Gianni Zanata
Stiamo bene dove siamo
Scritti sparsi 2012
Una produzione
Heisenb3rg Studio
Prima di cominciare
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Stiamo bene dove siamo
Mi sono chiesto se fosse necessario scrivere una prefazione, una postfazione, una nota introduttiva, descrittiva o esplicativa a questa raccolta di scritti sparsi. Me lo sono chiesto perché una raccolta di scritti sparsi non l’avevo mai pubblicata, è una cosa nuova, per me. Così ho pensato che avrei potuto far scrivere la prefazione a un prefatore, uno che lo fa di mestiere, voglio dire. Ma poi m’è venuto in mente che i prefatori in genere sono poeti o narratori falliti.
E insomma.
Magari uno s’offende. Non che non ce ne siano in circolazione, di narratori e poeti falliti, gente perbene sia chiaro, niente da ridire. Però, non lo so, i prefatori usano per lo più questo linguaggio un po’ fuori registro, un po’ demodé, dicono, non dicono, e non si sa mai bene da che parte stiano, se pensino le cose che scrivono o se le scrivano tanto per scrivere qualcosa, per sentirsi in sintonia col lettore o lo scrittore o l’editore. Che poi, mentre pensavo al nome di due, tre prefatori di professione a cui mi sarei potuto rivolgere per scrivere la prefazione, mi sono chiesto a che cosa realmente servano le prefazioni, ché le prefazioni si scrivono sperando che il lettore le legga, altrimenti non avrebbero senso. Però, a quel punto, secondo me, lo dico più da lettore che da autore, io troverei più interessante leggere un’altra cosa, una postfazione, tanto per dire. Che è tutto un altro tipo di approccio al tema, quello dei postfatori, una categoria che tra l’altro il dizionario integrato del computer ignora, nemmeno sa cosa sia, ché me la sottolinea in rosso questa parola, postfatore, proprio dice che non esiste, se ne frega persino di ciò che scrive il vocabolario on line della Treccani: Postfatóre s. m. (f. -trice) [tratto da postfazione, sull’esempio di prefatore] – Autore di una postfazione. Se esiste per la Treccani, non vedo perché non debba esistere anche per il dizionario integrato del mio computer, questa parola. Son cose che non capisco. E insomma.
Alla fine ci ho rinunciato, alla prefazione. E anche alla postfazione (parola che, curiosamente, il dizionario integrato del mio computer non sottolinea in rosso, vattelappesca). Il testo qui presente, infatti, è soltanto un articolo, non troppo dissimile da quelli che mi capita di scrivere sul sito giannizanata.it. Adesso, grazie alle amorevoli cure dell’Heinsenb3rg Studio, alcuni di questi articoli sono raccolti qui. Si tratta di scritti sparsi, l’ho già detto, mi piace ripetere le cose, e comunque sia la definizione di “scritti sparsi”, ci sta proprio bene, mi piace assai. Scritti sparsi del duemiladodici, sembra ato un secolo. Ora, se fossi un prefatore, un postfatore, un introduttore, vi saprei spiegare con dovizia di dettagli anche il significato del titolo di questa raccolta: Stiamo Bene Dove Siamo. Invece, niente. Come scrive Ursula Kroeber Le Guin, “è bene avere un fine verso il quale dirigersi; ma dopotutto quello che conta è il cammino”.
Note biografiche
Gianni Zanata è nato a Cagliari. Fa il giornalista, scrive storie, romanzi, racconti. Gli piace leggere ad alta voce e farsi accompagnare da attori e musicisti durante le letture. Per Rebus Edizioni ha pubblicato Prestami una vita (romanzo, 2008). Per Quarup Editore ha pubblicato Non sto tanto male (romanzo, 2011) e Dettagli di un sorriso (romanzo, 2012). Se qualcuno lo definisce “eclettico”, lui subito si preoccupa.
Proprio il tre gennaio
La barca è ferma, la riva corre. Nessun inganno.
C’è da limare qualche aggettivo
Così dice il direttore di “Sbatti il mostro in prima pagina” al giornalista che in un articolo ha utilizzato il termine “licenziato”. “Rimasto senza lavoro?”, suggerisce il giornalista. “Rimasto senza lavoro”, annuisce il direttore soddisfatto, “Bravo”.
Un prologo
Tribunale. Interno/mattina. Brusio. Voci di sottofondo. Primo piano del Cancelliere. – Signori, la Corte! Silenzio nell’aula. Il pubblico in piedi. La porta si apre accompagnata da un lungo cigolio. È mezzogiorno, ma fa freddo. Eccola, la Corte. Tre giudici in toga nera. Entrano con o misurato. Si siedono lentamente dietro un banco di legno scuro, alto e solenne come un monumento. Al centro prende posto il Giudice Supremo. È anziano, il viso rugoso e gli occhi cerulei e severi. Sotto il cappello spuntano ciuffi bianchi e ribelli. Gli tremola una mano. Alla sua destra siede il Giudice Sinistro, uomo calvo, di mezz’età, dal naso adunco e le orecchie grandi come padelle. Alla sinistra del Giudice Supremo siede infine il Giudice Destro, il più giovane dei tre, paffutello, le labbra carnose e una fossetta sul mento che sembra un culo in miniatura. Anche gli avvocati e la pubblica accusa prendono posto. – Imputato! – urla il cancelliere. – Si alzi!
L’imputato si alza a fatica, i muscoli delle gambe sono rattrappiti. Si sorregge sui gomiti e si rivolge al Giudice Supremo. – Vostro Onore – dice. Lui lo guarda imibile. – Imputato! – urla nuovamente il cancelliere. – Si dichiara colpevole? L’imputato prende fiato. Lotta con un fastidioso senso di stordimento. – Sì, – dice, – ma si è trattato di legittima difesa. Il tono della sua voce è malinconicamente ironico. Primo piano dell’imputato. Dissolvenza in nero. Musica. Titoli di testa.
Un capitolo
Lurido Tempo, oggi. Mi sono alzato alle cinque del mattino. Mi sono lavato, vestito, profumato. Alle sei ero già fuori da casa. E m’è venuto in mente un pensiero. “Che rottura di coglioni”, ho pensato. È buio quando monto in macchina, alle sei. E dentro l’auto mi vengono in mente solo pensieri neutri. Forse è per via del freddo. Fa freddo alle sei. Certe volte fa molto freddo. Per non annoiarmi, mentre sto in auto e guido, accendo la radio e ascolto il primo notiziario. Nel frattempo gorgheggio. Ascolto la radio e gorgheggio. Ba-ba-ba-ba-ba-ba. A voce bassa. Ba-ba-ba-ba-ba-ba. A voce più alta. Ba-be-bi-bo-bu-ma-me-mi-mo-mu. A voce alta. Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma. Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma.
Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma. Vado avanti così per un po’. I semafori rossi mi rendono nervoso. M’innervosisco se un’automobile mi si affianca. Stringo il cambio e guardo di lato con la coda dell’occhio. Al volante c’è un ragazzo. Dove cazzo vai, a quest’ora, eh? Lui manco mi guarda. Stai tornando a casa? A quest’ora? Do un po’ di gas. Schiaccio la frizione. Lui niente. Ma va’, va’. Va’ che è verde. Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma. Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma. Ma-me-mi-mo-mu-mu-mo-mi-me-ma. Al bar, alle sei del mattino. Un cappuccino. Una pasta alla marmellata. La tizia che mi serve il cappuccino è una testa di cazzo. Su questo non ci piove. Non la conosco. Ma è una testa di cazzo. Sicuro.
Good morning
buon giorno, lo scrivo staccato, ma va bene anche attaccato, buongiorno, il significato è lo stesso, solo che a scriverlo staccato rende l’idea, buon da una parte, giorno dall’altro, ché le due cose possono stare insieme, oppure no, insomma, è come dire san remo anziché sanremo, tanto meno anziché tantomeno, lava stoviglie anziché lavastoviglie, è uguale, o una cosa del genere, comunque niente, era per dire che non ho trovato la mia testa, al risveglio, questa mattina, sul comodino, dove l’avevo lasciata ieri notte, prima di andare a letto, perciò sono un po’ preoccupato, non so dove sia finita, in genere la mia è una testa che se ne sta un po’ per i cazzi suoi, ma non si allontana mai senza lasciarmi un biglietto, un messaggio, qualcosa, torno subito, sono al bar, vado a prendere le sigarette, c’ho un vaglia da ritirare alle poste, cose così, invece niente, oggi niente di niente, perciò sono davvero in pensiero e, come se non bastasse, ho pure il raffreddore, il naso che cola, la gola catarrosa, e non sai mai cosa possa capitare a una testa che gronda moccio, in giro, chissà dove, nemmeno la sciarpa e il berrettino s’è presa, incosciente d’una testa, ma già mi sente quando torna, oh se mi sente, gliele canto proprio, stavolta.
Che fine hai fatto
Che fine hai fatto? Eh? Che fine hai fatto? Tu, con le tue gambe da cartaginese. E il tuo sedere asburgico. Bello. Tondo come una mela. Che fine hai fatto? Eh? Dimmi che fine hai fatto. Mi hai lasciato una notte d’inverno. Faceva freddo e tirava vento. La città era deserta. Quando mi sono svegliato, il mattino dopo, ho trovato sul comodino il tuo stuzzicadenti. Uno stuzzicadenti. Ecco ciò che mi è rimasto di te. Ti avverto: quando verrai a riprenderlo sarà ormai fuori uso. Che fine hai fatto? Eh? Me lo puoi dire? Ho sempre pensato che avessi delle doti straordinarie. Ho sempre pensato che fossi unica. Ora sto invecchiando. E questo non ti appaia patetico. La città continua a essere deserta, la gente non si prende sul serio. Ma nessuno se ne rammarica. Ogni tanto vado giù in centro. eggio, senza una meta precisa.
Salgo sugli autobus. Se incontro qualcuno cambio marciapiede, mi allontano. Poi però li sento. Li sento ridere alle mie spalle. E tu non ci sei. Che fine hai fatto? Eh? Che brutta fine hai fatto.
Linee
A guardare certi programmi d’attualità in televisione ci si rende conto che la linea di confine tra finzione e realtà non è più una linea, è una zona grigia così ampia che persino a un esploratore munito di bussola e carte topografiche risulterebbe complicato non smarrirsi.
Limare
Rughe Oggi non mi sento le solite rughe sul viso c’è qualcosa di diverso di più esotico tipo la mappa delle ande peruviane.
Il Corpo
Sono seduto su una sedia, e c’è un’infermiera che mi sorregge. Quando ti sveglierai sarà tutto finito. L’infermiera mi sorride, le sorrido anch’io, ancora stordito dagli effetti dell’anestetico. Quando ti sveglierai sarà tutto finito. Deglutisco. Strano, penso, non sento alcun dolore.
Rivestito con film
Non sto tanto male. Peggio. Sfatto come una rondella di gelatina purpurea, esausto come un olio vegetale da frittura, e irritabile come il filamento di una lampada al tungsteno, dopo una notte trascorsa a lottare contro Frotte di Asura Rinitici & Torme di Baphomet Idrorreici, ora la mattina mi appare come un algoritmo di nuvole lisergiche e un tripudio gorgogliante di fagottini geotermici pronti ad accoppiarsi con scafata lussuria. Come diceva Walt Whitman, l’erba e le stelle camminano nella stessa direzione. Perciò, gettate via le tazze e bevete dalle vostri mani (purché prima ve le siate sciacquate).
Sentirsi a casa
Sentirsi a casa. E’ quello che ho provato l’altra sera, mentre eggiavo per le vie del quartiere Villanova. Mi sono sentito a casa. Stavo bene. L’aria, i colori, i profumi: non so che cosa sia. So solo che una parte di me è qui, su questi muri, tra questi vicoli, in queste piazze.
La notizia del giorno
accordati nell’ovvio vili, lo concordavate rivivo te, calcolando evolvo ricalcandoti
Pallone
e all’improvviso l’indignazione, come se non si sapesse che il mondo del calcio professionistico è una montagna di letame rivestita d’erba glassata, ma sono tutti innocenti, fino a prova contraria, tutti innocenti, va bene, e poi cosa vuoi che siano un paio di mele marce, dài, non generalizziamo, ché tra l’altro ci sono problemi ben più seri, non scherziamo, dài, problemi che ci stiamo sbattendo la testa da mesi, e non ne usciamo, non c’è verso di uscirne, sta diventando angosciante, dài, non farmici pensare, se non si trova al più presto una soluzione qui le cose si mettono male, proprio male, mi viene l’ansia al pensiero di non sapere ancora in quale stadio il cagliari giocherà il prossimo campionato
Differenze (1)
La triforcazione si trovava al termine di una lunga discesa, al di là di una serie di curve. Tutto attorno, cespugli giallastri e vite selvatica, rumori di insetti e ulivi. Tre strade, nessuna indicazione, nessun cartello. – E adesso? – ha detto Alina. Ho spento il motore. Entrambi siamo scesi dall’auto. Il sole era alto. – Controlla la mappa – le ho detto. Alina mi ha guardato da sotto le lenti scure. – Perché? – mi ha detto. – Perché ci siamo persi. Un istante dopo ha tirato via la mappa dal cruscotto e l’ha svolta sul cofano. S’è messa a studiarla. Ho scrutato l’orizzonte: pietre, colline. E vegetazione bassa. Nient’altro. Ho provato con il telefono: rete assente. – Hai controllato la mappa? – le ho domandato. – Sì – ha risposto. – Dove ci troviamo? – Non lo so. Mi sa che la mappa è fasulla. Sei tu che sei fasulla, m’è venuto da dirle. Ma sono stato zitto. Mi sono avvicinato, ho dato un’occhiata alla cartina. In cuor mio già sapevo quale strada avrei dovuto imboccare.
– Sei sicuro? Ci siamo persi? – ha detto Alina. – Sì – ho detto – ci saremmo dovuti fermare molto prima, un’ora fa, quando abbiamo incrociato quel gregge di capre. Lei ha sollevato lo sguardo. Sembrava seccata. – Che c’è? – ho detto. – E perché ci siamo fermati proprio qua? – mi ha chiesto. Ho fatto per dire qualcosa. Ma niente. Ho scosso il capo, ho ripreso a consultare la mappa. – Perché proprio qua? – ha detto nuovamente lei, un tono di voce più alto. Mi sono voltato. Lei si stava levando un ricciolo di capelli dalla fronte sudata. Aveva un’espressione buffa, quasi sorpresa. Per un attimo ho pensato di baciarla. Di stringerla in un abbraccio e di baciarla. E basta. Invece sono rimasto immobile. Un po’ a disagio. Mentre già immaginavo quali potessero essere le sue intenzioni. – Qua o là non ha importanza – ho detto – non ha proprio alcuna importanza. Alina ha sollevato le spalle, in un gesto quasi impalpabile di fastidio, o di rabbia. S’è allontanata, le mani infilate nelle tasche dei pantaloncini, ha scalciato un sasso e ha fatto mezzo giro. S’è fermata dalla parte opposta del sentiero. Il vento tiepido faceva ondeggiare il fogliame. Forse non era il momento che entrambi aspettavamo. O forse sì. Alina è tornata sui suoi i. Mi ha fissato a lungo, non c’era traccia di ostilità sul suo viso. – Credo di non averti mai amato – mi ha detto. Ho fatto in tempo a scorgere il volo di un falchetto. Ho tenuto gli occhi incollati al cielo fin che non l’ho visto sparire nel fondovalle. – Non è te che ho amato in tutto questo tempo – ha ripetuto lei – penso sia giusto
che tu lo sappia. – Che cosa intendi dire? – le ho domandato con un mezzo sorriso. Alina mi ha risposto lentamente. – Nulla più di ciò che hai capito. Allora ho sfilato la pistola che tenevo nella cinta dei jeans, l’ho impugnata dalla parte della canna. Ero attratto dall’imbroglio in cui ci stavamo cacciando. Non so perché ma mi sembrava una scena già vista. – Tieni – ho detto mentre le porgevo l’arma – però vorrei che prima mi spiegassi. Un istante dopo abbiamo notato una nuvola di polvere avanzare verso di noi, in lontananza, in fondo alla strada.
Sulle corde
L’equilibrio è una nota sospesa, un accordo che basta un soffio perché diventi maggiore o minore, a seconda di come tira il vento. L’equilibrio è una parola confusa, un lamento antico che riecheggia sui tetti, nel fruscio delle notti di marzo. Sulle corde si disperde il ritardo. E nei frangenti superstiti, ascolto.
(S)fondi Europei (2012)
Prandelli convoca Bersani, Alfano e Casini. - La difesa a tre va bene, avanti così. Purtroppo non è colpa mia se quando siamo soli davanti al portiere anziché segnare ci facciamo le pippe. - Ah, bene. Ora prepariamo una mozione. Monti convoca Pirlo, De Rossi e Buffon. - Dobbiamo stare compatti. Non chiediamo aiuto a nessuno, tantomeno alla Croazia. E ricordatevi: la Grecia, la Spagna e il Portogallo stanno peggio di noi. - E l’Irlanda? Prandelli convoca la stampa austriaca. - Aiuti all’Italia? Ma per piacere! Parole inappropriate: i direttori di gara sono imparziali, ho piena fiducia nella classe arbitrale. - What? Monti convoca Cassano. - Bisogna crescere, crescere, crescere. Rispediamo a casa Giovinco e Giaccherini. - Perché? Che so’? Froci? Napolitano convoca il presidente della BCE Draghi. - Amico mio, con la Croazia bisogna fare il salto di qualità: dal pareggio del bilancio al bilancio del pareggio. - E che cosa vuol dire? - E che cazzo ne so.
Leonida Fusillo
Leonida Fusillo fece il suo ingresso nella hall trascinandosi appresso un bastardino marrone dalla coda mozzata. Il cane sollevò la zampa e strisciò un po’ di urina sul portaombrelli. Il portiere storse il naso ma non disse nulla. Le stravaganze erano di casa, in quell’albergo. Come le puttane e i delinquenti, del resto. Leonida Fusillo si avvicinò al nostro tavolo, ci guardò con discreto disinteresse, poi disse al cameriere di portare una bottiglia di rum e quattro bicchieri. Si accese una sigaretta, gettò via il fumo, quindi tossì e sputò un grumo di catarro sul muro. Le buone maniere non erano mai state il suo forte. Si sedette su un divanetto, accavallò le gambe e ingollò una sorsata di rum. - Per quanto vi possa interessare – sbottò – i miei pensieri in questi giorni sono una specie di lurido bar del porto con annesso postribolo di basso bordo. Laprima cosa che mi a per la testa è anche l’ultima ad andarsene, e io qui, come ogni mattina, a ripulire i pavimenti sporchi di crema, sangue, e acciughe andate a male. Ve lo dico chiaro e tondo: mi sono rotto il cazzo. E ‘fanculo alle gelatine d’arance. Quelle che ho mangiato ieri notte sapevano di colla per barche. Nessuno di noi fiatò. Leonida Fusillo spense la cicca sul bracciolo del divanetto e si alzò. - Va bene – disse – ora bevete l’ultimo sorso di rum, poi andiamo, ché c’è da dar fuoco alla città.
