Elda Judica
Short tales from L.A.
Battitore libero
Titolo originale: “Short tales from L.A.”
© 2013 Giovane Holden Edizioni Sas - Viareggio (Lu)
I edizione cartacea novembre 2013
ISBN edizione cartacea: 978-88-6396-390-8
I edizione e-book novembre 2013
ISBN edizione e-book: 978-88-6396-437-0
www.giovaneholden.it
[email protected]
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Elda Judica www.giovaneholden.it/autori-eldajudica.html
ISBN: 9788863964370
Questo libro è stato realizzato con BackTypo un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Victoria’s secrets Midnight ride Da Yuri Da Starbucks American Bonsai Alla fermata del Big Blue Bus Hal Surfer girl Tutto andrà bene Ringraziamenti L'Autrice
A Manlio e Santi.
Victoria’s secrets
La sua migliore performance cinematografica di sempre si racchiudeva nei quattro minuti e trentacinque secondi di uno spot anni Ottanta della Coca Cola light nel quale lei, una bruna sbarazzina alta quasi sei piedi, lei sottile ma flessuosa e sexy quanto basta, lei in shorts di jeans a stelle e strisce, t-shirt aderente e sbrindellata e capelli cotonati, lei soffriva di sete e di noia in un autogrill della calda e polverosa provincia americana di un qualsiasi pomeriggio estivo: l’inquadratura partiva dal camioncino rosso scarlatto più famoso del mondo fermo alla pompa di benzina, pian piano si focalizzava sulla sua figura che saltellando su un paio di All Star mezze slacciate si infilava di soppiatto sul retro del furgoncino e apriva una lattina di Coca Cola Light con fare ammiccante e giocoso, facendosi portare via da una vita di apple- pies e scrambled eggs servite a camionisti di aggio grassi e sudati. Lo spot contemplava inizialmente anche uno scambio di battute con il conducente, che era però poi stato tagliato per motivi a lei non noti. Le avevano anche detto che sarebbe stato trasmesso in TV su un canale nazionale, ma, come spesso le era successo nella vita, le cose non andavano esattamente come uno se le immaginava. Una volta però una sua amica l’aveva chiamata tutta eccitata da un cinema di Pasadena dove lo avevano proiettato, lo spot, il suo spot, prima di un film, Quicksilver, uno schifo di film a dire la verità, ma la sua amica aveva giurato che la pubblicità era piaciuta parecchio, anzi era stata un successo. Quelli erano stati i suoi (quasi) cinque minuti di fama e di gloria. Victoria era nata a Long Beach quarantadue anni prima, da una famiglia benestante, padre avvocato, madre casalinga, due sorelle e due fratelli. Da piccola trascorreva ore davanti alla TV sprofondata nel divano di pelle color senape, a consumarsi gli occhi un film dopo l’altro con una speciale predilezione per i western di Sergio Leone, anelando di trasformarsi nella bella ragazza ribelle tratta in salvo dallo scorbutico cowboy dal cuore tenero. All’età di undici anni aveva interpretato nella recita scolastica Amy delle sorelle March in Piccole Donne, la sua preferita, quella frivola con aspirazioni di pittrice, che poi sposa il vicino di casa riccone. A diciassette anni se ne era andata di casa per vivere nel
cuore di Los Angeles, mettere a frutto i suoi talenti e diventare una grande attrice. Di una bellezza sfrontata e senza inibizioni, era presto entrata a far parte di un circolo di artisti squattrinati di Venice tra i quali aveva stretto più intimi rapporti con un fascinoso fotografo, preciso identico al Clint Eastwood di Per un pugno di dollari, diceva lei. Presto ne era diventata modella, musa e assistente, arrangiandosi nel frattempo con qualche provino qua e là, qualche particina col ruolo di poco più che comparsa in qualche fiction di adolescenti, vivendo in affitto in un loft vicino alla spiaggia in condivisione con altre sette persone. I suoi genitori continuavano regolarmente a arle dei soldi sperando che prima o poi mettesse la testa a posto. Lei non vedeva il problema, la sua testa stava benissimo lì dove si trovava, all’inizio della sua nuova vita, continuamente attraversata da mille correnti di idee esaltanti, che dettagliava a sua madre con incredibile entusiasmo e ottimismo, iscrivendosi nel frattempo a tutti i corsi di recitazione e teatro sperimentale che la città le offriva. A differenza dei suoi amici e coinquilini non faceva uso di stupefacenti, non sembrava averne bisogno, viveva tutto in modo talmente intenso, euforico e totalizzante che probabilmente, diceva, una pasticca di LSD avrebbe solo distorto le sue buone vibrazioni. Una sola volta aveva fumato marijuana e le aveva dato la nausea. Gli alcolici la deprimevano. Aveva sviluppato una sua personale convinzione religiosa, una spiritualità tutta sua che prevedeva una sorta di metempsicosi circolare a breve termine, per cui era convinta di essere stata un delfino in una vita precedente e che, quindi, prima o poi sarebbe tornata ad esserlo. Sceglieva gli amici in base alle loro reincarnazioni, guardando con sospetto squali e orche, e fidandosi solo di gabbiani e tartarughe. Un giorno Victoria era tornata a casa dopo una faticosa giornata trascorsa nell’inutile attesa di ottenere una particina come infermiera-zombie in un film di serie B, e aveva trovato il suo cowboy a letto con un pittore di San Francisco, da poco nuovo inquilino del loft. Evento inaudito, inizialmente non era riuscita a proferire parola. Era stata una stupida, quei due stavano sempre appiccicati a parlare di Warhol e Lichtenstein e chissà che altre diavolerie pop-art, una vera ingenua, perlomeno avrebbe dovuto sospettare qualcosa quando il pittore, ritraendola nuda, non aveva fatto una piega, un commento, neanche mezza
avance. Poi le era tornata la voce e aveva cambiato registro, dal mutismo iniziale era ata magistralmente a una scena isterica, tubetti di colori a olio schiacciati sotto i tacchi e sparpagliati per la stanza, urla e ululati contro il mondo, tele squarciate da unghie rabbiose, tavole da surf scaraventate contro gli specchi. Infine, dopo una breve fase di cupa disperazione e sfinimento, aveva ficcato alla rinfusa i suoi vestiti dai colori sgargianti e i suoi monili da quattro soldi in una borsa sfondata, e si era convinta che quello era un segno del destino, l’occasione per iniziare un nuovo percorso di vita. Nulla succede per caso, si era detta. Aveva affittato un bachelor tutto per sé a Santa Monica, prendendosi un periodo di riposo da tutto e da tutti, dedicandosi alla meditazione dura e pura nell’ambito dello yoga ashtanga, sotto la guida di un vecchio sciamano di verosimili radici asiatiche. L’anziano signore le insegnò diverse tecniche di respirazione, concentrazione e resistenza attraverso l’astensione dai cibi impuri, intaccando per infonderle la sua dottrina buona parte dei suoi soldi. Insospettita dai lunghi silenzi della figlia, la madre era andata nel suo nuovo appartamento trovandola incredibilmente prostrata e indebolita dopo quasi due settimane di digiuno totale, e l’aveva portata di corsa in ospedale dove avevano diagnosticato un pericoloso stato di denutrizione e disidratazione. Perse le tracce del maestro yoga volatilizzatosi chissà dove con tappetini, incensi e denari, Victoria si era poi rapidamente e inaspettatamente ripresa, e aveva cominciato a uscire con un medico conosciuto in ospedale, con una vaga somiglianza al giovane Steve McQueen, che pochi mesi dopo l’aveva messa incinta. La relazione non era andata avanti per molto, lui era un giovane specializzando squattrinato che stava per trasferirsi a New York, già pieno di debiti subito dopo la laurea, e non voleva compromettere la sua carriera per una stravagante fricchettona con figlio a carico. Così Victoria aveva partorito Penelope all’età di diciannove anni, era tornata a casa da ragazza madre, restando con i suoi per quasi tre anni, tempo necessario per avvertire nuovamente l’irresistibile richiamo della sua Città degli Angeli. Aveva lasciato la bambina in affido ai genitori e se n’era andata cercando di riappropriarsi della sua vita.
Persi pressoché tutti gli agganci con il mondo dello spettacolo, impietoso per chi scompare dalla scena per giunta dopo una gravidanza, si era messa a fare di tutto, sognando che un giovane produttore o una nuova star di Hollywood la notasse e la portasse alle vette tanto agognate: hostess di congressi, pierre in un discopub, barista in un caffè, commessa in una pasticceria, ogni mattina si alzava fiduciosa che quello poteva essere un giorno speciale, il suo giorno speciale. Immancabilmente si truccava gli occhi pasticciandoli con un improbabile ombretto arancione e lilla, si ritoccava lo smalto color mattone su mani e piedi e usciva di casa sorridendo smagliante, non si sa mai chi si potrebbe incontrare. Un giorno, Penelope aveva appena compiuto sei anni, Victoria usciva di corsa da un bar su Hollywood Boulevard dove aveva da poco iniziato il suo periodo di prova, quando una macchina l’aveva travolta non fermandosi a uno stop, causandole fratture ad entrambe le gambe. La guarigione era stata lenta, ma buona, e il risarcimento adeguato, potendole permettere di non lavorare per un po’ e di dedicarsi alla pranoterapia e alla chiropratica per curare cefalea e lombalgia residue dall’incidente. Poteva contare anche su una piccola rendita derivata dall’affitto di una stanza dell’appartamento che nel frattempo i suoi le avevano comperato. Non era più tornata a lavorare per un bel pezzo, continuando imperterrita la quotidiana ricerca della sua occasione, nelle sue lunghe giornate trascorse girovagando per la città e curiosando tra la gente. Poteva trascorrere ore al supermercato a scegliere un bidone dell’acqua, interrogando il commesso su tutte le proprietà chimico-fisiche del liquido in questione, per poi non comprare niente. Poteva restare a digiuno per giorni, distesa sul letto al buio a meditare sempre più debolmente, per poi alzarsi all’improvviso e pregare il suo roommate italiano, Nicola, di cucinargli qualcosa di tipicamente mediterraneo, come pizza e pepperoni. Impazziva per i piccoli oggetti artigianali italiani, una piccola tazzina rossa dove sorseggiare il caffè au lait, una morbida asciugamano blu, un paio di scarpe che in Italia “ti fanno su misura appena entri nel negozio”. Nicola cercava di spiegarle che non era proprio così, quello che intendevano loro per pepperoni era in realtà salame, affettato, carne insomma, inoltre anche in Italia c’erano mostruosi centri commerciali e l’artigianato stava scomparendo, ma Victoria non stava ad ascoltare, parlava senza prendere fiato, socchiudendo le palpebre quando accelerava i toni o quando si concentrava su qualcosa di importante, e gli raccontava di tutti i suoi amori disgraziati.
Come quella volta che un suo ex l’aveva lasciata mentre si trovavano in macchina, lui alla guida, lei al suo fianco, con la classica frase “Prendiamoci una pausa di riflessione”, lei era entrata in panico, era diventata tachicardica, avrebbe giurato che quel personal trainer aitante e affidabile era l’uomo giusto, le ricordava tanto Henry Fonda in C’era una volta il West, e improvvisamente le era mancato il respiro, mentre la macchina era ancora in corsa aveva cercato di aprire la portiera, ma trovandola bloccata impulsivamente aveva aperto il finestrino e aveva cercato di uscire con il sedere. Per quanto fosse sottile era rimasta incastrata metà dentro e metà fuori, piegata a metà come un cheeseburger, e urlando e piangendo aveva strepitato che voleva scendere da quella macchina immediatamente e più si agitava più si incastrava, non riusciva neanche a tornare alla posizione iniziale sul sedile, con lo pseudo Henry Fonda che la guardava incredulo e le ripeteva che non c’era modo di fermarsi, no way, erano sulla 405 e la prossima uscita era a un paio di miglia se non di più, doveva aspettare e stare ferma, calmarsi un po’, prendere dei respiri profondi, ma lei voleva scendere subito, in quello stesso istante, si trovava piegata in due col culo di fuori bloccata nella macchina del tipo che l’aveva appena mollata, strepitando e piangendo e urlando di dolore. Mai le sembrava di essersi sentita più umiliata e imbarazzata. Quando l’automobile si era finalmente accostata, Victoria si era rapidamente liberata da quella trappola, in che modo non se lo ricordava, ed era scappata correndo verso una direzione casuale quanto più velocemente poteva, mortificata più dal suo goffo tentativo di fuga che dall’ennesima relazione finita male. Ma comunque anche quella volta le era ata presto. Adesso, da persona saggia qual era, come ripeteva sempre da quando aveva ato i quaranta, adesso stava uscendo con un ragazzo che aveva conosciuto nella sala d’attesa del suo psichiatra, aveva raccontato a Nicola davanti a un piatto di linguine pomodoro e basilico. Assomigliava a Gregory Peck in Vacanze Romane, il ragazzo, non lo psichiatra, ed era in cura presso un collega dello stesso studio per un disturbo depressivo-dipendente di personalità. Lei, con suo profilo istrionico misto ossessivo-compulsivo, con una spruzzatina di narcisistico, aveva diligentemente chiesto il permesso al suo strizzacervelli di frequentarlo, i due emeriti dottori si erano consultati e dopo un’iniziale titubanza avevano dato loro il permesso, pensando forse che un disturbo di personalità schiaccia l’altro. Così, con la benedizione della comunità medico-scientifica (magari avrebbero scritto un case-report su di loro!), qualche sera prima erano usciti a cena a mangiare pesce. Lei aveva indossato il prendisole giallo e bianco che la faceva sentire più
giovane e i suoi sandali dorati quasi nuovi, che però le avevano fatto venire le vesciche l’ultima volta che li aveva messi, così aveva applicato dei cerottoni azzurri tutto intorno ai talloni e alle dita dei piedi. Lui si era rivelato un vero cavaliere (Victoria lo diceva in italiano) portandola in un ristorante molto chic e consigliandole con piglio sicuro i piatti migliori, dopo aver letto cinque o sei volte sul suo I-phone le recensioni degli altri clienti. Il suo psichiatra stava facendo un buon lavoro, tutto sommato. Non volendo sfigurare, e provenendo da giorni di scarsa nutrizione, Victoria aveva assaggiato questo e quello, innaffiandolo con abbondante vino bianco (questo sarebbe stato meglio non dirlo al dottore, chissà che interazioni poteva avere col suo nuovo antidepressivo), arrivati all’ostrica aveva sentito un certo fastidio alla bocca dello stomaco, ma si era fatta forza e l’aveva buttata giù, il fastidio si era improvvisamente trasformato in nausea intensa e il sapore del mare sprigionato dall’ostrica era diventato disgustoso, alzandosi improvvisamente aveva raggiunto il bagno dove si era liberata della cena vomitando anche l’anima. Va bene, non si poteva dire che la serata si fosse conclusa nel migliore dei modi, ma tutto sommato non era andata poi così male, il suo cavaliere l’aveva accompagnata fin sotto casa, pur senza spingersi fino al bacio della buonanotte. Un primo appuntamento con i fiocchi. Chissà se lui l’avrebbe richiamata, in ogni caso non vedeva l’ora di raccontare tutto giovedì al dottor Saltzman. Nicola pensava che forse avrebbe dovuto intensificare le sedute prima di intraprendere una nuova relazione: il secondo giorno che si era trasferito lì, era tornato a casa dal lavoro e, immaginando che non ci fosse nessuno, si era diretto in cucina per farsi un panino, quando aveva visto una figura mugolante raggomitolata in modo innaturale in un angolo, chè per poco non gli era venuto un colpo. Adesso, dopo tre mesi di convivenza, sapeva che in ogni momento avrebbe potuto trovare Victoria a forma di contorsionista mongolo in qualsiasi angolo della casa, e spesso e volentieri le loro conversazioni andavano avanti così, lui davanti ai fornelli e lei attaccata alla parete per terra, a testa in giù o abbarbicata attorno a una sedia. Già parlava alla velocità della luce in una lingua che non era la sua, si diceva Nicola, poi da quella posizione non era mai sicuro di capire chiaramente: non poteva giurare di aver capito bene quella storia sul pagliaccio di Long Beach: Victoria gli aveva già confessato che ogni tanto vedeva i fantasmi in giro per casa, e gli aveva raccontato che da piccola era terrorizzata dalla leggenda di un clown che per anni aveva divertito grandi e piccini sul molo e un giorno all’improvviso era scomparso. In sua memoria era stata costruita una grande
statua, proprio lì, all’inizio del pontile di Long Beach. Un giorno la statua era stata trovata squarciata, aperta a metà, all’interno visibile il cadavere mummificato del pagliaccio, mummificato ma sanguinante allo stesso tempo. Ma forse lui aveva capito male, o lei se lo era solo sognato, o immaginato. Che poi per lei la differenza era minima. Una volta lo aveva costretto ad andare a vedere uno spettacolo di burlesque cui partecipava sua figlia, erano arrivati di corsa dopo aver preso tre autobus e attraversato la città per un’ora e mezza, poi all’ultimo momento lo aveva costretto ad aspettare fuori perché secondo lei lo stacchetto di Penelope era troppo sexy. La figlia di Victoria aveva ora ventitré anni e studiava recitazione al college sognando di diventare attrice di teatro e lavorando part-time in un ristorante. Viveva con i nonni e vedeva la madre due o tre volte l’anno. L’ultima volta Victoria l’aveva invitata a cena alla fine di settembre per festeggiare il suo compleanno, che cadeva in maggio. Le vietava categoricamente gli alcolici temendo che diventasse grassa, le raccomandava di bere solo acqua San Pellegrino e ne incoraggiava la carriera a modo suo, recandosi a tutte le prime e portandosi sempre dietro in un sacchettino di cartone una piccola scorta di heirloom tomatoes, pomodori doppiamente buoni: da una parte se Penelope avesse recitato male erano perfetti per tirarglieli addosso sul palco, sodi ma facilmente spappolabili all’impatto, d’altra parte, se invece avesse fatto bene il suo lavoro, erano gustosi e deliziosi per metterli in un sandwich e fare uno spuntino in famiglia dopo lo spettacolo. Non si poteva mai sapere. Da qualche mese Victoria si occupava dell’organizzazione di eventi in una piccola galleria d’arte a Century City. Il proprietario era rimasto colpito dalla sua capacità comunicativa e dalla sua contagiosa vitalità. Veniva pagata poco, e a volte doveva fermarsi fino a tarda ora, ma a lei piaceva chiacchierare con la gente e sentire la loro opinione sull’ultima installazione di arte moderna, che fosse una piramide di sale o un accorpamento di cartoni da imballaggio. Talvolta la sera dopo il lavoro sentiva un fastidioso senso di incompiutezza, di formicolante insoddisfazione, e allora se ne andava a Santa Monica camminando fino in fondo al Pier: lì, nel punto più esposto al vento e al mare, appoggiava forte le braccia magre sulla ringhiera di legno, si metteva in punta di piedi, e sporgendo pericolosamente la testa, chiudeva gli occhi e porgeva omaggio ai suoi fratelli e sorelle delfini, urlando a squarciagola che sarebbero di nuovo stati insieme un giorno, liberi e spensierati, a nuotare su e giù per le onde.
