Massimo Bocconi
L'ISOLA W
Un libro che si vive respirando l’aria in cui volano e non volano i gabbiani, sentendo l’acqua che ovunque e sempre scorre, parlando con la terra multiforme e colorata, e localizzando il proprio fuoco della ione. Un libro semplice sulla libertà, nel presente, attraverso un’isola, che si apre con una domanda molto personale sul significato della parola “viva” e che realizza la consapevolezza presente dentro quella parola e lettera, la W, il nome dell’isola e insieme del suo libro.
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Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com) un prodotto di Simplicissimus Book Farm
Indice dei contenuti
Introduzione. Capitolo 1. Il doppio ascensore e il 9 grigio. Capitolo 2. La rosticceria orientale “da Maltina”. Capitolo 3. Il raduno dei Gabbiani sull’isola W. Capitolo 4. La bottiglia d’acqua e l’urlo muto all’Hypogeum. Capitolo 5. La scarpetta nel piatto al ristorante “Noshoe”. Capitolo 6. Lui il 5 aprile e Lei il giorno prima. Capitolo 7. La pentola e il pollo con il pc incorporato. Capitolo 8. 44 kg di vongole, per favore! E. Ringraziamenti
Introduzione.
“Che cosa significa essere veramente vivo, libero, e volare senza una mente che mi blocca?”
Viva è una parola molto forte che per me significa presenza nel presente. Essa esprime gioia pura, “evviva”, e nella lingua italiana la si può abbreviare simbolicamente usando la lettera W. Proprio come il nome di quest’isola dove mi trovo oggi, sempre insieme al presente, senza un ato ed un futuro. Dove non c’era un ieri e non ci sarà un domani, poiché succede tutto ora, nell’attimo in cui mi sintonizzo, solo ed esclusivamente al presente:
“E’ difficile?, e può essere allo stesso tempo anche semplice. Un bel respiro e solo nel presente”. Aria fresca che entra dal naso e che ristora tutto il corpo. Aria che esce dal naso e che mi alleggerisce. “Ora, ora, ora, ora!”
Cammino lungo la sua costa e tutti questi colori, blu, azzurro, turchese e verde, mi incantano. Tutti insieme profumano e si espandono attraverso il vento, anche lui sempre presente, dentro un cielo che cambia continuamente. Un cielo in cui si può volare con la propria macchina, attraverso l’immaginazione, se non si possiedono delle ali. Il mare mi attrae e decido di tuffarmi. Entro e l’acqua salata è fredda, e mi regala un’esperienza credibile, mi avvolge, e mi rinfresca. La sua essenza affonda dentro la mia pelle fino a raggiungere la mia e Il suo salmastro amplifica il mio odore, rendendomi ancora più sensuale:
“Sto godendo”, e allora mi fermo e respiro. “Ancòra, ancòra, ancòra, ancòra”, getto per qualche secondo la mia àncora e godo
Capitolo 1. Il doppio ascensore e il 9 grigio.
Mi sveglio tutto bagnato, sopra e sotto, ovunque.
''Cazzo che sogno, fica che luogo è quell’isola! Ci voglio tornare e ci deve pur essere un modo per are subito dall’altra parte'', penso ad alta voce.
Allora, chiudo gli occhi e cerco qualcosa. Una porta, un armadio, una galleria, un ponte, un aggio a livello, una bocca, un lago, una catapulta, un razzo, un pozzo, un paio di ali, una terrazza. Non importa cosa e come, lo voglio trovare quel aggio. Il mio cellulare suona, è la sveglia. Lo prendo in mano e nel display segna le 04:04 del mattino. Ancora il sole è dall’altra parte e là fuori è buio. Mi alzo dal letto perché voglio bere un bicchier d’acqua e respirare un po’ d’aria fresca sul balcone. Mentre riempio il bicchiere, sento un rumore simile ad una macchina, proveniente da sotto, e la porta della mia casa improvvisamente si apre. Vado a vedere all’ingresso, ma non c’è nessuno, e il pianerottolo è vuoto, niente. Ancora un altro rumore, sempre simile ad una macchina, e questa volta è l’ascensore che sta salendo di sopra. Si ferma e sul display esterno leggo per un attimo “Pinecone”, il nome dell’azienda produttrice della macchina. L’ascensore apre le porte e sopra è completamente nero, oscuro, con nessuno dentro. Ci entro, la porta si chiude, il numero 9 del display si illumina di grigio e per un attimo penso che il palazzo in cui abito ha solo 6 piani. L’ascensore parte, mentre l’acqua del rubinetto ancora scorre, il bicchiere strabocca, e la mia mano si bagna. Pochi secondi e siamo di nuovo fermi, quando Il colore del piano numero 9 si spenge. Le porte dell’ascensore si aprono di nuovo e mi ritrovo su di una strana struttura metallica, tutta bianca, che sembra un ponte. Anzi, una erella e una terrazza pedonale con un pavimento nuovo, fatto di legno. Alzo gli occhi verso
l’orizzonte e vedo nuovamente il mare, come nel sogno:
“Ci sono, sì!”
Tutte le volte che mi trovo davanti a lui, faccia a faccia con il mare, il mio cuore si ferma per un attimo. E in quell’attimo, esso implode di fronte a cotanta bellezza.
“Ok, ci sono!, sono arrivato sull’isola W, questa volta da sveglio”, dico.
Ho i brividi. Tira un po’ di vento e respiro più volte per calmarmi. Respiro dentro e poi fuori, coscientemente. Qualcosa mi interrompe però. Sento una presenza esterna sul mio corpo che si muove, ma non vedo nessuno. Improvvisamente al mio orecchio destro, un topolino, anch’esso bianco e piccolo, urla:
“Yessss, io sono Maltese, il topo che parla inglese, welcome! Ci vediamo in giro, ciaaaaoooo”, per poi scappare velocemente, scomparendo dietro la struttura.
C’è un’atmosfera veramente calma in questo luogo, rilassata, mentre scendo per le scale della struttura, avvicinandomi al mare. Attraverso la strada e, ancora giù, raggiungo gli scogli per toccare quest’acqua così blu, bagnata dal sole. Mi fermo e mi tolgo le scarpe, i calzini, la maglietta e poi i pantaloni. Rimango in mutande e per fortuna oggi le indosso. Sono nere e intorno a me non c’è nessuno. Allora, decido di togliere anche quelle per avere un’esperienza ancora più intensa con lei. E’ veramente fredda, ho la pelle d’oca, ed i miei peli sono tutti dritti. E, avanzo e
lentamente sprofondo nella sua altezza, stando attento a non pestare tutti quei ricci neri, marroni e viola, che beatamente se ne stanno a guardare. Fino alla testa e poi scompaio giù, nuoto dentro di lei, come quella piccola medusa che sta ando davanti a me, anch’essa blu con delle grandi striature viola:
“Che spettacolo!”
La medusa sembra un fiore gigantesco che se ne va in giro trasportando acqua dentro l’acqua. E allo stesso tempo anche un casco, tipo quello che generalmente si trova dai parrucchieri per donne. E allora chiudo gli occhi e mi lascio andare. E’ credibile, ora addirittura sento il suo corpo viscido attraverso la mia pelle:
“oh merda!, ho la medusa sulla testa, il casco!”
“Ascolta attentamente queste informazioni, perché non posso ripeterle. Posso condividerle solo con una persona, per una volta, e poi morire. Io sono soltanto una, ma ce ne sono tante altre come me, di Violette”.
Nessuno sta parlando, ma riesco a mettere insieme quelle parole in una frase sensata, nel linguaggio umano intendo. Avverto soltanto un suono, una frequenza dalla sommità del capo, sempre sopra. E con tutto me stesso rispondo che voglio sentire, che sono pronto a ricevere l’informazione.
“Il momento per la realizzazione è qui, ora. Un antico potenziale è sveglio di nuovo e cerca un essere pronto per assumersi la responsabilità. Se lo scegli, allora, cerca “la cima” sull’isola, e quando vuoi un consiglio una mia sorella dentro il mare. Sta a te, solo ed esclusivamente a te”.
Esco dall’acqua un po’ scosso, mentre ancora quelle parole risuonano dentro. Realizzazione. Antico potenziale. Sveglio. Essere pronto. Responsabilità. Scelta. Cima. Consiglio. Sorella. Mi rivesto in fretta e mi incammino non so dove, in cerca di un luogo dove riposare. Respirare e permettere al mio essere di ritrovare un equilibrio. Il letto di questo monolocale è duro come piace a me, ma non riesco a dormire. Ho solo gli occhi chiusi e, mentre respiro, avverto il suono di una cascata, una sorgente, insomma, dell’acqua che scorre. Ma, dove mi trovo, non ci sono né cascate né sorgenti o acqua corrente. Soltanto tanto mare intorno:
“Come è possibile riuscire a sentire il suono del mare, standomene chiuso in questo piccolo appartamento, con le pareti così spesse e con le finestre per di più chiuse per mantenere fresco nella camera?”
E’ normale sentirsi tesi ed ansiosi, con una strana energia che mi circonda aldifuori. Allora di solito, con un po’ di self-love, una eggiata all’aria aperta oppure un ballo, riesco a ritrovare un equilibrio. A volte sono necessari anche tutti insieme e non sempre nel medesimo ordine. C’è chi fuma una sigaretta dopo il sesso e chi esce a fare due i, come nel mio caso, adesso, giusto il tempo di asciugarmi, rivestirmi, e chiudere la porta alle mie spalle. Mentre mi allontano, mi viene voglia di un caffè e in lontananza intravedo una tripla W, sopra a quello che sembra essere tutto un bar. Entro.
“Buongiorno, un espresso per favore?, chiedo alla barista. “Ci sono quelle tre W all’esterno e, può dirmi come allacciarmi ad internet, alla vostra wi-fi?” continuo.
“Non abbiamo nessuna connessione. Quelle tre W aldifuori non stanno per world
wide web, ma per why white wine, il nome del nostro locale”, mi risponde, “ed ecco il vostro espresso!”
Per un attimo rimango immobile e ancora una volta quel rumore di cascata risuona nelle mie orecchie. Nessuna acqua che cade nei dintorni però, nemmeno quella del rubinetto del bar. E mentre mi arriva il caffè, entrano nel locale due uomini dall’aria preoccupata. Ordinano del vino rosso, due bicchieri, e cominciano a parlare sotto voce, al bancone, gesticolando caoticamente. L’uomo più anziano ha uno scorpione tatuato sul braccio sinistro, all’altezza del polso. Il tono della loro voce improvvisamente si alza e non posso fare a meno di udire le loro parole.
“Oggi,è particolarmente ansioso. Non solo da noi, ma anche in altri luoghi dell’isola lo dicono. Nessuno sa di preciso il motivo e lui non dice niente, a parte la sua frase preferita. Sai, essendo così gigantesco, con radici affondanti nel mare ed un tronco colonna per l’intera isola, ascolta tutto e ovunque con le sue orecchie rosse. Esse fioriscono dappertutto, sapendo tutto di tutti, mentre fa finta di fregarsene“.
“Chissà di cosa cavolo stanno parlando?”, dico tra me e me.
E l’altro ribatte: “per questa volta, sai che ti dico?, io me ne infischio, cazzo! Anzi, me ne infischius, proprio come il nome con cui si riconosce tanto”.
E mentre ascolto non volendo quella conversazione, improvvisamente, mi scrontro con uno dei due. Scusandomi, approfitto del contatto e chiedo:
“Scusate, sono qui da poco e non conoscete un luogo, da queste parti, che si
chiama la Cima?”
“La Cima, in che senso, scusi, la Cima?”, risponde il più giovane.
“Romolo, lascia perdere, non abbiamo tempo, ora, per stare dietro ad uno sconosciuto”, continua l’altro, più anziano.
“Mi chiamo Guglielmo, piacere, così almeno non sono più uno sconosciuto. E vorrei trovare la Cima di quest’isola, è importante”, ribatto.
“Quest’isola non ha cime, poiché non ci sono montagne, soltanto un altopiano, ma non arriva nemmeno a 300 metri di altezza”, prosegue l’anziano.
“Io sono Romolo”, risponde il giovane, “e vorrei aiutarti di più, ma la tua domanda è troppo vaga. Forse la Cima che tu cerchi non si riferisce alla geografia di questo luogo, ma a qualcos’altro?!” insinua.
“Come faccio a spiegargli di Violetta, una medusa, e del suo consiglio riguardo la ricerca della Cima?, mi prendono di sicuro per un pazzo!”, penso tra me e me ed esclamo: “Sto leggendo un libro su quest’isola e, ad un certo punto, una medusa suggerisce al protagonista di cercare la Cima dell’isola W. E, quindi, mi chiedo se veramente ci sia qualche Cima in questo luogo oppure se trattasi di pura invenzione”.
“Mi dispiace, ma non sappiamo proprio come aiutarti di più se non ci fornisci qualche altro dettaglio. E, ora, dobbiamo proprio andare. Ci vediamo in giro”,
conclude Romolo.
“Ok, piacere mio, ci vediamo”, rispondo.
Mentre escono entrambi dal bar abbastanza di fretta, finisco il mio caffè e mi accorgo che la barista mi sta fissando. Cerco allora di incrociare il suo sguardo, e lei subito si gira da un’altra parte, canticchiando una canzone dei “Lonely Island & T-Pain”, trasmessa alla radio. Si tratta di “I am on a boat”, mentre il deejay radiofonico sottolinea la posizione della canzone sempre nella top ten della classifica mensile come miglior singolo:
“Sì, la troviamo ancora una volta nella top-ten!, capite bene. Take a good hard look at the motherfucking boat (boat, yeah), motherfuckers!”, esulta sempre il deejay.
“Ha proprio ragione quel figlio di puttana là. Quel gruppo va proprio forte! Per me, le loro canzoni sono tutte interessanti e adatte per occupare la cima della classifica. Sì, proprio la cima!”, esclama con ione la barista.
“Dice a me?” le chiedo incuriosito.
“Vede qualcun altro nel bar a parte noi due?”, continua, guardandomi male.
“Oh, no, certamente. Senza dubbio, sì, proprio in cima alla classifica. Al top!”, reagisco un po’ imbarazzato.
Ringrazio, saluto ed esco dal WWW bar, dopo il conto del caffé. E mentre cammino sul lungomare, mi giro verso di lui e una barca bianca interrompe quel doppio spettacolo azzurro che si muove, su e giù, avanti e indietro. Essa porta su di sé la pubblicità di un supermercato che dice:
“Minkia Market?, il Top!”
“Chissà se esiste davvero quel supermercato?”, penso ad alta voce.
“Certo che è reale!, io ci vado sempre a rubare il gelato al limone, il mio preferito. Limoni siciliani, sai, come tutti i prodotti che vende. È’ per quello che ha quel nome, Minkia!”, mi sento rispondere dal basso.
“questa voce la conosco”, dico, senza però vedere nessuno intorno a me.
“Sono qua, in basso, sono quello del benvenuto. Ci troviamo sempre quando c’è di mezzo proprio quel supermercato. La prima volta mentre scappo, leccandomi i baffi per il gelato, ed ora mentre ti fai quella domanda. Se vuoi, posso farti vedere dove si trova e tu in cambio mi compri del gelato al limone. Che ne dici, ci stai?” mi propone Maltese.
“Ok, ci sto!'', ricambio, ''così ne approfitto per farmi un panino e magari scoprire qualcosa”.