Problemi
Tu ti metti troppi problemi, mi ha detto lei in un filo di voce, come se le parole provenissero da una crepa di sentimenti contrapposti. L’ho guardata, in sintonia con le ombre degli alberi alle sue spalle, e ho avuto un lieve tracollo interiore al pensiero di tutti i problemi che non mi ero mai messo fino a quel momento. Per esempio, le ho chiesto. Problemi. Troppi problemi. Sì, ma fammi un esempio, le ho ripetuto. Per esempio continui a chiedermi insistentemente del nostro amore. Ah. E questo sarebbe un esempio, le ho detto. Lei ha incrociato le braccia. Senza offesa, mi ha detto. Senza offesa cosa? Senza offesa e basta, mi ha detto. Non mi sono offeso, ma potrei. Potresti? Potrei offendermi, se non mi chiedessi scusa, le ho detto in modo un po’ risentito. Non starai dicendo sul serio? Sei stata tu a iniziare.
Iniziare cosa? Hai detto che mi metto troppi problemi, giusto? Sì, cazzo! Be’, non sono d’accordo! Lei ha scosso la testa e ha levato gli occhi al cielo. C’erano delle nuvole, bianche e sottili. La giornata peggiore per mettersi a litigare. Per piacere, andiamo via, non ho più voglia di stare qui, ha detto lei a un certo punto. Si è alzata e si è allontanata di qualche metro. Ehi, ho detto. Che c’è? È un paio di giorni che ci sto pensando. A cosa? Ad Aznavour. Lei ha sbattuto le palpebre, segno che tuttavia non aveva ancora perso la pazienza. Charles Aznavour, le ho detto. Sì. E quindi? Che cosa c’entra? Niente. Mi stavo solo chiedendo se Aznavour fosse ancora vivo. Tutto qui.
Linea(re)
Devo darmi una calmata. Continuo a fare considerazioni e a esprimere pensieri che lentamente mi stanno ponendo fuori dalla mia linea politica. L’ho scritto anche su facebook. Gianni dice che dovrei cercare di essere parallelo. Gli ho risposto che presto smetterò di colmare gli ambienti. Ci proverò, voglio dire. Secondo Pier Giorgio è un evidente caso di autogrillismo. Gli ho risposto che non mi piacciono gli autogrill. Non ci mangio mai. Giusto un toast a Tramatza. Ma solo se devo andare a Sassari. O a Nuoro. O a Olbia. Lontano, insomma. Alessandra dice sì, sì, giusto per far pipì. Valeria invece dice ma perchè, l’Italia ha una sua politica? A me sembrano tutti dei pagliacci. Ognuno recita la sua parte. Portano maschere, quelle più convenienti. I finti comunisti borghesi, e compagnia bella. Non abbiamo bisogno dei politici. Roberto, invece, dice che con l’età sto diventando ellittico, ermetico e carsico nel linguaggio. Mi dice che dieci anni fa avrei espresso il concetto in modo più audace.
Letti di notte a Isili
“Sa poesia a bolu est unu donu”. Così mi dice tziu Antonino Atzeni, cantadore di Nurri che mi guarda con occhi sagaci e le labbra distese in un mezzo sorriso. Tziu Antonino Atzeni è un campione di poesia orale estemporanea improvvisata, ha appena vinto la settima edizione di “Sa Gara” a Nurachi. “Ma deu seu dilettanti”, si schernisce lui, che in realtà è molto più che un dilettante anche se non lo vuole ammettere. “Tui ses de Casteddu?”, mi chiede a un certo punto. Gli dico di sì. “Propriu casteddaiu casteddaiu?”, mi chiede un po’ sorpreso. Annuisco, indeciso se chiedergli il motivo di questo stupore. E alla fine non glielo chiedo, a tziu Antonino, perché è stupito delle mie origini casteddaie. Forse si sta solo chiedendo com’è che un cagliaritano si prenda la briga di avventurarsi sino a Isili, in una torrida serata di giugno, per fare l’alba dentro una libreria e festeggiare il solstizio a suon di letture, canti, musica, risate e poesie. O forse no, forse non se lo sta chiedendo, tziu Antonino, perché un po’ ci è abituato, a questo clima informale e un po’ bohèmien con il quale sua figlia Paola manda avanti la libreria Godot. Paola è adrenalinica, stasera. Ma io l’ho sempre vista così, perciò non mi meraviglio. “Macca!”, la definisce tziu Antonino, con un lampo di affetto puro che gli attraversa lo sguardo. Macca gi esti macca, confermo io. Ma senza un po’ di makkiori non si va da nessuna parte, sto per dire, e poi non lo dico, lo penso e basta. Senza un po’ di sano makkiori non puoi nemmeno immaginare una festa così, alla libreria Godot, nella giornata di “Letti di Notte, lettori e librai scatenati”, la prima notte bianca delle librerie indipendenti italiane. Una festa così bella, alla libreria Godot, non la puoi mica tirar su in quattr’e quattr’otto, se non sei una libraia con l’adrenalina a mille. Peccato che poi tziu Antonino a una certa ora saluti e se ne vada. “Eh, sono anziano, devo riguardarmi”, mi dice. Però l’ho visto ridere e divertirsi davvero come un bambino, seduto su un piccolo sgabello in prima fila, mentre Rossella
Faa ci raccontava le sue storie. Peccato che tziu Antonino non rimanga ad ascoltare le altre letture, peccato che ci regali soltanto un paio di versi improvvisati, a mo’ di augurio e di presentazione, all’inizio della serata. Una persona speciale, il babbo di Paola. La notte è breve, bisogna far presto. Leggiamo, ascoltiamo, ridiamo, pensiamo, leggiamo di nuovo, ascoltiamo di nuovo, ridiamo di nuovo, pensiamo di nuovo. E poi sembra quasi che questa notte, che è la notte più breve dell’anno, alla fine non sia così breve, e una volta finite le letture e le canzoni e le storie narrate e le poesie recitate, arriva il momento di mettersi a giocare a palloncini colorati, che è un gioco semplice da fare, dalle tre alle quattro del mattino, se dentro una libreria, in mezzo a scaffali, quadri, locandine, pane di Orroli, tiramisù, bicchieri di vino e bottiglie di acquavite, una ventina di persone abbastanza adulte cominciano a arsi i palloncini colorati, prima come se galleggiassero nell’aria, poi invece come se viaggiassero alla velocità della luce, da un punto all’altro della libreria, proprio come palloncini colorati impazziti, un po’ adrenalinici anche loro. Non è un gioco semplice, comunque, il gioco dei palloncini colorati. E poi, quando è ora di andare alla vigna di Alfredo e di Graziella a vedere sorgere il sole del ventidue di giugno, prendiamo un po’ di cose e saliamo su un pianoro non lontano dal paese, dove è buio pesto e le stelle sono occhi minuscoli che ti scrutano da un enorme drappo nero steso sul cielo. E per fortuna Molly non si fa nemmeno un graffio quando di colpo la vediamo sparire dentro un buco alto quanto un bambino di dodici anni. Molly esce dal buco, si toglie la polvere di dosso, e si mette a ridere, come se cadere dentro quel buco sia la cosa più buffa capitatale negli ultimi tempi. E di certo lo è, una cosa buffa, cadere dentro un buco, nella notte, nelle campagne di Isili, e non farsi nemmeno un graffio. Il fuoco è , non manca da bere. Ci sediamo davanti ai filari della vigna di Alfredo e Graziella. Una vigna giovane. Si farà, e sarà buon vino. Siamo stati svegli tutta la notte. Sembriamo un gruppo di spettatori bizzarri e strampalati, lettori mannari, lettori scatenati, lettori testardi, lettori che aspettano l’alba di un nuovo giorno. Di un giorno che sarà bello, perché al momento di andare via e di salutarci, ci abbracciamo forte e ci stringiamo le mani, ché mica si disperde in un attimo tutta questa energia, no, questa è un’energia che ce la
portiamo appresso ancora per un bel po’, questa è un’energia che, se le cose andassero sempre così, se il mondo fosse tutto libri, musica, storie, palloncini e poesia, io ci metterei la firma. E non solo io, penso.
Al Poetto
Sabato mattina sono andato da Bianca. Lei ha preso il pullman per andare al mare. Ero indeciso se starle dietro, o tornare a casa. Alla fine ho deciso di starle dietro. Sono salito sul pullman che seguiva. Bianca è scesa un paio di fermate prima del capolinea. Io sono sceso a quella successiva. L’ho vista sistemarsi lo zainetto sulle spalle, sollevarsi il bavero della giacca, infilarsi i pugni in tasca e dirigersi lentamente verso la spiaggia. Non c’era tanta gente. Qualche coppia, un gruppo di ragazzi, due o tre adulti vestiti di nero che correvano e facevano ginnastica, più in là degli anziani con dei piccoli cani al guinzaglio. Abbiamo camminato lungo la battigia per più di un’ora. Lei davanti, io dietro, a una distanza di venti, venticinque metri l’uno dall’altro. Il mare era stranamente silenzioso. C’era il sole e soffiava un leggero maestrale. A un certo punto ho accelerato il o, mi sono avvicinato tanto da poterla toccare. C’ho anche pensato. Sì, adesso mi avvicino e le sfioro un braccio, mi sono detto. Adesso mi avvicino e la chiamo, così, con un tono di voce normale, pacato, disteso, come se la conoscessi da chissà quanto e ci stessimo incontrando per caso, mi sono detto. Bianca. Ma sei tu? Ciao, come stai? Che sorpresa. Adesso la chiamo per nome, mi sono detto. Bianca. Ciao. Sì, scusa. Ti sembrerà strano. Lo so. Volevo dirti che ti amo. Adesso la chiamo e glielo dico, mi sono detto. Bianca. Ti dispiacerebbe fermarti un attimo? Sai, è da tanto che vorrei dirti una cosa.
Adesso la chiamo. Al massimo mi guarda e se ne va. Bianca. Scusa. Aspetta, non andare. Ora ti spiego. Adesso. Che aspetti?, mi sono chiesto. Bianca. Con i pugni in tasca. Il collo scoperto e le spalle dritte. Bianca. Niente. Mi sono fermato. Il mare sempre silenzioso. E la brezza fresca che mi accarezzava il viso. Sono rimasto lì a guardarla per un po’ mentre si allontanava e diventava un puntino scuro, piccolo, inesistente.
Un’estate d’amianto
Pomeriggio di sole. Brezza marina, trentaquattro gradi. Il maresciallo Canuto è seduto di fianco all’apparecchiatura per le intercettazioni telefoniche. Impugna una matita e fissa con espressione assente una rivista di enigmistica poggiata sulla scrivania. Si sfrega il mento con la punta della matita, arriccia le labbra. Sotto la rivista fa capolino una copia del quotidiano locale. Titolo a centro pagina: Poetto, l’allarme amianto si estende. Occhiello: Frammenti di eternit anche a Quartu. Il maresciallo Canuto prende una manciata di salatini da un piattino ormai semivuoto, li sgranocchia rumorosamente. Poi si pulisce le dita strisciandosele con cura sui pantaloni. Quindi beve un sorso di aranciata da una lattina e riprende a riflettere sulle definizioni già risolte. Sedici orizzontale: lo proteggeva lo schiniere. Sei lettere. Stinco. Diciannove verticale: dovrebbe spiazzare l’avversario. Undici lettere. Stratagemma. Otto orizzontale: spesso superano i re. Quattro lettere. Assi. Dodici orizzontale: governo del popolo. Dieci lettere. Questa è già un filo più difficile, pensa. Al maresciallo Canuto scappa un rutto al sapore d’agrume. Nello stesso istante, sul display dell’apparecchiatura per le intercettazioni si accende una lucina rossa. Il maresciallo sbuffa, si sistema gli auricolari. – Pronto? – Eja. – Pronto, mi senti?
– Eja! Cosa c’è, avvocato? – Ma si può sapere che cazzo avete combinato? – Itta? – Avete fatto un casino! – Aundi? Itta ses narèndi? – Ma, dico, stai scherzando, vero? – O s’abogau, ma itta bòlisi? Di cosa ti lamenti? Ma l’hai visto il lavoretto che c’abbiamo cravato a Quartu? Amianto in d’ogna logu. Ma sparpagliato bene bene, eh. Doxi chilus, ne abbiamo messo. – Ma chi cazzo vi ha detto di portare l’eternit a Quartu? – Oh, innanzitutto, cerca di non urlare, o avvocato. Abbassa la cresta e no ti pongas a tzerriài, banda beni? – Urlare? Urlare è poco! Vi dovrei prendere tutti a calci in culo! – Oh, ma ses cugliunendi? Guà che siete stati voi a dirci di riempire di eternit anche la spiaggia di Quartu. Altrimenti lo avremmo scaricato da un’altra parte. Guà che dall’ospedale Marino in poi è ancora tutto da fare, no ti pensis che sia un lavoretto da niente, oh! Sai quanti chili c’abbiamo sistemato, tra la quinta e la sesta fermata? Non c’hai nemmeno un’idea, tu. Itta ndi scisi tui, abogau facc’e pruppu. Non c’hai nemmeno un’idea del casino che abbiamo dovuto fare per trovare tutto quell’amianto. Ma cosa pensi che te lo tirino addosso, l’eternit? Là ghe è roba pericolosa. – Questo lo so anch’io. – E inzà cosa vuoi? – Voglio sapere chi cazzo vi ha detto di buttare l’amianto anche sulla spiaggia di Quartu! Al comune di Quartu ci sono i nostri fratelli, i nostri amici. Capito? Qui il casino l’abbiamo fatto soltanto per.
– Ma itta? Guà che siete stati voi a. – Ascolta a me. Per che cosa pensi che abbiamo scatenato tutto questo casino, eh? A chi è che dovevamo mettere un cazzo nel culo, eh? Ma non un cazzo qualsiasi. Uno di quei cazzi grossi che prima di sfilarselo vedrai che cosa erà, il signorino che sta in via Roma, lasciatelo dire. – Ma guà che. – Senti a me. A chi è che dovevamo metterlo nel culo? Ai nostri amici di Quartu? Eh? – No? – No! Lo capisci? Non sono lì i nostri nemici, mi segui? – Ma itta ndi scìu! Voi mi avete detto di. – Noi non ti abbiamo detto proprio niente! Qui le cose stanno diversamente! Tu di politica non ne capisci un cazzo. Ora ti spiego. C’era da rompere i coglioni al signorino di via Roma. C’era da rovinare la stagione estiva dei cagliaritani, così che loro se la prendessero con chi sappiamo. C’era da rovinare la stagione dei baretti. C’era da fare casino, ma molto molto, così che tra qualche anno in quella spiaggia non ci andrà più nessuno, e quando rivinceremo le elezioni, perché le elezioni le vinciamo noi, la prossima volta, te lo dico io, non le vinceranno più questi comunisti dei miei coglioni, capito?, quando saremo noi a governare, di nuovo, finalmente, al Poetto sai cosa ci facciamo? – No. – Sai cosa ci facciamo? – Appu nau ca no! – Ci facciamo tutti gli alberghi e i Casinò che vogliamo! Altro che spiaggia dei centomila! Hai capito? Roba per pochi! Per la crema, hai capito? – O avvocato, senti a me. – Ma cosa ti spiego a fare, tanto non capisci.
– Là ghi no seu tontu, o avvocato! Certe cose le capisco anch’io, cosa credi. – Ecco, bravo, allora, se le capisci, le cose, mi spieghi che cazzo vi è ato per la testa? Mi spieghi che cosa c’entra l’amianto a Quartu? – Ma non è sa propriu cosa? – Nooo! – E itta ti pozzu nai, o avvocato. A me mi ha chiamato il tizio dell’altra volta e mi ha detto: “Guà che ci sono Renzo, Mariano ed Emilio che”. – Sssshh! Non ti mettere a fare nomi! – Eh? Itta? Non ti sento bene. – Ho detto di NON FARE NOMI al telefono! – Eja, banda beni. Comunque sia, mi ha chiamato e mi ha detto: “Portane un po’ anche alla Marinella, di quell’eternit”. – Alla Marinella? – Eja! E così abbiamo fatto, o avvocato! Secondo te io mi prendo la responsabilità di buttare amianto aundi càpitara? – E cosa c’entra la Marinella? – E che cosa ne so, o avvocato! Se non le sapete voi, queste cose. Io di politica non ne capisco niente, l’hai detto anche tu! Deu seu scetti unu manovali, as cumprendiu? – … – … – Oh, cazzo. – Itta è? – Oh, cazzo.
– Avvocato? Mi senti? – Marinella. Oh, cazzo. – Eja. Così ha detto. E così abbiamo fatto. – Ma lo sai chi è Marinella? Lo sai? – Eja, su ristoranti. Si pappara beni, m’anti nau. – Non c’entra niente il ristorante. – Ah, no? – No. Marinella è quella che ha il baretto alla settima fermata. Era lì che dovevate scaricare l’amianto. – Cess! E immoi? Itta faeusu? – Lascia perdere. – Eus fattu casinu? – Un po’. – Cess! – E vabbè. Vuol dire che le prossime elezioni le vinciamo a Cagliari e le perdiamo a Quartu. – Questa la so, o avvocato! – Eh? – Anche se non ne capisco niente, di politica, questa la so, o avvocato! Da una parte vinco io, dall’altra vinci tu: è la regola dell’alternanza! Siamo in democrazia, isbò. Clic. Si interrompe la comunicazione. Il maresciallo Canuto si sfila gli auricolari, riprende a consultare il riquadro delle
parole crociate. Dodici orizzontale: governo del popolo. Dieci lettere. – Assemblea! – dice improvvisamente a voce alta. Comincia a scrivere. Poi si ferma e scuote la testa. Non ci sta. Sono nove. Troppo corta. E poi che cosa c’entra l’assemblea, pensa. Il maresciallo Canuto appoggia la matita, si alza e va alla finestra. Fa caldo, trentacinque gradi. Un soffio d’aria torrida e salmastra gli accarezza il viso, mentre in lontananza, oltre il molo Ichnusa, un gruppo di gabbiani stride e svolazza sulla scia di una piccola barca. Però, pensa, Cagliari è proprio una bella città.
n.b. Questa è una storiella finta, una storiella di fantasia, non c’entra nulla con la realtà. Mi sembra chiaro, no?
A me sembra
Per puro egoismo, lo ammetto, io vorrei che i 35 gradi, anche 37, venissero stabiliti per legge. 35 gradi, anche 37, accompagnati da un venticello tiepido e costante, non troppo umido, anzi, secco sarebbe meglio, almeno sino a tutto dicembre e – perché no? – sino agli inizi di marzo. Sarebbe bello. Il ponte del 2 novembre in costume. Il Natale in zoccoli e bermuda. Il Carnevale in canottiera. Uno potrebbe obiettare: scusa, ma sei vuoi stare al caldo anche d’inverno, perché non ti trasferisci ai tropici? No, non ho voglia di viaggiare, sto bene dove sono. Se i tropici si trasferiscono qui, mi fanno un piacere. Per puro egoismo, lo ammetto. C’è gente che per puro egoismo ha sostenuto per anni un pagliaccio alla guida del Governo. Mi sembra che la gente se la sia presa comoda, prima di accorgersi di avere un pagliaccio priapico a capo del Governo. Sì, ma ora è un’altra cosa a Palazzo Chigi, mi dicono. Sì, dico io, sarà pure un’altra cosa, ma è molto simile all’altra, e a me sembra che in quel posto continuino ad andarci le persone sbagliate. A me sembra. E comunque sia, a me sembra che avere un pagliaccio priapico, o un qualunque amico delle banche, a capo del Governo, sia molto più disdicevole che godere di un dolce tepore nei mesi invernali. Per legge. 35 gradi, anche 37, non è un problema.