Poi tornava a casa, fiduciosa che qualcosa di bello le sarebbe successo presto, forse il giorno dopo.
Midnight ride
The age of a Few People Through a Rather Brief Moment in Time: one or more persons during a certain period drop their usual motives for movement and action, their relations, their work and leisure activities, and let themselves be drawn by the attractions of the terrain and the encounters they find there. It’s a bike ride. Si trovavano ogni mercoledì sera a nord di Downtown, davanti al baracchino di ciambelle, appuntamento alle otto e trenta, partenza alle nove. Di solito erano una trentina di ragazzi fra i venti e i trent’anni, ma alcune sere potevano ritrovarsi in cinquanta, altre volte in quattro-cinque, con una stretta rappresentanza femminile in mezzo a una netta predominanza maschile. Tutto quello che dovevano portare, oltre alla bicicletta, erano luci potenti per illuminare il aggio, voglia di pedalare e di divertirsi, possibilmente birra e sempre, senza eccezioni, good vibrations. Nessuna scusa, nessuna regola, soltanto macinare trenta, quaranta miglia su e giù per la città addormentata, con un occhio alla strada e uno alle colline illuminate nella notte. Quelle dove i ricconi di Hollywood languivano nelle loro Jacuzzi da millemila dollari e tiravano di coca sul bordo delle loro piscine spaziali. A fine corsa la tradizione richiedeva un doveroso rifocillamento a base di almeno un paio di Donuts fritti e unti, con la glassa al cioccolato o ripieni di amarena e cosparsi di zucchero a velo. Questo era The age, un rito per tutti i ciclisti di Los Angeles, una pedalata che poteva diventare epica, pericolosa, complicata, imprevedibile. Apocalittica o semplicemente avventurosa. Quella notte cadeva una ricorrenza speciale, giusto tre anni dalla prima ride di The age.
Nicola si era precipitato fuori dal laboratorio di chimica come ogni mercoledì sera, a cavallo della sua trek si era scaracollato per la discesa di Westwood evitando le buche e rallentando appena appena agli stop, ed era corso a casa a fare il pieno di calorie per la notte: da buon italiano trapiantato in Southern California come ricercatore, aveva mandato giù una baguette intera condita con i pomodori del farmer market, l’olio che gli mandava suo padre dalla Sicilia e il basilico della piantina che teneva in cucina, senza farsi mancare un po’ di crackers e whipped cheese con l’avocado e, con il cibo ancora traballante sullo stomaco, aveva ricominciato a pedalare per raggiungere il punto di ritrovo, distante almeno quindici miglia da casa. Milton era nato e cresciuto a L.A., da sempre nel quartiere di Inglewood, uno di quei posti che i turisti non trovano sulle guide di Lonely Planet, ma che puoi facilmente riconoscere per i numerosi elicotteri che la pattugliano poco silenziosamente la notte. Milton era ormai un affezionato delle varie ride losangeline, anche se non aveva mai partecipato a The age. Aveva conosciuto Nicola qualche mese prima, a fine corsa, dopo la pedalata del West side Mosey: una festa ambulante di freak bikers con tanto di impianto stereo illuminato montato sulle bici e numerose pause danzanti nei parchetti e nei cortili dei liquor market. Nicola era affascinato da quella subcultura metropolitana ribelle che si insinuava abusivamente per le arterie della città, che sonnecchiava e si nascondeva nelle case e negli uffici e nei bar e nei ristoranti durante le lunghe calde giornate californiane per esplodere con gioia e vigore sulle due ruote dopo il tramonto. Lui trascorreva la sua giornata fra provette sterili e soluzioni di cloruro di sodio, tutto bardato con camice ignifugo, occhiali protettivi e cuffietta che a stento conteneva la chioma gonfia carica di ricci crespi e spettinati, e a volte non vedeva la luce del sole per giornate intere, si dimenticava di pranzare e si sentiva irrequieto e alienato, incredibilmente piccolo e insignificante in quella città a diecimila chilometri da casa, dodici milioni di abitanti più lui. Milton aveva bevuto molte birre la sera che si erano conosciuti al Mosey, fumato qualche canna, tentato di approcciare qualche chick, e fatto il bagno abusivamente nella piscina di una villa procurandosi una bella escoriazione al ginocchio saltando il cancello. Nicola era arrivato da poco in città, non conosceva nessuno e aveva assistito a tutta la scena, si era offerto di aiutarlo a pulire la ferita alla bell’e meglio. Avrebbe poi scoperto che Milton era un habitué di contusioni e lacerazioni in varie parti del corpo, e che non avendo
l’assicurazione sanitaria ad andare dal medico non ci pensava neanche. Nella strada di ritorno verso casa avevano deciso di scortarsi a vicenda fino a Venice Boulevard, Milton gli aveva spiegato che la notte era sempre meglio fare un pezzo di strada con qualcuno. Nicola aveva accettato volentieri, fra di loro si era stabilita spontaneamente una comunicazione fluida e fraterna, sentiva che si poteva fidare del sorriso aperto e spontaneo di quel ragazzone americano dai tratti indiano-ispanici. E poi non sapeva assolutamente dove si trovasse. Mentre si scambiavano opinioni sul rapporto di marcia ideale tra corona anteriore e pacco pignone e disquisivano di telai troppo costosi, avevano incrociato Mauricio, un ragazzo di origini messicane che tornava dal Mosey e sbandava pericolosamente con la sua Cruiser. Nicola lo aveva visto bere parecchio durante la serata e si chiedeva come avrebbe fatto a tornare a casa. Infatti non andava molto bene. Così, anche se erano le quattro di notte, Milton e Nicola si erano messi a loro volta a scortarlo. Il messicano aveva dimenticato l’esistenza dei freni, non si fermava ai semafori e aveva la testa che gli penzolava pesantemente da una parte, come se avesse perso completamente il tono dei muscoli del collo. Giunti a una discesa particolarmente ripida e buia, in un tranquillo quartiere residenziale, aveva cominciato a prendere velocità giù per la strada, completamente fuori controllo: a Nicola sembrava uno di quei fantocci dei crash test che si schiantano contro il muro perdendo pezzi di braccia e di gambe. Mauricio invece aveva percorso indenne quasi tutta la via, fino a quando, quasi alla fine, non aveva sbandato verso destra urtando il manubrio contro lo specchietto di un SUV parcheggiato, e, proprio come un burattino impazzito, aveva fatto un volo di una decina di metri dalla sella al selciato, battendo pesantemente la faccia sull’asfalto. Milton aveva guardato Nicola sbarrando gli occhi, poi senza dire una parola erano corsi entrambi accanto al corpo riverso a terra, rigirandolo cautamente in posizione supina. Nell’istante in cui Nicola aveva chiesto “Respira?”, Mauricio aveva cominciato a contrarre mostruosamente tutti i muscoli della faccia e a sputare saliva mista a sangue, con la bocca semiaperta e bloccata dalla lingua che fuoriusciva a metà, serrata fra i denti. Un po’ perché era stato fidanzato con una ragazza che studiava Medicina, un po’ perché si ricordava che Jimi Hendrix era morto inalando il suo stesso vomito, Nicola si era preso la responsabilità di dire a Milton di tirargli fuori la lingua e
spostargli la testa da un lato affinché non morisse soffocato. Lui preferiva non toccarlo, tutto quel sangue, chissà che cosa si poteva beccare, lui che indossava i guanti tutto il giorno e stava continuamente attento a non contaminarsi. Forse negli ultimi tempi era diventato un filo più pignolo e fissato con certe cose. Forse da quando aveva abitato con quel vecchio architetto nel primo appartamento in affitto, forse perché era stato attaccato dalle pulci dei suoi grossi grassi gatti obesi, forse perché da allora gli capitava di percepire minuscoli esseri saltellanti intorno alle sue gambe. Forse. “Ha un bello sbreco sulla fronte, guarda qui,” gli fece notare Milton indicando la tempia destra di Mauricio da cui usciva copiosamente del sangue. “C’è bisogno dell’ambulanza,” disse Nicola prendendo il cellulare con le mani che gli tremavano. Mentre lui chiamava il 911, Milton svuotava le tasche di Mauricio, che nel frattempo non smetteva di convulsare, alla ricerca di una traccia di assicurazione medica. Quando dopo cinque minuti avevano ormai rinunciato a trovarla, i due ragazzi si ritrovarono catapultati dentro Apocalypse Now: facendo un frastuono infernale, arrivarono due macchine della polizia a sirene spiegate, un imponente camion dei vigili, due elicotteri a illuminare la scena dall’alto ed, a chiudere il corteo, infine un’ambulanza. Adesso capisco perché andare in pronto soccorso qui costa 5000 dollari, pensò Nicola sbigottito da tutto quello spiegamento di forze. Consegnato il ferito nelle mani dei medici, si era messo a pedalare in direzione di casa sotto le direttive di Milton che nel frattempo andava ad avvertire i familiari del ragazzo che abitavano non distanti da casa sua. Quella volta Nicola era arrivato a casa alle sei del mattino, quando la riserva di adrenalina si era ormai esaurita e mentre stava per mettersi a letto, esausto, lo avevano chiamato dall’ospedale per comunicargli che il ragazzo stava bene. Da quella sera i due non si erano persi una pedalata urbana. Nicola aveva raccontato a Milton che The age era una di quelle da non perdere e si erano dati appuntamento il mercoledì successivo a Downtown.
Alle nove erano in ventotto, tutti ragazzi, per lo più bianchi o messicani, e tre o quattro afroamericani, che sembravano i cugini giovani di Obama. All’ultimo minuto si unirono due ragazze sui vent’anni, tratti latini, shorts, scarpe da trekking e cappello di pelo a forma di opossum. Il percorso di The age non era mai fisso, cambiava di volta in volta, a seconda dei consigli e delle direttive di Rex, un americano sportivo sui trentacinque anni, capelli corti e biondi sparati in aria, una volta vagamente punk, spalle larghe e gambe muscolose e allenate. Era stata una di quelle strane giornate del giugno californiano, un po’ gloomy, quando il sole fa fatica a spuntare persino al pomeriggio, ma il cielo della sera era limpido e frizzante. Era una serata perfetta per i riders della città. Erano partiti in orario, con un ritmo tranquillo, mediamente veloce, ben compatti. Si erano diretti ancora più a Nord, costeggiando Broadway e arrivando oltre Echo Park.
Dopo poche miglia Nicola non sapeva assolutamente dove stessero andando, come sempre, ma non ci badava. Nessuna responsabilità, nessuna preoccupazione. Si lasciava guidare e basta. Si lasciava dietro le spalle preoccupazioni e ossessioni. Avvertiva il fresco sulle gambe, la bici che girava, i muscoli delle braccia che si tendevano, i viali di palme che gli si aprivano davanti come tappeti rossi a una premiere. Per Milton il ritmo era lievemente sostenuto, ma stava dietro agli altri una salita dopo l’altra, una curva dietro l’altra, sforzandosi appena un po’, godendosi anche lui la sensazione di libertà e leggerezza, finalmente fuori dal lezzo opprimente del chiosco di suo cugino dove serviva tacos e hot dog di pessima qualità. Invidiava la vita del suo amico, il professore, come aveva preso a chiamare Nicola, tutto il giorno immerso nella linearità delle sue formule matematiche così pulite e sicure, dentro stanze ordinate e asettiche, se lo vedeva riempire calici e calicetti di liquidi cristallini, e mescolarli fra di loro con la sua ferma, placida concentrazione. Dopo circa un’ora si videro davanti un fiume, e quel fiume era il Los Angeles River. Scesero fino all’argine ando per una recinzione arrugginita ne seguirono il letto.
“Lo sai che questo fiume ha rappresentato una fonte di acqua e cibo per secoli per gli indiani che vivevano qui prima dell’arrivo degli spagnoli? Si chiamavano qualcosa tipo come…Gabrielinos mi pare, e vivevano di caccia e pesca lungo il fiume,” iniziò a raccontare Nicola, mentre Milton scendeva saltellando scoordinatamente verso la riva e spruzzando i vicini di fango. “Era pieno così di questi villaggi Gabrielini sulla riva del fiume, vicino alla San Fernando Valley,” gli fece eco Rex poco distante, buttando nel frattempo un’occhiataccia a Milton. “…Che oggi sarebbe Glendale,” li stupì Milton proseguendo le sue bravate da adolescente dispettoso. “Nel settecento un esploratore durante la sua spedizione lo aveva chiamato El Río de Nuestra Señora la Reina de Los Ángeles de Porciúncula, ovvero The River di Nostra Signora Regina degli Angeli di Porciúncula. Ed è stato così denominato il fiume Porciúncula.”. Allo sguardo sbalordito di Nicola, Milton scrollò le spalle e bofonchio “Professor, mi piaceva storia a scuola, finché ci sono andato. E poi gli antenati spagnoli sono miei ascendientes”. Giunti al letto del fiume, quasi asciutto ma pieno di fango e detriti, chi se li era portati indossò gli stivali, mentre gli altri si limitarono a tirarsi le calze sopra i jeans. Poi tutti quanti iniziarono a percorrere il letto scivoloso del fiume, compreso Milton che tentava qualche acrobazia fra i sassi e la sabbia. Nicola divenne silenzioso: si sentiva catapultato in una terza dimensione, nella pancia del fiume, da una parte e dall’altra le luci e i rumori della città, il cemento, la velocità, i semafori, le urla e gli affanni quotidiani, e lì in mezzo solo loro, il fremito della notte, il brillare calmo delle stelle a illuminare quella tribù così improvvisata, ad accomunarli la curiosità ed l’impazienza, tutti insieme in quel nascondiglio misterioso, come in un rituale segreto. Si sentiva fortunato, un eletto. Si sentiva vibrare. Si sentiva, e non era poco. Pensava agli indiani che avevano vissuto lì per secoli prima dell’arrivo degli spagnoli, nutrendosi di pesce e ghiande, e guardava quello che restava del fiume adesso e quello che era stato costruito, barbaramente, lungo il suo corso. “Accendete tutte le luci e stivali ai piedi, chi ce li ha!” ribadì Rex interrompendo quel silenzio surreale, dopo circa mezzo miglio: poco lontano si intravedeva l’ingresso circolare di un tunnel.