Maltese mi spiega dettagliatamente dove si trova il Minkia Market, alcune sue caratteristiche, ed in particolare che al suo interno ci lavora solo una persona. Mi
incuriosisce il suo racconto e mi incammino nella direzione indicatami dal topolino bianco, senza scordare, da quante volte lo dice, di prendere 1 kg di gelato al limone. Solo limone! Una M al quadrato rossa mi aiuta ad individuare, all’esterno, il supermercato. Accanto ad essa anche un minchiometro con dei grandi numeri, anch’essi rossi, proprio, esattamente, come il racconto di Maltese:
“Senza quei due elementi è difficile capire che c’è un supermercato nel diametro di pochi centimetri”.
Nessuna pubblicità, solo una grande freschezza che trasuda dai suoi muri, in blocchi di pietra perfettamente incastrati, completamente neri, come la lava di quel bel vulcano in Sicilia. Non è facile nemmeno trovare l’entrata, anche perché non esiste una reale porta d’ingresso, ma piuttosto solo delle pareti. Muri che ti attraggono in un labirinto senza soffitto né tetto:
“A cielo aperto, minchia!” E intanto il minchiometro conta.
Faccio un respiro profondo e mi lascio andare a quel flusso risucchiante. Permetto che sia il Minkia Market a prendermi per mano e ad accompagnarmi come fanno due veri amici. E comincia la mia eggiata in questo labirintico giardino verde, con i muri neri e senza il tetto. Sto quasi per dimenticare di dire che, al momento in cui entro, mi tolgo le scarpe e le abbandono, perché il pavivento è di erba verde, reale e pura. Un giardino appunto. Cammino e non vedo nessun prodotto presente alle pareti, e capisco solo ora i dettagli di Maltese:
“Mi raccomando, l’olfatto. Mentre cammini, chiudi gli occhi e apri bene le
narici. Respira in maniera consapevole e scopri di volta in volta cosa c’è di fronte a te che non c’è. Per me è facile, sai, noi animali lo usiamo sempre. Impara a guardare con il naso!”
Allora chiudo gli occhi e faccio un bel respiro. E ancora un altro e avanti così, procedo. Con il profumo di agrumi mi appaiono le arancie, poi i limoni, i pompelmi, i mandarini, e non posso fare a meno di esclamare ancora una volta:
“Minchia, che supermercato è questo?!”, mentre aldifuori ancora un altro numero.
Ma anche meloni, pesche, aglio, cipolle, pomodori, erbe aromatiche, insalate, melanzane, miele, olive, olio, liquori. E poi ancora latticini, formaggi, pesce, salumi, dolci, gelato, sempre tutti con il proprio profumo. Tutti attraverso il naso. Sono per la prima volta ubriaco di odori, profumi di una regione italiana, di cui questo supermercato ne vende i prodotti. Ah, a proposito di gelato:
“1kg di gelato e solo limone!”, scelgo.
Mentre vado avanti, incontro il primo essere vivente, che profuma anch’esso, e che a differenza di tutto il resto è fisicamente presente in questo giardino, dove, come i miraggi, tutto appare senza esserci. Si tratta di una pianta in fiore, un robusto Ibiscus con foglie e calice verdi, una corolla rossa e un pistillo dal gineceo bianco e l’androceo rosso. Talmente bello e sgargiante che mi scappa un applauso. Un Ibiscus che mi osserva e che muove i propri fiori, seguendomi e scrutando ogni mia azione. Quando però sono io che mi volto a guardarlo, allora lui fa finta di niente, e fischietta un motivetto tutto suo:
“Che c’è da guardare?”, gli dico, “chi sei?”, aggiungo.
E lui, niente.
“Sai fischiare ma non sai parlare? Io mi chiamo Guglielmo e sto cercando la Cima dell’isola W. Sai per caso qualcosa che puo’ aiutarmi a trovarla?”, continuo.
“Io me ne infischio di come ti chiami e di cosa cerchi! Io guardo soltanto”, risponde.
Girandosi dall’altra parte, interrompe bruscamente la conversazione ed anch’io non dico più niente. Chiudo di nuovo gli occhi, riparto a guardare con il mio naso e vado avanti con la mia scelta per un po’ di frutta ed una cassata. E come di solito fare nei supermercati, arrivo vicino a qualcosa che può essere la fine di esso, con magari la cassa per pagare. Ma naturalmente niente cassa e nemmeno una delle mie scelte si trova nelle mie mani. In lontananza sento però, questa volta usando le orecchie, una voce femminile:
“Nooooooo!, ma questo è il toooop!, guarda là, sì, sì, ceeeerto. Che spettacolo, assolutamente, il top dei top!” le sento dire con fierezza.
Si tratta di una donna, la persona che da sola gestisce questo giardino di bontà, e mi avvicino per chiederle cosa posso fare ora. Lei si trova a sedere ad un tavolo con delle panchine, entrambi di pietra e neri, mentre guarda e parla più lingue contemporaneamente verso lo schermo di un computer. Quando si accorge della
mia presenza, mi fa cenno di avvicinarmi con la mano:
“Vieni, vieni. Vediamo un po’ che cosa abbiamo qui, dal mercato siciliano”, afferma, iniziando ad aprire una busta che si trova proprio accanto a lei, sul tavolo. “1 kg di gelato al limone, il top dei gusti nel top dei gelati; delle arance moro, le top arance da quanto sono succose e di colore rosso intenso; e per finire, il top dei top, una bella cassata”, conclude.
E insieme alla sorpresa della busta, contenente precisamente tutte le mie scelte top, chiedo in maniera curiosa:
“Come faccio per pagare?”, cercando di immaginare la maniera locale di quel supermercato.
“Segno tutto! Vai, vai, che tanto la troviamo un’altra occasione per rifarsi. Per sdebitarsi intendo. Non pensare di scappare, sai, che tanto ti ritrovo da qualche parte!”, mi dice, “e ti serve qualcos’altro?”, continua.
“No, al momento sono al top, grazie!”, mi scappa senza volere dalla bocca.
“Allora, io mi chiamo Oli-od-Olivia, Oli per gli amici, e ricordati che quando nel mare non siete i soli a galleggiare, un tre al cubo, sì, si fa trovare. Verde, se un dei due la sete perde”, aggiunge. “E grazie per la visita”, conclude, andomi il sacchetto.
“Io, io sono Guglielmo, ciao, grazie e alla, alla prossima”, rispondo balbettando
un po’.
Mi rimetto le scarpe, anch’esse là, ed esco con il sacchetto della spesa in mano, ancora sorpreso di quel supermercato e soprattutto in sospreso per quelle ultime parole, chiedendomi nel mentre dove poter trovare Maltese.
Capitolo 2. La rosticceria orientale “da Maltina”.
Non riesco a trovare Maltese e, allo stesso tempo, sento che, con me, non ho niente di salato da mangiare. Solo arance e una cassata. Mentre cammino, incontro di nuovo l’Ibiscus ad un angolo della strada che guarda e fischietta, e allora ci riprovo. Mi avvicino e gli chiedo:
“Ciao, sto cercando un mio amico e ho anche un po’ di fame. Visto che qua tu sei di casa, puoi darmi, per favore, qualche dritta?”
“Ancora domande?! Non mi interessa aiutarti, ti ripeto che io guardo e basta. Tutti sull’isola mi conoscono con un nome ben preciso. Io sono Ibiscus e me ne infischius!'', mi risponde un po’ alterato.
“Quanto la fai lunga per una semplice informazione. Non voglio mica sapere i fatti di qualcuno, solo un posto dove mangiare qualcosa”, ribatto.
“Divertiti a trovare da solo quello che cerchi! Io sto ammirando un gioiello e tu mi interrompi con queste sciocchezze. Sono concentratissimo a guardare quella cozza che dorme distesa vicino al mare, vestita di nero, bagnata dall’acqua, con il sole che la cuoce e che la fa brillare ancor di più. E’ forte al di fuori e sempre mi chiedo, se al suo interno è invece morbida, e succosa, e arancione, come la cozza!”, decanta con ione.
“Ma di cosa stai parlando, da quando in qua alle piante piacciono i frutti di mare?, vuoi dirmi che tu mangi i molluschi, che ti piacciono le cozze?, continuo.
“Ma cosa cavolo ti salta in mente?!, io mi nutro solo dalle profondità marine, con l’acqua pura che distillo personalmente, e quella cozza di cui parlo non è affatto un frutto di mare. Lei ama e cucina benissimo i molluschi e le cozze al pepe nero sono la sua specialità. E in questo istante, lei si trova proprio laggiù, in riva al mare, su quello scoglio, come una cozza. E’ per quei motivi che la chiamo così. Ma come sempre, non sono affari che ti riguardano ed io non so niente, e me ne infischio!”, conclude bruscamente, mentre riprende la sua ammirazione.
Allora mi allontano da lui, mentre ho sempre piu fame, e vago in cerca di un pasto veloce. Un alimentari, un fast-food, un bar, una pastizzeria. E improvvisamente, da lontano, leggo la scritta gigante e blu di una rosticceria. Si chiama “da Maltina”. Mi avvicino alla porta di ingresso e una piccola e tozza gatta nera mi accoglie strusciandosi un po’, miagolando molto piano e sempre con la coda all’insù. Un’altra completamente pelosa, bianca e nera, che si rotola sul marciapiede antistante, mentre un terzo, completamente rosso-arancio, che dorme sul davanzale di una finestra cieca. Apro la porta e entro all’interno, ma non c’è nessuno, se non altri tre gatti. Uno secco e allungato, sempre nero e bianco, che mi invita a giocare con lui; una seconda completamente grigia, piccola e regale nella danza che compie al centro della rosticceria, mentre mi guarda con la lingua fuori; e per finire un terzo, il più adulto e faraonico nell’aspetto, immobile su di un piccolo trono e con la coda rimbalzante a destra e sinistra, in modo caotico, in segno di amicizia. A parte questi sei gatti, nessun altro. La rosticceria si presenta con una sola stanza senza finestre e senza porte all’interno, esclusa quella dell’ingresso. L’atmosfera è calda, con le pareti, il pavimento ed il soffitto della stanza completamente decorati da mosaici bizantini, arabi, e orientali in genere, con differenti tonalità di colore blu e oro. Ma di persone nemmeno l’ombra.
“Buon giorno, c’è qualcuno, vorrei ordinare del cibo?”,esclamo a voce alta.
“Buongiolno e benvenuto nell’unica losticcelia olientale dell’isola, Da Maltina. Le nostle specialità sono: gli involtini cludi plimavela-estate, la zuppa di medusa, gli spaghetti di liso integlale ai licci viola, il polipo al limone e la pepata di cozze che è la nostla supel specialità. Vino bianco, losso oppule losé, ligolosamente tutti dell’isola. Cosa desidelate oldinale?” mi risponde una voce estranea, e gentile.
Sembra quasi che sia la stessa rosticceria a parlare, attraverso la sua propria forza vitale, essendo, come la sua creatrice, assolutamente e divinamente autonoma .
“Vorrei ordinare una zuppa di medusa e la pepata di cozze, per favore. Sì, scelgo quei due piatti”, rispondo sempre ad alta voce.
“Una zuppa di medusa e una pepata di cozze pel il nostlo cliente numelo qualantaquattlomilaottocentottanta”, ripete con voce chiara. “tla 8 minuti la sua oldinazione e' plonta, glazie pella sua visita e buon appetito!”, conclude.
“Chissà questa volta da dove sbuca fuori la mia scelta, i gatti? E per pagare, saldiamo in un secondo tempo come al Minkia Market?”, penso tra me e me.”Boh, lasciamoci sorprendere e stiamo a vedere come funziona”.
Mancano pochi secondi allo scadere dell’ottavo minuto, quando, improvvisamente, la stessa voce mi avverte che posso cominciare a leccarmi i baffi e che il pagamento, relativo al pasto, avviene automaticamente attraverso il mio cellulare. Non riesco nemmeno ad iniziare a salivare che, magicamente, una delle piastrelle blu, raffigurante una medusa, si gira su se stessa ed ecco comparire la mia zuppa. Mentre, dopo soltanto un attimo, ecco che una seconda mattonella, azzurra con delle cozze dorate, ripete il movimento per offrirmi la sua pepata. Le prendo immediatamente entrambe, tanta è la fame, e rimango
senza parole. Non solo la mia bocca è piena d’acqua dalla fame, ma anche i miei occhi stanno lacrimando per lo splendido show. E, contemporaneamente, penso che creazione geniale sia tutto questo, per non parlare poi dell’artefice. Mentre indietreggio con il cibo in mano, sento un gran miagolio e sto quasi per cadere. Mi volto e uno dei sei gatti, il faraone, si trova sul pavimento davanti ai miei piedi, leccandosi la coda. Lo accarezzo invece di scusarmi ed esco dalla stanza. E allontanandomi, con la coda dell’occhio, intravedo gli altri tre gatti esterni che, uno accanto all’altro, mi osservano incuriositi. Ho il cibo bollente nelle mie mani che fuma. Devo solo trovare una panchina per sedermi e gustarmi tutto con calma.
“Sul lungomare, sì, là ho l’imbarazzo della scelta”. Mi affretto, attraverso la strada ed eccola qua la panchina che mi serve. Anche lei mi sta guardando, come per dire:
“dai, accomodati!”, e non me lo faccio certo dire due volte.
Appoggio il sacchetto, tiro fuori la zuppa, il cucchiaio ed apro il coperchio. Dal colore miscelato tra il blu ed il viola, non posso fare a meno di pensare a Violetta. Ma per la mia fame e il profumo così invitante, non riesco a trattenermi. Agguanto il cucchiaio e comincio a mangiarla. Uno, due, tre, quattro cucchiai e qualcuno comincia a parlare. E insieme a lui ancora quel rumore della cascata. Per un attimo mi fermo, mi guardo in giro, e nessuno mi circonda, né una persona, né una cascata, né una fontana nei paraggi e il mare è completamente calmo e silenzioso. E, improvvisamente, escono parole mescolate senza un senso:
“Consapevolezza, Perseo, labirinto, Paola, respiro, stanza, suono, profondità, oracolo, voce, pietra, grazia, santuario, solo, sottoterra, potenza, onde, gioia.”
Queste sono le parole che il mio cervello ode insieme all’acqua che cade, come sottofondo alla prima melodia caotica.
La mia mano intanto, con il cucchiaio, continua ad imboccarmi attraverso un pilota automatico che si chiama corpo e la zuppa finisce, con il mio naso che comincia a sentire il profumo delle cozze. Apro anche il secondo pacchetto e davanti ai miei occhi se ne stanno tante belle cozze nere e arancioni, a bagno nel loro brodo, con aglio, olio, peperoncino, prezzemolo, limone e pepe. Tanto pepe, che mi viene subito da starnutire. E le mie orecchie sentono subito una voce nuova:
“Salute!, non voglio disturbarla e, posso sedermi accanto a lei su questa panchina?”, allunga.
“Grazie. E, certo, certo che, che può sedersi. C’è posto, ci sono un sacco di panchine libere e anche su questa c’è posto. Quindi, sì, certo che può”, rispondo con sincerità e senza guardarla troppo.
Il lungomare dove mi trovo ha una panchina dopo l’altra e generalmente sono quasi sempre tutte vuote. Come in questo momento e la signora sceglie, invece, di venire accanto a me. E riprende anche a parlare:
“Ma che buon profumo hanno queste cozze, posso assaggiarne una, per favore?”, mi chiede.
Allora mi volto a guardarla negli occhi e in quell’istante, mi fermo. Due occhi azzurri come il cielo e sinceri come il mare mi stanno guardando, nudo, dentro. E ancora la cascata riprende nelle mie orecchie. Un viso dolce e regale, con dei
capelli lunghi, mossi e arancioni, fanno parte di un corpo snello e allungato in un vestito nero che sembra non finire mai.
