GIAN ANTONIO BERTALMIA
PENSIERI DI UN CACCIATORE DI OCCHI
Elison Publishing
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Pubblicazione vinta all’ottava edizione del Concorso Letterario e Fotografico Nazionale “
[email protected]” bandito dall’Associazione Culturale Savonese ZACEM e curato da Renata Rusca Zargar
Copertina a cura di Maria Teresa Sansone
Indice
CAPITOLO I CAPITOLO II CAPITOLO III CAPITOLO IV CAPITOLO V CAPITOLO VI CAPITOLO VII CAPITOLO VIII CAPITOLO IX CAPITOLO X CAPITOLO XI CAPITOLO XII CAPITOLO XIII CAPITOLO XIV CAPITOLO XV CAPITOLO XVI CAPITOLO XVII CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XIX CAPITOLO XX CAPITOLO XXI CAPITOLO XXII CAPITOLO XXIII CAPITOLO XXIV CAPITOLO XXV CAPITOLO XXVI CAPITOLO XXVII CAPITOLO XXVIII CAPITOLO XIX
CAPITOLO I
“Hai una sigaretta?” Questo è il saluto di Lost quando, al mattino, entro nelle vecchie stanze dell’archivio del giornale. Io gli porgo il pacchetto, lui estrae una sigaretta e mi giura che quella è l’ultima. Me lo giura ormai da quasi cinque anni. E non lo giura solo a me. Ti chiede una sigaretta anche se ne ha già una dietro l’orecchio, nascosta in mezzo a quello che rimane dei suoi capelli. Secondo me, le sigarette, più che di fumarle, ha smesso di comprarle. Lost! Penso che nessuno al giornale conosca il suo vero nome. E, comunque, nessun soprannome mi è mai parso più appropriato e più azzeccato. Forse perché a vederlo aggirarsi in mezzo a quegli scaffali, a vederlo arrampicarsi su per quelle scalette scorrevoli alte fino al soffitto, sembra proprio uno che si è smarrito. Qualcuno racconta che a volte sparisce in mezzo agli scaffali e nessuno lo vede più anche per qualche ora. Forse si smarrisce sul serio perché nessuno lo vede più uscire. Nessuno sa da quanto tempo è al giornale. Forse c’è sempre stato come i topi, la muffa e quella lampada fluorescente bruciata davanti allo scaffale dei volumi che vanno dal millenovecentoquaranta al millenovecentoquarantacinque. Sul viso giallastro ha delle macchie scure e puzza di muffa e di chiuso come l’ambiente in cui lavora. Forse gli si è ammuffita anche la faccia. Veste un grembiule grigio scuro come quello dei becchini che lavorano al cimitero, che stringe una pancia degna di una donna incinta all’ottavo mese. La sua scrivania si trova ai piedi dei cinque o sei gradini che scendono nel seminterrato. Lost è il responsabile dell’archivio del giornale. Il suo lavoro consiste nel registrare quelle poche persone - per lo più studenti - che chiedono di consultare qualche numero del giornale. Lost ne scrive le generalità su un registro, lo fa firmare, poi va a prendere il volume del periodo richiesto e lo porta su uno dei
grandi tavoli in noce nera. Quando la consultazione è terminata riporta a posto il volume. I volumi sono migliaia, ogni volume contiene i giornali stampati in un mese. L’archivio è aperto al pubblico dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio. Lost non fa la pausa pranzo. Si limita a mangiare un panino di mortadella, sempre di mortadella. Tutti i giorni mortadella, poi arriva su fino alla macchinetta del caffè al piano terreno, prende un caffè lungo e se lo porta nel seminterrato. Non lo beve subito perché, dice, non gli piace il caffè bollente. Quando arrivo io Lost ha già finito di mangiare e di leggere l’edizione quotidiana del giornale. Il giornale è aperto alla pagina del sudoku e di fianco c’è il bicchiere di carta bianco del caffè con dentro il cucchiaino di plastica, la bustina vuota dello zucchero e, appallottolata, la carta del panino. Una volta gli ho chiesto perché non buttasse quella roba nel cestino e lui mi ha risposto che il cestino lui non ce l’ha. Mi dice che il cestino della carta è al piano di sopra e lui la carta la butta quando esce. Mi è sembrato anche un po’ scocciato. In effetti è un po’ permaloso. Gli chiedo le novità e lui, borbottando, mi elenca le notizie più importanti. Quando borbotta con quel vocione sembra un motore diesel che gira al minimo. È polemico con tutto e con tutti, con tutto il mondo e con tutte le cose. Ce l’ha con i politici, di destra e di sinistra: “Tutti ladri” dice. Ce l’ha con la Chiesa: “I preti predicano fate la carità. Non dicono facciamo la carità. Loro con la carità hanno fondato una banca. Hanno i cassetti pieni di documenti Top Secret. Forse anche Gesù aveva dei documenti Top Secret e Giuda forse era il “corvo”che lo ha denunciato. Ti raccomandano la purezza e loro sono pedofili.” Ce l’ha con le donne: “Tutte troie!”
Ce l’ha con i meridionali: “Tutti mafiosi!” Ce l’ha con gli extracomunitari o gli appena comunitari: “Quando non c’erano si stava meglio.” Ce l’ha con il potere: “Ti rendi conto del potere che possiede un Monsignore o un Maresciallo dei Carabinieri? Roba che neanche te lo immagini.” Ce l’ha con i giudici, i Pm, gli avvocati, la burocrazia: “Hai mai avuto a che fare con un processo? Hai mai avuto bisogno di una maledetta pratica in uno stramaledetto ufficio statale? Roba da esaurimento nervoso. Qualcuno si è addirittura suicidato.” Io sono l’unico al quale permette di andare da solo a prendere il volume dei giornali negli scaffali dell’archivio. Anche perché ormai vado all’archivio ogni giorno da quasi cinque anni. Io non lavoro al giornale io lavoro per il giornale. Io cerco nei vecchi numeri del giornale tutti quei casi di cronaca nera curiosi, delitti irrisolti, furti e rapine spettacolari, rapimenti e sparizioni finite male o senza soluzione. Mi ispiro per scrivere dei libri gialli che il giornale pubblica poi a puntate nell’ultima pagina sopra ai rebus e ai sudoku. Questo mi permette di ricevere uno stipendio che, come si dice, non mi fa nuotare nell’oro, ma mi consente di vivere e di pagare l’affitto di un modestissimo bilocale arredato dalle parti del mercato del pesce. Un piccolo alloggio in un quartiere di case popolari. Blocchi di cemento altissimi color pessimismo. Cortili senza sole e senza luce. Vie strette che sembrano tagliate con un coltello da macellaio nel blocco dei palazzi. Adesso capisco da dove derivi il termine via. Deriva da queste strade dalle quali tutti non vedono l’ora di scappare via. Riesco anche a pagarmi il cinema e qualche canna. Arrivo, “offro” la sigaretta a Lost, sento le ultime notizie e mi siedo ad un
tavolo. Butto uno sguardo attorno per vedere quali sono i miei compagni di lettura. Alle volte ci sono delle ragazze carine, oppure ci sono dei ragazzi stronzi. Scherzano tra di loro con battute stupide. Il loro umorismo è degno di un commercialista. Apro il mio computer portatile e mi metto al lavoro facendo finta di non accorgermi del borbottio del motore diesel lasciato in moto.
CAPITOLO II
Centaurea! Ma come diavolo si fa a chiamare Centaurea una creatura appena nata! Piccola, indifesa, un fiore appena sbocciato e tu la chiami Centaurea. Prova un po’ a metterle quel nome lì a vent’anni, vedi come ti riduce. Come minimo ti rende invalido. E fa bene! Ma se proprio vuoi sbizzarrirti, se vuoi fare l’originale, chiamala Fiordaliso, Santo Iddio! L’ho conosciuta all’archivio del giornale. È un po’ che lei viene quasi tutti i giorni perché sta facendo una ricerca per una tesi all’Università. Mi ha anche spiegato in che cosa consiste. Ha a che fare con la Psicologia comportamentale, la Filosofia della gente comune e del proletariato e tante altre cose che io non capisco ma che mi sembrano un sacco di stupidaggini inutili. Si tratta di una di quelle lauree moderne che oggi vanno tanto di moda. Che lavoro può fare una con una laurea in quelle cose lì. Forse lavorare in un asilo nido, oppure leggere fiabe a vecchi rimbecilliti di qualche ricovero. O forse spera di recuperare qualche abitante delle patrie galere. Redimere i delinquenti è un lavoro inutile, meglio impegnarsi per quelli che sono già belle che redenti. Spero che non si faccia sentire da Lost. È capace di sbatterla fuori a calci nel sedere. Non è bella. Avete presente quei visi che ricordano vagamente quello di un cavallo? Ebbene Centaurea, incorniciato dai capelli castani lunghi sciolti sulle spalle che ricordano una criniera, ha un viso così. Contribuiscono all’espressione equina gli occhi grigi, acquosi e tristi. Ha un fisico da modella ma un po’ troppo vicino all’anoressia. Se, come si dice, un bel seno deve riempire una coppa per lo champagne, il suo a malapena riempie un bicchierino per la sambuca. Anche dall'altro lato non va meglio. La schiena scende piatta, senza impennate, fin dove incominciano le cosce. Io odio le donne grasse, specialmente quelle che portano la frangia sulla fronte. Mi indispongono, mi rivoltano lo stomaco. Puzzano già di sudore solo a guardarle. E poi puzzano tutte dal fiato. Almeno Centaurea è magra, non puzza di sudore e non porta la frangia sulla fronte.
Quando usciamo dal giornale ci salutiamo come due compagni di scuola. Poi lei svolta alla prima traversa e si perde nella folla che a quell’ora invade già i marciapiedi. Ma oggi, come se le avessi dato appuntamento, la incontro alla biglietteria del “Cinema d’Essai”. Oggi pomeriggio danno un vecchio film di Nanni Moretti, “Ecce Bombo”, e lei mi dice che i film di Nanni Moretti le piacciono tantissimo. Anche a me piace Nanni Moretti, ma non in tutti i film. La osservo nella penombra della sala mentre sgranocchia dei popcorn che pesca da un secchiello grande come un bugliolo. Di profilo la somiglianza con un cavallo è più accentuata. Ogni tanto si sporge in avanti con i grossi occhi socchiusi. Forse ha bisogno di un paio di occhiali. Il film non mi entusiasma. Glielo sussurro in un orecchio e lei mi dice di stare zitto perché non capisco niente. Quando usciamo la invito a mangiare qualche cosa a casa mia e lei accetta subito. Mi faccio apprezzare come cuoco servendole due uova al tegamino alla perfezione e un pezzo di formaggio che avrebbe dovuto essere mangiato un po’ di tempo prima. Lei non beve vino, per fortuna, perché ne sono rimasto senza. Mangiando beve solo coca cola ma io non ne ho. Le offro, allora, un ovetto “Kinder” e lei dopo averlo mangiato si diverte un mondo a montare la sorpresa. Io intanto ho preparato due canne. Ce le fumiamo a letto ascoltando Gershwin. Al mattino mi sveglia qualcosa che mi accarezza il viso. Sono terrorizzato, penso sia un topo. Poi vedo che è Centaurea che è coricata vicino a me e mi sorride. Mi commuove la magrezza dei suoi fianchi. Mi chiede se è stato bello. Le rispondo di sì e lei mi dice che per lei è stato bellissimo. Lo so! Io con una ragazza nuova do sempre il meglio di me. Mi dice che vuole venire a vivere con me e che vuole traslocare quel mattino stesso. Mi terrorizza l’idea di dover vivere un trasloco. Aspetto, mentre il panico mi assale, uno di quei furgoni grandi come una nave da crociera, che partoriscono mobili senza sosta in mezzo ad operai urlanti, brutti, in canottiera, che vanno avanti e indietro sulla moquette, con scarponi grossi e
sporchi. Scarponi da campagna del Vietnam. Ho un dolore al petto, probabilmente mi sta venendo un infarto. Quando suonano alla porta vado ad aprire e rimango stupito nel vedere Centaurea da sola. “E il trasloco?” le chiedo. Lei, senza parlare, abbassa lo sguardo ad indicarmi un grosso borsone nero che sta ai suoi piedi. Sul borsone c’è scritto “Vincere” a carattere cubitali e più sotto con caratteri più piccoli “Società Polisportiva”. “Un borsone nero con scritto “Vincere” speriamo che non lo debba mai vedere Lost” penso. In braccio tiene un gatto rossiccio color cannella e dietro si intravede un cane che ha più razze che peli. Il cane, intanto, è già entrato in casa. “Tutto qui?” le dico e poi, scherzando, continuo: “Non è che per caso hai esagerato?” Sorride, fa tenerezza. Le dico, arrossendo, che sono allergico ai gatti, ma lei mi dice che non devo aver paura perché lo ha fatto sterilizzare. Non capisco cosa c’entri, chissà che cosa vuole dirmi. Le chiedo come si chiamano il cane e il gatto e lei mi risponde: “Brad e Pitt!” “Brad Pitt come l’attore?” le chiedo sorpreso. “Si” mi risponde con un sospiro, “sono da sempre una sua apionata ammiratrice.” Non sto a chiederle quale dei due sia Brad e quale Pitt. In certi momenti è meglio lasciar perdere. Così comincia la mia vita con Centaurea. Lei è una ragazza molto dolce. Docile e mite. La sua remissività e la sua arrendevolezza assomigliano molto alla
sottomissione. Mi ricorda le ragazze cinesi così come le conosco attraverso i romanzi e i film. Lei ha sempre voglia di tutto quello che ho voglia io. Le va bene tutto quello che va bene a me. Ma non è innamorata di me, o almeno così credo. Quello è proprio il suo carattere. Neanche io sono innamorato di lei. Continuiamo ognuno a fare la propria vita privata ma se ci va ci facciamo un paio di canne poi facciamo sesso, senza complicazioni, di comune accordo. Alle volte rincasando uno dei due trova la camera da letto occupata e allora, per tacito accordo, quella notte dorme sul divano. Abbiamo stabilito un modo per segnalare che la camera da letto è occupata. Si appende un papero con un vistoso becco giallo che le ho regalato alla maniglia della porta. Al mattino, a colazione, faccio quindi conoscenza di chi ha ato la notte con Centaurea, oppure lei fa la conoscenza dell’amica che quella notte mi sono portato a letto io. Gli “amanti” di Centaurea sono perlopiù intellettuali anemici o ragazzini alla prima esperienza. Non fa mai nessun commento sulle ragazze che porto io. Si va avanti così con molta leggerezza e spavalderia. Non mancano, è vero, delle situazioni imbarazzanti o grottesche. Mi ricordo quella notte che sono arrivato a casa e aprendo la porta della camera da letto ho trovato Centaurea che stava facendo l’amore. Si era dimenticata di appendere il papero. “E il papero?” ho gridato arrabbiato chiudendo violentemente la porta. Poi più tardi mi viene da ridere pensando a quel poveretto che, mentre sta facendo l’amore, sul più bello si apre la porta della camera da letto e una voce maschile arrabbiata gli grida qualcosa a proposito di un papero. Al mattino avrei voluto scusarmi con lui ma, al mio risveglio, è già andato via. Centaurea invece si è fatta una grossa risata con me.
CAPITOLO III
Al mattino cerco di arrivare per primo in bagno perché, se Centaurea ne prende possesso, non riesci più a stanarla. Anche perché se per lavarmi e radermi mi arrangio con un pezzo di specchio sul lavandino della cucina, ma il resto, cioè tutto quello che di solito si fa in bagno al mattino diventa assai complicato. Questa mattina apro il bagno e Centaurea seduta sul water mi grida “Occupato!” “ Porca vacca” le rispondo gridando pure io, “e chiudere la porta?” Sì! Il problema del bagno esiste. È inutile negarlo. “Non ho più visto uscire la signorina” mi dice la portinaia con quel suo muso da faina. “E allora?” chiedo io cercando di fare la voce da duro. Ma la voce che mi esce assomiglia a quella di Woody Allen. La portinaia si ritira dentro al suo stanzino pieno di fumo. Lo stanzino è pieno di fumo già al mattino. Forse non si svuota mai. Non so quante sigarette fuma quella specie di donna. Come riesca a vedere chi entra e chi esce in mezzo a quel fumo è un mistero. È magrissima. Sembra il manico di una scopa avvolto in stracci neri. Ha un viso appuntito e giallo. Giallo come le vecchie stampe. È nel palazzo da quarant’anni mi dicono. Ma come fa una persona a are quarant’anni dentro ad uno stanzino di due metri per uno pieno di fumo. E senza ammalarsi di cancro dei fumatori. Penso che c’è gente che si ammala di cancro solo respirando il fumo ivo. È come un cane da guardia alla catena. E la gente si indigna a vedere un cane alla catena ma non se ne accorge neanche della portinaia. “È vero” ti dicono, “ma il cane è anche il miglior amico dell’uomo.”
“Ed è per questo che è il più maltrattato” aggiungo io, “anche la portinaia ha degli amici e delle amiche. Però la gente dice trattato come un cane mica trattato come una portinaia!” L’unica differenza tra il cane e la portinaia è il fumo. Prova un po’ a far vivere un cane dentro a quel fumo! Vedi cosa succede! Come minimo ricevi una denuncia per maltrattamento degli animali. Stamattina entro al giornale starnutendo. Ho gli occhi che lacrimano e quando respiro emetto un leggero rantolo asmatico. “Sono allergico” dico a Lost “offrendogli” la solita Marlboro, “sono allergico ai noccioli, alle betulle e agli ontani neri. Sono anche allergico ai gatti e non solo per il pelo ma proprio per il tipo di animale. Non mi piacciono, specialmente quelli neri, mi danno fastidio. È una reazione epidermica. Mi indispone la loro pigrizia, il loro opportunismo, la loro falsità nello strusciarsi quando vogliono mangiare, il loro sguardo pieno di sufficienza quando hanno la pancia piena e sono sdraiati al tuo posto sul divano. Quelli neri poi mi portano anche sfortuna. Questa allergia è una cosa molto fastidiosa, credo di avere anche un po’ di febbre. Sto facendo una cura ma il dottore dice che è una cosa lunga.” Lost alza gli occhi dal sudoku e mi guarda con mal celata ironia. Un sorriso appena accennato gli apre le labbra sulla protesi giallastra dei denti. “Anch’io sono allergico” mi dice. E la sua voce è forte e chiara come quando si lascia una dichiarazione o come quando si risponde ad una interrogazione. “Sono allergico ai meridionali e agli extracomunitari. Ma per questa allergia non esistono cure. La devi sopportare.” Poi senza aspettare una risposta riprende il suo sudoku mettendo in moto il motore diesel del suo borbottio. Lost è fatto così. È inutile controbattere. È inutile spiegargli che non deve fare di ogni erba un fascio. È inutile dirgli che tra i miei migliori amici ci sono dei meridionali e che anche tra gli extracomunitari ci sono delle persone serie, che lavorano e che si prendono le loro responsabilità. Così mi limito a chiedergli se c’è qualcosa di nuovo. Lost sfoglia il giornale come se stesse spogliando una donna. Vedi proprio che lo ama quel giornale, lo considera una creatura. Poi mi dice che della ragazzina che è scomparsa uscendo dalla palestra di ginnastica un mese fa non si sa ancora niente.
C’è la moglie di un metronotte che ruba la pistola al marito, lo uccide con il figlioletto di due anni e poi si suicida. “La mente umana viaggia sempre sul filo del rasoio che ci divide dalla pazzia” commenta Lost. C’è un politico che non sa chi è che gli ha comprato la casa. “Ma come fanno ad essere così sfacciati. A non avere il minimo pudore se non proprio il rispetto della loro persona, della loro faccia. Ma questo a te non interessa” mi dice riprendendo a brontolare. “La Corte di Strasburgo ha detto che il Crocifisso può rimanere appeso in tutte le aule pubbliche italiane” legge ancora Lost, poi continua “allora a questo punto ogni cittadino italiano ha il diritto di appendere, nell’aula dove suo figlio va a scuola, l’icona della sua fede. Ma secondo te può un cittadino italiano ebreo, che lavora e paga regolarmente le tasse, appendere la “Menorah” ebraica? O un cittadino italiano islamico appendere la “Mezza luna” dell’Islam? E tutti gli altri, i Testimoni di Geova, i Valdesi, i Protestanti, gli Ortodossi, eccetera, eccetera, possono appendere anche loro le proprie icone? Sai che casino su quelle pareti. Mi piacerebbe sapere cosa direbbe la Chiesa.” Lost smette di parlare anche perché gli è preso un violento attacco di tosse con catarro. Temo che soffochi. Per me è la rabbia che ha verso il mondo che gli viene su dalla bile. Lo lascio, vado tra gli scaffali, prendo un volume e vado a sedermi, starnutendo, al tavolo. Intanto è arrivata anche Centaurea e mi chiede come sto. Mi chiede anche come mai Lost è così scorbutico. Allargo le braccia per dirle di aver pazienza. Oggi mi capita sotto agli occhi una curiosa notizia. Non è una notizia di cronaca nera è un vecchio articolo che parla di un tale, un conte della nostra città, che a quei tempi si era aggiudicato all’asta un favoloso smeraldo grosso come una noce. Lo smeraldo apparteneva alla Congregazione dei Santi Martiri Solutore, Avventore, e Diocleziano. Certo che uno che si ritrovi con un nome così può solamente fare il martire, penso. Era il frutto di un lascito di una vecchia nobildonna morta all’età di centouno anni. La vecchia nobildonna lo aveva ereditato dal padre che era stato un importante archeologo.
Il gioiello era stato trovato durante degli scavi per esplorare alcune tombe dell’antico Egitto. L’autore dell’articolo raccontava che questi Martiri erano tre poveretti fatti ammazzare, perché cristiani, nel quarto secolo dopo Cristo dall’imperatore romano che allora governava la nostra città. Probabilmente la nobildonna ne era devota, li pregava e questi Santi avevano esaudito qualche sua richiesta o le avevano fatto qualche grazia. Oppure molto più semplicemente quelli della Congregazione l’avevano circuita blandendola con lusinghe e promesse. L'articolo proseguiva poi spiegando che la Congregazione aveva messo all’asta quel favoloso gioiello perché con il ricavato intendeva costruire un ospizio per poveri vecchi intitolandolo alla nobildonna. L’ospizio era stato effettivamente costruito. È quella splendida costruzione giallo limone piena di sole che dall’alto della collina guarda la città, e la compatisce, per la sua perenne nube di smog. La degenza in quella casa di riposo costa più di tremila euro al mese e, a tutti quelli che non possono pagarla, viene presa la pensione, l’eventuale accompagnamento e tutto quello che possiedono. Alla faccia dei “poveri vecchi” e della Congregazione dei Santi Martiri. Povera nobildonna chissà come sta soffrendo lassù. Il conte Gian Giacomo Montrucchio Carignano, un nobile che viveva in uno splendido palazzo del centro città, si era aggiudicato lo smeraldo pagandolo una cifra enorme. Con tutti quei soldi avrebbe potuto restaurare un intero quartiere della città o far vivere una vita decente a qualche decina di famiglie. Quando gli era stato chiesto perché ci tenesse tanto ad aggiudicarsi quel gioiello lui aveva risposto: “Perché il colore e la luce di quel gioiello mi ricordano il colore e la luce degli occhi verdi più belli che ho potuto vedere in vita mia. E io voglio donare questo gioiello a chi possiede quegli occhi, perché quegli occhi mi sono sempre stati fedeli, mi hanno amato tanto e reso immensamente felice.” Da quel momento nessuno aveva mai più visto lo smeraldo. Faccio leggere l’articolo a Centaurea.
“Pensa quanto sarebbe bello trovare quello smeraldo” le dico quando termina di leggere, “avremmo risolto tutti i nostri problemi e ci avanzerebbero ancora un mucchio di quattrini per sarsela fino alla fine del mondo.” Lei mi guarda con quel suo sguardo mite, dolce e più che compatirmi pare voglia consolarmi. “Io non ho problemi. Io sto bene così. Sono felice.” Poi abbassa lo sguardo temendo di aver parlato troppo e di avermi offeso. È molto cara, fa tenerezza. Usciamo. La folla ci inghiotte. Penso allo smeraldo e cerco di immaginarmelo. Uno smeraldo grosso come una noce. Pazzesco! Lo smeraldo mi appare nel cervello ma in modo nebuloso. Non riesco a mettere a fuoco l’immagine. Poi alle volte lo vedo chiaramente, è molto grosso e si avvicina. Sembra voglia entrarmi nel cervello. Poi invece si allontana, diventa piccolo e sparisce in mezzo alla folla. Il rumore del traffico mi impedisce di pensare. Non vedo il tramonto. Lo intuisco da quella atmosfera rossastra che illumina la parte alta degli edifici. È come essere avvolti in un cellophane rosso, trasparente. Qualcuno è già senza cappotto ma Centaurea ha tirato su il cappuccio della felpa. L’aria è ancora fresca. Centaurea mi dice che le piacerebbe vedere un tramonto nel Sahara. Io mi accontenterei di vedere un tramonto sul mare a Savona.
CAPITOLO IV
La ragazzina scomparsa mentre usciva dalla palestra non è stata ancora ritrovata. I cani, annusando, continuano a portare i vigili del fuoco e i volontari nel cantiere di un supermercato in costruzione. A Lost stanno molto a cuore le sorti di quella ragazzina. Vive quel dramma come se si trattasse di una sua parente. C’è un noto politico che è indagato per concussione. Pare abbia telefonato alla Polizia per intercedere nei confronti di una ragazza extracomunitaria che è stata arrestata per furto e portata in caserma. La ragazza, che risulta essere minorenne, afferma di aver partecipato ad una festa nella villa del politico insieme ad altre ragazze e a noti personaggi dello spettacolo. Le violente piogge hanno causato una frana e una cascata di fango ha investito e distrutto un gruppo di case costruite sotto ad una collina. Ci sono parecchie vittime. “Secondo me quelle case erano tutte abusive” è stato il commento laconico di Lost. “E alle vittime non ci pensi? Possibile che non provi un po’ di pietà per quei poveretti? Ci sono anche dei bambini tra di loro!” Urlo rosso di sgomento e di rabbia. “Se ti metti a pisciare contro vento è probabile che ti ritrovi con gli occhi pieni di urina” mi dice Lost con voce calma, “così se costruisci una casa sotto ad una collina brulla, senza alberi, piena di massi in bilico su un terreno franoso, fai una stupidaggine e ti devi aspettare che prima o poi succeda qualcosa di brutto. È inevitabile. La colpa è dell’uomo mica della pioggia.” Ho voglia di picchiarlo. Alle volte sembra proprio senza cuore. È indisponente. Più tardi prima di uscire Centaurea invita Lost a cena. Gli dice di portare anche la sua compagna. “Io non ho compagne, sono solo” risponde Lost, “avevo una compagna ma se n'è andata tanto tempo fa. Una sera arrivo a casa dal giornale e non la trovo più. Aspetto tutta la notte e il giorno dopo. Non l’ho mai più vista. Ha portato via
anche il nostro bambino di pochi giorni.” La sua voce non tradisce nessuna emozione. È come se mi leggesse una notizia sul giornale. “E non ne hai più saputo niente? Non l’hai cercata?” gli chiede Centaurea posandogli una mano sulla spalla. “Cercarla?” chiede Lost mentre sul suo viso si accende una risatina beffarda, “tu sai cosa ne penso delle donne. Sono tutte puttane.” Quando vuole ha la delicatezza di un calcio nel basso ventre. L’espressione di Centaurea non muta minimamente. Sembra quasi che non abbia udito quelle parole. Il suo sorriso continua ad essere un misto di dolcezza e di comprensione. Forse c’è anche un briciolo di commiserazione. “Per carità! Come animali sono superiori all’uomo” continua Lost, “sono molto più intelligenti e soprattutto più pratiche. Sono eccezionali anche nel fisico, sono molto più resistenti di noi. Loro devono garantire la sopravvivenza della razza. Per questo vivono molto più a lungo degli uomini, hanno sette vite come i gatti. Sanno sopravvivere in condizioni difficilissime. Sopportano i dolori più atroci con stoicismo. E non solo i dolori dell’animo ma anche i dolori fisici. Noi uomini non abbiamo resistenza al dolore, noi moriremo tutti di parto. Un bel collasso e via. Sono fredde, calcolatrici, istintive. Non amano nessuno, amano solo i propri figli. Noi ci considerano serbatoi di sperma. Vengono con noi solo per fare i figli e li fanno quando vogliono loro e con chi vogliono loro. Adesso poi con l’inseminazione artificiale ne fanno anche a meno di noi e del nostro buffo e stupido sesso che ci portiamo nei pantaloni. Ridicolo e stupido, sì! Non chiamiamo forse con quel nome uno che è poco furbo? E pensare che noi ne andiamo così fieri. Mah! Adesso poi ci sono i distributori automatici di sperma. Basta il pagamento di un ticket. Presto, addirittura, entreranno in una linda e bianca cameretta, sfoglieranno un album con delle fotografie di donatori di sperma, sceglieranno il più bello, si metteranno nude su di un lettino davanti ad una macchinetta, introdurranno un gettone e voilà! Il gioco è fatto. Comunque ringrazio per l’invito, verrò senz’altro.” Lost arriva un po’ prima delle venti. Senza quell’orribile grembiule scuro che porta all’archivio quasi non lo riconosco. Il suo abbigliamento ricorda quello dell’A.D. di una famosa industria cittadina. Indossa un maglione a girocollo blu scuro dal quale esce il colletto di una camicia azzurra. I pantaloni sono di vigogna, grigio scuro. È sbarbato e i pochi capelli superstiti sono ordinati dietro
alle orecchie. Lost ha portato una bottiglia di brut e un vaso di ciclamini bianchi per Centaurea. Io so già che quei ciclamini non vivranno più di un paio di giorni perché nessuno si ricorderà di bagnarli. Li guardo e mi fanno pena. Guardo Lost che è seduto davanti a me e sotto la luce bianca della lampada a basso consumo lo vedo vecchio. All’archivio non ci ho mai fatto caso ma adesso vedo che la morte ha già cominciato a lavorarci sopra. Forse è malato. Centaurea ha cucinato il risotto. Ne ha fatto troppo, ce n’è per un reggimento di fanteria. È scotto e ha un sapore di qualche cosa di sgradevole. Forse è una spezia, oppure è un’erba aromatica. Probabilmente ne ha messa troppa e il gusto è sgradevole. Lost all’inizio sembra un po’ perplesso ma poi mangia con appetito. Mangia, beve e ride. Io ne avanzo mezzo piatto e Centaurea mi guarda con gli occhi imploranti. Ma poi non va più in là di mezza porzione anche lei. Io mi alzo e con il riso avanzato riempio la ciotola al cane e al gatto. Il cane non fa tanti complimenti mentre il gatto lo assaggia e poi alza gli occhi verso di me. Leggo una richiesta di spiegazioni in quello sguardo. Poi, visto che non gli dico niente, se ne va scuotendo la testa e miagolando sotto voce. Per me sta borbottando delle parolacce. Con la crostata di mirtilli, che ho comprato al mattino dal panettiere sotto casa, Lost si beve quasi tutta la bottiglia di brut. Gli chiedo se vuole farsi una canna con noi e lui accetta entusiasta. Mentre il fumo invade la stanza rendendo soft la luce della lampada mi torna in mente lo smeraldo. Ormai non riesco più a pensare ad altro, il mio cervello ha bisogno di pensare a quel gioiello come un drogato ha bisogno della dose quotidiana. Chiedo a Lost se conosce la storia del conte Montrucchio Carignano. Glielo chiedo adesso perché so che tra il vino e il fumo domani non si ricorderà più quello che gli ho chiesto e nemmeno quello che mi ha risposto. Incomincia a parlare con la lingua spessa che pare raschiare nei denti e nel palato. “Non ho mai conosciuto personalmente il Conte. So che era un buon pittore, uno scultore e uno stimato scrittore. Aveva sposato una famosa cantante lirica ed era assurto agli onori della cronaca perchè aveva comprato un favoloso smeraldo per regalarglielo. La cantante era morta poco dopo e il Conte era stato stroncato dal dolore un paio di anni più tardi. Siccome non aveva eredi, aveva lasciato tutto al
Comune che aveva trasformato il palazzo dove il Conte viveva in un museo, conservandovi quasi tutte le sue opere. Il famoso smeraldo, nonostante le accurate e minuziose ricerche condotte con impegno e tenacia da un sacco di esperti e di investigatori, non fu mai trovato.” Lost finisce a stento la frase. Gli occhi gli si stanno chiudendo e si distende sul divano. Gli tolgo le scarpe e gli metto un cuscino sotto la testa. Quando Centaurea finisce di sparecchiare sta già dormendo profondamente. Scendo a portare l’immondizia. Apro il cassonetto e trovo un grosso ratto che sta rosicchiando qualcosa. Il ratto mi guarda per nulla sorpreso anzi direi un po’ scocciato. Ha ragione, in fondo lui è a casa sua. Ci guardiamo un po’ negli occhi e lui sembra dirmi di fare in fretta a lasciare le borse e chiudere il coperchio. Sembra chiedermi se non ho ancora capito che sta mangiando. Secondo me è un po’ permaloso. Non lo saluto e abbasso il coperchio.