Senza fare domande, si addentrarono in quel cunicolo stretto e non certo accogliente: all’inizio l’acqua saliva appena appena di qualche millimetro, man mano che si inoltravano, il livello si innalzava impercettibilmente, crescendo di pari o con la puzza di fogna che si faceva sempre più forte. Rimasero di nuovo in silenzio adesso, si sentivano solo lo sciacquettio delle ruote sul fondo del fiume e i fruscii dei ratti che scorazzavano tutto intorno. Bisognava fare attenzione a non mettere i piedi a terra, pedalando con velocità costante e moderata per tutti i dieci chilometri del tunnel, come avrebbero scoperto man mano che avanzavano. “Babababababa,” riecheggiò improvvisamente sulle pareti tonde di cemento. Era Milton che aveva scoperto con giubilo che la sua imitazione del verso degli indiani riecheggiava per tutta la galleria. Facendo i versi più disparati, e inventando nuovi richiami di pace e di guerra da un punto all’altro del percorso, la combriccola selvaggia continuò a pedalare fino a quando non intravide uno spiraglio di luce fioca all’uscita rettangolare del tunnel. Si ritrovarono nuovamente al livello del fiume, fradici fino ai polpacci, le biciclette luride ed la catena infangata, e ripresero rapidamente la strada salendo verso la San Fernando Road. Da lì ricominciarono a spingere sui pedali con energia e velocità crescente, respirando a pieni polmoni l’aria della notte, ancora più fresca e piacevole dopo l’avventura nel sottosuolo. Rapidamente seguirono Rex per una decina di miglia verso una zona di fabbriche e lavori in corso nei pressi di Brockmont, finché, dopo una bella salita da spaccare i quadricipiti, si fermarono davanti a un grosso cancello di ferro. “Che ci facciamo qui?” chiese una delle due ragazze, aggiustandosi il copricapo di finta pelliccia e sporcandosi il naso di grasso oleoso di catena. “Ragazzi, non avete fame?” aveva risposto Rex ghignando, “giriamo di qua.” “Io muoio di fame,” rispose Milton con veemenza, guardandosi confusamente intorno. Davanti a loro si vedeva soltanto quel grosso cancello dipinto di azzurro, chiuso da un grosso lucchetto arrugginito. Facendo però maggiore attenzione, in una stradina laterale che finiva in vicolo cieco sulla destra, si potevano ammirare quattro enormi bidoni della spazzatura che occupavano trionfalmente tutto il
vicolo. “Enjoy, guys!”. I bidoni stavano dietro una fabbrica di biscotti della fortuna, di quelli cinesi che li apri e trovi il bigliettino dentro. Lì dentro venivano gettati tutti i biscotti avanzati del giorno prima. Quattro enormi bidoni ripieni di biscottini e bigliettini, ognuno avvolto nella sua confezione di plastica, per lo più ancora integri e croccanti, li aspettavano per un banchetto con i fiocchi. “Questo è il sogno della mia vita!” esclamò provocando una risata collettiva un ragazzo chiamato JB che vestiva sempre una giacca nera dai risvolti di raso lucido e una parrucca azzurra ricciolina. “Ogni volta che vado al ristorante cinese me ne danno solo uno! Cosa te ne fai di uno solo, dico io!” gioì riempendosi le mani di biscottini dorati e cominciando a sgranocchiarli tre o quattro alla volta. Nicola, non proprio entusiasta all’idea di pescare del cibo dall’immondizia, ne prese solo uno. Lo aprì esattamente in due con la stessa precisione con cui spipettava le soluzioni in laboratorio e prese il bigliettino, che recitava You will travel in many exotic places. “Figata questa previsione…e il tuo cosa dice, Milton?”. “Niente, lascia stare, pensa a mangiare, professor,” bofonchiò il suo amico per tutta risposta, con la bocca piena di briciole e le mani in tasca. Sostarono davanti alla fabbrica per un’oretta ancora, chiacchierando, andosi le birre che JB aveva sistemato al fresco in una cassa sul portapacchi e sfidandosi in gare di velocità attorno all’isolato. Nicola conobbe un ingegnere che abitava a Los Angeles da trent’anni, i cui nonni erano italiani, con cui si mise a parlare di bruschette e premi Nobel. Milton tentò l’approccio con entrambe le ragazze, prima separatamente, poi con in modalità combinata, infine cercando di coinvolgere Nicola come ultimo disperato tentativo, ma senza alcun successo. Si stava bene in quel vicoletto. Alcuni di loro erano amici da una vita, altri si conoscevano di vista, altri ancora si vedevano per la prima volta, tutti facevano parte della stessa tribù. Alle tre ate Nicola e Milton si avviarono verso casa. All’incrocio tra La Brea e La Tijera, Milton lo salutò con un: “Bella pedalata fratello…alla prossima! E
ricordatelo: siamo gli indiani metropolitani…Babababababa”. Al semaforo si fermò un attimo, prese dalla tasca il suo bigliettino e lo rilesse. “Cosa ti aspetti? Di trovare sempre una frase spiritosa o saggia da leggere? Datti da fare anche tu!” Scrollò di nuovo le spalle, lo arrotolò e schiacciò per bene tra le dita, poi lo tirò il più lontano possibile, direzione ovest, oceano. Risalì sulla bici, pedalando a tutta forza, contando di poter dormire un’oretta prima di arrivare al chiosco in tempo per cominciare il turno delle cinque.
The age of a Few People Through a Rather Brief Moment in Time: One or more persons during a certain period drop their usual motives for movement and action, their relations, their work and leisure activities, and let themselves be drawn by the attractions of the terrain and the encounters they find there. It’s a bike ride.
Da Yuri
Yuri aveva da poco compiuto sessant’anni ma ne dimostrava settantacinque. Alto e allampanato, caviglie gonfie e pesanti per lo scompenso cardiaco, pelle grinzosa e rossiccia, fluente capigliatura color panna dal taglio irregolare, viveva in un appartamento di Westwood con Dante e Francis, due grossi grassi gatti per nulla socievoli e parecchio vagabondi. Yuri si era trasferito lì diciassette anni prima, dopo che la sua prima casa era andata distrutta nel terremoto del 1994, e per tirare avanti affittava una stanza a qualche studente di UCLA. Nonostante il disastro avesse sbriciolato mura e mobilia, era riuscito a recuperare buona parte dei vecchi ricordi di famiglia: fotografie in bianco e nero che lo ritraevano ragazzino con genitori ed fratelli in qualche foresta subtropicale, statuette polverose di legno intagliato, coperte patchtwork sbiadite che ricoprivano un baule malandato. Nato in Sudafrica da una facoltosa famiglia di madre inglese e padre ebreo di fede comunista, fratelli e sorelle dai nomi soviet-russi sparsi in tutto il mondo, manteneva il portamento e l’accento di un lord britannico, nonostante i calzini bucati e le camicie ingiallite. A diciotto anni era andato a studiare Architettura in Europa, prima a Londra e poi a Berlino. Nonostante avesse trascorso la maggior parte della sua vita fra America ed Europa, si proclamava africano, un africano selvaggio, che quando poteva camminava a piedi scalzi e mangiava con le mani. Era sempre stato un eclettico, uno che si sapeva adattare alle circostanze della vita, un camaleonte, e non era morto di nostalgia per la savana lungo le strade grigie e piovose delle grandi città del vecchio Continente. Si era interessato di fotografia, arte, cinema, economia e negli ultimi anni di tematiche ambientali. Di intelligenza acuta e spiccata sensibilità artistica, un tipo brillante ma misterioso, era sempre rimasto piuttosto autonomo e autosufficiente nonché solitario. Aveva incontrato il suo grande amore appena arrivato negli Stati Uniti, il Jazz di Charlie Parker, Miles Davis, Gillespie, Thelonius Monk, e poi Chet Baker,
Mulligan, Coltrane e molti altri. Negli anni settanta a San Francisco aveva assistito a un concerto di Chet Baker, quando il famoso trombettista era già sull’orlo del baratro, poco prima che qualcuno gli fracassasse tutti i denti e scomparisse dalla scena musicale per anni, risucchiato dal vortice delle droghe. Avrebbe ricordato per sempre il suo fisico scheletrico, le braccia e le gambe martoriate, la sua faccia da vecchio nel corpo di un quarantenne, e quelle strazianti note di tromba su Funny Valentine. Gli venivano ancora i brividi, se ci pensava adesso, a trent’anni di distanza. Da San Francisco era in qualche modo finito a Los Angeles, seguendo diversi progetti e sposando le cause più disparate, assecondando le sue personali intuizioni, che di solito esplodevano in un vulcano di idee, non sempre realizzate e realizzabili. Sempre a corto di soldi e a caccia di fondi per i suoi più recenti progetti ambientalisti, Yuri si concedeva talvolta dei piccoli lussi: una pregiata bottiglia di vino della Napa Valley di fronte al caminetto alla sera, un cestino di dolcissimi frutti di bosco biologici, un sofisticato impianto stereo da cinquemila dollari. Dante e Francis si sdraiavano sul tappeto vicino a lui e battevano il tempo con la coda mentre ascoltavano Kind of Blue. Il vecchio possedeva una collezione completa di videocassette dei migliori film dagli anni cinquanta in poi, una collana sterminata di CD e vinili jazz ma non solo, un enciclopedica raccolta di libri di architettura, fotografia e arte europea e americana. Limitava i danni al portafoglio nutrendosi pressoché unicamente di cracker economici, senza sale per la pressione, e formaggio a buon mercato che veniva tagliato in fettine sottilissime quasi trasparenti. Sgranocchiava i suoi snack in cucina, in piedi, accompagnandoli a verdure economiche del kosher market, stracotte in padella in un mix indigeribile di curcuma, curry, masala e cardamomo, mentre danzava al ritmo di improvvisate danze africane. Kit di emergenza con viveri di scorta, medicinali e torce erano stati negli anni accuratamente preparati e nascosti in ogni stanza, in caso di terremoto, tornado o carestia improvvisa. Non era mai stato sposato, da giovane ava da una relazione all’altra con lo stesso impegno, ardore e dedizione per ogni donna che ava nel suo letto, per un giorno o per un anno, venerandole come dee discese
dal cielo, con la certezza che era destinato a restare da solo. Talvolta invitava gli amici a casa per bere uno o due bicchieri di vino, disquisire di dove stava andando a finire il mondo e rafforzare o agganciare contatti per la sua continua ricerca di fondi. Era presidente di una misteriosa organizzazione no profit che si occupava di brevetti, sostenibilità e riduzione dell’impatto dell’uomo sull’ambiente. Nessuno dei suoi amici sapeva, o aveva mai capito, di cosa si trattasse veramente. A settembre aveva in programma un tour in Europa per una serie di conferenze, con lo scopo di raccogliere capitali, incontrare nuovi investitori e accogliere nuove idee. Qualche giorno prima della partenza, Yuri organizzò una cena informale di saluto nel suo appartamento, un piccolo party di arrivederci, era quello che disse a tutti. Per l’occasione ò l’aspirapolvere in ogni stanza e comperò frutta organica e formaggi di importazione. Quella sera comparivano fra i partecipanti Laura, amica australiana di vecchia data casualmente in vacanza a L.A., sposata a un ricco collezionista d’arte; Sienna e Christina, due modelle di New York conosciute chissà dove e portate da chissà chi; Louis, giovane fotografo se che aveva fermato Yuri per strada chiedendo di potergli fare un ritratto; Nicola, ex coinquilino italiano del padrone di casa, che dopo due mesi era scappato infestato dalle pulci dei due gatti malefici, ma con il quale si erano mantenuti buoni rapporti, e che Yuri aveva rassicurato giurando di aver disinfestato casa e felini; Mikey, nuovo coinquilino di Yuri, quarantenne co-sceneggiatore di una serie TV comica di successo, recentemente buttato fuori di casa dalla moglie; Cynthia e Philip, una coppia di americani sulla sessantina, vecchi amici di sempre; Scott, un ingegnere esperto di crittografia quantistica in ambiente marino, originario del Michigan, con la sua compagna, Chelsea; altri amici, architetti e non, coetanei del padrone di casa, middle class americana, amanti dell’arte e dei vernissage con aperitivo compreso. Appena arrivati al party, a Chelsea parve di essere dentro alla festa iperaffollata di Colazione da Tiffany, con i gatti che salivano da tutte le parti e gente stipata dovunque, fra il salotto e la cucina. Lei non amava molto le occasioni mondane e preferiva are le sere a guardare vecchi film in dvd, con una tisana alle erbe depurative in mano, e la sua copertina di pile sulle ginocchia. Si era
immediatamente pentita di essersi fatta persuadere da Scott a uscire dalla sua tana. “Quei venti picosecondi di differenza non mi convincono per niente,” stava asserendo il marito con convinzione rivolgendosi a due uomini di mezza età che dovevano essere scienziati dalle specializzazioni impronunciabili quanto la sua, scoraggiando Chelsea dall’interromperlo. Mentre Billie Holiday intonava Summertime, Yuri porse cavallerescamente un bicchiere di vino bianco a Sienna e le chiese cosa ne pensasse della vita sulla West Coast. “Oh, non c’è male,” rispose la ragazza con voce altisonante e facendo ondeggiare le extension color magenta sulla nera chioma fluente. “Certo, la gente è super rilassata, troppo rilassata, informale, ma in senso cool, intendo. Ma come fai a lavorare, qui? Ma ti prendono sul serio? Però sono tutti così amichevoli!” sorrise mettendo in evidenza i denti bianchissimi sulla pelle color ebano. “E cosa vi ha portato qui, care?” le interrogò con fare materno Laura, senza far trasparire il guizzo di gelosia che dopo anni avvertiva ancora quando Yuri, suo amante in epoche lontane, intratteneva qualche bella ragazza. “Sai cara, c’è tipo questo regista italiano che ho conosciuto mesi fa su un volo Londra-New York che mi ha come proposto di girare un videoclip per Buff Nanny, e così sono volata qui con Christy,” rispose tutto in un fiato Sienna, dando per scontato che in quello strano circolo fossero tutti estimatori della musica hip hop con contaminazioni funky. “La vecchia New York ha già dato, mi spiace dirlo,” si intromise Cynthia, la sessantenne americana. “Ormai è qui il futuro dell’America, tutto succede qui, mostre, fashion, cinema, vero caro?” si rivolse sicura di ricevere conferma dal marito che sedeva vicino a lei con espressione imperturbabile e lo sguardo strabico. Ci risiamo, la solita diatriba fra West Coast ed East Coast, pensò Mikey, che quella sera più che affabile si sentiva disperatamente a corto di idee per il suo show. Da quando la moglie lo aveva lasciato ava dal letto al divano senza scrivere una riga, incapace di buttare giù un dialogo decente o uno sketch vagamente soso. Invano aveva sperato di trarre ispirazione da quella
insolita occasione sociale. “Già, noi siamo stati a New York l’inverno scorso: un freddo bestiale, metro affollatissima, prezzi alle stelle, e poi quegli esagitati di Occupy che ci hanno bloccato l’ingresso al MoMa per ore!” si ravvivò per qualche breve istante il marito per poi ripiombare altrettanto rapidamente nel suo torpore come un automa. “Voi parlate del futuro dell’America,” sentenziò con tono solenne Yuri, interrompendo lo sproloquio dei suoi amici. Facevano parte di quella categoria di persone che ci si ripropone ogni volta di non invitare mai più, ma ogni volta ce li si ritrova sprofondati comodamente sul divano di casa a divorare tartine e fare briciole dappertutto, e si a la serata cercando di arginare i loro discorsi inopportuni e le loro gaffe imbarazzanti. Erano gli essere umani più conservatori che conoscesse, però non poteva trascurare il fatto che fossero i suoi migliori finanziatori, curiosi di conoscere i suoi progetti nei minimi dettagli nell’ansia di interrompere la loro routine coniugale con le sue chiacchiere. Per non parlare dei brillanti spunti di conversazione che potevano così tirare fuori durante le serate al Country Club. “Ma non dovremmo forse preoccuparci del futuro del mondo?” continuò Yuri come se si trovasse al centro di un anfiteatro greco, sollevando il braccio destro davanti a sé e piegando il sinistro dietro la schiena, come se si preparasse al lancio del giavellotto. “Suvvia, non facciamo i soliti americani che guardano solo a se stessi, qui ci stiamo avvicinando sempre di più al collasso economico mondiale, altro che crisi del ventinove!” sentenziò ritornando plasticamente a una posizione neutrale. “Per adesso è l’Europa a doversi interrogare sul futuro, non credi?” chiese Laura appoggiandogli la mano inanellata sulla spalla, nel tentativo di smorzare i toni. “Cara mia, qui non parliamo solo di crisi dell’Europa, e nemmeno soltanto ormai di disastro economico negli Stati Uniti,” sospirò Yuri con una pausa a effetto. “Fra non molto, molto meno di quello che voi tutti potete immaginare,” e il suo sguardo indagatore li soppesò uno per uno per soffermarsi sul volto ingenuo e spaurito di Christina che si stava chiedendo proprio in quel momento chi l’avesse portata a casa di quel vecchio stregone. “A breve anche l’economia cinese andrà a puttane. Sì, proprio la Cina, la terra del Dragone, avete sentito bene,” concluse serio la filippica con gli occhi grigi infossati stretti a fessura e
l’aria truce. Se Nicola non fosse stato terrorizzato da un nuovo contagio, probabilmente sarebbe scoppiato a ridere, invece si aggirava guardingo per il salotto, evitando di sedersi sul divano e cercando di mantenere una distanza di sicurezza dai gatti, e si malediceva per non essere riuscito a declinare quell’invito. Per l’occasione aveva indossato il suo unico paio di jeans lunghi e una camicia abbottonata fino al collo, nonostante si ci trovasse ormai a metà agosto. “Che eleganza,” lo aveva accolto Yuri vedendolo entrare. “Puoi fare il Casanova stasera,” gli aveva sussurrato inarcando le sopracciglia folte e indicandogli le stangone che si versavano da bere e ridacchiavano in un angolo del salotto. Christina aveva tirato la sua amica per il braccio e l’aveva trascinata nel tinello “Quando ce ne andiamo da qui?” le aveva chiesto. “Quello lì mi fa paura!” continuò abbassando la voce. “Giri da sola in minigonna color oro e Manolo Blanik tacco 12 in centro a N.Y. tipo alle quattro di notte, e Yuri ti fa paura?” le rise in faccia Sienna cercando qualcosa di più forte da bere. “Secondo te il nonnetto ha, che ne so, tipo dello scotch o della tequila?” chiese con fare complice a Louis che era appoggiato sullo stipite della porta, intento a sfogliare un grosso manuale di fotografia di un certo valore storico. “Non saprei, io non bevo superalcolici,” le rispose con tono distratto il sino, continuando a sfogliare il libro. “Te l’avevo detto che il se era gay!” le comunicò lo sguardo eloquente di Christina. Sienna cominciò a pensare che forse aveva ragione la sua amica, la gente di quella festa era proprio strana. Ma le due newyorchesi avevano immaginato di incontrare qualcuno di interessante, magari chiedergli un aggio, qualcuno di carino e divertente con cui proseguire la serata, magari, mentre per andarsene subito di lì avrebbero dovuto prendere un taxi al volo, ed erano ormai a corto di soldi. Il fantomatico regista conosciuto sull’aereo non si era presentato all’aeroporto, e non aveva mai risposto al telefono né alle mail, in quei quattro giorni da quando erano arrivate. Avevano preso una stanza in affitto in un motel a Culver City e deciso di aspettare ancora una settimana che qualcuno si fe vivo. Ma stavano cominciando a perdere le speranze.