“Posso prendere una cozza per assaggiarne il sapore?, mi richiede, mentre il sugo inizia a sgocciolare sui miei pantaloni. “Ti stai sporcando i vestiti!”, mi avverte.
“Ah, certo, cavolo, sì, accidenti, mi sono …” Balbetto nervosamente, “certo, certo che puo’. Prego”, le porgo una cozza con la mano destra.
Lei, la prende con la bocca, staccando la parte arancio femminile, bevendosi anche tutto il succo nella valva. Chiude la bocca, poi gli occhi, e con piacere ne gusta tutto il sapore fino al pepe finale. Riapre gli occhi, lentamente, e sorridendo riparte a parlare:
“Certo, vorrei proprio conoscere chi cucina delle cozze così gustose!”, incalza.
“Vengono da una rosticceria non troppo distante da qua. Si chiama “Da Maltina” e se vuole, posso spiegarle la strada”, rispondo fissandola negli occhi, come ipnotizzato.
“Grazie, sei molto gentile, ma la conosco”, conculde sorridendo.
Si alza dalla panchina con ancora un bel sorriso, e si allontana dal mare, scomparendo dietro l’angolo di un edificio. E per qualche minuto rimango zitto, nel mio silenzio, a finire le cozze della mia pepata. Nel vuoto totale, solo, con
quel rumore di cascata che dolcemente mi fa compagnia. Il profumo al limone del gelato di Maltese mi riporta in superficie e improvvisamente anche la sua voce:
“Hey, sinceramente non capisco, è il mio gelato o sei tu ad essere quasi completamente sciolto per il calore?”, sfreccia.
“Il gelato, senza alcun dubbio il gelato. E’ ancora buono, sono sicuro. Provalo, dai, che io ….”, balbetto nella risposta.
“Mhmmmmm, che bontà, che prelibatezza! Che gusto divino che sento. Il sole con l’acqua che sposano la terra e l’aria! Un quadrato meraviglioso, un seme come figlio. E una pianta in fiore che frutta anch’essa. Un’estasi che si ripete, come sempre!”, decanta.
Ancora silenzio, con il topo che divora quel chilo di gelato al limone ed io, sulla panchina, che lo guardo compiaciuto.
“Ah,che scorpacciata!”, esclama prima di fare un rutto, “ops, sorry”, aggiunge quasi immediatamente. “Sei di nuovo qua con me, oppure …. ?”, mi chiede incuriosito.
“Presente!”, rispondo, mentre arrossisco un po’. “Ci sono, sono qui”, rispondo, respirando.
“Ti piacciono le cozze, ma anche colei dai capelli arancioni, vedo. Come ti
capisco, tutte le volte che la incontro, la osservo e scorgo in lei una dea vivente e regale. Qualsiasi movimento il suo corpo esegua, io ci vedo la grazia in persona che si esprime, anche quando dorme. Mi fermo un sacco di volte ad ammirarla, e non sono il solo, a causa del suo carisma, cioè quel fuoco interno che sprigiona, quella fiamma fredda senza potere, quella ione che esce e va contemporaneamente in tutte le direzioni”, si confida Maltese prima di sgattaiolare via, nuovamente, dietro un cespuglio.
Didascalia...
Capitolo 3. Il raduno dei Gabbiani sull’isola W.
Sul lungomare dell’isola ci sono molte panchine di legno tra un bar e l’altro ed io siedo su di una di queste. Guardo e sento il mare, i suoi colori, poi il cielo ed i suoi. Da quando sono qua, uno soltanto, poi il secondo, tre se mi aggiungo alla conta:
“Di gabbiani, sì!, non ne vedo tanti volare. Ma… allora forse questa è l’isola senza i gabbiani e, allo stesso tempo, con pochissimi?!”
Ho voglia di un bicchiere di vino e scelgo il primo bar vicino alla mia panchina. Un rosso locale e ritorno a sedere. Mentre me lo gusto, a ad un metro di distanza da me, ma nel mare, un’anatra. Per un attimo credo di avere un’allucinazione, meravigliandomi della capacità immediata di questo vino, e guardo meglio. E' proprio un’anatra ed è ferma davanti ai miei occhi, dandomi la coda. Si tratta di un bellissimo esemplare maschio, simile ad un germano reale. Zampe arancioni che intravedo dalla trasparenza marina, corpo piumato nero e blu, collo-testa nero e verde, entrambi metallizzati, ed un bel becco giallo.
“Certo che siete proprio belle, voi anatre, oltre che buone da mangiare!”, penso ad alta voce.
“Come dici scusa?”, risponde, girandosi su se stessa.
“Dico che e' la prima volta con un’anatra di mare!”, mi riprendo.
“Appunto, un’anatra di mare. Noi, oltre a non essere commestibili, viviamo solo su quest’isola!”, sferza, accennando un sorriso.
“Mi stai dicendo che abiti nel mare come fanno anche i gabbiani e che bevi acqua salata come tutti gli uccelli marini? Con quei particolari organi detti ghiandole del sale o nasali che agiscono come reni supplementari per filtrare i sali in eccesso, cosicchè puoi bere acqua salata per dissetarti? Allora, forse, puoi aiutarmi a capire”, continuo, “…capire come mai su quest’isola non si vedono gabbiani in aria, né sull’acqua, né a so sulla terra?”
“Come mai ti interessa capire il perchè dei gabbiani, giovanotto?”, rimbalza.
“Se penso ad un’isola, sento l’acqua del mare, i pesci sciolti che nuotano ed i gabbiani liberi che volano e cantano. Mi piace molto il loro suono!”, rispondo, “e invece mi ritrovo a parlare con un’anatra. Un’anatra di mare. Scusa, ma è un po’ strano!”, aggiungo.
“Tutto, qua nell’isola, è insolito. Però i gabbiani in realtà ci sono e anche molti. E’ che non vogliono farsi vedere e scelgono di essere invisibili. E, principalmente, è l’uomo che non ha più la capacità di vederli, che non si accorge più di cosa ha e non ha intorno e che non è, come dire, più presente!”, arringa.
“E, secondo te, come mai non sono presente?, incuriosito rilancio.
“Hai paura, paura di te stesso. Paura di sentire e di vivere la potenza della tua
libertà. Paura della tua capacità di creare e di realizzare che in realtà sei un essere umano divino. Paura di scoprire cosa c’è davvero là dentro, dentro di te, nell’attimo in cui scendi giù, in silenzio, nella profondità della tua terra. Giù, fino a quel punto, e allora preferisci girarti indietro o guardare avanti, lungo la stessa linea, invece di …”, si ferma.
Sta arrivando un motoscafo molto grande e, l’anatra di mare non è più al sicuro, dove si trova. Alcune onde lo precedono e lei, ondeggiando un po’ troppo, si allontana concludendo:
“Prova anche a parlarne con qualcun altro, se riesci. Qualcuno della terra, e dell’aria, e dell’acqua, e con te stesso. Vedi un po’ che cosa ne pensano, e, soprattutto, tu che cosa senti?, a presto, devo andarmene di qua, altrimenti …”.
Mi alzo e mi allontano dalla panchina, dal mare. Attraverso la strada e mi ritrovo tra i palazzi, in una piazza rotonda con un piccolo giardino al centro e qualcuno di famigliare con cui parlare, forse discutere. Mi sto avvicinando e subito inizia da lontano.
“No, ancora tu?!, mi sento dire dall’osservatore per eccellenza.
“Ma non ci sono altre piante su quest’isola oltre a te?”, gli rispondo a provocazione.
“Su quest’isola c’è di tutto, basta solo che tu lo scelga, ma mi sembri un po’ limitato nelle tue capacità?!”, mi prende in giro.
“In realtà voglio proprio parlare con te, ecco perché ti incontro spesso”, gli confesso e approfondisco, “e si tratta proprio di quello che sostieni anche tu, cioè di questa mia limitazione. Da cosa può dipendere secondo il tuo punto di vista?”
“Ricominciamo con le domande?!, tu conosci già la mia risposta. Perché non ti rilassi un po’ e la smetti di assillarti con tutte queste ricerche e con la necessità di capire, di analizzare tutto quello che ti accade? Senti di essere limitato, di avere paura?, e, soprattutto, pensi che m’importi qualcosa?, arrossisce ancora di più nelle domande e allunga, “ti ricordi forse come mi chiamo? La mia semplicità consiste nel godermi la cosa che amo fare di più di ogni altra al mondo, nel permetterla. E’ così naturale che posso farla senza mai smettere e senza sforzo alcuno. Starmene qua ad osservare, neutrale, a guardare cosa succede intorno senza intervenire. Osservo ma mi faccio i fiori miei, per usare un modo di dire umano. Ecco la mia comione. Prova a rimanere sulla tua propria panchina, in una piazza, e sorprenderti per ciò che succede accanto a te. La sincronicità è una delle leggi fondamentali della vita cosmica, insieme anche alla presenza e alla comione. E il bello, è che puoi scegliere se rimanere neutrale o partecipare e smettere tutte le volte che vuoi, senza interferire, assolutamente, nelle scelte altrui. Puoi scegliere solo per te!”, si commuove.
“E la paura, anche quella è una scelta?”, mi commuovo anch’io.
“Sì, lo è anche lei. Ma è l’unica di tutto il gioco che blocca tutto. Anche il tuo vedere, la tua incapacità di vedere i gabbiani che, in realtà, volano ovunque indisturbati.”, asserisce.
“Come sai dei gabbiani?”, mi meraviglio.
“Oltre al mio nome, non ricordi che io sono ovunque e che le mie orecchie rosse sentono tutto, dappertutto, su quest’isola?”, conclude e riprende, girandosi, la sua attività preferita.
Rimango in silenzio e respiro, dentro e fuori, mentre decido, coscientemente, di spostarmi al centro dell’isola. Prendo il primo bus che a, il numero X12, e mi dirigo là, dove c’è un piccolo borgo fortificato. Entro, oltreando le mura perimetrali, e all’interno non c’è nessuno. Sembra un luogo fantasma, con porte e finestre chiuse. Senza negozi, e nessun fiore ai davanzali e alle terrazze. Mentre cammino per un vicolo, ad un tratto mi sento toccare da entrambi i lati. E due voci distinte, contemporaneamente, che mi chiedono:
“Sei sicuro di voler vedere i gabbiani?”
Sono un canarino arancione con il becco e le zampe rosse ed un piccione grigio argento con il becco nero e le zampe bianche. E se ne stanno sulla mia spalla sinistra e destra, sussurrandomi alle orecchie la stessa domanda per la seconda volta:
“Sei sicuro di voler vedere i gabbiani?”
“Sono qua per assumermi la mia responsabilità, totalmente. Certo che lo voglio!”, rispondo. “E come mai non c’è nessuno in giro?”, ribatto.
“Sono tutti nella piazza centrale. Andiamoci anche noi!, si sta per festeggiare il matrimonio”, dicono con calma e dolcezza ancora insieme.
La voce che sento è la somma di quella femminile e quella maschile fuse insieme. E appena dietro l’angolo, ci ritroviamo nella piazza centrale, con tante persone vestite a festa, gioiose ed emozionate per la celebrazione. Al centro della piazza però c’è una ghigliottina e mi fermo per un attimo ad osservarla. E, sembra che sia il solo a cui appare fuori luogo una macchina del genere e, soprattutto, un matrimonio con al suo centro una ghigliottina.
“Che cosa si deve tagliare con quella ghigliottina?”, chiedo ai miei due nuovi amici.
“In realtà non si taglia niente, piuttosto si perde qualcosa. Una cosa che pesa troppo, che non serve più, perché è limitata e limita. E’ un modo per eliminare il potere, diciamo. Stai a vedere cosa succede, guarda, stanno arrivando!”, esclamano emozionati anch’essi.
Ecco che arrivano gli sposi, la regina ed il re della festa. Parzialmente sono già fusi, in un unico corpo che non conosce interruzione, dal braccio destro di lei al braccio sinistro di lui. In un unico corpo, con due braccia, quattro gambe e due teste, che si avvicina alla ghigliottina, si inginocchia, infila la testa maschile nella macchina, mentre la testa femminile dice ad alta voce:
“Sono pronta a ritornare al mio posto, e ad assumermi di nuovo la mia totale responsabilità come creatrice, insieme a te. E tu, sei pronto a perdere il controllo e a fonderti di nuovo, come sostegno, permettendo la grazia nella fiducia totale, insieme?” “Sì, sono pronto, lo scelgo, ora!”, respira e conclude la testa maschile.
Nel silenzio totale, la lama parte nella sua discesa e taglia la testa maschile. Essa rotola verso la folla, plaudente ed esultante, che la raccoglie e la porta via per il
banchetto seguente. Il corpo, invece, si rialza e si fonde in un’unica consapevolezza vivente, pronta ad espandersi ancora di più.
“Tutte le volte che vivo questo momento, è sempre una gioia nuova. Una rinascita!”, sento dire da un piccione arancione con il becco e le zampe rosse in volo sopra di me. E per la terza volta, mentre si allontana, aggiunge scomparendo all’orizzonte:
“E allora, sei sicuro di voler vedere i gabbiani?”
Rimango da solo in piazza, non c’è più nessuno. Solo io con il mio silenzio e il mio respiro, dentro e fuori. Il banchetto nuziale si festeggia in privato, con tutto il corpo, con entrambe le mani, verso l’infinito ed oltre, raggiungendo ogni volta la sazietà. A come ancòra, àncora, e tante altre belle parole. Tra cui anche quella che riguarda il tutto, la consapevolezza, cioè tutto. E mi giro e mi rigiro, ma non c’è davvero più nulla, nemmeno io. Esco da quel borgo e riesco a prendere un taxi al volo verso una spiaggia. Necessito di un bagno, nel mare natutalmente. Sulle fiancate dell’auto, infatti, due parole. Golden Beach. E intanto, mentre ci andiamo, guardo il paesaggio e leggo un cartello dentro l’auto, una VolksWagen maggiolino nuovo modello, che dice di non parlare al conducente perché le parole sono limitate, spesso inutili. Se si possiede uno strumento musicale portatile si può creare della musica, dei suoni, ma niente parole, specifica il cartello. E allora me ne sto nel mio silenzio, mi tappo le orecchie con le mani, ed ascolto il mio respiro che entra ed esce dal mio naso, il suono della mia anima che dice “presente”. Il taxi continua la sua corsa e all’interno si comincia a respirare un odore pesante e sgradevole. Apro il finestrino e l’aria esterna ripristina l’equilibrio anche dentro, mentre sul sedile, accanto a me, il giornale locale avverte della presenza di tante Violette alla spiaggia dorata. Proprio dove stiamo andando. Il taxi si ferma e ci siamo. Alla Golden Beach. Scendo, mentre il taxi si allontana e scompare dietro una curva in salita. Mi guardo intorno e l’atmosfera è serena e
vedo in lontananza una signora che si sta avvicinando. Ha l’aria un po’ snob, ma i suoi occhiali, gialli fosforescenti, la rendono simpatica nel guardare e curiosa nel parlarci. Si avvicina ancora di più e chiede in maniera preoccupata, se ci sono davvero le meduse, e se può fare il bagno tranquilla. Si presenta dicendo di chiamarsi Annunziata, che è un’insegnante di lingue, e che è una wisolana doc, pura. Comincia a raccontare del suo incontro con le meduse e quale sia il rimedio da utizzare per alleviarne il dolore una volta in contatto con loro. Non vede l’urina come la sua naturale medicina, anche perché non scappa sempre di farla, e si inorridisce solo al pensiero di un’altra persona, anche conosciuta, come piano di riserva. E continua a raccontare di un cartello che si trova alla seconda spiaggia, spiegante tutto sulle meduse, abitanti o solo frequentatrici dell’isola, soffermandosi in particolare su di una specie che afferma essere dolorosissima al tatto. Si tratta proprio di Violetta o di una sua sorella, la Pelagia Noctiluca, una luce notturna del mare, ovvero un organismo marino capace di brillare nell’oscurita, data la sua iridescenza interna di colore verde. E Annunziata mi spiega come arrivare alla spiaggia successiva, se proprio voglio assistere allo spettacolo del campo di violette marino, cioè un grande campo fluido in cui galleggiano tanti fiori blu e viola, entrambi semoventi. Allora ascolto con molto interesse e decido di andarci per trascorrere la notte, godendomi anche l’altra metà dello spettacolo e, magari, chiedere loro un consiglio sui gabbiani. A piedi, salgo lungo una strada su di una lieve collina fino ad incontrare un edificio abbandonato ed una grande scala di pietra che scivola giù verso il mare, come tappeto d’ingresso alla seconda spiaggia dorata. Prima di scendere lungo gli scalini, comincio ad avvertire, in lontananza, tanti punti scuri nell’acqua marina. Tanti punti che schiariscono man mano che la nuvola ed il sole si spostano. La luce solare, infatti, accende le Violette che brillano come tante ametiste marine, ricaricandole, in un’acqua spettacolare e cangiante per la diffusione della luce riflessa in essa. E mi fermo ad applaudire lo spettacolo. Continuo fino ad arrivare vicino all’acqua, quando decido di togliermi ed abbandonare scarpe e calzini. Ora, affondo nella sabbia dura, densa e sensuale al tocco dei piedi e delle mie mani. Ma anche dorata agli occhi, mi siedo senza asciugamano e poi mi sdraio su di essa che si adatta perfettamente al mio corpo, offrendomi il miglior materasso esistente.
