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Lorenzo Guaraldi

L'Anno

L'Anno © Lorenzo Guaraldi 2015

ISBN: 978889250xxxx

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Indice dei contenuti

PRIMAVERA I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII ESTATE XIII XIV XV XVI

XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV AUTUNNO XXV XXVI XXVII XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI

INVERNO XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII EPILOGO PRIMAVERA LORENZO GUARALDI Ringraziamenti

Una Vita senza sogni è morta. Un Sogno senza vita è irraggiungibile. Una vita ricca di sogni e un sogno ricco di vita faranno in modo che il tuo domani ti sorrida.

PRIMAVERA

Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare. (Qoèlet, 1,15)

I

Mi svegliai. Le foglie degli alberi erano mosse dal vento, Tigella abbaiava in giardino e gli uccelli cantavano, come se quel giorno si fossero messi d’accordo per formare un coro. Si sentivano pettirossi, cinciallegre, merli ed io ero l'unico presente a quello spettacolo. Mio padre era in ufficio mentre i miei fratelli rischiavano di addormentarsi sui banchi di scuola o seguivano lezioni noiose. Io, invece, ero a casa da solo. La febbre era calata ma la testa mi faceva ancora male, era pesante e non voleva collaborare. Anche se erano già le nove, mi sentivo molto stanco e decisi di rimettermi a letto, magari a leggere qualcosa. Avevo appena terminato Avevano spento anche la luna di Ruta Sepetys e avevo iniziato da pochi giorni Storie di ordinaria follia di Bukowsky. Leggere era la mia grande ione. Per me i libri erano una droga. Leggevo, leggevo, leggevo. avo da un libro all’altro, non avevo generi preferiti. Mi rilassava, viaggiavo, vivevo una vita diversa dalla mia. Entravo nella storia, mi trasformavo in Peeta, in Leo, in Bilbo, mi tuffavo nell’avventura, affrontando i pericoli e incontrando grandi amori. I libri m’insegnavano molto, mi aprivano la mente, io e la storia diventavamo una cosa sola. Gli altri avevano come hobby i videogame, lo sport, le ragazze. Io invece avevo la lettura. La lettura era il mio sport, il mio videogame, la mia compagna in mille momenti della mia vita.

Lessi per tutta la mattina anche se gli occhi chiedevano di riposare e il corpo di alzarmi e prendere una boccata d’aria. Lessi fino a quando non sentii mio padre entrare in casa, chiudersi la porta alle spalle, venire in camera mia per dirmi che

dovevo preparare il pranzo, con voce stanca e spezzata, come al solito. -Apparecchia, io vado a fumare in giardino- appoggiò le sue cose e se ne uscì con occhi spenti e la sigaretta accesa, trascinandosi all’aria aperta. I capelli erano scompigliati, unti, grigi non per l’età ma per la tristezza. Era magro, le guance scavate e ricoperte da una barba incolta. Lo vidi arrivare in mezzo al giardino, sedersi tra l’erba e fumarsi la sua preziosa Marlboro. Mio padre aveva sempre odiato le sigarette. Non ne capiva il senso: perché comprare qualcosa che uccide? Ma ci era cascato lo stesso, in trappola come un pesce che abbocca all’amo. Aveva perso l’amore e aveva comprato le sigarette per colmare il vuoto che aveva dentro. Così credeva che bisognasse fare.

Iniziò a fumare quando mamma ci lasciò. Io ero solo un bambino ma la sua immagine era ancora chiara nella mia testa. Una bella donna che, per qualche motivo sconosciuto, se n’era andata chissà dove. A quest’ora poteva avere un altro uomo o essere morta, chi lo sapeva. Ne parlavamo poco in famiglia, mio padre non ne voleva più sapere e mia sorella Agata, la più grande di noi, ne aveva così tanto risentito che adesso mostrava una certa indifferenza nei nostri confronti, come se volesse scaricare l’odio per mamma su di noi. Non la sopportavo, io e mio fratello Giacomo per lei non eravamo nulla. Eppure era mia sorella, anche se mi sembrava una sconosciuta.

Eravamo già a tavola quando Giacomo ci raggiunse rompendo il silenzio che c’era spesso in quella casa. Aveva il viso ben definito, occhi scuri e capelli color carbone, lunghi, un ciuffo che gli copriva la fronte. Mi alzai e lo salutai con il nostro solito saluto. L'avevamo inventato una domenica mattina, ispirandoci a un film di cui non ricordo il nome. Io e Jack (così si faceva chiamare) eravamo molto legati, forse perché ci separava solo un anno di differenza. Insieme a lui avevo trascorso momenti indimenticabili, come quella volta che c’eravamo svegliati all’alba per cavalcare, ma anche periodi difficili, come la scomparsa di mamma, causa spesso di alcuni nostri litigi. Ma sono proprio questi che hanno reso possibile un rapporto forte, resistente e duraturo come il nostro. Frequentavamo il liceo classico Muratori a Modena, io ero al terzo e lui al quarto anno e spesso ci aiutavamo a svolgere la marea di compiti che i professori ci

assegnavano. Era un ragazzo semplice, amante del calcio, tanto da are più ore nei campi da gioco che a casa. -Fatto qualcosa di nuovo a scuola?- chiese papà. -Niente di che... - era la sua solita risposta e di nuovo silenzio. Erano così i nostri pasti: difficilmente qualcuno parlava, ognuno era perso nel suo mondo. Stavo guardando il vuoto quando Agata incominciò a discutere con mio padre degli ultimi avvenimenti mondiali. A volte si sentiva il bisogno di rompere quell’atmosfera imbarazzante e qualcuno faceva il primo o. Quel giorno lo fece mia sorella. Parlarono per pochi minuti, come se non volessero sprecare la voce, riguardo la guerra civile in Siria di cui tutti i telegiornali parlavano. Non ci avevo capito molto, sapevo soltanto che alcuni siriani si erano stancati dello strapotere del loro governatore e avevano tentato di ribaltarlo. Finita la chiacchierata, di nuovo silenzio finché non m’intromisi anch’io. -Ma papà, perché non fa niente?- chiesi. -Chi?-Dio- indicai il cielo. Mio padre mi guardò perplesso, riflettendo. -Perché non fa qualcosa invece di restare a guardare? Potrebbe renderci la vita molto più facile-Non lo so- rispose sollevando le spalle. Una risposta spenta, adatta a quell’uomo distrutto. A volte pensavo che per lui fosse una fatica risponderci perché ci liquidava con spiegazioni superficiali e frettolose. Oppure la colpa era mia, che mi piaceva fare domande di quel genere, che mi restituivano risposte vaghe, difficili o lunghi silenzi. Ma a volte non c’è altra risposta che il silenzio.

Finito il pranzo, ognuno di noi si ritirò nelle proprie camere aspettando la cena per rivedersi. Salii le scale fischiettando un motivetto che mi era rimasto in testa quando alle spalle qualcuno mi afferrò e mi buttò sul divano.

-Vuoi le botte?- scherzò Jack. -Mi sa che le avrai!- risposi lanciandogli un cuscino in pieno viso. Iniziò così un altro dei nostri combattimenti. Spesso erano per noi una valvola di sfogo, un gioco, un modo per scaricare la tensione. Jack mi saliva sopra e mi teneva fermo ma, dopo essermi divincolato più volte, le posizioni si cambiavano. La sequenza era sempre la stessa finché qualcuno, troppo stanco per continuare, non cedeva. Quel giorno, forse perché mi ero appena ripreso dalla malattia, persi miseramente. Dopo questi combattimenti scoppiavamo a ridere e ci scambiavamo uno sguardo complice e qualche colpetto finale sulla spalla dell'avversario.

II

-Adesso greco- dissi quando mi chiusi in camera, come avevano fatto già tutti gli altri. Avevo aperto il libro e avevo iniziato a tradurre qualche semplice frase nonostante il mal di testa non mi desse tregua. Greco era una delle poche materie che studiavo volentieri. Quegli scarabocchi m’insegnavano a interpretare meglio il mondo, a scoprire le morali che la mitologia celava e mi facevano sentire parte di un vastissimo progetto che sembrava non avere fine. Ero affascinato dal loro pensiero e da come, con quattro parole, riuscissero a spiegare concetti complicati. -”La generazione degli uomini è come le foglie”- continuavo a rileggere la citazione di Omero. -Come le foglie... Immaginai un bosco dove l'umanità intera eggiava tranquillamente. Foglie verdi, il sole alto in cielo, il profumo dei primi fiori. C’eravamo pure io e Jack con i nostri amici all’ombra di una quercia quando improvvisamente feci arrivare le piogge, i venti e il freddo che fecero rinsecchire il fogliame. Lo stesso accadeva a ogni singola persona che invecchiava, s’indeboliva, si ammalava. Mio padre era come queste foglie gialle: secco, fragile, bastava un soffio per farlo cadere a terra. Immaginai anche la neve di metà Gennaio ed ecco le foglie cadere e con loro cadere anche gli uomini. Gli alberi si erano spogliati di colpo e nessuno faceva più un picnic con gli amici, ascoltava la musica o incideva nella corteccia di qualche albero l’iniziale della sua anima gemella. Avevo spento il bosco quando, a un tratto, la mia mente fiorì. Ritornò la primavera! Gli alberi avevano di nuovo le belle chiome, la linfa scorreva vivace nelle loro fibre, alcuni mostravano già i primi frutti maturi. Immaginai centinaia e centinaia di persone che scherzavano, giocavano e ridevano insieme. C’era pure la mia famiglia al completo con papà e mamma abbracciati, Agata che mi scompigliava i capelli e Giacomo che faceva lo stupido. -Forse è così che dovrebbe andare... - sospirai. -Vivere per sempre la primavera invece di un inverno perenne-