A me sembra.
Cartesio lo conosco quasi a memoria
Ieri, durante una pausa delle prove per la festa al circolo degli ex marinai, una festa che non ho ancora capito che cosa ci andiamo a fare, considerato che ad ascoltare ci saranno cinque famigliole di anziani, un pugno di parenti e un imprecisato numero di ex marinai in pensione, e vorrei pure sapere se dobbiamo cambiare la scaletta, che sì, va bene, c’è pure qualche pezzo di Dalla e di Bennato, ma i brani che ci vengono meglio alla fine sono quelli di Santana, dei Rolling Stones e dei Dire Straits, non proprio un repertorio adatto alla serata, mi sa, a un certo punto, tra uno scazzo e l’altro, con Robi che svisava strano sulle corde nuove della Les Paul, Ciccio che batteva fuori tempo sul rullante, e Antonello che si aggrappava alla tastiera del basso, un basso così brutto e mal ridotto che lo abbiamo ribattezzato “la zappa”, mentre ero lì che trafficavo per accendere una sigaretta e guardavo la mia chitarra poggiata su una sedia, Sandro si è avvicinato, mi ha scroccato una Camel e poi mi ha chiesto: “ma tu come te l’immagini il 2000?”. Razza di domanda: il 2000. Cazzo, mancano vent’anni, al 2000, siamo ancora nel 1980, gli ho detto. Non riesco a immaginarmi il prossimo anno, o il 1983, o il 1985. Figurarsi il 2000. Sandro ha fatto sì con la testa. Minchia c’hai ragione, ha detto. E c’ho ragione sì, ho pensato. Anche se l’immaginazione non mi manca. Nel 2000 sono sicuro di una sola cosa: che suoneremo meglio, molto meglio di come suoniamo adesso. E questa mattina, una di quelle mattine afose di giugno che quando a Cagliari fa caldo afoso e umido il cielo è sempre un po’ meno azzurro e si soffoca, e se c’è una cosa da fare è andarsene in spiaggia, al Poetto, a giocare a pallone, stare un’ora a mollo e poi sdraiarsi sulla sabbia all’ombra di un casotto, io, ripensando a questa cosa del 2000, mi sono detto che non lo so proprio come sarà il mondo tra vent’anni, quando avrò più o meno l’età che ha oggi mio padre, quando sarò anziano, insomma. Non so un cazzo, e non mi interessa sapere niente del futuro.
L’unica cosa che so, pur non sapendo niente del futuro, è che questa mattina di giugno sarà una mattina complicata. A dire il vero lo sapevo anche prima, al risveglio, appena alzato, ma ne ho l’assoluta certezza proprio ora che sono ate le undici e mezza, e guardo la bacheca dove sono esposti gli esiti di fine anno scolastico. Classe quarta, sezione G. Scorro sino alla penultima riga. Matematica: quattro. Filosofia: cinque. Rimandato a settembre. Vaffanculo. Sì, era nell’aria. Già lo immaginavo. Ma vaffanculo lo stesso. Matematica, e va bene. Ci sta. Niente da dire. Ma Filosofia. Cinque. Che cazzo. A settembre. Col cinque. Ma se Cartesio lo conosco quasi a memoria? Torno a casa. Lo devo dire a mia madre. E vabbè, non casca il mondo. In cucina c’è profumo di basilico e cipolla. Il sugo di mia madre. Inimitabile. Mi fa impazzire. Due materie, le dico. Lei fa una smorfia. Si asciuga le mani su uno straccio appeso vicino alla finestra. Eh, le dico, è andata così. Lei fa un’altra smorfia. Come dire: quando lo saprà tuo padre. E che cazzo. Non casca il mondo. Vado in camera, mi giro una canna. Poi prendo l’elettrica e mi metto a strimpellare. Due accordi. Sol maggiore e Fa maggiore. Poi un terzo. Re maggiore. Sempre gli stessi. In sequenza. Poi ci metto pure un La minore. Filosofia, penso. Col cinque. Ma che cazzo. Mollo la chitarra, non ho più voglia. E forse non ha più voglia nemmeno lei. Esco, vado in via Roma, alla Casa del Disco.
C’è Stefano alla cassa. Mi guarda con quel suo sguardo triste, velato da un mezzo sorriso ironico. Mi avvicino speranzoso. È arrivato l’ultimo di Bob Dylan? Glielo chiedo con un’espressione così mesta e supplicante che a Stefano gli scappa una risata a monosillabo. Non ancora, mi dice. Forse domani. Chissà. Domani. Cazzo. Forse stasera, fa lui sollevando le spalle. Stasera. Merda, e me lo dici così! Stasera. Il nuovo disco di Bob Dylan. Che s’è convertito al cristianesimo. Che canta Dio e Gesù. Che canta canzoni gospel. Che durante i concerti inizia a fare discorsi sull’Armageddon e sul Diavolo e sulla potenza della Croce. Bob Dylan che sta due ore sul palco a suonare e a cantare canzoni inedite. Bob Dylan che come a Newport ’65 la gente lo contesta, lo fischia e gliene dice di tutti i colori mentre lui è sul palco, davanti al microfono, imibile, la chitarra a tracolla come fosse un fucile. Bob Dylan che non canta più le canzoni del ato. Ma non quelle di quindici anni fa, no, non canta più nemmeno quelle di “Street Legal”, che è un disco bellissimo, uscito appena un paio d’anni fa. Queste cose le ho lette l’altro giorno sul nuovo numero di Ciao 2001, settecento lire, costava seicentocinquanta l’anno scorso, che già mi sembravano molte seicentocinquanta lire l’anno scorso, figurarsi settecento, adesso. Comunque dico a Stefano che va bene, vuol dire che erò stasera. Al che lui scuote la testa, si mette a ridere, infila una mano sotto il bancone e tira fuori il nuovo disco di Bob Dylan. “Saved”. Salvato. Non gli dico vaffanculo, a Stefano, perché non ho molta voglia di perdere tempo, non vedo l’ora di tornare a casa e di ascoltare il disco, non vedo l’ora di sentire la voce di Bob Dylan, ché qualsiasi cosa abbia deciso di cantare, giuro che mi sta bene, sia Dio, Gesù, la Madonna, i Santi in Paradiso, l’intero Vangelo, non mi
interessa, mi interessa solo sentire le sue canzoni, la sua voce, la sua armonica. “Saved”. Salvato. Vaffanculo la matematica, la filosofia, Cartesio e pure Hobbes. Vaffanculo la DC e il PSI. Vaffanculo il 2000, il caldo umido, e gli ex marinai. Poi mentre corro verso casa con il disco ancora incellofanato, a un certo punto mi volto e non so come ma lo sguardo cade dritto sullo strillo di un quotidiano in edicola. Dc 9 dell’Itavia con 81 persone s’inabissa in mare presso Ustica. Era partito ieri sera da Bologna diretto a Palermo. Già sono meno contento. Mi sale un grumo d’ansia. E non so perché ma questa notizia dell’aereo precipitato a Ustica mi fa venire in mente il 2000. E ci ripenso anche a casa, con il trentatré giri che suona le nuove canzoni di Bob Dylan. Mi viene da pensare che nel 2000 gli aerei non cadranno più, che non ci saranno più guerre, che non ci saranno più ingiustizie, che il PCI sarà il primo partito in Italia, che Mick Jagger sarà il primo ministro britannico, che la benzina sarà gratis per tutti, che il Cagliari vincerà un altro scudetto, che la disco music sarà morta da un pezzo, che basterà una pastiglia per guarire dal cancro, che nelle scuole si insegneranno le canzoni di John Lennon, che Bob Dylan andrà in tournée con il Papa. Nel 2000. Forse.
Senza punte
Dal cassetto sono spuntate le mie matite spuntate. Si sono messe in fila, tutte e dieci, e mi hanno detto: “Ce lo suoni l’inno, prima dell’incontro?”. Quale incontro? mi sono chiesto. Non ricordavo alcun incontro. A ogni modo, io l’inno gliel’ho suonato. Purtroppo è andata come è andata. Ha vinto la squadra delle Roller. Diciamo che l’allenatore ha azzeccato i cambi.
La benzina non è poetica
Chissà com’è, certe cose mi capitano solo quando viaggio con determinate persone. Quando viaggio con Viviana, Elio, Nicola e Roberto, di cose ne capitano a bizzeffe. Cose strane e buffe, è inutile sottolinearlo. L’altra sera ci siamo messi in viaggio verso Laconi per partecipare alla rassegna “Atòbios de Cultura”, dove abbiamo presentato il reading di “Non Sto Tanto Male”. Io, Viviana ed Elio in una macchina. Nicola e Roberto in un’altra. E gli strumenti appresso, le chitarre e il contrabbasso, dentro una Golf. Che quando la gente guarda poi pensa: “ma come fanno a starci un contrabbasso e due chitarre dentro una Golf?”. Ci stanno, ci stanno. Un po’ si nota, che dentro la Golf c’è un contrabbasso. Ma non è quello il punto. Il punto è che insieme al contrabbasso e alle chitarre, nella Golf, ci stanno pure l’autista e un eggero. “È solo una questione di razionalizzazione degli spazi”, dice Nicola con quella sua voce un po’ in falsetto. “Ma, infatti”, gli dico io. A ogni modo, siamo in viaggio tra Isili e Nurallao quando di colpo il paesaggio diventa fiabesco. Rocce bianche, ponticelli, un fiumiciattolo, un lago. Rallentiamo, ci fermiamo sul ciglio della strada, scendiamo dalle macchine. Siamo un gruppo eterogeneo, per non aggiungere altro. Viviana indossa un abito da sera, nero, scarpe tacco dodici; Elio una maglietta sbarazzina e un paio di bermuda a quadretti; io, Nicola e Roberto abbiamo un’aria leggermente più sobria, ma non meno trascurata. Osserviamo da una certa distanza, e con grande meraviglia, quello che sembra essere uno scorcio di terra di Scozia, o un lembo di qualche altro paese nordico. Bello davvero. Perché dalla strada si vede anche un isolotto sulla cui sommità si staglia il profilo di una piccola chiesa.
È la chiesetta di San Sebastiano, una chiesa campestre di origine medioevale ma che nel tempo ha subito molti restauri. Suggestiva è la sua dislocazione. Sorge, infatti, su uno sperone roccioso circondato dal lago artificiale che si è creato dopo la costruzione della diga di Is Barrocus. Credo che la chiesa sia raggiungibile solo in barca. Comunque sia, è ben visibile dal viadotto sulla diga. Insomma, un bel posto, vale la pena. Viviana scatta qualche foto. Elio si accende una sigaretta. Roberto consiglia di allontanarsi dal bordo strada, le altre auto, poche, sfrecciano velocissime rasenti la piazzola. Fatto sta che a un certo punto mi volto e vedo Nicola ai piedi di un piccolo pero selvatico, intento a raccogliere frutti dall’aria acerba e poco significativa. Nicola raccoglie quattro pere. Sono proprio minuscole. Dico: “queste pere non sono commestibili, possono far male”. “Ma scherzi? Abbiamo assaggiato cose ben più dure”, dice Nicola. E comincia a morderne una, a sgranocchiarla con gusto. Lo guardiamo con aria sospettosa e forse anche un po’ disgustata. Poi Elio dice qualcosa riguardo al fatto che, agli occhi di un estraneo che si trovi a are per caso da quelle parti, dobbiamo sembrare un ensemble per lo meno un po’ bizzarro: una donna in abito da sera, tre uomini dall’aspetto trasandato, due chitarre e un contrabbasso stipati nelle auto (per tacer dell’uomo sotto il perastro). Annuisco, sorrido. Mi sembra tutto molto poetico. Mi piace. Risaliamo in macchina, ripartiamo. La strada sale verso i boschi di Laconi, il sole rosso alle spalle. Mi rivolgo a Elio e a Viviana. Dico: “ma quanto sarebbe bello mollare tutto, prendere l’auto e via, così, on the road, senza meta, all’avventura, eh?”. Un brillio negli occhi di Elio. Il tono di Viviana, invece, è imibile: “e la benzina chi la paga?”.
Le cose sono semplici
Il mio amico Gualtiero, mani lunghe e ossute, occhiali scuri, un papavero rosso sulla blusa nera, estate o inverno poco cambia, dice che le cose, per lui, stanno fondamentalmente su due piani, ben distinti, separati. Le cose, dice Gualtiero, o le capisci o non le capisci. Poi aggiunge: inutile far sofismi, non c’è una via di mezzo, non è come con le pesche e con le mele, che se non ci badi, sotto sotto, ti puoi anche confondere. Le cose sono semplici, dice Gualtiero, o le capisci o non le capisci. Poche storie. Io, gli dico, in genere le cose che non capisco, non tutte, solo alcune, dopo un po’ le capisco. Altre invece non le capisco per niente, nemmeno se me le girano dall’altra parte per farmi vedere come sono fatte. Sono tonto, gli dico. No, non sei tonto, mi dice Gualtiero. Ti faccio un esempio, mi fa. Gualtiero dice sempre questa frase: ti faccio un esempio. Che poi non è che stia lì a fare degli esempi veri e propri. Lo dice tanto per dire. Per far vedere che le cose sono semplici. Gualtiero ha letto che a Sun Valley, negli Stati Uniti, c’è l’annuale conferenza dei big dei media e della new economy. Gualtiero dice che il nome del posto, la Valle del Sole, è tutto un programma, gli sembra un posto per farci un raduno di nostalgici hippy, un posto per andare a fumarsi le canne e mettersi a cantare vecchie canzoni di Lowell George, degli Eagles, o degli America. Sì, gli dico, uno pensa che sia così, invece le cose sono ben diverse. Sun Valley è solo una rinomata località sciistica nelle Montagne Rocciose dove hanno tirato su il solito vertice blindato. Niente canne, niente Eagles, niente Little Feat. Gualtiero mi guarda perplesso. Vertice, poi. Si fa per dire, commenta. Gualtiero ha letto che lì, a Sun Valley, si sono dati appuntamenti i miliardari, i guru dei media e dell’hi-tech. È un vero peccato, dice, che non ci siano andati
anche i guru della letteratura, o della poesia, o della filosofia, o delle motociclette. Io, ti faccio un esempio, dice Gualtiero, conosco un guru della motocicletta che non sfigurerebbe affatto a Sun Valley. Proprio per niente. E comunque sia, aggiunge, a Sun Valley c’è pure Mario Monti, il quale non mi risulta essere né miliardario, né guru. Sì, gli dico, è andato lì, così pare, per spiegare l’Italia agli americani. Per far capire loro che cosa sta facendo l’Italia per combattere la crisi. Gualtiero mi guarda sempre più perplesso. Spiegare, poi. Si fa per dire, commenta. Ti faccio un esempio, dice. A me le parole di Monti non mi interessano tanto. E mi domando che cosa gliene possa fregare agli americani di ciò che dice Monti a proposito dell’Italia. In fin dei conti, mi fa lui, penso una cosa: penso che a Monti dovrebbe interessare soprattutto ciò che gli italiani hanno da dire a proposito dell’Italia. Perché gli italiani avrebbero un mucchio di cose da spiegare, se qualcuno stesse ad ascoltare le loro storie. E questa è una cosa abbastanza semplice, mi fa lui, o la capisci o non la capisci. Sì, gli dico io, ma siamo nel mondo globalizzato, Italia e Stati Uniti sono alleati, sono come fratelli. Ci vogliamo bene. E loro, gli americani, hanno sempre aiutato gli italiani. Gualtiero socchiude un occhio. Fratelli, poi. Si fa per dire, commenta. A ogni modo, dice lui, il problema è un altro. Hai visto come si sono presentati i guru a Sun Valley? Si sono presentati vestiti casual. Ti faccio un esempio. Ora, io non ricordo chi è stato il primo, forse è stato il capo della Fiat, Marchionne, te lo ricordi? Niente giacca, niente cravatta. Solamente camicia e golfino. Casual. Sono uno di voi, sembrava volesse dire. Il compagno Sergio. Casual. Poi sono arrivati tutti gli altri. Bersani in maniche di camicia, Obama in maniche di camicia, Sarkozy in maniche di camicia, Blair in maniche di camicia. Casual. Oggi i guru di Sun Valley eggiano in maglietta. Scarpe da tennis. Casual. La scelta di svestirsi dell’armatura tessile con la quale questi presunti guru vengono regolarmente ritratti – l’abito blu, la camicia chiara, le scarpe nere e la cravatta scura – non è una scelta, bada bene, è una presa per il culo. Casual.
Le cose, dice Gualtiero, sono semplici: o le capisci o non le capisci. Forse hai ragione, gli dico, ma non li chiamerei casual. Io li chiamerei finti trasandati. Gualtiero fa un mezzo sorriso. Bravo, mi dice. Quindi adesso l’hai capito, che cosa ci è andato a fare Mario Monti a Sun Valley? No, gli dico. Ma guarda che non è mica così semplice spiegare l’Italia agli americani. Gualtiero scuote la testa. Italia, poi. Si fa per dire, commenta.
Molto lenti, quasi fermi
La lentezza ineludibile ed esasperante con la quale in genere si percorre in auto il tratto di strada tra Torre delle Stelle e Terra Mala, sulla litoranea VillasimiusCagliari, nel tardo pomeriggio domenicale, di ritorno da una giornata trascorsa in sostanziale relax al mare, consente anche al meno acuto tra gli osservatori di ragionare sul grado medio di (in)civiltà delle persone: dagli automobilisti in cerca di fughe ardite sulla corsia opposta – con tanto di rapida accelerata e pressoché immediato rientro nella fila infinita che procede a o d’uomo, perché sulla corsia opposta ci transitano le auto che appunto vanno in senso opposto – ai villeggianti sconosciuti e pavidi (senza offesa) che, trovando indubbiamente troppo faticoso ricorrere all’utilizzo degli appositi contenitori di raccolta, si disfano di ogni tipo di immondizia là dove meglio capita, di norma sulle piazzole di sosta, sulle cunette, sulle aiuole di bordo strada, ma anche tra lentischi e corbezzoli, o al più, con garbo irriverente, all’interno di buste di plastica celeste appese alle pale d’un fico d’india. Per ragionare sul grado medio di (in)civiltà delle persone bisogna andare lenti. Molto lenti. Stare fermi, quasi.
Da uno a dieci
Tuuu. Tuuu. Tuuu. Clic. – Pronto? – Sì, pronto. – Bene. – Bene cosa? – Niente. Sto partendo. – A fare? – Come sarebbe a dire a fare? L’inviato. – Ah. E quando? – Quando cosa? – Quando cazzo parti. – Subito. Adesso. Sono già partito. – Ah. Buon viaggio. – Come sarebbe a dire buon viaggio? – Oh. Mi hai appena detto che parti. Anzi, stai partendo. Sei già partito. Quindi buon viaggio.