CAPITOLO V
Al mattino quando mi sveglio Lost non è più sul divano. Lo cerco in bagno ma lui è già uscito. Centaurea mi dice di portare il risotto avanzato ai gatti randagi che frequentano il cortile. Scendo e riempio tutte le ciotole ma questi gatti sono abituati a mangiare ben altri avanzi e non lo assaggiano nemmeno. Decido allora di portarlo ai pesci del laghetto dei giardini pubblici. Voglio mettere il risotto in una borsa di nylon ma non ce ne sono. Centaurea le ha usate tutte per mettere l’immondizia. Sono costretto ad uscire con la pentola del risotto in braccio. Per la strada la gente mi guarda sorpresa. Qualcuno sorride. Qualcuno mi osserva sospettoso come guarderebbe un terrorista. Speriamo non chiami la polizia, di questi tempi non si sa mai. Sarebbe imbarazzante dover raccontare la storia del risotto. Cerco di essere il più naturale possibile ma mi vergogno parecchio. Per fortuna arrivo ai giardini pubblici senza incidenti. A quest’ora sono ancora poco frequentati. Seduto su una panchina un barbone mi guarda curioso. Forse ha ato la notte lì e forse lo mangerebbe volentieri il mio risotto ma non oso offrirglielo. Con un cucchiaio spargo il risotto nel laghetto. I pesci dimostrano di gradire molto il risotto di Centaurea. Quando nel laghetto si forma un’isoletta di risotto smetto, anche per non essere arrestato per inquinamento. Ma nella pentola ce n’è ancora. Allora poso la pentola per terra e incomincio a sparpagliarlo intorno sotto agli alberi dove sento cinguettare gli uccelli. Questi smettono immediatamente di cinguettare e si precipitano a beccare il risotto. Arrivano da tutte le parti. Ce ne sono di tutte le specie, di tutti i colori, di grandi e di piccoli. Dopo un po’ ho finito il risotto e sono tutto circondato dai volatili. Qualcuno più intraprendente si posa addirittura sulla mie spalle. Mi sento come San sco. Il barbone ha capito e incomincia a borbottare neanche tanto sotto voce.
Me ne vado perché mi pare che mi guardi in malo modo. Lui, il barbone, non lavora e forse non ha mai lavorato. Sta tutto il giorno seduto sulla panchina ma non può comprarsi il risotto. Io lavoro e posso comprarmelo il risotto ma se per caso lo avanzo non posso darlo ai eri altrimenti il barbone si arrabbia. Pensa che spetterebbe prima a lui di mangiare il risotto. Mah! Forse sto incominciando a pensare come Lost, però il barbone non è nato barbone ma il ero è nato ero.
CAPITOLO VI
o al giornale. Porto in redazione la chiavetta che contiene il romanzo che ho appena terminato e poi o sotto da Lost. Gli chiedo se gli è piaciuta la cena a casa nostra e lui guardandomi serio: “Ottima cena, bellissima serata. Il risotto l’ho trovato molto particolare. Sono uscito all’alba facendo piano per non svegliarvi.” Poi incomincia a sfogliare delicatamente il giornale e mi elenca le notizie. Il giornale non parla più della ragazzina sparita all’uscita dalla palestra. La famiglia ha chiesto il silenzio stampa. Lost è visibilmente preoccupato. C’è un nuovo feroce delitto della camorra. Due giovani, armati di pistola, hanno sparato diversi colpi uccidendo un boss all’uscita di una pizzeria. I due, che avevano il volto coperto da caschi integrali, si sono poi allontanati a bordo di una potente motocicletta. “Cosa ne pensi di questi ragazzi?” chiedo a Lost. “Penso che sia l’unica volta che hanno indossato il casco prima di salire in motocicletta” mi risponde senza alzare la testa dal giornale. Pungente! C’e un importante uomo di legge che ha l’ufficio in un edificio del cinquecento. Ha speso centomila euro per restaurare il bagno e centomila euro per costruire una serra sul terrazzo. “Chissà se ha fatto un mutuo” chiede ironico Lost ed è come se lo chiedesse in giro, come se lo chiedesse al mondo. Rido. Forse mi sto affezionando alle sue conclusioni sarcastiche. I suoi ragionamenti, le sue conclusioni, mi stanno conquistando. Alle volte vorrei anticiparlo, vorrei uscire anch’io con una battuta ironica, oppure commentare un articolo prima di lui con un pensiero cattivo purché originale. Ma Lost mi
precede sempre. Adesso, dopo ieri sera, capisco perché è così mordace contro il mondo intero. Perché per lui il mondo è quella cosa che ha assorbito la sua ex compagna e suo figlio. Odia la gente, perché lei è sparita tra la gente e qualcuno tra quella gente forse la conosce, forse l’ha aiutata a sparire, forse sta vivendo felicemente accanto a lei e a suo figlio. Lui vede la sua ex compagna in ognuna di quelle persone, per questo odia tutti. È arrivata una scolaresca. Una vociante schiera di invasori della quiete dell’archivio. Lost ha il suo da fare a mantenerli calmi e a mantenere la sua di calma. Le maestre gli rivolgono un sacco di domande. I bimbi tirano fuori i volumi dagli scaffali. Si rincorrono in mezzo ai tavoli. Sono sicuro che Lost vorrebbe tanto avere un mitra. Non resisto al baccano, esco. Incontro Centaurea che sta entrando e la metto al corrente della situazione. Le chiedo se le va un caffè, annuisce e, sorridendo felice, mi prende sotto braccio. Ultimamente sembra che tra me e lei qualcosa sia cambiato. Lei è ancora più dolce nei miei confronti e, sempre che ciò sia possibile, la trovo più disponibile. Ultimamente iamo molto tempo a parlare di noi. Vogliamo sapere tante cose uno dell’altra. Sembra quasi che ci vogliamo scoprire solo adesso. Anche l’amore lo facciamo più sovente di una volta. Trovo che Centaurea abbia rallentato parecchio i suoi incontri con altri uomini. Adesso trovo di rado il papero giallo appeso alla maniglia, la camera da letto è quasi sempre disponibile. Anch’io è un po’ che non porto a casa quelle stupide ragazze che incontri al bar o in discoteca. Sarà mica che ci stiamo innamorando come due comuni mortali? Sarebbe veramente ridicolo. Io e Centaurea, ma non scherziamo! Entriamo in un bar. È squallido e sporco. Ci sono dei fazzolettini di carta per terra e sui tavolini. Qualcuno è accartocciato altri sono distesi e unti. Mi avvicino alla cassa e ordino due caffè. Chiedo quanto devo pagare e la cassiera, dal viso imbrattato di trucco e di vecchiaia, senza parlare mi fa cenno di guardare quello che segna lo scontrino. Alla faccia della simpatia!
Mi avvicino al bancone. In un angolo una vetrinetta sembra il ricovero geriatrico per vecchi panini. Secondo me qualcuno di quei panini ha conosciuto Pietro Micca. Il barista mi guarda in modo interrogativo. Gli dico che voglio due caffè e se gentilmente me li porta al tavolino dove intanto Centaurea si è seduta. Non mi risponde. Anche lui non parla. Probabilmente sono capitato in un bar dove il personale è formato da dipendenti muti. Ho sentito dire che a volte i locali pubblici assumono dei diversamente abili. È per integrarli, per farli sentire come gli altri. Però in un bar mi sembra un po’ eccessivo. Dopo un po’ il barista arriva al tavolino con un vassoio, non raccoglie ma si limita a spostare le tazze della consumazione precedente e mi serve i due caffè. Poi se ne va senza parlare. Quelli prima di noi hanno pure mangiato un panino e adesso il pezzo avanzato ci osserva mortificato dal bordo del posacenere. Chiedo a Centaurea se le va di venire con me a dare un’occhiata alla casa museo del conte Montrucchio Carignano. Mi guarda tra il curioso e il divertito e mi chiede se penso ancora a quel gioiello. “Non solo ci penso ma io ci vivo con quel gioiello. Mi è entrato nel cervello, mi è entrato nel cuore e nel sangue. Non riesco più a pensare ad altro. Non riesco più nemmeno a concentrarmi per scrivere” le dico avvicinandomi a lei, “secondo me lo hanno cercato in posti troppo complicati e improbabili”continuo poi accendendomi una sigaretta, “la gente ama trasformare le cose in leggenda. La gente ama i film di Indiana Jones. Ma un gioiello simile non può sparire. Sono sicuro che è nascosto in un posto semplice. Sono convinto che è sotto gli occhi di tutti in un posto dove nessuno si sogna di cercare.” “Ma come fai ad essere sicuro che quel gioiello non sia già stato trovato? Magari è stato rubato e venduto ad un collezionista privato. I ladri mica lo vanno a raccontare ai giornali” obietta Centaurea facendo correre una briciola di pane con un dito. “I ladri no, ma il custode sì. Se avesse subito un furto credi forse che non avrebbe fatto denuncia alla Polizia? E credi che i giornali non ne avrebbero fatto parola? Da quanto mi risulta non ci sono stati neanche tentativi di furto al museo. Anche perché c'è un custode che abita nel museo e ci sarà senz'altro un sofisticato impianto di antifurto. E poi è una sensazione mia, è qualcosa che non
so spiegarti, qualcosa che mi dice che quello smeraldo è ancora là dentro da qualche parte.” Salutiamo e usciamo. Nessuno risponde al nostro saluto e questo non fa che rafforzare la mia convinzione. Saliamo sul tram per il centro. Il tram è pieno all’inverosimile ma come per incanto in un batter d’occhio si svuota. Strano che debbano scendere tutti a questa fermata. E cosa ancora più strana è che scende anche il marocchino che è appena salito davanti a noi. Poi mi giro e capisco. Dietro di noi sono saliti un controllore e un vigile urbano. Mi chiedono educatamente il biglietto. Né io né Centaurea lo abbiamo. Ci fanno educatamente la multa. Il sorriso e lo sguardo di Centaurea mi umiliano. Mi sento uno sciocco. Il vigile urbano è un bel ragazzo, è giovane, assomiglia a mio nipote. Una volta ho chiesto a mia sorella cosa fe suo figlio e lei mi ha detto che faceva l’attore in televisione. “Ha già girato quasi tutta l’Europa” mi aveva detto con malcelato orgoglio. Più tardi sono venuto a sapere che mio nipote è uno di quei giovanotti che in televisione corrono dietro ad un rotolo di carta igienica per vedere quando finisce. Scendiamo davanti al palazzo del Conte. È una costruzione molto bella del Seicento. È dipinta di grigio e di giallo, con tonalità caratteristiche delle costruzioni di quell’epoca. Si trova in una zona del centro storico che il comune ha chiuso al traffico. Sembra di respirare i mugugni dei negozianti. Mi tornano in mente le ate contestazioni. Alcune serrande sono abbassate per sempre. Ci accodiamo ad un gruppo di giapponesi educati e carichi di macchine fotografiche e cineprese che aspettano che la loro guida faccia i biglietti. Questa volta i biglietti li faccio anch’io. L’ingresso è maestoso. A destra e a sinistra si aprono i saloni tutti comunicanti tra di loro. Al centro uno scalone marmoreo sale al primo piano dove ci sono le camere da letto e un piccolo alloggio per il custode. Sul lato opposto all'ingresso una porta-veranda si apre su degli spettacolari giardini circondati da un muro di
cinta. Centaurea ne è affascinata. I saloni sono alti e luminosi. Le pesanti tende sono aperte e la luce entra abbondante dalle grandi finestre che danno sui giardini. I soffitti sono a cassettoni affrescati e intarsiati. Tappeti spessi e pregiati proteggono il pavimento in legno. I mobili in stile sono in noce scura. Sono pezzi unici. Appesi alle pareti ci sono arazzi antichi e molti quadri dipinti dal Conte. Sono romantici paesaggi e ritratti della moglie immortalata nei costumi delle romanze più celebri da lei interpretate. Noto le lampade-spia dei rivelatori di presenza che lampeggiano. Sono posizionati sopra ad ogni apertura. Non ci sono telecamere. Al centro di uno dei saloni c’è un bellissimo pianoforte aperto ancora con gli spartiti appoggiati. Di fianco c’e un elegante violoncello appoggiato ad uno sgabello. Ci sono un paio di statue raffiguranti la moglie a mezzobusto. Sopra ad una scrivania un grosso gatto nero imbalsamato sembra montare la guardia a dei manoscritti. Giro alla larga dal gatto. Chissà cosa proverei se lo accarezzassi. Sarei capace di svenire. Al piano superiore le camere da letto sono numerose e si affacciano su una specie di balcone interno. Chissà cosa ne faceva il conte di tutte quelle camere da letto. In compenso c’è un bagno solo, piccolo e spartano. Mi sorprendo a pensare quanto fosse pericoloso fare l’amore in quei lettoni così alti. Se facevi un po’ l’estroso e cadevi c’era da farsi veramente male. Lo faccio notare a Centaurea che si mette a ridere. In fondo alla balconata ci sono le due camerette del custode. Usciamo e Centaurea mi chiede se la porto al cinema. Le dico di sì e lei abbracciandomi mi dice che mi vuole bene. Ho paura che stiamo prendendo una brutta piega. A casa Centaurea esce tremolante dal bagno. Dice che ha dovuto fare la doccia fredda perché l’acqua non viene calda.
“È strano”, penso, “stamattina quando l’ho fatta io andava che era una delizia.” Vado in bagno e provo. L’acqua della doccia esce fredda. Domani chiamo l’idraulico anche se ciò mi rompe parecchio le palle.
CAPITOLO VII
o dall’affumicata e le chiedo il numero di telefono dell’idraulico che fa la manutenzione nel palazzo. L’idraulico mi fissa un appuntamento per due giorni dopo. Secondo me sono stato fortunato. La mia allergia è veramente fastidiosa. Ho gli occhi rossi che mi prudono e mi lacrimano. Mi soffio continuamente il naso. Il mio respiro sembra il raglio di un asino. Oltre alla mia allergia i primi ad accorgersi che è arrivata la primavera sono i balconi. Se ne accorgono da un giorno all’altro. Ieri questi balconi erano anonimi, tristi. Qualcuno era ancora avvolto in una orribile tenda di nylon, qualcun altro sventolava qualche straccio sfrangiato. Oggi sono tutti coperti da gerani e petunie e sorridono con i colori dei lori bellissimi fiori. Roba da non credere! Dove fossero ieri quei fiori e come abbiano fatto a fiorire tutti insieme per me rimane un mistero. Ieri era San Valentino. Ho regalato a Centaurea una confezioni di “Baci”. Ne va pazza. Li mangia e si diverte un sacco a leggere i messaggini che trova all’interno. Per fortuna che San Valentino capita una sola volta all’anno. Ieri notte ho dovuto fare gli straordinari e Centaurea mi ha lasciato come morto. Sembrava matta, non le bastava mai. Oggi sono parecchio sbattuto. Ma ne incontro anche altri che sono sbattuti come me. Le donne, al contrario, mi sembrano più allegre. “È arrivata una lettera anonima a casa della ragazzina scomparsa” mi dice Lost “accettando” la Marlboro, “dice di cercare nel cantiere del supermercato in costruzione.” C’è un nuovo sbarco di clandestini sulle coste del meridione. “Non bisognerebbe lasciarli sbarcare” dice Lost scuotendo la testa, “bisognerebbe sparare con i cannoni. Quelli sono la rovina del nostro paese.
Presto andremo a rotoli e saremo ridotti proprio come loro. Allora voglio vedere dove andremo a sbarcare noi.” Non resisto e sbotto arrabbiato: “Ma Lost non ti vergogni? Lì in mezzo ci sono donne e bambini. Scappano da posti orribili, governati da regimi terribili. Hanno sofferto pene e dolori inenarrabili. Bisogna aiutarli, capirli, integrarli. Con loro costruiremo una nazione multietnica, più forte e più competitiva.” Penso di avere anche un po’ di schiuma ai lati della bocca. “Tieni presente”, mi interrompe Lost senza comunque alzare il capo dal giornale, “che la torre di Babele è crollata prima che gli operai che la costruivano, operai multietnici e che parlavano lingue diverse, si integrassero e si capissero.” Vorrei controbattere ma mi manca la parola. Come al solito. Allora cerco di salvarmi in corner e gli grido: “Allora sei razzista, uno sporco razzista!” “Sono razzista, certo” mi risponde con il solito borbottio calmo da motore diesel al minimo, “ma non sono sporco. Mi lavo tutte le mattine e non puzzo neanche di piedi.” Vorrei picchiarlo. Alle volte il suo spirito, il suo sarcasmo mi rivoltano lo stomaco. “Tu invece non sei razzista, vero?” continua e stavolta mi guarda negli occhi. È la prima volta che guardo Lost negli occhi. Mi fa impressione. I suoi occhi su quel viso giallastro sembrano vuoti. Mi dà l’impressione di guardare nei buchi di una fetta di groviera. “Mi vuoi far credere che non distingui un nero da un bianco o un giapponese da un pellerossa? È così?” “Ma cosa c’entra?” rispondo, e agitato vado su e giù di fianco alla sua scrivania, “quelle non sono razze, quelle sono variazioni della razza umana.” Sono contento. Mi sento soddisfatto. Ho l’impressione di avergli risposto per le rime. “E come mai sono così diverse una dall'altra?” Sento che mi vuole incastrare ma non mi perdo d’animo. Mi sento abbastanza sicuro. Sono ferrato in materia. “Perché Noè aveva tre figli e quando sono usciti dall’Arca Dio li ha benedetti
dicendo loro di andare per il mondo a moltiplicarsi. Così Sem, che era giallo, è andato verso est e ha generato i semiti, Cam, che era nero, è andato verso sud e ha generato i camiti e Japhet, che era bianco è andato a nord e ha generato i bianchi.” Vorrei continuare chiedendogli: “Hai capito testone?”, ma mi fermo in tempo. “Intanto se mia moglie mi partorisse tre figli di tre colori diversi io qualche domandina gliela farei.” Dice Lost con un ghigno ironico. Penso: “Io lo ammazzo! Io lo strozzo e poi lo faccio a pezzi! È proprio un bastardo.” “Te lo spiego io come è andata” prosegue aggiustandosi sulla sedia, “tutto è cominciato in Africa dalle parti dell' equatore. Un bel giorno una scimmia è scesa dall’albero e ha incominciato a camminare a terra finché ha capito che camminare eretta era più vantaggioso che camminare a quattro zampe. Poi per esigenze di sopravvivenza, acqua, frutti, caccia, è stata costretta ad allontanarsi dall’albero per scoprire nuovi territori. Così le scimmie che sono andate verso est avevano il sole negli occhi che le abbagliava e dovevano tenerli costantemente socchiusi. Piano, piano gli occhi hanno preso quella caratteristica forma a mandorla. Allontanandosi dall’equatore hanno sentito il bisogno di coprirsi. Il pelo non bastava più a proteggerle dal freddo. Ecco che allora sono nati i primi abiti. Da prima fatti con la pelle di altri animali, poi via via sempre più sofisticati. Coprendosi poco per volta hanno perso il pelo. A quelle latitudini il sole riesce solo a far diventare gialla la loro pelle. Non ci sono più alberi per cercare rifugio e riparo in mezzo ai rami. Allora hanno incominciato a usare le caverne per poi in seguito costruire delle capanne sempre più funzionali. Hanno insomma aguzzato l’ingegno per sopravvivere. Sono diventate uomini. Anche alle scimmie che sono andate verso nord è successa la stessa cosa. Solo che queste non avevano il sole in faccia. Anche qui la necessità ne ha sviluppato l’intelligenza. Prova un po’ a dormire una notte d’inverno sugli alberi in Danimarca o in Svezia! Vedi come ti dai da fare a costruirti una capanna o a cucirti addosso un bell'abito! Il calore del sole non è stato sufficiente a colorarle e quando hanno perso il pelo sono rimaste bianche. Non solo, ma man mano che si allontanavano dall’equatore assomigliavano sempre meno alle scimmie e i loro lineamenti somatici si addolcivano.
Poi ci sono le scimmie che sono scese ma non si sono mosse dall’albero. Sono rimaste sotto il sole dell’equatore e non hanno avuto bisogno né di vestirsi né di costruirsi una capanna. Hanno perso il pelo e il sole le ha colorate di nero. Anche i loro lineamenti sono rimasti più somiglianti a quelle che sono rimaste sugli alberi. Non hanno nemmeno avuto bisogno di sviluppare molto la loro intelligenza perché si sono accontentate di quel poco che la natura poteva offrire loro. E questo non è solo un fatto esteriore. Non mi puoi dire che la mentalità, il modo di ragionare di un abitante del Ciad sia paragonabile a quello di uno svedese. Non ti sto dicendo che sia meglio uno o peggio l’altro. Ti sto solo dicendo che sono diversi. Questo lo capisci vero? Saranno pure come dici tu, varianti della stessa razza, ma per me non sono la stessa cosa, non sono la stessa razza.” Come il solito rimango a guardarlo senza ribattere. Non devo più discutere con Lost. Mi rovino l’esistenza. Vado a prendere un volume di giornali e mi siedo al tavolo di lettura. Sono nervoso. Nervoso e arrabbiato. Non riesco a concentrarmi. Quando la rabbia abbandona il mio cervello lo smeraldo torna ad occuparlo. Sfoglio i giornali con scarsa attenzione ma un articolo però cattura la mia curiosità e accende la mia fantasia. In una città del sud Italia si sta festeggiando il Capodanno. La gente è come impazzita, le strade sono piene di gente che spara mortaretti e fuochi di artificio. Anche i balconi sono pieni di gente che applaude, sventola torce e spara petardi. Qualcuno spara anche con armi da fuoco. Ed è proprio su uno di questi balconi che si compie il dramma. Un uomo che sta festeggiando con la sua famiglia ad un certo punto si accascia al suolo e muore colpito da un proiettile vagante. Il colpevole non verrà mai trovato. Bello! Proprio un bellissimo spunto per uno dei miei romanzi. Ce l’ho già in mente! Un uomo d'affari che si sente truffato vuole vendicarsi uccidendo il socio disonesto. Si compra una pistola e si unisce alla folla festante per il Capodanno. La folla è come impazzita, tutti urlano, ballano, bevono e sparano. a sotto al balcone dell’abitazione del socio. Lui è lì che fa festa attorniato da tutta la famiglia. Aspetta il momento propizio prende la mira e lo ammazza. La sera stessa si libera della pistola gettandola in mare. La Polizia darà la colpa ad un
proiettile vagante. Già ma io come faccio a far arrestare il colpevole? Non posso scrivere un romanzo giallo senza colpevole. Beh, a questo ci penserò domani.
CAPITOLO VIII
Stamattina è venuto l’idraulico. Ha una polo “Fred Perry”, un paio di jeans “Cavalli” e delle scarpe “Prada.” Probabilmente è arrivato con una Bentley nera con i vetri scuri. Sento una fitta al cuore e penso alla parcella. Lo accompagna un nordafricano che gli porta la cassetta degli attrezzi e che probabilmente gli fa anche da autista. Mi chiede dove sia la caldaia e lo accompagno in bagno. Entra e si guarda intorno schifato. Ha ragione perché ho appena fatto la doccia e il bagno non è in ordine. “Ma Cristo Santo! Sei solo un idraulico, mica un professore di medicina interna!” penso. Centaurea dorme ancora. Speriamo che non arrivi nuda in bagno come al solito. L’idraulico apre il coperchio della caldaia. Si infila un paio di guanti di lattice. “Forse teme di lasciare le impronte digitali per paura di essere perseguito legalmente dopo la parcella” penso. Chiede gli attrezzi al suo aiutante come un chirurgo chiede i ferri per operare ai suoi assistenti. Gli manca solo lo stetoscopio e la lampada scialitica. Fruga un po’ all’interno della caldaia e apre la doccia. “Okey!” mi sussurra, “lei ha di nuovo l’acqua calda nella doccia.” Gli spiego gentilmente che l’acqua calda della doccia viene calda al mattino quando la faccio io ma gelata di sera quando la fa la mia compagna. Mi guarda in modo scettico come io guardo un tifoso della Juventus che mi dice: “Oggi abbiamo giocato bene.” Poi mi spiega, parlando come si parla ad un bambino deficiente, che ciò non è possibile. Usa un sacco di termini tecnici che per me equivalgono ad un dialetto ebraico. Poi mi dice che la parcella è di centocinquanta euro senza ricevuta fiscale e di duecentocinquanta con la ricevuta fiscale. Alla mia timidissima ed educatissima richiesta di spiegazioni mi tira fuori un discorso pieno di diritti di chiamata, spese di gestione, imposte, eccetera.
“Ma quali tasse, ma quali imposte se non mi fai nemmeno la ricevuta fiscale? Evasore! Bastardo! Cancro della società!” Tutto questo però lo penso solamente. Lo pago, lo maledico in cuor mio, ed esco. Oggi Centaurea non è venuta al giornale. Non la vedo neanche al “Cinema d’Essai” e nemmeno al nostro solito bar. Ho paura di rincasare e di trovare il papero appeso alla maniglia della camera da letto. Allora faccio ancora un giro. Arrivo fino ai giardini. Il barbone è già disteso sulla panchina per are la notte. È avvolto in una vecchia coperta dal disegno scozzese. Ha il viso coperto da un amontagna nero. Sembra un terrorista o un agente dei corpi speciali. Sulla panchina di fronte ci sono un ragazzo nero e una ragazza bionda. Fumano e si baciano. Si baciano e ridono. Le luci si sono già accese. Il crepuscolo cerca disperatamente di resistere alla notte che lo vuol spegnere. Ci sono parecchi ragazzi in cerca della dose quotidiana. Hanno le mani sprofondate nelle tasche, la testa sprofondata nelle spalle, il cervello sprofondato nel nulla e nell’indifferenza. Hanno un solo pensiero fisso. La vita ha lasciato il posto all’estasi. Invece quando arrivo a casa Centaurea è lì tutta indaffarata che lavora in cucina. La cucina sembra un campo di battaglia dopo la ritirata. Ha deciso di prepararmi una sua specialità. Me lo dice con gli occhi accesi di gioia e di speranza. Spero che non sia il risotto dell’altra volta. Mi è preso un leggero attacco di panico ma non glielo faccio intendere. Mentre aspetto mi siedo a tavola e guardo la televisione. Il telegiornale è terminato e adesso c’è la solita raffica di pubblicità. Ma è mai possibile che tutte le sere all’ora di cena ci siano quelle due donne che prendono l’ascensore insieme? Ad un certo punto una delle due, sempre la medesima, incomincia a fare delle smorfie perché l’altra, come dice la voce fuori campo, ha delle piccole perdite di urina e puzza. Ma non pensate a quanta gente in quel momento è seduta a tavola e sta mangiando un brodino fatto con il dado che assomiglia molto a quella roba lì? Ma lavati sporcacciona, Santo Iddio! E tu stupida prendi l’ascensore dopo! Oppure che, sempre all’ora di cena o di pranzo,
ci siano quei due anziani, probabilmente moglie e marito, che addentano una coscia di pollo cucinata alla griglia mentre la solita voce fuori campo chiede: “Uno dei due porta la dentiera. Ma quale dei due?” Ma chi se ne frega di chi porta la dentiera! Se non gli rimane attaccata alla coscia di pollo come faccio ad indovinarlo? Ma è lo schifo che mi fate che mi rovina la cena. A cena scopro che la specialità di Centaurea consiste in due involtini di carne fermati con uno stuzzicadenti. Rabbrividisco a pensare a cosa ci sarà dentro. Poi li assaggio mentre Centaurea seduta davanti a me scruta ogni mia reazione e pende dalle mie labbra. Mi devo ricredere. Sono involtini normali ripieni di pancetta affumicata. Hanno sempre quel maledetto sapore di spezie orientali ma meno violento del riso. Devo trovare quelle maledette spezie o quelle erbe aromatiche e distruggerle. Nel complesso sono abili ma a lei dico che non ho mai mangiato niente di più buono. È contenta alla commozione. Si alza, mi bacia e mi versa il vino. Poi però non resisto e mi metto a parlare del Conte Muntrucchio Carignano. “Secondo te”, le chiedo, “adesso che hai visto la casa, hai idea di dove possa aver nascosto lo smeraldo?” “Può averlo nascosto dappertutto in una casa così” mi risponde e per la prima volta da quando siamo insieme si versa un bicchiere di vino, poi prosegue: “può averlo nascosto nel doppio fondo di qualche cassetto. Può esserci una cassaforte nascosta in qualche mobile oppure dietro a qualche quadro. Oppure, molto più semplicemente, può averlo depositato in una cassetta di sicurezza in qualche banca.” “No, non credo” dico, “la prima cosa che hanno cercato sono i doppi fondi, le cassette di sicurezza e le casseforti. No, i segugi del Comune le avranno provate tutte. Rivelatori sofisticatissimi, investigatori. Si dice che addirittura abbiano assoldato dei ladri professionisti. La posta era troppo alta per lasciare qualcosa di intentato. Sai invece cosa ne penso io?” le chiedo intanto che mi sbuccio un mandarino, “ti ricordi il Conte a chi ha detto che avrebbe regalato lo smeraldo?” Centaurea mi guarda socchiudendo gli occhi. Non capisco se per concentrarsi o per l’effetto del vino. “Ha detto che l’avrebbe regalato agli occhi verdi più belli e che più ha amato in vita sua. O qualcosa del genere” dice sbadigliando. Allora ho ragione, il vino
c’entra. “Appunto”, annuisco, “e, a meno che non avesse un’amante, sua moglie aveva dei magnifici occhi verdi. Occhi verdi fuori dal comune, una vera opera d’arte della natura. Poi quando la moglie muore lo nasconde senza allontanarlo da quei magnifici occhi verdi. Hai notato” proseguo prendendo un tono di voce coinvolgente, “gli occhi dei ritratti di sua moglie? Hai notato la luce di quegli occhi verdi che sembrano di cristallo, che sembrano vivi? Hai notato gli occhi di quelle statue a mezzo busto, probabilmente scolpite nel legno, che luce verde, intensa e inquietante emanano? Ebbene io sono sicuro che lo smeraldo è nascosto dietro a quegli occhi. Non se la sente di allontanarlo da quegli occhi che hanno contato tanto per lui quando erano in vita.” Ho parlato senza respirare e adesso mi fermo altrimenti soffoco. Centaurea approfitta della mia pausa per dirmi: “Devo prendere atto della tua fervida fantasia. Potresti scrivere un romanzo.” “Sapessi quanto sono vicine la fantasia e la follia!” Le rispondo con un lungo sospiro. Lei sorride e continua: “Ti confesso però che la tua teoria mi affascina. E come faresti a controllare se i tuoi sospetti sono fondati?” “Non lo so” rispondo, “ci sto pensando giorno e notte. Non ne ho idea ma un modo ci deve pur essere.” “E non hai paura?” mi chiede sorridendo. Leggo nel suo sguardo un po’ di apprensione. “Ho una paura matta, ho il terrore che, una volta lì, mi prenda il panico e me la faccia sotto. Pensa che figura davanti al guardiano e alle forze dell’ordine venute ad arrestarmi. E pensa alla notizia sul giornale e al commento di Lost” dico ridendo mentre rosso come un matto sussulto in tutta la persona. Riempio le ciotole del cane e del gatto. Quando mi alzo vedo Centaurea che sta preparando due canne. Canticchia un motivetto inglese. Mi guarda con gli occhi libidinosi. Mi sa che stasera mi tocca fare gli straordinari. Scendo giù a portare l’immondizia. Apro il cassonetto. Dentro c’è il solito
grosso ratto che sta rosicchiando qualcosa. Alza appena il muso a guardarmi. Mi riconosce. Anch’io lo riconosco. Non è vero che tutti i ratti sono uguali. Questo ha un musetto carino, lo riconoscerei tra mille. Continua imperterrito a mangiare ignorandomi.
CAPITOLO IX
Sono svegliato da un fracasso tremendo che arriva dalla cucina. Sento il cane che corre e che abbaia. Mi precipito giù dal letto, entro in cucina e vedo il cane che gira abbaiando attorno al tavolo. Anche il gatto sembra impazzito. Corre avanti e indietro e ogni tanto infila la testa sotto ai mobili della cucina come a cercare qualcosa. Urlo al cane di smettere e lui si ferma un attimo, mi fa vedere una zampa con l’unghia centrale alzata e continua a correre e abbaiare. È proprio un gran maleducato. Maleducato e stronzo. Del resto cosa ti puoi aspettare da due animali così? Con i natali che si ritrovano! La madre del cane era senz’altro una cagna e la madre del gatto era senz’altro una troia. E i loro padri non li hanno nemmeno conosciuti. Certo che ne fanno di casino! Cerco di capire cos’è che li sconvolge tanto e mi unisco alle loro ricerche. Ad un certo punto la vedo. È dietro al barattolo dello zucchero. È un grossa lucertola, grande come un'acciuga e lunga come una matita biro. È terrorizzata. Il panico le fa pulsare tutto il corpo e la gola. Non so come regolarmi. Non so come fare a prenderla per portarla sul balcone. Non ho mai avuto tanto coraggio con gli animali. E poi le lucertole mi fanno particolarmente paura. Gli animali continuano a correre e abbaiare. Prendo un asciugamano dei piatti e adagio, cercando di non fare movimenti bruschi, avvolgo il barattolo dello zucchero e la lucertola. Esco sul balcone poso l’asciugamano per terra e incomincio a svolgerlo piano piano. La lucertola è adagiata sul fondo del barattolo in mezzo allo zucchero. È lì ferma e mi guarda con simpatia. Secondo me mi sta ringraziando. Poi esce dal barattolo e adagio si attacca al muro e scende verso terra. Penso che butterò via lo zucchero. Rientro in casa e cerco di far capire ai due deficienti che la lucertola non c’è più. Quando si rendono conto che sono io che l’ho fatta scappare mi guardano e nei loro sguardi leggo la parola “ruffiano.” Sono sicuro che me la faranno pagare.
