Lontano Da Qui 3k3v3p

Indice

Copertina Frontespizio Colophon Prologo Parte 1 - Adagio Parte 2 - Andante Parte 3 - Allegretto L'autrice Consigli di lettura Lettera dell'editore

Giulia Meli

Lontano da qui

i jackpot 12

seconda edizione: dicembre 2014

direttore editoriale: Andrea Malabaila

progetto grafico: Chiara Scavino

quarta e sinossi: Elena Di Mizio

ufficio stampa: Carlotta Borasio

correzione bozze: Rossella Messineo

ISBN eBook 978-88-95744-88-9 ISBN Cartaceo: 978-88-95744-11-7

www.lasvegasedizioni.com

Siamo anche su

Facebook / Twitter / Anobii

Intro

Una famiglia felice in gita in montagna. La mamma, una ragazza con i capelli lunghi e sciolti e un sorriso aperto, stringe fra le mani una macchina fotografica. Il padre ha la barba e gli occhiali. I due sembrano dividere un segreto divertente, una complicità palpabile che illumina le voci serene. Infine una bambina. Ha i riccioli neri, il viso paffuto, un giubbino rosa e un equilibrio precario. Si aggrappa alla mano del papà e indica qualcosa nella sua lingua sconosciuta. Forse hanno in programma un picnic nel bosco alle loro spalle, forse torneranno all’auto parcheggiata poco più in là per via del tempo incerto. La mamma cerca di attirare l’attenzione della piccola: «Ale, tesoro, guarda qui.» Schiocca le dita, la bambina ride, la macchina fotografica borbotta. Impresso per sempre sulla pellicola. Un sentiero, un bosco, un papà. Dimentico dell’obiettivo, è chino verso la bambina, le stringe la mano, la sorregge. Una dichiarazione d’intenti. Lascio cadere la fotografia nell’ultimo scatolone, chiudo il bagagliaio della mia jeep e salgo in auto. Destinazione: lontano da qui.

Parte 1

Adagio

1.

Squilla il cellulare. Lo ignoro. Sto lavorando, non posso distrarmi. A maggior ragione se, come sospetto, è mia mamma. Mille giustificazioni per soffocare il senso di colpa. Allungo una mano per abbassare il volume della suoneria, senza staccare gli occhi dal monitor. Cerco a tentoni fra cumuli di scarabocchi, matite mangiucchiate e residui di quello che avrebbe dovuto essere il mio pranzo. Il telefonino tace prima che la mia mano destra lo recuperi fra le macerie di Beirut. Non pensarci, mi impongo. Concentrati. La mia mano sinistra stringe il mouse. Se io aggiungo un’ombra qui, anzi no evidenzio... il cellulare riprende a squillare. «Non è vero!» Balzo in piedi, tirandomi dietro montagne di cartaccia che nella rovinosa caduta fanno riemergere il cellulare disperso. Sono seccata oltre ogni limite quando rispondo: «Pronto?» «Ciao Ale, sono Elena.» Precisazione superflua, riconosco la voce. Esita un secondo poi prosegue: «Ti disturbo?» Puoi scommetterci. «Assolutamente. No. Come va?» «Bene, grazie. Tu? Non ti sentiamo da un po’. Abbiamo in programma una grigliata, il prossimo sabato sera... ci sei?» Il mio silenzio non deve essere particolarmente incoraggiante. «Ci piacerebbe molto» conclude, incerta. «Davvero, Elena, ne sarei felicissima.» Mentre lo dico, mi accorgo che non è del tutto una bugia. «È solo che sono indietro con le consegne e non posso allontanarmi da qui.» Tiro un sospiro e tutto d’un fiato continuo: «Però venite a trovarmi uno di questi giorni. Non avete ancora visto qui completamente ristrutturato.» Chiacchieriamo ancora qualche minuto e ci lasciamo con la promessa di vederci presto. Come sempre, d’altra parte. La mia concentrazione è sfumata e, guardandomi intorno, mi accorgo che il mio studio sembra stato spazzato da un uragano. Salvo il lavoro svolto con un

determinato click e raccolgo i bicchieri sporchi, le tazzine con i fondi carbonizzati di caffè e i piatti con avanzi smangiucchiati. Salgo la scala a chiocciola con il mio carico in precario equilibrio fino al lavello in cucina. Colgo l’immagine di me stessa nello specchio del corridoio e non balzo indietro spaventata solo perché mi ci sono abituata. Se un uccellino fe il nido nei miei capelli sarebbe comodissimo, e io, effettivamente, non me ne accorgerei. Mi serve una doccia. Non mi ricordo l’ultima volta che l’ho fatta. Ho ato la scorsa notte al computer. E quella prima. Stamattina, quando neanche il quinto caffè sembrava avere più effetto, sono uscita a pulire la capannina e a distribuire il fieno. Dopo sarebbe stato logico fare una doccia. Ma ho avuto un’intuizione fulminante per concludere il lavoro. Un’idea che ho rincorso per tutta la mattina e parte del pomeriggio, fino alla telefonata. Mentre lancio i jeans nel cesto dei panni da lavare, e lo manco, mi soffermo a pensare a Elena. Non a quanto la sua telefonata mi costi, ovvero un’altra sicura notte insonne, ma a quanto sia facile avere nostalgia di una persona a cui non pensi più. E che non vedi da mesi. Un calcolo rapido. Forse quattro. Giusto, quattro. Sono andata a Milano per il compleanno di mia sorella in febbraio. L’acqua è bollente, esattamente come piace a me. Pioveva quel giorno. Ho fatto un salto nel maneggio in cui lavora, abbiamo bevuto una cioccolata. Le ho raccontato di qui, all’epoca i lavori di ristrutturazione erano quasi ultimati. Lei aveva di recente comprato casa con Roberto, il suo fidanzato storico. Ha definito casa mia “l’eremo”. Io ne ho riso. Ma la definizione mi gira ancora in testa. Questo è il mio eremo. In modi così disparati che la mia amica di un tempo non può nemmeno immaginarseli. Riemergo dai vapori della doccia rigenerata. Lo specchio appannato rimanda l’immagine indefinita del mio corpo, abbronzato e sodo. È il lavoro fisico quotidiano, penso. Ha scolpito le mie braccia, rassodato le cosce. Sono in forma. Ma senza palestra. Indosso un paio di jeans tagliati al ginocchio, una maglietta senza maniche e un paio di vecchie scarpe da ginnastica. Pettino i capelli, cercando di districare i nodi e li lego in una coda che mi lasci libero il collo. Quando arrivo sotto il porticato i cani mi corrono incontro. Non mi seguono mai in studio. Temono, credo, lo spazio angusto e la confusione che vi regna. E poi restano in casa solo di notte. Durante la giornata sono sempre a zonzo. Soprattutto in estate. Nel caso di Otello, il vecchietto, è più corretto dire che dormicchia tutto il giorno sotto il portico, godendosi l’aria fresca della stagione. Un paio di settimane fa, ho provato a gonfiargli una piscina, di quelle per bambini. Pensavo che sguazzare nell’acqua durante le ore più calde della giornata gli sarebbe piaciuto. Invece ne era terrorizzato e non ha nemmeno

provato a entrarci. Gli altri due non hanno capito lo spirito del gioco e Mac l’ha addentata, rompendola, dopo neanche un paio d’ore. La piccola, Desde, ha nascosto la carcassa della piscina nella sua tana, un buco che ha scavato sotto il porticato. Mi seguono fino al recinto dei cavalli. Si avvicina per prima la puledra. Scavalco la staccionata, le metto la capezza e, aprendo lo steccato, la porto nel tondino. La faccio correre un po’. «Domani ti monto, piccolina» le prometto. Le faccio la doccia e le pulisco i piedi, poi la libero di nuovo nel paddock. A Valrob, il vecchietto, allungo una mela e una dose di coccole. Sello invece la palomina, anche se sono ormai le sette di sera. Monto in sella, una vecchia western che ho ereditato da uno zio, e prendo il sentiero che porta al torrente. Mac e Desde mi precedono, infrattandosi qui e là nei cespugli e rincorrendo chissà quale invisibile preda. L’andatura comoda della cavallina è l’ideale per rilassarsi e, per preziosi istanti, dimentico il lavoro lasciato incompiuto. La schiena, provata da troppe ore trascorse al computer, mi duole un po’ anche adesso, ma cerco di rilassare le spalle. La cavalla prosegue senza la mia guida fino al bivio. Se svoltiamo a destra, scendiamo verso il torrente e imbocchiamo una stradina che ci riporta a casa. Svoltando a sinistra invece saliamo verso un prato, adatto per una bella galoppata. Da lì poi un sentierino nei boschi mi riporta in direzione di casa, ando davanti al centro ippico Il Granaio. Lascio scegliere ai cani, che si dirigono a destra verso il torrente. La cavalla risponde docile al mio comando. Quando raggiungiamo i cani, i due sono già bagnati fradici. Di regola mi fermerei un po’ qui, ma stasera è davvero troppo tardi, quindi proseguo direttamente fino a casa. Il sole sta tramontando e dopo una bella spazzolata, lascio Dream al paddock con gli altri due. Controllo che abbiano acqua e porto loro la cena. Poi è la volta dei cani. Li sorveglio per essere sicura che Mac non faccia il prepotente con gli altri due e rubi le loro porzioni. Quando rientriamo in casa tutti e quattro, il cielo è tinto di rosso, ma il sole si è già tuffato oltre l’orizzonte. I cani salgono al primo piano. Me li immagino accomodarsi sui divani e sul tappeto, mentre io mi richiudo in studio a terminare, spero, la mia opera.

2.

Mi sveglia un raggio di sole, dritto negli occhi. Mi lamento e tento di girare la testa. Una fitta lancinante mi blocca. Ora sono completamente sveglia. E dolorante. Mi sono addormentata con la testa sulla scrivania. Il computer è in stand-by e sul momento non mi ricordo nemmeno se ho terminato la proposta per le tazzine. Il che mi fa venire in mente che mi ci vorrebbe proprio un caffè. Metto in fila un o alla volta lungo la scala a chiocciola, mentre cerco di massaggiarmi il collo dolorante. Il mio arrivo in soggiorno è salutato da feste, uggiolii e scodinzolii vari. Accendo la macchina del caffè e nell’attesa che si scaldi, scendo al piano terra e libero i cani. Mac si precipita a razzo fuori in giardino, seguito da Desde. Otello scende con più calma. Lascio la porta d’ingresso aperta e torno a farmi il caffè. Mi gusto la prima tazzina e inizio già a sentirmi meglio. La seconda scivola calda in gola e il mio stomaco brontola. Apro la dispensa, dove occhieggiano confezioni di pasta aperte e poco altro. Credo che mi terrò la fame ancora per qualche tempo. Senza nemmeno cambiarmi esco di casa, diretta ai paddock. I cavalli a quest’ora aspettano il fieno e inoltre devo pulire il truciolo della capannina. Mi accolgono i nitriti dei miei tre equini. Non sono l’unica ad avere fame stamattina. Nonostante il collo incriccato, ormai ho preso la mano con la forca e me la cavo velocemente. All’inizio era la mia peggior nemica. Nonostante i guanti, le mani mi sanguinavano dalle vesciche. Un vero tormento. Eppure in qualche modo il dolore mi stimolava a proseguire. A non abbandonare il mio nuovo progetto di vita ancor prima che iniziasse. Mi ravvio i capelli, appoggio la forca nella carriola ed esco dal paddock, mentre i tre cavalli sono occupati con il fieno. La giornata promette di essere soleggiata e radiosa. L’aria frizzante delle otto del mattino è leggera e profumata. Avendo ultimato il più urgente dei lavori che devo consegnare prima dell’autunno, decido di regalarmi una giornata di pausa. Una vera giornata di vacanza. Innanzitutto doccia e poi colazione in paese, ho davvero fame. Devo anche rifornire la dispensa. Controllo l’orologio nell’ingresso di casa: se non perdo troppo tempo, posso cavarmela in un’oretta e mezza, circa, ed essere di ritorno per le dieci. Il bar del paesino più vicino a casa mia è proprio a bordo della provinciale. Parcheggio la jeep tra vecchie biciclette arrugginite e Ape Piaggio che hanno visto giorni migliori. Scelgo sempre questo posto, nonostante il cappuccino e la brioche siano appena commestibili, per la clientela. Nessun turista, nessuna famigliola in cerca di relax fra i monti, nessun gruppo di biker con giacche di pelle e ragazze anoressiche con i tacchi al seguito. È un bar di indigeni. Di montanari che bevono un bianchino alle nove del mattino e discutono di politica

e sport tutto il giorno. E giocano a carte, ovvio. Il ragazzo dietro il bancone mi fa un cenno. «Cappuccino e brioche, grazie.» Prepara il caffè e il latte, mentre io prendo la brioche. Dà una spruzzata di cacao: non sono loquaci da queste parti, ma riconosco in questo gesto una traccia di simpatia e di accettazione. Gli regalo un sorriso che forse lo incoraggia: «Tutto bene lassù?» «Tutto bene» rispondo. «Il tempo è bello da oggi per tutto il week-end.» Frase di circostanza pura. Pago e sorrido accomiatandomi.

***

Scarico i sacchetti dalla jeep e li porto in casa facendomi strada tra i cani festanti. Sanno che il macellaio mi ha dato qualche osso per loro da spolpare. Lo fa sempre. Desde correrà a seppellirlo lontano dalla casa. Mac divorerà il suo e lo difenderà con le unghie e con i denti. Una volta finito, insidierà quello di Otello, che ormai fa sempre più fatica a sgranocchiare l’osso e, quasi certamente, dopo il primo entusiasmo lo avanzerà. Riordino la spesa nella credenza e nel frigorifero e poi, sul porticato distribuisco gli ossi. Come previsto, Desde scappa via con il suo ben saldo in bocca, Mac e Otello si accomodano sotto il portico a divorare i propri, lanciando l’uno all’altro occhiate colme di sospetto. Metto sopra i jeans un paio di chaps con le frange un po’ logori. Poi cambio idea e tolgo i chaps e i jeans. Sulla vecchia poltroncina ereditata dalla bisnonna – non so come mai mia mamma abbia lasciato che la portassi via con me – c’è un cumulo di vestiti usati e abbandonati. Sono sicura che sotto tutto ci sia un paio di pantaloni da equitazione, da monta inglese. Un paio di quelli aderenti che vanno usati con gli stivali... che sono... mi guardo intorno... sotto il letto. Scendo di corsa le scale posteriori che danno sul retro della casa e mi portano direttamente nella scuderia, attualmente deserta. Da lì esco nei paddock, non prima però di aver afferrato qualche carota. Valrob, il mio baio più che ventenne, sta mangiando pigramente un po’ di fieno. Non vedo la palomina né la puledra. Scavalco quindi la staccionata con una longhina e il mio carico di carote. Valrob alza la testa e mi squadra, ma riprende a mangiucchiare. La puledra mi viene incontro da dietro la capannina al trotto, agitando la testa e chiamando. Si ferma a pochi i da me e le mostro le carote. Si avvicina, si lascia accarezzare e prendere.

La lego ai due venti sul portico antistante la scuderia: pulisco i piedi, metto il grasso, le do una bella spazzolata. Il pelo lucido e quasi nero sembra una pietra preziosa. Pettino con cura la criniera arruffata e gliela pareggio. È una bella cavalla di quattro anni, alta e potente. Le accarezzo il collo muscoloso e il petto ampio. È bellissima, lo penso ogni giorno. La sello e poi monto. I cani sono troppo presi dai loro ossi per dare retta a me e seguirmi. Ed è un bene, visto che Il Granaio è la felice dimora di una colonia di gatti. Nonostante sia giovane, Shad, la cavalla, non è eccessivamente timorosa. Le lascio le redini sul collo e imbocchiamo lo stesso sentiero che ho fatto ieri sera con Dream. Al bivio, però, invece di andare verso il torrente, ci dirigiamo verso Il Granaio. Quando varchiamo il cancello, non vedo nessuno. Nessuno nel campo ostacoli, nessuno nel campo coperto. Questo è il motivo per cui frequento questo posto rigorosamente di mattina e mai nei week-end. Si può lavorare con calma e concentrazione. Scaldo Shady al trotto, poi un po’ di galoppo. La cavalla si scalda e tenta di prendere la mano e accelerare. Litighiamo per qualche istante. La fermo, alt e due i indietro. Chiedo una partenza al galoppo e la cavalla parte sgroppando. Faccio due giri del campo al galoppo, poi la fermo di nuovo e ripeto l’esercizio. Ancora sgroppate verso il cielo. Pazienza, mi dico. Ripeto l’esercizio fino a che la partenza al galoppo risulta armoniosa e facile. Allora l’accarezzo e la lodo piano. Le lascio allungare il collo fino a sfiorare con il naso per terra. In questo modo rilassa i muscoli e riprende fiato. Dei i e una voce: «Chi si vede... è un po’ che non ti fai viva.» Sorrido al ragazzo che si avvicina e si siede a cavalcioni della cavallerizza. «Impegnata in questi giorni, sai com’è» rimango evasiva. Gentile, sì, ma un po’ distante. «Pensavo di fare un salto su da te per assicurarmi che andasse tutto bene. Ci pensavo proprio stamattina.» Poi guarda la cavalla. «Viene su bella. E che caratterino. Vuoi che ti faccia fare due salti?» «Non oggi grazie. Visto che questa settimana l’ho mossa solo in tondino vorrei lavorarla un paio di giorni in piano prima di saltare.» Annuisce. «Ti va un caffè? O qualcosa di fresco da bere?» Il sorriso sotto la visiera del cappellino diventa più largo e capisco di non poter dire di no. «Mi andrebbe proprio, veramente» e smonto. Mi aiuta a dissellare la cavalla e a lasciarla libera in uno dei suoi paddock vuoti. Mentre lo seguo verso la clubhouse, penso che è una brava persona. Un uomo gentile che ha riconosciuto in me una naufraga, esattamente come lui. Un matrimonio fallito alle spalle e due figli piccoli che vede soltanto nei weekend che l’ex moglie gli concede. «Questo fine settimana pare che sia bello. Vengono a trovarti i bambini, Max?» Tento di fare un po’ di conversazione. Scuote la testa. «Non questo sabato» sospira «forse il prossimo. Però, la cosa positiva è che quando finirà la scuola rimarranno qui alcune settimane. Un tè freddo?» «Alla pesca grazie.» Ci sediamo sulla panca di legno

fuori al sole. «Mia mamma è ovviamente in fibrillazione. A volte...» lascia che la frase si perda. Sono imbarazzata per aver toccato con lui un argomento così personale. Non so come mi sia venuto in mente. Cerco alla svelta qualcosa per alleggerire la tensione. «Il puledrino come sta?» alza il viso e vedo il suo sorriso allargarsi. «È una peste tremenda, sai? Ho dovuto elettrificare la recinzione perché è scappato in ogni modo possibile e immaginabile.» Sorrido anch’io, pensando a quant’era carino il piccolino a due, poi venti poi quaranta giorni. Ora è un po’ che non lo vedo. Sembra che Max mi legga nel pensiero perché mi propone: «Ti va di fare due i fino a là?» indica un punto boscoso oltre il torrente che taglia a metà la sua proprietà. «Così vedi com’è cresciuto.» Do un’occhiata veloce, ma significativa all’orologio e dico: «Facciamo domani o dopo? Oggi è tardi e...» «Facciamo domani allora non preoccuparti» si alza dalla panca. «Vado a controllare il mio valido uomo di scuderia.» Rido, so che è una battuta. Non ha nessun uomo di scuderia, solo un ragazzo che gli rifà i box per pochi soldi. «A domani allora, e grazie per il tè.» Mi allontano. Mi volto ancora un secondo, in tempo per vedere Max entrare in scuderia, le spalle un po’ chine, il solito berretto in testa. Per un attimo provo l’impulso di richiamarlo e dirgli “andiamo a vedere il puledro, dài”. Ma sarebbe il gesto di una me che non esiste più. Richiamo Shad, la sello nuovamente e ci dirigiamo al piccolo trotto verso l’eremo.

3.

L’eremo è un posto felice. Quando mi telefona mia mamma, immancabilmente mi domanda: «Ma non ti senti sola?» E forse sono ore che non parlo o almeno che non parlo con qualcuno che mi possa rispondere, ma la mia risposta alla mia preoccupata genitrice è “no”. Ogni volta sono assolutamente, completamente, totalmente, sincera. Una volta, scherzando, le ho detto che di notte potresti sentire i sospiri della tua anima. Questa battuta decisamente infausta mi ha fatto guadagnare un’occhiata preoccupata e terrorizzata a un tempo. Ma non in estate. Con i primi caldi, nel week-end in particolare, il silenzio e la pace sono turbate dai turisti e dai villeggianti. Così le rive del torrente diventano una versione homemade di Rimini. Quest’anno sono preparata. Ho dipinto cartelli proprietà privata, vietato l’accesso e attenti al cane e li ho disseminati un

po’ ovunque. Non servono a un bel niente. Quindi ho preso l’abitudine di chiudere i cancelli nel finesettimana. Non serve a molto neanche questo perché non si tratta di cancelli alti. Anzi non sono veri e propri cancelli. Sono staccionate imbiancate che delimitano i confini della mia proprietà. Inizia a farsi strada in me una certa rassegnazione. È per questo motivo che non alzo la testa quando Mac inizia ad abbaiare, seguito a ruota da Desde. Otello e io stiamo schiacciando un pisolino. Lui, nella sua cesta, io sull’amaca. Saranno forse le tre del pomeriggio di sabato. Ho ato la mattina a ripulire casa da cima (beh, non esattamente non ho messo mano alla soffitta) fino al fondo, ovvero lo studio. Ho la schiena a pezzi ma sono terribilmente fiera del mio risultato. È un’abitudine inculcatami da mia madre quella di pulire e riordinare di sabato. Diciamo almeno di sabato. Dopo la sfacchinata mi merito un po’ di riposo. Spero vivamente che l’intruso o gli intrusi abbiano paura dei cani e ci lascino in pace. Invece niente. Il concerto di latrati prosegue fino al portico e una voce maschile dice “ciao”. Continuo a tenere gli occhi chiusi: «Ciao. Il maneggio è più in basso sulla strada. No, non faccio eggiate. No, non potete vedere i cavalli. Ciao.» Sono odiosa. Mi ci impegno anche. Aspetto alcuni secondi, certa di sentire i i allontanarsi. «Ciao Otello.» Ecco, questa è una cosa che di solito non succede. Cerco di associare nella mia testa un volto alla voce. Per essere pronta. Per sapere cosa dire e cosa fare. Ma non trovo corrispondenza nei miei ricordi. Apro gli occhi e vedo Lello fare le feste a... non ci posso credere. Butto giù i piedi dall’amaca e resto a guardare Tommaso giocare con i miei cani. Forse è la sorpresa, ma non mi sento minacciata o in ansia, come invece mi sarei aspettata. Resto in silenzio, però, perché non ho molte parole. Anzi per la verità, non ne ho nessuna. Si volta e mi inchioda con quel sorriso obliquo che ricordo bene: «Sorpresa!» Gli sorrido di rimando, ma nervosamente stringo le mani fra di loro. «Molto sorpresa, lo ammetto. Cosa ti porta da queste parti?» Involontariamente il mio tono assume una colorazione leggermente ostile del tipo “cosa vuoi?”. Devo dire che se anche coglie la nota poco amichevole, ci a sopra con delicatezza: «Curiosità. L’altro giorno Elena raccontava di qui e così ho pensato di fare un giro.» Inarco un sopracciglio: è vero che da Milano ci sono poco più di sessanta chilometri ed è vero che a parte l’ultimo tratto la strada è facile e larga e piacevole. Questo spiega in effetti il perché degli assalti di orde di turisti. Ma nonostante tutto, la curiosità non mi sembra un motivo sufficiente per lasciare il maneggio, le lezioni e il resto. Di sabato pomeriggio, oltretutto. Tommaso è stato il mio ultimo istruttore di equitazione. Ho imparato molto da lui, gli devo molto. E lo conosco abbastanza bene da sapere che non ha fatto la strada per niente. Sotto il mio

