Ritagli Di Tempo 4z6b5y

A Davide, mio padre

A Riccardo, mio figlio

Ritagli di Tempo

Il tempo del tempo

Il tempo non esiste, qualcuno sostiene che sia un infinito numero di adesso.

Il tempo non esiste, esiste solo un presente infinito dal momento che il futuro è la previsione del presente che sarà e il ato è solo il ricordo del presente che è stato. Forse è vero che esistono solo tante somme di ora, e questo può essere vero se il ato si dileguasse e il futuro non arrivasse e Zenone avrebbe ragione: Achille non potrebbe mai raggiungere la tartaruga. Il tempo lascia segni tangibili sui volti e sulle anime, il tempo toglie ardori e speranze e regala saggezza e prudenza. Il tempo, il bene più prezioso che è stato dato a noi umani perché alla fine di ogni esistenza ognuno di noi torni ad essere nel tempo senza tempo un atomo del cosmo in un attimo di amore. L’uomo delle caverne campava pochissimo e non lo sapeva è possibile che non potesse accumulare molti ricordi, la nostra esistenza è molto più lunga e percorrendo tante strade ci perdiamo e ci ritroviamo. Nel terzo millennio non ci è dato dimenticare, foto, film, ed oggetti ci ricordano il bimbo che e’ stato e non c’è più, la ragazza che è stata e disperatamente cerchiamo, l’uomo e la donna che ora siamo. In questo tragitto il tempo è trasformato? O abbiamo assistito in diretta alla morte di quel bimbo che non c’è più a quella ragazza con gli shorts che sorride felice? Da Eraclito a Pitagora, da Platone ad Aristotele, da Kant a Hegel ando per Cartesio e Gian Battista Vico, senza dimenticare Agostino di Ippona per poi arrivare ad Einstein e a Barbour, i più pregiati neuroni che razza umana potesse produrre hanno cercato di dare un fondamento scientifico al concetto di tempo. Sono stati creati imponenti impianti filosofici, attuati complessi calcoli matematici e il risultato è che i concetti elaborati da menti eccelse presi singolarmente sembrano verità assolute, confrontati, spesso, si annullano. Ancora oggi il senso comune che si dà al tempo è quello che scandisce i minuti, le ore, i giorni ed è puro frutto di intesa. L’unico senso del tempo comune per noi umani è il tempo convenzionale, tutte le altre dimostrazioni, seppure apparentemente logiche o terribilmente affascinanti non sono che teorie. Non sappiamo cosa sia il tempo e se sapessimo cosa è il tempo sapremo cosa c’è oltre

il tempo e avremmo sconfitto la morte.

Logica e matematica in questo campo con studi di millenni non sono stati in grado di fornire verità assolute.

Dal libro dei Veda

“Il Tempo tira il carro, come un cavallo con sette redini, con mille occhi, ricco di seme, immune alla vecchiaia. Lo cavalcano i poeti che capiscono i canti ispirati. Egli ha per ruote tutte le esistenze.”

Il tempo dei poeti

I poeti cantano del loro tempo così come gli scrittori perché sulle righe del tempo narrano i loro versi. Tutte le esistenze scrivono sulle righe del tempo ma solo i canti ispirati lo cavalcano senza venirne uccisi o schiacciati.

Marcel Proust

“ Ma molto in alto, tra coloro che della loro vita interiore hanno fatto il loro ambiente, si teneva in ben poco conto l’importanza degli avvenimenti. A modificare profondamente l’ordine dei loro pensieri è piuttosto qualcosa che in se par non avere alcuna importanza e che invece nei loro confronti inverte l’ordine del tempo, rendendoli contemporanei d’un altro periodo della loro vita.”

Non sono gli avvenimenti che ti circondano a segnare il tempo ma il tuo stato d’animo, il mondo è quello che tu vedi in quell’attimo e le emozioni sono occhi con cui vedi ciò che ti circonda.

Così continua Proust:

“Si può rendersene praticamente conto dalla bellezza delle pagine che ad esso ispira: il canto d’un uccello nel parco di Montboissier o una brezza colma dell’odor di reseda sono, evidentemente, avvenimenti meno importanti delle più grandi date della Rivoluzione e dell’Impero. Eppure, hanno ispirato a Chateubriand, nei Memoiries d’Outre-tombe, pagine di un valore estremamente più grande.”

La poesia trascende il tempo e gli eventi, si colloca in un luogo immutabile dove anche un avvenimento che capovolge la storia è nulla rispetto al canto degli uccelli.

Il tempo ha per ruota tutte le esistenze

Si parva licet componere magnis.

iamo dalle cose grandi ad altre infinitamente più piccole.

Felicissima d’essere ruota ho scritto questi racconti e questi articoli nel tempo lineare in un certo numero di anni e nel tempo ciclico nelle varie stagioni che danno senso al mio vagare nel tempo.

Li ho racchiusi così, per stagioni, come la memoria me li ha dettati. Cercando di ricordare il freddo e il tepore, il cielo buio e nuvoloso, il vento e il sole cocente. Ho scritto a memoria certezze e incertezze, paradossi e illusioni, senza giudizio per raccontare del tempo che amico o nemico è la somma degli attimi che compongono la nostra storia. Soprattutto li ho scritti nei ritagli di tempo.

Carmina non dant panem, non sempre.

Io ho iniziato a scrivere per soldi, motivo che tutt’ora mi sembra buono e giusto poi, forse perché scrivere per danaro non mi sembrava una cosa abbastanza nobile, la scrittura l’ho messa da parte.

Ma qualsiasi sia stato il motivo per cui hai iniziato, quando smetti, la scrittura ti manca.

Hai bisogno di raccontare storie ed emozioni, hai bisogno di trascrivere gli stati dell’anima, hai bisogno di fissare il tempo.

Le emozioni sono il vero scandire dello scorrere del tempo che sempre è ricco di seme, un seme che a tutti viene dato in abbondanza e può venire distrutto o soffocato o moltiplicato. Così il tuo tempo potrà essere felice e appagante o grigio e noioso.

Il tuo tempo va al di là degli eventi e con il mutare degli eventi.

Il tempo è ricco di seme.

Marco Aurelio

“Osserva ininterrottamente gli eventi come avvengono per via di alterna mutazione E devi abituarti a pensare uno cosa la natura universale nulla ama tanto, come il mutare le cose per alterna vicenda e farne altre uguali ma nuove: Vedi bene che ogni cosa è in certo qual modo seme d’un altra cosa che da quella dovrà provenire.”

Il tempo è ricco di seme, ma come raccontano i Vangeli non è dato strappare la gramigna prima che il grano sia alto, si rischierebbe di strappare anche il buon raccolto.

Il seme del tempo è dato per far crescere il buon seme, ma anche il frutto del cattivo seme sarà raccolto.

Il seme della scrittura trasforma il tuo tempo.

Scrivere trasforma nel tempo gli eventi e il ricordo arricchisce il tempo presente.

Questo succede sia per i chi cavalca i canti ispirati si per tutte le altre esistenze.

Col tempo ho imparato che l’essere poeti non è solo un fatto di naturale inclinazione, ma spesso, nella vita è determinante quanto la poesia possa essere

sostituita alla prosa.

Succede infatti che anche a un’anima “poetica”di tempo ne avanzi ben poco per poter poetare.

Tra tutti i signori che ho citato tra grandi filosofi ed illustri poeti dubito che ce ne fosse qualcuno che per mantenersi dovesse fare il fabbro o il carpentiere o l’impiegato di Banca. Dubito che dovessero fare la spesa, tenere la casa in ordine stirarsi le camicie, lavare i piatti.

Erika Jong dice che le righe che ha scritto sono tutti i pavimenti che non ha lavato i mobili che non ha spolverato….

Le mie idee migliori le ho avute lavando i piatti: il sapone si scioglie, la schiuma si innalza, la bolla esplode e con la bolla l’idea.

Eppure qualche riga l’ho scritta e questo è quello che ho ritagliato tra impegni molto poco poetici.

Come ruota del tempo aspirante “poeta” ho cercato di dare un ordine a questi scritti, come dicevo nel tempo circolare, senza scopiazzare né da Platone né da Vico, l’ho fatto a modo mio come una che è abituata e rimettere a posto l’armadio quattro stagioni sapendo che per poetare e filosofare di tempo ne aveva ben poco.

Ho fissato il tempo ho raccontato storie.

Storie di gente vissute in un tempo che potrebbe tranquillamente essere un altro tempo non perché l’uomo sia immutabile ma perché dell’uomo sono immutabili i vizi: l’avidità, l’ipocrisia, l’opportunismo e dell’uomo sono immutabili anche le virtù: la generosità, il coraggio, la bellezza .

Vizi e virtù che possono cambiare il nostro tempo.

In tempo di Natale

Storia di Natale

Pacco di Natale

La sbentiataggine

Anguille in rap

Storia di Natale

“Non basta raccontare per iscritto come abbiamo trascorso le feste Natalizie per dire che stiamo facendo letteratura.”

Da “Manuale per un giovane scrittore”di Vincenzo Cerami.

Queste parole del maestro Cerami erano lapidarie e mi distolsero per un po’ dal mio narcisismo.

Per anni avevo vissuto con molto lutto la sindrome del foglio bianco. La pagina che resta vuota e non si anima. Guardavo impietrita fogli e ritagli di giornale, appartenenti al tempo che fu prima con divertimento, come quando si guardano le foto del liceo, poi con sorpresa quasi non mi appartenessero, poi con infinito incazzo.

Il flusso creativo sembrava dissecato, le immagini non prendevano forma ed ero quasi rassegnata al fatto che la scrittura appartenesse ad una stagione della mia vita che non sarebbe più tornata.

Invece …sotto l’albero mentre tutti festeggiavano il nuovo anno tra botti e schiamazzi la mia scrittura resuscitava dai morti. Ero felicissima perché tutto era avvenuto secondo le mie attese.

Come quando ti invitano ad una festa e tu sei la più bella e la più corteggiata e anche meglio. Insomma anche la mia psicologa che “Non sbaglia mai” questa volta non aveva fatto centro. Aveva profetizzato che per rimettermi a scrivere sarei dovuta sottostare alle regole dell’apprendimento: impegno e disciplina…. Io invece credevo nel miracolo

E il miracolo avvenne…Sul monitor del computer comparvero dal nulla le lettere che raccontavano finalmente la mia storia.

Però mi aveva aiutata, la psicologa voglio dire, perché parla, parla, avevo focalizzato il centro.

Non “saper scrivere” vuol dire mille cose, la psicologa pensava che fossi diventata un’analfabeta di ritorno e non riuscissi a scrivere una lettera, io, serissima, le risposi che sì una lettera ero ancora in grado di scriverla ma… “Ce l’ha presente Garcia Marquez ecco non riesco a scrivere così”.

La possibilità che avessi delle aspettative inaccettabili non l’avevo neppure considerata, pensavo fosse naturale aspirare a scrivere qualche cosa che stesse a mezzo tra Cent’anni di solitudine e Anna Karenina. Penso fosse in gran parte per questo che il foglio rimaneva immobile. Una volta accettato il fatto che se non stavo tra Proust e Tolstoj potevo stare comodamente tra Pirandello e altri scrittori conosciuti e sconosciuti, gran parte del nodo narrativo venne miracolosamente sciolto e liberato.

In quanto al Maestro Cerami realizzai che se, grazie alla banalità di scrivere un racconto per Natale avevo ripreso a scrivere ed ero felice, della sua illustre opinione me ne potevo pure fottere.

Riflettendo ancora pensai che in fondo ero in ottima compagnia: Dickens, Buzzati, Calvino e un altro sfigato come Eduardo hanno dato le più grandi pagine di letteratura e di teatro grazie al Natale.

Persino Sir Conan Doyle fa muovere Sherlock Holmes in pieno periodo natalizio.

Solis Invictus, La Vergine partorisce il dio Sole. Il Solis Invictus è una divinità orientale ma l’Imperatore Aureliano, dal momento che il dio gli aveva dato una manina per vincere una guerra, ne proclama la romana regalita’. Il 25 dicembre del 274, il divo Aureliano, inaugura il tempio della nuova divinità ai piedi del Quirinale. I Cristiani il 25 dicembre festeggiano la Nascita di Gesù Nostro Signore.

Pagana, romana, cristiana in ogni caso nel solstizio d’inverno questa grigia stagione si illumina di Cristo, del Sole e di tante luci e candele accese che rischiarano questo tempo che senza il Natale sarebbe solo triste.

In più, in tempo di Natale, il dio Sole mi rischiarava la strada della scrittura. Era l’emozione che portava alla creazione, giusto per continuare sulla scia della banalità. Ma la scrittura è questo per me, una grande emozione che come il sole illumina la strada verso la meta, meta che non è né semplice né facile da raggiungere ma con il calore si superano meglio le difficoltà che tutte le strade strette comportano.

Adoro il Natale, che è l’emozione dell’attesa. Fuggo da chi: “ Io odio il Natale”, “Non vedo l’ora che finiscano le Feste”. Se fosse in mio potere farei Natale tutto l’anno, magari a Rio perché c’è un po’ più di caldo….

Il Natale è la famiglia, e che importa di questi tempi se le famiglie sono un po’ scompagnate. L’importante è avere degli affetti e non sentirsi diversi se tutto non è secondo i canoni, che quelli sì sono una triste banalità. Infatti, io non aspetto più un fidanzato sotto l’albero, per far finta di fare “la famiglia felice”. Ho la famiglia che ho e con quella sono felice!

La mia famiglia tra gioie e dolori basta e avanza e Babbo Natale purtroppo non l’ha ancora capito. Tutti gli anni tenta di propinarmi in qualche modo avanzi improponibili del ato, spero questa volta di essere stata convincente e di averlo sedato per sempre.

Pacco di Natale

Non era certo la prima volta, era solo una delle tante. Fa sempre male ma oramai un po’ meno, ami meno soffri meno, è quasi come “prendi due paghi uno” nei discount. Era l’ultimo “ Non ti amo” della mia vita. L’ultimo della collezione ma questa volta poca sofferenza solo un po’ di rabbia e un gran senso di liberazione. Uno dei pochi vantaggi che si hanno nel collezionare brutti rapporti è che non si hanno rimpianti. Una vita fa queste storie le vivevo malissimo. Ero certa che fosse una mia incapacità, e, a fasi alterne, mi impegnavo a ricercarne le cause, a cercare risposte alla mia solitudine da Fromm a Gesù Cristo. Il risultato dopo mezzo secolo di vita è che gli uomini mi interessano sempre meno per grazia di Dio e del calo ormonale. Libri, teatro, viaggi, amici non ho tempo per fermarmi, ma ora è Natale e non pensavo che l’albero, i suoni e i colori delle feste mi risvegliassero questi desideri. E’ stata veramente una sorpresa trovarmi a sognare un essere di sesso maschile che mi stia vicino. Non è il desiderio del sesso, o non solo, è come cercare un’atmosfera, un incentivo per compiere piccoli atti di nessun conto come preparare una cena o mettersi qualche cosa di sexy.

Spero che questo tipo di influenza, non contemplata nei manuali di medicina, i in fretta con le ultime luci di Natale e le calze asciutte della Befana.

Mi sveglio sono le sei, vorrei dormire ma coraggiosamente mi alzo. Caffellatte ti amo. “Ti amo” è scritto a lettere gigantesche e rosse nella tazza del caffellatte. Il desiderio d’affetto mi fa superare anche il più trucido kitsch, il caffellatte mi fa superare ogni traumatico risveglio. Doccia, trucco, vestiti, non male, non sono ancora un rudere. Le campane della chiesa di S. Giacomo mi avvertono che devo affrettare il o: che noia. Mi spaventa pensare che migliaia di persone in tutto il mondo, alla stessa ora, compiano lo stesso rito e corrono verso la loro giornata di lavoro…Uffici, cantieri, fabbriche, mete agognate dai disoccupati si tramutano presto, una volta raggiunte, in luoghi di incubi notturni e diurni. Un tempo pensavo che il lavoro, un qualsiasi lavoro, fosse la mia porta per la libertà.

Guardavo mia madre sfruttata, avvilita o meglio a me così sembrava e giurai che mai sarei finita così. Il giuramento l’ho mantenuto ma con la reminiscenza di un antico marxismo e la consapevolezza di una matura frustrazione, non sono così sicura di aver trovato la mia strada per la libertà ma in fondo non ne vedo altre.

In compenso sono arrivata alla meta, saluto il portiere, chiamo l’ascensore, tiro fuori il badge: bip.

Penso a Babbo Natale che anche quest’anno non mi ha lasciato il fidanzato sotto l’albero. Il vantaggio del lavoro assillante è che ho solo 15 minuti per pensarci e forse anche meno se controllo la posta. Controllo la posta, i 5 minuti per pensare li spendo per guardare il mio collega sposato da 35 anni. Non oso pensare ai trentacinque anni di caffè mattutino, di sesso notturno, di noia diurna e viceversa. Eppure sembrano felici, lui e la moglie, voglio dire. Che differenza a a dividere la vita con qualcuno e a non dividerla con nessuno? Innanzi tutto è fondamentale distinguere se questa vita la dividi con Bill Gates o con Antonio Piras e qui ci sarebbe da scrivere un trattato, per brevità e comodità di analisi potrei cercare di indovinare come dividere la vita con Antonio Piras, ma oltre alla noia non percepisco nulla. Forse è per questo che Babbo Natale nicchia. Anche gli uomini prendono cantonate, ricevo la telefonata di un amico che sotto l’albero ha trovato il pacco della sua ragazza. Un benservito tra le palle e un panettone più velenoso della cicuta. Femmine e maschi hanno la stessa capacità di distruggere interi album di foto di famiglia che non saranno mai scattate lasciando buchi vuoti e sfocati negli animi dei malcapitati, buchi bui e infiniti come quelli delle galassie. Ma è così difficile stare insieme? Così complicato? Così irraggiungibile? Di fronte alla disgrazia altrui non mi sento fortunata, mi sento solo un po’ morta. Dal momento che al malcapitato non è stata fornita alcuna spiegazione evito di dispensare consigli ma ascolto con convincente partecipazione.

Torno a casa stravolta, nell’androne dell’ingresso la cassetta delle poste è praticamente vuota o forse no? Mi pare di intravvedere una busta… verde. Porc…Una multa? Apro arrabbiatissima. Sorpresa! E’ una lettera di Babbo

Natale.

Cara Silvia,

Ti informo che per Natale sarai il regalo di Gianni. Si Gianni quello che l’altra sera hai finto di non riconoscere, quel povero Gianni che quando è entrato nel tuo Ufficio hai messo alla gogna con le tue colleghe raccontando nei minimi dettagli la défaillance di quella notte di trent’anni fa!

Non ti sembra di aver esagerato? Trent’anni fa hai tratto delle conclusioni troppo avventate.

Lo sai che lo stress e l’emozione giocano brutti scherzi? Tu sei stata spietata! Quando ci fu il fattaccio hai subito dato retta a quella pettegola di Cristina che riportava ai quattro venti quella storia tra lui e un certo Davide. Tutto da dimostrare….

Non pensi che la tua vita sarebbe potuta essere diversa? Oggi non saresti sola, avresti un marito dei figli…

Silvia devi imparare ed essere più tollerante con gli uomini e non arrenderti alle prime difficoltà.

Ho già organizzato tutto, vi troverete all’Hilton di Tunisi. La suite è stata prenotata, all’aeroporto verrà a prenderti la Limousine, cenerete nella sala da pranzo dell’albergo, io ho pensato a tutto. Tu potrai scegliere l’abito, ho lasciato

il conto aperto a tuo nome da Gucci, ma mi raccomando devi essere sexy e dolce, misteriosa e rassicurante, divertente e riservata. Devi fare il miracolo!

Silvia è la tua ultima occasione: o un futuro con Gianni o la solitudine e l’ospizio.

Il volo per Tunisi è alle 20 del 24 dicembre, il biglietto lo troverai all’aeroporto.

Buona fortuna

Babbo Natale

Che stronzo! Non si fa vivo per dieci anni e oggi mi manda una lettera con richiesta regalo natalizio! Io dovrei essere un regalo, IO? Sapevo che era molto scaduto ma per non ricordarsi che è lui Babbo Natale e che è Lui che DEVE portare i regali ha sicuramente acchiappato un Alzheimer galoppante.

Ho poche ore per preparare il cenone e l’ultima cosa che posso fare è rispondere ora a questa richiesta inopportuna e sicuramente interessata.

Babbo Natale anche in tempi non sospetti è sempre stato uno schifoso opportunista. Ai bambini ricchi porta regali miliardari e quelli poveri caramelle e patatine. Eh già quelli ricchi da grandi potranno ricambiare il favore quelli poveri invece…

La tovaglia dorata luccica sullo sfondo rosso, i calici di cristallo, i sottopiatti d’argento la composizione di vischio al centro tavola. Sono felice, il magone del maschio soffoca sotto il traboccante cesto dei regali. Amo la tavola delle feste è il mio modo per augurare tutto il bene del mondo a chi entrerà nella mia casa. La mente vaga ripesca nella memoria una grande villa lontana su un’incredibile collina che si apre sul mare. Ricordi e nostalgie dei trent’anni, della forza della speranza che rincorreva una nuova vita. La nostalgia della forza, la tristezza di non rincorrere più chimere. Ci vuole un buon bicchiere di vino.

Nel fondo del bicchiere cerco di chiarirmi il limite tra speranza e chimera. Suonano alla porta ci penserò dopo, non è un pensiero che si può liquidare in un dito di vino.

La tavola imbandita, le candele accese, l’affetto che cresce tra riso e complicità.

La mente ritorna alla villa nella collina incantata. Il pensiero fluttua e le emozioni contrastanti si scindono senza soluzione.

Un’incredibile nostalgia mi prende per quel cielo carico di stelle, quella enorme terrazza sul mare, Il Natale e il sud, la magia del ricordo muta un luogo di questo mondo con un angolo del mio cuore.

Ritorno a tavola risvegliata dalle risa dei racconti coloriti di mio fratello che da qualche tempo vive in Castello. Il Castello cuore della città, un tempo contrada di altezzosi signori, oggi tempio indisturbato di galeotti e spacciatori, è il teatro preferito per i grassi racconti di una città sonnolenta che attende ancora il suo Pigmalione.

Da Castello a Tokio, mia sorella canta e gira il mondo: Firenze, Pechino, Gerusalemme, New York.

L’astice è buonissimo, meglio di quello Cubano. Vorrei dare una svolta alla mia vita, potrei trasferirmi in Colombia: apro un ristorante, di giorno cucino e la sera aspetto che l’aria mi ossigeni la mente. Forse basta l’aria per scrivere come Garcia Marquez.

La mezzanotte incalza, i botti, lo spumante, i regali. Buon Natale. Sotto i regali ricompare la nostalgia sopita di un lui a cui fare i regali .

La notte è fonda, vanno via tutti e resto sola.

Il letto è vuoto e vorrei dormire ma ho come la sensazione di dover ancora fare qualcosa. Certo! Devo rispondere a Babbo Natale. Innanzi tutto devo cercare un foglio, un foglio che somigli il più possibile ad un avviso di garanzia. Bene! Trovato! Ora ci cuciniamo Babbo Natale:

Caro Babbo Natale,

Solo oggi apprendo che sei stato rilasciato dalla polizia Boliviana, ma dopo aver letto la tua avrei preferito continuare a leggerti nella lista dei desaparecidos.

Quel Gianni, come regalo di Natale, avevi cercato di rifilarmelo ben trent’anni fa e se trent’anni fa aveva quel piccolo “difetto”, penso sia molto improbabile che oggi sia riuscito a rimediare.

In quanto alla mia presunta cattiveria non posso che confermare i fatti di cui tu sei già abbondantemente a conoscenza. Inoltre, quando ho raccontato la storia tra lui e quel Davide ho riportato la fonte sottolineando che quella Cristina era un’incorreggibile pettegola. Insomma relata refero.

Un marito? Dei figli. In tua assenza, Caro Babbo Natale è arrivata anche la … Menopausa…

Insomma Babbo Natale non vedo il motivo di tanta ostinazione. Oppure il motivo c’è? Ricordo che proprio trent’anni fa quel Gianni, che era povero in canna, arrivò a casa di quella Cristina con un Rolex d’oro da venti milioni. Regalo di Babbo Natale? E io dovrei crederci? Insomma l’Hilton, la Limousine, l’abito di Gucci. Ma tu non dovevi portare le macchinine ai bambini del terzo mondo? O hai cambiato incarico? No, perché se hai cambiato incarico i conti tornano. Oddio se tu hai cambiato incarico possiamo anche metterci d’accordo, ma un abito di Gucci francamente mi sembra un po’ poco. Vabbè che eri in Bolivia ma bastano tre telegiornali, dovresti capire che perché il tuo amico abbia una moglie, la signora in questione dovrebbe come minimo avere una bella poltrona nel consiglio d’Amministrazione della Banca d’Italia. Caro Babbo Natale, ora ti lascio, ma penso che sicuramente riusciremo a metterci d’accordo, in fondo a Natale siamo tutti più buoni. Tua Silvia.

Sicuramente sparisce! Pensava di cavarsela con un abito di Gucci. Che stronzo!

Pranzo di Natale senza rappresaglie. Mi manca un uomo che affetti la salsiccia, che tagli l’arrosto e mi stappi il vino, il magone mi prende. Mia sorella taglia la salsiccia, mia cognata affetta l’arrosto mentre mio fratello guarda la TV, io stappo il vino che è uno dei miei sport preferiti. L’eterea presenza del mio uomo aleggia nell’aria, adoro la sua perfezione! Certo mi manca, in compenso sono sicura che quest’anno sono stata proprio brava, ho ricevuto gli auguri da tutti gli

amici e anche da qualche sconosciuto, ho collezionato tanti graziosi regalini e sono certa che in nessuna parte della casa si nasconde neppure un po’ di carbone, bruttissimo segno!

Il cibo e il vino alimentano la conversazione, il tempo scorre. E’ Natale fino al caffè.

In quest’ultimo scorcio dell’anno sembrano tutti impazziti, il lavoro non da tregua.

E’ l’ultimo giorno dell’anno e come sempre torno a casa sfinita ….

Babbo Natale come previsto è scomparso….

…Ed è l’ultimo dell’anno e…non ho voglia di feste, di sorrisi, di risate e di abiti sexy e non ho voglia neppure di te a cui non ho lasciato il regalo sotto l’albero, che non ha affettato la mia salsiccia, né tagliato il mio arrosto. Il Natale sta finendo, la malattia sta guarendo. La bottiglia di champagne è in fresco e la stapperò da me, riempirò due flute, quelli di cristallo che ho comprato per noi, brinderò a me e alla mia buona fortuna.

Senza rimpianti.

A tutti miei cari, Buon Anno.

La sbentiataggine

Come sei sventata! Quando, inciampo, o prendo un palo, o in macchina mi riempiono di parolacce, in genere meritate, se colleziono l’ennesima gaffe, sento ancora la voce di mia madre che diffonde nell’etere le sacre sillabe”Come sei sventata!!! hhaaa”.

Al giorno d’oggi, in un mondo competitivo, senza regole, sempre più carente di buona educazione e intriso di scorrettezza mi sono dovuta abituare, aimè e mai abbastanza, a stare attenta.

Ma la sbentiataggine quando te lo puoi permettere è il mondo incantato dove tutto è possibile.

Nel mondo tridimensionale la sbentitaggine è la quarta dimensione dove è il mondo che non c’è.

Lo sventato, in genere, si coniuga con il verbo sardo “scirarindi” che significa svegliati.

Ma lo sventato non ha nessuno voglia di svegliarsi.

Il torpore della quarta dimensione rende possibile il soggiorno su questa terra perché spesso posa una coltre fitta di nebbia sulla bruttezza, sulla volgarità,

sull’ignoranza.

Se soffrite di sinusite sapete bene che se è vero che questo disturbo attenua gli odori e altrettanto vero che attenua anche le puzze.

Se qualcuno di voi è miope sa che di fronte allo squallore è meglio togliersi gli occhiali, i contorni si confondono e l’offesa alla vista è attenuata.

La sventataggine è un grande amore un rifugio per sottrarsi ad un mondo che a volte non è né bello né amico.

E poi nel tuo mondo puoi metterci di tutto, gli orizzonti si moltiplicano, anche nelle situazioni senza uscita si possono applicare infinite soluzioni. Tutto vale se l’ufficiale giudiziario non vi rompe le uova nel paniere.

Test di qualificazione dello sbentiato

Livello 1 : sei in un bellissimo parco attraversato da un fiumiciattolo dove si specchiano oleandri e papiri, intorno alberi di pesco, ulivi selvatici e querce. Improvvisamente nel prato dal nulla compaiono una ventina di oche che compitissime ondeggiano in fila indiana. Se associ alle convintissime oche l’immagine delle superpagate modelle della erella di Dior sei sufficientemente sbentiato.

Livello 2 : sei ad un buon livello se alla sfilata si unisce un topino che saltella nel prato e tu sei sicuro che lui ti inciti a seguirlo ma non riesci a capire dove si

nasconde, nel frattempo diventi matto per vedere dove finisce il topino che salta.

Livello 3: se capisci che il topino entra dentro un pertugio e tu con tutto il tuo peso lo vorresti accompagnare, sicuro che dentro il buco troverai il Cappellaio Matto e Mr. Carrol in persona che ti offrono il tè, sei uno sbentiato aspirante poeta.

Se perdi abitualmente le chiavi, se non ricordi chi sia quel tale che ti saluta con affetto come se aveste cenato insieme la sera prima, se ti viene la vertigine quando apri un cassetto e trovi il documento che hai smarrito mesi fa e ti sei pure fatto fare il duplicato sei sbentiato e basta.

In entrambe i casi tutte le case degli sbentiati sono infestate da spiriti che spostano le cose, oggetti che misteriosamente compaiono e scompaiono.

Il nostro Santo protettore è sant’Antonio che invochiamo un gran numero di volte al giorno sia in sardo che in Italiano.

In Italiano l’invocazione è questa: Glorioso Sant’Antonio, tu hai esercitato il divino potere di trovare ciò che era stato perduto. Aiutami a ritrovare la Grazia di Dio, e rendimi zelante nel servizio di Dio e nel vivere le virtù. Fammi trovare ciò che ho perso, così da mostrarmi la presenza della tua bontà. In sardo è più diretto e più veloce: Sant’Antoi de sa cosa pedria S’Antoi de sa cosa accattare aggiudaimi ca seu disisperada.

( Sant’Antonio della cosa perduta Sant’Antonio della casa ritrovata aiutatemi che son disperata).

Meglio in sardo si fa prima e l’oggetto ricompare al volo.

Gli sbentiati hanno un loro personalissimo mondo perché devono ancora decidere se quella noiosissima cosa che si chiama realtà gli piace o non gli piace. A me piace insomma, il motivo è che a stare troppo col naso all’insù, sembra strano, ma dopo un po’ si avverte un fastidioso disturbo nel fondoschiena, proprio là dove si chiude l’osso sacro. E sembrerà ancora più strano ti potresti trovare senza apparente motivo col conto in banca prosciugato, senza lavoro e magari anche senza marito. L’assenza di un marito o di una moglie potrebbe essere anche una benedizione in questo caso si invoca la “ Provvidenziale Sbentiataggine”. Per tutto quanto sopra esposto mi sono rassegnata ad essere una sbentiata part time. In questa storia una ragazzina con un terzo dei miei anni mi riporta alla mia data anagrafica. Ah! volevo dire che per gli sbentiati il tempo ha un valore effimero, sopratutto il tempo “lineare”, viviamo in una sorta di “tempo circolare” tanto caro a Platone, ma sconosciuto ai più per cui il confronto col mondo quando non ti sei orientata sul “tempo lineare “ ti viene un po’ in salita. Lo scorrere del tempo lo percepisci più che dalle date del calendario col fluire delle stagioni soprattutto se non hai cambiato taglia e ti puoi permettere di indossare il cappottino di tanti anni fa che ti piace tanto.