-Muoviti! Ti sto aspettando!- era Jack che mi chiamava. Era da ore che studiavo e scienze poteva aspettare: lasciai il libro aperto sulla scrivania e percorsi tutto il lungo vigneto verso la stalla. Giacomo aveva già preparato i cavalli: strigliati, spazzolati, la sella sembrava messa correttamente sul dorso. -Vedo che impari in fretta- gli dissi. -Grazie al mio maestro-Modestamente- affermai sorridendo. Mi avvicinai a Chocolate, il mio cavallo, e gli sussurrai all’orecchio. -Dobbiamo vincere, bello. Oggi Jack mi ha già sconfitto una volta- scalpitò, come se avesse davvero capito le mie parole. Gli diedi una zolletta di zucchero di cui era golosissimo. Era una fortuna abitare in campagna, lontano dalla vita cittadina troppo stretta e caotica per me. Avevo bisogno degli alberi che fin da piccolo mi avevano insegnato a dove mettere i piedi, di una grande giardino dove lasciare libero il cane, del vigneto dietro casa, dei profumi e dei mille colori che mi circondavano. Avevo bisogno soprattutto di spazio, di un vastissimo senso di profondità che mi diceva che potevo arrivare ovunque mi pie. E poi era comodo tenere i propri cavalli a casa, in una bella stalla, e non chiusi in un box più piccolo della nostra soffitta. Accarezzai più volte l’animale per tranquillizzarlo. Non vedeva l’ora di correre. Aveva il pelo liscio e corto, color nocciola e la criniera, lunga e ben spazzolata, era nera come i suoi occhi. Potevo sentire i muscoli del collo contrarsi a ogni singolo movimento, il ventre gonfiarsi ritmicamente quando respirava e il muso rettilineo e ben proporzionato era immobile. Era giovane e, a mio parere, più bello di Moon, il cavallo di Giacomo, un tempo di Agata quando ancora preferiva fare le cose che voleva lei a quelle che le venivano dette di fare. -Sei pronto?- mi sfidò Jack. Salimmo ognuno sui rispettivi cavalli e ci avviammo verso un campo che usavano praticamente solo per queste corse. La giornata era perfetta per una cavalcata. Il sole splendeva, l'aria fresca ci riempiva i polmoni e l'acqua, nel ruscello vicino, scorreva placidamente. Ci

mettemmo in riga, cercando di tenere fermi i cavalli e controllando che tutto fosse a posto. Avevo una staffa più lunga dell’altra ma non lo dissi a mio fratello che non era mai stato pratico in queste cose. Mi adattai. -Tre... due... uno... - iniziai il conto alla rovescia. Poi uno sguardo. Un incoraggiamento. Un leggero colpo di talloni sui fianchi del cavallo. Partiti. Ero solo io e Chocolate. Il vento scompigliava la sua nera criniera, gli zoccoli battevano rapidamente, sempre più rapidamente sul terreno. Per la velocità a cui andavamo mi lacrimavano gli occhi, ma c'ero abituato anche se papà diceva sempre di non andare così veloci. Gli alberi accanto scorrevano, il suolo scivolava via e tutto girava come un vortice colorato. Sorai Giacomo proprio all’ultimo, un attimo prima di oltreare l’albero che ci faceva da traguardo. Tirai le redini e il vortice si placò. Avevo il fiatone. -Ho vinto... io... - dissi ansimando e Jack scosse la testa sconfitto. Legammo Chocolate e Moon a un albero per fargli brucare l'erba e riposare. Io e mio fratello ci sedemmo all'ombra di un pioppo a guardare il cielo. Qualche volta ava uno stormo di anatre che lo squarciava e si allontanava chissà dove, forse verso un laghetto nascosto. -Ma Jack, secondo te mamma dov'è?Esitò prima di rispondermi. -Non saprei... ci ha lasciati da una decina di anni e non si è più fatta rivedere. Ma secondo me sta bene- almeno Jack non si limitava a due parole come nostro padre. -E perché ci ha lasciato?- chiesi. -Papà non l’ha mai detto. Forse per una lite o per un altro uomo- rispose perplesso mettendosi a posto il colletto della giacca. Jack non aveva problemi a

parlare di mamma mentre papà non ne voleva sapere, era come se quell'argomento per lui fosse tabù, proibito, chiuso nel suo dolore. Mi fermai a guardare Giacomo che si era steso per terra a godersi un po’ di sole. A volte pensavo che nascondesse la verità su mamma, il motivo per cui era scappata e tutta la sua storia perché, quando ne discutevamo, abbassava lo sguardo, la voce gli s'incrinava e gesticolava spesso, cosa non tipica in lui. Ma come faceva Jack a sapere la verità? Impossibile, mi dicevo. L’unico che ne era a conoscenza era mio padre che però ti fulminava con un’occhiata quando ne provavi a parlare. -Non pensarci, non penso che tornerà mai- mi disse. Annuii, anche se non gli diedi retta. Con la testa persa nei propri pensieri, ritornammo sui cavalli e dopo aver costeggiato il ruscello, ci avviammo verso casa. Ormai era sera, le prime stelle erano macchie bianche su un foglio nero e gli uccelli avevano terminato la loro esibizione.

III

La mattina dopo ero già a scuola, mi ero ripreso completamente dalla malattia e seguivo la lezione di filosofia senza troppi problemi. Il prof aveva appena iniziato il "mondo delle idee" di Platone quando entrò la preside. Era una signora alta con lunghi capelli biondi e raramente si vedeva a scuola. Incominciò a parlare frettolosamente, non aveva tanto tempo. -Buongiorno ragazzi- ci alzammo, come soldati che devono salutare il loro generale. -Sono qui per dirvi che quest’anno avrete un nuovo compagno di classe- tutti si scambiarono sguardi rapidi e ansiosi di scoprire chi fosse il nuovo arrivato. Si sentivano già i primi commenti. -Speriamo che sia figo- diceva Beatrice, la mia cotta alle medie. –Non c’è spazio per un altro qua dentro- si lamentavano i claustrofobici. –Io dico che si chiama sco- c’era chi scommetteva sul suo nome. -Date il benvenuto a Nicola Barbolini- lo presentò la preside. Vidi un bastone che tastava il pavimento, gli stipiti della porta poi le gambe dei banchi. Non so per quale motivo ma rabbrividii, forse perché non mi aspettavo niente del genere. Teneva il bastone un ragazzo non troppo alto, paffutello, con i capelli arruffati e con grandi occhiali neri che gli coprivano gli occhi. Il prof si alzò e, prendendo delicatamente Nicola per un polso, lo guidò al suo posto, in prima fila, vicino al muro. I miei occhi erano fissi su di lui. Si sedette e si presentò a tutta la classe. Gli tremava la voce, spesso si bagnava le labbra con la lingua e parlava velocemente, probabilmente per l'imbarazzo. L'insegnante gli chiese quale scuola frequentasse prima e Nicola rispose che aveva frequentato un classico in un comune vicino. Aggiunse che per motivi personali si era trasferito a Modena e sperava di trovarsi meglio nel nuovo liceo. Ci fu presentata anche la docente di sostegno e la lezione ricominciò. Non smettevo di guardarlo. Niente poteva staccare i miei occhi dal nuovo arrivato, neppure le battute del mio vicino di banco.

-Sembra un tipo lungimirante ma questa volta ha preso una svista a venire al Muratori!Nicola stava in silenzio e tastava velocemente la tastiera del suo computer. Era il più concentrato di tutti e prendeva appunti su Platone senza stancarsi e senza lamentarsi. Restò attento per tutte le cinque ore, ascoltando e rispondendo anche alle domande dei professori quando finalmente le lezioni terminarono. Ero già pronto per uscire, ma m’impietrii vedendo Nicola che cercava la sua penna caduta a terra e Leonardo, un rompicoglioni, che la calciò di proposito contro il muro. Nicola sospirò, sembrava abituato a simili episodi. Me ne andai senza intervenire.

Arrivato a casa, mi lasciai cadere sulla sedia. Qualcosa non andava in me. Non aprii bocca a tavola, sgattaiolai in camera e mi sedetti sul davanzale della finestra, cosa che facevo spesso: lì sopra ascoltavo la musica, studiavo la campagna, leggevo qualche pagina ma soprattutto pensavo. E quel giorno i miei pensieri facevano male. Perché non lo avevo aiutato? Non perdevo l'autobus e non c’era neanche Jack ad aspettarmi, avevo tutto il tempo che volevo. Ma feci come tutti gli altri che avevano una reputazione da difendere, che avevano preferito starci lontano ed evitare future prese per il culo. In quel momento capii che i giudizi sono la paura più grande per noi adolescenti e che l’immagine vale più di tutto il resto: avere le Stan Smith ai piedi per seguire la moda, la sigaretta in bocca e il bel fisico, giocare agli omofobi e ai fascisti accaniti, farsi le foto davanti allo specchio e fare i grandi. L’immagine è quel che conta anche se in quel momento la mia era sottoterra mentre quello che era successo stamattina scorreva lentamente davanti ai miei occhi, come un rimprovero. Scossi la testa come per cancellare i pensieri quando vibrò il cellulare. Era Anna. -Stasera in centro?- invitava il messaggio e risposi che l'avrei raggiunta volentieri. Avevamo molto da raccontarci e Anna riusciva spesso a tirarmi su di morale.

Alle 21:00, in Piazza Roma, per un gelato. Perfetto. Sarei riuscito a distrarmi.

Jack mi chiamò dalla soffitta, aveva bisogno di una mano per recuperare un vecchio album fotografico che non trovava. La ricerca si fece sempre più difficile, c’era troppa confusione là sopra. Eravamo lì dentro da quasi un'ora ma ci divertivamo lo stesso. Jack faceva battute stupide. -Tra tutta questa polvere potremmo trovare anche il cadavere di Napoleone, non tutto, ma…Buona Parte!- scoppiai a ridere. -Facciamo così: chi trova l’album per primo vince un euro- mi sfidò mettendosi a rovistare dentro uno scatolone. Incominciai anch'io a frugare dentro dei cassetti infestati da tarli. Chiusi gli occhi e tastai. Era questa la sensazione che Nicola provava. Buio, solo buio. Io di tanto in tanto li aprivo per vedere dove mettevo i piedi ma lui non poteva. Non poteva vedere con chi stava parlando, i colori per lui non erano nulla, un sorriso, un arcobaleno, le stelle non erano niente. Era buio. Solo buio. -Bah, non ci devo pensare- borbottai. Aprii un altro cassetto che conteneva della bigiotteria impolverata, degli strani attrezzi da lavoro e un libro con la copertina ammuffita. -Mi devi un euro... - annunciai a mio fratello mentre sfogliavo le pagine ingiallite. Avevo trovato l’album. -Che culo che hai, io ho trovato solo questa corda. Mi chiedo che cosa ci faccia qua su!- borbottò abbandonandola sul pavimento. Mi si avvicinò e ci sedemmo a terra, tra gli scatoloni e la polvere. Alcune fotografie erano rosicchiate dai topi, altre ingiallite ed era impossibile distinguere i soggetti. Solo poche erano rimaste intatte o quasi. Ne presi una: una giovane donna si dondolava su un'altalena all'ombra di un faggio. Indossava un completo bianco e i lunghi capelli castani le ricadevano sulla schiena. Era molto bella. Studiai il viso in ogni suo piccolo particolare e notai che combaciava con

quello di mamma: lo stesso sorriso sincero, quella luce inconfondibile negli occhi, i lineamenti affilati e la pelle chiara. Restai fermo su quella pagina finché Jack non mi disse di girarla. Era da tempo che non vedevo una sua foto, papà le aveva tolte tutte. Alcune attirarono la nostra attenzione: nostro padre che si arrampicava su una palma, mamma che prendeva il sole e ancora papà che teneva in braccio la mamma o giocava con Agata, che era ancora una bambina. In quell’album vidi, dopo tanto tempo, i miei genitori ancora insieme. Jack era soddisfatto di aver trovato l'album perché lo voleva riparare, scegliere le foto migliori e realizzare un nuovo raccoglitore per il compleanno di papà. -Chissà dov’è a quest’ora... - mi dissi pensando a mia madre. Uscii da quella stanza con tante domande, nessuna risposta e un euro in tasca.