E intanto il mare comincia a stuzzicarmi, le sue onde mi bagnano i talloni dei piedi, invitandomi a fare l’amore con lui. E accetto, avvicinandomi lentamente sempre di più, senza alzarmi in piedi, camminando con le mani ed i piedi, proprio come un granchio. E lentamente mi ritrovo nel campo di violette marine, ci strusciamo e rimango là dentro per un po’, ma non succede niente. Nessuno sembra voler comunicare, le violette se ne stanno lì, per i fatti loro, come qualcuno che conosco bene. Allora, con la solita lentezza e sempre respirando consapevolmente, faccio ritorno alla sabbia, esco dall’acqua, mi sdraio bocconi sulla spiaggia e mi addormento. Appena sveglio di nuovo, è completamente buio intorno a me. E’ notte alla seconda spiaggia dorata e non c’è nessuno intorno, e ancora non vedo alle mie spalle il mare. Mi volto, e davanti ai miei occhi appare la metà mancante, uno spettacolo di luci blu e viola sospese in quest’oscurità, somma tra cielo e mare, con la luna allineata al sole e quindi nuova. Luci danzanti in un campo mobile ed ecco che un suono parte nelle mie orecchie, come un fischio che sale di intensità dentro un ripetitore, la mia conchiglia. Come una radio, il mio intero corpo si sintonizza e amplifica il suono di questo microcosmo notturno. Mi riavvicino all’acqua, sempre calda, questa volta in piedi, e mi immergo dopo essere completamente spoglio. Nuoto per un po’ a rana verso il largo, fino all’oscurità più totale, e mi fermo. Ora, tutte quelle luci mi circondano ancora, tante sorelle che mi toccano sott’acqua e pian piano mi tirano giù. Mentre scendiamo, rimango con gli occhi aperti e con eleganza tante violette mi ricoprono completamente a formare un vestito, cappuccio compreso. E chiudendo gli occhi comincio a decifrare la nostra comunicazione, io con questo collettivo che dice:
“Se veramente vuoi vedere i gabbiani, devi lasciarti andare. Permettere completamente, e smettere di farti domande. In poche parole, non spingere più. Scegliendo la responsabilità totale, solo ed esclusivamente per te stesso, non devi cercare più niente. Puoi soltanto fare esperienza di qualsiasi cosa attraverso la scelta, come maestro, cioè unico sovrano e creatore della propria vita sincronica. Tu hai già tutte le risposte, tutti i potenziali, poiché sono dentro di te. Il vuoto che stai sperimentando, rappresenta sia il nulla, e anche il tutto nel suo
potenziale. E il tutto è la consapevolezza, la coscienza, questa totale cosa ancora oscura agli occhi. Ma noi sappiamo. Sappiamo che sai dove si trova la cima, e che ora sei pronto per fare esperienza dell’antico potenziale. Buon divertimento”.
le mie orecchie ora sentono il rumore della mia cascata e il mio corpo intero un grande calore. Riapro gli occhi e sono di nuovo sulla spiaggia, a pancia in giù e completamente nudo. E’ giorno e sulla spiaggia ancora non c’è nessuno. Mi alzo, mi rivesto e vago in cerca di acqua. Ho la gola secca e un dolore che aumenta, provieniente dallo sterno, che soltanto l’acqua può sciogliere. E il bar accanto alla spiaggia è già aperto, pronto ad offrirmi ciò di cui necessito. Acqua. Allora decido di rietrare in città, di camminare mentre lo faccio, così ho la possibilità di parlare finalmente con me stesso. Di sentire il mio fuoco, la mia eresia, la mia personale verità, respirando. Sempre dentro e fuori con il naso:
“Quindi, tu hai paura?”, parlando ad alta voce con me stesso mentre cammino. “Siamo soli e nessuno può sentirci, puoi parlare. Aprirti intendo, dai, è sicuro. Conosco già quello che senti e che provi. Voglio soltanto sentirlo uscire dalla tua bocca”. un bel respiro e,“alcune volte, sì, la sento. La annuso, e ci respiro dentro quando succede. Rimango fermo, immobile, neutrale e continuo a respirare. So che è anche mia, che mi appartiene e la permetto, mi faccio attraversare, le offro per un attimo ospitalità, poiché anch’essa fa parte del mio giuoco. C’è il rischio di un black-out, sì, ma la paura mi serve per aprirmi ancora di più”. “Quindi cosa fai?” “Personalmente scelgo il black-in, cioè, scelgo di entrare dentro me stesso fino al centro, di spacchettare il mio regalo, di godermelo, affrontando chi sono e anche chi non sono, senza confondere la paura con altre sensazioni. Quindi scelgo di sentirla, senza interesse, e attraverso anche la sua presenza vivo le mie esperienze”. “Sono veramente delle belle frasi, ma cosa mi dici della pratica, sei di parola?”
“Faccio il pioniere con me stesso, scelgo di essere presente e sento che ci sono, che la respirazione è uno strumento incredibile per far suonare il corpo, e che tu, mente, ora devi chiudere il becco!” “Sei veramente convinto di quello che dici?” “Non introdurre il dubbio, io ho fiducia in me e ti ordino di smetterla!” “Sicuro?” “Niente più compromessi. Stai zitta!, e divertiti a giocare con me al gioco del presente, e non più a nascondino!”
E ad un tratto una voce in campo esterno si introduce: “Ah, questa è proprio bella!, l’essere umano che gioca da solo a nascondino. Ecco perchè non vede più chi è e chi non è, figuriamoci se puo’ vedere i gabbiani?!”, se la ride un Ibiscus rosso, che beato se ne sta a sentire le ultime parole del mio monologo, mentre gli o accanto. E guardandolo dritto nei suoi fiori, gli rispondo:
“Per me, personalmente, il gioco cambia!, ora, sono io che dirigo il mio concerto, lasciandolo suonare, e per l’occasione voglio proprio festeggiare organizzando un bel raduno di gabbiani sull’Isola W, nella completa fiducia della mia oasi e della loro rotta”.
“Interessante questa tua idea del raduno, e anche rendere il tutto reale”, controbatte L’Ibiscus.
“Pesci e spazzatura, sì! Questi sono gli ingredienti per la mia riuscita”, concludo.
Capitolo 4. La bottiglia d’acqua e l’urlo muto all’Hypogeum.
Mentre eggio verso il centro storico della capitale dell’isola W, lungo la sua marina, ad un certo punto, mi sento chiamare:
“Ehi, Guglielmo, sono qua!”
E’ Romolo, con la sua voce molto bassa nonostante le sue origini. Ci sono tantissime barche, alcune molto grandi, che galleggiano nei vari porticcioli di questa marina, e anche Romolo ne possiede una. Mi avvicino e la sua barca è gialla, di legno, 4 metri di lunghezza, a remi con solo due posti a sedere. Mi invita a salire per un giro ed immagino che questa barchetta serva soltanto per raggiungerne un’altra più grande, in un altro punto del porto non accessibile a piedi. Una specie di tender di legno, insomma. Salgo sopra e sembra di essere su di un materassino gonfiabile, tanto si muove, ma raggiungiamo un equilibrio. Lui, io e una lunga corda ai nostri piedi.
“Come stai e dove te ne vai?”, esclama Romolo mentre cominciamo a muoversi nel mare.
“Oggi mi sento euforico, qualcosa dentro di me mi preannuncia una sorpresa. Ho questa sensazione che viene dal profondo, sai?!”, rispondo.
“Sei sempre un po’ criptico, oltre che strano. Andiamoci a godere una bella gita in barca a remi, dai, ti porto a fare un bel bagno vicino alla Cattedrale”, ribatte Romolo.
E cominciamo ad uscire, piano piano, dal porticciolo, mentre lui rema con molta fierezza e determinazione. Sembra uno di quei comandanti così orgogliosi della propria nave, che quella emozione traspare chiaramente dai suoi occhi. Dopo circa mezz’ora di mare, accarezzati dal vento e bagnati dal sole, soprattutto Romolo, raggiungiamo la caletta vicino alla Cattedrale, verso la punta del promontorio su cui sorge il centro storico della capitale.
“Ci siamo, possiamo fermarci qua e fare il bagno. Che ne dici, Guglielmo?” escalma Romolo, un po’ affannato.
“Certo, è perfetto, butto l’àncora?”, gli chiedo.
“In realtà non abbiamo nessuna àncora, ma solo una corda che mi lego sempre al piede, una specie di cintura di sicurezza. Quella lì, è abbastanza lunga, sai, così possiamo tuffarci”, mi risponde tutto contento.
Fare il bagno nel mare, evidentemente, non è soltanto una gioia per me, anche a Romolo piace, e in pochi secondi, entrambi, ci ritroviamo dentro quella meraviglia. E non siamo i soli ad essere sospesi in quell’acqua trasparente. Infatti, una bottiglia anomala e senza etichetta, o qualcosa che le assomiglia, galleggia nel mare e si sta avvicinando a noi due. Sicuramente l’acqua del mare riesce a rimuovere un’etichetta con la sua forza, e invece no, la forma di questa bottiglia è strana, nel senso che ha caratteristiche mai viste. E’ una piramide a base triangolare, un tetraedo senza tappo, di colore
verde smeraldo e contenente una sorta di liquido.
“Romolo, guarda là, c’è una bottiglia che galleggia. Avviciniamoci!”, gli dico.
Ce l’ho in mano e per un attimo la tengo davanti a me, mentre ritorniamo verso la barca. Una volta sopra, la fissiamo entrambi in silenzio ed essa emana una vibrazione credibile. Invito Romolo a toccarla e anche lui sente una sorta di suono profondo simile ad una conchiglia di mare, con una frequenza molto più alta. E restiamo ancora silenziosi a sentire quel canto marino, proveniente da quel tetraedo apparentemente di vetro e somigliante piuttosto ad un oggetto alieno, prezioso, per cui la nostra curiosità ci stuzzica ad andare oltre:
“Che cosa può esserci mai all’interno da possedere un involucro così particolare?”
In quell’istante, mi balenano in mente le parole di Oli, che pronuncio ad alta voce:
“Quando nel mare non siete i soli a galleggiare, un tre al cubo, sì, si fa trovare. Verde, se un dei due la sete perde”.
“Un tetraedo che galleggia, sì; verde; uno dei due; la sete; perde?!”, ripete Romolo, ragionandoci sopra. “Ci sono, sì, bisogna bere!”, aggiunge tutto agitato.
“Ma non abbiamo né vino né birra con noi, sulla barca!”, rispondo a botta.
“Mica in quel senso, Gugliemo, il tetraedo! Per capire cosa c’è dentro, uno di noi due deve bere il tetraedo”, ribatte gesticolando con una mano.
E senza farmelo ripetere due volte, mi avvicino con entrambe le mani quel tre al cubo alla bocca e, improvvisamente, una fessura, triangolare anch’essa, comincia ad aprirsi. Si allarga man mano che le mie labbra si avvicinano e sfiorano l’oggetto alieno. E bevo, Bevo tutto quello che si trova dentro. Tutto di un fiato e il tetraedo, senza più liquido al suo interno, evapora dalle mie mani nell’aria davanti a noi due, lasciandoci scossi e perplessi. La barca comincia a dondolare più del solito per qualche onda di troppo che il mare riproduce, Il vento si alza, e decidiamo di rientrare dalla nostra gita nel più totale silenzio. E’ ancora Romolo che rema, essendo il capitano della barca, ed io intanto comincio a sentirmi stranito, alterato, pur rimanendo tranquillo. Non riesco a spiegare nemmeno a me stesso questa nuova senzazione, mentre il mio corpo sta integrando tutta quell’acqua, tutta la sua memoria, all’interno. Tutta la sua informazione, quando, tutto ad un tratto, mi lascio andare e cado lentamente all’indietro, rimanendo sempre a sedere sulla barca, con la schiena oltre. Sono ancora cosciente, respiro dentro e fuori più volte, e mi sento come amplificato nella mia percezione, oltre il mio corpo e la tridimensionalità. Espanso e comincio a parlare in inglese, con un tono di voce inusuale, balbettando:
“I wanna play. Make a sound (…). La. La. La (…). P. A. You, you. La (…). Look for. La. Val (…). And find for. Fine Arts (…). And ask for. Pawla (…). Ang get for. Visit (…). La. La. La. La”, e poi silenzio.
Esternamente il silenzio. E dentro, la mia sorgente d’acqua corrente, la cascata, mi culla dolcemente e respiro dentro e fuori, ancora, più volte. E poi un altro suono, nello stesso istante in cui Romolo comincia a riflettere ad alta voce:
“Sono una bomba per la mia memoria!, e comunque non è poi così lungo da ricordare. E cosa significa suonare la, p, a, u, la e cerca la, val?, e, anche, trova
Fine Arts, chiedi di Paula e ottieni una visita?”
E, intanto, un fischio nelle mie orecchie cresce, dal mare con un salto esce, sulla barca di Romolo un pesce. E lui, improvvisamente, smette di remare, si ferma un attimo, prende in mano il sarago, che si barcamena, e lo accarezza. Uno sparaglione dalla forma classica, con squame di color argento cangianti in verde e azzurro, con macchie di color giallo intenso sugli occhi e lungo le pinne, ed una molto grande di colore nero poco prima della coda. Il pesce boccheggia, si scambiano uno sguardo, e lui lo ripone nella sua dimensione, immergendolo con entrambe le mani nel mare. Il sarago, sciolto e contento, fluidamente, riprende la sua via, puntando, allontanandosi, la cupola svettante dalla capitale storica dell’isola. Con la stessa chiarezza ed eleganza del pesce, Romolo ripone entrambi i remi nel mare, vira la barca e segue la direzione del sarago, senza dire una parola. E in un batter d’occhio, eccoci vicino alla scogliera che costeggia la vecchia città fortificata.