Sono sventata tutto l’anno ma questo racconto avvenne in tempo di Natale, uno strano Natale con un caldo afoso che più che stelle e lucette poteva far prevedere secchielli e ombrelloni. Ma era Natale lo dicevano gli addobbi dei negozi e le lucette in vendita nelle bancarelle e bisognava crederci.

In questo articolo-racconto ho utilizzato l’artificio letterario del”doppio”, un po’, con la dovuta distanza, come “Il sosia” di Dostoevskij. Per far capire l’escamotage ad un amico, nel mandare la mail specificai che:”Ovviamente la signora sono io”, il mio amico siculo e ci tengo a dirlo rispose “Ovviamente se fossi stato il pescivendolo col cavolo che ti avrei smazzato le anguille”.

Anguille in Rap

Per fare una buona zuppa ci vogliono le anguille vive, guizzanti e limacciose, bisogna comprare quelle piccole, quelle grandi sono troppo grasse e si fanno arrosto.

Il sapore delle anguille porta al mercato. Cagliari mercato di San Benedetto, stelle, palle e bancarelle, fino a qualche giorno fa c’erano 24 gradi, oggi fa freddo. Si sente musica in lontananza, verso Via Bacaredda, non sono le solite canzoni napoletane che da decenni offendono l’udito dei cagliaritani, è una musica strana sembra che parlino in sardo.

Nello spiazzo a nord del mercato alcune persone, non molte in verità, guardano in alto, la musica arriva dal lì, dal tetto del mercato. C’è pure un gruppo compatto: ragazzi dai capelli a strisce arancioni, una ragazza non si capisce bene se con calzoni corti o mutande lunghe e per tutti i sessi un’incredibile abbondanza di piercing. Il gruppo è infogatissimo.

“Meda genti genti intelligenti oberrit sa buca e parrit ki stait caghendi caghendi de menjanu a merì sparendi cagadas totu sa dì totu sa dì anant’’e unu telebisori citeisi’ kistiònat su bufoni coglioni issu totu sciri ma stait amprifikendi sa boxi de su meri sa boxi mia tui da depis ascurtai est de sa terra tua ki ti ‘ollu kistionai annus annus annus de sfrutamentu americanus mineras e cimentu insandus: àrtzia sa boxi, ayò.”

“Artzia sa boxi. Fantastico, non trova?” Mi interroga una signora con la piega fresca di parrucchiere, la borsina antiscippo di Byblos e l’abbigliamento finto casual perfetto per il mercato.

“Finalmente qualcuno che dice senza giri di parole quello che pensa. “

Sul tetto del mercato cinque ragazzi che hanno attraversato l’adolescenza da un pezzo, danno sfogo a tutta la loro rabbia:

“Decimomannu La Maddalena spezziamo la catena che da anni ci imprigiona Missili basi nucleari dov’è la ricompensa degli americani e Prendono tutto portano lutto impongono il loro modello di sviluppo Guerra dappertutto lutto sfruttamento fame e miseria nel sud del mondo e non è una malattia non è la carestia son gli interessi criminali delle multinazionali che Costringono la gente nel nero continente a una produzione per tutta la nazione e Basta un crollo del prezzo di mercato che un intero popolo si trova condannato e Basta un crollo del prezzo di mercato che un intero popolo si trova condannato Condannato nato condannato sei nato con la Nato condannato dalla Nato “

La signora in “veste spesa, ma sono perfetta” è letteralmente elettrizzata, si vede da come si muove rapita dalla musica, dalla rabbia sepolta, dall’ideologia indipendentista.

Ad un certo punto vuol comunicare ai fans del gruppo tutta la sua intellettuale approvazione, si avvicina alla ragazza dai lunghi capelli gialli con un sorriso altamente partecipativo:

“Ciao ma è un gruppo rap?”

“Si è tra i primi gruppi rap sardi” risponde la ragazza con compiaciuta consapevolezza.

“Chi sono?”

“Sono Dr.Drer & Crc posse, “

“Cosa fanno là sopra?”

“Stanno girando un video”

Sempre più interessata la signora esclama“Ah! Interessante…” e si morde la lingua, ha a malincuore valutato che, in quel contesto, fare anche un solo accenno alla continuità del rap sardo con le antichissime e sardissime gare poetiche fosse decisamente fuori luogo. Decide di fermarsi lì.

”Grazie”

“Si figuri” La ragazza voleva essere carina e, a dispetto dell’aspetto, beneducata,

Ma dall’espressione del viso della signora quel “Si figuri” deve essere suonato come un insulto.

Il pensiero si materializza come un fumetto “Come? Non si vede sono una di voi?”

Guarda intontita il piercing sul naso della ragazza, gli ulteriori altri piercing sulle labbra, i calzettoni a righe bene in vista sui calzoncini quasi mutande. In un attimo fa l’inventario di quanto ha indosso compresi i gioielli tenuti rigorosamente in cassaforte, una vera signora non ostenta gioielli li lascia in cassaforte.

“Si figuri” segna la distanza tra lei e la ragazza, la stessa distanza che va dalla terra alla luna.

Sconsolata entra dentro il mercato.

Mi avvio tra le bancarelle della piccola pesca.

Eccole le anguille quelle giuste, quelle vive, della dimensione di un dito. Oh no! la signora è arrivata prima di me.

“Devo fare la zuppa di anguille come quella di mia nonna”

“Non ci riuscirà mai” Risponde lapidario il pescivendolo. La signora incassa per la seconda volta.

“Si va bene, però me le smazzi”. Vedo che il rap ha fatto il suo effetto.

Paga ed esce, esco anche io, nel frattempo ho comprato le cozze.

Alla parte sud del mercato su un banco improvvisato si raccolgono firme.

Un ragazzo volenteroso ferma la consumatrice di anguille in rap.

“Signora vuole firmare per dare la nazionalità ai bambini degli extracomunitari nati in Italia”

“Certo!”Risponde convinta.” Mi sembra un fondamentale atto di civiltà” dice, anche gli Stati Uniti sono nati così, pensa ma non dice.

“ E firma per dare la nazionalità e il diritto di voto agli extracomunitari?”

Si guarda intorno è pieno di neri alti e grossi, sono troppi, magari si vede già sotto un burka.

“No, senta vada bene per i bambini ma per questo problema devo valutare.”

“Bene come vuole.” Il ragazzo non insiste.

La donna sta per dileguarsi quando un flash mi torna alla memoria: anni ‘ 70 liceo Pacinotti, una ragazza, sicuramente la figlia extratemporale dalla signora, litiga violentemente con un compagno, le aveva dato della “borghese”, era una furia.

Ora sembra sedata. Forse con gli anni ha imparato ad incassare e a cucinare, fallito il mito della rivoluzione a tutti i costi, tra le priorità emerge la zuppa di anguille……

La musica cessa, la donna scompare, la temperatura si abbassa. E’ Natale.

NDR Si avverte chi legge e ha la fortuna e la sfiga, di fare il linguista o il semiologo che le parole anguille e cozze devono essere usate nell’accezione scientifica e culinaria, ogni altra lettura è una vostra, personalissima, sega mentale.

In tempo d’inverno

Ricordo di famiglia

La donna sarda

Il femminismo

Mai state brave ragazze

Ricordo di famiglia

Biogenetica, memoria genetica, ricordo ancestrale, reincarnazione, ora anche le “Costellazioni Familiari”. Tutti questi nomi corrispondono ad altrettante discipline che cercano di dare una risposta a questa domanda: “Dove abbiamo imparato tutto ciò che sappiamo e che non possiamo aver imparato in questa esistenza?” “Da dove arriva la consapevolezza del nostro sapere non acquisito in maniera empirica?”

Chi con la scienza chi con l’esoterismo, e ognuno a suo modo, cerca di espandere la propria memoria al di là della sua breve storia.

Perché noi donne sarde, a differenza delle altre donne che vivono nel bacino del Mediterraneo abbiamo un innato senso dell’autonomia e della gestione di quel micro universo che è la famiglia lo spiego ne “La donna sarda”.

Ho poco o nulla da aggiungere a quanto ho scritto in questo articolo, comparso sul sito della “Fondazione Sardinia” qualche inverno fa, se non un grazie grandissimo a tutte le donne della mia terra che mi hanno preceduto e a quelle che oggi calpestano la terra nei cinque continenti.

Se dovessi scegliere solo un aggettivo per noi direi con forza che siamo donne coraggiose. Col dovuto senso sociale del tempo siamo donne che nella storia ci siamo state e continuiamo ad esserci.

E non parlo solo di Eleonora e Grazia, donne famose di cui andiamo fiere, donne

che hanno scritto righe memorabili nella storia ufficiale ma anche di donne meno note ai più e che fanno parte del nostro universo familiare.

In Sardegna, è quasi certo, che ognuna di noi possa vantare nel proprio albero genealogico almeno una donna “fuori dalle righe”di cui andare orgogliosa.

Più avanti racconterò di Rina la prima donna laureata in chimica nella città di Cagliari, zia di Cristiana Alziator, ma attingendo invece dal mio romanzo familiare voglio ricordare la mia prozia Caterina.

Suor Annunziata al secolo Caterina Piras, sembra l’incipit della Monaca di Monza ma invece non c’entra nulla. Io ho conosciuto la zia Caterina che faceva già parte dell’ordine Vincenziano delle “Figlie della carità” quando avevano ancora come copricapo l’enorme “cornetta”, come quella di Suor Nicoli per intenderci.

Io ero piccola e mi son sempre fatta poche domande, veniva a trovarci raramente ma quello che trovavo molto strano è che quando veniva a casa non pranzava mai con noi. Assurdo che un ospite pranzi in un’altra stanza. Non ricordo se fui io a chiederlo a mia madre, o se fu lei a darmi una spiegazione non richiesta, fatto sta che mia madre in gran segreto mi rivelò che la zia doveva pranzare da sola per via dei “voti”.

Facevo la prima elementare e pensai che questi voti dovessero essere veramente insufficienti per non poterle permettere di mangiare in pubblico!

In quel periodo abitavamo ad Oristano e zia Caterina era lontana, stava in convento a Cagliari.

In famiglia era ricevuta come una grande personalità, a me sembrava che se la tirasse un po’ e tra cornetta e denti d’oro mi metteva una gran soggezione. Solo da grande capii che aveva l’atteggiamento di chi capisce di non essere capito e non vuol fare la figura del fesso.

Quando venimmo a vivere a Cagliari le frequentazioni si intensificarono. L’imponente figura che scendeva le scale per raggiungerci nella sala dove eravamo riuniti in attesa che finisse il pasto divenne più umana, e col tempo sempre più simpatica e divertente.

Mia madre in famiglia ha sempre svolto il ruolo di Kissinger e non si è mai fatta sfuggire la minima occasione per esercitare il suo ruolo diplomatico. Questa attitudine materna che cozzava oltremodo con la ruspanteria paterna per noi bambini era una vera sevizia.

Oggetto di culto materno erano le visite di cortesia, le fasi preliminari telefonate ed accordi prima della famigerata visita con relativa corrispondenza erano, fortunatamente, solo di suo appannaggio. In questo ruolo poteva essere anche l’unica protagonista, ma per recitare il pezzo forte della rappresentazione mia madre non poteva non avere “il coro”. Protagonista della fiction ‘’Madre amorosa e sposa perfetta’’da sola le sarebbe venuto male, io e i mie due fratelli eravamo le comparse perfette. E come vere comparse ci dovevamo comportare: scarpe bianche, calze immacolate, zitti, muti e guai se ti scappa pipì.

Con questo copione e nessuna divagazione ci si recava in visita dalla zia Caterina.

Forse frequentavo le scuole medie quando scoprii il motivo per cui mia zia era

considerata un’autorità. La ragione non era solo perché era suora, anche se in quei tempi in Sardegna e in tutta Italia una suora in famiglia faceva certo comodo, ma perché mia zia classe 1896 o su di lì aveva studiato a Torino la vecchia capitale del Regno d’Italia.

Andare a studiare da Oristano a Torino al giorno d’oggi non è né facile, né agevole, né economico, nel lontano 1917 era quasi una follia. Come le venne in mente questa idea non si sa ma la famiglia fu dalla sua parte, soprattutto mio nonno. Ad Oristano invece si gridò allo scandalo, figurarsi quando mia zia tornava dal Continente osava indossare addirittura i pantaloni. Tutti sognavano un insegnante in famiglia ma l’investimento di mio nonno per averla fatta studiare fu devoluto a totale beneficio dell’istituto tenuto delle Suore di San Vincenzo. Lavorò con zelo e ione fino all’età di settantacinque anni.

Ricordo che quando andavamo a trovarla nell’istituto Carlo Felice il suo argomento preferito era il resoconto del litigio quotidiano con la superiora.

Mia madre sicuramente non approvava i modi energici e diretti della zia Caterina che detestava il carrierismo di alcune consorelle e l’avidità dell’ordine. Spesso si scagliava contro questi vizi con una ione che oggi definirei anticlericale. A me stava sempre più simpatica ma ho il sospetto che mia madre la trovasse un mito fuorviante per la mia educazione. Probabilmente allarmata un giorno mi rivelò che la zia dopo gli studi era diventata crocerossina e viveva a Parigi. In quel di Parigi ebbe una crisi mistica e prese i famosi voti. Pare, questo lo aggiunse sotto voce, che Suor Annunziata arrivò alla decisione di ritirarsi in convento per via di una delusione sentimentale. Qualche anno dopo seppi di straforo che mio nonno trovò un carteggio in se che confermava questo irripetibile segreto.

Mia madre raccontò la storia, come si conviene, senza commento ma il tono era una esplicita condanna intrisa di commiserazione e tradotta dal suo personalissimo vocabolario suonava cosi: “Non farci caso è una strana e non

devi somigliarle.” “Non è riuscita a sposarsi e si è fatta suora.”

Quando morì scoprii che la zia Caterina era famosa anche tra le consorelle per la sua enorme cultura e il suo carattere di merda. Al suo funerale c’erano tantissimi volti giovani: i suoi alunni che a dispetto dell’apparenza amavano il suo cuore e tanti che come lei detestavano l’ipocrisia.

L’ultimo periodo della sua vita stava nella casa Vincenziana di Via dei Gabbiani a Cagliari. Per chi non lo conoscesse è uno stabile di lusso sul colle di fronte a Bonaria. Per non stare scomode le suore non hanno lesinato alcun orpello, marmi e stucchi compresi.

Sento ancora la sua voce che impreca contro gli sprechi evidenti disposti dalle madri generali del suo ordine.

Anche a lei dico grazie soprattutto per avermi lasciato in punto di morte questo testamento:

‘’Hai visto che lusso, stanno cambiando i marmi. Hanno tolto i vecchi e li stanno sostituendo. Che schifo! Ma quali figlie della carità e quale carità! Non vedo l’ora che vengano i comunisti a portarci via tutto questo sfarzo. Speriamo che vengano presto questi comunisti!’’

La donna sarda

Il brano “La donna sarda “ di Giuseppe Dessì ebbi l’opportunità di leggerlo negli anni ’90 o giù di lì, in RAI, grazie all’amico Fernando Pilia.

In quel periodo lavoravamo insieme per la produzione un programma che si chiamava “Marchio di qualità”, il meglio della sardità.

La riflessione di Dessì, che invito tutti a leggere, conferisce alla donna sarda una connotazione quasi sacrale. Mi colpì moltissimo la posizione estrema dello scrittore che mi sembrò, in quel momento, esagerata nell’enfasi, ma realistico nei contenuti. L’unica organizzazione che funziona in Sardegna è la famiglia e questo grazie alla donna. Dire il contrario non risponde a verità.

A distanza di tempo penso che per Dessi, come per Satta, e la Deledda e tanti nostri conterranei che hanno vissuto fuori dall’isola, la Sardegna diventi il luogo irrisolto del loro senso di colpa. Sta stretta l’isola a chi ha giuste ambizioni e larghi orizzonti, ma chissà perché, varcato il Tirreno, il mondo gretto e provinciale dal quale sono scappati continua a perseguitarli nel sogno senza sonno della nostalgia.

La Sardegna tradita diventa lo sfondo onirico dell’immaginario e del mito.

Penso che anche la donna descritta da Dessì più che donna sarda divenga donna santa grazie all’immaginario di chi scrive.

Forse è un po’ esagerato riconoscere la divinità a donne che tessono splendidi tappeti e confezionano ottimi dolci; ma se non dea, di una cosa sono certa, da donna, e da donna sarda, ho sempre avuto dentro di me la certezza di avere una marcia in più.

In questo bellissimo forum, di cui ringrazio la Fondazione Sardinia, molti tra i tanti che hanno dato il loro contributo hanno attinto dal loro personale “romanzo familiare”. Scrivere la nostra sardità significa scrivere il nostro modulo comportamentale in relazione alla nostra specificità. Inevitabilmente il primo modello che ci viene ato è quello della famiglia. Lo schema poi lo possiamo accogliere, rifiutare, o modificare, ma il sigillo familiare resta.

Nello scorrere le bellissime righe di Placido Cherchi, e il suo ricordo del padre, mi son trovata a rileggere la mia infanzia. Anche mio padre, nato in quel di Burgos nel Goceano, lavorava per una società straniera.

Mio padre che, grazie all’ostinazione di mia nonna, non aveva fatto il pastore ma aveva studiato, avrebbe dovuto far parte della classe dirigente. In realtà tutti gli impiegati sardi erano posti in una sorta di limbo, che li differenziava dalla classe operaia ma, per ovvi motivi di controllo, li escludeva dalla vera dirigenza. I sardi erano sempre interdetti dalle posizioni chiave, che delineavano le strategie aziendali e operavano le scelte. La nostra storia si ripete in scenari diversi, ma con dinamiche identiche, in tutti i settori e, purtroppo, in tutti i tempi. Ma non voglio parlare di questa classe che non si evolve e non diventa padrona, questa è un’angoscia che mi porto dentro ma lascio ad altri la soluzione.

Qui voglio parlare di quel che per me era lo straniero. Ora, mio padre, incatenato in questa sorta di limbo, aveva trovato il suo personale modo di sopravvivere: tra parlate liguri, venete e romagnole, lui borbottava in sardo tutto il suo disprezzo. In realtà questi capi e capetti, o che “mandavano in Sardegna”, spesso, non erano

il meglio della professionalità, e la loro incompetenza era vissuta da mio padre in due modi: la prima era un’intima cocente soddisfazione, che sfociava poi nel più violento e totale disprezzo. Perché si arrabbiasse tanto non lo capivo, in realtà era patologicamente collerico e sardista convinto. Io avevo dentro di me stabilito che questi signori che parlavano un italiano approssimativo e sgrammaticato non fossero né peggio né meglio di noi, erano solo diversi e solo un po’ più alti …un po’ più grossi. Anche con i loro figli non avevamo molto da spartire.

Questo modo di pormi mi sembrava neutro, ma era solo la distanza che manteneva il controllo, il forestiero non mi toccava perché era fuori della mia sfera di vita . Tanti anni dopo, infatti, una sera d’estate, nel sontuoso Hotel dei Principi del Forte Village, una grassona romana, malvestitissima, mi chiese “come ci si trova ed essere in minoranza?” A dire il vero non afferrai subito il concetto e chiesi spiegazioni. “ Come? Sei l’unica sarda!”. La guardai attentamente e vidi le altre signore. Erano tutte più o meno allo stesso livello di squallore, dovevano essere più o meno una decina. Quindi, con un sorriso, retaggio della diplomazia materna, e con sorda perfidia di sicura derivazione paterna, esclamai “Maria Laura , io non sono mai in minoranza”. Era un pranzo di lavoro e, diciamo, quella battuta non giovò granché alla mia carriera . Ma tutto ha un prezzo e lo rifarei, forse….

Lo dissi in segno di rivalsa e non era per dire. Quando ebbi a che fare per mie vicissitudini con una struttura familiare di stampo strettamente meridionalepatriarcale ebbi la certezza che la mia essenza era costruita in modo tale da non temere sfide. Le donne che mi avevano tramandato il loro bagaglio genetico mi avevano regalato una struttura forte, consapevole e autonoma. La capacità di gestire la realtà non si era formata in una sola vita, era tutta la memoria storica delle donne della mia stirpe che viveva in me.

A questo punto non potevo che concordare con Dessì e il suo concetto di Penelope.

Ma …ero giovane… Oggi, dopo un’attenta valutazione, penso che, sia il disprezzo che il senso di inferiorità, siano il diverso volto della stessa medaglia: la paura dello straniero.

Il cieco servilismo, come l’onnipotenza narcisistica, sono i sintomi di una mancata comunicazione, di un corretto confronto che sfocia nell’autismo.

Non cresci e non apprendi se pensi di non essere adeguato per il mondo e tanto meno cresci se pensi che il mondo ti sia inadeguato.

Per questo bisogna essere realisti e Dessì, infatti, non parla di matriarcato ma definisce il ruolo della donna come matriarcato clandestino.

La lingua italiana è altamente polisemica per cui è meglio intendersi sui termini.

Per società matriarcale si intende una modalità di governo nella quale il potere politico-economico, nell’ambito di una data comunità, è demandato alle donne.

Una struttura sociale si dice matricentrica, là dove la donna non domina sull’uomo ma esercita un’ampia influenza, sociale e psichica.

Si può certamente affermare che il ruolo della donna in Sardegna è abbastanza importante, tanto da essere matricentrico ma non abbastanza da considerarsi matriarcale. I ruoli sociali all’esterno dell’ambito familiare non appartengono per tradizione alla donna. Che la donna sarda abbia una forte ingerenza all’interno delle dinamiche familiare è indiscusso, è il suo “ matriarcato

clandestino”.

La Donna sarda di Dessì non può che lusingarci e rafforzare il non scarso senso di noi, ma c’è una contraddizione in termini quando arriviamo allo svilimento di Ulisse.

Benché il nostre illustre conterraneo fosse laureato in lettere penso che qualcuno l’abbia informato che i bimbi non nascono sotto i cavoli e che gli esseri umani non si moltiplicano per scissione. Quindi le donne non riproducono altre donne e gli uomini non riproducono altri uomini.

Le povere donne di eroi deluse dopo avere , ovviamente, seguito per filo e per segno il processo indicato nel manuale scritto dai Signori Adamo ed Eva, e dopo essersi accoppiate con tanti Ulisse di serie B o serie C (scegliete voi), a loro volta ne hanno partorito degli altri.

Ora, io dico, premesso che nel regno animale la riproduzione è fondamentale e dà valore alle specie, le donne straordinarie che non riproducono maschi straordinari, cessano di essere straordinarie?

O continuano ad essere straordinarie solo per la parte femminile della progenie?

Non attendo risposte ma sarebbe bello se tutti, noi madri comprese, ci specchiassimo in un largo e chiaro realismo.

Bertrand Russel:

“La nostra natura è infinitamente malleabile, ed è di questo che non ci si rende conto. Se paragoniamo un cane domestico ad un lupo selvaggio, si capisce che cosa possa fare l’educazione. Il cane domestico è una cara creatura, piacevole, ogni tanto abbaia e può anche mordere il postino, ma nel complesso è una brava bestia; mentre il lupo è tutt’altra cosa. Gli esseri umani, a seconda di come sono trattati , diventano totalmente diversi e considerano molto sciocca l’idea di poter cambiare la natura umana”.

Avere la coscienza che nella storia siamo stati penalizzati mi sembra un doveroso inizio, la speranza è la forza che ci serve per crescere, e il tempo, … il tempo ce lo dobbiamo dare per colmare il buio dei secoli.

In questo percorso non ci aiuterà, né il servilismo né il disprezzo, non ci servirà né piangerci addosso né rifugiarci nel mito.

Siamo forti ma non siamo dee e soprattutto non dobbiamo allevare eroi. Eroi ne abbiamo regalato anche troppi all’Italia in tutte le guerre e oggi altri giovani eroi tornano nell’isola dentro un lugubre sarcofago dalle cosiddette missioni di pace. Per essere donne straordinarie abbiamo due chances: uscire dalla clandestinità e impegnarci ad allevare uomini e donne che costruiscano una Sardegna migliore.

Il Femminismo

Questo scritto fa parte di quella scrittura femminil-femminista-intimista che alcuni detestano ma a me piace molto. La mia generazione o meglio, quella generazione di donne, sessantottine e post sessantottine, che avevano deciso di non ar la vita a “girare il sugo” si sono formate con Erica Jong con Marie Cardinal, Lidia Ravera.

Eravamo agguerrite ed entusiaste con i nostri jeans, camicioni e gonnellini.

Era la nostra identità.

Della forza e dell’innocenza di quei tempi ho molta nostalgia. Veramente credevamo di farcela a distruggere le barriere sessiste. E distrutto abbiamo distrutto: convenzioni e tabù’ abbiamo spazzato via, ma abbiamo trovato la libertà?

Non nego nulla di quei tempi e di quegli ideali, ma quello di “darla veloce” è stata poi una grande pensata?

Cosa è rimasto di quella rabbia furente sotto il tailleur di molte di noi bisognerebbe individuarlo.

Volevamo distruggere i tabù sessisti e troviamo le nostre figlie e le nostre madri

in TV che si scannano per un Giovanni, sco o Mario palestrato e sotto acculturato.

C’è stato un equivoco: cercavamo la parità non intendevamo perdere la dignità.

Volevano essere padrone della nostra vita senza are il tempo sui fornelli ma le donne manager sono pochissime e spesso figlie di… o compagne del….

In politica non va meglio non volevamo le quote rosa “non siamo una categoria protetta come i panda” ma a dispetto del numero totale della popolazione gli uomini decidono ancora per noi.

Dalle grandi multinazionali a tutti i gruppi, associazioni, parrocchie e cosche di ogni genere vale lo stesso processo: ai vertici ci sono in gran parte gli uomini.

Confuse nella sfera sentimentale e semi sconfitte nella sfera sociale, abbiamo sbagliato? No, abbiamo solo sottovalutato il problema.

Ci vuole il tempo per modificare il senso comune acquisito nei secoli e per ottenere risultati ci vuole determinazione.

Dovremmo costruirci un immaginario collettivo dove la nostra femminilità non sia considerata una tara ma una risorsa.

Educare i nostri figli maschi a collaborare e le nostre figlie femmine a “are

per la strada stretta” perché tutte le strada facili portano dappertutto fuorchè alla via per la libertà.

Di un vizio capitale dovremmo liberarci quello dell’invidia: le donne sono le peggiori nemiche del loro genere grazie alla maldicenza e al pettegolezzo, cattive abitudini che sono state spostate pari, pari dai mercati agli Uffici.

“Se non ora quando” Grazie per averci ricordato come eravamo.

Quella domenica c’era la stessa aria di trent’anni fa e per un momento mi sono illusa che i tempi fossero tornati. Ma Il tempo è ato, il mondo è cambiato e le bambine continuano a dire che le faccende di casa “ sono cose che fanno le mamme”.

E’ grave? Non saprei.

È gravissimo invece che ancora molte donne subiscano violenza tra le mura domestiche e si vergognino di denunciarlo.

E’ gravissimo che negli uffici le donne vengano molestate e ricattate e, anche se denunciati, i responsabili la facciano franca.

E’ oltremodo grave che ci siano un numero importante di donne uccise, non in Islam, ma in tutto lo stivale dal Trentino a Palermo dal loro fidanzato, marito, amante.

E’ giusto ambire ad una bella poltrona di amministratore delegato di qualche multinazionale, ma la stragrande maggioranza di donne a cui questo pensiero neppure sfiora dovrebbe pretendere con tutti i mezzi di poter andare tranquilla sola la sera, dovrebbe essere libera di poter dire di no al compagno che non ama più, dovremmo poter rifiutare incolumi ogni proposta che leda la nostra dignità.

Di contro noi donne smettiamola di avere atteggiamenti ambigui da gattamorta perchè: “divento intelligente quando mi serve solo che agli uomini non piace”. E’ ora di manifestare con chiarezza il nostro pensiero anche se è scomodo e non è condiviso.

Nella strada per la libertà non si va con la carrozza di Cenerentola.

Mai state brave ragazze

In tempo di inverno.

“Troviamoci tutte! - Se non ora quando?”

.

Le mail girano forsennatamente per tutte le città.

“Le donne si indignano, le donne non sono una merce .....”

Le viscere del femminismo mal sopito dolgono.

Le barche sul molo si cullano e sonnecchiano.

E’ un assolato mattino cagliaritano.

A ridosso della darsena un piccolo palco di fortuna.

Ore 10,30 ci sono solo le illuse, quelle con i capelli grigi anche sotto le meches.

Un nostalgico mondo di illuse che un tempo avevano la certezza che con la forza e l’intelligenza si sarebbe distrutta ogni barriera sessista.

Molte di queste, chi più chi meno, oramai sono scese a patti con la storia.

Le mail hanno vorticosamente girato e la certezza che ci sarebbero state cresceva ora per ora.

L’urgenza era troppo forte, ”porteremo anche i nostri figli e i nostri compagni”. In questo paese la parola dignità non si declina più né al femminile né al maschile. Ma la responsabilità, come da millenni accade, è femmina. Bisogna scendere a patti con la storia: non è certo il maschio, precario, disoccupato il nostro avversario del momento.

Non è più un fatto personale, un fatto privato. “Ognuno a casa sua fa quello che vuole”, quindi chi uccide dentro le mura domestiche è immune da qualsiasi pena? Ognuno a casa sua fa quello che vuole nei limiti del lecito. Il lecito è l’aggettivo con il quale si definisce ciò che è ammesso, permesso, consentito dalle norme morali e civili e dalla convenienza sociale, tale concetto di questi tempi è oltremodo variabile. Il lecito in questo paese ha una soglia per alcuni altissima per altri è inesistente, più cresce la potenza economica, sociale e politica più la soglia del lecito diventa labile.

Ore 11, 30 la luce del sole sulla darsena è complice di questo estemporaneo sit in. Arrivano in tanti e sono giovani. Tante ragazze, molte con i loro compagni, qua e là spunta pure qualche mimosa.

Non sono solo le donne le protagoniste dell’intrattenimento, uomini liberamente ispirati sono saliti sul palco, l’audio purtroppo è scarsissimo, si fa un grande sforzo per sentire.

Sergio Atzeni ci manchi ma grazie per la tua filastrocca che ci ricorda che nel 1906 “Si buttavano a mare i tram”:

“Donne, uomini, vedono ogni giorno, ogni ora che a, come il bisogno sopravanzi i mezzi soltanto per loro mentre baroni, marchesi e ruffiani della città murata ingannano i giorni”.

Dedicato a nonna Gigina e alle tante donne della Manifattura Tabacchi.

Era il tempo di Ottone Bacaredda, che prima di diventare una strada trafficata, piena di smog, è stato uno dei sindaci più reazionari della città.

