Alice Gransassi Ferretti
Ordine nel disordine Storia di Anna e Alessia
© 2021 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma www.gruppoalbatros.com -
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ISBN 978-88-306-2891-5 I edizione febbraio 2021
Finito di stampare nel mese di febbraio 2021 presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri Spa
Ordine nel disordine. Storia di Anna e Alessia
"Il bello delle donne è che hanno paura, ma alla fine hanno il coraggio di fare tutto". Anna Magnani
Come sempre, ancora a C. e a G., i miei angeli. Ai miei genitori, che amo immensamente e che non mancano mai di farmi sentire ogni giorno il loro sostegno e il loro amore. A mia figlia, perchè quando da ragazzina ascoltavo le parole di "Someone like you" di Van Morrison pensavo che un giorno le avrei dedicate ad un uomo, e invece da quando lei è parte della mia vita, ho cambiato prospettiva: "I've been searchin' a long time For someone exactly like you I've been travelin' all around the world Waitin' for you to come through. [..] someone EXACTLY like you". A mio marito, e a tutte le montagne che abbiamo scalato insieme. A Lucia A., perchè è stata "la mia prima", e me lo ricorderò per sempre.
Questo libro è un’opera di fantasia. I nomi, i personaggi, i luoghi e gli eventi descritti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone, viventi o defunte, luoghi o fatti reali è puramente casuale.
Capitolo 1. ANNA
Il primo approccio che Anna ricordava come degno di nota, risaliva alla prima elementare e riguardava un bambino di nome Simone: la maestra stava facendo giocare la classe al gioco del gessetto, che consisteva nel chiamare un alunno alla lavagna, consegnargli il gesso nelle mani e chiedergli di chiamare un compagno che indovinasse in quale delle due mani lo avesse nascosto. Ad Anna quel bambino era piaciuto fin dal primo giorno, con i suoi grandi occhi scuri e i capelli castani, quasi neri, tagliati cortissimi, però non si sentiva sicura di nulla, figuriamoci di se stessa: era una bambina timida, impacciata e purtroppo consapevole di esserlo. Il primo giorno di scuola, privata delle sue figure adulte di riferimento, si era sentita terribilmente sola e sull’orlo delle lacrime, ma non avrebbe mai ceduto al pianto, un po’ per vergogna – perché se lo avesse fatto, avrebbe attirato l’attenzione (e il suo desiderio era quello di rimanere invisibile il più possibile) – e un po’ perché non voleva dare una delusione ai suoi cari, perché tutti l’avevano incoraggiata e le avevano parlato della scuola in maniera entusiasta, e voleva mantenersi su quella stessa lunghezza d’onda, anche perché magari, dato che le apparivano così convinti, avevano ragione e ci voleva solo un po’ di pazienza… La sua salvezza, quel giorno, fu una bambina di nome Gaia, che le si sedette vicino e le prese la mano, come se si conoscessero da sempre, chiedendole con estrema naturalezza se volesse diventare la sua migliore amica. Anna rispose affermativamente con un sorriso timido ma solare, non sapendo che quel rapporto sarebbe stato il primo di una lunga serie di delusioni sentimentali, perché si sa, le “migliori amicizie” e le annesse dinamiche sono un po’ i precursori di quei giri di cuore, fra amore e sofferenza, che crescendo saranno i primi rapporti d’amore. Di lì ad un anno, Gaia avrebbe infatti bruscamente e inspiegabilmente rotto l’amicizia con Anna, che, trovandosi persa, avrebbe poi fortunatamente trovato un’altra amica nella gentile Cristina; Anna si sarebbe a quel punto sentita con il cuore ancora colmo di gioia per i successivi due anni, al termine dei quali la
temibile Gaia sarebbe tornata per “rubarle” Cristina e maneggiare abilmente le carte in tavola per far sì che entrambe – Gaia e Cristina – la tormentassero. Anche a distanza di anni da quell’accadimento, non riusciva a capacitarsi delle motivazioni che stavano alla base di tanta cattiveria, a parte una precoce capacità di manipolazione e volontà di “arrivismo” (non preoccupandosi dei sentimenti degli altri) di Gaia. Tornando a Simone, quando Anna lo sentì chiamare il suo nome, sentì anche come se quell’organo che più in là, studiando, avrebbe scoperto essere il suo stomaco, vibrasse e scendesse verso il basso, per poi scomparire. Come un automa, con le gambe tremanti, si alzò per raggiungerlo, immaginando che se l’aveva chiamata era perché in qualche modo, anche a lui, lei piaceva. Intimidita, lo raggiunse e lui le sorrise. La fervida mente romantica di Anna li vedeva già giovani adulti sull’altare di una chiesa, ma il punto massimo che fece schizzare il suo cuore alle stelle venne raggiunto quando per indovinare in quale mano Simone nascondesse il gessetto, gli sfiorò la sinistra: quel brevissimo tocco le fece capire che ormai era fatta, era innamorata persa. La madre di Anna era morta quando lei aveva due anni e non ne aveva memoria “fisica”, ma essendo di carattere molto curiosa, aveva negli anni imparato a crearsene un’immagine ed era convinta di non essere così lontana dalla realtà. A volte incontrava persone che sostenevano che fosse un bene non avere la possibilità di ricordarla realmente, perché così era meno doloroso, ma lei era invece fermamente convinta che fossero più fortunate le orfane di madri venute a mancare quando le figlie erano già grandi, così almeno potevano rifugiarsi nel ricordo di un abbraccio, di un profumo, di una parola, di un discorso. Suo padre non ne parlava molto, era rimasto chiuso nel suo dolore per anni, non la nominava nemmeno, fingendo non fosse neppure esistita. Gli unici che, seppur nel rispetto della volontà paterna, ne parlavano erano i suoi nonni materni, ma anche lì, si limitavano a raccontare episodi, quasi come se qualcuno avesse intimato loro di raccontare il meno possibile, e di farlo senza sentimento. Per tutta la sua infanzia Anna non sapeva neanche cosa fosse una madre, fino a quando, verso i 5 anni, vedendo le famiglie degli altri, aveva cominciato a fare domande, ottenendo però sempre poche risposte. Un giorno, verso il finire della scuola elementare, era a casa malata, ma in via di guarigione. Uno di quei classici giorni in cui i pediatri consigliano di tenere comunque il bambino a casa per verificare che la febbre sia davvero scomparsa.
Il padre era al lavoro e la nonna si era addormentata sul divano. Quatta quatta, Anna si diresse verso la stanza da letto matrimoniale, verso un armadietto che sapeva contenere qualcosa, perché le era sempre stato velatamente vietato di toccarlo o aprirlo. Scoprì che c’erano due album, pieni zeppi di foto di lei da neonata, e poi piano piano più grandina. Il primo era il classico album che avevano anche le sue amiche, uno di quelli “da riempire”, con lo spazio già preimpostato per la foto da neonata, la foto del primo bagnetto, i traguardi dei 3, 6, 9 e poi 12 mesi… ma sua madre aveva fatto di più, aveva riempito ogni spazio vuoto con cuoricini, frasi scritte di suo pugno, scrivendo in prima persona, come fosse lei – Anna – a scrivere: “Eccomi qui avviluppata attorno alla mia mamma… sono o non sono adorabile?!?”. C’era poi una pagina, alla fine dell’album, piena fitta di date: la caduta del moncone ombelicale, i giorni in cui le erano spuntati i primi dentini, le prime paroline… ogni cosa si potesse appuntare, c’era. Il secondo era un semplice album fotografico, non preimpostato, con una rigida copertina rosa e la carta velina dentro a separare i fogli. All’interno sua madre aveva scritto: “Anna, secondo album”. Si interrompeva a poco più della metà. Lì, Anna trovò una lettera piegata in 4 parti, ma che era evidentemente stata appallottolata; forse suo padre era stato sul punto di buttarla via e poi se ne era pentito, o forse era stata sua madre stessa a farlo. Tendendo l’orecchio per sentire se sua nonna stesse ancora russando, Anna aprì il foglio con le mani che tremavano. Anzi, forse tremava proprio tutta.
Caro amore della mamma, ho pensato tanto, ho riflettuto per non sai quanto altro tempo, e alla fine ho preso la decisione di scriverti. Non so se sia un atto egoistico da parte mia, non riesco a capirlo. Forse sarebbe stato meno egoistico andarmene e basta, temo di poterti far soffrire quando mi leggerai. Ma, dall’altra parte, non riesco proprio ad andarmene non lasciandoti neanche un segno. È una scelta difficile, spero tanto mi perdonerai nel caso ti dovessi arrabbiare. Sai, una volta stavo eggiando con il mio primo morosino in piazza Duomo, e
gli ho detto che piuttosto che vedere morire i miei genitori, avrei preferito morire io, ed era questo che chiedevo tutte le sere durante le mie preghiere. Lui mi rispose che ero una grandissima egoista, perché così li avrei lasciati a soffrire per la mia scomparsa, e sarebbe stato più altruista da parte mia chiedere a Gesù, a Dio o a chi per loro l’esatto contrario. Quella frase mi aveva fatto molto riflettere. Nel nostro caso, il mio e il tuo, in linea teorica le cose stanno avvenendo secondo natura, perché un genitore, io, sta morendo prima del figlio. Ma è troppo presto Annina mia, e non è giusto. Infondo però, è come se me lo fossi sempre sentito, perché non ho mai smesso di farti foto, video, scrivere date, riempire album, annusarti e abbracciarti. Non voglio scrivere troppo, sai che a me piace molto farlo, quindi il rischio è che al posto di una lettera, venga fuori un poema... Vorrei raccontarti tutto quello che ho imparato dalla vita per farti trovare pronta, ma non potrei neanche se scrivessi un’intera enciclopedia. Quindi ti racconto un po’ di me, perché conoscendo tuo padre, quando io non ci sarò più, credo che si rinchiuderà in un mutismo molto lungo, che spero non ti nuoccia (nel caso, OBBLIGALO A PARLARE!!! Papà è un personaggio complesso, ma parlare serve. SEMPRE). Ti ho voluta fin da quando ero bambina, ritagliavo pezzi di giornale con immagini di bambine e le attaccavo alla parete interna dell’armadio della mia cameretta, perché la nonna è maniaca dell’ordine e non mi consentiva di attaccare poster o fotografie sui muri! (… anche se poi le ho fatto cambiare idea!!!). Il mio sogno più grande sei sempre stata tu e tutte le scelte che ho preso nella mia vita sono state in funzione del poter, un giorno, avere una famiglia e diventare madre. Ce l’ho fatta, sei nata e sei perfetta. Sono riuscita anche nell’impresa di completare gli studi in tempo per potermi sposare prima dei 30 anni ed averti nei mesi successivi, perché volevo che tu avessi una mamma giovane, con cui giocare e saltare, cosa che io non ho avuto. Ma la vita ci ha tirato un bello scherzo. Ma, ecco, ora sto divagando… Dicevo... io come sono? Sono solare e allegra, ma lo sono diventata. Da piccola
ero timida. Tendo a portare rancore purtroppo e non dimenticarmi dei torti subiti, anche se so perdonare. Sono una persona buona, rispettosa, gentile e sognatrice. Adoro leggere e scrivere. Sono un’inguaribile romantica. A questo proposito, non devi assolutamente perderti la visione di “Pretty Woman” e “Dirty Dancing”, due classiconi degli anni ‘80 che ogni ragazza dovrebbe guardare. Guardati anche tutti i film della Disney, anzi, adesso ti allego a questa lettera una lista di film da vedere assolutamente, e perché no, anche di libri da leggere!!! E di canzoni da ascoltare!!! Annina mia, sappi che ho tutta la determinazione del mondo per diventare il tuo Angelo Custode, e se mai avrai bisogno di risposte, guarda il cielo e io cercherò di trovare un modo per dartele. Ti voglio un bene che non si può spiegare, è immenso, viscerale ed infinito e mi mancherai, mi manchi tantissimo già adesso. La vita a volte è davvero uno schifo Anna, ma tu cerca di viverla amando, ama tantissimo, perché come recita una delle mie frasi preferite: “Fare il viaggio e non innamorarsi profondamente, bè, equivale a non vivere”. Ti voglio bene tesorino bello, immensamente!!! La tua mamma.
«Perché l’hai letta???». La voce di suo padre le tuonò alle spalle, quasi ringhiasse, mentre si chinava su di lei, che era rimasta per terra davanti al mobiletto aperto con le gambe incrociate per una quantità di tempo incommensurabile, il foglio ormai intriso di lacrime cadute a pioggia ancora fra le mani. La domanda arrivò improvvisa dal silenzio e la spaventò a morte, accompagnata da un braccio che veloce come un fulmine si lanciò sulla lettera strappandogliela dalle mani senza neanche darle il tempo di reagire. In un attimo scoppiò una tempesta, tre voci che si parlavano urlando l’una sopra l’altra, tre voci nel panico ognuna per ragioni diverse:
«Lasciala stare, Giovanni, prima o poi doveva succedere» disse la nonna che si era precipitata in camera dalla sala, mortificata e sentendosi terribilmente in colpa per non essersi accorta di nulla, ma al contempo lieta di non dover più far finta che sua figlia non fosse mai esistita. «Perché cazzo non l’hai controllata???». «Mi ero appisolata…». «Dov’è la lista?». «Ma ti pare che ti lascio mia figlia qui e tu ti addormenti, Clelia???». «Ma ha 10 anni non 3 e mi sembra di aver fatto abbastanza alla mia età fin da quando era piccola, non ti pare?». «Dov’è la lista?». «Cosa vuoi insinuare??? Io lavoro!!!». «Fin troppo, Signore mio!! Lasciatelo dire, Giovanni, se tu non aves…». «Cristo Santo la listaaaaaaaaaaa papàààààààààààààààà!!!». La voce di Anna si fece acuta e stridula ma ottenne l’effetto desiderato: suo padre e sua nonna smisero di darsi addosso a vicenda e si ricordarono della sua esistenza, che li riportò rapidamente alla situazione in cui si trovavano e dalla quale, tramite quel battibecco, stavano cercando di evadere. «Non ha fatto in tempo a scriverla». «Non è vero!!! Non ti credo!!!». «No, tesoro delle nonna» si intromise Clelia andando ad avvolgere in un abbraccio la nipote, i cui singulti cominciavano a farsi sempre più violenti e a scuoterla sempre più prepotentemente, «te lo assicuro amore, ormai hai letto e... risponderò a qualsiasi domanda tu voglia farmi d’ora in poi, il dado è stato tratto, ma ti assicuro che ha ragione tuo padre, non ha fatto in tempo a scriverla. Non ti sta mentendo. Adesso calmati però eh, sembri sull’orlo di una crisi epilettica, amore. Vieni, siediti sul letto con la nonna tesoro».
Qualche anno dopo…
«... e quindi è per quello che sono così romantica, perché ho preso da mia madre, sono la sua reincarnazione, te lo assicuro!!!» esclamò Anna con un sorriso entusiasta, tirandosi su dalla posizione supina e mettendogli un braccio vicino al fianco per far leva e poterlo guardare negli occhi. Lui rimase serio per un po’ guardandola con un accenno di sorriso sghembo. Aveva le labbra molto carnose, e denti perfetti. «Non puoi essere la sua reincarnazione, tecnicamente, per il semplice fatto che avete condiviso un pezzo, anche se breve, di vita insieme». «Sì, sì, ok... ma hai capito il senso di quello che voglio dire, no?». Anna si tirò su mettendosi a sedere sul tavolino da pic-nic in legno sul quale si erano sdraiati per guardare le stelle, e tornò a fissarlo intensamente. «Se io avessi ricevuto un messaggio del genere da parte tua e l’avessi letto, perché ci sono le spunte blu che lo confermano, e mi dichiarassi innamorata follemente di te come lei ha fatto, non esiterei un secondo a risponderti» concluse, tronfia, la sua arringa, e lo guardò in attesa di una risposta. Lui si tirò su a sedere a sua volta, una gamba stesa e l’altra piegata ad angolo acuto, col ginocchio che faceva da o al braccio destro, mentre col sinistro si appoggiava al tavolino. Tutto il suo corpo era proteso verso di lei, sapeva di piacerle, così come lei piaceva a lui. Non era esperto di seduzione, avendo solo 16 anni, ma sapeva come guardarla per ottenere l’effetto desiderato, cioè osservare i grandi occhi verdi di lei aprirsi e regalargli sguardi sognanti e palesemente innamorati, di cui non poteva fare a meno. Era pieno di sé da far paura, considerata la giovane età. Era costantemente sovrastimato dai genitori, che non perdevano occasione per elogiarne le qualità a chiunque. Era facilmente prevedibile il fatto che avrebbe avuto non poche difficoltà una volta scontratosi col mondo reale, col mondo vero, una volta adulto, da solo, credendosi ancora un Dio e scoprendosi in realtà uno fra i tanti. Ma a quell’età era indubbiamente, incredibilmente e favolosamente affascinante, e Anna sapeva che avrebbe potuto cambiarlo, in futuro, e che insieme avrebbero potuto fare grandi cose, raggiungendo un equilibrio perfetto. Sapeva altrettanto
che lui le aveva raccontato di Serena solo per farla ingelosire e per quanto fosse convinta che “la Sere” gli pie veramente, era anche consapevole – seppur ancora inesperta in amore – che una semplice lettera scritta prima di partire per il mare e non accompagnata da un bacio, non voleva dire per forza fidanzamento, e questo le offriva molto margine all’interno del quale potersela giocare, perché il ragazzo dei suoi sogni ora era lì, con lei, in montagna, per tutto il mese di agosto, e in quel preciso istante era seduto su un tavolino da pic-nic con le stelle sopra di loro, il silenzio attorno e qualche lampione in lontananza. Doveva solo baciarlo. Doveva solo prendere l’iniziativa e baciarlo. Juri non attendeva altro. Non sapeva chi scegliere fra le due, per cui aveva deciso di lasciar fare a loro, per la famosa serie “chi primo arriva meglio alloggia”. Se Anna lo avesse baciato durante quel mese, sarebbe stato suo. Altrimenti, avrebbe aspettato Serena a settembre; lei infatti, a differenza di loro due, aveva già baciato – più di una volta, in verità – e quindi sapeva sicuramente come muoversi e non avrebbe esitato nel prendere l’iniziativa. Anna lo guardò a lungo. “Muoviti” pensava fra sè. Le sarebbe bastato un minimo spostamento del viso di lui o una leggera inclinazione per trovare il coraggio e buttarsi. Ma lui rimaneva fermo, nonostante con gli occhi la stesse già baciando, e non solo. Anna era davvero a un o dal buttarsi ma, per quanti film avesse visto e per quanta immensa teoria conoscesse, non riuscì a fare il o. E così, il momento, quello perfetto, quello magico, ò. Quasi contemporaneamente, arrivò il messaggio della compagna del padre di Anna: “È quasi mezzanotte e mezza, devi tornare a casa altrimenti lo sai che tuo padre si preoccupa”. Erano ati quattordici anni dalla morte della madre, dieci da Simone, sei da quando aveva letto la lettera di sua madre eppure non era ancora riuscita a trovare il coraggio per buttarsi a capofitto nell’amore: il timore del non essere all’altezza, del fare brutta figura, di non piacere più o dell’essere rifiutata era ancora più forte di lei, e teneva le briglie ben tirate, con l’obiettivo di non farla avanzare neanche di un millimetro.
Capitolo 2. ALESSIA
Il primo quadrimestre della seconda elementare di Valentina stava per finire e Alessia come ogni giorno era puntuale fuori da scuola ad aspettare che uscisse. Le si avvicinò un’altra mamma, era la madre di quella che da ormai un anno e mezzo era la compagna di classe preferita di Vale, e ad Alessia stavano simpatiche sia madre che figlia. «Come va?» le chiese. «Ho un sonno…». «Ma come!!! Sono le quattro del pomeriggio e hai già sonno?» rise l’altra. Alessia prese un respiro profondo dentro di sè, senza farsi vedere. «Eh, lo sai che mi alzo alle 5 ogni mattina» le rispose per l’infinitesima volta. «Eh, ho capito sì, ma io poi non capisco perché!! Non sei mica un operaio che lavora in fabbrica!!! Che cazzo c’hai da fare per alzarti così presto?» e rise. Era una brava donna, ma di certo non era il massimo della finezza e della delicatezza. Alessia ci rinunciò, perché l’aveva spiegato già troppe volte a troppe persone, ed era inutile, non capivano. Quindi si limitò ad annuire e a rispondere: «Hai ragione, seguirò il tuo consiglio e proverò a dormire di più» così l’altra scosse affermativamente in su e in giù la testa due o tre volte, soddisfatta per aver elargito un buon consiglio. La verità era che Alessia era una libera professionista, e questo lo capivano in pochi. Nonostante fossero nel 2020, le persone ancora faticavano a concepire l’idea che uno potesse lavorare in autonomia, scegliendosi modi, tempi e orari, e che la parte di lavoro svolgibile dietro ad un pc, potesse essere fatta dalla
scrivania di casa propria. Non c’era nulla da fare, lavorare per davvero, nell’ottica della maggioranza delle persone, equivaleva a orario fisso, a ufficio, a traffico andata e ritorno, a spostamenti, a trasferte, e di certo non poteva appartenere ad una persona che trovava sempre il tempo per accompagnare e andare a recuperare la figlia a scuola e che non aveva problemi (o li aveva raramente) a presenziare alle assemblee e ai colloqui con i maestri. Alessia aveva faticato sodo per ottenere quella posizione e aveva contemporaneamente dovuto fare molte rinunce: una fra tutte, rinunciare ad avere la certezza di uno stipendio fisso, una confortevole e garantita entrata mensile. I pochi che capivano la sua posizione affermavano: “Ah, ma come sei fortunata te, che puoi lavorare da casa!!!”. Fortuna. Mmmh… Alessia aveva i suoi dubbi, perché a volte si ritrovava ad invidiare quelli che potevano staccare, lavorare in un ambiente fisicamente diverso da casa propria: un esempio su tutti erano stati i primi anni di vita di Valentina. La babysitter? “Ma perché prenderne una scusa, tanto ci sei tu a casa!”. Anche darla ai nonni risultava di difficile comprensione, specialmente agli inizi, perché fino a metà gravidanza, Alessia aveva fatto parte del meraviglioso mondo dei lavoratori aziendali da 8 ore giornaliere, e la nascita di Vale insieme alle sue nuove abitudini lavorative erano state un cambiamento di difficile comprensione per molti. La scelta era stata ragionata, e non era stata semplice. Sul tavolo erano stati messi: lavoro otto ore fuori casa in accoppiata con nonni/tata/nido per la bambina vs cambiare completamente modalità di lavoro ed avere più tempo libero per non gravare eccessivamente sui nonni e per non avere i costi di una tata o di un nido. Il tutto senza dimenticare il file Excel entrate e uscite mensili sue e del suo compagno, sottostimando le prime e sovrastimando le seconde. All’inizio era stata dura, poi però era andata sempre meglio. Adesso Vale aveva 7 anni e se capitava che dovesse stare a casa malata, riusciva a capire la frase: “Tesoro non mi disturbare, perché la mamma sta lavorando”. Alessia aveva aperte varie collaborazioni, e nonostante le scegliesse con oculatezza sulla base di una pratica, efficace ed efficiente gestione temporale per
poter tenere sotto controllo tutto, ogni tanto capitava che al mattino alle 8:20, tornata a casa dopo aver accompagnato Vale a scuola, ricevesse una telefonata da non poter posticipare che la teneva impegnata per le tre ore successive, e uno dei suoi pregi/difetti constava nel fatto di non essere assolutamente in grado di lavorare nel disordine. In aggiunta a questo, a volte capitava di dover ricevere qualcuno in casa, magari qualche committente con cui il rapporto andava avanti da anni e si era quasi trasformato in amicale, per cui la firma di un’ulteriore collaborazione o di una proroga si poteva anche evitare di farla all’interno di una formale sala riunioni. Alessia era ordinata, precisa e meticolosa da sempre, e per queste ragioni (in parte anche ereditate e/o apprese da madre e nonna) al mattino si alzava prima di tutti, alle 5, faceva colazione in silenzio, faceva la doccia con calma per avere del tempo solo per sé all’interno del quale potersi svegliare del tutto, e solo a quel punto svegliava il resto della famiglia. Poi ava nelle camere per rifare i letti, metteva via quanto utilizzato per la colazione e avviava la lavatrice. In caso di necessità, avviava l’asciugatrice e stirava. In questo modo otteneva due vantaggi: il primo consisteva nel fatto che alle 8:20, una volta tornata a casa dall’aver accompagnato Vale a scuola, aveva a disposizione una casa pulita, ordinata e silenziosa, pronta per farla lavorare; il secondo, facendo poco ogni giorno, nel week-end non aveva arretrati casalinghi, e poteva così godersi la sua famiglia. Verso le 15:30, in settimana, smetteva di lavorare per andare a prendere Valentina a scuola, pronta per ascoltare i commenti delle varie madri che l’avevano additata come “semplice casalinga” fin da subito, utilizzando ovviamente il termine “casalinga” con un’accezione dispregiativa (allo stesso modo, fra parentesi, venivano guardate dall’alto in basso le professoresse – ce ne erano un paio – delle medie, che potevano avere il tempo per poter recuperare i figli esattamente come Alessia, ma si sa… erano “statali” e gli statali sono di fatto dei “nullafacenti privilegiati”!). L’animo incendiario di Alessia era costantemente sottoposto a molte misure di contenimento, e a volte le veniva voglia di urlare mettendo da parte modestia e umiltà, ma sarebbe servito a poco. Così, prendeva sua figlia, la portava a casa, la seguiva nei compiti, scaldava la cena – che aveva precedentemente preparato verso le 15 del pomeriggio, perché alle 18 il suo cervello cominciava a spegnersi – cenava, un po’ di tv e poco dopo andava a letto.
Era sempre stata una personalità con cronotipo “allodola” e non “gufo”. All’università, alcune fra il suo gruppo studio raccontavano di notti intere ate a studiare vicino ad una caraffa di caffè, lei invece preferiva alzarsi un’ora prima del normale e quei tre concetti che non erano riusciti ad entrarle in testa la sera prima, magicamente entravano nel circuito elettrico delle sue sinapsi. Ricordava ancora come una grandissima svolta importante nella sua vita quando al liceo Luca, un ragazzo della sua classe che aveva una taverna in cui sua madre gli permetteva di organizzare festicciole al sabato sera, le aveva dato per l’ennesima volta della “sfigata asociale” perché declinava i suoi inviti. Alessia, stanca, decise che la verità era la miglior cosa da dire e così alzo il suo viso verso quello strafottente di lui e gli disse, decisa: «Io alle 20:30 ho sonno, e dopo Striscia la Notizia vado a letto. Le tue feste iniziano proprio a quell’ora e, perdonami, ma con tutto il bene che ti posso volere, preferisco andare contro ai miei ritmi circadiani per uscire con il mio ragazzo, non per venire da te». Era rimasto sbigottito, aveva guardato il suo amico/spalla Riccardo, che era un po’ meno stronzo di lui ma lo seguiva come i girasoli fanno con la loro stella ardente, e aveva abbozzato un timido: «Ma come… a quell’ora non hai neanche digerito! Come si fa ad andare a letto alle 21?». «Tu non ti preoccupare» rispose Alessia, «io ceno alle 19 per cui per quell’ora non ho di certo più un mattone sulla pancia. E comunque i miei orari non devono essere di vostro interesse, spero di essere stata chiara». Aspettò un attimo. Erano ammutoliti. «Bene, chiusa qui la faccenda» dichiarò, e si diresse per appoggiarsi al calorifero insieme alle sue amiche e terminare così l’intervallo in santa pace. Sapeva come avrebbe reagito Luca: col bullismo. A distanza di anni, rimaneva ancora una fra le sue più grandi paure. Se fosse capitato a Valentina, non sapeva se sarebbe riuscita a reperire strumenti o risorse per aiutarla.
Oggi poi, con Internet, era tutto più complicato. Almeno, la sua caricatura di profilo con un naso lunghissimo abbozzata alla lavagna e corredata dalla scritta “ti venisse un tumore alla narice sinistra, secchiona di merda. Ps. Marco Lanaro non ti cagherà mai, rassegnati roito” l’aveva letta solo la sua classe, oltre all’intero corridoio, non tutta la rete.
Capitolo 3. ANNA
All’età di 10 anni, Anna era una bambina come tante. Certo, aveva l’apparecchio ai denti, gli occhiali e un fisico non propriamente longilineo, ma a parte una sua compagna di classe che aveva già la seconda di reggiseno ed aveva avuto il menarca, erano tutte più o meno sulla stessa barca e nessuno prendeva in giro nessuno. Il problema iniziò alle scuole medie: un giorno un suo compagno di nome Salvatore, un ragazzetto basso che le arrivava al collo, durante un intervallo le disse che le puzzava l’alito di formaggio, e mentre, non sapendo cosa rispondere, si sentiva sprofondare sottoterra dalla vergogna, cercando di capire se altri avessero sentito, fu come se una stanza buia fosse all’improvviso illuminata da una luce rivelatrice. Lei era diversa. A parte le sue due amiche più strette, e forse un paio in più, la parte femminile della classe era tutta composta da capelli perfettamente in piega, ricci o lisci che fossero. Il crespo non era contemplato. I pantaloni erano aderenti e seppur ci fossero le più ostentatrici, che inevitabilmente scadevano nel volgare – pur piacendo molto ai maschi – anche le altre, quelle più misurate, indossavano un abbigliamento da “ragazzina”. Mentre lei era rimasta bambina. In quell’esatto momento, indossava una bella maglia Benetton a manica corta, peccato però che, alzate le braccia, si intravedesse la canottiera di cotone a manica corta che sua nonna Clelia continuava a comprarle al mercato, insistendo che se la infilasse nelle mutande per non lasciare scoperta la pancia, ché poteva prendere freddo anche in estate. Inutile dire che il poco di canottiera che usciva lateralmente dagli slip creava un consistente strato di tessuto che si sarebbe visto subito nel momento in cui avesse indossato un paio di pantaloni aderenti. Si rese altrettanto conto, tristemente, del fatto che per baciare un ragazzo l’alito doveva sapere sempre di fresco, e lei, a parte l’utilizzo del dentifricio dopo la colazione al mattino, non aveva nella borsa caramelle alla menta o cicche.
