Strane Figure Di Donne 6a2n2a

Stella Demaris

Strane Figure di Donne

Qualche nota sull’autrice

Stella Demaris è una signora strampalata che, oltre alla scrittura, coltiva l’interesse per il fotoritocco, come potete vedere dalle immagini di questo libro e dai suoi siti web. Poiché molto spesso le opere della suddetta sconfinano nell’umorismo e nell’ironia, anche le foto che la ritraggono devono adeguarsi al genere…

Una strana figura di nome Stella

(ma voi la sposereste una così??)

www.stellademaris.comze.com

stella-demaris.blogspot.it

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Copyright © 2013 Stella Demaris - Tutti i diritti riservati

Tutte le immagini, compresa la copertina, sono di proprietà dell’Autrice. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autrice.

Un ringraziamento a Diego Luci, grafico e scrittore, per aver gentilmente realizzato l’immagine di apertura del racconto “Un salvataggio inaspettato”.

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Dedicato a me stessa (eh, scusate, una volta ogni tanto!)

Sommario

La maga del caffè

Amplessi in una camera d’albergo (V.M. 18)

La Terza Isola

Il segreto della maggiordoma

La gatta della dea Bastet

Solo dalla vita in giù

Un salvataggio inaspettato

Regina di Pesci

ALTRE OPERE DI STELLA DEMARIS

La maga del caffè

Da un’idea di Christine de Poladoc, e a lei dedicato

Il mio ato è segnato da un’ombra scura: l’incapacità di fare un buon caffè. Fino a qualche anno fa sono stata totalmente negata e, malgrado fossi e sia tuttora una discreta cuoca, ogni volta che ricevevo ospiti i pranzi e le cene, puntualmente, si concludevano con un disastro. Era diventato per me un punto d’onore imparare a fare un buon caffè, anche solo per rispettare la tradizione di famiglia: infatti, mia madre e mia nonna sanno preparare ottimamente la nera bevanda, mia sorella Concetta se la cava bene, e perfino mio padre, sebbene non cucini neppure un uovo al tegamino, viene considerato un maestro per quanto riguarda caffettiere, miscele pregiate e affini. Soltanto io, Zelinda, ho dimostrato a lungo e con dolore di essere una frana. Ripensando all’infanzia, ricordo il profumo del caffè appena fatto che si spandeva nella casa, muovendosi come una brezza leggera dalla cucina per il lungo corridoio fino alla stanza che dividevo con mia sorella: il meraviglioso aroma ci destava entrambe dolcemente, solleticandoci il naso e spingendoci a saltare giù dal letto. Ogni domenica mattina, nostra madre lasciava in serbo per noi bambine un cucchiaino di zucchero con tre gocce di caffè, finché io e Concetta, diventate adulte, iniziammo a cimentarci personalmente nella preparazione di quel nettare divino; ma, mentre mia sorella otteneva buoni risultati, io combinavo regolarmente qualche pasticcio, tanto che il caffè mi veniva o troppo leggero, come una risciacquatura di piatti, o troppo forte, oppure con un gusto metallico, o con l’odore di marcio, e in mille altri imbevibili modi ancora. Quando lasciai la casa paterna per andare ad abitare in compagnia di Alfonso, un ottimo fidanzato amante della nera pozione, la mia incapacità si manifestò in maniera così sfacciata che Alfonso decise di troncare su due piedi il promettente ménage perché temeva di essere avvelenato. Affranta e incollerita in sommo

grado per aver perso – a causa di una maledetta bevanda – l’uomo al quale mi ero promessa, dapprima ai alcuni giorni a imprecare contro la scoperta della pianta che mi aveva rovinato la vita; poi, da apprendista volenterosa, mi risolsi a cercare i mezzi per sanare la mia inettitudine. Provai tutti i trucchi consigliati dalla tradizione popolare, lessi dozzine di libri sull’argomento e mi feci consigliare da parenti e amici. Innumerevoli suggerimenti furono studiati e messi in pratica: tenere il barattolo del caffè in frigo; non lavare mai la caffettiera, ma sciacquarla appena sotto l’acqua tiepida; fare tre buchi nel monte scuro e farinoso della dose di caffè; non appiattire la polvere con il dorso del cucchiaino, ma lasciarla a forma di collinetta; preparare due o tre macchinette a vuoto per riscaldare la “moka”; aggiungere un cucchiaino di cacao al resto della polvere; provare e riprovare con caffettiere di tutti i tipi e di tutte le forme; comprare e sperimentare qualunque miscela disponibile sul mercato, anche le meno pubblicizzate. Ma niente da fare, ahimé: il mio caffè si rivestiva sempre di un sapore abominevole. Con un ultimo, disperato tentativo, acquistai una di quelle macchine che, a imitazione del bar, fanno il caffè espresso. Peggio che andar di notte: non sapevo che una buona riuscita dipendeva da ulteriori fattori, come la maggiore o minore umidità, la temperatura dell’acqua, e altre istanze di tipo tecnico che avrebbero richiesto quasi una laurea in materia. Il caffè rimase dunque, per lungo tempo, una tenebrosa lacuna nella mia vita, tanto che un giorno decisi di voltare pagina e di dedicarmi alla cucina macrobiotica. Questa raffinata filosofia alimentare, infatti, bandisce tutte le bevande eccitanti, tra cui il caffè in primo luogo, e consiglia di ricorrere piuttosto al mitico tè bancha, un tè giapponese praticamente privo di teina. Tuttavia, anche così, nell’intimo continuavo a soffrire: se la macrobiotica mi soddisfaceva nel corpo e nello spirito – dopo alcuni mesi di tale regime alimentare sviluppai un personalino da fare invidia a una modella, e diventai anche molto più sensibile nelle percezioni – lo scorno per non saper fare un caffè all’italiana mi rimase incollato addosso giorno e notte, allargando una nera voragine nella mia delicata coscienza.

*****

ò un anno, durante il quale rinunciai completamente alla bevanda che mi aveva procurato atroci patimenti. Ci pensavo, ogni tanto, ma non lo davo a vedere, non mi lamentavo, non facevo più tentativi di preparare alcunché; con la scusa della mia nuova dieta, ribadivo con tutti che il caffè era un veleno, rovinava il fegato, quindi avevo smesso di berlo, e mi guardavo bene dal tenerlo in casa. In poche parole, mi ero arresa, mascherando come potevo la cocente delusione. Una mattina, uscendo dallo studio legale dove lavoravo in qualità di segretaria, notai un cartellone pubblicitario recante una scritta: La maga del caffè. Sul principio mi sembrò un segno premonitore di qualche sciagura in agguato, e subito esplose dentro di me una rabbia fiera e indomabile per l’antico dolore. I ricordi di facce disgustate a fine pasto, le cene rovinate, la famiglia che preveniva ogni mia azione intorno alla macchinetta del caffè dirottandomi altrove, le ingiurie dei compagni al camposcuola della parrocchia quando mi offrivo di mettere sul fuoco l’innominabile beveraggio, e altri sconci episodi del genere si riaffacciarono alla mente, raggelandomi dalla vergogna. Perché proprio a me doveva capitare questo guaio e non magari a mia sorella? Perché non potevo essere come tutte le persone normali e preparare un caffè accettabile, anche se non eccellente? Al colmo dell’ira mi avvicinai al cartellone e sputai in faccia alla presunta maga, una mulatta favolosa che ammiccava ai anti tenendo in mano una tazzina di caffè, sotto alla quale veniva reclamizzata una nuova, “magica” miscela. Sentendo che la vecchia ferita si stava riaprendo, decisi di andare a tapparmi in casa. Percorsi la città a piedi per raggiungere il mio alloggio e, ogni volta che vedevo spuntare il manifesto in questione, mi giravo dall’altra parte con le lacrime agli occhi. Immaginavo che quella mulatta infernale mi dileggiasse, rigirandomi continuamente il coltello nella piaga. Appena giunta a casa, feci qualche telefonata: allo studio legale, agli amici, a mia madre. Dissi a tutti che non mi sentivo bene, quindi mi sarei messa a letto a riposare. Invece riempii di cibo la ciotola del gatto, nutrii i pesci rossi, scrissi due righe di commiato al mondo e srotolai la corda che avevo comprato strada facendo. Mi arrampicai sul frigo, lanciai la corda al di sopra della trave portante della mia bella cucina – ambiente che mai aveva conosciuto l’aroma di un buon caffè – la feci girare varie volte assicurandola bene, preparai il nodo scorsoio, calai la corda fino al punto giusto, scesi dal frigo, presi una sedia e, per farmi coraggio, sorseggiai un bicchierino di brandy. Quindi elencai nuovamente le

umiliazioni subite a causa della perfida bevanda, salii sulla sedia, mi infilai il cappio al collo e, lasciandomi andare, mi sentii morire… per l’irritazione. La corda era troppo lunga. – Accidentaccio, nemmeno di crepare in pace mi riesce! – esclamai con un tono a metà tra il rabbioso e il faceto. – Ma tu guarda, – aggiunsi mentre l’amarezza si trasformava sempre più in volontà di rivalsa, – non me ne va diritta una… Meglio così comunque, ancora non sono morta, basta piangersi addosso, ve lo farò vedere io di cosa sono capace! Un irrefrenabile impulso era sbocciato dentro di me, e mi incitava a non perdere altro tempo. Mi precipitai dunque in strada a cercare tracce della misteriosa “maga del caffè”. Non ricordavo con precisione dove avevo visto i manifesti che la ritraevano, ma ero sicura di riuscire a rintracciarne uno con una certa facilità, poiché la città ne era gremita. Camminando di buona lena, arrivai all’ingresso di una stazione della metropolitana, scesi le scale facendo attenzione alle immagini di carta affisse sulle pareti e mi portai sul binario per attendere l’arrivo del treno. Al momento della maga nessun indizio. Quando sopraggiunse il convoglio salii e, continuando a occhieggiare in direzione degli avvisi pubblicitari che tappezzavano la carrozza, mi lasciai trasportare verso il centro della città decisa a spuntarla. E così fu. Non appena emersi dalla metro in Piazza di Spagna, mi voltai verso un cartellone che troneggiava alla mia sinistra e la vidi. Era lei, ed era splendida, la maga del caffè: lunghi capelli neri, ricci, uscivano da una specie di turbante variopinto, incorniciandole la bruna pelle del volto; occhi intensi e misteriosi mi guardavano scrutandomi in profondità; labbra carnose e rosse come il fuoco sembravano parlarmi; un seno prosperoso si intravedeva dall’audace scollatura; intorno al collo taurino e sul polso della mano che reggeva la tazzina, monili, collane, bracciali, ori e argenti di esotica fattura lanciavano dardi di luce come per indirizzare l’ignaro ante sulla marca di caffè reclamizzata. Il manifesto così recitava:

LA MAGA DEL CAFFÈ CONSIGLIA Miscela Kaliendo ESTASI NERA

In preda a un’ispirazione mistica, scovai nei paraggi un negozio adatto allo scopo, entrai e acquistai un barattolo del magico Caffè Kaliendo. Poi ripresi la metropolitana e tornai a casa eccitata. Ma, al contrario di quanto si potrebbe pensare, non mi misi a preparare il caffè con la nuova miscela. Avevo ben altre idee per la testa. La maga del caffè mi chiamava. Potevo sentire la sua dolce, flebile voce fluttuare nell’aria, e a poco a poco calarsi nel mio cuore portando una promessa di verità. Posi lo sguardo sul barattolo di caffè: in caratteri minuscoli c’erano nome, indirizzo e telefono della ditta che lo produceva. Dopo pochi minuti avevo già fissato un appuntamento con la ditta per l’indomani. Quella notte, nel mio letto solitario e madido di sudore, avvinghiata in sogni coloratissimi e quasi tangibili, mi incontrai con la maga. “Vieni da me, bambina mia…” continuava a ripetere quest’ultima; “Vieni da me, piccolo tesoro, io sola posso aiutarti… Io che conosco il tuo dolore e la tua sconfitta, io che cavalco i confini del tempo indagando le aspirazioni di donne deluse, io che apro squarci nel grigio velo della realtà, e posso vedere tutto di tutti, posso sentire le gioie e gli affanni di coloro che si bagnano le labbra con il mio caffè… Ricorda, bambina mia, non è necessario bere, basta soltanto bagnarsi le labbra: io comprenderò i tuoi bisogni, e saprò trovare la soluzione… Vieni… Vieni… Cercami e mi troverai…”. Al risveglio mi scoprii esaltata, convinta, radiosa e irrequieta più che mai. – Maga adorata, aspettami, presto riuscirò a trovarti! – esclamai mentre mi alzavo.

*****

Per fortuna la ditta che produceva il Caffè Kaliendo aveva sede a Roma. Mi presentai all’appuntamento con un notevole anticipo, ma fui ricevuta dopo pochi minuti. Una giovane donna dall’aria amichevole mi fece accomodare in un ufficio arredato con gusto, si sedette dall’altro lato della scrivania e mi chiese sorridendo: – Allora, cara signora, dica pure, cosa posso fare per lei?