La piazza è straripante, non ci sono bandiere né di partito, né di sindacato: il Tricolore e la bandiera dei Quattro Mori segna l’appartenenza.

Tra la folla dei certi, degli incerti, dei devoti, girano pure ladri e puttane, la folla è sempre per loro un ghiotto mercato di voti.

Sul palco si canta, ci vorrebbe un bel coro, le voci sono tante ma una importante è assente.

La voce che da 2000 anni sale sul pulpito per ammonire e terrorizzare con le fiamme dell’inferno ogni atto impuro tace: la Chiesa è diventata tollerante. Al potere che dispensa tanti privilegi fiscali e vantaggiose connivenze finanziarie non si può che concedere altrettanta paterna indulgenza.

Il sole è alto, pare che in piazza siano in 5000, chiunque ha organizzato comizi e cortei sa che è una cifra importante, la cosa più importante è che alle spalle non c’è nessuna organizzazione “secondo i canoni.”

Che piaccia o no è stata un’adesione spontanea, solo un vorticoso giro di comunicazione senza schemi, un richiamo che rispondeva a quel forte e primordiale istinto femminile che vuol proteggere la specie. Se non ora quando? Ma prima! Molto prima! Prima che le nostre madri continuino a contarsi balle ammansite dai programmi che incentivano il galoppare dell’Alzheimer, prima che le nostre figlie si convincano che i Master sono inutili e che basta darla.

Naturalmente esiste anche un’altra voce di donna che afferma:“ le donne scese in piazza domenica vogliono dividere il mondo in donne buone e donne cattive” .

Qui deve esserci un equivoco dato o dalla malafede o dall’ignoranza o da entrambe le cose messe insieme. Nel non lontano 1963 una donna non poteva fare il magistrato, non poteva fare il segretario comunale per non parlare della

disparità di pena per tanti reati. Se le regole sono cambiate (almeno sulla carta e non è poco) questo è avvenuto perché si è duramente lottato. Facendo un piccolo sforzo di memoria per chi c’era, e leggendo qualche cosa per chi non c’era, è doveroso sottolineare che chi è scesa in piazza per la parità, il divorzio e l’aborto non è mai stata “una brava ragazza”, si inimicava famiglia e società, semplicemente, in genere, la dava gratis a chi le piaceva, è lì che sta la differenza.

In tempo di Carnevale

Sortia

La Sartiglia

Dal di che Nozze, Tribunali ed Are.

A Gianni

Sortia

I suoni

Tum turudum, tum turudun, tum turudum tum tum..

Tum turudum, tum turudum, tum turudum tumtum….

Non so scrivere sul pentagramma e scrivo così come lo sento.

Con l’Immagine dei tamburini col cappello a pennacchi che ripetono insieme questo ritmo.

Tum turudum, tum turudum…

tum turudum, tum, tum…

E’ un rullio che frulla senza posa .

E’ la colonna sonora della Sartiglia.

Hooo, Haiooooo…

Il vociare della folla.

Hihiiiiin…

Il nitrire dei cavalli.

I cavalieri che incitano i cavalli.

I cavalieri che mentre trattengono le briglie tranquillizzano il cavallo.

Squillano le trombe:

Pam parabaaaaaa…

pam parabaaaaaa….

La folla è muta mentre i cavalieri scendono giù da piazza Manno.

Ancora il rullare dei tamburi.

Trutututumtumtuuummm

Mentre i cavalieri scendono.

I cavalieri più coraggiosi scendono all’impazzata spericolati.

I cavalieri più pavidi scendono piano, vogliono infilzare la stella a tutti i costi.

Battiti di mani urla di gioia: la stella è stata conquistata.

oooohhh!!!

Peccato! Il cavaliere ha mancato la stella.

Applausi forsennati. Sa remada, Su Componidori non ha paura corre all’impazzata riverso all’indietro sul dorso del cavallo, tiene le briglie con una sola mano e con l’altra ci benedice col mazzo delle prime viola di primavera.

Avremo un raccolto abbondante, pace e serenità! Come un tempo quando c’erano loro i giudici di Arbare.

Gli odori.

Tutta Oristano odora di zippulas.

La frittura araba si affoga nell’olio bollente: Splash , scsfriiiii ; poi si avvolge di zucchero.

Profumo di fritto fragrante.

L’odore sacro dell’arrosto invade il campo.

Il campo dove stanno le stalle dei cavalli è un luogo magico.

Sono le 11 e i cavalieri scesi dalle montagne del Nord da Fonni, da Ottana hanno fame. Colazione con bistecche e salsiccia. I cavalieri del nord hanno costumi scuri e austeri, sono severi e alteri come è giusto che sia, sono eredi di remote divinità .

Accanto alle graticole grondanti di carne fumante un tavolo, ancora un odore forte: profumo di vernaccia.

Da fonti certe ho saputo che Eleonora adorasse la Vernaccia.

I colori

Il Bianco, la maschera ipnotica del Gremio dei contadini;

Il giallo ocra, la maschera enigmatica del Gremio dei falegnami.

Poi...

Tutti i colori della Nostra terra.

Ma a me piace il rosso che spunta da tutte le parti e quasi tutti i costumi se appropriano almeno per una spanna.

Poi il colore della folla, il colore del cielo e delle nuvole, il colore del vento che non manca mai.

Il colore di un Carnevale austero e rigoroso, voluto dal Canonico Dessi’ in tempo di Carnevale per non peccare.

Non peccare non si può fare né a Carnevale nè a Natale, ma grazie Canonico Dessi’ perché dopo 500 anni per noi oristanesi dopo pesti e carestie, disoccupazione e cassa integrazione, sogniamo d’essere ancora lì con dame e cavalieri alla giostra della corte dei saggi giudici d’Arbare.

La Sartiglia

Ventotto stelle d’argento e sei stelle d’oro, questo è l’eccezionale risultato, in tempo di primavera, della 536 Sartiglia oristanese, Su Componidori uomo – dio per un giorno, benedice la folla con “sa pippia e maiu”, il tradizionale mazzo doppio di pervinche, scettro bucolico, simbolo della primavera.

Tante stelle, secondo la tradizione, sono sicuro presagio di ricchezza e fecondità.

La giostra importata dalla Spagna dalla corte dei giudici d’Arborea, come lo dimostra il nome Sartia che significa anello, in periodo giudicale non aveva alcun nesso col carnevale. La tradizione narra che un certo canonico Giovanni Dessì per distogliere la popolazione dal peccare durante il periodo di Carnevale lasciasse al Gremio dei contadini un terreno di sua proprietà per assicurare lo svolgersi della giostra nei tempi a venire. In periodo spagnolo, nell’anno del Signore 1547 il clavario cittadino di Oristano destinava 1 lira e 5 soldi per i festeggiamenti della Sartiglia in onore di Carlo V che forse gran parte degli oristanesi non sapeva neppure chi fosse, il 3 marzo 1572, in pieno periodo di Carnevale, il clavario cittadino devolve ben 2 lire e cinque scudi per la Sartiglia in omaggio alla nascita di Ferdinando d’Asburgo, altra frequentazione domestica in quel di Campidano.

La Sartiglia entra nella storia e rimane inalterata nella sua regalità fino ai nostri giorni.

Il canonico Dessì potrebbe andarne fiero.

Il Carnevale vissuto dappertutto come tempo di gozzoviglie e sregolatezza, qui ad Oristano perpetua il rito dove l’uomo che un tempo era falegname o contadino e oggi potrebbe essere medico o bancario, dopo il lungo rito della vestizione diventa divinità. Sacro, magico e profano si fondono in questa Sardegna dove il sincretismo è ancora l’unica vera religiosità.

Un tempo non lontano il nome de Su Componidori era segreto, recentemente il rito è pubblico, si fa per dire, in quanto per tradizione la vestizione avviene in casa del presidente del Gremio, lo spazio è poco, l’accesso improbabile per la vestizione del Gremio dei contadini, ma il Gremio dei falegnami dispone di un vasto stazzo, un grande cortile campidanese con i muri in ladiri e le tegole in cotto dove avviene la vestizione.

“Sa mesitta” dove verrà vestito l’ultimo erede dei Campeador è in fondo al cortile, la lolla è addobbata con i tralci a ghirlanda segno della primavera che avanza. Su Componidori viene vestito su un tavolo, non deve toccare la terra, l’energia del rito verrebbe annullata.

L’uomo seduto su uno scanno viene religiosamente accudito da giovani donne, ”Is massaieddas”, sotto la supervisione de”Sa massaia manna”. In tutta la cerimonia un ruolo enorme ricoprono i tamburini e i trombettieri rigorosamente vestiti con costumi medioevali che sottolineano tutti i momenti della vestizione. La Sartiglia nasce come giostra aristocratica ma l’abbigliamento de Su Componidori non si discosta dall’antico abbigliamento campidanese, la camicia della festa è ornata dai nastri dei colori del Gremio, rosa e celeste per i falegnami, ed è completato dal collettu .” Su collettu “è uno dei più antichi indumenti dal vestiario dei sardi, un lungo indumento di pelle morbida senza maniche, pare che l’unico originale sia quello in possesso del Gremio di San Giovanni. L’ambientazione agreste, la camicia e i calzoni del costume sardo su collettu; fino ad ora l’uomo è contadino e falegname, poi gli vengono apposte le bende sul viso. Vestito ma ancora col viso scoperto Su Componidori si alza, fa un brindisi col presidente del gremio e con i presenti, il rullare dei tamburi è vorticoso e frastornante. Ora il capocorsa si siede sullo scanno regale, gli viene

fissata la maschera, poi il capo è ricoperto dalla mantiglia e infine il cilindro completa la trasformazione di uomo in dio. Su Componidori si solleva: gli stivali, i calzoni e su collettu non stridono ma sono in armonia con la ricca camicia, la bianca mantiglia, l’aristocratico cilindro, è la maschera amimica che compone la magia della trasformazione. Essere androgino? Forse.

Certamente la maschera assolve il compito di coniugare i riti dei campi alle lontane glorie delle gesta d’arme del giudicato di Eleonora. Questo rito pagano che inizia il 2 febbraio nella cristiana festa della Candelora delega all’uomo-dio la magia di un futuro ricco di abbondanza e prosperità.

Il rullare dei tamburi cessa, la folla immobile resta in religioso silenzio: entra il cavallo, si avvicina alla tavola, Su Componidori sale e si avvia verso il luogo della corsa. Su secundu e su terzu sono i suoi luogotenenti, centoventi cavalieri delle altre contrade di Sardegna compongono la sfilata, i costumi sono bellissimi. Tra tutti spiccano i cavalieri dell’interno dell’isola, indossano i severi abiti della tradizione, la maschera nasconde lo sguardo ma dall’andatura traspare la fierezza di un popolo che non è mai stato servo.

Il rito continua, sotto la stella l’incrocio delle spade tra il Campeador e suoi luogotenenti, da inizio alla gara. La prima corsa alla stella è quella de Su Componidori: la discesa è veloce, la presa sicura, la stella luccica infilzata nella spada, la folla acclama. Le trombe annunciano ogni discesa, i cavalieri sono scelti insindacabilmente dal capocorsa. Tante sono le stelle di quest’anno segno di vita e prosperità. Sa remada, la pericolosa discesa che Su Componidori fa riverso sul cavallo a briglia sciolta mentre contemporaneamente benedice la folla con sa pippia e maiu conclude la giostra. In via Mazzini continua lo spettacolo con le acrobatiche pariglie.

Il martedì grasso chiude il Carnevale.

Il Mercoledì delle Ceneri da inizio alla Quaresima.

Giovedì il Segretario della CGIL, a Cagliari, in un Palazzo dei congressi della Fiera gremito da lavoratori sottoccupati e cassaintegrati annuncia che la disoccupazione in Sardegna è del 54% e ci esorta a non credere a chi ci vuol convincere che potremmo vivere solo di agricoltura e di turismo. Ci invita a chiedere e pretendere infrastrutture ed investimenti per noi e per i nostri figli.

Venerdì inizia la via Crucis in attesa della Santa Pasqua.

Tra auspici fausti e certezze drammatiche la Sardegna attenda la sua Pasqua di Resurrezione.

Dal di che Nozze Tribunali ed Are …

Simboli e rituali ci accompagnano nello scorrere della vita, non come segni inutili ma come colonne dell’esistenza. Salde certezze che ricollegano al ato il nostro presente e divengono confortanti orizzonti dell’incerto futuro.

Penso di non aver paura della morte, o meglio abituata a meditare, credo che la morte sia qualche cosa di simile all’annullamento dell’Io che si raggiunge con la contemplazione.

Un senso del non essere come individuo ma all’appartenere quel Uno pensante che è la divinità. Questo solo in meditazione e solo a parole, dovrei avere un male incurabile e riuscire a stare serena per definire la mia totale non paura della morte.

Ad essere sincera fino in fondo posso dire che la mia totale non paura della morte non può, fortunatamente, essere provata ma non vivo con l’angoscia della morte. Non vivo nell’angoscia paralizzante del non esistere più perché io credo. Come sia questo credo non saprei né spiegarlo né definirlo, so che è un amore che appaga e che prescinde dalla mia vita terrena. Sono intimamente certa che sarà oltre questa convenzione umana che chiamiamo vita.

Nell’altra dimensione Gianni tu che non credevi, tu che, in tempo di Carnevale, mi hai fatto vedere il più brutto funerale della mia vita finalmente potrai spiegarmi perché.

Perché ci hai inflitto questo supplizio? Perché un uomo come te che ha lasciato tanta “eredità d’affetti” ha avuto così “poca gioia dell’urna”.

Me lo spiegherai quando sarà tempo lì a mezz’aria nel tempo senza tempo.

A Gianni

Erano le tue ultime volontà: nessun sacerdote, nessun fiore, nessuna orazione funebre. Oggi son qui riuniti tutti i personaggi della mia infanzia: zii e cugini normalmente trasformati dal tempo. “Ci si incontra solo per i matrimoni e per i funerali” si lamentava qualcuno. Nessuno si sposa più, ci si vede solo per i funerali, penso tra me.

L’andito della camera mortuaria dell’ospedale è gremito, gelido e buio. Neppure in punto di morte ti sei smentito un funerale secondo i canoni non sarebbe stato da te. Intorno a me è tutto un brusio per la tua scelta. Chi tacitamente approva e chi in fondo sperava che all’ultimo momento Marisa, tua moglie, si assumesse la responsabilità di disobbedirti e stravolgere quello che con forza le avevi raccomandato. Il vuoto cerimoniale rende più forte il segno della tua assenza.

Il colore celestino delle piastrelle, il linoleum del pavimento macchiato di grigio, le panchine ai lati del corridoio: uno squallore infinito. Con molta probabilità i paramenti sacri e qualche fiore avrebbero reso più leggero questo tuo ultimo cammino. Ma tu avevi deciso così. Ora noi, ancora provvisoriamente sopravvissuti, non sappiamo che fare senza una chiesa, una messa, un’ultima benedizione, siamo in attesa di un rituale che nessuno riesce ad inventare. Nessuno ci ha insegnato come ci si comporta al funerale di un ateo.

Un piccolo corteo ti accompagna alla macchina che ti porterà in cimitero, sopra la tua salma c’è un bellissimo tralcio di sughero con dell’edera intrecciata. Non ho mai visto nulla di simile, il marrone del sughero il verde dell’edera che si intrecciano, i simboli antichi di Nostra Madre Terra.

Il peso di un copione non scritto diventa insopportabile, forse non riesco neppure a salutarti mentre vai via su quella nera Mercedes. Accompagnarti al cimitero sarebbe impossibile.

Saluto e scappo con i miei ricordi.

Solo qualche giorno fa spingevo imprecando la porta tagliafuoco dell’ospedale. E’ l’una, sono stanca, ho fame. Intravvedo il gabbiotto degli infermieri in fondo sulla destra. Detesto questo posto, ha tristi ricordi. Cammino frettolosa nella corsia, di sfuggita lo sguardo cade dentro una delle stanze, su un letto rivedo mio padre ad un o dalla morte, è disteso sul letto, è piccolo, magrissimo, il viso quasi un teschio. L’odore di ospedale, l’angoscia la fame: devo avere le allucinazioni.

Arrivo al gabbiotto, speriamo non mi facciano vagare a vuoto son senza forze. “Scusi cerco Gianni Atzori , sono la nipote” chiedo con ansia ad un giovane infermiere “E’ in quella stanza” indica il luogo della visione allucinatoria.

“Ma è sicuro?” insisto. “Sì l’ha appena superato”. Cerco di fermare la stanza che mi gira attorno, nessuno, mi aveva avvertito, nessuno mi aveva detto che era così grave. Sei tu l’uomo sul lettino, sei tu l’uomo sul quale ho visto sul viso il segno della morte. Lo stesso segno che ho letto sul volto di mio padre dieci anni fa. Ho pochi secondi per riprendermi rio mentalmente uno dei miei sorrisi più accattivanti. Respiro profondamente, ecco così va bene, prendo coraggio, entro, lo guardo, una triste dolcezza mi invade, mi avvicino sorridente, lo abbraccio” Gianni, come stai?” cerco di non pensare. La malattia lo sta uccidendo ma il suo fascino è più potente.

Basta uno sguardo, una frazione di secondo per stabilire una tacita intesa: far finta di nulla. Non accenno neppure alla malattia. Parliamo del futuro e il

discorso interrotto tra noi chissà da quanti anni riprende con naturale continuità. La mia mente vola nelle campagne assolate della Sinis. Nei luoghi della mia infanzia. Vorrei chiederti delle tavole nuragiche, ma non oso. Lo so che questo tasto sarebbe una lettera morta e io invece voglio sapere, non importa se non mi svelerai i tuoi segreti. Voglio conoscere i tuoi progetti. Bevo le tue parole certa che devo prendere, ora, tutto. Devo strappare le tue frasi al tempo. Mi racconti con ione delle tue statue d’ossidiana e vuoi solo parlare e nutrirti di parole. Ma Marisa, la tua compagna di sempre insiste, ha portato tutto da casa, le lasagne e un ottimo vino. Sei debole, devi anche assaggiare il cibo. Il bicchiere di plastica non ti piace e non piace neppure a me, ma il vino è buonissimo. Marisa non beve, tu insisti e io non resisto. Beviamo insieme in quella stanza d’ospedale. Il mio stomaco è vuoto, il cannonau fa il suo effetto. Ridiamo ricordando i miei pasticci di creta di quando ero bambina. Avevi un debole per me, così tra le tue innumerevoli attività trovavi il tempo di cuocere nel forno delle tue splendide ceramiche i miei approssimativi cagnolini di creta.

Beviamo, ridiamo e progettiamo “Si certo scriverò qualche cosa per le tue maschere di ossidiana e poi voglio assolutamente leggere i tuoi ultimi studi sulla lingua sarda” dico convinta sperando che la profezia si avveri.

Un deciso infermiere interrompe i nostri discorsi. Ci lasciamo con l’intesa che l’indomani sarei venuta a trovarti.

Scendo le scale senza prendere l’ascensore, sono deserte. La gente è pigra.

Ho ancora voglia di parlare con te e scommetto sulla tua immortalità.

Per rassicurarmi rispolvero un’immagine di tanti anni fa: forse avevo otto anni, ero sulla spiaggia di Torre Grande tu uscivi dall’acqua aggrappato a Marisa. Lei era alta atletica, tu eri quasi una larva, seguivi con ferrea disciplina la

riabilitazione per i postumi di un’embolia.

Il mare era la tua malattia. Come sempre, inseguendo il corallo eri sceso giù, giù in fondo agli abissi, forse sarebbe stato solo un piccolo incidente di pesca invece il tempo della decompressione fu insufficiente e l’embolia poteva essere irreversibile. Fortunatamente non lo fu. Un lungo calvario di cure poi la lunga riabilitazione. Tornasti più brillante di prima, pieno di ingegno e di curiosità per la tua Antica Madre Terra. Lo squillo ultramattutino è sempre foriero di infauste novelle. Il sigillo della morte l’avevo già avvertito ma non volevo leggerlo. E’ finito il tuo gioco in questa vita e ci hai lasciato con la tua ultima invenzione: questo inconsueto funerale.

Vago in cerca di un parcheggio, volutamente giro a vuoto, voglio disintegrare l’immagine di quella nera Mercedes. Entro tra le rassicuranti mura della mia casa. Ancora lotto con me stessa per rimuovere il tempo delle ore appena ate .

Mi accascio assente sulla poltrona, mi avvolgono silenzio ed ombre mentre guardo nel vuoto. La mente rimanda il tuo messaggio: niente prete, niente fiori e… niente lacrime. Cerco con tutte le forze di ricordare le tue parole e di unirle alle mie. Le mie parole e le tue, in me in te l’ancestrale legame di quella strana follia di chi rincorre chimere. Le immagini del nostro ultimo brindisi mi placano. Sono vuota e assente, mi alzo lentamente, scelgo con cura un calice di cristallo, il più bello, il più prezioso.

Non ho il cannonau, verso fino all’orlo del calice una generosa quantità di porto. Ritorno alla poltrona fisso il bicchiere, guardo nel vuoto. La tua presenza potente ed invisibile mi sorveglia. L’edera avvinghiata al tralcio di sughero: ancora una volta un’idea geniale. Complimenti Gianni ti meriti questo brindisi, peccato non possa assaggiare il porto. Oramai non posso che augurarti buona fortuna. te ne servirà tanta in questo nuovo viaggio. Buona fortuna Gianni, ovunque tu sia.

In tempo di Primavera

William

Kate

Linea 1 un amore impossibile

Scusi ma non posso

Il coraggio

Rina

William

Ne di venere né di marte......I reali d’Inghilterra non sono superstiziosi. Venerdì 29 aprile, in tempo di primavera, il cocchio regale degli Windsor sfila per le strade di Londra destinazione Abbazia di Westminster. I bellissimi William e Kate si sposano, la BBC trasmette in diretta l’evento che è seguito in molte parti del pianeta.

Venerdì 29 aprile, in tempo di primavera, Cagliari quartiere Marina dai famosi balconi fioriti voci di donne:

1) ‘’ Tzia Maria William e Kete si funti coiendi’’

2) ‘’Du sciemu, funti mera bellus; issa pariada una mariposa con cussu bistiri, ma poitta d’anti zerriara Cenerentola chi e’prena de dinai. Anti sballiau Cenerentola chi via stettia pobara.” 3) “No esti acci tzia Maria, Cenerentola si narada mancai uno chi esti arriccu ma non è di sangue blu.”

4) “Acci esti? Chi du narada fostei…Su strascicu non accabbara mai, me praxiu mera’’

5) ‘’ A mei puru esti praxiu e commenti bollemu andai in sa carrozza innantis de mi interrai’’...

6) ‘’Hoi!!Tzia Antonietta penzendi a s’interru esti, innantis si deppiri coiai sa filla e fostei.’’

7) ‘’Tenedi arrexioi, innantisi si deppiri coiai filla mia e a pustisi pozzu penzai a s’interru. Ma neri mi tzia Maria, fostei ca sciri tottu, Pani, ehia Pani su deis mottusu n’dara tenni de carrozzasa a noleggio.”

8) “Cusso proprio non du sciu ma du pozzu domandai a Efisino Loddo, teneri uno fradiri chi traballara in su campusantu de Santu Miali’’

9) “Fezza mi custu praxeri!”

Così a miglia di distanza si commenta l’evento.

Signora Maria e Signora Antonietta sono donne d’altri tempi e per questo ammirano uniformi e carrozze. Dalle finestre si affacciano, invece, le loro figlia Samantha e Pamela che fanno da contro voce ai commenti delle madri:’’Hei Sammy ma a te ti piace William? Cei che figo.”

“Mi piace di più in tuta che quando si veste tipo carabiniere. Te lo immagini in tuta arremangata e un serpente tatuato sul polpaccio”

“Ma quanto sei ignorante semmai si tatua la corona. E’ principe!”

“Ho Pamela ma qui Principi non ne ano mai?”

“Non lo so bisogna chiedere a Bonaria che sa tutto!”

“A Bonaria non le chiedo un accidenti, giustizia da pighidi: Perché è parrucchiera se la tira un casino:”

“Va bene glielo domando io”.

“Però, cei la sfiga di Kate, figurati che anche se si è sposata un principe non può essere principessa”

“Davvero? E perché?”

“Per l’etichetta”

“I pagu scimpra puru, questi inglesi sono veramente poco uscite, io ho cambiato l’etichetta ai jeans cinesi e ci ho messo quella di Armani di roba usata, è perfetta. Se lo chiedeva a me gliela cambiavo io. Dove la doveva cambiare l’etichetta?.”

“Bo! Quelli della televisione non l’hanno spiegato ma la giornalista da come l’ha detto convinta si capiva che l’etichetta non si poteva cambiare.”

“Cei che sfiga ti sposi un principe e non diventi principessa, non è giusto.”

E con questa amara considerazione

Le famiglie Pistis e Piras si ritirano e chiudono balconi e finestre .

Il sole è già alto.

Da via Barcellona si intravvede il Mare e le palme del porto.

Le navi sul molo sembrano in attesa.

Nell’ultima parte di via Barcellona vicino alla via Roma, da un bel palazzo del settecento esce col suo Borsalino blu Don Gigino Manca, ultimo rampollo di una ricca famiglia di commercianti, famiglia che il re Umberto, prima di lasciare l’Italia, aveva insignito con il titolo nobiliare.

Il palazzo di Don Gigino è un palazzo storico, per tanto tempo aveva ospitato la loggia massonica.

Don Gigino esce come al solito per comprare il giornale, oggi è in ritardo, il matrimonio di William e Kate l’ha distolto dalla solita tabellina di marcia: giornale e cappuccino al Caffè Torino.

Poco male diventeranno: giornale e aperitivo al Caffè Torino, non bisogna essere schiavi delle abitudini.

“Come mai a quest’ora don Gigino’’ Si informa premuroso Efisio .

“Stavo ammirando il matrimonio dei reali d’Inghilterra. Meraviglioso! Certo la monarchia dà tutto un altro tono alla Nazione, quando in Italia c’erano i Savoia...”

“Mi scusi se mi permetto’’ interviene Carmine il macellaio con catenone d’oro e anello al mignolo’’ Perché Don Gigino dice quando c’erano i Savoia, il Re è tornato, adesso non so proprio se è re e come si deve dire, ma almeno principe glielo dicono tutti.’’

“Si finalmente lo stato italiano ha posto fine a questa ingiustizia, per anni ha costretto il re e tutta la sua famiglia all’esilio. Ma anche se sono tornati i Savoia purtroppo non governano più.”

“Perché secondo lei erano meglio di quelli di adesso?” ribatte lecchino il giornalaio.

“Ma certo” continua don Gigino “la Monarchia conferisce alla nazione uno status storico di prestigio, vedete anche i paesi scandinavi tanto più progrediti del nostro come l’Olanda, la Svezia sono ancora fedeli al loro re. E le sovrane non per questo sono lontane dal loro popolo.”

‘’No ma se è per quello anche il Principe come si zerria Emanule Filiiberto, si vede che de uno alla mano, sempre in televisione con Pupo.”

“Peccato che non sia re faceva Pupo Cavaliere e la Carlucci regina.” Ribatte il giornalaio sempre più lecchino.

“Ma cosa dite”Don Gigino si sta alterando “La Carlucci non può diventare regina. E’ regina solo la legittima moglie del re.’’

‘’E il re chi e?” chiede il macellaio.

‘’Il re è il padre del principe, ma non è re perché non ha regno, ma sua moglie è Marina Doria!.”

“ Ma Doria come i biscotti Doria ?”

“Si Sua Eccellenza ...”

“Ascolti don Gigino e’ meglio la Carlucci, ma io non voglio bisticciare con lei di politica. Venga che le offro l’aperitivo.”Conclude il macellaio.

Il gruppetto si scioglie e il quartiere ritorna a sonnecchiare.

Il quartiere Marina conserva ancora vecchie abitudini come quella semiscomparsa di affiggere necrologi nel cartellone che nel periodo elettorale ospita i santini dei candidati.

Oggi ne è comparso uno enorme, il testo recitava cosi’:

Si è spento definitivamente dopo una lunga agonia

Il Buongusto

Ne danno il triste annuncio

sco D’Assisi e Cimabue;

Dante Alighieri e Giotto da Bondone;

Filippo Brunelleschi e Paolo Uccello;

Michelangelo Buonarroti, Torquato Tasso e Michelangelo Merisi;

Claudio Monteverdi, Artemisia Gentileschi e Antonio Vivaldi;

Carlo Goldoni e Vittorio Alfieri;

Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi ;

Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi;

Luigi Pirandello, Alberto Moravia e Eugenio Montale,

Si uniscono al loro cordoglio tutti coloro che

amano l’arte e la cultura,

il sapere e la conoscenza,

l’armonia e la bellezza

Le esequie sono già avvenute su tutti i canali delle TV di quotidiana spazzatura.

Sotto il necrologio qualcuno con la bomboletta spray ha scritto: W la BBC.

La vernice era fresca.

Tzia Maria William e Kate si stanno sposando. Lo sapevo lei sembrava una farfalla con quel vestito. Ma perché la chiamano Cenerentola se è piena di soldi. Hanno sbagliato Cenerentola se fosse stata povera. Non è così, Tzia Maria, si dice Cenerentola anche se uno è ricco ma non è di sangue blu. E’ così? Se lo dice lei. Lo strascico non finiva mai, mi è piaciuto molto. Anche a me è piaciuto molto. E come vorrei andare in carrozza prima di finire sottoterra. Tzia Antonietta sta pensando al funerale, prima deve pensare al matrimonio di sua figlia. Ha ragione prima devo pensare al matrimonio di mia figlia poi posso pensare al funerale. Ma mi dica lei che sa tutto sa se Pani, sa Pani quello dei morti, sa se ha carrozze a noleggio? Questo non lo so, ma posso chiedere a mio cugino che lavora al Cimitero di San Michele. Mi faccia questo piacere.

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Kate

Ognuno ha le favole che si merita

“William Arthur Philip Louis vuoi tu prendere in moglie Catherine Elizabeth ….”

“Yes I will”

“Catherine Elizabeth vuoi tu prendere William Arthur Philip Louis ……..”

“Yes I will”

Una folla incredibile di sudditi entusiasti si è riversata per le strade di Londra, tanti hanno ato la notte davanti a Westminster Abbey .

Millenovecento invitati ufficiali tra coronati e non, lei, Kate, bellissima sembra non tocchi terra tra le navate della cattedrale.

Lui in alta uniforme l’attende per tre quarti d’ora all’altare e al suo arrivo le sussurra “Sei bellissima. Ti amo”

William e Kate giurano amore eterno, non prima di aver firmato un rigoroso accordo prematrimoniale che tutela la corona inglese da qualsiasi intrusione materna nella futura discendenza in caso di divorzio

Un’infinità di spettatori partecipano alla replica di una Cenerentola senza cenere e con molti miliardi.

Grace, Diana, Rania, Kate, un epilogo drammatico per le prime due, un presente di successo per Rania, ancora un futuro da scrivere per Kate.

Tutte rappresentano l’icona dell’immaginario senza tempo per cui per un atto d’amore la tua vita non è più un affare privato ma diventa un simbolo.

Oltre alla favola esiste l’esigenza politica della Corte d’Inghilterra di un veloce rinnovo e cambiamento che mostri al mondo un’immagine credibile. La sfida è ardua: coniugare la modernità lasciando intatto il mito.