Venne loro in aiuto una bottiglia di vodka, già aperta ma quasi piena, pescata in fondo alla credenza, vicino a una confezione di croccantini per mici, pure quella aperta. “Uh, guarda qui, forse la serata non è del tutto fottuta,” cinguettò felice Sienna dando una lunga sorsata e invitando l’amica a imitarla. Tornarono in salotto dopo una decina di minuti, ciarliere e sorridenti, e presero posto una su un tavolino da caffè e l’altra sul bordo del divano, accavallando con fare seducente le gambe nere e lucide in direzione di Nicola, che stava raccontando a Laura di suo fratello appena partito per l‘Australia in cerca di avventura, e lavoro, forse. “Louis, non vuoi farci qualche foto in giardino?” Sienna cercò di nuovo di attirare l’attenzione del se che si era avvicinato uscendo dal suo isolamento snob. “Certo andiamo fuori, potrei fare qualche ritratto vicino a quella pianta di ibiscus,” li stupì il se assumendo un tono professionale. “Viene anche lei, Laura?”. “Uh allora vado a rifarmi il trucco!?” cinguettò Christina ravanando nella borsa alla ricerca dell’eye liner Collistar color cobalto e del mascara triplica volumeallungaciglia. Tutti e cinque si spostarono nel giardino retrostante alla casa, mentre l’ingegnere quantistico portava a casa Chelsea dopo averla trovata in bagno in lacrime in preda a uno dei suoi peggiori attacchi di panico, e Yuri e i suoi ospiti discutevano di come ridurre le emissioni di CO2 cucinando con la lavastoviglie. Louis si mise al collo la sua Hasselblad, adattò le impostazioni della macchina secondo la luce della sera e inquadrò brevemente i soggetti davanti a lui. Mentre le due modelle si atteggiavano in pose innaturali con i labbroni in fuori e le mani sui fianchi, il fotografo fece avvicinare Laura di una decina di i e iniziò a scattare. “Lei ha un viso incredibilmente espressivo, non le dispiace se scatto qualche foto da vicino?” le chiese un po’ timidamente cercando di mettere meglio a fuoco un piccolo neo sulla guancia sinistra, tra le rughe del viso.
Gli occhi smeraldo di Laura sorrisero lusingati, lasciandolo proseguire indisturbato. Si ricordava ancora di quando anche Yuri la ritraeva, parecchi anni prima, molto più giovane e molto, molto meno vestita. Le due ragazze restarono allibite per un attimo, pensando di esser finite dentro una Candid Camera, poi un po’ stizzite ripiegarono con nonchalance le loro attenzioni sul giovane italiano. Era carino, spettinato, un po’ silenzioso e rigidino, ma non dovevano per forza fare conversazione. E poi sapevano bene come farlo sciogliere. “Niccola, tu abiti qui vicino? Potremmo come farti compagnia stanotte… Non abbiamo voglia di tornare in quel motel! È così lontano, e così sporco…E ci sentiamo tipo tanto sole,” esordì Sienna prendendolo a braccetto e allontanandosi verso il cancelletto di legno verniciato di bianco. “Taaanto sole, Niccola...C’è posto per noi nel tuo letto?” chiese più esplicitamente Christina, su cui l’alcol aveva un effetto rapidamente disinibitorio. “E ti dirò un segreto: abbiamo sempre avuto un debole per gli italiani,” continuò infilando una mano nella tasca posteriore dei suoi jeans. Walter, il suo migliore amico, non ci avrebbe mai creduto. Due bellissime modelle, nere, conosciute a una improbabile festa, una festa di vecchi, diciamoci la verità, ci stavano provando con lui, gli stavano proponendo una cosa-a-tre. Un nuovo mondo era possibile. Era come andare a letto due volte con Naomi Campbell. No, anzi, ancora meglio, con due Naomi Campbell contemporaneamente. Andava al di là di qualsiasi sogno erotico adolescenziale avesse mai avuto. Sì, aveva sentito tante storie raccontate da certi sboroni che vanno in Erasmus ed tornando vantando avventure sessuali incredibili, ma aveva sempre creduto che fossero balle. E ora stava succedendo veramente. A lui. Lui che da quando Melania la sua ragazza in Italia lo aveva lasciato si era buttato a capofitto nel lavoro e l’unico contatto con l’altro sesso era quello con la sua coinquilina americana pazza e la sua assistente cinese che non parlava mai e gli lasciava residui di salsa di soia sulla tastiera del computer. E se non ce la faceva? E se faceva troppo presto? E se stava solo sognando? Le guardò per essere sicuro che fossero reali. Chissà se era una loro pratica abituale, sembravano così disinvolte e a loro agio. A osservarle meglio sembravano proprio ubriache. Certo che queste americane che vanno fuori di
testa con un paio di bicchieri di vino! Melania sì che reggeva l’alcol di brutto. Ma non era il caso di pensare a lei adesso. Aveva bisogno di qualcosa di forte, un drink per rilassarsi, aveva pure dormito poco negli ultimi giorni e si sentiva stranamente nervoso. “Magari prendiamo qualcosa da bere al negozio all’angolo, vi va?” propose cercando di mascherare l’agitazione. “Ti diamo noi qualcosa di strong,” rise Christina, tirando fuori dalla borsa la bottiglia di vodka piena a metà. “Stupendo,” tirò un sospiro di sollievo Nicola, che l’aveva sparata grossa e non aveva neanche un dollaro con sé. “Ve la siete portata da casa?” chiese tanto per chiacchierare mentre prendeva la strada di casa cercando di ripetersi ce-lafaccio-ce-la-faccio-ce-la-posso-fare come un mantra. Tutto-sotto-controllo. Inspira-espira. “No, siamo delle volpi, noi,” rispose Christina baciandolo sul collo. “Delle pantere, volete dire,” fece eco Nicola che cominciava a non connettere più. Fece il conto di che ora poteva essere in Italia, senza riuscirci. Pensò chissà cosa sta facendo Melania in questo momento. Pensò meno male che ho comprato i preservativi. Pensò devo smetterla di pensare. “…Il nonnino la nascondeva in fondo alla dispensa, mimetizzata dalle scatolette dei gatti,” proseguì il racconto Sienna. “Era aperta ma quasi piena, per fortuna, si vede che ogni tanto si fa un goccetto.” Nicola rabbrividì, piombando nella realtà: rivide tutto come in un incubo, le pulci che saltavano dappertutto intorno al suo letto, i giorni e le notti ate in laboratorio, il prurito su tutto il corpo, le lenzuola e i vestiti lavati ossessivamente e riposti in un sacco chiuso ermeticamente. Si sentì un nodo in gola e fatica a respirare. Doveva convincerle a buttare la bottiglia, ma con quale scusa? Erano troppo ubriache, e non poteva neanche raccontargli la storia delle pulci, sarebbero scappate inorridite. E se fossero state contagiate anche loro? Due ragazze bellissime che portavano nuovamente centinaia di insetti luridi e terrificanti fra le sue lenzuola, che si insinuavano fra i suoi capelli e si nascondevano fra i peli delle gambe. Non poteva farcela, non di nuovo. Si sentiva già formicolare dappertutto. Se ne sarebbe pentito per tutta la vita, Walter l’avrebbe preso in giro fino alla morte, ma non poteva farcela.
“Ragazze, mi spiace, improvvisamente non mi sento troppo bene, devo aver mangiato troppe tartine, forse è meglio che vi chiamo un taxi,” disse tutto di un fiato, liberandosi bruscamente dalla loro stretta. Pochi minuti dopo, Sienna e Christina si infilarono incredule nel taxi, e prenotarono immediatamente con il loro I-Phone il volo di ritorno per New York.
Da Starbucks
Da qualche giorno era irrequieto, lui di solito così calmo e imibile, tanto che la moglie l’aveva lasciato rinfacciandogli come uno dei peccati capitali proprio la sua imperturbabilità. Avvertiva una sensazione di inquietudine sin a partire dalle caviglie dove sentiva infatti proprio un fastidioso prurito e l’urgenza irrefrenabile di grattarsi fino a sanguinare e a procurarsi minuscole crosticine che continuava a staccarsi con le unghie troppo corte. Quella mattina Mikey decise quindi di cambiare postazione di lavoro, che tanto non stava combinando niente, e andare a scrivere i nuovi episodi dello show da Starbucks, invece che nel salotto di Yuri, sul divano, con i gatti che gli gironzolavano intorno. Abitava lì solo da un mese, da quando la moglie lo aveva buttato fuori di casa, e cominciava a godere della libertà dalla vita coniugale: poter mangiare junk food sul divano, stare davanti al PC fino a tardi, bere un bicchiere di vino quando gli pareva, chiacchierare dei massimi sistemi con Yuri e coccolarsi i vecchi mici senza nessuno che lo rimbrottasse perché si riempiva di pelo di gatto. Sua moglie si autoproclamava allergica agli animali, maniaca della pulizia domestica, fissata con l’arredamento liberty e ossessionata dalle sue peonie gialle e rosa. Gli era persino vietato tenere il barbecue la domenica mattina come ogni buon marito onesto e lavoratore si meriti, per l’odore di carne bruciata che lei dichiarava di non sopportare. Era pure diventata crudista, la sua cara moglie, da qualche anno. Non pescetariana, vegetariana o fruttariana. Purista vegana crudista per l’esattezza. Solo bacche e germogli di soia, rigorosamente biologici. Una vita d’inferno, insomma. Si stupiva di come avesse resistito tutto quel tempo. Forse perché quella villetta familiare a due piani color zabaione, con le statue a forma di cigni e paperette tra le aiuole, e il sofà che ormai aveva preso la sua forma, era stata per anni la sua base e il suo rifugio.
Quando doveva scrivere le sue storie per It’s always funny in San Diego, sitcom demenziale di discreto successo, riusciva a concentrarsi solo da casa, ma la situazione era cambiata nella nuova sistemazione, sin dalle prime settimane, ed era andata peggiorando in quegli ultimi giorni quando aveva sentito l’esigenza di uscire e dare via libera al suo io più creativo davanti a una tazza formato gigante di Caffè Dark Roasted con doppio zucchero e una spruzzata di vaniglia. Che poi tanto il frigo era vuoto, il vino terminato, Yuri appena partito per l’Europa, e i gatti più scorbutici del solito. Solitamente disdegnava quegli scrittori che si danno arie di intellettuali da premio Pulitzer battendo compulsivamente sulla tastiera del computer tutti concentrati dietro il loro Mac e i loro occhialini, o ancora peggio quelli sfigati pseudoartisti con il cappellino di lana anche con quaranta gradi, perennemente a corto di idee, che vanno nei caffè per “trarre spunto dalla vita vera”. Come se un brufoloso studente universitario di UCLA col suo frappuccino o una turista obesa che ingurgita un cookie burroso da cinquecento calorie potessero rimediare all’assenza di ispirazione e di talento. Lui aveva bisogno del suo habitat naturale per scrivere, togliersi le scarpe, finire una vaschetta di gelato al burro di arachidi o grattarsi liberamente nelle parti intime, e perché no, di fare aria da dove era naturale che uscisse. Quando l’aveva sposata Beth ridacchiava delle sue flatulenze e gli dava un buffetto di affettuoso rimprovero, dopo dieci anni lo guardava con silenziosa disapprovazione ruotando i suoi occhi tondi e acquosi verso l’alto, dopo venti anni urlava che aveva sposato un porco incivile e si vergognava di invitare le amiche a casa quando doveva condividerla con un maiale del genere, sempre tra i piedi. Come se lei di notte non russasse come un contrabbasso. Non gli piaceva litigare, odiava le discussioni e non sempre aveva la forza o la voglia di ricordarle che quella casa dove si lamentava di non poter accogliere quelle quattro pettegole fanatiche del botox se la potevano permettere grazie al suo brillante lavoro di commediografo e sceneggiatore di Hollywood. Ma Beth disprezzava anche quello, diceva che la sua roba non era mica letteratura, era pieno di nefandezze e volgarità e attricette da quattro soldi, al limite con la pornografia. Certo non era poi stata contenta quando aveva trovato sotto il sedile posteriore della macchina un reggiseno fucsia modello push up di Victoria Secret, chiaramente non destinato alla sua seconda cascante e rinsecchita. Ma lui, povero Mikey, cosa doveva fare se le ragazzine gli si buttavano addosso per ottenere più battute nel serial TV? Si trovava chiaramente in una posizione difficile, insostenibile, sempre indaffarato ad accontentare tutti, produttori, attori,
fans, sua moglie. Era logico che, sottoposto a tutto questo stress fisico ed emotivo, ci perdesse in concentrazione. Solo una volta giunto al caffè realizzò con disappunto che non poteva neanche collegarsi ai siti per adulti per rilassarsi prima di mettersi all’opera. Ma ormai era lì e doveva lavorare. Ordinò il suo caffè e prese posto accanto a un giapponese di media statura, magro, sulla quarantina, in giacca scura e cravatta di seta, elegante. Doveva essere uno di quelli ricchi con la Porsche, completo Armani, profumo da trecento dollari, borsa da lavoro Louis Vuitton, Mac ultimo modello. Il giapponese accennò a un saluto serio e composto chinando impercettibilmente il capo, la schiena dritta leggermente inclinata in avanti e i gomiti a quarantacinque gradi, e continuò a lavorare su quello che a Mikey sembrò un programma di grafica molto complicato. Vista la carestia di nuove trovate, decise che per una volta poteva farlo, ispirarsi alla real life per buttare giù un episodio. O una serie di episodi. Mica era una vergogna. Magari episodi ispirati a un nuovo personaggio, un uomo d’affari da milioni di dollari, di origine asiatica, con una vita apparentemente piatta e irreprensibile, che in privato scriveva e disegnava porno-manga. Che folgorazione! Il suo nuovo personaggio creava porno-manga su una studentessa emo-dark che di notte si trasformava in una super hot lap dancer negli strip club di Las Vegas. Mikey si grattò ancora una volta le caviglie, meccanicamente, solleticato dal flusso creativo che finalmente veniva a galla. Aprì il programma di scrittura e riempì quasi cinque pagine di dialoghi fra il giapponese business man-vignettista che andava negli strip club per mostrare il suo fumetto alla porno star di cui era segretamente invaghito (e questa poteva farla interpretare a Jenna, gliene sarebbe stata grata, pensò con giubilo) e lì incontrava i protagonisti dello show che festeggiavano l’addio al celibato di uno di loro e lo coinvolgevano in uno spettacolo a luci rosse. Sempre più eccitato dalla sua fantasia incontenibile, Mikey quasi non faceva più caso al prurito che ormai aveva raggiunto le ginocchia e risaliva verso le cosce. Con una mano scriveva e con l’altra si massaggiava vigorosamente le gambe, sudato e con gli occhi sporgenti. Quando era particolarmente soddisfatto di un aggio, annuiva ripetutamente con il capo e si dondolava sulla sedia come un bambino sul seggiolone. Oppure improvvisava una mini-ola e gongolava felice.