Esco. La nebbia ha lasciato un'umidità che luccica ai raggi del sole. I negozi sono ancora chiusi. Strano. Eppure è già tardi e oggi non è domenica. Poi lo vedo là contro sole in fondo alla via. Il corteo dei manifestanti mi viene incontro urlando slogan arrabbiati dietro agli striscioni rossi. È un’onda che trascina bandiere e foulard rossi. La polizia in assetto antisommossa li aspetta al termine della piazza per sbarrare la strada che porta al palazzo del comune. I poliziotti indossano caschi integrali e grossi scarponi. Li aspettano immobili e neri schierati dietro all’ipocrisia degli scudi trasparenti. Ancora una volta il colore nero e il colore rosso sono chiamati a fronteggiarsi. Ancora una volta sono in conflitto tra di loro. Che colori strani il rosso e il nero. Così diversi eppure quasi sempre insieme. Ho incominciato a notarlo alle elementari mentre aspettavo con ansia i voti che la maestra dava ai nostri compiti. E già allora le “sufficienze” erano scritte con la matita nera mentre i voti dal cinque in giù erano scritti con la matita rossa. Già allora il nero significava tranquillità, soddisfazione e superiorità nel confronto con gli altri mentre il rosso significava rabbia, scarso valore e invidia nel confronto con gli altri. Addirittura nella vita di tutti i giorni li ritrovi vicini. Prova ad invertire il cavo rosso con il cavo nero della batteria dell’auto e vedi che casino di scoppi e scintille ne viene fuori. E il conto corrente bancario? Quando i numeri neri lasciano il posto a quelli rossi sei nei guai. Anche qui il nero è tranquillità e potere e il rosso rabbia. E quanta gente con l’ultima fiche in mano ha guardato quella pallina are dal rosso al nero di una roulette? Anche in quel momento questi due colori sono molto vicini eppure uno significa vittoria e l’altro significa sconfitta. E al tramonto la violenza della notte che con il suo colore nero copre il colore rosso dell’indifeso tramonto. E il nero del potere delle toghe e della drammatica dittatura fascista e la rabbia rossa degli operai e dei comunisti.
E il potere dei Cardinali vestiti di rosso e la rabbia e la sopportazione dei poveri parroci di campagna vestiti di nero. Con questi ultimi però mi accorgo che il nero è ato dalla parte dei deboli. Sono sovrappensiero e non mi accorgo che la marea dei manifestanti mi inghiotte. Mi ritrovo in mezzo a dei ragazzi con il volto coperto da caschi integrali. Brandiscono pesanti bastoni e sbarre di ferro. Voglio andarmene ma sono trascinato e sballottato per la piazza. Qualcuno incomincia a spaccare le vetrine, altri incendiano i cassonetti dei rifiuti. Mi ritrovo a dover dare una mano per capovolgere un’auto. Non capisco più cosa succede. Ho paura. Arrivano i mezzi blindati. Hanno azionato gli idranti mentre la polizia carica. Sento un tremendo colpo in testa. Cado, non ce la faccio ad alzarmi. Sto perdendo sangue dal capo. Il sangue si allarga sull’acciottolato umido della piazza. Ho lo scarpone nero di un poliziotto ad un palmo dal mio capo. Non si accorge della mia presenza oppure non vuole aiutarmi. Continua a menare fendenti con il manganello. Sento urla bestiali. Sento altri corpi cadere vicino a me. Non posso muovermi. Lo scarpone nero sta pestando il mio sangue rosso. Mi sveglio. Sono coricato su un lettino del pronto soccorso. Ho una vistosa fasciatura alla testa. “La polizia dovrebbe sparare ad altezza d’uomo” sento dire da un medico mentre parla con un collega. Non me la sento di controbattere. Sarebbe inutile e oltretutto sono nelle loro mani. E poi io non sono Lost. Un poliziotto ha i miei documenti in mano, mi fa firmare un verbale e mi dice di presentarmi domani al commissariato. Vengo quasi buttato giù dal lettino e dimesso in malo modo. Fuori la giornata è grigia e noiosa. Un bambino sta giocando al pallone. Ha la maglia del Milan. Al diavolo il rosso e il nero. Arrivo al giornale e scendo nell’archivio. Lost mi guarda preoccupato e mi chiede cosa mi è successo. Gli racconto il tutto ma tralascio di riferirgli la frase del medico del pronto soccorso.
“Non avevano una ragione valida per protestare” mi dice Lost, “quella banda di studenti falliti e frequentatori di centri sociali che hai visto stamattina - perché lì in mezzo di lavoratori non ce n’era neanche uno - stanno protestando contro una decisione votata democraticamente dalla maggioranza del Governo.” “Ho sentito dire che il Governo ha comprato dei voti per avere questa maggioranza” cerco di controbattere. “Tra i politici scagli la prima pietra chi non ha mai comprato un voto. Pagandolo magari con la promessa di un ministero o un sottosegretariato. O molto più semplicemente con la corruzione, la concussione, il nepotismo, le cenette a luci rosse” mi risponde Lost. “Allora stiamo vivendo in un mondo senza ideali?” gli chiedo porgendogli il pacchetto delle Marlboro. Strano che questa mattina non me l’abbia ancora chiesta. “Gli ideali si nutrono di speranza ma spesso muoiono di fame” mi dice e il tono della sua voce mi sembra meno vicino al borbottio del motore diesel. Questa frase mi è piaciuta un casino. A casa mi tocca spiegare un’altra volta quello che mi è successo. Lo spiego ad una Centaurea che mi guarda sgomenta. Mi gira intorno, allunga più volte il braccio per toccarmi, ma poi lo ritrae. Forse ha paura di scottarsi. Mi mette un cuscino sulla sedia e mi invita a sedermi. Forse non mi sono spiegato bene ma a me hanno spaccato la testa mica mi hanno rotto il sedere. A cena la minestrina è insipida. Chiedo il sale ma mi dice che lo ha finito e si è dimenticata di comprarlo. Aggiungo una montagna di parmigiano e riesco a finirla. Ma a mangiare l’insalata senza sale non ci provo nemmeno. Vado a letto, la testa mi fa parecchio male.
CAPITOLO X
Questa notte ho fatto un sogno terribile. Ho sognato che ero Ulisse e, con i miei compagni, ero sbarcato nella terra dei Ciclopi. Mi ero subito accorto che Polifemo in mezzo alla fronte, al posto dell’unico occhio, aveva uno smeraldo grosso come una mela. Io e i miei compagni, decisi ad impossessarsi di quel gioiello, avevamo raccolto dei grossi fiori di un cespuglio che, a detta di un nostro compagno anziano, avevano proprietà soporifere. Avevamo aggiunto la tisana ottenuta con quei fiori al vino che avevamo servito a cena al gigante. Polifemo era subito piombato in un sonno profondo e io, aiutato dai miei compagni, avevo preso un grosso palo appuntito per cercare di togliere quel gioiello dalla fronte del gigante. Ma proprio mentre stavo per infilare il palo nell’orribile occhiaia Polifemo si era svegliato, mi aveva afferrato con le mani enormi e mi stava portando verso la bocca per mangiarmi. Mi sveglio di soprassalto madido di sudore. Lo spavento mi ha bloccato il fiato in gola. Respiro a fatica. Mi alzo e vado in bagno. Mi calmo, ho ripreso a respirare regolarmente. Incomincio a radermi. Sento il suono del camlo ma continuo a radermi. Al secondo squillo capisco che Centaurea non è disposta ad alzarsi per andare ad aprire. Esco dal bagno e vado ad aprire. In mezzo al pianerottolo delle scale c’è la portinaia. Fa schifo. Sembra una strega. Addosso ha un vecchio accappatoio che una volta doveva essere color avorio come le zanne di un elefante. Adesso è ancora color avorio ma come i denti cariati di un elefante. In mano stringe la solita sigaretta fumante. Del resto neanche io devo essere uno spettacolo. Ho il viso per metà rasato e per metà coperto di schiuma di sapone. Sono in mutande e a torso nudo. Le mutande sono boxer a righe bianche e nere e non stanno chiusi sul davanti. Le chiedo abbaiando cosa diavolo vuole e lei mi dice che ha avuto delle lamentele dagli inquilini per il casino che fanno i miei animali. “Lei forse non si rende conto che questo è un condominio di un certo prestigio” mi urla in mezzo alle nuvole di fumo che butta fuori dai polmoni, “e il regolamento di questo condominio dice che chi disturba non rispetta la legge e può essere denunciato alle autorità e allontanato.” “Lasciamo perdere il prestigio” le rispondo e mi scopro stranamente calmo, “in
questo momento non ho voglia di elencare tutti i pregi e i meriti eccezionali che formano il prestigio di questo condominio di merda. Ma la legge dice anche che non si può fumare nei luoghi pubblici e le scale e la guardiola sono da considerarsi luoghi pubblici. Pertanto se io porto via gli animali lei deve smettere di fumare.” L’ho buttata lì così senza pensarci su. Mi è venuta spontanea. La portinaia si è fermata con la bocca aperta, mi ha scrutato un attimo con odio, poi si è girata e se n'è andata brontolando e lanciando nuvole di fumo nervose verso il soffitto. Sono quasi sicuro che non mi romperà più le palle. Sono orgoglioso di me stesso, finisco di radermi ed esco. La giornata è troppo chiara. Il sole che batte sulle pareti bianche dei palazzi mi abbaglia. Mi dà un fastidio tremendo. Non ho trovato gli occhiali da sole perché Centaurea ha messo in ordine i miei cassetti. Chissà dove sono finiti. Ho gli occhi che lacrimano e il naso che cola. Maledetta allergia. o a farmi medicare la ferita in ospedale. Strappo dalla macchinetta che distribuisce i numeri il numero trentotto e il display luminoso segna il numero undici. Sono in piedi in mezzo al popolo. C’è un vecchio che tossisce e scatarra. Ci sono delle donne che parlano ad alta voce. Ci sono delle donne avvolte nei burqa. Non parlano, hanno dei bambini piccoli in braccio. Altri bambini corrono su e giù per la stanza. Altri ancora sono nei eggini. I eggini sembrano abbandonati. Chissà dove sono finite le mamme. C’è una giovane donna che accavalla spesso le gambe. È un bel vedere. C’è un ragazzo che come me ha il capo bendato. Forse è un infortunio sul lavoro o un incidente d’auto. O forse è stato picchiato anche lui ieri. Come me. C’è odore di urina e di sudore. Mi manca il respiro. La testa mi fa male. Ho sonno. Quel maledetto sogno non mi ha fatto dormire. Adesso lo smeraldo incomincia anche a guastarmi il sonno. Quando viene il mio turno mi medica una dottoressa gentilissima. Mi ricorda mia madre. Mi cambia la fasciatura e mi dice di ritornare fra un paio di giorni. Lavora e parla sorridendo. È molto gentile e professionale. Mi viene voglia di baciarla.
Mi presento al commissariato. Stringo in mano il verbale del giorno prima. Il poliziotto lo guarda e mi dice di prendere il numero. Ancora il numero. Ho il ventuno e il display segna il numero otto. Qui il popolo è diverso. Ci sono un paio di prostitute assonnate che non vogliono spegnere le sigarette. C’è il piccolo spacciatore nero con i grandi occhi sbarrati. Non so se dalla paura o dalla droga. Ci sono dei marocchini e altri che dalla parlata mi sembrano romeni. Hanno tutti gli occhi bassi a meditare. C’è anche un signore e una signora distinti. Probabilmente sono il padre e la madre di qualche deficiente minorenne che si è fatto beccare con la roba. Sembrano molto in ansia. Quando tocca a me entro in un ufficio come quelli che ho visto decine di volte al cinema. È proprio uguale. C’è il commissario seduto dietro la scrivania e il poliziotto in un angolo che batte il verbale seminascosto dietro ad un grosso monitor. Anche la lampada sulla scrivania del commissario pare proprio quella dei film. Il commissario ha il viso di un contadino meridionale. Ha le dita imbrattate di nicotina e negli occhi una gran voglia di un caffè e di una sigaretta. Non mi dice di sedermi e io rimango in piedi. Prende il foglio del verbale e legge il mio nome e cognome. Come succede di solito anche lui mi storpia il cognome. Lo correggo gentilmente, lui alza gli occhi e mi guarda seccato. Forse mi ritiene responsabile di avere un cognome simile. Quando gli spiego come ieri mi sono trovato in mezzo a quei disordini mi guarda annoiato e scettico. Poi mi fa un discorso a metà tra l’ultimo avvertimento ad un anarchico e una sgridata ad un bambino che ha guardato sotto al vestitino della compagna di banco. Mi accorgo che sono vicino al palazzo Montrucchio Carignano. Ne subisco il fascino. Sento qualcosa che mi attira. Entro. La gente mi guarda. All’inizio sono preoccupato poi mi ricordo che ho la testa fasciata. Alla cassa vendono un volumetto illustrato con la vita e le opere del Conte. Costa venti euro. Non lo compro. Sono dei ladri. Giro per i saloni e osservo tutto con più attenzione della volta precedente. Noto uno sgabuzzino in un angolo. Senza farmi scorgere lo apro. Dentro ci sono delle scope e uno scaffale con dei flaconi di detersivo. Guardo dietro le tende. C’è tanta polvere e tanta immondizia. Alla faccia della donna delle pulizie! Ma intanto noto che dietro alle tende una persona può nascondersi.
In fondo al corridoio, dalla parte dei servizi, c’è una scala con le ruote coperta da un telo. Serve, senz’altro, per spolverare i lampadari, i quadri e lavare le vetrate. Faccio un giro in giardino. Le aiuole dai disegni barocchi sono curate. In fondo al giardino appoggiata al muro di cinta c’è una grossa glicine fiorita e profumata. o a comprare il sale perché temo che Centaurea se lo dimentichi. Lei mi sta aspettando perché vuole farmi assaggiare una nuova miscela di the. Me lo serve bollentissimo. È un misto tra l’alcol per disinfettare, l’estratto di eucalipto e la resina per verniciare i serramenti in legno. Le racconto il mio piano per cercare lo smeraldo negli occhi verdi. Quando lei si gira vuoto il the nei ciclamini di Lost. Il mio piano la entusiasma. Mi abbraccia e mi fa un po’ male alla testa. Si scusa e per farsi perdonare mi spolvera delicatamente la spalla da una forfora che non c’è. Prepara due canne mentre io accendo il televisore. Il sale lo ha acquistato anche lei. Due pacchi. Adesso abbiamo sale per almeno sei mesi. Scendo giù a portare l’immondizia. Nel cassonetto c’è sempre il grosso ratto. Mi chiedo come possa vivere così indisturbato in mezzo alla popolazione di gatti randagi che vive nel cortile. Secondo me paga il pizzo. Oppure è troppo grosso e nessuno ha il coraggio di dargli la caccia. Centaurea mi dice che l’acqua della doccia viene fredda.
CAPITOLO XI
Il rumore della porta che sbatte mi sveglia. È Centaurea che è uscita e come al solito ha sbattuto la porta. In cucina regna il solito disordine. Come temevo i ciclamini sono morti. Sono piegati a metà come colpiti da una pallottola. Domani è il compleanno di Centaurea e ho deciso di regalarle un nuovo vaso di ciclamini. C’è silenzio in casa, uno strano silenzio, al quale non sono più abituato da quando è arrivata Centaurea e i suoi animali. Poi mi accorgo che mancano appunto gli animali. Ho un brutto presentimento. Non vorrei che li avessero rapiti i condomini con un blitz guidati dalla portinaia. Ma proprio mentre l’ansia si sta impossessando di me Centaurea entra dalla porta. Ha il gatto in braccio e una borsa di nylon in mano. Le chiedo se ha visto il cane. Mi guarda spaventata e posa il gatto e la borsa. Mi dice che deve averla seguita quando è scesa per andare dal panettiere sotto casa. “Forse ho lasciato la porta socchiusa” mi dice sedendosi affranta su una sedia. “Quando mi sono alzato la porta era chiusa” dico io per tranquillizzarla. Ma lei è terrorizzata, non si dà pace. Dice che forse era socchiusa il cane è uscito e poi il vento l’ha chiusa del tutto. Piange, si dispera. Un attimo cammina per la stanza e un attimo dopo si siede. Lo fa ogni dieci secondi. Poi mi prega di scendere a cercarlo. Mi vesto e scendiamo. Non mi sono lavato e ho la barba lunga. Anche lei non è truccata. Mi fa pena. Quando o davanti alla camera a gas della guardiola ho l’impressione che la portinaia mi guardi con un ghigno di soddisfazione. Se ha fatto del male al cane giuro che l’ammazzo! Non che me ne importi del cane, è solo per avere una scusa per ammazzarla. Andiamo al mercato del pesce, facciamo un giro minuzioso, ma non lo troviamo. Poi andiamo ai giardini pubblici. Vediamo tanti cani ma del nostro nessuna traccia. Centaurea è distrutta. Piange. Giriamo tutta la mattinata ma del cane nessuna notizia. Centaurea mi trascina di corsa a casa. Dice che le è venuta un’idea. Prende una foto del cane e scrive con il computer a caratteri cubitali: “Smarrito!!! Lauta
mancia per chi lo ritrova. Telefonare a…” Le chiedo gentilmente quanto sia lauta quella mancia e se ce la possiamo permettere. Mi guarda con sdegno. Non oso controbattere. Andiamo in cartoleria e facciamo un centinaio di fotocopie. Devo tornare a casa perché i soldi non mi bastano. Forse tra lauta mancia e fotocopie ci conveniva comperarne un altro di cane. Anche perché al canile municipale mi hanno detto che te li regalano i cani. Ma l’affetto? Dove lo metti l’affetto? È sempre l’affetto che ti frega. Andiamo in giro ad attaccare i manifesti con la foto del cane. Centaurea non parla. Non è mai stata bella ma adesso sembra proprio uno straccio. Mi fa comione. Lei torna a casa e io faccio un giro al giornale. Lost sta uscendo. Lo saluto e facciamo un pezzo di strada insieme. Gli racconto del cane. Mi dice di non preoccuparmi che i cani ritornano sempre a casa. Se non li ammazzano. “Ecco”, penso, “se stavo zitto era meglio. Brutto vecchiaccio della malora.” Faccio un giro per far venire ora di cena. Ho fame. Mi accorgo solo ora che non ho fatto pranzo. Le giornate si sono già allungate parecchio. I piani alti dei palazzi sono ancora illuminati dal sole. I manichini delle vetrine sfoggiano già vestiti estivi. Alcuni sono addirittura in costume da bagno. Mi fanno un po’ senso, come se avessero freddo. Cerco un fioraio. Ho deciso di portare stasera il vaso di fiori a Centaurea. Magari questo le tirerà un poco su il morale facendole dimenticare per un attimo il cane. Vedo il negozio del fioraio. Sulla vetrina c’è scritto: “Ditelo con i fiori”. Poi alzo gli occhi e leggo l’insegna. “Macelleria”. Proprio così. Sopra la porta, con grosse lettere rosse, sta scritto “ Macelleria”. Entro. Mi accoglie il suono melodioso di tanti piccoli cilindri di acciaio appesi al soffitto che la porta spalancandosi ha colpito. Mi ritrovo in una specie di giungla amazzonica piena di piante tropicali. Il profumo è nauseante. Dietro al bancone c’è un individuo avvolto in un camice azzurro che mi guarda in modo interrogativo. Non mi saluta. Lo saluto io per dimostrargli che sono un tipo educato e gli chiedo se vende fiori.
“Mi sembra ovvio” mormora tra i denti quello che effettivamente sembra più un fioraio che un macellaio. Gli chiedo come mai sull’insegna ci sia scritto “Macelleria”. “Evidentemente perché prima di me c’era una macelleria.” Mi risponde dandomi velatamente dell’ignorante e del rompicoglioni. “E tu hai litigato con il muratore che ti ha mandato a quel paese e non ti ha più smurato la vecchia insegna” vorrei dirgli, ma mi trattengo e lo guardo con sufficienza. Il fioraio è un tipo alto e magro con la faccia lunga. È un misto tra Tarzan e un farmacista. Mi guardo in giro e non vedo fiori. Ci sono solo piante in quello stramaledetto negozio e oltretutto piante alte e grandi. Non voglio regalare una pianta a Centaurea, voglio regalarle un vaso di ciclamini come quelli che sono spirati. Chiedo, il più gentilmente possibile al farmacista, pardon al fioraio, se mi può dare un vaso di ciclamini, possibilmente bianchi. “Ah! Il signore desidera un vaso di ciclamini”, mi risponde il fioraio incrociando le braccia e guardandomi con comione come si guarda un deficiente, “e li vuole pure bianchi. Se proprio insiste glieli posso prenotare per l’anno prossimo, signore.” Quel signore pronunciato a quel modo mi colpisce come uno sputo in un occhio. E la frase completa invece mi dice: “Ignorante e rompiballe. Non lo sai che i fiori hanno una loro stagione e quella dei ciclamini, compreso quelli bianchi, è finita da un pezzo?” “No! Non importa. Mi fa vedere, per cortesia, qualche altro vaso di fiori?” gli domando cercando di rimanere il più calmo possibile. “È rimasto solo più quello lì” mi dice indicandomi un vaso seminascosto dalla flora equatoriale. Il vaso è grande come un comodino. Contiene una pianta con grandi foglie verdi e dei fiori rossi che ricordano vagamente la forma di un cuore. Da ogni fiore si alza una specie di grosso pistillo rosso che sembra il dito medio di una mano nel caratteristico gesto che vuol dire “fottiti”.
“Si chiama Nasturzio” mi dice il fioraio vedendomi titubante, “è un fiore che è molto di moda.” “Sarà”, penso, “ma quel pistillo alzato mi lascia un po’ perplesso.” “E quanto costa?” chiedo ancora alla faccia da farmacista. “Guardi, perché è lei, le faccio cinquanta euro” mi risponde Tarzan. “Perché sono io! E chi sono io se neanche mi conosci? E se io non lo prendo e dopo di me entra una signora carina le dici la stessa cosa ma glielo dai a quaranta. O addirittura a trentacinque. Porco bastardo. Contrattare. In questi casi e con questi individui bisogna tirare sul prezzo. Non ti lasciano andare via. Sono dei disonesti ma non sono scemi. Contrattare! Contrattare!” “Senta il vaso è un pochino grande” gli dico appoggiandomi al bancone del fioraio allo stesso modo con il quale John Wayne si appoggiava al bancone del saloon, “e poi quel Masturbio o come diavolo si chiama, con quel grosso pistillo rosso levato in aria non è che mi piaccia un granché. Però visto che pago subito e pago in contanti se me lo lascia a quaranta euro lo compro lo stesso.” La sua faccia prende una sfumatura tra il rosso, il viola e il blu. Mi ricorda un tramonto vicino all’ora del crepuscolo. “Nasturzio! Zotico. Nasturzio!” mi grida l’uomo-scimmia e intanto agguanta un grosso paio di forbici sul bancone. “Cosa credi che io sia qui per essere insultato da te?” “Brutto segno quando un commerciante incomincia a darti del tu” penso. “Questo è un negozio con una lunga tradizione di serietà e competenza” continua a urlare il fioraio. Mi pare di vedere un po’ di fumo che gli esce dalle orecchie. Una tradizione talmente lunga che non ce l’hai ancora fatta a togliere l’insegna “Macelleria”, penso tra me e me. “Sai cosa ti dico?” prosegue intanto il fioraio sventolandomi il grosso paio di forbici davanti al naso, “che se vuoi quel Nasturzio adesso devi sborsare sessanta euro altrimenti esci e vai a fare in culo e mi lasci lavorare che devo servire gli altri clienti!”
“Gli altri clienti? Ma se ci siamo solo io e te in questa merda di negozio!” penso guardandomi in giro. Ed è allora che lo scorgo. Sotto al termosifone in mezzo alla foresta c’è un grosso cane rossiccio, l’incrocio tra un cane lupo e un'utilitaria. Mi sta guardando in cagnesco - e del resto come vuoi che guardi un cane? - e ha scoperto i denti in una smorfia che secondo me non è un sorriso. Vorrei girarmi e scappare. Ma sono sicuro che l’uomo della giungla mi lancerà le forbici nella schiena e poi mi farà sbranare dalla belva. Mi viene in mente che potrebbe essere lo spunto per un mio romanzo. Poi mi do del cretino e mi rassegno. Pago e esco con il mio cespuglio di quegli stramaledetti fiori rossi con il dito medio alzato. Penso che non tirerò mai più sul prezzo. Dello scontrino fiscale neanche l’ombra. Bastardo di un evasore! Ma almeno togli la scritta “Macelleria”! Pezzente! Quando entro in casa mi accoglie uno strano profumo. Chiedo a Centaurea cosa sta cucinando e lei mi risponde che ha fatto lo spezzatino. Buono, penso, peccato per quel profumo delle solite spezie. Faccio gli auguri e consegno il vaso a Centaurea ma lei non lo degna di uno sguardo. Sta piangendo. Cucina e piange. Mi rassegno e mi siedo. Lo spezzatino arriva quasi subito in tavola. Ha un brutto aspetto. Sono cubetti di carne che nuotano in una salsa tra il marron e il rossastro. Mi sembra di conoscere quell’agglomerato di carne e verdure. Alzo gli occhi e guardo il gatto. Lui, come se sentisse il mio sguardo, si gira e mi fissa. È come se mi chiedesse se non ho mai visto un gatto mentre sta mangiando. Mi odia, lo so. Anch’io lo odio. Guardo nella sua ciotola. C’è lo stesso mio spezzatino. Solo che il suo è freddo e non contiene zenzero, cumino o, il diavolo se le porti, quelle stramaledette erbe aromatiche. Non oso pensare che questo sia lo spezzatino che era destinato al cane. Guardo Centaurea. Ha la testa bassa e fa girare svogliata con la forchetta un pezzo di carne nel piatto. Sta piangendo. Faccio il commosso anch’io. Razzolo un po’ nello spezzatino poi dico che non riesco mangiare. Ho lo stomaco chiuso. Fa cenno col capo che mi capisce. Le dico che esco a prendere un po’ d’aria. Vado a mangiarmi una pizza altrimenti fra un po’ svengo dalla fame. Quando rientro Centaurea è gia coricata. Le chiedo se vuole fumare ma non mi risponde. Sento che sta singhiozzando.
CAPITOLO XII
Del cane ancora nessuna notizia. Centaurea è avvilita e abbattuta. Non parla e non mangia. Vado a farmi medicare e mi tolgono la benda dal capo. Adesso ho soltanto più un vistoso cerotto. o al giornale. Lost mi saluta al solito modo. Gli “offro” una sigaretta e lui sfoglia il giornale con la stessa delicatezza che ebbe per sfogliare un volume del Cinquecento. Mi viene il dubbio che il giornalaio glielo presti solamente il giornale e che alla sera glielo debba restituire. Poi però mi viene in mente che fa il sudoku. Dopo la lettera anonima ricevuta dalla famiglia più nessuna notizia della ragazzina scomparsa. Lost dice che questo non è un buon segno. Le popolazioni di alcuni stati nordafricani si ribellano alle dittature dopo il rincaro esagerato del prezzo dei generi alimentari. “Ci risiamo con il popolo” incomincia Lost con tono graffiante, “questi dittatori che adesso odiano, che vogliono far cadere e fare a pezzi, sono quelli che lo stesso popolo ha portato al potere con la rivolta precedente. E dopo questa rivolta saliranno al potere altri dittatori che faranno le stesse identiche porcherie dei loro predecessori. Anche questi dopo un po’ di tempo saranno abbattuti e così via. Tanto il popolo è sempre quello e i furbi, gli opportunisti, i dittatori e i tiranni, anche.” Io intanto guardo angosciato quelle fotografie inquietanti. Ci sono dei corpi che giacciono a terra con dei carri armati sullo sfondo. C’è la fotografia di una piazza piena di gente all’inverosimile. Quelli in primo piano sono senza denti. Chissà perché in tutte le fotografie di gente che contesta qualcosa quelli davanti sono sempre senza denti. Forse sono sempre i medesimi in tutte le contestazioni. Qualcuno è salito sopra a un monumento. Ci sono alcuni bambini che guardano due auto che stanno bruciando. “Tutte le rivoluzioni hanno partorito prima dei leader e poi una dittatura” continua Lost, “vedi ad esempio il Cristianesimo. Dopo che il suo leader è stato
crocifisso cosa ha partorito? Il Cattolicesimo e il Papa. Prendi ad esempio la rivoluzione più classica, quella se, la rivoluzione per antonomasia. Dopo aver tagliato la testa ai reali chi ha acclamato il popolo come suo conduttore? Un imperatore. E i leader della rivoluzione? Decapitati. E la tragica rivoluzione russa cosa ha partorito? Il comunismo. E i leader della rivoluzione? Uccisi o deportati. E che cosa hanno prodotto le rivoluzioni dei paesi sudamericani o africani? Tante feroci dittature. Te ne posso citare decine e decine di rivoluzioni. Sono sfociate tutte in una dittatura. L’uomo ha sempre bisogno di uno che lo comandi, che lo guidi, che gli dica cosa deve fare, come deve agire. L’uomo da solo non vale niente. Anche un dittatore lasciato solo non conta più niente. Solo quando il popolo è folla, è massa, sprigiona la sua forza. Guarda queste fotografie. La folla è un vero tsunami, travolge tutto, non ci sono ostacoli che la fermano. E pensare che c’è un cervello solo che la comanda, che la dirige. Immagina se questa folla invece di usare solo le braccia usasse anche il cervello. Immagina se quei cervelli si unissero e si aiutassero l’un l’altro per pensare. E togliessero i politici, la mafia, la Chiesa, i Pm. Non ci sarebbero più guerre, odio, ingiustizia, ignoranza, miseria, fame.” “È un mondo meraviglioso quello che sogni” dico sospirando. “No! È solo utopia” conclude Lost chiudendo il giornale. Telefono a Centaurea e le dico di raggiungermi al giornale. Dice che non ne ha voglia. La sento abulica e stanca. Per forza, non mangia e non dorme, singhiozza soltanto. Se non troviamo quel maledetto cane ho paura di perderla. Intanto il mio cervello ha smesso di essere razionale. Non riesce più a concentrarsi. Ha smesso di mandarmi pensieri coerenti. Adesso mi manda dei piccoli flash. Così per un attimo vedo Centaurea che piange, un attimo dopo vedo il cane che torna a casa e bussa alla porta e dopo un attimo ancora vedo lo smeraldo. Poco fa ho in un flash ho visto Centaurea che portava il cane al guinzaglio e il cane stringeva tra i denti lo smeraldo. Forse sto impazzendo. Poi però me la vedo comparire davanti. Fa schifo. Oltre a non mangiare e a non dormire, non si lava e non si pettina. È mal vestita, sembra una pazza. Ha gli occhi rossi e i capelli unti. Sembra appena uscita da un incidente stradale. Le dico che voglio mettere in atto la prima parte del mio piano. Non colgo nessun cambiamento di espressione.