Le altre avevano quasi tutte già baciato, lei no, e finalmente ora iniziava a capire il motivo per il quale Stefano continuava a trattarla da amica, e non faceva mai quel o avanti che facevano tutti i maschi dei film che nell’arco di quegli anni aveva visto, cercando di ricreare quella che avrebbe potuto essere la lista che avrebbe voluto lasciarle sua madre. Circa tre anni dopo, mentre tornava a casa mesta, senza aver concluso nulla con Juri, Anna ripensò ai grandi cambiamenti che dopo quel giorno aveva messo in atto nel giro di poco tempo e riflettè sugli anni delle medie. Aveva costretto suo padre a portarla dalla parrucchiera per un nuovo taglio e aveva chiesto a sua nonna due cose in una: comprarle una piastra per capelli al posto delle canottiere al mercato. Aveva ato interi pomeriggi fra San Babila e il Duomo a fare shopping “da ragazzina” insieme a una ragazza della sua classe che si era gentilmente offerta di darle alcuni consigli “strategici”. Aveva scoperto che indossando il reggiseno giusto, le forme dell’intero busto cambiavano, e improvvisamente veniva inspiegabilmente evidenziato anche il punto vita, se il seno rimaneva più su. Al mattino si ava sempre un gloss trasparente sulle labbra, che ritoccava durante l’intervallo, e la sua borsa ora straripava di cicche. Stefano era il suo migliore amico dalla prima, ma lei piano piano se ne era scoperta innamorata. Un giorno, fuori da scuola, lo seguì con le sue amiche fino a casa: era sua abitudine percorrere il tragitto in compagnia di Luca, il suo più caro amico, e di due ragazze dell’altra sezione. Anna e le sue amiche si accovacciarono dietro alcune siepi per non essere viste quando Stefano citofonò alla madre e si girò a salutare gli altri tre che abitavano poco più in là. Il sorriso che rivolse a Barbara, una delle due, non piacque per nulla ad Anna, complice il fatto che si fossero sfiorati le mani per salutarsi. Decise in un lampo di buttarsi e tentare il tutto e per tutto. Aspettò che gli altri si fossero allontanati di un paio di metri e, noncurante delle amiche che le urlavano sottovoce di stare ferma, perché non era ancora pronta, perché era una cosa che andava preparata bene eccetera, si precipitò dall’altra parte della strada, rischiando anche di essere messa sotto da un’auto, e si piazzò fra lui e il cancello.
La faccia di Stefano era sorridente ma stupefatta: «Ma cos…» provò a dire. «Stefano» lo interruppe di getto Anna, «dimmi: io, ti piaccio?». Silenzio. «Ti piaccio?». Altro silenzio. Sguardo a terra. «Ti metteresti con me???». Stefano smise di guardare l’asfalto e si concentrò su di lei, imbarazzato: «Anna, tu mi piaci, e molto anche… non solo come amica. Il problema è… che i miei amici ti considerano troppo secchiona, e non tanto alla moda, non come le altre insomma... non posso mettermi con te. Mi giocherei la reputazione, capisci?». Anna, mentre tornava a casa per le strade di montagna, ripensò a quel momento, alla feroce delusione, alle lacrime, ai discorsi aulici e consolatori del padre: “Verrà un momento in cui i maschi guarderanno al tuo cervello, e tutte quelle che ora sono carine e basta ma non hanno sostanza, le lascerai indietro, ma così tanto che non le vedrai neanche”, al suo corpo che era diventato quello di un’adolescente (anche se ancora non le piaceva del tutto), alla camminata imparata da Julia Roberts in “Pretty Woman”, alla gestualità appresa, al sole che siccome le faceva spuntare adorabili lentiggini cominciava a prendere già in aprile, ai denti ormai perfetti senza apparecchio, alla miopia quasi del tutto sparita che le permetteva di vederci bene anche senza occhiali… Nulla. Non era servito a nulla. Prese il cellulare per attivare la torcia e raggiungere il cancellino della loro casetta senza inciampare in qualche lumaca, e aprì Instagram. C’era una storia della Ferragni, mille commenti di ragazzi coetanei di Anna che le dicevano che era bellissima… se non di più. Prese una decisione: il giorno dopo si sarebbe aperta un profilo, e si promise che nel giro di massimo un anno, avrebbe ottenuto la spunta blu dell’official, avrebbe avuto milioni di followers, avrebbe letteralmente SPACCATO, si sarebbe trovata non uno, ma milioni di ragazzi pronti a fare i salti mortali pur di farsi anche solo un selfie con lei e finalmente, finalmente, oltre che vendetta per
tutti i torti e le umiliazioni subite, anche se non era esattamente il sogno di sua madre, avrebbe trovato il suo posto nel mondo. Altro che Stefano. Altro che Juri!
Capitolo 4. ALESSIA
La vita di Alessia era sempre stata permeata dall’amore e dalla speranza di coronare il suo sogno di sposarsi in abito bianco, percorrere una lunga navata ed andare incontro all’uomo della sua vita. Marco Lanaro era stata la sua prima, grande, immensa cotta. Era in quinta elementare e dopo la scuola stava partecipando ad un corso di pallavolo: le squadre erano di età mista e partecipavano anche alcune ragazzine delle medie. Ad un certo punto si sentì un gran frastuono provenire dal portone che divideva la palestra dalla strada, e tutte le compagne di squadra che frequentavano già la secondaria di primo grado si precipitarono lì nelle vicinanze alla velocità della luce, urlando e saltellando come pazze: «C’è Lanaro fuori!!! C’è Lanaro!!!». Quella fu la volta in cui Alessia scoprì che nel mondo esisteva un ragazzo di nome Marco Lanaro, che tutte si limitavano a chiamare solo col cognome, e che non sembrava esistere una ragazza nell’intero universo che non subisse il suo fascino. Approdata alla scuola media, il settembre successivo, Alessia si era invece ampiamente scordata della sua esistenza. Ma, trascorso il tempo necessario per ambientarsi con la nuova classe e con i compagni, fu questione di ulteriori attimi e il cognome Lanaro tornò, per non andarsene mai più. Era scritto nei bagni femminili (“Lanaro sposami!!!”), negli spogliatoi… ovunque. Lui frequentava la terza e l’anno successivo sarebbe andato al Liceo, e questa cosa la riempiva di dolore tutti i giorni in cui, tornando a casa da scuola, non riusciva a incrociare il suo sguardo. Era bello e sapeva di esserlo, era furbo, astuto, aveva una marcia in più rispetto agli altri. Ci sapeva fare con le ragazze ma era anche molto bravo a scuola, e questo faceva letteralmente impazzire Alessia, che non avrebbe mai voluto sposare uno che se ne fregava dell’importanza dello studio. La madre di Alessia
era rappresentante di classe e si ritrovò ad aiutare nell’organizzazione del banchetto natalizio, nel ruolo di “cameriera”: appena lo vide, disse alla figlia che aveva ragione, perché “quel ragazzino è un bello, furbo e veloce furetto”. Alessia lesse l’approvazione della madre come un chiaro segnale del fatto che le loro anime si sarebbero unite in un futuro prossimo o remoto, e da lì in poi non ci fu spazio alcuno, nei suoi occhi, nel suo cuore, nella sua anima o nel suo cervello, per alcun ragazzo al di fuori di Lanaro. Il problema più grosso, nella durata di quell’anno scolastico, fu rappresentato dal fatto che aveva informato tutta la sua classe, professori compresi, del suo amore/ione/ossessione per lui, e così la voce gli arrivò in fretta e lui la notò, ma non fermò i suoi amici nel ridicolizzarla ogni volta che la vedevano are, puntandole il dito addosso e ridendo dicendogli: “Oh, c’è quella nasona sfigata che ti viene dietro. Alessia ogni volta si sentiva morire e ogni giorno andava a scuola determinata a fare qualcosa per riabilitarsi ai suoi occhi, perché il naso non poteva modificarlo, ma poteva almeno fargli sapere quanto fosse brava a scuola… e soprattutto non voleva are per l’imbranata di turno. Niente. La scuola terminò e persino l’ultimo giorno, nonostante il professore di matematica avesse organizzato un momento per farli incontrare da soli e permettere a lei di parlargli, riuscì a fare bella figura. «Dimmi» le disse. Lei si fece rossa rossa e l’unica cosa che le uscì dalla bocca fu: «Tanto l’anno prossimo sarai anche tu un primino, quindi prenderanno in giro anche te!!!». Meraviglioso. Ci mancava solo un “gnè-gnè” finale e avrebbe terminato in bellezza. ò i due anni successivi a prepararsi all’incontro, perché sarebbe andata nel suo stesso liceo: si informava tramite amiche di amici e cercava di guardare più film possibili e leggere altrettanti libri per arrivare preparata. Il suo sogno era ricalcare la scena del film “Kiss me”, in cui la protagonista, un po’ bruttina e imbranata, improvvisamente scende una scalinata, al termine della quale c’è lui, ben vestita, truccata e soprattutto padrona di se stessa, lasciandolo a bocca aperta (nel film, al termine della discesa la protagonista cade inciampando, ma ormai lo
ha conquistato), per poi ignorarlo giusto un paio di settimane – come se di lui non le importasse più – e poi, finalmente, fidanzarcisi. Per sempre. Approdata al liceo, scoprì che era diventato rappresentante di istituto, per cui lo conoscevano tutti. Agganciarlo sarebbe stato un gioco da ragazze, perché sarebbe bastato entrare a far parte del comitato studentesco, ma le idee politiche che aveva erano troppo integraliste, e va bene l’amore, ma andare contro se stessa e le sue convinzioni, quello no. Così, nonostante i grandi progetti che aveva elaborato nei due anni precedenti, non fece altro che ripetere gli stessi errori commessi in quel primo anno di scuole medie, con l’aggravante che qui il bullismo si era fatto più forte, era cresciuto così come erano cresciuti loro di età anagrafica. Il migliore amico di Lanaro era nella classe vicino alla loro e si era unito a Luca nel dare addosso a lei, al suo naso e al fatto che fosse così pateticamente presa da Lanaro. Percorrere quel corridoio che la conduceva alla sua classe, ando davanti a quella di quel ragazzo, che tutti chiamavano “il biondo”, era ogni giorno una tortura. I consigli da parte della sua famiglia fioccavano da ogni parte: «Non far vedere loro che stai male, così dai solo soddisfazione, ignorali!» era quello che andava più per la maggiore, ma sembrava non funzionare nulla. Un giorno, in lacrime, si rivolse al proprio padre, che, arrivato anche lui al culmine di tutti i racconti che sentiva dalla figlia, esasperato cercò e trovò sull’elenco telefonico il cognome di questo “biondo” e gli telefonò alla sera. Il padre del ragazzo si rivelò una bravissima persona e lo costrinse a scusarsi con Alessia al telefono. Non valse a nulla: le diedero solo un paio di giorni di tregua. Così, i due anni successivi li ò cercando di are il più inosservata possibile, sperando che assero in fretta, e funzionò. L’interesse per Lanaro cercò di reprimerlo con tutte le sue forze, costringendosi a non guardarlo mai. Funzionò, complice l’arrivo di due cicli di altre ragazze di prima che la sostituirono, perché prese a loro volta di mira. Finalmente arrivò la quarta, Lanaro andò all’università insieme a tutti i suoi coetanei, compreso “il biondo” e la pace tornò. Durante l’estate precedente a quel settembre, per Alessia avvenne la “trasformazione”: da brutto anatroccolo diventò cigno, e questo avvenne per un mero processo naturale, non forzato da manuali o riviste studiati e ristudiati fino a saperli recitare a memoria.
C’era un ragazzo, di sei anni più grande di lei, che aveva cominciato a guardarla assiduamente e a farle una corte spietata. Abitavano vicini in un paesino di montagna dove la famiglia di Alessia aveva una seconda casa di proprietà e si potevano vedere da balcone a balcone: non smetteva di fissarla, e la cosa la imbarazzava, intimidiva e incuriosiva allo stesso tempo. Insomma, quel ragazzo aveva già anche la patente, era maggiorenne, avrebbe mai potuto interessarsi veramente ad una ragazzina nasona come lei? Evidentemente, sì, e fu così che ad un’uscita in compagnia ne seguirono altre, poi i primi scambi di opinione staccandosi un po’ dal gruppo ed appartandosi, una mano di lui sul fianco di lei mentre cercava di insegnarle come andare in buca a biliardo, e, alla fine, la domenica appena precedente all’inizio della quarta liceo di Alessia, un caffè e una cioccolata calda, soli in un barettino caratteristico lì vicino. Quando pagò il conto, lui aggiunse un pacchetto di cicche, se ne mise una in bocca e una invece gliela offrì, e Alessia capì che era arrivato il momento. Così, giunti ai saluti, lei si mise in piedi sul marciapiedi, lui invece rimase in strada, in maniera tale da poter essere occhi negli occhi. «Pensi che ci potremo vedere durante l’anno?» le chiese. «Beh, potresti venire nei fine settimana se ti va. Tanto ci divide solo la Valassina e sono 20 minuti di auto». Lui capì che era un chiaro permesso per baciarla, e quando si avvicinò, per Alessia fu una cosa stranissima, e in più non sapeva dove poter mettere la cicca. Comunque, da lì nacque un amore folle durato fino all’inizio dell’università di lei, ed anche a distanza di anni, ogni volta che Alessia guardava “Le pagine della nostra vita”, pensava a lui. Quel ragazzo le diede la forza per rispondere a Luca e a ogni stronzo come lui, e la sua autostima unita alla consapevolezza ed alla sicurezza in se stessa subirono un’impennata notevole. La loro storia finì senza in realtà finire mai, perché rimasero sempre l’una nel cuore dell’altro, e viceversa. I gusti musicali di lui includevano tutto fuorchè la musica italiana, men che meno Ligabue, ma un giorno le scrisse un messaggio, perché era stato attento al testo di una canzone, “Niente paura”: “Ed anche le donne ano... qualcuna anche per di qua.
Qualcuna ci ha messo un minuto, QUALCUNA È PARTITA MA NON SE NE VA. ... quella sei tu. Ciao stella”. Durante gli anni universitari ci furono un po’ di ragazzi, alcuni senza senso. Ci fu un fonico di RTL che finiva di lavorare alle 22 minimo, per cui Alessia si costringeva a rimanere alzata fino a quell’ora per poterlo vedere. Ecco, quello era un ragazzo, o almeno, era una “cotta” per la quale valeva la pena rimanere sveglie: non per le festine di Luca. Si laureò in fretta: l’appellativo di “secchiona” non le era stato dato a caso, in più era metodica, precisa ed una perfetta organizzatrice: nei programmi di studio che metteva in fila esame dopo esame, non mancavano mai almeno un pomeriggio libero a settimana e i week-end “free” per vedere il ragazzo con cui si era fidanzata, e col quale era finita 3 mesi dopo la sua laurea, nonostante tre anni e mezzo buoni di fidanzamento e la convinzione reale di Alessia che fosse “quello giusto”. Ci fu un giorno in cui arrivò a porgli, seriamente quella volta, le domande fatidiche: “Vorresti sposarti, costruire una famiglia…?”. La risposta di lui fu affermativa, ma completata da un “più in là” che Alessia non accettò perché non aveva tempo da perdere a cercare di cambiare uomini che tanto non sarebbero cambiati comunque, o ad aspettare alla finestra le occasioni per incontrare qualcuno che volesse le stesse cose che desiderava lei. Il padre di lui le disse: «Aspettalo, te lo chiedo come favore… fa un anno sabbatico in America e poi tornerà». Alessia gli sorrise e poi decise quello che era meglio per se stessa: lo lasciò. Circa una decina di anni dopo, anno solare 2020, per citare quello che era solito dirle suo padre, “aveva dato la pista a tutti”: se si girava a guardare tutti i ragazzi che aveva frequentato, nessuno di loro aveva trovato il proprio posto nel mondo, Lanaro in primis, che dopo anni ati insieme alla stessa ragazza, nel 2017 si era improvvisamente iscritto a Facebook, perché si era ritrovato single dopo che lei si era stufata di aspettare un matrimonio che non sarebbe mai arrivato. Nel giro di un anno, lei (tale sca) si era sposata con un suo collega, e nel giro dell’anno successivo, erano genitori di due gemelli. Lanaro invece si era dimesso
dalla prestigiosa società per la quale aveva lavorato per anni e si era messo a girare il mondo. Il suo posto, non lo aveva ancora trovato. Alessia invece, nel novembre del 2009, a pochi mesi dalla laurea e dalla fine della relazione con Mr “Anno sabbatico”, si era vista entrare in ufficio una preadolescente, all’apparenza spavalda, che le chiedeva consigli su quale fosse il percorso di studi migliore da intraprendere. Vicino a lei si sedette il padre e il cuore di Alessia si fermò: aveva trovato il suo posto nel mondo. «E quindi… come l’hai conosciuta tua moglie?». Erano seduti al tavolino di un bar per un aperitivo – Anna era dai nonni – neanche una settimana dopo. Era venuto naturale, per entrambi, andare subito sul personale. La scintilla non era scoccata solo per Alessia, era evidente. Giovanni tentennò, così appena Alessia lo percepì gli offrì, scusandosi, l’occasione per tornare indietro e cambiare argomento, ma lui decise di rispondere: «No no, va bene… è solo che non ne parlo da anni, con nessuno. Neanche con Anna. E faccio male, molto male. È da una vita intera che mi sembra di dover recuperare... di dover recuperare... tutto!!! Suona strano, vero?». La guardò, staccando gli occhi dal bicchiere sul quale si era concentrato, come se ne traesse ispirazione, o come se gli infondesse il coraggio di esternare molte cose. «Sembra strano dire che è da una vita che mi sembra di recuperare una vita, ma è così. Ho ato infanzia e adolescenza al sud e… beh, immagino tu abbia intuito dal cognome chi sia mio padre». Alessia annuì. Era un noto esponente politico. «Ecco… non è stato facile, essere suo figlio. Non lo è stato non solo per il ruolo che ricopriva ma anche perché per me non è mai stato un padre. Un padre degno di tale nome, intendo. Ho sempre sentito che c’era qualcosa che non andava, ma ho sempre giocato a fare quello che nascondeva la polvere sotto al tappeto, sai... così era più semplice. È più facile vivere da “superficiali”, e io ero diventato così bravo a fingere di esserlo che alla fine lo ero diventato per davvero. Quando ho incontrato Margherita, ho scoperchiato il vaso di Pandora: c’era una quintalata di roba là dentro. Lei era empatica... capiva quando avevo un problema o qualcosa che non andasse ancora prima che lo capissi io. E così mi spingeva a parlare, a tirare fuori. Ma non era semplice. Non credo di averle dato da vivere una vita
semplice. Ancora oggi mi sento in colpa per quanto l’abbia fatta soffrire… per anni, dopo la sua morte, non sono neanche riuscito a guardare suo padre negli occhi, tanto mi vergognavo. Comunque.. ci siamo incontrati perché una volta compiuta la maggiore età ho deciso di andarmene da casa mia, ne avevo l’esigenza. Mio padre era entusiasta della mia idea perché da giovane era stato a Milano e ne parlava come di un posto magico, pieno di opportunità. Per cui ha acconsentito di buon grado e mi ha comprato un appartamento. La mia vita da quel momento è cambiata, sentivo di poter respirare, non mi sentivo più in gabbia, anche se la sudditanza psicologica da mio padre c’era sempre. Però almeno, dalla mia, avevo la distanza fisica, che mi faceva sentire meno costantemente sotto ricatto. Margherita mi ha praticamente inserito nella prima azienda nella quale ho lavorato, nel senso che è stata lei a farmi il primo colloquio. Una volta assunto, le ho fatto recapitare una pianta in ufficio, e da lì a breve è nato tutto, anche se eravamo entrambi neolaureati e molto giovani. Sentivo che sarebbe stata quella giusta, così poco più di un mese dopo averla incontrata, complice il fatto che i miei sarebbero saliti per le feste, l’ho presentata a tutti. Volevo, bramavo, avevo l’assoluto bisogno dell’approvazione di mio padre. Questa non tardò ad arrivare sulle prime, in parte perché era impossibile non apprezzare le qualità e la socievolezza di Margherita, in parte – ma questo l’ho scoperto poi – perché mio padre non la viveva come un pericolo. Tutto il castello è crollato quando l’estate successiva l’ho portata giù in vacanza. Nel frattempo, le avevo chiesto di sposarmi, e mio padre fece di tutto per ostacolare il matrimonio. Non perché fosse lei, o almeno è quello che ha teorizzato dopo la mia psicoterapeuta, l’avrebbe fatto con tutte. Non perse occasione per umiliarla, e io inerme non facevo nulla per difenderla. La accusò di sposarmi perché voleva i suoi soldi, quando poi, alla nascita di Anna, non ci regalò neppure un ciuccio. Io non capivo niente, ero totalmente suddito di mio padre, e cieco. Un pomeriggio di quei giorni estivi eravamo soli, non la sentivo e poi sono uscito sul balconcino: era in lacrime, al telefono, disperata, e continuava a ripetere: “Vienimi a prendere, papà, ti prego”. Non era una debole, quindi quel pianto mi fece accorgere che c’era qualcosa che
non andava. Così parlammo, disse che aveva cercato di dirmi tante cose, che quegli argomenti li avevamo già affrontati, ma le sembrava che io non li avessi mai sentiti. E in effetti era così, ricordo di essere letteralmente caduto dal pero. Mi disse che o prendevo posizione, o se ne sarebbe andata. Non rispondeva a mio padre per rispetto a me, e perché un po’ sperava che aprissi gli occhi. Dopo quella discussione, il mio atteggiamento un po’ cambiò, ma solo superficialmente. Ci sposammo, ed anche quel giorno mio padre riuscì a rovinarcelo, e poi nacque Anna. Con la sua nascita, complici forse anche gli ormoni, Margherita esplose: vomitò tutto quello che si era tenuta dentro e non risparmiò nessuno, perché tutti, inutile dirlo, erano dalla parte di mio padre: un po’ perché sudditi come me, un po’ per convenienza, un po’ perché non avevano conosciuto altra realtà all’infuori della vita insieme a lui, e questo è il caso di mia madre, che ovviamente, prendendo le parti del marito, un giorno al telefono mi disse che dovevo avere le fette di salame sugli occhi per non rendermi conto di chi avevo sposato. Avevo la mia famiglia contro e mi sentivo perso. Non ero in grado di essere un marito, di essere padre, di essere un uomo. Avevo un’idea di me che non corrispondeva alla realtà. Così mi rinchiusi in me stesso, e mentre Margherita ava i sabati pomeriggio sul pavimento della sala ad insegnare ad Anna a gattonare, io ero lì con loro ma giocavo alla Play. Poi si ammalò, e fu solo dopo la sua morte che scoprii tante cose, grazie all’aiuto di una terapeuta a cui mi ero rivolto per superare il lutto, ma che poi mi guarì, totalmente. E adesso lo sono, sono libero, sono finalmente diventato l’uomo che ho sempre voluto essere, ho affrontato mio padre, mia madre, i miei fratelli, i miei zii... tutti i miei parenti e non ho lasciato neanche un briciolo di polvere sotto al tappeto. Sono pronto per una nuova relazione, ma non mi perdonerò mai per quello che non sono stato in grado di essere per Margherita, e per Anna». Si interruppe e la fissò. «Puoi scappare, adesso, ne hai facoltà!» disse sorridendo, un po’ intimorito. Alessia cavalcò l’onda dell’ironia: «Tuo padre è ancora vivo però, giusto?». Giovanni buttò indietro la testa lasciandosi andare ad una grassa risata. «Sì» rispose, «ma non può più nuocere a una mosca, ormai, ha già raccolto tutto il marcio che aveva seminato… e non solo da me. Il karma ha seguito il suo
corso. Ma, a prescindere da quello, sono io che ora sono cambiato. Sono anni che mi sono finalmente riuscito ad affrancare da quella relazione malata». Alessia rimase zitta per un po’… non era certo facile. Ma sentiva che ne sarebbe valsa la pena, e apprezzò molto quella sua totale onestà nell’aprirsi. «Con Anna mi sembra tu stia recuperando alla grande… me l’hai addirittura già portata per un piano di studi!!!». Giovanni capì: «È troppo presto, dici?». «Eh, direi di sì… non la pressare, lasciala libera di viversi la sua età per quella che è». «Sì, hai ragione... forse ho troppa fretta di recuperare… anche se forse, più di tutto, lei non ha bisogno di indicazioni o soluzioni… ha bisogno di dialogo». Giovanni la guardò, e tese una mano sul tavolino verso di lei, col palmo aperto rivolto all’insù. «Pensi che mi potrai aiutare?» le chiese. Alessia sorrise e allungò la mano per metterla all’interno della sua. Giovanni la strinse forte. «Sì, penso proprio di poterci riuscire e… lo voglio, lo voglio fare». «Ma… professionalmente?». «Mmmh… direi che ormai qui di professionale è rimasto ben poco, cosa dici? Stiamo giocando a carte scoperte…». Giovanni si sporse verso di lei: «E allora continuiamo sul personale, questi consigli gratuiti che mi proponi mi allettano parecchio». Alessia rise: «Gratuiti del tutto… direi di no: ho voglia di un altro drink. E pagherai tutto tu» e tirandosi su tutta, con la schiena ben dritta sulla sedia per far finta di darsi delle arie, gli fece l’occhiolino.
Capitolo 5. ANNA
Anna aspetto un po’ prima di comunicare la notizia dell’apertura della sua pagina IG a suo padre Giovanni. Sapeva che l’avrebbe presa male, e quindi voleva aspettare il raggiungimento minimo dei 1000 followers prima di dirglielo, in maniera tale da dimostrargli che non era una paginetta da fichi e uva, dato che già mille persone, là fuori nel mondo, la ritenevano interessante. La notte dopo il bacio mancato a Juri la ò insonne, e così si attaccò al cellulare mettendosi subito all’opera, complice l’adrenalina. Non voleva che i suoi amici e parenti la riconoscessero inizialmente, e così penso ad uno pseudonimo, che le venne fuori con una facilità estrema, data la serata appena ata: Serenalastronza. Siccome inserire una parolaccia nel nome le sembrava un po’ brutto, nella didascalia scrisse “non fermarti alle apparenze…” poi si scattò una foto sotto al chiaro di luna, attenta a non farsi vedere in viso, la modificò con i vari filtri e la pubblicò insieme al commento: “A grande richiesta, dato che me l’avete chiesto in tantissimi… eccomi a voi ragazzi, questo è il mio profilo ufficiale”. Non aggiunse “seguitemi!” perché voleva dare l’idea di essere una già famosa che non aveva certo intenzione di utilizzare mille # o di taggare persone popolari per farsi notare, proprio perché era già nota di suo, e cominciò a chiedere il follow a tutti i followers di Chiara Ferragni, in particolare selezionò solo quelli non italiani, per due ragioni: primo, probabilmente avendo un fuso orario differente avrebbero visualizzato la notifica in tempo reale, secondo avere followers stranieri per lei significava partire già con una marcia in più, perché rafforzava quello che lasciava intendere con il suo primo post e cioè che fosse già popolare, per di più fuori dall’Italia!!! La sua strategia funzionò, e in breve tempo era già arrivata a 500 followers!
Essendo però in parte già pratica di IG, sapeva che i veri influencers non seguono quasi nessuno, per cui ò quasi tutta la nottata a cancellare immediatamente il “segui” a chiunque avesse accettato la sua richiesta. Era facile, era letteralmente un gioco da ragazze. Aveva già guadagnato un centinaio di “mi piace” al suo post, e pensò che nel giro di una settimana, andando avanti di questo o, avrebbe potuto raggiungere vette altissime. «Che cosa stai facendo???». La voce di suo padre tuonò alle sue spalle. Si doveva essere addormentata col telefono in mano. «A che ora sei rientrata? Hai dormito?? Ma stai sempre col cellulare in mano?» e così dicendo, glielo strappò via. Anna cercò di recuperare rapidamente le facoltà mentali, ma non ci riuscì in tempo perché purtroppo il cellulare era ancora carico ed essendo privo di codice d’accesso, suo padre visualizzò subito la schermata di IG. Si voltò a guardarla. Lentamente. Quando non sbottava e parlava in maniera calma faceva ancora più paura, perché era la personificazione della quiete prima della tempesta. «Adesso mi spieghi. Tutto. E poi, a prescindere da quello che mi dirai, cancelli questa merda immediatamente, e lo farai sotto ai miei occhi. Prego, sono tutto orecchi». E si sedette sullo sgabello davanti a lei. Anna aveva sempre idolatrato suo padre, lo amava da morire. Per lei era l’unico riferimento importante, l’uomo più importante della sua vita, e sentiva che di lui si poteva fidare ciecamente. Questo idillio si era però interrotto il giorno in cui trovò la lettera. arono giorni, se non settimane, in cui i due, molto simili caratterialmente, si chio in un mutismo che neanche la buona nonna Clelia riuscì a fermare. Fu una cosa graduale e che avvenne da entrambe le parti. Ogni tanto Anna rifletteva su cosa potesse pensare suo padre. Si arrabbiava, perché da qualche parte, nella sua testa, sentiva che non era giusto, perché era lui il genitore e non lo stava
facendo. Poteva avere tutte le ragioni che voleva, in quanto essere umano, ma rimaneva suo padre e non poteva prendersi giorni di malattia o ferie. Poi arrivò lei, e lui di colpo cambiò. Anna, questo fatto, non l’aveva mai digerito, anche se non l’aveva mai confessato a nessuno. Ne aveva beneficiato, certo, e di parecchio anche, ma l’idea che fosse stata un’altra donna a farlo aprire, la mandava in bestia. Fu lampante fin da subito: suo padre si era innamorato. La storia fra i due partì da subito alla velocità della luce e nel giro di pochissimo Anna si ritrovò ad essere sorellastra di una neonatina dal faccino rotondetto e gli occhietti blu mare. Le fu oggettivamente impossibile non amarla, fin da subito. La compagna di suo padre era adorabile e questo a volte le dava sui nervi, perché se almeno fosse stata maligna come qualche matrigna che aveva visto nei film, o almeno avesse avuto una, dico una caratteristica o comportamento a cui potersi appigliare, le sarebbe stato più semplice odiarla perché avrebbe avuto un senso. Invece così si sentiva solo in colpa. La punizione che le riservava per non essere sua madre e per essere stata lei a far riaprire il padre era la freddezza. Una freddezza quotidiana e ben studiata, che capiva quanto la ferisse, perché poi, di fronte al padre, stava attenta ad essere cortese e gioviale. Ma anche il fatto che il padre fosse così dolcemente paterno con la sua sorellastra, beh anche quello la mandava in bestia. In più, la loro relazione era nata proprio sull’inizio della sua età preadolescenziale e stava continuando nei suoi anni di adolescenza. Anna, a volte, si autogiustificava così, perché tanto “tutti gli adolescenti, alla fine, odiano qualcuno”. Per cui, quel giorno, seguendo la scia di abilità apprese – di cui avrebbe tanto voluto avere la stessa competenza anche in ambito amoroso – gli sorrise e gli rispose prontamente che semplicemente, quella notte non era riuscita a prendere sonno e così aveva creato quel profilo per accontentare una sua amica che era da tanto tempo che la tormentava affinchè creasse un “fake” con cui tentare il suo ragazzo per verificare se le fosse o meno fedele.