Nel momento in cui il signor Lee - lo aveva chiamato così - infrangeva il suo sogno d’amore mentre veniva beccato dalla sua amata Sarah-Jenna in una stanza con due gemelle svedesi mezze nude che gli saltavano addosso, avvertì un pizzicore improvviso sul collo. Continuò imperterrito a scrivere, tenendo la testa piegata in modo innaturale da un lato per non doversi fermare. Poi un dolore urente sulla nuca e dietro l’orecchio destro. Ruotò in avanti le spalle, assunse una posizione ancora più storta e proseguì con gli occhi fissi sullo schermo, irrigidendo appena i polsi sulla tastiera. Improvvisamente un brivido lungo la schiena. Istantaneamente gli vennero in mente quei minuscoli esserini neri che aveva visto per casa, dappertutto, in bagno, in cucina, nella sua stanza. Non erano moscerini, adesso lo sapeva. Si vide i gatti che saltavano dal pavimento al lavandino, dal divano al tavolo del salotto, dal tavolo alle sue cosce, i loro occhi cisposi, il loro pelo lungo e rovinato. Le loro pulci. Si girò in direzione del suo vicino, imperturbabile e concentrato nel suo lavoro, e gli disse: “Signor Lee, la ringrazio, lei non sa quanto è stato importante oggi il nostro incontro. Adesso devo scappare, ma le consiglio di continuare il suo lavoro, qualunque esso sia, da un’altra parte”.
American Bonsai
Quando non puoi cambiare le cose, le accetti.
Youngho vide l’uomo grasso e sudato seduto vicino a lui precipitarsi fuori dal caffè, attraversare la strada con il rosso rischiando di essere investito dal Big Blue Bus e venire inghiottito dalle porte scorrevoli della farmacia di fronte. Prima di scappare, aveva farfugliato qualcosa ringraziandolo confusamente, con lo sguardo attonito e il collo chiazzato di rosso, si era infilato il computer sotto il braccio dimenticandosi il caricabatterie ancora attaccato alla presa e se ne era andato tutto agitato e sconvolto. Questi occidentali che si scompongono per nulla, pensò. Papà lo diceva sempre: quando non puoi cambiare le cose, le accetti. A Candice, la sua fidanzata, nata e cresciuta in Arizona da genitori di origini polacche, piaceva invece ripetere sempre che loro asiatici agivano con una strategia low-profile: senza scomporsi, senza farsi notare, quatti quatti mettevano a punto una strategia silenziosa e vincente e raggiungevano il loro obiettivo. Come a Pearl Harbour, pensava lui. Suo padre Jangwon era nato durante la seconda guerra mondiale all’interno di uno di quei poco noti campi di “ricollocamento”, istituiti da Roosevelt per i giapponesi residenti negli Stati Uniti pochi mesi dopo Pearl Harbor . Quello che Youngho non trovò mai sui libri di scuola ma lesse su internet anni dopo era che i suoi antenati furono suddivisi in classi con sigle enigmatiche a seconda del grado di potenziale nocività nei confronti dello zio Sam, in base a età e tempo di permanenza negli Stati Uniti.
I suoi genitori venivano considerati Kibei, scoprì tempo dopo, giapponesi trasferiti a Los Angeles subito dopo il matrimonio, con educazione e usanze fedeli al proprio Paese di origine. I più pericolosi di tutti. Sua nonna aveva diciannove anni e il fisico esile appesantito da sei mesi di gravidanza quando era stata ricollocata nel campo di Manzanar, costruito ai piedi della Sierra Nevada, a poco più di duecento miglia da Los Angeles. Con il marito avevano dovuto liquidare l’attività, un negozio di tè, spezie e infusi, in fretta e senza ricevere spiegazioni, ed erano partiti insieme ad altre centinaia di persone, senza protestare. Quando non puoi cambiare le cose, le accetti. Sballottati per ore da treni affollati a camion luridi e stipati all’inverosimile e infine a jeep barcollanti, con gli occhi pieni di polvere, avevano attraversato tutto il deserto del Mojave. Era stato intimato loro di portare solo una valigia a testa e, tra tutti gli oggetti indispensabili, suppellettili di famiglia e cibo di scorta, sua nonna aveva scelto il suo kimono di nozze, nonostante occue per intero il suo bagaglio. Era un kimono verde pallido, pesante, ricamato a mano con i simboli tradizionali orientali in rilievo color oro, talmente prezioso che adesso era esposto al LACMA nel padiglione di arte giapponese. Cosa pensasse di farsene la nonna nel deserto lui non lo aveva mai capito. Suo padre Jangwon non serbava molti ricordi della sua prima infanzia nel campo, a parte la sua mamma che gli indicava le torrette di guardia attraverso il filo spinato raccomandandogli di starne lontano e il freddo gelido dell’inverno dei suoi tre anni, seguito da un’estate torrida e asfissiante, durante la quale era nato suo fratello, solo poche settimane prima che la famiglia venisse rilasciata. A differenza di molti nipponici che avevano vissuto la battaglia di Pearl Harbour con un senso di colpa nei confronti del Paese che li aveva accolti, un atto di codardia tale da far sparire le foto dell’imperatore da tutte le case, a Jangwon, nato in prigionia in mezzo al deserto, era sempre rimasta dentro una sensazione di rivalsa e di ingiustizia. Come molti della sua generazione, Jangwon aveva continuato la tradizione familiare di giardiniere, imparando l’arte da uno zio, ma superandolo presto in maestria e perfezionismo. Aveva iniziato come umile giardiniere nelle villette a schiera nell’America
benestante e bigotta degli cinquanta, accompagnando ancora ragazzino gli adulti a tosare le aiuole e sgombrare i viali dalle foglie. Nato in una landa desolata circondata dal filo spinato, aveva imparato presto ad amare il lavoro in mezzo al verde della natura, la perfezione di un cespuglio di rose gialle amber queen, l’armonia di un arbusto di peonie color magenta, il profumo e la sensualità dell’orchidea solitaria. Ma il suo vero amore erano i bonsai. A quindici anni aveva piantato il suo primo bonsai nel giardino di casa. Tutti i suoi coetanei volevano un cane, una bicicletta o un’automobile. Suo padre aveva chiesto un bonsai, e se lo curava e cresceva come un figlio. Tastava attentamente l’umidità del terreno prima di innaffiarlo, educava i rami nella direzione voluta intrecciando sapientemente fili di rame, pinzava delicatamente le foglioline dei nuovi germogli fra le dita. Si dedicava minuziosamente alla potatura primaverile come un parrucchiere con la sposa il giorno del matrimonio. Presto aveva iniziato a curare i giardini delle ville su per le colline, allestendo magie di cespugli di ibiscus e curando fiori, piante e alberi di ogni tipo. Gli americani, con il loro gusto per il kitsch e i nani da giardino, non apprezzarono subito l’opera sapiente ed elegante dei giardini giapponesi, ma alla fine degli anni sessanta, tra il boom del cinema e il nuovo trend delle filosofie orientali, molti divi di Hollywood e artisti neo-arricchiti appena arrivati in città sembrarono non poter più fare a meno di raffinati bonsai dai rami voluttuosamente inclinati, lambiti da piccoli fiumiciattoli scroscianti, che facevano bella mostra accanto a statue dal gusto discutibile e improbabili fontane art decò. Chiudendo un occhio, a volte due, e giungendo a parecchi compromessi, suo padre era diventato un giardiniere molto ricercato, collaborando in giovane età all’allestimento di una parte del Getty Villa a Malibu e prestando il suo contributo per il Japanese Garden di Portland. A ventitré anni aveva sposato una donna giapponese e a ventiquattro anni era nato lui, Youngho, il suo unico figlio. Per quanto amasse il suo lavoro e non avesse rimpianti, come tutti i padri prospettava per suo figlio un futuro migliore, più ricco, più libero, con meno sacrifici e meno umiliazioni. Per tutta la vita si
era svegliato all’alba e aveva lavorato duramente nei giardini compiacendo e assecondando le richieste più assurde, andando contro le sue personali convinzioni artistiche, in quanto lui si riteneva giustamente un artista, tutto per mantenere la famiglia e assicurarsi la felicità di suo figlio. Per lui desiderava un impiego che gli permettesse di fare un salto di qualità, che dimostrasse al mondo quanto valesse la sua popolazione, da umile giardiniere a prestigioso architetto. E proprio con i soldi del risarcimento di Manzanar, aveva mandato Youngho a studiare Architettura a New York. Quando era bambino, il padre gli raccontava che il mondo stava cambiando, che una volta le discriminazioni razziali nei loro confronti non l’avrebbero permesso, che di questi tempi proprio a un giapponese proprio come loro, Minoru Yamasaki, era stato commissionato il design del World Trade Center. Affascinato dalla storia di Yamasaki, e suggestionato dai racconti del padre, Youngho aveva accettato di buon grado di seguire le sue direttive, completando gli studi in Europa con un master di alto livello per poi tornarsene a Los Angeles. I suoi genitori stavano invecchiando e voleva stare loro vicino. Aveva trovato presto impiego in uno studio di giovani architetti. Suo padre era orgoglioso oltre ogni limite, oltre quanto riuscisse a dimostrarlo. Lui faceva quello che doveva, quello che doveva a suo padre, quello che doveva a sua madre, lasciava le briciole per la sua vita privata, non manifestava slanci di esaltazione né sprizzava gioia. Faceva quello che ci si aspettava da lui, punto. Da quando c’era stato l’attacco alle Torri gemelle, Jangwon era diventato improvvisamente più gentile nei confronti di iraniani, libanesi e arabi in generale. Diceva che c’era il rischio che succedesse come tanti anni prima, che una popolazione ormai americanizzata venisse emarginata solo per il popolo di appartenenza. Si soffermava a parlare lungamente con loro al mercato, commentava le ultime notizie sui politici locali e non mancava mai di dispensare qualche consiglio su piante e fiori. E ovviamente raccontava con orgoglio del lavoro di Youngho. Ma Jangwon non si era goduto per molto il successo del suo unico figlio. Quel giorno Youngho era appena tornato da funerale di suo padre, divorato in pochi mesi da un cancro all’esofago. È comune fra la popolazione asiatica, aveva detto il medico, e non c’è molto da fare. Ma suo padre questo lo aveva capito subito. Aveva voluto per lui una cerimonia semplice, discreta, e aveva fatto piantare sulla sua tomba un prezioso esemplare di bonsai Ganoderma lucidum.
Dopo il funerale, aveva accompagnato sua madre a casa. Per lei era stato un sollievo, la fine di quella sofferenza era tutto quello che aveva desiderato nell’ultimo mese. Era diventata più piccola, curva e legnosa, pensava Youngho mentre la guardava seduta al suo fianco, sul sedile di pelle morbida della sua Toyota. La strada dov’era nato era ormai invasa da ristoranti di sushi e noodle bar di infima qualità, negozi di estetica a basso costo e megastore dalle insegne giganti, un pugno nell’occhio. Dopo aver lasciato la madre davanti la porta di casa, gli era venuta la curiosità di vedere cosa ne era stato di quel vivaio dove lo portava suo padre quando era bambino, la domenica mattina. Faceva parte dei suoi migliori ricordi d’infanzia, prima che tutto diventasse un obbligo nei confronti del mondo: mentre suo padre sceglieva semi e caricava sacchi pesanti, troppo pesanti di terricci, lui giocava a nascondersi in mezzo ai vasi e si divertiva a torturare gli insetti e le lucertole che si nascondevano tra le foglie. Poi sceglievano una pianta nuova da regalare alla madre e tornavano a casa. Era il loro giorno di festa. Al posto del vivaio quel giorno Youngho aveva trovato con disappunto, ma senza stupirsi troppo, il caffè di una nota catena americana e aveva deciso di fermarsi un’ora o due per dedicarsi al lavoro arretrato. Portava avanti i progetti del suo studio privato con diligenza e precisione, senza slanci di ione, un po’ come nella sua relazione con Candice. In quel momento era dedito a ristrutturare un palazzo di Venice, appartenente a un candidato alle prossime comunali. Aveva pensato di creare una nuova struttura su quella preesistente utilizzando materiali poveri e di recupero. Un’idea molto fashion e politically correct, che avrebbe fruttato una bella manciata di voti al politico e stima, fama e ancora più soldi a lui. A volte si trovava a pensare che avrebbe preferito essere un semplice giardiniere, come suo padre. Meno pressioni, meno stress, una vita semplice, sempre in contatto con la natura, meno business e complicazioni. Ma era andata così, non aveva rimpianti, viveva la vita agiata che suo padre aveva sempre sognato per lui, anche se questo non lo aveva potuto salvare dalla sua malattia. Il dottore era stato chiaro da subito. Tre, massimo quattro mesi. Due si erano poi rivelati sufficienti. Quando uscì dal caffè lo investì un’ondata di aria afosa. Non aveva mangiato niente dalla mattina ma non aveva appetito. Prese le chiavi, tolse l’antifurto alla sua decappottabile due posti e guidò filato fino a casa, seguendo morbidamente le curve di Sunset Boulevard, accelerando appena un po’ più del solito.
Aprì il cancello della sua villa a Bel Air, percorse il viale alberato e parcheggiò sotto la tettoia in policarbonato. Consumò rapidamente una zuppa di miso liofilizzata e poi chiamò Candice per salutarla e dirle che andava a letto presto, era stata una giornata faticosa. Non l’aveva voluta al funerale, non l’aveva mai introdotta in famiglia e ci teneva a non deludere le aspettative della madre, che sperava ancora in un matrimonio tradizionale con una bella nipponica. Lei gli augurò buonanotte con tono partecipe e al contempo rassegnato. Youngho pensò cinicamente che tutto sommato le pie autocommiserarsi e farsi compatire dalle sue amiche, recitando davanti al suo Appletini del venerdì sera la parte della povera donna incompresa che vive una relazione difficile e tormentata con un uomo freddo e solitario, al quale un giorno avrebbe sciolto il cuore con il calore del suo affetto. Lui sapeva che non sarebbe cambiato. Quella notte ebbe un incubo: sognò il corpo in decomposizione di suo padre, dentro la bara in ciliegio, a due metri sotto terra, lo vide risucchiato come nutrimento dalle radici del bonsai, assistette allo spettacolo mostruoso delle cellule malate del suo povero corpo raggrinzito, che facevano deformare mostruosamente il piccolo arbusto, contagiando rapidamente tutte le piante e tutti gli alberi del cimitero, che con i loro rami si torcevano in preda a tremendi spasmi di dolore, facendosi sempre più spogli e più sottili. Proprio come suo padre. Improvvisamente arrivava un esercito di carri armati giganti pronti ad abbattere gli arbusti in agonia, producendo un rumore spaventoso, zuzzzuzzzu. Fu svegliato di soprassalto da Eusebio, il giardiniere messicano, che stava tosando il prato proprio in quel momento. Gli aveva detto mille volte di non mettersi sotto la sua finestra a quell’ora del mattino, di cominciare da un’altra parte, che scegliesse lui quale dei quarantamila piedi quadrati della sua tenuta. Ma Eusebio lavorava, tosava e rastrellava in tante ville diverse, non poteva ricordarsi tutte le abitudini, gli orari e le fisime dei suoi datori di lavoro. Per di più quella mattina aveva la testa da un’altra parte, era preoccupato per suo figlio Mauricio, che non era tornato a dormire a casa dopo l’ennesima notte brava chissà dove e con chi. Youngho si affacciò dalla finestra per licenziarlo una volta per tutte, e lo vide tutto sudato sotto il vecchio cappello di paglia, mezzo sordo per colpa del frastuono del tagliaerba. Rivide suo padre, il suo lavoro, i sacrifici di una vita. Quando non puoi cambiare le cose, le accetti. Scrollò le spalle, richiuse la
finestra e si mise i tappi per le orecchie.
