Le Avventure Di Huckleberry Finn 51196g

Mark twain

Le avventure di Huckleberry Finn

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Indice dei contenuti

Ecco il migliore autore americano per ragazzi AVVERTENZA Come civilizzare Huck - Mosè e i Cani di Palude - La signorina Watson - Tom Sawyer in attesa I ragazzi sfuggono a Jim - Jim! - La banda di Tom Sawyer - Piani ben congegnati Una bella ata - La grazia trionfa - Giocare ai banditi - "Una delle bugie di Tom Sawyer" ‘Lento ma sicuro” - Huck e il giudice – Superstizione Il padre di Huck - Il genitore premuroso - Conversione Il giudice Thatcher in tribunale - Huck decide di scappare dalla capanna Economia politica - Inseguimen L’attesa - rinchiuso nella capanna - Preparativi di partenza - L’annegamento Progetti - Riposo Dormire nei boschi - Il recupero della salma - In guardia! - Esplorazione dell’isola - Un sonno inutile - Incontro con Jim - Segni - Quel “pigro negro" Balaam La grotta - La casa galleggiante - Un bel bottino La scoperta - Il vecchio Hunk Bunker - Il travestimento Huck e la donna - Le ricerche - Andare a Goshen - "Jim...ci sono alle calcagna!" Navigazione lenta - Le cose prese a prestito - A bordo del relitto - “Non è di

buoni principi” - In cerca della barca La fuga dal relitto - Il guardiano - Il relitto affonda - Un morto sonno Un bel divertimento - L’harem - il se Huck perde la zattera - Nella nebbia - Addormentato sulla canoa - Huck trova la zattera - Immondizie Storia di un barile stregato - Buon vecchio Cairo - Una bugià bianca - Valuta fluttuante - Giù oltre Cairo Un chiarimento notturno - La fattoria nell’Arkansas - Decorazione d’interni Stephen Dowling Bots - Effusioni poetiche - Un pianoforte di latta Il colonnello Grangeford - Aristocrazia - Faide - La Bibbia - "Vivere d'acqua Riparazione della zattara - La catasta del legname - Carne e cavoli - "Sei tu, tesoro?" ano i giorni - Una teoria astronomica - “Arrivano i cani’’ - Un sermone sull'alcoolismo - Il duca di Bridgewater - I guai di Sua Maestà Huck spiega - Progetto di una campagna - Sfruttare il ra¬duno religioso - Un pirata al raduno religioso - Il duca fa lo stampatore - Jim ricercato Scuola di scherma - Essere o non essere - A zonzo per la città - Una città pigra Il vecchio Boggs - Morte di Boggs Sherburn - Al circo - Un ubriaco sulla pista - La tragedia emozionante Tutto esaurito - Confronti fra re - Jim malato di nostalgia Jim in abiti regali - Prendono un eggero - Informazioni - Lutto di famiglia Sono loro? - Il canto dell’inno - Possiamo risparmiare - Straordinariamente onesti - Le orge funebri - Un cattivo in¬vestimento Un re pio - Il servo del re - Lei chiede scusa - Nascosto nella camera - Huck prende il denaro Il funerale - L’impresario di pompe funebri - Curiosità soddisfatta - Sospetti su

Huck - Vendite rapide e scarsi guadagni Il viaggio in Inghilterra - ‘‘Che farabutti!” - Il Camelopardo - Mary Jane decide di partire - Huck si congeda da Mary Jane - Musi contriti - La concorrenza Parentele contestate - Il re spiega la perdita - Una questione di calligrafia Tatuaggio - Il cadavere riesumato - Inutile fuga di Huck Il re salta addosso a Huck - Zuffa regale - Una solenne sbronza Piani segreti - Jim scomparso - Notizie di Jim - Vecchi espedienti - La storia del montone - Informazioni preziose - La campagna Tranquillo e con un’aria domenicale - Falsa identità - In una palude - Il dilemma Un liberatore di negri - L’ospitalità del Sud - "Birbante di un birbante!" - Una benedizione abbastanza breve - Catrame e piume La capanna presso la tramoggia della cenere - Il colmo - Un lavoro semplice Salire per l’asta del parafulmine - Guai con le streghe Una fuga come si deve - Oscuri piani - Distinzioni tra furto e furto - Un buco profondo Il parafulmine - Migliorare il suo record - Un’eredità per i posteri - Rubare cucchiai - In mezzo ai cani - Una figura nobile L’ultima camicia - Con un’aria trasognata - Allora scoppiò - Ordine di partenza La torta per le streghe Il blasone - Un esperto sovrintendente - Gloria indesiderata - Un piagnucoloso I topi - Vivaci compagni di letto - Il manichino di paglia A pesca - II comitato di vigilanza - Una fuga movimentata - Jim vuol chiamare un dottore II dottore - Zio Silos - Sorella Hotchkiss - Zia Sally preoccupata Tom Sawyer ferito - Il racconto del dottore - Dare a Jim un buon trattamento Tom confessa - Arriva zia Polly

Fuori dalla schiavitù - Giocare al prigioniero - Vostro af-fezionatissimo Huck Finn

Ecco il migliore autore americano per ragazzi

Il bello di certi autori è la loro schiettezza e limpidezza, soprattutto se riescono a rivolgersi ai ragazzi. Quello di oggi è considerato il migliore autore americano, ed il libro che presentiamo è, insieme al precedente: "Le avventure di Tom Sawyer", la rappresentazione dell’infanzia che molti sostengono sia proprio quella dell’autore.

Del resto se la la propria infanzia è stata avventurosa anche la restante parte della vita ne beneficia in ricchezza di emozioni. Peter Pan insegna. Mark Twain, pseudonimo di Samuel Langhorne Clemens, nasce in Florida il 1835 e ci lascia nel 1910, è stato uno scrittore, umorista, aforista e docente statunitense. Un autore prolifico, ha scritto di tutto anche una esilarante Viaggio di un miscredente in Paradiso, che è difficile trovare, ma non disperiamo di cercarlo nella soffitta dei libri. La storia si svolge nella parte sudista dell’America, vicino al Mississipi. Ci troviamo prima della guerra di secessione americana. Il piccolo Huckleberry Finn, orfano di madre e con un padre sempre ubriaco vive con una zia tutrice. Un ragazzo ribelle e vivace, per certi aspetti un vero e proprio monello, che fuma persino la pipa e marina la scuola. Ce n’è davvero perché la sua tutrice rivolga preghiere al Signore perché “Huck metta la testa a posto e non bruci nel fuoco dell’inferno".

Quando le sorti dei rapporti, soprattutto con il padre che gli dice, in un momento di lucidità, dai fumi dell’alcool,"aspetto che l’angelo della morte venga a prenderti: ho ricevuto solo calci nella schiena. Quando tu sarai morto, tutto andrà meglio!” A quel punto il piccolo Huck decide di fuggire con lo schiavo nero Jim di cui aveva preso le difese.

Ed è un avventuroso viaggio sul più grande fiume americano pieno di colpi di scena coinvolgenti, sfuggendo a malavitosi, compiendo eroismi in una sorta di viaggio emblematico verso l’Illinois, dove è stata abolita la schiavitù, che è una cosa che desidera Jim, ovviamente.

Illustrazione colorata dall'originale

E’ una fuga giovanile da quel mondo degli adulti che non piace, per trovarne un altro con altri adulti, anche peggiori. Capita sempre così, ma, d’altra parte, è così che si cresce. Twain coinvolge il lettore usando anche un linguaggio crudo, è il piccolo Finn che racconta, in modo talmente reale, in un linguaggio colorito, che quando usci il libro fu tolto dalle biblioteche perché ritenuto fuorviante per i giovanissimi. Invece anni dopo il romanzo è stato uno dei film di animazione tv più visti accanto a Tom Sawer. Nel 1960 il regista Michael Curtiz ne fa un film con la partecipazione di Buster Keaton. Nel 1978 Jack B. Hively ne fa un altro film con Forrest Tucker, Kurt Ida, Dan Monahan, Brock Peters. L'edizione che presentiamo vuole essere un tributo a questo grande autore: la copertina presa da Wichipedia e appena schiarita e colorata è propria quella del libro originale; anche la traduzione Roberto Pasini, grande traduttore di tuitti i libri di Mark Twain è davvero vicina a quella del nostro autore che scrive in modo scanzonato, ironico. Perchè ho fatto questa fatica di riportare questo testo online? Perchè si trovano online anche diverse traduzioni ma sono fatte con i moderni traduttori, aggiustati da qualche sapiente italiota, che mostrano strafalcioni, che tolgono stile; se un tizio allunga il collo, Mark è più schietto e scrive: "tirò il collo" . Ora pensate a tutto un racconto scritto in questo modo, che deve essere proprio il linguaggio di un monello di 150 anni fa, immortalato per il nostro piacere da Mark Ttwain. L'altro motivo è davvero rendere omaggio ad un grande della letteratura mondiale con un testo adatto agli adolescenti che attraverso la rigenerazion dell'avventura vedono un monello affrancarsi e crescere culturalmente: la vera libertà dalla schiavitù. Buona lettura.

AVVERTENZA

Chi cercherà di trovare uno scopo in questa narrazione sarà perseguito a termini di legge; chi tenterà di trovarvi una morale sarà esiliato; chi cercherà di trovarvi una trama sarà fucilato. ORDINE DELL'AUTORE. Per tramite del G. G, Capo dell'Ufficio Sussistenza.

Come civilizzare Huck - Mosè e i Cani di Palude - La signorina Watson - Tom Sawyer in attesa

capitolo 1

Non sapete niente di me se non avete letto il libro intitolato "Le avventure di Tom Sawyer", ma non ha alcuna importanza. Quel libro è stato scritto dal signor Mark Twain, che nel complesso ha detto la verità. Certe cose le ha un po’ esagerate, ma nel complesso ha detto la verità. Non conosco nessuno che non dica bugie, una volta o l’altra, a parte zia Polly, o la vedova, o forse Mary. Di zia Polly, la zia Polly di Tom, cioè, e di Mary e della vedova Douglas, di loro è detto tutto in quel libro, che è un libro abbastanza veritiero; con qualche esagerazione, come ho già detto. Ora il libro si chiude in questo modo: io e Tom troviamo il denaro che i ladri avevano nascosto nella caverna e diventiamo ricchi. Ci toccarono seimila dollari a testa, tutti in oro. Una cosa impressionante, visti uno sopra l’altro. Bene, il giudice Thatcher li prese e li mise in banca, e ci fruttavano un dollaro a testa ogni giorno, per tutto l’anno: più di quanto si possa pensare a spendere. La vedova Douglas, poi, mi prese come un figlio e garantì che mi avrebbe civilizzato; ma era atroce star sempre in quella casa, considerando quant’era formale e terribilmente per bene la vedova in tutte le sue cose. Cosi, quando arrivai al punto di non poterne più, tagliai la corda. Tomai nei miei vecchi stracci e nel mio barile vuoto, e fui di nuovo libero e soddisfatto. Ma Tom Sawyer mi venne a trovare e mi raccontò che stava mettendo su una gang di banditi, e anch’io potevo fame parte solo che fossi tornato dalla vedova e fossi divenuto rispettabile. Cosi tornai indietro.

La vedova mi inondò di lacrime e mi chiamò pecorella smarrita e mi diede un sacco di altri titoli, ma senza intenzione di offendermi. Mi Infilò daccapo in

quegli abiti nuovi, e io non potevo far altro che sudare e sudare, e mi sentivo alla tortura. Bene, poi ricominciò la vecchia storia. La vedova suonava un camlo per la cena e dovevi arrivare puntuale. Quando ti sedevi a tavola non potevi metterti subito a mangiare, ma dovevi aspettare che la vedova chinasse il capo e borbottasse un po’ sulle vivande, benché su queste non cl fosse proprio niente da ridire. Cioè, niente se non il fatto che ogni cosa veniva cotta, separatamente. Mettendo In pentola tutto insieme è diverso: le cose si mescolano e si scambiano i sapori e la zuppa vien meglio. Dopo cena prese il suo libro e mi istruì su Mosè e gli Ebrei; e lo fremevo dalla voglia di saper tutto di lui, ma poco a poco venne fuori che Mosè era morto da parecchio tempo; allora non me la presi più tanto a cuore per lui, perché i morti non mi interessano.

Subito dopo mi venne in mente di fumare e chiesi alla vedova il permesso. Ma lei non volle. Disse che è un vizio brutto e poco igienico e che dovevo cercare di perderlo. Questo è proprio il modo di fare di certa gente: ce l’hanno con una cosa quando non ne sanno niente. Se la prendeva tanto per Mosè che non era neanche suo parente e non serviva più niente a nessuno, essendo morto, mentre trovava tanto da ridire su di me per un’azione che in sé aveva qualcosa di buono. E dire che anche lei tabaccava; naturalmente quello andava benissimo, perché era lei a farlo.

Sua sorella, Miss Watson, una vecchia zitella secca e occhialuta, era appena venuta a vivere con lei ed ora mi tallonava con un sillabario. Mi fece lavorare piuttosto sodo per circa un’ora, poi la vedova le disse di rallentare. Io non potevo resistere più a lungo. E per tutta l’ora fu di una noia mortale e io divenni irrequieto. Miss Watson continuava a dire: «Non mettere là i piedi, Huckleberry», e «Non strisciarli cosi per terra, Huckleberry» e poi ancora: «Non sbadigliare e non stiracchiarti a quel modo, Huckleberry: perché non cerchi di essere educato? ».

Poi mi raccontò tutto sul Brutto Posto, e io dissi che volevo andarci. Lei andò su tutte le furie, allora, ma io non intendevo offenderla. Tutto quello che volevo era

semplicemente di andare in qualche altro posto, solo un cambiamento, non uno in particolare. Lei disse che era malvagio dire cosi; lei non l’avrebbe detto per tutto l’oro del mondo; lei voleva vivere in modo da andare nel Posto Bello. Bene, io non vedevo il vantaggio di andare dove voleva andare lei, e così decisi che non avrei fatto alcuno sforzo per seguirla. Ma non lo dissi, perché me ne sarebbero venuti solo guai e nulla di buono per me. Ora che aveva preso l’avvio, andò avanti e mi raccontò tutto sul Posto Bello. Quello che c’era da fare, là, disse, era andare in giro tutto il giorno con un’arpa e continuare a cantare, per sempre. Cosi non me ne feci una gran idea. Ma non lo dissi. Le domandai se Tom Sawyer secondo lei ci sarebbe andato e lei disse che c’erano poche probabilità. Ne fui contento, perché volevo che io e lui stessimo insieme. Miss Watson prese a rimbeccarmi e io divenni triste e malinconico. Di lì a poco fecero entrare i negri e si misero a pregare, e poi ognuno se n’andò a letto. Io andai su nella mia camera con un pezzo di candela e io misi sul tavolo. Poi andai a sedermi vicino alla finestra e cercai di pensare a qualcosa di allegro, ma non c’era verso. Mi sentivo cosi giù che quasi desideravo di essere morto. Le stelle brillavano e le foglie stormivano nel bosco in maniera tanto lugubre; e sentii un gufo, lontano, che faceva «uh-uh» su qualcuno che era morto, e una civetta e un cane si lamentavano su qualcuno che stava per morire; e il vento cercava di sussurrarmi qualcosa, ma non riuscivo a capire e cosi mi vennero i brividi sul corpo. Poi lontano nel bosco sentii quella specie di suono che fa un fantasma quando vuol dire qualcosa che ha in mente e non riesce a farsi capire, e cosi non può riposare tranquillo nella sua tomba e deve andare in giro ogni notte a lamentarsi. Ero così depresso e impaurito che desiderai veramente un po’ di compagnia. All’improvviso mi accorsi che un ragno stava arrampicandosi sulla mia spalla, lo buttai giù e quello andò a cadere sulla candela, e prima che potessi toglierlo era già tutto raggrinzito. Non c’era bisogno che qualcuno mi dicesse che quello era un segno terribilmente brutto e mi avrebbe portato scalogna: ero terrorizzato e tremavo come una foglia. Mi alzai e feci tre giri su me stesso, con un segno di croce sul petto ogni volta; e poi mi legai con un filo una ciocca di capelli per tener lontane le streghe. Ma non ne ero convinto. Si fa così quando si perde un ferro di cavallo che si era trovato, invece di inchiodarlo sopra la porta, ma non avevo mai sentito dire che andava bene per tener lontana la sfortuna quando si è ucciso un ragno. Mi rimisi a sedere, tremando tutto, e tirai fuori la pipa per farmi una fumatina;

ormai la casa era immersa in un silenzio di tomba e la vedova non sarebbe venuta a saperlo. Bene, dopo un bel po’ di tempo sentii la campana lontano in città battere dodici colpi, don, don, don, e di nuovo un silenzio totale, più assoluto che mai. Di lì a poco sentii scricchiolare un rametto, giù nel buio tra gli alberi: qualcosa si muoveva. Rimasi immobile tendendo l’orecchio. E dopo un po’ riuscii appena appena a percepire un «miao, miao» laggiù. Cosi andava bene! Feci anch’io «miao, miao», più piano che potei e poi spensi la luce e sgusciai fuori dalla finestra sulla tettoia. Poi scivolai giù fino a terra e strisciai in mezzo agli alberi, sicuro che c’era Tom Sawyer ad aspettarmi.

I ragazzi sfuggono a Jim - Jim! - La banda di Tom Sawyer - Piani ben congegnati

Capitolo 2

Ci allontanammo in punta di piedi per un sentiero fra gli alberi verso l’estremità del giardino della vedova, tutti curvi per non sbattere la testa contro i rami. Proprio mentre avamo davanti alla cucina io inciampai in una radice e feci rumore. Ci buttammo a terra, immobili e in silenzio. Il grosso negro di Miss Watson, di nome Jim, stava seduto sulla soglia della cucina; potevamo vederlo ben chiaro perché c’era luce dietro di lui. Si alzò in piedi e tirò il collo per circa un minuto, in ascolto. Poi fa: - Chi va là? Tese l’orecchio ancora un po’, poi venne avanti in punta di piedi e si fermò proprio in mezzo a noi due; potevamo toccarlo, quasi. Bene. Per minuti e minuti non si sentì un suono, e noi stavamo immobili tutti li, cosi vicini e insieme. C’era un punto della caviglia che cominciava a prudermi; ma non mi gratto; poi comincia a prudermi l’orecchio; ed ora la schiena, proprio in mezzo fra le spalle. Mi sembrava di morire se non potevo grattarmi. Dopo di allora ho notato questo fatto un sacco di volte. Se ti trovi con gente per bene, o a un funerale, o se cerchi di dormire e non hai sonno, se sei insomma in un posto dove non sta bene grattarsi, ebbene, ti senti prudere dappertutto in più di mille punti. Dopo un po’, Jim fa: - Ehi, chi è? Dove siete? Che mi venga un accidente se non ho sentito qualcosa. Bene, so cosa bisogna fare. Mi pianto qui e ascolto finché non lo sento di nuovo.

Cosi si mise a sedere per terra fra me e Tom. Appoggiò la schiena contro un

albero e allungò le gambe fin quasi a toccare con una delle sue una delle mie. Comincia a prudermi il naso. Mi prude fino a farmi venire le lagrime agli occhi. Ma non mi gratto. Poi comincia a prudermi da! di dentro. Ora mi prude sotto. Non riuscivo più a restare immobile. Questa sofferenza durò almeno sei o sette minuti, ma mi sembrò molto più lunga. Ora mi prudeva in undici posti diversi. Decisi che non potevo star fermo un minuto di più, ma strinsi i denti e mi preparai alla prova. Proprio in quel momento Jim cominciò a respirare pesante; ora russava, e ben presto io mi sentii di nuovo a mio agio. Tom mi fece un segno, una specie di piccolo rumore con la bocca, e strisciammo via carponi. Fatti dieci i, Tom mi sussurrò che voleva legare Jim all’albero per scherzo; ma io dissi di no: poteva svegliarsi e far chiasso e allora avrebbero scoperto che non ero in casa. Poi Tom disse che non aveva abbastanza candele e voleva entrare in cucina a prenderne delle altre. Io non volevo che ci provasse. Dissi che Jim poteva svegliarsi e arrivare. Ma Tom volle rischiare; cosi sgusciammo dentro e prendemmo tre candele, e Tom posò cinque cents sulla tavola come pagamento. Una volta usciti, io non vedevo l’ora di partire, ma niente poteva trattenere Tom dalla voglia di strisciare a quattro zampe fin dov’era Jim per fargli qualche tiro. Io restai in attesa, e mi sembrò un bel pezzo; tutto intorno era pace e silenzio. Appena Tom fu di ritomo, tagliammo per il sentiero lungo lo steccato del giardino e in breve raggiungemmo la ripida cima della collina dall’altra parte della casa. Tom mi raccontò che aveva tolto il cappello dalla testa a Jim e l’aveva appeso a un ramo proprio sopra di lui, e Jim s’era mosso un poco ma senza svegliarsi. In seguito Jim andava raccontando che le streghe l’avevano incantato e fatto cadere in trance e portato a cavallo attraverso tutto lo Stato, e poi l’avevano riportato sotto gli alberi appendendo il suo cappello a un ramo come per firmare l’azione. E quando lo raccontò la seconda volta, disse che l’avevano portato a cavallo giù fino a New Orleans; e ogni volta successiva ampliava sempre di più, finché di li a poco l’avevano portato in capo al mondo, stancandolo da morire, tanto che dietro era tutto una vescica. Jim ne era mostruosamente fiero, fino al punto di non degnare più d’uno sguardo gli altri negri. I negri avrebbero fatto miglia e miglia per sentire il racconto di Jim, ed egli divenne il negro di maggior riguardo di tutto il paese. Certi negri che venivano da lontano restavano davanti a lui a bocca aperta e lo guardavano da ogni parte come se fosse un fenomeno. I negri stanno sempre a parlare di streghe nel buio delle cucine presso il camino; ma ogni volta che qualcuno ne parlava facendo capire che la sapeva lunga su queste cose, arrivava Jim a dire: « Hum!

Ma cosa ne sai tu di streghe? », e quel negro doveva chiudere il becco e andarsi a sedere giù in fondo. Jim portava sempre quella moneta da cinque cents legata al collo con uno spago e diceva che era un amuleto datogli dal diavolo con le sue stesse mani, il quale gli aveva detto che con esso poteva guarire qualunque male e chiamare le streghe ogni volta che voleva, solo dicendovi sopra qualche parola; ma non rivelò mai cos’era che bisognava dire. I negri accorrevano da ogni parte e davano a Jim tutto quello che avevano solo per vedere quella moneta da cinque cents; ma non la toccavano perché era stata nelle mani del diavolo. Jim era ormai rovinato, come servo, perché era divenuto cosi tronfio per via del fatto che aveva visto il diavolo e aveva cavalcato con le streghe.

Bene, quando io e Tom giungemmo sulla collina, guardammo verso il villaggio e potemmo scorgere tre o quattro luci tremolare, dove c’era qualcuno ammalato, forse; e le stelle sopra di noi brillavano belle come non mai; e giù oltre il villaggio era il fiume, largo più di un chilometro, stupendamente tranquillo e maestoso. Scendendo dalla collina trovammo Jo Harper e Ben Rogers, e altri due o tre ragazzi, nascosti nella vecchia conceria. Slegammo una barca e scendemmo il fiume per qualche chilometro, fino alla grande rupe dalla parte della collina, e là scendemmo a terra. Arrivammo a una macchia di cespugli e Tom fece giurare a ciascuno di tenere il segreto; poi ci mostrò un buco nella collina, proprio nella zona più fitta di cespugli. Allora accendemmo le candele e vi penetrammo carponi. Andammo avanti circa duecento metri, quindi la caverna si apriva. Tom la ispezionò cercando il aggio e in un attimo si ficcò sotto una parete dove nessuno avrebbe sospettato che ci fosse un’apertura. Attraversammo una strettoia e sbucammo in una specie di stanza, tutta umida e fredda, e qui ci fermammo. Tom disse: - Ora fonderemo questa gang di banditi e la chiameremo Tom Sawyer’s Gang. Chiunque voglia farne parte dovrà giurare e scrivere il suo nome col sangue. Tutti volevano. Allora Tom tirò fuori un pezzo di carta dove aveva scritto il giuramento e io lesse. Ogni ragazzo giurava di restare fedele alla banda e di non rivelare mai niente dei segreti; e se qualcuno faceva qualcosa a un ragazzo della banda, chiunque ricevesse l’ordine di ammazzare quella persona e la sua famiglia doveva farlo, e non poteva mangiare né dormire finché non li aveva

ammazzati e poi segnato una croce sui loro petti, che era il marchio della banda. E nessuno che non appartenesse alla banda poteva usare quel marchio, e se lo faceva doveva essere processato; e se lo faceva ancora doveva essere ammazzato. E se qualcuno che apparteneva alla banda rivelava i segreti, doveva avere la gola tagliata, e poi la sua carcassa bruciata e le ceneri disperse al vento, e il suo nome cancellato dalla lista con una macchia di sangue e mai più menzionato nella gang, anzi maledetto e dimenticato per sempre. Tutti dissero che era veramente un bel giuramento e chiesero a Tom se l’aveva inventato lui. In parte, disse Tom, ma il resto veniva dai libri dei pirati, dal libri dei masnadieri, ed ogni banda di un certo livello lo aveva.

Alcuni pensavano che sarebbe stato bene ammazzare le famiglie dei ragazzi che avessero raccontato i segreti; Tom disse che era una buona idea, prese una matita e lo aggiunse. Allora Ben Rogers disse: - C’è anche Huck Finn, lui non ha famiglia; cosa pensi di fare con lui? - Be’, non ha un padre? — disse Tom Sawyer. - Si, ha un padre, ma non riesci mai a trovarlo di questi tempi Una volta stava sempre sdraiato con i porci nella conceria, ubriaco fradicio, ma da un anno o più non si vede da queste parti. Ne discussero a lungo, e stavano per espellermi, perché dicevano che ogni ragazzo deve avere una famiglia o qualcuno da ammazzare, altrimenti non era giusto per gli altri. Bene, nessuno sapeva trovare una soluzione, tutti erano perplessi e ammutoliti. Io ebbi un’idea, e cosi gli offrii Miss Watson: potevano uccidere lei.

Tutti dissero: - Oh si, lei, lei. Va benissimo. Huck può entrare. Poi tutti si bucarono un dito con uno spillo per firmare con il sangue, e anch’io feci il mio segno sulla carta.

- Ora — disse Ben Rogers — quale sarà il genere di affari di questa banda? - Nient’altro che rapine e omicidi — disse Tom. - Ma cosa andiamo a rapinare? Case, bestiame, o...Sciocchezze! - Rubare bestiame e cose del genere non è rapina, è furto — disse Tom Sawyer. — Noi non siamo dei volgari ladri. Li non c’è un minimo di stile. Noi siamo banditi da grandi strade. Fermiamo diligenze e carrozze, mascherati, e uccidiamo la gente e prendiamo orologi e denaro. - Dobbiamo sempre uccidere la gente? - Certamente. È la cosa migliore. Alcune autorità la pensano diversamente, ma per lo più ucciderli è considerata la cosa migliore. Eccetto alcuni che si portano qui nella caverna e si tengono finché non vengono riscattati. - Riscattati? Che significa? - Non lo so. Ma si fa cosi. L’ho letto nel libri; e naturalmente è quello che anche noi faremo. - Ma come possiamo farlo se non sappiamo cos’è? - Maledizione! Dobbiamo farlo. Non ti ho detto che sta nei libri? Vuoi fare diversamente da come c’è sui libri, solo per far confusione? - Oh, tutto questo è molto bello da dire, Tom Sawyer, ma in pratica come faremo con questi tizi che devono essere riscattati, se non sappiamo nemmeno da che parte incominciare? Ecco quello che lo vorrei sapere. Ora, hai un’idea almeno di che cosa si tratti? - Be’, io non lo so. Ma forse se dobbiamo tenerli finché sono riscattati vuol dire che li teniamo finché sono morti. - Oh, ecco qualcosa che ci somiglia. Ecco quasi una risposta. Non potevi dirlo prima? Noi li terremo finché non saranno riscattati a morte; e saranno anche una bella seccatura, pretenderanno di mangiare di tutto e tenteranno continuamente di tagliare la corda.

- Che discorsi, Ben Rogers. Come faranno a tentar di scappare se c’è sempre una guardia che li sorveglia, pronta a sparare su di loro se muovono un dito? - Una guardia! Bene, questa è buona. Cosi qualcuno dovrà star su tutta la notte senza mai chiudere occhio, solo per sorvegliarli. Questa mi pare una pazzia. Perché non si può prendere un randello e riscattarli appena arrivano? Perché non c’è scritto nei libri, ecco perché. Ora, Ben Rogers, vuoi fare le cose con ordine o no? Questo è il punto. Non ti rendi conto che chi ha scritto i libri sa quali sono le cose giuste da fare? O credi di essere tu a insegnargli qualcosa? - Questa è grossa. Nossignore, noi procederemo a riscattarli esattamente secondo le regole. - Benissimo. A me non importa, ma dico che è una follia, comunque. Di’, anche le donne dobbiamo ammazzare? - Ben Rogers, se io fossi ignorante come te cercherei almeno di non farlo vedere. Uccidere le donne? No, non si è mai sentita una cosa del genere nei libri. Le porti nella caverna, e sei sempre zucchero e miele con loro; e in breve si innamorano di te e non vogliono più andare a casa. - Bene, se questo è il modo, sono d’accordo, ma non mi interessa. In un baleno avremo la caverna cosi piena di donne, e di tizi che aspettano di essere riscattati, che non ci sarà più neanche un po’ di spazio per noi. Ma va’ pure avanti, io non ho più niente da dire.

Il piccolo Tommy Barnes si era addormentato, e quando lo svegliarono si spaventò e si mise a piangere, e disse che voleva andare a casa dalla mamma, e che non voleva più fare il bandito. Allora tutti lo presero in giro e cominciarono a chiamarlo piagnone; questo lo fece andare in bestia e disse che sarebbe andato dritto a raccontare tutti i segreti. Ma Tom gli diede cinque cents perché stesse buono, e disse che tutti ce ne saremmo andati a casa, per incontrarci la settimana dopo e uccidere un po’ di gente.

Ben Rogers disse che non poteva uscire spesso, ma solo la domenica, perciò voleva cominciare la domenica successiva; ma tutti gli altri dissero che era

peccato farlo di domenica e questo sistemò la cosa. Furono d’accordo di incontrarsi quanto prima, e poi eleggemmo all’unanimità Tom Sawyer primo capitano e Jo Harper secondo capitano della banda, quindi ce ne andammo a casa. Mi arrampicai sulla tettoria e strisciai nella mia camera poco prima che il giorno spuntasse. I miei abiti nuovi erano luridi di unto e di terra, e mi sentivo stanco morto.

Una bella ata - La grazia trionfa - Giocare ai banditi - "Una delle bugie di Tom Sawyer"

Capitolo 3

Bene, la mattina ebbi una bella ata dalla vecchia Miss Watson per via dei miei vestiti; invece la vedova non mi sgridò, si limitò a togliere l’unto e la terra, e aveva un’aria così afflitta che io pensai di comportarmi bene per un po’, se potevo. Poi Miss Watson mi portò nello stanzino e pregò, ma non successe niente. Mi disse di pregare ogni giorno, e qualunque cosa chiedessi l’avrei ottenuta. Ma non era vero. Io ci ho provato. Una volta avevo una canna da pesca, ma senza ami. Non mi era di nessuna utilità senza ami. Provai a pregare tre o quattro volte per gli ami, ma come che sia non ne ebbi risultato. Dopo qualche tempo, un giorno, chiesi a Miss Watson di provare lei al posto mio, ma mi disse che ero matto. Non mi spiegò perché, e io non riuscii in nessun modo a capirlo. Mi sono seduto una volta giù nel bosco, e ci ho pensato a lungo. Mi dicevo: se uno può ottenere tutte le cose per cui prega, perché Diacono Winn non recupera il denaro che ha perduto nell’affare del porco? Perché alla vedova non restituiscono la tabacchiera d’argento che le hanno rubato? Perché Miss Watson non riesce a ingrassare? No, mi dicevo, non c’è niente di vero. Andai dalla vedova e le dissi queste cose, e lei disse che quanto si può ottenere con la preghiera sono «doni spirituali». Era troppo difficile per me, ma lei mi spiegò cosa intendeva: devo aiutare il prossimo, e fare tutto quello che posso per gli altri e darmi pensiero per loro tutto il tempo e mai pensare per me. Inclusa, anche Miss Watson, mi parve. Me ne andai per i boschi e ruminai nella mia mente per un pezzo, ma non riuscivo a vedere in questo alcun vantaggio se non per gli altri e così conclusi di non occuparmene più e di lasciar perdere. Talvolta la vedova mi prendeva in disparte e mi parlava della Provvidenza in un modo tale da far venire l’acquolina in bocca; ma magari il giorno dopo Miss Watson diceva la sua e capovolgeva

tutto di nuovo. Mi sembrava di capire che c’erano due Provvidenze, e un povero diavolo se la sarebbe cavata abbastanza bene con la Provvidenza della vedova, ma se gli toccava quella di Miss Watson per lui non c’erano più speranze. Ci pensai bene e decisi di appartenere a quella della vedova, se mi voleva, benché non riuscissi a capire che vantaggio le avrei portato, ignorante com’ero e di una specie così bassa e spregevole. Papà era più di un anno che non si vedeva, fortunatamente; non volevo vederlo mai più. Aveva la brutta abitudine di suonarmele quando era sobrio e se riusciva a prendermi, mentre io avevo l’abitudine di svignarmela nel bosco per la maggior parte del tempo quando lui era nei paraggi. Bene, proprio in quel periodo fu trovato nel fiume annegato, circa venti chilometri a monte del paese, così diceva la gente. Pensavano che fosse lui, almeno; dicevano che quell’uomo annegato aveva proprio la sua statura, era vestito di stracci e con i capelli straordinariamente lunghi, il che faceva pensare a papà, ma non avevano potuto riconoscere la faccia perché era stata così a lungo nell’acqua che non sembrava più una faccia. Dicevano che galleggiava sull’acqua di schiena. L’avevano preso e sepolto sulla riva. Ma non restai tranquillo per molto, perché mi venne in mente una cosa. Io sapevo benissimo che un uomo annegato non galleggia di schiena, ma di pancia. Così mi resi conto che non si trattava di papà, ma di una donna vestita da uomo. Così divenni di nuovo inquieto. Ero sicuro che il vecchio si sarebbe fatto vivo tra poco, benché mi augurassi il contrario. Giocammo ai banditi, di tanto in tanto, per circa un mese, e poi io diedi le dimissioni. Come tutti gli altri ragazzi. Non avevamo rapinato nessuno, non avevamo ammazzato nessuno, ma solo finto. Saltavamo fuori dal bosco e assalivamo i guardiani di porci e le donne che portavano i carretti di verdura al mercato, ma senza mai derubare nessuno. Tom Sawyer chiamava i porci «lingotti» e la verdura «gioielli», e poi andavamo nella caverna a tener consiglio sulle nostre imprese e su quante persone avevamo ammazzato e marchiato. Ma io non ci trovavo sugo in tutto questo. Una volta Tom mandò in giro un ragazzo per tutto il paese con in mano una torcia, che lui chiamava emblema (e che era il segnale per la riunione della banda), e poi disse che aveva avuto notizie segrete dalle sue spie secondo cui il giorno dopo si sarebbe accampata a Cave Hollow un’intera carovana di mercanti spagnoli e ricchi arabi con duecento elefanti e seicento cammelli e più di mille muli da soma, tutti carichi di diamanti, e avevano soltanto una scorta di quattrocento soldati, e allora noi avremmo teso un’imboscata, così la chiamava, e ammazzato tutti e incamerato il bottino. Ci disse di lucidare spade e fucili e tenerci pronti. Non poteva assalire nemmeno un

carretto di rape se non aveva le spade e i fucili in perfetto ordine, benché non fossero che canne e manici di scopa, che li potevi lustrare finché ti restavano forze e non valevano una cicca più di prima. Io non credevo che fossimo in grado di sopraffare una tal folla di spagnoli e arabi, ma volevo vedere i cammelli e gli elefanti, così il giorno dopo, che era sabato, me ne andai all’imboscata; e quando ricevemmo l’ordine ci slanciammo fuori dal bosco e giù per la collina. Ma non c’erano né spagnoli né arabi, non c’erano né cammelli né elefanti. Non c’era nient’altro che un pic-nic di una scuola di catechismo e solo la prima elementare era venuta. Facemmo irruzione nel mezzo, mettendo in fuga i bambini, ma il bottino fu solo qualche ciambella e un po’ di prosciutto, anche se Ben Rogers rimediò una bambola di pezza e Jo Harper un libro di canti e un opuscolo; ma poi il maestro venne alla carica e ci fece lasciar giù ogni cosa e tagliare la corda. Non avevo visto diamanti, e lo dissi a Tom Sawyer. Disse che ce n’erano montagne, in ogni caso; e che c’erano pure gli arabi, e gli elefanti e tutto il resto. Chiesi come mai allora non potevamo vederli. Disse che se non fossi stato così ignorante e avessi letto il libro intitolato Don Chisciotte, l’avrei saputo senza chiedere. Disse che tutto era avvenuto per incantesimo. Disse che c’erano centinaia di soldati, e elefanti e tesori, e così via, ma noi avevamo dei nemici, che egli chiamava maghi, e questi avevano trasformato tutto in un asilo infantile, solo per dispetto. Va bene, dissi, allora la cosa da fare era di andare in cerca di quei maghi. Tom Sawyer disse che ero una testa dura. - Perché — dice — un mago potrebbe chiamare a raccolta un mucchio di geni e questi ti taglierebbero a pezzetti come niente prima che tu possa dire ba’. Sono alti come alberi e grossi come una chiesa. - Bene — dico — metti che troviamo anche noi dei geni che ci aiutino, non possiamo essere noi a battere gli altri, allora? - E come li trovi? - Non lo so. E loro come fanno? - Caspita, quelli strofinano una vecchia lampada di ottone o un anello di ferro, e allora i geni vengono di corsa, con lampi e tuoni che scoppiano tutt’intorno e globi di fumo, e qualunque cosa quelli gli dicono di fare loro subito la fanno. Per loro è uno scherzo strappare dalle radici una torre e sbatterla in testa a un

ispettore scolastico, o a chiunque altro. - Ma chi riesce a farli correre a questo modo? - Caspita, chiunque strofini la lampada o l’anello. Essi appartengono a chiunque strofini la lampada o l’anello, e sono costretti a fare quello che lui dice. Se gli dice di costruire un palazzo lungo sessanta chilometri, tutto di diamanti, e di riempirlo di chewing-gum o che so io, o di andare a prendere la figlia di un imperatore in Cina per sposarla, sono costretti a farlo, e devono anzi farlo prima che sorga il sole del nuovo giorno. E ancora, devono far ballare quel palazzo per tutto lo Stato, dovunque tu lo voglia, capisci? - Bene — dico io — ho l’impressione che sono una manica di idioti se non tengono il palazzo per sé invece di lasciarsi sfruttare a questo modo. E più ancora, se lo fossi uno di loro, un tizio potrebbe morire prima che io lasci i miei affari per venire da lui solo perché ha strofinato una vecchia lampada di ottone. - Ma che cosa stai dicendo, Huck Finn? Tu non potresti assolutamente fare a meno di venire quando quello la strofina, che tu lo voglia o no. - Cosa? Io non potrei, alto come un albero e grosso come una chiesa? Bene, allora verrei, ma scommetto che farei arrampicate quell’uomo sull’albero più alto che c’è nel paese. - Sciocchezze. È Inutile parlare con te, Huck Finn. Sembri uno che non sa proprio niente, un perfetto imbecille.

Ci pensai sopra per due o tre giorni, e poi decisi che avrei visto se c’era qualcosa di vero in tutto questo. Presi una vecchia lampada di ottone e un anello di ferro e me ne andai nel bosco e strofinai e strofinai fino a sudare come un indiano, con l’idea di costruire un palazzo e di venderlo; ma fu inutile, non venne nessun genio. Allora tirai la conclusione che tutta quella faccenda non era che una delle bugie di Tom Sawyer. Mi rendevo conto che lui credeva agli arabi e agli elefanti, ma quanto a me la pensavo diversamente. Quella aveva tutte le caratteristiche di una scuola di catechismo.

‘Lento ma sicuro” - Huck e il giudice – Superstizione

Capitolo 4

arono tre o quattro mesi e si era nel cuore dell’invemo, ora. Ero andato a scuola quasi tutto quel tempo e sapevo sillabare, e anche leggere e scrivere un poco, e sapevo le tabelline della moltiplicazione fino a sei volte sette trentacinque, ed ero convinto di non poter andare più avanti di cosi nemmeno se fossi vissuto in eterno. Non ho nessun interesse per la matematica, ad ogni modo. All’inizio odiavo la scuola, ma a poco a poco riuscii a sopportarla. Quando ne avevo piene le tasche la marinavo, e le botte che prendevo il giorno dopo mi facevano bene e mi incoraggiavano. Cosi, più andavo a scuola, più facile era andarci. Anche ai modi della vedova cominciavo ad abituarmi e non mi parevano più cosi fastidiosi. Vivendo in una casa, e dormendo in un letto, mi sentivo alla tortura, in generale, ma prima che fe freddo avevo l’abitudine di sgattaiolare fuori e dormire nel bosco, spesso, e questo era un ristoro per me. Preferivo i miei vecchi modi di vivere, ma incominciavano a piacermi anche i nuovi, un pochino. La vedova diceva che facevo progressi lenti ma sicuri e mi comportavo in maniera assai soddisfacente. Diceva che non si vergognava di me. Una mattina a colazione mi capitò di rovesciare la saliera. Più in fretta che potei raccolsi un po’ di sale per buttarmelo sulla spalla sinistra e tener lontana la scalogna, ma Miss Watson fu più svelta di me e mi fermò la mano. - Via le mani, Huckleberry, che pasticci stai sempre combinando! — La vedova ci mise una buona parola, ma questo non bastava a scongiurare la scalogna, lo sapevo bene. Finita la colazione, uscii combattuto e scosso, domandandomi che cosa stava per capitarmi e dove. Per tener lontani certi tipi di iella ci sono vari modi, ma stavolta non era

possibile; perciò non tentai di fare niente, ma andai avanti di cattivo umore e sempre in guardia. Attraversai il giardino davanti alla casa e salii la scaletta che ava sopra l’alto steccato. C’era qualche centimetro di neve fresca per terra e vidi le impronte di qualcuno. Venivano su dalla cava e giravano intorno alla scala per un tratto e poi proseguivano lungo lo steccato. Era strano che non venissero dentro dopo aver tanto girato intomo. Non riuscivo a capire. Era molto strano, ad ogni modo. Stavo per seguire quelle impronte, ma poi mi chinai per esaminarle. Non notai niente subito, ma poco dopo si. C’era una croce nel tacco sinistro, fatta con grossi chiodi, per tenere lontano il demonio. Mi alzai di scatto e mi precipitai giù per la collina. Mi guardavo alle spalle ogni tanto, ma senza vedere nessuno. Arrivai dal giudice Thatcher più in fretta che potei. Egli disse: - Ma come mai, ragazzo, sei senza flato? Sei venuto per i tuoi interessi? - No, signore — dico — ce ne sono per me? - Si, certo, ieri sera sono arrivati i sei mesi. Più di centocinquanta dollari. Una vera fortuna per te. Farai meglio a lasciarmeli investire con i tuoi seimila, perché se li prendi li spenderai. - No, signore — dico — non voglio spenderli. Non li voglio affatto; nemmeno i seimila. Voglio che li prendiate voi; voglio darli a voi: i seimila e tutto. Mi guardò sorpreso. Non sembrava capire. Dice: - Diamine, che intendi dire, ragazzo? Dico: — Non chiedetemi nulla su questa faccenda, vi prego. Prendete tutto; non volete? Dice: - Be’, sono confuso. C’è qualche motivo? - Vi prego, prendeteli — dico — e non chiedetemi nulla, non vorrei dover dire bugie.

Ci pensò un poco, poi disse: - Oh, oh, oh. Credo di capire. Tu vuol vendermi tutta la tua proprietà, non regalarmela. È cosi? Poi scrisse qualcosa su una carta e lo rilesse. E disse: - Qui, vedi che si dice «dietro compenso». Ciò significa che l’ho comprata da te e te l’ho pagata. Eccoti un dollaro. Adesso firma qui. Cosi io firmai, e me ne andai. Il negro di Miss Watson, Jim, aveva una palla di setole grossa come un pugno, che era stata estratta dal quarto stomaco di un bue, e se ne serviva per le sue magie. Diceva che c’era uno spirito dentro la palla, che sapeva ogni cosa. Cosi io andai da lui quella sera e gli dissi che papà era di nuovo qui, perché avevo trovato le sue impronte sulla neve. Quello che volevo sapere era cosa avrebbe fatto e se sarebbe rimasto. Jim tirò fuori la sua palla di setole, le disse sopra qualcosa tenendola in mano e poi la lasciò cadere sul pavimento. Cadde pesantemente, e rotolò In là qualche centimetro. Jim provò ancora, e poi un’altra volta, e la palla si comportò sempre nello stesso modo. Inginocchiatosi, Jim mise l’orecchio contro la palla e ascoltò. Ma era inutile; disse che la palla non voleva parlare. Disse che a volte non voleva parlare senza soldi. Gli dissi che avevo un vecchio quarto di dollaro falso che non valeva più niente perché sotto l’argento cominciava ad apparire l’ottone, e comunque non poteva più circolare, anche se l’ottone non si fosse visto, perché era cosi lucido che sembrava unto e quindi si sarebbe tradito in ogni momento. (Non volevo dir niente del dollaro che avevo ricevuto da! giudice). Dissi che era proprio una moneta cattiva, ma forse la palla di setole l’avrebbe accettata, forse non se n’accorgeva. Jim l’annusò, la morse, la strofinò, e disse che avrebbe fatto in modo che la palla di setole la ritenesse buona. Disse che avrebbe spaccato in due una patata irlandese cruda e ci avrebbe messo in mezzo II quarto di dollaro lasciandovelo tutta la notte, e il mattino dopo non si sarebbe più visto l’ottone né ci si sarebbe accorti del grasso, e chiunque in paese l’avrebbe accettato, tanto più una palla di setole. Anch’io sapevo che una patata faceva una cosa del genere, ma me ne ero dimenticato. Jim mise il quarto di dollaro sotto la palla di setole, si chinò di nuovo e ascoltò. Questa volta disse che la palla funzionava. E mi avrebbe detto tutta la mia fortuna, se volevo. Avanti, dico. Cosi la palla di

setole parlò e Jim lo raccontò a me. Disse: - Tuo padre non sa ancora cosa farà. A volte dice che va via, a volte che resterà. Cosi è meglio star tranquilli e lasciare che il vecchio decida la sua strada. Ci sono due angeli che svolazzano intorno a lui. Uno è bianco e splendente, e l’altro è nero. Quello bianco lo convince a rigar dritto, per un po’, poi arriva quello nero e rovina tutto. Nessuno può dire, al momento, chi dei due alla fine avrà la meglio. Ma per te andrà bene. Grossi fastidi nella tua vita, e grosse felicità. Qualche volta ti farai male e qualche volta ti ammalerai, ma ogni volta guarirai. Ci sono due ragazze che ti ronzano intomo nella tua vita. Una è blonda e l’altra è nera. Una è ricca e l’altra è povera. Sposerai prima quella povera e subito dopo quella ricca. Sta’ lontano dall’acqua più che puoi e non correre rischi, perché è alla barra di un’ancora che sarai impiccato. Quando accesi la mia candela e andai su nella mia camera quella sera, là seduto c’era mio padre, in persona!

Il padre di Huck - Il genitore premuroso Conversione

Capitolo 5

Avevo chiuso la porta. Mi voltai e lo vidi là. Di solito avevo sempre paura di lui, tanto mi picchiava. E credevo di aver paura anche stavolta, ma in un attimo mi accorsi che mi sbagliavo. Dopo il colpo iniziale, quando mi sentii mancare il respiro per la sorpresa, capii subito che non avevo più paura di lui. Aveva quasi cinquant’anni e li dimostrava. I suoi capelli erano lunghi, arruffati e unti, e gli scendevano sul viso. Vedevi appena i suoi occhi come attraverso tralci di vite. Erano tutti neri, non grigi, e cosi pure le basette, lunghe e scombinate. Non c’era colore nella sua faccia, almeno per quanto se ne vedeva; era bianca; non bianca come quella di un altro uomo, ma di un bianco da far ribrezzo, un bianco da far venire la pelle d’oca: il bianco di un rospo, il bianco della pancia di un pesce. Quanto ai vestiti, solo stracci e nient’altro. Teneva una caviglia appoggiata sull’altro ginocchio. La scarpa di quel piede era sfondata e ne uscivano due dita che ogni tanto muoveva. Il suo cappello giaceva per terra: un vecchio feltro nero consunto con la calotta ripiegata in dentro come un coperchio. Rimasi li a guardarlo; lui restò seduto a guardare me, con la sedia un po’ reclinata all’indietro. Posai la candela. Mi accorsi che la finestra era aperta: dunque era entrato arrampicandosi sulla tettoia. Continuava a guardarmi da capo a piedi. Dopo un po’ disse: - Tutto in ghingheri, bello. Pensi di essere diventato un pezzo grosso, eh? Forse sì, forse no — dissi.

- Cerca di non fare il furbo con me — fa lui — hai messo su delle arie da quando sono via. Ma ci penso io a sgonfiarti prima di andarmene. E sei anche istruito, dicono, sai leggere e scrivere. Credi di essere meglio di tuo padre, adesso, vero, perché lui non è capace? Ma io te lo tolgo dalla testa. Chi t’ha detto di occuparti di simili sciocchezze, eh ? Chi te l’ha detto? La vedova? - Lei me l’ha detto. - La vedova, eh? E chi ha detto alla vedova di mettere il naso in faccende che non la riguardano? - Nessuno gliel’ha mai detto. - Bene, le insegnerò io a immischiarsi. Stammi a sentire, tu pianti quella scuola, capito? Glielo insegnerò io a quella gente a tirar su un ragazzo che si dà delle arie verso suo padre e a fargli credere di essere meglio di lui. Fatti pescare un’altra volta a fare lo stupido intorno a quella scuola, mi senti? Tua madre non sapeva leggere, e nemmeno scrivere, fin quando è morta. Nessuno della famiglia era capace, fin quando sono morti. Io non sono capace ed ecco te che fai il pallone gonfiato. Io non sono il tipo da sopportarlo, chiaro? Di’, fammi un po’ sentire come leggi. Presi un libro e cominciai qualcosa sul generale Washington e le guerre. Dopo si e no mezzo minuto che leggevo, allungò una manata contro il libro e lo fece volare in mezzo alla camera. Poi fa: - È così. Sai leggere. Avevo i miei dubbi quando me l’hai detto. Adesso stammi a sentire: piantala di darti arie. Non mi va giù. Non ti perderò d’occhio, saputello, e se ti becco a gironzolare nei paraggi di quella scuola, ti concio per le feste. Cambierai idea prima di accorgertene. Non ho mai visto un figlio del genere. Poi afferrò un quadretto blu e giallo con delle mucche e un ragazzo e disse: - Cos’è questo? - Me l’hanno dato a scuola perché avevo Imparato bene la lezione. Lo strappò e disse:

- Io ti darò qualcosa di meglio, sempre con il cuoio di vacca. Ti darò una frustata. Rimase là seduto a borbottare e a grugnire per un po’ scuotendo la testa, poi disse: E sei diventato proprio un signorino elegante e profumato... Letto, lenzuola, specchio, tappeto sul pavimento; e tuo padre deve andare a dormire con i porci nella conceria. Non ho mai visto un figlio del genere. Scommetto che ti farò are un po' di queste arie prima che sia finita. Ma la tua boria non ha limiti; dicono che sei ricco. Com'è questa storia? - Mentono, tutto qui. - Sta’ attento, bada come parli con me; sto perdendo la pazienza adesso, non fare il furbo. Sono due giorni che sto in paese e non ho fatto che sentir parlare dei tuoi soldi. Ne ho sentito perfino laggiù al fiume. Ecco perché sono venuto. Mi dai quei soldi... li voglio. - Io soldi non ne ho. - Bugiardo. Li ha il giudice Thatcher. Me li devi dare, li voglio. - Soldi non ne ho, ti dico. Va’ a chiedere al giudice Thatcher, te lo dirà anche lui. - Benissimo. Gielo vado a chiedere e glieli faccio tirar fuori, e sennò dovrà dirmi perché. Di’, quanto hai in tasca? Dammeli subito. - Ho solo un dollaro e mi serve per... - Non mi importa a che ti serve... Tiralo fuori subito. Lo prese e lo morse per vedere se era buono, e poi disse che andava giù in paese a prendere del whisky; disse che era rimasto a secco tutto il giorno. Quando fu sulla tettoia, rimise dentro la testa urlandomi che mi davo delle arie e volevo essere meglio di lui; e quando ormai credevo che se ne fosse andato, tornò indietro e rimise dentro la testa e mi ricordò della scuola, che mi teneva d’occhio e mi avrebbe picchiato se non la piantavo. Il giorno dopo era ubriaco e andò dal giudice Thatcher; si mise ad insultarlo e cercò di farsi dare il denaro, ma non ci riuscì e allora giurò che l’avrebbe costretto con la legge. Il giudice e la vedova ricorsero in tribunale per ottenere di togliermi a lui e farmi affidare a uno di loro; ma era venuto da poco un giudice nuovo che non conosceva il vecchio; cosi egli disse che il tribunale non doveva interferire e

separare le famiglie se appena si poteva evitare; disse che preferiva non togliere un ragazzo a suo padre. Cosi il giudice Thatcher e la vedova dovettero cedere. Questo piacque tanto al vecchio che dalla gioia non riusciva più a star fermo. Disse che mi avrebbe frustato fino a farmi diventare nero se non facevo saltar fuori un po’ di soldi per lui. Io chiesi in prestito tre dollari al giudice Thatcher e il vecchio li prese, si ubriacò e andò in giro a inveire e schiamazzare dappertutto; e non la smise di battere su un bidone fin quasi a mezzanotte. Alla fine lo andarono a prendere e il giorno dopo lo portarono in tribunale e lo tennero dentro per una settimana. Ma egli disse che era soddisfatto: era padrone di suo figlio e l’avrebbe fatto rigar dritto. Quando venne fuori, il nuovo giudice disse che ne avrebbe fatto un altro uomo. Cosi se lo portò a casa e gli fece mettere abiti puliti e belli e lo tenne a colazione, pranzo e cena con la sua famiglia e fu, per cosi dire, tutto latte e miele con lui. Dopo cena gli parlò della temperanza e cose del genere, finché il vecchio si mise a piangere e disse che era stato uno stupido e stupidamente aveva sciupato la sua vita; ma ora aveva intenzione di voltar pagina e diventare un uomo di cui nessuno dovesse vergognarsi, e sperava che il giudice l’avrebbe aiutato senza disprezzarlo. Il giudice disse che voleva abbracciarlo per quelle parole; cosi si mise a piangere e sua moglie pianse anche lei; il vecchio disse che mal nessuno prima l’aveva capito e il giudice assicurò che ci credeva; quello che uno cercava, disse il vecchio, era la simpatia; e iI giudice confermò. A quel punto si misero a piangere di nuovo. E quando fu l’ora di andare a letto, il vecchio si alzò, tese la mano e disse: - Guardatela, questa mano, signori e signore; prendetela e stringetela. Ecco la mano che era la mano di un porco, ma ora non lo è più; è la mano di un uomo che ha cominciato una nuova vita e che morirà piuttosto di tornare indietro. State attenti a queste parole: non dimenticate che io le ho dette. È una mano pulita, adesso; stringetela, non abbiate paura. - E cosi tutti la strinsero, uno dopo l’altro, tutti intorno, piangendo. E la moglie del giudice gliela baciò. Allora il vecchio firmò un impegno facendo una croce. Il giudice disse che era un momento santo e memorabile, o qualcosa del genere. Poi portarono il vecchio in una bella camera, che era la stanza degli ospiti, ma durante la notte gli venne una sete potente e strisciò sul tetto del portico e si lasciò scivolare lungo un pilastro e corse a barattare la sua nuova giacca per una

bottiglia di whisky e tornò indietro e se la sò come ai vecchi tempi, e sul far del giorno sgattaiolò fuori di nuovo ubriaco fradicio e rotolò giù dal portico rompendosi il braccio sinistro in due punti. Era quasi morto congelato quando qualcuno lo trovò a giorno fatto. E quando andarono a vedere nella camera degli ospiti, dovettero scandagliarla prima di poterci navigare. Il giudice era molto amareggiato. Era convinto, disse, che si poteva convertire il vecchio solo col fucile, forse, e che non conosceva altra strada.

Il giudice Thatcher in tribunale - Huck decide di scappare dalla capanna - Economia politica Inseguimen

Capitolo 6

Bene, in breve il vecchio fu di nuovo in piedi e riprese ad andare in giro. E poi trascinò il giudice Thatcher in tribunale perché gli desse il denaro, e poi se la prese anche con me perché non avevo lasciato la scuola. Mi sorprese un paio di volte e mi picchiò, ma io andavo a scuola lo stesso cercando di non farmi vedere o di darmela a gambe. Non mi piaceva molto andare a scuola, prima, ma mi accorsi che adesso ci andavo per far dispetto a papà. Quel processo era una faccenda lunga, sembrava che non dovessero mai cominciare, cosi ogni tanto dovevo farmi prestare due o tre dollari dal giudice per lui, in modo che non prendesse la frusta. Ogni volta che aveva denaro si ubriacava, e ogni volta che si ubriacava impazzava per la città, e ogni volta finiva dentro. Ci si era adattato, questo genere di cose era proprio nel suo stile. Incominciò a gironzolare un po’ troppo intorno alla casa della vedova e questa alla fine gli disse che se non cambiava aria l’avrebbe messo nei guai. Bene, non era matto? Disse che avrebbe fatto vedere lui chi era il padrone di Huck Finn. Cosi un giorno di primavera mi aspettò al varco, mi acciuffò e mi portò via sul fiume per circa cinque chilometri con una barchetta e approdò sulla sponda dell’Illinois in mezzo al bosco. Non c’erano case ma solo una vecchia capanna di tronchi, in un posto dove gli alberi erano così fitti che non potevi trovarla se non sapevi dov’era. Stava sempre con me e quindi non avevo alcuna possibilità di scappare. Vivevamo in quella vecchia capanna e lui chiudeva sempre la porta e di notte si metteva la chiave sotto la testa. Aveva un fucile credo rubato, e andavamo a caccia e a pesca vivendo di quello che prendevamo. Ogni tanto mi chiudeva dentro a chiave e andava giù all'emporio, a cinque

chilometri dal traghetto, a barattare pesce e selvaggina in cambio di whisky; se lo portava a casa e si ubriacava, e poi mi picchiava. La vedova ben presto scopri dov’ero e mandò un uomo per tentare di liberarmi, ma papà con il fucile lo fece scappare e non ò molto tempo che mi abituai a stare dov’ero e mi piaceva, a parte la frusta. Era una vita piacevole e spensierata stare tutto il giorno sdraiato a fumare e pescare senza libri da studiare. arono due mesi o più e i miei vestiti divennero tutti logori e lerci e non capivo come avevo fatto a trovarmi cosi bene dalla vedova dove bisognava lavarsi, mangiare nel piatto, pettinarsi, e andare a letto e alzarsi a ore precise, e sgobbare sempre sui libri, e con la vecchia Miss Watson a rimbeccarti in continuazione. Non volevo più tornare indietro. Avevo smesso di dire parolacce perché alla vedova non andava, ma adesso ricominciai perché papà non aveva niente da obiettare. Insomma, lassù nei boschi me la savo. Ma ben presto il vecchio cominciò ad avere il bastone troppo facile e io non potevo resistere. Ero pieno di lividi. Inoltre cominciò a starsene via spesso, rinchiudendomi nella capanna. Una volta mi chiuse dentro a chiave e andò via per tre giorni. Io ero terribilmente solo. Pensavo che fosse annegato e io non sarei mai più uscito. Ero terrorizzato. Allora mi misi a pensare come trovare un modo per andarmene. Provai in tutti i modi di uscire da quella capanna senza riuscirci. C’era una finestrella da cui non sarebbe ato nemmeno un cane. Non potevo salire per il camino, era troppo stretto. La porta era in tavole di quercia massicce e solide. Papà stava molto attento a non lasciare nella capanna coltelli o cose del genere quando stava via; credo di aver ispezionato il luogo almeno un centinaio di volte; be’, facevo solo questo per quasi tutto il tempo perché in pratica era l’unico modo di farlo are. Ma finalmente trovai qualcosa: una vecchia sega arrugginita e senza manico; stava fra una trave e le assicelle del tetto. La unsi ben bene e mi misi al lavoro. C’era una vecchia coperta da cavallo inchiodata sul tronchi nel fondo della capanna dietro il tavolo, per impedire al vento di entrare attraverso le fessure e spegnere la candela. Andai sotto il tavolo, alzai la coperta e mi misi al lavoro per segare via un pezzo del grosso tronco di base, largo abbastanza da lasciarmi are. Fu un lavoro molto lungo, ed ero verso la fine quando sentii nel bosco il fucile del vecchio. Feci scomparire le tracce del mio lavoro, lasciai cadere la coperta e nascosi la sega, e subito dopo lui entrò. Non era di buon umore, cioè era del suo umore normale. Disse che era stato giù al paese e che tutto andava storto. Il suo avvocato gli aveva detto che secondo lui avrebbe vinto la causa e ottenuto il denaro se mai avessero cominciato il processo; ma che c’erano molti modi di rinviarlo per lungo tempo e il giudice Thatcher li conosceva tutti. Disse che

volevano fare un altro processo per togliermi a lui e mettermi sotto tutela della vedova, e questa volta erano sicuri di vincerla. Questo mi colpi fortemente, perché non volevo più ritornare dalla vedova per essere tormentato e civilizzato, come dicevano loro. Poi il vecchio si mise a imprecare contro chiunque e qualunque cosa gli venisse in mente. E poi imprecò daccapo contro tutti per essere sicuro di non aver dimenticato nessuno. Dopodiché concluse con una specie di imprecazione generale contro tutti, compresa una notevole sfilza di gente di cui non sapeva il nome e quando arrivava il loro turno li chiamava come-sichiama e andava avanti con i suoi improperi. Disse che gli sarebbe piaciuto vedere se venivo assegnato alla vedova. Sarebbe stato all’erta e se tentavano di giocargli un tiro del genere, lui conosceva un altro posto a una decina di chilometri da li per rinchiudermi. Potevano cercarmi fin che avevano flato senza trovarmi. Questo mi rese inquieto di nuovo, ma solo per un momento; pensavo che non sarei rimasto nelle sue mani fino a quel momento. Il vecchio mi fece andare alla barca a prendere la roba che aveva portato. C’era un sacco di farina di mais da venticinque chili, un gran pezzo di lardo, munizioni, una botticella di whisky da quindici litri, un vecchio libro, due giornali da usare come stoppaccio oltre a un po’ di canapa. Trasportai un primo carico, poi tomai indietro e mi misi a sedere sulla prua della barca per riposarmi. Ci pensai bene e decisi che potevo andarmene col fucile e alcune lenze tagliando per i boschi. Pensavo di non fermarmi in nessun posto, ma di vagabondare per il paese per lo più di notte, andando a caccia e pesca per campare, e di spingermi cosi lontano che né il vecchio né la vedova mi avrebbero più ritrovato. Potevo finire di segare il tronco e partire quella notte stessa se papà era abbastanza ubriaco, e certamente lo sarebbe stato. Ero cosi preso che non mi accorsi quanto tempo era ato, finché il vecchio mi chiese urlando se mi ero addormentato o annegato. Finii di portare la roba nella capanna che era quasi buio. Mentre preparavo la cena, il vecchio si fece un paio di cicchetti per scaldarsi e riprese a smaniare. Era stato sempre ubriaco in paese ed era rimasto in un fosso un’intera notte, dando proprio un bello spettacolo. Si poteva pensare che fosse Adamo, infangato com’era. Appena l’alcool cominciava a fargli effetto, quasi sempre se la prendeva con il governo. Questa volta disse: - Chiamalo un governo questo! Pensaci un momento e vedi che roba è. C’è una legge fatta apposta per portar via a uno suo figlio, il suo unico figlio, con tutta la

fatica, tutta l’ansia e tutte le spese per tirarlo su. Bene! E proprio quando quell’uomo è riuscito ad avere questo figlio allevato e pronto per andare a lavorare e cominciare a far qualcosa per lui, a dargli un po’ di respiro, ecco che la legge glielo prende. E questo lo chiamano governo. E non è tutto. La legge dà ragione a quel vecchio giudice Thatcher e lo aiuta a spogliarmi della mia proprietà. Ecco cosa fa la legge. La legge prende un uomo che vale seimila dollari e più e lo sbatte in una vecchia trappola di capanna come questa e lo fa andare in giro vestito peggio di un porco. E questo lo chiamano governo! Un uomo non può avere i suoi diritti con un governo come questo. A volte mi viene una gran voglia di andarmene da questo paese per sempre. Si, e gliel’ho detto a quelli; gliel’ho detto in faccia al vecchio Thatcher. Un mucchio di gente mi ha sentito e può dire cosa gli ho detto. Ho detto che per due centesimi pianterei questo maledetto paese e non ci ritornerei più. Testuali parole! Ho detto: guardate il mio cappello, se lo chiamate un cappello, con il coperchio che sta su e tutto il resto che va giù fin sotto il mento; e poi non è veramente un cappello, ma piuttosto ho la testa infilata in un tubo di stufa. Guardatelo, dico, se è uncappello adatto a me che sono uno degli uomini più ricchi di questa città, se potessi far valere i miei diritti. « Ah si, questo è un governo meraviglioso, meraviglioso. Sentite questa. C’era un negro libero che veniva dall’Ohio, un mulatto, bianco quasi come un bianco. E portava anche la camicia più bianca che si possa vedere e il cappello più lustro, e non c’era un uomo in quella città che avesse dei vestiti eleganti come i suoi. Aveva un orologio d’oro con tanto di catena e un bastone col pomo d’argento, lnsomma il più splendido vecchio nababbo di tutto lo Stato. E cosa credete? Dicevano che era un professore dell'università e sapeva parlare tutte le lingue ed era una scienza. E questo non è il peggio. Dicevano che poteva votare quando era al suo paese. Be’, quello mi ha fatto scoppiare. « Dico io, dove va a finire il paese? Era il giorno delle elezioni e stavo per andare a votare anch’io se non ero troppo ubriaco per arrivarci; ma quando mi dissero che c’era uno Stato in questo paese dove avevano lasciato votare quel negro, ho cambiato strada. Ho detto che non voterò mai più. Testuali parole, tutti mi hanno sentito! Tutto iI paese può andare in malora, per quel che mi riguarda; io non voterò più finché starò al mondo. E vedere le maniere di quel negro! Non voleva lasciarmi il o se non lo spingevo da parte. Io dico alla gente, perché questo negro non lo mettono all’asta e non lo vendono? Questo vorrei sapere' E cosa pensate che mi abbiano risposto? Be’, hanno detto che non si poteva vendere finché non era nello Stato per almeno sei mesi e non erano ancora

ati. Ora, questo è un esempio. E lo chiamano un governo, che non può vendere un negro libero finché non sia nello Stato da sei mesi. È un governo che si chiama governo da sé, che fa credere di essere un governo e pensa di essere un governo e non muove un dito per sei mesi prima di poter acciuffare un negro infernale, vagabondo e ladro, e libero e con la camicia bianca e... » Papà stava andando avanti cosi senza accorgersi dove le sue vecchie gambe rammollite lo stavano portando, e cosi inciampò nel mastello della carne di porco sotto sale, andò a gambe all’aria e prese una botta negli stinchi. Il resto del discorso ò a toni arroventati; imprecò per lo più contro il negro e il governo, benché ne avesse un po’ anche per il mastello, di quando in quando. Saltellò intomo alla capanna per un bel po’, prima su una gamba e poi sull’altra, tenendosi prima uno stinco e poi l’altro e alla fine allungò il piede sinistro e mollò una poderosa pedata al mastello. Ma non fu una buona idea, perché quella era la scarpa che lasciava occhieggiare due dita dalla punta, cosi ora lanciò un urlo che avrebbe fatto rizzare i capelli a chiunque e si lasciò cadere a terra nel sudiciume, e vi si rotolò tenendosi le dita; e le imprecazioni che elevò allora superarono ogni precedente. Lo ammise lui stesso, più tardi. Aveva sentito il vecchio Sawberry Hagan nei suoi tempi migliori, e disse che aveva superato anche lui; ma io credo che esagerasse. Dopo cena papà prese la botticella e disse che aveva whisky abbastanza per due sbornie e un delirium tremens. Quelle erano sempre le sue parole. Feci conto che tra un’ora sarebbe stato completamente sbronzo e allora avrei rubato la chiave o finito di segare il tronco, una delle due. Bevi e bevi, finalmente si buttò giù sulle coperte; ma la fortuna non mi venne incontro. Invece di addormentarsi e russare, continuava a rigirarsi. Si lamentava e gemeva dimenandosi da una parte e dall’altra. Alla fine mi venne un sonno che non riuscivo più a tenere gli occhi aperti, nonostante tutti i miei sforzi, e cosi prima di accorgermene mi addormentai come un sasso senza neanche spegnere la candela. Non so per quanto tempo dormii, ma all’improvviso ci fu un terribile urlo e mi svegliai. C’era papà con due occhi da matto che saltava da un punto all’altro e urlava che c’erano i serpenti. Diceva che gli si avvinghiavano per le gambe; poi un altro salto e un urlo, e dice che uno l’ha morso sulla guancia. Ma io non riuscivo a vedere serpenti. Si mise a correre in tondo per la capanna urlando: — Prendilo! Prendilo! Mi sta mordendo il collo! — Non ho mai visto un uomo con due occhi cosi spiritati. In breve rimase senza fiato e cadde a terra ansimando; poi cominciò a rotolarsi da ogni parte con una forza incredibile, tirando calci

dappertutto e cercando di colpire e di afferrare con le mani nell’aria, e urlando che c’erano i diavoli che lo prendevano. Dopo un po’ fu di nuovo sfinito e rimase immobile per un momento, lamentandosi. Quindi si fece ancora più tranquillo, senza più emettere alcun suono. Potevo sentire le civette e i lupi, lontano nel bosco, in un silenzio che mi sembrava terribile. Lui stava là buttato in un angolo. Dopo un po’ si alzò a metà e stette in ascolto con la testa tesa da una parte. Disse in un bisbiglio: - Marciano, marciano, marciano: sono i morti; marciano, marciano, marciano; vengono a prendermi; ma io non voglio andare. Eccoli, sono qui! Non toccatemi! Giù le mani! Sono fredde; andatevene, lasciate in pace un povero diavolo! Poi si piegò a quattro zampe e strisciò fuori supplicandoli che lo lasciassero in pace; si avvolse nella coperta e rotolò sotto il vecchio tavolo di pino, sempre implorando; quindi si rimise a piangere. Potevo sentirlo attraverso la coperta. Ma poco dopo rotolò di nuovo fuori e saltò in piedi, con gli occhi stravolti; mi vide e se la prese con me. Si mise a inseguirmi tutt’intomo alla capanna con un coltello a serramanico, chiamandomi l’Angelo della Morte e dicendo che mi avrebbe ucciso cosi non andavo più a prenderlo. Lo supplicai, gli dissi che io ero solo Huck, ma lui scoppiò a ridere con quel riso stridulo, e muggiva e imprecava e continuava a inseguirmi. Una volta che feci un giro troppo stretto e andai a finire sotto il suo braccio, fece un tentativo di presa e mi afferrò la giubba fra le spalle e io pensai che ero spacciato; ma riuscii a sgusciare fuori dalla giubba veloce come il lampo e fui salvo. Ben presto fu di nuovo stremato e cadde a terra con la schiena contro la porta, e disse che avrebbe riposato un attimo per poi uccidermi. Mise coltello sotto il suo corpo e disse che dormiva un po’ per rimettersi in forze e poi mi faceva vedere chi era. Quindi si assopì. Presi subito la vecchia sedia impagliata, vi montai sopra stando bene attento a non far rumore e staccai il fucile. Infilai la bacchetta nella canna per assicurarmi che fosse carico e poi lo appoggiai sul barile di rape, puntato verso papà, e mi ci misi dietro aspettando che si muovesse. Come ava lento il tempo, e che silenzio!

L’attesa - rinchiuso nella capanna - Preparativi di partenza - L’annegamento - Progetti - Riposo

Capitolo 7

- Sveglia! Ma che diavolo stai facendo? Aprii gli occhi e mi guardai intorno cercando di capire dov’ero. Era giorno fatto e avevo dormito sodo. Papà stava in piedi e mi guardava dall’alto, torvo e distrutto. Mi fa: - Cosa stavi facendo con questo fucile? Capii che non ricordava niente di quello che aveva fatto lui, e risposi: - Qualcuno tentava di entrare stanotte, e io mi sono messo ad aspettarlo. - Perché non mi hai svegliato? - Be’, ho tentato, ma non ci sono riuscito; non sono riuscito nemmeno a smuoverti. - Bene, bene. Ma non stare li a chiacchierare tutto il giorno, fila fuori a vedere se c’è un pesce attaccato all’amo per colazione. Io arrivo in un minuto. Apri la porta e io scappai fuori sulla riva. Notai nella corrente dei rami che galleggiavano e pezzi di corteccia alla deriva; cosi mi resi conto che il fiume cominciava a ingrossarsi. Me la sarei goduta adesso, mi dissi, se fossi stato al paese. La piena di giugno di solito era una pacchia per me, perché appena il fiume cominciava a crescere, la corrente mi portava pezzi di legno, parti di zattera, talvolta una dozzina di tronchi legati insieme; non avevi che da prenderli e

andare a venderli ai depositi o alle segherie. Camminai sulla riva con un occhio attento a papà e l’altro a quel che la corrente portava giù. Bene, tutt’a un tratto vedo una canoa, e proprio bella anche, lunga circa tre metri, che veniva avanti impettita come un’anatra. Mi tuffai di testa dalla riva come un ranocchio, con i vestiti indosso, e le andai incontro. Mi aspettavo che ci fosse qualcuno sdraiato sul fondo, perché la gente fa spesso cosi per burla, e quando uno l’ha quasi tirata a riva saltano su e lo prendono in giro. Ma questa volta non fu cosi. Era una canoa alla deriva, senza dubbio. Mi arrampicai dentro e remai verso la sponda. Il vecchio, pensavo, sarà contento quando la vede, vale almeno dieci dollari. Ma quando arrivai alla sponda, lui non era ancora in vista, e mentre mi infilavo con la canoa in un piccolo affluente tranquillo, coperto di viti e salici, mi venne un’altra idea; pensai di nasconderla bene e poi, invece di fuggire per i boschi, potevo scendere il fiume per un centinaio di chilometri e accamparmi in un bel posto, senza dover fare la fatica di vagabondare a piedi. Ero molto vicino alla baracca e mi pareva di sentire i i del vecchio ad ogni istante, ma riuscii a nasconderla; poi scesi dalla canoa e mi guardai intomo sempre nascosto dai salici: il vecchio era giù sul sentiero che prendeva di mira un uccello col fucile. Dunque non aveva visto niente. Quando si avvicinò, mi trovò tutto preso a tirar su una lenza. Mi strigliò un poco perché ero cosi lento, ma lo gli dissi che ero caduto nel fiume e per questo avevo perso tanto tempo. Sapevo che, vedendomi bagnato, mi avrebbe fatto delle domande. Attaccati alla lenza trovammo cinque pesci gatto e tornammo a casa. Quando ci stendemmo, dopo colazione, per dormire un po’, essendo ambedue stanchi morti, mi venne da pensare che, se trovavo un modo per far perdere le mie tracce a papà e alla vedova, sarebbe stato più sicuro che affidarmi alla fortuna per andare abbastanza lontano prima che notassero la mia sparizione; sapete, tutto può succedere. Bene, non vedevo nessun modo, ma poco dopo papà si alzò un momento per bere un altro barile di acqua e disse: — Un’altra volta che viene uno a ronzare qui intomo, tu mi svegli, capito? Quell’uomo non aveva certo buone intenzioni. Io gli avrei sparato. La prossima volta tu mi svegli immediatamente, capito? Poi tornò a stendersi e riprese a dormire, ma quello che aveva detto mi diede l’idea che cercavo. Ora, dissi tra me, posso fare in modo che a nessuno venga in

mente di seguirmi. Verso mezzogiorno uscimmo e ce ne andammo lungo la riva. Il fiume si era gonfiato rapidamente, trascinando una grande quantità di legname e fra questo un pezzo di zattera: nove tronchi legati saldamente. Andammo fuori con la barca e la rimorchiammo a riva. Quindi mangiammo. Chiunque altro, tranne papà, avrebbe aspettato tutto il giorno per vedere di recuperare altro materiale, ma questo non era il suo stile. Nove tronchi erano abbastanza per una volta; doveva portarli subito giù in città per venderli. Cosi verso le tre e mezza mi chiuse dentro, prese la barca e parti portandosi a rimorchio la zattera. Pensai che quella notte non sarebbe tornato. Aspettai fino ad essere sicuro che fosse andato avanti un bel po’, poi tirai fuori la sega e mi rimisi al lavoro su quel tronco. Prima che lui fosse arrivato dall’altra parte del fiume, io ero già fuori dal buco; lui e la zattera erano ormai un puntolino lontano sull’acqua, laggiù in fondo. Presi il sacco di farina di mais e lo portai dov’era nascosta la canoa; scostai le viti e i salici e ve lo misi dentro; feci lo stesso con il pezzo di lardo, e poi ancora con la botticella del whisky; presi tutto lo zucchero e il caffè che c’era e tutte le munizioni; presi gli stoppacci, il secchio e la zucca vuota, presi il mestolo e una tazza di latta, la mia vecchia sega e due coperte, il tegame e la caffettiera. Presi lenze e fiammiferi e tutto quello che valeva qualcosa. Poi andai a prendere il fucile. Avevo finito. Strisciando fuori dal buco e trasportando tutte quelle cose, avevo lasciato tracce sul terreno. Allora lo sistemai il meglio possibile, buttandovi sopra della polvere che coprisse le tracce e la segatura. Poi risistemai il pezzo di tronco al suo posto, ci misi sotto due pietre e una contro per tenerlo fisso, perché era inclinato e quasi non toccava il terreno. Se uno si fermava a un metro di distanza e non sapeva che era segato, non se ne sarebbe accorto; inoltre era sul fondo della capanna e nessuno sarebbe andato a mettere il naso là dietro. Fino alla canoa c’era tutta erba, e quindi non avevo lasciato impronte. Feci un giro per esserne sicuro. Mi fermai sulla riva e scrutai il fiume. Tutto bene. Allora presi iI fucile e mi addentrai nel bosco alla caccia di qualche uccello, quando vidi un maiale selvatico; in quella zona i porci diventavano presto selvatici dopo essere scappati dalle fattorie. Sparai al malcapitato e lo portai alla capanna. Presi l’ascia e sfondai la porta. Per riuscirci dovetti colpirla molte volte. Portai dentro il maiale, vicino al tavolo; gli squarciai la gola con l’ascia e lo lasciai dissanguare sul terreno; dico terreno perché il pavimento era di terra, ben battuta, ma senza nemmeno un’asse. Bene, presi poi un vecchio sacco e lo riempii di

grosse pietre, tutte quelle che potevo portare, e lo trascinai dal punto dove era il maiale, attraverso la porta e il bosco, fino al fiume; lo buttai dentro e quello scomparve. Si poteva vedere facilmente che sul terreno era stato trascinato qualcosa. Avrei desiderato che ci fosse Tom Sawyer! Questo genere di cose gli piacevano e ci avrebbe messo un suo tocco di fantasia. Infine mi strappai un po’ di capelli, insanguinai per bene l’ascia e ve li appiccicai sopra e la buttai in un angolo. Poi presi il maiale e lo tenni stretto al mio petto dentro la giubba (cosi non gocciolava), finché non fui a una certa distanza dalla casa, quindi lo gettai nel fiume. Poi mi venne in mente un’altra cosa. Tomai alla canoa e ripresi il sacco di farina e la vecchia sega e li riportai in casa. Rimisi il sacco al suo posto e ci feci un buco nel fondo con la sega perché non c’erano coltelli o forchette: papà quando cucinava faceva tutto con il coltello a serramanico. Poi trascinai il sacco per un centinaio di metri sull’erba e frai salici a est della casa, fino a un laghetto poco profondo, largo qualche chilometro e pieno di giunchi, e anche di anitre, alla loro stagione, s’intende. C’era un ruscello, anzi un rigagnolo che ne usciva dall’altra parte per del chilometri; non so dove andasse, ma non nel fiume. La farina, uscendo, lasciava una piccola traccia fino al lago. Buttai là anche la mola di papà, come se fosse caduta per caso. Quindi legai con uno spago il buco nel sacco di farina in modo che non perdesse più e lo riportai insieme con la sega alla canoa. Era quasi buio, ormai; feci scendere la canoa nel fiume sotto alcuni salici che pendevano sulla riva e aspettai che sorgesse la luna. La legai ad un salice, presi qualcosa da mangiare e dopo un po’ mi stesi nella canoa per farmi una pipatina e studiare un piano. Immaginavo che avrebbero seguito la traccia del sacco pieno di pietre fino alla riva e avrebbero setacciato la zona del ruscello che esce dal lago per trovare i ladri che mi avevano ammazzato portando via tutto. Non avrebbero mai cercato nel fiume se non per recuperare il mio cadavere. Si sarebbero stancati presto, smettendo cosi di preoccuparsi per me. Benone, cosi potevo fermarmi dove mi pareva. Jackson’s Island andava abbastanza bene per me. Conoscevo quell’isola perfettamente e sapevo che non ci andava mai nessuno. E poi di notte potevo remare fino al paese e, girando di nascosto, prendere quello che volevo. Si, Jackson’s Island faceva al caso mio. Ero molto stanco e senza accorgermene ero già addormentato. Quando mi svegliai, per un istante non sapevo più dov’ero. Mi alzai e mi guardai intomo, un po’ spaventato, poi ricordai. Il fiume sembrava stendersi per chilometri e chilometri. La luna splendeva cosi chiara che potevo contare i tronchi trascinati

dalla corrente, neri e silenziosi, a centinaia di metri dalla riva. C’era un silenzio di tomba e sembrava tardi; lo fiutavi nell’aria. Sbadigliai e mi stiracchiai beatamente, e stavo proprio per slegare la canoa e partire quando intesi un suono lontano sull’acqua. Restai in ascolto. In breve compresi. Era quel rumore regolare e sordo che fanno i remi quando lavorano negli scalmi in una notte tranquilla. Spiai attraverso i rami di salice ed ecco là una barca, lontano sull’acqua. Non avrei saputo dire quanta gente ci fosse sopra. Continuò ad avanzare e quando mi fu di fronte vidi che c’era solo un uomo. Forse è papà, pensai, benché lo non stessi aspettando. Mi superò un poco, portato dalla corrente, ma subito dopo risali nell’acqua calma verso la riva e mi arrivò cosi vicino che col fucile potevo toccarlo. Bene, era proprio papà, e sobrio anche, da come maneggiava i remi. Non persi altro tempo. Un momento dopo stavo filando nella corrente, leggero e veloce, all’ombra della riva. Feci cinque chilometri e poi mi spinsi per qualche centinaio di metri verso il centro del fiume, perché tra poco sarei ato davanti all’attracco e qualcuno poteva vedermi e chiamarmi. Arrivai in mezzo ai tronchi galleggianti e mi stesi giù sul fondo della canoa abbandonandola alla corrente. Rimasi disteso riposandomi bene e mi feci una pipatina, guardando il cielo sereno. Il cielo appare sempre cosi profondo quando stai disteso sulla schiena al chiaro di luna; non me n’ero mai accorto prima. E come si sentono i suoni da lontano sull’acqua in queste notti! Sentivo la gente che parlava all’approdo del traghetto: sentivo perfino quello che dicevano, parola per parola. Uno diceva che si andava verso i giorni lunghi e le notti brevi, adesso. L’altro diceva che questa non era una di quelle corte, gli pareva, e allora si misero a ridere e il secondo ripetè la frase e risero di nuovo; poi svegliarono un altro per dirglielo e risero ancora, ma quello non rise: imprecò un poco e disse che lo lasciassero in pace. Il primo disse che voleva raccontarla alla sua vecchia, l’avrebbe trovata molto buona, ma non era niente rispetto a quelle che diceva lui ai suoi tempi. Sentii uno dire che erano circa le tre e sperava che il giorno non si sarebbe fatto aspettare ancora una settimana. Poi le voci si allontanarono e non riuscivo più a capire le parole ma potevo sentirne il brusio. Ero ormai molto oltre il traghetto. Mi alzai ed ecco Jackson’s Island a circa cinque chilometri, che sorgeva coperta di boschi in mezzo al fiume, grande, nera e massiccia, come un battello a vapore senza luci. Non c’era alcun segno del banco di sabbia alla sua estremità: adesso era tutto sott’acqua.