«È temporaneo papà, te lo assicuro. Era da almeno un mese che me lo chiedeva, ma io di giorno studio sempre… anche qui in vacanza, mi vedi con i tuoi occhi, no? E poi quando finisco di studiare mi piace distrarmi con altro… non con questi cellulari e queste app – e non è vero che ce l’ho sempre in mano…! – per cui alla fine non ho mai trovato il tempo per accontentarla. Stanotte ne ho approfittato, tutto qui». Giovanni riflettè un secondo prima di parlare: «Lo sai che non voglio arrivare a controllarti il telefono perché fra noi ci deve sempre essere un rapporto di fiducia reciproca, vero?». «Ma papà...!» disse lei abbracciandolo, «non ce n’è bisogno, figurati! Mi conosci! Appena lo chiudo te lo faccio vedere!». «No, no, mi fido, comunque non mi piacciono questi giochetti». «Neanche a me, infatti le ho detto che deve provare a fidarsi… ma sai com’è… non posso mica cambiarle la testa, così ho deciso di venirle incontro… magari impara qualcosa!». Giovanni sorrise, orgoglioso, e allargò le braccia: «Brava la mia bambina, vieni qui che ti do una bella abbracciatona». E così Anna si rifugiò fra le braccia del padre, che erano sempre un luogo sicuro, sentendosi un po’ in colpa, ma pensando al contempo che quella fosse una bugia un po’ bianca, perché il gioco valeva la candela. Da quel giorno in poi, ogni momento era buono per aggiornare il profilo. Doveva approfittare dell’estate per raggiungere un buon numero di followers, perché poi la scuola l’avrebbe impegnata troppo. Il cellulare l’aveva sempre con sé, e le eggiate le erano sempre piaciute, per cui suo padre e la compagna non poterono notare differenze comportamentali. La fortuna di IG era che non permetteva di controllare ultimi accessi o altro come Wapp, per cui era sana e salva, doveva solo sfruttare al massimo i momenti in cui loro non c’erano. Cominciò a fare almeno un post al giorno ed una buona quantità di storie che poi metteva in evidenza. Impostò il profilo come privato perché sapeva che la compagna del padre ne aveva uno, e infatti la bloccò in maniera tale che non potesse scoprirla.
Inizialmente non sapeva cosa scrivere, cosa raccontare, o di quali contenuti trattare, però poi le venne in mente una frase che aveva sentito da qualche parte: “Se non sai di che cosa scrivere, comincia a scrivere di quello che sai”. E così cominciò a parlare di se stessa e della sua storia, e quello che era nato come un profilo simil Chiara Ferragni diventò il suo diario, tanto che quasi immediatamente ne cambiò il nome, che diventò “Orfanaromantica”. Certo, un diario un po’ strano dato che era condiviso con sempre più persone, ma dato che non le conosceva realmente, le sembrava davvero di raccontare i suoi segreti a pagine bianche chiuse da un lucchetto che nessuno avrebbe potuto leggere. Settembre arrivò, e con lui ottobre e l’autunno. Il cuoricino del suo profilo vantava ogni mattina un sacco di notifiche, di nuovi followers, e si era creata un sacco di amici virtuali con i quali scambiava messaggi dando vita a conversazioni profonde e interessanti. Stava bene attenta a non accettare richieste da profili palesemente falsi o che in qualche maniera le “puzzavano” e nonostante le varie scremature, i blocchi e i aggi al setaccio che faceva tutti i giorni, aveva raggiunto quasi 3000 followers, ed era diventato difficile gestire tutti i messaggi che le arrivavano in privato, soprattutto notarli. Ma a inizi novembre arrivò lui, Matteo. Aveva un profilo con nome e cognome che corrispondevano, se cercati su Google, ad un Facebook e ad una posizione come stagista all’interno di uno studio di commercialisti di Legnano su Linkedin, da cui si evinceva fosse ragioniere. Come didascalia aveva diverse emoticon, e non c’era nulla, nulla che fe pensare a qualcosa di falso o a qualche pervertito che si fingeva giovane per poterle parlare. Il suo Direct, caso volle (forse il destino...?) venne notato subito da Anna e recitava: “Ciao sono Matteo, ti seguo più o meno dagli inizi ma non credo tu mi abbia mai notato perché ti ho sempre osservato in silenzio e non ho mai commentato o fatto cuori o tag vari e tutto quello che IG offre la possibilità di fare...! La verità è che mi piaci tantissimo. Vorrei tanto poterti parlare per davvero. Ti lascio il mio numero di telefono, assicuro sulla mia fedina penale (…pulita!!) e se vuoi ti inoltro carta d’identità, codice fiscale… quello che vuoi per poterti far stare tranquilla. 348...”. Anna sorrise, anzi, sentì l’intero viso illuminarsi. Memorizzò subito il suo numero in rubrica e, preso coraggio, byò Wapp e lo chiamò direttamente. Rispose al terzo squillo.
«Pronto?». «Ciao, sono Anna!». «Anna… Anna?». Anna rise: «Sì, orfana romantica! Ti disturbo?». «Oh, mamma…» rise anche lui, aveva una bella voce maschile, «mi sembra di ricevere una telefonata da una celebrità...! Non sai che piacere sentirti, io non credevo davver…» rimase zitto per secondi interminabili, Anna sentiva dei i. «Scusa, mi sono allontanato perché ho la scrivania attaccata a quella della mia supervisor. Sono nei pressi del bagno!». Anna rise ancora: «Che luogo romantico...!». «Sì infatti, non potevo immaginare location migliore per un primo scambio di parole con te…!». Fu ufficiale dopo pochi giorni: Anna si era innamorata. E la cosa più straordinaria era che quello era un amore ricambiato, non aveva dubbi! Matteo le dava costantemente un’infinità di certezze che lei non richiedeva neanche, gli veniva naturale rassicurarla e non smettere mai di dire quanto tenesse a lei. Svegliarsi al mattino e trovare il suo messaggio del buongiorno e andare a letto con quello della buonanotte erano sensazioni impagabili, indescrivibili, mai provate prima. L’umore di Anna era cambiato anche in casa, e ne beneficiarono tutti. L’unico problema, non da poco, fu rappresentato dal fatto che il padre di Matteo era tedesco e a volte aveva bisogno, per motivi personali uniti a ragioni lavorative – viveva in Italia da anni ma non aveva mai smesso di mandare avanti l’azienda di famiglia che i suoi genitori gli avevano lasciato in gestione e che si trovava in un paesino della Germania, Nesselwang – di tornare lì per due o tre mesi, e questo avveniva circa tre volte all’anno. Così, poco dopo l’inizio della loro relazione, Matteo, che ancora viveva in casa con i suoi, dovette seguire il padre in trasferta. «Ma come fai col lavoro?».
«Mi occupo solo di contabilità, riesco a gestirla da là, da remoto». «Ma come, proprio adesso che dovevamo vederci…». «Rimpiango tanto il fatto di non averlo fatto prima, lo sai». Si tempestavano di videochiamate quasi ogni giorno, ma era stata Anna a voler aspettare quasi un mese prima di incontrarlo. Ora si malediceva. Dalla Germania, Matteo non smetteva mai di inviarle foto o video di localini caratteristici, di paesaggi, una volta le fece fare l’intero tour dell’azienda del padre. Verso Natale, Anna confessò alle sue compagne di classe dell’esistenza di Matteo. Ne parlava come se fossero fidanzati, ma le sue amiche la riportarono, alcune piuttosto bruscamente (forse per invidia…?) con i piedi per terra: come poteva pensare che quello fosse il suo fidanzato se non si erano neppure visti dal vivo? E, come sempre, alla fine tutto si riduceva a quel maledetto bacio, che lei non aveva ancora dato, e che pareva sancisse l’inizio di ogni storia d’amore, perché altrimenti in mancanza di quello, non esisteva nulla di reale. Eppure Anna si era aperta con lui come non aveva mai fatto con nessuno, lui altrettanto (lo sentiva) e la profondità dei loro discorsi valeva più di mille baci che alcune fra le sue compagne di classe davano quasi ogni sabato sera a ragazzi che poi non avrebbero più rivisto. Sarebbe tornato all’inizio di marzo, perché quella trasferta (la solita fortuna...!) aveva avuto bisogno di più tempo del previsto Una sera, non riusciva a parlargliene a voce, gli scrisse, diretta: “Ma quindi tu mi consideri un po’ come se io fossi la tua ragazza ‘virtuale’?”. Matteo rispose subito: “No, io ti considero LA MIA ragazza e basta. Punto”. Il cuore di Anna non era mai stato più felice e si mise a crocettare i giorni che mancavano al suo ritorno sul calendario.
Domenica 23 febbraio 2020, verso le 18, Matteo la chiamò: «Abbiamo saputo della chiusura della scuole in Italia per il virus… mio padre ha contattato il mio medico curante, lo so non si capisce ancora un cazzo, ma lui dice che per prudenza è meglio che rimanga qui, con il mio problema alle difese immunitarie non si fida a farmi tornare… solo un altro paio di settimane ancora amore, lo so è una sfiga, però aspettiamo, portiamo pazienza e vediamo come evolve la situazione… abbiamo fatto trenta, riusciremo a fare anche trentuno!!!». Anna interruppe la comunicazione, spense il telefono, e fra le lacrime, si rivolse a sua madre: «Fanculo tu e il tuo amore di merda!!! Aveva ragione papà nel non volermi far leggere quella lettera! Eri solo una pazza sognatrice, illusa del cazzo!!! Non sarò mai felice!!!». Il tono di voce si era fatto sempre più alto, mentre si rimise in piedi e, singhiozzando, raggiunse il cassetto dove aveva custodito la lettera di sua madre per tutti quegli anni, riducendola in mille pezzi.
Capitolo 6. ALESSIA
Alessia non aveva mai ben tollerato i social network. Ad avvisarla dell’arrivo di Facebook fu il suo fidanzato dell’università, “Mr Anno Sabbatico”: «Ma dai, iscriviti, me l’ha appena segnalato mia sorella, ha ritrovato un sacco di vecchie amicizie!!!». Alessia non aveva bisogno di ritrovare nessuno perché le sue vere amicizie, che si contavano sulle dita di una mano, se le portava dietro quotidianamente da anni ed erano ancora lì con lei (dove sarebbero rimaste anche negli anni a venire), ma si iscrisse più che altro per fargli piacere. Rimase un “luogo” abbastanza calmo per un po’ di anni, poi Alessia si disiscrisse quando incontrò l’uomo della sua vita, e visse benissimo. Poi però, alla nascita di Valentina, un po’ pressata dalle sue amiche che dovevano ancora spendere soldi per comunicare con lei dato che era una delle poche, nel 2012, a non essere ancora in possesso di uno smartphone e fosse quindi priva di Whatsapp, si iscrisse nuovamente, stando bene attenta ad aggiungere alle proprie “amicizie” quelle effettivamente reali, cioè quei rapporti che avevano un senso anche nella vita reale. Così, con la sua ventina scarsa di amici, si divertiva a condividere, per il puro piacere della condivisione, appunto, e non dell’ostentazione, i progressi di Vale, o qualunque altro pensiero o fatto che le andasse di mettere in bacheca. Aveva però già notato che i tempi erano cambiati, persone normali contavano 1500 amici, il che significa che fra i loro contatti era per forza presente anche il figlio del panettiere presso il quale un giorno di un’estate a caso erano andati a comprare uno sfilatino. In più, cominciavano a fioccare i blogger, le pagine, le mamme e le famiglie online che poi come naturale conseguenza finivano su Instagram. C’erano persone con buoni contenuti, che utilizzavano bene lo strumento, ma ce n’erano
altre a cui era piovuta fortuna dal cielo, e senza alcuna meritocrazia andavano avanti cavalcando l’onda e “succhiando dalla greppia”, come dicevano le nonne, il più possibile, finchè ce n’era. Un problema che si pose ad Alessia durante la scuola materna fu l’accettazione o meno delle richieste di amicizie che provenivano dalle madri delle compagne di classe di sua figlia. Con tutto il resto del mondo non aveva mai avuto problemi a chiarire la sua posizione e declinare gentilmente l’invito spiegando che utilizzava quello strumento come se fosse un’espansione di una chat di gruppo su Whatsapp (nel frattempo, nel 2016, aveva ceduto e aveva tristemente abbandonato il suo Nokia), ma lì c’entrava sua figlia e… insomma, per la materna aveva resistito, sapendo che Valentina la primaria l’avrebbe frequentata altrove, ma in prima elementare, al ripetersi della stessa scena, in previsione di 5 anni insieme, non se l’era sentita. Non essendo abile nelle varie manovre di condivisione filtrata solo ad alcuni e restrizioni varie, si ritrovò di colpo in un vortice di like e non like, commenti e non commenti, pubblicazioni continue, ostentazioni, frecciatine… in soldoni, uno schifo, per lei che era sempre stata molto schietta e trasparente. Le dinamiche fra le varie madri le furono chiare fin da subito e cercò di starne fuori, ma era una la cui personalità emergeva subito e riusciva poco a contenerla. Così, la somma fra il rispondere subito, nella chat di classe, ad una madre che chiedeva aiuto per i compiti (“che precisetti… sa sempre tutto...”), unito ad una bella foto di famiglia su Facebook, unito ancora al fatto che stesse sempre fuori da scuola e che quindi avesse una montagna di tempo libero (...), diedero come risultato il sentimento “invidia” in poco tempo. Ovviamente, su una classe di poco più di 20 alunni, quelle col dente avvelenato abituate a sparlare e a creare castelli in aria, inventandosi storie, frecce e collegamenti, erano ben poche, ma facevano più rumore che se si fossero messe a urlare a squarciagola insieme tutte le rimanenti. Il compagno di Alessia accompagnava sempre Valentina alle feste, ed anche questo generò invidia. Per farla breve, andare a prendere Vale a scuola diventava sempre più pesante. Normalmente, Alessia non avrebbe avuto problemi a mettere in chiaro le cose, perfino a lavoro era capitato si fosse scontrata in seguito ad avvenimenti poco
chiari e non leali. Giovanni la chiamava “la paladina delle ingiustizie”, ed in effetti era così, aveva un senso di giustizia e di morale che non le permettevano di fare come le tre scimmiette e farsi scivolare tutto addosso, e il suo carattere incendiario non aiutava certo nel “lasciar correre”. Ogni volta che cercava di farlo infatti, somatizzava a livello fisico, col risultato di avere gastrite e colite, sempre in accoppiata. In quella situazione però, non se la sentiva di reagire, perché di mezzo c’era sua figlia, ed erano perfettamente in grado, quelle madri, di estromettere volutamente Valentina, di carattere gioioso, che andava d’accordo con tutti, da una merenda solo per far dispetto a lei. E a lei, come già detto, il bullismo faceva terrore. Era un venerdì di febbraio quando, in seguito a tutta una serie di avvenimenti, alcuni alla luce del sole, altri no (ma la sfortuna di Alessia era che riusciva a cogliere tutte le sfumature, e non le sfuggiva niente), una delle madri del gruppetto delle Perfidie la fermò fuori da scuola. Le Perfidie si erano unite in un gruppo in cui non esitavano a dichiararsi imperituro amore anche nella chat di classe, e se qualsiasi essere umano avesse visto da lontano i loro contenuti social, avrebbe pensato che fossero amiche da una vita. Invece si conoscevano da poco più di un anno, e non si frequentavano neanche con così tanta assiduità, per cui Alessia si ritrovò più volte a pensare che o fra di loro Cupido avesse fatto scoccare una scintilla potentissima, oppure avessero una precedente così scarsa vita sociale, da scegliersi vicendevolmente come “migliori amiche” (… neanche fossero LORO, alle elementari) e decidere persino di andare in ferie insieme. «Ti posso parlare un secondo?» il tono era da serpente. Alessia capì e mandò avanti Valentina, per evitare che sentisse di quanta violenza verbale era capace la madre di uno dei suoi compagni di classe. Così annuì. Pronta a incassare la botta. Non ci riuscì, perché quello che la investì fu un fiume di parole così pieno di cattiveria che davvero non si sarebbe aspettata: «Ma si può sapere perché non vieni agli aperitivi di classe? Ma chi ti credi di essere per snobbarci così? Non metti neanche like ai post della rappresentante di classe... sei una perfettina del cazzo, ma credi che non ce ne siamo accorte? Se ne è accorta tutta la classe… altrochè… tu non sai quanto materiale ho raccolto su di te, un giorno lo giro sulla chat di classe e ti sputtano».
«Ma di cosa stai parlando?» chiese timidamente Alessia, che era impietrita. «Lo sai benissimo!!!! Ma ancora non lo hai capito che stai sul cazzo a tutte, a TUTTE??? Sfortunata tua figlia, mamma con che madre che è capitata…». «Senti, Elena, l’unica cosa sensata che hai detto e alla quale ti posso rispondere è che non vengo agli aperitivi perché li fate tardi; non sono aperitivi, sono dopocena, li iniziate alle 21:40 e finite a mezzanotte e a, e io ho sonno». «Eeeeehhh ma ceeeerto, ha sonno la signorina! Che non c’hai da fare un cazzo tutto il giorno! E noi non abbiamo sonno??? Ora che torniamo a casa dal lavoro con i mezzi o con l’auto e col traffico, a che ora pensi li dovremo organizzare, alle 19 per far piacere a te?». Alessia era basita, il cuore a mille. Luca e le sue feste in taverna era tornato, insieme alla nasona impaurita e terrorizzata dal non essere accettata da nessuno. Tentò di prendere Elena per un braccio, per quanto si rendesse conto del fatto che aveva davanti una grandissima stronza, voleva cercare di parlare per rimanere almeno in rapporti civili, per il bene dei figli. Non ci riuscì, l’altra si divincolò e scappò via. Tornò a casa come un automa, per inerzia, riuscendo in qualche modo ad eludere le domande di Valentina ed essendo profondamente sconvolta dal fatto che quel tipo di dinamiche la ferissero ancora così profondamente. Durante il week-end parlò poco, non voleva arrivasse il lunedì mattina. Voleva una pausa, una pausa da tutto. La domenica, il 23 febbraio 2020, il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte annunciò la chiusura di tutte le scuole di ordine e grado per cercare di contrastare e contenere la diffusione del nuovo virus SARS-CoV-2.
Capitolo 7. ANNA
«Cosa sta succedendo, tesoro?». Alessia entrò in camera di Anna, preoccupata per i singulti che aveva sentito provenire chiari nonostante la porta chiusa. «Non osare chiamarmi “tesoro”!!! Non osare, capito?!? Non sei mia madre, anzi se è per questo, e per quello che ho capito in questi anni di te, siete due idiote, siete troppo simili, mio padre è un demente perché vi sceglie tutte uguali e non capite un emerito cazzo dell’amore!!!». Anna era un fiume in piena, e uscì dalla porta di camera sua precipitandosi verso la porta di ingresso di casa, spintonando fortissimo l’altra, che aveva teso un braccio nel tentativo di placarla, ma che si ritrovò brutalmente scaraventata sul letto. «Anna?» spuntò Valentina. «Anna dove vai?». Anna si girò verso la bambina, la vide scossa e sull’orlo delle lacrime, era una bimba molto sensibile e attenta ai dettagli. Si sentì terribilmente in colpa. Si chinò e la abbracciò, stringendola a sé forte, anche se con un braccio solo, le chiese scusa sussurrandolo e le disse che non era niente, era solo arrabbiata e usciva per smaltire il nervoso. «Ma sei arrabbiata con la mamma?». Anna si girò verso Alessia, che la osservava dal letto della sua camera, zitta. «No, Vale, sono arrabbiata con la mia» rispose alla sorella, mentre guardava Alessia. «Vado a dormire da Roberto» annunciò, «ditelo voi a mio padre quando tornerà dalla messa… di come reagirà, sinceramente non me ne frega niente» e se ne andò sbattendosi la porta alle spalle.
Roberto abitava nella palazzina accanto e Giovanni non si preoccupava mai quando la figlia andava da lui perché era il nipote di una cara amica d’infanzia di Clelia, ed era un bravo ragazzo. Lui e Anna erano amici semplicemente perché si conoscevano fin da piccoli, anche se Roberto era più grande, frequentava già il secondo anno di Ingegneria e viveva praticamente da solo, in una depandance della casa dei genitori. Roberto aveva portato Anna per la prima volta a San Siro a vedere il Milan, e al ritorno le aveva cucinato quella che per lei era stata la sua prima spaghettata di mezzanotte. Le aveva raccontato come fosse l’amore visto dalla parte dei ragazzi, e l’aveva portata per la prima volta a mangiare sushi. Era il messaggio alle 2 di mattina quando non riusciva a dormire ed era la persona alla quale confessava cose, sogni, pensieri, avvenimenti che non osava dire neanche alla sua migliore amica. Era stato l’abbraccio in cui si era tuffata quando era andata la prima volta da sola a trovare sua madre al cimitero (lo aveva preteso: “Non seguitemi!” aveva detto a Giovanni e ad Alessia), era scoppiata in lacrime, si era girata e non aveva trovato il vuoto, bensì lui, alto quasi due metri, pronto ad avvolgerla in un abbraccio, perché l’aveva seguita per non lasciarla da sola, e perché aveva previsto le sue lacrime. A volte Anna aveva sospettato di piacergli, ma era un’idea così incredibile da non poterle sembrare reale. Lui c’era sempre per lei, ma semplicemente perché… perché era lui, il suo Roberto, e c’era sempre stato, da prima che lei ne avesse memoria. C’erano state un po’ di occasioni in cui il dubbio di piacergli le si era insinuato nella mente; sospetto che era però scomparso una sera, poco tempo prima (prima di partire per la montagna), quando – in previsione di quanto sarebbe successo con Juri – lo aveva implorato di baciarla. «Ma sei matta?? Ma che è, a comando?». «Ma dai Robi… mica posso continuare ad allenarmi con l’interno del braccio. Daiii… fallo per me!!!» e l’aveva guardato col musetto. Lui era scoppiato a ridere: «Secondo te posso essere attratto da una che mi
guarda così?». Anna rise. Poi successe una cosa strana. Successe che lui le si mise davanti, a cavalcioni della panca che usava per mille scopi. La lentezza con cui allungò una gamba per scavalcare e per sedersi la incantò: sembrava muoversi al rallentatore. Gli notò, forse per la prima volta, le lunghe gambe, fasciate nei jeans, e i muscoli delle cosce. Roberto mise le mani vicine, davanti alle gambe divaricate, e lei gli notò le dita affusolate, e le vene in rilievo. Lui si fece leva sulle braccia, si sporse verso di lei e avvicinò il viso al suo, guardandola profondamente. Per Anna fu come vederlo per la prima volta, non aveva mai notato certe cose, non lo aveva mai visto sotto quel tipo di luce, e sentì il suo cuore fremere, come se avesse il formicolio. Così staccò gli occhi da quelli di lui, ma fece l’errore di scendere a fissargli le spalle, ampie, incredibilmente ampie, e peggiorò la situazione, perché si sentiva improvvisamente fatta di gelatina. Poi, lui le prese il mento, lo sollevò con due dita per riportare gli occhi di lei nei suoi. E, proprio quando Anna fece per schiudere le labbra, lui le disse: «Non potrei mai baciarti, sei come mia sorella per me». Sbraaaam. Momento finito. Per fortuna di Anna, quell’episodio era nato e morto lì, non ne aveva sofferto facendo di Roberto l’ennesima cotta non corrisposta, ma la rabbia che adesso la accecava mentre correva verso casa di lui glielo fece tornare in mente, ed improvvisamente realizzò che neanche il più grande attore di Hollywood poteva guardarti così se non provava qualcosa. Così, irruppe letteralmente dentro casa di lui, come una furia. Mentre cercava di togliersi nervosamente il giubbotto e lottava contro una manica che non voleva lasciarle libero il braccio, lo sentiva girare attorno a sé mentre cercava di chiedere spiegazioni: «Cos’è successo... le scuole chiuse… il virus... Matteo? I tuoi lo sanno che sei qui…? Ma stai bene…?». La manica finalmente si staccò dal suo braccio, così lei gettò il giubbino a terra e con una determinazione ed una sicurezza che in quel campo non le erano mai
appartenute, gli si avvicinò tanto da non lasciare spazio fra i loro corpi, gli prese una mano e se la avvolse attorno alla vita, poi con la stessa mano con la quale aveva appena manovrato i movimenti di lui, si appoggiò al suo petto. Si mise in punta di piedi, con l’altra mano gli prese i capelli e lo costrinse ad abbassare il viso per avvicinarlo al suo, poi gliela fece scivolare lungo la guancia dove la fece rimanere e, guardandolo negli occhi, gli disse: «Tu baciami… baciami, adesso». Il corpo di Roberto si rianimò, il suo cervello mise da parte le domande e la baciò con un’intensità tale da farle apparire lampante, nonostante per lei fosse la prima volta, il fatto che no, non la considerava certo come una sorella. Anna si sentiva andare indietro e non capiva se era lei che stesse tirando o era lui che stesse spingendo, forse erano entrambe le cose. Sentiva mobili e seggiole spostarsi e cadere, e poi si sentì cadere lei stessa, atterrando con la schiena sul morbido, e capì di essere finita sul letto di Roberto. Si inarcò per aderirgli ancora più addosso, quasi volesse fondersi con lui, poi sentì la sua mano sul suo fianco, che spingeva, e lo vide staccarsi. «Non posso continuare» le disse guardandola dall’alto, i loro visi distanziati da pochi centimetri. Anna era frastornata e si sentiva il cervello ovattato. Non connetteva molto, quindi rispose: «Non puoi continuare cosa?» poco prima di comprendere cosa intendesse. A quel punto, una scossa elettrica di lucidità le risalì lungo la spina dorsale e la fece mettere seduta tutto d’un colpo, come una collegiale di una vecchia scuola di galateo e buone maniere, schiena dritta e mani incrociate in grembo. Sguardo davanti a sé. Roberto, in silenzio, al suo fianco. «Meglio che me ne vado» e si alzò. Lui la fermò, ancora da seduto, sfiorandole una mano mentre lei era già in piedi. «Perché te ne vai, adesso?... so quello che ho detto, ma intendevo… non perché non volessi, ma... prima c’è bisogno di parlare, non credi? Che cosa c’è?». Anna era fatta così: se stava male, bastava che chiunque le chiedesse un “come stai”, “tutto bene?” o similia per scoppiare in lacrime. E così fece anche quella
volta, andandosi a sedere nuovamente sul letto e infilando la testa fra le braccia di lui, appoggiandosi al suo petto. «L’ho tradito!!!» singhiozzò fra le lacrime, e fu la prima cosa che le venne da dire, fra le tante che le avevano provocato quello stato di malessere. «Hai tradito chi? Matteo?». Anna annuì e Roberto si accigliò: «Ma con chi scusa? Quando?». Anna lo guardò meravigliata e per un attimo smise di piangere: «Ma come con chi?? Con te, adesso!!!» e ricominciò a singhiozzare. Roberto continuò a tenerla abbracciata e ad accarezzarle la testa, ma si irrigidì. Un milione di pensieri e di domande gli frullavano nel cervello, ma gliene uscì una sola: «Glielo dirai?». Anna annuì. Roberto sapeva che avrebbe dovuto farle mille domande prima di arrivare a quella, per capire cosa le fosse successo, per capire come mai fosse entrata come una furia e con quella determinazione: era entrata piena di rabbia, e quella rabbia ne aveva fatto improvvisamente una donna e lui non aveva più saputo fingere, né trattenersi. Sapeva anche che doveva essere successo qualcosa con Matteo, e che forse c’entrava con quello che stava succedendo in Italia in quel momento. L’ultima cosa che sapeva era che la giusta, matura domanda da porle a quel punto sarebbe stata: “Perché senti il bisogno di dirglielo?” ma non voleva sentire la risposta. Perciò decise di essere egoista, e con un atteggiamento che lei non riconosceva come proprio del suo amico e che infatti non capì, si alzò in piedi e raggiunse la porta di ingresso, raccattando da terra il giubbino di lei. Aprì la porta e glielo porse: «È il caso che tu vada, stavo aspettando un’amica». Anna non riusciva a capire: «Ma... non dovevamo parlare?». «Parleremo, solo non mi ero reso conto di che ora fosse, arriverà a momenti e non vorrei ti incrociasse». Gli occhi di Anna si riempirono ancora di lacrime, che riuscì però a non versare. Li sentiva già ridotti a due fessure, le palpebre gonfie. Non alzò la testa, non lo salutò e uscì di casa mettendosi il giubbotto sul pianerottolo.
Una volta uscita in strada, non voleva tornare a casa sua. Si sentiva triste, sola e persa. Si sentiva piccola. Voleva qualcosa, voleva qualcuno. Voleva la mamma. Pensò di chiamare sua nonna, ma l’avrebbe solo fatta preoccupare. Così tornò a casa, impaurita, aspettandosi il peggio. Invece, le aprì Alessia, un bel sorriso rassicurante. Di Giovanni e Vale non sembrava esserci traccia evidente. Alessia non le chiese nulla, si limitò ad aiutarla a togliersi il piumino. Le carezzò i capelli, accompagnandola in camera sua. Le mise un braccio attorno alle spalle e le sussurrò di non preoccuparsi di suo padre, perché ci aveva già pensato lei. Le chiese se avesse fame o voglia di una camomilla, ma Anna rispose di no. «Allora cerca di rilassarti e riposare. Domani le scuole sono chiuse e potrai dormire fino a tardi. Annulla la sveglia… nel caso, ti sveglio io. Non preoccuparti di nulla» le disse sorridendo, e poi si accinse a uscire dalla stanza. «Alessia...?». «Sì?». «Ehm… grazie». Si guardarono. Alessia sorrise: «Di nulla» rispose, e poi, delicatamente, si chiuse la porta della camera di Anna alle spalle.