sguardo interlocutorio, ride piano e aggiunge: «Ok, non sono venuto qui solo per fare un giro. Ma prima di parlarne, perché non mi mostri l’eremo?» Si corregge subito: «Scusa, la casa e il resto...» È imbarazzato, ma gli vengo in aiuto. «Non ti preoccupare: eremo è un’ottima definizione.» Sono combattuta tra il desiderio di sapere a cosa miri e la rabbia di essere stata stanata. Di essere obbligata a are delle ore con una persona che mi conosce. Ma so di non aver scelta a meno di non essere terribilmente maleducata e io non ne sono capace. «Vieni. Ti va di bere qualcosa?» Mi segue su per i gradini che dall’ingresso portano al primo piano. Non l’ho fatto entrare in studio, ho solo indicato la porta chiusa dicendo: «Lì è dove lavoro.» La prima porta è il soggiorno con cucina a vista. «Accomodati, un caffè allora?» e nel dirlo accendo la macchina. La stanza è ampia e ha una vetrata ad angolo sulla destra che dà sui paddock e sui prati che digradano lievi fino al torrente. Vedo che apprezza la vista e inizio a spiegare. «Al piano terra il casolare è stato diviso a metà: da una parte ho tenuto e ristrutturato una fila di box e dall’altra, la parte da cui siamo entrati, ho fatto alcune modifiche. Ho eliminato i box e ho creato l’ingresso, lo studio e la scala a chiocciola che abbiamo appena fatto. Invece il primo piano è la mia abitazione e sopra c’è la soffitta.» A ben pensarci, è una fortuna che sia capitato qui oggi. Solo poche ore fa, avrebbe inciampato in giornali vecchi e giochi per cani. Si guarda intorno con interesse, ammira il camino che domina la stanza e si lascia cadere su un divano. Vedo i suoi occhi indugiare sull’ingrandimento in bianco e nero che campeggia sul camino. Fingo di non aver notato il suo interesse. Non voglio raccontargli del giorno in cui ho fatto quella foto. Sono ricordi personali. Dico solo: «L’ho fatta io. Questo posto era così quando l’ho comprato. Un bel cambiamento, no?» Tengo ostinatamente gli occhi fissi sulla macchinetta del caffè, perché non veda le emozioni che so trasparire dai miei occhi. Il caffè è pronto e lui mi raggiunge al bancone della cucina. Lo studio, con la tazzina in mano e gli occhi neri che vagano per la stanza e si posano su di me. È un bell’uomo, capelli corti e occhi neri. Lo ha sempre saputo. Siamo stati amici in ato e forse in alcuni momenti avremmo potuto essere anche qualcosa di più. Ma non è mai stato il momento giusto, credo. E poi, ero la migliore amica di Elena, la fidanzata di suo fratello Roberto. Questo ha sempre tracciato una linea sottile, ma stranamente invalicabile. Come far parte della squadra avversaria. E, comunque, all’epoca, eravamo entrambi impegnati. Questo mi fa venire in mente qualcosa: «A casa tutto bene? I tuoi? Martina?» Sembra riscuotersi da chissà quale pensiero: «Tutti bene. Elena e Robi ti salutano. Martina... ci siamo lasciati diversi mesi fa.» «Mi dispiace. Cioè voglio dire...» mi impappino con le parole, ma lui sorride: «Non

preoccuparti. Sono single, sì, ma devo dire che non mi dispiace affatto. Anzi è abbastanza divertente.» Faccio un sorriso di circostanza e penso: “Idiota”. Terminiamo il giro della casa e poi gli mostro la scuderia, con i suoi quattro box, vuoti per tutta l’estate. Insiste per vedere i cavalli e si fa prestare un paio di stivali di gomma per entrare nel paddock. Riconosce Valrob e naturalmente s’innamora di Shad. «Bella cavalla davvero. Salta?» I suoi occhi hanno un luccichio che non mi piace. «Salticchia. Ha potenzialità, penso. Ed è bella no?» Mi guarda pensieroso: «Scommetto che non ci pensi proprio a venderla.» «Assolutamente. No. Non se ne parla.» Si siede sulla cavallerizza mentre la giovane cavalla si esibisce in un meraviglioso trotto fino oltre la capannina. «Ovviamente la venderei bene. Voglio dire, ne vale di soldi.» Sospiro. «Non voglio insistere, ma potresti pensarci no?» «Potrei, ma non vedo perché dovrei. L’ho comprata appena domata. Tutto quello che sa fare gliel’ho insegnato io.» Non aggiungo che è parte di me, di questo posto. Non sono cose che un cavaliere possa capire. «Ma ha un valore no? Se la vendi. Mentre se la tieni qui...» I suoi occhi indugiano pensierosi sul rustico che sorge oltre i paddock al limitare del bosco. È il confine orientale della mia proprietà. So bene a cosa pensa. Con i soldi della cavalla potrei ristrutturarlo e magari venderlo oppure... taglio corto: «Shady non è in vendita. Tutto qui.» «Per certi versi, sei sempre la stessa» e so che pensa che invece per molti altri sono terribilmente cambiata. Il suo sguardo mi mette a disagio, sembra fare delle domande a cui non intendo rispondere. Per esempio, cosa ci fa la più giovane designer di un importantissimo studio di Milano, con una brillante carriera di fronte a sé, a disegnare tazzine e a spalare letame? Sposto il fuoco in campo nemico e gli punto addosso gli occhi. Si muove a disagio sulla cavallerizza, ma non accenna a intraprendere il discorso e a svelarmi così il vero motivo di questa visita. Si limita a sostenere il mio sguardo con insolita intensità. A ben pensarci la situazione potrebbe essere discretamente imbarazzante. Lui e io, qui da soli. Prima che questo pensiero ramingo si cristallizzi in certezza, distoglie lo sguardo e si schiarisce la voce. «C’è una mia cliente» fa una pausa e non posso impedirmi di pensare che forse non è solo una cliente «che ha un cavallo.» «Logicamente» osservo. Ride brevemente. «Il fatto è che le ho fatto provare un cavallo, un buon cavallo da salto.» Annuisco come se capissi, mentre in realtà non vedo io cosa c’entri. «Le piace e vorrebbe comprarlo. Ma prima...» altra pausa. Non possiamo arrivare al punto?, mi chiedo. Mi agito con evidente insofferenza sulla cavallerizza. Ho ato due ore con lui in giro per la mia proprietà. Ho sostenuto una conversazione urbana, ho sorriso. Non sono più abituata a mostrarmi gentile e socievole. Saranno mesi che non uso così tante parole. Le mie conversazioni più lunghe sono con Max, del Granaio. Venti minuti al massimo. E questo è

esattamente il motivo per cui ho scelto l’eremo. Prende un sospiro profondo e termina: «Vorrebbe trovare un buon posto per il suo cavallo. Dico quello anziano. Ho chiesto un po’ in giro, ma sembra che non ci sia disponibilità immediata. Quindi quando Elena mi ha parlato di qui, io ho pensato...» «Hai pensato che potevo essere la soluzione al tuo problema. E sei venuto a fare un bel sopralluogo.» Alza le mani, i palmi rivolti verso di me, come se volesse difendersi. «Detto così sembra un po’...» Lo interrompo subito: «No, va bene. Voglio dire, ci hai provato. E sarebbe una buona idea se solo... a me non interessa. Mi dispiace. Non voglio gente qui intorno.» «Non devi decidere subito, è ovvio. Pensaci magari.» Poi mi sorride e mi guarda dritto negli occhi: «Pagherebbe una pensione, naturalmente. Non moltissimo, ma qualcosa.» La comprensione che leggo nei suoi occhi mi irrita. Non avrà controllato anche il mio conto in banca, vero? «Posso pensarci, ma non credo che cambierò idea. Come ti ho detto, non voglio avere gente intorno.» «È un bel cavallo. Olandese, bei movimenti. Ti piacerebbe.» Poi cambia repentinamente argomento: «Valrob si gode la sua bella pensione, vero? Stanno fuori tutto l’anno?» «No. D’estate restano fuori giorno e notte, mentre in inverno li lascio al paddock di giorno e li ritiro di notte. Anche se...» «Anche se cosa?» «Anche se quest’anno, visto che la puledra è montabile... non so cosa fare.» Rimaniamo in silenzio alcuni secondi. Poi aggiungo: «Forse Max lo terrebbe.» Al suo sguardo interrogativo spiego: «Giù al maneggio. Ci sei ato davanti venendo qui. Max è il proprietario. Se vuoi, ti ci accompagno.»

4.

Prendiamo la mia jeep. Io di solito vado al Granaio a cavallo, quindi mi limito a seguire i cartelli, come una turista qualunque. Sono stranamente cosciente della presenza dell’uomo al mio fianco. L’abitacolo è spazioso e profuma di cavalli, di fieno e di sole. Mi sembra d’altro canto che i familiari odori di sempre siano sovrastati dal suo profumo di uomo. Gli lancio un’occhiata in tralice. Non sta guardando fuori dal finestrino come pensavo; i suoi occhi sono stranamente puntati sulla mia mano destra appoggiata sul cambio. È abbronzata e sicura sul dorso. Non può vedere, lui, i calli sul palmo e le unghie rotte. «Tutto bene?» chiedo. «Sì, tutto ok. Stavo ammirando il paesaggio.» Alzo lo sguardo e sorrido. Chissà perché non mi ha detto la verità. Fermo l’auto e scendiamo. Il parcheggio

è praticamente al completo, ma non me ne stupisco, è sabato. Ci sono bambini, ragazzi, coppie e famiglie. Faccio fatica a riconoscere in questo posto affollato, il maneggio silenzioso e pacifico che frequento durante la settimana. Giriamo per i campi e le scuderie fino a che non intravedo il berretto di Max. Attiro la sua attenzione e sorride nel riconoscermi. Leggo una certa perplessità nel vedermi fuori dall’eremo di sabato, ma è certamente troppo gentile per farmelo notare. Si avvicina e mi chiede: «Tutto bene? Come posso esserti utile?» Gli indico Tommaso, che è rimasto un o indietro, alle mie spalle: «Veramente non a me. Lui è Tommaso, il mio istruttore. Te ne ho parlato.» Allunga la mano destra e dice: «Piacere, Max. Ale parla molto bene di te.» «È un piacere anche per me.» Sarà la mia immaginazione, ma c’è una certa tensione nell’aria. Se non fosse assurdo per due persone che si sono appena conosciute, direi che si tratta di ostilità. Si avvicina una coppia: lei ha un paio di pantaloni corti e i tacchi, lui la giacca da motociclista. «Mi scusi, volevamo delle informazioni e ci hanno detto di chiedere a lei» dice l’uomo. Intervengo: «Max, mostro a Tommaso i paddock, così intanto tu puoi...» Mi sorride riconoscente: «Grazie. Allora ci vediamo fra un po’. Se volete bere qualcosa, Ale sai dove servirti.» E mi fa l’occhiolino. Leggermente fuori luogo, ma non ci bado troppo. «Vieni Tommi, ti faccio strada.» Ci allontaniamo e allungo un braccio, indicando il sentiero che scende nei boschi. «Scendendo per di lì si arriva a casa mia. Sono sì e no dieci minuti di strada.» «Siete vicinissimi» osserva Tommaso. «Sì, molto comodo. Mi fa usare i suoi campi quando voglio e ogni tanto mi fa fare due salti.» «Gentile da parte sua. D’altra parte...» mi lancia un’occhiata maliziosa. «D’altra parte cosa?» rilancio, punta sul vivo. «D’altra parte si vede che ha un debole per te...» «Non credo proprio. Siamo semplici conoscenti. Niente di più.» Inarca un sopracciglio. Colgo la sua espressione poco convinta e insisto: «Non è affatto come pensi. Ma è inutile che cerchi di spiegartelo. Non capiresti.» Il silenzio che segue è greve di significati. Mi pento di aver insinuato che lui non abbia idea di cosa sia l’amicizia. Voglio dire, come mi permetto io di giudicare? Io che vivo in un eremo e parlo per lo più con cani e cavalli. E poi che ne so io di Tommaso, della sua vita o di Max e dei suoi sentimenti? «Mi dispiace, io...» farfuglio piano. Mi sorride e, stringendomi leggermente una spalla, osserva: «Ne ha di spazio qui» annuisco e continua: «E giudicando dal pienone che ha lì, gli affari non devono andare poi male.» Capisco che mi sta offrendo l’opportunità di cambiare argomento e accetto: «Credo che il maneggio vada bene. Certo, lavora per lo più in estate. In inverno ha qualche cliente e un po’ di scuola» mi viene da ridere «e poi forse può iniziare a tenere cavalli in pensione, no?» Torniamo sui nostri i, lentamente. «Com’è arrivato lui qui?» mi domanda. Sospiro: «Ci è nato» poi aggiungo: «Non so bene tutta la storia, comunque la proprietà è della sua

famiglia. Max ha studiato a Milano e ci ha vissuto anche per diverso tempo. Non so molto» insisto su questo punto, inconsciamente. «Comunque quando il suo matrimonio è finito, è tornato qui e ha messo in piedi il maneggio.» «Sembra una brava persona» commenta lui, forse pentito dello screzio di poco prima. «Lo è» affermo. Non do ulteriori spiegazioni, ma penso a tutti i momenti in cui è stato gentile e premuroso con me, anche quando sono di pessimo umore. Ok, questo succede l’ottanta per cento del tempo. Ma si preoccupa sempre se non mi vede per qualche giorno e spesso mi porta le verdure fresche dal suo orto. È amichevole e cordiale e... «Hai preso da lui la palomina?» la sua domanda mi distoglie dalle mie elucubrazioni. «Io... no, Dream l’ho adottata per caso.» «Adottata?» «Sì, beh... ti ho mai parlato di un mio zio che fa reining?» scrolla le spalle. «Non importa. Una sua conoscente ha deciso di smettere e non riusciva a vendere la cavalla. Sai, non è molto dotata per il reining. Quindi l’ho presa io.» «È carina.» «Molto. Beh, con lei faccio eggiate e poco altro.» «E l’altra?» formula la domanda con indifferenza, ma qualcosa nello sguardo che mi rivolge mi fa capire che gli interessa. «Shady? Non l’ho presa da Max. Conoscevo la madre.» Un nuovo silenzio. Non so perché ma sono reticente a svelargli come, dove e quando. Non che ci sia granché da nascondere. Solo che il suo manifesto interesse mi turba. Anche se so che nessuna delle sue argomentazioni mi convincerà mai a venderla. Ci salva dal nuovo gelo che sta cadendo fra di noi l’arrivo di Max. Il suo berretto ci viene incontro e la sua voce è allegra e amichevole mentre mi domanda: «Sei andata a vedere la piccola peste?» si riferisce al puledro, al primo puledrino che ha fatto nascere qui. Ne è giustamente orgoglioso e io, tutta presa dalle mie schermaglie con Tommaso, me ne sono completamente dimenticata. Sono terribilmente egoista, mi rendo conto. Gli rivolgo un sorriso vago e cambio argomento: «Non vogliamo farti perdere tempo, c’è un sacco di lavoro che ti aspetta là.» «Il fatto è» interviene Tommaso «che sto cercando un posto che tenga in pensione un cavallo a prato.» Che diplomazia, penso. Max mi guarda e aggiungo: «Sai, voleva che lo tenessi io, ma...» «Non ti preoccupare, lo posso tenere io.» «A quanto pensavi di pensione?» chiede Tommaso. «Lo vuole in box tutte le notti? Centocinquanta. Se invece vuole che lo lasci sempre a paddock farei cento.» Devo dire che questi cavalieri fanno affari rapidamente. Ed è un bene. Ripenso con desiderio alla mia amaca. I due mi precedono, accordandosi per tutti gli aspetti pratici.

5.

Saliamo in auto. Tommaso sembra soddisfatto della sistemazione per il cavallo della sua cliente. Già, cliente, come no. «Ti offro una pizza?» mi chiede. Guardo l’ora sul cruscotto. Effettivamente sono già le sette ate. Il pomeriggio è proprio volato. Il mio pomeriggio di relax. Sarà da egoisti, ma non posso fare a meno di rimpiangerlo. Cerco una buona scusa per rifiutare la pizza, ma non mi viene in mente niente. Mi rassegno: «Se ti va possiamo cenare da me. Ho delle bistecche e posso fare due spaghetti. Sai qui intorno non c’è molto. Almeno non fino a giù.» E per “giù” intendo in paese. «Mi sembra un’ottima idea.» Sospiro. Almeno gioco in casa. Parcheggio e scendiamo dall’auto. I cani ci riempiono di feste e baci volanti. «Perché non ti fermi qui un po’?» gli indico il portico: c’è un tavolo con delle sedie e sull’angolo la mia amata amaca. «Io intanto avvio la cena.» Salgo le scale di corsa, metto in frigorifero una bottiglia di vino che mi ha portato mia mamma l’ultima volta che è stata qui. Mi ricordo che mi ha detto che ne ordina a casse insieme all’olio e non so a che altro. Spero che sia buono. Apro, poi, la dispensa e decido il menu. Bruschette con il pomodoro, spaghetti sempre al pomodoro e due bistecche, con l’insalata. Mentre lavo i pomodori, mi viene da ridere: me li ha lasciati Max l’altro giorno, appesi alla cassetta della posta. E anche l’insalata. Ripenso all’occhiolino che mi ha fatto anche nel salutarci. Come se volesse far intendere che non siamo solo buoni vicini. Forse Tommaso non ha proprio tutti i torti. Scaldo il forno, affetto il pane, metto su l’acqua per la pasta. Scendo con la tovaglia, i piatti, i bicchieri e le posate in precario equilibrio. «Ti va di mangiare sotto il portico?» gli chiedo. Sta ancora giocando con i cani. Lancia una pallina a Mac e Desde gli sta seduta in braccio, godendosi le coccole. «È perfetto, posso darti una mano?» Lo fermo, prima che possa alzarsi. «Stai pure qui con loro, è tutto sotto controllo.» Il cielo si sta tingendo di rosso e si è alzato un venticello fresco. Una serata magnifica, penso. In breve la cena è servita. Accendo la luce sotto il portico e iniziamo a mangiare. Non sono una gran cuoca e in questo ultimo anno poi ho cucinato raramente. Eppure Tommaso sembra gradire la cena improvvisata e mangia con appetito. Parliamo dei vecchi tempi, delle nostre conoscenze in comune. Ridiamo di episodi ati e il vino fresco rende l’atmosfera rilassata e priva delle tensioni che hanno il pomeriggio. «Ho mangiato tantissimo. Tutto buono, davvero» si appoggia allo schienale e mi guarda intensamente dall’altra parte del tavolo. «Grazie, ma non ci vuole un genio per fare un po’ di pasta e...» «E così siamo qui. Devo dire, non mi aspettavo un posto così bello. Inizio a capire il perché di questa svolta.» Il fatto che si avvicini a considerazioni così personali mi mette a disagio. Mi agito sulla seggiola e non rispondo. «Anche se» riprende

«so benissimo che ci sono delle motivazioni profonde. Mi chiedo solo se non ti senti sola qui.» Scuoto la testa: «No, perché dovrei? Sto bene, sono... serena.» «Non ti mancano mai i vecchi tempi? Gli amici, Elena?» Non ho risposte a queste domande, quantomeno non risposte facili. E per la verità non mi va di parlarne. Frugo nella mente alla ricerca di una buona battuta per alleggerire l’atmosfera e distoglierlo da argomenti seri, ma non mi viene niente. «Non mi va di parlarne, ok?» e mi alzo raccogliendo piatti e posate. Si alza anche lui, “ti do una mano”, e come in un film di bassa lega le nostre mani si incontrano sopra lo stesso bicchiere. Rimaniamo alcuni secondi così, la mano di lui stretta sulla mia. Tengo gli occhi bassi. È una situazione che non sono pronta ad affrontare. Avverto il calore della sua pelle sulla mia. Lo avverto profondamente e sembra farmi male. Forse intuisce il mio disagio. «È meglio che vada» dice. «Sì è meglio. Io... voglio dire... vai piano ok?» «Certo, grazie di tutto sei stata preziosa. Ci sentiamo, d’accordo?» «D’accordo.» E rimango a guardarlo allontanarsi nel buio, circondato dai miei cani che lo accompagnano fino all’auto. Mi chiedo come abbia capito il panico che mi ha sommerso. Mi chiedo quando guarirò. E non ho risposte, mi rimangono solo piatti da lavare.

6.

Ogni nuovo giorno all’eremo è un nuovo inizio. Almeno questa è la sensazione quando mi sveglio al mattino e guardo fuori dalla finestra. L’erba è più verde di ieri, il cielo più azzurro, io sono più viva. E per una sorta di reazione alla visita di Tommaso, al carico di ricordi e di dubbi e di incertezze che ha lasciato qui, tutto mi sembra più bello. E più mio. Così salto fuori dal letto anche stamattina di buon’ora e do il fieno ai cavalli. Mac mi segue tutto impettito, mentre Otello rimane sul portico. Ormai mi segue sempre meno. Mi aspetta a casa. Desde, invece, ha paura degli equini e non si azzarda a entrare nei paddock. Stamattina addirittura canticchio, armata di forca e carriola mentre ripulisco la capannina. I cani mi seguono fino alla soglia di casa e poi corrono a giocare. Io invece salgo a fare colazione e mi vesto. Scelgo anche oggi un paio di calzoni da monta inglese e una maglietta dal mucchio delle cose da stirare. Che più propriamente è il mucchio delle robe che ho lavato e non stirerò mai. Sento una fitta di senso di colpa nel pensare al lavoro che lascio in arretrato, ma in realtà non mi sento... ispirata. Essere free lance, cerco di autoconvincermi, significa lavorare secondo i

propri ritmi. Il mio ritmo oggi è far fare due salti alla mia puledra. Sono certa che sarà un’esperienza che darà nuovo slancio alla mia creatività. Sull’onda di questi ragionamenti, pulisco e sello Shady e imbocco la strada più breve per Il Granaio. Non vedo Max da quando sono stata in maneggio con Tommaso. Ieri ho montato nel suo campo scoperto, ma di lui nessuna traccia. Se non fosse Max, penserei che mi evita. Non solo, però, non è un comportamento che gli si addica, ma oltretutto non ne vedo nemmeno il motivo. In fondo gli ho procurato un nuovo cliente. La cavalla cammina con il suo consueto o elastico. Anche Valrob era così, quando era ancora in attività. È stato un ottimo amico per tanti anni, così serio, affettuoso, affidabile. Ero una ragazzina con poco buonsenso, quando l’ho comprato. Ma Tommaso mi aveva detto che era un buon cavallo per imparare e così è stato. È a quell’epoca che Elena è diventata la mia migliore amica. Eravamo inseparabili e se non ci confidavamo tutto era perché non era necessario: capivamo l’altra istintivamente, condividevamo i pensieri come se fossimo state in simbiosi. Tutta colpa di Tommaso e delle sue domande inopportune, però. Se non fosse per lui, ora non rimuginerei sul ato come una nonna. Varco il cancello sempre aperto del maneggio ed entro nel campo ostacoli. Scaldo Shady con un po’ di trotto e un po’ di galoppo alle due mani, guardandomi in giro nella speranza di vedere il berretto di Max. Poco dopo lo vedo sbucare dalla clubhouse con il cellulare all’orecchio. Gli faccio un cenno con una mano e lui mi risponde di rimando, avvicinandosi. È intento ad ascoltare e si appoggia alla cavallerizza con fare distratto. eggio per il campo, in attesa che riattacchi. Mi fa cenno di avvicinarmi: «Sì, guarda è proprio qui, se vuoi te la o» pausa di silenzio «ok te la saluto. D’accordo, ciao.» Si rivolge a me: «In attività di buon mattino, eh?» «Già, stamattina mi sono alzata presto e speravo che avessi dieci minuti per farmi fare due saltini con la ragazza» e do una pacca sul bel collo di Shad. «Volentieri» e scavalca la staccionata. Mette una crocetta, poi un verticale e alza gradualmente. La cavalla salta con entusiasmo, forse anche troppo. Quando inquadra il salto, mi prende la mano e accelera verso il salto. Ancora una volta, mi ritrovo a pensare che ha davvero del talento. Poco sopra il metro, dico a Max che va bene così. Trottiamo a redini lunghe per riprendere fiato e poi, aiutata da Max, la dissello e la libero in un paddock vuoto. «Andiamo a vedere il puledro?» mi chiede. Non posso esimermi. Camminiamo a fianco, in silenzio. «Cosa ne pensi di Shad?» «È migliorata» osserva «ma se vuoi un consiglio» fa una pausa «io la farei saltare più spesso.» «Hai ragione, la devo lavorare con più costanza» pausa «infatti pensavo di chiederti un box per questo inverno.» «È un’idea» poi sospira «a meno che tu non la venda prima.» «Non ho

nessuna intenzione di venderla. Cosa te lo fa pensare?» «Beh la visita del tuo istruttore.» «Ha chiesto anche a te della cavalla?» «Già. Per questo ho pensato...» «Non è così.» Rimaniamo in silenzio. Dopo qualche minuto, apre un cancelletto ed entriamo in un paddock. Il puledro ci galoppa incontro. La mamma nitrisce forte, richiamandolo indietro. Rimaniamo seduti a guardare il piccolo correre e giocare. «È bellissimo» dico. «Vero?» e aggiunge «scusa, non sono affari miei.» «No scusa tu. Tu sei così gentile e io sempre scorbutica.» «Ma non sempre» ride «spesso ma non sempre.» «Devo essere una vicina insopportabile.» Mi guarda negli occhi: «Difficile. Solo difficile. Ma questo non è necessariamente un difetto.» L’intensità del suo sguardo mi mette a disagio. Ripenso alle osservazioni di Tommaso e, troppo tardi, mi rendo conto che aveva ragione. «Lo conosci da molto?» mi domanda a bruciapelo. «Tommaso? Beh sì» mi guarda, aspettandosi ulteriori dettagli, così continuo «montavo con lui da ragazzina. Quando ho comprato Valrob. Poi ha litigato con suo padre, ha affittato dei box non so dove e se n’è andato. Quando suo padre ha comprato un centro in Sardegna e si è trasferito là, la pecorella è tornata all’ovile. Questo è successo un paio d’anni fa.» «Sembravate... come dire, in confidenza.» Bravo, Max, bel tentativo. Riprova e sarai più fortunato. «Oddio è tardissimo» esclamo «devo scappare» e con un sorriso, salto giù dalla cavallerizza e mi allontano sulla stradina. In fondo, mi giro a fargli ciao con la mano. Si tocca la visiera del berretto in risposta.