Prendiamo il tram. Questa volta compro i biglietti e li oblitero anche. Il tram si riempie ma nessun altro lo fa. Non sale nessun controllore. Mi sento stupido come quando ho pagato la multa. Scendiamo davanti all’ingresso della casa museo. Ci sediamo in un bar. Questa volta il bar è lindo e il personale è simpatico e professionale. Centaurea è una nota stonata. Me lo dicono le occhiate che ci rivolgono gli altri clienti e lo stesso personale. Le dico di aspettarmi mentre io entro nella casa museo Montrucchio Carignano. Non sono sicuro che abbia capito. Attraverso la piazzetta ed entro nel palazzo. La ragazza addetta alla cassa mi dice che manca solo mezz’ora alla chiusura e mi prega di uscire quando suonerà la camla. La ringrazio e la tranquillizzo dicendole che devo solo rilevare una data. Mi ringrazia con un sorriso luminoso fatto con le labbra e con gli occhi. È carina. Chissà se è bella anche nel fisico. Entro nel primo salone che trovo. È quello che ha lo sgabuzzino delle scope. Questo piccolo locale è ricavato sotto lo scalone che porta al piano superiore. Giro un po’ facendo finta di osservare e prendere appunti. Il tempo non a, sembra essersi fermato. Poi piano piano la gente incomincia ad uscire. Aspetto fino all’ultimo momento poi mi nascondo dietro ad una tenda. È piena di polvere e sotto i piedi sento un mucchietto di immondizia. Sento suonare la camla, ho paura. Da una fessura vedo uscire gli ultimi ritardatari. Adesso non sento più niente. C’è un silenzio da panico. Penso che il silenzio di un museo chiuso non abbia riscontro. Penso sia paragonabile solo all’interno di una cassa da morto. Mi sembra addirittura di sentire il rumore dei miei pensieri. Poi sento un rumore leggerissimo. È il custode che come tutte le sere compie il giro di controllo. Sembra una creatura partorita da quel silenzio. Si muove furtivo. Non produce quasi rumore. Controlla che le finestre siano chiuse, chiude un libro lasciato aperto su un tavolo, alza gli occhi e lancia uno sguardo in giro per il salone. Ho una paura tremenda. Ho paura di battere i denti per la paura. È da quando ero un ragazzino che non provo una paura simile. L’ho provata quella volta che con due amici sono andato a rubare le ciliege. Ero appena salito sull’albero e i miei amici ci stavano provando, quando ho sentito delle urla piene di rabbia e ho visto arrivare di corsa un contadino con un bastone in mano. Davanti al contadino stava correndo un grosso cane. Il cane abbaiava in modo
stupido ma sembrava arrabbiato pure lui. I miei amici sono fuggiti a gambe levate. Il cane li ha inseguiti mentre il contadino si è fermato ormai esausto sotto l’albero. Ho paura che alzi la testa e mi veda. Anche allora avevo paura che si sentisse il rumore del battito dei miei denti. Dopo un po’ è ritornato il cane. Il contadino lo ha accarezzato mormorando qualche complimento. Il grosso cane gli ha girato attorno dimenando la coda. Speravo che non sentisse il mio odore e alzasse il muso mettendosi ad abbaiare. Poi è successo che il contadino si è seduto e il cane si è accucciato di fianco. Speravo non si fermassero per tanto tempo perché a furia di stare immobile avevo le gambe che mi facevano male. E speravo che al contadino non venisse in mente di alzare gli occhi per vedere se le ciliegie erano mature. Era capace di farmi scendere a bastonate e farmi mangiare dalla belva. Avevo paura. Avevo tanta paura. Sentivo le forze che mi abbandonavano ma, proprio mentre stavo per lasciarmi cadere, i due se ne sono andati. Nessuno dei due aveva alzato il muso in aria. Non so se era più stupido il cane o ignorante il padrone. Adesso ho anche paura che questa polvere metta in moto gli starnuti della mia allergia. Mi stringo il naso tra il pollice e l’indice così forte che a momenti grido per il dolore. Intanto osservo il custode. È un ometto mingherlino. Spero non sia un campione di arti marziali. Sembra zoppicare leggermente, forse è un invalido. Secondo me è già in pensione ma lavora ancora in cambio dell’alloggio. Ha un berretto con visiera che gli nasconde parte del viso ma che lascia intravedere un paio di baffi grossi, spessi e grigi. Poi lo sento controllare le altre finestre e infine lo sento salire lo scalone per il primo piano. Sento la porta del suo alloggio richiudersi e il rumore degli scatti della serratura. Aspetto ancora un paio di minuti perché abbia il tempo di inserire l’antifurto. Esco. Il movimento mio e della tenda fanno scattare l’antifurto. Una sirena elettronica lampeggiante e assordante scatta quasi subito. Mi dirigo alla finestra, la apro e salto in giardino. Mi metto a correre tenendomi il più possibile nascosto dalla siepe, verso il fondo del giardino, verso la glicine. Intanto sento urlare le sirene della polizia chiamate in automatico dall’antifurto. Mi arrampico sulla glicine e mi nascondo tra le foglie e i fiori. Sono molto
profumati. Faccio sforzi enormi per non starnutire. Maledetta allergia! Le auto della polizia ano vicinissime proprio sulla strada che c’è sotto di me. Dopo un po’ vedo le finestre che si illuminano. Vedo le ombre andare avanti e indietro davanti alle finestre. Guardano in tutte le sale. Poi si fermano al piano terreno. Hanno trovato la finestra aperta. Li vedo discutere con il custode. Il custode giurerà di averla chiusa quella maledetta finestra e di non spiegarsi come mai adesso sia aperta. I poliziotti lo staranno guardando con scetticismo raccomandandogli di fare più attenzione. Penso alla rabbia di quel povero uomo. Mi fa un po’ comione. Poi le luci si spengono, le auto della polizia riano sotto di me e la notte inghiotte gli ultimi curiosi. Aspetto che non ci sia nessuno e facendomi penzolare mi lascio cadere sul marciapiede. Entro nel bar. Centaurea mi attende con la preoccupazione disegnata sul volto. Mi siedo e le racconto il tutto. Mi guarda con attenzione e mi chiede se ho avuto paura. Le dico che quello che ho provato non si chiama più paura ma terrore. Mi fa un sorriso e mi dice che anche lei ha avuto tanta paura. È un po’ di giorni che non la vedo sorridere, forse le ho fatto dimenticare il cane. La mia è una falsa illusione. Dopo pochi secondi ripiomba nella sua apatia. La porto a mangiare una pizza nella pizzeria sotto casa nostra. Tanto così per distrarla e per mangiare qualcosa. Da quando è sparito il cane lei non cucina più. Abbiamo già finito tutte le scatolette di carne e di tonno e tutti i pacchetti di fette biscottate. Siamo seduti al tavolo che aspettiamo le pizze. Siamo avvolti nel piombo di una nuvola di avvilimento e di spossatezza. Le racconto una barzelletta per tirarla un po’ su e lei si mette a piangere. Non sono mai stato bravo a raccontare le barzellette ma così lei esagera. Entra una coppia di ragazzi giovani e riconoscono Centaurea. Si avvicinano al tavolo e lei li saluta e me li presenta. Sono stati suoi compagni all’Università. Lui è un bel ragazzo ma ha la faccia da secchione. Lei non è bella ma ha tutto quello che piace ai maschi. È ben fatta anche se le sue curve sono un po’ troppo accentuate. Ha la faccia libidinosa, da maiala. Ho l’impressione che sia morbida, la sua pelle è vellutata come una pesca. Ha anche il colore di una pesca. Mi viene una voglia matta di morderle dentro, di berla. Come un succo di frutta. Mi fa venire in mente la prima volta che ho fatto l’amore. La donna era una
contadina e faceva la badante a mia madre. Io avevo più o meno diciassette anni. Lei ne aveva almeno il doppio di anni. Mi ricordo quel pomeriggio. Lei voleva insegnarmi a ballare, eravamo soli in casa. Mia madre era andata a fare la solita partita a bridge con le amiche. Lei aveva una gonna corta e stretta e una camicetta sbottonata. Quando mi abbracciò per insegnarmi il tango sentì la mia erezione. Mi guardò divertita e si mise a ridere. Poi si sbottonò ancor di più la camicetta, mi prese una mano e mi fece toccare i seni. Sentivo che in mezzo alle gambe stavo per scoppiare. Allora lei mi disse di seguirla in camera sua e io salii le scale dietro di lei. Vedevo il suo fondo schiena che si dimenava davanti a me e rimasi come ipnotizzato. Poi lei si spogliò e si coricò sul letto. Mi disse di spogliarmi e di venire sopra di lei. Mi spogliai in un attimo e salii sul letto. Lei rise e mi attirò sopra di sé e io sentii il suo odore, sentii il suo corpo, sentii le sue carezze e la sua lingua dentro la mia bocca. Baciai e accarezzai i suoi seni grandi e sodi con i capezzoli grossi, duri e scuri come due prugne. Poi cercai con una mano di orientarmi nel triangolo di peli neri che lei aveva in mezzo alle gambe. Lei continuò a ridere poi mi aiutò e io entrai dentro di lei impazzendo di piacere. Sentivo di morire di piacere. Dopo pochi secondi mi abbandonai sopra di lei esausto. Mentre ci rivestiamo mi sorse un dubbio atroce. Speravo di non averla messa incinta. Glielo dissi e lei si mise a ridere come una matta e mi disse di stare tranquillo. Sì, questa ragazza mi ricorda tanto quella contadina. Facendo l’indifferente mi informo cosa fa nella vita. Studia, ma non capisco in cosa diavolo voglia laurearsi. Sta per dare una tesi sui geroglifici dell’antica scrittura egiziana. Anche lui mi dice che studia ancora. E chi se ne frega cosa fa lui! Mi dice che vuole laurearsi nella scienza che studia i canti funebri nelle antiche civiltà e sta per dare una tesi sui canti funebri dei Maya. Io, che mi sono laureato in giurisprudenza e sbarco il lunario scrivendo libri gialli, mi domando come farà il secchione a mantenere una famiglia con i canti funebri degli antichi Maya. Forse con lo stipendio della moglie che si impiegherà all’Enel e si specializzerà nell’arte di decifrare le bollette. E mi domando come possa essere un bambino
che nasca da due individui simili. E, soprattutto, come guarderà i suoi genitori quando incomincerà a capire qualcosa. In un mondo che sta cercando energie alternative al petrolio, in un mondo di disoccupati e cassintegrati, in un mondo dove la gente muore di fame e di malattie, come si può avere una ambizione simile? Lost sta influenzando il mio modo di pensare. Però mi faccio dire dalla morbidona dove abita.
CAPITOLO XIII
I disordini nel nord Africa proseguono. Si intensificano e si espandono a macchia d’olio. Lost dice che secondo lui dietro a questi poveri disgraziati che si fanno sparare addosso ci sono i servizi segreti di qualche potenza straniera. Della ragazzina scomparsa nessuna notizia. Ci sono due pagine corredate di fotografie sul caso della marocchina e del potente uomo politico. “Queste due pagine tolgono il posto a due pagine di denuncia dei problemi che incombono sulla nazione. Si cerca di non far pensare il popolo. Si cerca di intrattenerlo con il “gossip” mormora Lost tra i denti, “c’è anche un articoletto curioso in cronaca cittadina”, prosegue, “dice che ieri sera dopo la chiusura è scattato l’allarme alla casa museo Montrucchio Carignano. La polizia subito intervenuta ha trovato una finestra aperta sul lato cortile. Nonostante una minuziosa ispezione non è stata trovata traccia di effrazione. Il custode giura di averle chiuse tutte le finestre e dopo un esame sommario dice che pare non manchi nulla. Oggi effettuerà un inventario più accurato. Secondo me il custode ha dimenticato una finestra aperta e il vento l’ha fatta sbattere.” “Chissà perché mi ha letto proprio quella notizia”, penso, “in fondo è una notizia senza nessuna importanza. E poi ho notato che mi fissava. Non mi guarda mai quando legge o commenta le notizie. Come mai questa volta si è voltato a guardarmi? O forse è soltanto la mia paura che mi suggestiona facendomi trasformare in sottili allusioni dei semplici gesti e delle normali parole.” Trascino i miei dubbi fino al tavolo più vicino, apro il computer e cerco di mettermi a scrivere. Sono indietro sulla mia produzione. Gli ultimi avvenimenti mi hanno impedito di scrivere. Ho già intaccato la piccola riserva che mi ero creato. Anche adesso, quello che ho vissuto ieri sera mi occupa il cervello e spinge via le altre idee. Mi ritrovo a rivivere quegli avvenimenti fissando il soffitto.
Al tavolo accanto al mio sono seduti due ragazzi. Devono avere più o meno la mia età. Uno è un africano nero e lucido come l’ebano. L’altro è biondo come uno svedese, bellissimo, con grandi occhi azzurri e uno sguardo da bambino. Scherzano. Parlano in inglese. Dalle battute capisco che sono omosessuali. Ogni tanto si accarezzano e si baciano sulle guance. Io non ho niente contro gli omosessuali ma penso che il loro amore faccia soffrire, faccia male, sia doloroso. E non solo sentimentalmente. Li guardo di sfuggita. Non voglio che si accorgano che li guardo. Arriva la telefonata di Centaurea. “Hanno rintracciato il cane” mi dice, “è dall’altra parte della città. Vengo al giornale. Cinque minuti e arrivo.” Parla in modo concitato. Il suo respiro è corto e affannato. Sembra uno che sta per soffocare. Ma si sente che è contenta, emozionata e contenta. Arriva, è trafelata per la corsa. È pettinata e truccata. Sono contento. Mi fa piacere che esca con me ordinata come una zingara e che invece si pettini e si trucchi per incontrare il cane. Forse ha paura che il cane non la riconosca. Prendiamo un taxi e attraversiamo tutta la città. Scendiamo e pago il taxi. Forse mi conveniva venire con un jet privato. Ad attenderci c’è un ragazzo in canottiera e pantaloncini corti. È brutto e grasso. Ha qualcosa di indisponente. Ci dice di seguirlo. Siamo in una periferia di prati, rifiuti e case popolari. Ci avviciniamo al grosso tendone di un circo. Il ragazzo parla con un uomo che ci squadra da capo a piedi e poi annuisce con il ragazzo. Entriamo in mezzo ai carrozzoni del circo. Ci sono un mucchio di ragazzini che si rincorrono. Alcune donne lavano i panni in grossi mastelli di legno. Cantano. Una di loro rovescia il mastello proprio davanti a noi. Dobbiamo fermarci per non venire inondati. Alcuni vecchi sono seduti sui gradini dei carrozzoni e fumano la pipa. Sono immobili. Se non fosse per il fumo che buttano davanti a loro sembrerebbero già morti. Il nostro cane è là coricato all’ombra di un carrozzone. Accanto a lui c’è una cagnetta un poco più grande di una pantofola. La cagnetta al nostro apparire abbaia. Il nostro cane non fa una piega e si limita ad abbassare le orecchie per dirci che ci ha riconosciuti. “Cos’è tutto questo entusiasmo?” vorrei gridargli, ma mi limito a unirmi a
Centaurea che lo sta accarezzando. Intanto il ragazzo mi spiega che lo ha riconosciuto dalla fotografia appesa in un bar. La cagnetta è sua e lavora nel circo come ballerina. Esegue un numero molto bello e spettacolare. Con altre sei cagnoline, tutte vestite con i tutu bianchi, ballano “Il lago dei cigni” di Tchaikovsky. Il ragazzo aspetta la “lauta” mancia. Lo si capisce da come mi guarda. Mi avvicino e apro il portafoglio. Mi sono rimasti dieci euro. Li tiro fuori e glieli faccio vedere ma lui gira lo sguardo intorno facendomi capire che non sono sufficienti. Gli dico che ho solo quelli e gli faccio vedere il portafoglio vuoto. Li prende schifato e mi guarda con disprezzo. Ma si può sapere una volta per tutte quanto è una lauta mancia? E trovate giusto che io debba spendere un capitale per riportare a casa quel figlio di un cane che ha pensato bene di scappare con una puttana di ballerina? E poi mi spiegate come cavolo hanno fatto a fare sesso lui, grosso come un baule e lei un poco più grande di un gomitolo di lana? Il cane non può salire sui mezzi pubblici e soldi per il taxi non ne ho più. Non ho più un centesimo. Ci avviamo a piedi. Saranno almeno dieci chilometri da qui a casa nostra. iamo davanti ad un mendicante. È storpio e senza un occhio. Però anche la natura quando si mette! È attorcigliato sopra un tappeto lurido. Davanti a lui ha un cappello con delle monete. Ho voglia di derubarlo. Lo dico a Centaurea che mi guarda di traverso. Lascio perdere. Centaurea è raggiante. Ride forte e canticchia il solito motivetto inglese. Quando finalmente entriamo nel nostro cortile Centaurea, raggiante, mi dice che per festeggiare preparerà il risotto. Ho l’impressione che a sentire la parola risotto i gatti randagi si siano fermati a guardarci schifati. Forse mi hanno riconosciuto e si ricordano del risotto precedente. Cerco di salvarmi dalla minaccia del risotto. Le dico che forse sarebbe meglio festeggiare tutti e tre cane compreso in pizzeria. Dice che è un’ottima idea mi butta le braccia al collo e mi bacia. Quando sono sicuro di averla scampata per il rotto della cuffia Centaurea si ferma e mi dice che non possiamo lasciare a casa il gatto da solo. Anche perché, mi spiega, non ha neanche mangiato pranzo. Mi domando fino a quando riuscirò a resistere. Dipende dai risotti. In pizzeria Centaurea mi ringrazia del vaso che le ho regalato per il suo
compleanno. Era ora! A momenti sono già di nuovo seccati i fiori. Mi chiede come si chiamano quei fiori che lei definisce bellissimi. Un po’ strani ma bellissimi. Mi viene in mente “Masturbio” e preferisco dire che l’ho dimenticato. “Chissà quanto ti è costato un vaso grande così e con dei fiori simili” mi chiede Centaurea stringendomi il polso. È tanto cara quando fa così. Il cane ringhia. Non vuole che Centaurea mi accarezzi, quel brutto coso disonore della sua specie. “Beh, sai”, rispondo, “io sono uno che sa tirare sul prezzo e ho detto a quella sanguisuga con la faccia da farmacista che o me lo dava al prezzo che volevo io oppure se lo poteva tenere, il suo vaso.” “A me non piacciono quelli che tirano sul prezzo” mi risponde lei contrariata, “trovo che fa tanto mercato arabo, mercato del bestiame. A me piace credere nell’onestà e nella serietà del negoziante. Contrattare fa tanto buzzurro e cafone.” Vorrei tanto morderla sul collo!
CAPITOLO XIV
È venuto di nuovo l’idraulico firmato come una cambiale. Ha lavorato un po’ con il suo assistente di colore e mi ha detto che ha cambiato una valvola che ha un sacco di vie. Non sapevo che le valvole di una caldaia avessero le vie come i quartieri di una città. Per pagarlo devo andare a prelevare al bancomat. L’idraulico e il suo assistente mi accompagnano gentilmente e mi aspettano per paura che scappi all’estero. Speriamo almeno che funzioni. Lo avevo pregato di venire di sera, quando la doccia esce fredda, ma mi è stato detto che la tariffa notturna è doppia. Arrivo al giornale sbattuto e demoralizzato. Non ce la faccio neanche ad arrabbiarmi. “Hanno ucciso due militari italiani in Afghanistan” mi dice Lost chiedendomi la Marlboro. “Bastava non mandarli” dico io, porgendogli il pacchetto, “per non piangere poi sul latte versato.” Questa volta sono sicuro di aver fatto un commento appropriato. Sono soddisfatto. Quando sono arrabbiato tiro fuori il meglio di me stesso. Ma Lost mi smonta subito. “Quelli sono accordi di politica internazionale che tu non puoi capire” dice brontolando, poi prosegue: “quello che mi indispone è la retorica dei commenti dei politici. Eroi caduti per la Patria. Che siano caduti per la Patria non c’è alcun dubbio. Sono caduti “lavorando” per la Patria. Ma che siano eroi, secondo me, è tutto da vedere. Innanzi tutto sono volontari, nessuno li ha obbligati ad andare in un paese dove c’è la guerra. Hanno scelto quel lavoro lì perché è ben remunerato. Mica la difendono gratis la Patria. Prova un po’ a non pagarli e poi vedi quanti eroi vengono ad arruolarsi, vedi quanto amor patrio trovi in giro. C’è gente che fa quel lavoro lì per un paio d’anni e si mette a posto per tutta la vita. Si capisce che se vai in un paese dove c’è la guerra per colpirti mica ti sputano in faccia, ti sparano con il kalashnikov. Quindi è possibile che un soldato muoia in un conflitto armato o in un'imboscata.
Se scegli o sei obbligato a scegliere di fare il muratore, c’è il pericolo di morire cadendo da un'impalcatura. Se scegli di fare l’elettricista, c’è il pericolo di morire fulminato dalla corrente elettrica e se scegli di fare il rappresentante di commercio, c’è il pericolo di morire coinvolto in un incidente stradale su un'autostrada ghiacciata avvolta dalla nebbia. Allora sono eroi anche questi? Anche questi cadono sul lavoro. Lavorano per le loro famiglie e per la Patria. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro. Sul lavoro di tutti mica solo su quello dei militari. L’unica cosa che distingue questi lavoratori, questi eroi dagli altri eroi, è lo stipendio. I muratori, gli elettricisti e i rappresentanti, muoiono per poco più di mille euro al mese. E al loro funerale ci sono solo le vedove, i figli e qualche parente stretto. Mica il Presidente della Repubblica. Alle volte non sono degni neanche di un articoletto sul giornale.” Com’è graffiante stamani Lost. Graffiante e cinico. Io vorrei tanto controbattere, rispondergli per le rime, ma non ne ho la stoffa. Le mie idee non producono parole. Sono costretto a tacere e a guardarlo con la bocca aperta. Come un idiota. Ma forse sono un idiota. Lost ci gode a trattarmi così, lo sento. Lo intuisco e lo odio. Domani forse non gli darò la sigaretta. Me ne vado. Mi siedo ad un tavolo, apro il computer portatile e mi metto a scrivere. In lontananza mi arriva all’orecchio il brontolio del motore diesel. Chissà cosa diavolo sta borbottando quel brutto vecchiaccio. Non riesco a concentrarmi. I personaggi dell’ultimo giallo sono impantanati nella banalità di situazioni scontate. La storia è sciocca e stupida. Mi alzo e vado su alla macchinetta del caffè. Mi frega cinquanta centesimi, la puttana. La prendo a calci ma non me li restituisce. I redattori sorridono in modo stupido. Metto un’altra moneta e mi frega anche questa. La guardo disperato e impotente. Ho voglia di piangere. Intanto arriva sculettando una redattrice. È bionda con la faccia imbrattata di trucco e la puzza sotto al naso. Non mi degna di uno sguardo dall’alto dei suoi trenta centimetri di tacchi. Infila una moneta e la macchinetta non solo le fa un bellissimo caffè macchiato ma le dà anche il resto. Pazzesco! Per me è una chimera il caffè macchiato, figuriamoci il resto. Guardo la mia ultima moneta. La infilo titubante nella fessura inghiotti-soldi della macchinetta. Richiedo un normalissimo caffè normale possibilmente zuccherato. La sento borbottare. Forse mi sta insultando, ma alla fine sento il rumore del bicchiere che si posiziona e del caffè che scorre. Estraggo il bicchiere con un sospiro di sollievo.
È senza cucchiaino. Chiudo il computer ed esco. Saluto Lost che non mi risponde. Col cavolo che gli do la sigaretta domani. Fuori è un movimento intenso di persone e di veicoli comandato dai semafori. La strada è piena di automezzi guidati da persone anonime e sole. I marciapiedi e le strisce pedonali sono pure pieni di persone anonime e sole. Hanno i volti imbrattati di pessimismo. Vagano in silenzio, ognuno sembra cercare qualcosa. Ma forse ognuno sta solo cercando se stesso. È difficile vedere due persone che si parlano. Ognuno discorre con i propri pensieri. La mia attenzione è attirata da due suore che attraversano la strada. Sono completamente bianche. Hanno grandi cappelli e le tonache che strisciano per terra. Sembrano due nuvolette sospese per aria. Sembrano appena sfiorare l’asfalto. Camminano a testa bassa e anche loro non si parlano. Quando arrivo a casa mi accoglie una strana atmosfera. Il tavolo è preparato con la tovaglia della domenica e in mezzo al tavolo brilla ammiccante la fiamma di una candela. Centaurea sta cucinando e mi saluta con uno dei suoi sorrisi e con un bacio che mi manda per via aerea. Mi sento gelare il sangue. Un brivido freddo di panico mi sale su per la schiena. Temo di sapere cosa significa quella candela in mezzo al tavolo e la luce spenta. Le donne quando devono confessarti qualche cosa te lo dicono a lume di candela. Accendono la candela già prima di parlarti come si fa con i morti o con i Santi. Quando hai bisogno di una grazia non accendi forse una candela alla Vergine o al tuo Santo protettore preferito? O se devi ricordare qualche tuo caro che è mancato e devi chiedergli che ti protegga non gli accendi forse una candela? Avevo il terrore di conoscere la confessione o la richiesta di Centaurea. Di solito, nel novanta per cento dei casi, la candela in mezzo al tavolo è per dirti che è incinta, che aspetta un bambino. E te lo dirà con le lacrime di gioia negli occhi, lacrime che la candela contribuirà a far brillare e a rendere suggestive. I due flute che occhieggiano sul tavolo confermano il mio sospetto. Ci mancava solo un bambino. Non bastano un cane grossolano e invadente e un gatto ignorante e ruffiano. Adesso ci sarà anche un marmocchio frignante, puzzolente e rigurgitante omogeneizzati. E i soldi? Come faremo con i soldi?
Poteva almeno aspettare che trovassi lo smeraldo, porco mondo! Speriamo almeno che non ci sia il risotto. Arriva in tavolo una terrina di spaghetti aglio, olio e peperoncino. Sono buoni, non sono scotti. Mi sembra di scorgere una lacrima negli occhi di Centaurea. Non è né commozione né gioia, è il peperoncino che è molto piccante. Centaurea non parla, mi guarda ma non parla. Questa attesa mi riempie d’ansia e mi chiude lo stomaco. Poi il forno si apre e un profumo di pollo arrosto arriva fino a me. Ma prima di raggiungermi a nelle narici del cane e del gatto che si sono levati in piedi e seguono Centaurea fin sotto al tavolo. È buono anche il pollo ed è ben cotto con il suo contorno di patatine. Mi sembra l’ultimo pasto del condannato a morte. Voglio dare le ossa da rosicchiare al cane. Chiamo Brad e arrivano tutti e due. Per l’osso successivo chiamo Pitt e arrivano di nuovo tutti e due. Non ho mai capito quale dei due sia Brad e quale sia Pitt. Forse non l’ho mai chiesto a Centaurea o forse non me lo ha mai detto. Centaurea non parla. Sorride e basta. L’atmosfera è spessa, potresti tagliarla con il coltello. Poi arriva la bottiglia. È un ottimo spumante con nome italiano ma imbottigliato in Cina. Centaurea ne versa due bicchieri poi mi prende una mano, mi guarda negli occhi e mi dice che è stata promossa. Lo spumante mi va di traverso, a momenti muoio soffocato. Mi alzo e l’abbraccio senza parlare. Sento tutta l’ansia e l’angoscia che abbandonano il mio corpo. Scivolano giù e si disperdono sul pavimento. Ma dopo un po’ le sento risalire perché penso che domani dovrò comperarle un mazzo di fiori. Con i prezzi che praticano al giorno d’oggi i fiorai ti viene altro che l’ansia. Penso che questa volta le regalerò una scatola di cioccolatini.
CAPITOLO XV
Ho deciso che questa sera andrò a guardare dietro a quegli occhi. Lo dico a Centaurea che mi guarda sbigottita e si porta una mano alla bocca. Vado al giornale perché non voglio cambiare le mie abitudini. “Hai una sigaretta?” Il saluto di Lost è sempre lo stesso. Poi prosegue scorrendo il giornale: “La ragazzina scomparsa non è ancora stata ritrovata. Un padre impazzito di dolore per la separazione dalla moglie prende le sue due figlie, due gemelline di sei anni, e fugge dalla Svizzera. Arriva in Italia e si suicida sotto a un treno. Delle due ragazzine nessuna traccia, sembrano sparite nel nulla.” “A me i bambini fanno pena”, commenta Lost, “vivono drammaticamente le vicende dei loro genitori e spesso ne portano le conseguenze.” A Lost i bambini fanno tenerezza. Chissà... forse ricorda ancora il suo di bambino che una sera avvolto in una copertina color nocciola ha visto svanire nel nulla con sua moglie. Lost non mi parla mai di sé, della sua vita. Mi fa pena. Ho fatto bene a dargli la sigaretta. Cerco di lavorare ma non ci riesco. Ho la testa che pensa a quello che mi aspetta questa notte. Sono indietro sul lavoro. Il caporedattore mi ha già chiesto di portargli qualcosa da stampare. Sudo di calore e di ansia. Butto giù un paio di pagine. Sono buone. Ho saputo trasmettere la mia angoscia al protagonista che ha addormentato la moglie con l’etere e poi l’ha fatta annegare nella vasca da bagno. Adesso il difficile è trovare un buon alibi per il marito. Ma a questo penserò domani. L’etere! A momenti mi dimenticavo. Devo comprare l’etere e il cotone idrofilo. Esco. La giornata è afosa. Non c’è il sole e l’atmosfera è pesante e uggiosa. L’umidità è da foresta amazzonica. Le mosche quando si posano non riescono più ad alzarsi in volo. Neanche a scacciarle, sono sfinite. Forse sudano anche loro.
Dalla vetrina guardo all’interno della farmacia. Aspetto che dietro al banco ci sia la commessa, quella bruna con la coda di cavallo. Ha un debole per me, mi sorride e mi fa gli occhi dolci. A me non piace. Ha sempre i brufoli e un herpes sulle labbra. Mi fa schifo. Ma sono sicuro che quando le chiederò l’etere non mi farà domande indiscrete. La proprietaria invece è sempre indagatrice. Curiosa e pettegola come una servetta ti scruta sempre con i suoi occhi neri in mezzo al cespuglio stopposo delle sopracciglia. Anche se deve consegnarti una semplice aspirina, prima si guarda furtiva attorno, poi te la consegna facendoti sentire suo complice. Entro. Davanti a me c’è una donna che ha un mucchio di ricette. Ma quanto costa ai contribuenti una così? Cosa aspetta il Signore a prenderla con sé? Ma il Signore è mica scemo. “Questo è un pensiero alla Lost” penso. Ad ogni medicina che le viene consegnata chiede delle spiegazioni. E leggi i foglietti che ci sono all’interno delle confezioni, rompiscatole! Dietro di me la coda si allunga. Ho paura che da un momento all’altro esca la proprietaria. Alla fine se ne va tra i sospiri di sollievo dei presenti. La commessa dalla coda di cavallo mi consegna l’etere, il cotone idrofilo e i guanti di lattice. Non mi fa domande. Mi chiede come sto e cosa faccio di solito alla sera. Rispondo mangiando le parole e nascondendomi dietro alla scusa del lavoro. Mi saluta con un sorriso. Capisco che ha voglia di mandarmi un bacio. Di fisico non è male, ma con quella faccia... o in ferramenta e compro una pila, una di quelle piccole pile a led che puoi tenere in bocca e un coltello con il fodero da appendere alla cintura. Il coltello è molto affilato, sembra quello che portano i pellerossa nei film western. Telefono a Centaurea e le dico di venirmi ad aspettare al solito bar. Io prendo il tram e vado al palazzo museo. Non ho fatto il biglietto, speriamo bene. Scendo davanti al palazzo Montrucchio Carignano ed entro. Per fortuna alla biglietteria c’è una ragazza diversa dalla volta precedente. Mi ricorda, come la sua collega, che manca solo mezz'ora alla chiusura e mi prega di uscire appena sento suonare la camla. La tranquillizzo ed entro. Giro un po’ per i saloni in mezzo alla gente, mi fisso in mente dove sono i ritratti
e le statue a mezzo busto della cantante lirica moglie del Conte. Controllo che ci sia la scala. È ancora lì sotto al telone. Controllo che la porta del ripostiglio sotto allo scalone abbia la chiave inserita. Continuo a girare per i saloni e osservo gli altri visitatori. C’è un maestro che si sgola a spiegare non so che cosa a una truppa di ragazzini che muoiono dalla voglia di un gelato. C’è una signora giallastra carica di gioielli che continua a togliersi e a rimettersi gli occhiali. E tienili sempre questi occhiali! Tanto sei brutta e vecchia con gli occhiali o senza occhiali! C’è una coppia di cinesi mano nella mano. Mi piacerebbe sapere che cavolo gliene frega a loro del Conte Montrucchio Carignano e di sua moglie dall’ugola d’oro. Lei è carina, ha capelli lunghi e lisci che le incorniciano un bel visino. “Chissà se esistono cinesi con i capelli ricci” mi viene da pensare. Lui è uguale a tutti i cinesi che ho visto fino adesso. C’è un prete. C’è qualche coppia anonima. Qualcuno dei maschi ha i pantaloni corti al ginocchio pieni di vistose tasche vuote, quelli che fanno tanto turista. Le donne sono grasse e sudano. La gente comincia ad uscire. Quando suona la camla mi nascondo dietro alla tenda di un salone, quello che ha la porticina del ripostiglio delle scope. È sempre piena di polvere, spero di non starnutire. Ecco che il museo piomba nel silenzio, quel silenzio da cima del Monte Bianco. Apro il flacone dell’etere ed imbevo un grosso batuffolo di cotone. Un leggero rumore mi segnala l’arrivo del custode. Adesso è lì davanti a me. Mi volta la schiena. Sta controllando la chiusura delle finestre. Ho una paura folle. La mia mente è lucida come quella di una suora in un bordello. È in questi momenti che serve il sangue freddo. Altro che sangue freddo! A me serve del sangue, freddo o caldo che sia, perché nelle vene non ne ho più, la paura me le ha prosciugate. Esco dal mio nascondiglio. Sono teso come la corda di un violino. Se il custode si voltasse in questo momento penso che morirei. Mi avvicino, lo abbraccio per il collo e gli metto il tampone imbevuto di etere sulla bocca e sul naso. Glielo tengo premuto obbligandolo a respirarlo. Lo sento dibattersi un poco. Non ha forze, è come tenere fermo un bambino. Dopo qualche secondo smette di dimenarsi e si abbandona nelle mie braccia. Lo trascino nel ripostiglio e lo chiudo a chiave. Tolgo il telone e prendo la scala. Incomincia la mia caccia agli occhi verdi.