IV

Erano già le 21:00 ate quando vidi arrivare Anna correre verso di me. -Come stai? È da una vita che non ci vediamo!- mi si lanciò al collo. Era bello rivederla. Ci sedemmo su una panchina con il gelato tra le mani e sognavamo l’estate ricordando l’ultima ata insieme. -E che dire degli ultimi giorni?- le dissi. Lei sorrise soltanto al pensiero. Quella volta avevamo con altri amici un falò sulla spiaggia e ci giravamo intorno, tenendoci per mano e improvvisando dei i e delle canzoni sul momento. Ricordo le fiamme che danzavano nei nostri occhi, le stelle che ci guardavano dall'alto e la voce del mare che accompagnava gli arpeggi alla chitarra. -Ti ricordi che poi ci siamo addormentati sulla sabbia?- mi chiese. Come potevo dimenticarlo? C’eravamo sdraiati vicino alle braci, facendoci caldo con i nostri corpi e guardando il cielo. Qualcuno strimpellava in disparte la chitarra, altri scrutavano la fine del mare, altri ancora si addormentavano in silenzio. -E ti ricordi cosa mi hai detto quando mi lamentavo che tutto ha una fine?-“Come tutte le cose belle, pure questa finisce. Ma non erà mai”- le sussurrai all'orecchio. Mi sorrise. Anna era una ragazza vivace, tanto che mi contagiava spesso e poche volte l'avevo vista giù di morale. Lei non viveva per essere felice, ma per far felici gli altri e con me ci riusciva sempre. Aveva gli occhi color nocciola, pelle rosea e

capelli biondo cenere, mai legati. Era semplice, si truccava solo per gli eventi speciali e riusciva a trasformare i momenti in occasioni. Se uscivo con lei, sapevo che sarei stato bene. Da quasi un mese portava sempre un anello di poco valore, un piccolo cuore argentato che non toglieva mai. Mi aveva detto che era un regalo ma, quando le avevo chiesto di chi fosse, era stata in silenzio, segno che dovevo farmi i fatti miei. Pure quel giorno ce l’aveva e la domanda era sempre la stessa ma restò seppellita nella mia testa. -Mi ha detto Luca che domani farete un tema in classe- mi ricordò, leccandosi le dita per togliere il gelato colato sulla mano. Strano, anch’io ci stavo pensando in quel momento. -Già. L'argomento non lo sappiamo ancora ma la prof è così stronza che potrebbe darci tracce assurdeAnna sorrise, mi mise la mano sulla spalla e disse vivacemente -So che il tuo racconto sarà fantastico!- contagiato dalla sua allegria, l'accompagnai verso la fermata dell'autobus.

Mentre tornavo verso casa, il viso luminoso di Anna occupava i miei pensieri. È difficile ricordare il primo giorno in cui l’avevo conosciuta. Ci frequentavamo da quando eravamo bambini perché i nostri genitori si conoscevano dai tempi del liceo ed erano rimasti grandi amici. A volte capitava che litigassimo per stupidi motivi tipici della nostra età e quando ci urlavamo contro degli addii certi, sapevamo che prima o poi uno dei due sarebbe tornato. Crescendo con lei, avevo imparato ad affrontare la realtà con il sorriso, a notare ogni piccola cosa come un bacio su una guancia o un fiore in una crepa dell'asfalto e ad apprezzare le cose semplici. -“...son quelle più importanti”- mi ricordava riferendosi a una canzone di LowLow, il suo rapper preferito. Anna era quel genere di persona che tutti desidererebbero come amica. Ti strappava sempre un sorriso, ti abbracciava senza dirti niente, non esitava per aiutarti e metteva da parte il suo orgoglio per non perdere le persone care. Anna era diversa dalle solite ragazze, quelle che si credono modelle di Intimissimi, con un chilo di fondotinta e le unghie perfette, che raccontano della loro prima volta come se fossero sul Tg e che hanno profili

Facebook simili ai calendari di qualche attrice. Che si sparlano a vicenda, che sono sfacciate, che hanno perso la loro femminilità e si danno arie per quanti ragazzi ci hanno provato con loro. Anna non era stata travolta da questa moda di merda. Preferiva usare ancora belle parole, girare senza scollature ed essere elegante, non credersi nessuno ed esserci per i suoi amici invece che per farsi degli sconosciuti in discoteca. Anna aveva la rara abilità di saper ascoltare ma, nonostante la sua facilità ad aprirsi con le persone, nessuno sapeva niente di lei. Molti pensavano che non avesse nessun problema perché era sempre spensierata e serena ma, come ogni adolescente, ne era piena fino al collo e si vedeva dai suoi occhi che a volte sembravano due pezzi di marmo. Solo pochi di noi ce ne accorgevamo ma nessuno aveva il coraggio di chiederle se aveva bisogno di una mano. Era tremendamente sociale ma allo stesso tempo si chiudeva nel suo mondo. Ascoltava sempre tutti, ma non parlava di sé mai con nessuno.

V

I banchi erano già separati, i miei compagni seduti ai propri posti, una penna e un foglio sul banco e la prof alla cattedra segnava i ritardatari. -Per piacere Gesù, delle consegne decenti!- lo invocai salutando Luca con un cenno del capo. La traccia fu dettata e s’incominciò a respirare ossigeno misto a paura. Alcuni avevano già iniziato a scrivere mentre io mi perdevo a guardare fuori dalla finestra. Era una giornata piovosa, la strada pullulava di auto imbottigliate nel traffico e Nicola scriveva sul suo PC. La tastiera aveva su ogni tasto diversi puntini che Talpa (era il soprannome che gli avevano dato Leonardo e i suoi amici, ma al ragazzo non dispiaceva essere chiamato così) sfiorava capendo che lettera dovesse premere. Mi misi anch'io al lavoro. La traccia che seguii riguardava un tema libero sugli Ebrei, scelta dall’insegnate perché avevamo visto di recente Schindler’s list. Mentre scrivevo, a volte alzavo lo sguardo verso Talpa che premeva i tasti sempre più velocemente come se le sue idee fossero veloci e silenziose quanto una lampadina che si accende. Io invece riflettevo, rileggevo, qualche volta mi perdevo a guardare i vari compagni. C'era chi era piegato sui fogli a correggere, ad aggiungere, c'era chi leggeva. C'era chi, come me, mordeva la penna in modo nervoso.

Sfrecciavo verso casa sotto una pioggia battente. Avevo finito il tema e ne ero piuttosto soddisfatto. -Sicuramente è andata meglio di altre volte…- pensai mentre il paesaggio che mi circondava si era dipinto di grigio. Il cielo era pesante e tuonava, le buche nell’asfalto si erano riempite d’acqua, la città sembrava abbandonata di colpo. Le ruote giravano veloci, le gocce mi finivano negli occhi.

La solitudine mi abbracciò e mi portò via con lei. Mi prese la mano e mi condusse lontano, isolato dal mondo. Mi piaceva. Ero sollevato, mi rilassava, sentivo solo il rumore dei miei pensieri. Quando mi mettevo gli auricolari, la confusione delle macchine e il ciarlare ostentato e volgare di qualche persona scomparivano. Avevo bisogno della solitudine. A volte mi sentivo più in compagnia da solo che in mezzo agli amici. Uscivo da casa senza dir niente e camminavo per ore, senza una meta precisa e senza nessuno al mio fianco, tranne me stesso. Stavo per i fatti miei, staccavo dal mondo per entrare in una realtà tutta mia. La solitudine insegna a stare con gli altri perché se non sai stare da solo con te stesso, non sai stare con nessuno.

Entrai fradicio in casa. Un'unica grande goccia di pioggia. -Un ombrellino, no?- ironizzò Jack. Ci eravamo seduti in salotto e Giacomo aveva iniziato a descrivermi una ragazza che gli piaceva da molto, ma che non frequentava la nostra stessa scuola. -Dai, dimmi chi è!- lo supplicai. Fece finta di non avermi sentito. Odiavo i suoi silenzi, erano come degli schiaffi in faccia, uno sputo in un occhio perché mi chiudevano fuori dalla sua vita. Poi mi chiese, per cambiare argomento -E com'è il ragazzo cieco?- risposi che non c’eravamo detti molto e che era un ragazzo strano, timido, che stava distante dagli altri, come se ne avesse paura. -Beh, ci sta. Si sente semplicemente diverso- disse Giacomo dondolandosi sulla sedia. -Prima o poi capirà che non lo è- aggiunse. -Parte soltanto qualche metro più indietro. Secondo me, se te lo fai amico, scopri che è una persona in gamba e interessante- concluse andando ad apparecchiare. Ci riflettei un po' su prima di dirgli -Dai Jack, come si chiama la ragazza che ti piace?- ci riprovai.

-Lo devi scoprire- rispose. -Mi rigioco l’euro che ho vinto in soffitta- gli proposi con un sorriso malizioso. Lui accettò la sfida.

VI

-Che giornata di merda è stata ieri! Ho ato tutto il pomeriggio su fisica e oggi la prof non c'è neanche!- si lamentò Luca. -Ma ieri ha piovuto tutto il giorno, che avresti fatto? Dovevi tirare fuori la canoa per uscire!- gli dissi mentre camminavamo per il giardino della scuola. Era una bella giornata, il sole sembrava più luminoso dopo la pioggia torrenziale di ieri e gli studenti se lo volevano godere tutto, anche solo per quindici minuti prima di rientrare in classe. La ricreazione era la nostra salvezza, quei pochi minuti servivano per sgranchirsi le gambe, staccare e uscire da quella prigione. -Dici che ci consegnerà i temi? Anche se li abbiamo fatti ieri, lei è stata sempre veloce a correggerli- mi disse Luca. -Si vede che non ha un cazzo da fare- aggiunsi –Ma è ancora troppo presto. Penso che farà come le altre volte: leggerà quelli che le sono piaciuti, ma li consegnerà corretti la prossima settimana-. La camla suonò la fine dell'intervallo.

-Ehi vez, ma sei un indovino! Adesso attacca con la sua vocina da cagnolina in calore- mi bisbigliò Luca quando la prof entrò in classe ed iniziò a leggere.

TI AMO

-Nonno, perché sei così serio, stasera?- guardai la mia nipotina, seduta davanti a me. -Ti racconto una storia?- le proposi, guardandola dritta negli occhi. Lei annuì

illuminandosi in un bel sorriso.

