». Il Dal Lago accolse l’offesa con un sorriso ancora più marcato. Calò il silenzio, poi partì un colpo improvviso che rimbombò contro le pareti del monte. Tutti i presenti si voltarono spaventati verso Innocente, che non si mosse, raggelato dallo spavento. La pallottola gli aveva bucato il cappello della domenica, forandolo da parte a parte e facendolo cadere a terra poco lontano, tra l’erba. «La mira non mi manca, miei cari. Il mio è un consiglio. State alla larga da me, altrimenti la prossima volta piazzerò il colpo al centro della fronte di qualcuno di voi, e non nel cappello», concluse Valente. Rimase a guardare mentre Innocente raccattava il copricapo e si allontanava con gli altri, borbottando insulti e offese. Umiliati e svergognati, non avrebbero scordato lo sgarbo fatto dall’uomo venuto dalla città.

6. IL PRIMO BACIO

«Ho sentito uno sparo poco prima che arrivaste. Era vicino», riferì sco a Valente quando entrò in casa. «L’ho sentito anch’io. Sembrava provenire dal bosco, ma forse il rimbombo l’ha fatto apparire più vicino di quanto non fosse», replicò Valente tranquillo, mentre salutava la signora Sberze con una piccola riverenza che la fece arrossire. Bianca e Beatrice dal piano di sopra fecero capolino in cucina, la madre le aveva mandate a pettinarsi e rendersi presentabili. Bianca aveva protestato, sostenendo che il fidanzato era di Beatrice e non suo, ma Angela non aveva voluto sentir ragioni. Valente non poté non compiacersi e sorridere, notando il vestito della festa dal taglio ancora troppo fanciullesco e i lunghi capelli scuri acconciati da scolaretta della fidanzata. Sentì l’immediato desiderio di sciogliere quei capelli per arvi le dita in mezzo, con lentezza, tastandone la morbidezza. Osservò per un istante, appena un attimo di più e sarebbe risultato sfacciato, il corpetto dell’abito che pareva sul punto di scoppiare a causa del bel seno prosperoso che vi premeva contro. Beatrice era snella e armoniosa, e il profilo di quel corpo fresco così imbarazzato dalla sua presenza lo fece fremere. Valente apprezzò il pranzo, non lesinò i complimenti alla cuoca e gustò il povero pollo a cui per l’occasione era stato tirato il collo prima del tempo, cosa che in genere accadeva solo nelle festività solenni. L’ospite si dimostrò socievole e sorridente. Raccontò delle sue occupazioni in città e della sua famiglia, arrivando persino a commuovere gli Sberze quando riferì di non avere nessun parente stretto in vita al mondo. Stava preparando il terreno per i suoi scopi, infatti finito di pranzare, propose a Beatrice di fare una eggiata nei dintorni con il pretesto di voler conoscere meglio la zona. I coniugi Sberze si guardarono per qualche istante, indecisi sul da farsi. sco prese la parola: «Perché no? Bianca potrebbe venire con voi», acconsentì, fulminando con lo sguardo la figlia che, non vista, si esibiva in una delle sue smorfie.

Valente gongolò, non aveva osato sperare che si fidassero di lui così alla svelta. Uscirono di casa avviandosi lungo la strada che, attraverso un bosco di faggi, conduceva alla contrada vicina. Bianca camminava dietro la coppia in silenzio, nonostante la sorella le avesse lanciato un paio di occhiate preoccupate come a chiederle di starle accanto. La giovane non si sarebbe azzardata a rovinare la eggiata all’uomo. Era forse l’unica ad aver capito che Valente cercava un’occasione per rimanere da solo con Beatrice? Si mantenne perciò lontana di qualche o, abbastanza per non udire altro che stralci confusi della conversazione. Era soprattutto il Dal Lago a parlare e Beatrice rispondeva a monosillabi e sorrisi. L’uomo che le camminava al fianco le dava una tale soggezione che lei aveva troppa vergogna per conversare in tranquillità. Temeva che qualsiasi cosa avesse detto non sarebbe stata mai interessante a sufficienza per una persona di mondo come lui. Inoltre era così bello e affascinante, che il solo guardarlo in volto la faceva arrossire. Il profumo di lui la inebriava, tanto era diverso da quelli a cui era abituata. Odorava di maschio, di sapone, di un universo sconosciuto. Lo aspirò a fondo, mentre Valente continuava a raccontare episodi della sua vita che lei non ascoltava nemmeno, stordita dalla sua vicinanza. Quando per un istante le loro mani si sfiorarono con noncuranza nell’avanzare, Beatrice sentì una scossa elettrica correrle lungo il braccio, poi giù per la schiena fino ai lombi, provocando in lei un brivido nuovo che le fece cedere le gambe. Valente fu svelto ed eccessivo nel sorreggerla, trattandosi di un minimo incespicare. Le ò un braccio dietro la schiena, sollevandola appena, mentre con la mano libera le offriva sostegno. Quasi per caso, le sue dite le sfiorarono il seno chiuso nel vestito accollato e casto e lei lo fissò negli occhi cercando di capire se il gesto fosse stato deliberato o meno. Valente diede prova di tutta la sua arte, recitando la parte del fidanzato premuroso e preoccupandosi come se la donna si fosse sentita davvero male: «Va tutto bene? Riuscite a reggervi?». «Non è nulla, ho solo inciampato», chiarì subito lei cercando con gli occhi la sorella. Bianca si era fermata qualche metro indietro, all’apparenza intenta a osservare qualcosa tra gli alberi. Valente non poté trattenere un sorriso: quella ragazza era molto più sveglia di quanto avesse creduto. Non ci sarebbe neppure stato bisogno di chiederle di essere lasciato solo con la fidanzata. Gli venne il dubbio di aver fatto la scelta sbagliata. Scacciò il pensiero. La messa in scena non avrebbe retto poiché Beatrice era la più anziana, seppur di poco, e quindi avrebbe dovuto essere la prima a sposarsi.

Quella sera, strette vicine nel letto della loro camera, le sorelle Sberze non riuscivano a dormire. Beatrice era agitata e nervosa e la sorella capì che voleva parlare. Aveva deciso di confidarsi con lei? «Bianca, stai dormendo?» le sussurrò vicino all’orecchio. «No, ti muovi così tanto che non mi riesce di prender sonno». «Cosa ne pensi di lui?». «Il tuo fidanzato? È un bell’uomo». «Mi sembra strano chiamarlo così, fidanzato, è una parola troppo grossa! Non mi sembra vero che lo sposerò!». «C’è tempo! Credo che papà non acconsentirà a celebrare il matrimonio prima di un anno. Del resto penso sia un bene aspettare, giusto per accertarsi delle sue intenzioni». «Supponi che non sia sincero?». Bianca ritrattò subito, temendo di aver spaventato la sorella, preferendo non rendere espliciti i suoi dubbi. «Perché non dovrebbe? È capitato qui all’improvviso, ti ha messo gli occhi addosso e gli sei piaciuta! Cos’altro è necessario? E anche lui piace a te, se non sbaglio». Bianca poté quasi sentire la sorella arrossire nel buio. «Mi da delle strane sensazioni che non ho mai provato prima! Mi imbarazza parlarne persino con te! E non so cosa dirgli, lui è così uomo! Mentre io sono una bambina, non mi sono mai mossa dalla contrada e non ho nulla di interessante da raccontare!». «Ti sbagli, Beatrice, sono sicura che puoi interessarlo in molti modi!». Mentre rassicurava la sorella, Bianca percepì una punta di risentimento che la portò a velare le sue parole di malizia. Cercò di spiegarsi il motivo di una tale sensazione. Amava sinceramente Beatrice, anche se erano così diverse l’una

dall’altra, anzi, dire che l’amava era riduttivo, provava nei suoi confronti un attaccamento morboso. Erano cresciute assieme e in lei sapeva di avere una fedele alleata. Per quale motivo, dunque, sentiva quella lieve rabbia pungerle la mente mentre parlavano dell’uomo? Se fosse stata più obiettiva, avrebbe dato un nome a quella nuova emozione: gelosia. Valente aveva prodotto una prima, impercettibile crepa nel rapporto tra le sorelle Sberze. Le visite di Valente si mantennero regolari e rispettose dell’etichetta per qualche mese. Era bastato poco perché Angela e sco si convincessero che la funzione di sorvegliante potesse essere svolta senza problemi da Bianca. Valente non aveva dato loro nessun motivo di essere sospettosi, anzi. Inoltre egli recava spesso qualche dono dalla città che ammorbidiva gli Sberze nei suoi riguardi: un dolce ricco ed elaborato che in contrada non avevano mai neppure immaginato, fiori avvolti in una meravigliosa carta luccicante, una pagnotta di pane così bianco da sembrare innaturale. Piccole testimonianze della diversità di un mondo che esisteva pochi chilometri a valle, a solo beneficio dei più benestanti. Durante una di queste visite, Valente ebbe l’occasione di parlare qualche istante con Beatrice senza che nessuno potesse sentire. Bianca era sempre attenta a concedere loro del tempo in solitudine, ma non poteva esagerare perché, se qualcuno se ne fosse reso conto e l’avesse riferito agli Sberze, sarebbero stati guai per tutti e la fiducia che si era creata sarebbe venuta meno. «Beatrice, cara, vorrei tanto poter stare un po’ da solo con voi! Qualche ora, per conoscerci meglio! Siamo sempre sotto sorveglianza!». Beatrice lo guardò con espressione quasi inorridita. Questo era contro ogni regola del buoncostume! Ma quel formicolio al basso ventre, che la coglieva ogni volta in cui lui la sfiorava, tornò prepotente a farsi sentire al pensiero di trovarsi sola con lui. Avrebbe potuto persino baciarla! Il piacevole brulichio nelle viscere si intensificò. Combattuta tra la rigida morale impartitale fin da bambina e quello che le suggeriva il suo corpo ansioso, non sapeva cosa rispondere. Pensò a Bianca. Cresciuta come lei, con gli stessi genitori, la sorella provava gusto nel trasgredire alle regole che lei rispettava senza condizioni. Si domandò cosa avrebbe risposto nella stessa situazione. Doveva chiederle consiglio, ma dove si era cacciata? La cercò con lo sguardo. «Non abbiate fretta di rispondermi, Beatrice. Non voglio forzarvi a disubbidire

ai vostri genitori». Valente era un maestro nel cogliere anche i più piccoli moti sul viso delle sue prede inesperte. Capiva la titubanza della ragazza e non intendeva darle l’impressione di insistere. Aveva sentito il corpo di lei fremere e sapeva che, prima o poi, avrebbe ceduto. Socchiuse gli occhi a fessura, guardandola. Beatrice era una sfida così piacevole, che si sentiva stringere dolorosamente lo stomaco alla sola idea di non poterla possedere. «Facciamo così; la prossima volta che verrò, sabato pomeriggio, me ne andrò come al solito poco prima di cena, ma non tornerò subito a casa, attenderò in osteria. Quando verrà l’ora in cui voi e vostra sorella vi coricate, mi avvicinerò di nascosto alla vostra casa. Se vedrò una candela accesa alla finestra, significherà che avrete deciso di scendere per incontrarmi». Beatrice sbarrò gli occhi a quelle parole che proponevano una soluzione tanto ardita e rischiosa. Valente aveva architettato il piano con precisione già da qualche settimana. L’indecisione della ragazza e l’assenza prolungata di orecchie indiscrete lo avevano convinto che era giunto il momento di proporlo. Piano piano aveva teso una corda a Beatrice e l’aveva avvolta attorno al suo bel collo bianco e lungo: ora non gli restava che tirare per condurre a sé la recalcitrante giovenca. «Dovrete fare attenzione, i vostri genitori non vi devono scoprire! Aspettate che dormano. Se vedrò la candela, io attenderò, non importa per quanto tempo. Se invece tutte le luci saranno spente, saprò che avete deciso di non scendere e tornerò a casa. Pur di are del tempo con voi, sono disposto a trattenermi anche ogni sera, finché non mi darete il segnale convenuto». L’ultima affermazione, recitata con convinzione unita a un tono misto tra ione e sofferenza, diede i brividi alla ragazza che mai si era sentita così desiderata. «E Bianca? Dormiamo nella stessa stanza, non posso uscire di nascosto da lei! Inoltre vedrebbe la candela e me ne domanderebbe il motivo», obbiettò Beatrice. Valente comprese di aver raggiunto lo scopo. Forse non la sera seguente o quella successiva, ma presto avrebbe scorto la candela accesa alla finestra della sua bella. Beatrice si preoccupava già di come organizzare l’incontro. Era certo di

ciò che diceva quando rispose: «Vostra sorella non sarà un problema. È sempre così discreta nei nostri confronti! Se le parlate con sincerità, non solo accetterà la vostra decisione, ma vi coprirà con i vostri genitori se ce ne sarà bisogno». Beatrice annuì, non aveva dubbi che Bianca l’avrebbe aiutata. Presumeva che l’idea di essere complice in un inganno ordito dalla perfetta, ubbidiente, laboriosa e impeccabile sorella l’avrebbe addirittura elettrizzata. Tuttavia Beatrice attese più di una settimana prima di decidersi a parlare con Bianca, tanto che la sicurezza di Valente iniziò a vacillare: che si fosse sbagliato, dopotutto? Le lunghe attese in osteria, sotto gli sguardi indagatori degli altri avventori e del Monco, lo annoiavano più del previsto. Il vino denso e forte che si costringeva a bere, per non generare sospetti, gli causava una forte acidità di stomaco e ben presto imparò a portare con sé, nascosto nella giacca, un pezzetto di pane duro con cui assorbire quel vinaccio. Ma infine la sua costanza fu premiata e la candela venne accesa. Bianca sentì di nuovo una sensazione di cieca gelosia alla bocca dello stomaco mentre Beatrice le chiedeva di aiutarla. Serrò i denti per la rabbia, ricacciando quel sentimento giù in gola. Non riusciva a impedirsi di provare disagio, sebbene si detestasse per questo. Sorrise al pensiero di come quell’uomo scaltro fosse riuscito a convincere la casta sorella a rischiare il suo onore. La mise in guardia: non stava per fare qualcosa di cui si sarebbe pentita? Beatrice le assicurò che non era così, voleva solo are qualche attimo da sola con il fidanzato, parlare con lui in libertà. Bianca si stupì dell’ingenuità della sorella. Provò a insistere ancora sull’inopportunità di un simile piano, ma Beatrice, che le aveva confidato il suo segreto con la certezza di trovare in lei un’alleata entusiasta, si inalberò: «Se non mi vuoi aiutare, devi solo dirlo, Bianca! Non serve che tu inventi scuse!». Bianca sobbalzò, stupita sia dal tono battagliero della sorella, in genere docile e pacata, sia dalla sua completa mancanza di malizia. Si domandò se non avesse davvero capito dove voleva arrivare il suo spasimante o se forse non coltivasse il medesimo proposito. Nemmeno Bianca aveva esperienza di rapporti intimi tra un uomo e una donna, ma il suo carattere ribelle e anticonformista l’aveva spinta a conversazioni inconfessabili con le sue amiche più smaliziate o maritate da poco. Se avesse ragionato più a lungo, avrebbe certo compreso che la sorella non aveva le medesime nozioni in merito e ignorava cosa l’uomo avrebbe presto preteso da lei. Ma la mente di Bianca era velata dalla gelosia che le suggeriva subdola: “Se vuole mettersi nei guai, lo faccia! In fondo è una sua scelta!”.

«Bene, e sia! Certo che ti aiuterò, mi stavo soltanto preoccupando per te! Se sei certa che tutto andrà bene, io sono dalla tua parte», capitolò. Beatrice le rivolse un sorriso grato e soddisfatto. Era deciso. La sera seguente il piano sarebbe stato messo in atto. Quando Valente scorse il segnale concordato, trattenne a stento un grido di esultanza. Era stremato dalle serate in osteria, dalle cene mancate, dai maldestri tentativi dei paesani di fare conversazione e dal loro palese offendersi quando rifiutava ogni forma di confidenza. Faceva ritorno a casa molto tardi ogni sera e costringeva un domestico ad attenderlo con la carrozza appena in fondo alle pendici del monte, dove sbucava la strada vicinale di collegamento tra il paese e la contrada. Non sopportava più l’umidità della notte che gli si infilava nelle ossa e aveva iniziato a temere che Beatrice non si sarebbe concessa prima della fine della bella stagione, cosa che avrebbe rimandato ogni approccio all’anno successivo. Un’attesa davvero eccessiva! Valente rimpiangeva le altre fanciulle che avrebbe potuto frequentare in un arco di tempo così lungo, magari anche più belle e smaliziate della sua attuale “fidanzata”. Ma quella sera i suoi sforzi sarebbero stati ricompensati. Mentre aspettava nascosto dalle tenebre e dalle fronde rigogliose degli alberi, l’uomo rifletteva tra sé. Doveva muoversi con attenzione, Beatrice era ingenua e avrebbe dovuto agire con pazienza, dosare le sue richieste per non spaventarla. Fece qualche freddo calcolo: nel giro di un paio di settimane, contava di raggiungere l’obiettivo finale. Aveva individuato un luogo dove avrebbero potuto nascondersi da occhi indiscreti. Il vecchio fienile adiacente alla casa di zia Lucia, di sua proprietà, avrebbe costituito una splendida alcova. Si poteva raggiungere con facilità senza are davanti ad alcuna finestra, costruito com’era a ridosso di una piccola zona boschiva. L’uomo non aveva tralasciato alcun dettaglio. Aveva predisposto una scala a pioli per salire al piano più alto del fienile e aveva provveduto a far portare dal buon Nando Corà, sempre ansioso di compiacerlo, del fieno morbido e asciutto, nel quale era certo sarebbe presto sprofondato tra le braccia della sua bella. Immerso in tali piacevoli progetti, scorse dei movimenti vicino alla casa degli Sberze. Aguzzò la vista, la notte era buia e dovette sforzarsi per capire ciò che stava succedendo. La finestra della camera delle sorelle si era aperta senza rumore, facendo ondeggiare la fiamma della candela fino a spegnerla.

Beatrice temette che Valente credesse di dover andar via e il suo cuore fece un balzo. Guardò fuori e le parve di intravedere tra l’erba alta una forma umana che si avvicinava con circospezione. Sorrise sollevata e guardò la sorella che calava rapida una corda. Si chiese dove l’avesse trovata. Bianca sapeva sempre sorprenderla con le sue mille risorse. Fissò un capo della fune al grande e pesante letto in ciliegio; il padre, anni prima, l’aveva fissato alla parete con robusti chiodi. Le sorelle infatti da bambine lo avevano molte volte spinto con tutta la forza delle esili braccia fino a spostarlo accanto alla finestra, in modo da guardar scendere la neve o ammirare un temporale più violento del consueto. Angela si era preoccupata, pensando che avrebbero potuto cadere e il marito, pur di mettere fine alle lamentele, si era risolto a fissare la testiera imponente del vecchio letto al muro, rendendolo inamovibile. «Mi reggerà?» si preoccupò comunque Beatrice con un bisbiglio. «Stai tranquilla. In ogni caso terrò la fune finché non sarai a terra», la rassicurò Bianca. Beatrice si fece coraggio e si sedette sulla finestra, le gambe penzoloni, aggrappandosi alla corda. Aveva paura, non aveva mai ingannato i genitori e quell’impresa le sembrava assai più rischiosa, adesso che la stava per mettere in pratica. Scendere sarebbe stato difficile, ma risalire la terrorizzava. Bianca le aveva giurato che l’avrebbe attesa sveglia e l’avrebbe aiutata a raggiungere la camera, ma Beatrice esitò ancora qualche istante. «Allora?» la incitò la sorella, vedendola tergiversare, «ci hai ripensato?», suggerì speranzosa. Beatrice scosse il capo e prese a calarsi. Il pensiero di Valente, che l’attendeva nascosto nell’ombra, funse da sprone. Quando poggiò i piedi a terra, il cuore le pulsava forte nel petto. Mosse qualche o incerto scrutando il buio, poi lo vide. Si avvicinava con le braccia protese, come se intendesse abbracciarla. Beatrice si scostò. Bianca era ancora alla finestra, ne sentiva lo sguardo piantato sulle spalle. «Sssh!» fece, portandosi un dito alle labbra, mentre Valente le afferrava con fare possessivo una mano e la trascinava con sé, lontana dalla casa, al sicuro. Raggiunsero il fienile in una decina di minuti e l’uomo prese la scala, aiutando Beatrice a salire. Infine le indicò di sedersi sul fieno e la ragazza obbedì,

silenziosa e rigida. «Finalmente posso vedervi senza cani da guardia!» esordì il Dal Lago, mantenendo un tono di voce adatto alle circostanze. Tutto intorno taceva e solo il rumore di qualche animaletto che zampettava nel buio teneva compagnia ai due: qualche topo di campagna che correva tra l’erba, la volpe a caccia di prede, il gufo che sbatteva le ampie ali, il capriolo che brucava l’erba fresca bagnata dall’umidità notturna. «Se i miei genitori dovessero scoprirmi, sarebbe un disastro!». Beatrice non riusciva a rilassarsi e il suo volto era contratto in una smorfia di spavento. Un timore improvviso si era impadronito di lei, trovandosi sola con quell’uomo che conosceva appena. Si chiese cosa avrebbe fatto se lui avesse cercato di farle del male. Non avrebbe saputo difendersi e nessuno sarebbe corso in suo aiuto. In che situazione si era andata a cacciare? Avrebbe dovuto ascoltare gli ammonimenti della sorella! Persa in questi pensieri, sobbalzò quando Valente le si fece vicino e le carezzò con dolcezza una guancia. La sua tensione si allentò a quel tocco leggero e un languore, che ormai aveva imparato a conoscere, si impossessò di lei. L’uomo percepì questa arrendevolezza e si avvicinò di più. La coscia soda e massiccia di lui sfiorava ora il corpo esile della ragazza. La ragione le suggeriva di ritrarsi da quel contatto impudico, ma il piacere viscerale che le dava le impedì qualsiasi movimento. Senza nemmeno saperlo, era in sua balia. «Vi posso dare un bacio?» azzardò Valente, fissando la giovane negli occhi. Lei non rispose, ipnotizzata dal tono suadente della sua voce, ma accennò un impercettibile cenno del capo. L’uomo poggiò le labbra sulle sue per qualche secondo, godendo del sapore dolce e morbido di quella bocca fresca e inviolata. Poi spinse piano con la lingua, fino a far dischiudere le labbra della ragazza, che spalancò gli occhi e si irrigidì. Gli puntò d’istinto le mani sul petto, per respingerlo, ma Valente era troppo esperto per lasciarsi scoraggiare. Si ritrasse solo un secondo, per darle il tempo di capire cosa stava accadendo. Sapeva che per una ragazza che non aveva mai conosciuto un uomo, quella lingua estranea era una violenza quasi inaudita. Percependo che si stava rilassando un poco, le ò le braccia attorno alla schiena attraendola a sé, sentendo il seno aderire al petto. La baciò con più intensità, controllando gli istinti più bassi che fremevano

per stenderla sulla paglia e farla sua subito, senza ulteriori esitazioni. Ma era consapevole di dover attendere che Beatrice gli si concedesse di sua volontà. Solo allora si sarebbe detto soddisfatto. La pazienza avrebbe reso la conquista più saporita. Quando la sciolse dall’abbraccio, intuì che era stordita e insieme meravigliata per come aveva reagito il suo corpo a quel bacio. Mentre la ragione le urlava di scappare, un altro lato più istintivo e sensuale la implorava di non sottrarsi al piacere. La rigida educazione ricevuta si scontrava con le naturali pulsioni umane, rendendo combattuta un’esperienza in sé piacevole e naturale. Rimasero ancora qualche minuto nel fienile e Valente le fece qualche casta carezza in volto, sussurrandole frasi tenere con tutta la teatralità di cui era capace. Poi sferrò una mossa studiata a lungo, e la stupì affermando con tono perentorio: «È ora che torniate a casa, mia cara. Non vorrei che aveste problemi a causa mia. Ogni volta che vorrete incontrarmi come stasera, io aspetterò che accendiate la candela». Beatrice reagì con disappunto. Possibile che volesse già andar via? C’era forse un’altra che lo attendeva in città? Scacciò quei pensieri di gelosia che, si accorse, negli ultimi tempi la coglievano spesso. Temeva che il suo bel Valente potesse frequentare altre donne; in fondo sapeva così poco di lui, ma l’uomo era sempre impeccabile, puntuale e preciso nelle sue visite, non c’era motivo reale per sospettare. Aveva solo un vago, spiacevole sentore di menzogna che talvolta le rovinava l’idillio di quel primo innamoramento. Mentre camminavano verso casa mano nella mano, Beatrice pensò che era una sciocca. Di certo il fidanzato era preoccupato per un possibile imprevisto e perché, se la fuga fosse stata scoperta, non avrebbero più potuto vedersi la sera. Tutto qui. Le sue erano solo le fantasie di una ragazza innamorata. Arrossì nel buio a quell’idea. Era dunque innamorata di Valente? Non se lo era mai chiesta seriamente prima. Bianca era rimasta sveglia in attesa del ritorno della sorella, come aveva promesso. Aiutò Beatrice ad arrampicarsi fino alla finestra della camera e non fu impresa da poco. La ragazza mancava dell’agilità della sorella minore, che era avvezza fin da piccola a scalare gli alberi e qualsiasi altra cosa la fantasia le suggerisse. Tuttavia infine essa raggiunse il letto e vi si gettò sfinita, con le guance arrossate per la fatica e per le emozioni. «Mi ha baciata!» confessò in un sussurro alla sorella che, stesa al suo fianco, la guardava interrogativa.