– Spiritosa. – E vabbé. – Senti un po’. Ho buttato giù un paio di domande. – Eh. – Dico, secondo te possono andare? – Manco mi hai detto le domande. – Ah. Sì. Scusa. Vado? Sparo? – Ho le orecchie di Giarda. Vai. Spara. – Spiritosa. – Eddài. Muoviti che non ho tempo da perdere. – Che cosa provi in questo momento? Quali sono le tue sensazioni? Che cosa hai provato quando ti hanno sequestrata? Che cosa hai pensato, quando ti hanno detto che eri prigioniera dei terroristi? Hai provato paura? Da uno a dieci, quanto? E che cosa hai provato quando invece ti hanno detto che ti avrebbero liberata? Da uno a dieci: che cosa hai provato? C’è qualcuno che vorresti ringraziare? Chi? Da uno a dieci, quanto? E a noi? A noi non ci dici nemmeno grazie? E ai rapitori? Voglio dire, i rapitori ti hanno trattata bene? C’era freddo? C’era caldo? E la biancheria? È stato pagato un riscatto? E a quanto ammonta? Da uno a dieci, quanto? Che cosa ti davano da mangiare? Chi era il capo? Come si chiamava? Era simpatico? Da uno a dieci, quanto? Ma ti hanno tenuto incappucciata? E per quanto tempo? Ma ti hanno fatto assaggiare il cibo locale? E com’è il loro formaggio? Fa schifo? È meglio il nostro, vero? E il mirto? Ce l’hanno il mirto? Hai mai parlato con loro della tua terra, della Sardegna? E che cosa hai raccontato loro? Gliel’hai detto, ai tuoi rapitori, che di noi si dice che siamo un popolo di sequestratori? Sì? E loro? Loro che cosa hanno detto? Si sono spaventati? Da uno a dieci, quanto? Ma lo sapevi che qui non facevamo altro che parlare del tuo sequestro? Dico, lo sapevi? Loro non ti dicevano niente? E la tv? La guardavi? E la radio? La ascoltavi? E internet? Navigavi? C’era campo? Da uno a dieci, quanto? Ma non te l’hanno detto che qui c’erano gli striscioni e i banner e gli spot per la tua liberazione? Ma tu lo conosci il popolo
di facebook? E quello di twitter? Un mucchio di gente, te l’immaginavi? Da uno a dieci, quanto? Ma, adesso? Adesso che cosa vorresti dire ai tuoi rapitori? Tornerai presto in Algeria? E quando? E dove? E che cosa farai al tuo rientro in Sardegna? Andrai al mare? Una festa? E chi inviti, alla festa? E a noi? Ci inviti? – … – Pronto? Eh, che ne dici? – … – Pronto? – Free. – Eh? Pronto? – La. Scia. Te. La. Sta. Re. – Come? – Vi. Prego. – Eh? – Li. Be. Ra. Te. La. – Ma che dici? – … – Pronto? Pronto? Clic.
I love your website
Ovvero: quando capita di ricevere commenti improbabili. I love your website. Desde 2008 nossa universidade vem sendo atacada pelos projetos de contrareforma universite1ria, como o famigerado REUNI em 2008 foi assinado um termo de ajuste de conduta com o reitor Janue1rio Amaral. Il o di quteso Blog e8 stato davvero prezioso e desidero ringraziare pubblicamente Annarita e tutti gli abituali frequentatori di questa “piazza” virtuale. Muahahakomen da berjaya(hihi wpun da jadi 2 penama..errr…)da masuk . And with each 1000m gain in altitude, the progress became that much more difficult. The route wound around crevasses, worked up through penitentes, jogged right, and then left, as we hit the brunt of the upper level winds. The route crossed a thin crevasse bridge and then steepened to 45 degrees. This is the most prominent of the tint laws; if your film is too dark, there’s a good chance you’ll be stopped and cited. It brings light into the dark! Is there any free android apps to allow you to print to wireless printer?Key club page for facebook?on what basis friends are listed when i visit others profile? co na zgag? Heheheaus: kurengggg gelak kat aku no??? la ni dah laju . Kawan saya teurebst ialah Nurliani yang bagi komen di bawahDilla: Hang kena jumpa PakCik teurebst lepaih tu tolong explain sat kat bliau. Cara rosy, i filosofi che hai ciatto ci hanno lasciato grandi riflessioni e modi di vedere e interpretare il mondo.La natura perf2 non e8 mai matrigna.
Ciao Patrick in effetti il tiloto non rispecchia pienamente il contenuto del testo, per come possiamo intenderlo a primo impatto e potrei dirti facilmente che e8 stato fatto a posta, sai meglio di me che il tiloto conta : ) Ma in realte0 non e8 cosec in realte0 ho inteso come fregature. Caro bacilus,intanto facico outing: non sono una consumatrice di prodotti biologici. Innanzitutto perche9 in generale costano di pif9 e non sono qualitativamente migliori. In secondo luogo perche9 non li considero pif9 sicuri dei prodotti convenzionali, anzi in qualche caso possono esserlo meno. The boy chcieos were Cars or Toy story and Henry wanted the Disney princess pull-ups. I knew Brian wouldn’t like me bringing home princesses so I told him those weren’t one of his chcieos. Ek net net graag se dat hulle absoluut stninung lyk en dat julle as n span fantasties is. Io ho fatto un’esperienza simile qclhuae anno fa, con un’amica, al mercatino dell’artigianato. A Natale. Un freddo che non ti dico e il ricavato e8 bastato appena a coprire le spese. Non serve dire che la voglia di riprovare mi e8 ata del tutto. Grains:French toastWafflesBlueberry WafflesMultigrain CrackersWholewheat Bread Peanut Butter & Jelly SandwichesGoldfish CrackersFruit & Cereal Bars (but ONLY the Trader Joes brand)Mac & Cheese. Io l’ho fatto negli ultimi due anni per fnaaizinre la gita scolastica alla classe di mio figlio (per i meno abbienti). V elementare. Quest’anno insieme all’altra quinta. E’ stato utilissimo. Intanto i bambini hanno capito qualcosa in pif9 su soldi, spreco, riciclo. Non facile a volte tenere a bada il senso di colpa ignorandole, ma cerco di farlo sempre pi spesso. Ho dato loro libri da leggere, ho dato consigli, abbiamo parlato per ore ma da anni non cambia nulla. E per di pi mettono dubbi sulla mia strada.Io mi devo concentrare su me stessa, senza essere scoraggiata o frenata n da amiche che si sono rassegnate, n da una madre che non sa dare, tantomeno da bambocci mai cresciuti. Non sono al mondo per ascoltare le lagne altrui e per tamponare le falle nella vita di chi non fa nulla per aiutarsi e gli tutto dovuto. Sono come zavorre per me. Me ne rendo ben conto.Purtroppo quella la madre che ho. Fortuna che vivo per conto mio.Quanto alle amiche, ne ho anche altre
meno negative e pi mondane (non ripiegate su se stesse, chiuse in casa a rimuginare) e ultimamente le ho recuperate.Gli ex li tengo alla larga e cerco di non pensarci. Ma alle volte tutto pare remare contro. Comunque, s , Ilaria, terr conto dei tuoi consigli. Sono consapevole di avere frequentato e frequentare persone che non tengono il mio o. S , devo assolutamente cambiare. Non parlare di certi argomenti con quelle due amiche impossibile, giuro. Non pensano ad altro vivono in realt molto piccole composte della sola famiglia e del lavoro (in un caso in famiglia) e non hanno altro in testa che i loro problemi di coppia, eventualmente quelli dei figli (per me una noia mortale) dei genitori o dei suoceri comunque sempre e solo problemi e insoddisfazioni. A volte cambio discorso, ma si torna sempre l . L’unica davvero smollarle e con una in particolare ci provo da tempo. Certo, anche io mi sono sfogata con loro quindi si aspettano di poter fare altrettranto, ma quando i discorsi non sono costruttivi e non servono a nulla davvero mi chiedo che senso abbia. E poi non sono una psicologa e poi ho altro da fare che ascoltare 100 volte le stesse cose. E poi, che diavolo, che si arrangino se hanno deciso di non uscire dalla loro situazione! I Found a Lottery System with up to a 98% winning rate! What’s stopping you from winning the lottery right now?
Porte Girevoli
M’era venuta in testa l’idea di scrivere qualcosa circa il fatto che con le armi, gli italiani, ci sanno proprio fare. Con le armi olimpioniche, s’intende. Poi, però, ci ho rinunciato, non mi veniva niente da scrivere. Pensavo al fioretto, all’arco, alla pistola. E al fatto che ci deve essere sicuramente un significato allusivo, quasi metaforico, in tutto questo primeggiare di schermidori, arcieri e pistoleri. Allora, non so perché, davvero non c’entrava nulla, mi sono ricordato del film di Ken Loach, Il Mio Amico Eric, in cui uno degli amici del protagonista alla proposta “adesso voglio che tu pensi a qualcuno che a te piace, a qualcuno di cui ti piacerebbe emulare carisma e sicurezza di sé”, risponde “Sammy Davis Jr. Perché è uno sicuro di sé”. E insomma, io sono d’accordo. Sammy Davis Jr. non si discute.
A volte (alternate take)
A volte gli altri ti dicono certe cose che non sai nemmeno perché. A volte gli altri ti dicono certe cose che ci rimani male, ma così male che la prima cosa che vorresti dire è “vaffanculo”. E poi però non dici nulla, stai zitto. E pazienza. A volte. A volte gli altri ti dicono certe cose che ti fanno star bene, ma così bene che la prima cosa che vorresti dire è “grazie”. E poi però non dici nulla, stai zitto. E pazienza. A volte gli altri ti dicono certe cose che devi stare ore se non giorni o settimane a capire le cose che ti hanno detto. E poi non sai più se quelle cose avevano davvero quel significato, o se invece ne avevano un altro. A volte. A volte gli altri ti dicono certe cose che dentro la tua testa cominciano a prendere forma dei pensieri così grandi che la prima cosa che ti vien da dire è “no”. E un attimo dopo già ti sei pentito di aver detto no. A volte gli altri ti dicono certe cose che tu rispondi a bruciapelo “macché”. E un attimo dopo già ti sei pentito di aver risposto “macché”. A volte. A volte gli altri ti dicono certe cose che ti hanno già detto altre mille volte e la prima reazione è quella di dire “queste cose sono cose che mi avete già detto altre mille volte”. E poi però non dici nulla, perché ci sono certe cose che se gli altri dicono di avertele già dette altre mille volte ci sarà pure un motivo. Evidentemente certe cose uno deve sentirsele ripetere più di una volta. A volte gli altri ti dicono certe cose che man mano che te le dicono pensi che le cose che ti stanno dicendo avresti potuto dirle tu, forse non così, ma all’incirca, e
insomma il concetto è quello, “mi hai rubato le parole di bocca”, che sarà pure un bel modo di dire ma non mi piace l’idea che qualcuno si metta a frugare nella mia bocca per rubarmi le parole, magari già belle e insalivate. A volte. A volte gli altri ti dicono certe cose che tu rimani a bocca aperta. E allora non ti lamentare se ti rubano le parole.
Il punto di prima
E poi si giunge a un punto che non unisce un altro punto o il punto che semplicemente speravi, e da quel punto non se ne esce se non tornando al punto di prima, ammesso che ci sia ancora, che non sia diventato qualcos’altro, il punto di prima.
I Motivi
Ci sono giorni e giorni. Ci sono giorni come tanti, tutti diversi, proprio perché uguali, e giorni che paiono un po’ più speciali degli altri, anche se a guardarli bene non sembrerebbe. Certi giorni basta soltanto un motivo. Basta e avanza. Certi altri giorni, invece, non è così. Non basta. Oggi, per esempio, è un giorno che mi occorrono cinquanta buoni motivi. Che non sono elencati in una classifica di merito, di gusto o di intenzioni. I motivi sono motivi, mica modelle o tennisti. Il primo buon motivo sono lei e i nostri figli. E lei e i nostri figli sanno perché. Il secondo buon motivo è l’amore. E lei e i nostri figli sanno perché. Il terzo buon motivo sono i miei genitori e i miei fratelli. E anche loro sanno perché. Il quarto è che questo è un viaggio apionante e, pure se si sa come andrà a finire, a me sembra proprio un bel viaggio da viaggiare, un po’ come un bel sogno da sognare. Il quinto è la musica, quella da ascoltare, quella da suonare, quella già ascoltata, quella già suonata. Il sesto la poesia, quella in rima, quella no, quella recitata, quella cantata. Il settimo la scrittura, quella da leggere, quella scritta, e quella ancora tutta da scrivere. L’ottavo è la felicità, che comunque non esisterebbe senza gli altri sette buoni motivi precedenti. Il nono la speranza. Il decimo la consapevolezza. L’undicesimo è la gioia, che è un po’ diversa dalla felicità, ma siccome non sono un filosofo, non saprei spiegare quale sia la differenza tra gioia e felicità. Il dodicesimo è la parola. Il tredicesimo sono i bambini. Il quattordicesimo sono i mattini. Il quindicesimo le notti. Il sedicesimo è l’acqua, il diciassettesimo il cibo, il diciottesimo il vino.
Il diciannovesimo è la gentilezza. Il ventesimo il sorriso. Il ventunesimo è Bob Dylan. Il ventiduesimo è un momento preciso della giornata, quel momento in cui la realtà sembra un fermo immagine e tu vorresti che quel momento si dilatasse sino a comprendere tutti gli altri momenti che verranno. Il ventitreesimo buon motivo è la pace. Il ventiquattresimo l’amicizia. Il venticinquesimo il mare. Il ventiseiesimo è una chitarra acustica. Il ventisettesimo una chitarra elettrica e un pianoforte. Il ventottesimo è una piccola orchestra che suona un valzer campagnolo in una piazza di paese mentre la gente ride e le coppie ballano e l’aria sa di pane appena sfornato e dietro i monti il crepuscolo è un manto rosa che copre l’orizzonte. Il ventinovesimo è una mattina fresca d’autunno che su un versante c’è il sole e sull’altro inizia a piovere, e tu ti soffermi a guardare in lontananza due arcobaleni appena spuntati. Il trentesimo buon motivo è il divertimento. Il trentunesimo la salvezza, il trentaduesimo i ricordi, il trentatreesimo il profumo della terra. Il trentaquattresimo buon motivo sono gli sguardi della persona che ti ama. Il trentacinquesimo un film in bianco e nero degli anni cinquanta. Il trentaseiesimo è la rabbia. Il trentasettesimo è lo sdegno di fronte alle ingiustizie. Il trentottesimo è l’ultima volta che hai pensato “adesso basta”. Il trentanovesimo è correre sulla sabbia e tuffarsi tra le onde. Il quarantesimo buon motivo è il desiderio. Il quarantunesimo le foto, il quarantaduesimo le nuvole, il quarantatreesimo il vento che spazza le nuvole e le foto.
Il quarantacinquesimo buon motivo risiede nel fatto che gli angeli probabilmente esistono. Che cosa facciano di preciso, dove dormano, come si nutrano, che genere di ali utilizzino, quali e quante droghe consumino, di quanta autonomia di volo dispongano, e in quale forma o sostanza si presentino, però, non lo so, giuro, non ne ho la più pallida idea. Il quarantaseiesimo è ogni dolore che va via. Il quarantasettesimo sono le persone che ti vogliono bene. Il quarantottesimo sono le persone che ancora non ti vogliono bene ma magari un giorno te ne vorranno, e se non te ne vorranno mai, pazienza, sicuramente te ne farai una ragione. Il quarantanovesimo sono i sogni. Il cinquantesimo buon motivo è qui, o laggiù, insomma, da qualche parte, ovunque ne valga davvero la pena, ché tanto si sa che i buoni motivi sono più di cinquanta, molti ma molti di più.
Buoni e Cattivi
Il mondo è fatto di buoni e di cattivi. Il problema è che molto spesso non si capisce chi siano i buoni e chi i cattivi. Ci sono buoni che si travestono da cattivi, e viceversa. E poi ci sono quelli che dicono di essere buoni ma si comportano da cattivi. E viceversa. Fatto sta che nella vicenda dei rom a Cagliari le posizioni dei buoni e dei cattivi si sono delineate con contorni netti e ben precisi. Ora la notizia nuova è questa. I rom ospitati nelle case assegnate dal Comune e dalla Caritas hanno abbandonato l’ex locale notturno di Flumini. “Troppe minacce, avevamo paura di ritorsioni”, così riferisce l’agenzia AGI che ha raccolto il commento di Marco Sulejmanovic, trentatre anni, padre di sei bambini dai quattro ai dodici anni. “Ci dicevano vi bruciamo i figli, e poi insulti e continue ritorsioni. Abbiamo avuto paura per i bambini, così abbiamo deciso di andare via”. Ora i rom saranno ospiti dell’ASCE, organizzazione contro l’emarginazione, e di altre famiglie che hanno dato disponibilità all’accoglienza. Verrebbe da commentare che nonostante la mobilitazione su internet e le inchieste giornalistiche portate avanti da alcune testate on line, e non solo, l’obiettivo del quotidiano L’Unione Sarda sia stato raggiunto (se l’obiettivo de L’Unione Sarda era proprio quello di alimentare un risentimento razzista nei confronti dei rom). Io un’idea di chi sia buono e di chi sia cattivo, in questa storia, me la sono già fatta. Molti altri, purtroppo, no.
Il calcio non è uno sport per nocchieri
Dal quotidiano più diffuso nei circoli portuali. Titolo: “Corazzata Rossoblu!” Sommario: “I dirigenti fiduciosi: traghetteremo la squadra in Europa“. Occhiello: “Grande prova ieri in amichevole“. Dall’inviato. L’incontro tra il Cagliari e la rappresentativa delle Vecchie Glorie della Marina Mercantile si è arenato al 90′ sul risultato di 2-1. È stata una partita giocata in modo straordinario dai nostri tirrenici in maglia rossoblu. Ecco il diario di bordo. L’ammiraglio Ficcandenti conferma l’undici delle ultime gare. Schettino in porta, Gavitello a dritta, il tedesco Skipper a babordo, Zavorra, Tangone e Trinchetto sulla linea della chiglia. A fare da boa, nel bacino di sua competenza, c’è l’austriaco Sonar, mentre la coppia navigata Barcarizzo e Galloccia si dispone in coperta, e il duo argentino erella e Cuccetta sguazza a prua. Tutti gli altri in banchina. I primi minuti si sciolgono nella gestione liquida del pallone, mentre i mercantili pressano aggressivi. La prima occasione per loro capita su una bolina piazzata: bozzello a gancio di Bompresso, solo davanti al boccaporto, Schettino è battuto, ma Trinchetto è pronto a cazzare. Dopo il quarto d’ora i tirrenici sardi guadagnano campo e fiducia. La prima occasione al 18′: il portiere ospite sventa sottobordo una pericolosa sorbona di Barcarizzo. Al 25′ ci prova Cuccetta: il suo destro a giro sulla rosa dei venti va a impattare contro la stazza degli avversari. Al 40′, dopo un periodo di calma piatta, la linea di galleggiamento dei mercantili va a picco. Lancio da babordo per Sonar che controlla largo, sfugge al raddoppio di abbordaggio e centra morbido come una biscaglina. Il portiere è scavalcato e erella infila nel tambuccio della cambusa.