Non era un giorno qualunque e si capiva dall’aria che si respirava quella mattina. Era pesante, ti grattava i polmoni. eggiavo per una piccola e solitaria via di un parco di cui non ricordo il nome. Era il 16 Novembre del 1938. Stavo pensando a cosa mi aveva raccontato mia madre quando era entrata in camera mia. La mia insegnante era venuta a casa nostra per dirle qualcosa d’importante. Io ero seduto nella camera a fianco, naturalmente a scrivere qualche nuova storia da leggere a Ismael. Il sole era coperto da nuvoloni che promettevano sicuramente pioggia e giù, in strada, il nulla. -David, dovrai lasciare la tua classe per trasferirti in un'altra sezione formata soltanto da ragazzi ebrei- quella frase, detta da mia madre che a stento tratteneva le lacrime, mi aveva spezzato il cuore. Io, David, un ragazzo italiano di religione ebraica, dovevo lasciare i miei amici, come Ismael, Marco, Lucia, e i miei professori per sistemarmi in una classe di sconosciuti. Mentre camminavo calciai un sassolino che rimbalzò contro una panchina, tintinnando debolmente. Il sole era improvvisamente spuntato da quell'ammasso di nuvole, facendo brillare la rugiada sull’erba. Le strade erano ancora deserte. Un silenzio assoluto chiamato Paura che mi aveva pervaso, facendomi avere una visione pessimistica sul mio futuro. Non riuscivo a stare tranquillo e sulla città era calato un silenzio che sembrava eterno. eggiando assorto nei miei pensieri, arrivai davanti ad un mucchio di macerie circondato da un filo. Una decorata insegna indicava che quell'edificio (o meglio, quello che ne restava) era una piccola cartoleria. ai sotto il filo e mi trovai a camminare sopra dei mattoni, vetri appuntiti, delle tegole e ad altri resti irriconoscibili. Raccolsi un piccolo oggetto che sembrava una mano di pezza aperta, probabilmente di una bambola che il negozio vendeva. Le piccole dita erano bruciacchiate e il palmo era annerito. La misi in tasca, sarebbe stato il mio porta fortuna. Stavo per andarmene quando notai su un mattone una grande stella gialla, annerita pure quella. Era la stella di Davide. -È un negozio ebreo- pensai, terrorizzato. Continuai a guardare per terra chiedendomi cosa fosse successo. Sollevai qualche mattone per cercare degli indizi e trovai tra le macerie una camicia che si era miracolosamente salvata da

quel disastro. Era di colore nero, i bottoni sembravano strappati e una manica si era bruciata. Strinsi quella maledetta camicia non con le mani, ma con tutta la rabbia che avevo in me.

Io e mio padre eravamo al parco a costruire un pupazzo di neve. Sembrava una giornata perfetta, soprattutto perché papà mi raccontava dei suoi ultimi viaggi. Lui aveva viaggiato molto per motivi di lavoro, in quasi tutta Europa e (così diceva) anche negli Stati Uniti. Proprio in quel momento mi stava raccontando di una notizia da prima pagina che aveva scritto per un giornale del nuovo continente. Io lo ascoltavo, senza interromperlo, ascoltavo la sua storia che mi riscaldava in quel giorno gelido. Ero legatissimo a mio padre, anche se lo vedevo poche volte all'anno. Mi ricordo che mi portava sempre dei piccoli souvenir dai luoghi che visitava. Mentre parlava, la mia attenzione fu catturata da una scritta sulla facciata di una palazzina. -Fascismo è libertà- ero ancora troppo piccolo per capirla appieno. I miei genitori mi avevano detto che il fascismo era troppo potente e troppa forza, diceva mamma, è sempre sinonimo di rovina. Poi mi avevano raccontato che, qualche giorno prima, le Camicie Nere avevano picchiato a sangue una ragazza che aveva comprato un giornale in un'edicola ebraica. Avevo sentito dire anche che i fascisti rapivano i socialisti. Era terribile. -Il fascismo non è libertà- mi dissi con certezza. Mio padre, intanto, aveva finito il pupazzo e stava mettendo due lunghi rami per fargli le braccia. Gli chiesi mentre lo aiutavo. -Papi, ma a te piace il fascismo?- si guardò attorno prima di rispondermi. -No, non mi piace affatto- sussurrò, come se avesse paura di essere ascoltato, anche se in strada stavano ando soltanto delle donne. Una figura vestita di nero uscì proprio da quella palazzina. A tracolla portava una baionetta e sul cappello troneggiava il Fascio Littorio. Non sembrava lucido, camminava barcollando, stava in piedi a fatica e faceva il saluto romano

quando incrociava una persona. Stava per are davanti alle donne quando si fermò vicino a una di queste. -Vieni con me, piccolina? Dai che ci divertiamo!- insistette cercando di toccarle il seno ma lei provava a respingerlo. Le altre donne si allontanarono terrorizzate e la poveretta incominciò a urlare quando il fascista le strappò di dosso la camicia. -Nasconditi- mi consigliò mio padre che dall'altra parte della strada tirò una palla di neve alla camicia nera. -Lasciala stare- gli disse con la faccia tesa, senza segni di paura e guardando l'altro dritto negli occhi. Si avvicinò per aiutare la donna che era stata colpita da un violento schiaffo sulla guancia. L'uomo, rosso in viso per la rabbia e per la vergogna, caricò la baionetta e la puntò contro mio padre. Papà sentì il rumore dell’arma e si alzò lentamente, guardando quasi con comione il pericolo che aveva davanti. Io mi ero nascosto dietro il pupazzo ed ero stato travolto da un turbinio di emozioni. Non sapevo cosa fare. Potevo perdere mio padre da un momento all’altro. -Abbassa il fucile e ci chiariamo... - sussurrò mio padre al fascista che indietreggiò, facendo piccoli i ma con il fucile ben stretto e in posizione minacciosa -Sporco figlio di puttana- esclamò l'ubriaco. Uno sparo. Un urlo. Uccelli che spiccarono il volo dai tetti. La paura. E la neve si macchiò di rosso.

Ritornai mentalmente su quelle macerie, ancora con la camicia tra le mani. Quel ricordo mi faceva venire la nausea.

Quei bastardi erano stati qui e avevano bruciato tutto.

Il giorno dopo entrai nella mia nuova classe. Rispetto a quella precedente era completamente spoglia. Il muro era rovinato e i dieci banchi al centro della stanza erano di pessima fattura. Altri nove ragazzi entrarono in aula dopo di me, in silenzio, non presentandosi ai nuovi compagni. Eravamo stravolti per aver lasciato i vecchi amici. Ero certo che non li avrei più rivisti. Ero a pezzi come le amicizie che avevo costruito con tanta fatica, ma tutto questo non era colpa mia. Era colpa del Fascismo e di quelle schifosissime leggi razziali che m’isolavano dal resto della società. Il Fascismo non è libertà se non potevo avere rapporti con ragazzi di un'altra razza.

Furono anni difficili quelli. I prof non volevano collaborare con noi alunni e noi alunni con loro. Il mio rendimento scolastico precipitò. D'un tratto aveva perso importanza. Mi sentivo diverso, cambiato, triste. Avevo perso la fiducia in Dio, la mia fede era sprofondata nelle fossi comuni di Auschwitz di cui mamma mi parlava sempre. Ero perso in quel mondo che adesso mi sembrava buio e pericoloso. Ormai non avevo più niente. Un giorno squadre fasciste vennero a casa per confiscare i nostri beni e mia madre perse anche il lavoro. Sopravvivevamo a stento con i pochi soldi che ci spedivano gli zii dall'Inghilterra. I giorni che avo con Mario a giocare a calcio o a fare lunghe eggiate sulle rive del Tevere, erano solo ricordi lontani. Mia madre stava ando momenti sempre più difficili: veniva picchiata, rapinata di quel poco che aveva ed era tormentata dal dolore di vedermi spento come una candela senza stoppa. Pensavo che nessuno la potesse salvare, forse l’unico ero io ma non ce l’avrei mai fatta. Il mondo mi era crollato addosso, boom, tutto in un colpo. A volte mi ava per la testa l'idea di togliermi di mezzo e di porre fine a questo supplizio, lasciandomi alle spalle il fascismo e le sue leggi schifose, ma non potevo lasciare mia madre in un momento come questo. Se mi fossi ucciso, lei mi avrebbe certamente seguito.

-E poi nonno cos'è successo?- chiese mia nipote. Io la guardai, con gli occhi velati di lacrime, mi persi lentamente nei miei pensieri e ricordai. -Ci presero e ci portarono ad Auschwitz... - tenevo tra le dita la mano della bambola, il mio porta fortuna.

Erano le sei di mattina del 16 Ottobre 1943. C'era freddo e pioveva, uomini con manganelli ci picchiavano e ci disperdevano lungo le vie di Roma, verso dei furgoni. Si sentivano grida, pianti di bambini, spari. La morte si aggirava tra quelle vie buie e bagnate di sangue. La pioggia ci sferzava violentemente e il rumore era assordante. I pochi uomini che cercavano di scappare venivano fucilati sul posto, sotto gli occhi di tutti, donne e bambini compresi. Io correvo con mia madre a fianco e le gocce di pioggia si confondevano con le mie lacrime. La tenevo per mano quando un energumeno ci divise con forza e, prendendola per i capelli, la spinse sopra una camionetta. Miracolosamente riuscii a salire con lei. Ci trasportarono a Fossoli, dove fummo caricati sopra dei vagoni per gli animali, insieme ad altre centinaia di persone. Il viaggio fu terribile. Non c'era né aria né acqua e il tragitto per l’inferno sembrava interminabile. Auschwitz ci aspettava. I nostri compagni di viaggio cercavano di tranquillizzarsi cantando canzoni ebraiche o scambiandosi qualche parola di conforto. Alcuni si accasciavano a terra, cadendo sul nudo pavimento e lasciando tutto, anche se probabilmente non avevano più niente. Era pieno inverno e il freddo pungente graffiava il mio corpo nudo e innocente.

Finalmente arrivammo al campo. Ero distrutto. Dei soldati tedeschi presero i cadaveri dai vagoni e li buttarono senza ritegno nella neve. Mia madre mi si avvicinò, lentamente. Era pallida, le pupille dilatate, sembrava invecchiata di cent’anni. Mi guardò, con le lacrime negli occhi. Mi accarezzò e accarezzò più volte, mi abbracciò forte, come non aveva mai fatto. Intanto fiocchi di neve cadevano sopra le nostre teste e le stelle brillavano nel cielo polacco.

Mi baciò sulla fronte. -Anee ohevet otkaIo la guardai annuendo. Quella frase, pronunciata da mia madre un minuto prima che la trascinassero alle docce, accese una luce di speranza dentro di me. Ti amo, poche parole ma tanta voglia di sopravvivere.

-E come ti sei salvato?- chiese Anita. -Grazie a quella frase. A quel semplice: TI AMO-

La prof chiuse per qualche secondo gli occhi e ripose il manoscritto nella sua cartellina. La classe era muta e immobile.

VII

Quando arrivai a casa stavo ancora pensando a quel racconto che aveva creato in classe un'atmosfera magica, cancellando ogni singolo movimento e rumore. Era la prova di quanto possa essere forte la scrittura. Con qualche parola usata nel modo, giusto possiamo smuovere i cuori, possiamo suscitare terrore, far piangere o anche strappare un sorriso. La scrittura è un'arma e per questo avevo sempre invidiato gli scrittori: tengono in mano le nostre emozioni e ci giocano spudoratamente, come se fossero delle bambole di pezza. E ciò li rende potenti. Infatti, non c’è niente di più forte di saper governare i sentimenti degli altri.

Grazie a Dio era sabato e lasciai lo zaino vicino al mio armadio per riaprirlo soltanto il pomeriggio dopo. -Secondo me a scriverlo è stato Talpa... - mi dissi, sdraiato nell’amaca e interrompendo la mia lettura. Quando la professoressa aveva incominciato a leggere il racconto, Nicola aveva chinato la testa sul banco e aveva sorriso, gesto assai rara. Ripensai a quando scriveva: riusciva a materializzare su un foglio bianco il mondo che teneva nella sua testa, come se rendesse concrete le sue creazioni immaginarie. Nessun altro sarebbe stato capace di scrivere un racconto del genere. Tigella, il nostro labrador, si avvicinò alla mia mano che ciondolava dall'amaca e la leccò per attirare la mia attenzione. Era un cane giovane, affettuoso e con tanta voglia di giocare. Il pelo era completamente nero come i suoi grandi occhi, la coda era spessa e la scodinzolava non appena ci vedeva. Scesi dall'amaca e accarezzandolo gli dissi. -Lunedì provo a diventare suo amicoTigella mi rispose leccandomi la punta del naso.