«Davvero? E poi?» indagò Bianca. «E poi basta! Mi ha portata a casa! Temeva che venissi scoperta!». Beatrice godette dello stupore di Bianca a quell’affermazione. Valente non era un imbroglione, teneva davvero a lei, avrebbe voluto gridarle, e lei si sbagliava a dubitare di un così brav’uomo. «E com’è stato?». Bianca, dopo l’iniziale sbigottimento, si fece curiosa. «È stato strano!» esitò Beatrice, come se cercasse le parole giuste. «Io avevo sempre pensato che i baci fossero quelli che papà dà a mamma, qui, sulla guancia», spiegò quindi, indicando il punto con un dito. «Invece mi ha baciata sulla bocca!». Bianca spalancò gli occhi, emozionandosi a sua volta. Con la mente, per un attimo, immaginò la scena dei due innamorati, ma cercò di scacciarla. Non era il viso di Beatrice quello che la fantasia le aveva suggerito, ma il proprio. «Ma la cosa incredibile», continuava intanto la sorella, «è che dopo un attimo mi ha infilato la lingua in bocca!». La vergogna che provava era ben visibile sul volto paonazzo e il tono si era fatto più acuto, tanto che Bianca dovette farle cenno di abbassare la voce. «Subito mi ha fatto così schifo! Ma poi, come spiegare, mi è persino piaciuto! Lui mi stringeva a sé, e io avevo i brividi in tutto il corpo!». Beatrice si sentì meglio quando ebbe raccontato l’accaduto. Bianca l’abbracciò, nascondendo il volto tra i suoi capelli. In quel modo impedì a Beatrice di scorgere la lieve contrazione del viso e le lacrime di stizza che le erano spuntate negli occhi. Era combattuta tra la consapevolezza di dover condividere la palese felicità della sorella e l’invidia che sentiva crescere dentro il petto, alimentata dalla fiamma della sua immotivata e irragionevole gelosia.

7. VACCHE DA LATTE

Uscire alla chetichella la notte in breve tempo divenne un’abitudine cui Beatrice indulgeva almeno una volta alla settimana. Diventò più scaltra e atletica e ben presto Bianca poté starsene a letto, limitandosi a lasciare la corda penzoloni e la finestra socchiusa, ma non dormiva. Il suo pensiero fisso, mentre si rigirava nervosa nel letto, era rivolto ai due fidanzati. Li immaginava vicini, teneramente abbracciati e, notte dopo notte, dovette ammettere, almeno a se stessa, che i sentimenti che aveva verso Valente non erano sani. Avrebbe dovuto provare al massimo un’innocua simpatia nei suoi confronti, oppure essere lieta per la sorella, niente di più. Eppure lo stomaco le si stringeva quando li immaginava assieme e si sentiva sollevata soltanto quando udiva il rumore provocato da Beatrice che tornava in camera. La guardava muoversi nel buio, infilarsi svelta la camicia da notte, rassettarsi i capelli. L’oscurità non le permetteva di distinguere il suo volto, ma quei movimenti rapidi, quasi elettrici, le facevano intuire quanto fosse eccitata e scarmigliata. Le prime volte Bianca finse di svegliarsi solo nel momento in cui Beatrice si infilava accanto a lei nel letto, per ascoltare, rosa dall’invidia, quanto era successo alla sorella con il suo amato senza avarizia di particolari. Presto Bianca si rese conto che i racconti la ferivano, esaltando la gelosia che le era nata nel cuore, e iniziò a simulare di dormire. La mattina successiva spesso non c’era tempo per parlare, le occupazioni giornaliere iniziavano presto, soprattutto nella bella stagione. Dopo qualche mese dal fidanzamento, Angela aveva preso l’abitudine di invitare Valente a cena quando lui si tratteneva più a lungo la sera. L’uomo aveva saputo ingraziarsi a tal punto gli Sberze che persino Angela, vinta l’iniziale riottosità, aveva finito per scacciare i dubbi e dimostrarsi cordiale, forse anche grazie ai doni che egli recava con una frequenza quasi imbarazzante. Bianca si trovava in notevole impaccio. Dopo aver ammesso a se stessa di provare una malsana attrazione per il fidanzato della sorella, aveva deciso che doveva tenersene ben lontana. Non poteva tradire Beatrice in un modo tanto orribile; non avrebbe mai rivelato a nessuno i sentimenti assurdi che provava. Perciò, all’inizio, pensò che fosse l’immaginazione a suggerirle gli sguardi

lascivi che Valente le indirizzava quando era sicuro che nessuno lo guardasse. L’apprezzamento sul viso, le banali scuse che talvolta adoperava per sfiorarle per caso una spalla o una gamba, per annusarle fugacemente i capelli dovevano essere frutto della sua fervida fantasia. Ma la cosa si ripeteva a ogni cena e Bianca iniziò a prestare maggiore attenzione ai particolari, ricambiando quelle occhiate rapide, cercando la conferma che le carezze casuali e improvvise di accidentale avevano ben poco. Possibile che fosse interessato anche a lei? Il solo pensiero la faceva inorridire, ma la ragazzina ribelle imprigionata dentro di lei non era dello stesso parere. I nuovi sentimenti che le erano sbocciati in petto, l’invidia e la gelosia, la spingevano a non distogliere lo sguardo quando lui la fissava, a non scostare subito il piede quando quello di lui lo toccava sotto il tavolo. Bianca era consapevole di avventurarsi su un terreno pericoloso, ma come spesso accade, la devozione per una sorella è nulla rispetto alla ione sfrenata e al desiderio suscitato da un uomo. Una notte Beatrice fece ritorno in camera molto agitata. Bianca la sentì ansimare e muoversi con frenesia, tanto che temette avrebbe svegliato i genitori, perciò alzò il capo e le mormorò di fare attenzione e di non fare tutto quel baccano. Si accorse solo allora che la sorella piangeva. Scostò le coperte e le si avvicinò, spostandole i lunghi capelli scomposti dal viso umido di lacrime. Le poggiò le mani sulle braccia: aveva la pelle fredda. Si era sul finire della bella stagione, perciò iniziava a far fresco, specie dopo il calar del sole. Bianca la aiutò in silenzio a infilare la lunga veste da notte, poi la condusse amorevolmente a letto accanto a sé. Non aveva potuto impedirsi di provare una sottile gioia segreta: forse i due fidanzati avevano litigato? Si erano lasciati? La sua fantasia malata osava persino suggerire che forse Valente aveva rivelato a Beatrice di essere innamorato della sorella. Il senso di colpa per quei pensieri crudeli l’assalì subito, perciò Bianca cercò di porvi rimedio mostrandosi premurosa e attenta. «Che cosa è successo? Qualcosa di brutto?» mormorò quando furono entrambe al caldo sotto le lenzuola. Beatrice non smetteva di piangere e le sue lacrime bagnavano il cuscino. «Sì … no … non lo so!» singhiozzò. Bianca con il dito le fece cenno di tacere, le era parso di sentire un rumore. Che la madre si fosse accorta del trambusto? Era così, infatti, ora entrambe udivano dei i avvicinarsi alla porta. Beatrice era tanto sconvolta che, senza rendersene conto, aveva fatto davvero troppo rumore. Angela, preoccupata, si

era alzata per controllare. Bianca lanciò uno sguardo verso la finestra, temendo di vedere la corda ancora legata al letto. Per fortuna Beatrice l’aveva ritirata e slegata. Ma le imposte? Erano aperte! Bianca si rese conto che la sorella, forse per l’agitazione, non aveva chiuso la finestra che l’aria della notte faceva ora ondeggiare ritmicamente. In quel momento entrò Angela, con i capelli raccolti sotto una cuffia bianca e la lunga camicia da notte candida. Gettò un’occhiata al letto dove giacevano le figlie. Bianca prese in mano la situazione senza esitare: «Mamma» disse, mentre Angela spostava lo sguardo verso la finestra socchiusa e corrugava la fronte. «Va tutto bene?» domandò la donna, avvicinandosi al letto. «Beatrice si è sentita poco bene. Un forte mal di capo», spiegò Bianca con prontezza di spirito, mettendosi a sedere, mentre Beatrice non riusciva a trattenere le lacrime. «Così ho pensato di aprire un po’ la finestra. L’aria fresca potrebbe giovarle». «Stai male, Beatrice? Vuoi del brodo caldo?». Angela si preoccupò, soprattutto udendo il singhiozzare sommesso della figlia. La ragazza scosse il capo, poggiandosi una mano sulla tempia come ad avvalorare la bugia della sorella. «Baderò io a lei, mamma. Non vi preoccupate. Tornate a letto, se ci dovessero essere problemi, vi chiamerò». Bianca aveva assunto il suo tono più rassicurante, ansiosa che la madre uscisse dalla stanza. La curiosità di sapere cosa fosse accaduto tra Beatrice e Valente si stava facendo intollerabile. «D’accordo, ma non lasciare la finestra aperta troppo a lungo. Comincia a far fresco», acconsentì premurosa la donna uscendo. «Hai fatto un fracasso!» rimproverò subito indispettita. Se la madre avesse scoperto il loro inganno, sarebbero stati guai seri. «Cosa ti ha turbata in questo modo?» aggiunse poi, con voce un po’ più dolce. «Valente, insomma, non so come dirlo! Lui ha voluto che io, no, in realtà non mi

ha costretta. Ecco, credevo di volerlo anch’io, ma adesso …». Gli occhi di Bianca si dilatarono. Il suo maggior timore, che non aveva mai osato ammettere nemmeno a se stessa, si era dunque avverato? Aveva iniziato a pensare, o meglio a sperare, che Valente intendesse comportarsi onestamente con la sorella e che non si sarebbe spinto oltre i baci e le carezze. I racconti di Beatrice avevano fino a quel giorno confermato l’illusione, ma a quanto pareva le cose erano mutate. «Che cosa avete fatto?» insisté Bianca con un tono di accusa che non riuscì a moderare. Il pianto di Beatrice tornò a farsi copioso. «Si è preso la mia verginità!» confessò infine Beatrice, portandosi le mani al volto. Bianca provò una gran pena per la sorella. Sapeva quanto fosse legata alla morale e al rispetto dei comandamenti religiosi, perciò capiva lo sconvolgimento che provava. Avrebbe voluto rassicurarla, raccontandole che anche altre ragazze della contrada avevano ceduto alle richieste dei fidanzati prima del matrimonio. In fondo avevano solo anticipato di poco quello che comunque sarebbe accaduto dopo le nozze. La disperazione di Beatrice e soprattutto la cieca gelosia, che si era subito fatta viva, le impedirono però di parlare. Strinse a sé la sorella e iniziò a piangere a sua volta, in apparenza per comunione di spirito, ma in realtà a causa dell’intensa frustrazione che provava. Quel volpone di Valente, nel frattempo, si stava accomodando in salotto, sulla sua poltrona preferita rivestita di raso pregiato. Accese con deliberata lentezza e voluttà la pipa nonostante fosse molto tardi. Non aveva sonno e doveva festeggiare. L’eccitazione della serata appena trascorsa non permetteva ancora ai suoi sensi di cedere alla stanchezza. Aspirando il fumo del tabacco profumato, pensava a Beatrice, a quella pelle morbida che aveva potuto assaporare appieno dopo la lunga e ardimentosa attesa. Non era certo di aver scelto il momento giusto, la ragazza era corsa a casa così sconvolta dopo l’amore! Forse avrebbe dovuto essere più paziente, ma erano mesi che preparava il terreno e ormai il desiderio era così impellente che aveva dovuto cedergli. Non era stato difficile. A ogni incontro, sentiva Beatrice sciogliersi tra le sue braccia già dopo qualche bacio apionato. Con destrezza, aveva infilato una mano sotto le gonne, sfiorando le mutande lunghe sino ai piedi e cercando un varco. L’aveva sentita fremere, opporre una debole resistenza, quindi arrendersi. L’aveva posseduta con

vigore, affondando soddisfatto nella sua carne fresca e tenera che per la prima volta veniva violata. Preda del desiderio, non aveva badato al lieve lamento di lei, incantato da quei fianchi asciutti e da quelle cosce lunghe che si dimenavano sotto di lui. L’aveva lasciata andar via, spettinata e rossa in volto, con la promessa di tornare il giorno seguente e aveva finto di ignorare le lacrime che avevano iniziato a scorrere sulle guance della giovane amante. Valente scosse il capo. Qualcuno avrebbe provveduto a calmarla, non era compito di un uomo. Bianca avrebbe saputo come tranquillizzarla. Bianca … il pensiero si soffermò su di lei, sulla spudoratezza con cui negli ultimi giorni aveva cominciato a fissarlo, ricambiando i suoi sguardi, su come indulgeva volentieri nei minimi contatti fisici che lui tentava di stabilire. Sentì risvegliarsi il desiderio, non più rivolto alla fidanzata ma alla sorella. Scosse il capo, scacciando l’immagine dalla mente; doveva ancora gustarsi appieno il piatto che aveva solo assaggiato, non poteva avere fretta. Se avesse deciso di volere anche la seconda delle sorelle Sberze, ebbene, l’avrebbe avuta, ma al momento opportuno, decise. Bianca impiegò tutta la notte per calmare Beatrice e il mattino dovette mentire di nuovo ad Angela, sostenendo che la sorella sarebbe rimasta a letto perché non si sentiva ancora bene. L’aspetto di Beatrice non tradiva certo la menzogna. Le lunghe ore ate a piangere le avevano gonfiato e arrossato gli occhi e tumefatto il volto, tanto che Angela non dubitò un solo istante che la figlia stesse male. Verso sera, però, il peggio era ato. Valente era atteso in visita e Beatrice non intendeva farsi sorprendere in tali condizioni. Chiese alla madre e a Bianca di non dirgli che era rimasta tutto il giorno a letto, adducendo il motivo di non volerlo preoccupare. Quella sera l’uomo si dimostrò così sollecito, sorridente e gentile verso la fidanzata, che la fanciulla si sentì sollevata e i tormenti trascorsi parvero dissolversi al vento. Infatti era stata assillata per tutto il giorno da pensieri nefasti. Aveva ceduto al peccato, si era dimostrata una ragazza facile, una poco di buono. Forse Valente non l’avrebbe più voluta sposare, ora che aveva visto con quanta semplicità gli si era offerta. Avrebbe persino potuto accusarla di comportarsi allo stesso modo con tutti gli uomini. Beatrice non avrebbe voluto cedere. Il peccato carnale della lussuria le era sempre parso il più terribile tra tutti, ma anche l’unico nel quale era sempre stata

sicura di non correre il rischio di sprofondare. Invece aveva dimostrato l’esatto contrario, di essere cioè un’anima debole e perduta. Le scene del fienile, Valente sopra di lei, le sue vergogne esposte e nude, continuavano ad apparirle davanti agli occhi. Il peggio, pensava, era che le era piaciuto. Ciò le faceva supporre di essere una meretrice della peggior specie. Per quel poco che ne sapeva, le donne si sottoponevano malvolentieri e per obbligo ai doveri coniugali, solo le femmine di malaffare vi indulgevano con piacere e voluttà. Invece, dopo un primo momento in cui una fitta dolorosa le aveva colpito il basso ventre, una piacevole sensazione di violento calore si era diffusa tra le viscere, provocandole fremiti crescenti, fino a condurla a qualche secondo di cieca e istintiva soddisfazione. Vedere Valente in casa, quella sera, la rassicurò e la premura e i sorrisi affettuosi che le rivolse cancellarono con un colpo di spugna i timori e i pensieri negativi. Forse si era sbagliata, forse quell’uomo la amava, non poteva essere altrimenti, non dopo quello che avevano condiviso. Beatrice si rilassò e il volto le si rischiarò giusto in tempo per notare uno sguardo intenso e ardente che Bianca rivolse al suo fidanzato. Un secondo, non un attimo di più, ma Beatrice scorse in quell’occhiata un accento malizioso che mai prima di allora aveva veduto nella sorella. Non si avvide per fortuna di Valente che, audace e rapido, strizzò a sua volta l’occhio a Bianca, prima che entrambi riassumessero il loro abituale contegno. Quando Beatrice si rese conto che le visite di Valente si stavano diradando, erano ormai trascorsi quattro o cinque mesi da quel giorno. Era pieno inverno e i loro incontri nel fienile si erano fatti più rari. Nonostante Beatrice avesse provveduto a trafugare una vecchia coperta di lana con cui potevano scaldarsi, il freddo pungente rendeva meno piacevoli quei momenti. All’inizio la ragazza attribuì al clima infausto l’assenza del fidanzato, ma si accorse presto che qualcos’altro non andava per il verso giusto. Fino ad allora, Valente era stato solito recarsi in casa Sberze quattro volte alla settimana, ma le visite diminuirono a due, talvolta soltanto a una. Inoltre si sarebbe dovuto ormai discutere di matrimonio e di date. Angela Sberze aveva già sollevato la questione con il marito, ma sco le aveva detto di non avere fretta. Beatrice era giovane e di certo l’uomo attendeva per questo motivo. Un problema in particolare turbava Beatrice. Aveva più volte chiesto a Valente, mentre erano in intimità, di portarla con sé in città per vedere la sua casa e il luogo dove presto avrebbero vissuto assieme come marito e moglie, ma l’uomo

pareva tergiversare di fronte alla richiesta e concludeva sempre assicurando che, quando fosse tornata la bella stagione, ve l’avrebbe condotta. Beatrice iniziò ad avere lo spiacevole sospetto che Valente la volesse tenere lontana dal suo mondo. Quando la madre le fece notare che il Dal Lago veniva in visita meno spesso e che portava meno doni di un tempo, Beatrice si incupì. La perplessità di Angela diede concretezza ai suoi dubbi. La sua immaginazione prese a galoppare nell’unica direzione possibile: il fidanzato doveva avere un’altra donna con cui preferiva intrattenersi e trascorrere le serate. Alla ragazza parve di sentire il cuore scoppiare in petto. Provava per Valente un attaccamento viscerale, che lei chiamava amore, ma che aveva più connotazioni di possesso e di desiderio che di semplice affetto. L’avergli concesso la verginità la legava a lui in modo indissolubile, almeno questo era ciò che pensava. Iniziò per Beatrice un periodo di grande tormento, si sentiva impotente e ingenua. Ma avrebbe lottato, decise. Avrebbe trattenuto quell’uomo con tutte le sue forze, chiunque fosse la rivale, o le rivali, contro cui doveva combattere. La bella stagione infine tornò. Beatrice si rodeva da mesi. Era smagrita e la sua bella pelle chiara aveva assunto una tonalità verdognola, manifestazione dell’intenso livore che l’attanagliava. Bianca invece sembrava un fiore nel pieno dello splendore: le guance piene e rosee e il sorriso smagliante si offrivano come un invito a chiunque la rimirasse. La ragazza era dispiaciuta per la sorella che le aveva confidato i suoi tormenti, rivelandole la convinzione che il fidanzato la tradisse. Non poteva però partecipare con sincerità a quel dolore, anzi, suo malgrado, ne godeva. Faticava a perdonarsi quel sentimento cattivo, ma ormai aveva imparato che la gelosia verso Beatrice e Valente era incontrollabile. Anche se l’uomo veniva in visita meno spesso rispetto all’inizio della relazione, Bianca aveva notato che i suoi sguardi si erano fatti ancora più ardenti, man mano che, probabilmente, diminuiva l’affezione per Beatrice. Ormai Bianca ne era certa. Se ne avesse avuto l’occasione, Valente l’avrebbe fatta sua. Questa consapevolezza la rendeva inquieta e sofferente nell’animo, ma assai affascinante nell’aspetto. Da un lato agognava quello stesso contatto fisico che dall’altro aborriva. Cercava di rendersi attraente per lui e di mostrarsi sempre in piena forma, in netto contrasto con una Beatrice triste e avvizzita. Pur sapendo di sbagliare nel desiderare l’uomo della sorella, l’ancestrale rivalità tra due femmine che combattono per lo stesso maschio aveva la meglio sulla sua debole volontà.

Una sera di primavera, Valente raggiunse più di malavoglia del consueto la casa degli Sberze. Era davvero stanco della presunta fidanzata. Aveva goduto del suo corpo quanto gli era bastato, ormai lei gli si concedeva quasi con disperazione e gli si era attaccata in modo fastidioso. Gli chiedeva in continuazione parole dolci, tenere promesse e insisteva per fissare la data delle nozze. L’uomo iniziò a temere di essersi cacciato in una situazione troppo spinosa persino per lui. Un solo pensiero lo tratteneva dallo smettere di frequentare la famiglia. C’era ancora qualcosa che gli poteva interessare: la piccola Bianca. Altrimenti si sarebbe limitato a scomparire. In fondo chi erano quei poveri montanari per esigere qualcosa da un signore come lui? Non avrebbero nemmeno saputo dove cercarlo, se non si fosse più fatto vivo. Valente si distingueva per due caratteristiche in particolare: era egoista e viziato. Quando voleva qualcosa, era disposto a calpestare chiunque per ottenerlo. Rinunciare non era un’opzione considerata. Quando infine otteneva il giocattolo ambito, lo gettava via senza valutare il dolore che si seminava alle spalle. Non era la prima volta che si comportava in quel modo e solo il nome della sua famiglia, ma soprattutto i soldi del padre, avevano saputo tirarlo fuori dai guai e salvarlo da genitori o fratelli infuriati, decisi a vendicare la virtù delle figlie e delle sorelle. Valente era piuttosto furbo, evitava di compromettere donne di famiglie importanti e ricche, perché era consapevole che in quel caso non avrebbe potuto salvarsi da un matrimonio riparatore. Ma quando si trattava di povera gente o meglio ancora di vedove o di donne sposate, non c’era nulla, e di sicuro non il senso di colpa, che potesse trattenerlo dal mettere in pratica i suoi propositi più turpi. I tre, Beatrice e Valente sottobraccio davanti e Bianca qualche metro indietro con gli occhi puntati sulla nuca dell’uomo, uscirono per una breve eggiata, mentre il sole volgeva a un tiepido tramonto. Valente percepiva lo sguardo tagliente della ragazza dietro di lui e si sentiva fremere. Al contrario, il braccio della fidanzata, appeso al suo in modo possessivo, gli pareva un fardello insopportabile. «Valente, mio caro, quando fisseremo la data? Ormai è più di un anno che siamo fidanzati. La gente mormora, non abbiamo nemmeno deciso il mese», sussurrò Beatrice, intavolando per l’ennesima volta il discorso che le stava a cuore più di ogni altro.

Si avvide che Valente vibrava di disappunto e si fece minuscola. Aveva paura che lui la lasciasse, perché ciò avrebbe significato la rovina della sua famiglia. Per lei lo sarebbe stato doppiamente. Sentiva che, se lo avesse perso, avrebbe potuto morirne. Provava per lui un amore morboso e malsano che l’avrebbe uccisa e, quando si fosse saputo che aveva perduto con lui la virtù, il disonore sarebbe calato su tutti loro come un’ombra scura. La madre avrebbe avuto un colpo e il padre, Beatrice ne era sicura, avrebbe cercato di vendicarsi nell’unico modo che conosceva: con la carabina. Bianca forse non avrebbe più trovato marito a causa sua. Tutti questi pensieri le affollavano la testa mentre ascoltava la risposta scocciata del fidanzato: «Siete così giovane, Beatrice. Non volete aspettare ancora un po’? Lo faccio per voi, non per me! Io vi sposerei anche subito». «E allora fatelo, diamine!» sbottò la ragazza, stupendo l’uomo, che sobbalzò. «Non saprei. Ne parlerò con vostro padre», concluse Valente, cercando una via di fuga. Anche questa promessa si dimostrò vana quindi, qualche mese più tardi, Beatrice decise di rivolgersi lei stessa al genitore. Era ormai disperata, perciò non appena prese a parlargli, si sciolse in lacrime. «Padre, lo so che non sono argomenti da uomo, ma io temo che Valente non mi voglia più sposare». A quella dichiarazione, sco il Bufala si alzò in piedi di scatto. Vedere piangere una delle sue adorate figlie lo mandava in bestia. Era già da qualche tempo che la moglie Angela gli suggeriva il malessere di Beatrice. «Me lo sentivo io quando abbiamo dato il consenso al fidanzamento! Ci doveva essere qualcosa di strano, un signore così distinto che vuole proprio la nostra Beatrice». Angela aveva espresso così i suoi dubbi, mettendo il marito all’erta. sco non avrebbe tollerato un simile affronto, la sua famiglia, per quanto umile, era pur sempre degna di rispetto. Perciò, se quel damerino aveva fatto una promessa, adesso la doveva mantenere. Non poteva tirarsi indietro come se nulla fosse. E che motivo poteva avere per farlo? Beatrice era una bella ragazza, sarebbe stata senza dubbio una buona moglie. A meno che … Un dubbio lo colse all’improvviso.

Aggrottò la fronte, poggiando le mani sui fianchi. Guardò la figlia scossa dai singhiozzi, chinando il capo di lato. Chi vorrebbe mai comprare una vacca, quando può avere il latte gratis?