Non ci misi molto ad arrivare. Superai il capo dell’isola a tutta velocità perché la corrente era assai rapida, raggiunsi le acque calme e approdai sul lato di fronte alla sponda dell’Illinois. Spinsi la canoa in una profonda insenatura della riva che già conoscevo; dovetti aprirmi un aggio nell’intrico dei salici per penetrare, e una volta ormeggiata nessuno poteva vederla dall’esterno.

Salii la riva e mi misi seduto su un tronco, al capo dell’isola, a guardare il grande fiume e il legname nero che galleggiava e lontano il paese, con tre o quattro luci che tremolavano. Una zattera mostruosamente grande stava scendendo la corrente a circa un chilometro, con una lanterna nel mezzo. L’osservai e quando l’ebbi di fronte sentii un uomo dire: «Remi di poppa, virate e a tribordo! ». Sentii chiaramente queste parole come se l’uomo fosse al mio fianco. Il cielo ora cominciava a farsi grigio; allora mi addentrai nel bosco e mi stesi per un sonnellino prima di colazione.

Dormire nei boschi - Il recupero della salma - In guardia! - Esplorazione dell’isola - Un sonno inutile Incontro con Jim - Segni - Quel “pigro negro" Balaam

Capitolo 8

Il sole era già così alto quando mi svegliai, che dovevano essere le otto ate. Me ne stavo disteso sull’erba, al fresco dell’ombra, pensando ai casi miei e sentendomi ben riposato, tranquillo e soddisfatto. Potevo vedere il sole attraverso qualche spiraglio, ma tutt’Intorno c’erano grandi alberi che facevano un’ombra Impenetrabile. C’erano zone picchiettate di luce sul terreno, dove il sole filtrava attraverso il fogliame, e queste macchioline oscillavano, rivelando che c’era un po’ di brezza, in alto. Una coppia di scoiattoli venne su un ramo a chiacchierare con me molto amichevolmente. Mi sentivo terribilmente pigro e stavo così bene che non volevo alzarmi a preparare la colazione. Bene, stavo di nuovo sonnecchiando quando mi parve di sentire un forte rimbombo lontano sul fiume. Mi sveglio e mi alzo sul gomito, e resto in ascolto: subito dopo lo sento ancora. Balzo in piedi e vado a guardare attraverso il fogliame, e vedo una nuvola di fumo distesa sull’acqua molto lontano, quasi all’altezza del traghetto. E c’era il traghetto pieno di gente che scendeva il fiume. Adesso capivo cosa stava succedendo. «Bum!», e vedo il bianco fumo uscire dalla fiancata del battello. Stavano sparando cannonate sull’acqua per far venire a galla il mio cadavere. Avevo molta fame, ma non era il caso di accendere un fuoco perché potevano vedere il fumo. Così rimasi lì seduto a guardare Il fumo del cannone e ad ascoltare i rimbombi. Qui il fiume era largo un chilometro e mezzo ed era sempre bello in un mattino d’estate; io me la sarei ata abbastanza bene a guardarli cercare i miei resti se solo avessi avuto qualcosa da mangiare. Poi mi

venne in mente che di solito mettono dell’argento vivo in grosse forme di pane e le lasciano galleggiare finché quelle vanno sempre diritto al cadavere e li si fermano. Sta’ attento, mi dico, e se una di quelle viene a galleggiare qui intorno, cerca di prenderla. Mi spostai sul lato dell’isola dalla parte dell’Illinois per vedere se avevo fortuna e non restai deluso. Veniva avanti una grossa pagnotta doppia ed ero quasi riuscito a prenderla con un lungo bastone, ma alla fine scivolai e quella galleggiò oltre. Naturalmente mi ero messo dove la corrente ava più presso alla riva, sapevo bene come si fa. Ma poco dopo ne venne un’altra, e questa non me la lasciai sfuggire. Tirai fuori il tappo e rovesciai la goccia di argento vivo che si trovava dentro e la addentai. Era pane di fornaio, quello che mangiano i signori, non il nostro misero pane di mais. M’ero trovato un buon posto tra il fogliame e seduto su un tronco mi gustavo il mio pane osservando il battello, ed ero molto soddisfatto. Poi mi venne in mente una cosa. Dico: «Ora credo che la vedova o il pastore o qualcuno ha pregato che questo pane mi trovi, ed ecco che lui è venuto e mi ha trovato. Allora non c’è dubbio che c’è qualcosa di vero in questa faccenda. Cioè, c’è qualcosa di vero se prega un tipo come la vedova e il pastore, ma non funziona con me e credo che funzioni solo con i tipi giusti». Accesi la pipa e mi feci una bella fumata, ma stando sempre attento. Il battello avanzava con la corrente e pensavo che avrei avuto la possibilità di vedere chi c’era a bordo, quando fosse sceso ancora, perché mi sarebbero ati vicino, li dov’era ato il pane. Quando mi fu abbastanza vicino, spensi la pipa e mi portai dove avevo pescato il pane e mi stesi dietro un tronco in un piccolo spazio aperto. Dove il tronco si biforcava potevo sbirciare. Poco dopo il battello ò così vicino che potevano mettere fuori una tavola e scendere a riva. A bordo c’erano quasi tutti. Papà, e il giudice Thatcher, e Bessie Thatcher, e Jo Harper, e Tom Sawyer, e la sua vecchia zia Polly, e Sid, e Mary e molti altri ancora. Tutti parlavano del delitto, ma il capitano intervenne e disse: — Guardate bene: la corrente a vicinissima alla riva in questo punto e forse è stato spinto a terra ed è rimasto impigliato fra i cespugli a pelo dell’acqua. Io almeno lo spero. Io non lo speravo. Tutti si affollarono al parapetto, sporgendosi fin quasi a toccarmi la faccia, e scrutavano in silenzio con la massima attenzione. Io potevo vederli benissimo, ma loro non potevano vedere me. Allora il capitano gridò:

— State indietro! — e il cannone sparò un colpo tale, proprio davanti a me, che mi rese sordo con il rumore e quasi cieco con il fumo, e pensai che ero spacciato. Se ci avessero messo una palla, credo che avrebbero trovato il cadavere che cercavano. Be’, mi assicurai che non avevo nemmeno un graffio, grazie al cielo. Il battello scivolò via e scomparve alla vista, dietro l’isola. Sentii ancora, di tanto in tanto, il rimbombo del cannone, sempre più lontano e poi, dopo un’ora, non lo sentii più. L’isola era lunga cinque chilometri. Pensai che erano arrivati in fondo e avevano rinunciato. Ma non fu così. Doppiarono l’altro capo dell’isola e risalirono il braccio del fiume sul lato del Missouri, a tutto vapore, sparando ogni tanto. Io attraversai l’isola fino a quella sponda e rimasi ad osservarli. Appena giunsero al capo dell’isola, cessarono di sparare e risalirono la riva del Missouri per tornare alla città. Dunque ero a posto. Nessun altro sarebbe venuto a cercarmi. Tirai fuori le mie trappole dalla canoa e mi feci un bell’accampamento nel folto del bosco. Con le coperte realizzai una specie di tettoia per metterci sotto le mie cose al riparo dalla pioggia. Pescai un pesce gatto e lo apersi con la sega, e verso il tramonto accesi il mio fuoco e cenai. Poi misi in acqua una lenza per prendere qualche pesce per colazione. Quando fu buio, mi misi seduto a fumare accanto al fuoco e mi sentivo proprio soddisfatto; ma dopo un po’ cominciai a sentirmi un po’ solo e così andai a sedermi vicino alla riva ad ascoltare lo sciacquio della corrente, e a contare le stelle e i tronchi alla deriva. Poi andai a dormire: non c’è modo migliore per are il tempo quando ti senti solo; non puoi restare in questo stato, e ben presto lo superi. E così fu per tre giorni e tre notti. Nessun cambiamento, proprio le stesse cose. Ma il quarto giorno partii all’esplorazione dell’isola. Ne ero iI padrone; apparteneva tutta a me, per così dire, e volevo sapere tutto di essa; ma soprattutto volevo far are il tempo. Trovai una quantità di fragole belle e mature, uva lugliatica e lamponi ancora verdi, mentre le more cominciavano allora a rosseggiare. Tutto questo mi sarà utile fra poco, pensai. Andai in giro nel fitto del bosco finché mi parve di essere prossimo all’estremità inferiore dell’isola. Avevo con me il fucile, ma non avevo ancora sparato: lo tenevo per difesa, benché avessi intenzione di prendere della selvaggina tornando indietro. A questo punto poco mancò che mettessi il piede su un grosso serpente, che strisciò via tra l’erba e i fiori, e io dietro per cercare di sparargli. Lo stavo inseguendo, quando all’improvviso andai a finire dritto sulle ceneri di un fuoco che fumava ancora. Il cuore mi balzò in gola. Non mi fermai certo a guardare, ma abbassai il cane

del fucile e mi allontanai quatto quatto, in punta di piedi, più in fretta che potevo. Di tanto in tanto mi fermavo un momento nel fitto del fogliame ad ascoltare; ma il mio respiro divenne così forte, che non sentivo nient’altro. Andai avanti un altro po’ sempre guardingo, poi di nuovo mi misi in ascolto, e avanti così; se vedevo un tronco lo prendevo per un uomo, se mi si rompeva un rametto sotto i piedi, mi sentivo come se qualcuno avesse tagliato in due il mio respiro e a me ne restasse metà, e la metà più corta per giunta. Quando arrivai al campo, mi sentivo piuttosto fragile e non mi era rimasto tanto coraggio; ma questo, mi dissi, non era il momento di andare tanto in giro a fare lo stupido. Così rimisi tutte le mie trappole nella canoa in modo da tenerle fuori vista, spensi il fuoco e sparsi la cenere intorno per dare l’impressione di un vecchio campo dell’anno ato, e poi mi arrampicai su un albero. Rimasi sull’albero un paio d’ore, credo, ma non vedevo niente, non sentivo niente; solo mi pareva di aver visto e sentito mille cose. Si, ma non potevo stare lassù per sempre; per cui alla fine discesi, ma tenendomi sempre nel bosco fitto e con gli occhi bene aperti. Tutto quello che riuscii a trovar da mangiare furono delle bacche e gli avanzi della colazione. Al calar della notte avevo una fame da lupi. Appena fu buio, mi allontanai dalla costa prima che spuntasse la luna e remai verso la riva dell’Illinois per circa mezzo chilometro. Mi inoltrai nel bosco per cuocere la cena, e avevo appena deciso di are qui la notte quando sentii un rumore di zoccoli e mi dissi che stavano arrivando dei cavalli: infatti subito dopo sentii voci di gente. Rimisi tutto nella canoa il più in fretta possibile, quindi strisciai fra gli alberi per vedere cosa potevo capirne. Fatti pochi i, intesi un uomo che diceva: — È meglio che ci accampiamo qui, se troviamo un buon posto: i cavalli non ce la fanno più. Guardiamoci intorno. Non rimasi ad aspettare, ma me la filai subito e remai a tutta forza. Tornai a legare la canoa nel vecchio posto e decisi di dormirci dentro. Non dormii molto. Non ci riuscivo, perché continuavo a pensare. Ogni volta che mi svegliavo, pensavo che qualcuno mi stava prendendo per il collo. Così il sonno non mi diede alcun sollievo. Ben presto dico a me stesso che non posso vivere in questa condizione; devo sapere chi c’è sull’isola con me; o lo scopro o scoppio. Bene, mi sentii subito meglio.

Dunque presi la pagaia, mi spinsi a qualche metro dalla riva e poi lasciai andar giù la canoa con la corrente fra le ombre. La luna splendeva e fuori dall’ombra faceva chiaro quasi come di giorno. Andai avanti per un’ora buona, tutto era immobile come di pietra e immerso in un sonno di piombo. Intanto ero quasi arrivato alla punta estrema dell’isola. Incominciò a spirare una brezza fresca che increspava leggermente l’acqua, e questo significava che la notte era sul finire. Virai con la pagaia e volsi la prua a riva; quindi presi il fucile e saltai fuori, addentrandomi nel bordo della foresta. Mi misi seduto su un tronco, restando di vedetta attraverso il fogliame. Vidi la luna smontare di guardia e il fiume coprirsi d’ombra. Ma dopo un breve intervallo apparve una pallida striscia sopra la cima degli alberi, e capii che stava arrivando il giorno. Allora presi il fucile e m’incamminai verso il punto dove avevo trovato il fuoco del bivacco, fermandomi ogni minuto o due per ascoltare. Ma per un motivo o per l’altro non ebbi fortuna; mi sembrava di non riuscire più a trovare quel posto. Ma poco dopo intravvidi, senza ombra di dubbio, un barlume di fuoco, lontano in mezzo agli alberi. Mi diressi verso quel punto, piano piano e con molta cautela. In breve fui abbastanza vicino per vedere, e là, disteso per terra, c’era un uomo. Mi sentii raggelare. Quell’uomo aveva una coperta intorno alla testa e la testa era quasi nel fuoco. Chino dietro una siepe, di cespugli, a circa sei i da lui, non gli toglievo gli occhi di dosso. Intanto era apparsa la grigia luce dell’alba. Quello si mise a sbadigliare e stiracchiarsi, emerse dalla coperta ed era il negro di Miss Watson, Jim. Giuro che fui felice di vederlo. Gli faccio: — Salve, Jim! — e salto fuori. Lui fece un balzo e sgranò tanto d’occhi. Quindi cadde sulle ginocchia, giunse le mani e disse: — Non fatemi del male, vi prego! Io non ho mai fatto male ai fantasmi. Ho sempre amato la gente morta, e fatto quanto ho potuto per loro. Tornate nel fiume al quale appartenete, e non fate niente al vecchio Jim, che è sempre stato vostro amico. Bene, non ci misi molto a fargli capire che non ero morto. Ero così contento di vedere Jim. Non ero più solo, ora. Gli dissi che non avevo paura che lui raccontasse alla gente dov’ero. Parlai a lungo, ma lui rimase seduto e non faceva che guardarmi, senza dir niente. Allora gli dissi: — Ormai è giorno. Facciamo colazione. Riattizza il fuoco.

— A che serve accendere il fuoco per cucinare fragole e roba del genere? — Fragole e roba del genere! — dissi. — È di questo che vivi? — Non son riuscito a trovare nient’altro — disse. — Ma da quanto sei sull’isola, Jim? — Sono venuto qui la notte dopo che ti hanno ucciso. — Cosa? Tutto questo tempo? — Si, veramente. — E non hai avuto nient’altro da mangiare a parte quella robaccia? — No, padrone, nient’altro. — Be’, devi essere quasi morto di fame, no? — Potrei mangiare un cavallo. Penso che potrei. Da quanto tempo sei sull’isola? — Dalla notte che fui ucciso. — No! Ma di cosa sei vissuto? Ma tu hai un fucile? Si, tu hai un fucile. Molto bene. Ora tu uccidi qualcosa e io accendo il fuoco. Così andammo dove avevo lasciato la canoa, e mentre lui accendeva un fuoco sull'erba in una radura fra gli alberi, io andai a prendere farina, lardo e caffè, la caffettiera e il tegame, zucchero e tazze di latta, e il negro era del tutto sbalordito perché credeva che tutto avvenisse per magia. Io presi un pesce gatto bello grosso e Jim lo pulì con il coltello e lo mise a friggere. Quando la colazione fu pronta, stesi sull’erba, la divorammo calda fumante; Jim infornava a tutto spiano, perché era quasi morto di fame. Poi, quando ci fummo abbuffati per bene, ci stendemmo a riposare. Dopo un po’, Jim mi fa: — Ma senti, Huck: chi è stato ammazzato in quella capanna se non eri tu?

Allora gli raccontai l’intera storia e disse che era proprio forte. Disse che Tom Sawyer non avrebbe saputo fare un piano migliore del mio. Poi gli domandai: — E tu, com’è che sei qui, e come ci sei arrivato? Sembrò piuttosto imbarazzato e non disse nulla per un po’. Poi fa: — Forse è meglio non parlarne. — Perché, Jim? — Be’, ho i miei motivi. Ma tu non andrai a dirlo se te lo racconto, eh, Kuck? — Che sia dannato se lo faccio, Jim. — Bene, ti credo, Huck. Io... Io sono scappato. — Jim! —Ma ricorda, hai promesso che non lo racconterai, Huck. — Certo che l’ho detto. L’ho detto e manterrò la parola. Parola d’onore che la manterrò. La gente mi chiamerà sporco abolizionista e mi disprezzerà per essere stato zitto, ma io me ne infischio. Non andrò a dirlo e in ogni caso non tornerò più indietro. E adesso raccontami tutto. — Be’, vedi, è andata così. La vecchia Missus, cioè Miss Watson, mi tormenta tutto il tempo e mi maltratta e dice sempre che mi venderà giù a Orleans. Ma vengo a sapere che c’è un mercante di negri che gironzola intorno, da tempo, e alla fine comincio a sentirmi inquieto. Bene, una sera spio vicino alla porta, molto tardi, e la porta non era chiusa bene, e sento la vecchia Missus dire alla vedova che ha intenzione di vendermi giù a Orleans, lei non vorrebbe ma le hanno offerto ottocento dollari per me, è una somma così grossa che lei non sa resistere. La vedova cerca di farle cambiare idea, ma io non sono rimasto a sentire il resto. Me la sono data a gambe più in fretta che potevo, te l’assicuro.

«Scendo di corsa la collina e conto di rubare una barca sulla riva in qualche posto a monte del paese, ma c’è sempre gente che va e viene, così mi nascondo nella vecchia officina abbandonata del bottaio, là sulla riva, aspettando che tutti se ne vadano. Sono stato là tutta la notte. C’era sempre qualcuno in giro. Verso le sei del mattino cominciano a are le barche, e verso le otto o le nove in tutte le barche che avano si parlava di tuo padre che era venuto in paese a raccontare che ti avevano ammazzato. Le ultime barche poi erano piene di signore e signori che andavano a vedere il posto. Qualche volta si avvicinavano alla riva e riposavano un po’ prima di iniziare la traversata, così dai discorsi io son venuto a sapere tutto sul delitto. Ero molto dispiaciuto che fossi stato ammazzato, Huck, ma adesso non lo sono più. «Rimasi là in mezzo ai trucioli tutto il giorno. Avevo fame, ma non paura; perché sapevo che la vecchia Missus e la vedova dovevano partire per un’adunanza proprio dopo colazione e stavano via tutto il giorno, e loro sanno che io esco verso l’alba per pascolare le bestie, così non si aspettano di vedermi girare per casa e non si accorgono che manco se non dopo il tramonto. Gli altri schiavi non possono accorgersi che manco, perché quelli corrono a far baldoria appena le vecchie partono. «Bene, quando si fa buio esco sulla strada e cammino lungo il fiume per circa tre chilometri, finché non ci sono più case. Ho ben deciso cosa devo fare. Se cerco di scappare a piedi i cani mi trovano; se rubo una barca per andare dall’altra parte, quelli s’accorgono che manca, e capiscono che sono andato dall’altra parte e sanno dove cercare le mie tracce. Così mi dico, una zattera è esattamente quello che fa al caso mio: non lascia alcuna traccia. «Vedo un fanale che arriva da dietro il promontorio. Allora mi butto in acqua e mi spingo avanti aggrappato a un tronco, e nuoto fin verso il centro del fiume. Resto in mezzo al legname che va alla deriva con la testa giù e poi mi metto a nuotare contro corrente finché a la zattera. Mi porto verso la poppa e mi ci aggrappo. Intanto si era annuvolato e fece compieta- mente buio, per un bel po’. Allora mi arrampico sopra e mi stendo sulle tavole. Gli uomini erano tutti là in mezzo dove c’è la lanterna. Il fiume si andava gonfiando e c’era una buona corrente; così io sono convinto che per le quattro del mattino sarò a quaranta chilometri lungo il fiume e allora mi calerò in acqua prima che faccia chiaro e raggiungerò a nuoto la riva e taglierò per la foresta dalla parte dell’Illinois. «Ma non fui fortunato. Quando siamo quasi giù al capo dell’isola, un uomo

comincia a venire dalla mia parte con la lanterna. Mi sa che non c’è tempo da perdere, così mi lascio scivolare in acqua e punto decisamente verso l’isola. Credevo di poter approdare dovunque, ma invece no: le sponde erano troppo ripide. Arrivo quasi in fondo all’isola prima di trovare un posto adatto. Entrai nella foresta, deciso a non andare più in giro con zattere, finché quelli vanno e vengono di continuo con lanterne a quel modo. Avevo la mia pipa e una treccia di tabacco e qualche fiammifero nel berretto, e non sono bagnati, allora tutto okay.» — E così non hai avuto né carne né pane da mangiare per tutto questo tempo? Perché non hai cercato di prendere una tartaruga? — Come fai a prenderle? Non si riesce a prenderle con le mani; e come si fa a colpirle con una pietra? Come si può farlo di notte? E di giorno non potevo mica mostrarmi sulla riva. — Già, è vero. Dovevi restare nel bosco tutto il tempo, naturalmente. Hai sentito il cannone? — Oh, sì, capivo che ti cercavano. Li ho visti mentre avano di là; li ho spiati attraverso i cespugli. Si avvicinarono degli uccellini: volavano per qualche metro e poi si posavano. Era segno, disse Jim, che stava per piovere. Era un segno di pioggia quando svolazzavano a quel modo le pollastrelle, e pensava che fosse lo stesso quando lo facevano gli uccellini. Stavo per andare a prenderne qualcuno con il fucile, ma Jim non volle. Disse che era la morte. Suo padre era a letto malato una volta, e qualcuno di loro prese un uccello; la sua vecchia nonna disse che suo padre sarebbe morto, e difatti mori. Poi disse che non si devono contare le cose che si mettono sul fuoco per pranzo, perché questo porta sfortuna. Lo stesso se si scuote la tovaglia dopo il tramonto. E se un uomo che possedeva un alveare moriva, le api dovevano essere avvertite prima del successivo sorgere del sole, altrimenti si indebolivano, smettevano di lavorare e morivano. Jim disse che le api non pungono gli idioti; ma non potevo credergli perché io le avevo istigate un mucchio di volte e non mi avevano mai punto. Avevo sentito parlare anche prima di queste cose, ma non di tutte. Jim conosceva ogni tipo di segni. Disse che sapeva quasi tutto. A me sembrava che tutti i segni fossero di sfortuna, e allora gli chiesi se c’erano anche segni di fortuna.

Disse: — Pochissimi, e anche quelli non sono utili a nessuno. Che cosa vuoi sapere quando sta per arrivarti la fortuna? Vuoi tenerla lontano? E disse: — Se hai le braccia villose o il petto villoso, è segno che diventerai ricco. Be’, c’è una qualche utilità in un segno come questo, perché è abbastanza lontano. Vedi, forse devi essere povero per molto tempo prima, e così potresti scoraggiarti e magari ucciderti se non sapessi dal segno che un giorno diventerai ricco. — Tu hai braccia villose e petto villoso, Jim? — Perché mi fai questa domanda, non li vedi? — Bene, e sei ricco? — No, ma sono stato ricco una volta, e sarò ricco ancora. Una volta avevo quattordici dollari, ma mi sono messo a fare speculazioni e il ho perduti. — Che genere di speculazioni, Jim? — Be’, prima ho trattato bestiame. — Che tipo di bestiame? — Insomma... bestiame vivo. Bovini, sai. Ho investito dieci dollari in una vacca. Ma non vado più a rischiare denaro col bestiame. La vacca mi è morta tra le mani. — Così hai perduto dieci dollari. — No, non li ho perduti tutti. Ne ho perduti circa nove. Ho venduto pelle e grasso per un dollaro e dieci cents. — Ti sono rimasti cinque dollari e dieci cents. Ti sei messo di nuovo a speculare? — Si. Sai quel negro con una gamba sola che appartiene al vecchio padrone Bradish? Be’, quello ha messo su una banca, e chiunque ci mette un dollaro,

dice, ne avrà quattro in più alla fine dell’anno. Bene, tutti i negri ci stanno, ma non avevano molto. E allora mi batto per avere più di quattro dollari, e dico che se non potevo ottenerli mettevo su una banca per conto mio. Naturalmente quel negro vuole tenermi lontano dagli affari, perché non c’è abbastanza lavoro per due banche, così dice che posso metterci i miei cinque dollari e lui me ne paga trentacinque alla fine dell’anno. Così ho fatto. Allora ho pensato che potevo investire i trentacinque dollari subito e tenere in movimento gli affari. C’era un negro di nome Bob che aveva tirato su dal fiume un barcone e il suo padrone non lo sapeva; io glielo compero e gli dico che può prendersi i trentacinque dollari quando viene la fine deli’anno; ma il barcone me lo rubano quella notte stessa, e il giorno dopo il negro con una gamba sola viene a dire che la banca è fallita. Così nessuno di noi ha visto più un soldo. — E che cosa hai fatto con i dieci cents, Jim? — Be’, avevo intenzione di spenderli ma ho fatto un sogno, e il sogno mi ha detto di darli a un negro di nome Balaam, Asino di Balaam lo chiamavano: una di quelle teste vuote, sai. Ma lui è fortunato, dicono, e io vedo che fortuna non ne ho. Il sogno dice di farli investire a Balaam i dieci cents e lui li farà fruttare per me. Be’, Balaam ha preso i soldi, e mentre era in chiesa ha sentito il predicatore dire che chiunque dà al povero presta al Signore, e verrà ricompensato al cento per uno. Così Balaam prende, dà i dieci cents ai poveri e sta a vedere cosa succede. — E cosa è successo, Jim? — Un bel niente è successo. Non sono più riuscito a farmi ridare quel denaro, e nemmeno Balaam. Non presterò mai più denaro se non vedo garanzia. Sarà ricompensato col cento per uno, dice il predicatore. Se solo potessi avere indietro i miei dieci cents mi chiamerei soddisfatto, e sarei contento della buona occasione. — Be’, ad ogni modo non ha importanza, Jim, visto che diventerai di nuovo ricco una volta o l’altra. Si, e sono ricco anche adesso, guarda. Sono padrone di me stesso, e valgo ottocento dollari. Vorrei avere il denaro, non vorrei nient’altro.

La grotta - La casa galleggiante - Un bel bottino

Capitolo 9

Volevo tornare a vedere un posto proprio al centro dell’Isola, che avevo trovato quando ero andato in esplorazione. Cosi partimmo, e ci arrivammo presto perché l’isola era lunga solo cinque chilometri e larga mezzo. Questo posto era un’altura ripida o una collinetta, alta circa quindici metri. Faticammo non poco per salirci, essendo i fianchi cosi ripidi e gli arbusti cosi fitti. La esplorammo palmo palmo e ben presto trovammo una caverna molto grande nella roccia, quasi proprio sulla cima, dalla parte verso l’Illinois. La caverna era ampia come due o tre stanze messe insieme e Jim poteva starci in piedi bene. C’era anche un bel fresco. Jim era del parere di portare là dentro le nostre cianfrusaglie, e subito, ma io dissi che non mi andava di dover salire e scendere ad ogni momento. Jim disse che se avessimo avuto la canoa nascosta in un buon posto e tutta la nostra roba nella caverna, potevamo correre là dentro se qualcuno veniva sull’isola, e non ci avrebbero mai trovato senza i cani. E inoltre, disse, quegli uccellini ci avevano annunciato prossima la pioggia; e io volevo che la roba si bagnasse? Cosi scendemmo, e tornati alla canoa ci portammo fino all’altezza della caverna, e sistemammo là tutte le nostre trappole. Poi io andai in cerca di un posto sicuro per nascondere la canoa, nel folto dei salici. Staccammo qualche pesce dalle lenze e le rimettemmo in acqua, quindi si cominciò a preparare il pranzo. L’imboccatura della caverna era abbastanza grande per rotolarci dentro una botte e a un lato dell’apertura il terreno aveva un rialzo piatto: un ottimo posto per farci un focolare. Cosi accendemmo il fuoco e ci si mise a cucinare. Sulle coperte distese all'’interno come un tappeto, ci sedemmo a mangiare. Tutte

le nostre cose le riponemmo a portata di mano sul fondo della caverna. Ben presto il cielo si oscurò e cominciarono tuoni e lampi: gli uccelli avevano ragione. Improvvisamente cominciò a piovere, e veniva a catinelle. Non ho mai visto il vento soffiare cosi. Era uno di quei tipici temporali estivi. Si fece cosi scuro che fuori tutto sembrava blu e nero, molto bello; e la pioggia scrosciava cosi fitta che gli alberi un po’ lontani sembravano sfumati e avvolti da ragnatele. A un certo punto venne una raffica di vento che curvò gli alberi, rovesciando tutte le foglie sul pallido lato inferiore; seguirono altre raffiche squassando gli alberi, che agitarono i loro rami come braccia impazzite. E alla fine, quando tutto sembrava ancora più blu e ancora più nero, ecco, è una gloria di luce e per un attimo puoi vedere le cime degli alberi che si torcono lontano nella tempesta, centinaia di metri più in là di quanto potessi vedere prima; poi nero di nuovo come il peccato, in un attimo, ed ora sentivi il tuono allontanarsi con un tremendo scroscio e poi andar rombando, grugnendo, perdendosi giù nel cielo verso l’altro lato del mondo, come un rotolare di barili vuoti giù per le scale, dove ci siano scale lunghe e loro rimbalzino a lungo. — Jim, che bello — dissi — non vorrei essere in nessun altro posto che qui. ami un altro po' di pesce e un po’ di pane caldo. — Be’, non saresti qui, se non fosse per Jim. Saresti là in mezzo alla foresta, bagnato come un pulcino, e senza mangiare, anche, ecco come saresti, carino. Le gallinelle sanno quando viene da piovere, e anche gli uccelli, bimbo.

Il fiume continuò a salire, a salire, per dieci o dodici giorni, finché alla fine straripò. L’acqua era alta quasi un metro sull’isola nei punti più bassi e dalla parte dell’Illinois. Da quel lato ora il fiume largo parecchi chilometri, mentre dalla parte del Missouri era sempre della stessa ampiezza, poco più di mezzo chilometro, perché la riva era proprio un’alta muraglia.

Di giorno andavamo dappertutto nell’isola con la canoa. Faceva molto fresco all’ombra nel fitto del bosco, anche se fuori splendeva il sole. Giravamo fra gli alberi, e talvolta i tralci pendevano cosi fitti che ci toccava tornare indietro e cercare un’altra strada. Su ogni vecchio albero abbattuto potevi vedere conigli, serpenti e simili; e dopo che l’isola fu sommersa per un giorno o due, divennero tanto docili per la fame che potevi avvicinarti fino a toccarli e metterci sopra la mano, se volevi; ma non i serpenti e le tartarughe: quelli scivolavano via nell’acqua. L’altura dov’era la nostra caverna ne era piena. E volendo, avremmo potuto tenere tanti animaletti. Una notte riuscimmo a prendere un pezzo di zattera in belle tavole di pino. Era larga tre metri e lunga quasi quattro, e il piano in bell’assito solido stava sollevato dall’acqua una spanna. Un’altra notte che eravamo al capo superiore dell’isola, poco prima dell’alba, venne giù per il braccio occidentale una casetta di legno. Aveva due piani e viaggiava notevolmente piegata su un fianco. Volammo con la canoa e la raggiungemmo, quindi ci arrampicammo per una finestra del primo piano. Ma faceva troppo buio per vederci, e allora legammo la canoa e rimanemmo seduti dentro ad aspettare l’alba. Cominciò a farsi chiaro prima che fossimo all’estremità inferiore dell’isola. Allora guardammo dentro dalla finestra. Potemmo scorgervi un letto, un tavolo, due vecchie sedie, e un mucchio di cose sparse sul pavimento; e alla parete stavano appesi dei vestiti. C’era qualcosa disteso sul pavimento, nell’angolo più lontano, che assomigliava a un uomo. Allora Jim disse: — Ehi, voi! Ma non si mosse. Allora io gridai di nuovo e poi Jim disse: — Quell’uomo non sta dormendo, è morto. Sta’ qui, vado a vedere. Entrò, si chinò a guardare, e disse: — È morto. Si, davvero, e nudo anche. Gli hanno sparato alla schiena. Credo che sia morto da due o tre giorni. Vieni, HucK, ma non guardarlo in faccia, è troppo rovinata.

Io non lo guardai per niente. Jim gli buttò sopra dei vecchi stracci, ma non aveva bisogno di farlo: non intendevo affatto vederlo. C’erano mucchietti di carte da gioco vecchie e unte,sparse in giro sul pavimento, e vecchie bottiglie di whisky, e un paio di maschere di stoffa nera; su ogni palmo delle pareti c’erano scritte e figure sconce fatte con il carbone. C’erano due vecchi vestiti di cotonina sudici, e un cappello da sole, e alcune sottovesti da donna, che pendevano alle pareti, e anche qualche abito da uomo. Mettemmo tutto sulla canoa; poteva venir buono. C’era un vecchio cappello di paglia da ragazzo sul pavimento, pieno di macchie; presi anche quello. E c’era una bottiglia che aveva contenuto del latte, con un tappo di stoffa per far succhiare un bambino. Volevamo prenderla, ma era rotta. C’era una vecchia cassa sgangherata e un vecchio baule di cuoio con le cerniere a pezzi. Erano aperti, ma non contenevano niente che valesse qualcosa. Trovammo una vecchia lanterna di latta, un coltello da macellalo senza più manico, e un coltello a serramanico nuovo di zecca che valeva almeno venticinque cents in qualsiasi negozio, e un mucchio di candele di sego, un candeliere di latta, una zucca e una tazza di latta, una vecchia trapunta logora e fuori uso, una reticella con dentro aghi e spilli e cera e bottoni e filo e tutte quelle robe lì; un’accetta e qualche chiodo, e una lenza grossa come il mio dito mignolo con attaccati degli ami mostruosi, un rotolo di pelli di daino, un collare da cani in cuoio e un ferro di cavallo, e alcune boccette di medicinali senza etichetta. E proprio mentre stavamo per andarcene trovai una striglia in discrete condizioni, e Jim un vecchio archetto da violino molto malridotto e una gamba di legno. Le cinghie erano strappate, ma a parte questo era ancora in gamba come gamba, anche se era troppo lunga per me e non abbastanza per Jim, e non siamo riusciti a trovare l’altra, pur cercandola dappertutto. E cosi, tutto considerato, facemmo un bel bottino. Quando fummo pronti per andarcene, eravamo mezzo chilometro oltre l’isola ed era ormai giorno fatto; perciò feci sdraiare Jim giù nella canoa e gli dissi di coprirsi con la trapunta, perché se stava seduto la gente poteva dire che era un negro, magari scappato.

Mi misi a remare verso la costa dell'Illinois e discesi quasi un chilometro in questo modo. Poi risalii le acque tranquille sotto costa senza incidenti e senza vedere nessuno. Arrivammo a casa sani e salvi.

La scoperta - Il vecchio Hunk Bunker - Il travestimento

Capitolo 10

Dopo colazione volevo parlare del morto e scoprire com’era stato ucciso, ma Jim non volle. Disse che ci avrebbe portato sfortuna; e inoltre, disse, poteva venire a tormentarci; chi non è stato sepolto è più facile che vada in giro a tormentare la gente che non uno convenientemente sistemato nella sua fossa. Mi sembrava molto ragionevole e non dissi più niente; ma non potevo fare a meno di pensarci sopra, curioso di sapere chi gli aveva sparato e perché. Frugammo nei vestiti che avevamo preso e ci trovammo otto dollari d’argento cuciti nella fodera di un vecchio pastrano. Jim disse che secondo lui la gente di quella casa aveva rubato il pastrano, perché se avessero saputo che dentro c’erano soldi non l’avrebbero abbandonato. Secondo me proprio loro l’avevano ucciso; ma Jim non voleva parlare di questo argomento. Dico: — Adesso tu pensi che porta sfortuna; ma cos’hai detto quando ho portato dentro la pelle di serpente che avevo trovato sulla cima della collina ieri l’altro? Hai detto che è la sfortuna peggiore al mondo toccare con le mani una pelle di serpente. Bene, ecco la tua sfortuna! Ci siamo portati a casa tutta questa roba e in più otto dollari. Vorrei che avessimo questa sfortuna tutti i giorni, Jim. — Piano, caro, piano. Non essere impaziente. È in arrivo, sta’ attento a quello che ti dico: è in arrivo.

E infatti era in arrivo. Era martedì quando facevamo questo discorso. Bene, il pomeriggio di venerdì stavamo distesi sull’erba in cima alla collina ed avevamo finito il tabacco. Andai nella grotta a prenderne un po’ e ci trovai dentro un ser-

pente a sonagli. Lo uccisi e lo sistemai arrotolato ai piedi della coperta di Jim, e pareva proprio vivo, pensando allo so quando Jim se lo trovava li. Bene, alla sera avevo completamente dimenticato il serpente, e quando Jim si buttò sulla coperta mentre io accendevo un lume, c’era là il compagno del serpente e lo morse. Jim saltò in piedi urlando, e la prima cosache vidi alla luce fu il briccone accovacciato e pronto a un altro attacco. Lo stesi in un baleno con un bastone, e Jim arraffòla botticella del whisky e cominciò a buttar giù. Era a piedi nudi e il serpente l’aveva morso proprio tallone. Tutto questo era avvenuto perché ero stato così stupido da non ricordare che dovunque lasci un serpente morto arriva sempre il suo compagno ad arrotolarsi vicino. Jim mi disse di tagliare la testa del serpente e buttarla lontano, e poi di spellare il corpo ed arrostirne un pezzetto. Cosi feci, e lui lo mangiò dicendo che l’avrebbe aiutato a guarire. Mi fece anche staccare ì sonagli per legarglieli intorno al polso. Disse che ciò avrebbe giovato. Quindi io sgusciai fuori zitto zitto e gettai i serpenti molto lontano in mezzo ai cespugli, perché non volevo che scoprisse che era tutta colpa mia. Jim succhiava e succhiava dalla botticella, e ogni tanto andava via di testa, si contorceva e urlava; ma ogni voltache tornava in sé si riattaccava alla botticella. Il piede gli si gonfiò parecchio, e così anche la gamba, ma in breve la sbronza comincio a fare effetto e mi parve che tutto andasse bene; ma io avrei preferito essere morso da un serpente che dal whisky di papà. Jim rimase disteso per quattro giorni e quattro notti. Poi il gonfiore ò del tutto e Jim ricominciò ad andare in giro. Mi convinsi, e decisi di non prendere mai più in mano una pelle di serpente, ora che avevo visto cosa ne era venuto. Anche Jim era convinto che gli avrei creduto la prossima volta. E disse che prendere in mano una pelle di serpente portava una sfortuna così spaventosa che forse non ne avevamo ancora visto la fine. Disse che avrebbe preferito vedere la luna nuova sopra la sua spalla sinistra almeno cento volte piuttosto che prendere in mano una pelle di serpente. Be’, stavo per convincermene anch’io, benché avessi sempre pensato che guardare la luna nuova sopra la spalla sinistra è una delle cose più insulse e idiote che uno possa fare. Il vecchio Hunk Bunker l’aveva fatto una volta, e se n’era vantato; e in meno di due anni una volta che era ubriaco cadde dalla torre degli esplosivi spiaccicandosi come una frittata, tanto che dovettero infilarlo di taglio fra due porte di baracca come bara, e seppellirlo cosi, almeno dicono, perché io non ho

visto. Era papà che me lo raccontava. Ma ad ogni modo tutto questo gli successe per aver guardato la luna a quel modo, lo scimunito. I giorni avano e il fiume tornò fra le sue rive: una delle prime cose che facemmo fu di attaccare come esca a uno dei grossi ami un coniglio spellato e gettarla a prendere un pesce gatto grosso come un uomo, lungo un metro e ottantatré centimetri e pesante più di un quintale. Non potevamo tirarlo a riva, ovviamente: ci avrebbe trascinati fino all’Illinois. Restammo a guardarlo che dava strappi e si dimenava, finché soffocò. Gli trovammo nello stomaco un bottone di metallo, una palla rotonda e un sacco di altra roba. Spaccammo in due la palla con l’accetta e dentro c’era una spola. Jim disse che doveva averla dentro da molto tempo per coprirla cosi e fame una palla. Era il pesce più grosso che mai sia stato pescato nel Mississippi, credo. Jim disse che non ne aveva mai visto di più grossi. Avrebbe fruttato parecchio al paese. Là un pesce così al mercato lo vendevano al minuto un tanto al chilo; tutti ne compravano un pezzo; la sua carne è bianca come la neve e dà un ottimo fritto. II mattino dopo dissi che le cose andavano troppo a rilento e io volevo un po’ di movimento, in qualche modo. Pensavo, dissi a Jim, di fare un giretto al di là del fiume a vedere cosa stava succedendo. A Jim piacque questa idea, ma disse che dovevo andare di notte e stare bene attento. Poi ci pensò su e mi consigliò di mettermi qualcuna di quelle vecchie robe e travestirmi da ragazza. Anche quella era una buona idea. Cosi accorciammo un abito di cotonina, io mi rimboccai i calzoni fino al ginocchio e me lo infilai. Jim me lo fissò dietro con gli ami e mi stava a pennello. Mi misi il cappello da sole, legato sotto il mento, e allora per chi volesse guardarmi da sotto e vedermi in faccia era come guardare dentro il gomito di un tubo da stufa. Jim disse che nessuno mi avrebbe riconosciuto, e difficilmente anche di giorno. Feci esercizio tutto il giorno per imparare a muovermi a mio agio, e in breve ci riuscii bene; solo Jim diceva che non camminavo come una ragazza e che dovevo smetterla di tirarmi su la sottana per mettermi le mani nelle tasche dei calzoni. Ne presi atto e cercai di far meglio. Salpai con la canoa per la costa dell’Illinois appena fu buio. Cominciai la traversata verso il paese un po’ sotto il traghetto e la corrente mi trascinò all’estremità del paese. Ormeggiai la canoa e mi misi in cammino lungo la riva. C’era un lume in una catapecchia disabitata da molto tempo e mi domandai chi vi si fosse installato. Mi avvicinai piano e sbirciai da una finestra. C’era dentro una donna di circa quarant’anni che faceva la calza presso una

candela posata sul tavolo di pino. Non conoscevo quella faccia; era certo una forestiera, perché in quel paese non potevi trovare una faccia che io non conoscessi. Ora questa era una fortuna, perché cominciavo già a tremare; stavo per pentirmi di essere venuto: la gente poteva riconoscere la mia voce e smascherarmi. Ma se quella donna era in questa piccola città da almeno due giorni, poteva dirmi tutto quello che volevo sapere; cosi bussai alla porta, ben deciso a non dimenticare che ero una ragazza.

Huck e la donna - Le ricerche - Andare a Goshen "Jim...ci sono alle calcagna!"

Capitolo 11

— Avanti — disse la donna, e io entrai. Mi fa: — Prendi una sedia. La presi. Mi guardava da capo a piedi con i suoi piccoli occhi lucenti, e disse: — Quale sarebbe il tuo nome? — È Sarah Williams. — E da che parte abiti? In questi paraggi? — No, signora. A Hookerville, dieci chilometri più in giù. Ho camminato tutto il giorno e sono stanchissima. — Avrai anche fame, credo. Ti tiro fuori qualcosa. — No, signora. Non ho fame. Avevo cosi fame che mi sono fermata a qualche chilometro da qui in una fattoria, per cui mi è ata. Ecco perché ho fatto cosi tardi. Mia madre è a letto malata, e senza un soldo né niente, e io vengo a dirlo a mio zio, Abner Moore. Abita nella parte più alta del paese, mi ha detto mia madre. Io non sono mai stata qui prima. Lo conoscete? — No, ma io non conosco nessuno, ancora. Abito qui solo da due settimane. C’è un bel pezzo di strada per arrivare nella parte più alta del paese. Sarà meglio che resti qui stanotte. Togliti il cappello. — No — dissi — penso di restare un momento, e poi proseguo. Non ho paura

del buio. Disse che non mi avrebbe lasciata andare da sola, ma suo marito sarebbe arrivato di lì a poco, forse tra un’ora e mezza, e mi avrebbe fatta accompagnare. Poi si mise a parlare di suo marito e dei suoi parenti che stavano più in su in riva al fiume e dei suoi parenti che stavano più in giù lungo il fiume, e di quanto meglio stavano prima e quale errore avevano fatto a venire in questo paese invece di restare dov’erano, e avanti e avanti, finché cominciai a pensare di aver sbagliato a fermarmi lì per sapere come andavano le cose In città; ma dopo un po’ il discorso le cadde su papà e il delitto, e allora mi venne voglia di lasciarla chiacchierare. Parlò di me e di Tom Sawyer che avevamo trovato i seimila dollari (solo che per lei erano diventati diecimila) e di papà e che pellaccia era, e che pellaccia ero io, e alla fine arrivò a quando mi avevano ammazzato. Io dissi: — Ma chi è stato? Ne abbiamo sentito tanto parlare laggiù a Hookerville, ma non sappiamo chi sia stato a uccidere Huck Finn. — Be’, credo che anche qui ci sia un mucchio di gente che vorrebbe saperlo. Alcuni pensano che sia stato proprio il vecchio Finn. — No, ma davvero? — Quasi tutti lo pensavano all’inizio. Lui non saprà mai quanto è stato vicino al linciaggio. Ma prima di notte hanno cambiato idea e hanno pensato che sia stato un negro fuggitivo di nome Jim. — Perché lui... Mi fermai. Pensai che era meglio star zitti. Lei prosegui senza far caso alla mia interruzione. — Il negro è scappato proprio la notte che Huck Finn venne ucciso. Per cui c’è una taglia sulla sua testa, trecento dollari. Sai, il vecchio è venuto in paese il mattino dopo l’omicidio a raccontare del fatto, e poi è andato sul traghetto con gli altri a cercare la salma, e subito dopo ha tagliato la corda. Prima di notte volevano linciarlo, ma lui era scomparso, capisci. Bene, il giorno dopo scoprono che il negro era scappato, scoprono che non si era visto in giro dalle dieci di sera la notte del delitto. Cosi incolparono lui, capisci; e mentre erano tutti in agitazione per questa cosa, l’indomani salta fuori di nuovo il vecchio Finn e va dal giudice Thatcher a far baraonda per avere il denaro necessario a dar la caccia

al negro per tutto l’Illinois. Il giudice gli dà un po’ di soldi e quello la sera stessa si ubriaca e va in giro fino a mezzanotte ata con un paio di brutti ceffi forestieri e poi parte con loro. Bene, non è più tornato da allora, e non si aspettano che torni finché questa cosa non si è un po’ calmata, perché la gente pensa ormai che sia stato lui a uccidere il ragazzo e a mettere le cose in modo da far credere che siano stati i ladri, e cosi poter avere i soldi di Huck senza dover aspettare tanto tempo con il processo. La gente pensa che fosse proprio capacissimo di farlo. Oh, quello è un furbastro, mi sa. Se aspetta un anno a tornare, gli andrà bene. Non c’è nessuna prova contro di lui, capisci; a quei tempo le acque si saranno calmate e lui incasserà i soldi di Huck come niente. — Si, lo penso anch’io, signora. Non vedo niente che possa impedirglielo. E tutti hanno smesso di pensare che sia stato veramente il negro? — Oh, no, non tutti... Ancora molti ne sono convinti. Ma ben presto riavranno in mano il negro, ora, e con la paura lo faranno confessare. — Come, lo stanno ancora cercando? — Ah, come sei ingenua! Ti pare che ci siano in giro tutti i giorni trecento dollari per pescare qualcuno? Certa gente pensa che il negro non sia lontano da qui. Io sono una di quelli, ma non sono andata a dirlo in giro. Pochi giorni fa stavo parlando con una vecchia coppia che abita qui alla porta accanto nella baracca di tronchi, e per caso mi hanno detto che quasi nessuno va mai su quell’isola laggiù che chiamano Jackson’s Island. «Non ci abita nessuno?» dico io. «No, nessuno», fanno loro. Non ho detto nient’altro, ma mi è venuta un’idea. Ero quasi sicura di aver visto del fumo, là sopra, quasi all’estremità dell’isola, un giorno o due prima, e così mi sono detta che certamente quel negro è nascosto là; ad ogni modo, dico, vai la pena di darci un’occhiata. Non ho più visto fumo da allora, cosi ho pensato che forse se n’era andato, se era lui; ma mio marito ha intenzione di andare a vedere, lui e un altro uomo. Era in viaggio sul fiume; ma oggi è tornato e gliel’ho detto non appena è arrivato, due ore fa. Ero divenuto cosi inquieto che non riuscivo più a star seduto. Dovevo fare qualcosa con le mani; cosi presi un ago dal tavolo e cominciai a infilarlo. Ma le mie mani tremavano e stavo facendo un brutto lavoro. Quando la donna smise di parlare, alzai gli occhi e vidi che mi stava guardando con molta curiosità e con un certo sorrisino. Deposi l’ago e il filo e finsi di essere interessato, e lo ero, in realtà, e dissi:

— Trecento dollari sono un bel gruzzolo. Vorrei che mia madre potesse averli. Vostro marito andrà là stanotte? — Oh, sì. È andato in città con l’uomo che ti ho detto per prendere una barca e vedere se riescono a farsi prestare un altro fucile. Ci andranno dopo mezzanotte. — Non ci vedrebbero meglio se aspettassero il giorno? — Certo, ma ci vedrebbe meglio anche il negro, no? Dopo mezzanotte probabilmente dormirà e loro potranno penetrare nella foresta e scoprire il fuoco del bivacco molto meglio nell’oscurità, se lo tiene . — Non ci avevo pensato. La donna continuava a guardarmi con molta curiosità e io non mi sentivo per niente tranquillo. Dopo un po’ mi fa: — Come hai detto che ti chiami, cara? — M... Mary Williams. Non so perché, ma mi sembrava di non aver detto Mary prima; cosi non alzai gli occhi; mi sembrava di aver detto Sarah; così mi sentii molto imbarazzato e temevo che si vedesse. Speravo che la donna dicesse ancora qualcosa; più stava zitta, più mi inquietavo. Ma ora dice: — Cara, mi sembrava che avessi detto Sarah quando sei entrata. — Oh, si, signora, infatti. Sarah Mary Williams. Sarah è il mio primo nome. Alcuni mi chiamano Sarah, altri Mary. — Ah, è per quello. — Certo, signora. Adesso cominciavo a sentirmi meglio, ma ad ogni modo desideravo essere fuori di là. Non osavo più alzare gli occhi. Bene, la donna si mise a parlare dei tempi che erano così duri, e delle ristrettezze in cui dovevano vivere, e dei topi che erano così liberi come se fossero i padroni

di casa, e così via, e ancora avanti, sicché tomai a sentirmi a mio agio. Quanto ai topi aveva ragione. Ogni momento ne vedevi uno mettere fuori il naso da qualche buco negli angoli. Disse che doveva sempre avere qualcosa a portata di mano da tirargli dietro quando era sola, altrimenti non le davano pace. Mi mostrò una sbarretta di piombo, piegata a formare un nodo, e disse che di solito quella era una buona arma, ma si era slogata un braccio qualche giorno prima e non sapeva se adesso era in grado di far centro. Ma aspettò l’occasione e di colpo sparò contro un topo: lo sbagliò di molto e disse «ahi » per il male al braccio. Allora mi disse di provare io con il prossimo. Io volevo andarmene prima che tornasse il vecchio, ma naturalmente non glielo feci capire. Raccolsi il proiettile, e al primo topo che mostrò il naso glielo scagliai contro, e se quello fosse rimasto fermo l’avrei spiaccicato. Disse che il mio era stato un lancio di prim’ordine ed era sicura che avrei fatto centro con il prossimo. Andò a prendere il pezzo di piombo e portò anche una matassa di filo chiedendomi di aiutarla. Io allargai le mani e lei ci infilò la matassa e continuò a parlare delle faccende sue e di suo marito. Ma s’interruppe per dire: — Tieni d’occhio i topi. Farai meglio a tenere il piombo in grembo, a portata di mano. E proprio nello stesso momento mi buttò il piombo in grembo, e io strinsi le gambe per prenderlo, mentre lei continuava a parlare. Ma solo per un minuto. Poi tolse la matassa e mi guardò dritto in faccia, ma con molta simpatia, e disse: — Via, adesso, qual è il tuo vero nome? — Che... cosa, signora? — Qual è il tuo vero nome? È Bill, o Tom, o Bob? O cosa? Dovevo tremare come una foglia e non sapevo assolutamente che fare. Ma dissi: — Vi prego, signora, non prendete in giro una povera ragazza come me. Se sono di disturbo, qui, posso... — Ma quale disturbo? Siediti e resta dove sei. Non intendo farti del male e nemmeno fare la spia. Dimmi il tuo segreto e fidati di me. Lo terrò per me, ed anzi, ti aiuterò. E anche il mio vecchio ti aiuterà, se glielo chiedi. Guarda, non sei che un garzone scappato, ecco tutto. Non è niente. Non c’è nessun male in questo. Sei stato trattato male e hai pensato bene di svignartela. Che Dio ti

protegga, ragazzo; io non farò certo la spia. Su, dimmi tutto, da bravo. Allora dissi che era perfettamente inutile continuare con la commedia; avrei vuotato il sacco dicendole ogni cosa, ma lei doveva mantenere la promessa. Allora le raccontai che mio padre e mia madre erano morti e la legge mi aveva affidato a un vecchio contadino taccagno cinquanta chilometri a valle sul fiume, il quale mi trattava così male che non avevo più potuto resistere. Lui era partito e doveva star via un paio di giorni e cosi io avevo preso l’occasione e rubato un abito di quelli delle figlie e avevo tagliato l’angolo, e avevo impiegato tre notti a coprire i cinquanta chilometri; viaggiavo di notte mentre di giorno stavo nascosto a dormire, e le provviste di pane e carne che avevo portato da casa erano bastate per tutto il viaggio e ne avevo avuto in abbondanza. Mi dissi fiducioso che mio zio, Abner Moore, si sarebbe preso cura di me ed ecco perché mi ero diretto su questa città di Goshen. — Goshen, ragazzo? Questa non è Goshen. Questa è St. Petersburg. Goshen è quindici chilometri più avanti sul fiume. Chi ti ha detto che questa era Goshen? — Ma come? Un uomo che ho incontrato stamattina all’alba mentre stavo buttandomi nel bosco per il mio normale riposo. Mi disse che alla biforcazione della strada dovevo prendere a destra e dopo sette chilometri ero a Goshen. — Era ubriaco, immagino. Ti ha dato esattamente l’indicazione contraria. — Be’, sì, si comportava come se fosse ubriaco, ma ormai non importa. Devo mettermi in strada. Raggiungerò Goshen prima che faccia giorno. — Aspetta un momento. Ti preparo qualcosa da mangiare. Può darsi che te ne venga voglia. Così mi preparò uno spuntino, e disse: — Di’, quando una vacca è sdraiata per terra, quale parte si alza per prima? Rispondi subito, non fermarti a pensarci. Quale parte si alza per prima? — La parte di dietro, signora. — Bene, e un cavallo?

— La parte davanti, signora. — Su che lato di un albero cresce meglio il muschio? — Sul lato nord. — Se ci sono quindici vacche a pascolare su una collina, quante di esse mangiano con la testa rivolta nella stessa direzione? — Tutte e quindici, signora. — Bene, ci credo che hai vissuto nella fattoria. Pensavo che volessi imbrogliarmi di nuovo. Qual è il tuo vero nome, ora? — George Peters, signora. — Bene, cerca di ricordartelo, George. Non dimenticartelo per poi dirmi che è Alexander prima di partire, e poi tirar fuori che è George-Alexander quando ti colgo in fallo. E non stare in mezzo a donne con quella cotonina. Come ragazza sei un disastro; potrai ingannare solo gli uomini, forse. Benedetto ragazzo, quando ti metti a infilare un ago, non tenere fermo il filo cercando di prenderlo con l’ago; tieni fermo l’ago e mettici dentro il filo... le donne normalmente fanno cosi, mentre gli uomini fanno sempre il contrario. E quando tiri a un topo o ad altro, alzati sulle punte dei piedi e leva la mano sopra la testa col fare più goffo che puoi, e manca il topo di almeno un paio di metri. Lancia con il braccio teso fino alla spalla, come se li ci fosse un perno su cui farlo ruotare; non tirare il polso e gomito, con il braccio di lato, come fanno i ragazzi. E ricorda che quando una ragazza cerca di prendere qualcosa in grembo, allarga le ginocchia e non le stringe, come hai fatto tu quando hai preso il pezzo di piombo. Altro che! Ti ho riconosciuto per un ragazzo quando hai tentato di infilare l’ago, e ho escogitato le altre prove solo per esserne certa. Ora fila pure da tuo zio, Sarah Mary Williams George Alexander Peters, e se ti trovi nei guai dà una voce alla signora Judith Loftus, che sono io, e farò quello che posso per tirartene fuori. Tieni la strada del fiume, sempre, e la prossima volta che scappi mettiti scarpe e calze: la strada del fiume è piena di sassi e mi sa che quando arriverai a Goshen avrai i piedi in condizioni da far pietà. Risalii la sponda per circa cinquanta metri, poi tornai sui miei i e filai nel posto dove avevo lasciato la canoa, un bel pezzo più a valle della casa. Ci saltai dentro e fui al largo in un baleno. Andai contro corrente fino all’altezza del capo

dell’isola, poi cominciai la traversata. Mi tolsi il cappellino da sole perché ormai non mi servivano più dei paraocchi. Quando fui circa a metà, sentii il campanile suonare le ore; allora mi fermai ad ascoltare; il suono veniva smorzato sull’acqua, ma chiaro: le undici. Quando raggiunsi il capo dell’isola, non mi fermai a prendere fiato, benché fossi sfiatato, ma mi precipitai fra gli alberi dove avevo tenuto il campo precedentemente e vi accesi un bel fuoco in un punto alto e asciutto. Quindi saltai nella canoa e mi spinsi verso il nostro posto, circa un tre chilometri più in giù, remando di gran lena. Approdai e mi infilai tra gli alberi e su per la collina e dentro la caverna. Jlm era disteso e dormiva sodo sul terreno. Lo svegliai e dissi: — Alzati, Jim, e sbrigati! Non c’è un minuto da perdere. Ci stanno alle calcagna! Jim non fece alcuna domanda; ma da come si diede da fare nella mezz’ora che segui si capiva quanto era terrorizzato. In questo frattempo tutto quello che avevamo al mondo ò sulla zattera e questa era già pronta per essere spinta fuori dall'intrico di salici dov’era nascosta. Per prima cosa spegnemmo il fuoco del bivacco presso la caverna e da quel momento non lasciammo vedere all’esterno nemmeno una candela.

Staccai un pochino la canoa dalla riva per dare un’occhiata, ma se c’era una barca nei paraggi non potevo vederla, perché le stelle e l’oscurità non sono l’ideale per vederci. Poi senza fiatare spingemmo fuori la zattera e scivolammo giù tra l’ombra, oltre la punta estrema dell’isola.

Navigazione lenta - Le cose prese a prestito - A bordo del relitto - “Non è di buoni principi” - In cerca della barca

Capitolo 12

Non doveva mancare molto all’una quando infine lasciammo l’isola, e la zattera sembrava andare terribilmente piano. Se avessimo visto arrivare una barca, eravamo pronti a balzare nella canoa e filare verso la riva dell’Illinois; e per fortuna non venne nessuna barca, perché non avevamo pensato di mettere nella canoa il fucile, o una lenza o qualcosa da mangiare. Avevamo avuto troppo da fare per poter pensare a tutte queste cose. Era stata una bella imprudenza mettere tutto sulla zattera. Se gli uomini andavano sull’isola, mi aspettavo che trovassero il fuoco da campo che avevo e rimanessero tutta la notte ad aspettare il ritorno di Jim. In ogni caso sarebbero rimasti lontani da noi, e se il mio fuoco non li ingannava, non era colpa mia. Avevo fatto quello che potevo per imbrogliarli. Quando incominciò ad apparire il primo chiarore del giorno, approdammo su un isolotto, in una grande ansa sul lato dell’Illinois, e tagliammo rami di pioppo con l’accetta per coprire la zattera in modo da far sembrare che in quel punto ci fosse stata una frana. Un isolotto è un banco di sabbia coperto di piante di pioppo fitte come i denti di un erpice. La riva del Missouri era scoscesa e il lato dell’Illinois coperto da densi boschi; e la corrente in quel punto portava verso il Missouri, per cui non temevamo di incontrare nessuno. Rimanemmo sdraiati tutto il giorno, attenti alle zattere e ai battelli che scendevano rasentando la riva del Missouri e a quelli che a fatica risalivano il grande fiume nel mezzo. Raccontai tutto a Jim della mia chiacchierata con la donna e Jim disse che era una donna in gamba e se fosse venuta lei a cercarci non sarebbe certo rimasta là seduta a guardare il fuoco.

Nossignore. Quella si sarebbe portata dietro un cane. Be’, perché, dissi, non poteva dire a suo marito di portare un cane? Jim scommetteva che quella ci aveva pensato, prima che gli uomini partissero, ed era convinto che avevano dovuto andare su in città a prendere un cane e per questo avevano perso tutto quel tempo, altrimenti noi non saremmo adesso sull’isolotto a venticinque chilometri dalla città, no davvero, saremmo proprio di nuovo in quella vecchia città. Al che dissi che non m’importava per quale motivo non ci avevano presi, dato che non ci avevano presi. Quando incominciò a far buio, mettemmo fuori la testa dal folto dei pioppi e ci guardammo tutto intorno: niente in vista; allora Jim staccò dalla zattera alcune tavole superiori e costruì un comodo capanno, come un wigwam indiano, per ripararci dal maltempo e tenere asciutta la roba. Jim fece per il capanno un pavimento rialzato di una spanna rispetto al livello della zattera, in modo che le coperte e l’altra roba non fossero raggiunte dalle onde prodotte dai battelli. Proprio al centro del capanno realizzammo una base di terra dello spessore di qualche centimetro con una sponda intorno per tenerla al suo posto; questa base serviva per accendere il fuoco con il freddo e il brutto tempo: il capanno l’avrebbe nascosto alla vista. Costruimmo inoltre un nuovo timone perché uno degli altri poteva rompersi su qualche spuntone o roba del genere. Fissammo un corto ramo a forcella per appendervi la lanterna, perché bisogna sempre accendere la lanterna ogni volta che si vede un battello scendere la corrente onde evitare che ci venga addosso. Ma non dovevamo accenderla per i battelli in risalita, a meno che non ci trovassimo in quello che chiamano un traversone, in quanto il livello del fiume era molto alto e le rive più basse ancora in parte sommerse, sicché i battelli in risalita non sempre affrontavano la corrente, ma cercavano le acque tranquille. La seconda notte navigammo sette o otto ore, con una corrente che faceva più di sei chilometri all’ora. Chiacchierando pescavamo e ogni tanto facevamo una nuotata per vincere il sonno. C’era un che di solenne in questa discesa del grande fiume tranquillo; distesi sulla schiena a guardare le stelle non ce la sentivamo di parlare forte e non ridevamo spesso, ma solo con qualche risatina trattenuta. Trovammo per lo più bel tempo e non ci accadde assolutamente niente quella notte né la successiva né la successiva ancora. Ogni notte avamo città, alcune lontane su nere colline, nient’altro che un tappeto di luci, neanche una casa potevi vedere. La quinta notte ammo St. Louis e fu come se il mondo intero si accendesse di colpo. A St. Petersburg

dicevano che c’erano venti o trentamila abitanti a St. Louis, ma io non ci avevo mai creduto finché non ho visto quella meravigliosa distesa di luci nel cuore di quella notte tranquilla. Non si sentiva un suono; tutti dormivano. Ogni notte, adesso, avevo preso l’abitudine di scendere a nuoto fino alla riva, verso le dieci, in qualche piccolo villaggio per prendere dieci o quindici centesimi di farina o lardo o altra roba da mangiare; e qualche volta prendevo su un pollo che non si trovava troppo bene nel pollaio e lo portavo via con me. Papà diceva sempre: «Prendi un pollo quando ne hai l’occasione, perché se non lo vuoi tu, troverai facilmente qualcuno che lo vuole, e una buona azione non si dimentica mai. » Non ho mai visto papà che non volesse un pollo per sé, ma ad ogni modo diceva sempre cosi. La mattina, prima dell’alba, mi infilavo nei campi di grano e prendevo a prestito un’anguria, o un melone o una zucca o delle pannocchie o cose di questo genere. Papà diceva sempre che non c’è niente di male a prendere la roba a prestito, se si ha intenzione di pagarla prima o poi; ma la vedova diceva che questo era un bel modo di chiamare il furto e nessuna persona per bene l’avrebbe fatto. Jim diceva che secondo lui in parte aveva ragione la vedova, in parte aveva ragione papà; la cosa migliore per noi era di scegliere due o tre cose dalla lista e dire che non le avremmo più prese a prestito; allora pensava che non sarebbe stato male prendere a prestito le altre. Se ne parlò tutta la notte, scendendo il fiume, cercando di convincerci se eliminare le angurie o i meloni o i poponi o cos’altro. Ma verso l’alba trovammo una soluzione soddisfacente e concludemmo di eliminare le mele selvatiche e i cachi. Non ci sentivamo proprio nel giusto prima di questa decisione, ma adesso eravamo del tutto a posto. Ero contento del risultato, anche perché le mele selvatiche non sono mai buone e i cachi sarebbero maturati fra due o tre mesi. Ogni tanto sparavamo a qualche uccello acquatico che si alzava troppo presto al mattino o che andava a letto piuttosto presto la sera. Tutto considerato, facevamo una bella vita. La quinta notte dopo St. Louis arrivò un brutto temporale, dopo mezzanotte, con gran tuoni e lampi e un diluvio di acqua. Noi rimanemmo dentro il capanno e lasciammo la zattera a se stessa. Alla luce del lampi potevamo vedere un grande tratto di fiume davanti a noi e sul due lati alte rive rocciose. Dopo un po’ dico: — Ehi, Jim, guarda laggiù. C’era un battello che si era fracassato su uno scoglio. E noi stavamo proprio

seguendolo. Il lampo ce lo mostrò molto distintamente. Era inclinato su un fianco, con parte del ponte sopra l’acqua, e ad ogni lampo potevi vedere tutti i tiranti del fumaiolo e una sedia presso la campana con un vecchio cappello appeso allo schienale. Era notte fonda e c’era tempesta e tutto aveva un’aria di mistero, sicché quando vidi quel relitto così triste e solitario nel mezzo del fiume io mi sentii proprio come si sarebbe sentito qualsiasi altro ragazzo. Volevo salire a bordo a dare un’occhiata per vedere cosa c’era. Cosi dico: — Accostiamoci, Jim. Ma Jim non voleva neanche a morire, all’inizio. Mi fa: — Non voglio andare a cacciarmi su quel relitto. Ci sta andando maledettamente bene e noi faremo maledettamente bene a tirar dritto, come dice il Buon Libro. È facile che ci sia un guardiano su quel rottame. — Un guardiano tua nonna! — dico. — Non c’è niente da guardare, se non il ponte di comando e la cabina del pilota; e credi che qualcuno vada a rischiare la vita per queste cose in una notte come questa, mentre il relitto sta per sfasciarsi e sparire nel fiume da un momento all’altro? Jim non poteva dir niente, e nemmeno cl provò. — E inoltre — dico io — potremmo prendere a prestito qualcosa di utile dalla cabina del capitano. Sigari, ci scommetto, che costano cinque cents l’uno ora, soldi alla mano; i capitani del battelli sono ricchi e guadagnano sessanta dollari al mese e non guardano a quanto costa una cosa se la vogliono. Mettiti in tasca una candela; non riesco a star fermo, Jim, finché non diamo una rovistata. Credi che Tom Sawyer lascerebbe perdere un’occasione simile? Neanche per idea. Lui la chiamerebbe un’avventura e salirebbe su quel relitto come se fosse il suo ultimo atto; e non ne farebbe un poema? non se ne vanterebbe? Diamine, penseresti che è Cristoforo Colombo alla scoperta del Regno dei Cieli. Come vorrei che Tom Sawyer fosse qui. Jim brontolò un poco, ma cedette. Disse che non dovevamo prendere più di quanto ci servisse e dovevamo parlare pianissimo. Un lampo ci mostrò di nuovo il relitto, giusto in tempo per afferrare il paranco di tribordo e legarvi la zattera. Il ponte era alto in quel punto. Lungo la sua Inclinazione ci lasciammo scivolare a babordo, nel buio, verso il ponte di comando, strisciando i piedi e tastando con

le mani per evitare le funi, perché faceva cosi buio che non si vedevano affatto. In breve andammo a sbattere contro l’osteriggio e vi salimmo sopra; e il o successivo mi pose di fronte alla porta del capitano. Era aperta: e, per tutti i diavoli, laggiù oltre l’accesso al ponte di comando vediamo una luce! E nello stesso istante ci sembra di udire delle voci là in fondo! Jim mi sussurrò che si sentiva malissimo e mi disse di scappare. Dico: — Va bene — e stavo per tornare alla zattera; ma poi sento una voce lamentarsi e dire: — Oh, ragazzi, vi prego, non lo fate: giuro che non parlerò. Un’altra voce disse, con tono alto: — È una bugia, Turner. Altre volte l’hai fatto. Tu vuoi sempre di più di quel che ti spetta, e l’hai sempre ottenuto anche, giurando che altrimenti parlavi. Ma questa volta l’hai detto una volta di troppo. Sei il più vigliacco e traditore cane di questo paese. Ormai Jim se n’era andato alla zattera. Io morivo dalla curiosità; e dissi a me stesso che Tom Sawyer non sarebbe indietreggiato a questo punto, e nemmeno volevo farlo io. Volevo vedere come andava a finire. Mi misi carponi nello stretto aggio e strisciai verso poppa nell’oscurità, finché non ci fu più di una cabina fra me e il ponte di comando. Allora là dentro vidi un uomo disteso sul pavimento, legato mani e piedi, e due uomini in piedi vicini a lui. Uno dei due teneva una fioca lanterna in mano, e l’altro aveva una pistola. Questo teneva la pistola puntata alla testa dell’uomo sul pavimento e diceva: — Mi piacerebbe! E dovrei anche farlo, sporca carogna! L’uomo per terra si contorceva e diceva: — Oh, ti prego, non farlo, Bill; non andrò a far la spia. E ogni volta che diceva cosi, l’uomo con la lanterna sghignazzava e diceva: — Davvero non lo farai? Non hai mai detto una cosa più vera, puoi scommettere. — E una volta aggiunse: — Sentilo come prega. E dire che se non avevamo la meglio su di lui e non lo legavamo, ci avrebbe uccisi tutti e due. E per che cosa? Proprio per niente. Soltanto perché noi non molliamo sui nostri diritti, ecco perché. Ma giuro che non ricatterai mai più nessuno, Turner. Metti

via la pistola, Bill. Bill fa: — Niente affatto, Jake Packard, io sono per ucciderlo; lui non ha forse ucciso il vecchio Hatfield, e non se lo merita? — Ma io non lo voglio ucciso, ed ho le mie buone ragioni. — Benedetto il tuo cuore per queste parole, Jake Packard! Non ti dimenticherò mai finché vivo — disse l’uomo per terra in una specie di singhiozzo. Packard non ci badò, ma appese la lanterna a un chiodo e si avviò verso il punto dov’ero io, là nel buio, e fece segno a Bill di seguirlo. Rinculai più che potei, circa due metri, ma il battello era cosi inclinato che di più non potevo; cosi, per evitare di essere calpestato o acciuffato, strisciai dentro una cabina nella parte più alta. L’uomo veniva avanti a tentoni nel buio, e quando Packard arrivò all’altezza della mia cabina, disse: — Qui, entriamo qui. Ed entrò li, seguito da Bill. Prima che fossero entrati, io ero già salito sulla cuccetta superiore, in trappola e disperato. Si fermarono lì in piedi. Io non riuscivo a vederli ma potevo dire dov’erano per il whisky che avevano bevuto. Ero contento di non aver bevuto whisky; ma, non avrebbe fatto molta differenza: non potevano beccarmi in quanto per la maggior parte del tempo non respiravo. Ero troppo spaventato. E poi nessuno potrebbe respirare liberamente sentendo discorsi di quel genere. Parlavano seriamente. Bill voleva uccidere Tumer. Disse: — Ha detto che parlerà, e parlerà. Anche se gli diamo tutte e due le nostre parti adesso, non cambia niente. Come è vero che sei nato, quello ci denuncia; dai retta a me, io sono del parere di toglierlo dalle spese. — Anch’io — disse Packard molto calmo. — Maledizione, ormai cominciavo a credere che tu la pensassi diversamente. Be’, allora, va tutto bene. Andiamo a farlo. — Aspetta un momento, non ho ancora finito. Ascoltami. Un colpo di pistola va bene, ma ci sono dei sistemi più tranquilli, se la cosa si deve fare. Voglio dire

questo: è da cretini andarsi a cercare la forca se puoi raggiungere il tuo scopo in qualche altro modo che sia altrettanto valido e nello stesso tempo non ti faccia correre rischi. Non ti pare? — Certo; ma come pensi di cavartela in questo caso? — Be’, la mia idea è questa: ci affrettiamo a raccogliere tutta la roba che abbiamo lasciato nelle cabine, la portiamo a riva e la nascondiamo. Poi stiamo ad aspettare. Ora io dico che non ano due ore e questo rottame si sfascia e il fiume lo lava via. Capisci? Lui annega e non avrà nessuno da maledire se non se stesso. Mi pare molto meglio che ucciderlo. Io sono sfavorevole ad ammazzare un uomo quando posso aggirare l’ostacolo; non c’è buon senso, non c’è morale Non ho ragione? — Si. Ma metti che non si sfasci e il fiume non lo lavi via. — Be’, possiamo comunque aspettare quelle due ore e vedere, no?! — Va bene, allora; andiamo. Cosi se ne andarono, e lo saltai fuori, tutto in un sudore freddo, e mi arrampicai verso prua. Là era nero come la pece, ma dissi «Jim» in una specie di rauco bisbiglio, e lui rispose, proprio gomito a gomito, con una specie di gemito, e io dico: — Presto, Jim, non c’è tempo da star qui a gemere; c’è una banda di assassini là dentro, e se non troviamo la loro barca è non la mandiamo alla deriva in modo che quei tizi non possano lasciare il relitto, uno di loro starà fresco. Ma se troviamo la loro barca possiamo farli star freschi tutti, davanti allo sceriffo. Presto, sbrigati! Io cercherò a babordo, tu cerca a tribordo... — Oh, Signore, Signore! La zattera? La zattera non c’è più, dev’essersi slegata! E noi siamo qui!

La fuga dal relitto - Il guardiano - Il relitto affonda Un morto sonno

Capitolo 13

Mi mancò il respiro e quasi svenivo. Intrappolati su un relitto con una banda di quel genere! Ma non era il momento di lanciarsi prendere dal panico. Ora dovevamo trovare quella barca, dovevamo trovarla per noi. Cosi, tremando e vacillando, andammo avanti sul lato di babordo. Fu un’impresa lunga, e sembrava ata una settimana quando raggiungemmo la poppa. Nessun segno della barca. Jim disse che non ce la faceva più ad andare avanti; dallo spavento aveva perduto quasi tutte le forze, disse. Ma io gli dissi: — Muoviti, se restiamo su questo relitto siamo fritti di sicuro. Cosi avanzammo ancora a tentoni. Cercammo la poppa del ponte di comando, e la trovammo, e da lì ci arrampicammo verso l’osteriggio, ando da un portello all’altro, perché il bordo dell’osteriggio era in acqua. Arrivati di fronte alla porta del ponte di comando, ecco la barca, doveva essere quella. Provai un senso di gratitudine come non mai. Un altro secondo e sarei stato a bordo, ma proprio in quell’istante la porta si apri. Uno degli uomini mise fuori la testa, a non più di mezzo metro da me, e io pensai che ero spacciato; ma lui ritira la testa e fa: — Tieni quella dannata lanterna fuori vista, Bill! Poi lanciò un sacco nella barca, montò su anche lui e si mise seduto. Era Packard. Poi anche Bill viene fuori e salta su. Packard gli fa sottovoce: — Tutto a posto? Allora via! Io non riuscivo più a stare aggrappato al portello, debole com’ero. Ma Bill fa: — Aspetta. L’hai perquisito?

— Io no. Non l’hai fatto tu? — No. Cosi ha ancora in tasca la sua parte. — Be’, allora vieni, è inutile portar via delle cianfrusaglie e lasciar qui dei soldi. — Di’, non sospetterà cos’abbiamo in mente? — Forse no. Ma ad ogni modo quei soldi dobbiamo averli. Dai, vieni. Cosi scesero dalla barca e risalirono a bordo. La porta sbattè, perché si trovava sul lato inclinato; e in mezzo secondo io ero già nella barca, con Jim alle calcagna. Fuori il coltello, un taglio netto alla corda, e via! Non toccammo remo, fra noi nemmeno un bisbiglio, quasi non respiravamo. Scivolammo via con la corrente, in un silenzio di tomba, lasciandoci dietro il deposito dei remi e poi la prua; dopo qualche secondo eravamo cento metri a valle del relitto, e l’oscurità lo inghiotti fino all'ultimo segno. Eravamo salvi, e lo sapevamo. Fatti tre o quattrocento metri, vedemmo apparire la lanterna come una piccola scintilla sul ponte di comando, per un istante, e cosi capimmo che i furfanti si erano resi conto di aver perso la loro barca e cominciavano a capire di essere nei guai, adesso, non meno di quanto lo era Turmer. Allora Jim si mise ai remi e inseguimmo la nostra zattera. Ora per la prima volta cominciai a preoccuparmi per quegli uomini, mi sa che prima non ne avevo avuto il tempo. Cominciai a pensare com’era terribile, anche per degli assassini, trovarsi in un guaio del genere. Dico fra me: non si può mai sapere, potrei anch’io diventare un assassino, e allora che gusto ci proverei, io? Poi dico a Jim: — Alla prima luce che vediamo, approdiamo cento metri a monte o a valle di essa, in un posto dove tu possa restare nascosto con la barca, mentre io vado a raccontare qualche storia in modo che qualcuno raggiunga quei banditi e li tiri fuori dal loro impiccio, sicché possano essere impiccati quando viene la loro ora. Ma quell’idea non ebbe successo; infatti ben presto cominciò una nuova tempesta, e stavolta fu peggio che mai. La pioggia scrosciava e non appariva

nessuna luce; tutti a letto, credo. Noi scendevamo il fiume a tutta velocità, sempre attenti alle possibili luci e alla nostra zattera. Dopo parecchio tempo smise di piovere, ma c’erano ancora molte nuvole nel cielo che stentava a schiarirsi, e dopo un po’ un lampo cl fece vedere una cosa nera che galleggiava davanti a noi, e noi via a inseguirla. Era la zattera, e come fummo contenti di salirci di nuovo! Vediamo una luce, ora, lontano a destra sulla riva. Dissi che volevo andarci. La barca era quasi piena del bottino che la banda aveva arraffato là sul relitto. Buttammo tutto alla rinfusa sulla zattera. Dissi a Jim di continuare a scendere e di accendere una lanterna quando gli sembrava di aver fatto tre chilometri, e di tenerla accesa finché io non tornavo. Mentre scendevo verso quella luce, tre o quattro altre comparvero sul fianco di una collina. Era un villaggio. Accostai più a monte della luce sulla riva, alzai i remi e mi abbandonai alla corrente. Quando ci fui vicino, vidi che era una lanterna appesa al boma di un traghetto a due scafi. Girai intorno in cerca del guardiano, chiedendomi dove si fosse cacciato a dormire, e dopo un po’ lo trovai appollaiato sulle bitte, a prua, con la testa fra le ginocchia. Gli dò due o tre colpetti sulla spalla e mi metto a piangere. SI svegliò come di soprassalto, ma quando vide che ero soltanto io, fece un grande sbadiglio, si stiracchiò e mi disse: — Ehi, che c’è? Non piangere, ragazzo. Qual è il guaio? Io dico: — Papà, e mamma, e mia sorella, e… E scoppiai in singhiozzi. Lui fa: — Oh, smettila adesso, non prendertela cosi, tutti dobbiamo avere i nostri guai, ma anche questo finirà bene. Cos’è successo ai tuoi? — Sono... sono... siete voi il guardiano del battello? — Si — dice con aria compiaciuta. — Sono il capitano, e il proprietario, e il secondo, e il pilota, e il guardiano, e il nostromo: e qualche volta sono anche il carico e i eggeri. Non sono ricco come il vecchio Jim Hamback e non posso essere maledettamente generoso e buono come lui con Tizio, Caio e Sempronio e

buttar via i soldi come fa lui; ma gli ho detto più di una volta che non farei cambio con lui, perché, dico io, la vita del marinalo è quella che fa per me, e nemmeno per sogno vivrei a tre chilometri lontano dalla città, dove non succede mai niente, nemmeno per tutti i suoi quattrini e tanti ancora In aggiunta. Dico io... Lo interrompo e dico: — Sono in un guaio terribile, e… — Ma chi? — Diamine, papà e mamma, e mia sorella, e Miss Hooker; e se voi prendete il vostro battello e andate laggiù... — Laggiù dove? Dove sono? — Sul relitto. — Quale relitto? — Diamine, non ce n’è che uno. — Cosa? Vuoi dire il Walter Scotti — SI. — Santo cielo! E cosa sono andati a farci? — Be’, non cl sono andati apposta. — Lo spero bene! Bontà divina, non c’è speranza per loro se non scappano più che in fretta! Ma come diavolo hanno fatto a mettersi In un pasticcio simile? — Molto semplice. Miss Hooker era venuta in visita, lassù nel paese di... — Si, a Booth’s Landing; continua. — Era venuta in visita, là a Booth’s Landing, e proprio sul far della sera era partita con la sua schiava negra sul battello a cavalli per are la notte in casa di una sua amica, Miss Comesichiama, non mi ricordo il suo nome, ed ecco che

perdono il timone e girano su se stessi e vanno alla deriva, di poppa, per circa tre chilometri, finché vanno a sbattere contro il relitto; tutto va perduto: il battelliere, la negra e i cavalli, tranne Miss Hooker che riesce a salire sul relitto. Bene, verso l’una di notte iamo noi con il nostro barcone, e c’era cosi buio che non abbiamo visto il relitto finché non cl fummo addosso. Cosi anche noi ci sbattiamo contro; ma ci siamo salvati tutti, tranne Bill Whipple... oh, era la migliore creatura del mondo! Quasi vorrei che fosse toccato a me piuttosto, davvero. — Dio mio! È la cosa più incredibile che io abbia mai sentito. E poi cos’avete fatto tutti voi? — Be’, ci siamo messi a urlare con tutto il flato, ma il fiume è così largo in quel punto che non potevamo farci sentire. Allora papà ha detto che qualcuno doveva raggiungere la riva e cercare qualche soccorso. Io ero il solo capace di nuotare e mi sono buttato, e Miss Hooker ha detto che se non riuscivo a trovare aiuto, dovevo venir qui a cercare suo zio che avrebbe sistemato la cosa. Ho toccato terra circa un miglio più in giù e non ho smesso di darmi d’attorno per cercare di convincere qualcuno a fare qualcosa, ma tutti mi dicevano: «Come, in una notte come questa e con questa corrente? È una pazzia; va’ a cercare il traghetto». Ora, se voi andaste e… — Per Bacco se ci andrei, mi venga un accidente se non ci vado; ma chi diavolo mi paga? Credi che tuo papà... — Per questo non c’è problema. Miss Hooker mi ha detto, in via confidenziale, che suo zio Hamback... — Per mille cannoni! È suo zio? Sta’ attento, va’ di corsa verso quella luce laggiù, e quando ci sei gira a destra: a quattrocento metri troverai la taverna; chiedi che ti portino subito da Jim Hamback, che lui pagherà il conto. E non perdere tempo, perché lui sarà in attesa di notizie. Digli che io avrò già riportato sua nipote sana e salva prima che lui sia arrivato in città. E adesso corri; io vado qui all’angolo a svegliare il mio macchinista. Partii verso la luce, ma appena quello girò l’angolo tornai indietro e raggiunsi la mia barca. La svuotai dell’acqua e risalii la costa nelle acque tranquille per circa seicento metri, quindi mi nascosi in mezzo a certi barconi da legname, perché non potevo sentirmi del tutto tranquillo finché non avessi visto il battello partire.