– Vede, – risposi cercando di trovare le parole adatte, – io ho da sempre un problema con il caffè… – Si rilassi e mi racconti. Sono qui per ascoltarla, – mi incoraggiò garbatamente la mia interlocutrice. Abbandonando l’iniziale indugio, mi feci guidare dalla volontà superiore che dolcemente mi possedeva, e cominciai a vuotare il sacco senza trascurare alcun dettaglio. Parlai di come il destino fosse stato avverso con me fin dal primo momento in cui, giovinetta, avevo preso in mano la caffettiera; riferii delle innumerevoli prove, degli sfiancanti tentativi volti a produrre un caffè perlomeno decoroso, e di come ogni entusiasmo, ogni dedizione e ogni accoramento fossero stati sempre, negli anni, immancabilmente sviliti dall’insuccesso. Via via che le parole fluivano dalla mia turgida bocca contratta in una smorfia di tristezza, raggiunsi il fulcro di una sentita commozione: versai calde lacrime, sviscerai profonde afflizioni, elencai le torbide nefandezze in cui ero incappata nel desiderio di imparare a fare un buon caffè, tirai in ballo la mamma e la nonna, il fidanzato perduto, gli amici disgustati, perfino il prete della mia parrocchia che, anni addietro, mi aveva scacciata di chiesa accusandomi di aver attentato alla sua integrità spirituale spingendolo a bere il mio diabolico caffè. Una vita di angherie subite in nome di una bevanda; una vita improntata alla vergogna e al fallimento. Tanto feci e tanto dissi, mostrandomi disperata e bisognosa di aiuto, che la giovane responsabile del Caffè Kaliendo, mossa a comione, pianse lei pure, e non potette rifiutarsi di fornirmi il numero di telefono della maga del caffè. Sì, perché a questo miravo: io, Zelinda, volevo a ogni costo mettermi in contatto con la splendida mulatta che avevo visto nei manifesti pubblicitari. – Ma a cosa le serve il numero di telefono della nostra modella? – chiese la responsabile soffiandosi il naso. – Sento una voce dentro, mi deve credere, – risposi sforzandomi di risultare convincente. – So che quella donna mi può aiutare… aiutarmi a uscire da questo vicolo cieco nel quale mi sono cacciata. La maga del caffè mi ha parlato in sogno, e mi ha detto di andare da lei… mi insegnerà a fare un ottimo caffè con la vostra magica miscela. – Ebbene, poiché vedo in lei i segni della sincerità e la sua storia mi ha tanto toccata, – concluse la responsabile porgendomi un biglietto, – ecco qua il numero che le serve. Si chiama Madame Ubumba… è una famosa sensitiva

africana che ha accettato di comparire nella nostra pubblicità. Abita a Roma, sono sicura che potrà fissarle un appuntamento quanto prima. Auguri, e mi faccia sapere! Ringraziai e abbracciai la giovane donna, promisi di tornare presto a trovarla per darle notizie, quindi mi congedai sentendo l’emozione salirmi in petto mentre stringevo tra le dita il biglietto con il numero di telefono.

*****

Nell’intimità della mia casa, quel pomeriggio, dopo un lauto pranzetto preparato secondo i dettami della macrobiotica, sorseggiai una tazzina di Caffè Kaliendo come per suggellare sia la ritrovata fiducia in me stessa, sia il roseo avvenire che nel cuore mi figuravo. Non che il caffè fosse venuto particolarmente bene, nemmeno con la miscela Kaliendo: assomigliava più a un acquitrino fangoso che a un nettare da “estasi nera”, ma io lo sorbivo con gusto considerandolo una specie di pozione propiziatoria rispetto all’imminente incontro con Madame Ubumba. Quando ebbi finito di bere, tirai un sospiro di contentezza e ai all’azione. Misi mano al telefono, composi il numero e… la morbida voce della mia maga preferita mi raggiunse come un soffio profumato capace di risvegliare la gioia e l’amore. Sebbene non possa rivelare cosa ci dicemmo con esattezza, potete stare certi che la conversazione fu quanto di più coinvolgente osassi sperare. Dopo un intervallo di tempo sospeso nei meandri dell’inconscio, durante il quale l’orologio perse il suo potere sul mondo fino a diventare un inutile soprammobile, tornai alla realtà che mi circondava osservando l’annotazione vergata sul medesimo foglietto di carta, in calce al numero di telefono: l’appuntamento con la maga era fissato, e niente e nessuno avrebbero potuto cancellarlo. Poiché restavano ancora alcune ore per concludere la giornata, decisi di spenderle sottoponendomi a bagni rilassanti, a lavacri di purificazione e a ripetute quanto eteree meditazioni, nell’intento di essere pronta per il supremo incontro con la donna che mi avrebbe risolto la vita. E quella donna, tornandomi in sogno la notte stessa, mi sorrise con materna dolcezza incitandomi a buttare alle ortiche lo scafandro nel quale mi ero

rinchiusa a causa delle mortificazioni subite. Adesso che Ubumba era accanto a me, mi sentivo rassicurata e protetta; i neri tentacoli della disperazione stavano lentamente mollando la presa, e la gemma che portavo nascosta in fondo all’anima avrebbe finalmente potuto riversare all’esterno tutto il suo fulgore.

*****

Gli occhi dell’uomo seduto davanti a me erano sbarrati per la meraviglia. All’angolo destro della sua bocca si notava una macchiolina bruna, lasciata dal caffè con il quale si era solo bagnato le labbra; e grazie alla magia di tale caffè io potevo are in rassegna, con assoluta precisione, i fatti salienti della sua vita. – È vero… è tutto vero… – disse l’uomo con un filo di voce. Alzai un momento lo sguardo su di lui, quindi mi immersi nuovamente nell’esercizio della mia arte. Ancora qualche precisazione sul ato, poi cominciai a illustrare gli avvenimenti e le situazioni a cui il cliente sarebbe andato incontro nel futuro. Al termine della seduta, il consultante esternò la propria soddisfazione, lodandomi per il fatto di aver azzeccato, in relazione al ato, ogni minima vicenda che lo riguardasse. Quanto al futuro… beh, l’uomo si era già valso più volte dei miei servigi, e io avevo sempre colpito nel segno. Seguì lo scambio di saluti cordiali e di auguri; sulla porta della stanza consegnai il cliente alla mia fedele segretaria, una donna corpulenta dai modi risoluti incaricata di riscuotere la parcella. Rimasta sola nel mio studio, aprii la finestra per cambiare l’aria, accesi un bastoncino d’incenso e liberai il tavolo da tazzina e caffettiera, dal vassoio contenente i fondi di caffè e da tutto ciò che avevo impiegato per quella consulenza. Quindi mi rilassai sulla poltroncina dall’alto schienale, abbandonandomi ai ricordi. Avevo mezz’ora di tempo prima dell’arrivo del prossimo cliente: mezz’ora che sarebbe diventata un flusso di coscienza senza inizio e senza fine, un’onda nostalgica, romantica e stimolante capace di ritemprare le energie. Ripensai a come era cambiata la mia esistenza grazie a Madame Ubumba. Negli ultimi anni, sotto la guida della maga africana, avevo intrapreso una profonda

trasformazione, arrivando a capire veramente me stessa e le mie esigenze. Ubumba mi aveva accolta sotto la sua ala protettrice per condurmi in un viaggio all’interno della mente, del cuore e dello spirito; mi aveva spiegato che la delusione riguardo al caffè derivava dal non aver compreso a fondo le qualità che giacevano addormentate dentro di me, e che per risvegliare tali qualità bisognava sì are attraverso il caffè, ma non nella maniera che io credevo. La mia incapacità nel preparare un buon caffè all’italiana – per quanto mi fossi sforzata con tutti i metodi possibili – era da interpretarsi come un segno della necessità di seguire una nuova strada: una strada ben più elevata di quella che portava la maggioranza della gente a giudicare il caffè una semplice bevanda per iniziare la giornata o per concludere un pasto. Il caffè aveva virtù nascoste; il caffè poteva offrire qualcosa di più rispetto al momentaneo, effimero piacere del palato, e io, Zelinda, ero stata messa alla prova dal potere di vibrazioni che, inascoltate, mi pulsavano dentro. Ecco perché avevo dovuto confrontarmi con anni di insuccessi e di sofferenze: quel periodo doloroso rappresentava un percorso di formazione per cambiare la visione di me e della realtà, così da scoprire e accettare la mia autentica natura. Quella natura che io, da bambina impaurita, mi ero sempre ostinata a negare. Il caffè era il simbolo e la chiave di una mia personale esplorazione dell’inconscio: attraverso il caffè avrei dovuto crescere e quindi occupare, a testa alta, il posto che mi spettava in società, offrendo agli altri le mie doti di donna e di sensitiva. Per questo era apparsa Madame Ubumba: ogni giovane donna smarrita ha bisogno di una maestra, di un’istitutrice spirituale, e quando il momento è maturo tale maestra si manifesta spontaneamente all’allieva, anche se l’allieva è convinta di non averla cercata. Così mi ero affidata completamente a Madame Ubumba, e avevo appreso l’arte di leggere i fondi del caffè. Rifuggendo dalle normali miscele esistenti in commercio, studiate per il tradizionale espresso, una vera maga del caffè ricorre piuttosto a polveri esotiche provenienti da terre lontane, con le quali preparare il caffè alla turca: la polvere diventa infatti lo strumento essenziale attraverso cui eseguire la lettura. Applicandomi con impegno, ero riuscita a perfezionarmi in questa disciplina sensitiva, risolvendo l’antico conflitto con la nera bevanda. Tanto più che, come mi aveva insegnato Ubumba, non era necessario per il cliente bere la tazzina di caffè: bastava che questi si bagnasse solamente le labbra, quindi io gettavo via il liquido residuo, capovolgevo la tazzina su un vassoio, recitavo le formule invocatorie e, analizzando sia l’interno della tazzina sia i segni lasciati dalla polvere umida sul vassoio, avevo accesso ai segreti

nascosti nelle pieghe del tempo. Al cliente non veniva posta alcuna domanda; non era nemmeno indispensabile conoscere il suo nome, o il motivo che lo aveva spinto a recarsi da me. L’incantesimo creato dal caffè elargiva, attraverso il mio canale sensitivo e in assenza di qualsiasi domanda, tutte le informazioni necessarie al cliente per trovare conforto e aiuto, e per affrontare nella maniera giusta gli ostacoli posti sul suo cammino. Durante il periodo di apprendistato con Madame Ubumba mi ero lasciata alle spalle i vecchi abiti e le vecchie costrizioni, creando dentro e fuori di me una nuova figura di donna. A conclusione del rapporto tra maestra e allieva, Ubumba mi aveva insignita del titolo di “maga del caffè”, incoraggiandomi ad avviare un’attività in proprio. Ecco, questa era la mia storia recente: la storia di Madame Zelinda, una sensitiva conosciuta a Roma come altrove. Il rumore proveniente dalla porta chiusa interruppe il flusso nostalgico di ricordi che si snodava dentro di me. Qualcuno stava bussando. – Avanti, – dissi alzandomi dalla poltroncina. Irma, la mia corpulenta segretaria, introdusse il cliente e richiuse la porta. – Prego, si accomodi, – lo invitai io, andandogli incontro con disponibilità. Quando l’uomo si fu avvicinato, lo guardai ed ebbi un sussulto. – Alfonso, ma sei proprio tu! – Sì, Zelinda, sono io… dopo tanti anni, – rispose lui prendendomi le mani. Alfonso, il fidanzato della mia gioventù, l’uomo con il quale avevo tentato di mettere su casa, e che ben presto mi aveva abbandonata per l’incompetenza da me dimostrata nel preparare il caffè. Ne ero stata molto innamorata, e ancora oggi non l’avevo dimenticato. Dominando l’emozione, lo condussi al tavolo. Entrambi ci sedemmo, l’uno di fronte all’altra. Poi cominciammo a parlare. Alfonso era venuto a cercarmi perché aveva saputo di me e dei miei successi in quella nuova professione: voleva rivedermi, cogliendo nel contempo l’occasione per farsi dare qualche consiglio su certi problemi che lo assillavano. Mentre ci raccontavamo a vicenda gli avvenimenti intercorsi da quando ci eravamo lasciati, preparai il caffè. Con calma, sebbene non mi sentissi perfettamente a

mio agio per l’eccitazione, intrapresi il consueto rituale usando per questo speciale cliente un occhio di riguardo. Alfonso si bagnò appena le labbra con il caffè turco, quindi la lettura ebbe inizio. Mi concentrai, dilatando a poco a poco le mie percezioni. Guidata dai segni tracciati dalla polvere del caffè, vidi il ato, il presente e il futuro. Sollevai la testa e incontrai lo sguardo di Alfonso, anche lui leggermente agitato. Guardai nuovamente i fondi di caffè, ma… non mi fu facile rompere il silenzio che si era creato. Alla fine dissi qualcosa, riferii i fatti meno importanti, detti un’interpretazione di certe situazioni di contorno che riguardavano l’uomo seduto davanti a me, offrii alcuni suggerimenti, eppure… per quanto volessi rivelare la cosa più importante che avevo visto, la voce mi si spense in gola e non fui in grado di esprimere nient’altro. La seduta si protrasse ancora, ma avevo ormai bloccato il canale attraverso il quale ricevevo le informazioni provenienti dai piani dello spirito. Alfonso si mostrò comunque contento del responso ricevuto: dal suo atteggiamento traspariva un certo languore, una sorta di desiderio struggente che io finsi di non vedere. E finsi anche di non essere particolarmente toccata da un improvviso, inaspettato invito a cena che Alfonso proferì mentre si avviava alla porta: – Allora, Zelinda, che ne dici? Pensi di avere una serata libera da dedicarmi? Mi farebbe tanto piacere… – Alfonso, non so se è bene per noi… in ogni modo voglio accontentarti. Chiamami domani sera, e ci metteremo d’accordo, – conclusi mentre lo accompagnavo personalmente all’uscita dell’appartamento. Dissi alla segretaria che a questo cliente non doveva essere richiesto alcun pagamento; quindi, sulla porta, mi affrettai a salutarlo, senza impedirmi tuttavia di lanciargli un sorriso apionato, che Alfonso prontamente colse e ricambiò con calorosa intensità. Tornata nello studio, mi accucciai sulla poltroncina per riflettere. Cosa avevo intuito rispetto ad Alfonso? Cosa avevo visto realmente nei fondi del caffè? Io stessa non riuscivo ad ammetterlo. Avevo forse capito che Alfonso era tornato da me con la voglia di convincermi a riprendere il nostro vecchio rapporto? E la maga del caffè come si sarebbe comportata? Amava ancora quell’uomo e si consumava nell’ansia di riconquistarlo? Oppure pensava che, come stabilisce la tradizione, una vera maga non può mai innamorarsi veramente, pena la perdita di tutti i poteri?

ai il resto del pomeriggio a meditare. Mi immersi nel torrente di energia che scorreva dentro di me, attivai la voce interiore e mi osservai dall’esterno, con distacco; visualizzai dunque Alfonso, la nostra storia ata e gli avvenimenti recenti; infine mi collegai con Madame Ubumba, e le chiesi consiglio. Con una folata di profumo, vestita degli accesi colori d’Africa, Madame Ubumba giunse da me, e come sempre mi confortò e mi guidò teneramente. I nostri spiriti si fo in un’unica colonna di luce, finché un sussurro impalpabile riempì la stanza: “Non ipotecherò il mio futuro riguardo all’amore, ma semplicemente amerò ogni volta che mi viene offerta l’occasione di farlo, semplicemente accetterò la vita così come si presenta. Sarò felice quando è il momento di esserlo, e trasformerò i periodi tristi in occasioni di crescita. Ora e per sempre, io sono una creatura libera che conosce sé stessa, sono una vibrazione di pace che percorre il mondo… Io sono l’aroma prelibato del caffè, sono la sua polvere nera che porta l’estasi, e in me ogni domanda si annulla per creare speranza, gioia e serenità…”.