8. LA PROMESSA

«Avete fatto una promessa, preso un impegno, e adesso è il momento di mantenerli. Fissate la data» intimò sco deciso. Valente, seduto davanti a lui, sosteneva il suo sguardo senza paura. Cosa voleva quel montanaro? Quel giorno aveva sbagliato a recarsi a casa Sberze. Aveva già poca voglia di vedere la fidanzata, ma trovare al suo posto il padre infuriato ad attenderlo lo spazientì. Si alzò in piedi, come se ergersi in tutta la sua altezza gli rendesse più semplice affrontarlo. «Signore», esordì, «voi avete ragione, ho fatto una promessa. Intendo mantenerla, ma i tempi e i modi vorrei deciderli io. Vostra figlia è ancora troppo giovane e preferirei farne mia moglie quando sarà un po’ più matura, in modo che possa fare il suo ingresso nella mia casa come una vera signora, non come una ragazzina. Sto soltanto attendendo che cresca ancora un po’. Non insinuerete che voglia venir meno ai miei impegni, vero? Io sono un signore!». Il discorso altisonante di Valente fu interrotto da un rumore secco che lui conosceva bene. Mentre parlava, non aveva prestato troppa attenzione ai movimenti del Bufala che sembrava armeggiare con qualcosa nascosto dal pesante tavolo in noce massiccio della cucina. sco aveva caricato la fedele carabina, che imbracciò e gli puntò dritto sul muso. «Razza di delinquente, signorotto pieno di te», iniziò il Bufala, mentre Valente lo fissava allibito senza osare muovere un muscolo. Portava a sua volta la pistola infilata nella cintura, ma quella canna scura davanti agli occhi congelava ogni suo movimento. «Non hai avuto tutto questo riguardo per la sua età quando l’hai disonorata, non è vero?». Il dito di sco premeva pericolosamente sul grilletto, gli occhi concentrati nel prendere la mira su un bersaglio fin troppo facile, data la breve distanza. Valente non riusciva a parlare, deglutì a vuoto un paio di volte. Beatrice aveva forse confessato al padre la natura carnale dei loro rapporti? Non gli pareva

plausibile. Sarebbe morta di vergogna, piuttosto che ammettere un simile peccato. Ne aveva magari parlato con Bianca, cosa più verosimile, che non era riuscita a tenere a freno la lingua? Brutta pettegola! Il problema tuttavia rimaneva incombente: una pallottola pronta a piantarglisi in pieno volto. Come calmare il vecchio infuriato? Mai si sarebbe aspettato da sco una reazione del genere, l’aveva sempre reputato un tipo tranquillo e tutto sommato inoffensivo, ma l’aveva sottovalutato. «State calmo», balbettò, «non vorrete fare qualcosa di cui poi dovreste pentirvi per il resto della vita!». «Non minacciarmi, criminale. Sei nelle mie terre, qui. Nessuno troverebbe di te neanche un capello, garantito. I miei maiali, nella stalla, non lascerebbero neppure un osso! Niente! In quanto a pentirmi, al contrario, sarei fiero di cancellarti dalla faccia della terra!». «Suvvia, non scaldiamoci per così poco. Siamo uomini d’onore e io …». «Io sono un uomo d’onore, farabutto, non tu! Non voglio più sentire una sola delle tue parolone e dei tuoi discorsi da cittadino! Non me ne frega un piffero! Per qualche assurda ragione mia figlia ti vuole sposare e, per diamine, l’hai disonorata e la sposerai, dovessi trascinarti all’altare per un orecchio e con la mia carabina puntata sul tuo brutto muso!». «Via, si può trovare un accordo, sapete bene che dispongo di più denari di quanti io stesso ne possa spendere!». «Non dire una parola di più, brutto delinquente! Mia figlia non è in vendita, maiale! Conterò fino a tre prima di spappolarti quella testa da farabutto che ti trovi sul collo!». Valente capitolò. Aveva capito che non c’era nessuna via per trarsi d’impiccio, se non quella di dare a sco ciò che voleva. «Bene, d’accordo. Non c’è più motivo di aspettare, visto come stanno le cose. Fissate la data, accetterò quello che voi deciderete». «Mi piace quando le persone sono ragionevoli. L’ultima domenica di questo mese. Le spese a tuo carico, tutte. Ti sei già preso da mia figlia ciò che aveva di prezioso e non avrai altro che la sua mano, ora».

La carabina si abbassò, mentre sco dettava le condizioni e Valente tirò il fiato. Ora avrebbe potuto estrarre la pistola e … scosse appena il capo. Non valeva la pena sporcarsi le mani. In fondo quelle persone non sapevano nemmeno dove abitava. Si sarebbe limitato a svanire nel nulla, per non fare più ritorno in quella maledetta contrada. Come avrebbero fatto a rintracciarlo? Come avrebbero potuto provare la promessa? Lui avrebbe negato ogni coinvolgimento, se anche fossero riusciti a scovarlo. Gli dispiaceva solo per Bianca, dovendo rinunciare al progetto di sedurla. Ma a volte era necessario un piccolo sacrificio, specie se era la propria pellaccia a trovarsi sull’altro piatto della bilancia. Fece un cenno del capo per accomiatarsi dal Bufala, si voltò e uscì. Fu allora che comprese che il buon Sberze era decisamente meno ingenuo di quello che si era aspettato. Ben schierati davanti alla porta, c’erano i cinque giovani che tempo addietro avevano minacciato di picchiarlo se non avesse lasciato perdere Beatrice. Erano armati come un piccolo esercito della salvezza: fucili, forconi, martelli e altri strumenti contundenti, ma comunque erano piuttosto minacciosi. Valente sentì alle sue spalle la presenza del Bufala, sempre con la carabina al fianco. «Giusto come garanzia, mio caro futuro genero. Loro ti accompagneranno a casa per accertarsi che non ti succeda nulla lungo la strada. E verranno a trovarti ogni sera fino al matrimonio, per ricordarti gli impegni che hai preso. Immagino tu non abbia nulla in contrario a questa dimostrazione di amicizia da parte dei ragazzi del posto». Valente poggiò una mano alla cintura per cercare l’arma. Non c’era. «Cerchi qualcosa?» chiese Michele, uno dei cinque. Estrasse dalla tasca la pistola di Valente, facendola roteare tra le dita con maestria. L’uomo sbiancò. Quando gliel’avevano sottratta? Non si era accorto di nulla! Che fosse stato il Bufala, nel salutarlo al suo arrivo? I ragazzotti erano stati ben contenti di difendere l’onore della compaesana, quando sco aveva chiesto loro la cortesia. Tutti in contrada sapevano che i giovani avevano il dente avvelenato nei confronti del Dal Lago, perciò sco era sicuro che non gli avrebbero negato un aiuto. Gli rimaneva tuttavia qualche timore. Non si sapeva se in città Valente avesse a disposizione

dei tirapiedi pronti a difenderlo e a far del male ai cinque montanari. Non era certo che quello stratagemma sarebbe bastato per costringerlo a onorare la promessa. Quell’uomo aveva assunto ai suoi occhi una connotazione così negativa, che temeva avrebbe trovato un’altra via di fuga. Perciò aveva conservato un ultimo asso nella manica. Decise di giocarlo, poiché non voleva correre rischi e preferiva mettere al sicuro la virtù della figliola. «Dimenticavo, amato genero», continuò quindi, usando per la seconda volta l’appellativo familiare cui imprimeva un tono di sarcasmo tutto speciale, «per evitare tentazioni, Don Mario ci aspetta. Beatrice è già da lui. Vi sposerete l’ultima domenica del mese, come dicevo, ma firmerete i documenti necessari al matrimonio oggi stesso». Valente sobbalzò. Cosa stava farfugliando il vecchio? «Non è una procedura regolare. Non mi sembra il caso. Devo supporre che non vi fidate di me?». «Supponilo pure. Non mi fido per niente. Hai perso ogni diritto alla mia fiducia quando ti sei approfittato di mia figlia. Qui non siamo in città, questo è solo un piccolo paesello rurale. La legge è un tantino diversa, per noi, quindi non ti preoccupare per i dettagli. Con Don Mario mi sono già combinato in precedenza. Non ha avuto difficoltà a preparare ogni cosa. Nessuno ne sarà a conoscenza e il matrimonio verrà celebrato come di consueto. Se per caso quel giorno tu decidessi di non presentarti, i documenti saranno comunque già stati firmati in presenza di testimoni. Ne hai ben cinque qui davanti. Perciò Beatrice sarà già a tutti gli effetti tua moglie». «Mi sembra un’assurdità!». «E a me sembra un’assurdità che tu, brutta canaglia, ti sia preso il disturbo di arrampicarti fin quassù, in questo posto dimenticato da dio e dai santi, solo per il gusto di compromettere una ragazzetta! Se non fosse che me l’hai infangata, stai certo che vorrei Beatrice lontana da te quanto più possibile!». Valente era con le spalle al muro, un topo in trappola. Dal momento in cui sco aveva realizzato che cos’era accaduto, aveva impiegato tutto se stesso per orchestrare il piano. L’idea di essere stato gabbato da quell’impostore non gli permetteva più neppure di dormire. Aveva compreso il suo disegno: prendersi la virtù di sua figlia, gustarsi il bel bocconcino e poi … puffff, sparire nel nulla. La

sua missione era divenuta impedirglielo, non importava quante persone avrebbe dovuto coinvolgere e quanti avrebbero dovuto essere messi a conoscenza del misfatto. Sapeva che Beatrice non avrebbe potuto essere felice con Valente e questo lo addolorava tantissimo, ma l’onore della figlia era più importante di ogni altra cosa, in quel momento. Anche perché assieme al suo onore, se ne sarebbe andata la dignità della famiglia intera. Don Mario era stato un osso duro, si era dimostrato tutt’altro che accondiscendente. Convincerlo era stata un’impresa titanica e, se non fosse stato per la bella sommetta che gli aveva offerto in cambio del favore, una cospicua parte dei risparmi della famiglia Sberze, non avrebbe mai ceduto. La procedura era poco ortodossa, si trattava infatti di celebrare il matrimonio in segreto, con pochi testimoni presenti, per poi celebrarlo una seconda volta con tutti i crismi e alla presenza della comunità qualche settimana più tardi. Il Don temeva che il Signore avrebbe manifestato la sua collera, ma uno sguardo del Bufala mentre gli offriva il denaro gli diede a intendere che la sua, di collera, sarebbe stata peggiore. «Se il Signore non ti ha dimostrato la sua ira per tutto quello che hai combinato in precedenza, prete», gli aveva sibilato sco abbandonando ogni forma di rispetto, «non sarà certo questo peccatuccio a fin di bene a farlo scomodare». Fu così che la strana comitiva costituita da Valente, il Bufala e i cinque omaccioni minacciosi, si incamminò verso la chiesa sul far della sera. Là attendevano Don Mario, Beatrice e Angela. Bianca, suo malgrado, era stata tenuta all’oscuro della faccenda, nel timore che potesse combinarne una delle sue e mandare tutto a monte. Beatrice se ne era rammaricata perché avrebbe voluto la sorella a sostenerla in quel momento di grande vergogna. Stava per sposare l’uomo che amava, ma non poteva ignorare che lui non avrebbe acconsentito alle nozze se non vi fosse stato obbligato con la forza. Quando Bianca venne a sapere che nel giro di un paio di settimane si sarebbe celebrato il matrimonio tra Valente e la sorella, andò su tutte le furie. Davanti ai genitori e a Beatrice cercò di contenersi. Si congratulò, abbracciò la sorella ed espresse la propria gioia, ma dentro di sé sentì che sarebbe impazzita dalla rabbia. Era così sicura che Valente prima o poi avrebbe lasciato Beatrice! I segnali erano stati fin troppo chiari, persino quell’ingenua di sua sorella aveva intuito che qualcosa non andava. Questi pensieri crudeli la facevano sentire

colpevole, ma era certa che gli sguardi che lui le indirizzava, carichi di promesse, fossero reali. Si dispiaceva solo che Beatrice fosse stata così stupida da cedere alle sue insistenze e da concedersi a lui, ma in fondo lo aveva fatto di sua volontà. Se fosse stata un po’ più sveglia, si sarebbe resa conto che Valente mirava solo alla sua virtù. Una volta ottenuta, ogni interesse nei suoi confronti era andato scemando. Perché Bianca credeva che, nel frattempo, Valente si fosse invaghito di lei. Si era accorto di aver scelto la sorella sbagliata. Persa nelle sue elucubrazioni sentimentali, Bianca non si capacitava di come avesse fatto Beatrice a convincerlo a sposarla. Si era dunque ingannata? Lui era sincero nei suoi sentimenti? Non le sembrava possibile. Quell’atteggiamento malizioso, quei tocchi leggeri e sapienti quando nessuno poteva accorgersene, tutto ciò da mesi le suggeriva che Valente fosse molto più interessato a lei di quanto non lo fosse a Beatrice. Era, in una parola, furiosa. Al culmine del paradosso, si sentiva come se fosse Beatrice a volerle rubare il fidanzato e non viceversa. «Che cosa gli hai detto per convincerlo?» esordì secca quella sera, non appena fu da sola in camera con Beatrice. Era così irritata per la notizia delle imminenti nozze, che non si era neppure accorta di quanto fosse teso e preoccupato il viso della sorella. Beatrice era da giorni sotto pressione e il Bufala non le aveva reso la vita semplice. Era sposata, senza neppure il tempo di rendersene conto, senza poter organizzare nulla, esserne felice, gioirne con la madre e con la sorella. Da un lato era sollevata. L’idea che Valente fosse stanco di lei la tormentava così tanto, che la certezza di averlo legato a sé in modo indissolubile non poteva che tranquillizzarla. Non aveva avuto scelta, nessun altro l’avrebbe voluta dopo che lui l’aveva disonorata. D’altro canto però, l’inganno ordito dal padre per costringere l’uomo a prenderla in moglie le lasciava la certezza che, se lui avesse potuto scegliere, non avrebbe mai fatto di lei una donna onesta. Valente era quindi un farabutto, come aveva sentito dire da sco in un momento di rabbia, mentre le comunicava che si sarebbe sposata? Il genitore le aveva ordinato di non far parola del matrimonio con nessuno, tanto meno con Bianca che, in situazioni del genere, era solita lasciarsi sfuggire i segreti con chi meno avrebbe dovuto. E adesso la sorella l’aggrediva con tono offeso e irritante, proprio nel momento in cui lei aveva bisogno di sfogarsi e di

essere confortata. «Sembra quasi che tu sia arrabbiata per questo matrimonio, ma era previsto da tempo!» le ricordò. «Mi sembrava di aver capito che lui volesse aspettare. Era un bel po’ che gli chiedevi di scegliere la data». «Infine si è convinto. Ha fatto una chiacchierata con nostro padre e insieme hanno stabilito il momento giusto. È più di un anno che siamo fidanzati, non c’è motivo di attendere ancora». Bianca osservò il sorriso tirato e nervoso della sorella. Qualcosa non le suonava per il verso giusto, nonostante il discorso sensato che lei aveva appena recitato. La domenica successiva Valente era atteso a pranzo, per discutere i dettagli delle nozze previste due settimane dopo. Bianca uscì di casa poco prima di mezzogiorno, mentre la madre le gridava dietro di rimanere a darle una mano e di non dileguarsi prima dell’arrivo degli ospiti. Bianca fece spallucce e si allontanò comunque. Il suo apporto in cucina non era così determinante da pregiudicare l’andamento del pranzo. Prese un sentiero tra gli alberi, da cui era possibile tenere sotto controllo la via maestra e da cui avrebbe visto Valente arrivare. Infatti dopo qualche decina di minuti, lo intravide camminare di buon o, il volto accigliato sotto il cappello. Si lanciò di corsa lungo il sentiero e sbucò poco davanti a lui sulla strada. Il suo comportamento era piuttosto sconveniente e lei ne era consapevole. Dalla piazza della contrada qualcuno avrebbe potuto vederla, ma in fondo, pensava, stava solo andando ad accogliere il futuro cognato. E il desiderio di affrontarlo da sola era così impellente che aveva deciso di correre il rischio. «Buongiorno, Valente», salutò. «Buongiorno, mia cara futura cognata». L’uomo non riuscì a resistere all’uso di quell’appellativo intriso di astio. Tuttavia il volto un attimo prima collerico, si distese in un sorriso e gli occhi assunsero una luce maliziosa. Bianca era rossa in viso e scarmigliata come se avesse fatto una lunga corsa. La speranza si riaccese in lui. Quella insolente e deliziosa monella era così audace da voler stare con lui da sola? Nonostante i recenti sviluppi?

«Qual buon vento? Temete che non trovi più la via per arrivare a casa vostra?». «Proprio così. Ho saputo la bella notizia». «Ne siete contenta?». «Naturalmente. Sapevo che voi e mia sorella vi sareste sposati. Siete fidanzati. Sono lieta che Beatrice sia felice». Valente la valutò per qualche istante. Non era certo per fargli le congratulazioni che si trovava lì, in quel momento. Decise perciò di rischiare e di giocare a carte scoperte. «Smettiamo con i convenevoli, Bianca. Hai fatto la spia, non è vero? Hai detto a tuo padre che Beatrice era disonorata. Non pensavo avessi fretta che noi due ci sposassimo, anzi, a dire il vero, credevo di aver capito che avessi altre aspettative in testa». Valente aveva abbandonato ogni formalità, deciso a capire le intenzioni della ragazza, che si inalberò subito. Si rizzò in tutta la sua altezza, mandando lampi dagli occhi. «Credevate che cosa? Quali aspettative? Comunque io non ho fatto la spia! Non mi sarei permessa! Di questa storia non so nulla e con mio padre non ne ho parlato. Non so neanche cosa state blaterando!». «La mia piccola serpe. Appena ti si accusa, mordi. Sei deliziosa, irresistibile». Valente le si avvicinò, dopo aver lanciato uno sguardo distratto in direzione della contrada per accertarsi che nessuno sopraggiungesse da quella direzione. Posò con decisione le labbra sulle sue, reggendole il mento con due dita e tenendo gli occhi fissi nei suoi. Fremette al contatto di quella bocca carnosa e morbida, e di quel corpo così voluttuoso che gli era proibito. Lei oppose resistenza, ma il languore che le lesse in viso parlava da solo. Valente si scostò e, sempre guardandola fisso, riprese la sua strada senza aggiungere parola. Bianca rimase inebetita qualche secondo prima di tornare sulla scorciatoia che l’avrebbe condotta a casa prima di lui.

9. LA SIGNORA DAL LAGO

Beatrice si alzò per l’ennesima volta dalla morbida poltrona rivestita di velluto color cremisi, e si avvicinò alla finestra. Scostò appena la tenda per spiare fuori così, se avesse intravisto sopraggiungere il marito sul vialetto davanti a casa, avrebbe comunque fatto in tempo a scappare di sopra prima che lui la scorgesse. Era molto tardi e di Valente ancora non c’era traccia. Non individuando alcun movimento in quella notte di luna piena, la giovane donna fece un profondo sospiro. La cameriera dietro di lei tossicchiò, in modo da palesare la propria presenza. Beatrice scorse nei suoi occhi un velo di pietà che scomparve subito, sostituito da qualcosa di più simile alla derisione. Era una ragazza più o meno della sua età e Beatrice pensava spesso che tra loro due c’era poca differenza, dovuta soltanto a un diverso corso del destino. Niente più di una coincidenza qualsiasi aveva fatto di lei la padrona di casa e dell’altra la serva. La fortuna? Nel breve anno trascorso dal giorno del matrimonio, Beatrice iniziava a sospettare che la sua vita avesse ben poco a che spartire con la buona sorte. Malgrado tutto, le nozze erano state regolarmente celebrate come deciso dal Bufala. Beatrice era andata all’altare a capo chino, avvolta in un vestito virginale che era stato della madre e che le faceva prudere la pelle. Era conscia di recitare una farsa, lei e Valente erano già marito e moglie da qualche settimana per la legge e da qualche tempo per tutto il resto. L’espressione nervosa e dura con cui l’uomo l’aveva presa in sposa non aveva contribuito a rallegrare l’atmosfera e Beatrice non aveva potuto fare a meno di notare che il marito era tutt’altro che ben disposto nei suoi confronti. Dopo la festa, un tormento piuttosto rapido, Valente aveva portato con sé la moglie in città, dove lei aveva fatto il suo ingresso nella nuova casa. Era una villetta in stile liberty, con un delizioso giardino ben curato, nella quale era evidente il buon gusto tanto nell’arredamento quanto nella manutenzione giornaliera. Beatrice si avvide che una piccola schiera di domestici di fiducia, il cui salario era per la verità piuttosto generoso, provvedeva a mantenere l’ordine, la pulizia e il decoro della casa, e di questo Valente era, a buona ragione, alquanto fiero.

Il periodo di eccitazione dovuto alla nuova vita agiata non durò a lungo e ben presto Beatrice iniziò a lasciarsi prendere dalla tristezza e dalla malinconia. Il marito la lasciava sola per gran parte del tempo e lei non aveva idea di dove fosse e affaccendato in quali attività trascorresse le sue giornate. Lui talora si giustificava, affermando di dover seguire affari economici di varia natura, ma lei subodorò presto la menzogna. Valente non lavorava, perché le rendite e i beni che possedeva bastavano senza problemi a mantenere lui, i servitori, la casa e ora anche la moglie. Come impiegasse il troppo tempo libero a disposizione rimaneva un mistero. Valente non l’aveva presentata ad alcun amico, come Beatrice aveva sperato, in modo da poter stringere amicizia con le mogli e non restare sempre così sola. Ma le sue aspettative erano state deluse. Rimaneva a casa, come una bambola di cristallo ad annoiarsi e impolverarsi, senza nemmeno le faccende domestiche a cui badare. Non aveva neanche il coraggio di uscire per una eggiata fuori dai rassicuranti confini del giardino, giacché non conosceva la zona e temeva di perdersi. Una povera montanara come lei si sentiva fuori luogo in quell’ambiente signorile e cittadino. Era sicura che, se fosse andata a so per le vie della città, tutti l’avrebbero additata e riconosciuta come la contadina che si sentiva. Avrebbero riso di lei, dei suoi modi poco raffinati, della sua parlata volgare. Le uniche consolazioni rimanevano il ricamo e il cucito, in cui trascorreva assorta gran parte delle giornate accumulando montagne di lenzuola, vesti e vestine di pregiate fattezze. Pregava di avere un figlio, almeno avrebbe avuto un impegno e un po’ di compagnia, ma sembrava che il fato non volesse concederle nemmeno questo conforto. Valente non aveva più l’ardore di quando la possedeva nel fienile e le visite coniugali in camera sua erano rare, una volta ogni dieci, quindici giorni, e piuttosto frettolose. E spesso, troppo spesso, Valente rincasava molto tardi la sera, come in quell’occasione. «Non volete andare a letto, signora?». La cameriera la ridestò da quei ricordi amari. Beatrice annuì appena con il capo, e raccolse avvilita le stoffe che aveva abbandonato sulla poltrona quando si era alzata. Si avviò prostrata al piano di sopra, mentre la servizievole domestica la

seguiva per aiutarla a prepararsi per la notte. Beatrice la congedò con un gesto e un sorriso triste. Come la maggior parte delle sere, preferiva far da sé. Non era abituata ad avere qualcuno che piegasse per lei gli abiti e le sprimacciasse il cuscino. Violetta si voltò e scese le scale in silenzio. La nuova signora le suscitava, tutto sommato, una certa pena. Lei era cresciuta in quella casa, figlia della cuoca del signor Dal Lago, e aveva visto il giovane Valente farsi uomo quando lei era ancora bambina. Era sempre stata innamorata di lui in segreto, nei suoi sogni, ma quale delle ragazzette cresciute in quella casa non lo era stata? Valente era un giovane pieno di fascino. Quando poi era diventata una donna, era stata felicissima di notare che egli le riservava delle attenzioni particolari. Per qualche tempo aveva immaginato che la sua sarebbe stata la favola di una principessa; il ricco e bell’uomo si sarebbe perdutamente innamorato della povera servetta e l’avrebbe chiesta in moglie, elevandola dall’umile posizione di cameriera a quella di padrona di casa. Violetta dovette però abbandonare le sue rosee fantasie nel giro di poco. Dopo una corte serrata ma discreta, condotta in modo che nessuno in casa potesse coglierlo in flagrante, Valente aveva portato in breve e con suprema maestria la ragazza a capitolare. Violetta gli si era concessa con trasporto, ancora sicura che l’uomo avrebbe fatto di lei una donna onesta. Ma lui non le aveva mai nemmeno prospettato una tale ipotesi, e Violetta aveva dovuto aprire gli occhi e ammettere che tutti i suoi progetti erano stati delusi. Nessuna promessa, nessun pegno d’amore, solo dei fugaci incontri notturni, sempre al riparo da occhi indiscreti, talvolta in camera di Valente, da dove però veniva sempre allontanata con ferma dolcezza non appena concluso il rapporto. In lacrime ne aveva parlato con un’altra inserviente, un po’ più adulta e smaliziata, che non aveva esitato a prendersi gioco di lei: «Sciocchina! Non ti sarai fatta delle illusioni, vero? Il signor Valente è un gran bell’uomo e molte di noi gli hanno ceduto, ma, credimi tesoro, a lui non interessa altro che infilarsi tra le tue gambe! Sposarti? Non essere ingenua!». Violetta era arrossita e aveva abbassato gli occhi verso il pavimento. «Su, su, non ti imbarazzare! Non è una tragedia! Ma è meglio che tu ti tolga dalla testa le tue romantiche idee! Se conosco bene il tipo, si sta già sollazzando con qualche altra compiacente signorina!».