7.

Affondo lentamente. Ho spento la televisione. Dalle vetrate entra la luce del crepuscolo. Dorata, poi rossa e infine tendente al viola. L’abbraccio del divano è rassicurante, pieno, insostituibile. La mente vuota gode soltanto della pace, del silenzio, del profilo delle montagne in lontananza. Mi nutro della magia dell’eremo, che guarisce le ferite dell’anima. Non ho bisogno di guardarmi intorno per vedere la stanza baciata dal sole morente. La conosco a memoria, con la familiarità dell’amore. La cucina, i mobili vecchi e robusti in legno, il camino, la libreria. Tutto ciò che ho scelto con dedizione. I segni della mia vita quotidiana sono sparsi ovunque: le riviste sul tavolino accanto alla tivù, una felpa abbandonata sulla poltrona, i piatti nel lavandino, un paio di scarpe scalciate sul tappeto. Come calamitati, i miei occhi si soffermano sulla foto in

bianco e nero sopra il camino. Ho scelto dopo lunghi tentennamenti una cornice in noce, semplicissima, che fa il paio con la semplicità della scena ritratta. Chiudo gli occhi. Non vedo più la foto, ma la scena reale. Il ricordo di quel giorno è ancora vivo in me, a colori. Faceva un freddo ineguagliabile. Avevo vagato in macchina per ore e ore a caccia di un’infanzia felice che, pensavo, avrebbe dovuto lasciare un segno sulla terra, sulle piante, sulle case, sui volti delle persone, sui fianchi delle montagne. Poi mi ero arresa. Avevo accostato in un punto imprecisato e imprecisabile in quella distesa bianca ed ero rimasta lì, immobile, la testa sul volante. Dentro di me, lottava per emergere la consapevolezza che il ato è ato e tale purtroppo rimane. Ma non ero pronta a dargliela vinta. Quando il freddo aveva iniziato ad aggredirmi, mi ero riscossa e, raddrizzandomi, avevo fatto per accendere l’auto e in quel momento avevo scorto qualcosa interrompere la bianca monotonia delle neve. Così, incuriosita, avevo camminato e camminato, le mie scarpe da ginnastica sul ghiaccio e le dita doloranti dal freddo, fino al casolare. Visto da vicino non era un bello spettacolo: il portico sfondato, il tetto pericolante e l’aria di generale abbandono avrebbero scoraggiato chiunque. Mi ero fatta strada nella neve lungo tutto il perimetro, avevo accarezzato le pietre. Ero rimasta lì, seduta sulle assi marce del portico, la schiena appoggiata al muro a guardare gli alberi carichi di neve e il rustico diroccato poco oltre. Credo di aver immediatamente sentito un’affinità con quel posto, dimenticato, abbandonato. Ho desiderato di esserne parte, di ricostruirlo. Tornavo a i lenti verso l’auto quando questo pensiero è diventato certezza nella mente. Così dal bagagliaio ho tratto la fotocamera da cui mi separo di rado e sono tornata indietro. Ho fatto diversi scatti e sono tornata sui miei i con una nuova, bruciante determinazione. Ho dato fondo ai miei risparmi e alla mia eredità per comprare, ma soprattutto ristrutturare questo posto. Eppure nel rimetterlo in piedi, io più che altro ho ricostruito me stessa. Desde con un balzo salta sul divano e mi si accoccola contro. Dopo pochi secondi dorme pacifica e il suo respiro calmo contro di me è consolatorio e rasserenante. Rimaniamo così, per non so quanto tempo, mentre il buio invade la stanza. Riemergo a fatica dal sonno. Ho il viso bagnato di lacrime e rabbrividisco leggermente dal freddo. Mi alzo e senza accendere la luce mi dirigo in camera da letto. I cani mi seguono e ognuno trova la sua posizione. Nel buio, rievoco il sogno. Non ricordo le parole, ma il tono sì. Allegro, pieno di speranza. Il sorriso

di mio padre è perfino più familiare di come lo ricordo da sveglia. Nel sogno, so perfettamente che siamo qui, insieme e felici. Mi succede spesso di sognarlo e ogni volta rimango turbata e commossa. Ma so che sto guarendo. Lo so perché di recente al risveglio non avverto più quel senso di smarrimento. Quella voglia di riaddormentarmi per rivederlo. Quel desiderio di non svegliarmi più. Quando mi sveglio, ora, so di essere a casa. Dopo poco, avvolta nel lenzuolo, mi addormento. Serena.

8.

È una giornata soleggiata e insolitamente calda, nonostante siano solo le otto e trenta del mattino. Sello la palomina e chiamo con un fischio i cani. Mac e Desde sbucano da luoghi diversi: il maschio mi trotterella incontro con calma, il bel pelo nero lucido nella luce mattutina. La piccolina, invece, corre con le orecchie al vento e il morbido pelo lungo svolazzante. Anche Otello, a sorpresa, abbandona la sua postazione sotto il portico e si accoda al piccolo gruppo dei gitanti. Ci allontaniamo al o lungo il sentiero, la cavalla davanti e i tre cani dietro. Otello eggia tranquillo dietro i piedi della cavalla, mentre gli altri due corrono a destra e a sinistra. Si infrattano nei cespugli a caccia di prede di ogni genere, da un legnetto particolarmente attraente agli uccellini che nidificano qui e là e che di certo non hanno alcuna intenzione di farsi catturare dai miei due segugi. Il sentiero si inerpica sul fianco della montagna. L’aria diventa più pura e profumata. I prati cedono il o ai boschi e la cavalla pone più attenzione a dove mette i piedi, per non inciampare nelle radici che si possono nascondere sotto il letto di foglie. I miei pensieri sono freschi come l’aria di montagna. Non ho bisogno di preoccuparmi di cosa mi aspetta domani o dopo o tra una settimana. La mia vita scorre placida e confortante, ripetitiva e rassicurante. Quindi gli unici dettagli che occupano la mia mente sono il prossimo ordine di fieno e la telefonata settimanale a mia mamma. Mi sembra così lontana la mia vecchia vita a Milano. I ritmi forsennati, il tempo sempre insufficiente. I colori, gli odori, la frenesia di un’esistenza vissuta a o di corsa. Per questo limito il più possibile le mie visite in città, sia per motivi di lavoro che per esigenze familiari. La cavalla in alcuni punti rallenta e i cani ci superano. Tranne Otello, che pur non manifestando segni di stanchezza, si mantiene fedelmente dietro

l’equino. Il sole accarezza le cime degli alberi e raggiunge le mie braccia solo saltuariamente. I due cani davanti corrono via a razzo verso la radura che si intravede alla fine del sentiero. L’eccitazione dei due più giovani contagia anche Otello che si affianca alla cavalla e mi guarda, scodinzolando. Gli sorrido di rimando e con un gesto gli faccio capire che può andare anche lui. Mi supera, trotterellando allegro, e non posso impedirmi di notare che si muove con poca elasticità ed è probabilmente un po’ zoppo a sinistra. Sono gli acciacchi dell’età e soffoco dentro di me la preoccupazione naturale suscitata da questo pensiero. Otello è con me da quando aveva due mesi e sono ati ormai dieci anni. La nostra è un’amicizia di lungo corso. Dopo pochi secondi, riemergo dal bosco e lo vedo nuotare felice. Gioca con gli altri due come un cucciolo e mi dimentico dei pensieri di poco prima. Faccio bere e brucare un po’ Dream e poi la lego a un albero, avendo cura di lasciarle abbastanza longia perché possa abbassare la testa e mangiucchiare qui e là senza pericolo. Mi tolgo poi le scarpe e arrotolo i jeans fino alle ginocchia ed entro in acqua a giocare con i cani. Solo quando siamo fradici e stanchi, Otello e io ci sdraiamo nell’erba fresca. Spalanco le braccia al sole e lascio che i suoi raggi mi asciughino. Ho persino i capelli bagnati. Non ci sono rumori, oltre al respiro del vecchio labrador, il masticare della palomina e il canto del torrente. Sento le palpebre farsi pesanti. Mi riscuoto prima di cadere addormentata. Monto in sella e ci allontaniamo al trotto. Mac e Desde, richiamati dal rumore di zoccoli, si accodano. Il sentiero ci porta in prossimità del Granaio e faccio una breve deviazione per questioni di buon vicinato. Ieri pomeriggio ho trovato sulla soglia di casa dell’insalata, dei pomodori e delle pesche. Così mi fermo per salutare e ringraziare Max. I due cani più giovani proseguono lungo il sentiero e sono sicura che torneranno a casa, dopo aver concluso la loro caccia. La prima cosa che vedo appena varcato il cancello è un piccolo trailer bianco che ostruisce il aggio. È con pochi secondi di ritardo che il mio cervello registra i segnali e capisce cosa sta accadendo. Tommaso ha portato il cavallo pensionato della sua cliente, che deve essere quella ragazza con i jeans attillati e gli stivali con il tacco. Max agita un braccio e mi saluta e questo spezza definitivamente le mie speranze di non essere stata notata. L’impulso di defilarmi è prepotente, ma mi avvicino. La ragazza, con una sfavillante chioma rosso tinta, veste Tommaso come una borsetta e non perde occasione per rivolgergli sorrisi smaglianti. Ovviamente non posso essere obiettiva, non, almeno, quando mi vedo con i suoi

occhi. Jeans vecchi e infangati, maglietta sformata e capelli visibilmente sconvolti. Raddrizzo le spalle e sorrido. Smonto di sella e rivolgo un ciao generico, a voce e con gesto. Tommaso mi sorride e procede con le presentazioni. La rossa mi indirizza un sorrisino stiracchiato. «Siamo ati a trovarti, prima, ma non c’eri» continua Tommi «sai qualcuno è ansioso di vederti» e al mio sguardo perplesso risponde indicandomi la porta della clubhouse, da cui in quel momento sbuca una testa bionda che conosco bene. Come mi vede, Elena lancia uno strillo e mi corre incontro. Prontamente Max prende le redini di Dream. Mi stringe in un abbraccio affettuoso, la mia amica, e io sento il disagio invadere le mie braccia. Come se fossero troppo pesanti per riuscire a sollevarle e rispondere all’abbraccio. Sorrido, con sforzo, nervosa. Non posso spiegare come la sua presenza mi sembri un’intrusione nel mio mondo ovattato. È la mia migliore amica, mi ripeto, sperando che queste parole penetrino la barriera che ho innalzato fra me e il ato. «Elena, vuoi soffocarla?» a queste parole alzo gli occhi e incontro quelli di Tommi. Per un ignoto motivo, mi sembra di cogliere una scintilla di comprensione. Elena si allontana di un o e mi osserva sorridendo: «Magra, abbronzata... ma sei bellissima!» mi sento andare a fuoco. «Ti trovo bene anch’io» rispondo tiepidamente. La rossa stringe la mano sul braccio di Tommi, le unghie perfettamente curate, e osserva: «Sarà l’aria o non so cosa ma mi è venuta fame. Abbiamo visto sulla strada una trattoria molto carina...» «Non se ne parla neanche» interviene Max, strizzandomi l’occhio. Che vizio odioso, mi viene da pensare. «Siete miei ospiti, ovviamente!» La situazione mi prende la mano. Innanzitutto non ho una buona scusa per tornare a casa. Prima che io possa tentare di sottrarmi, Max ha già dissellato Dream e l’ha liberata in uno dei paddock a disposizione. Elena intanto mi rovescia addosso parole a catinelle, presente, ato e futuro mischiati in un calderone in cui è difficile districarsi. Non mi sogno nemmeno di interromperla, un po’ perché la conosco e so bene che questo sarebbe difficile, forse impossibile. E poi per dire cosa? Il ato è sepolto nella memoria e non ho nessuna intenzione di rivangarlo con lei, il futuro... non penso al futuro, c’è solo il presente.

9.

Mi cade la forchetta nel piatto. Tintinna. Prendo il piatto, la forchetta e li lancio

contro la parete. Frammenti di porcellana ovunque. E spaghetti. Spaghetti dappertutto. I cani mi guardano spaventati. E attirati. Dagli spaghetti. La mia rabbia riempie la stanza. Con la mano che trema afferro il bicchiere. Sono divisa tra il lanciarlo a far compagnia al piatto, vederlo infrangersi contro la parete, sentire il rumore dello schianto, oppure bere. L’acqua frizza, le bollicine salgono in superficie e scoppiano. Ho sete. Bevo. Un unico sorso. E poi il vetro si mischia alla porcellana sul pavimento. Mi lascio alle spalle lo sfacelo e scendo in studio. Accendo il computer, scelgo la musica e alzo il volume. Per riempire la stanza, per riempire il silenzio. Per riempire la mia testa e far tacere le voci del ato, dal ato. Stordita dalla musica, dalla rabbia, dal dolore, dalla confusione di un’esistenza che era mia fino a questo pomeriggio. Lavoro nel buio, con la frenesia di chi ha bisogno di riappropriarsi della propria identità. Il tempo scorre senza che ne sia consapevole. Sono le tre quando il mio cervello registra una serie di rumori anomali. Le unghie dei cani sul pavimento in legno sopra la mia testa, i loro abbai e i loro uggiolii. Spengo la musica. Salgo la scala di corsa. Appena apro la porta del corridoio, mi travolgono scendendo al pianterreno. Scodinzolano davanti alla porta d’ingresso. Qualcosa non va. Accendo la luce sul portico, usciamo tutti e quattro. C’è una macchina. Diluvia. Una persona dentro. Mi avvicino. Picchio sul finestrino. Niente. La pioggia mi cola in bocca. Apro la portiera.

Parte 2

Andante

10.

So essere una persona pratica. Non sempre. All’occorrenza. Quindi sveglio Elena, la porto in casa. Le do asciugamani, coperte, vestiti asciutti. Sembra un fantoccio, ma mi muovo io per lei. Le tolgo i vestiti bagnati, la infilo sotto la doccia. Parlo perché il silenzio mi è insopportabile. Mi cambio anch’io e preparo il caffè. È un mucchietto di stracci sul divano. Pulisco la cucina, i resti del mio accesso di rabbia mi guardano accusatori. I vetri scintillano sul pavimento, gli spaghetti collosi scivolano come lumache sul muro. Che schifo. Mentre mi agito in cucina, lei guarda nel vuoto. Mac la osserva dall’altro capo della stanza, Lello dorme nella sua cesta. Desde, sensibile, le si è accoccolata contro, offrendole il suo calore canino per difendersi dal gelo. E non solo quello che l’ha assalita in auto dove si è rifugiata, bagnata fradicia, dopo aver picchiato e picchiato, invano, contro il mio portone. Io non sentivo, per la musica che mi stordiva. Trangugio il caffè e cambio idea: le preparo una camomilla bollente. Non ha ancora spiccicato una parola. Lei che se n’è andata meno di dieci ore fa, parlando e parlando. Agitava le mani e mi sorrideva, guardandomi dal finestrino. E io, che l’ho odiata. Per essere felice, allegra, amata. Per essere venuta qui nel mio eremo a sventolarmi le sue fortune. Si è più egoisti nella felicità o nel dolore? Più egoista io, nel mio rancore, nel mio desiderio di essere dimenticata, lasciata nel mio angolo di mondo o lei, costringendomi a fare i conti con il ato? Bevo un altro caffè, verso la camomilla nella tazza e le siedo accanto.

11.

Una lingua sul piede mi sveglia. Mi rigiro nel groviglio di lenzuola, ma sono sotto assedio. Lappate nell’orecchio, zampate sulle braccia. Mugugno. Il materasso si piega sotto il peso di un cane che si fa strada nel letto. «Ho capito, mi sto alzando.» Un’occhiata veloce alla sveglia sul comodino mi dice che ho sforato. Sono già le nove del mattino. Ai cani non importa che sia stata sveglia fino alle cinque. Mi alzo, scendo a piedi nudi e apro loro la porta d’ingresso. Si dileguano nel mattino limpido e bagnato dal temporale di ieri. Salgo di corsa la scala, pensando, troppo tardi, che sto facendo rumore e che probabilmente disturbo la mia ospite. In punta di piedi attraverso il corridoio, il legno scricchiola sotto il mio peso e soffoco un’imprecazione. Mi vesto con le prime cose che mi capitano in mano e torno di sotto. Poi ci ripenso e sostituisco le scarpe da ginnastica con stivaloni di gomma, per affrontare il fango. Entro nel paddock, accolta da nitriti entusiasti. «Avete fame, stamattina, eh?» Il sole è tiepido, i cavalli sguazzano nelle pozze, sollevando schizzi. Mentre divorano il fieno, con la forca ripulisco la capannina e metto un po’ di truciolo pulito. Dopo aver espletato i miei compiti mattutini, sulla via di casa, mi concedo di ripensare agli avvenimenti della notte precedente. Dal racconto sconnesso di Elena, ho ricostruito gli avvenimenti che l’hanno riportata all’eremo. Come in un film, è scesa dall’auto di Tommaso, ha aperto la porta di casa, ha seguito le tracce di biancheria intima disseminata dal corridoio fino alla camera da letto. Dove l’aspettava la brutta sorpresa. Lo ammetto: forse la mia fantasia è un po’ sbrigliata, ma le cose sono andate così, all’incirca. Solo che, invece di fare una scenata, lei ha preso le chiavi della sua macchina e ha vagato per qualche ora. Fino a che non è arrivata qui. E io non ho aperto. Non vincerò certo il premio migliore amica dell’anno.

12.

La mia ospite dorme ancora. O forse è solo rintanata in camera a chiedersi come affrontare la nuova realtà. Lo so: ci sono ata anch’io. Non voglio disturbarla. Non ancora almeno. Il coraggio per uscire da lì deve trovarlo da sola. Mi riempio una tazza di caffè e faccio incetta di biscotti. Scendo in studio, con il mio carico.

Bisogna lavorare per mangiare. E mangiare per lavorare. Mi suona il cellulare, il caffè ondeggia pericolosamente nella tazza. Appoggio il tutto e rispondo al volo, prima che gli squilli sveglino Elena. «Pronto?» Mia mamma che chiama a quest’ora? «Pronto, sono Tommaso.» Come ho potuto non pensarci? Che cretina! «È qui. Dorme.» Sospirone dall’altra parte. «Scusa, proprio non mi è venuto in mente di chiamare. È successo tutto...» «All’improvviso, certo. Sta bene?» Sento una sorta di colluttazione o qualcosa di simile. «Me la i?» Roberto deve essersi impossessato del telefono, ipotizzo. «Dorme. E anche se non fosse così, dubito che vorrebbe parlarti. Sta bene, comunque.» Stupido maschio egoista, vuoi solo difenderti? La freddezza nella mia voce deve averlo calmato, comunque, perché è con un tono meno imperioso che chiede: «Le dirai di richiamarmi? O di tornare a casa? Insomma...» «Non so cosa voglia fare. Le dirò che hai chiamato» e attacco. Senza diritto di replica, brutto stronzo. Suona bene. Lo ripeto ad alta voce. Poi alzo gli occhi e la vedo nel vano della porta, i capelli arruffati, i piedi nudi, gli occhi gonfi e rossi. Il commento giusto al momento giusto, accidenti. Sfodero un penoso sorriso stiracchiato e dico: «Già in piedi? Dormito bene? Ti va di fare colazione?» Magari posso smetterla con la raffica di domande. Incontro il suo sguardo e questo mi ammutolisce, finalmente. La sua voce sembra arrivare da molto lontano, sottile e tremante: «Era Robi?»

13.

Mio padre è morto d’estate. Faceva caldo, era luglio. Aspettava fuori da un ufficio comunale l’orario di apertura. Il suo cuore si è fermato. È caduto. Prima che toccasse il cemento del marciapiede era morto. Per un brutto scherzo del destino, io ero in vacanza. E così non ho più rivisto mio papà. Mi sarei sentita meno in colpa se fossi stata in città? Se l’avessi visto uscire, l’avessi salutato? Se fossi stata lì quando la polizia ha chiamato? Non ho risposte a queste domande. So però che da quel giorno la mia vita è cambiata. Io sono cambiata. Mi sono murata in pareti di silenzio, senza via d’uscita. Il mondo intorno è diventato solo il pallido riflesso di una realtà che per me non aveva più senso.

Ricordo le persone, le parole, i gesti d’affetto, il giorno del funerale. Niente, allora, poteva scalfire il mio rifugio di dolore. E forse nemmeno ora. Ricordo tutto e vorrei dimenticare. Sono ati i giorni, poi settimane, poi mesi. La vita va avanti, mi dicevano. Ma che vita?, mi chiedevo io. Mi alzavo la mattina, andavo a lavorare, facevo l’amore con il mio fidanzato. Ma la mia anima era altrove. Un automa recitava, male, la mia parte. Quando ho scoperto che aveva un’altra, non mi sono stupita, non ho sofferto. L’ho guardato elencare le sue bugie, le mie colpe e poi domandare il mio perdono con la stessa indifferenza di chi guarda un brutto film. Solo quando ho trovato l’eremo, ho ricominciato a vivere.

14.

Spilucca svogliata la colazione che le ho imbandito davanti in stile Grand Hotel a cinque stelle. Colazione continentale, madame? Okay, tentativo di strapparle una risata: fallito. La guardo in silenzio, ma avrei mille domande. Come se mi leggesse nel pensiero, mi guarda: «Posso restare?» Posso forse dire di no? «Certo.» «Non ti darò fastidio, io...» Lo fai già, penso. Il tuo dolore è ingombrante, in questa casa. Riempie gli spazi, invade la mia mente, mi tormenta. «Non ti preoccupare.» Sono una stronza, fredda ed egoista. Non sono neppure capace di abbracciarla. Ho queste braccia di piombo, quest’ansia che mi riempie la bocca di un gusto metallico. Le do una pacca leggera sulla spalla, penosa come sono. «Mangia qualcosa, okay? Sono in studio se hai bisogno di me.» Mi rifugio nel mio disordine primordiale, sentendomi finalmente al sicuro. Cerco una musica che faccia il paio con il mio umore incazzato e disperato. Tormentato. Non ho più pace da ieri. È inutile che tenti di lavorare, così esco. È quasi mezzogiorno. Fischio, i cani accorrono. Mi incammino verso il torrente, due i per schiarirmi le idee e liberarmi dai fantasmi del ato. Facendo moto brucio le emozioni negative, deve essere così. Non voglio pensare a Luca.

Non ho mai pensato davvero a lui. L’ho cancellato dalla mai vita. Fino a ieri, però. Ho rivisto nelle lacrime di Elena le mie, nella sua disperazione la mia. Ho fatto tutta una serie di cose cretine in quei mesi. Ma sono sopravvissuta. Mi sono aiutata da sola. Non vuol dire che possa abbandonarla a se stessa. La voce della mia coscienza. Sembra proprio la voce di mia madre. Ritorno sui miei i. Non posso abbandonarla. Ha bisogno di me.

15.

Urla. Fantastico. Ora cosa sta succedendo? Sono stata via solo mezz’ora! Mac e Desde corrono in avanti, abbaiando a più non posso. Lo farei anch’io se servisse a qualcosa. Oppure potrei tornare indietro, o nascondermi nel rudere. Una codarda, ancora la voce di mia mamma. Quando arrivo sotto il portico, la scena che mi si presenta è agghiacciante. Intanto una macchina è salita sulle aiuole antistanti la casa, devastandole. E questo è un oltraggio che non sono disposta a tollerare. Oltretutto, Roberto, il proprietario della macchina assassina, ha afferrato Elena per un braccio e la trascina verso la portiera spalancata. Dunque il fedifrago è venuto a riprendersi la fuggiasca. Che, ovviamente, non ha nessuna voglia di tornare a casa. Suppongo che già il solo vederlo la faccia star male. I cani abbaiano, la ragazza strilla. È a piedi nudi sulla ghiaia, vestita solo con la maglietta che le ho prestato per dormire. Prima che io possa intervenire, però, arriva un cavallo al galoppo. Un cavallo al galoppo? Per un attimo rimango interdetta, poi riconosco il cavaliere. È Max. Smonta, afferra Roberto per la maglietta e gli tira un pugno violento. Non resto a guardare. Mi occupo di raccogliere Elena, che è rovinata per terra. Intanto spero che il mio provvidenziale vicino gli abbia spaccato il naso da parte mia. L’aiuto a rialzarsi, si appoggia a me per fare i gradini. Ha le piante dei piedi scorticati. La faccio sedere sul dondolo e torno a dar man forte a Max. Che però non ha affatto bisogno del mio aiuto: senza nessuna gentilezza, ha piazzato Roberto in auto e gli sta intimando di andarsene e di non tornare più. Sgommando, il fedifrago se ne va. I cani smettono di abbaiare. Nel silenzio risuonano solo i singhiozzi della mia bionda amica e il rumore delle ganasce del cavallo di Max che sta dando il colpo di grazia alle mie aiuole.