Ma tutto sommato mi sentivo piuttosto soddisfatto di essermi dato tanta pena per quella banda, perché non molti l’avrebbero fatto. Avrei voluto che lo sapesse la vedova. Pensavo che sarebbe stata fiera di me che avevo aiutato quei manigoldi, perché manigoldi e farabutti sono il tipo di gente che più stanno a cuore alla vedova e alle anime pie come lei. Bene, non a molto tempo ed ecco che vedo venir giù il relitto, scuro e indistinto. Una specie di brivido freddo mi attraversò il corpo, e filai fuori verso di lui. Era quasi compieta mente sommerso e in un attimo mi resi conto che non c’erano molte speranze che qualcuno fosse vivo su di esso. Feci un giro tutt’intorno e gridai un poco, ma non ci fu risposta: un silenzio di tomba. Mi sentii un po’ dispiaciuto per la banda, ma non troppo, perché mi dissi che se potevano sopportarlo loro, potevo anch’io. Poi ecco il battello; allora mi spingo verso il centro del fiume con una lunga traversata in diagonale, e quando mi pare di essere fuori vista, lascio i remi e mi volto a guardare il battello che gira intorno al relitto in cerca delle cose di Miss Hooker, perché il capitano sapeva bene che lo zio Hamback le avrebbe volute; ma ben presto vidi che il battello rinunciava e tornava verso riva, e anch’io tornai al lavoro filando veloce lungo il fiume.

ò un secolo prima che comparisse la lanterna di Jim, e quando comparve sembrava lontana mille miglia. Quando infine la raggiunsi, il cielo cominciava a schiarirsi ad oriente; allora puntammo verso un’isola, nascondemmo la zattera e mandammo a fondo la barca, e infine ci stendemmo a dormire come due morti.

Un bel divertimento - L’harem - il se

Capitolo 14

Al risveglio, rovesciammo la roba che la banda aveva rubato dal relitto, e trovammo stivali, coperte, vestiti, e ogni sorta di cose, e un mucchio di libri, e un cannocchiale, e tre scatole di sigari. Non eravamo mai stati tanto ricchi in vita nostra. I sigari erano di gran marca. Restammo distesi nel bosco tutto il pomeriggio a parlare, e io a leggere i libri, e divertendoci un mondo. Raccontai a Jim tutto quello che era successo sul relitto e al traghetto, e dissi che questo genere di cose si chiamavano avventure; ma lui disse che di avventure ne aveva abbastanza. Disse che mentre lo ero sul ponte di comando e lui era tornato alla zattera e si era accorto che era scomparsa, quasi moriva; perché aveva capito che per noi era finita, comunque andassero le cose: se non veniva salvato, sarebbe annegato; e se veniva salvato, chiunque lo salvasse l’avrebbe rispedito a casa per avere la taglia, e allora Miss Watson lo vendeva nel Sud, di sicuro. Be’, aveva ragione; Jim aveva quasi sempre ragione; aveva un cervello non comune, per essere un negro. Lessi a Jim parecchie cose di re, di duchi, e di conti e gente simile, come vestivano eleganti e come vivevano in grande stile e si chiamavano l’un l’altro Vostra Maestà, Vostra Grazia, Vostra Signoria, eccetera, invece di dire semplicemente Signore; e Jim sgranava tanto d’occhi e si mostrava interessato. Disse: — Non sapevo che erano cosi tanti. Mai sentito parlare di nessuno, quasi, a parte il vecchio re Salomone, a meno che tu non conti i re che si trovano in un mazzo di carte. Quanto guadagna un re? — Guadagna? — dico lo. — Diamine, quelli possono avere mille dollari al mese se vogliono; possono avere esattamente quanto vogliono; ogni cosa gli appartiene.

— Non è magnifico? E cosa hanno da fare, Huck? — Non hanno niente da fare! Ma che discorsi fai. Se ne stanno tutto il giorno seduti. — No!... È cosi? — Certo che è cosi. Stanno proprio seduti. Eccetto forse quando c’è una guerra; allora vanno alla guerra. Ma per il resto bighellonano di qua e di là oppure vanno a caccia col falcone... si, proprio col falcone e... sss! Hai sentito un rumore? Sgusciammo fuori a guardare; ma non c’era niente se non lo sciacquio della ruota di un battello che doppiava il capo dell’Isola, lontano; cosi tornammo al nostro posto. — Si — dico io — e altre volte, quando proprio si annoiano, litigano con il parlamento; e se qualcuno non gliela dà vinta gli tagliano la testa. Ma per lo più bazzicano nell’harem. — Nel che cosa? — Nell’harem. — Cos’è l’harem? — Il posto dove tengono le mogli. Non sai neanche cos’è un harem? Salomone ne aveva uno e ci teneva circa un milione di mogli. — Già, è vero. Io... io l’avevo dimenticato. Un harem è come una pensione, credo, molto probabilmente nella stanza dei bambini c’è un baccano terribile. E le mogli non fanno che litigare, penso, e questo aumenta il baccano. Eppure dicono che Salomone era l’uomo più saggio che sia mai esistito. Non ci credo molto. Come, dico io, un uomo saggio vivrebbe tutto il tempo in mezzo a una baraonda del genere? No... non potrebbe. Un uomo saggio mette su piuttosto una officina di calderaio; e poi potrebbe chiudere bottega quando vuole riposare. — Bene, ma lui era l’uomo più saggio, comunque; perché me l’ha detto la vedova in persona. — Non m’importa cosa dice la vedova; non era un uomo saggio lo stesso. Aveva

delle abitudini che lo non ho mai visto. Non sai di quel bambino che stava per tagliare in due? — Si, la vedova mi ha detto tutto. — E allora! Non era l’idea più stupida al mondo? Pensaci un attimo. Ecco, quel tronco là è una delle donne; qui, tu sei l’altra; lo sono Salomone; e questo biglietto da un dollaro è il bambino. Tutte e due lo reclamate. Cosa faccio lo? Vado in giro dal vicini per sapere a quale delle due veramente 11 biglietto appartiene e poi lo consegno a quella giusta, come farebbe chiunque abbia un po’ di criterio? No, io prendo il biglietto e lo strappo in due, e ne do metà a te e metà all’altra donna. Ora io voglio chiederti: a che ti serve quella metà del biglietto? Non puoi comprare niente con quello. E a cosa serve metà bambino? Non darei neanche mezza cicca per un milione di mezzi bambini. — Accidenti, Jim, ti è proprio sfuggito il punto... maledizione, sei lontano mille miglia. — Chi? Io? Vai al diavolo. Non venirmi a parlare di punti. Credo di saperlo anch’io il senso quando lo vedo; e non c’è alcun senso nel fare a quel modo. La disputa non era per mezzo bambino, la disputa era per un bambino intero; e un uomo che pensa di poter comporre una disputa su un bambino intero con mezzo bambino, quello non sa neanche mettersi al riparo quando piove. Non venirmi a parlare di Salomone, Huck. So io che zucca era. — Ma io ti dico che non cogli il punto. — Al diavolo il punto! Credo di sapere quello che c’è da sapere. E guarda che il vero punto è più in giù, è più profondo. Sta nel modo come Salomone è stato allevato. Prendi un uomo che ha solo un bambino o due; quell’uomo va a buttarli via i bambini? No che non lo fa, non può permetterselo. Sa quanto valgono. Ma prendi un uomo che ha cinque milioni di bambini che corrono per casa: è diverso. Tanto gli fa tagliare in due un bambino come un gatto. Ne restano ancora un mucchio. Bambino più, bambino meno, non ci sono conseguenze per Salomone, è lo stesso. Non ho mai visto un negro come questo. Se si metteva in testa una cosa, non c’era verso di cavargliela. Ce l’aveva con Salomone più di ogni altro negro che ho conosciuto. Cosi cambiai discorso, lasciando perdere Salomone. Gli raccontai di Luigi Sedicesimo che ebbe la testa tagliata in Francia molto tempo fa; e del

suo fìglloletto il Delfino, che doveva divenire re, se non lo prendevano e non lo mettevano in prigione, dove alcuni dicono che sia morto. — Povero piccolo! — Ma alcuni dicono che è uscito ed è scappato, ed è venuto in America. — Meno male! Ma si sentirà piuttosto solo; qui non ci sono re, vero, Huck? — No. — Allora non può farsi una posizione. Che cosa farà? — Be’, non lo so. Alcuni di loro vanno nella polizia, e altri insegnano alla gente a parlare se. — Ma come, Huck, i si non parlano come noi? — No, Jim, non potresti capire una parola di quello che dicono, nemmeno una parola. — Questa poi! Che mi venga un colpo! Com’è avvenuto? — Non lo so, ma è cosi. Ho imparato un po’ delle loro ciarle in un libro. Metti che uno viene da te e ti fa: Pally - vu - franzy, cosa ne penseresti? — Cosa ne penserei? Gli romperei il grugno. Ecco cosa farei, se non è un bianco. Non mi lascerei mai chiamare cosi da nessun negro. — Cavoli, non è un modo di chiamarti. È solo per dire se sai parlare se. — Be’, e allora perché non può dirlo? — Ma lo sta dicendo. È la maniera di un se per dirlo. — Be’, è una maniera maledettamente ridicola, e io non voglio più sentirne parlare. Non c’è senso in questo. — Sta’ attento Jim, un gatto parla come noi? — No, un gatto no.

— Bene, e una vacca? — No, neanche una vacca. — Una gatto parla come una vacca, o una vacca parla come un gatto? — No, no. — È naturale e giusto per loro parlare in maniera diversa l’uno dall’altro, no? — Certo. — E non è naturale e giusto per un gatto e una vacca parlare in maniera diversa da noi? — Ma senza dubbio. — Bene, allora perché non è normale e giusto per un se parlare in maniera diversa da noi? Rispondi. — È un gatto un uomo, Huck? — No. — E allora, non ha senso che un gatto parli come un uomo. E una vacca è un uomo? O una vacca è un gatto? — No, non è nessuno dei due. — E allora, lei non ha interesse a parlare come uno o l’altro del due. Un se è un uomo? — Si. — E allora! Che Dio lo benedica, perché non parla come un uomo? Rispondi. Vedo che è inutile sprecare altre parole... non puoi insegnare a un negro a ragionare. Cosi lascio perdere.

Huck perde la zattera - Nella nebbia - Addormentato sulla canoa - Huck trova la zattera - Immondizie

Capitolo 15

Calcolammo di arrivare in tre notti a Cairo, all’estremità dell’Illinois, dove il fiume Ohio sfocia nel Mississippi, ed era quanto volevamo. Avremmo venduto la zattera e preso un battello su per l’Ohio verso gli Stati liberi, e i nostri guai sarebbero terminati. Ma la seconda notte cominciò ad alzarsi un denso nebbione, per cui ci dirigemmo verso un isolotto con l’idea di fermarci in quanto non era possibile viaggiare nella nebbia. Andai avanti con la canoa, pronto con la fune, ma non trovai niente cui legare la zattera se non degli arboscelli. ai la fune intorno ad uno di questi, proprio al margine della riva scoscesa, ma la corrente era violenta e la zattera veniva a tale velocità che strappò l’arbusto dalle radici e filò via. La vidi sparire nella nebbia, al che mi prese un tale spavento da non poter più muovermi per circa mezzo minuto, mi pare... e poi della zattera più nemmeno l’ombra; non riuscivi a vedere a più di venti metri. Salto in canoa, mi butto a poppa, afferro la pagaia e arranco a tutta forza. Ma la canoa non si muove. Dalla fretta non l’avevo slegata. Tornai indietro per cercare di liberarla, ma ero talmente agitato che mi tremavano le mani tanto da non poterle adoperare. Appena riuscii a partire, mi misi all’inseguimento della zattera, sudato e col fiatone, costeggiando l’isolotto. Fin lì tutto bene, ma l’isolotto sarà stato lungo una sessantina di metri, e nel momento di superare l’estremità inferiore, penetrai in una fitta nebbia biancastra e non avevo idea di dove stavo andando più di quanto ce l’abbia un morto. Non serve a nulla remare, penso; prima cosa, so che sbatterò contro la riva, o un isolotto o qualcos’altro; devo rimanere calmo e lasciarmi andare alla deriva;

eppure è terribilmente difficile riuscire a tener ferme le mani in un momento simile. Lancio un grido e resto in ascolto. Da lontano, laggiù in qualche parte, mi arriva un piccolo grido, e mi sento rianimare. Partii a tutta forza verso quel grido, tendendo l’orecchio per sentirlo ancora. Quando giunse la seconda volta, mi accorsi che non stavo andandogli incontro ma mi allontanavo sulla destra rispetto ad esso. E la terza volta, mi stavo allontanando sulla sinistra, senza accorciare di molto le distanze in ambedue i casi, perché ogni volta viravo troppo, mentre il grido continuava a venire proprio dritto. Speravo che quello stupido pensasse di mettersi a battere su una pentola, producendo un rumore continuo, ma non gli venne in mente, ed erano gli intervalli di silenzio fra un grido e l’altro a confondermi. Bene, cerco comunque di procedere, e all’improvviso sento un grido dietro di me. Adesso non capisco più niente. O è la voce di qualcun altro, oppure ho girato su me stesso. Buttai la pagaia sul fondo. Sentii di nuovo il grido; era ancora dietro di me, ma in un punto diverso; continuava a farsi sentire e continuava a cambiare posizione, e io continuavo a rispondere, finché dopo un po’ fu di nuovo di fronte a me e capii che la corrente aveva messo la canoa nella direzione giusta e tutto andava bene se era Jim che gridava e non qualcuno su un’altra zattera. Non si distinguono per niente le voci nella nebbia, perché niente appare naturale e suona naturale in mezzo alla nebbia. Le grida continuarono e nel giro di un minuto andai quasi a sbattere contro una ripida riva sulla quale sovrastavano come fantasmi fumosi grandi alberi, poi la corrente mi trascinò a sinistra e fuggì rapidissima, in mezzo a una quantità di tronchi alla deriva che quasi ruggivano, tanto la corrente era violenta. Dopo qualche secondo tutto si fece di nuovo di un bianco denso e muto. Io rimasi assolutamente immobile, ad ascoltare i battiti del mio cuore, e credo di aver tirato un respiro ogni cento battiti. Allora rinunciai. Sapevo di cosa si trattava. Quel banco ripido era un’isola, e Jim era sceso dall’altra parte di essa. Non era un isolotto, che si può aggirare in dieci minuti. Era coperta di folta vegetazione come un’isola vera e propria; poteva essere lunga una decina di chilometri e larga più di uno. Rimasi tranquillo, con l’orecchio teso per circa un quarto d’ora, penso. Continuavo a procedere, naturalmente, a sei o sette chilometri all’ora; ma a

questo non ci pensi, no, ti senti come se fossi disteso, immobile, sull’acqua; e se scopri di sfuggita un tronco che ti sfreccia vicino, non pensi a che velocità stai andando, ma trattieni il respiro e ti dici: dio, come fila quel tronco. E se credete che non sia triste e desolante trovarsi là nella nebbia a quel modo, da soli, nella notte, provateci una volta e vedrete. Poi per circa mezz’ora lancio un grido di tanto in tanto: alla fine sento una risposta da molto lontano e tento di seguirla, ma senza riuscirci. M’accorgo che devo essere in un labirinto di isolotti perché ne ho vaghe percezioni sia a destra che a sinistra e a volte mi sembra di trovarmi in uno stretto canale. E anche quelli che non vedevo sapevo che c’erano perché sentivo lo scroscio della corrente contro i cespugli secchi e i detriti che s’ammassano sulle rive. Non ò molto che persi le grida laggiù in mezzo agli isolotti, e comunque presto smisi di inseguirle, perché era peggio che dar la caccia ai fuochi fatui. Non avevo mai creduto che un suono potesse spostarsi a quel modo e saltare da un punto all’altro con tanta velocità e frequenza. Dovetti allontanarmi dalla riva in tutta fretta, quattro o cinque volte, per non sbattere contro gli isolotti che affioravano dal fiume; e quindi pensai che anche la zattera doveva urtare ogni tanto contro i banchi, altrimenti sarebbe stata ben più lontana e fuori portata delle mie orecchie, in quanto viaggiava un po’ più veloce di me. Bene, finalmente mi sembrò di essere di nuovo in mezzo al fiume, ma non sentivo da nessuna parte alcun grido. Jim aveva sbattuto contro un tronco vagante, forse, e per lui era finita. Ero stanco morto, e così mi stesi nella canoa deciso a non muovere più un dito. Non volevo addormentarmi, naturalmente, ma avevo un tal sonno che non potevo impedirmelo; perciò pensai di fare soltanto un pisolino. Ma fu un pisolino lungo, credo, perché quando mi svegliai le stelle brillavano e la nebbia se n’era andata completamente ed io filavo girando su me stesso con la poppa in avanti giù per un’ampia ansa. Subito non capii dov’ero; pensavo di sognare, ma quando le cose cominciarono a tornarmi in mente, sembravano venir su confuse come fossero accadute almeno una settimana prima. Il fiume qui era mostruosamente grande, costeggiato da alberi alti e fitti come una muraglia, per quello che potevo vedere nell’oscurità.

Spinsi lo sguardo lungo la corrente, e vidi un puntolino nero sull’acqua. Mi misi a seguirlo, ma quando lo raggiunsi non era altro che un paio di tronchi legati insieme. Poi vidi un altro punto, e via dietro a quello; poi un altro, e questa volta era quello giusto. Era la zattera. Quando la raggiunsi, Jim era là seduto con la testa fra le ginocchia, addormentato, con il braccio destro che penzolava dal remo che faceva da timone. La zattera era coperta di foglie, rami e fango. Dunque aveva ato dei brutti momenti. Legai la canoa e mi stesi sulla zattera sotto il naso di Jim; poi cominciai a sbadigliare e a stiracchiarmi tirando pugni contro Jim, e gli faccio: — Ehi, Jim, mi ero addormentato? Ma perché non mi hai svegliato? — Santo cielo, sei tu, Huck? E non sei morto... non sei annegato... sei di nuovo qui? È troppo bello per essere vero, caro, è troppo bello. Lascia che ti guardi, bimbo, lascia che ti tocchi. No, non sei morto! Sei di nuovo qui, sano e salvo, lo stesso vecchio Huck... lo stesso vecchio Huck, grazie al cielo! — Che ti succede, Jim? Hai bevuto? — Bevuto? Io ho bevuto? Ti pare che abbia avuto occasione di bere? — Be’, allora perché dici tante sciocchezze? — Ma quali sciocchezze dico? — Quali? Ma non stavi dicendo che sono tornato e cose del genere, come se io fossi andato via? — Huck... Huck Finn! Guardami negli occhi, adesso, guardami negli occhi. Non sei andato via? — Andato via? Ma cosa diavolo intendi dire? Non sono andato da nessuna parte. E dove dovevo andare? — Be’, stai a sentire, qui c’è qualcosa che non va. Io sono io, o chi è che sono? Sono qui, o dov’è che sono? Ora, è questo che voglio sapere.

— Be’, credo che sei qui, mi pare abbastanza chiaro, ma penso che sei un vecchio pazzo confusionario, Jim. — Ah, è così? Allora rispondi a questa domanda: non ti sei preso la corda nella canoa per fissarla sull’ isolotto? — No, per niente. Quale isolotto? Mai visto isolotti. — Ah, tu non hai visto isolotti. Stammi a sentire. La corda non si è sfilata e la zattera non se n’è andata con la corrente lasciandoti dietro nella canoa in mezzo alla nebbia? — Ma quale nebbia? — La nebbia! La nebbia che c’è stata tutta notte. E non hai gridato, e io non ho gridato, finché ci siamo perduti nelle isole, e uno di noi era perduto, e l’altro era come se fosse perduto perché il primo non sapeva dov’era? E io, non sono andato a sbattere contro un mucchio di quelle isole e non ho avuto dei brutti momenti che quasi finivo annegato? Ora tutto questo non è vero, Huck, non è vero? Rispondimi. E — Be’, questo è troppo per me, Jim. Io non ho visto nebbia né isole né pericoli né niente. Sono stato qui seduto a parlare con te tutta la notte finché tu non ti sei addormentato, cioè fino a dieci minuti fa, e credo di essermi addormentato anch’io. Se non ti è stato possibile bere, allora ovviamente hai sognato. 'i — Accidenti, come posso aver sognato tutta quella roba in dieci minuti? — Mettila come ti pare, ma tu hai sognato, perché non è successo niente di quello che dici. — Ma Huck, per me è tutto così chiaro che... — Non fa nessuna differenza se tu hai tutto così chiaro: non c’è niente di vero, proprio niente. E io lo so, perché sono stato qui tutto il tempo. Jim tacque per qualche minuto, ma rimase seduto e continuava a pensare. Poi fa: — Bene, allora credo di aver sognato, Huck; ma accidenti a me se non è il sogno più straordinario che abbia mai fatto. E non c’è mai stato un sogno che mi abbia stancato tanto come questo.

— Ah, ci credo. Certe volte un sogno ti stanca che non ne hai idea. Ma questo dev’essere stato fantastico; raccontamelo per filo e per segno, Jim. Cosi Jim attaccò e mi raccontò ogni cosa per filo e per segno esattamente com’era successa, solo esagerando parecchio. Poi disse che doveva «interpretarlo», perché gli era stato mandato per avvertimento. Disse che il primo isolotto rappresentava un uomo che cercava di farci del bene, ma la corrente era un altro uomo che voleva staccarci dal primo. Le grida erano avvertimenti che ci giungevano di tanto in tanto, e se noi non ci sforzavamo di comprenderli ci avrebbero precipitati nella disgrazia, invece di tenercene lontani. La quantità di isolotti erano i guai che dovevamo are accettando la compagnia di gente maligna e rissosa, ma se noi badavamo agli affari nostri senza rispondere o stuzzicarli, potevamo cavarcela e uscire dalla nebbia per raggiungere il grande fiume chiaro, cioè gli Stati liberi, senza più fastidi. Il cielo si era annuvolato dopo il mio arrivo sulla zattera, ma ora stava tornando il sereno. — Be’, per quel che me ne pare, tutto è stato interpretato bene, Jim — dico io — ma queste cose che vogliono dire? E indicavo le foglie e il fango sulla zattera, e il timone spaccato. Si potevano vedere chiaramente, adesso. Jim guardò quei detriti, poi guardò me, e di nuovo i detriti. L’idea del sogno gli si era fissata così bene in testa che non sembrava più in grado di togliersela e rimettere i fatti al loro posto. Ma quando infine si raccapezzò, mi guardò fisso, senza mai sorridere, e disse: — Cosa vogliono dire? Te lo dico subito. Quando non ebbi più la forza di manovrare e di chiamarti e caddi addormentato, il mio cuore era quasi spezzato perché tu eri perduto e non mi importava più niente di cosa sarebbe avvenuto di me e della zattera. E quando mi sono svegliato e ti ho ritrovato, sano e salvo, mi sono venute le lagrime agli occhi e mi sarei inginocchiato a baciarti i piedi, tanta era la gratitudine che sentivo. E invece tu non pensavi ad altro che a prendere in giro il vecchio Jim con bugie. Quella roba sono immondizie; e immondizie è quella gente che butta sozzura sulla testa degli amici per farli vergognare.

Quindi si alzò lentamente e si avviò verso il capanno. Vi entrò senza aggiungere parola. Ma quel che aveva detto era abbastanza. Mi fece sentire cosi meschino che quasi volevo essere io a baciare i piedi a lui perché dimenticasse. Mi ci volle un quarto d’ora per decidermi ad andare a umiliarmi davanti a un negro... Ma l’ho fatto, e non me ne sono mai pentito in seguito. Non gli feci più scherzi stupidi, e non gli avrei fatto nemmeno quello se avessi saputo che se la sarebbe presa a quel modo.

Storia di un barile stregato - Buon vecchio Cairo Una bugià bianca - Valuta fluttuante - Giù oltre Cairo

Capitolo 16

Dormimmo quasi tutto il giorno e ripartimmo a notte, a poca distanza da una zattera mostruosamente lunga che a are ci mise come una processione. Aveva quattro lunghi remi su ciascun lato, sicché pensammo che portasse almeno trenta uomini, probabilmente. Aveva a bordo cinque grandi capanni, distanti fra loro, e un fuoco da campo all’aperto sistemato nel mezzo e a ciascuna estremità un’alta asta portabandiera. Aveva una certa pretesa di stile.

Seguimmo la corrente fino a un ampio gomito del fiume; con la notte il cielo si annuvolò e l’aria si fece calda. Il fiume era molto ampio, fiancheggiato da una fitta foresta su ambo i lati: non potevi vedere in essa uno spiraglio o una luce. Parlammo di Cairo, domandandoci se ce ne saremmo accorti arrivandoci. Io dicevo di no, perché avevo sentito dire che c’erano appena una dozzina di case, e se non capitava che qualcuna avesse la luce accesa, come potevamo sapere se stavamo ando davanti a una casa? Jim disse che se due grossi fiumi si congiungevano in quel punto, si sarebbe capito. Ma io osservai che forse potevamo credere di aver superato un’isola per poi tornare allo stesso fiume. Questo inquietò Jim e anche me. Dunque la questione era: che fare? Proposi di raggiungere a remi la riva la prima volta che fosse apparsa una luce e raccontare che papà era dietro di noi con la sua chiatta carica di merce ed essendo nuovo del mestiere voleva sapere quant’era lontana Cairo. Jim disse che era una buona idea, cosi ci facemmo sopra una bella pipata, e aspettammo. Ma un ragazzo non sa aspettare a lungo se è impaziente di sapere una cosa. Ne discutemmo un po’ e infine Jim disse che ormai era notte cosi fonda che non c’era nessun rischio a nuotare fino alla grande zattera, arrampicarvisi sopra e

ascoltare; avrebbero parlato di Cairo, contando di scendere a terra a far baldoria, forse, o in ogni caso avrebbero mandato una barca a riva per comprare whisky o carne fresca o che so io. Jim aveva un cervello fino, per essere un negro: sapeva quasi sempre mettere in piedi un buon piano, quando ti serviva. Mi alzai in piedi, buttai via i miei stracci e mi tuffai nel fiume, puntando verso la luce della zattera. Dopo un po’, quando le fui abbastanza vicino, rallentai e andai avanti con cautela. Ma tutto andava bene, nessuno stava ai remi. Nuotai lungo la zattera fin quasi di fronte al fuoco da campo nel mezzo, poi salii a bordo e pian piano mi spinsi tra alcuni fasci di assicelle, sottovento rispetto al fuoco. C’erano là tredici uomini, di guardia sul ponte, naturalmente. E musi molto duri, anche. Avevano un bottiglione e tazze di latta, e il bottiglione continuava a girare. Uno stava cantando - ragliando, si può dire; e non era una bella canzone, almeno per un salotto. Ragliava col naso, e strascicava a lungo l’ultima parola di ogni verso. Dopo averla finita ne cantò un’altra, che cominciava:

C’era una donna al nostro paese, al nostro paese abitava, amava molto il suo caro marito, ma anche un altro ne amava. Tarà, tarà, tarà, tarò, torà, rata...tà, amava molto il suo caro marito, ma anche un altro ne amava. E così via; quattordici strofe. Era piuttosto mediocre, e mentre quello stava per cominciare la strofa successiva uno di loro disse che durante quella canzone era morta la vecchia vacca; e un altro disse: «Oh, un attimo di requiem». E un altro gli disse di fare un giretto. Continuarono a prenderlo in giro finché lui s’infuriò, saltò in piedi e cominciò a imprecare contro tutti, e disse che lui era capace di bastonare qualsiasi ladro del gruppo. Tutti stavano per gettarglisi addosso, ma il più grosso del gruppo salta su e dice:

— Fermi dove siete, signori. Lasciatelo a me; è pane per i miei denti. Poi saltò in aria tre volte, sbattendo i tacchi ogni volta. Butta via la giacca di cuoio, tutta piena di frange, e fa: — State fermi finché le sue pene sono finite. Poi saltò in aria e sbattè i tacchi un’altra volta e urlò: — Hoo-op! lo sono il vecchio mascella d’acciaio, denti d’ottone, pancia di rame, l’autentico sterminatore del selvaggio Arkansas! Guardatemi! Sono quello che chiamano Morte Improvvisa e Desolazione Generale! Generato dall’uragano, partorito dal terremoto, fratello di latte dei colera, parente stretto del vaiolo per parte di madre! Guardatemi! A colazione mi faccio diciannove alligatori e un barile di whisky quando sono in buona salute, un cesto di serpenti a sonagli e un cadavere frollo quando non sto bene! Io spezzo la roccia eterna con uno sguardo e spengo il tuono quando mi metto a parlare! Hoo-op! State indietro, e fate largo alla mia forza! Il sangue è la mia bevanda naturale, e i lamenti di chi muore sono musica per le mie orecchie! A me gli occhi, signori! State buoni e tenete il fiato, perché ora mi scateno! E durante tutta questa eruzione scuoteva la testa e lanciava occhiate feroci, e sembrava gonfiarsi fra la piccola cerchia, rimboccandosi le maniche e ogni tanto ergendosi su e battendosi i pugni sul petto, e dicendo: «Guardatemi, signori!». Quando ebbe finito fece un salto e sbattè i tacchi tre volte e buttò fuori un ruggente «Hoo-op! Io sono il più feroce figlio di lince che ci sia al mondo! ». Allora l’uomo che aveva cominciato la zuffa si calò il vecchio cappello sfondato sull’occhio destro; poi curvandosi si piegò in avanti, con la schiena gobba e il fondo schiena bello in fuori, e mulinando i pugni davanti a sé per tre volte fece il giro della piccola cerchia, gonfiandosi e ansimando forte. Poi si raddrizzò, e fece un salto e sbattè I tacchi tre volte prima di ricadere (al che tutti applaudirono), e cominciò a urlare: — Hoo-op! Giù la testa e faccia a terra, sta per arrivare il regno del dolore! Tenetemi per terra, perché sento in azione i miei poteri al lavoro! Hoo-op! Io sono il figlio del peccato, guai se mi scateno! Presto, occhiali da sole per tutti! Che non vi salti in mente di guardarmi a occhio nudo, signori! Quando mi va di scherzare mi faccio una rete da pesca con i meridiani della longitudine e i paralleli della latitudine, e rastrello l’Oceano Atlantico in cerca di balene! Mi gratto la testa coi fulmini e a letto ronfo con il tuono! Quando ho freddo, metto a

bollire il Golfo del Messico e ci faccio dentro il bagno; quando ho caldo, mi faccio vento con una bufera equinoziale; quando ho sete, prendo una nuvola e me la succhio come una spugna; quando vago per la terra affamato, mi lascio dietro la carestia! Hoo-op! Giù la testa e faccia a terra! Io metto la mano davanti al sole e faccio notte sulla terra; lo mordo un pezzo di luna e anticipo le stagioni; io mi scuoto e faccio crollare le montagne! Mettetevi gli occhiali per guardarmi: mai a occhio nudo! Io sono l’uomo dal cuore di pietra e dalle budella d’acciaio! Il massacro di comunità isolate è il atempo dei miei momenti di riposo, distruggere le nazioni l’attività seria della mia vita! La sconfinata vastità del grande deserto americano è mia proprietà privata, e i miei morti li seppellisco in terra mia! Fece un salto e sbattè i tacchi tre volte prima di ricadere (lo applaudirono di nuovo), e tornò a terra urlando: — Hoo-op! Giù la testa e faccia a terra, sta per giungere il figlio prediletto della calamità! Allora l’altro riprese a gonfiarsi e ansimare - il primo, quello che chiamavano Bob; poi si fa sotto il Figlio della Calamità, più grosso che mai; poi ci si misero tutti e due assieme, gonfiandosi e girandosi attorno l’un l’altro e tirando pugni in aria sotto il naso uno dell’altro, urlando come indiani. Poi Bob cominciò a dare dei titoli al Figlio, e il Figlio gli rispondeva con altri; allora Bob gliene diede di molto più rudi e il Figlio gli rispondeva con il linguaggio più pesante; poi Bob sbattè a terra il cappello del Figlio, e il Figlio lo raccolse e scalciò il cappello a brandelli di Bob lontano sei metri; Bob andò a prenderlo e disse che non importava, ma non finiva cosi, perché lui era un uomo che mai dimentica e mai dimenticherà, e allora il Figlio era meglio che stesse attento perché sarebbe venuto il momento, vero come è vero che lui era al mondo, che l’avrebbe pagata con il miglior sangue che aveva nelle vene. Il Figlio disse che nessuno desiderava più di lui che quel momento venisse, e voleva avvertire bene Bob, Intanto, di non incrociare mai la sua strada, perché non poteva aver pace finché non avesse nuotato nel suo sangue, perché lui era fatto cosi, benché ora lo risparmiasse in considerazione della sua famiglia, se ce l’aveva. Tutti e due se ne andarono in opposte direzioni, blaterando e scuotendo la testa e continuando a dire quello che intendevano fare; ma un piccoletto con le basette nere saltò su e disse:

— Tornate qua, razza di vigliacchi rammolliti, che ve le suono a tutti e due! E lo fece anche. Li afferrò, li sbattè a destra e a sinistra, li prese a pedate, li malmenò tenendoli a gambe all’aria senza che riuscissero ad alzarsi. In meno di due minuti quelli guaivano come cani; e come urlavano i compagni ridendo e battendo le mani ad ogni colpo, e gridavano: «Dàcci dentro, Sterminato re!», «Dài, anche tu, Figlio della Calamità! », « Bravo, piccolo Davy!». Bene, per un po’ fu un vero macello. Alla fine Bob e il Figlio avevano il naso rosso e gli occhi neri. Il piccolo Davy gli fece dichiarare che erano dei vigliacchi e indegni di mangiare con un cane o bere con un negro; poi Bob e il Figlio si strinsero la mano molto solennemente e dissero che si erano sempre rispettati l’un l’altro e che volevano mettere una pietra sul ato. E allora si lavarono la faccia nel fiume; e proprio in quel momento si senti l’ordine di star pronti per la traversata e alcuni andarono a prua per badare al remi, e il resto a poppa a tenere i remi timonieri. Io rimasi immobile e aspettai per un quarto d’ora, facendomi una fumatina con la pipa che uno aveva lasciato a portata di mano; poi la traversata fini e quelli tornarono indietro. Ricominciarono a arsi il bottiglione e si misero di nuovo a parlare e a cantare. Poi tirarono fuori un vecchio violino: uno suonava e un altro batteva il tempo mentre gli altri si abbandonarono a una danza negra molto ritmata tipica delle vecchie chiatte. Ma non potevano durare a lungo senza sfiatarsi, cosi a poco a poco tornarono a sedersi intorno al bottiglione. Cantavano « la bella, bella vita di zattera è la vita per me », in un coro fortissimo, e poi si misero a parlare delle differenze fra varie razze di maiali e delle loro diverse abitudini; e poi delle donne e dei loro diversi tipi; e poi del modo migliore di spegnere l’incendio in una casa; e poi di cosa si dovrebbe fare degli indiani; e poi di cosa deve fare un re, e di quanto guadagna; e poi di come far lottare i galli; e poi di cosa c’è da fare quando un uomo ha le convulsioni; e poi delle differenze tra fiumi d’acqua limpida e fiumi d’acqua torbida. Quello che chiamavano Ed disse che l’acqua del torbido Mississippi era più sana da bere che non l’acqua limpida dell’Ohio; disse che se lasci deporre una pinta di quest’acqua gialla del Mississippi, avrai sul fondo da uno a due centimetri di fango, secondo le condizioni del fiume, e allora non era migliore dell’acqua dell’Ohio (quel che bisogna fare è di tenerla agitata), e quando il fiume è in magra, prendi del fango e mettilo nell’acqua in modo da renderla densa quanto dovrebbe essere.

Il Figlio della Calamità disse che era vero; disse che nel fango c’è un potere nutritivo, e un uomo che beve l’acqua del Mississippi può far crescere il grano nel suo stomaco, se vuole. Disse: — Guardate i cimiteri e capirete subito. Gli alberi che crescono in un cimitero di Cincinnati non valgono una cicca, mentre in un cimitero di St. Louis crescono alti venti metri. Tutto dipende dall’acqua che la gente ha bevuto prima di essere sepolta. Un cadavere di Cincinnati non ingrassa affatto la terra. Poi parlarono di come l’acqua dell’Ohio non ama mescolarsi con quella dei Mississippi. Se prendi il Mississippi quando è in piena - disse, Ed - mentre l’Ohio è in magra, troverai una fascia di acqua limpida sulla riva orientale del Mississippi per un tratto di cento chilometri e più, mentre se ti allontani un tre o quattrocento metri dalla riva e i la linea, l’acqua è densa e gialla per tutto il resto del fiume. Poi parlarono di come tener via la muffa dal tabacco, e da questo ano agli spiriti e dicono un mucchio di cose che altri hanno visto; ma Ed fa: — Perché non raccontate qualcosa che avete visto voi? Allora lasciate che parli io. Cinque anni fa ero su una zattera grande come questa e proprio da queste parti. Era una chiara notte di luna, e lo stavo di guardia al remo di tribordo, a poppa. Uno dei miei compagni era un tal Dick Allbright, e venne verso il punto dove io stavo seduto, a poppa, stirandosi e sbadigliando. Si chinò sul bordo della zattera per lavarsi la faccia nel fiume, e poi venne a sedersi accanto a me e tirò fuori la pipa; l’accende e fa: «“Ehi, guarda qui” dice “quello non è il posto di Buck Miller, laggiù nell’ansa?” «“Si” dico io “è quello; perché?” «Mette giù la pipa e poggia la testa sulla mano e fa: «“Credevo che fossimo più in giù.” «Io dico: «“Lo credevo anch’io, quando ho finito il mio turno di guardia (facevamo sei ore si e sei ore no), ma i ragazzi mi hanno detto” dico io “che la zattera non sembrava andare avanti durante l’ultima ora” dico io “anche se adesso fila via bene.”

«Lui ha una specie di gemito e fa: «“Ho già visto una zattera fare cosi, da queste parti” dice “mi pare che la corrente sia quasi esaurita sopra il gomito di quella curva negli ultimi due anni” dice. «Si alzò in piedi due o tre volte e guardò lontano tutt’ intorno sull’acqua. Anch’io mi misi a guardare. Si sta sempre a fare quel che si vede fare a qualcun altro, anche se non ha senso. Di li a poco vedo qualcosa di nero sull’acqua, lontano a tribordo, e sembra venirci dietro. Mi accorgo che anche lui sta guardando la stessa cosa. Dico: «“Che cos’è?” «Dice, come irritato: «“È solo un vecchio barile vuoto.” «“Un barile vuoto” dico io. “Però” dico io “un cannocchiale fa da ridere in confronto al tuoi occhi. Come puoi dire che è un barile vuoto?” «Dice: «“Non lo so; magari non è un barile, ma pensavo che lo fosse” dice lui. «“Si” dico io “potrebbe esserlo, e potrebbe essere anche qualcos’altro; non si può dir niente a questa distanza” dico io. «Non avevamo niente da fare, e cosi lo tenemmo d’occhio. Dopo un po’ dico: « “Ehi, guarda qui, Dick Allbright, quella cosa sta avvicinandosi, credo.” «Lui non disse niente. La cosa si avvicinava sempre più, e pensai che doveva essere un cane, stanco morto. Bene, viriamo per una traversata, e la cosa ora galleggia proprio nel riflesso della luna, e, per dio, era un barile. Dico: «“Dick Allbright, che cosa ti ha fatto pensare che quella cosa fosse un barile, quand’era lontana mezzo miglio?” dico. Lui fa: «“Non lo so.” «Dico:

«“Devi dirmelo, Dick Allbright.” «Lui fa: «“Be’, sapevo che era un barile; l’avevo già visto; tanti lo hanno visto; dicono che è un barile stregato.” «Chiamai gli altri del turno, e vennero li e si fermarono, e io gli raccontai cosa aveva detto Dick. Quello galleggiava proprio di fronte a noi, ora, e non si avvicinava più. Era lontano cinque o sei metri. Qualcuno voleva tirarlo su, ma gli altri dissero di no. Le zattere che si erano interessate di quel barile, disse Dick Allbright, erano finite male. Il capo del turno di guardia disse che non ci credeva. Secondo lui il barile accorciava la distanza su di noi perché si trovava in una corrente un po’ migliore della nostra. Disse che pian piano se ne sarebbe andato. «E cosi ci mettemmo a parlare di altre cose, e a cantare e ballare; poi il capo ci chiese un’altra canzone, ma ora si era fatto nuvoloso e il barile stava sempre là nello stesso posto e la canzone non sembrava tirarci su tanto, ad ogni modo, e cosi prima ancora di finirla non c’era nessuno di allegro, ma tutti piuttosto giù di corda, e nessuno disse niente per un po’. Poi tutti cercarono di parlare insieme, e uno tirò fuori una barzelletta, ma era inutile, non ridevano, e nemmeno quello che aveva raccontato la barzelletta si mise a ridere, come succede sempre. Tutti ci mettemmo seduti, coi musi lunghi a guardare il barile, e non si stava per niente bene. Be’, cari miei, si fece buio pesto e non si vide più nulla. Poi si alzò il vento e cominciarono lampi e tuoni. In breve ci fu una tempesta in piena regola, e nel mezzo di essa un uomo che correva verso poppa inciampò e cadde slogandosi una caviglia, sicché dovette starsene disteso. Questo fece scuotere la testa ai ragazzi. E ogni volta che veniva un lampo, c’era sempre quel barile illuminato dalle luci bluastre. Noi non lo perdevamo mai di vista. Ma a poco a poco, verso l’alba, se n’era andato. Quando fu giorno, non riuscimmo a vederlo da nessuna parte, e certo non ci dispiaceva. « Ma la sera dopo, verso le nove e mezza, mentre si cantava e si stava allegri, ecco che compare di nuovo e prende il suo solito posto a tribordo. L’allegria si spense. Tutti si fecero seri; nessuno parlava; non vedevi nessuno far altro che starsene seduto da qualche parte triste e pensieroso a guardare il barile. Cominciò di nuovo ad annuvolarsi. Al cambio della guardia, Il turno che smontava rimase alzato invece di ritirarsi. La bufera urlò e ruggì tutta la notte, e

nel mezzo di essa un altro uomo scivolò e si slogò la caviglia: un altro fuori combattimento. Il barile scomparve verso mattina, e nessuno lo vide andare. «Tutti rimasero sobri e giù di corda per tutto il giorno. Non intendo sobri come quando non si beve, no no. Erano quieti, ma tutti bevevano più del solito, non insieme, ma ciascuno andava a prendersene in privato, per conto suo. «Alla sera il turno di guardia che smontava non si ritirò; nessuno cantava, nessuno parlava; i ragazzi non andavano nemmeno in giro, ma restavano come raccolti insieme, a prua; e per due ore rimasero fermi lì, in perfetto silenzio, con lo sguardo fisso nella stessa direzione e ogni tanto un sospiro. E allora, ecco di nuovo il barile. Esso riprese il suo solito posto. Rimase là tutta notte; nessuno andò a dormire. Venne di nuovo la tempesta, dopo mezzanotte. Si fece terribilmente scuro; era un diluvio; grandinava, anche; il tuono urlava e ruggiva rabbiosamente; il vento sollevò un uragano; e i lampi stendevano su tutto grandi lenzuoli di luce abbagliante, e facevano vedere l’intera zattera come in pieno giorno; e il fiume schiumava bianco come latte fin dove potevi vedere, per chilometri e chilometri, e c’era quel barile che continuava a seguirci, sempre al suo posto. Il capo ordinò al turno di guardia di andare al remi timonieri per una traversata, ma nessuno voleva andarci; basta con le caviglie slogate, dicevano. Non volevano andare a poppa a quattro zampe. Bene, proprio in quel momento il cielo fu squarciato da un rombo e il fulmine uccise due uomini di guardia a poppa e ne feri altri due. Li feri come? direte. Bene, slogandogli le caviglie! «Il barile scomparve nel buio tra un lampo e l’altro, verso l’alba. Nessuno mangiò niente quella mattina a colazione. E dopo gli uomini oziarono qua e là, a due o tre, parlandosi plano. Ma nessuno che fe gruppo con Dick Allbright. Tutti lo evitavano. Se lui gironzolava dove c’era qualcuno degli altri, questi si dividevano e si tiravano in disparte. Nessuno voleva maneggiare i remi con lui. Il capo fece tirar su tutte le scialuppe sulla zattera, vicino al suo capanno, e non lasciò portare a riva i morti per la sepoltura: non credeva che se uno toccava terra sarebbe tornato, e aveva ragione. «Scese la notte, capivi benissimo che sarebbe successo qualcosa se spuntava di nuovo quel barile, tanto era il mormorio che si sentiva in giro. Molti volevano ammazzare Dick Allbright perché aveva visto il barile in altri viaggi, e questo aveva un che di sospetto. Alcuni volevano farlo scendere a riva. Altri dicevano: se quel barile viene ancora sbarchiamo tutti.

«Si stavano ancora facendo questi discorsi e tutti gli uomini erano radunati a prua attenti al barile, quando, guarda e riguarda, quello ricompare. Si avvicina lento e sicuro, e va a mettersi al suo solito posto. Si poteva sentire uno spillo cadere. Allora il capo salta su e dice: « Ragazzi, non siate un branco di stupidi o di bambini; io non voglio che questo barile ci segua per tutta la strada fino a Orleans, e nemmeno voi; bene, allora, qual è il miglior modo di fermarlo? Bruciarlo, ecco qual è. Lo tirerò a bordo” dice. E prima che qualcuno potesse dire una parola, era già in acqua. «Nuotò fino al barile, e quando tornò spingendolo verso la zattera, gli uomini si tirarono da una parte. Ma il vecchio riusci a tirarlo su e lo sfondò a un capo, e dentro c’era un bambino! Sissignori, un bambino completamente nudo. Era il bambino di Dick Allbright; dovette ammetterlo. «“Si” dice lui curvandosi sul barile. “Si, è il mio povero caro, il mio perduto Charles William Allbright deceduto” dice, perché sapeva infiorare i discorsi con le parole più ricercate quando voleva, e te le spiattellava sotto il naso come niente fosse. Si, disse che lui viveva a monte di quest’ansa del fiume, e una notte aveva strozzato il bambino che stava piangendo, senza intenzione di ucciderlo, il che probabilmente era una balla, e allora ebbe paura e lo seppellì in un barile, prima che tornasse a casa sua moglie, e poi se ne andò puntando verso il nord e trovò impiego sulle zattere; e questo era il terzo anno che il barile gli dava la caccia. Disse che la scalogna cominciava sempre con poco, e durava finché non fossero morti quattro uomini, dopo di che il barile non si faceva più vedere. Disse che se gli uomini resistevano ancora una notte e tutto andava come al solito... ma gli uomini ne avevano abbastanza. Cominciarono a mettere in acqua una barca per portarlo a riva e linciarlo, ma lui improvvisamente afferrò il bambino e saltò in acqua con quello stretto al petto e gli occhi pieni di lacrime, e non l’abbiamo più visto, povera vecchia anima in pena, e nemmeno Charles William. » — Ma chi stava piangendo? — disse Bob. — Era Allbright o il bambino? — Ma Allbright naturalmente; non vi ho detto che il bambino era morto? Morto da tre anni... come poteva piangere? — Be’, non importa come poteva piangere... ma come poteva conservarsi tutto quel tempo? — dice Davy. — Rispondi a ciò.

— Non so come abbia fatto — dice Ed. — L’ha fatto comunque... è quanto ne so. — Di’, cosa ne hanno fatto del barile? — dice il Figlio della Calamità. — L’hanno sbattuto in acqua, ed è colato a picco come un pezzo di piombo. — Edward, il bambino sembrava uno che è stato strozzato? — dice uno. — Aveva la riga nei capelli? — dice un altro. — Qual era il marchio su quel barile, Eddy? — dice un tizio che chiamavano Bill. — Ha! tenuto i giornali per quei dati, Edmund? — dice Jimmy. — Di’, Edwin, tu eri uno degli uomini uccisi dal fulmine? — dice Davy. — Lui? Oh no, lui era entrambi — disse Bob. Allora tutti risero. — Di’, Edward, non credi che faresti meglio a prenderti una purga? Hai brutta cera, non ti senti pallido? — dice il Figlio della Calamità. — Oh, vieni qui, Eddy — dice Jimmy — e facci vedere: devi aver conservato un pezzo di quel barile per provare questa storia. Facci vedere il buco del tappo, dài, e tutti ti crediamo. — Sentite, ragazzi — dice Bill — dividiamocela. Qui siamo in tredici. Io mi sento di berlo un tredicesimo di questa balla, se voi mandate giù il resto. Ed s’infuriò e disse che potevano andare tutti in un certo posto che indicò in modo molto esplicito, e poi se n’andò a poppa imprecando tra sé, mentre quelli urlavano e lo sfottevano, e sghignazzavano che li potevi sentire a un miglio. — Ragazzi, tagliamoci un’anguria su questa storia — dice il Figlio della Calamità; cosi venne a rovistare al buio tra i fastelli di assi dov’ero io, e mise la mano su di me. Io ero caldo e morbido e nudo; allora lui grida «ohi!» e salta indietro. — Portate qui una lanterna o un tizzone, ragazzi... C’è un serpente grosso come

una vacca! Allora tutti corrono con una lanterna e si affollano intorno a me a guardarmi. — Vieni fuori di li, manigoldo! — dice uno. — Chi sei? — dice un altro. — Cosa fai qui? Rispondi subito o finisci in acqua. — Tiratelo fuori, ragazzi. Prendetelo per le calcagna. Io cominciai a supplicarli e mi avvicinai tremante. Quelli mi guardavano fisso, meravigliati, e il Figlio della Calamità dice: — Un maledetto ladro! Datemi una mano a buttarlo nel fiume! — No — dice Big Bob — prendiamo il secchio della vernice e dipingiamolo di blu dalla testa ai piedi, e poi buttiamolo giù! — Buona idea! Vai a prendere la vernice, Jimmy. Quando arrivò la vernice, e Bob prese il pennello e stava per cominciare, mentre gli altri ridevano e si sfregavano le mani, io mi misi a piangere e questo ebbe un qualche effetto su Davy, che disse: — State fermi! È soltanto un cucciolo. Lo dipingo io chi ci prova a toccarlo! Allora mi guardai intorno, e vidi alcuni che borbottavano seccati, e Bob mise giù la vernice e nessuno degli altri la prese. — Vieni qui al fuoco, e vediamo che sei venuto a fare — dice Davy. — Siediti qui e raccontaci chi sei. Da quanto sei a bordo? — Non più di un quarto di minuto, signore — dico Io. — E come hai fatto ad asciugarti così in fretta? — Non lo so, signore. Mi succede sempre cosi, di solito. — Ah, ti succede così? Come ti chiami?

Non intendevo dire il mio nome. Non sapevo cosa dire, e allora dico: — Charles William Allbright, signore. Allora scoppiarono a ridere tutti insieme; e io ero molto contento di aver detto cosi, perché forse quelle risate li avrebbero messi più di buon umore. Quando finirono di ridere, Davy disse: ; — Questa è grossa, Charles William. Non puoi essere cresciuto tanto in cinque anni; eri un neonato quando sei uscito dal barile, capisci, e per di più morto. Forza, adesso, dicci la verità, e nessuno ti farà del male, se non avevi cattive intenzioni. Come ti chiami? — Aleck Hopkins, signore. Aleck James Hopkins. —Bene, Aleck, e da dove sei venuto? — Da una chiatta. Che sta legata lassù. Io sono nato su quella. Papà ha sempre fatto trasporti su e giù per tutta la vita; e mi ha detto di venire a nuoto fino a qui, perché quando siete ati ha detto che voleva pregare qualcuno di voi di parlare con il signor Jonas Tumer, a Cairo, e dirgli... — Oh, andiamo! — Si, signore, è proprio vero; papà dice... — Oh, tua nonna! Tutti risero, e io tentai ancora di parlare, ma essi mi interruppero e mi bloccarono. — Ora stammi a sentire — dice Davy — sei spaventato e non sai cosa ci dici. Sinceramente, adesso, vivi su una chiatta o è una bugia? — Si, signore, su una chiatta da trasporto. Che sta lassù all’inizio dell’ansa. Ma non ci sono nato. Questo è il nostro primo viaggio. — Questo è parlare! Cosa sei venuto a fare qui? A rubare? — No, signore, no. È stato solo per fare un giretto sulla zattera. Tutti i ragazzi lo

fanno. — Si, lo so. Ma perché ti nascondevi? — A volte i ragazzi li sbattono via. — È vero. Perché possono rubare. Stammi attento: se ti lasciamo andare per questa volta, dopo la smetterai con questo genere di fesserie? — Certo, capo. Potete contarci. — Bene, allora. Non siamo lontani dalla riva. Buttati, e non fare più lo stupido in questo modo un’altra volta. Chiamati fortunato, ragazzo, su certe zattere ti avrebbero pestato fin che diventavi viola! Non aspettai che mi dicessero arrivederci, ma mi buttai in acqua e via verso la riva. Quando arrivò Jim dopo un po’, la grossa zattera era già fuori vista oltre la curva. Lo raggiunsi a nuoto, ed ero molto contento di essere di nuovo a casa. Non c’era niente da fare, ora, se non guardare bene se si vedeva la città, per non oltrearla. Jim disse che era assolutamente sicuro di vederla, perché sarebbe stato un uomo libero nel momento in cui la vedeva; se invece gli sfuggiva restava ancora in un paese schiavista e non avrebbe più visto la libertà. Ogni momento s’alzava in piedi e diceva: — Eccola là! Ma non lo era. Erano fuochi fatui, o lucciole; allora si metteva di nuovo seduto e attento come prima. Jim diceva che lo faceva sentire tutto eccitato e come in preda alla febbre essere così vicino alla libertà. Bene, posso dirvi che anch’io mi sentivo tutto tremante di febbre a sentirlo, perché cominciava a entrarmi in testa che lui era ormai quasi libero; e di chi era la colpa, se non mia? Non riuscivo a togliermi questo pensiero, per quanto mi sforzassi. E mi metteva in tale agitazione che non riuscivo a star quieto in nessun posto. Non ci avevo mai pensato, prima, a cosa stavo facendo, ma ora mi divenne chiaro; questo pensiero mi rimaneva fisso e mi tormentava sempre più. Cercavo di convincermi che non ero da biasimare, perché non ero stato io a far scappare Jim dal suo legittimo proprietario; ma era inutile, la coscienza insorgeva e mi diceva ad ogni istante: «Ma tu sapevi che lui stava fuggendo verso la libertà, e potevi andare a terra e dirlo a qualcuno». Era cosi, non c’era niente da dire, assolutamente. Questo era il

punto che mi rimordeva. La coscienza mi diceva: «Che cosa ti ha fatto la povera Miss Watson perché tu guardassi il suo negro scappare senza mai dire una sola parola? Che cosa ti ha fatto quella povera donna da trattarla in maniera così vile? Ha cercato di insegnarti a leggere, ha cercato di insegnarti le buone maniere, ha cercato di essere buona con te in tutti i modi. Ecco cosa ha fatto». Incominciai a sentirmi cosi meschino e miserabile che quasi avrei voluto morire. Camminavo su e giù per la zattera, irato con me stesso, e Jim camminava su e giù dietro di me. Nessuno dei due poteva stare tranquillo. Ogni volta che lui si metteva a saltare dicendo: «Ecco Cairo!», mi prendeva un colpo e pensavo che se era Cairo sarei morto dalla disperazione. Jim continuava a parlare a voce alta mentre io rimuginavo dentro di me. Stava dicendo che la prima cosa che avrebbe fatto appena arrivato in uno Stato libero era di risparmiare denaro e non spendere mai nemmeno un cent, e quando aveva abbastanza denaro avrebbe riscattato sua moglie che era schiava in una fattoria vicino a dove viveva Miss Watson; e poi tutti e due avrebbero lavorato per riscattare i due figli, e se il loro padrone non voleva venderli, avrebbero convinto un abolizionista ad andare a rapirli. Mi sento gelare udendo tali discorsi. Mai prima in vita sua avrebbe osato parlare così. Guardate che cambiamento avvenne in lui quando gli parve di essere ormai libero. Tutto secondo il vecchio detto: «Dài a un negro un dito e si prenderà tutto il braccio ». Ecco cosa capita a non averci pensato, pensai. Ecco un negro che ho contribuito a far scappare, e adesso mi viene a dire chiaro e tondo che vuole rubare i suoi figli, figli che appartengono a un uomo che lo nemmeno conosco, un uomo che non mi ha mai fatto niente di male. Mi dispiaceva sentire Jim dire quelle cose, lo sminuiva ai miei occhi. La mia coscienza prese a rimordermi più che mai, finché alla fine la misi a tacere: «Lasciami stare, non è ancora troppo tardi, alla prima luce vado a riva e parlo». Mi sentii subito felice e contento, e leggero come una piuma. Quasi cantando mi misi a scrutare in cerca di una luce. Ben presto ne comparve una. Anche Jim si mette a cantare: — Siamo salvi, Huck, siamo salvi! Salta e batti i tacchi, quella è la buona vecchia Cairo finalmente, la riconosco! Io dico:

— Prendo la canoa e vado a vedere, Jim. Potrebbe non essere, alle volte. Con un balzo preparò la canoa, vi mise sul fondo la sua vecchia giacca per farmi un sedile, e mi ò la pagaia; e mentre mi allontanavo disse: — Fra poco potrò urlare dalla gioia, e dirò che è tutto merito di Huck; sono un uomo libero, e non l’avrei mai potuto essere se non fosse stato per Huck; Huck ha fatto questo per me. Jim non lo dimenticherà mai, Huck; tu sei il miglior amico che Jim abbia mai avuto e il solo amico che il vecchio Jim ha in questo momento. Stavo allontanandomi ben deciso a denunciarlo; ma quando udii dire queste parole, mi sentii come svuotato. Andai avanti lentamente, allora, e non ero più tanto sicuro se ero contento di essere partito oppure no. Quando fui lontano cinquanta metri, Jim dice: — Eccolo là, il vecchio fedele Huck; il solo gentiluomo bianco che ha mantenuto la sua promessa al vecchio Jim. Be’, mi sentivo proprio male. Ma mi dicevo «devo farlo, non posso fare a meno di farlo ». Proprio in quel momento mi si avvicina una barca con sopra due uomini armati di fucile; si fermano e anch’io mi fermo. Uno mi fa: — Che cosa c’è laggiù? — Un pezzo di zattera — dico. — Tu ne fai parte? — Si, signore. — C’è su qualche uomo? — Solo uno, signore. — Bene, stanotte sono scappati cinque negri, laggiù dove inizia l’ansa del fiume. Il tuo uomo è bianco o negro? Non risposi con prontezza, ci provai, ma le parole non venivano. Tentai per qualche Istante di farmi forza e buttar fuori la verità, ma non ero uomo

abbastanza, avevo meno coraggio di un coniglio. Vedo che sto cedendo; allora smetto di tentare e dico: — Bianco. — È meglio che andiamo a vedere noi stessi. — Vorrei proprio che veniste — dico io — perché c’è papà là sopra e forse potreste aiutarmi a tirare la zattera a riva, là dove si vede quella luce. È malato, papà... e anche la mamma e Mary Ann. — Oh diavolo, noi siamo di fretta, ragazzo, ma comunque andiamo. Vieni, prendi la pagaia e muoviamoci. Io mi do da fare con la pagala e loro si chinano sui remi. Dopo qualche colpo dico: — Papà vi sarà molto obbligato, ve lo assicuro. Tutti se ne vanno quando gli chiedo di aiutarmi a tirare a riva la zattera, e io non riesco a farlo da solo. — Be’, questo è maledettamente vile. E strano, anche. Di’ un po’, ragazzo, che cos’ha tuo padre? — È il... un... il... be’, non è niente di grave. Smisero di remare. Ormai mancava ben poco alla zattera. Uno dice: — Ragazzo, questa è una bugia. Cos’ha veramente tuo papà? Rispondi bene, adesso, e sarà meglio per te. — Certo, signore, certo, con tutta onestà... ma non abbandonateci, per favore. È il... il... Se venite avanti un po’ e io vi o la fune, non c’è bisogno che vi avviciniate alla zattera, vi prego... — Indietro, John, indietro! — dice uno e si scansarono. — Stai lontano, ragazzo, tieniti sottovento. Corpo di un demonio, spero che il vento non ce l’abbia già soffiato addosso. Tuo padre ha il vaiolo, e tu lo sai benissimo. Perché non ce l’hai detto subito? Vuoi spargerlo dappertutto?

— Be’ — dico io piagnucolando — prima lo dicevo a tutti, e allora scappavano via e ci abbandonavano. — Povero diavolo, c’è del vero in questo. Ci rincresce davvero per te, ma... insomma, mettila come ti pare, noi non vogliamo prendere il vaiolo, capisci. Stammi attento, ti dirò cosa devi fare. Non cercare di approdare da solo o manderai tutto in fumo. Scendi giù ancora una trentina di chilometri e arriverai a una città sul lato sinistro del fiume. Sarà giorno fatto, allora, e quando chiederai aiuto, di’ che i tuoi sono ammalati e hanno la febbre. Non essere sciocco un’altra volta nel far capire di che si tratta. Noi te lo diciamo nel tuo interesse; ma tu fai il bravo e metti trenta chilometri fra te e noi. Non ti servirebbe a niente scendere laggiù dove c’è quella luce, è solo un deposito di legname. Senti, penso che tuo padre sia povero e devo dire che gli è capitata una vera disgrazia. Qui su questa assicella metto venti dollari in una moneta d’oro, e tu prendila quando ti galleggia vicino. Mi sento proprio un verme ad abbandonarti, ma santo cielo, non si può scherzare con il vaiolo, non ti pare? — Aspetta, Parker — dice l’altro tizio — ecco un’altra moneta da venti da mettere sull'asse da parte mia. Addio, ragazzo, fa’ come ti ha detto il signor Parker, e andrà tutto bene. — Infatti, ragazzo mio; addio, addio. E se vedi qualche negro che scappa, fatti aiutare e acciuffalo, e potrai guadagnarti dei soldi. — Addio, signore — dico io — non mi lascerò sfuggire dei negri se mi vengono a tiro. Se ne andarono e io tomai alla zattera, sentendomi colpevole e giù di morale, perché sapevo benissimo che avevo sbagliato, e vedevo che era inutile per me tentare di imparare a comportarmi bene; se uno non ha cominciato bene da piccolo e non ha avuto l’esempio, quando viene il momento della prova non c’è nulla che lo sostenga e lo aiuti a fare il suo dovere, e così si trova battuto. Poi ci pensai un momento e dissi tra me: aspetta, metti di aver fatto il tuo dovere e aver consegnato Jim: ti sentiresti meglio di come ti senti adesso? No, dico, mi sentirei malissimo, mi sentirei esattamente come mi sento adesso. E allora, dico, a che serve imparare a fare il proprio dovere, se farlo è seccante e a non farlo non si corrono rischi e il compenso è sempre lo stesso? Ero perplesso. Non sapevo cosa rispondere. Così decisi di non occuparmene più e in seguito far sempre quello che di volta in volta mi veniva più spontaneo.

Entrai nel capanno; Jim non c’era. Guardai dappertutto; non c’era da nessuna parte. Dico: — Jim! — Sono qui, Huck. Sono fuori vista quelli? Non parlare ad alta voce. Era nel fiume sotto il remo di poppa, con fuori appena solo il naso. Gli dissi che erano fuori vista, e tornò a bordo. Dice: — Ho sentito tutto e mi sono calato in acqua; e avrei nuotato verso riva se quelli venivano a bordo, per poi tornare alla zattera quando se ne fossero andati. Ma perbacco, come li hai giocati bene, Huck! È stata una trovata magnifica! Ti dico, bimbo, che con quella hai salvato il vecchio Jim, e il vecchio Jim non dimenticherà mai cos’hai fatto, caro. Poi ci mettemmo a parlare del denaro. Era una bella somma, venti dollari a testa. Jim disse che ora potevamo prendere un battello e il denaro ci bastava per andare fin dove volevamo negli Stati liberi. Disse che proseguire con la zattera per altri trenta chilometri non era molto, ma sarebbe stato meglio essere già a destinazione. Verso l’alba accostammo, e Jim mise particolare attenzione nel nascondere la zattera. Poi lavorò tutto il giorno a sistemare le cose in pacchi e preparare tutto per lasciare la zattera. Quella notte verso le dieci avvistammo le luci di una città laggiù in un’ansa sulla sinistra del fiume. Scesi nella canoa e andai a chiedere informazioni. Ben presto trovai un uomo su una barca che pescava. Mi avvicinai e chiesi: — Signore, è Cairo quella città? — Cairo? Devi essere un maledetto imbecille. — Che città è, signore?

— Se vuoi saperlo, vai a vedere. Se stai qui attorno a scocciare un altro mezzo secondo, ti arriva qualcosa che non desideri. Remai fino alla zattera. Jim era terribilmente deluso, ma gli dissi di non pensarci, Cairo doveva essere la prossima città. Oltreammo un’altra città prima che fe giorno; io stavo per uscire di nuovo, ma la riva era alta e cosi non andai. — Non è alta la riva intorno a Cairo — disse Jim. Io l’avevo dimenticato. Tutto il giorno restammo su un isolotto abbastanza vicino alla riva sinistra. Cominciai a sospettare qualcosa. E così pure Jim. Dico: — Forse siamo ati da Cairo nella nebbia quella notte. Lui fa: — Non parliamone più, Huck. I poveri negri non possono aver fortuna. Ho sempre sospettato che quella pelle di serpente non abbia smesso di fare il suo effetto. — Vorrei non averla mai vista quella pelle di serpente, Jim, vorrei non averci mai messo gli occhi sopra. — Non è colpa tua, Huck; tu non lo sapevi. Non angustiarti per questo. Quando fu giorno, vedemmo le limpide acque dell’Ohio scorrere lungo la costa proprio cosi - e più in là il vecchio, torbido Mississippi. Dunque, addio Cairo. Discutemmo a lungo sul da farsi. Risalire lungo la riva non era il caso, né si poteva andar contro corrente con la zattera, naturalmente. Non restava altro da fare che attendere il buio e tornare indietro con la canoa tentando la fortuna. Cosi dormimmo tutto il giorno in un boschetto di pioppi, in modo da essere freschi per il lavoro, ma quando tornammo alla zattera verso sera, la canoa non c’era più! Restammo senza parole per un po’. Non c’era niente da dire. Sapevamo bene che ancora una volta era opera della pelle di serpente; e dunque era inutile parlarne. Voleva dire soltanto cercare delle colpe, e questo avrebbe attirato su di noi altre disgrazie... e poi altre ancora, finché ci saremmo convinti che era meglio lasciar

perdere. Poi ci mettemmo a discutere cos’era meglio fare, e alla fine decidemmo che non c’era altro da fare che scendere con la zattera finché non avessimo avuto la possibilità di comperare una canoa e tornare indietro con quella. Non avevamo intenzione di prenderne una «in prestito» quando non ci fosse stato nessuno in giro, secondo la teoria di papà, perché questo avrebbe potuto metterci gente alle calcagna. Con l’oscurità, quindi, riprendemmo il viaggio con la zattera. Chi ancora non crede quanto sia folle prendere in mano una pelle di serpente, dopo tutto quello che la pelle di serpente ci ha fatto, adesso ci crederà, se continuerà a leggere e vedrà che altro ancora ci ha portato. Di solito si comprano canoe dalle zattere che stanno tirate a riva. Ma non vedevamo nessuna zattera tirata su; cosi continuammo per circa tre ore o più. Bene, la notte si fece scura sotto una cappa di foschia, il che è la cosa peggiore subito dopo la nebbia. Non si riesce a distinguere la sagoma del fiume e non si intuiscono le distanze. Si fece molto tardi e tutto era tranquillo, quand’ecco un battello che risale la corrente. Accendemmo la lanterna pensando che la vedessero. I battelli in risalita generalmente non ci avano vicino: costeggiavano i banchi di sabbia e cercavano le acque tranquille sotto la riva; ma in notti come questa affrontavano decisi il canale della corrente contro il grosso del fiume. Lo sentivamo procedere ansimando, ma senza vederlo bene fino a quando ci fu vicino. Puntava dritto su di noi. Fanno spesso cosi, cercando di vedere quanto riescono ad avvicinarsi senza toccare; e talvolta la ruota macina un remo e allora il pilota mette fuori la testa e ride credendosi molto spiritoso. Bene, ora arriva e noi pensiamo che sta tentando di raderci; ma non sembra scansarsi neanche un po’. Era un battello grosso e per di più veniva a tutta velocità, simile a una nuvola nera con uno sciame di lucciole intorno; ma tutto a un tratto balzò fuori, enorme e spaventoso, con la lunga fila di portelli delle caldaie aperti e brillanti come denti arroventati, e la sua mostruosa prua e le murate a picco proprio sopra di noi. Ci fu un urlo diretto a noi e uno squillare di campane per fermare le macchine, una sfilza di imprecazioni e il fischio del vapore, e mentre Jim veniva sbalzato da un lato e io dall’altro, il battello andava a sbattere in pieno contro la zattera.

Mi tuffai, e cercai di toccare il fondo, anche perché mi stava ando sopra una mota di dieci metri e certo volevo lasciarle tutto lo spazio necessario. Di solito riuscivo a stare sotto acqua un minuto; questa volta credo di aver raggiunto il minuto e mezzo. Poi mi spinsi verso l’alto in tutta fretta, perché ormai stavo scoppiando. Emersi d’un balzo con tutte le spalle, sprizzai l’acqua dal naso e ansimai un po’. Naturalmente c’era una forte corrente, e naturalmente quel battello aveva rimesso in moto le macchine dieci secondi dopo averle fermate, perché non se la prendono tanto a cuore per la gente che viaggia sulle zattere; cosi aveva già ripreso a risalire il fiume, fuori vista in quella densa oscurità, benché potessi ancora sentirlo.

Urlando chiamai Jim una dozzina di volte, ma senza ottenere risposta: mi aggrappai a una tavola che mi era venuta contro mentre stavo a galla e spingendola avanti mi diressi verso la riva. Ma mi accorsi che la corrente spingeva verso la sponda sinistra, il che significa che mi trovavo in una rapida trasversale; allora cambiai rotta e seguii quella direzione. Era una di quelle rapide trasversali lunghe almeno tre chilometri, e dunque impiegai molto tempo a superarla. Approdai sano e salvo e mi arrampicai sul banco. Riuscivo a vedere solo a poca distanza, ma andai avanti alla cieca su un terreno accidentato per qualche centinaio di metri, e prima ancora di accorgermene, mi imbattei in una grande casa di tronchi, costruita a doppio corpo secondo il vecchio stile. Stavo per girarci attorno e andarmene, quando saltò fuori un mucchio di cani che si misero a latrare e ad abbaiarmi, per cui trovai che era meglio non muovere un o.

Un chiarimento notturno - La fattoria nell’Arkansas Decorazione d’interni - Stephen Dowling Bots Effusioni poetiche - Un pianoforte di latta

capitolo 17

Dopo circa mezzo minuto qualcuno urlò da una finestra, senza mettere fuori la testa: — Buoni, voi! Chi è là? — Sono io. — Io chi? — George Jackson, signore. — Che cosa volete? — Non voglio niente, signore. Vorrei solo are, ma i cani non mi lasciano. — Ma perché andate in giro da queste parti a quest’ora di notte, eh? — Non stavo andando in giro, signore; sono caduto nel fiume dal battello. — Ah, siete caduto, siete! Qualcuno accenda un lume, forza. Come avete detto che vi chiamate? — George Jackson, signore. Sono solo un ragazzo. — Statemi a sentire: se state dicendo la verità, non dovete aver paura, nessuno vi farà del male. Ma non muovetevi, restate dove siete. Qualcuno vada a svegliare Bob e Tom, e andate a prendere i fucili. George Jackson, c’è qualcuno con voi?

— No, signore, nessuno. Sentivo gente che si muoveva per la casa, ora, e vidi una luce. L’uomo gridò: — Metti via quel lume, Betsy, vecchia stupida, ti sei bevuta il cervello? Mettilo per terra dietro la porta d’ingresso. Bob, se siete pronti tu e Tom, prendete i vostri posti. — Siamo pronti. — Ora, George Jackson, ditemi: conoscete gli Shepherdson? — No, signore... mai sentiti. — Be’, può essere. Ora, tutti pronti. Venite avanti, George Jackson. E attento, senza correre; avanzate molto lentamente. Se c’è qualcuno con voi, lasciatelo indietro... Se si mostra, gli spariamo. Avanti, adesso. Venite piano; spingete voi stesso la porta... appena quanto basta per infilarvi, capito? Non correvo di certo, anche volendolo non ci sarei riuscito. Facevo lentamente un o alla volta, e non si sentiva un suono; sentivo soltanto il mio cuore. I cani stavano in silenzio come gli uomini, ma mi seguivano a una certa distanza. Quando raggiunsi i tre gradini in legno della porta, sentii togliere il chiavistello e la sbarra. Misi la mano sulla porta e la spinsi adagio, finché qualcuno disse: « Là, basta cosi... mettete dentro la testa». Lo feci, ma pensavo che volessero tagliarmela. La candela era sul pavimento, ed erano tutti là a guardarmi, e io a guardare loro, per qualche secondo. Tre grossi uomini con i fucili puntati contro di me, il che mi mise i brividi, ve lo dico io; il più vecchio, grigio e sulla sessantina, gli altri due sui trenta o poco più, tutta bella gente, e un’anziana signora grigia dolcissima, e dietro a lei due giovani donne che non potevo veder bene. Il vecchio signore disse: — Là... mi pare che vada tutto bene. Entra. Appena dentro, il vecchio signore chiuse a chiave la porta e la sbarrò, e disse ai giovani di are di là con i fucili, e tutti andarono in un grande salotto che aveva un tappeto nuovo sul pavimento, e si misero tutti in un angolo fuori tiro dalle finestre della facciata; su quel lato non ce n’erano.

Tennero alta la candela e cominciarono a fissarmi, e tutti dissero: « Questo non è uno Shepherdson... no, non ha niente di uno Shepherdson ». Poi il vecchio disse che sperava non me la sarei presa se mi perquisivano per vedere se avevo armi; non aveva cattive intenzioni, voleva solo esserne sicuro. E non mi mise le mani in tasca, ma mi tastò dall’esterno e disse che andava tutto bene. Mi disse di mettermi a mio agio come a casa mia, e dire tutto di me; ma la vecchia signora disse: — Ma santo cielo, Saul, il poveretto è bagnato fradicio, e non pensi che forse ha fame? — Hai ragione, Rachel... non ci avevo pensato. Allora la signora disse: — Betsy - (questa era una negra) - vai subito a prendergli qualcosa da mangiare, più in fretta che puoi, povera creatura; e una di voi ragazze vada a svegliare Buck e gli dica... oh, ma è qui Buck, prendi questo piccolo forestiero e fagli togliere i vestiti bagnati e dagli uno dei tuoi asciutto. Buck sembrava avere circa la mia età, tredici o quattordici anni, benché fosse un po’ più grande di me. Indossava soltanto una camicia e aveva i capelli tutti arruffati. Entrò sbadigliando e strofinandosi gli occhi con un pugno, mentre con l’altra mano si trascinava dietro un fucile. Disse: — Non ci sono Shepherdson in giro? Gli dissero di no, era un falso allarme. — Bene — fa lui — se ce n’era qualcuno, credo che uno l’avrei preso. Tutti risero, e Bob disse: — Ma Buck, quelli facevano in tempo a scotennarci tutti, se aspettavamo te. — Be’, nessuno è venuto a chiamarmi, e non è giusto. Mi tenete sempre in disparte e io non riesco a vedere mai niente, — Non prendertela, Buck, ragazzo

mio — disse il vecchio — ne vedrai abbastanza a suo tempo, non aver fretta. Muoviti, adesso, e fa’ come ti ha detto tua madre. Quando fummo di sopra nella sua stanza, mi diede una camicia di tela e un paio di calzoni e una giubba, e io me li misi. Mentre mi vestivo mi chiese il mio nome, ma prima che potessi dirglielo, cominciò a raccontarmi di una ghiandaia azzurra e di un giovane coniglio che aveva preso avantieri nei boschi, e mi chiese dov’era Mosè quando la candela si spense. Dissi che non lo sapevo; non ne avevo ma sentito parlare, assolutamente. — Bene, indovina — mi dice lui. — Come posso indovinare — dico lo — se non ne ho mai sentito parlare prima? — Ma puoi indovinare, no? È facile. — Quale candela? — dico lo. — Ma come, qualsiasi candela - fa lui. — Io non lo so dov’era — dico io. — Dov’era? — Be’, era al buio! Ecco dov’era! — Bene, se tu sapevi dov’era, perché me l’hai chiesto? — Ma cribbio, è un indovinello, non capisci? Di’, quanto tempo pensi di restare qui? Dovresti starci per sempre. Ci potremo divertire un sacco... non c’è scuola adesso. Tu hai un cane? Io ne ho uno che si getta nel fiume a prendere i rami che ci butto. A te piace pettinarti, la domenica, e tutte quelle fesserie? Puoi scommettere che a me non piace, ma la mamma me le fa fare. Accidenti a questi vecchi pantaloni, credo che farei meglio a mettermeli, ma preferirei di no, fa cosi caldo. Tu sei pronto? Benissimo, via al galoppo. Pane di mais, manzo salato freddo, burro e panna: ecco cosa c’era per me di sotto, e non c’è stato niente di meglio in cui lo finora sia mai incappato. Buck e sua mamma e tutti loro fumavano pipe di granoturco, eccetto la negra, che se n’era andata, e le due ragazze. Tutti fumavano e parlavano, e lo mangiavo e parlavo. Le ragazze erano avvolte In trapunte, con i capelli sciolti lungo la

schiena. Tutti mi facevano domande e io gli raccontavo come io e papà e tutta la famiglia vivevamo in una piccola fattoria giù in fondo all’Arkansas, e mia sorella Mary Ann era fuggita di casa e s’era sposata e non se n’era più saputo nulla, e Bill era andato a cercarla e non se ne seppe più nulla, e Tom e Mort erano morti, e allora non era rimasto nessuno se non lo e papà, e anche lui si era andato spegnendo per via del suoi affanni; cosi quando mori lo presi quello che era rimasto, perché la fattoria non era nostra, e mi ero imbarcato sul fiume, sopra coperta, ed ero caduto In acqua, ed ecco come ero arrivato qui. Allora essi dissero che qui potevo avere una casa fino a quando volessi. Ormai era quasi l’alba e tutti andarono a letto, e io andai a letto con Buck, e quando mi svegliai al mattino, maledizione, avevo dimenticato il mio nome. Rimasi là disteso per circa un’ora cercando di ricordare, e quando Buck si svegliò, gli dissi: — Sai scrivere, Buck? — SI — disse. — Scommetto che non sai scrivere il mio nome — dico. — Scommetto quello che vuol che so scriverlo — lui. — Benissimo — dico lo — avanti. — G-o-r-g-e J-a-x-o-n, eccolo — dice. — Bene — dico lo — ce l’hai fatta, ma non credevo che ci saresti riuscito. Non è un nome facile da scrivere, cosi senza studiarci sopra. Lo scrissi anch’io, in privata sede, perché qualcuno poteva domandarmi di scriverlo, tra poco, e io volevo essere disinvolto e scriverlo subito come se ci fossi abituato. Era una famiglia molto simpatica e la casa anche. Non avevo mai visto prima una casa di campagna che fosse cosi bella e che avesse tanto stile. Sulla porta d’ingresso non c’era un chiavistello di ferro o di legno con la cinghia di cuoio, ma un pomolo d’ottone da girare, come nelle case di città. Non c’erano letti in salotto, neppure l’ombra di un letto, mentre anche in città nella maggior parte dei salotti ci sono letti. C’era un grande camino con mattoni sul fondo, e i mattoni erano tenuti puliti e rossi lavandoli con acqua e sfregandoli con un altro mattone; a volte li avano con una vernice che chiamavano rosso di Spagna,

esattamente come fanno in città. Avevano grandi alari di ottone che potevano sostenere un intero tronco. Sulla mensola della cappa, nel mezzo, c’era un pendolo, con una veduta di città dipinta nella metà inferiore del vetro davanti, mentre sopra c’era un tondo che rappresentava II sole e dentro potevi vedere dondolare il pendolo. Era bello sentire quel ticchettio; e talvolta ava uno di quegli orologiai a pulirlo e tenerlo in buon ordine; era capace di partire e battere anche centocinquanta colpi prima di fermarsi. Non avrebbero venduto quel pendolo per tutto l’oro del mondo. Bene, ai due lati dell’orologio c’erano due grossi pappagalli esotici, fatti di qualcosa che sembrava gesso e dipinti a colori vivaci. Accanto ad uno del pappagalli c’era un gatto di maiolica, e presso l’altro un cane; e quando li schiacciavi facevano il loro verso, ma senza aprire la bocca e restando imibili. Lo facevano dalla pancia. Dietro a questi oggetti stavano aperti due grossi ventagli di penne di tacchino selvatico. Su un tavolo in mezzo alla stanza c’era una specie di cestino in maiolica, molto grazioso, con sopra mele e arance e pesche e uva, molto più rosse e gialle e belle di quelle reali, ma non erano reali perché dov’erano sbeccate potevi vedere sotto il gesso bianco, o quello che era. Questo tavolo aveva una coperta fatta di bella tela cerata, con sopra dipinta un’aquila rossa e blu dalle ali spiegate e tutto intorno un bordo dipinto. Veniva nientemeno che da Filadelfia, dicevano. C’erano anche dei libri impilati perfettamente, a ciascun angolo del tavolo. Uno era una grande Bibbia familiare, piena di figure. Uno era il Viaggio del Pellegrino, la storia di un uomo che ha abbandonato la sua famiglia non si sa perché. Ne ho letto parecchio un po’ alla volta. Le affermazioni erano interessanti, ma difficili. Un altro era Offerta di amicizia, pieno di cose belle e di poesie; ma le poesie non le leggevo. Un altro erano i Discorsi di Henry Clay, e un altro era iI medico in famiglia del Dr. Gum, che ti diceva tutto quel che c’è da fare se uno sta male o muore. C’era un libro di salmi, e un mucchio di altri libri. E c’erano graziose sedie impagliate, e In perfetto ordine anche, non incurvate nel mezzo o sfondate come un vecchio cesto. Alle pareti erano appesi ritratti, per lo più Washington e Lafayette, battaglie, la Highland Mary, e uno intitolato “La firma della dichiarazione”. Ce n’erano alcuni che chiamavano pastelli, fatti da una delle figlie che era morta a soli quindici anni. Erano diversi da qualsiasi quadro io avessi visto prima;

generalmente più neri del solito. Uno rappresentava una donna in un abito nero aderente, con una stretta cintura sotto le ascelle, con certi rigonfiamenti fatti a cavolo nel mezzo delle maniche, e un largo cappello nero con la tesa che pareva una pala, e una veletta nera, e sottili caviglie bianche avvolte da un nastro nero e minuscole scarpette nere, simili a uno scalpello e sul gomito destro s’appoggiava pensierosa ad una pietra tombale, all’ombra di un salice piangente, mentre l’altra mano, abbandonata lungo il fianco, teneva un fazzoletto bianco e una borsetta a rete; sotto la figura c’era scritto: « Ahimè, non ti vedrò mai più? ». Un altro quadro rappresentava una giovane donna col capelli annodati strettamente sulla testa, e fermati con un pettine dritto come la spalliera di una sedia; ed ella piangeva dentro un fazzoletto ed aveva nell’altra mano un uccello morto, riverso con le zampe in su, e sotto la figura c’era scritto: « Non sentirò mai : più il tuo soave cinguettio, ahimè! ». Ce n’era un altro in cui una giovane donna stava alla finestra a guardare la luna, e le lacrime le scorrevano giù per le guance; aveva in mano una lettera aperta, sulla quale si vedeva un sigillo di ceralacca nera, e si premeva contro la bocca un medaglione con una catena; sotto c’era scritto: « E tu sei partito, si, sei partito, ahimè ». Erano tutti dei bei quadri, penso, però in qualche modo non mi andavano, perché se per caso mi sentivo un po’ giù, quelli mi buttavano certamente a terra. A tutti rincresceva che lei fosse morta perché aveva già abbozzato un mucchio di questi quadri e già da quello che aveva fatto si poteva ben capire quanto avessero perduto. Ma io avevo l’impressione che, con le sue tendenze, si trovasse molto più a suo agio nella tomba. Quando s’era ammalata stava lavorando a quello che tutti consideravano il suo capolavoro e pregava giorno e notte di poter vivere finché non l’avesse terminato, ma non le fu concesso. Era la figura di una giovane donna in un lungo abito bianco, ritta sulla spalletta di un ponte e pronta a spiccare il salto, i capelli tutti sciolti sulle spalle; e guardava la luna col volto solcato di lacrime e aveva due braccia incrociate sul petto, due braccia allungate in avanti e altre due protese verso la luna: l’idea era di vedere quale paio di braccia andava meglio e poi cancellare le altre; ma, come stavo dicendo, era morta prima di prendere una decisione in merito e adesso tenevano il quadro appeso sopra il letto nella sua camera e quando era il suo compleanno vi appendevano fiori. Normalmente era nascosto da una tendina. La giovane donna del quadro aveva un tipo di faccia carino e dolce, ma c’erano tante braccia che le davano un po’ troppo l’aria di un ragno, mi sembrava. La fanciulla teneva un diario, quand’era in vita, ed era solita incollarvi annunci funebri, disgrazie e casi di paziente sofferenza ritagliati dal bollettino parrocchiale, e scriverci sotto poesie di sua mano.