La determinatissima Kate, per il momento, sembra aver vinto la sfida. Sicura è salita sul suo cocchio regale ma il prezzo che dovrà pagare perché non diventi zucca sarà certamente alto.

Belli, giovani, innamorati, per un paese in cui il culto dell’albero genealogico non è un vezzo, che lui sia il futuro re non è un dettaglio senza importanza.

Il fatto che l’imperturbabile Elisabetta II sia visibilmente soddisfatta della scelta del nipote, significa che nel vaglio della sua approvazione, come elementi a favore della futura Regina, non avrà preso in considerazione come discriminante le sue abilità culinarie. Le nozze di William e Kate sono costate una fortuna ma la lungimirante Elisabetta II ha già avuto la sua vittoria 3 milioni di persone hanno assistito in mondovisione alle nozze reali. Ma non basta, quello che si aspetta la corona inglese è il rilancio di una monarchia. Il Regno Unito dopo l’inossidabile matriarca ha avuto una prima discendenza di poco rilievo ora punta sulla seconda

Politologi, esperti di protocollo e bon ton hanno giudicato le nozze regali, vagliato ogni dettaglio, praticamente perfette.

In Italia la diretta ha avuto un successo importante circa 36% di share. A dispetto di ogni previsione non son state solo le consumatrici di soap a contribuire a tanto successo, è stato il forte imperante desiderio da tempo disatteso del bisogno del bello.

“Kalo’s kai agathos” bello è buono. Bello, forse è buono ma sicuramente del brutto bisogna farsene una ragione.

Visivamente il bello provoca uno stato di benessere e appagamento, il brutto un senso di sconforto e di squallore.

Chi ricopre un ruolo pubblico voglia o non voglia incarna un modello. Al di là della favola per William e Kate inizia una realtà scandita da un rigido protocollo e quotidiani imperativi categorici la propria esistenza dovrà soggiacere alle regole di corte. Le sorti del Regno Unito saranno il loro progetto di vita, o

almeno queste sono le aspettative degli inglesi e le implicite promesse della giovane coppia.

L’Italia difficilmente cova nostalgie monarchiche,

Il nostro ordinamento repubblicano oramai consolidato nel senso comune probabilmente non ha portato tutte le spettatrici a identificarsi in Kate e tutti gli uomini in William ed ad anelare alla loro vita.

Ma se così fosse?

Le storie di fiabe hanno sempre una grande forza nella psiche e nel costume, non vi sarebbe traccia di loro se per secoli le storie non fossero state accolte, nutrite e ripetute di voce in voce.

Il Principe alto, bello, biondo, colto e innamorato è ancora un modello a cui ispirarsi?

Non ci sono risposte in questa favola ma certamente il giovane William incarna un modello ben più attraente di quello di un vecchio, plastificato, ignorante, sommerso da procedimenti giudiziari che spaziano tra i vari aspetti del diritto. Un modello che si impone con prepotenza nelle nostre case in un modo o nell’altro ad ogni ora. Chi ha un certo numero di anni non può non essere stata affascinata dalla classe di Grace Kelly che ha ispirato l’abito di Kate, e se anche le ragazze d’oggi sono state colpite da tanto charme ben venga, significa che la stilista del discutibilissimo abbigliamento di Ruby ( l’abito celestino che ci viene propinato un buon numero di volte al giorno in tutti aggi TV) tornerebbe al suo posto, non si sa quale ma fuori dalla nostra vista.

Il paragone stride terribilmente ed è’ inevitabile porsi “The question”:

la Monarchia impone i suoi modelli per diritto di discendenza ;

La Repubblica chiama tutti a sceglierli.

A questo punto della nostra storia, in un paese ove riposano molto disturbate le spoglie di Michelangelo, Tiziano e Raffaello, nella patria del bello e nella culla del diritto perché scegliamo di sottometterci a questo modello di squallore?

Linea 1. Un amore impossibile

Fermata San Benedetto: finalmente. Oggi indossa il vestito giallo è bellissima. Il giallo sulla pelle abbronzata la illumina. Per fortuna c’è poca gente, così potrà sedersi. Sento il contatto del vestito di seta . Ha cambiato profumo, questo è fresco un po’ speziato, è troppo sexy, perdo il controllo .....Tutti insultano Gianfranco, ma lui non c’entra è solo colpa mia. Ricordo la prima volta che la vidi, erano i primi di dicembre, lei indossava un fantastico piumino con i bordi di visone, i pantaloni marroni, gli stivali super griffati, sono rimasto inchiodato, pensavo dovesse attraversare ....Invece è salita con quella sua aria un po’ snob e un po’ svanita. Anche quella mattina guidava Gianfranco lei lo ha guardato, lo ha salutato e gli ha pure sorriso....L’avrei ucciso. Non pensavo di rivederla più, pensavo fosse un fatto casuale, un’emergenza, invece da quel giorno eccola puntualissima, elegantissima e lo sguardo perennemente perso tra le nuvole. Col tempo poi ho capito…è una distratta cronica, innamorata della sua distrazione. Fa finta di essere simpatica ma la gente in fondo non le piace, o forse a quest’ora del mattino non vuole che nessuno entri di prepotenza nei suoi sogni. L’ho capito perché quando incontra quella sua amica, quella che scende a San Michele, quando è possibile fa finta di non vederla e se proprio disgraziatamente la trova vicino cerca di trovare un posto solitario in modo da poter tornare sulle nuvole. Vederla da un senso alla mia giornata, ma certo anche io per lei sono un gran fortuna. Normalmente gira con un gran borsa piena di libri ma durante il tragitto non legge, invece guarda attentamente la corrispondenza del giorno prima: estratti conto della Banca, bollette della luce e del telefono. Non sono indiscreto ma ricordo che quei primi giorni di dicembre vidi il suo viso piuchemmai contrariato, fu più forte di me, sbirciai. Il mittente era la Reale delle Assicurazioni e il testo grossomodo era questo: “ Gentile Cliente la informiamo che a causa dei suoi numerosi sinistri la nostra compagnia non può rinnovare la polizza assicurativa della sua auto , pertanto etc. etc.”

Vuoi vedere che questa gentile signora è una disastrata del volante e conscia dei suoi limiti preferisce ridurre al minimo ogni rischio? E’ fantastico, ha tanto bisogno di me. Sono felice. Cerco di inventare tutto quello che posso per

allungare il più possibile il tempo che possiamo trascorrere insieme. La trasporto lentamente sulla via del porto. Il mare le piace da morire anche d’inverno quando è grigio. Guarda il mare, sorride e il suo sguardo si perde all’orizzonte. Cosa darei per conoscere i suoi sogni. Arrivati al Largo Carlo Felice la sua espressione comincia a cambiare diventa più attenta e più triste. Ancora pochi attimi e dovrà atterrare su questo pianeta che secondo me le piace pochissimo. Nel corso Vittorio ancora un sorriso: il negozio di fiori. Con la scusa che la strada è stretta o quasi rasente alla vetrina e spero che ci siano esposte le rose color salmone. Sono le sue preferite, ho origliato mentre parlava con l’amica che scende a San Michele un giorno che proprio non le è stato possibile sottrarsi alla conversazione forzata e ha dovuto dar fondo a tutto il suo repertorio di amene banalità. Dopo l’arco di Palabanda si alza sconsolata: fra poco deve scendere per fortuna non è la sola, non mi potrei arrestare, si dimentica puntualmente di prenotare la fermata. La osservo col cuore in gola mentre attraversa la strada, ha l’aria sognante cammina in mezzo alla strada come se fosse sulla erella di Gucci, ma gli autisti mattutini difficilmente provengono dai College Inglesi e se non l’ammazzano la insultano. Lei non si scompone le parolacce si dissolvono nell’aria mentre si guarda compiaciuta nei vetri a specchio della Banca. Riparto solo quando scompare, ho una lunga e faticosa giornata davanti e non so se la vedrò al ritorno, non ci incrociamo quasi mai e ho il sospetto che qualche volta prenda il 10 ma non indago, non ho voglia di soffrire.

I soliti studenti maleducati mettono i piedi dappertutto e coprono il suo profumo. A forza di andare su e giù imparerò un’altra lingua oltre al sardo. E’ incredibile come questi cinesi non stiano un attimo zitti. I neri son più discreti anche se più ingombranti. E’ tardi finalmente andrò a riposare, non sono più giovanissimo gli anni si fanno sentire, matricola 857 telaio 1236 anno di immatricolazione 1999. Oggi però c’è qualche cosa di strano nell’aria, anche alla fine della giornata sento il suo profumo. Non c’è più nessuno e nel buio, improvvisamente, sulla scia di quella magica essenza noto dei lucidi fili castani: i suoi capelli. E’ fantastico oggi è martedì nessuno erà con quell’assurdo aspirapolvere. Sono al settimo cielo dormirò tra i suoi capelli e il suo profumo e forse potrò rubare i suoi sogni .... sino all’alba .

Scusi ma non posso

Gentilissimo Signor 857, spero di averla chiamata col nome corretto, mi spiace non poter corrispondere ai suoi sentimenti ma...mi sono fidanzata. Mi sono fidanzata di nascosto, molto di nascosto, non se n’è accorto nessuno.

Però a questo punto sono preoccupata se Lei ficcanaso come è non si è accorto del brillantone che ho al dito come faranno ad accorgersene gli altri?

Insomma origlia i miei discorsi, sbircia le mie bollette e magari pensa che il brillante me lo abbia regalato il 5 quando a davanti alla gioielleria di Operti.

Pensavo di aver trovato una soluzione accettabile perche’ è inutile negarlo io non so guidare, invece mi trovo spiata.

Ma poi chi gliel’ha detto che la gente non mi piace? A sentir lei sarei quasi una stronzissima snob.

La gente mi piace invece, solo che a tratti è così mortalmente noiosa….

Però mi ha commosso e oggi mi sento molto buona. Ho una proposta da farle, la mia amica Titti, si quella con i biglietti da visita terribilmente cafoni con tutti i titoli, tanto lo so che ha guardato anche quelli, Titti dicevo avrebbe da presentarle Mercedes, che si sente sola e gradirebbe un po’ di compagnia.

Secondo me è un’occasione da non perdere. Cosa dice? E’ antiquata?

Tutti uguali questi maschi anche arrugginiti cercano solo la novità!

Il coraggio

Leggo la parola magica e una cosa ho chiara in mente: ad ogni regola si deroga.

Non amo i concorsi, tutti i concorsi in genere: per quelli del supermercato non son portata perché dimentico la tessera e perdo i bollini o tutt’e due.

Non fondo certezze come la ricchezza su incertezze come il caso, per questo non tento la fortuna in quei concorsi dove si vincono tanti soldi ma il gran fortunato è sempre l’Erario dello Stato. Per quanto riguarda i concorsi letterari ho una mia personale teoria che tengo celata per non incrementare il numero dei miei nemici.

Per questo mi sono data una regola: non partecipare mai!

Ma questa volta non si trattava di un concorso letterario qualsiasi, questo era molto di più, questa volta si trattava di una giusta causa. Per quella gara ogni regola doveva essere infranta, perché il tema era l’essenza con la quale si raggiunge ogni traguardo, quel sostantivo era il leit motiv della mia vita, la parola magica era’’Coraggio’’.

Non solo, dal momento che il concorso era indetto da un’associazione di signore molto socialmente impegnate il soggetto dei racconti doveva essere una donna coraggiosa.

Richiamo più forte forse ebbe Ulisse con le sirene al largo di Palinuro il mio era nel cuore della Sardegna.

Mi sono buttata subito a capofitto nell’impresa intervistando Rina Ghiani, o meglio la Prof. Ghiani, la prima donna cagliaritana laureata in chimica nei primi decenni del novecento.

Ho messo giù la storia rocambolesca e divertente della laurea di questa donna coraggiosa che per coronare il suo sogno non esitò a intraprendere da sola un viaggio avventuroso con risvolti inaspettati. Mi sembrava una storia molto audace e con la certezza che nessuno avrebbe trovato una storia altrettanto “coraggiosa” spedii tutto all’associazione benemerita che organizzava il concorso.

Un bel dì nel computer trovai una mail che mi invitava il giorno tal dei tali, nel luogo pinco palla, per la premiazione.

Ero certa di essere tra le vincitrici come quando si ha un biglietto in tasca e prima delle estrazioni ci si sente miliardaria, come quando sei su una tavola da gioco e senti che la roulette si fermerà sul numero dove tu hai puntato le tue ultime fiches...

Ebbene con questo stato d’animo mi trovai, in tempo di primavera, a due i dal santuario delle premiazioni già vittoriosa e scrittrice di successo.

Luogo dell’evento che avrebbe dovuto cambiare il corso della mia storia era il T Hotel di Cagliari. Mentre il mio ego progettava deliri di onnipotenza riflettevo su cosa frullasse nel cervello di quell’ingegnere che nella “Città del sole” aveva

concepito un albergo con luce artificiale, aria forzata e risciacquio semisintetico di acque che fluivano incessantemente in un circuito interno. Per la mancanza d’aria e di luce se ne può fare una ragione se il tempo è ridotto, ma le chiare fresche dolci acque che riproducono uno sciacquio onomatopeico sono inclementi, l’effetto diuretico è assicurato, fortunatamente i bagni sono di lì a pochi i e ovviamente molto frequentati .

Espletato quanto suggerito dallo sciabordio artificiale entrai nel sancta sanctorum del coraggio.

La sala era gremita e in fondo nei posti d’onore stava la giuria.

Le giurate erano tutte donne, Marcel Proust pur non avendole viste ne descrive perfettamente il genere:

“I lineamenti in cui era impressa, se non la giovinezza, per lo meno la bellezza, essendo scomparsi nelle donne, esse si erano domandate se potessero farsene una nuova con il volto ch’era loro rimasto. Spostando il centro, se non di gravità di prospettiva del volto, disponendovi intorno ai lineamenti secondo un altro modello, esse cominciavano a cinquant’anni una nuova specie di bellezza, come in età provetta si intraprende un nuovo mestiere, o come a un terreno che non val più nulla per la vite si fanno produrre barbabietole.”

In mezzo a tanta beltà stava al centro, come gallo cedrone, l’allora esimio Sig. Sindaco della nostra Città. Signore datato e con fama indiscussa di tombeur de femmes.

La serata era allietata, si fa per dire da un gruppo musicale. Qui entra per la

prima volta in ballo il coraggio. Ci vuol coraggio da vendere per proporre un repertorio così raffinato da far arrossire Benito Urgu. A questo punto pensai che il fatto che in tanti non capissero il sardo fosse provvidenziale, ad una amica romana che mi chiedeva la traduzione inventai qualcosa su due piedi. La volgarità era sconcertante.

Dopo questo dolce preludio musicale e la vista invasa dagli improbabili colori delle acconciature delle Signore iniziò la premiazione.

Io già controllavo che il mio trucco fosse a posto quando chiamarono la prima classificata e subito capii che ero incorsa in uno spiacevole equivoco. Primo premio: la protagonista è se, ha una figlia di quattro anni quando decide di lasciare il marito che la maltratta. Si innamora di un sardo se e lo segue in Sardegna. Poco tempo dopo riscontrano un tumore alla figlia che torna in Francia. Mette al mondo altri due ragazzi, nel mentre la famiglia viene travolta da una incredibile serie di catastrofi economiche. Loro non si danno per vinti, con tanto coraggio mettono su una piccola azienda di trasporti. Pare che il cielo si stia schiarendo quando… il marito finisce sotto un Tir. L’autrice somiglia ad una vecchia squaw. Si vede lontano un miglio che non è il genere del nostro Signor Sindaco, che la premia è vero, ma se per stringerle la mano avesse potuto usare una prolunga l’avrebbe fatto. Seconda classificata: storia di violenze domestiche, di una madre che non si arrende ad un padre – padrone e cerca , e forse trova, la sua dimensione. Non male, ancora meglio l’autrice: giovane, bella, molto poco vestita. A questo punto si sarebbe dovuto allertare la protezione civile perché la bava del nostro Signor Sindaco stava letteralmente allagando la sala. In omaggio all’arte letteraria dell’autrice il primo cittadino della città si profonde in complimenti e baci non richiesti. Terza classificata: una signora molto buona e brava, tanto caritatevole, ora è ridotta in stato vegetativo. Menzioni speciali : storia di una ragazza vittima di violenza, così mal ridotta da non riuscire quasi a parlare. Una ragazza ucraina che venuta in Italia con il sogno di costruire una piccola casa al suo paese mette i soldini da parte, torna in Ucraina ma … crolla l’economia e si trova senza un soldo. Monito della ragazza “Non lamentatevi dell’Italia, voi siete in paradiso”. Dietro il nostro Sindaco spunta una coda di pavone a 360 gradi .

In ritardo ho capito quanto la lingua italiana sia come dicono i linguisti “altamente polisemica” o come diceva mia nonna che con una parola si può dire una cosa e il suo esatto contrario.

Per dirla tutta questa non era una gara di coraggio, non era un concorso di letteratura, era una vera e propria gara di sfiga. A saperlo qualche super sfigata l’avrei trovata anche io, penso, un po’ con rammarico, un po’ con sollievo. Insomma non ho vinto nulla e stavo già per andare via quando a fine di serata il libercolo della “miglior produzione” dei saggi sul Coraggio attira pericolosamente la mia attenzione. Spendere dieci euro per questo compendio di catastrofi mi sembrava veramente eccessivo perciò chiesi, cortesemente, ad una signora di porgermi il piccolo libro che raccoglieva “il meglio” delle opere presentate. L’occhio mi cadde sull’indice e su qualcosa che somigliava al mio nome. Mi fermai anche la mia opera era stata dichiarata dalla giuria degna di are agli annali della manifestazione.

Torno a casa in trance, con l’angoscia serpeggiante. Non sempre vincere è utile.

In fondo essere scampata a tragedie e catastrofi potrebbe essere considerata di per sè una vittoria. Non c’era nessun bisogno di essere accomunate al gotha del “coraggio” e un triste dubbio mi balenava nella mente: che la sfiga arrivi dopo?

Rina

Ho conosciuto Rina quando oramai era anziana, circondata da uno stuolo di gatti che erano tutta la sua vita Era sempre stata eccentrica, ma con l’andare degli anni se non fosse stato prima per la sorella Fernanda, poi per la nipote Cristiana avrebbe sicuramente fatto la fine della barbona. Non badava al vestire, non badava al mangiare l’unica sua vita erano i gatti. Negli ultimi anni della sua vita era facile vederla inerpicarsi per le strette e ripidissime strade sotto il terrapieno con delle buste enormi piene di cibo per i suoi mici. Ultimamente con suo grande rammarico, infatti non poteva più tenere la cinquantina di bestie che convivevano nel suo appartamento, il condominio stanco del tanfo immondo che esalava per le scale le aveva proibito di tenerli. Eccola quindi che accudiva i suoi adorati gatti in un luogo sicuro vicino all’istituto di agraria. Gli animali son sempre stati il suo unico grande amore. I gatti e la.... chimica. L’aspetto inganna, a volte quando Rina disertava l’occhio vigile della sorella e della nipote aveva l’aspetto di una senza fissa dimora, ma bastava che aprisse la bocca e subito l’interlocutore si rendeva conto che chi aveva davanti non era una donna banale, non era una donna come tante. Rina, infatti, era stata la prima studentessa di chimica dell’Università di Cagliari. Siamo agli inizi del secolo scorso. Studiare era un privilegio per pochi, per pochi ricchi che se lo potevano permettere. Se poi l’aspirante studente era una donna le cose si complicavano a dismisura.

Forse era tollerata una laurea in lettere, in filosofia , già la giurisprudenza era un tabù, una laurea in medicina era considerata assolutamente indecente per una donna, si poteva essere certi che mai avrebbe trovato un marito. Le sorelle Ghiani erano tre, lei era la seconda Dolores e Fernanda erano carine , educate , perbene...ma Rina…

Fin da piccola non si dava pace di non poter vivere come un ragazzo, giocare come un ragazzo, avere la libertà di un uomo. Le sue manifestazioni di insofferenza erano talmente violente che i genitori per non trovarsi tutti i giorni

coinvolti in lunghissime polemiche le lasciavano molta più libertà di quanto si potesse comunemente concedere a una ragazza. Rina aveva bisogno di tempo, tanto tempo per coltivare la sua ione... Una ione alta, importante, coinvolgente. Niente a che vedere con i futili amorazzi delle sue coetanee. Il tempo correva veloce nel sottano del palazzo di famiglia di Via Lamarmora, attrezzato di tutto punto con fornelletti e alambicchi. Lì si immergeva nei suoi esperimenti, lì sognava di diventare una vera promessa della chimica moderna.

Inutile dire che l’aspirante premio Nobel per la chimica era il cruccio di suo padre il Dr. Ghiani, uomo religioso e tanto timorato di Dio, e per quei tempi era anche un sicuro pericolo per le sue sorelle che con una ragazza tanto stramba in casa , chissà se avrebbero mai trovato marito. Il pover’uomo per anni tutte le sere all’ora dei vespri, saliva dalla Via Lamarmora su in cattedrale per pregare il Sacro Cuore di Gesù che fe rinsavire questa figlia così imbarazzante....

Fortunatamente le richieste di matrimonio per le sorelle non mancavano, ma Rina non ne voleva proprio sentire. La sua unica ione era la chimica e fu tanto cocciuta e insistente che il Dr. Ghiani suo malgrado dovette cedere. Rina fu la prima donna iscritta alla Facoltà di chimica dell’Univarsità Cagliaritana. Il fatto di vivere con tanti uomini non l’imbarazzava affatto, non li vedeva proprio. Aveva instaurato con alcuni di loro un goliardico spirito cameratesco e di nascosto fumava....

Il suo indiscusso talento la portò ben presto ad ottenere risultati eccezionali, ottimi voti e un consenso generale. Anche il Dr. Ghiani si dovette ricredere e rassegnarsi.

Sembrava proprio una storia con finale già scritto: laurea a pieni voti, abbraccio accademico, pubblicazione della tesi.

E questo io immaginavo dai racconti della nipote, ma fu la stessa Rina a rivelarmi il giallo che si celava dietro la sua laurea in chimica.

Come dicevo, Rina era ormai anziana e spesso malata. Andai a trovarla un giorno nella casa di cura dove era ricoverata con una brutta broncopolmonite. Le stanza era accogliente, l’aspetto confortevole, intorno solo persone anziane.

“Cristiana, hai dato da mangiare ai gatti?” Questa era la sua prima preoccupazione .

“Si certo” la rassicurava la nipote, figuriamoci contraddirla.

“Sai “ continua “Il medico dice che dovrei socializzare. Figurati, io con questi rimbambiti.”

Si guarda intorno, e “ come avesse l’Inferno a gran dispitto” inizia il suo proclama.

“Purtroppo le amicizie di un tempo non ci sono più. Ti ricordi di Maria Celeste. Quella si che era una donna interessante. Era un famosissimo architetto, figurati che aveva il suo aereo personale che guidava da sè. Volava da Roma a Cagliari in un attimo.”

Dimenticavo, Rina aveva un’abilità straordinaria a raccontare balle di ogni tipo. Questa dell’aeroplano era veramente nel suo stile.

“E dove lo parcheggiava ? “domando serissima.

“Veramente in piazza Indipendenza c’era un grande spiazzo”

“E’ vero”confermo io “’Ho visto in una vecchia foto, così quando scendeva, era comodamente vicino al vostro palazzo in Via Lamarmora.”

“Già , brava proprio così. Maria Celeste , lei si che era una gran donna”

“Senti Rina, ma perché non ti sei mai sposata?”

“Gli uomini sono un inutile ingombro, poi tu lo sai non ho mai saputo cucinare e fare tutte quelle cose che fanno le donnicciole .” A questo punto però il suo viso e la sua voce diventano maliziosi, e continua con aria intrigante “Eppure, sai che una volta ho rischiato grosso. Sai una volta l’ho proprio vista brutta, hanno cercato di rapirmi per farmi sposare per forza.”

A questo punto la mia curiosità diventa morbosa. Rapirla , come? Quando? In Sardegna non si usano questi mezzi. Forse nell’interno , ma a Cagliari...

“Scusa Rina , ma quando è successo ?”

“Tanti anni fa. Tu sai che mi sono laureata in chimica pura negli anni trenta.”

“Si certo , ma questo che c’entra ?”

“Si, invece , tutto parte da lì.”

Il suo sorriso di chi si fa beffa del mondo diventa ancora più incisivo e continua la sua storia che io conoscevo solo a metà.

Dopo l’estenuante battaglia per iscriversi all’Università, Rina inizia la sua brillante carriera di studentessa, ma purtroppo alle sue innate qualità di ricercatrice unisce un carattere pessimo, tanto che ad un o dalla tesi di laurea litiga furiosamente con il Preside e si preclude la possibilità di concludere i suoi studi a Cagliari. Ma... la fortuna aiuta gli audaci. Quando oramai tutto sembra perso uno dei suoi professori gli offre la possibilità di laurearsi in un altro Ateneo. A Rina non sembra vero anche se per discutere la tesi dovrà recarsi a Messina. I collegamenti con il resto dell’Italia sono tutt’ora un problema per la nostra isola, ma allora recarsi in Sicilia significava prima andare a Civitavecchia e poi percorre in discesa tutto lo stivale. Nulla è impossibile a chi crede, in poco tempo Rina prepara i bagagli e al Dr. Ghiani non resta, all’ora del vespro, che percorrere la Via Lamarmora, recarsi in Cattedrale e pregare il Sacro Cuore di Gesù che gli riporti la figlia sana e salva.

La famiglia si angoscia, ma Rina affronta felice e con somma incoscienza il viaggio per l’ignoto. Parte da Cagliari il sabato e arriva a Messina il lunedì a notte inoltrata. Il professore per fortuna le ha già prenotato un alloggio, arrivata alla stazione indica al vetturino della carrozza l’indirizzo e si prepara ad affrontare il nuovo mondo. E’ buio, ma nonostante l’oscurità si rende conto che il panorama che la circonda è molto diverso da quello che è abituata a vedere. Come sono diverse queste case tutte ad un solo piano rispetto agli alti ed austeri palazzi di Castello. Il terremoto ha impaurito tutti e le alte abitazioni sono più pericolose qualora l’Etna si risvegli ancora.

L’alloggio indicato dal professore non era dei più lussuosi, ma era pulito, accogliente. Rina è distrutta dal lungo viaggio, finalmente può riposare. L’indomani di buon mattino si alza per andare all’università. Giù nella stanza da pranzo c’è tutta la famiglia dei padroni di casa che l’accoglie con cordialità. Soprattutto il figlio, un ragazzotto robusto e abbastanza rozzo, dell’età di Rina si profonde in cerimonie. Mancano pochi giorni alla discussione della tesi, benché molto occupata, Rina si rende conto della diversità del ruolo che la donna siciliana occupa, all’interno della famiglia, rispetto alla donna sarda. Soprattutto è infastidita dalle eccessive attenzioni di Fabrizio, così si chiamava l’intraprendente ragazzo. Non erano fantasie di Rina, effettivamente Fabrizio si era messo certe idee per la testa tanto che una sera dal momento che la partenza della nostra eroina si avvicinava con molta arroganza le fa delle chiarissime avances.

A questo punto Rina dall’alto dei suoi quasi novant’anni, scoppiò in una fragorosa risata.

“Gli ho assestato un manrovescio in pieno viso, e si è arrabbiato moltissimo. Aveva lo sguardo furente, se avesse potuto mi avrebbe ucciso .”

“Ma tu hai avuto paura?” Chiedo rendendomi conto che la situazione non era delle più tranquille.

“Ebbi paura si, tanta paura.”Ammise.”E poi non era finita lì” continuò “ la sera mentre salivo le scale riuscii a sentire che confabulava col padre. Stavano architettando una sorta di rapimento, così una volta disonorata io mi sarei dovuta per forza sposare quel coso. Roba da matti. Io mi dovevo laureare, se avessi dovuto fare la civetta in giro mi sarebbero bastati i salotti di Castello.”

Quante complicazioni ma Rina era piena di risorse. Per tutta la notte non dormì e

architettò il suo piano di fuga.

Per prima cosa cercò un alloggio vicino all’Università, comprò una valigia nuova e la lasciò nella stanza. Tornata a casa informò la signora che la notte non sarebbe tornata, avrebbe dormito da un’amica di famiglia che stava vicino all’Università. Per fortuna i bagagli erano pochi, per non dare nell’occhio indossò alcuni abiti uno sull’altro, fortunatamente sotto il cappotto non si vedeva che aveva contemporaneamente indossato quattro gonne e cinque camicie. Le altre carabattole le camuffò tra i libri e per rassicurare tutti lasciò la valigia chiusa e vuota in bella vista.

Naturalmente Rina non tornò a casa né la notte né il giorno successivo, dopo aver discusso la tesi ed essersi laureata con il massimo dei voti si recò di filato alla stazione. Ad ogni angolo le sembrava di vedere Fabrizio, ma erano solo allucinazioni.

Erano solo le dieci del mattino, arrivata trafelata alla stazione scoprirà che il prossimo treno per Civitavecchia non partirà che alle tre del pomeriggio. E’ disperata ma ha un altro lampo di genio: strappa al capostazione il permesso di occupare una vettura ferma. Quatta, quatta si infila in uno dei vagoni. Non fa in tempo a scostarsi che dal finestrino scorge Fabrizio inviperito che girava per la stazione sicuramente in cerca di lei.

Questa volta il viso di Rina assume un’aria di somma commiserazione “Sai per fortuna tutti gli uomini sono un po’ cretini, figurati quello zoticone. Lui controllava tutti i treni in partenza , mai gli sarebbe venuto in mente di perquisire una vettura ferma. Finalmente verso mezzogiorno si è dato per vinto ed è andato via.”

Era una uggiosa giornata di novembre del 1939, Rina non avrebbe mai pensato

di attendere con tanta trepidazione il fischio del capostazione.

Si torna a casa finalmente con la laurea in tasca e con la certezza che i siciliani son veramente uomini da evitare.

Rina non c’è più e penso alle foto di quando era giovane, penso all’aeroplano a Maria Celeste e a tutti i suoi gatti, che chiamava ciascuno per nome. Penso all’incongruenza di tutta la sua vita. La vedo curva col cappotto sgangherato e i bignè che portava ai suoi “figlioletti”. Da un po’ di giorni poi mi perseguita un libro che un tempo le apparteneva , lo ritrovo dappertutto.

E’ un libro macchiato dall’umidità e segnato dal tempo, sui fogli sono evidenziati gli argomenti che erano la sua ione” Il traslato e la metafora, le idee e le sensazioni dirette, il fantasma soggettivo del mondo reale”. E’ stato stampato a Milano nell’anno 1940. Il titolo : “Quello che ignoriamo. Cosa può darci la scienza- Enigmi della natura – Enigmi umani”.

Enigma e sintesi, tanto più difficili da trovare se la tua intelligenza ti porta fuori dalle regole del comune sentire.

In tempo d’Estate

Racconti di Alziator

Franz

Su Contu e S’Arrelloggiu

L’albero

Iele

La coppia

Il gatto

I racconti di Alziator

Ho scritto questi racconti in tempo d’estate.

Erano da molte stagioni che non scrivevo per poi recitare in pubblico.