Nell’intervallo, Gran Pavesi per tutti e squadre alla fonda. Si riprende con i mercantili che al 3′ perlustrano nella difesa tirrenica utilizzando scandagli di nuova generazione. Al 5′ Schettino è lesto nell’evitare una bitta con sestante. Il Cagliari Tirrenico pare una corazzata inaffondabile. Ma al 16′ della ripresa è l’imprendibile Bompresso a tarchiare la difesa rossoblu. Gavitello scivola a tribordo. Ne approfitta il centrattacco ospite che, da una distanza di tre miglia, lascia partire un ventinpoppa che si infila nel sette e gonfia la stiva rossoblu. I gagliardi rossoblu tirrenici replicano tre minuti più tardi. Sfruttando un ammutinamento della trequarti ospite, Barcarizzo vira forza quattro, sguscia a babordo, attuzza un timoniere, sgancia la scialuppa, getta l’ancora e offre il più comodo degli assist per Cuccetta che può salpare indisturbato verso la rada avversaria. A questo punto l’argentino fa la cosa più semplice. Si immerge nella falla, issa la vela a balestone e scaglia la gomena: scarroccio imprendibile, il raddoppio è servito. Alla sirena finale, aria di burrasca tra l’equipaggio dei mercantili e il loro contrammiraglio. Dall’oblò rossoblu, invece, solo urla festose. L’armatore cagliaritano, ai microfoni di Tele Cabotaggio, ha dichiarato: “Undici uomini sulla cassa del morto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum! Il vino e il diavolo hanno fatto il resto, yo-ho-ho! E una bottiglia di rum!”.
I Cosi
c’è da far rientrare quei cosi nel flusso, gli dico, metterli assieme, in maniera significativa, insomma, poi, una volta che son lì, difficile che vengan via di nuovo, basta fissarli, se se ne stanno fermi, bene, se invece capita che si muovano, pazienza, però sarebbe meglio di no, che rientrassero nel flusso, che proprio ci rimanessero quei cosi cosa?, dice quei cosi nel flusso nel flusso? nel flusso
Istruzioni Per Il Bricolage
La colazione è andata a male. Rovinata, proprio. Non so come l’avreste presa voi, ma io ho trovato abbastanza sgradevole la presenza di pezzi di gnoseologia mescolati nell’impasto dei plum cake. Pezzi grossi così. Non ci volevo credere. Sono cose che fanno are la fame. Al che ho preso quei grossi pezzi di gnoseologia e li ho gettati nella spazzatura. Poi m’è venuta la tentazione di spalancare la finestra e di insultare il vicino che non la smette di fare bricolage con raspe, cacciaviti e fiamma ossidrica in cantina. Dovrebbero vietarlo, il bricolage ad agosto. Quello in cantina, non ne parliamo. Allora sono andato in bagno, sono rimasto un quarto d’ora a sciacquarmi il viso. Tutto per via di una strana e molesta secrezione che si raggruma sul bordo e agli angoli delle palpebre. Davvero singolare. M’è saltato in testa un pensiero che aveva voglia di essere pensato: “non è sufficiente avere occhi che vedano, servono occhi che facciano saper vedere”. Non ricordo chi l’abbia detto, ma di sicuro non era un oculista. E nemmeno un esperto di plum cake. Forse era un esperto di bricolage.
Molleggiare Nell’Ansia
rimuginando sulle carriere m’è venuto da pensare che io, poi, a fine carriera, se ci arrivo, a fine carriera, vorrei fare come quei calciatori che arrivati a fine carriera un po’ se la tirano e un po’ no, un po’ se la prendono e un po’ no, un po’ rompono e un po’ no, e comunque son sempre lì a molleggiarsi sulle domande cruciali, resto o vado, parto o torno, prendo o lascio, pianto o piglio, che immagino siano domande davvero cruciali, gonfie d’ansia e di rivalsa, voglio dire, proprio sconfinanti nell’angoscia esistenziale, o qualcosa del genere e insomma, rimuginando sulle carriere, anch’io, quando arriverò a fine carriera, se ci arrivo, a fine carriera, spero di sì, vorrei poter scegliere anch’io, che ne so, molleggiarmi un po’ sui tormenti esistenziali di fine carriera, che poi sono i tormenti di una vita intera e così m’è venuto da pensare che io, se potessi, se ci fosse qualcuno interessato, caso mai la cosa avesse un certo richiamo, tutto considerato, non mi dispiacerebbe finire la mia carriera in Tasmania
Fondisti
I fondisti della chiacchiera accademica e superflua mi stanno un po’ sulle palle.
La Trasmissione Del Pensiero Felice
L’idea iniziale era quella di scrivere una ventina di righe, giusto qualcosa che, utilizzando un registro ironico e sarcastico, mettesse insieme, in un contesto lievemente surreale, le notizie sulle vertenze sindacali del Sulcis e le decisioni delle autorità preposte circa l’utilizzo dello Stadio (sic) Is Arenas di Quartu per le partite del Cagliari Calcio. L’idea iniziale era proprio quella di buttar giù un paio di cartelle appena. Per (sor)riderci un po’ su, per sdrammatizzare. Poi, però, ripensando ai minatori della Carbosulcis, asserragliati sottoterra, vittime di giochi politici ed economici più grandi di loro, e ripensando anche ai lavoratori dell’Alcoa, lasciati alla mercé di tutti – prima di essere definitivamente mandati a fare in culo dagli americani o da chi per loro – devo dire che non me la sono sentita. Non me la sono sentita di scrivere quelle venti righe dal sapore ironico e sarcastico. M’è sembrato un insulto. Proprio un insulto grande e grosso. Così come m’è sembrato un insulto grande e grosso, un segno di assoluto spregio nei confronti delle persone e dei lavoratori onesti, la decisione di far giocare a porte chiuse (sic) la partita Cagliari-Atalanta, domenica prossima, allo Stadio (sic) Is Arenas di Quartu. Queste son cose che, purtroppo, vanno ben oltre l’ironia e il sarcasmo. Vanno ben oltre. Da una parte, la protesta legittima di migliaia di lavoratori (annientati nel corso degli anni dall’inerzia della classe politica, sia nazionale sia regionale). Dall’altra, la (pre)potenza di uno pseudo-imprenditore/bauscia, presidente (sic) di una società di calcio che, in barba a regole, regolamenti, leggi, codici e codicilli (e grazie a chissà quali promesse o prebende) dopo aver tanto strepitato, urlato, implorato e pianto, chiede e ottiene (in poche ore) ciò che in un nessun altro paese civile (e di certo meno corrotto) sarebbe mai riuscito a ottenere.
Altro che ironia. Altro che sarcasmo. L’idea iniziale è così sfumata, travolta da un impeto di stizza e di sdegno. La prossima volta bisogna che ci stia attento, alle mie idee. Non mi piace che vengano travolte da un impeto di stizza e sdegno. Non è una bella cosa. Proprio no.
Vendemmiare
Interno notte. Camera da letto. Ore 01.22. – Che cosa c’è? – Non riesco a prender sonno. – Perché? – Niente. – Niente non è una risposta. – Perché non è una domanda. – … – … – Che cosa c’è? – Niente. Malumore. – Uhm. Malumore e basta. – Malumore. E basta. – Prova a dormire. Riposare fa bene. Riconcilia con la vita. Con la parte migliore di noi. – La parte migliore di noi? – Tutti hanno una parte migliore. – Ma ne sei sicuro? – Sicurissimo.
– Non ti seguo. Fammi un esempio, ti prego. – Hai presente un grappolo d’uva? Bene, in un grappolo ci sono gli acini aspri e gli acini dolci. Gli acini dolci sono la parte migliore. – … – … – E questo sarebbe un esempio? – Direi di sì. – Scusa, ma è un esempio del cazzo. – Allora arrangiati. Buonanotte. – Sì, per forza m’arrangio. Ti dico che sono di malumore. E tu che fai? Mi parli di grappoli d’uva? – Non è colpa mia, se non capisci. Buonanotte. – Ah, ora è colpa mia. – Sì, sei tu che non capisci. – Aiutami a capire, allora. – No, guarda, lascia perdere. – Ah, ecco. Adesso dovrei pure lasciar perdere? – Sì. Lascia perdere. – E perché dovrei lasciar perdere? – Perché non ne ho voglia. – … – …
– Gli acini dolci. Ma dài. – Ho detto buonanotte.
Appunti (3)
11. Henry David Thoreau (1817-1862) è stato un grande pensatore americano. Quando, sul letto di morte, qualcuno gli domandò se già poteva vedere “l’altra sponda”, lui rispose: “Un mondo alla volta“. Forse c’entra poco o nulla, ma stanotte ho sognato un sogno talmente angosciante che al risveglio m’è venuta da dire la stessa cosa: “Un mondo alla volta, grazie”. Non potrei mai fare a meno dei sogni (ammesso che si possa). Anzi, prima di addormentarmi – come lo spettatore nella sala buia del cinema nell’istante che precede la proiezione di un film – già pregusto il momento in cui m’immergerò nella fase dello sonno REM. Però, talvolta, i sogni mi stremano. A tal punto che mi occorrerebbe un altro po’ di sonno per riposarmi dal sogno appena sognato. 12. L’altro giorno ho finito di scrivere un racconto che racconta la storia vera di un detenuto. Non è mica facile, come dice lo scrittore Edoardo Albinati, trasformare una storia vera in una vera storia. Ma, al di là di questo – poi il racconto sarà pubblicato, e allora si vedrà – il protagonista di questa storia, affrontando il tema della giustizia, dice delle cose che non sono molto diverse dal pensiero che sulla giustizia aveva il regista Alfred Hitchcock. Lui, Hitchcock, diceva: “La giustizia non è che un gioco da salotto, un gioco di società”. Che strano, ho pensato, magari anche Hitchcock ha avuto problemi con la giustizia. Devo informarmi.
13. Il tizio del garage di fronte continua a fare bricolage a ogni ora del giorno e della sera. Adesso – per esempio – sta usando un arnese che non saprei definire. Il rumore è quello di un trapano, ma un trapano che non è un trapano, è qualcosa di molto peggio. Il rumore di questo arnese è simile al rumore di un motore che vibra su una gamma di frequenze molto alta, intollerabile. Un rumore che sembra un ronzio. Molto, ma molto più rumoroso di un ronzio, però. Ecco, ci sono. Il rumore è simile a quello che farebbero mille frullatori se qualcuno decidesse di accenderli tutti e mille insieme, contemporaneamente. Forse è proprio così. Altro che bricolage. Magari questo tizio, nel suo garage, ha mille frullatori. E, ogni giorno, lui se ne sta lì, nel suo garage, a guardare i suoi mille frullatori che frullano e vibrano su una gamma di frequenze molto alta, intollerabile. Chissà che cazzo frulla, dico, tra l’altro. 14. Nell’ultimo disco di Bob Dylan, “Tempest“, c’è una canzone che mi ha sorpreso per la forza e la rabbia con le quali Dylan si esprime. Una voce che quasi fa paura, tanto è ruvida ed espressiva. Erano anni che non cantava un pezzo così, Dylan, in un disco. La canzone si intitola “Long And Wasted Years“. Ed è, a mio parere, è una delle più belle incise su “Tempest“. Gli ultimi versi recitano: “We cried on a cold and frosty morn / We cried because our souls were torn / So much for tears / So much for these long and wasted years“. 15. Grazie al suggerimento del mio amico Davide, l’altro giorno ho installato una nuova applicazione sul mio telefono. Una cosa che non ci volevo credere. Questa applicazione è davvero curiosa. Si tratta di un software per il riconoscimento musicale. Basta avvicinare il telefono, cominciare a canticchiare e l’applicazione riconosce la canzone che si sta cantando. Identico risultato se si avvicina il
telefono alla radio, alla tv, alle casse dello stereo. E insomma. Io sono ancora incredulo, ho appena installato questa cosa nel telefono, e a un certo punto Davide mi fa: “Pensa a una applicazione, del tutto simile a questa, che però, anziché riconoscere le canzoni, riconosca i volti delle persone. Te l’immagini?”. Abbiamo provato a immaginare. E alla fine abbiamo immaginato che cercavamo le facce di belle ragazze e, grazie al riconoscimento visivo, riuscivamo a scoprire i loro numeri di telefono, i loro indirizzi mail, le loro preferenze in fatto di sesso, e tutto il resto. Poi Wanida e Viviana ci hanno presi a calci nelle caviglie, e abbiamo smesso di immaginare.
La Parola
Lo scorso maggio ho avuto il piacere e l’onore di partecipare al IV Festival Internazionale di Poesia “Parola nel Mondo”, organizzato a Cagliari dall’Università, dalla Associazione Aula 39 e da Unicaradio Live. Dal 2007, la manifestazione, completamente autogestita e libera, coinvolge decine di paesi, centinaia di città, migliaia di azioni poetiche integrate. Mi ero preparato un discorso, una specie di relazione. Poi, una volta lì, davanti al microfono, ho buttato via il discorso e ho letto un mio racconto, una cosa inedita. Che è anche piaciuta, credo. Ma a me non dispiaceva nemmeno il discorso, la relazione. L’ho ritrovata mentre mettevo in ordine appunti e altre cose. E ho deciso di pubblicarla qui. Si intitola “La Parola”. La Parola. Quanti minuti ho a disposizione? Dieci? Quindici? Non si sa? Vabbe’, fa niente. Quasi quasi, inizio. Mi sono scritto l’intervento perché se vado a braccio finisce che mi dilungo, e magari sono costretto a tagliare, oppure mi dimentico di dire le cose più importanti. Anche se qui, oggi, l’unica cosa davvero importante è la parola. Premetto che non avevo idee precise, su come sviluppare l’intervento. Mi spiego. Una prima idea era quella di starmene zitto per cinque minuti di fila. Scena muta. Io che guardavo voi, voi che guardavate me, io che guardavo me, voi che guardavate voi: in silenzio, proprio senza dire nulla. Ma ho avuto paura. Mi avreste accusato di plagio.
L’ha già fatto John Cage, avreste detto. Sì, ma lui era un compositore, avrei ribattuto io. A ogni modo. John Cage aveva un’ossessione per il silenzio. Lui voleva raggiungere il silenzio totale e assoluto durante le sue esecuzioni. Si era ovviamente rassegnato al fatto di non poter raggiungere questo stato durante i concerti pubblici. Allora – così dicono i suoi biografi – decise di provare durante le registrazioni in studio. Ma niente. Fece persino licenziare decine di tecnici, a suo dire incapaci di registrare il silenzio assoluto. Perciò tentò un’altra strada. Nel 1951 si fece rinchiudere nella camera anecoica. Una camera anecoica è un ambiente strutturato in modo da ridurre il più possibile la riflessione di segnali acustici sulle pareti. Il termine anecoico significa infatti “privo di eco”. L’ho scoperta da poco, questa cosa. Tornando a John Cage, lui stava per dare il via alla registrazione del “silenzio” quando si accorse della presenza di un rumore. Anzi, di due rumori, due suoni: uno acuto e uno grave. Visibilmente infuriato, Cage chiamò il tecnico e gli chiese spiegazioni. La risposta fu lapidaria: “il suono acuto è dovuto all’attività del suo sistema nervoso e quello grave alla sua circolazione sanguigna. Ci faccia sapere se vuole che li facciamo cessare”. Dicono che John Cage ebbe bisogno di anni di terapia per poter accettare quella nuova consapevolezza. Alla fine della cura compose 4’33”, la composizione per orchestra che dura appunto quattro minuti e trentatre secondi. 4’33” di silenzio. Questo per dire che a me sembra davvero una cosa eccezionale, forse anche un po’ paradossale, ma non troppo paradossale, parlare di silenzio, ai giorni nostri. Parlare di silenzio dentro questo universo tecnologico nel quale viviamo, un universo nel quale non facciamo altro che comunicare: sms, mail, post, tweet. Siamo individui in costante, perenne connessione. Tutti assieme.
Tutti assieme, sì, ma ciascuno dentro la sua bolla, connessi a tastiere, smartphone e touch screen. In silenzio. Nel silenzio delle nostre connessioni, in contatto con tante persone, ma tenute a una certa distanza, lontane da noi. Perché sappiamo che un conto è la conversazione on line, un altro è la connessione reale. A ogni modo. La prima idea che mi era frullata in testa, per affrontare il tema “la parola”, era proprio questa: eseguire una cover di John Cage. Per riflettere sull’illusione di un mondo senza suoni, senza rumori, senza – appunto – parole. Poi invece ho deciso di lasciar perdere. Troppo complicato. Io so stare quattro minuti e mezzo in silenzio – anche di più, credo – ma soltanto in determinate circostanze. Stasera non ce la potrei mai fare. Non mi sono preparato abbastanza. (qui bevo un sorso d’acqua, giusto per darmi un tono) Un’altra idea era quella di raccontarvi di come noi giornalisti siamo incapaci di raccontare la realtà. Non sempre. A volte. E non tutti i giornalisti, ovviamente. Ma alcuni sono davvero maestri. Noi, spesso e volentieri, riusciamo a dire e a scrivere cose assolutamente ridicole, a prescindere dagli argomenti e dagli orientamenti politici (quelli non c’entrano). C’entra la parola, invece. La parola usata a sproposito, usata senza gusto, la parola distorta, la parola senza significato, la parola abusata, la parola stuprata. Tanto per fare un esempio, qualche giorno fa, sul sito on line di un quotidiano nazionale, leggendo la notizia della morte di Donna Summer, sono rimasto folgorato dall’incipit dell’articolo, una delle cose più assurde che abbia mai letto. “Donna Summer, regina incontrastata della Disco Music, ha abdicato alle leggi della vita” (il corsivo è mio). Giuro. L’incipit era proprio questo: Donna Summer ha abdicato alle leggi della vita. Un attimo dopo ho pensato: ma non bastava scrivere “è morta”?