La delusione e la sofferenza della giovane erano state immense: i suoi sguardi, i suoi gesti, tutto di lui le aveva dato a intendere che vi fosse un coinvolgimento emotivo. Ma, ripensandoci, null’altro. Nessuna parola, nessuna frase, nessun impegno. Violetta aveva dovuto rassegnarsi e si era sentita stupida per aver pensato che Valente si sarebbe abbassato a sposare una come lei. Questo sino all’arrivo di Beatrice. Aveva sentito mormorare che era una contadina e, peggio ancora, che proveniva dai monti dei dintorni, quindi non poteva che essere grezza e sempliciotta. Eppure lui l’aveva portata a casa in qualità di moglie. I domestici avevano sparlato a lungo alle spalle della signora che, per quanto graziosa, aveva l’aspetto di un ero sperduto in quella casa. Presto Violetta aveva compreso la verità: Valente non era cambiato e non aveva messo la testa a posto innamorandosi di quella ragazza. Era sempre il solito don giovanni, stava a casa ancor meno di prima e la cameriera aveva avuto prova tangibile che non era fedele alla sua sposa. Nonostante il dolore che lui le aveva cagionato in ato, Violetta non si era mai negata al suo signore e quando la cercava, lei era sempre disponibile e compiacente. Si era detta che, prima o poi, avrebbe trovato anche lei un uomo con cui costruirsi una famiglia e allora avrebbe troncato quella relazione clandestina. Ma, fino a quel momento, non intendeva rinunciare al piacere che le dava Valente. Doveva solo cercare di non illudersi e non nutrire false speranze. Dopo il matrimonio, lui non aveva smesso di cercarla come lei aveva dapprima supposto, non senza rammarico. Anzi, Violetta aveva l’impressione che corresse tra le sue braccia persino più spesso. In casa si era mormorato che Valente fosse stato costretto a sposarsi a causa di qualche minaccia dei famigliari della sposa, ma nessuno ne aveva la certezza. Come i fatti si fossero realmente svolti, rimaneva un mistero. Quindi i sentimenti che la cameriera nutriva verso la sua signora erano i più diversi: la pietà, la derisione, la comione, la gelosia. In fondo, si diceva, per una semplice fatalità non si trovava al suo posto. Perché non aveva avuto nessuno per perorare la sua causa, forse.

Valente giunse a casa stanco ma soddisfatto. Ancora una volta, la lunga serata aveva dato i suoi frutti. Ripensò alla donna dal cui caldo abbraccio si era sciolto da poco e rabbrividì di piacere, sentendo una tensione al basso ventre. Se fosse stata lì con lui, le avrebbe concesso una generosa replica. Guardò verso la bella casa in cui negli ultimi tempi tornava mal volentieri, e si accigliò. La luce di una candela brillava ancora alla finestra della stanza della moglie, segno che Beatrice non si era addormentata. Quando avrebbe smesso di aspettarlo sveglia? Credeva forse che non la sentisse camminare sino alla porta della camera, quando lui rincasava, rimanere immobile per qualche istante e poi andarsene senza trovare il coraggio di bussare? Sapeva che la moglie era tormentata dalle sue assenze e dalle sue scarse attenzioni. Ma, in verità, non gliene importava molto. Anzi, la cosa lo infastidiva. Finché era durato il fascino della conquista, del frutto proibito, Valente aveva concentrato tutti i suoi sforzi su Beatrice. Ma adesso che il frutto era lì, sempre disponibile, nella sua stessa abitazione, gli sembrava tutt’altro che appetibile. Valente conosceva bene il suo difetto, era conscio di stancarsi subito, il piacere della seduzione era più forte di qualsiasi forma di affetto potesse provare per una donna. Era abituato a prendere ciò che desiderava, sempre. Nessun rimorso lo tormentava, nessun dispiacere per il dolore che aveva più e più volte cagionato. Nulla sembrava scuoterlo. Tuttavia il matrimonio aveva avuto il potere di far vacillare la sua sicurezza. L’essere stato costretto a sposare Beatrice l’aveva destabilizzato, soprattutto in un primo momento. Ora, dopo un anno, stava riconquistando l’equilibrio e stava imparando a gestire la vita di ammogliato che, in effetti, qualche beneficio gli apportava. Aveva un’ottima scusa per tenere nascoste le relazioni e non doveva fare false promesse per ottenere ciò che voleva. Le ragazze da marito non si facevano illusioni verso di lui e, se gli cedevano, potevano rimproverare solo loro stesse. Del resto Valente era così affascinante e seducente, con quei modi squisiti, che, nonostante ora avesse moglie, poche donne rinunciavano a qualche ora di piacere con lui. Dopo le nozze Valente aveva deciso di ridurre al minimo i contatti con il Bufala e la moglie Angela, causando così un altro motivo di sofferenza a Beatrice. La sua voleva essere una sorta di vendetta, e imporre a Beatrice il divieto di far visita troppo spesso alla famiglia gli alleviava un po’ il livore per l’inganno in

cui era stato intrappolato. Non avrebbe mai potuto perdonare sco. Lo aveva reputato uno stupido montanaro e invece aveva ordito proprio un bello scherzetto. Si era trovato, senza volerlo e senza riuscire a far nulla per opporsi, incastrato nel matrimonio con Beatrice. Aveva spesso sentito dire che gli uomini delle montagne erano agguerriti circa l’onore delle loro donne, ma non immaginava certo che sarebbero riusciti a far fesso un tipo come lui. Invece il Bufala l’aveva inquadrato e capito meglio di molti altri e aveva saputo girare la situazione a vantaggio suo e della sprovveduta figliola. In fondo al cuore Valente provava una punta di sottile ammirazione per il modo in cui sco aveva condotto la faccenda, anche se il rancore rimaneva troppo bruciante per poterlo seppellire. In definitiva, Valente aveva ben presto preso a considerare Beatrice un piccolo errore di calcolo che aveva commesso da sciocco. Da lì a smettere di considerarla, il o fu breve. Anche quella sera Beatrice ascoltò il marito che si preparava per la notte poggiando l’orecchio alla porta della sua camera. Si chiese se sarebbe andato da lei, ma si disilluse non appena sentì il fruscio delle lenzuola tra cui l’uomo si stava infilando. Tornò a letto con le lacrime agli occhi. Un’altra giornata della sua noiosa vita era trascorsa nella perenne attesa che qualcosa, qualsiasi cosa, succedesse. Come rimpiangeva il tempo in cui viveva nella sua contrada, con la sorella che, per quanto folle e imprevedibile, le rendeva la vita sempre piena di sorprese! Poteva vedere la famiglia d’origine di rado. Valente le aveva chiesto, senza mezzi termini, di evitare di costringerlo ad andare in visita a casa dei suoceri. La sua spiegazione era stata che ora avevano formato un’altra famiglia e si erano trasferiti per conto loro. Se volevano, venissero gli Sberze a trovarli. In realtà Beatrice li aveva invitati molte volte per cena, ma il marito trovava ogni volta una scusa per non essere presente e lei, frustrata, aveva sempre disdetto. Non che Angela e sco dessero segno di voler partecipare alla sua esistenza di donna sposata. Anzi, Beatrice aveva la netta impressione che avessero deciso di estrometterla dalle loro vite e che provassero una forma di repulsione verso il consorte. Era a conoscenza che il padre aveva dovuto costringere Valente ad accelerare i tempi del matrimonio, ma in fondo, pensava la giovane, si sarebbero comunque sposati, lui si era preso un impegno fidanzandosi con lei. O no? Si ripeteva

questa bugia fino alla noia, cercando di convincere se stessa. Ammettere il contrario, ora che era troppo tardi, le avrebbe fatto solo del male. Non avrebbe mai potuto perdonarsi la stupidità dimostrata nel cedere a quell’uomo con tanta arrendevolezza. Se rifletteva con onestà, poteva ben comprendere perché i genitori non gradissero frequentare né suo marito né lei, visto come erano andate le cose. Ma ormai tutto si era risolto per il meglio: erano sposati. La loro ostinazione nel tenersi a distanza la faceva sentire ancora più sola e malinconica. Soltanto Bianca andava a trovarla, sempre quando Valente non c’era, nel pomeriggio, se non aveva impegni nei campi o in casa e magari approfittava per fare qualche rapida commissione in città. La sorella era sempre più bella, sorridente e piena di vita e per quanto a Beatrice fe piacere ricevere quella visita, faticava a reprimere l’invidia che provava nei suoi confronti. Ora lei aveva tutto: bei vestiti, cibo prelibato, servitori. Pensava che fossero quelle cose, mai possedute prima di allora, a dare la felicità, ma non era così. Non era mai stata tanto infelice. «Davvero non capisco, madre, perché non possiamo chiedere a Beatrice un piccolo aiuto». «Bianca, non ti voglio nemmeno stare a sentire. Smetti di dire sciocchezze, non chiederemo a tua sorella dei soldi. Ci sono stati altri momenti di difficoltà e li abbiamo sempre superati». Bianca non comprendeva per quale motivo la madre e il padre fossero così ostinati. Beatrice viveva nel lusso mentre loro faticavano come muli per avere di che campare. Sarebbe stato così semplice chiedere un prestito! Ma i genitori non volevano sentir ragioni. «Ma se …», cercò di insistere. «Ora basta! Tua madre ti ha già risposto!» intervenne il Bufala. «Se tu te la cavassi con l’ago come tua sorella, potresti contribuire all’economia domestica più di quanto tu non faccia!» sbottò Angela, stizzita per l’insistenza della figlia. Lei e il marito si erano accordati fin dal matrimonio di Beatrice. Aver dovuto costringere l’uomo che aveva infangato la loro figlia a sposarla, era parsa loro un’offesa tanto grande da non poter essere dimenticata. Se Valente fosse stato un uomo d’onore, non sarebbe stato necessario ricorrere a quegli espedienti. Perciò

avevano concordato che mai e poi mai si sarebbero abbassati a chiedere aiuto a una persona tanto viscida. Per quanto li rattristasse non vedere più spesso Beatrice e non poter prender parte alla sua nuova vita, non si sarebbero umiliati chiedendo sostegno a qualcuno che erano arrivati a disprezzare. Di contro, tutti sembravano adorare quell’uomo falso. Nelle rare occasioni in cui si faceva vedere in contrada, le ragazze civettavano, le signore sorridevano e gli uomini si profondevano in saluti e riverenze. A quella gente semplice sembrava il coronamento di una favola che un signore di città si fosse abbassato a sposare una montanara, una ragazza senza dote né ricchezze. Ma loro, gli Sberze, sapevano la verità. Avevano capito che tipo fosse Valente e quanta malignità si celasse dietro un’apparenza signorile e distinta. L’unica consolazione per loro era che Beatrice non avrebbe più sofferto la mancanza di alcun bene materiale. Bianca si indignò per la risposta della madre. I confronti con la bravura di Beatrice, la sua disponibilità e la sua laboriosità erano continui, nonostante lei mancasse da casa da un anno ormai, e la esasperavano. Non si era ancora rassegnata al matrimonio della sorella. La verità non le era mai stata rivelata, ma aveva intuito che Valente non aveva fatto quella scelta in modo spontaneo. Tuttavia non sapeva come si fossero davvero svolti i fatti e quanto peso avesse avuto l’intervento del padre. Sapeva solo che Beatrice era cambiata. Non trovava più in lei la confidente di sempre, l’amica fidata. Ciò era dovuto solo in parte alla lontananza e al fatto che Valente non gradiva che la moglie frequentasse la famiglia d’origine. Bianca sentiva che il suo stesso atteggiamento nei confronti di Beatrice si era fatto scontroso e maligno dopo le nozze. La sua gelosia non aveva più freni. Prima che si sposassero, era certa che Valente, alla fine, avrebbe preferito lei. Il bacio che le aveva dato in un giorno lontano aveva confermato quell’idea, che pian piano si era trasformata in un chiodo fisso. La madre le aveva ripetuto più volte che ora che la maggiore era sposata, forse anche lei avrebbe trovato un buon partito, magari lì, nella loro contrada, in modo da restare vicina ai genitori. Ma Bianca non tollerava neppure l’idea di un altro uomo e il sogno di avere Valente era quasi un’ossessione malvagia piantata nella sua testa. L’uomo della sorella era la sua malattia e non avrebbe accettato nessun altro, non prima di prendersi la soddisfazione di sapere che, sì, aveva avuto ragione, lui avrebbe preferito lei. Ma come fare? Come realizzare quel folle proposito?

«Mi fa piacere che tu sia venuta». Il tono piatto della voce di Beatrice strideva con ciò che dicevano le parole. La visita di Bianca era tanto inaspettata quanto inopportuna. Cosa insolita, quella sera Valente era rimasto in casa e la moglie sperava di poterlo indurre a trascorrere un po’ di tempo con lei. «Mi spiace di non averti avvisata. Oggi avevo delle commissioni in paese e si è fatto tardi, ma volevo comunque are da te prima di tornare a casa». «Se non puoi trattenerti, non ti preoccupare. Non vorrei che il buio ti sorprendesse lungo la strada». Valente seguiva divertito lo scambio di battute tra le sorelle. L’una che voleva palesemente che l’altra se ne andasse e l’altra che desiderava trattenersi nonostante l’ora importuna. Era quasi sicuro di aver compreso l’intento di Bianca. Quando era entrata e l’aveva scorto all’ingresso, gli aveva scoccato un’occhiata da far accapponare la pelle. «Non vi preoccupate, Beatrice cara. Accompagnerò vostra sorella, se dovesse farsi buio». «Non vi disturbate, non potrei mai accettare». «Come io non potrei mai permettere che la mia cara cognata si trovasse da sola per strada a un’ora poco adatta alle fanciulle». Beatrice lasciò ricadere le spalle contratte, rassegnata. Neppure quella sera avrebbe potuto godere della compagnia del marito, e tutto per colpa di quella sfacciata di Bianca. Le faceva visita così di rado e doveva anche scegliere la sera sbagliata! Bianca, dal canto suo, gongolava. Non aveva potuto credere alla sua fortuna quando si era resa conto che Valente era in casa. Aveva subito deciso di protrarre il veloce saluto che intendeva fare alla sorella giusto per non scontentare Angela. Era sicura che lui non l’avrebbe lasciata rincasare sola, con tutti i pericoli della notte in agguato. Si trattenne in futili chiacchiere quanto più poté. Quando si accorse che ormai era l’imbrunire inoltrato e che la luce naturale era flebile, affermò che si era fatto

tardi ed era tempo di tornare a casa. Beatrice non nascose un moto di stizza quando Valente infilò il soprabito, pronto a scortarla. «Farò presto» garantì alla moglie, mentre Bianca la salutava con un calore che non provava. Si incamminarono a o spedito. L’uomo non impiegò molto tempo a recuperare l’antica confidenza. «Questa messa in scena mi meraviglia, Bianca. Da te mi aspettavo qualcosa di un po’ più raffinato. Tua sorella, se avesse potuto, ti avrebbe cavato gli occhi a mani nude». Sogghignò, spiando la sua reazione. Tuttavia Bianca era piuttosto smaliziata e pensava, nell’ingenuità della giovinezza, di saper come tenere un uomo sulla corda. Rise forte, gettando il capo all’indietro per scoprire il collo in un chiaro invito. «Desideravo solo avere qualche istante per chiederti un favore, mio amato cognato. Non volevo che Beatrice sentisse e gradirei che la cosa rimanesse tra di noi, perché i miei genitori non approverebbero». Lui annuì, per incoraggiarla a parlare. Mentre camminavano, si era avvicinato a lei e le loro braccia si sfioravano nel ritmo dell’incedere. «La mia famiglia versa in condizioni precarie. L’ultimo raccolto non è stato dei migliori e da quando Beatrice non è più in casa, mancano quei piccoli vantaggi che il suo lavoro ci procurava». «Non ci posso credere. La giovane Bianca che si abbassa a chiedere del denaro a me». «Un prestito. In fondo, se non ci si aiuta tra parenti!». «Quello che mi è sempre piaciuto di te», riprese lui, come se non l’avesse sentita, «è la tua schiettezza quasi arrogante. Vieni qui, mi chiedi del denaro e pretendi che sia la cosa più naturale del mondo. Sai cosa penso?». Bianca sorrise. Sapeva quello che lui stava per dire prima ancora che pronunciasse la frase successiva.

«Penso che sia un pretesto. Che tu cercassi una scusa per stare sola con me. Che tu volessi mettermi alla prova. Sbaglio?». «Non risponderò a questa provocazione». «Allora io vi dirò solo una cosa: ricordate la candela?». Il discorso ebbe termine e per il tragitto restante rimasero in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri. Ma Bianca aveva capito.

10. LA CANDELA

Bianca decise di farsi pregare, così come si confaceva al suo carattere. Attese deliberatamente per qualche settimana, certa che l’uomo fosse là fuori, da qualche parte, in impaziente attesa e che stesse diventando sempre più nervoso. Ciò le causava un intimo godimento. Una sera, infine, espose la candela molto tardi, per capire se lui ancora aspettava. Si calò dalla finestra, non aveva perduto l’antica abilità di ragazzina nell’arrampicarsi ovunque, e lo trovò lì, con il viso contratto dalla rabbia. Il sorriso di derisione con cui lei lo salutò lo mandò ancor più in bestia, Bianca lo capì dai suoi occhi di fuoco. La prese per mano quasi con ferocia e si allontanò dalla portata d’orecchi degli Sberze. Se Valente pensava di averla già avuta vinta, si sbagliava di grosso. Bianca non gli concesse che qualche bacio stentato e la scena si ripeté per svariate sere. La donna spesso fingeva di non provare alcun interesse nei suoi confronti, e ostentava un atteggiamento annoiato in sua compagnia. Era solo una posa, intuire quanto Valente si indispettiva di fronte al suo apparente rifiuto la faceva sentire potente. Era determinata a non comportarsi come la sorella, e a non cedere con tanta facilità. Questo, riteneva, era l’unico sistema per avere la meglio su una persona tanto presuntuosa quanto Valente le dava l’idea di essere. Così sicuro che, allo schioccar di due dita, qualsiasi femmina gli sarebbe caduta ai piedi, aveva bisogno che qualcuno lo rimettesse al suo posto. «La lasci sola tutte le sere, povera donna! Per che cosa? Per venire qui e attendere che io accenda una candela!». «Non dirmi che non ti dà piacere saperlo. L’idea che io sia qui e ti aspetti ti manda in estasi, donna bugiarda e meschina!». Bianca amava quelle schermaglie e le prolungò più di quanto lei stessa avrebbe voluto. Voleva assicurarsi che l’uomo la desiderasse in modo insopportabile, pensando che, se non avesse ceduto in fretta come Beatrice, sarebbe apparsa diversa ai suoi occhi, più importante. Non si rendeva conto che per Valente il tempo non era rilevante: più difficoltosa era la conquista, più ne avrebbe tratto

soddisfazione, senza che questo comportasse, da parte sua, nessuna forma di coinvolgimento emotivo. Il sentimentalismo non faceva parte della sua contorta personalità. Aveva desiderato Beatrice dall’istante in cui l’aveva vista, e così Bianca. L’una era stata sua, e ora lo era fin troppo, essendo sua moglie. L’altra lo tentava come una vera civetta e lui adorava quel genere di gioco perverso. La determinazione di Bianca era poca cosa. Prima o poi, l’attrazione per l’uomo e il desiderio di dimostrare a se stessa di poter sottrarlo alla sorella, di essere la preferita, l’avrebbe fatta capitolare. Valente ne era fin troppo consapevole. E così fu, in effetti, ed egli poté infine godersi anche la seconda delle sorelle Sberze, come ormai da lungo tempo bramava. Quasi gli dispiacque quando alla fine, dopo qualche mese di piacevoli ma inconcludenti incontri, lei cedette. Tuttavia Bianca si dimostrò un boccone assai più prelibato di Beatrice e Valente ne fu sorpreso. Per nulla remissiva, si dimostrava lunatica e fantasiosa anche nell’amore e persino per lui, uomo dalle numerose e variegate esperienze, rappresentava una continua fonte di piacevoli scoperte, nonostante l’avesse trovata vergine. «È peggiorato con il tempo, anziché migliorare. Speravo che, pian piano, sarei riuscita a persuaderlo a trascorrere un po’ più di tempo con me, in casa». Bianca aveva iniziato a provare un macabro piacere nel fare visita più spesso alla sorella, negli ultimi mesi. In parte ciò era motivato dalla segreta speranza di incontrarsi con il suo amante sotto il tetto che condivideva con la moglie, ma in larga misura era dovuto al gusto perverso che le dava sentire le lamentele di Beatrice e sapere di esserne la causa. In segreto gioiva, lei era a conoscenza del motivo della maggiore indifferenza di Valente e Beatrice no. Non si spiegava ancora come le fossero nati quei sentimenti malsani in cuore, ma le loro radici erano profonde e lei non riusciva a estirparli, per quanto provasse. Perciò aveva deciso di assecondarli, anziché combatterli, e aveva scoperto che le davano una felicità sottile e prima sconosciuta. Talvolta si domandava come potesse l’amore per una sorella non competere minimamente con il desiderio carnale per un uomo, ma non trovava risposta. «Forse dovresti essere più gentile con lui, più affettuosa» suggerì un giorno all’afflitta sorella, con sguardo complice e ammiccante, per dare a intendere il significato recondito di quelle parole.

«Bianca! Cosa dici! Sono sua moglie, dovrebbe essere lui a cercarmi, non io». «Con questo ragionamento, non otterrai mai nulla. Finirà che lui si stancherà della tua freddezza e si troverà qualcun’altra». Bianca si pentì delle sue frasi crudeli non appena scorse le lacrime spuntare negli occhi della sorella. Avrebbe voluto rimangiarsele, colta da un momento di comione, ma oramai erano dette. «In realtà» mormorò Beatrice, trattenendo a stento un singhiozzo, «io temo che lui veda già qualcun’altra. Fa sempre così tardi la sera!». «Su, non dire stupidaggini! Sono sicura che a il tempo in qualche locale, con gli amici uomini, a bere e fumare come tutti!». «Non mi sbaglio, Bianca! Ho persino trovato dei capelli tra gli abiti! Capelli di donna!». «Ti sei messa a frugare nei suoi vestiti? Non avete dei domestici per questo?». «Avevo bisogno di sapere! Lui non mi cerca quasi mai. Anzi, direi proprio mai. Io vorrei dei figli, ma così è impossibile!». «Vedi che ho ragione? Devi essere più disponibile, anziché aspettare le sue iniziative» insistette Bianca, sadica. Beatrice scosse la testa più volte, come a voler scacciare il pensiero di qualcosa che aveva più volte cercato di fare, senza trovare il coraggio. In quel momento Valente entrò a sorpresa nella stanza. «Signore», salutò con garbo dopo un istante di esitazione, sfoggiando la consueta galanteria. «Me ne stavo andando», annunciò Bianca, alzandosi in piedi e rassettandosi meccanicamente la gonna. «No, non per colpa mia, cara cognata. Rimanete». «Vorrei chiedere a Bianca di fermarsi a cena, se per voi non è un problema»,

intervenne Beatrice, poggiando una mano sul braccio del marito, come a volerlo trattenere, «così almeno non dovrò stare sola, se voi uscite come vostro solito». Il tono risentito dell’ultima affermazione non sfuggì a Valente, che strinse gli occhi. «A dire il vero, mia cara, questa sera pensavo di trattenermi. E sarò ben lieto se vostra sorella ci farà compagnia. Sarà una piacevole serata in famiglia». Ogni frase era piena di malizia e doppi sensi di cui solo Bianca poteva godere appieno. Essa dunque si rimise a sedere. Beatrice si gettò a sua volta su una sedia, mentre alcuni nuovi pensieri si facevano largo nella sua testolina. Per quale motivo il marito cenava a casa? Era un evento davvero raro. Di solito, anche quando si degnava di non uscire, si faceva servire qualcosa di leggero in camera, adducendo un malessere. La presenza di Bianca pareva averlo reso particolarmente socievole. Durante la cena, Beatrice non poté fare a meno di notare quanto il marito fosse ciarliero e di compagnia. Lo osservò scherzare con la sorella e degnò persino lei di qualche battuta. Pareva un pavone che gonfiasse la sua bella coda per mostrarla a tutto il pollaio. Del resto anche Bianca era sorridente e incline al riso, tanto che Beatrice sospettava stesse esagerando con il vino. Notò un paio di occhiate fin troppo intense che lei scoccava a suo marito. Uno, due, tre, quattro secondi. Troppo a lungo per fissare l’uomo di un’altra. L’uomo di sua sorella. Suo cognato. Quando salutò Bianca, Beatrice si rimproverò tra sé. Come poteva avere dei dubbi? Fin da bambine erano state inseparabili, in pratica una cosa sola. Non poteva sospettare di lei, era immorale persino il pensiero. La gelosia nei confronti di Valente si stava facendo eccessiva, sfiorando la paranoia. Valente era tronfio e soddisfatto come un gallo. La mogliettina e la dolce e calda cognata sedute alla stessa tavola, sole con lui. L’una ingenua e insoddisfatta, l’altra ammiccante e sfacciata. Si sentiva un re. Le aveva entrambe per sé. Dell’una non gli interessava molto, ma dell’altra ancora non era riuscito a saziarsi. Bianca, dal canto suo, era sorpresa dalla sfacciataggine di Valente. Non avrebbe mai immaginato che si trattenesse con loro e che, soprattutto, si dimostrasse così

esplicito. Sotto il tavolo, aveva più volte allungato il piede per toccare il suo e lei non aveva potuto trattenersi dal lanciargli qualche occhiata di ammonimento che però era forse stata fraintesa. Se da un lato provava una spiacevole sensazione di colpevolezza verso la fiduciosa sorella, dall’altro l’attrazione che sentiva per quell’uomo era irrefrenabile. Il fatto che fosse il marito di Beatrice non faceva che esaltare il desiderio. Tutto ciò la faceva sentire una persona malvagia. Un’ombra di senso di colpa la marcava stretta. Ma, in fondo, non le importava così tanto. Era una sensazione spiacevole, ma con cui poteva convivere.