Ero molto insicura perché se era vero che la mia scrittura, per me, era resuscitata dai morti, chissà se sarei riuscita anche a convincere gli altri.

Le serate erano state molto ben organizzate dal Comune di Cagliari al Teatro Civico.

Vennero proposti dei brani tratti dall’Elefante sulla torre di sco Alziator, parteciparono autori e poeti che amano la città e hanno deciso di fermarla, nel tempo, con i loro scritti.

Il mio era un appuntamento fisso.

Io non l’ho mai conosciuto “Su professori”, ho avuto la fortuna di conoscere Signora Dolores e sono amica di Cristiana da un tempo infinito. Ma pur non avendolo conosciuto sento vicino zio Franz.

Nel leggere l’Elefante sulla Torre sembrava mi accompagnasse per le strade della città raccontandone i segreti.

La mia fantasia però, sulla scia dei racconti di Cristiana, mi ha spinto un po’ più in là.

Nei libri, ovviamente, compaiono solo i riferimenti storici, artistici, antropologici. Solo si fa per dire, sco Alziator è uno di quei grandi che riesce a parlare di storia, di arte e di filologia con leggerezza, dote molto rara. Il suo segreto? Benché letterato, storico e filologo non ha mai smesso di parlare con la gente. Ben lontana da lui è la figura del cattedratico distaccato dal mondo e immerso solo nelle carte. Dal suo studio alla bottega di Efisino il fornaio erano pochi i, per molti tutto un mondo, ma per zio Franz anche quello era il suo mondo oltre a quello dello Spano e di Max Leopold Wagner. Riusciva a are da Levi Strauss a is contus de bixinau con assoluta nonchalance. Per questo è unico, ho immaginato le eggiate con lui tra citazioni storiche e aneddoti di ogni genere di cui era un compendio vivente. Dalla Marina a Villanova conosceva fatti noti e meno noti che incantavano tutti.

Incantavano soprattutto i viaggiatori a cui amava far da cicerone. Era una guida eccellente, molti avrebbero voluto ricompensare la sua competenza, ma con modestia al momento dei saluti tirava fuori il suo biglietto da visita e ringraziava dicendo che “Era già pagato dallo Stato”.

Grande viaggiatore detestava luoghi comuni e banalità. Durante uno dei suoi viaggi ad un continentale che nel treno Bologna - Venezia gli chiese con stupore se “Davvero fosse sardo” rispose: “Sì ma uso questi abiti solo per viaggiare, normalmente mi vesto di pelli. Per vivere la mattina vado a caccia con l’arco mentre mia moglie mi aspetta. La sera torno al nuraghe scuoio la selvaggina mentre mia moglie accende il fuoco e poi preparo l’arrosto.”

Signora Dolores in guanti bianchi fremeva mortificata mentre Cristiana ascoltava divertita.

Amava viaggiare perché era un vero cittadino del mondo e si esprimeva correttamente in cinque lingue: l’italiano, il sardo che era la sua lingua abituale, l’inglese, il tedesco e il se. Cenza Thermes l’ha definito un picaro: era un picaro eccezionalmente illuminato che ha lasciato un grande tesoro alla nostra città.

Nei suoi scritti si trovano tanti suggerimenti ancora attuali per fare della Città del Sole, una città dinamica, dispensa consigli preziosi per valorizzare il nostro patrimonio artistico e ambientale. Ma non è tutto, è stato un cittadino eccezionale per il suo esempio di amore e disinteresse. Oggi lo osannano ma il suo non allinearsi e dire ciò che pensava non gli valse da vivo la giusta ricompensa. E’ bene ricordare che lo confinarono a Sassari negli ultimi anni della sua carriera.

Cittadino del mondo sognava che Cagliari divenisse un luogo di scambi al centro del Mediterraneo.

I profeti in patria spesso non hanno fortuna se non da morti ma la verità ha una sua forza che non si dissolve nel tempo. Di sco Alziator raccogliamo l’eredità per costruire una Città migliore e seguire il suo esempio per diventare cagliaritani migliori.

Franz

GIOVEDI’ 25 febbraio 1943.

Dall’Unione sarda – Quotidiano fascista della Sardegna -

Ieri sua Eccellenza il Primo Ministro Benito Mussolini ha tenuto il seguente discorso alla popolazione:

“L’inverno attuale doveva seguire secondo gli anglo americani il crollo della situazione alimentare italiana, essa ha invece registrato il suo netto miglioramento.”

Queste sono le parole del Duce a un o dalla fine, quando il paese versa in una situazione disastrosa, con gli anglo americani che radono al suolo le città e la fame che imperversa per tutto il paese.

Questa cieca propaganda che suona quasi attuale, nega che in Italia ci siano problemi alimentari.

“Non c’è stato un crollo, essa ha registrato un netto miglioramento” Così dice il Duce.

Per le generazioni che, come la mia, non conoscono la fame se non come quel vago languore che serpeggia tra un pasto e l’altro o l’attanagliante morso di chi si mette a dieta perché bello vuole apparire, la fame è un concetto astratto. La nostra conoscenza della fame è quella di uno stato provvisorio, basta poco per interromperlo. Basta entrare al bar, aprire il frigo, non guardarsi allo specchio.

Mia madre racconta ancora che da bambina faceva questo fioretto: teneva dentro la scarpa un sassolino e offriva questo sofferenza al bambino Gesù perché le fe trovare a casa un pezzo di pane.

Erano gli anni della guerra e non si trovava nulla, Oristano, come altri centri fu risparmiata dai bombardamenti e la vera guerra non la sentì neppure, ma la fame sì, quella si avvertiva dappertutto.

La Città più colpita fu Cagliari, dove la situazione era drammatica. Per un anno intero la città fu il bersaglio preferito dei bombardamenti degli anglo americani. Il periodo peggiore inizia nel novembre del 42 quando gli alleati decidono di sbarcare in Sicilia.

Su Cagliari piovve questo volantino “Noi abbiamo bombardato i vostri porti e le vostre industrie che lavorano nel solo interesse della Germania. Avete provato il peso delle nostre bombe. Altre seguiranno. E’ a voi la scelta tra la voce che noi vogliamo portarvi e la distruzione che i tedeschi e i fascisti provocano sulla vostra città.”

I bombardamenti più feroci furono tra febbraio, marzo, e aprile. Dopo le rassicuranti parole del Duce, tace anche la voce del quotidiano fascista, L’Unione Sarda a febbraio cessa di esistere per qualche mese.

I Cagliaritani lasciano la città, gli sfollati si disperdono nei paesi dell’interno in cerca di sicurezza e in cerca di cibo. La fame non ha risparmiato nessuno poveri e ricchi, qualche nobildonna ha barattato diamanti in cambio di un piatto di patate.

Il porto, già bersaglio dei bombardamenti, è il luogo più a rischio, ma fortunatamente è anche il posto dove le informazioni arrivano più rapidamente. Questo lo sa bene anche il giovane tenente che da qualche tempo è addetto alla sussistenza. E’ poco più che un ragazzo, non gli piace la guerra ma conosce bene il tedesco e i tedeschi in questo momento danno da pensare. Le notizie ufficiali applaudono alle vittorie nazi- fasciste ma tutti sanno che la realtà è molto diversa. I sospetti del tenente sono fondati, infatti, miracolosamente riesce ad intercettare delle informazioni segretissime. La Panzer Division Sardinian è ancora ospite della nostra isola, presto dovrà andare via. Il giovane si rasserena, ha appena appreso che non ci saranno rappresaglie.

L’ordine è di lasciare la Sardegna tranquillamente però dovranno portar via tutte le derrate alimentari possibili sequestrandole ai civili.

Il tenente è in stato di allerta “Dove raccatteranno il grano questi tedeschi?”.

E’ sera un gruppo di ufficiali tedeschi sta per lasciare il porto, parlano tra loro sicuri di non essere capiti. Il giovane tenente li segue coperto dal buio, sperando di captare qualche notizia. La fortuna l’aiuta uno di loro dice chiaramente che l’indomani cominceranno l’operazione alimentare nelle zone dell’interno. L’altro Ufficiale chiede fino a dove dovranno spingersi, il primo ufficiale risponde chiaramente Isili. Isili è il paese dove è sfollata la famiglia del tenente, il giovane è terrorizzato. Se i tedeschi arriveranno a sequestrare il grano, tutto il paese morirà di fame bisogna fare presto, presto. Non c’è tempo da perdere, chiama l’autista e insieme, rapidamente, salgono sul camion di servizio. Il soldato lo guarda interdetto

“Dove andiamo tenente?”

“ A Isili, andiamo ad Isili, dobbiamo essere lì il prima possibile.”

Un soldato non fa domande ma c’è poco da spiegare questa volata nella notte non è certo un buon segno. Intanto il tenente pensa cosa potrà fare.

“Già cosa posso fare? Per il momento non ho idee ma lungo la strada qualche cosa mi verrà in mente.” E nella notte guarda la sua buona stella.

E’ buio la strada lunga, scoscesa, pericolosa. Il camion sfiora le frasche degli alberi, il mezzo è tutto un cigolio sembra si debba fermare da un momento all’altro. Bisogna andare più veloci, veloci non c’è tempo. Luci in lontananza un altro camion. “Questa non ci voleva” pensa il soldato. Non si a in due bisogna far manovra, anche l’altro camion si ferma è un camion della Croce rossa, anche la Croce Rossa ci si mette di mezzo. Il tenente guarda la Croce rossa: è l’illuminazione. Sorride.

“Certo la Croce rossa.”

Il tenente è un fulmine scende dal camion e parla velocemente con l’ufficiale medico che è a bordo.

La camionetta della Croce rossa fa un bel dietro-front, e insieme proseguono per Isili.

Arrivano al paese che è notte. Il tenente scappa velocemente alla casa dove è ospitata la sua famiglia. La casa è una casa di paese, nella cucina c’è un grande camino, ma il fuoco è spento. Il giovane ha ancora in mente con tristezza l’immagine di qualche giorno fa: la moglie mangiava la buccia della mela per lasciare il frutto alla loro piccola.

“Ci manca solo che portino via il grano. Bisogna fare presto, presto.”

Sotto gli ordini del tenente viene allestito a tempo di record una tenda da campo, sopra bene in vista sventola la bandiera della Croce rossa. La tenda ha tutta l’aria d’essere una piccola infermeria per i feriti.

Nonostante l’ora è tutto un subbuglio e c’è un continuo viavai tra il paese e il piccolo accampamento.

E’ l’alba tutto tace.

“Sarebbe bello stare qui e godersi l’alba. L’alba è lo spettacolo più bello della terra”

I pensieri si affollano alla mente: la sua famiglia ha fame, lui sa e non vuole ignorare, sa che il latte senza il quale la piccola morirebbe di fame lo porta tutti i giorni un brigante che si è dato alla macchia. Si guarda attorno la foresta è fitta, i cespugli di mirto, di cisto, rendono inaccessibili i monti.

“Già è facile nascondersi in questi monti.”

Arriva in lontananza il rumore di un camion.

“ Eccoli stanno arrivando.”

Il grosso camion della Panzer Division Sardinian si ferma poco lontano dal campo. L’Ufficiale ha paura ma deve mentire, indossa un’aria marziale e si avvicina al comandante del gruppo. Col suo tedesco perfetto, la voce sicura, informa l’ufficiale tedesco che quello è una piccola infermeria, dentro ci sono dei feriti. Il tenente tedesco, molto giovane anche lui, resta perplesso ma il soldato italiano incalza e dà fondo a tutte le sue non scarse qualità di oratore.

“E’ stato dato ordine dal comando di organizzare delle piccole infermerie per tutto il territorio, la città è distrutta e gli ospedali inagibili, bisogna attrezzarsi nei piccoli centri!” La voce dell’italiano è incredibilmente sicura, scorre, con un perfetto tedesco, come un fiume in piena. L’ufficiale tedesco è perplesso ma non sa cosa rispondere, anche lui conosce le disposizioni per i soccorsi nel territorio. Sicuramente frastornato da tanta loquela, saluta, sale sul camion e dà ordine di partire.

I tedeschi sono spariti dall’orizzonte.

“Si deus fatta su tenenti !“Grida una voce dalla tenda.

La Croce rossa sventola tra i boschi di Isili, il grano è salvo e la pelle dei presenti

pure.

Nell’infermeria sono state depositate, ben nascoste, tutte le riserve di grano.

Il tenente sco Alziator ha salvato il grano e scongiurato dalla fame la popolazione di Isili per tutto l’inverno.

Poteva rimetterci la pelle. Coraggio o incoscienza? Si chiamo genio. Ed è geniale solo chi sa osare.

ata la guerra al tenente Professor sco Alziator fu conferita la medaglia al merito per motivi umanitari. Brillante, divertente, dissacratore, immerso nei suoi studi sembrava impossibile che qualche tempo prima avesse potuto indossare una divisa e compiere gesta eroiche.

Per lui probabilmente più che un gesto eroico fu un gesto d’amore, l’amore per la gente, lo stesso amore che lo portava a lasciare i suoi studi quando alla porta si presentava un barbone male in arnese con un lungo cappotto militare e diceva “Dica al Professore che c’è il suo amico.” L’amico di quei tristi tempi di guerra.

Su Contu dess’ arrelloggiu“

“Il Porto di Cagliari è un disastro, il fondale è basso e sabbioso. Le navi da guerra sono costrette ad attraccare al largo. La banchina è lontana e stamane ci dovremmo sottoporre alle visite mediche che grazie ai Savoia sono severissime”.

Questa è la prima impressione sulla città di Cagliari del venticinquenne capitano della Royal Marines David Sutherland. Scrive così, infatti, nell’anno del Signore 1787, il capitano Sutherland al commilitone Smith.

Sa poco della Sardegna ed i motivi dell’attracco della nave Britannica nel porto di Cagliari sono quantomeno vaghi.

Le visite mediche sono scrupolose ma dopo le lungaggini burocratiche gli Ufficiali inglesi hanno la gradita sorpresa d’essere invitati a pranzo alla corte del Viceré.

I Savoia tengono ad avere rapporti amichevoli con la Corte d’Inghilterra e a Cagliari si muore di noia, probabilmente sono questi i motivi dell’ospitalità del Conte Thaon Revel di Sant’Andrea, Viceré di Sardegna.

Ma le sorprese per gli Ufficiali della Royal Navy non finiscono qui. L’arrivo degli inglesi si diffonde per tutta la città e uno stuolo di paggi inviati dalle dame sarde fa la spola tra il castello e il porto per porgere inviti agli stranieri.

Verso mezzogiorno la carrozza del Viceré è sulla banchina pronta ad attendere gli ospiti. Il sole è alto ed illumina una città scintillante ricca di colori: l’azzurro del mare, il verde dei giardini, il bianco sfolgorante del calcare. I colori si smorzano quando la carrozza comincia ad inerpicarsi tra le viuzze della città alta. Strade tanto strette che una carrozza fa fatica a are.

Il cocchiere si ferma in una piazza abbastanza ampia . “Ecco siamo arrivati” pensa tra se Sutherlad. Il cocchiere intanto apre la portina della carrozza.

Due soldati ai lati dell’ingresso indicano che il palazzo che gli si sta davanti è sicuramente il palazzo Regio.

Gli Ufficiali salgono le scale che portano al piano di sopra. L’androne è soffocante per un edificio di rappresentanza, alle pareti della sala d’ingresso la galleria dei ritratti dei viceré che si son succeduti nel tempo: aragonesi, spagnoli, austriaci e piemontesi rigidi e imparruccati pare che guardino gli ospiti con aria inquisitoria.

Gli inglesi vengono introdotti nella sala da pranzo: questa sala è bella, accogliente, se non sfarzosa, gli stucchi i legni parlano di un’intensa vita di relazioni tra la nobiltà di questa curiosa isola. Nobiltà che in questo momento ha l’aria allegra ma tutta l’Europa sa del forte dissenso che regna tra i feudatari sardi e il potere centrale. Gli intrighi e i rancori con la corte di Spagna sono stati spesso intrisi di sangue, ora i Savoia con la loro repressione poliziesca, con l’accentramento del potere a Torino non godono certo di grande popolarità. Gli aristocratici sardi si sentono sempre esclusi dalla gestione politica della loro terra.

Questo è quanto si dice in Europa della Sardegna, nulla di sorprendente, la vera sorpresa è un’altra:

“Le ladies sarde hanno i modi delle si, dicono ogni cosa col loro nome senza usare nessuna riserva.”

I modi delle donne sarde stupiscono Sutherland, tanto da annotarlo nel suo diario, ma ancora di più è colpito dalla loro bellezza e tra tutte è abbagliato dal fascino della giovane sca Manca Aymerich che splende dei suoi diciassette anni nel suo abito turchese fatto venire apposta dal Continente.

Il pranzo di gala è scandito dal rigido protocollo, i posti a tavola sono assegnati come è stabilito secondo l’importanza del blasone, poco distante da David è seduta sca.

I capelli bruni incorniciano il suo volto ancora adolescente, i lunghi occhi scuri, le labbra carnose, la sua conversazione è allegra e spiritosa. David Sutherlad, nel suo diario ne fa una descrizione minuziosa degna di un consumato antropologo, ma nel leggere tanta dovizia di particolari si stenta a credere che l’interesse per la bellissima marchesa fosse di solo interesse scientifico “I suoi arti sono elegantemente torniti e la sua bella figura non è distorta dal corsetto, né ingombra di un carico di false curve prodotte da i e imbottiture.” Lo sguardo di Sutherlad si perde nel sorriso della splendida marchesa, accanto a lei è seduto suo marito il vecchio marchese di Villarios .

Il pranzo si protrae per un tempo infinito, giunto a bordo prima di dormire sul suo diario annota “Io avevo spesso cercato di formarmi un’idea di Eva nel suo stato di innocenza , ma mai c’ero riuscito , finché non vidi questa affascinante marchesa. Per classe ed eleganza essa è figlia della natura e natura nella sua perfezione.”

Da Londra a Calcutta, il giovane Ufficiale della Royal Navy avrà incontrato innumerevoli dame.

Nessuna, evidentemente, aveva il fascino di sca, la sua allegria i suoi modi così sinceri…

Il giorno successivo il Conte di Sant’Andrea dà un ballo in onore dei nuovi ospiti.

Sutherlad è sempre più meravigliato dei costumi di questa strana isola ed è sconcertato dal fatto che si possa baciare la mano di una signora per semplice complimento e come, in un giro di ballo ad ogni giravolta esse si aspettino che il braccio del cavaliere le cinga la vita, mentre il loro braccio si appoggia alle spalle di lui.

Sutherland giustifica così questo atteggiamento che sarebbe stato sconveniente in altre parti d’Europa:

“La loro franchezza è assai piacevole e non ha nulla di malizioso, dal momento che in una società chiusa, esclusa dal resto del mondo, ove i cittadini ed i loro legami sono generalmente conosciuti e dove il numero delle persone libertine è scarso, la fiducia e la sincerità da parte delle donne generano naturalmente onore e stima nel cuore degli uomini.”

Questa è la personalissima opinione del giovane Sutherlad. Il Castello in una realtà remota fu teatro di intrighi famosi e sanguinari come quello di sca Zatrillas con i quali gli storici ci hanno regalato fiumi di inchiostro, e di altri più recenti e meno noti sussurrati nei salotti, di nascosto, quando i bambini non

c’erano e che vivono nella memoria. In Castello ogni famiglia ha i suoi “Contus” la cui quantità è spesso direttamente proporzionale all’importanza del casato, anche se a volte c’è poco di che gloriarsi. Franz era un compendio vivente di tutti Is contus della città murata, raccontava di fantasmi notturni e tesori nascosti in cantina ma quando si arrivava di fronte al palazzo Boyl si divertiva a raccontare la mia storia preferita, si chiamava “Su contu dess’ arrellogiu”. Il protagonista era un lontano parente, un vecchio Colonnello che per sua fortuna o sfortuna aveva sposato una giovane e bella ragazza. Dalla visita di Sutherlad in Castello era ato tanto tempo ma il vecchio colonnello anche se avesse avuto il privilegio di conversare con lui non sarebbe arrivato alle stesse conclusioni dell’Ufficiale inglese sulle intenzioni delle dame sarde.

Il Colonnello infatti covava terribili sospetti sulla vita della moglie e non fidandosi di nessuno sperava di escogitare qualche sistema che lo convincesse della sua fedeltà.

Probabilmente era una sua impressione, ma a rafforzare i suoi presentimenti erano degli strani suoni come dei muggiti che l’accompagnavano tutte le mattine quando dal suo palazzo, salendo per via Lamarmora, doveva raggiungere il comando di piazza dell’Arsenale.

Forse Elisa era una santa ma lui voleva assolutamente esserne certo.

Era tanto tempo che il colonnello si scervellava senza trovare soluzione quando un dolce pomeriggio di maggio camminando per la via degli Argentieri di colpo davanti alla vetrina dell’orologiaio il velo del tempio si squarciò e arrivò l’illuminazione. Nella vetrina erano disposti ben dieci orologi tutti programmati ad orari diversi. Il Colonnello non stava in sè dall’eccitazione, entrò ed acquistò in blocco tutti e dieci orologi.

E’ solo, senza il suo attendente, i pacchi pesano per la salita che conduce al palazzo, i pacchi pesano ma la fronte, la fronte, quella è molto, molto più leggera.

Entra in casa e relega la servitù in cucina. Elisa non c’è e per la prima volta il Colonnello è felice della sua assenza. L’operazione è molto delicata e soprattutto deve essere segretissima.

In preda ad un entusiasmo diabolico comincia a vagare per le stanze della grandissima casa, in ogni stanza chiude dentro un cassetto o dentro un’anta un orologio diverso, le chiavi finiscono scrupolosamente dentro le sue tasche. Ci vuole del tempo per trovare a tutti gli orologi la loro giusta collocazione ma prima che arrivi Elisa tutto è compiuto.

Elisa infine arrivò spettinata e stropicciata ma il marito non ci fece caso, come la vide le baciò la fronte e con aria paterna iniziò il discorso che nel frattempo si era preparato:

“Elisa cara, dal momento che ho paura che ti annoi, ho inventato questo gioco per te. Sono sicuro che ti divertirai tantissimo. Vedi questo foglio è la pianta della nostra casa in ognuna di queste stanze ho messo dentro un mobile un orologio che ad una certa ora suonerà, tu sai cosa devi fare? Dovrai annotare qui l’orario in cui ogni orologio trillerà . Poi quando io sarò tornato controllerò che tu abbia segnato l’ora esatta.”

Elisa è disperata ma il Colonnello quella notte dormì sonni tranquilli. Sarà riuscita Elisa a dirimere l’inganno ?

Nessuno sa come è andata questa storia che per me è sempre finita senza un vero finale. Ricordo solo che le foto della zia Elisa erano coperte dalle tende e nessuno in casa ne poteva parlare mai.

Franz in proposito diceva sempre che cornuti si nasce, io penso che esista anche un’altra possibilità: sposare un inglese, sono meno sospettosi!

L’Albero, i Fantasmi, la Plastica

L’albero era al centro del giardino ed era immenso. L’aveva piantato il nonno di Franz al ritorno della guerra di Crimea, lui ed altri due ufficiali sardi erano andati lì a fare la guerra e avevano portato qui tre ramoscelli di dieffenbachia in segno di pace. La grande casa nella Piazza San Giacomo era il vecchio casino della caccia, da lì a notte fonda mio nonno partiva con gli amici in cerca di prede. Villanova era un borgo, da Via Garibaldi in giù era tutta campagna, mio bisnonno pensò bene che quello fosse il luogo ideale per far crescere l’albero della pace. Io conobbi l’albero che era già molto alto e frondoso, faceva ombra alle aiuole che lo circondavano. Un brutto giorno mio nonno morì e da allora nessuno partì più per la caccia da piazza San Giacomo. Mio nonno amava la caccia, mio padre, invece, la detestava, ma la casa antica era il suo rifugio: lì cresceva i suoi fiori, lì teneva i suoi libri più amati, lì scriveva. Nella grande casa vivevano anche le sue zie, due simpatiche vecchiette amanti dei gatti. Ne avevano tantissimi nella grande casa e quelle bestiole si moltiplicavano a dismisura. Le care zie non riuscivano a capire come quelle creature potessero proliferare tanto dal momento che la notte prima di andare a dormire loro controllavano bene che i maschi dormissero con i maschi e le femmine con le femmine. Forse erano poco pratiche se no avrebbero certamente saputo che per fare certe cose è meglio essere svegli.

Andavo nella casa di San Giacomo quasi tutte le domeniche, era bellissimo: le zie, i gatti, il giardino che forse non era grandissimo ma a me sembrava enorme, i fiori, l’albero. Ma la cosa più divertente erano le eggiate. Uscire con mio padre era uno so: davanti alla Chiesa di San Giacomo si arrestava, e mi faceva notare piano, piano, prima l’antica iscrizione aragonese sulla base del campanile, che secondo me sapeva leggere solo lui, poi storceva il naso per la facciata, il lavoro del Cima non gli piaceva mentre lo sbrago delle cannonate si ancora visibili sul campanile della chiesa accendevano la su fantasia. Parlava apionatamente d’arte e di guerre e sembrava in un’altra dimensione, quando improvvisamente si avvicinava qualcuno del vicinato, allora mio padre sospendeva provvisoriamente la storia di Vincenzo Sulis per dedicarsi

completamente alla storia della famiglia di Fisinu Pes, il fornaio.

1) “ E Bianca cummenti staidi?”

Bianca era la bellissima figlia ventenne del fornaio.

2) “ Eh. Bianca si deppidi coiai”

3) “ Mi faidi prexeri e cun chini si deppidi coiai?”

4) “ Non mi du fezzada penzai, su professori, si coiara con unu de Marina, una facci leggia, ma aicci leggia. Deu non sciu poitta non ha boffiu Bastianu, chi esti uno piccioccu bravu meda. Deu non sciu cummenti funti custas femminas.”

5) “Is femminas funti aicci.”

Ripeteva Franz, complice, sorridendo allo sdentato Fisinu.

Si mio padre, in su bixinau di Villanova, e per tanti era “Su professori”, mia madre lo chiamava Franz, gli amici lo chiamavano Cuccuccio e per me era solo Franz. La eggiata proseguiva con molte tappe nelle via San Giacomo. A Franz Via Garibaldi non piaceva e non gli piaceva il nome: “ Fino a qualche tempo fa era Sa ruga de Is Argiolas, quello era il nome giusto. Pensa un autentico nome sardo non scopiazzato da pisani o aragones “Is Argiolas” è uno dei pochissimi toponimi totalmente sardo, forse per questo l’hanno cancellato.”

Non gli sembrava una grande idea, dedicare quella strada a Garibaldi, nulla di personale con l’eroe dei due mondi semplicemente diceva che da vivo aveva conquistato molte provincie e da morto tanti brutti monumenti. Come dargli torto!

Non era certo una marcia veloce la eggiata con lui, si fermava e lo fermavano. Ogni scorcio aveva una storia più o meno nobile condita da leggende e antiche evocazioni. Come riuscisse a coniugare complesse riflessioni di linguistica, frutto di studi severi, con is contus de bixinau me lo sono chiesta solo dopo tanto tempo, quando ero con lui tutto era naturale, facile, semplice. La conversazione procedeva con magistrale continuità, toccando i temi più disparati che potevano andare dalle lettere di Gregorio Magno al colore dei fiori dei capperi che crescevano sui muri. In tutto metteva ione, nella storia della città, nelle storie della gente e i nei suoi ricordi….

Franz amava vivere ed era un gran burlone. Non l’ha mai fermato nessuno, né l’ossequio ai riti severi della nobile famiglia, né le alte mura del Castello dove viveva da ragazzo. Anzi il Castello gli stava proprio stretto perché ci si annoiava a morte. Ora quando Franz era ragazzo Villanova era un borgo: il borgo degli ortolani e dei fornai, non c’erano alti palazzi la gente era molto semplice, né ricca, né povera e molto credulona. Ad un certo punto si sparse la voce nel borgo che la notte tra le strade di Via San Giovanni ci fossero i fantasmi. Ora effettivamente a notte fonda tra le strade buie, spaventosi esseri bianchi, altissimi, con grida da oltretomba vagavano per il quartiere. Erano tutti terrorizzati. Contro il soprannaturale anche i saldi muscoli degli abitanti potevano fare ben poco. I Villanovesi stavano per rivolgersi a qualche esorcista, d’altronde tanti conventi nel quartiere a qualche cosa dovevano pur servire, quando una notte di pioggia la Divina Provvidenza sistemò comunque la faccenda. Ora, sempre a notte fonda, tra le strade scivolose tornava un gruppo di fornai. Avevano paura dei fantasmi perciò quando videro in lontananza le ombre bianche cercarono di mimetizzarsi tra i portoni. Sfortuna volle che ad un certo punto uno dei fantasmi perse l’equilibrio, si trovò nel fango e cominciò ad imprecare. I fornai erano poco istruiti ma molto svegli nonostante l’ora, realizzarono che le bianche ombre erano molto più materiali di quanto si pensasse, quindi gli si avventarono contro. I fantasmi alti, alti, improvvisamente

diventarono a misura d’uomo e levati i trampoli cercarono di scappare. In realtà i fantasmi di Villanova erano i nobili rampolli del quartiere alto che per rompere la monotonia avevano deciso di spaventare i sempliciotti del borgo. Lo scherzo era ben congegnato: avevano comprato dei trampoli, poi si erano procurati delle lunghe lenzuola e a notte fonda scappavano di casa per scendere giù a Villanova. Per un po’ di tempo si erano divertiti da morire ma quella notte chi non riuscì a scappare in fretta le buscò di santa ragione conte o marchese che fosse. Franz era uno degli organizzatori della burla e se le buscò quella notte non lo seppi mai, certamente si divertì per tutta la vita a raccontare dei fantasmi di Villanova.

La Chiesa di San Domenico normalmente era l’ultima tappa. Il posto era molto bello, Franz diceva con orgoglio che all’interno c’era la bandiera che gli archibugieri sardi avevano portato da Lepanto. Però quel posto a me sembrava un po’ sinistro, forse perché era stato il Tribunale dell’Inquisizione. Io allora non sapevo bene cosa fosse l’Inquisizione ma dalla faccia di Franz avevo capito che era una cosa molto pericolosa. Poi, per tornare si saliva su dal terrapieno Franz amava molto camminare e si dispiaceva che ai cagliaritani non pie. Il terrapieno infatti, quando Cagliari era la Capitale del Regno Sardo, visse il suo momento magico, lì suonava la banda e era una delle più affollate eggiate della città. Ora è disabitato anche se è sempre un paradiso e, come diceva Franz, è ancora “Un paradiso senza angeli ” .

Oramai era l’ora del pranzo, si tornava nella grande casa, si salutava le zie e io salutavo l’albero della pace che sembrava dovesse proteggere tutti noi con le sue fronde avvolgenti.

Un bel giorno l’albero fu investito della carica di “Monumento Nazionale”, Franz sarebbe stato felice di questo riconoscimento ma non c’era già più e questa gloria durò poco.

L’albero della pace qualche anno fa fu sradicato. La motivazione: sporcava troppo, faceva un mucchio di foglie secche e bisognava portarle via. I rami

crescevano sconsideratamente quindi bisognava potarli. Era un monumento alla pace? Pazienza era un costo ed era un orpello inutile. Al suo posto è stata incassata una grossa vasca da bagno che il nuovo proprietario chiama pomposamente “piscina”.