Ora, abdicare alle leggi della vita è una cosa che mi piace. Cioè, non è che mi piaccia abdicare alle leggi della vita. Nel senso, non voglio mica morire. Non adesso. E non qui soprattutto, sarebbe imbarazzante. Mi piace l’espressione abdicare alle leggi della vita. Infatti, voglio utilizzarla, prima o poi, infilarla da qualche parte, magari in un racconto, o in una storia. O semplicemente in un sms da inviare a un’amica rimasta vedova. “ciao, mi dispiace, ma tuo marito non è morto, ricordatelo: ha solo abdicato alle leggi della vita”. Il problema è che molti giornalisti non sanno usare le parole. Le utilizzano a vanvera. Oppure ne fanno un uso surreale. Mi ricordo di un tale che in diretta TV, commentando lo stato di salute di un uomo politico ricoverato in ospedale, a un certo punto disse: “le condizioni sono buone, il paziente ha subito l’operazione di adenoidi al naso”. Subito dopo pensai: ah, però, e secondo te dove stanno le adenoidi, in culo? Le parole bisogna saperle usare. Con questo non voglio dire che sia facile. Tutt’altro. Sbagliamo tutti. Ho sbagliato tante volte anch’io. – e questa cos’è, la canzone di Ornella Vanoni? – Sbagliare con le parole è la cosa più facile che possa capitare. Ecco perché avevo diverse idee su come sviluppare il tema di oggi. E allora, essendo io un giornalista, ed essendo anche uno che scrive storie, racconti, romanzi, m’è venuto in mente che forse avrei potuto leggervi qualcosa tratta dalle storie che scrivo. L’idea era quella di leggere un racconto, o qualche pagina tratta dalle cose che ho pubblicato. Non sono tante, ma qualcosa c’è. Ma anche quest’idea, alla fine, l’ho accantonata. (qui bevo un altro sorso d’acqua, sempre per darmi un tono)
Così me n’è venuta in mente un’altra, di idea. Legata al suono delle parole. Perché se è vero che il significato delle parole è importante, è altrettanto vero che il suono delle parole è fondamentale. Io, per esempio, mi sono apionato a Bob Dylan soltanto per averne sentito la voce – che pure non è una bella voce, non nel senso comune del termine, perché Dylan non ha una bella voce. Era il 1975, inverno, avevo poco più di tredici anni. La radio suonava “Hurricane”, forse si trattava di una hit parade. Le radio libere ancora non trasmettevano, c’erano i 33 e i 45 giri che facevo suonare in casa, i programmi di Radio Rai erano ancora molto convenzionali, molto asettici. Ma Hit Parade mi piaceva. A ogni modo. Io questo Bob Dylan ancora non lo conoscevo. C’era qualche compagno di liceo che strimpellava canzoni di Neil Young. Forse anche Dylan, ma non ricordo. Se Dylan c’era, si trovava nascosto nel retroterra musicale degli artisti che mi piaceva ascoltare. Ascoltavo un po’ di tutto, con il tipico disordine che contraddistingue gli adolescenti: Creedence, Inti Illimani, Beatles, Guccini, Santana, Paul Anka, De Gregori, De Andrè, Rolling Stones, Delirium, Stefano Rosso. L’ascolto di Dylan cambiò tutto. Cambiò il mio mondo. Quella voce era assolutamente nuova ed eccitante. Fu uno shock, un corto circuito. All’epoca conoscevo pochissime parole in inglese. Quando avevo tredici anni non si usava mica far frequentare ai ragazzi le scuole di inglese. Solo i ricchi, se le potevano permettere. E io non sono mai stato ricco, nemmeno la mia famiglia. L’inglese lo si studiava a scuola, a partire dalle medie. Ma io, alle scuole medie e alle scuole superiori, ho sempre studiato se. Così cominciai ad ascoltare le canzoni di Dylan senza nemmeno sapere che cosa stesse cantando. E – si badi bene – “Hurricane”, quel brano che sentii alla radio, è una canzone che dura quasi dieci minuti. Un brano musicalmente straordinario. Ma non è questo il punto. Il punto è che rimasi affascinato, colpito, ammaliato e stregato dalla voce. Dal suono delle Parole.
Andò a finire che un paio di giorni dopo mi comprai i libri con le canzoni di Dylan, i tre volumi della Newton Compton, quelli con le traduzioni e i testi a fronte. Li conservo ancora gelosamente, le pagine ridotte a carta velina, ormai, a furia di sfogliarle. È così che ho imparato quel poco di inglese che so. (ultimo sorso d’acqua, ormai il tono me lo sono già dato) Dunque, avevo anche questa idea che mi frullava nella testa: parlare di come il suono delle parole sia importante. Direi pure terapeutico. Perché le parole, lo sappiamo tutti, possono farci guarire. E se non ci possono far guarire, ci fanno stare meglio. Ma alla fine ho scartato anche quest’idea. E allora, mi sono detto, che cosa ci vado a fare alla “Parola nel Mondo”? Così ho pensato all’idea più semplice, la più banale, a portata di mano. L’idea meno pretenziosa: leggere una poesia. E mi sono messo a pensare a quale poesia, a quale poeta. Il primo a cui ho pensato è stato Walt Whitman. Quindi Woody Guthrie, che non è un poeta, ma che per me è un poeta. Poi m’è venuto in mente Pier Paolo Pasolini, che è stato tutto, non solo poeta. E poi Leopardi, Catullo, Baudelaire, Garcia Lorca, Montale, Bukowski, Ferlinghetti , Allen Ginsberg. Più pensavo, più si allungava la lista. Ogni poeta, anche il più scalcinato, ha qualcosa da raccontare, uno stato d’animo da condividere, una verità da svelare. Pensa che ti ripensa, ieri sera, infine, mi sono deciso: Jean Arthur Rimbaud. La poesia si intitola “Vocali”, uno dei componimenti di Rimbaud più studiati e interpretati. La letteratura critica su questo sonetto è sterminata. Ma nessuno è riuscito a darne una lettura interpretativa convincente. A me, che non sono un critico e ci posso leggere ciò che voglio, questa poesia mi
piace e basta. A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali, Io dirò un giorno le vostre nascite latenti: A, nero corsetto villoso di mosche splendenti Che ronzano intorno a crudeli fetori, Golfi d’ombra; E, candori di vapori e tende, Lance di fieri ghiacciai, bianchi re, brividi d’umbelle; I, porpora, sangue sputato, risata di belle labbra Nella collera o nelle ubriachezze penitenti; U, cicli, vibrazioni divine dei verdi mari, Pace di pascoli seminati d’animali, pace di rughe Che l’alchimia imprime nelle ampie fronti studiose; O, suprema Tromba piena di strani stridori, Silenzi attraversati da Angeli e Mondi: - O l’Omega, raggio viola dei suoi Occhi!
Appunti (4)
16. Facciamo presto, per piacere, facciamo presto. Sì. L’uomo è scomparso, dicevate. Non si trova, quindi. Sì, è così. Avete cercato bene? Sì. Uhm. Abbiate pazienza. Pazienza? Sì, siate cortesi, per favore, un po’ di pazienza. 17. Il 5 agosto del 2003 mi interessavo di scorie nucleari. Anzi, no. Di viabilità e scuola. Insomma, gli appunti non sono chiari. 18. Istìga. Ammentu. Ventanas. E nemmeno so perché. 19.
Il protagonista sta morendo. È una morte improvvisa. Una disgrazia, un incidente, un infarto. Non si sa. Sono gli ultimi istanti della sua vita. Ricorda le persone che ha incontrato qualche istante prima di sentirsi male. 20. Un parente. Il panettiere. Un amico. L’avvocato. Una donna incontrata per caso. Un automobilista. L’infermiere. Il medico.
Juanne Franziscu
In questa serata di inizio autunno, arriva una notizia triste. La notizia della morte di Gianfranco Pintore. Era un ottimo giornalista e scrittore. Era nato a Irgoli, aveva 73 anni. Lo consideravo una specie di fiero nomade del giornalismo, perché aveva lavorato per un numero infinito di quotidiani, settimanali, riviste, radio, televisioni, siti web. Era – e lo resterà – assai noto per le sue battaglie a favore della Sardegna e per la promozione, la diffusione e la difesa della lingua sarda. L’avevo conosciuto molti anni fa a Nuoro, quando era direttore di Telesardegna TV. Di tanto in tanto succedeva che ci incontrassimo, qui, a Cagliari. Era sempre affabile, una persona perbene, oltre che un fine intellettuale. Per alcuni era un pensatore “scomodo”. E questo la dice lunga sulla sua onestà. Qualche mese fa era rimasto vittima di un “furto informatico”, un hacker s’era impossessato del suo di posta elettronica. Mi era arrivata una mail a suo nome, una lettera nella quale sosteneva di trovarsi in difficoltà a Londra, o qualcosa del genere, e di aver bisogno di soldi. Era ovviamente un falso. Allora gli avevo mandato un messaggio privato su Facebook, gli avevo raccontato della mail e tutto il resto. Lui mi aveva risposto che già sapeva, già aveva denunciato la cosa. Ma non era infastidito. Al contrario, era divertito dal fatto che un hacker, o chissà quale entità, si fosse preso la briga di sottrargli l’agenda “virtuale” contenente tutti gli indirizzi di posta elettronica. Ci eravamo salutati scambiandoci belle parole. In sardo, lui. In italiano, io, per non sfigurare. Mi capitava spesso di seguire il suo blog, impreziosito da notizie e spunti sempre interessanti. Qualche giorno fa, il sito aveva fatto registrare un numero record di contatti.
Così Gianfranco Pintore scriveva sabato scorso, nel suo ultimo post: “Eris note amus brincadu su millione de bisitas. No isco pro ite, ma so cuntentu“. Adiosu, Juanne Franziscu.
Appunti (5)
21. Piccole trame per piccoli racconti – o romanzi – che (forse) non scriverò mai. 22. Un’attrice inquieta è nel mirino della stampa per i suoi trascorsi con droga, alcol ed eccessi di ogni tipo. L’incontro con un uomo affascinante e ricco trasforma la sua vita. La storia d’amore è al culmine, quando lui una mattina muore a causa di un incidente domestico. Lei entra in depressione e si ammazza. Poi si scoprirà che era pure incinta. Di una tristezza inarrivabile. 23. Lo scenario è un paesino della Sardegna, uno dei tanti in via di spopolamento. Un bambino percorre a piedi la strada che lo conduce a scuola, che si trova in un altro paesino, distante qualche chilometro. Lungo il cammino succede qualcosa, ma ancora non si sa cosa. Forse un evento soprannaturale. Forse no. La trama è un po’ debole, in effetti. 24. Un uomo di 78 anni, vedovo, stanco della vita, in preda allo sconforto, decide di farsi saltare in aria all’interno di una banca. La mattina dell’attentato, si mette in spalla uno zaino imbottito di esplosivo, elude i controlli della sorveglianza, entra negli uffici ma un attimo prima di azionare la bomba muore d’infarto. Cose che capitano. 25. Ambientato nel 2177. Le terapie mediche sono sempre più all’avanguardia. Ormai i bambini malati vengono curati con speciali tecniche di microchirurgia.
Le operazioni però provocano significative lesioni cerebrali. I bambini si trasformano così in serial killer e prendono possesso del mondo sterminando tutti gli adulti. Il Festival “Tuttestorie” potrebbe essere interessato.
Gechi
Non ci sono più i gechi di una volta. Oggi i gechi vogliono far politica. Vogliono lucidarsi le zampe con la brillantina. Tirar sassi a pelo d’acqua. Abbonarsi a Rolling Stone. No, non ci sono più i gechi di una volta. Quando bastava fischiettare un motivetto perché il mondo diventasse un enorme profiterole farcito alla crema di whisky. Quando era sufficiente un gol di Cruijff per dimostrare agli atei l’esistenza di Dio, di un Dio che di calcio perlomeno se ne intendeva. Sono andati, quei tempi. E con loro i gechi di una volta. Poeti di un abisso che divorava ansie e frustrazioni. Oggi i gechi vogliono sentirsi liberi come buchi nel formaggio, leggeri come urina d’angeli, tonici come compresse di guaranà. Gechi omologati, gechi prolissi. Non ci son più poeti. Son rimasti gli abissi.
Cazzimperio da paura
Vista dal porto, Cagliari al tramonto sembra una foto degli anni settanta, un po’ sfocata, gradazione arancione-zafferano, macchie di blu, gli orli consumati. Fa caldo anche a ottobre. Dalla strada giungono lamenti di clacson, il fracasso di una moto smarmittata. – Sai cosa dovremmo fare? Cambiare radicalmente. Ecco che cosa dovremmo fare: capovolgere le questioni, guardare la realtà da un punto di vista differente, inusuale, incorruttibile. Duilio mi parla misurando con lo sguardo la distanza che ci separa dalla bottiglia di birra poggiata sul tavolino del bar. I nostri bicchieri sono pieni a tre quarti, mezzo dito di schiuma. Davanti a noi la stazione marittima, frotte di turisti, ambulanti e perdigiorno. Cagliari mi piace, ma a volte vorrei vivere altrove. In un’altra nazione, in un’altra città, in un altro bar, in un’altra vita. Non in un posto dove la gente viene in vacanza. – Una prospettiva completamente diversa, capisci? Scuoto la testa in segno di diniego. Mi metto a giocherellare con un tovagliolino di carta. No, non capisco. Lui tira fuori tabacco e cartine. Se ne rolla una, l’accende. Beviamo. – Stai parlando di politica? – gli chiedo. – Sì. Cioè, no. Sto parlando di fare cose inedite, autentiche. Mi gratto dietro la nuca, un prurito improvviso. – Inedite e autentiche – ripeto soprappensiero. – Esatto. Proprio così. Tu, in particolare. Tu ce la puoi fare, potresti dare
l’esempio, iniziare ad affrontare l’argomento. Che ne so, scrivere qualcosa che riguardi l’autenticità della politica. Attaccare il malcostume, raccontare le ruberie, i brogli, i sotterfugi, i fatti e i misfatti del Potere. Piego il tovagliolino in quattro, poi in otto. – No, no. Non se ne parla. Non ne ho voglia, non sono in grado, non mi interessa. Non ho nemmeno capito a che cosa ti stia riferendo. E, a dirla tutta, penso che se ne discuta già abbastanza, di queste cose. Tutti non fanno altro che riempirsi la bocca di politica. – Ho detto scrivere, non discutere. – Sottigliezze. Scrivere significa discutere. Più o meno. Ci riempiamo i bicchieri sino all’orlo. La bottiglia adesso è vuota. Ne ordiniamo un’altra. La ragazza del bar guarda Duilio, un’occhiata complice. La tipa è davvero carina. Cerco anch’io un approccio. Ma lei non mi fila neanche di sguincio. – Hai letto dello scandalo in Lombardia? – fa Duilio. – Sì, ho letto. Ma che cazzo c’entra? – C’entra, c’entra. Scusa, ma tu pensi sul serio che Cagliari sia così diversa da Milano? Pensi sul serio che qui non esista il voto di scambio? Pensi sul serio che qui i politici non stringano patti con la malavita per comprare preferenze alle elezioni? – Regionali? – Regionali, provinciali, comunali. Non cambia nulla. Anzi, sì, cambiano le tariffe. Ma il meccanismo è lo stesso. La ragazza del bar stappa la bottiglia, la poggia sul tavolino. Duilio fa lo svenevole, dice grazie, e lo dice in un modo che lo prenderei a schiaffi. – A Cagliari non c’è la malavita organizzata – gli dico. – Non ce n’è bisogno. A Milano c’è necessità della malavita organizzata, per
concludere questo genere di affari. Qui no. Qui basta quella che c’è, di malavita. Disorganizzata, ma fino a un certo punto. Duilio rolla e fuma. Sento che sto per innervosirmi. Così mi metto a strapazzare un altro tovagliolino di carta. – Senti, non dico che non ti creda, che non abbia ragione o altro, non lo so, non mi stupirei se ne sapessi più di me, quindi va bene, se dici che così stanno le cose, io posso pure crederti, non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere di certe teorie, illazioni, accuse, chiamale come vuoi, però io davvero non ho capito, non ho ancora capito che cosa tu mi stia chiedendo, e soprattutto non ho capito che cosa intenda per fare cose inedite e autentiche. Duilio butta via il fumo, sta in silenzio per un po’. – Si potrebbe iniziare dalle cose più semplici: denunciare gli imbrogli e gli scandali, prima che ci arrivi la magistratura, ché tanto qui da noi non ci arriva mai, e dovresti pure chiederti per quale motivo non ci arriva mai. Te lo sei mai chiesto? – No. Cioè, sì. Ma che c’entra? E dopo le denunce? Che fai? Dov’è il progetto politico? Dov’è che le peschi le cose inedite e autentiche? A chi ti rivolgi? Ai magistrati? Sei così sicuro? No, guarda, mi sa che tu vedi fantasmi ovunque. Altro che politica. E poi, francamente, a me non sembra che le cose adesso vadano così male. Su, diamo tempo al tempo. Non si cambia mica da un giorno all’altro. – Più di un anno, è ato. – Si vabbe’, più di un anno. Ma non si cambia di botto. Dài, le cose non vanno male. Non vanno benissimo, d’accordo. Ma dire che vanno male, mi pare troppo. – Dici così perché a te piace la politica del pinzimonio. Quando fa così, Duilio, non lo reggo, proprio non lo sopporto. Butto giù l’ultimo sorso di birra. Di colpo un pensiero sovrasta tutti gli altri: ma perché non mollo tutto e me ne vado a vivere in Australia? – Guarda che è vecchia, la storia del pinzimonio – gli dico – l’ha tirata fuori Benigni, nel 1995.
– E allora? – mi fa lui – Che cos’è cambiato dal ’95 a oggi? No. No che non mi freghi, cazzone d’un Duilio. Quasi quasi chiamo la ragazza e ordino un’altra bottiglia. – Te lo dico io cos’è cambiato – gli dico – nel ’95 Allegri giocava nel Cagliari, mentre oggi allena il Milan di Berlusconi. – Chi era il centravanti? – Dario Silva. – Sa pibinca? – Proprio lui. – E il PD? – Non c’era. – E cosa c’era? – Il PDS. – Segretario? – D’Alema. – … – … – Ci facciamo un’altra birra? – Mi sa che è meglio, va’.