Alla fermata del Big Blue Bus
Eusebio era salito sul bus affollato alla fine della solita, interminabile giornata di lavoro, era riuscito a scovare un posto a sedere in fondo, aveva appoggiato la grossa testa sul finestrino ed era piombato in un sonno pesante, senza sogni. Da dodici anni si alzava alle cinque del mattino e prendeva il bus notturno delle cinque e quarantacinque che da South L.A. lo portava su per le colline, nei quartieri altolocati. Scendeva dall’autobus alle sei e mezza e iniziava a potare e rastrellare nelle ville di Bel Air. Dove lavorava lui non abitava nessuna superstar hollywoodiana cui chiedere l’autografo o scattare delle foto da rivendere ai giornali, nessun paparazzo appostato sugli alberi. Si trattava più che altro di abitazioni di professionisti in carriera, dentisti dal sorriso accecante, avvocati di grido, chirurghi plastici perennemente troppo abbronzati, architetti freddi e distinti. Era tutta gente riservata, tranquilla, non eccentrica come ci si potrebbe aspettare: vivevano per lo più con le famiglie nelle loro quiete e ordinate abitazioni sproporzionatamente grandi con giardino e piscina, circondati dal muro di protezione e da un grosso e robusto cancello di ferro. Antifurto collaudato all’esterno li riparava dalle aggressioni esterne, e un arsenale di difesa all’interno rendeva le loro esistenze ancora più sicure e intoccabili. Era sempre puntuale e non aveva mai mancato un giorno per malattia, stava a casa in ferie solo per il Ringraziamento e il Labor Day, si dava sempre da fare per ottenere nuove opportunità di lavoro per arrotondare. Nonostante questo un paio di volte aveva rischiato di essere licenziato per colpa di quello scapestrato di suo figlio Mauricio: per tenerlo lontano dalla strada, un giorno se l’era portato con sé nella villa dello chef di Lucques, lussuoso ristorante se su Melrose. Mauricio l’aveva aiutato tutto il giorno, tranquillo e senza lamentarsi, si era anche offerto di portare dentro il magazzino gli attrezzi più pesanti, poi era scomparso per una buona mezz’ora. Quando era riapparso, zaino sulle spalle, gli aveva spiegato che era solo curioso di vedere la casa dall’interno, che tanto non
c’era nessuno e non aveva sporcato niente. Erano andati al lavoro insieme per tutta la settimana, con crescente stupore e soddisfazione di Eusebio, fino a quando la domenica successiva sua moglie non aveva trovato sotto il letto del figlio una valigetta rettangolare, nera e pesante, massiccia. Tremando al pensiero che potessero essere armi, perché lo sapevano che Mauricio bazzicava le gang di latinos del quartiere, era stata una sorpresa per loro trovare decine di coltelli da cucina di finissima ceramica, per un valore totale di migliaia di dollari. Per un caso fortunato la famiglia dello chef era in vacanza in Costa Azzurra ed Eusebio poté riportare la refurtiva intatta il giorno successivo. Per parte sua Mauricio si giustificò dicendo che i suoi amici lo avevano invitato con modi poco rassicuranti a prendere roba di valore che si potesse rivendere, e lui aveva pensato che con tutti quegli arnesi da cucina non se ne sarebbe mai accorto nessuno che mancava qualcosa, quante storie poi per qualche coltellino da cucina. Ancora peggio andò a casa del maestro yoga indiano, guru di livello internazionale, dopo che i famosi poco raccomandabili amici avevano ottenuto per vie traverse una copia delle chiavi del cancelletto sul retro: Mauricio e la sua cricca avevano avuto la brillante pensata di rapire il cane, un terrier tibetano tonto come pochi, e lo tenevano sequestrato in garage, dove piangeva e mugolava tutto il tempo. Pensavano di chiedere un riscatto di milioni di dollari. Sua moglie Juanita si era pure affezionata e gli portava tacos mattina e sera. Eusebio riportò il cane a destinazione dopo una decina di giorni, raccontando di averlo trovato in un parco nelle vicinanze; sudando freddo aveva decisamente rifiutato la ricompensa del suo padrone che piangeva per la gioia e non sapeva chi abbracciare prima, Eusebio o il caro Toby. Dopo quella volta, sempre più affranto, aveva intimato a suo figlio di stare lontano da lui e dai quartieri alti e di trovarsi un’altra occupazione, che quantomeno non mettesse la sua famiglia a rischio di galera o licenziamento. E pensare che quando aveva la sua età lui già lavorava e aveva due figli, pensò esausto, sdraiandosi su un’aiuola dopo aver terminato con l’ultimo tagliaerba della mattina. All’ora di pranzo si sedeva sempre ai piedi della sua palma preferita, una di quelle alte alte e secche secche, come modelle anoressiche all’ultimo stadio lievemente scoliotiche, e apriva il contenitore di plastica nel quale sua moglie riponeva il pranzo. Insalata di mais e fagioli, insalata di pomodoro e avocado, insalata di pollo e rucola, che sorpresa mi aspetta oggi? Si chiedeva rassegnato: da quando il dottore gli aveva detto chiaramente che aveva il fegato troppo
grasso e rischiava di affaticare il cuore, sua moglie aveva deciso di metterlo a dieta. Andava avanti così da quattro mesi, senza calare di mezzo pound. Si sentiva male tutte le volte che si trovava davanti quel piatto triste e insapore, gli veniva il groppo in gola. Per fortuna si portava sempre dietro qualche bottiglietta di salsina piccante e ipercalorica con cui innaffiare il suo momento di relax. Solo sapere di averla nel taschino della giacca gli dava conforto. Poi socchiudeva gli occhi per dieci minuti e osservava le macchine che avano, immaginando di potersi permettere un giorno, magari alla pensione, una BMW decappottabile per portare sua moglie al centro commerciale di Pasadena o una Maserati SUV per accompagnare i nipotini a scuola o a Disneyland. Sognare non costava niente. A volte sognava soltanto un piatto di tortillas innaffiato con un doppio Margarita. Nel pomeriggio Eusebio ava al Golf Club di van Nuys, su e giù di nuovo sotto il sole, sulle collinette sempreverdi a tosare e perfezionare prati ed percorsi, sistemare le bandierine e controllare lo stato dei laghetti limpidi e trasparenti. Nonostante la fatica, il sonno irrecuperabilmente perso e l’età che avanzava gli dessero un’aria scorbutica, Eusebio possedeva anche un certo senso dell’umorismo: lo facevano morir dal ridere quei bamboccioni con polo pastello e pantaloni di cotone color kaki, scarpe sportive e gilè in pendant, che si slogavano le spalle a forza di brandire palette da migliaia di dollari. A che scopo poi? Per accanirsi su una minuscola e innocente pallina e farla viaggiare fin dentro a un insulso buco per terra. Embè? Ma poi che sport era? Lui non lo capiva. Mica avevano mai istituito le Olimpiadi del Golf. La corsa, il nuoto, il lancio del giavellotto! Non era mai stato un grande sportivo, ma certi sport sì che gli piaceva guardarli in TV ogni quattro anni. Faceva il tifo per gli americani, ovvio, i messicani non avevano mai eccelso nelle discipline sportive. La cucina, quella sì. Non c’era paragone fra la cucina tradizionale messicana e certi pastrocchi americani. Era arrivato sul suolo statunitense venticinque anni prima, tutti i suoi figli erano nati lì, anche se le sue figlie avevano sposato dei messicani a loro volta e in casa parlavano spagnolo. Era orgoglioso delle sue origini certo, un giorno voleva tornare a morire nel suo paese, lo diceva sempre a sua moglie: voglio essere seppellito nel cimitero di El Espinal, accanto a mio padre e a mio nonno, pace all’anima loro. Juanita si incazzava, che queste cose non le doveva manco pensare, e poi ormai la loro casa era lì, e comunque costava troppo trasportarlo dall’altra parte, oltre il confine. Ma se sono riuscito a are da vivo in condizioni disumane da lì a qui, cosa ci sarà di così complicato nel fare il viaggio inverso in una cassa da morto?
Rispondeva lui. E cominciavano a litigare. Alle sette meno un quarto Eusebio finiva il suo lavoro al Golf Club e raggiungeva Marcelo, il suo collega cileno, si scolavano rapidamente una bottiglia di birra mai abbastanza fresca al chiosco appena fuori dal club, poi Marcelo gli dava un aggio fino alla fermata dell’autobus, dove puntualmente scambiava quattro chiacchiere con Hal, il senzatetto che aveva stabilito la sua residenza all’incrocio della strada, davanti all’inferriata di un parchetto. Quello era un altro dei suoi appuntamenti fissi: Hal girovagava tutto il giorno per la città trascinandosi dietro un cumulo di roba che solo il Signore sapeva come fe, non tanto per il peso ma soprattutto per l’odore nauseabondo. Che poi si confondeva col suo personale, di odore, quindi per lui risultava più che sopportabile. Alle sette meno cinque, puntuale come un orologio svizzero, Hal si sedeva ad aspettare il suo amico Tex Mex, come lo chiamava lui, spesso l’unica conversazione di tutta la giornata. Sicuramente l’unica conversazione civile. Durante il giorno alla sua vista tutti si scansavano, schifati od impauriti, aspettandosi sempre che desse fuori di matto, urlando Motherfucker sull’autobus, intonando una canzonetta sconcia o molestando i anti. Tutti tranne Eusebio, lui era l’unico che lo trattava come un essere pensante e non come un ammasso di merda. Ma più che impietosito Eusebio era mosso da una naturale curiosità, cercava di capire come un uomo bianco nato negli Stati Uniti d’America, con tutte le possibilità a sua disposizione, diritti e agevolazioni, documenti in regola e quant’altro, uno che non era dovuto scappare dalla violenza e dalla povertà, uno che forse aveva avuto una casa e una famiglia, potesse ridursi in quel modo. E come Hal osservava gli altri, per la maggior parte afroamericani, migliaia in tutta la città e in tutto il Paese. Li osservava di soppiatto, gli homeless, provava a immaginarsi le loro storie, la loro vita, cercava di non pensare che se Mauricio non metteva la testa a posto poteva finire come loro, se non peggio. Eusebio si avvicinava all’inferriata del parco, di fronte alla fermata e chiedeva forte ad Hal: “How was your day”, lasciandogli qualche penny o gli scarti dell’insalata avanzata dal pranzo. Hal gli offriva un goccetto borbottando qualcosa sul tempo o i trasporti pubblici, e gli porgeva immancabilmente il Los Angeles Times o il New York Times. A volte tutti e due, se era stata una giornata proficua. Eusebio rifiutava uno e accettava gli altri. Quando arrivava il bus, che di solito si faceva attendere una ventina di minuti, si
salutavano con un cenno della testa. Eusebio saliva su, cercava posto a sedere e spiegava il giornale sforzandosi di concentrarsi nella lettura, anche se quasi sempre si addormentava all’istante, e si svegliava giusto in tempo per scendere alla sua fermata. Arrivava a casa alle nove di sera, ad accoglierlo il puzzo di chili e fritto e stantio. Cenava con sua moglie, che era gentile con lui i primi cinque minuti, e la sera gli concedeva un più lauto pasto, condiviso con le sue due figlie, i generi e i nipotini. Quella sera si era deciso a farsi vedere anche Mauricio, figlio minore e causa primaria della sua perenne gastrite. “Diego parte per il Belize per lavorare nei campi di canna da zucchero,” esordì Mauricio senza guardarlo negli occhi con tono finto-noncurante come se ogni sera li aggiornasse sulle principali occupazioni dei suoi amici. “ami le patate. Pensavo che Diego se ne andasse in Belize per evitare di doversi sposare con la figlia di Javier che ha messo incinta,” rispose secca Patricia, la sorella maggiore. “E perché non la vuole sposare?” si intromise Lucia, la nipote di nove anni, abbandonando il suo cucchiaio sul piatto colmo di riso. “Ma che ne sai tu, quella va con tutti dopo un sorso di tequila, come fai a dire di chi è?” alzò la voce Mauricio andole l’insalata al posto delle patate. “Suo cugino dice che vai un anno lì, lavori, ti fai il culo, ti fai i soldi, e poi torni come un pascià.” “Cula, papà,” ripeté Maria José sul suo seggiolone, spargendo la pappa dappertutto sul bavaglino e sul pavimento. “Per favore, almeno davanti alle bambine! Mangia il riso, tu,” li redarguì Juanita, pulendo quel disastro e lanciando uno sguardo preoccupato a suo marito. “E quando parte il tuo amico?” chiese Eusebio, con tono serio e pacato, cospargendo la sua tortilla di salsa acida e guacamole. Mauricio lo guardò come se avesse aspettato solo quella domanda dall’inizio della conversazione. “La settimana prossima. Mi ha chiesto se ci vado pure io.”
“E perché ci devi andare pure tu? Perché devi partire? Qua un lavoretto te lo puoi trovare, vero Eusebio? Magari puoi chiedere al campo da golf, hanno sempre bisogno di un paio di braccia robuste…” Cercò di intromettersi Juanita con voce che si faceva sempre più acuta. “No, ma’, tanto ormai ho deciso, vado con lui, stasera gli do la conferma,” Mauricio interruppe il flusso ansiogeno di sua madre con voce esasperata. “Tu che dici, Jorge?” chiese al cognato che stava sempre dalla sua parte da quando si era reso disponibile a coprire le sue scappatelle. “Juanita, stai calma, fa bene, è giovane, se non si fa l’esperienza adesso, quando la deve fare? Quando ha moglie e figli a carico?” continuò incurante dell’occhiataccia di sua moglie Claudia. “Poi ormai di questi tempi i giovani prendono e partono, da soli, conoscono gente, funziona così. Vedrai che è una buona opportunità,” concluse Jorge più per tranquillizzare la suocera che per reale convinzione. “Mah, non lo so, io non ho mai sentito parlare di questi miracolosi campi in Belize, ma non c’è un posto più vicino? Qualche vigneto vicino Santa Barbara? Napa?” aggiunse Antonio, l’altro cognato, che poco si fidava delle novità di Mauricio e dei suoi amici. “Sentite, ormai è deciso. Stasera mi vedo con Diego, ci facciamo una pedalata giù a Downtown, e ci organizziamo per partire,” tagliò corto Mauricio, afferrando la bottiglia di birra. “Tieni, pà, brindiamo alla partenza, sei contento che mi trovo un lavoro serio, no?” “Basta che stai attento,” Eusebio lo guardò negli occhi, si alzò portandosi dietro la bottiglia e se ne andò in salotto. “Allora sabato facciamo una cena tutti assieme, pure con i vicini, gli altri cugini, puoi portare pure Diego... ti cucino il dolce alla banana e dulce de leche che ti piace tanto, va bene?” chiese rassegnata Juanita, cominciando a sparecchiare. Dopo cena Eusebio si metteva sul divano davanti alla TV con una IPA ghiacciata da una parte e il giornale spiegazzato dall’altra e si addormentava poco dopo in un sonno disturbato dalla digestione, le preoccupazioni e gli elicotteri che infestavano il quartiere. Sua moglie lo svegliava sbraitando che non doveva addormentarsi sul divano, gli faceva male alla schiena, e non capiva proprio come mai non avesse ancora perso peso. Dovevano tornare dal dottore, e se i
suoi esami del fegato non miglioravano avrebbe dovuto eliminare anche gli alcolici! Con gli occhi semichiusi Eusebio si scolava la birra ormai calda e si trascinava fino al letto, puntando la sveglia quattro ore dopo.