Erano poesie molto belle. Ecco che cosa scrisse a proposito di un ragazzo, chiamato Stephen Dowling Bots, che era precipitato in un pozzo ed era annegato:

ODE A STEPHEN DOWLING BOTS DEFUNTO Causa fu di malattia Stephen bimbo se morì? E ogni cuor sofferto avria fino al pianto di quel di?

Non fu questo il suo destino; bimbo Stephen Dowling Bots; non un vii morbo assassino tristi i cuori sconsolò. No, non fu tosse canina che la fibra sua piegò, né rossor di scarlattina il suo viso deturpò. Non fu amor non corrisposto che i suoi riccioli sfori, né per stomaco indisposto la sua forza indeboli.

Or sentite lagrimando: il suo destin vi narrerò. Giù nel pozzo scivolando il freddo mondo lui lasciò. Venne estratto, fu svuotato, troppo tardi, però, ahimè, ché il suo spirto già salpato era pel regno del ciel.

Se Emmeline Grangerford sapeva scrivere delle poesie del genere quando non aveva ancora quindici anni, si può immaginare che cosa avrebbe potuto fare di li a qualche tempo. Buck diceva che lei buttava giù poesie come niente. Non doveva neanche fermarsi a pensare. Diceva che buttava giù un verso e, se non riusciva a trovare subito una rima, non faceva altro che cancellarlo, buttarne giù un altro e andare a capo. E non aveva bisogno di qualcosa di particolare; riusciva a scrivere su qualunque argomento, purché triste. Ogni volta che moriva un uomo, una donna un bambino, prima che il cadavere fosse freddo, lei era presente con il suo « tributo ». Lei li chiamava tributi. I vicini dicevano che il primo ad arrivare era il medico, poi Emmeline, poi l’impresario delle pompe funebri; l’impresario non ce l’aveva mai fatta ad arrivare prima di Emmeline, tranne una volta che non le veniva la rima col nome del defunto, che era Whistler. Da allora non fu più la stessa; non si lamentava mai, ma deperiva a vista d’occhio e non campò molto. Poveretta, quante volte sono salito in quella piccola stanza che era stata la sua e ho tirato fuori quel suo vecchio quadernetto per leggervi un po’, quando i suoi quadri m’avevano depresso e inasprito un po’ con lei. Quella famiglia mi piaceva tutta, morti e compagnia bella, e non volevo che ci fosse qualche screzio fra noi. La povera Emmeline aveva scritto poesie su tutti i

morti quando era viva e non mi sembrava giusto che non ci fosse proprio nessuno disposto a scriverne una per lei, ora che era morta; quindi cercai di spremere io un verso o due, ma non mi sembrava che potessero andare. Continuavano a tenere la stanzetta di Emmeline pulita e ordinata con tutte le cose sistemate proprio come piaceva a lei quand’era in vita, ma nessuno andava mai a dormirci. La signora si prendeva cura di quella stanza di persona, sebbene ci fosse una quantità di negri, e ci andava spesso a cucire e a leggere la Bibbia. Bene, come stavo dicendo a proposito del salotto, c’erano belle tende alle finestre. C’era anche un piccolo pianoforte vecchio, che dentro doveva avere pentole di latta, credo, e non c’era nulla di più bello che ascoltare le signorine cantare "L'ultimo anello è infranto", e suonarci "La battaglia di Praga£". Le pareti di tutte le stanze erano intonacate e in quasi tutte c’erano tappeti sul pavimento e all’esterno l’intera casa era imbiancata. La casa consisteva in due ali e l’ampio spazio fra l’una e l’altra aveva tetto e pavimento e qualche volta a mezzogiorno la tavola veniva apparecchiata là, ed era davvero un luogo fresco e comodo. Non c’era niente di meglio. E come cucinavano bene, e che abbondanza di cibo.

Il colonnello Grangeford - Aristocrazia - Faide - La Bibbia - "Vivere d'acqua - Riparazione della zattara La catasta del legname - Carne e cavoli - "Sei tu, tesoro?"

Capitolo 18

Il colonnello Grangerford, dovete sapere, era un gentiluomo. Era un gentiluomo da capo a piedi e così pure tutta la sua famiglia. Era di razza nobile, come si suol dire, e questo vale per un uomo quanto per un cavallo, come diceva la vedova Douglas, e nessuno ha mai negato che lei appartenesse alla più alta aristocrazia della città; e lo diceva sempre anche papà, benché non fosse più di razza di un gatto randagio. Il colonnello Grangerford era assai alto di statura e molto snello; di carnagione scura, ma pallido, senza neppure un’ombra di rosso, e ogni mattina si radeva con cura quel suo volto scarno. Aveva le labbra più sottili che si possano immaginare e le narici più strette, e un naso alto, e sopracciglia marcate e occhi nerissimi, cosi incavati che pareva ti fissassero dal fondo d’una caverna, se si può dire così. Aveva fronte alta e capelli neri e lisci, che gli scendevano sulle spalle. Aveva mani lunghe e sottili e non c’era giorno della sua vita che non si mettesse una camicia di bucato e un completo di lino cosi bianco che a guardarlo ti facevano male gli occhi; alla domenica invece indossava una marsina blu con bottoni d’ottone. Usava una canna da eggio di mogano con il pomo d’argento. Non c’era in lui nemmeno un briciolo di frivolezza, e non alzava mai la voce. Era straordinariamente gentile, e questo lo si sentiva, e ti dava fiducia. Talvolta sorrideva, ed era bello da vedere; ma quando s’irrigidiva dritto come un’asta di bandiera e i lampi prendevano a saettare da sotto le sopracciglia, allora ti veniva voglia prima di arrampicarti su un albero e poi di cercar di capirne il motivo. Non aveva mai bisogno di raccomandare di comportarsi come si deve, perché tutti si comportavano benissimo quando era presente lui. Inoltre tutti amavano averlo

vicino: quasi sempre era come vedere un raggio di sole, voglio dire che era come se ci fosse sempre sereno. Quando si trasformava in un nembo temporalesco, tutto diventava terribilmente scuro per mezzo minuto, e questo bastava: poi per una settimana tutto sarebbe filato liscio.

Quando lui e la signora scendevano al mattino, tutta la famiglia si alzava in piedi e dava loro il buon giorno e non si rimettevano a sedere finché non si fossero seduti loro. Allora Tom e Bob andavano alla credenza dove c’erano le caraffe, versavano un bicchiere di bitter e lo porgevano al padre, il quale lo teneva in mano e attendeva finché fosse pronto anche quello di Tom e di Bob e quindi essi facevano un inchino e dicevano: — Alla vostra salute, signore e signora. — I genitori facevano un lievissimo cenno d’inchino e rispondevano «grazie», poi finalmente bevevano tutt’e quattro. Bob e Tom versavano un cucchiaio di acqua sullo zucchero o sul goccio di whisky o di acquavite che era rimasto sul fondo dei loro bicchieroni e li davano da bere a me e a Buck, e anche noi si brindava alla salute dei due vecchi. Bob era il maggiore, poi veniva Tom. Due uomini alti, belli, con le spalle molto larghe, il viso abbronzato, lunghi capelli neri, e occhi neri. Vestivano di lino bianco da capo a piedi come Il vecchio gentiluomo, e portavano larghi cappelli di panama. Poi c’era Miss Charlotte; aveva venticinque anni ed era alta, fiera e nobile, ma buona come il pane quando non era arrabbiata, però quando lo era ti fulminava con lo sguardo, come suo padre. Era bellissima. E così pure sua sorella, Miss Sophla, che aveva però un carattere diverso. Era gentile e dolce come una colomba e aveva solo vent’annl. Ciascun membro della famiglia aveva il suo negro personale che lo serviva, compreso Buck. Il mio negro stava da papà perché io non ero abituato ad avere qualcuno che fe qualcosa per me, ma quello di Buck era li che trottava su e giù quasi senza interruzione. Questo era quanto era rimasto della famiglia a quel tempo; ma era stata più numerosa: tre altri figli erano stati ammazzati e Emmeline era morta. Il vecchio signore possedeva un mucchio di fattorie e più di cento negri. Qualche

volta arrivava un sacco di gente a cavallo da venti o trenta chilometri intorno e tutti si fermavano per cinque o sei giorni facendo gite sul fiume e danze e pic-nic nel boschi di giorno, e di sera feste da ballo in casa. Si trattava per lo più di parenti della famiglia. Gli uomini portavano sempre il fucile con sé. Era tutta gente di grande distinzione, ve lo garantisco io. C’era nei paraggi un altro clan aristocratico, cinque o sei famiglie che si chiamavano quasi tutte Shepherdson. Anche loro erano di gran classe, di nobile razza, ricchi e alteri come la tribù dei Grangerford. Gli Shepherdson e i Grangerford si servivano del medesimo approdo, che si trovava circa tre chilometri a monte della nostra casa, così talvolta quando ci andavo in compagnia di un mucchio dei nostri vedevo di solito anche un mucchio degli Shepherdson sui loro splendidi cavalli. Un giorno Buck ed io eravamo nel bosco a caccia quando udimmo arrivare un cavallo. Stavamo attraversando la strada e Buck mi dice: — Svelto! Salta nel bosco! Cosi facemmo e poi ci mettemmo a spiare attraverso il fogliame. Ben presto ecco avanzare al galoppo lungo la strada un magnifico giovane, sicuro sul suo cavallo: sembrava un soldato. Teneva il fucile attraverso il pomo della sella. Io l’avevo già visto. Era il giovane Hamey Shepherdson. Sentii il fucile di Buck sparare vicino al mio orecchio e il cappello di Hamey gli volò via dalla testa. Questi afferrò il fucile e si precipitò dritto dove eravamo nascosti. Ma noi non restammo ad aspettarlo. Via a tutta velocità attraverso il bosco. Gli alberi non erano troppo densi, cosi riuscivo a guardare al di sopra delle spalle per schivare le pallottole e per due volte vidi Hamey mirare a Buck col fucile; poi tornò donde era venuto, per ricuperare il suo cappello, immagino, ma non potei vedere bene. Noi non smettemmo di correre finché non arrivammo a casa e Buck raccontò l’accaduto. Per un attimo, gli occhi del vecchio signore lampeggiarono, soprattutto di piacere, credo, poi il suo volto sembrò quasi afflosciarsi e disse con una certa dolcezza nella voce: — Non mi piace che tu spari da dietro un cespuglio. Perché non ti sei messo sulla strada, ragazzo mio? — Gli Shepherdson non lo fanno mai, papà. Quelli cercano la posizione più vantaggiosa.

Miss Charlotte teneva il capo eretto, simile a una regina, mentre Buck raccontava, ed aveva le narici dilatate e gli occhi che scintillavano. I due giovani si guardavano cupi, ma non dissero una parola. Miss Sophia impallidì; tuttavia il colorito le ritornò appena intese che l’uomo non era stato ferito. Appena potei trovarmi da solo con Buck giù presso la tettoia del granturco, sotto gli alberi, gli dico: — Ma tu volevi ammazzarlo, Buck? — Certo, puoi scommetterlo. — Che cosa ti ha fatto? — Lui? Non ha fatto niente, a me. — E allora perché volevi ammazzarlo? — Niente. È per via della faida. — E cos’è una faida? — Ma dove sei cresciuto? Non sai che cos’è una faida? — Mai sentito parlarne. Dimmi cos’è. — Bene — disse Buck. — Una falda è più o meno così. Un uomo ha una lite con un altro uomo e lo ammazza; allora il fratello dell’ucciso ammazza lui; quindi gli altri fratelli, da una parte e dall’altra, si fanne fuori l’un l’altro; poi entrano in scena i cugini e non a molto che tutti sono spacciati e la faida è finita. Ma è una cosa molto lenta e dura molto tempo. — E questa sta andando avanti da molto, Buck? — Be’, direi di sì! È incominciata trent’anni fa, o giù di li. Ci fu una disputa per qualche motivo e poi un processo In tribunale per comporla. Il processo dà torto a uno degli uomini cosi questo prende e ammazza quello che vince la causa, il quale avrebbe fatto la stessa cosa, naturalmente. Chiunque l’avrebbe fatta.

— Voi su che cosa litigavate, Buck? Terre? — Credo di sì, ma non lo so. — Be’, chi ha tirato il primo colpo? È stato un Grangerford o uno Shepherdson? — Ma cribbio, come faccio a saperlo; è stato tanti anni fa. — E non c’è nessuno che lo sa? — Oh sì, lo sa papà, immagino, e qualche altro dei vecchi, ma anche loro non sanno adesso quale sia stato all’inizio il motivo della lite. — Ne sono già stati ammazzati molti, Buck? — Certo... non ci sono mancate occasioni di fare funerali. Ma non sempre si ammazzano. Papà ha un bel po’ di pallottole in corpo, ma non gliene importa perché In ogni caso non pesano molto. Bob è stato accoltellato a dovere, e anche Tom è stato ferito un paio di volte. — Avete avuto dei morti quest’anno, Buck? — Si, uno per ciascuno. Circa tre mesi fa, mio cugino Bud, di quattordici anni, se ne andava a cavallo per il bosco, dall’altra parte del fiume, senza armi con sé, il che è una maledetta cretineria, e arrivato in un punto solitario sente venire un cavallo e vede dietro di lui il vecchio Baldy Shepherdson che lo insegue con il fucile spianato e i capelli al vento; invece di saltar giù e nascondersi in un cespuglio, Bud pensò di poterlo battere in velocità; cosi filarono via come frecce per parecchi chilometri, con il vecchio che continuava a guadagnare terreno. Finalmente Bud s’accorse che era inutile, cosi si fermò e si voltò in modo da prendersi la pallottola in fronte, sai, poi il vecchio lo raggiunse e lo stese. Ma non ha potuto godersela molto la sua fortuna, perché nel giro di una settimana i nostri hanno steso anche lui. — Credo che quel vecchio fosse un gran vigliacco, Buck. — Io invece credo di no. Neanche un po’. Non ci sono vigliacchi tra gli Shepherdson, nemmeno uno. E non ce ne sono neppure tra i Grangerford. Be’, quel vecchio un giorno ha tenuto testa per mezz’ora a tre Grangerford e ne è uscito vincitore. Erano tutti a cavallo; il vecchio saltò giù dal suo e raggiunse

una piccola catasta di legna tenendosi davanti il cavallo per fermare i proiettili, mentre i Grangerford rimasero a cavallo e lo circondarono, continuando a sparare al vecchio e il vecchio a loro. Lui e il suo cavallo riuscirono a tornare a casa, crivellati e zoppicanti, mentre i Grangerford dovettero andarli a prendere: uno era già morto e un altro mori il giorno dopo. Nossignore, se c’è qualcuno che va in cerca di vigliacchi, è inutile che perda il tempo fra gli Shepherdson, perché non ne allevano di quella specie. La domenica successiva andammo tutti insieme alla chiesa, a circa cinque chilometri, ciascuno a cavallo. Gli uomini portavano i loro fucili, anche Buck, e li tenevano fra le ginocchia a portata di mano appoggiati alla parete. Lo stesso gli Shepherdson. Il sermone era piuttosto pretenzioso, tutto sull’amore fraterno e altre noie del genere, ma tutti sostennero che era un buon sermone e continuarono a discuterne tornando a casa e avevano un mucchio di cose da dire sulla fede, le buone opere, la grazia, la predestinazione e che altro ancora, tanto che mi sembrò la domenica più orribile che abbia mai ato. Circa un’ora dopo il pranzo, mentre tutti sonnecchiavano, chi sulla sedia e chi nella sua stanza, io incominciavo proprio ad annoiarmi. Buck, assieme al suo cane, si era steso nell’erba al sole e dormiva sodo. Io salii nella nostra camera: pensavo di schiacciare un pisolino anch’io. Trovai la deliziosa Miss Sophia in piedi sull’uscio della sua stanza, che era adiacente alla nostra; mi fece cenno di entrare, chiuse l’uscio dietro di sé e mi domandò se le volessi bene e lo risposi di sì; e poi mi domandò se volevo fare qualcosa per lei senza dirlo a nessuno e io dissi di sì. Allora mi disse che aveva dimenticato la Bibbia, l’aveva lasciata in chiesa sul suo banco fra altri due libri, e voleva che sgusciassi fuori in silenzio e gliela andassi a prendere senza dir niente a nessuno. Cosi sgusciai fuori e mi misi in strada, e non trovai nessuno nella chiesa tranne un paio di maiali, perché non c’era serratura alla porta e ai maiali piace un pavimento di pietra in estate, perché è fresco. Se ci pensate bene, la maggior parte della gente va in chiesa solo quando è obbligata, mentre per i maiali è diverso. Dico fra me che ci deve essere sotto qualcosa: non è naturale che una ragazza si agiti tanto per una Bibbia. Quindi scuoto un po’ il libro e salta fuori un pezzetto di carta con scritto a matita: «due e mezzo». Lo esaminai meglio, ma non ci trovai altro. Non ci capivo niente, cosi rimisi il pezzetto di carta nel libro e quando giunsi a casa trovai Miss Sophia che mi aspettava sull’uscio della sua stanza. Mi spinse dentro e chiuse la porta; poi cercò nella Bibbia e trovò il biglietto. Appena lo lesse sembrò molto contenta, e prima che potessi

rendermene conto mi strinse e mi abbracciò, e disse che ero il miglior ragazzo del mondo e che non dovevo dire niente a nessuno. Diventò tutta rossa in viso per un attimo, gli occhi le brillavano, il che la rese bellissima. Io rimasi molto stupito e quando mi ripresi le domandai che cosa c’era scritto sul biglietto. Lei mi chiese se l’avevo letto e io risposi di no. Allora mi chiese se sapevo leggere e io risposi: «Solo se è scritto molto grande», e allora lei mi disse che il foglietto non era nulla, solo un segnalibro, e adesso potevo andare a giocare. M’incamminai verso il fiume meditando sulla cosa, e ben presto m’accorsi che il mio negro mi stava seguendo da vicino. Quando arrivammo fuori vista dalla casa, si guardò intorno un attimo, poi s’avvicinò di corsa e disse: — Signor George, se venite giù nella palude, vi faccio vedere un intero covo di vipere d’acqua. È molto strano, pensai, anche ieri mi ha detto la stessa cosa. Dovrebbe capire che nessuno ama a tal punto le vipere d’acqua da andarne in cerca. A ogni modo, dove vuole arrivare? Cosi gli rispondo: — D’accordo, fammi strada. Lo seguii per mezzo chilometro, poi s’infilò decisamente nella palude e prosegui affondando fino alle caviglie per un altro mezzo chilometro. Arrivammo ad un piccolo spiazzo, che era asciutto e molto fitto di alberi e cespugli, e lui mi fa: — Andate dritto ancora pochi i, signor George; è là che sono. Io le ho già viste prima, e non ci tengo a vederle un’altra volta. Poi si rimise nel fango e se ne andò, e ben presto gli alberi lo coprirono alla vista. Io mi feci strada verso quel punto e arrivai a una piccola radura, non più grande di una camera da letto, tutta chiusa dalla vegetazione, e la trovai un uomo che dormiva disteso per terra. Perbacco, era il mio vecchio Jim! Lo svegliai. Credevo che sarebbe stata una enorme sorpresa per lui vedermi, ma non fu cosi. Quasi piangeva dalla contentezza, ma non era affatto sorpreso. Disse che quella notte si era messo a nuotare dietro di me e mi aveva sentito gridare ogni volta ma non mi aveva risposto perché non voleva che qualcuno lo acciuffasse e lo riportasse ancora in schiavitù. Raccontò: — Ero leggermente ferito e non potevo nuotare veloce, cosi alla fine mi trovai a

notevole distanza da te; quando hai toccato terra credevo di poterti raggiungere senza dover gridare, ma quando ho visto quella casa ho cominciato a rallentare. Ero troppo distante per sentire che cosa ti dicevano e avevo paura dei cani, ma quando tutto è tornato tranquillo ho capito che eri entrato in casa, perciò mi sono infilato nel bosco ad aspettare il giorno. Di buon mattino arono dei negri che andavano nel campi: mi nascosero in questo posto, dove i cani non possono scovarmi per via dell’acqua, e tutte le sere mi portano qualcosa da mangiare e mi raccontano come te la i. — Perché non hai detto al mio Jack di portarmi qui subito, Jim? — Be’, era inutile disturbarti, Huck, finché non riuscivamo a fare qualcosa, ma adesso tutto è a posto. Sono andato a comprare padelle e pignatte appena ho visto il momento buono, e ho continuato ad aggiustare la zattera, di notte, quando... — Ma quale zattera, Jim? — La nostra vecchia zattera. — Intendi dire che la nostra vecchia zattera non è andata in pezzi? — No, era solo piuttosto malconcia, specialmente da un lato. Ma tutta la roba è andata perduta. Se noi non andavamo tanto sott’acqua e non nuotavamo cosi in profondità, e se la notte non fosse stata cosi nera e noi cosi spaventati e sciocchi, la zattera l’avremmo vista. Ma forse è meglio cosi, almeno adesso è aggiustata e sembra quasi nuova e inoltre abbiamo un sacco di altra roba al posto di quella perduta. — Ma come hai fatto a riprendere la zattera, Jim? Sei riuscito ad afferrarla? — Come potevo afferrarla se ero nel bosco? No, alcuni negri l’hanno trovata impigliata in un tronco, giù alla curva; l’hanno nascosta in un fosso in mezzo ai salici e poi si sono messi a fare un tale baccano per decidere a chi doveva andare che ben presto sono venuto a sentire qualcosa anch’io. Cosi salto fuori e metto fine a tutte le chiacchiere dicendo che non doveva andare a nessuno di loro, ma a me; e gli chiedo se vogliono mettere le mani sulla proprietà di un giovane signore bianco e farsi frustare. Allora ho dato dieci cents a testa e tutti erano soddisfatti e si auguravano che venisse a tiro qualche altra zattera per diventare ricchi un’altra volta. Sono molto buoni questi negri con me e se desidero

qualcosa non ho bisogno di chiederla due volte, caro. Anche quel tuo Jack è un bravo negro, e molto furbo. — Si, è vero. Non mi ha mai detto che tu eri qui; mi ha detto soltanto di venire per farmi vedere un covo di vipere d’acqua. Se capita qualcosa, lui non c’entra; può dire che non ci ha mai visti insieme, ed è la verità. Non voglio dilungarmi su quel che successe il giorno dopo.Credo che taglierò corto. Mi svegliai che era quasi l’alba e stavo per voltarmi dall’altra parte e riprendere a dormire, quando m’accorsi che c’era un silenzio insolito, sembrava che non ci fosse nessuno che muoveva per casa. Poi notai che Buck si era già I alzato e se n’era andato. Mi alzo anch’io molto stupito e scendo da basso: nessuno intorno, dovunque un silenzio di tomba. Lo stesso fuori. Mi domando che cosa significa. Giù presso la catasta di legna incontro il mio Jack e gli chiedo: — Ma che cosa succede? Mi risponde: — Non lo sapete, signor George? — No — dico io — non so niente. —Be’, la signorina Sophia è scappata! Proprio così. È scappata questa notte da qualche ora, non so bene quando... scappata per sposare quel giovane Hamey Shepherdson, sapete, almeno così dicono. La famiglia l’ha scoperto circa mezz’ora fa, forse un po’ prima, e vi assicuro che non hanno perso tempo. Mai vista una tale fretta con fucili e cavalli! Le donne sono partite per mettere in moto anche i parenti, e il vecchio padron Saul e i ragazzi hanno imbracciato i fucili prendendo a cavallo la strada lungo il fiume per acciuffare quel giovane e ammazzarlo prima che attraversi con la signorina Sophia. Mi sa che sono in arrivo brutti momenti. — Buck se n’è andato senza neppure svegliarmi. — Be’, io credo. Non volevano certo coinvolgere anche voi. Il signor Buck ha caricato il fucile giurando che si porta a casa uno Shepherdson o crepa. Be’, ce ne sarà un mucchio di Shepherdson, credo, e potete scommettere

che uno lo becca di sicuro se gli capita a tiro. lo presi la strada del fiume a rotta di collo. Poco dopo cominciai a sentire spari in lontananza. Quando giunsi in vista del deposito di legname e delle cataste vicino all’approdo, mi feci strada tra gli alberi e i cespugli finché arrivai in buona posizione, e allora mi arrampicai sulla forcella di un pioppo, fuori mira, e rimasi a guardare. Di fronte all’albero, a poca distanza, c’era un mucchio di tronchi alto circa un metro, e subito stavo per andare a nascondermi là dietro, ma forse ebbi più fortuna a non farlo. C’erano quattro o cinque uomini che caracollavano sul loro cavallo nello spazio aperto davanti al deposito di legname, e Imprecavano e urlavano, mentre tentavano di colpire due ragazzi che si erano acquattati dietro la catasta dalla parte dell’approdo, ma senza riuscirvi. Ogni volta che uno di loro si faceva vedere dalla parte del fiume, gli sparavano. I due ragazzi si tenevano rannicchiati schiena contro schiena, perciò erano in grado di controllare entrambi i lati. Dopo un po’ gli uomini la smettono di caracollare avanti e indietro e di urlare, e partono al galoppo verso il deposito; allora uno dei ragazzi si alza in piedi, tira un bel colpo al di sopra della catasta e fa cadere di sella uno di quelli. Tutti gli altri balzano giù dai cavalli, afferrano il ferito e lo trascinano verso il deposito; in quel momento i due ragazzi si mettono a correre. E prima che gli uomini se n’accorgano, arrivano a mezza strada verso l’albero dov’ero io. Poi quelli li vedono, montano a cavallo e li inseguono, guadagnando velocemente terreno; ma è inutile, perché i ragazzi hanno troppo vantaggio e riescono a raggiungere la catasta di tronchi di fronte al mio albero, vi si infilano dietro e cosi sono di nuovo in posizione di vantaggio. Uno dei ragazzi era Buck e l’altro era un giovane magro di diciotto o diciannove anni. Gli uomini girarono intorno per un po’ e poi si allontanarono. Appena furono fuori vista, lo chiamai Buck e glielo dissi. Subito non capiva come mai la mia voce uscisse da un albero. Era molto sorpreso. Mi disse di tenere gli occhi bene aperti e di informarlo appena fossero ricomparsi; disse che stavano escogitando qualche diavoleria e non sarebbero rimasti via molto. Avrei voluto essere lontano da quell’albero, ma certo non scendevo. Buck cominciò a gridare e imprecare e giurava che lui e suo cugino Joe (che era l’altro ragazzo) dovevano ancora far pari per quel giorno. Disse che suo padre e i fratelli erano

stati ammazzati, e cosi due o tre dei nemici. Gli Shepherdson gli avevano teso un’imboscata; suo padre e i fratelli avrebbero dovuto aspettare l’arrivo del parenti: gli Shepherdson erano troppo forti per loro. Gli chiesi che cosa ne fosse stato del giovane Hamey e di Miss Sophia. Mi rispose che erano riusciti ad attraversare il fiume ed erano in salvo. Io ne fui lieto, ma Buck sembrava pazzo di rabbia perché non era riuscito ad ammazzare Hamey il giorno che gli aveva sparato: non avevo mai sentito niente di simile. Tutt’a un tratto: «bang, bang, bang» si sente venire da tre o quattro fucili: gli uomini avevano fatto il giro del bosco e stavano arrivando alle spalle senza i cavalli! I ragazzi si slanciarono verso il fiume, entrambi feriti, e mentre nuotavano seguendo la corrente, gli uomini corsero alla riva sparandogli ancora e gridando: «Ammazzateli, ammazzateli!». Io mi sentii così male che quasi cadevo dall’albero. E non ho Intenzione di raccontare tutto quello che accadde: a farlo mi sentirei male di nuovo. Avrei preferito non aver mai toccato la riva la notte del naufragio, se dovevo vedere simili cose. Non riesco più a dimenticarle e spesso me le sogno. Rimasi sull’albero finché cominciò a farsi buio, di scendere avevo paura. Di tanto in tanto sentivo spari nel bosco e per due volte vidi are gruppi di uomini al galoppo oltre il deposito di legname con i fucili in mano; cosi capivo che la lotta continuava. Ero terribilmente depresso e decisi che non mi sarei mai più avvicinato a quella casa perché mi rendevo conto che in un certo senso avevo anch’io la mia parte di colpa. Pensai che quel foglietto di carta voleva dire che Miss Sophia doveva incontrare da qualche parte Hamey alle due e mezzo per scappare con lui; e pensai che avrei dovuto parlare con suo padre del biglietto e del suo strano comportamento e allora forse lui la chiudeva in casa e non sarebbe mai successo questo terribile pasticcio. Quando scesi dall’albero, strisciai per un poco lungo la sponda del fiume e trovai i due cadaveri distesi nell’acqua; li trascinai a riva, ne coprii le facce e mi allontanai di corsa. Mentre coprivo la faccia di Buck mi venne da piangere, perché era stato tanto buono con me. Ormai s’era fatto buio. Non mossi nemmeno un o verso la casa, ma m’infilai nel bosco e mi avviai verso la palude. Jim non era sulla sua isola, e allora andai di gran corsa al fosso, penetrando fra i salici, impaziente di salire sulla zattera e di andarmene da quell’orribile posto... ma la zattera era scomparsa! All’anima se ho avuto paura! Per quasi un minuto sono rimasto senza flato. Poi lanciai un

grido. Una voce a meno di dieci metri di distanza mi risponde: — Santo cielo, sei tu, tesoro? Non gridare! Era la voce di Jim: non avevo mai sentito niente di più bello. Mi misi a correre lungo la riva, saltai a bordo e Jim m’abbracciò e mi strinse a sé, tanto era contento di vedermi. Disse: — Dio ti benedica, ragazzo; ormai ero convinto che fossi morto un’altra volta. Jack è stato qui e ha detto che ti credeva ammazzato perché non sei più tornato a casa; proprio in questo momento stavo spingendo la zattera giù verso la foce del ruscello per essere pronto a prendere il largo appena Jack tornava a dirmi se eri morto davvero. Cielo, sono troppo contento che sei ancora qui con me, tesoro. Ma io dico: — Perfetto! Questo va benissimo: non mi troveranno e penseranno che sono stato ammazzato e portato via dalla corrente, e c’è qualcosa laggiù che li aiuterà a farsi questa idea; dunque non perdere tempo, Jim, spingi la zattera al largo fretta che puoi.

Non mi sentii tranquillo finché la zattera non fu almeno tre chilometri a valle e nel bel mezzo del Mississippi. Allora accendemmo la lanterna di posizione e sentimmo di essere liberi e salvi ancora una volta. Non avevo mangiato niente dal giorno prima; cosi Jim tirò fuori focacce di polenta, latte, carne di maiale e cavoli, e non c’è niente di più buono al mondo se è cotto come si deve; e mentre cenavo si chiacchierava e si stava allegri. Ero immensamente felice di essermene andato dalla faida e Jim non lo era di meno per aver lasciato la sua palude. Decidemmo che, dopo tutto, non c’era casa migliore della zattera. Gli altri posti sembravano sempre stretti e senz’aria, ma puoi sentirti sempre libero, tranquillo e perfettamente a tuo agio sulla tua zattera.

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Capitolo 19

arono due o tre giorni e due o tre notti. Potrei dire che volarono via, tanto scivolarono tranquilli, sereni, deliziosi. Ecco come si trascorreva il tempo. Il fiume era enorme laggiù, largo a volte anche due chilometri; noi viaggiavamo di notte e di giorno riposavamo ben nascosti; quando la notte era sul finire, smettevamo di navigare e legavamo la zattera, per lo più nelle acque tranquille, al riparo di un isolotto, e poi tagliavamo rami di pioppo e di salice per nascondere la zattera. A quel punto gettavamo le lenze e subito dopo ci buttavamo nel fiume e ci facevamo una nuotata per rinfrescarci; quindi sedevamo sul fondo sabbioso dove l’acqua arriva fino alle ginocchia e aspettavamo il giorno. Non si udiva alcun rumore: un silenzio perfetto, come se tutto il mondo fosse profondamente addormentato; solo di tanto in tanto gracidava un ranocchio. La prima cosa che appariva, scrutando sopra l’acqua, era una specie di linea cupa: erano i boschi sull’altra sponda, e non si scorgeva nient’altro; poi una striscia pallida nel cielo, che a poco a poco si dilatava; poi il fiume si stemperava in lontananza e non era più nero, ma grigio. Si potevano distinguere minuscoli puntolini scuri, assai lontani, che si spostavano lenti: chiatte e altre imbarcazioni; poi lunghe linee nere: le zattere. A volte si sentiva appena il cigolio di un remo o voci confuse, tale era il silenzio e così lontani i suoni. Poi potevi scorgere una striscia sull’acqua e dall’aspetto capivi che in quel punto c’era un tronco che tagliava la corrente che faceva apparire quella striscia. Infine vedevi la foschia alzarsi dall’acqua, mentre l’oriente si tingeva di rosa e anche il fiume; e allora scorgevi una capanna di tronchi sul limitare del bosco, lontano, sull’altra riva del fiume, o forse era un deposito di legname accatastato così male da quegli imbroglioni che in qualsiasi punto ci poteva are un cane. Quindi da laggiù si leva una leggera brezza, fresca e profumata di boschi e di fiori; ma

talvolta non è così, perché qualcuno ha lasciato in giro del pesce morto, lucci e simili, e quelli puzzano da nauseare. Poi c’è tutta la giornata davanti a noi e ogni cosa sorride nel sole mentre gli uccelli ci danno dentro a cantare. Un filo di fumo ormai non poteva essere notato, quindi prendevamo qualche pesce dalle lenze e lo cuocevamo per colazione. Dopo di che restavamo a contemplare la solitudine del fiume in una sorta di beata pigrizia, finché dall’ozio avamo al sonno. A volte ti svegliavi all’improvviso e cercavi di capire cosa era stato, e magari era stato un battello che risaliva ansimando la corrente, così distante verso la riva opposta che non riuscivi a distinguerne nulla, tranne forse se aveva la ruota a poppa o sul fianco. Poi per un’ora intera non c’era più nulla da sentire o da vedere, solo questa grande solitudine. Poi magari vedi una zattera che scivola lontana e forse, sopra, un mozzo che spacca legna, perché sulle zattere spaccano legna quasi sempre; scorgi il lampeggiare dell’ascia che scende e non senti nulla, ma vedi che l’ascia risale e quando arriva sopra la testa, allora senti il colpo: ci vuole tutto quel tempo al suono per venire sopra l’acqua. Così trascorrevamo la giornata, in ozio, ascoltando il silenzio. Una volta c’era una fitta nebbia e le zattere e tutte le barche che avano continuavano a picchiare su pentole e padelle per non essere investite dai battelli. Un barcone o una zattera ci ò tanto vicino che potevamo sentire la gente parlare e imprecare e ridere; li sentivamo benissimo ma non se ne vedeva neppure l’ombra: ti dava i brividi, sembrava che ci fossero degli spiriti che avano così a mezz’aria. Jim era convinto che lo fossero davvero, ma io dico: — No, gli spiriti non direbbero mai: «maledizione a questa dannata nebbia». Appena calava la notte, ci si spingeva al largo e quando avevamo portato la zattera al centro del fiume l’abbandonavamo alla corrente; allora accendevamo la pipa, le gambe penzoloni nell’acqua, e parlavamo di una infinità di cose. Eravamo sempre nudi, giorno e notte, zanzare permettendo. I vestiti nuovi che mi avevano fatto in casa di Buck erano troppo belli per essere comodi e inoltre dei vestiti non sapevo che farmene, assolutamente. Talvolta avevamo quel intero fiume tutto per noi, per lunghissimi periodi. Laggiù oltre l’acqua c’erano le sponde e le isole, e magari una fiammella che doveva essere la candela alla finestra di qualche capanna, e a volte ne vedevi una o due che galleggiavano sull’acqua, sopra una zattera o una chiatta, ovviamente; e magari potevi sentire un violino o una canzone che provenivano da quelle Imbarcazioni. È un piacere vivere su una zattera. Avevamo il cielo, lassù, tutto

punteggiato di stelle, e stavamo sdraiati a contemplarle e a discutere se erano create o capitate lì per caso; Jim ammetteva che erano state create, secondo me invece erano spuntate per caso; mi sembrava che ci sarebbe voluto troppo tempo per crearne così tante. Jim diceva che forse era stata la luna a covarle; be’, l’idea mi sembrava abbastanza ragionevole, quindi non dissi niente in contrario, perché una volta avevo visto una rana deporre un mucchio simile di uova e dunque poteva essere. Osservavamo anche le stelle cadenti e la scia che si lasciavano dietro. Jim sosteneva che erano stelle guaste e venivano gettate fuori del nido. Una volta o due ogni notte incontravamo un battello a vapore che scivolava veloce nell’oscurità e di tanto in tanto eruttava dai fumaioli una miriade di scintille che piovevano giù nel fiume con uno spettacolo straordinario; poi svoltava ad un’ansa e le sue luci smettevano di ammiccare, mentre il suo ansimare cessava lasciando il fiume di nuovo in silenzio; e pian piano giungevano fino a noi le onde che aveva sollevato, molto tempo dopo che era scomparso, e facevano traballare un poco la zattera; dopo di che non si sentiva più nulla per chissà quanto tempo, tranne forse qualche ranocchio. Dopo mezzanotte la gente sulla riva andava a letto e allora per due o tre ore le rive erano nere: non più lumi alle finestre delle capanne. Questi lumi erano il nostro orologio: quando compariva il primo, voleva dire che si avvicinava il mattino, così noi cominciavamo a cercare un posto sicuro per nascondere la zattera e ormeggiarla. Un mattino all’alba arrivando su un isolotto trovai una canoa, con la quale mi diressi a riva, che era solo a duecento metri. Risalii per circa un chilometro un canale della fascia paludosa per vedere se riuscivo a trovare delle bacche. Proprio mentre stavo superando un punto dove una specie di trattura lo attraversava, ecco arrivare due individui che correvano a più non posso lungo questo sentiero, lo mi vidi perduto, perché ogni volta che qualcuno veniva inseguito, pensavo di essere io, oppure Jim. Stavo per battermela di tutta fretta, ma quelli erano ormai abbastanza vicini e si misero a gridare e a supplicarmi di salvarli: dicono che non hanno fatto niente di male e sono inseguiti per questo ed hanno alle calcagna uomini e cani. Volevano saltar su, ma lo dico: — No, aspettate un momento. Io non sento ancora né i cani né i cavalli; avete

tutto il tempo per infilarvi nel cespugli e risalire un poco la riva. Poi scendete in acqua, venite a guado fino a me e montate sulla canoa, così farete perdere le vostre tracce. Fecero in questo modo, e appena furono a bordo io filai verso il nostro isolotto e dopo pochi minuti sentimmo in lontananza un gran urlare di cani e di uomini. Li sentivamo avanzare verso il torrente, ma senza vederli; sembrava che si fossero fermati a cercare intorno, disorientati per un po’; poi, siccome noi continuavamo ad allontanarci, non li sentimmo più. Arrivati al fiume, con un chilometro circa di bosco alle spalle, tutto era tranquillo e continuammo a remare verso il nostro isolotto per nasconderci poi fra gli alberi e sentirci al sicuro. Uno di quei tizi era sulla settantina, e anche oltre, aveva la testa pelata e basette grigie. Portava un vecchio cappello sfondato, e una camicia di lana blu tutta unta, brache di tela blu sbrindellate e infilate negli stivali e ghette fatte a mano, anzi una sola. Buttata sul braccio teneva una vecchia marsina di tela blu con bottoni d’ottone ben lustri e tutti e due avevano grosse sacche da viaggio dall’aria malandata. L’altro individuo aveva circa trent’anni ed era vestito più o meno con la stessa eleganza. Dopo colazione ci mettemmo a conversare sdraiati sull’erba e la prima cosa che venne fuori fu che questi due tizi neanche si conoscevano. — Cos’è stato che vi ha messo nei guai? — domandò il calvo all’altro. — Be’, io vendevo un prodotto per eliminare il tartaro dal denti, e il tartaro lo elimina davvero, però di solito viene via anche lo smalto; ma mi sono fermato una notte in più di quanto avrei dovuto e stavo appunto battendomela quando ho incontrato voi sul sentiero da questa parte del paese e mi avete detto che stavano inseguendovi pregandomi di aiutarvi a scappare. Così vi ho detto che anch’io mi trovavo nel pasticci e potevo ben scappare con voi. Ecco tutta la mia storia. E la vostra? — Be’, io stavo tenendo un ciclo di prediche contro l’alcolismo da circa una settimana, ed ero divenuto il beniamino di tutte le donne, giovani e vecchie, perché la mettevo giù dura contro i beoni, ve l’assicuro, e riuscivo ad intascare non meno di cinque o sei dollari per sera, dieci cents a testa, bambini e negri gratis. Gli affari andavano a gonfie vele, quando la notte scorsa, chissà come, si sparge la voce che ho l’abitudine di sarmela con una mia bottiglia privata

quando non c’è nessuno che mi vede. Un negro è venuto a svegliarmi stamattina e mi ha detto che si stava radunando gente alla chetichella con i cani e i cavalli e che si sarebbero fatti sentire abbastanza presto. Mi davano un vantaggio di circa mezz’ora, per poi acciuffarmi, se riuscivano; e se mi prendevano, mi coprivano di catrame e di piume e mi mettevano a cavallo di una trave, di sicuro. Non ho aspettato di far colazione, non avevo più fame. — Vecchio — dice allora il giovane — mi sa che potremmo metterci a lavorare insieme noi due, che ne dite? — Niente in contrario. Qual è la vostra attività, di solito? — Di mestiere faccio lo stampatore; traffico un po’ in specialità medicinali; faccio l’attore di teatro: tragedia, mi capite; all’occasione mi esibisco in spettacoli di ipnotismo e frenologia; tanto per cambiare qualche volta insegno geografia cantata; altre volte tengo una conferenza... insomma, faccio un mucchio di cose, tutto quello che mi capita, purché non ci sia da faticare. E voi che cosa fate? — Mi sono occupato parecchio di medicina ai miei tempi. La mia specialità era di imporre le mani per curare il cancro, la paralisi e cose del genere; so predire la fortuna abbastanza bene, se ho qualcuno attorno che mi procura le informazioni necessarie. Me la cavo anche a predicare e posso organizzare raduni religiosi e andare in giro a fare il missionario. Per un po’ nessuno aggiunge parola, poi il giovane emette un sospiro ed esclama: — Ahimè! — Perché questo ahimè? — domanda il calvo. — Il pensiero di dover vivere un’esistenza simile, degradato in compagnia di gente simile — e prese ad asciugarsi l’angolo di un occhio con uno straccio. — Dannazione alla pellaccia vostra, la mia compagnia non è abbastanza distinta per voi? — ribatté il calvo piuttosto irritato e con arroganza. — Si, è abbastanza distinta per me; è quanto mi merito, perché chi mai mi ha trascinato così in basso, quando ero così in alto? Sono stato io, e non posso biasimare voi, signori, lungi da me il pensarlo. Non biasimo nessuno, io me lo

merito. Che il freddo mondo faccia di me il suo zimbello; di una cosa sola sono certo: in qualche parte c’è una fossa pronta per me. Il mondo può continuare come ha sempre fatto e spogliarmi di tutto, le persone care, le mie ricchezze, ogni cosa, ma non può togliermi quella fossa. Un giorno là io giacerò e dimenticherò tutto, e il mio povero cuore infranto troverà pace. — E continuava ad asciugarsi gli occhi. — Accidenti al vostro povero cuore infranto — ribatté il calvo. — Che c’entriamo noi con il vostro povero cuore infranto? Noi non vi abbiamo fatto niente. — No, lo so che non c’entrate. Non sto biasimando voi, signori. Sono caduto in basso, si, ma per mia colpa. È giusto che lo debba soffrire, perfettamente giusto, quindi non mi lamenterò. — Ma caduto in basso da dove? Da quale altezza sareste caduto? — Ah, voi non mi credereste, il mondo non mi crede... dimentichiamo il ato... non importa. Il segreto della mia nascita... — Il segreto della vostra nascita? Vorreste dire... — Signori — riprese il giovane molto solenne — a voi lo rivelerò, poiché sento che in voi posso riporre la mia fiducia. Per diritto di nascita io sono duca! Jim sgranò tanto d’occhi a queste parole, e anch’io, credo. Allora il calvo disse: — Ma no, voi scherzate... — Si, il mio bisnonno, primogenito del Duca di Acquasparta, si rifugiò in questo paese verso la fine del secolo scorso, per respirare l’aria pura della libertà; qui si sposò e qui mori, lasciando un figlio, mentre circa nello stesso periodo moriva anche suo padre. Il figlio secondogenito del defunto duca s’impadronì del titolo e delle ricchezze, mentre il vero duca, ancora infante, veniva ignorato. Io sono il discendente diretto di quell’infante, io sono il legittimo Duca di Acquasparta. Ed eccomi qui, negletto, privato dei miei beni, perseguitato dagli uomini, disprezzato da questo freddo mondo, lacero, esausto, con il cuore infranto e degradato a vivere in compagnia di felloni, sopra una zattera! Jim si sentiva

colmo di comione per lui, e io anche. Cercammo di consolarlo, ma quello disse che era fatica sprecata perché per lui non c’era conforto; disse che, se eravamo disposti a riconoscere il suo titolo, quella era una cosa che poteva fargli bene più di qualunque altra; e noi a dirgli che eravamo pronti, purché ci dicesse come si fa. Allora disse che dovevamo inchinarci nel rivolgergli la parola, e dovevamo dire «Vostra Grazia», o «Mio Signore », oppure « Vostra Signoria », e non si sarebbe opposto se noi lo si chiamava semplicemente Acquasparta, che, affermò, era un titolo, ad ogni buon conto, e non un nome; e uno di noi doveva servirlo a tavola e rendergli qualche piccolo servigio qualora lo desiderasse. Be’, non c’era proprio niente di difficile ed eravamo d’accordo. Per tutta la durata del pranzo Jim rimase accanto a lui servendolo e gli diceva: «Vostra Grazia vuole un po’ di questo, o un po’ di quello? », eccetera, e chiunque poteva rendersi conto che gli faceva un immenso piacere. Ma ben presto il vecchio si fece piuttosto taciturno, forse non aveva molto da dire o non sembrava trovarsi troppo a suo agio con tutte quelle cerimonie intorno al duca. Sembrava che stesse rimuginando qualcosa. Dunque, durante il pomeriggio, disse: — Sentite un po’, Acquaspanta ' — dice — sono molto spiacente per voi, ma non siete l’unica persona che ha avuto guai di questo genere. — No? — No davvero. Non siete lì solo che a torto sia stato declassato da un’alta posizione. — Ahimè! — Affatto. Non siete la sola persona qui che abbia un segreto riguardo alla sua nascita. — E cribbio, anche lui si mette a piangere. — Basta. Che cosa intendete dire? — Acquaspanta, posso fidarmi di voi? — domandò il vecchio continuando a singhiozzare. — Sino all’amara morte! — e prese il vecchio per la mano, gliela strinse e disse: — Il segreto dell’essere vostro, parlate!

— Acquaspanta, io sono l’ultimo Delfino! Potete scommetterci che sia Jim che lo sgranammo tanto di occhi questa volta. Quindi il duca domanda: — Voi siete che cosa? — Si, amico mio, è la pura verità: i vostri occhi in questo momento stanno mirando il povero Delfino scomparso, Luisi diciassettesimo, figlio di Luigi sedicesimo e di Maria Tonietta. — Voi? Alla vostra età? Giammai! Volete dire che siete il defunto Carlo Magno; voi dovete avere sei o settecento anni, almeno. — Sono stati gli affanni, Acquaspanta, soltanto gli affanni! A loro s’ascriva questa mia testa bianca e questa precoce calvizie. Si, signori, voi contemplate dinanzi a voi, in brache di tela e in miseria, l’errabondo, l’esiliato, il calpestato, il sofferente legittimo Re di Francia. Be’, continuò a piangere e a fare tante scene che io e Jim non sapevamo più che fare e ci rincresceva molto, ma eravamo anche molto contenti e orgogliosi di averlo con noi. Dunque come avevamo fatto precedentemente per il duca, tentammo di confortare anche lui. Ma lui disse che era inutile; nulla se non la morte che è la fine di tutto poteva mettere fine anche alle sue pene, sebbene, aggiunse, a volte si sentisse un po’ meglio se la gente lo trattava secondo i diritti del suo rango e piegava il ginocchio davanti a lui quando gli parlava, e lo chiamava sempre «Sua Maestà» e lo serviva per primo a tavola e non si sedeva in sua presenza finché lui stesso non ne avesse data licenza. Così Jim e io cominciammo a dirgli «Maestà qui» e «Maestà là», e a fare questo e quest’altro e a stare in piedi finché non ci diceva che potevamo sederci. Questo trattamento gli fece un mondo di bene e tornò sereno e perfettamente a suo agio. Il duca invece pareva piuttosto acido nel suoi riguardi e non aveva l’aria di essere molto soddisfatto della piega che avevano preso le cose. Tuttavia il re si comportò davvero amichevolmente verso di lui e disse che il bisnonno del duca e anche tutti gli altri duchi di Acquaspanta erano tenuti in grande considerazione da suo padre ed era loro concesso di venire a palazzo assai di frequente; ma il duca rimase imbronciato per un bel po’, finché alla fine il re disse: — Molto probabilmente saremo costretti a restare insieme su questa zattera Dio sa quanto, Acquaspanta, quindi a che serve il vostro broncio? Soltanto ad

aumentare il disagio. Non è colpa mia se non sono nato duca e non è colpa vostra se non siete nato re; dunque perché rompersi l’anima? Facciamo del nostro meglio per prendere le cose come vengono, dico io: questo è il mio motto. Non è affatto male quanto abbiamo trovato qui: da mangiare a volontà e una vita tranquilla... Via, diamoci la mano, duca, e restiamo buoni amici.

Il duca segui l’invito e io e Jim ne fummo contenti. Si eliminava così ogni motivo di disagio, e ci sentivamo veramente bene, perché sarebbe stato davvero un misero affare avere inimicizie sulla zattera: infatti la cosa più importante sopra una zattera è che tutti siano soddisfatti e si sentano ben disposti verso gli altri. Non mi ci volle molto per convincermi che questi due bugiardi non erano né re né duchi, ma semplicemente fanfaroni e truffatori. Ma non dissi nulla né lo lasciai capire; lo tenni per me, che è sempre la cosa migliore: allora non hai litigi e non ti metti nei guai. Se quelli volevano che li si chiamasse re e duchi io non avevo nulla in contrario se con questo era assicurata la pace in famiglia. Non serviva nulla dirlo a Jim, quindi non gliene parlai. Se ho imparato qualcosa da papà, ho imparato almeno che il modo migliore per andare d’accordo con il suo genere di gente è di lasciare che facciano come gli pare.

Huck spiega - Progetto di una campagna - Sfruttare il ra¬duno religioso - Un pirata al raduno religioso - Il duca fa lo stampatore - Jim ricercato

Capitolo 20

Ci fecero un mucchio di domande; volevano sapere perché nascondevamo in quel modo la zattera e di giorno dormivamo invece di navigare: forse che Jim era un negro fuggitivo? Ma io gli faccio: — Ma per amor del cielo, un negro fuggitivo fuggirebbe verso il sud? No, anche loro ammisero che era assurdo. Tuttavia dovevo dare qualche spiegazione, così dico: — I miei abitavano a Pike County nel Missouri, dove io sono nato, ma sono morti tutti tranne me e papà e mio fratello Ike. A papà venne in mente di piantare tutto e andarsene a vivere con lo zio Ben, che possiede una piccola fattoria sul fiume, sessantacinque chilometri a sud di Orleans. Papà era molto povero e aveva dei debiti; così, sistemate le cose, non ci restavano che sedici dollari e il nostro negro, Jim. Questo non bastava per un viaggio di duemila chilometri, né viaggiando sul ponte, né in qualunque altro modo. Be’, quando il fiume andò in piena, papà ebbe un colpo di fortuna: riuscì a prendere questo pezzo di zattera e pensammo che si poteva andare giù a Orleans con questo mezzo. Ma la fortuna di papà non durò molto; una notte un battello urtò contro un angolo della zattera e tutti finimmo in acqua, spinti sotto la ruota. Jim e io riuscimmo a ritornare a galla sani e salvi, ma papà era ubriaco e Ike aveva soltanto quattro anni e non sono più venuti su. Be’, nei successivi due o tre giorni fummo proprio nei guai perché c’era gente che ci veniva attorno di continuo con le barche e cercava di portarmi via il mio Jim, in quanto dicevano che era un negro fuggitivo. Il duca dice:

— Lasciatemi solo ed escogiterò un sistema per navigare anche di giorno, se vogliamo. Ci penserò sopra ed escogiterò un sistema che accomodi tutto. Verso notte il cielo incominciò ad oscurarsi e minacciare pioggia. I lampi guizzavano bassi sull’orizzonte e le foglie incominciavano a rabbrividire: si stava facendo proprio brutto, era facile da capire. Così il duca e il re andarono a dare un’occhiata al nostro capanno per vedere che tipo di letti c’erano. Il mio letto era un sacco di paglia, migliore di quello di Jim, che era un saccone di cartocci di mais. Bene, il duca dichiarò che avrebbe preso il mio letto, ma il re ebbe da obiettare. Dice: — Avrei pensato che la differenza di rango vi suggerisse che non è dignitoso per un uomo come me dormire su un sacco di strame. Quindi sarà Vostra Grazia a servirsene. Jim e io sudammo freddo di nuovo, per un minuto, temendo che fra quei due scoppiasse una zuffa; fummo proprio contenti quando il duca disse: — Il mio fato è questo, di essere sempre affondato nel fango sotto il ferreo tallone dell’oppressione. La sventura ha infranto il mio spirito un tempo altero; io cedo, mi sottometto; tale è il mio fato. Sono solo al mondo... lasciatemi soffrire; posso ben sopportarlo. Partimmo non appena fu buio. Il re ci suggerì di portarci proprio in mezzo al fiume e di non accendere la lanterna finché non avessimo fatto parecchia strada dalla città. Ben presto si giunse in vista di un piccolo grappolo di luci; si trattava della città, e le ammo davanti alla distanza di circa mezzo chilometro e tutto andò bene. Fatto un altro chilometro, issammo la nostra lanterna di posizione, e verso le dieci scoppiò un temporale con vento, tuoni e lampi come non mai; così il re ci ordinò di montare tutti due di guardia in attesa che il tempo migliorasse; lui e il duca si infilarono nel capanno e si ritirarono per la notte. Il mio turno di guardia iniziava verso mezzanotte, ma in ogni modo non mi sarei ritirato, neanche se avessi avuto un letto, perché non si vede ogni giorno una tempesta di quel genere. All’anima, come urlava il vento! E ogni due secondi veniva un lampo che illuminava la cresta bianca delle onde per un raggio di mezzo chilometro. Poco mancava che le onde a volte mi spazzassero via, ma io non avevo niente addosso e non m’importava. Non si correva il rischio di sbattere contro qualche tronco: i lampi erano così frequenti e luminosi che potevamo vedere ogni ostacolo in tempo e dirigere da questa parte o da quella in modo da

evitarlo. Come ho detto, il mio turno di guardia era quello di mezzo, ma a quell’ora io ero pieno di sonno, così Jim disse che si fermava lui al mio posto per la prima metà; era sempre straordinariamente buono con me Jim. Io m’infilai nel capanno, ma il re e il duca avevano gambe e braccia dappertutto, cosicché per me non c’era posto; quindi mi distesi fuori: non mi importava della pioggia, perché c’era caldo, e le onde adesso non erano più tanto alte. Ma verso le due ricominciarono a ingrossarsi e Jim stava per venirmi a chiamare, ma poi cambiò idea perché pensava che non fossero abbastanza grosse da costituire un pericolo; ma si sbagliava perché tutt’a un tratto ecco venire un’ondata enorme, che mi spazzò via. Jim quasi moriva dal ridere. Era il negro dalla risata più facile che sia mai esistito. Montai di guardia io e Jim si stese e cominciò a russare; ben presto la tempesta diminuì e cessò del tutto; quando vidi la prima capanna illuminata, lo svegliai e facemmo entrare la zattera in un’insenatura nascosta, per la giornata. Dopo colazione il re tirò fuori un vecchio mazzo di carte unte e bisunte e si mise a giocare tresette con il duca, cinque cents a partita. Poi se ne stancarono e dichiararono che avrebbero «organizzato una campagna», come la chiamarono. Il duca frugò nel suo sacco da viaggio e ne cavò un fascio di foglietti stampati e li lesse ad alta voce. Uno di questi foglietti diceva che «il celebre dottor Armand de Montalband, di Parigi » avrebbe tenuto « una conferenza sulla Scienza della Frenologia » nella località di... nel giorno... ingresso dieci centesimi, e avrebbe « fornito oroscopi a venticinque centesimi l’uno ». Il duca disse che era lui. In un altro foglietto era «Garrick il giovane, l’attore tragico shakespeariano, di Drury Lane, Londra, famoso in tutto il mondo». In altri foglietti aveva tanti altri nomi e faceva altre cose meravigliose come scoprire l’acqua e l’oro con una bacchetta magica, dissipare il malocchio delle streghe e così via. Poi disse: — Ma la mia ione è la musa istrionica. Maestà, avete mai calcato le scene? — No — rispose il re. — Allora dovete provare, prima che siate invecchiato di altri tre giorni, o Grandezza Decaduta — disse il duca. — Al primo paese un po’ decente che incontriamo, affittiamo una sala e facciamo il duello di Riccardo III e la scena del balcone di Giulietta e Romeo. Che ve ne sembra?

— Sono pronto anche a andare all’inferno per qualunque cosa che mi faccia guadagnare, Acquaspanta, ma vedete, non so niente di recitazione, e di recite non ne ho viste molte. Ero troppo piccolo quando papà usava farne a palazzo. Ma credete che potreste insegnarmi? — Facilissimo! — Bene. Ho una gran voglia di qualcosa di nuovo in ogni caso. Cominciamo subito. Così il duca gli raccontò chi erano Romeo e Giulietta e disse che lui era abituato a fare Romeo e quindi il re doveva fare Giulietta. — Ma se Giulietta è una ragazzina così giovane, duca, forse in lei fanno un effetto piuttosto strano la mia testa pelata e le mie basette bianche. — No, non preoccupatevi: questi campagnoli non ci pensano neanche. E poi, sapete, sarete in costume, e con il costume tutto cambia; Giulietta è al balcone e si gode il chiaro di luna prima di andare a letto e ha indosso la camicia da notte e una cuffietta in testa. Ecco qua i costumi per le parti. Estrasse due o tre vestiti di stoffa per tendaggi e disse che erano le armature medioevali per Riccardo III e l’altro personaggio e poi una camicia da notte in cotone bianco e, per completare il costume, una cuffia da notte pieghettata. Il re ne fu soddisfatto; così il duca tirò fuori il suo libro e incominciò a leggere le parti nello stile più splendido e alato, saltellando tutt’intorno e recitando nel medesimo tempo per dimostrare come si doveva fare; poi diede il libro al re e gli disse di studiare a memoria la sua parte. C’era un paesucolo circa cinque chilometri oltre l’ansa del fiume e dopo il pranzo il duca disse che aveva escogitato un piano per navigare anche di giorno senza esporre Jim ad alcun rischio; quindi sarebbe andato giù in paese a sistemare la cosa, il re dichiarò che ci sarebbe andato anche lui per vedere se poteva trovare qualche cosa. Noi non avevamo più caffè, così Jim disse che era meglio se andavo anch’io con loro sulla canoa a comprarne un po’. Quando vi arrivammo, non c’era nessuno in giro; le strade erano vuote e perfettamente silenziose come di domenica. Trovammo un negro ammalato che se ne stava a prendere il sole nel cortile dietro casa e ci disse che tutti quelli che non erano troppo giovani o troppo ammalati o troppo vecchi erano andati al

raduno religioso a circa tre chilometri in mezzo al bosco. Il re si fece indicare la strada e dichiarò che andava anche lui al raduno per sfruttarlo il più possibile, e potevo andarci anch’io. Il duca disse che quello che cercava era una tipografia, e la trovammo: un bugigattolo sopra il negozio di un falegname; falegname e stampatore erano andati al raduno e nessuna porta era chiusa a chiave. Era un buco sudicio con tutto sottosopra e con macchie d’inchiostro e manifesti con figure di cavalli e ritratti di negri fuggitivi su tutte le pareti. Il duca si tolse la giacca e disse che lui ormai era a posto. Così io e il re filammo fuori, diretti al raduno. In meno di mezz’ora ci arrivammo madidi di sudore, perché era una giornata terribilmente calda. C’erano almeno un migliaio di persone venute da un raggio di trenta chilometri. Il bosco era pieno di carri e di cavalli, legati un po’ dappertutto, che mangiavano alle greppie dei carri e scalpitavano per tenere lontane le mosche. C’erano tettoie, fatte di pali e coperte di frasche, dove vendevano limonate e pan di zenzero e mucchi di cocomeri e pannocchiette verdi e altra roba del genere. La predica si teneva sotto una tettoia dello stesso tipo, soltanto che era più vasta e ci stava una gran folla. Le panche erano costruite con sottopelli di tronchi, con buchi scavati nel lato di sotto per piantarci i bastoni come gambe. Non avevano schienale. I predicatori se ne stavano su un’alta pedana sistemata ad una estremità della tettoia. Le donne portavano cappellini da sole e alcune avevano abiti di lanetta, altre di percalle ed alcune delle più giovani avevano vestiti di cotonina. Alcuni giovanotti erano a piedi nudi e fra i ragazzini certi non avevano abiti, ma solo una camiciola di lino grezzo. Alcune vecchie lavoravano a maglia, mentre dei giovani si corteggiavano alla chetichella. Quando arrivammo alla tettola, il predicatore stava giusto intonando un inno. Leggeva due versi e poi tutti li cantavano in coro ed era grande sentirli: erano tanto numerosi e lo facevano con molto entusiasmo; poi il predicatore leggeva altri due versi e tutti li cantavano e così via. La gente si animava sempre più e cantava sempre più forte; verso la fine alcuni presero a gemere, altri a urlare. Allora il predicatore incominciò la predica, molto serio, e faceva la spola da una parte all’altra della pedana e quando era al centro si piegava in avanti, con le braccia e l’intero corpo che s’agitavano senza posa, urlando le parole con quanto flato aveva; di tanto in tanto alzava la Bibbia, la spalancava e la ava da una mano all’altra gridando: — E il bronzeo serpente del deserto! Guardatelo e

vivrete! — E la gente urlava: — Gloria! Amen! — Così quello continuava e la gente non smetteva di gemere e di gridare e di rispondere amen. — Oh, venite al banco del penitenti! Venite neri di peccato! (amen). Venite ammalati e dolenti! (amen). Venite zoppi e storpi e ciechi! (amen). Venite poveri e bisognosi e voi che siete caduti nella vergogna! (amen). Venite voi tutti che siete affaticati e sozzi e afflitti! Venite voi che avete lo spirito infranto! Venite con cuore contrito! Venite col vostri stracci e i vostri peccati e le vostre sporcizie! Le acque che vi monderanno non costano nulla, la porta del cielo è spalancata, oh, entrate e sarete in pace! (a-amen! gloria, gloria, alleluia!). E avanti. Ormai non si poteva più capire che cosa dicesse il predicatore per via del continuo urlo e lamento. Dappertutto in mezzo alla folla c’era chi s’alzava in piedi e a viva forza si faceva strada fino alle panche dei penitenti con le guance rigate di lacrime; e quando tutti i pentiti si furono infilati nelle prime file, presero a cantare in coro e a urlare e a buttarsi per terra sulla paglia che parevano tutti matti scatenati. Be’, prima che me ne rendessi conto, il re si mise in azione e si poteva sentire la sua voce al di sopra di ogni altra; quindi raggiunse a o di carica la pedana e il predicatore lo invitò a parlare alla gente, cosa che fece. Incominciò col dire che era un pirata, che aveva fatto il pirata per trent’anni su e giri per l’Oceano Indiano e che la sua ciurma s’era assottigliata notevolmente la primavera precedente in un combattimento e allora era ritornato in patria per reclutare nuovi uomini. Grazie al cielo era stato derubato di tutto la notte prima ed era sbarcato senza il becco d’un quattrino e ne era contento, era la cosa più benedetta che gli fosse mai accaduta perché adesso era un altr’uomo e si sentiva davvero felice per la prima volta in vita sua; e povero com’era, aveva intenzione di mettersi subito a lavorare per ritornare all’Oceano Indiano e dedicare il rimanente della sua vita a riportare i pirati sulla retta via: infatti lui poteva farlo meglio di chiunque altro, a conoscenza com’era di tutte le ciurme di pirati di quell’oceano; e quantunque gli ci volesse un mucchio di tempo per ritornare laggiù senza denaro, di sicuro ci sarebbe tornato e ogni volta che fosse riuscito a convertire un pirata gli avrebbe detto: « Non ringraziare me, non dare a me alcun merito: tutto spetta di diritto a quella cara gente del raduno religioso di Pokevllie, veri fratelli e benefattori della razza umana e a quel caro predicatore, il più sincero amico che un pirata abbia mai avuto! ». E poi scoppiò in lacrime e tutti lo imitarono. Allora qualcuno incominciò a

gridare: — Facciamo una colletta per lui, facciamo una colletta! — Be’, se ne alzarono almeno una dozzina pronti a farla, ma qualcuno gridò: — Che i lui in giro col cappello! — Allora tutti urlarono la stessa cosa, compreso il predicatore. Così il re andò in giro tra la folla con il cappello, strofinandosi gli occhi, benedicendo la gente, lodandola e ringraziandola per la sua generosità verso i poveri pirati lontani laggiù; e ad ogni o le ragazze più graziose, con i volti rigati di lacrime, gli si accostavano e gli chiedevano se potevano dargli un bacio per poterlo ricordare meglio e lui diceva sempre di sì; e qualcuna lui stesso l’abbracciava e la baciava non meno di cinque o sei volte. Lo invitavano a fermarsi una settimana e tutti volevano che andasse a stare in casa loro e dicevano che sarebbe stato un onore; ma lui diceva che siccome quello era ormai l’ultimo giorno del raduno spirituale la sua presenza non poteva più giovare a nessuno, e inoltre era ansioso di raggiungere l’Oceano Indiano per iniziare la sua missione fra i pirati. Quando fummo di ritorno alla zattera lui si mise a contare il denaro raccolto e trovò che aveva intascato ottantasette dollari e settantacinque centesimi. E poi s’era portato via pure un bottiglione di whisky da dieci litri che aveva trovato sotto un carro quando ci eravamo rimessi in cammino. Il re commentò che, tutto considerato, quella aveva superato ogni altra giornata da lui dedicata al lavoro missionario. Disse che non c’era niente da fare: i pagani non valgono una cicca a confronto dei pirati quando si vuol sfrattare un’adunanza religiosa. Il duca era convinto di aver fatto abbastanza bene finché non giunse il re con i suoi risultati, dopo di che non ne fu più troppo sicuro. In quella stamperia s’era messo a stampare due lavoretti per dei contadini, avvisi riguardanti i cavalli, e aveva intascato il denaro, quattro dollari. Poi aveva venduto pubblicità da farsi sul giornale per un valore di dieci dollari, aveva detto che era pronto a pubblicarla per soli quattro dollari se pagavano anticipatamente: e così quelli avevano fatto. L’abbonamento al giornale costava due dollari all’anno, ma accettò tre abbonamenti per mezzo dollaro l’uno a condizione che pagassero in anticipo; quelli stavano per pagare, come al solito, con legna da ardere e cipolle, ma lui disse che aveva appena rilevato l’azienda e aveva ribassato i prezzi con tutta la sua buona volontà, perché doveva incassare denaro. Mise in stampa una breve composizione poetica inventata, tre versi di tipo dolce e triste, il cui titolo era: Si, calpesta, o gelido mondo, questo cuore infranto! e l’aveva lasciata pronta per essere pubblicata sul giornale senza esigere neanche un centesimo. Be’,

aveva intascato nove dollari e mezzo, e concluse che si era guadagnato la giornata. Poi ci fece vedere un altro lavoretto che aveva stampato senza aspettarsi un onorario perché era per noi. Era un avviso con il ritratto di un negro fuggitivo con il suo fagotto in spalla appeso a un bastone e sotto la scritta: «Taglia di duecento dollari». La descrizione riguardava tutta Jim e lo dipingeva a pennello. Diceva che era fuggito dalla piantagione di St. Jacques, sessanta chilometri a valle di New Orleans, l’inverno ato, e con ogni probabilità si stava dirigendo verso il nord e chiunque riuscisse ad acciuffarlo e a riportarlo indietro avrebbe avuto la taglia e le spese. — Adesso — fece il duca — trascorsa questa notte, potremo navigare in pieno giorno, se vogliamo. Ogni volta che vediamo qualcuno venire verso di noi, possiamo legare Jim con una corda mani e piedi e farlo sdraiare sotto il capanno, e poi mostriamo questo foglietto dicendo che l’abbiamo catturato sul fiume, ma siccome siamo troppo poveri per viaggiare su un battello abbiamo affittato da certi nostri amici questa piccola zattera e ci stiamo dirigendo verso sud per intascare la taglia. Manette e catene farebbero una figura anche migliore su Jim, ma non si accorderebbero con la storia della nostra miseria. Un po’ come portare gioielli. Delle corde sono la cosa più appropriata: dobbiamo entrare nella parte, come si dice in teatro. Si fu tutti d’accordo che il duca era davvero un tipo in gamba e che non si correvano rischi a navigare di giorno. Fummo tutti d’accordo di navigare parecchio quella notte per essere fuori tiro dal vespaio che avrebbe suscitato in quel piccolo paese il lavoro del duca e poi si poteva andare a cuor tranquillo. Ci sdraiammo e rimanemmo buoni buoni senza neanche alzare la testa fin quasi alle dieci; poi filammo fuori, tenendoci a debita distanza dal paese, senza il coraggio di issare la lanterna finché non fummo decisamente fuori vista. Quando Jim mi chiamò alle quattro del mattino per iI mio turno di guardia, mi disse: — Huck, credi che incontreremo qualche altro re in questo viaggio? — No — risposi — credo di no. — Be’ — disse lui — allora siamo a posto. Un paio di re vanno bene, ma sono

abbastanza. Uno è ubriaco fradicio e il duca non sta molto meglio. Scoprii che Jim aveva cercato di farlo parlare se per avere un’idea di quella lingua, ma il re aveva detto che era stato tanto tempo in questo paese e aveva ato tanti guai che l’aveva dimenticato

Scuola di scherma - Essere o non essere - A zonzo per la città - Una città pigra - Il vecchio Boggs - Morte di Boggs

Capitolo 21

Il sole era già spuntato, ma noi continuammo ad andare avanti senza ormeggiare. Di li a poco il re e il duca spuntarono fuori dal capanno con un’aria piuttosto malconcia; ma dopo un bel tuffo nel fiume e una buona nuotata stavano assai meglio. Dopo colazione il re si mise a sedere in un angolo della zattera, si cavò gli stivali, si rimboccò i pantaloni, lasciò penzolare le gambe nell’acqua, in modo da sentirsi del tutto a suo agio, accese la pipa e incominciò a mandare a memoria il suo Romeo e Giulietta. Quando seppe abbastanza bene la parte, lui e il duca incominciarono a provare insieme. Il duca era costretto a ripetergli continuamente come dire ogni singola battuta; lo faceva sospirare e poi gli faceva mettere la mano sul cuore e dopo un po’ disse che l’aveva fatta proprio benino. — Soltanto — aggiunse — non dovete muggire «Romeo» come un bue; lo dovete sussurrare con voce dolente, languidamente, così: Roo- meo! ecco tanto per darvi un’idea, perché Giulietta è soltanto una cara, dolce ragazzina, lo sapete, e non raglia come un somaro. Poi tirarono fuori un paio di lunghe spade che il duca aveva fatto con delle stecche di quercia e incominciarono a provare il duello: il duca diceva di chiamarsi Riccardo III; e per come s’azzuffavano e come zompavano tutt’attorno per la zattera erano veramente grandi a vedersi. Ma non ò molto che il re sdrucciolò e andò a finire in acqua, dopo di che i due si concessero una tregua e si misero a raccontare ogni sorta d’avventure che avevano avuto in altri tempi lungo il fiume. Dopo pranzo il duca disse:

— Be’, Capeto, vogliamo che questo spettacolo sia davvero di prim’ordine, sapete, così penso che si dovrebbe aggiungere ancora qualche cosetta. Comunque dobbiamo preparare qualcosa se per caso ci chiedono dei bis. — Cosa sarebbero questi bissi, Acquaspanta? Il duca glielo spiegò e aggiunse: — Io potrei soddisfarli facendo una danza scozzese oppure la giga del marinaio; e voi... be’, vediamo un po’... ecco, ho trovato, voi potreste fare il monologo di Amleto. — Di Amleto cosa? — Il monologo di Amleto, capite; è il pezzo più famoso di tutto Shakespeare. Ah, è sublime, sublime! Manda sempre in delirio il teatro. Purtroppo non ce l’ho sul libro... ho qui soltanto un volume... ma credo di poterlo spremere dalla memoria. Mi metto a camminare su e giù per un minuto e vedo se riesco a richiamarlo dal fondo delle mie reminiscenze. Così prese a marciare avanti e indietro, concentrato nei suoi pensieri, aggrottando di tanto in tanto la fronte in maniera terribile; poi alzava le sopracciglia, quindi si premeva la mano sulla fronte e indietreggiava gemendo; ora sospirava e ora spremeva una lacrima. Era bellissimo da vedere. Finalmente ricordò. Ci disse di fare attenzione. Assunse un atteggiamento nobile, con una gamba in avanti, il braccio steso in aria e il capo inclinato indietro, guardando iI cielo; poi cominciò ad agitarsi, a contorcersi e a digrignare i denti; quindi, per tutta la durata del pezzo, non fece che ululare, gesticolare e gonfiare il petto. Superò veramente qualunque altro attore che avessi mai visto prima. Questo è il discorso; io l’appresi abbastanza facilmente, mentre lo insegnava al re: Essere, o non essere; quello è il nudo pugnale che dà alla disgrazia vita si lunga; poiché chi mai sopporterebbe tali fardelli, finché il bosco di Birnam giunga a Dunsinane? Sennonché la paura di qualcosa dopo la morte

uccide il sonno innocente, la seconda pietanza della grande Natura, e ci fa scagliare i dardi dell’oltraggiosa Fortuna più che riparo cercare da altri di cui non sappiamo, ecco il rispetto che deve farci riflettere; sveglia Duncan col tuo bussare! Vorrei che riuscissi; infatti chi sopporterebbe la sferza e l'oltraggio del tempo, i soprusi dell'oppressore, la contumelia del superbo, l'indugio della legge e la quietanza che potrebbero prendersi i dolori, nel morto deserto e nel cuore della notte, allorché sbadigliano i [cimiteri nei consueti vestimenti di nero solenne, se non fosse che il paese inesplorato, dai cui confini nessuno fa [ritorno, fuori alita il suo contagio sul mondo, e perciò la tinta nativa della risolutezza, come il povero gatto [dell’adagio, negli affanni si stempera, e tutte le nubi accumulate sui nostri tetti questo considerando le loro linfe inaridiscono e consumano il nome dell’azione.

Tale consumazione devotamente è da desiderare. Ma intenerisciti, [o bella Ofelia: non spalancare la tua poderosa mascella di marmo, ma in un convento rinchiuditi... va’ !

Be’, quel discorso piacque moltissimo al vecchio e ben presto l’apprese così bene che riuscì a ripeterlo con maestria. Sembrava che fosse nato apposta per recitarlo, e quando ne fu padrone e si scaldava a dovere era un vero incanto il modo in cui gesticolava e si scalmanava nel buttarlo fuori. Alla prima occasione che ci si presentò, il duca fece stampare un po’ di manifesti e nei successivi due o tre giorni, mentre procedeva lungo il fiume, per tutto il tempo la zattera divenne un luogo straordinariamente agitato perché non vi si vedeva che un continuo duellare e un continuo provare e riprovare, come diceva il duca. Un mattino, quando ormai si era già entrati parecchio nello Stato dell’Arkansas, giungemmo in vista di un minuscolo paese in un’ampia ansa; perciò attraccammo circa mezzo chilometro a monte, alla foce di un ruscelletto, e tutti noi, tranne Jim, andammo in canoa giù in paese a vedere se ci fosse qualche possibilità per il nostro spettacolo. Vi giungemmo in un momento fortunato; quello stesso pomeriggio ci doveva essere un circo e la gente di campagna cominciava già ad affluire su ogni sorta di vecchi carretti malandati e a cavallo. Il circo doveva partire prima di sera, così per il nostro spettacolo ci potevano essere delle buone possibilità. Il duca affittò la sala del tribunale e noi andammo in giro ad attaccare i manifesti che dicevano così: Shakespeare Revival! Magnifica attrazione Solamente per questa sera! Attori di fama mondiale del teatro Drury Lane di Londra David Garrick il Giovane e Edmund Kean il Vecchio del Teatro Reale di Hymarket,

Whitechapel, Pudding Lane, Piccadilly, Londra e i Teatri Continentali Reali, nei loro sublime Spettacolo Shakespeariano intitolato La Scena del Balcone in Romeo e Giulietta!!! Romeo Sig. Garrick Giulietta Sig. Kean Con la partecipazione di tutta la Compagnia! Nuovi costumi, nuove scene, nuove parti! Seguirà: l’emozionante, magistrale, agghiacciante Singoiar Tenzone del Riccardo III!!! Riccardo Ili........... Sig. Garrick Richmond......... Sig. Kean Seguirà (a richiesta generale) L’immortale monologo di Amleto recitato da! famosissimo Kean! Da lui interpretato per 300 sere consecutive a Parigi! Solamente per questa sera A causa di imperativi impegni in Europa! Ingresso: 25 cents; bambini e negri: i0 cents.

Poi andammo a zonzo per il paese. Le botteghe e le case erano per lo più vecchie e traballanti baracche di legno che non erano mai state verniciate; erano costruite su palafitte a circa un metro dal suolo in modo da non essere raggiunte dall’acqua quando il fiume straripava. Le case avevano del piccoli giardini intorno, ma sembrava che non vi coltivassero nulla tranne stramonio e girasoli, mucchi di cenere, vecchi stivali e scarpe sfondate, cocci di bottiglia, cenci e pentolame fuori uso. Gli steccati erano fatti di assi di ogni genere, inchiodati lì in epoche successive; sporgevano da tutte le parti ed avevano cancelli con di solito un solo cardine e per di più di cuoio. Qualcuno di questi steccati forse un tempo

era stato verniciato, ma il duca osservò che doveva essere stato molto probabilmente al tempo di Colombo. In genere c’erano dentro branchi di porci, con la gente che stava sempre a cacciarli fuori. Tutti i negozi erano allineati su un’unica strada. Sul davanti avevano tende bianche di tela grezza e la gente di campagna legava i cavalli ai pali di sostegno. Sotto le tende erano sistemate delle cassette vuote e i fannulloni vi stavano seduti tutto il giorno, a tagliuzzarle con i loro coltelli, a masticar tabacco, a sbadigliare, a stiracchiarsi, insomma una bella manica di gente. In genere portavano cappelli di paglia gialla, larghi quasi quanto un ombrello, ma non avevano Indosso né giacca né gilet; si chiamavano l’un l’altro Bill, Buck, Hank, Joe, e Andy e parlavano con un accento lento e strascicato, intercalando una bestemmia ogni tre parole. Cera sempre almeno uno sfaccendato appoggiato a ogni palo e quasi Immancabilmente teneva le mani nelle tasche dei calzoni, tranne quando le tirava fuori per prestare una cicca di tabacco o per grattarsi. La loro conversazione per tutto il tempo era questa: — Sgancia una cicca, Hank. — Non posso, me n’è rimasta solo una. Chiedila a Bill. Forse Bill gli dà la cicca; forse dice una bugia e risponde che non ne ha. Qualcuno di quegli sfaccendati non ha mai il becco d’un quattrino, né una cicca di tabacco che possa dire sua. Tutte le loro cicche se le fanno prestare; dicono a uno: — Dovresti prestarmi una cicca, Jack; proprio in questo momento ho dato a Ben Thompson l’ultima che avevo. — Ed è una bugia, nove volte su dieci, che non riesce ad ingannare nessuno tranne forse un estraneo; ma Jack non è un estraneo, quindi risponde: — Davvero tu gli hai dato una cicca di tabacco? Forse è stata la nonna del gatto di tua sorella a dargliela. Tu dammi indietro tutte le cicche che ti ho già prestato, Lafe Buckner, poi io te ne presterò altre due o tre tonnellate, senza manco chiederti gli interessi. — Be’, un po’ te le ho già restituite una volta. — Già, è vero, la bellezza di sei cicche. Ma io t’avevo dato tabacco di bottega e tu mi hai ripagato con schifezza. Il tabacco di bottega è nero, pressato e intrecciato, ma questi tipi di solito

masticano la foglia naturale appena seccata. Quando prendono a prestito una cicca, di solito non la tagliano con il coltello, ma mettono direttamente fra i denti la treccia e tenendola con i denti la tirano con le mani finché non si strappa in due; poi qualche volta il proprietario del tabacco, quando si vede restituire la treccia, ha un’aria sconsolata e dice sarcastico: — Ehi, dammi indietro la cicca e prenditi pure la treccia. Tutte le strade e i sentieri erano di fango, non c’era niente altro che fango, un fango nero come il catrame, che in qualche punto era profondo quasi una spanna e qualche centimetro dappertutto. E dovunque si vedevano porci che andavano a so. Potevi incontrare una scrofa infangata, seguita da una nidiata di porcellini, che andava a so per la strada, e si avvoltolava nel bel mezzo della via sicché la gente doveva arle intorno mentre quella sì stiracchiava, socchiudeva gli occhi, e agitava le orecchie e i maialini poppavano, e lei con un’aria felice e beata che sembrava pagata per quello. E ben presto si udiva uno di quegli sfaccendati gridare: — Dài, attacca! Fagli la festa, Tige! — E la scrofa si metteva a correre come una disperata, emettendo orribili strilli, con un cane o due attaccati alle orecchie e con altre tre o quattro dozzine in arrivo; e poi si vedevano tutti quei perdigiorno che scattavano in piedi per gustarsi lo spettacolo e si sbellicavano dalle risa e sembravano molto soddisfatti di quella cagnara. Poi ritornavano inerti come prima finché non capitava una zuffa di cani. Non c’era nulla che li potesse svegliare e dare loro tanta felicità come una zuffa di cani, a meno che non ci fosse da cospargere di trementina un cane randagio e dargli fuoco, oppure legargli una casseruola alla coda e vederlo correre fino a schiattare. Lungo il fiume alcune case erano inclinate sulla riva, così storte e sbilenche che stavano quasi per cadere in acqua. La gente le aveva già abbandonate. In certe altre case la sponda appariva scavata sotto uno spigolo e quello spigolo penzolava nel vuoto. La gente ci abitava ancora, ma era pericoloso perché a i volte una fetta di terra, grande quanto una casa, cede in un sol colpo. Altre volte una striscia di terra di un mezzo chilometro incomincia a franare e continua e continua finché il fiume non la inghiotte nel giro di un’estate. Un paese di quel genere è costretto ad andare sempre indietro perché il fiume non cessa mai di rosicchiarne la riva. Quanto più ci si avvicinava a mezzogiorno, tanto più frequenti si facevano nelle strade carri e cavalli e il traffico pareva i aumentare continuamente. Le famiglie

avevano portato dalla campagna il pranzo e lo consumavano sui carri. Il whisky scorreva a fiumi e ho visto tre risse. Ben presto qualcuno gridò: — Ecco che arriva il vecchio Boggs! Viene dalla campagna per la sua solita sbronza mensile... eccolo che arriva, ragazzi! Tutti gli sfaccendati parvero rianimati. Pensai che erano abituati a godersela alle spalle di Boggs. Uno di quelli fa: — Mi domando chi prenderà di mira questa volta. Se davvero avesse fatto fuori tutti quelli che voleva far fuori negli ultimi vent’anni, adesso avrebbe una notevole reputazione. Un altro continua: — Rimpiango che Boggs non abbia minacciato anche me, perché allora sarei sicuro che per mille anni non crepo più. Boggs avanzava di gran carriera sul suo cavallo, e urlava e schiamazzava come un indiano: — Largo, largo! Sono sul sentiero di guerra e cresce il prezzo delle bare. Era ubriaco e ciondolava sulla sella. Aveva ato la cinquantina e aveva la faccia molto rossa. Tutti gli urlavano dietro e sghignazzavano e gli lanciavano improperi e lui rispondeva per le rime e urlava che gliel’avrebbe fatta vedere, ma non poteva fermarsi adesso perché era venuto in paese per far fuori il vecchio colonnello Sherbum; il suo motto era: «Prima la carne e poi il contorno». Mi vede, mi s’avvicina e mi dice: — Da dove vieni, ragazzo? Sei pronto a morire? Poi s’allontanò. Io presi paura, ma un tizio mi fa: — Non badare a quello che dice; le spara sempre grosse, quando è sbronzo; ma è il vecchio rimbambito più buono di tutto l’Arkansas, non ha mai fatto del male a nessuno né da ubriaco né da sobrio.