“Attracchiamo qua la barca, iamo poi a riprenderla più tardi, andiamo, dobbiamo arrivare alla Cattedrale. Là, ci possono aiutare a capire cosa significano tutte quelle sillabe e parole”, afferma, guardandomi. Senza nemmeno controbattere e ancora un po’ scosso, mi alzo e salto dalla barca sullo scoglio. Romolo la lega e ci incamminiamo su, in salita, attraverso un gigantesco arco, verso la chiesa più grande dell’Isola W. Nessuno dei due dice una parola nemmeno durante il percorso, mentre il mio cuore batte più velocemente. Arriviamo davanti al suo ingresso e subito Romolo si avvicina alla biglietteria per domandare, e ottenere qualche indizio in più. Io rimango a distanza, ma riesco a leggere il labiale di entrambi, che si trovano, di profilo, davanti a me. Romolo chiede di una certa Paula, che ha a che fare con il Fine Arts e con il suono. Ma il suo interlocuttore accenna più volte un no con la testa, perplesso, per poi rispondere “il Museo di Fine Arts”, indicando con il dito della mano una direzione alle mie spalle. Romolo allora, tornando da me, mi chiede di seguirlo, e spostandoci in linea d’aria di nemmeno un chilometro, ci ritroviamo dentro il Museo di Fine Arts, davanti alla seconda biglietteria.
“Buongiorno, stiamo cercando la signorina Paula, per una visita, si tratta di acustica, del suono. Possiamo sapere, per favore, dove trovarla?, chiede, Romolo, in maniera buffa e gentile.
“Buongiorno a voi, purtroppo non conosco nessuno con quel nome, che si occupa di suono in questo museo. Siete sicuri della vostra domanda? L’unica associazione tra Paula, una visita e il suono, che mi viene in mente, riguarda l’Hypogeum di Hal Safliemi. Esso è Il più importante sito archeologico di questa’isola, si trova a Pawla, con la double you, non molto distante da qua, ed è anche famoso per le sue propietà acustiche. Noi, come biglietteria del Museo di Fine Arts, noi ci occupiamo della vendita dei biglietti last-minute. Venti ingressi giornalieri in più per l’esattezza, per visitarlo”, risponde la signora della biglietteria, guardandoci entrambi negli occhi.
“Interessante, cavolo, Pawla, double you!, prendiamo allora due biglietti per la visita, per favore. Quanto le dobbiamo?”, reagisce di scatto Romolo, trapelando un po’ di emozione nel suono della sua voce. “Purtroppo i 20 biglietti che mettiamo a disposizione, giornalmente, per le visite last-minute, vanno via in pochi minuti dopo la nostra apertura, la mattina presto, ed anche oggi non ci sono più! Mi dispiace”, conclude la signora.
Allora, senza fiatare ci incamminiamo verso l’uscita, scendiamo le scale e ci ritroviamo fuori, dal museo e dalla visita. Al primo respiro d’aria fresca dell’esterno avverto una sensazione che mi stuzzica. Essa vuole attirare la mia attenzione su tutti i potenziali possibili qui intorno, nel presente, e, mentre alla mia sinistra si trova Romolo, alla mia destra una peugeot 107, grigia metallizzata, non aspetta altro.
Uno sguardo a Romolo, un ammiccamento, e lui si avvicina all’auto, appongandosi di schiena al vetro laterale anteriore, quello del guidatore. Estrae il suo coltellino multiuso, tipo quelli per pompieri, apre la punta di ceramica arrotondata con la mano destra, lo a sotto l’ascella del braccio sinistro e toccando appena il vetro, ecco che una bellissima ragnatela appare. Mi accosto a lui, sempre di schiena, e sfiorando il vetro in più punti con il gomito destro, siamo dentro, andoci attraverso. Siamo a sedere dentro l’auto, ma non abbiamo le chiavi per accenderla e non stiamo certo girando uno di quei film americani, dove si collegano due fili e magicamente si parte. No, non lo sappiamo fare. Sì, la cosa è ancora più divertente. Ci sono le chiavi attaccate al cruscotto e la macchina è aperta! Dentro attraverso il vetro, frantumandolo, quando invece la macchina è aperta. E non c’è un altro secondo da perdere, mentre Romolo realizza, mette in moto, ingrana la prima e ci allontaniamo girando nella prima stradina a destra.
“Quest’auto mi sembra di conoscerla!”, esclama Romolo ancora un po’ emozionato. “Sai quando hai il famoso Dejà-vu, dove si ripete ancora la stessa esperienza?, ecco, sto avendo proprio quella sensazione. Ed è reale, cazzo!”, specifica, mentre cerca di uscire dal centro storico con la peugeot 107.
“Ci sono delle bottiglie di olio per terra, e, sincronicamente, anche una mappa dell’isola qua sul sedile posteriore”, rispondo, afferrandola e ammiccando un sorriso.
“Aprila immediatamente e guidami verso l’Hypogeum, a Pawla, non deve essere lontano!”, mi chiede gentilmente Romolo.
Ed eccoci davanti all’ingresso dell’Hypogeum, in una semplice via per un sito archeologico così importante, riconoscibile grazie ad una grande scritta su di un muro perimetrale quasi completamente neutro, di blocchi di tufo calcareo, la pietra locale, e cieco, ad eccezione della piccola porta d’ingresso su di un lato.
“Dai scendi dall’auto, muoviti, e prova ad entrare dentro!”, mi dice Romolo, “io, intanto, vado con questa auto all’aeroporto, nel luogo più comune dell’isola, per abbandonarla. Ci vediamo all’uscita”, aggiunge.
E mentre attraverso la strada per avvicinarmi al muro perimetrale, Romolo scompare con la peugeot 107 dalla mia vista. Mi avvicino all’ingresso e ci sono alcune persone all’esterno del sito che si stanno raggruppando, probabilmente in vista della prossima visita all’interno dell’Hypogeum. Entro nella mischia e avverto subito una sensazione famigliare in questo gruppo, mi piace, e mi fido di questo feeling. Mentre sono in mezzo a loro mi sento a casa, ed ecco che una guida comincia a contare tutti quanti, me compreso. E siamo ventidue persone, precise. Questo almeno è l’ultimo numero che riesco a leggere dal movimento delle sue labbra e la guida ha, ovviamente, ventidue biglietti in mano. Entriamo seguendo lei e il suo invito, oltreando il muro perimetrale, e improvvisamente mi ritrovo in un ambiente dalla temperatura fresca, con un’atmosfera semi-buia, silenziosa, credibile e reale. La nostra guida comincia a parlare, si presenta, e si chiama Gioia. Tira fuori una lista ed inizia a chiamare le persone, una per una, per nome. Ad ogniuno dei partecipanti consegna il biglietto di ingresso ed ecco che un pizzico di paura fa capolino. Sì, una situazione di imbarazzo, la paura di essere scoperto, di non appartenere al gruppo. Il dubbio si insinua nella mia testa, nella stessa maniera in cui io sono in questo gruppo di persone. Allora il battito del mio cuore accellera leggermente, mentre quel feeling esterno ritorna e mi sussurra che è tutto come deve essere, che non devo preoccuparmi, che sono a casa, dentro quel sito e tra quelle persone. Allora comincio a respirare, sempre col naso, dentro e fuori più volte, quando la signorina Gioia ripete per la seconda volta un cognome, corrispondente all’ultimo biglietto rimasto:
“Signor Watt?! E’ presente il Signor Watt?”
“Sì, presente, sono, sono io. Sono il Signor Watt!”, intervengo nell’istante in cui realizzo che qualcun altro, assente, manca a completare quel gruppo.
Allora ritiro il mio biglietto dalle mani della guida, che mi guarda dritta negli occhi. Essi mi fanno capire, che lei sa, che sono solo un potenziale Signor Watt, il perché sono lì e che, principalmente, non è importante. Lei lascia scivolare il biglietto nelle mie mani, invitando tutti i partecipanti alla visita a respirare lentamente durante la discesa, e, naturalmente, ad oltreare la biglietteria, mostrando il biglietto di ingresso e abbandonando qualsiasi oggetto estraneo al nostro corpo. E sono l’ultimo a farlo, mentre la poca luce presente dimuisce ancora, il silenzio aumenta e l’energia fluisce. Anche il rumore della cascata inizia di nuovo, insieme a un dolce fischio, che dalle mie orecchie scende giù fino al mio cuore. La nostra guida ci illumina mentre scendiamo, spiegandoci che questo sito, il labirinto, ha tre livelli sotterranei, con diverse camere ellittiche:
“Il terzo livello, a circa 10 metri sotto il livello stardale, è pieno di acqua. Esso probabilmente ha la funzione, da sempre, di magazzino, cioè di uno spazio per l’archiviazione; in un certo senso un deposito della memoria”, si sofferma per un attimo quasi commossa e riprende, “Mentre, dove ci troviamo in questo momento, a soli 3 metri sotto, è il primo. Molto simile a delle tombe di altri siti archeologici dello stesso periodo, esso possiede stanze che sono, fin dalla loro origine, caverne naturali, ora piu' estese in maniera artificiale.” E aggiunge, “avete a vostra completa disposizione 33 minuti per eggiare intorno, lungo il percorso che attraversa tutte le caverne di questo piano, ricordandosi, per favore, di rispettare completamente lo spazio sacro in cui siamo, onorandolo, proprio come facciamo con il nostro corpo, la nostra casa. E se avete bisogno, io sono qui, accanto a voi”.
Ed ecco che, dopo questa introduzione, siamo per alcuni minuti liberi di
esplorare. E tutto intorno è vuoto. Questo spazio naturale appare vuoto alla vista, freddo al tatto e al mio corpo. E giro, giro senza cercare niente. Mi eccitano gli spazi vuoti e provo a chiudere gli occhi, mentre continuo a camminare. Lentamente, o dopo o, respiro dopo respiro, entro in totale simbiosi con esso. Ed appare sempre più vuoto, anche ad occhi chiusi. Ed il freddo comincia ad entrare dentro, nel corpo, nelle ossa. E le mie gambe cominciano a dolere, come quando si ha l’influenza, con lo scheletro che avverte la connessione con la terra, il pianeta, piccola e grande. E mi scontro con qualcuno, chiedo scusa e riapro gli occhi, dirigendo il mio sguardo dal basso verso l’alto. Vedo un paio di piedi nudi e per un attimo credo di essere da un’altra parte. E inveco no, sono sempre nella caverna, e alzando la testa, riconosco davanti a me la nostra guida.
“Sei scalza, non senti freddo ai piedi?”, le chiedo incuriosito.
“Sì, lo sono e lo sento. Camminare a piedi scalzi in ambienti estremi mi genera una tale sensazione, che non urta affatto il mio corpo, anzi. La mia fiducia in esso è grande, è lui stesso a chiedermi di togliere le scarpe e di fidarmi. Ed io lo ascolto e gioisco. Puoi provare se vuoi”, mi risponde in maniera semplice e chiara. Senza dirle niente, accenno un sorriso e mi chino per toglierle insieme ai calzini. E proseguo. Il freddo aumenta, insieme al pavimento che mi punge le piante dei piedi. E rallento. Respiro, mi siedo e continuo a respirare ad occhi chiusi. Dentro e fuori.
“Bene”, riprende la nostra guida, “possiamo proseguire scendendo ancora, verso l’area più delicata, cioè il secondo livello con le sue quattro stanze principali”, e voltandosi continua, “dove stiamo andando è quella centrale, circolare e artificiale. Provate per un attimo a sentirla, immaginando l’uomo che la scava nella roccia massiccia”.
E ancora, “Questa stanza ha numerose entrate che la collegano ad un'altra camera. Ogni entrata ha il suo trilite, dal greco tre pietre, due in verticale a formare i piedritti e la terza, l’architrave orizzontale, sopra di essi a completare la porta, come prezioso esempio attuale di una struttura preistorica. Questa camera principale deve il suo carisma anche al ritrovamento di numerose statuette rappresentanti la dea dormiente, cioè una regina giacente nella stanza dalle pareti rosse”. E ancora, “La stanza successiva, approssimativamente rettangolare, ha la capacità di produrre una risonanza acustica molto, molto potente. Artificiale anch’essa nel massiccio calcareo, deve il suo nome a quella caratteristica per cui là dentro ogni suono si gonfia ed è udibile in tutto il labirinto. Esso diventa quindi una gigantesca campana capace di produrre vibrazioni palpabili fisicamente dentro tutto il corpo. Provate per un attimo ad immaginare questo luogo come un enorme santuario, capace di produrre, dentro questa camera dell’oracolo appunto, un suono che risuona a 110 Hz. Uno strumento artificiale, che grazie alle sue dimensioni e alla qualità della pietra, riesce ad amplificare la potenza, espressa anche sul soffitto attraverso decorazioni rosse, spiraliformi e circolari”. E ancora, “In realazione a queste spirali e a questi cerchi rossi, fuori dalla stanza dell’oracolo abbiamo la camera delle decorazioni. Nella loro circolarità, essa presenta fantasie geometriche sulle pareti lisce e leggermente in pendenza, mentre là, sul lato destro, è addirittura presente un’impronta, in negativo, di una doppia mano nella roccia”. E ancora, “Terminiamo questo livello con il Sancta Sanctorum, ovvero l’area più sacra di questo tempio, il cui punto focale è un’apertura dentro ad un trilite, a sua volta in un secondo trilite più grande, a sua volta in un terzo trilite maggiore. E aggiunge, “avete a vostra completa disposizione 44 minuti per eggiare intorno, lungo il percorso che attraversa tutte le camere di questo piano, ricordandosi, per favore, di rispettare completamente lo spazio sacro in cui siamo, onorandolo proprio come facciamo con il nostro corpo, la nostra casa. E se avete bisogno, io sono qui, accanto a voi”.
“Wow, quante informazioni. Mi sento scoppiare!”, esclama la mia bocca, mentre
con la mano Gioia mi fa cenno di stare zitto, per poi disegnare una spirale orizzontale, alludendo forse a godersi la deambulazione e ad integrare il tutto.
E mi accorgo che sono sempre scalzo. Ho dimenticato le mie scarpe con i calzini di sopra, e non mi importa. Non ho più freddo e non sono importanti. L’atmosfera in questo secondo livello è diversa, più densa della precedente, e le mie gambe ora sono ok. È soltanto più umido e la mia sudorazione aumenta, intorno al collo e sotto le ascelle, mentre giro e rigiro come una trottola, osservando tutto, in mezzo a tutti gli altri. E con il sudore, anche la mia sensibilità corporea si innalza, sento il mio sangue, i mie muscoli e i tendini che pizzicano per il calore interno. E ancora una volta mi siedo, ora nella stanza rettangolare, quella dell’oracolo, e respiro. Provo ad immaginare di essere solo là dentro, di avere un microfono in mano e di poter cantare la mia essità, la mia poesia, la mia consapevolezza, e suonare questa campana in cui mi ritrovo dentro. E qualcosa esce fuori, spontaneamente, un suono personale che diventa parole:
“Verità, infatti, sicuramente? Sì! Chiaro, di sicuro, è! Proprio così”.
E per un attimo sono da solo, non c’è più nessuno lì dentro, solo io. Galleggio in quello spazio tridimensionale e soprattutto vuoto, in cui rimbomba questo mio suono, in queste semplici parole. La mia consapevolezza, vera, in azione, sovrana, cosciente, chiara, esistente, mia, e quello spazio prende vita,
cominciando ad espandersi senza incontrare una fine. Ed improvvisamente “Evviva!”, tutte quelle persone del gruppo che mi appaiono davanti, che mi circondano in un abbraccio multiplo, reale e vivo, come lo spazio in cui tutti ci si trova. E per un istante, mi sembra di non avere più confini, senza spazio, oltre.