Ero sotto casa di Anna che aspettavo per andare insieme agli scout. Era da parecchi anni che frequentavamo insieme quella realtà. Lo scoutismo ci aveva insegnato a vivere nell'essenzialità, a divertirci con qualche canzone, ad ascoltare la voce della natura e a trovare sempre un lato positivo nelle cose. Rinunciavamo volentieri alla domenica sera libera e insieme andavamo nella Parrocchia di San Lazzaro, sede del nostro gruppo. Facevamo lunghe attività, si parlava e si scherzava tra amici e si discuteva su argomenti attuali. Ogni anno si organizzava una camminata estiva che ci catapultava nel fango, tra le montagne, in scomode tende, a volte sotto la pioggia, senza WhatsApp e tutte le comodità di cui godiamo. Nonostante ciò, lo facevamo volentieri e ogni volta non ce ne pentivamo. Ci piaceva evadere per una settimana dalla realtà, staccare tutto e vivere in modo diverso dal solito. -Dai, muoviti!Anna scese con la solita divisa azzurra e il fazzolettone appeso al collo e mi abbracciò con il suo entusiasmo. -Sei pronto? Oggi c'è il torneo di Scoutball!- esclamò correndo a prendere la sua bicicletta. Sarebbe stata una gran giornata.

Era già tutto al suo posto. I bastoni erano piantati nel terreno per formare due porte, davanti alle quali i portieri erano già schierati e ogni giocatore indossava il suo scalpo. Il nostro gruppo organizzava ogni anno questo torneo con gli altri scout di Modena e offriva anche una cena per i partecipanti. Scoutball è un gioco dove è essenziale il lavoro di squadra, ma anche le azioni individuali hanno una certa importanza. Il nostro era un torneo serio, tanto che ai vincitori venivano assegnate piccole medaglie e il pubblico non mancava mai. Tutto era ormai pronto e anche i tifosi erano seduti vicino al campo dove avrebbe giocato la propria squadra.

-Ehi, come stai Luca? Sei carico?-Abbuco!- affermò ridendo. -Quest’anno vinciamo noi!- esclamai dandogli una pacca sulla spalla. -Li facciano a pezzi!- disse con grinta e ci schierammo in campo, pronti a dare il massimo. Il terreno di gioco era in ottime condizioni e i primi avversari da affrontare erano delle “mezze merde” come diceva Luca. Ci avvicinammo al centro del campo e l'arbitro ricordò il regolamento prima di iniziare. -Lo scopo è fare meta appoggiando la palla dietro la linea di porta. Non si può far punto lanciandola. Solo appoggiandola- e fece un esempio, come se nessuno di noi conoscesse le regole. -...per fermare l'avversario è necessario scalparlo quando ha il pallone in mano altrimenti è fallo. Lo scalpo va messo nei pantaloni. Quando si viene scalpati, bisogna uscire dal campo e dare la palla alla squadra rivale. Se si commettono tre scalpi non validi, bisogna uscire: si rientra alla prossima meta- poi, aggiunse che se rimanevano in campo solo due giocatori di una squadra (il portiere e un altro) si faceva meta tecnica. Ci augurò buon gioco e ci disponemmo lungo la linea di fondo. Così fece l'altra squadra, ma sulla linea opposta. Si sentì un fischio e la palla venne gettata al centro del campo. Ci avventammo sul pallone. Luca lo prese e lo lanciò a un nostro compagno di squadra. Io ero completamente libero e, dopo essermi sbracciato qualche volta, ricevetti la palla. Scivolai tra due avversari e, trovandomi davanti al portiere, lo superai facendo meta. Le nostre azioni erano brevi e incisive. La partita si concluse con la nostra indiscussa vittoria. -Si vola ai quarti!- esclamò Anna. Il trofeo proseguì tra cori accaniti, applausi, vincitori e vinti. Lottavamo nell'erba, esultavamo in maniera esagerata, ci sdraiavamo a terra per prendere fiato. Volevamo vincere assolutamente. Avanzammo nel torneo, battendo squadre su squadre e arrivando in finale,

stremati ma con la speranza di arrivare primi per quest’anno.

Il gruppo “Pegaso” ci aspettava. La partita si sarebbe disputata tra qualche minuto e per fortuna avevo tempo per riposarmi e pensare ad altro. Stavo andando in bagno per rinfrescarmi quando fui travolto da un’emozione incredibile, come se fossi un funambolo che rischia di cadere dal filo che lo sostiene. La vidi nella squadra avversaria con il fazzolettone verde-rosso al collo e la camicia azzurra senza nessuna piega. I lisci capelli castano chiaro erano raccolti in una coda e nei suoi occhi si poteva vedere il cielo azzurro di una giornata d’Aprile. Era bellissima. Il viso era puro, liscio e ogni suo piccolo neo era una stella e lei la costellazione più bella di tutto l’universo. Aveva un fisico slanciato, ben curato, caviglie piccole e gambe snelle da cui difficilmente distoglievi lo sguardo. Aveva una bellezza timida, che nascondeva, che non ostentava: era come un piccolo diamante in una scatola di sassi senza alcun valore. La seguii con lo sguardo finché non la persi di vista. Ritrovai magicamente l’equilibrio e continuai a camminare sul filo oscillante.

Ci stavamo riscaldando quando mi girai per cercarla di nuovo. Per caso i miei occhi incrociarono i suoi e questa volta caddi nel vuoto. Mi voltai di scatto e sbilanciai Anna che provava a raggiungere le punte dei piedi con le mani. -Ma che fai!- mi rimproverò. Il torneo l’aveva resa meno tollerante del solito. Non le risposi, pensavo ad altro. Con le ragazze ci avevo sempre saputo fare ma con lei era diverso, sembrava inavvicinabile da quanto fosse bella.

Pioveva a dirotto ma lottavamo comunque nel fango per fare meta. Era la semifinale del torneo di Scoutball dell'anno scorso. La cercavo di continuo, anche se dovevo concentrarmi sul match. Ricevetti la palla e mi lanciai verso la porta avversaria. Superai prima uno e poi due

avversari quando fui interrotto da un lungo fischio. L'arbitro aveva il fischietto tra le labbra e lei mostrava in alto il mio fazzolettone. -Cazzo, scalpato in pieno- disse un mio compagno di squadra. Restai fermo qualche minuto, come se dovessi ancora capire cosa fosse successo, poi mi avvicinai e le presi il mio scalpo. Mi sorrise e ritornò a giocare mentre mi sedevo fuori dal campo. I miei occhi non la lasciarono un istante. Era una rondine che spicca il suo primo volo, finalmente fuori dal nido e libera. Fermava chiunque si avvicinasse alla sua porta e rapidamente la nostra squadra si decimò. Il tempo regolamentare stava per scadere e le due squadre erano ancora in pareggio. Nella nostra c'erano solo tre giocatori e rischiavamo di subire meta tecnica ogni volta che prendevamo palla. Se fossimo rimasti in due, la vittoria sarebbe andata di conseguenza al gruppo “Pegaso”. E così accadde. Luca prese palla e incominciò a correre come non aveva mai fatto. Nessuno lo fermò, tranne lei. Si spostò di lato e con uno scatto della mano gli tolse il fazzolettone. L’arbitro decretò la meta e fece terminare la partita. Avevano vinto. Uscimmo da quel campo maledetto con la delusione che rabbuiava i nostri volti e ripromettendoci di vincere il prossimo anno, anche se nessuno in quel momento ci credeva. Il gruppo Pegaso vinse la finale e fu nominato campione di quell’edizione mentre noi ce ne andammo sconfitti perdendo il titolo. -Quest’anno sarà diverso…- pensai mettendomi a posto lo scalpo. Eravamo già disposti in campo. Il pubblico era in assoluto silenzio e i membri di ciascuna squadra guardavano in cagnesco i rivali. Da una parte avevo Anna che m’incitava e mi diceva che l’importante era divertirsi e non vincere il trofeo. Dall'altra, Luca piagnucolava borbottando a bassa voce che anche quest'anno saremmo usciti dal campo delusi e con un sogno sempre più distante. -Che palle Luca, è solo una partitella di Scoutball!- lo rassicurai. -No, non è una partitella... è la finale di Scoutball!-Ma stai tranquillo... -

-Come faccio a stare tranquillo!- ribatté mettendosi le mani fra i corti capelli biondi. -Quanto fa paura la paura, vero?- gli sussurrai. -Ognuno ai propri posti- esclamò l'arbitro ed entrambe le squadre formarono una linea a fondo campo. Lei era a pochi metri di distanza e mi fissava come se avesse trovato in me qualcosa di speciale. -Quanto è bella... - pensai. Questa volta sostenni il suo sguardo e annegai in quegli occhi cangianti. Fu come perdersi nella Notte stellata di Van Gogh, trasportato sulle colline ondulanti, nel cielo vorticoso, verso quella falce di luna che regna sul paesino sottostante. Lei era quel cipresso in primo piano, simbolo di pace e d’infinito, ma era anche quello sfondo, che assomiglia così tanto a un mare ribollente, e quelle stelle che sembrano palle di fuoco che nuotano nella notte. Ma Leo le si avvicinò, le accarezzò una ciocca di capelli e le diede un bacio. La Notte stellata si trasformò nell’Urlo di Munch, come se quel quadro rappresentasse il mio dolore sotto forma di colori. Volevo urlare, fare qualcosa ma restai immobile. Per un attimo il mondo si fermò. Tutto si fermò. Tutto si ruppe come un vetro che s’infrange su un freddo pavimento. Sapevo che Leonardo fe parte del gruppo “Pegaso”, ma lo ignoravo come facevo anche a scuola. -Stanno insieme... - mi dissi con un groppo in gola. La favola era già finita ancor prima d’iniziare. Mi voltai, testa bassa, pensieri confusi e raggiunsi la mia squadra a bordo campo. Poi un lungo fischio. Tutti correvano. La partita era iniziata.