Come pesci fuor d’acqua sulla cresta dell’onda
L’altro giorno, che nommeloricordo ma forse era ieri, era giorno di sfanculamenti. E già che lo sfanculamento è ovunque, non sembri affatto cosa strana che l’altro giorno fosse giorno di sfanculamenti. Simona e Gianfilippo, per esempio, lo sanno. A ogni modo. L’altro giorno, che nommeloricordo ma mi sa che era proprio ieri, si discuteva di questo: del fatto che, sì, la merda e lo sfanculamento sono dappertutto, ma non è una novità, non è mica cosa strana. Sarebbe strano il contrario. L’altro giorno, sì, era ieri, ne sono sicuro, ora meloricordo, si discuteva del fatto che bisognerebbe fare uno sforzo, ma uno sforzo tutti assieme, noi che stiamo dentro lo sfanculamento, uno sforzo per cercare di non affogare, uno sforzo per guardare altrove, a ogni costo, che non significa distogliere l’attenzione dai problemi o non affrontarli, perché, cazzo, noi siamo quelli che i problemi li affrontiamo ogni giorno, ogni mattina, noi ci siamo abituati, ai problemi, non si abbia paura a dirlo. Noi siamo quelli che, siccome lavoriamo, non si sa ancora per quanto ma lavoriamo, allora siamo fortunati. Il padrone ci chiama fortunati. La mamma ci chiama fortunati. Il commercialista ci chiama fortunati. L’ingegnere ci chiama fortunati. Il politico ci chiama fortunati. Lo studente ci chiama fortunati. E anche gli altri, quelli che non lavorano, ci chiamano fortunati, e siccome siamo fortunati dicono che non ci è permesso di far storie, di protestare. Ogni giorno ci prendiamo le bastonate, e pure i calci in culo. Ma zitti, ché siccome lavoriamo, siamo fortunati. Ma zitti, ché siccome siamo fortunati, è meglio se non parliamo. Bastonate & calci in culo. E zitti. Che a un certo punto uno pensa: quasi quasi è meglio non averlo, un lavoro, se averlo significa essere presi a bastonate e a calci in culo. E zitti, pur se fortunati. L’altro giorno, ieri, perlappunto, si discuteva del fatto che questo qui non è un
discorso in cui c’entra la speranza, la speranza non c’entra un bel niente, questo qui è un discorso in cui c’entrano tante altre cose. I sorrisi di chi ci vuol bene, c’entrano. La musica che ci piace, c’entra. La pizza con i carciofini, ma quelli veri, le frittate agli asparagi l’odore del sapone di Marsiglia, c’entrano. I libri noir, il rock’n’roll, i tuffi dagli scogli, la pasta ai ricci, il blues, il decollo di un aereo, i saluti ciaociaociao dal ponte della nave per Civitavecchia, l’odore della legna che brucia, c’entrano. Il postino che bussa alla porta, una buona notizia e la sorpresa che non ti aspetti, sennò che sorpresa sarebbe, c’entrano. Poi, certo, capita che il postino bussi alla porta e ti consegni un mazzo di bollette da pagare, altro che buone notizie, altro che sorprese. Altro che fortunati. E allora ti chiedi: la speranza? Cosa c’entra la speranza? Ecco, l’ho già detto, lei non c’entra. A ogni modo. L’altro giorno, sempre ieri, si discuteva del fatto che persino Bob Dylan sembra scazzato. Bob Dylan ha appena pubblicato un disco, un disco nuovo con canzoni nuove. Ed è in tour, Bob Dylan, mica a dar da mangiare ai cavalli in qualche fattoria del Dakota. Bob Dylan e la sua Band stanno girando gli Stati Uniti d’America, per promuovere il nuovo disco. Bello, tu pensi. Lo zio Bob che sale sul palco e ti canta qualcosa di nuovo. Bello, tu pensi. È un disco di nuove canzoni da cantare, di storie lunghe e affascinanti, come ai bei tempi. E Bob Dylan ce le suonerà e ce le canterà, le sue nuove canzoni. Bello, tu pensi. E invece no. Non è così. Bob Dylan fa un tour per promuovere il suo nuovo disco, ma del suo nuovo disco, nelle scalette dei concerti, non c’è traccia. Ecchecazzo, tu pensi, questa sì che è una mossa da Bob Dylan. Ma che c’avrà mai Bob Dylan, che non ci vuol cantare le sue nuove canzoni? Forse è scazzato. Forse anche lui è dentro lo sfanculamento globale. Forse non sa come pagare le tasse. Forse ha perso la speranza. Forse s’è solo rotto di cantare e di suonare. Punto. Sì, forse è così.
E se s’è rotto Bob Dylan, figurarsi noi.
Scale mobili. Lei sta ferma, e spera Nella fine del black-out.
End Of The World
Mentre penso che vorrei mettermi a scrivere qualcosa a mo’ di commento sulla giornata trascorsa ieri a Carbonia – dove si è svolta l’ultima giornata del Festival della Storia organizzato dai Figli D’Arte Medas (il tema era “La Fine Del Mondo”) e dove sono stato ospite insieme a Daniele Barbieri e Gianluca Medas per discutere di Apocalisse e di Apocalissi, davanti a un pubblico, tra l’altro molto attento e curioso, formato da un centinaio di ragazzi delle scuole superiori – a un certo punto, non so come, mi imbatto in questa notizia pubblicata sull’Unione Sarda: “Si gioca la pensione alle slot, perde e minaccia il suicidio. A Cagliari, una pensionata ritira il sussidio e va subito a tentare la fortuna. Non vince e minaccia di suicidarsi: salvata dalla polizia”. Ecco, leggo questa notizia e di colpo mi a la voglia di raccontare quanto ci siamo detti ieri sulla profezia dei Maya, sull’Apocalisse di Giovanni, sui millenarismi, sul calendario degli Aztechi, sull’inversione del campo magnetico terrestre, su Dio, sui Profeti, sul Regno di Salvezza e sulla redenzione dell’umanità. Redenzione dell’umanità un cazzo. Provo a immaginare il volto di questa donna di sessantadue anni che ha appena ritirato i soldi al Comune, 350 euro, così si dice. Mi sembra quasi di vederla, mentre cammina a o lento e si guarda attorno, il gruzzolo in tasca, il brivido dell’azzardo che fa capolino tra i suoi pensieri. Ma sì, o la va o la spacca. Ma sì, vai con l’all-in. Ma sì. Ma chi se ne frega. Mi sembra di vederla, mentre monta su un autobus, scende dopo una decina di fermate, s’infila in un bar, si siede davanti al videopoker e inizia a giocarsi il sogno di una nuova vita. Un po’ alla volta, una puntata dietro l’altra, fino all’ultima manciata di euro, fino a bruciare gli ultimi centesimi di quel cazzo di sussidio. Mi sembra di vederla, quella donna. E mi viene da pensare che la fine del mondo potrebbe essere qui, adesso. La fine del mondo, per quanto ne so, potrebbe essere due pianerottoli sopra il
mio appartamento. O al quarto piano della palazzina di fronte. O dietro casa vostra, dentro la stanza di un pensionato drogato di gratta e vinci. Ecco dov’è l’Apocalisse. La fine del mondo, per quanto ne so, potrebbe essere nella testa di tutti gli anziani che incontro al bar, o nelle tabaccherie, o nei centri commerciali, la monetina stretta tra le dita, pronti a grattare la cartolina del milionario, del miliardario, del batti il banco, dell’ammazza-il-pezzente, dello stipendio per sempre, del goditi la vacanza, del mare di fortuna, del tesoro del faraone, del diventa un fottuto paperone, dell’appena-avrai-le-tasche-piene-di-quattrinipotrai-mandare-tutti-a-fare-in-culo. Ma non è colpa loro. Non è colpa degli anziani. Il gioco d’azzardo è una malattia. E i malati andrebbero curati. La colpa, magari, è dello Stato. Uno Stato che alimenta il diffondersi di malattie come il gioco d’azzardo è uno Stato malato a sua volta. Ma questo già lo sappiamo. Lo sa bene, tanto per fare un esempio, il colonnello della Guardia di Finanza Umberto Rapetto, per anni considerato un punto di riferimento, in Italia e non solo, per ciò che riguarda le truffe on line e le inchieste telematiche. Non tutti sanno che le sue indagini hanno consentito di infliggere una multa da 98 miliardi (novantotto miliardi di euro) a dieci società concessionarie del gioco d’azzardo di Stato, colpevoli di non aver collegato le slot machine alla rete telematica dei Monopoli. 98 miliardi (novantotto miliardi di euro) che lo Stato avrebbe potuto serenamente incassare, se non fosse intervenuta la Corte dei Conti riducendo la multa a 2 miliardi e mezzo (provate voi a chiedere al fisco uno sconto di queste dimensioni). Il colonnello Rapetto sa bene di che cosa può essere capace uno Stato malato, perché lo stesso Stato per il quale ha lavorato, consentendo di scoprire una truffa da 98 miliardi (novantotto miliardi di euro) anziché premiarlo qualche mese fa gli ha dato il benservito, lo ha costretto alle dimissioni. A costargli il posto, manco a dirlo, è stata proprio l’inchiesta sulle slot machine. Roba dell’altro mondo. Roba che se la provassi a raccontare a un alieno, queste storie, non saprei
neppure da che parte cominciare. Che poi, pare che nemmeno gli alieni ci vogliano incontrare, a noi della Terra. Lo ha detto ieri a Londra un famoso astronomo britannico. Lui sostiene che entro cinquant’anni gli studiosi troveranno altre forme di vita nel sistema solare. Ma aggiunge: “le visite da parte degli alieni potrebbero comunque non verificarsi tanto presto, dato che la Terra potrebbe essere troppo noiosa per quelle creature”. Be’, non sono d’accordo, non è così, non siamo affatto noiosi. Ne abbiamo di cose da raccontare e da insegnare, agli alieni, noi terrestri.
Nel Cesto Del Pane Fresco
Devo ammettere che non so com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia. Ci deve essere un meccanismo che non so com’è. Che mi sfugge, non c’è niente da fare. Per esempio. Poco fa m’è venuto da pensare a certe mattine di primavera che mia madre mi mandava al panificio, a prendere il pane. Belle, le mattine al panificio. Che era un posto dove si vendeva solo il pane, e nient’altro. Mica come adesso, che al panificio ci trovi anche i cerotti, il vinavil e le mozzarelle. C’era tutto un mondo, dentro il panificio, un mondo armonioso e vero, ma così armonioso e vero che, a fantasticarci sopra, mi verrebbe voglia di tornare indietro, di fare un salto nel ato, come in quelle storie dei viaggi con la macchina del tempo, per rivivere un po’ degli anni andati. Nel panificio c’erano dei grandi contenitori col pane, delle vetrine con dentro il pane sfuso, di tante forme, di vario tipo. E nel panificio ci lavoravano il panettiere e sua moglie. Che servivano la clientela da dietro un bancone alto una montagna. Ma non è questo il punto. Il punto è che a me piaceva star lì a guardare, ascoltare le voci dei clienti, respirare il profumo del pane appena sfornato. E ci sarei rimasto ore, dentro al panificio, se non fosse stato per mia madre, ché ci voleva un niente perché si preoccue non vedendomi rientrare. Ci sarei rimasto una mattina intera, lì dentro, a osservare, curiosare e lambiccare, se non fosse stato per mia madre, ché poi dopo la sentivi: dov’eri, con chi eri, cosa hai fatto? Così mi trattenevo quanto più a lungo possibile. Ma senza esagerare, con
moderazione, il tanto che bastava. E siccome non so com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia, proprio non lo so, ci deve essere una specie di cassetto nel cervello, un cassetto rotto, che all’improvviso si apre e lascia uscire i ricordi, ecco che poco fa m’è venuto in mente di quando al panificio mi capitava di incontrare una donna anziana, forse una vedova, le gambe corte, gli occhi come capocchie di spillo, le labbra secche e sottili. Restava minuti a scrutare il pane da dietro le vetrine, lo fissava quasi a volerne assaporare il gusto con lo sguardo, tastarne la fragranza o la consistenza. Quindi, mano tremolante, tirava fuori una retina e, rivolta al panettiere, sentenziava: “due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura”. Infilava il tutto nella retina, pagava e andava via. Due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura. Non variava mai. Per anni ho provato a immaginarmi la sua cucina, la tavola apparecchiata per una sola persona, e, al centro, poggiato su una piccola tovaglia, il cesto del pane fresco. Due bananine, tre spaccatelle e una pasta dura. Ogni mattina, ogni sera, a pranzo e a cena. Che fine abbia fatto quella donna, non lo so. A ogni modo, saperlo non cambierebbe di una virgola le cose. Non mi aiuterebbe a capire com’è che a volte mi vengano fuori certi ricordi dell’infanzia. È un meccanismo che proprio mi sfugge, non c’è niente da fare.
Il Baco Dell’Identità
- Mi dispiace, ma lei potrebbe non essere lei. - Dice a me? - Sì, dico a lei. - Chi è che non potrebbe essere chi? - Lei. - Lei io. - Esattamente. Lei lei. - Ah. E perché? - Be’, chi mi dice che lei sia proprio lei? - La mia parola non basta? - No. - E il documento d’identità? - Neppure. - E quindi? - E quindi mi dimostri che lei è davvero lei. - E come glielo dimostro? - Questo è affar suo. - Già.
- Vede? Non lo sa nemmeno lei. E se non lo sa lei, perché dovrei saperlo io? - … - … - Sa che quasi quasi mi ha convinto? - Bene. Son contento. - Sì. Mi sa che ha ragione lei: io non sono affatto io. - Bravo. Così va già meglio. - Se le do la mia parola d’onore che io non sono io, che io sono un’altra persona, lei è disposto a credermi? - Sì, sono disposto a crederle. - Grazie. - Grazie a lei. - Arrivederci, buon lunedì. - Buon lunedì anche a lei.
“Bellas Mariposas”
Se fossi un critico cinematografico, uno tosto, con le palle se fossi un critico cinematografico, uno di quei critici cinematografici che sanno tutto, ma proprio tutto, e sanno usare le parole giuste al posto giusto, e sanno usare gli aggettivi giusti al posto giusto, e sanno perché certe inquadrature sì e altre no, e sanno perché certi dialoghi sì e altri no, e sanno spiegare perché certi montaggi sì e altri no, e sanno anche spiegare perché il sonoro, perché il dettaglio, perché la fotografia, perché la soggettiva, perché i piani, perché le sequenze io, se fossi un critico se fossi un critico cinematografico, ma proprio di quelli veri, cresciuti a pane & Mereghetti sarei persino un critico strafelice, perché sarei strafelice di raccontarvi con tante parole giuste e appropriate il film di Salvatore Mereu, “Bellas Mariposas”, che ho visto due volte, quasi di fila, e la prima volta che l’ho visto m’è piaciuto molto, la seconda volta m’è piaciuto anche di più, e mi sa che andrò a vederlo pure una terza volta. Saprei scrivere cose meravigliose e senza tempo, su questo film. Se fossi un critico. Ma siccome non lo sono, un critico, io non ve lo so spiegare perché il film di Salvatore Mereu mi abbia fatto commuovere. Le parole giuste, quelle a effetto, quelle che sanno di competenza, di sapienza cinefila, quelle che sanno di dottrina, di conoscenza cinematografica, è giusto che le cerchino altri. Io non ne sono capace. Una sola cosa mi viene da pensare: che un buon film è come una buona poesia,
deve poter frodare il tempo e la realtà, deve saper ticchettare come pioggia sulle foglie, deve avere uno sguardo tollerante sulla vita. In una buona poesia non c’è niente da comprendere. Si sa già tutto, una volta letta, e anche prima di leggerla. Se qualcuno legge una buona poesia e non si avvede della grazia e dell’armonia, è perché ci mette troppa impazienza, o forse troppa presunzione. Per me “Bellas Mariposas” è proprio così, una poesia di straziante bellezza. Ci sono certe immagini, in questo film, certe sensazioni, certe voci, certi suoni, certi colori, che non si può nemmeno per scherzo non si può certo pensare di spiegarla, una poesia. E poi, regola numero uno: è meglio scordarsi del racconto di Sergio Atzeni, una volta seduti al cinema. Niente paragoni o sovrapposizioni. Non servono. Qui contano solo le carezze. Ruvide e genuine. Come Cate e Luna. Come le loro storie, i loro sogni. Carezze leggere. Gesti d’amore e di coraggio. Gesti silenziosi. “Quando nuoto dimentico casa, quartiere, futuro, mio babbo, il mondo, mi dimentico di tutto. Dovevo nascere pesce“ …
Filippo Di Buonamano che litigò con l’insegnante di armonia
Nelle storie che scrivo, a volte ci sono personaggi che non so bene che fine faranno, che ruolo avranno nella storia che sto scrivendo, e tutto il resto. Ecco, quando a un certo punto non so bene che fine faranno, o che ruolo avranno, è probabile che questi personaggi spariscano dalla storia, che non vi trovino più posto. Anche se un po’ mi dispiace, che non trovino più posto nella storia, che siano costretti a sparire, a lasciar la scena, diciamo. Uno di questi è Filippo, che s’è perso da qualche parte, tra una storia e l’altra, va’ a capire quando e perché. Filippo Di Buonamano. Filippo Di Buonamano faceva il jazzista. Suonava la tromba in un quartetto, in una band misurata come un ritratto di Velasco e sgangherata come un vecchio giogo per buoi. Quando non suonava la tromba, Filippo peregrinava da una bettola all’altra. In cerca di ispirazione, diceva lui. Era un tipo taciturno e solitario. Aveva fama di essere un duro e indossava una coppola nera, anche in piena estate. Parlava poco, anzi non parlava quasi mai. L’avevo conosciuto per caso, davanti ai tavolini del Bar Lume. A un certo punto gli avevo chiesto come si guadagnasse da vivere. Lui aveva socchiuso gli occhi e s’era alzato. S’era allontanato senza nemmeno dire ciao. Due giorni dopo l’avevo incrociato sotto casa. «Io suono», m’aveva detto sciorinando uno sguardo umido.
E non aveva aggiunto nient’altro, se non un sospiro rumoroso. Filippo abitava in una mansarda, in una palazzina del centro storico, nei pressi della stazione ferroviaria. La sua stanza era tappezzata di poster. Immagini di musicisti degli anni quaranta e cinquanta. C’era anche una foto di John Coltrane, incorniciata e appesa alle pareti dell’andito. Il pavimento era ricoperto di spartiti, di fogli a righe sui quali erano tracciati simboli, appunti e flussi di note arricciate e guizzanti. Viste dall’alto sembravano danze d’onde in chiaroscuro nebulizzate alla rinfusa sul pentagramma. Filippo aveva lasciato il conservatorio qualche anno prima del diploma. Gli era stato fatale un litigio con l’insegnante di armonia e contrappunto. Una mattina s’erano presi a cazzotti nel piazzale della scuola. Al termine della baruffa, il docente s’era ritrovato con un paio di denti in meno, una costola incrinata e il naso sanguinolento. Era stato il triste epilogo di una lezione dedicata alle partiture di Kind of Blue. L’insegnante di armonia le aveva definite deboli, insulse e fuori luogo. «Diffidate di queste ottuse linee di basso», era stato il suo commento, «sono serpenti sordi e inutili, si muovono a balzi brevi, da minori di terze a quarte. Ricordatevelo: sono schifezze, non musica». Filippo aveva atteso il tizio all’uscita. Quindi s’era avvicinato, lo aveva fissato scandendo una frase lunghissima per il suo standard orale. «Ma tu. Tu che cosa ne sai? Eh? La musica di Miles rendeva felici anche i bambini». Dopodiché lo aveva massacrato di botte. Non avevo mai visto Filippo in compagnia di una donna. Però c’erano diverse storielle che circolavano sul conto di un matrimonio fallito, di una vicenda d’amore giovanile andata in fumo per via della sua ione per la musica.
Qualcuno sosteneva che si fosse trovato nei guai per aver messo incinta una ragazzina di sedici anni. Una faccenda oscura, una specie di favola attorno alla quale, di volta in volta, si accumulavano particolari scabrosi e dettagli peccaminosi. Il più delle volte tendevo a non dar retta ai pettegolezzi sul ato di Filippo. Meno ne sapevo, meglio era: così la pensavo. E così la penso tutt’ora.
La Ruota Del Carro
Il tizio s’è avvicinato e m’ha detto: «Sei l’ultima ruota del carro. Anzi, sei la ruota di scorta del carro, tanto per essere precisi. Perciò vedi di rigar dritto e di non rompere le palle». Ho fatto sì con la testa. Un paio di volte. E niente. Poi il tizio se n’è andato, e m’è venuto da pensare che io non lo so com’è fatto, questo carro, non riesco nemmeno a immaginarmelo.
Lesson number one
- Allora, ci vogliamo riprovare? - Sì, riproviamoci. - Se la sente? - Sì, sì. - È proprio sicuro? - Sono sicuro. Ce la posso fare. - Bene. Allora, ripeta insieme a me: tri-bu-na. - Main Stand. - … - … - No. Stia attento. - Mi scusi. Ha ragione. Però ce la posso fare. - Ce la può fare, sì, ma stia attento. Lo ripetiamo insieme, va bene? - Va bene. - Pronto? - Pronto. - Dunque, ricominciamo. Ripeta insieme a me: tri-bu-na. - …
- Bravo, ci rifletta un attimo. Su, ripeta: tri-bu-na. - Main Stand. - … - Sono andato bene? Eh? Che dice? - … - Perché quella faccia? Non sono andato bene? - No. - No? - No. Ci rivediamo tra un mese, buona giornata.