PARTE SECONDA

Voci narranti: Bianca, Beatrice, Vittorina, Valente

1. BEATRICE

Un’altra serata trascorsa a fissare fuori dalla finestra. Un’altra notte sola, nella mia stanza, ad attendere chi non sarebbe mai arrivato. Dopo più di due anni di matrimonio, ero allo stremo delle forze. Mi spostai con movimenti pigri davanti alla pettineuse, mi sedetti e guardai l’immagine che mi rimandava lo specchio. Ero sciupata, apparivo assai più vecchia della mia età. La pelle spenta, i capelli spettinati. Come mi ero ridotta così? Ricordavo fin troppo bene gli occhi con cui mi guardava Valente prima che ci sposassimo. Sembrava volesse mangiarmi in un boccone. Ora nei suoi sguardi potevo leggere solo indifferenza e, troppo spesso, persino disprezzo. Era forse colpa mia? Non mi ero mantenuta desiderabile e attraente? Nonostante tutto non ero così male, valutai. Con un moto di stizza, gettai lontano una spazzola intarsiata. Avevo tutto: una splendida casa, vestiti lussuosi, cameriere. Vivevo come una signora e mi ci ero abituata in un tempo fin troppo breve. Avevo dimenticato in fretta la semplice ma dignitosa miseria in cui avevo sempre vissuto a casa dei miei genitori. Ero divenuta incurante alla ricchezza in cui ero immersa. Mi ero fatta acida e insopportabile, persino mia sorella Bianca non faceva che ripetermelo quando mi veniva a trovare. Aggrottai la fronte al pensiero del suo volto sorridente. Nonostante non godesse dei miei privilegi, era tanto bella da far male. Dopo che me n’ero andata di casa, lei sembrava essersi fatta più donna, più provocante, più sensuale. Avevamo perso l’antica confidenza, e supponevo che fosse dovuto al fatto che non vivevamo più insieme, non condividevamo più la stessa camera da letto, gli

stessi pensieri, le stesse preoccupazioni. In ogni caso, non mi sentivo compresa da lei. I nostri stili di vita erano divenuti diametralmente opposti. Quando le parlavo delle cose che più mi angustiavano, e mi rendevo conto che i miei discorsi erano sempre gli stessi, lei mi ascoltava con sufficienza, per poi punirmi con qualche frase pungente, «ma non vedi quanto sei fortunata?». Già. Fortunata. Ero ormai sicura che Valente frequentasse altre donne. Mi ero ridotta a spiarlo, ma, anche dopo averne avuto conferma, cosa avrei dovuto fare? L’avevo visto lanciare sguardi concupiscenti persino alla mia cameriera, Violetta. Una sera udii dei rumori sospetti provenire dalla sua stanza da letto. Mi avvicinai guardinga e poggiai l’orecchio sulla porta, in silenzio. Fu allora che fugai ogni dubbio. «Ti dico che era con Violetta, la cameriera». «Non può essere. Sono sicura che ti sbagli, Beatrice». «Ne sono certa. Li ho sentiti!». «No, no. Valente non ti farebbe mai una cosa del genere!». Quando decisi di parlarne con Bianca, che comunque rimaneva l’unica persona con cui avessi una confidenza tale da poter trattare argomenti tanto intimi, lei reagì con veemenza. «Te la prendi più di quanto abbia fatto io stessa» le dissi. Si alzò in piedi e iniziò a eggiare nervosa per la stanza. Il volto si era fatto rosso, e il tono di voce era così acuto da non lasciar dubbi su quanto fosse adirata. Fu in quel momento che i sospetti su di lei si fecero concreti. «Possibile che tu abbia tanto a cuore la dignità di tua sorella?» chiesi rivolta più che altro a me stessa. Sembrò rendersi conto di aver esagerato e sorrise di un sorriso falso, senza che gli occhi e i gesti assecondassero l’apparente tranquillità che impose al viso.

«Certo che ho a cuore la tua dignità, ma senza dubbio ho ancor più a cuore la tua felicità. Non posso rimanere indifferente, se mia sorella viene offesa e questo la fa star male». Tornai a fissarla negli occhi, come a volerne sondare i pensieri. Quel suo tentativo di riparare diede solo maggior adito ai miei presentimenti. «In ogni caso, non ha importanza. Finché è la cameriera, che posso farci? Un uomo è sempre un uomo» sentenziai, cercando di apparire convincente. «Perché, se fosse un’altra, cosa cambierebbe?». «Dipenderebbe tutto da chi fosse quest’altra». La scrutai ancora, ma non tradì emozioni nuove. Vari episodi mi travolsero all’improvviso, ripescati dalla memoria in modo casuale, mentre ancora osservavo Bianca, cercando di intuire in lei un segnale di debolezza. Ricordai sguardi sottesi di significati, minimi gesti, mani che si sfioravano come per errore. Dovevo dunque rivolgere la gelosia che mi logorava verso la mia stessa sorella? Non volevo crederci. Qualche giorno più tardi, andai a trovare mia madre. Era un evento raro e insolito, non amavo arrampicarmi alla vecchia contrada perché mi ricordava qual era la mia condizione precedente, da dove venivo, quali erano le mie scomode origini. Lei stessa si meravigliò, vedendomi arrivare. «Che fai qui?» esclamò burbera. Non mi lasciai scoraggiare, ero giunta con propositi vendicativi che coltivavo in segreto da qualche giorno. Dovevo salvare il mio matrimonio dalla vergogna in cui rischiava di sprofondare, trascinandomi con sé. «Beatrice! Che piacere! Come mai quassù?». Angela si corresse dall’iniziale indelicatezza dimostrata, «ma che bella

sorpresa!». «Madre, solo una visita di cortesia. Era da molto che non tornavo nella mia vecchia casa». «Tua sorella non c’è. L’ho mandata da Vittorina Valle per certe commissioni». «Non importa. Avevo piacere di parlare con voi, da sole». «C’è forse qualche bella notizia?». Il suo sorriso si fece ampio. Da tempo sapevo che si chiedeva il motivo per cui non avessi ancora concepito un figlio. Intuivo che temeva che io, come era stato per lei anni prima, avessi difficoltà nel procreare. In realtà, non potevo dire se fosse così, perché i tentativi erano stati troppo pochi per stabilire se avessi o meno problemi del genere. «No, no. Sono preoccupata per Bianca e ne volevo discutere con voi». «Bianca? A me sembra tutto a posto. Anzi, è persino più servizievole e meno ragazzaccia. Sarà finalmente diventata adulta anche lei, con un certo ritardo, forse!». «Io penso ci sia dell’altro». «Che intendi?». «Credo che Bianca si veda con un uomo». «Non essere ridicola, Beatrice! Tua sorella? Ma se le dico da mesi di trovarsi un bravo ragazzo da sposare!». «Forse non si è trovata un bravo ragazzo da sposare». «Non capisco». «Io penso», mi feci più vicina a lei, abbassando la voce, «che frequenti qualcuno di nascosto da voi. La sera, la notte». «Sarebbe sconveniente! Come puoi insinuare una cosa del genere su tua sorella?».

Mia madre era allibita e sull’orlo di adirarsi con me per l’insolenza, perciò mi affrettai a trarmi in salvo dalla sua ira affermando: «Lo dico per il suo bene. So che sarebbe sconveniente, per questo vorrei che interveniste». Avevo sferrato il mio attacco. Mi sentivo un’infame, ma, mi giustificavo con me stessa, lo facevo per impedirle di causare un danno maggiore di quello che forse aveva già cagionato. Il fine era nobile: dovevo salvare il mio già traballante matrimonio. Sapevo che nostra madre avrebbe riflettuto sulla faccenda e non avrebbe lasciato correre le mie accuse, per quanto le trovasse indegne. Tuttavia tornai a casa solo vagamente soddisfatta.

2. BIANCA

«La cameriera! Mi fai davvero schifo!» urlai contro Valente, agitando le braccia. Sapevo quanto odiasse le scenate isteriche, ma non potei trattenermi. La rabbia che mi attanagliava dopo l’ultima conversazione con mia sorella non mi lasciava scampo. Possibile che quello stupido, con cui mi ero invischiata, non si accontentasse di averci entrambe? Doveva intrattenersi anche con altre donne? Non sapevo quanto lontana ero dalla verità, quanto poco egli avesse a cuore le sorti mie, di Beatrice e anche di quella sciocca di Violetta. «Bianca, mia cara, non ho mai creduto che la nostra fosse una relazione esclusiva», alzò un sopracciglio, atteggiando il viso in un’espressione che conoscevo bene, «soprattutto perché sai che sono sposato. Con tua sorella». «Lo so benissimo. Mi auguravo che tu ti accontentassi!». Rise. Di una risata cattiva, che trovai infinitamente crudele in un momento come quello. Mi tormentavo con nervosismo le mani, mentre camminavo avanti e indietro per la sala da pranzo. Valente se ne rimaneva sprofondato tranquillo nella sua poltrona, fumando pigro la pipa. Presi del tempo, nella speranza che riflettesse e si ravvedesse. Ciò che gli avevo rivelato prima di parlare di Violetta avrebbe dovuto scuoterlo, almeno mi auguravo. «Hai capito quello che ti ho detto?». «Come potrei non aver capito? Mi stai urlando nelle orecchie!» aggiunse con stoicismo, ignorando il mio sguardo allarmato, «del resto, era quasi inevitabile, prima o poi». «La cosa non ti preoccupa in alcun modo? Cosa credi che dovrei fare?».

Fece un profondo sospiro di stanchezza, che mi mandò ancor più su tutte le furie. Pareva che la mia presenza lo infastidisse. Eppure ricordavo numerosi momenti in cui era stato ben felice di trovarsi da solo con me. Mia sorella era in visita da nostra madre quel giorno. Non appena l’avevo vista arrivare in contrada, camminando a fatica lungo una strada cui non era più avvezza, mi ero bloccata e mi ero arrischiata a scendere in città, ignorando l’ordine di fare delle commissioni per la vecchia signora Valle. Volevo parlare con lui in privato. «Puoi fare come credi, Beatrice». Stavo per lanciare un altro grido irato, ma lui si corresse senza che ce ne fosse bisogno, «Bianca, scusa, Bianca. Una stupida svista». «Ci manca solo che tu ci confonda! È già abbastanza imbarazzante così!» non potei trattenermi dal precisare. Mi lasciai cadere su una sedia che avevo sistemato dritto di fronte a lui e lo fissai inquisitoria. «Se volessi, credo che in qualche contrada troverei una vecchia disposta a provvedere, in un modo o nell’altro. Basta pagare. Ma non sarebbe un problema per te, giusto? In fondo il guaio l’abbiamo combinato assieme». «E la vuoi trovare oppure no?». Non seppi rimanere seduta e balzai di nuovo in piedi, rapida come un gatto. «Il punto non è se lo voglio io, ma se lo vuoi tu!». Aspettavo un figlio dal marito di mia sorella. Me ne ero resa conto da poco e quel giorno avevo comunicato la notizia a Valente. La sua reazione era stata ben diversa da quella che mi aspettavo. Avrei capito se mi avesse fatto una sfuriata, se mi avesse chiesto di liberarmi del bambino come io stessa avevo suggerito per provocazione. Avrei anche capito se mi avesse cacciata adirato. Nella mia mente speravo che mi dicesse che avrebbe ripudiato mia sorella per stare con me e crescere nostro figlio, ma sapevo che era un desiderio irrealizzabile. A quei tempi, un matrimonio era per sempre, al di là di qualsiasi difficoltà o disaccordo. Ma l’indifferenza che dovevo affrontare mi impietriva. Valente pareva non avere interesse per quello che intendevo fare. Per lui non faceva differenza che avessi quel bambino oppure no.

«Forse dovrei sposarmi con un bravo ragazzo della contrada. Uno dei figli di Vittorina Valle magari, giusto per sistemarmi. Dovrei dare retta a quella vecchiaccia! Non fa che tessere le lodi di quei suoi omaccioni barbuti e puzzolenti» suggerii, nella speranza che lui si opponesse con forza all’ipotesi. «Già. Forse» rispose invece, continuando ad aspirare con piacere il tabacco della pipa, senza guardarmi nemmeno in viso. «Certo, poi non sarei più così libera di vederti la sera o la notte. Dovrei starmene a casa». Neppure questa mia ennesima provocazione sortì alcun effetto. Non potei trattenere oltre le lacrime, che presero a sgorgare senza freno. Credo fosse la prima volta in cui Valente mi vedeva piangere. Con lui avevo mostrato il mio lato più forte, la Bianca dura, risoluta e priva di inibizioni. Sapevo che di me gli erano sempre piaciute queste caratteristiche e adesso, nuda in tutta la mia vulnerabilità, sentivo che stavo decadendo ai suoi occhi. Dopo quasi due anni in cui la nostra relazione clandestina si era fatta sempre più intensa, d’un tratto gli leggevo sul volto il desiderio di allontanarsi. Eppure avevo giocato tutte le mie carte, l’avevo avvinto con il calore del mio corpo e con l’audacia dei miei abbracci. Ma lui pareva non conservarne memoria. Sentii una forte rabbia crescermi nel petto. Nonostante tutto quello che c’era fra noi, quell’uomo falso e arrogante avrebbe continuato a vivere con mia sorella, sua moglie, e io me la sarei dovuta cavare da sola. Non era giusto. Non potevo lasciare che le cose andassero così. Il problema era che non riuscivo a rinunciare a lui. Il solo pensiero mi era intollerabile, mi faceva torcere le budella. Valente era per me una malattia, mi corrodeva l’anima. «Devo andare, ora». Era tardi, non potevo giustificare oltre la mia assenza. «D’accordo». «Ti vedrò stasera?». Nonostante tutto, mi ostinavo a umiliarmi di fronte a lui.

«D’accordo» ripeté incurante. Non sapevo ancora che, quella sera, avrei fatto meglio a rimanere nella mia stanza. Quando mi calai dalla finestra, per poco non mi prese un infarto perché mi trovai davanti mia madre in persona, ben nascosta nel buio e con un ampio fazzoletto da notte in testa. Aveva negli occhi uno sguardo duro che non le avevo mai visto. «Madre», borbottai, incredula. «Bianca. Avevi bisogno d’aria? O fai un po’ di esercizio notturno?». Non sapevo cosa rispondere. Percepii dei movimenti fuori campo e potei solo intuire la presenza di Valente in un’ombra che sgattaiolava via alla svelta. Doveva aver sentito la voce di Angela e aver capito che qualcosa era andato storto. Sentii una fitta allo stomaco al pensiero di come l’imprevisto non gli fosse sgradito, anzi, gli forniva l’occasione per svincolarsi da un appuntamento fastidioso. «Voglio sapere con chi ti devi incontrare». «Con nessuno, madre! Cosa andate a pensare?». «Non prendermi in giro. E ringrazia che tuo padre non è qui con me. Stai certa che non sarebbe altrettanto tenero nei tuoi confronti». «Che novità! Sarà all’osteria a raccontare qualcuna delle sue storielle!». «Non spetta a te discutere le abitudini di tuo padre. Un po’ di rispetto, ragazza!». Incrociò le braccia al petto. Sapevo che la discussione era solo all’inizio. Disperata, cercavo un modo per cavarmela il più degnamente possibile. «Comunque, non cambiare discorso. Entra con me in cucina e dimmi chi ti aspettava questa sera. E chissà quante altre sere». La seguii remissiva, mentre nella mia testa elaboravo una possibile scusa. D’un tratto, l’illuminazione. Già più tranquilla grazie alla pensata, mi sedetti di fronte a lei.

«Ebbene?». «Madre, mi vergogno molto di quello che è successo. Avrei dovuto parlarvene prima. Mi vedo con Quartilio Valle» rivelai, abbassando gli occhi per nascondere la bugia più che per pudore. In un eccesso di fantasia, la cara Vittorina Valle aveva identificato con i nomi l’ordine di nascita dei suoi meravigliosi figlioletti: Primo, Secondino, Terziano e Quartilio. Avevo scelto l’ultimo perché, nonostante fosse vecchio per me, se non altro non era decrepito e la faccenda sarebbe parsa più credibile. Angela esibì un’espressione poco convinta. Mi guardò fisso per qualche secondo prima di lanciarsi in una sonora risata. «Dimmi che stai scherzando!» gracchiò tra le lacrime che le sfuggivano per il gran ridere. «È così, madre!». «Allora sei assai più stupida di quanto pensassi! Potresti scegliere uno qualsiasi dei ragazzi della contrada e tu vedi di nascosto quel tipo?». Non capivo se mi credeva o meno. «Lui è molto dolce, non è sciocco come quei ragazzini della mia età», cercai di giustificarmi. «Andiamo! E per quale motivo, sentiamo, avresti fatto le cose di nascosto? Ti rendi conto che la vecchia Vittorina avrebbe voluto affibbiare a te o a tua sorella uno dei suoi omaccioni fin da quando siete venute al mondo?». «Proprio per questo, madre! Volevo, anzi, volevamo evitare che qualcuno sapesse perché sarebbe parsa una cosa strana! Cercavamo di evitare pressioni». Intuivo da me che le scuse non reggevano. Mia madre non era una sprovveduta. Smise di ridere e mi squadrò pensosa. Evidentemente, era decisa a vedere fino a che punto ero disposta ad arrivare con la mia menzogna.

«Benissimo. Ora che ti ho scoperta, non vedo ragione per continuare questa farsa. Domani stesso andremo da Vittorina Valle e le parleremo della questione. Immagino che vorrai sposare il tuo amato, visto che ti sei compromessa ando la notte da sola con lui». «Gradirei che la faccenda rimanesse riservata. Noi preferiremmo aspettare ancora un po’ per il matrimonio». «Non essere stupida. Lui ha ato da un pezzo l’età per sposarsi. E poi, quando tuo padre verrà a sapere di questa tua ennesima bravata, non credo avrai tanta scelta». «Mio padre?». «Non penserai, tesoro, che io possa tacergli qualcosa, vero? E come sai, una volta detto a lui lo sapranno tutti e con dovizia di particolari, veri o falsi che siano». Mi ero cacciata in un bel pasticcio. Quando il giorno seguente sarei stata smascherata a casa della signora Valle, mia madre non avrebbe più riso tanto. E avevo in serbo anche un’altra sorpresina per la mia famiglia. Un nipotino, frutto di uno strano rapporto incestuoso che non sarebbe stato perdonato volentieri. Un nipotino che era sì desiderato, ma che sarebbe stato partorito dalla sorella sbagliata. Tutto sommato, in quel momento, l’ipotesi di sposare il placido Quartilio Valle mi sembrò la meno temibile delle prospettive. Mi presentai all’uscio di Vittorina Valle a metà mattina, accompagnata da mia madre che mi reggeva per il gomito quasi a volermi trascinare. Avevo ottenuto che mettessimo a conoscenza mio padre del misfatto solo dopo averne parlato con l’anziana donna. Quando ci aprì, impiegò qualche secondo a capire chi fossimo e fu necessario salutarla perché riconoscesse il timbro delle voci. Era evidente che la sua vista era peggiorata e per lei eravamo solo una macchia indistinta immersa nella luce del giorno. «Mia figlia vuole confessarvi qualcosa, Vittorina» esordì mia madre, entrando e chiudendosi la porta alle spalle. «Beatrice, cara! Come stai? Come sta quel tuo marito, quel signorotto? Avete bambini? L’avevo detto io che avresti dovuto sposare uno dei miei ragazzi, uno del tuo paese».

«No, no, Vittorina. Si tratta di Bianca. L’altra figlia». «Ah. Bianca». Il tono lasciava a intendere che non apprezzava la mia presenza tanto quanto avrebbe gradito quella di mia sorella. Non le ero mai piaciuta perché non avevo dimostrato di possedere quelle doti preziose in una donna, come l’arte del ricamo, del cucito e simili amenità che in tutta onestà disdegnavo. Visto che non aprivo bocca, Angela prese la parola in mia vece. «La mia Bianca sostiene di intrattenere una, come dire, relazione di amicizia particolare con uno dei vostri figli, il più giovane, Quartilio». Vidi la vecchia vacillare sulle gambette scheletriche. Sul volto raggrinzito si alternarono in sequenza diverse emozioni. Sorpresa. Stupore. Entusiasmo. Schifo. Incredulità. Non potei trattenermi e soffocai una risata che si risolse in uno strano sbuffo d’aria che mi sfuggì dalle labbra e che mi costò una gomitata nel fianco da parte di mia madre. «Io non credo, non so …», borbottava intanto la signora Valle, indecisa su quale dei sentimenti lasciar trapelare. Doveva forse essere felice che almeno uno dei suoi pargoli avesse abbandonato le sue gonne per attaccarsi a quelle di un’altra? O forse dove rammaricarsi perché, tra tutte le donne del paese, aveva scelto quella che era da sempre considerata un maschiaccio? O ancora, doveva rallegrarsi perché si trattava comunque di una bella ragazza giovane, ancora in forze per darle dei nipoti, cosa in cui non confidava più da tempo? In quel momento Quartilio entrò nella stanza, togliendola dall’imbarazzo. Mi resi conto che si trattava di una fortuita casualità, l’uomo si era ferito un dito con qualche attrezzo da lavoro nei campi ed era corso da mamma a farsi medicare. Rimase anch’egli basito vedendoci, e si fermò sulla soglia mentre la ferita gocciolava sangue sulla palladiana lisa della cucina. «Quando non si dorme abbastanza», ruppe il silenzio Angela con la consueta saggezza popolare, «si è distratti di giorno. Bisogna fare attenzione a non farsi male lavorando».

Quartilio la guardò con occhi vacui, senza capire. Dovevo fare qualcosa. La scena cominciava ad assumere connotazioni assurde. «Quartilio, sanno tutto. Ho confessato» esclamai con tutta la sfacciataggine di cui ero capace. Senza dubbio a meravigliarsi più di tutti i presenti fu Angela. Non mi credeva, lo sapevo fin troppo bene. Si era spinta a quel segno solo per svergognarmi e costringermi ad ammettere la menzogna. Perciò la mia audacia la lasciava interdetta. Quartilio, dal canto suo, assunse l’espressione più ottusa che io avessi mai visto dipingersi sul viso di una persona. Come avevo sperato, però, non proferì parola. Era troppo insulso persino per ribattere. Non negò, perché con buona probabilità non aveva idea di cosa stessi blaterando. Vittorina Valle, nel frattempo, quasi meccanicamente, come fosse un’azione cui era avvezza da tempo immemore, aveva iniziato a medicare a tastoni il dito teso del figlio. Piccola e secca, pareva uno gnomo davanti a quell’omone scuro e sporco di terra, con la mano ferita protesa come un bambino. Non appena il lavoro fu finito, lui asserì placido, come se nulla fosse accaduto: «Torno al campo», e uscì così com’era entrato. Il suo silenzio fu interpretato come un assenso, invece che come la stoltezza che era. «Ottimo. Organizzeremo le nozze» decretò quindi mia madre. La signora Valle a quel punto fece un vigoroso cenno di approvazione col capo. Supposi che avesse deciso di non lasciarsi scappare la ghiotta occasione che le si offriva e di far entrare una donna in casa, prima della sua dipartita, cosicché qualcun altro si prendesse la briga di curare le ferite dei ragazzoni.

3. BEATRICE

Quando seppi che Bianca avrebbe sposato Quartilio Valle, divenni pallida come un cencio. Cosa aveva combinato ancora quella pazza di mia sorella? E, soprattutto, che ruolo aveva giocato ciò che avevo detto a nostra madre nel farle prendere una decisione simile? La notizia mi giunse per bocca di Angela, che si degnò di scendere dal monte per comunicarmela ufficialmente. Si accorse di quanto l’annuncio mi avesse sconvolta, ma alzò un sopracciglio e aggiunse: «Sono curiosa di vedere sino a che punto si spingerà tua sorella con le sue menzogne. Assomiglia al padre più di quanto sospettassi». «Cosa intendente, madre?». «Non penserai che sia vero! Che si incontrasse con quel bruto di Quartilio Valle? Ma non siamo ridicoli!». «E che senso avrebbe assecondarla?». «Voglio capire quanto è disposta a proteggere l’uomo con cui si vede davvero, se ce n’è uno. Non penso sia così folle da arrivare a sposare un altro, e non un altro qualsiasi, uno dei ragazzoni Valle! La sua fantasia non ha confini!». «Perciò è tutta una presa in giro?». «Mi spiace per la povera Vittorina. Dovrei forse spiegarle che non se ne farà nulla. Ma ha fatto una faccia quando le ho parlato delle nozze! Avresti dovuto vederla!». «Madre, io penso che sia un’azione infame lasciar credere a quella povera vecchia, a suo figlio e a tutta la contrada che quei due si sposeranno. È una crudeltà di cui non vi ritengo capace». «Non attribuirmi colpe non mie. È tua sorella che ha combinato questo pasticcio. Io non le credo, ma non ho prove per smentirla. Perciò mi comporto come farebbe qualsiasi genitore: organizzo il matrimonio. Se c’è un motivo per cui non

si debba celebrare, bene, dimmelo tu. O che me lo dica Bianca». Mi guardò per capire se nascondessi qualcosa. Scossi la testa con un vigore eccessivo. «Non guardate me. Io non so nulla. Tutto questo mi è nuovo». Nel mentire ero arrossita. Mia madre non era affatto sciocca, come aveva già dimostrato in ato. «In realtà», precisò, «sei stata tu a dare il via a questa faccenda. Se non mi avessi suggerito di prestare attenzione ai movimenti di tua sorella, non mi sarei accorta di nulla». Mi stava provocando, ma non dovevo cedere. «Sì, certo. A parte questo, non so altro. I miei erano solo sospetti». «È alquanto strano che a te, che non vivi nemmeno con noi, siano sorti dei sospetti e che io invece non mi sia accorta di niente» sentenziò per chiudere il discorso. Quando mia madre se ne andò, oscillavo in bilico tra l’ilarità e la disperazione. Per una volta, ero io che avevo combinato un bello scherzetto alla mia dolce sorellina. Se non avessi avuto buoni motivi per credere che lei avesse una relazione con mio marito, la faccenda sarebbe stata proprio divertente. Ma, tutto sommato, non lo era. Gli eventi si erano spinti troppo oltre perché potessi far finta di nulla. Quella sera avrei parlato con Valente. Quando rientrò, ero già a letto. Non dormivo, stavo distesa a fissare il soffitto buio, le mani incrociate sul petto, persa nei pensieri. Lo ascoltai mentre si lavava, si svestiva, udii il fruscio delle coperte che lo accoglievano. Mi alzai e raggiunsi la porta, che aprii con decisione. Non chiudeva mai a chiave, non ce n’era motivo, perché non era mai accaduto prima che entrassi nella sua stanza in quel modo. Si mise a sedere di colpo e dal gridolino femmineo che emise, capii di averlo spaventato. «Beatrice! Che succede?» chiese non appena distinse il mio profilo.