VIII

Mi avventai sul pallone che rotolava nella terra di nessuno e incominciai a correre verso la porta avversaria. Sentivo dietro di me le urla dei compagni e dei tifosi e, arrivato alla linea di fondo, lanciai la palla nel folto gruppo di giocatori che si era formato davanti alla porta. Anna saltò, prese il pallone con due mani e l'appoggiò dietro la linea. -Alè!- gridarono gli spettatori applaudendo mentre io le andavo incontro per farle i miei complimenti. -Siamo già in vantaggio!- gridò lanciando un pugno al cielo. -Ma stiamo calmi... - aggiunsi porgendo il pallone all'arbitro. Mi avvicinai ad Anna per abbracciarla e notai un rossore sulla sua spalla. Aveva preso una bella botta, forse mentre saltava. -Come te la sei fatta?Indicò Leonardo -Mi ha tirato un pugno quando ho saltato, ma non fa male, sta tranquillo. È solo una botta- mi rassicurò sorridendo ma non la stavo ascoltando. Cercavo Leonardo tra i suoi compagni quando trovai il suo sguardo. Ci studiammo a lungo, a metri di distanza, senza abbassare gli occhi e tenendo la testa alta. L’aria che ci circondava era palpabile. A volte una semplice occhiata urla tutto quello che ci teniamo dentro e, in quel momento, diceva soltanto vendetta. Di nuovo la palla fu lanciata nel mezzo del campo. Fu proprio Leo ad afferrarla e a correre verso la nostra porta. La mia occasione si era presentata subito: la rabbia che ribolliva dentro di me doveva uscire in qualche modo. Ignorai totalmente lo scalpo e colpii Leonardo con una spallata. Soffocò un grido e cadde a terra, tenendo in una morsa d’acciaio il pallone. I suoi compagni di squadra mi vennero incontro e mi spingevano protestando. Io cercavo di stare in piedi e di guardare Leo che si era rialzato immediatamente.

-Cazzo fai, coglione!- sbraitò. -Non ti ho visto, dovresti crescere di più... - risposi ironicamente. L'arbitro ci raggiunse, ci divise raccomandandoci di non litigare e decretò una punizione agli avversari. -Sta calmo, toro- mi rimproverò Luca tirandomi uno scappellotto. Non reagii e andai a difendere. Gli avversari erano molto vicini alla nostra porta e potevano fare meta facilmente. Gridai più volte ai miei compagni di ritornare in fretta in difesa. -Batti tu, Anastasia!- era il nome della ragazza di Leo, direi appropriato. Prese la palla e la lanciò a un suo compagno che si tuffò letteralmente verso la porta facendo meta e stupendoci tutti. Parità, non eravamo riusciti a organizzarci in tempo. Luca si sedette guardando gli avversari esultare. Ci avevano raggiunto dopo pochi minuti e aveva fatto meta il Rosso, una riserva con i capelli color papavero e con alcune lentiggini sul naso. Io m’incazzai con tutta la squadra, in particolare con Luca che era rimasto immobile invece di coprire il suo lato. -Era tuo, Luca. È per queste stronzate che perdiamo!- lo rimproverai ma lui non ribatté. La partita continuò con molte interruzioni, giochi di classe, azioni clamorose ma nessuna meta e il tempo regolamentare stava per finire. Prima dell'Ultima Meta (simile al golden-goal) avevamo alcuni minuti per riprendere fiato. La squadra era spenta e stanca. Mi sedetti lontano dai miei compagni quando Anna mi raggiunse con o deciso. -Stai giocando solo tu! Non la i e ti arrabbi quando perdiamo palla. Smettila e non fare l’esaltato!- mi disse prima di rientrare, non dandomi il tempo di rispondere. Non avevo mai visto Anna così arrabbiata. Tutta la squadra non mi rivolse parola e s’incamminò verso il campo per affrontare Leo e i suoi compagni.

-Hanno ragione... Mi girai e Jack mi volgeva le spalle, guardando il campanile della chiesa. -Ricorda che l'unione fa la forza- aggiunse con un mezzo sorriso. Lo detestavo quando faceva così. Arrivava all'improvviso e diceva qualche frase a effetto. Era un rompipalle ma ero d’accordo con lui. Rientrai in campo cercando di tranquillizzarmi ma l'ansia mi aveva invaso. Avevo i nervi tesi, il cuore mi batteva a mille e mi girava la testa. Mi voltai verso il pubblico e notai mio fratello che faceva un tifo pazzesco con quattro amici. Un lungo fischio e vidi i miei compagni avventarsi sul pallone, come leoni che aggrediscono un'antilope. Io rimasi al mio posto, immobile. Sentii Luca che m’incitò a correre sulla fascia e allora seguii il suo consiglio, anche se avrei preferito coprire l’azione. Mi lanciai a destra, ricevetti in corsa il pallone e mi bloccai davanti a Leo, che non era certo intenzionato a intervenire delicatamente. Feci finta di lanciargli la palla in faccia e lo superai mentre cercava di proteggersi da un pallone invisibile. La folla mi applaudì e gettai la palla nel solito gruppo che si formava davanti alla solita porta. Il portiere questa volta uscì bene e afferrò la sfera saldamente, poi la buttò avanti, verso Anastasia che non era tanto distante da me. Mi lanciai verso il suo scalpo ma, quando mi vide, ò subito la palla al Rosso che fu costretto a fermarsi. Avevo fatto scalpo vuoto, quindi avevo scalpato Anastasia senza il pallone. Molti sostenevano che l'avessi scalpata quando aveva ancora la palla in mano, altri il contrario. Si formò una schiera di giocatori che si lamentava contro l’arbitro, ritardando il gioco. La discussione durò qualche minuto ed io, che mi ero seduto vicino ad Anna per ammirare la scenetta divertente, vietai ai ragazzi di brontolare. Un’altra punizione per gli avversari, ma questa volta eravamo pronti. Anastasia lanciò la palla a Leo ma Luca lo scalpò immediatamente. Leonardo prese la sfera e la scagliò a terra prima di ritirarsi fuori dal campo. -Cazzo!- gridò. -Permalosino il ragazzo... - mormorò Luca venendoci in contro.

-Grande!- esclamò Anna battendogli il cinque. Adesso non dovevamo distrarci. Dopo una fitta rete di aggi, la palla arrivò tra le mie mani. Superai il Rosso facendo un triangolo con un mio compagno e saltai altri due avversari con delle finte. Poi m’imbattei in Anastasia ma non mi fermai. Feci rotolare il pallone sotto le sue gambe e immediatamente lo ripresi, scartai il portiere e feci meta. Il pubblico si alzò in piedi gridando e battendo le mani. -Vinto!- esclamò Giacomo. Quelle fottute medaglie erano di nuovo nostre! I miei compagni mi saltarono addosso, dicendomi che ero un grande e avevo fatto un’azione da incorniciare. Luca mi abbracciò così forte per la gioia che rischiai di soffocare. Anna mi prese per scherzo lo scalpo e me lo legò sugli occhi e, quando lo tolsi, vidi Anastasia che cercava qualcuno, sicuramente Leo.

La serata continuò. Luca si pavoneggiava per aver scalpato Leonardo che se n’era andato subito dopo la partita; Anna arrivò con Jack e si misero a servire ai tavoli mentre io cercavo di avvicinarmi ad Anastasia. -Bella partita... - le dissi timidamente. Lei si girò e il mio cuore tremò di colpo. Non l'avevo mai vista da così vicino. Mai mi aveva rivolto così a lungo il suo sguardo e non mi aveva ancora mostrato tutta la sua bellezza. I lunghi capelli lisci ora le ricadevano sulla schiena e ci giocava spesso con le mani che erano piccole, pallide e con dita sottili. Ma erano gli occhi il suo pezzo forte e li sapeva usare tremendamente bene. Avevano ciglia lunghe, erano grandi e delle pagliuzze dorate incorniciavano la pupilla che era circondata da un mare azzurro. Deglutii davanti a tale bellezza. -Sì, bella partita. Complimenti anche per l'ultima azione- disse sorridendomi. La sua voce era limpida e il suo sorriso era l’inizio della primavera. -Grazie. Mi dovevo pur vendicare- aggiunsi, riferendomi alla partita dell’anno scorso. Mi sorrise ancora una volta. Ci presentammo e trascorsi gran parte della serata con lei e con altri suoi amici tra cui il Rosso, un ragazzo piuttosto introverso, ma che faceva spesso interventi esilaranti.

Quando fu arrivato il momento di salutarsi, ci scambiammo i numeri di telefono e li invitai a rivederci, anche il sabato dopo. -Certo!- mi risposero entusiasti. Io sorrisi.

IX

Da quel giorno Anastasia iniziò a colmare la mancanza di mamma e diventò la mia forza per affrontare i periodi difficili. La mia vita sembrava avesse preso un senso. Mi sentivo cambiato e anche i miei amici me lo fecero notare, ma “cambiare non fa male” diceva papà, “s’impara sempre qualcosa”. A volte parlavo con Anastasia fino a tardi su WhatsApp, l’andavo a prendere dopo scuola e quando usciva con la mia compagnia, non perdevo l'occasione di rendere ogni momento importante, di creare in lei bei ricordi che non avrebbe mai dimenticato. In pochi giorni avevamo stretto una bella amicizia, come se fosse stato scritto da qualche parte che doveva accadere così. Le avevo spalancato le porte della mia vita e lei non aveva esitato un secondo prima di entrarci. Mentre andavo a scuola, ricordai quella volta che m’aveva chiamato in lacrime, m’aveva detto se ci potevamo vedere e scappare da qualche parte invece di seguire le lezioni. Io avevo provato a farla ragionare ma niente, non mi ascoltò. Quello fu il primo cabò della mia vita.

-Okay. Però decido tutto io- le dissi al telefono. -Va bene- disse singhiozzando –Grazie... Qualche secondo di silenzio, sentivo soltanto i suoi inutili tentativi a trattenere le lacrime. -Ania?- non l’avevo mai chiamata così. Non mi rispose, forse era stupita per questo nuovo soprannome. -Va tutto bene, okay?- le dissi per tranquillizzarla. Sussurrò qualcosa, penso avesse detto di sì.

Ci salutammo e la raggiunsi qualche minuto dopo nel posto che avevo scelto per vederci. Era una fabbrica abbandonata chiamata Ex Fonderia, lontana dal mondo, certo non il luogo più adatto per il primo appuntamento. Ma mi piaceva, era proibita, logorata dal tempo e magica: si respirava un’atmosfera diversa, tanto che il resto non contava più niente quando entravi là dentro e le ore sembravano non are mai. Scavalcai il cancello che vietava di entrare e la vidi aspettarmi all’ingresso della fabbrica. Non era truccata, indossava dei jeans strappati alle ginocchia, delle vecchie converse ai piedi, i capelli raccolti in una treccia e due grandi occhiaia sotto gli occhi gonfi e rossi. Aveva da poco smesso di piangere. Quando mi vide, mi corse incontro e mi si lanciò al collo, come se non stesse aspettando altro. -Eccoti- sospirò, stringendomi forte. Farfalle nello stomaco. Pelle d’oca. Il profumo della sua pelle sapeva di sapone di mandorle. Sprofondai in quell’abbraccio. -Cos’è successo?- le chiesi mentre eravamo ancora abbracciati. Non riuscivamo a staccarci. Aspettò prima di rispondermi e si asciugò le ultime lacrime. -Ho lasciato Leo- mi riferì e questa volta si staccò e fece qualche o indietro. -Hai lasciato Leo?- feci l’eco, forse non avevo capito bene. Annuì. –Non mi trattava bene- si fece piccola, si strinse in sé stessa e abbassò lo sguardo. Le guance le diventarono rosse. Non sapevo che fare, se abbracciarla o provare a chiarire la situazione. -E perché sei così disperata?- domandai. Mi guardò, aveva gli occhi velati dalle lacrime.