Ed entra la signorina Gioia che riprende, invitando a proseguire: “Benissimo, scendiamo ancora, ed eccoci al fondo, il terzo livello, la memoria e l’acqua. Qui possiamo liberamente eggiare e l’ideale è proprio senza scarpe. La sensazione che si può provare camminando lentamente a piedi nudi in quest’acqua fresca è molto personale, non voglio aggiungere altro. Abbiamo, anche qui, a nostra completa disposizione, 11 minuti per deambulare intorno, facendo molta attenzione e ricordandosi sempre, per favore, di rispettare completamente lo spazio sacro in cui siamo, onorandolo proprio come facciamo con il nostro corpo, la nostra casa. E nel bisogno, io sono qui, accanto”.
Che bello camminare a piedi nudi dentro l’acqua, quest’acqua. Mi sembra di tornare bambino, di giocare all’esploratore. Sì!, l’esploratore che non cerca niente, che non controlla nessuno e che non desidera niente, nemmeno il potere. Il pioniere che vuole solo fare esperienza, divertirsi a recitare, realizzando che, in realtà, possiede già tutto. E l’acqua riflette un’immagine che continua dai miei piedi dentro di essa. Questa immagine sono io, mentre mi fermo, mi inginocchio, respiro, metto le mani dentro l’acqua e guardo meglio. Sì, sono proprio io quello là. Una copia esatta di me, riflessa, e allo stesso tempo anche la matrice da cui provengo, che l’acqua, nella sua memoria, mi permette di vedere e sentire. Una goccia cade dai miei occhi, l’immagine svanisce in un cerchio che si espande verso l’esterno, e una voce conosciuta interrompe tutto questo magico silenzio:
“Per completare la nostra visita”, è Gioia che parla, “abbiamo a disposizione 12 minuti per risalire lentamente in superficie e fare anche una sosta lungo il percorso. Senza però eccedere, per favore, dando anche al prossimo gruppo la
stessa opportunità”.
Nel cominciare la risalita, avverto una certa attrazione verso quella doppia mano nella roccia della stanza delle decorazioni, accanto al Sancta Sanctorum, e mi precipito cercandola. Mi ci trovo di fronte, metto le mani dentro, e la sensazione di essere un’unica cosa con quel massiccio è così profonda che, ancora una volta, non avverto più i miei confini. La cascata scorre, un fischio senza vento vibra nel mio corpo intero, ed improvvisamente le luci, le poche luci che illuminano normalmente l’intero labirinto, si spengono. Sono oltre il tempo, sono al buio totale, con le mani ancora dentro, e Il mio palmo che avverte qualcosa in rilievo dentro a quel negativo. le due mani si chiudono lentamente, con le dita che cercano di comprendere e che leggono due parole, nel centro, a caratteri cubitali, costituenti la semplicità assoluta, priva di qualsiasi definizione. Pronuncio quelle due parole a voce alta, dentro di me, urlandole, mentre i miei occhi ricominciano a lacrimare e un piacere indescrivibile a parole percorre tutto Guglielmo, dentro e fuori:
“IO SONO”.
E’ buio, dentro L’Hypogeum è completamente buio, in attesa della prossima visita. E l’unico suono che sento è quello della mia cascata, dell’acqua che cade, e anche dell’acqua dell’ultimo livello. Allora,decido di scendere di nuovo. Mi attrae una luce soffusa che proviene dal basso e mi immergo dentro quest’acqua dolce, fondendomi totalmente con me stesso, riflesso, e scendo giù, in profondità, verso quella luce. E riemergo dentro una piccola grotta con una volta a botte, luminosa, mezza piena di acqua salata e mezza piena d’aria. Nessuna apertura nella grotta, se non un grande arco frontale, sbarrato solamente da una griglia, dalla quale entra la luce del sole e si vede, tanto, tanto mare scomparire all’orizzonte. Mi avvicino
ed esco, ritrovandomi all’esterno di un piccolo edificio della polizia, una casetta, al cui piano terra si trova una minuscola prigione, nella zona più piccola dell’isola W. E mentre mi ritrovo in piedi a guardarla, una persona si avvicina, mi tocca sulla spalla, dicendo di avere un messaggio per il signor Guglielmo:
“Oli con Romolo e un’amica, la aspettano per cena, al Ristorante Noshoe. Un tavolo a nome Oli. Buon appetito”, e si allontana.
Capitolo 5. La scarpetta nel piatto al ristorante “Noshoe”.
“Ma come, siamo su di un’isola ed il piatto principale del luogo è il coniglio in umido?”, penso dentro di me, mentre cerco la via del ristorante su internet. “Mi invitano a cena, dimenticando di dirmi la notizia più importante. Eccolo qua!, Noshoe Restaurant, ora so dove si trova”.
Mi incammino e nello stesso istante, cerco di immaginare il quarto ospite della serata. Il messaggio di invito fa riferimento a Oli, Romolo e ad un’amica, senza svelare però la sua identità. L’appuntamento è direttamente al tavolo ed appena arrivo, non esito, apro la porta ed entro. Il locale offre un’atmosfera calda fin da subito, quella di una trattoria famigliare, con un arredamento semplice, dentro una cornice di legno e volte a botte di pietra dell’isola. Il locale appare pieno, almeno nella sua prima stanza, e appena dentro, mi avvicino al bancone del bar. Nel Ristorante Noshoe gira come musica di sottofondo “Skyfall” di Adele, mentre mi viene incontro una signorina con gli occhiali ed un sorriso ben stampato in faccia, che sembra essere piuttosto naturale:
“Good evening Sir, my name is Mrs. Thanksalot, do you have a reservation?”, mi chiede gentilmente.
“Hi, and good evening too”, rispondo, “A reservation for a 4 table, yes, and the name is Oli”, aggiungo.
“Ah, il tavolo di Oli, sì, certamente”, mi risponde, cambiando improvvisamente la lingua della conversazione. “Siamo lieti di averla nel nostro ristorante, signore, e per me è un piacere anche parlare la sua lingua. Prego, che le mostro il vostro tavolo”, proseguendo nella direzione opposta all’ingresso, proprio accanto alla parete. “Eccolo qua, un bel cerchio per quattro. Desiderate ordinare qualcosa da bere, mentre attendete gli altri ospiti?”, avanza.
“Perché no!, un bel bicchiere di vino rosso dell’isola”, scelgo, nello stesso istante in cui la signorina Thanksalot annuisce, sorridendo, allontanandosi dal tavolo ed esclamando:
“Grazie Mille!”
Il mio bicchiere di vino è in preparazione e ne approfitto per rilassarmi meglio sulla sedia, fare qualche respiro, e sintonizzarmi con l’energia del ristorante. Oltre ad un fitto chiacchiericcio, avverto una qualche tensione nell’aria, e non mi interessa un granché visto che un bel calice di vino rosso si sta avvicianando, con la signorina Thanksalot che me lo porge:
“Il vostro vino, signore. Un bicchiere di “Grand Maitre”, figlio di una vite mista tra Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc. Un carattere unico per la sua permanenza in barriques di rovere, corposo, dal profumo fruttato intenso, e una percentuale vellutata di tannini”, decanta come una vera sommelier e aggiunge, ritirandosi, “grazie mille”.
Anche se non so cosa siano questi tannini, il profumo di questo gran maestro mi ubriaca già. E la mia attenzione si sposta verso la porta d’ingresso, che si è appena aperta. Ci sono Oli e Romolo, insieme, e naturalmente la signorina Thanksalot è già con loro. Vedo che stanno parlando e gesticolano nella direzione del mio tavolo, Romolo addirittura mi intravede ed alza già la mano. Si
avvicinano e si preparano per accomodarsi mentre ancora un grazie mille interrompe il chiacchiericcio.
“Ciao Oli”, le dico alzandomi dalla sedia, “la scelta del ristorante mi piace, complimenti”.
“A quale bicchiere sei, Guglielmo?”, mi chiede Romolo mentre mi dà la mano.
“Sì, sei ancora nel ristorante, oppure da un’altra parte?”, prosegue Oli.
“Sto gustando questa prelibatezza”, rispondo mentre saluto anche Romolo, mostrando con fierezza il calice, “e”, ancora il rumore dell’acqua che cade, “e pensando ai tannini dentro il vino. Ma cosa sono questi tannini, che li sento nominare così spesso?”, chiedo incuriosito, guardandoli entrambi, e con la porta d’ingresso sullo sfondo che si apre nuovamente.
“I tannini sono …”, Romolo inizia e prosegue nella sua spiegazione, mentre Oli si accorge, dai miei occhi, della mia parziale attenzione e girandosi ne capisce subito il perché.
“Vieni, siamo qua!”, urla Oli muovendo entrambe le braccia verso l’ultima ospite, che si sta avvicinando al tavolo, a fianco sempre della signorina Thanksalot. “Ciao, ben arrivata”, aggiunge, “Romolo lo conosci già e lui è Guglielmo, un nostro nuovo amico”.
“Un gran maestro, mmmm, che buon profumo, piacere. Ma noi ci conosciamo?!,
io sono Maltina, la proprietaria della rosticceria orientale”, si presenta, questa volta, e mi sorprende.
Rimango per un attimo immobile, contento, e subito, “Che sorpresa, io sono Guglielmo, piacere mio”, mentre ci riaccomodiamo a sedere intorno al cerchio. “Allora, questi tannini?”, mi riprendo guardando Romolo, questa volta completamente concentrato.
“Non sono altro che delle sostanze chimiche contenute nella buccia e nei semi dei chicchi d’uva. A dirla tutta sono presenti anche nel rametto, che tiene insieme i grappoli, e nel legno in generale. A cosa servono?, semplice, aiutano il vino a conservarsi, a mantenere il suo colore e conferiscono, a livello gustativo insieme alla saliva, quel senso di secchezza, che si prova ogni tanto nel berlo. Quindi per farla breve, contribuiscono al suo carattere”, ci illumina Romolo.
La signorina Thanksalot serve altri tre calici di “Grand Maitre” e porgendo quattro menù, chiede se vogliamo ordinare qualcos’altro da bere. Scegliamo di continuare con lo stesso vino, una bottiglia, e anche dell’acqua, naturale, che in un lampo ci ritroviamo sul tavolo, con sempre lei a servirli:
“Sapete già cosa ordinare come antipasto, signori?”, ci interroga sorridendo.
“Un antipasto locale, una parmigiana, ed una zuppa di cozze. Con del pane, per favore”, rispondiamo a turno.
“benissimo e grazie mille”, allontanandosi.
Qualche sorriso e un attimo di silenzio intorno al cerchio, mentre mi accomodo il tovagliolo bianco, e Romolo propone un brindisi alzando il suo calice:
“Alla nostra e alle bottiglie di vetro!”, allungando il braccio verso il centro del cerchio.
Nel cerchio si forma una meravigliosa x di quattro raggi, partenti da quattro punti, reggenti quattro bicchieri e un unico vino. Una energia credibile, reale, che ci isola per un istante in quel ristorante, sull’isola W. E a seguire, Oli riparte:
“A proposito di bottiglie di vetro. Dove si trova il fuoco, Guglielmo? “Il fuoco con l’acqua dentro, intendi?, ah, il tetraedo. Dopo averlo … , senza più l’acqua al suo interno, puffff!, prima si spenge e poi evapora nell’aria”, cerco di spiegargli un po’ imbarazzato, mentre arriva il nostro primo ordine.
“Un bell'antipasto di terra, una melanzana, la zuppa e il pane. E buon appetito!”, ci dice Thanksalot, porgendoci i piatti sul tavolo.
E la discussione per un attimo si interrompe: le mani cercano le posate, il naso sente l’odore, gli occhi scrutano, le bocche si aprono e nessuno parla più. E nelle orecchie di ciascuno dei quattro, girano ancora quelle quattro parole. Fuoco, acqua, aria e terra che in un caos ordinato ed elegante non smettono mai di divertirsi al gioco del 5. Cioè quello del tutto, che le tiene magicamente insieme, invisibile ma presente, sempre.
“Che bella consapevolezza in queste cozze arancioni. Provo questa sensazione di pienezza tutte le volte che mangio i frutti di questa Terra, è così gratificante”,
enuncia Maltina con gli occhi brillanti. E aggiunge, “il mio brodo però è po’ troppo piccante”.
Senza farmi scappare questo invito a nozze, porgo la mano verso la zuppa di cozze, il suo piatto, e guardandola le chiedo se posso aiutarla. Con l’altra mano, invece, mi avvicino il pane, pronto ad inzuppare la prima fetta dentro. Ed ecco spuntare però la signorina Thanksalot che, sempre con un enorme sorriso, comincia a togliere i piatti dell’antipasto. Contemporaneamente si accerta anche della bontà di ciascuno di essi, cercando di concludere la sua azione con l’ultimo piatto rimanente, il brodo di muscoli, nell’istante in cui io afferro la fetta di pane e mi butto, completamente, in uno dei miei sport preferiti. Avvicino quindi la mia mano con il pane all’altra, mentre il mio piatto comincia a sollevarsi lentamente dal tavolo, con la signorina Thanksalot che lo tiene, guardandomi, nel tentativo di avvicinarlo a sé. E qualcosa accade, quando Il mio istinto animale reagisce di scatto e una delle due mani, ad una velocità inaudita, afferra il piatto, mentre la mia bocca, nonostante l’acquolina, esclama:
“Io, io voglio ancora …!”
Allora il piatto rimane sospeso per aria, tra la mia mano e quella della signorina Thanksalot. Ci guardiamo negli occhi e lei molla la presa, ritira la mano, cominciando, imbarazzata, a dire:
“Mi scusi, non volevo!”
Lo stereo suona, improvvisamente, e per la seconda volta, “Skyfall” di Adele, la signorina Thanksalot si allontana dal nostro tavolo, e il rito della scarpetta si
celebra fino alla quarta fetta, mentre il brodo scompare dal piatto e il mio corpo gode.
“Sono d’accordo con te, Maltina. Sulla consapevolezza. Riesco a sentire la tua stessa sensazione, per il brodo, sì, la zuppa”, le dico e guardando anche Oli e Romolo propongo un altro brindisi: “alla consapevolezza, al tutto!”, e la prima bottiglia arriva al capolinea, mentre tutti e quattro ce la ridiamo come dei bambini nell’atto di giocare.
La signorina Thanksalot riappare nuovamente al tavolo per la seconda ordinazione e come piatto principale, Oli sceglie un merluzzo al forno, Romolo una pizza, Maltina uno spaghetto alle vongole veraci e, per finire, io ne prendo uno al sugo di coniglio. E Proseguiamo con una bottiglia di vino bianco di nome “Isis”, in onore della dea Iside, il cui occhio vigile adorna con grazia ed eleganza la prua di alcune barche di quest’isola. E afferrando questa volta il piatto vuoto della zuppa, guardandomi, la nostra oste mi ripropone il suo “scusi, non volevo”, mentre lo stereo gira nuovamente la canzone di Adele per la terza volta, come disturbato da quel senso inutile di colpa, da quel verbo, così fuori luogo e soprattutto tempo non presente. E qualcuno, Maltina, ne approfitta per cantare alcune strofe, facendole proprie:
“I feel the Earth move, and then, hear my heart burst, again. (…) Where worlds collide and days are dark, you may have my number, you can take my name, but never have my heart. (…) I know I’d never be me, without the security. (…) Put your hand in my hand, and we stay! (…)” “Mi versi un po’ di acqua, per favore?”, mi chiede Maltina.
“Volentieri”, rispondo e, mentre lo faccio, Oli riaggancia:
“Quindi quell’acqua dove si trova ora?”, guardandomi incuriosita, mentre Romolo gira lo sguardo e se la ride in silenzio.
