Emile Zola
Therese Raquin
ISBN: 9788874171408
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Indice dei contenuti
Titolo Informazioni I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI
XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI
Titolo
Thérèse Raquin Emile Zola
Informazioni
In copertina: Edouard Manet, Berthe Morisot distesa, 1873, Parigi Musée Marmottan A cura di Annalisa Iezzi © 2012 REA Edizioni Via S. Agostino 15 67100 L’Aquila www.reamultimedia.it
[email protected] La Casa Editrice esperite le pratiche per acquisire tutti i diritti relativi alla presente opera, rimane a disposizione di quanti avessero comunque a vantare ragioni in proposito.
I
In fondo a via Guénégaud, venendo dal lungosenna, si trova la galleria del Ponte Nuovo, una specie di corridoio stretto e buio che va da via Mazzarino a via della Senna. Lunga circa trenta i e larga al massimo due, la galleria è pavimentata con ciottoli giallastri, logori, mal messi, esalanti un'acre umidità. Il tetto di vetri che la ricopre, tagliato ad angolo retto, è completamente ricoperto di sudiciume. Nelle belle giornate estive quando un sole rovente brucia le vie, un chiarore s'infiltra tra quei vetri lurido e langue penosamente nella galleria. Nei tetri giorni d'inverno e nelle mattinate nebbiose, la vetrata non riflette che grigiore sui ciottoli scivolosi, un grigiore sordido e sporco. Alla sua sinistra si affondano alcune botteghe oscure, basse, schiacciate, le quali emanano freddi soffi di sepolcro: botteghe di rivenditori di libri vecchi, negozi di giocattoli, di cartonaggi, le cui mostre di polvere si fondono con le ombre dell'ambiente; le vetrine, fatte di piccoli riquadri, striano di riflessi verdastri le merci esposte, e dietro di esse nere di tenebre, le botteghe sembrano lugubri fosse, nelle quali si dimenano forme bizzarre. A destra, per tutta la lunghezza della galleria, corre un muro sul quale i bottegai di fronte hanno applicato delle vetrinette in cui oggetti indescrivibili, merci dimenticate là da oltre vent'anni, giacciono su sottili ripiani dipinti di un'orrenda tinta bruna. Una venditrice di gioielli falsi si è installata nell'incavo di uno di quegli armadi e vi vende anelli da quindici soldi, delicatamente deposti su un piano di velluto azzurro in fondo a una scatola di mogano. Il muro sale oltre la vetrinetta, nero, grossolanamente intonacato, come se fosse spalmato di lebbra e tutto segnato di cicatrici. La Galleria del Ponte Nuovo non è luogo in cui eggiare la si imbocca per evitare un lungo giro, e guadagnare qualche minuto. Non vi a, quindi, che gente occupatissima, la cui unica preoccupazione è di far presto e tirare dritto: apprendisti di officina con il grembiale da lavoro, artigiani che vanno a consegnare i loro manufatti, uomini e donne con pacchi sotto il braccio, e anche anziani che si trascinano nel crepuscolo tedioso che scende dalla vetrata, piccole
frotte di ragazzi che, all'uscita di scuola, vanno lì per fare chiasso correndo e battendo gli zoccoli sul selciato. Tutto il giorno è un rumore secco e affrettato di i risonanti sulla pietra con irritante irregolarità; nessuno parla, nessuno si ferma, ciascuno corre alle sue occupazioni, la testa bassa, il o rapido, senza dare nemmeno uno sguardo alle botteghe. Quando per puro caso un ante si ferma davanti ad una vetrina, i bottegai lo guardano preoccupati. A sera tre becchi a gas, chiusi in lanterne pesanti e quadrate, rischiarano la galleria: sospesi alla vetrata, sulla quale gettano chiazze di chiarore rossastro, lasciano cadere intorno vacillanti cerchi di pallido splendore debbano sparire ad ogni istante. La galleria prende, allora, l'aspetto sinistro d'un vero scannatoio grandi ombre si allungano sul selciato, fiammate d'umido arrivano dalla strada; si direbbe un condotto sotterraneo fievolmente rischiarato da tre lampade funeree. Per l'illuminazione delle mostre, i mercanti si accontentano degli insignificanti raggi che i becchi a gas fanno cadere sulle vetrine, mentre all'interno non accendono che una candela sotto un paralume mettendola su un angolo del bancone, soltanto allora i anti possono distinguere cosa vi sia in quegli antri, nel quali è notte durante il giorno. Sulla linea nera dei frontoni, le vetrine del cartonato fiammeggiano due lampade a petrolio forano le tenebre con fiamme giallastre. Invece, una candela, infilata nel tubo di vetro di una lampada a olio, leva scintille di luce dalla scatola dei gioielli falsi, mentre la padrona sonnecchia nel vano della sua mostra, con le mani infilate sotto lo scialle. Anni or sono, di fronte alla venditrice dei gioielli falsi, c'era una bottega, i cui scaffali verde bottiglia trasudavano umidità. Sull'insegna, un'asse lunga e stretta, era scritto a caratteri neri: Maceria, e su uno dei vetri della porta d'entrata si leggeva un nome di donna: Teresa Raquin, in caratteri rossi. A destra e a sinistra della porta s'infossavano due vetrine profonde, tappezzate di carta blu, che di giorno, immerse in un tenero chiaroscuro, lasciavano intravedere l'esposizione. In una c'era un po' di biancheria: cuffie di tulle cannetta to da due o tre franchi l'una, polsi e colli di mussolina, maglie, calze, calzini, bretelle. Ogni oggetto, ingiallito e sciupato, era tristemente appeso ad un uncino di fil di ferro, di modo che la vetrina sembrava dall'alto in basso riempita di cenci biancastri che prendevano un aspetto lugubre in quell'oscurità trasparente. Le cuffie nuove di
un bianco più vivo macchiavano bruscamente la carta blu che tappezzava i ripiani, mentre i calzini colorati, messi su stanghette, mettevano note scure sulla mussolina sbiadita. Nell'altra vetrina più stretta, c'erano gomitoli di lana verde, bottoni neri cuciti su carte bianche, scatole di ogni colore e di ogni dimensione, reti con perline d'acciaio esposti su tondi di carta bluastra , fasci d' aghi per lana, campioni di tappezzeria, rotoli di nastri, il tutto sembrava una massa di oggetti stinti e sciupati che senza dubbio giacevano lì da cinque o sei anni. Tutte le tinte si erano scolorite finendo per diventare grigio sporco, in quell'armadio che polvere ed umidità facevano marcire. D'estate, verso mezzogiorno, quando il sole bruciava piazze e vie con i suoi raggi ramati, s'intravedeva, dentro le cuffie della prima vetrina, un profilo pallido e rigido di una giovane staccarsi vagamente dalle tenebre che regnavano nella bottega. Alla fronte bassa ed arsa era congiunto un naso lungo, stretto, affilato; le labbra erano due linee sottili d'un rosa pallido, il mento, corto e nervoso, si attaccava al collo con una curva dolce e carnosa. Affondato nell'ombra, il corpo era invisibile: si scorgeva soltanto quel profilo di un biancore opaco, bucato da un grande occhio nero e come schiacciato da una folta capigliatura scura; quel profilo restava lì per ore e ore, immobile e tranquillo, fra due cuffie sulle quali le stanghette di ferro avevano tracciato due righe di ruggine. Di sera, con la lampada accesa, si vedeva l'interno della bottega, più larga che profonda: da una parte un piccolo banco, dall'altra una scala a chiocciola portava alle stanze superiori. Lungo le pareti erano disposti armadi, vetrine, e pile scatole di cartone verde; quattro sedie ed un tavolo completavano l'arredamento. L'ambiente appariva spoglio, glaciale; e le stesse merci, impacchettate ed accatastate negli angoli, non giocavano nel grigiore con i loro vivaci colori. Di solito c'erano due donne sedute dietro il banco: la giovane dal profilo rigido e una vecchia che sonnecchiando sembrava sorridere. Costei aveva circa sessantanni. Il suo volto grasso e placido biancheggiava al chiarore della lampada, mentre un grosso gatto tigrato, accoccolato su un angolo del banco, la guardava dormire. Più in là, seduto su una sedia, un uomo sulla trentina leggeva e chiacchierava sommessamente con la giovane. Era piccolo, debole, molle d'aspetto, i capelli di un biondo sbiadito, la barba rada, il viso lentigginoso; sembrava un ragazzo malato e viziato.
Poco prima delle dieci la vecchia si scuoteva dal suo torpore, chiudeva la bottega, tutta la famiglia se ne andava a letto. Il gatto tigrato seguiva i padroni facendo le fusa e strusciando la testa contro ogni sbarra della ringhiera. L'alloggio, di sopra, si componeva di tre stanze. La scala portava ad una sala da pranzo adibita anche a salotto: a sinistra una stufa di maiolica in una nicchia, di fronte una credenza, alcune sedie schierate lungo le pareti, al centro, spianata, una tavola rotonda, in fondo dietro un tramezzo a vetri, una cucina buia, e a ognuno dei due lati una camera da letto. Dopo aver abbracciato figlio e nuora, la vecchia si ritirava nella sua camera; il gatto s'appisolava su una sedia in cucina; gli sposi entravano nella loro camera, la quale aveva una seconda porta su una scala che immetteva nella galleria, attraverso un atrio stretto e buio. Tremante di febbre, l'uomo si metteva a letto mentre la giovane apriva la finestra per chiudere le persiane. Si soffermava qualche Istante, di fronte a quel muro nero rozzamente intonacato, che s'alzava oltre la galleria volgeva uno sguardo distratto sul muro e poi, silenziosa, andava a sdraiarsi anche lei con sdegnosa indifferenza.
II
Mamma Raquin era una vecchia commerciante di Vernon. Per circa venticinque anni aveva vissuto in una picco la bottega di quella città poi, stanca e addolorata, dopo la morte dei marito vendette la tua proprietà e, fra vendita e risparmi, ricavò un capitale di quarantamila franchi, la cui rendita di duemila franchi annui era più che sufficiente ai suoi modesti bisogni. Con la sua vita ritirata, ignara delle gioie e dei dolorosi affanni del mondo, s'era costruita una esistenza di pace e di tranquilla beatitudine. Per quattrocento franchi all'anno prese in affitto una casetta con un giardino che scendeva fino alla riva della Senna: una casa quieta ed appartata, posta in mezzo a vasti prati, arieggiante vagamente a chiostro, alla quale si accedeva attraverso uno stretto sentiero con le finestre che guardavano sul fiume e sui pendii deserti della riva opposta. La buona donna, che aveva ata la cinquantina, si chiuse in quella solitudine e vi rimase serenamente con il figlio Camillo e la nipote Teresa. Camillo aveva vent'anni e la madre lo viziava ancora come fosse un bambino lo adorava perché sopravvissuto ad una giovinezza di sofferenze. Il ragazzo aveva avuto tutti i tipi di febbre e tutte le malattie immaginabili e mamma Raquin aveva combattuto quindi anni contro quei terribili mali che volevano strapparle il figlio, li vinse tutti con grande pazienza, cure e dedizione. Salvato da morte, Camillo crebbe timoroso per le continue scosse che gli avevano indebolito il fisico: fermato nello sviluppo, restò piccolo e gracile, e le sue membra assunsero movimenti lenti e stanchi. La madre l'amava ancora di più per quella debolezza che lo affaticava, e guardava con tenerezza quel volto pallido, soddisfatta del suo trionfo, quando pensava a quante volte aveva ridato la vita al figlio. Nei brevi periodi di tregua tra una malattia e l'altra, il ragazzo studiò in una scuola commerciale di Vernon, imparò a scrivere e a fare i conti , ma la sua istruzione si fermò alle quattro operazioni e a una conoscenza molto superficiale
della grammatica; in seguito prese lezioni di calligrafia e contabilità. Se qualcuno le consigliava di mandarlo in collegio, mamma Raquin si sentiva prendere da uno stato di terrore: sapeva che, lontano da lei il figlio sarebbe morto; diceva che i libri lo avrebbero ucciso, quindi restò ignorante, e quell'ignoranza divenne un'altra debolezza. Raggiunti i diciotto anni, stanco di oziare, insofferente alle ossessionanti attenzioni materne, volle trovarsi un impiego e divenne commesso da un commerciante di telerie a sessanta franchi al mese. L'irrequietezza del suo spirito gli rendeva insopportabile l'ozio, e quindi si sentì più calmo e più in gamba pur lavorando come impiegato dovendo stare tutto il giorno curvo su fatture e lunghissimi conti che spuntava pazientemente cifra per cifra. A sera, esausto, con la testa vuota, sapeva sentirsi felice nello stesso ebetismo che lo prendeva. Dovette litigare con la madre per lavorare dal telaiolo: ella voleva tenerlo sempre con sé, fra due guanciali, lontano dai problemi della vita; ma il ragazzo s'infuriò, pretese di lavorare come gli altri ragazzi avrebbero preteso i giocattoli, e non lo faceva per senso di dovere, bensì per istinto,per bisogno naturale. Le tenerezze, le coccole della madre gli avevano suscitato un feroce egoismo; credeva, si, di amare coloro che lo compiangevano e lo viziavano, ma in realtà viveva per sé, chiuso in se stesso, mirando al proprio benessere e cercando tutti i mezzi possibili per aumentarlo. Quando l'eccessivo tenero e opprimente affetto di mamma Raquin lo esasperò, cercò scampo in un'occupazione qualunque che lo allontanasse dalle tisane e dai decotti. Poi la sera ritornando dall'ufficio, correva in riva alla Senna con la cugina Teresa, che non aveva ancora diciott'anni. Un giorno sedici anni prima, quando mamma Raquin lavorava come commerciante a Vernon, era giunto dall'Algeria suo fratello, il capitano, con una bimba fra le braccia <<Ecco tua nipote>>, le disse sorridendo. <
>. La donna prese la bimba, le sorrise, la baciò sulle guance rosee e non fece troppe domande. Degans si fermò otto giorni a Vernon e della piccina disse solo che era nata ad Orano da una bellissima indigena. Un'ora prima di andarsene consegnò alla sorella l'atto di nascita nella quale Teresa, da lui riconosciuta, ne portava il nome del casato. Andò via, e non lo si vide mai più: qualche anno dopo si disse che fu ucciso in Africa. Teresa crebbe vicino a Camillo, nel medesimo letto, sotto le amorevoli cure della zia. Aveva una salute di ferro ma fu allevata come una malaticcia, dividendo con il cugino le medicine e l'aria calda della stes sa stanza. Per ore restava accanto al
fuoco, pensierosa contemplava le fiamme senza abbassare lo sguardo. La vita forzata in convalescenza la fece chiudere in se stessa, si abituò a parlare a bassa voce, a camminare senza far rumore, a restare muta ed immobile sulla sedia con gli occhi aperti ma privi di espressione. Quando alzava un braccio o muoveva una gamba, si sentiva agile, muscoli possenti, energie e ioni latenti un un corpo assopito. Un giorno, fiaccato dalla debolezza, il cugino cadde. Teresa lo sollevò e lo portò con grande sforzo tanto da farle affiorare chiazze vermiglie sulle gote. La vita chiusa che conduceva, il regime snervante al quale era sottoposta non riuscirono lo stesso ad indebolire il corpo magro e florido, sol il suo volto divenne di un colorito giallastro, che la faceva sembrare brutta vista nell'ombra. Talvolta dalla finestra fissava le case di fronte illuminate dalla luce dorata del sole. Quando mamma Raquin vendette il negozio e si ritirò nella casetta accanto al fiume, Teresa ne fu assai contenta. Non mostrò la sua gioia a nessuno perché a furia di sentirsi dire dalla zia: «Sta attenta, non far rumore», s'era abituata a tenersi per se tutti gli impulsi della sua natura. Dotata di eccezionale sangue freddo, nascondeva, sotto un'apparente calma, impeti focosi: si comportava sempre come fosse nella camera del cugino, cioè presso un moribondo, e si era abituata a movimenti misurati, al silenzio, alla calma, alle parole appena bisbigliate. Alla vista del giardino, del fiume bianco, dei vasti pendii verdi che salivano all'orizzonte fu presa da una selvaggia voglia di correre e di gridare; il cuore le batteva in petto con violenza; ma nessun muscolo del volto la tradì, ed ella si limitò ad un sorriso quando la zia le domandò se le pie la nuova casa. Da quel momento la sua vita migliorò: ella conservò il suo portamento agile, la sua fisionomia calma e indifferente, restò la ragazza cresciuta nel letto di un malato, anche se dentro di se sentiva un'esistenza ardente ed impetuosa. Se restava sola sui prati o in riva al fiume, si distendeva a pancia in giù come una bestia, gli occhi neri spalancati, il corpo teso pronto a balzare. E vi restava ore ed ore a non pensare a nulla, bruciata dal sole, felice di poter affondare le dita nel terreno, e faceva sogni folli, guardava il fiume che borbottava, immaginava che l'acqua stesse per assalirla, e allora si irrigidiva, si preparava alla difesa e si domandava adirata come avrebbe potuto vincere i flutti.
A sera cal ma e silenziosa, Teresa cuciva accanto alla zia, e a guardarla nella luce fioca che scendeva dal paralume, pareva sonnecchiasse. Camillo sprofondato nella poltrona pensava ai conti del telaiolo. Qualche parola detta a bassa voce turbava di tanto in tanto la pace di questa addormentata intimità. Mam ma Raquin guardava i suoi ragazzi con serena bontà. Aveva deciso di sposarli. Pensando al figlio sempre moribondo, era atterrita all'idea di dover morire un giorno lasciandolo solo e sofferente; perciò faceva affidamento su Teresa come vigile assistente accanto a Camillo: per quell'aria tranquilla, per la muta dedizione, la nipote le ispirava fiducia illimitata; l'aveva vista all'opera e voleva darla al figlio come angelo custode. Per lei, quel matrimonio era una soluzione prevista, decretata. Lo sapevano anche i due ragazzi, che un giorno si sarebbero sposati. Cresciuti con quella prospettiva, essa era diventata per loro naturale, e in famiglia se ne parlava come di un fatto necessario e inesorabile. <
rialzò con un balzo felino e, con il volto e gli occhi rossi si precipitò contro di lui a braccia tese . Camillo si lasciò andare lentamente a terra, aveva avuto paura. I mesi e gli anni arono e giunse il giorno prefissato per il matrimonio. Mamma Raquin prese Teresa in disparte, le parlò dei suoi genitori e le raccontò la storia della sua nascita. La ragazza ascoltò in silenzio, poi abbracciò la zia senza dire una parola. E la sera, invece di entrare nella sua camera, che stava a sinistra della scala, entrò in quella del cugino, che era a destra: fu il solo cambiamento che ci fu in quel giorno nella sua vita. L'indomani, quando gli sposi scesero giù, Camillo aveva sempre la solita stanchezza da malaticcio e la sua egoistica tranquillità; Teresa manteneva la sua abituale dolce indifferenza, il volto chiuso, di una calma impressionante.
III
Otto giorni dopo il matrimonio, Camillo avvertì la madre, in tono deciso, che intendeva lasciare Vernon e stabilirsi a Parigi. Mamma Raquin s'irritò: aveva ormai sistemato la sua vita, e non intendeva modificarla di un sol o; ma il figlio si fece prendere da una crisi nervosa e minacciò che si sarebbe riammalato, se essa non lo accontentava. «Non ti ho mai avversata, in tutti i tuoi progetti» disse alla madre, ho ingoiato tutte le misture che mi hai dato, ho sposato mia cugina. Mi pare giusto, ormai, di avere anch'io una volontà, e che tu faccia a modo mio. Partiremo alla fine del mese. Mamma Raquin non poté chiudere occhio tutta la notte. La decisione di Camillo le sconvolgeva la vita, e la faceva torturare per rifarsi un'esistenza. A poco a poco, tuttavia, si calmò. Pensò che gli sposi avrebbero potuto avere dei bambini e che allora la sua modesta rendita sarebbe diventata insufficiente ai nuovi bisogni Quindi era necessario guadagnare altro denaro, rimettersi in commercio, trovare un'occupazione redditizia anche per Teresa; e così, a giorno fatto, il trasferimento non la contrariava più: aveva preparato il piano per una nuova vita. A colazione era addirittura allegra. <
>. <
>, rispose il giovanotto, il fatto è che nient'altro che una stupida ambizione aveva indotto Camillo alla partenza: voleva impiegarsi in una grande azienda; arrossiva dal piacere quando si immaginava in un ampio ufficio, con le mezze maniche di lustrino nero e la penna poggiata sull'orecchio. Teresa non fu neanche consultata; era stata sempre ivamente sottomessa, che la zia e il marito non le chiedevano il suo parere. Sarebbe andata dove andavano essi, avrebbe fatto ciò che essi facevano senza lamentarsi, senza opporsi, senza
nemmeno mostrare d'essersi accorta che si cambiava posto. Mamma Raquin arrivò a Parigi e si recò direttamente alla galleria del Ponte Nuovo. Un'anziana signorina di Vernon l'aveva indirizzata da una sua parente che gestiva una merceria proprio in quel luogo e voleva sbarazzarsene. La bottega era angusta e buia, come la vecchia commerciante notò, ma attraversando Parigi ella s'era sentita così stordita dal chiassoso affollamento delle strade e dal lusso delle vetrine, che quella stretta galleria, quelle mostre modeste le ricordarono il vecchio negozio di Vernon, così tranquillo. Le sembrò di vedersi ancora in provincia, se ne senti sollevata, e pensò che i due giovani sarebbero stati contenti in quell'angoletto quasi ignorato. Il modesto costo della bottega affrettò la decisione; gliela cedevano per duemila franchi, e l'affitto del negozio e dell'alloggio al primo piano non veniva che cento franchi al mese. Mamma Raquin, che aveva messo da parte quasi quattromila franchi, calcolò che avrebbe potuto pagare la cessione e il primo anno di affitto senza intaccare il capitale; lo stipendio di Camillo e i proventi della bottega sarebbero bastati, pensava, per le necessità quotidiane, e cosi, non dovendo più toccare la rendita, avrebbe potuto aumentare il capitale per assicurare una dote agli eventuali nipoti. Ritornò a Vernon tutta raggiante e disse che aveva trovato una vera perla, un angolo delizioso al centro di Parigi. E a poco a poco, con il ar dei giorni, nelle conversazioni serali, la bottega umida e buia della galleria diventò un palazzo: sulla scia dei suoi ricordi imprecisi , la rivedeva comoda, larga, tranquilla, piena di mille inestimabili comodità. — Ah! cara Teresa, — diceva, — vedrai come saremo felici laggiù! Tre belle camere al piano di sopra, la gall eria sempre affollata; faremo delle vetrine fantastiche... Ti assicuro che non ci annoieremo. E non la finiva più; tutti gli istinti di vecchia commerciante si risvegliavano in lei e già dava consigli a Teresa sul modo di vendere, sugli acquisti, sulle furberie del piccolo commercio. Finalmente la famiglia lasciò la casa in riva alla Senna e la sera dello stesso giorno traslocarono alla galleria del Ponte Nuovo. Quando Teresa entrò nella bottega dove ormai avrebbe dovuto vivere, le sembrò di scendere nella terra umida di un sepolcro. Una specie di disgusto la prese alla gola ed ebbe brividi di paura. Guardò la galleria sporca ed esaminò il negozio, salì al primo piano, fece il giro di ogni camera; quelle stanze vuote, senza mobili le sembrarono spaventosamente deserte e in cattivo stato, non fece un gesto, né
disse una parola. Era come atterrita. Discesi in bottega la zia e il marito, ella si sedette su un baule, le mani irrigidite, la gola piena di singhiozzi, ma non una lacrima. Di fronte alla realtà, mamma Raquin restò imbarazzata e quasi s i vergognò delle sue fantasticherie; tuttavia si sforzò di difendere l'acquisto fatto e si adoperò a trovare un rimedio per ogni inconveniente che si presentava: spiegò che quell'oscurità derivava dal tempo coperto, e concluse che non ci voleva che una ripulita. Ma sì, ma sì, — rispondeva Camillo. — Del resto, quassù non ci saliremo che la sera. Per me, io non rincaserò mai prima delle cinque о le sei, e voi due, essendo in compagnia, non vi annoierete di sicuro! Camillo non avrebbe mai acconsentito ad abitare un simi le tugurio se non avesse fatto affidamento sul dolce tepore dell'ufficio: pensava, infatti, che sarebbe stato tutto il giorno al caldo nell'amministrazione, e che la sera si sarebbe coricato presto. Per tutta una settimana bottega e alloggio rimasero in disordine. Teresa, fin dal primo giorno, s'era seduta dietro il banco e non si muoveva da quel posto. Mamma Raquin si meravigliò di quell'accasciamento: aveva supposto che la nipote si sarebbe preoccupata di abbellire la casa, di mettere qualche fiore alle finestre, tendine, tappeti, di sollecitare la sostituzione di qualche paramento; ma quando lei stessa proponeva un qualsiasi abbellimento: «A che serve? », rispondeva tranquillamente la nuora, <<Stiamo benissimo, non abbiamo bisogno di alcun lusso>>. Toccò quindi a mamma Raquin sistemare le camere e mettere un po d'ordine nel negozio, Teresa però s'infastidì nel vederla trafficare tutto il giorno e alla fine assunse una cameriera ed obbligò la zia a venire a sedersi accanto a lei. Ca millo restò un un mese senza trovare lavoro. In quel periodo cercò di farsi vedere il meno possibile in bottega e vagabondò tutto il giorno: la noia lo prese a tal punto, che già parlava di ritornare a Vernon; poi fu assunto nell'amministrazione della ferrovia di Orléans a cento franchi al mese: il sogno della sua vita. Ogni mattina usciva alle otto, scendeva per via Guénégaud, usciva sul lungofiume e a piccoli i, con le mani nelle tasche, seguiva la Senna dal
palazzo dell'Istituto fino all'Orto botanico. La lunga strada, ch'egli percorreva due volte al giorno, non gli dava mai noia: guardava l'acqua che filava veloce, si fermava di tanto in tanto per osservare le zattere che seguivano la corrente, e non pensava a nulla. Spesso si piantava davanti alla cattedrale di Notre-Dame e restava a contemplare le impalcature di cui la chiesa, allora in riparazione, era circondata: le travi e il grosso tavolame lo divertivano senza sapersene spiegare il perché. Poi, di sfuggita, dava un'occhiata al Porto dei vini, contava le carrozze che venivano dalla stazione. A sera, mezzo istupidito dal lavoro, con la testa, ancora piena di sciocche storielle raccontate in ufficio, se non aveva fretta, attraversava l'Orto botanico e andava a vedete gli orsi. Restava là una mezz'ora, si sporgeva sul ciglio della fossa, seguendo con lo sguardo le grosse bestie che si dondolavano pesantemente; le loro goffe movenze lo divertivano ed egli le seguiva a bocca aperta, gli occhi spalancati, con una gioia da imbecille. Finalmente si decideva a rincasare, strascicando i piedi e sbirciando i anti, le carrozze e le vetrine dei negozi. Appena arrivato a casa, mangiava e poi si dedicava alla lettura. Aveva comprato le opere del Buffon e, nonostante la noia che quella lettura gli suscitava, ogni sera se ne imponeva venti o trenta pagine. Leggeva anche, in fascicoletti da due soldi, la Storia del Consolato e dell'Impero del Thiers, la Storia dei Girondini del Lamartine o anche libri di scienze volgarizzate. In tal modo credeva di perfezionare la sua cultura. A volte obbligava la moglie ad ascoltare qualche brano o qualche aneddoto, meravigliandosi che Teresa potesse rimanere muta e pensierosa tutta la serata senza essere tentata di prendere in mano un libro. In fondo, egli aveva la convinzione che la moglie non era un'aquila. Teresa respingeva i libri spazientita: preferiva resta re oziosa, gli occhi fissi nel vuoto, il pensiero vagante e smarrito. D'altronde, manteneva l'umore invariato e docile, e la volontà tesa a fare di se stessa uno strumento ivo, di una compiacenza e di un disinteresse estremi. Il negozio andava tranquillamente, il guadagno mensile si manteneva su una media costante e regolare. Le clienti lavoravano tutte nel quartiere, e ogni cinque minuti entrava una ragazzina per comprare pochi soldi di roba. Teresa serviva con parole che erano sempre le stesse con un sorriso che le saliva meccanicamente alle labbra. Mamma Raquin, invece, sapeva mostrarsi più duttile, era più chiacchierona e, in sostanza, era lei che attirava e conservava la clientela.
Per tre anni, i giorni si seguirono sempre uguali tra loro. Camillo non si assentò un solo giorno dall'ufficio, la moglie e la madre raramente si allontanarono dalla bottega. Vivendo in un'ombra umida, in un silenzio cupo e opprimente, Teresa vedeva prospettarsi davan ti una ben nuda esistenza: ogni sera il solito letto freddo, ogni mattina la solita giornata vuota.
IV
Ogni settimana, il giovedì sera, i Raquin ricevevano gli unici: accendevano la grande lampada della sala da pranzo, mettevano sul fuoco l'acqua per il tè, ed era un vero avvenimento. Spiccando sulle altre, la serata del giovedì entrò fra le abitudini della famiglia come un'orgia borghese piena di pazza allegria: non si andava a letto prima delle undici. La commerciante aveva ritrovato a Parigi una vecchia conoscenza: il commissario Michaud, che era stato nella polizia di Vernon per più di vent'anni. Abitando, allora, nello stesso caseggiato, s'era stabilita fra loro una certa intimità; poi, quando mamma Raquin aveva venduto la bottega per andare a stabilirsi nella casetta in riva al fiume, s'erano a poco a poco persi di vista. Nel frattempo Michaud aveva lasciato la città di provincia per venire a godersi tranquillamente a Parigi i suoi millecinquecento franchi all'anno di pensione. In un giorno di pioggia rivide la sua vecchia amica nella galleria del Ponte Nuovo, e quella stessa seta cenò in casa della commerciante. Fu da quell'incontro che inizi arono i ricevimenti del giovedì, perché Michaud prese l'abitudine di ripresentarsi puntualmente ogni settimana e in seguito l'accompagnò anche il figlio Oliviero, un giovanotto di trent'anni, magro e asciutto, che aveva sposato una donnetta piccolina, debole e malaticcia. Oliviero era addetto al servizio d'ordine e di sicurezza, funzionario della Prefettura di polizia, posto che gli rendeva tremila franchi l'anno, e di cui Camillo era particolarmente invidioso. Teresa invece detestò fin dal primo incontro quell'uomo duro e freddo, che credeva di fare onore alla bottega della galleria, portandovi la sua lunga e magra figura insieme alle debolezze della minuscola moglie. Camillo introdusse un altro invitato: Grivet, impiegato anziano della ferrovia d'Orléans, che, con vent'anni di servizio, aveva raggiunto un grado di primo applicato e guadagnava duemilacento franchi l'anno. Era lui che assegnava le mansioni agli impiegati dell'ufficio di Camillo, per cui questi gli portava rispetto. « Un giorno dovrà pur morire », si diceva fantasticando, « e può darsi benissimo che lo sostituirò io: non oltre una decina d'anni, al massimo ».
Grivet fu entusiasta dell'accoglienza di mamma Raquin, e ritornò ogni settimana, con perfetta regolarità. Dopo sei mesi, quella visita del giovedì era diventata un bisogno, per lui, ed egli si recava alla galleria del Ponte Nuovo meccanicamente, come faceva al mattino quando andava in ufficio, per istinto animalesco. I ricevimenti settimanali si ravvivarono. Alle sette mamma Raquin accendeva il fuoco, dava luce alla grossa lampada sul tavolo, vi preparava accanto la scatola del domino e spolverava il servizio da tè esposto sulla credenza. Alle otto precise il vecchio Michaud e Grivet si incontravano davanti alla bottega, uno proveniente da via della Senna e l'altro da via Mazzarino. Entrati loro, tutti salivano in sala da pranzo e, seduti intorno al tavolo, aspettavano Oliviero e la moglie, che erano ritardatari ostinati. Quando gli ospiti erano al completo, mamma Raquin versava il tè, Camillo rovesciava la scatola del domino sull'incerata, ognuno sprofondava nel suo gioco e non s'udiva altro che il secco ticchettio dei rettangoletti. Al termine di ogni partita i giocatori litigavano due o tre minuti, poi si rifaceva quel silenzio cupo, rotto solo dal cozzare delle pedine sul tavolo. Teresa partecipava al gioco con un'indifferenza che irritava Camillo; si prendeva sulle gambe sco, il grosso gatto tigrato che la zia aveva portato da Vernon, e non cessava di accarezzarlo con una mano, mentre con l'altra deponeva le pedine. Per lei i ricevimenti del giovedì erano un vero supplizio, e spesso accusava un malessere, un'emicrania, per potere astenersi dal gioco, rimanere lì, oziosa e mezzo addormentata. Un gomito sul tavolo, la guancia appoggiata sul palmo della mano, contemplava esasperata gli invitati della madre e del marito negli strani riflessi di quell'alone giallastro e fumoso che arrivava dal paralume, e ava lo sguardo dall'uno all'altro con disgusto e sorda irritazione. Michaud, il vecchio, ostentava un volto insignificante, chiazzato di rosso, una di quelle facce morte da vecchio rintronato; Grivet si profilava con la sua maschera stretta e gli occhi rotondi, le labbra sottili di un idiota; Oliviero, i cui zigomi parevano forare le gote, portava, tronfio, su un corpo ridicolo una testa rigida ed insignificante; Susanna, la moglie di Oliviero, appariva pallida, gli occhi smorti, le labbra esangui, il viso flaccido. Fra quelle grottesche creature, con le quali si trovava rinchiusa, Teresa non riusciva a vedere un uomo o un essere vivente: talvolta aveva un'allucinazione, le sembrava di essere precipitata in un cimitero, avendo come compagni dei cadaveri meccanici ai quali si potesse far muovere testa, braccia e gambe, tirando un filo. L'aria viziata della sala da pranzo la soffocava; il silenzio agghiacciante, i riflessi giallastri della lampada la penetravano con un senso di gelo e di angoscia inesprimibili.
Giù, sulla porta del negozio, era stato collocato un camlo il cui acuto tintinnio annunciava l'ingresso del clienti: Teresa tendeva sempre l'orecchio e quando il camlo squillava era lesta a scendere di sotto, con il sollievo e la felicità di poter lasciare per qualche momento la sala da pranzo. E indugiava nel servire il cliente. Poi, sola, felice di non avere davanti agli occhi Oliviero e Grivet, sedeva dietro al banco in un atteggiamento di riposo e vi restava il più a lungo possibile, restia com'era a tornar di sopra: l'aria umida della bottega le calmava la febbre che le bruciava le mani ed ella riprendeva l'aspetto trasognato che le era abituale. Ma non poteva rimanere a lungo così. Camillo si arrabbiava per la sua assenza, non concepiva che si potesse preferire la bottega alla sala da pranzo, il giovedì sera. Sporgendosi sulla scala, cercava la moglie con lo sguardo: «Ebbene», gridava, «che fai lì? Perché non risali? Stasera Grivet ha una fortuna fantastica, ha vinto ancora lui ». Con grande dispiacere, Teresa si alzava e andava a riprendere posto di fronte al vecchio Michaud, le cui labbra pendenti si aprivano a nauseanti sorrisi. E fino alle undici restava accasciata sulla sedia, con sco stretto fra le braccia e gli occhi rivolti a lui per non guardare quei pupazzi di cartapesta che le sghignazzavano intorno.
V
Un giovedì, tornando dall'ufficio, Camillo condusse con sé un giovanottone dalle spalle quadrate, e lo spinse nella bottega con aria familiare. — Mamma, — chiese alla vecchia, non lo riconosci? Mamma Raquin guardò quel ragazzone, frugò nei suoi ricordi, ma non trovò nulla. Teresa seguiva calma la scena. — Come, — riprese Camillo, — non riconosci Lorenzo, il figlio del signor Lorenzo che ha tutti quei bei campi di grano dalla parte di Jeufosse... non ricordi? Andavamo a scuola insieme, e la mattina veniva sempre a prendermi dalla casa dello zio che era vicino a noi, e tu gli davi le fettine di pane con la marmellata. Mamma Raquin si rammentò di colpo del piccolo che non vedeva da vent'anni, e lo trovò eccezionalmente cresciuto. Con un flusso di ricordi e moine tutte materne, volle fargli dimenticare il suo stupore iniziale. Frattanto Lorenzo s'era seduto, sorrideva tranquillo, rispondeva con voce chiara e si scrutava intorno con sguardi calmi e disinvolti. — Figuratevi, — disse Camillo, — che questo birbone è impiegato alla stazione della ferrovia d'Orléans da diciotto mesi e soltanto oggi ci siamo incontrati e riconosciuti... è così grande, la Società, così importante! E fece quel commento sgranando gli occhi e serrando le labbra, fiero d'essere l'umile ruota di un grande meccanismo; poi continuò dondolando il capo: — Oh, ma lui s'è già piazzato bene! Ha studiato, e guadagna già millecinquecento franchi... Il padre lo mise in collegio e lui ha studiato diritto e ha imparato a dipingere. È così, Lorenzo? Intanto stasera cenerai con noi. — Con molto piacere, — rispose senza far complimenti Lorenzo, sbarazzandosi del cappello e sistemandosi nella bottega mentre mamma Raquin correva ai fornelli.
Teresa che non aveva ancora detto una parola, guardava il nuovo ospite: non aveva mai visto un vero uomo e Lorenzo, alto, forte, con il volto fresco, la sorprendeva. Osservava con una specie di ammirazione quella fronte bassa coronata da una capigliatura nera e sconvolta, le sue guance piene, le labbra rosse, il viso regolare, di una bellezza sanguigna. Fermò un momento lo sguardo sul collo, un collo largo, basso, grasso e possente; poi si perdette nella contemplazione delle enormi mani ch'egli teneva appoggiate sulle ginocchia: avevano le dita quadrate, e il pugno, chiuso, doveva essere imponente, e avrebbe potuto ammazzare un bue. Lorenzo era un vero figlio di contadini, dal portamento pesante, il dorso inarcato, i movimenti lenti e regolari, l'aspetto tranquillo e ostinato. Si intravedevano, sotto i vestiti, muscoli tondi e sviluppati; doveva avere un corpo pieno di carne soda. Esaminandolo con attenzione, andando con gli occhi dal pugno al volto, soprattutto quando si fermò su quel collo taurino, Teresa ebbe un po' di brivido. Camillo mise fuori i volumi del Buffon e le dispense da due soldi per far vedere all'amico che anche lui si acculturava; poi, come rispondendo a una domanda che da qualche minuto s'andava facendo, chiese a Lorenzo: - Tu la conosci, mia moglie, vero? Ti devi ricordare della mia cuginetta che giocava con noi a Vernon. L'ho riconosciuta molto bene, - rispose Lorenzo, guardando Teresa negli occhi. Sotto quello sguardo diritto, penetrante, la giovane provò come un malessere. Sforzò un sorriso, scambiò qualche parola con l'ospite e con il marito, poi s'affrettò a raggiungere la zia in cucina. Qualche cosa la faceva soffrire. Si misero a tavola, e fin dalla minestra Camillo si credette in dovere di intrattenere l'amico. - Come sta tuo padre? - gli domandò. -Non so, -- rispose Lorenzo. - Non corrono buoni rapporti tra noi; non ci scriviamo da cinque anni. Ma come? — esclamò Camillo stupito da quella notizia. - Mio padre ha delle idee tutte sue. Siccome è in continua lite con i vicini, mi mise in collegio sperando di farmi diventare un avvocato che gli vincesse tutte le cause. Nelle sue ambizioni c'è sempre un fondamento utilitario. Vorrebbe trarre profitto perfino dai suoi errori. - E tu non hai voluto fare l'avvocato? — chiese Camillo sempre più stupito - Proprio no! rispose Lorenzo sorridendo. Per due anni ho finto di
seguire i corsi di diritto per non perdere l'assegno di milleduecento franchi che mio padre mi dava. Vivevo insieme ad un compagno di collegio, che è pittore, e mi misi a dipingere anch'io. Mi divertivo molto: è un mestiere curioso, e assolutamente non faticoso. Fumavamo e scherzavamo tutto il giorno. I Raquin spalancavano tanto d'occhi. — Sfortunatamente, — continuò Lorenzo, - quella vita non poteva durare in eterno: mio padre venne a sapere che gli raccontavo frottole e mi tolse i cento franchi al mese, ingiungendomi di andare a zappare la terra con lui. Allora mi misi a dipingere santi, ma non ne vale la pena. E poiché mi convinsi che sarei morto di fame, mandai al diavolo l'arte e mi cercai un impiego. Mio padre finirà pure per andarsene, un giorno о l'altro, e allora potrò vivere senza far nulla. Lorenzo parlava con voce tranquilla e in poche parole riuscì a fare un discorso che metteva perfettamente a nudo tutto il suo essere : era, in fondo, un fannullone, con appetiti sanguigni e accesi desideri di gioie facili e durature. Un corpo tanto vigoroso, non ambiva che di non far nulla, molleggiarsi nell'ozio e nel torpore continui. Avrebbe voluto mangiar bene, dormire meglio, soddisfare largamente le sue ioni, senza muoversi dal suo posto, senza correre il rischio di dover compiere un qualunque sforzo. La professione d'avvocato lo aveva spaventato, l'idea di dover zappare i campi paterni lo faceva rabbrividire, e così aveva tentato l'arte, credendola un mestiere per scansafatiche: i pennelli gli sembravano arnesi leggeri, e poi aveva immaginato facile il successo. Sognava una vita di voluttà a buon mercato, una vita piena di belle donne, di riposi sui divani, di banchetti e di sbronze. E il sogno andò bene finché il padre gli fornì i quattrini, ma quando il giovane, che aveva ormai trent'anni, vide la miseria profilarsi all'orizzonte, cominciò a riflettere: non se la sentiva di affrontare privazioni, non avrebbe accettato un solo giorno a pancia vuota per amore dell'arte, e cosi, come egli stesso diceva, mandò la pittura al diavolo, il giorno in cui si accorse che essa non avrebbe mai soddisfatto i suoi non trascurabili appetiti. I primi tentativi che aveva fatto erano rimasti al di sotto della mediocrità: il suo occhio di provinciale vedeva la natura in modo goffo e sudicio, cosicché le sue tele fangose, mal costruite, grinzose, scoraggiavano i critici; e poiché egli, del resto, non era troppo vanitoso come artista, non si disperò eccessivamente quando dovette abbandonare tavolozza e pennelli. Rimpianse solo lo studio del suo amico, quel grande studio nel quale si era voluttuosamente rintanato per quattro o cinque anni, e rimpiangeva anche le
modelle, i cui capricci erano alla portata della sua modesta borsa. Quel mondo di gioie brutali gli lasciò cocenti bisogni carnali. Non si trovò, tuttavia, a disagio nel nuovo lavoro di impiegato: vegetare non gli dispiaceva, quel lavoro alla giornata era fatto per lui, dato che non lo stancava e gli assopiva la mente. Due sole cose lo contrariavano: la mancanza di donne e il pasto nelle trattorie da diciotto soldi, che lasciava sempre insoddisfatto il suo stomaco di ghiottone. Camillo ascoltava l'amico e lo guardava con ingenuo stupore. Debole, fiacco e afflosciato com'era, non aveva mai sentito il morso di un desiderio, e immaginava in maniera tutta puerile quella vita di pittore che Lorenzo gli andava descrivendo. Ripensava a quelle donne che si mettono nude per farsi ritrarre, e domandò: — E così, vi sono state delle donne che si sono tolte i vestiti in tua presenza? Ma sicuro, — rispose Lorenzo sorridendo e guardando Teresa che era impallidita. - Deve fare un certo effetto, — riprese Camillo con una risata da bambino. — Io mi sarei trovato in imbarazzo. La prima volta sarai rimasto impacciato. Lorenzo, allargata una delle sue manacce, si guardava con attenzione il palmo; le dita ebbero qualche fremito una vampata di rossore gli sali alle gote. La prima volta, — disse come parlando a se stesso - credo che trovai la cosa naturale... È un'arte divertente, peccato che non si guadagni molto. Ho avuto per modella una ragazza con i capelli rossi, che era un capolavoro: soda, magnifica, un seno stupendo, fianchi così larghi... Lorenzo alzò la testa: muta e immobile Teresa lo guardava con fissità ardente; i suoi occhi neri senza bagliore sembravano buchi senza fondo, e dalle labbra socchiuse s'intravedeva una rosea trasparenza. Raggomitolata su se stessa, ascoltava annientata. ando lo sguardo da Lorenzo a Camillo, l'ex pittore trattenne un sorriso e terminò la frase con un gesto largo e voluttuoso che la giovane accompagnò con lo sguardo. Erano alla frutta e mamma Raquin era scesa per servire una cliente. Appena sparecchiata la tavola, Lorenzo, pensieroso da qualche minuto, si rivolse a Camillo: — Debbo farti il ritratto. La proposta entusiasmò madre e figlio; Teresa rimase taciturna. Siamo in estate, — riprese Lorenzo, — e poiché usciamo dall'ufficio alle quattro,
potrò venire la sera e farti fare un paio d'ore di posa. Basteranno otto giorni. -Benone! — rispose Camillo, rosso dalla gioia. — Cenerai con noi. lo mi farò far bello dal parrucchiere e mi metterò lo stiffelius nero. Suonavano le otto. Arrivarono Grivet e Michaud, seguiti a breve distanza da Oliviero e Susanna. Camillo presentò l'amico agli ospiti. Grivet torse le labbra: egli odiava Lorenzo, il cui stipendio, secondo lui, era cresciuto troppo rapidamente. D'altra parte non era semplice l'introduzione di un nuovo invitato: gli ospiti dei Raquin si sentivano in dovere di mostrarsi piuttosto freddi verso uno sconosciuto. Lorenzo si comportò da bravo ragazzo; compresa la situazione, volle conquistare l'ambiente e farsi ammettere subito: raccontò storielle, ravvivò la riunione con le sue grasse risate e finì per guadagnarsi la simpatia dello stesso Grivet. Quella sera Teresa non escogitò nessun trucco per scendere in bottega; rimase al suo posto fino alle undici, giocando e chiacchierando, evitando di incrociare lo sguardo con Lorenzo, che da parte sua non si occupava affatto di lei. La natura sanguigna di quell'uomo, la sua voce vigorosa, le sue risate grasse, quell'odore acre e forte trasudante dal suo corpo, turbavano la giovane e le davano come una specie di angoscia nervosa. Lorenzo, da quel giorno, si recò ogni sera dai Raquin. Egli abitava in Rue SaintVictor, di fronte al Port aux Vins, la piccola camera ammobiliata che pagava dicotto franchi al mese, aveva un armadio, un sottotetto, un foro sulla sommità del lucernario e solo sei metri quadrati di spazio. Lorenzo rientrava il più tardi possibile in questa soffitta. Prima di incontrare Camillo, non avendo soldi per intrattenersi nei caffè dove si cenava, indugiava nelle trattorie fumando la pipa e sorseggiando il caffè con brandy che gli costava tre soldi. Poi lentamente tornava a Rue Saint-Victor, eggiando sul lungomare e sedendosi sulle panchine quando l'aria era calda. La bottega a Pont-Neuf diventò un rifugio affascinante per lui caldo, tranquillo, pieno di attenzioni e parole amichevoli. Risparmiava i suoi tre soldi che spendeva per il caffè con il brandy e beveva avidamente il tè eccellente che preparava la signora Raquin. Rimaneva lì fino alle dieci, sonnecchiando e digerendo come fosse a casa; prima di andar via aiutava Camillo a a mettere le persiane e chiudere il negozio per la notte.
Una sera arrivò con il suo cavalletto e la scatola dei colori. Doveva iniziare il ritratto di Camillo il giorno seguente. Aveva comprato la tela, fatto dei preparativi accurati e alla fine si sistemò nella camera occupata da due coniugi, dove la luce era il migliore. Ci mise tre sere per disegnare la testa, disegnava con il carbone di legna sulla tela, con piccole pennellate. Il suo stile, rigido e secco, ricordava in modo grottesco dei maestri primitivi. Copiò il volto di Camillo con mano esitante, come l'allievo che copia una figura accademica e con una precisione diede alla figura un cipiglio. Il quarto giorno mise sulla sua tavolozza dei piccoli mucchi di colore, e cominciò a dipingere le punte dei pennelli, poi punteggiò la tela con piccole macchie sporche, e con tratti brevi come se stesse usando una matita. Alla fine di ogni sessione, Madame Raquin e Camille erano in estasi. Lorenzo ripeteva che la somiglianza sarebbe arrivata. Dal momento che era iniziato il ritratto, Teresa non uscì dalla stanza, che era stata trasformata in studio. Lasciando la zia da sola dietro il bancone, correva al piano di sopra al minimo pretesto, e dimenticò se stessa guardando dipingere Lorenzo. Ancora greve ed oppressa, più pallida e silenziosa, si sedette ed osservò il lavoro dei pennelli. Ma questo spettacolo non sembrava divertirla molto. Andava in quel luogo come se attratta da una forza e restava lì come se fosse inchiodata. Lorenzo a volte si voltava con un sorriso, chiedendo se il ritratto le pie. Ma lei rispondeva a malapena, un brivido la percorreva e veniva ripresa dalla sua trance meditativa. Lorenzo, tornando di notte a Rue Saint-Victor, rifletteva, discutendo con se stesso, se dovesse diventare l'amante di Teresa o no. "Ecco una piccola donna", si disse, "che sarà la mia amante ogni volta che voglio. Lei è sempre lì, alle mie spalle, mi esamina, mi misura e mi riassume. Trema. Ha una faccia strana che è muto e tuttavia apionata. Che misera creatura che è Camillo." E Lorenzo si mise a ridere, tra sé e sé, al pensiero del suo pallido ed esile amico. Poi riprese: -Lei si annoia in questo negozio .... Ci vado, perché non so dove andare. Altrimenti, non sarei andato spesso a eggiare a Pont-Neuf. E'
bagnato e triste. Una donna morirebbe lì .... Io la pregherò, sono sicuro, perché non me invece di un altro? Si fermò, concentrato sulla sua presunzione, guardò il flusso della Senna con aria assorta. "Comunque, qualunque cosa accada", esclamò: "La bacerò alla prima occasione. Scommetto che cadrà subito tra le mie braccia." Appena riprese il suo cammino, fu colto da indecisione. "Ma lei è brutta", pensò. "Ha un naso lungo e una bocca grande. Inoltre, non ho il minimo amore per lei. Forse mi metterò nei guai. La questione richiede una riflessione". Lorenzo, che era molto prudente, girò con questi pensieri nella testa per una settimana intera. Calcolò tutti i possibili inconvenienti di un intrigo con Teresa, e solo quando si convinse che poteva azzardarsi senza conseguenze nefaste, decise di tentare l'avventura. Teresa avrebbe avuto tutto l'interesse a nascondere la loro intimità, e poteva sbarazzarsi di lei ogni volta che era soddisfatto. Anche ammettendo che Camillo avesse potuto scoprire tutto ed arrabbiarsi, lo avrebbe messo a posto con un cazzotto, se è diventato cattivo. Da ogni punto di vista la situazione gli sembra facile e coinvolgente. Deciso ad agire senza scrupoli alla prima occasione favorevole, Lorenzo visse da quel momento in una dolce tranquillità, attendendo l'ora buona e pregustando deliziose serate. Tutti i Raquin avrebbero contribuito al suo benessere: Teresa calmandogli i bollori di luglio, la vecchia coccolandolo come una madre, Camillo chiacchierando per non farlo annoiare troppo la sera nella bottega. Il ritratto era quasi finito e l'occasione buona non si era presentata. Teresa restava sempre lì, sfatta e ansiosa, ma Camillo non lasciava mai la camera e Lorenzo non sapeva cosa escogitare per allontanarlo. Dovette in fine decidersi a dire che l'indomani il lavoro sarebbe finito. Mamma Raquin annunciò allora che avrebbero festeggiato con una cenetta l'opera del pittore. Il giorno seguente, quando Lorenzo diede l'ultimo tocco di pennello alla tela, tutta la famiglia gli andò intorno per proclamare la perfetta rassomiglianza con l'originale. Il ritratto era una cosa veramente ignobile, tutto sporco di grigio a larghe chiazze violacee. A nche i colori più luminosi diventavano tetri e fangosi nelle mani di Lorenzo, così, senza intenzione, aveva esagerato le tinte inespressive del soggetto, e il volto di Camillo aveva preso il colore verdognolo di un annegato; le contorsioni
del disegno delineavano convulsi i lineamenti, rendendo più impressionante la sinistra rassomiglianza. Ma Camillo era entusiasta: diceva che su quella tela aveva un'aria molto distinta, e dopo aver mirato a lungo il ritratto volle uscire per comprare due bottiglie di champagne. Mamma Raquin ridiscese in bottega. Lorenzo restò solo con Teresa. La giovane era rimasta rannicchiata, co n lo sguardo perduto nel vuoto: sembrava che aspettasse fremendo. Lorenzo esitò: fingeva di esaminare il quadro, giocherellava con i pennelli. E il tempo stringeva, Camillo poteva tornare da un momento all'altro, l'occasione non si sarebbe forse mai più ripresentata. Bruscamente il pittore si girò e si trovò faccia a faccia con Teresa. Si contemplarono per qualche secondo, poi con un movimento violento lui si abbassò, se la strinse al petto, le riversò la testa all'indietro schiacciandole le labbra contro le sue. Teresa ebbe un selvaggio gesto di ribellione impetuosa, poi di colpo s'abbandonò e scivolò a terra sul pavimento. Non si scambiarono una sola parola. L'atto fu silenzioso e brutale.