-Beh, non è facile andarsene, sai? Essere la causa di tutto, abbandonare. Lasciarsi alle spalle i baci, gli abbracci, le notti insieme... - fece una pausa. Non so per quale motivo ma mi si strinse lo stomaco. Mi morsi il labbro, non riuscivo a sopportare l’idea che Leo l’abbracciasse a letto. -Guarda che Leonardo, quando vuole, sa essere una bella persona- non volevo più sentire, la gelosia mi aveva pervaso. -Okay, Ania. È meglio se non ci pensi più- le dissi seccato e calciando un sassolino, per scaricare la tensione. Sentivo il suo sguardo su di me, mi osservava come se avesse capito tutto. -Ti voglio bene- mormorò. Anch’io gliene volevo, forse più di quanto immaginasse, ma non dissi nulla né l’abbracciai. Restai immobile, a guardare la fabbrica. Respinsi le mie emozioni, mi controllai. -Vieni- le dissi. –Ti faccio distrarreEntrammo dentro la Ex Fonderia. Era ridotto a uno scheletro, a ruderi e graffiti sui muri pericolanti. Una parte del tetto era crollata e mostrava una porzione di cielo, erbacce crescevano lungo le colonne e tegole, mattoni, vetro e spazzatura erano sparsi per terra. Ania mi afferrò la mano. Intrecciai le dita con le sue, non la volevo più lasciare. -È abbastanza frequentato questo posto... - sussurrò. Pacchetti di sigarette, scatole di medicine, scarpe, bombolette, panni sporchi e bottiglie di birra erano sparse ovunque. Quel posto era diventato il covo di tossici e clandestini, ma sicuramente a quell’ora non ci sarebbe stato nessuno. Attraversammo il cortile interno e la portai nel cuore della Ex Fonderia, dove un tempo c’erano gli uffici, i bagni, i lunghi corridoi e gli sgabuzzini. -Ma dove mi hai portata?- mi bisbigliò. Delle siringhe erano conficcate in una porta, come se fossero delle freccette. Mi strinse la mano, più forte. Aveva paura, ma l’idea che in quel momento ero io il suo unico appiglio non mi dispiaceva affatto. Mi faceva sentire importante per lei.

-Tranquilla, ora andiamo sul tetto- le dissi proseguendo. Non rispose, si strinse solo più vicina a me. Mi avrebbe seguito ovunque sarei andato. Evitai di are per un corridoio completamente buio e scelsi un’altra via. C’erano dei varchi in alcune pareti, aperti probabilmente a colpi di mazzate. Restammo abbracciati, le dita intrecciate, in silenzio come se quel posto ci avesse tolto le parole. Finalmente le scale. Avevo girato più volte nell'ex fabbrica e avevo scoperto tre diverse rampe che portavano al secondo piano. Quella era la più agevole, le altre erano crollate e bisognava appendersi a un tubo poco stabile o saltare per continuare a salire. -Andiamo?- la incoraggiai. Salimmo lentamente, facendo attenzione a dove mettere i piedi. Non c’erano ringhiere, eravamo costretti a camminare vicini al muro, abbracciati, uno in sostegno all’altro. Aprii lentamente una vecchia porta che ci portò dove un tempo c’erano i bagni. -Speriamo che non ci sia nessuno- sussurrò Ania. Dei piccioni ci sentirono e lasciarono i loro nidi, sfiorandoci la testa. Anastasia soffocò un grido e si nascose tra le mie braccia. La presi con delicatezza. -Almeno ti stai distraendo- le dissi scherzando. -Idiota... - rispose aspettando che riprendessi a camminare. Grandi finestroni si affacciavano su una strada frequentata, c’erano materassi e coperte nelle stanze e ci attendevano altre scale per raggiungere il tetto. -Ci vieni spesso?- mi chiese per rompere il silenzio che regnava in quel posto. Non le risposi, volevo che si godesse l’atmosfera, che arrivasse in cima dove saremo stati meglio e, finalmente, ci arrivammo. Si vedeva tutta la fabbrica: il cortile interno, i capannoni e la fonderia. Alle nostre spalle, la strada pullulava di auto che ci suonavano vedendoci là su, il treno ava sulle rotaie vicine e il mondo sembrava essere nostro.

-Vieni, meglio non essere così scoperti- le dissi e la condussi in uno spiazzo lontano dalla strada ma affacciato su un salto di più di nove metri. -Tu sei pazzo... - la sentivo sussurrare mentre camminavamo su delle tegole sconnesse. Sorrisi. -Bisogna farle le pazzie per le persone. Se non le facciamo, non diventeranno mai pazze di noi- pensai. Ci sedemmo tra due camini, anneriti e danneggiati ma dove qualche uccello aveva fatto il suo nido. -Non ho mai fatto niente del genere- mi disse Ania affacciandosi sul cortile interno. Non volevo si sporgesse così tanto e me la presi fra le braccia. -La mattina non è ancora finita- annunciai mettendo le canzoni di Ed Sheeran e tirando fuori dallo zaino una vasca di gelato che miracolosamente non si era sciolto del tutto. Ania era sbalordita. -Hai fatto tutto questo per me?- la sua voce sembrava fragile, come se fosse stato faticoso farmi quella domanda. -Certo. Ti dovevi distrarre- sorrisi. Le brillarono gli occhi e arrossì. Non riusciva a ringraziarmi. Il rumore del treno sembrava lontano, le punte degli alberi oscillavano e il cielo azzurro ci avvolgeva. Ascoltammo la musica, mangiammo il gelato e chiacchierammo il meno possibile perché ci bastava restare lì a coccolarci per dirci quello che volevamo. Lei guardava lontano, oltre i palazzi e l’orizzonte. Mi bastava guardala per capire che nel mondo di cose belle ce ne sono davvero.

-Ehi sognatore, guarda che facciamo tardi- mi disse Jack superandomi. Mi ripresi da quel ricordo e ricominciai a pedalare al mio solito ritmo. -Sei il figlio che tutti vorrebbero…- lo presi in giro.

La scuola ci aspettava.

Entrai in classe giusto in tempo per l’inizio delle lezioni, salutai i miei compagni e la giornata iniziò come tutte le altre. La camla dell'intervallo suonò e noi ci alzammo per sgranchirci e fare quattro chiacchiere. Raggiunsi Luca al nostro solito posto, vicino a una finestra che dava sul giardino. -Ehi, guarda quella!- il mio amico indicò una ragazza alla macchinetta del caffè. Lo guardai interrogativamente. -Guarda che culo!- esclamò Luca sorridendo. Finsi di interessarmi, anche se sapevo benissimo che i miei occhi erano solo per Anastasia. Ania aveva un non so che di speciale. Pure un suo difetto poteva competere con quel culo che era il risultato di lunghi mesi di palestra. Anastasia era proprio bella. Quando la incontravo rimanevo a bocca aperta perché era vestita di tutta la sua bellezza. Non c’erano parti che prevalevano su altre, ma tutto in lei andava d’accordo. Avevo osservato quell’opera d’arte nel suo complesso e me n’ero innamorato subito, che vuoi farci. Se mi avessero chiesto cosa mi pie in lei, non avrei saputo come rispondere. Facevo prima a dire che di lei mi piaceva tutto, anche i difetti che la vestivano. Non l’amavo per il fisico, per la simpatia e per l’intelligenza. L’amavo e basta, l'amavo perché era lei.

Visto che la primavera stava per finire e con lei anche l'anno scolastico, io e il mio amico cominciammo a organizzare la nostra estate per vederci e per fare qualcosa insieme. -...Senza escludere gli altri!- precisai e Luca mi guardò con sguardo complice, capendo perfettamente a chi stessi alludendo.

Non gli avevo tenuto nascosta la mia cotta per Anastasia e spesso voleva che parlassi di lei. Mi ricordo che un giorno eravamo usciti a fare due i al parco. Luca aveva iniziato a lamentarsi della scuola, com'era suo solito, e io facevo finta di ascoltarlo.

-Quella stronza è insopportabile!- aveva esclamato facendo una smorfia. Io pensavo ad altro. Non davo segno di vita e scrutavo il cielo. -Chi è 'sta qua?- aveva chiesto inaspettatamente Luca. Lo guardai interrogativamente. -Ti brillano gli occhi. A chi stai pensando?-

Allora avevo rivelato al mio amico la verità: gli avevo detto che mi ero innamorato. Stavamo ancora parlando dei nostri programmi estivi quando vidi Nicola alzarsi dalla sedia. Prese il suo fedele bastone e s’incamminò verso i bagni. Proprio in quell’istante Leo, che negli ultimi giorni era sempre incazzato con tutti, tanto da farsi odiare anche dalla sua compagnia, entrò in classe e si scontrò involontariamente con Nicola. I due caddero a terra e un allarme scattò in me: mi alzai immediatamente prevedendo ciò che Leonardo avrebbe fatto, ma arrivai tardi. Leo, già in piedi, spinse nuovamente a terra l'altro che si era appena sollevato dal pavimento. Poi incominciò a insultarlo con parole così pesanti da spezzarti l'orgoglio, da schiacciarti, da farti vergognare. -Guarda dove vai, cieco di merda!Talpa era riverso a terra, con gli occhi verso il pavimento e subiva in silenzio. Esplosi. Tutta la rabbia che avevo dentro uscì e si riversò su Leonardo. Quella rabbia che avevo rinchiuso dentro di me, che avevo controllato per tutto quel

tempo, che era uscita in parte al torneo di Scoutball, si scaraventò contro l'antipatico. Ero furioso. Gli colpii la guancia urlandogli contro e aiutai Nicola ad alzarsi, ma lui rifiutò il mio aiuto. Lo guardai perplesso ma in quel momento, mentre osservavo ancora esterrefatto la mano di Talpa che faceva segno di andarmene, Leo mi diede un violento colpo sulla schiena, scaraventandomi a terra. Intanto si era formato un bel gruppetto di studenti che ci guardava facendo il tifo e impedendo ad alcuni di fermare la rissa. Finalmente accadeva qualcosa di avvincente al Muratori. Nicola era stato aiutato a uscire da tutta questa confusione. Io e il mio avversario ci guardammo fissi negli occhi, con i denti serrati e i pugni pronti a colpire. Quel giorno non c’era nessun prof in quel corridoio. Mi avventai su Leo che mi schivò agilmente gettandomi contro il muro. La folla scoppiò in una fragorosa risata. -Stronzo! È per te che mi ha lasciato!- esclamò furioso sferrandomi un pugno sulla spalla che mi fece fare una smorfia di dolore. Le parole di Leo risuonarono nella mia testa. Veramente Ania lo aveva lasciato per me? Non sapevo che fare, questa rivelazione mi aveva solo fatto confusione. Non dovevo pensarci, rischiavo soltanto di illudermi. Finsi un attacco alle gambe ma Leo fu più attento del solito e mi afferrò per la gola, costringendomi a guardarlo: vidi occhi di vendetta mentre lui vide occhi di terrore. Mi appioppò un pugno tale da farmi sanguinare il naso. Ormai la folla di ragazzi era aumentata e i presenti battevano energicamente i piedi per terra quando, d'un tratto, tutto si placò. I professori arrivarono bloccandoci e ordinandoci di rientrare nelle nostre classi. La folla si dileguò. Il naso mi sanguinava e Leo mi guardava soddisfatto. Ci portarono con altri due ragazzi dalla preside. Volevo finire l'anno con qualcosa di speciale e l'avevo fatto, ma di negativo. Tutti e quattro fummo sospesi per tre giorni. Da una parte, c'ero io che avevo cercato di difendere Nicola, dall’altra, i due che avevano intralciato chi voleva intervenire e infine Leo, che aveva causato tutto ma, essendo nipote della preside, aveva molti punti a favore. -Quanto cazzo è ingiusto il mondo!- sbraitai uscendo dalla presidenza.