“Dentro!, l’acqua è ormai dentro.”, vado avanti un po’ imbarazzato. “E …. “
“Perché non ci racconti della visita, Guglielmo?! Sì, quella all’Hypogeum!”, interviene a bomba Romolo. “Prima di farlo però, devo rivelarvi il nostro aggio prima dalla Cattedrale e poi dal Museo di Fine Arts, per distillare l’acqua. Distillando e poi distillando ancora, tutto si schiarisce, tutto viene alla luce”, prosegue Romolo.
“Le tue parole, Romolo, mi fanno balenare in mente il mio pittore preferito, il maestro della luce per eccellenza, e anche la Cattedrale”, si infiamma Maltina.
“E poi, anche dal Museo di Fine Arts?”, si accoda anche Oli. E prosegue, “che coincidenza, anche io nei pressi del Museo, sì, e uscendo dalla casa di un mio cliente scopro, che la mia auto non c’è più. Sulla strada soltanto alcuni vetri per terra della mia meravigliosa Peugeot 107. Insomma, una giornata top!”, conclude sbattendo la mano sul tavolo.
Sento la pesantezza dello sguardo di Romolo su di me e non ho il coraggio di incrociare il suo. Lo alzo nella sua direzione e, con due occhi ampiamente sgranati, si sta mordendo il labbro inferiore per non scoppiare. A piangere oppure dal ridere non so, e sta veramente ando un istante tremendo, infatti si
alza dal tavolo e, con una scusa, si dirige alla toilette. Ecco che compare di nuovo la Signorina Thanksalot, con i piatti fumanti tra le mani, tutti e quattro, li appoggia sul tavolo con un gran sorriso e lasciandomi per ultimo, mi porge ancora una volta il suo:
“Comunque, scusi, non volevo.”, mentre ancora una volta Adele ci canta la sua canzone, “Skyfall”, e la cameriera sparisce.
Romolo si siede ancora una volta attorno al cerchio imbandito e Olivia riattacca a raccontare, mentre pulisce il suo merluzzo. Romolo comincia a tagliare la pizza ed io e Maltina che ruotiamo le forchette in senso orario, senza usare il cucchiaio, come dei veri maestri buongustai. Quanti profumi:
“E poi mi chiama al cellulare, la polizia, dicendo, che la mia auto si trova all’aeroporto e se, per favore, posso andare a ritirarla prima possibile!”
“All’aeroporto?”, affonda Romolo, arrossendo leggermente.
“Sì, proprio là, altro che car sharing. Ora ho una Peugeot 107 con un vetro rotto, mentre le bottiglie d’olio, quelle sono ancora là, di dietro, nella macchina con le chiavi sempre nel cruscotto. Che animali!” E poi aggiunge, “Allora, questi gabbiani, dove sono questi benedetti gabbiani, Guglielmo?
Sorrido, pensando ad Ibiscus, guardandoli tutti e quattro in faccia, a partire da Oli, poi Romolo e Maltina. Ed inizio a raccontare della visita All’Hypogeum,
della mia immersione, e di come mi ritrovo, improvvisamente, fuori dalla prigione. Ed ecco il canto di un gabbiano che risuona nel cielo, mentre il pennuto, con la sua grande apertura alare, mi volteggia sulla testa. E mi commuovo molto, bevo un sorso di Isis e continuo:
“I gabbiani esistono e non esistono, allo stesso tempo, sull’Isola W. Dipende dalla propria consapevolezza, dal proprio IO SONO, e allora eccoli che volano ovunque, e cantano, e camminano, e galleggiano, e cercano cibo. Ma allo stesso tempo ecco che non ci sono. Senza la consapevolezza, solo il niente, e nessuno canta.”
“Interessante!, come anche tutte quelle e, che metti nelle tue frasi”, interviene Maltina, “Mi ricordano una leggenda sacra, molto antica”, amplifica sempre Maltina.
“A cosa ti riferisci, non capisco?”, rispondo curioso.
“Ma come, non conosci la leggenda di Andobella e Piotr?!”, esclama Oli, strabuzzando gli occhi, mentre anche Romolo e Maltina mi guardano perplessi.
Ed ecco che il Ristorante Noshoe deve chiudere ed arriva il conto. Ci alziamo, paghiamo la signorina Thanksalot che ci ringrazia, non scordandosi di dire la sua seconda frase preferita dopo “Grazie mille”. E Adele, ci apre e chiude la porta del locale sulle note dell’ennesima “Skyfall”.
Capitolo 6. Lui il 5 aprile e Lei il giorno prima.
Rimango da solo dopo quella cena e mi fermo a contemplare la zona più antica della città. È notte fonda e una grande luna rotonda illumina tutto intorno. E non sono solo, per un attimo credo di esserlo, e non lo sono. Mi giro e, infatti, la mia sensazione è reale. Che credibile strumento è l’intuito, che ha sempre, sempre, ragione. E infatti eccolo là, uno splendido esemplare di Ibiscus rosso, che mi osserva pensando di essere invisibile. Mi avvicino lentamente e, lui, lui continua a far finta di niente, fino al momento in cui siamo di fronte, l’uno con l’altro, e mi siedo davanti, sul terreno, accanto a lui.
“Ciao, che bella notte per arla da soli, in mezzo a tutti questi bei sassi in ordine tra loro. La luna è così luminosa nel cielo e il vento che rinfresca l’aria con il suo aggio”, dico ad alta voce.
“Sei un poeta oppure stai cercando di addolcirmi con queste belle parole?”, mi risponde.
Allora mi sdraio sul pavimento di pietra, ancora caldo per il sole diurno, e continuo:
“Oggi, un altro fiore. Diverso da te. Splendente, arancione, che si esprime anch’esso. Che canta, e profuma, e mi guarda, e sorride, e gioisce, e si emoziona, e crea insieme all’aria la rugiada.”
“Non è possibile, non ci sono altri fiori sull’isola! C’è il loro potenziale, sì, e
fisicamente sono l’unico ad esserci”, mi riprende, “e quella congiunzione, e, tutte le volte che sento quella congiunzione, e appunto, lei riaffiora dentro di me. Lei, la regina, il suo ricordo, parte della mia casa”, esclama con molta malinconia.
“Non riesco a seguirti. A cosa ti riferisci quando usi la parola regina?”, domando curioso, di nuovo, per il mio uso continuo di una semplice congiunzione.
“Lei dice sempre e, quando crea una cosa nuova. Utilizza tutta se stessa in una danza bellissima, di piedi, e gambe, e anche, e glutei, e bacino, e addome, e seni, e braccia, e spalle, e collo, e testa, e cuore e tutto il suo carisma. Animatamente, con consapevolezza, i suoi occhi brillano, e il suo naso respira, e la sua bocca suona, e le sue orecchie bilanciano, e le sue mani modellano, seguendo il suo personale intuito, in una completa fiducia e armonia con il tutto, con la consapevolezza. La regina della creazione, consapevolmente, esprime la propria forza durante il suo lavoro, sostenuta e nutrita dal suo re, accanto a lei, sempre”, filosofeggia.
“Scusa se interrompo questa bella storia, e, ora, dove sono quella regina e quel re di cui parli?”, affondo ancor di più.
Allora l’Ibiscus si apre ancora di più e comincia a raccontare di una leggenda, un’interpretazione locale, che si tramanda sull’isola W, la cui storia originale proviene, invece, da un maestro asceso di nome Tobias. La leggenda si riferisce alla notte tra il 4 ed il 5 di aprile, quando si celebra la festa della Regina Andobella e del Re Piotr. Del loro splendido ed unico regno insieme, della sua espansione, e in particolare del suo punto di rottura. Proprio durante quei due giorni, nel mese di aprile:
“Si narra che, insieme, essi hanno questo immenso giardino sempre verde, pieno di piante libere di esprimersi e di espandersi. Impollinate continuamente, fiorenti e fruttanti. Libere di espandersi a tal punto, da allontanarsi molto ed iniziare così a sentire, sempre più, il distacco dalla casa reale, dalla Regina e dal loro Re. Nel tentativo di scoprire come ritornare indietro alla sorgente, cioè da loro, ecco che le piante iniziano a rubarsi, l’una con l’altra, la linfa vitale che possiedono. Sopra e sotto, ipotizzando, che quella linfa altrui possa essere loro d’aiuto a ritrovare la strada di casa. Dei veri e propri furti energetici, che inesorabilmente rallentano, velocemente, quel processo naturale di espansione, fino, addirittura, ad accusare la mancanza, in tutte le piante, dei loro frutti prima e dei fiori poi. Fino al momento in cui la regina, sentendosi in colpa per il comportamento delle piante, per i loro furti, non vuole più annaffiare il suo giardino. Andobella si sente l’unica responsabile di ciò che sta accadendo, sente che non riesce a svolgere bene il suo compito di creatrice, dubita di se stessa, che non ne e’ più capace. E allora i fiori cominciano ad apire, con tutti quei colori che non sbocciano e non prendono più il volo. E comincia a seccarsi tutto e lei abbandona, rifugiandosi sul terrazzo reale, in anticipo, nel luogo dell’appuntamento con il re, il suo sostegno. Ci va un giorno prima, sì, nel tentativo di comprendere quel suo stato d’animo, quella sua responsabilità che ora sente come una pesante colpa e poi anche scelta, nello sfuggire dal suo regno e dalla sua vita. Si siede sulla balaustra del terrazzo, e, improvvisamente, realizza di aver perso qualcosa di importante, la balaustra comincia a tremare, e lei, lentamente, comincia ad andare all’indietro fino a cadere giù nel vuoto, con le chiavi del suo regno ancora strette nelle sue mani. E splash. Una chiazza di rosso intenso prende campo sul pavimento, dove ora giace, e si allarga, sempre più, esponenzialmente piano. Mentre lui, il Re Piotr arriva il giorno dopo, nel luogo e nel momento in cui devono incontrarsi. Sincronicamente, e lei non c’e’. Lui prova a cercarla e non la trova. La chiama e la richiama, fino a quando si affaccia dal terrazzo, da quella balaustra, e la scopre distesa e senza vita in quel lago di sangue. E allora piange, lacrime bianche che cadono dall’alto nel lago, che si mescolano al primo rosso, fondendosi con esso in un enorme lago bicromo, grande quanto l’intera isola.
E quindi, anche se non vuole, Il Re Piotr deve assumere, da solo, tutto il controllo del giardino. Egli rappresenta il sostegno e, per amore della sua Regina, accetta e afferra le chiavi dalle sue mani, mentre il corpo di Andobella affonda giù nelle viscere dell’isola W”.
Il racconto di Ibiscus è veramente intimo, toccante e rivelatore di alcune caratteristiche di quest’isola. E mentre il mio interlocutore se ne sta oramai in silenzio, alzandomi, mi avvicino per salutarlo con un bacio su di uno dei suoi petali rossi. Sorpreso del mio gesto, nello stesso istante, una goccia di rugiada scivola lungo il fiore, prosegue lungo alcune foglie, e rimbalza sul terreno frantumandosi in molti pezzi.
E poi mi allontano, riprendendo a camminare. E’ ancora notte e non ho per niente sonno, e l’insegna lampeggiante di un bar lungo la mia via, mi invita ad entrare per bere ancora qualcosa.
Capitolo 7. La pentola e il pollo con il pc incorporato.
URW. Al di fuori, quelle tre lettere lampeggianti mi fanno sorridere mentre le guardo e mi invitano ad entrare. L’atmosfera di questo bar è davvero calorosa, “You Are Welcome”, certo, e cerco un posto per sedermi tra tutti questi bei tavolini di legno scuro.
“Cosa posso ordinare?, vediamo, sì, ci sono! Un liquore all’uovo, please”, chiedo al barista, che mi guarda annuendo.
E chiudo gli occhi, respiro un po’, dentro e fuori, con il naso ben attivo e le orecchie che tappo colle mie mani. In questo modo riesco a sentire solo me stesso e quella cascata d’acqua. E la mia concentrazione va tutta sul respiro, che mi fa sentire vivo e reale. L’aria cambia improvvisamente il suo sapore e riaprendo gli occhi ne scopro il colpevole. Il mio liquore mi aspetta, giallognolo, denso e fresco. Lo assaggio e il mio palato esulta, gli occhi si richiudono e il mio corpo si lascia andare all’indietro, adagiandosi più comodamente sullo schienale della poltrona. Sì, URW, mi bisbiglia sulla lingua e sul palato il mio liquore. E, improvvisamente, il barista interrompe quel silenzio con la sua voce alta, che rimbomba per l’intero bar, ed in maniera telegrafica dice:
“Ricordarsi! Ore 8. Chiamare il pollo all’interno del frigorifero. Ordinargli di uscire dal frigorifero e camminare fino alla pentola. Chiamare poi la pentola. Ordinarle di accendersi, una volta che il pollo è al suo interno. Loro hanno un pc incorporato, all’interno”, e poi riprende a pulire i bicchieri, caldi, appena fuori dalla lavastoviglie.
In alcuni momenti pensi di non sapere cosa fare, mentre in realtà lo sai benissimo. Un bel respiro e la cosa più semplice appare sempre la più accomodante. Scelgo di farmi i cazzi miei, nel momento stesso in cui ci fissiamo, dritto negli occhi, io con il barista. E ordino:
“un altro liquore, please?!”