VI
Fin dall'inizio, i due amanti considerarono la loro relazione necessaria, fatale, quanto di più naturale ci fosse. E già al primo incontro si diedero del tu, si abbracciarono senza ritegno, senza rossore come se la loro intimità ci fosse da anni, e continuarono così disinvolti, con perfetta tranquillità ed impudenza. Si misero subito d'accordo su come incontrarsi: Teresa non poteva uscire, Lorenzo sarebbe quindi venuto da lei, nella sua stessa camera. Con voce calma e sicura ella gli spiegò il piano tracciato: sarebbe ato per corridoio buio che dava nella galleria, e lei gli avrebbe aperto la porta sulla scala, nelle ore in cui Camillo era ancora in ufficio e mamma Raquin era occupata in bottega. Giocavano d'audacia ed erano sicuri del successo. Lorenzo non esitò: pur nella sua prudenza, aveva una specie di temerarietà brutale, quella di un uomo che ha i pugni solidi. La calma e la sicurezza dell'amante lo incitarono a godersi quella ione così arditamente offerta. Con un pretesto qualunque si fece dare un paio d'ore di permesso dal capoufficio e corse alla galleria. Appena entrato già si sentì preso da ardenti voluttà. La venditrice di gioielli falsi era piazzata proprio difronte al varco dell'ingresso , e Lorenzo dovette aspettare che si occue di una giovanetta che andò a comprare un anello e un paio di orecchini di rame. S'intrufolò allora nell'anticamera , salì la scala stretta e buia appoggiandosi al muro grasso di umidità. Urtava con i piedi gli spigoli dei gradini, e ad ogni rumore d' urto sentiva un bruciore salirgli al petto. La porta s'aprì; sulla soglia, in un bianco chiarore, vide Teresa in sottana e camicetta, tutta splendente, i capelli strettamente annodati dietro al capo. La donna chiuse la porta e gli si aggrappò al collo: saliva da lei un odore tiepido, un odore di biancheria pulita e di pelle lavata di fresco. Lorenzo si stupì di trovar bella Teresa: non l'aveva mai guardata. Agile e forte, lo teneva serrato con le braccia, rovesciando indietro la testa, e sul volto le
correvano bagliori ardenti, sorrisi apionati; un viso di amante, trasfigurato da espressioni folli e carezzevoli. Le labbra umide, gli occhi lucenti, era tutta raggiante. Contorcendosi e ondeggiando di fremiti, diventava bella di una strana bellezza tutta impeto. Si sarebbe detto che il volto le si fosse illuminato dentro, che le sprizzassero fiamme dalla carne. E intorno a lei, il sangue che bruciava e i nervi che si tendevano gettavano esalazioni calde, pungenti, penetranti. Si rivelò sensuale al primo bacio: il suo corpo insoddisfatto si gettò perdutamente nella voluttà; le parve di svegliarsi da un sogno e si sentì nascere all'amore, ando dalle deboli braccia di Camillo a quelle vigorose di Lorenzo, il contatto con un uomo aitante la scosse bruscamente dal sonno della carne: i suoi impulsi di donna nervosa esplosero con inaudita violenza; il sangue materno, quel sangue africano che le bruciava le vene, corse pulsò furiosamente nel suo corpo magro e ancora quasi vergine. Si abbandonava all'amante perdutamente, gli si offriva senza pudore alcuno, fremendo tutta, dalla testa ai piedi. M ai Lorenzo aveva incontrato una donna simile a quella, e ne restò sorpreso e turbato: altre amanti, di solito non lo ricevevano mai con tanto ardore; era abituato a baci freddi e indifferenti, ad amori sazi e stanchi. I singhiozzi, le crisi di Teresa quasi lo spaventarono, eccitandogli al tempo stesso il desiderio di piaceri nuovi. Quando lasciò l'amante, barcollava come un ubriaco. Il giorno seguente, svanita l'ebrezza, rifattosi calmo e prudente, si domandò se sarebbe ritornato da quella donna i cui baci gli davano la febbre, e decise senza esitazione di restarsene a casa. Ma poi sopraggiunsero le prime debolezze: avrebbe voluto dimenticare tutto, non rivedere Teresa nella sua nudità, con quelle carezze dolci e brutali, e invece lei era presente, implacabile, con le braccia protese all'invito. La sofferenza fisica che gli produceva tale visione non fu più sostenibile, dovette cedere, prese un nuovo appuntamento, tornò alla galleria. Da quel giorno Teresa entrò nella sua vita senza ch'egli lo volesse, ma tuttavia subendola. Colto da terrori, fatto alle volte prudente , la relazione gli causava sgradevoli agitazioni, ma paure e fastidi si annullavano nel desiderio, e così gli incontri si susseguirono e si moltiplicarono. Teresa, invece, non aveva scrupoli, si dava senza riguardo, andando diritta dove la ione la spingeva piegata da tante circostanze, si era raddrizzata tutta d'un colpo, svelava tutto il suo vero essere, dava, finalmente un senso alla propria vita.
Alle volte, ando le braccia al collo di Lorenzo e strofinandoglisi sul petto: — Oh, sapessi quanto ho sofferto, gli diceva con voce ancora anelante. Sono cresciuta nell'umidità afosa della camera di un malato. Da bambina dormivo nello stesso letto di Camillo; la notte mi scostavo da lui per il tanfo avvizzito che emanava il suo corpo. Era cattivo e testardo, non voleva prendere nessuna medicina se rifiutavo di farlo anch'io, e così per far piacere alla zia, ero costretta a bere ogni specie di mistura. Non so come non sia morta... Povero amor mio, mi hanno fatta diventare brutta, mi hanno tolto tutto ciò che avevo, e perciò tu non puoi amarmi come t'amo io. Piangendo e baciando Lorenzo, continuava, piena di un sordo odio : - Non gli auguro alcun male a quei due. Mi hanno cresciuta, mi hanno raccolta e tenuta al riparo dalla miseria; ma avrei preferito l'abbandono piuttosto che la loro ospitalità. Avevo bisogno dell'aria aperta; da piccina sognavo di correre per le strade a piedi nudi, nella polvere, chiedendo l'elemosina e vivendo come una zingara. Mi hanno detto che mia madre era figlia di un capo tribù, in Africa, e spesso ho pensato a lei, ho capito di appartenerle per sangue e per istinto, non avrei voluto lasciarla mai, e con lei attraversare il deserto aggrappata alle sue spalle... Ah, che gioventù! Se ripenso alle giornate ate nella camera in cui Camillo rantolava, mi prende ancora un senso di disgusto e di nausea. Stavo accovacciata davanti al fuoco, guardavo stupidamente i decotti che bollivano, sentivo le membra irrigidirmisi, e non potevo muovermi, la zia borbottava ad ogni rumore che facevo... Solo nella casa in riva al fiume, dopo, ho provato vere gioie, ma ero già istupidita, ce la facevo appena a camminare, cadevo se mi mettevo a correre. Poi mi hanno sepolta viva in questa odiosa bottega. Teresa respirava forte: serrava fra le braccia l'amante e le pareva di vendicarsi. Le narici nervose e sottili le vibravano di piccoli fremiti. Non puoi credere, — riprendeva, — quanto mi abbiano resa cattiva. Mi hanno fatto diventare ipocrita e bugiarda. M'hanno soffocata nella loro dolcezza borghese. Non so spiegarmi come vi sia ancora sangue nelle mie vene. Ho chiuso gli occhi, ho assunto la loro medesima espressione tetra e imbecille e ho seguito la loro vita da morti. Quando mi hai vista, non è vero? sembravo una bestia. Ero appesantita, annientata, abbrutita; non speravo niente più, e pensavo che un giorno o l'altro mi sarei buttata nella Senna. Ma, prima di arrivare a questa rassegnazione, che notti di rabbia non ho ato! Laggiù, a Vernon, nella mia stanza gelida, mordevo il cuscino per soffocare gli urli, e mi biasimavo
considerandomi una vigliacca. Il sangue mi bruciava, e mi sarei voluta straziare il corpo. Due volte pensai di fuggire, di andare senza meta, libera sotto il sole ma mi mancò il coraggio di farlo: con quella molle benevolenza e la disgustosa tenerezza loro, mi avevano fatta diventare un animale addomesticato. E così mentii, mentii sempre, restando calma e silenziosa ai loro occhi, ma sognando sempre di colpire e di mordere. Una pausa per asciugarsi le labbra sul collo dell'amante e, dopo un silenzio, Teresa continuava: Non so più perché ac consentii a sposare Camillo. Non protestai per una specie di sdegnosa indifferenza. Quel poveretto faceva pena. Quando da ragazzi scherzavamo, sentivo le dita infossarsi nella sua carne come nell'argilla. Lo presi perché mia zia me l'offriva e perché pensavo che non mi avrebbe mai dato soggezione. Così in mio marito ritrovai il ragazzino sofferente con il quale avevo dormito nello stesso letto quando avevo sei anni: ancora fragile e piagnucoloso come allora, sempre con lo stesso tanfo di malaticcio, che già tanto mi ripugnava in ato. Ti dico questo, amore mio, perché tu non ne sia geloso. Una specie di nausea mi saliva alla gola, mi ricordavo le medicine che avevo dovuto inghiottire e mi scansavo, e avo nottate tremende. Ma tu, tu, tu invece...... Teresa raddrizzandosi e tendendo il capo all'indietro, le dita intrecciate alle grosse mani di Lorenzo, mirava quelle spalle larghe, quel collo taurino...... — Te, io t'amo, — continuò, t'ho amato dal giorno in cui Camillo ti spinse in bottega. Può darsi che tu non abbia stima di me perché mi sono offerta interamente la prima volta. E' vero, né so come sia successo. Sono fiera, io sono impetuosa: avrei voluto picchiarti quel giorno, quando mi abbracciasti e buttasti a terra, qui, in questa camera. Non ho come potei amarti, mi pareva di odiarti piuttosto. Nel vederti m'irritavo, la tua presenza mi faceva soffrire. Tu eri là e i miei nervi si tendevano quasi a spezzarsi, la testa mi si svuotava, vedevo rosso: che tormento! Eppure la cercavo, questa sofferenza, aspettavo che tu venissi, giravo intorno alla tua sedia per sentirmi nel tuo respiro, per strusciare i miei abiti vicino ai tuoi. Mi pareva che andoli accanto il tuo sangue mi gettasse vampate di calore, ed era quella specie di nuvola ardente nella quale ti avviluppavi che mi attirava e mi tratteneva accanto a te, nonostante le mie cupe ribellioni... Ricordi quando dipingevi? Una forza fatale mi spingeva al tuo fianco, respiravo il tuo fiato con crudele delizia. Capivo che davo l'impressione di elemosinare un bacio, mi vergognavo di quella schiavitù, sentivo che sarei
crollata di colpo, se tu m'avessi toccata. Ma non potevo dominarmi, e sudavo freddo, aspettando che tu ti decidessi a stringermi tra le braccia. Teresa taceva, infine, fremente d'orgoglio e sazia di vendetta. Preso dall'ebrezza, Lorenzo s'abbandonava sul seno dell'amante e nella stanza nuda e gelida si susseguivano scene di ardente ione, sinistramente brutali. E ogni nuovo incontro aveva di queste crisi sempre così focose. Della sua audacia ed impudenza, Teresa pareva compiacersi: non aveva alcuna esitazione, nessuna specie di paura. S'immergeva nell'adulterio con energica franchezza, sfidando il pericolo, mettendo anzi una certa ostentazione del farlo. Quando aspettava l'amante non prendeva precauzioni oltre quella di avvertire la zia che saliva a riposare; ma una volta in camera, camminava, parlava, agiva senza contenersi, senza curarsi di evitare rumore. Sul principio, Lorenzo si spaventava , alle volte. Non far tanto chiasso, — ammoniva a bassa voce, - La farai venir sù! Macché! — rispondeva Teresa ridendo. — Tremi sempre inutilmente! La vecchia è inchiodata dietro il banco, cosa vuoi che venga a fare, quassù? Avrebbe troppa paura di essere derubata. E poi, che venga pure se vuole; tu ti nasconderai... Di lei me ne infischio: io ti amo. Quelle parole non rassicuravano affatto Lorenzo, al quale la ione non aveva ancora offuscata la sua prudenza di contadino. L'abitudine, però, gli fece ben presto accettare senza troppa paura l'audacia di quei convegni in pieno giorno, nella camera di Camillo, a due i dalla vecchia merciaia. Teresa gli ripeteva che il pericolo risparmia sempre chi sa affrontarlo risolutamente, e aveva ragione. Non avrebbero potuto trovare luogo più sicuro di quella camera, nella quale mai nessuno sarebbe venuto a cercarli, per saziare il loro amore con incredibile tranquillità. Un giorno, però , temendo che la nipote si sentisse male, mamma Raquin salì: erano circa tre ore che Teresa se ne stava sù, e come al solito, non aveva neppure chiuso a chiave la porta della sala da pranzo. Udendo i pesanti i della vecchia sulla scala di legno, Lorenzo fu preso dal panico e cercò febbrilmente la giacca e il cappello, mentre Teresa scoppiò a ridere per la sua singolare espressione. Lo prese a forza per un braccio, lo fece curvare ai piedi del letto, in un angolo, e con tutta calma gli disse sottovoce:
— Sta lì, senza muoverti. Gli gettò addosso gli indumenti maschili sparsi per la camera e coprì il tutto con la sottana, bianca che s'era tolta. Fece tutti questi movimenti con gesti rapidi e precisi, senza perdere l'ombra della calma, poi si distese, scapigliata, seminuda, ancora rossa e piena di brividi. Mamma Raquin aprì cautamente la porta e si avvicinò al letto smorzando il rumore dei i. Teresa fingeva di dormire. Lorenzo sudava sotto la sottana bianca. — Ti senti male, figliola? chiese la merciaia premurosa. Teresa aprì gli occhi, si rigirò, sbadigliò, con voce stentata disse che aveva un terribile mal di testa e supplicò la zia di lasciarla dormire. La vecchia se ne andò com'era venuta, senza fare rumore, I due amanti, ridendo in silenzio, si abbracciarono con apionata violenza. —Vedi bene, concluse Teresa trionfante, che qui non c'è da temere nulla sono tutti ciechi, qui, non sanno amare. Un altro giorno Teresa ebbe un'idea bizzarra; era come pazza, talvolta, delirava. Poggiato sulle gambe posteriori, sco, Il vecchio gatto tigrato, s'era seduto nel bel mezzo della stanza, pesante e immobile, guardava gli amanti con occhi rotondi e sembrava che li esaminasse con attenzione senza battere ciglio, smarrito in una specie di estasi diabolica. Guardalo, — disse Teresa a Lorenzo, - si direbbe che capisca e che andrà a raccontare tutto a Camillo, stasera. Sarebbe divertente, no? Se uno di questi giorni si mettesse a parlare in bottega; ne sa di belle sul nostro conto. L'idea che sco potesse parlare la divertì singolarmente. Lorenzo guardò i grandi occhi verdi del gatto e un brivido gli corse per la schiena. — Ecco come farebbe, — riprese Teresa. Si metterebbe ritto, e, indicando me con una zampetta e te con l'altra, griderebbe: «Questi due si abbracciano stretti stretti nella camera di sopra e non sospettano di me; ma siccome i loro amori criminosi mi disgustano, vi prego di farli mettere in prigione tutti e due, così non mi turberanno più il pisolino ».
Divertendosi come una bambina, Teresa imitava il gatto: adattava le mani a modo di zampe e dava feline ondulazioni alle spalle. sco la contemplava immobile come di pietra: solo gli occhi gli brillavano di vita, due pieghe profonde, ai lati della bocca, davano l'impressione che quella testa da gatto impagliato ridesse ironicamente. Lorenzo si sentì agghiacciare le ossa. Giudicò stupido lo scherzo di Teresa, si alzò, mise il gatto alla porta. Aveva paura, ecco la verità. Non era ancora interamente preso dall'amante; intimamente gli restava un po' di quel turbamento che aveva sentito dopo il pri mo bacio.
VII
La sera, nella bottega degli amici, Lorenzo si sentiva proprio felice. Di solito, tornava dall'ufficio insieme con Camillo. Sapendolo a disagio, mal nutrito, alloggiato in solaio, mamma Raquin, che sentiva per lui un'ami cizia materna, gli aveva detto che un posto per lui non sarebbe mai mancato alla loro tavola. Voleva bene a quel ragazzone, manifestandogli quella tenerezza chiacchierina che le vecchie prodigano alla gente venuta dal loro paese portandosi dietro un soffio del ato. E il giovanotto abusava dell'ospitalità. Prima di rientrare, all'uscita dall'ufficio, lui e Camillo facevano quattro i lungo il fiume; quella eggi ata conveniva ad entrambi: si annoiavano meno e perdevano tempo chiacchierando. Poi si decidevano ad andare a mangiare la minestra di mamma Raquin. Lorenzo apriva da padrone la porta della bottega, sedeva a cavalcioni sulle sedie; fumava e sputacchiava come se fosse a casa sua. La presenza di Teresa non l'imbarazzava affatto. Egli trattava l'amante con amichevole disinvoltura, scherzava, le indirizzava banali galanterie, senza alcuna emozione sul volto. Camillo rideva, e siccome la moglie rispondeva all'amico solo a monosillabi, era fermamente convinto che quei due si detestassero! anzi un giorno rimproverò Teresa per ciò che chiamò la sua freddezza verso Lorenzo. Lorenzo non aveva sbagliato i suoi calcoli: era diventato l'amante della moglie, l'amico del marito, il prediletto della vecchia. Non aveva mai appagato così bene i suoi appetiti, e si crogiolava nelle molteplici gioie che gli derivavano da quella famiglia. Del resto la sua posizione presso quelli gli pareva quanto mai naturale: dava del tu a Camillo senza rancore e senza rimorso; non aveva bisogno di controllarsi, né nei gesti, né nelle parole, tanto era sicuro della propria prudenza e della propria calma; l'egoismo con il quale assaporava tutti quei favori lo salvaguardava da ogni errore. Nella bottega l'amante diveniva per lui una donna come tutte le altre; bisognava che non l'abbracciasse e che la considerasse come non esistente. Se l'avesse abbracciata in presenza di tutti, infatti, non avrebbe più potuto ritornarvi; e solo questo pensiero lo fermava, altrimenti avrebbe riso allegramente del dolore di Camillo e della madre. Non aveva assolutamente coscienza di ciò che sarebbe avvenuto se avessero scoperto la tresca; credeva di comportarsi naturalmente, come chiunque, povero e affamato come lui, avrebbe
fatto al suo posto. Da ciò quella beata tranquillità, quella prudente audacia, quegli atteggiamenti disinteressati e beffardi. Teresa, invece, più nervosa, più fremente, era costretta a recitare la commedia, ma lo faceva alla perfezione, grazie alla sapiente ipocrisia che le era derivata dalla sua educazione. Per quindici anni aveva mentito, soffocando ogni ardore impiegando una volontà indomabile nell'apparire pesante ed addormentata, poco le costava, quindi, adattare al volto quella maschera di morte che glielo rendeva di ghiaccio. Quando Lorenzo entrava, la trovava seria, imbronciata, il naso più lungo, le labbra più strette, brutta, scontrosa, inavvicinabile. Del resto lei non aveva bisogno di esagerare: faceva rivivere il vecchio personaggio, senza destare attenzione con qualche eccessiva rudezza, in fondo, provava un'amara voluttà nell'ingannare Camillo e la madre; non era, come Lorenzo, domata dalla soddisfazione conseguita dei suoi desideri e annebbiata nella coscienza del dovere; sapeva di far del male, e la prendeva una voglia matta di alzarsi dal tavolo e baciare Lorenzo sulla bocca, per dimostrare al marito e alla zia che non era proprio una bestia, e che aveva un amante. A volte vampate d'allegria le salivano alla testa, e allora, per quanto buona commediante fosse, non poteva trattenersi dal cantare, sempre che l'amante non fosse presente e essa non rischiasse di tradirsi. Quegli sprazzi di gioia rallegravano mamma Raquin, che accusava la nipote di eccessiva musoneria. La giovane acquistò qualche vaso di fiori per la finestra della sua camera, fece rinnovare la carta da parati, volle un tappeto, tende, e mobili di palissandro. Lusso dedicato tutto a Lorenzo. Sembrava che sia la natura che le circostanze avessero creato quella donna per quell'uomo, spingendoli l'uno verso l'altra: i due, lei nervosa e ipocrita, lui sanguigno e bestiale, formavano la coppia meglio assortita: si completavano e si proteggevano reciprocamente. La sera, a tavola, nel pallido chiarore della lampada, si sentiva la forza di quell'unione, considerando il volto ottuso e sorridente di Lorenzo di fronte alla maschera muta e impenetrabile di Teresa. Erano s erate dolci e tranquille. Nel silenzio, nell'ombra trasparen te e fatta tiepida, s'intrecciavano parole amichevoli. Dopo la frutta, stretti intorno al tavolo, chiacchieravano delle tante cose futili della giornata, dei ricordi del ato, delle speranze per l'avvenire. Camillo si era affezionato a Lorenzo, come può esserlo un egoista soddisfatto, e Lorenzo sembrava ripagarlo con identico affetto; scambiavano fra loro frasi di stima, gesti servizievoli, sguardi amabili. Mamma Raquin, con il suo volto placido, attorniava di pace i suoi
ragazzi, nell'aria tranquilla che respiravano. Si sarebbe detta una riunione di vecchi amici, che si conoscevano fin ne profondo del cuore e che riposavano tranquilli nella fiducia della, loro amicizia. Teresa, immobile, placida come gli altri, considerava quella gioia borghese, quegli abbandoni sorridenti, e intimamente si nutriva di risa selvagge: tutto il suo essere beffava, solo il volto si manteneva, d'una rigidità glaciale. Si ripeteva, con raffinata voluttà, che qualche ora prima, nella stanza accanto, nuda, scapigliata, era stata sul petto di Lorenzo; ricordava tutti i particolari di un pomeriggio saturo di folle ione, se li riava nella memoria e opponeva quello scene ardenti alla scena morta che aveva davanti agli occhi. Ah, come li ingannava quei due, e come era felice d'ingannarli! Con così trionfale impudenza! Era proprio là, a due i dietro quella sottile parete, ch'ella riceveva un uomo, proprio lì che si rigirava nelle spine dell'adulterio. E ora il suo amante diventava uno sconosciuto, un amico del marito, una specie d'essere insignificante, un intruso del quale non doveva darsi pensiero. E questa atroce commedia, questi inganni della vita, questo confronto fra i baci ardenti del giorno e l'indifferenza recitata la sera, ravvivavano gli ardori nel sangue della giovane. Se per caso mamma Raquin e Camillo scendevano in bottega, Teresa si alzava di scatto, incollava silenziosamente, ma con brutale energia, le sue labbra su quelle dell'amante, e restava così, ansante, soffocata, finché non percepiva lo scricchiolio dei gradini. Allora, con un rapido movimento, riprendeva il suo posto, ritrovava la sua maschera arcigna, e Lorenzo, con voce calma, ricominciava con Camillo la conversazione interrotta. In un cielo morto era ato un bagliore di ione, fulmineo e accecante. Il giovedì la serata era un po' più animata. Pur annoiandosi tremendamente, Lorenzo non vi mancava mai: per prudenza voleva essere conosciuto e stimato dagli amici di Camillo, sopportava quindi gli inconcludenti discorsi del vecchio Michaud; l'uno parlava contemporaneamente dei suoi impiegati, del suo capo, della sua amministrazione, l'altro ripeteva sempre le stesse storie di furti e di assassinii. Lorenzo trovava scampo fra Oliviero e Susanna, che gli sembravano di una stupidaggine meno massacrante, e s'affrettava a chiedere il gioco del domino.
Era il giovedì che Teresa fissava il giorno e l'ora degli appuntamenti. Approfittando della confusione dell'ultimo momento, mentre mamma Raquin e Camillo accompagnavano gli ospiti fino alla porta della galleria, s'avvicinava a Lorenzo, gli diceva qualche parola sottovoce, gli stringeva la mano. Talvolta quando gli altri giravano le spalle, lo baciava per pura bravata. Otto mesi durò quella vili di alti e bassi, e gli amanti li trascorsero in completa beatitudine; Teresa non s'annoiava più, non desiderava più nulla, Lorenzo, sazio, vezzeggiato, ingrassato anche, temeva soltanto che questa bella esistenza potesse aver termine.
VIII
Un certo pomeriggio, mentre s'accingeva a lasciare l'ufficio per correre da Teresa che l'aspettava, Lorenzo fu chiamato dal capoufficio, il quale 1o diffidò a non assentarsi ulteriormente. Aveva troppo abusato di permessi, l'amministrazione era decisa a licenziarlo se fosse uscito ancora una sola volta. Inchio dato alla scrivania, Lorenzo si disperò fino alla sera, il pane doveva guadagnarselo, e non poteva, quindi farsi cacciare via. La sera, il volto corrucciato di Teresa fu una tortura per lui: non sapeva come poter spiegare all'amante, di aver mancato l'appuntamento. Mentre Camillo chiudeva la bottega, riuscì ad avvicinarla e a sussurrarle: Non potremo più vederci; il capoufficio non mi vuol più concedere permessi. Camillo rientrò, Lorenzo dovette andarsene senza dare maggiori spiegazioni, e lasciò Teresa affranta da quella dichiarazione improvvisa: esasperata, non volendo ammettere che qualcuno potesse turbare i suoi amori, ella ò la notte insonne imbastendo stravaganti piani di convegni furtivi. Il giovedì seguente non le riuscì di parlare con Lorenzo per più di un minuto; e la loro disperazione si fece più acuta perché non sapevano dove incontrarsi per parlarsi e mettersi d'accordo. Teresa dette un nuovo appuntamento a Lorenzo, ma il giovanotto fu costretto a mancare una seconda volta. Da allora, ella non ebbe che un'unica idea fissa: vederlo a ogni costo. Erano quindici giorni che Lorenzo non riusciva ad avvicinare Teresa, e s'era accorto quanto quella donna gli fosse diventata necessaria; l'abitudine alle sue carezze gli aveva stimolato nuovi appetiti, più acuti e urgenti. Le espansioni dell'amante non lo turbavano più: le bramava, anzi, con l'accanimento dell'animale affamato. Una ione di sangue gli si era accesa nei muscoli; e ora che gli toglievano l'amante, quella ione scoppiava con cieca violenza: amava furiosamente. Tutto sembrava incosciente in quella esuberante natura animalesca, non obbediva che ai suoi istinti, si lasciava guidare unicamente dagli stimoli fisici. Solo un anno prima, sarebbe scoppiato dal ridere se gli avessero detto che sarebbe diventato schiavo di una donna fino al punto di mettere in
pericolo la propria tranquillità; ma il sordo lavorio del desiderio aveva operato in lui a sua insaputa, gettandolo legato mani e piedi alle roventi carezze di Teresa. E ora temere di perdere 1a prudenza, la sera non rischiava di andare alla galleria del Ponte Nuovo, per paura di compiere qualche follia. Non era più padrone di se stesso: con i suoi slanci felini, con la sua arrendevolezza nervosa, l'amante gli era penetrata a poco a poco in ogni fibra del corpo. Aveva bisogno di quella donna, per vivere, come si ha bisogno di bere e di mangiare. Avrebbe certamente finito per fare una sciocchezza, se non avesse ricevuto una lettera di Teresa, che gli raccomandava di restare a casa l'indomani, promettendogli una visita verso le otto di sera. E così, uscendo dall'ufficio, si sbarazzò di C amillo: gli disse; che era stano e che sarebbe andato subito a letto. Teresa, appena cenato, recitò ugualmente la sua parte: parlò di una cliente che aveva cambiato casa senza saldarle il conto, fece la creditrice inflessibile e pretese di andare subito a reclamare quanto le dovevano. La cliente era andata ad abitare alle Batignolles; mamma Raquin e Camillo obiettarono che la strada era lunga, e l'impresa pericolosa, tuttavia non si meravigliarono e la lasciarono uscire tranquillamente. Teresa corse verso il porto dei vini, scivolando sul selciato viscido e urtando i anti per la gran fretta d'arrivare. Aveva il volto umido di sudore, le mani le bruciavano, sembrava un'ubriaca. Salì rapidamente le scale della locanda, al sesto piano, trafelata, gli occhi smarriti, scorse Lorenzo che l'aspettava proteso sulla ringhiera. Entrò nella soffitta, le ampie gonne vi erano contenute appena, tanto era stretto l'ambiente. Con una mano si strappò il cappello dalla testa, e si appoggiò contro il letto, quasi venendo meno. La finestra a tabacchiera spalancata lasciava cadere il fresco della sera sul letto bruciante...Gli amanti stettero a lungo in quella topaia come in un nido. D'un tratto Teresa udì l'orologio della Pietà martellare le dieci. Avrebbe voluto essere sorda si alzò fatica ed esplorò la stanzetta, che non aveva ancora osservata. Prese il cappellino, annodò i nastri, sedette dicendo a voce lenta : — Bisogna che vada. Lorenzo le si era inginocchiato davanti ; le prese le mani nelle sue.
— Arrivederci, — aggiunse lei senza muoversi. — No, arrivederci non significa nulla, protestò Lorenzo. — Quando ritornerai? Teresa lo guardò negli occhi : — Vuoi che sia franca? — gli disse. — Non credo che verrò più, n on ho nessun pretesto, né posso inventarne. - Allora ci dobbiamo dire addio? - No, non voglio. Teresa pronunciò quelle parole con una collera piena di spavento. Poi aggiunse più dolcemente, quasi senza sapere quel che dicesse e senza alzarsi dalla sedia: - Me ne vado. Lorenzo rifletteva, pensava a Camillo. Non gliene voglio, — disse infine senza nominarla, ma veramente ci dà troppo fastidio... Non potresti sbarazzartene, fargli fare un viaggio, mandarlo in qualche posto lontano? Si, fargli fare un viaggio! — rispose Teresa scrollando il capo. — Credi che un uomo come lui sia disposto a viaggiare? C'è un solo viaggio che potrebbe fare, quello dal quale non si torna. Ma invece sarà lui chi ci accompagnerà tutti al cimitero: quelli che sembrano sempre moribondi non muoiono mai. Vi fu un attimo di silenzio. Strisciando sulle ginocchia, Lorenzo si strinse all'amante, e le poggiò la testa sul petto. Avevo fatto un sogno, — le disse. — Volevo are una notte intera con te, addormentarmi fra le tue bracci a e svegliarmi al mattino sotto i tuoi baci. Vorrei essere tuo marito, comprendi? Si, sì, — rispose Teresa fremente, e si chinò sul volto di Lorenzo coprendolo di baci. I nastrini del cappellino si graffiavano contro la barba ruvida del giovane: dimenticava d'essere vestita e che le si sgualcivano gli abiti. Singhiozzava e mormorava parole affannose, fra le lacrime.
Non dire queste cose, implorava, altrimenti non avrò la forza di lasciarti e resterò qui. Fammi coraggio, piuttosto; dimmi che ci vedremo ancora, dimmi che hai bisogno di me, che finiremo per trovare un giorno il modo per vivere insieme. - Allora torna, domani, — le rispose Lorenzo, mentre con le mani tremanti saliva lungo la vita. Ma non posso venire...Te l'ho detto: non ho nessuna scusa. Tormentata , si torceva le braccia. Poi riprese: - Oh, non è lo scandalo che mi spaventa. Quando rincaso, se vuoi, dirò a Camillo che sei il mio amante, e verrò a coricarmi qui. Ma è per te che tremo; non voglio sconvolgere la tua vita, desidero che tu abbia un'esistenza felice. L'istintiva prudenza del giovane si ridestò. Hai ragione, - disse - Non bisogna agire da ragazzini. Ah, se tuo marito morisse. Se mio marito morisse? - ripeté lentamente Teresa. - Ci sposeremmo e non avremmo più nulla da temere, potremmo godere senza limiti del nostro amore . Che vita bella e dolce sarebbe! La donna s'era raddrizzata. Le gote pallide, guardava l'amante con occhi torbidi, e un tremito le agitava le labbra. — La gente muore talvolta, mormorò finalmente. - Soltanto che è pericoloso per quelli che restano. Lorenzo non rispose. — Vedi,- continuò lei, - vi sono tanti mezzi ma nessuno buono. — Non mi hai capito, disse lui pacatamente. Non sono uno sciocco , voglio amarti in pace. Pensavo che gli incidenti capitano a tutti, una scivolata, una tegola che cade, la colpa è solo del vento. Parlava con uno strano tono di voce. Accennò un sorriso e poi aggiunse carezzevole: - Sta tranquilla, va. Vedrai che ci ameremo e saremo felici. Se non puoi venire
qui, arrangerò io in qualche modo. E anche se dovessimo stare qualche mese senza vederci, non dimenticarmi, e pensa che lavoro per la nostra felicità. Teresa aprì la porta per andarsene, ed egli la strinse di nuovo fra le sue braccia: — Sei mia, non è vero? le domandò. - Giuri che sarai tutta mia, in qualunque momento lo vorrò? — Sì, — gridò lei, — io appartengo a te. Fa di me quello che vuoi. Restarono un momento fissi e muti, poi Teresa si svincolò, e senza voltarsi uscì dalla soffitta e scese le scale. Lorenzo rimase ad ascoltare il rumore dei i che si allontanavano. Quando non percepì più nulla, rientrò nella sua topaia e si coricò. Le lenzuola erano ancora tiepide. Egli si sentiva soffocare in fondo a quel bugigattolo che Teresa aveva lasciato tutto pregno degli ardori della sua ione: gli sembrava di respirare ancora qualcosa di lei. Era stata là, aveva lasciato penetranti effluvi, un profumo di viola, e ora egli non poteva stringere fra le braccia che l'inafferrabile fantasma dell'amante, che gli aleggiava intorno;la sua erala febbre degli amori che rinascono insaziabili. Non chiuse la finestra, si distese supino, le braccia nude, le mani aperte; aveva bisogno di fresco, e restò a riflettere con lo sguardo fisso nel quadrato blu scuro che il telaio tagliava nel cielo. Fino al mattino un'unica idea gli girò nella mente. Prima della venuta di Teresa, non aveva mai pensato a un'uccisione di Camillo; poi aveva parlato della morte dell'amico spintovi dai fatti, irritato all'idea di non poter rivedere l'amante. Un nuovo aspetto della sua natura incosciente si rivelava d'improvviso: trascinato dall'adulterio, meditava un assassinio. Riacquistata la sua calma, solo, nella notte placida, studiava il delitto. Quella prospettiva di morte, insinuatasi con disperazione fra due baci, gli si ripresentava implacabile e acuta. Un po' scosso dall'insonnia, snervato dagli acri effluvi che Teresa s'era lasciata dietro, calcolava le probabilità contrarie ed elencava i vantaggi che gli sarebbero derivati commettendo un delitto, l'interesse lo spingeva al crimine: suo padre, il contadino di Jeufosse, non si decideva a morire, e probabilmente egli avrebbe dovuto rimanere impiegato per ancora dieci anni, mangiando nelle latterie, e vivendo senza una donna, in una soffitta.
Era terribile! Morto Camillo invece, avrebbe sposato Teresa, avrebbe ereditato da mamma Raquin e si sarebbe dimesso dall'impiego per godersela beatamente al sole. Pregustava già la sua futura vita di fannullone: si vedeva senza preoccupazioni, a mangiare e dormire, aspettando pazientemente la morte del padre. E, quando la realtà lo destava da quel sogno, cozzava contro Camillo, e stringeva i pugni come per accopparlo. Lorenzo voleva Teresa a ogni costo, e la voleva tutta per se sempre a portata di mano, se non eliminava il marito, la moglie gli sarebbe sfuggita. Glielo aveva detto non poteva ritornare. Avrebbe potuto rapirla, portarla in un posto lontano, ma cosi sarebbero morti di fame tutti e due. Rischiava meno, uccidendo il marito non avrebbe sollevato scandali, si trattava soltanto di togliere un uomo e di mettersi al suo posto. Con la logica bestiale del contadino egli trovava eccel lente e naturale quella soluzione; la sua istintiva prudenza gli consigliava addirittura un tale espediente sbrigativo. Rigirandosi nel letto, sudato, a pancia in giù, schiacciava il volto umido sul cuscino dove Teresa aveva appoggiato la testa. Stringendo fra le labbra arse un lembo della federa, come per succhiarne il profumo, restava così, senza fiato, soffocato quasi, e sotto le palpebre chiuse, vedeva correre strisce di fuoco, si domandava in quale modo avrebbe potuto uccidere Camillo. Se gli mancava in respiro, si rigirava di scatto, per mettersi di nuovo supino, spalancava gli occhi, aspirava le fresche folate che gli arrivavano dalla finestra e cercava nelle stelle, nel quadrato bluastro del cielo, un progetto di omicidio, il piano per un assassinio. Non trovò nulla. Come aveva detto all'amante, non era un ragazzo, né uno sciocco: scartava, quindi, coltello e veleno. Voleva preparare un delitto occultabile, compiuto senza rischi, una specie di sordido soffocamento senza urli e senza terrore, una semplice sparizione. Non voleva andare oltre, anche se la ione ve lo spingeva: il suo essere reclamava imperiosamente prudenza; era troppo vile, troppo amante del piacere, per compromettere la propria tranquillità; voleva uccidere proprio per poter vivere calmo e felice. A poco a poco il sonno lo vinse. L'aria fresca aveva allontanato dalla soffitta il fantasma tiepido di Teresa. Stanco, pacato, fu preso da un torpore impreciso e dolce. Deciso ad attendere l'occasione favorevole, si addormentò cullato da un
pensiero che mano a mano gli sfuggiva: « L'ucciderò, l'ucciderò > dopo cinque minuti riposava respirando con serena regolarità. Teresa era rincasata alle undici con la testa in fiamme e il pensiero teso, arrivò alla galleria senza rendersi conto del cammino fatto. Le sembrò d'aver appena lasciato Lorenzo, tanto le sue orecchie erano ancora piene delle sue parole. Trovò mamma Raquin e Camillo ansiosi e preoccupati; rispose seccamente alle loro domande, dicendo che aveva fatto un viaggio inutile, e che era rimasta un'ora su un marciapiede ad aspettare la diligenza. Quando si coricò, il letto le parve umido e freddo. Il suo corpo, ancora bruciante, ebbe brividi di ripugnanza. Camillo si addormentò presto, e lei guardò a lungo quella faccia smorta , abbandonata balordamente sul guanciale, con la bocca spalancata. Si scostò: le veniva la voglia di infilarci un pugno, in quella bocca.
IX
arono circa tre settimane. Lorenzo era tornato tutte le sere alla bottega, ma sembrava fiacco, ammalato un cerchio bluastro gli contornava gli occhi, le labbra pallide gli si screpolavano. Tuttavia conservava la sua pesante tranquillità; non evitava lo sguardo di Camillo, gli si mostrava sempre francamente amico. E mamma Raquin lo vezzeggiava maggiormente, vedendolo addormentato in una specie di febbre sorda. Teresa aveva ripreso la maschera ingrugnata e muta, sempre più immobile, impenetrabile e pacata che mai. Sembrava che per lei Lorenzo non esistesse neppure; sì e no lo guardava, raramente gli indirizzava la parola, trattava con assoluta indifferenza. Mamma Raquin, che per sua bontà soffriva di quel comportamento, diceva talvolta al giovane: « Non faccia caso alla freddezza di mia nipote. La conosco, io, il volto è freddo, ma il cuore è caldo, pieno di tenerezza e di affetto ». I due amanti non avevano avuto altri convegni, dopo quello di via San Vittore, e non s'erano più incontrati da soli. La sera, quando si trovavano di fronte, tranquilli ed estranei, in apparenza, tempeste di ione, di spavento, di desiderio li tormentavano, sotto l'imibilità dei volti. C'erano, in Teresa, impeti, abbandoni, motteggi crudeli; in Lorenzo, cupe brutalità, pungenti indecisioni. Non osavano essi stessi guardare in fondo alle loro anime, in fondo a quella febbre torbida che gli annebbiava le menti con una specie di fumo denso e acre. Quando c i riuscivano, al riparo di una porta, senza dir parola, si stringevano le mani, quasi a spezzarsele, in una stretta breve e frenetica. Avrebbero voluto reciprocamente strapparsi lembi di carne e lasciarseli appiccicati alle dita. Non avevano che quella stretta di mano per calmare i loro desideri, e ci mettevano tutto il corpo in quella stretta, non si chiedevano altro. Aspettavano. Un giovedì sera, prima di mettersi a giocare, gli invitati dei Raquin fecero, come
al solito, quattro chiacchiere. Uno dei principali argomenti della conversazione erano le interrogazioni a Michaud sulle sue vecchie funzioni e sulle strane e truci disavventure in cui s'era trovato. E Grivet e Camillo ascoltavano quei racconti con l'espressione attonita e spaventala dei bambini che stanno a sentire Barbablù e Pollicino. Erano racconti che li terrorizzavano e divertivano al tempo stesso. Quella sera Michaud, dopo avei rievocato un terribile assassinio, i cui particolari avevano fatto rabbrividire l'uditorio, scrollando il capo concluse: - E non si sa tutto: quanti delitti restano nell'ombra, quanti assassini sfuggono alla giustizia degli uomini.. . - Come? Chiese Grivet meravigliato. — Lei crede che vi siano in giro canaglie che hanno ucciso e non sono finite in galera? Oliviero sorrise con aria di superiorità. — Ma, caro mio, disse con quella voce stridente, — se non li arrestano è perché si ignora che hanno ammazzato. Il ragionamento non parve troppo convincere Grivet, che trovò un aiuto in Camillo: — Sono del parere del signor Grivet, disse con un'importanza da imbecille-Io debbo credere che la polizia sia fatta bene, e che mai, per la strada, mi dovrà capitare di trovarmi a gomito con un assassino. In queste parole Oliviero vide un attacco personale. Sicuro che la polizia è ben fatta, esclamò irritato. — Ma non si può fare l'impossibile. Vi sono scellerati che hanno imparato il delitto direttamente dal diavolo: sfuggirebbero perfino a Dio.., Non è così, babbo? - Certissimo, — confermò Michaud. Quand'ero a Vernon, infatti, e forse lei se ne ricorderà, signora Raquin, fu assassinato un carrettiere sulla strada provinciale. Il cadavere fu trovato a pezzi in un fossato. Ebbene, non si è mai potuto scoprire l'assassino. Può darsi che sia ancora vivo, può darsi perfino che sia da queste parti, e che il signor Grivet lo incontri rincasando, perché no? Grivet impallidì come un cencio, e non osava voltarsi indietro: aveva
l'impressione che l'assassino del carrettiere gli fosse alle spalle. E si eccitava, del resto, ad aver paura. -Ah no, - balbettò senza neppur saper egli stesso quello che diceva, non posso crederlo. Anch'io conosco un fatto: una cameriera fu messa in prigione con l'accusa di aver rubato ai padroni una posata d'argento. Dopo due mesi, abbattendo un albero, la posata fu trovata nel nido di una gazza, che era la ladra. La cameriera fu rimessa in libertà, allora... Vedete bene che i colpevoli sono sempre scovati. Grivet si dette un tono di trionfatore; ma Oliviero sghignazzava : Allora , — disse ironicamente, — misero la gazza in prigione? Il signor Grivet non ha voluto dire questo, — precisò Camill o, seccato che si prendesse in giro il suo superiore. - Mamma, dacci il domino. Mentre mamma Raquin andava a prendere la scatola, il giovane, rivolgendosi a Michaud, continuò: A llora lei confessa che la polizia è impotente? Che vi sono assassini a eggio? Disgraziatamente sì, — rispose Michaud. È immorale, — concluse Grivet. Durante la conversazione, Teresa e Lorenzo erano r imasti zitti, senza nemmeno sorridere per la sciocca uscita di Grivet. Entrambi appoggiati coi gomiti sul tavolo, pallidi, lo sguardo smarrito, ascoltavano. Per un attimo i loro sguardi neri e ardenti s'erano incrociati: piccole gocce di sudore imperlavano alla radice i capelli di Teresa, aliti di gelo davano impercettibili fremiti alla pelle di Lorenzo.
X
La domenica, quand'era bel tempo, Camillo forzava la moglie ad uscire con lui, per una eggiata ai Campi Elisi. La giovane avrebbe preferito restarsene nell'ombra umida della bottega, poiché si stancava, si annoiava al braccio del marito, che la trascinava sui marciapiedi e si fermava davanti alle vetrine con stupori, riflessioni e silenzi da idiota. Ma Camillo teneva duro: si compiaceva di farsi vedere in giro con la moglie, e se incontrava qualche collega, e specie un superiore, si sentiva molto orgoglioso nello scambiare un saluto in compagnia della signora. Camminava per camminare, del resto, quasi sempre taciturno, rigido e sofisticato negli abiti domenicali, strascicando i piedi, stupido e vanitoso. Teresa soffriva d'essere sotto al braccio di un simile uomo. Quando uscivano per la eggiata, mamma Raquin li accompagnava fin o all'imboccatura della galleria, li abbracciava come partissero per chi sa che viaggio, gli faceva raccomandazioni a non finire, scongiurando con calore. — Soprat tutt o, diceva, — fate attenzione agli incidenti: a Parigi vi sono troppe vetture. Promettetemi di non cacciarvi tra la folla. Li lasciava allontanare, infine, restava per un bel pezzo a seguirli con lo sguardo, poi tornava in bottega. Le gambe le si facevano sempre più pesanti e non ce la faceva più a camminare a lungo. Qualche volta, più raramente, gli sposi uscivano da Parigi: si recavano al villaggio di Saint-Ouen o di Asniè-res, fermandosi a mangiare il pesce fritto in qualche trattoria in riva al fiume. Erano, quelle, vere giornate di bagordi, di cui si parlava un mese prima, e Teresa accettava volentieri, quasi con gioia, quelle scappate fuori città, che le consentivano di rimanere all'aria aperta fino alle dieci o alle undici di sera. Saint-Ouen, con i suoi isolotti verdi, le ricordava Vernon: andandovi si sentiva risvegliare il selvaggio attaccamento che aveva avuto per la Senna, quando era giovane. Si sedeva sulla ghiaia, guazzava con le mani nell'acqua, si sentiva rivivere, sotto l'ardore del sole che l'ombra temperava, coi suoi freschi soffi. Mentre lei si sporcava e imbrattava le vesti sui sassi e sulla terra grassa, Camillo stendeva accuratamente il fazzoletto e le si accovacciava
con mille precauzioni accanto. Negli ultimi tempi alla coppia si aggregava quasi sempre Lorenzo, che rallegrava le eggiate con le sue risate e la sua gagliardia da contadino. Una domenica Camillo, Teresa e Lorenzo si avviarono a Saiut-Ouen, verso le undici, dopo colazione. La scampagnata era in programma da parecchio, e doveva essere l'ultima della stagione. L'autunno s'avvicinava, e di sera qualche venticello fresco cominciava a far fremere l'aria. Quel mattino il cielo conservava intatta un'azzurra serenità. Faceva caldo al sole e tiepido all'ombra; decisero che bisognava approfittare di quegli ultimi raggi. I tre escursionisti presero una carrozza e partirono, accompagnati o dalle ansiose raccomandazioni della vecchia. Attraversat a Parigi, lasciarono la carrozza alle fortificazioni e proseguirono lungo gli argini fino a Saint-Ouen. Era mezzogiorno. Sotto il sole splendente, la strada polverosa aveva bianchi riflessi, accecanti come neve, densa e acre, bruciava. Camillo si sventolava con un gran fazzoletto; appoggiata al suo braccio, Teresa camminava a ettini, facendosi ombra con il parasole. Lorenzo seguiva dietro, e i raggi del sole gli mordevano il collo senza ch'egli desse segno d'accorgersene: fischiettava, prendeva a calci i sassi, e di quando in quando guardava con occhi voraci l'ondeggiare dei fianchi dell'amante. Arrivati a Saint-Ouen si misero subito alla ricerca di qualche boschetto, di qualche tappeto verde ben ombreggiato: arono su un isolotto e scomparvero nella macchia. Le foglie cadute avevano composto a terra un letto rossastro che scricchiolava secco sotto i piedi. I tronchi degli alberi, numerosi, s'ergevano ritti c ome fasci di colonnette gotiche, i rami s'abbassavano fin sulla fronte dei viaggiatori, che così avevano per orizzonte solo la volta rossastra delle foglie morenti e i fusti bianco e nero dei pioppi e delle querce, erano soli, in quel deserto melanconico, nella piccola radura silenziosa e fresca. Tutt'intorno mormorava la Senna. Camilio aveva scelto un posticino asciutto ci s'era seduto avendo cura di rialzare le falde dello stiffelius.