Boggs fermò il cavallo davanti al negozio più importante del paese, abbassò la testa per poter vedere sotto la tenda e si mise a sbraitare: — Vieni fuori di li, Sherbum! Vieni fuori e affronta l’uomo che hai turlupinato. Sei il cane che sto cercando e ormai sei mio! E andò avanti su questo tono, chiamando Sherbum con tutti i titoli che gli venivano in mente e tutta la strada era gremita di gente che ascoltava e rideva. Ben presto un uomo dall’aspetto altero, che poteva avere circa cinquant’annl ed era di gran lunga l’uomo meglio vestito di tutto il paese, usci dal negozio e la folla s’apri su entrambi i lati per lasciarlo are. Si rivolse a Boggs e con tono calmo e lento gli disse: — Sono stufo di questa storia, ma la sopporterò fino all’una. Fino all’una, bada, non oltre. Se apri il becco contro di me anche solo una volta dopo quell’ora puoi andare lontano fin che vuoi, ma ti troverò. Quindi gli volse le spalle e rientrò. Sembrava che la folla fosse d’un tratto rinsavita; nessuno si muoveva; non si sentiva più nessuno ridere. Boggs se ne andò a cavallo sempre insultando Sherbum con quanto fiato aveva; ma ben presto ritornò a piazzarsi di fronte al negozio e riprese di nuovo. Allora alcuni uomini gli si fecero attorno e cercarono di farlo star zitto, ma senza successo; gli dissero che era l’una meno un quarto, perciò doveva andarsene a casa, doveva andarsene immediatamente. Ma era tutto flato sprecato. Si mise ad imprecare con tutta la sua forza e buttò nel fango il cappello e poi ci ò sopra col cavallo, e di il a poco se ne andò furibondo un’altra volta lungo la via, con i capelli grigi al vento. Tutti quelli che potevano avvicinarlo facevano del loro meglio per convincerlo a smontare da cavallo e poterlo rinchiudere in una stanza in attesa che smaltisse la sbornia, ma era inutile: di nuovo risaliva a tutta velocità la strada e andava ancora ad imprecare contro Sherbum. Poco dopo qualcuno suggerì: — Andate a cercare sua figlia, presto! Portatela qui. Qualche volta l’ascolta. Se c’è una persona che può persuaderlo, è lei. Così qualcuno parti di corsa. Io feci qualche o giù per la strada, poi mi fermai. Dopo cinque o dieci minuti, ecco are ancora Boggs, ma questa volta non a cavallo. Attraversava la strada barcollando nella mia direzione, a capo scoperto, con un amico da entrambe le parti che lo teneva per le braccia e lo

spingeva avanti. Era calmo, sembrava imbarazzato; non tirava indietro, ma si sforzava anche lui di correre un po’. Allora qualcuno gridò: — Boggs! Io mi voltai per vedere chi l’avesse chiamato e vidi che era il colonnello Sherbum. Era ritto, perfettamente immobile in mezzo alla strada, e teneva la pistola alta nella mano destra, non puntata, ma con la canna rivolta verso il cielo. Nel medesimo istante vedo una ragazza che viene di corsa, accompagnata da due uomini. Boggs e i suoi due amici si volsero per vedere chi lo avesse chiamato, e quando videro la pistola i due uomini fecero un balzo di lato e la canna della pistola prese a scendere lenta e sicura fino al livello giusto, con i due cani sollevati. Boggs alzò le mani e disse: — Oddio, non sparare! — Bang! Parte il primo colpo e lui vacilla indietro come aggrappandosi all’arìa. Bang! Parte il secondo colpo e l’uomo cade a terra, sulla schiena, pesante e massiccio con le braccia spalancate. La ragazzetta si mise a urlare, si precipitò e si buttò sopra suo padre singhiozzando: — Oh, l’ha ammazzato, l’ha ammazzato! — La folla si chiuse spingendosi e accalcandosi intorno a loro, tutti tirando il collo, per poter vedere qualcosa, mentre quelli che si trovavano davanti cercavano di spingere indietro gli altri e gridavano: — Indietro! Indietro! Dategli aria! Aria! il colonnello Sherbum gettò a terra la pistola, girò sui tacchi e s’allontanò. Mentre portavano Boggs in un piccolo emporio, la folla premeva intorno come prima e il paese intero lo seguiva; allora io mi precipitai a prendere un buon posto alla finestra, da dove potevo guardare dentro. Lo deposero per terra, gli misero una grossa Bibbia sotto il capo, ne aprirono un’altra e gliela sistemarono sul petto, ma prima gli avevano strappata la camicia e io vidi dov’era entrata la pallottola. Lui emise una dozzina di lunghi sospiri, il suo petto sollevava la Bibbia quando tirava il respiro, e la faceva scendere quando lo buttava fuori, dopo di che rimase immobile: era morto. Allora trascinarono via da lui sua figlia che gridava e piangeva, e la allontanarono. Aveva circa sedici anni ed era dolce e d’aspetto gentile, ma terribilmente pallida ed atterrita. Be’, in brevissimo tempo l’intero paese fu qui e tutti spingevano e urtavano e si

scalmanavano per arrivare alla finestra e dare un’occhiata dentro; ma la gente che si trovava davanti non voleva cedere il posto e quelli che stavano dietro continuavano a gridare: — Sentite, adesso avete visto abbastanza; non è giusto, non è onesto che ve ne stiate li senza lasciar vedere un po’ anche agli altri, anche gli altri hanno gli stessi diritti. C’era un gran chiasso, così io decisi di svignarmela, pensando che poteva finir male. Le strade erano piene e in giro c’era molta eccitazione. Tutti quelli che avevano assistito alla sparatoria andavano raccontando come s’era svolta e c’era una nutrita folla ammassata intorno a ciascuno di questi individui, tutti a tirare il collo per sentire. Un tipo allampanato, con i capelli lunghi e un cappellaccio enorme di pelo bianco come un tubo di stufa sulla nuca, con un bastone dal manico ricurvo andava segnando sul terreno il punto esatto dove si trovava Boggs e quello dove si trovava Sherbum, e la gente lo seguiva da un punto all’altro osservando attenta tutto quello che faceva. Tutti annuivano con il capo per mostrare che capivano e si soffermavano un poco con le mani sulle cosce per vedere meglio mentre lui segnava con il bastone i punti sul terreno; quindi lo spilungone si fermò ritto e rigido là dove s’era fermato Sherbum, aggrottò la fronte, si tirò giù il cappello sugli occhi e urlò: — Boggs! — Poi abbassò lentamente la punta del bastone fino alla posizione esatta e fece: — Bang! — Barcollò un poco all’indietro, poi fece di nuovo: — Bang! — Quindi cascò a terra sulla schiena. La gente che aveva assistito all’uccisione disse che l’aveva fatta in modo perfetto, esattamente com’era avvenuta. Poi non meno di una dozzina di persone tirarono fuori le bottiglie e gli offrirono da bere.

Non ò molto che qualcuno disse che si doveva linciare Sherbum. Un minuto dopo tutti dicevano la stessa cosa, così se n’andarono furiosi a tirar giù tutte le corde da bucato che capitavano sotto mano per preparare la forca.

Sherburn - Al circo - Un ubriaco sulla pista - La tragedia emozionante

Capitolo 22

Salirono di corsa la strada verso la casa di Sherbun, urlando e schiamazzando, scatenati come indiani, e tutti dovevano far largo se non volevano venir calpestati e ridotti in poltiglia: era terribile da vedere. I ragazzi correvano davanti alla folla, gridando e cercando di togliersi dalla strada; ogni finestra lungo il percorso era zeppa di teste di donne; in cima ad ogni albero dietro gli steccati c’erano ragazzi negri che guardavano; ma non appena la folla s’avvicinava, fuggivano e andavano a rifugiarsi fuori portata. Una quantità di donne e di ragazze piangevano e tremavano, spaventate a morte. Dunque si precipitarono tutti in massa davanti allo steccato di Sherbun così fitti che sembravano appiccicati e per il grande strepito uno non poteva sentire neanche i suoi pensieri. C’era un cortiletto di cinque o sei metri. Qualcuno gridò: — Buttate giù lo steccato! Buttate giù lo steccato! — Allora ci fu un gran fracasso di assi spaccate, divelte, ridotte in frantumi e lo steccato andò giù e il fronte della folla incominciò a rotolar dentro come un’ondata. Proprio in quel momento Sherbun avanzò sul tetto del piccolo porticato d’ingresso, con in mano un fucile a doppia canna e si fermò, perfettamente calmo e deciso, senza dire una parola. Il tumulto cessò di colpo e l’ondata parve risucchiata.

Sherbun continuava a tacere: rimaneva là fermo, guardando in basso. Quella sua calma faceva rabbrividire e metteva un immenso disagio. Sherbun percorse con lo sguardo, lentamente, tutta la folla e chi si vedeva scrutato cercava di sostenere quello sguardo ma non ci riusciva, e abbassava gli occhi come uno schiavo colto

in fallo. Allora Sherbun scoppiò in una sorta di risata, non di tipo piacevole, ma del genere che ti fa sentire come se stessi mangiando del pane che ha dentro della sabbia. Poi disse con voce lenta e sprezzante: — Solo l’idea che voi possiate linciare qualcuno è divertente! L’idea che voi arriviate a pensare di aver tanto fegato da linciare un uomo! Poiché avete il coraggio di cospargere di pece e di piume qualche povera donna sola e derelitta che capita da queste parti, vi illudete di avere abbastanza coraggio per mettere le mani su un uomo! Ma un uomo è salvo nelle mani di diecimila individui della vostra specie, almeno finché è giorno e non lo cogliete alle spalle. «Credete che non vi conosca? Vi conosco a fondo. Sono nato e cresciuto nel Sud e poi sono vissuto nel Nord; così so come sono fatti gli uomini in genere. Gli uomini in genere sono dei vigliacchi. Nel Nord si lasciano calpestare dal primo che a, poi vanno a casa a pregare per avere uno spirito umile e sopportare ogni prepotenza. Nel Sud un uomo da solo riesce a fermare una diligenza zeppa di uomini, In pieno giorno, e a derubarli. I vostri giornali non smettono di dire che siete gente di coraggio e così finite per pensare di essere più coraggiosi di chiunque altro; invece voi siete coraggiosi come tutti gli altri e non di più. Perché le vostre giurie non impiccano gli assassini? Perché hanno paura che gli amici del condannato gli sparino nella schiena quando fa buio, ed è esattamente quello che farebbero. «Così assolvono sempre; e poi uno va a linciare quel farabutto nella notte, spalleggiato da un centinaio di vigliacchi mascherati. Il vostro errore è che non avete portato con voi neanche un vero uomo; questo è il primo errore, e il secondo è che non siete venuti al buio e non vi siete portati le maschere. Avete portato un mezzo uomo, quel quel Buck Harkness laggiù, e se non ci fosse stato lui a darvi la spinta, tutto finiva in un mucchio di chiacchiere». «In fondo non avevate voglia di venire qui. Alla gente comune non piace mettersi nel guai o correre dei rischi. E a voi non piacciono i guai e i rischi. Ma se soltanto un mezzo uomo, come li vostro Buck Harkness laggiù, si mette a strillare: “Linciatelo, linciatelo!” voi avete paura di tirarvi indietro, paura che si scopra quello che effettivamente siete, dei vigliacchi, e quindi vi mettete a urlare e vi attaccate ai panni di quel mezzo uomo e venite a fare baccano fin qui e giurate che farete un macello. Lo spettacolo più pietoso che esiste è la folla; ecco

cos’è un esercito: folla; i soldati non combattono con il coraggio che è innato in ciascuno di loro, ma con il coraggio preso in prestito dalla loro massa e dai loro ufficiali. Ma una folla senza neanche un uomo alla testa fa meno che pietà. Adesso quel che dovete fare è di mettervi la coda fra le zampe e di andare a casa a rinchiudervi nel vostro buco. Se davvero ci dovrà essere un linciaggio, sarà fatto al buio, secondo lo stile del Sud; e quando verranno, si metteranno la maschera e porteranno anche un vero uomo. E adesso filate... e portatevi dietro anche il vostro mezzo uomo». E così dicendo spianò il fucile sul braccio sinistro e aizò i cani. La folla indietreggiò di colpo, si disperse da ogni parte e s’allontanò, mentre Buck Harkness seguiva gli altri alle calcagna con l’aria piuttosto abbattuta. Io avrei potuto restare, se avessi voluto, ma non ne avevo voglia. Andai al circo, gironzolai un poco sul retro finché il guardiano se ne andò, e allora m’infilai sotto la tenda. Io avevo in tasca la mia moneta d’oro da venti dollari e un po’ di altri soldi, ma pensai che era meglio risparmiare il denaro perché non potevo mai sapere quando ne avrei avuto bisogno, così lontano da casa e in mezzo a estranei. Non si è mai troppo prudenti. Non sono contrario a spendere qualche soldo per il circo, quando non c’è altro modo per entrare, ma è inutile sciuparlo, se si può. Era davvero un circo di prim’ordine. Fu lo spettacolo più fantastico del mondo quando vennero dentro tutti a cavallo, a due a due, un signore con la sua dama, fianco a fianco, gli uomini con indosso solamente le mutande e una maglietta, senza scarpe né speroni, le mani appoggiate sulle cosce, con grande disinvoltura; dovevano essere almeno una ventina; e tutte le dame con una splendida figura, e straordinariamente avvenenti, sembravano una banda di vere regine, vestite di abiti che costavano milioni di dollari e semplicemente sommerse da brillanti. Era uno spettacolo superbo; mai visto niente di simile. Poi uno dopo l’altro s’alzarono tutti in piedi sul cavallo e presero a girare in tondo per la pista, le dame con tanta leggerezza, morbidezza e grazia, gli uomini sembravano alti, sicuri e diritti, con la testa che oscillava e sfiorava il tetto della tenda; e i vestiti rosa delle dame si gonfiavano e si abbassavano sui fianchi, morbidi come seta: sembravano tanti meravigliosi parasoli. E poi incominciarono a girare sempre più veloci, e tutti danzavano appoggiandosi prima su un piede poi sull’altro, mentre i cavalli si piegavano sempre di più, e il direttore del circo continuava ad andare attorno al palo

centrale facendo schioccare la frusta e gridando: — Op... Op... — e il clown dietro di lui lanciava frizzi. Ben presto tutte le mani lasciarono le redini, le dame appoggiarono le nocche sui fianchi e ogni cavaliere incrociò le braccia, e allora come si curvavano i cavalli lanciati! E così, uno dopo l’altro, saltarono tutti a terra e fecero il più soave inchino che io abbia mai visto e poi uscirono di corsa mentre tutti gli spettatori battevano le mani e parevano impazziti. Per tutto lo spettacolo fecero le cose più sbalorditive e il clown non smise un attimo di far ridere da morire. Il direttore del circo non poteva dirgli una parola che lui subito ribatteva, rapido come una saetta, con le cose più buffe che uno possa dire; e come potesse pensarne così tante e così in fretta e così giuste non riuscivo a capirlo. Io non cl sarei riuscito neppure in un anno. Poco dopo un ubriaco cercò di entrare nella pista e disse che voleva montare a cavallo perché era capace di cavalcare meglio di chiunque altro. Si misero a discutere e cercarono di trattenerlo, ma quello non voleva sentir ragione e lo spettacolo si fermò. Allora la gente cominciò a gridare e a prenderlo in giro, il che lo rese furioso e cominciò ad agitarsi e a sbraitare, sicché la gente si arrabbiò e un mucchio di uomini si alzarono dalle panchine e s’accalcarono giù verso la pista urlando: — Prendetelo a pugni! Buttatelo fuori! — e anche un palo di donne si misero a strillare. Allora il direttore fece un piccolo discorso e disse che sperava che non ci sarebbero state altre interruzioni, e se quell’uomo prometteva di non dare più fastidio lo lasciava montare a cavallo, se era sicuro di poter reggersi in sella. Tutti risero e furono subito d’accordo, e l’uomo montò a cavallo. Appena se lo senti sul dorso, il cavallo prese a imbizzarrire e impennarsi e saltare di qua e di là, mentre due uomini del circo s’appendevano alle briglie cercando di trattenerlo. L’ubriaco gli si era avvinghiato al collo e i tacchi gli volavano in aria ad ogni salto del cavallo, e tutta la folla era balzata in piedi e gridava e rideva fino alle lacrime. Infine, per quanto potessero fare gli uomini del circo, il cavallo con uno strappo si liberò e schizzò via come il vento, girando e girando Intorno alla pista, con quell’ubriaco steso sopra e aggrappato al collo, prima con una gamba che pendeva da una parte fin quasi a terra, poi con l’altra dalla parte opposta e la gente Impazzita. Io però non lo trovavo tanto divertente, tremavo tutto nel vederlo così in pericolo. Ma dopo un po’ riuscì con fatica a rimettersi in sella e ad afferrare le redini, sempre penzolando di qua e di là; e l’attimo successivo balzò in piedi, abbandonò le briglie e rimase eretto! E il cavallo andava come avesse la coda in fiamme. Lui se ne stava dritto in piedi, girando con disinvoltura e facilità come se non fosse mai stato sbronzo in vita sua; poi incominciò a togliersi i vestiti e a lanciarli lontano. Se ne tolse tanti che l’aria ne pareva oscurata: in tutto si cavò diciassette vestiti. E poi, eccolo là snello e ben

fatto e agghindato nel costume più elegante e sfarzoso che si sia mai visto; e toccò con la frusta il cavallo facendolo scattare e finalmente balzò giù, fece un inchino e se n’andò a o di danza nel camerino, mentre tutti urlavano divertiti e sbalorditi. Allora il direttore si rese conto di come era stato giocato, ed era il direttore dall’aria più abbattuta che si possa vedere. Già, quello era uno dei suoi uomini! Aveva inventato quello scherzo di sua iniziativa, senza fiatare con nessuno. Be’, anch’io mi sentivo abbastanza stupido per esserci cascato così, ma non avrei voluto essere al posto del direttore del circo, nemmeno per mille dollari. Non so, può darsi che ci siano circhi molto migliori di quello, ma io non ne ho ancora visti. In ogni modo per me era ottimo e tutte le volte che mi capiterà di incontrarlo, mi avrà sempre tra i suoi spettatori. Quella sera demmo il nostro spettacolo; ma cl saranno state non più di dodici persone, appena a sufficienza per coprire le spese. E non fecero che ridere tutto il tempo e questo fece andare in bestia il duca; tutti, comunque, se ne andarono prima che lo spettacolo fosse terminato, salvo un ragazzino che dormiva. Così il duca disse che questi zucconi dell’Arkansas non potevano elevarsi fino a Shakespeare; per loro ci voleva una farsa, e magari qualcosa di ancora più volgare, secondo lui. Disse che lo sapeva bene come accontentarli. Il mattino successivo si procurò dei grandi fogli dì carta da pacchi e un po’ di vernice nera, ci scrisse sopra degli avvisi e li appiccicò in tutto il paese. I manifesti dicevano: Palazzo di Giustizia Per tre sere soltanto! Gli attori di fama mondiale DAVID GARRICK IL GIOVANE e EDMUND KEAN IL VECCHIO Dei Teatri di Londra e continentali Nella loro emozionante tragedia IL CAMELOPARDO DEL RE ovvero L’INCOMPARABILE REGALITÀ Ingresso: 50 cents Poi in fondo c’era la riga più grossa di tutte che diceva: VIETATO L’INGRESSO ALLE DONNE E AI BAMBINI.

— Ecco — disse lui — se quella riga non li fa accorrere, io non capisco l’Arkansas!

Tutto esaurito - Confronti fra re - Jim malato di nostalgia

Capitolo 23

Be’, per tutto il giorno lui e il re ci danno dentro, mettono in piedi un palco e un sipario con una fila di candele come ribalta; e quella sera la sala si riempì di uomini in un baleno. Quando la sala non poteva più contenerne, il duca smise di controllare l’ingresso, e ando per il retro sali sul palcoscenico; in piedi davanti al sipario fece un breve discorso e incominciò a lodare la sua tragedia dicendo che era la cosa più emozionante del mondo; andò avanti esaltando la tragedia e la bravura di Edmund Kean il Vecchio, il quale doveva sostenere la parte principale. Infine, quando le aspettative degli spettatori furono scaldate abbastanza, alzò il sipario e un minuto dopo eccoti il re che si fa avanti a quattro zampe dimenandosi e tutto nudo. Era completamente dipinto a strisce e pallini di ogni sorta di colore, splendente come l’arcobaleno. Inoltre... ma è meglio non parlare del resto del suo abbigliamento: era semplicemente pazzesco e anche terribilmente buffo. La gente moriva dalle risate. E quando il re ebbe finito di saltellare e si fu ritirato dietro le scene a furia di capriole, gli spettatori presero ad urlare e a battere le mani e a fare un baccano indiavolato finché il re ritornò in scena e fece tutto daccapo; e dopo glielo fecero rifare un’altra volta. Be’, avrebbe riso anche una vacca se avesse visto le contorsioni che riusciva a fare quel vecchio idiota.

Allora il duca calò il sipario, fece un bell’inchino agli spettatori e disse che la grande tragedia sarebbe stata rappresentata soltanto per altre due sere per via dei pressanti impegni a Londra, dove ogni posto era già stato venduto al Drury Lane; poi fece un altro bell’inchino c disse che, se era riuscito a divertirli e ad istruirli, sarebbe stato molto unito se uè volevano parlare ai loro amici per farli venire allo spettacolo

Venti persone urlarono: — Ma come? È già finito? Tutto qui? Il duca rispose di sì. E quello fu un bel momento. Tutti urlavano che era una truffa e s’erano alzati furiosi e stavano per saltare sul palcoscenico. Ma un uomo grande e grosso e dall’aspetto distinto salta sopra una panca e grida: — Fermi tutti! Una parola soltanto, signori. — Quelli si fermarono ad ascoltare. — Noi siamo stati imbrogliati, vergognosamente imbrogliati. Ma non vogliamo diventare lo zimbello di tutto il paese, immagino, e sentirci prendere in giro per tutta la vita. No! Quello che vogliamo è andarcene di qui calmi e tranquilli, parlare bene di questo spettacolo e imbrogliare anche il resto del paese! Allora saremo tutti nella stessa barca. Non è ragionevole? — Ma sì, certo — tutti si mettono a urlare. — Il giudice ha ragione! — D’accordo, allora. Che nessuno parli di truffa. Andate a casa e consigliate anche agli altri a venire alla tragedia. Il giorno successivo in paese non si sentiva parlare d’altro che dello spettacolo e di quanto fosse splendido. La sala fu di nuovo stipata quella sera e noi turlupinammo anche questa gente nell’identico modo. Quando io, il re e il duca tornammo alla zattera, cenammo tutti insieme; poco dopo, verso mezzanotte, ordinarono a me e a Jim di portar fuori la zattera, di spingerla in mezzo al fiume, poi di tornare ancora a riva e nasconderla, circa tre chilometri a valle del paese. La terza sera la sala era di nuovo gremita, e non si trattava di facce nuove, questa volta, ma di gente che era già venuta allo spettacolo le due serate precedenti. Io rimasi accanto al duca sulla porta d’ingresso e vidi che tutti gli uomini che entravano avevano le tasche gonfie, oppure tenevano qualcosa sotto la giacca; e si capiva bene che non erano articoli di profumeria, neanche per idea. Si sentiva puzzo di uova marce, di cavoli fradici e altra roba del genere; e se io so fiutare un gatto morto nei dintorni, e scommetto che lo fiuto, quella sera ne vennero dentro sessantaquattro. Entrai in sala per un attimo, ma per me c’era troppa animazione e non potei resistere. Be’, quando la sala non poteva contenere più nessuno, il duca diede a un tizio un quarto di dollaro e gli disse di badare un minuto all’ingresso; poi girò attorno all’edificio come per raggiungere la porta del palcoscenico, e io dietro; ma non appena svoltammo l’angolo e ci trovammo al buio, lui mi dice:

— Adesso cammina in fretta finché sei lontano dalle case, e poi fila via alla zattera come se avessi il diavolo alle calcagna! Cosi feci, e lui pure. Saltammo sulla zattera nello stesso momento e, meno di due secondi più tardi, si stava filando via col favore della corrente, nel buio e nel silenzio, puntando dritti verso il centro del fiume senza dire parola. Io ero preoccupato che il povero re stesse ando un brutto quarto d’ora col pubblico, ma neanche per idea; ben presto lui in persona striscia fuori dal capanno e dice: — Be’, duca, come ha funzionato il vecchio scherzetto questa volta? Non era neanche andato in paese. Non accendemmo alcuna luce finché non si giunse ad almeno dieci chilometri a valle di quel villaggio. Allora issammo la lanterna e cenammo mentre il re e il duca per poco non si smascellavano dal gran ridere per il modo come avevano servito quella gente. Il duca disse: — Asini, rimbambiti! Lo sapevo che i primi avrebbero tenuto il becco chiuso per farci cascare anche il resto della città; e lo sapevo che ci avrebbero aspettati al varco la terza sera, convinti che adesso toccava a loro ridere. Be’, è venuto il loro turno e darei qualunque cosa per vedere che faccia hanno fatto. I due farabutti in quelle tre sere avevano intascato quattro- centosessantacinque dollari! Non avevo mai visto prima d’allora arraffar denaro a vagoni in quella maniera. Poco dopo, quando già dormivano e russavano come mantici, Jim dice: — Huck, non ti sembra strano il modo in cui si comportano questi re? — No — rispondo io — affatto. — Ma come, Huck? — Be’, no, perché la loro razza è così. Mi sa che sono tutti uguali. — Ma, Huck, questi nostri re sono dei semplici mascalzoni; capisci quello che sono? Dei semplici mascalzoni.

— Be’, è quello che sto dicendo anch’io; tutti i re, in generale, sono mascalzoni, per quanto ne so io. — Davvero? — Leggi una volta qualcosa su di loro e vedrai. Guarda Enrico VIII di fronte a lui questo è un pivellino da oratorio. Oppure prendi Carlo II, Luigi XIV, Luigi XV, Giacomo II, Edoardo II, Riccardo III e altri quaranta; e poi tutte quelle eptarchie sassoni che andavano in giro nei tempi antichi a torturare e a fare il diavolo a quattro. Cribbio, avresti dovuto vedere il vecchio Enrico VII quando era nel flore. Lui sì che era in gamba. Sposava una moglie nuova tutti i giorni e il mattino successivo le tagliava la testa. E lo faceva con la stessa indifferenza, come se stesse ordinando delle uova. «Andatemi a prendere Nell Gwynn» diceva. E gliel’andavano a prendere. E il mattino dopo: «Tagliatele la testa ». E le tagliavano la testa. «Portate qui Jane Shore» dice; e quella viene. E il mattino dopo: «Tagliatele la testa», e gliela tagliavano. «Suonate il camlo per la bella Rosmunda». E la bella Rosmunda rispondeva al richiamo. Il mattino dopo: «Tagliatele la testa». E costringeva ciascuna di loro a raccontargli una storia ogni notte; e continuò cosi finché ebbe messo insieme in quella maniera mille e una storia e poi le raccolse tutte in un libro e lo chiamò il Libro del Catasto Generale, che era un buon titolo e chiarisce il caso. Tu non sai chi sono i re, Jim, ma io li conosco; e questo vecchio birbante che ci è capitato è il più pulito che io abbia incontrato nella storia. Be’, Enrico si mette in mente che gli piacerebbe dare uno scossone a questo paese. Allora che cosa fa? Manda il preavviso? Dà al paese qualche segnale? No. Di punto in bianco nel porto di Boston scaraventa in mare tutto il tè, respinge una dichiarazione di indipendenza e sfida chiunque a farsi avanti. Quello era il suo stile: non dava mai una possibilità a nessuno. Lo presero dei sospetti sul conto di suo padre, il duca di Wellington. Be’, che cosa fa allora? Gli chiede di presentarsi? No! Lo fa affogare in una botte di malvasia, come un gatto. E metti che qualcuno lasciasse del denaro in giro, che cosa faceva? Lo intascava. Supponi che qualcuno l’avesse pagato per fare una cosa: se non stava là a controllare che la fe, che faceva lui? Esattamente l’opposto. Supponi che aprisse la bocca, che cosa succedeva? Se non tornava a richiuderla più che in fretta, ogni volta gli scappava fuori una bugia. Ecco che razza di verme era Enrico; e se c’era lui con noi invece del nostri due, di certo metteva a soqquadro il paese molto ma molto peggio di quel che hanno fatto i nostri. Non dico che i nostri siano degli agnellini, perché non lo sono per niente, se guardi i fatti nudi e crudi, ma non sono niente a confronto di quel vecchio caprone. Quel che voglio dire è che i re sono re e bisogna essere indulgenti. Messi tutti insieme sono una

compagnia decisamente sconsigliabile. Dipende dal modo in cui sono stati allevati. Ma questo puzza che è una cosa terribile, Huck. — Be’, puzzano tutti, Jim. Noi non possiamo impedire che i re puzzino; la storia non ci dice come fare. — Invece il duca sembra abile, sotto certi aspetti. — Sicuro, un duca è diverso. Ma non molto. Questo è piuttosto scassato come duca. Quando è ubriaco, nessuno, neanche da vicino, potrebbe distinguerlo da un re. — Be’, in ogni modo, io non ho voglia di andarne a cercare degli altri, Huck. Questi sono tutti quelli che posso sopportare. — Sono anch’io del tuo parere, Jim. Ma li abbiamo sulle spalle noi e non dobbiamo dimenticare quello che sono e avere pazienza. Qualche volta vorrei sentir dire di un paese dove re non ce ne siano. A che serviva spiegare a Jim che questi non erano autentici re e duchi? Non avrebbe cambiato nulla; e inoltre era proprio come avevo detto io: non c’era modo di distinguere i nostri da quelli veri. Mi addormentai e Jim non mi chiamò quando venne il mio turno. Era una cosa che faceva spesso. Quando mi svegliai, ed era appena l’alba, stava là seduto con la testa fra le ginocchia, gemendo e lamentandosi fra sé. Io restai fermo e finsi di non vedere. Sapevo di che cosa si trattava. Pensava a sua moglie e ai suoi bambini, lontani lassù, e si sentiva depresso e pieno di nostalgia, perché non era mai stato lontano da casa prima d’allora in vita sua; e ho ragione di credere che fosse affezionato ai suoi proprio come un bianco. Non sembra naturale, ma credo che sia proprio cosi. Spesso si lamentava e piangeva in quel modo di notte, quando pensava dormissi e diceva: - Povera piccola Lizabeth! Povero pìccolo Johnny! E dura! Forse non vi rivedrò mai più, mai più! - Era un negro straordinariamente buono, Jim. Ma questa volta, chissà perché, mi metto a parlargli di sua moglie e dei suoi piccoli; e subito lui mi dice:

— Quello che mi ha fatto cosi male questa volta è perché poco fa ho sentito là sulla riva come un colpo, forse una porta sbattuta, e m’ha fatto venire in mente quella volta che ho picchiato la mia piccola Lizabeth. Aveva appena quattro anni ed aveva ato giorni terribili con la scarlattina; ma era guarita finalmente e un giorno ce l’ho vicino e le faccio: « Chiudi la porta ». Lei non si muove; sta là ferma e sembra ridermi in faccia. lo divento una furia; glielo ripeto urlando: « Non mi hai sentito? Chiudi quella porta! ». Lei rimane immobile come prima e sempre con quel sorriso. Allora io non ci vedo più. Dico: « Adesso vedrai che ci senti! ». E cosi dicendo le mollo uno scapaccione sulla faccia che la fa andare per terra. Poi me ne vado nell’altra stanza e sto via per quasi dieci minuti. Quando ritorno, quella porta era ancora aperta e la bambina era sempre là, con gli occhi bassi, mortificata e tutta in lacrime. Ma lo avevo perduto la ragione e stavo per avvicinarmi ancora alla bambina quando - la porta si apriva dall’esterno - proprio in quell’istante viene un colpo di vento che la sbatte, dietro a lei: clam! Ma per carità... la bambina non si muove nemmeno ora! Quasi mi si ferma il flato; mi sento cosi... cosi... be’, non so dire come mi sento. Allora esco e, tremando come una foglia, riapro la porta adagio, metto dentro la testa dietro la bambina, sempre adagio e in silenzio, e di colpo urlo: « Bau! » più forte che potevo. Ma lei non si muove! Oh, Huck, scoppio in lacrime e me la stringo fra le braccia e le dico: «Oh, povera plccoiina mia! Che Dio Onnipotente perdoni il vecchio Jim, perché lui non potrà mal perdonarsi, finché campa! ». Era sorda, Huck, completamente sorda e muta... e lo l’avevo trattata cosi!

Jim in abiti regali - Prendono un eggero Informazioni - Lutto di famiglia

Capitolo 24

Il giorno dopo, verso sera, ormeggiammo al riparo di un piccolo isolotto, ricoperto di salici, quasi in mezzo al fiume. In quel punto c’erano due villaggi, uno su ciascun lato del fiume, e il duca e il re incominciarono a fare progetti per trovare il modo di lavorarsi quelle due località. Jim parlò al duca e gli disse che sperava ci avrebbero messo solo qualche ora perché per lui era tremendamente pesante e noioso dover stare sdraiato tutto il giorno nel capanno legato con la fune. Infatti, quando lo lasciavamo solo, dovevamo legarlo, perché se capitava qualcuno e lo trovava tutto solo e non legato non poteva certo credere che fosse un negro scappato e riacciuffato. Così il duca convenne che doveva essere piuttosto duro starsene legato tutto il giorno e si mise ad escogitare qualche mezzo per aggirare l’ostacolo. Era un uomo straordinariamente brillante il duca e ben presto trovò un sistema. Agghindò Jim con il costume di Re Lear, che era una veste lunga di tela per tendaggi, e gli applicò una parrucca bianca di peli di cavallo e un paio di basette; poi prese i suoi colori per il trucco da teatro e gli dipinse per bene faccia, mani e orecchie e collo d’un blu cupo, uniforme, come d’un uomo annegato da almeno nove giorni. Maledizione se Jim non era lo spettacolo più orribile che abbia mai visto. Allora il duca prese una tavoletta e ci scrisse sopra le seguenti parole: Arabo ammalato, ma innocuo quando non è fuori di senno. E inchiodò quella tavoletta su un’asta e piantò l’asta a un metro davanti al capanno. Jim era soddisfatto. Disse che era meglio che stare legato per giornate che sembravano anni e tremare tutto ogni volta che si sentiva un rumore. Il duca gli disse che poteva mettersi in libertà e a suo agio e se qualcuno veniva a ficcare il naso da quelle parti, doveva saltar fuori dal capanno, fare un po’ di scena,

lanciare qualche ululato come una bestia feroce e certamente quelli se la filavano e lo lasciavano in pace. Era un ragionamento molto logico; infatti se prendete una persona qualunque quella certo non stava ad aspettare che Jim ululasse. Infatti Jim non solo sembrava un morto, ma molto più che morto. Quei due mascalzoni volevano tentare un’altra volta il trucchetto del Camelopardo perché c’era da guadagnare un mucchio di soldi, ma poi pensarono che non era troppo sicuro perché a quest’ora la notizia poteva essere arrivata fin li. Non riuscivano ad escogitare un piano che funzionasse del tutto; così alla fine il duca disse che doveva mettersi sdraiato e spremersi il cervello un paio d’ore per vedere se riusciva a mettere in piedi qualcosa per quel paese dell’Arkansas; il re disse che anche lui aveva in mente di fare un salto nell’altro villaggio, senza un piano preciso, ma confidando che la Provvidenza lo guidasse in direzione propizia, intendendo il diavolo, immagino. Tutti avevamo comperato degli abiti nuovi nell’ultima nostra sosta; e ora il duca indossò il suo e anche a me ordinò di mettermi il mio. Naturalmente obbedii. Il vestito del re era tutto nero e gli dava un’aria davvero distinta e sciccosa. Prima d’allora non avevo mai osservato come il vestito può cambiare una persona. Be’, prima quello aveva l’aria del più miserabile vecchio furfante del mondo, ma adesso, quando si toglieva il suo feltro bianco nuovo e s’inchinava sorridendo, appariva così nobile e buono e pio che l’avresti detto appena uscito dall’arca di Noè e forse era il vecchio Levitico in persona. Jim slegò la canoa e io tenni pronta la pagaia. C’era un grosso battello a vapore ancorato presso la riva, circa cinque chilometri a monte del paese; era là da un paio d’ore e lo stavano caricando. Dice il re: — Visto come sono vestito, credo che magari è meglio se arrivo da St. Louis o da Cincinnati o da qualche altra grossa località. Portati vicino al battello, Huckleberry, scenderemo in paese su quello. Non me lo feci dire due volte, visto che si trattava di fare una gita in battello. Mi avvicinai alla riva circa mezzo chilometro a monte del paese e quindi risalii lungo la sponda rocciosa nelle acque tranquille. Vedemmo subito un bel contadinotto dall’aria ingenua, che era seduto su un tronco e s’asciugava il sudore dal viso, poiché faceva un caldo tremendo, ed aveva accanto un paio di grosse sacche di tela. — Punta verso riva — dice il re. Io obbedisco.

— Dove siete diretto, giovanotto? — Al battello; vado a Orleans. — Salite — dice il re. — Aspettate un momento; il mio servitore vi darà una mano con quelle sacche. Salta giù e aiuta il signore, Adolphus — e intendeva me, ovviamente. Io eseguii l’ordine e poi tutt’e tre ripartimmo. Il giovanotto non sapeva come ringraziare; diceva che era una fatica da matti trascinare il bagaglio con un caldo simile. Domandò al re dove fosse diretto e il re gli raccontò che quella mattina aveva disceso il fiume ed era sbarcato nell’altro paese e adesso lo risaliva di nuovo per alcuni chilometri per andare a trovare un vecchio amico in una fattoria da quelle parti. Il giovanotto dice: — Non appena vi ho visto, mi sono detto: quello è il signor Wllks, di sicuro, e quasi quasi è arrivato in tempo. Ma poi mi sono detto: no, credo che non possa essere lui, altrimenti non risalirebbe il fiume in canoa! Voi non siete lui, vero? — No, io mi chiamo Blodgett, Alexander Blodgett, reverendo Alexander Blodgett, suppongo che dovrei dire, essendo uno dei poveri servi del Signore. Però mi dispiace ugualmente per il signor Wilks se non arriva in tempo e se per questo deve rimetterci qualcosa, Il che spero non sia. — Be’, soldi non ne perde, perché riceverà quanto gli spetta; ma ha perso di veder morire suo fratello Peter, cosa che forse gli importa poco, nessuno è in grado di saperlo, ma suo fratello avrebbe dato tutto quel che aveva al mondo pur di vedere lui prima di morire; non ha mai parlato d’altro in queste ultime tre settimane; non lo vedeva da quando erano tutt’e due ragazzi e non aveva neppure conosciuto suo fratello William, quello che è sordomuto, perché William non ha più di trenta o trentacinque anni. Peter e George erano i soli che vivevano qui; George era II fratello sposato; ma lui e sua moglie sono morti entrambi l’anno scorso. Harvey e William sono gli unici rimasti, adesso; e, come vi dicevo, non sono arrivati in tempo. — Qualcuno ha pensato ad avvertirli? — Oh, certo; un mese o due fa, quando Peter ha incominciato a star male, perché Peter ha detto subito che questa volta non sarebbe guarito. Vedete, era piuttosto vecchio ormai, e le ragazze di George erano troppo giovani per tenergli

compagnia, tranne forse Mary Jane, quella con i capelli rossi; così si sentiva piuttosto solo dopo che George e sua moglie erano morti e sembrava che non ci tenesse molto a vivere. Ormai voleva vedere a tutti i costi Harvey, e anche William del resto, perché era uno di quelli che non sopportano l’idea di fare testamento. Ha lasciato una lettera per Harvey e ha detto che c’è scritto dove ha nascosto il denaro e come intendeva dividere il resto della sua proprietà in modo da sistemare le ragazze di George, perché George a loro non ha lasciato niente. E quella lettera è tutto quanto sono riusciti a fargli mettere per iscritto. — Secondo voi, per quale motivo Harvey non è venuto? Dove abita? — Oh, lui vive in Inghilterra, a Sheffield, fa il predicatore da quelle parti e non è mai stato in questo paese. Non ha avuto abbastanza tempo e inoltre potrebbe non aver nemmeno ricevuto la lettera, sapete. — È un peccato, davvero un peccato che non abbia vissuto abbastanza per rivedere i suoi fratelli, povera anima. Voi andate a Orleans, avete detto? — Si, ma è solo una parte del mio viaggio. Mercoledì venturo m’imbarco su un bastimento per Rio de Janeiro, dove vive mio zio. — È un viaggio piuttosto lungo. Ma sarà piacevole; vorrei essere io a farlo. Mary Jane è la maggiore? E che età hanno le altre? — Mary Jane ha diciannove anni, Susan ne ha quindici e Joanna circa quattordici: è quella che si dedica alle opere di carità e che ha il labbro leporino. — Povere piccole! Trovarsi tutte sole e derelitte in questo mondo crudele! — Be’, potevano anche star peggio. Il vecchio Peter aveva dei buoni amici e questi non le lasceranno nei guai. C’è Hobson, il pastore battista, e poi il decano Lot Hovey, e Ben Ruc- ker, e Abner Shackleford, e Levi Bell, l’avvocato e li dottor Robinson e le loro mogli, e la vedova Bartley. Insomma, ce n’è una sfilza, ma questi sono quelli cui Peter era più attaccato e li nominava anche nelle lettere talvolta, quando scriveva ai suoi; così Harvey saprà dove cercare degli amici, quando arriverà qui. Bene, il vecchio andò avanti a fare domande finché non ebbe quasi completamente svuotato quel giovanotto. Che mi venga un accidente se non s’informò su tutto e su tutti di quel benedetto paese e su tutto di tutti i Wllks e su

George, che faceva il conciatore, e su Harvey, che era un ministro dissenziente, eccetera, eccetera. Poi dice: — Perché volevate fare tutta la strada a piedi fino al battello? — Perché è un grosso battello di Orleans, e avevo paura che magari non si fermasse al paese. Quando sono a pieno carico non si fermano per una sola chiamata. I battelli di Cincinnati si fermano, ma questo viene da St. Louis. — Era danaroso Peter Wilks? — Oh, certo, di denaro ne aveva. Aveva case e terreni e si pensa che abbia lasciato almeno tre o quattromila dollari in liquido, nascosti da qualche parte. — Quando avete detto che è morto? — Non l’ho detto, ma è morto ieri sera. — Funerali domani, probabilmente? — Si, verso mezzogiorno. — Be’, è davvero molto triste, ma tutti dobbiamo andarcene, un giorno o l’altro. Così quel che dobbiamo fare è di essere preparati e allora va tutto bene. — Si, signore; è la cosa migliore. Mia mamma me lo diceva sempre. Quando raggiungemmo il battello, il carico era già quasi ultimato e ben presto esso parti. Il re non fece il minimo cenno di salire a bordo, così io persi la mia gita, dopo tutto. Quando il battello se ne fu andato, il re mi fece remare per un altro chilometro fino ad un posto solitario, poi saltò a terra e mi disse: — Adesso fila indietro immediatamente e portami qui il duca e le sacche nuove. Se è andato all’altra riva, attraversa il fiume e vallo a ripescare. E digli che deve vestirsi con il suo abito migliore. Va’, sbrigati. Capisco subito che cosa ha in mente, ma naturalmente non dico nulla. Quando fui di ritorno con il duca, nascondemmo la canoa e poi i due si sedettero su un tronco. Il re gli riferì ogni cosa, esattamente come gli aveva raccontato il giovanotto, parola per parola. E mentre parlava, cercava di assumere l’accento di un inglese e ci riusciva abbastanza bene, per il tipo che era.

Io non sono in grado di imitarlo e quindi non ci tento nemmeno, però lui ci riusciva davvero piuttosto bene. Alla fine dice: Come ve la cavate a fare il sordomuto, Acquaspanta? Il duca rispose che ci pensava lui; disse che aveva recitato la parie del sordomuto in teatro. Quindi rimasero ad aspettare un battello. Verso la metà del pomeriggio arono due piccoli battelli, ma non venivano da località abbastanza lontane; finalmente ne ò uno grande e quei due fecero segno perché si fermasse. Ci mandarono la lancia e noi salimmo a bordo: veniva da Cincinnati. Quando seppero che noi volevamo viaggiare soltanto per sei o sette chilometri, si misero ad urlare come forsennati, ci copersero di insulti e dissero che non ci avrebbero sbarcati. Ma il re rimase calmo. Disse: —Se dei signori possono permettersi di pagare un dollaro a testa per chilometro, per il gusto di essere presi a bordo e ricondotti a terra in una lancia, anche un battello può permettersi di trasportarli, vero? Così quelli si addolcirono e dissero che andava bene; e quando fummo in prossimità del paese, ci condussero a riva con la lancia. All’arrivo della lancia, almeno due dozzine di uomini s’affollarono sulla sponda, e quando il re domando: —Qualcuno di voi, signori, mi saprebbe indicare dove abita il signor Peter Wilks - tutti si guardarono in faccia e facevano cenni col capo come per dire: « Cosa t’avevo detto? ». Poi uno di loro disse con voce sommessa e gentile: — Sono dolente, signore, ma tutto quello che noi possiamo fare è indicarvi dove il signor Peter Wilks abitava fino a ieri sera. Svelto come il fulmine, quel vecchio farabutto si lasciò cadere come un tronco e rovinò contro l’uomo piantandogli il mento sulla spalla, e gli inondò di lacrime la schiena dicendo: — Ahimè, ahimè! Il nostro povero fratello... è morto e noi non lo rivedremo mai più. Oh, che cosa terribile, che cosa terribile!

Poi si gira singhiozzando, e fa un mucchio di gesti idioti con le mani al duca e che mi venga un colpo se quello non si lasciò cadere di mano la borsa da viaggio e non scoppiò a piangere. Quei due imbroglioni erano la coppia di farabutti più impareggiabili che io abbia mai incontrato.

Be’, tutti si raccolsero intorno a loro esprimendogli simpatia e dicendo ogni sorta di cose gentili; poi gli portarono le sacche su per la strada in salita e lasciavano che s’appoggiassero a loro a piangere. Raccontarono al re tutti i particolari degli ultimi momenti di suo fratello, e il re di nuovo lì riferì coi gesti delle mani al duca, e ambedue si disperarono per quel vecchio conciatore come se avessero perduto i dodici apostoli. Be’, se mi è mal capitata prima una cosa simile, io sono un negro. Era una cosa da far vergognare chiunque di far parte della razza umana.

Sono loro? - Il canto dell’inno - Possiamo risparmiare - Straordinariamente onesti - Le orge funebri - Un cattivo in¬vestimento

Capitolo 25

La notizia in due minuti fece il giro di tutto il paese e potevi vedere la gente che si precipitava giù di corsa da ogni parte, alcuni ancora infilandosi la giacca. Ben presto ci trovammo in mezzo ad una folla e il rumore di tanti i sembrava quello di una marcia di soldati. Le finestre e i cancelli dei cortili erano gremiti, e ogni momento qualcuno domandava da dietro uno steccato: — Sono loro? E qualcuno che trottava con il gruppo rispondeva dicendo: — Puoi scommetterci che sono loro. Quando arrivammo alla casa, la strada davanti era stipata e le tre ragazze stavano in piedi sulla soglia. Mary Jane aveva davvero i capelli rossi, ma non faceva differenza: era straordinariamente bella e il suo volto e gli occhi erano tutti illuminati di beatitudine, tanto era felice che fossero arrivati i suoi zii. Il re allargò le braccia e Mary Jane vi si buttò dentro, mentre quella dal labbro leporino corse dal duca, e giù baci e abbracci! Quasi tutti, almeno le donne, piangevano di gioia nel vedere che finalmente si erano ritrovati ed erano così felici. Allora il re diede un colpetto di gomito al duca, di soppiatto, ma a me non sfuggi. Poi si guardò attorno e vide la bara, in un angolo, appoggiata su due sedie; così lui e il duca, senza indugio, con una mano sulla spalla del compare e l’altra sugli occhi, mossero lenti e solenni alla volta della bara, mentre tutti indietreggiavano per fargli posto. Cessarono di colpo chiacchiere e rumori e tutti

facevano «Sttt!»; gli uomini si levavano il cappello e abbassavano il capo. Si poteva sentir cadere uno spillo. E quando giunsero lì, si chinarono e guardarono nella bara, emisero un sospiro e quindi scoppiarono in lacrime, e gemevano con tale foga che li sentivano fino a Orleans, quasi. E poi si buttarono le braccia al collo poggiandosi il mento sulla spalla l’uno dell’altro e seguitarono per tre minuti, o forse quattro, e non avevo mai visto due uomini sciogliersi come quelli. E pensate che tutti stavano facendo lo stesso, per cui quel luogo era il più umido in cui mi fossi mai trovato. Poi uno si piazzò a un lato della bara mentre l’altro si sistemava al lato opposto; si misero in ginocchio, appoggiando la fronte sul feretro e finsero di pregare in silenzio. Be’, a questo punto la scena ebbe sulla gente un effetto senza precedenti e tutti scoppiarono e si misero a singhiozzare senza ritegno, comprese le povere ragazze; quasi tutte le donne si avvicinavano alle ragazze, senza dire parola, le baciavano in fronte con solennità e poi mettevano la mano sul loro capo alzando gli occhi al cielo, con le lagrime che scorrevano. Bene, di lì a poco il re si rimette in piedi, avanza di qualche o, si ricompone un poco e incomincia a farfugliare quattro parole di circostanza, tutte straripanti di lacrime e di stupidaggini, sul conto della dura prova che è stata per lui e per il suo povero fratello di aver perso non solo il defunto ma anche la possibilità di vedere ancora in vita l’estinto dopo un viaggio di seimila chilometri, ma il suo dolore è addolcito e santificato da questa cordiale simpatia e da queste lagrime benedette e così ringrazia tutti dal profondo del cuore. Nel momento stesso in cui uscirono le ultime parole dalla sua bocca, qualcuno dal fitto della folla intonò un inno e tutti si unirono a gran fiato; questo ti scaldava il cuore e ti sentivi proprio bene, come quando si comincia ad uscire di chiesa. La musica è indubbiamente una cosa meravigliosa, e dopo tanta vaselina spirituale e broda da secchiaio non c’è nulla che riesca a rinfrescare a tal punto l’ambiente e a dare un tono così onesto e virile. Allora il re ricominciò a lavorare di lingua e disse che tanto lui che le nipoti erano contenti se alcuni degli amici più influenti e più intimi della famiglia accettavano di fermarsi a cena con loro quella sera e davano una mano a sistemare i miseri resti del defunto; e disse che se avesse potuto parlare il suo povero fratello che giaceva là disteso, sapeva bene chi avrebbe nominato, perché c’erano nomi che erano assai cari al suo cuore e spesso li menzionava persino nelle lettere; e quindi lui invitava

quelle stesse persone, vale a dire: il reverendo signor Hob son, il decano Lot Hovey, il signor Ben Rucker, Abner Shac- kleford. Levi Bell, e il dottor Robinson, con le relative mogli, e la vedova Bartley. Il reverendo Hobson e il dottor Robinson si trovavano dall’altra parte del paese, occupati a caccia insieme; cioè, voglio dire, il dottore stava mandando un malato all’altro mondo e il pastore gli indicava la via giusta. L’avvocato Bell era a Louisville per affari. Ma gli altri erano disponibili e vennero tutti a stringere la mano al re, lo ringraziarono e si misero a parlare con lui; poi strinsero la mano anche al duca, ma senza dirgli niente. Il re intanto non smetteva di chiacchierare e a poco a poco riuscì ad avere informazioni su quasi tutti gli abitanti del paese, compresi i cani, che ormai chiamava per nome, e rammentò una quantità di piccoli episodi che erano accaduti prima o poi nel paese, o alla famiglia di George o a quella di Peter; e ogni volta dava ad intendere che Peter gliene aveva parlato nelle sue lettere; ma quella era una balla, si trattava di notizie che aveva avuto da quel giovane sempliciotto che avevamo accompagnato in canoa Ano al battello. Poi Mary Jane andò a prendere la lettera che suo zio aveva lasciato e il re la lesse a voce alta bagnandola di lacrime. Lasciava la casa e tremila dollari in oro alle ragazze; la conceria (che faceva dei buoni affari) con altre case e terreni (del valore di circa settemila dollari) e ancora tremila dollari in oro a Harvey e William e rivelava dov’erano nascosti i seimila dollari in contanti, cioè giù in cantina. Così i due imbroglioni dissero che andavano a prenderli in modo da mettere tutto in ordine e alla luce del sole; e a me dissero di accompagnarli con una candela. Si chio alle spalle la porta della cantina e, trovato il sacchetto, lo rovesciarono sul pavimento: era uno spettacolo meraviglioso, tutti quei dollari in oro! Caspita, come brillavano gli occhi del re! Diede una pacca sulla spalla al duca e disse: — Ah, questa è una bazzecola, vero? una roba da ridere, no? A me non pare! Be’, duca, questa batte il Camelopardo! Il duca ammise che era così. Presero a palpare le monete, se le lasciarono scivolare fra le dita e le facevano tintinnare sul pavimento. Infine il re disse: — È inutile far tanti discorsi: essere i fratelli di un ricco defunto e i rappresentanti dei suoi eredi stranieri è il mestiere che fa per noi, Acquaspanta. Tutto questo ci capita perché abbiamo confidato nella Provvidenza. A lungo

andare è la strada migliore. Io che le ho provate tutte, so che è la migliore. Chiunque altro si sarebbe accontentato di quel mucchio di soldi e l’avrebbe preso sulla fiducia; ma quelli no, dovevano contarli. Così li contano e risulta che mancano quattrocento- quindici dollari. Dice il re: — Maledizione a lui, mi piacerebbe sapere che cosa ne ha fatto di quei quattro centoquindici dollari. Si seccarono molto e misero a soqquadro ogni angolo per farli saltar fuori. Poi il duca disse: — Be’, quell’uomo era molto malato e probabilmente ha fatto un errore, ecco il motivo. La cosa migliore è di lasciare tutto come sta e non parlarne con nessuno. Possiamo accontentarci anche così. — Che sciocchezze! Certo che possiamo accontentarci. Non m’importa niente del soldi; è ai conti che penso. Bisogna che siamo straordinariamente a posto ed espliciti in quest’affare, voi capite. Bisogna portare questo denaro di sopra e contarlo davanti a tutti; allora non ci sarà niente di sospetto. Ma quando il morto dice che ci sono seimila dollari, voi capite che noi non dobbiamo... — Basta — dice il duca. — Pareggiamo il deficit — e incomincia a cavare dollari dalle tasche. — È un’idea strabiliante, duca; voi si che avete un cervello fino — disse il re. — Che mi venga un colpo se il vecchio Camelopardo non ci sta aiutando ancora una volta. — E lui pure comincia a cavare dollari dalle tasche e a metterli in pile. Per poco non si ridussero al verde, ma riuscirono a mettere insieme i seimila dollari tondi tondi. — Sentite — dice il duca — ho un’altra idea. Andiamo di sopra a contare questi soldi e poi facciamo finta di voler regalarli tutti alle ragazze. — Cielo, duca, lasciate che vi abbracci. È l’idea più strabiliante che sia mal venuta in testa a un uomo. Voi siete senza dubbio la mente più stupefacente che io abbia mai incontrato. Oh, questa sì che è una mossa magistrale, va dritta a segno. Che tirino in ballo i loro sospetti, adesso, se ne hanno voglia; questo li elimina tutti.

Quando arrivammo di sopra, tutti si raccolsero intorno al tavolo e il re prese a contare i soldi e a separarli in pile, trecento dollari per pila, venti eleganti piccole pile. Tutti le guardavano famelici e si leccavano le labbra. Poi raccolgono di nuovo tutto il denaro nel sacchetto e vedo che il re comincia a gonfiarsi per un altro discorso. — Amici tutti - dice - il mio povero fratello, che giace laggiù, è stato generoso verso coloro che ha lasciato in questa valle di lacrime. E in particolare è stato generoso verso queste povere agnelline che amava e proteggeva e che ha lasciato quaggiù senza padre né madre. Si, e noi che lo conoscevamo sappiamo che sarebbe stato ancor più generoso verso di loro se non avesse temuto di offendere il suo caro William e me. Lo sarebbe stato, no? Secondo me, non vi è alcun dubbio. Be’, allora che razza di fratelli saremmo noi se andassimo contro i suoi voleri in un momento simile? E che razza di zii saremmo se derubassimo, si derubassimo, queste povere agnelline così dolci e così care al suo cuore, in un momento simile? Se io conosco William, e credo di conoscerlo a fondo, anche lui... anzi, glielo domando subito. — Allora si volta e comincia a fare un mucchio di gesti con le mani al duca e il duca lo fissa con un’espressione ebete per qualche minuto, poi tutt’a un tratto sembra cogliere il senso del discorso e allora gli balza addosso facendo per la gioia guu- gu a tutta forza, e lo abbraccia almeno una quindicina di volte prima di decidersi a piantarla. Quindi il re dice: — Lo conoscevo; credo che adesso tutti siano persuasi del suoi sentimenti. Ecco qui, Mary Jane, Susan, Joanna, prendete il vostro denaro, prendetelo tutto. È il dono di colui che giace laggiù, freddo ormai, ma colmo di gioia. Mary Jane si mosse verso di lui, Susan e Labbro Leporino corsero dal duca e allora di nuovo baci e abbracci quali non avevo mal visto prima. E tutti s’affollano intorno con le lacrime agli occhi e per poco non strappano le mani a quel due Imbroglioni e non smettono di ripetere: — Che anime generose! Che gesto magnifico! Come avete potuto? Bene, dopo un po’ tutti ripresero a parlare del defunto, e di quanto era buono, e che perdita era stata, e tutte quelle storie; e dopo un po’ un uomo grande e grosso dalla mascella decisa si fece strada da fuori e si fermò ad ascoltare e osservare, senza dire una parola; e nessuno diceva niente neanche a lui perché in quel momento stava parlando il re e tutti erano Intenti ad ascoltarlo. Continuando il suo discorso, Il re stava dicendo:

— ... essendo gli amici più intimi del defunto. Ecco perché sono stati invitati qui questa sera; ma domani vogliamo che vengano tutti, tutti, perché lui li rispettava tutti, era affezionato a tutti ed è giusto che le orge per il suo funerale siano un avvenimento pubblico. E così continua infilando una scemenza dopo l’altra, con il gusto di ascoltarsi, e ad ogni minuto tira in ballo daccapo le orge funebri, finché il duca non ne poté più e scrisse su un pezzetto di carta: «Esequie, vecchio scemo », e dopo averlo piegato bene si mise a fare guu-gu mentre glielo faceva are sopra le teste dei presenti. Il re lo lesse, se lo mise in tasca e disse: — Povero William, afflitto com’è il suo cuore, ha sempre buoni impulsi. Si preoccupa che io vi inviti tutti a venire al funerale, vuole che io dia il benvenuto a tutti. Ma non era affatto necessario che se la prendesse a cuore così, perché era proprio quello che stavo facendo. Poi riprende con le ciance, perfettamente calmo, e ancora intercala ogni tanto le sue orge funebri, esattamente come prima. E quando l’ebbe fatto per la terza volta, disse: — Io dico orge non perché sia il termine più comune, e infatti non lo è, perché esequie è il termine corrente, ma è quello più appropriato. Esequie non è più usato In Inghilterra, ormai è fuori moda. Adesso noi in Inghilterra diciamo orge. Orge è meglio, perché indica quello che intendiamo senza equivoci. È una voce formata dalla parola greca orgo, che significa esterno, aperto, ampio, e dall’ebraico gisum, piantare, ricoprire, donde interrare. Perciò voi vedete che le orge funebri indicano funerali pubblici o aperti a tutti. Era l’essere più spudorato che avessi mai visto. Bene, l’uomo dalla mascella decisa scoppiò a ridergli in faccia. Tutti rimasero di stucco. E da ogni parte gli dicono: — Ma come, dottore! — e Abner Shackleford gli domanda: — Ma, Robinson, non avete sentito la novità? Questo è Harvey Wilks. Il re gli sorrise ansioso e allungò la zampa dicendo: — Siete proprio voi, il carissimo amico e medico del mio povero fratello? Io... — Giù da me quella mano! — esclama il dottore. — Voi parlate come un inglese, vero? Ma è la peggiore imitazione che abbia mai sentito. Voi sareste il

fratello di Peter Wilks? Siete un mistificatore, ecco quello che siete. Dio, come se la presero! Si affollarono tutti intorno al dottore e cercarono di calmarlo tentando di spiegargli, e gli raccontarono come Harvey avesse dimostrato in almeno quaranta modi di essere effettivamente Harvey e di conoscere tutti per nome, compresi i nomi dei cani, e lo pregarono e ripregarono di non ferire i sentimenti di Harvey e i sentimenti delle povere ragazze e così via; ma era tutto inutile, il dottore continuava a tuonare e diceva che chiunque pretendeva di essere inglese e non riusciva ad imitare la pronuncia inglese un po’ meglio di quell’individuo, era un volgare imbroglione e un impostore. Le povere ragazze intanto si erano avvinghiate al re e piangevano; e tutt’a un tratto il dottore si rivolse direttamente a loro e disse: — Io ero amico di vostro padre e sono amico vostro. Vi consiglio come amico, come amico sincero, che desidera proteggervi e tenervi lontane dai guai, di voltare le spalle a quel ciarlatano e di non aver niente a che fare con lui, quel vagabondo ignorante con tutte le sue idiozie di greco e di ebraico, come dice lui. È l’esemplare più autentico di impostore; è venuto qui con una caterva di nomi vuoti e di fatterelli che ha raccolto chissà dove e voi li prendete per prove e vi lasciate imbrogliare con l’aiuto di questi amici stupidi, che dovrebbero sapere un po’ meglio come va il mondo. Mary Jane Wilks, voi sapete che vi sono amico devoto e per di più disinteressato. Adesso ascoltatemi: cacciate via questo miserabile furfante... vi prego, buttatelo fuori. Mi ascoltate? Mary Jane si alzò in piedi (cielo com’era bella!) e disse: — Ecco la mia risposta. — E afferrò il sacchetto del soldi e lo depose nelle mani del re dicendo: — Prendete questi seimila dollari e investiteli per me e per le mie sorelle come volete voi e non pensate nemmeno di darci una ricevuta. Poi mise il braccio intorno al re da un fianco, mentre Susan e Labbro Leporino facevano lo stesso dall’altro. Tutti si misero ad applaudire e a pestare i piedi che sembrava una tempesta, mentre il re alzava il capo e sorrideva con orgoglio. Il dottore disse: — D’accordo, io me ne lavo le mani. Ma vi avverto tutti quanti che verrà il momento che vi sentirete male al solo pensiero di questo giorno — e andò via.

— Benissimo, dottore — gli urlò dietro il re in tono beffardo — allora vi manderemo a chiamare — il che fece ridere tutti e dissero che era una grande battuta.

Un re pio - Il servo del re - Lei chiede scusa - Nascosto nella camera - Huck prende il denaro

Capitolo 26

Quando tutti se ne furono andati, il re chiese a Mary Jane come stavano a camere, e lei rispose che aveva una stanza libera che poteva andar bene per zio William, mentre avrebbe dato a zio Harvey la sua, che era un poco più ampia, e lei sarebbe andata a dormire con le sorelle aggiungendo un materasso. Su in soffitta c’era poi uno sgabuzzino con dentro un pagliericcio. Il re disse che lo sgabuzzino andava benissimo per il suo valletto, intendendo me. Così Mary Jane ci accompagnò di sopra e mostrò agli zii le loro stanze, che erano semplici ma graziose. Disse che poteva portare fuori dalla stanza i suoi vestiti e un mucchio di altre cianfrusaglie se erano d’impiccio allo zio Harvey, ma lui disse che non gli davano affatto noia. I vestiti erano appesi alla parete, coperti da una tenda di cotonina che arrivava fino a terra. In un angolo era sistemato un vecchio baule di cuoio e in un altro un astuccio per chitarra e tutt’intorno ogni sorta di ninnoli e cosette varie con le quali le ragazze rallegrano la camera. Il re osservò che con quei gingilli la stanza risultava ancora più intima e graziosa e quindi non si doveva toglierli. La camera del duca era piuttosto piccola, ma ugualmente più che comoda, e così pure il mio sgabuzzino. Quella sera fecero una gran cena; erano presenti tutti quegli uomini e quelle donne e io stavo in piedi dietro le sedie del re e del duca e li servivo, mentre gli schiavi negri badavano agli altri. Mary Jane era seduta a capotavola, con Susan al suo fianco, e continuava a dire com’erano cattivi i biscotti e malriuscita la marmellata e com’era duro il pollo, e tutte quelle sciocchezze che ripetono sempre le donne per farsi fare i complimenti. E tutti invece erano convinti che ogni cosa era una squisitezza e dicevano: — Come fate a sfornare dei biscotti così perfetti? — e ancora: — Ma per amor del cielo, dove mai avete trovato dei sottaceti così straordinari? — e tutta quella sfilza di insulsaggini che la gente

dice sempre quando è invitata a cena. E quando tutto fu finito, io e Labbro Leporino andammo a cenare in cucina con quello che era avanzato, mentre le altre aiutavano i negri a sparecchiare. Labbro Leporino cominciò a sondarmi sull'Inghilterra, e maledizione se più d’una volta non mi sentii mancare la terra sotto i piedi. Mi domandò: — Hai mai visto il re? — Chi? Guglielmo IV? Be’, figurati, viene pure nella nostra chiesa. Sapevo che era morto da anni, ma feci finta di niente. Così, quando le dico che viene alla nostra chiesa, quella fa: — Davvero? ... Regolarmente? — Sicuro, regolarmente. Il suo banco è proprio di fronte al nostro, dall’altro lato del pulpito. — Io credevo che vivesse a Londra. — Infatti. Dove dovrebbe vivere? — Ma credevo che voi abitaste a Sheffield. M’accorgo che sono in un ginepraio. Devo fingere che mi sia andato di traverso un osso di pollo per guadagnare tempo e pensare come cavarmela. Allora dico: — Voglio dire che viene regolarmente alla nostra chiesa quando si trova a Sheffield, e cioè soltanto d’estate, quando viene a fare i bagni di mare. — Ma cosa dici? Sheffield non è sul mare. — E chi ha detto che è su! mare? — Tu l’hai detto. — Ma neanche per sogno. — Ma sì che l’hai detto.

— Ma no! — Ma sì! — Non ho mai detto niente del genere. — Be’, allora cos’hai detto? — Ho detto che viene a fare i bagni di mare, ecco che cosa ho detto. — Be’, e allora? Come fa a fare i bagni di mare se non c’è il mare? — Sta’ a sentire — le dico — hai mai visto dell’acqua di Congress? — Certo. — Bene, hai mai dovuto andare a Congress per prenderla? — Ma no. — Ecco, neanche Guglielmo IV deve andare al mare per poter fare i bagni di mare. — E allora come li fa? — Li fa come qui la gente si procura l’acqua di Congress: la manda a prendere in barili. Nel suo palazzo di Sheffield hanno delle caldaie, perché lui vuole l’acqua calda. Non possono far bollire tutta l’acqua fuori del mare. Non avrebbero alcuna convenienza. — Ah, adesso capisco. Potevi dirlo subito e si risparmiava tempo. Quando mi disse queste parole, capii che me l’ero cavata per questa volta e mi sentii di nuovo tranquillo e soddisfatto. Ma subito dopo quella riattacca: — Anche tu vai in chiesa? — Certo, regolarmente. — Dove vai a sederti?

— Be’, nel nostro banco. —Nel banco di chi? —Ma il nostro, quello di tuo zio Harvey. —Nel suo? Perché mai dovrebbe avere un banco lui? —Per sedercisi. A cosa dovrebbe servirgli un banco? — Be’, pensavo che lui dovesse stare sul pulpito. Maledizione, avevo dimenticato che faceva il predicatore. Mi resi conto di trovarmi di nuovo in un bel pasticcio, quindi rifeci la scena dell’osso di pollo e ci pensai sopra un pochino. Alla fine dissi: — Accidenti, ma tu credi che ci sia un solo predicatore in una chiesa? — Be’, che bisogno c’è di averne di più? — Cosa? Per predicare davanti al re! Non ho mai visto una ragazza come te. Non ce ne sono mai meno di diciassette. —Diciassette! Santo cielo, io non riuscirei mai ad ascoltarne una caterva simile, dovessi anche dannarmi. Ci vorrebbe una settimana. — Sciocchezze! Non predicano mica tutti nello stesso giorno, solo uno alla volta. —Be’, allora cosa fanno tutti gli altri? —Oh, niente di speciale. Girano, ano con il piatto delle offerte, insomma una cosa e l’altra. Ma generalmente non fanno un bel niente. — Be’, allora perché li tengono? — Ma per dare importanza, no?! Ma non capisci proprio niente tu? — Be’, non ci tengo affatto a sapere queste stupidaggini. Come vengono trattati i servi in Inghilterra? Li trattano meglio di come noi trattiamo i nostri negri?

— No! Là un servo non è nessuno. Li trattano peggio dei cani. — Non gli danno nemmeno le vacanze che gli diamo noi a Natale, a Capodanno e alla Festa dell’Indipendenza? — Oh, stammi a sentire. A sentirti parlare così chiunque capisce che non sei mai stata in Inghilterra. Vedi, Labbro L... Vedi, Joanna, quelli non conoscono mai un momento di libertà dal primo all’ultimo giorno dell’anno; non possono andare al circo, al teatro, agli spettacoli per negri, mai da nessuna parte. — Nemmeno in chiesa? — Nemmeno in chiesa. — Ma tu hai detto che andavi sempre in chiesa. Bene, c’ero cascato di nuovo. Mi ero scordato di essere il servo del vecchio. Ma dopo un momento già volteggiavo in una specie di spiegazione secondo cui un valletto era ben differente da un servo e doveva andare in chiesa, che gli pie o meno, e prendeva posto insieme con la famiglia, perché così era la legge. Ma non andai tanto liscio e alla fine la ragazza non era molto persuasa. Mi fa: — Adesso, parola d’onore, vero che non mi hai raccontato un mucchio di frottole? — Parola d’onore — rispondo. — Nessuna, assolutamente? — Assolutamente, nessuna frottola — Insisto. — Allora metti la mano su quel libro e giura. Vidi che era un vocabolario, perciò vi misi la mano e giurai. Così quella sembrò un poco più soddisfatta e disse: — Be’, adesso credo a qualcosa di quello che mi hai detto, ma figurati se credo al resto. — Che cosa c’è che non puoi credere, Joanna? — disse Mary Jane entrando

seguita da Susan. — Non è giusto e gentile da parte tua parlare in questo modo con lui che è un estraneo e così lontano dai suoi. Piacerebbe a te essere trattata così? — Questo è proprio il tuo modo di fare, Mary, sempre pronta a volare in aiuto di qualcuno prima che lo tocchino. Io non gli ho fatto niente. Mi ha raccontato un po’ di panzane, credo, e gli ho detto che non le bevevo, ecco tutto. Immagino che possa sopportare una cosuccia come questa, non è vero? — Non m’importa se era una cosuccia o una cosona; lui è in casa nostra ed è un forestiero, e non è stato per niente bello parlargli così. Se tu ti fossi trovata al suo posto, era abbastanza per farti vergognare; e perciò non devi dire a una persona cose che possano farla vergognare. — Ma lui mi ha raccontato che... — Non fa differenza cosa ti ha raccontato. Non è questo il punto. Il punto è che tu lo devi trattare con gentilezza e non devi dirgli delle cose che possano ricordargli di non essere nel suo paese e in mezzo alla sua gente. Dico fra me: «E questa è la ragazza che io lascio derubare di tutto il suo denaro da quel vecchio rettile?». Allora intervenne anche Susan e, parola mia, anche lei diede una strigliata a Labbro Leporino. Così dico fra me: «E questa è un’altra che io lascio derubare del suo denaro! ». Allora ricomincia Mary Jane, tornata dolce e adorabile, com’era nel suo stile, ma quando arriva alla fine alla povera Labbro Leporino non resta che mettersi a piangere. — Va bene, va bene — dissero le altre due ragazze — basta che gli chiedi scusa. E lei mi chiese scusa. E lo fece così bene, così bene, che era un piacere ascoltarla; e avrei voluto raccontarle altre mille panzane per poterla sentire ancora una volta. E dico fra me: «E questa è un’altra che lo lascio derubare del suo denaro!». E quando lei ha terminato le sue scuse, tutte si danno da fare per mettermi a mio

agio e convincermi che mi trovo fra amici. Io mi sento così abbietto, così miserabile e meschino che alla fine mi dico: «Ormai ho deciso: porterò via quel denaro per loro, costi quel che costi». Quindi uscii per andare a letto, dissi, intendendo di andarci prima o poi. Quando mi trovai solo, cominciai a pensarci sopra. Mi dissi: devo andare da quel dottore, di nascosto, e dire la verità su questi imbroglioni. No, questo non si può fare. Lui potrebbe rivelare chi l’ha informato e allora il re e il duca me la farebbero pagare cara. Devo andare da Mary Jane e parlarle a quattr’occhi. No, non posso farlo. Senza dubbio quelli capirebbero tutto dalla sua faccia. Hanno loro in mano il denaro e filerebbero via con esso. Se lei dovesse cercare aiuto, io resterei coinvolto nel pasticcio prima che le cose si sistemassero. No, c’è soltanto un mezzo: in un modo o nell’altro devo rubare quel denaro e devo rubarlo in maniera che a quelli non possa nemmeno venire il sospetto che sono stato io. Qui si trovano a meraviglia e non hanno intenzione di levare le tende finché non avranno giocato a questa famiglia e a questo paese tutti i tiri di cui sono capaci, perciò non mi mancherà né il tempo né l’occasione. Ruberò quei soldi e li nasconderò, e poi quando sarò lontano sul fiume scriverò una lettera e dirò a Mary Jane dove li ho nascosti. Però è meglio che me li prenda questa notte stessa, se riesco, perché forse il dottore non ha lasciato perdere come ha fatto credere, potrebbe ancora spaventarli e farli scappare. Così, pensai, andrò a frugare nelle loro camere. Di sopra il corridoio era buio, ma riuscii a trovare la camera del duca e mi misi a tastare attorno con le mani. Poi mi venne in mente che non era nello stile del re affidare a qualcun altro la custodia di quel denaro, così penetrai nella sua stanza e cominciai a tastare intorno. Ma mi resi conto che non potevo combinare niente senza una candela, e naturalmente non potevo accenderne una. Quindi pensai di agire in un altro modo: aspettarli e ascoltare i loro piani. Proprio in quel momento sentii il rumore dei loro i e decisi di nascondermi sotto il letto; feci qualche o, ma il letto non era dove pensavo, e invece toccai la tenda che copriva gli abiti di Mary Jane e con un salto m’infilai dietro quella, mi nascosi in mezzo ai vestiti e rimasi là perfettamente immobile. Essi entrarono e richio la porta, e la prima cosa che fece il duca fu di mettersi carponi e guardare sotto il letto. Allora fui contento di non aver trovato il letto quando l’avevo cercato. Eppure, viene naturale nascondersi sotto il letto quando si vuol fare qualcosa di segreto. Quelli allora si siedono e il re dice:

— Be’, che c’è? E cercate di tagliar corto perché è meglio che stiamo giù con i lamenti e le preghiere piuttosto che qui sopra a dargli occasione di chiacchierare sul nostro conto. — Be’, il fatto è questo, Capeto. Io non sono tranquillo, non mi sento sicuro. Non riesco a togliermi dalla testa quel dottore. Volevo solo conoscere le vostre intenzioni. Io ho un progetto e sono convinto che non sia male. — E qual è, duca? — Che è meglio se ce la svigniamo di qui prima delle tre del mattino e filiamo giù per il fiume con quello che abbiamo intascato. Specialmente se pensiamo con quale facilità l’abbiamo avuto; ce l’hanno regalato, tirato dietro, si può dire, quando eravamo già convinti di doverlo rubare, naturalmente. Io sono per tagliare la corda e battercela. Questo mi fece star male. Un’ora o due prima sarebbe stato diverso, ma adesso mi faceva star male e m’irritava. Il re lo interruppe: — Come? Senza vendere il resto della proprietà? Battere in ritirata come due cretini e lasciarci dietro beni del valore di almeno otto o novemila dollari sparsi in giro, che non chiedono se non di essere intascati?... E tutta roba che si vende bene, anche. Il duca cominciò a brontolare e disse che per lui il sacchetto dell’oro era abbastanza, non si doveva esagerare, e che non gli andava di derubare delle orfanelle di tutto quello che avevano. — Ma guarda che modo di parlare! — ribatte il re. — Noi non gli rubiamo niente più che questi soldi. Se c’è qualcuno che ci rimette è la gente che compera le proprietà, perché appena s’accorgono che noi non siamo i proprietari, cosa che salterà fuori appena ce ne saremo andati, la vendita sarà dichiarata nulla e i beni ritorneranno ai legittimi proprietari. Queste orfanelle ritorneranno in possesso della loro casa e quella è abbastanza; sono giovani e vispe e potranno facilmente guadagnarsi da vivere. Non saranno loro a rimetterci. E poi, pensateci, ce ne sono migliaia e migliaia in peggiori condizioni. Sant’Iddio, queste non hanno alcun motivo di lamentarsi. Bene, il re parlò fino a istupidirlo, sicché alla fine cedette e disse che andava bene. Ma era una maledetta cretineria restare, secondo lui, con il dottore che

incombeva su di loro. Ma iI re disse: — Maledizione al dottore! Perché dovremmo pensare a lui? Non abbiamo forse dalla nostra tutti i babbei del paese? E quelli non sono una maggioranza sufficientemente grossa in qualunque paese? Così erano pronti, a scendere di nuovo al piano di sotto. Ma il duca osservò: — Non credo che abbiamo messo quel denaro in un posto buono. Quel discorso mi rallegrò. Avevo già incominciato a pensare che non sarei riuscito a scoprire niente di utile. Il re domandò: — Ma perché? — Perché Mary Jane prenderà il lutto, e prima che ve ne rendiate conto la negra che riassetta questa stanza riceverà l’ordine di raccogliere tutti questi stracci e portarli via; e avete mai visto un negro che trovi per caso del soldi e non se ne prenda un po’ a prestito? — La vostra testa ha ripreso a funzionare, duca — disse il re; e venne a frugare sotto la tenda a qualche spanna da dove ero io. M’incollai alla parete e rimasi assolutamente immobile sebbene fossi tutto un tremito, e mi domandai che cosa mi avrebbero detto quei due tizi se mi avessero trovato e cercai di immaginare che cosa avrei potuto dire se mi beccavano davvero. Ma il re trovò il sacchetto prima che fossi riuscito a formulare un mezzo pensiero e non ebbe il minimo sospetto che io fossi da quelle parti. Presero il sacchetto e lo infilarono in uno strappo nel saccone di paglia che stava sotto il materasso di piuma e lo cacciarono ben dentro la paglia dicendo che ora andava benissimo, perché una negra rassetta soltanto il piumino mentre il saccone di paglia non lo rigira che una volta o due all’anno, e quindi adesso il denaro non correva più il rischio di venir rubato. Ma io ero di diverso parere. L’avevo già cavato fuori prima che quelli fossero a metà scale. Mi feci strada a tentoni fino al mio sgabuzzino e ve lo nascosi finché mi fosse possibile trovare una sistemazione migliore. Pensavo che fosse meglio nasconderlo da qualche parte all’esterno della casa, perché appena quelli s’accorgevano che era scomparso certo avrebbero dato a tutta la casa una bella rimescolata. Lo sapevo benissimo. Poi mi coricai vestito, ma anche volendolo non avrei potuto dormire, tanto ero impaziente di farla finita con quella storia. Di

lì a poco sentii il duca e il re salire le scale, perciò sgusciai fuori dal mio pagliericcio e mi sdraiai con il mento appoggiato al sommo della scaletta e rimasi ad aspettare per vedere se capitava qualcosa. Ma non successe nulla.

Rimasi così finché cessarono tutti i rumori della notte e ancora non cominciavano quelli del primo mattino; allora scesi in punta di piedi per la scaletta.