La luce che arriva dalle grandi finestre è ancora sufficiente a rischiarare i saloni. Salgo sulla scala e con il coltello apro gli occhi del primo ritratto. Mamma mia che impressione! Mi sembra di pugnalare una persona viva. Guardo all’interno dei due buchi con la pila. Niente. Dietro c’è solo il muro e nel muro non c’è traccia di botole o aperture. Scendo. Provo con un altro ritratto. Niente neanche dietro a questi occhi. Non trovo niente nemmeno dietro al terzo e al quarto ritratto. Per salire a guardare negli occhi del quinto devo spostare quel maledetto gatto nero. Non me la sento di toccarlo. Mi tolgo la camicia lo avvolgo e lo poso per terra. Mi guarda minaccioso con quei suoi occhi verdi che brillano. Vorrei dargli un calcio in bocca e spaccarlo in tanti pezzi quell' odioso gatto nero. Intanto il crepuscolo trascina l’oscurità nei saloni. Apro tutti gli occhi dei ritratti della moglie del Conte. Non trovo assolutamente nulla. Solo dietro agli occhi di un ritratto ci sono dei numeri scritti sul fondo del quadro. Apro anche il fondo del quadro ma dietro c’è solo il muro. Un bianco, duro e impenetrabile muro. Intanto il custode si è ripreso. Me lo dicono i rumori che provengono dal ripostiglio. Poi mi giungono all’orecchio colpi leggeri, timidi, indecisi tra la speranza e il terrore di essere sentiti, battuti alla porta del ripostiglio. Cerco le statue di legno a mezzo busto. La prima è nel salone dove c’è il pianoforte e gli spartiti. Le estraggo gli occhi con il coltello. Dietro non c’è niente. La seconda statua è nel salone centrale. Anche qui lavoro di coltello, estraggo gli occhi, ma non trovo nulla. I battiti alla porta del ripostiglio sono aumentati di intensità. Devo uscire in fretta. Apro la finestra che da sul giardino e salto fuori. Solo allora mi accorgo che sono a torso nudo. Ho dimenticato la camicia avvolta al gatto nero. Meno male che me ne sono accorto in tempo. Risalgo con un po’ di difficoltà all’interno del salone. I colpi battuti dal custode sulla porta del ripostiglio adesso sono arrabbiati. Ritorno nel salone del gatto nero. Lo prendo da terra e lo rimetto sulla scrivania. Per poco non mi scivola di mano e mi casca per terra. Ci manca solo che la rompa questa orribile bestiaccia. Già mi porta sfortuna intero pensa che sfortuna mi porterebbe se lo rompessi. Esco ancora dalla finestra, attraverso il giardino di corsa nascosto dalla siepe, salgo sulla glicine e salto sul marciapiede della strada. Faccio il giro del palazzo.
Incontro poca gente, qualche ragazzino e un paio di marocchini. Entro nel bar e Centaurea legge la delusione sul mio volto. “Niente?” mi sussurra. “Niente” le rispondo io dimenando un no con la testa. “Hai avuto paura?” mi chiede ancora, premurosa. “Da impazzire” rispondo io, “i miei reni hanno prodotto più adrenalina di urina. A casa ti racconto tutto. Ho bisogno di una canna.”
CAPITOLO XVI
Ho un dolore allo stomaco, forse mi sta venendo un cancro. Lost ha il giornale aperto sulla notizia. “Vandali deturpano i quadri della collezione Montrucchio Carignano” recita il titolo di un trafiletto in cronaca. “Roba da matti” commenta Lost accendendo la Marlboro che ha appena “accettato”, “e non hanno rubato niente. Roba da non crederci. Uno rischia la galera per entrare in un museo nell’orario di chiusura e non ruba nulla.” Si gratta la testa incredulo alzando una leggera nuvola di forfora. Faccio finta di non saperne nulla e chiedo: “Ma come hanno fatto ad entrare? E come mai non è scattato l’antifurto?” “Non si sa se sia stato uno solo o più persone” mi spiega Lost chiudendo il giornale, “ probabilmente si sono nascosti e si sono fatti chiudere dentro. Hanno aspettato che il custode fe il suo solito giro di controllo, lo hanno addormentato con un tampone imbevuto d’etere e poi lo hanno rinchiuso in un ripostiglio. In questo modo il custode non ha avuto il tempo di attivare l’antifurto. Poi si sono limitati a sfregiare i ritratti della moglie del Conte, togliendo loro gli occhi. Non hanno sfregiato i quadri raffiguranti i paesaggi, hanno solo tolto gli occhi ai ritratti della moglie. Hanno tolto pure gli occhi a due statue di legno che raffigurano anch’esse la cantante moglie del Conte. Poi sono usciti da una finestra e sono scappati per il giardino del parco.” “E il custode come ha fatto a liberarsi?” chiedo incuriosito. “È stata la guardia notturna. Durante il suo giro d’ispezione ha sentito dei rumori provenire dall’interno del museo e siccome il custode non rispondeva ha chiamato la Polizia. I poliziotti hanno forzato una finestra sul retro dalla parte del giardino e così sono entrati. Hanno seguito il rumore dei colpi, hanno aperto il ripostiglio e hanno trovato il custode sotto shock che piangeva come un bambino. Interrogato, dopo che si era un po’ ripreso, ha detto di non ricordare nulla.”
“Porca vacca!”, penso, “mi è andata proprio bene. La guardia notturna! E chi ci pensava alla guardia notturna? Guarda alle volte come fa a fallire un colpo perfetto... Fallisce per una stupida guardia notturna che mette uno stupido biglietto in una stupida porta mentre compie un giro di ispezione. E magari quel parassita si becca pure una promozione. Bastardo!” Per un momento mi si è gelato il sangue nelle vene. “C’è qualcosa che non torna”, prosegue Lost, “c’è un tale che si fa chiudere in un museo, non ruba nulla e si limita a sfregiare i quadri. Ma non tutti i quadri, nota bene” e dicendo questo alza gli occhi e mi fissa. Avete presente la sensazione che si prova ad avere un rullo pieno di spilli che ti sale su per la schiena? Ebbene mentre Lost mi guarda io sto provando proprio quella sensazione. Ma perché Lost che di solito quando mi parla non mi degna mai di uno sguardo, mi fissa invece quando parla del museo? Non credo che sospetti qualcosa ma questo comportamento mi mette parecchio a disagio. “Non sfregia i paesaggi o le nature morte” prosegue Lost, “sfregia solamente i ritratti della cantante. E poi non è un banale sfregio, quello che, ad esempio, potrebbe fare un pazzo. No! Lui apre gli occhi. Come se cercasse qualcosa nascosto dietro a quegli occhi. E toglie anche gli occhi alle statue. Per me non è il solito maniaco, per me è qualcuno che stava cercando qualcosa.” “Ma che cosa può essere tanto piccolo eppure tanto prezioso da poter essere nascosto dietro ad un occhio?” azzardo io. Voglio scoprire fino a che punto è arrivato Lost con il ragionamento. “Ma sai” continua Lost, “magari quel tale ha comperato alla biglietteria il volumetto della vita del Conte, lo ha letto, ha letto dello smeraldo e si è sentito Indiana Jones.” Questa battuta l’ho già fatta io. Ma a lui non l’ho mai fatta. È proprio un diavolo Lost, potrebbe fare il commissario di Polizia. Devo leggerlo anch’io quel volumetto. Consegno in redazione la chiavetta con il mio nuovo romanzo. Ho voglia di chiedere un anticipo, ma mi ferma il pudore. O la mia cronica mancanza di coraggio. “Ti serve ancora qualcosa?” mi chiede il caporedattore che mi vede fermo, impalato, che lo guardo in piedi davanti alla scrivania.
“No! No! Grazie” rispondo imbarazzato mentre mi volto per uscire. Maledetta timidezza. Secondo me ha capito che volevo chiedere un anticipo. Ma non mi ha aiutato, quel bastardo! Neanche fosse lui il padrone. Esco. Alla biglietteria del museo chiedo il volumetto sulla vita del Conte. Pago con venti euro e mi dicono che costa venticinque. Faccio notare che il prezzo esposto nella vetrinetta recita venti euro. La ragazza, masticando in modo indisponente un chewing-gum dal profumo rivoltante, dice che ho ragione ma che adesso c’è la sopratassa di cinque euro per il restauro dei quadri. “Sa” mi dice come se le spie, “ci hanno sfregiato alcuni quadri.” “Ma va?” dico io. E dentro di me penso: “Ladri! Bastardi! Hanno fatto bene a sfregiarvi i quadri. Ve li dovevano rubare. Così avrei risparmiato la sopratassa del restauro.” Il volumetto è abbastanza ben fatto e interessante. Racconta la vita del Conte e di sua moglie, il buon successo di pubblico e di critica raccolto dal Conte con le sue mostre e dalla moglie nell’interpretare le romanze delle più svariate opere. Ci sono pure vari aneddoti sulla vita del Conte. Uno in particolare lo trovo particolarmente divertente. Si racconta che il gatto, quella orribile bestiaccia dal pelo nero che sta imbalsamata sulla scrivania, quando era in vita aveva un posto riservato a tavola con il Conte e sua moglie. Ed era servito dai camerieri. Roba da matti! Chissà se gli leggevano anche il menù. Ci sono le fotografie a colori delle opere. Il Conte non ha mai venduto le sue opere, né statue, né quadri. Ne ha regalata una soltanto alla Congregazione dei Santi Martiri Solutore, Avventore e Diocleziano. Si tratta di una statua in legno raffigurante la moglie a grandezza naturale. La cantante è immortalata nel costume di scena mentre esegue una romanza dalla “Carmen” di Bizet. Ecco dove devo andare a cercare! Probabilmente il Conte ha voluto che lo smeraldo ritornasse alla Congregazione, forse per un atto di amore e di rispetto alla memoria della nobildonna che glielo aveva regalato, e lo ha voluto donare in un modo tutto particolare mirando a conservare l’anonimato. Va' a capirli gli artisti. E se poi sono artisti ricchi sono ancora più strani.
Non so come fare a dirlo a Centaurea. Ho paura che cerchi di dissuadermi, ma lei al contrario si dimostra entusiasta. Dice che ha una bellissima sensazione, dice di sentire che ho ragione. Anche lei pensa sia molto probabile che il Conte, che lei immagina estroso e amante del mistero e dell’enigmistica, abbia voluto restituire il gioiello alla Congregazione, volendo però mantenere il segreto. Questo spiegherebbe la misteriosa risposta alla domanda di che cosa ne avrebbe fatto di quel gioiello e il mistero della sua scomparsa. Poi incomincia con le domande. Come fare ad introdursi nei locali della Congregazione? Non è che la Polizia dopo quanto è successo al museo sarà particolarmente allerta? Non sarà troppo pericoloso? La tranquillizzo e le prometto che progetteremo insieme un piano efficace. Se il piano non le dovesse piacere non se ne farebbe niente. Ma ciò che la tranquillizza di più è la canna che ci fumiamo seduti nel letto.
CAPITOLO XVII
Quattro bambini rom sono morti nell’incendio della loro baracca. Il più piccolo aveva solo quattro anni e il più grande undici. La mamma e la zia erano uscite alle otto e mezzo di sera lasciandoli soli. Del padre nell’articolo non se ne parla. Lost è uno straccio. Mentre legge ha il pomo d’Adamo che va su e giù. Sta trangugiando le lacrime. “Sono bestie! Anzi sono peggio delle bestie!” mormora e le sue parole sono avvolte nella commozione. “Gli animali non abbandonano i loro piccoli”, prosegue, “e non tirarmi in ballo l’ignoranza. Questi non solo non sono intelligenti ma non hanno nemmeno l’istinto che invece hanno le bestie. Sono peggio delle bestie! Cosa faresti a gente così?” Come al solito non so rispondere. Gli dò la sigaretta che mi ha chiesto poi faccio un lungo giro di parole per dirgli le solite frasi fatte dettate dal conformismo. Ma non voglio contraddirlo. È troppo arrabbiato. “Vedi Lost” gli dico mettendogli una mano sulla spalla, “probabilmente la mamma ha dovuto assentarsi per andare a prostituirsi. Devono pur mangiare in qualche modo. La colpa va ricercata nella miseria in cui vivono. Nella società che li emargina. Nelle grosse difficoltà che trovano per integrarsi.” Tralascio di parlare del padre. Anche perché non so cosa dire. Lost non mi risponde ma ha messo in moto il brontolio da motore diesel. Non ci sono novità sulla faccenda del museo. La polizia indaga. Ci sono dei sospetti su una banda di romeni che è stata vista aggirarsi da quelle parti. Ma nessuno sa spiegarsi come mai non sia stato rubato nulla. Un noto criminologo avanza l’ipotesi che il responsabile del gesto sia da ricercarsi in qualche squilibrato. Secondo lui il soggetto ha riconosciuto negli occhi della cantante gli occhi e lo sguardo della madre. Probabilmente odia la madre che lo ha abbandonato quando era bambino e ha voluto punirla.
Ma andate a fare in culo tutti: psicologi, psichiatri, psicoterapeuti, criminologi, tutti quanti! E li pagano pure per dire queste stronzate. Mi siedo e apro il computer. Seduto due tavoli più in là c’è un tale che sfoglia un volume. Ha il cappello in testa, un cappello del tipo Borsalino e una giacca stropicciata sdrucita nei gomiti. Ha due baffetti stupidi sotto ad un naso importante e una faccia senza espressione. Chissà perché penso che sia un poliziotto. Lo sorprendo a guardarmi tutte le volte che alzo gli occhi. Mi mette a disagio, ho l’impressione che mi controlli. O forse è solo il mio senso di colpa che affiora. Però ho le mani sudate. Il caporedattore mi manda a chiamare e mi fa i complimenti per l’ultimo romanzo. Quelle parole mi hanno caricato. Ho voglia di battermi le mani da solo e ho voglia di mettermi a saltare di gioia. Ma subito dopo ripiombo nella mia solita mestizia e desolazione pensando a quanto sono stupido. Avrei dovuto chiedere un aumento ma mi è venuto in mente solo ora. Mi prenderei a scarpe in faccia. Non sono un uomo, sono una merda! Esco e o a prendere Centaurea. Non le dico dei complimenti del caporedattore per non sentirmi dare dello stupido. Lei l’aumento glielo avrebbe chiesto. È un po' imbronciata e mi fa notare che non le ho regalato niente per la sua promozione. Ha ragione, gli ultimi avvenimenti mi hanno fatto dimenticare i fiori o i cioccolatini. Mi sento un verme. Per farmi perdonare le dico di scegliere un ristorantino per festeggiare. Si illumina subito in viso e mi dice che vorrebbe andare a mangiare la Bagna càuda in un ristorante tipico piemontese. “Sei sicura che ti piaccia quella roba lì?” provo ad azzardare sperando di farla desistere senza però dare l’impressione di volerla contraddire. Alle donne se dai quell'impressione, stai tranquillo che non torneranno mai indietro su una decisione presa. Non andava bene una bella pizza nella pizzeria sotto casa nostra? Ma perché le donne hanno sempre idee così distorte? “Ma le mie amiche dell’Università mi hanno detto che è un'esperienza unica. Si sono divertite un mondo e l’hanno trovata favolosa” mi risponde mentre il viso si è di nuovo un po’ allungato nel broncio. Cedo come al solito e dico rassegnato: “Va bene, in fondo sei tu la festeggiata.” Poi aggiungo, ma solo dentro di me:
“speriamo in bene.” La piazza si apre all’improvviso davanti a noi. È enorme e bellissima. Arriva fino al fiume che scorre ai piedi della collina. Lungo il fiume ci sono i ristorantini e i locali alla moda, ma non credo che il nostro locale si trovi da quelle parti. E me lo auguro anche perché conosco i prezzi di quei locali. Il nostro locale ci chiama con una vecchia insegna illuminata da una lanterna con una lampada a basso consumo. Alla faccia delle insegne al neon aggressive e lampeggianti! “Òsto Vej Piemont” recita l’insegna. Sono sempre più titubante e restio a fare questa esperienza. Centaurea è contenta. Saltella come una bambina. Entriamo. L’ambiente è piccolo. Da una porta aperta si vede la sala dove c’è gente che mangia e parla ad alta voce. Un’altra porta si apre sulla cucina. Un uomo esce da quest'ultima: è tozzo e quasi senza capelli ma ha due baffi grigi lunghi, folti e arrotolati. Ha un grembiule che forse era bianco e che si tira su da una parte dopo essersi asciugate le mani. “Bon-a sèira” (Buona sera), ci dice squadrandoci dalla testa ai piedi con occhio indagatore, “i veule mangé për cas?” (Volete mangiare per caso?) Mi verrebbe da chiedergli cosa altro si può fare nel suo locale. Non so, ad esempio se si può giocare a poker, fumare oppio, se c’è la Lap Dance o se affittano camere complete di prostitute minorenni. Ma mi controllo e lascio parlare Centaurea. “Vorremmo mangiare la bagna càuda” dice Centaurea con un sorriso accattivante, “mi hanno detto che qui la fate proprio buona, speciale.” “Ch’a l’àbia iensa, né” (Abbia pazienza), tuona di sotto i baffi il cameriere, “ambelessì i parloma mach piemontèis. Mi l’italian i lo capiss nen. Se a veul parlé italian, ch’a varda, sì dnans a-i é la piòla arnomà Posillipo. Lì a parlo e a capisso motobin l’italian. Cerea né, ch’a më staga bin.” (Qui parliamo solamente piemontese. Io l’italiano non lo comprendo. Se vuole parlare italiano, guardi, qui davanti c’è il ristorante Posillipo. Lì l’italiano lo parlano e lo comprendono molto bene. Buona sera, mi stia bene.) Io il piemontese non lo parlo ma lo capisco. Provo ancora a insistere, a dire che siamo piemontesi da almeno sei generazioni. Niente! Ci guarda come io guarderei un cinese mentre mi parla nella sua lingua. Intanto ci spinge, anche
non troppo gentilmente, verso l’uscita. Sono sicuro che mi capisce benissimo. È un razzista, fondamentalista, integralista di merda! Centaurea è molto abbattuta. Anch’io sono molto arrabbiato. “Io gli sparo in fronte a quel bastardo” dico per consolarla, “stai pur certa che non lascio perdere. Te la faccio mangiare quella stramaledetta Bagna Càuda, dovessi obbligarli a servircela minacciandoli a mano armata!” Tengo a far vedere a Centaurea che ho i coglioni. E poi adesso per me è diventata una questione di principio. Mi domando come sia possibile che uno zotico di merda debba rovinarmi la serata. Provo a telefonare a Lost. Mi dice che non ha ancora cenato e che mi raggiunge subito. Ha voglia anche lui di una bella Bagna càuda. Sto mentalmente pensando se mi bastano i soldi. Speriamo, non vorrei chiedere un prestito a Lost. Avrei dovuto osare a chiedere quell’anticipo al giornale. Ieri mattina entrando in banca ho visto il direttore sbiancarsi in viso. Mi ha guardato terrorizzato. Forse ha paura che gli chieda un prestito. Il cassiere, uno che ha la faccia da guardiacaccia, mi chiede il numero di conto - sono cinque anni che mi chiede il numero di conto - interroga il computer e poi mi lancia uno sguardo pieno di schifo. Bastardo! Se un giorno decido di rapinare una banca il primo che faccio fuori è lui. Servo dei padroni! Lost arriva quasi subito. È in jeans e maglietta. Gli spiego cosa è successo, parlo in modo concitato, lui mi dice di stare tranquillo che ci pensa lui. Quando entriamo la scena si ripete. Esce ancora l’uomo tozzo dai baffi ricurvi, si asciuga le mani e si appunta il grembiule sporco da un lato. Mi ignora. Si rivolge con fare ruffiano a Lost e gli fa la solita stupida domanda. Lost gli risponde nel suo idioma e lui si illumina in volto. Ci fa accomodare nella sala accanto. C’è un'atmosfera da mercato del bestiame, l’odore è rivoltante. Per fortuna siamo seduti vicino ad una finestra aperta e ogni tanto riesco a respirare una boccata d’aria pura. Arrivano i vassoi pieni di verdura cotta e cruda. Sembrano composizioni dipinte dal pittore Arcimboldo. Poi arriva lei, la famosa Bagna càuda. Arriva un pentolino ammaccato pieno di una salsa fumante, di un colore indefinito e puzzolente d’aglio. Viene appoggiata sopra ad un piccolo treppiede con una fiammella in centro. A noi vengono servite delle strane scodelle alte, con un piccolo fornello nella parte inferiore e
una candelina accesa all’interno. Io e Centaurea guardiamo sbigottiti e un po’ preoccupati. Lost ride. Aspettiamo che Lost faccia la prima mossa. Lui abbranca una foglia di cavolo crudo, la immerge nell’intingolo e ci morde dentro con gusto. Roba da matti! Mangiare una foglia cruda di cavolo. Roba da conigli selvatici. Mia nipote aveva un coniglio domestico che trattava come un cagnolino ma, a quello lì, se gli davi una foglia di cavolo cruda ti denunciava per maltrattamento degli animali. Centaurea prende l’iniziativa. Prende una fetta di un bel peperone rosso, la intinge e sbrodolando un po' se la porta alla bocca. “Buuuooono!” dice esagerando ad allungare il dittongo uo. Io non mi sbilancio. Taglio una fetta di quella che, secondo me, è una patata bollita e intingo anch’io. Non è male, anzi direi che è piuttosto buono. Ha un gusto molto particolare. Gli ingredienti sono ben amalgamati. Intanto Centaurea si è sciolta. Appare disinvolta e senza soggezione inforca e intinge, una alla volta, tutte le verdure. Lost le sta spiegando cosa sono quei quadrettini bianchicci che sembrano di plastica. Dice che si chiama cardo ed è molto buono, è la verdura da intingere per eccellenza. Centaurea lo assaggia e se ne dice entusiasta. Provo anch’io. È orribile. È duro, coriaceo e molto amaro. Allora provo con un piccolo cilindro bianco che mi ispira fiducia. Lost dice che si chiama porro. Lo intingo ben bene e poi gli mordo dentro. Mamma mia! Credo di impazzire. È fortissimo, mi brucia in gola, nel naso e mi lacrimano gli occhi. Bevo. Con il vino è peggio ancora ma il vino è buono. Ha un colore rosso molto scuro ed è leggermente frizzante. Lost dice che è Barbera. Centaurea è felice. Mangia e ride. Si diverte ad assaggiare tutta la verdura. Ha bagna càuda dappertutto e ha la faccia rilucente di olio. Non credo di averla vista altre volte felice così. Io finisco le patate bollite poi attacco dei ravanelli. Anche il peperone cotto al forno non è male. Il cavolo non lo mangio. Ho una dignità da difendere. Io pago il conto e Lost offre il caffè in un bar con i tavolini all’aperto. È strano, ma i moscerini questa sera ci girano alla larga.
A casa Centaurea esce dal bagno e mi dice che l’acqua della doccia viene gelata.
CAPITOLO XVIII
L’affumicata si sporge dal narghilé del suo stanzino e mi consegna una busta. La apro e lei si allunga per vedere di cosa si tratta. È curiosa come uno scoiattolo. “Signora si faccia i cazzi suoi!” le urlo un po' arrabbiato. Finché pago l’affitto puntualmente posso anche maltrattare la portinaia. Lei aspetta il giorno che non ce la farò a pagare e allora si vendicherà. Oh come si vendicherà! È capace di frustarmi a sangue. Ci odiamo. Non ci sopportiamo. Siamo allergici uno all’altra. La busta contiene una notifica della Polizia. Mi si intima di presentarmi il più presto possibile al Commissariato di zona. Sento un gran colpo in pieno petto. Forse mi sta venendo un infarto. Sono sicuro che è qualcosa che ha a che fare con la mia visita notturna alla casa museo. Ma come hanno fatto a risalire a me, e come hanno fatto in così breve tempo? Eppure ho usato tutte le precauzioni possibili ed immaginabili. Sono sicuro di non aver lasciato tracce. Però forse ho starnutito un paio di volte e quelli hanno trovato tracce del mio Dna. Maledetta allergia! Mi sento la testa che rimbomba come se fossi all’interno di una campana. Mi dolgono le tempie e mi duole l’occipite. Forse mi sta venendo un cancro al cervello. Mi dirigo verso il Commissariato barcollando. La gente che mi incontra mi fissa sospettosa. Forse conosce già la notizia della mia colpevolezza. Mi sento come il protagonista di “Delitto e castigo” di Dostoevskij. Il Commissariato è quello della bastonatura durante il corteo. Anche la gente che aspetta il proprio turno è più o meno sempre lo stesso campionario. Ma questa volta c’è anche un prete, un prete grasso e viscido. Secondo me ha ricevuto una denuncia per pedofilia. Anche il Commissario è sempre il medesimo. Mi accorgo che mi riconosce, ma anche stavolta non mi fa sedere e mi storpia il cognome. “Pazienza l’accento”, penso io, “ma questa volta hai sbagliato proprio le lettere. Ma possibile che tu non sappia leggere? Ce l’hai scritto davanti, ignorante!”
Glielo sillabo, in modo esatto, il più dolcemente e il più cortesemente possibile. Il Commissario alza gli occhi e il suo sguardo è indispettito, carico di rabbia e di odio. Lo so che mi ritiene responsabile di quel cognome. Ha tanta voglia di spararmi in fronte. “Abbiamo trovato qualcosa che le appartiene, signor… béh! Lasciamo perdere” incomincia a parlare il Commissario. La sua voce è un misto tra quella di un prete confessore e un genitore incazzato. Mi appoggio alla scrivania per non cadere ma il bastardo non mi fa sedere. “Cosa diavolo posso aver dimenticato in quello stramaledetto museo? E come fanno a sapere che mi appartiene?” Istintivamente tocco se ho ancora il portafogli. Sento di avere il cappio al collo, mi sento seduto sulla sedia elettrica. “È sua quella cosa lì?” mi dice indicando con la matita qualcosa che sta dietro alle mie spalle. Non oso voltarmi. Il Commissario mi ripete la domanda. Mi volto piano, come se aspettassi di ricevere una pallottola in fronte. Dietro di me c’è il tavolino del poliziotto che scrive al computer e una sedia. Sulla sedia c’e una pentola sporca. “Quella pentola è roba sua? Le appartiene?” mi domanda il Commissario con voce secca. Sì la riconosco! È la pentola del risotto. Devo averla dimenticata ai giardini pubblici. “Vede signor…” continua il Commissario e allunga la erre per evitare di pronunciare il mio cognome, “questa pentola è stata trovata ai giardini pubblici e un testimone non solo ha notato che lei spargeva il contenuto ai pesci del laghetto e agli uccelli del parco, ma l'ha anche fotografata.” “E va bene non mi fucileranno mica per questo, spero. Però che figlio di puttana il barbone! E possiede pure una macchina fotografica, il bastardo! Vuoi vedere che non è un barbone ma un agente della forestale in borghese?” penso e mi sento sollevato. Mi sento in paradiso in mezzo agli angeli. Il mio respiro e ripreso quasi in modo regolare. La pressione sanguigna è ridiventata quasi normale. “Il guardiano del parco ha rinvenuto alcuni pesci e qualche uccello morto. All'interno dei loro piccoli apparati digestivi è stato rinvenuto del risotto, proprio
come il contenuto della pentola. Ad un primo sommario esame pare siano morti per avvelenamento da una qualche erba.” “Sì! Però! Anche Centaurea con sto cazzo di risotto!” penso, ma non riesco ad arrabbiarmi. Sono rilassato. “Lo sentivo che c’era qualcosa di strano in quel risotto! Non è che per caso voglia avvelenarmi?” Mi viene da ridere. Quello che invece mi fa arrabbiare è scoprire che al giorno d'oggi i barboni girano con una macchina fotografica. Eliminarli, forse ha ragione Lost, eliminarli, bisogna eliminarli. “Lo sa signor…” la erre diventa sempre più lunga. “E lascia perdere con sto cognome tanto non ce la fai a pronunciarlo” penso scoglionato. “Che è reato cercare di avvelenare gli animali?” riesce a chiedermi alla fine. Gli animali sì, ma i barboni no. Aspetta che esca di qua e poi vedi cosa faccio alla spia. Cerco di spiegare che io volevo solo dar da mangiare a quei poveri animali. Io amo gli animali! Non conoscevo il pericolo di quell’erba aromatica. Il risotto lo abbiamo mangiato anche noi. Sorvolo sul rifiuto e sulle occhiate dei gatti. “La pena per il suo reato” continua intanto imperterrito il Commissario, “ va da un minimo di un’ammenda di settantanove euro e novanta centesimi fino ad un massimo di sei mesi di reclusione.” “Porca troia! Ma allora ad uno spacciatore cosa date? L’ergastolo gli date?” penso e mi accorgo di aver spalancato la bocca. Speriamo nell’ammenda. Certo che il mio cognome non mi aiuta! Il Commissario mi rifà il solito discorso tra il paterno e lo scoglionato e mi dice di andare a pagare l’ammenda - per questa volta - nell’ufficio a fianco. Se Centaurea mi fa ancora il risotto giuro che l’ammazzo. Ringrazio e saluto. Appena fuori dall’ufficio mi volto a leggere come si chiama il Commissario. Si chiama Gennaro Scanniariello, lui. Alla faccia dei cognomi semplici. Però io il suo cognome lo leggo e lo pronuncio correttamente. Voglio tornare indietro a farglielo notare ma poi penso al massimo della pena e lascio perdere. Esco dal Commissariato deciso a dare una lezione a quel figlio di puttana del
barbone. Poi mi viene in mente quanto è grosso e decido di perdonarlo. Arrivo al giornale. Non ho più neanche una monetina per prendermi un caffè. Anche i novanta centesimi hanno voluto. Sciacalli! Ma in fondo mi è andata bene. Sono quasi felice. La gente che scende nell’archivio annusa l’aria come cani da tartufo. L’aria è ancora impregnata di odore di Bagna Càuda. Io e Lost non lo sentiamo, ma gli altri sì. “Cos’è questa puzza?” chiedono arricciando il naso. “Sono le fogne” risponde Lost imperterrito. “E va bene! Ma fatele aggiustare!” dicono facendo in fretta ad andarsene inseguiti dal brontolio del motore diesel. I disordini nell’Africa Settentrionale continuano. Ci sono le fotografie dell’interno di uno dei più prestigiosi musei del mondo. I dimostranti hanno rotto numerose teche e derubato preziosi e unici reperti archeologici. “Il popolo è talmente ignorante e stupido che non si accorge nemmeno quando si taglia le palle da solo” commenta Lost, “è come se un contadino ammazzasse la gallina che gli fa le uova d’oro.” Ha ragione. Ma è inutile che gli dica che i ladri esistono perché qualcuno compra la merce rubata. Mi strapazzerebbe, meglio lasciar perdere. Gli dico semplicemente che ha ragione. “Hanno trovato una lettera che il padre delle gemelline ha spedito alla moglie prima di suicidarsi” continua a leggere Lost, “c’è scritto che ha ucciso le gemelline, così adesso anche loro non soffrono più. Adesso riposano in pace. Conclude dicendo alla moglie che l’ha sempre amata ma che non poteva più andare avanti con questa vita.” Lost si lascia cadere affranto sulla sedia. Le lacrime trattenute gli fanno brillare gli occhi. Gli chiedo come sia possibile amare a quel modo. Non mi guarda. Forse si vergogna delle lacrime.
“Vedi”, parla con lo sguardo fisso sul giornale, “ci sono due cose che hanno importanza nella vita. L’amore e l’odio. L’indifferenza non conta niente. È roba per chi non ha sensibilità. Non vale la pena di vivere nell’indifferenza. Si può vivere una vita amando anche se non corrisposti e si può vivere una vita odiando qualcuno e aspettando il momento propizio per distruggerlo. Ma vivere nell’indifferenza non è vivere. Io poi, da parte mia, vivo contemporaneamente tutte e due le cose. Io odio mia moglie e aspetto di vederla morire anche perché, da vigliacco come sono, non ho il coraggio di ammazzarla. Al contrario io amo tanto mio figlio anche se non l’ho mai conosciuto e sono sicuro che un giorno verrà a cercarmi e mi troverà. Sono queste due cose che mi tengono in vita. L’amore e l’odio, appunto.” Bisognerebbe fare un bel discorso, pieno di retorico rincrescimento. Ma io, come al solito, non trovo le parole e mi limito a metterle una stupida mano sulla spalla. Non viene quasi nessuno a disturbare e quei pochi che entrano annusano l’aria ed escono in fretta. Mi siedo al tavolo ed incomincio a lavorare. Però quasi subito mi torna in mente il pensiero che ho avuto prima quando Lost mi ha parlato dei furti di reperti archeologici all’interno del museo. “I ladri esistono perché qualcuno compra la merce rubata” volevo far notare a Lost, “è vero. Porca vacca se è vero! E io, quando avrò trovato lo smeraldo, cosa che per altro non ho mai dubitato, a chi lo venderò? E a quale prezzo lo venderò? Quanto può valere un gioiello come quello? Tutti i ladri conoscono i loro ricettatori e sanno dove piazzare la merce ma io non conosco nessuno. Puttana la miseria come faccio adesso? Posso mica fare il giro delle gioiellerie a chiedere se vogliono acquistare uno smeraldo grosso come una noce. E neanche non posso mandare Centaurea a chiedere il prezzo di uno smeraldo, uno smeraldo che sia grande, ma tanto grande, magari per regalarlo al marito. Centaurea non è credibile in quel ruolo. Io le vedo le donne che fanno quella parte nei film. Sono o anziane aristocratiche oppure puttane di alto bordo. No! Centaurea non è adatta. Al massimo potrebbe sembrare una professoressa alla sua prima supplenza. Proverò ad informarmi su Internet. Intanto voglio parlarne con Centaurea. Porco smeraldo, mi sta proprio rovinando la vita. Adesso mi ha anche imbrattato il viso di ansia e di angoscia. Ho gli occhi costantemente socchiusi, caratteristici di quelli che stanno pensando intensamente a come risolvere un problema.” Mi rimetto a scrivere ma mi ritrovo quasi subito a fissare il soffitto.