Vietato ai minori di anni 18

Amplessi in una camera d’albergo (V.M. 18)

Dedicato a Sharm el-Sheikh

Fui svegliata da un rumore insistente. Qualcuno bussava alla porta. Dovetti compiere uno sforzo per alzarmi, stordita com’ero; brancolando nel buio raggiunsi la maniglia e la feci scattare. L’intensa luce del giorno m’investì con vigore, portando con sé Atef, il riordinatore delle camere. Lo avevo conosciuto giusto ventiquattr’ore prima, uscendo per andare a fare colazione; ma a parte il nome, di lui non sapevo altro. Era alto, giovane e ben piantato; aveva baffi e capelli neri come l’ebano. Atef, che parlava un italiano elementare ma sufficiente per capirci, mi salutò e chiese se poteva entrare per mettere a posto la stanza; risposi di sì, lui portò all’interno il carrello con l’occorrente e io tornai a buttarmi sul letto. Le tende erano chiuse, il ragazzo le aprì ma non del tutto; poi lo sentii venire vicino al letto. Girai la testa e lo guardai: indossava dei pantaloni lunghi di cotone, con l’elastico in vita, che in un attimo si abbassarono insieme allo slip per rivelare un dettaglio anatomico di notevoli dimensioni, totalmente impennato, protervo e dominatore. – Oh, tu piace questo, vuoi? – domandò Atef offrendomi il suo gioiello. Apprezzai molto sia il dono sia le maniere sbrigative, pensando che era meglio non perdere tempo in chiacchiere; infatti, senza rispondere, mi misi seduta e accolsi in bocca e in gola l’ingombrante visitatore, mentre il proprietario si sbottonava la casacca rivelando un bellissimo torace muscoloso e peloso. Dopo un prolungato servizio in quella posizione Atef mi chiese se c’era il rischio che arrivasse qualcuno a disturbarci: risposi di no, comunque a scanso di sorprese andai a chiudere a chiave la porta. Mi tolsi il pigiama per avvolgermi in un velo luccicante comprato la sera precedente, e infilai in testa una cuffietta di perline con fili che scendevano sul retro e ai lati del collo. Combinata in quell’arnese per la gioia del mio inaspettato amante, mi stesi sul letto accanto a lui e mi disposi

ad accontentarlo in tutto e per tutto. Avvinghiati in un crescendo di ione entrambi usammo la bocca, il corpo, le mani trasportandoci a vicenda in un regno di brucianti desideri: Atef, nella sua bella baldanza, mi prese prima da dietro facendo attenzione viste le dimensioni del suo strumento, poi mi fece girare a pancia in su, sistemò un guanciale sotto il mio fondoschiena e si dedicò nuovamente al massaggio interno, ovvero all’ispezione di quei due pertugi che ai maschi piacciono tanto. Senza fretta, con spinte ripetute e introduzioni ben eseguite, alternando il buco di sopra con quello di sotto, direi che lo stimolante ragazzo mi stimolò davvero a fondo, cavandomi di bocca strilli e gemiti degni di un film a luci rosse. Osservai nello specchio appeso sul comò i nostri corpi intrecciati: il contrasto fra la sua pelle scura e pelosa e la mia bianca e depilata era perfetto per accrescere in noi imperiose libidini. Atef sembrava instancabile, tanto che gli amplessi proseguirono per un tempo immemorabile; mi sentii sempre più coinvolta, sopraffatta e stordita dagli odori e dai sapori di quella mole virile, che si adoperava per convogliare dentro di me l’essenza di un mondo soleggiato, caldo e avvincente. Il risveglio mattutino non avrebbe potuto essere migliore. Ero a Sharm el-Sheikh da pochi giorni e già stavo mietendo un successo dopo l’altro: i corteggiatori, anzi, i paladini del sesso spuntavano da tutte le parti. Guardai Atef che si riposava accanto a me e ringraziai la sorte per avermi concesso quel meraviglioso incontro. – Tu piace me tanto, – disse lui accarezzandomi, – tua pelle liscia e morbida… Quanti anni tu ha? – Oh, beh… – Tu quanti ne hai? – Io ventiquattro. Dire tu ora. – Io ventotto, – dichiarai, mentendo spudoratamente sulla mia vera età, perché non volevo presentarmi come una vecchia ciabatta. D’altra parte lui ne aveva ventiquattro e ne dimostrava trentacinque (gli uomini dei climi caldi maturano prima); io che ne avevo oltre trenta mi mantenevo bene e potevo tranquillamente sembrare più giovane. – Domani si tu vuoi io tornare, – propose il mio esuberante ammiratore, ansioso

di ripetere un’attività che senza dubbio aveva gradito. – Sì, sì, vieni, – risposi, – ti aspetto dopo le dieci, d’accordo? A quell’ora potevo essere sicura che Alessandro avesse già lasciato la stanza per recarsi sulla spiaggia, dunque avremmo avuto campo libero. Atef annuì, si alzò e andò in bagno per fare una doccia veloce; poi si rivestì e, mentre a mia volta andavo a lavarmi, cominciò a are l’aspirapolvere e a svolgere le altre mansioni previste dal suo lavoro. Ci salutammo con un bacio prima di uscire: lui aveva altre camere di cui occuparsi, io sarei ata dal bar per un caffè, quindi avrei raggiunto mio marito sulla spiaggia.

La Terza Isola

Dedicato a Parigi

Chi non conosce le due isole che affiorano dalle acque della Senna nel centro di Parigi? Si tratta rispettivamente dell’Île de la Cité e dell’Île Saint-Louis. Sono entrambe molto affascinanti, con le loro stradine, i palazzi antichi, i bistrot e gli altri luoghi d’interesse, tra cui la cattedrale di Notre-Dame. Ma forse non tutti sanno che esiste una terza isola… un’isola fantasma, che appare solo nelle notti di nebbia, e della quale si raccontano cose favolose. Se chiedete agli abitanti della città, o a qualche negoziante come i bouquinistes, cioè i venditori di libri antichi situati sulle sponde del fiume, vi risponderanno più o meno allo stesso modo: sono tutte frottole, è una leggenda metropolitana, non ho mai sentito parlare di una simile idiozia… ma potreste anche trovare la persona giusta, la quale vi confermerà l’esistenza di questa misteriosa isola che appare e scompare. Io, essendo piuttosto curiosa, mi sono impegnata per svelare l’enigma, prima chiacchierando e intervistando, poi andando a scartabellare negli archivi parigini meno noti. Dunque, la Terza Isola esiste veramente, tuttavia sembra appartenere a un’altra dimensione, a una specie di “universo parallelo”, e ciò fa sì che essa non sia sempre presente nel fiume come le sue due sorelle. L’Isola si manifesta solo di notte e solo in presenza di nebbia, o forse è l’Isola stessa a produrre la nebbia che l’avvolge e che si estende anche alle zone centrali della città. L’affioramento, di forma ovale, si colloca davanti all’Île de la Cité nel senso di scorrimento della Senna; in quel punto lo spazio è limitato, pertanto l’Isola può dare l’impressione di essere molto piccola guardandola dall’esterno, ma chi l’ha visitata afferma che in realtà essa è vasta e rigogliosa, colma di giardini fioriti, edifici più o meno grandi, torri, casette, piazze e sentieri. Si può raggiungere l’Isola da due ponti: il Pont des Arts e il Pont du Carrousel, ambedue situati all’altezza della fiancata del Louvre. Attenzione però: l’accesso alla Troisième Île non è concesso a tutti, bisogna essere personaggi particolari sia per riuscire a individuarla sia per

potervisi recare. Infatti questo territorio ultradimensionale si nasconde a quei soggetti che non siano artisti, creativi, esoteristi, sensitivi o persone dotate di una fantasia fuori dal comune. Se un normale individuo, privo dei requisiti suddetti, eggiando dopo il tramonto sul Lungosenna nei pressi del Louvre (oppure sul Quai Malaquais, Rive Gauche), scorgesse la sagoma dell’isola e volesse andarci, mettendo il piede su uno dei due ponti di collegamento verrebbe subito respinto da una forza invisibile; se, al contrario, l’individuo in questione non notasse nulla di particolare, potrebbe attraversare tranquillamente l’uno o l’altro ponte per guadagnare la riva opposta. La Terza Isola non ammette visitatori qualunque: essa accetta solamente ballerini, cantanti, scrittori, pittori, disegnatori, medium, cartomanti, ricercatori dell’occulto e altre categorie analoghe. Questo regno incantato è presieduto da un collegio direttivo formato da tre donne, chiamato La Triade: sono loro ad aver creato l’Isola, probabilmente ricorrendo ad arti magiche. La forma di governo del territorio è assolutamente democratica, con particolare riguardo ai diritti di esseri umani, animali, piante e minerali. Vediamo adesso di conoscere meglio le tre esponenti del collegio direttivo. La prima si chiama Cette, cioè “Quella”, come dire Cette Femme-là, “Quella Donna là”, perché è proprio lei senza ombra di dubbio: la famosa scrittrice in incognito che si annida nella Terza Isola per trarre l’ispirazione letteraria e produrre così opere di qualità. Cette ha l’incarico di amministrare alcuni settori creativi, non solo quello inerente la scrittura. La seconda è Concepte, una splendida dama di periferia trasferitasi a Parigi in cerca di fortuna: come dice il nome, essendo costei un’abile donna di concetto, il suo apporto diviene di fondamentale importanza riguardo alle pratiche occulte a cui si dedicano molti ospiti dell’Isola. Infine abbiamo la terza componente della Triade: il suo nome è Starlette, e delle tre è la più sgangherata. Ragazza vecchiotta ma ancora piacente, apionata di balli sensuali in abiti succinti, Starlette controlla e consiglia coloro che intendono esibirsi sui palcoscenici; lei stessa, circondata da altre ballerine, ancheggia quasi ogni sera in topless e adorna di piume allo scopo di intrattenere la platea, soprattutto quella maschile (chi preferisce gli uomini non si preoccupi, nell’Isola è alloggiato stabilmente un gruppo di ballerini muscolosi vestiti solo di perizomi in similpelle nera). Ma, vi domanderete, a cosa serve quest’Isola che c’è e che non c’è? Semplice, essa rappresenta il rifugio e il luogo d’elezione di persone originali,

che si distinguono – o vogliono distinguersi – dalla massa. Non a caso nella Troisième Île capitano spesso artisti e personaggi famosi provenienti da ogni parte del mondo, e in occasioni speciali Cette, Concepte e Starlette si fanno affiancare da una triade ancor più celebre: Peter Pan, Camlino e Capitan Uncino. La Terza Isola di Parigi offre a ciascuno la possibilità di sviluppare il proprio potenziale, imparando tante cose, dando libero sfogo alla creatività e ando ore liete in compagnia di amici “di larghe vedute”. Se vi recate nella capitale se non dimenticate di dare un’occhiata, quando fa buio, alla zona che vi ho indicato, potreste essere fortunati… ovviamente questo luogo magico non è segnalato nelle guide turistiche.

Il segreto della maggiordoma

Dedicato agli scrittori che si autopubblicano

Quella famosa scrittrice americana di romanzi rosa, tradotta in varie lingue, ha un segreto che pochi sapranno immaginare. Anche se, per ovvi motivi, devo tacere il suo nome, i lettori più intraprendenti riusciranno a scoprirne l’identità, visto che la suddetta è sempre in ballo tra interviste in tv e alla radio, articoli su giornali e riviste, citazioni e rimandi su Internet. Costei è anzianotta ma ancora belloccia, formosetta, sorridente, spiritosa e ha una fluente capigliatura biondo scuro. Ma sì, dai, avete capito benissimo di chi parlo! Poiché sono stufo di raccontare frottole sul mio e sul suo conto, adesso, finalmente, colgo l’occasione per dire tutta la verità. In poche parole: i sensuali romanzi d’amore, conditi di sesso e intrighi, che hanno reso celebre tale autrice non sono stati scritti da lei. Eh beh, inutile sgranare gli occhi, la signora in questione non è neppure capace di tenere la penna in mano, anche se oggi bisognerebbe dire piuttosto che non sa scrivere al computer (dettaglio peraltro vero). Tutti i suoi romanzi, dal primo all’ultimo, li ho scritti io, proprio così! Ciò di cui lei si vanta è in realtà opera mia, e per arrivare a risultati di pregio devo leggere, documentarmi, aggiornarmi, pensare e ripensare… insomma, si tratta di un’attività abbastanza impegnativa. Ma io chi sono, vi chiederete. Chi è che vi parla attraverso questa confessione? Ebbene, mi chiamo Annibal, nome orrendo, per cui mi faccio chiamare Anny; ho quasi quarant’anni, sono nato in una cittadina del Texas, ma attualmente risiedo a Beverly Hills, nella villa della mia datrice di lavoro. Io e lei, con altre persone di servizio, ci spostiamo di tanto in tanto, e soggiorniamo al mare, in campagna o in altre città: Costa Azzurra, Bali, Parigi, Caraibi, Roma, New York, secondo i