Il funerale - L’impresario di pompe funebri Curiosità soddisfatta - Sospetti su Huck - Vendite rapide e scarsi guadagni

Capitolo 27

M’avvicinai quatto quatto alle loro porte e rimasi in ascolto: russavano, quindi avanzai in punta di piedi e giunsi al piano terreno, senza incidenti. Ovunque silenzio di tomba. Sbirciai attraverso una fessura della porta della sala da pranzo e vidi gli uomini della veglia funebre addormentati profondamente sulle loro sedie. La porta era aperta sul salotto e c’era una candela accesa in entrambe le stanze. ai, e anche la porta del salotto era aperta, e vidi che lì non c’era nessuno tranne i resti mortali di Peter; quindi proseguii, ma la porta d’ingresso era chiusa e non c’era su la chiave. Proprio in quel momento sentii qualcuno scendere le scale alle mie spalle. Mi precipitai nel salotto, diedi una "rapida occhiata attorno e l’unico posto che vedo per nasconderci il denaro è la bara. Il coperchio era spostato di circa una spanna e lasciava intravvedere la faccia del morto con sopra un pannolino bagnato e il sudario che lo ricopriva. Ficcai dentro il sacchetto, sotto il coperchio, giù oltre il punto dov’erano incrociate le mani, che mi fecero rabbrividire tanto erano gelide, e poi riattraversai di corsa la stanza e mi nascosi dietro la porta. La persona che stava arrivando era Mary Jane. S’avvicinò piano alla bara, s’inginocchiò e vi guardò dentro; poi portò agli occhi il fazzoletto e capii che piangeva, anche se non potevo sentirla e mi voltava le spalle. Sgusciai fuori dalla stanza e mentre avo per la sala da pranzo pensai di assicurarmi che non m’avessero visto quelli della veglia; cosi sbirciai attraverso la fessura: tutto era a posto, nessuno s’era mosso. M’infilai nel letto e mi sentivo piuttosto a terra per come erano andate le cose dopo tutti i guai e ì rischi che avevo corso. Mi dico: se riesce a restare dov’è, va

benissimo, perché quando saremo a cento o duecento chilometri giù sul fiume, potrei scrivere a Mary Jane e lei potrebbe farlo riesumare e cosi riavere il suo denaro; ma le cose non andranno cosi lisce, andrà a finire che quando inchioderanno il coperchio troveranno il denaro. Allora il re ne ritornerà in possesso, e ne erà del tempo prima che si ripresenti la possibilità di soffiarglielo di nuovo. Naturalmente io morivo dalla voglia di scendere e tirarlo fuori di lì, ma non osavo tentare. Ogni minuto che ava s'avvicinava l’alba e ben presto qualcuno della veglia avrebbe cominciato a muoversi e potevano acciuffarmi, con in mano seimila dollari che nessuno m’aveva incaricato di custodire. Non vado certo a impegolarmi in un affare del genere, dico. Al mattino, quando scendo al piano di sotto, Il salotto era chiuso e gli uomini della veglia se n’erano andati. Non c’era più nessuno in giro tranne la famiglia e la vedova Bartley e la nostra banda. Li osservai bene in faccia per vedere se si fossero accorti di qualcosa, ma non avrei potuto dire. A mattina inoltrata venne l’impresario delle pompe funebri con il suo aiutante e sistemarono la bara nel mezzo della stanza sopra un paio di sedie, quindi misero in fila le altre sedie e se ne fecero prestare ancora dai vicini, finché l’ingresso e il salotto e la sala da pranzo ne furono pieni. Vidi che il coperchio della bara era rimasto com’era, ma non ebbi il coraggio di andare a guardarci dentro con tutta quella gente intorno. Poi la gente incominciò ad entrare a gruppi; i due furfanti e le tre fanciulle presero posto in prima fila, accanto alla bara, e per una mezz’ora la gente continuò a sfilare in fila indiana: guardavano un momento la faccia del defunto, qualcuno spremeva una lacrima, in tutto silenzio e con solennità; solo le ragazze e i due farabutti si tenevano il fazzoletto agli occhi e singhiozzavano un poco. Non si udiva altro rumore che il frusciare dei piedi sul pavimento e il soffiare dei nasi, perché ad un funerale la gente si soffia il naso più spesso che in qualunque altro posto, esclusa la chiesa. Quando tutta la casa fu piena zeppa, l’impresario incominciò ad andare in giro in guanti neri, con quei suoi modi dolci e consolanti, dando gli ultimi tocchi e sistemando i convenuti, più silenzioso di un gatto. Non diceva una parola; faceva muovere la gente, raccoglieva gli ultimi arrivati, apriva la strada a chi doveva are, e tutto con semplici cenni del capo e gesti delle mani. Infine prese posto in disparte, contro la parete. Era l’uomo più morbido, più scivoloso e discreto che io abbia mai visto e sulla sua faccia non si vedeva un sorriso più che su un

prosciutto. Avevano preso a prestito un armonio, assai malandato, e quando tutto fu pronto una giovane donna si sedette e prese a lavorarci sopra, facendone uscire guaiti e scricchiolii, e tutti attaccarono a cantare... Peter era il solo a arsela bene, secondo il mio modesto parere. Poi si fece sotto il reverendo Hobson, lento e solenne incominciò a parlare quando immediatamente scoppiò giù nella cantina il più violento putiferio che si sia mai sentito: era soltanto il cane, ma faceva un fracasso del diavolo e continuò senza smettere un istante. Il parroco dovette starsene là presso la bara ad aspettare; non si potevano sentire neppure i propri pensieri. Fu un momento decisamente imbarazzante e pareva che nessuno sapesse cosa fare. Ma ben presto si vide l’impresario dalle gambe lunghe fare un cenno al predicatore come per dire: «Non preoccupatevi; lasciate fare a me». Allora si curvò e prese a scivolare lungo la parete; si vedevano le spalle avanzare sopra le teste della gente. Cosi procedeva mentre il baccano e lo strepito si facevano di minuto in minuto più indecenti; finalmente, quando ebbe superato due lati della stanza, scomparve in cantina. Dopo due secondi udimmo uno schiocco e il cane concluse con uno stupefacente ululato e poi tutto ricadde in un silenzio assoluto, e il parroco riprese il suo solenne discorso dal punto in cui l’aveva interrotto. Dopo un minuto o due ecco comparire di nuovo la schiena e le spalle dell’impresario che avanzava strisciando contro la parete come prima; cosi, striscia e striscia, percorse tre lati della stanza, poi si rizzò, si schermò la bocca con la mano, allungò il collo verso Il prete, sopra le teste della gente, e in una sorta di sussurro rauco pronunciò: — C’era un topo! — Poi si curvò di nuovo e riprese a strisciare lungo la parete fino al suo posto. Si poteva vedere che i presenti ne furono molto soddisfatti, perché naturalmente tutti volevano sapere. Una piccola cosa così non costa nulla, ma sono proprio le piccole cose che fanno rispettare e amare un uomo. Non c’era in realtà in tutto il paese una persona più popolare di quest’impresario. Be’, il sermone funebre fu ottimo, ma eccessivamente lungo e noioso; poi il re si fece avanti e sfornò una serie delle sue solite baggianate, dopo di che finalmente la cerimonia si concluse e l’impresario cominciò a lavorare di cacciavite sulla bara. Io ero in un lago di sudore e l’osservavo da vicino. Ma non mise il naso da nessuna parte; si limitò a far scivolare al suo posto il coperchio, leggero come sul muschio, quindi sistemò le viti e le assicurò. Ero in un bel guaio! Non sapevo se il denaro fosse rimasto dentro oppure no. Perciò mi dico: supponiamo che qualcuno abbia sgraffignato quel sacchetto alla chetichella, come faccio a sapere se devo scrivere a Mary Jane o no? Supponiamo che lei lo faccia riesumare e

non ci trovi un bel niente, che cosa penserebbe di me? Dannazione, mi dico, magari m’inseguono e poi mi schiaffano dentro; mi conviene star zitto, sparire dalla circolazione e non scrivere affatto; adesso la faccenda è troppo ingarbugliata; cercando di migliorarla l’ho peggiorata cento volte di più. Vorrei davvero aver lasciato tutto come stava; accidenti a questo maledetto affare! Lo seppellirono e tornammo a casa. Scrutai di nuovo quelle facce: non potevo fame a meno, non riuscivo a stare tranquillo. Ma non ne cavai nulla; quelle facce non mi dicevano nulla. Verso sera, il re andò in giro a far visite e conquistò tutti e si fece amico di tutti. Poi incominciò a far credere che laggiù in Inghilterra la sua parrocchia sarebbe stata molto impaziente di riaverlo, perciò doveva sbrigarsi a vendere la proprietà e ripartire immediatamente. Gli dispiaceva moltissimo di essere cosi pressato, e dispiaceva anche alla gente; tutti desideravano che potesse restare più a lungo, ma capivano benissimo che era impossibile. Diceva che naturalmente lui e William avrebbero portato con sé le ragazze e questo faceva piacere a tutti, perché almeno le ragazze sarebbero state ben sistemate e sarebbero vissute assieme ai loro parenti; e questo piaceva anche alle ragazze, le eccitava a tal segno da far loro dimenticare tutti i guai. Gli dissero di vendere pure tutto più in fretta che poteva, che loro erano pronte. Quelle poverine erano così contente e felici che mi faceva male il cuore vederle abbindolate in quella maniera; tuttavia non vedevo un mezzo sicuro, per me, di dire la mia e far cambiare la musica. Be’, che io sia maledetto se il re non mise all’asta immediatamente la casa e gli schiavi negri e tutta la proprietà; la vendita venne fissata due giorni dopo il funerale, ma chiunque poteva comperare anche prima, in privato, se lo voleva. Così il giorno dopo il funerale, verso mezzogiorno, l’entusiasmo delle ragazze subì il primo colpo: arrivarono un paio di mercanti di schiavi e il re vendette loro i negri ad un prezzo ragionevole, con tratta pagabile a tre giorni, come dissero. I negri dovettero mettersi in cammino, I due figli su per il fiume fino a Memphis, la madre a valle, verso Orleans. Io avevo paura che alle povere ragazze e a quei negri si spezzasse il cuore dal dolore: piangevano e s’abbracciavano in continuazione che mi sentii male a vederli. Le ragazze dicevano che non avrebbero mai creduto di vedere questa famiglia divisa o venduta fuori del paese. Non riesco a levarmi di mente la scena di quelle infelici ragazze e di quei

negri che si buttavano le braccia al collo e piangevano; e sono sicuro che non l’avrei tollerata e sarei corso a denunciare quei farabutti se non avessi saputo che la vendita non aveva valore e che i negri sarebbero ritornati nel giro di una settimana o due. Il fatto suscitò molto scalpore in paese e molti dissero chiaro e tondo che era uno scandalo separare in quel modo una madre dai suoi figli. I due imbroglioni se ne risentirono un po’, ma il vecchio scemo continuò a fare di testa sua a dispetto di quanto potesse dire o fare il duca, e vi assicuro che il duca si sentiva sulle spine. Il giorno successivo era quello dell’asta. Non appena si fece mattino, il re e il duca salirono in soffitta e mi svegliarono, ed lo capii dal loro sguardo che c’erano guai. Il re mi domandò: — Sei stato in camera mia, l’altra notte? — No, Vostra Maestà — e quello era il titolo con il quale mi rivolgevo a lui quando non c’era nessuno attorno tranne noi della combriccola. — Ci sei stato ieri o questa notte? — No, Vostra Maestà. — Parola d’onore, adesso, e niente bugie. — Parola d’onore, Vostra Maestà, vi sto dicendo la verità. Non mi sono avvicinato alla vostra camera dacché Mary Jane vi ha portato su insieme con il duca e ve l’ha mostrata. Il duca disse: — Hai visto qualcun altro entrare? — No, Vostra Grazia, no che io ricordi. — Pensaci bene. Mi concentrai un poco per cercare una via d’uscita e dissi: — Be’, ho visto i negri entrarci parecchie volte.

Tutti e due ebbero un lieve sobbalzo e sembrava che non se lo sarebbero aspettato e al tempo stesso anche si. Poi il duca mi domandò: — Cosa, tutti i negri? — No, o almeno non tutti in una volta. Cioè, non credo di averli mai visti venir fuori tutti insieme, tranne una volta. — Quando è stato? — È stato il giorno del funerale. Al mattino. Non era presto perché ho dormito fino a tardi. Stavo appunto scendendo la scaletta quando li ho visti. — Be’, continua! Che cosa hanno fatto? Come si comportavano? — Non hanno fatto niente. E non si comportavano in nessuna maniera particolare, almeno per quanto ho visto io. Andavano via in punta di piedi; cosi ho capito abbastanza facilmente che erano entrati per fare le pulizie in camera di Vostra Maestà, o qualcosa del genere, convinti che voi foste già alzato; ma si sono accorti che non vi eravate alzato, perciò speravano di sgusciare fuori senza far rumore per non svegliarvi, se non vi avevano già svegliato. — Per mille cannoni, che pasticcio! — disse il re; e tutti e due avevano un’aria un po’ malconcia e sembravano due idioti. Rimasero là a meditare, grattandosi la zucca per un buon minuto, poi il duca scoppiò in una sghignazzata stridula e disse: — Quello che le supera tutte è come hanno giocato bene le loro carte quei negri. Fingevano d’essere disperati di dover andarsene da questa regione! E io credevo che lo fossero davvero. E anche voi lo credevate e tutti ci credevano. Non venite più a dirmi che un negro non possiede talento istrionico. Il modo come hanno recitato quella scena avrebbe ingannato chiunque. Secondo me nei negri c’è una vera fortuna. Se avessi un capitale e un teatro, non cercherei una compagnia migliore mentre noi li abbiamo venduti per una pipa di tabacco. Proprio, e non abbiamo ancora il privilegio di farci quella pipata. Ehi, a proposito, dov’è quella pipa, voglio dire la tratta? — È in banca per essere incassata. Dove dovrebbe essere? — Be’, almeno quella è a posto, grazie al cielo.

Allora, con un’aria timida timida, io faccio: — Qualcosa è andato storto? Il re si girò di scatto verso di me e gridò: — Non sono affari tuoi! Tieni il becco chiuso e bada agli affari tuoi, se ne hai. Fino a quando rimani in questo paese non dimenticarlo, capito? Poi si rivolse al duca: — Dobbiamo ingoiare il rospo e non dire niente: acqua in bocca è la nostra parola d’ordine. Mentre stavano scendendo la scaletta il duca sghignazzò di nuovo e commentò: — Vendite rapide e guadagni limitati! È un buon affare, certo. Il re gli si rivoltò contro e disse: — Cercavo di agire per il meglio vendendoli così in fretta. Se il guadagno è risultato nullo, anzi ci abbiamo rimesso e siamo rimasti a secco, è forse più colpa mia che vostra? — Be’, se si fosse ascoltato il mio consiglio quelli si troverebbero ancora in questa casa e noi invece non ci saremmo più. Il re continuò a rimbeccare, mantenendosi entro certi limiti di sicurezza, poi cambiò bersaglio e mi diede un’altra strigliata. Andò fuori dai gangheri perché non ero andato subito a dirgli che avevo visto I negri uscire dalla sua camera in quell’atteggiamento. Disse che qualunque cretino avrebbe capito che c’era sotto qualcosa. Continuò con la stessa musica e per un poco imprecò anche contro se stesso; disse che tutto era accaduto perché non era rimasto a letto fino a tardi e non s’era preso il dovuto riposo quella mattina, e maledizione a lui se gli venisse in mente di farlo ancora.

Il viaggio in Inghilterra - ‘‘Che farabutti!” - Il Camelopardo - Mary Jane decide di partire - Huck si congeda da Mary Jane - Musi contriti - La concorrenza

Capitolo 28

Ormai era l’ora di alzarsi; così discesi la scaletta e mi avviai da basso. Ma ando davanti alla camera delle ragazze, la porta era aperta e potei vedere Mary Jane che, seduta accanto al suo vecchio baule aperto, vi stava sistemando le sue cose, preparandosi per andare in Inghilterra. Ma in quel momento si era fermata, con un vestito a pieghe sulle ginocchia, e piangeva con il viso tra le mani. Mi sentii male terribilmente a vedere quella scena; naturalmente chiunque si sarebbe sentito male. Entro e le dico: — Signorina Mary Jane, voi non potete sopportare di vedere della gente nei guai e di solito neanch’io. Ditelo a me. Così me lo disse. E si trattava dei negri, proprio come supponevo. Disse che per lei quel meraviglioso viaggio in Inghilterra era quasi del tutto rovinato; non riusciva ad immaginare come avrebbe potuto essere felice laggiù, sapendo che una madre e i suoi figli non si sarebbero mai più veduti, e poi scoppiò a piangere più amaramente di prima, alzò le mani al cielo ed esclamò: — Oh, Signore, pensare che non si rivedranno mai più! — Invece si rivedranno, e prima che ino due settimane, io lo so! — dico io. M’era scappato senza pensarci! E prima che potessi muovermi, lei mi buttò le braccia al collo e mi pregò di dirlo ancora, ancora, ancora! Mi resi conto di aver parlato avventatamente, avevo detto troppo e mi trovavo in

un vicolo cieco. Le chiesi di lasciarmi pensare un minuto; e lei rimase seduta molto impaziente ed eccitata, e bella, ma con l’aria felice e sollevata come quando ti levano un dente. Così mi misi a studiare la cosa. Dissi tra me e me: immagino che se uno si fa avanti e dice la verità quando si trova con l’acqua alla gola, si esponga ad un’infinità di rischi, sebbene io non ne abbia avuta alcuna esperienza e non possa quindi parlare con certezza; ma in ogni modo così mi sembrava; però in questo caso, mi venga un colpo se non mi pare che la verità sia migliore e di fatto più sicura della menzogna. Devo ricordarmene e pensarci su bene un giorno perché è una cosa piuttosto strana e fuori del normale. Non mi è mai capitata una cosa del genere. Bene, mi dico alla fine, adesso tento la sorte; stavolta mi faccio avanti e dico la verità, anche se mi sembra di sedermi su un barile di polvere e accostare la miccia tanto per vedere come va a finire. Allora dico: — Miss Mary Jane, c’è un posto un po’ fuori dal paese dove voi potreste andare a are tre o quattro giorni? — Si, dal signor Lothrop. Perché? — Non pensate al perché, adesso. Se io vi dico come so perché i vostri negri si rivedranno, in meno di due settimane, qui in questa casa, e vi dimostro come faccio a saperlo, andrete a stare quattro giorni dal signor Lothrop? — Quattro giorni! — rispose lei. — Ci rimarrei un anno! — Benissimo — dissi — non voglio da voi nient’altro che la vostra parola: di questa mi fido di più che se vedo un altro baciare la Bibbia. — Lei sorrise e arrossi lievemente e io dico: — Se non avete nulla in contrario, vado a chiudere la porta e ci metto anche il paletto. Poi ritornai al mio posto, mi sedetti e dissi: — Non vi agitate, vi prego. Rimanete seduta tranquilla e prendetela come un uomo. Io devo dirvi la verità e voi dovete farvi coraggio, Miss Mary, perché è una brutta storia e sarà dura da accogliere, ma non si può evitare... Questi vostri zii... non lo sono affatto: sono un paio di imbroglioni, del perfetti furfanti. Ecco, adesso il peggio è ato, potrete superare anche il resto con facilità. Naturalmente rimase scossa, ma ormai io mi trovavo in acque sicure, quindi continuai, mentre i suoi occhi lampeggiavano sempre più, e le raccontai ogni

cosa, da quando noi avevamo incontrato quel giovanotto stupido che andava al battello fino a quando lei si era buttata fra le braccia del re sulla soglia di casa e lui l’aveva baciata sedici o diciassette volte; allora balza in piedi con il viso rosso come un tramonto d’estate e prorompe: — Che farabutti! Vieni... non perdiamo un minuto, neanche un secondo... e li facciamo coprire di catrame e di piume, e buttare nel fiume! Dico io: — Certamente. Ma intendete prima di andare dal signor Lothrop, oppure... — Oh — dice lei — che cosa mi viene in mente! — e toma a sedersi. — Non badare a quello che ho detto, per favore, non badarci, d’accordo? — E posò la sua mano di seta sulla mia in un tale modo che io le dissi che prima ero pronto a morire. — Non avrei mai creduto di agitarmi tanto — disse — adesso continua e non mi capiterà più. Dimmi cosa devo fare, e qualunque cosa mi dirai, la farò. — Be’ — ripresi — sono gente pericolosa quei due imbroglioni, e io sono costretto a viaggiare con loro ancora per un po’, che lo voglia o no... preferirei non dirvi perché. E se voi li denunciate, la gente di questo paese mi toglierebbe dalle loro grinfie e per me andrebbe benissimo, ma un’altra persona, di cui voi non sapete nulla, finirebbe in grossi guai. Be’, noi dobbiamo salvare anche lui, non è vero? Naturalmente. Bene, allora non possiamo denunciarli. Mentre dicevo quelle parole, mi venne una buona idea. Vidi una maniera di liberare me e Jim dai due mascalzoni: farli schiaffare in prigione qui e poi noi filare via. Ma non avevo nessuna voglia di navigare sulla zattera di giorno, senza qualcuno a bordo oltre a me pronto a rispondere ad eventuali domande; quindi non potevo mettere in atto il mio piano fino a notte. Le dissi: — Miss Mary Jane, vi dirò che cosa dobbiamo fare e non dovrete neppure fermarvi troppo tempo dal signor Lothrop. Quanto dista da qui la sua casa? — Poco meno di sei chilometri, appena fuori in campagna. — Bene, quella fa al caso nostro. Ora voi ve ne andrete là, ve ne starete tranquilla fino alle nove o alle nove e mezzo di questa sera, poi li pregate di

riportarvi a casa raccontando che vi è venuto in mente qualcosa. Se arrivate qui prima delle undici, mettete una candela a questa finestra; se non mi vedete, aspettate fino alle undici, dopo di che, se io non mi faccio vivo vuol dire che sono partito e che mi trovo al sicuro. Allora parlate liberamente e spargete la notizia e fate imprigionare quei due mascalzoni. — Benissimo — dice — lo farò. — E se poi capita che io non riesco a fuggire, ma vengo preso insieme con quei due, voi dovete farvi avanti e dire che vi ho raccontato tutto in precedenza, dovrete difendermi più che potete. — Difenderti! Certo che lo farò. Non ti torceranno un capello! — disse, e mentre diceva così le vidi dilatarsi le narici e gli occhi scintillare. — Ma se io me ne andrò — ripresi — non sarò qui a provare che quei due mascalzoni non sono i vostri zii, ma neppure potrei provarlo se fossi qui. Io potrei giurare che sono dei delinquenti e dei truffatori e questo è tutto, per quanto sarebbe già qualcosa. Be’, ce ne sono degli altri che possono farlo meglio, ed è gente di cui non si dubiterebbe come di me. Vi dirò come trovarli. Datemi una matita e un foglio di carta. Ecco: «Il Camelopardo del Re, Bricksvllle ». Mettetelo via e badate di non perderlo. Quando il tribunale vorrà sapere qualcosa sul conto di quei due, mandate qualcuno a Bricksville a dire che hanno preso quelli del Camelopardo e chiedete dei testimoni: be’, avrete qui l’intera città in un batter d’occhio, Miss Mary. E per di più verranno qui imbestialiti! Ormai mi sembrava che fosse deciso tutto, per cui dico: — Lasciate che l’asta si svolga regolarmente e non preoccupatevi. Nessuno sarà costretto a pagare quello che ha acquistato finché non sarà trascorsa dal momento dell’asta un’intera giornata, per via del breve preavviso; e quelli non se ne andranno finché non avranno intascato il denaro, ma hanno organizzato la vendita in modo che non avrà alcun valore e non riusciranno ad intascare nemmeno un soldo. È esattamente come è successo per i negri; non era una vendita regolare e i negri saranno di ritorno fra pochi giorni. Ah, non possono ancora incassare il denaro per i negri: si trovano nel peggiore dei pasticci, Miss Mary! — Bene — disse — adesso corro giù a fare colazione, poi vado difilato dal signor Lothrop.

— Veramente quello non era il nostro programma, Miss Mary Jane — dissi lo — niente affatto. Dovete andarci prima di colazione. — Ma perché? — Per quale motivo pensate che io voglia mandarvi via, Miss Mary? — Be’, non ci ho ancora pensato... e adesso che ci penso devo dire che non lo so. Perché vuoi che vada? — È perché voi non siete una di quelle persone con la faccia di bronzo. Non c’è miglior libro della vostra faccia. Chiunque può sedersi di fronte a voi e leggere quel che pensate come se fosse stampato a caratteri cubitali. Immaginate di poter andare ad affrontare i vostri zii, quando verranno a darvi il bacio del buongiorno, senza... — Basta, basta, non continuare! Si, partirò prima di fare colazione, e sarò contenta di andarmene. Ma lascerò con loro le mie sorelle? — SI, ma non ve ne preoccupate. Devono sopportare questa situazione ancora per poco. Quelli potrebbero sospettare qualche cosa se ve ne andaste tutte. Non voglio che il vediate, e nemmeno le vostre sorelle, né alcun altro del paese: se un vostro vicino dovesse chiedervi come stanno questa mattina i vostri zii, la vostra faccia rivelerebbe qualcosa. No, dovete partire immediatamente, Miss Jane, e sistemerò io la cosa con tutti. Dirò alla signorina Susan di salutare da parte vostra gli zii e dir loro che siete andata via soltanto per poche ore per riposare un po’ e per cambiare aria, oppure per vedere un’amica, e che sarete di ritorno questa sera stessa o domani mattina presto. — Che io sia andata a vedere un’amica va bene, ma non voglio che dia i miei saluti a quel due là. — Bene, allora non li saluterà. — Dirle così non comportava nulla di male, quindi andava benissimo per il momento. Era solo una cosuccia, nessuna fatica, e sono proprio queste cosucce da niente che meglio appianano la strada con la gente; bastava a soddisfare Mary Jane e non costava nulla. Allora lo dissi: — C’è ancora un’altra cosa... quel sacchetto di denaro. — Be’, quello ce l’hanno loro; e mi sento davvero una stupida se penso come

l’hanno avuto. — No, qui voi vi sbagliate: loro non ce l’hanno. — Come? e chi ce l’ha allora? — Vorrei proprio saperlo, ma non lo so. L’avevo io perché gllel’ho rubato per darlo a voi; so dove l’ho nascosto io, ma ho paura che non sia più là. Mi spiace terribilmente, Miss Mary Jane, mi dispiace da morire, ma ho cercato di fare del mio meglio, davvero, ve l’assicuro. Per un pelo non mi pescavano e ho dovuto ficcarlo nel primo posto che m’è capitato e scappare... e non era un buon posto. — Oh, smettila di rimproverarti, non è giusto e non posso permetterlo: non hai potuto fare diversamente; non è stata colpa tua. Dov’è che l’hai nascosto? lo non volevo che si rimettesse a pensare ai suoi dispiaceri e mi sembrava di non aver la forza di dirle cose che le avrebbero rievocato la visione di quella salma distesa nella bara con quel sacchetto di dollari sullo stomaco. Così per un minuto non dissi nulla, poi mormorai: — Preferisco non dirvi dove l’ho messo, Miss Mary Jane, se voi non avete nulla in contrario; ma ve lo scriverò su un pezzetto di carta e così potrete leggerlo mentre andate dal signor Lothrop, se volete. Credete che vada bene così? — Oh, certo. Così scrissi: «L’ho messo nella bara. Era già dentro quando voi siete andata là a pregare durante la notte. Io ero dietro la porta, sinceramente desolato per voi, Miss Mary Jane». Mi sentii le lacrime agli occhi a ricordare come piangeva, tutta sola nella notte, mentre quei due demoni dormivano sotto il suo tetto, la disonoravano e la derubavano. E quando lo ripiegai e glielo porsi, vidi che anche lei aveva le lacrime agli occhi; e mi strinse la mano forte dicendo: — Addio! Farò tutto esattamente come mi hai detto; e se anche non ti vedrò più non ti dimenticherò mai, e penserò a te molte, molte volte, e pregherò per te... — e se ne andò. Pregare per me! Pensai che, se m’avesse conosciuto meglio, avrebbe intrapreso

una fatica più adeguata alle sue forze. Ma scommetto che l’avrebbe fatto ugualmente, perché era fatta così. Avrebbe avuto il coraggio di pregare anche per Giuda, se le fosse venuto in mente: non conosceva ostacoli, credo. Potete dire quel che volete, ma secondo me c’era più spirito in lei che in qualunque altra ragazza che io abbia mai conosciuto; secondo me era tutta piena di spirito. Sembra adulazione, ma non è adulazione. E se si parla di bellezza e di bontà, lei le superava tutte. Non l’ho più rivista da quel momento quando la vidi uscire dalla porta; no, davvero non l’ho più rivista, ma credo di aver pensato un milione di volte a lei e a quando mi ha detto che avrebbe pregato per me; e se mai mi fosse venuto in mente che m’avrebbe fatto bene pregare per lei, che mi venga un colpo se non l’avrei fatto a costo di morire. Bene, Mary Jane sgusciò fuori dalla porta di dietro, penso, perché nessuno la vide uscire. Quando incontrai Susan e Labbro Leporino, dissi: — Come si chiama quella gente che abita laggiù sull’altra riva del fiume e che voi andate a trovare di tanto in tanto? Risposero: — Ce ne sono parecchi, ma di solito andiamo dai Proctor. — Ecco il nome — dissi — me n’ero quasi dimenticato. Bene, Miss Mary Jane m’ha detto di dirvi che è andata là d’urgenza; qualcuno sta male. — Chi? — Non lo so, o almeno me lo sono dimenticato; ma penso che sia... — Per amor del cielo, spero che non si tratti di Hanna. — Mi dispiace dovervelo dire — risposi — ma si tratta proprio di lei. — Bontà divina, stava così bene soltanto una settimana fa! È molto grave? — Non si può dire ancora. L’hanno vegliata tutta la notte, ha detto Miss Mary Jane, e temono che abbia le ore contate. — Ma guarda! Ma che cos’ha?

Io non fui in grado di pensare a qualcosa di ragionevole, così sui due piedi, quindi dissi: — Gli orecchioni. — Orecchioni tua nonna! Non si veglia tutta la notte chi ha soltanto gli orecchioni. — Ah no? Non si veglia? Ma potete scommettere che con questo tipo di orecchioni è meglio farlo. Questi orecchioni sono un’altra cosa. È un genere nuovo, ha detto Miss Mary Jane. — Come, un nuovo genere? — Perché sono mischiati con altre cose. — Quali altre cose? — Insomma, scarlattina, tosse asinina, risipola, etisia, itterizia, commozione cerebrale e non so che altro ancora. — Misericordia! E li chiamano orecchioni? — Questo è quanto mi ha detto Mary Jane. — Ma perché diavolo li chiamano orecchioni? — Be’, perché in realtà si tratta di orecchioni. È proprio così che incomincia. — Be’, per me non ha senso. Uno può schiacciarsi l’alluce, prendere il veleno, cadere dentro un pozzo, rompersi l’osso del collo, e farsi uscire il cervello, e se a qualcuno e domanda di che cosa è morto, uno scemo si fa avanti e dice: «Oh, s’è schiacciato l’alluce ». E avrebbe senso una risposta come quella? No. E non c’è senso neanche in questa. È un male che si attacca? — Che si attacca? Ma che dite? Forse che un erpice non si attacca, al buio? Se non vi attaccate a un dente, restate preso da un altro, non è vero? E non potete liberarvi di quel dente senza tirarvi dietro tutto l’erpice, no? Be’, questo tipo di orecchioni è una specie di erpice, per così dire, e neanche un erpice da ridere, perché se ti prende è un affare serio. — Be’, è spaventoso, io credo — disse Labbro Leporino. — Andrò subito dallo

zio Harvey e... — Oh sì — faccio io — io ci andrei. Certo che ci andrei. Io non perderei un minuto di tempo! — Be’, perché non ci andresti? — Pensaci sopra un minuto e può darsi che ci arrivi. I tuoi zii non sono forse costretti a partire per l’Inghilterra il più presto possibile? E credi che sarebbero così cattivi da andarsene via e lasciarvi fare tutto quel viaggio più tardi, da sole? Lo sai bene che vi aspettano. Fin qui tutto bene. Vostro zio Harvey fa il predicatore, no? Benissimo allora; e un predicatore andrà a ingannare il commissario di un piroscafo? Andrà a ingannare un commissario di nave perché lascino salire a bordo Mary Jane? Ora tu sai che non lo farà. E che cosa farà invece? Dirà semplicemente: «È un gran peccato, ma le faccende della mia chiesa dovranno andare avanti meglio che possono senza di me, perché mia nipote è stata esposta ai terribili orecchioni del tipo pluribusunum ed è mio stretto dovere starmene qui e aspettare che ino i tre mesi necessari per sapere se li ha presi ». Ma non importa; se tu credi che sia meglio dirlo a tuo zio Harvey... — Figurati, stare qui a fare le stupide quando potremmo divertirci da matti in Inghilterra, e soltanto per aspettare di vedere se Mary Jane li ha presi o no? Tu parli come un somaro. — Be’, in ogni modo faresti meglio a parlarne con qualche vicino. — Senti questa adesso! Quanto a stupidità congenita tu li batti tutti. Non capisci che glielo vanno a dire immediatamente? La sola cosa da fare è di non parlare con nessuno nella maniera più assoluta. — Già, forse hai ragione tu... sì, credo proprio che tu abbia ragione. — Ma immagino che dovremmo dire a zio Harvey che lei starà fuori di casa per un po’, in modo che non si preoccupi. — Sicuro. Miss Mary Jane voleva che lo faceste. Mi ha detto: «Di’ che mi salutino zio Harvey e zio William e gli diano un bacio e li avvertano che sono andata di tutta fretta oltre il fiume per parlare con il signor... il signor... » come si chiama quella ricca famiglia che vostro zio Peter teneva in tanta considerazione? Voglio dire quella che...

— Ah, vuoi dire gli Apthorp, vero? — Esattamente; accidenti a questi nomi! Non si riesce a ricordarli il più delle volte, per un motivo o per l’altro. Proprio, mi ha detto di dire che ha fatto una corsa dagli Apthorp per essere sicura che vengano all’asta e comperino questa casa, perché è convinta che zio Peter avrebbe preferito che l’avessero loro piuttosto che chiunque altro; e ha intenzione di insistere con loro finché non promettono di venire e allora, se non si sente troppo stanca, ritorna a casa; invece, se è stanca, sarà di ritorno domani mattina. Ha detto anche di non dire nulla sul conto dei Proctor, ma solamente degli Apthorp; e in fondo dice la pura verità perché ci va per convincerli a comperare la casa; io lo so, perché me l'ha detto lei personalmente. — Benissimo — dissero, e scomparvero per andare incontro agli zii, per portargli i saluti, i baci e il messaggio. Tutto era sistemato ormai. Le ragazze non avrebbero detto nulla perché volevano andare in Inghilterra; e il re e il duca certo preferivano che Mary Jane fosse lontana a lavorare per l’asta che fra i piedi e alla portata del dottor Robinson. Io mi sentivo molto bene; avevo l’impressione di essermela cavata abbastanza dignitosamente e pensavo che neanche Tom Sawyer avrebbe saputo far meglio. Naturalmente ci avrebbe messo più stile, cosa che a me non riesce troppo facile, per motivi di educazione. Be’, l’asta venne tenuta sulla pubblica piazza, verso la fine del pomeriggio, e andò avanti e andò avanti, e il vecchio era sempre presente e sembrava indaffarato, là accanto al banditore, e di tanto in tanto intercalava un versetto della Bibbia oppure qualche giaculatoria, mentre il duca era lì attorno a far gu-gu con la massima simpatia facendo quel che poteva. Ma ad un certo momento anche l’asta finalmente fini e tutto fu venduto. Tutto ad eccezione di un insignificante vecchio infimo lotto di terra al cimitero. Allora si volle vendere anche quello: non avevo mai visto in vita mia una giraffa come il re che voleva ingoiare tutto quanto. Bene, mentre erano occupati in quest’ultimo affare, attraccò un piroscafo e nel giro di due minuti si fece avanti una folla di gente che urlava e schiamazzava, rideva e cantava: — È arrivata la concorrenza! Ecco qua due serie di legittimi eredi del vecchio Peter Wiiks: soldi alla mano e fate la vostra scelta!

Parentele contestate - Il re spiega la perdita - Una questione di calligrafia - Tatuaggio - Il cadavere riesumato - Inutile fuga di Huck

Capitolo 29

Scortavano un vecchio signore dall’aspetto molto distinto e un altro più giovane anche lui molto distinto, con il braccio destro al collo. E per l’anima mia, come urlava la gente e come rideva e che chiasso faceva! Ma io non ci vedevo nulla di divertente e pensavo che anche il re e il duca si sarebbero divertiti poco. Immaginavo che sarebbero impalliditi, invece no, quei due non impallidirono affatto. Il duca non tradì neppure di sospettare che cosa stesse accadendo, ma continuava a fare gu-gu in giro felice e soddisfatto come una brocca nella quale incomincia a gorgogliare il siero; e in quanto al re, fissava desolato quei nuovi venuti come se gli venisse il mal di stomaco fin nel profondo al solo pensiero che potessero esistere al mondo imbroglioni e farabutti di tal genere. Oh, recitava in maniera ammirevole. Uno stuolo dei cittadini più ragguardevoli si raccolse intorno al re per dimostrargli che erano dalla sua parte. Quel vecchio signore appena arrivato sembrava meravigliato da morire. Ben presto incominciò a parlare e io mi resi conto immediatamente che aveva una pronuncia inglese, non come il re, sebbene come imitazione la sua fosse abbastanza buona. Io non sono in grado di riferire il discorso del vecchio signore e neppure riuscirei ad imitarlo; ma si rivolse attorno alla folla e disse pressappoco così: — Questa è per me una sorpresa che non mi aspettavo, e devo ammettere con tutta semplicità e franchezza che non sono affatto preparato a fronteggiarla e a controbatterla. Mio fratello ed io abbiamo avuto delle disavventure: lui s’è rotto il braccio e il nostro bagaglio è stato sbarcato per errore, l’altra sera, in una città più a monte di qui. Io sono Harvey, il fratello di Peter Wilks, e questo è suo fratello William, che non può né sentire né parlare, e non può nemmeno esprimersi troppo a segni adesso che gli rimane soltanto una mano per farne. Noi

siamo quelli che ho detto e fra un giorno o due, non appena riavremo il nostro bagaglio, potremo dimostrarlo. Ma, fino a quel momento, non voglio dire nient’altro; andrò all’albergo e aspetterò. Cosi lui e il nuovo sordomuto s’incamminarono. Il re scoppiò a ridere e prese a blaterare: — S’è rotto il braccio... molto verosimile, non è vero? E anche molto conveniente per un imbroglione che deve esprimersi a segni e non sa neppure da che parte si incomincia. Hanno perduto il bagaglio! È una splendida idea, e molto ingegnosa, date le circostanze! Quindi scoppiò a ridere di nuovo, e cosi fecero anche tutti gli altri, eccetto tre o quattro o al più forse una mezza dozzina. Uno di questi era il dottore; un altro era un signore dall’aria intelligente, con una sacca da viaggio di foggia antiquata, fatta con stoffa da tappeto, il quale era appena sceso dal piroscafo e stava parlando con il dottore a bassa voce. Guardavano di tanto in tanto dalla parte del re e poi insieme scuotevano il capo: si trattava di Levi Bell, l’avvocato, che tornava da Louisville. E un altro era un omaccione piuttosto rozzo, che si era avvicinato e aveva ascoltato quanto aveva detto il vecchio signore e adesso stava ascoltando il re. E quando questi ebbe terminato, l’omaccione si fece avanti e disse: — Ehi, voi, sentite qua; se siete Harvey Wilks, quando siete arrivato in questo paese? — Il giorno prima del funerale, amico — rispose il re. — Ma a che ora esattamente? — La sera, un’ora o due prima del tramonto. — E con che mezzo siete venuto? — Sono venuto sul Susan Powell da Cincinnati. — Be’, allora come facevate ad essere alla Punta quella mattina e in canoa? — Io non ero affatto alla Punta quella mattina.

— È falso. Parecchi del presenti lo rimbeccarono invitandolo a non parlare in quella maniera a un vecchio e per di più a un predicatore. — Predicatore un corno; quello è un truffatore e un bugiardo. Era su alla Punta quella mattina. Io abito là, vero? Bene, io ero là e c’era anche lui. L’ho visto con i miei occhi. Era venuto in canoa insieme con Tim Collins e un ragazzo. Allora s’intromise il dottore e domandò: — Potreste riconoscere il ragazzo se lo vedeste, Hines? — Credo di sì, ma non lo so. To’, è quel ragazzo laggiù. Lo riconosco perfettamente. Era me che indicava. Il dottore rispose: — Vicini, io non so se la nuova coppia siano dei ciurmatori o no, ma se non lo sono questi io sono un idiota, è tutto. Penso che sia nostro dovere vigilare in modo che non riescano a svignarsela finché non abbiamo visto chiaro in questa faccenda. Andiamo, Hines; e venite anche voialtri. Porteremo questi due tizi alla locanda, li mettiamo a confronto con l’altra coppia e credo che scopriremo qualcosa prima della fine. Era uno so per la folla, anche se forse non tanto per gli amici del re; quindi ci avviammo tutti insieme. Era quasi l’ora del tramonto. Il dottore mi condusse per mano; era molto gentile, però non mi lasciò la mano neanche un momento. Entrammo tutti in un’ampia sala dell’albergo; vennero accese delle candele e si mandò a chiamare la nuova coppia. Per primo parlò il dottore: — Io non voglio essere troppo duro con questi due uomini, ma sono convinto che sono due truffatori e può darsi che abbiano pure del complici di cui non sappiamo niente. Se li hanno davvero, non potrebbero questi complici andarsene via con quel sacchetto d’oro, lasciato da Peter Wilks? Non è improbabile. Se invece questi due non sono dei truffatori, non avranno nulla in contrario a mandare a prendere il denaro e a lasciarlo in custodia a noi finché non riescono a dimostrare che hanno ragione. Dico bene?

Tutti furono d’accordo, cosi io pensai che avevano già incastrato la nostra banda. Ma il re assunse soltanto un’aria ancor più contrita e disse: — Signori, vorrei davvero che il denaro ci fosse ancora, perché non sono affatto il tipo da ostacolare un’onesta, aperta, approfondita investigazione di questo increscioso affare; ma ahimè! il denaro non c’è più; potete mandare qualcuno a vedere, se volete. — E dov’è allora? — Be’, quando mia nipote me l’ha dato perché glielo custodissi, io l’ho nascosto nel saccone di paglia del mio letto, dato che non volevo versarlo in banca per quei pochi giorni che restavamo qui e pensavo che il letto fosse un posto sicuro, non essendo noi abituati ai negri e supponendoli onesti come i servitori in Inghilterra. I negri l’hanno rubato quella mattina stessa, non appena sono sceso a pianterreno. Quando li ho venduti non m’ero ancora accorto della scomparsa del denaro, per cui quelli se ne sono andati portandoselo via. Il mio servitore può dirvi come è stato, signori. Il dottore e parecchi altri esclamarono: — Fandonie! — e io vidi che non c’era nessuno che gli credesse. Un uomo mi domandò se io avevo visto i negri mentre lo rubavano. Io risposi di no, ma che li avevo visti uscire di soppiatto dalla stanza e non avevo pensato a nulla, soltanto che avessero paura di aver svegliato il mio padrone e cercassero di allontanarsi prima che lui li sgridasse. Quello fu quanto mi chiesero. Poi il dottore si girò di botto verso di me e disse: — Anche tu sei inglese? Io risposi di sì, cosi lui e gli altri scoppiarono a ridere e dissero: — Frottole! Bene, allora partirono a vele spiegate per un interrogatorio generale e noi dovemmo subirlo un’ora dopo l’altra, e nessuno mai parlava di cena e neppure sembravano pensarci, cosi continuarono senza tregua: ed era la matassa più intricata che si sia mai vista. Prima fecero raccontare al re la sua storia, poi la sua al vecchio signore; e chiunque, tranne una manica di imbecilli prevenuti, capiva subito che il vecchio signore sciorinava la verità e l’altro mentiva. Ben presto fecero raccontare anche a me quanto sapevo. Il re da parte sua mi lanciò un’occhiata sinistra con la coda dell’occhio e io ne seppi abbastanza su come dovevo parlare. Incominciai a raccontare di Sheffield e di come ci si viveva e chi

erano i Wilks inglesi e così via, ma non ero andato troppo avanti quando il dottore si mise a ridere, e Bell, l’avvocato, mi disse: — Siediti, ragazzo mio; io non farei uno sforzo simile se fossi in te. Credo che tu non sia troppo abituato a raccontare balle e non sembra che ti vengano con facilità; ti manca l’esercizio. Sei piuttosto goffo. Il complimento non mi fece né caldo né freddo, tuttavia ero molto contento di essere lasciato in pace. Il dottore fece per dire qualcosa, si volse e disse: — Se foste stato in città fin dall'inizio, Levi BeliMa il re lo interruppe e allungando la mano disse: — Perbacco, questo signore sarebbe il vecchio amico del mio povero fratello, di cui mi scriveva così spesso? L’avvocato gli strinse la mano sorridendo compiaciuto e poi si misero a chiacchierare per un po’, quindi si fecero da parte e parlottarono sottovoce. Alla fine l’avvocato si fece avanti e disse: — Questo risolverà tutto. Prenderò l’ordine e lo manderò insieme a quello di vostro fratello e allora sapranno che tutto è a posto. Cosi fecero portare carta e penna e il re si sedette, piegò la testa da un lato, si morse la lingua e scarabocchiò qualcosa; poi diedero la penna al duca, e per la prima volta il duca parve sentirsi male. Però, prese la penna e scrisse. Poi l’avvocato si volse verso il nuovo vecchio signore e gli disse: — Voi e vostro fratello, per cortesia, scrivete una riga o due e poi mettete la vostra firma. Il vecchio signore scrisse qualcosa, ma nessuno riusciva a leggere. L’avvocato parve assai stupito e disse: — Be’, questo è troppo per me — e cavò fuori di tasca un fascio di vecchie lettere e le esaminò, poi tomo ad esaminare la scrittura del vecchio signore e poi ancora le lettere. Quindi disse:

— Queste vecchie lettere sono di Harvey Wilks; qui ci sono queste due calligrafie e chiunque può vedere che nessuno di questi signori ha scritto le lettere — (il re e il duca rimasero li come due ebeti, ve l’assicuro, quando s’accorsero di come li aveva giocati l’avvocato) — qui c’è anche la calligrafia di questo vecchio signore e chiunque può dire, abbastanza facilmente, che le lettere non le ha scritte neppure lui: infatti gli scarabocchi che traccia non si possono chiamare neppure scrittura. Ora qui ci sono delle lettere di... Il nuovo vecchio signore lo interruppe: — Vi prego, lasciate che vi spieghi. Nessuno riesce a leggere la mia scrittura tranne mio fratello qui presente, perciò è lui che ricopia quel che scrivo. Le lettere sono di sua mano e non della mia. — Bene! — disse l’avvocato — è già qualcosa. Io ho anche qualche lettera di William; perciò se volete fargli scrivere una riga o due noi possiamo confrontare... — Ma non può scrivere con la mano sinistra — disse il vecchio signore. — Se potesse usare la mano destra, potreste constatare che ha scritto le sue lettere e anche le mie. Confrontatele, per favore: sono della stessa mano. L’avvocato così fece e quindi osservò: — Credo che sia come dite voi, e se non lo è, comunque vi è una rassomiglianza ben maggiore di quanto io abbia notato prima. Bene, bene, bene! Credevo che fossimo finalmente sulla via di una soluzione, ma tutto è andato all’aria, almeno in parte. In ogni modo una cosa è chiara: questi due non sono dei Wilks, né l’uno, né l’altro — e accennò con il capo verso il re e il duca. Be’, che cosa credete? Quel vecchio imbecille dalla testa di mulo non volle ancora arrendersi. Non ne aveva la minima intenzione. Incominciò a dire che la prova non era onesta, che suo fratello William era il più dannato burlone del mondo e aveva scritto male apposta: lui aveva capito subito che William stava per giocare uno dei suoi tiri fin dal momento che aveva messo la penna sul foglio. Si scaldò e continuò a parlare fino ad essere convinto realmente di quello che stava dicendo, ma ben presto il vecchio signore lo interruppe: — Ho pensato una cosa. Qualcuno qui ha aiutato a comporre mio fr... a comporre il defunto Peter Wilks per la sepoltura?

— Si — rispose qualcuno — l’abbiamo fatto io e Ab Tumer. E siamo qui tutt’e due. Allora il vecchio signore si volta verso il re e dice: — Forse questo signore mi sa dire che cosa aveva tatuato sul petto? Che sia dannato se il re non fu costretto a fronteggiare il nuovo colpo a tutta velocità, altrimenti sarebbe sprofondato come una riva che il fiume ha scavato di sotto, perché fu colto così all’improvviso! E badate bene che era una mossa calcolata per far sprofondare chiunque, una domanda cosi scabrosa lanciata senza il minimo preavviso. Come faceva a sapere che cosa era tatuato su quell’uomo? Impallidì un poco, non poté evitarlo; c’era un silenzio tombale, tutti erano protesi verso di lui e lo fissavano. Io dico fra me: adesso getta la spugna... è inutile continuare. Be’, credete che si dia per vinto? Quasi non riesco a crederlo, ma lui tenta ancora. Immagino che stia pensando di tirare in lungo le cose finché quella gente si stanchi e si diradi, in modo che lui e il duca possano sfuggire alla sorveglianza e darsela a gambe. Invece se ne rimase tranquillamente seduto, incominciò a sorridere e disse: — Mm! questa è una domanda difficilissima, vero? Ma certo, signore, che vi so dire cosa c’è tatuato sul suo petto. È una pic- oola, sottile freccia blu: ecco che cosa c’è; e se non si guarda da vicino, non la si vede. E adesso che cosa mi rispondete, eh? Be’, non ho mai incontrato nessuno che batta per faccia tosta quel vecchio cialtrone. Il nuovo vecchio signore si volse rapido verso Ab Tumer e il suo compagno, e i suoi occhi mandavano scintille come se fosse convinto di avere in pugno il re, questa volta, e disse: — Ecco... avete sentito che cosa ha detto! C’era forse un segno di quel genere sul petto di Peter Wilks? Tutt’e due parlarono insieme: — Non abbiamo visto nessun segno del genere. — Bene — disse il vecchio signore. — Ora, quello che gli avete visto sul petto

era una piccola P, una B (che era l’iniziale del secondo nome a cui aveva rinunciato fin da ragazzo), e una W, con un trattino fra l’una e l’altra, cosi: P-BW — e le scrisse in quella maniera su un pezzetto di carta. — Dite, non è questo che avete visto? Parlarono ancora tutt’e due insieme e dissero: — No, non l’abbiamo visto. Non abbiamo visto tatuaggi di nessun genere. Bene, tutti erano ormai parecchio eccitati e si misero a gridare: — Sono tutti una manica di farabutti! Buttiamoli in acqua! Affoghiamoli! Mettiamoli a cavallo di una trave! — e tutti sbraitavano insieme, e c’era un fracasso indiavolato. Ma l’avvocato salta in piedi sul tavolo urlando: — Signori! Ma signori! Ascoltatemi un attimo... un attimo soltanto, per favore! C’è ancora un mezzo: andiamo a riesumare la salma e vediamo. Questo li convinse. — Urrah! — gridarono tutti e stavano già per avviarsi; ma l’avvocato e il dottore urlarono: — Fermi! Fermi tutti! Prendete tutti e quattro questi uomini e il ragazzo e portateveli dietro! — Sicuro! — urlarono tutti. — Se non troviamo quei segni, linciamo l’intera banda! Ero terrorizzato, adesso, ve l’assicuro. Ma non c’era via di scampo. Ci afferrarono tutti e ci fecero marciare con loro, diritti al cimitero, che si trovava tre chilometri più a valle in riva al fiume, e tutto il paese si era accodato perché si faceva un baccano della malora ed erano soltanto le nove di sera. Proseguimmo lungo la strada del fiume come un branco scatenato e, per rendere lo spettacolo ancor più terrificante, il cielo s’andò rapidamente riempiendo di nubi e i lampi incominciarono a guizzare e il vento a urlare attraverso il fogliame. Era il guaio più terribile e anche il più pericoloso nel quale mi fossi mal trovato e mi sentivo come inebetito. Tutto aveva preso una piega così diversa da come avevo previsto; invece di trovarmi in condizione di prendermela

con comodo, e di godermi lo spettacolo e avere Mary Jane alle spalle, pronta a salvarmi e a liberarmi quando fosse venuta la stretta finale, ecco che non c’era nulla che si potesse frapporre fra me e la morte tranne che quei segni tatuati sul petto. E se non li avessero trovati... Non riuscivo a tollerare un pensiero del genere; eppure, in qualche modo, non riuscivo a pensare che a quello. Si faceva sempre più buio ed era il momento ideale per svignarmela, ma quell’omaccione nerboruto - Hines - mi teneva per il polso e tanto valeva tentar di dare lo sgambetto al gigante Golia. Mi trascinava avanti ed era talmente eccitato che io dovevo correre per stargli al o. Quando arrivarono ai cimitero, vi sciamarono dentro tutti insieme e lo invasero come un fiume in piena. E come giunsero alla tomba si accorsero che avevano almeno cento volte più badili di quel che serviva, ma nessuno aveva pensato di portare una lanterna. Ma si misero ugualmente a scavare al bagliore dei lampi e mandarono un uomo alla casa più vicina, distante almeno mezzo chilometro, a prenderne una. Cosi scavarono e scavarono come degli invasati; l’aria si fece terribilmente nera, e prese a scrosciare la pioggia, il vento urlava e i lampi si facevano sempre più fitti, i tuoni scoppiavano ma quella gente non se ne accorgeva neppure, tanto erano presi nella faccenda; per un attimo si poteva vedere ogni particolare e distinguere le facce in quella marea di gente e le palate di terra che volavano fuori dalla fossa; il momento successivo l’oscurità cancellava tutto e non si vedeva letteralmente nulla. Finalmente tirarono su la bara e cominciarono a svitare il coperchio; allora tutti s’accalcarono con spinte e gomitate per arrivare a dare un’occhiata: una cosa simile, nell’oscurità, è terribile. Hines quasi mi spaccò il polso, tirando e spingendo, e credo che avesse del tutto dimenticato la mia presenza al mondo, tanto era eccitato e ansante. Tutt’a un tratto un fulmine fece cadere una perfetta sciabolata di luce bianca e qualcuno urlò: — Corpo di bacco, ha sul petto la borsa dell’oro! Hines lancia un urlo, come tutti gli altri, mi lascia andare il polso e dà un violento spintone per farsi avanti e guardare anche lui, e il modo in cui io schizzai via e infilai la strada al buio non c’è nessuno che lo possa raccontare.

Avevo tutta la strada per me e quasi volavo, o almeno l’avrei avuta tutta per me se non ci fossero stati la densa oscurità, i bagliori improvvisi, lo scrosciare della pioggia, l’urlo del vento e gli schianti del tuono; e, quant’è vero che sono al mondo, filavo come se avessi le ali ai piedi! Quando raggiunsi il paese, m’accorsi subito che non c’era nessuno fuori nella tempesta, perciò non mi misi neppure a cercare strade secondarie, ma imboccai diritto la via principale, e quando arrivai vicino alla nostra casa aguzzai lo sguardo. Non c’era nessuna luce; tutta la casa era immersa nel buio, il che mi diede un senso di tristezza e di delusione, che non sapevo spiegarmi. Ma all’ultimo momento, proprio mentre la stavo superando, ecco apparire una luce alla finestra di Mary Jane! Il mio cuore all’improvviso si gonfiò, e sembrava scoppiare, ma in quel medesimo istante la casa era già dietro di me, nell’oscurità, e non l’avrei mai più rivista in questo mondo. Era davvero la più bella ragazza che abbia incontrato e anche la più in gamba di tutte. Non appena fui abbastanza lontano dalla città per capire che ce l’avrei fatta ad arrivare all’isolotto, incominciai a guardare con attenzione se ci fosse una barca da prendere in prestito; e quando un lampo me ne mostrò una che non era assicurata con la catena, ci balzai dentro e remai a tutta forza. Si trattava di una canoa, legata solo con una corda. L’isolotto era ad una distanza tremenda, laggiù nel mezzo del fiume, ma io non persi tempo; e quando toccai la zattera ero così sfinito che avrei voluto soltanto sdraiarmi a riprendere flato, se avessi potuto permettermelo. Ma non lo feci. Come saltai a bordo, gridai: — Jim, vieni fuori e slega la zattera! Se Dio vuole, ci siamo liberati di quei due. Jim saltò fuori e mi venne incontro con le braccia aperte, tanto era pieno di gioia, ma quando me lo vidi dinanzi al bagliore d’un lampo, mi sentii il cuore in gola e caddi all’indietro nell’acqua: m’ero del tutto dimenticato che era un ibrido fra il vecchio Re Lear e un arabo affogato e dallo spavento quasi mi prese un colpo. Jim mi ripescò e stava per abbracciarmi e coprirmi di benedizioni e via dicendo tanto era contento che io fossi ritornato e ci fossimo sbarazzati del re e del duca, ma io gli dissi: — Non adesso... aspetta domattina, domattina. Taglia la corda e filiamo! Cosi, nel giro di due secondi, eravamo partiti e filavamo sicuri sul fiume; era così bello essere di nuovo liberi e soli sul grande fiume, senza nessun altro che ci

desse noia. Io fui costretto a muovermi, a fare due salti e a battere i talloni un po’ di volte, perché non riuscivo a stare fermo; ma forse era la terza volta che battevo i piedi, quando notai un rumore che conoscevo molto bene... trattenni il fiato, tesi l’orecchio e aspettai... Eh si, al primo lampo che balenò sull’acqua, li vidi arrivare! Pigiavano con tanta forza sui remi che facevano fischiare la barca! Erano proprio il re e il duca.

Allora mi lasciai cadere sul tavolato e mi arresi; ed era tutto quello che potevo fare per non mettermi a piangere.

Il re salta addosso a Huck - Zuffa regale - Una solenne sbronza

Capitolo 30

Non appena furono a bordo, il re mi saltò addosso, mi prese per il collo e mi disse: — Cercavi di piantarci in asso, eh, marmocchio? Stanco della nostra compagnia, eh? — No, Maestà — risposi — non avevamo questa intenzione... vi prego, lasciatemi, Maestà! — E allora sbrigati, raccontami che idea avevi, o ti faccio a pezzettini. — Parola d’onore, vi dirò tutto, proprio com’è successo, Vostra Maestà. L’uomo che mi teneva per la mano è stato molto buono con me e continuava a ripetere che aveva un ragazzo grande pressappoco come me, che è morto l’anno scorso, e gli dispiaceva vedere un ragazzo in una situazione cosi pericolosa; e quando tutti sono rimasti sbalorditi nel vedere il sacchetto dell’oro e si sono precipitati verso la bara, quello mi lascia andare e mi sussurra: «Adesso scappa altrimenti t’impiccano di sicuro! ». E io me la sono svignata. Non mi sembrava conveniente fermarmi là, non potevo fare niente per voi e non ci tenevo a farmi impiccare, visto che potevo tagliare la corda. Cosi non ho smesso di correre finché non ho trovato la canoa e quando sono arrivato qui ho detto a Jim di far presto, altrimenti mi prendevano e m’impiccavano. E ho detto anche che temevo che voi e il duca non foste più vivi ormai, e che mi dispiaceva tanto e anche a Jim dispiaceva e sono stato molto contento quando vi ho visti arrivare, potete chiederlo a Jim se non ero contento. Jim confermò; e il re gli disse di chiudere il becco e commentò: — Oh, certo, è

molto probabile! —e mi diede un’altra scrollata dicendo che aveva una gran voglia di affogarmi. Ma il duca gli disse: — Lasciate stare il ragazzo, vecchio idiota! Voi avreste fatto diversamente? Avete chiesto di lui in giro quando siete riuscito a liberarvi? Io non me lo ricordo. Cosi il re mi lasciò stare e incominciò a maledire quel paese e tutti quelli che ci abitavano. Ma il duca disse: — Fareste molto ma molto meglio a maledire voi stesso, perché siete quello che se lo merita di più. Fin dall’inizio, non avete fatto una sola cosa che avesse un senso, tranne quando siete uscito, fresco e tranquillo, con la trovata di quell'immaginario tatuaggio della freccia blu. Quella è stata un’idea brillante, proprio di prim’ordine; ed è stata quella che ci ha salvato. Perché se non fosse stato per quella ci mettevano in gattabuia finché non arrivavano le valigie di quegli inglesi... e poi il penitenziario, puoi scommetterci! Ma quel trucco li ha portati al cimitero e l’oro ci ha fatto una gentilezza anche maggiore, perché se quegli idioti non si scaldavano tanto e non lasciavano la presa per riuscire a dare un’occhiata, noi questa sera dormivamo con la cravatta al collo, una cravatta garantita all’uso e che dura di più di quel che serve. Rimasero zitti un minuto, assorti nei loro pensieri, poi il re disse, con tono assente: — Già, e noi pensavamo che l’avessero rubato i negri! Questo mi fece sobbalzare. — Proprio — disse il duca, lentamente e volutamente con sarcasmo — l’abbiamo pensato. Circa mezzo minuto dopo, il re brontolò: — Almeno, io lo credevo. E il duca sullo stesso tono: — Al contrario, ero io che lo credevo. Il re s’irritò alquanto e disse:

— Sentite, Acquaspanta, a che cosa volete alludere? Il duca rispose con una certa vivacità: — Se si arriva a questo punto, lasciate che lo chieda io, a che cosa volete alludere. — Che stupidaggini! — disse il re molto sarcastico — io non lo so, forse eravate addormentato e non sapevate quello che stavate facendo. il duca adesso si scalda per davvero e ribatte: — Oh, lasciate perdere queste maledette idiozie; mi avete preso per un perfetto imbecille? Credete che io non sappia chi ha nascosto quel denaro nella bara? — Sicuro, signore! Lo so che voi lo sapete... perché siete stato voi in persona! — È falso! — E il duca gli saltò addosso. Il re allora gridò: — Giù le mani!... Non mi soffocate!... Ritiro tutto! il duca disse: — Be’, allora ammettete che siete stato voi a nascondere quel denaro nella bara con l’intenzione di piantarmi uno di questi giorni, per ritornare indietro, dissotterrarlo e intascarlo tutto voi. — Aspettate un momento, duca, e rispondete voi a una mia sola domanda con tutta sincerità; se non siete stato voi a mettere là il denaro ditelo, e io vi crederò e ritirerò tutto quello che ho detto. — Vecchio farabutto, non sono stato io, e lo sapete benissimo. E adesso fuori il resto! — Bene, adesso vi credo. Ma datemi ancora un’altra risposta, e senza infuriarvi: proprio non vi è mai ato per il cervello di sgraffignare il denaro e nasconderlo? i! duca per un po’ non disse nulla, poi rispose:

— Be’, non importa se ho avuto quell’idea; comunque non l’ho fatto. Ma voi non soltanto avete avuto l’idea, l’avete anche fatto. — Vorrei morire qui dove sono se l’ho fatto, duca, e vi do la mia parola. Non dico che non avevo quell’intenzione, perché effettivamente l’ho avuta, ma voi... voglio dire qualcuno... è arrivato prima di me. — Bugiardo! L’avete fatto voi e dovete ammetterlo, altrimenti... Il re incominciò a gorgogliare e poi disse con voce strozzata: — Basta!... Lo ammetto! Fui molto lieto di sentirglielo dire, mi fece sentire molto meglio. Cosi il duca gli tolse le mani di dosso e disse: — Se negate ancora vi affogo. Fate bene a stare li a piagnucolare come un bambino, vi si addice, dopo quello che avete combinato. Non ho mai visto un pescecane come voi che non si stanca mai di ingoiar roba. E io che mi fidavo ciecamente di voi, quasi foste mio padre. Avreste dovuto vergognarvi di voi stesso: stare li a sentire che danno la croce addosso a dei poveri negri senza dire una sola parola in loro difesa. Mi sento ridicolo se penso che sono stato cosi stupido da credere a quella panzana. Maledetto! Adesso capisco perché eravate cosi ansioso di colmare il deficit: volevate metter le mani anche sul denaro che io avevo fatto con il Camelopardo e in un modo o nell’altro intascarlo tutto voi! Il re allora, timido e piagnucoloso, disse: — Ma, duca, siete stato voi a suggerire di colmare il deficit, non io. — Chiudete il becco! Non voglio più sentire una sola parola da voi! — disse il duca. — E adesso pensate a quello che ci avete ricavato. Tutti hanno riavuto il loro denaro e anche tutto il nostro, per giunta, salvo pochi spiccioli. Andatevene a dormire e non mi parlate più di deficit finché campate! Cosi il re sgusciò nel capanno e cercò conforto nella sua bottiglia; e non ò molto che anche il duca s’attaccò alla sua bottiglia e quindi in meno di mezz’ora erano di nuovo intimi come due ladri e quanto più diventavano sbronzi tanto più diventavano affettuosi, e alla fine si misero a russare l’uno nelle braccia dell’altro. Tutt’e due s’erano potentemente ubriacati, tuttavia notai che il re non

era cotto a tal punto da dimenticare che non doveva più negare di aver nascosto il sacchetto del denaro. E questo mi fece sentire tranquillo e soddisfatto. Naturalmente, non appena si misero a russare, feci una bella chiacchierata con Jim e gli raccontai tutto.

Piani segreti - Jim scomparso - Notizie di Jim - Vecchi espedienti - La storia del montone - Informazioni preziose - La campagna

Capitolo 31

Per giorni e giorni non ci fermammo in nessun paese; sempre giù in mezzo al fiume. Ormai ci trovavamo nel cuore del Sud, in clima caldo, e ad un’immensa distanza da casa. Incominciammo a notare alberi coperti di muschio filoso, che pendeva dai rami simile a lunghe barbe grigie. Era la prima volta che lo vedevo e conferiva al bosco un aspetto solenne e lugubre. Perciò i due imbroglioni ormai pensavano di essere fuori pericolo e cominciarono daccapo a lavorarsi i piccoli villaggi. Per prima cosa tennero una conferenza contro l’alcoolismo, ma non ci guadagnarono neanche abbastanza per farsi una sbornia. Poi in un villaggio aprirono una scuola di danza: ma non sapevano danzare più di un canguro; quindi al primo o che tentarono tutto il pubblico saltò su e li scaraventò fuori del paese. Un’altra volta tentarono di fare una farsa, ma non ebbero il tempo di ridere troppo perché tutto il pubblico saltò su, li copri d’improperi e li spedi a gambe levate. Si diedero a fare i missionari, gli ipnotizzatori, si trasformarono in medicastri, in indovini, insomma le tentarono proprio tutte, ma pareva che la fortuna gli avesse voltato le spalle. Cosi alla fine erano rimasti al verde e ciondolavano per la zattera, che continuava a navigare, pensando e ripensando senza dire mai nulla per delle mezze giornate, terribilmente depressi e disperati. Finalmente mutarono atteggiamento e incominciarono a starsene insieme nel capanno, a discutere a voce bassa, in segreto, per due o tre ore di seguito. Jim ed io ci sentivamo inquieti. Non ci piaceva affatto la nuova piega. Pensavamo che andassero escogitando qualche diavoleria peggiore delle altre. Ne parlammo a lungo e alla fine giungemmo alla conclusione che intendevano andare a rubare in

qualche casa o in qualche negozio, oppure volevano stampare banconote false, o cose del genere. Cosi eravamo spaventati e ci mettemmo d’accordo che non si doveva aver niente a che fare con imprese di questo tipo e che, appena avessimo avuto l’occasione buona, si doveva piantarli e filare via, lasciandoli al loro destino. Un mattino presto nascondemmo la zattera in un posto sicuro, circa tre chilometri a valle di un minuscolo misero villaggio, chiamato Pikesville, e il re scese a terra dopo averci raccomandato di starcene nascosti mentre lui andava in paese per fiutare se qualcuno anche là avesse già sentito parlare del Camelopardo deI Re. « Una casa da ripulire, volete dire » osservo dentro di me « e quando avrete finito di rubare tornerete qui e vi domanderete che cosa ne è di me, di Jim e della zattera, e dovrete accontentarvi di domandarvelo. » E disse che se non era di ritorno per mezzogiorno, il duca e io dovevamo capire che tutto era a posto e raggiungerlo in paese. Cosi noi restammo dove eravamo. Il duca non stava in pace un minuto, sudava ed era di cattivo umore. Inveiva contro di noi per qualunque cosa e sembrava che non sapessimo fare nulla decentemente; trovava da ridire per ogni inezia. Certo qualcosa bolliva in pentola. Io fui contento e beato quando arrivò mezzogiorno e il re non comparve; c’era per noi la possibilità di un cambiamento, in qualche modo, e forse di un cambiamento definitivo. Cosi io e il duca ci avviammo verso il villaggio e ci mettemmo alla ricerca del re. Dopo un bel po’ lo trovammo nella saletta intema di una piccola locanda scalcinata, completamente sbronzo e con un nugolo di sfaccendati attorno che lo prendevano in giro per divertirsi, e lui che imprecava e minacciava con quanto fiato aveva, ed era cosi sbronzo che non riusciva neanche a stare in piedi e tanto meno a far male a qualcuno. Il duca incominciò a inveire e a dargli del vecchio rimbambito e il re incominciò a rispondergli per le rime. Non appena li vidi scaldati, sgusciai fuori, me la diedi a gambe e filai come un cervo verso il fiume, perché vedevo che quella era l’occasione; avevo deciso che ne doveva are di tempo prima che quei due potessero rivedere la mia faccia e quella di Jim. Arrivai alla zattera senza flato ma pieno di gioia e urlai: — Slegala, Jim, che siamo a posto ormai! Ma non ci fu risposta e nessuno usci del capanno. Jim era scomparso! Lanciai un urlo e poi un altro e poi un altro ancora; e mi misi a correre da una parte e dall’altra del bosco, gridando e strillando; ma tutto fu inutile: il vecchio Jim se n’era andato, scomparso. Allora caddi a sedere per terra e piansi; non potei fame a meno. Ma non potevo starmene lì seduto per molto. Ben presto ritornai sulla strada, cercando di pensare che cosa era meglio fare. Incontrai un ragazzo che camminava e gli domanda! se avesse visto uno strano negro, vestito cosi e cosi, e

lui rispose: — Si. — E da che parte? — chiedo io. — Laggiù vicino alla casa di Silas Phelps, tre chilometri più a valle. E un negro scappato e l’hanno ripreso. Anche tu lo stavi cercando? — Certo che no. L’ho incontrato nel bosco un paio d’ore fa e mi ha detto che se mi mettevo a gridare mi sbudellava, e mi ha obbligato a distendermi per terra senza muovermi, e lo ho obbedito. Sono rimasto là fermo fino adesso; avevo paura di venir fuori. — Be’ — fa lui — non devi più aver paura perché ormai l’hanno preso. Era scappato da qualche parte laggiù, nel Sud. — Hanno fatto un bel lavoro quelli che l’hanno preso. — Be’, credo proprio di si! C’era una taglia di duecento dollari sulla sua testa. È come raccattare soldi per la strada. — Proprio, e dire che potevo prenderli io quei soldi se ero grande abbastanza; l’ho visto io per primo. Chi è stato ad acciuffarlo? — Un vecchio tipo, un forestiero, e ha venduto il suo diritto sul negro per quaranta dollari, perché deve risalire il fiume e non può aspettare. Pensa un po’! Puoi star certo che io aspettavo, a costo d’aspettare sette anni. — Lo stesso io — dissi. — Ma forse i suoi diritti non valgono di più, se l’ha venduto per cosi poco. Forse c’è qualcosa di poco chiaro nella faccenda. — Invece no, è tutto chiaro come il giorno. Ho visto il foglio lo stesso. Descrive il negro fin nelle rughe; lo dipinge come un quadro e dice da quale piantagione è scappato, laggiù a New Orleans. No, caro mio, non c’è nessun rischio in quella speculazione, te lo dico io. Ehi, dammi un po’ di tabacco, ce l’hai? Io non ne avevo, cosi quello se n’andò. Me ne tomai alla zattera e mi sedetti nel capanno a pensare. Ma non riuscii a concludere nulla. Continuai a pensare finché mi girò la testa, ma non trovavo nessuna via d’uscita. Dopo tutto questo lungo

viaggio e dopo tutto quello che avevamo fatto per quei farabutti, ecco che eravamo arrivati a zero, tutto saltato per aria, tutto rovinato, perché avevano avuto il coraggio di giocare un tiro simile a Jim, costringendolo daccapo alla schiavitù per tutto il resto della vita, e per di più fra estranei, e tutto per quaranta sporchi dollari. Mi dissi che se Jim doveva essere schiavo, era mille volte meglio per lui se lo era a casa dove c’era tutta la sua famiglia, e quindi era meglio scrivere una lettera a Tom Sawyer perché dicesse alla signorina Watson dov’era. Ma presto rinunciai a quell’idea per due motivi: lei certo sarebbe stata furiosa e disgustata per la furfanteria e l’ingratitudine di Jim di averla lasciata e perciò l’avrebbe venduto Immediatamente in qualche posto giù lungo il fiume; e se non l’avesse venduto, poiché tutti naturalmente disprezzano un negro ingrato, gliel’avrebbero fatto pesare ad ogni momento e cosi lui si sarebbe sentito avvilito e disgraziato. E poi pensate a me! Si sarebbe detto dappertutto che Huck Finn aveva aiutato un negro a guadagnare la libertà, e se mai incontravo qualcuno di quella città, io sarei stato pronto a mettermi in ginocchio e a leccargli gli stivali dalla vergogna. Ecco cosa succede: uno fa una cosa bassa e poi non vuole portarne le conseguenze. Finché la può tener nascosta, pensa che non c’è disonore. Quella era esattamente la mia posizione. Quanto più ci pensavo, tanto più mi rimordeva la coscienza e mi sentivo malvagio, abbietto e spregevole. Infine, quando d’un tratto mi resi conto che era stata evidentemente la mano della Provvidenza a prendermi a sberle in faccia e a farmi capire che la mia malvagità era stata osservata senza tregua da lassù in cielo, mentre io mi permettevo di portar via il negro a una povera vecchia che non m’aveva mai fatto niente di male, e ora mi dimostrava che c’è Uno che sta sempre in guardia e non permette che certe mascalzonate vadano oltre certi limiti, io per poco non caddi a terra, tanta fu la paura. Be’, allora feci del mio meglio per cercare delle attenuanti, dicendo che ero stato tirato su male e perciò non ero tanto da biasimare; ma qualcosa dentro di me continuava a ripetere: « C’era la scuola di religione e tu potevi benissimo andarci; e se ci fossi andato avresti imparato anche tu che la gente che si comporta in questo modo con un negro va a finire nel fuoco eterno». Era un pensiero che mi metteva i brividi. Volevo quasi quasi mettermi a pregare per vedere se riuscivo a smettere di essere il tipo di ragazzo che ero e a diventare migliore. Cosi mi inginocchiai. Ma le parole non volevano venire. Perché non venivano? Era inutile cercare di nascondere la verità a Lui. E anche a me stesso. Sapevo perfettamente perché non mi venivano. Era perché il mio cuore non era a posto; era perché non ero onesto; era perché stavo facendo il doppio gioco, lo

stavo fìngendo di pentirmi dei peccati, ma in fondo, dentro di me, m’aggrappavo al più grosso di tutti. Io volevo costringere la mia bocca a dire che avrei fatto la cosa giusta, la cosa pulita, cioè che sarei andato a scrivere alla proprietaria di quel negro per dirle dove si trovava; ma nel profondo del mio animo sapevo che era una menzogna e Lui lo sapeva. Non si può pregare con delle menzogne, lo scoprii allora. Ero talmente turbato che di più non potevo, e non sapevo che fare. Finalmente ebbi un’idea; andrò a scrivere la lettera, mi dico, e poi voglio vedere se riesco a pregare. Be’, fu una cosa sbalorditiva: immediatamente mi sentii leggero come una piuma e tutti i miei affanni erano scomparsi d’incanto. Quindi presi un pezzetto di carta e una matita e, tutto contento ed eccitato, mi misi a sedere e scrissi: « Signorina Watson, il vostro negro fuggitivo Jim si trova quaggiù, tre chilometri a valle di Pikesvllle e il signor Phelps l’ha preso e ve lo riconsegnerà dietro pagamento della taglia se voi la mandate. Huck Finn ». Io mi sentii bene e pulito dei peccati per la prima volta in vita mia e capii che adesso potevo pregare. Ma non incominciai subito; misi giù il pezzetto di carta e rimasi a pensare, a pensare come era bene che tutto fosse accaduto in quel modo e come ero andato vicino ad essere perduto per sempre e scaraventato nell'infemo. E continuai a pensare. Riandai al nostro viaggio sul fiume e rividi Jim, in qualsiasi momento, di giorno, di notte, talvolta al chiaro di luna e talvolta nella tempesta e noi che continuavamo a navigare e si chiacchierava e si cantava e si rideva. Ma chissà perché sembrava che non riuscissi a trovare spunti per pensare male di lui, ma solo per il contrario. Lo rividi che si fermava di guardia anche per me, invece di chiamarmi, perché io potessi continuare a dormire; e rividi la sua gioia quando mi salvai dalla nebbia e quando ritornai da lui nella palude, lassù dove c’era la faida, e altri momenti simili. E lui mi chiamava tesoro e m’accarezzava, e faceva tutto quello che riusciva ad immaginare per me, e quanto buono era sempre. Infine mi venne in mente quella volta che lo salvai dicendo a quegli uomini che avevamo il vaiolo a bordo e lui mi fu cosi riconoscente e disse che io ero il migliore amico che il vecchio Jim avesse mai avuto al mondo e l’unico che avesse in quel momento; e allora per caso alzai gli occhi per guardarmi attorno e vidi quel pezzetto di carta. Ero in un vicolo cieco. Raccolsi il foglietto e lo tenni in mano. Tremavo come

una foglia perché era giunto il momento di decidere una volta per tutte fra le due cose e io lo sapevo. Ci studiai sopra un attimo quasi trattenendo il respiro e poi mi dissi: « E va bene, allora andrò all’inferno » e quindi strappai il foglietto. Erano pensieri tremendi e parole tremende, ma erano state pronunciate. E le lasciai pronunciate com’erano e non pensai neppure di modificarle. Mi scacciai dalla mente l’intera faccenda e dissi che mi sarei rimesso a fare il cattivo, che era la mia linea, essendoci stato allevato, mentre l’altra non lo era. E tanto per cominciare, mi sarei messo a lavorare per sottrarre Jim alla sua schiavitù ancora una volta, e se avessi potuto escogitare qualcosa di peggio avrei fatto anche quello, perché dato che c’ero dentro, e dentro per sempre, tanto valeva che andassi fino in fondo. Poi cominciai a pensare come raggiungere il mio scopo e nella mia mente ai in rassegna molti modi; finalmente stabilii un piano che m’andava bene. Cosi studiai la posizione di un’isoletta boscosa che si scorgeva sul fiume e non appena si fece abbastanza buio spinsi fuori la zattera, mi diressi verso l’isola, mi ci nascosi e poi mi misi a dormire. Dormii tutta la notte e mi alzai prima dell’alba, feci colazione, m’infilai i miei abiti migliori, altri li legai in un fagotto con diverse cosucce, presi la canoa e mi diressi verso la riva. Sbarcai più a valle di dove pensavo che fosse la fattoria dei Phelps, nascosi il mio fagotto nel bosco, riempii d’acqua la canoa, la caricai di pietre e l’affondai in un punto dove potevo ritrovarla quando volessi, circa mezzo chilometro a valle di una piccola segheria che si trovava sulla sponda. Poi m’incamminai per la strada e quando ai davanti alla segheria vidi un’insegna, Segheria Phelps, e quando giunsi davanti alle case della fattoria, due o trecento metri più in là, tenni gli occhi bene aperti ma non vidi nessuno in giro, sebbene ormai fosse giorno. Ma non me ne curai perché non volevo vedere nessuno per il momento, ma solo farmi un’idea di quella zona. Secondo il mio piano, io volevo arrivare dai Phelps dal paese e non da sotto. Cosi diedi solo un’occhiata e proseguii dritto verso il paese. Appena arrivato, il primo uomo che vidi era il duca. Stava attaccando un manifesto per il Camelopardo de! Re - una rappresentazione di sole tre sere - come l’ultima volta. Che faccia di bronzo quei mascalzoni! Gli vado a finire proprio addosso prima di riuscire a scansarlo. Parve molto meravigliato e mi disse:

— Salve! Di dove arrivi? — Poi aggiunse fra il contento e l’ansioso: — Dov’è la zattera? Sistemata in un buon posto? Io rispondo: — Come? È proprio quello che volevo domandare a Vostra Grazia. Perse ogni allegria e disse: — Che idea è la tua di domandarlo a me? — Be’ — dico io — quando ho visto il re in quelle condizionl, ieri, mi sono detto che non si riusciva certo a portarlo a casa per parecchie ore, finché non gli fosse ata un po’ la sbornia; così sono andato in giro per il paese per ingannare il tempo nell’attesa. Un uomo mi ha chiamato e mi ha offerto dieci centesimi per aiutarlo a portare una barca al di là del fiume e poi di ritomo perché doveva andare a prendere un montone, cosi sono andato con lui; ma quando stavamo trascinando l’animale alla barca e l’uomo mi aveva lasciato con la corda in mano per andare dietro a spingerlo, il montone, era troppo forte per me e con uno strattone si liberò e si mise a correre e noi dietro a lui. Non avevamo con noi un cane, perciò siamo stati costretti a dargli la caccia per tutto il paese finché quello si è stancato, finalmente. Ma siamo riusciti a prenderlo solo a sera; allora l’abbiamo traghettato e poi io sono andato giù alla zattera. Quando ci sono arrivato e ho visto che era scomparsa, mi sono detto: quelli si sono trovati nei guai e hanno dovuto filare; e hanno preso il mio negro, che era il solo negro che avevo al mondo, e adesso sono in un paese dove non conosco nessuno e non ho più nulla, neanche un soldo, e non so come guadagnarmi da vivere; cosi mi sono seduto per terra e ho pianto. Ho dormito nel bosco tutta la notte. Ma che cosa ne è della zattera, allora? e di Jim? oh, povero Jim! — Maledizione se lo so, cioè se so qualcosa della zattera. Quel vecchio imbecille aveva fatto un affare e ne aveva cavato quaranta dollari, e quando l’abbiamo trovato nella locanda, quei perdigiorno lo avevano fatto giocare a testa o croce e sono riusciti a spremerlo fino all'ultimo centesimo, tranne quelli che aveva speso per il whisky; e quando l’ho portato a casa ieri sera tardi e ho trovato che la zattera era sparita, mi son detto: quel piccolo farabutto ci ha rubato la zattera, ci ha fregati e sta filandosela giù per il fiume. — Io non avrei mai piantato il mio negro, vero? L’unico negro che avevo al mondo e la mia sola ricchezza.

— Non ci abbiamo neanche pensato. Il fatto è che ormai lo consideravamo il nostro negro; già, proprio cosi lo consideravamo e Dio sa quante noie abbiamo dovuto sopportare per lui. Così quando abbiamo visto che la zattera non c’era più e noi eravamo al verde, non ci restava nient’altro da fare che tentare un altro colpo con il Camelopardo. È da Ieri che tiro avanti secco come un corno da polvere. Dove sono quei dieci centesimi? Dammeli qui. Io avevo abbastanza soldi, cosi gli diedi i dieci centesimi, ma lo pregai di spenderli per qualcosa da mettere sotto i denti e di dame un po’ anche a me, perché quelli erano tutti i soldi che avevo e non avevo mangiato niente dal giorno prima. Lui non disse nulla. Un minuto dopo si volta di scatto verso di me e mi fa: — Pensi che quel negro ci farà la spia? Siamo capaci di spellarlo vivo se ci fa una cosa simile! — Come può farci la spia? Non è scappato? — No! Quel vecchio imbecille l’ha venduto senza dividere con me, e adesso il denaro è tutto finito. — Venduto? — dico io, e incomincio a piangere. — Ma come? Era il mio negro, e quello era denaro mio. Dove si trova adesso? Io voglio il mio negro. — Be’, il tuo negro non puoi riaverlo, ecco tutto... perciò asciugati le lacrime. Stammi attento: pensi per caso di farci la spia? Che mi venga un colpo se mi fido di te. Guarda che se ti salta di farci la spia... E qui si fermò, ma non avevo mai visto prima il duca con uno sguardo cosi truce. Continuai a piagnucolare e dicevo tra i singhiozzi: — Io non voglio fare la spia a nessuno; e poi non ho neanche il tempo. Devo andare in giro a cercare il mio negro. Sembrava un po’ preoccupato e rimase là con i suoi manifesti piegati sul braccio, scuro in volto. Finalmente mi dice: — Ti dirò una cosa. Noi dobbiamo fermarci qui per tre giorni. Se mi prometti di non fare la spia, né tu né il negro, lo ti dirò dove lo puoi trovare.