Teresa con un gran fruscio di gonne gualcite, si gettò alla foglie e sparì a metà tra le pieghe della sottana, che le si sollevava intorno scoprendole una gamba fino al ginocchio. Lorenzo, ventre a terra, con il mento poggiato sulle foglie, guardava quella gamba e ascoltava distrattamente Camillo, che se la prendeva con il governo perché non provvedeva a trasformare tutti gli isolotti della Senna in altrettanti giardini all'inglese, con panchine, viali inghiaiati, alberi tagliati, come ai giardini delle Tuileries. Restarono circa tre ore nel boschetto, aspettando che il sole calasse un po' per poter fare qualche puntata nella campagna prima di pranzare. Camillo parlò delle cose d'ufficio, raccontò le solite storielle stupide, poi stanco si stese a terra e s'addormentò col cappello sugli occhi. Ma già da prima di lui, con le palpebre chiuse, Teresa fingeva di dormire. Lorenzo strisciò piano piano verso l'amante, allungò le labbra, la baciò sullo scarpino e sulla caviglia. Quel cuoio, quella calza bianca che baciava gli bruciarono la bocca. L'odore aspro della terra e il profumo leggero di Teresa si mescolarono, lo penetrarono tutto, riscaldandogli il sangue ed eccitandogli i nervi. Da un mese viveva in forzata castità. Già la eggiata al sole, sugli argini di Saint-Ouen, lo aveva infiammato; ora si trovava là, in una radura solitaria, nella grande voluttà dell'ombra e del silenzio, e non poteva stringersi al petto quella donna che gli apparteneva. Il marito avrebbe potuto svegliarsi, vederlo, mandare all'aria tutti i suoi calcoli di prudenza. L'ostacolo era sempre quell'uomo. E così, schiacciato al suolo, nascosto dietro le gonne, fremente ed irritato, Lorenzo continuava a baciare in silenzio le scarpe e le calze bianche dell'amante. Teresa, in un'immobilità di mort e, non faceva un gesto; egli la credette veramente addormentata. Si alzò, la schiena gli doleva, si appoggiò contro un albero, e vide l'amante guardare in aria con i grandi occhi aperti e lucenti. Appoggiata fra le braccia rialzate, il suo viso aveva un pallore opaco, una rigidità fredda. Sognava: i suoi occhi fissi nel vuoto sembravano un abisso cupo nel quale non si vedesse che notte. Non si mosse, non volse lo sguardo verso Lorenzo che le stava dietro. L'amante la contemplò, quasi spaventato di vederla così immobile e muta sotto
le sue carezze. Quella testa, bianca e morta, affondata fra le pieghe delle vesti, gli suscitò come uno spavento pieno di cocenti desideri. Avrebbe voluto chinarsi e chiudere con un bacio quei grandi occhi spalancati, ma quasi sulle stesse gonne anche Camillo dormiva: rannicchiato com'era, quel povero diavolo metteva in evidenza tutta la sua magrezza; e russava piano. Sotto il cappello che gli copriva mezza faccia, si vedeva la bocca aperta, che il sonno storceva in una smorfia bestiale; i piccoli peli rossastri che gli spuntavano radi sul mento gracile macchiavano la sua carne sbiancata, e, siccome aveva la testa rovesciata all'indietro, si vedeva un collo magro, rugoso, in mezzo al quale il pomo d'Adamo, sporgente, rosso mattone, si sollevava ad ogni sbuffo. Così raggomitolato, Camillo era disgustoso, esasperante. Lorenzo lo guardava. Alzò un piede con un movimento brusco: un colpo, e gli sfracellava la faccia. Teresa trattenne un grido, impallidì, chiuse gli occhi, girò la testa dall'altra parte, come per evitare gli spruzzi di sangue. Per qualche secondo Lorenzo restò con il piede sospeso sul volto di Camillo, poi lentamente ritrasse la gamba e si allontanò di qualche o. Aveva pensato che sarebbe stato un assassinio da imbecille: quella testa maciullata gli avrebbe attirato addosso tutta la polizia. Se voleva togliere di mezzo Camillo, era unicamente per sposare Teresa; voleva vivere libero, dopo il delitto, come l'assassino del carrettiere di cui aveva parlato Michaud. A ndò fino in riva al fiume e si fermò, con aria rimbecillita, a guardare l'acqua che correva, poi bruscamente ritornò nel boschetto. Aveva maturato il suo piano, aveva escogitato finalmente l'omicidio facile e senza pericoli. Solleticandogli il naso con un filo di paglia, svegliò Camillo starnutì, si alzò, approvò compiaciuto lo scherzo fattogli: proprio per quelle buffonate che lo facevano ridere Lorenzo gli piaceva; poi scosse la moglie che se ne stava a occhi chiusi. Teresa saltò in piedi, dette una scrollata alle sottane spiegazzate e tutte appiccicate di foglie secche, e i tre lasciarono il boschetto, calpestando gli arbusti che gli capitavano sotto i piedi. Lasciarono anche l'isolotto, e s'incamminarono per strade e sentieri affollati di comitive domenicali. Raga zze in abiti chiari si rincorrevano fra le siepi, una squadra di canottieri ava cantando, coppie borghesi, vecchi, impiegati con le mogli camminavano
lentamente, in fila lungo i cigli dei fossati; ogni sentiero sembrava una strada popolosa, e brulicante. Soltanto il sole conservava la sua immensa tranquillità: calando all'orizzonte chiazzava di pallido chiarore gli alberi arrossati e le strade bianche. Nell'aria tremante cominciava a penetrare una piacevole frescura, Camillo non dava più il braccio a Teresa; chiacchierava con Lorenzo e rideva per le battute e le bravure dell'amico che saltava i fossi e sollevava grossi blocchi di pietra. Dall'altro lato della strada, Teresa procedeva a testa bassa, chinandosi di tanto in tanto per raccogliere qualche filo d'erba. Se restava indietro, si fermava a guardare da lontano l'amante e il marito. Ehi, non hai fame? — finì per chiederle Camillo. Sì, — rispose Lei Allora andiamo! Teresa non aveva fame, era solo stanca e inquieta. Ignorava i progetti di Lorenzo, le gambe le tremavano sotto dall'ansia. Tornati in riva al fiume, i tre amici scelsero una trattoria e si misero a tavola sulla terrazza di legno di un'osteria maleodorante di grassi e di vino. Il locale risuonava di grida, di canti, di rumore di stoviglie; in ogni stanza, in ogni sala c'erano comitive che discutevano ad alta voce, e i sottili divisori davano vibranti sonorità a tutto quel chiasso. Salendo i camerieri facevano tremare la scala. In alto, sulla terrazza, la brezza del fiume allonta nava il tanfo di olio fritto. Teresa appoggiata alla balaustra, guardava la riva: a destra e a sinistra si stendevano due file di taverne e di baracche da fiera; tra le foglie rade ingiallite dei pergolati s'intravedeva il biancore delle tovaglie, le macchie scure dei cappotti, le sottane sgargianti delle donne, tutti andavano e venivano a testa scoperta, correndo e ridendo; al chiassoso stridio della folla si mescolavano le lamentevoli suonate degli organini. Un odore di frittura e di polvere saliva nell'aria. Sotto la balconata, un gruppo di ragazze del Quartiere Latino giocava a girotondo sul prato spelacchiato, canticchiando filastrocche infantili. Con il cappello scivolante dietro le spalle e i capelli sciolti, si tenevano per la mano divertendosi come bambine; ritrovavano un filo di voce fresca, mentre i volti,
pallidi e logorati da brutali carezze, si colorivano teneramente di verginale rossore, e gli occhi impuri brillavano di tenerezza. Alcuni studenti, con le bianche pipe di creta in bocca, le guardavano girare, lanciandogli frizzi salaci. Più in là, sulla Senna e sulle colline, scendeva la serenità della sera, un'aria celeste tremolante che annegava gli alberi in un vapore trasparente. — Cameriere! — urlò Lorenzo sporgendosi sulla rampa della scala. — Si mangia o no? Poi, come cambiando improvvisamente parere, si rivolse a Camillo. - Che ne diresti se fimo una eggiatina sul fume prima di metterci a mangiare? Ci vorrà tempo per far arrostire i polli e sarà una noia attendere per un'ora. - Se ti fa piacere - rispose Camillo senza entusiasmo. - Ma Teresa ha fame. - N o , no, posso aspettare, — s'affrettò a dire, mentre Lorenzo la fissava negli occhi. Ridiscere tutti e tre, si fermarono alla cassa, prenotarono il tavolo, scelsero le pietanze e avvertirono che sarebbero tornati entro un'ora. E poiché lo stesso padrone della trattoria noleggiava i canotti, lo pregarono di andare a sceglierne uno. Lorenzo scelse una barchetta sottile la cui leggerezza spaventò Camillo. - Perbacco, — disse, — dovremo rimanere immobili se non vogliamo rischiare un tuffo generale. La verità era che il poveraccio aveva una tremenda pa ura dell'acqua. A Vernon, quand'era ragazzo, la salute malferma non gli consentiva di andare a sguazzare nella Senna e mentre i suoi compagni di scuola andavano a tuffarsi in mezzo al fiume, egli era costretto a starsene fra due coperte calde. Lorenzo era diventato un nuotatore intrepido e un rematore instancabile; Camillo invece, aveva conservato quella paura istintiva che i bambini e le donne hanno per l'acqua profonda. Tastò quindi con i piedi la punta del canotto per assicurarsi che fosse solido. Su entra — gli ingiunse Lorenzo ridendo. Tremi sempre come una foglia.
Camillo scavalcò il bordo e, barcollando, andò a sedersi a poppa. Quando si senti il s edile sotto, si rassegnò e disse qualche battuta per mostrarsi coraggioso. Teresa era ancora sulla riva, accanto all'amante che reggeva la cima di ormeggio. Era seria e Immobile. Chinandosi, Lorenzo le mormorò rapidamente: - Fai attenzione, lo getterò nel fiume... Ubbidiscimi, rispondo io di tutto. Teresa impallidì terribilmente, si senti inchiodare al suolo e rimase irrigidita e con gli occhi sbarrati. - Sbrigati a salire, - bisbigliò ancora Lorenzo. Ella non si mosse. Una terribile lotta la combatteva dentro, dovette forzare al massimo la volontà per non scoppiare in singhiozzi e crollare a terra di colpo. — Ah, ah! — Sghignazzò Camillo. — Guarda un po' Teresa, Lorenzo. È Lei che ha paura... Entra, non entra... Sdraiato sul sedile di poppa, aveva appoggiato i gomiti sui bordi del canotto e si dondolava spavaldamente. Teresa gli lanciò un'occhiataccia: la risata di quel disgraziato fu come il colpo di frusta che sferza e spinge. Saltò bruscamente nella barca e s'assestò a prua. Lorenzo si mise ai remi e l'imbarcazione s'allontanò dalla riva dirigendosi lentamente verso gli isolotti. Calava il crepuscolo. Grandi ombre scendevano dagli alberi e l'acqua sembrava nera sotto riva. In mezzo al fiume tremavano larghe strisce d'argento pallido. La barchetta si trovò presto in piena Senna, là dove tutti i rumori della riva si addolcivano e i canti e i gridi melanconici e vaghi, giungevano indeboliti. Non si sentiva più il puzzo delle fritture e della polvere, e la brezza che si levava veniva raffreddando l'aria. Lorenzo lasciò i remi e abbandonò il canotto al filo della corrente A prua si drizzava la macchia rossastra degli isolotti, e le due rive, color bruno cupo macchiato di grigio, sembravano due grandi strisce che andassero a congiungersi all'orizzonte. Acqua e cielo parevano tagliati dalla stessa stoffa biancastra. Non v'è nulla di più dolorosamente calmo di un crepuscolo d'autunno. La luce impallidisce nell'aria frizzante, gli alberi invecchiati si spogliano delle foglie, la campagna, bruciata dall'ardente sole estivo, sente avvicinarsi la morte con i
primi venti freddi. Alitano nel cielo sospiri di disperazione, mentre la notte scende dall'alto portando sudari nell'ombra sua. I viaggiatori tacevano. Seduti sul fondo del canotto che correva con l'acqua, guardavano gli ultimi chiarori scomparire sulle cime degli alberi. La barca si avvicinava agli isolotti. La grande massa rossastra l'incupiva, tutto il paesaggio si semplificava nel crepuscolo: la Senna, il cielo, le isole, le colline non c'erano che macchie brune e grige che si disperdevano in una nebbia lattiginosa. Camillo, che s'era disteso e sporgeva il capo sull'acqua, tuffò le mani nel fiume. — Caspita, com'è fredda! esclamò. — Un bagno non sarebbe troppo consigliabile, qui. Lorenzo non rispose. Da un po' guardava le rive con inquietudine, le grosse mani sulle ginocchia, le labbra strette. Teresa rigida, immobile, il capo leggermente riverso aspettava. La barca stava per entrare in un canale cupo e stretto, incavato fra due isolotti. S'udiva, dietro di essi, il canto smorzato di un equipaggio di canottieri, che probabilmente risalivano la corrente. A monte il fiume era deserto. Allora Lorenzo si alzò e afferrò Camillo alla cintola, questi sc oppiò a ridere: - Ah no, fece, — soffro il solletico... Non mi piacciono questi scherzi... smettila, via!, mi fai cadere. Lorenzo strinse più forte, dette una scossa. Camillo si girò e vide la faccia spaventosa e convulsa dell'amico, non capì nulla; fu preso da un vago sgomento; volle gridare, ma sentì una mano ruvida tappargli la bocca. Con l'istinto d'una bestia che si difende, fece forza con le ginocchia, si aggrappò al bordo della barca, lottò per qualche secondo. Teresa, Teresa! — invocò con voce soffocata e sibilante. La donna guardava tenendosi stretta con le mani al sedile c he scricchiolava e dondolava sull'acqua. Non poteva chiudere gli occhi, una spasmodica contrazione glieli teneva spalancati, fissi sull'orribile spettacolo di quella lotta. Era irrigidita, muta. Teresa, Teresa! — invocò di nuovo, rantolante, l'infelice.
A quest'ultimo appello, Teresa scoppiò in singhiozzi, i suoi nervi cedevano: la crisi ch'ella temeva la scaraventò tremante sul fondo della barca. E vi restò piegata, svenuta, come morta. Lorenzo scuoteva ancora Camillo serrandogli la gola con una mano; con l'altra riuscì a staccarlo dalla barca e lo sollevò in aria come un bambino, tenendolo sulle sue braccia solide. Chinato il capo da un lato, scopriva il collo; e Camillo, pazzo di rabbia e di terrore, contorcendosi disperatamente, sporse la bocca e affondò i denti in quel collo. Quando l'assassino, trattenendo un grido di dolore, lanciò bruscamente la sua vittima nel fiume, quei denti gli strapparono un brandello di carne. Camillo cadde mandando un urlo affiorò due o tre volte dall'acqua, gridando sempre più fioco. Lorenzo non perdette un secondo; s'alzò ,il bavero del pastrano per nascondere la ferita, sollevò Teresa svenuta, fece con un calcio capovolgere il canotto e si lasciò cadere nell'acqua tenendo ben stretta l'amante. La sostenne a galla invocando soccorso con voce lamentevole. I canottieri, di cui aveva udito i canti dietro la punta dell'isolotto, accorsero a grandi remate e, rendendosi conto ch'era accaduta una disgrazia, provvidero al salvataggio di Teresa, che distesero su un sedile, e di Lorenzo, che subito si mostrò disperato per la morte dell'amico. Si rituffò, cercò Camillo in tutti i punti in cui non poteva essere, ritornò piangendo, torcendosi le braccia, strappandosi i capelli. I canottieri tentarono di calmarlo e di consolarlo. —E' colpa mia, - gridava. Non avrei mai dovuto permettere che quel poveretto ballasse e si dimenasse come faceva... E' stato un attimo; ci siamo trovati tutti e tre sullo tesso lato della barca, e ci siamo capovolti... Cadendo m'ha urlato di salvare la moglie... Fra i canottieri, come capita sempre, vi furono due o tre giovanotti che pretesero di essere stati testimoni dell'incidente. — Vi abbiamo visti. - Ma, diamine! Una barca non è certo stabile come un pavimento... Povera ragazza, avrà proprio un bel risveglio! Misero a rimorchio il canotto, ripresero i remi e condussero Teresa e Lorenzo
alla trattoria, dove il pranzo era pronto. Nel giro di pochi minuti, tutta SaintOuen era a conoscenza della disgrazia. I canottieri raccontavano la scena come se vi avessero assistito. Una folla impietosita stazionava davanti alla trattoria. Il trattore e la moglie erano brava ge nte e misero il loro guardaroba a disposizione del naufraghi. Quando Teresa si riebbe dallo svenimento fu presa da una crisi di nervi e scoppiò in singhiozzi strazianti, e si rese necessario metterla a letto. Anche la natura dava una mano alla sinistra commedia che era stata improvvisata. Quando la donna si calmò, Lorenzo l'affidò alle cure dei padroni della trattoria; voleva tornare da solo a Parigi, per poter dare l'orribile notizia a mamma Raquin, con tutte le precauzioni possibili. In effetti, egli temeva l'esaltazione nervosa di Teresa, e preferiva lasciarle il tempo di riflettere e studiarsi la parte. E furono i canottieri a mangiarsi il pranzo di Camillo.
XI
Nell'angolo buio d ella diligenza che lo riportava a Parigi, Lorenzo completò il suo piano: era quasi sicuro dell'impunità. Si sentiva addosso una gioia pesante e ansiosa, la gioia del delitto compiuto. Giunto alla barriera di Clichy, prese una carrozza e si fece condurre dal vecchio Michaud, in via della Senna. Erano le nove di sera. L'ex commissario di polizia era a tavola con Oliviero e Susanna. Lorenzo era andato da lui per avere una protezione, se per caso fosse sospettato, e per rispa rmiarsi di dover portare egli stesso l'infausta notizia a mamma Raquin. Era un compito che gli ripugnava singolarmente: prevedeva una tale disperazione, che tema non sarebbe riuscito a recitare la commedia con abbastanza lacrime; poi il dolore di quella madre gli pesava, anche se in fondo lo interessasse ben poco. Quando Michaud lo vide entrare vestito con abiti così dimessi, e che gli stavano stretti, lo interrogò con lo sguardo. Lorenzo ripeté il racconto della disgrazia, con voce spezzata, come affranto dal dolore e dalla stanchezza. Sono venuto a cercarla, — disse concludendo, — perché non so come comportarmi con quelle due poverette cosi crudelmente colpite... Non ho osato andare solo dalla madre; vuole accompagnarmi? Mentre lui parlava, Oliviero lo fissava con uno sguardo fisso che lo spaventava. L'assassino s'era gettato a testa bassa fra uomini di polizia, con uno di quei colpi d'audacia che dovevano salvarlo; non poteva, tuttavia, vincere un fremito, sentendosi esaminato da quegli sguardi: vi leggeva diffidenza, mentre in effetti non v'era che stupore e pietà. Susanna, fragile e debole, stava per svenire; Oliviero, che tremava all'idea della morte, pur serbando una glaciale freddezza di sentimenti, faceva ima smorfia di dolorosa sorpresa, scrutando per forza d'abitudine il volto di Lorenzo: non supponeva neanche lontanamente la tragica verità. Da parte sua il vecchio Michaud non faceva che mandare esclamazioni di raccapriccio, di commiserazione, di meraviglia: si agitava sulla sedia, congiungeva le mani, alzava gli occhi al cielo. - Mio Dio, — diceva con voce emozionata, - Mio Dio - che cosa spaventosa! Si esce di casa e si muore, così,
tutto insieme. E' orribile. E cosa andremo a dire, adesso, a quella povera madre? Ha fatto benissimo a venirci a chiamare: verremo con lei. Si alzò, girò qua e la per la camera, in cerca del bastone e del cappello, si fece subito ripetere da Lorenzo i particolari della disgrazia e ad ogni frase prorompeva in nuove esclamazioni . Usciro no tutti e quattro. All'ingresso della galleria, Michaud trattene Lorenzo . - Non venga, lei, - gli disse. - La sua presenza potrebbe essere terribilmente rivelatrice. Quella disgraziata potrebbe subito immaginare qualcosa e saremmo costretti a dirle la verità senza prima prepararla al colpo. Ci aspetti qui. Quella soluzione sollevò l'assassino , che rabbrividiva al pensiero di varcare la soglia della bottega. Si calmò e si mise a eggiare su e giù per il marciapiede, sereno. I n quel momento dimenticava perfino i fatti a cui aveva partecipato, si soffermava davanti alle vetrine, fischiettava in sordina, si rigirava a guardare le donne che gli avano accanto. Restò così più di mezz'ora sulla strada, riacquistando sempre più sangue freddo. Non aveva mangiato dal mattino, sentì fame. entrò in una pasticceria e si riempì di dolci. Nella bottega della merciaia, intanto, si svolgeva una scena straziante. Nonostante le precauzioni e le mezze frasi affettuose del vecchio Michaud, venne un momento in cui mamma Raquin comprese che qualche sciagura era capitata al figlio, e allora pretese che le si dicesse la verità, con un impeto di disperazione tale, e una tale violenza di lacrime e di grida, che il vecchio non poté resistere. E quando la conobbe, il suo dolore fu tragico. Fu colta da sordi singhiozzi, da scosse c he la facevano sobbalzare, da una folle crisi di terrore e di angoscia. Restò lì, soffocata dal dolore, lanciando di quando in quando acute grida, nel profondo tuonare della disperazione. Sarebbe crollata a terra, se Susanna non l'avesse sorretta nella vita, piegando le sue ginocchia, alzando verso di lei il volto pallido. Oliviero e il padre stavano in piedi, bianchi e ammutoliti, lo sguardo volto altrove, amaramente emozionati per quello spettacolo che turbava il loro egoismo.
La povera madre vedeva il figlio trascinato dalle ac que torbide della Senna, il corpo rigido e orribilmente gonfiato, e lo rivedeva allo stesso tempo, piccino nella culla, quando, protesa su di lui, allontanava la morte. Più di dieci volte lo aveva partorito, e l'amava per tutto l'amore dedicatogli in trent'anni. Ed ecco eh era andato a morire lontano da lei, d'improvviso, annegato in un'acqua sporca e fredda, come un cane. Ricordava le coltri calde in mezzo a cui l'aveva tenuto avvolto. Quante cure, che infanzia tutto tepore, quante moine, quante teneri effusioni... E tutto questo, per vederlo, un giorno, annegato miseramente. A questi pensieri, mamma Raquin sentiva stringersi la gola, e s'augurava di poter morire strozzata dal dolore. Mich aud s'affrettò a uscire. Lasciata Susanna accanto alla merciaia , raggiunse, insieme a Oliviero, Lorenzo, per andare subito a Saint-Ouen. L ungo la strada a mala pena scambiarono qualche parola. Sprofondati ciascuno in un angolo della carrozza che li faceva sussultare sul lastricato, rimasero immobili , muti nel buio della vettura. Il chiarore vivo dei becchi a gas gettava a intermittenza lampi di luce sui loro volti, il tragico avvenimento che li riuniva, li aveva come immersi in un lugubre accasciamento. Qua ndo finalmente giunsero alla trattoria in riva al fiume trovarono Teresa coricata: le sue mani e la faccia erano di fuoco. Il trattore disse sottovoce che la signora aveva una febbre da cavallo. In realtà, Teresa si sentiva debole e stanca, ma temendo di rievocare il delitto in qualche crisi si era finta malata. Chiusa in un silenzio ostinato, teneva strettamente serrate le labbra e le palpebre, rifiutandosi di parlare e di vedere chiunque. Con la coperta tirata fin sul mento, il viso per metà affondato nel cuscino, si faceva piccina piccina e ascoltava con ansia tutto ciò che si diceva intorno a lei. Ne1 chiarore rossastro che filtrava attraverso le palpebre chiuse, ella rivedeva la lotta fra Lorenzo e Camillo sul bordo del canotto, distingueva suo marito, sbiancato, orribilmente ingigantito ergersi dritto sull'acqua limacciosa. Quell'implacabile visione le accresceva la febbre del sangue. II vecchio Michaud tentò di parlarle, di consolarla; ma ella fece un gesto d'impazienza, si girò dall'altra parte e riprese a singhiozzare. - La lasci tranquilla, — disse l'oste. — Rabbrividisce al più piccolo rumore... Ha bisogno di riposo. Di sotto, n ella sala, un agente di polizia verbalizzava l'incidente. Michaud e il
figlio scesero, seguiti da Lorenzo. Quando Oliviero si fece riconoscere come funzionario della Prefettura della Polizia, tutto si mise a posto in una decina di minuti. I canottieri erano ancora là e continuavano a raccontare il naufragio nei più minuti particolare descrivendo il modo in cui i tre escursionisti erano caduti dichiarandosi testimoni oculari. Se Oliviero e il padre avessero avuto il minimo sospetto, esso sarebbe svanito di fronte a tale testimonianza. Ma padre e figlio non avevano dubitato un istante della sincerità di Lorenzo, anzi lo presentarono all'agente come il miglior amico del morto ed ebbero cura di far inserire nel verbale che il giovane si era gettato in acqua per salvare Camillo Raquin. Il giorno dopo i giornali riportarono l'incidente con abbondanza di particolari: la madre disgraziata, la vedova inconsolabile, l'amico nobile e coraggioso, nulla mancava alla notizia di cronaca, che fece il giro della stampa parigina e andò a esaurirsi nei giornali di provincia. Quando il verbale fu chiuso e sottoscritto, Lorenzo sentì la calda gioia di una nuova vita penetrargli le carni. Da quel momento in cui la sua vittima lo aveva addentato al collo s'era come irrigidito, aveva agito meccanicamente, seguendo un piano da tempo formulato, e spinto solo dall'istinto di conservazione che gli suggeriva gesti e parole. Acquisita ormai la certezza dell'impunità sentì il sangue rifluirgli con dolce lentezza nelle vene: la polizia era ata accanto al delitto, ma senza accorgersi di nulla, l'avevi gabbata, ed essa l'aveva assolto: salvo! Quella cortesia gli metteva fremiti di gioia in tutto il corpo, gli restituiva l'agilità delle membra e dell'intelligenza, Non gli fu difficile continuare, con abilità e disinvoltura incomparabili, la parte dell'amico desolato: intimamente provava una bestiale soddisfazione: pensava a Teresa, coricata nella camera superiore. - Non possiamo lasciarla qui. quella disgraziata, — disse a Michaud. — Potrebbe venirle un accidente, e bisogna per forza portarla a Parigi. Andiamo, cerchiamo di convincerla a seguirci. Parlò egli stesso con Teresa, di sopra, supplicandola di alzarsi e di farsi accompagnare a casa. Quando la donna udì la sua voce trasalì, spalancò gli occhi e lo guardò: tremava inebetita. Si alzò a sedere a fatica, senza rispondere. Gli uomini uscirono lasciandola sola con la moglie dell'oste. Appena vestita, scese barcollando, e sorretta da Oliviero prese posto nella carrozza. Il viaggio fu silenzioso. Lorenzo, che s'era seduto di fronte a Teresa, con audacia e impudenza estrema fece scivolare una mano lungo le gonne della donna,
cercandole le mani. Nell'ombra ondeggiante non riusciva a vedere il volto ch'ella teneva abbassato sul petto. Afferrata una mano, gliela strinse forte nella sua e la tenne così fino a via Mazzarino. Quella mano tremava, ma non si ritraeva; aveva, anzi, brusche carezze. L'una nell'altra, le due mani bruciavano, le palme umide s'appiccicavano, e le dita, strettamente serrate, si straziavano a ogni cosa, e i due amanti avevano la sensazione che il sangue dell'uno asse nel petto dell'altra attraverso quelle mani avvinghiate; quelle mani che diventavano un focolaio ardente in cui la loro vita bruciava. E nella notte triste, nel silenzio accorato che incombeva nella carrozza, quelle furiose strette di mano erano come un masso di pietra gettato sulla testa di Camillo per tenerla affondata nell'acqua. Quando la vettura si fermò, Michaud e il figlio scesero per primi. Lorenzo, chinandosi verso l'amante, le mormorò dolcemente: - Sii forte. Teresa. Dovremo aspettare parecchio, ricordatelo! Fino ad allora lei non aveva detto una parola; dopo la morte del marito, mosse le labbra per la prima volta. Oh, me ne ricorderò, — gli disse rabbrividendo e in un tono di voce leggero come un sospiro. Oliviero le tese la mano invitandola a scendere. Lorenzo entrò dentro, questa volta. Mamma Raquin era a letto in preda a violento delirio, Teresa andò dritta alla sua camera, e Susanna ebbe appena il tempo di svestirla. Rassicurato, vedendo che tutto si metteva a posto come sperato, Lorenzo andò via, raggiungendo lentamente la sua soffitta di via San Vittore. Era ata, la mezzanotte. Un'aria fresca correva per le strade silenziose e deserto; Lorenzo non udiva che il rumore regolare dei suoi i sul selciato: quell'aria fresca gli dava un gran benessere, il silenzio e l'ombra gli procuravano rapide sensazioni di voluttà. Gironzolò a lungo. Si era sbarazzato facilmente del suo delitto. Aveva ucciso Camillo, ed era oramai qualche cosa di definito, e di cui non si sarebbe più parlato. Poteva vivere tranquillo, nell'attesa di poter prendere possesso di Teresa. Alle volte, il pensiero del delitto l'aveva oppresso; a delitto compiuto, invece si sentiva tolto un peso dal petto, gli parava di respirare maglio: non avvertiva più quelle sofferenze che prima gli originavano dall'esitazione e dal timore.
In fondo era un po' intontito, la stanchezza gli appesantiva corpo e pensiero. Entrò in casa e si addormentò profondamente. Durante il sonno leggere contrazioni nervose gli avano sul volto.
XII
Il mattino seguente Lorenzo si svegliò leggero e rinfrancato. Aveva dormito bene l'aria fresca che entrava dalla finestra gli ravvivava il sangue appesantito. Degli avvenimenti del giorno prec edente aveva, appena un vago ricordo e se non fosse stato per quell'insistente bruciore che gli pizzicava il collo, avrebbe potuto credere d'essersi coricato alle dieci dopo una tranquilla serata. Il morso di Camillo era un ferro rovente sulla pelle, e soffermandosi sul dolore che la ferita gli arrecava, ne soffriva terribilmente. Gli pareva che una dozzina d' aghi gli penetrassero lentamente nella carne. Rimboccò il colletto della camicia e scrutò la piaga in un brutto specchio da quindici soldi ch'era attaccato al muro. Essa consisteva in un rosso buco , grande come una moneta da dieci centesimi la pelle era stata strappata e la carne si mostrava a nudo, rossastra con qualche macchiolina nera, qualche rivoletto di sangue era scorso fin sulla spalla, sottili righi che già s'andavano squamando. Sul collo bianco , a destra, proprio sotto l'orecchio, la morsicatura spiccava in quel colore rosso cupo. A busto chino e torcendo il collo, Lorenzo sbirciava la ferita, e nello specchio verdastro la sua faccia rifletteva una smorfia atroce. Soddisfatto dell'esame, lavò la ferita con molta acqua, e giudicò che essa si sarebbe cicatrizzata nel giro di qualche giorno. Terminata l'operazione, si vestì e se ne andò in ufficio pacificamente, come sempre. Raccontò l'incidente con voce emozionata, e divenne un autentico ero per i colleghi quando poi lessero la cronaca dei giornali una settimana non si parlò d'altro negli uffici della ferrovia d'Orléans: erano tutti orgogliosi che uno di loro fosse annegato. Grivet non la finiva più con l'imprudenza di avventurarsi in piena Senna, quando è così facile guardar correre l'acqua eggiando sui ponti. A Lorenzo però, era rimasta una sorda preoccupazione: la morte di Camillo non aveva potuto essere ufficialmente constatata: il marito di Teresa era morto, e su ciò non sussistevano dubbi, ma all'assassino occorreva un atto di morte legale, e quindi era necessario trovare il cadavere. Il giorno dopo la disgrazia erano, si stati fatti sondaggi nel fiume, ma probabilmente il cadavere era finito in qualche
fosso, sotto la ripa delle isole. I fiumaroli continuavano a frugare attivamente nella Senna, in vista della ricompensa. Lorenzo si preoccupò di are ogni mattino dall'obitorio, recandosi in ufficio, deciso com'era a curar egli stesso i suoi affari. Nonostante la ripugnanza e la nausea che lo prendevano, malgrado i brividi da cui veniva colto, per oltre una settimana andò regolarmente ogni giorno a controllare il volto di tutti gli annegati stesi su quei marmi. Quando entrava, uno scialbo odore di carne risciac quata gli prendeva lo stomaco, e brividi di freddo gli correvano sulla pelle; gli pareva che l'umidità delle pareti gli appesantisse gli abiti e se li sentiva gravare sulle spalle. Andava direttamente alla vetrata che separa i visitatori dai cadaveri, schiacciava la faccia pallida sul vetro, e guardava. Davanti a lui si stendeva l'allineamento dei marmi grigi, e qua e là, sui marmi, corpi nudi formavano chiazze verdi e gialle, bianche e rosse; alcuni conservavano la freschezza delle carni anche nella rigidità della morte, altri sembravano mucchi di carne da macello, putrida e sanguinolenta. In fondo, sul muro, pendevano miseri stracci, gonne,calzoni, che ghignavano sulla nudità del gesso. Da principio, Lorenzo non vedeva che l'insieme biancastro dei muri e dei marmi tagliato dal rosso e nero dei cadaveri e degli abiti, mentre percepì il gorgoglio dell'acqua corrente. A poco a poco, cominciava a distinguere i corpi, e li ava in rassegna a uno a uno. Gli annegati soltanto lo interessavano; quando c'erano parecchi cadaveri gonfi e illividiti dall'acqua, li osservava con avidità sperando di riconoscere Camillo. Spesso la carne di quei volti cadeva in brandelli, le ossa avevano bucato la pelle ammollata, e le facce sembravano bollite e disossate. Lorenzo esitava, insisteva nell'osservazione, cercava di riconoscere le gracilità della sua vittima; ma gli annegati sono obesi, ed egli non vedeva che ventri enormi, cosce gonfie, braccia adipose e pingui. Si sentiva smarrito, sostava rabbrividendo di fronte a quegli avanzi verdastri che pareva lo sbeffeggiassero con orribili grinfie. Una mattina fu preso da un vero terrore: osservava da qualche minuto un annegato piccolo di statura e atrocemente sfigurato. Le carni di quel corpo erano talmente ammollate e disfatte, che l'acqua corrente del lavaggio le strappava briciola a briciola; il getto che cadeva sul volto scavava un buco, a sinistra del naso. E bruscamente quel naso si appiattì, le labbra si staccarono, saltò fuori una fila di denti bianchi: la testa dell'annegato scoppiò a ridere.
Ogni volta che gli pareva di riconoscere Camillo, sen tiva una fitta al cuore: desiderava ardentemente di ritrovare il corpo della sua vittima, e tuttavia tremava di viltà, quando immaginava che quel corpo gli stesse davanti. Le visite all'obitorio lo riempivano di incubi e di brividi che gli toglievano il respiro: voleva dimostrarsi torte, si dava del bambino, scacciava le sue paure, ma, suo malgrado, i sensi si ribellavano, disgusto e terrore lo dominavano non appena si ritrovava nell'umidità e nell'odore scialbo della sala. Quando non c'erano annegati sull'ultima fila di marmi si sentiva sollevato, e minore era la sua ripugnanza. Diventava, allora, un semplice curioso e provava uno strano piacere a guardare in faccia la morte violenta, nei suoi atteggiamenti lugubremente bizzarri e grotteschi. Quello spettacolo lo svagava, soprattutto se c'erano donne a petto nudo, poiché quelle nudità brutalmente distese, macchiate di sangue, forate in qualche punto, lo attiravano e lo trattenevano. Una volta gli capitò di vedere una ragazza di vent'anni, una popolana ben piantata, che sembrava soltanto addormentata sul marmo; il suo corpo fresco e pieno biancheggiava con una dolcezza di toni sommamente delicati; e sorrideva appena, la testa un po' china, sporgendo il petto in maniera davvero provocante. Sarebbe sembrato l'abbandono di una cortigiana, se quella non avesse avuto alla gola un solco nero che l'adornava come d'una collana d'ombra. Si trattava d'una ragazza che s'era impiccata per dispiaceri d'amore. Lorenzo la guardò a lungo, scorrendo con lo sguardo quel corpo, e assorto in una specie di pauroso desiderio. Ogni mattino, mentre era là, udiva dietro di sé il viavai del pubblico che entrava e che usciva. L'obitorio, la Morgue, è uno spettacolo alla portata di tutte le borse, che possono concedersi gratuitamente ricchi e poveri: la porta è aperta, entra chi vuole. Esistono apionati che debbono fare lunga strada per non mancare a nessuna di queste rappresentazioni della morte. Quando i marmi sono vuoti, la gente si allontana delusa, quasi che l'avessero derubata, borbottando a denti stretti. Quando i marmi sono ben forniti, quando c'è una bella esposizione di carne umana, i visitatori si affollano, si regalano emozioni a buon mercato, fremono, deridono, applaudiscono о fischiano come a teatro, e se ne rivanno soddisfatti, dichiarando che, quel giorno, n'è valsa la pena. Lorenzo comprese presto l'ambiente, pubblico misto e disparato, che s'impietosiva e sogghignava in coro. Entravano operai, diretti al lavoro, con il
pane e gli attrezzi sotto il braccio. Per loro la morte; era ridicola, e non mancava il buffone della compagnia, che con qualche battuta sulla smorfia di un cadavere faceva ridere tutto l'uditorio. I morti ustionati li chiamavano carbonai; gli impiccati, gli assassinati, gli annegati, i cadaveri sforacchiati о maciullali eccitavano la loro vena, mordace, e con la voce un po' tremante balbettavano frasi comiche nell'agghiacciante silenzio della sala. V'erano poi piccoli possidenti, vecchietti magri e risecchiti, perditempo professionali che andavano lì per non aver che fare, e che guardavano i cadaveri con occhi da stupidi e con lo sdegno delle persone sensibili e delicate. Le visitatrici erano numerose giovani operaie tutte rosee, camicette bianche, gonne senza una macchia, che andavano veloci da un capo all'altro della vetrata, spalancando gli occhi per l'attenzione, come avrebbero fatto davanti alla mostra d'un negozio di moda; donne del popolo che restavano li incantate, assumendo un' espressione di penoso compatimento; signore eleganti che si tiravano dietro con noncuranza le loro vesti di seta. Una di queste dame, un giorno Lorenzo la vide ferma a qualche o di distanza dalla vetrina, premendosi il fazzoletto di batista sotto il naso. Indossava un delizioso abito di seta guada, con una lunga pellegrina di merletto nero; una veletta le copriva il volto e le mani inguantate apparivano piccole e fini. Intorno a lei si spandeva un tenue profumo di violetta. Se ne stava a guardare un cadavere; su un marmo, a qualche o, era disteso il corpo di un robusto ragazzone, un muratore morto di colpo cadendo da un'impalcatura: aveva il torace quadrato, muscoli corti e grossi, la carne bianca e piena; la morte ne aveva fatto una scultura. La signora se lo guardava, lo rigirava con lo sguardo, lo soppesava, era tutta assorta a contemplare lo spettacolosa robustezza di quell'uomo. Alzò un angolo della veletta, guardò ancora, poi se ne n'andò. Arrivavano anche frotte di monelli, ragazzi fra i dodici e i quindici anni che correvano lungo la vetrata e si fermavano solo davanti ai cadaveri di donne. Si appoggiavano con le mani ai vetri, con sguardo sfrontato esploravano i petti nudi, si scambiavano gomitate significative, facevano brutali rilievi, si accostavano al vizio, alla scuola della morte. E' all'obitorio che gli indisciplinati trovano la loro prima amante. Dopo una settimana di pellegrinaggio Lorenzo non ne poteva più. La notte sognava cadaveri che aveva visto al mattino, e la sofferenza e il disgusto dello spettacolo che s'imponeva tutti i giorni lo turbarono a un punto tale ch'egli decise di ritornarvi soltanto due volte ancora. Il giorno seguente, appena entrò alla
Morgue ebbe un tuffo al cuore: su uno dei marmi, davanti a lui, Camillo lo guardava, disteso sul dorso, la testa rialzata, gli occhi semiaperti. Come attrattovi, l'assassino si avvicinò lentamente alla vetrata, senza poter staccare lo sguardo dalla vittima. Non provava dolore: sentiva soltanto un gran freddo interno e un leggero pizzicore a fior di pelle. Aveva immaginato maggiori emozioni e invece restò immobile per cinque buoni minuti, smarrito in una incosciente contemplazione, imprimendosi nella memoria, suo malgrado, tutte le forme orribili e tutti i sozzi colori del quadro che aveva davanti agli occhi. Camillo era repellente. Dopo quindici giorni di permanenza nell'acqua, il volto appariva ancora sodo e rigido, i lineamenti erano intatti, la pelle solo aveva preso un colorito giallastro e fangoso. La testa, magra e ossuta, leggermente tumefatta, ghignava, inclinata da un lato; i capelli erano appiccicati alle tempie, le palpebre alzate lasciavano intravedere gli scialbi globi oculari, le labbra contorte e tirate verso un angolo della bocca si atteggiavano ad un atroce sogghigno, un pezzo di lingua nerastro sporgeva fra le fila bianche dei denti. Conservando ancora un aspetto umano, quella testa, che pareva come imbalsamata, era rimasta terrificante, per il dolore che la soffondeva. Il corpo sembrava un ammasso di carni disfatte, tant'era stato logorato. Si sentiva che le braccia non reggevano, le clavicole foravano la pelle delle spalle; le costole segnavano strisce nere sul petto verdastro. Una spaccatura sul fianco sinistro, slargata, scopriva lembi di colore rosso cupo. Tutto il torso imputridiva, solo le gambe, più salde, s'allungavano chiazzate di macchie orribili. 1 piedi penzolavano. Lorenzo non aveva mai visto un annegato così spaventevole. Il cadavere aveva un aspetto tanto misero, un'insieme di magrezza e di povertà; si concentrava nella sua stessa putrescenza, non era che un piccolo mucchio. Si sarebbe capito a prima vista che si trattava d'un impiegato a cento franchi il mese, insulso e malaticcio, che la madre aveva ingozzato di decotti, Quell'esile corpo, tirato su fra coperte calde, tremava ora sul gelido marmo. Quando Lorenzo potò, finalmente, vincere la pungente curiosità che lo teneva immobile e incantato, uscì s'incamminò a o svelto lungo La Senna, ripensando fra sé: « Ecco come l'ho ridotto. E' veramente ripugnante ». E gli pareva d'essere inseguito da un nauseante fetore: il fetore che doveva certo emanare da quel corpo in putrefazione.
Andò subito dal vecchio Michaud per dirgli che aveva riconosciuto il cadavere di Camillo su un marmo dell'obitorio. Espletate le formalità, il cadavere fu seppellito e fu compilato un regolare atto di morte. Lorenzo, ormai tranquillo, prese voluttuosamente a dimenticare il suo delitto e le scene pietose e affliggenti che l'avevano seguito.
XIII
La bottega della galleria rimase chiusa per tre giorni. Quando riaprì i battenti, apparve p iù cupa e più umida: ingiallite dalla polvere, le merci in mostra sembravano associarsi al lutto della casa; nelle vetrine sporche ogni cosa evidenziava l'abbandono. Dietro le cuffie di tela appese alle sbarrette arrugginite, il volto di Teresa aveva un pallore più opaco, più esangue, una sinistra immobilità pacata. Le donnicciole della galleria erano tutte piene di pietà, e la venditrice di gioielli falsi additava ai clienti il profilo smagrito della giovane vedova come una curiosità penosa ed interessante. P er tre giorni mamma Rquin e Teresa erano rimaste a letto senza parlarsi e senza nemmeno vedersi. Seduta, con le spalle appoggiate ai guanciali, la vecchia guardava vagamente nel vuoto con gli occhi inebetiti. La morte del figlio era stata una martellata in testa, e lei n'era rimasta come accoppata. Se ne stava per ore ed ore silenziosa e inerte, assorta nel nulla della sua disperazione, poi subentravano le crisi, e allora piangeva, gridava, delirava. Nella camera accanto, Teresa sembrava addormentata, s'era girata con la faccia verso il muro, aveva aveva tirato la coperta fin sopra gli occhi, ed era rimasta cosi, muta e irrigidita senza che un sol sussulto del corpo agitasse le coltri. Si sarebbe detto che cercava di nascondere nell'alcova i pensieri che la stecchivano. E Susanna, che curava entrambe, ava dall'una all'altra con mollezza, camminava dolcemente, chinava il volto di cera sull'uno e sull'altro letto, ma non riusciva né a far voltare Teresa, che aveva bruschi gesti d'impazienza, né a consolare mamma Raquin, che prorompeva in lacrime non appena qualcuno la destava dal suo abbattimento. Al terzo giorno Teresa mandò all'aria le coperte e si levò a sedere, rapidamente, con una decisione febbrile; sollevando i capelli, portò le mani alle tempie, stette cosi qualche momento, con le mani alla fronte, con gli occhi fissi, in un atteggiamento di riflessione; poi saltò sul tappeto. Aveva le braccia arrossate e tremanti di febbre; grossi lividi le marmorizzavano la pelle, che in qualche punto
s'aggrinziva come svuotata di carne. Era invecchiata. Susanna, entrando, restò sorpresa nel vederla alzata, e, con tono calmo о senza impegno, le consigliò di rimettersi a letto, di riposarsi ancora; ma Teresa non la ascoltava: cercava e indossava i suoi abiti con gesti nervosi. Quando si fu vestita andò a guardare nello specchio, si stropicciò gli occhi, si ò una mano sulla faccia, come per cancellarvi qualche cosa. Poi, senza dire una sola parola, attraversò decisa la sala da pranzo ed entrò da mamma Raquin. La vecchia era in un momento di calma incoscienza. Quando Teresa entrò, si girò e seguì con lo sguardo la giovane che venne a metterlesi davanti, muta e ansante. Si contemplarono per qualche secondo: Teresa con un'ansia che andava aumentando, la zia con penosi sforzi di memoria. Quando infine riuscì a ricordare, protese le braccia tremanti e s'afferrò al collo della nipote gridando: Povero figlio mio, povero Camillo! - Piangeva, e le sue lacrime si asciugavano sulla pelle rovinate della vedova, che nascondeva fra le pieghe del lenzuolo gli occhi asciutti. Teresa restò curva in quel modo, lasciando che la povera vecchia sfogasse il pianto. Dal momento del delitto aveva temuto per quel primo incontro; era rimasta a letto per ritardarlo, per riflettere con calma sulla terribile parte che doveva recitare. Quando vide che mamma Raquin s'era calmata, le si fece intorno premurosa, le consigliò di alzarti, di scendere in bottega. La vecchia era quasi rimbambita: ma l'improvvisa apparizione della nipote le aveva procurato una crisi favorevole, che le aveva risvegliato la memoria e la coscienza delle cose e degli esseri che la circondavano. Ringraziò Susanna per le cure prodigatele, e parlò, debole, ma non più delirante, colma d'una tristezza che la soffocava a tratti. Piangeva all'improvviso, guardando Teresa muoversi nella stanza e se la richiamava accanto. L'abbracciava, e fra i singhiozzi le diceva che oramai al mondo non le era rimasta che lei. La sera acconsentì ad alzarsi e a tentare di prendere un po' di cibo e allora Teresa poté constatare quale colpo terribile aveva avuto la zia. Le gambe della povera vecchia s'erano appesantite, le fu necessario appoggiarsi ad un bastone per trascinarsi fino alla sala da pranzo e lì ebbe la sensazione che le pareti le danzassero intorno. Ma fin dal giorno seguente la vecchia volle, nondimeno, che si riaprisse la bottega temeva d'impazzire restando sola nella camera da letto e discese pesantemente la scala, appoggiando tutti e due i piedi su ogni scalino. Andò a sedersi dietro il banco, e da quel giorno vi restò inchiodata, in un sereno dolore. Accanto a lei, Teresa rifletteva e aspettava. La bottega riacquistò la sua calma tetra.
XIV
Lorenzo tornò a visitarle, qualche volta, la sera, ogni due o tre giorni. S'intratteneva nella bottega una mezz'ora a chiacchierare con mamma Raquin, poi se ne andava senza nemmeno guardare in faccia Teresa. La vecchia lo considerava il salvatore della nipote, uomo dal cuore nobile, che aveva fatto tutto il possibile per salvare il figlio, e l'accoglieva con affettuosa tenerezza. Un giovedì sera, Lorenzo era lì quando arrivarono Michaud e Grivet. Erano le otto. L'impiegato e l'ex commissario, ciascuno per proprio conto, avevano ritenuto di poter riprendere quella simpatica abitudine senza apparire troppo importuni, e arrivarono contemporaneamente, quasi spinti dalla stessa molla. E dietro di loro giunsero anche Oliviero e Susanna. Salirono in sala da pranzo, e mamma Raquin, che era stata colta di sorpresa, si affrettò ad accendere la lampada e a preparare il tè. E quando tutti furono seduti intorno alla tavola, ciascuno con la tazza di tè davanti e fu svuotata la scatola del domino, improvvisamente richiamata al ato, guardò gli ospiti e proruppe in singhiozzi. C'era un posto vuoto, il posto del figlio. Quella disperazione della madre, agghiacciò e turbò la compagnia. Su tutti i volti si leggeva un'egoistica aria di beatitudine: tutti, quindi, rimasero annoiati, neanche il minimo ricordo di un Camillo vivo essendo rimasto nel loro cuore. - Via, signora cara, — esclamò il vecchio Michaud leggermente impazientito, — non bisogna disperarsi a quel modo! Lei finirà per ammalarsi! Prima o poi dobbiamo morire lutti, — aggiunse Grivet. - Le lacrime non le renderanno suo figlio, — sentenziò Oliviero. - La prego, mormorò Susanna. — Non ci dia dispiacere E siccome mamma Raquin singhiozzava più forte, non potendo il frenare il pianto, Michaud incalzò: - Andiamo, andiamo, signora, un po' di coraggio. Lei
comprende che veniamo qui per distrarla. Diamine! non rattristiamoci di più, cerchiamo di dimenticare, giochiamo con la posta di due soldi. Che ne dite? Con uno sforzo supremo, la merciaia represse i singhiozzi forse s'era resa conto del beato egoismo degli ospiti. Si asciugò gli occhi, e ancora scossa dai singulti entrò nel gioco. Le pedine le tremavano nelle povere mani, e le lacrime rimaste nelle palpebre le impedivano di vedere. E si giocò. Lorenzo e Teresa avevano assistito alla breve scena, seri e imibili. Il giovane era lieto che si riprendesse la consuetudine del giovedì sera: quelle riunioni gli erano necessarie per raggiungere i suoi scopi, e ne aspettava con ansia la ripresa. E poi, senza sapere perché, si sentiva più sciolto, in compagnia di conoscenti, e osava perfino guardare Teresa in volto. Gli pareva che, vestita a lutto, pallida e raccolta, quella donna rivelasse una bellezza a lui ancora ignota, ed esultò quando, incrociando gli sguardi, gli occhi di lei lo fissarono a lungo coraggiosamente. Teresa gli apparteneva sempre, con il cuore e con la carne.