Anche i fiori sono spariti. “Ci vogliono troppe cure e i giardinieri costano” al loro posto sono spuntate belle e cresciute due splendide palme di plastica.

Povero Franz che si era arrabbiato con il Cima per la facciata di san Giacomo, che era inorridito dall’avanzare del cemento, fortunatamente si è risparmiato i vantaggi della plastica.

1) Bianca come sta?

2) Bianca si deve sposare.

3) Mi fa piacere, e con chi si deve sposare?

4) Si deve sposare con uno della Marina, non ci voglio pensare Professore, quel tipo ha una faccia brutta, brutta ma così brutta. Non so perchè non ha voluto Bastiano che è un gran bravo giovane. Perché sono così le donne?

5) Le donne sono così.

Iele

La mia infanzia

E’incarcerata

Tra mura umide

di tufo

che hanno porte

con stemmi e corone.

Le rondini

non entravano

nella città murata

per questo

tutti

avevamo voglia di volare

sco Alziator

E’ vero, l’infanzia di Franz è incarcerata tra mura umide di tufo, il sole si vede appena tra le strette strade del Castello e il tempo… il tempo è scandito da rigidi rituali, immutabili. Gli interminabili rosari con la nonna, le visite tutte programmate nei giorni previsti.

Nonna Vincenza riceveva il giovedì. Franz, quando poteva scappava, scappava giù nel quartiere dove era nato e pensava tra sè:

“ Non capisco perché zio Efisio si sia dato tanto da fare con quella sua benedetta formula, sarebbe bastato fare una capatina nel salotto della nonna e di cadaveri imbalsamati ne avrebbe potuti trovare quanti ne voleva.”

Zio Efisio Marini il famoso imbalsamatore o “Tziu Efisinu” come lo chiamava Franz era morto già da un pezzo ma tutta la famiglia parlava ancora di lui.

Si parlava ancora del dottore dei morti nel quartiere dove Franz era nato, in quella Via Barcellona dove la biancheria stesa faceva da bandiera, e gli odori

graditi e sgraditi si fondevano con il profumo del pesce fritto. La Marina e il Porto avevano su Franz un fascino diabolico. Nella città bassa c’era la vita e la sera nella via Roma era una continuo via vai di giovani fanciulle. Sono gli anni venti e Cagliari comincia a darsi un contegno di città che si apre al mondo. I palazzi della Via Roma devono fare da sfondo al nuovo Porto che ha assolutamente bisogno di una nuova organizzazione, viene demolito il Palazzo della Dogana e compaiono alteri nel loro lusso palazzo Garzia- Vivanet, Palazzo Zamberletti e il palazzo della Rinascente. In Via Roma c’è pure un gran brulicare di Caffè, il Caffè Torino è il salotto della Città, ma Franz pensa con rammarico che proprio all’angolo di Via Barcellona hanno chiuso un locale molto interessante si chiamava il Chantat Elvetique. Ha finito di esistere da oltre un decennio ma un suo zio, un vecchio libertino, bandito dalla famiglia ed elemento da non frequentare, gli ha raccontato che lì c’erano le ballerine del famoso Can Can e quando ballavano, mostravano le gambe ed altro ancora. Roba da non credere!

Quel pomeriggio Franz era incantato a guardare il palazzo delle chimere proibite quando due ragazze nel are gli sfiorarono la spalla.

Una di loro è una sua “vecchia” conoscenza è Dolores Ghiani. Si conoscono da sempre: le scuole elementari di Santa Caterina, il liceo e ora è sicuro di averla vista all’Università. Era certamente lei come sempre al primo banco che seguiva senza perdere una virgola la lezione di letteratura latina.

Franz non se ne era ancora accorto ma Dolores (che brutto nome Dolores) è diventata proprio carina. La segue con poche speranze di essere notato: il sole è ancora alto. Le ragazze proseguono per la via della stazione e dopo poco varcano la soglia dell’ultimo edificio. E’ un palazzo in perfetto stile del nuovo regime: un casermone squadrato che ha come uniche ornature delle formelle col viso leonino. La scritta sul portone suona come un imperativo: FEDE ILLUMINAONORE ADORNA- PACE AMMINISTRA-AMORE ABITA.

Che programma impegnativo!

Franz torna la sera nella città alta e pensa agli occhi bruni di Dolores, alle labbra di Dolores, ai capelli di Dolores e decide che per quanto la ragazza gli piaccia non può sognare una donna che si chiami Dolores, quindi da quel momento la ragazza dei suoi sogni si chiamerà Iele. Bene, ora può sognare di volare.

L’indomani si sveglia presto, è sovrappensiero vuole fare una bella cavalcata. Franz ama i cavalli e detesta la caccia, Monte Urpinu è piena di volpi, spesso gli tagliano la strada mentre galoppa, ma non capisce perché per puro divertimento le si debba uccidere. Il sole è pallido, con o svelto arriva alla villa degli amici Manca di Villahermosa che si trova alla falde di Monte Urpinu, il suo cavallo è ospite delle loro scuderie. Il suo arabo bianco è bellissimo ed è abituato alle scorribande del padrone quindi, per inerzia, prende la strada per il colle. Oggi, però, Franz ha cambiato idea e dirige il cavallo dal lato opposto verso il Porto, verso via Roma. Nell’aria del mattino volano le idee e Franz si trova a sognare d’esser un antico cavaliere che vuol rendere gli omaggi alla sua bella. Non ci mette molto ad arrivare sotto il palazzo accanto alla stazione e fortuna volle che Dolores fosse alla finestra. Cominciò così in pieno novecento l’amor cortese tra Dolores e Franz. Lui la rinominò Madonna Iele e per lei fu da allora e per sempre Messer Franz. Probabilmente nello scrivere la storia non ebbero lo stesso autore, Franz forse si ispirò all’ironia di Cervantes e al suo ideale di picaro e Iele al disciplinatissimo Ariosto. L’amor cortese durò finché i terribili fratellini di Dolores non fecero arrivare alle orecchie del padre della ragazza la notizia di questo corteggiamento fuori dal tempo. A questo punto il Dr. Ghiani pensò bene, per l’onore della famiglia, di chiudere le serrande con il lucchetto e dare fine all’idillio. Non fu una grande pensata Franz e Iele continuarono a vedersi, lui scese dal cavallo e si face trovare dietro un vicolo lei per uscire chiese la complicità della sorella Fernanda. La storia proseguì come era d’uso a quel tempo, prima si frequentarono, poi si fidanzarono e poi si sposarono, tutto secondo le regole. Quello che il mondo non sa e che se Iele non avesse accudito amorevolmente Franz facendogli spesso da segreteria e dattilografa tutto fare, molti dei saggi del nostro scrittore sco Alziator forse oggi non ci sarebbero o sarebbero dispersi. Laureata in lettere a pieni voti, donna coltissima, fu un’insegnante eccezionale e, a detta dei suoi professori, non era da meno di

quel genio di Messer Franz. Ma Iele si immolò sull’altare della famiglia.

Anche Iele scriveva ma i suoi scritti sono del tutto privati. I suoi quaderni di appunti sono un compendio poliedrico di preziosissime annotazioni: quaderno in pelle bordeaux, veste preziosa, prime pagine, lato sinistro: “Circa la data di composizione della Divina Commedia si sostiene da taluni che essa sia stata iniziata solo dopo la morte di Arrigo Settimo…(così di seguito)” scrittura minuta, curata, leggibile, impaginazione perfetta, lato destro stesso quaderno “il porchetto non deve superare i tre chili di peso, i migliori si trovano da Muscas a Sant’Avendrace. Ricordarsi di farlo prima cuocere lentamente e poi farlo avvicinare alla fiamma per rendere la cotenna croccante”.

Questa era la grande capacità di Iele are da Dante al porchetto con assoluta eleganza e nonchalance.

In casa Alziator-Ghiani si apparecchiava sempre con un posto in più, era la regola, l’ospite anche all’ultimo momento era il benvenuto.

Pace Amministra Amore abita erano gli ultimo moniti della casa della stazione, Iele li visse così tra Dante e il porchetto, lo strudel e Foscolo e gli scritti di Franz .

E questo fu il realistico epilogo dell’l’Amor cortese tra una Madonna ed un Messere vissuti insieme in pieno novecento.

La coppia

Franz e Miranda sono una coppia molto più comune di quanto possa sembrare.

Mutato il genere di lui, spogliatolo dell’essenza felina, dimenticando che è un gatto, non resta che la sua indole interessata e opportunista. Non meglio è lei così egocentrica da sembrare quasi autistica. Eppure si amano. Questo è quello che è evidente in molte coppie, stanno insieme non perché abbiano affinità elettive o sentano una gran voglia di condividere gioie e dolori “finché morte non li separi”, molti stanno insieme perché stare soli è troppo difficile. I matrimoni d’interesse durano più dei matrimoni d’amore, e nella nostra società meglio male accompagnati che soli. La solitudine è comunque latente stando con una persona con cui non si hanno interessi da dividere, ma poco importa è la sola presenza che rassicura dal baratro dell’isolamento. Sono pentole senza coperchi o meglio rapporti da pentola a pressione: l’aggressività emerge comunque quando l’intesa è sostituita dalla convenzione. Più che a una comunione d’intenti qui si assiste ad una lotta di potere per cui ognuno dei partner riveste il ruolo di vittima- carnefice a fasi alterne, all’infinito, in continuità. Pensiamo di essere liberi arrivati nel terzo millennio ma l’organizzazione della società impone ancora la coppia come struttura privilegiata. Le coppie che si immolano più sull’altare del conformismo che sull’altare dell’amore alimentano tutto un indotto di storie parallele al rapporto ufficiale che sono degni dei più melensi romanzi d’appendice, romanzi che non pubblica più nessuno perché sono stati degnamente sostituiti dai serial televisivi. In questo scenario Miranda e Franz hanno tutta la mia solidarietà e sono degni di tutta la mia stima perché non mentono almeno con se stessi. Hanno le idee chiare: cambiare è troppo difficile e poco conveniente. Un rapporto vero è troppo impegnativo meglio qualcuno che miagola quando ti fa comodo, i beni materiali costano impegno e sudore si fa prima ad utilizzare quelli costruiti da altri.

Il loro non è un dialogo sono due monologhi che si intrecciano ognuno

sull’intento dell’altro e a proprio vantaggio. Immorale?

Assolutamente no! Tutto è bene se funzione e questa coppia ancora funziona, per tutta una serie di motivi per cui l’amore è all’ultimo posto. Ma chi ha detto che per stare insieme bisogna amarsi? La facciata non solo è importante ma è la colonna portante della nostra società.

Era tempo d’estate anche se nè Miranda nè Franz se ne erano accorti presi com’erano nel difendere lo status e i propri privilegi.

E’ scomodo essere una donna sola senza un uomo a fianco, non lo credereste ma nel terzo millennio una donna sola con casa a disposizione nell’immaginario di molti uomini è ancora uguale a trombare, e la castità lungi da essere considerata una virtù è ritenuta una brutta malattia. All’occorrenza mi sono dovuta inventare un fidanzato fantasma per uscire da situazioni imbarazzanti. Gli uomini si offendono se non gliela dai anche se non gliel’hai mai promessa.

Nessuno si riconoscerà in Miranda, nessuno si riconoscerà in Franz, tutti fanno parte di famiglie felici che “si assomigliano tra loro” e con tristezza non posso non prendere atto che tanti guardino con sospetto quelli che, fuori dalle convenzioni, cercano di essere “felici a loro modo”.

Il Gatto

Nero

Bianco

Maculato

Dorato

Pezzato

Tigrato

Gatto

Il mio: Franz

Il mio duetto con Franz è praticamente perfetto.

Rossini si deve sentire onorato della mia interpretazione.

Piuttosto, ho assolutamente bisogno di una maschera da micia.

La dovrò comprare su internet.

Ho scoperto che in questa città del cavolo dopo carnevale non si trova una maschera da gatta se non nei sexy shop.

Si!Internet conviene. Penso che far entrare qualcuno in un sexy shop al mio posto mi costerebbe almeno 50 euro, considerando lo sconto riesco pure a contenere i 5 euro di spedizione.

Ma guarda che idee geniali mi vengono se solo ho un po’ di tempo.

Finalmente mi sto rilassando.

Sono sola in una stanza enorme con tante sedie vuote, grigie, rigide, perfettamente allineate come tanti soldatini. Ho scelto un posto centrale. Ora capisco perché in biglietteria non mi hanno chiesto che posto volevo: la sala è deserta! Ma chi vuoi che vada di lunedì pomeriggio al cinema alle quattro? IO.

Sai Franz questa situazione mi riporta indietro nel tempo. Anche se quella volta sola, sola non ero proprio.

Dunque tu non c’eri ancora e un certo …Ernesto, dopo fiori e pasticcini, mi invitò a cena.

Dall’esterno quel ristorante non era un granché, era al primo piano di una palazzina liberty nella città vecchia. Nulla di eccezionale. All’interno, invece, era molto carino, giustamente raffinato ma soprattutto era totalmente…VUOTO.

Far finta di nulla, che poi è la mia specialità, non era possibile, quindi Ernesto mi spiegò che aveva prenotato tutto il locale per noi, come i gangster o i miliardari che poi è la stessa cosa. Perché sono uscita con lui non ricordo. Forse perché si chiamava Ernesto.

Comunque vero o falso che fosse la storia del ristorante tutto per noi non lo saprò mai: l’ho liquidato subito. Era di una noia mortale, ò la serata a parlare di francobolli. Però la cucina era buona.

Oddio e quello chi è. E’ entrato un omino mezzo curvo con i capelli bianchi. Aiuto! E se fosse uno stupratore? Se mi aggredisse qua non se ne accorgerebbe nessuno. Hai ragione Franz, mi metto sempre in situazioni pericolose.

Scampato pericolo se ne sta andando!

Accoccolato

Acciambellato

Addormentato

Gatto

Fantastico, Miranda si è levata di torno.

E’ un miracolo! E’ praticamente insopportabile con quell’aria da gattamorta.

Gattemorte si nasce non si diventa, lei non c’è nata e neppure si applica. Le manca il talento!

Perché io Franz, gatto libero e pronto a tutto resti in questo mausoleo me lo sono chiesto tante volte.

E la risposta la so, purtroppo.

La cucina è disgustosa, Miranda non sa fare un uovo fritto, con molta fatica scongela qualche triglia.

Per riuscire a mangiare tutti i giorni speriamo che regga il ristorante qua sotto. L’ultima volta che ha chiuso per ferie abbiamo soggiornato al pronto soccorso.

Lavanda gastrica!

Perché mi adatto a Rossini che mi provoca spaventosi vuoti di stomaco che Miranda scambia per fusa?

Altra nota a mio sfavore.

Il motivo è uno solo da ricercare nel mio complesso di classe.

In ogni caso non dover annusare l’odore di quella insopportabile femmina egocentrica, egoista, narcisista mi regala anni di vita da gatto.

Addestrato

Avviluppato

Addomesticato

Gatto

Questa sala enorme e vuota mi dà un senso di onnipotenza.

Ora Franz ti starai rotolando nel tappeto, ma come farai a tenere il giusto tempo delle fusa senza le note di Rossini.

Lo schermo è di un grigio infinito. Si, ma il film quando inizia? Ci dovrebbero essere già quei trailers che iniziano sempre e non finiscono mai. Forse ci siamo mi pare che si siano accese le luci ai lati dello schermo; o forse no? Era così anche un quarto d’ora fa?

Sono le 16,35 questa è una multisala non un autobus dei paesi che parte solo quando è piena, gli orari si rispettano! Devo assolutamente protestare. Che faccio esco fuori e chiedo le ragioni di questo ingiustificato ritardo alla maschera. Si esco e chiedo. No non ne ho voglia! L’ingresso è lontano e non mi va di muovermi. Son venuta al cinema per rilassarmi. Idea! Telefono, se c’è campo telefono. Mi dovranno pur dare una spiegazione? Si! C’è campo. E ora il numero di questo posto dove lo trovo?

Probabilmente e scritto sul biglietto. Eccolo. Perché i caratteri sono così piccoli. Altra complicazione devo cercare gli occhiali …Trovati: dunque Unisala...etc etc …To Roma with love …Sala 7 COME?... Sala sette.

Questa è la sala 5. Le entrate di queste multisale del cavolo sono come i Gates dell’aeroporto e mi ricordo perfettamente che nel video era scritto sala 5. Fatto gravissimo che all’ingresso nessuno mi abbia fermato! Sono proprio un branco di incompetenti.

Temo proprio di dovermi alzare. Ecco perché il potenziale stupratore se n’è andato, lui aveva capito…

Non mi resta che cercare questa sala 7. Deve essere nell’ingresso, al lato opposto.

In questa multisala sono proprio un branco di incompetenti

Stropicciato

Stravaccato

Stiracchiato

Gatto

Il motivo per cui resto può essere, a seconda dei punti di vista, squallido o onorevole.

Partiamo dalla motivazione onorevole.

Ricordate quel tale un certo Vespasiano, quello di “pecunia non olet”, quello che aveva messo la tassa sulla pipì.

Questa è storia, oh! Quello si è fatto d’oro con i soldi della pipì.

Anche il figlio, che lo criticava, mica ha rinunciato all’eredità?

Lui mi pare si chiamasse Tito anche prima della tassa sul piscio non se la ava mica male, eppure prima per fare la bella figura ha arronzato quel genio di Vespasiano poi i soldi se li è presi, e come se se li è presi.

E io, io che sono un gatto orfano, con mille fratelli sparsi tra il quartiere della Marina, come avrei potuto rinunciare a un si grande privilegio? Interesse.

E’ vero sto con Miranda per interesse. Ma, come dice anche Miranda, il fine giustifica i mezzi.

Oddio a furia di stare con Miranda, parlo proprio come lei.

Comunque, la stronza è uscita, certo mi fa piacere ma non vorrei che si fosse messa grilli per la testa, era tutta agghindata!

In ogni caso, onde evitare situazioni dalle quali è difficile uscire è meglio che ricorra a quel giochetto che le gatte serie insegnano ai loro figli.

Pare sia un rito antico, risale ai secoli in cui i gatti lavoravano con quelle donne, troppo intelligenti per quei tempi, si chiamavano streghe.

Quelle poveracce finivano al rogo ma noi potevamo scappare così, oggi noi gatti siamo gli unici veri e assoluti signori del sortilegio.

Allertato

Interrogato

Soddisfatto

Gatto

Ho come una sensazione, mi sa che Franz è ricorso alle sue solite magie, sento aria di jettature. Da una parte son felice, si vede che in amor vince chi fugge, ma non vorrei che non mi fero più entrare .

Sai Franz quanto rimpiango i vecchi cinema? Quelli di una volta, dove le maschere sapevano quale film dovevi vedere e che potevi entrare quando volevi. Queste multisale son peggio degli aeroporti: un minuto e perdi l’aereo. Vuoi vedere che ora perdo il film.

Il ragazzo all’ingresso, quello che prima mi ha fatto entrare nell’imbarco sbagliato tenta di fermarmi

“Signora prego solo due minuti”

No! Oggi Franz hai fatto un sortilegio a tutte le maschere? Ma questo che vuole ?

“Due minuti ”,

“Si sposti prego, lei è posseduto da un entità al disopra della sua volontà, ma io entrerò lo stesso, con me non funziona, sono una specialista dell’antijettatura. Nessuno mi impedirà di vedere “To Roman with Love”.

Finalmente seduta al punto giusto. In questa sala 7 c’è un pochino, un pochino più di gente ma è accettabile. Il tanto per sentirmi protetta dagli stupratori.

Si Franz, forse Allen non ha molte idee ma quella di mettere nel cast Alec Baldwin è stata proprio geniale. Forse è un po’ invecchiato, magari un po’ imbolsito ma trovo che così sia ancora più affascinante. Dunque l’altezza è perfetta, stazza giusta pure, bello corpulento, così distratta come sono non lo perdo, e soprattutto età giusta, dovremmo avere più o meno la stessa età anche se io sono molto, molto più giovane.

Baldwin è praticamente perfetto. In giro sembra siano rimasti solo quelli dell’asilo o quelli dell’ospizio. Ecco perché sono ancora single, perché nessun Alec Baldwin ha mai suonato alla mia porta. Penso che con lui riuscirei finalmente a stappare quella bottiglia di Veuve clicquot che stagiona in frigo da non mi ricordo quanto tempo.

Ti vedo livido dalla gelosia Franz mentre io sono a Roma con Alec Baldwin, con

Alec Baldwin che mi guarda negli occhi, con Alec Baldwin che mi versa da bere, con Alec Baldwin che mi dice che sono stupenda con Alec Baldwin che alla fine della cena fa cadere nel piatto un fantastico anello di diamanti e mi chiede di sposarlo. Magari di sposarlo no, ci si può fermare al brillante o al brillante deve seguire per forza il matrimonio? Fermiamoci al “ Sei una donna stupenda” con brillante poi si vede, anche perché prima devo consultare Edoardo. Si quel Edoardo, il mio amico commercialista.

Sgambettato

Preoccupato

Destabilizzato

Gatto

No dico, Miranda tarda troppo. Vuoi vedere che si è fatta rimorchiare da qualche sfigato. Dovevo aspettarmelo è uscita conciata come una baldracca. Con quel vestito alla sua età. Aveva ragione la nonna che per anni è stata in casa di una vedova serissima: per le femmine dopo i quaranta solo abiti lunghi e neri. Ma cosa credono che sia diventato il mondo un lunapark?

Comunque questa assenza mi preoccupa, vuoi vedere che dopo anni di languidi miagolii e fusa a ritmo di Rossini perdo il privilegio di fare i miei oramai nobili bisognini su un Nain persiano di seta finissima. Quanti privilegi hanno avuto nei secoli questi Persiani.

Lo so ho avuto una grande debolezza il giorno della prima pisciatina, ma poi è diventato una assoluta necessità. L’ho sentito dire anche da Miranda “Il superfluo per me è necessario come l’aria che respiro”.

Mi sembra, ogni tanto, che Miranda dica frasi troppo intelligenti. Secondo me le copia. Si, son sicuro le copia.

Però ora son preoccupato e, cosa terribile, non ho neppure voglia di fare una visitina al NAIN.

Questi sono i primi sintomi della depressione. Se tarda troppo perdo ogni motivazione e mi rattristo!

Allampanato

Sconcertato

Strabiliato

Gatto

Trovo che da quando hanno smesso di scrivere alla fine dei film the end i film abbiano perso un gran senso di sè.

The end, quando il film ha un senso, è indispensabile per i cretini e i distratti; oggi, con questi film senza né capo né coda dovrebbe essere obbligatorio. In ogni caso in questi nuovi cinema non rischi di rivedere lo spettacolo, appena finisce ti sbattono fuori.

“Signora, signora, la prego!” La maschera all’ingresso mi ferma con forza, è un ragazzo piccolo e nero, giovanissimo, ha un’aria supplicante. Quasi mi commuove.

“Senta, sono stanca e voglio tornare a casa, grazie alla sua incompetenza prima ho rischiato di essere stuprata poi sono stata in una sala vuota per un tempo immemorabile. Ringrazi che non reclamo alla direzione. Mi fa andare ora?”

“ Signora mi scusi le devo solo comunicare che è il suo biglietto è il millesimo per questo film e la produzione ha deciso che chi avesse preso il numero mille se fosse stata femmina avrebbe ato…una serata con Alec Baldwin.”

“ E se fosse stato maschio?.”

“Non so . Non ho avuto direttive. Ma se crede mi informo.”

“Ma ci mancherebbe altro. Dicevo così per dire.”

“Insomma lei erà una serata con Alec Baldwin.”

Arruffato

Declassato

Avvelenato

Gatto.

Sono assolutamente fuori allenamento, l’incantesimo non ha funzionato. La vita sedentaria mi sta togliendo ogni potere. La storia si mette male Miranda non fa altro che ignorarmi e vagare per casa in preda al delirio pare che un certa Alec Baldwin, un deficiente troppo alto, troppo grosso che venti chili fa faceva da spalla a 007 debba venire a cena da noi. Non so come l’abbia conosciuto, né come possa averlo raccattato dal momento che c’è di mezzo un oceano. Come maschio non so cosa valga, ma come attore è sicuramente un cane, qualche anno fa ha vinto il Contro Oscar, il premio come peggior attore protagonista.

Ma quell’idiota è tutta gasata.

Non fa che girare per casa ignorandomi come se fossi un gatto di pezza.

Sono depresso magari mi faccio una visitina al mio fantastico tappeto.

Devo dire che Miranda in questi lunghi anni ati insieme è stata veramente generosa: la mia raffinatissima lettiera viene cambiate due volte alla settimana,

portata in lavanderia e profumata, viene sostituita da un altro tappeto niente male un Tabriz lana e seta, forse un po’ caldo ma sempre fantastico.

Le dimensioni non sono eccezionali mi pare che facciano parte di quel tipo di tappeti chiamati“preghiera”.

Ho sentito dire da Louise, un’amica di Miranda brutta come la fame e invidiosissima, che si chiamano così perché i musulmani lo portano appresso e si mettono lì a pregare dappertutto su questo tappetino.

Oddio vuoi vedere che questo Baldwin c’è piovuto in casa perché Maometto si è incazzato?

Sconcertato

Rassicurato

Soddisfatto

Gatto

Certo se mi avessero chiesto di conquistare Baldwin con poesie in cinese sarebbe stato più semplice.

Sono stanca, darmi da fare così per un attoruncolo qualsiasi.

L’organizzazione è stata categorica e mi ha fatto pure firmare un contratto in cinque copie, vediamo non si sa mai si trovi un appiglio.

Qui ci vorrebbe Edoardo il mio amico commercialista, ma è un gran ficcanaso, poi ci sta provando da una vita ed è sempre meglio tenerlo buono, non si sa mai.

Franz in questa circostanza non mi è di nessun conforto. L’ha sempre detto la nonna che di un maschio in casa non se ne vede l’utilità. Vedrò di cavarmela da sola.

Coraggio leggiamo.

Accidenti quanta carta:

Dunque Mister Alec Baldwin si recherà a casa di Miss Miranda Sanchez il giorno x alle ore 20, per intrattenersi con lei.

Ora di cena quindi, quel ciccione chissà quanto mangia, non gli posso dare certo una minestra di dado!

E’ fatto divieto alla Miss Sanchez di avvalersi di cibi precotti o già confezionati.

L’unico alimento che potrà essere introdotto nella casa già pronto per essere consumato sarà il dolce.

Si raccomandano cibi sani e dietetici.

Dio mio, mi dovevo essere proprio bevuta il cervello per aver firmato questo contratto assurdo.

Secondo questi idioti dovrei preparare con le mie manine d’oro delle pietanze a quell’armadio quattro stagioni.

Ma come faccio ad imparare a cucinare in quattro e quattrotto. Sono proprio un idiota, la bottiglia di clicquot me la sarei potuta tranquillamente scolare da sola, mi sarebbe convenuto molto.

Guarda, guarda e qui c’è pure una penale nel caso io mi tirassi indietro. Vediamo a quanto ammonta se non è troppo faccio finta di aver parcheggiato in doppia fila, tanto multa più multa meno...

Vediamo ultima pagina caratteri microscopici. Cosa? Leggo bene? Gli occhiali sono perfetti, leggo bene “In caso di disdetta Miss Sanchez dovrà risarcire la produzione € 50.000/00 -euro cinquantamila“è scritto anche in lettere: euro cinquantamila, non ci sono dubbi.

Cinquantamila euro? Cinquantamila euro buttati al cesso! Se penso che ho voluto risparmiare anche su quell’impercettibile ritocchino sotto gli occhi.

Piuttosto che nutrire quegli avvoltoi sarebbe stato meglio investire in plastica.

A questo punto devo farmi venire per forza qualche idea.

Potrei chiedere a Louise di insegnarmi qualcosa, no, Louise no, e’ invidiosissima e porta pure jella.

Hai ragione Franz mi ficco sempre nei guai.

Sollevato

Confortato

Rassicurato

Gatto

Oggi è la giornata del Tabriz, mi conforta il fatto che in questa casa per il momento non si perdono le buone abitudini.

Dopo una pisciatina mi sento sempre più sollevato e sereni si ragiona meglio.

Ora, cerchiamo di tramutare le difficoltà in opportunità, bella frase l’ha detta Miranda dopo essere uscita dal bagno con in mano una di quelle sue solite riviste .

Dunque questo Baldwin è una star anche se come attore è un disastro.

Ma è un VIP ora mettiamo che la storia con Miranda funzioni, mettiamo anche che io gli piaccia :

diventerei il gatto preferito di una star.

Diventare il gatto di una star è un enorme privilegio: foto, telecamere e ragionando alla grande, perché no anche qualche parte in TV. Peccato non esistano i gatti poliziotto. Ma con le giuste conoscenze una parte si trova.

Come minimo, quando vanno in tournee, mi porterebbero al Ritz. Chissà come sono i tappeti del Ritz? Magari c’è la moquette. La moquette sarebbe veramente aver raggiunto ogni traguardo.

Miranda piuttosto la vedo strana questi giorni.

Prima era tutta gasata, euforica. Da qualche giorno si è chiusa nello studio con un muso….

No dico anziché stare in cucina per fare un po’ di pratica sta chiusa in quella stanza….

E lì semi imbalsamata che guarda prima la foto della nonna, poi quella della mamma.

In quella biblioteca, si fa per dire c’è di tutto: centinaia di volumi, CD e dischi in vinile, maschere sacre e animali imbalsamati, e poi tele pennelli e si perché Miranda dipinge. Ed ha un gran talento, dice lei…

Io in quella stanza non entro mai la troppa cultura mi asfissia e poi … non c’è neppure uno zerbino.

Comunque la storia è veramente preoccupante Miranda guarda donna Elvira, la sua nonna, disperata, come se attendesse una risposta.

A volte i morti rispondono, speriamo presto.

Donna Elvira era una gran donna, ha anche vinto il premio Strega, la figlia Donna Iolanda non era alla sua altezza, infatti non ha vinto nessun premio in compenso ha lasciato una strega in carne ed ossa: Miranda.

Miranda ha proprio un carattere di merda, ho paura che mandi a monte il mio progetto di star gatto.

Complicato

Inchiodato

Irritato

Gatto

Ma perché dico perché in tutte le case le nonne fanno torte e pasta al forno, e tu scrivevi romanzi e non sapevi friggere un uovo? Sei stata per me un’ eroina e io ho sempre cercato di imitarti credendo di fare la cosa più giusta e dignitosa.

Una cosa ti riconosco mi hai sempre messo in guardia dalle pene d’amore.

Odi et amo

Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Odio e amo. Forse chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento .

Catullo, una delle prime poesie che mi facesti leggere per preservarvi dall’inganni dell’amore.

Anche io mi tormento e mi tormento, e come scorrono le ore il mio amore diventa sempre più lontano dall’amore e vicino all’odio implacabile.

Come è simile il nostro sentimento o divino Catullo! E pensa quanto ci avrebbe accomunato il Fato se tu, per un mancato convitto, avessi dovuto rendere a Lesbia cinquantamila sesterzi.

Insomma mamma, nonna tiratemi fuori dai guai. Mi avete messo voi in questa situazione di merda.