Hal
Quella sera Hal ed Eusebio commentarono la siccità mai vista di quell’estate, Hal gli consigliò di leggere l’editoriale sul New York Times. I contadini volevano una nuova riforma agraria, gli disse. Il dibattito era interessante e ben articolato, aggiunse con tono da professore. Che poi lui professore lo era stato, in un’era che sembrava lontana anni luce, professore di storia alla scuola superiore per l’esattezza, prima che la morte di suo figlio e l’attaccamento alla bottiglia seppellissero per sempre quell’epoca nel dimenticatoio. Lui che aveva sempre studiato il corso degli eventi, lo aveva mandato allo sbando, lui che conosceva le dinamiche della politica lo aveva spedito in una girandola infernale, lui che poteva immaginare cosa lo aspettasse lo aveva condannato alla gogna. Dicembre 2001, missione Afghanistan. Avrebbe potuto impedirlo in qualche modo, opporsi alla sua partenza, convincerlo che non valeva la pena rischiare la sua giovane vita, fragile pedina di quel gioco pericoloso e fatale. Ligio al dovere e patriottico fino al midollo, aveva invece continuato a sbandierare la bandiera a stelle e strisce dalla veranda della sua tranquilla abitazione con lo steccato verniciato di bianco nel cuore di Brentwood e aveva proseguito a snocciolare ai suoi studenti date e luoghi di celeberrime battaglie, dalla Guerra di Secessione alla Seconda Guerra Mondiale, citando a memoria i numeri di vinti e vincitori, e aspettando con ansia e orgoglio il ritorno di suo figlio. Ma quello che era tornato dopo un anno non era suo figlio. Era morto, morto dentro. Occhi spenti, le spalle una volta fiere e possenti, cadevano pesanti e smagrite, le mani appoggiate sulla carrozzina, le gambe che non c’erano più, disintegrate in un nugolo di polvere, sangue e dolore. Una vecchia mina antiuomo, avevano detto i suoi compagni, una di quelle che spesso condanna alla menomazione i bambini che giocano nei campi. Anche Paul, così si chiamava suo figlio, stava giocando, giocava alla guerra, perché anche lui era poco più di un bambino, e da grande voleva fare il veterinario o l’insegnante di windsurf. Paul si era ammazzato neanche un mese dopo il suo rientro, con la pistola che tenevano nel doppiofondo di un cassetto del soggiorno. Chissà perché non aveva usato la sua di pistola, era stata la prima, assurda, domanda che si era
posto Hal quando lo avevano trovato riverso nel garage in una pozza di sangue. Come se avesse voluto comunicargli qualcosa, il suo bambino, colpevolizzare anche loro, lui più di ogni altro. E il senso di colpa non l’aveva mai più abbandonato, anche quando cercava di affogarlo nella vodka. Anche adesso che erano ati otto anni da quando aveva visto sua moglie e la sua casa per l’ultima volta. Anche adesso che si era organizzato in una vita nuova. Hal riusciva quasi sempre a sgraffignare i quotidiani al bar, e quando andava male, preferiva saltare un pasto in più perché tanto sapeva sempre come arrangiarsi- che restare fuori dal mondo. O quantomeno ancora più ai margini. Anche se preferiva saltare gli articoli sulla guerra quando gli capitavano sotto gli occhi. E poi ci teneva a portarli al suo amico Tex-Mex, i giornali, finché hai un amico con cui parlare, si diceva, significa che non sei ancora morto. Anche se è solo per dieci minuti al giorno. Dopo averlo salutato, anche quella sera, rassettò la sua montagna di roba ambulante e cominciò a preparare il giaciglio che l’avrebbe accolto anche quella notte, come da sette anni a quella parte. Come quasi tutti i senzatetto di L.A., Hal andava in giro con innumerevoli sacchetti legati a un vecchio carrello della spesa che una volta doveva essere stato rosso e adesso era più che altro color ruggine. A differenza degli altri, però, i suoi sacchetti erano organizzati per colore, dimensione, tipologia, materiale e a volte anche per età. Era sempre stato un tipo metodico, lui. C’erano i sacchetti di Target, piccoli, bianchi con i pallini rossi e il simbolo del bersaglio, che contenevano la biancheria intima pulita, o perlomeno meno sporca dell’altra. Questi Hal li teneva in alto, legati di fianco al cassettone centrale, in modo da averne sempre a disposizione se se la faceva nella mutande. Il che a volte capitava, colpa di una doppia incontinenza precoce, specie dopo aver mangiato i burritos con salsa piccante del chiosco di Benny che i turisti avanzavano sui tavolini. Più sotto facevano capolino i sacchetti di Ralphs, di un marrone-beige sbiadito, un po’ più capienti degli altri e più usurati, designati per calzini e mutande veramente ma veramente luridi. I sacchettini di cartone di Starbucks, piccolini e marroni con la donna verde alien
dalla stella in testa, li sistemava in alto, sulla destra, ed ci metteva dentro la macchinetta per l’asma e le pastiglie per il diabete. Quelle avrebbe dovuto prendere tutti i giorni, anche se non sempre se lo ricordava. Ma almeno negli ultimi anni aveva il suo rifornimento salvavita assicurato. Era stato contento quando Obama aveva vinto, la prima volta, lo avrebbe votato sicuramente, se non fosse stato troppo ubriaco quel giorno. E la seconda volta non se n’era nemmeno accorto. Sulla sinistra del carrello teneva invece dei comuni sacchetti neri di plastica, vecchi e capienti, per i pochi vestiti di ricambio, sempre sporchi, pantaloni e magliette, che avrebbe lavato tutti insieme alle docce di Santa Monica, e poi una volta asciutti avrebbe messo nelle buste di Tutto a novantanove cents, che non gli mancavano mai perché andava a comprarci i biscotti dal sapore chimico quando si sentiva a rischio di ipoglicemia. Al livello inferiore si poteva ammirare una corona colorata di sacchetti del Kosher market, che Hal alternava con non indifferente senso artistico in gialli, blu e rossi, destinandoli alla conservazione del cibo che trovava nella spazzatura o la frutta che trovava a terra sul marciapiede alla fine del Farmer Market del giovedì a Westwood e del sabato a Santa Monica. A volte gli andava bene e riusciva pure a beccare qualche pita greca o dei pezzi di salsiccia piccante. Una volta pure mezza pannocchia di mais arrostita ancora calda. La gente era una gran sprecona. A volte avvolgeva i singoli rifiuti nelle buste di cartone bianche di Mac Donald affinché la frutta marciscente non si mischiasse all’olio dei rimasugli di pizza al formaggio. Il problema era che dopo sapeva tutto di patatine fritte. Il pasto che distribuivano ogni martedì sera tra la terza Promenade e Wilshire invece lo conservava nelle buste ecologiche e colorate di Whole Food, per ricordarsi che quello era il cibo buono, che durava poco e per sicurezza andava portato direttamente al polso. Di lato al carrello, in basso a sfiorare la strada, spuntavano almeno quattro grandi sacchetti di cartone di Trader Joe’s, che Hal riempiva di bottiglie e lattine vuote che poi si rivendeva a 5 centesimi l’uno, quando la domenica mattina si metteva in fila insieme a tanti altri disperati. Era facile trovare le bottiglie nei cassonetti, ma bisognava farlo con discrezione e conoscere bene le zone meno battute dagli altri homeless. Che poi ormai con la
crisi si erano messi pure i padri di famiglia a fargli concorrenza, dannazione, e pure questi giovani studenti con la fissa del riciclo e chissà che altre diavolerie gli mettevano i bastoni fra le ruote. Una volta aveva trovato dei fricchettoni con camicie sgargianti e occhiali alla Ginsberg che frugavano nel suo cassonetto preferito, tra Pico e Barrington, e scattavano delle foto con la testa dentro all’immondizia. Dal bidone emergeva una bionda ossigenata magra magra e pallida che sorrideva altezzosa, addosso dei vestiti che gli erano parsi eccessivamente colorati ed luccicanti in mezzo a tutto quel luridume. Gli avevano spiegato che erano studenti della scuola di Arte e Fotografia di David Geffen e gli avevano chiesto di far parte della sessione, immaginandosi già vincitori del World Press Photo sessione Daily Life. Lui, che si arrabbiava di rado, ma quando lo faceva era serissimo, li aveva cacciati in malo modo urlando che lo stavano derubando, si era messo a chiamare aiuto a squarciagola, a strepitare e strillare che non c’era più rispetto per i poveri vecchi soli e affamati che cercavano di campare in questa città. Ogni tanto doveva interpretare la parte del barbone fuori di testa. Funzionava sempre, comunque, quelli erano scappati facendosela sotto e lui aveva potuto fare la sua scorta di bottiglie vuote di smoothies alla banana e fragola e lattine di birra e redbull quasi intatte. A fianco alla buste di Trader Joe’s, Hal teneva sempre un sacchetto di cartone spesso e resistente di Bristol Farms, che, in quanto supermercato di lusso, aveva l’onore di contenere la scorta di bottiglie di vino e di whisky scadente, che abitualmente acquistava ai liquor shops vicino alle pompe di benzina o in farmacia. In un sacco verdino anonimo ormai logorato collezionava le bustine di zucchero di canna e i fazzoletti di carta che prendeva di volta in volta quando riusciva a fermarsi in un caffè. Quando era fortunato riusciva a prendere anche qualche bustina di miele. Per fortuna aveva sempre avuto una memoria pazzesca, e così se si trovava vicino a uno Starbucks e doveva andare in bagno e non aveva un centesimo, ricordava sempre a memoria il codice (90025 tra S. Monica e Bundy, 916 fra Wilshire e Missouri, 345 tra la Sesta e Main street) senza doversi beccare la sfuriata del commesso. Che poi, quando aveva qualche spicciolo un caffè lo prendeva sempre, si sedeva in un angolino vicino alla finestra per tenere d’occhio il preziosissimo carrello e si sorseggiava la sua bevanda fino alla fine con studiata lentezza. Poi riempiva
fino all’orlo il bicchiere con il latte e la cannella - erano gratis, no? - e se ne andava tranquillo e soddisfatto. Sempre accompagnato da qualche occhiataccia, però. I bicchieri del caffè poi li sciacquava e ci conservava un piccolo spazzolino, lo stesso da sei anni, pure se il dentifricio non ce l’aveva una strofinatina se la dava sempre. Era sempre stato un tipo attento all’igiene orale, lui. Un sacco grande e lungo, bianco, firmato Bed Bath and Beyond, sistemato in fondo, conteneva infine tutti gli altri sacchetti di riserva ripiegati in triangoli equilateri e riposti con cura in mucchietti separati e legati tra loro con dello spago. Tra questi c’erano i suoi preferiti, quelli a strisce verticali rosa e fucsia di Victoria’s Secret. Preferiva quelli piccoli e ben conservati, gli piaceva il colore , le maniglie di stoffa luccicanti, la scritta dorata ed elegante: la sera si sdraiava sotto il suo albero e ne prendeva uno, lo accarezzava con le mani sudicie, e si eccitava pensando a tutte quelle giovani modelle seminude che ammiccavano provocanti dalle vetrine. Ad Hal piaceva anche collezionare le buste più rigide, belle capienti, di marche costose. Gli era venuta così, questa fissa, osservando quelle signore ingioiellate maniache dello shopping: a un certo punto dei loro pomeriggi di spese pazze, prendevano le buste e le buttavano nel cassonetto, per recuperare spazio e mettere tutto in un’unica confezione, o magari per nascondere i loro acquisti al marito. Ne adocchiava sempre una chinata per terra tutta intenta a rimestare nei sacchetti giganti e stracolmi, con le mani arrossate e le spalle doloranti, la osservava tirare fuori, piegare, ripiegare e comprimere, poi cautamente si avvicinava, la seguiva per qualche centinaio di metri, sapendo che si sarebbero arresa prima o poi. E infatti ci ricavava sempre qualche nuovo pezzo da aggiungere alla sua raccolta. Certe volte quelle scriteriate buttavano pure le scatole di scarpe, chissà quante ne avevano a casa, lui invece di scarpe ne aveva solo un paio, e quelle gli bastavano per tutte le stagioni, ma quando gli capitava di trovarne un paio sulla spiaggia andava a barattarle con Donnie, il tossico che stava all’inizio di Venice e che se le perdeva sempre. Donnie soffriva sempre il freddo nonostante il clima subtropicale, mani e piedi di ghiaccio, e apprezzava sempre i regali di Hal, qualunque fosse la misura della calzatura lui se la faceva andare bene. Quando non stava a rota gli regalava una busta nuova di zecca per la sua “collezione”, o qualche giornale per uomini, ma più spesso non era in grado neanche di
scambiarci una parola. Doveva essere in un buon periodo, Donnie, perché quel giorno gli aveva fatto dono di una busta di Banana Republic, di cartone chiaro e resistente, con le maniglie nere di stoffa, rettangolare e col doppio fondo. Non sempre capitava un lusso così, aveva pensato con soddisfazione e gratitudine Hal, prendendo quel regalo inaspettato dalle sue mani rachitiche e martoriate dall’eroina. E finalmente la sera era arrivata, dopo che tutto il giorno aveva pregustato il momento in cui lo avrebbe tirato fuori con cura, quel dono, lo avrebbe riempito di con tutti i suoi vestiti e, chiuse strette le maniglie, avrebbe poggiato la testa sul suo cuscino di lusso, addormentandosi sotto la sua palma preferita, sotto le stelle, nel silenzio della notte. Gli era sempre piaciuto dormire comodo, a lui.
Surfer girl
Little surfer little one made my heart come all undone do you love me, do you surfer girl surfer girl my little surfer girl. Raquel si era svegliata con quella canzone dei Beach Boys in testa, si era sorpresa a ballarla mentre si lavava i denti, l’aveva canticchiata mentre si infilava la maglietta nera scolorita con le frange all’indiana e l’aveva urlata a squarciagola appena messo piede fuori di casa, sentendosi allegra e ridicola nello stesso tempo. Era una dura lei, non cantava sotto la doccia e non improvvisava balletti da musical anni ottanta in mezzo alla strada. Cresciuta in una famiglia cubana con quattro fratelli maschi, aveva dovuto imparare presto a difendersi, a dimostrare quello che voleva e prenderselo senza tanti complimenti. Il ritornello le era rimasto in testa per tutto il tragitto da Inglewood fino all’ultima fermata di Venice. L’autobus a quell’ora del mattino era quasi vuoto, c’era solo un messicano seduto vicino alla porta anteriore, silenzioso, guardava fuori dal finestrino. A metà strada era salito un ragazzo di colore, sui vent’anni, si portava addosso uno zaino lercio e un cartello che recitava Lost in isolation: look for job, home, food. Puzzava di alcol e strada. L’aveva salutata con un “Hey Man” e poi anche lui si era messo a guardare fuori dal finestrino, lo sguardo vuoto e stanco. Dana era saltata giù dal letto alle sei e mezza, quel sabato. Aveva indossato un bikini arancione e un paio di pantaloncini bianchi e verdi, cortissimi e aderenti, si era legata i capelli biondi con un elastico a forma di ibiscus pescato dal beauty
di sua madre e aveva preso cautamente la tavola appoggiata alla parete della sua stanza cercando di scendere le scale senza svegliare i suoi. Si sarebbero stupiti a vederla già in piedi, a quell’ora insolita il primo giorno di vacanza dopo la fine della scuola. Era uscita di casa di corsa, la tavola da surf sotto un braccio, l’asciugamano dall’altra. Aveva notato di sfuggita che la casa vicino alla sua, quella che le piaceva tanto, pitturata di viola, con la terrazza grande e il giardino, doveva essere stata venduta perché il cartello era stato rimosso. Chissà come sarebbero stati i nuovi vicini. Se avrebbero avuto figli della sua età, se avrebbero fatto il barbecue la domenica, se avrebbero surfato anche loro. Quelli di prima erano una coppia di vecchi bacucchi di Barstow, che venivano giù tutte le estati, chissà se erano morti stecchiti o solo troppo decrepiti per viaggiare ancora o se finalmente si erano decisi a trasferirsi in Florida per stare vicino ai figli come continuavano a ripetere da anni. Come sempre stava divagando, non aveva tempo di pensare a questo, era già in ritardo. Aveva accelerato ancora di più il o fin quando aveva visto di fronte a lei in lontananza una massa di capelli neri scompigliati dal vento. Raquel la stava già aspettando sulla spiaggia, le gambe lunghe e affusolate stese sul bordo della pista da skateboard. Era strano vederla così, la pista, inanimata, semibuia, anonima, senza i ragazzini che non si stancavano mai di fiondarcisi dentro. Ruotò le spalle indietro e socchiuse appena gli occhi: l’aria del mattino era frizzante e la faceva sentire viva, il vento che spirava dall’oceano le riempiva i polmoni e la caricava di energia. I have watched you on the shore standing by the oceans roar do you love me do you surfer girl surfer girl surfer girl. Anche Raquel la vide da lontano, il fisico minuto ma muscoloso, le spalle piccole ma ben definite, le cosce sode, la pelle abbronzata, i piedi nudi con lo smalto arancione fluo. Più si avvicinava più le sembrava bellissima. I capelli di Raquel le facevano pensare alla Medusa di Caravaggio. Quando aveva sette anni Dana aveva fatto un viaggio in Italia con i suoi genitori ed era
rimasta impressionata da quel dipinto spaventoso, gli occhi tremendi, la bocca semiaperta, la testa staccata dal corpo, e quei capelli…capelli indomabili, capelli di serpe, capelli del diavolo. Raquel era questo per lei, il diavolo tentatore? Occhi di brace, sguardo pericoloso, sfuggente, capelli selvaggi, quando l’aveva vista a scuola durante la lezione di basket si era sentita come quel giorno di tanti anni prima agli Uffizi di Firenze: non riusciva a smettere di guardare anche se sapeva che era pericoloso. Raquel a dodici anni aveva capito che le piacevano le ragazze e senza fare tanti complimenti aveva afferrato il polso della sua compagna di banco mentre studiavano insieme nella sua stanza, l’aveva attirata a sé con decisione e l’aveva baciata con forza sulla bocca. Così, per curiosità, per attrazione, per affetto. Poi aveva capito che le sue manifestazioni di empatia non sempre erano ben accette e aveva dovuto frenare i suoi slanci. A scuola avevano cominciato a mormorare, lei per difesa aveva cominciato a diventare scostante, quasi aggressiva. I suoi genitori, che avevano risparmiato per anni tenendo lezioni di ballo e infine riuscendo ad aprire una scuola di danza, erano riusciti a farle cambiare istituto, mandandola in una scuola privata, lontano da casa. Lì era andata anche peggio per Raquel, non si trovava affatto bene in mezzo a quegli snob bianchi americani di buona famiglia, che la consideravano strana perché non aveva atteggiamenti da cheerleader e non era interessata a flirtare con nessuno. Fin quando non aveva conosciuto Dana. We could ride the surf together while our love would grow in my woody I would take you everywhere I go so I say from me to you I will make your dreams come true. D’istinto Dana l’aveva abbracciata. “Scusa per il ritardo,” le aveva detto senza fiato. “Voi principesse di Venice vi fate aspettare,” le aveva risposto Raquel facendo
una linguaccia. Avevano portato la tavola fino al bagnasciuga, ci si erano sedute sopra e si erano avvolte nella tovaglia per proteggersi dal vento. Si erano abbracciate per la vita e si erano messe a contemplare l’orizzonte. Il sole stava già sorgendo alle loro spalle, colorando la sabbia e le palme attorno a loro. Un bagnino era appena arrivato e aveva iniziato a correre sulla spiaggia. I pellicani sorvolavano a pelo l’acqua sopra le onde che si rompevano con fragore e i leoni di mare in lontananza facevano capolino per brevissimi istanti. Raquel poteva sentire la pelle morbida e vellutata di Dana, il suo profumo di mare, l’odore di sonno del suo letto. Dana era eccitata. Non si ricordava di essere stata così eccitata quando si era chiusa in camera con Jeff, l’estate scorsa, e lui le era saltato addosso togliendole il reggiseno e leccandola dappertutto. L’aveva fatta pensare a Pepper, il suo cane, che con la sua grossa lingua le faceva il solletico. Quando poi lui le aveva tolto anche il pezzo di sotto e aveva continuato, non era andata affatto meglio. Si era costretta a pensare che era fortunata ad avere un ragazzo così premuroso e attento ai preliminari. Così atletico e innamorato. Le sue amiche glielo invidiavano, lo sapeva, si lamentavano sempre dei loro boyfriend, rapidi e superficiali, una sveltina e via in macchina al parcheggio dietro la scuola dopo la partita. Ma ugualmente non riusciva a rilassarsi. Si sentiva in colpa, in difetto, quasi in debito verso di lui, così perfetto e gentile, e così quel pomeriggio aveva deciso di concedersi. Il loro primo rapporto completo. Non un granché, per quanto la riguardasse, anche se lei gli aveva giurato era stato meraviglioso. E neanche dopo, purtroppo, era andata meglio, non riusciva a provare assolutamente nulla. Forse non era normale, forse era troppo presto, forse il sesso non faceva per lei, aveva iniziato a pensare dopo due mesi chiedendosi se era il caso di interrompere la loro relazione. Invece era successo che aveva conosciuto Raquel e i momenti intimi con Jeff si erano accesi di ione, perché Dana aveva iniziato a pensare a lei. Non era ancora successo niente tra di loro. Si osservavano durante gli allenamenti. Si lanciavano occhiate rapide nello spogliatoio dopo la partita durante la doccia. Si guardavano quando si incontravano nei corridoi. Si scrutavano da lontano in mensa. L’ultimo giorno di scuola si erano salutate al campo di basket. Erano le sette di
sera, la temperatura era scesa e i piccoli capezzoli di Dana spuntavano sotto la maglietta di acetato bianca e gialla. Raquel le aveva stretto la mano guardandola dall’alto in basso e facendola rabbrividire di piacere. Dana aveva preso coraggio e le aveva chiesto se voleva venire a fare surf con lei, qualche volta, durante l’estate. Lei le aveva risposto che sarebbe venuta a vederla surfare, la mattina dopo all’alba. Il bagnino si era messo a fare le flessioni, adesso, non lontano da loro. Nascoste dall’asciugamano, Raquel delicatamente le mise una mano in mezzo alle gambe, sentendo il tepore del suo inguine. Dana era immobile, gli occhi chiusi, la testa reclinata sulla spalla di Raquel, il respiro appena sospeso. Doveva smettere di pensare troppo. Come quando era in mezzo all’oceano, tesa e concentrata, guardava l’orizzonte, aspettava l’onda giusta e non aveva bisogno di badare a nient’altro, la mente libera da qualsiasi preoccupazione. Le dita di Raquel si infilarono sotto il costume e la accarezzarono delicatamente e sapientemente come Jeff non aveva mai fatto, l’onda era davanti a lei adesso, si stava avvicinando, le sue dita la condussero lentamente e delicatamente verso una sensazione quasi dolorosa e inafferrabile di piacere, era in piedi sulla tavola ora, e improvvisamente quella sensazione si fece più intensa, si trovava in cima all’onda, accelerò senza preavviso, stava percorrendo il tube dentro l’onda, la sensazione divenne un’urgenza ed esplose, nel suo inguine, nella sua pancia, nei suoi fianchi, lungo le sue cosce fino alle ginocchia e alle dita dei piedi e ai polpastrelli delle mani. Aveva cavalcato l’onda giusta al momento giusto, questa volta, e l’aveva percorsa fino in fondo. L’onda perfetta. Raquel tolse piano la mano e le sussurrò quasi cantalenando: “Prendi la tavola adesso. Io resto qui”. Senza dire una parola, con la testa leggera e le gambe intorpidite, Dana la baciò delicatamente sulla bocca e si mise a correre incontro alle onde, contro al vento che la respingeva potente, sazia e appagata. Quando vide l’acqua che si increspava davanti a lei, si distese sulla tavola, cominciò a nuotare più veloce spingendosi forte con le braccia, poi si alzò in piedi, piegò appena le gambe e, con lo sguardo di Raquel su di sé, cominciò a surfare. Do you love me do you surfer girl
surfer girl my little surfer girl well girl surfer girl my little surfer girl well girl surfer girl my little surfer girl well girl surfer girl my little surfer girl.