casi. In effetti ho la fortuna di viaggiare, tutto spesato, e di visitare bellissime località. Ma non sono completamente soddisfatto. Nell’età matura, dopo aver sfornato ben 32 romanzi di successo (una media di due all’anno!), le mie ambizioni si sono evolute, e il segreto custodito così a lungo adesso è scoppiato come una bottiglia di champagne che sia stata agitata prima di venire stappata. È arrivato il momento di servirlo a qualcuno, questo misterioso champagne… dunque presentatemi i bicchieri e scoprirete il seguito della bizzarra vicenda. Venni assunto circa quindici anni fa come maggiordomo personale di tale riccona, la quale a quel tempo era già piena di quattrini grazie a varie eredità ricevute, e non pensava certo di dedicarsi alla narrativa. Fui io a metterle l’idea in testa. Dato che, modestamente, so scrivere abbastanza bene, qualche mese dopo aver cominciato a lavorare presso di lei, entrando in confidenza, le feci leggere un mio romanzo d’amore e d’avventura, mai stampato. La mia padrona ne rimase estasiata, tanto che mi chiese il permesso di farlo valutare a un suo amico editore, giusto per avere un parere; ma, quando quest’ultimo si fu espresso positivamente, la furbona non si adoperò per ottenere la pubblicazione a mio nome, e con un sacco di chiacchiere mi propose una sorta di collaborazione. Avrei fatto meglio a pensarci su, invece di accettare su due piedi: ma ero giovane e inesperto, pertanto acconsentii a scrivere io i libri, discutendo le ambientazioni e le trame con lei, in modo da scambiarci suggerimenti e aiutarci a vicenda nel creare prodotti di qualità; lei poi li avrebbe pubblicati a suo nome, riconoscendomi una percentuale del 10% sulle vendite, e avrebbe anche continuato a pagarmi lo stipendio di maggiordomo. La signora fu generosa, non posso negarlo; in anni di fedele servizio ho messo da parte un bel gruzzolo per la vecchiaia… Però vi domando, il fatto di vedermi negata la soddisfazione di pubblicare almeno un romanzo a nome mio, vi sembra un’angheria da poco? E lei, che pure è carina con me, mi vuole bene e mi vezzeggia, ha ottenuto la fama mondiale senza bisogno di ricorrere al proprio (inesistente) talento letterario! La biondona viene intervistata, invitata, osannata… riceve lettere dai fan, presenta i suoi libri nelle librerie e nei circoli culturali… io invece sto a casa e scrivo. Mah, ditemi voi se vi pare giusto. Comunque c’è un’altra cosa che devo rivelarvi. Per essere sinceri non sono del tutto un maggiordomo, direi che sono più propriamente una maggiordoma. Eh sì, purtroppo ho un altro problema, o forse potrei definirla una risorsa, dipende dai punti di vista: per scrivere bene i romanzi devo vestirmi da donna. Se divento davvero Anny, non solo

mentalmente ma anche nelle vesti e nel sembiante, riesco a calarmi con facilità nella parte della scrittrice e posso inventare storie audaci, pasticci amorosi, descrizioni lascive e tutto ciò che l’immaginazione mi suggerisce. Oh, d’altra parte ognuno è fatto a modo suo, spero che non avrete da obiettare riguardo a un innocente vizietto. La mia padrona è a conoscenza di questo espediente e, sapendo che amo vestirmi da donna in privato (anche per il buon esito dell’attività di scrittura!), compra per me lingerie e abiti, oppure mi regala qualcosa di suo, tra cui gioielli e prodotti per il maquillage; anche per le parrucche la sua competenza e i suoi quattrini mi sono di grande aiuto. Mi depilo completamente ricorrendo al laser (tanto paga tutto lei), perché una donna pelosa farebbe ribrezzo a un gorilla; curo le unghie e le sopracciglia, vado in palestra, mi faccio i trattamenti antirughe e via dicendo. Praticamente questo doppio segreto viene mantenuto tra noi due, nessun altro lo conosce. Ah, dimenticavo di dirvi che fin dal momento del nostro accordo relativo ai romanzi, molti anni fa, lasciai l’incarico di maggiordomo, altrimenti se avessi dovuto proseguire con le mie iniziali mansioni non avrei avuto sufficiente tempo libero per diventare un’occulta scrittrice. Tuttavia, per gettare fumo negli occhi ai vari ospiti che frequentano la villa e le altre dimore, vengo sempre presentato come maggiordomo: in simili occasioni sfoggio l’uniforme e fingo di esercitare la professione, ma ben presto scappo in camera mia, mi travesto e mi trucco, accendo il computer e inizio a scrivere. Quando lei viene a farmi visita, dopo aver congedato gli ospiti, mi abbraccia e m’incoraggia, dicendomi quanto sia legata a me e quanto consideri amabile e preziosa la sua splendida maggiordoma. Per fortuna il giovedì pomeriggio e nell’intera giornata della domenica posso svolazzare a piacimento nel giardino e all’interno della villa, indossando vestaglie, bustini e tacchi a spillo; infatti in quei giorni le altre persone di servizio sono tutte libere e si tolgono dalle scatole, mentre quando sono presenti si meravigliano per il fatto che il maggiordomo è quasi sempre chiuso nella sua stanza, o in ogni caso non si comporta come tale. La padrona ha propinato loro una fandonia per rendere credibili le mie continue assenze: ha detto che sono un suo lontano parente bisognoso di aiuto, figlio di un caro cugino defunto, e che lei mi ospita e mi paga lo stipendio anche se lavoro poco (figuriamoci se lavoro poco, sto sempre chiuso in camera a scrivere!), che lei è la mia benefattrice e mi scusa perché sono un soggetto introverso, lunatico, sensibile e chissà cos’altro. La storiella sembra reggere, e gli altri domestici si guardano bene dal fare commenti o dal chiedere ulteriori spiegazioni. Quando ho terminato un’opera, la mia signora la rilegge e, senza alterare il mio

stile che le ha fruttato così tanti successi, esprime il suo parere o segnala eventuali correzioni da apportare. Completato il libro, lei lo porta al suo editore e firma il contratto. Fin qui tutto bene, per quasi quindici anni, ma da qualche mese ho deciso di cambiare musica. Semplicemente ho affrontato la mia datrice di lavoro e le ho detto che non ce la faccio più a garantirle due romanzi all’anno, ormai comincio a invecchiare e mi stanco facilmente, la fantasia talvolta mi abbandona… Lei è stata comprensiva e ha accettato l’impegno per ottenere da me un solo romanzo all’anno, accordandosi anche con l’editore e mantenendo inalterato il mio stipendio e la percentuale sulle vendite dei libri. Io però di libri continuo a scriverne due lo stesso, almeno finché il fiato e le capacità non mi abbandonano. Un romanzo lo tengo nascosto, lo firmo con uno pseudonimo femminile e lo sbatto come e-book su Internet, in un favoloso sito americano dove si può pubblicare e vendere da autori indipendenti. Questo trucchetto comincia a produrre i primi risultati, visto che alcune copie le ho già vendute. Non si tratta di una questione di soldi, più che altro voglio avere la gioia di dire che esisto anch’io, come scrittrice, e non solo lei. Così facendo m’impegno nel costruire, giorno dopo giorno, lentamente e faticosamente, la scala dorata che mi porterà al… best-seller! Se dovessi incontrare il successo, se mi contatterà un editore per pubblicarmi in cartaceo o se mi chiederanno un’intervista… beh, allora uscirò allo scoperto travestito da donna, cosa m’importa, ci sono certe ciofeche in giro, anche tra le persone famose, che potrò esserci io. Un bacio dalla vostra Anny!

La gatta della dea Bastet

Dedicato a Lady Fuffa

Sono distesa su un lettino e mi trovo in trance ipnotica. Il mio guru è al lavoro su di me, nell’atmosfera ovattata dello studio, allo scopo di ripescare dal mio inconscio memorie di vite precedenti. Aromi leggermente speziati esalano dal diffusore di essenze collocato in un angolo della stanza, risalgono la penombra e giungono a stuzzicarmi, così da facilitare il viaggio interiore che sto per intraprendere. Le parole dell’ipnotista hanno un tono perentorio, ma anche delicato e rassicurante, pertanto mi abbandono affidandomi completamente a lui. Mi viene detto di visualizzare una porta chiusa, che io posso aprire, e al di là di questa una scala in discesa di dieci gradini; via via che scendo mi avvicino sempre più ai ricordi ancestrali del mio percorso evolutivo e, al termine della scala, entro in un tunnel completamente immerso nell’oscurità. Cammino nel tunnel senza paura, sento i miei i risuonare nel silenzio circostante, finché intravedo in fondo un debole chiarore… Raggiungo la fine del tunnel, esco alla luce e mi ritrovo in una vita precedente. Osservo le mani, i piedi, la parte inferiore del corpo: sono un uomo, vestito con una tunica di pregio; indosso bracciali d’oro ai polsi e sandali di giunco, secondo lo stile dell’antico Egitto. Le parole della voce-guida mi sollecitano a ricordare il mio nome e il mio ruolo: Akhashdjet, assistente sacerdote al tempio della dea Bastet, nella città di PerBastet, chiamata in greco Bubasti, sede del più grande santuario dedicato alla divinità dalla testa di gatto. La scena cambia e vedo la facciata del tempio: è davvero imponente, un fossato lo circonda; sul tetto spuntano degli arbusti in fiore, tipici di un vero e proprio giardino pensile. Siamo nel delta del Nilo, l’acqua che scorre intorno all’edificio proviene dal fiume attraverso una serie di canalizzazioni. Le piante del giardino pensile ricevono regolari innaffiature grazie a un elaborato sistema di argani e ruote con recipienti di legno, cosicché l’acqua del fossato raggiunge il tetto, dove gli schiavi provvedono a distribuirla. Si accede al tempio mediante una specie di ponticello che immette in un maestoso portale di forma trapezoidale, ornato di bassorilievi e geroglifici; le pareti della grande costruzione sono invece realizzate in pietra levigata. Oltreato il portale mi trovo in un cortile, dove file regolari di alte colonne

dipinte si levano da terra per sostenere blocchi a sezione rettangolare, posizionati sulla sommità delle colonne stesse per tutta la larghezza del cortile, così da formare un soffitto aperto da cui entra la luce del sole. Vedo gruppi di persone che si dirigono più avanti, verso una grande porta simile a quella che mi sono appena lasciato alle spalle. Procedo guardandomi intorno, ma sembra che gli uomini e le donne presenti nel cortile non badino a me. Al di là della porta mi attende una sala enorme, satura di profumi dolciastri, illuminata da decine di fiaccole e bracieri, dove è in corso una cerimonia religiosa. Voci, musica e canti s’innalzano davanti alla grandiosa statua della dea, la quale si trova all’estremità opposta della sala. Rimango stordito dalla bellezza di quella straordinaria opera d’arte, realizzata in legno laminato d’oro e alta non meno di trenta metri, tuttavia dentro di me so di conoscerla già. Bastet è raffigurata come una donna in piedi, con la testa di gatta e un abito lungo fino alle caviglie, aderente e scintillante di piccole gemme; porta intorno al collo il wesekh, il collare variopinto che le scende sul petto, mentre nelle mani tiene i simboli del suo potere. Il braccio destro è alzato e regge il sistro, lo strumento musicale a lei consacrato; il braccio sinistro scende lungo il corpo e nel pugno è serrata l’ankh, o chiave della vita, il talismano della forza creatrice. Sento un’ondata di commozione avvolgermi: io conosco quell’ambiente, quella statua e quegli oggetti, perché appartengo alla casta dei sacerdoti… La parte finale della sala è costituita da un piano rialzato e recintato, al quale si accede salendo alcuni gradini; la dea si trova al centro di tale piano, su un basamento di granito; ai suoi piedi cesti, vassoi e altri recipienti colmi di offerte, coppe nelle quali bruciano gli aromi, sculture di gatti piccole e grandi. Mi avvicino per guardare meglio; nessuno fa caso a me, è come se fossi invisibile. All’interno del sancta sanctorum, cioè il piano rialzato circondato dal recinto nel quale i fedeli non sono ammessi, i sacerdoti stanno officiando la funzione davanti alla grande statua; oltre ai musici sono presenti numerosi gatti veri, in carne e ossa, dai colori più diversi, ciascuno ingioiellato con un collarino d’oro e pietre preziose: sono questi i gatti sacri, nutriti e accuditi come incarnazioni della divinità, e utilizzati a scopi magici e terapeutici. Rammento che uno dei miei compiti è proprio quello di occuparmi dei gatti, e di soprintendere alle sedute di guarigione che vengono effettuate in alcune stanze del tempio appositamente attrezzate. Mano a mano che visualizzo queste scene riferisco al mio guru ogni dettaglio; lui pone qualche domanda e m’invita a recarmi nelle zone riservate,

dietro la statua di Bastet. Nell’eseguire il comando ipnotico ho l’impressione di levitare, o forse di are come un fantasma accanto al Gran Sacerdote, sfiorandolo: il suo volto mi è familiare, e la pelle di leopardo che gli copre le spalle indica il suo grado. La visuale muta ancora una volta e sono nella parte più interna dell’edificio, riservata ai sacerdoti e alle altre persone che prestano servizio nel tempio; davanti a me una porta di legno e metallo, caratterizzata dalla presenza, su ciascuna anta, di un bassorilievo raffigurante Maat, dea dell’ordine e della giustizia, con la piuma sulla testa e le ali spiegate in segno di protezione. Le due figure, una a destra e una sinistra, sono speculari e si distinguono per le raffinate decorazioni fatte di pasta di vetro colorata e nervature d’oro e d’argento. Maat, figlia di Ra e sorella di Bastet, non appare per caso su quella porta: certamente è chiamata a proteggere qualcosa d’importante. Apro leggermente uno dei battenti e, infilatomi nell’angusto aggio, trovo un cortile stretto e lungo, circondato da alte mura. In mezzo al cortile sorge un edificio rettangolare, a un solo piano, con porte chiuse e finestre sbarrate da imposte di legno. So che si tratta di una specie di deposito di materiali segreti, dove io non posso entrare. Mi pare di ricordare di aver sbirciato da fuori una volta, mentre accompagnavo altri sacerdoti; mi fu negato l’accesso, ma mi venne detto che lì si conservavano utensili, suppellettili, amuleti, pozioni e sostanze da impiegare in certi rituali magici dei quali, per il momento, dovevo rimanere all’oscuro, considerando la mia posizione nella gerarchia ecclesiastica. Sto ancora parlando e riferendo all’ipnotista ciò che vedo, quando lui interviene con voce suadente e mi consiglia di dare un’occhiata agli altri ambienti del complesso sacro. o attraverso una nebbia sottile ed emergo in una sala illuminata da finestre poste in alto e semicoperte da tendaggi: è il luogo dove si tengono le terapie. Ci sono dodici tavoli di granito, disposti in file di tre, con spazi laterali per are; lungo le pareti, sotto le finestre, sono disposti mobiletti e mensole pieni di flaconi colorati, scatole, caraffe di metallo e vasi di alabastro, contenenti i farmaci più disparati. I tavoli fungono da letti: sono alti almeno fino alla vita di una persona che stia in piedi, hanno dei materassini e dei teli di lino affinché i pazienti vi si possano stendere comodamente, così da ricevere le cure appropriate. In quel locale Bastet si manifesta tramite i guaritori: la figlia di Ra, chiamata anche Signora delle Bende, possiede il potere di sanare numerose infermità fisiche e mentali. I gatti sacri vengono utilizzati direttamente sui malati per canalizzare e dirigere gli