Glielo promisi e allora disse: — Un fattore, che si chiama Silas Ph... — e poi s’interruppe. Aveva incominciato a dirmi la verità, ma quando s’interruppe a quel modo e incominciò a ripensarci sopra, mi resi conto che stava cambiando parere. E cosi era. Non si fidava di me; voleva essere sicuro di non avermi fra i piedi per quei tre giorni. Quindi riprese: — L’uomo che l’ha comperato si chiama Abram Fo- ster, Abram G. Foster, e abita a sessanta chilometri da qui, nell’lntemo del paese, sulla strada per Lafayette. — Va bene — dico io — posso arrivarci a piedi in tre giorni. Partirò questo pomeriggio stesso. — No, invece tu parti adesso; e non perdere tempo a chiacchierare per la strada. Tieni sempre il becco chiuso e cammina dritto e allora non avrai nessuna noia da parte nostra, hai capito? Quello era l’ordine che volevo e a quello avevo teso con la mia scena. Volevo essere lasciato libero per mettere in atto i miei piani. — E adesso scompari — mi dice. — Puoi raccontare al signor Foster quello che vuoi. Magari riesci a fargli credere che Jim è davvero il tuo negro, certi idioti non chiedono documenti, o almeno ho sentito dire cose di questo genere qui nel Sud. E quando gli dici che il foglio e la taglia sono falsi, può darsi che ti creda se gli spieghi bene a quale scopo li avevamo inventati. E adesso fila e digli pure quello che vuol; ma sta’ bene attento a tener la lingua fra i denti finché non sei arrivato laggiù. Cosi io me ne andai e mi diressi verso l’interno del paese. Non mi voltai indietro, ma sentivo che mi seguiva. Ma sapevo di poterlof stancare presto. Andai deciso verso l’aperta campagna per un chilometro e mezzo prima di fermarmi; poi tomai indietro attraverso il bosco alla volta della fattoria dei Phelps. Pensai che mi conveniva mettere subito in atto il mio piano, senza andare in giro a fare lo stupido, perché volevo chiudere la bocca a Jim finché quei tizi avessero il modo di squagliarsela. Non intendevo avere guai con individui di quella risma. Avevo già visto di loro più di quanto avessi bisogno e intendevo chiudere definitivamente.

Tranquillo e con un’aria domenicale - Falsa identità In una palude - Il dilemma

Capitolo 32

Quando vi giunsi, tutto era tranquillo e con un’aria domenicale; faceva caldo e il sole accecava; i negri erano andati nei campi. C’era nell’aria quel lieve ronzio d’insetti e di mosche che dà un senso dì solitudine come se tutti fossero morti e sepolti; e se un soffio di brezza ti a vicino e fa tremare le foglie, allora ti senti sconsolato perché ti pare che siano gli spiriti che sussurrano: spiriti morti da anni e anni, e ti pare che stiano parlando di te. In genere ti prende un desiderio di essere morto con loro e di farla finita con tutto. La fattoria dei Phelps era una di quelle misere piantagioni di cotone, che si assomigliano tutte. Uno steccato intorno ad un cortile, una scaletta fatta di tronchi segati e accostati uno all’altro a mo’ di gradini, simili a barilotti di altezza differente, che serviva per superare lo steccato e per le donne quando montano a cavallo; qualche stento ciuffo d’erba sul terreno, che per lo più era nudo e liscio come un vecchio cappello dal pelo consumato; una grande casa a due ali per i bianchi, fatta di tronchi appena squadrati, le fessure tappate con fango e calce e imbiancate chissà quando; una cucina di tronchi rotondi con un ampio aggio che conduceva alla casa, aperto, ma protetto da una tettoia; l’affumicatoio, sempre di tronchi, dietro la cucina; tre minuscole capanne per i negri, in fila oltre l’affumicatoio; una piccola capanna isolata giù contro lo steccato sul retro e qualche baracchetta aggiunta dall’altra parte; la tramoggia per la cenere e la grossa caldaia per bollire il sapone presso la capannina isolata; una panca accanto alla porta della cucina, con sopra il secchio dell’acqua e una zucca; un cane addormentato al sole; altri cani addormentati in giro; due o tre alberi ombrosi lontano in un angolo; lungo lo steccato cespugli di ribes e di uvaspina; all’estemo dello steccato un orto e una macchia di cocomeri. Poi incominciano i campi di cotone e, dopo i campi, il bosco.

Io girai intorno, m’arrampicai sulla scaletta accanto alla tramoggia della cenere e mi diressi verso la cucina. M’ero avvicinato di qualche o quando intesi il cigolio indistinto di un arcolaio che pareva prima gemere con forza e poi acquietarsi; e allora mi convinsi più che mai che era preferibile essere già morto, poiché quello è il rumore più deprimente che ci sia al mondo. Seguitai ad avanzare, senza nessun piano in particolare, ma solo confidando che la Provvidenza mi mettesse in bocca le parole più giuste quando fosse venuto il momento, perché avevo notato che la Provvidenza mi aveva sempre messo in bocca le parole giuste, se la lasciavo fare. Quando fui a metà strada, mi s’avventò contro un cane, poi un altro, e naturalmente mi fermai per fronteggiarli e rimasi immobile. Che putiferio avevano scatenato! In pochi secondi io ero diventato una specie di mozzo di ruota, per cosi dire, e i raggi erano costituiti dai cani: un anello di una quindicina di cani che mi s’accalcavano intorno con il collo e il muso protesi verso di me; e altri ancora ne stavano sopraggiungendo: scavalcavano lo steccato e sbucavano da ogni angolo. Una negra usci di corsa dalla cucina con un mattarello In mano, urlando: — A cuccia! Tige, Spot! A cuccia, via! — e colpi prima uno poi l’altro e li spedi via che guaivano, seguiti dagli altri. Dopo un minuto ne erano tornati la metà, mi scodinzolavano attorno e cercavano di fare amicizia. I cani non sono mai pericolosi, ad ogni modo. E dietro la donna veniva una piccola negra con due bambini senza nulla addosso tranne una camiciola di lino che s’aggrappavano alle sottane della madre e mi sbirciavano da dietro, pieni di vergogna, come fanno di solito. Ed ecco arrivare di corsa dalla casa anche una donna bianca, di circa quarantacinque o cinquantanni, a capo scoperto e con il fuso in mano; e dietro a lei vengono i suoi bambini bianchi, che si comportano esattamente come i piccoli negri. Era tutta felice e sorridendo mi disse: — Sei tu, finalmente? Sei tu? lo vengo fuori con un « Si, signora », senza neanche pensarci. Lei mi prese e m’abbracciò stretto; poi m’afferrò entrambe le mani e me le

strinse a lungo; le s’empirono gli occhi di lacrime, e le scorrevano lungo le guance; sembrava che non fosse mai stanca di abbracciarmi e di stringermi le mani. E non smetteva di dirmi: — Non assomigli a tua madre quanto immaginavo, ma, per carità, non importa, sono cosi felice di vederti! Cielo, cielo, ti mangerei di baci! Bambini, questo è vostro cugino Tom! Salutatelo. Ma quelli ritirarono la testa, si ficcarono un dito in bocca e si nascosero dietro di lei. Cosi la donna riprese: — Lize, sbrigati a preparargli una colazione calda, subito... o hai già fatto colazione sul battello? Io risposi che avevo già fatto colazione sul battello. Cosi si avviò verso la casa, conducendomi per mano, con i bambini attaccati dietro. Quando ci arrivammo, mi fece sedere su una sedia piuttosto sfondata, si sedette anche lei su uno sgabello basso di fronte a me e, sempre stringendomi le mani, mi disse: — Adesso posso guardarti bene in faccia; e misericordia, quante volte l’ho desiderato in tutti questi lunghi anni! E finalmente è venuto quel momento! Sono due giorni e anche più che t’aspettiamo. Che cosa t’ha trattenuto? S’è incagliato il battello? — Si, signora, si è... — Non dirmi signora, chiamami zia Sally. Dov’è che si è incagliato?

Io non sapevo assolutamente che cosa rispondere, perché non avevo idea se il mio battello doveva risalire o scendere il fiume. M’affidai ciecamente all’istinto e il mio istinto mi suggerì che doveva risalire da qualche posto vicino ad Orleans. Ma quello non mi fu tuttavia di grande aiuto, perché ignoravo i nomi delle secche da quelle parti. Mi resi conto che dovevo inventare una secca o dimenticare il nome di quella in cui ci eravamo incagliati, oppure... Allora mi venne un’idea e la buttai subito fuori:

— Non è che il battello si sia incagliato... non siamo stati fermi per questo. È saltata la testa di un cilindro. — Santo cielo! S’è fatto male qualcuno? — No, signora. È morto soltanto un negro. — Be’, è stata una fortuna, perché qualche volta c’è qualcuno che si fa del male. Due anni fa, a Natale, quando tuo zio Sllas ritornava su da New Orleans sul vecchio Lally Rook, è scoppiata la testa di un cilindro e ha ferito un uomo. E credo che poi sia morto. Era un battista. Tuo zio Silas conosceva una famiglia a Baton Rouge che conosceva benissimo i suoi parenti. Si, adesso che mi viene in mente, è morto. Si è fatta una cancrena e hanno dovuto amputarlo. Ma non sono riusciti a salvarlo. Certo, si trattava proprio di cancrena. È diventato tutto blu ed è morto nella speranza della gloriosa resurrezione. Dicono che sia stato davvero uno spettacolo da vedere. Tuo zio è andato tutti i giorni in paese per venirti a prendere. E ci è andato anche oggi non più di un’ora fa: ormai dovrebbe essere di ritomo da un momento all’altro. Devi averlo incontrato sulla strada, non l’hai visto? Un uomo un po’ anzianotto, con un... — No, non ho visto nessuno, zia Sally. Il battello ha attraccato giusto all’alba e io ho lasciato il mio bagaglio sulla banchina e poi sono andato a dare un’occhiata in giro per il paese e anche un po’ fuori in campagna, per far are il tempo e non arrivare qui troppo presto; e per questo sono arrivato dal di dietro. — A chi hai affidato il bagaglio? — A nessuno. — Ma bambino mio, te lo ruberanno! — Dove l’ho nascosto io, credo che non possano — rispondo. — E allora come hai potuto fare colazione a bordo se era cosi presto? Ero sul ghiaccio sottile, ma dico: — Il capitano ha visto che ero già in piedi e mi ha detto che era meglio se prendevo qualcosa prima di scendere a terra; cosi mi ha portato nella sala da pranzo degli ufficiali e mi ha dato tutto quello che volevo.

Mi sentivo cosi a disagio che non riuscivo neanche a stare attento. Non facevo che pensare ai bambini; volevo portarmeli fuori in qualche angolo tranquillo e sondarli un poco, fino a scoprire chi ero. Ma non riuscii a trovare il momento perché la signora Phelps non smetteva di parlare. Ben presto mi fece venire un brivido giù per la schiena perché mi domandò: — Ma noi non abbiamo fatto altro che parlare, eppure non mi hai ancora detto una parola su mia sorella, né su nessuno della famiglia. Adesso io riposo un po’ la lingua e tu incominci a far lavorare la tua. Devi raccontarmi ogni cosa, dirmi tutto di tutti, di ciascuno, come stanno e che cosa fanno e che cosa ti hanno detto di dirmi, e non tralasciare nemmeno la più piccola cosa. Be’, mi rendo conto che sono in una palude, e dentro fino al collo. La Provvidenza mi aveva sostenuto fino a quel punto, d’accordo, ma adesso ero incastrato bene. E vedevo che era inutile tentare di andare avanti... dovevo arrendermi. Cosi mi dico: eccomi giunto ad un altro punto dove sono costretto a rischiare la verità. Apersi la bocca per cominciare, ma lei mi afferrò e mi spinse in gran fretta dietro il letto dicendomi: — Ecco che viene! Giù con la testa... ecco, cosi va bene; adesso non può vederti. Non far capire che sei qui. Gli voglio fare uno scherzo. Bambini, non dite una parola. Ero in un bel pasticcio. Ma era inutile prendersela; non c’era proprio niente da fare se non star fermi e tranquilli e cercare di essere pronti a balzare in piedi quando scoppiava il fulmine. Riuscii a dare soltanto una piccola occhiata al vecchio signore, quando entrò, poi il letto me lo nascose. La signora Phelps gli corse incontro e gli disse: — È arrivato? — No — rispose suo marito. — Santo cielo! — fece lei — che cosa mai può essergli capitato? — Non riesco ad immaginarlo — disse il vecchio — e devo ammettere che sono molto preoccupato.

— Preoccupato! — dice lei — io tra poco perdo la testa! Deve essere già arrivato, e tu non l’hai visto per la strada. Lo so che è arrivato... qualcosa me lo dice. — Ma Sally, non è possibile che non l’abbia visto se era per la strada, lo sai anche tu. — Oh cielo, cielo, che cosa dirà mia sorella? Ormai deve essere arrivato! Sei tu che non l’hai visto. Lui... — Oh, smettila di angustiarmi, che sono già angustiato abbastanza. Io non so più che cosa fare. Non capisco più niente e non mi vergogno di confessare che ne sono proprio spaventato. Ma non c’è da credere che sia arrivato perché non poteva arrivare senza che io lo vedessi. Sally, è terribile... è terribile... dev’essere successo qualcosa al battello, di sicuro! — Ehi, Silas, guarda laggiù, lungo la strada! Non ti pare che arrivi qualcuno? Lui si precipitò alla finestra, a capo del letto, e questo diede alla signora Phelps l’occasione che voleva. Si curvò in fretta ai piedi del letto, mi diede uno spintone, e lo venni fuori. E quando lui si volse dalla finestra, ecco che la donna gli si mette davanti sorridente e raggiante come una casa in fiamme e anch’io ero là dritto, con un’aria un po’ abbacchiata e in un bagno di sudore. Il vecchio spalancò tanto d’occhi e disse: — Be’, e chi è? — Chi credi che sia? — Non ho la minima idea. Chi è? — Ma è Tom Sawyer! Perbacco, quasi cadevo lungo disteso sul pavimento. Ma non c’era tempo per affilare i coltelli: il vecchio m’afferrò la mano e me la strinse e non smetteva di stringermela; e per tutto il tempo come ci ballava intorno la donna, ridendo e piangendo! Poi tutt’e due insieme mi sottoposero ad un fuoco di fila di domande sul conto di Sid e di Mary e poi di tutto il resto della tribù. Ma se loro erano felici, la loro felicità non era nulla di fronte alla mia, poiché per

me era come se fossi nato una seconda volta, tanto ero contento di sapere chi ero. Be’, mi bloccarono per due ore, e alla fine, quando avevo il mento cosi stanco che quasi non si muoveva più, avevo raccontato sul conto della mia famiglia, voglio dire sul conto della famiglia Sawyer, più di quanto sia mai capitato a sei famiglie Sawyer messe insieme. E poi spiegai tutto di come fosse saltata in aria la testa del cilindro alla foce del White Rlver, e c’erano voluti tre giorni per sistemarla. Il che andò benissimo e funzionò perfettamente, perché loro non avevano idea di quanto ci volesse per ovviare a un guasto del genere. Se avessi detto che si trattava di un bullone, sarebbe stato lo stesso. Adesso mi sentivo perfettamente a mio agio da un certo punto di vista ma assai insicuro da un altro. Fare la parte di Tom Sawyer era facile e comodo, ma rimase facile e comodo soltanto finché di il a poco non sentii un battello che ansimava discendendo Il fiume; allora mi dissi: supponi che Tom Sawyer stia arrivando su quel battello, e supponi che da un momento all’altro entri in questa casa e mi chiami con il mio nome prima che io riesca a fargli cenno di tacere. Be’, non doveva andare cosi, assolutamente. Dovevo mettermi per la strada e aspettare che asse. Cosi dissi che avevo intenzione di andare in paese per riprendermi il bagaglio. Il vecchio voleva accompagnarmi, ma gli dissi di non venire perché sapevo anch’io guidare il cavallo e preferivo che non si prendesse altro disturbo per me.

Un liberatore di negri - L’ospitalità del Sud "Birbante di un birbante!" - Una benedizione abbastanza breve - Catrame e piume

Capitolo 33

Cosi partii alla volta del paese su un carro, e quando fui a metà strada vidi avanzare un altro carro e, come prevedevo, c’era su Tom Sawyer; quindi mi fermai e attesi che si avvicinasse. Dico: — Fermo! — e lui si fermò accanto a me e aveva la bocca spalancata come un baule e non riusciva a chiuderla; poi inghiottì due o tre volte come uno che abbia la gola secca e finalmente disse: — Non ti ho mai fatto del male. E tu lo sai. Allora, perché sei ritornato e vieni a cercarmi? Io dico: — Non sono ritornato; non sono neanche partito. Quando udì la mia voce, si senti un po’ rassicurato, ma non era ancora del tutto convinto. Mi fa: — Non mi giocare qualche scherzo, perché io a te non lo farei. Ora dammi la tua parola che non sei un fantasma. — Parola d’onore che non lo sono — dico io. — Be’... io... io... be’, questo dovrebbe sistemare la cosa, naturalmente, ma chissà perché non riesco ancora a vederci chiaro. Senti, non sei mai stato assassinato? — No, non sono mai stato assassinato. È stato uno scherzetto che ho giocato a

quelli. Vieni qui e toccami se non mi credi ancora. Cosi egli fece e ne fu soddisfatto; ed era cosi contento di rivedermi che non sapeva più che fare. E voleva sapere tutto immediatamente, perché la mia era una grande avventura, e misteriosa per di più, e l’aveva colpito fin nel profondo. Ma io gli dissi di aver pazienza per un attimo; ordinai al suo vetturino di aspettare, ci allontanammo un poco e io gli raccontai in che razza di imbroglio mi trovavo e gli domandai che cosa, secondo lui, era meglio fare. Mi disse di lasciarlo solo un minuto e di non disturbarlo. Cosi, pensa e ripensa, dopo un po’ mi disse: — Bene, ho trovato. Prendi il mio baule, mettilo sul tuo carro e fa’ finta che sia tuo; poi toma a casa prendendotela con comodo in modo da non arrivare troppo presto; io me ne vado un po’ verso il paese, poi rifaccio la partenza e arrivo a casa un quarto d’ora dopo di te; e non è necessario che tu dimostri di conoscermi all’inizio. Dico: — Va bene, ma aspetta un minuto. C’è ancora una cosa... una cosa che non sa nessuno all’infuori di me. Ed è che c’è un negro qui che io sto tentando di togliere alla schiavitù, si chiama Jim; il Jim della vecchia Miss Watson. Lui mi dice: — Cosa? Perché Jim sarebbe... E qui si fermò e si mise a studiarci su. Io riprendo: — So che cosa dirai. Dirai che è una faccenda sporca, ignobile; ma che me ne importa? Io sono ignobile e sto per liberarlo, e voglio che tu tenga il becco chiuso e non lasci intendere nulla. D’accordo? Gli brillarono gli occhi e disse: — Ti aiuto a farlo scappare! Be’, allora lanciai un urlo come se m’avessero sparato. Era il discorso più sbalorditivo che avessi mai sentito e sono costretto a dire che Tom Sawyer calò considerevolmente nella mia stima. Soltanto non riuscivo a crederlo: Tom

Sawyer un liberatore di negri! — Sciocchezze — dissi — tu stai scherzando. — Non sto affatto scherzando. — Bene, allora — dico — scherzo o non scherzo, se tu senti parlare di un negro che è scappato, non dimenticarti di ricordare che tu non ne sai niente e che anch’io non ne so niente. Poi prendemmo il baule e lo caricammo sul mio carro; lui s’avviò per la sua strada e io per la mia. Ma naturalmente mi dimenticai del tutto che dovevo andare adagio, tanto ero contento e immerso nei miei pensieri; cosi giunsi a casa troppo presto per la lunghezza del percorso. il vecchio era sull’uscio di casa e mi disse: — Ma è davvero incredibile. Chi avrebbe detto che ce l’avresti fatta con quella cavalla? Mi sarebbe piaciuto misurare il tempo. E non è neppure sudata, neanche una goccia di sudore. È incredibile. Be’, adesso neanche per cento dollari darei via questa cavalla, parola d’onore; e ancor oggi volevo venderla per quindici dollari e pensavo che non valesse un soldo di più. Ecco quel che disse. Era la creatura più buona e più innocente che abbia mai visto. Ma la cosa non mi sorprendeva perché non era solo un semplice contadino, ma era anche un predicatore e giù, in fondo alla piantagione, aveva una chiesetta di tronchi, costruita da lui stesso, a sue spese, che serviva sia da chiesa che da scuola, e non si faceva pagare mai nulla per le sue prediche, che invece avevano un certo valore. C’erano moltissimi contadini predicatori come lui laggiù nel Sud. Circa mezz’ora più tardi arrivò il carro di Tom alla scaletta d’ingresso e zia Sally lo vide attraverso la finestra perché era lontano soltanto una cinquantina di metri e disse: — Ma è arrivato qualcuno! Mi domando chi può essere. Credo che si tratti di un estraneo. Jimmy — (quello era uno dei bambini) — corri a dire a Lize di mettere in tavola un altro piatto per il pranzo. Tutti si precipitarono verso la porta d’ingresso, perché naturalmente uno straniero non viene tutti i giorni e cosi quando arriva la vince anche sulla febbre

gialla quanto a interesse. Tom era già sulla scala e stava per entrare; il carro filò via lungo la strada del villaggio e noi corremmo tutti alla porta d’ingresso. Tom aveva il suo abito migliore e un pubblico, e questo dava sempre alla testa a Tom Sawyer. In circostanze simili non aveva problemi ad assumere lo stile che ci voleva. Non era il tipo di ragazzo che avrebbe attraversato timidamente quel cortile come una pecora; neanche per sogno, lui avanzò calmo e impettito come un ariete. Quando si trovò di fronte a noi, si tolse il cappello con un gesto garbato ed elegante, quasi fosse il coperchio di una scatola di farfalle addormentate e lui non volesse disturbarle, e poi disse: — Il signor Archlbald Nichols, se non sbaglio? — No, ragazzo mio — rispose il vecchio — mi splace di doverti dire che il tuo vetturino ti ha ingannato; la fattoria del signor Nichols è più avanti, a cinque chilometri da qui. Ma entra, entra. Tom si volse a dare un’occhiata alle spalle, poi disse: — Troppo tardi, non lo si vede già più. — Si, se n’è andato, figliolo, e tu devi entrare e restare a pranzo con noi; dopo attaccheremo un cavallo e ti porteremo dai Nichols. — Oh, non posso darvi tanto disturbo, non ci penso nemmeno. Farò una eggiata; la distanza non mi fa paura. — Ma non possiamo lasciarti andare: è contrario al senso di ospitalità del Sud. Vieni subito dentro. — Su, avanti — dice zia Sally — non ci dai il minimo disturbo, neanche l’ombra. Devi rimanere. Sono cinque lunghi chilometri pieni di polvere; non possiamo lasciarti andare. E poi ho già detto di aggiungere un altro piatto a tavola quando ti ho visto arrivare; cosi non ci devi deludere. Su, entra e sentiti a casa tua. Quindi Tom li ringraziò con molta cordialità e con molto garbo e si lasciò persuadere ad entrare; e quando fu entrato disse che era un forestiero, che veniva da Hicksville, nell’Ohio, e si chiamava William Thompson, al che fece un altro inchino.

Bene, continuò e continuò a chiacchierare inventandosene di cotte e di crude su Hicksville e su tutti gli abitanti e io divenni un po’ nervoso e mi chiedevo come tutte quelle storie mi potessero aiutare ad uscire dai guai. Alla fine, sempre continuando a parlare, s’avvicinò a zia Sally, e la baciò proprio sulla bocca, quindi si accomodò nuovamente sulla sedia, tranquillo, e stava per riprendere il discorso, ma lei si levò in piedi, gli diede un manrovescio e disse: — Cucciolo sfacciato! Lui prese un’aria offesa e disse: — Mi meraviglio di voi, signora. — Ah, ti mera... per chi m’hai presa? Ho una gran voglia di prenderti a... Di’ un po’, cosa intendevi con questo bacio? Lui prese un tono piuttosto umile e disse: — Non intendevo niente, signora. Non volevo certo far del male. Pensavo che... che vi avrebbe fatto piacere. — Be’, devo dire che sei proprio nato scemo! — Prese in mano il fuso e sembrava che fe un grande sforzo per non sbatterglielo sulla testa. — Che cosa ti ha fatto pensare che mi fe piacere? — Be’, non lo so. Soltanto m’hanno detto... che vi faceva piacere. — Ah, te l’hanno detto. Chiunque te l’abbia detto è un altro mentecatto. Non ho mai sentito una cosa simile. E chi te l’ha detto? — Be’, quelli là, loro... Tutti hanno detto cosi, signora. Lei faceva del suo meglio per mantenersi calma, e sbatteva gli occhi e agitava le dita come se volesse graffiarlo; poi disse: — E chi sarebbero tutti? Fuori i nomi o ci sarà un idiota di meno. Lui s’alzò in piedi con un’aria profondamente afflitta e rimase li a rigirarsi il cappello fra le mani; quindi disse:

— Sono mortificato e davvero non me l’aspettavo. Me l’hanno detto. Me l’hanno detto tutti. Tutti m’hanno detto: dalle un bacio, che sarà contenta. Tutti me l’hanno detto uno dopo l’altro. Ma mi dispiace, signora, e vi assicuro che non lo farò più, parola d’onore. — Davvero non lo farai più? Be’, credo proprio che non ci riusciresti. — No, signora, ve l’assicuro. Non lo farò più, finché non me lo chiederete voi. — Finché non te lo chiederò io! Non ho mai sentito una cosa simile in tutta la mia vita! Ti garantisco che devi campare quanto Matusalemme prima che io te lo chieda, a te o a quelli come te. — Be’, — disse lui — per me è una grossa sorpresa. Non riesco a capirci più niente. M’hanno detto che doveva farvi piacere e io credevo proprio che vi avrebbe fatto piacere. Ma... — Si fermò e si guardò attorno lentamente, come se sperasse di incontrare uno sguardo amichevole da qualche parte; si rivolse al vecchio e gli domandò: — Voi non pensate che doveva farle piacere un mio bacio, signore? — Be’, no... io... io... credo di no. Allora riprese a guardarsi attorno, come prima, e rivolgendosi a me disse: — Tom, tu non hai pensato che zia Sally avrebbe dovuto spalancarmi le braccia e dire: « Sid Sawyer... ». — Misericordia! — grida lei, interrompendolo, e salta verso di lui — birbante d’un birbante, imbrogliare cosi una... — e sta per stringerselo fra le braccia, ma lui la trattiene e osserva: — No, finché non me l’avrete chiesto. Cosi lei non perse tempo e glielo chiese immediatamente; quindi lo abbracciò e lo baciò e non se ne stancava mai; poi lo consegnò al vecchio, che si prese quello che era rimasto. Quando si furono un poco calmati, lei disse: — Be’, santo cielo, questa si che è una sorpresa. Noi non ti aspettavamo affatto; aspettavamo soltanto Tom. Mia sorella non mi ha mai scritto che veniva qualcuno con lui.

— In realtà non si pensava che venisse qualcuno oltre a Tom — disse — ma io ho pregato e pregato finché all'ultimo momento mi ha lasciato venire. Cosi, mentre si scendeva lungo il fiume, lo e Tom abbiamo pensato che potevamo davvero farvi una bella sorpresa se lui veniva qui da voi per primo e io ritardavo un po’ e poi arrivavo qui fingendo di essere un forestiero. Ma è stato un errore, zia Sally. Questo non è il posto adatto per un forestiero. — Certo che no, per un birbone impudente, Sid. Ti meritavi un bel po’ di sberle; non mi è mai capitano di essere cosi imbarazzata da non so quando. Ma ormai non parliamone più; non importa... sarei disposta a subire mille scherzi come questo pur di averti qui. Be’, se penso a quella scena! Non posso negare che sono rimasta di sasso per la sorpresa quando mi hai dato quel bacio. Pranzammo fuori, nell’ampio aggio fra la casa e la cucina; e su quella tavola c’era da mangiare per sette famiglie e tutto davvero squisito; niente che fe pensare alla nostra carne tigliosa o flaccida che si lascia tutta la notte chiusa in un armadio nella cantina umida e all’indomani ha il sapore di una bistecca di vecchio cannibale. Zio Silas recitò una benedizione piuttosto lunga prima di incominciare, ma ne valeva la pena, del resto non fece raffreddare nulla, cosa che invece capita spesso in altri casi del genere. Per tutto il pomeriggio si fece un gran chiacchierare; io e Tom stavamo all’erta di continuo, ma inutilmente, perché nessuno portò il discorso su un negro che era fuggito, e noi avevamo paura ad iniziarlo per primi. Ma a cena, la sera, uno dei ragazzini disse: — Papà, potremmo andare allo spettacolo Tom, Sid e io? — No — rispose il vecchio — penso che non ci sarà nessuno spettacolo, e voi non potreste andare anche se ci fosse, perché il negro scappato ha parlato con Burton e con me di quella recita scandalosa e Burton ha detto che voleva avvertire la gente; cosi credo che ormai abbiano già sbattuto fuori dal paese quegli sfrontati perdigiorno. Dunque era cosi. E io non potevo più farci niente. Tom ed io dovevamo dormire nella medesima stanza e nel medesimo letto; perciò, essendo stanchi, subito dopo cena augurammo la buona notte e andammo a letto; ma la prima cosa che facemmo fu di scavalcare la finestra, scendere per l’asta del parafulmine e correre verso il paese.

Infatti ero certo che nessuno avrebbe avvertito del pericolo il re e il duca e cosi, se non accorrevo io, si sarebbero trovati di sicuro nei guai. Strada facendo Tom mi raccontò come tutti erano convinti che io fossi stato assassinato e come papà fosse scomparso quasi subito, senza farsi più vedere in paese, e che chiasso aveva suscitato la fuga di Jim. E io raccontai a Tom tutta la storia dei due farabutti del Camelopardo e anche del mio viaggio sulla zattera, almeno fin dove ebbi il tempo di raccontare. Appena infilammo le strade del paese verso il centro - erano allora le otto e mezzo e non più tardi - ci venne incontro una massa infuriata di gente con torce in mano. Urlavano, imprecavano e facevano un baccano spaventoso battendo su pentole di latta e suonando comi da caccia. Noi con un balzo ci mettemmo da un lato e li lasciammo are. Mentre la folla sfilava, vidi che avevano il re e il duca a cavallo di un palo, cioè immaginai che fossero il re e il duca perché erano tutti coperti di catrame e di piume e non avevano neanche la più lontana parvenza umana: sembravano piuttosto un palo di enormi e mostruosi pennacchi da soldato. Be’, a vederli in quelle condizioni, mi sentii male; ero dispiaciuto per quei due infelici farabutti e mi sembrava di non sentire in me neppure l’ombra di un risentimento contro di loro. Era uno spettacolo spaventoso. Gli esseri umani riescono a volte ad essere terribilmente crudeli l’uno con l’altro. Ci rendemmo conto che ormai era troppo tardi e non potevamo farci niente. Domandammo a qualcuno, che non partecipava alla gazzarra, che cosa fosse successo e ci raccontarono che erano andati tutti allo spettacolo con l’aria più innocente del mondo, si erano seduti ed erano rimasti tranquilli finché il povero re non arrivò nel bel mezzo delle sue capriole sul palcoscenico; allora qualcuno aveva dato il segnale e tutto il pubblico era balzato su e aveva agguantato i due. Cosi ce ne tornammo a casa adagio e io non mi sentivo più spavaldo come prima, ma piuttosto abbattuto e umiliato e, chissà perché, anche colpevole, sebbene non avessi fatto nulla. Ma è sempre cosi; non fa differenza se ti comporti bene o male, la coscienza non ha buon senso e ti rimorde comunque. Se avessi un cane bastardo che non dimostra dì capire almeno più della coscienza, gli darei il veleno. All’interno di una persona la coscienza prende più spazio di tutto il resto, eppure non serve a niente, assolutamente. Anche Tom Sawyer era d’accordo.

La capanna presso la tramoggia della cenere - Il colmo - Un lavoro semplice - Salire per l’asta del parafulmine - Guai con le streghe

Capitolo 34

Smettemmo di parlare e incominciammo a pensare. Dopo un po’ Tom disse: — Sta’ un po’ a sentire, Huck, che razza di stupidi siamo a non averci pensato prima! Scommetto che io so dove si trova Jim. — No! E dove? — In quella capanna laggiù, vicino alla tramoggia della cenere. Ascolta. Quando eravamo a pranzo non hai visto un negro che andava in quella capanna a portare da mangiare a qualcuno? — Certo. — E per chi credi che fosse quella roba? — Per un cane. — Lo pensavo anch’io. Be’, invece non era per un cane. — Perché? — Perché c’era anche un cocomero. — È vero, l’ho notato anch’io. Be’, è proprio il colmo che non mi sia ato per la mente che i cani non mangiano cocomeri. Questo dimostra che uno può vedere e non vedere nel medesimo tempo.

— Be’, il negro ha aperto il lucchetto quando è entrato e l’ha richiuso quando è uscito, poi ha consegnato una chiave allo zio, mentre stavamo per alzarci da tavola; la stessa chiave, scommetto. Il cocomero dimostra che si tratta di un uomo e il lucchetto che è prigioniero; e non è probabile che ci siano due prigionieri in una piantagione cosi piccola e dove tutti sono cosi gentili e buoni. Il prigioniero è Jim. Benissimo, sono contento di averlo scoperto secondo la tecnica dei detectives; non avrei puntato un soldo su nessun altro sistema. Ora tu fa’ lavorare la zucca e inventa un piano per liberare Jim, intanto ne studio uno anch’io; poi sceglieremo quello che ci soddisfa di più. Che testa per essere soltanto un ragazzo! Se io avessi la testa di Tom Sawyer non la cambierei nemmeno per diventare duca, né secondo comandante su un battello, né clown in un circo, né per qualunque altra cosa che mi venga in mente. Io cominciai a pensare un piano, ma già sapevo perfettamente da dove sarebbe uscito il piano giusto. Di li a poco Tom disse: — Sei pronto? — Si — rispondo io. — Bene, sentiamo. — Il mio piano è questo — dico. — Noi possiamo scoprire facilmente se là dentro c’è davvero Jim. Poi domani sera tiriamo su la mia canoa e andiamo a prendere la zattera all’isola. Poi, la prima notte scura che viene, rubiamo la chiave dai pantaloni del vecchio, dopo che sarà andato a letto, e ci mettiamo a navigare giù per il fiume con la zattera, insieme con Jim, nascondendoci di giorno e viaggiando di notte, come facevamo prima io e Jim. Non è un piano che funziona? — Che funziona? Be’, certo, come per i topi infilarsi nella tana. Ma è maledettamente semplice, va via liscio come l’olio. Dov’è il bello di un piano che non offre nessuna difficoltà? Io non dissi niente perché non m’aspettavo una risposta diversa, ma sapevo benissimo che qualunque fosse il suo piano, quello si che non avrebbe suscitato nessuna obiezione. E non ne suscitò. Mi disse com’era. Vidi in un minuto che il suo ne valeva quindici dei miei in quanto a stile e sarebbe servito quanto il mio a fare di Jim un

uomo libero e per di più magari noi ci lasciavamo la pelle. Cosi ero soddisfatto e dichiarai che potevamo metterci in azione. Non occorre che dica qui com’era, tanto sapevo che non sarebbe rimasto uguale. Ero sicuro che Tom l’avrebbe modificato in un modo o nell’altro mentre procedeva l’azione e ci avrebbe introdotto delle nuove spacconate ogni volta che gli si fosse offerto il destro. E infatti cosi fu. Be’, una cosa era assolutamente sicura, e cioè che Tom Sawyer faceva sul serio ed era deciso ad aiutarmi a togliere quel negro dalla schiavitù. Quella era la cosa che non riuscivo a capire. Ecco un ragazzo rispettabile e bene allevato, con una reputazione da mettere a repentaglio e con a casa dei parenti tutti con una reputazione, per di più intelligente e non una testa di cuoio, e istruito, non ignorante, gentile e non volgare; eppure eccolo qui, senza più un briciolo di dignità, o di onestà, o di sentimento, a degradarsi in una faccenda del genere, disonorando se stesso e la sua famiglia agli occhi di tutti. Non potevo capirlo in nessun modo. Era una vergogna e sapevo che dovevo farmi avanti per dirglielo apertamente; dovevo comportarmi da vero amico e indurlo a lasciar perdere tutto prima ancora di incominciare, e salvare se stesso. E tentai di parlargliene, ma lui mi fece star zitto e mi disse: — Non credi che io sappia benissimo quel che faccio? Di solito non lo so? — Si. — Non ti ho detto che voglio aiutarti a far scappare il negro? — Si. — E allora? E fu tutto quello che disse, e tutto quello che dissi io. Era inutile dire di più, perché quando diceva che voleva fare una cosa la faceva sempre. Ma ero io che non riuscivo a comprendere come mai fosse disposto a immischiarsi in una faccenda simile; cosi lasciai perdere e non me ne diedi più pensiero. Se lui voleva agire in quel modo, io non potevo impedirglielo. Quando arrivammo a casa, tutto era immerso nell’oscurità e nel silenzio; cosi procedemmo giù fino alla capanna vicino alla tramoggia della cenere per indagare. Attraversammo il cortile in modo da vedere che cosa avrebbero fatto i cani. Essi ci conoscevano e non fecero più rumore di quanto non ne facciano di

solito del cani di campagna quando s’avvicina qualcuno nella notte. Quando giungemmo vicino alla capanna, la guardammo bene davanti e sui due lati; sul lato che non conoscevo, che era rivolto verso nord, scorgemmo una specie di finestrella quadrata, abbastanza alta, con un’asse robusta inchiodata di traverso, io dico: — Ecco quello che cl voleva. Quest’apertura è abbastanza grande perché Jim ci possa are, se stacchiamo l’asse. Tom mi fa: — È un gioco da bambini; è facile come marinare la scuola. Io spero proprio che sapremo scoprire qualcosa di più complicato, Huck Finn. — Be’, allora — dico io — che ne diresti se segassimo un tronco, come ho fatto io quella volta, quando sono stato assassinato? — Questo ci assomiglia già di più — dice. — Sa veramente di mistero, è difficile, simpatico; ma scommetto che possiamo trovare un sistema che richiede il doppio di tempo. Non c’è nessuna fretta; continuiamo a guardarci intorno. Fra la capanna e lo steccato, sul lato posteriore, c’era una tettoia che partiva dalla gronda della capanna ed era fatta di tavole. Era lunga quanto la capanna, ma più stretta, meno di due metri di larghezza. La porta si trovava sul lato sud ed era chiusa con un catenaccio. Tom s’avvicinò alla caldaia del sapone, si mise a cercare in giro e tornò con l’arnese di ferro che serviva per aprire il coperchio della caldaia; con quello forzò il gancio. La catena cadde. Apriamo la porta ed entriamo, la richiudiamo, accendiamo un fiammifero e vediamo che la tettoia è costruita contro la capanna ma senza comunicazione con essa; non c’era un pavimento e non conteneva nulla tranne vecchie vanghe arrugginite, zappe, picconi e un aratro, fuori uso. Il fiammifero si spense e noi uscimmo; rimettemmo a posto il gancio e la porta fu di nuovo chiusa com’era prima. Tom era felice. Mi disse: — Adesso siamo a posto. Lo faremo uscire scavando una galleria. Ci vorrà circa una settimana. Finalmente ci avviammo alla casa e io entrai per la porta di dietro: c’era soltanto da tirare una cordicella, non chiudevano mai a chiave; ma quel modo d’entrare non era abbastanza romantico per Tom Sawyer: per lui non c’era altro modo che

arrampicarsi su per l’asta del parafulmine. Ma dopo essere arrivato a mezza altezza due o tre volte, sempre facendo cilecca o l’ultima volta per poco non rompendosi l’osso del collo, pensò che era meglio arrendersi. Tuttavia, dopo essersi riposato un poco, decise che avrebbe fatto un’ultima prova per tentare la sorte, e questa volta la scalata gli riuscì. Il mattino successivo all’alba eravamo già in piedi e andammo subito nelle capanne dei negri ad accarezzare i cani e a cercare di farci amico il negro che dava da mangiare a Jim, se si trattava di Jim. I negri avevano appena terminato di fare colazione e s’avviavano nei campi; il negro di Jim stava mettendo della roba in un pentolino: del pane, della carne e così via, e, mentre gli altri si mettevano in cammino, da casa venne la chiave. Questo negro aveva una faccia da bonaccione e anche un po’ da stupido; teneva i capelli tutti legati e suddivisi in piccole treccioline, per tener lontane le streghe. Ci raccontò che le streghe non gli davano pace in quelle ultime notti e gli facevano vedere le cose più strane e sentire ogni sorta di parole e rumori e gli pareva di non essere mai stato stregato per tanto tempo, prima, in tutta la sua vita. Si eccitò tanto e si lasciò tanto trascinare nel racconto dei suoi guai che dimenticò completamente quello che stava facendo. Così Tom gli domandò: — Per chi è questa roba da mangiare? La dai ai cani? Il negro abbozzò una smorfia di sorriso che gli si dilatò gradualmente per tutta la faccia, come quando si butta un mattone in una pozza fangosa, e poi disse: — Sì, padron Sid, a un cane. A un cane un po’ insolito, per di più. Volete venire a dargli un’occhiata? — Sì. Io diedi una gomitata a Tom e gli bisbigliai: — Ci vai proprio adesso, di primo mattino? Non era così il tuo piano. — Già, non era così, ma ora è cambiato. Così, accidenti a lui, ci avviammo insieme, ma la cosa non mi piaceva molto. Quando fummo dentro la capanna, non riuscimmo a vedere quasi niente, tanto

era buio; ma Jim era proprio là e ci vedeva, e si mise a gridare: — Oh, Huck! E, santo cielo, quello non è padron Tom? Lo sapevo che sarebbe andata a finire cosi; me l’aspettavo. Non sapevo che fare, e anche se l’avessi saputo, non avrei avuto modo di farlo perché quel negro subito saltò su a dire: — Ma guarda, santi del paradiso! Quello conosce voi signori? Ormai anche noi riuscivamo a vederci bene. Tom si volse verso il negro, tranquillo, ma con l’aria molto sorpresa: — Chi è che ci conosce? — Be’, questo negro scappato. — Non credo affatto che ci conosca; che cosa ti ha messo in testa quest’idea? — Che cosa me l’ha messa In testa? Perbacco, non si è messo a gridare in questo preciso momento, come se vi conoscesse? Tom rispose con un certo tono di imbarazzo: — Be’, è davvero molto curioso. Chi è che ha gridato? Quando avrebbe gridato? E che cosa ha gridato? — Poi si volta verso di me perfettamente calmo e mi domanda: — Tu hai sentito qualcuno gridare? Naturalmente non c’era che una risposta possibile, per cui dissi: — No, non ho sentito nessuno dire niente. Allora si rivolge anche a Jim, lo squadra ben bene come non lo avesse mai visto prima e gli fa: — Hai gridato? — No, signore — risponde Jim — io non ho detto niente, signore.

— Neanche una parola? — No, signore, neanche una parola. — Ci hai mai visti prima d’oggi? — No, padrone, mai, per quanto ne so io. Cosi Tom si volse verso il negro, che appariva spaventato e perplesso, e gli disse in tono piuttosto severo: — Mi dici che cosa t’ha preso? Che cosa ti ha fatto pensare che qualcuno ha gridato? — Oh, sono quelle dannatissime streghe, signore, e io vorrei essere morto, si. Sono sempre all’opera, signore, e quasi mi fanno morire, tanto mi mettono paura. Vi prego, padrone, non lo dite a nessuno, altrimenti il vecchio padron Silas mi dà una strapazzata, perché lui dice che non ci sono streghe. Vorrei proprio che fosse qui adesso, per vedere che cosa dice! Scommetto che questa volta neanche lui troverebbe una spiegazione. Ma è sempre cosi, la gente che è stupida resta stupida; non vogliono darsi da fare per scoprire qualcosa da soli e quando uno scopre qualcosa e glielo va a dire, allora non vogliono crederci. Tom gli diede dieci centesimi e lo rassicurò che non ne avremmo parlato con nessuno; gli suggerì di comperare dell’altro filo per legarsi i capelli, e poi, guardando Jim, disse: — Mi domando se zio Silas ha intenzione di impiccare questo negro. Se mi capitasse di catturare un negro che è stato cosi ingrato da scappare, io non lo riconsegnerei di certo, ma lo impiccherei. — E mentre il negro s’avviava verso la porta per guardare la sua moneta e morderla per vedere se era buona, disse a Jim in un sussurro: — Non far mai capire che ci conosci. E se senti qualcuno che scava durante la notte, siamo noi, che ci diamo da fare per liberarti. Jim ebbe giusto il tempo di prenderci la mano e di stringercela, poi II negro tornò indietro e noi gli dicemmo che saremmo venuti ancora qualche volta se gradiva la nostra compagnia; e lui disse che ne era contento, particolarmente se faceva buio, perché le streghe lo tormentavano soprattutto quando era buio ed

era bene avere qualcuno intorno.

Una fuga come si deve - Oscuri piani - Distinzioni tra furto e furto - Un buco profondo

Capitolo 35

C’era ancora quasi un’ora prima di colazione, quindi ce ne andammo per i boschi, perché Tom diceva che dovevamo procurarci un po’ di luce per vederci a scavare: una lanterna ne fa troppa e magari ci poteva mettere nei guai; quel che ci occorreva era una bella dose di quel legno putrefatto che chiamano «fuoco della volpe» e che manda una specie di bagliore pallido quando lo metti al buio. Ne raccogliemmo una bella bracciata e la nascondemmo fra l’erba alta, poi ci sedemmo a riposare e Tom disse con tono insoddisfatto: — Accidenti, tutta questa faccenda non potrebbe essere più facile e insulsa. E quindi rende maledettamente difficile mettere in piedi un piano difficile. Non c’è un guardiano da drogare; ora ci vorrebbe un guardiano. Non c’è neppure un cane cui dare un boccone soporifero. C’è soltanto Jim, legato per una gamba con una catena lunga tre metri alla gamba del letto: macché, tutto quello che c’è da fare è sollevare un pochino la testata del letto e sfilare la catena. E zio Silas si fida di tutti, affida la chiave a quella zucca vuota d’un negro e non manda nessuno a sorvegliare il prigioniero. Jim avrebbe potuto benissimo filarsela da quella finestrella prima ancora che arrivassimo noi, soltanto che non sarebbe stato comodo viaggiare con una catena dì dieci piedi attaccata alla caviglia. Insomma, Huck, questo è l’affare più stupido che abbia mai visto. Devi inventarti tutte le difficoltà. Bene, non possiamo evitarlo, dobbiamo fare del nostro meglio con quello che abbiamo. In ogni modo c’è molto più onore a tirarlo fuori attraverso un mucchio di difficoltà e di pericoli, anche se non ci sono stati fomiti dalla gente che aveva il dovere di fornirli, ma abbiamo dovuto crearli noi di nostra iniziativa. Ora considera anche solo quel particolare della lanterna. Se si guardano solo i fatti nudi e crudi, dobbiamo semplicemente fingere che la lanterna sia pericolosa. Macché, credo che potremmo lavorare alla luce di una processione di torce se volessimo. Ma adesso che ci penso, dobbiamo andare in

cerca di qualcosa che si possa trasformare in una sega, alla prima occasione. — A che cosa ci serve una sega? — A che cosa ci serve? Ma non dobbiamo segare la gamba del letto di Jim per liberare la catena? — Ma se hai appena detto che basta alzare la testata del letto per sfilare la catena! — Be’, tu non cambi mai, Huck Finn. Per fare una cosa tu pensi sempre al sistema più infantile. Ma non hai proprio mai letto un libro? Il Barone Trenck, o Casanova, o Benvenuto Cellini, o Enrico IV, proprio nessuno di quegli eroi? Chi ha mai sentito di liberare un prigioniero in quella maniera da vecchia zitella? No, il sistema seguito dalle migliori autorità è di segare la gamba del letto e rimetterla unita, inghiottire la segatura in modo che nessuno la veda, mettere un po’ di polvere e di grasso nel punto dove è stata segata, cosi nemmeno il più esperto siniscalco riesce a scoprire qualche segno e crede che la gamba del letto sia perfettamente sana. Poi, la notte che sei pronto, dai un bel calcio alla gamba e quella crolla, tu sfili la catena e via. Non ti resta altro da fare che assicurare ai merli la tua scala di corda, scivolare giù, romperti una gamba precipitando nel fossato, perché la scala di corda è sempre troppo corta di almeno cinque metri e sessanta, lo sai, no? E ad attenderti ci sono i tuoi cavalli e i tuoi fidi vassalli che ti raccolgono e ti buttano di traverso sull’arcione e via come il vento alla tua nativa Linguadoca, oppure in Navarra, o quello che è. È fantastico, Huck. Vorrei che ci fosse un fossato attorno a quella capanna. Se ci rimane tempo, la notte della fuga, ne scaveremo uno Io dico: — Ma a che ci serve un fossato se lo facciamo scappare da sotto la capanna? Ma lui non mi senti nemmeno. S’era già dimenticato di me e di ogni altra cosa. Si teneva il mento sulla mano e continuava a meditare. Di li a poco sospira e scuote la testa; poi sospira di nuovo e fa: — No, non serve proprio. Non si riesce proprio a giustificarne la necessità. — Di che cosa parli? — dico.

— Be’, di segare la gamba di Jim — dice. — Santo cielo! — dico io — certo che non ce n’è necessità. E perché mai vorresti tagliargli la gamba, ad ogni modo? — Be’, lo si legge in qualcuno dei migliori autori. Non riuscivano a liberarsi della catena e cosi si sono tagliati la mano e sono fuggiti. E una gamba andrebbe ancora meglio. Ma dobbiamo lasciar perdere l’idea questa volta. Non vedo sufficiente necessità e inoltre Jim è un negro e non ne capirebbe la ragione vagli a dire che cosi si costuma in Europa - quindi è meglio lasciar perdere. Però ci rimane ancora una cosa, possiamo procurarci una scala di corda: non c’è che da ridurre in strisce le nostre lenzuola e la scala di corda è subito fatta. Poi gliela possiamo far avere in una focaccia; di solito si fa cosi. E io di focacce ne ho mangiate anche di peggiori. — Ma Tom Sawyer, cosa dici! — dico io. — Jim non sa che farsene di una scala di corda. — Invece gli serve. Cosa dici tu, semmai; faresti meglio a dire che non ne capisci niente di questa cosa. Lui deve avere una scala di corda, ce l’hanno tutti. — Ma che diavolo se ne fa? — Che se ne fa? Può nascondersela nel letto, non è vero? Ecco quello che ne fanno tutti, e deve farlo anche lui. Huck, sembra che tu non voglia mai fare niente secondo le regole; tutte le volte tu vuoi inaugurare una tradizione inedita. Ammettiamo pure che non gli serva, ma non potrebbe rimanere nel letto, dopo che è scappato, come indizio? E non ti pare che avranno bisogno di indizi? Indubbiamente ne avranno bisogno. E non gliene vuoi lasciare? Sarebbe una bella buggerata, non ti pare? Mai sentito una cosa simile. — Bene — dico — se è nei regolamenti e lui deve avere una scala, d’accordo, facciamogliela avere, perché io non voglio andare contro nessun regolamento; ma c’è una cosa, Tom Sawyer: se noi ci mettiamo a fare a pezzi le nostre lenzuola per procurare a Jim la scala che ci vuole, finiremo nei guai con zia Sally, com’è vero che sei nato. Ora io la vedo cosi, e cioè che una scala fatta con corteccia di noce non costa nulla, non ci fa rovinare nulla ed è buona per metterla dentro a una focaccia e per nasconderla nel saccone di paglia del letto esattamente come qualsiasi scala di stracci. In quanto a Jim, lui non ha esperienza di nessun genere e quindi non gli importa niente che razza di...

— Oh, stupidaggini, Huck Finn; se io fossi ignorante come te me ne starei zitto, ecco che cosa farei. Chi ha mai sentito parlare di un prigioniero di stato che scappa con una scala di corteccia di noce? Ma è assolutamente ridicolo. — Bene, d’accordo, Tom, fa’ come vuoi; però se ascolti il mio consiglio, mi lasci prendere a prestito un lenzuolo dalla corda del bucato. Disse che era una buona idea, e quell’idea gliene suggerì immediatamente un’altra, e disse: — Prendi a prestito anche una camicia. — Ma a che ci serve una camicia, Tom? — Serve a Jim per scriverci sopra il suo diario. — Il diario di tua nonna. Jim non sa scrivere. — Ammettiamo pure che non sappia scrivere, può sempre tracciare dei segni sulla camicia, se noi gli costruiamo una penna con un vecchio cucchiaio di peltro o con un pezzo di ferro staccato da un cerchio di botte. — Ma, Tom, possiamo sempre staccare una piuma a un’oca e cosi gli facciamo una penna migliore e anche più in fretta. — I prigionieri non hanno oche che gli gironzolano attorno per le segrete, pronte a farsi strappare le penne, scioccone. Le penne loro se le fanno sempre con i pezzi più duri e più resistenti di vecchi candelieri d’ottone o cose del genere, su cui riescano a mettere le mani; e ci mettono settimane e settimane, mesi e mesi, per limarle, perché devono farlo strofinando il pezzo contro il muro. Quelli non ebbero una penna d’oca anche se ce l’avessero. È contro le regole. — Bene, e noi come gli procuriamo l’inchiostro? — Molti lo fanno con ruggine e lacrime; ma quelli sono i prigionieri comuni e le donne; le migliori autorità dicono che si deve usare il proprio sangue. Jim può fare cosi; e quando vuole inviare qualche normale messaggio misterioso per far sapere al mondo dove è tenuto in cattività, può scriverlo con una forchetta sul fondo di un piatto di latta e buttarlo fuori dalla finestra. La Maschera di Ferro faceva sempre cosi ed era un sistema maledettamente buono.

— Jim non possiede piatti di latta. Gli danno da mangiare in una pignatta. — Non fa niente; possiamo procurargliene noi qualcuno. — E se non c’è nessuno che sa leggere i suoi piatti? — Quella è una faccenda che non ci riguarda, Huck Finn. Tutto quello che lui deve fare è di scrivere sul piatto e poi buttarlo fuori. Non occorre che tu sia in grado di leggerlo. Il più delle volte non si riesce a leggere nulla di quello che un prigioniero scrive su un piatto di latta o su qualunque altra cosa. — E allora, che senso ha buttar via i piatti? — Maledizione, i piatti non sono mica del prigioniero. — Ma sono pur sempre di qualcuno, no? — Be’, supponiamo che lo siano. E che cosa importa al prigioniero di chi... Qui s’interruppe perché sentimmo che ci chiamavano per colazione e perciò andammo difilato a casa. Nel corso della mattinata, presi in prestito un lenzuolo e una camicia bianca, che erano appesi ad asciugare. Trovai poi un vecchio sacco e li misi dentro, quindi andammo giù nel bosco a prendere il « fuoco della volpe » e mettemmo dentro anche quello. Io continuavo a parlare di prendere in prestito perché era come ne parlava papà, ma Tom disse che non era prestito, era furto. Ma disse che noi rappresentavamo un prigioniero e i prigionieri non si preoccupano di come ottengono una cosa, purché la ottengano, e nessuno trova da ridire su questo fatto. Non è un crimine se un prigioniero ruba una cosa che gli occorre per fuggire, disse Tom; è un suo diritto. E cosi, fintantoché noi rappresentavamo un prigioniero, avevamo il sacrosanto diritto di rubare qualunque cosa ci potesse anche lontanamente servire per toglierlo dalla prigione. Disse che, se non si trattava di prigionieri, allora era una cosa molto diversa e nessuno, se non una persona abietta e meschina, poteva rubare se non era prigioniero. Cosi decidemmo di rubare tutto quello che ci veniva a tiro. Invece si mise a fare tanto baccano un giorno, perché io avevo rubato un cocomero dall’orto del negri e me

l’ero mangiato; mi costrinse ad andare a portare dieci centesimi ai negri, senza dirgli perché glieli davo. Tom disse che quel che intendeva era che noi potevamo rubare qualunque cosa di cui avevamo bisogno. Bene, dico io, io avevo bisogno del cocomero. Ma lui obiettò che io non ne avevo bisogno per uscire di prigione, ecco dov’era la differenza. Disse che se io lo prendevo per nasconderci dentro un coltello e poi lo avo di nascosto a Jim per dargli la possibilità di uccidere il siniscalco, allora andava benissimo. Cosi io lasciai perdere perché non vedevo che vantaggio c’era a rappresentare un prigioniero se poi dovevo stare li a spremermi il cervello su distinzioni da pelo nell’uovo, tutte le volte che mi capitava l’occasione di sgraffignare un bel cocomero. Bene, come stavo dicendo, quella mattina aspettammo finché tutti furono occupati nelle loro faccende e non c’era più nessuno in giro; poi Tom trasportò il sacco nella baracca, mentre io rimasi poco lontano a fare la guardia. Poco dopo uscì e insieme andammo a sederci sulla catasta di legna a chiacchierare. Lui fa: — Ormai è tutto a posto, tranne gli arnesi; a quelli si rimedia facilmente. — Gli arnesi? — domando io. — Si. — Arnesi per fare cosa? — Ma per scavare, no? Non possiamo mica tirarlo fuori con i denti, ti pare? — Ma quei vecchi picconi malandati e le altre cose là dentro non vanno abbastanza bene per far uscire un negro dal buco? — dico io. Lui si volta e mi guarda con una tale aria di commiserazione che quasi mi metto a piangere, e mi dice: — Huck Finn, hai mai sentito parlare di un prigioniero fornito di picconi e di badili e di tutti gli accorgimenti più moderni per aprirsi la strada alla fuga? Ora ti voglio domandare, se hai un briciolo di comprendonio: che possibilità gli darebbe mai questo di essere un eroe? Allora è meglio prestargli la chiave della prigione e non se ne parla più. Picconi e badili... ma non li darebbero neanche a un re.

— Be’, allora — dico io — se non ci servono né picconi né badili, di che cosa abbiamo bisogno? — Di un paio di coltelli a serramanico. — Per scavare sotto le fondazioni di quella baracca? — Proprio. — Accidenti, ma è pazzesco, Tom. — Non importa quanto sia pazzesco, si tratta della maniera giusta, nel rispetto delle regole. E non ce n’è un’altra, almeno che io sappia, e ho letto tutti i libri che possono fornire qualche informazione su queste cose. Si mettono sempre a scavare con un coltello a serramanico, e non nella semplice terra, bada, ma generalmente nella solida roccia. E ci vogliono settimane e settmane e settimane; è un lavoro che non fnisce mai. Pensa a uno di quei prigionieri in una segreta sotterranea del Castello Dilf, nel porto di Marsiglia, che si è scavato un cunicolo in quel modo; quanto pensi che ci abbia impiegato? Io - Non lo so. — Bene, indovina. — Non lo so. Un mese e mezzo? — Trentasette anni! Ed è sbucato fuori in Cina. Ecco come si fa. Vorrei che il fondo di questa fortezza fosse fatto di solida roccia. — Ma Jim non conosce nessuno in Cina. — E che c’entra questo? Nemmeno quel prigioniero. Ma tu ti perdi sempre su cose secondarie. Perché non cerchi di cogliete il punto principale? — E va bene. A me non importa dove esce, purché esca, e neanche a Jim, credo. Ma c’è ancora una cosa, ad ogni modo, e cioè che Jim è troppo vecchio per mettersi a scavare con un coltello. Non resisterà fino in fondo. — Si che resisterà. Non penserai che ci vogliano trentasette anni per scavare un buco sotto una sporca fondazione di terra, no? — E quanto ci vorrà, Tom?

— Be’, non possiamo rischiare di impiegare tutto il tempo che ci vorrebbe, perché può darsi che fra poco zio Silas abbia una risposta da New Orleans. Allora saprà che Jim non viene da quelle parti. Quindi la sua prima mossa sarà di far sapere in giro la faccenda di Jim, o qualcosa del genere. Cosi non possiamo rischiare di metterci tutto il tempo che si dovrebbe per tirarlo fuori. Ragionevolmente io penso che ci dovremmo impiegare un paio d’anni, ma non possiamo. Dato che le circostanze sono cosi incerte, ecco quello che io suggerirei: noi incominciamo a scavare, il più in fretta possibile; e dopo possiamo far fìnta, con noi stessi, che ci stiamo dietro da trentasette anni. Allora si può anche tirarlo fuori e farlo scappare la prima volta che ci sarà un allarme. Si, penso che questo sia il modo migliore. — Adesso si che c’è un po’ di buonsenso — dico io. — Far finta non ci costa nulla e non ci darà nessun fastidio; e se c’è qualche obiezione, io sono disposto anche a far finta che ci stiamo dietro da centocinquanta anni. Non mi costerebbe nessuna fatica una volta che ci ho preso la mano. Cosi adesso vado a dare un’occhiata se mai riesco a grattare un paio di coltelli a serramanico. — Grattane tre — mi dice lui. — Ce ne serve uno per costruire una sega. — Tom, se non è troppo contro le regole e contro la religione suggerirlo — dico io — c’è una vecchia lama di sega, tutta arrugginita, laggiù, che spunta fuori dal tetto, dietro l'affumicatolo. Mi guarda con aria stanca e scoraggiata, poi mi fa: — E inutile tentare di insegnarti qualche cosa, Huck. Fila a grattare i tre coltelli, e che siano tre. — E io eseguii l’ordine.

Il parafulmine - Migliorare il suo record - Un’eredità per i posteri - Rubare cucchiai - In mezzo ai cani Una figura nobile

Capitolo 36

Quella sera, non appena siamo convinti che tutti ormai dormono, scendiamo per l’asta del parafulmine, ci chiudiamo nella baracca, tiriamo fuori il nostro fascio di «fuoco della volpe» e ci mettiamo al lavoro. Sgomberiamo bene il terreno per circa un metro a partire dal centro del tronco di fondo. Tom disse che in quel momento ci si trovava esattamente dietro il letto di Jim e là dovevamo scavare e, alla fine, nessuno si sarebbe accorto che c’era un buco nella capanna, perché la coperta del letto di Jim scendeva quasi fino a terra: avrebbero dovuto alzarla e poi guardare sotto per vedere il buco. Cosi scavammo e scavammo, con i nostri coltelli, fino quasi a mezzanotte, e a quell’ora eravamo stanchi morti, con le mani piene di vesciche, eppure sembrava che non avessimo quasi fatto niente. Alla fine io dico: — Questo non è un lavoro da trentasette anni, ma da trentotto anni, Tom Sawyer. Non disse niente. Ma sospirò e poi anche lui smise di scavare e rimase in meditazione. Finalmente disse: — È inutile, Huck, non funziona. Se fossimo prigionieri andrebbe benissimo, perché allora avremmo tutti gli anni che ci vogliono e nessuna fretta; non avremmo che qualche minuto al giorno per scavare, durante il cambio della guardia, e cosi non ci verrebbero le vesciche alle mani, ma si potrebbe continuare anno dopo anno e fare il nostro lavoro per bene, proprio come andrebbe fatto. Ma noi non possiamo prendercela con comodo, siamo costretti a sbrigarci perché non c’è tempo da perdere. Se facciamo un’altra notte come questa, poi siamo costretti a interrompere tutto per una settimana per far guarire le mani, senza nel frattempo poter toccare coltello.

— Be’, allora, che cosa facciamo, Tom? — Ti dirò. Non è giusto e non è morale e non vorrei che si sapesse in giro, ma è l’unico sistema: dobbiamo metterci a scavare con i picconi e far finta che siano coltelli a serramanico. — Questo sì che si chiama ragionare — dissi io. — La tua testa funziona sempre meglio col ar del tempo, Tom Sawyer. Quel che fa al caso nostro sono i picconi, morale o no; e quanto a me, non m’importa un fico secco della morale. Quando mi metto in mente di portar via un negro, o un cocomero, o un libro alla scuola di catechismo, non sto tanto a guardare come la cosa viene fatta, purché venga fatta. Quello che m’interessa è il mio negro, o il mio cocomero, o il libro, e se un piccone è l’arnese che ci vuole, è con quello che io vado a prendere il mio negro o quel cocomero o quel libro della scuola di catechismo, e non darei un topo marcio per sapere cosa ne pensano le autorità. — Be’ — dice lui — in un caso come questo c’è una buona giustificazione per i picconi; se non fosse cosi, io non l’approverei mai e non sopporterei di vedere infrante tutte le regole, perché quel che è giusto è giusto e quel che è sbagliato è sbagliato e uno non è autorizzato a fare cose sbagliate quando non è ignorante e conosce il meglio. Potrebbe magari andar bene per te tirar fuori Jim con il piccone, senza neanche fingere, perché tu non conosci il meglio; ma per me non andrebbe affatto, perché io conosco il meglio. Dammi un coltello. Aveva il suo a portata di mano, tuttavia gli porsi il mio. Lo buttò a terra e disse: — Dammi un coltello a serramanico. Non sapevo che cosa fare, ma poi mi venne un lampo. Mi misi a frugare in mezzo ai vecchi arnesi, trovai un piccone e glielo diedi; lui lo prese e incominciò a lavorare senza dire parola. Era fatto cosi: preciso e pieno di principi. Io riuscii a trovare una pala e cosi ci mettemmo a picconare e spalare, a turno, facendo volare il terreno. Ci impegnammo a fondo per una buona mezz’ora, cioè il massimo che potevamo resistere, ma alla fine almeno c’era un bel buco. Quando fui di sopra, nella nostra stanza, guardai fuori dalla finestra e vidi Tom che cercava di migliorare il suo record con il parafulmine, ma con le mani che aveva non ci riusciva. Alla fine disse:

— È inutile, non ce la faccio. Secondo te che cosa potrei fare? Non ti viene in mente niente? — Si — dico io — ma credo che sia contro le regole. Vieni su per le scale e fai finta che siano il parafulmine. E cosi lui fece. Il giorno successivo Tom rubò in casa un cucchiaio di peltro e un candeliere d’ottone per fame delle penne per Jim, e sei candele di sego. Io gironzolai attorno alle capanne dei negri aspettando il momento buono, e rubai tre piatti di latta. Tom disse che non bastavano ma io osservai che nessuno avrebbe mai visto i piatti che Jim buttava fuori, perché andavano a finire tra la camomilla e le ortiche che crescevano sotto la finestrella e quindi potevamo recuperarli e usarli quante volte volevamo, cosi Tom fu soddisfatto. Poi disse: — Ora bisogna studiare come far avere a Jim queste cose. — Gliele facciamo are attraverso il buco — suggerii — appena l’abbiamo finito. Mi guardò con vero disprezzo e disse che nessuno aveva mai sentito un’idea cosi idiota, quindi si mise a pensarci. Di lì a poco disse che aveva escogitato due o tre sistemi, ma non c’era ancora urgenza di decidere quale scegliere. Disse che per prima cosa dovevamo mettere al corrente Jim. Quella sera scendemmo per l’asta del parafulmine poco dopo le dieci, portando con noi una delle candele; ci fermammo ad ascoltare sotto la finestrella e sentimmo che Jim russava; cosi gli tirammo dentro la candela, ma lui non si svegliò. Ci diamo dentro di piccone e di badile e in circa due ore e mezzo il lavoro è fatto. Ci infilammo dentro sotto il letto di Jim e ci trovammo nella capanna; tastando intorno trovammo la candela, l’accendemmo tenendola sopra Jim per un poco e trovammo che lui aveva l’aria di uno che sta bene e ha la coscienza tranquilla, e poi lo svegliammo con delicatezza, piano piano. Fu così felice di rivederci che per poco non si metteva a piangere; e ci chiamò i suoi tesori e tutti i nomi affettuosi che riuscì a pensare; e voleva che andassimo subito a cercargli una lima con cui tagliare la catena dalla sua gamba e svignarsela senza perdere un minuto. Ma Tom gli dimostrò quanto sarebbe stato irregolare, si sedette e si mise a raccontargli tutto dei nostri piani, e come potevamo modificarli in un minuto ogni volta che ci fosse stato un allarme, e lo convinse

che non doveva avere la minima paura perché noi lo volevamo far scappare di sicuro. Cosi Jim disse che per lui andava benissimo, e noi restammo là seduti a chiacchierare dei vecchi tempi e poi Tom gli fece un mucchio di domande, e quando Jim gli raccontò che zio Silas andava a trovarlo quasi tutti i giorni per pregare con lui e che zia Sally andava spesso a vedere se stava bene e se aveva abbastanza da mangiare e che tutt’e due erano gentili che di più non si poteva, Tom disse: — Adesso so come risolvere la cosa. Ti manderemo degli oggetti per mezzo loro. Io dissi: — Non fare niente del genere; è l’idea più sballata che abbia mai sentito. — Ma lui non ci fece il minimo caso e andò avanti. Era il suo modo di fare quando aveva progettato qualcosa. Cosi informò Jim che gli avrebbe fatto avere di straforo la scala di corda in una focaccia e altri oggetti voluminosi per mezzo di Nat, il negro che gli portava da mangiare, e gli raccomandò di stare all’erta, di non mostrarsi sorpreso e di fare in modo che Nat non vedesse quando la apriva. Poi avrebbe infilato le cose più piccole nelle tasche dello zio e toccava a lui rubargliele, e altre ancora le avremmo legate ai lacci o messe nella tasca del grembiule della zia se ne avevamo l’occasione, e naturalmente gli spiegammo di quali oggetti si trattava e a che dovevano servire. E gli dicemmo che doveva tenere un diario sulla camicia con il sangue, eccetera, eccetera. In breve gli dicemmo tutto. Jim non riusciva a capire molto il senso di tutto questo, ma ammetteva che eravamo bianchi e certo ne sapevamo più di lui; quindi rimase soddisfatto e promise che avrebbe fatto proprio come Tom gli aveva detto di fare. Jim aveva molte pipe di granturco e una quantità di tabacco, cosi ce la sammo allegramente tutti insieme; poi noi strisciammo fuori attraverso il buco e andammo a letto con le mani conciate da far spavento. Tom era contento come una pasqua. Disse che era il più bel divertimento che avesse provato in vita sua e anche il più intellettuale; se trovava il sistema adatto, era deciso a far continuare lo so per il resto della nostra vita e a lasciar Jim da tirar fuori ai nostri figli, perché pensava che anche Jim avrebbe finito per prenderci un gusto sempre maggiore a mano a mano che ci faceva l’abitudine. Tirando innanzi in quel modo, la fuga poteva durare anche ottant’anni e sarebbe stato un tempo da record. Disse che avrebbe reso famosi tutti quelli che ci avevano messo mano.

Il mattino seguente andammo alla catasta di legna e riducemmo in piccoli pezzi maneggevoli il candeliere di ottone e poi Tom se li mise in tasca assieme al cucchiaio di peltro. Andammo quindi alle capanne dei negri e, mentre io tenevo occupato Nat, Tom infilò un pezzetto del candeliere in una pagnotta di granoturco che si trovava nel tegame di Jim e poi ce ne andammo con Nat per vedere come andava a finire, e andò a finire in un modo semplicemente magnifico: quando Jim addentò la pagnotta per poco non si fracassò tutti i denti e non ci si poteva aspettare un risultato migliore. Questo disse lo stesso Tom. Jim non lasciò trapelare nulla, ma finse che era stato soltanto un sassolino o quelle cose che vanno sempre a finire ne! pane; ma dopo quell’avventura non s’azzardò mai più ad addentare qualcosa prima di averci ficcato dentro la forchetta almeno in tre o quattro posti. E mentre eravamo lì nella penombra, saltano fuori un paio di cani, da sotto il letto di Jim, e altri continuavano ad infilarsi dentro finché ad un certo momento ce ne furono undici e non c’era più spazio per respirare. Perbacco, avevamo dimenticato di chiudere la porta della baracchetta. Il negro Nat riuscì soltanto a urlare: — Le streghe! — e si lasciò cadere per terra in mezzo ai cani, e incominciò a gemere come se stesse morendo. Tom spalancò di colpo la porta e scagliò fuori una fetta della carne di Jim, cosi i cani vi si precipitarono sopra e nei giro di due secondi Tom era uscito e rientrato chiudendosi la porta alle spalle, e io sapevo che aveva sistemato anche l’altra porta. Poi incominciò a lavorarsi il negro; lo consolava e gli faceva coraggio, chiedendogli se gli era parso di vedere anche questa volta qualcosa di strano. Lui s’alzò, si guardò attorno strizzando gli occhi e disse: — Padron Sid, voi direte che sono uno stupido, ma, se non mi è sembrato di vedere quasi un milione di cani, o di demoni, o che so io, che muoia qui dove sono. Li ho visti, sono sicuro. Padron Sid, li ho sentiti, li ho sentiti; mi erano tutti addosso. Maledizione, vorrei mettere le mani su una di quelle streghe, almeno una, non chiedo di più. Ma soprattutto vorrei che mi lasciassero in pace, ecco quello che vorrei. Tom gli disse: — Be’, ti dirò io ciò che penso. Perché vengono qui le streghe all’ora di colazione di questo negro fuggitivo? Perché hanno fame, ecco perché. Ma tu fagli una focaccia: questo devi fare.

— Ma santo cielo, Padron Sid, come faccio io a preparare una focaccia per le streghe? Non so da che parte incominciare. Non ho mai sentito parlare prima d’ora di una cosa del genere. — Be’, allora, te la dovrò preparare io stesso. — Davvero me la preparerete, tesoro? Davvero? Io bacerò la terra sotto i vostri piedi, bacerò! — D’accordo, te la farò io, perché sei tu, e sei stato buono con noi e ci hai lasciato vedere il negro scappato. Ma tu devi stare molto attento. Quando veniamo noi, tu volta le spalle; e qualunque cosa noi mettiamo nella pentola, devi far finta di non vedere niente. E bada di non guardare quando Jim vuota la pentola, altrimenti ti può capitare qualcosa, non so neanch’io che cosa. E soprattutto non toccare le cose per le streghe. — Toccarle, Padron Sid? Ma cosa dite mai? Io non ci metterei sopra neanche la punta di un dito; nemmeno per dieci centomila milioni di dollari, ce lo metterei.

L’ultima camicia - Con un’aria trasognata - Allora scoppiò - Ordine di partenza - La torta per le streghe

Capitolo 37

Tutto era sistemato. Allora lasciammo la capanna di Jim e andammo a frugare tra i rifiuti ammucchiati nel cortile di dietro, dove c’erano vecchi stivali, stracci, pezzi di bottiglia, scatole di latta sfondate e altra roba di questo genere; rovistando là dentro trovammo un vecchio catino di latta, tappammo i buchi alla meglio per cuocerci dentro la focaccia; lo portammo giù in cantina e lo riempimmo di farina. Trovammo anche un paio di chiodi lunghi che Tom disse andavano bene al prigioniero per incidere sui muri della segreta il suo nome e le sue pene, e ne lasciò cadere uno nella tasca del grembiule di zia Sally che era appeso a una sedia, mentre l’altro lo infilammo sotto il nastro del cappello di zio Silas, che era sullo scrittoio, perché avevamo sentito dai bambini che papà e mamma intendevano andare quella mattina nella capanna del negro scappato; e quindi andammo a colazione e Tom lasciò cadere il cucchiaio di peltro nella tasca della giacca di zio Silas; zia Sally non era ancora venuta, perciò la si dovette aspettare un po’. E quando arrivò era eccitata, rossa e cosi adirata che non riusci neanche ad aspettare la fine della preghiera, e poi si mise a versare il caffè con una mano e con l’altra a picchiare con il ditale sulla testa del bambino che le stava più vicino e disse: — Ho frugato dovunque, di sopra e di sotto, e questa è grossa, non riesco a capire che fine abbia fatto l’altra tua camicia. Il mio cuore precipitò giù fra i polmoni e il fegato e fini tra le budella, e una maledetta crosta di pane lo segui scendendo per la gola e a mezza strada incontrò un colpo di tosse e venne sparata attraverso la tavola colpendo nell’occhio uno dei bambini, che si contorse come un verme da esca e lanciò un urlo che

sembrava un grido di guerra. Tom diventò blu intorno alle orecchie e la situazione fu piuttosto movimentata per circa un quarto di minuto o giù di li, e se avessi trovato un acquirente mi sarei certo venduto a metà prezzo. Ma poi tutto ritornò normale; era stata la sorpresa che ci aveva colti cosi a freddo. Zio Silas disse: — È stranamente curioso; non riesco a spiegarmelo. Eppure so benissimo che me la sono levata, perché... — Perché indosso non puoi averne che una. Ma sentite quell’uomo! Lo so che te la sei levata e lo so meglio di te con quella tua memoria svanita, perché era distesa ad asciugare ieri: l’ho vista con i miei occhi. Ma non c’è più, questo è tutto, e dovrai cambiartela con una di flanella rossa, finché non trovo il tempo per fartene una nuova. Ed è la terza che ti faccio in due anni; bisogna fare i salti mortali per tenerti fornito di camicie, e che cosa tu riesca a combinare con le camicie è una cosa che non capirò mai. Mi pare che potresti imparare ad averne un po’ più cura, alla tua età. — Lo so, Sally, e davvero cerco di fare tutto quel che posso. Ma forse non è tutta colpa mia, perché sai che io le camicie non le vedo e non ho niente a che fare con loro se non quando le ho indosso; e non mi pare di averne mai perduta una mentre la portavo. — Be’, certo non è colpa tua se non è mai successo, Silas; se avessi potuto l’avresti fatto, io credo. E la camicia non è l’unica cosa che sia sparita. È sparito anche un cucchiaio; e non è tutto. Ce n’erano dieci, e adesso sono soltanto nove. Penso che la camicia l’abbia mangiata il vitello, ma un vitello non ha mai mangiato un cucchiaio, questo è certo. — Be’, che altro è sparito, Sally? — Sono sparite anche sei candele, ecco cosa. Le avranno portate via i topi, dev’essere cosi; ma mi domando perché un bel giorno non ci portano via anche tutta la casa visto che tu devi sempre tappare i buchi e non ti decidi mai a farlo; e se non fossero stupidi potrebbero anche dormirti sulla testa, Silas, e tu non te ne accorgeresti neanche. Ma non si può dare la colpa del cucchiaio al topi, di questo sono sicurissima.

— Be’, Sally, è tutta colpa mia e lo riconosco; sono stato molto trascurato; ma non lascerò are domani senza tappare tutti quei buchi. — Oh, io non avrei tanta fretta, si farà l’anno venturo. Matilda Angelina Aramlnta Phelps! Toc! fece il ditale, e la bambina ritirò di colpo le zampette dalla zuccheriera senza più girarci attorno. Proprio in quel momento appare sulla soglia la domestica negra e dice: — Padrona, è sparito un lenzuolo! — È sparito un lenzuolo? Ma per l’amor di Dio! : — Li tappo oggi stesso quei buchi ! — dice zio Silas con aria afflitta. — Oh, smettila! Credi che siano stati i topi a prendere il lenzuolo? Dov’è andato a finire, Lize? — Nel nome di Dio non ne ho idea, signora Sally. Era sulla corda ad asciugare ieri, ma poi è sparito; adesso non c’è più. — Credo che sia arrivata la fine del mondo. Non ho mai visto una cosa simile dacché sono nata. Una camicia, un lenzuolo, un cucchiaio, sei cande... — Padrona — disse accorrendo una giovane mulatta — manca un candeliere d’ottone. — Fuori di qui, svergognata, o ti tiro in testa una pignatta! Era sul punto di scoppiare. Io cominciai a studiare l’occasione buona; pensavo di filar fuori e battermela per il bosco finché le acque non si fossero calmate. Lei continuava a sbraitare portando avanti da sola la sua rivoluzione e tutti gli altri se ne stavano zitti zitti e mansueti; e alla fine zio Silas, con l’aria non poco ebete, pescò dalla tasca il famoso cucchiaio. La zia si fermò dov’era, con la bocca spalancata e le mani levate al cielo; e quanto a me, avrei preferito trovarmi a Gerusalemme o giù di li. Ma non per molto, perché subito lei dice: — Esattamente come mi aspettavo. Cosi te lo sei tenuto in lasca per tutto il tempo, e probabilmente ci hai anche le altre cose. Come è finito In tasca tua?