XV
Trascorsero quindici mesi. S'erano via via addolcite le asprezze del primo dolore; ogni nuovo giorno portava nuova calma, una distensione di più; la vita riprese il suo corso con stanco languore, con quell'assorta monotonia che segue le grandi crisi. E, sulle prime, Teresa e Lorenzo si lasciarono trasportale nella nuova esistenza che trasformava. Qualcosa lavorava sordamente nel loro intimo, e bisognerebbe analizzarla con estrema circospezione, se si volesse penetrarne tutte le fasi. Lorenzo aveva ripreso 1e sue visite di ogni sera alla bottega, come prima ma non cenava e non vi si tratteneva più le serate intere. Arrivava verso le nove e mezzo e se ne n'andava dopo aver chiuso il negozio. Si sarebbe detto che egli compisse un dovere mettendosi a disposizione di quelle due donne: se mancava un giorno al suo compito, l'indomani su giustificava con parole umili. Il giovedì aiutava mamma Raquin ad accendere il fuoco e a fare gli onori di casa, ed era così cortese, che la vecchia ne era incantata. Teresa, se ne stava tranquillamente a guardarlo girare intorno. Sparitole il pallore dal volto, ella appariva più sana, più sorridente, più dolce. Si e no, a volte, la bocca, stringendosi in qualche contrazione nervosa incideva due profonde pieghe che davano al suo volto una strana espressione di dolore e di spavento. I due amanti non avevano più cercato di vedersi da soli. Non si diedero mai un appuntamento, non si scambiarono mai un bacio furtivo. Il delitto aveva momentaneamente smorzato la loro voluttà: uccidendo Camillo erano riusciti a far tacere quei desideri irresistibili ed insoddisfatti che non erano riusciti ad appagare spezzandosi l'uno nelle braccia dell'altro; l'assassinio fu per essi come un godimento supremo di fronte al quale i loro abbracci apparivano stucchevoli e disgustosi. Avrebbero avuto, tuttavia, infiniti possibilità di dar corso a quella libera vita d'amore chi avevano sognato e che li aveva spinti al delitto: mamma Raquin,
invalida, inebetita, non era un ostacolo; della casa potevano disporre a piacere, potevano uscire, andare dove meglio gli pie. Ma l'amore non li tentava più, la voglia se n'era andata, e se ne stavano a chiacchierare tranquillamente, guardandosi senza rossore e senza brividi, quasi dimentichi dei folli amplessi che gli avevano illividita la carne e fatto scricchiolare le ossa. Evitavano perfino d'incontrarsi a tu per tu: da soli non sapevano che cosa dirsi, ed entrambi temevano di ostentare troppa freddezza. Quando si scambiavano una stretta di mano provavano una specie di malessere sentendosi il contatto della pelle. Ed entrambi credevano di sapersi spiegare la reciproca indifferenza e timore: consideravano il loro freddo atteggiamento una misura di prudenza. Secondo loro, la serenità e la voluta astinenza erano conseguenza di saggezza. Credevano che vi fosse una loro volontà nel torpore della loro carne, nel sonno dei loro cuori. La ripugnanza, il malessere che provavano, li ritenevano un residuo di spavento, una specie di inconscia paura del castigo. A volte si sforzano di sperare, tentavano di rinnovare i tormentosi sogni d'un tempo, ma restavano delusi accorgendosi che la loro fantasia s'era spenta. Entrambi, allora, s'aggrappavano all'idea del loro futuro matrimonio: raggiunto lo scopo, senza più nulla da temere, uniti uno all'altra, avrebbero rivivificata la loro ione, goduto le gioie sognate. Questa speranza li calmava, gli impediva di arrivare in fondo al nulla che s'era scavato in loro. Si persuasero, così, che si amavano come in ato, e aspettavano l'ora di potersi unire per sempre ed essere completamente felici. Teresa non aveva mai avuto l'animo tanto tranquillo: andava diventando certamente migliore, una distensione sopravveniva nelle sue implacabili determinazioni. La notte, sola nel letto, si sentiva felice; non aveva pia accanto la faccia secca, il corpo sparuto di Camillo che le esasperava la carne e la spingeva a concupiscenze insoddisfatte, si risentiva giovanetta, vergine sotto il baldacchino bianco, in piena pace nel silenzio e nel buio. La sua camera, larga, un po' fredda, con il soffitto altissimo, le ombre negli angoli e un sentore di chiostro, finiva per piacerle; perfino il muraglione nero che si ergeva di fronte alla finestra le era diventato simpatico: durante tutta l'estate era rimasta, ogni sera, ore ed ore a contemplare quella massa grigia e le fette di cielo stellato che si tagliavano fra tetti e comignoli. Pensava a Lorenzo soltanto quando un incubo la svegliava di soprassalto: allora, seduta, in mezzo al letto, tutta tremante, con gli occhi sbarrati, ravvolgendosi nella camicia pensava che non avrebbe avuto quelle
paure improvvise se vi fosse stato un uomo coricato accanto a lei. Pensava all'amante come a un cane che le avrebbe dato compagnia e protezione; il suo corpo fresco e tranquillo non aveva alcun brivido di desiderio. Di giorno, nella bottega, s'interessava di tutto, ormai s'apriva, non sentiva più le sorde rivolte d'un tempo, quand'era tutta presa da pensieri d'odio e di vendetta. Lo starsene inerte l'annoiava, sentiva bisogno di muoversi, di vedere. Dal mattino alla sera osservava la gente che transitava nella galleria, quel chiasso, quell'andirivieni la divertivano. Diventava curiosa e chiacchierona, donna insomma, poiché fino ad allora i suoi erano stati atti e pensieri da uomo. Dal suo punto d'osservazione notò uno studente che abitava nelle vicinanze, in una camera mobiliata, e che ava varie volte al giorno davanti alla bottega. Bello, pallido, con una capigliatura folta e lunga da poeta e due baffoni da ufficiale. Teresa lo trovò molto distinto, e per un intera settimana ne fu innamorata come una ragazzina. Si mise a leggere romanzi, paragonò il giovanotto a Lorenzo e ne dedusse che l'amico era grossolano e pesante. Le spalancò orizzonti romantici che ignorava ancora; aveva amato solo con il sangue e con i nervi, imparò ad amare con la testa. Poi, un giorno, lo studente sparì, probabilmente aveva cambiato abitazione, e Teresa lo dimenticò nello scorcio di qualche ora. Si abbonò ad una libreria circolante e si apionò a tutti gli eroi dei racconti che le avano sotto gli occhi; l'improvviso capriccio della lettura operò in modo notevole sul suo temperamento: le si eccitò una sensibilità nervosa a tal punto, che rideva e piangeva senza motivo; l'equilibrio che s'andava stabilendo in lei finì col rompersi. Fu risospinta in una vaga fantasticheria; a volte il ricordo di Camillo la scuoteva, allora ripensava a Lorenzo con desideri nuovi, pieni di timore e di diffidenza. Ricadde, insomma, nelle sue vecchie angosce, e ora si rodeva nell'escogitare un mezzo per sposare l'amante su due piedi, ora pensava di scapparsene, di non rivederlo più. Parlandole di castità e d'onore, i romanzi le interposero come una barriera fra l'istinto e la volontà. Restò la belva indomabile che voleva lottare con la Senna e che s'era tuffata con violenza nell'adulterio, ma cominciò ad avere coscienza della bontà e della dolcezza, comprese il viso tenero e il portamento assente della moglie di Oliviero, si rese conto che si può
essere felici senza bisogno di ammazzare il marito. Cessò di capire se stessa, e cominciò a vivere in una tormentosa indecisione. Da parte sua, Lorenzo ò attraverso fasi alterne di calma e di febbrile eccitazione. Da principio si sentì tranquillissimo, gli pareva di essersi liberato di un enorme peso; cominciò a domandarsi stupito se non avesse fatto un brutto sogno, se era vero che aveva gettato Camillo nel fiume e ne aveva rivisto il cadavere su un marmo dell'obitorio. Il ricordo del delitto lo sorprendeva stranamente; mai si sarebbe creduto capace di un assassinio; la sua prudenza e la sua vigliaccheria tremavano; gocce di sudore gelido gli imperlavano la fronte quando pensava che avrebbero potuto scoprire il suo misfatto e mandarlo alla ghigliottina: e si sentiva sul collo il freddo taglio della mannaia. Finché s'era trattato di agire, aveva saputo andar dritto davanti sé, con accanimento e accecamento da bruto; ma ora, rigirandosi a guardare l'abisso nel quale avrebbe potuto precipitare, si sentiva venir meno dallo spavento. « Ero certamente ubriaco », pensava. « Quella m'aveva inebetito, con le sue carezze. Mio Dio, che bestia, che pazzo sono stato! Ho rischiato la ghigliottina, con un fatto simile... Per fortuna che tutto è andato liscio, ma non ci riproverei di sicuro una seconda volta ». Giorno per giorno egli andò accasciandosi, divenne fiacco, più timoroso e prudente che mai. S'ingrassò anche e si afflosciò. Chi avesse osservato quell'omaccione pieno, che pareva senz'ossa e senza nervi, non avrebbe mai supposto che potesse essere capace di violenza e di crudeltà. Ritornato alle vecchie abitudini, per diversi mesi fu un impiegato modello, accudendo con esemplare accanimento ai suoi doveri d'ufficio. La sera ritornò a mangiare nella latteria di via San Vittore e indugiando a tagliare il pane a fettine, e masticando lentamente, faceva durare il pasto il più a lungo possibile; poi si sdraiava addossandosi con la sedia al muro e s'accendeva la pipa. Sembrava un pacifico padre di famiglia. Di giorno non pensava a nulla, la notte dormiva un sonno pesante e senza incubi: il volto roseo e cicciotto, la pancia piena e la testa vuota, si sentiva felice. I suoi sensi sembravano addormentati; Teresa aveva cessato di occupargli la mente. Pensava talvolta all'amante come si può pensare a una donna che un giorno si dovrà sposare, ma in un futuro molto indeterminato. E aspettava pazientemente il giorno del matrimonio, dimenticando la donna, prospettandosi
la situazione che gli sarebbe derivata: avrebbe lasciato l'ufficio, si sarebbe messo a dipingere a tempo perso, avrebbe potuto gironzolare senza far nulla. E queste prospettive lo spingevano, ogni sera, nella bottega della galleria, nonostante il vago malessere che provava nell'entrarvi. Una domenica, annoiato e senza sapere cosa fare, andò a far visita al suo ex compagno di collegio, al pittore con il quale aveva abitato per qualche tempo. L'artista lavorava ad un quadro che contava di poter esporre al Salon, e che rappresentava una baccante nuda, sdraiata su un drappeggio. La modella era distesa in fondo allo studio con la testa ripiegata indietro, il torso curvo, un'anca sollevata. Stiracchiandosi per riposare e allungando le braccia, di tanto in tanto la ragazza protendeva il seno e sorrideva. Lorenzo, seduto di fronte a lei, la guardava, fumando e chiacchierando con l'amico. Il sangue gli pulsava forte, i nervi gli si eccitarono in quella lunga contemplazione. Restò fino a sera nello studio, poi si portò la ragazza a casa. Per circa un anno se la tenne come amante, e la modella prese ad amarlo, lo trovò un bell'uomo. La mattina se ne usciva e andava a posare tutto il giorno; la sera tornava regolarmente, sempre alla stessa ora: mangiava, si vestiva, si manteneva con il denaro che guadagnava, senza costare un soldo a Lorenzo, che non si preoccupava lontanamente di chiederle da dove ritornasse, o che avesse fatto tutto i1 giorno. Quella donna aggiunse un equilibrio nella vita di Lorenzo: egli la prese come un oggetto utile e necessario, che manteneva in pace e in salute il suo corpo; non seppe mai se ella l'amasse o no, non pensò mai che con quella donna diventava infedele verso Teresa. Si sentiva soltanto sazio e felice: ecco tutto. Scaduto il periodo di lutto, Teresa cominciò a indossare abiti chiari, e una sera Lorenzo la trovò abbellita e ringiovanita. Quella sorpresa, però, non valse ad annullare il turbamento che egli provava sempre in presenza di lei. Da qualche tempo la vedeva come in preda a una febbre, stranamente appiccicosa, capace di are dall'allegria alla tristezza senza motivo. Quegli improvvisi cambiamenti d'umore lo spaventavano, perché egli v'intuiva, in parte, le lotte e l'agitazione intima della donna. Vivendo tranquillo, raggiunta la misurata e calma soddisfazione dei suoi bisogni, egli temeva di compromettere la sua pace sposando una donna così nervosa, la cui ione già una volta l'aveva reso folle. Cominciò quindi ad esitare, timoroso di mettere in pericolo l'equilibrio raggiunto. Ma tutto questo non era in lui frutto di vera riflessione. Era istintivamente che sentiva le angosce che il possesso di Teresa gli avrebbero
provocate. Il primo colpo, che lo scosse da quella pacifica rilassatezza, l'ebbe quando si accorse ch'era giunto il momento di pensare al matrimonio: erano già trascorsi circa quindici mesi dalla morte di Camillo. Per un po', fu tentato dall'idea di mandare tutto all'aria, di piantare Teresa e di tenersi la modella, i cui amori compiacenti ed economici gli erano più che sufficienti; ma poi trovò che non poteva aver ucciso un uomo per nulla. Ricordandosi del delitto, degli sforzi terribili che aveva fatto per possedere tutta per lui quella donna che ora lo turbava, sentiva che l'assassinio sarebbe diventato inutile o atroce, se non avesse sposato Teresa. Affogare un uomo nel fiume per rubargli la moglie, aspettare quindici mesi, e alla fine decidersi a convivere con una ragazza che esponeva la sua nudità negli studi di tutti i pittori, gli sembrò ridicolo e lo fece sorridere. D'altra parte, non era legato a Teresa da un vincolo di sangue e di amore? Se la sentiva gemere e rivoltare in se stesso, le apparteneva tutto. E poi, aveva paura della complice. Poteva darsi che, non sposandola, per vendetta e gelosia lei andasse a raccontare tutto alla giustizia. Queste idee gli martellavano il cervello, gli ridavano la febbre del ato. Nel frattempo la modella, lo piantò in asso: una domenica uscì e non si fece più vedere; evidentemente aveva trovato un alloggio più caldo e confortevole. Lorenzo non ne fu molto afflitto; provò solo un senso di vuoto nella sua vita, perché non vedeva più accanto a sé, la notte, quella donna alla quale si era abituato. Dopo otto giorni i nervi gli si ribellarono, ed egli tornò a stabilirsi, per serate intere, nella bottega della galleria, e ritornò a guardare Teresa con occhi che lampeggiavano di desiderio. Ancora inebriata e fremente per le lunghe letture di romanzi, la vedovella s'illanguidì e si abbandonava sotto al suo sguardo. Entrambi ricaddero, in tal modo, nell'angoscia e nel desiderio, dopo un lungo anno d'attesa quasi indifferente. Una sarai, Lorenzo, mentre chiudevano bottega, s'intrattene un attimo con Teresa nella galleria. - Vuoi che stasera venga a trovarti in camera? — le chiese con voce piena d'ardore. Ella fece una smorfia di spavento. -No, no aspettiamo...- disse - Bisogna essere prudenti.
Non ti pare che ho già atteso abbastanza? — incalzò Lorenzo, - sono stufo d'aspettare ancora: ti voglio. Teresa lo guardò con slancio. Un improvviso calore le infiammò le mani e le gote. Sembrò esitare, ma poi si riprese e bruscamente concluse: - Sposiamoci e sarò tua-.
XVI
Lorenzo lasciò la galleria con la mente e i sensi sconvolti: l'alito caldo di Teresa, e la sua sollecitazione, gli avevano ri le sopite concupiscenze. S'incamminò lungo il fiume con il cappello in mano per meglio sentire sul volto la freschezza dell'aria. Giunto in via San Vittore, si fermò davanti alla porta della locanda: aveva paura d'entrare, di essere solo. Una paura infantile, inesplicabile, imprevista, gli fece pensare che un uomo potesse nascondersi nella soffitta. Non era stato mai così codardo. Ritornò sui suoi i, senza neppur tentare di scacciare via quella stupida paura, e si ficcò in cantina. Vi restò un'ora, fino a mezzanotte, seduto a un tavolo, immobile e muto, bevendo automaticamente grandi bicchieri di vino. Ripensava a Teresa, s'irritava perché non aveva voluto accoglierlo nella sua camera quella stessa sera, si diceva che con lei non avrebbe avuto paura. Dovendo chiudere bottega, i1 vinaio lo mise alla porta, ma egli tornò indietro per farsi dare dei fiammiferi: il custode della sua locanda stava al primo piano ed egli doveva percorrere al buio un lungo corridoio e salire alcuni scalini prima di poter avere la sua candela: e quella sera corridoio e scalini, neri per l'oscurità, lo spaventavano. Di solito percorreva senza preoccupazioni quel tratto buio, ma quella sera non riusciva a trovare il coraggio di suonare il camlo; pensava che nel vano d'accesso allo scantinato potesse nascondersi qualche assassino pronto a saltargli alla gola, al suo aggio. Si decise finalmente a bussare, accese un fiammifero e si avventurò nel corridoio. Il fiammifero si spense ed egli rimase immobile, ansante, incapace di fuggire. Strofinava i fiammiferi sul muro umido con un'ansietà che gli faceva tremare la mano, ma gli si spezzavano tutti fra le dita. Gli pareva di udire voci e rumori di i davanti a sé... Finalmente un fiammifero s'accese, lo zolfo cominciò a rifriggere e a dar fuoco al legnetto con una lentezza che accresceva l'angoscia di Lorenzo; nella luce scialba e
azzurrognola dello zolfo, nel tremolio della fiammella, credette d'intravedere forme mostruose. Poi la fiammella brillò, la luce divenne chiara e bianca, e Lorenzo, rincuorato, avanzò con precauzione, avendo cura di non rimanere al buio. Quando fu all'altezza dell'accesso allo scantinato strisciò lungo la parete opposta : c'era di là una massa d'ombra che lo spaventava. Salì in fretta i pochi scalini che lo dividevano dal custode e si ritenne in salvo solo quando ebbe in mano la candela accesa. Gli altri piani li salì più lentamente, alzando in alto la candela per illuminare tutti gli angoli davanti ai quali doveva are; le ombre gigantesche e strane che vanno e vengono, quando ci si trova per una scala con una candela in mano, lo riempivano d'un malessere indeterminato, apparendogli e scomparendogli dinanzi. Quando giunse alla sua soffitta, aprì la porta e si chiuse rapidamente dentro. Per prima cosa guardò sotto il letto e ispezionò minuziosamente la stanzetta per accertarsi che nessuno vi fosse nascosto; poi chiuse il finestrino, pensando che qualcuno sarebbe potuto scendere anche di là. Tranquillizzatosi per aver preso queste precauzioni, si spogliò, stupendosi egli stesso della propria vigliaccheria; e finì per sorridere di quella bambinata: non era stato mai pauroso e non sapeva spiegarsi quella improvvisa crisi di terrore. Si coricò, e appena al caldo, sotto le coperte, ripensò a Teresa, che per un momento aveva dimenticato nell'ansia della paura. Con gli occhi ostinatamente chiusi, cercava il sonno, ma sentiva che suo malgrado la mente lavorava, s'impossessava di lui stesso, ricollegando uno all'altro tutti i suoi pensieri, ripresentandogli tutti i vantaggi che avrebbe conseguito sposandosi presto. Cambiava ogni tanto posizione, mormorando fra sé : « Non pensiamoci più, dormiamo. Domattina debbo alzarmi alle otto per andare in ufficio ». E taceva sforzi per abbandonarsi al sonno. Ma le idee gli ritornavano a una a una alla mente, il lavorio di quei suoi ragionamenti sordi incalzava, presto fu risospinto in una specie di lucida fantasticheria, che gli illustrava sul fondo del cervello le cause che rendevano necessario quel matrimonio, gli argomenti che i suoi desideri e la sua prudenza gli suggerivano di volta in volta a favore o contro il possesso di Teresa. Vedendo che non poteva dormire e che l'insonnia lo irritava, si girò sul dorso, spalancò gli occhi e dette libero sfogo al cervello di saziarsi con i ricordi dell'amante. L'equilibrio era rotto, i febbrili desideri d'un tempo lo scuotevano di nuovo. Gli venne l'idea di alzarsi, e di ritornare alla galleria. Si sarebbe fatto aprire il cancello, avrebbe bussato alla porticina della scala, e Teresa lo avrebbe
accolto. A quel pensiero il sangue gli affluiva alla testa. E la sua immaginazione era di un'impressionante lucidità: si vedeva già sulla strada, andando a o spedito, rasentando le case, e si diceva:
Il suo pensiero, ora, s'attaccava a Camillo con spaventosa ostinazione: l'annegato non gli aveva, fino a quel momento, turbato mai il sonno, ma ecco che ripensando a Teresa s'era, destato lo spettro del marito. L'assassino non osava aprire gli occhi. temeva di scorgere la vittima in qualche angolo della stanza. A un certo momento gli parve che il letto fosse bruscamente scosso e immaginò che Camillo si trovasse nascosto sotto il letto, che glielo scuotesse a quel modo per farlo cadere e morderlo. Stravolto, i capelli ritti sulla testa, s'aggrappò al materasso credendo che le scosse aumentassero a mano a mano di violenza. Poi ebbe una reazione, si convinse che il letto era ben fermo, si sedette, accese la candela e meditò sulla sua imbecillità. Mandò giù un grosso bicchiere d'acqua per calmare quella febbre. « Ho fatto male a bere all'osteria », si diceva. « Non so che m'ha preso, stanotte. È bestiale. Domani in ufficio sarò stanco morto. Avrei dovuto addormentarmi subito quando mi son coricato, e non pensare a tante cose: è questo che m'ha tolto il sonno... Dormiamo, via! ». Spense di nuovo la candela, affondò la testa nel cuscino, un po' rincorato, deciso a non pensare più a nulla, a non aver paura. La stanchezza cominciava a distendergli i nervi. Si addormentò, ma non con il sonno abituale, pesante e accasciato; scivolò lentamente in una leggera sonnolenza. Era come semplicemente intorpidito, immerso in una perdita di coscienza piacevole e voluttuosa. Sentiva ancora il proprio corpo, pur dormendo: la mente gli restava sveglia nella carne abbandonata. Aveva scacciato i cattivi pensieri, s'era difeso contro l'insonnia, ma appena assopito, appena gli mancarono le forze e non poté controllare la volontà, quei pensieri tornarono pian piano, a uno a uno, impossessandosi della sua debolezza. Le sue fantasticherie ricominciarono. Rifece la strada che lo separava da Teresa: scese, ò di corsa davanti alla buia porta dello scantinato, si trovò all'aperto; ripercorse tutte le strade già fatte prima sognando a occhi aperti, arrivò alla galleria, salì la scaletta, annaspò alla porta ma invece di Teresa, invece dell'amante in sottoveste e con il seno nudo, fu Camillo ad aprirgli; Camillo come lo aveva visto all'obitorio, livido e atrocemente sfigurato. Il cadavere gli tendeva le braccia con un ghigno tremendo, mostrando un pezzetto di lingua nerastra, fra due file bianche di denti. Lorenzo lanciò un urlo e si svegliò di soprassalto. Era bagnato di un sudore
freddo. Si tirò le coperte sugli occhi e, insultandosi e brontolando contro se stesso, riprovò ad addormentarsi. Come prima, ò lentamente; in uno stato di torpore, fu colto dallo stesso accasciamento, e quando la volontà gli si affievolì nel languore del dormiveglia, si rimise in cammino, tornò dove quell'idea fissa lo trascinava, corse per vedere Teresa, ma fu ancora l'annegato che gli aprì la porta. Terrificato, il miserabile sedette in mezzo al letto: egli avrebbe voluto a costo di qualunque prezzo liberarsi di quel sogno implacabile, desiderava un sonno di piombo, che schiacciasse i suoi pensieri. Finché era sveglio, aveva sufficiente energia per allontanare il fantasma della sua vittima, ma appena non era più padrone della propria mente, fingendo di sospingerlo verso la voluttà, il pensiero lo portava verso il terrore. Riprovò ancora ad addormentarsi, ma fu soltanto una successione di torpore voluttuoso e di risvegli bruschi e strazianti: nel furioso accanimento dei suoi pensieri, andava sempre verso Teresa e ogni volta cozzava contro il corpo di Camillo. Più di dieci volte rifece la strada: partì con la carne in fiamme, seguì il medesimo itinerario, riebbe le medesime sensazioni, ripeté i medesimi gesti con minuziosa esattezza, e per più di dieci volte vide il morto offrirsi all'amplesso, quand'egli allungava le braccia per prendere e stringere l'amante. E questo eterno svolgimento macabro del suo sogno, che ogni volta lo faceva svegliare ansante e smarrito, non affievoliva i suoi desideri, perché un minuto dopo, appena riprendeva sonno, dimenticando il tragico cadavere che lo attendeva, la sua mente correva a cercare il corpo agile e caldo dell'amante. Per più di un'ora Lorenzo visse in quella successione di incubi, in quella ripetizione inesorabile del sogno, terrificante, sempre imprevisto, che a ogni soprassalto lo fiaccava con uno spavento sempre più acuto. Una delle scosse, l'ultima, fu così violenta, tanto dolorosa ch'egli decise di alzarsi e di non lottare ulteriormente. Albeggiava. Un triste chiarore grigiastro entrava dal finestrino sul tetto, che tagliava nel cielo un grigio quadratino chiaro. Piano piano Lorenzo si vestì. Era irritato con se stesso, esasperato per non aver dormito, per essersi lasciato dominare da una paura che ora definiva puerile. Infilandosi i calzoni, si stiracchiò, si strofinò le braccia, si ò la mano sul volto disfatto e rabbuiato da una notte di febbre, e intanto si ripeteva: « Non avrei dovuto pensare a tutte quelle cose, e cosi avrei dormito, e adesso sarei
fresco e di buon umore... Se Teresa avesse voluto, ieri sera, se fossimo andati a letto insieme... ». E l'idea che Teresa avrebbe potuto distoglierlo dalla paura lo tranquillizzò un pochino. Egli temeva di dover trascorrere altre notti simili a quella ata. Si buttò un po' d'acqua fresca sulla faccia e diede un colpo di pettine ai capelli; quella sommaria toletta gli rinfrescò la testa, dissipò le ultime sensazioni di spavento. Ragionava con calma, oramai; si sentiva solo una grande stanchezza in tutti i muscoli. « Eppure, io non sono un vigliacco », si diceva finendo di vestirsi, « e di Camillo me ne rido allegramente. È roba da matti pensare che quel povero diavolo stia sotto il letto. E invece ogni notte mi sembrerà così, probabilmente. Bisogna proprio che mi sposi al più presto: quando dormirò tra le braccia di Teresa, non penserò più a Camillo. Mi bacerà sul collo e non sentirò quell'orribile bruciore che ho provato stanotte... Diamo un'occhiata alla morsicatura... » Si avvicinò allo specchio, torse il collo e guardò: la cicatrice era di un rosa pallido, e, scorgendovi i segni dei denti della vittima, Lorenzo provò una certa emozione, il sangue gli salì alla testa e s'accorse, allora, di uno strano fenomeno: con l'afflusso di sangue la cicatrice si arrossò, divenne viva e sanguigna, si staccò, per il suo rossore purpureo, sul collo grasso e bianco. Nello stesso tempo Lorenzo avvertì un pizzicore acuto, come se gli avessero infilato degli aghi nella piaga. Si affrettò a tirar su il colletto della camicia. « Bah!» concluse. « Teresa mi guarirà... Basterà qualche bacio. Che bestia sono a pensare a queste cose!» Si mise il cappello in testa e uscì. Aveva bisogno di prendere aria, di camminare. ando davanti alla porta dello scantinato sorrise, tuttavia volle assicurarsi della solidità della serratura. Una volta fuori, si avviò a o lento, nella fresca aria del mattino, per il marciapiede deserto. Erano le cinque circa. Quella giornata fu atroce per Lorenzo: in ufficio dovette combattere con il sonno irresistibile che lo colse nel pomeriggio. Il capo, appesantito e dolorante, gli si abbassava ostinatamente sul petto, nonostante ogni suo sforzo contrario, ed egli lo rialzava bruscamente non appena sentiva il o di un superiore. Quella lotta, quelle scosse continue terminarono di spezzargli le ossa, procurandogli un'ansia intollerabile.
La sera, benché si sentisse tremendamente stanco, volle andare da Teresa. La trovò febbricitante, accasciata e stanca come lui. — Questa povera Teresa ha ato una brutta notte, — gli disse mamma Raquin, appena egli si fu seduto. — Sembra che sia stata presa da incubi, ha avuto un'insonnia terribile... L'ho sentita gridare più volte. Stamattina stava malissimo. Mentre la zia parlava, Teresa guardava fissamente Lorenzo. Senza dubbio, intuirono i loro comuni terrori, perché un medesimo brivido nervoso corse sui loro volti. Stettero fino alle dieci, seduti l'uno di fronte all'altra, a chiacchierare di cose futili, ma comprendendosi. Ed entrambi si scongiurarono con lo sguardo di affrettare il momento in cui avrebbero potuto unirsi per difendersi dall'annegato.
XVII
Anche Teresa era stata visitata dallo spettro del marito durante quella notte di febbre. Dopo un anno d'indifferenza, l'ardente richiesta di un appuntamento da parte di Lorenzo l'aveva bruscamente eccitata. La carne cominciò a bruciarle, quando, sola nel letto, aveva pensato che presto si sarebbe fatto il matrimonio. E allora, fra i sussulti dell'insonnia, le si era drizzato davanti l'annegato. Come Lorenzo, anche lei s'era contorta fra gli spasimi del desiderio e dello spavento, e come lui s'era detta che non avrebbe più avuto paura, che ogni sofferenza sarebbe svanita, quando avrebbe avuto l'amante fra le braccia. Alla stessa ora, in quell'uomo e in quella donna s'era prodotto uno sconvolgimento nervoso, che li aveva risospinti, palpitanti e atterriti, ai loro terribili amori. Un legame di sangue e di voluttà s'era stabilito fra loro: rabbrividivano dei medesimi brividi; i loro cuori, congiunti da una specie di dolorosa, fraternità, si stringevano per le stesse angosce; ebbero, da allora, un solo corpo e una sola anima per gioire e soffrire. Questa comunità di sentimenti, questa reciproca compenetrazione è un fatto psicologico e fisiologico che si riscontra spesso in individui spinti violentemente l'uno verso l'altro da grandi scosse nervose. Per più di un anno, Teresa e Lorenzo avevano portata inconsciamente, saldata alla loro carne, la catena che li univa; nella prostrazione seguita, alla crisi acuta dell'assassinio, nella ripugnanza e nel bisogno di calma e di oblio che ne erano seguiti, quei due forzati credettero d'esser liberi, che nessun vincolo di ferro li tenesse più legati: la catena, allentata, strusciava per terra, ed essi si riposarono, si sentirono presi da una stupefazione beata, cercarono altri amori per vivere con saggio equilibrio. Ma il giorno in cui, spinti dai fatti, s'erano di nuovo ridotti a scambiare parole ardenti, la catena si tese con violenza, ed essi ne ricevettero una scossa tale che si sentirono ineluttabilmente legati l'uno all'altra. Il giorno seguente, Teresa cominciò, cheta cheta, a manovrare per affrettare il suo matrimonio con Lorenzo. Era un compito difficile, pieno di pericoli; i due
amanti temevano di commettere qualche imprudenza, di destare sospetti, di svelare troppo bruscamente l'interesse che avevano avuto nella morte di Camillo. Convinti di non poter parlare del matrimonio, concordarono un astuto piano, che consisteva nel farsi offrire, da mamma Raquin medesima e dagli invitati del giovedì sera, ciò che essi non osavano chiedere. Si trattava semplicemente di suscitare in quella brava gente l'idea di far rimaritare Teresa, ma bisognava convincerli che l'idea venisse da loro stessi, e appartenesse soltanto a loro. Fu una commedia lunga e delicata. Teresa e Lorenzo avevano scelto ciascuno la parte che più si adattava a loro, e si muovevano con estrema prudenza, calcolando il minimo gesto, la minima parola. Intimamente, però, erano divorati da un'impazienza che tendeva, al massimo i loro nervi. Vivevano in preda ad una continua eccitazione nervosa, ed era necessaria tutta la loro bassezza d'animo per imporsi un'aria sorridente e serena. Il movente che li spingeva ad affrettare il matrimonio era uno solo: non potevano sentirsi divisi e in solitudine. Ogni notte l'annegato andava a visitarli; ogni notte l'insonnia li faceva giacere su un letto di carboni ardenti, e li rigirava con tenaglie roventi. L'eccitazione nervosa nella quale vivevano accentuava, ogni sera, la febbre del loro sangue, creava davanti a loro atroci allucinazioni. Quando scendeva il crepuscolo, Teresa non osava più salire nella sua camera; provava un'angoscia immensa quando si doveva rinchiudere fino al mattino in quella grande stanza, che filtrava strane luci e si popolava, di fantasmi appena fatto il buio. Finì per lasciare la candela, accesa, per neanche più tentare di addormentarsi, al fine di tener sempre gli occhi spalancati; e quando la stanchezza le abbassava le palpebre e nel nero che le copriva gli occhi vedeva Camillo, le riapriva di soprassalto. Al mattino si sentiva sfinita, avendo sonnecchiato soltanto qualche ora, e a giorno fatto. Quanto a Lorenzo, egli era diventato completamente vile, dalla sera in cui aveva avuto paura ando davanti alla porta dello scantinato. Aveva sempre vissuto, prima, fiducioso come una bestia: ora al minimo rumore tremava e impallidiva come un bambino. Un brivido di terrore gli aveva scosso d'improvviso il corpo e non lo abbandonava più. Di notte egli aveva sofferenze maggiori di Teresa: in quel corpo molle ed indebolito la paura produceva profondi turbamenti. Il calar della sera gli suscitava affannose apprensioni, e spesso non rincasava, preferendo are l'intera notte a camminare per le strade deserte. Una volta, sorpreso da una pioggia dirotta, restò fino al mattino sotto un ponte, e là, accovacciato, agghiacciato, non osando rialzarsi e risalir sulla strada, se ne stette per sei ore a
guardar l'acqua limacciosa che scorreva nell'ombra biancastra. A tratti il terrore l'appiattiva contro la terra umida: gli pareva che sotto l'arcata del ponte assero lunghe file di annegati, trascinati dalla corrente del fiume. Quando, invece, la stanchezza lo spingeva a rincasare, si chiudeva dentro a doppia mandata, e fino all'alba si dibatteva fra spaventosi accessi di febbre. Lo afferrava con insistenza sempre il medesimo incubo: credeva di cadere dalle braccia ardenti e apionate di Teresa in quelle fredde e viscide di Camillo; mentre sognava che l'amante gli si avvinghiava con una stretta frenetica, gli pareva che fosse Camillo a sellarselo contro il petto putrido in un abbraccio di gelo; e quelle brusche sensazioni che si alternavano fra voluttà e ripugnanza, quella successione di contatti con carne ardente d'amore e carne gelida di morte, afflosciata dalla melma, lo facevano ansare e rabbrividire, lo facevano rantolare d'angoscia. Ogni giorno gli amanti sentivano accrescersi il loro terrore, ogni notte gli incubi li schiantavano esasperando la loro follia; per dominare l'insonnia facevano affidamento soltanto sui loro baci, ma per prudenza non osavano ripristinare i loro convegni clandestini, ed aspettavano il giorno del matrimonio come quello della salvezza, al quale avrebbe fatto seguito una notte felice. E così agognavano di unirsi, per tutta l'ansia che li dominava di assicurarsi un sonno tranquillo. Dimenticando, quasi che fosse svanito, il movente egoistico e ionale che li aveva spinti al delitto, per qualche tempo essi erano rimasti indifferenti uno all'altra, e si erano attardati in esitazioni; ma non appena sentirono di nuovo bruciare la torbida febbre, ritrovarono, in fondo alla loro ione e al loro egoismo, la ragione principale che li aveva spinti a uccidere Camillo: godere, dopo essersi sbarazzati di lui, quella felicità che, secondo loro, una legittima unione gli avrebbe garantito. Tuttavia nella suprema decisione del matrimonio avvertivano un senso di disperazione: alla base di tutto v'era la paura, i loro desideri erano fatti di brividi. Entrambi li sentivano attirati l'uno all'altra come da un orrido abisso sul quale fossero sospesi: si curvavano su loro stessi, aggrappati, muti, mentre le vertigini di una voluttà cocente, illanguidendo il corpo, dava a entrambi il brivido della caduta. Ma allo stato dei fatti, nella loro attesa piena di ansia e nei loro desideri pieni di terrore, sentivano l'imperiosa necessità di farsi ciechi, di sognare un avvenire di amorosa felicità e di sereno piacere. Più tremavano, uno di fronte all'altra, più sentivano l'orrore del precipizio e più si ostinavano promettersi felicità, a considerare fatale tutto ciò che li sospingeva al matrimonio.
Teresa voleva sposarsi perché aveva paura di star sola e perché il suo corpo esigeva le carezze violente di Lorenzo: era in preda ad una crisi nervosa che la faceva impazzire. In effetti la disgraziata non ragionava, si tuffava nella ione con la mente sconvolta dai romanzi che aveva letto e con la carne eccitata dalla crudele insonnia che la teneva desta da parecchie settimane. Lorenzo, di temperamento più duro, pur soggiacendo agli incubi e al morso dei desideri, voleva ragionare sulla decisione da prendere. Per convincersi che quel matrimonio gli era indispensabile e che con esso avrebbe conquistato finalmente la felicità, per dissipare i timori che gli sorgevano, rifaceva tutti i calcoli che aveva fatto in precedenza: suo padre, il contadino di Jeufosse, era duro a morire, e quindi per l'eredità chi sa quanto ancora doveva aspettare; d'altra parte non era nemmeno sicuro di prender tutto, perché aveva un temibile concorrente in un cugino, un pezzo di ragazzo che zappava la terra con visibile soddisfazione dello zio. E lui, sempre povero, avrebbe dovuto continuare a vivere senza moglie, in una soffitta, dormendo male e mangiando peggio. Ma egli non aveva affatto l'intenzione di lavorare per tutto il resto della sua vita; cominciava a essere insostenibilmente stufo del suo impiego, le modeste incombenze che gli erano assegnate apparivano massacranti alla sua pigrizia. La conclusione di ogni sua meditazione era sempre la stessa: che il vero benessere sta nel non far nulla. Si ricordava, allora, che aveva ucciso Camillo appunto per sposare Teresa e potersene stare senza far niente; nella premeditazione del delitto aveva, certo, avuto molto peso il desiderio di aver la donna tutta per sé, ma era stato spinto all'assassinio principalmente dalla speranza di mettersi al posto di Camillo, di essere assistito e curato come lui, di vivere in una continua beatitudine. Se l'avesse spinto solo la ione, non si sarebbe mostrato così vile e prudente; quello che, in realtà, aveva invece voluto assicurarsi, con quel delitto, era una vita calma e oziosa, l'appagamento perpetuo dei suoi desideri. Chiari o incoscienti, tutti quei pensieri gli tornavano alla mente, e, per darsi coraggio, andava ripetendosi ch'era giunto ormai il tempo di trarre l'atteso profitto dalla morte di Camillo. Si prospettava, quindi, i vantaggi e le delizie della sua esistenza futura: l'abbandono dell'ufficio; una vita piena di delizioso letargo; mangiare, bere e dormire a sazietà; una donna sensuale a portata di mano per ristabilirgli l'equilibrio del sangue e dei nervi; quarantamila franchi, e forse più, di eredità da mamma Raquin, e senza troppo attendere, perché la povera vecchia se ne moriva di giorno in giorno; un'esistenza materiale felicissima, capace di fargli dimenticare tutto. Da quando lui e Teresa di erano decisi al matrimonio, Lorenzo rifaceva ogni ora
quello stesso ragionamento per elencare i vantaggi e magari scoprirne altri, ed era tutto soddisfatto quando credeva di avei trovato un nuovo argomento, attinto sempre nel suo egoismo, che lo obbligasse a sposare la vedova dell'annegato. Ma per quanto si sforzasse a sperare, per quanto sognasse un avvenire prodigo d'ozio e di piacere, era scosso sovente da brividi che gli ghiacciavano la pelle, era spesso turbato da ansiose apprensioni che gli strozzavano la gioia nella gola.
XVIII
Le manovre dei due amanti ebbero buon risultato. Teresa aveva assunto un'aria cupa e disperata, che in capo a qualche giorno cominciò a preoccupare mamma Raquin, la quale si fece premura di conoscere la causa di quella tristezza. Teresa, allora, recitò la sua parte di vedova inconsolabile con spiccata abilità; parlò di noia, di prostrazione e di esaurimento nervoso, ma sempre genericamente, senza arrivare a precisazioni. Quando la zia la martellava di domande, lei rispondeva che stava bene, che non sapeva spiegarsi le ragioni della sua malinconia, che piangeva senza saper il perché; e continuava a sospirare, a sorridere pallida e pietosa, a starsene assorta in quel suo atteggiamento vuoto e disperato. Di fronte a quella giovane chiusa nel dolore, che sembrava morire lentamente di un male sconosciuto, mamma Raquin finì per allarmarsi seriamente; non le era rimasta al mondo che quella nipote, e ogni sera pregava Dio di conservargliela, affinché potesse sentirsi qualcuno vicino negli ultimi giorni della sua vita. Entrava un po' d'egoismo in questo amore estremo della vecchia, che si sentiva colpita nell'ultima consolazione che l'aiutava ancora a vivere, e tremava al pensiero di poter perdere Teresa e di dover morire sola, in quell'umida bottega. Di conseguenza non tolse più gli occhi di dosso alla nipote, ne studiò con spavento la grande tristezza, si domandò che cosa avrebbe potuto fare per toglierla da tanta malinconia. Date le gravi circostanze, credette in dovere consigliarsi col vecchio amico Michaud, e un giovedì sera lo trattenne nella bottega e gli espresse i suoi timori. — Perbacco! — esclamò il vecchio con la franca brutalità della sua antica professione. — Mi sono accorto da parecchio che Teresa ha una brutta cera, e so anche perché è diventata così gialla e intisichita. —- Lei sa? — disse sorpresa la merciaia. — Ma allora parli, cerchiamo di far qualcosa per guarirla. — Il rimedio è facile, — riprese Michaud ridendo. — Sua nipote si annoia perché da circa due anni la sera è sola, nella sua camera. Ha bisogno di un marito, glielo si legge negli occhi!
La brutale franchezza dell'ex commissario colpì dolorosamente mamma Raquin: dopo il terribile incidente di Saint-Ouen, la sua ferita sanguinava sempre ed era ancora così viva da farle pensare che anche il cuore della nipote fosse ancora crudelmente addolorato. Morto il figlio, le pareva che non potesse esistere altro marito per Teresa, ed ecco, invece, che Michaud le spifferava con una risataccia, che Teresa aveva bisogno di un marito, che quella era la ragione del suo malore. — La mariti presto! le disse Michaud andandosene. — La mariti, se non vuole vederla apire completamente. Questa è la mia opinione, cara signora, ed è quella giusta, mi creda. Non fu facile per mamma Kaquin abituarsi all'idea che il figlio potesse già essere dimenticato. Michaud non aveva neanche pronunciato il nome di Camillo e aveva, anzi, parlato con brio della pretesa malattia di Teresa: la povera madre capì ch'era la sola a conservare in fondo al cuore il ricordo vivo del caro ragazzo. Pianse, le parve che Camillo fosse morto una seconda volta, ma dopo d'essersi sfogata con le lacrime e i rimpianti ritornò senza volerlo sulle parole di Michaud, e finì per assuefarsi all'idea di comprare un po' di felicità mediante un matrimonio che, nella estrema delicatezza dei suoi ricordi, tornava a ucciderle il figlio. E quando, nel l'agghiacciante silenzio della bottega si trovava sola con Teresa, triste e accasciata, la prendevano mille debolezze. Non era uno di quegli esseri rigidi e duri, che provano una sinistra gioia a vivere in un eterno affanno; sapeva, al contrario, essere comprensiva, affezionata, espansiva; aveva, insomma, un temperamento da buona donna florida e affabile che la spingeva a una tenerezza piena di iniziative. Da quando la nipote se ne stava, in silenzio, pallida e afflitta, le pareva che la vita le fosse divenuta insopportabile, che 1a bottega si fosse trasformata in una tomba, e desiderava, come non mai, un po' d'affetto, un po' di vita, un po' di tenerezza intorno a sé, qualcosa di piacevole e gaio che l'aiutasse ad aspettare tranquillamente la morte. Incoscienti desideri che finirono per farle accettare il progetto di rimaritare Teresa; giunse persino a dimenticare un pochino il figlio morto, e nella sua tetra esistenza vi fu come un risveglio, un ritorno di volontà, la necessità di pensare a qualcosa di nuovo. Si mise, quindi, a cercare un marito per Teresa, e questo la occupò tutta. Non era certo un affare di poco conto, perché in definitiva la vecchia pensava più alle proprie esigenze che a quelle della nipote: voleva maritarla in maniera che ne restasse garantita la sua stessa felicità, e perciò si preoccupava che il nuovo sposo non dovesse turbarle gli ultimi giorni della vecchiaia. Si spaventava all'idea di dover ammettere un estraneo nella sua vita di tutti i giorni, e questa preoccupazione soltanto la frenava, impedendole di parlare apertamente con la nipote, del matrimonio.