«Ho bisogno di parlare con te». «Ora?». «Se fossi tornato prima, avremmo parlato prima». Mi meravigliai io stessa del mio secco tono di rimprovero, non mi credevo capace di tanta risolutezza. Lui non aggiunse altro e mi sentii autorizzata a entrare e a sedermi ai piedi del letto, guardandolo nel buio attutito da deboli luci notturne. «Bianca sta per sposarsi». Non riuscii a distinguere la sua espressione all’annuncio. Tacque per qualche istante di troppo. «Con chi?». «Uno dei figli di Vittorina Valle». «Bene. Sono lieto della notizia». «Lieto? Come sarebbe lieto?». «Sarebbe che mi fa piacere per lei. Pare che abbia trovato la persona giusta. Finalmente». «La persona giusta? Quel tizio disgustoso e stupido? Ma l’hai mai visto?». «Chi siamo noi per giudicare?». «Tu sei falso! Vuoi forse dirmi», ero giunta al limite massimo di sopportazione, «che nulla ti lega a mia sorella?». «Come, nulla? È mia cognata, le sono affezionato, è ovvio. Per questo sono felice che si sposi». «Cognata? Affezionato? Io credo che ci sia ben di più!». Stringevo così forte le coperte tra le dita che le nocche mi dolevano e avevo lasciato scoperto Valente fin sotto la cintola. La sua calma era, come al solito,

irritante oltre ogni dire. «Cosa intendi, mia cara?». «Vuoi forse negare che vai a letto con lei? Non è forse con te che quella sgualdrina si incontra la notte? Adoperando lo stesso metodo che usavamo noi due, la candela! Siete stati così prevedibili!». «Sei pazza! Non c’è nulla di vero in quello che dici!». «Neghi persino l’evidenza! Falso, bugiardo e ipocrita!». «Sei uscita di testa più di quanto già non fossi!». «Vorrei non averti mai sposato!». «Mi leggi nel pensiero, mio tesoro». Con questa ultima frase si distese e strattonò le coperte fin sopra le spalle, girandosi di lato in modo da non vedermi. Mi lasciò lì a piangere e sbraitare, ignorandomi. Ero sicura che in casa tutta la servitù fosse sveglia a origliare. Solo Valente non mi ascoltava, perciò esaurii presto la foga e me ne tornai, sconfitta, nella mia stanza in cui mi aggirai tutta la notte senza posa, finché l’alba non si infilò tra le cortine delle tende tese.

4. VITTORINA

«Vediamo se ho capito. Bianca Sberze? Sembra che tu ti veda con lei di notte. È così, Quartilio caro?». «No, mammina. Non mi sembra». «La cosa pare strana anche a me». «Lo ha detto lei?». «Proprio così. E non ne capisco il motivo». «Forse le piaccio». Vittorina guardò il figlio con tutta l’acutezza che la vista scarsissima le consentiva. Un uomo grande e grosso cui l’intelletto faceva difetto da sempre. Come gli altri fratelli. Buoni e onesti ma irrimediabilmente stupidi. Per quanto li amasse in maniera viscerale, non poteva negarlo, almeno non a se stessa. «Già, forse». Rimase pensierosa per qualche istante. Angela Sberze avrebbe dovuto spiegarle un po’ di cose, a partire dalla strana commedia di quel pomeriggio. Sarebbe rimasta a vedere che cosa sarebbe accaduto. Un’insolita sferzata di eccitazione nei suoi giorni di vecchia ormai prossima alla fine. «Vedremo cosa succederà» decise anche per Quartilio. «Quello che fate voi, mamma, per me va benone». Così dicendo, il condiscendente Quartilio uscì dalla cucina per prepararsi per la notte. «E speriamo di cavare qualcosa di buono da questa follia», concluse tra sé la donnina pensierosa.

5. VALENTE

«Come ti sei cacciata in questa situazione? Cosa pensi di fare adesso?». Bianca si guardava attorno disperata, cercando di darmi una spiegazione che convincesse me, ma soprattutto lei stessa. La vedevo sulle spine e, devo confessare, ciò mi causava un certo piacere. Lei e sua sorella mi avevano invischiato davvero in una bella confusione. Dovevo trovare il modo per uscirne con onore e senza sporcarmi troppo le mani. Questa volta avevo perso il controllo della situazione. «Cosa penso di fare? Non credi che la cosa riguardi anche te? O ti ritieni estraneo a tutta la faccenda?». Sbuffai rumorosamente. Quei gridolini da femmina isterica mi mandavano fuori dai gangheri. «Non vi sopporto più», annunciai quindi con tutta la calma di cui ero capace, «né te, né quella tua pazza sorella che mi sono sposato. Perciò quello che decidi per me va bene, o meglio, direi che non mi interessa affatto». La osservai con soddisfazione mentre deglutiva più volte a vuoto, come se annase per aggrapparsi al respiro. «Quindi, cerca di vedertela con Beatrice. Che tu sposi o non sposi quel buffone, non mi riguarda. L’unica cosa che so è che Beatrice è, mio malgrado, mia moglie. E temo questo non si possa cambiare. È un ostacolo, direi». «È sempre stato un ostacolo! Avresti dovuto sposare me! Hai capito? Me! Non quella stupida bacchettona! Hai sbagliato tutto!». Feci un gesto di stizza con la mano, come se volessi allontanarla. L’unico mio desiderio, in quel momento, era che lei scomparisse dalla mia vista. «Certo che ho sbagliato tutto» confermai, «il primo giorno in cui ho posato piede alla contrada e il primo sguardo su voi Sberze! Mi avete rovinato la vita!».

«Noi? Ma se sei stato tu a comprometterci, prima una e poi l’altra! Sei un infame!». «Non ho compromesso nulla che non volesse essere compromesso! Beatrice non ha visto l’ora di gettarsi tra le mie braccia e tu … beh, direi che è meglio lasciar perdere l’argomento!». Così dicendo mi voltai e mi accinsi ad accendere la pipa con deliberata lentezza. «Sposa chi ti pare. Il tuo bel Quartilio, il demonio, o chiunque altro ti suggerisca la tua deliziosa testolina. Ma sparisci dalla mia vista, adesso». Ascoltai lo scalpiccio dei suoi piccoli piedi sul pavimento di legno, quel rumore di donna indispettita con cui voleva farmi capire che avrei dovuto girarmi e ascoltare quello che aveva ancora da dire. Udii persino un lieve singhiozzare, come di un gattino spaurito. Ma non mi fece pena. Finalmente, uscì. Immaginavo che avrebbe voluto confrontarsi con Beatrice, infatti la sentii aprire la porta della sua stanza. Mi colse uno spiacevole brivido di freddo, una sensazione di imminente tragedia che non poteva lasciarmi del tutto indifferente. Tuttavia, ero giunto a un punto tale di stanchezza da essere disposto ad accettare qualsiasi epilogo, soprattutto se mi avesse permesso di riappropriarmi della mia vita e della mia libertà.

6. BEATRICE

Quando capii che Bianca si stava avvicinando alla mia stanza, mi affrettai a correre verso il letto, dove mi gettai come se fossi sempre stata lì. Supina, poggiai una mano sugli occhi per dare l’idea di un forte mal di testa. In realtà avevo ascoltato l’intera conversazione, il fiato sospeso e l’orecchio incollato alla porta. Ero sconvolta. Appena la sentii entrare, lanciai un gemito di disperazione perché le fosse chiaro quanto ero affranta e distrutta nel corpo e nella mente. «Non stai piangendo sul serio!» squittì subito lei nella mia direzione. Si avvicinò e, con un gesto violento, mi scostò il braccio dal viso. Presi a piangere senza necessità di fingere e non feci alcuno sforzo per nascondere le lacrime. Mi afferrò per le spalle e mi scosse. Mi alzai, tentando di allontanarla da me. Non avevo mai visto mia sorella in preda a una tale furibonda ira. «Lasciami! Mi fai male!» gridai, mentre ancora si affannava per aggrapparsi alle mie braccia affondandovi le unghie. «Sei una debole! Non sei degna di tutto quello che hai ottenuto con questo matrimonio!». «E chi ne sarebbe degna, tu, Bianca? È la tua invidia che parla!». Le mie parole non fecero che alterarla ancora di più. Il suo volto era trasfigurato e rosso, i capelli volavano attorno al bel viso e il corpo era scosso dagli spasimi della rabbia che le scorreva nelle vene. Stava riversando contro di me tutta la frustrazione che non aveva potuto sfogare nel recente dialogo con Valente. Ne ebbi paura, in quell’istante. «È sempre stato mio! Lo sai vero? Sempre! Anche quando stava con te, era a me che pensava! Era a me che rivolgeva certe occhiate, certi sorrisi!». «Però è me che ha sposato!». «Sì, certo, perché è stato costretto! Un inganno, una trama ben ordita alle sue

spalle e alle mie!». «Cosa vuoi dire?». «Che se nostro padre non l’avesse messo alle strette, non ti avrebbe mai sposata!». Bianca mi sputò in faccia la verità. Immaginai che fosse stato Valente a rivelarle i dettagli. «E chi avrebbe sposato, te forse?». «Già, forse!». «Non credo proprio, Bianca! Non lo capisci che lui non avrebbe voluto sposare nessuna di noi, né me né tantomeno te? Avrebbe solo voluto divertirsi con entrambe!». «Menti!». «Allora perché ti tratta come ha fatto pochi minuti fa? Non mi sembrava interessato a te! Gli hai detto che stai per sposare un altro uomo!». «Porto in grembo suo figlio!». «Che cosa?». «Il bambino che tu non hai saputo dargli! A questo non può rimanere indifferente!». «Non mi sembrava così impressionato poco fa! Mi ha dato l’idea che non gliene importasse un bel niente!». Misi tutta la mia cattiveria in quelle battute che ci scambiammo gridando, il volto dell’una a pochi centimetri da quello dell’altra. Ero furiosa con lei, ma ancor più ero inviperita con il destino infausto. Possibile che io, che tanto avevo desiderato un figlio, dovessi ora sentire che mio marito l’avrebbe dato a lei? Non riuscivo a capacitarmi di come si fossero evoluti gli eventi. La sorella che avevo sempre amato, con cui ero stata tanto in sintonia,

alla quale avevo rivelato tutti i miei più intimi e segreti pensieri, era in realtà una vipera, un’infame e una traditrice. Le mie ultime parole l’avevano ferita, lo capivo dalla sua espressione addolorata. Nonostante tutto, non potei frenare un moto di pietà per lei. «Non è vero!». Mi urlò contro, mentre piccole gocce di saliva mi bagnavano il volto. Si sciolse anche lei in lacrime, ma vidi che si opponeva con tutta se stessa per non cedere, per non darmi a vedere l’intensa disperazione che provava. Mi afferrò per il colletto del vestito, strattonandomi. Ero così debole negli ultimi tempi, mentre lei mi sembrava così forte, potente e arrabbiata. Mi scosse quasi fossi uno straccio. Barcollai, stavo per perdere l’equilibrio. Feci per afferrarmi alle sue spalle per sorreggermi e lei capì subito che, se mi avesse lasciata, non sarei riuscita a rimanere in piedi. Il tessuto dell’abito che indossava mi scivolò dalle dita. Non mi sarei mai aspettata che mi fe del male. Non pensavo che la sua ira arrivasse a tanto. Mollò la presa e, con le mani poggiate sul mio petto, spinse con tutte le sue forze. Impresse in quel gesto così tanta energia, che la potei sentire scorrere dalle sue mani al mio corpo. Vorticai le braccia per qualche attimo, in una scena che in un altro contesto sarebbe parsa paradossalmente divertente. Poi rovinai sul pavimento, sbattendo per prime le natiche, da cui si irradiò un intenso dolore lungo tutta la schiena. Il collo mi si piegò all’indietro e la testa cozzò bruscamente contro lo spigolo del letto. Sentii solo una fitta acuta, lunga un secondo. Poi la vista si oscurò e sprofondai nel nero.

7. BIANCA

Quando vidi Beatrice stesa sul letto, avrei voluto strozzarla. Un’attrice, una mistificatrice. Immaginavo che avesse ascoltato la nostra conversazione, i toni erano stati troppo alti perché non si fosse accorta di nulla. La costrinsi ad alzarsi, per smascherarla. Piangeva, ma, nonostante tutto, negava che Valente fosse mio. Che avesse scelto me fin dal principio, che fosse stato costretto al matrimonio con lei. Questo atteggiamento mi mandava in bestia. Persino sapere che aspettavo il figlio di suo marito sembrava non scuoterla. Forse speravo che mi dicesse qualcosa del genere “va bene, prenditelo, è tuo”, ma lei non lo fece, anzi, cercò di smontare ogni mia convinzione. Insinuò persino che lui non avrebbe voluto nessuna delle due, se non per i suoi scopi più meschini. Avrei voluto picchiarla, causarle un dolore fisico che equiparasse il male che lei stava infliggendo a me, con la sua ostinazione nel tenersi un uomo che non le apparteneva. Ci strattonammo un po’. Vidi che annaspava, mi guardava con gli occhi imploranti di un uccellino implume che stia per volare giù dal nido. La spinsi con tutta la mia forza. Le ero fisicamente superiore e ne ero consapevole. Non aveva la mia grinta, la mia determinazione, ed era come un ramo sottile sotto le mie mani, facile a spezzarsi. La guardai cadere, rovinare a terra con quel suo sedere scheletrico. Non immaginavo certo che la testa fosse nell’esatta traiettoria dello spigolo del letto. Quando lo colpì, il cranio fece un rumore secco e inquietante. Il suo corpo sussultò appena prima di accasciarsi mollemente. Una chiazza scura si allargò tra i capelli, imbrattando il pavimento in legno. Emisi un debole sibilo, quasi uno squittio, rendendomi conto solo in quel momento di ciò che era successo. Di ciò che avevo fatto. Mossi qualche o all’indietro. Avrei voluto fuggire lontana da quel corpo adagiato a terra, quel corpo al quale avevo voluto un bene così intenso e viscerale fino a pochi mesi prima.

Mi riscossi e mi riavvicinai. Ora l’avrei aiutata ad alzarsi, le avrei medicato la ferita. Mi sarei scusata. Avremmo risolto la cosa, in qualche modo, con un po’ di civiltà. L’avrei convinta a cedere, ed entrambe avremmo potuto ricostruire le nostre vite. La mia, con Valente e il bambino. La sua, altrove. Mi chinai verso il pavimento e le poggiai una mano su una guancia. «Beatrice», chiamai. Non aprì gli occhi. Accostai il mio volto alla sua bocca. Respirava. Piano, un alito quasi impercettibile. La mia testa fece una strana evoluzione. Era viva. Eppure ero sicura che non lo fosse. No, realizzai, non avremmo risolto nulla. Si sarebbe svegliata ancora più adirata di prima, a causa di quello che le avevo fatto, e sarebbe stata ancora più ferma sulle sue posizioni. Forse Valente, accortosi di ciò che avevo combinato, mi avrebbe scacciata. Avrei dovuto davvero sposare quel bifolco montanaro, figlio della vecchia Valle, di cui in quel momento di agitazione non riuscivo neppure a rammentare il nome. Riflettei. Valente doveva aver udito la colluttazione. Sarebbe arrivato da un momento all’altro. Mi avrebbe scoperta. Mi guardai attorno, terrorizzata, gli occhi dilatati dalla consapevolezza dell’imminente rovina. Mi sollevai, raggiunsi la finestra e la aprii. Potevo farcela, decisi. Sarebbe parso un suicidio. Avrei raccontato che avevo cercato di fermarla, ma che lei si era gettata prima che potessi trattenerla. Fu una fatica immane sollevarla, nonostante fosse leggera. Ricadeva a peso morto tra le mie braccia, il sangue fluiva copioso dalla ferita e mi imbrattava tutta. Dopo avrei badato a ripulire per bene me stessa, il pavimento, il letto, la scia scarlatta che lasciava Beatrice mentre la trascinavo verso la finestra. Magari Valente mi avrebbe smascherata lo stesso. Ma certo mi sarebbe stato grato. Risolvevo così il suo problema alla radice. Lo rendevo libero. Libero di stare con me.

Avrebbe pianto per un tempo degno la moglie suicida e quindi saremo stati felici assieme. Spinta da questo pensiero, trovai la forza di issarla sul davanzale, che per mia fortuna era piuttosto basso, e di lanciarla di sotto. La camera era al primo piano, ma il corpo di mia sorella, già agonizzante, fece un volo di qualche metro per poi piombare al suolo con un tonfo attutito. Guardai giù, giaceva innaturalmente scomposta, i capelli e gli strati del vaporoso abito che sobbalzavano spostati dal vento leggero. Sbattei le palpebre. Provai un forte e improvviso dolore alla schiena, alla testa. Forse a causa dello sforzo. Poi, il buio.

8. VALENTE

Udii il rumore distinto di una lotta. «Cosa diavolo sta succedendo?» domandai rivolto a me stesso. Fumavo la pipa seduto in poltrona e non avevo alcuna voglia di alzarmi per andare a vedere. Che se la sbrigassero da sole, quelle pazze. Come avevano sempre fatto. Non volevo intromettermi nelle loro discussioni. Per me l’importante era che mi stessero lontane, entrambe. Non le sopportavo più. Non sopportavo più mia moglie. Il rumore proseguì, frammisto a grida confuse, stralci di parole cui prestavo troppa poca attenzione per afferrarne il senso. Quindi mi giunse un tonfo strano, un rumore insolito, come di qualcosa che si spezzasse d’un tratto. Sbuffai. Con calma svuotai la pipa, la pulii con attenzione e la riposi al suo posto. Mi alzai aiutandomi con le braccia. Dovevo andare a controllare, a quel punto. Sarebbe parso strano a tutti se non lo avessi fatto. In effetti, non appena uscii dalla stanza, mi si parò davanti la cameriera. «Avete sentito anche voi?» mi chiese. Era piuttosto turbata. «Sarà mia moglie che combina qualcuno dei suoi pasticci,» minimizzai, «vado a dare un’occhiata». «Vengo con voi?». «Non c’è bisogno» rifiutai secco, un po’ scocciato dalla sua invadenza. Preferivo non ci fossero testimoni a vedere quella donna che si accapigliava come una folle con la sua rivale immaginaria. Entrai nella camera. Non c’era nessuno. Aggrottai la fronte. La finestra era spalancata e le tende volteggiavano libere e spettrali. Mi avvicinai e mi sporsi.

Era là, accasciata a terra, una gamba voltata al contrario, i capelli sciolti e le braccia aperte. Aveva gli occhi chiusi. Non era caduta da molto in alto, ma era finita sulla pavimentazione di pietra che avevo fatto sistemare attorno all’edificio in modo che l’erba non arrivasse a lambire le mura di casa. Girai la testa per cercare di capire che cosa fosse accaduto, dando forse l’impressione di essere smarrito. Poi, contro ogni buon senso e ogni comprensione, mi lasciai andare a una sonora risata. Risi di gusto per un minuto buono, rumorosamente, fino a farmi venire le lacrime. Dovetti smettere quando mi accorsi che stava sopraggiungendo qualcuno sul vialetto d’ingresso, forse la cuoca che rientrava dopo alcune commissioni. Notò il corpo a terra e iniziò a correre. Non sarebbe stato piacevole se, giunta vicino a mia moglie morta, mi avesse sentito ridere. In contemporanea Violetta entrò nella camera, tralasciando ogni buona educazione, senza bussare. Le lacrime che ero riuscito nonostante tutto a produrre furono provvidenziali perché, arrestato il riso che avrei sempre potuto far are per gridolini di disperazione, mi bagnavano in maniera conveniente il viso. «Mio Dio, che succede?». Violetta si affacciò alla finestra, dalla quale mi ero scostato in fretta, e intercettò la cuoca che nel frattempo aveva raggiunto affannata il corpo. Lanciò un urlo e corse giù per le scale. La seguii a ruota, cercando di darmi un tono e di calarmi nella parte. Quando arrivammo in giardino, la cuoca stava già scuotendo mia moglie, chiamandola a gran voce. «Signora! Signora! Mio Dio, non sarà morta?» mi chiese non appena arrivai. Scossi il capo, mentre, Dio mi perdoni, speravo ardentemente che fosse così. «Violetta» ordinai, ritrovando il mio consueto tono autoritario, «vai a chiamare il medico, subito!». Nel frattempo le poggiai un orecchio sul petto, nel tentativo di sentire il battito. Non lo sentii. O non c’era, o era così debole che non riuscivo a captarlo. «La spostiamo?» chiese la cuoca, che non sapeva cosa fare.

Del sangue si era allargato sul selciato e lei aveva le mani imbrattate. Pareva che il liquido vischioso e dal colore la terrorizzasse. «No, no. Aspettiamo il dottore», decisi. ò un po’ di tempo prima che arrivasse, almeno venti minuti. Quando infine giunse sul luogo della disgrazia, si chinò sul cadavere di mia moglie e ne controllò il battito con i suoi strumenti. Scosse il capo. La cuoca e la cameriera scoppiarono in un pianto dirotto. Io interpretai al meglio un’espressione di accorato e raccolto dolore. Non ci si aspettava che piangessi e gridassi come una donnicciola, se non altro. «Mi spiace, signor Dal Lago. Non posso che constatarne la morte». Se il grido di giubilo che mi si era levato in petto fosse stato sentito anche all’esterno, di certo il buon medico condotto avrebbe avuto da ridire.

PARTE TERZA

Voci narranti: Valente, Bianca

1. BEATRICE E BIANCA

Beatrice e Bianca vennero al mondo nello stesso anno, a undici mesi di distanza l’una dall’altra. Crebbero in simbiosi, come gemelle, anche se i loro diversi caratteri non tardarono a manifestarsi già dalle scuole elementari, in cui dimostrarono di possedere indoli piuttosto diverse. Bianca, la monella, combinò innumerevoli scherzi per tutto il periodo della prima giovinezza. Beatrice, studiosa e tranquilla, ne fu spesso vittima, ma non se la prendeva mai troppo a male. Amava la sorella e ne era riamata, tanto che l’una sentiva in sé la consapevolezza, nonostante l’età ancora fresca, di non poter sopravvivere senza la presenza dell’altra. L’incidente accadde più tardi. Erano due adolescenti, pochi anni prima che il signor Valente Dal Lago approdasse alla contrada e pochi anni dopo l’episodio in cui le sorelle avevano scoperto la vera identità della Befana. Non si poté mai stabilire se la colpa fosse stata dell’una o dell’altra. Ma appurarlo aveva scarsa rilevanza. Angela, quel tragico giorno, aveva mandato le figlie a raccogliere le patate. La stagione era stata buona e la terra generosa; il raccolto era abbondante e sano. Il lavoro era semplice, anche se faticoso, perché era necessario restare chine a lungo. Una delle due, con una piccola zappa, smuoveva la terra facendo attenzione a non imprimere troppa forza all’attrezzo per non rischiare di tagliare per errore i preziosi tuberi. L’altra doveva estrarre le patate con le mani, dare loro una pulita grossolana e riporle in una cesta. Bianca si spazientì alla svelta, mentre Beatrice continuava a lavorare di buona lena, senza dar segno di stancarsi. Avevano riempito solo due delle quattro ceste che avevano con loro.

«Fa caldo!». «Smetti di lagnarti, muoviti piuttosto!». «Facciamo una pausa, Beatrice. Non ne posso più. Andiamo all’ombra!». Poco lontano dal campo, si apriva una stretta valle in cui scorreva un rivoletto d’acqua fresca. Pur di mettere fine alle insistenze di Bianca, la sorella accettò di fare una sosta e di immergere i piedi nel torrentello alla ricerca di un po’ di ristoro. Tuttavia era inquieta, avrebbe voluto continuare il lavoro per sbrigarlo alla svelta, ma non avrebbe mai lasciato la sorella da sola. L’ordine della madre, che viveva in uno stato di costante preoccupazione per loro, era che stessero unite e che non si perdessero mai di vista. Quindi doveva assecondare quella pigrona e accettare di perdere del tempo prezioso. «Prima finiamo e prima saremo libere di fare quello che vogliamo!» tentò di ammonire Beatrice, ma Bianca sembrò non udirla. «Vieni, saliamo un po’ lungo il torrente, seguiamo il corso d’acqua!» suggerì, ignorando il saggio consiglio. A piedi nudi, Bianca trascinò la sorella con sé, saltando agile tra le rocce bagnate e viscide di muschio. «Vai piano, non riesco a starti dietro! Ma non eri stanca?». «Stanca di lavorare! Ma qui c’è un bel fresco, è una meraviglia!». Le ragazze erano abituate a correre per quei boschi: ci erano cresciute e non ne avevano mai avuto paura. Arrivarono in breve alla base di una piccola cascata, più che altro un salto di roccia piuttosto pittoresco che avevano visto milioni di volte. «Saliamo in cima!». Avevano già percorso in diverse occasioni il sentierino che si inerpicava ripido a fianco della cascatella fino a raggiungerne la sommità. «Bianca, basta! Torniamo al campo adesso. Nostra madre si infurierà se non ci diamo un po’ da fare».