influssi della dea, mentre i sacerdoti effettuano l’imposizione delle mani e recitano preghiere e formule accompagnatorie. Anch’io sono uno di quei guaritori, e quando mi concentro sento le mie mani riscaldarsi, vibrare e irradiare energia. La voce-guida torna a esprimersi, dicendomi di recarmi al mio alloggio. Dispongo di due stanze situate nella zona ovest del tempio, al piano terra, mentre i sacerdoti di grado più elevato risiedono al primo piano, proprio sotto il giardino pensile. Varcando la soglia del mio appartamento noto subito due piccole statue di terracotta dipinta, sistemate su di un mobile basso, in quella che può essere considerata un’anticamera arredata con stuoie, cuscini, un tavolo, sgabelli e una sorta di armadio. La prima statua è una classica versione di Bastet antropomorfa, con la testa di gatta; la seconda è simile, ma ha la testa di leonessa, poiché rappresenta la dea nel suo aspetto di guerriera: Sekhmet, La Terribile, entità sanguinaria incaricata di annientare i nemici dell’Egitto. Eseguo un inchino in direzione delle statue e mi dirigo nella seconda stanza, destinata al riposo notturno. Qui mi attende un gatto adagiato nel centro del letto, un felino di media taglia, dal pelo bianco e grigio, leggermente tigrato, con due occhi verdi luccicanti come smeraldi… Avvicinandomi percepisco che si tratta di una gatta, sì, è una femmina, e mentre muovo un o succede una cosa incredibile, come se tutto quello che ho visto finora non fosse stato abbastanza sorprendente. La gatta emana un alone multicolore che la nasconde alla vista, l’alone si amplia e poi si attenua fino a scomparire, rivelando una bellissima donna dai capelli neri, vestita con un abito fatto di veli semitrasparenti. La donna scende dal letto, viene verso di me e mi parla, non attraverso la voce diretta, bensì con il pensiero: “Akhash, mio grande amore,” dice la donna utilizzando il diminutivo del mio nome, “sono io, la tua Iset”. In quell’istante la riconosco: è proprio lei, Iset, la gatta prediletta che tenevo sempre con me e alla quale avevo assegnato il nome di una concubina reale, madre del mio faraone Thutmosis III. Noi sacerdoti abbiamo l’obbligo del celibato e della castità, ma io desideravo ardentemente una compagna, così avevo chiesto aiuto a Bastet ed ero ricorso a suppliche e sortilegi allo scopo di far sì che la gatta potesse trasformarsi in donna a mio piacimento, rimanendo tuttavia nascosta a chiunque abitasse nel tempio. Iset, dopo un giorno e una notte trascorsi in un sonno profondo – cosa che mi

aveva fatto temere per la sua salute – si era risvegliata, e quando io avevo pronunciato la formula l’incantesimo si era compiuto: la gatta aveva assunto sembianze umane, diventando così, per lunghi anni, la mia innamorata, che provvedevo a ritramutare in animale quando dovevo celarne la presenza. Adesso, grazie alla regressione ipnotica, l’ho finalmente ritrovata. Dopo esserci abbracciati e baciati, Iset prosegue e mi regala una promessa: “Io sarò sempre con te, anche nelle incarnazioni future. Non avere paura di perdermi: ricomparirò, e continueremo ad amarci per sempre…”. Vorrei stringerla ancora tra le braccia, ma la visione sfuma e sento la voce del mio guru che, dolcemente, mi avverte della necessità di fare ritorno. Iset si allontana sorridendo; sul suo volto leggo un’espressione intesa a confortarmi, protendo le mani in avanti per afferrarla e portarla via con me, ma non ci riesco; allora provo dolore per quella separazione e, a malincuore, visualizzo il tunnel buio che mi ricondurrà alla mia esistenza attuale.

*****

Ho lasciato lo studio dell’ipnotista e sto tornando a casa. La regressione di oggi mi ha molto colpita, generando in me un misto di gioia e sofferenza. Sono una donna sola, che vive una vita ordinaria fatta di lavoro, frequentazione di alcune amiche e interessi esoterici; ma non ho un uomo da amare. Apro il portone del palazzo dove abito, salgo la rampa di scale che conduce al primo piano; ancora confusa, mi pare di udire un miagolio… Sul pianerottolo, davanti alla porta del mio appartamento, c’è un gatto tigrato, bianco e grigio, con gli occhi di un verde intenso, che mi viene subito incontro facendo le fusa, come se mi conoscesse, come se fosse in attesa di me. Non capisco se sto sognando… Prendo il gatto in braccio e mi accorgo che è un maschio; infilo la chiave nella serratura, apro e lo introduco in casa. Può darsi che qualche volta i sogni si avverino. Forse da oggi non sarò più sola.

Solo dalla vita in giù

Dedicato alle gambe delle donne

Ho abitato a Parigi lavorando come modella delle gambe. Come sarebbe a dire, vi chiederete. La cosa è semplice: facevo l’indossatrice per foto pubblicitarie, ma solo per quanto riguardava calze, reggicalze e mutandine. Ero stata assunta con un buon contratto da un’azienda produttrice di quel genere di abbigliamento e i miei datori di lavoro, che sfornavano in continuazione autoreggenti, collant, perizomi e simili, avevano necessità di realizzare immagini adatte a pubblicizzare in vari modi la merce proposta. Così entrai in gioco io, rispondendo a un annuncio letto quasi per caso su un quotidiano, mentre attendevo il mio turno dal parrucchiere. Senza falsa modestia devo dire che avevo e ho tuttora due gambe invidiabili, lunghe, diritte e affusolate, pertanto non mi fu difficile ottenere quel posto: mi bastò presentarmi con una minigonna vertiginosa, che lasciava intravedere le bande di pizzo al silicone utilizzate per fare aderire le calze al girocoscia, e in pochi attimi, ricevuta per il colloquio dal capo del personale… beh, sbaragliai tutte le concorrenti. Cominciai dunque a lavorare in lunghe e faticose – ma anche divertenti – sedute di posa, indossando tutta la migliore produzione del settore, poiché si trattava di una delle più importanti ditte si. Con il are del tempo le mie gambe fecero da o a calze di ogni tipo: a rete, stampate a pelle di leopardo, bianche con fiocchi rossi in stile infermiera sexy, nere velate con la riga dietro, colorate e coprenti per le ragazze giovani, collant aperti nel cavallo e chi più ne ha più ne metta. Non solo: indossavo anche reggicalze ricamati e impreziositi di strass, mutandine minuscole e semitrasparenti, culotte decorate, giarrettiere, gambaletti e pantacollant. I fotografi mi immortalavano in tutte le salse, facendomi cambiare continuamente posizione e variando gli sfondi o gli accessori che dovevano comparire insieme alla sottoscritta, la quale

naturalmente veniva ritratta solo dalla vita in giù. In circa un anno di lavoro penso di essere diventata protagonista di alcune migliaia di foto, che potrete ancora trovare sulle buste di confezione, nei cataloghi e nel sito Internet di quella favolosa azienda, se mi decidessi a rivelarvi il suo nome… ma lasciamo perdere quest’ultimo, irrilevante dettaglio. All’inizio ero molto contenta di quel mestiere, anche perché guadagnavo delle buone somme; inoltre alcuni ammiratori, notando i miei sensuali arti inferiori in giganteschi manifesti pubblicitari, scrivevano o telefonavano alla ditta chiedendo di me, chi fossi e se potevano avere il mio numero di telefono per invitarmi a cena. Come certo comprenderete, simili corteggiamenti, anche se da parte di sconosciuti, a una donna fanno sempre piacere. Le cose procedevano bene, Parigi era splendida, non mi mancavano le amicizie e godevo di ottima salute; tuttavia, dopo alcuni mesi di foto selvagge, qualche dubbio affiorò prepotentemente dentro di me. Mi resi conto che non mi accontentavo più di mostrare solo le gambe, no, volevo apparire tutta intera, rendermi visibile per quella che ero, esibire anche il viso (il quale, al pari delle gambe, non era proprio da buttar via). Mi domandai allora quale soddisfazione interiore ricavassi a esporre solo una metà del corpo, e non ne trovai alcuna. Rimuginando, mi paragonai a uno scrittore non affermato, le cui opere vengono trascurate dalla massa: ero anch’io, come lui, una persona senza fama, che il pubblico notava esclusivamente come anonima figura di contorno rispetto agli articoli reclamizzati. Il mio nome era ignoto (l’azienda non si sognava certo di aggiungerlo alle foto!) e il mio volto pure. Ben presto subentrò in me una sorta di frustrazione. Direte forse che ero troppo ambiziosa, malata di megalomania, eccessivamente desiderosa di diventare celebre: sì, il problema poteva essere questo, ma visto che sono qui a raccontare la mia storia, rispondo che se lo scrittore non ama rimanere sconosciuto, ciò vale a maggior ragione per l’indossatrice. In fin dei conti sia scrivere sia farsi fotografare sono due attività che presentano un sottofondo di esibizionismo, e la seconda più della prima. Non osando licenziarmi di mia iniziativa per timore di rimanere senza lavoro e non potendo imporre ai miei superiori di venire fotografata in viso, fu il corpo a trovare la soluzione. Mi si scatenò una feroce allergia, la quale colpì le gambe e solo quelle. A partire dall’altezza a cui arrivavano le calze per scendere fino alle caviglie, la pelle si riempì tutta di macchie rosse, di gonfiori e screpolature che mi procuravano un fastidioso prurito. “Allergia ai tessuti sintetici,” sentenziò il

dermatologo, “deve evitare di indossare calze di nylon”. Facile a dirsi, ma l’azienda produceva unicamente indumenti sintetici. Il capo del personale attese qualche settimana e, vedendo che le mie condizioni non miglioravano, mi licenziò. Accettai il fatto con la coscienza tranquilla: erano stati loro a mandarmi via, io non avevo colpa. Guardacaso, pochi giorni dopo aver abbandonato l’incarico, l’allergia sparì velocemente così come era venuta. Mi misi a cercare un altro impiego e, sempre grazie a un annuncio, lo trovai ancora una volta nell’ambito della moda. Niente più calze né mutande, perché divenni una modella per cappelli. Esatto, mi pagavano per fotografarmi con la testa cinta da copricapi di ogni forma e colore. Avevo ottenuto ciò che volevo, cioè apparire nelle immagini con il viso in primo piano e talvolta a mezzo busto. Piano piano si sparse la voce, alcuni stilisti mi notarono e m’invitarono a sfilare sulle erelle per presentare le loro collezioni. Da lì in poi il percorso fu in discesa: lauti guadagni, popolarità, interviste e quell’appagamento interiore che a lungo avevo inseguito. Finalmente il mondo mi apprezzò nella mia completezza, potendo ammirarmi dalle unghie dei piedi alle punte dei capelli.

Un salvataggio inaspettato

Dedicato a Diego Luci, autore dell’illustrazione

Sono una dama se in viaggio su un veliero salpato dal porto di Brest. Corre l’anno 1731 e io porto con me denari e gioielli nascosti nel doppiofondo del baule; ma dagli abiti sembro una poveraccia qualunque che si reca nelle Americhe in cerca di fortuna. Mentre osservo il mare, sul ponte, si odono più voci gridare: «I pirati, i pirati!». Perbacco, questa non ci voleva! L’equipaggio e i viaggiatori si preparano ad affrontare il pericolo. Quanto a me, ricevo dal capitano l’ordine di chiudermi a chiave nella mia cabina. Poco dopo sento una forte scossa, il veliero è stato abbordato! Sono perduta… Invece no, che fortuna imprevista: il capo dei pirati è William Jones, un mio antico amante, il quale dopo aver sfondato la porta della cabina mi abbraccia e mi bacia con ardore. Poiché i pirati hanno conquistato la nave e io sono ricercata dai gendarmi si, accetto di sposarlo quando saremo nel suo covo sull’isola segreta… Chissà, diventerò anch’io una piratessa?

Regina di Pesci

Dedicato al mio faro

Un promontorio sul mare ricoperto dai colori dei fiori, la sagoma del faro in lontananza, lo stretto aggio che conduce alla grotta… e una rete da pesca. Queste sono le prime immagini che mi vengono in mente quando penso alla mia isola: Porquerolles, nell’arcipelago di Hyères, non lontano dalla costa sud della Francia. Manco da così tanto tempo che quasi mi sembra di averla sognata; ma sono certa che lei non mi ha dimenticata, e ogni notte mi chiama, impercettibilmente, malinconicamente, con una voce sottile eppur penetrante, una voce che non può essere sovrastata né annullata dai rumori della mia vita attuale. So bene che un giorno o l’altro riuscirò a farvi ritorno, per sentirla ancora mia, per ripercorrere nel suo grembo le nostalgiche visioni della mia giovinezza; tornerò alla mia isola come si torna a un amore perduto, un amore profondo e totale ancora vivo nell’animo, una ione così radicata che il tempo non è riuscito a cancellare.