Tutto andrà bene
Kim era entrata in classe con il solito sorriso serafico. Si era presentata ai nuovi allievi, aveva salutato i fedelissimi, aveva abbracciato Victoria che non vedeva da qualche mese, e che le aveva raccontato in modo concitato del suo nuovo lavoro. Aveva gettato uno sguardo complessivo sulla stanza e aveva chiesto se qualcuno avesse problemi di salute, dolori o ferite. A parte me, aveva pensato. Di pelle chiarissima, capelli scuri corti intorno al viso morbido e senza trucco, una maglietta di cotone marrone sopra pantaloni di lino viola, Kim aveva allargato impercettibilmente i piedi nudi sul parquet di legno quasi nuovo e si era rivolta alla classe invitandoli a sdraiarsi sul materassino. Fuori era una magnifica giornata di sole, diciassette gradi, come ce ne possono essere solo a gennaio a Los Angeles. Quello però non era un giorno come tutti gli altri per Kim. Era il primo giorno di lavoro del nuovo anno, il primo giorno di lavoro dopo le vacanze di Natale e il primo giorno di lavoro da quando Chris, il suo fidanzato e compagno di una vita l’aveva lasciata. Tutto filava liscio fino a Santo Stefano, almeno secondo lei. Avevano appena firmato il contratto per comprare una magnifica casa a Venice, verniciata di viola, con tanto di patio, giardino, e un elegante caminetto elettrico, e facevano i preventivi per le cucine. Poi la notte di Capodanno lui le aveva detto: “Non ti amo più. Me ne vado. Per sempre”. Così, con la sua voce nasale e monotona. Dopo tredici anni di vita insieme, di cui nove di convivenza, una vacanza alle Hawaii, tre gite a Catalina, un viaggio in Patagonia, una traversata coast to coast del paese, sette S. Valentino festeggiati, undici anniversari al ristorante, uno a Parigi, uno dal gelataio, tredici feste di matrimonio, un incidente in moto, non grave, una cicatrice sul sopracciglio in più (per lui) e una sul gomito (per lei), una cistifellea (quella di lei) e un calcolo renale (quello di lui) in meno. Tre concerti di Bruce Springsteen, due concerti di Bob Dylan, quattro super Bowl,
quattro Olimpiadi. Lui se ne era andato, portandosi dietro i suoi mocassini di pelle lucida e il tapis roulant da tremila dollari, e lasciandole il mutuo da pagare e un barbecue nuovo che non sapeva neanche accendere. E dire che era vegetariana. Era rimasta come inebetita. Esterrefatta. Confusa. Faceva liste di cose, qualsiasi cosa, elenchi della loro vita insieme, cose fatte, cose non fatte, cose da fare, leggere, imparare, programmare. Ceretta, manicure, pedicure, corso di kitesurf, pulizia dei denti, richiesta per nuova carta di credito, cambiare filtri per caffè. Come se catalogare la aiutasse a non impazzire. Appuntamento parrucchiere, mercatino dell’artigianato, conserva di mirtilli, lavare macchina, pagare assicurazione medica. Puliva ossessivamente casa, riesaminava e sezionava il loro rapporto, i segni dell’incrinatura, i sintomi del malessere. Scrub del viso, peeling braccia, sfoltire sopracciglia, cambiare coprimaterasso, leggere la posta, telefonare compleanno papà. Non stava ferma un attimo. Non versava una lacrima. Le era rimasto il dubbio atroce che il motivo fosse quello. Si, proprio quello, il più antico del mondo, un affair, insomma, ma era rimasta solo una supposizione che non aveva voluto nè potuto approfondire. Si era sempre vantata di aver anteposto la vita privata al lavoro, in una sorta di nuovo femminismo new age al contrario, a differenza delle sue amiche che a trent’anni e rotti avano le giornate in ufficio oberate dal lavoro e vessate dal capo, e le serate con uomini sempre diversi, ando da una relazione fasulla all’altra, assidue frequentatrici di tutti i bar alla moda su Sunset e Main Street, nel triste tentativo di rimorchiare quarantenni appetibili, mentre si gonfiavano di cocktail dai colori improbabili urlando wooohooo e fingendo di divertirsi da single in carriera. Ma chi era quella patetica adesso? Lei era andata al college grazie a una borsa di studio per lo sport, la sua specialità era la corsa di fondo, poi aveva scoperto che la vita universitaria, gli esami, i libri le davano una certa soddisfazione. Era brava e andava avanti come un treno. A ventidue anni si era laureata in chimica e stava per accettare un posto per un dottorato di ricerca in un laboratorio di Boston. Freddo certo, lontano da casa, non accogliente come la West Coast, ma pur sempre M.I.T.! Poi quell’estate aveva conosciuto Chris, e non era partita.
Si era presa una pausa di riflessione, e si era iscritta a yoga. Dopo la prima lezione si era sentita come catapultata in un posto che le era sempre appartenuto, totalmente a suo agio e in sintonia con il mondo che la circondava. Aveva capito, o le era tornato comodo pensare, come spesso si fa, che quella era la sua strada, il suo posto nell’universo, accanto al suo uomo e con un lavoro tranquillo e rilassante, adatto a lei e al suo carattere così calmo e conciliante, ed era diventata insegnante di primo livello in uno dei centri più famosi della città. Era rimasta con Chris che gestiva con successo una catena di ristoranti giapponesi. Le piaceva davvero insegnare yoga. Ogni tanto pensava a come sarebbe stata la sua vita se avesse fatto una scelta diversa, una carriera accademica ad esempio, ma poi si vedeva chiusa in un laboratorio, senza finestre, con gli occhi consumati dagli esperimenti e dalla luce fredda del computer, sola. Le piaceva la dimensione corale delle sue lezioni. Le piaceva il modo nuovo con cui la guardavano i suoi yoga beginners alla fine della classe. Era brava e dolce e paziente, riconosceva i limiti e incoraggiava il miglioramento. Le piacevano le parole con cui accompagnava gli esercizi e le posizioni. Erano ispirate agli insegnamenti del suo maestro e dal viaggio in India che non si faceva mai mancare ogni quattro anni. Le piaceva trasmettere la sensazione di essere un unico corpo alla fine di quei novanta minuti, il corpo e la mente, uniti indissolubilmente. “Inspira, espira.” Eccomi qui, da una parte il corpo, dall’altra la mente. “Per iniziare, sdraiatevi sulla schiena e mettetevi comodi, a vostro agio.” Sono ancora viva, sto parlando, sto in piedi. “Chiudete gli occhi e rilassatevi.” Non dormo da tre giorni, se chiudo gli occhi mi viene un collasso e finisco stesa a terra.
“Una mano sul cuore e una mano sulla pancia.” Sento una corrente che mi attraversa da parte e parte. “Se avete qualche ferita o infortunio non sforzatevi.” Il dolore è talmente forte che non so localizzarlo. “Aprite il vostro cuore.” Lo sento congelato. “Lasciate andare le tensioni.” Ho un groviglio di fasci muscolari che si accavallano alla base del collo e mi pugnalano lungo tutta la schiena. “Aprite il vostro petto.” C’è qualcosa che preme sul torace che mi impedisce di alzarmi. “Tendete prima la gamba destra, e poi la sinistra, verso il soffitto. E poi di nuovo. La parte fisica del vostro corpo ama le ripetizioni.” Chris odiava le ripetizioni. Odiava che gli ricordassi di portare fuori la spazzatura, di chiamare sua madre, di comprare il latte per colazione. “Non dimenticate di respirare.” Ma lui dimenticava sempre tutto…le bollette, il giorno dell’anniversario, le vaccinazioni del gatto. “Inspira, espira.” Da quando è diventato così difficile? Non ci riesco più. “Provate a sentire la parte mentale del vostro corpo.” Mi prendeva in giro quando mi alzavo la mattina alle sei e mezza per meditare, ma i primi tempi si svegliava con me e mi riportava a letto…
“Adesso facciamo un piccolo twist verso destra, poi verso sinistra.” Ormai si girava dall’altra parte e continuava a dormire. “Adesso un respiro profondo fino a sentire tutti i vostri organi funzionare armoniosamente.” Quando abbiamo smesso di funzionare? Eravamo un meccanismo collaudato, una ruota che girava da sola, un orologio svizzero. “Lo yoga, non è meraviglioso?” A Chris non piaceva. Non gli piaceva questo tipo di sport statico, diceva. Preferiva gli sport aerobici, dinamici, adrenalinici, diceva. “Non vi sentite meglio ora?” Sport, lo chiamava sport. “Vi sentite diversi, no?” Quando ci siamo conosciuti al corso di snorkeling sembravamo uguali e complementari, eravamo una coppia perfetta. “Spingete indietro i gomiti nella posizione del cobra, e sentite come i vostri muscoli si tendono armoniosamente.” Californiani, atletici, abbronzati. Giovani. “Provate a spingervi un poco oltre.” Poi siamo cambiati… una coppia adulta, raffinata, amante della vita sana, della cucina bio-organica e del vino rosé di importazione. “Premete bene le mani sul suolo.” Io ho sempre preferito il rosso della Napa Valley veramente. “Volgete lo sguardo al cielo.” E poi il vino rosé l’ho sempre trovato ridicolo. O è bianco o è rosso, dico io.
“Adesso guardate in avanti, tendete le braccia, nella posa del guerriero.” Non litigavamo mai. “Aprite gli occhi.” Mai uno screzio, una sorpresa, un piatto rotto. Era questo il problema? “Tendete le mani al cielo, con gioia.” Noiosa, senza allegria. Ecco che coppia eravamo. “Ascoltate il vostro corpo.” Sesso due volte la settimana, il venerdì sera e la domenica mattina. “Se siete stanchi, riposate.” Ultimamente solo la domenica mattina. “Sdraiatevi sulla schiena.” Un calo del desiderio dopo tredici anni è fisiologico, credo. “Le mani sui fianchi.” Ossessionato dalla forma fisica, mi rimproverava di essere ingrassata. “Rilassate lo stomaco.” Certo non ho lo stesso fisico di quando avevo vent’anni. “E adesso child pose.” Figli. Ne volevamo un paio prima o poi. Anche se non ne parlavamo spesso. Non nell’ultimo periodo almeno. “Non dimenticate mai di respirare.” Trentacinque anni, sola, senza un compagno senza figli. Una casa vuota.
“E adesso downward facing dog.” Potrei prendere un cane. “Chiudete gli occhi.” Mi avrà lasciato per un’altra? “Aprite le dita e premetele forte forte al suolo.” Mi viene voglia di strozzarlo. “Adesso sedetevi a gambe incrociate e chiudete gli occhi.” Sola e patetica. Tredici anni fa una marea di possibilità, una ragazza sana, brillante e sicura di sé, e ora… Ma come ho fatto a ridurmi così? Come ha fatto a ridurmi così? Cercò di richiamare alla sua mente quello che si erano detti la prima volta che si erano parlati, su quella barca a Catalina, le sensazioni che aveva provato, il suo sorriso e la stretta della sua mano, i lineamenti del suo viso sotto il sole del mattino, ma per qualche assurdo meccanismo di black out il suo cervello non le permetteva di rievocare nessuna immagine e nessun tipo ricordo legato a lui. Di quel lontano giorno le vennero invece in mente le parole rassicuranti dell’istruttore: Tutto andrà bene. Segui le bolle e loro ti riporteranno a galla. Quando in immersione non capisci più dove è il sopra e dove il sotto, la risposta è: resta ferma, immobile, non nuotare, non agitarti, non cercare la soluzione muovendoti. Fai un bel respiro e guarda dove vanno le bolle... segui le bolle… Loro ti riporteranno a galla. “Namastè. E seguite le bolle,” concluse Kim con un sorriso. I novelli yogi si guardarono un po’ perplessi, pensando di aver capito male. Alcuni guardarono su in alto verso il soffitto, altri fuori dalla finestra, uno fece un respiro profondo ed espirò rumorosamente pensando magari di vedere chissà che bolle. La maggior parte di loro seguì con lo sguardo Kim che usciva dalla classe con o leggero, le spalle rilassate, il sorriso serafico.
Ringraziamenti
Questo libro non sarebbe stato possibile senza il caffè di Peet’s, le Quattro Stagioni di Vivaldi, la maestra Bice, Cabiria, la notte, il vento, le palme e i cormorani a Sausalito; senza la Lapponia, le luci di Las Vegas, le biciclette bucate senza la pompa, le noccioline di Santa Barbara, Nick Hornby; senza le pozzanghere, San Louis Obispo, il nonno Nino, i libri comprati all’aeroporto e il ponte Pitollo; senza i matrimoni degli altri, i consigli non richiesti, i downward facing dogs; senza i Beach Boys, i dentisti di Beverly Hills, i commessi di Trader Joe’s; senza chi promette ma non mantiene; senza gli armadi che scricchiolano e lo yogurt di Starbucks; senza Patti Smith e Mapplethorpe; senza lo spazio Oberdan, la ricotta e le mie scarpe.
L'Autrice
È nata nel 1980 a Siracusa, si è laureata in Medicina e specializzata in Neurologia a Milano, poi è volata a Los Angeles dove ha scritto il suo primo romanzo. È vegetariana da quando aveva sedici anni, ha un blog di cucina, ama i gatti di nome Cabiria e analizza i cervelli degli altri.