Mentre Teresa, con quella perfetta ipocrisia derivatale dalla sua educazione, recitava la parte della donna afflitta e deperita, Lorenzo recitava quella dell'uomo sensibile e premuroso, mettendo tutta la premura e la delicatezza possibili nell'attenzione che aveva per le due donne e in particolare per mamma Raquin. A poco a poco, si rese indispensabile nella bottega, solo che riuscisse a mettere un po' d'allegria in quell'antro oscuro. Quando la sera lui non era là, la vecchia si guardava intorno con disagio, come se le mancasse qualcosa, quasi timorosa di trovarsi da sola con la disperata Teresa D'altra parte, Lorenzo, se non si faceva vedere qualche sera era proprio al fine di consolidare meglio la sua indispensabilità; di solito, appena usciva dall'ufficio correva difilato alla bottega, e vi restava fino alla chiusura della galleria; eseguiva commissioni, era sempre pronto nel porgere a mamma Raquin, che camminava a stento, i piccoli oggetti di cui ella aveva bisogno, si sedeva, parlava: aveva trovato una voce da attore morbida e penetrante per blandire orecchio e cuore della buona vecchia. Si mostrava, soprattutto, preoccupato per la salute di Teresa, ma lo rilevava come un buon amico, come un uomo dal cuore tenero, capace di soffrire per le sofferenze altrui. Più di una volta trasse mamma Raquin in disparte e la terrorizzò mostrandosi anch'egli allarmato dai cambiamenti e dal deperimento che diceva di vedere sul volto della giovane. — Finiremo per perderla, — mormorava con voce tremante. — Non si può nasconderlo che è molto malata... Addio, felicità, addio serate tranquille! Mamma Raquin lo ascoltava angosciata. Lorenzo spingeva la sua audacia fino a parlarle di Camillo: — Ne convenga, — le diceva — la morte del povero mio amico è stata per Teresa un colpo terribile. Da due anni, dal giorno funesto in cui ha perduto Camillo, se ne muore lentamente. Nulla la consola, nulla la guarirà. Dovremo rassegnarci. Quelle impudenti menzogne avevano l'effetto di far piangere a calde lacrime la vecchia. Il ricordo del figlio la turbava e l'accecava; ogni volta che udiva il nome di Camillo, essa prorompeva in singhiozzi, si commuoveva, avrebbe voluto abbracciare la persona che lo pronunciava. Lorenzo aveva notato il turbamento e l'intenerimento che quel nome produceva sulla vecchia e capì che poteva farla piangere a volontà, abbatterla con un'emozione che le toglieva l'esatta visione delle cose, e abusò di quel suo potere per tenerla continuamente in pugno, addolorata e condiscendente. Ogni sera, nonostante che le viscere gli si
rivoltassero, faceva cadere la conversazione sulle rare qualità, sul buon cuore e sull'ingegno di Camillo, tessendo l'elogio della vittima con ineguagliabile sfrontatezza. Talvolta, incrociando lo sguardo con Teresa, che lo fissava stranamente, rabbrividiva, gli pareva che fosse tutto vero il bene che diceva dell'annegato, e allora taceva di colpo, preso da un'atroce gelosia, temendo che la vedova non amasse ormai l'uomo ch'egli aveva gettato nel fiume, e che ora andava elogiando con allucinata convinzione. Nel corso di quelle conversazioni, mamma Raquin non faceva che piangere, non vedeva nulla intorno a sé, e pensava che Lorenzo aveva un cuore affezionato e generoso, che era l'unico a ricordarsi del figlio, il solo a parlarne ancora con voce tremante e commossa. Asciugandosi le lacrime, guardava il giovanotto con infinita tenerezza, e sentiva d'amarlo come il suo stesso figlio. Un giovedì sera, Michaud e Grivel erano già saliti in sala da pranzo quando entrò Lorenzo e, avvicinandosi a Teresa, le domandò, con tenera premura, notizie della sua salute. Le si sedette un momento vicino, recitando, per le persone presenti, la parte dell'amico premuroso e allarmato. E mentre i due giovani, l'uno accanto all'altra, si scambiavano quelle poche parole, Michaud, che aveva seguito la scena con lo sguardo, si chinò verso mamma Raquin e, indicandole Lorenzo, le disse a bassa voce: — Ecco, quello è il marito che ci vuole per sua nipote. Cerchi di combinare il matrimonio, l'aiuteremo noi, se sarà necessario. Michaud sorrise maliziosamente: secondo lui, Teresa doveva aver bisogno di un marito robusto. Mamma Raquin restò come colpita da una improvvisa luce, e si rese conto immediatamente dei vantaggi personali che avrebbe ottenuto da un matrimonio tra Teresa e Lorenzo: quel matrimonio, infatti, avrebbe rinsaldato i vincoli che già tenevano unite lei e la nipote all'amico del figlio, a quel cuore d'oro che ogni sera andava a distrarle. In tal modo non avrebbe introdotto un estraneo in casa e non avrebbe rischiato di veder compromessa la sua felicità; al contrario, con Lorenzo, dando un buon sostegno alla nipote, avrebbe aggiunto una gioia alla propria vecchiaia, perché avrebbe trovato un secondo figlio in quel bravo ragazzo che da tre anni le andava dimostrando un affetto filiale. E poi le sembrava che Teresa sarebbe stata meno infedele alla memoria di Camillo, se avesse sposato Lorenzo. La sensibilità umana ha strani scrupoli. Mamma Raquin, che avrebbe pianto se avesse visto
uno sconosciuto abbracciare la nipote, non sentiva nessuna repulsione all'idea di buttarla nelle braccia del vecchio compagno del figlio. Pensava, come si suol dire, che tutto restava in famiglia. Per tutta la serata, mentre gli invitati giocavano a domino, la vecchia non fece che contemplare la coppia con una tale tenerezza da dare agli interessati la sensazione che la loro commedia era riuscita, e che volgesse rapidamente a buon fine. Prima di andarsene, Michaud ebbe un breve colloquio a bassa voce con mamma Raquin, poi prese con ostentazione Lorenzo per un braccio e gli disse che lo avrebbe accompagnato per un tratto di strada. Prendendo congedo, Lorenzo scambiò un rapido sguardo con Teresa, uno sguardo pieno di premurose raccomandazioni. Michaud s'era assunto il compito di tastare il terreno. Lorenzo si dichiarò molto devoto alle due signore, ma altresì molto sorpreso per il progetto di un matrimonio fra Teresa e lui. Aggiunse ch'egli era affezionato alla vedova del povero amico come a una sorella e che a sposarla gli sarebbe parso di commettere un vero sacrilegio. L'ex commissario insistette, accampò cento buone ragioni per ottenere il consenso, parlò perfino di sacrificio, arrivò a dire al giovanotto che il dovere gli imponeva di ridare un figlio a mamma Raquin e un marito a Teresa. A poco a poco Lorenzo si lasciò convincere, finse di cedere all'emozione, di accettare l'idea del matrimonio come un comandamento venuto dal cielo, imposto dal sacrificio e dal dovere, come diceva Michaud. Quando l'ex commissario ottenne finalmente un sì formale, si accomiatò dall'amico strofinandosi le mani: aveva riportato, secondo lui, una strepitosa vittoria, e si congratulava con se stesso per essere stato il primo ad aver avuto l'idea di quel matrimonio, che avrebbe ridato alle serate del giovedì l'antica giocondità. Mentre Michaud teneva quel discorso a Lorenzo, eggiando lentamente lungo il fiume, mamma Raquin ebbe un colloquio quasi simile con Teresa. Nel momento in cui la nipote, pallida e vacillante come al solito, stava per ritirarsi in camera, la vecchia la trattenne e le parlò con voce tenera, supplicandola di esser franca, di confidarle la causa di quel languore che la faceva deperire di giorno in giorno; ma, poiché non ottenne che vaghe risposte, si decise ad accennare alla solitudine di una vedova, e a poco a poco le prospettò la possibilità di un altro matrimonio, chiedendole infine apertamente se non avesse mai in cuor suo desiderato di risposarsi. Teresa protestò, disse che non ci pensava affatto, che
sarebbe rimasta fedele a Camillo. Mamma Raquin pianse, difese contro i suoi stessi sentimenti, si affaticò a spiegare alla nipote che non si può eternamente vivere con un dolore nel cuore, e infine, su un'esclamazione della giovane, che non avrebbe mai sostituito Camillo con qualcun altro, fece tutti insieme il nome di Lorenzo. E, con un fiume di parole, lumeggiò i vantaggi e le convenienze di un simile matrimonio: si svuotò l'animo, ripeté ad alta voce ciò a cui aveva riflettuto durante l'intera serata, presentò con ingenuo egoismo il quadro dei suoi ultimi giorni felici trascorsi fra i due cari ragazzi, mentre Teresa l'ascoltava a capo chino, rassegnata e docile, pronta a soddisfare ogni sua richiesta. — Amo Lorenzo come un fratello, — disse con pena quando la zia si tacque. — Ma, poiché tu lo desideri, cercherò d'amarlo come marito. Voglio che tu sia felice... Speravo che mi avresti lasciata piangere in pace, ma tratterrò le lacrime, se si tratta della tua felicità. Abbracciò la zia, che, dopo quelle dichiarazioni della nipote, rimase sorpresa e atterrita d'essere stata la prima a dimenticare il figlio morto. Coricandosi, mamma Raquin singhiozzò amaramente, accusandosi d'essere meno forte di Teresa, di essere stata spinta dall'egoismo a volere un matrimonio che la nipote accettava soltanto per abnegazione. Il mattino seguente, Michaud e la vecchia ebbero un breve colloquio nella galleria davanti alla porta della bottega. Si informarono scambievolmente circa i risultati dei loro sondaggi, e si trovarono d'accordo di portare a termine risolutamente la faccenda, costringendo la sera stessa i due giovani a fidanzarsi. Alle cinque del pomeriggio Michaud era già nella bottega quando arrivò Lorenzo. Appena questi si fu seduto, l'ex commissario gli disse all'orecchio: — Ha accettato. Quelle parole così chiare furono udite da Teresa, che impallidì tenendo gli occhi impudentemente fissi su Lorenzo, gli amanti si guardarono qualche secondo, come per consultarsi, e compresero che bisognava accettare la situazione senza esitare, farla finita senza indugi. Lorenzo si alzò e andò a serrare una mano a mamma Raquin, che faceva sforzi disperati per trattener le lacrime. — Cara mamma, — le disse sorridendo, — mi sono intrattenuto sulla sua
felicità, ieri sera, con il signor Michaud. I suoi ragazzi non vogliono non vederla felice. La povera vecchia, sentendosi chiamare « cara mamma » lasciò via libera alle lacrime, poi prese con decisione una mano di Teresa e la mise fra quelle di Lorenzo senza poter parlare. Al contatto delle mani i due amanti ebbero un brivido e rimasero con le dita serrate e brucianti in una stretta nervosa. Lorenzo riprese subito con voce esitante: - Teresa, vuole che assicuriamo alla zia un'esistenza felice e tranquilla? - Sì, — rispose la giovane con voce debole. — Abbiamo una missione da compiere. Lorenzo si girò verso mamma Raquin e, pallidissimo, aggiunse; : — Quando Camillo cadde nel fiume mi gridò : « Salva mia moglie, te l'affido! ». Credo di eseguire la sua ultima volontà, sposando Teresa. Nell'udire quelle parole, Teresa abbandonò la mano di Lorenzo: le era sembrato di ricevere un colpo al petto; l'impudenza dell'amante la prostrò, ed ella rimase a fissarlo con uno sguardo istupidito, mentre mamma Raquin, soffocata dai singhiozzi, balbettava : — Sì, sì, Lorenzo, la sposi, la renda felice; mio figlio gliene sarà grato dall'altro mondo. Lorenzo si sentì vacillare e s'appoggiò allo schienale della sedia. Michaud, anche lui commosso fino alle lacrime, lo spinse verso Teresa dicendo: — Baciatevi, è il vostro fidanzamento! Il giovane fu preso da uno strano malessere quando appoggiò le labbra sulle guance della vedova, e questa si ritrasse bruscamente, come scottata dai due baci dell'amante. Erano le prime carezze che quell'uomo le faceva in presenza di testimoni; tutto il sangue le salì alla testa, e si sentì rossa e accesa, lei che non conosceva pudore e non aveva mai arrossito nella vergogna dei suoi amori. Dopo quella crisi, i due assassini respirarono: il matrimonio era stabilito, stavano per raggiungere, finalmente, lo scopo che si erano prefissi da tanto tempo. Tutto fu sistemato la stessa sera. Il giovedì seguente il matrimonio fu annunciato a Grivet, a Oliviero e a sua moglie. Nel darne notizia Michaud era raggiante, si
strofinava le mani e ripeteva : — L'idea è stata mia, sono stato io a farli sposare. Vedrete che bella coppia. Susanna abbracciò silenziosamente Teresa, Quella povera creatura, mezzo morta e sbiancata, si era amichevolmente affezionata alla giovane vedova rigida e triste: l'amava come una bambina, con una specie di rispettoso terrore. Oliviero si felicitò con zia e nipote, Grivet tentò qualche piccante galanteria che ebbe scarso successo. Insomma, furono tutti contenti e raggianti, e dichiararono che le cose non potevano andar meglio: credevano di trovarsi già al banchetto nuziale. Teresa, e Lorenzo serbarono un comportamento accorto e dignitoso: si dimostrarono nient'altro che un'amicizia tenera e premurosa, e avevano quasi l'aria di compiere un doveroso sacrificio. Nulla traspariva sui loro volti che potesse rivelare il terrore e i desideri che li tormentavano. Con un fioco sorriso sulle labbra, mamma Raquin li guardava compiaciuta, in un atteggiamento misto di benevolenza e di riconoscenza. Fu necessario compiere qualche formalità; Lorenzo scrisse al padre per chiedergli il consenso. Il vecchio contadino di Jeufosse, che aveva quasi dimenticato che un suo figliolo fosse a Parigi, gli rispose in quattro righi che poteva ammogliarsi o farsi impiccare a suo piacere; gli fece comprendere che, deciso a non dargli mai un soldo, lo lasciava padrone di se stesso e libero di commettere tutte le pazzie di questo mondo. Un consenso dato a quel modo non poteva non preoccupare Lorenzo. Dopo aver letto la lettera di quel padre snaturato, mamma Raquin fu presa da uno slancio di bontà che l'indusse a fare una sciocchezza: intestò alla nipote i quaranta e più mila franchi che possedeva, spogliandosi d'ogni cosa a favore dei nuovi sposi, affidandosi unicamente al loro buon cuore, desiderosa che ogni sua felicità le venisse da loro. Lorenzo non apportò nulla alla comunità, anzi fece capire che non avrebbe conservato a lungo l'impiego perché, probabilmente, si sarebbe rimesso a dipingere. D'altra parte le modeste esigenze della famigliola erano più che coperte: la rendita del capitale, unita agli utili della merceria, dovevano far vivere più che comodamente tre persone. Ne avevano abbastanza per essere felici. I preparativi del matrimonio furono affrettati, semplificando, fin che fu possibile,
ogni formalità. Si sarebbe detto che tutti avessero fretta di spingere Lorenzo nella camera di Teresa. E il giorno desiderato finalmente giunse.
XIX
Quel mattino, Lorenzo e Teresa, ciascuno nella sua camera, si svegliarono con la medesima gioia nel cuore: entrambi si dissero che l'ultima notte di terrore era ata. Dormendo insieme, si sarebbero reciprocamente difesi contro l'annegato. Teresa si guardò intorno ed ebbe uno strano sorriso misurando con gli occhi il grande letto matrimoniale. Si alzò e si vestì lentamente aspettando Susanna che doveva venire ad aiutarla nella toletta nuziale. Lorenzo, invece, restò seduto per un po' in mezzo al letto dando un addio all'ignobile soffitta. Finalmente avrebbe lasciato quel canile e avrebbe avuto una donna tutta sua. Era dicembre ed egli batteva i denti dal freddo: saltando sul pavimento, pensò che la sera sarebbe stato al caldo. Otto giorni prima, conoscendo le sue ristrettezze, mamma Raquin gli aveva fatto scivolare nelle mani una borsa contenente cinquecento franchi, tutte i suoi risparmi, ed egli l'aveva accettata senza complimenti. Quel denaro della vecchia gli aveva consentito di vestirsi a nuovo e di fare a Teresa i doni tradizionali. Finanziera e calzoni neri, panciotto bianco, camicia e cravatta di tela sottile erano preparati su due sedie. Lorenzo s'insaponò, si profumò con acqua di Colonia e curò minuziosamente la sua toletta. Voleva essere bello. Quando dovette abbottonarsi il colletto, alto e duro, sentì un vero dolore al collo: il bottone gli scappava dalle dita, ed egli si spazientiva, gli pareva che la tela inamidata gli tagliasse la carne. Volle rendersi conto, alzò il mento, davanti allo specchio, e allora scorse la morsicatura di Camillo tutta arrossata: il colletto duro gli aveva leggermente spellata la cicatrice. Lorenzo strinse le labbra e impallidì: la vista di quella chiazza che gli marchiava il collo proprio in quel momento lo spaventò e irritò. Sgualcì il colletto, ne prese un altro cercando di abbottonarlo con mille precauzioni; poi terminò di vestirsi. Quando scese in strada gli abiti nuovi gli imposero un'andatura stecchita: con il
collo imprigionato nella tela inamidata, non osava muovere la testa, perché a ogni movimento un lembo del colletto gli pizzicava la cicatrice che i denti dell'annegato gli avevano scavato nella carne. E sotto il supplizio di quelle acute punture salì in vettura e andò a prendere Teresa per condurla al municipio e in chiesa. ando, prese in carrozza un collega d'ufficio e il vecchio Michaud, che dovevano essergli testimoni. Quando i tre giunsero alla bottega gli altri erano già pronti: c'erano Grivet e Oliviero, testimoni per Teresa, e Susanna che contemplava la sposa come le bambine guardano le bambole che hanno vestito. Mamma Raquin, benché non potesse quasi più camminare, volle accompagnare anche lei i « suoi ragazzi ». La issarono su una carrozza e partirono. Tutto si svolse regolarmente al municipio come in chiesa. Il contegno calmo e semplice degli sposi fu notato e approvato: pronunciarono il sacramentale con un'emozione che intenerì perfino Grivet. Si sentivano come in sogno: mentre se ne stavano seduti o inginocchiati, a fianco a fianco, sereni in apparenza, erano torturati da travolgenti pensieri, loro malgrado, ed evitarono di guardarsi in faccia. Quando risalirono in vettura si sentirono estranei l'uno all'altra ancor più di prima. Era stato deciso che il banchetto si sarebbe fatto in una piccola trattoria sulle alture di Belleville: i Michaud e Grivet erano i soli invitati. Aspettando che scoccassero le sei, gli sposi e il seguito eggiarono in carrozza lungo i boulevards e quindi raggiunsero la trattoria, dove una tavola con sette coperti era stata imbandita in una cameretta dalle pareti tinte in giallo, che puzzava di polvere e di vino. Il pranzo non fu molto allegro. Gli sposi erano seri e pensosi. Provavano sensazioni strane di cui non sapevano rendersi conto, e fin dal mattino s'erano sentiti storditi dalla rapidità della procedura e della cerimonia che li univa per sempre. Più tardi, la scarrozzata sui boulevards li aveva come cullati e assopiti, e quella eggiata gli era sembrata interminabile, ma si erano lasciati portare senza impazienza fra la monotonia di quelle strade, guardando con occhi smorti botteghe e anti, cercando di scuotersi con risa sforzate da quel torpore che li istupidiva. Quando giunsero alla trattoria si sentivano affaticati, stanchi, quasi che un enorme peso gravasse sulle loro spalle, mentre andavano scivolando in una sempre più estatica stupefazione.
A tavola, messi uno di fronte all'altra, sorridevano affettatamente, mangiavano, rispondevano, si muovevano come automi, mentre una serie di pensieri fugaci ronzava incessantemente nei loro cervelli stanchi e inerti. Si erano sposati e non avevano coscienza di aver mutato stato: e questo li sorprendeva enormemente. Avevano l'impressione di essere ancora divisi da un abisso, e ogni momento si domandavano come avrebbero potuto superare quel baratro. Gli pareva che un ostacolo materiale s' intromettesse fra loro, come prima del delitto, e ricordando d'improvviso che la sera stessa, nel termine di qualche ora, sarebbero andati a letto insieme, si guardavano attoniti, non riuscivano a capire perché ciò fosse ormai permesso. Non la sentivano la loro unione; al contrario, avevano l'impressione di essere stati bruscamente divisi, di essere stati lanciati l'uno lontano dall'altra. Per dissipare ogni soggezione, gli invitati, sghignazzandogli intorno, vollero che si parlassero col tu, ma essi arrossirono, balbettarono, non seppero decidersi a trattarsi da amanti in presenza di estranei. I loro desideri s'erano logorati nell'attesa, tutto il ato era svanito; perdevano quei loro violenti bisogni di voluttà, dimenticavano perfino la gioia pregustata in mattinata, quella gioia, che li aveva profondamente invasi al pensiero che non avrebbero avuto più paura. Erano soltanto stanchi e storditi per tutto ciò che accadeva; gli avvenimenti della giornata turbinavano nelle loro teste, incomprensibili e mostruosi. Se ne stavano, perciò, silenziosi e sorridenti, senza aspettare nulla, senza sperare nulla. Nel loro accasciamento v'era qualcosa che li faceva dolorosamente ansiosi. A ogni movimento del collo, Lorenzo sentiva un bruciore che gli mordeva la carne, il colletto gli tagliava e pizzicava la morsicatura di Camillo. Mentre il sindaco gli leggeva gli articoli del codice, mentre il prete gli parlava di Dio, in tutti i momenti di quella interminabile giornata aveva sentito i denti dell'annegato entrargli nella pelle. Gli era parso, a volte, che un rivolo di sangue gli scendesse sul petto andando a macchiargli di rosso il panciotto bianco. Mamma Raquin fu intimamente grata agli sposi per la serietà e la compostezza dimostrate: una gaiezza rumorosa avrebbe ferito la povera madre; per lei Camillo era là, intento a consegnare Teresa a Lorenzo. Grivet non era, però, della stessa opinione; quelle nozze gli sembravano tristi e cercava vanamente di rallegrarle, nonostante le occhiate di Michaud e di Oliviero, che lo inchiodavano sulla sedia ogni volta che voleva alzarsi per dire qualche barzelletta. Riuscì
tuttavia ad alzarsi una volta per fare un brindisi. — Bevo alla prole degli sposi! — disse in tono allegro. Tutti dovettero brindare. Teresa e Lorenzo si guardarono e impallidirono udendo la frase di Grivet. Non avevano mai riflettuto che potesse arrivare qualche figlio, e quel pensiero li penetrò come un brivido di gelo. Si urtarono i bicchieri con un gesto nervoso, si squadrarono, sorpresi, spaventati d'essere lì, l'uno di fronte all'altra. La comitiva si alzò presto da tavola e gli invitati vollero accompagnare gli sposi fino alla camera nuziale: non erano più delle nove e mezzo quando tutti entrarono nella bottega. La venditrice di gioielli falsi era ancora in fondo al suo armadio con davanti la scatola tappezzata di velluto blu. Al aggio degli sposi, alzò il capo, guardò e sorrise: quello sguardo e quel sorriso sembrarono allusivi a Teresa e Lorenzo, che fremettero, pensando che quella vecchia potesse, forse, aver conoscenza dei loro convegni clandestini di una volta, avendo visto Lorenzo scivolare nell'atrio buio. Teresa si ritirò subito in camera con mamma Raquin e Susanna. Gli uomini rimasero in sala da pranzo, mentre la sposa si metteva in toletta da notte. Lorenzo, fiacco e accasciato, non mostrava nessuna impazienza, ascoltava compiaciuto le barzellette di Michaud e di Grivet, i quali si sfogavano di tutto cuore, non essendo presenti le signore. Quando Susanna e mamma Raquin uscirono dalla camera nuziale e la vecchia, con voce commossa, lo avvertì che la sposa Io aspettava, Lorenzo trasalì, restò un istante indeciso, poi strinse febbrilmente le mani che gli si tendevano ed entrò da Teresa afferrandosi all'uscio come un ubriaco.
XX
Chiusa accuratamente la porta dietro di sé, Lorenzo vi rimase un momento appoggiato, guardandosi intorno inquieto e impacciato. Il fuoco fiammeggiava nel camino proiettando bagliori giallastri che danzavano sulle pareti e sul soffitto, e la stanza ne era rischiarata di luce viva e vacillante: il lume poggiato su un tavolo impallidiva in mezzo a quel chiarore. Mamma Raquin aveva voluto mettere un po' di civetteria in quella camera, che lustra e profumata sembrava un nido per amori freschi e giovanili: sul letto spiccavano capi di biancheria ricamata e grossi fasci di rose riempivano i vasi sul camino, il dolce tepore e il tepido profumo erano invitanti; l'aria raccolta e addensata pareva vibrante di voluttà; incombeva nell'ambiente un trepidante silenzio, rotto dallo scoppiettio delle fiamme. Si sarebbe detta un'oasi di felicità, un angolo ignorato, caldo e profumato, lontano da tutti i rumori, uno di quei nidi espressamente preparati per la sensualità e le ioni misteriose. Seduta su una sedia bassa, a destra del camino, Teresa con il mento fra le mani guardava fissamente le fiamme, e non girò il capo quando entrò Lorenzo. Aveva addosso una sottana e una camiciola orlata di merletto, che le davano una bianchezza crudele sotto l'ardente chiarore del fuoco. Pendendo da un lato, la camiciola lasciava scoperto un lembo di spalla rosea, seminascosto da una ciocca di capelli neri. Lorenzo avanzò di qualche o, senza parlare, e si tolse la finanziera e il panciotto. Quando fu in maniche di camicia guardò di nuovo Teresa, che non si era spostata. Restò un momento esitante, poi scorta la spalla nuda si abbassò fremente per schioccarvi un bacio, ma bruscamente Teresa si ritrasse, si girò, fissò su Lorenzo uno sguardo strano, così pieno di ripugnanza e di orrore, ch'egli indietreggiò, turbato e deluso, quasi preso anche lui da un senso d'orrore e di disgusto. Sedette di fronte a Teresa, dall'altra parte del camino, ed entrambi stettero così, muti, immobili cinque lunghi minuti. Di tanto in tanto fiammate rossastre salivano dalla legna ardente e allora riflessi sanguigni avano sul volto dei
due assassini. Erano circa due anni che non si erano trovati chiusi nella stessa camera, senza testimoni, liberi di concedersi l'uno all'altra. Non avevano più avuto convegni d'amore dopo quello di via San Vittore, quando Teresa s'era recata nella soffitta di Lorenzo e aveva suggerito all'amante l'idea del delitto. La preoccupazione d'esser prudenti aveva addormentato la loro carne; a stento s'erano consentiti, di tanto in tanto, una stretta di mano, qualche bacio furtivo. Dopo l'assassinio di Camillo, quando nuovi desideri divamparono nei loro corpi, avevano saputo frenarsi, aspettare la sera delle nozze, promettendosi voluttà folli, a immunità assicurata. E la sera delle nozze era finalmente giunta, ma essi se ne stavano, l'uno di fronte all'altra, preoccupati, presi da un improvviso malessere. Sarebbe bastato protendere le braccia per stringersi in una stretta frenetica, e invece le loro braccia sembravano molli, cadenti, già stanche e sazie d'amore. La giornata estenuante li aveva abbattuti, si guardavano senza desiderio, con una perplessità piena di paura, soffrendo per quel loro stesso silenzio e per quella freddezza. I loro sogni ardenti approdavano a una ben strana realtà: era bastato l'aver ucciso Camillo ed essere riusciti a sposarsi, era bastato che la bocca di Lorenzo avesse sfiorata la spalla di Teresa per esaurire la loro lussuria fino al disgusto e allo spavento. Cercarono disperatamente in se stessi le tracce di quella ione che un giorno li aveva esasperati, ma ebbero l'impressione che la loro pelle fosse vuota di muscoli e di nervi. Il loro impaccio s'accresceva, come la loro inquietudine: si vergognavano profondamente di starsene lì, muti e tristi; avrebbero voluto aver la forza di stringersi e di sfinirsi, per non apparire due imbecilli ai loro stessi occhi. In fin dei conti si appartenevano uno all'altra, avevano ucciso un uomo e recitato un'atroce commedia per potersi apertamente soddisfare a sazietà, in tutte le ore, e invece se ne rimanevano ai due lati del camino, freddi, spossati, con la mente turbata e la carne morta. Quella conclusione non poteva non apparire ridicolmente orribile e crudele. Lorenzo si provò, allora, a parlare d'amore, a evocare i bei ricordi di un tempo, e fece appello alla sua fantasia per ravvivare qualche tenerezza. — Teresa, — disse chinandosi verso la moglie, — li ricordi i nostri pomeriggi in questa camera? Allora dovevo entrare da quella porta... Oggi sono entrato da quest'altra. Siamo liberi, possiamo amarci in pace. Parlava con voce esitante, lenta. Accovacciata sulla sedia bassa, la moglie
fissava sempre le fiamme, pensierosa, e non ascoltava. Lorenzo continuò: — Ricordi? Il mio grande sogno era di are una notte intera con te, addormentarmi fra le tue braccia e svegliarmi al mattino sotto i tuoi baci. Finalmente tutto s'avvera. Teresa fece un gesto di sorpresa, come meravigliata d'udire una voce che balbettava alle sue orecchie; si girò verso Lorenzo, sul cui volto, in quel momento, il fuoco mandava riflessi rossastri; guardò quel volto che pareva insanguinato e rabbrividì. Più turbato, più inquieto, lui riprese : — Ci siamo riusciti, Teresa, abbiamo frantumato tutti gli ostacoli, e siamo nostri, ora. L'avvenire e per noi, non è così? Ed è un avvenire di tranquilla felicità, di amore soddisfatto... Camillo non c'è più... Lorenzo s'interruppe: aveva la gola secca, si sentiva soffocato dall'emozione, non poté continuare. Teresa aveva sentito un tuffo nelle viscere udendo quel nome. I due assassini si guardarono inebetiti, pallidi, tremanti. I bagliori giallastri del fuoco danzavano sempre sulle pareti e sul soffitto, il tenue profumo delle rose illanguidiva, gli scoppiettii della legna rompevano seccamente il silenzio. I ricordi svanirono. Evocato inconsciamente, lo spettro di Camillo s'era venuto a sedere in mezzo a loro, di fronte al fuoco fiammeggiante. Nell'aria calda che respiravano, Teresa e Lorenzo risentirono il tanfo freddo e umido dell'annegato; sentivano che un cadavere era là, accanto a loro, e si squadravano scambievolmente, senza osare di muoversi. Tutta la storia del loro delitto si ripresentò alla loro memoria. Il nome della vittima era bastato a farli tornare nel ato, a fargli rivivere le angosce dell'assassinio. Non aprirono bocca, si guardarono soltanto, ed entrambi ebbero contemporaneamente il medesimo incubo, entrambi cominciarono a raccontarsi con gli occhi la medesima storia crudele. Quell'incrociarsi di sguardi terrorizzati, quella muta e reciproca rievocazione del delitto, originarono in loro un'apprensione intensa, una smania intollerabile. I nervi cedevano nel pericolo di una crisi: avrebbero potuto inveire l'uno contro l'altra, forse anche percuotersi. Per scacciar via i cattivi ricordi, Lorenzo si sottrasse di scatto a quel pauroso incanto che lo teneva sotto lo sguardo di Teresa, fece qualche o nella camera, si tolse le scarpe e calzò le pantofole, poi tornò a sedersi all'angolo del camino e cercò di cambiar discorso.
Teresa lo capì, e si sforzò di rispondere alle sue domande. Parlarono del tempo, avviandosi volutamente in una conversazione banale. Lorenzo disse che nella stanza faceva caldo e Teresa gli fece osservare che, però, di sotto la porticina secondaria, quella che dava sulla scala esterna, ava una corrente d'aria. Entrambi si girarono a guardare quella porta e subito fremettero. Lui si affrettò a parlare delle rose, del fuoco, di tutto ciò che gli capitava sotto gli occhi, e lei, facendosi forza, rispondeva a monosillabi per non far morire la conversazione. S'erano scostati l'uno dall'altra, si davano un'aria disinvolta, cercavano di dimenticare chi erano e di trattarsi come due sconosciuti, che un саsо qualunque avesse avvicinati. Per uno strano fenomeno, nel quale era assente la loro volontà, mentre chiacchieravano di cose futili, reciprocamente indovinavano i pensieri che ognuno di loro tentava di nascondere dietro la banalità di quelle parole. Entrambi pensavano ostinatamente a Camillo. I loro occhi continuavano a raccontarsi il ato, onde alla conversazione ad alta voce, che si svolgeva a caso, se ne sovrapponeva un'altra muta, degli sguardi, continua e logica. Le parole che si scambiavano fra loro non avevano significato, erano slegate, si contraddicevano, poiché tutto il loro essere era impegnato in quello scambio silenzioso di spaventosi ricordi. Quando Lorenzo parlava delle rose о del fuoco, di una cosa o dell'altra, Teresa capiva perfettamente ch'egli le ricordava la lotta nella barca, il tonfo di Camillo nell'acqua; e quando Teresa rispondeva con un sì о con un no a una domanda insignificante, Lorenzo capiva ch'ella diceva di ricordarsi o non ricordarsi di un particolare del delitto. E così, parlando d'altro, conversavano a cuore aperto senza aver bisogno di parole. Non prestando attenzione alle parole che pronunciavano, e tutti intenti a seguire, frase per frase, i loro segreti pensieri, avrebbero potuto, di colpo, continuare ad alta voce quelle confidenze senza cessar di comprendersi. E quella reciproca penetrazione, quell'accanimento della loro memoria nell'agganciarsi senza posa all'immagine di Camillo li faceva impazzire a poco a poco; si accorgevano di quello scambio di pensieri, capivano che, se non avessero smesso di parlare, avrebbero finito col nominare l'annegato, col descrivere l'assassinio, tanto sentivano le parole salir sole alla bocca. E allora chio con ogni forza le labbra e troncarono la conversazione. Nell'opprimente silenzio che ne seguì, i due assassini riparlarono ancora della loro vittima. Avevano l'impressione che con gli sguardi si trafiggessero la carne per conficcarvi frasi nette e pungenti. Credettero perfino di udirsi parlare ad alta voce: i sensi si falsavano, la vista diventava una specie di udito strano e delicato, e leggendosi chiaramente i pensieri sul volto, questi si vestivano di un suono
irreale e rumoroso che scuoteva tutto il loro organismo. Non avrebbero potuto capirsi meglio, anche se avessero gridato con voce straziante: « Abbiamo ucciso Camillo e il suo cadavere è qui, in mezzo a noi, e ci agghiaccia ». E le tenibili confessioni continuavano, sempre più visibili, sempre più risonanti nell'aria calma e umida della camera. Lorenzo e Teresa avevano cominciato quel racconto muto partendo dal giorno del loro primo incontro nella bottega; poi i ricordi s'erano accavallati ad uno ad uno, nell'ordine: avevano rivissuto le ore di voluttà, i momenti d'indecisione e di collera, quello tremendo del delitto. Era stato allora che avevano serrato le labbra e troncata la conversazione, per timore di fare il nome di Camillo, d'improvviso, senza volere. Liberi da ogni freno, i loro pensieri li avevano riportati, poi, alle ore d'angoscia e di attesa che avevano fatto seguito all'assassinio, e arrivarono così fino a ripresentarsi l'esposizione del cadavere sul gelido marmo dell'obitorio. Con uno sguardo Lorenzo raccontò tutto il suo spavento a Teresa, e Teresa, perduto ogni controllo, obbligata da una mano di ferro a riaprire le labbra, continuò bruscamente la conversazione ad alta voce: - L'hai visto alla Morgue? — domandò senza, nominare Camillo. Sembrò che Lorenzo aspettasse quella domanda, l'aveva letta qualche istante pinna sul volto pallido della moglie. — Sì, — rispose con voce strozzata. Gli assassini furono percossi da un brivido, si avvicinarono al fuoco, protesero le mani verso la fiamma come se un soffio gelato avesse attraversato la stanza, stettero qualche istante in silenzio, raggomitolati, accasciati, poi Teresa riprese sordamente: — Mostrava d'aver sofferto molto? Lorenzo non poté rispondere, fece soltanto un gesto d'orrore come per allontanare una nauseabonda visione. Si alzò, andò verso il letto, ritornò con impeto verso Teresa, spalancando le braccia. — Baciami! — le disse, offrendole il collo. Teresa s'era alzata, pallida nella sua camiciola; un po' riversa all'indietro, aveva appoggiato i gomiti sul marmo del camino. Guardando il collo di Lorenzo, sulla
pelle bianca aveva scorto una chiazza rossa. L'afflusso di sangue che saliva allargò quella macchia che divenne d'un rosso ardente. — Baciami, baciami ripeteva Lorenzo con il volto e il collo in fiamme. La donna rovesciò ancora la testa per scansare un bacio, e, appoggiando la punta di un dito sulla morsicatura di Camillo, domandò al marito: — Che hai lì? Non avevo mai visto quella ferita. A Lorenzo parve che il dito di Teresa gli bucasse il collo. Al contatto di quel dito indietreggiò bruscamente, mandando un piccolo grido di dolore. — Questa...- disse balbettando, — questa... Esitò un momento, ma non poteva mentire, e finì per dire la verità, suo malgrado. — Mi morsicò Camillo... lo sai... nella barca. Ma è niente, è già ato... Baciami, baciami! E il miserabile tendeva il collo che gli bruciava; desiderava che Teresa lo baciasse sulla cicatrice, sperava che i baci della donna gli calmassero quelle punture che gli straziavano la carne. Con il mento alzato, il collo proteso, si offriva spasmodicamente. Teresa, quasi coricata sul marmo del camino, fece un gesto di estremo disgusto e con voci supplichevole gridò: - No, non li, non lì!... C'è sangue! Ricadde sulla sedia bassa e fremendo si prese la fronte fra le mani. Lorenzo rimase attonito. Abbassò il mento, guardò in modo vago Teresa, poi di colpo, con una stretta da bestia selvaggia, le prese la testa con quelle sue grosse mani e, di forza, ne appoggiò le labbra sul suo collo, sulla morsicatura di Camillo. Per un istante trattenne, schiacciò quella testa contro la sua pelle. Teresa s'era abbandonata, piangeva e soffocava il suo pianto sul collo di Lorenzo, poi, quando poté svincolarsi dalla stretta, si asciugò la bocca con forza e mandò uno sputo nel fuoco. Non aveva detto una parola. Vergognandosi della propria brutalità, Lorenzo si mise a eggiare lentamente nella stanza, andando dal letto alla finestra. Soltanto la sofferenza, il terribile bruciore, lo avevano spinto a esigere a ogni costo quel bacio da Teresa; ma quando le labbra della donna s'erano schiacciate, gelide, sulla cicatrice ardente,
aveva sofferto di più. Quel bacio preso per forza lo aveva distrutto; per nessuna cosa al mondo avrebbe voluto riceverne un altro, tanto la scossa gli aveva fatto dolore. Guardando la donna con la quale doveva convivere e che, china davanti al fuoco, gli volgeva le spalle e rabbrividiva, egli capì che non l'amava più e che, d'altra parte, anche lei non amava più lui. Per circa un'ora Teresa restò accasciata sulla sedia bassa, e Lorenzo eggiò in lungo e in largo, senza aprir bocca. Entrambi si confessavano atterriti che la loro ione era morta, che uccidendo Camillo avevano ucciso i loro desideri. Il fuoco moriva lentamente, e un grande cerchio di brace rosa luccicava fra la cenere. A poco a poco il calore, nella camera, s'era fatto soffocante, i fiori si apivano illanguidendo l'aria densa con il loro intenso profumo. A un tratto, Lorenzo credette di avere un'allucinazione. Girandosi, per tornare dalla finestra al letto, vide Camillo in un angolo nero d'ombra, fra il camino e l'armadio. Il volto della vittima era verdastro e convulso, proprio come l'aveva visto sul marmo dell'obitorio, ed egli ne fu così sgomento, che sentendosi venir meno dovette appoggiarsi a un mobile. Un sordo rantolo gli gorgogliò nella gola e Teresa, udendolo, alzò il capo. — Là, là!... — gridò Lorenzo con voce terrificata, e tendendo il braccio indicava l'angolo buio nel quale distingueva il sinistro volto di Camillo. Vinta anche lei dallo spavento, Teresa balzò in piedi e si strinse a lui. - È il ritratto, — mormorò a bassa voce, quasi che la faccia dipinta del defunto marito potesse udirla. - Il ritratto... — ripete Lorenzo, e i capelli gli si rizzavano sul capo. - Sì, lo sai bene, il ritratto che hai fatto tu. Da oggi la zia doveva prenderselo in camera sua. Avrà dimenticato di toglierlo. — Già, è il ritratto. L'assassino esitava a riconoscere la tela e nel turbamento dimenticava perfino ch'era stato egli stesso a dipingere quei tratti taglienti, quelle tinte smorte che lo spaventavano; il terrore gli faceva vedere il quadro, quale esso era in realtà: brutto, mal fatto, impiastricciato, con un fondo nero dal quale balzava una contorta faccia di cadavere. L'opera lo meravigliava, lo annientava per la sua
atroce bruttezza; soprattutto gli occhi, quei due occhi bianchi, galleggianti nelle orbite molli e giallastre, gli ricordavano con strano realismo gli occhi putridi dell'annegato della Morgue. Restò un momento in ansia, dubitando che Teresa mentisse per rassicurarlo, poi si convinse che si trattava veramente del quadro e a poco a poco si calmò. - Va a staccarlo, - ordinò sottovoce alla moglie. - No, ho paura, - rispose lei rabbrividendo. Lorenzo ricominciò a tremare: gli pareva che, a tratti, il quadro sparisse e restassero soltanto quei due occhi bianchi a guardarlo, a fissarlo ostinatamente. — Ti prego, riprese, supplicando la compagna, — va a staccarlo — No, no. — Se lo giriamo contro il muro non ci farà più impressione. — No, non ce la faccio. L'assassino, stanco e umiliato, spinse la donna verso il quadro, nascondendosi dietro di lei per sottrarsi allo sguardo dell'annegato, Teresa se ne scappò, e allora lui volle mostrarsi coraggioso: si avvicinò al quadro e alzò la mano per cercarne il chiodo. Ma la figura gli rivolse uno sguardo cosi schiacciante, abbietto, insistente che Lorenzo, dopo avei cercato invano di gareggiare con la sua fissità, fu vinto e, abbattuto, rinculò mormorando : — No, hai ragione, non si può. Lo toglierà domani tua zia. Riprese a eggiare in lungo e in largo, a testa bassa, sentendo che il ritratto lo fissava, lo seguiva con gli occhi. Di tanto in tanto, vinto dalla tentazione, non poteva fare a meno di lanciare un'occhiata dalla parte del quadro, e allora, in fondo all'ombra, scorgeva sempre lo sguardo appannato e smorto dell'annegato. Il pensiero che Camillo stesse là, in quell'angolo, a spiarlo, ad assistere alla sua prima notte nuziale, a sorvegliare Teresa e lui, finì per rendere Lorenzo pazzo di terrore e di disperazione. Un fatto, di cui chiunque avrebbe sorriso, gli fece perdere completamente la testa. Appena arrivava vicino al camino gli pareva udire qualcosa che rase, ed egli impallidiva pensando che quel raspare provenisse dal ritratto, che Camillo scendesse dal quadro. Poi s'accorse che il rumore proveniva dalla porta che dava sulla scala, e, guardando Teresa, anch'essa impaurita, le domandò :
— C'è qualcuno sulla scala? Chi può venire di là? La donna non rispose. Entrambi pensavano all'annegato, e un sudore freddo gli bagnava le tempie. Si rifugiarono in fondo alla camera aspettandosi che la porta s'aprisse bruscamente e il cadavere di Camillo cadesse sul pavimento, il rumore continuava, più secco, più irregolare, e immaginarono che la vittima scortecciasse con le unghie il legno, per entrare. Per circa cinque minuti non osarono muoversi. Finalmente distinsero nettamente un miagolio. Avvicinandosi, Lorenzo riconobbe il gatto di mamma Raquin, che chiuso per distrazione in camera cercava di uscirne spingendo la porticina con le unghie. Il gatto ebbe paura di Lorenzo; con un balzo saltò su una sedia, rizzò il pelo, irrigidì le zampe, guardò in faccia al nuovo padrone con un'aria fredda e ostile. Lorenzo non amava i gatti, e quello lo spaventava addirittura. In quell'ora di febbre e di paura, ebbe la sensazione che volesse saltargli al viso per vendicare Camillo. Quella bestia doveva saper tutto: pareva che nei suoi occhi rotondi, stranamente dilatati, foschi pensieri assero. Lorenzo socchiuse le palpebre per evitare la fissità di quello sguardo; e stava per allungare una pedata alla bestia. — Non fargli male! — urlò Teresa. Quel grido gli dette una strana impressione; un'idea assurda, gli balenò nel cervello: «Camillo è entrato in quella bestia», pensò. « Dovrò ammazzarlo quel gatto. Ha troppo l'aria di una persona ». Non assestò la pedata, temendo d'udire l'animale parlargli con la voce di Camillo. Poi si ricordò delle battute di Teresa, al tempo dei loro amori, quando il gatto era testimone delle loro carezze, e pensò che quella bestia ne sapeva troppo, che era meglio buttarla dalla finestra; ma non ebbe il coraggio di compiere il gesto. Quello lo guardava sempre in atteggiamento minaccioso: le unghie sporgenti, il dorso inarcato, per una sorda irritazione, seguiva attentamente i più piccoli movimenti del nemico con superba padronanza. Lorenzo, turbato dal metallico lampeggiare di quegli occhi, s'affrettò ad aprire la porta della sala da pranzo, e il gatto se ne scappò mandando un miagolio acuto. Teresa s'era andata a sedere di nuovo davanti al fuoco, ormai spento. Lorenzo riprese la eggiata dal letto alla finestra. E così aspettarono l'alba. Non pensarono affatto a coricarsi: la carne e i cuori erano morti. Gli sposi non avevano che un solo desiderio, entrambi: uscire da quella camera nella quale si sentivano soffocare. Provavano un vero malessere a star rinchiusi insieme, a
respirare la medesima aria; avrebbero voluto che qualcuno fosse presente a troncare il loro duetto, a toglierli dall'imbarazzo crudele nel quale si sentivano, stando l'uno di fronte all'altra, senza parlarsi, assolutamente incapaci di resuscitare la loro ione d'amore. Quei lunghi silenzi li torturavano, pieni com'erano di amare pene e di disperazione, di muti rimproveri, che essi sentivano distintamente nell'aria calma. Spuntò finalmente l'alba grigia e biancastra, portandosi dietro, un freddo penetrante. E quando un pallido chiarore ebbe riempita la camera, Lorenzo, che tremava, si sentì meno turbato, cominciò a tranquillizzarsi. Guardò senza paura il ritratto di Camillo e lo vide quale era: volgare e puerile. Lo staccò dalla parete con un'alzata di spalle considerandosi uno stupido. Teresa s'era alzata e disfaceva il letto per ingannar! la zia, per far credere che avevano ato una notte felice — Però, — le disse bruscamente Lorenzo, — spero che stasera dormiremo. Queste bambinate non possono durare. Teresa gli lanciò un'occhiata lunga e penetrante. — Tu capisci, — continuò lui, non mi sono certo sposato per are le notti sveglio. Siamo due stupidi. Sei stata tu a buttarmi giù con quei ricordi da cimitero. Stasera cercherai d'essere allegra e di non spaventarmi. Si sforzò di ridere senza sapere perché ridesse. — Tenterò, — rispose cupa la donna. E quella fu la notte di nozze di Teresa e Lorenzo.
XXI
Le notti che seguirono furono ancora più crudeli della prima. Gli assassini avevano pensato che la notte, stando in due, avrebbero potuto difendersi dall'annegato, ma per uno strano caso, da che stavano insieme, rabbrividivano maggiormente. Si esasperavano, irritavano i loro nervi, soccombevano ad atroci crisi di sofferenza e di terrore, anche se scambiavano una sola parola o un semplice sguardo. Appena iniziavano una conversazione, appena stavano un momento soli, vedevano rosso, deliravano. Il temperamento arido e nervoso di Teresa aveva agito in modo bizzarro su quello duro e sanguigno di Lorenzo. Prima, quando la loro ione ribolliva, i loro differenti temperamenti avevano fatto di quell'uomo e di quella donna una coppia saldamente legata, stabilendo fra loro una specie d'equilibrio e completandone, per così dire, l'organismo. L'uomo dava il sangue, la donna i nervi, e vivevano l'uno nell'altra, bisognosi dei loro baci per regolarizzare il loro meccanismo interiore. Ma ad un certo momento qualcosa s'era guastato: la sovreccitazione nervosa di Teresa aveva avuto la prevalenza, e Lorenzo era stato assalito di colpo da un vero erotismo nervoso: sotto l'ardente influenza dell'amante il suo temperamento era divenuto a poco a poco quello d'una ragazza scossa da nevrosi acuta. È interessante studiare i cambiamenti che si producono, talvolta, in taluni organismi per effetto di determinate circostanze; cambiamenti che partono dalla carne e arrivano al cervello per diffondersi in tutto l'organismo. Prima di conoscere Teresa, Lorenzo era rozzo, pesante, prudentemente diffidente; conduceva la vita sanguigna di un figlio di contadini; dormiva, mangiava, beveva bestialmente; e in qualsiasi ora della sua giornata, qualunque cosa accadesse, respirava tranquillo e indifferente, contento di sé, un po' istupidito dalla sua stessa grossezza. Il suo corpo appesantito sentiva a stento qualche solletico: ma proprio quel solletico Teresa aveva sviluppato ed esasperato con sensazioni violente, facendo nascere in quel corpo grasso e sordo un sistema nervoso incredibilmente sensibile. Lorenzo, che prima gustava la vita più con il sangue che con il cervello, cominciò ad affinare i sensi: una vita cerebrale, nuova e incalzante, si dischiuse in lui, bruscamente, al primo bacio dell'amante. Quella nuova vita decuplicò le sue voluttà, impresse tanta acutezza
ai suoi godimenti, che egli ne restò come impazzito, al principio, abbandonandosi a quell'euforia che il suo sangue non gli aveva mai procurato. Allora in quell'essere si produsse uno strano meccanismo, per cui a poco a poco la sensibilità nervosa ebbe il sopravvento sull'elemento sanguigno, e il temperamento ne restò profondamente modificato. Così Lorenzo perdette la calma, la rozza pesantezza, e non visse più addormentato. Vi fu un momento in cui nervi e sangue si tennero in equilibrio, e quello fu un periodo di vera gioia, di esistenza perfetta, ma, quando i nervi predominarono, egli piombò in uno stato angoscioso che incise sul corpo e sullo spirito già sconvolti. È così che Lorenzo aveva tremato davanti a un angolo buio, come un bimbo pauroso. L'essere rabbrividente e feroce, il nuovo individuo che era sorto dal contadino duro e rozzo, soffriva la paura e le ansie dei temperamenti nervosi. Tutte le circostanze: le selvagge carezze di Teresa, la febbre del delitto, la spasmodica attesa del piacere promesso, lo avevano reso quasi folle, avendogli esasperati i sensi e colpito i nervi con scosse brusche, violente, ripetute. Fatalmente era sopravvenuta l'insonnia, e con essa, l'allucinazione. Da allora Lorenzo s'era dibattuto in una vita insopportabile, nel terrore degli incubi che lo assillavano. I suoi rimorsi erano di natura prettamente fisica: erano i nervi irritati e la carne tremante, che avevano paura dell'annegato, non la sua coscienza; la coscienza non entrava, affatto nel suoi terrificanti incubi, perché egli non aveva il minimo rimorso d'aver ucciso Camillo. Quando era calmo, quando non sentiva presente lo spettro della sua vittima, sarebbe stato capace di commettere un altro delitto se avesse pensato che i suoi interessi lo esigevano. Durante il giorno si beffava della sua paura notturna, si riprometteva d'essere forte, e rimproverava Teresa per esser la causa dei suoi spaventi; secondo lui era Teresa che lo terrorizzava, era Teresa ad evocare scene spaventose, la sera, in camera. Ma appena si faceva notte, appena s'era chiuso con la moglie, un sudore gelido gli affiorava sulla pelle, una paura infantile lo tormentava; subiva, in fondo, delle crisi nervose periodiche, che si ripetevano tutte le sere, che gli turbavano i sensi ripresentandogli la faccia verde e disgustosa della vittima. Poteva sembrare l'effetto di una grave malattia, una specie di isteria del delitto, e la definizione di "malattia", di eccitazione nervosa era la sola che effettivamente poteva definire gli spaventi di Lorenzo. Durante ogni crisi, la faccia sconvolta, le membra irrigidite rivelavano che i suoi nervi erano in rovina, privi di controllo e di reazione. Il corpo soffriva terribilmente mentre l'anima era del tutto assente: in lui non c'era pentimento, la ione di Teresa gli aveva inoculato un orribile
male: questo è tutto. Anche Teresa era in preda a profondi turbamenti; ma in lei vi era stata soltanto una smisurata esaltazione del temperamento originario. Aveva appena dieci anni quando aveva cominciato a soffrire di disturbi nervosi, in parte dovuti al modo in cui cresceva, in quella camera calda e maleodorante nella quale languiva il piccolo Camillo; aveva accumulato in se stessa fluidi possenti, nubi di temporali che dovevano un giorno scoppiare in vere tempeste. Lorenzo era stato per lei ciò che lei era stata per Lorenzo: una scossa brutale. Fin dal primo amplesso, il suo temperamento arido e sensuale s'era sviluppato con impulsi e manifestazioni selvagge, onde aveva continuato a vivere tutta concentrata in quella sua ione e, cedendo alla febbre che la struggeva, era stata presa da una specie di frenesia morbosa. La realtà la schiantava, tutto la spingeva alla follia. Nei momenti di incubo, però, sapeva mostrarsi più sensibile di Lorenzo, perché in cuor suo sentiva un vago rimorso, un pentimento, e le veniva la voglia di buttarsi in ginocchio e implorare grazia dallo spettro di Camillo, giurandogli di pentirsi per placarlo. Probabilmente Lorenzo percepiva quella debolezza della moglie, e ogni volta che si trovavano accomunati da uno spavento, se la prendeva con lei e la maltrattava. Le prime notti non riuscirono a coricarsi; lei seduta accanto al fuoco, lui misurando in lungo e in largo la camera, aspettarono l'alba come durante la notte di nozze. Bastava il solo pensiero di doversi allungare a fianco a fianco nel letto per suscitare in loro una paurosa ripugnanza; e così per tacito accordo evitarono di abbracciarsi e di dar finanche uno sguardo al letto, che poi al mattino Teresa metteva in disordine. Quando la stanchezza li vinceva, si addormentavano per un'ora o due, sulle poltrone, salvo a risvegliarsi di soprassalto per la sinistra conclusione di un qualche incubo. E quando si destavano, con le membra irrigidite e indolenzite, il volto illividito, tremanti di freddo e di malessere, si guardavano stupiti, meravigliati di trovarsi insieme, pieni di singolari pudori, vergognosi di mostrarsi, l'uno verso l'altro, disgustati e terrorizzati. Lottavano, del resto, con il sonno finché potevano: si sedevano ai due lati del camino e chiacchieravano di mille sciocchezze, attenti a non far morire la conversazione. Un largo spazio li separava, davanti al fuoco, e quando per caso giravano la testa da quella parte immaginavano che Camillo avesse avvicinata una sedia e occupato quello spazio, scaldandosi i piedi in un atteggiamento lugubremente beffardo. La visione che avevano avuto la sera delle nozze ritornava insistentemente ogni notte. Quel cadavere che, muto e canzonatore,
assisteva alle loro veglie agitate, quel corpo orrendamente sfigurato che se ne stava eternamente là, li opprimeva con un'ansia continua. Non osavano muoversi, s'accecavano a contemplare le fiamme ardenti, e quando per una forza irresistibile gettavano una timida occhiata al loro fianco, gli occhi, irritati dai bagliori del fuoco, ricreavano l'orrenda visione circondata da riflessi rossastri. Lorenzo rinunciò anche a star seduto, senza spiegare a Teresa la causa di quel capriccio. Ella, a sua volta, avendo capito che Lorenzo vedeva Camillo come lo vedeva lei, disse che il fuoco le dava fastidio, che sarebbe stata meglio qualche o più In là; spinse la poltrona ai piedi del letto e vi si sprofondò, mentre il marito riprendeva la eggiata su e giù per la camera. Di tanto in tanto egli apriva, la finestra lasciando che l'aria fresca di gennaio riempisse la stanza con folate di gelo. Solo quel fresco calmava la sua febbre. Per una settimana gli sposi arono così la notte intera. Di giorno cercavano di rinfrancarsi, Teresa sonnecchiando dietro il banco e Lorenzo in ufficio; di notte appartenevano alla sofferenza e alla paura. Più strano di tutto era il loro reciproco comportamento: non si scambiavano una sola parola d'amore, fingevano di aver dimenticato il ato, si tolleravano, si tenevano compagnia come ammalati che sentano una segreta pena per le sofferenze comuni. Entrambi credevano di saper nascondere sofferenza e paura, ma nessuno dei due pensava alla stranezza di quelle notti insonni, che sarebbero bastate a scoprire il loro vero stato d'animo. Restando in piedi fino al mattino, scambiando appena qualche parola, tremando al minimo rumore, avevano quasi l'aria di credere che tutti gli sposi freschi dovessero comportarsi così nei primi giorni del matrimonio: maldestra ipocrisia di due pazzi. Presto, però, la stanchezza li vinse a tal punto che una sera furono concordi nel mettersi a letto; ma non si spogliarono, si gettarono vestiti sul piumino, solleciti di non far che i loro corpi si toccassero; temevano di provare una dolorosa scossa al minimo contatto. Dopo aver sonnecchiato così, per un paio di notti, in un dormiveglia agitato, si arrischiarono a spogliarsi e a infilarsi sotto le coperte; ma restavano discosti, prendendo ogni precauzione per non urtarsi. Teresa saliva per prima e andava a rifugiarsi in fondo, contro il muro; Lorenzo aspettava ch'ella si fosse ben sistemata e poi s'avventurava a stendersi anche lui, standosene quasi sulla sponda davanti. Fra l'uno e l'altra esisteva uno spazio enorme. In quello spazio prendeva posto il cadavere di Camillo.