Capitolo 8. ALESSIA
Alessia era ancora ferma, seduta sul letto della stanza di Anna. Vale le corse incontro: «Ma è vero che non avete litigato, mamma? La sentivo urlare!!!». Alessia si sentiva svuotata. Si girò lentamente verso la figlia, le accarezzò amorevolmente una guancia e stava per risponderle quando sentì tornare a casa Giovanni. “No, non adesso” pensò, “datemi un secondo per riprendermi e respirare” ma non fece in tempo a pensarlo che lui era già lì, in piedi sul ciglio della camera, a fissare la carta strappata per terra, a guardare Vale preoccupata, lei catatonica e a notare l’assenza di Anna. Alessia sapeva cosa stava per succedere, e infatti, come previsto, arrivò il tuono: «Che caaaaazzo è successo???» le domandò Giovanni. Alessia si alzò, lo scansò e andò in sala, aveva bisogno di un secondo per trovare le parole. Lui la seguì, continuando ad avere un atteggiamento iroso, da furia, e a fare domande con tono di voce aggressivo. Lei si fermò, si girò lentamente e lo guardò, e nonostante capisse che quella era una delle ricadute al ato che ogni tanto gli capitavano, ripensò a che razza di vita avesse realmente dovuto vivere Margherita, con una figlia neonata da gestire, un marito da contenere e cercare di guarire, dei parenti che sembravano usciti dalla penna di un autore che si dedicava solo alla descrizione e personificazione dei peggiori antagonisti delle storie, e poi, una malattia – la sua – da affrontare, e contro la quale purtroppo, alla fine, non avrebbe vinto. Per un’altra volta, empatizzò fortemente con quella donna che non aveva mai conosciuto ma che sentiva come se fosse una sua cara amica ancora al mondo. «Giovanni» gli disse con rassegnazione, «dammi un momento, e calmati per
favore, non vedi che faccia che ha Valentina?». Non c’era verso. Quando quell’essere umano diventava il mostro verde, se ne fregava di chi fosse presente alla sua trasformazione. Era incontenibile. Urlava, offendeva, diceva parole appositamente volte a ferire, che poi – inevitabilmente – rischiavano di rimanere nel cuore e nella memoria anche “a bocce ferme”. Alessia inizialmente aveva tentato la stessa strategia utilizzata da Margherita: incassare, far calmare, contenere. Poi si era stufata, e aveva cominciato a rispondere per le rime, altrimenti la gastrite e la colite erano dietro l’angolo. Ora, davanti a quell’uomo che le stava urlando: “Io ho lavorato tutta settimana! Tu solo perché ti ha preso a parole quell’idiota della Elena Gavazzeni adesso sembri morta e non mi dai spiegazioni???” pensò che se avesse avuto per le mani un macete, lo avrebbe usato volentieri, ma si limitò a sospirare, e affermare convinta: «Io vado in bagno, ho bisogno di tempo per me. Quando uscirò ti darò tutte le spiegazioni del caso. Tu intanto vedi di darti una calmata e vai da Valentina e tranquillizzala, che è anche figlia tua» e detto questo, si chiuse dentro a chiave. Giovanni aveva dato a Valentina l’infanzia e la presenza che Anna non aveva avuto, Alessia lo sapeva, e se da un lato era enormemente grata al processo a cui aveva dato inizio Margherita e a come si fossero poi evolute le cose (anche perché aveva ben valutato, non solo con il cuore ma anche con la testa, l’importantissima decisione di fare un figlio insieme, questione sulla quale Alessia era intransigente: che fosse il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quattordicesimo o l’ennesimo, un figlio non va mai messo al mondo a cuor leggero, MAI), dall’altro le spiaceva enormemente per Anna, i cui malumori, nonostante cercasse spesso di fare finta di nulla, riusciva persino a prevedere da un respiro storto alla mattina. In sostanza, era un brav’uomo, un padre presente e amorevole. Aveva ancora margini di miglioramento, sul dialogo, e anche sul gioco: ma come si poteva pretendere... infondo, con il padre e i non esempi che aveva avuto da piccolo, era strepitoso già così com’era. E forse, Alessia se ne rendeva conto, tendeva a fare troppi paragoni con il suo di padre, che era stato impeccabile sotto ogni punto di vista: paragonarli era sbagliato, ma le veniva anche naturale. Giovanni aveva mille pregi: era un instancabile lavoratore, era determinato,
ambizioso nei giusti modi e deciso. La guardava ancora, spesso, come la guardava i primi tempi e soprattutto non era uno stupido. L’estate precedente era capitato che Valentina desiderasse fare una gara contro di lei su una pista di go-kart in montagna: Alessia indossava un abito corto e l’assetto delle macchinine glielo faceva inevitabilmente salire ancora più su, una volta seduta. Inizialmente erano sole in pista, poi arrivò un padre con il figlio e la moglie, che non smise un secondo di staccarle gli occhi dalle gambe, tanto che ad un certo punto Alessia, imbarazzata, pose fine alla corsa, con Valentina che non capiva il perché. Le dispiacque molto per quella donna, anche perché sapeva cosa si provava. Il suo primo ragazzo, quello del suo primo bacio, faceva esattamente la stessa cosa, e lei ogni volta si sentiva morire di tristezza e gelosia. “Non ti rendi conto che non mi porti neanche rispetto?” gli domandava. “Ma come sei permalosa!!!! Si fa per scherzare in compagnia, dai!!! Lo sai che amo solo te!” rispondeva sempre lui. A distanza di anni, Alessia un giorno al telefono gli chiese se l’avesse mai tradita, anche perché di occasioni degne di sospetto, ce ne erano state a milioni. Le rispose di no: “Avevo la ragazza più bella e intelligente del mondo che, non so ancora spiegarmi come mai, aveva deciso di stare con me. Mi davi tutto quello che desideravo ed eri tutto ciò che volevo. Secondo te per quale cavolo di ragione avrei dovuto tradirti?”. Alessia gli credette. A distanza di anni, non c’era ragione per mentire. Ma i suoi comportamenti, il fatto che guardasse le altre in sua presenza, che ci scherzasse con gli amici… avevano fatto male, per cui Alessia fra tutte le caratteristiche che NON avrebbe dovuto avere l’uomo che sperava di incontrare e con il quale sperava altrettanto di costruirsi una famiglia, aggiunse anche quella.
Tornando a Giovanni quindi, era fantastico da molti punti di vista, visto dall’esterno poi, era perfetto, tanto da fare invidia. Ma, in casa, spesso la situazione non era semplice, il clima era pesante e toccava sempre a lei stemperare le varie tensioni. A volte era stanca. A volte voleva scappare. Ma aveva scelto, l’aveva voluta lei quella bicicletta, e quindi continuava a pedalare, solo che ogni tanto doveva fermarsi per bere e riposare. Non tenne il conto del tempo in cui rimase in bagno. Non fu molto, comunque, anche perché aveva il sentore che stavolta Anna non sarebbe stata via a dormire e voleva farle trovare un clima sereno all’arrivo. Trovare la lettera di Margherita ridotta in mille pezzi le spezzò il cuore. Così, uscì dal bagno, e la prima che chiamò fu Valentina: «Amore, adesso la mamma deve preparare la cena ma deve anche parlare con il papà; sono discorsi importanti, un po’ “da grandi”, e li dobbiamo fare per il bene di tua sorella, l’hai vista prima come era agitata, no?». «Sì mamma, infatti l’ho vista, ma perché lo era? Avete litigato?». «No tesoro, non era arrabbiata con me e non lo è neanche con te». «Con il papà allora?» la interruppe Vale. «No, neanche con lui, però è in un momento un po’ delicato, è più grande di te, lo sai, e quella è una fase della vita che può essere un po’ difficile a volte da affrontare». Valentina annuì, pensierosa. «Avrebbe bisogno di un consiglio della mamma» le disse guardandola dal basso. «Esatto amore, hai proprio centrato il punto». «Ma lei non ce l’ha». «Già». «Allora glielo potete dare tu e papà!!!» esclamò trionfante per aver trovato la soluzione al problema. «Esatto piccina! Ed è proprio per questo che adesso ho bisogno di parlare col
papà da sola mentre preparo la cena, così gli spiego bene la situazione e magari gli do anche qualche consiglio su come trattarla, sai… questi uomini!!!» la buttò sul ridere Alessia, sapendo che a Vale quello era un argomento che piaceva molto e la faceva molto divertire, «fanno spesso fatica a capire noi donne!!!». Valentina rise annuendo, poi le fece l’occhiolino e andò verso la sua cameretta come una donnina, urlando: «Quando poi è pronto, chiamami!». «Va bene!» rispose Alessia, con lo stesso volume della voce (per stare al gioco), come se vivessero in un castello e si parlassero dall’ala est a quella ovest. Alessia era molto orgogliosa della sua bambina, e sorrise. Ci fu un nanosecondo in cui la collegò ai suoi compagni di classe e così le venne in mente Elena e le venne voglia di prendere in mano il telefono per dirgliene quattro, perché non tollerava che qualcuno la trattasse così, poi però pensò che quella sera aveva organizzato un aperitivo con altre madri e chissà quante gliene avrebbe dette (inventate) dietro per farle terra bruciata intorno. Improvvisamente si intristì. Luca e il bullismo tornarono, e con loro la sua debolezza di bambina. Poi però pensò che il karma esisteva, che il giorno dopo non avrebbe dovuto vederla, e che c’erano molte cose più importanti a cui pensare: questo Covid, questo spaventoso virus che sembrava fosse già prepotentemente arrivato, non poteva controllarlo, ma poteva fare qualcosa per Giovanni e Anna, e così lo chiamò in cucina. «Hai visto? Sono stato di là buono buono in attesa che mi chiamassi a rapporto» disse scherzando lui, raggiungendola Ad Alessia scappò un sorriso: «Sì, ho visto» disse mentre gli riempiva un bicchiere di Amarone. «Tieni, intanto bevi un goccio, che stasera ci sta proprio, e non basta un rosso qualsiasi». «È così drammatica?» chiese Giovanni. Alessia decise che non poteva perdere tempo a cucinare, così mise in padella due confezioni surgelate di pollo e patate, e cominciò a parlargli mentre cuocevano a fuoco basso. «Anna ha mantenuto aperto l’ IG che si era creata questa estate. Noooo! Aspetta, non ti innervosire!!!! Stai zitto e fammi parlare, per favore».
Giovanni tornò a sedersi sulla sedia e si riempì la bocca con un sorso di vino. «Ti dicevo… lo so perché per quanto io odi i social e tu lo sai, quando ho visto che aveva bloccato il mio profilo mi sono insospettita e così ne ho aperto un altro, e ho cominciato a seguirla. Scriveva cose molto belle e profonde, l’argomento principale è Margherita. Poi deve aver conosciuto un ragazzo, e hanno cominciato a sentirsi telefonicamente. Ho controllato, è un ragazzo per davvero, e sembra essere gentile. Il problema è che per ragioni che posso dedurre – il padre ha origini tedesche – deve essere andato in Germania in questi ultimi mesi, perché Anna un giorno ha postato una foto di un paesino oltralpe e nella didascalia ha scritto: “Vorrei essere lì con te”. Lui sotto ha scritto: “Tra poco ti chiamo Amore! Mi manchi!”». «Scusa» la interruppe Giovanni, «e tu tutto questo me lo dici solo adesso?». «E cosa sarebbe cambiato se te lo avessi detto prima? Saresti intervenuto a gamba tesa, le avresti bloccato l’ e le avresti ostacolato la sua prima storia d’amore. Non sai gestirle queste situazioni». «È mia figlia, non tua». «Piantala con questa storia. La capisco più io che te, non mi sfugge nulla e lo sai, era tutto sotto controllo». Giovanni dovette darle ragione, così annuì, lo sguardo accigliato. «E oggi invece...? Cosa è successo?». «Non lo posso sapere con certezza, ma ho dedotto che a causa del Covid lui non possa tornare in Italia, e avevano programmato di incontrarsi perché credo non si siano mai visti… ne sono abbastanza certa, le si è spezzato il cuore». «Per una ca... scusa, ehm... per una cavolata così???». «È un’adolescente, Giovanni, è il suo primo amore, ed è una vita che sogna di avere una storia degna di tale nome». «Ha fatto bene a strappare la lettera di sua madre, le ha creato solo problemi».
«Ma li avrebbe avuti comunque! Ogni adolescente li ha!! Se è romantica e sognatrice non è certo tutto imputabile ad una lettera letta quando aveva 10 anni ed ai ricami che può averci fatto sopra! È caratteriale! E se ha qualche “problema”, come lo chiami tu, non è certo il genitore morto che la doveva e la deve aiutare a risolverlo, perdonami Giovanni, cazzo!!!». Alessia si alzò e bevve una sorsata di Amarone dandogli le spalle, poi si girò, il bicchiere ancora in mano: «Se ha strappato la cosa che per lei era più importante è perché sta male, Giovanni, e molto anche, a prescindere da quanto per te possa essere una stupidata… è tutto in proporzione!». «Si trattasse di Valentina non reagiresti così». «Ancora??? Può essere, magari hai ragione, NON LO SO, non posso prevedere il futuro, ok? Sta di fatto che dopo la telefonata con Matteo, ha urlato, strappato la lettera, maledetto tutti, poi è uscita dicendo che andava a dormire da Roberto». «Beh, almeno con Roberto siamo salvi». «Dici…?». «… Perché…?». «Eh…». «… Pure lui? Ma non bastavano Juri e ‘sto… ‘sto…». «Matteo». «Eh, Matteo. Ma che deve avere, un terzetto?». «Non è lei ad essere innamorata di lui Giovanni, ma lui ad essere cotto di lei, e lo è da anni. Ma davvero non ti sei mai accorto di come la guarda, da quando è sbocciata?». Giovanni si sentì privo di energie: «Mi sembra di arrivare sempre dopo... capire sempre dopo». Alessia si inginocchiò davanti a lui, gli prese le mani e gli disse: «Io sono qui per questo, per aiutarti, e lo sai. Ma ti devi impegnare, perché non posso fare tutto da
sola, e lei mi rifiuta, spesso… lo sai. Ti devi fidare di quello che dico. E devi aprirti all’ascolto. Ok?» aggiunse teneramente, sfiorandogli una guancia con la mano. «Ok. E adesso, cosa devo fare?». «Adesso ceniamo, poi tu vai in camera a finire di leggere il tuo libro, a guardare lo smartphone, a svagarti, a fare quello che vuoi. Io la aspetto alzata, perché stasera tu non sei in grado, e non lo è neanche lei. Ha bisogno di elaborare, da sola». «E domani cosa facciamo?». «Domani è un altro giorno, ci penseremo. Una cosa alla volta». Giovanni si alzò e abbracciò Alessia. «Come farei senza di te?» le disse. «Dovrei sposarti» aggiunse. «Non so ancora perché non l’ho fatto». «Eh… non lo so nemmeno io» lo rimproverò lei, stretta fra le sue braccia. «... Amore...?» aggiunse Alessia. «Dimmi». «E di questo Covid, cosa ne pensi?». «Mah, Ale… vediamo… possiamo solo aspettare e vedere come va». «Ma sei preoccupato?». «Forse… un po’». «… È prontoooo??? Posso venireeee???» li interruppe Vale urlando dalla cameretta, e al loro cenno affermativo, corse loro incontro, unendosi all’abbraccio. «Posso dormire nel lettone stanotte? Tanto domani non c’è scuola!». E Giovanni e Alessia, rassegnati dalla furba insistenza della figlia, risero e
annuirono, godendosi quel momento di serenità.
Capitolo 9. MARGHERITA
«Elisabetta, scusami, mi puoi fare una cortesia?». «Cosa c’è tesoro, vuoi altra morfina? Ti senti tanto male?». Nel reparto oncologico si potevano trovare infermiere davvero stupende: Elisabetta era una di quelle. «No... vorrei che scrivessi una lettera per me. L’ho in mente da ieri sera, e sento di non riuscire ad andarmene via serena se non la metto nero su bianco, e il tempo sta diminuendo, e non ho la forza di prendere in mano una penna». Elisabetta guardò tristemente la sua paziente: sapeva che non poteva cercare di tirarle su il morale smentendola, perché era evidente a tutti, in primis a Margherita stessa, che i giorni ormai fossero contati e anzi, ogni ora in più era regalata. Così andò a prendere il suo tablet, sul quale riusciva a scrivere veloce come una dattilografa, e senza fare domande, si limitò a scrivere le parole che sentiva uscire da quella debole voce. «Devi mandarla da qui, con la busta dell’ospedale, e devi metterci il timbro del reparto oncologico, altrimenti la straccia e non la legge. Nel mittente devi inserire il tuo nome con la qualifica e specifica che stai scrivendo per me». Elisabetta annuì, così Margherita cominciò a dettare.
Caro Luca, spero con tutta me stessa che tu stia leggendo, ma il timore che tu stracci questa mia è dietro l’angolo e dato che le probabilità sono molto alte ti dico subito che ho i giorni contati e che sto morendo per quello che era iniziato come un
carcinoma all’utero. Penso che tu possa degnarti di leggere due righe da una che sta quasi per morire, no? Volevo dirti che ti ho sognato spesso, di notte, ho sognato di poter rimediare, di riabilitarmi ai tuoi occhi. Avevamo una bella storia e una volta finita ne abbiamo distrutto i ricordi trasformandola in qualcosa di orrendo. Non so come mai io senta questo desiderio. In fondo, ti sei rivelato essere poco più di un omuncolo miserabile che non si meriterebbe tutto questo posto nella mia mente ancora oggi, ma se ci sei ancora, evidentemente, è perché qualcosa ci hai lasciato. Volevo che sapessi che di te ricordo i primi approcci, unicamente tramite una tastiera del pc. Il primo bacio, sotto la bacheca “avvisi” dell’atrio del palazzo dei miei: se non avessi preso l’iniziativa io, avrei dovuto aspettare secoli! Ricordo quel tuo giubbino, che era sempre lo stesso, ed era il tuo jolly per le mezze stagioni o per le estati che trascorrevi in giro all’avventura. All’inizio non sapeva di buono, devo dirla tutta, poi dopo ha cominciato a sapere del profumo che ti avevo suggerito di comprare, e che poi non hai più smesso di usare: ci avrei ato ore, ad annusarti, con la faccia infilata nell’incavo del tuo collo. Volevo dirti che mi ricordo con estrema tenerezza quella tua timidezza per la quale sei andato avanti un mese a comunicare con me solo tramite messaggi o mail, perché ti vergognavi nel parlarmi al telefono nonostante ci vedessimo – e baciassimo! - ogni fine settimana... e quando poi ti sei finalmente convinto, i primi tempi le telefonate inizialmente erano massimo di 5 minuti...! La nostra prima volta devo ammettere che è stata tragicomica, ero la tua seconda volta assoluta nella vita e si vedeva tantissimo! A dirtela tutta, convinta come ero di volere uomini già fatti e finiti, non so come ho potuto innamorarmi di un pulcino come te, tutto ancora “in via di sviluppo”: forse perché eri tenero, puro… una boccata d’aria fresca dopo quel lestofante che ti aveva preceduto e che mi aveva spezzato il cuore. Volevo dirti che è stata una storia così bella che vorrei ricordarmi più dettagli,
vorrei ricordarli tutti. Quando è finita, pensavo che mi sarebbe stato impossibile dimenticarli, e invece è successo. Però ricordo i cinema insieme, e poi i tuoi voti su Imdb. Ricordo il tuo blog, e i post romantici che ogni tanto mi dedicavi. Ricordo le costanti gite fuori porta, tu sempre armato di guida del Touring da un lato e macchina fotografica dall’altro. Ricordo i tuoi immediati e successivi album su Flickr. Ricordo ogni vacanza insieme, così come ricordo te su quella Panda vecchia, verde e scassata che avevamo preso a noleggio in quell’isoletta sperduta. Ricordo quel paesaggio immortale che avevamo visto subito dopo. Ricordo quel ponte del primo maggio in Umbria, le gite per la regione, quell’agriturismo favoloso, la cascata delle Marmore e la coda in autostrada al ritorno. Ricordo i primi completi che sei andato a comprarti insieme a tua mamma per il tuo primo lavoro. Ricordo anche tutte le tue strane fissazioni, dalle quali non ti smuovevi, e ricordo molte fra le volte in cui mi hai fatta stare male. Ricordo la nostra ultima sera ata insieme, con la consapevolezza che fosse realmente l’ultima: mi avevi lasciato una bellissima letterina che poi, dalla rabbia e dal dolore, ho stracciato. L’odore dell’ammorbidente che utilizzava tua madre mescolato al tuo profumo è rimasto sullo scaldotto di casa mia per mesi. Ricordo che poi abbiamo rovinato tutto, e non pensare che la colpa sia stata solo mia. Avevo bisogno di parlarti, di chiarire ancora alcune cose, stavo male e non riuscivo a comunicare correttamente, e più cercavo di spiegarmi più mi incartavo e più tu ti irrigidivi e mi bloccavi. Mi hai anche fatto terra bruciata intorno, non permettendomi neanche di
parlare con i tuoi amici. Volevo dirti: ti ricordi quella volta in cui ho chiamato tuo fratello per dirgli che mi avevano trovato l’HPV, per dirgli che avresti dovuto farti controllare...? Mi ha risposto liquidandomi, dicendo che avrei potuto essermelo tranquillamente preso su un asciugamani in spiaggia. Bene, come vedi, ora sono qui, non so se tu ti sia poi fatto controllare o meno ma evidentemente sei sano, perché ti sei poi sposato (con lei) e avete avuto un figlio a cui hai dato uno fra i nostri nomi preferiti… o forse era proprio quello in cima alla lista. Quindi adesso mi devi fare un favore, perché me lo DEVI. Ho fatto giusto in tempo a scrivere una lettera per Anna, da casa mia, prima che mi venisse a prendere l’ambulanza per una crisi respiratoria, e da allora sono qui, in ospedale. Questa di adesso sarà l’ultima stanza che vedrò. Volevo allegare a questa lettera una serie di film da vedere, canzoni da ascoltare, libri da leggere e che ti scrivo qui di seguito: dovrai farle recapitare la lista per il suo compleanno, il 18 maggio del 2020. Sarà nell’età adolescenziale e sento, sento davvero che ne avrà bisogno. Ricorda che me lo devi. Margherita.
«... Ok... basta così? Niente saluti?». «No». «Deve averti fatto molto male». «Mi ha umiliata dopo la fine della nostra storia… mi ha trasformata in un personaggio che non ero e non mi ha mai dato modo di spiegare. È stato pessimo. Non farmi andare oltre nella spiegazione altrimenti mi sale il nervoso e
muoio subito». Margherita tossì ed Elisabetta rise, riusciva a buttare anche le cose più terribili sul ridere. Le tamponò le labbra con un fazzoletto intriso d’acqua, poi si sedette, riprese in grembo in tablet e con le dita pronte e scattanti la guardò. «Lista…?» le chiese. Margherita annuì: «E che lista sia...!». Elisabetta, mentre scriveva, pensò che se ne sarebbe tenuta una copia, e che nel caso quest’uomo si fosse rivelato in futuro davvero così arido, avrebbe provveduto lei a farla recapitare alla diretta interessata Per una donna splendida come la sua paziente, era il minimo che potesse fare.
Capitolo 10. ALESSIA
Il primo mese si capì ben poco, tutti sostenevano il contrario di tutto e agivano di conseguenza, ad estremi opposti. Neanche il governo, l’OMS o i vari virologi ed esperti sembravano avere le idee chiare, c’era chi diceva che non c’era nulla da temere e che fosse solo una forte “banale” influenza, chi invece spalancava scenari apocalittici. Per strada si trovavano persone con le mascherine che lanciavano occhiate di fuoco alle persone che non le indossavano, e viceversa. C’era chi pensava che ci fosse troppo allarmismo, chi già chiudeva i negozi e chi faceva dell’ironia, soprattutto sui social. Qualcosa però cambiò fin da subito, indice istantaneo del fatto che una condizione così non si era mai vista prima: i supermercati non furono mai stati svuotati così rapidamente, le fasce orarie per la spesa on line mai esaurite in modo così fulmineo, e le stazioni non furono mai prese d’assalto come in quei primi giorni, dove dal nord le persone correvano - letteralmente- per tornare a casa propria. Le televisioni non sapevano più cosa trasmettere, i medici di base non sapevano più che consigli dare e come contenere le persone e il loro panico, che cresceva col are dei giorni. All’inizio, Alessia rimase relativamente tranquilla. Si prese del tempo per se stessa, ne approfittò per dormire di più al mattino e per coccolarsi Valentina. Anna aveva deciso di are le intere giornate da Clelia e d’accordo con Giovanni, avevano deciso di lasciarla fare. Aveva bisogno di tempo per pensare, per far calmare le acque, e anche delle differenti mura domestiche potevano essere d’aiuto. Clelia raccontava che se ne stava sempre in quella che era stata la
cameretta di sua madre a leggere libri o a guardare Netflix e che parlava poco. Andava bene così. Non andava forzata. I primissimi giorni, Giovanni dovette andare in trasferta per due notti e Alessia lì si sentì un po’ mancare la terra sotto ai piedi ed ebbe paura; era sempre stato così, quando lo vedeva prepararsi il trolley, a volte faceva così tanto macello che non vedeva l’ora se ne andasse di casa e partisse per poter respirare, poi, appena si chiudeva la porta alle spalle, le saliva il magone. A questo giro, le salì anche la paura del contagio. «Torna presto» gli disse, «ti prego» come se lo scorrere del tempo dipendesse da lui. Proprio pensando a questo, Alessia poco dopo si calmò. Il tempo è una costante, e l’aveva sempre trovato rassicurante: che si desiderasse che asse velocemente o meno, non lo si poteva influenzare. L’unica cosa che cambiava era la percezione interna del suo scorrere, ma quella non era reale, era un’impressione. La scienza aveva sempre rassicurato Alessia. Per il resto, non poteva fare altro che aspettare, e sperare. Nei primi giorni vennero a casa alcune amichette di Vale e un giorno si fermò per un caffè anche la madre di una di queste: per Alessia, parlare con lei fu liberatorio. Cominciò a scoprire che la Gavazzeni non godeva di buona nomea neanche al nido o alla scuola materna: aveva lasciato il ricordo di “attaccabrighe” in ogni scuola che il figlio aveva frequentato. Alessia ancora non sapeva che quel periodo di lock-down sarebbe servito per far emergere e venire al pettine molti nodi, ma ne aveva già il sentore. Ascoltare le parole di quella mamma fu un balsamo per il suo animo, diviso fra il suo essere incendiaria, paladina della giustizia e della moralità, e il suo doversi trattenere per il bene della figlia e anche per la paura che quella lingua biforcuta chissà quante ne avrebbe potute inventare sul suo conto, dato che l’aveva presa di mira con tanto livore. «Te ne devi fregare» le disse l’altra, che non sapeva però del fantasma di Luca, che ogni volta ancora le si palesava davanti come se non fosse ato un giorno da quando era una ragazzina.
«Dici che il karma farà da sé?». «Ma certo, e nel caso, gli si può sempre dare una mano!». Cominciarono a raccontarsi aneddoti su di un’altra madre che era “pappa e ciccia” con la Gavazzeni e per non farsi scoprire dalle bimbe le soprannominarono “le veline”, perché una era bionda e l’altra era nera. La buttarono sul ridere, e risero di gusto. La chat di classe era un fermento, c’era chi chiedeva a gran voce un’altra uscita per un aperitivo, chi chiedeva informazioni sulla scuola e chi diceva di essere scappato nelle seconde case. L’argomento scuola era il meno dibattuto, fino a quando non ci fu chi cominciò a lamentarsi perché i bambini rischiavano di rimanere indietro col programma. Quelli furono i giorni in cui Anna tornò a casa, perché la sua scuola fu una delle prime ad attivarsi con la didattica a distanza, e riprese da subito a pieno ritmo, con orario normale. La scuola di Vale invece ci mise un pochino di più, ricevette un sacco di lamentele, molte anche tramite toni molto polemici e totalmente pretenziosi. Alessia la vedeva in questo modo: la scuola non è solo un diritto ma anche un dovere, e in un momento in cui neanche il Ministero dell’Istruzione sapeva nulla, bisognava cercare di essere empatici nei confronti di chi si ritrovava a brancolare nel buio e cercava la maniera migliore per agire e trovare soluzioni. Fino a un secondo prima si era fatta dell’ironia sul Festival di Sanremo e ora il centro dei discorsi, sui social, non era il Covid, bensì il fatto che gli insegnanti delegassero tutto alle madri non facendo nulla, insieme al discorso “figli”, che erano una gran rottura da tenere a casa tutto il giorno. Si parlava quasi più di quello che dell’andamento dei contagi. Quando il Presidente del Consiglio Conte chiuse tutto e la parola “lock-down” entrò nella storia, insieme a “pandemia globale”, quando chiunque potesse attivò il lavoro da casa, in smart-working, quando alcune fra le conoscenti di Alessia cominciarono a chiamarla e dirle: “Dio mio come ti capisco, non capisce nessuno che sono a casa ma devo lavorare, vengo chiamata dai miei figli ogni secondo… non capisce neanche mio marito che alle 12 in punto pretende di
avere il pranzo pronto a tavola… ora sì che capisco cosa voglia dire lavorare da casa!!!”, quando le persone cominciavano a morire, e i medici e gli operatori sanitari lavoravano incessantemente senza un secondo per respirare, quando i dibattiti reali sarebbero dovuti essere altri, come il futuro dell’economia, il rispetto delle regole, l’uscire di casa solo per validi motivi e muniti di autocertificazione e quindi l’importanza del senso civico di ognuno, l’importanza del capire se si stesse o meno trovando una cura, se mai si sarebbe potuto creare un vaccino, quale fosse la logica con la quale fero i tamponi, e altri mille discorsi carichi di significato… Quando la cattiveria avrebbe dovuto lasciare spazio all’umanità vera, alla paura che la gente morisse, Alessia si ritrovò a non poter prendere in mano il telefonino perché c’erano solo lamentele futili e superficiali: sulle maestre, sulla direzione scolastica, sui figli a casa (domanda retorica di Ale: “E allora perché non vi fermate a un figlio solo? Perché ne fate due, tre o addirittura anche cinque o più? Tanto vi stava in quel posto averli a casa anche prima del Covid, nei mesi estivi… e non tirate in ballo la scusa del lavoro, care mie, perché è reale solo per alcune!”)… tutti pretendevano in maniera tiranna, e non apprezzavano gli sforzi. Le difficoltà c’erano da parte di tutti, ma c’era chi cercava di cavarsela in silenzio apprezzando gli sforzi che anche gli altri facevano e c’era invece chi aveva sempre da ridire, a prescindere, contro chiunque. Guarda caso poi, era spesso chi si era riprodotto più volte senza fare conto alcuno che si lamentava di non riuscire ad arrivare a fine mese e cavalcava l’onda per non pagare più nulla. Gli stessi che si lamentavano fino ad un secondo prima, poi pubblicavano su qualunque social la poesia divenuta virale di Kitty O’Meara, perché la guerra acchiappalike non era mai terminata. Spesso la poesia, o altre simili, veniva copiata e incollata, non condivisa, senza neanche citare la fonte, per far credere fosse propria.
“E la gente rimase a casa e lesse libri e ascoltò e si riposò e fece esercizi e fece arte
e giocò e imparò nuovi modi di essere e si fermò e ascoltò più in profondità qualcuno meditava qualcuno pregava qualcuno ballava qualcuno incontrò la propria ombra e la gente cominciò a pensare in modo differente e la gente guarì. E nell’assenza di gente che viveva in modi ignoranti pericolosi senza senso e senza cuore, anche la terra cominciò a guarire e quando il pericolo finì e la gente si ritrovò si addolorarono per i morti e fecero nuove scelte e sognarono nuove visioni e crearono nuovi modi di vivere e guarirono completamente la terra così come erano guariti loro”.