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Nacqui a Porquerolles, figlia degli abitanti del faro. Mio padre Renato, ricco industriale italiano, aveva comprato l’isola alcuni anni prima, come dono di nozze per mia madre, l’ex ballerina se Dédé Lenoir, ritiratasi dalle scene per amore di lui, ed entrambi vi si erano trasferiti per coltivare il proprio ménage in un’oasi di tranquillità. L’ingegnoso signor Demaris aveva fatto eseguire lavori di ristrutturazione dell’antico faro situato nella parte meridionale dell’isola, nonché opere di ampliamento dei locali ad esso connessi, in modo da ricavarne una residenza spaziosa e confortevole che si estendeva non solo in verticale ma anche in orizzontale; qui aveva poi allestito il

nido per sé e per la sua sposa. Fui la terza e ultima di tre fratelli: François, il primogenito, aveva quattro anni; Daniel ne aveva poco più di due. Mio padre volle chiamarmi Stella, in italiano, come un duplice omaggio: nei confronti della Nazione che gli aveva dato i natali e nei confronti di mia madre, un’ex “étoile” del palcoscenico. Fin dalla nascita mostrai di possedere un caratterino esuberante, tanto che il medico e l’infermiera provenienti dalla cittadina di Hyères, appositamente convocati sull’isola, incontrarono del filo da torcere durante il parto, ma per fortuna riuscirono a scongiurare complicazioni. Per i primi anni venni amabilmente trastullata dai miei familiari e da alcune persone di servizio, tra cui la favolosa signora Bonnet, la nostra governante, paffutella e sorridente, che fu per me una specie di nonna affettuosa, coccolona, sempre disposta ad accontentarmi e felice di nascondere le mie marachelle; in seguito mi affidarono a un’istitutrice svizzera, l’arcigna signorina Kloss, originaria di Zurigo e installatasi al faro per occuparsi della mia istruzione. Infatti a quell’epoca la scuola dell’isola era chiusa per vari motivi e la popolazione residente, noi compresi, era costituita da poco più di cento persone; come ho già detto si trattava di una proprietà privata e, sebbene fosse aperta al turismo, bisogna precisare che Porquerolles riceveva flussi di visitatori quasi esclusivamente nei mesi caldi. I pochi bambini degli abitanti del villaggio andavano a scuola in traghetto, recandosi sulla terraferma tre volte la settimana. A me fu risparmiato quell’andirivieni, tuttavia lo avrei preferito alle grinfie della signorina Kloss… Non che quest’ultima fosse una donna cattiva, ma aveva un carattere rigido, intransigente, era gelida come un blocco di ghiaccio e mi stava sempre con il fiato sul collo, tanto che persino i miei genitori, di quando in quando, la pregavano di ammorbidirsi un po’. Quell’esemplare d’insegnante “vecchio stile” mi accompagnò per otto anni, e debbo ammettere che seppe torchiarmi alla perfezione affinché io imparassi tutte le materie previste dal programma di studio; poi, come per incanto, al compimento del mio tredicesimo compleanno Frida Kloss levò le tende dall’isola e mi lasciò libera, avendo deciso di accettare l’apionata offerta di matrimonio di un ricco bovaro americano, il quale la portò con sé nel suo ranch in South Dakota. Alla notizia della partenza di quella femmina magra e dispotica decisi di concedermi un giorno di festeggiamenti, aiutata in ciò dall’ottima signora Bonnet, incline ad approvare ogni mia intemperanza. Mi chiusi dunque a chiave in camera mia e per un’ora buona ballai nuda, facendo andare il giradischi a tutto volume e immaginando d’imitare gli spettacoli di cabaret di cui mi aveva parlato mia madre, mentre mi rimiravo nello specchio applicato

all’interno dell’armadio; al termine della danza catartica mi rivestii e scesi in cucina per mangiare i dolcetti preparati dalla governante, poi uscii per scorrazzare in mezzo al verde e lungo la scogliera (fortuna che era primavera inoltrata e il sole splendeva nel cielo!). La felicità fu comunque di breve durata, perché mio padre pensò bene di farmi continuare a studiare sotto la supervisione di monsieur Dupont, l’istitutore dei miei fratelli: una sorta di signorina Kloss al maschile per il quale non nutrivo alcuna simpatia, e che di buono aveva solo la caratteristica di non abitare con noi al faro, bensì nella sua tetra dimora appena fuori dal villaggio. Per un anno mi toccò andare a lezione da tale individuo insieme a François e Daniel; la compagnia dei ragazzi mi era di conforto, poiché avevo con entrambi un ottimo rapporto e tutti e tre ci sentivamo molto uniti, però quel Dupont era eccessivo, ci fulminava con un’occhiata e non perdeva occasione per metterci in riga. Pensate forse che la sottoscritta non avesse voglia di studiare, che fosse una scansafatiche incline a provare avversione per qualunque tipo d’insegnante? Miei cari lettori, questa ipotesi è del tutto infondata. Studiare mi piaceva, non intendevo rimanere ignorante, però accarezzavo idee personali riguardo ai metodi d’insegnamento e alle materie scolastiche. Avrei desiderato approfondire le discipline a me congeniali e limitare quelle inadatte al mio temperamento, vagheggiavo una maggiore autonomia nell’applicarmi a libri e quaderni, inseguivo l’aspirazione di creare collegamenti tra una tematica e l’altra senza apprendere le cose a compartimenti stagni, ponevo domande curiose, mi lasciavo guidare dall’intuizione e da una sorta di creatività artistica… Insomma, per farla breve: svogliata non ero, ma rompiscatole sì, almeno per due persone antiquate come Kloss e Dupont. François e Daniel erano più docili di me, possedevano una maggiore capacità di sopportazione: pur essendo scontenti dell’istitutore si lamentavano in maniera contenuta; io, al contrario, ribelle per natura, al compimento del quattordicesimo anno d’età decisi di liberarmi del giogo rappresentato da quel famigerato monsieur. Affrontai dunque mio padre e mia madre spiegando loro la situazione e proponendo che mi fero continuare a studiare per corrispondenza… Non credevo di riuscire a convincerli, invece ebbi successo, anche se dovetti protestare a lungo prima di spuntarla. Cominciai a trascorrere le mattine e parte dei pomeriggi nel faro, in una delle

stanze al piano terra adibita a biblioteca, dedicandomi all’apprendimento di varie materie grazie alle dispense che ricevevo settimanalmente da una famosa scuola per corrispondenza di Tolone. I genitori mi seguivano nello studio, alternandosi, mentre i fratelli continuavano a recarsi al villaggio, dal tenebroso Dupont. Dovevo compilare periodicamente dei fascicoletti contenenti domande, esercizi e verifiche varie: mio padre ricontrollava il tutto, firmava e spediva la busta alla scuola, quindi attendevamo il plico con le risposte e i voti che i professori mi assegnavano; ogni sei mesi qualcuno mi accompagnava a Tolone per l’esame orale. Andai avanti così per alcuni anni, pienamente soddisfatta, finché ottenni il diploma di scuola superiore a indirizzo letterario, con il massimo dei voti e la lode, dimostrando a tutti che sapevo il fatto mio.

Verso i diciannove anni, subito dopo aver concluso la scuola, iniziai a lavorare come pescivendola. In primavera, in estate e nel mese di settembre, almeno finché la temperatura era mite, trascorrevo le giornate dedicandomi alla vendita di merluzzi, orate, capitoni nonché di qualunque altro esemplare ittico che il mio spasimante, Gilbert il pescatore, prelevava direttamente dal mare grazie al suo battello. Avevo conosciuto Gilbert al bar del porto, una sera che mi ero recata colà in compagnia di Martine, la mia amica del cuore. Il pescatore, più grande di me di circa tre anni, era aitante, alto e muscoloso, così quando entrai nel locale mi misi a guardarlo, mentre lui, seduto tra i ragazzi della sua banda, beveva una pinta di birra; Martine mi redarguì dicendo che non stava bene, per una “ragazza onesta”, fissare un uomo, ma io le risposi con tutta calma: – Finché mi limito a guardare, che noia ti do? Poco dopo Gilbert, alzatosi, venne al nostro tavolo e si presentò, chiedendo se poteva sedersi. – Prego, accomodati, – replicai sorridendo, e mi aggiustai il vestito sul seno in modo da rendere più incisiva la scollatura (avevo due belle rotondità, perché mai castigarle?). Ci lanciammo in una meravigliosa conversazione e vidi danzare nei suoi occhi languide fiamme di ione che mi scombussolarono tutta, come quando ci si trova davanti al primo amore e si è consapevoli di due cose: 1, che quel primo amore lo vuoi e lo aneli con smanie da “ragazza poco onesta”; 2, che il tuo corteggiatore si strugge per te e, molto romanticamente, è disposto a rapirti per farti sua. Non ci fu alcun rapimento, sappiatelo subito; però ci fidanzammo avviando nel contempo una redditizia forma di collaborazione. Lui andava in mare con il peschereccio, gettava le reti e acciuffava una variegata mercanzia che io poi rivendevo su una bancarella appositamente allestita al mercato del villaggio; i ricavi venivano ripartiti equamente e l’attività procedeva con una certa allegria. Alla bancarella mi davo da fare: strillavo come una forsennata per attirare i clienti, decantavo le virtù dei pesci, concedevo qualche sconto e m’intrattenevo a dialogare con le comari che venivano a farmi visita. In poco tempo mi guadagnai la stima e la simpatia della gente e, anche se i miei genitori avrebbero sperato in un “miglior partito”, cioè in un fidanzato più istruito e

benestante, si accorsero presto che Gilbert era un ragazzo serio, buono e bravo, cosicché ci dettero la loro approvazione. Il mio amore abitava in una bella casetta in prossimità della costa, insieme ai suoi familiari; io continuavo ad abitare con i miei nel faro sul cocuzzolo dell’isola. Non avendo dunque un posto riparato, lontano da occhi indiscreti, per abbandonarci alla nostra intimità, Gilbert e io andavamo sul peschereccio, dove, cullati dal rollìo delle onde, facevamo ciò che voi immaginate; non solo quello però, anche altro. Per esempio Gilbert, nelle giornate serene, mi portava in mare e mi chiedeva di cantare ai pesci, per attirarli nelle reti: era infatti convinto che il mio canto avesse il potere d’ipnotizzare la fauna ittica e richiamarla verso il battello. Non so dire se ciò corrispondesse al vero, tuttavia è indubbio che nelle occasioni in cui eseguivo quella specie d’incantesimo la pesca risultava molto più abbondante del solito. Intonavo litanie molto suggestive, riprese dalla tradizione popolare antica, come ballate medioevali, poesie e via dicendo, sia in se che in italiano; ricorrevo talvolta a filastrocche tipiche della cultura anglosassone, ad esempio quelle dedicate alle selkie, le creature della mitologia irlandese e scozzese che possono trasformarsi da foche in donne nelle notti di luna piena. La leggenda delle selkie, originaria delle Isole Orcadi, mi piaceva molto perché era in tema con la magia del canto, con le donne e i pesci. Devo ammettere che, all’epoca, la mia pronuncia inglese non era granché: avevo una erre moscia troppo marcata, le vocali nasali accentuate e, come si usa in se, ponevo l’accento tonico delle parole sempre in fondo ad esse; ma gli abitanti del mare parevano capirmi lo stesso, mi venivano incontro di gran carriera e Gilbert li accalappiava felice. Il mio innamorato volle dunque assegnarmi il soprannome di Regina di Pesci, allo scopo di celebrare le mie doti canore e ammaliatrici: vi prego di notare che la preposizione era “di” e non “dei”, perché Gilbert mi considerava anzitutto la sua Regina di Cuori (quasi come la “Matta” delle carte da gioco nel sette e mezzo), e in secondo luogo la sovrana delle simpatiche bestiole subacquee; capirete che dai Cuori ai Pesci il o fu breve. La nostra relazione proseguì serenamente e con grandi picchi di ione per oltre due anni, tanto che gli isolani ci consideravano destinati al matrimonio; ma, inaspettatamente, successe un fatto che cambiò la situazione. Un giorno Gilbert, ritirando le reti, vi trovò imprigionato uno splendido pescespada di notevoli dimensioni, e subito me lo portò dicendo che non

bisognava venderlo, ma farlo imbalsamare per esporlo alla stregua di un trofeo, per esempio al bar del porto, oppure a casa mia, nel faro, come dono per mio padre… Inorridita da una simile idea, mi adoperai per ridurre alla ragione il mio valente compagno: tanto feci e tanto dissi che alla fine Gilbert ripiegò sulla decisione di fare imbalsamare solo la testa e mangiare il resto durante una cenetta romantica insieme a me medesima. Stabilito l’accordo, ci mettemmo al lavoro sul povero pescespada e, apertogli il ventre, sapete cosa ne uscì? Una bottiglia di vetro con dentro un messaggio… Sì, una piccola bottiglia piena di incrostazioni, piuttosto antica a giudicare dall’aspetto, la quale, ben sigillata con un tappo ricoperto di ceralacca, lasciava intravedere al suo interno un rotolino di carta. La sorpresa e la curiosità di entrambi furono grandi; rimuovemmo il tappo ed estraemmo il pezzo di pergamena, sul quale erano riportate alcune frasi sbiadite, una firma e una mappa. Ci sembrò di capire che un tale di nome Jacques de Martinic – forse un brigante, un pirata o simili – avesse nascosto il suo tesoro in una spelonca situata sul continente, in territorio se, nelle vicinanze della penisola di SaintMandrier-sur-Mer; e la mappa, piuttosto dettagliata, indicava il nascondiglio. Leggendo quelle righe Gilbert fu preso da un sacro furore: non lo avevo mai visto così eccitato, così sicuro di sé, e a nulla valsero i miei tentativi di calmarlo. L’uomo che amavo ormai aveva fatto la propria scelta: l’indomani sarebbe partito per Saint-Mandrier-sur-Mer, alla ricerca del tesoro; io naturalmente ero invitata ad accompagnarlo, ma pensandoci bene mi dichiarai poco convinta. Secondo me bisognava approfondire la questione, consigliarci con i nostri familiari, sistemare alcune cose e, nel caso, affrontare il viaggio in un prossimo futuro, senza agire d’impulso. – Non preoccuparti, – sentenziò Gilbert dopo che gli ebbi espresso i miei dubbi, – se non vuoi venire con me non intendo obbligarti, e poi queste sono cose da uomini. Vado da solo a cercare ciò che mi renderà ricco. Ti telefonerò appena possibile. Udendo tali parole rimasi senza fiato, e fui ancora più contrariata, indispettita, delusa quando il giorno seguente lui tolse gli ormeggi al peschereccio e partì alla volta del fantomatico luogo segnalato sulla mappa. Dovetti pertanto sospendere la vendita del pesce al mercato, vista l’assenza di materia prima, e mi rincantucciai in casa combattuta tra il dispiacere per quel gesto improvviso, la speranza che il mio uomo trovasse davvero l’anelato tesoro e il desiderio di ricevere presto notizie di lui. Tacqui la verità a chiunque conoscessi, compresi i