Letteratura, pittura, scultura, musica, equitazione. Ma un po’ di sana economia domestica no?

Eppure la cucina è un’arte. Isabella d’Este, Caterina d’Aragona, Renata di Francia, cosa facevano per imbastire i loro intrighi?

Invitavano Papi e Re in sontuosi banchetti e avevano pure delle cucine enormi. Si indebitavano per questo.

Certo non facevano tutto da sole, avevano degli organizzatori eccezionali, mi pare che lo stesso Leonardo si fosse occupato di pranzi speciali. Con la sua arte curava la scenografia dei pranzi ducali.

Cosa ho detto: arte, scena, pranzo.

Sono un genio!

Yoamamoto Tsunetomo Hagakure

Dal libro segreto dei samurai:

Un antico proverbio recita “Una decisione va presa nello spazio di sette respiri”.

Il Daimino Takanobu un giorno fece questa osservazione “Se un uomo esita troppo a lungo a prendere una decisione s’addormenta”.

Il daimino Naoshige ribatte “Se ci si lancia senza vigore, sette azioni intraprese su dieci non hanno seguito; il samurai agisce con rapidità”

Sarei stata un perfetto samurai e sono un genio.

Alla genialità aggiungo la rapidità dell’azione!

La mia cena era una sintesi perfetta da Vermeer e Kandinsky.

L’interno del salone con le luci soffuse sarebbe stata l’ambientazione ideale per un pittore dell’anima come Vermeer.

Le pietanze una di quelle intuizioni che cambiano il corso della storia.

Riguardando con attenzione il contratto e chiedendo con una scusa conferma ad Edoardo ho capito che quello che stava nel piatto non doveva necessariamente essere cucinato, quindi dal momento che lascio la cucina alla cuoche, ma dipingo benissimo ho realizzato una serie di acquarelli :

Antipasto

“ Cocktail di Astice” fondo Picasso periodo blu; perfetto sulla ceramica inglese.

Per il primo piatto: spaghetti al pomodoro, ho pensato di prendere in prestito la forte e decisa pennellata di Kandinsky.

Per il secondo piatto mi sono ispirata ad un pittore fiammingo un certo Bouts che aveva deposto il pesce in piatti d’argento tali e quali ai miei.

Sono un genio! In pittura ho inventato un genere, e la dietetica si potrebbe avvalere con successo della mia intuizione!

Riflettendo se togliamo la frutta, che pure non si cucina, da Caravaggio a Cezanne a parte qualche Ultima cena di commestibile in pittura resta ben poco.

E’ ovvio Baldwin non avendo frequentato Harvard non ha potuto apprezzare nulla della mia cena fantastica, e si è incazzato moltissimo.

E’ diventato prima gonfio, poi viola poi ha chiamato un tale dell’organizzazione ed è andato via senza salutare.

Resta il dolore di un amore svanito o divino Catullo.

Mi poteva andare molto peggio: cinquantamila euro per una non cena è una cifra enorme in questo tempo di crisi. Cinquantamila euro in tempo di crisi!

E si, la crisi imperversa anche se Edoardo, che non capisce nulla di geografia ma è un ottimo commercialista, mi ha rassicurato che nelle isole Samoa i miei investimenti sono al sicuro.

In ogni caso bisogna bandire ogni spreco, almeno per solidarietà, e assolutamente non bisogna gettare gli avanzi!

E’ incredibile come nelle difficoltà le persone più impensate ti possano essere vicine. Louise, che si è sempre dimostrata una stronza invidiosissima, come ha visto il pranzo è rimasta incantata. Figuriamoci si è pure offerta di inserirmi nella prossima collettiva. Resta sempre uno stronza invidiosissima ma ha anche una delle gallerie più note della città. Sempre stronza, ma stronza solidale.

Per il resto, pur di non buttarla, sono tre giorni che mangio torta millefoglie a

pranzo e a cena.

Il mio vero,unico rimpianto?

Il Veuve clicquot.

E uno

E due

E tre

Stappo

Gatto

Addio vita da Star.

L’ho capito subito, quando quell’attore da strapazzo anziché guardare dentro la scollatura di Miranda ha guardato dentro il piatto.

Io se mi avesse invitato a cena un tronco di gatta non avrei fatto tante storie.”Il contratto gli spaghetti...”

Oh Baldwin!!!

Per mangiare c’è sempre tempo e in ogni caso ammesso che Miranda non fosse il tuo tipo e la pittura è sicuramente il tuo punto debole, un po’ di senso dell’umorismo.

Le donne bisogna farle ridere, ma forse a te non interessa!

Miranda invece l’ha presa bene,

Cinguetta con Louise al telefono, pare che per l’antipasto gli abbiano offerto già ventimilaeuro.

Forse è il caso di aprire un ristorante.

Io son contento, è stata una buona esperienza.

Un po’ di stress ma ne valeva la pena.

Ora, spero solo che a Miranda non venga la malaugurata idea di scolarsi il Veuve

clicquot da sola.

Adoro il Kitekat con lo champagne.

In tempo d’Autunno

Attendo sospeso

Banale povertà

Dedicato

Ranocchio

Il diario

Palermo

Anni 80

I trans

Attendo sospeso

La sveglia è un oggetto inanimato, ore 6.30 il trillo uguale a sempre rompe il sonno. Da tempo la mia giornata è trasformata. Il primo periodo ho fatto finta di essere in vacanza: ferie a tempo indeterminato, per un po’ ha funzionato, ha funzionato almeno fino a quando la cassa integrazione ha coperto le spese.

Ore 6,45 ho fretta di alzarmi, metto su il caffè, con una mano accendo la TV, con l’altra schiaccio il pulsante del computer. Attendo con ansia che la clessidra mi indichi che tutte le mail sono state caricate. Fra un po’ dovrò andare in un internet point, non ricordo da quando non saldo i conti col Signor Tiscali, da un giorno all’altro attendo rassegnato che sul display compaia la fatidica scritta: “nessuna connessione ad internet contattare l’Amministratore”. Non ho bisogno di un amministratore non è né una fortuna, né una sfortuna è un dato di fatto E.458/65 è tutto quello che mi resta insieme ad una laurea in chimica alla Bocconi, un Master negli Stati Uniti e 15 anni impiegati a dirigere un’azienda. I conti posso farli da me. Ore 8 il caffè è finito, il mio curriculum è stato letto da quella azienda di Oslo. Incredibile! Hanno risposto, sembra che abbiano trovato il mio profilo interessante… Interessante chissà che freddo che fa ad Oslo….

Ho lasciato l’ultima bustina chiusa: “BANCOPOSTA attenzione! Le comunichiamo che sono state rilevate delle operazioni sospette sulla sua carta”. Grazie per la sollecitudine, peccato, non possiedo più nessuna carta.

Ore dieci attendo che il ferro si scaldi, il segreto per resuscitare le camicie lise è stirarle con cura. Le mie camicie sono praticamente miracolate da un additivo che disciolgo nell’acqua, tengo accuratamente la formula segreta.

Prima di indossare la camicia mi faccio la barba, la doccia l’ho fatta ieri notte, non posso sprecare altra acqua calda.

Devo fare con calma ho un appuntamento alle 11,30, cercano un barista in un locale del centro, se sono troppo svelto rischio di attendere troppo.

La giornata è molto bella, il sole mi riscalda le ossa fradice, è stato un lungo inverno.

Il locale deve essere quello all’angolo. Sembra proprio una topaia e quel tizio con la catena d’oro, i capelli unti, il grembiule lercio ha tanto l’aria di essere il padrone. Sono indeciso entro o scappo? Scappo. E’ quasi mezzogiorno, oggi in fondo è andata bene l’ora fatidica è arrivata senza troppa attesa, sto diventando abile ad allungare il tempo. Lentamente mi avvio e cerco di godermi la eggiata, di questa strada conosco tutto, anche le crepe del marciapiede, ci o tutti i giorni da quasi un anno. La meta è quel portone severo, di solito c’è la calca per entrare, gente di tutti i tipi: il barbone patologico, l’extracomunitario chiassoso e tanti, troppi vestiti con gli abiti di ieri che ingannano l’occhio: sembra che ino qui per caso. Saluto Claudia, professoressa di lettere, precaria anche lei e in ferie forzate grazie alla Signora Gelmini. Claudia mi sorride:

“Ciao Guido, novità?”

Claudia è piccola, bionda, dolce, un motivo in più per attendere l’ora del pasto tutte le mattine.

“Sì, forse. Mi hanno risposto da Oslo”

“Davvero?” Sorride, meravigliata, felice per me “E cosa conti di fare?”

“Non so, per il momento mi hanno chiesto di compilare un questionario e lo farò”

“Cosa c’è, non ti vedo entusiasta?

“Non so… ad Oslo c’è freddo…”

“Sì, ma avrai di nuovo un lavoro, un reddito, uno status sociale, potrei fare progetti…”

La guardo negli occhi e già mi manca.

“Pensa, l’unico progetto che mi viene in mente, se penso di trasferirmi in Norvegia, è quello di organizzarmi le ferie. Sono sicuro che vivrei 360 giorni di gelo in attesa di scaldarmi alla luce di questo sole e”...dei tuoi occhi. Vorrei dire dei tuoi occhi ma non lo dico, lo penso mentre saliamo i gradini della mensa dei poveri. La mensa dei poveri dove non sono beati gli ultimi, al massimo sono fortunati se i primi sono stati discreti.

Banale povertà

Attendo sospeso…. Sempre di più sono le persone sospese al filo della disoccupazione, della cassa integrazione, della disperazione….

La povertà è come la morte sembra sempre che riguardi qualcun altro, poi improvvisamente dalla sera alla mattina vedi crollare tutte le tue certezze. Precipiti in un buco nero che ti risucchia sempre più man mano che finiscono le speranze con i pochi risparmi che avevi da parte.

Della sbentiataggine ho già parlato per cui è facile capire come un giorno, in tempo d’autunno, mi sono trovata a realizzare che il fenomeno della povertà era dietro l’angolo e con un volto inaspettato.

Abito in San Benedetto avvolta nei miei pensieri, nel tepore del mattino, non potevo non notare all’angolo di via Bellini un nutrito gruppo di persone, uomini e donne dignitosi che chiacchieravano del più e del meno. Ho pensato che fossero pensionati in attesa all’ufficio postale, ma l’ufficio postale più vicino sta in Viale Marconi, che ci faceva quella gente lì? Si aprì una porta, vidi una suora, con tristezza realizzai che quelle persone simili a me aspettavano l’apertura della mensa del Buon Pastore, la mensa dei poveri. Tempo fa venivano preparati quaranta pasti ora sono più di centossessanta. Ultimamente è stato scritto tanto sulla disoccupazione, nostra antica piaga, che oramai è diventata quasi mortale, non è divertente ma penso sia obbligatoria una lettura delle disavventure economiche della nostra isola. Non sono solo guai che toccano agli altri, potrebbe capitare anche a noi e la responsabilità di porvi rimedio va condivisa. Non voglio scrivere altre banalità mi auguro con tutto il cuore che la nostra rinascita avvenga non per pseudo tamponamenti politici assistenzialisti ma una volta nella storia grazie alle nostre idee e alla nostra perseveranza.

Dedicato

Dedicato a tutti i Ranocchi e le Ranocchie che vengono al mondo e dovranno imparare a tenersi a galla in questo mare, mare che a volte è amico e a volte nemico con l’augurio che imparino a nuotare con amore verso la spiaggia della libertà.

Ranocchio

4 ottobre

Ciao Ranocchio,

ti ho visto sai nel tuo primo film.

Niente male per un esordio hai avuto una parte da protagonista, protagonista assoluto senza comparse.

Nuotavi beato nell’acqua, placido e indisturbato.

Era lungo quel film, tu non avevi fretta e neppure il regista (ci credo doveva giustificare 150 euro a botta).

Ti ho visto in tutte le angolature e da tutte le prospettive: di lato, di fianco, il piedino, il pisellino (a proposito complimenti! vedi in futuro di non deluderci!).

Io ti guardavo e toccavo il pallone dove sei ancora rinchiuso: la pancia della tua mamma.

Come attore sei eccezionale, conserva questo talento che ti potrebbe essere utile nella vita anche se non farai né cinema né TV.

Sei riuscito a coinvolgere anche me che per senso materno non brillo.

Si dice che la forza di un’opera è quella di farti riflettere, bene, tu ci sei riuscito anche con un film muto.

Ci sei riuscito più di Kramer contro Kramer che è l’unico film dove ho pianto a dirotto e in diretta.

Il giorno dopo la tua esibizione non riuscivo a togliermi dalla testa la tua immagine mentre nuotavi beato nell’acqua nascosto agli occhi di tutti.

Diceva Ranocchio Riccardo all’età di sei anni:

“Io penso che la vita sia un film e io sono il protagonista.”

Protagonisti si nasce, Riky l’ha capito a sei anni a te è capitata la fortuna di farlo prima di nascere.

Ma penso che se anche la medicina ha fatto i da gigante e il regista (sempre in virtù dei 150/euro a botta è meglio che tu capisca subito il senso del danaro) è stato bravissimo non ha potuto aggiungere nulla al miracolo che è in te perché:

tra tanti miliardi e miliardi di esseri della tua specie tu sarai unico e irripetibile. Caso mai lo scordassi la tua mamma te lo ricorderà in ogni momento.

Grazie a te ho ripensato al prodigio che si compie da quando è nata la vita e che come milioni di anni fa il nostro nascere è legato al volgere della luna .

Non basta l’anteprima di un film per pensare che siamo uomini del futuro, nasciamo tutti esattamente come il primo uomo che è comparso sulla terra.

E qui mi fermo non ti voglio importunare, già prima di essere nato, con i miei discorsi filosofici, anche se penso che ti ci dovrai abituare.

In compenso in casa di zia Michela ti aspetta una bella terrazza con tanti fiori e una casetta di legno per i tuoi giochi, potremmo metterci anche dei gatti o un cagnolino, che ne dici? L’importante e che dopo il gioco te li riporti a casa tua.

Da poco ho saputo che quando verrai al mondo ti chiameremo sco e allora Ranocchio sco tanti auguri oggi è la tua festa.

Ah, scordavo di dirti che quando arriverai tra noi dovrai continuare a nuotare.

Come sarà il tuo mare non lo so, ma sia in bonaccia che nelle tempeste ricordati sempre che te la caverai.

Te la caverai se invocherai la tua buona stella e il santo di cui porterai il nome, lui ti proteggerà.

Era un grande ragazzo quel sco, amava le piante e i lupi, amava il sole e la pioggia, il vento e le tempeste, tutto amava perché era libero.

Tanti Auguri sco … ricorda amore e libertà.

Zia Michi

Il Viaggio

Tutte le volte che torno da un viaggio mi sento sempre un po’ meno cretina e penso che la Sardegna sia un posto meraviglioso, magari con qualche aggiustatina.

Tengo a precisare, prima che qualche siculo si incazzi, che questo è un diario, sono le percezioni di una donna e donna sarda che affronta il sud. Non voglio togliere nulla alla grande cultura siciliana, che peraltro ha generato due grandissimi scrittori, tra i miei preferiti, Pirandello e Tomasi Di Lampedusa. Ho voluto scrivere del viaggio di una persona qualunque, chi in una situazione non privilegiata si trova a fare i conti con la realtà e a confrontarla con le proprie aspettative. Se, come sognavo, fosse arrivato a prendermi il Principe di Salina avrei scritto un’altra cosa. Questo non è avvenuto e in tempo di autunno ho scritto molte righe di un mondo a me molto lontano e che per certi versi mi ha pure un po’ impaurito. Ho pensato molto prima di pubblicare il pezzo sul sito della Fondazione Sardinia, ho riflettuto se fosse eticamente corretto quello che scrivevo, poi ho pensato che un giornalista, uno scrittore, abbia il diritto di trasmettere le proprie emozioni. Come conforto ho riletto Lawrence che nei primi due capitoli di See and Sardinia descriveva la Sicilia poi Cagliari. Lawrence ha scritto tutto a memoria, non ha preso appunti nel suo viaggio, per cui il suo diario è in gran parte frutto del ricordo. Il ricordo di un luogo o di una persona più che una codificazione scientifica è legata alla percezione emotiva. Anche Lawrence ha scritto sulla scia dell’emozione.

Mi prendono sempre in giro per questi miei modesti paragoni, ma sono certa che se deve esserci un modello in letteratura questo non possa essere la lista della spesa di tzia Mariedda.

Vi lascio alla lettura e se qualche siculo si incazza sono disponibile a prendermi gli insulti, se motivati e sufficientemente documentati.

FRATELLASTRI D’ITALIA

Il sito del Comune di Palermo sembra fabbricato da uno svizzero, da uno svizzero della svizzera tedesca; preciso e puntuale.

Provare per credere!

Vai su Home, scendi col mouse in fondo a destra e clicchi sulla voce :”Informazioni turistiche” ancora quinta riga “itinerari”, ricliccare:

Ora scopri che lo svizzero tedesco ha assoldato un ottimo tour operator per vendere la città.

Otto brochure indicano otto ghiottissimi percorsi per il potenziale turista.

“Palermo, culla del Mediterraneo e luogo di incontro di diverse culture che si sono susseguite nei secoli della storia, offre ai turisti una grande varietà di monumenti palazzi, chiese, teatri, musei, mercati storici e tutto ciò che riguarda le tradizioni popolari.”

E’ un richiamo praticamente irresistibile questo scenario di cultura e di storia. In ciascun opuscolo, sono indicate, inoltre, le emergenze artistiche, i servizi e i tempi di percorrenza a piedi. Da un punto di vista pratico la brochure è assolutamente perfetta.

Ogni dépliant contiene la mappa, le indicazioni dei luoghi, notizie varie e foto.

Lo stereotipo è la visione semplificata e largamente condivisa su un luogo, un oggetto, un avvenimento.

In arte e letteratura gli stereotipi sono rappresentati da situazioni o personaggi prevedibili. Nell’immaginario di un viaggiatore lo stereotipo è l’anticipazione del mondo che visivamente ed emotivamente troverà e che già pensa di conoscere.

Dopo una breve sintesi dei dépliant, sei pronto per il viaggio, pronto per un giro di valzer col principe di Salina, pronto per visitare le trecento stanze della dimora estiva di Tomasi di Lampedusa, pronto per immergerti in un mondo di stucchi, ori e cristalli a te sconosciuti.

Un mondo di lusso e sfarzo, lontano come Marte da questa Sardegna dove si sa anche i ricchi erano poveri, poveri e tristi come i loro stretti palazzi di Castello.

Si può partire in jeans tanto è certo che con i fantastici suggerimenti del siculosvizzero-tedesco si potrà velocemente recuperare, all’occorrenza, un meraviglioso abito da sera.

Le immagini dei dépliant si sovrappongono al film di Visconti e tu sei pronto a viverti il tuo irripetibile, personalissimo, Gattopardo.

L’aereo è quella cosa che, soprattutto in Sardegna, ti fa riflettere sul concetto di spazio e di tempo.

E’ inutile che ci si interroghi sul perché si faccia prima ad arrivare da Cagliari a Madrid che arrivare in treno da Cagliari ad Oristano, è tempo perso.

Ed è altrettanto inutile pensare ad una realistica soluzione dei nostri trasporti interni, meglio godersi le nuvole e dopo solo 50 minuti di volo, tempo con il quale non saresti neppure arrivato a Marrubiu, sei già in Sicilia.

Il tempo è mite quasi caldo, il pullman ci porterà a Palermo in poco tempo.

L’autista ha un pesante accento palermitano.

Lo stereotipo è un concetto che si coniuga perfettamente col pregiudizio, sostanza di cui nessuno è immune, nessuno a parte gli ipocriti.

Da tempo vorrei conoscere il mago dei ricordi, vorrei conoscere quel tale che senza un’apparente ragione ti mostra, come un vecchio film, i trailers della vita dissolti dal tempo.

E’ già buio e il panorama non mi può distrarre, è la voce dell’autista evoca il ricordo.

Di colpo mi trovo a Cagliari, Hotel Mediterraneo, in una di quelle noiosissime

conferenze a cui segue un ancor più noiosissimo party. Per evitare il suicidio, in queste circostanze, parlo a rotta di collo, così il suono della mia voce mi tiene sveglia. In un gruppo accanto a me stava uno dei relatori, occhiali scuri, volto amimico, illustre luminare di non mi ricordo cosa. Con molta abilità si inserì nel discorso, fino a quel momento riconosco che aveva venduto molto bene l’immagine “International”dell’uomo di mondo che è a casa sua nella City come in via Condotti, l’accento natio poteva essere solo un vezzo.

Ma le radici genetiche sono molto più forti della cultura acquisita e prima o poi si rischia di scivolare sulla famosa buccia di banana o su qualcosa che le somigli.

Insomma dopo alcuni scambi di vedute l’esimio professore, forse distratto da altro, si tolse gli occhiali scuri e con sguardo allampanato mi chiese ‘’come potessi essere così intelligente per essere una donna’’ gli avrei potuto rispondere che dopo il Concilio di Trento anche a noi donne è stato riconosciuto d’avere un’anima ma sarebbe stato troppo faticoso, se avessi ascoltato la voce del cuore un sintetico “vaffanculo” sarebbe stato perfetto ma forse un po’ scortese per cui sorrisi e mi dileguai.

Ora non capisco l’assonanza.

Deve essere il potere del luogo.

La ragazza del bed and breakfast è molto giovane, molto carina, molto vestita stile via Montenapoleone. Mi informa subito che ha studiato a Milano e che fa la giornalista, della serie “Se pensavi di trovare una sicula con i baffi e con il burka hai sbagliato strada”. Capisco il problema, anche io mi ero seccata moltissimo quando la madre di un amico di Udine aveva chiesto se la mia elegantissima mamma vestisse il costume sardo.

Penso però che questa ragazza abbia preso troppo alla lettera la milanesità.

Sono stanca e quasi sfatta, poggio i bagagli, la ragazza mi raggiunge in camera con in mano una cartina di Palermo, la cartina svolazzante viene piazzata sul tavolo e così comincia un monologo irrefrenabile sulle attrattive palermitane. L’albergatrice-giornalista ha ben confezionato una serie di itinerari il cui piatto forte è la movida. Inutilmente la supplico di farmi fare una doccia, tento di commuoverla dicendo che ho l’ansia e ho bisogno di una camomilla; il fluire di vocaboli non può essere arrestato, l’esortazione alla vita notturna continua, tengo per me che vado a letto alle dieci:

non vorrei mandarla in crisi esistenziale.

Il soliloquio procede, incurante del mio disagio, fino all’ultima sillaba. Vinta da tanta tenacia mi rassegno e la guardo sconfortata fino allo spegnersi dell’ultimo vocabolo. Lei, l’aspirante Mirandolina-Fallaci, è visibilmente soddisfatta “Missione compiuta”. In fondo è solo un problema di tecnica, funziona a Milano come a Palermo; mutatis mutandis.

Dormo il sonno dei vinti con la certezza che mi attende una Palermo principesca.

Mi sveglio per tempo e faccio colazione.

La camera è molto bella “ariosa e luminosa”, come da descrizione su internet, il pavimento liberty luccica, dalla persiana filtrano i raggi del sole.

Cerco di recuperare tra la carta lasciata in dotazione dalla locandiera e la reminiscenza del suo sproloquio vespertino, un minimo di indicazioni che mi possano tornare utili per arrivare alla Cattedrale e al Palazzo Reale. L’albergo è in una posizione strategica. Cerco di memorizzare le indicazioni: scendere per via Vittorio Emanuele, attraversare via Maqueda, proseguire fiduciosa fino alla cattedrale che si troverà sulla destra.

Scendo per strada con o sicuro ed incalzante.

Tutte le città hanno un’anima, questo è quasi un’ovvia banalità, ma quello che cerco oltre ad affreschi e torrioni, come Battisti, sono…emozioni.

Cammino e sento, e vedo, e odoro ma qualcosa di ignoto stride. Ho visto ancora troppo poco ricaccio con forza le precipitose impressioni che sconfinano nel giudizio.

E’ vero la strada non è lunga in compenso è molto sporca, il chiasso insopportabile, gli odori, per chi ama la cucina, provocano una sorta di piacevole stordimento.

Una miriade di viuzze si snodano dalla strada principale, tantissime hanno nomi arabi.

Sulla sinistra in uno slargo compare un antico palazzo, una costruzione enorme in perfetto stile gattopardesco, ma i fasti principeschi sono aimè molto lontani, tutto è tristemente in uno stato di avanzato degrado. L’epitaffio sul portone sotto

lo stemma nobiliare dice con evidente compiacimento che qui dimorò Garibaldi nel suo soggiorno a Palermo.

Ho fatto pochi i ma mi pare che questa città, tra strade, monumenti ed epitaffi alla memoria, se la siano spartiti equamente, gli arabi e Garibaldi.

La Cattedrale è stata costruita sull’antica basilica, i saraceni ne fecero una moschea, dopo la dominazione araba tornò ad essere un tempio cristiano, ricorda la Cattedrale di Siviglia ma non ha il suo fascino. Tento di entrare in empatia col luogo ma non ci riesco. Anche il sepolcro del Federico II mi dice ben poco, anzi mi sembrano un po’ stretti e un po’ affastellati lui, lo ”Stupor mundi”, Ruggero e Costanza.

Esco di fretta senza fermare il pensiero “Il Museo della diocesi “. Bene, entriamo qui!

Il Museo della diocesi di Palermo è stato fortemente voluto dal Cardinale Pappalardo, dopo che la mafia trafugò la natività del Caravaggio esposto nell’oratorio di S. Lorenzo.

Il Palazzo cinquecentesco è stato rimaneggiato e arricchito nei secoli. Gli ambienti non solo sono belli ma hanno l’anima dei luoghi amati. Il Museo occupa le stanze che un tempo erano dell’Arcivescovo di Palermo, qui sono custodite tutte quelle opere che per motivi di sicurezza non possono essere mostrate al pubblico.

I dipinti sono esposti con raro buongusto, Giorgio Vasari, Antonio Alberti, il Barbalonga hanno il loro giusto rilievo. Un audio guida ti accompagna nel

percorso e riesci a capire il senso e il pregio di ciò che ti circonda.

Nelle stanze al piano superiore si sta ultimando il restauro delle stanze arcivescovili.

Questi appartamenti sono in attesa del completamento degli arredi, ma quel che è già visibile è sufficiente per definire la relatività del concetto di disadorno.

Gli scanni arcivescovili sono dei troni regali, il pavimento di maioliche settecentesche proveniente da una delle abitazioni estive della famiglia Filangeri Cuto’ con l’effige di famiglia al centro è grandioso.

Qui è il lusso che arriva allo sfarzo ma non sconfina col cattivo gusto.

Esco appagata dal bello e con la consapevolezza che malgrado tutto se non ci fosse stato il Vaticano una quantità immensa di opere d’arte sarebbe ora dissolta e scomparsa.

Il ristorante sotto il palazzo dei Normanni si trova in una viuzza stranamente silenziosa per questa città. Il sole è cocente nonostante l’autunno inoltrato. I tavoli sono apparecchiati all’aperto sotto una tettoia circondata da un giardino di splendidi ibisco. Si mangia all’aperto come si usa sempre al sud ammenoché non nevichi, evento, per ovvie ragioni, molto raro.

La tavola è apparecchiata molto bene, il silenzio e i fiori, il caldo del sole, potrei mangiare un semolino e sarei felice. Ma questo è impossibile a Palermo.

Ovunque odori penetranti e sensuali confondono pensieri e sentimenti mentre i negozi traboccano di taglie extra large. Vorrei qualcosa di leggero, ma mi pare che il piatto più leggero sia questa pasta con le melanzane.

Il cameriere è rapidissimo in un attimo mi porta un piatto fumante di melanzane e un cesto di pane, caldo, profumato, appena sfornato.

Mi ero dimenticata che al sud il pane è sempre buono e sempre caldo a tutte le ore e in tutto gli angoli.

Mi sembrava anche di ricordare che nel menù ci fosse scritto “pasta con le melanzane”. Ma forse mi sono sbagliata. Mangio con calma e assaporo la più buona caponata della mia vita: melanzane, olive, capperi e il pane caldo.

Ho spolverato l’intero cestino del pane, la birra è ancora fredda e vorrei chiedere il conto. Sollevo lo sguardo: davanti a me compare il cameriere. Non sapevo che a Palermo ci fossero camerieri telepatici e infatti non lo sono, semplicemente mi stava portando...la pasta con le melanzane.

Avevo scordato quanto si mangia al sud.

Noi siamo parchi, parchi di parole e di sguardi, parchi di complimenti e di gesti. Noi sardi siamo anche parchi nelle porzioni del cibo.

‘’Ciò che conta non è guadagnare molto, è spendere poco, anzi non spendere affatto se possibile’’.

Con questa cxivedda di pasta da noi ci mangiamo in quattro!

Accanto al mio tavolo si siede una coppia di bergamaschi molto finti simpatici e democratici. Mi chiedono, con forzata ilarità, se il cibo è buono, io confermo. Devono solo stare attenti alla quantità.

I bergamaschi sorridono a me con aria complice, sorridono al cameriere col sorriso di chi si degna e con l’atteggiamento di chi è convinto che sotto Firenze ci sia solo il Burundi. I “Sciuri”ordinano la pasta con le sarde poi si vedrà.

La pasta con le sarde non se la meritano e vorrei si trasformasse in un bel filetto di carpa alla leghista, in verità la ricetta originaria dice “carpa al laghista’’ ma visti i soggetti la variante mi sembra perfetta.

La carpa sia alla” laghista “che alla” leghista “ fa veramente schifo, magari proviene pure da un bel lago inquinato.

Detesto la cucina nordista!

Mi ero dimenticata di quanto si mangi bene al sud e vorrei divorare quell’immenso piatto di pasta ma sono totalmente fuori allenamento. A malincuore lascio contro ogni senso etico la cxivedda ancora piena.

Il Palazzo dei Normanni dall’esterno risente anche lui dell’effetto della fratellanza Garibaldina e avrebbe bisogno di un buon restauro .

Mi avvio per il palazzo: il giardino e’ bello, la natura e’ generosa in questa terra, dolce e addomesticata. Penso ai nostri parchi, anche i parchi più belli e ben curati conservano qualcosa di selvatico.

La Cappella Palatina, voluta da Ruggero II è enorme per essere una “Cappella di famiglia’’.

Il progetto ambizioso di fondere culture e religioni diverse: la cultura bizantina, quella islamica e quella latina e’ riuscito sul piano artistico. Ma chissà perché la mente ritorna ad una freddissima mattinata a Ravenna con un sole pallido che filtrava tra le navate di Sant’Apollinare Nuovo, il riflesso dell’oro dei mosaici bizantini moltiplicava la luce e tutto il tempio sembrava invasa da luce divina. Basta! Non faccio che fare paragoni e non mi piace, e non voglio. Cerco di non pensare, per ora ignoro e continuo.

Finalmente a Palazzo, arrivati allo “Scalone in marmo rosso”. In cima alle scale monumentali un cordone ferma la fila e un cartello avverte che si dovrà attendere la visita guidata. E’ indicato il tempo d’attesa tra una visita e l’altra:15 minuti.

Grazie all’ora ingrata c’è poca gente, davanti a me un signore scandalizzato:

“Hai visto hanno fatto scappare quella coppia di inglesi? Certo, la visita è solo in italiano. Non hanno previsto la visita in altre lingue e non hanno neppure avvertito all’ingresso. Ma come si può fare così?” Parla con la moglie e pare che soffra.