Alessia era ancora più disgustata del solito dall’incoerenza e dalla falsità che una situazione come quella aveva tirato fuori a livelli esasperanti. Un giorno chiamò una sua amica e le chiese: «E tu cosa ne pensi?». Lei, che usava sempre un linguaggio colorito, non si smentì neanche quella volta, ma arrivò dritta al punto centrando quello che era anche il pensiero di Alessia. Infatti le rispose: «Cosa vuoi che pensi? Io penso solo che la gente come me e te rimarrà com’è, e allo stesso identico modo, gli stronzi rimarranno stronzi. Pensare a miglioramenti è solo un’illusione, purtroppo».
Così Alessia, un giorno, prese in mano Facebook e Instagram, e ne limitò l’utilizzo ai massimi livelli. Oscurò “le veline” e le loro “ancelle” sia in entrata che in uscita. Le oscurò anche su Wapp. Ringraziò il distanziamento sociale che si capiva sarebbe rimasto anche quando – si sperava – le curve dei contagi sarebbero diminuite e le attività sarebbero lentamente riprese. Filtrò tutti i contenuti che poteva ricevere. Fece le pulizie di primavera, perfettamente in tempo, peraltro, perché la natura stava sbocciando fuori ed era davvero dura vederla dalla finestra e non poter eggiare nei parchi o respirare da vicino il profumo di un fiore. Si sentì meglio, si sentì libera. Cominciò a sentirsi regolarmente con madri che la pensavano come lei, e riscoprì il piacere di una telefonata al posto di una nota vocale, e il piacere di rapporti che nascono spontaneamente e non in maniera forzata. Un giorno la chiamò una sua ex compagna di classe del liceo con cui aveva mantenuto i contatti, era da poco diventata madre e si era iscritta ad un gruppo, su Facebook, di mutuo soccorso fra madri appartenenti alla stessa città: «Ti giuro Ale, a volte leggo di quei commenti che non riesco a tollerare e mi incazzo come una dannata… allora mi viene da rispondere». Alessia sorrise: «Molla l’osso, Dani. Sei solo agli inizi. Evita le polemiche se riesci. Quelle madri neanche le conosci. Stanne fuori. Arriveranno i tempi in cui ti incazzerai con madri con le quali sarai costretta a rapportarti tutti i giorni… quindi fidati, finchè puoi, stanne fuori, che ne guadagni solo in salute». Daniela si fidò, anche se continuava ad essere attratta da quel gruppo come Eva dal serpente e dalla mela. «Dicono che a un anno già dovrebbero parlare bene, il mio certe cose non le fa, cosa faccio? Lo dico al pediatra domani?» le chiese un altro giorno. Alessia aveva appena assistito alla risposta di una madre durante una lezione a distanza: il compito dato ai bambini era quello di intervistare i genitori e chiedere loro a che età avessero detto la prima parola. La madre in questione rispose: “Un mese e mezzo”. Ale lo portò come esempio a Daniela: «Capisci che è impossibile? Capisci quello che intendo dire? Alcune se le inventano, alcune non ricordano, alcune lo dicono per fare le “sborone” come dice Valentino
Rossi… ma tu non ci devi credere. Ti devi approcciare alle madri sempre con un certo sospettoso distacco, e anche con prudenza, perché, mi duole dirlo, dato che appartengo anche io alla categoria, ma la maternità porta alla massima potenza alcuni aspetti caratteriali della donna, e quindi se una prima era già una rompicoglioni, diventerà una GRANDISSIMA rompicoglioni!!!». Daniela rise e Alessia continuò: «No, sul serio Dani, non hai idea di cosa ti aspetta, anche se ti auguro di trovare tutta brava gente. Dovrei scrivere un libro per quante ne ho viste e sentite. Farei i soldi. Sai che al termine della prima elementare c’è stato il toto-gara a chi pubblicasse per prima la pagella del figlio sulla propria pagina Facebook?». «... Ma davvero?... Ma se tanto in prima tutti prendono 10!!!». «Non è esattamente vero» rispose Alessia, «non tutti prendono 10 in tutto, infatti le pagelle pubblicate erano opportunamente tagliate a dovere per mostrare solo il bello. Al di là della questione privacy del bambino, io non so come spiegartelo… è che torniamo sempre lì, all’ostentazione: non è piacere nella condivisione, è ostentazione e volontà di comunicare il messaggio: “Guarda mio figlio quanto è bravo”. Ci si può dimostrare orgogliose e contente anche in altra maniera, o magari con due parole scritte bene in uno stato. È un po’ come il discorso di chi dichiara amore al proprio compagno pubblicando un selfie e taggandolo, quando magari ce l’ha lì seduto sul divano e poteva semplicemente girarsi e dirgli: “Sai che c’è? Ti amo!” nell’intimità della loro casa». Le tornarono alla mente le parole di “Occidentali’s Karma” di Gabbani, che mai aveva apprezzato tanto come in quel periodo:
“Essere o dover essere Il dubbio amletico Contemporaneo come l’uomo del neolitico Nella tua gabbia 2x3, mettiti comodo Intellettuali nei caffè
Internettologi Soci onorari al gruppo dei selfisti anonimi L’intelligenza è démodé Risposte facili Dilemmi inutili [...] ..L’evoluzione inciampa [...] Tutti tuttologi col web Coca dei popoli Oppio dei poveri [...] Umanità virtuale”.
Così, giorno dopo giorno, si abituò alla nuova realtà. Appoggiava chi diceva: “Non siete IMPRIGIONATI in casa, siete AL SICURO nelle vostre case”. Aiutò Vale con la scuola, nel comprendere la differenza fra un nome, un verbo e un aggettivo qualificativo. Seguì da vicino i progressi di sua figlia ed ebbe più volte occasione di vedere come le maestre lavorassero e riuscissero a “bucare lo schermo”, neanche fossero specializzate nell’insegnamento a distanza. Fu loro molto grata e non mancò di ringraziare, perché la gratitudine e la riconoscenza spesso scarseggiavano e si tendeva a dare per scontato il “buon lavoro” quando invece scattava subito il dito pronto alla critica in caso contrario. Lei e Giovanni godettero della vicinanza l’uno dell’altra, comprarono casse e
casse di buoni vini da degustare alla sera e Alessia preparava in accoppiata i piatti come se fossero al ristorante. Piano piano si abituarono così tanto a quella nuova condizione da temere quasi il momento in cui si sarebbe potuto, con nuove modalità certo, tornare ad uscire di casa. Valentina fece shopping selvaggio on-line perché le era cresciuto il piede di 3 numeri, e ogni volta che suonava il citofono era una festa. Erano felici del fatto di essere insieme, ed essere sani. Tutto questo fino a quando, il 12 aprile, il giorno di Pasqua, non ricevettero una telefonata da Clelia, sul telefono fisso: «Mi ha telefonato ora la mamma di Roberto!!!». Il tono era allarmato. «L’ha portato in ospedale perché non riusciva più a respirare!!! Stava male da un paio di giorni ma il dottore le aveva detto di non preoccuparsi dato che non c’era febbre. La notte scorsa è peggiorato. Ora lui è dentro e non fanno entrare lei, non le dicono nulla! È peggiorato nella notte! Non so che pensare, non so come rassicurarla!!!! A lui han tolto il cellulare, non possono comunicare!!! Gliel’hanno solo portato via dalla macchina e le hanno detto di stare in quarantena!». Alessia non fece in tempo a realizzare cosa poterle rispondere, perché sentì un tonfo dietro di lei, e Giovanni e Valentina urlare, così si girò e le sembrò di farlo al rallentatore, i battiti del cuore accelerati al massimo, e mentre teneva stretta la cornetta come se potesse darle forza, vide Anna, accasciata a terra, in una posizione scomposta, immobile.
Capitolo 11. ANNA
La casa di nonna Clelia era simile alle case delle bisnonne delle sue amiche, alcune di loro le avevano ancora in vita, erano nate fra gli anni ‘20 e gli anni ‘30 e di solito si erano accasate negli anni ‘50, quando gli interni degli appartamenti erano fatti tutti di piastrelle improponibili, sia nei bagni che nella cucina, sia per terra che a ricoprire i muri. Nonna Clelia invece si era sposata negli anni ‘80 e avrebbe potuto sicuramente acquistare un appartamento dallo stile più moderno, invece si era innamorata di quello, diceva, perché le ricordava la sua infanzia, e così non lo aveva neppure ristrutturato. Quando aveva cominciato a raccontare di Margherita, le aveva confidato che la figlia, specialmente durante l’età dell’adolescenza, si vergognava un po’ della sua camera, specialmente delle famose piastrelle, e così – dopo innumerevoli insistenze – aveva ottenuto la concessione per poter ricoprire i muri di posters, fra cantanti e attori preferiti, e ritagli di giornale. La cosa positiva, si divertiva sempre a ricordare la nonna, era che una volta che un cantante ava di moda, bastava rimuovere lo scotch dalla piastrella, e il gioco era fatto, senza lasciare segni tragici, levando la vernice superficiale dell’intonaco, cosa che invece capitava puntualmente alle sue amiche, motivo per il quale venivano spesso rimproverate dai genitori, dovendo di conseguenza ripiegare su interno di armadi, cassetti, scrivanie o comunque superfici lucide e in generale meno estese (come era stato per lei prima che sua madre cedesse!). La camera di Margherita invece era un poster unico, e ad Anna spiaceva molto che la nonna avesse tolto tutto, anche quel poco rimasto, dopo la sua morte... anche se ne comprendeva benissimo i motivi. L’appartamento della nonna distava pochi i dal suo, era vicino tanto quello di Roberto. Durante il tragitto però si ava comunque davanti a un paio di esercizi
commerciali, e non era raro incrociare persone, dato che quella viuzza era un’ottima scorciatoia per arrivare prima alla metropolitana. Anna vedeva persone con le mascherine camminare preoccupate guardando verso il basso, insegne chiudersi, adesivi con l’arcobaleno, che sarebbero poi, nel tempo, stati sostituiti da lenzuoli appesi alle finestre con arcobaleni dipinti e la dicitura: “Andrà tutto bene”, per non parlare dei flash mob alle finestre. A quello poi sarebbe subentrato tanto altro ancora, come per esempio la frase: “Distanti oggi per riabbracciarci più forte domani”, oppure poesie e riflessioni varie, come quella di Grossman, che su IG andava per la maggiore:
“Quando l’epidemia finirà, non è da escludere che ci sia chi non vorrà tornare alla sua vita precedente. La presa di coscienza della fragilità e della caducità della vita spronerà uomini e donne a fissare nuove priorità. A distinguere meglio tra ciò che è importante e ciò che è futile. A capire che il tempo - e non il denaro - è la risorsa più preziosa. Chi, potendo, lascerà un posto di lavoro che per anni lo ha soffocato e oppresso. Chi deciderà di abbandonare la famiglia, di dire addio al coniuge, o al partner. Di mettere al mondo un figlio, o di non volere figli. Di fare coming out. Ci sarà chi comincerà a credere in Dio e chi smetterà di credere in lui. Ci sarà chi, per la prima volta, si interrogherà sulle scelte fatte, sulle rinunce, sui
compromessi. Sugli amori che non ha osato amare. Sulla vita che non ha osato vivere”.
Anna si sedeva sul letto che era stato di Margherita e cercava di dare il suo contributo alla sua pagina IG, anche copiando e incollando le indicazioni che piano piano emergevano da medici e virologi, e cioè di lavarsi spesso le mani, starnutire o tossire nell’incavo del braccio, non toccarsi gli occhi se non si era certi che le proprie dita fossero disinfettate. Sui vari pensieri e frasi, piano piano si stava facendo un’idea propria, infatti limitava la condivisione sul suo profilo, anche perché cominciava a farsi strada nella sua testa la convinzione che dato che i miracoli non esistono, gli stronzi sarebbero rimasti stronzi anche finita la pandemia. Anche Alessia la pensava così, e un pochino condividere la sua posizione le faceva piacere. I giorni avano lenti e veloci insieme, e il suo profilo non era mai stato così rappresentativo della realtà, delle contraddizioni e del velocissimo mutamento. C’era chi con livore le diceva di informarsi bene prima di postare qualcosa, perché mascherina e guanti erano inutili. Chi invece faceva ironia fino all’ultimo, taggandola in meme divertenti come quello del quadro dell’Ultima Cena, deserto, con la didascalia: “Qui a Milano stiamo un tantino esagerando”. In rete potevi trovare sia da ridere che da piangere, ma a lei inizialmente del Covid poco importava realmente, perché in quei giorni in cui la scuola non c’era e aveva tutto il tempo per sé, continuava a pensare a Matteo e a Roberto. Si chiuse con entrambi in un silenzio stampa lungo quasi due settimane: con il secondo fu semplice, dato che a parte un messaggio vago che commentava la situazione generale, non aveva ricevuto niente. Col primo invece fu veramente complesso, perché arrivava a chiamarla fino a 20 volte al giorno, per non parlare di messaggi provenienti da ogni social o app, e le era davvero difficile resistere alla tentazione di rispondergli: si sentiva in colpa, voleva dirgli quello che era successo, spiegandogli che era stato un gesto folle e cieco dettato dalla rabbia,
ma aveva paura della sua reazione e poi... il fatto che Roberto non le scrivesse, non la convinceva del fatto che quanto accaduto fosse solo uno sfogo irrazionale. In aggiunta a questo, il fatto che non si fe vivo la rendeva triste e arrabbiata allo stesso tempo, e paradossalmente sentiva più il bisogno di sentire e chiarire con lui piuttosto che con Matteo. La cosa che la faceva resistere dal contattarlo, a parte l’orgoglio, era la consapevolezza che a lui di lei non fosse importato nulla: certo, in QUEL famoso ed indimenticabile momento si era illusa, ed anche parecchio. Ma col senno del poi, si rese conto che Roberto era sempre Roberto, per lei un grande amico, ovvio, ma rimaneva sempre uno che cambiava una ragazza a settimana, che aveva strane teorie su innamoramento e amore, e che era affascinato dalle ragazze dai tratti orientali o brasiliani: come questo fosse possibile, Anna non lo capiva, ma la determinazione di lui era così tanta che aveva fatto di tutto per trovare un’università in Brasile dove poter andare a fare l’Erasmus (poi inevitabilmente saltato causa Covid), ed era stato lui a far firmare le carte al politecnico, che fino ad allora non aveva mai collaborato con quella struttura. Era una testa calda, un mezzo matto, gli piaceva andare in moto ed Anna aveva quasi ancora paura della bicicletta... no, non avrebbero mai avuto un futuro insieme. Poco ma sicuro. Fu così che i giorni arono, e le misure si fecero sempre più restrittive: dovette salutare la nonna, che poi non mancò di chiamare tutti i giorni, e tornare a casa sua. Non si poteva uscire dalle proprie abitazioni, o almeno, lo si poteva fare solo con autodichiarazione che comprovasse i motivi dell’uscita. Non si poteva uscire dal proprio comune, ed anche per fare la spesa, le indicazioni erano quelle di farla nel supermercato più vicino al proprio domicilio. Iniziarono le lezioni on-line tramite la Didattica a Distanza e se all’inizio fu un po’ strano, tra compagni e professori ci misero relativamente poco tempo a prendere il giro giusto. Anna si divertiva a spiare ogni tanto le lezioni di sua sorella Valentina (… fortunatamente, fra tablet e pc, ne avevano un numero sufficiente in famiglia, da non dover fare “lotte”, contendersi tecnologia o fare acquisti dell’ultimo minuto, disagi invece capitati ad alcune sue amiche, le cui madri magari avevano conference call in contemporanea con la verifica di matematica delle figlie) perché notava che le dinamiche erano simili, nonostante le età diverse: il
guardare i bigliettini durante le interrogazioni era diventato lo spegnere la fotocamera e il disattivare il microfono per farsi suggerire dalla madre o dal padre (…incredibile lo sapessero fare anche i bimbettini delle elementari..!!!), oppure nel suo caso, spiare dallo smartphone la risposta su Google. Poi c’erano le connessioni che saltavano, alcune per davvero, altre giusto quando c’era da rispondere a una domanda, oppure c’erano i compagni che non avevano scaricato on line i libri per tempo e quindi divagavano facendo vedere a tutti il proprio animale domestico di turno. In generale, i compagni asini rimanevano asini e quelli giudiziosi e studiosi rimanevano tali. Cominciarono ad andare di moda le videochiamate di gruppo con Wapp fra amici e tra quelle e la DAD Anna aveva visto le case di tutti, molti genitori, alcuni fratelli, alcune sorelle, cani, gatti e pesci rossi. Il carico di lavoro non era granchè diminuito, anche se il fatto di potersi mettere al pc appena finita la colazione senza doversi vestire e fare la strada fino a scuola ancora mezzi addormentati, era impagabile! Un giorno, finalmente, Anna si decise a rispondere a Matteo, perché la prof di Italiano aveva dato da fare un tema libero sull’amore e a lei era venuto in mente lui e così aveva scritto di due ragazzi, innamorati a distanza, e dalla loro sofferenza. Matteo parlò quasi incessantemente per circa 25 minuti, Anna li cronometrò. Decise di non interrompere il suo fiume di parole e lo lasciò sfogare, perché aveva ragione e se non aveva mai mollato durante tutti quei giorni voleva dire che ci teneva davvero a lei. Inizialmente era arrabbiato, poi piano piano si calmò. «Ti amo» le disse, alla fine, e lei non ebbe il coraggio di confessargli nulla. Nei giorni seguenti ricominciarono a telefonarsi almeno una volta al giorno, e parlavano anche dei fatti di cronaca. Matteo le raccontava cosa stesse succedendo in Germania e come la Merkel stesse gestendo la situazione con una dovizia di particolari che sorprese Anna, era come se avesse studiato per fare colpo. Sapeva più cose da lui che dal telegiornale.
Un giorno però finirono per parlare dell’immunità di gregge, o meglio: Anna tirò fuori l’argomento per sapere cosa ne pensasse lui, dato che sembrava ferrato su ogni azione intrapresa o idea sostenuta da tutti i capi di stato, ma lui rimase zitto. Anna aggrottò le sopracciglia e gli ripetè la domanda e sentì, nettamente (la DAD le aveva reso l’orecchio allenato) un digitare freneticamente sulla tastiera di un pc e poco dopo Matteo giunse con una risposta che sembrava letta da Wikipedia. Anna ci rimase molto male: faceva finta di sapere per fare colpo? Ma a che pro? Decise di continuare a battere la sella e gli disse: «Sai, qui da noi, a scuola, ci hanno dato come compito da fare un elaborato che abbia come tema la famosa frase: “Andrà tutto bene”; può coinvolgere qualsiasi materia, è un lavoro di gruppo, possiamo decidere di coinvolgere arte, musica, italiano... persino matematica...! Oppure anche più materie insieme. Io ho pensato ad un mix fra filosofia e religione... se ti dico la frase, a te cosa viene spontaneo pensare?». «Beh... che... che è una frase di incoraggiamento!!! E che è bene dirla, perché sprona la gente a pensare positivo!! No?». Anna fu lapidaria: «No, penso che questo sia l’intento che volevano ottenere quelli che l’hanno inventato come slogan all’inizio, senza neanche sapere che poi si sarebbe trattato di una pandemia e non di un’epidemia. E penso sia stato un enorme sbaglio perché non puoi dare come certa una cosa che non sai. Non è scienza, è probabilità, e nella sfera possibilistica dovevano rimanere, almeno aggiungendo una vena ipotetica seppur di speranza, come un “speriamo”, un “coraggio”. Quella frase si presenta come un dato di realtà, e tu non vai a dire a un malato di cancro che andrà tutto bene, se sei un buon dottore, perché domani quel paziente ti può anche morire. È una frase stupida ed è una frase del cazzo così come lo è la tua risposta» e così, con tono aspro e nauseato, chiuse la comunicazione. Anna si sentiva strana, provava una sensazione che non era accomunabile alla confusione, anzi: aveva chiaro cosa provassero, all’unisono, mente, cuore e pancia, solo che non voleva ammetterlo, voleva lasciare le cose come stavano, la polvere sotto al tappeto. Non aveva voglia di cambiamento, ma al tempo stesso quella piega di non decisionalità che aveva preso il suo animo in quei giorni le
faceva quasi ribrezzo. Ciondolava per casa, e dall’esterno nessuno avrebbe potuto notare cosa nascondesse all’interno del suo involucro. Non era cambiata, infatti. Continuava a seguire le lezioni, a studiare, a prendere bei voti, ad aiutare in casa, aiutare Valentina, rispondere con tono allegro… finchè un giorno, mentre stava aiutando Alessia a caricare la lavastoviglie, quest’ultima la guardò dritta negli occhi e le chiese se stesse andando tutto bene. Anna sgranò gli occhi e immediatamente, quasi come un automa, rispose: «Ma certo, perché me lo chiedi?». «Perché… non so, c’è qualcosa che non va. Il tono di voce è troppo vivace, sempre... sento come se recitassi». Anna si irrigidì, per tanti motivi: primo, perché si sentiva scoperta, secondo, perché a scoprirla era stata Alessia, e non suo padre, e quello di capire bene i figli era una cosa che facevano i genitori, in particolare le madri con le figlie femmine, per quello che aveva sentito dire in giro, e Alessia NON era sua madre e nessuno l’aveva mai autorizzata a prenderne il posto. Anna aveva messo in chiaro tutto fin da subito con lei, e dopo anni di guerra fredda, Alessia aveva capito per bene e manteneva le distanze. In più, non era neppure sposata con suo padre per cui era solo una donna che con lui aveva fatto una figlia, e Valentina era l’unico legame che le due donne avevano. Fine. Ora perché se ne usciva con quella domanda? Non doveva permetterle di avvicinarsi troppo, le distanze andavano rispettate. «Non sto recitando, te lo assicuro» le rispose con un tono di voce molto duro, «comunque se la mia presenza ti fa pensare cose strane, tolgo il disturbo tanto qui riesci da sola, no?». E così dicendo si andò a rintanare nella sua camera, piena di nervoso perché aveva la netta sensazione di aver solamente confermato i suoi sospetti. Evitò, per quella ragione, di sbattersi la porta alle spalle come invece il nervoso che covava dentro l’avrebbe spinta a fare, e prese in mano il telefono, alla ricerca di qualcosa con cui sfogarsi. Si sentiva come una pentola a pressione e da
qualche parte doveva pur far uscire qualcosa altrimenti rischiava l’esplosione. Aprì Instagram e, come se spinta da una mente altrui, creò un altro in pochi secondi. Prese la foto di un’influencer americana non particolarmente nota e la modificò con FaceApp in maniera tale da renderla carina ma non riconoscibile. Fece il solito gioco di seguire gli affamati di followers che la ricambiarono nel giro di poco, scrisse “in cerca d’amore” nella biografia, impostò l’ come privato e scattò 50 foto a ogni angolo della sua camera che caricò in poco tempo. In circa 10 minuti aveva creato un profilo fake perfettamente credibile, sia per numero di post che per numero di persone seguite e che la seguivano. Scrisse a Matteo: “Ciao, mi chiamo Eliana, ti ho notato fra i followers della ragazza orfana di madre… era da un po’ che volevo scriverti ma non trovavo mai il coraggio… ora non la seguo più, mi aveva stufato... troppo saccente in tema Covid. Tu di dove sei? Io abito in Brianza, vicino a Milano. Ciao!” e concluse con un’emoticon sorridente. Incrociò le braccia e si mise ad aspettare pazientemente. Qualcosa le diceva che le avrebbe risposto. A quel punto avrebbe instaurato una conversazione e nel giro di poco l’avrebbe accusato di essere un burattino senza palle né opinioni personali, così almeno avrebbe potuto sfogarsi e dirgli quanto pensava su di lui… in realtà senza dirglielo. Il piano era geniale, ed iniziò per il meglio perché effettivamente le rispose subito: non aveva neanche da studiare evidentemente, il cretino. “Ciao, piacere... però guarda non mi voglio dilungare, te lo dico subito, ti ho risposto solo per educazione ma non voglio portare avanti la conversazione perché sono fidanzato, mi dispiace”. Anna si stupì piacevolmente, e quasi si sentì in colpa. “Ah no scusami allora… è che sai sei molto carino! Comunque scusa ancora. Non avevo capito foste fidanzati… anche se in effetti potevo arrivarci da alcuni tuoi commenti alle sue foto!!!” altra emoticon sorridente.
Arrivarono tre emoticon con la risata con le lacrime, prima di una nota audio. Anna la aprì: “Ma no ma che dici non sono fidanzato con lei, no!!”. Matteo rideva di gusto. Anna sentì le gambe pesanti, come se si stessero facendo un tutt’uno col letto su cui era sdraiata. Forse sentiva anche formicolii, ma le era partita una botta di adrenalina che le impediva di sentire dolore “In che senso scusa?”. “La mia ragazza è tedesca, si chiama Bettina, sono con lei ora e starò in Germania fino a quando si potrà. Non vogliamo are l’isolamento lontani. Quei commenti sotto al profilo di Anna erano una presa in giro, ho scommesso con un paio di amici che nel giro di poco l’avrei conquistata, e così è successo effettivamente, si crede la mia ragazza”. “... Ma non vi siete mai visti?”. “No, non era convinta e ho cavalcato l’onda… i miei amici volevano che la incontrassi per… beh, almeno baciarla, loro sarebbero stati lì dietro per farci una foto. Sai ha tanti followers… volevamo vedere se saremmo riusciti a farla abboccare. Adesso sto continuando a tirarla lunga ma mi sa che smetto perché Bettina si sta ingelosendo, giustamente”. “Ma non ti sembra una cosa terribile e meschina?”. “Ma figurati... quelle che si mettono in IG per diventare influencer è quello che si meritano... di essere prese per il culo… lavorare è un’altra cosa, a fare i soldi facili così sono capaci tutti. Lei non era ancora arrivata alle collaborazioni ma comunque era entrata per avere un seguito ed è questo che fa incazzare: vogliono tutte imitare la Ferragni, è la nuova moda. Hanno rotto il cazzo”. A quel punto, gli occhi di Anna continuavano a vomitare lacrime. Stranamente, non singhiozzava. Dovette stringerli un po’ di volte per mettere a fuoco quello che c’era scritto in quell’ultima frase. Non poteva essere così cretino da cascarci, magari lo stava facendo apposta, era uno scherzo cattivo per vendicarsi della sua assenza di settimane. Non rispose più. Fece un po’ di screenshot. Poi lo chiamò al cellulare.
Rispose subito: «Ciao, amore!». Glieli lesse. Rimase zitto. Poi, non tentò neanche di giustificarsi. Le disse che era dispiaciuto. arono due giorni, e insieme a loro due notti. In tutto, Anna dormì sì e no 6 ore. Aveva gli occhi gonfi, fra pianto e sonno, e ava ore davanti allo specchio della sua zona beauty in cameretta per cercare di coprire il tutto fra cipria, fondotinta e correttore, senza esagerare perché in casa non si truccava mai, quindi l’obiettivo era sembrare umana, riposata, senza far capire che fosse merito del trucco. Ma Alessia capiva lo stesso, e Anna lo percepiva. Primo perché da donna, riconosceva un incarnato sì effetto naturale ma creato ad hoc grazie a un’abile mano e prodotti da make-up adeguati, secondo perché era molto attenta ad osservarla nei gesti, e lo era da sempre. Erano sguardi premurosi, occhiate furtive durante i pasti a tavola: una ata troppo leggera col tovagliolo sopra alla bocca per evitare di sporcarlo di cipria o blush, e Anna capì che Alessia aveva capito. Come sempre, la seconda abbassò lo sguardo, poi lo rialzò e riaccese la conversazione, parlando a Giovanni di qualsiasi cosa lo potesse far distrarre dal fargli notare che sua figlia avesse qualcosa di strano. Anna provava sentimenti ambivalenti: da un lato continuava a maltollerare Alessia, dall’altro sentiva come sempre più impellente il desiderio di abbracciarla, di piangere fra le sue braccia, di confidarsi, di chiederle aiuto e consiglio, di scusarsi per il comportamento di quegli anni, e di ringraziarla tantissimo per il rispetto che le stava portando, coprendola con suo padre e lasciandole del tempo, tanto tempo, per elaborare. Paradossalmente, si conoscevano meglio di alcune che madre e figlia lo erano per davvero: Anna per esempio sapeva che se Alessia avesse capito che per lei la situazione fosse diventata insostenibile, sarebbe intervenuta a gamba tesa, e non le sarebbe importato delle sue iniziali reticenze nel confidarsi o lasciarsi andare. Sapeva che avrebbe preso le sue parti anche davanti a Giovanni, se fosse stato necessario, oppure, dall’altra parte, che il suo cercare di farla ragionare per riportarla sulla “retta via” avrebbe funzionato di più rispetto ai rimproveri di lui. Era come se fosse perfetta e avesse sempre la cosa giusta da dire, e se questo da
un lato era insopportabile (chi sopporta la perfezione?), dall’altro era una sicurezza. Anna sapeva che Alessia c’era, e ci sarebbe sempre stata. Le vacanze di Pasqua si stavano avvicinando e la primavera era prepotente, fuori dalla finestra. Valentina aveva creato una sorta di terrazzino sul loro balconcino di un metro scarso per due, e si metteva lì fingendo di essere in riva ad una piscina a prendere il sole. La primavera era prepotente anche nel cuore di Anna, che si sentiva piena di amore da dare. Aveva chiuso il profilo IG e alla fine aveva dedotto che l’ultima frase di Matteo non navigava totalmente nel torto. Anche lei, inizialmente, si era aperta un profilo per diventare “famosa”, per sentirsi bella, per colmare un vuoto, per poter dare uno smacco a Juri, per colmare facilmente tante lacune o vuoti con quella che ormai era la strada preferita da tutti, quella più facile. Si appuntò mentalmente di aprirsi una pagina una volta che si fosse sentita già “arrivata”, in amore, nello studio o nella vita, se ne avesse avuto voglia. Ma doveva essere una cosa da farsi una volta raggiunti gli obiettivi nella vita reale, non doveva essere un trampolino di lancio. Per lo meno, non per lei. Le venne in mente un discorso di Alessia sulle mamme, sui social, sulla netta differenza fra l’ostentazione e la mera e semplice (e pura, senza altri fini) condivisione, e si mise a ridere. Erano più simili di quanto Anna volesse ammettere. Nell’anno 2020, erano anche decisamente anacronistiche. Ma erano entrambe orgogliose di esserlo. In una società in cui sembrava che quello che non venisse postato in realtà non esistesse, i momenti più importanti della vita, che fossero momenti “up” o momenti “down”, erano sempre quelli “offline”. Come quello che le stava accadendo in quei giorni: aveva chiamato Roberto, gli aveva chiesto come stesse. Aveva fatto finta di nulla, come se non fosse successo niente. La conversazione era partita piano, per poi diventare “una delle loro” conversazioni: quelle classiche, piene di scambi di opinioni, a volte piene di contraddittori, a volte infuocate, a volte sulla stessa identica lunghezza d’onda, spesso piene di risate. Potevano parlare di tutto, consigliarsi a vicenda, e non c’erano argomenti che evitassero di affrontare. Tranne uno: che nome dare a quella cosa che li legava. «Stasera sei a casa?».