E sulla sua camicia, sul taschino, leggo la scritta Mr. A, con un picche nero, sì, proprio uno dei 4 simboli delle carte da gioco. Il silenzio ritorna sovrano nel bar e non riesco a non pensare a quella frase, mi incuriosiscono le sue parole e la profondità, che si trova là dentro. Principalmente nel ricordo, una memoria in un tempo parallelo espresso da un numero, in cui un essere vivente, inesperto e imperfetto, si sveglia, esce da quello stato di ipnosi fredda e parte con la sua esperienza. Parte con la ricerca e quando realizza che si trova già tutto dentro, in quel determinato punto, smette, la interrompe. Nel contempo la base, avvertendo la sua presenza, si scalda, cambia la sua frequenza, e insieme creano una magnifica trasmutazione, piena zeppa di sorprese. E intanto anche il secondo bicchiere è vuoto. Ed ecco che il barista si avvicina ed appoggia la bottiglia del liquore sul mio tavolo e, senza dire niente, ritorna dietro al bancone a farsi i fatti suoi. Mi sento come quei bicchieri davanti a me, vuoto, e al tempo stesso in pace. Calmo, in una quiete che non aspetta nessuna tempesta. Un bicchiere che sta per diventare una bottiglia, sempre di vetro, trasparente, sorridente e piena di sé. Fiera, con la mia mano sinistra che la agguanta, mentre la destra le toglie il tappo, per avvicinarla alla mia bocca e baciarla. E non mi accontento di un semplice bacio, no, lo voglio tutto dentro al mio corpo quell’uovo fresco, che scende piano piano giù e che poi risale, facendomi perdere il controllo, facendomi alzare, facendomi traballare. Vuota, la bottiglia scivola dalle mie mani, rimbalza sul pavimento, rotola per tutta la lunghezza del bar fino a fermarsi contro un oggetto, che sta là aspettando qualcuno, voglioso di amplificare il suo suono. E in un istante, sono in piedi, è il
mio turno, e quindi procedo. Il primo o e poi ancora un altro, e ancora, ci siamo, salgo sul palco, sfilo il microfono e comincio a cantare una canzone che parla di semplicità, gioia e libertà. Parte con gli uccelli che volano alto, come i gabbiani e il mio sentire, e poi a ruota tanti protagonisti della natura cosmica. Il sole splendente nel cielo, il vento nomade, i pesci nel mare, il fiume che scorre come la mia cascata, la fioritura degli alberi, la libellula in giro, le farfalle che si divertono, dormire beatamente quando si è stanchi, le stelle che brillano e il profumo del pino. E mi sento espanso, bene, libero, mentre la mia voce stonata esce in tutto il suo splendore, e rumore, e suono. E mi sento bene, e anche scuotere, e scuotere tanto. Come quando ti stanno preparando un cocktail al bar. Infatti, c’è il barista che mi sta scuotendo per un braccio, nel tentativo di attirare la mia attenzione. Non riesce e, allora, ecco che, improvvisamente, mi arriva un pugno diretto nella pancia, che mi stende a terra. Un fischio nelle mie orecchie e poi queste parole:
“Capisco che ti senti bene, io voglio chiudere il bar, voglio andare a casa. Vattene o ti chiudo dentro!” Le sue parole mi interessano, rimango, accasciato sul pavimento, sorridente e completamente ubriaco della vita. Libero dentro di me ed indifferente del contorno in cui appaio chiuso. Che buon profumo questo legno scuro mentre realizzo dove sono. Mi alzo dal pavimento del bar e sono da solo, al buio, mi gira un po’ la testa, e mi avvicino al vetro dell’ingresso. Per un attimo credo veramente di essere dentro la bottiglia e anche che esista una sola maniera per uscirne fuori. Allora indietreggio, oscillando ancora un po’ verso la base del microfono, prendo fiato e commincio a correre a tutta velocità verso quel vetro. Chiudo gli occhi e boom. Ci scontriamo e sono fuori senza vetri per la terra, senza tagli o ferite sul mio corpo. Riesco ad oltreare la barriera di quel velo, morbido, intoccabile, reale e luminoso, e sono fuori, finalmente libero. Di lato al bar URW, a sud-est precisamente, c’è un auto con i fari ed il motore accesi. Si tratta di una Scirocco di colore bianco, con i finestrini abbassati ed il
volante, compresi tutti i suoi comandi, sul lato destro. Anche l’auto si trova sul lato opposto, a quello che normalmente mi è famigliare, e manca il pilota. Mi guardo intorno e la strada è deserta, nessuno, e nessun rumore a parte l’auto. Allora appoggio il culo sullo sportello e, una dopo l’altra, infilo entrambe le gambe dentro l’auto con tutto me stesso. Sono il pilota, ora, e l’auto parte insieme alla musica, i finestrini neri si alzano, come anche i peli delle mie mani, che impugnano il volante. Uscendo dal centro storico, scorrazziamo un po’, percorrendo tutte quelle strade morbide che accarezzano il perimetro dell’isola e:
“Cosa mi piace fare mentre guido un auto, con la sola musica a farmi da compagna?, penso tra me e me.
A me piace cantare a squarcia gola, ballando anche quanto posso, e allora si alza il volume, l’eccitazione aumenta, e mi esibisco solo per me, per la mia gioia privata. Un regalo tutto per me, mentre giriamo l’intera isola W, senza pensare a niente, fino a quando la benzina finisce. L’auto si ferma davanti ad un cancello, riportante un simbolo ed anche una scritta che definiscono insieme questo luogo isolato, con una strana collina spiraliforme all’interno. Il cartello, con una doppia elica davanti alla parola AND, il suo nome, identifica la discarica dell’isola W, nella zona nord-ovest, dove, abitualmente, soffia il freddo maestrale. Scendo dall’auto, mi avvicino al suo cancello, e mi vengono in mente le ultime parole di Mr. A, a proposito del “pc incorporato all’interno”. Allora scavalco il cancello e entro all’interno della discarica AND, dove è presente la spazzatura di tutta l’isola W, e respirando:
“Che odori!”, ma anche che strana sensazione famigliare in questo luogo.
Avanzo e comincio a salire sulla collina, percorrendo cerchi sempre più ampi. Una strana spirale questa collina, che si estende in altezza verso l’esterno. In pratica un ciclone, di cui io ne rappresento il punto di partenza e anche la sua evoluzione, nel salire lentamente su. E vado sempre più in alto, fino alla cima, quando un giramento di testa e delle vertigini mi fanno dondolare senza nemmeno un drink, ed ecco che inizia la discesa. La spirale ora sta tornando giù, non sembra però la stessa. E' un’altra capovolta, che si interseca alla prima. Infatti, nello scendere, i cerchi continuano ad ingrandire il proprio diametro ancora verso l’esterno e mi riportano al punto di partenza, a terra. La sensazione è proprio quella di trovarsi dentro ad una delle opere del maestro Escher, dove si sale, e al tempo stesso si scende, dove lo spazio ed il tempo non definiscono più nessuna realtà, oltre la terza dimensione, mentre la mia pancia inizia, seriamente, a brontolare per la fame.
Capitolo 8. 44 kg di vongole, per favore!
“Sono su di un’Isola, cavolo, e voglio mangiare un po’ di pesce!”
E vado a cercare dei molluschi, per cucinarmi una bella zuppa succulenta. Alle vongole naturalmente.
“Veraci?, perché no!”
Anche Maltina ne parla sempre di queste vongole, dice che sono le sue preferite. Fresche, gustose e capaci di regalarti intuizioni e sorprese. Proprio come lei: una sorpresa, ogni volta che si apre. Una regina verace che sta al centro di un altro vortice pazzesco, il suo, invitante alla danza che scelgo di ballare, permettendola, proprio come fanno le vongole. Spesso, quando siamo insieme, Romolo accenna ad una pescheria presente su quest’Isola. Dice che si chiama “Selfish” e aggiunge, sempre, che è la meglio ed anche l’unica dopo il mare. Devo riconoscere, che quel nome è veramente buffo per un luogo dove si vende del pesce, e decido di cercarla. Chiedo in giro ed un ante mi spiega, che si trova al mercato coperto nel centro storico della capitale. Lo ringrazio e mi guardo in giro per capire come arrivarci. Il sole è alto e la giornata è di quelle molto afose, in cui non vedi l’ora che il sole tramonti per respirare un po’. Non c’è nemmeno il vento oggi e sta arrivando un autobus. Si tratta del numero 11, carico di gente come al solito, e la strada per arrivare fino a quel mercato è molto lunga. Decido di attraversare velocemente, in diagonale, e di prendere quell’autobus in corsa. Appena si ferma, l’autobus apre
le porte e l’autista, dal suo sedile, indica con la sua mano il numero 4, senza dire nemmeno una parola. Solo quattro persone possono salire, poiché l’autobus è già pieno e, alle porte, io non sono certo tra quei primi quattro. Infatti, mentre l’autobus le richiude e riparte, io mi trovo ancora alla fermata. Decido allora di incamminarmi a piedi, di godermi la eggiata, e chissà quale sorpresa lungo il percorso:
“Eppure c’è sicuramente un’altra soluzione e anche più di una, per arrivare prima a quella pescheria”, penso a voce alta.
Ci vuole molta energia per fare tutta questa strada a piedi, sotto questo sole bollente, e non che mi dispiaccia camminare, anzi, ma è veramente caldo, con un’umidità altissima. Si fa fatica a respirare e mentre la parola energia inizia a rimbalzarmi nella bocca, il mio intuito mi suggerisce di fare un ordine chiaro, ancora a voce alta, senza nessuna definizione nei dettagli. E dato che voglio raggiungere velocemente la pescheria “Selfish”, ordino all’energia di servirmi, attraverso un semplice comando, insieme ad un bel respiro, dentro e fuori, sempre con il naso. E continuo a camminare, quando, ad un tratto, su di un lato, in alto, su di un cartello, una pubblicità della pescheria “Selfish” attira la mia attenzione e il suo numero di telefono, che mi invita a chiamare, fare l’ordine per le vongole e are solo a ritirarle. Allora sorrido per come funzionano le cose e riconosco, che, come dice sempre una mia cara amica, l’energia mi sta proprio servendo con grazia ed eleganza.
Sempre a voce alta, leggo al mio cellulare il numero presente sul cartello: “33 11”, ringrazio e rimango in silenzio.
“Selfish al vostro completo servizio, buongiorno”, risponde una voce gentile.
“Buongiorno a lei, mi chiamo Guglielmo e sto camminando verso la vostra pescheria. Mentre mi godo la eggiata, chiamo per fare un’ordinazione: 44 kg di vongole, per favore! Preparo un’enorme zuppa e scelgo le vongole veraci per la mia ricetta personale. Sto arrivando”, comunico con chiarezza e semplicità.
“Le sue vongole sono già pronte, signore, la stanno aspettando. E grazie per aver scelto Selfish. A presto”, conclude con armonia la telefonata.
Un Ibiscus, che si trova a due i da me, e che naturalmente sente tutto dalla a alla zeta, si volta e, curioso com’è, non riesce a trattenersi. Ora è lui a farmi una domanda:
“Dopo le cozze, vuoi farti un’abbuffata anche di vongole, 44 kg?, complimenti!” lancia la palla.
“Sì, 44 kg! Scelgo l’abbondanza per la mia ricetta personale. Aglio locale, olio extra vergine di oliva e vino bianco, per un brodo di numerose vongole veraci, che si aprono e offrono la propria essenza, limone e prezzemelo a scelta. Sai, non posso proprio farne senza!”, schiaccio con ione ed entusiasmo, accennando anche un salto, tipo i pop-corn quando scoppiano a causa dell’aumento di calore.
E riprendo a camminare.Quanto mi piace farlo, con il 44 nelle mie scarpe. Con questo numero potenziale della maestria incarnata che cammina sulla Terra, pronta e responsabile per la propria performance, come unico direttore del proprio giuoco. Consapevole, e entusiasta, e comionevole, e scalpitante, e sincronico, e presente, e anche non, tutto allo stesso tempo. E lungo la strada che delimita la terra dall’acqua del mare, per la seconda volta, incontro ancora l’anatra di mare, che se la sa, nell’acqua, tutta beata:
“Guarda un po’ chi si rivede?!”, le dico, ammirandola.
“Presente!, e non mi sorprende affatto incontrarti di nuovo, esploratore”, ribatte, sbevucchiando dolcemente un po’ d’acqua di mare.
E in quell’istante, in un attimo, insieme alle sue parole, sento contemporaneamente il salmastro dell’aria marina, vedo i pesci che fluidamente si rincorrono sul fondale e sento il vento insieme al suono dei gabbiani, mentre tante ombre sul terreno riflettono la loro danza aerea nel cielo. Sono in tanti e li sto guardando anche in alto, nel solito momento, che è così largo, ed espanso, e lento, che mi arriva anche un piccolo ricordo bianco-grigiastro, addosso, sulla testa.
“Penso proprio che sia merda!”, commenta divertita.
“E’ bellissimo. Il primo contatto con la mià libertà, con la mia presenza. Durante le tue parole, il sentire, e il vedere, e il sentire, e il vedere, e il sentire ancora altro. Tutto insieme, merda compresa. In maniera naturale, da solo, senza fare niente. Nessuno sforzo, solo permettendo!”, mi allargo, spiegando la mia esperienza.
“Sì, ci sei dentro, sei tu, finalmente posso dire che sei presente”, mi risponde, “e capisci, ora, cosa significa scoprire di essere e semplicemente esserlo?, questa è la tua capacità, la tua divinità”, aggiunge e prosegue, “Tu sei questa terra, quando sei presente. Sì, nel momento in cui tu reciti, tu realizzi di essere quel punto intorno a cui tutto il tuo universo ruota. Ed ora, non puoi fare altro che goderti il viaggio e quindi buon divertimento!”, conclude l’anatra, nuotando verso il largo.
E riprendo il cammino con davanti a me una piccola salita e delle curve, mi allontano dal mare, e comincio a salire verso il centro storico della capitale, su di un promontorio-fortezza, sicuro e fiera di esistere. Oltreo quelle mura e un asse, dritto innanzi a me, scivola verso la loro punta estrema a picco sul mare, mentre un sacco di bandiere lo costeggiano su ambo i lati, sventolando per il vento, che corre lungo tutte quelle vie. Aumento il o, e nonostante il caldo esterno ed interno comincio ad avere l’acquolina in bocca. Un cartello mi suggerisce dove svoltare, con il sole sempre alto ed acciecante nel cielo, e finalmente l’edificio del mercato centrale mi appare davanti. E con lui anche la sua soglia, che mi invita ad entrare. La varco e per un attimo il mio corpo trema per un brivido, che lo percorre dai piedi fino in cima alla testa. Ogni singola cellula mi fa sentire la sua vitalità pizzicandomi, mentre tutte insieme urlano “presente”. E’ completamente buio all’interno e non riesco a vedere dove metto i piedi, sento la mia cara cascata e anche la stessa voce gentile della pescheria. Nel buio riesco solo a vedere la sua insegna, luminosa, che cambia colore nella stessa parola, “SELFISH”, e mi dirigo verso di lei, con quella voce parlante:
“Continua pure a camminare, e a godere, e a sentire, e a creare, e a ridere, e a danzare, e ad amare, e a respirare, e ad essere tutto quello che scegli di recitare. Permettendolo, solo per te. La tua scatola nera contiene il tuo ordine e Selfish ti celebra ancora una volta per la tua scelta”.
Ed eccomi nuovamente aldifuori del mercato centrale, simile ad un tunnel oscuro oramai alle mie spalle, con il sole abbagliante che mi mostra chiaramente cosa ho nelle mani. Una scatola di legno, un parallelepipedo a base quadrata, di colore nero, con una fessura perimetrale che la percorre lungo tutto il suo spessore e da cui fuoriesce il profumo fresco delle vongole veraci. E mi rimetto a camminare, senza essere stanco, con la mia scatola nera, viva e pronta, una volta accesa, ad aprirsi nel fuoco della mia zuppa.
E, “quale miglior luogo se non la laguna dell’Isola W, per accendere il fuoco e
godermi la mia realizzazione?”, penso ad alta voce, “con questa zuppa da espandere nel mare, all’infinito, facendo anch’io, consapevolmente, la parte della vongola?”
E.
“Finalmente sto godendo in questa gigantesca laguna, insieme alla mia zuppa di vongole”, mi dico, “e che goduria celebrare in questa maniera!”, aggiungo.
Via le scarpe, i calzini, la maglietta e anche i pantaloni. Entro in acqua in mutande, scendendo,lentamente, da uno scoglio, di sotto. Sento il rumore dell’acqua, ora i miei piedi sentono l’acqua. Mi tolgo anche le mutande, oggi non c’è nessuno in giro, e continuo a scendere. Respiro, sento l’acqua alle ginocchia. E’calda, trasparente e ricca di informazioni. Fauna, Flora, e nel fondale, al posto della sabbia, qualcosa di freddo e duro, forse una roccia liscia. Ora il mio pube e poi anche il mio ombellico, insieme, sentono l’acqua e improvvisamente le mie orecchie avvertono il suono di un camlo, che si aggiunge alla stessa cascata di sempre:
“Che strano, sono solo in questa laguna azzurra e gigantesca e riesco a sentire il suono di un camlo, e ancora quella cascata?”, dico fra me e me. “E il suono del camlo mi è anche famigliare?!”, aggiungo.
Eh sì, si tratta, precisamente, del mio camlo di casa. Infatti, mi trovo in cucina, con un bicchiere in mano, il rubinetto dell’acqua aperto e la casa completamente allagata fino all’altezza del mio ombellico. E dalla porta sento urlare:
“Williaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaammmmmmmmmmmmmmmmmmmmmm!”
MASSIMO BOCCONI
Con la collaborazione di Olivia Cini
Un ringraziamento particolare a tutte le persone, luoghi e cose, reali o presunti, che hanno recitato la loro parte nell’isola W.
Ringraziamenti
Un ringraziamento particolare
a tutte le persone,
luoghi
e cose,
reali o presunti,
che hanno recitato
la loro parte
nell’Isola W.