Quando i due assassini, distesi sotto lo stesso lenzuolo, chiudevano gli occhi, avevano l'impressione di avvertire il corpo umido della loro vittima, coricato in mezzo a loro, agghiacciandogli la carne. Era come un ostacolo raccapricciante che li dividesse. Nelle allucinazioni della febbre che li tormentava, quell'ostacolo si materializzava; lo toccavano, lo vedevano disteso, quel corpo, come un brandello verdastro e disfatto, respiravano il puzzo nauseante di quegli avanzi umani putrescenti, e nella estrema allucinazione dei loro sensi, quelle percezioni avevano una chiarezza, intollerabile. La presenza di quel nauseante compagno di letto li teneva immobili, silenziosi, distrutti dall'angoscia. Qualche volta Lorenzo era tentato di stringere violentemente Teresa tra le braccia, ma non osava muoversi, pensava che non avrebbe potuto allungare la mano senza afferrare un pugno della carne molle di Camillo, e allora immaginava che l'annegato andasse a coricarsi in mezzo a loro proprio per impedire che si abbracciassero: era geloso. Provarono, tuttavia, qualche volta, a scambiarsi un timido bacio per vedere cosa sarebbe accaduto: canzonando la moglie, egli le ordinava, di baciarlo, ma le loro labbra erano così fredde da dar l'impressione che la morte si fosse nascosta fra le bocche. Ne provavano disgusto. Teresa era presa da brividi d'orrore, e Lorenzo, che si sentiva battere i denti, se la prendeva con lei: — Perché tremi? — Le diceva. — Avresti paura di Camillo? Va là, che ormai quel disgraziato non si sente più nemmeno le ossa! Entrambi evitavano di confessarsi la causa del loro terrore. Quando uno dei due, in preda a un'allucinazione, vedeva drizzarsi davanti lo spettro beffardo dell'annegato, chiudeva gli occhi e si stringeva nel proprio terrore, senza osare di parlare all'altro dell'orrenda visione, per timore di provocare una crisi ancor più violenta. E quando Lorenzo, sfinito, spinto all'estremo limite della disperazione, accusava Teresa di aver paura di Camillo, quel nome pronunciato ad alta voce raddoppiava le loro angosce. L'assassino delirava. — Sì, si, - balbettava, rivolgendosi alla moglie. — Tu hai paura di Camillo. Me ne accorgo, diamine! Sei una stupida, non hai neppure due soldi di coraggio. Ma sta tranquilla, dormi! Credi forse che il tuo primo marito verrà a tirarti per i piedi perché sono a letto con te? Quelle parole dette a caso, quell'idea che lo spettro di Camillo potesse venire a tirare per i piedi entrambi, facevano rizzare i capelli a Lorenzo. Torturando se
stesso, incalzava con maggior violenza: Una di queste notti ti porterò al cimitero, apriremo la bara di Camillo e ti farò vedere che ammasso di putridume! Cosi ti era questa stupida paura... Non pensarci, lui non lo sa che l'abbiamo gettato nel fiume. Con la testa sotto le coltri Teresa soffocava i gemiti. — L'abbiamo gettato nel fiume, continuava Lorenzo, — perché ci dava fastidio...E saremmo pronti a rifarlo, no? Non fare la bambina, quindi, sii forte! È stupido rovinarci la nostra felicità Vedi, cara, dopo morti non staremo certo meglio o peggio, sotto terra, per aver buttato un cretino nella Senna, ed esserci goduto in pace l'amore, il che, del resto, è certo un vantaggio. Vieni, dammi un bacio. Lei lo baciava, gelida, pazza, e anche lui tremava come lei. Per più di quindici giorni Lorenzo si domandò come avrebbe potuto fare per ammazzare di nuovo Camillo: lo aveva gettato nel fiume, ma quello non era tutto morto, se ogni notte veniva a coricarsi nel letto di Teresa. Compiuto il delitto, gli assassini credevano di potersi abbandonare tranquillamente alle loro tenerezze, e invece la vittima risuscitava per agghiacciare il loro letto. Teresa non era più vedova; Lorenzo veniva a essere lo sposo di una donna che aveva già un marito, un annegato.
XXII
Lorenzo a poco a poco cadde in una vera pazzia furiosa. Decise di cacciar via Camillo dal letto. Prima si era coricato vestito, poi, spogliato, aveva evitato ogni contatto con Teresa; per rabbia, per disperazione, volle infine stringersi sul petto la moglie, e stritolarla, ma non cederla allo spettro della sua vittima. Fu una rivolta piena di brutalità. La speranza che i baci di Teresa, l'avrebbero guarito dell'insonnia era stato il solo movente che l'aveva spinto nella camera della donna. Ma una volta entrato in quella camera, da padrone, la sua carne, torturata da nuove e più atroci crisi, non aveva più neanche pensato a tentare la guarigione. Per tre settimane era rimasto annientato, dimenticando di aver fatto tanto per possedere Teresa: ora che la possedeva, non poteva toccare quella donna senza accrescere le proprie sofferenze. L'esasperazione dell'angoscia lo spinse alla rivolta. Nel primo momento di stupore, nell'imprevisto accasciamento della prima notte, aveva potuto dimenticare le ragioni che l'avevano spinto al matrimonio; ma le ripetute scosse di quegli spaventosi sogni lo irritarono talmente che la memoria gli si ravvivò, ed egli trovò la forza per vincere la codardia. Si ricordò che s'era sposato per scacciare gli incubi con le carezze della moglie e allora, una notte, afferrò bruscamente Teresa, noncurante di are sul corpo dell'annegato, e se la strinse fra le braccia con forza. Anche Teresa era sfinita: si sarebbe buttata nel fuoco se avesse pensato che la fiamma potesse purificare il suo corpo e liberarlo dal male. Ricambiò quindi l'abbraccio, decisa a farsi bruciare dalle carezze di quell'uomo, o per lo meno di trovare in esse un sollievo. E si strinsero in un orrendo amplesso, ove in luogo di desiderio, non fu che dolore e spavento. Quando i corpi si toccarono, gli parve d'esser caduti in un braciere. Gemettero e si strinsero di più, per non lasciare più posto all'annegato, e tuttavia sentivano Camillo schiacciarsi a brandelli fra loro, gelare la loro pelle qua e là, mentre il resto del corpo bruciava. Furono baci d'una estrema crudeltà. Con le labbra, Teresa cercò, sul collo gonfio
e teso di Lorenzo, la morsicatura di Camillo e vi si attaccò con trasporto: la piaga viva era la, sanata quella ferita gli assassini avrebbero dormito in pace; Teresa lo capiva e cercava di cauterizzare il male con il fuoco delle sue carezze, ma le labbra ne rimasero scottate. Lanciando un roco gemito, Lorenzo la respinse bruscamente, gli pareva che gli avessero applicato un ferro rovente sul collo. Teresa tornò, pazza, alla carica, volle tentar di nuovo: provava un'acre voluttà di posare le labbra su quella cicatrice, lì dove Camillo aveva affondato i denti, e per un istante fu presa dall'idea di mordere proprio in quel punto, di strappare un pezzo di carne, di aprire una cicatrice più profonda che avesse coperto quella già esistente. Non avrebbe tremato più, vedendo l'impronta dei propri denti. Ma Lorenzo si scansava, difendeva il collo da quei baci, sentiva un bruciore troppo lacerante, respingeva quelle labbra a ogni nuovo tentativo. Lottarono così per un pezzo, rantolando nell'orrore delle loro carezze. Sentivano che a quel modo non facevano che accrescere le proprie sofferenze, si stritolavano con strette terribili, gridavano di dolore, andavano martoriandosi, ma non potevano calmare i loro nervi scossi. Ogni abbraccio non faceva che acuire il loro affanno e mentre si scambiavano quei baci bestiali, venivano presi da spaventose allucinazioni: immaginavano che l'annegato li tirasse per i piedi e scuotesse con violenza il letto. Spinti da invincibili rivolte nervose, si staccarono per qualche istante, ma non vollero dichiararsi vinti e si avvinghiarono presto con più furore, per poi staccarsi di nuovo come se punte roventi fossero entrate nella loro carne. A più riprese tentarono, cosi, di vincere la repulsione, di dimenticar tutto rilassando, spezzando i propri nervi; ma ogni volta i nervi si irritavano, si tendevano, li esasperavano a tal punto che, forse, sarebbero morti di esaurimento se fossero rimasti ancora avvinghiati l'uno nelle braccia dell'altra. Quegli scontri violenti contro i loro stessi corpi li spingevano a una rabbiosa ostinazione: volevano vincere, vincere a ogni costo, e si accanivano. Ma alla fine una crisi più acuta li schiantò e credettero di soccombere a un attacco di epilessia. Ritiratisi alle opposte sponde del letto, brucianti e sfiniti, proruppero in singhiozzi. E in quei singhiozzi gli sembrò di udire la risata trionfante dell'annegato, ritornato a sogghignare sotto le lenzuola. Non erano riusciti a scacciarlo, erano vinti. Camillo si stendeva tranquillamente fra loro, e mentre Lorenzo
recriminava sulla sua impotenza, Teresa tremava al pensiero che, ebro della vittoria, il cadavere non fosse tentato dalla voglia di stringersela anch'egli fra le braccia putride, padrone legittimo. Avevano tentato l'estremo rimedio, ma di fronte alla loro sconfitta, capivano che, ormai, non avrebbero osato più scambiarsi un solo bacio. La crisi di amore folle, che avevano voluto determinare per fugare i loro incubi, li rituffava nel più profondo spavento. Sentendo il freddo del cadavere che li separava oramai per sempre, versarono lacrime di sangue, si chiesero sgomenti quale sarebbe stata la loro fine.
XXIII
Come aveva sperato il vecchio Michaud, tramando per il matrimonio fra Teresa e Lorenzo, le serate del giovedì ripresero l'antico brio fin dal giorno successivo alle nozze. Quei ricevimenti avevano corso un serio pericolo dopo la morte di Camillo: gli invitati s'erano ripresentati molto timidamente in quella casa del dolore, temendo ogni settimana di ricevere un congedo definitivo. L'idea, che la porta della bottega si chiudesse per sempre davanti a loro, preoccupava Michaud e Grivet, che erano ancorati alle abitudini con un istinto e un accanimento primitivi. Pensavano che la vecchia madre e la giovane vedova un bel giorno se ne sarebbero andate a piangere il loro morto a Vernon, o altrove, e che perciò il giovedì sera essi sarebbero rimasti sulla strada, senza sapere che fare. Si vedevano già vagare penosamente nella galleria, sognando partite gigantesche di domino. E aspettando quel cattivo giorno, entrambi avevano cercato di godersi, se pure timidamente, le ultime gioie che rimanevano, e si presentavano in bottega con aria smancerosa e preoccupata, ripensando ogni volta che forse non vi sarebbero ritornati più. Per più di un anno ebbero quel timore e non osarono farsi vedere sorridenti di fronte alle lacrime di mamma Raquin e al silenzio di Teresa. Non si sentivano più a casa loro, come ai tempi di Camillo, e avevano quasi l'impressione che quello serate trascorse intorno al tavolo della sala da pranzo fossero rubate a una a una. Fu in quella disperata situazione che, spinto dall'egoismo, il vecchio Мichaud aveva creduto di fare un colpo da maestro favorendo il matrimonio della vedova. Il giovedì seguente al matrimonio, Grivet e Michaud entrarono nella bottega con aria trionfale: avevano vinto, erano di nuovo padroni della sala da pranzo, non temevano più di essere congedati. Entrarono allegramente, si installarono, raccontarono di fila le loro solite barzellette. Dal loro atteggiamento beato e fiducioso si capiva che qualcosa d'eccezionale s'era compiuto secondo loro. Il ricordo di Camillo era svanito di là; il marito morto, quello spettro che li agghiacciava, era stato scacciato dal marito vivente, il ato risuscitava con le vecchie gioie. Lorenzo sostituiva Camillo. Era cessata, quindi, ogni ragione di tristezza: si poteva ridere senza affliggere nessuno, ed era, anzi, un dovere degli ospiti ridere, poi rallegrare quell'eccellente famiglia che li riceveva così bene. Grivet e Michaud, che da diciotto mesi si presentavano
con il pretesto di consolare mamma Raquin, potettero finalmente mettere da parte quella piccola ipocrisia e venire apertamente per sonnecchiare, l'uno di fronte all'altro, al secco rumore delle pedine del domino. E ogni settimana portò un giovedì, riunendo intorno alla tavola quelle teste smorte e grottesche che già in ato esasperavano Teresa: ed essa propose di metterli tutti alla porta, tanto la irritavano le loro bestiali risate e le loro stupide riflessioni; ma Lorenzo le aveva fatto capire l'errore di una simile decisione: era necessario che il presente, per quanto possibile, non differisse dal ato, che fosse mantenuta, soprattutto, l'amicizia della polizia, di quegli imbecilli che li proteggevano da qualunque sospetto. Teresa si piegò, e gli ospiti poterono beatamente contare su una lunga serie di serate accoglienti. Fu in quel periodo che la vita degli sposi, in certo senso, si sdoppiò. Al mattino, quando la luce del giorno fugava i loro incubi notturni, Lorenzo si vestiva in fretta. Non si sentiva a suo agio, non ritrovava la sua egoistica tranquillità se non si sedeva, in sala da pranzo, davanti a una grossa tazza di caffellatte che Teresa gli preparava mamma Raquin, che per i suoi acciacchi a stento poteva scendere in bottega, lo guardava mangiare sorridendo di compiacenza, mentre lui, divorando crostini, ingozzandosi a più non posso riprendeva a poco a poco la sua tranquillità. Con un bicchierino di cognac, che lo ristabiliva completamente, completava la colazione, diceva « arrivederci a stasera » a mamma Raquin e a Teresa, senza mai abbracciarle, se ne usciva e s'avviava lentamente verso l'ufficio. La primavera s'avvicinava, sugli alberi del lungo-senna nascevano le prime foglie, merletto verde pallido, le acque del fiume scorrevano giù con mormorio carezzevole, i raggi del primo sole intiepidivano dolcemente l'aria. Lorenzo si sentiva rinascere, respirava a pieni polmoni quei soffi di giovinezza che scendono dal cielo primaverile, cercava il sole, si fermava per guardarne i riflessi luccicanti nel fiume, ascoltava i rumori del lungo -senna, si lasciava penetrare dal fresco profumo del mattino, godendo con tutti i sensi la luminosa chiarezza. Non s'occupava affatto di Camillo, e se per caso lo sguardo gli cadeva macchinalmente sull'edificio dell'obitorio, sulla riva opposta, pensava all'annegato come un uomo di coraggio si ricorderebbe di una sua stupida paura ata. A stomaco pieno, con il volto rinfrescato egli ritrovava la sua solida tranquillità e arrivava in ufficio e vi ava l'intera giornata sbadigliando, in attesa dell'ora di uscita. Era diventato un impiegato come tutti gli altri, abbrutito, annoiato e con la testa vuota. Aveva una sola idea fissa: dimettersi dall'impiego e
affittare uno studio da pittore, perché sognava una nuova esistenza senza fatiche, e quel pensiero lo teneva occupato fino a sera. Mai, durante il giorno, andava con la mente alla bottega, e la sera, dopo aver tanto attesa l'ora dell'uscita, lasciava l'ufficio a malincuore e ritornava lungo il fiume, intimamente turbato e inquieto. Per quanto lentamente andasse, pure arrivava il momento di entrare nella bottega, e là lo spavento l'aspettava. Teresa provava le medesime sensazioni. Quando Lorenzo non era in casa, si sentiva a suo agio. Aveva licenziato la donna di servizio dicendo che tutto era trascurato, tutto era sporco in casa e nella bottega; le era venuta la mania dell'ordine, ma la verità è che lei aveva bisogno di muoversi, di agire, di stancare le membra irrigidite. Girava tutto il giorno per spazzare, spolverare, pulire le camere, lavare le stoviglie, assoggettandosi a lavori che in altri tempi non avrebbe sopportato. Il rassetto della casa la teneva occupata fino a mezzogiorno, attiva e silenziosa, non dandole tempo di pensare ad altro che alle ragnatele pendenti dal soffitto e all'unto che insudiciava i piatti. Si ficcava, quindi, in cucina per preparare da mangiare. A tavola mamma Raquin non sapeva darsi pace che la nipote dovesse alzarsi ogni momento per cambiare i piatti, era commossa ed irritata dall'attività della nipote, e la rimproverava ma Teresa rispondeva che occorreva fare economia. Dopo il pasto si metteva in ordine e si decideva a raggiungere la zia dietro il banco, e là si faceva vincere dalla sonnolenza, cedeva a quel torpore voluttuoso che le formicolava per il corpo non appena si sedeva, si abbandonava a quei leggeri assopimenti, pieni di un indistinto piacere, che le calmavano i nervi. Il pensiero di Camillo scompariva, ed ella assaporava la dolcezza di quel profondo riposo degli ammalati tolti di colpo dalle loro sofferenze. Il corpo le si addolciva, la mente si faceva libera, sprofondava in una specie di nulla, dolce e rasserenante. Senza quei momenti di distensione, il suo organismo sarebbe scoppiato sotto la pressione della eccitazione nervosa: vi acquistava l'energia necessaria per soffrire e spaventarsi di nuovo, la notte seguente. D'altronde, non si addormentava completamente; abbassava soltanto le palpebre e si beava in un sogno di pace; quando entrava qualche cliente riapriva gli occhi, consegnava i pochi soldi di merce richiesta e ritornava felice, rispondendo con monosillabi alla zia, abbandonandosi con vera gioia a quelle dissolvenze che la liberavano da ogni pensiero e la sprofondavano in se stessa.
Solo di rado gettava uno sguardo fuori della bottega, per lo più nelle giornate grigie e cupe, quando nascondeva nell'ombra il suo torpore. E la galleria misera, umida, attraversata da poveri diavoli inzuppati, i cui ombrelli gocciolavano sul selciato, le pareva l'ingresso d'un brutto posto, una specie di corridoio sudicio e funesto, in cui nessuno sarebbe andato a cercarla e a molestarla. A volte, guardando le luci smorte che le languivano intorno, aspirando l'acre tanfo dell'umidità, immaginava d'essere sepolta viva, di trovarsi sotto terra, in una fossa comune brulicante di morti. E quell'immagine la consolava, la calmava, perché le dava la sensazione d'essere al sicuro, ormai, di morire, di non soffrire più. Quando arrivava Susanna, che di tanto in tanto andava a visitarla trattenendosi tutto il pomeriggio a ricamare accanto al banco, era invece costretta a tenere gli occhi aperti. La moglie di Oliviero, con quel volto molle, quel portamento lento, piaceva, adesso, a Teresa, che provava uno strano sollievo a guardare quella povera creatura disfatta; ne aveva fatta la sua amica, gradiva vedersela vicino con quel sorriso insulso, un po' morta e un po' viva, portando nella bottega una insignificante esalazione di cimitero. E appena gli occhi azzurri di Susanna, che avevano una trasparenza vitrea, si fissavano nei suoi, sentiva un benefico freddo in fondo alle ossa. Quattro ore durava la siesta, poi Teresa se ne saliva in cucina e si rimetteva in movimento per preparare, con un'ansia febbrile, il pranzo di Lorenzo. Quando il marito compariva sulla soglia, le si stringeva la gola, l'angoscia tormentava di nuovo tutto il suo essere. Le sensazioni dei due sposi erano più o meno sempre le stesse. Di giorno, lontani l'uno dall'altra, vivevano deliziose ore di riposo; di sera, non appena si riunivano, li invadeva un malessere irresistibile. Le serate, tuttavia, avano tranquillamente, ed entrambi, rabbrividendo al pensiero di doversi chiudere nella camera da letto, le facevano durare il più a lungo possibile. Mamma Raquin, quasi coricata in una grande poltrona, se ne stava in mezzo a loro a chiacchierare con la sua placida voce. Parlava di Vernon, pensando sempre a suo figlio, ma evitando di nominarlo, per delicatezza, sorrideva ai « suoi cari ragazzi » e per loro formulava progetti per l'avvenire. Una pallida luce scendeva dal paralume sul suo volto e le sue parole assumevano una dolcezza straordinaria in quell'aria morta e silenziosa. Ai suoi lati, muti e immobili, i due omicidi sembravano raccolti ad ascoltarla, ma in realtà non
seguivano affatto il filo del chiacchiericcio della buona vecchia; erano soltanto lieti che il dolce suono di quelle parole li distogliesse dal discorso intimo dei loro pensieri. Non osavano guardarsi, guardavano mamma Raquin per darsi un contegno, e mai parlavano d'andare a letto: sarebbero rimasti fino al mattino ad ascoltare il piacevole cicaleccio della vecchia, in quella pace ch'ella sapeva diffondere intorno a sé, se ella non avesse espresso il desiderio di coricarsi. Soltanto allora lasciavano la sala da pranzo ed entravano nella loro camera con la disperazione di chi va a gettarsi in una voragine. A queste serate intime entrambi preferirono presto quelle del giovedì. Quando erano in compagnia solo di mamma Raquin, non potevano stordirsi; il sottile filo di voce della zia, la sua tenera gaiezza, non riuscivano a soffocare del tutto il loro strazio; sentivano avvicinarsi l'ora di andare a letto e rabbrividivano se, per caso, posavano lo sguardo sulla porta della loro camera. L'attesa del momento in cui sarebbero rimasti soli diventava un tormento sempre più crudele a mano a mano che il tempo ava, il giovedì, invece, si ubriacavano di scemenze, dimenticavano reciprocamente la loro presenza, soffrivano di meno. Perfino Teresa finì con l'attendere ansiosamente il giorno del ricevimento, e se Michaud e Grivet fossero mancati, sarebbe andata a cercarli. Quando, nella sala da pranzo, fra lei e Lorenzo, c'erano degli estranei si sentiva più tranquilla; avrebbe voluto avere invitati tutte le sere, rumore, chiasso, qualche cosa che la stordisse e l'isolasse. Alla presenza d'altri mostrava una specie d'allegria nervosa, e Lorenzo, da parte sua, riesumava le sue grossolane battute da contadino, le risate grasse, le buffonate da vecchio imbrattatele, i ricevimenti non erano stati mai tanto allegri e animati, e così una volta per settimana Teresa e Lorenzo potevano guardarsi senza rabbrividire. Nuove ansie, però, si aggiunsero beai presto: la paralisi, di cui mamma Raquin era, in preda, incalzava rapidamente, ed essi previdero non lontano il giorno in cui la vecchia sarebbe rimasta inchiodata sulla poltrona, senza parola e senza cervello; già la poveretta cominciava a balbettare pezzi sconnessi di frasi, la voce le si affievoliva, gli arti se ne morivano a uno a uno; diventava una cosa. Teresa e Lorenzo vedevano con terrore avvicinarli la fine di quell'essere, la cui presenza ancora li separava, e la cui voce riusciva a distrarli dai cattivi sogni. Quando la vecchia, abbandonata dall'intelligenza, sarebbe rimasta rigida e muta sulla poltrona, essi si sarebbero sentiti irreparabilmente soli, e la sera non avrebbero potuto sfuggire ai loro orribili incontri: gli incubi sarebbero allora cominciati alle sei invece che a mezzanotte, e ne sarebbero certamente impazziti.
Questi pensieri li indussero a preoccuparsi della salute di mamma Raquin, che era tanto preziosa per loro. Chiamarono medici, si prodigarono nel curare l'ammalata, e in questa attività da infermieri trovarono una tranquillità che li induceva a raddoppiare di zelo. Non volevano perdere quella donna che gli rendeva sopportabili le serate, non volevano che anche la sala da pranzo, che tutta la casa diventasse un luogo sinistro e pauroso come la loro camera. Mamma Raquin fu particolarmente sensibile alle premurose cure che essi le prodigavano; con le lacrime agli occhi si sentiva sempre più soddisfatta d'averli uniti e di avergli dato tutte le sue sostanze; mai, dopo la morte del figlio, aveva fatto assegnamento su tanta premurosa affezione negli ultimi giorni della sua vita, la sua vecchiaia era tutta addolcita dalla tenerezza dei due giovani. E così non sentiva quasi la paralisi, che pure progrediva di giorno in giorno. Teresa e Lorenzo, intanto, trascinavano quella loro duplice esistenza racchiudendo, ciascuno, due esseri nettamente distinti: uno nervoso e spaventato, che rabbrividiva non appena scendeva il crepuscolo, e un altro intorpidito e immemore, che prendeva vita col levar del sole. Vivevano due vite: si disperavano nell'angoscia quand'erano a vicini, sorridevano tranquillamente quando erano in compagnia. In pubblico, sui loro volti non traspariva mai la sofferenza che li straziava nell'intimità; sembravano calmi e felici, nascondevano istintivamente il loro male. A vederli così tranquilli durante il giorno, nessuno avrebbe immaginato che la notte erano tormentati da allucinazioni; potevano essere considerati una coppia benedetta dal cielo, completamente felice. Grivet li chiamava galantemente « tortorelle », e non mancava di punzecchiarli, chiedendo quando avrebbe avuto luogo il battesimo, dato che li vedeva sempre con gli occhi cerchiati per le interminabili veglie. Tutti gli ospiti ridevano, e anche Lorenzo e Teresa, impallidendo leggermente, abbozzavano un sorriso, abituati ormai all'arrischiato scherzo del vecchio impilato. Finché restavano in sala da pranzo riuscivano a dominarsi, e mai si sarebbe immaginato lo spaventoso cambiamento che si produceva in loro appena si chiudevano nella loro camera. Specialmente il giovedì sera quel cambiamento era così violentemente brusco che pareva si compiesse in un mondo sovrannaturale. Il dramma delle notti, per la sua stessa stranezza, per i suoi impeti selvaggi, sorava ogni immaginazione e rimaneva racchiuso nei loro corpi addolorati. Li avrebbero creduti pazzi, se l'avessero raccontato.
— Come son felici questi sposini! — diceva spesso il vecchio Michaud. — Parlano poco, ma riflettono molto. Scommetto che si mangiano di carezze quando restano soli! Questa era l'opinione di tutti, e così Teresa e Lorenzo finirono per essere additati a esempio. L'intera galleria del Ponte Nuovo esaltava l'affettuosità, la tranquilla felicità, l'eterna luna di miele dei due sposi. Essi soltanto sapevano che il cadavere di Camillo si coricava fra loro; essi soli sentivano, nei muscoli apparentemente calmi dei loro volti, le contrazioni nervose che la notte trasformavano orribilmente i loro lineamenti e cambiavano l'espressione placida del giorno in una maschera orrenda e dolorosa.
XXIV
Dopo quattro mesi Lorenzo si decise a realizzare i benefici che si era ripromesso con il matrimonio. Non oltre tre giorni dopo le nozze avrebbe abbandonata la moglie e sarebbe fuggito davanti allo spettro di Camillo se i suoi egoistici interessi non lo avessero inchiodato nella bottega. Aveva accettato quelle notti di terrore, era rimasto nell'angoscia che lo soffocava, per non compromettere gli utili del suo delitto. Abbandonando Teresa sarebbe ricaduto in miseria, avrebbe dovuto tener da conto l'impiego; rimanendo con lei, invece, avrebbe soddisfatto le sue aspirazioni di nullafacente, vivendo comodamente, senza occupazioni, con le rendite che mamma Raquin aveva intestato alla moglie. Se avesse potuto ottenere quei quarantamila franchi, certamente se ne sarebbe scappato con il danaro, ma la vecchia, consigliata da Michaud, aveva prudentemente salvaguardato, nel contratto nuziale, gli interessi della nipote, e quindi egli si trovava legato a Teresa con un vincolo dei più potenti. Perciò, a compenso delle atroci nottate insonni, volle almeno farsi mantenere in una oziosa beatitudine, ben nutrito e vestito, e con un po' di danaro in tasca per soddisfare i capricci. Solo a quel prezzo acconsentiva a coricarsi con il cadavere dell'annegato. Una sera annunciò a mamma Raquin e alla moglie che s'era dimesso dall'ufficio, e che l'avrebbe abbandonato alla fine del mese. Teresa ebbe un gesto di disappunto, ma egli si affrettò ad aggiungere che avrebbe preso in affitto uno studio, per rimettersi a dipingere. Si soffermò a lungo sui disinganni dell'impiego, sui vasti orizzonti che l'arte gli avrebbe dischiuso; ora che poteva disporre di qualche soldo, disse, voleva tentare il successo, e vedere se era capace di fare qualcosa di buono. Il sermone ch'egli declamò da grande attore tendeva solo a nascondere il suo ardente desiderio di riprendere l'antica vita d'artista. Teresa rimase a labbra strette e non rispose: non aveva nessuna intenzione che Lorenzo le sperperasse quella piccola fortuna che le assicurava l'indipendenza; e quando il marito l'assediò di domande per ottenere il consenso, gli dette qualche risposta secca ricordandogli che lasciando l'impiego non avrebbe guadagnalo più nulla e sarebbe rimasto a completo carico suo. Mentre lei parlava, Lorenzo la guardava in un modo così insistente che la turbò e le fermò in gola quel rifiuto che avrebbe voluto opporre; credette di leggere negli occhi del complice un pensiero minaccioso: «Se non acconsenti dirò tutto», e
allora finì per balbettare. Intervenne subilo mamma Raquin affermando che il desiderio di quel caro figliolo era troppo giusto, che bisognava dargli i mezzi per diventare un uomo di talento. La buona donna, intenerita dalle carezze che il birbaccione le prodigava, viziava Lorenzo come aveva fatto per Camillo; gli aveva dato l'anima, e appoggiava sempre le sue opinioni. Alla fine fu deciso che l'artista avrebbe affittato lo studio e che avrebbe avuto cento franchi al mese per le varie spese da sostenere. Il bilancio della famiglia fu così regolato: gli utili della merceria avrebbero coperto le spese d'affitto del negozio e dell'appartamento, e in parte anche quelle giornaliere della casa; Lorenzo avrebbe prelevato, dai duemila e più franchi di rendita la pigione dello studio e i cento franchi mensili; il rimanente della rendita sarebbe rimasto disponibile per i bisogni della famiglia in tal modo, non si sarebbe intaccato il capitale. Teresa si tranquillizzò un poco, ma fece giurare al marito che non avrebbe mai superata la somma assegnatagli; in ogni caso, pensava, Lorenzo non si sarebbe potuto impadronire dei quarantamila franchi senza la sua firma, ed ella era ben decisa a non firmare nessuna carta. Già il giorno successivo Lorenzo affittò, in fondo alla via Maturino, un piccolo studio che aveva, adocchiato da circa un un mese prima di lasciare l'impiego, voleva essere ben sicuro di avere un rifugio nel quale trascorrere le giornate spensieratamente e lontano da Teresa. Alla fine del mese prese congedo dai colleghi. Grivet rimase stupefatto per quella decisione. Un giovane, diceva, che aveva davanti a sé una carriera così brillante! un giovane che in quattro anni era arrivato ad uno stipendio che lui, Grivet, aveva dovuto sospirare vent'anni per ottenerlo! E il suo stupore fu ancora, più grande quando Lorenzo gli disse che si sarebbe di nuovo dedicato interamente alla pittura. L'artista prese finalmente possesso del suo studio: era una specie di soffitta quadrata, larga e lunga cinque o sei metri, il cui soffitto s'inclinava a forte pendenza, forato da una larga finestra che lasciava entrare una luce bianca e fredda sul pavimento e sulle pareti nerastre. I rumori della strada non salivano fino a quell'altezza: quella stanza silenziosa e stinta, che s'apriva sul cielo, sembrava un buco, una tomba scavata nell'argilla grigia. Lorenzo l'ammobiliò alla meglio portandovi due sedie spagliate, un tavolo, che dovette appoggiare al
muro perché non cadesse a terra, una vecchia credenza da cucina, il cavalletto e la scatola dei colori; tutto il lusso dello studio si concentrò in un grande divano che comprò per trenta franchi da un rigattiere. Per una quindicina di giorni non si preoccupò di mettere mano ai pennelli: arrivava allo studio fra le otto e le nove, si stendeva sul divano fumando fino a mezzogiorno, felice d'aver ancora molte ore a disposizione. A mezzogiorno andava a mangiare, ma subito ritornava nello studio per poter essere solo, per non vedere il volto pallido di Teresa, e lì digeriva, dormiva e se ne stava sdraiato fino a sera: quello studio era un'oasi di pace nel quale la paura non lo raggiungeva. Un giorno la moglie gli chiese di visitare quel suo dolce rifugio, ma egli si oppose, e siccome, nonostante il rifiuto, Teresa andò a bussare alla porta, non aprì, e quando rincasò disse di aver ato tutto il giorno nel museo del Louvre. Non voleva visite di Teresa, perché temeva ch'ella introducesse con sé lo spettro di Camillo. Ma l'ozio cominciò a pesargli, ed egli comprò una tela e dei colori e si mise al lavoro. Non avendo danaro sufficiente a pagarsi qualche modella, decise di dipingere di maniera, senza preoccuparsi del vero, e cominciò una testa d'uomo. D'altra parte non rimase più tanto rinchiuso: al mattino lavorava due o tre ore, e il pomeriggio lo occupava a gironzolare qua e là per la città e in periferia. Fu proprio rientrando da una di queste lunghe eggiate che incontrò, davanti al palazzo dell'Istituto, il suo antico compagno di collegio, che aveva ottenuto un discreto successo nell'ambiente, all'ultima esposizione. - Oh, sei tu! — esclamò il pittore. — Povero Lorenzo! Non t'avrei riconosciuto, tanto sei dimagrito! -Mi sono sposato, — rispose Lorenzo un po' imbarazzato. - Sposato? E allora non mi meraviglio più di vederti così strambo. E che fai, ora? - Ho preso un piccolo studio... dipingo un po', al mattino. In poche parole Lorenzo mise al corrente l'amico sul suo matrimonio, poi gli parlò con enfasi dei suoi progetti per il futuro, mentre l'altro lo guardava con uno stupore che lo turbava e indispettiva. Il pittore, infatti, non ritrovava più il ragazzo duro e provinciale d'una volta; gli pareva che Lorenzo avesse preso un portamento distinto, che il volto gli si fosse affinato, assumendo un pallore signorile, che tutto il corpo avesse acquistato agilità e dignità. — Stai diventando un bel ragazzo, non poté trattenersi dal rilevare. — Hai l'aspetto d'un ambasciatore! Sei proprio elegante! E, dimmi: a che scuola studi?
Lorenzo era infastidito dall'esame che subiva, ma non voleva troncare bruscamente la conversazione. — Vuoi salire un momento nel mio studio? — chiese all'amico, che non accennava ad andarsene. - Volentieri, rispose l'altro. Non rendendosi conto dei cambiamenti che aveva rilevati, il pittore era curioso di visitare lo studio dell'ex compagno. Non saliva certo fino al quinto piano per ammirare la nuova produzione di Lorenzo, che cautamente lo avrebbe disgustato, ma soltanto per soddisfare una sua personale curiosità. Quando, però, arrivarono nello studio ed egli dette un'occhiata alle tele appese alle pareti, il suo stupore aumentò. Vi erano cinque studi, due teste di donna e tre d'uomo, vigorosamente dipinti; la composizione era decisa, i toni grassi e solidi, ogni pezzo si staccava con magnifico rilievo sui fondi grigio chiaro. L'artista s'avvicinò alle tele veramente impressionato e senza nascondere la sua sorpresa domandò: — Li hai fatti tu?... — SI, rispose Lorenzo. — Sono schizzi per una grande composizione che sto preparando. Non prendermi in giro, — replicò l'altro. — Sei veramente tu l'autore di questa roba? — Sì, io. Perché non dovrei averli fatti io? Non osando rispondere: « Perché queste tele sono di un artista e tu invece non sei mai stato più di un imbianchino », il pittore se ne stette a lungo in silenzio davanti a quegli schizzi. Non erano, certo, che goffi abbozzi, ma avevano una singolarità, una così grande potenza espressiva, da rivelare un senso artistico assai avanzato. Poteva dirsi pittura vissuta. Mai l'amico di Lorenzo aveva visto abbozzi tanto promettenti. Quando ebbe ben guardate le tele, si volse verso l'autore e gli disse: — Ti confesso francamente, che non ti credevo capace di dipingere così! Dove diavolo l'hai preso tanto talento? Non è una cosa che s'impara a scuola. E scrutava Lorenzo, la cui voce gli pareva più dolce, e di un'eleganza tutta propria ogni gesto. Non poteva immaginare quale terribile scossa aveva
trasformato quell'uomo, dando ai suoi nervi una femminea sensibilità, e sensazioni acute e delicate. Sena dubbio, un fenomeno strano s'era compiuto nell'organismo dell'assassino di Camillo. E' un' analisi difficile il penetrare a tanta profondità. Probabilmente, Lorenzo era diventato artista, come era diventato pauroso, in seguito al violento collasso che gli aveva sconvolto la carne e la mente. Prima della crisi, egli soffocava sotto il grave peso del suo sangue, era come accecato dal denso alone di salute che lo circondava; dopo, dimagrito, gli si era sviluppata un'ispirazione irrequieto, aveva acquistato le reazioni vive e pungenti dei temperamenti nervosi. Data la sua vita piena di terrori, la mente ormai delirava e saliva fino all'estasi del genio; il malessere morale, la nevrosi che gli scuoteva il corpo, sviluppavano in lui un senso artistico eccezionalmente acuto; da quando aveva ucciso, qualcosa gli aveva alleggerito la carne, sentiva immenso il suo cervello smarrito, e in quei repentini affinamenti del pensiero vedeva are creazioni meravigliose, visioni da poeta. E così il suo gestire era diventato subitamente distinto, e i suoi quadri s'elevavano ad arte, resi di colpo personali e viventi. L'amico non s'attardò oltre a spiegarsi la nascita di quell'artista; se ne andò col suo stupore, ma prima di uscire, riguardando le tele, fece a Lorenzo : — Ho un solo rimprovero da farti: i tuoi studi hanno troppo un'aria di famiglia. Queste cinque teste si rassomigliano, le stesse donne hanno un aspetto feroce che le fa rassomigliare a uomini mascherati. Ascoltami: se vuoi fare una composizione con quegli abbozzi, dovrai cambiare qualche fisionomia. I personaggi non possono essere tutti fratelli, farebbero ridere. Uscì dallo studio e soffermandosi sul pianerottolo aggiunse : — Mi ha fatto veramente piacere d'averti incontrato. Da oggi comincio a credere ai miracoli. Dio del cielo, come sei grande! Lorenzo rientrò nello studio profondamente turbato. Quando l'amico gli aveva fatto osservare che tutti gli schizzi avevano un'aria di famiglia, s'era rigirato di scatto per nasconderò il suo pallore; quella rassomiglianza fatale l'aveva già colpito. Tornò a mettersi davanti alle tele e, a mano a mano che le contemplava, ando dall'una all'altra, un sudore gelato gli agghiacciava le spalle. — Ha ragione lui, — mormorò, — si rassomigliano tutti... Rassomigliano a Camillo.
Retrocedette, andò a sedersi sul divano senza poter distogliere lo sguardo da quelle teste. La prima era una faccia di vecchio con una lunga barba bianca, e sotto quella barba Lorenzo vedeva il volto magro di Camillo; la seconda rappresentava una ragazza bionda, e quella giovane lo guardava con gli occhi azzurri della sua vittima. Le altre tre teste avevano ciascuna qualche lineamento dell'annegato, o sembravano Camillo truccato da vecchio o da ragazza, a seconda della maschera che il pittore gli aveva voluto dare, pur conservandogli i caratteri generali della fisionomia. E c'era, tra quelle altre teste, qualche altra cosa in comune: apparivano tutte sofferenti e spaventate, tutte sconvolte da una stessa sensazione di orrore, avevano tutte una piccola grinza a sinistra della bocca, che storceva le labbra in una smorfia. E quella grinza, che Lorenzo ricordava di aver visto sul volto convulso dell'annegato, dava alle cinque teste un orrendo marchio di parentela. Lorenzo capì che si era fermato troppo a lungo alla Morgue a guardare Camillo, l'immagine del cadavere gli era rimasta profondamente impressa e ora la sua mano, senza che egli ne avesse coscienza, tracciava sempre le linee di quel volto atroce il cui ricordo lo perseguitava dappertutto. Riverso sul divano, a mano a mano che fissava le tele, ebbe l'impressione che quelle facce si animassero, e vide cinque Camillo davanti a sé, cinque Camillo che la sua stessa mano aveva creati e che per una orribile stranezza assumevano tutte le età e tutti i sessi. Si alzò di scatto, strappò le tele e le buttò fuori, pensando che sarebbe morto di spavento nel suo stesso studio, riempiendolo con ritratti della vittima. Subentrò un atroce timore, che non avrebbe più potuto schizzare una testa diversa da quella dell'annegato, e volle subito constatare se fosse ancora padrone della propria mano. Mise una tela bianca sul cavalletto e con quattro tocchi di carbonella abbozzò una figura. La faccia rassomigliava a Camillo. Cancellò nervosamente lo schizzo e ne tentò un altro. Per un'ora lottò contro la fatalità che gli manovrava la mano, ma a ogni nuovo tentativo riappariva la testa dell'annegato. Per quanto tendesse la volontà e si sforzasse di evitare quei lineamenti a lui tanto noti, suo malgrado disegnava sempre quelle medesime fattezze obbedendo ai muscoli e ai nervi in rivolta. Prima aveva schizzato rapidamente, poi provò a disegnare lentamente, ma il risultato non cambiò : ogni volta ricompariva sulla tela la maschera sghignazzante e dolorante di Camillo. Schizzò, uno dopo l'altro i più disparati tipi di teste: di angeli, di vergini con
l'aureola, di guerrieri romani con l'elmo, di puttini biondi e rosei, di vecchi briganti rappezzati di cicatrici, ma sempre ricompariva l'annegato, di volta in volta angelo, vergine, guerriero, puttino, brigante. Allora Lorenzo tentò la caricatura, esagerò i lineamenti, tracciò profili mostruosi, inventò teste grottesche, ma riuscì soltanto a rendere più impressionante e orribile il ritratto della vittima. Disegnò animali, cani e gatti, e i cani e i gatti rassomigliavano a Camillo. Lorenzo si sentì preso da folle rabbia: sfondò la tela con un pugno, pensando con disperazione che non avrebbe mai potuto realizzare la sua grande composizione; non bisognava più pensarci, sentiva che ormai non avrebbe disegnato altro che teste di Camillo, e, come gli aveva detto l'amico, delle facce che si rassomigliassero tutte, in un quadro, avrebbero fatto ridere. Immaginava cosa sarebbe stata la sua opera, vedendo sulle spalle di tutti i personaggi, uomini o donne che fossero, il volto pallido e atterrito dell'annegato; e lo strano spettacolo ch'egli evocava gli parve atrocemente ridicolo e l'esasperò. E cosi non avrebbe osato più lavorare, temendo sempre di risuscitare la vittima a ogni colpo di pennello. Per vivere tranquillo nello studio non avrebbe dovuto mai dipingere; e il pensiero di aver nelle dita la facoltà, fatale e incosciente, di riprodurre invariabilmente il ritratto di Camillo, gli fece guardare la mano con terrore. Gli sembrò che essa non gli apparteneva più.
XXV
La crisi, da cui mamma Raquin era minacciata, si manifestò bruscamente. La paralisi che da parecchi mesi le s'arrampicava per le gambe pronta a ghermirla, la prese improvvisamente alla gola e la immobilizzò. Una sera, mentre conversava come al solito fra Teresa e Lorenzo, restò a mezza frase con la bocca aperta; sentiva come se la strangolassero. Voleva gridare, invocare aiuto, ma nella gola gorgogliavano soltanto rauchi suoni. La lingua le era diventata di pietra; mani e piedi si erano irrigiditi, rimase muta e immobilizzata. Teresa e Lorenzo si alzarono atterriti davanti a quella folgore che travolse la vecchia in meno di cinque secondi. E quando ella rimase stecchita, fissandoli con sguardi supplichevoli, l'assillarono di domande per conoscere la causa della sofferenza, ma la disgraziata non poteva rispondere e continuava a guardarli con immensa angoscia. I due compresero, allora, che si trovavano davanti ad un cadavere mezzo vivo, che poteva vederli e udirli, ma non parlare. Quella crisi li gettò nella disperazione: non si preoccupavano molto, in fondo, dal dolore della paralitica, trepidavano per se stessi, che, oramai, avrebbero vissuto eternamente da solo a sola. La vita degli sposi divenne infatti insopportabile da quel giorno. arono serate tremende di fronte alla vecchia paralitica, ormai incapace di soffocare il loro terrore con il suo dolce chiacchiericcio d'un tempo. La disgraziata giaceva in fondo alla poltrona come un involto, come una cosa inanimata, ed essi restavano soli, ai due capi della tavola, perplessi e agitati. Quel corpo immobile non li separava più, e, in qualche momento lo dimenticavano e lo confondevano con i mobili della stanza. Allora i loro incubi notturni si anticipavano, e la sala da pranzo diventava, come la loro camera, un luogo terribile nel quale regnava lo spettro di Camillo. Le loro sofferenze, quindi, si allungarono di quattro o cinque ore al giorno. Fin dal crepuscolo, tremanti, abbassavano il paralume per aumentare l' ombra e non
vedersi, sforzandosi di credere che mamma Raquin avrebbe parlato e fatto sentire la sua presenza. Se ne avevano cura e non se ne erano ancora sbarazzati, era perché i suoi occhi ancora vivi gli davano talvolta un po' di sollievo quando la coppia si fermava a guardarli brillare e muoversi. Mettevano la paralitica nel vivo cerchio di luce della lampada, perché il suo volto ne fosse bene illuminato, e per averla sempre dinanzi. Quel viso cadente e sbiadito sarebbe stato uno spettacolo penoso per altri, ma essi avevano un così estremo bisogno di compagnia che se lo contemplavano con autentica gioia, nonostante che quella sembrasse la maschera di un cadavere in dissoluzione con nel mezzo due occhi vivi. Solo quei due occhi si muovevano in tutta la maschera, roteando rapidamente nelle orbite: guance e bocca sembravano pietrificate, tutta una spaventosa immobilità. Quando mamma Raquin abbassava le palpebre e si addormentava, il suo volto, bianco e muto in ogni punto, era veramente quello di un cadavere; e allora Teresa e Lorenzo, che non sentivano più nessuno con loro, facevano rumore per svegliarla, per farle riaprire le palpebre ed essere guardati ancora. L'obbligavano così a restare sveglia. La consideravano una distrazione che li distoglieva dai brutti sogni. Da quando era paralizzata, bisognava averne cura come di un bambino, e questa loro assistenza li costringeva fortunatamente a scrollarsi dei loro eterni pensieri. Ogni mattina Lorenzo la toglieva dal letto e la deponeva sulla poltrona. La sera la rimetteva a letto; la vecchia era ancora abbastanza pesante, ed egli doveva impiegare tutta la sua forza per sollevarla fra le braccia e trasportarla. Suo compito era anche di spostare la poltrona; gli altri toccavano a Teresa, che vestiva e svestiva la paralitica, la faceva mangiare, cercava di interpretare ogni suo più piccolo desiderio. Per alcuni giorni mamma Raquin poté ancora usare le mani, e scrivendo su una lavagna riusciva a chiedere ciò che voleva, ma poi anche le mani morirono, le fu impossibile sollevarle e stringere un gesso fra le dita. Da allora, non restando alla vecchia che il linguaggio degli occhi, la nipote dovette sforzarsi di indovinare tutto ciò ch'ella, voleva. E nel duro compito di infermiera, cui s'era votata, Teresa trovò un'occupazione fisica e mentale che le fece un gran bene. Per limitare al minimo i loro momenti da soli, gli sposi spingevano fin dal mattino la poltrona della paralitica nella sala da pranzo. Inserivano la vecchia tra loro, come elemento indispensabile alla loro esistenza, la facevano assistere ai loro pasti e a qualunque discorso, e quando lei dimostrava di voler essere portata nella sua camera, fingevano di non capire. Essendo ormai buona soltanto a
rompere la loro solitudine con la sua presenza, non aveva diritto di vivere appartata. Alle otto Lorenzo se n'andava allo studio e Teresa scendeva in bottega; la paralitica rimaneva in sala da pranzo, sola, fino a mezzogiorno, poi, dopo colazione, restava di nuovo sola fino alle sei. Durante la giornata, la nipote saliva spesso, per vedere se avesse bisogno di qualche cosa. Gli amici di casa non sapevano quali parole inventare per elogiare ed esaltare la bontà di Lorenzo e Teresa. I ricevimenti del giovedì continuarono, e la paralitica era presente come in ato, con la poltrona vicina al tavolo. Dalle otto alle undici, se ne stava con gli occhi aperti, e guardava uno ad uno gli ospiti con barlumi penetranti. Le prime volte Michaud e Grivet si trovavano in imbarazzo di fronte a quel mezzo cadavere della vecchia amica: non sapevano come comportarsi, il loro dispiacere era molto relativo e s'andavano chiedendo fino a che punto fosse doveroso mostrarsi amareggiato. Bisognava parlare a quella faccia morta, o era meglio non preoccuparsene affatto? A poco a poco si decisero a trattare mamma Raquin come se nulla le fosse accaduto, e fingendo di ignorare completamente il suo stato. Chiacchieravano con lei facendo essi stessi domanda e risposta, ridevano per lei e per loro, senza mai farsi demoralizzare dall'espressione rigida del suo volto. Era uno strano spettacolo! Sembrava che quegli uomini parlassero ad una statua, ragionevolmente, come le bambine parlano con le bambole. La paralitica gli stava di fronti rigida e muta, e loro chiacchieravano e si agitavano gesticolando, sempre impegnati in un'amatissima discussione. Michaud e Grivet si compiacevano del loro eccellente comportamento, convinti che a quel modo non solo davano prova di buona educazione, ma si evitavano anche la noia delle banali commiserazioni abituali. Secondo loro, mamma Raquin doveva essere lusingata di vedersi trattata come una persona normale, e ciò li autorizzava ad essere allegri in sua presenza, senza farsene scrupolo. Presto Grivet ebbe la presunzione che soltanto lui potesse intendersi con mamma Raquin, che gli bastasse un solo sguardo di lei per capire cosa desiderasse. Era, evidentemente, un'altra delicata attenzione dell'ospite; però, ogni volta che interveniva, Grivet sbagliava. Spesso egli interrompeva la partita di domino, guardava la paralitica che seguiva tranquillamente il gioco, e sosteneva che la signora avesse chiesto la tal cosa. Si constatava, poi, che mamma Raquin non aveva chiesto proprio nulla о aveva chiesto una cosa del tutto diversa; ma ciò non scoraggiava Grivet, che in ogni caso lanciava un vittorioso: « Ve lo dicevo io! », e dopo pochi minuti ricominciava da capo.