«Eh certo dove vuoi che vada? Avessi almeno un cane da portare fuori… ma niente, ho anche già buttato la spazzatura!». Anna rise, un’idea stava prendendo forma nella sua testa con determinazione. «Allora aspettami sveglio, per le 22:30 circa… ti chiamo con Skype e ci guardiamo un bel film insieme». «Che film?». «È una sorpresa!!! Dai, tu aspettami sveglio». Roberto tossì forte: «Dev’essermi andato qualcosa di traverso per lo shock» rispose. Anna rise ancora: «A dopo» gli disse. E mise giù. Più tardi, aspettò che tutti si fossero addormentati: per le 22, erano già tutti “secchi” in quella casa. Alessia andava sempre a letto presto, Valentina seguiva la madre, e Giovanni da quando conosceva Alessia, era diventato come lei. In più, a cena, a partire dall’inizio del lock-down, ogni sera c’era in tavola una bottiglia di vino pregiata, che puntualmente finivano, e alla quale faceva seguito un bicchiere di amaro per entrambi, insieme ad un dolcetto. Suo padre stava ingrassando a vista d’occhio ma continuava a ripetere che finito quel periodo si sarebbe comprato un macchinario per fare ginnastica in casa. Comunque, a prescindere da questo dettaglio, fra il vinello e l’amaro, si addormentava spesso già sul divano. Per cui, quella sera, evadere per lei non fu difficile. Nel breve tragitto che la divideva da casa di Roberto era terrorizzata di incontrare qualche volante della Polizia, ma così non fu per fortuna, anzi, non incontrò anima viva. Alla porta bussò piano e lui le aprì subito, di scatto: «Lo sapevo!!! Lo sapevo che avresti fatto qualche cazzata!!! Ma sei matta???» le urlò sottovoce, mentre la faceva entrare e le chiudeva piano la porta alle spalle. Poi si girò e la guardò in faccia, ma il sorriso grande di lei gli impedì di dire altro. Non riusciva a parlare. La gioia di vederlo per Anna era incontenibile, così si alzò sulle punte dei piedi e gli buttò le braccia al collo, stringendolo forte e sentendosi a casa.
Lui le infilò il naso fra i capelli e inspirò forte chiudendo gli occhi. Non si sentiva molto bene in quei giorni ma la presenza di Anna si stava rivelando una potentissima medicina. A un certo punto sentirono che l’abbraccio stava finendo, Anna piano piano scese dalle punte dei suoi piedi, ma sciolse l’abbraccio in maniera lenta, accarezzandogli le spalle, poi la schiena, mentre faceva scendere le braccia, e proprio quando i loro visi si stavano allontanando, i loro occhi si incatenarono. Anna se li sentiva bruciare e non si rese conto neppure di averli in realtà socchiusi, mentre non smetteva di guardarlo, incantata, e non si rese neanche conto di avere le labbra socchiuse, fino a quando non glielo fece notare lui, accarezzandogliele con le dita. Le sfiorò le labbra prima con l’indice e col pollice, e poi con lo sguardo, che in ultimo fece tornare dentro a quello di lei. La guardò per secondi interminabili mentre la tensione cresceva, e poi finalmente la baciò. Lo fece piano, con una lentezza che lei percepiva quasi come fosse una tortura, così cominciò a muoversi come una piovra, cercando con le braccia di avvicinarlo a sé il più possibile, prendendogli le mani e portandosele dietro la vita, e mentre gliene teneva lì prigioniere, con l’altra mano si aggrappò ai suoi capelli, tirandolo in basso per obbligarlo, quasi, a rendere il bacio più profondo. Alla fine lo sentì sorridere, e poi, finalmente, baciarla come si deve, e come lei voleva. Anna sentiva come se il suo corpo si muovesse da solo e trascinò Roberto per terra, tirandolo giù per le spalle, prima in ginocchio, e poi sdraiato. Fu a quel punto che lo sentì irrigidirsi e tentennare. Era sopra di lui, così appoggiò un gomito a terra per distanziare i loro visi quel poco che bastava per poterlo guardare negli occhi. L’altra mano la aveva appoggiata al suo torace ampio e sentiva che non c’era altro posto al mondo dove sarebbe stata meglio. Era nata per stare con lui, non si era mai sentita meglio in vita sua, e ora che aveva capito, non voleva perderlo, voleva che durasse, e voleva sentire le sue mani appoggiate su di lei per sempre. «L’ho lasciato» gli disse «Non è per questo» rispose lui, ma non si divincolò, anzi, non si mosse di un solo millimetro, e questo lei lo interpretò come un buon segnale, così continuò.
«Senti Robi, non sono esperta di queste cose, lo sai. Non so neanche se è questo il momento giusto per dirti quello che sto per dirti ma non riesco a fare altrimenti quindi lo faccio. Oddio, scusa il giro di parole... è che non sono fatta per i giochetti o le astuzie o le seduzioni… io sono così come sono, trasparente lo sai, e quello che so – e sono così contenta di aver capito!!! – è che ti amo, ti ho sempre amato, alla fine ci sei sempre stato te, solo che eri troppo bello e inarrivabile per poterci anche solo sperare e così mi distraevo con altro e ci sono riuscita per anni, ad ingannare me stessa ma adesso no, adesso ho capito, ti amo e non smetterò di amarti solo perché adesso magari mi dici che c’è troppa differenza d’età o che non te la senti o altro anche perché vorrei proprio capire quale balla ti puoi inventare perché di sicuro ti piaccio altrimenti non… non... cioè che ti piaccio è evidente, ma magari ti piaccio e non mi ami ma mi vuoi solo bene». Si stava incespicando, lo sentiva. «Cioè, non…». Si interruppe per pensare, scuotendo la testa. I capelli le scesero e ricaddero su di lui solleticandogli le narici. Roberto rise. La guardò ed era uno sguardo pieno d’amore. «Ok, mi arrendo ai miei sentimenti per lei, signorina, perché anche io la amo». Il cuore di Anna si riempì come un palloncino, sentiva che stava per scoppiare. Le si aprì il sorriso, era ampio, bello, perfetto. Anni di ortodonzia avevano dato i risultati sperati. Roberto le accarezzò la guancia: «Ti amo da tantissimo, non lo puoi neanche immaginare da quanto». Poi si interruppe e si fece serio. «Sei sicura?» le chiese. «Mai stata più sicura in vita mia». E fu così che Anna fece la prima volta l’amore, e pensò a quanti giri strani aveva fatto per arrivare a capire che era lui, e che era sempre stato lui. E sempre lo sarebbe stato. I giorni seguenti furono paradisiaci. Il cellulare era sempre attivo, e si scrivevano cose bellissime. Ogni volta Anna rimaneva meravigliata, ma al contempo si sentiva come se avesse sempre saputo che era quello il posto che il mondo aveva progettato per lei, e per quanto nuove ed emozionanti fossero le prime cose che scopriva sull’innamoramento e sull’amore, quello reale e corrisposto, al contempo si
sentiva comoda, tranquilla, al sicuro. Non dubitava più di nulla. Era felice, felice come non lo era mai stata. Poi, non si sentirono al telefono per due giorni. Roberto non si sentiva tanto bene, diceva. Anna si preoccupò ma lui la tranquillizzò via messaggio, costantemente. Gli si era solo abbassata la voce, diceva. Stupidamente, gli credette. Poi arrivò il giorno di Pasqua. La telefonata di Clelia. E tutto il terreno, all’improvviso, le mancò da sotto i piedi e ogni cosa, di colpo, si fece buia.
Capitolo 12. ALESSIA
«Shhh, tesoro, tranquilla, ci sono io. Sfogati adesso, sfogati pure, ne hai bisogno”». Anna piangeva fra le braccia di Alessia, era disperata, i singhiozzi sembravano squarciare i muri. Alessia aveva dovuto ragionare in maniera velocissima per far fronte a quanto era appena successo, per spiegarlo ad ognuno, dopo aver capito cosa stesse accadendo lei per prima, e per mettere tutti al loro posto. Inizialmente fece per chiudere la comunicazione con Clelia, senza saluti, precipitandosi da Anna, poi realizzò che la stessa Clelia era in un forte stato di stress e agitazione, così riprese in mano la cornetta che stava per posare, se la riportò all’orecchio, la salutò velocemente e le disse che doveva scappare perché Valentina era caduta e forse si era sbucciata un ginocchio, ma di stare tranquilla, andava tutto bene e l’avrebbero richiamata a brevissimo. Poi si precipitò dal suo terzetto del cuore, si inginocchiò anche lei e prese Valentina fra le braccia, stringendola forte e cullandola, mentre cercava di capire cose potesse essere successo ad Anna, e mentre pregava che non fosse nulla, dovette placare anche le ansie di Giovanni, che continuava a urlare che andava chiamata l’ambulanza e che si doveva per forza trattare di ischemia cerebrale, spaventando ulteriormente Valentina, che non smetteva di piangere e dire che Anna era morta. Giovanni incarnava molti degli stereotipi che circolavano sugli ingegneri: per lui, un problema era tale solo se ammetteva una soluzione, altrimenti non era un problema. Pragmatico, razionale allo stato puro, logico, matematico come un computer privo di sentimenti. Durante i primi tempi della loro relazione, Alessia non aveva ancora compreso
completamente questo suo aspetto, quindi capitavano delle volte in cui lo chiamasse per sfogarsi, solo per puro desiderio di sfogo, e lui, nonostante avesse una spiccata sensibilità - quasi femminile, alle volte - le rispondesse offrendole una soluzione. «Ma non voglio una soluzione, ti sto solo parlando!». «Ma se ti stai sfogando vuol dire che hai bisogno di aiuto, sto cercando di aiutarti nel trovare una soluzione al problema!!!». Alessia ci aveva messo anni per fargli capire che alle volte, il semplice ascolto era sufficiente. Inizialmente infatti, lui o offriva soluzioni, oppure chiudeva in maniera brusca, dicendo che quello di cui lei gli stava parlando era evidentemente non degno di tanta agitazione, tanto più che lei non desiderava porvi rimedio: se non ammetteva soluzione, non era un problema, quindi stavano parlando di aria, ed era inutile andare avanti. Questo aspetto era riuscita a smussarlo, ci aveva lavorato bene, portando avanti quanto iniziato da Margherita. Giovanni alle volte se ne rendeva conto, guardava il se stesso del ato, recente o remoto, e la ringraziava, affermando spesso: “Se non avessi avuto te e Marghe…”. Sull’aspetto ipocondriaco però, non era riuscita a fare un bel niente: non poteva dirgli che un analgesico non le aveva fatto are del tutto il mal di testa che lui subito le rispondeva allarmato di andare a farsi controllare perché la pressione era forse troppo alta. Non si sentiva di biasimarlo, con quello che aveva vissuto. Quella però, era una situazione in cui avrebbe avuto bisogno di una spalla, di un adulto, e non di un terzo figlio da rassicurare e al quale dire di stare calmo altrimenti avrebbe aumentato il panico di Valentina. Così fece l’unica cosa sensata che le venne in mente di fare: tolse l’audio. Metaforicamente, si mise una cuffia insonorizzante e si concentrò solo su Anna, per capire cosa avesse. La accarezzò piano piano, sussurrandole di svegliarsi, come se fossero sole, in mezzo al silenzio. Mentalmente pregò e chiese aiuto a Margherita. Funzionò. Grazie al cielo, funzionò ed Anna aprì gli occhi: era stato quello che
aveva sospettato fin dall’inizio e cioè una fortissima reazione emotiva a quello che evidentemente aveva sentito dire da sua nonna. Ne era certa, ma ovviamente non escluse nulla, e si ripromise di tenerla costantemente monitorata e di chiamare, appena possibile, la sua amica (… santa donna!!!) che era neurochirurgo. Improvvisamente, con la testa di Anna in grembo, la tensione le calò di colpo e sopraggiunse il sonno, un sonno così forte che si sarebbe potuta addormentare all’istante, come Biancaneve dopo il morso alla mela. Ma non poteva. Così, rimase, e per un lungo minuto, o forse poco più, che però le sembrò durasse ore, ad ascoltare tre voci agitate, che si parlavano l’una sull’altra. Tutti e tre le chiedevano, preoccupati ed esagitati nonostante il sollievo di vedere Anna conscia, ognuno per diversi motivi, cosa fosse successo, e pretendevano risposte immediate. C’era Valentina che alternava i “ci sei?” a sua sorella ad alternati e senza sosta “mamma mi spieghi?”/“papà cos’è successo?”; poi c’era Giovanni, che alternava domande a lei e frenetici “come stai? Cos’è successo? Cos’hai avuto? Ti sei fatta male? Vuoi che chiamiamo l’ambulanza?” ad Anna, che era invece l’unica che si rivolgeva unicamente a lei, per sapere di Roberto e non rispondeva né alla sorella né al padre, che a sua volta non rispondeva a Valentina. «Zittiiiiiiiiii!!!» si ritrovò a urlare, e riuscì ad ottenere silenzio e tre paia di occhi che la guardavano impietriti. «Giovanni, ha avuto una reazione somatica molto forte alle parole di Clelia. Adesso ascoltami attentamente. Giovanni…» gli cercò lo sguardo, lo prese per mano per attirare l’attenzione su di sé, «stai tranquillo, ad Anna ci penso io ma ci dovete lasciare da sole. Non è nulla, amore. Adesso però devi calmare Valentina… non è successo niente Tata, capito?» disse aprendo una parentesi e rivolgendosi alla figlia, sorridendole con calma e cercando di tranquillizzarla con l’espressione del volto. «adesso papà ti spiega tutto. Dovete chiamare la nonna, ho interrotto bruscamente la telefonata giustificando il rumore che aveva sentito con una caduta di Valentina. Dovete dirle che va tutto bene e tranquillizzarla perché è agitata. State tranquilli anche voi due perché non è successo niente, adesso è Anna ad avere la priorità e me ne occupo io, va bene? Però vi ripeto: dovete lasciarci da sole. Sta bene» concluse asserendo alla volta di Giovanni, poi gli fece cenno di guardare il cellulare, mentre freneticamente, dal suo, gli scriveva “innamorata di Roberto” per fargli comprendere appieno la situazione
senza farsi sentire da Anna. Giovanni lesse subito ed alzò gli occhi al cielo, poi prese Valentina, le asciugò le lacrimotte e le disse che adesso, da bravi soldatini, dovevano eseguire gli ordini della mamma altrimenti sarebbero stati redarguiti. Fu convincente e lei sorrise, si fidava ciecamente dei suoi genitori. Andò verso la camera matrimoniale, seguendo il suo papà, girandosi una sola volta per salutare Anna con la manina e rivolgerle un sorriso, rassicurante nel suo piccolo. Una volta sole, Alessia chiese ad Anna se riuscisse ad alzarsi ed insieme si diressero verso la sua cameretta, dove Alessia chiuse la porta a chiave. Le gambe di Anna, come previsto, cedettero e si accasciò sul letto, riprendendo a singhiozzare. Ale le si accovacciò di fianco, non smettendo di accarezzarla, aspettando che finisse, pazientemente. «Mi racconti?». «Sospettano che Roberto abbia il Covid». Anna la abbracciò, forte, la tirò giù nel letto e le si accoccolò addosso come se fosse piccola, più piccola di Valentina. Continuava a piangere, adesso sommessamente. «Speravo di aver capito male» le disse. «Lo so» le rispose Alessia. Anna trovò un secondo per ridere: «Tu sai sempre tutto». «Ho i superpoteri» le rispose l’altra a tono, non smettendo mai di accarezzarla. «Io... io lo so che lo sai, ma io lo amo. Avevo trovato il mio posto nel mondo, era successo da poco… cosa faccio adesso? E se muore? E se muore come la mia mamma? Cosa faccio io adesso, Ale? Dimmelo tu cosa devo fare perché io non lo so... dimmi cosa devo fare Ale, ti prego…» e ricominciò a singhiozzare, stringendo gli occhi e i denti, il viso rosso e l’espressione piena di dolore. Le parole le uscivano fra i singhiozzi, gracchianti, e mentre le chiedeva cosa fare le si aggrappò alla maglietta con le mani, mettendosi in posizione fetale, tanto che
Alessia fu costretta a seguirla col corpo, e si ritrovarono in una posizione in cui, se viste dall’alto, Alessia aveva la forma di un’enorme C e Anna era un piccolo puntino al suo interno, rannicchiato intorno a se stesso. Alessia sapeva che in quel momento Anna aveva bisogno di una mamma, e a quello che ti dice la mamma, tu ci credi. Sapeva anche, però, che bisogna dire sempre la verità, commisurata all’età dei figli e a quello che possono capire, a maggior ragione con Anna, che aveva già sperimentato morte e perdite, e aveva fatto del fatalismo, per quegli aspetti della vita, un modus vivendi. Non poteva risponderle garantendole che Roberto sarebbe sopravvissuto, perché nessuno poteva saperlo. Perciò le rispose esattamente e strettamente alla domanda che le era stata fatta, non divagando, perché era sicura di quello che stava per dire: «Certo che ti dico cosa fare amore, sono qui per questo. La affrontiamo insieme, non ti mollo. Ti marco stretta» e sottolineò questa frase con un abbraccio fortissimo. «Non sono mica più vecchia di te per niente» aggiunse per stemperare un filino la tensione. Ci riuscì, e aspettò che il respiro di Anna si regolarizzasse prima di prendere un grosso respiro e farle la domanda che andava fatta: «Dici che è successo da poco… perché…». «Sono scappata di casa una sera e abbiamo fatto l’amore». Alessia sospirò, non smettendo di accarezzarla. «Ok, amore, ok…». «Pensi che ce l’abbia anche io? Che l’abbia già trasmesso a tutti???». Sentì che stava per ricominciare a piangere, così la strinse ancora forte, per stimolare al massimo il rilascio di endorfine. «Un o alla volta, amore, adesso vediamo… prima di tutto, non diciamo niente a tuo padre, altrimenti quello impazzisce, e non solo per il rischio contagio, ci siamo capite?». Abbassò la testa e la guardò. Anna sorrise annuendo e la strinse ancora più forte, perché per un attimo aveva allentato la presa.
Alessia sentì che questa volta non le si stava aggrappando per disperazione, la stava abbracciando per amore, e le si riempì il cuore. «E poi…» continuò, «vediamo di capire bene come muoverci per sapere se hai qualcosa in atto, ma non credo, non penso proprio che tu ti sia ammalata, né che l’abbia trasmesso a qualcuno di noi, stai tranquilla». Poi smise di parlare e rimasero così, zitte ed abbracciate, e Alessia pensò che non le aveva detto una bugia, era davvero convinta che Roberto non le avesse trasmesso nulla. Alzò la testa verso il soffitto della camera, perché sentiva di sapere chi le stesse dando quella garanzia. Così strizzò gli occhi al cielo, quando in realtà, stava facendo l’occhiolino a Margherita.
Capitolo 13. ANNA
L’avevano ricoverato al Sacco di Milano. Gli avevano fatto due tamponi, ed erano negativi, ma non avevano desistito perché i sintomi c’erano tutti… il terzo, infatti, era risultato positivo. Erano tutti, la famiglia di Roberto e lei, in una condizione privilegiata perché potevano avere informazioni “interne” tramite un’ostetrica che lavorava nel loro palazzo, e che si era offerta per far loro da tramite. Anna pensava a tutte quelle famiglie che non potevano avere notizie, a chi aveva salutato i propri cari e poi li aveva visti uscire dall’ospedale senza vita, alle immagini terribili trasmesse dai telegiornali, alle immagini provenienti da Bergamo, con i camion che portavano via le bare delle persone che erano venute a mancare. Rimaneva però il fatto che non poterlo sentire era davvero dura, durissima. Si sentiva egoista, perché doveva pensare a chi stava peggio e invece riusciva a concentrarsi solo su di lui e su quanto la sua assenza la fe stare male, per non parlare delle preoccupazione. Aveva una polmonite interstiziale e doveva respirare con l’ossigeno perché da solo non riusciva. Alla faccia di chi diceva: “Si ammalano solo gli anziani, quelli che hanno già patologie in essere”: non conosceva uno più in salute, sportivo e salutista di Roberto. Nel frattempo avevano fatto un tampone anche a lei, era negativo. Erano riuscite a farlo tramite l’amica di Alessia e anche quello la faceva sentire in colpa, perché sembrava che i tamponi li fero solo a vip, politici, reali, ma ai comuni mortali no. Le persone “normali” dovevano fare i salti mortali per riuscire ad ottenere un tampone, o almeno un test sierologico, di cui si cominciava a sentir parlare ma della cui efficacia nessuno sembrava essere sicuro.
Alessia aveva approfittato di una video conference di Giovanni per fingere di avere bisogno dell’aiuto di Anna per fare la spesa, ed erano sgattaiolate fuori da casa, mentre Valentina si destreggiava da sola con le prime divisioni. Monica, la dottoressa, aveva comunicato loro il risultato dopo pochissimo, se paragonato ai tempi lunghi che riferivano alcune persone che erano riuscite a farlo ed aspettavano la comunicazione di Ats: era negativo, ma l’amica di Alessia consigliò di rifarlo dopo 14 giorni per sicurezza, oppure subito se fossero insorti dei sintomi. Roberto rimase in ospedale due settimane intere. Due lunghissime, interminabili settimane. Quando fu in grado di cominciare a respirare da solo, lo fecero uscire dalla terapia intensiva e gli permisero di usare il cellulare per comunicare con la sua famiglia. Non con lei. Andava avanti come un automa: si cominciava a parlare di riaperture, altrimenti l’economia sarebbe andata “a ramengo”, come diceva sua nonna, ma lei aveva paura. Voleva che tutti rimanessero ancora a casa, che nessuno avesse la possibilità e una “scusa ufficiale” per poter uscire, perché sentiva troppa gente scalpitare intorno a sé, e sentiva che il senso civico era un qualcosa su cui non si poteva contare più di tanto. Aveva il morale a terra, quasi tutti i giorni, anche se riusciva miracolosamente a continuare a seguire le lezioni, a svolgere i compiti, a studiare e ad andare avanti nel programma. Era come se il suo cervello fosse in grado di scindere le due cose e mettesse la sofferenza in pausa quando si trattava di scuola. Anzi: la scuola era proprio la sua distrazione principale, rappresentava per lei un’enorme ancora di salvezza. Quella e Alessia, che era il suo sole: sembrava capitasse sempre di lì per caso, quando lo sguardo di Anna si faceva più triste o cupo, in realtà invece era perché non smetteva mai di osservarla, in maniera lieve, leggiadra, e quando capiva che c’era bisogno di una carezza, arrivava come un angelo, e Anna si accorse di non poter fare a meno di lei, della sua bontà, della sua forza, del suo sostegno. Verso fine aprile le fecero un altro tampone: negativo, e lei e Ale tirarono un sospiro di sollievo. Il giorno dopo Roberto tornò a casa. Anche il suo, di tampone, era negativo, ma per sicurezza gli dissero di ripeterne un altro dopo i giorni ormai canonici per essere assolutamente certi della guarigione, e nel frattempo di chiudersi in camera e “isolarsi” dagli altri membri della sua
famiglia. La madre, infatti, lo rivolle assolutamente a casa, ma si attenne alle indicazioni dei medici, quindi gli ava il cibo dalla porta e girava per casa con guanti, mascherine e disinfettanti. La prima cosa che fece, fu videochiamarla. La PRIMA. La battè sul tempo, perché appena saputa la notizia, il cellulare per Anna era diventato un’estensione del suo corpo e ogni cinque minuti provava a chiamarlo, saltellando freneticamente sul posto e poi girando per casa come una trottola. Quando al quinto tentativo le stava per salire il magone e stava per catapultarsi fra le braccia di Alessia, il telefono squillò, ed era lui, ed era bellissimo, nonostante le occhiaie nere e le guance scavate per il netto dimagrimento. La voce era ancora la sua, era vivo, sano, ed era lì, a pochi metri da lei, nella sua casa, al sicuro. Non le raccontò molto della sua permanenza in ospedale e Anna capì senza che lui dovesse spiegarle alcunché. Aveva letto cosa poteva capitare agli allettati e capiva potesse essere un’esperienza che non gli andasse di ripercorrere. In più, sentiva che non voleva scendere nei dettagli per proteggerla e non farla spaventare, e pensò a quanto fosse tipico di lui e della sua generosità. Da parte sua, Anna cercò di distrarlo, parlandogli di altro e di cose “normali”, e lui le disse che mangiare qualcosa di cucinato da sua madre, nel suo letto, col suo pigiama era la cosa più meravigliosa del mondo, anche se prima non lo avrebbe mai potuto pensare o immaginare. «… La cosa più meravigliosa del mondo a parte te» aggiunse. Anna, che era in lacrime dall’inizio della videochiamata, strinse più forte il cellulare, come se lo volesse abbracciare, e rise, sempre fra le lacrime. «Ho avuto tanta paura…». «Lo so, ne ho avuta tanta anche io. Più che per me, ne avevo per voi. Non volevo vi preoccupaste, che steste male per me, non volevo andarmene, non volevo morire, perché non volevo che doveste vivere una vita intera sentendo la mia mancanza. Ero terrorizzato dall’idea di aver attaccato questa brutta bestia a te e ai tuoi. E poi volevo guarire e vivere anche per me, perché voglio fare ancora un
sacco di cose, e sai amore, io le voglio fare con te, tutte con te. ‘Fanculo all’Erasmus, ti voglio stare attaccato come una cozza al suo scoglio». Anna rise ancora più forte e le lacrime piano piano andarono via. «Ti amo amore, ti amo ti amo ti amo ti amo ti amo...».
Capitolo 14. GIOVANNI
«Oh, ma quanti “ti amo” si sentono uscire da quella porta? Ma non può parlare più a bassa voce?» disse Giovanni, raggiungendo Alessia in cucina. Lei rise: «Sei stato attaccato alla porta tutto il tempo?». Lui si schernì, lanciandosi in una accorata autodifesa: «Ma cosa dici, Ale, ma dai… stavo uscendo dal bagno, ero in corridoio, semplicemente avo di lì… si può dire a una persona che la ami anche a bassa voce». «Non quando sai che quella persona è stata sul punto di morire ed è la prima volta che la vedi, tra l’altro tramite lo schermo di un cellulare. E soprattutto, non se è il primo amore». Alessia si girò per guardarlo divertita. «Geloso per caso, paparino?». Giovanni scrollò le spalle, distolse lo sguardo, sbuffò facendo vibrare le labbra e aggrottò le sopracciglia, e ad Ale venne da ridere perché le ricordò tanto il personaggio di Tockins ne “La Bella e la Bestia”, quando si arrabbiava con Lumierè. «Sai» gli disse, girandosi verso di lui e sedendosi su una sedia, il canovaccio ancora in mano, «quando mi fidanzai per la prima volta...». «Con quello pirla?» la interruppe lui. «Sì» rispose lei sospirando, «con quello pirla, ma d’altra parte, chi paragonato a te può anche solo minimamente pensare di essere alla tua altezza?» lo prese in giro lei. Poi continuò: «Un giorno lui mi chiese di are una settimana da soli, nella casa dei miei, quella dove andiamo ancora adesso con le bimbe, quella dove Anna ha incontrato Jur…». «Sì, ho capito, ho capito!!! Cazzo so che casa è! Arriva al punto!».
Alessia sorrise, era proprio geloso perso, e per questo nervoso e irascibile - e non doveva essere semplice per lui trovarsi in una situazione simile per la prima volta - così continuò cercando di essere sintetica ed arrivare dritta al punto: «Ero poco più grande di Anna, la casa era quella dei miei genitori, i vicini li conoscevo tutti, c’erano i cellulari… non c’erano situazioni di pericolo imminente e Milano come sai dista circa 80 km, i miei avrebbero potuto essere lì nel giro di un’ora, in caso di necessità. Oltre a questo, le nostre famiglie si conoscevano e fra i nostri genitori c’era un buon rapporto, quindi quando lo dissi a mia madre, perché lo chiesi a lei per prima, mi rispose di sì senza troppi tentennamenti. Decidemmo di chiederlo a mio padre la sera stessa, eravamo in pizzeria e gli avevano appena servito la sua bella media. Glielo chiesi mentre stava dando la prima sorsata: gli andò così tanto di traverso che, nonostante in parte riuscì a sputarla nel tovagliolo, arrivò la cameriera tutta preoccupata a battergli sulla schiena e a chiedere se poteva fare qualcosa». Giovanni rise di gusto: «Ma chi, Dino?? Dio mio, non me lo immagino proprio». «Perché lo conosci adesso. Ma c’è una prima volta per tutti, e per lui non è stato diverso». Giovanni la guardò profondamente: «Come fai?» le chiese. «A fare cosa?» gli rispose, anche se forse aveva capito, ma le faceva piacere essere un po’ lusingata. «A tenerci tutti insieme. A farci da roccia. Dovrei farlo io». «Lo facciamo insieme, infatti. Io a te ho affidato la mia vita, perché sei il primo uomo, a parte mio padre, a cui ho sentito di poter dire “ecco, qui c’è la mia vita, è la cosa più preziosa che ho, ma te la affido, perché so di poterlo fare, e so che sei in grado di proteggerla e custodirla”. Se così non fosse stato, oggi Valentina non ci sarebbe. Per il resto, e ho capito a cosa ti riferisci con la tua domanda… siamo una squadra, e dove non arrivi tu, arrivo io. È questa la nostra forza, il fatto che ci compensiamo. È ‘ stato, è, un momento che mai avrei pensato di vivere. Una pandemia globale, ci pensi? Ma mi ha dato la possibilità di riflettere su tante cose, sull’importanza
della vita, della salute, che diamo troppo, troppo per scontate. Ho riflettuto sull’importanza del tempo. Ho goduto della vostra presenza, quando alle volte invece non vedevo l’ora di avervi tutti fuori dai piedi per poter stare da sola. Ho riflettuto sulle persone, da alcune mi sono distanziata anche emotivamente e continuerò a farlo anche quando questo periodo sarà finito. Alcune mie paure rimangono le stesse, ma in queste settimane in cui la vita ci è stata messa in pausa, ho avuto modo di riflettere con più calma, e di osservarle dall’alto. Ho capito che alcune non andranno mai via e ci dovrò convivere. Su altre, ho preso maggiore consapevolezza. Ho osservato a lungo Valentina, e l’ho vista crescere ad una velocità incredibile, sotto ai miei occhi. Ho avuto il privilegio di poter guardare il “dietro le quinte” e ho visto come si relaziona con compagni e maestri, e su alcune mie paure, che proiettavo su di lei, ho deciso di mettere la pausa, che mi auguro si trasformi presto in uno “stop” definitivo, perché lei non è me e quindi le mie sono solo ansie proiettate. Lei, a sua volta, stando così a stretto contatto con noi e la sorella, e meno con i coetanei, è diventata più grande, si vede anche solo dall’ironia che mette in alcune battute, perché è un’ironia adulta. Ho vissuto te, le nostre cene mano nella mano, quando concedevamo alle ragazze di cenare davanti alle rispettive televisioni. Ho avuto la conferma della profondità con la quale ti amo e dalla fortuna che abbiamo ad averci e ad amarci ancora allo stesso modo dopo quasi dieci anni insieme. E, ultimo ma non meno importante, credo di essere arrivata ad un punto davvero importante con Anna. Ma questo lo dico sottovoce, perché è una cosa a cui tengo così tanto da essere ancora molto scaramantica». «... Papà?» Anna spuntò da dietro la parete che divideva la sala dalla cucina, timida. «Scusate se vi interrompo, ma posso parlarti un momento, da sola?». Giovanni guardò Anna, che capì che voleva replicarle qualcosa, ma gli fece un cenno affermativo con la testa, andava bene così, e sorrise ad entrambi, vedendoli addentrarsi lungo il corridoio, verso la camera da letto matrimoniale. Anna se la chiuse alle spalle, poi si voltò verso il padre, che era entrato
precedendola. «Papà, ma si può sapere perché non ti decidi a sposarla, quella donna?».