16.

L’armadietto dei medicinali mi si rovescia addosso non appena lo apro. Per dire quanto fosse in ordine. La sonora caduta richiama l’attenzione del mio fido vicino, che dalla sala mi urla: «Tutto bene?» «Sto arrivando» rispondo. È fin troppo sollecito. Mi irrita. Veramente è una giornata da dimenticare. Cosa ci fa tutta questa gente a casa mia? Max ci ha liberate del traditore violento, poi ha preso in braccio Elena e l’ha portata in casa, sul divano. Se non fosse che ci ha realmente salvato da una situazione critica, questo suo comportamento da romanzo d’appendice mi disgusterebbe. Trovo il disinfettante, dei cerotti e persino delle garze. Max misura a grandi i il soggiorno, Elena piange sommessamente sul divano. Le medico i piedi, cercando di non farle troppo male. «Vuoi una camomilla? O qualcosa per dormire?» Devo avere dei blandi tranquillanti, di là, almeno penso. Scuote la testa. «Dovresti però» interviene Max e la convince a prendere della valeriana e ad andare a riposare in camera. E ce la porta lui, in braccio. Non mi azzardo a proferire parola e torno in bagno. Raccolgo medicinali e controllo anche la data di scadenza. Non si sa mai. Ci sono più medicine per animali che per persone. Max mi trova immersa in questa occupazione: «Vuoi una mano?» Mi cade la confezione di Cardotek dalle mani. «Scusa non volevo spaventarti.» «Niente ero soprappensiero» provo un sorriso. «Siamo tutti nervosi» commenta di rimando. «Già, è una fortuna che fossi nei paraggi.» Annuisce. «Ho chiamato Tommaso. Dice che parlerà con suo fratello. Potete stare tranquille» ha un tono grave, da poliziotto dei telefilm americani. Cerco di non ridere. Davvero, è stato così gentile. «Lo so. Non penso poi che volesse davvero...» Mi guarda come se fossi pazza, poi mi sorride: «Ora vado, ci sentiamo più tardi, okay?» «Okay» rispondo di riflesso. Ci risentiamo per cosa?

17.

Trascorro il pomeriggio nel tentativo di salvare le mie aiuole. Le speranze che

tornino a vivere e a fiorire sono remotissime, però. Non che siano mai state un granché. Sono negata per il giardinaggio. Ci tengo, questo sì. Ogni misero fiorellino che nasce per me è una conquista. Vederle deturpate e devastate senza motivo mi riempie di tristezza. Suppongo che ci sia una sorta di identificazione tra me e l’eremo. Se qualcuno danneggia l’eremo, danneggia me. Mi sento colpita dentro. Poi adoro sporcarmi le mani di terra. In più non mi sento in vena di lavorare, sono troppo turbata dagli ultimi avvenimenti. Non riuscirei a concentrarmi su quello che sto facendo. Considero l’idea di andare a fare una eggiata con Dream, ma scarto anche questa ipotesi. L’ultima volta che mi sono allontanata da casa è successo il finimondo. «Che disastro!» la voce mi coglie di sorpresa. Alzo la testa: Elena mi guarda sconsolata. Parla di me? In effetti i miei capelli devono essere terribili. Ah no, si riferisce alle aiuole. «Ma no. Erano misere già prima.» Si siede sui gradini. «Mi dispiace.» Suppongo che non sia per i fiori, questo. «Per quello che ne so, tutto a» devo averlo letto in un bacio Perugina. Ha gli occhi pieni di lacrime. «Ti va di fare due i?» può essere un’idea, no? Annuisce senza parlare. Ci incamminiamo verso i paddock e io parlo e parlo. A vanvera. Solo per non sentire il silenzio. Ci sediamo in riva al torrente. E sto zitta. Finalmente. Non ho più niente da dire. Ho già detto abbastanza. Tutto a. Che cretina. «Si sta bene qui» sussurra, gli occhi puntati sull’acqua cristallina che corre a valle. Non commento. Per non farla piangere di nuovo.

18.

Assomiglio incredibilmente a mia mamma. Mi sono fatta una doccia e poi ho iniziato a cucinare. Con più entusiasmo che perizia. L’ho fatta sedere a tavola e la sto rimpinzando di cibo. Penne ai quattro formaggi (“sai qui il formaggio è una delizia, la latteria è dolcissima. Il taleggio poi...”), arrosto con le patate e torta con la nutella. Condisco il tutto con insalata di chiacchiere. Non so dove trovo tutte queste parole. La mia interlocutrice risponde a monosillabi. Continuo a riempirle il piatto di cibo. Come mia mamma, penso di curare le ferite dell’animo, occupandomi del corpo. Io, infatti, dalle cure di mia mamma sono scappata. Alla fine, mi siedo a guardarla giocherellare con le patate nel piatto. Il fatto che Mac le dorma sui piedi mi conferma che, sicuramente, l’arrosto, ma

probabilmente anche le penne, sono finite sotto il tavolo in ingenti quantità. Afferro la bottiglia di vino che ho messo in tavola a beneficio della mia ospite. Con la punta dell’indice, disegno delle forme sulla condensa formatasi sopra il vetro. Temporeggio. Poi, mi decido e verso due dita di bianco nel bicchiere e lo sorseggio. Le bollicine mi riempiono il naso. Resisto alla tentazione di versarmene altro, di cercare l’oblio nel liquido ambrato. Le vecchie abitudini. Mi alzo e lo metto in frigo. «Domani me ne vado» la sua voce alle spalle mi coglie di sorpresa. Mi giro, piano, per avere il pieno controllo della mia espressione facciale: «Dove?» «Torno a casa.» Le faccio notare che casa sua è con lo stronzo? Meglio di no. «Puoi restare», tono neutro. Scoppia a piangere: «Non voglio andare a casa. Ma ti do fastidio. Non voglio essere un peso per nessuno.» Oddio. «Non sei un peso. Davvero.» Pausa. Sospiro. Le allungo un pezzo di scottex: «Mangia una fetta di torta.» Su di me si può sempre contare.

19.

La sento singhiozzare nella stanza accanto. Dovrei alzarmi, bussare, entrare e consolarla. Ma non ce la faccio. Mi rannicchio sotto la coperta e nascondo la testa sotto il cuscino. Così non sento. E la coscienza non mi rimorde. Desde uggiola. Mi infila la testa sotto il cuscino. Da che parte stai, piccola infingarda? Mi tira delle zampate. Ho capito, ho capito. Spingo via le coperte, con i piedi esploro nel buio il pavimento fino a trovare le pantofole. Guardo Otello prendere il mio posto sul cuscino. «Non ti ci affezionare, tu» ed esco dalla mia camera, tallonata dalla cagnolina bionda. Busso una, due volte, poi apro piano e affacciando la punta del naso chiedo: «Possiamo?» Desde non aspetta un secondo e si fionda nella stanza. In un balzo è nel letto e bacia Elena con ardore. Soffocata dalle effusione della mia cagnetta invadente, si scusa: «Ti ho svegliata? Mi spiace, io...» «Non importa» sono sulla soglia della stanza, praticamente un piede dentro e uno fuori, per sicurezza. «Ti va una camomilla?» la sto imbottendo, fra cibo, camomilla e calmanti vari. Scuote la testa: «Ora mi a, solo...» la frase si perde fra le lacrime. Faccio un o in avanti, anche se tutto nella mia testa urla di tornare indietro, a letto. «Non fare così, okay?» io sì che so consolare le persone. «Ascolta, adesso ti sembra orribile. Lo so. Ma datti un po’ di tempo e le cose miglioreranno.» Odio questo tono da maestrina. E ottengo solo nuovi singhiozzi. Persino Desde mi guarda accusatoria, come se

fosse colpa mia. D’altra parte, pur non avendo colpa, non ho nemmeno nessun merito. Sto qui, in mezzo alla stanza, impalata come un attaccapanni. Persino Max, che non l’aveva mai vista prima dell’altro giorno, l’ha aiutata e confortata più di me. Solo che io... ho i miei motivi. Voglio dire, io i miei drammi me li sono risolti da me. Già, così risolti che vivo in fuga. Eppure non ho scelta, il mio destino è scappare di fronte al dolore altrui. Sono fuori dalla porta, quando con voce rotta la mia amica dice: «Resti con me?»

20.

«Pronto.» Il nettapiedi mi cade di mano e si infila sotto la carriola. Merda! «Pronto ciao, sono Tommaso» mi chino e allungo la mano, quella libera dal telefonino. Non ci arrivo, devo spostare la carriola, maledizione. «Tommaso...» Preso. Fine del turpiloquio. La cavalla si agita, infastidita. Ok, una cosa per volta. «Pronto?» accarezzo Shady «sì scusa eccomi. Ciao.» Cosa vuole adesso? «Ti disturbo?» Puoi giurarci. «No no, dimmi.» «Niente, volevo solo sapere come va.» Una favola. Ha pianto fino alle quattro del mattino. Poi mi sono addormentata, io, ma lei forse ha continuato. «Ora dorme.» «E volevo anche scusarmi per ieri.» Non per le aiuole, immagino. «Sì beh... non preoccuparti. Davvero.» «Mi ha chiamato Max. So che è stato...» Imbarazzante. Tempismo perfetto, però. «Mi dispiace molto. Non so cosa dire.» «Senti sono cose che succedono. Davvero è tutto ok.» «E tu come stai?» Cosa te ne frega? «Un po’ provata.» Ma cosa cavolo dico? «Mi immagino. Senti, mio fratello non vi darà più fastidio» ci mancherebbe «e per il resto, qualunque cosa conta pure su di me. So che non deve essere facile» Cosa ne sai? Però non posso negare che la comprensione, vera o finta che sia, nella sua voce mi smuove dentro qualcosa. «Ora ti devo proprio lasciare. Grazie e ciao» concludo frettolosamente. Schiaccio il tasto rosso prima ancora che lui possa rispondere. Mi sento terra di conquista. Mai avuti tanti contatti umani in un anno. Libero Shad nel paddock, galoppa via con eleganza. Presa dall’impulso di imitarla, chiamo con un fischio Dream. Si avvicina trotterellando, le infilo la cavezza, la porto sotto il portico e la sello. È calda di sole e profuma di buono. Mi lascio l’eremo alle spalle un quarto d’ora più tardi, con il solito codazzo di cani.

21.

Dopo una notte di pianti, rimpianti e recriminazioni di vario genere, stare all’aria aperta mi rigenera. Mi sento di nuovo viva e padrona della mia esistenza. Non sono più costretta a rivivere il dolore e la confusione di chi si trova con il culo nudo per terra, tra sogni infranti e tutto il resto. Ripenso con fastidio alla telefonata di Tommaso. Buone forse le intenzioni. Ma mi fa sentire come se mi controllasse. Anzi no. Mi fa sentire partecipe. Come se io c’entrassi qualcosa, oppure avessi un ruolo in questo dramma. Io invece non voglio proprio immischiarmi. Anche se, volente o nolente, direi certamente nolente, ci sono dentro. La mia impressione comunque è che Elena non abbia intenzione di reagire a breve e mi chiedo per quanto pensa di poter contare sul mio guardaroba e sulla mia ospitalità. Che le ho offerto spontaneamente e quindi non posso tirarmi indietro. Decido di stare via abbastanza a lungo perché lei abbia il tempo di alzarsi, vestirsi e riacquistare un minimo di dignità. Stanotte è stata davvero dura. Certo, meglio singhiozzare sulla spalla di un’amica piuttosto che cercare consolazione nelle bollicine del Tavernello, vero? Per associazione di idee, mi torna in mente quella sera. Ubriaca persa. Così tanto da non riuscire nemmeno a infilare le chiavi nella toppa giusta. Cincischio davanti alla porta di casa di Luca. Mi cade il mazzo sullo zerbino. Cerco il cellulare in borsa, lo chiamo al lavoro, dove aveva detto di essere. Per l’ennesima volta. Nessuna risposta. Poi provo sul cellulare. Sempre per l’ennesima volta. Lo sento che squilla oltre la porta. È qui. Così ubriaca da non riuscire nemmeno ad aprire la porta. Inizio a ridere e ridere e ridere. Mi attacco al camlo. Rido. Pazza e ubriaca. Vuota e piena allo stesso tempo. Galoppo. Il vento in faccia porta via con sé i ricordi e, forse, anche qualche lacrima.

22.

La strada di casa si snoda bianca e familiare sotto i piedi della mia cavalla sudata. Siamo stati via almeno tre ore. Forse abbiamo galoppato un po’ troppo, a giudicare dal respiro affrettato della palomina. Arrivate alla recinzione di casa, smonto e faccio l’ultimo tratto camminando accanto a Dream. Una forma di rispetto, un modo per ringraziarla di avermi portato. Abbassa il testone e con il suo naso di velluto ispeziona le mie mani e anche la tasca più vicina. Ci guadagna uno zuccherino. Sotto il portico, la dissello e la doccio. Otello mi viene incontro scodinzolando. Libero la cavalla nel paddock, la guardo rotolarsi e mi soffermo a coccolare il mio cane anziano. Mi bacia la faccia, entusiasta delle attenzioni, e mi porta un legnetto per giocare. Al secondo riporto, è stanco e ci dirigiamo verso casa. i pesanti. Non so bene cosa aspettarmi: altre lacrime? Spero di no. Non credo di poterlo sopportare. Magari sta ancora riposando, magari è qui in giro a prendere il sole, magari... svolto l’angolo e la scena che mi si presenta agli occhi è incredibile, assurda e così ovvia che mi sento stupida per non aver capito prima. Elena è sul dondolo, i piedi nudi ancora fasciati, jeans e maglietta (suoi, gli stessi con cui è arrivata). Max, seduto accanto, le sorride e le tiene una mano. Da qui non capisco cosa si dicono e nemmeno cosa stia succedendo con esattezza. Ma le mire del mio vicino potrebbero essere più chiare solo se avesse posizionato un’insegna luminosa sopra il suo solito berretto stinto. Rimango a guardare in silenzio per alcuni minuti, un po’ divertita, per la piega che hanno preso gli eventi. Ma anche seccata, per la continua e indiscriminata invasione del mio eremo. Dal dramma al romanzetto d’appendice. Cosa mi toccherà domani? Prima che possa immaginare il mio prossimo e probabilmente orrendo futuro, Elena mi nota e sottrae la mano repentina dalla stretta troppo calorosa di Max. Anche se mi piacerebbe, non posso esimermi dal riassumere il mio ruolo di padrona di casa. Sorrido e mi avvicino.

23.

Max si ferma a pranzo, naturalmente, anche se sono già le due del pomeriggio. Tra gli avanzi della sera prima e un po’ di fantasia, imbastisco il pasto. Non che interessi a qualcuno: Elena giocherella con il cibo nel piatto svogliatamente, Max la osserva come un falco e cerca in ogni modo di farla ridere e distrarla. Io penso solo a quanto si stava bene quando il pranzo era uno spuntino tra una faccenda e l’altra. Nonostante gli sforzi dell’uomo-col-berretto (potrebbe anche toglierselo a tavola!), la conversazione langue e così, dopo il caffè, si congeda con la promessa di farsi sentire presto. Come se avessimo potuto dubitarne. È così marchiano il suo desiderio di salvare la damigella in difficoltà che mi chiedo come faccia Elena a non accorgersene. Sempre ammesso che non se ne accorga. Il silenzio della cucina, rotto solo dall’acqua del lavello e dal rumore di piatti rigovernati, è decisamente imbarazzante. Forse il ricordo della sera precedente la mette a disagio. «Potremmo andare a fare un po’ di shopping, oggi» propongo d’impulso. Sobbalza, come richiamata dalla mia voce eccessivamente, artificialmente squillante. «Io... sì, certo, se ti va.» «Ti servono almeno delle calze!» sorrido indicando i piedi nudi e fasciati. Annuisce: «Posso andare anche da sola così tu puoi...» gesto generico. Non credo sappia cosa faccio per vivere. O come trascorro il tempo. Mi stringo nelle spalle: «Non c’è problema. Dobbiamo solo rientrare in tempo per dar da mangiare ai cavalli.» Sono un po’ troppo allegra per sembrare naturale e a mio agio, ma la mia amica non se ne accorge. Continuo a parlare a vanvera: «C’è un centro commerciale enorme sulla provinciale. Ti servono delle magliette, biancheria intima, lo spazzolino da denti e anche un maglione, la sera qui può fare freschino.» Non solleva obiezioni e non escluderei che nemmeno mi ascolti, ma continuo, imperterrita: «Io non ci sono mai stata, ma mi ha detto il ragazzo del bar che c’è tutto. Controllo se ci manca qualcosa in casa e poi possiamo andare.» Ancora nessuna risposta. Apro e chiudo gli armadietti della cucina, poi mi sposto in bagno. Mi segue silenziosa e distante, come se non avesse alternativa, ma allo stesso tempo non la riguardasse veramente. Le allungo un paio di calze. Le prende e le infila. Un riflesso condizionato. «Metti le scarpe» suggerisco. Obbedisce. Cerco di non lasciare che il suo atteggiamento da pianta grassa mi irriti o, peggio, mi contagi. Quando saliamo in auto, però, mi sento già stanca e depressa.

24.

Mi sveglia lo squillo del cellulare, che tenta di perforarmi il cranio. Alzo la testa dalla mia scrivania ingombra e annaspo fra le carte fino a trovare l’infernale aggeggio che strilla e vibra. «Pronto.» «Pronto, ciao ti ho svegliato?» Ma che ore sono? «No io... stavo lavorando.» In un certo senso, diciamo. «Scusa so che ti alzi presto per dar da mangiare ai cavalli e ho pensato che fossi già sveglia.» Giusto, i cavalli. E i cani. Mi alzo dalla sedia con cautela. Sono tutta rotta. «Infatti è così», ma continuo a non sapere che ore sono. Non porto l’orologio e il cellulare ce l’ho all’orecchio quindi facciamo in fretta. «Volevo sapere se Elena sta meglio.» Certo, per questo chiami tutti i giorni? «E poi se pensa di tornare a casa, oggi.» Già più credibile. Del tipo: non è solo la ragazza di mio fratello, è anche una mia dipendente! «Veramente non so» resto sul vago o infliggo la mazzata? «Non parla?» «No, per parlare parla» più con Max che con me «ieri però...» mazzata in arrivo caro il mio cognato sollecito «ieri siamo andate a fare un po’ di compere.» «Terapeutico?» «Sì, beh, anche» abbiamo riso e per qualche momento sembrava di essere tornate indietro di qualche anno «comunque» tornando a bomba «ha comprato dei cambi, lo spazzolino da denti e altre cose» non chiudo la frase, ma non ce n’è bisogno. «Quindi rimarrà lì un po’.» «Credo di sì.» Il silenzio dall’altro capo mi fa capire che probabilmente se lo immaginava già. «Forse le dovrei parlare.» «Per la verità, credo che debba parlare con tuo fratello, ma temo non si senta ancora pronta.» «Me la puoi are?» Dopo che siamo tornate dal centro commerciale, mi sono occupata dei cavalli e dei cani e poi mi sono rifugiata in studio a lavorare. L’ho lasciata al telefono con Max e un panino mangiato per metà sulle ginocchia. Una facile preda per Mac, ricordo di aver pensato. Ma non posso certo nutrirla con l’imbuto. Non la vedo da ieri sera, quindi, e, anche ammesso che sia già in piedi, non voglio metterla davanti a questa scelta così brutalmente. Rispondo d’impulso: «Dorme ancora. Le dirò di richiamarti.» «Non credo che lo farà.» Non lo penso neanch’io, ma non lo dico. «Ho provato, ieri, ma non mi ha mai risposto.» Questo spiega perché tormenti me. «Già, non so cosa dirti.» «Non vuoi o non puoi?» il tono diventa polemico. «Cosa vorresti dire?» Pacata. Calma. Fredda. Sei spacciato, amico. «Io... scusa. Tu non c’entri.» Infatti. «Le parlerò oggi, d’accordo? Per capire.» Okay, mossa non del tutto disinteressata. «Io... grazie. E scusa di nuovo.» «Ciao» e metto giù. La giornata inizia in salita.

25.

La mattina a tra le faccende quotidiane. Elena mi aiuta a dar da mangiare ai cavalli e a pulire il paddock. Resta con me, seduta a cavalcioni della carriola, mentre li striglio, pulisco e ingrasso i piedi, pareggio le criniere. Non faccio un o senza che mi sia dietro. Un’ombra silenziosa e chiaramente infelice. Parliamo poco e di cose di nessuna importanza. Ho detto a Tommaso che le avrei chiesto come vede il suo futuro e cosa intenda fare, ma il compito mi appare sempre più arduo. Mi accorgo che il problema però è tutto mio. Elena è qui e si aspetta da me comprensione e consolazione. Ma io non sono in grado di stabilire una comunicazione con lei. Sono tutta rintanata nel mio guscio e sembra che non abbia i mezzi giusti per uscirne. Non ne abbia il coraggio. Invece con Max parla. L’ho vista confabulare al telefono dopo pranzo. Non ho chiesto niente, ma lei si è sentita in dovere di darmi delle spiegazioni: «Era Max.» Non ho nemmeno commentato. Ho annuito e mi sono immersa nuovamente nella lettura del giallo che avevo in mano. Da allora sono ate ore. Guardo se dorme. No, osserva la foto dell’eremo sopra il camino. Chissà a cosa pensa. Prima che si faccia tardi, dico: «Muovo le cavalle.» Poi ci ripenso e aggiungo: «Vuoi venire?» Mi guarda con gli occhi persi nel vuoto, lo sguardo di chi non sa dove sia e perché. Una sensazione che conosco molto bene. Non la incalzo, aspetto che riprenda contatto con la realtà. Si riscuote e si alza, sussurra solo «Okay.» Selliamo le cavalle, insieme. Come un tempo. Anni fa, ormai. Solo che una volta chiacchieravamo e ridevamo, complici e indubbiamente più felici di oggi. O forse solo più ingenue, non so. Lei monta Dream, la placida palomina. Io, ovviamente, Shad. Ho visto Elena guardarla con interesse, ma ho finto di non aver capito. È mia. Non sono brava a condividere niente e questa cavalla in particolare. Ci allontaniamo al o. Mac e Desde corrono avanti lungo il sentiero. Il rumore di cespugli smossi spaventa Shad che scarta. Mi chino ad accarezzarla sul collo per tranquillizzarla. «Otello non viene?» chiede Elena. «Solo quando ha voglia» sorrido e immagino il mio vecchietto sdraiato sulla sua branda, custode di casa per tutto il resto del pomeriggio. Elena mi spiana la strada: «Hai sentito qualcuno?» chiede dopo una

decina di minuti di assoluto e perfetto silenzio. Inspiro profondamente l’aria leggera e delicata e poi mi decido a rispondere: «Stamattina.» Tralascio di dirle che è stato così tutte le mattine da quando è qui. «Vogliono sapere cosa vuoi fare.» Non vedo la sua espressione a queste parole. Forse una maggiore diplomazia non avrebbe guastato. «Io...» le trema la voce. Ti prego, ti prego non piangere. «Non lo so.» Un sospirone. Di quelli che ti permettono di mandare giù tutto, o almeno, molto. «Non avere fretta» la rassicuro rapidamente, come se un’esitazione da parte mia potesse essere rivelatrice. Galoppiamo. Ci lasciamo alle spalle i boschi e proseguiamo fino alla radura che si apre sopra Il Granaio. Ci fermiamo a rifiatare e le indico tutto, dall’alto. I campi di lavoro, i paddock, le scuderie, la cascina. Osserva, interessata. Forse affascinata. Il paesaggio è bello e consolatorio. Ci sediamo nell’erba, dopo aver abbeverato e legato le cavalle. «Tutto, qui intorno, è fantastico» dice, a mezza voce. Non posso fare a meno di concordare, ma resto zitta. Continua: «Vorrei rimanere qui, per sempre. Mi sento così...» «In pace» finisco io per lei. Mi guarda dritto negli occhi: «È così» e poi aggiunge, con un’urgenza nuova nel tono di voce: «E adesso?»

26.