Mi viene in mente il piano per introdurmi nella Casa di Riposo e voglio esporlo a Centaurea. Anche perché, questa volta, mi serve la sua collaborazione. Ma devo aspettare fino a questa sera perché Centaurea ha trovato lavoro. Da qualche giorno fa la commessa in un super market ed è addetta al banco dei formaggi. “Ma dimmi tu se è giusta la vita” penso parlando con me stesso, “una ragazza sgobba sui libri per quasi trent’anni, si laurea in psicologia delle masse dei centri sociali o in psicologia delle ragazzine sottoposte alla pratica dell’infibulazione non mi ricordo mai in che diavolo di materia si è laureata Centaurea, ma comunque è in qualcosa del genere - e poi per campare deve fare la commessa in un supermarket. Lei non può neanche aiutarsi facendo la velina. Non ne ha i numeri.” A cena spiego a Centaurea il mio piano. Le piace e con i suoi consigli lo mettiamo a punto. Dice che non ha paura e che non vede l’ora di agire. Non le chiedo come fare a vendere il gioiello. Una cosa alla volta. È sabato. La città si è svuotata per il week-end e adesso sembra quasi a dimensione d’uomo. Come sarebbe bello se fosse sempre così. Prendiamo il tram e andiamo alla Casa di Riposo dei Santi Martiri Solutore, Avventore e Diocleziano. È strano che continuino a chiamarla così e non con il nome della benefattrice. Forse ne aspettano un’altra di benefattrice quei furboni, promettendo anche a questa poveretta di intitolarla con il suo nome. Sciacalli! La Casa di Riposo è una costruzione che ricorda l’architettura sabauda. Si trova in collina in mezzo ad un piccolo parco di piante secolari che esistevano già quando è stata costruita. Si respira un'aria fresca e pulita. L’atmosfera è ovattata, perfino le rare auto che ano sembrano avere il motore avvolto nella bambagia. L’ingresso in stile neoclassico è imponente. Mi siedo in un bar mentre Centaurea va verso la Casa di Riposo. Il bar ha i tavolini all’aperto ed è proprio davanti all’ingresso. È fresco. I tavolini sono sotto ad un pergolato di edera. Centaurea è entrata. L’aspetto. Ho un po’ di ansia che mi chiude lo stomaco. Il tempo non a e ho anche finito le sigarette. Lì non le vendono. Il barista, gentile, me ne offre una delle sue. È una sigaretta se molto forte. Mi piangono gli occhi. Prendo un altro caffè. Finalmente Centaurea esce e viene verso di me. Si siede, ansima un po'. Ordina un caffè e un bicchiere d’acqua e incomincia a raccontare:
“Suono il camlo. Mi apre una suora vestita di bianco. È molto giovane. Ha un bel sorriso che ispira fiducia. Secondo me è bionda e non è italiana.” “Cosa me ne frega della nazionalità della suora” penso io, “le donne non si smentiscono mai.” “Dico che voglio vedere la struttura perché ho intenzione di portare una mia parente”, continua intanto Centaurea, “mi fa accomodare in un ufficio a pian terreno. Dopo un po' arriva un’altra suora, più anziana e dal viso più duro. Si presenta come la Direttrice.” Centaurea beve l’acqua e il caffè poi prosegue: “Si informa in che stato sia quella mia parente. Mi fa un sacco di domande. Sembra un agente del Kgb. Per fortuna ho letto il tuo ultimo libro e ho descritto un tuo personaggio. Mi chiede che cosa possiede questa mia parente e se percepisce una pensione. Mi invento una rendita di qualche alloggio in città. Sembra soddisfatta. Mi fa un preventivo dettagliato e mi accompagna a vedere le camere. Sono belle e luminose. Sono tutte al piano superiore. Al pian terreno oltre all’ufficio c’è la sala da pranzo, la cucina, una piccola cappella e una sala di ricreazione. Nella sala di ricreazione, vicino al televisore, c’è la statua della moglie del Conte in costume spagnolo.” Centaurea si ferma un attimo a respirare. Ordina una cioccolata calda. Dice che fa bene per l’adrenalina. “Non c’è antifurto” prosegue, “c’è solo un grosso cane che di giorno tengono alla catena ma che di notte lasciano girare libero.” Le chiedo se è in grado di disegnare una pianta del piano terreno. Mi dice di sì. Si alza e mi bacia. È sporca di cioccolato.
CAPITOLO XIX
Telefono all’idraulico. Gli dico che l’acqua della doccia continua a venire fredda. Ma solo di sera. Mi risponde - con quel timbro di voce che ti fa capire che gli hai rotto i coglioni ma che comunque ti farà questo favore - che a questo punto bisogna cambiare il sondino e che il sondino è un pezzo che bisogna ordinare. Mi parla come se si trattasse di un trapianto di reni e della necessità di trovare un donatore. Gli chiedo, con voce tremante e stentorea, se devo incominciare le pratiche per il mutuo. Mi risponde che quel pezzo non dovrebbe essere tanto caro. Usa quel condizionale che ti riempie d’ansia, che ti condiziona la vita. Forse è per questo che lo chiamano condizionale. Entro al giornale. “Decine di migliaia di donne hanno sfilato in tutta Italia a sostegno della dignità delle donne” legge Lost dopo aver la Marlboro. “Gli slogan urlati avevano un chiaro riferimento alle vicende sentimentali di un noto politico con una marocchina minorenne.” prosegue. Poi incomincia il suo borbottio da motore diesel al minimo: “Oggi voglio proprio vedere dove è finita quella dignità tanto strombazzata. Voglio vedere se per strada non incontro più le ragazze sculettanti con l’ombelico di fuori. Se non incontro più ragazze arrampicate su trampoli da dodici centimetri con minigonne più corte del nastro che hanno tra i capelli. Se non vedo più seni nudi che ammiccano da camicette sbottonate e gambe accavallate ad esporre le cosce ai tavolini dei bar. Se non vedo più nessuna ragazza posare seminuda sui manifesti o sulle pagine dei giornali. Se non leggo più di ragazze che vanno a letto con registi, giornalisti, politici per fare carriera. Voglio vedere se non usano più il filo interdentale come mutandine per comparire e fare carriera in televisione. Se rinunciano all’assegno mensile del marito divorziato perché non hanno mai smesso di farsi scopare dall’amante che avevano già prima del divorzio. Se hanno disdetto l’appuntamento con il chirurgo plastico che doveva rifar loro il seno, il sedere, il naso, le labbra e quant’altro. Se le prostitute che fino a ieri hanno popolato le vie e i viali della città oggi si sono cercate un lavoro come badanti o infermiere. Esci. Fai un giro per la città e poi mi dici quanta ne hai veduta di dignità femminile.”
A Lost le donne stanno sullo stomaco. Conosco la sua storia e lo capisco. Gli poso la solita stupida e banale mano sulla spalla. Apro il computer ma come il solito non lavoro. Vado su Internet e provo a cercare qualcosa sul prezzo dei gioielli. Trovo un sito che tratta di gioielli famosi. Lo apro. Ci sono delle fotografie stupende. Ma non parla di dimensioni, parla di carati. Io non ho idea di quanti carati possa essere il mio smeraldo. Sorrido perché l’ho chiamato mio smeraldo come se lo avessi già trovato. Ma oggi mi sento particolarmente fiducioso. Continuo a cercare in mezzo a diamanti e pietre preziose da favola appartenute o appartenenti a vari musei, collezionisti e sceicchi arabi. I prezzi sono da capogiro, a leggerli c’è da rischiare l’infarto. Poi la breve nota riportata sotto ad un grosso smeraldo mi fa sobbalzare. L’articoletto dice che quel gioiello è stato ritrovato durante gli scavi in una tomba dell’antico Egitto da un archeologo italiano che era morto a poco più di quarant’anni .per una malattia misteriosa che aveva contratto nei suoi viaggi in Africa. La vedova aveva conservato la pietra preziosa e alla sua morte, avvenuta parecchi anni dopo, aveva lasciato in eredità quel gioiello ad una Congregazione Cattolica della sua città. La Congregazione l’aveva poi messo all’asta per realizzare un ricovero per anziani e lo smeraldo era stato acquistato da un nobile per la somma di tre miliardi delle vecchie lire. Da quel momento del gioiello si era persa ogni traccia. L’articolo diceva che quel gioiello poteva valere molto di più perché al valore dettato dai suoi carati bisognava aggiungere il valore archeologico. “Tre miliardi delle vecchie lire? E forse anche di più? Diciamo su due milioni di euro?” Penso e la testa incomincia a farmi male. Forse è troppo piccola e quel sogno non riesce ad entrare. Esco a prendere un caffè. Non lo prendo più alla macchinetta perché con le monete che mi frega mi costa di meno al bar. Deve avercela con me quella macchinetta. Mi riconosce. Agli altri le monete non le frega. E poi il caffè del bar è più buono. Stasera voglio provare ad entrare nella Casa di Riposo. o in farmacia. Vado dalla commessa che mi mangia con gli occhi. Chiedo un sonnifero. Il più potente che ha. Questa volta mi chiede a cosa mi serve. Le dico che voglio estrarre una spina dal piede del cane e non voglio correre il rischio che mi morda. Dice che mi capisce. Meno male. Mi consegna della pastiglie
azzurre. Sembrano Viagra. Speriamo non si sbagli, non vorrei fare una brutta fine con quel cane. Il sospiro della commessa mi accompagna fino alla porta. In ferramenta compro una piccola ventosa come quella per sturare i lavandini. Compro anche un taglia-vetri con la punta di diamante. Sembra un coltellino serramanico. o in macelleria e compro della carne tritata per fare delle polpettine. Arrivo a casa. Studio la pianta della Casa di Riposo che mi ha disegnato Centaurea. Poi pesto le pastiglie. La commessa mi ha detto che ne bastano due. Ne pesto dodici - meglio abbondare - e le impasto con la carne cruda. Prendo il pugnale da indiano, i guanti di lattice e la pila. Esco. Prendo il tram. Oblitero un vecchio biglietto tanto per darmi un contegno. Scendo davanti alla Casa di Riposo. Faccio un giro per studiare il muro di cinta. Di fianco si apre una stradina che porta in collina. Lì ci sono, appoggiati al muro di cinta, dei cassonetti per la raccolta dei rifiuti. Se ci salgo sopra posso arrivare a scavalcare il muro. Aspetto che faccia buio. Si accende un lampione proprio sopra ai cassonetti ma i rami delle piante del parco creano una penombra abbastanza rassicurante. Salgo sui cassonetti. All’interno della Casa di Riposo c’è un gran silenzio. Da qualche finestra esce il riverbero delle lampade notturne. La struttura sembra vuota. Ha un aspetto sinistro. Emetto un leggero fischio. Vedo un ombra avvicinarsi di corsa. È il cane. Mi vede si ferma e alza le orecchie. È molto grosso. È l’incrocio tra un pastore tedesco e un serbatoio di gas propano. Gli butto le polpette. Le annusa diffidente ma poi la gola ha il sopravvento. Le mangia tutte. Già mentre mangia le ultime barcolla. Poi si accascia al suolo. E brava lo sgorbio della farmacista. Brutta ma in gamba. Salto nel giardino. o vicino al cane. Fa paura anche da addormentato. Mi avvicino ai vetri di quella che, secondo il disegno di Centaurea, è la finestra della Cappella. Sotto alla finestra c’è la casetta grande come un residence del cane. Sembra messa lì apposta. Ci salgo sopra, appoggio la ventosa al vetro e lo taglio vicino alla maniglia. Il vetro si stacca senza far rumore. Infilo la mano, giro la maniglia e apro la finestra. Dentro la luce timida di una lampada votiva mi rischiara il percorso fino alla porta. Apro e mi ritrovo in un disimpegno circolare
da dove parte lo scalone per il piano superiore. Non si muove nessuno. Secondo quanto disegnato da Centaurea l’ultima sala a sinistra del corridoio è la sala ricreazione. Non riesco ad immaginarmi come possa essere la ricreazione di quei poveretti. Ma adesso devo concentrarmi e smettere di pensare cose cretine. Apro la porta e la vedo. La cantante è vicino al televisore e alla luce della pila sembra viva. Mi avvicino. Sono emozionato. Le cavo gli occhi e guardo nelle orbite vuote. Niente, porca puttana, non c’è niente! Esco in fretta perché ho paura che il cane si svegli. Gli o vicino ma dorme come un ghiro. Non avrò mica esagerato con il sonnifero, spero. Arrivo a casa che Centaurea dorme già. Da quando lavora la sera è più stanca. Mi faccio un panino di sottilette al formaggio, bevo un bicchiere di vino e vado a dormire anch’io. Domani le racconto tutto.
CAPITOLO XX
“Il cacciatore di occhi ha colpito ancora.” Recita il titolo a lettere cubitali in cronaca cittadina. “Il misterioso individuo ieri notte si è introdotto nella Casa di Riposo che porta i nomi dei Santi Martiri Solutore, Avventore e Diocleziano e ha estratto gli occhi ad una statua raffigurante la moglie cantante del Conte Montrucchio Carignano. La Polizia pensa che sia il medesimo individuo che ha deturpato i quadri raffiguranti la cantante nella casa museo del Conte in città. Nessuno sa spiegarsi perché estragga gli occhi alle statue e tagli gli occhi ai ritratti. Chissà che cosa rappresentano per lui quegli occhi. E non è che poi se li porti via quegli occhi, no! Al contrario, li deposita sul pavimento in modo ordinato, con rispetto si direbbe. Il perché si accanisca tanto con la moglie del Conte rimane un mistero per tutti.” L’articolo prosegue con molti particolari e fotografie della Casa di Riposo. Il giornale pubblica anche l’intervista ad un noto psicopatologo di un'importante Università. C’è pure la fotografia, ha un viso che sembra fatto con la gelatina. Questo professore dice assolutamente niente usando un sacco di paroloni. Ma quanto guadagna uno così e soprattutto chi lo paga? “Questa volta il tuo Indiana Jones ha addormentato il cane” dice Lost che ha appena terminato di leggere l’articolo, “e non mi dire che ha solo voluto sfregiare la statua. Questo pazzo cerca lo smeraldo! Perché lo cerchi dentro agli occhi non l’ho ancora capito. Ma sai, ognuno ha le sue idee. Forse vede un’affinità con gli occhi verdi della cantante.” È proprio un figlio di puttana Lost, ma è in gamba. Ma quello che mi turba è che tutte le volte che parla dello smeraldo mi fissa intensamente. Anche adesso mi sta fissando con quegli occhietti indagatori alla Poirot. “E la Polizia cosa dice?” chiedo cercando di essere il più naturale possibile. “Le solite stronzate” mi risponde Lost che adesso ha ripreso a sfogliare il giornale. Meno male, se avesse continuato a guardarmi in quel modo penso che mi sarei tradito, “dice che questa volta il maniaco ha lasciato delle tracce. Ma
non è vero niente. È tutta roba da dare in pasto alla stampa per tranquillizzare il pubblico. Secondo me non lo prenderanno mai.” Vado al mio tavolo e cerco di lavorare un po’. Stanotte non ho dormito. Non sono riuscito a smaltire l’adrenalina accumulata nella Casa di Riposo. Neanche la canna che ho fumato mi ha aiutato. Era come se fossi adagiato in un letto di spilli. Stamattina il sonno e la delusione mi riempiono la testa. Sono intronato come un suonatore di gong. Al tavolo vicino al mio c’è una ragazza. Sta sfogliando un volume dell’archivio. Ci presentiamo. Si chiama Annunziata ma mi dice che tutti la chiamano Tina. Le chiedo cosa sta cercando e lei mi risponde che sta facendo una ricerca sul comportamento delle masse durante il fascismo. Qualcosa che riguarda la conseguenza della dittatura fascista sulla vita psichica del popolo. Le serve per una tesi di laurea. Mi dice anche come si chiama la materia in cui vuole laurearsi ma io non ne capisco niente. Ma non si studiano più lettere, filosofia, matematica? L’altro giorno c’era una ragazza che studiava qualcosa che aveva a che fare con la vita psichica uterina del bambino. Ma chi se ne frega di sapere cos'ha in testa uno che non è ancora nato. Lasciatelo stare povero angelo. Ha tutto il tempo per pensare e incazzarsi quando sarà in vita. Lasciatelo in pace almeno adesso. Tina è molto carina, secondo me è meridionale. Vedo in lei un’altra commessa, se è fortunata, o un'addetta a qualche call center precaria, più probabile. Con la società che abbiamo! Per me la situazione è molto peggio di quanto ci facciano credere il governo e la stampa. Comunque è veramente carina. Assomiglia a Penelope Cruz. Mi guarda e mi sorride. Il suo sorriso è bellissimo, è un misto tra il sorriso ingenuo di una ragazzina e il sorriso sguaiato di una escort negra. Centaurea è uscita che io dormivo ancora e non abbiamo parlato. Ho da raccontarle la mia avventura del giorno prima. Che non ho trovato il gioiello penso lo abbia intuito. L’avrei svegliata. Voglio comunicarle dove sono deciso a cercare ancora lo smeraldo. È l’ultimo posto, ed è il più complicato. Oggi è arrivato il bonifico mensile. Voglio festeggiare. Ho deciso che questa sera preparerò io la cena. Voglio stupirla con la mia cucina, con le mie specialità. o a comprare una minestra pronta. Si tratta di una “crema di funghi” della Valtellina. Poi compro un pollo allo spiedo con crocchette di patate. Lo terrò
caldo in forno mentre cucinerò la minestra. Compro anche una vaschetta di gelato, cioccolato e crema, che terrò pronto in freezer. Coca Cola per lei ne ho ancora. Compro del vino per me. Chiedo che sia un po’ frizzante e mi consigliano la Freisa. Arriva che io sono indaffarato a cuocere la minestra. Ho imparato a memoria le istruzioni e ho distrutto la busta. Spero di ricordarmele. Sta venendo bene, bella spessa. Gliela servo e lei mi chiede se ci sono i crostini. No! Non ci sono i crostini. Li ho dimenticati gli stramaledetti crostini. Mi dice che non importa, che è buonissima anche così. Non è vero ma lei è molto cara. Mi chiede dove ho imparato a cucinare così. Dico che è una vecchia specialità che cucinava già mia madre. Vorrei chiederle come possa essere buona la crema di funghi con la Coca Cola. Ma non voglio che si senta in colpa. La Freisa invece è molto buona e mi fa starnutire. Poi apro il forno. I primi a girare la testa sono il cane e il gatto. Il cane si lecca già le labbra. Il pollo è bellissimo, dorato e ben cotto. Centaurea dice che non sarà mai capace di cucinare un pollo così. Mi chiede se ho qualche trucco e mi prega di insegnarglielo. Mi rifugio nell’alibi della cucina della mamma. Ma quando assaggia le crocchette di patate penso che svenga dal piacere. Ha perfino una lacrima che le riga la guancia. Mi dice che sono un cuoco eccezionale. È commossa perché dice che devo aver lavorato tutto il pomeriggio per lei. Altra festa al gelato. Stavolta non resiste, si alza e viene a baciarmi. È raggiante. Sono contento anch’io. Le racconto della sera precedente, ma vedo che non mi presta molta attenzione. Mi dice che le dispiace e mi dice di lasciar perdere quel maledetto gioiello. Ha paura che ci succeda qualcosa di brutto. Dice che teme anche per la mia salute fisica e psichica. Voglio esporle il mio ultimo piano ma capisco che non è la serata giusta. Mi chiede di portare l’immondizia sotto. Non ne ho voglia. Ho bevuto abbastanza e ho sonno. Ma lei mi dice che c’è ancora quella della sera prima e che si sente già la puzza. Scendo. Dalla solita finestra arriva la musica della solita canzone sudamericana. Apro il cassonetto e butto il sacchetto. Non c’è il ratto. Guardo bene ma non lo vedo. Mi dispiace. Non vorrei che gli fosse successo qualcosa di brutto. La vita di un ratto è piena di pericoli. A modo nostro ci amavamo io e quel grosso topo. Chiudo il cassonetto, mi giro e lo vedo. Sta mangiando tranquillamente nella
ciotola dei gatti. E mangia in compagnia di un grosso gatto grigio. Roba da matti! Non c’è più religione a questo mondo. Se un topo può mangiare tranquillamente seduto a tavola con un gatto allora non esistono più né regole né principi. Se riescono a mettersi d’accordo un ratto e un gatto chissà cosa succede nel nostro governo, tra opposizione e governo, tra destra e sinistra, tra mafia e governo. Il mondo è diventato tutto uno schifo. Proprio un puttanaio di mondo! Forse ha ragione Lost! Quando arrivo su Centaurea dorme già. Il tavolo è da sparecchiare e i piatti sono da lavare. Da quando lavora alla sera è molto stanca. Va tutto bene, io la capisco, ma adesso non si fumano più canne e non si scopa più. Al tavolo e ai piatti ci penso domani mattina.
CAPITOLO XXI
Trovo Lost come al solito chino sul giornale. Della ragazzina sparita all’uscita della palestra non se ne parla più. Non si parla più nemmeno delle gemelline svizzere e del loro padre suicida. Nessun accenno neanche al maniaco che sfregia le statue e i ritratti della moglie del Conte. La squadra di calcio per la quale tifa Lost ha perso in casa con una squadra inglese. Ci sono stati degli scontri a fine gara e un giocatore italiano ha abbattuto con una testata l’allenatore degli inglesi. I commenti apparsi sui giornali inglesi sono molto crudi e duri. Un giornale è apparso addirittura con il titolo: “Mafiosi 0 – Inglesi 1”. Nessun commento da parte della nostra stampa, troppo occupata dallo scandalo della minorenne alle feste dell’uomo politico. Due o tre tavoli sono occupati da un professore barbuto che tiene una lezione ad una scolaresca abbastanza disciplinata. Il tema è: “La questione meridionale dopo centociquant’anni di Unità d’Italia.” Alla domanda del professore: “Esiste o non esiste una questione meridionale?” mi alzo in piedi e, alzando una mano, chiedo: “Scusi professore, posso rispondere io alla sua domanda?” “La prego” mi risponde il barbuto con un sorriso. Secondo me è contento di aver coinvolto altre persone alla sua lezione. Guarda gli studenti gongolando sicuro della loro ammirazione. Vado da Lost e mi faccio prestare il giornale. “Professore”, incomincio. I ragazzi pendono dalle mie labbra. Il professore ha un ghigno ironico. È pronto a saltarmi addosso, a sbranarmi e a soffocarmi con parole e citazioni erudite. “Ieri, nel duemila e undici, dopo centocinquant’anni di Unità d’Italia, su un giornale inglese è apparso un articolo con il titolo “Mafiosi 0 – Inglesi 1”. Si trattava del risultato di un incontro di calcio tra una squadra inglese e una italiana. Ora lei ci chiede se esiste una questione meridionale. Mi spiega lei, caro professore, perché dopo centocinquant’anni di Unità d’Italia io
all’estero non sono conosciuto come piemontese o italiano ma come mafioso?” Il silenzio che segue alle mie parole è sottolineato dallo stupore che leggo sul volto degli studenti. L’applauso di Lost che arriva dal fondo della sala dà inizio ad un brusio di commenti. Il professore è sbiancato in viso - almeno per quello che lascia scoperto la barba - balbetta e si asciuga le mani in un fazzoletto: “Mah! Sa! Capirà! Io ho solamente un’ora a disposizione e mi dovrei dilungare troppo, lei mi capisce vero? Ma le lascio un mio biglietto da visita, venga a trovarmi, mi fa molto piacere discutere con lei.” La lezione poi è terminata, gli studenti sono usciti con il professore in testa. Del biglietto da visita nemmeno l’ombra. Appena uscita la scolaresca Lost mi offre un caffè. Ma arrivati alla macchinetta dice che ha solo un biglietto da cinquanta euro. Ma quando mai Lost ha avuto in tasca un biglietto da cinquanta euro? Glielo offro io il caffè. Gli dò le due monetine e lui le infila nella feritoia. La macchinetta a lui i caffè glieli fa subito. Belli e zuccherati, completi di cucchiaini. Non mi arrabbio, sono già molto soddisfatto dei suoi complimenti. Mentre beviamo il caffè gli chiedo cosa ne pensi dell’Unità d’Italia e degli italiani. “Innanzi tutto la data che si festeggia in tutto il paese non è quella dell’Unità d’Italia bensì quella della nascita del Regno d’Italia” esordisce Lost, “l’Unità d’Italia viene parecchio più tardi con la liberazione del Triveneto e la presa dello Stato Pontificio attraverso la breccia di Porta Pia. Ma lasciamo perdere. Dimmi piuttosto di quale Italia parli? Di quella delle regioni autonome o di quella controllata dalla mafia, dalla ‘ndrangheta o dalla camorra? Di quella dei politici corrotti o di quella controllata dallo Stato del Vaticano attraverso la Chiesa? Di quella degli industriali che portano le loro attività all’estero o di quella dei sindacati che non fanno niente per impedirglielo? Oppure parli dell’Italia dei poveri operai che dipendono dai padroni e dai sindacati? Di quelli che sono in cassa integrazione - chi ce l’ha - o di quelli che sono disoccupati? Parli dell’Italia dei banchieri o dell’Italia dei vecchi che vivono come topi in soffitte incredibili, con la pensione sociale - chi ce l’ha - e che vanno a recuperare un po' di cibo scavando nei cassonetti dell’immondizia? Vedi”, continua Lost facendomi segno con una mano che vorrebbe fumare, “un italiano si sente italiano se parla con un se o un tedesco, ma un piemontese si sente piemontese se parla con un
siciliano e un calabrese si sente calabrese se parla con un veneto. Secondo me ci sentivamo molto più italiani prima di essere uniti. Proprio perché la penisola era piena di stranieri. Certo che allora i politici si davano molto più da fare. Anche loro avevano dei difetti. Anche allora c’erano gli scandali. Il Re aveva un’amante alla quale regalava addirittura dei palazzi. Altro che la minorenne marocchina! Il primo ministro è addirittura morto sopra ad una sua amante facendo l’amore. Ma trovavano anche il tempo per fare l’Unità d’Italia. Poi mi chiedi cosa ne penso degli italiani. Ma, cosa vuoi, per me gli italiani sono quelli che usano il congiuntivo.” Lost si accende la sigaretta e riprende il suo sudoku. Mi piacerebbe sapere che studi ha fatto Lost. Un giorno o l’altro glielo chiedo. I suoi ragionamenti sono un misto tra l’erudizione, il sentito dire e la filosofia contadina. Certo che è strano, è unico. Esco. Non ho voglia di lavorare. Il discorso con il professore e gli studenti mi ha di nuovo riempito di adrenalina. Il volumetto sulla vita del Conte Montrucchio Carignano dice che sia lui che sua moglie sono sepolti nel cimitero monumentale della città. Ci vado a piedi, è abbastanza vicino. Non voglio chiedere informazioni per evitare che in seguito qualcuno riesca a risalire fino a me. Per fortuna all’ingresso c’è un grosso volume con l’indice alfabetico di tutte le personalità che sono sepolte nel cimitero e l’ubicazione delle loro tombe. Incominciamo bene. Ogni tanto un po' di fortuna non guasta. La tomba dei Montrucchio Carignano si trova nel lotto E-17. Lo trovo sulla pianta del cimitero e me lo fisso bene in mente. La tomba assomiglia a una piccola cappella neogotica. Una porta a vetri a due ante riempie il sesto acuto dell’ingresso. All’interno c’è un disimpegno rettangolare pieno di fiori e in fondo il muro con i loculi. Il coperchio dei loculi è chiuso con quattro grossi bulloni di ottone a testa quadrata. Mi servirà una chiave a pappagallo e un palanchino. Riesco a vedere le fotografie del conte e di sua moglie. Sono stati gli ultimi ad essere sepolti e sono i due loculi in basso. Oggi mi gira tutto per il verso giusto. Sento che è la volta buona. Appoggiata al muro di cinta c’è la rastrelliera con gli annaffiatoi. Non deve essere difficile salirci sopra per scavalcare il muro e uscire.
Faccio un giro all’esterno del cimitero. Da un lato, appoggiate al muro di cinta, ci sono delle baracche dove i negozianti vendono i fiori. Anche queste non sembrano difficili da scalare per saltare dentro. Vado ad aspettare Centaurea all’uscita dal lavoro. Mi vede e mi saluta già da lontano. Mi presenta alle sue colleghe come scrittore di successo. Qualcuna dice che segue le puntate dei miei romanzi sul giornale e mi fa i complimenti. Le ragazze quando escono dal lavoro sono diverse da quando escono dalla scuola o dalla discoteca. Sono tristi, sembrano più vecchie. Saliamo in casa. Io dò da mangiare al cane e al gatto e intanto comincio a raccontare dove intendo cercare lo smeraldo. Centaurea dice che ha voglia di una cioccolata calda. Le dico di farne una anche a me ma ne è rimasta una bustina sola e se la beve lei. E compriamone qualcuna in più di queste bustine. Santo Iddio! Intanto, seduta con le gambe incrociate nella sua solita posizione yoga, Centaurea mi ascolta. La sua attenzione è inversamente proporzionale alla quantità di cioccolata nella tazza. Più spalanca gli occhi e cresce la sua attenzione e più in fretta muove il cucchiaino e diminuisce la cioccolata. Quando termino di illustrarle il piano mi guarda tra lo stupefatto e l’impaurito. Poi mi chiede se sono scemo. Tipico suo. “Ma ti rendi conto” urla nonostante le faccia segno di abbassare il tono della voce, “ma ti rendi conto cosa significa aprire una tomba, estrarre la cassa con il morto e aprirla? Ma tu come vedi lo scheletro svieni e rinvieni il giorno dopo quando ti trovano.” Visto che sono irremovibile mi fa promettere di portare anche lei. Adesso le parti sono invertite. Sono io che le chiedo se è scema, che non si rende conto di quello che la aspetta, che ci sono da scalare dei muri e così via. La convinco, ma mi fa il broncio. Scendo a comperare due pizze. Lei dice che la vuole con la rucola. Ma come si fa a mangiare una pizza con la rucola! Speriamo di trovarla questa stramaledetta rucola.
CAPITOLO XXII
Ho male in mezzo al petto. Ho paura che mi venga un infarto. Ho anche un senso di nausea. Però il braccio sinistro non mi fa male. Ho sentito dire che prima che ti venga un infarto ti duole il braccio sinistro. A me non fa male. O almeno non tanto. Arrivo al giornale. Lost mi saluta, prende la Marlboro e mi elenca le notizie. C’è stato un violento e terribile terremoto in Giappone seguito da uno spaventoso ed enorme tsunami. Ci sono decine di migliaia di dispersi e migliaia di vittime. Lo tsunami ha anche investito una centrale nucleare. Non si riesce a fermare l’aumento della temperatura del nucleo. Si temono radiazioni mortali. Chiedo a Lost cosa ne pensi del nucleare e lui mi risponde svogliato: “Con le centrali a gasolio inquiniamo l’aria, ci ammaliamo di tumore e moriamo un poco alla volta. Con le centrali nucleari, se si verifica una fuoriuscita di radiazioni atomiche, moriamo subito. Meglio le centrali nucleari.” Lost è così. Quando non ha voglia è scorbutico e stronzo. Molto stronzo. Il mistero sulla scomparsa delle gemelline svizzere si infittisce. Ci sono dei testimoni che asseriscono di averle viste in Italia in compagnia del papà prima che questi si suicidasse. Tutti sono concordi nell’aver visto insieme a loro una misteriosa donna bionda. Hanno fatto vedere delle foto ai testimoni e tutti hanno riconosciuto nella donna bionda una donna scomparsa dalla Svizzera sei o sette mesi fa. Continuano i disordini in Nord Africa. Sono già caduti due governi. Crescono i numeri delle vittime e crescono i numeri degli sbarchi sulle coste italiane. Da un po' di giorni Lost non mi tiene più il suo editoriale. Secondo me ha perso ancora dei capelli. A questo punto io me li farei radere a zero. Mi toglierei quella orribile peluria color cenere. Vado al tavolo e apro il computer. Tina mi sorride dal tavolo vicino al mio. Il suo è un sorriso che attira, che contagia. Se mi sorride ancora una volta la invito al
cinema. Lo fa! Mi avvicino al suo tavolo e la invito. Chiudiamo i computer e usciamo. Lost mi guarda e scopre la protesi color pergamena in un sorriso sornione. Al Cinema d'Essai danno un film di Woody Allen. Le chiedo se le piace Woody Allen e lei mi dice che le piace sia come regista che come attore. È preparata la ragazza, preparata e sensibile. A me Woody Allen piace perché mi riconosco in lui. È sfigato come me. È umano. È stronzo come me. Quando usciamo lei vuole andare alle giostre. Ma prima mi offre una pizza perché, dice, le è venuta fame. La pizza insiste per pagarla lei. Però! È sportiva la ragazza. Le giostre le vuole provare tutte. Mi costerà un capitale. Meno male che le pizze le ha pagate lei. Incomincia con quella dei bambini, quella dei cavallini che appesi per una sbarra al soffitto vanno su e giù imitando uno sfrenato galoppo. Si diverte un mondo. Sembra ancora una bambina. È bello vedere qualcuno che è rimasto bambino dentro. Ma io quella bambina me la farei. E come! E poi mi chiamino pure pedofilo se vogliono! Le luci delle giostre si specchiano nei suoi occhi e quando lei batte le palpebre sembrano pieni di lucciole. Ho tanta voglia di baciarla! Poi andiamo al baraccone del tiro ai barattoli. Provo per primo a buttare giù la pila di barattoli. Mi dò un sacco d’arie, spiego a Tina cosa bisogna fare, come va tenuto il braccio e come lanciare la palla. Poi prendo la mira e non solo sbaglio la pila dei barattoli ma a momenti colpisco il gestore. L’uomo mi guarda in cagnesco. Il suo sguardo mi dice che se mi becca da solo me la fa pagare. Poi tira Annunziata e non solo centra la pila ma butta giù tutti i barattoli e vince un orsacchiotto di peluche bianco e grosso come un cane San Bernardo. Al primo schianto sull’autoscontro i capelli le cascano spettinati sul viso. È davvero bella. Ride come una matta. Mi abbraccia sempre più disinvolta. Ad ogni scontro ride e grida. Ha perfino le lacrime agli occhi. Nel tunnel dell’amore le dò un bacio. Me lo contraccambia. La sua bocca sa di pizza alle acciughe e di origano. Ho già un'erezione. Le chiedo se le va di farsi
due canne a casa mia. Accetta. L’erezione continua. L’ho gia spogliata con gli occhi! Con il pensiero sono già a letto. Lo stanzino della portinaia è vuoto. O almeno io la portinaia non la vedo, può darsi sia dispersa in mezzo al fumo. Meno male. Non avevo voglia di dare spiegazioni. Speriamo che Centaurea sia uscita e non sia ancora rientrata. Sarebbe imbarazzante. Entriamo. Accendo la luce. Tina fa i complimenti a Brad e a Pitt. “Porca vacca!” mi scappa con voce incazzata. “C’è il papero! C’è quello stramaledetto papero giallo!” Il papero è lì che pende dalla maniglia della camera da letto. Era tanto tempo che non lo vedevo più. Proprio questa sera doveva capitare. “Vai a fare in culo!” grido in direzione del papero. Poi mi giro ma Tina non c’è più. Se n'è andata. Forse si è spaventata. Forse mi ha preso per matto, oppure mette anche lei un papero giallo alla maniglia della camera da letto quando è occupata. Brad e Pitt si sono rifugiati nel cucinino. Mi faccio una canna e mi addormento sul divano.