Capitolo 15. ANNA
Il compleanno di Anna si stava avvicinando e il regalo più grande sarebbe stato il fatto che finalmente avrebbe potuto riabbracciare il suo Roberto. Dal 3 maggio, con l’inizio della fase 2, era come se si avessero aperto le gabbie: Alessia e Anna si scambiavano sguardi complici e sconsolati. Si dicevano: “Avete fatto 30… ormai fate anche 31, no? Cosa vi costa una settimana in più?”. Anna era uscita il 5 maggio per recarsi in farmacia, fare un po’ di scorta di farmaci di base che stavano per scadere. Si era offerta lei perché suo padre era sempre più impegnato con i colleghi internazionali e Alessia seguiva Vale nell’ultimo, intenso, mese di scuola. Poco distante da casa loro c’era uno fra i viali principali della città, e proprio su quel viale si trovava la farmacia: sembrava di essere alla Rinascente del Duomo nei giorni immediatamente precedenti al Natale. Non si riusciva letteralmente a camminare. Anna si infuriò, e scrisse al sindaco:
Sindaco buongiorno, spero possa leggermi. Sono giorni che medito di scriverle e ora le immagini dei Navigli e le sue conseguenti dichiarazioni mi hanno finalmente convinta a farlo. Stamattina sono uscita per andare alla farmacia dietro casa mia e la strada era piena, neanche fossimo in Buenos Aires durante i saldi. Sento di genitori che dentro ai parchi tolgono i limiti per far comunque giocare i figli…
Prenda provvedimenti, aumenti i controlli, perché questo non è un “tana libera tutti” e dopo il 18 rischiamo di tornare alla fase 1 e come ha detto un sindaco di una nostra provincia una volta, certi DEFICIENTI non lo capiscono. Cordialmente, Anna Brambilla.
La risposta arrivò poco dopo:
Gentile Signora Brambilla, la nuova direttiva ha riaperto molte attività, inclusi numerosi negozi. Non esiste limitazione di orario all’uscita dalla propria abitazione, solo è necessario recarsi sul luogo di lavoro, andare a fare la spesa, effettuare attività fisica. Non solo ma è possibile spostarsi in auto all’interno della regione per necessità e nei comuni limitrofi per fare la spesa. Questo comporta necessariamente un aumento del numero di persone che escono di casa. Le Forze dell’Ordine stanno vigilando affinchè tutto si svolga secondo le regole. Ovviamente non è possibile essere ovunque in ogni momento: l’Amministrazione ha messo in campo tutte le risorse disponibili e sta cercando di effettuare il maggior controllo possibile. È comunque ovvio che il numero di persone in circolazione sia aumentato, all’aumentare delle attività commerciali e aziendali che riaprono. Un cordiale saluto Marcella Vicentini staff del Sindaco.
Anna si sentì di replicare nuovamente:
Gentilissima, la ringrazio per la celere risposta. Lei non mi conosce, ovviamente, quindi potrebbe ipotizzare che io sia solo una delle tante “lamentone” prive di informazioni, tanto per dirne una. Le garantisco che non avrei mai scritto se non fosse perché era evidentemente anche ad un non vedente che le persone in giro erano lì NON per i motivi concessi dalla fase 2. Ragazzini a parlottare, anziani idem (con mascherina sotto al mento), nessuna distanza di sicurezza, mamme con bambini in bicicletta che non credo stessero andando a trovare i nonni o altri congiunti. Non sono stata così pronta per fotografare o fare un video, altrimenti Le sarebbe chiaro di cosa sto parlando. Vi ringrazio per il lavoro svolto, e tanto anche. La mia voleva solo essere una segnalazione, dato che non potete avere occhi ovunque. Buona serata, Anna Brambilla
La rabbia le saliva e le sembrava quasi fe fumo per davvero. Si confrontò con Alessia, che aveva appena avuto uno sfogo analogo con una delle sue tre amiche più care, madre di una bambina quasi coetanea di Valentina e di un’altra, in età da scuola materna. Alessia le raccontò le obiezioni che le aveva fatto questa madre, e cioè che le bambine avevano bisogno di aria, di vitamina D, che glielo avevano chiesto quasi supplicandola, e anche lei era esaurita a stare
sempre a casa con loro: le gelaterie erano aperte per l’asporto, e così era scesa per cinque minuti in piazzetta, e non sentiva di aver fatto nulla di male. Anna prese atto del fatto che potessero esistere diversi punti di vista e che alcune situazioni fossero reali e non fossero solo persone che pur di uscire di casa si sarebbero inventate di tutto, in barba al senso civico, alle direttive governative. In quei mesi se ne erano sentite di ogni: persone che sostenevano che il virus non esistesse e fosse tutto un enorme complotto, persone che si ergevano in cattedra per dire che loro avrebbero fatto diversamente, politici che sfruttavano la situazione per mettere in cattiva luce i loro avversari e guadagnare punti… Altro che “ne usciremo tutti migliori”. Un giorno Alessia le aveva fatto leggere la chat della classe di Valentina, perché la sua era “off limits” dato che entrambi, sia Alessia che Giovanni, concordavano nella convinzione che fosse meglio che lei evitasse di leggere cosa si scrivessero fra genitori, per non essere inevitabilmente influenzata nel pensiero che aveva sui loro figli, i suoi compagni di classe, che doveva rimanere scevro di ogni contaminazioni esterna e basato solo su quello che vedeva lei con i suoi occhi e sentiva lei con le sue orecchie. La chat delle elementari di Vale invece era un’altra cosa e dopo settimane di relativo silenzio, si era riattivata con commenti pesanti sul direttore scolastico, che peraltro provenivano sempre dalle solite tre o quattro madri. Sempre polemiche, sempre distruttive, mai costruttive. «Vedi?» le diceva Alessia, «questo è solo un microuniverso, ma ti dà l’idea di come sia in generale, è una sorta di campione rappresentativo, per quanto non essendo un’indagine statistica vera e propria, le persone all’interno non siano state scelte ad hoc tramite i criteri di attendibilità e validità… ma almeno ti dà un’idea. Davanti a certe cose mi infurio anche io, sono incendiaria come te anche se gli anni in più avrebbero dovuto un po’ smussarmi… diciamo che l’unica cosa che forse ho imparato a fare è sospirare e tacere, e non buttarmi nella discussione, perché tanto non ne otterrei nulla, se non nervoso, perché con alcune persone non si può ragionare». «Ma loro sono così perché non hanno visto la morte da vicino…! Io sì, con Robi!!! Se fosse capitato a chiunque, uno per ogni famiglia, allora vedi come sarebbero più prudenti adesso, più calme, e più grate alla vita!!!».
Alessia le sorrise e le accarezzò una guancia: «Ecco, in questo sì che si nota la tua età… ma stai ragionando in base a un fatto non reale, e non puoi andare in giro di notte ad ammazzare tutti come Robin Hood che rubava ai ricchi per sfamare i poveri… perché sempre di rubare si trattava. Ho capito che il tuo fine è nobile, ma davanti ad alcune persone bisogna solo abbassare le braccia, perché non capiranno mai, smettere di combattere per aprire loro gli occhi e starne alla larga, andando a ricercare nostri simili, e la loro compagnia. Sono d’accordo sul fatto che per quanto non esista una verità assoluta, su alcune questioni, come per esempio le verità dimostrate scientificamente, o il fatto che la Terra sia tonda, si HA ragione e quindi si pensa che siano questioni inconfutabili sulle quali non è neanche lontanamente immaginabile aprire un contraddittorio ma... esistono ancora oggi i terrapiattisti! Il mondo è bello perché è vario, Annina mia, e dobbiamo solo sperare che le persone che ci circondano non ci giochino brutti scherzi… c’è un detto che dice che “non si finisce mai di scoprirle, le persone, neanche dopo anni”... beh, è vero… quindi non ci resta che scegliere i nostri amici con oculatezza, e ogni tanto è anche una questione di fortuna, mantenere con loro i rapporti costruendoli giorno dopo giorno, come se stessi dando acqua alle piantine, e sperare che un domani non ti vengano a dire che la forza di gravità è solo un’impressione…!» concluse Alessia, sorridendole. Anna aveva capito, ma il nervoso non ava. Cercò di chiamare Roberto per sfogarsi, ma il cellulare era staccato. Doveva essere ancora chiuso all’Auxologico per la risonanza di controllo ai polmoni. Aspettò, sdraiata sul letto, le mani a sorreggerle il mento. Poi Giovanni bussò alla sua porta ed entrò. «Sono sceso a buttare i vetri e ho trovato questa lettera nella casella… è per te… volevo aprirla ma Alessia me l’ha proibito… non conosciamo il mittente… vabbè comunque dai, leggila, se dovesse esserci qualcosa di strano, noi siamo qui fuori» e gliela lanciò con un sorriso un po’ preoccupato ed una mira scarsa sul letto. Anna, incuriosita, aprì immediatamente la busta: all’interno c’erano un foglio A4 scritto al computer e un bigliettino piccolo, scritto a mano:
Cara Anna, non ci conosciamo anche se mi piacerebbe farlo, se tu vorrai. Mi
chiamo Elisabetta, sono infermiera ed ero con la tua mamma quando se ne è andata per sempre. Ho scritto quanto trovi insieme a questa busta sotto sua dettatura, voleva che ti arrivasse per il tuo compleanno, e tra l’altro in teoria avrebbe voluto fosse un altro a spedirtela, uno del suo ato, un suo ex fidanzato. È una storia lunga, se vorrai te la racconterò al telefono (ti lascio il mio cellulare sotto). Non lo so, nel momento in cui me l’ha dettata e io gliel’ho spedita affinchè lui la spedisse a te per il 18 maggio di quest’anno, ho sentito qualcosa dentro che mi diceva di tenerne una copia, e mandartela io. Mi scuso se ti dovesse arrivare prima, ma con le Poste non si sa mai, e poi ci mancava solo il Covid... Beh, ora ti lascio, mi auguro te ne arrivino due, perché vorrebbe dire che non è una persona meschina come ho ipotizzato dai racconti della tua mamma… in ogni caso, non mi dilungo oltre e ti lascio alla lettura. Tua madre era una persona meravigliosa. Ti abbraccio.
Sotto alla firma, c’era il cellulare, ma Anna non ci badò molto in quel momento, perché si scaraventò sulla lettera.
Ciao, tesoro mio. Dovresti vedermi, in questo momento, sono qui con Elisabetta, io ho pochissima voce e siamo alla quarta stesura di questa lista… almeno, ci siamo divertite, ma come vedi, ho deciso circa un minuto fa che non avrai quel famoso elenco di film o di canzoni che ti volevo scrivere prima che mi portassero qui. So, sento, che magari un po’ te lo aspettavi, ma le canzoni, o i film e i libri, sono emozioni, e non ti voglio in alcun modo condizionare, anche se magari l’avrò già fatto, anzi di sicuro. Già ti immagino lì, adolescente, ad aver ato anni setacciando in ogni dove alla ricerca di titoli di film usciti fra l’anno della mia nascita – se non prima - e quello della mia morte, magari anche quelli che non sono ati dai cinema o che non hanno avuto molto successo. La verità è che voglio che ti arrivi qualcosa di mio e voglio che ti arrivi proprio in questo momento della vita, perché potrebbe essere una fase delicata (per lo
meno, per me lo è stata) e voglio farti sentire che la mamma è ancora con te. Ti immagino serena, vorrei tanto che fosse così. Spero tu stia andando avanti bene con la tua vita e che sia circondata da persone favolose. Sono sicura che nell’ipotesi in cui tuo padre si sia risposato, l’avrà fatto con una donna meritevole e meravigliosa (non farle la guerra Anna, fallo per me). Per cui, l’unica variabile incerta siete tu e l’amore. Ti o un po’ della mia esperienza perché tu possa trarne tesoro. Mi aiuterò col citarti due film, legati fra loro, perché sono nata tonda e non posso certo morire quadrata!!! ;-D Hai presente “Pretty Woman”, la scena in cui loro due sono a letto, e lei gli racconta come è arrivata a fare quel mestiere? C’è un pezzo che mi è tanto caro in cui lei gli dice quella che per grossa parte della mia vita ha purtroppo rappresentato una verità, e cioè il fatto che è più facile credere alle cattiverie. Non farlo, amore mio. Non pensare mai di essere sbagliata, e se qualcuno te lo dice, valutalo attentamente, perché con il 99 percento di probabilità, quello sbagliato è lui, non sei tu. Se qualcuno ti fa una critica, bada bene che sia costruttiva e che sia detta con amore, perché di sicuro non potrai essere perfetta, e non avere mai la presunzione di esserlo. È probabile che durante l’adolescenza ti sentirai insicura: è normale. Circondati di persone che ti facciano stare bene e ti facciano sentire a tuo agio. Non avere fretta. Le cose arrivano da sole, per tutti. Cerca di avere pazienza, anche se so che è difficile. Probabilmente avrai più amori, o magari ne avrai solo uno e sarà quello per tutta la vita. Io ne ho avuti tre importanti, l’ultimo è stato tuo padre. Ce ne sono stati altri, nel mezzo, che ogni tanto mi sono “serviti” come trampolino per dimenticare la sofferenza appena ata. Succede, capita. Basta non “usare” le persone, quello mai.
Dopo la fine di ogni amore, capivo cosa non avrei voluto da quello successivo, e cosa invece andare a cercare. La fine dei miei amori mi ha fatto crescere tanto. Quando è finito il primo, la vita mi sembrava come se fosse finita. Capita, sai, e se ti dovesse succedere, sappi che è normale. La prima sofferenza collocata all’interno di un amore vero, corrisposto, ti butta giù tantissimo. Ti fa quasi credere che non ci sarà più futuro e che non tornerai ad amare. Se dovesse capitarti, perché da mamma spero di no ovviamente, ma da donna lo ritengo probabile, il consiglio che ti do è di vivertela quella sofferenza, di respirarla fino all’ultimo. Non cercare di scappare. Quando è capitato a me, avevo seguito i consigli di un giornaletto settimanale per adolescenti che si chiamava “Cioè” e che suggeriva di cancellare dalla rubrica il cellulare dell’amato per evitare di cedere alla tentazione di richiamarlo e riuscire così a dimenticarlo più facilmente. Sai il mio risultato quale è stato? Ho imparato il suo telefono a memoria, a furia di digitarlo sulla tastiera! Quindi amore, soffri, piangi, arriva a toccare il fondo di quel sentimento, e poi trova la spinta per tornare su, esattamente come se ti spingessi sul fondo di una piscina, poi ci appoggiassi salda le piante dei piedi e ti dessi la spinta per emergere dall’acqua come un delfino che salta! Ricorda sempre che “dal letame nascono i fior” (… ora vai a cercare la canzone ed il suo autore su Google!!!). Arriverà un momento in cui la tua casa ti sembrerà stretta, e vorrai scappare. Poi arriverà quello giusto, magari, e tu sentirai il desiderio di costruirci una famiglia: quando farai gli scatoloni per il trasloco, piangerai, e ti darai della scema per tutte le volte in cui avresti voluto scappare. Tutti i cambiamenti di vita implicano gioia e dolore. È normale anche questo. Arriverà poi un giorno in cui entrerai nella casa che ti sei costruita, e ti dirai: “Ecco, sono a casa” perché la sentirai tua, e da quel momento il tuo nido sarà quello, e non più l’appartamento dove sei cresciuta. È tutto normale. Vorrei parlarti anche della maternità ma… mi sembra troppo presto e sono sicura lo sapranno fare altre persone, tuo padre in primis, al posto mio. E poi, nel caso, c’è sempre la mia cara Elisabetta: chiamala! Ti lascio con una frase del film “Se scappi ti sposo”: era nato come seguito di Pretty Woman, non a caso il regista e i tre attori principali sono gli stessi, la
trama si è però poi svolta diversamente, ha trovato una nuova dimensione, più matura, e il fatto che non sia stato più un sequel ma un qualcosa a sé l’ha reso ai miei occhi, paradossalmente, l’evoluzione più bella e matura che quel primo film potesse avere. Il primo infatti era il film adolescenziale, dei sogni, delle favole: era il film del primo amore, dei sentimenti che esplodono, degli occhi costantemente a cuoricino, il classico film “che non si scorda mai”, proprio come il primo amore. Il secondo invece è il film dell’età matura, e ti lascio con quella che per me è la dichiarazione d’amore più bella e vera che un uomo e una donna possano farsi a vicenda: “Io credo che il massimo che uno possa dire, in tutta onestà, è: «Senti… io garantisco che ci saranno tempi duri, garantisco che ad un certo punto uno di noi, o tutti e due, vorremo farla finita... ma garantisco anche che se non ti chiedo di essere mia ora, lo rimpiangerò per tutta la vita. Perché sento, nel mio cuore, che sei l’unica per me!»”. Ti auguro tanto di trovarlo, un amore così, perché sarà quello della tua vita. Te lo prometto. La tua mamma PS. Intanto però, goditi l’adolescenza!! ;-P PPS. Ti voglio un bene immenso, tendente all’infinito.
Anna era attonita, lacrime di gioia le riempivano gli occhi. Strinse la lettera a sé come se stesse realmente abbracciando Margherita. Rimase così, a riflettere, per un lungo tempo che non fu in grado di quantificare. Non riusciva a spiegarsi come, ma era come se se lo aspettasse, che prima o poi
un segno sarebbe arrivato. Quella lettera era la dimostrazione di come il legame fra una madre ed una figlia non si spezza mai, neanche se ci si mette di mezzo la morte. Quelle parole erano arrivate al momento giusto, come a chiudere un cerchio che si era aperto quando aveva 10 anni. Il tempo che era intercorso fra la prima e la seconda lettera era stato un tempo in cui aveva vissuto, aveva sperimentato emozioni, ci si era buttata, aveva sofferto, era stata felice, non si era mai tirata indietro, e ora, con Roberto, sentiva di aver raggiunto il traguardo, il suo traguardo, ma era come se le mancasse qualcuno che le conferisse il premio, e sancisse formalmente quel momento. Ecco, era così che interpretava le parole di sua madre, e il fatto che fossero arrivate proprio in quel periodo, a conclusione di un percorso interiore che sentiva di aver portato a compimento con successo: era una mano allungata ad appoggiarsi sulla spalla, e un sorriso aperto e affermativo che le diceva: “Brava, stai andando bene, sono fiera di te, continua così”. Decise di tenere quella lettera per sé ancora per un po’, non sapeva dire ancora quanto. Era una cosa fra lei e sua madre, e voleva restasse un loro segreto ancora per un po’, fino a quando, consapevole di averlo vissuto del tutto, si sarebbe sentita in grado di condividerlo. Per il momento, ne era ancora gelosa e voleva che fosse e rimanesse solo suo. Certo, avrebbe dovuto inventare una bugia (bianca e momentanea!) con i controfiocchi per suo padre e Alessia, specialmente per la seconda, che vedeva dove altri non riuscivano a vedere. Ma con un po’ di astuzia, forse ce l’avrebbe potuta fare. Per il momento prese in mano il telefono, memorizzò il numero di Elisabetta e aspettò che suo padre tornasse in call e Alessia in assistenza di Vale durante le videolezioni per mandarle una nota vocale: «Ciao Elisabetta, sono Anna, piacere di conoscerti... scusami se ti mando una nota audio e non un messaggio, so che a volte sono scomode da ascoltare ma mi viene più facile parlare piuttosto che scrivere, preferisco tu senta il mio tono di voce che… beh, come senti è strafelice e colmo di gratitudine! Grazie, davvero. Non ho parole… anche perché in effetti la lettera da parte dell’altro non è arrivata e onestamente non credo arriverà per cui se non ci fossi stata tu non
avrei ricevuto quello che è il regalo di compleanno più bello che potessi ricevere!!! A parte il fatto che rivedrò il mio ragazzo... è una storia lunga sai e mi va di raccontartela… ma non ora, altrimenti diventa un audiolibro e non una semplice nota! Mi scuso, mi spiace non chiamarti… ma in questo momento non me la sento. Avrei tanta voglia di sentirti raccontare della mia mamma, però sarebbero ricordi legati all’ospedale e ai suoi ultimi giorni e quindi… per ora no, spero comprenderai. Adesso voglio godermi questo momento, ma spero ci terremo in contatto, che tu e la tua famiglia stiate bene, e spero anche di poterti incontrare, un giorno! Comunque niente... volevo farti sapere che sto bene, e che sono felice. Ti abbraccio!». E la inviò. Le spunte blu e il pallino che segnalava l’avvio della riproduzione arrivarono subito e Anna vide che appena terminati i minuti di ascolto, Elisabetta si mise a registrare a sua volta. Doveva essere una spontanea anche lei, una che andava a braccio, e infatti l’invio avvenne al termine della registrazione: «Ma ciao tesoro!!! È un’emozione incredibile quella che mi trasmette il sentire la tua voce!!! Come senti, la mia trema un po’!! Eh eh... mi son commossa!! Sono una vecchia piagnucolona ormai!! Comunque, che dire… capisco benissimo tutto, non ti preoccupare, ci sentiremo o vedremo quando e se vorrai… io sono felice perché sento di aver portato a compimento una missione di cui mi sono fatta carico anni fa... e non mi sarei mai potuta perdonare se non fossi riuscita a realizzare il sogno di Margherita! Sento di dirti che ti voglio bene, guarda, neanche tu fossi una nipote! Ti abbraccio anche io, forte, e a un buon compleanno!». Poi l’emoticon di un cuore solo, rosso, grande, che batteva. Anna ricambiò e sorrise guardando lo schermo del suo telefono. Finalmente ogni tassello era a posto. Tutti tranne uno, ma a quello avrebbe presto posto rimedio.
Capitolo 16. ROBERTO
Roberto risalì velocemente le scale che aveva appena percorso nella direzione opposta, per tornare a casa sua e prendere la mascherina, che ancora non era diventata un’abitudine: chiavi di casa, ci sono... chiavi della macchia, ok... portafogli… bene, ho tutto, posso uscire! Quello era sempre stato l’appello, al quale adesso avrebbe dovuto aggiungere “mascherina”: alla lunga, era sicuro sarebbe diventato un automatismo. Il giorno del compleanno della sua Anna era arrivato, e con esso la riapertura di tutto, anche dei parrucchieri e dei centri estetici, che inizialmente avrebbero dovuto aspettare il primo del mese successivo. La gente per strada si muoveva all’interno di una nuova normalità, alcuni si muovevano lenti, prudenti, assicurando sempre il metro di distanza, anche se non si trovavano in coda per entrare in banca o in farmacia: semplicemente, camminando. Quelli erano gli stessi che si salutavano col gomito e poi parlavano stando distanti. Altri li vedevi in macchina, soli, con la mascherina indosso. Poi c’erano quelli del “ma sì, abbracciamoci” oppure quelli del “cosa hai detto?” così l’interlocutore per farsi sentire meglio si tirava giù la mascherina e la teneva sotto al mento. Roberto camminava, li guardava e rideva perché in quel momento, in quel giorno, onestamente non gliene fregava più nulla. Sorvolò anche quando incrociò il suo dirimpettaio, che all’inizio della pandemia si lamentava del fatto che le mascherine fossero introvabili, e ora invece se ne andava in giro con una in stoffa leggera stile tulle di un abito da sposa con disegnato sopra un teschio. Effettivamente, anche il governo aveva detto che bastava coprirsi la bocca, anche con un foulard, e forse l’unica parte
dell’economia che non aveva sofferto, anzi, era quella che si era improvvisamente trovata la nuova occupazione di produrre mascherine di qualsiasi stoffa, design e decoro. Roberto gli sorrise, e dagli occhi dell’altro vide che il sorriso era ricambiato. Poi continuò per la sua strada e poco più in là, davanti al civico al quale gli aveva dato appuntamento, la vide, che si guardava intorno incerta, cercandolo. Con la mascherina, era tutta occhi. Tutta occhi grandi. Le corse incontro, perché gli prese un moto di infinita protezione nel vederla lì, sola, quasi sperduta: anche se fosse stata lì per solo 5 secondi, erano comunque troppi. Arrivò a un metro da lei e si fermò. Lei si era già girata perché aveva sentito i i. Le mascherine erano strane perché coprivano il sorriso della bocca ma non potevano nascondere quello degli occhi, ed era come se rendessero tutto più magico perché solo così potevi vedere i sorrisi più luminosi, quelli veri, quelli del cuore, quelli che coinvolgono tutto il viso, perché sono reali e spontanei. «Non ci abbracciamo?» gli disse. «Tanti auguri amore» le rispose. «Ma non si abbraccia la festeggiata?». «Dovremmo appendere un cartello sopra di noi con tanto di freccia e la scritta “congiunti”». Anna sorrise: «Ti voglio baciare». «E io non solo quello». Anna rise più forte, imbarazzata: «Scemo!» gli rispose. «Mi sei mancata». «Anche tu». «Sei bellissima».
«Tu di più». E rimasero a fissarsi, così, fermi, in un momento eterno, come se fosse la scena finale di un film d’amore, e la telecamera lentamente si allontanasse, riprendendo la folla intorno a loro, prima dei titoli di coda. «Ehm… è il vostro turno, dovete entrare? Siete in fila?». Si girarono di colpo verso la vecchina che stava dietro di loro, incalzante, impaziente e solo all’apparenza cortese. Niente, alcune vecchine rimanevano sempre di fretta, non c’era nulla da fare. Neanche il lock-down le aveva rallentate «Sì, mi scusi signora, adesso andiamo» rispose Anna, ed entrò insieme a Roberto. «Io non ho ancora capito perché mi hai portato qui, o meglio... se invece ho capito giusto, non ho mai conosciuto una ragazza più diretta di te nel far capire al suo moroso quello che vuole!!!». Anna rise: «Ma vaaa… non è per me!!! Ho solo bisogno di un consiglio. Ora ti spiego» e poi si rivolse alla commessa: «Buongiorno, ci servirebbe un anello di fidanzamento, per favore». Più tardi, quella sera, erano nel letto singolo di lui, che si tirò su per guardarla, e ricordò la folle scena di quel pomeriggio. «Certo che solo tu potevi…». «Ma non è folle!!! Va aiutato, pover’uomo!». «Ma guarda che anche la commessa ci guardava male». «Forse perché non ha mai visto anelli del genere stare così bene al dito mignolo di un giovane del Poli!». Anna rise. «Non è mica colpa mia se il tuo mignolo corrisponde al suo anulare». «E se non le piace?». «Certo che le piacerà».
«E se lui non vuole?». «Ha solo bisogno di una spintarella di incoraggiamento, ha solo paura. E poi ora abbiamo anche l’appoggio di mamma». Roberto era l’unico che sapeva della lettera. «Ma lo sai che non puoi decidere tu per la vita degli altri?» la prese in giro Roberto, e poi aggiunse, andando un po’ a memoria: «Ho sentito sai quello che hai fatto con Morris, era una cosa buona». Anna capì al volo perché sapeva le battute di quel film a memoria, così rispose: «Sapeva di buono”. Abbandonarono i ruoli di Gere e della Roberts in Pretty Woman e tornarono nei loro. Roberto aggiunse: «Sa davvero di buono, quello che hai fatto. Sei cresciuta tanto». «E ti piace come sto crescendo?». «Tantissimo». «Bene, perché è anche merito suo, signor quasi ingegnere» e sorridendo, gli si mise sopra. «Mi è mancato toccarti» e gli prese la mano, e incrociò le dita con le sue. Roberto rimase zitto, la guardò fisso, intensamente: «È impossibile che tu non ti sia mai accorta di come ti guardavo. Non ho mai guardato nessuna così». «Davvero? Nessuna?». «Mai». «E non ne guarderai mai nessun’altra?». «Non mi hai risposto». «Neanche tu adesso».
«Ma ho chiesto prima io». Anna rise: «Maaaamma, che avvocato… va bene, va bene» si mise seduta. «Hai presente quando ha cominciato a piacermi Juri, che te lo raccontavo?». «Sì». «Ecco, non so come mai, ma ho colto uno sguardo… come se fosse gelosia… poi vabbè era arrivata tutta la famiglia e allora il discorso è finito. Ma il giorno dopo, quando ci dovevamo vedere tutti per pranzo, ricordi?». «Perfettamente». «Beh, quella mattina ho visto un vestito al mercato. Era perfetto, l’ho provato e mi stava d’incanto. Era sexy ma non volgare… e mio padre l’avrebbe tollerato!!!». Si interruppe per ridere. «Così avevo progettato tutto al dettaglio, volevo vedere cosa succedeva. Sono arrivata apposta in ritardo. Vi ho sentiti chiacchierare da lontano perché sono arrivata quatta quatta e solo quando ho capito che ti eri messo in cima alla scala per tenere banco, sono entrata. Ho salutato apposta tutti guardandoli negli occhi e ho evitato apposta te. Quando sono salita non dovevo andare in bagno per davvero, era solo per farti vedere bene come mi stesse il vestito e per farti notare quanto poco mi importasse della tua presenza. E poi, il braccio, te l’ho sfiorato apposta. Quando sono uscita dal bagno e ho visto che eri ancora lì, col braccio teso appoggiato al muro per impedirmi di are, lì a rimproverarmi perché non ti avevo salutato per bene, ho fatto apposta a fingere di inciampare. E quando sei finito con le spalle al muro, mezzo sbilenco, ma con le mani allacciate dietro alla mia schiena, ho fatto ancora un’altra volta apposta a far finta di non recuperare subito l’equilibrio, per spingermi di più addosso a te. Lì ho visto come mi guardavi… solo che poi non l’hai più fatto». Roberto era sbigottito, si alzò a sedere anche lui per guardarla meglio in faccia: «E tu saresti quella impedita, impacciata, che non sapeva nulla dell’amore?». «Beh, qualcosa sulla seduzione l’avevo imparata». «Direi che ce l’hai innata… quando cammini mi incanti». «Smettila…» si schernì Anna.