La cosa che ricordo meglio è la sensazione umiliante e confortante allo stesso tempo di non poter scendere più in basso. La certezza che non ci fosse un peggio. Toccavo il fondo con una consapevolezza che nemmeno l’alcol riusciva a intaccare. Non ero più la ragazza in carriera, con i capelli in ordine e l’auricolare bluetooth nell’orecchio. Non lasciavo scie d’Hypnose al mio aggio. Mi stupisco oggi di come fossi prima di cadere nel precipizio, questo sì. Ma mi spaventa accorgermi di quanto velocemente e definitivamente avessi smarrito la più vaga parvenza di dignità. Quando ancora andavo al lavoro, sulla via tra la metropolitana e lo studio mi fermavo in un bar. Era su un angolo della via. Non il bar con gli specchi lucidi e le brioche scaldate nel fornetto, il bar dove i colleghi facevano colazione. No, era un bugigattolo stretto e tendente al lercio, dove degli sfaccendati tiravano sera tra un bianco e un grappino. Fra me e loro non ava molta differenza, a parte

che io recitavo ancora la mia parte presentandomi al lavoro. Una finzione che non è poi durata molto. La scoperta del tradimento di Luca, il mio fidanzato storico e perfetto (famiglia d’origine: perfetta. Studi: perfetti. Carriera in essere: perfetta. Prospettive: perfette. E così via), dicevo, la scoperta del tradimento ha accelerato un processo di autodistruzione già in essere. Non l’ho mai negato, né ho mai tentato di addossare a quell’episodio sordido e squallido delle responsabilità maggiori di quante poi in realtà ne avesse. La cosa più assurda, credo, è stato per quanto tempo sono riuscita a mascherare con scuse di vario tipo la mia dipendenza dall’alcol. Faccia gonfia? Non ho dormito bene. Vestiti stazzonati e sporchi? Torno da un viaggio di lavoro e ora scappo a casa a cambiarmi, sono ata solo un attimo per... mentivo bene. Anzi benissimo. Tant’è che il direttore generale mi ha dato un’aspettativa di alcuni mesi per curare il mio esaurimento nervoso. Tant’è che nessuno, a parte i miei familiari stretti, sa che non erano pastiglie quelle che mi facevano strisciare le parole e avere lo sguardo assente. Non lo sa nemmeno Elena. Questo è un altro punto che non mi farà vincere, nemmeno quest’anno, il premio Amica dell’Anno.

27.

«Dovresti parlare con lui. Secondo me.» Mi lascio cadere nell’erba. Il cielo è azzurro, sgombro, semplice. Fa male al cuore. Non mi risponde per diversi minuti poi sospira e si lascia cadere di fianco a me. Respiriamo a pieni polmoni quest’aria che può guarire. Ne sono convinta. «Perché?» Mi piace che non protesti, che non si difenda, che non... ha fiducia in me, realizzo. Nelle cose che sto per dirle, nell’aiuto che forse potrò darle. Mi sembra molto dolce e molto stupido da parte sua. «Perché si è in due. Sempre. Quando si inizia, quando si sbaglia. Quando finisce. Se finisce.» «Se?» «Se. Mica è detto.» «Ma certo che è finita.» «Potresti

perdonare.» Il silenzio che segue è grave. Mi immagino che dapprima sia incredula. Il solo fatto che io abbia pensato a questa eventualità probabilmente la scandalizza. Poi ripenserà all’idea e forse non le sembrerà più così assurdo. Forse... dipende. «Non so se posso» risponde alla fine. Non commento. Non c’è niente da dire in merito. «Io non mi immagino come può essere. Vederlo. O parlargli. Io non...» Le nuvole sono bianche e leggere. Sono quelle nuvole inconsistenti che si disegnano da bambini. La casa, il camino, l’albero, il sole e una nuvola. La realtà in pillole. «Non devi, se non vuoi. Solo che dovresti, secondo me.» Più di così non posso fare, davvero. Mi sto sforzando di essere positiva, propositiva... altri aggettivi con la p? «Dovrei tornare a casa, vero?» la sua voce è fragile, lei è fragile. «Non devi se non vuoi.» Esito e poi ripeto: «Non devi niente, se non vuoi.» «Ma...» «Ma non sai cosa vuoi.» «Già.» Io sì. Voglio rimanere qui, in silenzio fino a quando il sole non scenderà oltre la montagna. Lentamente il cielo diventerà arancione e poi rosso. Nella luce calda del tramonto tornerò verso casa. Casa, ecco tutto quello che voglio.

28.

Non ho dormito molto stanotte. Nemmeno Elena. L’ho sentita aggirarsi per la casa. Il frigorifero si è aperto e richiuso, poi è inciampata in qualcosa, ha soffocato un’esclamazione e infine ho sentito la porta della sua camera richiudersi. Ho aspettato al buio, minuti credo. Poi mi sono alzata, ho preso la trapunta del mio letto e me la sono avvolta addosso. Calda e protettiva. Così mummificata, mi sono avventurata fuori dalla mia camera e mi sono sistemata sul divano in soggiorno. Otello, vagamente seccato per il trasloco inatteso, mi ha seguito e si è accucciato per terra, ai miei piedi. Mac è rimasto dov’era. È fedele ai luoghi, alle cose, lui, non alle persone. Invece Desde da giorni ormai non dorme più con noi. Ha scelto Elena. Non mi sento tradita. Ha scelto chi tra noi ha più bisogno del suo amore tenero ed esclusivo. Solo, a volte, non sentire il suo calore pesante, il suo respiro ritmico nel letto mi manca. Perché lei non mi dorme vicino, no, lei mi dorme addosso, di solito. Dopo qualche minuto, il muso di Tello-bello si è fatto largo sotto la trapunta. Ne ho sollevato un angolo e lui si è infiltrato al di sotto e, dopo una breve sessione di baci ai piedi, si è

addormentato. Sono rimasta a guardare le stelle. Il cielo nero, niente luna. Ipnotico. Dopo un po’ ho scrutato in basso, verso i paddock, nella speranza di vedere le sagome dei miei cavalli. Così divisa tra il cielo e il pascolo, mi sono addormentata. Mi ha svegliato il chiarore dell’alba. Aprendo gli occhi, ho visto il profilo dorato delle montagne. Mi sono sentita felice. Sono le otto del mattino, ora, ma ho già dato il fieno ai cavalli e ho pulito il paddock. Otello mi ha seguito, mentre Mac ha scelto la libertà. Come al solito. Mi siedo sulla staccionata a guardare i cavalli che mangiano e a godermi i raggi del sole sul viso. Oggi potrei fare delle foto, penso. Le foto a casa mia. Le foto della pace dell’animo. Il cellulare mi vibra nella tasca posteriore dei jeans. Non guardo il nome sul display. Non ce n’è bisogno. Aspettavo questa telefonata. «Eccomi.» «Ciao, Ale sono...» «Tommi, ciao» mi sono preparata a questa conversazione, quindi vado dritta al punto. «Le ho parlato ieri pomeriggio» mi chiedo a cosa sta pensando. Quanto possa essere importante per lui quello che sto per dirgli. «Non credo che torni. A breve, intendo.» «Lo immaginavo» sospira. «Non se la sente di affrontare tuo fratello.» «In fondo la capisco. Qui la situazione è difficile.» «A chi lo dici» oddio mi è proprio scappato. Ride. «Scusa mi è sfuggito. Non che... è solo che» sto farfugliando. «Non preoccuparti. Ho capito. Ti trovi in mezzo a una crisi e non capisci perché.» «Esatto.» Ha espresso esattamente il mio pensiero. Sono colpita. «Mi sento anch’io così» non ride più adesso. «Mio fratello ha fatto un casino e ci andiamo di mezzo tutti.» Mi sembra che questa sia una frase che si sia ripetuto spesso negli ultimi giorni. È arrabbiato, frustrato. Lo posso capire. «Ha solo bisogno di riflettere. Sono certa che presto si risolverà tutto. In un modo o nell’altro.» Di recente mi tocca sempre questa parte stupida. Dico delle cose cui non credo minimamente, oltretutto. «Scusa non volevo scaricarti anche i miei problemi.» «Non fa niente.» C’è un attimo di imbarazzo. Un silenzio teso. «Allora ciao.» «Ciao e grazie.» Non rispondo e attacco.

29.

La giornata trascorre serena. Quando Elena si alza, in tarda mattinata, io sono già chiusa in studio a spremermi le meningi su un progetto grafico stimolante come un semolino per cena. D’altro canto, faccio questo per vivere. Verso l’una mi bussa alla porta, piano, come chi si accosta alle sbarre della gabbia del leone. Razionalmente sa che, essendo al di qua delle sbarre, il rischio di essere divorato dal leone in un solo boccone è praticamente nullo. Ma saperlo non è sufficiente. L’istinto ancestrale dell’uomo è tenersene alla larga. Credo che lo studio abbia questo effetto universalmente su tutti gli abitanti abituali e occasionali di questa casa. Mi chiede se voglio mangiare. Da dietro la porta. Ha preparato il pranzo, dice con una nota di trionfo nella voce. Ecco, non voleva essere servita. Lei, per essere felice, o almeno per provarci, vuole sentirsi utile. Mi impegno a ricordarmelo per il futuro. Esco dalla porta senza rispondere. La colgo di sorpresa. Fa un saltino indietro e mi guarda leggermente allarmata. Fingo di non accorgermene. «Wow, grazie ho una fame da lupi!» Sembra compiaciuta. Camminiamo sulla lastra sottile della cortesia. Al di sotto, c’è un marasma di sentimenti contradditori in cui ci siamo già buttate un po’. Io non muoio di certo dalla voglia di un altro tuffo. «Hai programmi per il pomeriggio?» chiedo fra una forchettata e l’altra di pastasciutta. L’altra domanda che mi gira in testa è se tutti questi carboidrati non mi faranno ingrassare o, peggio, venire un culo grande come quello di Valrob. Il pensiero è così stupido e così stile “vecchia Ale” che mi viene da ridere e per poco non mi strozzo con l’acqua. Come se a qualcuno qui potesse mai interessare la mia linea. Elena tergiversa poi spara d’un fiato: «Potrei andare a trovare Max.» Inarco involontariamente un sopracciglio. Mi sforzo di non esternare commenti sul presenzialismo quasi ossessivo del vicino. La mia amica si affretta a spiegare: «Ha dei cavalli da muovere, gli darei una mano.» Già, è questo che mi preoccupa, penso. Ma poi i vantaggi della cosa mi balzano agli occhi: un pomeriggio tutto per me. La casa deserta, niente amiche in crisi esistenziale, vicini invadenti (okay, gentili, ma pur sempre invadenti), più tutte le controfigure che in questi giorni hanno calcato le scene del mio eremo. Bistrattato, violato. L’idea mi rende così euforica e impaziente, che mi offro di rigovernare e anche di prestarle la mia Dream per andare fino al Granaio.

«Non so la strada» obietta Elena, timorosa che ritiri la mia generosa offerta. «Puoi andarci in auto» osservo, ma aggiungo subito: «Comunque la cavalla sa la strada. Lasciale le redini lunghe, lei d’istinto va lì. Ha abitato al Granaio diversi mesi.» Elena mi guarda incuriosita, ma non do spiegazioni. È stato mentre rimettevo in sesto la miniscuderia. Solo io posso adottare un cavallo ancor prima di avere un posto dove metterlo.

30.

L’aria della notte profuma di vita segreta. Mi lascio cullare dal moto dolce del dondolo. Ho spento tutte le luci a parte una candela sul tavolo. E le stelle. Mi guardano, immote e lucenti. Forse ridono di me, delle mie vaghe aspirazioni da artista della fotocamera digitale. Ridono magari della mia ostinata fuga dal ato recente e della mia nostalgia per il ato felice. Avrò avuto otto anni. I miei genitori affittavano una villetta in un punto della valle non lontano da qui. Era agosto. L’aria probabilmente era profumata, esattamente come ora. Chiacchieravano, loro, e io giocavo con mia sorella. Ricordo la punta accesa della sigaretta nel buio. Arancione. E poi una luce più chiara, più luminosa. Una lucciola. L’unica lucciola che io abbia mai visto.

***

«Ti disturbo?» il presente si fa strada fra le vestigia del ato. «No, vieni» le faccio spazio sul dondolo. Vorrei chiederle: «Hai mai visto una lucciola?» ma non credo capirebbe. E se anche capisse, mi prenderebbe per matta. Penso che un po’ lo sospetti di già. Sospira. Tutti i miei sensi si allertano. Mi sento in pericolo. Ho paura che questa conversazione sia il preludio a un nuovo cambiamento. E di cambiamenti in questi giorni ne ho già subiti abbastanza. E io, i cambiamenti, li detesto. «Mi sono divertita oggi, da Max.» L’impressione è che prenda il discorso alla lontana. «Ne sono contenta.» Commento laconico, la mia specialità. «Montare mi libera la testa da tutti i pensieri negativi.» Osserva,

cautamente, le mie reazioni. Forse cerca di leggere la mia espressione nella notte. «Già» altro commento neutro. Non farla troppo lunga, penso. È una tortura non sapere cosa mi aspetti. «Sai... pensavo... Max mi ha fatto una proposta.» Oddio, una proposta? Tipo “vuoi uscire con me?” oppure “vuoi sposarmi?”. Mi immagino Max, il berretto stinto, inginocchiato nella polvere. Okay, calma. «Se Tommaso portasse qui la mia cavalla.» «Qui dove?» la interrompo subito. Qui, no di certo. Non c’è spazio. E poi sarebbe una complicazione. I miei cavalli stanno insieme da tempo. Sono un vero e proprio branco. Inserire un’altra cavalla? Non se ne parla. «Al Granaio.» «Ah.» Almeno non a casa mia, penso. Sono un’egoista di prima categoria. «Ecco, se lui la portasse qui, Max la manterrebbe in cambio del lavoro che potrei svolgere da lui» «Perché?» «Gli darei una mano e in cambio avrei qui la mia cavalla... mi manca molto.» «Non intendo questo» nel buio è più facile, penso «perché lo fai? Non pensi di tornare a casa?» «Io... se ti do fastidio», una nota stridula nella voce. Per favore, non piangere, non lo reggerei. «No, non è questo. Ma non conosci Max, hai un sacco di cose in sospeso a casa...» respiro profondamente «Comunque se è quello che vuoi...» «È quello che voglio» mi interrompe subito. «...chiama Tommaso» finisco imperterrita e sensibile come una schiacciasassi. Silenzio teso. «Ecco io...» capisco che i problemi non sono ancora finiti. Capisco che il trasporto della cavalla al Granaio è solo una parte. Adesso viene il bello. «Il fatto è... tu... io insomma volevo chiederti se...» Se cosa? «Se?» «Glielo chiederesti tu?» «Io?» Non posso crederci. «Ascolta lo so che...» scoppia in lacrime. Oddio.

31.

Al terzo squillo, risponde con tono divertito: «Ti mancavo?» «Certo, no?» Meglio stare al gioco, perché dopo la bomba che sto per sganciare potrebbe non avere più alcuna voglia di scherzare. A me, per dire, è ata. «Cosa fai?» mi domanda. Conversazione, vuol fare conversazione. Pensa che io l’abbia chiamato per questo. «Io... ho dato il fieno, pulito il paddock. Adesso andrò a fare due i con Dream, penso.» «Dream è la bellissima puledra, quella che non vuoi vendermi?» «No!» «Vuoi vendermela?» «Ma no! Non voglio venderla e non è quella! Dream è la palomina.» Mi chiedo se dal mio tono possa capire quanto sono nervosa. Magari no. Oppure, orrore, attribuisce la tensione ad altro. Tipo l’emozione di averlo chiamato. È un momento tremendo, mi appoggio il

cellulare alla spalla e mi asciugo le mani sudate sui jeans. Strana cosa, non ho mai le mani sudate. E non è piacevole, per la cronaca. Respiro a fondo, mentre ascolto il mio interlocutore elencare le attività che occuperanno la sua giornata. Prima che la mente registri e censuri le attività della mia bocca, mi sento dire: «Come sta la tua ragazza dai capelli rossi?» C’è un attimo di silenzio assordante. Poi, a sorpresa, ride. Ride ancora, di gusto. Non solo ho fatto la figura della scema, non solo devo chiedergli un favore e non per me, ma per Elena. Tutto questo non basta. Ride, ride e ride e non accenna a smettere. «Ecco, scusa ma io... insomma cosa ridi?» «Niente, niente» riprende fiato «sta bene, te la saluto se vuoi» mi prende in giro. Il tono della voce è più che divertito. «In realtà ti ho chiamato per un motivo specifico» meglio arrivare al punto e chiuderla qui. Un tentativo di limitare le perdite, diciamo. Continuo senza aspettare che replichi. «Elena mi ha chiesto di chiederti...» Questo è un momento difficile. Cosa cavolo sto dicendo? «Lei, insomma, vorrebbe...» Okay, ci riprovo. «Insomma vorrebbe che le portassi qui la cavalla.» Forse potevo dirlo anche con maggior tatto. Solo che mi è venuto così. «Okay. Voglio dire. Va bene. Dille che la porto lì in settimana, appena possibile.» Sento il suo tono grave e preoccupato. «Mi dispiace. Penso che sia solo una fase. Però...» «Non ti preoccupare. Non è colpa tua. Non c’entri. Ci sentiamo» e stavolta attacca lui, per primo. Resto a guardare il cellulare muto e non posso fare a meno di pensare che la mia parte in questa commedia fa un po’ schifo.

32.

Mia mamma è la regina dell’eufemismo. Se bruci la cena e l’arrosto si carbonizza, lei dice che forse è un po’ cotto. Oppure se la lavatrice si guasta e l’appartamento si trasforma in un lago, con l’acqua più alta del tuo cagnetto, che per poco non annega, lei è capace di sostenere che si tratta solo di un po’ d’acqua. Per lo stesso principio, si riferisce al mio alcolismo come ai miei “mesi bui”. Lo dice con una naturalezza forzata, lo infila nei discorsi come per caso. Del tipo: «Veronica, la ragazza che veniva all’asilo con te, la figlia della dottoressa, hai presente? Ha avuto una bambina.» «Non sapevo fosse sposata.» Pausa di silenzio. In genere a quel punto si volta, o si china a raccogliere qualcosa per terra oppure tiene semplicemente gli occhi bassi e dice: «Già. Si è sposata il luglio scorso, durante i tuoi mesi bui.» Non lo dice per farmelo pesare.

Semplicemente non evita di dirlo per non farmi pensare che l’ha censurato. O che se ne vergogna. O che non lo accetta. In un modo strano, contorto e assolutamente materno è un modo per dire: «Ehi hai fatto un errore, ma non fa niente. Ti voglio bene, uguale.» Una pacca sulla spalla, diciamo. Credo l’abbia letto in un libro. Qualcosa tipo Guida pratica per mamme di ragazze difficili oppure Essere madre al giorno d’oggi. Qualcosa così. O forse gliel’ha detto la mia terapeuta. Non so. In ogni caso non è vero. Voglio dire, non lo pensa realmente. Quando abbassa gli occhi, io lo so cosa non vuol farmi vedere. In fondo mi ha dato tutto perché avessi una vita perfetta e io alla prima difficoltà ho buttato la mia chance al vento. Sono una delusione vivente. Questa consapevolezza accompagna i miei giorni da alcolista sobria. Come posso sentirmi sola quando sono sempre in compagnia di un’allegra banda di sogni infranti, speranze deluse, aspettative tradite?

33.

Faccio due i. Imbocco il sentiero che, costeggiando i paddock, mi porta al rudere. Mac mi segue, il o elastico, gli occhi mobili e vigili. Mi sono accorta che è un po’ strano negli ultimi giorni. Credo che si senta solo. Innanzitutto è più mite e tollerante con Tello. Ieri per esempio non l’ha aggredito quando l’altro gli si è avvicinato mentre mangiava. Ha fatto solo un ringhio d’avvertimento. E questa, da parte sua, è un’enorme concessione. Mi segue di più e più d’appresso, come se d’un tratto gli fosse venuta l’ansia di essere lasciato indietro. Attribuisco questo diverso atteggiamento all’allontanamento di Desde, al fatto che lei si è autonominata accompagnatrice ufficiale di Elena. Infatti, anche ora, l’ho vista seguire, scodinzolante, Dream. Vanno al Granaio, oggi come ogni altro giorno di questa settimana. «Siamo io e te, Macki-tacki» gli dico. Solleva la testa e sembra scrutarmi. Con una mano mi picchio la gamba destra e gli dico: «Vieni qui.» Senza interrompere il contatto visivo si avvicina. Tello, a un gesto così, risponderebbe scodinzolando, Desde si slancerebbe dritta in braccio. Macki si muove verso di me, con lentezza ed eleganza e poi mi resta vicino, osservandomi. «Vuoi una coccola?» gli domando piano. Muove la coda, un solo sventolio, un breve ok. Così mi chino, i miei occhi all’altezza dei suoi. Appoggio una mano sul suo

manto folto e nero. Il suo corpo snello sembra attraversato da scariche di corrente. Lo accarezzo teneramente una volta, piano piano e delicatamente. La seconda avverto già che si sta rilassando. Il mio cane selvaggio, penso. Dopo pochi mesi che abitavo qui, il ragazzo del bar mi ha chiesto se mi sarebbe piaciuto avere un altro cane. «Mia zia ha dei cuccioli» aveva detto. Da queste parti, lo so, non si va per il sottile. Un cucciolo non adottato potrebbe fare una brutta fine. E poi io avevo tanto spazio, l’ho fatto volentieri. Così mi sono portata a casa un batuffolo biondo e allegro. Desdemona. Tello non ama molto dividermi con altri, ma Desde gli è piaciuta fin dal primo momento. Perché è allegra, affettuosa, giocherellona. Una seconda giovinezza per Lello. Una sera, i cani mangiavano sotto al portico e io ero al piano di sopra. Ricordo di aver sentito fracasso. I cani abbaiavano e urlavano. Sono scesa più in fretta che ho potuto, con un cucchiaio di legno. La prima arma che mi è venuta in mano. E ho visto un cane, dall’aspetto rotto e sgangherato, i denti ben in vista e il pelo ritto affrontare Tello, insolitamente nervoso, con un atteggiamento guerresco che non gli avevo mai visto. Intorno saltellava Desde, intimorita, abbaiando e uggiolando, senza sapere se e come schierarsi. Quando il cane randagio mi ha visto, forse spaventato dal cucchiaio di legno o forse dalla mia sola persona, è scappato via di corsa. Per una settimana non si è visto. Lo aspettavo, il giorno successivo alla prima apparizione, ma niente. Solo quando ormai mi ero messa il cuore in pace, è tornato. Sempre di sera, l’ora in cui do da mangiare ai cani. Anche in questa seconda occasione ha affrontato Tello e ha mangiato un po’ della sua cena. La terza volta, a distanza di tre giorni, al primo cenno di lite ho allungato a Tello una ciotola con altro cibo. Il randagio ha ripulito una ciotola, ha guardato desideroso l’altra e il labrador ha abbaiato. Il randagio spennacchiato è corso via, sazio questa volta. È stato così che Macki-tacki è entrato nella nostra vita. Piano piano.

34.

Rispondo al terzo squillo. «Ciao.» L’unico che può essere a quest’ora, una nuova

abitudine. «Ciao, tutto bene?» tono di voce dimesso. «Bene, come ieri, diciamo» mi chiamano la regina dei ghiacci. «Scusa» tout-court, semplice ma d’effetto, bisogna ammetterlo. «Di cosa?» «Lo sai. Sono stato maleducato ieri e... voglio dire... tu non c’entri niente» non male, davvero, quasi convincente. Poi penso: «Ha bisogno di qualcosa» e questo cambia la prospettiva. «Acqua ata, figurati», gentile, «scusa ma ora devo proprio lasciarti!», ma decisa riattacco.

35.

Toc, toc, toc. Aria morbida, rumori secchi. «Pensavo» mi si affianca. Il sentiero è sufficientemente spazioso per due cavalli affiancati, in questo tratto. «Pensavi» incoraggio. «A quello che dicevi l’altro giorno.» Silenzio. Favorevole, per chi lo vuole. «Quella cosa del perdono.» «Mmm.» «Mi chiedevo...» «Se sono pazza?» Ride brevemente, come a voler fugare il sospetto. Per se stessa, non per me. «No, più che altro se tu...» «Se io cosa?» ha risvegliato la mia curiosità. «Se tu me l’hai suggerito perché l’hai fatto.» «Non ho capito, fatto cosa?» «Se tu hai perdonato. Luca dico.» «Ah.» Shad scarta all’improvviso, spaventata da un’ombra inattesa e assolutamente innocua. L’incongruenza di tonnellate di cavallo pronte a spaventarsi solo per l’idea di un pericolo. Sfrutto la possibilità per valutare bene la mia risposta. «Scusa, dovrei farmi i fatti miei.» «No, no. Non so come spiegarmi.» O meglio so cosa dovrei dire, ma non so se sono capace di dirlo. «Non era questione di perdonare, in quel caso.» «Ma ti ha tradito. Pugnalato alle spalle. Voglio dire... è stato il peggiore dei peggiori degli...» «Stronzi!» Ride. Forse imbarazzata dalla schiettezza con cui ha affrontato un discorso chiaramente tabù. «Ti ho detto, non è mai colpa solo di uno.» «Ma non è vero. Tu eri in un momento difficile, lo sapevamo tutti. Voglio dire, era chiaro, tuo papà.» Il silenzio si prolunga teso. In due frasi, due argomenti tabù. «Già. Sembrava così.» «Comunque non è colpa mia» torna al presente. «Non dico questo.» «Non posso dimenticare.» «Perdonare non è dimenticare.» «Tu. Tu hai perdonato?» Ora sarebbe semplice dire sì o no o... «Era colpa mia. Io sono un’alcolista.»