«Ne abbiamo già raccolte tantissime! Solo qualche minuto! Arriviamo lassù, poi ti giuro che torniamo indietro e raccogliamo tutte le patate che vuoi!». Beatrice sbuffò, ma assecondò ancora una volta i capricci della carismatica sorella. Fu l’ultima. Non si capì mai bene come fosse andata. L’unica testimone era una confusa Bianca che, quando le venne chiesto cosa fosse accaduto, riuscì a farfugliare solo parole sconnesse da cui non si ricavarono altro che stralci della vicenda. Non faceva che ripetere meccanicamente che la colpa era sua. Dalla lacunosa ricostruzione che si riuscì a fare, risultò che anche Bianca aveva rischiato di scivolare sul muschio, una volta giunta sulla cima della cascata. La sorella l’aveva trattenuta, a discapito della sua stabilità ed era scivolata a sua volta. Bianca non era riuscita ad afferrarla prima che precipitasse dal salto di roccia, alto una decina di metri. Beatrice aveva sbattuto con violenza la testa una, due, tre volte, prima di atterrare sul fondo, nella pozza d’acqua alla base della piccola rapida. Da quel momento Bianca sembrava non ricordare nulla. Angela se l’era vista capitare a casa bagnata, sconvolta e in lacrime. Urlava come una disperata e lei e il Bufala l’avevano seguita senza esitare, già presagendo la tragedia. Avevano trovato l’altra figlia appena fuori dall’acqua, dove la sorella l’aveva trascinata, con il cranio spaccato, gli occhi orrendamente aperti e un rivolo di sangue ormai rappreso che usciva dalla bocca. In contrada fu il caos. In una realtà così contenuta, il dolore di una famiglia era il dolore di tutti, per qualsiasi morte, anche per quella del più anziano dei membri della comunità. Ma la perdita di una ragazza tanto giovane, e per di più in un modo tanto tragico, sconvolse gli abitanti più di quanto fosse mai accaduto in ato. L’immagine di sco, che percorreva la strada verso casa con il cadavere della figlia in braccio e le altre due donne che lo seguivano gridando per il dolore, rimase impressa negli occhi di tutti. I poveri abitanti erano ritti sugli usci, a guardar are la tristissima processione senza poter far nulla, in un irreale silenzio di morte. Il Bufala si trasformò in un altro uomo e perse per sempre la voglia di scherzare

e raccontare storielle. Angela si smarrì in una sofferenza inesprimibile. Lei e il marito amavano talmente le figlie e le avevano così desiderate, che non seppero trovar pace per la perdita di Beatrice. Nessuno dei due tuttavia incolpava Bianca. Anzi, nel vedere quanto fosse scioccata e quanto si sentisse colpevole per la morte della sorella, cercarono presto di ricacciare indietro l’angoscia per tentare di dare consolazione alla figlia rimasta. Ancora non sospettavano che quello era soltanto l’inizio di tutti i guai della famiglia Sberze.

2. IL SIGNOR VALENTE DAL LAGO

Quando Valente Dal Lago si presentò a casa degli Sberze per chiedere di corteggiare e frequentare la figlia, la sorpresa fu generale. «È una richiesta che ci coglie impreparati, signore. Non pensavamo che voi aveste, ecco … un interesse per nostra figlia. Siamo gente semplice, di montagna». Mentre il marito parlava, Angela prese ad annuire, certa che l’uomo stesse cercando parole non offensive per rifiutare. «… quindi non siamo abituati ai modi della città. Dovete lasciarmi del tempo per discutere con la mia famiglia. Penso che, nonostante la decisione finale spetti a me, sia il caso di parlarne anche con mia moglie. Nostra figlia è giovane e non avevamo ancora considerato la possibilità che si fidanzasse», concluse. Ma quello che spaventava gli Sberze era ben altro. Angela e il Bufala dovettero discuterne molto a lungo tra di loro, tanto da perderci più di qualche notte di sonno. Dopo la morte di Beatrice, si erano trovati ad affrontare una situazione a dir poco insolita. Bianca cadde in uno stato di prostrazione inconsolabile per molti mesi. Poi, d’un tratto, senza alcun preavviso, tornò a essere la ragazza allegra e gioviale di sempre. La madre, pur rallegrandosene, non poté fare a meno di chiederle il motivo del repentino cambiamento. «Hai capito che tua sorella ora è in un posto migliore? Hai accettato che non è stata colpa tua, che si è trattato solo di un maledetto incidente?». Bianca la fissò come se non comprendesse cosa farfugliava. «No, madre. Semplicemente è tornata», spiegò con tono quasi condiscendente. «Come sarebbe, è tornata?».

«Mia sorella. Beatrice. È stato tutto un brutto scherzo, un malinteso». Angela fece qualche o indietro, guardando allarmata la figlia. «Beatrice mi ha ricambiata per tutti gli scherzi che le ho sempre fatto. E mi ha giocato un bel tiro, non c’è che dire. L’allieva ha superato la maestra!». Fece una risata spontanea e felice. Angela non riusciva a capacitarsi di quelle parole all’apparenza prive di senso. «Spiegati meglio», chiese quindi, mentre il sospetto si insinuava in lei. «Ha finto di essere morta, madre. Per tutto questo tempo. Però ora ha capito di avermi punita a sufficienza. Lo scherzo è bello quando dura poco. Ora è tornata e tutto sarà come prima». «Cosa significa, che ha finto?». «Quel giorno io non volevo lavorare, come voi ci avevate ordinato. Così lei ha architettato questo bel tranello per darmi una lezione». Angela rimase gelata in un attonito silenzio per qualche minuto. Volle essere certa di aver inteso bene. «Bianca, tesoro, ho visto io stessa tua sorella morta nella bara. Abbiamo fatto il funerale, ricordi?». «Infatti, sono un po’ contrariata che tutti voi abbiate collaborato a questa messa in scena! Avete voluto vendicarvi di me per tutte le mie monellerie!». «Bianca, cosa stai dicendo?». «Su, madre! Vi ho scoperti! Ora potete smettere di recitare la vostra parte. Ho imparato la lezione, non temete! D’ora in poi sarò più coscienziosa, lo prometto». «Puoi vedere se tuo padre è pronto per cenare?». Angela aveva bisogno di tempo per elaborare quello che aveva appena sentito. La figlia l’aveva turbata oltre ogni dire. Ne parlò senza indugio con il marito,

che però minimizzò la situazione. «Vedrai che le erà. Forse è il suo modo per superare il dolore. E se funziona, tanto meglio. Magari fa finta che sua sorella sia ancora viva e questo la fa sentire meglio». «In tutta sincerità, non mi sembra un modo sano per superare il dolore, come dici tu». Angela, solo in parte rassicurata dalle parole dell’uomo, prese a osservare Bianca con più attenzione; la ragazza parlava spesso da sola e si comportava proprio come se ci fosse un’altra persona in casa. Al mattino rifaceva il letto da entrambi i lati, preparava il piatto a tavola anche per la sorella, lavava i suoi vestiti, sbrigava le sue faccende. Poco alla volta, la situazione iniziò a farsi persino più grave. Non si trattava più solo di una presenza invisibile. La fanciulla stessa diventava Beatrice. Angela iniziò a capire dai suoi atteggiamenti che in certi momenti era Bianca, mentre in altri si credeva la sorella morta, e si atteggiava come avrebbe fatto lei. Chiacchierava con se stessa. Talvolta discuteva o litigava con se stessa. Dormiva qualche notte dal proprio lato del letto, qualche altra da quello di Beatrice, a seconda di chi delle due impersonava nel momento in cui si addormentava. In breve la situazione divenne intollerabile, oltre che spaventosa. Angela era terrorizzata. Assistere al teatrino recitato dalla figlia le faceva rizzare i capelli in testa. Persino il Bufala dovette ricredersi su quello che aveva detto in prima battuta e riconoscere con la moglie che c’era un problema reale. Non si trattava più di una fantasia innocente o di uno stratagemma per esorcizzare il dolore della perdita. Bianca si era calata anima e corpo nella sua folle interpretazione. Pretendeva di essere chiamata con il nome corretto e non sempre era facile capire chi fosse in un determinato istante. Nel corso di una sola giornata, poteva cambiare personalità decine di volte. Contraddirla significava avviare lunghe discussioni che non portavano a nulla. Angela, in preda alla frustrazione, cominciò a temere di non aver perduto una sola figlia, ma entrambe. Una era morta in circostanze tragiche e l’altra era impazzita dal dolore.

La cosa che le parve più saggia da fare, come spesso accadeva a quei tempi, fu interpellare il prete, che purtroppo non era una persona né particolarmente saggia né particolarmente lungimirante. Di conseguenza, sperava sempre che i parrocchiani non gli ponessero quesiti esistenziali troppo difficili. D’altra parte gli psichiatri non erano ancora reperibili, tanto più in quelle zone isolate e arretrate. Ci si doveva accontentare di quello che c’era a disposizione. Perciò Angela Sberze sottopose al povero parroco di montagna qualcosa che andava ben oltre le sue capacità di comprensione. Fiduciosa, supponeva che una persona di chiesa, quindi colta e giudiziosa, avrebbe saputo cosa fare. Il sant’uomo avrebbe dimostrato un po’ di intelligenza se le avesse consigliato di consultare un medico, cosa che si guardò bene dal fare. Del resto si era in luoghi e in epoche in cui i dottori venivano interpellati solo in casi ritenuti gravissimi, con pericolo per la vita del paziente. Tutto il resto, o guariva da sé, o era un male immaginario. Come il prete catalogò senza esitare il caso di Bianca. «Assecondatela, Angela» suggerì, «vedrete che questa mania, così come le è venuta, erà. Datele tempo. Pregate per lei». Quelle parole decretarono l’inizio della rovina degli Sberze.

3. MOGLIE E BUOI DEI PAESI TUOI

Data la situazione, Valente suscitò notevole sgomento quando si presentò in casa Sberze a chiedere di poter frequentare la figlia con l’intento di fidanzarsi. I coniugi presero qualche giorno di tempo per discutere tra loro e per decidere quale fosse l’atteggiamento giusto da tenere. Dovevano raccontare la verità? Sottraendo magari alla giovane l’unica possibilità di maritarsi, e di maritarsi bene, per giunta? In contrada chi se la sarebbe mai sposata, dato che pressoché tutti erano a conoscenza delle sue stranezze? Ne vollero parlare anche con la ragazza, giusto per capire quale fosse la sua posizione. «Bianca», esordì la madre, pentendosi subito alla vista dell’espressione corrucciata di lei. Ma oramai aveva preso l’abitudine a quell’errore. «Scusa, cara, Beatrice. Vi somigliate tanto che persino io stento a distinguervi. Io e tuo padre vorremmo conoscere la tua opinione in merito a una faccenda. Poi tuo padre deciderà», comunicò quindi Angela imibile, cercando di non influenzare la figlia in alcun modo. «Il signor Valente Dal Lago si è proposto a noi come tuo fidanzato. La cosa ti sembra accettabile?». «Se voi riterrete che il signor Dal Lago sia accettabile, io sarò d’accordo», rispose la ragazza, lo sguardo rivolto in basso, pudica. Alla visita successiva, qualche giorno più tardi, il Dal Lago arrivò tronfio, certo di ricevere una riposta affermativa. Chi mai avrebbe potuto rifiutare a cuor leggero il ghiotto partito che lui sapeva di essere? Ma ciò che gli fu raccontato nell’ora successiva andava ben oltre il semplice “sì”. «Così stanno le cose, signor Dal Lago». Il Bufala concluse il lungo discorso, proferito tutto d’un fiato, mentre la moglie seduta al suo fianco annuiva contrita. Avevano optato per la completa sincerità. Le rispettive coscienze non avrebbero più consentito loro di dormire sonni

tranquilli, in caso contrario. «Se a questo punto volete tirarvi indietro, comprenderemo», aggiunse l’uomo per riempire i minuti di pesante silenzio che seguirono. Valente era confuso. Anzi, confuso era senza dubbio un eufemismo per descrivere il suo stato d’animo. La storia che gli avevano raccontato i coniugi Sberze lo lasciava interdetto. Gli stessi Sberze gli suggerirono di prendersi un po’ di tempo per pensare alla situazione e decidere a mente lucida, dopo aver metabolizzato la notizia. Mentre tornava a casa, Valente rifletteva tra sé. Dubitava che fosse una buona idea andarsi a cacciare in una situazione del genere solo per togliersi uno sfizio. Ma le buone idee non erano mai state la sua specialità. Del resto, il desiderio che provava verso quella meravigliosa creatura dalla mente arruffata era qualcosa cui faticava a opporsi. Giunto ormai in vista della sua abitazione, aveva già deciso. Se ne sarebbe infischiato. Credeva di essere due donne diverse? Benissimo! Per lui che differenza poteva fare? Avrebbe scelto una delle due e l’avrebbe corteggiata. Non aveva dubbi sul fatto che avrebbe raggiunto il suo scopo. Dopo di che, come di consueto, se ne sarebbe lavato le mani e avrebbe lasciato la bella montanara a cuocere nel suo brodo e a levarsi da sola dagli impicci. Non immaginava ancora che sarebbe stato invischiato in quel disastro più di quanto avrebbe mai voluto. Valente Dal Lago, qualche giorno più tardi, comunicò agli Sberze che la proposta era seria e ancora valida e non poté non sghignazzare tra sé alla vista della loro espressione allibita. Se avessero saputo quali erano i suoi reali intenti, non sarebbero stati così lieti per la notizia. Ottenne quindi il consenso di far visita a Beatrice. Il primo giorno in cui si recò in contrada nella veste di “fidanzato”, l’attendevano altre difficoltà. La notizia si era diffusa veloce come un lampo. Tutti si meravigliavano che, tra le tante donne sane di mente della città e di qualsiasi altra contrada dispersa tra i monti, quell’uomo così ben sistemato avesse scelto la figlia pazza degli Sberze. Era forse un medico? Aveva una cura per l’insanità mentale e voleva sperimentarla su di lei? O forse era un esorcista? Più di qualcuno sosteneva con convinzione che il diavolo si fosse impossessato della giovane e che il suo comportamento fosse frutto dell’influenza del maligno.

Un gruppo di ragazzi del posto accolse l’arrivo del Dal Lago. Era normale che i forestieri che venivano a “rubare” le donne non fossero ricevuti con benevolenza. Dopo una lunga consultazione, si era deciso di non fare eccezione per Bianca, o Beatrice nella circostanza, nonostante gli uomini del luogo fossero restii a considerarla una “loro proprietà”. Chi avrebbe voluto prendersela, visto il fardello che portava? Certo, era bella e invitante, ma in quei paesi rudi si badava più alla sostanza che all’apparenza. Che fosse una brava donna di casa, che diventasse una buona madre e soprattutto che si dimostrasse una lavoratrice infaticabile. In realtà uno dei giovani, Giuseppe Corà, aveva perso la testa per la ragazza, ma non aveva mai osato farsi avanti a causa dello spettro della follia che aleggiava sulla sua amata e che era stato sufficiente a raffreddare gli ardori amorosi. In ogni caso, dopo un’accesa discussione, decisero che era necessario tenere alto l’onore della contrada. Il cittadino che veniva a fregare una compaesana andava fermato. O perlomeno avrebbero dovuto dare l’idea di volerlo fare, per salvare se non altro le apparenze. Furono perciò decisi con lui: andava dissuaso. Tutti loro, nella testa, formularono un pensiero che nessuno ebbe il coraggio di esprimere, ovvero che andava dissuaso soprattutto per il suo bene. Le madri dei ragazzi, maligne e invidiose, suggerirono di portare Valente in osteria. Lì, con un po’ di vino generoso, gli avrebbero dovuto far notare l’assurdità della scelta sino a convincerlo a demordere. La ragazza era senza dubbio incantevole, ma che prezzo per tutta quella grazia! La sua mente era più ingarbugliata di un gomitolo di lana. I giovanotti però erano di diverso avviso e questa soluzione pareva poco dignitosa e, soprattutto, niente affatto mascolina. Avrebbero costretto l’uomo a tornare sui suoi i con la forza! Come che fosse, la ragazza era una di loro, una della contrada, e andava difesa dalle trame dei signorotti che credevano di salire sui monti e insidiare senza problemi le donne del posto. Tuttavia i ripetuti tentativi non portarono a nulla di concreto e Valente non si lasciò scoraggiare. Ma i giovani avrebbero presto trovato soddisfazione e vendetta per l’onta subita.

4. IL PRIMO BACIO

La domenica, Valente, giunto a casa degli Sberze, guardò la bella giovane mentre entrava in cucina, pronta per lui. Sembrava una ragazzina, ma la sua apparente fanciullezza non poteva nascondere le splendide forme di donna che stavano sbocciando. Pranzarono tutti assieme, attorno al tavolo di legno massiccio della cucina, uno scenario povero e contadino cui Valente non era avvezzo e che Angela si era sforzata di mascherare il più possibile, consapevole che non avrebbe mai potuto eguagliare la ricchezza del desco del Dal Lago. L’uomo finse di ignorare il piatto vuoto dove veniva poggiato quasi con devozione del cibo. «Non mangi Bianca? Non hai fame?». Chiese la ragazza a un certo punto, rassicurando Valente. Rivestiva in quel frangente gli adeguati panni della fidanzata, peccato che fosse morta. Finito di pranzare, Valente le propose una eggiata per mostrargli i dintorni. I coniugi Sberze si guardarono per qualche istante, indecisi sul da farsi. sco prese la parola: «Perché no? Angela potrebbe venire con voi», acconsentì, scambiando qualche occhiata complice con la moglie. Ma la figlia non era d’accordo con il programma. «No, madre, non è necessario che vi disturbiate. Verrà Bianca con noi». Come contraddirla senza metterla di fronte alla realtà? Erano in un vicolo cieco. Valente gongolò. Aveva la fortuna di poter restare solo con lei, cosa che in qualsiasi altra situazione normale sarebbe stata impossibile. Quella notte, Beatrice non dormì. E neppure Bianca. Un lungo monologo riempì la camera da letto e il sommesso borbottio, che pur non permetteva di distinguere le parole precise, non concesse di chiudere occhio nemmeno ad Angela, che trascorse la nottata a rigirarsi nel letto in preda all’ansia. Avevano sbagliato tutto? Iniziava a temere che permettere al signor Dal Lago di corteggiare la figlia fosse un gigantesco, madornale, catastrofico errore. In che abissi sarebbe stata trascinata la mente della ragazza a causa delle nuova ondata

di emozioni? Infatti, quando Valente propose a Beatrice di trascorrere qualche momento da sola con lui di notte, una miriade di sensazioni la scombussolarono. Il piano della candela sulla finestra la confondeva. Il suo pensiero andò subito alla sorella, che sarebbe stata certo più spregiudicata di lei. Avrebbero preso insieme la decisione. E i monologhi notturni si moltiplicarono, per la disperazione della madre insonne. La sera in cui la candela venne infine accesa, non fu semplice per la ragazza calarsi da sola dalla finestra. Dovette fissare bene al letto la corda che aveva sottratto nella stalla e scendere con grande attenzione. Per fortuna era agile e scattante per merito degli anni trascorsi nei campi e nei boschi che l’avevano resa lesta come un capriolo. Il rischio più grosso era ciò che la aspettava a terra, celato nella notte. Valente la condusse lesto nel fienile che aveva preparato per l’occasione. Un ragno che aveva ben tessuto la sua tela e che vi accoglieva la mosca tanto attesa, tutt’altro che riluttante, per giunta. Lì Valente poté giocare le sue carte, da abile baro quale era. Non si spinse troppo oltre, doveva gustare quella conquista un boccone alla volta. Ma da come rispose la giovane, da come la sentì fremere tra le sue braccia mentre ne baciava le labbra morbide e inviolate, capì che presto avrebbe raggiunto la meta che desiderava. Era pazza, d’accordo, ma incredibilmente sensuale e morbida. Faticò non poco a tenere a bada l’eccitazione e a staccarsi da lei per ricondurla a casa. Era necessario guadagnare la sua fiducia. Una volta arrivata, lei si arrampicò sulla corda ancora penzolante dalla finestra, guardando verso l’alto come se si aspettasse aiuto e tribolando molto. Infine, raggiunse stremata la stanza da letto. «Mi ha baciata!» rivelò esultante al vuoto che la circondava.

5. VACCHE DA LATTE

Beatrice iniziò a sgattaiolare fuori di casa in diverse occasioni. Valente si comportava con lei come un perfetto fidanzato e sembrava inoltre sforzarsi in ogni modo per compiacere i futuri suoceri, che ne erano a dir poco deliziati. Angela faticava a mettere a tacere la coscienza: la fragile figliola sarebbe stata in grado di sopportare tutto questo? Accettava di buon grado i numerosi regali che l’uomo recava, ma non poteva impedirsi di sentirsi quasi “comprata” da quelle blandizie. Bianca era confusa. Spesso notava che Valente aveva atteggiamenti ambigui nei suoi confronti. Magari le faceva una carezza, le sussurrava una parolina dolce all’orecchio, ma diamine! Beatrice era sempre nei paraggi! Come poteva approfittare in modo tanto maligno della sua fiducia? Provava un misto di pena e invidia per la cara sorella che sembrava follemente invaghita dell’uomo ed era accecata dalle attenzioni che lui le dedicava. Bianca avrebbe tanto voluto metterla in guardia, ma temeva di farla soffrire. Inoltre, stava iniziando a provare un sadico godimento nel rendersi conto che Valente pareva desiderare anche lei. In realtà il Dal Lago non era molto abile nel comprenderla, cosa che, a sua discolpa, era tutt’altro che facile. Nel tempo, Angela aveva imparato a distinguere quale delle due figlie fosse fisicamente presente e quale no e, pur essendo la madre, le capitava ancora di sbagliare. Ma l’uomo si confondeva di frequente e questo giustificava i suoi molti errori. Non era in grado di gestire una faccenda che andava ben oltre le sue capacità. Inoltre era davvero uno sforzo che non aveva desiderio di compiere, dato che non aveva alcuna seria intenzione di sposare la folle ragazzetta. Perciò, non si adoperava per limitare i fraintendimenti. Si era accorto che Bianca si stava irritando forse perché, nella sua mente contorta, le sembrava che lui fe il doppio gioco. Ed era così. O meglio, lui era proprio il tipo da doppio gioco. Peccato che la donna con cui voleva tradire la fidanzata … beh, fosse lei stessa. Dopo lunghe peripezie, Valente centrò il bersaglio per il quale si era cacciato in quell’angosciosa situazione. Con enorme soddisfazione, riuscì a possedere la sua amata che, però, ne rimase sconvolta.

Mentre la guardava arrampicarsi sino alla finestra, l’uomo aggrottò la fronte. Avrebbe dovuto renderla un’amante un po’ più ionale. Intendeva gustarsela ancora per un poco, quindi ne avrebbe avuto il tempo. Non aveva sudato sette camicie con lei solo per una notte di piacere, ne pretendeva qualcuna di più. Quella sera Angela si accorse che qualcosa non andava. Sentì dei rumori insoliti provenire dalla stanza della figlia. La trovò scarmigliata e piangente, la finestra aperta, le parole sconnesse e confuse più del solito. Il sospetto si insinuò in lei, ma Bianca la rassicurò. Beatrice aveva mal di testa. Incapace di affrontare quel rebus, Angela se ne tornò in camera, consapevole di non poter far nulla per alleviare i tormenti della figlia. Da quel giorno, anzi, da quella notte, la situazione precipitò. Era chiaro che Valente, per quanto godesse del corpo della giovane, si sarebbe presto stancato di lei. Così gli era accaduto con tutte le femmine che aveva posseduto. Sazio del nuovo giocattolo, sfogate le voglie, gli venivano a noia e, proprio come un bambino, desiderava trovare qualcosa di nuovo con cui divertirsi. Anzi, la cosa si stava trascinando sin troppo per le lunghe, rispetto al solito. Valente era stuzzicato e incuriosito dalla situazione, per quanto paradossale. Quando stavano insieme, aveva sempre Beatrice fra le braccia. Eppure sapeva che Bianca lo desiderava, le leggeva il desiderio negli occhi. Dunque, perché non gli era mai capitato di giacere con lei? Per una sorta di lealtà verso una sorella inesistente? La curiosità lo stimolava perché forse Bianca si sarebbe rivelata più ardente della pudica Beatrice. Questo manteneva vivo l’interesse, anche se il suo atteggiamento si era fatto più noncurante con il trascorrere del tempo. Non era a conoscenza della tragedia che si stava svolgendo dietro le pareti domestiche degli Sberze. La sua negligenza era stata notata e aveva messo tutti in allarme. I regali erano cessati, le visite diradate, le sue espressioni erano sempre annoiate e le conversazioni monotone. Il sospetto che volesse rimangiarsi la promessa era quanto mai reale. Angela non si dava pace. Il Bufala, dopo un colloquio piuttosto con la figlia, avanzò un’ipotesi tutt’altro che rassicurante. «Siamo sicuri, moglie, che quell’uomo non l’abbia compromessa in alcun modo?». «Sicuri! Come si può avere certezza di qualcosa in questo mondo?».

Angela esitava. Non riusciva a togliersi dalla mente la scena cui aveva assistito quando aveva trovato Bianca disperata e la finestra aperta. Nelle notti successive aveva udito dei rumori strani, mentre fissava insonne il soffitto. Non aveva mai trovato né la forza né il coraggio di andare a controllare, aveva timore di ciò che avrebbe scoperto. A volte ignorare la verità è più semplice che conoscerla. Si era ormai rassegnata ad assecondare le follie della figlia e temeva che, contraddicendola, avrebbe scatenato un inferno ancora peggiore di quello in cui già vivevano. «Donna! Non mi prendete in giro! Voi siete sua madre! Qualcosa dovete sapere!» urlò sco adirato all’indirizzo della moglie, sbattendo i pugni sul tavolo. Angela si sentì pungere dal senso di colpa. Avrebbe dovuto essere più attenta. «Non saprei. Forse, però, qualche indizio c’è». «Volete dirmi che pensate che quel farabutto l’abbia disonorata?». «Dico solo che non ho la certezza che non l’abbia fatto!». Angela, mentre negava l’evidenza, ebbe la consapevolezza che era così. Il cambiamento avvenuto nell’atteggiamento dell’uomo ne era la prova. Ottenuto il suo premio, iniziava a perdere interesse. Qualche lacrima prese a scenderle dagli occhi, confermando i sospetti del padre, se pure ce ne fosse stato bisogno. Era un uomo anche lui, e sapeva bene come andavano certe cose. «Santiddio! Chi vorrebbe mai comprare una vacca, quando può avere il latte gratis?» sbraitò il Bufala, fuori di sé.