«Ti avrei voluta mangiare quel giorno, stronzetta». «Perché non l’hai fatto? Perché c’erano tutti di sotto?». «Ma va... è perché eri piccola». «Ahhh che rispostone!!! E adesso, non sono piccola?». «No…» rispose Roberto sussurrando, avvicinandosi. «Adesso direi proprio di no» e baciandola, la trascinò ancora giù, sentendo che di lei non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
Capitolo 17. ALESSIA
Tutto stava gradualmente tornando alla normalità. Ormai l’estate era alle porte, la scuola delle bambine (o forse avrebbe dovuto dire “ragazze”) era terminata, le pagelle erano state consegnate e si guardava all’estate con tanta voglia di respirare, di mare, di natura, e di riprendersi – per quanto concedesse quella nuova modalità di vivere il quotidiano – un po’ di libertà. Giovanni la invitò a uscire fuori, una sera, mentre le ragazze sarebbero rimaste con la babysitter, che era una giovane universitaria che di fatto più che “curarle” si divertiva insieme a loro, alternando un gioco con Valentina a una confidenza “fra donne” con Anna. Andarono nel loro ristorante preferito: da fuori non gli avresti dato due lire e invece dentro si apriva la magia: non era solo l’atmosfera, erano i sapori, i colori, e tutto quello che di meraviglioso sapeva creare il loro amico chef, perché ormai, dopo anni, erano parecchio in confidenza. Conosceva alla perfezione i loro gusti, anche perché erano un po’ conservatori e non abbandonavano mai i loro piatti preferiti di pesce, che erano la sua specialità. Li accolse con la visiera protettiva, sotto aveva una mascherina nera, ai piedi i calzari e in mano il termometro: «Siete pronti per farvi sparare, ragazzi?». Sembrava un incrocio fra un chirurgo e Jennifer Beals nei primi minuti di “Flashdance”, quando viene ripresa mentre lavora in fabbrica. Era tutto surreale, ma poi il solo fatto di accomodarsi al tavolo e potersi togliere la mascherina per tornare a mangiare la loro cara vecchia aragosta con carciofi e scaglie di parmigiano fece venire ad Alessia un moto di commozione, un po’ come quando erano andati da lui verso il suo ottavo mese di gravidanza, quando il ginecologo le aveva detto che in un eccellente e fidato ristorante avrebbe
potuto permettersi di mangiare una tartare nonostante non avesse gli anticorpi per la toxoplasmosi, e le sembrò di essere la donna più fortunata del mondo. Giovanni scelse il loro solito Ca’ dei Frati e allungò la mano verso di lei, sul tavolo, col palmo aperto all’insù. Lo faceva sempre. Anche in macchina, appena poteva le posava una mano sulla gamba, o addirittura a volte, forse dietro la scia di un pensiero, le prendeva la mano, se la portava alle labbra e la baciava, poi le sorrideva con quel suo modo tutto particolare, che in tutti quegli anni non era mai cambiato ed era sempre rimasto ricco d’amore. Non si poteva certo dire che Valentina non stesse crescendo con l’esempio di due genitori che si amavano ancora moltissimo. Pochi giorni prima erano andati in piscina: una piscina privata, con ingressi contingentati e sdraio che garantivano i metri quadrati di distanza che andavano rispettati per legge. Ad Alessia non sembrò vero immergersi, l’acqua per lei era sempre stato un elemento naturale. Quell’anno poi si era aggiunta anche Valentina ad accompagnarla nelle immersioni, con tanto di coda da sirena comprata per il suo compleanno, che cadeva verso la fine dell’anno. Vale era contentissima perché aveva temuto di non poterla usare in acqua, e Alessia era contenta per la sua bambina, che sembrava Ariel, sembrava che con quella coda ci fosse nata. L’acqua le univa molto, erano capaci di stare immerse per ore. Quella volta Anna non c’era perché era rimasta a casa di Roberto e così, una volta uscita dall’acqua, con Vale nella sdraio affianco che leggeva uno dei libri dati per le vacanze, ad Alessia prese un momento di inspiegabile tristezza e sentì di doversi rifugiare dentro l’abbraccio di Giovanni. Lui l’accolse, senza smettere di leggere il suo libro, che reggeva con una mano mentre con l’altra le accarezzava la schiena, senza dire nulla, e fu così che Alessia si rilassò. «Ti ricordi l’altro giorno, in piscina?» gli disse. «Sì, certo». «Credo mi sarei sentita libera di farlo anche se ci fosse stata Anna».
«Ah, lo credo anche io… anzi, ne sono sicuro, ne puoi stare certa. Questo lockdown ci ha fatto solo del bene». «Sì, beh... a parte lo spavento di Roberto». «Sì, e il mio quasi infarto quando ho scoperto che mia figlia non era più vergine!!!». Alessia rise di gran gusto. «A cosa pensavi mentre mi abbracciavi?». «Mah, tutto e niente… riflettevo su questo, su quello che abbiamo ato, sul fatto che mai nella vita avrei pensato di assistere a una pandemia globale, anzi, di viverla… È un po’ come quelle cose che leggi nei libri di storia e ti sembra siano rimasti solo lì e lì rimarranno per sempre. Poi pensavo a quanto di bello ci abbia portato, a quanto io abbia scoperto di Valentina, e al miracolo avvenuto con Anna. Il rapporto fra me e te, le nostre cenette… il mio fare pulizia nei rapporti, il riprendere fiato, i ritmi lenti… Poi però ho pensato a chi ha avuto lutti in famiglia, e mi sono sentita in colpa per loro. Ho pensato a come andrà il futuro, a come sarà la scuola a settembre, ai miei genitori, alla paura che si ammali o addirittura muoia uno di noi…». «Ehi» la bloccò Giovanni, «respira. Per una volta nella vita, una sola, prova a non avere sensi di colpa nei confronti del mondo e prova a concentrarti sul presente, ok? Sul qui ed ora. Sull’aragosta che hai davanti e sui miei crostacei, che come sempre dovrai sgusciare». «Non imparerai mai!!!». «No, è più comodo poi se lo fai tu. Vuoi mettere, scusa?». Andarono avanti così, gustandosi la cena lentamente, senza la fretta che avevano prima, quando tutto il mondo girava veloce, e si andava di corsa anche se si avevano venti minuti di anticipo su un appuntamento, tanto per dirne una. Tornando a casa, Giovanni non fece la stessa strada. Alessia gli chiese il perché e lui le fece cenno di stare zitta, poi parcheggiò davanti all’oratorio della loro parrocchia di riferimento. Scese dall’auto con fare trionfante e le disse: «Tadaaaaa!!! Ti ho portato al
cinema!!!» disse imitando la voce di Valentina, e poi aggiunse, con la sua: «Stasera, proiezione serale solo per noi!». «... Per noi?». «Sì!». «E cosa proiettano?». «Se scappi ti sposo». Alessia rise: «Ah, un film recentissimo!!!». «Beh, non è che anche nei multisala stiano uscendo prime visioni, eh». Era vero: tutti i film il cui lancio era previsto per i mesi in cui fu chiuso tutto, furono o posticipati oppure veicolati tramite le principali piattaforme come Sky Cinema o Amazon Prime, e così ora, alla riapertura, venivano proiettati film già visti, e gli spettacoli erano a dir poco dimezzati. «Ho scelto io il film e ho preso accordi segreti con il Don: in sala ci saremo solo noi!» disse Giovanni con fare da massone. Anna sorrise e insieme entrarono: era una di quelle sale vecchie, con la seduta delle poltrone da abbassare e i posti liberi, non numerati. In ogni caso era vero, c’erano solo loro, e ad Alessia piaceva molto quella privacy, spesso infatti, prima del lock-down, si ritagliava spazi per se stessa in cui andare a vedere qualche film di suo interesse in settimana, al primo spettacolo che in genere era quello delle 10,30: spesso era sola, a volte con lei c’era una coppia… in generale non le era mai capitato di vedere più di 5 persone in tutto. Il film iniziò, era sempre piacevole da riguardare. Si ricordò di quando, da ragazzina, le capitava di andare al cinema Odeon, in centro, vicino alla Rinascente, insieme al suo moroso dell’epoca: i film, con lui, non riusciva mai a vederli per intero. Sorrise ancora al ricordo e pensò a quanto tempo era ato e quanta acqua
aveva portato con sé sotto ai ponti. Ora era felice? La felicità era fatta di istanti, secondo Alessia, non era una costante, quella piuttosto era la serenità, e quindi sì, si rispose che in quell’esatto momento, era sia serena che felice. Guardò verso Giovanni appena in tempo per sentire un forte stridore, e improvvisamente il film si bloccò. «Cosa succede?» gli chiese. «Non ne ho idea» rispose lui, «forse i sistemi vecchi? Che si sia bloccata la pellicola?». Poi, all’improvviso, ricominciò, ma arrivando improvvisamente ad una scena verso il finale, era come se qualcuno avesse schiacciato sull’avanzamento rapido. Era la scena in cui Richard Gere dice a Julia Roberts che le dichiarazioni d’amore ad effetto e molto romantiche hanno poco a che vedere con la realtà, perché... «Senti... io garantisco che ci saranno tempi duri…». Alessia si voltò all’improvviso, il cervello lavorava veloce, la voce che usciva dalla bocca dell’attore non era quella del suo storico doppiatore ma un’altra che apparteneva a una persona che conosceva bene e che… ora non trovava più. Ma dov’era sparito? «Garantisco che ad un certo punto uno di noi, o tutti e due, vorremo farla finita…». All’improvviso, una luce ad occhio di bue lo illuminò: era in piedi in fondo alla sala, davanti allo schermo, un microfono in mano, e saliva le scale verso di lei non smettendo di fissarla e continuando a doppiare alla perfezione. «... Ma garantisco anche che se non ti chiedo di essere mia ora, lo rimpiangerò per tutta la vita”. Le era arrivato davanti ora, e si inginocchiò.
«… Perché sento, nel mio cuore, che sei l’unica per me». Alessia fece per aprire bocca, anche se non sapeva come mai, perché era così sbigottita da essere rimasta senza parole, quindi da fuori probabilmente stava dando l’impressione di un pesce palla boccheggiante; in ogni caso, lui con un cenno del capo la zittì e continuò a parlare: «Prima di tutto voglio dire che mi dispiace, ma che non è stata una mia idea. È stato tutto molto ben direzionato da Anna, che un giorno è venuta da me chiedendomi come mai non ti sposassi e giorni dopo mi ha portato in una gioielleria perché era convinta di aver trovato l’anello perfetto. È stato uno dei momenti più belli della mia vita quando ho scoperto che oltre al mio cuore, avevi conquistato anche il suo, e ci è voluta tutta la tua pazienza, calma e dolce determinazione. Il giorno in cui ha ricevuto quella lettera… ci ha imbrogliati bene, perché in realtà era una lettera che le aveva scritto Margherita dall’ospedale. L’ho letta, te la farò leggere e… beh, nella lettera è citata questa dichiarazione d’amore. Anna ci teneva che ti fi proprio questa, forse perché in tutto questo, è un po’ come se fosse presente anche la mano benevolente di Margherita, e questo rendesse… non so, tutto un po’ più magico. Lo è, per me… le donne più importanti della mia vita, ognuna a modo suo presente, col suo tocco – Valentina c’è solo per il fatto che esiste, e l’abbiamo fatta noi – in uno dei momenti più importanti della mia vita. Ti starai domandando… e lui cosa ci mette di suo in tutto questo? Ci metto quanto ti sto per dire, e cioè che mi dispiace di non avertelo chiesto prima. Mi dispiace per essere stato così impaurito, e stupido. E ti ringrazio per avermi aspettato senza fare pressioni, comprendendo in silenzio tutte le mie motivazioni, perché sai girare nel mio cervello meglio di quanto lo sappia fare io, e ci arrivi prima, ci arrivi praticamente sempre prima di me, a capirmi. Non so esprimere a parole quanto io sia stato fortunato ad incontrarti e ad averti nella mia vita. Sei la mia roccia, il collante di tutto, l’unità di misura perfetta per ogni dimensione. Sei unione, pazienza, comprensione… sei immensa, e io… aspetta, eh…». Giovanni prese un attimo di pausa, erano in lacrime entrambi, e si fissavano trattenendosi dallo scoppiare, uniti in uno sguardo dall’intensità eterna, uniti nel ricordo che stavano costruendo in quel momento e che sarebbe rimasto indelebile. «Insomma… mi vuoi sposare?» e aprì la scatoletta, come nelle più classiche delle scene d’amore.
Alessia gli buttò le braccia al collo, non contenendosi più, e si inginocchiò insieme a lui, e si baciarono, in un misto di lacrime e risa, e continui “sì” da parte di lei, che non aveva neanche guardato l’anello, che era finito per terra, in mezzo, fra di loro, e fu preso in considerazione un’infinità di tempo dopo, quando si sentirono in grado di smettere di baciarsi, per pochi attimi, così Giovanni lo prese e cercò di infilarglielo all’anulare, ma non ci riuscì perché tremavano le mani a entrambi, e allora risero, risero tanto, e piano piano, con calma, l’anello entrò e Alessia lo guardò e pensò fosse bellissimo, anche se le sarebbe bastata la linguetta della Coca Cola. Giovanni prese parola: “La pietra al centro, quella col taglio a rosa, sei tu, e quella appena sotto, sono io. I due punti luce a fianco invece, sono Valentina e Anna». Alessia ricominciò a piangere, Giovanni rise e disse: «No ma aspetta c’è dell’altro: questo l’ho scelto io… l’anello che aveva scelto Anna è questo… vedi tu se vuoi indossarlo o… metterlo come collanina o… non lo so, comunque ci teneva che lo avessi». Alessia aprì la seconda scatoletta, era un cerchio d’oro giallo molto fine con un brillante a forma di margherita. Sollevò lo sguardo verso Giovanni, piena di tenerezza, lui capì e le disse: «Guarda l’incisione dentro». ...le mie due mamme insieme per sempre. Con amore, A. Alessia si portò una mano alla bocca, a quel punto il pianto si trasformò in singhiozzi di gioia. Giovanni la strinse forte, fino a quando lei non lo indossò sull’anulare dell’altra mano, lo guardò e gli disse: «Andiamo a casa. Andiamo a casa dalle nostre bambine, le voglio abbracciare forte». Così, insieme, le dita intrecciate, uscirono dal cinema, e si diressero verso il posto migliore che esistesse al mondo: casa.
EPILOGO SETTEMBRE 2020
Chat di classe di Vale: “Mamme, ma voi lo farete il vaccino antinfluenzale ai vostri bambini? Io non so che fare quest’anno, col Covid…”. “Io non ci penso neppure”. Quote: “Idem”. “Io mi vaccino ogni anno, a prescindere”. Quote: “Brava!!!!”. Chat del Catechismo di Vale: “Le date per le iscrizioni sono uscite sul sito dell’oratorio, andate a guardare. Ciao buona giornata a tutte!!”. “Oh ma come sempre… la Chiesa si attiva prima della scuola… ma vi pare normale che dalla scuola non ci siano ancora arrivate indicazioni precise e al dettaglio??”. “… Beh, se non lo sa neanche il governo… pazientiamo, no?”. Giovanni era in bagno, suo luogo preferito, altrimenti ironicamente definito da tutte in casa come “il pensatoio di papà” e girò ad Alessia un link: era uno scritto del sindaco di Desulo, Gigi Littarru, che riassumeva alla perfezione i loro pensieri. Giovanni era in chat da meno di una settimana ed era già satollo: “Nell’approssimarsi della riapertura delle scuole credo che questa ordinanza possa servire”.
OGGETTO: ABOLIZIONE DEI GRUPPI WHATSAPP DELLE MAMME IL SINDACO Considerato che la grande maggioranza di cittadini è in possesso di uno o più smartphone e che l’applicazione Whatsapp è installata sulla maggior parte degli smartphone in possesso dei cittadini; Considerato che la piattaforma Whatsapp può essere usata come uno strumento valido di comunicazione e scambio di messaggi e/o documenti soprattutto mediante lo strumento dei gruppi; Constatato altresì che la gran parte dei genitori soprattutto di sesso femminile (ai quali spesso si aggiungono nonne e zie e maestre) ne fa un uso massiccio e talvolta sconsiderato soprattutto per comunicazioni riguardanti la scuola; Preso atto purtroppo che la gran parte dei messaggi scambiati in questi cosiddetti “gruppi mamme” consiste di pettegolezzi, fake news, allarmismi, preoccupazioni eccessive (dall’unghia incarnita al graffio sottocutaneo, dalla tinta della copertina del quaderno alla pasta stracotta della mensa, fino ad arrivare al terrapiattismo, no VAX, no TAC, no FAX noSTICAZ etc. etc.); Tenuto conto che l’attuale incertezza in materia di riapertura delle scuole causata dalla situazione sanitaria in atto potrebbe causare una esplosione di messaggi ed esternazioni in grado di confondere ancora di più la cittadinanza lasciando i genitori padri in balia delle schizofrenie delle mamme nonché di riflettersi negativamente sia sul personale docente che quello non docente; Constatato purtroppo che, immancabilmente, immutatamente, la responsabilità viene imputata al sottoscritto (“la colpa è sempre del Sindaco”); Al fine di preservare la salute mentale degli studenti, del personale docente, dei genitori di sesso maschile, costretti a sopportare le peggiori schizofrenie, e comunque della cittadinanza tutta, ORDINA Alle mamme, zie e nonne il divieto di utilizzo degli attuali gruppi medesimi
nonché il divieto assoluto di creare nuovi cosiddetti “gruppi mamme” o analoghi La violazione della presente ordinanza sarà punita con il sequestro dello smartphone e con la sospensione dell’ Whatsapp fino al termine dell’anno scolastico INFORMA Che avverso il presente provvedimento NON È ammesso ricorso al T.A.R. perché contrariamente a quanto pensino le mamme, il Sindaco HA SEMPRE RAGIONE. Il Sindaco.
Alessia gli rispose con molte emoticon con le lacrime agli occhi. Giovanni: “Comincio a rivalutare le riunioni di condominio”. Alessia: “Ora un po’ cominci a capire...”. Giovanni: “È allucinante. Per il vaccino poi? La sottile polemica che stava nascendo fra i sostenitori e quelli contro? Ma la chat di classe non dovrebbe servire solo per LA SCUOLA?”. Alessia sorrise: “Grazie amore”. Giovanni: “E di che, piccina” Giovanni era entrato in chat per svariati motivi, il primo però fu quello di far sentire più tutelata Alessia: la Gavazzeni e il suo seguito erano tornate alla carica. Alessia, dalla cucina, sorrise, pensando a quante cose erano cambiate e quante altre invece erano rimaste uguali, come ad esempio, il suo timore e la sua mancanza di risorse davanti alla perfidia di certe persone. A ben guardare però, se si voltava indietro, vedeva un muro solido, e quella era casa. Casa sua. Non c’era motivo di avere paura.
Casa erano Giovanni, Vale, Anna, i suoi genitori, Clelia... Per estensione, anche Roberto e dall’alto, c’era sempre la protezione di Margherita, che strizzava loro l’occhiolino. Era circondata d’amore e d’affetto e come le diceva la sua nonna materna “finchè c’è salute, fisica e mentale, a tutto il resto c’è rimedio”. Non avrebbe mai immaginato che quei mesi, quell’evento al quale nessuno al mondo era preparato, potesse essere per loro portatore di gioie immense, di amore, e di grandi, enormi i in avanti. Quella con Anna, ancora più del matrimonio, era stata la sua vittoria più grande. Avevano celebrato il matrimonio un sabato di fine luglio. Si poteva fare, invitando solo i parenti e gli amici più stretti. Non che loro avrebbero invitato chissà quante persone anche in condizioni normali... erano della filosofia “pochi, ma buoni: veri, e fidati”. Alessia sognava quel giorno da una vita: il romanticismo regnava sovrano fra le donne di quella casa, anche fra quelle che non c’erano più. Dovendo quindi organizzare le cose in poco tempo ma volendo mantenere alta la cura per ogni dettaglio, si avvalse dell’aiuto di una wedding planner, Lucia. Si sposarono nella chiesa della loro parrocchia, li sposò un prete giovane e apionato, che aveva sostituito un anziano, purtroppo deceduto agli inizi di marzo per complicanze da Covid. Alessia, che era un po’ per queste cose, pensò che comunque il buon Don Giuseppe sarebbe lo stesso stato lì con loro, a benedirli col suo sguardo paziente e benevolo: aveva solo ato il testimone ad una nuova generazione. L’interno era un po’ buio quindi avevano scelto le peonie per illuminare banchi, navata centrale, altare e sedute di sposi e testimoni. Gli stessi fiori poi avevano fatto da filo conduttore per ogni dettaglio, a partire dal bouquet fino ad arrivare alla location e ai centri tavola.
In chiesa, alle 11, c’erano solo gli sposi con i genitori di Alessia e quelli di Margherita - i genitori di Giovanni ormai erano per lui una parentesi chiusa - i testimoni e Valentina, splendida damigella felice. Alessia aveva scelto Anna come testimone, ad entrambe era sembrato il coronamento perfetto e naturale del percorso che avevano svolto insieme. Giovanni aveva un po’ per conseguenza, un po’ per fare felice la figlia, scelto Roberto al posto del suo amico di una vita, previa minaccia: «Guarda che dopo questa non me la devi trattare bene, me la devi trattare benissimo!!!» frase che aveva fatto scoppiare a ridere tutti. Era stata una cerimonia perfetta, e Anna e Robi si erano sentiti un po’ come se a sposarsi fossero anche loro, che era poi l’idea dei genitori, e vedere la felicità raggiante nei loro occhi, non poteva essere regalo migliore. Per il pranzo e la festa si spostarono in Brianza, scelsero un posto con un immenso e ampio giardino, sobrio e raffinato. Era tutto molto particolare, fra una gomitata al posto di un abbraccio e le mascherine che quando non erano a coprire naso e bocca erano messe da tutti a mo’ di bracciale: non erano più obbligatorie e poi gli invitati erano davvero pochissimi e lo spazio così ampio da garantire oltre la distanza minima di sicurezza prevista per legge, ma ormai quelle coperture note in precedenza solo a medici e a personale ospedaliero, erano diventati una consuetudine abitudinaria anche per il resto delle persone. Valentina era felice, col suo abito bianco, splendido, comprato in uno dei negozi più storici di Milano specializzato in abbigliamento da cerimonia per bambini, col cerchietto coordinato al fiore della cintura di raso. Giocava con un paio di sue amichette, con i genitori delle quali Alessia e Giovanni avevano stretto fin da subito un buon rapporto e quindi si erano sentiti di invitare. Anna non aveva occhi che per Roberto, salvo qualche momento che dedicava ad Elisabetta, donna splendida che avevano poi avuto modo di conoscere e che avevano invitato insieme alla sua famiglia. Era incantevole, nel suo vestito lilla, che avevano comprato insieme, nello stesso atelier dove Alessia aveva acquistato, al primo colpo, il suo vestito: un corpetto semplice di raso bianco con lo scollo a cuore ed una gonna che scendeva ampia, con una coda non molto lunga. Niente pizzi né merletti. Il vestito di Anna invece era degno del suo bel fisico da adolescente, aveva una forma a sirena ed un
leggero scollo sulla schiena (non troppo, altrimenti il papà non avrebbe gradito). Poco prima del taglio della torta (gli sposi avevano simbolicamente optato per una semplice torta Margherita), Anna prese per mano Roberto e lo portò con sé, dietro al tronco di una grande quercia. Vi si appoggiò contro con la schiena, e, timidamente, dalla pochette coordinata estrasse una scatolina, poi lo guardò, e capì che aveva inteso al volo, così lo zittì: «Aspetta, lasciami parlare un secondo… mi ero anche preparata un discorso ma adesso mi è andato via tutto… che cretina. Comunque, inutile dire che quel giorno in gioielleria la misura delle tue dita mi è stata utile anche per altro… io… io non so quanto durerà, anche se spero duri in eterno, ma intanto, vorrei che tu indossassi una cosa che… simbolicamente, dicesse al mondo che sei mio, e viceversa. “Viceversa”... come la canzone di Gabbani a Sanremo: un po’ mi ricorda noi, specialmente quando dice che “se dovessimo spiegare, in pochissime parole, il complesso meccanismo che governa l’armonia del nostro amore… basterebbe solamente dire, senza starci troppo a ragionare, che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa”» Anna lo disse cercando un po’ di canticchiarla, poi rise e ricominciò a parlare: «Anche se… è vecchia eh… ma per me la canzone che più ci rappresenta è “Non abbiam bisogno di parole” di Ron. Perché io con te non ho davvero bisogno di parlare, per spiegarti quello che ho nel cuore» e poi alzò il viso, perché Roberto la sovrastava di tanto nonostante lei avesse i tacchi alti, e lo fece appena in tempo per vedere il suo sorriso tenero che si chinava a baciarla sfiorandole le labbra ancora socchiuse ed accarezzandole la guancia con l’indice. «Ma quanto siamo belli, noi due?» le disse dopo. Poi le prese dalle mani la scatoletta, la aprì ed estrasse l’anello di lei, e lentamente glielo infilò all’anulare. Poi le porse il suo e lei fece altrettanto. Dentro ad entrambi c’era inciso l’8 orizzontale che rappresenta il simbolo dell’infinito. Si sorrisero ancora, e rimasero a baciarsi, appoggiati a quella enorme quercia, per un tempo infinito. Da lontano, Alessia e Giovanni li videro, e sorrisero. Erano belli, come lo erano tutti quel giorno, di quella bellezza che ti regala solo la felicità. «Ti amerò per sempre» le disse Giovanni. «Anche io» gli rispose lei, col cuore pieno.
Avevano poi ato un’estate magica, nella loro Italia, nei suoi luoghi bellissimi, nei suoi posti splendidi, nei suoi mari trasparenti. Erano stati insieme, poi separati, con Anna e Roberto che avevano voluto trascorrere giornate da soli e Giovanni che quasi temeva di più il risultato di un eventuale test di gravidanza a cui magari avrebbe dovuto sottoporre la figlia che di un sierologico. ... E poi era arrivato settembre. I numeri dei contagi erano tornati ad aumentare, ma le terapie intensive sembravano mantenersi non sovraccariche, per fortuna. Gli interrogativi erano tanti ed alcune paure tornavano ad affacciarsi. La scuola sarebbe ripartita, sia quella della grande che quella della piccola, in presenza, con le dovute misure anti Covid. “Del doman non v’è certezza” diceva Lorenzo il Magnifico, e mai come ora Alessia si era sentita in accordo con lui. Poi però avvenne una cosa. Una mattina, circa una settimana prima dell’inizio delle scuole in Lombardia, si sentì strana: in realtà, erano giorni che aveva un forte sospetto, così prese la “riserva” che teneva sempre nel cassetto del suo comodino, e la utilizzò. Non rimase bloccata, o sotto shock. Si diresse verso la sala, dove Giovanni stava guardando i preparativi per il Gran Premio di Monza, speranzoso che magari la Ferrari sarebbe tornata alle vecchie glorie. Gli mise l’oggetto in mano, lui sgranò gli occhi, all’apice della preoccupazione: «È di Anna, vero? Cazzo, me lo sentivo…». «No» lo fermò Alessia, «è mio». «Tuo???». «Sì». «Ma... ma… se siamo stati attentissimi!!! Ma... ma come è possibile, Ale, ma… hai la spirale e io... oh... ma come… come si fa, in una situazione del genere…». «Andrà bene» lo interruppe lei, prendendogli la mano e appoggiandosela sul
basso ventre. «Andrà tutto bene, Giovanni, me lo sento. Non so come, ma lo sento. Questo bambino starà bene. Non lo stiamo, non lo metteremo al mondo a cuor leggero. Ti fidi di me?». Lui si calmò improvvisamente, come se qualcosa fosse arrivato a permearli entrambi di felicità e di nuove, gioiose, meravigliose seppur inaspettate, priorità. Si fissarono, fino a quando irruppero in sala le figlie, insieme, entusiasmate dalle frecce tricolore che sarebbero ate nel pomeriggio. Correvano entrambe come tori inferociti. Poi la più grande li osservò e capì immediatamente. Mise una mano sulla più piccola, per calmarla e avere così il silenzio tale per poter chiedere: «... Ma... stiamo aspettando? È quello che penso?». Ale e Giovanni sorrisero guardando le figlie: «Sì, STIAMO aspettando, il plurale è giustissimo. Stiamo aspettando che la famiglia si allarghi» disse Giovanni. «Un fratellinooooooooooo!!!» esultò Vale, «“o una sorellina! O entrambi! O dei gemelli!!!!!». «Eh vabbè adesso non esagerare!» si chinò ad abbracciarla Anna. Poi si rialzò, abbracciò i genitori e si ritrovarono tutti e quattro stretti stretti, abbracciati e avvolti intorno ad un puntino. La vita... la vita va avanti. Sempre.
Ringraziamenti
Quando ho scritto i ringraziamenti del mio primo romanzo, ho esordito “rivelando” un segreto su di me, e cioè il fatto che sono una delle prime cose che leggo, quando ho un libro fra le mani, perchè dicono molto sull’autore, e io sono affascinata anche da loro e non solo dalle storie che escono dalle loro menti. La mia prima volta, ho ringraziato i sogni, e i sognatori, e leggendo quelle righe, mi ha poi scritto una giovane ragazza: “anche io ho il sogno di scrivere” – mi ha detto – “ma tutti mi dicono di non perseguirlo, perchè è una strada tortuosa e difficile. Poi però ho letto una cosa, e cioè i ringraziamenti del tuo romanzo, e hai ragione, non devo smettere di sognare e credere in me”. Quello è stato uno dei primi regali che ho ricevuto dai lettori, e mi rimarrà sempre nel cuore. Se con quanto scrivi riesci ad emozionare (... in tutte le maniere in cui un individuo si può emozionare…!) anche solo una persona, o a farla riflettere, o a regalarle momenti di evasione dalla realtà, per me hai già vinto. Sto scrivendo queste righe con l’albero di Natale illuminato poco distante da me, la mia migliore amica ha terminato di leggere il mio primo romanzo un paio di giorni fa e mi ha scritto che l’ho fatta sognare, ridere, piangere. Parto quindi da lei per ringraziare (... per la prima volta nella mia vita...!) voi lettori, che avete letto, apprezzato, che avete lasciato recensioni, che mi avete scritto e fatto emozionare a mia volta. Le emozioni sono il regalo più grande che si possa fare, e il bello, come dico sempre, è che sono anche gratis. In ultimo (… o quasi!), dato che l’emergenza sanitaria che fa da cornice a questo romanzo non è ancora ata, ringrazio tutti gli operatori sanitari e tutte le figure professionali che ci hanno messo, e ci mettono, anima e cuore. Ringrazio la squadra della mia casa editrice.
E ringrazio i miei affetti, che sono la mia roccia.