36.

La realtà è l’interpretazione che diamo ai singoli frammenti del puzzle che chiamiamo vita. Per questo amo la fotografia. Ogni volta che rubo un’immagine, sto inventando un’interpretazione del soggetto ritratto. Che sia un albero, o una casa, o una nuvola o un’ombra. In ogni caso esiste nel limite della fotografia che ne cattura una delle possibili essenze. Sono io la creatrice della realtà. Sono io che do un senso al pezzo di legno, all’insieme dei mattoni, al coagulo di goccioline nel cielo. Ho appena fatto una serie di scatti a Shad, libera nel paddock. Corre, sgroppa, mangia, si volta a guardare un alito di vento che smuove le foglie dei cespugli all’esterno del paddock. È attraverso l’obiettivo della fotocamera che Shad è Shad. Non un cavallo qualunque. Bensì la puledrina che ho visto nascere, che ho portato qui appena ho potuto. Che è cresciuta insieme a me. Temporeggio, la fotocamera sulle ginocchia, appollaiata sulla staccionata bianca del paddock. Adoro la luce del tramonto che inizia a dorare le cime delle montagne. Ma non scatto. Rimango lì, a bere questa pace perché lenisca il mio animo ammaccato. Dalla mia posizione non vedo l’ingresso dei paddock, né di casa. Non so se Elena è rientrata o se è ancora da Max. Non che faccia differenza. Entrerò piano, piano. Lascerò la fotocamera in studio e andrò di sopra. Solo più tardi scenderò in studio e scaricherò le foto sul computer. A volte le ritocco, altre no. Molte le cancello, altre le faccio stampare per il mio book. Un giorno, sogno, il rustico sarà una galleria d’arte fotografica, con una mia mostra permanente e spazi idonei dedicati a giovani e talentuosi artisti. Nutro la mia fantasia con ampi soffitti, travi a vista, docce di luce naturale che entra da enormi vetrate. Ma è un sogno intimo, una cosa tra me e me. Uno di quei pensieri che tieni chiuso da qualche parte e che contempli quando sei certo che nessuno possa vederti e giudicarti. Quindi sto bene attenta a non essere notata in compagnia della fotocamera. Mi avvio lenta verso casa. Non è poi così difficile. Non essere notata, dico. Elena è tutta presa da Max o, come dice lei, dal lavoro al Granaio. E credo imbarazzata per la confessione dell’altro giorno. Non posso biasimarla: fra tutti i modi che ci sono per dire, finalmente, la verità, io ho indubbiamente scelto il

peggiore.

37.

«Ciao» mi volto di scatto e per una frazione di secondo penso “sto cadendo in acqua” e il pensiero immediatamente successivo è “merda, la fotocamera”. Ma la sua mano mi afferra, con sicurezza e riacquisto l’equilibrio. Faccio due i e ritorno con i piedi all’asciutto. «Grazie.» «Figurati, adoro salvare ragazze in difficoltà» sfodera il suo sorriso da seduttore e nella testa mi squilla un camlo di allarme. Pazzesco, non pensavo nemmeno di averlo. Però bello sapere di avere questi optional. «Quando sei arrivato?» chiedo, ignorando la sua precedente affermazione. Veramente la domanda che vorrei fare è: «Quando pensi di andare?» ma devo essere educata, è casa mia. L’ospite è sacro. «Appena in tempo per salvarti da un tuffo fuori programma.» L’ospite non potrebbe facilitarmi il compito ed essere meno provocatorio? «Hai già portato la cavalla da Max?» «Vengo da lì» annuisce «ho scaricato la cavalla di Elena e la mia cliente, hai in mente? Ci sta raggiungendo. È venuta a vedere il suo cavallo...». “Raggiungendo?” Non riesco a seguire il filo del discorso. “Sì, viene con la sua macchina per non fare il viaggio con il trailer” Annuisco, ma intanto mi chiedo cos’ha visto e se ha intuito qualcosa. Ma non proferisco verbo, non intendo immischiarmi. «Vanno d’accordo quei due» osserva, forse per riempire il silenzio un po’ troppo prolungato. «Quei due chi?» faccio la gnorri. Ma allora lui ha visto, probabilmente ha capito tutto. «Loro» e fa un cenno con la testa. Lo guardo interrogativa. «I cani. I tuoi due cani.» I cani. «Ah sì.» «Ale stai bene?» mi guarda da vicino. «Sì scusa, tutto ok. I cani. Di solito no, ma in questi giorni... non so come mai» mi rendo conto di esprimermi per frasi sconnesse. Solo non riesco a dare coerenza a quello che dico. «C’è qualcosa che non va?» Fisso lo sguardo sui due bottoni che chiudono la sua polo blu sul collo. Uno ordinatamente allacciato, l’altro, aperto, mostra un triangolo di pelle abbronzata e un ciondolo. Tengo lo sguardo inchiodato lì e controllo la mia voce: «No. Ovvio» e mi incammino verso casa, sperando che se la sia bevuta. Mi cammina al fianco, reprimo l’impulso irrazionale di accelerare il o e distaccarlo. Mi sento in colpa come se in qualche modo fossi io responsabile degli ultimi avvenimenti.

«Sai cosa mi piacerebbe?» lo dice con un tono malizioso, che mi fa venire delle brutte idee. Tra cui enumero: usare un ramo caduto per provocargli un trauma cranico, scegliere una pietra e polverizzargli la dentiera, infilargli la testa nella letamaia e... «Mi piacerebbe veder saltare la tua cavalla» ecco, questo non l’avrei incluso nell’elenco. Resto zitta. Non commento. L’unica cosa che mi viene da dire è “solo in mano mia”, come da bambina. “Mi fai vedere la tua nuova Barbie, il tuo nuovo peluche, la tua nuova macchina fotografica?” “Sì ma solo in mano mia” rispondevo a quella lagna di mia sorella. Perché le sue mani per me rappresentavano il peggio che potesse succedere alle mie proprietà. Caduta, rovina e disastro. «Solo vedere» insiste il mio accompagnatore. La lunghezza d’onda, bisogna dargliene atto, è esattamente la mia. «Okay.» Va bene, vedrai la mia cavalla saltare. Va bene, sei qui e ci resti tutto il giorno, temo. Okay. Da me però avrai solo monosillabi, decido.

38.

Entro nel paddock con un paio di carote e un paio di mele. Valrob mi si avvicina tranquillo e accetta una mela e due grattini. Poi si allontana soddisfatto del suo bottino fuori orario. Shad gira l’angolo, trottando. Fischio. A volte ho l’impressione che non disdegnerebbe caricarmi. Poi però si modera sempre. Forse è per via delle carote, non so. Le aggancio la longia e mi segue docile. Da cavalla selvaggia a mansueta cavalla addomesticata. Una trasformazione strabiliante. Il mio ospite apprezza la mia piccolina e si vede. L’ammirazione gli illumina gli occhi, mi chiedo per un attimo come deve essere la sensazione di essere guardata così. Non che non sia mai stata desiderata, ma ora che ci penso è ato tanto tempo. Interrompe le mie elucubrazioni prima che io possa indugiare su argomenti spinosi. «La prepari qui?» «Lì sotto il portico.» «Quelle sono le scuderie?» «Sì. La scuderia» preciso, pignola come la maestrina dalla penna rossa. Si siede sulla carriola, mentre io pulisco, spazzolo, lucido e sello. Lo stesso posto dove si metteva Elena i primi giorni. La mia solitudine è solo un vago ricordo. «Quindi i tuoi cani vanno d’accordo» il cambio repentino di discorso mi lascia per un attimo interdetta. «I due maschi? Solo di recente. Veramente Mac, il nero» preciso «tollerava solo la compagnia di Desde.» «Desde?» «Sì, Desdemona la cagnetta bionda.» «Ah sì, giusto. Ora dov’è?» «È con Elena, credo. La segue ovunque.» «Triste?» «Io? No, solo un po’ Mac. Lui e

Desde» prendo fiato, sto anche lavorando io, mentre lui sta lì, non si offre di aiutarmi e in più mi fa il terzo grado «sono amici. Lei gli ha insegnato che vivere con me non è poi così male» sorrido al ricordo «e lui le ha insegnato com’è bello essere liberi.» Mi guarda incuriosito. Non so perché, ma gli racconto per sommi capi la storia di Mac. «Poi un giorno sono rientrata in casa e l’ho trovato sul divano. Come se ci fosse sempre stato. Ha scodinzolato solo una volta. Come dire ciao. E basta» concludo. Sembra interessato, come se non avesse altro motivo per essere qui che ascoltare le mie reminiscenze. «Shady è pronta. Ci vediamo là?» il mio tono è decisamente più brusco di quanto sarebbe ragionevole aspettarsi, visto che abbiamo conversato piacevolmente fino ad ora. Ma non posso impedirmi di desiderare di prendere le distanze.

39.

Un tempo ero convinta che il salto fosse il risultato di una serie di gesti perfetti. Se la falcata era buona, se la distanza era corretta, se la mia mano era dolce e la gamba presente, tutte queste condizioni portavano il risultato matematico, cioè un bel salto. Il fatto è che da allora di tempo ne è ato parecchio. E sono cambiata. Attraverso gli alti e bassi della vita, come si dice in questi casi. Lo ripeto: cambiata. Non cedo alla tentazione di dire: migliorata. Sarebbe un atto di totale immodestia pensare che i due anni ati siano stati un percorso di crescita e miglioramento. E delle tante bugie su me stessa che mi dico, questa non è fra quelle. Insomma, cambiata. Questo ha modificato anche il mio modo di montare e di saltare. Forse, semplicemente, ho smesso di preoccuparmi di cosa fare. Ho smesso di cercare la perfezione nelle mie azioni e ho imparato ad ascoltare. A sentire il movimento della cavalla, ad assecondare le sue richieste, a lasciarle la libertà di scegliere la battuta che preferisce, la falcata che le è più consona. Non vuol dire che io sia iva in sella, solo che non comando più. Eseguo. Gli occhi degli astanti seguono i nostri movimenti. Li sento sfiorarci nell’attimo in cui iamo accanto a loro e poi svaniscono alle nostre spalle. Siamo coordinate come Siamo coordinate come due nuotatrici sincronizzate, penso. Oppure questo è un valzer e scivoliamo leggere sulla pista. Galoppa regolare, picchia i piedi e siamo in volo. La sella è lontana, la terra di più. Poi si riceve e

continua a galoppare, io rientro in sella e la dirigo verso il salto successivo. Le dico “quello” nella mia testa e lei lo inquadra, semplicemente. E il gioco si ripete. Picchia i piedi, allunga il collo e io rispondo istintivamente, allungando le mani oltre la mia testa, piegando la schiena. Di nuovo separate da un soffio d’aria e dopo pochi secondi di nuovo a terra, insieme. Solo quando il galoppo diventa trotto e il trotto o, ristabilisco il contatto con la realtà. Lascio che le redini mi scorrano fra le dita, mi chino ad accarezzare il collo muscoloso della cavalla. Lo stato di trance evapora, portato via dalla concretezza dei termini e dal suono delle voci. I commenti mi scivolano addosso. Elena e Max, le due teste vicine. Due i più in là, la rossa con Tommi. Che non dice niente. Incontro il suo sguardo e sono troppo lontana per leggervi un qualunque significato. Poi lui scavalca la cavallerizza e si avvicina. Torna a essere l’istruttore, penso, mentre cammina nella mia direzione, la testa bassa, una posa che ricordo bene. Ora mi dirà cosa ho sbagliato e mi farà rifare l’esercizio. Si accosta a noi, accarezza lievemente la cavalla. «Bella» dice solo. Non chiedo niente. Vorrei delle spiegazioni, ma non sembra propenso. È immerso nei suoi pensieri e guarda Shad con attenzione. Dall’esterno del campo Max interrompe questo silenzio imbarazzante: «Pranziamo? Ale, scendi, mettiamo la cavalla in un paddock.» Tommi si riscuote, io smonto e slaccio la sella. Esce dal campo senza altre parole. Sono confusa.

40.

Elena e io apparecchiamo il tavolo appena fuori dalla clubhouse. Max si occupa del barbecue. Ogni tanto lancio occhiate preoccupate alla rossa e a Tommaso che discutono alcuni metri più in là. Lei si agita, cammina in su e in giù e si scosta i capelli dal viso con un gesto misurato. La mano si muove rapidissima fino ai capelli, le dita si tuffano nella chioma rossa e poi con lentezza li riavvia dietro l’orecchio sinistro. Il braccio, teso, è perfettamente abbronzato. I capelli mandano bagliori metallici. Lui rimane appollaiato sul muretto di sassi. Fuma distratto e segue con gli occhi i suoi movimenti. Non sembra dica molte parole, o forse lo fa molto sottovoce. Comunque, non si capisce di cosa parlino.

Elena chiacchiera allegra con Max, al di sopra del canto della brace. Parlano di cavalli, di allievi, di persone che non ho mai visto, di episodi divertenti della loro lunga frequentazione. Dieci giorni. Ridono. Poi riprendono a parlare in coro. Ridono ancora. «Inizia tu.» «No dài inizia tu.» Chi scrive loro le battute è pessimo. Poi penso che è una situazione che viviamo tutti. Quando ti sembra di essere così vicino a una persona per cui inizi a... sospiro. Mi sento stanchissima. Mi siedo sulla panca, chiudo gli occhi e rivolgo il viso al sole. Se sto immobile, forse sparisco. L’ombra mi costringe ad aprire gli occhi. Max, con il piatto di carne. Elena sbuca dalla clubhouse con il pane e l’insalata e agita il braccio libero per attirare l’attenzione dei due. La rossa cammina energica, Tommaso dietro, quasi strisciasse un po’ i piedi nella polvere. Avverto una tensione nell’aria che mi ammutolisce. Mi guardo intorno e mi sembra che sia così per tutti. Questioni irrisolte. Elena e la sua fuga, io e la mia puledra, Tommaso e la fuga di Elena, giusto per scalfire la superficie. L’unico immune è Max. È lui a sostenere il peso della conversazione. Un monologo. La rossa mangia con la testa china, poi di botto interrompe una frase di Max chiedendomi a bruciapelo l’età di Shad. «Cinque anni» risponde Max per conto mio. E continua: «Mi ricordo com’era carina quando l’hai portata a casa. Magrina, vero?» La rossa non mi lascia il tempo di rispondere: «Pensi di venderla?» Con la coda dell’occhio, vedo Tommaso scuotere la testa. «No» non la guardo nemmeno in faccia. Max prosegue. Ignaro o deciso ad esserlo, non so. «Hai fatto certi voli eh?» Annuisco. «Non lo ammetterebbe mai, ma certamente non è stato facile addestrarla.» Elena interviene, forse infastidita dalla familiarità con cui Max parla di un comune ato di ricordi, inconsistente peraltro. «Ovvio che non è facile addestrare una cavalla appena domata, vero Tommaso?» Lui solleva la testa dal piatto e mi guarda. Sostengo il suo sguardo. «Vuoi pensarci?» «La cavalla non è in vendita. Te l’ho già detto.» Allontano il piatto. «Mi sembra che si stia annuvolando, forse sarebbe meglio tornare» aggiungo, seccata. Max, ancora una volta, allegro. «Non roviniamoci il pranzo. Sono solo due nuvole innocue.» Ripiombiamo in un silenzio teso. Max si rivolge alla rossa e a Elena e inizia a raccontare le avventure del suo ultimo nato, il suo puledrino. Come se catalizzasse le emozioni negative, ottiene delle timide risate, all’inizio, poi lentamente l’atmosfera si alleggerisce. La conversazione mi corre liscia accanto, alzo la testa. Incrocio gli occhi neri di Tommaso. Sostengo il suo sguardo enigmatico per alcuni secondi. Poi Max lo interpella e si volta verso di lui. Profilo aquilino. Una sensazione strisciante di pericolo.

41.

Le nuvole mantengono la loro grigia promessa. Pioggia battente. In breve Il Granaio si tramuta in un pantano. Accetto l’offerta di Max. Recupero Shad dal paddock e la sistemo in un box libero. Suppongo che sia scocciata, si agita per un po’ nell’angusto spazio a cui non è abituata. D’altra parte non è un paddock come il mio, con la capannina e il fondo maggiormente drenante. Mi perdo in considerazioni di vario genere, prolungando il più possibile la mia assenza dalla clubhouse. Accarezzo il pelo caldo della cavalla. Lentamente si tranquillizza. Ci toccherà tornare a casa con Max, in macchina, io ed Elena. Vorrà fermarsi a cena, si tratterrà un po’. Nel complesso una giornata buttata via. Però la rossa e Tommaso saranno sulla via di casa. Lontano da qui, lontano da Shad. Il breve tratto tra la scuderia e la clubhouse è sufficiente per inzupparmi e riempire di fango il fondo dei jeans. Quando entro, Tommaso dice: «Andiamo?» Il mio sguardo interrogativo lo fa sorridere. «Vi accompagniamo a casa, tanto stiamo andando via anche noi.» Elena guarda Max, Max guarda Tommaso, io guardo la rossa che ha già afferrato le sue cose e fa tintinnare ostentatamente le chiavi dell’auto. Max dice: «Posso accompagnare io le ragazze a casa, se non spiove tra poco.» Si misurano. La rossa interrompe il confronto testosteronico. «Io inizio ad andare, se mi prendi l’auto» lancia le chiavi a Tommi. Lui prende la porta, noi rimaniamo in silenzio. Spazzolo il fondo dei pantaloni, inutile. Alzo gli occhi di sfuggita, per valutare quello che mi succede intorno. La rossa guarda fuori dalla finestra, in attesa del suo cocchio. Una macchina a due posti, sportiva, nera. Mi immagino che domani mattina la porterà a lavare e lucidare. Elena e Max parlottano poco più in là. Quando Tommaso rientra, la rossa si dilegua con un saluto generico rivolto all’aria e lo schiocco esagerato di un bacio corredato con risatina roca al suo indirizzo. Il silenzio che si instaura è pesante come una cappa e denso di significati. Mi fa venire alla mente quel gioco da bambini: cosa vedi? – un dito – vuol dire che mi sono nascosto bene. Non faceva ridere nemmeno allora, figuriamoci adesso. È come la resa dei conti. «Vi accompagno» dice, di nuovo, Tommi. Elena alza la testa di scatto. Credo se ne accorga anche lui, perché continua: «A casa di Ale, se tu sei proprio convinta di non voler tornare a casa tua.» Ecco, ci siamo. Mi chiedo se lui noti la stretta spasmodica della mano di Elena al braccio di Max e cosa ne pensa, nel caso. Balbetta, lei, come presa in contropiede, anche se era abbastanza evidente a tutti

l’intento di Tommaso. «Io... non so... non...» forse per quella stretta rivelatrice, forse per il balbettio, forse per lo sguardo spaventato da selvaggina, non so, comunque Tommaso gira le spalle e dice, piano: «Devi decidere. Sta a te. La tua vita di prima ti aspetta.» Cammina verso la porta, si volta e mi dice: «Andiamo?» Obbedisco automaticamente, colpita dal tono stanco e rassegnato.

42.

Il silenzio nell’abitacolo dell’auto è granitico. Lo guardo di sottecchi, ma non oso aprire bocca. E anche volendo, cosa rimane da dire? Affronta l’ultima curva prima di casa mia e sospira. «Così resta» mormora. «Già.» Non so cosa dire e aggiungo impacciata: «Sei stato gentile prima.» «Per lui?» mi chiede, come se neanche avessi parlato. E incalza: «Rimane per stare con quello?» «Non so» rispondo sinceramente. Scrolla la testa. «Sarebbe un vero errore» aggiungo, forse per dimostrare solidarietà. Mi fissa, con un sopracciglio sollevato: «Un errore? Non è la stessa cosa che stai facendo tu?» «Io?» «Ma sì. La delusione d’amore, la fuga, l’eremitaggio.» «No per niente. Tu non... non c’entra niente con me.» Sono offesa. Mi chiudo in un silenzio ostile e ostinato. Varchiamo il cancello, neanche un cane ci corre incontro. Scendo e sbatto la portiera, sfogando almeno una parte della mia rabbia. E fischio. Dove sono i miei cani? «Scusa io non volevo...» mi mette una mano sulla spalla. «Shhh» gli intimo. Nessun cane all’orizzonte: né sul portico, né in direzione dei paddock. La casa è chiusa. A o di corsa mi dirigo sul retro, dove ci sono le scuderie. E li chiamo. I miei due. Desde è con Elena, al Granaio. Tommaso mi viene dietro. Sento un ululato. Fischio. L’ululato riprende, più forte. Corro. Fischio. L’ululato mi segna la strada. Il cuore mi batte a mille. Non mi importa della pioggia, del fango. Corro. Corro.

Parte 3

Allegretto

43.

Ci sono immagini che si scolpiscono indelebilmente nella nostra mente. Nel bene e nel male. Scene che rivivrai di notte, appena chiudi gli occhi, scene che ricorderai nei momenti di paura o di tensione, scene cui ti aggrapperai nei momenti difficili. Quando in mezzo al sentiero riconosco la sagoma nera di Mac, mi sento sollevata. I miei i sono più leggeri, la stretta che mi opprime la gola si ammorbidisce. Eccolo, è lì, sta bene. Lo chiamo, ma non mi viene incontro. Mi avvicino e solo quando sono a tre i da lui riconosco Otello, a terra, sdraiato. Mi slancio, mi inginocchio. Respira affannosamente, mi guarda con l’occhio appannato. Muove la coda una volta sola. Poi la testa si fa più pesante, l’occhio si spegne. Per sempre. L’ululato che riempie l’aria è lacerante. E non so se sono io o Mac. Forse entrambi. Lo stringo. Perché se lo lascio, se solo lo lascio un attimo, lo lascio per sempre. Lo so. E non posso farlo, non sono pronta a farlo. Lo stringo, perché è qui con me, sotto questa pioggia estiva, in mezzo a questo fango. Siamo insieme, come sempre, noi due. Mi ribello alle mani che cercano di allontanarmi, alle parole che cercano di riportarmi indietro. C’è solo questo momento. C’è solo questo presente. Sto qui. Devo stare qui. Nell’istante in cui lo lascerò, sarà ato. Questo corpo che mi pesa sulle ginocchia, che mi schiaccia sulla ghiaia è il mio Lello, Tello-Bello. Il mio cucciolo sotto l’albero di Natale, il mio fido amico che ha dormito con me negli ultimi dieci anni. Penso che non potrò mai più dormire. Non potrò mai più addormentarmi senza di lui. Devo stare qui. Le braccia che mi circondano sono protettive. Devo scegliere se abbandonarmi al loro richiamo o rimanere aggrappata a Lello. Mi appoggio un pochino a quell’offerta di protezione. Il corpo di Lello scivola piano nel fango. Mac ringhia, un ringhio basso e minaccioso, da cane selvaggio. Le braccia mi

lasciano, ma le parole che seguono penetrano il mio stato di indifferenza: «Vieni con me, me ne occupo io, ok?» Non rispondo. Non lascio Tello. Restiamo qui, noi, nella speranza di tornare indietro. «Sei tutta bagnata. Andiamo in casa.» Una mano si appoggia sulla mia spalla, un altro tentativo. Mac ringhia, di nuovo. Serio e pericoloso. Un nuovo latrato di dolore accoglie Desde, bionda e soffice. Mi si appoggia contro, calda, protettiva, viva. La pioggia scende a rivoli dai miei capelli. Elena mi chiama, risponde il brontolio sordo di Mac per me. Macki-tacki ci difende, penso. Difende il nostro diritto a non separarci. Nessuno mi porterà via Otello. Niente. Nessuno. «Adesso chiamiamo l’Asl, così lo prendono e...» «No» sono io, è la mia voce. Irriconoscibile, graffiata, sconfitta. Non possono portarlo via, non possono. Sollevo Tello fra le braccia. Barcollo, grata del suo peso, dell’odore del suo pelo e del fango. Spero che si impregni alla mia pelle. Nessuno mi aiuta, Mac tiene tutti a distanza. Lo deposito sul portico all’asciutto, nella sua amata cesta. Poi prendo la vanga, dalla scuderia, e scavo. Le aiuole deturpate lasciano spazio a un buco sempre più profondo, lo stesso buco che mi sento dentro. Tommaso cerca di convincermi a lasciar scavare lui, sento che parlotta con Elena e Max. Sono lontani chilometri e chilometri da me. La pioggia e il fango, la fatica. Solo questo. Solo questo.