— Ti assicuro che non lo so, Sally — dice lui con l’aria di scusarsi — altrimenti lo sai che te lo direi. Prima di colazione stavo studiando il mio testo di Atti 17 e probabilmente me lo sono messo in tasca, senza accorgermi, credendo di mettermi in tasca la Bibbia, e dev’essere proprio cosi perché la Bibbia non c’è. Adesso vado a vedere se la Bibbia è rimasta dov’era, allora sarò convinto che non me la sono messa in tasca e sarà la prova che ho posato la Bibbia e ho preso il cucchiaio e cosi... — Oh, per amor del cielo! Lasciatemi un po’ in pace! Adesso andate via, via tutti dal primo all’ultimo, e non mi venite più vicino finché non mi sarò calmata. Io l’avrei capita anche se l’avesse pensato dentro di sé, figuratevi adesso che l’aveva detto chiaro e tondo; ed ero pronto a ubbidire anche se fossi stato morto. Mentre avamo per il salotto, il vecchio prese il cappello e il chiodo cadde per terra; lui semplicemente lo raccolse, lo depose sulla mensola del camino, senza dire una sola parola, e usci. Tom lo vide fare in quel modo, si ricordò del cucchiaio e disse: — Bene, è inutile mandare qualcosa per mezzo di lui; non ci si può fidare. — Poi aggiunse: — Però con quel cucchiaio cl ha fatto un bel favore, senza saperlo, cosi anche noi gliene faremo uno senza che lui lo sappia: tapperemo per lui i buchi dei topi. Giù in cantina ce n’era una quantità e ci impiegammo un’ora buona, ma si fece un lavoro davvero perfetto e a regola d’arte. Poi sentimmo rumore di i per le scale, spegnemmo la candela e andammo a nasconderci. Ed ecco comparire il vecchio con la candela in una mano e nell’altra un po’ di stracci; aveva un’aria trasognata. Incominciò a ispezionare in giro, prima una tana poi l’altra, finché le ò tutte. Poi restò li fermo per cinque minuti a pensare, staccando le gocce di cera della candela. Finalmente si volse, lento e trasognato, verso la scala, dicendo: — Be’, che possa morire se mi ricordo quando ho fatto questo lavoro. Adesso potrei dimostrarle che per i topi non era colpa mia. Ma non importa, lasciamo perdere. Tanto non servirebbe a niente, credo. E cosi, sempre brontolando, arrivò di sopra e noi ce ne andammo. Era un vecchio tanto simpatico. E lo è ancora. Tom era piuttosto preoccupato su come fare per il cucchiaio, ma disse che

dovevamo averlo; quindi si mise a pensare. Quando ebbe risolto il problema mi disse come si doveva fare; poi rientrammo e ci mettemmo in attesa intorno al cestino dei cucchiai finché vedemmo arrivare zia Sally; allora Tom incominciò a contare i cucchiai mettendoli da una parte, uno dopo l’altro, e io ne infilai uno su per la manica. Tom disse: — Ma guarda, zia Sally, anche adesso ce ne sono soltanto nove. Lei risponde: — Andate fuori a giocare e lasciatemi in pace. So ben io quanti sono, ho appena finito di contarli. — Be’, io li ho contati due volte, zietta, e sono arrivato solo a nove. Sembrò sul punto di perdere la pazienza, ma naturalmente venne a contarli: chiunque l’avrebbe fatto. — Per tutti i santi, è vero, non ce ne sono che nove — disse. — Ma come mai? Maledizione a questi cucchiai. Li conto ancora. Cosi tirai fuori quello che avevo io e quando li ebbe contati lei dice: — All’inferno questa maledetta storia; adesso sono dieci! — e sembrava ad un tempo offesa e preoccupata. Ma Tom riprese: — Ma, zia, a me non sembra che siano dieci. — Testone, non mi hai vista contarli? — Lo so, ma... — Bene, li conterò di nuovo. Cosi ne sgraffignai uno, e risultarono nove come la volta precedente. Be’, allora scoppiò, e tremava tutta, tanto era furiosa. Ma contò e ricontò finché non capi più niente e alla fine prese a contare qualche volta anche il cestino come un cucchiaio; cosi tre volte il numero veniva fuori giusto e tre volte sbagliato. Al-

lora afferrò il cestino e lo scaraventò all’altra estremità della stanza, mollò una pedata al gatto e lo fece volare lontano e ci gridò di filare, di lasciarla in pace, e se le ritornavamo tra i piedi prima di pranzo ci spellava vivi. Cosi avevamo il famoso cucchiaio e lo infilammo nella tasca del suo grembiule proprio mentre ci stava dando l’ordine di andarcene, e Jim lo ricevette regolarmente, insieme con il chiodo, prima di mezzogiorno. Noi eravamo molto soddisfatti di questa faccenda e Tom ammise che valeva il doppio della fatica che ci era costato, perché ormai lei non sarebbe più riuscita a contare due volte i cucchiai senza sbagliare per tutta la vita, e anche se li avesse contati giusti non ci avrebbe creduto. Disse che dopo averli contati per tre giorni ne usciva pazza, ma era sicuro che poi avrebbe rinunciato per sempre e avrebbe minacciato di morte chiunque le avesse suggerito di ricontarli anche una sola volta. Cosi quella sera rimettemmo il lenzuolo sulla corda del bucato, e ne rubammo uno nell'armadio; continuammo cosi, a rimetterne a posto uno e a riprenderne un altro, per due giorni, finché non seppe più quante lenzuola avesse e disse che non gliene importava più niente e non aveva intenzione di tormentarsi il resto della sua vita per questo: non li avrebbe più contati neanche se ne andava di mezzo la vita; preferiva morire piuttosto. Cosi adesso eravamo a posto per quanto riguardava la camicia, il lenzuolo, il cucchiaio e le candele, con l’aiuto del vitello, dei topi e del caos nei conti. Per ciò che riguarda il candeliere, era una cosa senza conseguenze: ben presto sarebbe stata dimenticata. Ma la torta fu davvero un’impresa; ci costò infiniti guai. La preparammo nel bosco e fu là che la cuocemmo; finalmente riusci, e anche molto bene, ma non in un solo giorno. Dovemmo usare tre bacinelle di farina prima di concludere e ne uscimmo bruciacchiati dappertutto e con gli occhi fuori uso dal fumo; perché, in realtà, noi non volevamo altro che una crosta e non era facile averla bella alta: cedeva sempre nel mezzo. Ma naturalmente alla fine riuscimmo ad escogitare il sistema adatto, che consisteva nel far cuocere anche la scala di corda dentro alla torta. Cosi la seconda notte ci insediammo da Jim, riducemmo in piccole strisce il lenzuolo; le intrecciammo insieme e molto prima dell’alba avevamo già una bellissima corda con la quale si poteva anche impiccare una persona. E si fìnse che per farla ci fossero voluti nove mesi. Al mattino ce la portammo nel bosco, ma non voleva entrare nella torta. Essendo fatta di un lenzuolo intero, ce n’era abbastanza per quaranta torte, se l’avessimo

voluto, e poi ne avanzava anche per la zuppa e per la salsa. Ne avevamo per un pranzo completo. Ma non ne avevamo bisogno. Ce ne occorreva soltanto per la torta, sicché buttammo via il resto. Non ci azzardammo a cuocerla nella bacinella, nel timore che la stagnatura fondesse; ma zio Silas possedeva un nobile scaldino di rame con un lungo manico dì legno, che teneva in grande considerazione perché era appartenuto a uno dei suoi antenati ed era venuto dall’Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore sul Mayflower o su una di quelle prime navi che varcarono l’oceano. Era nascosto su in solaio insieme con un mucchio di altre vecchie padelle e roba simile che avevano un gran valore, non perché valessero sul serio ma in quanto reliquie del ato, sapete. Lo prendemmo di soppiatto e ce lo portammo via, ma non funzionò con le prime torte, perché non avevamo ancora scoperto il trucco, ma l’ultima volta se la cavò egregiamente. Lo riempimmo di farina, lo sistemammo sui carboni, ci infilammo la corda di stracci, con sopra una bella copertura di farina e, chiuso il coperchio, lo ricoprimmo di tizzoni e restammo lontani un buon metro, tenendolo per il lungo manico, belli freschi e comodi: in un quarto d’ora saltò fuori una torta che era una soddisfazione guardarla. Ma chi la voleva mangiare doveva armarsi di un paio di barili di stuzzicadenti, perché se quella scala di corda non gli bloccava la bocca, allora io non so più quel che mi dico, senza contare poi il mal di pancia capace di durare all’infinito. Nat non guardò quando mettemmo la torta per le streghe nella padella di Jim; e inoltre aggiungemmo tre piatti di latta sul fondo della padella, sotto la roba da mangiare. Cosi Jim ricevette tutto a perfezione e, non appena si trovò solo, affondò le mani nella torta e nascose la scala di corda nel saccone del letto, e graffiò qualche scarabocchio su un piatto di latta che gettò fuori dalla finestrella.

Il blasone - Un esperto sovrintendente - Gloria indesiderata - Un piagnucoloso

Capitolo 38

Fabbricare quelle penne fu una fatica da disperati e così per la sega; però Jim era del parere che il peggio sarebbe stato l’iscrizione. Era quello che il prigioniero doveva scalfire sul muro. Ma la si doveva fare; Tom diceva che era indispensabile: non c’era mai stato alcun caso di prigioniero di stato che non avesse inciso la sua brava iscrizione da lasciarsi dietro, assieme al suo blasone. — Guarda Lady Jane Gray — diceva — guarda Gilford Dudley; guarda il vecchio Northumberland! Be’, Huck, ammettiamo pure che sia una gran noia, e con ciò? Che cosa vuoi fare? Come credi di scriverla? Jim è tenuto a fare questa iscrizione e a tracciare il blasone. Lo fanno tutti. Jim dice: — Ma signor Tom, Io il blasone non ce l’ho mai avuto; lo non ho proprio nulla tranne questa vecchia camicia e sapete che ci devo anche scrivere sopra il diario. — Oh, tu non capisci, Jim; un blasone è una cosa del tutto diversa. — Be’ — dico io — Jim ha ragione, in ogni modo, quando dice che non ha il blasone, perché non ce l’ha. — Credo di saperlo anch’io — risponde Tom — ma puoi scommettere che ne avrà uno prima di uscire di qui, perché deve andar fuori con le carte In regola e non ci saranno incrinature nella sua impresa. Cosi mentre io e Jim ci mettemmo a limare le penne su un pezzetto di mattone, Jim facendo la sua con un pezzo di ottone e io con il cucchiaio, Tom si mise al lavoro per ideare il blasone. Poco dopo disse che ne aveva trovati cosi tanti che

non sapeva più quale scegliere, ma forse ce n’era uno per il quale avrebbe deciso. Disse: — Sullo scudo avremo una banda oro nel quarto di destra, una croce di Sant’Andrea amaranto nella fascia, un cane accucciato come simbolo di guardia e sotto ai suoi piedi una catena merlata come simbolo di schiavitù; gallone verde dentellato in sommo, e tre linee raggianti in campo azzurro; punte dell’ombelico rampanti su gallone dentellato; cresta: il negro fuggitivo in nero, con il suo fagotto sulla spalla, sul quarto di sinistra, e un paio di figure cremisi per sostegno - che siamo io e te -; motto: Maggiore fretta, minore atto. L’ho scoperto in un libro e vuol dire che più si ha fretta, meno presto si fa. — Misericordia — faccio io — ma che cosa vuol dire tutto il resto? — Non abbiamo il tempo per starci a preoccupare — mi risponde — dobbiamo accettare tutto ad occhi chiusi. — Be’, però — dico io — almeno qualcosa. Che cos’è una fascia? — Una fascia... una fascia è... Non ti serve a niente sapere che cos’è una fascia, Huck. Farò vedere a Jim come sì fa quando ci arriva. — Quante storie, Tom — dico io. — Mi pare che potresti anche dirmelo. Cos’è il quarto di sinistra? — Oh, non lo so. Ma bisogna averlo. Tutti i nobili lo hanno. Quello era il suo modo di fare. Se non gli garbava spiegarti una cosa, non te la spiegava. Potevi insistere una settimana, non cambiava nulla. Ormai aveva sistemato la faccenda del blasone e quindi si diede a rifinire quella parte del lavoro che riguardava la disperata iscrizione del prigioniero: diceva che Jim doveva assolutamente scriverne una, come tutti. Ne pensò tutta una serie e le trascrisse su un pezzo di carta; poi ce le lesse:

1. Qui sìnfranse in cattività un cuore.

2. Qui un povero prigioniero, negletto dal mondo e dagli amici, consunse la sua vita d’afflizioni. 3. Qui un cuore solingo si spezzò e uno spirito trovò requie, dopo trentasei anni di oscura prigionia. 4. Qui, senza casa e senza amici, dopo trentasette anni di amara cattività, peri un nobile straniero, figlio naturale di Luigi XIV.

A Tom tremava la voce, mentre le leggeva, e quasi sveniva. Quando ebbe terminato, non riuscì in nessun modo a decidere quale fosse la migliore per Jim da incidere sul muro, erano tutte cosi belle; poi finalmente dichiarò che gliele avrebbe fatte scrivere tutte. Jim osservò che gli ci voleva un anno per graffiare tutta quella roba sui tronchi con un chiodo e poi oltretutto non sapeva come fare le lettere; ma Tom disse che le avrebbe tracciate per lui e Jim non aveva altro da fare che seguire le linee. Poi di li a poco disse: — Adesso che ci penso, i tronchi non vanno bene; non si parla mai di muri di legno nelle segrete dei castelli. Dobbiamo incidere l’Iscrizione su una pietra. Ci procureremo una pietra. Jim obiettò che la pietra era peggio del legno; disse che gli ci voleva tanto tempo per incidere le parole nella pietra che non sarebbe mai uscito vivo. Ma Tom disse che avrebbe permesso a me di aiutarlo. Poi diede un’occhiata per vedere come io e Jim ce la cavassimo con le penne. Era un lavoro duro, barboso e lungo e non dava certo alle mie mani alcuna possibilità di guarire dalle vesciche e sembrava di non andare mai avanti. Cosi Tom dice: — Io so come sistemare questa faccenda. Già dobbiamo procurarci una pietra per il blasone e per le frasi lamentose e quindi possiamo prendere due piccioni con una fava. Giù al mulino c’è una magnifica macina; la trasciniamo qui, cl facciamo le nostre iscrizioni e per giunta ci affiliamo anche le penne e la sega. L’idea non era male, ma anche la macina non era male; tuttavia fummo d’accordo che si poteva tentare. Non era ancora mezzanotte, cosi filammo giù al mulino, lasciando Jim al lavoro. Prendemmo la macina e incominciammo a farla rotolare verso casa, ma era un lavoro da matti. Qualche volta, nonostante i nostri sforzi, non riuscivamo a impedire che si rovesciasse e ogni volta per un pelo non

ci schiacciava. Tom disse che quella certo sarebbe riuscita a metterne sotto uno, prima della fine. Arrivammo fino a mezza strada, ma ormai eravamo fuori combattimento e quasi annegavamo nel sudore. Ci rendemmo conto che era inutile, dovevamo andare a chiamare Jim. Cosi Jim sollevò il letto, sfilò la catena dalla gamba del letto e se l’arrotolò più volte intorno al collo, poi strisciammo fuori attraverso il cunicolo e via; io e Jim spingevamo la macina e la facevamo camminare come niente; Tom sovrintendeva. Come sovrintendente non c’era nessun ragazzo che lo battesse. Egli sapeva come si doveva fare ogni cosa. Il nostro cunicolo era piuttosto ampio ma non abbastanza per infilarci dentro la macina; ma Jim pigliò il piccone e in breve lo allargò a sufficienza. Allora Tom con il chiodo incominciò a tracciare sulla pietra quelle frasi e poi mise Jim a lavorarci sopra con il chiodo come scalpello e con una spranga di ferro, trovata nei rifiuti della tettoia, come martello, e gli disse di lavorare finché durava la candela, dopodiché poteva andare a letto, nascondere la macina sotto il saccone e dormirci sopra. Poi lo aiutammo a rimettere a posto la catena alla gamba del letto e fummo pronti anche noi per andare a dormire. Ma Tom ebbe un’altra ispirazione e disse: — Tu hai dei ragni qui, Jim? — No, signore, grazie a Dio non ne ho, padron Tom. — Bene, allora te ne porteremo qualcuno. — Che il Signore vi benedica, tesoro, ma io non ne voglio. Mi fanno paura. Preferirei avere attorno un serpente a sonagli. Tom meditò un momento o due e poi disse: — È una buona idea. E credo che sia già stata realizzata. È proprio un’idea magnifica. Dove lo potresti tenere? — Tenere cosa, padron Tom? — Ma il serpente a sonagli. — Santo cielo e bontà divina, padron Tom! Se un serpente a sonagli entra qui dentro, io sfondo quella parete di tronchi con la testa, la sfondo.

— Ma Jim, dopo un po’ non ti farebbe più paura. Potresti addomesticarlo. — Addomesticarlo? — Si, è abbastanza facile. Ogni animale mostra gratitudine se lo si tratta bene e lo si accarezza, e non pensa neanche lontanamente di far del male a chi lo coccola. Lo puoi trovare scritto su qualunque libro. Tu prova, è quanto ti domando; prova per due o tre giorni. Magari ci riesci in cosi poco tempo e già vedi che incomincia a volerti bene e a dormire con te, e non vuol starti lontano un solo minuto e permette che tu te l’avvolga intorno al collo e che ti metta in bocca la sua testa. — Per favore, padron Tom, non parlate cosi! Non riesco a sopportarlo! Mi lascerebbe ficcare in bocca la sua testa come un gran favore, vero? Mi sa che deve aspettare in eterno prima che io glielo chieda. E poi non ho nessuna voglia che venga a dormire con me. — Jim, non fare lo stupido. Un prigioniero deve per forza avere qualche specie di animale che gli faccia compagnia, è la regola; se non si è mai tentato con un serpente a sonagli, be’, c’è in questo ancora più gloria da conseguire, se sei il primo a tentarlo. — Ma, padron Tom, io non so che farmene di questa gloria. Il serpente viene qui e stacca il mento di Jim con un morso, e allora dov’è la gloria? No, signore, io non me la sento di fare una cosa del genere. — Maledizione, non puoi almeno tentare? Io voglio solo che tu tenti; non occorre che insisti se non funziona. — Ma allora il guaio è già combinato se il serpente mi dà un morso mentre sto incominciando. Padron Tom, sono disposto ad affrontare quasi tutte le cose più irragionevoli, ma se voi e Huck mi portate qua dentro un serpente a sonagli da addomesticare io me la squaglio, questo è sicuro. — Be’, allora lasciamo perdere, lasciamo perdere, se sei proprio cosi cocciuto. Ti possiamo procurare qualche biscia e tu le puoi legare dei bottoni alla coda e fingere che si tratta di un serpente a sonagli e credo che funzionerà. — Io non riesco a sopportare neanche quelle, padron Tom, ma che mi venga un

colpo se non sono sicuro di poter andare avanti anche senza bisce, ve lo dico io. Non avrei mai immaginato che costasse tanti fastidi e tante noie fare il prigioniero. — Be’, è sempre stato così, se lo si fa bene. Non ci sarebbe qualche topo qui attorno? — No, signore, non ne ho ancora visti. — Allora, tl procureremo dei topi. — Ma padron Tom, io topi non ne voglio. Sono le creature più maledette per disturbare una persona e gli corrono addosso e gli mordono i piedi appena cerca di dormire. No, signore, piuttosto datemi le bisce, se devo proprio tenermi qualche bestia, ma non mi date i topi, perché non so che farmene. — Ma Jim, devi averli i topi, li hanno tutti. E cerca di non fare troppe storie. I prigionieri non sono mai senza topi. Non ce n’è un solo esempio. E poi li addomesticano, li coccolano, gli insegnano qualche trucco ed essi diventano socievoli come mosche. Ma tu devi far musica per loro. Hai qualcosa con cui suonare? — Non ho niente, tranne che un grosso pettine e un pezzo di carta, e uno scacciapensieri; ma credo che i topi non sappiano che farsene di uno scacciapensieri. — Invece si. Loro non guardano che tipo di musica vien fuori. Uno scacciapensieri va benissimo per un topo. Tutti gli animali amano la musica, e in prigione ne vanno addirittura matti. Specialmente se è una musica triste, e non c’è altro tipo di musica che puoi cavare da uno scacciapensieri. È una cosa che li interessa sempre molto; escono dalla tana e vengono a vedere che cos’hai. Allora tu sei a posto, sei sistemato benissimo. Sentirai il bisogno di sederti sul letto, la sera, prima di addormentarti, e al mattino di buon’ora, a suonare il tuo scacciapensieri. Suona l'ultimo anello s’è spezzato; è un pezzo che fa andare in deliquio un topo più in fretta di qualunque altro; e quando hai suonato per circa due minuti vedrai tutti i topi, e i serpenti, e i ragni e tutti gli altri che incominciano a preoccuparsi per te e ti vengono intorno. E poi veramente ti s’affollano addosso e ano dei momenti magnifici. — Già, loro forse, padron Tom, ma che razza di momenti erà Jim? Che sia

maledetto se riesco a capire il punto. Ma farò come devo. Penso che sia meglio soddisfare gli animali piuttosto che avere altri fastidi qua dentro. Tom indugiò ancora a pensare per vedere se c’era altro; e dopo un po’ disse: — Oh, c’è una cosa che avevo dimenticato. Credi che potresti far crescere un fiore qua dentro? — Non lo so, ma può darsi di si, padron Tom; però qui è piuttosto buio, e io non ho nessun bisogno di fiori. — Be’, puoi sempre tentare. Ci sono dei prigionieri che l’hanno fatto. — Potrebbe magari crescere qui un taglioio di verbasco, quello che sembra una coda di gatto, credo, padron Tom, ma che non vale neanche la metà della fatica che mi costa. — Non credere. Te ne porteremo una pianticella e tu la pianterai in quell’angolo là e la farai crescere. E non la devi chiamare verbasco, chiamala « sollievo », che questo è il suo giusto nome quando cresce in una prigione. E tu dovrai innaffiarla con le tue lagrime. — Ma se ho una gran quantità d’acqua, padron Tom? — A te l’acqua non serve; devi innaffiarla con le tue lacrime. Si fa sempre cosi. — Ma, padron Tom, con l’acqua fresca riuscirò a far crescere il doppio uno di quei verbaschi, che non con le lacrime. — Non importa niente, devi farlo con le lacrime. — Mi morrà fra le mani, padron Tom: non piango quasi mai. Cosi Tom era battuto. Ma ci studiò sopra e alla fine disse a Jim che doveva arrangiarsi come meglio poteva con una cipolla. Promise che sarebbe andato nella capanna dei negri, l’indomani mattina, e ne avrebbe infilata una, senza farsi vedere, nella caffettiera di Jim. Ma Jim rispose che quasi preferiva trovarsi del tabacco nel caffè; e poi prese a lamentarsi per la cipolla e per tutta la fatica e la noia di far crescere un verbasco, per lo scacciapensieri da suonare ai topi, per dover accarezzare e trattare bene i serpenti e i ragni e gli altri animali, in aggiunta a tutto l’altro lavoro che già doveva fare per le penne e le iscrizioni e il

diario e via dicendo, il che rendeva più faticoso e impegnativo fare il prigioniero che qualunque altro lavoro gli fosse mai toccato. Sicché Tom per poco non perse la pazienza e gli disse che aveva tutte le possibilità di farsi un nome come nessun altro prigioniero al mondo, che non sapeva ancora apprezzare la sua fortuna, che tutto era fatica sprecata con lui.

I topi - Vivaci compagni di letto - Il manichino di paglia

Capitolo 39

Al mattino andammo in paese a comperare una trappola per i topi; la portammo giù in cantina, riaprimmo la tana migliore e, dopo circa un’ora, ne avevamo quindici dei più vispi. Allora prendemmo la trappola e andammo a metterla in un posto sicuro, sotto il letto di zia Sally. Ma mentre eravamo fuori in cerca di ragni, il piccolo Thomas Franklin Benjamin Jefferson Alexander Phelps la trovò e ne apri lo sportello per vedere se i topi venivano fuori, e i topi vennero fuori. A questo punto entrò in camera zia Sally e quando fummo di ritomo la trovammo in piedi sul letto che faceva un baccano del diavolo mentre i topi facevano del loro meglio perché non si annoiasse. Cosi lei ci prese e ci spolverò tutt’e due con un bastone, e ci vollero altre due ore per prenderne ancora quindici o sedici all’inferno quel marmocchio ficcanaso - e non erano neanche dei migliori, perché quelli della prima retata erano il fior fiore della specie. Riuscimmo a procurarci uno splendido stock di animali assortiti: ragni, scarabei, ranocchi, bruchi e altri esemplari del genere, e volevamo prendere anche un nido di vespe, ma alla fine rinunciammo. C’erano dentro tutte, e noi cedemmo subito, ma rimanemmo con loro il più possibile, convinti che le avremmo stancate oppure che loro avrebbero stancato noi, come di fatto successe. Allora prendemmo una pomata per spalmarcela sulle parti doloranti e quasi tutto tornò a posto. E cosi ci si mise in cerca di serpi e catturammo un paio di dozzine di bisce e di serpentelli, li mettemmo in un sacchetto che portammo in camera nostra, ed era ormai l’ora di cena e la fine dì quella giornata di onesto lavoro. Se eravamo affamati? Oh, no, credo di no! Quando ritornammo nella nostra stanza, non c’era più nemmeno l’ombra di un serpente; il sacchetto era rimasto mezzo aperto e quelli in qualche modo erano usciti e se n’erano andati. Ma non ce ne preoccupammo troppo perché dovevano trovarsi ancora da qualche parte, nella casa. Quindi pensavamo di ritrovarli. Infatti nella casa non ci fu una reale

penuria di serpenti per un bel po’ di tempo. Di tanto in tanto ne vedevi qualcuno strisciar giù dalle travi del soffitto o da qualche altro posto; e di solito andavano ad approdare nel tuo piatto, oppure ti scivolavano giù per la schiena, e il più delle volte dove meno li volevi. Be’, però erano carini, cosi a strisce, e non avrebbero fatto nessun male anche fossero stati un milione; ma questo non aveva importanza per zia Sally, che detestava i serpenti, qualunque ne fosse la razza, e non li poteva sopportare, non importa come glieli presentavi; e ogni volta che gliene cascava addosso uno, quello che stava facendo non aveva nessuna importanza: piantava tutto e batteva in ritirata. Non ho mai visto una donna cosi. Potevi sentirla strillare fino a Gerico. Era inutile cercar di fargliene acchiappare uno con le molle. Se poi andava a dormire e ne trovava uno nel letto, balzava fuori e tirava un urlo che pareva che ci fosse la casa in fiamme. Procurò tante noie al suo povero vecchio da fargli quasi augurare che i serpenti non fossero mai stati creati. Be’, anche dopo che l’ultimo serpente era scomparso dalla casa da almeno una settimana, zia Sally non l’aveva ancora finita, anzi tutt’altro. Quando si sedeva a pensare a qualcosa, bastava toccarla dietro al collo con una piuma e lei balzava fuori dalle calze. Noi prendevamo una spolverata tutte le volte che uno del nostri serpenti le capitava fra i piedi; e diceva che quelle bastonate non erano nulla in confronto con quello che avrebbe fatto se avessimo riempito ancora una volta la casa con animali di quella specie. A me le bastonate non facevano né caldo né freddo, perché finivano li; ma mi preoccupavano le noie che ancora dovevamo avere per mettere insieme un’altra riserva di serpi. Ma ci riuscimmo, e non potete immaginare l’allegra baraonda della capanna di Jim quando tutte le bestie uscivano dal loro buchi per la musica e s’accalcavano intorno a Jim. Jim non aveva nessuna simpatia per i ragni e neanche i ragni per lui, cosi lo spiavano e gli facevano are dei brutti momenti. Jim disse che fra i topi e i serpenti e la macina del mulino, quasi non c’era più posto nel letto per lui; e quando riusciva a distendersi, non poteva chiudere occhio per il gran movimento che c’era, e questa vivacità non cessava mal, diceva, perché quelle bestie non dormivano tutte al pari, ma si davano il turno, cosi quando dormivano i serpenti, erano di servizio i topi, e quando i topi smontavano, toccava ai serpenti, sicché aveva sempre una squadra sotto di lui e un’altra che gli faceva il circo sopra, e se si alzava per andarsi a cercare un altro posto, allora i ragni coglievano l’occasione per stuzzicarlo. Dichiarò che se questa volta riusciva a evadere, non avrebbe mai più fatto il prigioniero, neanche se lo pagavano. Bene, in capo a tre settimane, tutto andava nel migliore dei modi. La camicia gli

era stata mandata quasi subito in una torta e ogni volta che un topo lo mordeva, Jim s’alzava e scriveva qualche cosa sul suo diario finché l’inchiostro era fresco; vennero fatte le penne e sulla macina furono incise le varie frasi e tutto il resto; la gamba del letto fu segata nel mezzo e noi ingoiammo la segatura, la quale ci procurò il più indicibile mal di pancia. Credevamo di morire tutti e tre; ma poi non si mori. Era la segatura più indigesta che io abbia mai provato, e anche Tom disse lo stesso. Ma, come dicevo, ormai avevamo finalmente completato tutto il lavoro; ed eravamo veramente tutti stanchi ma specialmente Jim. Il vecchio aveva scritto un paio di volte a quelli della piantagione a sud di Orleans di venire a riprendersi il loro negro, ma non aveva ricevuto alcuna risposta, perché quella piantagione non esisteva; cosi decise di far mettere un avviso sui giornali di St. Louis e di New Orleans. Quando lo sentii menzionare i giornali di St. Louis mi vennero i brividi e mi resi conto che non c’era più tempo da perdere. Cosi Tom disse che era venuto il momento delle lettere anonime. P — Che cosa sono? — gli domando. — Sono avvertimenti alla gente che sta per succedergli qualcosa. A volte si fa in una maniera, a volte in un’altra. Ma comunque c’è sempre qualcuno che fa la spia, che mette in allarme il governatore del castello. Quando Luigi XVI stava per fuggire dalle Tullerie, ci ha pensato una servetta. È un ottimo mezzo e cosi pure le lettere anonime. Noi li emo tutti e due. Poi c’è la consuetudine che la madre del prigioniero scambi gli abiti con lui e rimanga dentro al suo posto mentre il prigioniero se la squaglia travestito. Faremo anche questo. — Ma Tom, stammi a sentire, che bisogno abbiamo noi di informare qualcuno che sta per succedere qualche cosa? Che se lo scoprano da soli, tocca a loro stare attenti. SI, lo so; ma non si può fare affidamento su di loro. Hai visto come si sono comportati fin dall’Inizio: ci hanno lasciato fare tutto. Sono cosi fiduciosi e ottusi che non si accorgono proprio di niente. Cosi, se non li avvertiamo noi, non ci sarà nessuno e nulla a intralciare i nostri piani e quindi dopo tutte le nostre fatiche e tutti i nostri fastidi questa fuga andrebbe via liscia come l’olio: non porterebbe a niente, cadrebbe nel nulla. — Be’, per me, Tom, è la maniera che preferisco. — Sciocchezze — fa lui con aria disgustata.

Allora io dico: — Ma io non sto lamentandomi. Quel che va bene per te va bene anche per me. Che cosa conti di fare per la servetta? — La farai tu. T’infili nel pieno della notte in camera della mulatta e porti via un vestito. — Ma, Tom, il mattino dopo succederebbero dei guai, perché probabilmente la ragazza ha solo quello. — Lo so, ma tu ne hai bisogno soltanto per un quarto d’ora; per portare la lettera nonnima e farla scivolare sotto la porta d’ingresso. — Va bene, allora, lo farò; ma la potrei portare benissimo anche nei miei panni. — Ma allora non sembreresti una servetta, no? — No, ma non ci sarà nessuno a vedere chi sembro, in ogni caso. — Questo non ha niente a che vedere. Quello che dobbiamo fare è compiere il nostro dovere senza stare a preoccuparci se qualcuno ci vede o no. Non hai proprio nessun principio? — Va bene, non parlo più; io faccio la servetta; e chi fa la madre di Jim? — La faccio io. Gratterò un vestito a zia Sally. — Bene, allora, tu dovrai fermarti nella capanna quando io e Jim ce la battiamo. — Non per molto. Io imbottirò i vestiti di Jim con la paglia e li sistemerò sul suo letto in maniera che sembrino sua madre travestita e Jim prenderà da me il vestito della negra, lo indosserà ed evadiamo tutti insieme. Quando fugge un prigioniero di rango si chiama evasione. Per esempio si chiama sempre cosi quando fugge un re. E lo stesso quando è il figlio di un re, e non fa differenza se è un figlio naturale o innaturale. Cosi Tom scrisse la lettera nonnima e io rubai il vestito della mulatta, quella notte, e lo indossai, e infilai la lettera sotto la porta d’ingresso, come Tom m’aveva detto di fare. Essa diceva:

State all’erta. Guai in vista. Tenete gli occhi aperti. Un amico sconosciuto La notte seguente attaccammo sulla porta d’ingresso un disegno, di un teschio con le tibie incrociate, che Tom aveva tracciato col sangue, e la notte successiva il disegno di una bara, sulla porta di dietro. Non avevo mai visto una famiglia in un orgasmo simile. Non avrebbero potuto essere più spaventati se avessero avuto la casa piena di fantasmi in agguato dietro ogni cosa e sotto i letti o che si libravano nell’aria. Se sbatteva una porta, zia Sally sobbalzava e gridava « Oh! ». Se cadeva qualcosa, sobbalzava e gridava « Oh! ». Se per caso la toccavi quando era soprappensiero, faceva lo stesso; non riusciva a guardare da nessuna parte stando tranquilla perché era convinta che ci fosse continuamente qualcosa dietro di lei; quindi non faceva altro che voltarsi, di scatto, e gridare « Oh! » e prima d’aver compiuto due terzi della piroetta si metteva a girare dalla parte opposta e ancora gridava « Oh! »; e aveva paura ad andare a letto, ma non rimaneva alzata. Cosi i piani funzionavano benissimo, disse Tom; anzi disse che non aveva mai visto un piano funzionare in maniera più soddisfacente, e questo dimostrava che s’era fatto tutto secondo le regole. Cosi disse: — E adesso sotto per la mossa finale! Il mattino seguente, ai primi chiarori dell’alba, avevamo già pronta un’altra lettera, ma ci si domandava che cosa fosse meglio farne, perché a cena lì avevamo sentiti dire che avevano intenzione di mettere tutta notte un negro di guardia ad entrambe le porte. Tom scese per l’asta del parafulmine a dare un’occhiata attorno; il negro alla porta di dietro era addormentato, e allora gli appese la lettera sulla groppa e tornò su. Questa lettera diceva:

Non mi tradite, voglio esservi amico. C’è una banda disperata di tagliagole, che vengono dal Territorio Indiano, per portar via questa notte il vostro negro scappato; hanno fatto di tutto per spaventarvi e costringervi a stare in casa per non disturbarli, lo sono uno della banda, ma ho un po’ di religione e desidero abbandonare questa vita e ritornare sulla retta via e quindi svelerò il loro diabolico piano. Arriveranno di nascosto da nord, lungo lo steccato, a mezzanotte in punto, con una chiave falsa, e andranno alla capanna del negro per portarlo via. Io devo stare un poco discosto e suonare un corno se vedo qualche

pericolo; ma invece di suonare il corno io farò bee-bee come una pecora appena quelli sono entrati; poi, mentre sono occupati a sciogliere le catene, voi potete venire a chiuderli dentro e li potrete ammazzare a vostro gradimento. Non fate nulla tranne quanto vi dico lo, altrimenti quelli sospetteranno qualcosa e qui succederà un finimondo. Io non desidero alcuna ricompensa se non sapere che ho fatto una cosa giusta. Un amico sconosciuto

A pesca - II comitato di vigilanza - Una fuga movimentata - Jim vuol chiamare un dottore

Capitolo 40

Ci sentivamo abbastanza in forma dopo colazione, e quindi prendemmo la mia canoa e andammo sul fiume a pescare, portandoci dietro anche qualcosa da mangiare, e ci divertimmo. Si diede un’occhiata alla zattera e la trovammo in ordine, e ritornammo a casa piuttosto tardi, per cena. Li trovai cosi spaventati e preoccupati che non capivano più niente e ci fecero andare a letto appena finito di cenare. Non vollero dirci di che guaio si trattasse e non si lasciarono sfuggire neanche una parola sulla nuova lettera, ma non era necessario perché noi ne sapevamo più di tutti. Appena fummo a metà scala e la zia ci ebbe voltato le spalle, noi andammo nella dispensa in cantina, mettemmo insieme delle provviste, ce le portammo in camera nostra e andammo a letto, e ci alzammo alle undici e mezza e Tom infilò Il vestito che aveva rubato a zia Sally e stava per metter mano alle vettovaglie, ma disse: — Dov’è il burro? — Ne ho messo un bel pezzo — rispondo io — su una fetta di pane di granturco. — Be’, allora l’hai lasciato là dove l’hai messo, perché qui non c’è. — Possiamo fame a meno — dico io. — Ma possiamo anche recuperarlo — dice lui. — Fa’ un salto in cantina a prenderlo. Poi scendi subito per il parafulmine e vieni. Intanto io vado a imbottire di paglia i vestiti di Jim che devono sembrare sua madre travestita e mi preparo a fare bee-bee come una pecora; sarò pronto a squagliarmela appena arrivi tu.

Cosi se n’andò via e lo scesi in cantina. Il pezzo di burro, grosso come il pugno di un uomo, era ancora dove l’avevo lasciato, cosi lo presi assieme alla fetta di pane, spensi la candela, incominciai a salire piano piano, e arrivai senza intoppi al pianterreno, ma ecco che arriva zia Sally con una candela: ficcai tutto nel cappello, me lo calcai in testa e il secondo dopo lei mi vede e mi domanda: — Sei stato giù in cantina? — Sissignora. — E che cosa ci sei andato a fare? — Niente. — Come niente? — Niente, zia. — Be’, allora che cosa ti ha preso di andare giù a quest’ora di notte? — Non lo so, zia. — Non lo sai? Non rispondermi in quel modo, Tom; io voglio sapere che cosa ci sei andato a fare. — Non ho fatto proprio niente, zia Sally. Lo sa Dio se ho fatto qualcosa. Credevo che mi lasciasse andare, adesso, perché di solito mi lasciava andare, ma con tutte le cose strane che succedevano credo che fosse allarmata per ogni piccolezza che non fosse a puntino; cosi mi dice con un tono molto deciso: — Fila nel salotto e restaci finché non tomo io. Tu sei andato a combinare qualche cosa che non dovevi e scommetto che riesco a scoprirlo prima di lasciarti andare. Cosi se ne andò mentre io aprivo la porta ed entravo nel salotto. Misericordia, ma c’era una folla là dentro! Una quindicina di contadini e tutti armati di fucile. Mi sentii malissimo; mi trascinai vicino a una sedia e mi ci lasciai cadere. Stavano seduti in circolo, alcuni parlottavano, a voce bassa, e tutti erano nervosi e turbati, ma si sforzavano di apparire come se non lo fossero, però io sapevo

che lo erano perché continuavano a levarsi il cappello e a rimetterselo e a grattarsi la testa e a cambiare di posto e a tormentare i bottoni della giacca. Non mi sentivo tranquillo neppure lo, tuttavia mi guardavo bene dal togliermi il cappello. M’auguravo che zia Sally ritornasse e mi liquidasse; o mi picchiasse, se voleva, ma mi lasciasse andare via per dire a Tom che stavolta avevamo esagerato cacciandoci in un tremendo vespaio, per cui dovevamo smettere di fare gli stupidi, immediatamente, e scomparire con Jim prima che questi tizi perdessero la pazienza e venissero a prenderci. Arrivò finalmente e prese a farmi domande, ma io non riuscivo a rispondere a tono, non capivo più niente, perché questi uomini erano ormai in tale agitazione che qualcuno già suggeriva di muoversi subito e di preparare un’imboscata a quei disperati, dicendo che mancavano solo pochi minuti a mezzanotte; altri invece cercavano di trattenerli per aspettare il segnale della pecora; e inoltre c’era la zia che mi tempestava di domande, e io che tremavo come una foglia, sul punto di svenire tanto ero spaventato. La stanza si faceva sempre più calda e il burro incominciava a fondere e a gocciolarmi giù per il collo e dietro le orecchie, e poco dopo, quando uno di quelli disse: — Io sono del parere di andare dritti nella capanna, adesso subito, e di acciuffarli appena arrivano — io per poco non svenivo e un rivolo di burro fuso prese a colarmi giù per la fronte. Zia Sally lo vide, diventò bianca come un lenzuolo e gridò: — Per amor del cielo, che cos’ha questo ragazzo? Deve avere la febbre cerebrale, com’è vero che siamo qua; gli gocciola fuori il cervello! Tutti corsero a vedere, lei mi strappa il cappello ed ecco apparire il pane e quel che è rimasto del burro; lei mi prende e mi abbraccia forte mormorando: — Oh! che spavento mi hai dato! E come sono contenta e riconoscente al Signore che sia tutto qui; perché la fortuna ci è contro, e i mali non vengono mai soli, e quando ho visto gocciolare quella roba ho pensato che t’avevamo perduto, perché dal colore e da tutto sembrava proprio come se il tuo cervello... Santo cielo, perché non mi hai detto subito per quale motivo sei stato in cantina, io non ci avrei dato peso. E adesso fila subito a letto e non farti più vedere fino a domattina!

In un secondo fui sopra in camera e in un altro secondo ero giù per il parafulmine e via a tutta birra fino alla capanna. Ero cosi ansioso che quasi non riuscivo a spiccicar parola; tuttavia informai Tom più in fretta che potei e gli dissi che dovevamo filare via immediatamente, non c’era un minuto da perdere, la casa era zeppa di uomini armati di fucile. Gli brillavano gli occhi e disse: — No! Ma davvero? Non è meraviglioso? Be’, Huck, se dovessi ricominciare daccapo, scommetto che riuscirei a smuoverne duecento! Se soltanto potessimo rinviare fino a... — Facciamo presto, presto — dissi. — Dov’è Jim? — Proprio al tuo fianco; se allunghi il braccio puoi toccarlo. È già vestito e tutto è pronto. Adesso sgusciamo fuori e diamo il segnale della pecora. Ma in que! momento sentiamo i i degli uomini che si avvicinano alla porta, il sentiamo armeggiare con il chiavistello e uno che dice: — Ve l’ho detto che era troppo presto; non sono ancora arrivati... la porta è chiusa. Ecco, qualcuno di voi si chiuda nella capanna e rimanga in attesa al buio e spari appena arrivano; noi altri ci disponiamo qui attorno a una certa distanza e stiamo attenti se li sentiamo venire. Cosi entrarono, ma al buio non s’accorsero di noi, anche se quasi ci vennero addosso, mentre noi in fretta ci infilavamo sotto il letto. Dopo un po’, tornammo a strisciare fuori, e ci avvicinammo adagio adagio alla porta. Tom ci diede l’alt, accostò l’orecchio alla fessura e rimase in ascolto, e i i continuavano a scricchiolare in giro, da una parte e dall’altra, senza smettere mai. Finalmente ci fece un cenno e noi sgusciammo fuori dal cunicolo, senza respirare, e senza fare il minimo rumore; avanziamo con cautela verso lo steccato, in fila indiana, e riusciamo a scavalcarlo senza incidenti, io e Jim; a Tom invece s’impigliarono i calzoni in uno spuntone. Proprio allora senti dei i che s’avvicinavano, perciò dovette dare uno strattone per liberarsi, spezzando lo spuntone e facendo rumore; e non appena saltò a terra e s’avviò dietro di noi, qualcuno gridò: — Chi va là? Rispondete o sparo.

Ma noi non rispondiamo, ce la diamo a gambe e via come il vento. Si senti un gran correre di gente e bang! bang! bang! i proiettili ci fischiavano intorno! Si sentiva gridare: — Eccoli! Hanno preso per il fiume! Inseguiamoli, ragazzi! E sguinzagliate i cani! E cosi ci vennero dietro di gran carriera. Noi potevamo sentirli perché portavano gli stivali e urlavano, mentre noi non portavamo gli stivali e non urlavamo. Eravamo sul sentiero della segheria, e quando quelli ci furono quasi addosso, ci buttammo in un cespuglio, li lasciammo are e poi scendemmo dietro di loro. Avevano tenuto chiusi i cani per non far fuggire i ladri, ma adesso qualcuno li aveva liberati e venivano giù facendo un fracasso infernale, come se fossero un milione. Ma erano i nostri cani, cosi ci fermammo dove eravamo finché non ci ebbero raggiunti e quando s’accorsero che eravamo soltanto noi e non avevamo nulla di eccitante da offrirgli, ci dissero appena ciao e proseguirono di gran corsa verso le urla e il frastuono. Allora ci rimettemmo a correre come saette dietro di loro fin nei pressi della segheria; qui piegammo attraverso i cespugli fino al punto in cui era legata la mia canoa, ci saltammo sopra e remammo con la forza della disperazione verso il centro del fiume, ma non facevamo più rumore di quanto fosse strettamente necessario. Quindi volgemmo, con più calma, all’isola dove si trovava la zattera; e ancora si potevano sentire gli uomini che urlavano e i cani che abbaiavano su e giù per la riva, finché si giunse cosi lontano che i rumori divennero fiochi e poi si smorzarono del tutto. E mettendo piede ancora una volta sulla zattera, io dissi: — E adesso, vecchio Jim, sei di nuovo un uomo libero, e ti garantisco che non sarai mai più schiavo. — Ed è stato anche un bel lavoro, Huck. Ideato magnificamente e compiuto magnificamente. Non c’è nessuno che sa mettere in piedi un piano cosi elaborato e straordinario. Più contenti di cosi non potevamo essere, ma Tom era il più contento di tutti perché aveva un proiettile in un polpaccio. Quando io e Jim sentimmo questo, ci ò ogni contentezza. Gli faceva molto male e sanguinava; cosi lo adagiammo nel capanno, strappammo una camicia per bendargli la gamba, ma lui disse:

— Datemi quegli stracci, posso farlo da solo. Non fermate l’azione, adesso; non state qui a perdere tempo dopo che l’evasione è riuscita cosi brillantemente. Ai remi, e mollate gli ormeggi! Ragazzi, è stata un’impresa superba, veramente. Vorrei che avessero dato a noi l’incombenza di liberare Luigi XVI, allora non si sarebbe scritto nella sua biografìa: « Figlio di Sari Luigi, ascendi al cielo! ». Nossignore, noi l’avremmo portato ir salvo oltre i confini, ecco che cosa avremmo fatto; e tutto sarebbe filato via senza fare una grinza. Avanti con i remi! Avanti con i remi! Ma io e Jim stavamo consultandoci e pensavamo al da farsi. Dopo averci pensato per un minuto, lo dico: — Dillo, Jim. Cosi lui dice: — Bene, allora questo è quello che penso, Huck. Se fosse stato lui ad essere liberato e uno dei ragazzi fosse rimasto ferito, lui avrebbe detto forse: «Avanti, sbrigatevi a liberarmi e non parlatemi del dottore per salvare questo qui »? Cosi avrebbe parlato Tom Sawyer? Avrebbe detto cosi? Potete giurare che no. Bene, allora, e lo dirà Jim? Nossignori; io da qui non mi muovo di un o, se non trovo un dottore, neanche se devo star qui quarant’anni. Io sapevo che Jim era bianco di dentro ed ero sicuro che avrebbe detto quel che in realtà disse, cosi adesso eravamo a posto, e dissi a Tom che andavo a cercare un dottore. Lui si mette a protestare, ma io e Jim siamo decisi e non ci muoviamo; cosi lui minaccia di trascinarsi fuori e di slegare la zattera da solo, ma noi non glielo lasciamo fare. Allora comincia a dire cosa pensa di noi, ma anche quello non serve a nulla. Cosi quando vede che io sto preparando la canoa, dice: — Bene allora, se devi proprio andare, ti dico io come devi fare quando arrivi in paese. Chiudi la porta e benda ben stretto il dottore, fallo giurare di rimanere muto come una tomba; gli metti in mano una borsa piena d’oro, poi lo guidi per vie secondarie da una parte e dall’altra, al buio, fino alla canoa, gli fai fare un lungo giro in mezzo alle isole, gli porti via il gesso e non glielo rendi finché non sarà di ritomo in paese, altrimenti lui fa un segno con il gesso su questa zattera In modo da poterla rintracciare. È cosi che fanno sempre. Gli dissi che avrei fatto cosi e partii. E Jim doveva nascondersi nel boschi appena vedeva arrivare il dottore, e finché non se ne fosse andato.

II dottore - Zio Silos - Sorella Hotchkiss - Zia Sally preoccupata

Capitolo 41

Il dottore era un vecchio; un vecchio molto simpatico e dal fare gentile. Gli raccontai che io e mio fratello eravamo andati a caccia sull’Isola Spagnola, il pomeriggio precedente, e ci eravamo accampati su un relitto di zattera che avevamo trovato, e verso mezzanotte, mentre sognava, lui doveva aver dato un calcio al fucile, perché era partito un colpo che l’aveva ferito alla gamba; e ora lo pregavamo di venire fin là a sistemare la cosa senza dire nulla in modo che nessuno sapesse, perché era nostra intenzione di fare ritorno a casa quella sera stessa e fare una sorpresa ai nostri di casa. — E chi è la vostra gente? — domandò. — I Phelps, che abitano laggiù. — Oh — dice lui. E un minuto dopo riprende: — Come hai detto che ha fatto a ferirsi? — Ha fatto un sogno — dico — e l’ha colpito. — Un sogno singolare — dice. Cosi accese la lanterna, prese con sé la sua valigetta e partimmo. Ma quando vide la canoa, non gli piacque il suo aspetto; disse che era abbastanza grande per uno ma non molto sicura per due. Io dissi: — Oh, non dovete aver paura, signore; ci ha già portati tutt’e tre, tranquillamente. — Come tre?

— Be’, io e Sid e... e... e i fucili, ecco che cosa volevo dire. — Ah — disse. Ma appoggiò il piede sul bordo della canoa e la fece oscillare; poi scosse il capo e disse che intendeva guardare attorno se riusciva a trovarne una più grande. Ma erano tutte assicurate con catene e chiuse con il lucchetto, perciò prese la mia canoa e mi disse di aspettare finché ritornasse; intanto potevo andare ancora un po’ a caccia, oppure era meglio che andassi a casa a preparare il terreno per la sorpresa, se preferivo. Ma io gli dissi di no, gli spiegai come trovare la zattera, dopo di che partì. Intanto mi venne un’idea. Mi dissi: supponiamo che non ce la faccia a sistemare la gamba in quattro e quattr’otto; supponiamo invece che gli ci vogliano tre o quattro giorni, che cosa si fa? Sto qui ad aspettare che lui spiattelli tutto ai quattro venti? Nossignore, lo so io quello che farò. Aspetterò, e quando ritorna, se dice che deve andarci ancora, ci vado anch’io, dovessi seguirlo a nuoto; e poi lo prendiamo e lo leghiamo, ce lo teniamo e scendiamo lungo il fiume, e quando Tom è guarito gli diamo il suo compenso, o almeno tutto quel che abbiamo, e lo sbarchiamo a riva. Cosi m’infìlai dentro una catasta di legname per fare un pisolino e quando mi svegliai il sole era già alto sulla mia testa. Partii come una freccia e andai alla casa del dottore, ma mi dissero che era dovuto uscire durante la notte e non era ancora ritornato. Bene, penso io, mi sa che per Tom le cose vanno piuttosto male, e mi conviene andare difilato all’isola. Cosi partii di corsa e, voltato l’angolo, per poco non andai a sbattere la testa proprio nello stomaco di zio Silas! Lui mi dice: — Ehi, Tom! Ma dove sei stato tutto questo tempo, briccone? — Non sono stato da nessuna parte — rispondo. — Sono andato soltanto a caccia del negro scappato insieme con Sld. — Ma, e dove siete andati? — dice lui. — Vostra zia è stata molto in pensiero. — Non ce n’era motivo — dico io — perché noi stavamo benissimo. Abbiamo seguito gli uomini e i cani, ma poi quelli ci hanno distanziati e li abbiamo perduti; però ci è sembrato di sentirli sul fiume, cosi abbiamo preso una canoa e

ci siamo messi ad inseguirli, ma di loro non abbiamo più trovato manco l’ombra. Così abbiamo risalito un po’ la corrente finché ci siamo stancati ed eravamo senza fiato, abbiamo legato la canoa e ci siamo messi a dormire e non abbiamo più riaperto gli occhi fino a circa un’ora fa; allora abbiamo remato fin qui per vedere se c’erano notizie e Sid è rimasto all’ufficio postale per vedere se ci sono novità e io sto cercando qualcosa da mangiare, poi torniamo a casa. Cosi andiamo all’ufficio postale a prendere “Sid”, ma come sospettavo, non si trovava là; cosi il vecchio ritirò una lettera, aspettammo ancora un po’, ma Sid non arrivò, quindi il vecchio mi disse di andare con lui, che Sid sarebbe tornato a casa a piedi o in canoa, quando gli fosse ata la voglia di far lo stupido in giro, ma che noi almeno andavamo a cavallo. Non riuscii a convincerlo di lasciarmi là ad aspettare Sid; disse che era inutile e che dovevo andare con lui per far vedere a zia Sally che non ci era accaduto nulla. Quando arrivammo a casa, zia Sally fu cosi felice di vedermi che piangeva e rideva nello stesso tempo, abbracciandomi; poi si mise a darmi una di quelle sue strigliate che non erano proprio una cosa da ridere e disse che anche Sid avrebbe avuta la sua parte, appena arrivava. La casa era piena zeppa di contadini e di mogli dei contadini venuti a pranzo, e un baccano simile non si era mai sentito. La vecchia signora Hotchkiss era imbattibile: la sua lingua non si fermava un momento. Dice: — Be’, sorella Phelps, ho frugato dappertutto in quella baracca e credo proprio che quel negro fosse pazzo. L’ho detto anche alla sorella Damrell, vero che ve l’ho detto, sorella Damrell? Dico io, è pazzo, lo si può vedere da tutto, dico io. Guardate quella macina da mulino, dico io; non venite a dirmi che una creatura è sana di mente quando si mette a scrivere tutte quelle cose pazze su una macina, dico io. Qui al tal del tali s’infranse il cuore; e qui il tal altro'andò avanti a penare per trentasette anni e tutta quella roba, il figlio naturale di Luigi qualcuno e un mucchio di altre corbellerie. Quello è matto da legare, dico io; è quello che ho detto subito, è quello che ho detto dopo, è quello che dirò fino in fondo e sempre. Quel negro è matto, più matto di Neboncodonosor, dico lo. — E prendete quella scala fatta di stracci, sorella Hotchkiss — diceva la vecchia signora Damrell — in nome di Dio cosa voleva farsene di...

— Le stesse parole che dicevo io non più di un momento fa a sorella Utterback, e ve lo può confermare anche lei. Guardate quella scala di stracci, dico io; si, guardate quella scala di stracci, che cosa voleva farsene? dico io, sorella Hotchkiss, e... — Ma come diavolo avranno fatto a portare dentro quella macina, mi domando, e chi mai ha scavato quel buco? e chi... — Quello che dico io, fratello Penrod! Io stavo proprio dicendo... atemi quella scodella di melassa, per piacere... io stavo chiedendo a sorella Dunlap, proprio in questo preciso momento, come hanno fatto a portare dentro quella macina, dico io. E senza nessun aiuto, badate, senza aiuto! È questo che stupisce. Non ditemi che non c’è stato nessun aiuto, dico io; ce n’è stato tanto, anzi, dico io. Almeno una dozzina di negri l’hanno aiutato e scommetto che a costo di scorticare uno dopo l’altro tutti i negri della zona, io riuscirei a trovare chi è stato, dico io; e inoltre dico io... — Una dozzina, dite? Neanche quaranta erano in grado di fare tutto quel che han fatto. Guardate quella sega ottenuta lavorando un coltellaccio e tutte le altre cose, con che scrupolosità sono state fatte; guardate quella gamba del letto che è stata segata, è una settimana buona di lavoro per sei uomini; e guardate quel negro di paglia messo sul letto, e guardate... — Potete ben dirlo, fratello Hightower! È proprio quello che stavo dicendo a fratello Phelps in persona. Dice, che cosa ne pensate, sorella Hotchkiss? dice. Di che cosa, fratello Phelps? dico lo. Della gamba del letto segata in quella maniera, dice. Cosa ne penso? dico io. Scommetto che non si è segata da sola, dico io, qualcuno l’ha segata. Ecco il mio parere, che lo vogliate o no, può anche non valer niente, dico io, ma questo è il mio preciso parere, dico io, e se qualcuno ne può dare uno migliore, dico io, che lo dica, dico io, ecco tutto. Sorella Dunlap, dico io... — Be’, mi venga un accidente ma doveva esserci la capanna invasa dai negri tutte le notti per quattro settimane per poter fare tutto quel lavoro, sorella Phelps. Guardate quella camicia... ogni pollice completamente coperto da qualche misterioso linguaggio africano, scritto con il sangue! Deve esserci stata una squadra intera a lavorarci, tutto iI tempo o quasi. Be’, io darei due dollari a chi riuscisse a leggermela; e in quanto ai negri che l’hanno scritta, vi garantisco che mi piacerebbe prenderli e frustarli finché...

— Gente che è venuta ad aiutarlo, fratello Marples! Be’, immagino che ne sareste convinto anche voi se vi foste trovato in questa casa per un po’ nei giorni precedenti. Be’, rubavano tutto quello che gli capitava sotto mano, mentre noi si stava di continuo con gli occhi bene aperti, badate bene. Hanno rubato quella camicia proprio dalla corda, dove era stesa ad asciugare! E quanto al lenzuolo che hanno adoperato per fare la scala, non vi so dire quante volte me l’hanno rubato! E la farina, e le candele, e i candelieri, e i cucchiai, e il vecchio scaldino, e mille altre cose che non mi ricordo adesso, e il mio vestito nuovo di cotonina. E intanto io e Silas e il mio Sid e Tom sempre all’erta giorno e notte, come vi dicevo, e non uno di noi che sia riuscito a cogliere né ombra, né un capello e neppure il più lieve rumore di quella gente. Poi, all’ultimo minuto, state bene a sentire, quelli s’infilano dentro proprio sotto il nostro naso e si pigliano gioco non soltanto di noi ma anche di tutti i ladri del Territorio Indiano e riescono a svignarsela con quel negro, sani e salvi e in barba a sedici uomini e ventidue cani alle loro calcagna in quel preciso momento! Vi assicuro che questo batte qualunque cosa io abbia mai sentito. Be’, i fantasmi non avrebbero saputo fare di meglio e con più eleganza. E credo proprio che si trattasse di fantasmi, perché voi conoscete i nostri cani e non ce n’è di migliori; be’, quei cani non sono riusciti a trovare neanche una pista! Spiegatemi un po’ questo, se cl riuscite, chiunque di voi! — Be’, questo è il colmo... — Bontà divina, io non ho mai... — Che il cielo mi aiuti, ma non avrei voluto trovarmi... — Ladri in casa e... — Per l’amor di Dio santo, io avrei avuto paura a vivere in un simile... — Paura di vivere! Be’, io ero talmente terrorizzata che non osavo più andare a letto, o alzarmi, o riposare o mettermi a sedere, sorella Ridgeway. Quelli erano tipi da rubare perfino... Be’, per l’amor di Dio, potete immaginare in che razza di agitazione ero io ieri sera, quando stava per arrivare mezzanotte. Dio abbia pietà di me, se non temevo che rubassero anche qualcuno della famiglia! Ero proprio arrivata a quel punto, avevo perso del tutto il lume della ragione. Adesso alla luce del giorno sembra stupido, ma mi sono detta: ci sono i miei due poveri ragazzi che dormono di sopra in quella stanza solitaria, e vi assicuro davanti a

Dio che mi sentivo cosi inquieta che sono andata su piano piano e li ho chiusi dentro! Si, li ho proprio chiusi dentro a chiave. Chiunque l’avrebbe fatto. Perché sapete, quando si ha tutta quella paura e le cose continuano nello stesso modo, anzi vanno di male in peggio, senza sosta, anche la ragione ci va di mezzo e ci si mette a fare le cose più strane, e poi subito si pensa: supponiamo di essere un ragazzo, lassù da solo, e la porta non è chiusa a chiave e... — A questo punto si fermò e aveva l’aria di essere sorpresa, poi volse II capo attorno, lentamente, e quando i suoi occhi si posarono su me, mi alzai di colpo e andai a fare una eggiata. Mi dico che posso spiegare meglio come mai noi non fossimo nella nostra stanza questa mattina se vado fuori da qualche parte e ci medito sopra un pochetto. E cosi faccio. Ma non vado troppo lontano altrimenti lei mi manda a cercare. Sul tardi tutta la gente se n’andò; e allora io tomai a casa e le raccontai che il baccano e gli spari avevano svegliato me e Sid e, siccome la porta era chiusa a chiave e noi volevamo vedere lo spettacolo, eravamo scivolati giù per l’asta del parafulmine; ci eravamo fatti un po’ male tutt’e due e quindi non l’avremmo più fatto. Poi continuai con la mia storia e le raccontai tutto quello che avevo detto prima a zio Silas. Allora lei disse che ci perdonava e che forse era giusto quello che avevamo fatto, perché era quello che ci si poteva aspettare da due ragazzi come noi, perché tutti i ragazzi sono un po’ discoli, per quel che poteva sapere lei; e cosi, dal momento che non era successo niente di male, pensava che era meglio che impiegasse il suo tempo a ringraziare il buon Dio che eravamo vivi e stavamo bene e ancora vicini a lei, in vece di continuare a tormentarsi su quello che era stato. Cosi alla fine mi baciò e m’accarezzò sulla testa e cadde in una specie d’assorta meditazione; ma ben presto balzò in piedi e disse — Ma, misericordia, è quasi notte e Sid non è ancora tornato! Che cosa è successo a quel ragazzo? Io colsi l’occasione, balzai in piedi e dissi: — Corro subito in paese a prenderlo. — Neanche per sogno — dice lei. — Tu resti dove sei; è già abbastanza che se ne perda uno per volta. Se non è qui per l’ora di cena, tuo zio andrà a cercarlo. Be’, neanche all’ora di cena si fece vedere, quindi subito dopo cena lo zio parti. Fu di ritorno alle dieci circa, un po’ preoccupato perché di Tom non aveva

trovato nessuna traccia. Zia Sally Invece era preoccupatissima, ma zio Silas le disse che non c’era motivo; i ragazzi sono sempre ragazzi, dice lui, e vedrai che ricomparirà a casa domattina, sano e salvo. Cosi lei dovette acquietarsi. Ma dichiarò che sarebbe stata alzata ad aspettarlo per un po’ e che avrebbe lasciata accesa una candela in modo che il ragazzo la potesse vedere. Poi, quando salii in camera per andare a letto, venne su anche lei portando con sé la candela, e mi rimboccò le coperte e mi parlò con tale tenerezza che io mi sentii un miserabile e mi pareva di non riuscire neppure a guardarla in faccia. Si sedette sul letto e chiacchierò con me a lungo e mi disse che ragazzo meraviglioso era Sid e sembrava che non si stancasse mai di parlare di lui; e di tanto in tanto tornava a domandarmi se pensavo che si fosse perduto, che si fosse fatto del male o fosse annegato e magari in quello stesso momento si trovava da qualche parte, sofferente o morto, e lei non gli era vicino per aiutarlo, e cosi le lacrime le scorrevano per le guance in un pianto silenzioso. Io le dissi che Sid stava benone e che certo ritornava il mattino dopo; e lei mi strinse la mano o forse mi baciò e mi pregò di dirlo ancora e di continuare a dirglielo perché le faceva bene in quella sua preoccupazione. E al momento d’andarsene, mi guardò dritto negli occhi, con uno sguardo fermo ma affettuoso, e mi disse: — La porta non sarà chiusa, Tom, e poi c’è la finestra con il parafulmine; ma tu sarai buono, vero? E non scapperai, se mi vuoi un po’ di bene? Dio sa quanto io volessi scappare, per vedere come stava Tom, e la mia intenzione era indubbiamente di battermela; ma dopo quelle parole io non potevo più muovermi neanche per tutti i tesori del mondo. Ma avevo in mente lei e avevo in mente Tom; quindi dormii molto agitato. E due volte mi calai giù per il parafulmine, durante la notte, e scivolai fin davanti alla casa, ma la vidi là seduta presso la candela, davanti alla finestra, con gli occhi fissi sulla strada e colmi di lacrime; e avrei voluto fare qualcosa per lei, ma non sapevo proprio cosa, tranne giurare che non avrei mai più fatto nulla che potesse darle dispiacere. E la terza volta che mi svegliai era già l’alba; scivolai giù e lei era ancora là, con la candela quasi consumata: si era addormentata con la vecchia testa grigia appoggiata sulla mano.

Tom Sawyer ferito - Il racconto del dottore - Dare a Jim un buon trattamento - Tom confessa - Arriva zia Polly

Capitolo 42

Prima di colazione il vecchio ritornò in paese, ma di Tom non riuscì a trovare traccia, e ambedue si sedettero a tavola, In pensiero, senza dir nulla, con un’aria sconsolata, mentre il caffè diventava freddo e loro non mangiavano nulla. Di lì a poco il vecchio disse: — Ti ho dato la lettera? — Quale lettera? — Quella che ho ritirato ieri alla posta. — No, non mi hai dato nessuna lettera. — Be’, devo essermene dimenticato. Cosi si mise a frugarsi in tasca, poi andò a cercare da qualche parte, dove l’aveva lasciata, la trovò e gliela diede. Lei disse: — Ma viene da St. Petersburg. È di mia sorella. Io mi resi conto che un’altra eggiatina m’avrebbe fatto bene, ma non riuscii a muovermi. Ma prima che finisse di aprirla, la lasciò cadere e usci di corsa, perché aveva visto qualcosa. E anch’io. Era Tom Sawyer disteso su una lettiga; e quel vecchio dottore, e Jim, ancora vestito con l’abito della zia, con le mani legate dietro la schiena, e un mucchio di gente. Io nascosi la lettera dietro la prima cosa che mi capitò sottomano e mi precipitai fuori. La zia si precipitò su

Tom piangendo e gridava: — Oh, è morto, è morto, lo sento che è morto! Tom volse un poco la testa, mormorò qualche parola, dal che si capi subito che vaneggiava; allora lei alzò le mani al cielo e disse: — È vivo, grazie a Dio! E non chiedo di più! — Gli diede un bacio e corse in casa a preparare il letto, impartiva ordini a destra e a sinistra, ai negri e a chiunque altro tutto d’un flato. Io seguii gli uomini per vedere che cosa avessero intenzione di fare di Jim, mentre il vecchio dottore e zio Silas entrarono in casa dietro a Tom. Gli uomini erano molto accesi e alcuni volevano addirittura impiccare Jim perché servisse di esempio a tutti gli altri negri del posto, in modo che non gli saltasse mai in mente di scappare, come aveva fatto Jim, e di dare tanti fastidi e di spaventare per giorni e per notti un’intera famiglia fin quasi alla morte. Ma altri dissero di non farlo, non era una cosa giusta, perché il negro non era nostro, e il proprietario poteva saltar fuori e pretendere di essere pagato, sicuro. Questo li calmò un poco, perché quella gente, che è sempre la più ansiosa di impiccare un negro che non si è comportato bene, è poi quella meno ansiosa di pagare per lui una volta che se ne è cavata la voglia. Però lo insultarono parecchio e gli mollarono anche qualche ceffone, ma Jim non disse mai una parola, e non fece mai capire che mi conosceva. Lo trascinarono nella stessa capanna, gli rimisero i suoi abiti, lo incatenarono di nuovo, ma questa volta non alla gamba del letto, bensì a un grosso anello infisso nel tronco di base, gli incatenarono anche le mani e tutt’e due le gambe e dissero che non doveva avere nient’altro da mangiare che pane e acqua, dopo quel che aveva fatto, finché non fosse arrivato il suo padrone o non fosse stato venduto all’asta, nel caso che il suo padrone non venisse fuori entro un certo limite di tempo. Poi richio il nostro buco e dissero che tutte le notti lo dovevano sorvegliare un paio di contadini armati di fucile e di giorno un bulldog legato alla porta. Ormai avevano finito il lavoro e stavano concludendo con una specie di saluto finale a base di imprecazioni e di minacce quando arrivò il vecchio dottore a dare un’occhiata e disse: — Non siate più duri con lui di quanto è strettamente indispensabile, perché quello non è un negro cattivo. Quando sono arrivato dov’era il ragazzo, ho visto

subito che non potevo estrarre la pallottola senza l’aiuto di qualcuno, e lui non era in condizioni da essere lasciato solo mentre io andavo in cerca d’aiuto; poi ha cominciato a peggiorare sempre più e non a molto che va in delirio e farnetica che non vuole che io m’avvicini a lui e dice che se appena tento di segnare con il gesso la sua zattera mi uccide; non la smette di dire sciocchezze del genere e io mi rendo conto che ormai non posso fare più nulla. Cosi dico: in un modo o nell’altro devo trovare qualcuno che m’aiuti; e appena dico cosi mi striscia fuori da chissà dove questo negro e mi dice che m’aiuta lui e lo fa anche, e nel migliore dei modi. Naturalmente m’accorgo subito che deve trattarsi di un negro scappato, e cosi era! Ma dovevo restare là, senza muovermi, tutto il resto della giornata e tutta la notte. Era un bel pasticcio, ve l’assicuro! Avevo un paio di pazienti con l’influenza ed è chiaro che avrei voluto fare una corsa in paese per visitarli, ma non osavo perché il negro poteva scappare e la colpa sarebbe stata mia, e neanche una barca si avvicinò abbastanza per darle una voce. Cosi ho dovuto restare là senza potermi muovere fino a questa mattina all’alba; e non ho mai visto un negro più fedele e miglior infermiere di lui, eppure per aiutarmi rischiava la libertà ed era stanco morto, anche, e si vedeva benissimo che aveva lavorato sodo negli ultimi tempi. Ecco perché mi piace quel negro; ve l’assicuro io, signori miei, che un negro come quello vale almeno un migliaio di dollari e un buon trattamento, anche. Con lui avevo proprio tutto quello che mi occorreva e il ragazzo era curato come se fosse a casa sua, e forse anche meglio, perché quel posto era molto tranquillo. Io però mi trovavo là con tutti e due sulle spalle e non ho potuto muovermi fino a questa mattina all’alba; allora sono ati degli uomini in barca e, per un colpo di fortuna, il negro in quel momento era seduto accanto al lettuccio con la testa appoggiata sulle ginocchia, addormentato come un tronco. Cosi ho fatto cenno a quelli di far piano e loro si sono avvicinati, l’hanno preso e legato prima che si rendesse conto di quel che gli succedeva, e non abbiamo avuto da faticare. Anche il ragazzo s’era addormentato d’un sonno leggero e cosi abbiamo lasciato i remi, abbiamo legato la zattera alla barca, e l’abbiamo rimorchiata senza scosse e senza rumore; e il negro non ha fatto il minimo tentativo per scappare, né ha detto una parola dall'Inizio alla fine. Non è un negro cattivo, signori: ecco che cosa penso di lui. Qualcuno disse: — Be’, queste sono parole molto belle, dottore, devo dire. Allora anche gli altri si addolcirono un poco e io mi sentii immensamente grato a quel vecchio dottore che aveva reso a Jim quel bel servizio; ed ero contento

anche perché corrispondeva all’opinione che avevo io di Jim; infatti ero convinto fin dalla prima volta che l’avevo visto che aveva un cuore d’oro e che era proprio buono. Finalmente tutti furono d’accordo che Jim si era comportato davvero bene e meritava che lo si tenesse presente e che gli si desse una ricompensa. Cosi tutti promisero, con slancio davvero sincero, che non lo avrebbero più insultato. Poi uscirono e lo chio dentro. Speravo di sentirli dire che gli avrebbero levato una o due catene, perché erano terribilmente pesanti, o che gli avrebbero dato anche un po’ di carne e di verdura oltre al pane e all’acqua, ma non ci pensarono, e quanto a me, mi sembrava che era meglio non immischiarmi, ma decisi che in un modo o nell’altro avrei raccontato a zia Sally quel che aveva detto il dottore, appena fossi riuscito a superare gli scogli che mi vedevo dinanzi, cioè la spiegazione di come avevo dimenticato di informarla che Sid era ferito quando le avevo raccontato che lui ed io avevamo trascorso quella maledetta nottata sulla canoa a caccia del negro fuggitivo. Ma di tempo ce n’era a volontà. Zia Sally non lasciò la camera del malato giorno e notte e tutte le volte che vedevo zio Silas girare per la casa trasognato, lo scansavo. il mattino successivo seppi che Tom stava assai meglio e che zia Sally era andata a fare un pisolino. Cosi m’infilai nella camera del malato pensando che, se l’avessi trovato sveglio, insieme avremmo potuto mettere in piedi una storia che potesse andare per la famiglia. Invece dormiva, e dormiva molto tranquillo, ed era pallido, non più cosi come quando l’avevano portato a casa. Quindi rimasi seduto in attesa che si destasse. Dopo circa mezz’ora entrò piano zia Sally, e io ero là, di nuovo in trappola! Mi fece cenno di non fare rumore, mi si sedette accanto e incominciò a sussurrare che ormai si poteva stare tranquilli, perché tutti i sintomi era ottimi e Tom dormiva In quella maniera da un mucchio di tempo e sembrava che migliorasse di continuo e che fosse sempre più calmo, e con ogni probabilità al risveglio sarebbe tornato di nuovo in sé. Cosi rimanemmo là a vegliarlo e di li a poco incominciò a muoversi adagio, poi apri gli occhi con un’aria molto normale, diede uno sguardo attorno e disse: — Ehi, come mai sono a casa? Cos’è successo? Dov’è la zattera?

— È tutto a posto — dico io. — E Jim? — Anche lui — rispondo, ma non potevo dirlo troppo disinvolto. Lui però non se n’accorse e continuò: — Ottimo! Splendido! Adesso si che siamo tutti sani e salvi! L’hai raccontato alla zia? Io stavo per rispondere di si, ma lei s’intromise e domandò: — Raccontato che cosa, Sid? — Be’, come s’è svolta la faccenda. — Quale faccenda? — Be’, tutta questa faccenda. Ce n’è stata una soltanto: come abbiamo fatto a rimettere in libertà il negro che era scappato, io e Tom. — Santo cielo! Rimesso in lib... Di che cosa sta parlando questo ragazzo? Povera me, riprende a delirare! — Io non deliro affatto; so perfettamente di che cosa sto parlando. Noi l’abbiamo liberato, io e Tom. Abbiamo fatto tutti i piani e ci siamo riusciti. E con molto stile, anche. — Ormai aveva preso l’abbrivo e lei non lo interruppe neanche una volta, ma stava ad ascoltare con gli occhi sbarrati e lo lasciava blaterare, e io mi resi conto che era inutile intervenire. - Ma zia, ci è costato un sacco di fatica, per settimane intere, ore e ore tutte le notti, mentre voi dormivate. E abbiamo dovuto rubare le candele, il lenzuolo, la camicia, il tuo vestito, i cucchiai, i piatti di latta, i coltelli, lo scaldino, la macina, la farina, insomma un’infinità di roba, e tu non puoi immaginare che faticaccia è stata fabbricare la sega, e le penne, e incidere le iscrizioni e tutto il resto; e non puoi neanche immaginare la metà del divertimento che è stato. E abbiamo dovuto fare i disegni delle bare e delle altre cose, e le lettere nonnime dei banditi, e andare su e giù per il parafulmine, e scavare il buco nella capanna, e fare la scala di corda e mandarla a Jim cotta in una torta, e mandare dentro i cucchiai e tutte le cose necessarie, nella tasca del tuo grembiule...

— Misericordia! — ...e infestare la capanna di topi e di serpenti, perché tenessero compagnia a Jim; e poi tu hai trattenuto cosi a lungo Tom con il burro nel cappello, che quasi ci mandavi all’aria tutto l’affare, perché gli uomini sono venuti prima che noi fossimo usciti dalla capanna e cosi abbiamo dovuto fare tutto in fretta e furia, e quelli ci hanno sentito e ci hanno sparato, e lo ho avuto la mia parte. Allora abbiamo evitato il sentiero; Il abbiamo lasciati are e quando sono arrivati i cani non si sono Interessati a noi ma sono andati dove c’era più fracasso, e noi slamo saltati sulla nostra canoa, abbiamo raggiunto la zattera e finalmente tutto era a posto: Jim era un uomo libero, e noi avevamo fatto tutto da soli. Non ti sembra meraviglioso, zietta? — Be’, non ho mai sentito niente di simile da quando sono al mondo! Sicché siete stati voi, piccoli furfanti, a farci are tutti quei guai, che credevamo di impazzire e di morire dalla paura. In vita mia non ho mai avuto una gran voglia come adesso di farvela pagare salata in questo preciso istante. Pensare che io me ne sono stata qui, una notte dietro l’altra, mentre... Be’, cerca di guarire in fretta, piccolo mascalzone, e ti prometto che poi vi concerò per le feste, tutt’e due! Ma Tom era cosi orgoglioso e cosi felice che non riusciva a trattenersi, la sua lingua continuava... e lei s’infuriava e sputava fuoco; ormai parlavano insieme come a un convegno di gatti, finché la zia dice: — Bene, adesso continua a divertirti più che puoi, ma sta’ bene attento che se ti pesco che bazzichi ancora con lui... — Bazzico con chi? — domanda Tom diventando serio e con aria sorpresa. — Con chi? Con il negro scappato, naturalmente. E con chi altro? Tom mi guarda severo e dice: — Tom, non mi hai appena detto che era a posto? Dunque non è scappato? — Lui? — ribatte zia Sally — il negro scappato? Certo che no. Lo hanno riportato indietro, sano e salvo, e si trova di nuovo in quella capanna a pane e acqua, carico di catene, finché non viene qualcuno a reclamarlo o non si riesce a venderlo.

Tom si levò a sedere sul letto, con gli occhi di fiamma e le narici che palpitavano come le branchie di un pesce, e mi gridò: — Non hanno nessun diritto di tenerlo chiuso dentro! Fila subito e non perdere un minuto. Va’ a liberarlo! Non è uno schiavo, è libero come qualunque creatura che cammina su questa terra! — Che cosa vorrà dire questo ragazzo? — Voglio dire quello che ho detto, zia Sally, e se qualcuno non si muove, ci vado io. Lo conosco dacché sono nato e anche Tom lo conosce bene. La vecchia Watson è morta due mesi fa e si era vergognata di aver avuto l’idea di venderlo a qualcuno del Sud; cosi ha detto, e nel suo testamento l’ha reso libero. — Allora perché diavolo mai hai voluto liberarlo tu, visto che era già libero? — Bene, questa è una bella domanda, devo dire, e proprio da donne! Ma io volevo l’avventura; mi sarei tuffato fino al collo nel sangue... Cielo santo... ZIA POLLY! Mi venga un colpo secco se zia Polly non era proprio là, sulla soglia, con l’aria dolce e soddisfatta di un angelo che si senta sazio di torta. Zia Sally le corse incontro e per poco non le staccava la testa a furia di abbracciarla, e le pianse addosso, e io trovai abbastanza un buon posto sotto il letto, perché l’atmosfera incominciava a diventare piuttosto calda, mi sembrava. Metto fuori il naso per dare un’occhiata e vedo zia Polly, la zia Polly di Tom, che si libera dall’abbraccio, s’avvicina a Tom e lo squadra al di sopra degli occhiali, con l’aria di volerlo ridurre in polvere. Finalmente dice: — Certo, ti conviene voltar la testa dall’altra parte, Tom, io lo farei, se fossi in te. — Santo cielo! — esclama zia Sally — è cambiato tanto? Perché quello non è Tom, è Sid; Tom... Tom... è... ma dov’è Tom? Era qui un minuto fa. — Vuoi dire dov’è Huck Finn, ecco che cosa vuoi dire! Credo proprio di non aver allevato per tutti questi anni uno scapestrato come il mio Tom, per poi non riconoscerlo quando me lo vedo davanti. Sarebbe proprio il colmo. Vieni fuori da sotto il letto, Huck Finn.

Cosi feci. Ma non mi sentivo troppo in gamba. Zia Sally era il ritratto più tipico della perplessità che mi sia mai capitato di vedere, tranne uno, e questo era zio Silas quando entrò e gli dissero tutto. Pareva uscirne ubriaco, si potrebbe dire, e non capi nulla per tutto il resto della giornata e quella sera tenne un sermone che gli conferì immediatamente una reputazione sfolgorante, perché anche l’uomo più vecchio del mondo non ci avrebbe capito niente. Cosi zia Polly raccontò a tutti chi ero e che cosa ero, e io dovetti spiegare come mi fossi ficcato in tale vicolo cieco, da quando la signora Phelps mi aveva preso per Tom Sawyer; qui lei m’interruppe per dire: « Oh, continua a chiamarmi zia Sally, ci sono abituata e non c’è bisogno di cambiare», da quando zia Sally mi aveva preso per Tom Sawyer, e io avevo dovuto stare al gioco, non avevo altra scelta, e poi sapevo che a lui non gliene importava, anzi sarebbe stato uno so per lui, perché c’era dei mistero e ne avrebbe fatto un’avventura, che poteva dargli un mondo di soddisfazione. E infatti cosi fu: lui fece fìnta di essere Sid e cercò di essermi d’aiuto più che potè. Allora zia Polly disse che Tom aveva perfettamente ragione quando aveva detto che la vecchia Miss Watson nel testamento aveva concesso la libertà a Jim; e cosi guarda un po’ in che razza di guai e fatiche s’era ficcato Tom Sawyer per liberare un negro libero! E io non ero mai riuscito a capire prima, fino a quel momento e a quel discorso, come mai fosse disposto ad aiutare un tizio come me a liberare un negro, lui con la sua educazione. Bene, zia Polly spiegò che quando zia Sally le aveva scritto che oltre a Tom era arrivato anche Sid, ambedue sani e salvi, si era detta: — Ma senti questa, adesso! Avrei dovuto aspettarmelo, lasciandolo andare cosi lontano, senza nessuno a controllarlo. Cosi adesso devo sobbarcarmi tutto questo viaggio sul fiume, quasi duemila chilometri, per vedere che cosa ha combinato questa volta quella creatura, tanto più che non riuscivo ad ottenere nessuna risposta da parte vostra. — Ma noi non abbiamo mai ricevuto nulla da te — dice zia Sally. — Ma che strano! Io ti ho scritto ben due lettere per sapere cosa volevi dire scrivendo che c’era qui anche Sid.

— Be’, non le ho mai ricevute. Zia Polly si gira adagio e severa dice: — Tu, Tom! — Be’, io cosa? — fa lui con aria irritata. — Non mi rispondere tu cosa, sfacciato che non sei altro... tira fuori quelle lettere. — Quali lettere? — Quelle lettere. Se ti metto addosso le mani, giuro che... — Sono nel baule, ecco tutto. E sono esattamente come le ho ritirate alla posta. Non le ho aperte, non le ho toccate. Ma sapevo che ci potevano mettere nei pasticci e ho pensato che forse, se tu non avevi troppa fretta, potevo... — Be’, una bella spolverata ti farebbe bene, su questo non c’è dubbio. E poi ti ho scritto un’altra lettera per dirti che stavo per arrivare; e suppongo che lui... — No, quella è arrivata ieri; non ho ancora avuto il tempo di leggerla; ma quella è a posto, ce l’ho io. Avrei voluto scommettere due dollari che lei non ce l’aveva affatto, ma pensai che forse era meglio non tentare neppure. Cosi non dissi niente.

Fuori dalla schiavitù - Giocare al prigioniero - Vostro af-fezionatissimo Huck Finn

CAPITOLO ULTIMO

La prima volta che riuscii a trovarmi a quattr’occhi con Tom, gli domandai che idea avesse in mente al tempo dell’evasione, che cosa avesse deciso di fare se l’evasione fosse riuscita come diceva lui e se ce l’avesse fatta a mettere in libertà quel negro che era già libero. Rispose che s’era messo in testa fin dall’inizio che, se si riusciva a tirar fuori senza guai Jim, dovevamo scendere il fiume insieme, sulla zattera, ed avere una serie di avventure fino alla foce del fiume e a quel punto dirgli che era libero, e riportarlo a casa su un piroscafo, in gran pompa, e ripagarlo per il tempo perduto, e scrivere a casa per far uscire tutti i negri al suo ritorno, che lo accompagnassero in corteo in giro per il paese con una fiaccolata al suono della banda; allora sarebbe stato un eroe, e anche noi con lui. Ma io ero convinto che era andata altrettanto bene cosi com’era andata. Facemmo subito liberare Jim dalle catene e quando zia Polly e zio Silas e zia Sally seppero quanto si fosse prestato per aiutare il dottore a curare Tom, allora non sapevano più che fare per lui; lo sistemarono nella maniera migliore, gli diedero da mangiare tutto quello che voleva, desideravano soltanto che se la sasse e non avesse nulla da fare. Più tardi lo facemmo salire nella stanza del malato e si fece una chiacchierata che non finiva mai. E Tom gli diede quaranta dollari perché s’era prestato a fare il prigioniero per noi, con tanta pazienza e aveva fatto tutto per bene, e Jim era contento da morire e scoppiò a dire: — Ecco, Huck, che t’avevo detto? Che t’avevo detto lassù su Jackson Island? T’ho detto che ho il petto peloso, e cosa vuol dire questo segno; e t’ho anche detto che sono già stato ricco una volta e che lo sarei stato ancora; e si avvera: ecco qui. Adesso non mi dite più: i segni sono segni, ve lo dico io, e lo sapevo benissimo che un giorno diventavo di nuovo ricco, come è vero che sono qui in questo momento.

Poi Tom parlò e parlò e disse che noi tre dovevamo battercela una delle prossime notti, procurarci l’equipaggiamento necessario e andare in cerca di splendide avventure in mezzo agli indiani nel loro territorio, per almeno un paio di settimane. Io rispondo che ci sto, ma non ho soldi per comperare l’equipaggiamento e immagino che non potrò riceverne da casa, perché ormai papà doveva essere tornato in paese e certo s’era fatto consegnare i soldi dal giudice Thatcher e se li era bevuti. — Ma no — dice Tom — i tuoi soldi sono ancora là, seimila dollari e più; e tuo padre non si è più fatto vivo. Allora Jim dice in tono solenne: — Non ritornerà più, Huck. — Perché, Jim? — domando. — Non pensare perché, Huck, ma lui non ritornerà più. Ma io insistetti, cosi finalmente mi disse: — Non ti ricordi quella casa trascinata dalla corrente sul fiume, che c’era dentro un uomo, tutto coperto, e sono andato dentro e l’ho scoperto, ma non ho voluto che entrassi a vedere? Be’, allora puoi riavere il tuo denaro quando hai voglia, perché quello era lui. Tom è quasi guarito, e tiene la pallottola appesa alla catena dell’orologio, e sta sempre a guardare che ora è; e cosi non c’è più niente da scrivere e io ne sono maledettamente contento, perché se avessi saputo che seccatura è scrivere un libro non ci avrei provato e non ci proverò mai più. Ma credo che mi convenga partire prima degli altri per il Territorio Indiano perché zia Sally ha intenzione di adottarmi e di civilizzarmi ed è una cosa che non sopporto. L’ho già provata una volta. Vostro affezionatissimo Huck Finn FINE