La faccenda si complicava quando la paralitica faceva capire essa stessa di voler qualche cosa; allora Teresa, Lorenzo, gli ospiti cominciavano a nominare tutti gli oggetti ch'ella potesse desiderare, e Grivet si distingueva per la scemenza delle offerte: nominava tutte le cose che gli avano per la mente, a casaccio, offrendo sempre il contrario di quello che la vecchia voleva. Ciò tuttavia non gli impediva di dire: «Le leggo negli occhi come in un libro. Guardatela come approva... È vero che è così, cara signora?... Sì, sì ». Del resto, non era facile afferrare a volo i desideri della povera ammalata. Solo Teresa vi riusciva; sapeva mettersi abbastanza bene in comunicazione con quella intelligenza murata, vivente ancora ma sotterrata in una carne morta. È difficile dire cosa accadesse in quella misera creatura che viveva soltanto quanto bastasse per assistere alla vita, ma senza prendervi parte. Ella vedeva, udiva, ragionava senza dubbio con chiarezza mentale, ma non aveva né voce né gesti per esternare i pensieri che le nascevano dentro. Era soffocata d'idee, può darsi benissimo, eppure non avrebbe potuto alzare la mano, non avrebbe potuto aprire la bocca nemmeno se un suo gesto o una sua parola avesse dovuto decidere il destino del mondo. La sua mente poteva paragonarsi a un individuo seppellito vivo per errore che si svegli sotto terra a due o tre metri di profondità: egli grida, si dibatte, ma la gente a, di sopra senza udire i suoi atroci lamenti. Spesso, contemplando mamma Raquin, che se ne stava a labbra strette, le mani pendenti sulle ginocchia, con tutta la sua vita concentrata negli occhi mobili e lampeggianti, Lorenzo si domandava: «Chi sa a che pensa dentro di sé..Quale dramma crudele si agiterà in quel cadavere? » Lorenzo s'ingannava. Mamma Raquin era felice, veramente felice per l'affetto e le cure che riceveva: era stato il suo sogno finire lentamente l'esistenza fra le carezze e l'abnegazione. Certo che avrebbe voluto poter parlare per ringraziare gli amici che l'aiutavano a morire in pace, ma accettava il suo stato con rassegnazione: la vita tranquilla e ritirata che s'era sempre imposta, la bontà del carattere non le facevano sentire con troppa durezza le sofferenze dell'immobilità e della mancanza di parola. Era ridiventata bambina, ava le giornate senza noia a guardare davanti a sé, a pensare al ato: le sembrava, anzi, piacevole di starsene buona buona sulla poltrona come una bambina.
Ogni giorno che ava, i suoi occhi acquistavano una dolcezza e una chiarezza sempre più penetranti; era riuscita a servirsene come di una mano, come di una bocca per domandare e ringraziare, e in tal modo suppliva con una certa grazia agli organi di cui non disponeva più. In mezzo a quel volto, la cui carne pendeva molle e aggrinzita, gli occhi erano belli, d'una bellezza celestiale. Da quando le sue labbra distorte ed inerti non potevano sorridere, aveva imparato a sorridere con lo sguardo, e lo faceva con adorabile tenerezza; bagliori umidi avano e raggi d'aurora uscivano da quelle orbite. Nulla era più singolare di quegli occhi che ridevano come labbra in un viso morto: la parte inferire del volto restava triste e pallida, la parte alta si illuminava divinamente. Ed era soprattutto per i “cari ragazzi” che ella metteva tutta la riconoscenza, tutto l'affetto dell'animo in una sola occhiata. Quando sera e mattino Lorenzo la prendeva fra le braccia per trasportarla dalla poltrona al letto e viceversa, ella lo ringraziava amorevolmente con sguardi pieni di tenera effusione. Visse così per molte settimane, aspettando la morte. Si riteneva al sicuro da qualsiasi altra sventura, pensando di aver già saldato la sua parte di sofferenza alla vita, ma s'ingannava: una sera uno spaventoso colpo la schiacciò. Per quanto Lorenzo e Teresa si ostinassero a tenerla fra loro, a metterla in piena luce per vederla meglio, la disgraziata non aveva abbastanza vitalità per poterli separare e difendere dai loro affanni. Quando dimenticavano che essa era lì presente, ancora capace di vedere e di ascoltare, erano ripresi dagli incubi, rivedevano Camillo, tentavano di scacciarlo e ballettando si lasciavano sfuggire parole e frasi che un po' per volta svelarono il loro segreto a mamma Raquin. Durante una specie di collasso, Lorenzo parlò come un allucinato, e la vecchia capì tutto. Una tremenda contrazione sconvolse il suo viso, e la scossa, fu così forte e violenta, che Teresa ebbe l'impressione che la vecchia stesse per balzare dalla poltrona e gridare. Subito, però, la disgraziata tornò ad irrigidirsi. E la scossa fu tanto più terrificante, sembrando che galvanizzasse un cadavere. Ma la sensibilità, così fulmineamente richiamata, fulmineamente disparve, e mamma Raquin ricadde sulla poltrona più schiantata di prima, più sbiancata. I suoi occhi, di solito pieni di tanta dolcezza, divennero di colpo neri e duri, simili a due punte di metallo. Mai la disperazione era penetrata in un essere con tanta rudezza. Come un lampo
la tragica verità bruciò gli occhi della paralitica e penetrò in lei col contraccolpo definitivo di un fulmine; se avesse potuto alzarsi, prorompere nel grido d'orrore che le era salito alla gola, maledire gli assassini, avrebbe sofferto di meno; ma dopo aver udito e capito tutto, dovette starsene immobile e muta, soffocando in se stessa lo schianto del suo dolore. Le sembrò come se Teresa e Lorenzo l'avessero legata, inchiodata sulla poltrona per impedirle di balzare su di loro, e che gustassero un atroce piacere nel ripeterle : «Abbiamo ucciso Camillo», dopo averla imbavagliata per soffocarle i singhiozzi. Lo sgomento, l'angoscia correvano furiosamente per il suo corpo senza trovare via d'uscita; faceva sforzi sovrumani per togliersi quel peso che la schiacciava, per liberarsi la gola e dare sfogo alla sua disperazione. Invano tendeva le sue estreme energie: sentiva la lingua gelida sotto il palato e non riusciva a sottrarsi alla morte. L'impossibilità cadaverica la irrigidiva, le sue sensazioni erano simili a quelle di un uomo caduto in catalessi, che sente d'esser seppellito, ma che, imbavagliato dalla insensibilità dei muscoli, non può reagire alle palate di terra che gli cadono sul capo. Lo strazio del suo cuore fu ancora più terribile. Ella sentì un franamento interno che la schiantava, che le distruggeva tutta una vita di tenerezze, di bontà, di sacrifici; tutti i suoi sentimenti erano calpestati. Nella sua vita aveva concepito soltanto affetto e bontà, ed ecco che nell'ora estrema, giunta all'orlo della fossa, quando stava per portare nella tomba il convincimento della felicità dell'esistenza, una voce veniva a rivelarle che tutto è menzogna, tutto è delitto. Il velo squarciato le mostrava, al di là dell'amore e dell'amicizia in cui aveva creduto, un terrificante spettacolo di sangue e di vergogna. Avrebbe imprecato contro Dio se avesse potuto emettere una bestemmia. Dio l'aveva ingannata per più di sessant'anni, facendone una specie di bambina buona ed incosciente, mettendole davanti agli occhi menzognere visioni di idilliaca gioia. E lei era rimasta fanciulla, aveva creduto scioccamente in mille cose da nulla, senza vedere che la realtà della vita strisciava nel fango sanguinante delle ioni. Dio era stato cattivo con lei, avrebbe dovuto dirgliele quelle cose o farla morire innocente, con il suo accecamento. Non le restava, ora, che morire, rinnegando amore, amicizia, sacrifici; non esiste altro che delitto e lussuria. Ma come? Camillo era morto sotto i colpi di Teresa e di Lorenzo, e quei due avevano concepito l'omicidio fra le vergogne dell'adulterio? C'era per mamma Raquin un tale abisso in quell'idea, che non riusciva a meditarci e ad afferrarla in maniera netta e precisa, aveva solo la sensazione di un'orribile caduta in un abisso freddo e scuro. E si diceva: “Ora vado a schiacciarmi laggiù”.
Dopo la prima scossa, la mostruosità del crimine le parve inverosimile, poi credette d'impazzire quando la convinzione dell'adulterio e del delitto le si affermò nella mente, ricordando piccole circostanze che non aveva saputo spiegarsi, allora. Teresa e Lorenzo erano proprio gli assassini di Camillo: Teresa che aveva cresciuto come una figlia, e Lorenzo che aveva amato con slancio e tenerezza materni. Quei pensieri le giacevano nella testa come un'immensa ruota e con un rumore assordante : immaginava particolari disgustosi, rifletteva sulla enorme ipocrisia di quei due, riviveva con la mente quello spettacolo a due facce tanto atrocemente beffardo, che avrebbe voluto morire per non pensare più; ma quei pensieri le bruciavano la mente, con persistenza e accanimento testardo. Una sola frase le frullava nella mente: “Sono stati i miei figli a uccidere mio figlio », e non c'era altra frase per spiegare la sua disperazione. Nel brusco cambiamento del suo animo, smarrita, cercava se stessa e non si riconosceva più. I propositi di vendetta distruggevano tutta la bontà della sua vita e la soffocavano con il loro peso; nel buio che s'era fatto in lei dopo la violenta trasformazione, nasceva dalla sua carne morta un nuovo essere, spietato e crudele, che avrebbe voluto mordere i due assassini. Quando si sentì vinta dalla paralisi, quando capi che non avrebbe mai potuto saltare alla gola di Teresa e di Lorenzo per strangolarli come sognava, si rassegnò al silenzio e alla immobilità, e grosse lacrime le rigarono le gote. Nulla era più straziante della sua muta e inerte disperazione. Quelle lacrime che scorrevano a una a una su un volto morto, di cui neppure una ruga si muoveva, una faccia rigida e sbiancata che non poteva piangere con tutti i suoi organi, nella quale soltanto gli occhi singhiozzavano, costituivano uno spettacolo veramente tormentoso. Teresa ne fu sgomenta e impietosita. — Bisogna metterla a letto, — disse a Lorenzo. Questi s'affrettò a spingere la poltrona nella camera da letto, poi si abbassò per prendere la vecchia fra le braccia. In quel momento mamma Raquin sperò che una forza sovrannaturale le ridesse vigore, e tentò uno sforzo supremo. Dio non poteva permettere che Lorenzo la serrasse al petto: certamente un fulmine lo avrebbe annientato, se quello avesse avuto tanta mostruosa spudoratezza. Ma nessuna forza la mosse, e il cielo tenne in serbo i suoi fulmini: mamma Raquin rimase accasciata, iva, come un fagotto di biancheria. Fu presa, sollevata, trasportata dall'assassino, e provò l'angoscia di sentirsi, molle e abbandonata, fra le braccia dell'uccisore di Camillo. La testa rotolò sulla spalla di Lorenzo, ch'ella guardò con occhi spalancati dall'orrore.
— Sì, sì... guardami bene, — mormorò Lorenzo. — Tanto, con gli occhi non mi puoi divorare. E la gettò brutalmente sul letto. La vecchia vi cadde svenuta. Il suo ultimo pensiero era stato d'orrore e di disgusto: ormai mattina e sera doveva subire la ripugnante stretta delle braccia di Lorenzo.
XXVI
Soltanto una crisi di terrore aveva potuto indurre gli sposi a parlare, a fare confessioni in presenza di mamma Raquin. Nessuno dei due era mosso da crudeltà; entrambi, per un senso umanitario, avrebbero evitato una rivelazione del genere, anche se la sicurezza personale non gli avesse già imposta la legge del silenzio. Il giovedì seguente erano entrambi assai preoccupati. Teresa domandò al marito s'egli ritenesse prudente lasciare quella sera, la paralitica in sala da pranzo: ella sapeva ormai e avrebbe potuto dare l'allarme. - Non preoccuparti - rispose Lorenzo, - non può muovere neanche il mignolo! Come può parlare? - Potrebbe trovare un mezzo -, obiettò Teresa — Dall'altra sera, nei suoi occhi c'è un'idea fissa. Non hai ascoltato il medico? Ha detto che per lei è finita, e che se parlerà ancora potrà farlo solo negli ultimi istanti d'agonia. Ne ha ancora per poco, sta tranquilla... Perché dovremmo caricarci ancora la coscienza, impedendole di partecipare alla riunione? Teresa rabbrividì. — Non mi hai capito – esclamò. Lo so bene che quanto a sangue, basta. Volevo dire che potremmo chiudere la zia nella sua camera e dire che, essendo più sofferente, ha preferito dormire. — Così, — riprese Lorenzo, quell'Imbecille di Michaud entrerà difilato nella camera per salutare lo stesso la vecchia amica, e sarebbe un ottimo modo per rovinarci. Esitò; voleva apparire tranquillo, ma l'ansia lo faceva balbettare. Continuò: — E' meglio lasciar andare le cose per conto loro.
Quei quattro hanno un cervello come una gallina, e certamente non s'accorgeranno della disperazione della vecchia. Sono così lontani dalla verità, che nulla può insospettirli. E una volta fatta la prova, saremo tranquilli anche per l'avvenire sui pericoli di quella nostra impudenza. Vedrai che tutto andrà bene. La sera, quando giunsero gli ospiti, mamma Raquin occupava il solito posto, fra la stufa e il tavolo. Teresa e Lorenzo mascheravano la loro trepidazione fingendo d'essere di buon umore, ma aspettavano con angoscia l'incidente che sarebbe certo accaduto. Avevano abbassato al massimo il paralume, solo la tela corata del tavolo era illuminata. Gli ospiti si trattennero un po' nella solita conversazione rumorosa e banale prima di iniziare le consuete partite di domino, e Grivet e Michaud non mancarono di rivolgere alla paralitica le abituali domande sulla sua salute, domande alle quali essi stessi dettero soddisfacenti risposte come sempre facevano. Quindi senza più preoccuparsi della vecchia, tutti s'immersero deliziosamente nel gioco. Da che aveva avuto conoscenza dell'orribile segreto, mamma Raquin aveva atteso febbrilmente quella serata, proponendosi di racimolare tutte le forze che le erano rimaste e denunciare i colpevoli. Fino all'ultimo momento aveva temuto di non assistere alla riunione: pensava che Lorenzo l'avrebbe fatta sparire, forse anche uccisa, o nella migliore delle ipotesi l'avrebbe chiusa nella sua camera. Quando vide che la portavano in sala da pranzo, quando si trovò in mezzo agli ospiti, gioì profondamente pensando che avrebbe potuto tentare di vendicare il figlio. Sapendo di non poter fare uso della parola, tentò un nuovo linguaggio: con una sorprendente forza di volontà riuscì a galvanizzare in qualche modo la mano destra, a sollevarla leggermente dal ginocchio, dove la teneva sempre abbandonata, a farla arrampicare a poco a poco lungo uno dei piedi del tavolo che le stava davanti, e infine ad appoggiarla sull'incerata. Poi cominciò a muovere debolmente le dita come per attirare l'attenzione. Nel vedere sul tavolo quella mano da morto bianca e molle, i giocatori sbigottirono, e Grivet, che stava per deporre vittoriosamente sul tavolo il doppio sei, rimase col braccio levato in aria. Da quando aveva avuto l'attacco, la paralitica non era mai riuscita a muovere le mani. — Guardi, Teresa, — gridò Michaud. — La signora agita le dita. Certamente desidera qualche cosa.
Teresa non poté rispondere. Aveva seguito, al pari di Lorenzo, l'azione della paralitica e guardava la mano della zia, ancora più cerea, sotto la luce viva della lampada, come una mano vendicatrice che stesse per accusare. I due assassini aspettavano, ansimando. — Perbacco! — gridò Grivet. E' certo che vuole qualche cosa. Ci comprendiamo bene noi due... Vuole giocare al domino... È vero, cara signora? Mamma Raquin fece un violento cenno di negazione; distese un dito, ripiegò le altre con infinita pena, e si mise a tracciare con fatica delle lettere sulla tavola. Non ne aveva ancora terminata una, che Grivet esclamò di nuovo trionfante : — Ho capito: dice che faccio bene a mettere giù il doppio sei. La disgraziata lanciò un terribile sguardo al vecchio, e continuò a tracciare la parola che voleva scrivere; ma ad ogni istante Grivet la interrompeva dicendo ch'era inutile, che egli aveva già capito, e tirava fuori un'altra sciocchezza. Spazientito, Michaud gli impose il silenzio. - Stia zitto, disse, - e lasci parlare la signora! Parli, parli pure, signora! E guardò sull'incerata come se tendesse l'orecchio. Ma le dita della paralitica si estenuavano; avevano ricominciato una parola più di dieci volte, e, ormai continuavano sbandando a destra e a sinistra. Non arrivando a leggere nulla, Michaud e Oliviero, si chinavano e costringevano la paralitica a ripetere sempre le prime lettere — Benone! - esclamò ad un tratto Oliviero. - Questa volta ho afferrato...Ha scritto il suo nome, signora Teresa... Vediamo: « Teresa e...» continui continui signora Raquin! Poco mancò che Teresa urlasse per l'angoscia. Guardava le dita della zia scivolare sull'incerata, e le pareva che tracciassero il suo nome e la denunzia del delitto a caratteri di fuoco, Lorenzo si era alzato di scatto e si domandava se era il caso di precipitarsi sulla paralitica e spezzarle il braccio: si vedeva perduto, si sentiva schiacciare dal castigo, vedendo quella mano rivivere per denunciare il delitto di Camillo. Mamma Raquin scriveva ancora, ma in modo sempre più lento ed incerto.
- E' esatto, leggo benissimo – riprese Oliviero dopo qualche istante, guardando gli sposi. - Vostra zia sta scrivendo i vostri nomi: Teresa e Lorenzo - . Immediatamente la vecchia fece segni affermativi, lanciando sugli assassini sguardi che li annientarono; poi volle continuare, ma le dite le si erano irrigidite, si andava spegnendo lo sforzo di volontà chi le aveva animate, ed ella sentiva la paralisi salire lentamente lungo il braccio per impadronirsi di nuovo della mano. Si affrettò a tracciare ancora una parola, e Michaud lesse ad alta voce: — « Teresa e Lorenzo hanno... » Che hanno, signora, i suoi figlioli? domandò Oliviero incuriosito. Presi da un folle terrore, gli assassini furono sul punto di completare loro stessi la frase ad alta voce. Seguivano la mano vendicatrice con sguardi fissi e torbidi, quando di colpo quella mano fu presa da un tremito, s'appiattì sul tavolo, ricadde di nuovo sul ginocchio della paralitica come cosa inerte. La paralisi era ritornata e aveva sospeso il castigo. Michaud e Oliviero ripresero i loro posti con disappunto, mentre Teresa e Lorenzo provavano una gioia così ardente da sentirsi svenire sotto il flusso del sangue che batteva violentemente nei loro petti. Indispettito per non essere stato creduto sulla parola, Grivet pensò che fosse giunto il momento di riabilitare la sua infallibilità completando la frase lasciata monca da mamma Raquin; e poiché ognuno cercava di interpretarne il significato, egli fu pronto a dire: — È chiarissimo, ho già letto la frase negli occhi della signora. Per me non è necessario ch'ella scriva sui tavolo, mi basta uno sguardo per capirla... Ha voluto dire: « Teresa e Lorenzo hanno tanta cura di me». Grivet si compiacque della sua inventiva, perché tutti furono d'accordo con lui, e gli ospiti in coro elogiarono di nuovo quei due, così premurosi e affettuosi verso la povera signora. — Sicuro! — disse gravemente Michaud. — La signora Raquin ha voluto certo rendere omaggio all'affettuosa attenzione che le dimostrano i figlioli. È una cosa che onora tutta la famiglia! Poi assestando sul tavolo le sue pedine aggiunse: E ora possiamo riprendere il gioco. Dove eravamo rimasti? Mi pare che Grivet stava mettendo il doppio sei.
Grivet depose il doppio sei e la partita continuò, stupida e monotona. Sprofondata in un'angosciosa disperazione, la paralitica si guardava la mano, quella mano che l'aveva tradita: se la sentiva ormai pesante come piombo, e mai più avrebbe potuto risollevarla. Il cielo non voleva che Camillo fosse vendicato; aveva tolto alla madre il solo mezzo disponibile per far conoscere agli uomini il delitto di cui egli era stato vittima. Alla disgraziata non restava altro che andare a raggiungere il figlio nella tomba. Abbassò le palpebre e sentendosi una cosa inutile volle immaginare d'essere già nella notte eterna.
XXVII
Da due mesi Teresa e Lorenzo si dibattevano nelle angosce del loro legame. Non potevano più reciprocamente tollerarsi, finirono addirittura per cominciare a odiarsi, a lanciarsi sguardi pieni di collera e minaccia. L'odio reciproco non avrebbe potuto non maturare: prima si erano amati selvaggiamente, con una ione calda, violenta, sanguigna; poi, fra il nervosismo causato dal delitto, l'amore si era mutato in paura, ed era sopraggiunta una specie di terrore fisico dei baci, come ultima cosa, nel tormento che il matrimonio e la vita in comune gli imponevano, era nato il motivo della ribellione e dell'ostilità. Fu un odio feroce con terribili esplosioni. Essi sentivano la reciproca repulsione che li torturava, e pensavano che avrebbero vissuto un'esistenza tranquilla se avessero potuto stare l'uno lontano dall'altro, quando si trovavano di fronte si sentivano soffocare, sotto un peso enorme di cui avrebbero voluto liberarsi. Serravano le labbra, nei loro occhi chiari lampeggiavano feroci propositi di violenza, avrebbero voluto sbranarsi a vicenda. Un unico sentimento li rodeva, imprecavano contro il delitto che gli aveva sconvolto l'esistenza, e da ciò traevano motivo per guardarsi in cagnesco ed odiarsi. Sentivano che il male era inguaribile, che avrebbero sofferto fino alla morte, per l'assassinio di Camillo, e il pensiero dell'eternità delle sofferenze li esasperava; non sapendo con chi sfogarsi se la prendevano con sé stessi, e si detestavano. Non volevano riconoscere apertamente che il loro matrimonio era il fatale castigo del delitto, non volevano ascoltare quella voce interna della verità che raccontava a tutti e due la storia della loro stessa vita, ma negli accessi di collera sapevano leggersi nell'animo l'origine di quell'ira e il furore del loro egoismo, che prima li aveva spinti al delitto per saziarsi e poi non trovava soddisfazione in quella vita desolata e Intollerabile. Ricollegandosi al ato, s'accorgevano che le loro speranze di godimento e di serena felicità, una volta dimostratesi false, erano quello che oggi causava il loro rimorso; se avessero potuto riabbracciarsi senza turbamento, e vivere serenamente, non avrebbero pianto Camillo, si sarebbero pasciuti e ingrassati del loro debito. Però, i loro corpi s'erano ribellati,
non avevano voluto riconoscere il matrimonio, ed entrambi si domandavano con terrore fin dove sarebbero stati spinti dal disgusto e dallo spavento reciproci. Prevedevano giorni assai tristi e terribili, una conclusione tragica e violenta. E, come due nemici legati insieme, che fero sforzi inutili per evitare quell'abbraccio forzato, tendevano muscoli e nervi e s'irrigidivano senza riuscire a liberarsi. Poi, rendendosi conto che non sarebbero mai più sfuggiti alla stretta, insofferenti delle corde che gli segavano le carni, esasperati dal loro ripugnante contatto, sentendo di ora in ora crescere il malessere, dimenticando che essi stessi s'erano legati e non potendo sopportare più neanche un'ora quel legame, si scambiavano sanguinosi rimproveri, tentavano di alleviare le loro sofferenze, di medicare le piaghe che essi stessi si aprivano, stordendosi con grida e con accuse. Ogni sera scoppiava una lite. Si sarebbe detto che gli assassini cercassero a ogni costo pretesti per esasperarsi, per dare sfogo ai loro nervi eccitati. Si spiavano, si scrutavano, frugavano nelle ferite, mettevano a nudo ogni piaga, come se godessero a farsi male, a gridare di dolore, e vivevano così in continua irritazione, stanchi di se stessi, incapaci di sopportare una parola, un gesto, uno sguardo senza soffrire e dare in escandescenze. Tutto il loro essere era spinto alla violenza: la minima impazienza, la più piccola contrarietà s'ingrandivano in modo anormale nei loro sconvolti organismi e di colpo si gonfiavano di brutalità; bastava un nonnulla per scatenare una tempesta che durava fino al giorno seguente. Una pietanza troppo calda, una finestra aperta, una distrazione, una smentita, una semplice osservazione erano sufficienti a provocare vere crisi di follia, e ogni volta che litigavano si gettavano in faccia l'annegato: di parola in parola, avano a rimproverarsi l'annegamento di Saint-Ouen. Allora vedevano rosso e si eccitavano rabbiosamente. Erano scene selvagge: grida, urli, soffocamenti, botte, di una brutalità vergognosa. Di solito le scenate maturavano dopo cena. Si chiudevano nella sala da pranzo perché la gente non udisse, e là, in quella stanza umida, in quella specie di tomba rischiarata, dalla luce giallastra del lume a petrolio, potevano sbranarsi finché volevano; nel silenzio e nell'aria tranquilla del tetro ambiente, le loro urla risuonavano secchi e laceranti. Si placavano solo quando erano sfibrati ed esausti, e solo allora riuscivano a trovare qualche ora di riposo. E così anche le liti divennero per loro un bisogno, un mezzo per procurarsi il sonno stancando i nervi. Mamma Raquin li ascoltava. Era sempre là, nella sua poltrona, con le mani
pendenti sulle ginocchia, la testa eretta, il volto muto. Udiva tutto, e la sua carne morta non aveva un solo brivido, solo gli occhi si attaccavano agli assassini con una fissità aguzza; doveva essere un martirio atroce il suo. Giorno per giorno, parola per parola, conobbe quindi tutti i particolari i fatti che avevano preceduto e seguito l'omicidio di Camillo, penetrò le indecenze di quelli che lei aveva chiamato “i miei cari figlioli”. Le liti degli sposi la misero al corrente di tutto, le esposero davanti la mente terrificata i particolari dell'orribile avventura, e pian piano che si addentrava in quel fango insanguinato, ella chiedeva pietà, credeva di aver conosciuto interamente quell'infamia, e invece c'era sempre qualcosa di nuovo, ogni sera apprendeva un nuovo particolare, e il terribile racconto si allungava sempre, dandole l'impressione di essersi smarrita in un pauroso sogno che non aveva mai fine. La prima rivelazione era stata improvvisa, brutale, straziante, me le povera vecchia soffrì maggiormente per quei colpi a ripetizione, per quei piccoli episodi che i due si lasciavano sfuggire nel trasporto dell'ira e che illuminavano il delitto di altri bagliori. Una volta al giorno, quella madre era costretta ad ascoltare il racconto dell'assassinio del figlio, ed ogni giorno il racconto si faceva più spaventoso, più preciso, e le veniva gridato all'orecchio con maggior impeto e crudeltà. Talvolta, di fronte a quella maschera bianca, sulla quale colavano silenziosamente grosse lacrime, Teresa era presa da rimorso, e indicando la zia a Lorenzo, lo scongiurava con lo sguardo di tacere: - Che m'importa! — rispondeva egli con veemenza. Sai bene che non può denunciarci1... E poi, credi che io sia più felice di lei? Abbiamo il suo danaro, non c'è ragione di preoccuparsi. E la lite continuava, aspra, clamorosa, violenta, uccidendo un'altra volta Camillo. Nessuno dei due osava cedere a un sentimento di pietà, che talvolta li sfiorava, suggerendogli di chiudere la paralitica nella sua camera quando litigavano, e di evitarle la rievocazione del delitto: temevano che si sarebbero scannati, se non avessero avuto fra loro quell'essere più morto che vivo. La pietà cedeva il o alla vigliaccheria e così imponevano a mamma Raquin sofferenze indescrivibili, perché avevano bisogno della sua presenza per proteggersi dalle allucinazioni. Le liti si rassomigliavano tutte, arrivavano tutte alle solite accuse. Appena il nome di Camillo veniva pronunciato, appena uno di loro aveva accusato l'altro di averlo ucciso, una crisi spaventosa si produceva.
Una sera, mentre cenavano, Lorenzo, che cercava il pretesto per scattare, trovò che l'acqua messa a tavola era tiepida, disse che l'acqua tiepida lo stomacava e che la voleva fresca. — Non ho potuto procurarmi il ghiaccio, — rispose seccamente Teresa. - E allora io non ne bevo, — replicò Lorenzo. - Ma è buonissima quest'acqua. - È calda e ha un sapore di fango. Sembra acqua di fiume. - Acqua di fiume? — ripeté Teresa, e dopo un istante scoppiò in singhiozzi. Una sovrapposizione d'idee era avvenuta nel suo cervello. - Perché piangi? — chiese Lorenzo che prevedeva la risposta e già impallidiva. - Piango... — disse singhiozzando la moglie, — piango perché... lo sai bene perché. Oh mio Dio, mio Dio!... Ma sei stato tu che l'hai ucciso! - Bugiarda! — gridò l'assassino con impeto. — Confessa che sta mentendo... Sì, io l'ho gettato nella Senna, ma sei stata tu a spingermi al delitto! — Io? Io? — Sì, tu! Non fare la smemorata, non obbligarmi a farti dire la verità con la forza... Devi confessarlo il tuo delitto... devi prendertela la tua parte di responsabilità. È l'unico mio sollievo, mi dà un po' di pace. — Ma non sono stata io ad affogare Camillo. — Sì, mille volte sì, sei stata tu!... Oh, è proprio inutile che ti finga stupita e smemorata. Faccio presto a risvegliarti la memoria! Si alzò da tavola, si chinò verso la moglie e, tutto infiammato in volto, le gridò in faccia: - Tu eri ancora a riva, ricordi? E io ti dissi sottovoce: - Ora lo getto nel fiume -, e tu accettasti e saltasti nel canotto. Quindi, insieme a me, sei stata anche tu a ucciderlo. - Non è vero, non è vero! Ero impazzita allora, e non so più cosa feci, ma è certo che non ho avuto mai l'intenzione di ucciderlo. Sei stato tu, solo tu hai commesso l'omicidio. Quei dinieghi torturavano Lorenzo; egli aveva bisogno di un complice, come egli stesso diceva; l'idea di avere un complice lo sollevava; poco mancò che tentasse di dimostrare a se stesso che tutto l'orrore del delitto ricadesse su Teresa; e a volte gli veniva voglia di picchiare la moglie per farle confessare che la più colpevole era lei.
Si mise a camminare in lungo e in largo per la stanza gridando, delirando, sempre seguito dallo sguardo implacabile di mamma Raquin. - Che miserabile! Che miserabile! - balbettava con voce strozzata. - Mi vuol far impazzire...- Ma dimmi, una sera non fosti tu a venire nella mia camera come una prostituta, ad ubriacarmi di carezze per convincermi ad uccidere tuo marito? - Quando mi ricevevi, proprio qui, mi dicevi che eri disgustata da lui, che puzzava di ragazzo malaticcio...Chi le pensava, tre anni fa, queste cose? Ero forse un criminale, io? Vivevo tranquillamente da persona onesta, senza far male a nessuno: non sarei stato capace di schiacciare una mosca, allora... - Tu l'hai ucciso Camillo, tu! - incalzava Teresa con un'ostinazione disperata che faceva perdere la testa a Lorenzo. - No, sei stata tu, ti dico che sei stata tu! - riprese lui con uno scatto furioso-,о Bada a non esasperarmi, perché potrebbe finir male... Ma come, disgraziata che sei, non ricordi più nulla? Mi apristi le braccia come una donna da marciapiede, là, nella camera di tuo marito, mi facesti conoscere piaceri che mi sconvolsero... Confessalo che era tutto un calcolo, che tu odiavi Camillo, che chi sa da quanto tempo ti proponevi di ucciderlo. E' chiaro che mi prendesti per amante proprio per mettermi contro di lui, per distruggerlo. — Non è vero! È mostruoso quello che dici... Tu non hai il diritto di rinfacciarmi la mia debolezza. Anch'io posso dire, come te, che prima di conoscerti ero una donna onesta e non avevo fatto male a nessuno. Se io t'ho fatto diventare pazzo, tu m'hai fatta diventare più pazza di te. Lasciamo andare, tu mi capisci... Avrei troppe cose da rimproverarti. — Che avresti da rimproverarmi? Parla! — Oh, niente... Tu non m'hai salvata dalle crisi che mi prendevano, hai profittato della mia debolezza, e ti sei divertito a rovinare la mia vita... Te lo perdono. Ma, per carità, non accusarmi d'aver ucciso Camillo, tienilo per te il tuo delitto e non cercare di spaventarmi ancora. Lorenzo alzò una mano per assestare uno schiaffo alla moglie. — Picchiami, picchiami! — aggiunse Teresa. — Lo preferisco. Soffrirò meno! Protese la guancia, ma egli si trattenne, prese una sedia e andò a sedersi accanto
a lei. — Ascoltami, — le disse, sforzandosi di dare un tono calmo alla voce. — Ti dimostri vigliacca, se rifiuti la tua parte di colpa. Sai bene che insieme abbiamo fatto tutto, sai che tu sei colpevole esattamente come me; perché vuoi aggravare la mia colpa dicendo che sei innocente? Se fossi stata veramente innocente, non m'avresti sposato: ricordati dei due anni che sono ati dopo il delitto. Vogliamo fare una prova? Vado a raccontate tutto al procuratore e vedrai se non saremo condanna ti tutti e due. Insieme rabbrividirono. - Può darsi che gli uomini mi condannerebbero, — riprese Teresa, — ma Camillo sa bene chi ha fatto tutto... La notte non mi tormenta come con te! - A me mi lascia in pace, - disse Lorenzo pallido e tremante. — Sei tu che lo vedi negli incubi! T'ho udito gridare tante volte. - Non dire questo! — esclamò la moglie con un gesto di collera. — Io non ho mai grido, io non voglio che lo spettro venga... Adesso capisco: tu cerchi di allontanarlo da te, ma io sono innocente, sono innocente! Si guardarono terrorizzati, esausti, col timore d'aver evocato il cadavere dell'annegato. E le loro liti finivano sempre così; si proclamavano entrambi innocenti, cercavano d'ingannare se stessi per scansarsi dai brutti sogni; tentavano di togliersi le responsabilità del delitto, di difenderei, come fossero davanti a un tribunale, scaricandosi reciprocamente della parte più grave del delitto. La cosa più strana era che non riuscivano a confondersi con i loro giuramenti, perché entrambi ricordavano perfettamente ogni circostanza, e mentre si smentivano con la bocca, negli occhi si leggeva la piena confessione. Menzogne puerili, affermazioni ridicole correvano nelle battaglie di parole fra quei due miserabili, che mentivano per mentire e senza potersi nascondere che mentivano. Si assumevano a turno la parte di accusatore, e benché sapessero che non sarebbero mai giunti ad una conclusione, ogni sera ricominciavano il processo con crudele accanimento: sapevano che non sarebbero riusciti a provare nulla, che non avrebbero mai potuto cancellare il ato, e tuttavia ritentavano, tornavano sempre alla carica, punzecchiati dalla sofferenza e dal terrore, vinti in anticipo dalla schiacciante realtà. Dai loro litigi traevano un solo beneficio: quella tempesta di parole e di urla riusciva a stordirli. E finché duravano i loro accessi di collera, finché si accusavano a vicenda, la
paralitica non li abbandonava con lo sguardo, una gioia viva le brillava negli occhi quando Lorenzo alzava la larga mano sulla testa di Teresa, pronto a colpirla.
XXVIII
Una nuova fase maturò: spinta all'esasperazione dalla paura e non sapendo dove trovare un pensiero consolatore, Teresa cominciò a piangere Camillo ad alta voce in presenza di Lorenzo. E si produsse in lei un repentino accasciamento: per la troppa tensione i nervi non la sorressero più, il suo temperamento duro e violento trovò un motivo di distensione. Già nei primi giorni dopo il matrimonio aveva manifestato qualche intenerimento, che poi prese consistenza nei successivi ritorni, quando la sua reazione nervosa lo rese necessario e fatale. Per parecchi mesi aveva lottalo con tutte le energie contro lo spettro di Camillo, serrando in se stessa tutto il tormento che provava; ma quando volle ribellarsi alle sofferenze e guarirle con la sola volontà, ne rimase così sfibrata e stanca, che crollò di colpo. Tornata allora a essere donna, bambina, anzi, non ebbe più la forza d'irrigidirsi, di mostrarsi imibile mentre intimamente era agitata da incubi, e cercò sollievo nella comione, nelle lacrime, nei rimpianti. Tentò, insomma, di trarre profitto dalla stessa sua debolezza fisica e mentale: lo spettro dell'annegato, che non aveva preso in considerazione la sua collera, avrebbe potuto cedere di fronte al pianto. Fece un calcolo, quindi, anche sul rimorso, ritenendolo il miglior mezzo per placare e soddisfare Camillo. Come alcune bigotte, che credono d'ingannare Dio pregando con le labbra e atteggiandosi a penitenti per guadagnarsi un perdono, così Teresa s'umiliò, si batté il petto, trovò parole di pentimento, avendo in fondo al cuore soltanto paura e viltà. D'altronde provava una specie di godimento fisico a deprimersi, a distruggersi, ad abbandonarsi al dolore, senza resistergli. Finì con l'opprimere anche mamma Raquin con la sua lacrimosa disperazione. La paralitica le serviva giornalmente come un altarino, davanti al quale poteva confessare le colpe e chiedere perdono senza alcun timore. Appena si sentiva prendere dal bisogno di piangere, di distrarsi singhiozzando, s'inginocchiava davanti alla povera vecchia e gridava e rantolava, recitando per se stessa una scena di dolore e di rimorsi che, sfiancandola, le dava sollievo. — Sono una miserabile! — balbettava. Non merito nessun perdono. Ti ho ingannata, zia, ho spinto tuo figlio alla morte. Lo so che non potrai mai perdonarmi, ma se leggi nei miei occhi il rimorso che mi strazia, se ti rendi conto delle mie sofferenze, potrai forse aver pietà di me... Ma no che pietà! Vorrei
morire cosi, ai tuoi piedi, schiacciata dal dolore e dalla vergogna. Parlava a quel modo per ore intere, ando dalla disperazione alla speranza, condannandosi e perdonandosi, assumendo toni da bambinelli malata, ora imperiosi ed ora remissivi; si raggomitolava sul pavimento e si raddrizzava con impeto, obbedendo a tutti i pensieri di umiltà e di fierezza, di pentimento e di ribellione, che le mulinavano nel cervello. Talvolta dimenticava perfino di trovarsi inginocchiata davanti a mamma Raquin, e continuava il suo monologo come in sogno, e quando si era stordita con le sue stesse parole, si rialzava barcollando, mezzo frastornata, e se ne scendeva in bottega, placata, non temendo più di scoppiare in singhiozzi nervosi alla presenza delle clienti. Quando si sentiva nuovamente presa dal bisogno di pentirsi, risaliva in fretta la scala, si buttava ai piedi della paralitica e ricominciava la scena. Anche dieci volte al giorno. Teresa non pensava mai che le sue lacrime e i suoi pentimenti potessero imporre alla zia un dolore indicibile. Se qualcuno avesse voluto escogitare una tortura per mamma Raquin, non avrebbe potuto sceglierne, a colpo sicuro, una più terribile di quella commedia del rimorso recitata dalla nipote. La povera vecchia intuiva tutto l'egoismo che si nascondeva in quelle scene di disperazione, e soffriva terribilmente per gli interminabili monologhi che era costretta ad ascoltare in ogni momento e che sempre le ripresentavano l'assassinio di Camillo. Non poteva perdonare, si era chiusa in un'implacabile idea di vendetta resa più acuta dalla sua impotenza, ed ogni giorno era costretta ad ascoltare implorazioni di perdono e preghiere umili e vili. Avrebbe voluto rispondere, certe frasi della nipote le facevano salire alla gola determinati rifiuti, ma doveva restarsene muta e lasciare che Teresa perorasse la sua causa senza mai poterla interrompere; impossibilitata a parlare o chiudersi le orecchie, soffriva tormenti inesprimibili: le parole della nipote le penetravano l'animo a una ad una, lamentevoli come una cantilena ossessionante. Pensò perfino che, per una loro diabolica e crudele macchinazione, gli assassini le infliggessero quel supplizio con premeditazione, e non trovò altro mezzo di difesa che chiudere gli occhi ogni volta che la nipote le si gettava ai piedi, cosi l'udiva, ma non la vedeva. Teresa arrivò fino all'ardire di abbracciare la zia. Un giorno, nel corso di uno dei soliti sfoghi, finse d'aver scorto negli occhi della vecchia un'espressione di misericordia, e trascinandosi sulla ginocchia si sollevò gridando come impazzita! « Oh, tu mi perdoni, mi perdoni! " e baciò sulla fronte e sulle guance la zia, che non poteva ritrarsi. Posando le labbra su quella fronte gelida Teresa provò un
violento disgusto, ma pensò che anche quella nausea, come il pianto e il rimorso, era un ottimo mezzo per calmarsi i nervi, e ogni giorno abbraccio la paralitica con intenzione di penitenza e con il proposito di trovar sollievo. — Quanto sei buona! — esclamava talvolta, — vedo che le mie lacrime ti commuovono, che i tuoi sguardi sono pieni di pietà... Sono salva! La soffocava di carezze: le poggiava la testa sulle ginocchia, le baciava le mani, le sorrideva di contentezza, la faceva segno di apionate cure, e dopo qualche tempo prese ella stessa sul serio quella commedia, convincendosi di aver ottenuto il perdono da mamma Raquin, e da allora non le parlò d'altro che della gioia scaturita dal perdono. Era troppo per quella disgraziata, la quale per poco non ne morì. Quando la nipote la baciava, provava la stessa sensazione di rabbia e di dispetto di cui si sentiva presa, mattina e sera, nel momento in cui Lorenzo la sollevava fra le sue braccia per toglierla dal letto e coricarla. Era obbligata a subire le immonde carezze della miserabile che aveva tradito e ucciso suo figlio, e non poteva nemmeno asciugarsi sulle guance, con la mano, i baci che quella vi imprimeva. Per ore e ore sentiva il bruciore di quei baci. A poco a poco divenne una specie di pupattola degli assassini di Camillo, una pupattola che essi vestivano, giravano a destra e a sinistra, e di cui si servivano secondo il bisogno e i capricci loro. Restava inerte; fra le loro mani, come un fantoccio impagliato, e invece aveva in seno ancora tanta vitalità, e le viscere le si ribellavano straziate al minimo contatto con Teresa o con Lorenzo. L'esasperava, soprattutto, l'atroce beffa della nipote, la quale pretendeva di leggerle negli occhi pensieri di perdono, quando ella, invece, coi suoi sguardi avrebbe voluto fulminare la criminale. Spesso tentò sforzi sovrumani per lanciare un urlo di protesta, e sempre concentrava negli occhi tutto il suo odio; ma Teresa, che aveva un tornaconto a ripetersi venti volte al giorno d'aver ottenuto il perdono della zia, raddoppiava le carezze, rifiutandosi di accettare la verità. La paralitica dovette, così, ricevere ringraziamenti ed effusioni che il suo animo respingeva, e visse da allora in una continua agitazione, tanto più amara quanto più impotente, di fronte alla nipote che si sentiva soddisfatta e che voleva ricompensarla con amorevole tenerezza, di ciò che ella stessa definiva una bontà celeste. Lorenzo, quando era in casa e vedeva la moglie inginocchiarsi ai piedi della zia,
la richiamava brutalmente alla realtà: - Non fare la commediante! - le diceva – Piango, io? M'inginocchio, forse? Tu fai tutto questo per turbarmi. II rimorso di Teresa, infatti, lo angustiava stranamente. Soffriva molto di più da quando la complici gli ronzava intorno con gli occhi arrossati di pianto e le labbra supplichevoli: quell'incarnazione viva del pentimento gli raddoppiava il terrore, aumentava il suo malessere. Gli pareva come un rimprovero eterno che camminasse per la casa, e poi temeva che un giorno o l'altro la moglie fosse spinta dal pentimento a confessare pubblicamente ogni cosa. Avrebbe preferito ch'ella fosse rimasta rigida e minacciosa come prima, a difendersi con asprezza dalle sue accuse, ma la moglie aveva cambiato tattica, non respingeva la sua parte di responsabilità nel crimine, s'accusava ella stessa, ci mostrava remissiva e timorosa e nella remissione trovava il punto di partenza per implorare la redenzione con ardente umiltà. Tutto ciò irritava Lorenzo e ogni sera le loro liti diventavano più opprimenti e tragiche: — Ascoltami, - diceva Teresa al marito – Noi abbiamo gravi colpe sulla coscienza e dobbiamo pentirci se vogliamo un po' di tranquillità. Vedi, io da quando ho iniziato a piangere mi sento più calma. Fa come me. Ammettiamo entrambi che siamo puniti per aver commesso un orribile delitto - . Va là, — rispondevi brusco Lorenzo - Conosco bene la tua ipocrisia e la tua abilità diabolica! Piangi pure, se per te è una distrazione! ma non rompermi la testa con il tuo pianto. Sei proprio malvagio e rifiuti di pentirti! Del resto lo so che sei vile: Camillo lo prendesti a tradimento. - Con questo che vuoi dire? Che io solo sono colpevole? - No, non dico questo. Anche io sono colpevole, più colpevole di te, anzi. Avrei dovuto salvare mio marito dalle tue mani. Conosco tutto l'orrore della mia colpa, ma cerco di farmela perdonare e vi riuscirò, mentre tu continuerai a essere dannato. Tu non hai neppure la delicatezza d'evitare alla mia povera zia lo spettacolo della tua collera. Non le hai mai indirizzata una parola di pentimento. E abbracciava mamma Raquin, le girava intorno, le aggiustava il cuscino che le sosteneva la testa, si prodigava in mille accortezze, mentre la povera vecchia chiudeva gli occhi, e Lorenzo si esasperava.