44.

Mi sveglio, con il sole in faccia e la sensazione rassicurante di un corpo vicino al mio. Tello, penso. Poi mi ricordo e lo schiaffo è violento, mi riempie gli occhi di lacrime. Mi sottraggo alla stretta delle braccia che mi hanno avvinta per tutta questa nottata. Vado in bagno, tallonata da Mac. Guardo nello specchio i miei occhi gonfi, il viso deformato dal dolore. È già successo, ci sono già ata. Ma questa volta non c’è Lello a ricordarmi i giorni felici. Adesso sono rimasta io. Sola. Mi sciacquo con l’acqua gelida, tampono leggermente con l’asciugamano. Guardo con stupore le mie mani segnate, graffiate, le unghie rotte. Mac non perde di vista i miei gesti, mi fissa con gli occhi neri, pungenti e insondabili. Quando rientro in sala, Tommaso mi si avvicina. Rimango indietro, rigida. Mi

accarezza la guancia, mi chiede come sto. «Benone» rispondo e cerco di stemperare con una risata. Ne esce un suono secco, che dà i brividi. Riempio d’acqua un pentolino, lo metto sui fornelli. Gesti meccanici, di chi sa cosa e come. Preparo due caffè senza chiedere, prende il suo, mi ringrazia e torna al divano. L’acqua bolle, prendo una bustina di camomilla. «Cosa fai?» «Impacchi. Per la faccia.» Annuisce, come se capisse. Ma non può capire. Sono miei e sono lontani i giorni in cui mantenevo la mia maschera a suon di impacchi. Bevo il caffè, lascio la camomilla a raffreddare e scendo al piano terra. Mi segue. Metto gli stivali di gomma e la cerata. Piove anche oggi. «Dove vai?» «A dar da mangiare ai cavalli» rispondo senza nemmeno voltarmi. Forse dovrei ringraziarlo, o almeno sentirmi riconoscente per essere stato con me. Invece voglio rimanere sola. Sola. Sento il motore dell’auto accendersi e allontanarsi. Sola, appunto.

45.

Circospezione. Questa parola incarna tutte le mie sporadiche relazioni umane in questi giorni. Elena mi guarda con gli occhi preoccupati e un sospetto che si annida in fondo, come una spina nei palmi delle mie mani. Ieri l’ho sorpresa a svuotare nel lavandino una bottiglia di vino bianco che stazionava nel frigo da tempo immemore. È diventata rossa, tutta d’un tratto, e ha balbettato delle scuse. Ho finto di non vedere e mi sono allontanata con Mac alle calcagna. La realtà mi sfiora leggera, impalpabile, tenue come tela di ragno. Faccio finta che tutto vada bene. Lavoro, accudisco i cani e i cavalli, esco spesso in eggiata con Shad. Ci concediamo lunghe galoppate lontano da casa. E torniamo stremate sui nostri i. Il sentiero è deserto, Tello non mi viene incontro scodinzolando. Mi si stringe il cuore. Le ore notturne sono faticose e spossanti. Mi giro e rigiro nel letto, insonne. La mente occupata da immagini di un ato felice, definitivamente sepolto con Tello. Cerco la pace nei luoghi che mi sono familiari, che sono miei. Profondamente. Mi addormento, stremata, alle prime ore del giorno nei posti più

impensati. Sul dondolo, nelle scuderie, nella capannina dei cavalli, al rustico. Elena si divide fra me e Max. Mi dà una mano qui, si offre di fare un sacco di cose e molte le fa senza chiedere. Ogni tanto il suo sguardo puntato addosso diventa pesante come un macigno. Si chiede, lo so, come sto davvero. Forse si chiede se questa volta sarà in grado di darmi una mano. Come se questa volta toccasse a lei. Ci sono un mucchio di cose implicite, non dette per scelta o per codardia o per pudore. Aleggiano mentre pranziamo, mentre guardiamo la tivù la sera, mentre evitiamo di incontrare gli occhi l’una dell’altra. Così, quando va al Granaio, mi rilasso. Come ora. Nascondermi è la cosa che mi riesce meglio.

46.

«Ale? Aleee?» mi sveglio di scatto. «Sono qui» rispondo. Mi sono addormentata sul pavimento di legno della soffitta. Fotografie sparse dappertutto. Elena accende la luce, che mi abbaglia. «Cosa fai?» sembra accaldata, tesa, ansimante. «Stai bene?» le chiedo. «Sì. Solo... la casa sembrava deserta. Ti ho chiamato.» Il tono della sua voce è quasi accusatorio. «Dormivo, scusa.» Si guarda intorno. Scatoloni, cianfrusaglie e le foto. «Non sono mai stata qui» osserva. «Non ci vengo molto spesso nemmeno io.» Si inginocchia accanto a me. Circondate da pezzi della mia vita. Prende una foto a caso. La lascia cadere, ne guarda un’altra. Non dice una parola. Mi sento violata, come sorpresa in mutande. Il suo silenzio, poi, è pesante come una condanna. «Sono tantissime» dice. Alza lo sguardo, dà un’occhiata circolare alla stanza. «Queste le ho fatte qui» mi sorprendo a dire. «Ma ce ne sono altre» continuo. Indico gli scaffali, con scatole contrassegnate da numeri o parole tipo DUBLINO ’94 oppure NY 2005. «Posso?» mi chiede semplicemente. Mi alzo e prendo una scatola a caso. Foto di me e Luca. Rimetto via. Prendo le foto di New York, una settimana ata da sola nella grande mela per lavoro. Pesca a piene mani, con un’ingordigia d’immagini che non capisco. Però spiego: «Qui ero a Central Park» e «questo è il Brooklyn Bridge» e via così. All’inizio stentati, poi i ricordi fluiscono in modo libero. Come se si fosse rotto un argine dentro. Cerco altre foto, mostro attimi di me attraverso le mie foto più belle, o più buffe, o più

suggestive. Le sue domande mi incalzano. Poi la mia mano raccoglie da terra una foto di Tello, cucciolo, con in bocca una pallina da tennis. Sullo sfondo i piedi, le scarpe di mio padre e mia madre. Non mi ricordo quel giorno, penso. Non mi ricordo. Sento Elena sporgersi oltre le mie spalle per dividere con me questo nuovo ricordo, che io ho perso. Lascio cadere di scatto la foto, mi alzo in piedi e senza voltarmi dico: «Vado a dar da mangiare ai cavalli.» Scendendo le scale, sento la mia amica dire: «Ceniamo fra mezz’ora, ok?» Non rispondo.

47.

Lavoro molto. Ignoro per giorni il richiamo dell’estate e cerco di ultimare tutti i lavori che ho in sospeso. Lo studio è una tana sicura, Mac, eccezionalmente, un ospite occasionale e gradito. Mi interrompo solo per i pasti, che consumo ascoltando la mia ospite o la tivù. Ho preso l’abitudine di dormire su una chaise longue, sempre in studio. Quando gli occhi mi si chiudono dalla stanchezza, mi lascio cadere lì. Se mi sveglio nel cuore della notte, ricomincio a lavorare. La fotocamera mi guarda astiosa da uno scaffale, in studio. Elena si è offerta di muovere le mie cavalle, visto che sono così occupata. Non abbiamo parlato più del pomeriggio in soffitta. È abbronzata, i capelli si sono schiariti al sole e forse è dimagrita. Visibilmente felice. Soprattutto oggi, penso. Si agita sulla sedia e sorride a trentadue denti. Magari anche di più se potesse. Solo qualche settimana fa, non mangiava, non parlava e non faceva altro che piangere. E oggi invece la scopro diversa. Sono così concentrata su me stessa, che non mi accorgo neanche dei cambiamenti intorno a me. Egocentrica, mi rimprovero. «Il tempo in questi giorni è bellissimo. Max sta organizzando un trekking per domenica. Potresti venire.» Mi guarda. Gli occhi azzurri le brillano. Love is in the air. Ok, io sarò anche distratta, egocentrica, ma oggi è veramente su di giri.

«Cosa fai oggi pomeriggio?» chiedo, cauta. Per sondare il terreno. «Solito. Le cavalle le ho già mosse qui. Ho delle lezioni, al Granaio» ancora un sorriso smagliante. Lascio cadere forchetta e coltello, il suono secco dell’impatto con il piatto le fa alzare la testa di scatto. «Mi dici come mai sei così felice, oggi?» Potrei leggere i suoi dubbi, come i titoli di coda sullo schermo alla fine di un film. Aspetto paziente. «Sai Max...» mi guarda titubante. «Mi ha invitato fuori a cena. Stasera.» Mi appoggio allo schienale della sedia. Ci studiamo dai capi opposti del tavolo. «Cosa ti metti?»

48.

La sua eccitazione è contagiosa. Esce dal bagno in accappatoio, i capelli avvolti in un asciugamano. Io sono arrampicata su una sedia, per metà immersa nel mio armadio, spulciando fra gonne e vestiti. E scarpe. Polvere e cellophan. Tailleur pantaloni dal taglio rigoroso, vaporose camicette, sciarpe di seta. «È molto tardi vero?» la voce è esitante, sul punto di spezzarsi. «Ma no» e aggiungo: «poi bisogna farsi un po’ aspettare. È la regola.» Mi sorride, nervosa, entra in camera e torna in biancheria intima. «Cosa dici? I capelli. Li lego?» L’acrobata del guardaroba: torco il busto, inclino la testa, aumento la stretta alla maniglia dell’armadio per sicurezza. «Scegliamo il vestito poi vediamo.» Lancio una serie di proposte che atterrano sul letto, una nube colorata e leggera. Salto giù dallo sgabello. «Prova la gonna a fiori con la maglietta nera.» Obbedisce. Come avrebbe fatto dieci anni fa. Come se dovessimo prepararci per andare in discoteca con gli amici. Si scruta nello specchio. «Non ci siamo» stabilisco. «Ci vorrebbe qualcosa di più...» esita «forse più casual, cosa ne dici?» Estraggo dal mucchio una gonna di jeans svasata e una canotta celeste. «Tipo così?» Mentre se le prova, mi arrampico di nuovo sullo sgabello, colpita da un’intuizione. Elena squadra il vestito di raso che le sventolo sotto il naso. Liscio, nero con le finiture color corallo. Lo accarezza con mano leggera. «È bellissimo» sussurra. «Mai messo. L’ho comprato poco prima che...» inciampo sulla frase. «Provalo!» la incito. Fa un ettino indietro. «No, no, troppo bello.» La gonna le va bene e la canotta celeste si intona ai suoi occhi. «Mi piaccio così» continua «cosa ne dici?» «Ci

vogliono delle scarpe adatte, però.» Ride: «Con il tacco dodici come quella volta?» «Mi ricordo! Non ti sei alzata dal divanetto per tutta la sera.» I nostri occhi si incontrano sopra i vestiti, i trucchi, gli accessori vari. Eccoci qui. Ancora noi.

49.

Sistemiamo i dettagli: borsa e scarpe, un giacchino sopra la canotta. Le asciugo i capelli con il phon (parrucchiera di professione? Presente) e la trucco leggermente. Straordinariamente, penso, la mia mano ha conservato l’abilità di una volta. Troppo tardi per la manicure, peccato! Suonano alla porta, i cani impazziscono fra abbai e uggiolii vari. Elena si alza per raggiungere il suo cavaliere. La fermo. «Vado io» e le strizzo l’occhio. «Sta arrivando» sorrido nell’aprire. Noto, con piacere, che stasera non ha il berretto. Sfoggiare dei capelli gli dà un aspetto diverso, penso. Sembra nervoso e eggia sul portico. Prende il libro che sto leggendo, lo riposa subito, senza perdere il segno, spero. Mi fa tenerezza, un po’ almeno. Mac lo squadra perplesso, Desde è sparita chissà dove. «Vuoi qualcosa da bere?» gli propongo. Mi guarda stranito: «No grazie.» È l’impazienza in giacca sportiva e scarpe pulite. «Okay, vado a vedere a che punto è.» Mi fermo sulla soglia di camera mia. Si sta rimirando nello specchio. Ho fatto un ottimo lavoro. Sarà una serata speciale, glielo auguro. Mi sorride nello specchio. «Il tuo cavaliere ti attende trepidante.» Annuisce e mi supera per raggiungerlo. Torna sui suoi i, come colta da un ripensamento. «Va tutto bene?» mi chiede, ansiosa. «Benissimo, sei favolosa. Non crederà alla sua fortuna.» «No, io dico.. tu? Per te è okay?» «Non capisco.» «È solo che... non vorrei... tu e Max, prima che arrivassi, sembrava che...» diventa bordeaux. Oddio, no. Sarà per quella cosa dell’occhiolino? O qualche stupida idea messale in testa da Tommaso. «Nessunissimo problema. Davvero. Divertiti tantissimo, va bene?» Qualcosa nella mia espressione la convince, perché mi abbraccia di impulso ripetendo: «Grazie, grazie davvero» e poi corre via. Sento il motore dell’auto di Max accendersi e allontanarsi. Mi siedo sul letto, in

mezzo ai vestiti che devo rimettere a posto. L’eremo torna ad essere silenzioso.

50.

Il dondolo mi culla. La notte è un manto leggero che mi avvolge e mi protegge. Mi sento a casa. Sono a casa. Come un livido che impallidisce, la perdita di Tello è ancora un dolore fisico, ma familiare. Non sento più quella morsa a tradimento quando per un secondo mi aspetto di vedermelo intorno e poi mi ricordo. Mi guardo le mani: i tagli più profondi sono rimarginati, rimangono delle sottili cicatrici bianche a ricordarmi l’ultimo addio al mio cane fedele. I ricordi di quella notte sono confusi e bagnati e dolenti. La fossa profonda, il rumore della terra, il fango sotto le unghie e le lacrime miste alla pioggia. E poi solo quell’abbraccio, un’ancora in un mare di melma e disperazione. Sono due settimane che rimando. Sarà il profumo della serata o l’inaspettato diversivo costituito dall’appuntamento di Elena, non so, ma capisco che è ora. Risponde al terzo squillo: «Pronto.» «Pronto, ciao» faccio un’infinitesimale pausa e continuo «sono Ale. Scusa, ti disturbo?» «No. Ho finito ora di cenare.» Pensavo che avrebbe reso le cose più facili. Invece no. «Io volevo solo» respirone «volevo ringraziarti per l’altra sera. Sei stato davvero...» Gentile, troppo formale. Carino, un po’ stupido. «Davvero un amico. Grazie.» Silenzio dall’altra parte. Sto per salutare, mettere giù e andare a seppellirmi sotto il cuscino per la vergogna, quando mi chiede: «Cosa fai?» il tono si è ammorbidito. «Io... niente. Sono sul dondolo. È una bellissima serata.» «E stai bene?» indiscutibilmente un tono di voce più intimo. «Sì. Sto bene.» «Sono contento. Elena, come sta?» Ecco, questa sì che è una bella domanda. Sembra leggere nella mia esitazione: «La storia con il tuo vicino prosegue?» Non c’è accusa o astio nella sua domanda. Forse rassegnazione, al limite. «Sono usciti stasera.» «Ah sì? In fondo, forse, meglio così.» «E Robi? Come sta?» «Non saprei... adesso sembra che stia con questa nuova ragazza...» «Che tristezza.» Ride: «Che cosa ti fa tristezza?» «Non so. Credo il fatto che possano lasciarsi alle spalle questa storia come se non fosse mai avvenuta. Dopo tutti questi anni.» «Già. Ma

guardano al futuro, vanno avanti. È una cosa positiva.» «Sì. Giusto. Allora...» «Allora ciao. A presto.»

51.

This is our last goodbye / I hate to feel the love between us die. / But it’s over La finestra del mio studio offre uno scorcio che allevierebbe la pena ontologica di Jeff, penso. Le montagne azzurrine contro il cielo, i boschi verdi e misteriosi. Just hear this and then I’ll go: / You gave me more to live for, / More than you’ll ever know Questa canzone mi scava dentro, lascia dei solchi nella terra sterile della mia anima. Le lacrime che mi scorrono sulle guance sono come pioggia primaverile. Bussano alla porta dello studio e la testa bionda di Elena fa capolino. Interrompo la canzone all’istante. Spero che non veda le tracce di lacrime sul mio viso. «Vieni» la invito, ma lei è già dentro per metà. Si guarda intorno incuriosita, non ha mai osato entrare qui prima. «Non volevo disturbarti.» Però l’hai fatto, penso in un moto di irragionevole astio. «Non fa niente» commento. «Pensavo che potremmo andare in maneggio.» Il mio sopracciglio inarcato deve essere sufficientemente esplicativo della mia posizione. «Sei sempre chiusa qui dentro» continua, imperterrita e incurante della freddezza con cui la sua proposta è stata accolta. Si lascia cadere sulla mia sdraio-letto e mi fissa negli occhi. Adesso ho la certezza che abbia visto le lacrime, so che è consapevole che mi sono rintanata qui per non affrontare l’eremo senza Tello. Sa anche che sta affrontando apertamente i miei aculei da riccio e lo fa con tenacia e coraggio. «Magari domani» suggerisco, per prendere tempo. «Magari adesso» mi risponde all’istante, facendo leva sulla mia reazione blanda. «Facciamo due i con le cavalle e poi al Granaio Max ci fa lezione» mi spiega, adesso più sicura, vista la mia parziale resa. «Ci fa lezione?» Forse non ho capito bene. «Esatto. Io monto la mia, tu Shad» quindi questo non è un tentativo alla cieca, bensì una strategia studiata a tavolino. Me li vedo, quei due. L’astio mi monta in gola con una violenza inedita. Le parole mi si accavallano sulla lingua, ma prima che io riesca a districare almeno una frase di senso compiuto, lo sguardo di Elena mi

inchioda. «Ho capito: preferisci seppellirti qua dentro» sentenzia. Rimango zitta. Il duello silenzioso che si svolge tra di noi riempie l’aria di elettricità. E poi cedo, mi alzo in piedi, le mie ginocchia si distendono, il mio astio scivola in fondo ai talloni, la mia rabbia si dissolve in un sospiro. Non capisco il perché, ma le mie difese vacillano e cedono. Sono stanca e la via più facile è acconsentire, forse. Mi sorride con rinnovata speranza e fiducia.

52.

Mi godo un tè alla pesca, ghiacciato. Un sorso alla volta, lentamente perché sono sudata. E stanca e sporca, ma questo non c’entra con il tè. Sono a cavalcioni di un muretto di terra e guardo Elena impartire istruzioni e consigli a bambini e principianti vari. Abbiamo terminato da poco la nostra lezione, abbiamo dissellato le cavalle e le abbiamo docciate. Ora sono libere nei paddock del Granaio. Una nuova routine che ha una settimana di vita. La mia amica indossa un berretto stinto, che indovino essere di Max. Come la bandiera che gli scalatori piantano quando raggiungono la vetta. Mi sento maligna a pensarlo, eppure non riesco a evitare di considerare che sia la solitudine ad averli avvicinati. E io sono stata reclutata quasi a forza in questo clan di lupi solitari. Un terzo incomodo, uno spettatore silenzioso del loro flirt. Sono disposta ad ammettere, però, che lo abbiano fatto a fin di bene, per aiutarmi a superare un momento difficile. Senza ricorrere all’alcol. Faccio roteare nella lattina gli ultimi sorsi di tè. Non ci ho pensato, veramente. Al Tavernello, dico. Depressa sì, con problemi di alimentazione e di sonno anche, ma non ho pensato di ricorrere alla mia vecchia panacea contro i mali dell’anima. Questa volta. I cavalli e i pony escono dal campo per una eggiatina, ordinatamente uno dietro l’altro, con le loro copertine sottosella rosse e le cuffiette all’uncinetto in coordinato. Riconosco in questo nuovo ordine la mano femminile della mia amica. Si siede accanto a me. «Oggi Shad è stata super» commenta, con noncuranza. «Le fa bene lavorare con continuità, tutti i giorni» rispondo e spero capisca che è un modo indiretto di ringraziarla per avermi spinto a uscire dallo studio, a montare tutti i giorni con lei. «Questo autunno potremmo fare qualche concorso, no?» la sua proposta mi coglie impreparata. «Questo autunno?» ripeto come se non avessi capito. «Beh sì. In estate qui c’è molto da fare con i

villeggianti, ma poi... abbiamo più tempo» afferma con naturalezza, in netto contrasto con la tensione che le fa torcere le mani. Ha un modo tutto suo di evitare le domande spinose. Fisso lo sguardo sulle sue mani. «C’è tempo per pensarci» e mi alzo per buttare la lattina di tè, vuota. I suoi allievi tornano sui loro i e ricomincia la lezione.

53.

Il punto è che quando qualcosa la tormenta, che sia una cosa positiva o una cosa negativa indifferentemente, è impossibile non notarlo. Come ora. Si agita sulla sedia come indemoniata. Ha preso possesso del telecomando della tivù e si è lanciata in uno zapping vorticoso, condito con commenti lapidari del tipo “stronzate”, “incredibile”, “ma cosa vogliono”, “inguardabile”. Decido di darle cinque minuti di follia libera e poi di strapparle il telecomando. Credo che questo zapping potrebbe compromettere il mio sistema digestivo, oltre a ledere gravemente il mio sistema nervoso. A tutto c’è un limite e la mia pazienza è una risorsa rara e facilmente esauribile. Se poi mi vuole confessare il problema, okay. Se no, va bene lo stesso. Anzi, meglio. Non c’è alcun bisogno di ricorrere alla violenza per dirimere la questione, perché squilla il suo cellulare. Balza in piedi, l’afferra e sparisce in camera sua. Mac salta in piedi, travolto dalla sua fretta, e Desde le corre dietro, piccola traditrice. La sento piangere dietro la porta chiusa. Appena mi riprendo dallo stupore per questo comportamento anomalo, afferro il telecomando e sintonizzo su un telegiornale. Il telecomando per sbaglio finisce seppellito sotto il tovagliolo. Per sicurezza. Torna dopo pochi minuti. L’espressione tesa, le braccia lunghe contro i fianchi, i pugni chiusi. Rimango in silenzio. A testa bassa riprende a mangiare. La imito. Non mi riguarda, mi convinco. Fisso gli occhi sullo schermo e seguo il telegiornale. Sbuffa. Le posate tintinnano con straordinaria perseveranza nel piatto, rovescia un bicchiere d’acqua allagando il piatto. Continuo a tenere gli occhi fissi sullo schermo, certa che al primo sintomo di interesse, anche involontario, sarò perduta. Afferrata e trascinata nel nuovo vortice che sembra aver sconvolto,

ancora una volta, la sua vita. Ma, qualunque cosa sia, io voglio restarne fuori, decido. Si schiarisce la voce e capisco che non c’è salvezza nel telegiornale, nell’indifferenza e in nessun’altra tattica io possa mai adottare. Ineluttabile. La guardo. Ha gli occhi rossi, oddio. Il viso paonazzo. «Ho chiamato Roberto.» «Quando?» Non capisco. «Oggi pomeriggio.» «Ah» continuo a non capire. «Ha risposto quella.» «Aaah» adesso capisco. O almeno inizio. «Mi ha richiamato ora.» Informazioni con il contagocce. «E quindi?» chiedo con impazienza. «Niente.» «Niente?» «Ha messo le mie cose in un paio di scatole, dice» il tono di voce piatto contrasta con l’impazienza di poco fa. «E tu?» la incalzo. «Ho detto che può bruciarle» poi alza la testa e, con uno sguardo che quasi mi spaventa, aggiunge: «Non voglio niente che abbia toccato quella lì. Non voglio niente del ato.» Suppongo che ci divideremo le magliette e i jeans ancora per un po’. «Ti va del gelato?» propongo.

54.

«Quello che non capisco» grido, al di sopra della musica e del phon «è cosa ti faccia pensare che io sia d’accordo.» Non sento la sua risposta, soffocata dai caotici rumori di questa casa. Di quello che era il mio eremo e che oggi è una bolgia infernale. Scuoto la testa, sconsolata e un po’ insofferente. «Se solo smettessi di brontolare» Elena appare in un improvviso attimo di silenzio, con i capelli perfettamente lisciati e semivestita «inizieresti a divertirti anche tu.» La mia espressione scettica la fa sbuffare e sparire di nuovo in camera sua. Mi sento tuttora prigioniera di una specie di ricatto morale. Divisa dalla rabbia che l’invasione indebita nei miei spazi e nei miei ritmi mi suscita e la consapevolezza delle buone intenzioni della mia amica. Per lei, poi, stasera è importante. Ha organizzato tutto fin nei minimi particolari, maniacale, quasi. Un aspetto di lei che non conoscevo. Uno dei tanti. Per qualche motivo che mi sfugge, conta sulla mia presenza, forse sul mio o. Non c’è stato verso di farle capire che l’idea di una grigliata con gente che non conosco per niente mi fa venire attacchi di panico. Veramente, anche se queste persone le conoscessi. È stata inflessibile e determinata. Mi sono ritrovata a cedere, per l’ennesima volta negli ultimi giorni. Ha aggiunto poi con tono casuale di portare la fotocamera.