genitori, i fratelli e gli amici; dissi solamente che Gilbert era dovuto andare a Tolone a comprare alcuni pezzi di ricambio per il battello, e che si sarebbe assentato per diversi giorni. Ignoro cosa avesse riferito Gilbert alle persone della sua famiglia, ma parlando con i diretti interessati intuii che anche loro non erano al corrente di come stessero davvero le cose. Finalmente la telefonata arrivò, ma con mio sommo sconforto l’inafferrabile fidanzato mi annunciò che doveva compiere un altro viaggio, questa volta per recarsi in un posto ben più lontano. La mappa era veritiera: nella spelonca si celava un piccolo scrigno metallico contenente un diario, sul quale il famigerato Jacques, losco individuo della prima metà del XVIII secolo, aveva annotato la sua storia. Il tesoro esisteva, ma si trovava alla Martinica, l’isola dei Caraibi dove il “nostro” pirata era nato. Gilbert aveva dunque l’intenzione di partire al più presto e stava informandosi sui voli dall’aeroporto Orly di Parigi a Fort-de, il capoluogo dell’isola; mi aspettava a Tolone con i bagagli e con lo spirito d’avventura adatto ad affrontare il viaggio. Aggiungo anche che queste direttive me le impartì con un tono piuttosto risoluto, quasi fosse un ultimatum; io balbettai qualcosa, cercai di tergiversare, proposi di rinviare la partenza, ma lui fu irremovibile e dichiarò che mai e poi mai avrebbe rinunciato al suo progetto. Sebbene fossi certa di sbagliare, non seppi fare altro che rispondergli di no. Forse non lo amavo abbastanza? Le mie erano giustificazioni dettate dal timore di rinunciare a una vita tranquilla per andare a cacciarmi in chissà quale pasticcio? Sì, queste ipotesi mi suonavano convincenti e in ogni caso, isola per isola, preferivo rimanere a Porquerolles. Quel secondo rifiuto si rivelò fatale. Per un paio di mesi non ricevetti alcuna notizia di Gilbert, poi il postino mi consegnò una cartolina illustrata con un bel paesaggio della Martinica, nella quale il mio ex fidanzato, molto sinteticamente, mi annunciava di aver trovato il tesoro, di essersi arricchito e di volersi stabilire laggiù insieme a Jasmine, l’affascinante creola di cui si era innamorato.

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ò un anno, dedicato al cambiamento e alla maturazione. Durante quel

periodo mi vestivo esclusivamente di bianco, con abiti lunghi fino alle caviglie, sia in estate che in inverno; sfoggiavo pizzi e merletti, raccoglievo i capelli sulla nuca assicurandoli con nastri e fermagli, indossavo collane e orecchini di perle e, quando il sole picchiava, portavo con me un ombrellino parasole, anch’esso candido e immacolato come un giglio. Così conciata parevo un personaggio dell’Ottocento, una ragazza anacronistica, in totale contrasto con la moda e gli atteggiamenti tipici delle mie coetanee. Probabilmente la penna di uno scrittore romantico e un po’ folle mi aveva disegnata come l’eroina di un romanzo d’appendice la quale, sedotta e abbandonata, si sforzava di recuperare la purezza perduta. Mia madre fu la prima a preoccuparsi: era il 1995, avevo ventidue anni e disdegnavo i jeans, le magliette colorate, le minigonne e le scarpe col tacco; non ascoltavo musica pop, non frequentavo quasi mai Martine e le altre amiche, rifuggivo i ragazzi e le occasioni di divertimento. Coltivavo piuttosto la mia introspezione, compiendo eggiate solitarie in riva al mare, nei boschi e per i sentieri secondari; portavo sempre una piccola borsa con dentro uno o due libri e, qualora ne avessi bisogno, l’inseparabile parasole. I richiami e le lamentele di mia madre e di mio padre per quel comportamento poco ortodosso non valsero a nulla, così come vani furono i tentativi di François e Daniel, anch’essi propensi a ricondurmi sulla retta via. Non vendevo più il pesce al mercato, ma avevo ripreso gli studi, sempre per corrispondenza, perché volevo ottenere un diploma universitario e imparare l’arte della scrittura letteraria; pertanto ai libri si aggiungevano un quaderno e una penna, strumenti necessari per sperimentare le prime creazioni di poesie e racconti. La gente del villaggio, vedendomi così profondamente cambiata, mi soprannominò “la dama del faro”, un po’ per l’abbigliamento stravagante e un po’ per l’inclinazione a starmene rintanata nella mia dimora. Comunque si volesse chiamarmi, io sapevo di essere ancora la Regina di Pesci, e se avessi invocato i sudditi sottomarini essi sarebbero venuti a soccorrermi. In un pomeriggio di giugno la volontà del mio regno fatto di onde azzurre si manifestò. Ero impegnata a ritirare la rete da pesca regalatami da Gilbert, che ogni tanto legavo agli scogli a picco sul mare situati nelle vicinanze di una spiaggetta di Calanque de l’Indienne, a breve distanza dal faro: nelle vicinanze della spiaggetta c’era una grotta nascosta dove avevo allestito il mio rifugio segreto. Il

mare mi portava spesso dei doni, facendoli apparire sia dentro la rete sia sul bagnasciuga o intorno agli scogli; si trattava ad esempio di oggetti caduti dalle imbarcazioni, pezzi provenienti da relitti, conchiglie, strutture di legno e plastica, contenitori di vario tipo: raccoglievo ciò che poteva essere utilizzato e lo portavo nella grotta, cosicché piano piano avevo ricavato una stanza completamente allestita. Alcuni arredi li avevo presi da casa mia, altri li avevo comprati, in modo che il rifugio fosse dotato di quei comfort di primaria necessità come materassini, cuscini e coperte per dormire, una stufetta a gas, un fornellino da campeggio, stoviglie per cucinare, lampade a batteria, un tavolo, alcune sedie e altre attrezzature. Quel pomeriggio di giugno nella rete da pesca trovai un uomo privo di sensi. Era disteso sullo scoglio, bagnato fradicio e aggrovigliato nella rete, la quale gli era probabilmente servita per arrampicarsi. Indossava il giubbotto di salvataggio, e per prima cosa pensai di sfilarglielo per tentare di rianimarlo. Stavo ancora armeggiando sul suo corpo quando l’uomo si risvegliò, borbottò qualcosa di simile a una richiesta d’aiuto e, rabbrividendo per il freddo, si tirò su appoggiando la schiena allo scoglio. Aveva la febbre e non era completamente cosciente; allora gli dissi di sforzarsi di camminare appoggiandosi a me, perché lo avrei portato in un luogo riparato, a breve distanza, allo scopo di assisterlo. La discesa dallo scoglio e l’attraversamento della spiaggia per raggiungere la grotta furono un’impresa ardua: lo sconosciuto, sebbene snello, era piuttosto pesante, incespicava e avanzava a fatica, dovevo sorreggerlo continuamente, quindi giunsi stremata al rifugio. Qui lo spogliai degli abiti intrisi di acqua salmastra ed ebbi modo di notare che era proprio fatto bene, aveva un bel fisico; sembrava un po’ più grande di me come età, i capelli castani gli scendevano fin sulle spalle, gli occhi azzurri sovrastavano un naso importante, e le labbra possedevano la conformazione appropriata per dare baci apionati. Presi dei teli di spugna e lo asciugai, poi gli feci indossare un vecchio pigiama che avevo messo da parte in una cassapanca, lo aiutai a stendersi sui materassini e lo coprii con le coperte, per tenerlo al caldo. Mi sedetti un attimo per riprendere fiato. Avevo ottenuto una pesca eccellente: il mare mi aveva portato un uomo giovane e bello, bisognoso delle mie cure, forse per spezzare la solitudine che, da tempo, mi aveva inghiottita.

Incoraggiai lo sconosciuto ad assumere un rimedio omeopatico per la febbre, dicendogli di non temere: sarei andata a prendere da mangiare e le cose strettamente necessarie, quindi avrei fatto ritorno al più presto. Lui mi ringraziò, rivelandomi il suo nome, Dimitri. Era russo, ma parlava se; mi presentai io pure e conclusi quel breve dialogo accarezzandogli la testa. Corsi al faro, presi altre medicine, tra cui degli antibiotici, e alcuni vestiti vecchi di mio fratello François, il quale aveva più o meno la taglia di Dimitri; aggiunsi le provviste che la buona signora Bonnet, anzianotta ma sempre in gamba, mi preparò in una cesta; avvertii i miei genitori che sarei rimasta a dormire a casa di Martine per qualche notte, poi caricai tutto l’occorrente sullo scooter. Prima di uscire telefonai a Martine informandola sommariamente della situazione e chiedendole di reggere la parte casomai i miei familiari l’avessero contattata; riferii la verità completa solo alla governante, pregandola di mantenere il segreto. Dopodiché partii a tutta velocità per tornare alla grotta. Valendomi del fornellino da campeggio cucinai una zuppa di pollo e verdure, imboccai il malato riuscendo a fargliene mangiarne una scodella, quindi gli somministrai l’antibiotico e lo lasciai dormire per alcune ore, mentre anch’io mi riposavo accanto a lui. La grotta era abbastanza asciutta, ma avevo lo stesso la stufetta a gas per diffondere calore. Fortunatamente in quei giorni potevamo godere di un clima soleggiato, e la temperatura non si abbassava mai troppo, neanche all’imbrunire. Verso l’ora di cena nutrii ancora una volta lo straniero venuto dal mare, e gli feci ingerire altri rimedi; lui, riprendendosi un po’, spiegò che era un architetto, partito dalla Corsica con il suo motoscafo da crociera per raggiungere Nizza allo scopo di adempiere a certi impegni di lavoro, ma una tempesta lo aveva spinto nei pressi di Porquerolles e aveva fatto naufragio. Si era salvato grazie al giubbotto gonfiabile e, nuotando, era poi rimasto impigliato nella mia rete da pesca, riuscendo comunque ad arrampicarsi sullo scoglio dove lo avevo trovato. Gli misi una pezza umida sulla fronte e gli consigliai di continuare a dormire, perché aveva ancora la febbre. Lo vegliai per tutta la notte, come si conviene a una brava infermiera, stringendomi nello scialle di lana; poi, sfinita, alle prime luci dell’alba mi lasciai cadere accanto a lui e scivolai in un sonno profondo.

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Dopo un paio di giorni Dimitri era guarito e aveva recuperato le forze. Potemmo così andare al faro, luogo in cui avrei dovuto affrontare padre e madre, che mi attendevano sul piede di guerra. Ero rimasta fuori di casa per tre giorni e tre notti: sebbene la signora Bonnet e Martine mi avessero protetta con le loro bugie, i miei genitori erano sicuramente in collera con una figlia che, da qualche tempo, dava loro solo preoccupazioni. Accennai l’argomento a Dimitri e lui, in risposta, mi abbracciò e mi baciò, rassicurandomi ed esprimendo parole di gratitudine. Avrebbe chiarito lui l’imprevista circostanza di cui eravamo stati protagonisti, adoperandosi per appianare la situazione. Infatti così avvenne, dato che il bel ragazzo russo (aveva compiuto ventisette anni da poco) piacque molto ai membri della mia famiglia. Io fui perdonata e tutti si dettero da fare per aiutare il nuovo arrivato. Dimitri telefonò a suo padre a San Pietroburgo per farsi mandare del denaro mediante un vaglia all’ufficio postale di Porquerolles, dato che nel naufragio aveva perso tutto, documenti compresi; successivamente lo accompagnai a Tolone per informare le autorità si dell’incidente che gli era capitato e ottenere il duplicato dei documenti e il permesso di soggiorno. Cogliemmo l’occasione per fare una puntata a Nizza, affinché Dimitri avvertisse le persone che lo attendevano, le quali non avevano più avuto sue notizie. Benché giovane, il mio architetto era molto quotato e risiedeva da alcuni mesi ad Ajaccio per motivi di lavoro; dopo aver trascorso un breve periodo come nostro ospite al faro, dovette prendere il traghetto e tornare in Corsica per sistemare i propri affari. Io lo attesi fiduciosa, anche perché ormai era chiaro che ci eravamo innamorati: non vi dico quali amplessi infuocati costui mi dedicava nella grotta, l’ambiente privato dove eravamo soliti appartarci… Anzi, ripensandoci, ve li accenno. Avevo ritagliato un pezzo della rete da pesca, non più necessaria per gli scopi originari considerando che il mio spasimante dai lunghi capelli castani era il più bel pesce che io avessi mai pescato; pertanto potevo rinunciare al titolo di Regina di Pesci e diventare più semplicemente la “regina dell’architetto russo”. Il pezzo di rete in questione, con qualche modifica, mi si adattava benissimo e indossandolo diventava una lunga veste traforata, una specie di mantello con strascico, impreziosito da conchiglie, stelle marine e frammenti di corallo. Nella grotta spesso mi presentavo a Dimitri nuda sotto, ma con la rete da pesca sopra, in ricordo del nostro primo incontro; lui, spogliatami di quel particolare indumento, mi amava con ione, travolgendomi con la sua potenza. Oltre al

mantello fatto di rete Dimitri apprezzava molto i miei abiti bianchi in stile Ottocento nonché alcuni capi di lingerie sexy che avevo acquistato a Nizza, come bustini, perizomi e babydoll. Per rotolarci in selvaggi corpo a corpo sfruttavamo anche la spiaggia, quasi sempre deserta, e facevamo il bagno in una conca tra gli scogli, solo io e lui, nascosti alla vista di chiunque… Che giornate meravigliose trascorsi! Ancora oggi le vedo nella mente e le sento sulla pelle, quasi vi fossi pienamente immersa… Sbrigate le proprie faccende in Corsica, Dimitri fece ritorno a Porquerolles dopo due o tre settimane, utilizzando il normale servizio di traghetto. Ci concedemmo qualche ulteriore giorno di vacanza eggiando per l’isola, curiosando nel villaggio e ritirandoci nel rifugio; poi sopraggiunse la necessità di partire. Il mio architetto capellone doveva recarsi a Parigi per lavoro, pertanto mi propose di accompagnarlo. Memore di quanto mi fossi trovata male rifiutando l’invito di Gilbert a lasciare l’isola, in questo caso cancellai ogni freno razionale e seguii solamente la voce del cuore: sarei partita insieme al mio amore, anche perché potevo tollerare di essermi comportata da scema una volta, ma due no. Ovviamente i miei genitori piansero, perché erano attaccati alla loro figlia pazzoide; altrettanto fecero la buona signora Bonnet e gli altri domestici, tuttavia non mi lasciai impietosire, preparai armi e bagagli, salutai tutti con grandi manifestazioni di affetto e andai al porto per imbarcarmi con Dimitri, destinazione Tolone, dove saremmo saliti sull’aereo per Parigi. Ai miei fratelli lasciai in dono la grotta con ciò che conteneva ed essi, che non l’avevano mai vista prima, si meravigliarono per l’inventiva della loro stravagante sorella; mi ringraziarono calorosamente e promisero di mantenerla e abbellirla, anche perché, disponendo entrambi di varie fidanzatine da portare in un luogo recondito, non avrebbero potuto immaginare un regalo migliore. Sul battello di linea mi voltai spesso per dare gli ultimi sguardi alla mia isola, non sapendo quando l’avrei rivista; poi mi strinsi al corpo di Dimitri e spalancai la porta al futuro, quel futuro che mi veniva incontro sotto forma di una capitale del Nord e di un uomo premuroso.