Le colpe dei genitori
Penso a quel ragazzo di quindici anni che s’è impiccato in casa, a Roma sud. Dicono che si sia ucciso perché a scuola i compagni lo deridevano. Dicono che lo deridessero perché usava rossetto e smalto, e perché amava indossare pantaloni rosa. Dicono che ci fosse chi lo insultava pure su facebook. Dicono. Io non lo so. Non lo so com’è andata. Queste cose sono sempre più complicate di quanto appaiano a prima vista. I titoli dei giornali non sono fatti per raccontare la verità, purtroppo. Non lo so se quel ragazzo di quindici anni s’è ucciso perché lo deridevano. Chi lo può sapere. A quindici anni ti ano mille cose per la testa. A quindici anni sei talmente forte che non ti rendi conto, talmente forte che sei pronto a spaccare il mondo. A quindici anni sei talmente debole che non ti rendi conto, talmente debole che basta un soffio e via, non ci sei più. Chi lo può sapere perché s’è ucciso. Dicono che fosse un ragazzo che se ne fregava, se gli altri lo prendevano in giro. Dicono che fosse un ragazzo che sapeva dare la giusta dimensione anche alle prese in giro. Dicono che fosse un ragazzo ironico. Io non lo so. Non lo so com’è andata. Forse è andata davvero così. Forse no. Però immagino la sofferenza di quel ragazzo ironico, il suo tormento. Le unghie smaltate e il rossetto. Immagino la sofferenza, la rabbia. I pantaloni rosa. La forza. Lo spirito di sopportazione.
Immagino la pazienza. L’ironia contro la derisione. Quel lieve distacco dal mondo che a volte è l’unica arma per combattere il dileggio quotidiano. Una lotta impari. Immagino i pianti. Le risate amare davanti allo sberleffo. Il desiderio di andar via, di scappare. La voglia di non mollare, di restare, di non arrendersi alle parole di scherno, d’offesa. A quindici anni che cos’altro puoi fare. A quindici anni sei dentro una bolla che se appena s’incrina, il vuoto ti avvinghia e ti trascina lontano. E poi niente. Anche chiedere scusa. Serve a nulla, adesso. Meglio il silenzio. Però spero una cosa, una sola, con tutto il cuore. Spero che i padri e le madri di quei compagni di scuola che deridevano il ragazzo di quindici anni che s’è tolto la vita impiccandosi in una casa a Roma sud si sentano un po’ in colpa. Almeno un po’. Ché ne avrebbero proprio bisogno.
Appunti (6)
41. Domenica scorsa sono andato all’assemblea di “Cambiare si può”, a Cagliari. Ero stato invitato qualche giorno prima; i promotori mi avevano chiesto un intervento. Inizialmente ero restio, non sono abituato a parlare nelle assemblee politiche, anzi, mi sa che non l’avevo mai fatto, prima di domenica scorsa. Ma questa era una “cosa diversa”, così ci sono andato, ho parlato. Non m’ero preparato nulla, giusto qualche appunto. E sono intervenuto un po’ a braccio, come si dice. A ogni modo, non è che sia riuscito a fare un bell’intervento, nella politica ci sguazzo pochissimo e malissimo. Ho iniziato a parlare di quando la sinistra era veramente sinistra, o almeno mi pareva, negli anni ’70 e agli inizi degli anni ’80, di quando il compagno Dino Cocco spiegava, a noi ragazzi di sedici anni senza alcuna esperienza politica, i concetti di uguaglianza, di libertà e di lotta. Domenica avrei continuato a parlare di queste cose, di questi ricordi, ma il tempo a disposizione era contingentato, dovevo arrivare al cuore dell’argomento, così ho cambiato discorso, ho cominciato a parlare di comunicazione e di informazione, mi son messo a raccontare di quanto sia complicata, e per certi versi drammatica, la situazione nel settore del giornalismo, oggi, in particolare in Sardegna. Ho anche parlato dello sciopero dei giornalisti dell’Unione Sarda. E quando ho nominato L’Unione Sarda alcuni hanno protestato, non molti, soltanto alcuni. E insomma. Nemmeno a me piace la linea editoriale del giornale, fa schifo e tutto il resto, ma protestare e prendersela con i giornalisti del comitato di redazione ha poco senso. Le minacce di un padrone nei confronti di un organismo sindacale vanno sempre condannate. Credo che ogni buon movimento di sinistra abbia il dovere di schierarsi sempre dalla parte del più debole, in questo caso dei giornalisti, anche quando ti verrebbe voglia di dirgliene tre o quattro, a quei giornalisti, non a quelli del sindacato, agli altri, a quelli che se ne vanno in giro con un rigagnolo di besciamella al posto della spina dorsale. Vabbe’. C’ho anche ripensato, dopo, a quello che era successo. Per provare a interpretare il senso di quella contestazione. Ma non lo so. Certe cose, o si capiscono o non si capiscono.
Però la prossima volta che devo fare un intervento, quasi quasi me lo scrivo prima. 42. So poche cose, e tra queste poche cose ce ne sono alcune che riguardano la musica. Oggi, a un certo punto, mi son messo a suonare la chitarra, e ho pensato che mi piace moltissimo mettermi a suonare la chitarra quando la chitarra ha voglia di essere suonata. Non sempre accade, qualche volta la chitarra non ha proprio voglia di essere suonata. E si capisce, si percepisce, quando non ne ha voglia. Ecco, questa è delle poche cose che so, circa la musica e gli strumenti per suonarla. 43. Che i giornalisti debbano fare autocritica, mi sembra il minimo. Ah. D’accordo. Il punto 41. è già stato archiviato. Inutile insistere. 44. valdo cagliari lansdale cattiveria cinema editoria infanzia musica bobdylan eduardodefilippo paulsimon poesia beat spensieratezza famiglia amicizia cortile topi blatte risate amore fotografia tv povertà blues rock’nroll johnnycash garageband elio.nico.robi grazie scrittura maestri quarup paure violenza rebus cultura louvre/lens politica socialnetwork pensiero fast-food sesso amore legni paracadute omogeneizzati perdurare grunge kurtcobain destinatoallaconservazionedeiformaggi come si esce da questa situazione
Più felici di così
Dài. Proviamo a sentirci più felici. Sì, sì. Sentirci più felici. Più felici di sempre. Nevvero? Più felici che mai. Apri la finestra. Apro la finestra. Guarda che bel cielo blu. Dài. Guarda quanto è blu. Oh, sì, sì. È proprio blu. Oh, quanto è blu, questo cielo. Dài. Felici, felici. A guardare il cielo blu. Nevvero? Ma sì. Quanto siamo felici. Felici del cielo blu. Felici della felicità. Ah, ma che felicità, quest’aria da cielo blu. Rende tutti più felici. Nevvero? Oh, sì. Felici da morire. Più felici di così non si può. Scoppio di felicità da cielo blu. E tu? Anch’io. Sono molto più felice, adesso. Oh, visto? Ci vuol poco.
Ma sì, più felici di così non si può. Cielo blu e felicità. Cielo blu è felicità. Giusto. Giustissimo. Ah, ma che bel cielo felice. Anche il cielo è felice. È felice perché è blu. Ci fa sentire tutti più felici, questo cielo blu. Nevvero? Oh, non ci sono parole per descrivere tutta questa felicità. Da scoppiare. Quando si dice la felicità che esplode. Che deflagra. Che si spande nell’universo. Nel cielo blu. Più felici di così, no. Non si può. Proprio non si può. Nevvero? Già. Felicissimi. Sì. Felicissimi. Già. …
… Ora andiamo dentro, però. Che c’è? Niente. M’è venuta voglia di stuprarti e di sgozzarti. Di farti un po’ più felice.
Più felici di così (secondo finale)
Dài. Proviamo a sentirci più felici. Sì, sì. Sentirci più felici. Più felici di sempre. Nevvero? Più felici che mai. Apri la finestra. Apro la finestra. Guarda che bel cielo blu. Dài. Guarda quanto è blu. Oh, sì, sì. È proprio blu. Oh, quanto è blu, questo cielo. Dài. Felici, felici. A guardare il cielo blu. Nevvero? Ma sì. Quanto siamo felici. Felici del cielo blu. Felici della felicità. Ah, ma che felicità, quest’aria da cielo blu. Rende tutti più felici. Nevvero? Oh, sì. Felici da morire. Più felici di così non si può. Scoppio di felicità da cielo blu. E tu? Anch’io. Sono molto più felice, adesso. Oh, visto? Ci vuol poco.
Ma sì, più felici di così non si può. Cielo blu e felicità. Cielo blu è felicità. Giusto. Giustissimo. Ah, ma che bel cielo felice. Anche il cielo è felice. È felice perché è blu. Ci fa sentire tutti più felici, questo cielo blu. Nevvero? Oh, non ci sono parole per descrivere tutta questa felicità. Da scoppiare. Quando si dice la felicità che esplode. Che deflagra. Che si spande nell’universo. Nel cielo blu. Più felici di così, no. Non si può. Proprio non si può. Nevvero? Già. Felicissimi. Sì. Felicissimi. Già. …
… Ora andiamo dentro, però. Che c’è? Niente. M’è venuta voglia di stuprarti e di sgozzarti. Di farti un po’ più felice. Siamo troppo felici. Sì. Ci gettiamo di sotto? Insieme, però. Dammi la mano.
“È inutile che insisti. Non Ti Amo Più” (2)
Son tornato a casa e negli occhi avevo ancora quell’immagine. L’immagine del fuoristrada sulla cui fiancata c’era scritto: “È inutile che insisti. Non Ti Amo Più”. Al volante del fuoristrada non c’era nessuno. Ne sono certo. Proprio nessuno. Son tornato a casa e negli occhi avevo ancora quell’immagine. Quella scritta. Quell’abitacolo vuoto. Il semaforo rosso. La nebbia che non era nebbia ma una roba bianchiccia e viscida. Son tornato a casa e mi son sdraiato sul letto. Mi son sdraiato vestito. Fuori, in cortile, c’era qualcuno che lavorava. O forse non era fuori, era al piano di sopra. Sentivo il trac trac di un arnese, forse di un cacciavite, o di uno scalpello. Ho iniziato a pensare che non mi piaceva affatto, quel rumore, quel trac trac. Non è una bella cosa mettersi a lavorare con un arnese, un cacciavite, uno scalpello, nel cuore della notte. Ho iniziato a pensare che quel rumore altro non era che un’intrusione nella mia vita privata. Uno sgarbo, un’azione disgustosa. Mi son tirato su, sono andato alla finestra. Fuori non c’era nessuno, il cortile era deserto. Di colpo era sparito anche il trac trac. Son andato in bagno, ho la luce. Sullo specchio c’era una scritta rossa: “È inutile che insisti. Non Ti Amo Più”. Son rimasto un minuto a guardare la scritta. Stampatello maiuscolo. M’è venuto su un rigurgito di malinconia. Allora ho spento la luce e son tornato in camera. Mi son sdraiato sul letto. Ho preso tra le mani la rana, ho aspettato che diventasse calda, e poi l’ho poggiata sulla fronte.
Un attimo dopo, di nuovo il trac trac. Fuori, in cortile. Ne sono certo.
Le declinazioni del male
Mi è piaciuto un articolo pubblicato ieri sulle pagine della cultura de la Repubblica, firmato da Gabriele Romagnoli, dal titolo “Perché ci affascina la vita delle canaglie“. Romagnoli spiega perché ha scelto di premiare l’ultimo romanzo di Emmanuel Carrère, “Limonov“(Adelphi), come libro dell’anno 2012. “Ha fiuto nella scelta, Carrère”, scrive Romagnoli. “Individua declinazioni decifrabili del Male. Decifrabili attraverso la letteratura. (…) Carrère non si preoccupa che il protagonista della sua narrazione sia un eroe, neppure che sia positivo. Non cerca di empatizzare, vuole soltanto rendere conto”. Mi piace perché si tratta di concetti che cerco sempre di approfondire, spesso con risultati purtroppo risibili, quando i lettori mi chiedono di Valdo Norman, il protagonista dei miei due libri pubblicati da Quarup, “Non sto tanto male” e “Dettagli di un sorriso“. Lungi da me l’idea di accostare o comparare le mie storie con le opere di Carrère. Sarebbe come fare un paragone tra un calciatore di seconda categoria e Lionel Messi. Non è questo il punto. Il punto è che davvero non siamo capaci di odiare sino in fondo il protagonista negativo di una storia, di un romanzo. Perché l’autore è lì – come scrive Romagnoli – a rammentarci che “la debolezza è umana, troppo umana, e tu l’hai condivisa. (…) Tutti abbiamo dentro bivi terribili che possiamo convivere con qualunque scelta e qualsiasi conseguenza”. Valdo non è affatto Limonov. E viceversa. Le loro storie non hanno alcun punto di contatto. Ma in qualche maniera i due potrebbero essere parenti, magari alla lontana. Entrambi sono personaggi assolutamente anormali, incapaci di attraversare una linea intermedia, o sostarvi sopra. Talvolta patetici e struggenti, talaltra semplicemente detestabili. Con una sostanziale differenza: Limonov non è un personaggio inventato, esiste davvero. Valdo no. Almeno così pare.
A proposito di tutto ciò di cui avremmo bisogno
Dicono che a momenti arriverà un anno nuovo. Io non son d’accordo. Penso che a momenti arriverà un nuovo anno. Che non è la stessa cosa, son due cose diverse. Un conto è un anno nuovo, un altro è un nuovo anno, non per fare il pignolo, anche se un po’ lo sono, pignolo, ma giusto un po’, un pignolo alla buona, s’intende, di quelli che non è che son malato di pignoleria, tutt’altro, ma certe cose vanno precisate. Tant’è che io, alla storia che a momenti arriverà un anno nuovo, non ci credo. Penso che alla fine arriverà soltanto un nuovo anno, un altro di quegli anni lì, uno dei tanti che non si sa più da quant’è che continuano a spacciare come nuovi, a dirci che tutto cambierà, che tutto sarà diverso. Spacciano roba che in realtà ci prendono in giro, tanto lo sappiamo che questi anni che dicono che son come nuovi, poi nuovi non lo sono affatto. Dentro quest’anno nuovo, che nuovo non è, dicono che a momenti ci saranno le elezioni nuove. Dicono. Ma è chiaro che non andrà così. Le elezioni, come l’anno che verrà, come il nuovo che non è nuovo, se uno sta lì a veder le cose, dalla distanza giusta, non saranno mica nuove. A veder le cose, dalla distanza giusta. Altr’anno, altre elezioni. E via. Che, a dirla con il mio amico Antonio, gira e rigira, saranno le stesse elezioni nuove di sempre, in un anno che sarà lo stesso anno nuovo di sempre: diverso, perfettamente uguale. Che se solo mi capitasse di incontrarne uno, di quelli che son malati di pignoleria, e gli dicessi che sta per arrivare un anno nuovo, son convinto che lui prima mi guarderebbe in cagnesco, e dopo mi domanderebbe: senti un po’, ma che cos’hanno, di diverso, il nuovo vecchio e il nuovo uguale? E non lo so, giuro, non saprei cosa rispondere, al pignolo malato di pignoleria. Dicono che a momenti arriverà un anno nuovo. A momenti. Però. Io, di anni nuovi che sono arrivati veramente, me ne ricordo ben pochi. Forse quell’anno lì che siamo andati a festeggiare in una miniera abbandonata,
eravamo in parecchi, quell’anno lì, che era l’anno che la notte prima dell’anno nuovo siamo andati a far spesa giù in paese e di rientro siamo usciti di strada con la R5 di Sandro, anche se forse non era proprio una R5, e forse non era nemmeno la R5 di Sandro, ma ha poca importanza, ne aveva ancora meno quella notte, che era l’ultima notte dell’anno, dritti in cunetta, con una discreta eleganza, direi, fuori strada, ma con un’eleganza d’altri tempi, una compostezza che non so se fosse per il vino o per altre cose che anche all’epoca erano illegali, in una delle cunette più divertenti che abbia mai conosciuto, in una notte d’un anno vecchio tra le più divertenti che abbia mai vissuto, alla fine di un anno vecchio, ma non così vecchio da buttar via, un anno gonfio di risate e di musica e di speranze che poi pian piano son svanite. Non so dove. Non so come. Però. Dicono che a momenti arriverà un anno nuovo. Un anno che non so come sarà, un altr’anno, un altro ancora, ma tra le tante cose che ho letto sui giornali, in questi giorni di un anno che tra un po’ non ci sarà più, ce n’è una che m’ha colpito, anzi due. La prima notizia è che l’India, la più grande democrazia al mondo, è considerata la nazione del G20 dove i diritti delle donne sono più calpestati. La seconda notizia è che l’India, la più grande democrazia al mondo, nel 2013, nell’anno nuovo che nuovo non è, entrerà nel ristretto club marziano con la sonda Mangalyaan-1. Io, queste due notizie, non so come, non lo so proprio, ma a me, che sarò pure pignolo, ma non malato di pignoleria, mi hanno fatto riflettere, mi hanno fatto pensare che, più che di un anno nuovo o di un nuovo anno, forse avremmo bisogno di una coscienza civile nuova. Tutti. Non di un buon anno, avremmo bisogno, tutti, ma di un anno buono. Buono veramente, però.
Indice
Gianni Zanata - Stiamo bene dove siamo Prima di cominciare Stiamo bene dove siamo Proprio il tre gennaio C’è da limare qualche aggettivo C’è da limare qualche aggettivo Un prologo Un capitolo Good Morning Che fine hai fatto Linee Limare Il Corpo Rivestito con film Sentirsi a casa La Notizia del Giorno Pallone Differenze (1)
Sulle corde (S)fondi Europei (2012) Leonida Fusillo Problemi Linea(re) Letti di notte a Isili Al Poetto Un’estate d’amianto A me sembra Cartesio lo conosco quasi a memoria. Senza punte. La benzina non è poetica. Le cose sono semplici. Molto lenti, quasi fermi. Da uno a dieci. I love your website. Porte Girevoli. A volte (alternate take). Il punto di prima. I Motivi. Buoni e Cattivi.
Il calcio non è uno sport per nocchieri. I Cosi. Istruzioni Per Il Bricolage. Molleggiare Nell’Ansia. Fondisti. La Trasmissione Del Pensiero Felice. Vendemmiare. Appunti (3) La Parola. Appunti (4) Juanne Franziscu. Appunti (5) Gechi. Cazzimperio da paura. Come pesci fuor d’acqua sulla cresta dell’onda. End Of The World. Nel Cesto Del Pane Fresco. Il Baco Dell’Identità. “Bellas Mariposas”. Filippo Di Buonamano che litigò con l’insegnante di La Ruota Del Carro.
Lesson number one. Le colpe dei genitori. Appunti (6) Più felici di così Più felici di così (secondo finale) “È inutile che insisti. Non Ti Amo Più” (2) Le declinazioni del male A proposito di tutto ciò di cui avremmo bisogno