«Potresti fare delle foto suggestive» ha detto. Non ho risposto. Non tocco la fotocamera da quando è morto Tello e qualcosa nel modo di dire senza guardarmi negli occhi mi fa sospettare che lo sappia. Bene. Ho soffocato la mia crescente insofferenza e ho sperato in silenzio di riuscire a sottrarmi. Ovviamente ha vinto lei. La maglietta azzurra è mia, i jeans suoi, le scarpe di nuovo mie. «Sei ancora in questo stato?» Provo a ribellarmi: «Elena proprio non...» Magari mi fe finire una frase. Sarebbe già una conquista. Fruga nel mio armadio con scientifica metodicità, mentre mi enumera una serie di ragioni per cui non devo fare storie. Non l’ascolto. Resto seduta sul bordo del materasso, le mani in grembo e gli occhi fissi alla finestra. Il tramonto è vicino e il cielo ha assunto una tonalità di azzurro intenso. Il profilo dei monti sembra disegnato con un pastello a cera. La pace di questi luoghi che amo così tanto mi pervade. Decido di smettere di ribellarmi. Intanto perché è inutile e quindi non vale la pena sprecare energie in questo modo. E poi perché in fondo so bene che Elena starà qui ancora per poco. Non lo dice, certo, ma lei e Max filano d’amore e d’accordo. Il naturale epilogo di questa parentesi di follia estiva si avvicina a grandi i e, benché restia ad ammetterlo anche a me stessa, penso che la mia amica mi mancherà. Ritornare alla mia vita eremitica sarà dolce, certo, ma mi chiedo se il silenzio a volte non sarà opprimente. Se la solita routine a lungo andare non diventerà noiosa, specie a confronto con i continui rivoluzionamenti delle ultime settimane. Così mi limito a obbedire al biondo generale, che mi impartisce istruzioni con disciplina militare e segretamente sorrido.

55.

Penso con insistenza alla fuga. Sparire nel buio, confondermi con le ombre. In silenzio, senza clamore, al momento giusto. Sottrarmi. Penso con nostalgia al mio dondolo sotto il portico, al mio nido sicuro. L’eremo, luogo di pace, della mia pace. Con i leggeri, lasciarmi alle spalle il fumo della griglia, le risate sconosciute, le occhiate curiose. È indispensabile scegliere il momento propizio. Elena è troppo occupata a far colpo su Max e sugli invitati alla grigliata per rendersi conto della mia sparizione. Non ha certo bisogno di me: nel mese o poco più che ha trascorso qui si è fatta più amici di me in due anni. Ed è un bene,

se, come penso, ha davvero deciso di stabilirsi e di lavorare con Max al maneggio. Conoscenti di Max, frequentatori abituali e occasionali del maneggio, tutti con l’aria di trovarsi a loro agio e di divertirsi. E poi io, con questo stupido vestitino sbracciato, che ha insistito per farmi mettere. “Sei così bella, abbronzata e magra, e chi se ne può accorgere con quei jeans informi?” ha detto. E non mi sono opposta, per una sorta di pigrizia mentale. O forse un residuo di vanità che è rimasto annidato in fondo a me in questi anni di rivoluzione e che ha scelto proprio stasera per farsi sentire. Comunque la fuga è la mia migliore opzione. Scivolo in un angolo un po’ discosto, poi, certa di non essere vista, mi allontano sul sentiero che porta a casa mia. All’inizio, cammino con circospezione. Un o dopo l’altro, sforzandomi di non affrettarmi e di non far troppo rumore. Se mi scoprisse, niente mi salverebbe da una figuraccia pubblica. Grazie alla luce della luna riesco a vedere dove metto i piedi. Apprezzo questo aiuto soprannaturale e mi godo il profumo segreto della notte. A metà sentiero, una figura nera mi viene incontro. Per un attimo, mi spavento ma poi riconosco Mac e l’allarme rientra. Mi si avvicina e si fa accarezzare, poi mi accompagna fino a casa. È una eggiata piacevole. Anomala, alla luce della luna, ma mi sento in armonia con il resto della realtà. Eccezionalmente. Il dondolo mi accoglie come un vecchio amico, fido e solido. Una culla per i miei pensieri, di qualunque tipo. Lascio vagare la mente mentre il trascorrere del tempo perde rilevanza e si dissolve in un presente sconfinato. Sono assorta e lontana, persa nei ricordi vividi di un ato per me ancora tremendamente attuale. La luna si corica oltre il profilo della montagna e l’oscurità che mi avvolge è di velluto. Una lucina arancione poco lontano da dove indovino esserci i gradini del portico attrae la mia attenzione. «Una lucciola» esclamo, per rendere partecipe Mac dell’emozione di rivedere di nuovo quell’insetto, come richiamato dai miei ricordi più felici. Mi risponde una risata ironica, che spezza la dolcezza del presente. «Sapevo che ti avrei trovata qui.» La lucciola fa un balzo lontano e si spegne, il tabacco esaurito in cenere.

56.

Ora si spiega tutto. L’insistenza di Elena, il vestito che mi ha costretto a indossare nonostante le mie proteste, l’ansia nel curare ogni dettaglio dai capelli agli orecchini e persino il profumo. Ho pensato che proiettasse su di me il suo desiderio di apparire bella e speciale agli occhi di Max e dei suoi amici. Invece no. Ha cercato, a modo suo, di rendermi il favore. Sta diventando una cospiratrice. Dopo avermi magnificato ogni parola e ogni silenzio del fantastico, unico, inenarrabile appuntamento con il mio vicino, ha creduto di dovermene procurare uno. Mi domando se Tommaso sia consapevole del piano o solo un’inconsapevole vittima. L’oggetto delle mie riflessioni sale i gradini del portico e si siede prepotentemente sul dondolo accanto a me, costringendomi a rannicchiare le gambe per fargli posto. «Festa noiosa?» mi chiede. Nell’ombra non distinguo la sua espressione. «Ero stufa» dico semplicemente. «E tu invece?» chiedo poi. «Non conoscevo nessuno» osserva giustamente lui e aggiunge: «Tranne i due piccioncini.» Tono amaro. Mi chiedo se sia aggiornato sulle ultime novità. Ma decido che non mi riguarda e, alla fine, non riguarda nemmeno lui. Così restiamo in silenzio. «Ho pensato spesso...» inizia lui. «Non la vendo» replico io, senza dargli tempo di completare il suo pensiero. Ride. Non se la prende mai. Sportivo, decido. «No. Pensavo a questo posto» rettifica. «Ah. Sì» come se capissi e invece non è così. «Una specie di rifugio per donne... beh in difficoltà.» «Ma cosa dici? Cosa ne sai?» protesto veemente. Sono stufa di questo pregiudizio imperante. Come si permette di giudicare le mie scelte? Alza le mani, i palmi volti verso di me come una barriera per arginare la mia foga. «Scusa. Volevo dire che qui si respira una pace...» lascia in sospeso la frase, in cerca della definizione più adatta. «Cosmica» suggerisco. Un attimo di silenzio e poi ridiamo, insieme, e la tensione di poco prima si dissolve. Faccio una selezione mentale dei prossimi argomenti: la rossa? Meglio di no. Il maneggio? Altra fonte probabile di preoccupazione. Ci vuole qualcosa d’altro. Mentre mi arrovello, i miei sensi mi distraggono. L’odore dell’uomo seduto accanto a me, a pochi centimetri dai miei piedi nudi, sembra farsi più intenso, quasi insistente. «Tutto bene?» mi chiede, forse perplesso dal mio lungo silenzio. È leggermente proteso verso di me, nel tentativo, penso, di distinguere la mia espressione nel buio. Mi schiarisco la voce. «Certo» rispondo, benché non ne sia completamente sicura. Uno schiocco e la fiammella dell’accendino si frappone fra i nostri due visi vicini. Il nero dei suoi occhi si accende di un bagliore che non riconosco. Ne sono attratta e spaventata a un tempo.

57.

La mano incontra il viso a metà strada tra l’intenzione e l’istinto. Ineluttabile e incontrollabile. Una reazione a catena che trascina con sé ogni inibizione. Il bacio piove all’angolo delle labbra, insensato e tremendamente serio. Troppo, forse, per essere ignorato. La risposta è una domanda più esigente. La punta delle dita corre lungo il collo, esplora la pelle, cerca, chiama, propone, dispone. Ho gli occhi aperti, nel buio distinguo le forme del portico, così come la porta di casa, le forme dei cani sdraiati, addormentati. Posso identificare le nostre sagome abbracciate sul dondolo, l’ansia di una ricerca di completezza, inaspettata fino a un secondo fa. O no. L’immagine mi si confonde davanti agli occhi. È la sensazione dei suoi capelli fra le mie dita, il profumo di questo uomo che conosco, che un po’ conosco e un po’ no, che mi riporta al qui e all’adesso. Sono gesti familiari eppure distanti, come se mi appartenessero, ma li avessi dimenticati. Una strada già percorsa, con tratti che ricordo e tratti sconosciuti. Scorci di un mondo perduto. Un vento leggero mi muove i capelli, si infiltra fra di noi, soffia saggio sull’ardore della ione. Ci dividiamo, come obbedendo a un ordine sussurrato dalla notte. «Dovrei andare» dice, la voce incupita, inconsistente. Annuisco, in silenzio. Qui e ora, penso. La pace dell’eremo, la pace dei sensi. Dissolta. Ubriaca di emozioni, di dolore, di sogni infranti, di inizi e di fini. Il magma si nutre di fuoco e di rocce, avanza indomabile, supera i confini ed esplode nell’aria. Trascina tutto con sé, inghiotte, distrugge senza lasciare scampo. Non c’è domani, per il magma, penso. Non c’è domani per me.

58.

Lo guido su per la scala di casa. La sua mano è forte nella mia. Stringe le mie dita, di rimando, con fermezza stupita. Le mie dita. Me le immagino piccole e

sottili al confronto con le sue. Inciampo nel gradino, nello stesso gradino di ieri, dell’altro ieri. Mi sorregge. Vicino, così vicino, sulla scala stretta. Il magma senza domani. Proseguiamo sui gradini, un po’ più piano. Eppure vorrei fare in fretta, correre su per questa scala dell’eremo, trascinarmelo dietro, dirgli, urlargli per essere più convincente, più incisiva: «È qui, è ora.» Sono pochi i, dall’ingresso alla mia stanza. Il magma avanza, penso. Invade lo spazio, travolge il libro sul tavolino in ingresso, fa quasi precipitare il vaso di cristallo (un regalo di mia mamma). Mi assoggetta. Mi desidera. Mi cattura. Pensieri sconnessi di una piccola roccia afferrata nella corsa pazza del magma. Sospiri e aneliti, ossigeno e sudore e saliva. Il magma mi avvolge, mi circonda, mi afferra. Scotta il magma mentre gli slaccio la camicia? Mentre mi impossesso del suo desiderio per farlo mio? Mi sfugge una risatina sciocca. Risponde la sua, roca e robusta. Irrazionale, preda tuttavia sono io che ho chiesto di esserlo. «Ecco» dice, la lingua nella mia bocca, la pelle incollata alla mia. «Ecco» ripeto io, quasi una preghiera. Sono io, riconosco stupefatta, persa in questo desiderio spasmodico, liquefatta e arsa. Abbandonata tra le lenzuola aggrovigliate, legata intimamente a uno sconosciuto. Si volta e mi sorride, nell’ombra. Mi sfiora i capelli con un bacio sonnolento. La cenere mi riempie gli occhi e rallenta il mio respiro.

59.

Apro gli occhi nella grigia penombra dell’alba. Il respiro dell’uomo accanto a me è regolare e pesante. La schiena, le lentiggini, un tatuaggio. Con cautela sottraggo una gamba, poi l’altra, poi un braccio. Libera dalla sua stretta, resto in piedi al lato del letto. Osservo il nero dei suoi capelli contro il mio cuscino bianco, il suo profilo addormentato, le ombre del sogno sul viso. Questo corpo, conosciuto e familiare nella notte, estraneo alla luce del giorno. Sono io che l’ho invitato qui, io ho lasciato che occue questo spazio, il mio spazio, che occue me. Non voglio esserci quando si sveglierà, non voglio che la luce del giorno decreti la sua presenza in questo letto. Al buio vale tutto. Di giorno no. Mi chiudo la porta alle spalle e mi infilo sotto la doccia. Resto stoicamente sotto

il getto d’acqua gelido e poi sotto quello bollente. Una forma di espiazione. No. Una forma di purificazione. L’acqua che scotta la pelle cancella le tracce, disinfetta e depura. Magari potessi cambiarla, come fanno i serpenti. L’avrei lasciata lì, nel letto, vuota e vecchia, inconsistente e inconsapevole. Mi asciugo minuziosamente e mi guardo nello specchio. Il mio corpo non è cambiato. L’astinenza, prima, e l’abbandono ai sensi, poi, non lasciano tracce visibili. Credo. Sempre in punta di piedi, mi dirigo verso la porta d’ingresso. Intimo ai cani un religioso silenzio, disatteso appena giro la maniglia. È senza nessuna sorpresa che osservo il vuoto dove d’abitudine Elena parcheggia l’auto. La porta della sua camera chiusa non cela la sua privacy, bensì la sua assenza. Folle notte d’estate, da queste parti. Poi con sollievo realizzo che non sa che Tommaso ha dormito qui. Nessun testimone. I raggi del sole bagnano il portico, le mie scarpe abbandonate dalla sera prima. La mia pelle vecchia abbandonata. Le riporto in casa e mi concedo un caffè, prima di occuparmi dei cavalli. La mia routine, i miei compiti quotidiani, l’eremo che si sveglia, come ieri. Come domani.

60.

Il sole picchia con caparbietà sui sassi bianchi del sentiero. La cavalla cammina allegra verso casa. Accelera il o mano a mano che la distanza si riduce, incurante del caldo e della fatica. Al contrario di me. Smonto e la guido con le redini fino al portico, dissello e le regalo una doccia rinfrescante. Il suo manto assume tonalità d’oro brunito e resto a guardarla mentre si allontana nel paddock alla ricerca di erbetta fresca. Valrob nitrisce nel riconoscermi. Gli allungo qualche carota. Accarezzo il muso intelligente, le narici curiose. Adesso tocca a me. Rientro in casa. Rimango per un secondo incerta, abbagliata dal contrasto della luce meno intensa rispetto all’esterno. Salgo la scala con i decisi. Nessun segno di presenza umana nell’ingresso né in sala. Mi avventuro oltre. Sistemo il vaso nella posizione originale, raccolgo il libro caduto. Cenere. o davanti alla camera di Elena. La porta ora è accostata. Busso. «Vieni» mi risponde. Sta disfacendo il letto. Per terra un borsone sconosciuto semipieno. Raccoglie le sue cose, dividendole dalle mie. Risponde al mio sguardo

interrogativo stringendosi nelle spalle, con un sorriso di scusa. «Dove vai?» chiedo, consapevole di fare una domanda stupida. Si siede sul letto e sospira. Rimango in piedi, nervosa. «Io e Max» inizia e poi si interrompe, cercando fra le parole le meno ovvie, forse. «Già» commento. Ho cambiato idea, non voglio sentire di più. Mi volto per andarmene. «Lo so cosa pensi.» «Non penso niente.» «Credi che sia un errore, che sia troppo presto e...» continua imperterrita. La interrompo: «Non tocca a me giudicare.» «Io però mi sono innamorata» la sua risposta è lapidaria quanto il mio commento. Sbuffo. La guardo, inarcando un sopracciglio. «Non fare la cinica! È il momento giusto. E se è una pazzia... chissenefrega?» mi sorride, felice e luminosa e invincibile. «Va bene» faccio spallucce. «Comunque qui c’è sempre una camera in più» aggiungo, ironica. Ride, mi si avvicina e mi abbraccia. «Grazie di tutto» dice. Animate di vita propria, le mie braccia si sollevano e ricambiano la stretta. Sono leggere e forti, sincere e decise. Non le riconosco nemmeno. «In bocca al lupo» rispondo. Ci separiamo, mi aspetta un nuovo confronto. Prima però che possa varcare la soglia, mi ferma sventolando un mazzo di fogli. «Questi sono per te» e me li allunga. «Ho fatto delle ricerche in Internet negli ultimi giorni» e mi strizza l’occhio. Li scorro, rapidamente, senza capire. «Ma io...» inizio. Mi spinge fuori: «È solo un suggerimento. Però pensaci, okay?» Apro la bocca per chiedere ulteriori spiegazioni, ma mi intima: «Ora vai. Non perdere tempo. Ti sta cercando.»

61.

Aspettando. Per essere precisi. Mi aspetta appollaiato sulla cavallerizza che dà sui paddock, esattamente dove due mesi fa mi ha proposto di prendere a pensione il cavallo della rossa. La rossa, appunto. Un’altra voce all’ordine del giorno. È rivolto verso il rudere, girato di spalle rispetto a me. Questo mi dà un certo vantaggio. Prendo tempo, respiro, smetto di torcermi le mani, le o sui jeans nel tentativo di asciugarle. Mi avvicino, a tre i da lui il suono della ghiaia attira la sua attenzione. Si volta, mi sorride: «Eccoti.» Sorrido di rimando: «Ciao.» Mi scosto con gesto nervoso i capelli dalla fronte, reggo il suo sguardo per alcuni secondi. Poi abbasso gli occhi e mi sistemo sulla cavallerizza, alla sua sinistra. Fisso lo sguardo sul rudere. Cerco qualcosa da dire, freneticamente. «Tutto bene?» mi chiede. Si accende una sigaretta, con gesti misurati e pacati.

Lo invidio. Per la calma, non per la sigaretta. «Bene» rispondo e aggiungo: «Elena», indico vagamente alle mie spalle, «sta facendo le valigie.» Annuisce. «Abbiamo parlato poco fa.» «Ah sì?» «Sì» ride «mi ha intimato di comportarmi bene.» Ignoro il commento che ci avvicina agli argomenti spinosi. «Si trasferisce da Max» continuo piattamente. «Me l’ha detto. Sembrava» cerca la parola «elettrizzata.» «Già.» Silenzio. Mi sento povera di parole, non so più cosa dire. Gli scarico addosso tutto il peso di questa stentata conversazione. «Ti sei alzata presto» ritenta, con tono casuale. «Solito orario» mento con prontezza. «C’è un silenzio, qui. Ho dormito come un sasso» continua, leggero e inafferrabile. Non so dove voglia andare a parare. Annuisco nuovamente, priva di idee. «E quando mi sono svegliato non c’eri.» Cerco di studiare la sua espressione con la coda dell’occhio. Mi sembra a suo agio, rilassato. Sono io confusa, incasinata, allarmata. «Sono andata a fare un giro con Dream» mi giustifico. Altra pausa di silenzio. Imbarazzante. Indica con la sigaretta il rudere. «Cosa pensi di farne?» mi domanda. «Un paio di idee le avrei» temporeggio «ma niente di definito.» Uccido la conversazione con una scientificità metodica da serial killer professionista. «La cavalla è davvero bella. Potrei darti una mano, ogni tanto.» Eccoci arrivati al punto. Non è solo la cavalla. È l’implicito accenno a un futuro comune. Penso alla pelle vecchia, che ho abbandonato ieri sera, e alla pelle nuova che esibisco stamattina. Focalizzo quest’idea, prendo fiato e mi volto. Incontro i suoi occhi, divertiti. «Ieri sera è stato molto» mi torco le mani «emozionante. Bello, no?» Annuisce, senza staccare gli occhi dai miei, senza interrompermi. Continuo, la voce straordinariamente ferma: «Ma non è quello che voglio.» «Ho capito» non abbandona il suo tono leggero e spensierato. Gliene sono grata, ma taccio. Mi accarezza con la punta delle dita la guancia e sorride: «Ci sentiamo, okay?» Salta giù dalla cavallerizza, mi guarda per un secondo ancora, offrendomi forse l’opportunità di ripensarci o di aggiungere qualcosa. Poi se ne va. Raggiunge l’auto, sale e sparisce. Ora mi ricordo dei fogli che mi ha dato Elena e che ho abbandonato nel mio studio caotico. Torno a o rapido verso casa, per esaminarli.

62.

La sera scende sull’eremo. Sono seduta sui gradini del portico, centellinando la magia del momento. I boschi sono dorati, accesi di colori fulgidi e segreti. L’oro e il porpora delle chiome degli alberi si intonano alle gradazioni del cielo. Accanto a me, una busta chiusa. Destinatario: io. Mittente: una galleria d’arte. Specializzata in fotografie. Penso di aprirla. La sollevo. La carta è gialla, pesante. Impenetrabile. La poso di nuovo. Forse la faccio aprire a Elena, domani. In fondo è colpa sua. O merito suo. Dipende dal contenuto. L’estate è un ricordo. Ogni giorno la natura si prepara ad accogliere l’inverno. Il manto dei cavalli diventa più spesso e folto, le giornate diventano più brevi, l’aria più leggera e frizzante. Ho piantato un sempreverde dove ho seppellito Tello, dove, per tutta l’estate, minuscoli fiorellini azzurri hanno allietato la montagnetta di terra. Quando hanno iniziato a sfiorire, ho scelto un piccolo pino. Un simbolo di continuità. Il ato che vive nel presente. Il sole sparisce dietro la montagna. Mi alzo, la busta ancora chiusa in mano. Fischio. I cani mi raggiungono da tre angoli diversi. «Rientriamo, fa freddo» dico. Desde imbocca la porta di slancio. Mac si avvicina, sicuro e solenne. E poi arriva Romeo, il mio cucciolo champagne. Mi offre una pallina da tennis. L’abbandona in prossimità dei miei piedi. Lo accarezzo. «Giochiamo domani, Meo.»

L’autore

Giulia Meli è nata nel 1981 a Milano. Ha pubblicato “Oltre l’ostacolo” (Las Vegas edizioni, 2008) e “Lontano da qui” (Las Vegas edizioni, 2009).

Dello stesso autrice abbiamo pubblicato

Lontano da qui

Collana: i jackpot Pagine: 96 ISBN cartaceo: 978-88-95744-04-9 ISBN ebook: 978-88-95744-98-8

Clicca qui per saperne di più.

Giulia muove il braccio senza quasi accorgersene. Edoardo viene attirato dal suono dei ciondoli del braccialetto che lei tiene al polso. Qui parte la storia, a due voci, di un'estate vissuta tra ioni, cavalli, equivoci e malintesi. Sempre in bilico tra volere e dovere, tra tempi sbagliati e momenti rubati, i due protagonisti galoppano leggeri fino a quando la fine dell'estate non presenterà il conto delle decisioni importanti.

Lettera dell’editore

Caro lettore, intanto grazie per essere giunto fin qui. Spero davvero che tu abbia apprezzato questo libro e che ti abbia lasciato qualcosa, se l’hai già letto, o che lo apprezzerai. Sappi che il nostro lavoro è proprio questo: cercare belle storie, raccontate da persone dotate di una voce riconoscibile, che sappiano regalarti un momento di svago, generino qualche pensiero nuovo, suscitino un’emozione. Se poi riusciamo con le nostre storie a fare tutte e tre le cose insieme allora abbiamo vinto il jackpot. Però, sai, si sceglie una storia come si scelgono gli amici: dipende tutto dal carattere e dai gusti, quindi vorremmo raccontarti qualcosa di noi. Las Vegas edizioni è un nome strano per una casa editrice, vero? Andrea Malabaila, il fondatore, ha voluto chiamarla così perché Las Vegas evoca peccato, gioco d’azzardo e luci al neon, tutte cose che c’entrano poco con i libri. Ma è anche il posto in cui tutto è possibile e i sogni possono diventare realtà. Crediamo che uno dei compiti di un editore sia quello di avvicinare la gente ai libri, non di allontanarla facendole credere di non essere all’altezza. Tolleriamo tutto, ma non le torri d’avorio.

Las Vegas edizioni nasce nel 2007 e nel 2008 escono i primi tre titoli: Viva Las Vegas un’antologia a cura di Andrea Malabaila, Saxophone Street Blues di Hector Luis Belial e Il diario dei sogni di Marco Candida. Nel nostro catalogo ci sono 30 titoli e tre collane: I Jackpot, dedicata alla narrativa non di genere. Las Cerezitas, dedicata ai ragazzi dai 13 ai 19 anni.

I Jolly, dedicata a testi a metà tra narrativa e varia.

Ora sai qualcosa di più su di noi. Però ora tocca a te dirci cosa pensi di questo libro. E allora clicca sulla pagina Facebook, su Twitter, su Anobii e sul sito, e dicci la tua e vieni a conoscere lo staff, gli autori e i lettori della nostra casa editrice. Ti aspettiamo.