*****

L’appartamentino situato nella zona di Montmartre, di proprietà di mia madre, divenne il nostro nido d’amore, e tale restò per quasi cinque anni. Ci ambientammo molto bene nella grande città, sentendoci subito a nostro agio; il mio compagno trovò lavoro nel settore della ristrutturazione d’interni, e io pure ottenni un incarico a mezza giornata come fiorista, cosa che mi lasciò il tempo per completare gli studi alla Sorbona e conquistare una sorta di laurea breve in letteratura italiana e se. I nostri genitori, miei e di Dimitri, vennero a trovarci diverse volte, così si conobbero; nelle estati successive andammo in vacanza sull’isola e tutto ci apparve come un incanto, armonia perfetta tra natura, relazioni e sentimenti. I problemi sorsero durante il quarto anno, quando, nella Città delle Luci, dopo la festa di laurea, venni licenziata dalla proprietaria del negozio di fiori, che si vide costretta a chiudere l’attività per motivi di famiglia. Si rese dunque necessario trovare un altro lavoro, e dato che il titolo di studio in lettere serviva a poco se non a comporre i miei racconti, mi presentai in un locale notturno di Pigalle per chiedere se potevo occuparmi di qualcosa. Si trattava di un piccolo night-club di terza categoria, dove si tenevano spettacoli di cabaret con alcune ballerine cellulitiche, un prestigiatore, un comico, due o tre ballerini e poco più. Il direttore mi ricevette nel suo ufficio e gli domandai se era disposto ad assumermi come ragazza destinata a girare tra i tavoli per vendere sigarette, dolciumi e souvenir, oppure come guardarobiera o cameriera; lui mi squadrò con attenzione, poi sentenziò: – Si tolga il soprabito e si lasci guardare. Cammini lentamente avanti e indietro, vada fino alla porta, si volti e torni qui alla scrivania. Eseguii quanto mi venne richiesto. Indossavo un abitino attillato, corto, a mezza coscia, che metteva in risalto il seno, il punto vita e le gambe; sinceramente non avevo pensato di vestirmi così per fare colpo su chicchessia, ma invece ottenni proprio quel risultato, poiché il direttore esclamò: – Macché guardarobiera o cameriera, sul palco, sul palco! Quell’uomo attempato, dai capelli brizzolati, intendeva utilizzarmi sulla scena, come ballerina vestita di piume e quasi completamente spogliata di altri indumenti, fatta eccezione per un minuscolo perizoma e qualche lustrino applicato qua e là. La proposta mi lasciò perplessa, anche perché non sapevo

ballare, non avevo mai frequentato corsi di danza, ma lui insistette e convocò una signora grassoccia, la responsabile delle quinte del teatro, colei che si occupava di seguire gli artisti e prepararli per lo spettacolo. Thérèse, questo era il nome della signora, su ordine del direttore mi accompagnò in uno dei camerini, dove mi spogliai per fare la prova del costume di scena, costituito da una serie di orpelli e precisamente dal basso verso l’alto: scarpe argentate comode, con il tacco; calze a rete color carne; mutandina luccicante; cinturino in vita al quale era attaccata una coda di piume rosa e bianche; seno nudo ma addobbato con collane e pendenti; guanti di raso lunghi fino a sotto le ascelle; piccola impalcatura di piume applicata sulle spalle; acconciatura non troppo elaborata sulla quale si ripresentavano le medesime piume di due colori, morbide e svolazzanti, e i medesimi lustrini della mutandina. Lo specchio mi restituì l’immagine di una bella ragazza abbigliata in maniera procace, una vera diva del cabaret alla se, sebbene l’ambiente nel quale mi trovavo fosse abbastanza sgangherato e il costume pure (piume spelacchiate, qualche strass mancante, scarpe consumate: in sintesi, roba vecchiotta). Madame Thérèse gridò al miracolo, e lesta mi riportò dal direttore combinata in quel modo. Quando monsieur Bertrand mi vide, da dietro la sua scrivania, proruppe in un “Oh!” di stupore e decretò che ero perfetta: non si poneva la questione del saper ballare, bastava sculettare, apparire in mezzo alle altre ballerine e fare un po’ di erella sul palcoscenico… Inoltre, durante le prove, avrei appreso come muovermi. Fui ingaggiata seduta stante, con uno stipendio soddisfacente e l’impegno di lavorare quotidianamente per circa sette ore, più o meno dalle cinque del pomeriggio fino a mezzanotte, con un giorno di riposo settimanale. Oltretutto il teatro era a pochi i da casa, per cui decisi di accettare. Le complicazioni arrivarono quando informai Dimitri della mia nuova professione. Di primo acchito costui non fu per niente contento, e anzi m’ingiunse di rinunciare perché lui guadagnava abbastanza per tutti e due; un’ora dopo, vedendomi affranta, si ammorbidì e suggerì di provare per un po’, cioè di partecipare a qualche serata affinché capissi se ne valeva davvero la pena. Naturalmente Dimitri sarebbe venuto con me tutte le sere, non alle prove ma almeno allo spettacolo, seduto a un tavolo oppure dietro le quinte, perché voleva rendersi conto di come fosse organizzato quell’ambiente, e di quali rischi potevo correre. Cominciai la carriera di danzatrice osé nel locale notturno di cui preferisco tacere il nome, e non mi trovai per niente male, checché ne dicesse Dimitri il quale non approvava di vedermi sballonzolare mezza nuda sotto gli occhi degli

spettatori. Non si trattava di un postaccio per soli uomini, tutt’altro: era piuttosto un ristorantino dotato di un piccolo teatro, frequentato da turisti e anche da donne, dove ogni sera si offriva la cena con spettacolo, nello stile dei locali più famosi quali il Moulin Rouge e il Lido. I responsabili e i colleghi di lavoro erano gentili e disponibili, così feci amicizia e imparai tante cose; ma, piano piano, il rapporto con Dimitri s’incrinò, perché lui era geloso e non perdeva occasione per ripetermi che dovevo abbandonare quell’attività. – Non posso licenziarmi subito, – gli dissi durante una discussione (la gelosia del mio architetto era aumentata da quando un ammiratore mi aveva mandato un mazzo di rose nel camerino). – Come sai il contratto ha la durata di sei mesi, e se decido di annullarlo prima della scadenza devo pagare una penale che supera ampiamente tutti i soldi guadagnati finora! – Cosa vuoi che me ne importi del denaro, – replicò lui corrucciato, – te lo do io, oppure lo chiedo a mio padre. Fatto sta che la mia donna nuda sulle scene non la voglio vedere! – Proprio nuda non sono… – Zitta, hai capito benissimo, se mi ami devi rinunciare. Ecco che il ricatto morale si affacciava con prepotenza: Dimitri, non sapendo più come convincermi, tentava di giocare l’ultima carta in suo possesso. Ve la faccio breve: qualche tempo dopo il mio compagno rincasò annunciandomi che gli avevano offerto un lavoro ben retribuito in Arabia Saudita; bisognava dunque preparare le valigie e partire. – Mi spiace ma io in Arabia Saudita non ci vengo, figuriamoci, mi toccherebbe indossare il burka, il chador o chissà cosa, e starmene sempre chiusa in casa! – Eh, già, lo so, – strillò lui, – tu preferisci fare la sgualdrina spogliandoti in un teatro, e che teatro poi, proprio d’infima categoria! Stendo un pietoso velo sugli ulteriori sviluppi di quel litigio, il quale si concluse secondo un vecchio copione ormai noto: io rimasi sola a Parigi, Dimitri partì per la meta che aveva scelto.

*****

Ripensando ai miei trascorsi ammetto di essere stata un po’ dura con i fidanzati, nonché testarda rispetto alle posizioni sulle quali mi ero arroccata; forse celavo nel profondo il desiderio di affermare me stessa, oppure non riuscivo ad abbandonare i luoghi prediletti per affrontare un nuovo stile di vita… Quali che fossero le motivazioni reali, anche il secondo pesce mi era sfuggito e, alla soglia dei ventisette anni, rientravo a pieno diritto nel club delle donne singole e solitarie. Dimitri e io non avevamo progettato di sposarci, per noi era sufficiente la convivenza; mia madre, al contrario, avrebbe gradito il matrimonio, e lo stesso dicasi riguardo ai genitori del mio ex compagno. Con la sparizione di quest’ultimo la questione perse importanza, visto che non potevo certo sposarmi da sola. Trascorse un altro anno, nel quale feci carriera. Dopo il locale notturno di terza categoria fui scritturata per un mese al Lido, in Avenue des Champs-Élysées, allo scopo di sostituire una ballerina che si era infortunata. A forza di sgambettare sulle scene, partecipare alle prove delle riviste e studiare danza per conto mio, qualcosa avevo imparato, cosicché in seguito, attraverso alcune persone dell’ambiente, venni introdotta al Moulin Rouge per un’audizione. – Come ballerina di seconda fila potresti andare bene, – mi disse il responsabile delle assunzioni dopo avermi esaminata. – Ti faccio un contratto di prova, per un mese, e poi vedremo. Entusiasta, entrai a far parte del più antico – e celebre – cabaret del mondo, fondato nel 1889, ma dovetti impegnarmi con grande dispendio di energie. Anzitutto al Moulin Rouge, come al Lido, si tenevano due spettacoli ogni sera e non uno solo; inoltre il livello era molto più alto rispetto al teatruccio dove avevo iniziato: cambiavamo una miriade di costumi durante lo spettacolo, le coreografie erano accuratissime e niente veniva lasciato all’improvvisazione. Essendo io figlia di un’ex ballerina avevo probabilmente il gene della danza nel sangue, tale da farmi apprendere in fretta le movenze appropriate e darmi la sicurezza necessaria per esibire con disinvoltura i favolosi “addobbi” fatti di piume e di altri materiali pregiati. Mia madre e mio padre vennero a trovarmi, assistettero alla rivista e si

complimentarono con me, anche se, nell’intimo, erano delusi per la fuga di Dimitri. Quanto all’architetto russo, devo riferire che fu gentile: mi telefonò varie volte, chiedendomi come me la assi e proponendomi nuovamente il trasferimento in Arabia Saudita, dove lui si era ambientato benissimo, oltretutto guadagnando soldi a palate; ma io sapevo che ormai quella strada si era interrotta. Poiché non potevo continuare a danzare in eterno, e anzi nei ritagli di tempo avevo composto alcune opere letterarie, la dimenticata Regina di Pesci rispolverò la propria corona per trovare una soluzione. Un pomeriggio di primavera mi recai a eggio nel Giardino delle Tuileries, dove era stata allestita una fiera con bancarelle, giostre per bambini, chioschi di bibite e cibo, giochi di tiro a segno e simili. Camminando, fui attratta da un baracchino che proponeva la pesca di paperelle disposte su un o circolare ruotante, pieno d’acqua: servendosi di una canna dotata di cappio bisognava riuscire ad acchiapparne una, così da vincere un giocattolo corrispondente al numero applicato sotto alla sagoma di plastica. Volendo tornare all’infanzia, decisi di provare. Stavo ancora trafficando con la canna (non era tanto facile infilare il cappio al collo della paperella per poi sollevarla), quando sopraggiunse un compìto signore che mi salutò garbatamente e si offrì di aiutarmi. Accettai di buon grado l’intervento di quel giovanottino italiano non altissimo ma molto elegante, di nome Lorenzo, il quale, sorreggendo il mio braccio, fece in modo che io catturassi l’agognata paperella. Volete sapere cosa vinsi? Come premio del momento un pupazzetto a forma di sirena; come premio dei giorni seguenti la corte serrata che il bel pesciolotto italiano mise in atto nei confronti della sottoscritta. I poteri sottili della donna del mare erano tornati a colpire ancora.

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Soddisfatti i doveri professionali come ballerina scollacciata sulle scene di Parigi, il o successivo fu rappresentato dalla partenza per l’Italia, precisamente per Firenze, dove mi sposai con Lorenzo, scrittore già abbastanza

affermato e perdipiù figlio di un noto editore. Grazie al mio perfetto bilinguismo se-italiano tradussi le opere che avevo scritto, modificai qualche dettaglio e le detti alle stampe. Mio marito mi fece da pigmalione, consigliandomi in varie circostanze, indicandomi eventuali ritocchi allo stile e alle trame: ancora oggi Lorenzo è l’appiglio sicuro su cui posso contare per tutto ciò che ruota intorno alla creazione di romanzi e racconti. Attualmente vivo nel capoluogo toscano insieme al mio consorte, e continuo a effettuare esperimenti nel campo della letteratura; il resto è più o meno storia degli ultimi tempi. Non so se questa biografia incontrerà i gusti dei lettori, che forse si sarebbero aspettati di trovare descrizioni più piccanti: se ho scontentato qualcuno me ne dispiaccio, ma i fatti si sono svolti come li ho narrati. L’unica aspirazione rimasta in sospeso è quella di tornare in visita alla mia isola, cosa che mi riprometto di fare appena possibile, perché se i genitori e i fratelli li vedo abbastanza spesso (viaggiano, vengono a trovarmi), il faro è rimasto a Porquerolles… Non potrò eludere a lungo il suo richiamo.

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