CAPITOLO XXIII
Lost mi saluta e prende la sigaretta. Poi mi dice che non c’è niente di nuovo e va avanti con il sudoku. Non ha voglia di parlare. Ogni tanto ha queste crisi esistenziali, è come se uscisse dal mondo, è come se odiasse tutto e tutti. Ma la Marlboro la prende. Tina è già seduta al tavolo e sta lavorando con il computer. Quando mi vede mi saluta con un sorriso. Il suo sorriso ha il potere di scavarmi dentro. Quasi quasi urlo. Mi avvicino per spiegarle cosa è successo ieri sera. Tengo a lei. Accanto a lei c’è un ragazzo. È alto e grosso. Ha qualcosa del vitello. È senza collo, ha la testa direttamente attaccata allo stomaco. Se dovesse mettersi una catenina se la metterebbe direttamente sul mento. Tina me lo presenta. Mi dice che è il suo compagno. Devo stare attento con Tina. Meglio non litigare con un armadio così. E poi a guardarla bene Tina non è poi niente di straordinario. Non riesco a lavorare, non riesco a concentrarmi. Penso a stanotte. Stanotte voglio aprire la tomba della cantante. Esco. Vado al cinema per rilassarmi un poco. C’è un film di Almodovar. È noioso. Secondo me Almodovar non è in gamba come vogliono farmi credere. Devo diffidare di quello che piace tanto alla gente. Non basta nemmeno una splendida e sensuale Penelope Cruz a salvare la pellicola. Gran bella donna Penelope. Da perderci la testa. E poi è bella perché è vera, autentica, oserei perfino dire, normale, comune. Una ragazza che si sogna sempre di poter avere. o a comperare la chiave a pappagallo e il palanchino. Ho già un'attrezzatura da fare invidia ad un artigiano edile. Vado a casa e cerco qualcosa da mettere sotto i denti. Il frigorifero è pietosamente vuoto. Nel mobile trovo una scatola di tonno. È scaduta ma solo da meno di un mese. Secondo me si può ancora mangiare. Ci sarà un po’ di
tolleranza, spero. Non c’è pane, ci sono solo fette biscottate ai cereali. Ho la bocca piena di pezzettini non ben definiti, un misto tra pezzi di turacciolo tritato e segatura. Vado a dormire. Non ho sentito rincasare Centaurea e lei non mi ha svegliato. Adesso è buio. Centaurea sta prendendo un the con le fette biscottate ai cereali. Ha pure della marmellata. Io non l’ho vista. Metto tutta l’attrezzatura nella borsa del computer portatile ed esco. Mi accompagna sotto in strada. Non parla ma leggo nel suo saluto tanta raccomandazione. Solo quando arrivo vicino al cimitero mi accorgo che c’è la luna. In città non ti accorgi se c’è la luna. La notte è abbastanza chiara, anche se ogni tanto una nuvola le a davanti. È come se ogni tanto la luna si tirasse un velo sulla faccia. Busso a una delle baracche. Non vorrei che ci fosse qualcuno che dorme dentro. Poi salgo sul tetto della baracca e salto all’interno del cimitero. Non provo tanta paura anche se tutte le volte che va via la luna provo qualcosa che ci assomiglia parecchio. Ancora una volta percepisco il silenzio in una dimensione sconosciuta. Così come lo avevo vissuto al museo. È una sensazione indescrivibile. Per farvela provare dovrei lasciare un paio di pagine in bianco. Perché anche solo facendo scorrere gli occhi sulle parole guastereste quel silenzio. Cerco di orientarmi. Trovo la cappella neogotica. Per aprire il chiavistello della porta a vetri basta infilare la tessera del Bancomat e sollevarlo. Io non ho il Bancomat. Infilo la tessera dei punti della Coop e il chiavistello si alza. Entro. Non so se il rumore che sento sia il cuore che batte o il sangue che pulsa nelle tempie. Oppure tutti e due. Porca troia! Il rumore che sento è prodotto dalle ruote di un carretto che si avvicina. Dietro al carretto ci sono due ombre che lo spingono. Sembrano operai, vengono verso di me. “E che cazzo, faranno mica il turno di notte anche al cimitero?” penso. Poi li sento parlare e capisco. Sono due rumeni che rubano gli oggetti di rame dalle tombe. Sul carretto hanno già diversi vasi e fioriere. Giro lo sguardo intorno e vedo un bellissimo vaso di rame pieno di fiori. Lo agguanto e in fretta lo nascondo dietro alla risega del muro poi chiudo la porta. I romeni si fermano
davanti alla tomba accendono una pila e scrutano all’interno. Sono nascosto dietro alla risega del muro. Pensa che casino se entrassero. Da una parte ci sarebbe da ridere ma io in questo momento me la sto facendo sotto. Non vedono né me né il vaso di rame e se ne vanno. Santa risega, mi ha salvato la vita. Sono bagnato di sudore e ho la bocca asciutta. Cristo! Che paura! Il loculo della cantante è quello alla sinistra. Svito uno ad uno i bulloni a testa quadra con la chiave a pappagallo. Infilo il palanchino dietro alla lapide del loculo. Cede. Mi tolgo la camicia e la metto sul pavimento per attutire il colpo. Si apre. La appoggio piano sul pavimento. Tolgo la camicia di sotto e la indosso. Non vorrei dimenticarla. La bara è lì, è ancora intatta. La faccio scorrere. Viene avanti facilmente perché scorre su dei piccoli cilindri d’acciaio. La tiro fuori e la appoggio per terra. È molto bella, è di classe. Svito le viti del coperchio e la apro. La signora Montrucchio Carignano mi guarda attonita con due grosse occhiaie nere piene di stupore e mi sorride con i trentadue denti bianchissimi della mascella serrata. Quei denti in quel momento mi sembrano enormi. Ho fatto un leggero quanto istintivo balzo all’indietro. Le infilo la lama del coltello da indiano prima in un occhio e poi nell’altro. Scavo e poi illumino le occhiaie in profondità. Niente! Non c’è nulla nemmeno qui. La cantante continua a ridere con i suoi dentoni. Mi sa che mi prende per il culo. Al collo ha una catena d’oro grande come quella che tiene legato un cane. Al dito - o meglio a quello che rimane del dito - ha un anello con un grosso diamante. Ma io non tocco nulla. Io non sono un ladro. Io non rubo. Io sto cercando una pietra favolosa, leggendaria. Una pietra che mi realizzi non solo sul piano finanziario ma che mi realizzi nello spirito, che mi faccia sentire qualcuno per la prima volta in vita mia. Sento dei rumori. All'inizio sono molto lievi, indistinti, ma poi diventano sempre più percepibili. Provengono dalla parte dove si sono allontanati i rumeni. Non vorrei incontrarli mentre scappo. Lascio la tomba aperta. Ho un po' di affanno e molta paura. Raccolgo l’attrezzatura e faccio un giro attorno con la pila per vedere di non aver dimenticato niente. La notte in quel momento è buia. Il volto della luna mi ricorda quello di
un’araba. Mi guarda da dietro il burqa delle nuvole. Aguzzo le orecchie ma non sento più nessun rumore. Si vede che i rumeni sono andati da un'altra parte. Salgo sulla rastrelliera degli annaffiatoi per saltare nella strada. Mi fermo appena in tempo. Un’auto di grossa cilindrata si ferma proprio sotto al lampione che c’è dall’altra parte della strada. La puttana scende salutando ad alta voce il conducente: “Sei stato magnifico, sei stato grande, tesoro. Sei stato tremendo, torna a trovarmi. Non lasciarmi sola. Ti aspetto tesoro, a presto.” Poi si accende una sigaretta e incomincia a darsi una sistemata. Solleva la maglietta e appaiono due grosse tette nude. A vederle di qua sembrano belle sode. Le fa scivolare dentro al reggiseno e abbassa la maglietta. La maglietta è corta, le arriva un palmo sopra all’ombelico. Però in compenso la gonna le incomincia un palmo più in basso dell’ombelico. La gonna è alta quattro dita, proprio una mantovana posta sul sesso. Ha tacchi altissimi, roba da soffrire di vertigini. Il viso incorniciato da capelli neri, lisci e lunghi, non riesco a vederlo bene, ma mi pare che abbia due labbra grosse e sensuali. Si mette a eggiare, fuma e eggia. Canticchia una canzoncina. È stonata. Porca troia! Ci mancava anche la puttana! Io sono appeso al muro di cinta e aspetto. Speriamo che si fermi un’altra auto altrimenti non posso uscire. Il muro di cinta è troppo alto per essere scalato in un altro posto. E poi non me la sento di mettermi a girare per il cimitero al buio. Metti caso che incontri i rumeni, meglio non rischiare. La luna va e viene giocando a nascondino con le nuvole. La puttana è sempre lì che eggia. Fuma, eggia e canta. Le auto ano, rallentano e poi proseguono. Qualcuno chiede il prezzo e riparte. Lei li manda a fare in culo e gli grida di andare a scopare quella puttana della loro madre. “Cerca di abbassare il prezzo brutta troia, altrimenti non lavori e io non posso uscire” penso. Sono incazzato nero. Le vorrei sparare. Ad un certo punto butta via la sigaretta e attraversa la strada. Viene proprio dritto verso di me. “Che si sia accorta di me?” Mi tiro un po’ indietro. Lei arriva proprio sotto di
me, si ferma, si alza quella specie di gonna, tira fuori un sesso maschile grosso come la canna di un organo - sarà per questo che si chiama organo? - e si mette a pisciare. “Madonna mia Santissima!” a momenti urlo. Sento gelarmi il sangue addosso. Sudori freddi mi bagnano le tempie. “È un uomo quella stramaledetta troia, è un trans!” Lei - o lui, qui incomincia il difficile, chissà se appartiene al sesso forte o al sesso debole - scrolla ben bene il membro fino a far cadere l’ultima goccia e lo ripone sotto la gonna. Poi riattraversa la strada e riprende a eggiare sotto al lampione. Come diavolo faccia a far stare quella specie di proboscide sotto a quello straccetto di gonna e dentro al filo interdentale delle mutandine per me rimane un mistero. “È vero! Adesso ricordo! Vicino al cimitero ci sono i trans!” Mi viene in mente quando venivamo a prenderli per il culo io e i miei amici all’uscita dalla discoteca. “Ma proprio uno sotto di me ne dovevo trovare? E pure alto e grosso, da non poterci nemmeno litigare. Ma possibile che nessuno se lo scopi stasera questo bastardo? Mi farà are tutta la notte appeso a questa rastrelliera, il porco?” Intanto un Suv, grosso come una villetta bi-familiare, si ferma sotto di me e chiama il trans. Il trans attraversa la strada sculettando e infila la testa nel finestrino. Non sento il prezzo ma secondo me vale più di una settimana del mio stipendio. Lo vedo che fa il giro dell’auto sempre sculettando, apre la portiera e sale. Il Suv riparte facendo fischiare le ruote. Lo vedo che si allontana verso la collina. “Maiali, porci!” penso indignato, “Maniaci sessuali, pervertiti.” Mi sento come chiuso in una gabbia. Vorrei gridare, spaccare tutto. “Scagli la prima pietra chi di voi non ha peccato, ha detto qualcuno ma il suo nome in questo momento mi sfugge e a parte il fatto che adesso pietre in strada non ce ne sono più, ma altro che pietre, mattoni, martelli, macigni tirerei addosso a quei porci. Il popolo, quei peccati, mica li fa. Che schifo! Il politico che si scopa le minorenni, l’industriale che va con i trans. E ha pure il Suv con i vetri affumicati perché nessuno lo riconosca! Si sa, ha diritto anche lui alla privacy. Porconi! Ma in che bella società vivo! E la gente non ce la fa ad arrivare a fine mese. Ma questo cosa
c’entra. La gente non ce la fa ad arrivare a fine mese anche senza trans.” Salto giù dal muro e casco proprio in mezzo al laghetto che ha fatto quel tale. Ma quanto ha pisciato quel maiale. Mi incammino verso casa deluso e solo. Non a quasi nessuno in quella strada. Ho contato due auto che rallentano appena mi vedono. Cacciatori di sesso a pagamento o maniaci. Sento freddo alla schiena. Incontro anche un ciclista con un sigaro in bocca su di una bicicletta senza fanale. Ma cosa diavolo andrà a fare al Cimitero con un sigaro in bocca in una notte buia su di una bicicletta senza fanale. La gente è ben strana alle volte. I lampioni sono radi come la brava gente. Tra uno e l’altro c’è una zona di penombra che non mi piace per niente. Sono solo come un cane. Anzi no! Un cane mi sta seguendo mantenendosi a distanza di sicurezza. Mi fermo e lui si ferma e si mette a sedere. Forse aspetta un cenno per avvicinarsi e fare amicizia. Non lo chiamo. Siamo soli come due cani. Centaurea è seduta sul divano nella sua solita posizione yoga. La cena è sul tavolo chiusa in mezzo a due piatti. È carne in scatola in mezzo a qualche foglia di insalata pietosa accartocciata nella sua vecchiaia. Anche Brad e Pitt dal loro angolo mi guardano con commiserazione. Sembrano capire anche loro la mia delusione. Il cane me lo dice con un guaito sotto voce. Centaurea ha già preparato due canne. Le racconto tutto mentre fumo e mi rilasso.
CAPITOLO XXIV
Porto sotto la spazzatura. Ieri sera non ne avevo voglia. Il ratto è sempre dentro al cassonetto che rosicchia qualcosa. Ma mangia sempre il bestione? Si gira e mi saluta sempre con il solito distacco. Dalla solita finestra escono le note della solita canzone sudamericana. Per me hanno rotto il giradischi e non sono più capaci di fermarlo. I gatti randagi dormono all’ultimo sole. Mi piacerebbe essere nato gatto e dormire tutto il giorno al sole. Chi è che sta meglio di un gatto randagio? Vive libero in una struttura sociale come il cortile del condominio. Dorme tutto il giorno al sole e di notte dorme nelle cantine. Mangia quello che la gente avanza e la gente avanza parecchio - tutti gli vogliono bene e, quando è in calore, scopa gratis. Non ha più nemmeno l’obbligo di cacciare i topi. Adesso c’è la derattizzazione, ci sono le ditte specializzate. Per il cane è diverso. Il cane randagio viene scacciato a bastonate e preso a pietrate. E poi il cane ha un sacco di obblighi. Deve essere fedele al padrone mentre il gatto se ne può fregare altamente. Deve fare la guardia di giorno e di notte, estate e inverno. Qualcuno deve fare compagnia a qualche orribile vecchiaccia. Qualcun altro deve portare a so un cieco e questo comporta un sacco di responsabilità. Prova a farlo are con il semaforo rosso e vedi che casino ne viene fuori. Qualcuno poi ha il padrone che fa il cacciatore e si deve alzare molto presto alla domenica per correre dietro alla selvaggina. Hai mai provato a correre dietro ad una lepre? Ti lascia senza fiato la stramaledetta. Poi ci sono quelli che di mestiere devono correre dietro ad una lepre finta in mezzo ad una folla vociante. E quelli che trainano le slitte cariche di merci e come se non bastasse con un padrone obeso che si fa portare anche lui. E quelli che scavano nella neve per tirare fuori da sotto ad una slavina quegli stupidi che praticano lo sci fuori pista. E quelli che girano con una botte appesa al collo piena di liquore da far bere a quegli stupidi quando escono da sotto alla slavina. E quelli che guardano le mandrie e si prendono i calci dalle mucche. E quelli che capitano in loschi giri e sono costretti a combattere e ad ammazzare un loro simile altrimenti vengono ammazzati.
Penso sia molto meglio nascere gatto. Quando arrivo al giornale Lost sta già giocando al sudoku ma torna indietro nelle pagine. La rivolta in nord Africa ha contagiato altri stati. Adesso si può dire che tutti gli stati africani che si affacciano sul Mediterraneo siano in rivolta. Delle gemelline nessuna notizia. La madre si dice sicura che siano ancora vive. Anche della ragazzina scomparsa all’uscita della palestra nessuna notizia. Io ho la smania addosso. Voglio vedere che cosa hanno scritto i giornali sul cacciatore di occhi. La mia smania è enorme ed è pari solo alla mia delusione. Ma Lost gira le pagine adagio. Sembra un giocatore di poker quando apre le carte. Non so perché i giocatori di poker aprano le carte così lentamente, ma fanno tutti così. È come un rito, si vede che porta bene. Poi si ferma prima di aprire la pagina della cronaca cittadina. Mi chiede la sigaretta, l’accende con calma, mi fissa negli occhi e apre la pagina lentamente come se fe uno sforzo sovrumano, come se quella pagina pesasse un quintale. “Il cacciatore di occhi profana la tomba dei Montrucchio Carignano.” Il titolo è su quattro colonne, corredato con la fotografia della piccola cappella neogotica. Lost legge ad alta voce anche l’articolo: “Lo sconosciuto, noto come “il cacciatore di occhi”, ha colpito un’altra volta la famiglia del Conte Montrucchio Carignano. Questa volta è entrato nella tomba di famiglia del cimitero monumentale cittadino e ha profanato la tomba della cantante moglie del conte. La macabra scoperta l’ha effettuata stamattina all’alba un addetto al cimitero durante il giro per aprire le porte di accesso al pubblico. Il maniaco, dopo aver aperto la tomba, ha estratto la bara e l’ha aperta. Dopo aver estratto dalle occhiaie ciò che rimaneva dei meravigliosi occhi verdi della cantante, si è impadronito di una grossa collana d’oro e di un grosso anello d’oro con un diamante. Rimane un mistero il perché si accanisca tanto con gli occhi della cantante. La polizia indaga. Sembra siano state trovate tracce organiche e sono certi di poter risalire fino al maniaco tramite la prova del Dna.” “Io non ho rubato nulla” a momenti grido, “è quel bastardo di un becchino rumeno di merda che ha rubato la catena d’oro e l’anello con il diamante. Ma
come faccio a denunciarlo il bastardo? Io vado lì e lo ammazzo.” Sono arrabbiato e sovrappensiero. Sento Lost che mi parla ma capisco solo le ultime parole: “Hai visto il mio amico?” Perché lo chiama suo amico e, come sempre quando parla di questa faccenda, mi fissa in modo strano? “Hai visto che cerca lo smeraldo? Lui lo sa che è stato cercato dappertutto nel museo. Sono stati aperti tutti i cassetti e il fondo di tutti i mobili per cercare eventuali doppi fondi. Hanno guardato dietro ad ogni arazzo e ad ogni quadro. Hanno sondato i muri e i pavimenti alla ricerca di eventuali botole. Hanno svuotato bauli, cantine, solai. Hanno consultato perfino dei veggenti. Niente, non hanno trovato niente! Allora cosa pensa il mio amico? Associa la frase “lo regalerò agli occhi verdi che più ho amato” agli occhi della moglie e spera di trovarlo nascosto dietro a quegli occhi. Chissà dove diavolo lo andrà a cercare la prossima volta. Sono proprio curioso di scoprirlo.” Lost si ferma un attimo, spegne la sigaretta e si asciuga la leggera schiuma che ha ai lati della bocca. È un bastardo, ma cavolo com'è in gamba. Dovrebbe essere lui a dirigere le indagini. Dovrebbe essere lui il Commissario di Polizia. Non quei carrieristi malati di protagonismo che non fanno niente altro che comparire davanti alle telecamere con dichiarazioni scontate fatte in un italiano approssimativo. “Stiamo indagando” esordiscono tutti così, “abbiamo elementi molto interessanti che possono condurci al colpevole.” Ma che elementi interessanti? Siate seri, non avete un cazzo di niente in mano. Cosa credete, che io abbia sbavato su quanto restava della salma della cantante? Oppure che mi sia messo a pisciare in un angolo della tomba? Suvvia non prendete per il culo il popolo. Che è poi quello che vi mantiene. Al massimo troverete le impronte digitali di quel bastardo di becchino che ha rubato la collana e l’anello. “C’è qualcosa che non mi convince” prosegue intanto Lost, “questa volta il mio amico ha rubato la collana d’oro e l’anello con il diamante. Non mi convince. Il mio amico non è un ladro. Non ha rubato nulla al museo, non ha rubato nulla nella Casa di Riposo e questa volta invece ruba la collana e l’anello. No, non è lui che li ha presi quei gioielli. Quei gioielli li ha rubati il nostro caro e solerte becchino. È arrivato, ha visto la bara aperta, ha visto la collana e l’anello e ha pensato: “E che sono fesso a lasciare qui questa roba?” Li ha presi, li ha nascosti
e poi ha chiamato la Polizia. Perfetto. L’unico che può denunciarlo non può farlo perché altrimenti si taglia le palle da solo.” E bravo Lost. Lo bacerei. È proprio un genio! Un giorno forse scriverò un romanzo su di lui. Gli faccio ammazzare la moglie. Ho già tutto in mente. Lui che arriva a casa e la trova nuda mentre fa il bagno nella vasca. Prende il phon come per asciugarsi i capelli e lo getta nell’acqua della vasca. La moglie muore fulminata e tutti pensano ad una disgrazia. Devo solo procurargli un alibi a prova di bomba. Ci sto pensando. “Quante volte abbiamo avvisato del pericolo di asciugarsi i capelli con il phon restando in acqua? È pericoloso. Non lo fate!” ripeteranno solerti tecnici e professori intervistati in televisione. Ma Lost non lo scopriranno mai e lui vivrà tutta la vita contento della sua vendetta in compagnia di suo figlio. Se lo merita. È troppo bravo. Gli voglio bene. Gli offro un’altra sigaretta. Non capisce il perché ma la prende lo stesso. Non mi va di lavorare. Esco e vado al cimitero. Voglio conoscere quel bastardo di un becchino. “Mi scusi” gli dico, “sono un giornalista. È lei che stamattina ha trovato la tomba profanata?” Mi guarda con diffidenza. Si appoggia ad una scopa di saggina e mi studia un attimo. Poi si vede che le mie sembianze di bravo ragazzo lo convincono. “No” mi risponde. Ha la voce rauca di chi fuma tante sigarette di tabacco scadente. “È quel mio collega là” prosegue indicandomi un tale che sta spingendo un carretto. Riconosco il carretto, è quello dei rumeni della notte precedente. Secondo me sono tutti d’accordo. Raggiungo il tizio che sta spingendo il carretto e ripeto la domanda. Non sembra sorpreso e mi risponde in modo cortese: “Sì, sono io”. Si ferma e appoggia il carretto a terra. “Sono un corrispondente de “La Stampa” e mi piacerebbe intervistarla” gli mento impunemente, “vorrei conoscere intanto il suo nome e poi vorrei sapere come è successo, che cosa ha provato, quali sono state le sue reazioni. Mi racconti qualcosa” gli chiedo quasi
tutto in un fiato. “Mi chiamo Marco Tedesco” incomincia l’uomo. O mi sta prendendo per il culo oppure suo padre e sua madre erano proprio stronzi. Ma come si fa a chiamare un figlio Marco se di cognome fai Tedesco? Sembra una barzelletta! Intanto il tizio continua a parlare. È proprio come descriverei un becchino. Brutto. Nero di vecchia sporcizia. Barba grigia ispida come le setole di un istrice. Sopracciglia cespugliose e giallastre come raffigurate dal Lombroso. Il classico beccamorto, quello che nel Medioevo mordeva il dito grande dei piedi ai cadaveri per assicurarsi che fossero morti. Lo ammazzerei, il bastardo. L’unica cosa che ti ricorda che è un essere umano è il cappello con lo stemma della città. E lui parla, parla. Forse sogna la televisione. Diciotto coltellate ti meriteresti. Hai preso la collana e l’anello e adesso te li rivenderai per l’equivalente di tre o quattro bottiglie di grappa scadente. Perché sei ignorante. Brutto, sporco e ignorante. E ladro! Faccio finta che mi chiamano al telefonino, chiedo scusa e mi allontano un po’. Aspetto che il tizio abbassi un attimo lo sguardo, sparisco in mezzo alle tombe e lo lascio lì con il suo carretto. Me ne vado altrimenti lo strozzo. Non è neanche tanto grosso. Si potrebbe fare. E non è neanche rumeno.
CAPITOLO XXV
Sono svuotato. Ho la testa che sembra un bidone dell’immondizia. Vuoto, naturalmente. Le speranze e le illusioni di trovare lo smeraldo mi hanno abbandonato. Dietro di loro hanno lasciato una mente senza contenuto. Si sono tirate dietro anche la voglia di fare, di amare, di vivere. La delusione che sto vivendo è inenarrabile. Avete presente come possa sentirsi uno che una sera porti a casa sua una ragazza bellissima, favolosa, che mangi cena con lei, che si scoli con lei una bottiglia di brut, che si fumi una canna con lei, nudi nel letto e che quando vuol fare l’amore lei gli dica che vuole arrivare vergine al matrimonio, poi si gira dall’altra parte e incomincia a russare? E che poi al mattino, dopo una notte insonne, mentre scende le scale per accompagnarla a casa trovi la portinaia che gli consegna la lettera di sfratto perché, nonostante abbia sempre pagato regolarmente l’affitto, il proprietario dello stabile ha deciso di trasformare gli alloggi in uffici? E che quando esce in strada trovi la sua auto con una fiancata da rifare perché qualcuno gliel’ha distrutta? E che mentre sta osservando con disappunto i danni si accorge che c’è un vigile che gli sta facendo la multa per divieto di sosta?. E che mentre sta discutendo con il vigile un’auto lo investa e lo mandi all’ospedale? E che all’ospedale dove è stato ricoverato i medici non solo gli comunicano che ha il bacino e una spalla rotta, ma che dagli esami che gli sono stati fatti al pronto soccorso è emerso che ha un tumore maligno allo stomaco? Avete presente come si sente uno così? Ebbene io mi sento molto, ma molto peggio. Capisco solo adesso che quello smeraldo mi faceva vivere. Mi faceva vivere male ma mi faceva vivere. Oppure ero io che facevo rivivere quello smeraldo riportandolo agli onori della cronaca. Da parecchi giorni non scrivo più. I personaggi dei miei romanzi sembrano soldatini di piombo. Sono pesanti, immobili, non hanno più voglia di vivere. Le situazioni e le storie hanno la spontaneità e la verve di un racconto tra ubriachi. Anche con Centaurea non va meglio. Non ho più voglia nemmeno di fare l’amore. Alla sera mi faccio una canna e mi addormento. Lei non si lamenta non lo ha mai fatto e non lo farebbe mai - ma mi guarda in modo strano con quei suoi grandi occhi acquosi. Cerca di leggermi nel cervello. Forse lo trova vuoto anche lei. Due sere fa ho trovato il papero appeso alla porta della camera da letto. Ho
dormito sul divano. Non ero neanche arrabbiato. Al mattino ho trovato un tipo squallido con la faccia da rappresentante di cartucce per stampanti che faceva colazione. Non ci siamo neanche salutati. Ho la barba lunga. Non sto bene con la barba lunga, sono orribile. Non mi sono nemmeno lavato stamattina. Chi se ne frega! Ho un dolore ad un testicolo. Credo sia un tumore. Ne parlo con Lost, che mi dice che secondo lui è un processo infiammatorio che si chiama orchite. Dice che le orchidee si chiamano così proprio perché hanno le radici che assomigliano a dei testicoli. “Chi se ne frega delle orchidee” penso io. “Alle volte il testicolo può aumentare di volume, alle volte può portare alla sterilità” continua Lost. Non voglio fare la fine di una orchidea che secca in una fioriera. Chiedo a Lost cosa devo fare e lui mi consiglia di rivolgermi ad un medico per farmi curare con gli antibiotici. È bravo Lost. Mi tratta proprio come un figlio. Non vorrei che vedesse in me il figlio che non ha mai conosciuto. E da parte mia non vorrei vedere in lui il padre che anch’io non ho mai conosciuto. Speriamo di no! Dai sentimenti si esce sempre fottuti. Gli prometto di andare dal medico. Poi gli “offro” una sigaretta e gli chiedo cosa c’è di nuovo. “Continuano gli scontri in Nord Africa” legge Lost, “il dittatore di uno di questi stati, dove imperversa la rivolta, bombarda con i razzi il popolo che si è ribellato. Ci sono centinaia di morti. Un vero genocidio. Le vittime vengono tumulate in fosse comuni. La gente scappa dal paese. Si teme uno “tsunami” di sbarchi sulle nostre coste. Il nostro ministro degli interni ha chiesto aiuto alla Ue e gli è stato detto - e nemmeno in modo tanto gentile - di arrangiarsi, che questi sono fatti nostri.” Lost volta la pagina borbottando: “Io saprei come arrangiarmi. Se sono fatti miei io il rimedio ce l'avrei.”
Intuisco qual è il rimedio di Lost. Alle volte va fuori dal comune senso del pudore. Ma voglio chiedere dove siano finiti gli ideali che a suo tempo avevano spinto il popolo ad eleggere quel tale come loro capo. “I filosofi che seguono la corrente dell’idealismo ritengono l’idea il principio di tutte le cose. Peccato che poi gli ideali siano gestiti dagli uomini” mi risponde Lost. “Quanto mi piace questa definizione. Quasi quasi me la scrivo” penso. “E i soli uomini che sono fatti di spirito come le idee sono i Santi, gli altri uomini sono fatti di sangue, di veleno, di merda. E il popolo non mette un Santo a capo del governo” termina Lost voltando la pagina del giornale. “C’è stato un violento terremoto in Nuova Zelanda. I dispersi sono centinaia” continua Lost, “ci sono decine di vittime. Certo che è difficile credere, dopo catastrofi simili, che lassù nei cieli ci sia un Padreterno. È difficile capire il perché se la prenda il quel modo con gli uomini. E quasi sempre con popolazioni povere e frustrate. I preti dicono che bisogna avere Fede. Che quelli sono disegni imperscrutabili di Dio. Sì, va anche bene! Belle parole! Ma vorrei sentirle dire da un prete estratto vivo dopo sei giorni da sotto le macerie della sua Chiesa. Secondo te quando era sepolto là sotto ha pregato o ha bestemmiato?” Lost sta andando fuori del seminato. Cerco di fermarlo in tempo. “Hai visto come si chiama il paese dove c’è stato l’epicentro del terremoto?” gli chiedo additandogli una fotografia. Lost legge il nome e sbotta in una sonora risata: “Christchurch! Cristo! Si vede che non gli piaceva il nome. Devo ammettere che alle volte è anche spiritoso nei suoi “interventi”, il Padreterno.” Non ci sono notizie delle gemelline e della ragazzina sparita all’uscita dalla palestra. Secondo me è perché non fanno più notizia. Continua intanto il mistero sulla vicenda Montrucchio Carignano. La polizia ha fermato un extracomunitario. Pare che il suo telefonino sia stato rintracciato nei pressi del cimitero la notte della profanazione della tomba. Interrogato afferma che stava parlando con la sua ragazza. “Bel posto il cimitero di notte per telefonare alla ragazza!” commento.