Confermo e dò ragione, in effetti anche il dépliant è monolingue e veramente scarno con quattro notizie in croce. Dall’accento mi sembrano romagnoli, infatti sono Riminesi hanno uno stabilimento balneare e possono viaggiare solo fuori stagione. Ora capisco l’origine della sofferenza!

Rimini non ha industrie e vive di turismo. Un turismo balneare di un mare che non c’è nel senso sardo di mare. Ma il mare è solo un pretesto, tanto ci si diverte lo stesso. Rimini è piena di turisti che vanno e soprattutto che tornano. Penso a Rimini ai suoi viali, alle mostre fantastiche di Castel Sismondo.

Il riminese dice che è la prima volta che viene in Sicilia e che vorrebbe visitare la Sardegna.

Non replico .

Intanto sono tornati gli inglesi, rassegnati, che guardano con impazienza l’ingresso .

Altro che 15 minuti, come minimo sarà ata mezz’ora.

“Is flexible time.’’Dico indicando il palazzo:”Very flexible time” conferma il signore inglese.

Intanto l’albergatore riminese nel “flexible time” ha già trovato tre soluzioni per i turisti stranieri: l’audioguida, il sistema più noto, una strana cosa che si dovrebbe inserire nell’IPhon e un’altra che non sono riuscita a capire. È carino,

non parla con l’aria di uno che vuol fare la lezioncina, è solo culturalmente abituato a risolvere i problemi.

In altri termini Sigismondo Malatesta batte sco D’ Angio’ tre a zero.

Sono contenta di non aver incentivato ai riminesi la visita in Sardegna, il giorno che per disgrazia vedranno il Poetto la nostra già scarsa autostima crollerà come quella di Napoleone a Waterloo.

Finalmente arriva la guida.

L’ingresso del palazzo del Parlamento siciliano ha in comune con il palazzo regio di Cagliari i ritratti dei viceré rigidi e imparruccati che danno il benvenuto, si fa per dire, ai visitatori.

Ma i signori viceré siciliani possono usufruire da defunti di uno spazio adeguato. I viceré di Sardegna, quasi deportati da vivi nella nostra isola, devono fare a gomitate da defunti per avere un posto al sole.

Il palazzo dei Normanni è anche la sede del Parlamento siciliano. Il Parlamento siciliano nasce nel 1130 per volere di Ruggero d’Altavilla, e facendo un volo di secoli oggi è la sede del Consiglio Regionale di Sicilia.

Comincia la visita: prima tappa “La sala d’Ercole”. Questa è anche la sede dell’Assemblea regionale di Sicilia.

La stanza prende il nome dagli affreschi ottocenteschi di Giuseppe Velasquez che raffigurano solo dieci delle mirabolanti imprese dell’eroe greco. Secondo la mitologia classica, il pittore di fatiche, ne ha censurato due, ma in compenso i signori che occupano con i loro angusti culi i ben novanta scanni del potere siculo, di fatiche ne hanno moltiplicato altre .

Questa sala, nel bene e nel male è l’ unica sala viva del castello.

Modestamente ho un’immaginazione che ai Signori Piero e Alberto Angela gli faccio un baffo.

Senza bisogno di computer e fotomontaggi ho il dono di calarmi nel tempo.

E ho visto a Ferrara Renata di Francia che nascondeva Calvino.

Ho visto alla certosa di Padula, nella enorme cucina, la frittata di mille uova per Carlo V.

Ho visto a Palazzo Ducale le tavola dei Dogi imbandite con i piatti d’oro fatti arrivare per l’occasione della Zecca della Serenissima.

In piazza della Signoria mi son sentita a disagio con i miei abiti scialbi, lo sguardo di Cosimo mi ha fatto sentire terribilmente inadeguata.

Qui non un’immagine, tutto è freddo come un’esposizione di stanze di lusso e

mobili di pregio.

Dipinti, statue, oggetti di raffinati visti in fotografia sarebbero la stessa cosa, o forse no? Penso alla brochure, nella foto sembravano molto meglio.

Stanze fredde e senz’anima. Forse solo Ruggero amava questo luogo. La sua stanza è ricca di gusto e personalità. Le decorazioni con le palmette e gli animali esotici alle pareti, sono originali e meravigliose. Peccato non si possa respirare l’atmosfera la stanza è chiusa al pubblico, puoi solo affacciarti dalla porta: il cordone impedisce l’ingresso.

Il resto per quanto oggettivamente bello non parla.

E’ un castello di desaparecidos .

Dove son finiti Ruggero, Ferdinando e il Duca di Montalto?

Si sono dileguati tutti, sono spariti anche i fantasmi.

Che anche questo sia opera di “Cosa Nostra”?

Torno in albergo con una notevole quantità di arancini e cannoli. Mi consoleranno perché sono veramente molto seccata.

Mi addormento con la certezza che la notte porta consiglio. A questo punto ne ho proprio bisogno il mio “Sogno Gattopardesco” sta andando in fumo…

Faccio colazione in un bar della Kalsa con arancini e un cornetto farcito con una sublime crema al pistacchio. Il mondo da grigio diventa blu.

Gli arancini sono meglio delle uova di Pasqua, di fuori sembrano tutti uguali ma come gli apri puoi trovare di tutto dal ragù con la carne a pezzettoni, al ragù con i piselli, al prosciutto col caciocavallo il tutto è perfettamente amalgamato, caldo e fondente. Sono di una bontà commovente.

Mi avvio per il Giardino Botanico e Villa Giulia.

La ragazza dell’albergo ha molto insistito: “l’Orto Botanico e Villa Giulia sono un interessantissimo percorso esoterico.”

Villa Giulia, era l’antica sede della loggia massonica e qui Garibaldi, sempre lui, è stato insignito, con rito scozzese, della trentatreesima loggia, quella di Gran Maestro.

Certo la Massoneria ha dato una bella manina all’unità d’Italia, soprattutto qui in Sicilia.

Villa Giulia e l’orto botanico sono in stile neoclassico, dice la guida, è vero ma soprattutto sono in perfetto stile massonico. Il disegno su cui è stato impiantato il giardino è un esempio di rigore e perfezione geometrica. Le fontane ricche di

piante acquatiche sono sovrastate da oggetti di chiaro simbolismo massonico come “ L’orologio del Dodecaedro”. Questo è uno di quei momenti in cui vorrei sapere tutto per capire tutto. Penso a Garibaldi che già nel 1849 arrivò, nella nostra Sardegna, grazie ad una tempesta, come la Madonna di Bonaria. Intorno al 1856 aveva comprato terra a Caprera e qui, contemporaneamente tra terre da coltivare e capre da allevare tramava con il gotha della massoneria internazionale per l’unita d’Italia.

Tra lo sfondo dei vitigni di Caprera e “la fontana dell’Occidente” c’è qualche virgola che non torna. Ma l’eroe dei due mondi nonché l’artefice della’’Fratellanza d’Italia’’ evidentemente aveva un percorso ideale che sfugge agli umani.

Oggi Villa Giulia è un giardino pubblico, ma l’impronta massonica non può essere cancellata da qualche pianta indigena, l’appartenenza sicula si confonde tra le circa tremila specie di piante di questo giardino incantato.

A questo punto rifletto:

La Chiesa e la Massoneria, istituzioni rigidamente gerarchiche e antidemocratiche, hanno prodotto e riescono a tutelare ancora arte e cultura.

Che Platone avesse ragione?’

Uscita dall’oasi massonica e incamminandomi per il porto mi assale lo scoramento del mondo che non c’è. I palazzi decadenti hanno le facciate screpolate e annerite dallo smog, la sporcizia invade le strade, il chiasso assordante….

Non ho acquistato l’IPhone per proibirmi di rimbecillirmi per strada, ora lo vorrei con tutto il cuore per fare il confronto con il pacco che mi ha rifilato il siculo svizzero.

Bisogna darsi un tempo, non più di poche ore; ultima puntata il castello della Zisa.

Castello Arabo, mi affatico a raggiungerlo con un autobus che anche in Sardegna, il che e tutto dire, avrebbero dismesso vent’anni fa.

Del fasto arabo come avevo previsto non né è rimasto che un vago ricordo.”Tutta colpa del terremoto.”Dice un signore all’ingresso, ma mi viene il dubbio che l’assenza evidente di maioliche raffinatissime sia opera di altri interventi.

E’ ancora bellissima e affascinante l’enorme vasca d’acqua a più livelli che scende a cascata e scivola dolcemente verso un piazzale ora brullo e deserto ma un tempo ricoperto da piante lussureggianti.

Torno in albergo e per scrupolo burocratico confronto le immagini del sito del Comune di Palermo con le mie.

Ora so come si sente un uomo adescato in chat dalle foto di una donna, giovane, attraente e curata.

La signora alla voce età dichiara 35 anni; alla voce cura della persona si

definisce raffinata; sulla voce intelligenza e cultura divaga, carta vincente, tra le “varie”si definisce un’ottima padrona di casa. La donna è quasi irresistibile, l’uomo, affascinato fa ben 500 km per conoscerla.

Sorpresa! La signora ha taroccato le foto di trent’anni fa.

Datata e quasi scaduta, la donna ha un aspetto sciatto e trasandato.

La casa definita calda e accogliente avrebbe bisogno di un veloce restauro e di un’energica pulita.

Non ha bluffato solo sulle capacità culinarie. Per il resto la signora adescatrice è al limite della querela per falso.

Il week end sta finendo, ma so che non può finire così.

Devo cambiare programma è inutile cercare il senso di questa città in palazzi e castelli di cui non si vuol ricordare memoria. Devo cercare altrove quel senso comune che diventa materia e identifica un luogo.

E una mattinata magnifica i mercati all’aperto a Palermo sono tanti, vago tra il mercato della Marina e il Mercato delle Pulci, a Vucciria son già ata qualche giorno fa, non mi resta che Ballaro’.

Il mercato di Ballarò non è lontano dall’albergo, anche se la strada non la ricordo

bene, ricordo solo che ad un tratto mi sono trovata davanti ad un vicolo stretto dove era difficile are in due e così lungo da non vederne la fine all’orizzonte.

Mi fermo incerta se continuare per questo bazar quando davanti a me un velo fluttuante sul capo di una donna tanto alta da sovrastare i anti mi ipnotizza.

Io corro dietro al velo che ondeggia seguendo il serpeggiare del vicolo, cercando di catturare l’immagine.

Sarebbe un vicolo buio, senza il rosso dei peperoni il viola delle melanzane e tutte le sfumature del giallo e del verde esposte sulle bancarelle

I pochi raggi del sole filtrano come intrusi tra un palazzo e l’altro, qualche bancarella è provvista di luce propria, lampadine volanti illuminano pescespada e cozze.

Ma io seguo il velo che come una bandiera, mi dice che questo è il vessillo della città e forse lo è da tempo immemorabile.

La donna si muove veloce nel aggio molto stretto, ha un o sicuro e leggero, sembra fluttuare senza gravità.

E’ il o di una dea.

Non so come è avvenuto ma ad un tratto la donna scompare inspiegabilmente

inghiottita da qualche pertugio di questo bazar.

Non saprò mai che volto abbia la dea velata e non mi importa, il fluttuare delle vesti come una danza muta parlava per lei.

Pensavo di aver preso un volo nazionale, invece mi trovo in un luogo che potrebbe essere Tunisi o Istanbul, il risultato è che ho paura.

Paura di questa gente sconosciuta, che parla uno strano idioma che forse è siculo ma ora mi sembra arabo.

Paura del velo, paura dell’islam, l’infantile paura dell’uomo nero.

“Fratelli d’Italia l’Italia s’è desta...”

“S’e’ desta...”Siamo sicuri?

Faccio la strada a ritroso sperando di trovare l’uscita al più presto. Non guardo per non essere vista.

Ho fame, gli odori di questo bazar sono quasi narcotizzanti, la fantastica ricotta infornata farcita con mille sapori conferma ché “più che il dolor poté il digiuno’’ e anche più della paura.

Tiro un sospiro di sollievo: all’orizzonte scorgo la via d’uscita.

Sono, frastornata dal caldo, dall’emozione e dal chiasso.

I nostri mercati al confronto di Ballarò sono luoghi di pace e di preghiera.

Faccio la valigia a tempo di record.

Sono arrivata con aspettative da Gattopardo e torno con un reportage da Casbah.

Pensavo di riempire la valigia del ritorno con un bell’abito da sera e invece cerco di far entrare con quanta più cura e attenzione possibile ricotte infornate, arancini dalle mille sorprese e cannoli giganteschi. Tra poco sarò nella mia isola che è lontana da questo luogo come Marte.

Nel viaggio del ritorno percorro la costa, le abitazioni si susseguono in continuità, il mare di Sicilia è calmo e azzurro di un azzurro cupo.

Come la montagna d’estate mi fa venire voglia di mare, così viaggiare mi fa venire voglia di Sardegn….

Fa freddo e spira il maestrale a Cagliari in via Canelles, l’aria sa solo di vento, i pochi anti parlano sottovoce per non interrompere il silenzio.

L’antico Teatro Civico è stato da poco restaurato, alla Casa Comunale c’è una mostra sulla Pop Art. Pochi edifici molto ‘’sobri’’ ereditati dal tempo in cui la sobrietà si chiamava povertà.

Ma anche la povertà ha un suo decoro, ed è meglio una sobrietà attenta e viva ad un fasto sciatto e defunto.

L’antica Chiesetta della Speranza è aperta. La famiglia Aymerich e la diocesi di Cagliari l’hanno concessa alla Chiesa russa ortodossa.

Il rituale è rigorosamente in russo e, complice il freddo, tra candele e icone mi sembra di intravvedere Puskin .

Scendo per via del Fossario, la Chiesetta della Speranza è stata la sede del braccio militare del parlamento sardo.

Due popoli oppressi che pregano la Madonna della Speranza ma forse avevano ‘’pregato poco’’ o avevano ‘’pregato male’’ perché poco o nulla sono stati ascoltati.

Nella chiesetta degli Stamenti al lato destro nella prima cappella c’erano il Marchese di Laconi, il Conte di Villamar e il Marchese di Villasor incazzati neri con re di Spagna decisi a non sottoscrivere il donativo se le cariche reali non fossero state concesse ai sardi.

Quella volta ce la misero tutta ma la storia si compì senza il loro consenso .

La Sardegna è sempre alla tavola non “di chi mangia” ma “di chi è mangiato”.

La statua della Madonna della Speranza è una donna incinta, una donna in attesa, una donna che “Espera’’.

‘’Ciascuno di quei figli era ancora come dentro alle sue viscere, e nel suo silenzio ascoltava le loro voci come i moti segreti e misteriosi di quando erano nel suo seno.

Essi erano la sua vita, non la sua speranza. Perché donna Vincenza era una donna senza speranza.’’

Così Salvatore Satta descrive la sarda maternità. Madri senza speranza per secoli hanno trasmesso ai loro figli la cultura della non speranza.

Le preghiere senza speranza son preghiere senza fede, le preghiere senza fede hanno poche possibilità di essere ascoltate.

Dall’alto della città murata il cielo ha lo stesso colore del mare in burrasca. Dal mare sono arrivati Fenici, Punici, Cartaginesi, Romani e Vandali, sono arrivati anche i Mori, un po’ li abbiamo impalati e un po’ li abbiamo adottati.

Siamo diventati pisani e spagnoli, austriaci e piemontesi, finché un bel giorno non è arrivato Garibaldi a far diventare anche noi Fratellastri d’Italia.

Oggi, a causa del maestrale all’aeroporto di Elmas hanno sospeso i voli, domani il maestrale cesserà e potremmo tornare a volare.

I trans

Cagliari, Viale Bonaria, Banca di Credito Sardo, in tempo di autunno. Come al solito c’è una fila lunghissima: i costi aumentano i servizi peggiorano. I clienti attendono rassegnati, tra loro una donna molto vistosa: capelli lunghi rosso fuoco, occhialoni avvolgenti, labbra irrimediabilmente siliconate. Indossa un sobrio cappotto di cachemire grigio, sembra un travestimento. Si alza è il suo turno, altezza sul metroeottanta, spalle possenti, mani enormi, non porta gioielli, si avvicina allo sportello e, con sfacciata nonchalance in questi tempi di vacche magre, estrae da una borsa un incredibile pacco di banconote.

Il cassiere la guarda imibile, conta il danaro, confronta le cifre della distinta con i contanti, procede, il computer non risponde, ci deve essere qualche problema chiede alla donna di verificare il numero del conto. Una voce baritonale ma molto aggraziata esce dalle labbra dipinte di rosso, si scusa, cerca affannosamente tra i fogli di un’agenda e finalmente riesce a decifrare il numero di conto.

Non ho più dubbi, lei, la donna è Giovanna Belfiori, nota Rochi. Venticinque anni fa alla Circonvallazione di Cagliari con il suo costumino argento scintillante era la regina dei trans. Ritira la ricevuta, si gira, i nostri sguardi si incrociano, mi sorride, io con un discreto imbarazzo rispondo con un cenno del capo. Non basta, si avvicina “Ma come stai bene sei sempre uguale. Come va?” “Bene grazie” rispondo “e tu come stai?” “Benissimo. Operata”. Operata è il termine sintetico con il quale i trans ti informano che hanno definitivamente cambiato sesso. Le faccio le mie congratulazioni e nel salutarmi mi rifila un biglietto col suo numero di telefono: “ Vediamoci ci conto, ora abito in campagna. Ti aspetto “ “ Certamente “ Sorrido evasiva.

E’ il mio turno, sportello 5 , lo stesso di Giovanna. Il cassiere mi guarda con sospetto, prende la distinta di prelievo, mi allunga le banconote, raccolgo il mazzo sottilissimo, lui osserva di straforo il mio conto e lo sguardo sospettoso diventa improvvisamente interrogativo. Sono entrata nell’immaginario di un bancario che cerca di sommare una signora “perbene” ad un trans. Lo lascio alle sue congetture mentre il mio pensiero, inevitabilmente, comincia a fare un viaggio nel tempo. Correva l’anno 1986, in quel periodo collaboravo con un’emittente televisiva privata , curavo una trasmissione che aveva per titolo “Dimmi come ami”. Tra le tante banalità sull’amore avevo deciso di dedicare una puntata all’amore omosessuale.

L’aggancio con Giovanna avvenne, se non ricordo male, grazie ad una collega corrispondente da Sinnai, che chiamerò Mery. Appuntamento ore 11, quartiere Castello, Via Lamarmora angolo Via dei Genovesi di fronte a palazzo Zapata. Era una bella mattinata primaverile, ma il cielo in Castello si vede poco. Attendo un po’, la mia collega arriva trafelata. “ Si, si, è tutto a posto, ci sta aspettando” mi rassicura. Cominciamo a salire per Via Lamarmora, non dobbiamo faticare molto, dopo pochi metri ci arrestiamo davanti ad un portone vecchio, malconcio, con il bordo inferiore visibilmente mangiato dai topi. La porta è aperta, nell’androne buio appare la donna della Banca, appena ringiovanita. Mi accoglie gentilmente e abbraccia affettuosamente Mery . Giovanna ci fa strada, abita all’ammezzato, non ha le chiavi, bussa, ci apre un ragazzo in calzamaglia, braccialetti e orecchini, è il domestico. Il ragazzo la cui provenienza parigina è quantomeno improbabile risponde al nome di Valery. Valery governa l’appartamento che è composto da ben due stanze attigue, buie e intrise di un odore misto di muffa e cavoli. I due locali sono approssimativamente divisi da una tenda. Ci accomodiamo su un divano di un colore indefinibile, Mery saluta e ci lascia sole. Giovanna cerimoniosamente mi fa preparare un caffè da Valery che dall’altro lato della stanza si accinge a lavare i piatti con i guanti. Alla mia sinistra, in una nicchia noto un altarino con santi, Madonne e candele accese. Mentre sorseggio il caffè bussano alla porta, entra un ragazzo giovane, molto carino. Il ragazzo si chiama Mario, Giovanna lo presenta con orgoglio “Il mio fidanzato”. Mi pare di conoscerlo, sì, ricordo abita dalle mie parti, è il figlio di un magistrato molto noto in città .

Prendiamo accordi per l’intervista.

Michela - “Se ti va bene focalizzeremo l’attenzione degli ascoltatori sul fatto che omosessuali e transessuali hanno dei forti sentimenti ?”

Giovanna - “Certo , anzi la nostra diversità ci porta ad avere delle ioni anche maggiori rispetto agli eterosessuali.”

“Tu vorresti una famiglia?”

“Certamente , con Mario abbiamo deciso che fra poco andremo a vivere insieme.”

Interviene Mario.

“Guarda io in questo momento, per la mia storia con Giovanna, ho dei rapporti molto tesi con la mia famiglia e non posso venire alla tua trasmissione, ma ti assicuro che io amo moltissimo Giovanna.” Le accarezza il viso e la bacia”Giovanna è una persona straordinaria “ sottolinea in estasi.

“ Ma guarda questa che culo.” Penso tra me.

Giovanna - “Ecco di questo ti volevo parlare, la difficoltà che abbiamo noi omosessuali di poter vivere serenamente i nostri sentimenti alla luce del sole. Le remore di questa società ipocrita che ci costringe a nasconderci.”

Su queste note dell’amore incompreso andò avanti la discussione ancora per un po’, smisi quando ebbi la certezza che sarei riuscita a riempire i miei 45 minuti.

Era tardi salutai in fretta .

Tornata a casa quando mi misi di fronte alla macchina per scrivere la scaletta della trasmissione mi accorsi che avevo smarrito il taccuino con gli appunti. Speravo di averlo dimenticato da Giovanna ma non avevo il suo numero. Che fare? C’era solo una strada armarsi di coraggio e andarlo a riprendere. Aspettai sulle spine fino alle 5 del pomeriggio alle 5 e 15, dopo aver parcheggiato la mia panda nuova di zecca in Via Università, ero di fronte al raccapricciante palazzo di Via Lamarmora. Suonai il camlo con molto imbarazzo, mi aprì Giovanna in persona , Valery non c’era.

“Scusa ti disturbo. Forse ho dimenticato il taccuino .”

“ Entra cara, accomodati, nessun disturbo. E’ questo?”Disse Giovanna sventolando il mio prezioso taccuino.

“ Si grazie. Bene, ti lascio”

“ Ma no fammi un po’ di compagnia, siediti, sono un po’ triste, sai.”

“Come mai ?”

“ Ma sai Mario...la sua famiglia è molto potente. Potrebbero dividerci.”

“ Ma no, mi sembra tanto innamorato.”

“ Sì ma vedi a volte le convenzioni sociali. Oddio io ce la metto tutta pensa il mese scorso ho speso un milione e mezzo dall’estetista, sono in lista da un chirurgo bravissimo per rifarmi gli zigomi, altri 20 milioni, poi il seno costa una cifra e quello lo devo fare per forza.”

Mi guardo attorno: difficilmente sono stata circondata da tanto squallore .

“Scusa ma tutti questi soldi dove li tiri fuori?” Non so se fosse una domanda giornalisticamente corretta, sicuramente era la normale curiosità di una che doveva fare i conti alla fine del mese.

Giovanna è diventata misteriosa e con aria intrigante inizia:

“Sai io nella mia vita ho avuto tante cose brutte, ma anche tante belle cose. Ho conosciuto delle persone fantastiche, una di queste, una mia amica di Milano, mi ha insegnato a farlo in modo pulito.”

In quel momento ringrazio la mia orribile educazione filo germanica dove in pubblico ogni emozione deve essere censurata.

La mente ripete “ Mi ha insegnato a farlo in modo pulito”, lo sguardo si posa sull’altarino alla mia sinistra, anche la Madonna era imibile.

“Ma Mario lo sa ?” chiesi ingenuamente.

“Ma no figurati, magari si preoccuperebbe, non voglio che pensi che sto con lui per danaro.”

“Giusto !” affermai convinta.

Un trillo forte, insistente, assordante esce dall’apparecchio telefonico grigio, rigorosamente attaccato al filo, inevitabilmente dall’altra parte della stanza. Giovanna si alza per rispondere, l’apparecchio è dotato di una lunga prolunga e lei può di nuovo stare comodamente seduta. Inizia una nuova, intrigante, conversazione e per l’occasione tira fuori una sconosciuta voce in falsetto. Non ci vuol molto a capire che è un corteggiatore, le chiede un appuntamento, lei civetta. Non è buona educazione ascoltare le telefonate degli altri, ma ora è inevitabile, non solo Giovanna sembra ignorare la mia presenza e si dilunga. Da qualche indizio ho il sospetto di conoscere chi parla dall’altra parte del filo. Insomma si accordano per un incontro, i dettagli sono rimandati ad una prossima telefonata.

Chiude l’apparecchio, la guardo, lei sorride.

Non avrei mai osato chiedere chi era, lo fece lei. Era esattamente la persona sulla quale erano caduti i miei sospetti un ricco commerciante sposatissimo, bigotto, con moglie e figli, amico di famiglia dei miei zii. Mi disse che era un suo vecchio cliente ed insieme al suo mi fece un lungo elenco di nomi di persone

rispettate ed osannate in questa città piena di pentole senza coperchi.

Era tardi, salutai, il portone di Via Lamarmora si chiuse alle mie spalle. L’intervista in trasmissione andò secondo il copione stabilito col trionfo dell’amore incompreso, al resto della storia voltai le spalle come al portone di Via Lamarmora.

Anni 80

Ho scritto questa storia in tempo di autunno dopo il “caso Marrazzo”. Per chi non lo ricordasse l’onorevole Marrazzo, già giornalista di successo, era il governatore del Lazio, si dimise perché dopo un pesantissima guerra mediatica ammise di avere una relazione con un transessuale che poi divennero due ma non sottilizziamo.

Quello che mi meravigliò in quel tempo non è che il Signor Marrazzo se la fe con un trans ma che la gente si meravigliasse tanto. La storia che ho raccontato a parte qualche dettaglio e i nomi inventati per questione di privacy parla di una storia simile in una Cagliari di trent’anni fa...Non stiamo parlando di Roma o Tokio o New York, questo succedeva trent’anni fa nella nostra provincialissima città. Trent’anni non sono un’era geologica ma sono abbastanza. Giusto per fare un tuffo nel ato e inquadrare la storia che vi racconto eravamo negli anni 80. Negli anni 80 l’inflazione scendeva e Craxi ancora spopolava. Ci eravamo affrancati dalla gabbia mamma di Rai mentre Canale 5 e Videolina mettevano salde fondamenta nella nostra vita e si consolidava l’onnipotenza del telecomando. Il presidente della Regione era il mitico Mario Melis, il presidente della Repubblica Antonio Saragat. Gigi Riva era discretamente giovane e il Cagliari incasinata persa con l’indagine sul calcio scommesse fino ad arrivare all’infame retrocessione in serie C1. Erano gli anni 80 i cassaintegrati sardi avano all’ INSAR e Gianni Agnelli acquistava l’Alfa Romeo, Albano e Romina stavano ancora insieme come Ivana e Donald Trump. Un appartamento in centro a Cagliari “signorile, salotto, triletto e servizi” costava 95.000.000 di lire a Cannigione un mini appartamento 38.000.000 in lire. Il Comune di Cagliari stanziava per il recupero del Cimitero di Bonaria 4.000.0000.000 di lire( che bello scrivere tanti zeri), che non recuperarono un bel nulla e Nilde Jotti divenne il primo presidente della camera in gonnella. Eros Ramazzotti cominciava a cantare” Adesso tu” e Sardegna Canta affermava la sua ascesa. L’Ente Lirico aveva ancora soldi e potevamo andare all’Anfiteatro a vedere Turandot. Sembra impossibile ma non c’era il cellulare, nelle famiglie ci si azzuffava per avere la cornetta del telefono e i

genitori erano sempre incazzati quando arrivava la bolletta .

Erano bei tempi. Veramente? Leggendo i giornali forse sì andando a memoria un po’ meno. Cagliari era più decadente e maltenuta, potevamo viaggiare un po’ meno, non c’erano i voli low cost, in compenso un lavoro sotto casa era più facile da trovare il futuro sembrava meno incerto.

Cosa è comune invece in tutte le stagioni? La totale assenza dell’indipendenza di giudizio! Lo scandalo arriva non quando le cose sono note ma quando lo scandalo è funzionale al sistema e qualcuno, che ne trae vantaggi, decide che è il momento di parlare. Ricordate il “Simposio”? Non mi ricordochì mi pare Lacan l’ha definito “un convivio di checche isteriche”. Immaginate uno studente del liceo che si permette di valutare Platone in questi termini. Eppure è solo un problema di prospettiva. Da un’angolatura le checche, dall’altra il genio che ha posto le basi della cultura occidentale. Le figure si sovrappongono. Non intendo essere fraintesa non voglio paragonare Platone a Marrazzo. Voglio dire che 2500 anni sono un tempo sufficiente perché la storia non venga censurata, ma la storia si ripropone, salvo dettagli in maniera ciclica.

Machiavelli

“Se nel mondo tornassimo i medesimi uomini, come tornano i medesimi casi, non erebbero mai cento anni, che noi non ci trovassimo un’altra volta insieme a fare le stesse cose che ora.”

“L’uomo è come il sole e le stelle immutabile …”.

Sono certa che il nostro genio politico si sbagliasse l’uomo non è come il sole e

le stelle, l’uomo non è un inanimato fenomeno della natura, l’uomo è anche spirito per questo può cambiare.

E’ vero invece che i vizi da combattere sono sempre gli stessi: avidità, odio, vendetta e ipocrisia; ma sono uguali anche le virtù: l’onestà, il coraggio, la generosità. Quello che mi sconcerta è capire oggi di che ci si scandalizzi quando tutti sanno da sempre e i coperchi saltano quando il latte è già stato versato da un pezzo.

Non mi scandalizzai tanti anni fa, non mi scandalizzo ora, mi sarei incazzata a morte se fossi stata la moglie di Marrazzo, ma dubito che con tutta la mia sbentitaggine non mi sarei accorta che a mio marito “tirava” qualcos’altro. Quando e’ scivolato il coperchio “dell’amore incompreso” non ho battuto ciglio, avevo un altro obiettivo, l’avevo raggiunto e mi bastava. Non andavo in cerca di gossip perché non sono caratterialmente e per educazione avvezza al pettegolezzo.

Dei vizi privati ho sempre pensato che non fossero fatti miei, alle pubbliche virtù non ho mai creduto.

Ringraziamenti

Un enorme grazie a Cristiana Alziator per il tratto materno a largo spettro grazie al quale sono riuscita a raccogliere tutti gli scritti che “avrei perso nel computer”.

Grazie a mia sorella Alessandra per la condivisione materiale e a mia sorella Eloisa per il consenso oltremare.

Grazie a Riccardo editor spietato come solo i figli sanno essere.

Grazie a Gino Zasso e Fernando Pilia che sono ora nel tempo senza tempo ma un tempo mi hanno insegnato il mestiere.

Grazie a chi mi è proximus, che non è in astratto il mio prossimo ma è in concreto il mio vicino ed è quello con cui vivo tutti giorni, tutti quelli che detesto e tutti quelli che amo, quelli con cui litigo e quelli con cui rido.

Grazie perché insieme viviamo il nostro tempo