— E lasciala stare! — gridava indispettito. — Non vedi che chiude gli occhi, che non sopporta la tua presenza? Non senti che ti odia? Se potesse alzare una mano ti prenderebbe a schiaffi. Le parole lente e piagnucolose della moglie, quel suo atteggiamento di rassegnazione eccitavano in Lorenzo una collera cieca e selvaggia. Egli capiva bene la tattica adottata da Teresa, capiva che lei voleva estraniarsi, non fare più causa comune, isolarsi nel pentimento per sottrarsi alle strette dell'annegato e, se pure in qualche momento pensava che la moglie avesse scelto la giusta via, che il pianto l'avrebbe guarita dagli incubi, rabbrividiva al pensiero d'essere solo a soffrire, solo ad aver paura. Avrebbe voluto pentirsi anche lui, avrebbe voluto recitare la stessa commedia della moglie, tanto per tentare, ma non sapeva trovare i singhiozzi e le parole necessarie e ricadeva nella violenza, provocando Teresa per irritarla e risospingerla alla pazzia furiosa, con lui. La moglie, invece, si sforzava a spegnere ogni reazione, a rispondere con sottomissione piagnucolosa ai suoi scatti collerici, a mostrarsi tanto più umile e pentita, quanto più egli era rude e violento. Lorenzo s'imbestialiva e Teresa per esasperarlo maggiormente concludeva sempre con un elogio sulle virtù di Camillo. - Era tanto buono, - diceva, - e fummo davvero spietati a colpire quel ragazzo d'oro, che non aveva mai avuto neanche un pensiero cattivo. - Sì, era buono, lo so, — sogghignava Lorenzo. — E con ciò, naturalmente, vuoi dire ch'era un imbecille, è così? Fai di nuovo la smemorata? Ma se proprio tu mi dicevi che bastava una sola parola sua per irritarti, che non poteva aprire la bocca senza lasciarsi sfuggire una bestialità? - Smettila di deridere! Ci mancava solo che tu insultassi la tua vittima! Come conosci male il cuore delle donne: Camillo mi amava e anch'io l'amavo. - Tu l'amavi? Oh questa proprio è bella! Ed è appunto perché amavi tuo marito che mi prendesti per amante, no? Ricordo quel giorno che, mentre ti strisciavi a me, mi dicevi che Camillo ti nauseava quando le tue dita affondavano nella sua carne come nell'argilla... Oh, so bene perché m'hai voluto, ti occorreva qualcuno un po' più vigoroso di quel povero diavolo. - L'amavo come una sorella, era il figlio della una benefattrice, e aveva tutta la delicatezza dalle persone deboli, sapeva essere nobile e generoso, servizievole e innamorato... E noi l'abbiamo ucciso, Dio mio, Dio mio! Piangeva e sbiancava. Mamma Raquin le lanciava sguardi lancinanti, indignata di udire le lodi di Camillo da una bocca simile. Lorenzo, impotente contro quel diluvio di lacrime,
eggiava nervosamente per la stanza cercando qualche mezzo supremo per soffocare il pentimento della moglie. Tutto il bene che udiva dire della vittima non faceva che acuire la sua ansia, e talvolta, trasportato dalle parole della moglie, finiva per credere veramente alle virtù di Camillo: non v'era momento più tragico per il suo terrore. Ma ciò che lo faceva uscire di senno, ciò che lo spingeva ad atti di vera violenza era il paragone che Teresa non mancava di fare fra il primo e il secondo marito, a tutto vantaggio del primo, naturalmente. — Ebbene, sì, — gridava lei, — era migliore di te! Preferirei ch'egli vivesse ancora e che fossi tu al suo posto, sotto terra. In un primo momento Lorenzo alzava le spalle. — Hai un bel dire, — continuava lei, accaldandosi. — Può anche darsi che in vita non l'abbia amato, ma ora me ne ricordo e lo amo. Sì, l'amo, e te ti odio, ecco. Tu sei un assassino... — La vuoi piantare? — urlava Lorenzo. — ...ed egli è una povera vittima, un uomo onesto ucciso da un birbante. Oh, non mi fai paura, lo sai tu stesso che sei un miserabile, un bruto senza cuore e senz'anima. Come vuoi che io t'ami se ti vedo macchiato del sangue di Camillo? Camillo aveva ogni tenerezza per me, e io ora sarei pronta a ucciderti, capisci?, se con ciò potessi far resuscitare Camillo e riprendermi il suo amore. — Vuoi tacere, miserabile? Perché dovrei tacere? lo dico la verità: comprerei il perdono pagandolo col tuo sangue. Ah, quanto soffro! È colpa mia se questo scellerato ha ucciso mio marito... Una di queste notti dovrò andare a baciare la terra sotto la quale riposa: è l'ultima gioia che mi resta. Stordito, furente per le atroci visioni che Teresa gli metteva davanti agli occhi, Lorenzo si precipitava su di lei, la gettava a terra, la teneva ferma con un ginocchio alzando il pugno per colpire. — Sì, sì, picchiami, uccidimi! — gridava lei. — Camillo non s'è mai permesso di levare una mano su di me, ma tu, tu sei un mostro. E Lorenzo, sferzato da quelle parole, la scrollava rabbiosamente, la picchiava, le
straziava il corpo a pugni chiusi. Due volte poco mancò che la strangolasse. Teresa si piegava sotto i colpi provando un'acre voluttà a farsi battere: s'abbandonava, si offriva, provocava il marito per essere percossa di più. Anche quello era un rimedio contro le sue sofferenze: la notte dormiva meglio quando si faceva bastonare. E mamma Raquin ribolliva intimamente di gioia, vedendo che Lorenzo trascinava la nipote sul pavimento e le martellava il corpo a pedate. Da quando Teresa aveva avuto la diabolica idea di pentirsi e piangere Camillo ad alta voce, la vita era divenuta insopportabile per l'assassino. Da quel momento il miserabile visse eternamente con a fianco lo spettro della vittima: in qualunque momento doveva ascoltare la moglie che lodava e rimpiangeva il primo marito, ogni pretesto era buono: Camillo faceva questo, Camillo faceva quello, Camillo aveva la tale qualità, Camillo amava, così... Sempre Camillo, sempre frasi accorate che piangevano la morte di Camillo. Teresa impiegava tutta la sua cattiveria per rendere più crudele la tortura che infliggeva al marito a salvaguardia di se stessa. Arrivò ai più intimi particolari, rievocò tante sciocchezze della sua giovinezza con sospiri di rimpianto, per poter agganciare il ricordo dell'annegato a qualunque atto della sua vita quotidiana. Il cadavere, che già ossessionava la casa, vi fu così introdotto apertamente; sedette sulle seggiole, si mise a tavola, si distese sul letto, si servì dei mobili e degli oggetti abituali. Lorenzo non poteva toccare una forchetta, una spazzola, una cosa qualunque, senza che Teresa gli fe sentire che Camillo aveva toccato quella cosa prima di lui. Spinto incessantemente contro l'uomo che aveva ucciso, l'assassino finì col provare una sensazione allucinante, che per poco non lo fece impazzire a forza di essere paragonato a Camillo, di servirli dogli oggetti di cui Camillo s'era servito, immaginò ch'egli fosse Camillo, che egli s'identificasse con la vittima. Sentiva che il cervello gli scoppiava, e allora si lanciava contro la moglie per farla tacere, per non udire più le parole che lo spingevano al delirio. Tutte le loro liti si concludevano a bastonate.
XXIX
Arrivò un giorno in cui mamma Raquin per fuggire alle sofferenze che le infliggevano, pensò di lasciarsi morire di fame. La sua sopportazione era arrivata al limite estremo, non aveva più il coraggio di resistere al supplizio che le derivava dalla presenza dei due assassini, e cercò nella morte il sollievo supremo. Le sue angosce si facevano di giorno in giorno più vive, quando Teresa la baciava, quando Lorenzo la sollevava come una Bambola, e così decise di sottrarsi a quelle carezze e a quelle strette che le procuravano una nausea orrenda. Dato che non aveva sufficiente vitalità per vendicare il figlio, meglio la morte, meglio lasciare nelle mani degli assassini un cadavere insensibile, e che ne fero pure quel che volevano. Per due giorni rifiutò qualsiasi cibo, concentrando le ultime forze nel tenere i denti stretti e rigettare ciò che riuscivano a ficcarle in bocca. Teresa era al colmo della disperazione e si domandava ai pedi di quali pilastro sarebbe andata a piangere e a disperarsi di pentimento quando le sarebbe mancata la zia. Le tenne, perciò, interminabili discorsi per dimostrarle che doveva vivere; pianse, si arrabbiò finanche, ritrovando la collera d'un tempo nel forzare le mascelle della paralitica come si farebbe per aprire quelle di un animale che opponga resistenze. Mamma Raquin teneva duro: era una lotta ripugnante. Assolutamente neutrale e indifferente, Lorenzo si meravigliava per l'accanimento della moglie nel voler impedire il suicidio della paralitica. Da che la presenza della vecchia non gli era più utile, se ne augurava la morte: non sarebbe arrivato ad ucciderla, ma poiché era lei che voleva morire, non vedeva la ragione di rifiutargliene i mezzi. — E lasciala! — diceva alla moglie. — Almeno ce ne sbarazziamo! Può darsi che saremo più tranquilli quando lei non ci sarà più. Queste parole, ripetute a più riprese in sua presenza, provocavano una strana emozione in mamma Raquin, la quale temette che le previsioni di Lorenzo si
potessero realizzare e che, morta lei, i due assassini avrebbero goduto ore calme e felici. Si convinse, allora, che sarebbe stata una viltà morire, che non aveva il diritto di andarsene senza aver prima assistito alla conclusione della tragica avventura; solo allora avrebbe potuto raggiungere il figlio nell'aldilà, per dirgli: « Sei stato vendicato ». L'idea del suicidio le divenne addirittura insopportabile quando poi di colpo pensò che avrebbe portato nella tomba il tormento dell'ignoranza: nel freddo silenzio della sepoltura sarebbe stata eternamente tormentata dalla propria incertezza circa il castigo dei suoi carnefici. Per ben dormire l'ultimo sonno, le era necessario assopirsi con la gioia della vendetta acquisita, in un sogno di odio placato, un sogno che sarebbe durato in eterno. Accettò, quindi, il cibo che la nipote le offriva e consentì di vivere ancora. Sentiva, del resto, che la conclusione della tragica vicenda non poteva essere lontana, perché ogni giorno la situazione fra i due sposi si faceva più tesa, più insostenibile; lo scoppio che doveva far saltare tutto era imminente. Ad ogni attimo, Teresa e Lorenzo si scagliavano sempre più minacciosi l'uno contro l'altra; il tormento della vita in comune non era più limitato alle sole ore notturne, avano intere giornate fra ansie e crisi strazianti; tutto diveniva per loro terrore e sofferenza. Vivevano in un inferno, si martirizzavano continuamente, imprimevano amarezze e crudeltà a tutto ciò che facevano o dicevano, per spingersi reciprocamente nella voragine che s'era spalancata ai loro piedi e precipitarvi dentro. Avevano pensato anche di separarsi, ripromettendosi, ciascuno per suo conto, di fuggire, di andare a godersi un po' di riposo, lontano da quella galleria dove umidità e sudiciume sembravano fatti apposta per una vita squallida e desolata; ma nessuno dei due osava scappare. A entrambi sembrava impossibile di non doversi dilaniare a vicenda, di non dover restare lì, a soffrire e a far soffrire: erano ormai troppo radicati nell'odio e nella crudeltà. Attrazione e repulsioni li avvicinavano e allontanavano contemporaneamente, costringendoli nella situazione di due litiganti che dopo essersi azzuffati non bramano che separarsi, e tuttavia tornano a scontrarsi da capo, per lanciarsi nuove ingiurie. V'erano, poi, anche ostacoli materiali chi li opponevano alla sospirata fuga: che avrebbero potuto farne della paralitica, e che avrebbero potuto dire agli invitati del giovedì? Pensavano che fuggendo avrebbero suscitato sospetti, e già si vedevano braccati e ghigliottinati. E per vigliaccheria restavano, trascinandosi miserabilmente in quell'orribile esistenza. Di mattina o di pomeriggio, quando Lorenzo non era in casa, Teresa vagava,
inquieta e turbata, fra bottega e sala da pranzo, non sapendo come colmare il vuoto che ogni giorno più le si scavava dentro. Quando non piangeva ai piedi di mamma Raquin o non era ingiuriata e picchiata da Lorenzo, le pareva di non aver nulla da fare: e quando era sola nella bottega, si sentiva penosamente accasciata, guardava con aria stupidita la gente che ava nella galleria sporca e buia, sprofondando in una tristezza di morte, in quell'antro cupo che puzzava di cimitero. Fu così che pregò Susanna di venire a ar da lei intere giornate, sperando che la presenza di quella povera creatura, dolce e pallida, riuscisse a calmarla. Susanna accolse la richiesta con vera gioia: serbava per Teresa una rispettosa amicizia e già da tempo desiderava d'andare a sferruzzare da lei nelle ore in cui Oliviero era in ufficio. Portò con sé il suo lavoro e andò a sedere, dietro il banco, al posto lasciato vuoto da mamma Raquin. Da quel giorno, Teresa abbandonò un poco la zia. Avendo trovata un'altra occupazione, salì meno spesso a piangerle sulle ginocchia, a baciarle la faccia morta: si sforzava a mettere interesse nell'ascoltare il lento chiacchierio di Susanna, che le parlava della sua casa e delle futilità della sua monotona vita. Le parole di Susanna riuscivano a distrarla dai suoi pensieri, e talvolta ella restava sorpresa d'essersi interessata ad autentiche sciocchezze, e ne sorrideva, dopo, con amarezza. Un po' alla volta perdé tutta la clientela della merceria. Da quando la zia era rimasta su, immobilizzata nella poltrona, Teresa aveva lasciato marcire il magazzino, abbandonando le merci alla polvere e all'umidità. Si sentiva dappertutto odor di muffa, dal soffitto penzolavano le ragnatele, il pavimento non veniva quasi mai spazzato; ma ciò che mise in fuga le clienti fu più d'ogni altra cosa lo strano modo di Teresa nel trattarle. Quando stava di sopra a farsi battere da Lorenzo o in preda a una crisi di terrore, e la soneria dell'uscio tintinnava imperiosamente, doveva scendere a precipizio, senza avere il tempo di riannodarsi i capelli o asciugarsi le lacrime, e allora serviva sgarbatamente la cliente ch'era in attesa, quando addirittura non si risparmiava il fastidio di scendere gridando dall'alto della scala che della tal cosa non ne aveva più in bottega. Quei modi poco invitanti non erano certamente fatti per trattenere la clientela; sicché le ragazzine del quartiere, abituate all'amabile cortesia di mamma Raquin, si ritirarono di fronte alla rudezza e agli sguardi da matta di Teresa. Quando poi si aggiunse la presenza di Susanna, la defezione fu completa. Le due donne, per non essere disturbate nel meglio della conversazione, agirono in modo da dare il congedo anche alle ultime compratrici che ancora si presentavano. Da allora la bottega non dette più un soldo di utile, e fu necessario
intaccare il capitale per pagare le spese di casa. Alle volle Teresa restava fuori casa tutto il pomeriggio, e nessuno sapeva dove andasse. Evidentemente aveva sollecitata la presenza di Susanna non solo per aver compagnia ma anche per potersi allontanare lasciando lei a guardia della bottega. La sera, quando tornava, spossata, con gli occhi cerchiati dalla stanchezza, ritrovava dietro il banco la piccola moglie di Oliviero, curva, sorridente, nella stessa posizione di quando l'aveva lasciata cinque ore prima. Dopo circa cinque mesi dal matrimonio, Teresa si allarmò: le venne la certezza d'essere gravida. L'idea di avere un figlio da Lorenzo le pareva mostruosa, senza sapersene spiegare il perché. Aveva una vaga paura di mettere alla luce un annegato. Le sembrava di sentire nelle viscere il freddo di un cadavere molle e in decomposizione. A ogni costo volle sbarazzarsi di quella creatura che l'agghiacciava e che non avrebbe potuto portare avanti. Non disse nulla al marito, ma un giorno, dopo averlo atrocemente provocato, quando lui alzò un piede per colpirla, mise a tiro il ventre e si lasciò percuotere fin quasi a morirne. Il giorno seguenti abortì. Da parte sua, Lorenzo conduceva una vita tremenda. Le giornate gli sembravano interminabili, portando tutte le medesime angosce, il peso della medesima noia, che l'accasciava a ore fisse con monotonia e regolarità esasperanti. Si trascinava cosi, ogni sera spaventato dal ricordo della giornata trascorsa e dall'attesa di quella che sarebbe venuta l'indomani. Sapeva che, ormai, tutti i suoi giorni si sarebbero rassomigliati, che tutti gli avrebbero apportata la stessa sofferenza e vedeva le settimane, i mesi, gli anni che lo attendevano, arrivare in fila, cupi e implacabili, precipitare su di lui, soffocarlo a poco a poco. Quando l'avvenire è senza speranze, il presente acquista maggiore amarezza. Lorenzo non sapeva più ribellarsi, si stancava, si abbandonava al nulla da cui già si sentiva afferrato. L'ozio l'uccideva. Fin dal mattino usciva di casa senza sapere dove andare, nauseato all'idea di dover fare quello che aveva fatto il giorno precedente, e tuttavia obbligato a farlo ugualmente. Andava nel suo studio per abitudine, per una specie di mania, e in quella stanza dalle pareti grige, dalla quale non si vedeva che un quadrato di cielo deserto, si sentiva preso da una tristezza cupa. Si stiracchiava sul divano, con le braccia cadenti, la mente appesantita, e non osava toccare i pennelli. Aveva fatto nuovi tentativi, ma ogni volta la faccia di Camillo era venuta a sogghignare sulla tela; e per non impazzire aveva gettato in un angolo la scatola di colori, imponendosi un ozio assoluto. Ma anche
quell'ozio forzato gli pesava enormemente. Dopo pranzo si riproponeva con angoscia il problema del come impiegare il tempo, non sapendo che cosa fare. Indugiava per una m 'ora sul marciapiedi di via Mazzarino, consultando se stesso, incerto sulle distrazioni che si poteva consentire e, alla fine, respingendo l'idea di andarsene nello studio, decideva invariabilmente di scendere per via Guónégaud e eggiare lungo il fiume. E fino alla sera andava avanti senza meta, con l'aria da stupido, rabbrividendo ogni volta che guardava la Senna. Si trovasse nello studio о per la strada, l'accasciamento era sempre uguale. E il giorno seguente ricominciava da capo: mattinata, sul divano dello studio, pomeriggio, eggiata. Durava da mesi e poteva anche continuare per anni. Qualche volta, ripensando che aveva ucciso Camillo per vivere in ozio, si meravigliava che, raggiunto lo scopo, soffrisse a non far nulla, e avrebbe voluto sforzarsi a godere del suo stato. Tentava di convincersi che la sua pena non aveva giustificazione, che aveva raggiunta la suprema felicità potendo incrociare le braccia, e che si comportava da imbecille se non sapeva gustare quella felicità; tutti ragionamenti che però cadevano di fronte alla realtà. Intimamente era costretto a confessarsi che l'ozio gli aggravava l'angoscia, lasciandogli libere tutte le ore per pensare alla sua disperazione e approfondirne l'incurabile asprezza. La poltroneria, quella bestiale esistenza ch'egli aveva sognata, era in fondo il suo castigo. Arrivò a desiderare, a volte, un'occupazione che potesse distrarlo dai suoi pensieri, ma poi si lasciava andare, ricadendo sotto il peso della malvagia fatalità che gli legava le braccia per schiacciarlo con più sicurezza. In effetti, egli trovava sollievo soltanto la sera, quando bastonava Teresa, perché allora riusciva a liberarsi dal suo dolore intorpidito. La sofferenza fisica e morale più acuta gli veniva, però, dalla morsicatura che Camillo gli aveva lasciata sul collo. In certi momenti gli pareva che quella cicatrice gli si stendesse su tutto il corpo. Se per caso dimenticava un istante il ato, una puntura ardente, ch'egli credeva di sentire, ricordava il delitto alla sua carne e alla sua mente. Non poteva mettersi davanti a uno specchio senza veder ripetere quel fenomeno che aveva spesso rilevato e che sempre lo spaventava: sotto l'emozione che lo prendeva, il sangue gli saliva al collo e imporporava la cicatrice, che cominciava a prudergli sotto pelle. Quella specie di ferita, che a lui sembrava sempre viva, si risvegliava, si arrossava, lo pungeva al minimo turbamento, spaventandolo e torturandolo. Aveva l'impressione che i
denti dell'annegato vi avessero ficcato dentro una bestia divoratrice, che quel pezzo di collo portante la cicatrice non appartenesse più al suo corpo, che a quel posto gli avessero appiccicato un pezzo di carne avvelenata che gli imputridiva i muscoli. Portava in tal modo con sé, dappertutto, il ricordo vivente e divorante del suo delitto. Teresa, quand'egli la picchiava, cercai di graffiarlo proprio in quel punto; riusciva qualche volta ad affondarvi le unghie, facendolo urlare di dolore. Di solito ella fingeva di singhiozzare appena vedeva la morsicatura, per rendergliela più insopportabile: si vendicava della brutalità di Lorenzo martirizzandolo a proposito della cicatrice. Più volte, radendosi la barba, aveva tentato di intaccarsi il collo per far sparire le impronte dei denti di Camillo: dinanzi allo specchio, quando alzava il mento e scorgeva la chiazza rossa fra la schiuma bianca del sapone, era preso da improvvisa collera, e inclinava il rasoio, come per tagliare in pieno; ma il freddo della lama sulla pelle lo richiamava in sé ogni volta, si sentiva venir meno, era costretto a sedersi e ad attendere che asse quel momento di vigliaccheria per poter continuare a radersi. Ogni sera usciva dal suo intorpidimento soltanto per dare sfogo ai suoi accessi d'ira ciechi e meschini. Quando era stanco di litigare con Teresa e di bastonarla, dava, come fanno i bambini, calci contro il muro, o cercava qualche cosa da rompere: era un modo per trovare sollievo. Contro sco, il gatto, concentrava un odio particolare: non l'aveva ancora ucciso perché non osava toccarlo. Appena egli rincasava, la bestiola andava a rifugiarsi sulle ginocchia di mamma Raquin e lo guardava con i grandi occhi rotondi, che assumevano una fissità diabolica. Erano quegli occhi sempre spalancati su di lui, che esasperavano Lorenzo. Si domandava cosa volessero da lui quegli occhi che non lo la sciavano mai, e si procacciava nuove ansie immaginando le cose più assurde. In qualunque momento, fosse a tavola, o durante una lite con Teresa, o in una lunga pausa di silenzio, gli capitasse di girare la testa e incontrare lo sguardo del gatto che l'esaminava con implacabile insistenza, impallidiva, perdeva la testa, avrebbe voluto gridare: « Ebbene, parla! Dimmi che vuoi da me ». Quando poteva calpestargli una zampa o la coda lo faceva con gioia spaventevole, ma il miagolio della povera bestia gli infondeva uno strano terrore, come se avesse udito il grido di dolore d'una persona. Insomma, aveva paura di
sco. Da quando il gatto, soprattutto, aveva trovato rifugio sulle ginocchia della paralitica, come in una fortezza inespugnabile dalla quale potesse impunemente puntare gli occhi verdi sul nemico, l'assassino aveva trovata una strana rassomiglianza fra quella bestia irritata e la paralitica, pensando che, al pari di mamma Raquin, il gatto conosceva il suo delitto e lo avrebbe denunciato, se mai avesse potuto parlare. Una sera sco lo guardava con tanta insistenza che Lorenzo, al colmo dell'esasperazione, decise di farla finita una buona volta. Spalancò la finestra della sala da pranzo e afferrò il gatto per la collottola. Mamma Raquin comprese e due grosse lacrime le rigarono le gote. La povera bestia grugnì, tentò di irrigidirsi, si dibatté cercando di girarsi per mordere la mano di Lorenzo, ma l'assassino tenne duro, gli fece fare due o tre giri e lo lanciò con tutta la forza del braccio contro il nero muraglione di fronte. sco vi si schiacciò e con le reni rotte ricadde sulla vetrata della galleria. Per tutta la notte la povera bestia si trascinò lungo la grondaia con la schiena spezzata emettendo un roco miagolio. Per tutta la notte mamma Raquin pianse sco quasi come aveva pianto Camillo, e Teresa ebbe una tremenda crisi nervosa. I lamenti del gatto erano lugubri, nell'ombra, sotto le finestre. I tormenti di Lorenzo non finirono. Ben presto egli cominciò a sospettare di certi cambiamenti che aveva notato nel comportamento della moglie Teresa era diventata cupa e taciturna; aveva smesso di aggredire mamma Raquin con le sue effusioni di pentimento e i suoi baci di riconoscenza. Aveva ripreso, nei confronti della paralitica, la sua aria di fredda crudeltà e di egoistica indifferenza. Si sarebbe detto che, dopo aver provato il rimorso senza trovarne sollievo, si fosse indirizzata verso un altro rimedio. La nuova tristezza derivava, senza dubbio, dall'impossibilità di rendersi tranquilla l'esistenza. Guardava la paralitica con una specie di sdegno, come una cosa inutile che non riusciva più neanche a consolarla, e le dedicò le cure strettamente necessarie per non farla morire di fame. Dopo quel cambiamento si trascinò per la casa, muta e accasciata, e uscì con più frequenza, perfino quattro o cinque volte per settimana. Quei mutamenti sorpresero e misero in allarme Lorenzo, il quale temette che il rimorso avesse preso nuova forma in Teresa, manifestandosi con quella triste noia ch'egli considerava più inquietante della loquace disperazione di prima. Teresa non parlava più, cercava di evitare le liti, sembrava tutta chiusa in se stessa; il marito avrebbe preferito ch'ella consumasse tutte le sue pene, piuttosto
che vederla cosi ripiegata su se stessa. Egli temeva, infatti, che soffocata dall'angoscia, Teresa, per liberarsene, un giorno o l'altro sarebbe andata a confessare tutto a un prete o ad un giudice istruttore; le frequenti assenze della moglie assunsero, quindi, ai suoi occhi, uno spaventevole significato . - Si cercherà un confidente fuori di casa – si diceva, - prepara il tradimento». Due volte cercò di seguirla ma per la strada la perdette. Si rimise in agguato. Un pensiero fisso gli ronzava nel cervello: spinta dalle sofferenze, Teresa avrebbe svelato il delitto e lui doveva, perciò, tapparle la bocca, fermarle le confessioni in gola.
XXX
Un mattino, invece di andarsela allo studio, Lorenzo si mise di parte in un'osteria all'angolo in via Guénégaud, proprio di fronte alla galleria. Dal suo posto d'osservazione poteva vedere tutte le persone che uscivano sul marciapiede di via Mazzarino. Spiava Teresa. Il giorno prima essa aveva detto che sarebbe uscita di buon'ora e che certo non sarebbe rincasata prima di sera. Lorenzo attese una buona mezz'ora. Sapeva che la moglie infilava sempre via Mazzarino, ma dopo un po' temette che gli fosse sfuggita deviando per via Senna. Ebbe l'idea di tornare nella galleria e di nascondersi nell'andito stesso della casa, ma mentre d'impazientiva vide Teresa uscire svelta dalla galleria. Indossava un abito chiaro a lungo strascico, con una civetteria che Lorenzo notò per la prima volta: si pavoneggiava provocante sul marciapiede, lanciava occhiata agli uomini e tenendo un lembo della gonna fra le mani lo alzava cosi in alto da mostrare le gambe, gli stivaletti allacciati e le calze bianche. Lorenzo la seguì mentre lei risaliva via Mazzarino. La giornata era mite, Teresa camminava lentamente, a fronte alta, i capelli fin sulle spalle. Gli uomini che l'avevano squadrata di fronte, si rigiravano per guardarla di dietro. S'avviò per via della Scuola di Medicina, e Lorenzo ne rimase terrificato: sapeva che da quelle parti v'era un commissariato di polizia, immaginò, senza più dubbi, che la moglie andasse a denunciarlo, e si ripromise di lanciarsi su di lei, di supplicarla, bastonarla, obbligarla a tacere, se veramente avesse infilato il portone del commissariato. All'angolo d'una strada Teresa guardò un vigile che ava, e Lorenzo tremò temendo ch'ella lo avvicinasse, e si nascose nel vano di una porta, per non farsi vedere, per non essere preso sul posto. Quel pedinamento fu per lui una vera agonia. Mentre sua moglie se la godeva al sole, strascinando la gonna, noncurante e sfacciata, egli la seguiva pallido e tremante, ripetendo che ormai tutto era finito per lui, che nessuno lo avrebbe potuto salvare dalla ghigliottina. Ogni o ch'egli le vedeva fare gli sembrava un o di più verso il castigo. La paura lo aveva ciecamente convinto dei suoi dubbi; ogni movimento della moglie rafforzava la sua certezza, ed egli la seguiva
ivamente, come se andasse al supplizio. Sboccando sulla vecchia piazza San Michele, Teresa si diresse con decisione verso un caffè che faceva allora angolo con via Monsignor Principe, e sedette, fra una comitiva di donne e di studenti, a un tavolo del marciapiede. Scambiò strette di mano familiarmente con tutti, e ordinò un bicchierino d'assenzio. Sembrava assai disinvolta e chiacchieravo con un giovanotto biondo, che certamente stava lì ad aspettarla da parecchio. Due ragazze si appoggiarono al tavolo ch'ella occupava e se ne restarono a ciarlare amichevolmente con la loro voce roca dandole del tu. Intorno a lei, in piena strada, le donne fumavano e gli uomini le abbracciavano senza ritegno, davanti a anti, che non volgevano neanche la testa. Le parolacce e le risate grasse arrivavano fino a Lorenzo, che era rimasto immobile sotto un portone, dall'altro lato della piazza. Dopo aver bevuto l'assenzio, Teresa si alzò, si mise al braccio del giovanotto biondo e con lui discese per via dell'Arpa. Lorenzo li seguì fino a via Sant'Andrea degli Archi, e là li vide entrare in una pensione. Restò in mezzo alla strada, con gli occhi in aria a guardare la facciata della casa e nel vano di una finestra aperta, al secondo piano, scorse la moglie, per un istante, poi gli parve di vedere le mani del giovanotto biondo cingere Teresa alla vita. La finestra si chiuse di colpo. Lorenzo capì, e senza attendere oltre, se ne andò rassicurato e felice. — Bah! — si diceva avviandosi verso il fiume – È meglio così! Ha trovato un'occupazione e non pensa a nuocermi. È più pratica di me, non c'è che dire. Si stupì, però, di non aver avuto lui per prima l'idea di gettarsi nel piacere: poteva essere un buon rimedio contro gli incubi. Non vi aveva mai pensato perché il suo corpo era morto e non sentiva nessuno stimolo sessuale. L'infedeltà della moglie lo lasciò de tutto indifferente; non sentì nessun impeto di ribellioni del sangue e dei nervi, sapendola nelle braccia di un altro uomo; la cosa, al contrario, gli sembrava divertente, gli pareva di aver pedinato la moglie di un amico, e rideva di cuore pensando che quella donna si prendesse gioco del marito. Fino a quel punto, Teresa gli era divenuta estranea; gli era uscita completamenti dal cuore, l'avrebbe venduta e ceduta cento volte per comprarsi un'ora di tranquillità e di calma. Vagabondò godendosi l'inaspettata gioia subentrata al precedente spavento, ed
era quasi grato alla moglie d'essere andata da un amante mentre lui temeva che andasse a denunciarlo alla polizia. La conclusione dell'avventura era stata tanto imprevista da render più gradita la sorpresa. E comprese chiaramente che aveva avuto torto a tremare, e che anche lui avrebbe dovuto tentare di cacciar via con il piacere i cattivi pensieri. Rientrando a casa, la sera, Lorenzo era deciso a farsi dare qualche migliaio di franchi dalla moglie da impiegare qualunque mezzo per ottenerlo. Pensando che il vizio costa caro agli uomini, era invidioso delle ragazze che si possono vendere. Aspettò pazientemente Teresa, che non era ancora tornata, e quando arrivò si dimostrò affettuoso e non le parlò di ciò che aveva visto al mattino. La moglie era un po' brilla, dal suo vestito allacciato male esalava un tanfo acre di tabacco e di liquori, tipico di certi locali. Sbattuta, con la faccia macchiata di lividi, barcollava appesantita dalla stanchezza vergognosa della sua giornata. La cena fu silenziosa, e Teresa non toccò cibo. Alla frutta Lorenzo mise i gomiti sulla tavola e le chiese a bruciapelo cinquemila franchi. - No! — rispose lei seccamente. — Se ti lasciassi fare ci getteresti sul lastrico. Non la conosci la nostra situazione? Stiamo andando dritti dritti al fallimento. Lo so, — disse lui tranquillamente, — ma a me non interessa. Dammi il danaro. No, mille volte no! Hai lasciato l'impiego, la merceria non dà più nulla, la rendita della mia dote non ci basta per vivere. Ogni giorno intacco il capitale, per mangiare e per darti i cento franchi al mese che mi hai carpiti. Non te ne darò di più, hai capito? È inutile che insisti. Rifletti, Teresa, e non intestardirti. Ti dico che voglio cinquemila franchi, e li avrò; me li darai a ogni costo! La tranquilla ostinazione di Lorenzo irritò Teresa e finì di ubriacarla. — Lo so, — gridò, — tu vuoi finire come hai cominciato. Sono quattro anni che ti manteniamo. Sei venuto in casa nostra solo per mangiare e bere, e da allora ci sei rimasto sulle spalle. Il signore non fa nulla, il signore s'è aggiustato in maniera da vivere a mie spese, stando a braccia incrociate. No, non ti darò niente, nemmeno un soldo. Vuoi che te lo dica francamente? Sei un... E pronunciò la parola. Lorenzo si mise a ridere, alzò le spalle e si limitò a
rispondere: — Belle parole hai imparato nell'ambiente che frequenti ora. Fu la sola allusione che si permise di fare agli amori di Teresa. Questa eresse il capo e replicò con tono aspro : — In ogni caso, non vivo con degli assassini! Lorenzo impallidì, tacque un istante con gli occhi fissi sulla moglie, poi, tremando nella voce, riprese: — Ascoltami, ragazza, è inutile che litighiamo: non gioverebbe né a te, né a me. Io non ne posso più. È meglio intenderci se vogliamo evitare qualche disgrazia. Ti ho chiesto cinquemila franchi perché ne ho bisogno: posso anche dirti che conto di impiegarli per assicurare la nostra felicità. Ebbe un sorriso sarcastico, e continuò: — Rifletti e dimmi L'ultima parola — Ho già riflettuto e ti ho già di detto, - rispose la moglie. — Non avrai neanche un soldo. Il marito si alzò di scatto un gesto di violenza e lei, nella paura, d'esser picchiata, si raggomitolò tutta, decisa a non cedere nemmeno sotto le botte. Ma Lorenzo non le si accostò neppure; le disse senza emozione ch'era stanco di quella vita e che sarebbe andato a raccontare la storia del delitto al commissario del quartiere. - M'hai messo con le spalle al muro, dichiarò — M'hai reso insopportabile l'esistenza. Preferisco farla finita... Saremo giudicati, condannati tutti e due. Questo è tutto. Credi di spaventarmi?- gridò Teresa - Io sono stanca più di te. Sono io che vado dal commissario di polizia, se non ci vai tu. Sono pronta a seguirti sulla ghigliottina, non sono vile, io. Andiamo, vieni con me dal commissario! Si alzò e si diresse verso la scala. — Va bene! — balbettò Lorenzo. Andiamoci tutti e due. Scesi in bottega restarono a guardarsi inquieti e spaventati: pareva che li avessero inchiodati al suolo. I pochi secondi che avevano impiegato per scendere
la scala erano bastati, come un lampo per illuminarli sulle conseguenze d'una confessione. In un solo istante videro, nettamente e rapidamente, gendarmi, prigione, corte d'assise, ghigliottina, e non reggendo all'intima emozione furono tentati di gettarsi l'uno alle ginocchia dell'altra, per supplicarsi reciprocamente di non andare, di non denunziare nulla. Paura e imbarazzo li tennero immobili e muti per due o tre lminuti, poi fu Teresa che per prima si decise a parlare e cedere. - Dopotutto, — disse, - sono davvero cretina a fiutarti quel danaro. Un giorno o l'altro arriverai ugualmente a mangiarmi tutto, tanto vale che te lo dia subito. Non tentò di mascherare oltre la sua sconfitta. Sedette davanti al banco e firmò un assegno da cinquemila franchi che Lorenzo avrebbe potuto incassare presso un banchiere. Del commissario di polizia non si parlò più, per quella sera. Appena ebbe in tasca i soldi, Lorenzo si ubriacò, frequentò ragazze, condusse una vita disordinata e rovinosa. Tutte le notti stava fuori casa: il giorno dormiva, lai notte correva a cercare emozioni violente tentando di sottrarsi alla realtà. Ma riuscì soltanto ad abbattersi sempre più. Se qualcuno gli gridava intorno, scopriva il terribile silenzio che aveva in sé; se un'amante lo baciava, se vuotava un bicchiere, non trovava, in fondo alla sazietà, che una profonda tristezza. Lussuria e bagordi non erano più per lui: raffreddato nel corpo come nell'animo, il suo essere, con i baci e con la baldoria, riusciva solo a snervarsi. Disgustato in anticipo, non riusciva a riscaldarsi la fantasia, a eccitarsi i sensi e lo stomaco, e in definitiva soffriva maggiormente, sforzandosi alla dissolutezza. Quando poi rincasava, quando rivedeva mamma Raquin e Teresa, la spossatezza lo spingeva a spaventevoli crisi di terrore: giurava che non sarebbe uscito più, che sarebbe rimasto in casa a soffrire per abituarsi al dolore e vincerlo. Anche Teresa usciva sempre più di rado. Per un mese visse, come Lorenzo, sui marciapiedi e nei caffè. Rincasava un istante la sera, faceva mangiare mamma Raquin, la metteva a letto, e scappava di nuovo per star fuori fino al mattino. Una volta, per quattro giorni di seguito, non tornarono né lei né il marito. Poi ella fu presa da un profondo disgusto, e s'accorse che il vizio non le giovava più della commedia del rimorso. Era ata invano in tutte le pensioni del Quartiere Latino, invano aveva condotto una vita sozza e chiassosa; aveva i nervi rotti, la dissolutezza e il piacere non le davano più scosse abbastanza violente da procurarle l'oblio. Era come uno di quegli ubriaconi, il cui palato bruciato dall'alcool resta insensibile ai più forti liquori. Restava fredda negli amori, dai
suoi amanti non trovava che noia e stanchezza: si decise così ad abbandonarli, convinta che le erano inutili. Subentrò in lei un'estrema pigrizia, che la tenne chiusa in casa con le vesti in disordine, spettinata, la faccia e le mani sporche: si abbandonò alla sporcizia. Quando i due assassini si ritrovarono faccia a faccia, esausti, dopo aver esaurito tutti i mezzi per salvarsi l'uno dall'altra, compresero che non avrebbero avuto più forza di lottare. La dissolutezza non li aveva voluti e li respingeva alle loro angosce; si ritrovavano di nuovo in quella casa triste e buia, vi erano come imprigionati, ormai, perché tante volte avevano tentato di salvarsi, e mai erano riusciti spezzare quei legami di sangue che li tenevano avvinti. Pensarono di non affrontare più una fatica dimostratasi inutile. Si sentirono talmente spinti, schiacciati, legati insieme dai fatti, che riconobbero inane e ridicola ogni ribellione. Ripresero dunque, la vita in comune, e l'odio divenne rabbia convulsa. Le liti serali ripresero, con l'aggravante che urla e bastonate si susseguirono in tutte le ore del giorno. All'odio si aggiunse la diffidenza che portò a compimento la loro follia. Ebbero paura l'uno dell'altro: la scena che s'era svolta dopo la richiesta di cinquemila franche si ripeté continuamente mattino e sera, perché vivevano nel sospetto eterno di una reciproca denuncia, e bastava che uno dei due dicesse una parola per far temere all'altro che avesse intenzione di recarsi dal commissario. E allora o si picchiavano o si chiedevano pietà. Nei loro scontri ripetevano la minaccia della denuncia, e se ne spaventavano da morire, poi rabbrividivano, si umiliavano, si promettevano con dure lacrime di serbare il silenzio. Soffrivano intensamente, ma non avevano il coraggio di guarire la piaga con un ferro rovente. La reciproca minaccia di confessare il delitto se la facevano unicamente per spaventarsi e scacciarne il pensiero, perché mai avrebbero avuto il coraggio di parlarne e cercare la calma nel castigo. Arrivarono una ventina di volte quasi fino alla porta del commissariato e sempre inseguendosi. Ora era Lorenzo che voleva confessare il delitto, ora era Teresa che voleva consegnarsi alla polizia, ma ogni volta si raggiungevano sulla strada e decidevano di aspettare ancora, dopo essersi scambiati insulti e preghiere ardenti. Ogni nuovo scontro li lasciava più sospettosi e più accaniti.
Si spiavano tutto il giorno: Lorenzo non usciva più di casa, e la moglie non lo lasciava mai uscire solo; i reciproci sospetti e lo spavento della delazione li riavvicinarono, unendoli in un'atroce intimità. Dal giorno del matrimonio non erano mai stati così legati, né mai avevano sofferto tanto: vincendo ogni angoscia, non si perdevano mai di vista, preferivano piuttosto sopportare i più atroci dolori, che separarsi sia pure per un'ora. Se Teresa scendeva in bottega, Lorenzo la seguiva per timore che si sfogasse con una cliente; se Lorenzo sostava sulla porta a guardare i anti, Teresa gli si metteva accanto per controllare se parlasse con qualcuno. Il giovedì sera, quando c'erano i consueti ospiti, entrambi si guardavano con sguardi supplichevoli, controllavano con terrore i loro discorsi, ciascuno dei due temendo che il complice fe qualche confessione, dando un significato compromettente alle frasi iniziate. Un tale stato di guerra non poteva durare a lungo. Teresa e Lorenzo, ciascuno per suo conto, arrivarono a sognare di sottrarsi con un nuovo delitto alle conseguenze del primo: era assolutamente necessario che uno dei due sparisse per dare pace e riposo all'altro. A questa conclusione arrivarono simultaneamente, entrambi sentirono l'urgente necessità d'una separazione, ma di una separazione eterna. L'idea del delitto sorta nelle loro menti, gli sembrò naturale, fatale, inderogabile conseguenza dell'assassinio di Camillo: non la discussero, l'accettarono come unico mezzo di salvezza. E così Lorenzo decise di uccidere Teresa perché lo rovinava, perché poteva perderlo con una sola parola, perché gli provocava insopportabili sofferenze; e Teresa decise di uccidere Lorenzo per le medesime ragioni. La ferma decisione del nuovo delitto li calmò un poco, tenendoli occupati a studiarne l'esecuzione. Ma agivano febbrilmente, con scarsa prudenza, presentandosi molto vagamente le probabili conseguenze di un delitto commesso senza preparare una fuga o assicurarsi l'impunità. Sentivano soltanto un invincibile bisogno di uccidersi, obbedivano a quel bisogno con brutale furia; non si erano denunziati per il primo delitto, mascherato con tanta abilità, e rischiavano la ghigliottina commettendone un altro senza prendere nessuna precauzione per nasconderlo. V'era una evidente contraddizione nella loro condotta, ma essi non la vedevano: con molta semplicità ciascuno dei due pensava che, riuscendo a fuggire, sarebbe andato a vivere all'estero, dopo aver preso il danaro. Da quindici o venti giorni, Teresa aveva ritirato le poche migliaia di franchi che ancora le rimanevano della dote, e le aveva chiuse in un cassetto che Lorenzo conosceva. Nessuno dei due si domandò mai che ne sarebbe stato di mamma Raquin.
Qualche settimana prima, Lorenzo aveva incontrato un suo vecchio compagno di collegio, preparatore di un celebre chimico che si occupava molto di tossicologia. L'amico gli aveva fatto visitare il laboratorio nel quale lavorava, egli aveva mostrato gli apparecchi ed elencato i vari preparai. Una sera, dopo aver deciso di uccidere Teresa, mentre la moglie beveva un bicchiere d'acqua zuccherata, Lorenzo si ricordò che in quel laboratorio aveva visto un barattolino di terracotta contenente acido prussico. E tornatogli alla mente ciò che gli aveva spiegato l'amico sui terribili effetti di quel veleno, che fulmina e lascia scarse tracce, pensò che era quello il veleno che sarebbe servito al suo scopo. II giorno seguente, evitata la sorveglianza della moglie, riuscì a fare una scappata dall'amico, e mentre era girato di spalle gli rubò il barattolino. In quello stesso giorno, approfittando dell'assenza del marito, Teresa fece affilare dall'arrotino un coltello da cucina con il quale spezzava lo zucchero, e che aveva la lama tutta intaccata, e lo nascose in un angolo accanto alla credenza.
XXXI
Il giovedì seguente, la serata a casa Raquin, come gli invitati continuavano a chiamare i loro ospiti, ebbe un brio eccezionale, e si prolungò fino alle undici e mezza. Andandosene, Grivet disse di non aver mai ato ore tanto piacevoli. Susanna, che era incinta parlò tutta la sera dei suoi dolori e delle sue gioie a Teresa, la quale pareva che l'ascoltasse con molto interesse: gli occhi fissi e le labbra strette, di tanto in tanto annuiva con la testa, e in quei movimenti le palpebre abbassate coprivano d'ombra tutto quanto il viso. Da parte sua, Lorenzo prestava un'ostentata attenzione ai racconti di Michaud e di Oliviero, i quali erano cosi loquaci che il povero Grivet a mala pena riusciva ad interporre qualche parola fra due frasi del padre e del figlio; ma, del resto, egli aveva un certo rispetto per loro, diceva che parlavano molto bene. E poiché quella sera la conversazione s'era sostituita alla partita, disse che i racconti dell'ex commissario lo divertivano tanto quanto il gioco del domino. Da circa quattro anni i Michaud e Grivet trascorrevano il giovedì sera in casa Raquin, e non s'erano mai stancati di quelle monotone serate che si susseguivano con snervante regolarità. Non avevano mai immaginato che in quella casa, così pacifica e accogliente quando vi entravano, si svolgesse un dramma. Con un complimento da uomo della polizia, Oliviero sosteneva che quella sala da pranzo puzzava d'onestà, mentre Grivet, per non essere da meno, l'aveva definita il Tempio della Pace. Due o tre volte, negli ultimi tempi, Teresa dovette giustificare agli ospiti i lividi che le macchiavano il volto dicendo che era caduta, e nessuno degli ospiti avrebbe riconosciuto in quei segni il pugno di Lorenzo, tanto erano convinti che quella famiglia fosse un modello di dolcezza e d'amore. La paralitica non aveva più tentato di rivelare le infamie che si nascondevano dietro la triste tranquillità di quelle serate. Di fronte alle strazianti scenate degli assassini, aveva intuito la crisi che un giorno o l'altro sarebbe sopraggiunta, per la fatale successione degli avvenimenti, e capito che i fatti non avevano bisogno del suo intervento. Si appartò, quindi, aspettando, da quel momento, che le conseguenze dell'assassinio di Camillo agissero, e uccidessero a loro volta gli assassini. Pregò soltanto il cielo di darle abbastanza vita per farla assistere alla
violenta conclusione ch'ella prevedeva. L'ultimo suo desiderio era quello di poter saziare i suoi sguardi allo spettacolo delle supreme sofferenze che avrebbero definitivamente distrutti Lorenzo e Teresa. Quella sera Grivet le si mise accanto e le parlò a lungo, facendo come al solito domande e risposte; ma non ne ottenne neppure uno sguardo. Quando suonarono le undici e mezzo, gli ospiti si alzarono di colpo. Si sta tanto bene in vostra compagnia, — disse Grivet, — che non si vorrebbe mai andai via. Il fatto è, — volle aggiungere Michaud, — che qui non ho mai sonno, io che abitualmente mi corico alle nove e mezzo. Oliviero si credette in dovere di lanciare la sua battuta. L'ho sempre detto, — disse, mettendo in mostra i denti ingialliti. — Qui c'è puzza di onestà, ed è perciò che vi si sta bene. Seccato d'essere stato superato, Grivet si mise a declamare, accompagnandosi con un gesto enfatico: — Questa stanza è il Tempio della Pace. Frattanto, legandosi i nastri del cappellino, Susanna diceva a Teresa : — Verrò domattina alle nove... — No, no, — s'affrettò a rispondere Teresa. Vieni dopo pranzo. In mattinata uscirò certamente. Parlava con voce strana e turbata. Accompagnò gli ospiti fino alla galleria, e anche Lorenzo scese con una candela in mano. Quando rimasero soli, entrambi mandarono un sospiro di sollievo: una sorda impazienza doveva averli rosi tutta la serata; e già dal giorno precedente erano inquieti e cupi. Risalirono in casa evitando di guardarsi e senza par lare. Entrambi avevano tremiti convulsi alle mani, e Lorenzo fu costretto a poggiare la candela sulla tavola, per non farla cadere. Prima di mettere a letto mamma Raquin, avevano l'abitudine di riordinare la sala da pranzo, di preparare un bicchiere d'acqua zuccherata per la notte, di andare e venire così intorno alla paralitica finché non fosse tutto pronto.
Quella sera, risaliti in sala da pranzo, sedettero un momento: avevano lo sguardo smarrito le labbra pallide. Stettero un po' in silenzio, poi: - Ebbene, non si va a letto stasera? - domandò Lorenzo, che sembrava uscito di soprassalto da un sogno. - Sì, sì, ci corichiamo subito, rispose Teresa rabbrividendo come se avesse un gran freddo. Poi si alzò e prese la brocca. — Lascia stare, — gridò il marito, sforzandosi di dare un tono naturale alla sua voce, lo preparo io il bicchiere d'acqua e zucchero. Occupati di tua zia, tu. Prese la brocca dalle mani della moglie e riempì un bicchiere d'acqua; poi, girandosi a metà vi vuotò il barattolino di terracotta e vi aggiunse un pozzetto di zucchero. Teresa s'era intanto accovacciata davanti al la credenza, aveva preso il coltellaccio e cercava di nasconderlo in una delle grandi tasche che le pendevano dalla cintura. Per quella strana sensazione che precede l'avvicinarsi di un pericolo, entrambi girarono il capo, contemporaneamente, con un gesto istintivo. Si guardarono. Teresa vide il barattolino nelle mani di Lorenzo e Lorenzo percepì il lampeggiare della lama fra le pieghe della gonna di Teresa. Si esaminarono, così, per qualche secondo, muti e freddi, lui fermo vicino alla tavola, lei piegata davanti alla credenza. Si capirono. Ciascuno di loro rimase agghiacciato ritrovando il proprio pensiero in quello del complice. Leggendosi reciprocamente, sui volti agitati, il segreto proposito, n'ebbero pietà e orrore. Mamma Raquin, sentendo prossima la catastrofe, li seguiva con lo sguardo, avido e insistente. Di colpo Teresa e Lorenzo proruppero in singhiozzi. Una crisi estrema li schiantò, li gettò l'uno nelle braccia dell'altra, deboli come bambini. Credettero che qualche cosa di dolce e di tenero si risvegliasse nei loro petti. Piansero senza parlare, pensando al fango nel quale avevano sguazzato e nel quale sguazzerebbero ancora, se fossero stati tanto vili da vivere. E allora, al ricordo del ato, si sentirono talmente stanchi e disgustati di se stessi, che provarono un immenso bisogno di riposo, di perdersi nel nulla. Si scambiarono un ultimo sguardo, uno sguardo di ringraziamento, di fronte al coltellaccio e al bicchiere di
veleno. Teresa prese il bicchiere, lo vuotò a metà e lo porse a Lorenzo, che lo finì in un sol sorso. Fu come un fulmine. Caddero l'uno sull'altra folgorati, trovando finalmente sollievo nella morte. La bocca della donna schiacciò, sul collo del marito, la cicatrice lasciata dai denti di Camillo. I cadaveri restarono tutta la notte sul pavimento della sala da pranzo, rivoltati, contorti, rischiarati dalla luce giallastra che il paralume gli faceva piovere addosso. E per circa dodici ore, fin quasi a mezzogiorno del dì seguente, mamma Raquin, rigida e muta, li contemplò ai suoi piedi, non potendo saziare gli occhi, schiacciandoli coi suoi sguardi duri. FINE