Lost ha già aperto la pagina del sudoku. Non ho voglia di rincasare. Non ho voglia dello sguardo di Centaurea. Non ho voglia dell’invadenza di Brad e dell’insofferenza di Pitt. Oppure del contrario, non mi ricordo mai. Non ho voglia di casa mia. Vado al cinema. Danno un film di Muccino. Non è un granché, ma è divertente. Riesce perfino a farmi sorridere. C’è un tale che vuole vendermi delle pastiglie azzurre. Gli chiedo se ha del fumo. No, fumo non ne ha! Va' a fare in culo allora, tu e le tue pasticche! La città è viva, viva ma triste. La notte senza stelle è triste e in città le stelle non le vedi mai. Sono tristi le insegne luminose esagerate dei negozi e dei locali notturni. Sono tristi le persone sole. Sono tristi le coppie che si tengono per mano in silenzio. Sono tristi quelle grosse auto, nere come camere mortuarie, che vanno in giro senza meta. C’è un'atmosfera da overdose, da suicidio. Ho fame. Entro in una pizzeria. L’insegna mi accoglie con la promessa “Vera Napoli”. Il proprietario lo conosco. È un rumeno ma di solito fa le pizze buone. Ormai la pizza è un piatto internazionale. La fanno anche i cinesi, ma loro la chiamano “Vela Napoli”. Ordino una “Quattro Stagioni” e mezzo litro di vino bianco. Non mi portano il bicchiere ma non ho neanche voglia di arrabbiarmi. Bevo direttamente dalla caraffa. Voglio ubriacarmi. Il vino è buono ma la pizza è troppo spessa e ha i bordi bruciacchiati. Almeno costa poco. Centaurea non è ancora arrivata. Non ha mangiato a casa perché il tavolo e la cucina sono puliti. Brad e Pitt al vedermi tirano un sospiro di sollievo. Il cane abbaia e il gatto da buon ruffiano mi fa le fusa alle gambe. Di solito non mi caga, il maledetto. Mi trattengo dal dargli un calcio là dove non batte il sole. Apro due scatolette di mangime e vado a dormire. Ho sonno. Ho bevuto e ho la testa che gira. Prima però appendo il papero giallo alla porta della camera da letto. Così tanto per avere un alibi e non are per fesso.
CAPITOLO XXVI
Mi sveglio. Ho la testa che mi duole. Non ho il solito mal di testa, ho proprio la testa che mi fa male. Mi fanno male le ossa del cranio e l’occipite. È senz’altro un cancro. In casa c’è uno strano silenzio. Non capisco, è come se mancasse qualcosa. Centaurea non ha fatto colazione perché di solito mi lascia il tavolo sporco e la tazza del the nel lavandino con la buccia di limone dentro. Chissà cos’è quella strana sensazione di vuoto e quello strano silenzio. Porca vacca! Mancano Brad e Pitt. Non c’è né uno né l’altro. Mi sorge un dubbio e apro l’armadio in camera da letto. Non c’è più il borsone con scritto “Vincere” e mancano pure gli abiti di Centaurea. Se n'è andata. Certo che dovevo dormire proprio profondamente se non l’ho sentita raccogliere la sua roba. Se n'è andata senza dirmi niente. Probabilmente è andata a vivere con il rappresentante di cartucce per stampanti. Un tipo scialbo, bel ragazzo ma scialbo. Centaurea è così, è istintiva. Del resto tutte le donne sono così. Lost dice che ragionano con l’utero. Magari lui esagera, ma le donne non ragionano come noi. Noi ci facciamo un sacco di problemi, loro no. Loro agiscono. Del resto era venuta a vivere con me dopo due uova al tegamino, una canna e una scopata. Chissà chi aveva lasciato allora. Ha portato via anche gli animali. Meno male! Pensa se me li lasciava per ricordo! Brad e Pitt si sono portati dietro anche le loro ciotole. Mica sceme le bestioline! Non sono arrabbiato con Centaurea e nemmeno deluso. La sua fuga mi lascia indifferente. Ho la testa che mi fa male. Non riesco a pensare. Non ho più cervello. Maledetto smeraldo! Mi ha rovinato l’esistenza. Ho lo smeraldo al posto del cervello, al posto dei pensieri. Devo dimenticare quel gioiello altrimenti impazzisco. Stamattina la portinaia mi saluta. Non lo ha mai fatto da quando abito lì. La
scorgo a malapena emergere dal fumo dello stanzino della portineria. È più gialla e più secca del solito. La sua faccia è accartocciata come una foglia in autunno. Mi gracchia: “La signorina se n'è andata?” “Che cazzo gliene frega a lei della signorina” rispondo io educatamente. “Mi scusi sa, è per la posta” sento in mezzo al fumo. “Andate a farvi fottere lei, la signorina e la posta” dico mostrandole il dito medio della mano destra. Cerco di rimanere calmo. Il cancro alla testa mi fa male. Lost mi saluta al solito modo. Gli do la Marlboro, lui smette il sudoku e mi apre il giornale. Lo trovo più vecchio stamattina, più vecchio e più pelato. La sua testa pelata luccica come un pavimento incerato sotto la luce delle lampade al neon. Mi viene da chiedergli se quando si lava la testa usa lo shampoo o si a la cera. Ma forse è meglio di no. Magari non capisce la battuta e si offende. Non voglio perdere anche Lost stamattina. Gli racconto di Centaurea e lui mi dice che le donne sono tutte uguali. Dice che sono fortunato che non mi ha fatto un figlio altrimenti stamattina portava via anche quello. Dice che mi vuole offrire un caffè. Sono pronto a scommettere che deve ancora cambiare i cinquanta euro, ma andiamo alla macchinetta. Non mi sbagliavo, deve ancora cambiare il bigliettone. Un giorno o l’altro glielo cambio io. Secondo me ce l’ha in tasca dall’entrata in circolazione dell’euro. Gli dò cinque euro che lui infila disinvolto nella bocca della puttana della macchinetta. Escono due caffè bellissimi, macchiati e zuccherati e una cascata di monetine di resto. Lost mi serve il caffè, ritira il suo e ritira pure il resto e, sempre disinvolto, se lo mette in tasca. Evviva! Mi costa caro il caffè stamattina. Ma non gli chiedo il resto. Non ho voglia di discutere. Ho la testa che mi fa male. Ho un cancro. Mi dice che gli dispiace per Centaurea. Dice che gli piaceva quella ragazza. E poi dice che faceva un ottimo risotto. Gli dico che a me il risotto non piace e che Centaurea in fondo non è un granché, gli dico che assomiglia ad un cavallo. “Beh! Del resto anche tu non sei George Clooney” mi dice serio come se fosse una cosa evidente. Lo so che non mi vuole offendere, è proprio il suo modo
stronzo di ragionare. Torniamo all’archivio. Lost apre il giornale e legge: “Secondo uno studio di una società di andrologia c’è un calo notevole del desiderio e problemi di erezione nei ragazzi tra i venti e i trent’anni.” “Chissà perché mi legge questa notizia proprio stamattina. Non crederà mica che Centaurea mi abbia lasciato per questo motivo?” “È l’indigestione di donne nude e pose audaci, che qualche volta rasentano la pornografia, che voi giovani vi fate a cominciare fin dalla tenera età” continua Lost, “la pubblicità ha riempito le strade, i giornali, la televisione, di immagini di donne sempre più nude. Avete perso il piacere di immaginare il corpo della donna, di sognarlo, di spogliarlo con il pensiero, con la fantasia. Ai miei tempi avevamo già l’erezione a vedere una donna accavallare le gambe in un certo modo. Immaginavamo il seno completo attraverso il decolleté di una camicetta con un bottone sbottonato in più e avevamo un'erezione. In mezzo alle gambe eravamo sempre pronti a scattare sull’attenti. Di nudo, caro ragazzo, se ne vedeva davvero poco.” Forse ha ragione, ma io problemi di erezione non li ho ancora mai avuti. Ma non glielo dico. Non ho voglia di discutere. Sono sicuro che mi prenderebbe per il culo. E io stamattina lo strozzerei. “Senti questa!” mi dice Lost sogghignando. “Nella nostra galleria di Arte Moderna, durante l’ultimo temporale, si è verificata una perdita di acqua dal soffitto. Il custode, solerte, ha pensato bene di mettere una bacinella sotto alla goccia che cadeva dal soffitto. Poi, affinché i visitatori non inciamero nella bacinella, ha pensato di piazzare due cavalletti collegandoli tra di loro con del nastro rosso e bianco.” Lost smette un attimo di leggere. Non ce la fa più. Ride troppo. Poi si riprende e ricomincia: “A questo punto i visitatori hanno incominciato a fermarsi ad ammirare la bacinella in mezzo ai due cavalletti. Non solo, ma hanno incominciato a fare i commenti più disparati. “Bellissimo” si sentiva, “originalissimo”, “una creatività eccezionale”, “che conflitto interiore doveva vivere l’artista quando ha partorito questa composizione”. C’era anche qualcuno che diceva che era una installazione banale, scontata, ma veniva zittito quasi subito dagli astanti. C’era anche chi chiedeva il nome dell’artista e chi ne chiedeva il prezzo per un
eventuale acquisto.” Ho confessato a Lost che ho visto anch’io quella composizione. C’era una folla numerosa che faceva la coda per poterla ammirare. Io ho giurato a Lost che a me era sembrata troppo polemica e non mi era piaciuta, ma Centaurea ne era rimasta affascinata. Mi aveva fatto tornare indietro tre volte per poterla ammirare. La guardava e sembrava andasse in trance tanto le piaceva. “La colpa non è tua, non è della tua generazione” incomincia a parlarmi paternamente Lost, “la colpa è della decadenza, dello sputtanamento dell’arte, dei critici o pseudo-critici d’arte. Oggi sono i critici che creano gli artisti, che creano le opere d’arte. Certo io capisco, come fai a fare un’opera d’arte dopo Michelangelo, dopo Leonardo da Vinci o dopo Van Gogh, cosa vuoi dire di artisticamente nuovo e originale? L’unico che ha detto qualcosa di nuovo è stato Picasso, tutto il resto è, più o meno, decadenza. Oggi non conta più l’opera, non conta più l’artista, conta quello che ti fa vedere, che ti descrive il critico d’arte. L’opera d’arte al giorno d’oggi è come una bottiglia di vino. Non conta il vino, la maggioranza delle persone non capisce niente di vino, conta come è presentato e dove è presentato. La gente si lascia incantare dal luogo. Prova un po’ a presentare una bottiglia di vino da duecento euro in un ristorante di periferia, ti mandano a fare in culo. Ma se quella stessa bottiglia la presenti in un ristorante famoso ne rimangono affascinati. La gente si lascia incantare dalla scenografia, dalla eleganza della bottiglia e dell’etichetta e da quello che decanta il sommelier con il pentolino d’oro legato al collo. Io avevo un amico, un aristocratico astemio, che aveva dovuto per necessità finanziarie fare il sommelier. Alle cene, dopo un po’ di assaggi, era talmente ubriaco che se gli facevi bere piscio di vacca ti diceva che era Malvasia invecchiata. Eppure la gente pendeva dalle sue labbra, era affascinata dai suoi modi eleganti e dalle sue frasi fatte. E quando una bottiglia sapeva di tappo e qualcuno timidamente glielo faceva notare, lui educatamente indignato gli rispondeva abbassandosi sul tavolo e sussurrando come a volerlo salvare da una brutta figura: “Questo vino è affinato in barrique, signore, ecco perché ha quel gusto così particolare. Le faccio i miei complimenti perché quasi nessuno se ne accorge. Il suo è un palato molto raffinato.” Il cliente riceveva i complimenti dagli amici seduti al suo tavolo, leggeva l’ammirazione negli occhi delle signore e continuava gongolante a bere quella bottiglia che sapeva di tappo.
Per l’opera d’arte è la stessa cosa. I critici, le gallerie d’arte, sono loro che creano artisti e opere, e si fanno i soldi. Quando ero giovane, tu non eri ancora nato, alcuni studenti avevano scolpito due teste copiando lo stile del grande Modigliani e le avevano fatte trovare nel greto di un fiume. Ebbene, importanti critici d’arte avevano riconosciuto, senza ombra di dubbio, la mano dell’artista. Sconfessati dagli studenti burloni non si sono mica suicidati! Macché! Non si sono nemmeno vergognati. E quello che più conta, hanno continuato imperterriti a fare i critici d’arte, continuando probabilmente a percepire lo stipendio di consulenti artistici.” Lost si è infervorato. Ha la solita leggera schiuma ai lati della bocca. “Hai mai letto la relazione di un critico che elogia un'installazione artistica che ricorda il negozio di un rigattiere? Che cerca di spiegare al popolo tutto il travaglio interiore che ha subito l’artista nel partorirla? Sembra una tesi di laurea. C’è da rimanere impietriti dalla sfacciataggine e dalla mancanza di pudore. Del resto, siamo seri, come si fa a spiegare l’arte? L’arte è emozione. La poesia, la musica, la pittura, l’amore, sono emozioni. Come si fa a raccontare, a descrivere, a spiegare un'emozione? È l’emozione che ti cerca e ti colpisce, sei mica tu che la trovi. Più sei sensibile e più sei bersaglio delle emozioni. Ci sono zotici che non hanno mai provato un'emozione in vita loro. L’arte, oggi, è business. Ci si fanno i soldi con l’arte. E poi c’è tutto l’indotto che crea. Figurati che adesso illustri professori curano i malati con l’arteterapia. La psicologia dell’arte. Siamo già oltre il pendolino e la sfera di cristallo per diagnosticare il cancro. Senti questa! Te la leggo così come è riportata dal giornale. Ci sono illustri psicologi e psicoterapeuta, con formazione sistemico relazionale, che affermano che molte opere di arte contemporanea, arte contemporanea nota bene, toccano la parte più profonda di noi e ci aiutano a superare le crisi di panico, le ansie, i pregiudizi, le paure, i complessi. Dopo una ricerca sperimentale in un reparto psichiatrico è stato pubblicato un libro che tratta dei contributi del test di Rorschach alla differenziazione nosografica dei disturbi schizofrenici: “Videoinsight, curare con l’arte.” Questo è il titolo. Io non ci capisco niente ma non è che, per caso, quegli schizofrenici abbiano dati segni di miglioramento per non essere più obbligati a guardare quelle opere d’arte?” Lost è sempre pungente. Ma alle volte è simpatico. Perché a me, che ho una laurea in giurisprudenza, non vengono ragionamenti e battute come quelle di
Lost? Dove prende quell’ironia, quel sarcasmo, quell’uomo che di mestiere fa il custode dell’archivio di un giornale? Uno così dovrebbe fare il giornalista, perlomeno! Come mai non è emerso o non ha voluto emergere nella vita? È un mistero, ma io di misteri ne ho già uno che mi tormenta. Lavoro un po’ al romanzo. Trovo un buon alibi per l’assassino ma, a questo punto, non so più come fare per farlo scoprire dal Commissario di Polizia che indaga. Domani, probabilmente, mi verrà in mente qualcosa. Non ho voglia di rincasare. Non ho voglia di una casa vuota, vuota e fredda. Forse mi stavo già abituando ad avere una famiglia. Una famiglia con una donna, un cane e un gatto. Roba da borghesi. Roba da prendersi a martellate i coglioni. Io ho ben altro per la testa. Il mio cervello non è più fatto di materia grigia, è fatto di materia verde. Verde smeraldo. Ogni mio pensiero finisce per portarmi inevitabilmente a pensare allo smeraldo. Ma nonostante i miei sforzi non mi viene in mente dove diavolo poterlo cercare. In testa ho solo quel maledetto smeraldo, nient’altro che quel maledetto smeraldo che mi rovina l’esistenza. Mi suona il telefonino. È l’idraulico che mi dice che è arrivato il sondino, vuole venire ad installarlo perché lo vuole provare di sera. “Porca troia!” penso, “e farlo prima? Sai quante volte gliel'ho detto a quel mafioso?” Vorrei dirgli che adesso non mi serve più ma non ne ho il coraggio e non ne ho neanche voglia. L’idraulico installa il sondino e l’acqua della doccia esce bollente. Lo prenderei a schiaffi. Pago senza parlare e senza protestare. Non ho più voglia di niente. Vorrei andare via da questo mondo, vorrei andare via da Centaurea, da Lost, dallo smeraldo, dai miei romanzi, dai parenti, dagli amici, dagli idraulici, dalle portinaie. Vorrei morire. Ma poi penso che, dopo morto, dovrò andare in paradiso o all’inferno. Mi immagino che in paradiso ci sia una nuvoletta con servizi ogni due persone. Pensa se ti capita come compagno di nuvoletta Padre Pio, quello con le mani bucate che devi allacciargli le scarpe tutte le mattine. E se ti capita Madre Teresa
di Calcutta? Sai che festa... E poi cosa fai tutto il giorno in mezzo a vergini, Santi, suore e ragazzini strombazzanti nudi con le ali? Chissà quante Messe! E poi alla fine del mondo - che pare sia abbastanza vicina - chiudono il purgatorio e trasferiscono tutti in Paradiso. Hai idea di quanti ne sbarcheranno? E dove li metteranno tutti quegli immigrati? Magari ne distribuiscono uno o due per nuvoletta. No! Il paradiso non mi piace, c’è troppo casino ed è troppo noioso. Meglio l’inferno. Nell’inferno prima o poi al gran caldo ti abitui. E poi può sempre capitare una crisi energetica che faccia mancare il combustibile per le fiamme. Ma vuoi mettere gli abitanti dell’inferno? Lì trovi tutte le attrici di Hollywood, tutte le puttane, le mogli fedifraghe. Sì è vero che trovi anche i delinquenti e gli assassini. Ma senza armi non sono poi così pericolosi. Piuttosto c’è da guardarsi dagli omosessuali. Sai, lì si gira tutti nudi e bisogna fare attenzione. Ma ti immagini le orge. Tutte le sere un’orgia nuova, una sera in un forno e la sera dopo in un altro. Sì! Molto meglio l’inferno. Oppure avere un paradiso tutto mio. Non il paradiso che a il capitolato, ma vivere l’eternità su un'isola caraibica da solo, con una tribù di indigeni che non parli e non capisca la mia lingua e io la loro. Un capo tribù che non mi faccia mancare niente, che mi procuri il cibo, il bere, le cure che mi servono e che, se ne ho voglia, mi faccia scopare le sue figlie più giovani. Vorrei morire quando voglio io e andare in un paradiso tutto mio! Esco e vado a mangiare una pizza. Il mio amico, il pizzaiolo rumeno, mi serve una pizza piccantissima. Mi serve anche del vino rumeno bianco, dolce e ghiacciato. “Porca vacca! Con tutto il vino che abbiamo in Italia” penso. Bevo parecchio vino e mi ubriaco. Arrivo a stento a casa. Per fortuna l’affumicata non mi sente entrare. Mi faccio una canna che non accendo perché mi addormento prima.
CAPITOLO XXVII
Sul telefonino c’è una chiamata persa. Mi ha chiamato Centaurea. Certo che ultimamente devo dormire profondamente per non sentire neanche il telefono. Non la richiamo, vada a fare in culo lei e le sue bestie. Il rappresentante con la faccia da postino si è già stufato? Peggio per lei e per la sua arca di Noè. Poteva pensarci prima. Stamattina mi lavo, mi faccio la barba e mi pettino. Mi faccio una cresta che sta su a forza di gel. Mi specchio compiaciuto. Sono un bel ragazzo moderno. Non ho voglia di farmi il the. La verità è che non ho voglia di fare colazione da solo. E poi mi manca il limone e ho finito la marmellata. Vado al bar. Mi serve il solito barista figlio della scuola alberghiera. Li conosco quelli della scuola alberghiera. Hanno tutti la stessa faccia e dicono tutti le stesse frasi. Assaggio il cappuccino e mi accorgo che la tazza è macchiata di rossetto. Lo faccio notare a “scuola alberghiera” e quello, imperterrito, vuota il cappuccino in un’altra tazza. Mica me ne fa un altro, il bastardo! Semplicemente lo vuota in un’altra tazza. Così oltre allo schifo bevo anche il cappuccino freddo. Non devo più venire in questo cesso di bar. Al giornale trovo Lost abbattuto. Ha la faccia di uno che alla roulette ha puntato tutto sul rosso ed è uscito il nero. “Hanno trovato il corpo della ragazzina scomparsa all’uscita della palestra” mi dice. Ha gli occhi lucidi di chi trattiene a stento le lacrime ed è rosso in viso come chi trattiene a stento la rabbia. “È in avanzato stato di decomposizione e l’hanno riconosciuta per l’apparecchio dei denti e per i vestiti. L’hanno trovata dei ragazzini che giocavano. Era ricoperta di frasche in un cespuglio in fondo a una di quelle stradine di campagna che partono dalla statale e si perdono nei campi, si perdono nel nulla. Era a pochi chilometri da casa sua.” Lost sta per scoppiare. Lo sento che sta per partire. “Riesci ad immaginarti cos'hanno fatto are a quella ragazzina quei bastardi,
o quel bastardo?” mi chiede. Poi senza aspettare la mia risposta prosegue: “prima l’hanno seviziata e violentata - chissà per quanti giorni - poi l’hanno ammazzata come un cane. Pensa all’agonia di quella ragazzina. Cosa faresti tu a quei bastardi ammettendo di riuscire ad arrestarli? Il processo? La condanna? La prigione, mantenuti a vita a spese dei cittadini? No! Bisogna consegnarli alla gente di quel paesino. Che ci pensino loro!” Non me la sento di controbattere. È troppo arrabbiato e io non saprei cosa dire. Come al solito. Lo lascio solo a sbollire la rabbia e vado su a prendermi un caffè. Colgo una smorfia maligna nella macchinetta appena mi vede. Non ci faccio caso. Infilo la moneta rassegnato e quella mi consegna il più bel caffè che abbia mai visto. È macchiato, zuccherato e ha il cucchiaino. Alzo gli occhi incredulo e lei spegne e accende una spia luminosa. Mi ha strizzato l’occhio, che cara! Secondo me questa macchinetta ha un’anima. Provo a chiamare Centaurea. Non vorrei che quel tizio con la faccia da caciocavallo le avesse fatto qualche sgarbo. Magari le ha messo le mani addosso, l’ha picchiata. In fondo lei è indifesa e piccola. Stronza, ma indifesa e piccola. Non risponde. Il telefonino suona ma non risponde. Vedrà la chiamata e mi chiamerà lei. Torno giù e vedo Lost abbastanza disteso. “Ce n’è un’altra di notizia interessante. Bella e interessante.” mi dice Lost fissandomi. Quando mi fissa così sta per parlare del caso Montrucchio Carignano. “Hanno portato una scolaresca in visita alla casa-museo Montrucchio Carignano” mi dice Lost. “Sai che notizia bella e interessante” gli rispondo alterandomi un poco, “sai quante ne portano di scolaresche a visitare la casa museo? Decine tutti gli anni.” “Un ragazzo di questa scolaresca” prosegue Lost ignorandomi. Quando fa così lo strozzerei. È ignorante. “Un ragazzo, più scapestrato degli altri, giocando ha fatto cadere il gatto nero che stava sulla scrivania dello studio del Conte.” “Ben gli sta!” penso e, confesso, con soddisfazione. Mi è sempre stato sullo stomaco quel bastardo.
“Il gatto cadendo si è rotto in tanti pezzi” continua Lost, “e indovina cosa è saltato fuori dalla testa di quel gatto?” Mi sento come uno che abbia ricevuto un calcio nei testicoli. Spalanco la bocca perché mi manca il respiro. Sento la rabbia che mi sale dalle viscere e vuole uscire. È bollente. Viene su come la lava incandescente di un vulcano durante l'eruzione. Ho voglia di piangere, ho voglia di ridere, ho voglia di vomitare. Non riesco a fare quella domanda. Sto fissando la bocca di Lost come se mi aspettassi ancora qualche parola, come se mi dovesse dire che sta scherzando, che non hanno trovato nulla. Ma vedo solo la vecchia protesi gialla immobile in un sorriso amaro. Un sorriso che gli fa socchiudere gli occhi come accecati da una luce abbagliante. Alla fine mi decido e, con un filo di voce che non riconosco, chiedo: “Hanno trovato lo smeraldo?” “Noo!” sghignazza Lost, “figurati! Con tutte le apparecchiature sofisticate che hanno impiegato per la ricerca lo avrebbero trovato subito. No! Nella testa di quel gatto c'era solo un biglietto, un banale, stupido biglietto con su scritto un nome: El Cheim.” “Ma che cazzo me ne frega se hanno trovato un biglietto con su scritto El Alamein, El Carim o che diavolo di stronzata araba” grido pieno di odio verso Lost, “lasciami perdere che stamattina ho già i coglioni che girano per conto mio.” “Hai la sensibilità e la perspicacia di un bidet” mi risponde calmo Lost, “eppure mi sembravi un tipo che ama penetrare nell'essenza delle cose e che cerca di comprenderne l'intimo significato con sottile ingegno. Vedi” continua Lost “il giornale dice che, secondo gli inquirenti, quel nome potrebbe riferirsi all'imbalsamatore che probabilmente era un arabo. Altri sostengono che potrebbe trattarsi del nome del gatto. Ma hai mai visto un artista che nasconda il suo nome all'interno di una sua opera? E se era il nome del gatto perché non scriverlo su una bella targhetta e incollarlo al piedistallo? No, c'è qualcosa che non mi convince.” Lost chiude il giornale e comincia a pensare. Quando pensa a quel modo esce dall'ambiente dove si trova, non sente più se gli parli, se lo chiami e neanche se
lo scuoti. Riesce ad estraniarsi completamente, è come se si trasferisse su un altro pianeta. Lo saluto ma non mi risponde. Intanto mi suona il telefonino. É Centaurea. Non rispondo e spengo l'apparecchio. Salgo i gradini due per volta come faccio quando sono arrabbiato. Esco e sbatto la porta.
CAPITOLO XXVIII
É una settimana che Lost non si fa vedere all'archivio. Ho chiesto sue notizie al direttore che mi ha risposto che Lost è in mutua. Mi dispiace, non vorrei che quel vecchio avesse problemi di salute. In fondo gli voglio bene, mi fa tenerezza. Questa mattina il camlo della porta suona violento e mi sveglia. Guardo l'ora: sono le sette. Se è quel narghilé della portinaia stavolta la ammazzo. Afferro il coltello più grande che trovo nel cassetto della cucina e, rosso di rabbia e in mutande, vado ad aprire la porta. Non é la portinaia, è Lost che prima di salutarmi abbassa gli occhi e guarda il coltello. “Che cazzo ci fai con un coltello simile alle sette di mattina?” “Sono indeciso se spalmarmi la marmellata sulle fette biscottate o ammazzare i rompiballe come te” gli urlo sul muso. “Grazie per l'accoglienza!” sbotta Lost con un sorriso maligno, “non mi aspettavo tanto entusiasmo” aggiunge poi entrando. “Vieni, siediti qui che voglio parlarti, voglio proporti un affare.” Non capisco perché ma quando sento la parola affare sento anche uno strano formicolio in mezzo ai glutei. “Come tu hai certamente capito” continua Lost facendomi segno che vuole fumare, “quel nome, El Cheim, mi ha affascinato fin dal primo momento che l'ho letto. Mi girava nel cervello, giorno e notte. Non riuscivo a togliermelo dalla mente, non riuscivo a scacciarlo dal cervello. Ho comprato il volumetto della vita del Conte, l'ho letto un paio di volte, ma non sono giunto a nessuna conclusione. Poi una notte mi sveglio di soprassalto, o meglio è il mio istinto, il mio inconscio di enigmista che mi sveglia. Scendo dal letto e provo ad anagrammare il nome di El Cheim e scopro che ne viene fuori il nome di Michele. Tutto eccitato rileggo il libro della storia del Conte e scopro che il maggiordomo di casa Montrucchio Carignano aveva un figlio che si chiamava Michele che era morto molto giovane in circostanze misteriose. Il libro lo descrive come un ragazzo bellissimo, un viso d'angelo in mezzo ad un cespuglio di riccioli biondi. E, guarda alle volte le combinazioni, aveva due bellissimi occhi verdi.” Lost si ferma e mi guarda con gli occhi socchiusi e indagatori. Mi mette a
disagio quando mi guarda a quel modo. “Il Conte che non aveva figli” continua intanto Lost “amava moltissimo Michele. Lo copriva di attenzioni, lo accarezzava e lo baciava spesso e lo faceva pranzare seduto al suo tavolo. Lo aveva fatto studiare a sue spese, gli comprava gli abiti più belli e più costosi e lo portava con se a tutte le esibizioni della moglie. Per la gente Michele era il figlio che il Conte non aveva mai avuto. Ma un giorno, quando aveva circa vent'anni, Michele viene trovato morto con una pallottola in testa. Suo padre, il maggiordomo, che era accorso sentendo il rumore dello sparo, lo aveva trovato che giaceva nudo nel letto del Conte. Nella camera c'era già il Conte che stava piangendo e che gli disse di essersi precipitato quando aveva sentito lo sparo. Michele stringeva ancora nel pugno una pistola che apparteneva alla collezione del Conte ma nessun altra impronta, all’infuori delle sue, venne trovata sull'arma e il fatto venne presto archiviato come suicidio.” Lost mi fa segno che vuole un caffè e io gli rispondo, sempre con un segno, di non rompere i coglioni. “Hai capito il Conte Montrucchio Carignano?” prosegue Lost “secondo me il suo amore per il figlio del maggiordomo non era proprio quello che si chiama amore paterno. E, sempre secondo me, Michele aveva subito le sue attenzioni morbose fin da bambino ed era diventato suo amante. Probabilmente un giorno, diventato adulto, Michele non ha più voluto saperne di quella relazione e ha cominciato a rifiutare i suoi incontri. Può darsi addirittura che abbia cercato di ricattarlo minacciando di rendere pubblica la loro relazione. Ecco allora che il Conte, probabilmente davanti ad una di queste minacce, perde la testa e lo uccide. Mentre Michele giace nudo nel letto il Conte indossa un paio di guanti e gli spara alla testa. Poi gli mette la pistola in mano, nasconde i guanti e aspetta che accorra il maggiordomo richiamato dal rumore dello sparo. E adesso se non mi fai un caffè non vado più avanti.” Ho voglia anch'io di un caffè e allora mi alzo, preparo la caffettiera, la metto sul gas e torno a sedermi. Ma Lost coerente come un tubetto di colla alle sue decisioni non riprende a parlare. Ci guardiamo negli occhi in silenzio finché non sento il caratteristico rumore del caffè che sale nella caffettiera. Lost lo beve adagio, poi riprende a parlare: “E bravo il mio cacciatore di occhi, avevi visto giusto. Avevi proprio capito
tutto” dice fissandomi con uno sguardo sornione ma carico di perspicacia. Quella frase mi fa sobbalzare. Mille aghi mi si conficcano nel cervello e nelle carni. Il cuore è come se si fosse fermato. Anche il respiro si è fermato nella bocca spalancata dalla sorpresa. Non so se sia più spalancata la bocca o se siano più spalancati gli occhi. “Quand'è che hai cominciato a sospettare di me?” chiedo, e la voce mi esce strana, è un misto tra il miagolio di un gatto e il rantolo di un moribondo. Non la riconosco, sembra che a parlare sia un'altra persona. “Dalla sera del risotto” mi risponde Lost e sorridendo mi fa vedere i denti gialli. “Avevi interpretato in modo esatto la frase del Conte. Avevi ragione a cercare lo smeraldo dietro a degli occhi verdi, solo che l'hai cercato dietro agli occhi sbagliati. Ieri ho fatto un salto al cimitero e nella tomba di famiglia del Conte ho avuto la conferma di una mia idea, di un mio sospetto. Io avevo pensato che dopo la morte di Michele il Conte, che lo amava veramente tanto, fosse stato preso dal rimorso e, per cercare un compromesso con la sua coscienza, avesse deciso di regalargli lo smeraldo sotterrandolo con lui. E non mi è sembrato un caso scoprire che Michele sia sepolto nella tomba di famiglia e nel loculo appena sopra a quello della moglie.” Lost tace. Mi fissa intensamente. Sembra voglia scavarmi dentro. I secondi ano lenti scanditi dal respiro leggermente asmatico di Lost. Poi Lost continua: “Adesso tu andrai ad aprire quel loculo, prenderai lo smeraldo e poi andremo a consegnarlo ad un collezionista che io conosco. Questo signore, che appartiene all'alta borghesia della nostra città, è particolarmente interessato allo smeraldo ed è disposto a sborsare una somma molto ma molto interessante. Ah, dimenticavo! Se per caso dopo aver preso lo smeraldo ti venisse in mente di fregarmi, io farò sentire questo alla Polizia”. E, tirando fuori dal taschino della camicia un piccolo registratore, smette di parlare e si alza per andarsene.
CAPITOLO XIX
Sotto di noi una piccola insenatura ricoperta di macchia mediterranea sembra abbracciare il meraviglioso mare della Côte d'Azur. Io e Lost siamo coricati sulle sdraio al sole di Roquebrune. C'è tanto sole, sole e azzurro. C'è tanto silenzio, silenzio e pace. a solo ogni tanto qualche gabbiano e ci saluta. Ma in modo discreto per non disturbare. L'acqua della piscina brilla al sole. Sembra un grosso gioiello. Io sono in costume da bagno, Lost indossa una larga camicia dipinta con grossi fiori gialli e un cappello di paglia sfrangiato. Sonnecchia. Mi alzo per andarmi a prendere qualcosa da bere. Mentre o vicino a Lost sento l'inconfondibile brontolio di un motore diesel dimenticato in moto che mi dice: “Hai una sigaretta?”