6. LA PROMESSA

«Avete fatto una promessa, preso un impegno, e adesso è il momento di mantenerli. Fissate la data» intimò sco deciso. La discussione che seguì fu accesa, addirittura violenta. Tutto si poteva dire del Bufala, ma non che non avesse a cuore il benessere e l’onore della sua famiglia. Perciò, da quando lui e Angela avevano compreso a che punto stavano le cose, era più che risoluto a risolvere l’inghippo a modo suo. Il farabutto l’avrebbe sposata, anche se avesse dovuto trascinarlo all’altare per un orecchio e con un fucile puntato alla schiena. Nulla poteva dissuaderlo e a nulla erano valse le proteste della moglie. Angela si era lamentata che dare in moglie la figlia a un individuo del genere, che non aveva avuto scrupoli nel prenderle la cosa più preziosa che avesse, poteva non essere una buona scelta. Non bisognava dimenticare lo stato mentale della povera Bianca. sco non volle sentire ragioni, il suo modo di vedere le cose era a senso unico. Se quell’uomo si era preso la verginità della figlia, si sarebbe preso anche tutto il resto, che gli pie oppure no. La determinazione del Bufala diede i suoi frutti. Valente si trovò costretto ad accettare la data delle nozze scelta dal futuro suocero, grazie a una contrattazione piuttosto spinosa. L’uomo non poteva credere alla propria sventura. La famiglia Sberze aveva trovato la soluzione a tutti i propri guai. Chi altri si sarebbe preso quella pazza svitata della figlia? Mentre lui si era andato a cacciare nel pasticcio con le sue stesse mani. Vi si era tuffato a capofitto. La situazione stava sfuggendo al suo controllo e non sapeva come cavarsi d’impiccio. Da principio, Valente pensò che sarebbe stato sufficiente fissare una data e poi sparire nel nulla. Non l’avrebbero potuto rintracciare. Era stato accorto nel non rivelare dettagli troppo precisi sulla sua vita o sull’ubicazione della sua casa. Le nozze vennero dunque concordate, ma Valente si trovò ad affrontare una seconda sorpresa poco gradita. Il piccolo esercito di ragazzacci montanari con cui si era già scontrato in precedenza e che sperava di non dover rivedere più, lo attendeva fuori da casa Sberze. Avrebbero vegliato su di lui come ombre fino a matrimonio avvenuto.

Valente provò un moto spontaneo di stima verso il futuro suocero: aveva davvero pensato a ogni eventualità, anche a quella, peraltro non remota, di una sua possibile fuga. I ragazzotti, dal canto loro, erano palesemente soddisfatti di come si erano rivoltati gli eventi, offrendo loro l’occasione di vendicarsi del cittadino maleducato e senza onore con cui si erano confrontati qualche tempo prima. Quando il Bufala, alla presenza dei suoi soldati, gli spiegò che aveva organizzato le nozze in due puntate, l’una segreta, l’altra pubblica, Valente comprese di essere in trappola. Doveva davvero cedere e maritarsi con una folle? Lui che non avrebbe voluto sposare neanche una donna sana di mente? Ma sco il Bufala, la sua carabina e i suoi adepti furono piuttosto convincenti. Non scorgeva via d’uscita. Cosa diavolo gli era saltato in mente di compromettere quella ragazza? Bianca o Beatrice o come diavolo voleva essere chiamata. Alla fine, la personalità più debole delle due, che egli aveva prediletto nella speranza di manipolarla con facilità, gli aveva giocato un bello scherzo. Come se non bastasse, anche l’altra, Bianca, pareva aver messo gli occhi su di lui. Robe da farla rinchiudere in manicomio. Anzi, se non stava attento, rischiava di finirci lui in manicomio. A tale proposito, si chiese perché i suoi genitori non avessero mai pensato di farla internare. Fu in quel momento che gli balenò l’idea che l’avrebbe salvato: l’avrebbe sposata così come gli imponevano. Non poteva negare di averla compromessa e rischiava il linciaggio se non si fosse sottomesso. Ne avrebbe poi assecondato ogni fantasia e, una volta che fosse stata sua moglie e quindi sotto il suo pieno controllo, l’avrebbe fatta rinchiudere con una bella camicia di forza come abito nuziale. Sarebbe stato sufficiente attendere qualche tempo, giusto il necessario per dare l’idea di aver tentato di sopportare tutte le sue stranezze. Dopo di che, tanti cari saluti. Sarebbe rimasto ufficialmente sposato, e quindi sottratto alle mire di altre fanciulle di belle speranze a caccia di buoni partiti, ma di fatto libero come era sempre stato e come intendeva rimanere. Fermo in questa convinzione, la situazione d’un tratto non gli parve più così disastrosa. Aveva trovato il modo di salvare il salvabile. Cedette alle pressioni di sco Sberze e i due matrimoni vennero celebrati. Il primo subito, a garanzia di sco, in modo che Valente non potesse allontanarsi da scapolo dalla contrada e sfuggire al controllo. La cerimonia fu clandestina, al limite della legalità, ma i documenti necessari furono firmati. Il prete, riottoso come di consueto ma ben oliato da una cospicua mancia, dette la

sua benedizione, pur se a denti stretti. Beatrice non smise un istante di piangere. Aveva immaginato diverso il giorno del matrimonio. Il secondo e falso sposalizio venne celebrato come previsto qualche settimana più tardi, alla presenza dell’intera allibita contrada. Le madri si rodevano, le ragazze sbalordite morivano di invidia. Angela e sco erano in cuor loro disperati, anche se erano riusciti a evitare il disonore. Dopo le nozze, toccò a Valente dare inizio alla sua personale recita. Intendeva spingere, con atteggiamenti indifferenti e incuranti, la novella mogliettina a dare segni palesi di pazzia a tutti, in particolare ai servitori di casa Dal Lago, in modo da avere numerosi testimoni della situazione intollerabile in cui si era venuto a trovare suo malgrado.

7. LA SIGNORA DAL LAGO

Valente si accorse ben presto, e con sollievo, che non era necessario sforzarsi per dimostrare la pazzia della moglie. Era sufficiente continuare la vita di sempre, quasi come se lei non esistesse. La sua condotta dissoluta avrebbe mandato fuori di senno anche la più equilibrata delle spose, figurarsi Beatrice. I tradimenti di un marito spesso sconvolgono la povera moglie, ma se vengono celebrati senza alcun riserbo, la situazione si fa senza dubbio critica. Una sera, la giovane sbirciò all’esterno, scostando la pesante tenda di velluto scuro. Era sola, come al solito. E, come al solito, spiava il ritorno del marito. Già dopo pochi mesi quel matrimonio farsa aveva assunto uno spiacevole odore di stantio. Ora, a distanza di circa un anno, Valente si dimostrava sempre più negligente nei suoi confronti. Tanto era stato accorto nei primi periodi del fidanzamento, tanto l’aveva corteggiata e tanto aveva dato a intendere di desiderarla follemente, quanto se ne infischiava di lei adesso che era sua moglie. Si sentiva frustrata e impotente. Le pesava sulla schiena lo sguardo pungente della cameriera che la seguiva nei suoi tormenti. Già, quella cameriera, una vera guastafeste. Per non dire di peggio. Una puttanella, le saliva alla bocca. Ma non poteva usare certe parole, anzi, non poteva neppure pensarle. Era una signora, adesso. Tuttavia, per quanto signora, non aveva potuto non accorgersi delle attenzioni particolari che suo marito riservava alla servetta. La sentiva scivolare nella camera di lui la notte, quando la mandava a chiamare con un qualche codice segreto che Beatrice non conosceva. Li sentiva ridacchiare, sentiva i gemiti soffocati. Era un tormento. Nella stanza accanto alla sua. Svergognata. Valente scorse la moglie che lo guardava dalla finestra come spesso accadeva la sera quando rientrava, a meno che non fosse molto tardi, cosa che negli ultimi tempi succedeva sempre più di frequente. Sghignazzò tra sé. Stava tirando con intenzione la corda oltre ogni limite. L’ostentata spregiudicatezza avrebbe messo alla prova qualunque sposa. La sua ne soffriva, si tormentava, languiva sola e abbandonata in quella casa dorata. Lui non le aveva posto limiti. La servitù aveva l’ordine di soddisfare ogni suo

capriccio, di andarle a comprare qualsiasi cosa desiderasse. Questa disponibilità di mezzi in un primo momento l’aveva abbagliata, ma Valente si accorse presto che le era venuta a noia. Pizzi, ricami, vesti pregiate: nulla la consolava, almeno all’apparenza, della prolungata solitudine cui la costringeva. Le lasciava intuire di proposito alcuni dettagli scabrosi, in modo che lei sospettasse di altre donne. Si portava spesso la cameriera Violetta in camera, cosa che aveva fatto con moderazione in precedenza per non concederle troppa confidenza. Era sicuro che Beatrice fosse di là con il fiato sospeso e la testa in subbuglio, mentre lui si intratteneva con la piacevole ragazzetta. Valente non gradiva frequentare i suoceri. Lo scherzetto che gli avevano giocato era stato davvero troppo pesante e preferiva tenersene alla larga. Inoltre, temeva che comprendessero i suoi propositi e che li mandassero all’aria. Non avrebbe più permesso loro di interferire con i suoi piani. Sentiva che ormai il momento era vicino, lei non poteva resistere ancora a lungo, sarebbe presto crollata. Era tuttavia consapevole che la moglie tornava alla contrada piuttosto spesso, non in qualità di Beatrice, e come tale non ne conservava alcun ricordo. Ma nei panni di Bianca vi si recava quasi ogni giorno. Angela era preoccupata da quell’andirivieni. Aveva sperato che, con il matrimonio, la figlia piano piano ritrovasse la ragione. Che avere una casa propria, un marito a cui badare, l’avrebbe guarita. Invece, la situazione non faceva che peggiorare. Alcune notti, la figlia si fermava nella sua vecchia casa come se vi abitasse ancora, e tornava a dormire nel suo letto. La donna temeva che Valente si seccasse, ma non sapeva che, in realtà, le notti in cui la moglie era lontana egli si sentiva sollevato e si dedicava alle sue depravazioni con maggior foga. Quando Angela comprese cosa stava accadendo, rimase interdetta. Doveva rassegnarsi: per la sua amata figliola non c’era speranza di rinsavire. Poiché ormai era invischiato in quella dannata faccenda, Valente aveva preso la decisione di non tirarsi indietro con Bianca, l’alter ego della moglie. In fondo non faceva nulla di male, e nessuno poteva avere da ridire se si sollazzava con la sua legittima consorte, pur se questo avveniva in luoghi e orari piuttosto insoliti, come due amanti clandestini che dovessero nascondersi. Per l’ennesima volta l’intelligenza di Valente era oscurata dal suo esorbitante

egoismo. Non si rese conto, nemmeno in questa occasione, di non essere in grado di gestire la situazione. La giovane peggiorava a vista d’occhio. Più lui si calava nella recita scindendo le due personalità, la moglie e l’ipotetica amante, più lei sembrava precipitare in una catastrofica follia. Egli non se ne preoccupava. Quella vita gli era quanto mai congeniale. Poteva andare a letto con la moglie, che si rivelava a ogni incontro più spregiudicata, senza che lei ne avesse memoria. Allo stesso tempo, continuava a intrattenere le sue relazioni, tra cui la cameriera e altre frequentazioni più o meno piacevoli in città.

8. LA CANDELA

Angela non credeva ai suoi occhi. Bianca si era tradita, rivelando la verità in uno dei momenti di pazzia in cui si credeva la sorella morta, suggerendo alla madre di controllare cosa accadesse durante la notte. La vide sgattaiolare fuori dalla finestra della sua vecchia camera, nell’oscurità, per incontrarsi niente meno che con il suo legittimo consorte. La donna non se ne capacitava. Possibile che si fosse giunti a tale segno? «Ti avevo detto che le cose non sarebbero migliorate facendola sposare. Anzi, direi che sono addirittura peggiorate, se possibile» Angela si lamentò con il marito la mattina seguente, dopo una notte insonne. «Cosa avrei dovuto fare, donna? Tenermela in casa disonorata? Non sarebbe stato peggio?». «Onore, onore! Solo di questo sapete parlare, voi uomini! Mi sentirei più tranquilla se stesse qui con me, dove posso controllarla e averne cura. Non sono sicura che quel Dal Lago sappia gestirla». «E quando non ci saremo più? Ora ha un marito, è compito suo occuparsene, che lo sappia fare oppure no! E in ogni caso, mi sembra che lei sia qui in giro anche troppo spesso!». «Vi ho detto che scappa dalla finestra! Si incontra in segreto con il marito!». sco il Bufala fece una risata a quell’affermazione. Nonostante tutto, riusciva a scorgere un vago lato comico nella faccenda. Si quietò presto, all’espressione sgomenta della donna. «Non c’è nulla da ridere, disgraziato! Vi sembra una cosa normale?». «Senza dubbio la vita di coppia di quei due non deve essere noiosa!» insinuò l’uomo, trattenendo le risa. Nulla di più falso. In realtà Beatrice e Valente si annoiavano moltissimo insieme. Ma Bianca e Valente niente affatto. L’uomo non si capacitava di quanto fosse

spregiudicata la moglie nelle vesti della “sorella cattiva”, come la chiamava spesso scherzando, e di quanto invece fosse riottosa e iva nelle vesti di legittima consorte. Se non avesse saputo fin troppo bene, suo malgrado, che erano la stessa persona, non avrebbe mai potuto crederci. «Mettila alla prova. Forse è il momento che ritorni alla realtà, che capisca che la sua recita è inutile. Beatrice è morta, non tornerà». Un velo di tristezza ricoprì le ultime parole del Bufala. Angela chinò il capo. «Ci proverò. Ma, secondo me, è rischioso arrivati a questo punto. Forse il consiglio di ignorare le sue manie non era azzeccato fin dal principio ». «Forse? Ve l’ho sempre detto io! Ad ascoltare i preti non si ottiene nulla di buono» concluse il Bufala pensieroso. «Voglio sapere con chi ti dovevi vedere questa notte». Angela era determinata. Aveva fatto in modo di sorprendere la figlia mentre, per l’ennesima volta, usciva dalla finestra dopo aver una candela accanto al vetro. Prima o poi si sarebbe rotta l’osso del collo, fuggendo di casa in quel modo. La scusa che Bianca le propinò rischiò di farla cadere a terra per la sorpresa. Non sapeva più se mettersi a ridere, a piangere, oppure urlarle che si doveva svegliare, che la recita era finita, che lei era la sola a ignorare la realtà. Che era pazza. Questa era l’unica verità. Bianca affermò convinta che si incontrava con Quartilio Valle. Un omaccione, un bruto. Angela si domandò fino a che punto la figlia avrebbe potuto portare avanti una tale finzione. Decise all’istante di metterla alla prova, così come suggerito da sco. Erano coinvolte altre persone, perciò era piuttosto rischioso. Ma Vittorina Valle era a conoscenza dei problemi di sua figlia. Nonostante ciò, aveva sempre sperato di poterla dare in moglie a uno dei suoi pargoletti. E a proposito di loro, la scarsa intelligenza che li caratterizzava avrebbe impedito una qualsiasi interferenza nel piano di Angela. Che Bianca le dimostrasse quanto era determinata. Avrebbe dovuto infine ammettere con tutti, ma soprattutto con se stessa, che viveva immersa fino al collo in una colossale bugia. Avrebbe dovuto riconoscere che era sola, Bianca, e che Beatrice non esisteva più. Era lei a essere sposata con Valente, lei a essere la signora Dal Lago, ancora lei a vivere in una

bella casa in città. Angela si augurò con tutto il cuore che accadesse un miracolo e che la figlia tornasse in sé. L’ennesima vana speranza.

9. TRAGEDIA DELL’ASSURDO

Bianca Precipitavo. Sentii il mio corpo scendere verso il basso, attratto dalla terra. Pesante, umano. Qualche secondo, anche meno. Ma in quel breve lasso di tempo che mi separava dalla morte, mi liberai di lei. Sentii lo spirito di mia sorella scivolare via da me, salire in alto, nella direzione opposta rispetto a quella che io avevo preso. Ero libera. Incredibilmente, inequivocabilmente libera.

Valente Ero libero. Incredibilmente, inequivocabilmente libero. Gli ultimi tre anni della mia vita erano stati un vero inferno. Quella creatura entrata nella mia esistenza mi aveva trascinato a esplorare con prepotenza gli angoli più reconditi dei sentimenti umani. ione, desiderio. Noia, agonia. Odio e rabbia. Li avevo conosciuti tutti, così frammisti tra loro da non essere nemmeno in grado di distinguerli. Non mi ero comportato bene in molte occasioni, questa consapevolezza mi aggredì con cattiveria. Avevo coltivato ioni e desideri al solo scopo di soddisfare me stesso, le mie voglie e il mio orgoglio. Guardavo il cadavere e tentavo di sentirmi in colpa. Avrei dovuto, lo sapevo. Nonostante ciò, non mi riuscì. Troppi anni di egoismo e di indifferenza avevano seccato il mio cuore, immagino. Era colpa mia? Avevo trascinato io quella povera donna nel vortice di eventi che l’aveva condotta lì, su quel selciato, esanime? Negai a me stesso la verità, come mia abitudine. Raddrizzai le spalle, scacciai i pensieri negativi. Era morta. Non esisteva più. Né lei, né il fantasma che portava dentro di sé. Che l’aveva divorata piano, inesorabile. Non capivo come avesse fatto a uccidersi. Aveva lottato con se stessa, e aveva

perduto. Com’era possibile? Guardai per un’ultima volta il corpo steso a terra, quello che rimaneva della splendida ragazza che era stata. Mia moglie e al medesimo tempo una delle mie amanti. Ero felice. Tuttavia, come sempre accade, alla felicità si mescolò d’improvviso il sentimento opposto. Una intensa tristezza mi avvolse. Versai due lacrime, solo due, che mi riportarono in alto nella considerazione dei presenti, del medico, della servitù. Mi parve di sentire i commenti che avrebbero fatto più tardi in cucina, soli. «Allora l’amava! Ha persino pianto!».

EPILOGO

La notizia della morte della loro unica figlia sconvolse gli Sberze. L’epilogo della vita di quella creatura tanto tormentata non poteva essere peggiore. Angela si sciolse in un pianto silenzioso, mentre la vicina di casa, latrice suo malgrado della tanto funesta notizia, se la filava alla chetichella, non sapendo trovare parole di consolazione per la madre affranta. Angela era schiacciata dal senso di colpa. Il dolore per la morte di Bianca era insopportabile. Non aver saputo far nulla per impedirla era ancor più tremendo. Tuttavia, al contempo, il grosso nodo che le stringeva il cuore si era all’improvviso sciolto. Bianca soffriva fin da quando Beatrice era morta e Angela immaginava che avesse patito più di lei per quella perdita, forse per il pensiero di averla causata. Aver veduto la figlia apire lentamente, divorata dalla follia, era stato come vederla morire un poco ogni istante. Quegli ultimi anni erano stati un continuo tormento, una impietosa recita, una finzione senza rimedio. Una tragedia. Perciò, non poteva esservi altra fine che questa. sco il Bufala guardò a lungo la moglie piangere, immobile, senza fiato e senza forze. Altre lacrime in quella casa. Il suo pensiero corse all’uomo che aveva portato alla perdizione Bianca, l’ultima che gli rimaneva di quelle due figlie femmine, amate più che se fossero state maschi. Come poteva la natura umana aver partorito un tale abominio? Si domandò colto da improvvisa furia. Il Bufala sapeva di essere un uomo pieno di difetti e di vizi. Sapeva di raccontare qualche balla di troppo. Sapeva anche di bere qualche goccio di troppo. Ma

sull’onore della famiglia, non si poteva scherzare. L’aveva sempre difeso, a ogni costo, senza mezzi termini. Era un uomo di montagna, lui. Se aveva costretto Bianca a un matrimonio che l’aveva condotta a una simile fine, era stato solo nella convinzione di fare il suo bene. Ed era ancora sicuro di questo. Fosse potuto tornare indietro del tempo, non avrebbe mutato il suo comportamento. Il problema era stato quel delinquente in cui erano incappati, quel signorotto pieno di sé. Valente li aveva gabbati tutti, dal primo all’ultimo. Era lui il pazzo, non la sua povera figlia. E adesso, nonostante il male fatto, ne usciva nel migliore dei modi. Era libero. Non aveva più una moglie tra i piedi. Il Bufala era sicuro che si sarebbe calato nella parte del povero vedovo affranto, e che sarebbe corso a cercare consolazione tra le braccia di qualche donnaccia compiacente. Mentre il cadavere di sua figlia non era ancora freddo nella tomba! «Il Signore mi fulmini all’istante se lascerò che se la cavi così a buon mercato!» esclamò a voce alta, ritrovando tutte le sue energie. Angela non diede segno di averlo sentito e non lo guardò neppure mentre usciva di casa. sco andò verso l’osteria. Lì i suoi compari lo accolsero con mugugni imbarazzati: non erano uomini adatti a consolare una perdita. L’unica cosa che seppero fare, e per cui il Bufala era venuto, fu di porgergli un bicchiere di vino, poi ancora uno e poi un altro ancora. sco bevve senza limitarsi e il sollievo allo spirito fu immediato. «Come mai ti porti quella compagna di bevute, oggi?». Il Bufala si era quasi dimenticato della fedele carabina, afferrata di slancio prima di uscire di casa. Le diede una pacca affettuosa, poi guardò fisso il compare seduto accanto, con gli occhi resi lucidi dal vinaccio nero appena trangugiato. «Perché, oggi, questa mia signorina mi renderà un ottimo servizio». Forse gli uomini capirono cosa intendeva. Forse no. In ogni caso, nessuno di loro volle fermarlo. Magari erano troppo ubriachi per farlo, oppure ritenevano che un uomo dovesse essere libero di sistemare le questioni d’onore come meglio riteneva. Probabilmente ognuno di loro avrebbe fatto la medesima cosa, se si fosse trattato della propria famiglia.

Qualche ora più tardi, sco il Bufala raggiunse a fatica la Stazione dei Carabinieri, in città. Non era stato facile trovarla poiché non era pratico della zona e il vino che aveva bevuto gli scorreva ancora abbondante nelle vene e, oltre al coraggio, gli aveva dato anche una certa dose di confusione. Non trovava più la carabina e aveva solo un vago ricordo di averla buttata da qualche parte, subito dopo averla usata. Pretese di parlare con il Maresciallo e si mostrò talmente risoluto che non ci fu verso di farlo desistere. Il Maresciallo Gaetano Amoruso era scocciato. Non era la prima volta che uno dei montanari della zona si presentava ubriaco a raccontare scempiaggini. Quello in particolare lo conosceva bene. Gli era capitato di essere chiamato in una delle contrade lì intorno per qualche rissa tra omaccioni. In quelle occasioni aveva imparato a dubitare dei racconti dell’uomo, che non partecipava alle risse, bene inteso, ma si prodigava nel narrargli nei dettagli gli accadimenti. Peccato che ne inventasse una buona parte. Ubriaco, immaginava certe storielle che facevano sbellicare dalle risate. Se le prime volte gli aveva creduto, i risolini dei suoi compari e l’assurdità dei crimini che egli denunciava l’avevano presto persuaso a non confidare che in minima misura in quello che sco Sberze, detto il Bufala non per nulla, gli raccontava. Fece un sospiro. Si era trascinato fin lì per raccontargli le sue nuove fantasie? Sapeva che aveva una storia famigliare complicata, ma, diamine, tutti i tipi strani capitavano da lui? Per quanto tempo ancora avrebbe dovuto rimanere in quel posto tra i monti prima che la sua carriera potesse progredire e il suo luogo di lavoro cambiare, magari un po’ più vicino all’amata Sicilia, terra natale? Prestò orecchio solo vagamente al racconto del Bufala. «Con la mia carabina gli ho sparato un colpo. Uno solo. Centro! Sul muso, in pieno! Avreste dovuto vedere lo scempio! Ma se l’è meritato! Giustizia è fatta, adesso!». «Pretendereste che io creda che, ubriaco come siete, con una carabina immaginaria che non vedo da nessuna parte, sareste riuscito a colpire un uomo in volto? Con un colpo? Uno solo?». sco annuì con vigore, con un’espressione stupida, imbarazzatissimo di fronte alla divisa tutta lustrini.

«Non me ne resterò qui ad ascoltare le vostre minchiate un secondo di più».

Fine.

LE CINQUE COLOMBE di Jenny Gecchelin © 2011 CIESSE Edizioni

Libro ed eBook

Il confine tra leggenda, superstizione e realtà è così sottile che le protagoniste del romanzo, cinque sorelle di un’inconsueta bellezza, lo oltreano spesso, ignare di un ato che segna in modo indelebile il presente. Ines è la più giovane ed è lei a tenere il filo conduttore della narrazione, che parte in tempi recenti, per ripercorrere l’intero ventesimo secolo attraverso le vicissitudini della famiglia Dalla Vecchia. Frequenti riferimenti ricordano un momento storico assai tormentato, raccontato tramite la vita di gente comune. All’interno di una realtà chiusa e rurale, figli illegittimi, sparizioni misteriose, inganni e persino inspiegabili sortilegi alimentano le credenze popolari che, in fondo, celano sempre un pizzico di verità.

Copyright © 2013 CIESSE Edizioni TRAGEDIA DELL’ASSURDO di Jenny Gecchelin

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