X

Non avevo mai visto mio padre così arrabbiato. Mi aveva chiuso in camera, sequestrandomi il cellulare e tutto ciò che poteva tenermi collegato con l'esterno. Mi permetteva di uscire solo per i pasti e mi vietò tutte le attività extra che avrei dovuto fare. Quel sogno che stavo vivendo si era trasformato in un incubo. La prigionia durò per un’intera settimana, anche se Giacomo aveva tentato di “ammorbidire” papà, ma senza successo. Lui era un uomo severo e irremovibile. Nei giorni successivi amavo andare a scuola e odiavo quando la camla segnava la fine delle lezioni. avo la soglia di casa e la tensione, la vergogna e la paura mi piombavano addosso. Anche se non era stata colpa mia, mi sentivo una merda perché come una merda mio padre mi trattava. Adesso, il mio rapporto con lui si era cancellato del tutto. Avevo perso entrambi i genitori. Mi rivolgeva parola solo per darmi ordini o per rimproverarmi. L’avevo terribilmente deluso. Un giorno Jack mi allungò di nascosto il mio telefono con le cuffie, sapendo benissimo che avrebbe migliorato la mia condizione. Quando ero stanco o non mi sentivo bene, spesso mi sdraiavo a letto ad ascoltare per ore la musica, al massimo volume per scappare da tutto e da tutti. M’infilai sotto le coperte, misi le cuffie e sognai ad occhi aperti. Mi persi nella mia mente e viaggiai tra mille visioni e pensieri, avevo bisogno di una bussola per orientarmi in quel mare di meraviglie. Scelsi il sogno più bello e mi ci tuffai dentro. Intanto la musica mi escludeva dal mondo e pian piano me ne allontanai, sempre di più, chiudendo gli occhi.

Ero sdraiato su uno scomodo letto, in una stanza che non conoscevo. Accanto a me un curioso oggetto emetteva strani bip. bip. bip. Mi girai dall'altro lato, dove c'era una sagoma scura sdraiata su un letto simile al mio. La sua macchina invece emetteva un lungo e sonoro biiiiiiiiip. Mi sedetti per riconoscere il suo volto ma una miscela di colori l'oscuravano. Allora mi alzai e mi affacciai dalla

finestra per capire dove fossi. Le foglie erano gialle, arancioni, rosse e coloravano una città che sembrava troppo cupa e spenta. Dopo aver attraversato lunghi corridoi, uscii da quel luogo sconosciuto. Arrivai sulla strada, dove le macchine sfrecciavano veloci e dai finestrini delle auto qualche idiota gettava bottiglie di vetro che si frantumavano a terra, rischiando di ferirmi. Percorsi un lungo marciapiede e m’imbattei in una vecchia bicicletta abbandonata. Era quella di Giacomo, chissà cosa ci faceva lì. Il telaio era piuttosto rovinato, aveva le ruote sgonfie, il sellino scomodo e portava una corda nel portapacchi. Sembrava che fosse stata appoggiata a quel muro da un’eternità, esposta alle piogge torrenziali di Settembre e al freddo gelido di Gennaio. Però qualcosa mi spinse a prenderla e salii in sella. Pedalavo lentamente e ammiravo le grandi foglie appese ai rami. Per un momento mi sembrò che mi abbracciassero, con quella loro forma che assomiglia a una mano. I loro colori erano vivaci e le varie sfumature mi ricordavano il tramonto. Alcune si staccavano dai rami e mi accarezzavano come se avessi bisogno di conforto. Stavo tenendo lo sguardo rivolto verso l'alto per ammirare le foglie quando rischiai di scontrarmi contro una bella donna. Mi disse gentilmente di stare più attento la prossima volta, prima di allontanarsi augurandomi buona giornata. Nessuna foglia la confortava, forse perché non aveva più nessuno. La sua voce era rotta, fragile, quasi trasparente e, pensai, probabilmente poco prima aveva versato lacrime amare. Di lei avevo visto solo l’abito scuro, da funerale. Il volto era offuscato e il suo profumo era inebriante e di qualità. Petali di rosa rossa. Mi svegliai di soprassalto quando mio padre irruppe nella mia stanza sgridandomi perché non avevo risposto subito ai suoi richiami e perché avevo preso il telefono senza il suo permesso. -Mi sono addormentato... - farfugliai mortificato. -Corri a falciare il prato!- mi ordinò seccamente. Io obbedii a testa bassa.

Mentre guidavo il tagliaerba provai a ricordare il sogno che avevo fatto. Cercai di capire chi portasse un profumo così buono e di distinguere lo sconosciuto che dormiva al mio fianco.

-Stava dormendo o era morto?- era questa la domanda che mi tormentava. Ormai del sogno ricordavo ben poco: avevo solo presente il ragazzo misterioso e il profumo di rose. Il sole era spuntato da dietro le nuvole e il caldo si faceva sentire. La fine di Maggio era ormai alle porte e il profumo d’estate era già nell’aria. Mi ero appoggiato all'albero in giardino, con gli occhi chiusi. Come acqua che scorre nel letto di un fiume, tratti di quel sogno attraversavano rapidi la mia mente, ma più provavo a ricordare più mi sembrava di perderli. Jack mi raggiunse e si sedette vicino a me senza rivolgermi parola. Entrambi guardavamo lontano, oltre il prato di margherite, gli uccelli nel cielo, una fila di formiche sul muro. -Stava dormendo... - sussurrai. Jack mi guardò incuriosito ma senza fare domande. Restammo lì qualche minuto, poi entrammo in casa.

XI

Mi misi a guardare la televisione e Jack mi raggiunse poco dopo. Naturalmente “Dynamo” su DMAX non gli andava bene, prese il telecomando e incominciò a fare zapping cercando qualcosa che gli interessasse. Non mi lamentai e lo lasciai fare. Giacomo fissava lo schermo per qualche secondo e poi cambiava. Niente d’interessante fino a quando non smise di premere i tasti del telecomando. Mi girai verso lo schermo. -Dai Jack, cambia... - sbuffai ma lui rimase fermo, con gli occhi ipnotizzati dalla trasmissione -Riuscirà la squadra addetta ai trasporti a velocizzarli? E il Signor Green finirà lo stadio in tempo grazie alla sua grande esperienza? Lo scoprirete tra poco, restate con noi!- esclamò lo speaker in TV. -Ma come fai a guardare queste merde?- mi lamentai. -Sono apionanti e impari molto!- rispose convinto. –Molto meglio di un mago che recita!-Bah, si vede proprio che l'Uomo ha perso la sua fantasia... - replicai alzandomi dal divano. -L'Uomo non l'ha persa!- tagliò corto lui mentre continuava a seguire la trasmissione. -Ma sì, ha perso la sua immaginazione. Hai visto le locandine del cinema? Sono vecchi cartoni animati in 3D! E questi nuovi programmi? Tutte delle cazzate assurde!- imitai alcuni presentatori. -“Donne stra-mega-obese che devono perdere metà del loro peso in cento giorni”, “Costruzioni, uomo e tanto altro ancora” e “Sopravvivere in mutande”!Jack si era sdraiato comodamente sul divano e continuava a guardare la TV.

-Ma mi ascolti?- domandai con impazienza. Lui rispose con un cenno. -No, non mi stai ascoltando. Non con gli occhi- e andai in camera mia. Ci restai fino all’ora di cena.

Proprio quella sera Anastasia dava una festa a casa sua con tutto il Club (la nostra compagnia di amici) ma purtroppo non ero ancora in buoni rapporti con mio padre. Provai comunque a chiedergli se ci potessi andare, anche se sapevo già la risposta. -Stasera posso andare a casa di Anastasia con Jack?- gli chiesi con voce soffocata. Come mi aspettavo, proibì di farmi uscire. Morivo dalla voglia di rivedere i miei amici ma ero costretto a are un altro sabato sera chiuso in camera. Persi le staffe. -Sei un padre del cazzo!- gli urlai contro. Non sentii il ceffone arrivare. Mi colpì in pieno viso, lasciandomi l’impronta della mano sulla guancia. Bruciava, era diventata rossa e massaggiarla non serviva a niente. Guardai mio padre che non mi degnava neanche di uno sguardo. Lo offesi nei miei pensieri in tutti i modi possibili prima di chiudermi in camera. Sbattei la porta alle mie spalle e scaraventai a terra il porta penne sulla scrivania. Quell’uomo mi stava facendo impazzire. Mi lanciai sul letto e soffocai nel cuscino un grido di rabbia. Dovevo uscire in qualche modo, anche se mio padre non voleva. Non ce la facevo più a fare il prigioniero. Chiamai Jack e ci sedemmo sul letto. -Giacomo, ho bisogno di una mano.... -Ci proverò- mi rispose con fermezza capendo già che genere di aiuto volessi. Sicuramente anche Agata mi avrebbe aiutato ma solo in cambio di alcuni favori. Il piano era semplice: Jack doveva intrattenere papà mentre io sarei sgattaiolato

fuori casa, poi Agata ci avrebbe accompagnato in macchina alla festa. -E se papà venisse in camera tua?- chiese nostra sorella che era arrivata poco dopo. Il mio sguardo implorante chiedeva a Giacomo un'idea. Restammo per qualche minuto a pensare. Agata intanto ci spronava a trovare una soluzione, così avrebbe ottenuto la serie di favori che le avevo promesso. Mi venne in mente che in cantina tenevamo un manichino che, messo bene sotto le lenzuola, poteva assomigliare a qualcuno che stesse dormendo. -Non è mica un film... - lei scosse la testa. Le dissi che comunque avremmo tentato. Era quasi ora di andare. Scesi in cucina per chiarire con papà e per chiedergli scusa, anche se non lo pensavo affatto. Poi finsi di non sentirmi bene e mi recai in camera per posizionare il manichino. Spensi tutte le luci: era perfetto. Sarei poi uscito mentre Giacomo distraeva papà.

-...e non disturbarlo che è un po’ scoglionato!- gli raccomandò mio fratello. Intanto mi ero nascosto tra i cespugli in giardino a godermi la scena che si stava svolgendo sulla soglia di casa. Jack aveva iniziato a parlare con papà della mia situazione mentre io ero sceso per le scale ed ero uscito senza fare rumore. Dopo aver salutato nostro padre, Jack e Agata salirono in auto, dove li stavo già aspettando. -Bel lavoro, ragazzi!- esclamai abbracciandoli. Agata mise in moto e ci condusse alla meta prefissa. Sarebbe stata una festa fantastica, peccato per l'ansia di essere scoperto che mi portavo addosso.

XII

-Finita la prigionia?- mi chiese Ania sulla soglia di casa abbracciandomi forte. Era da una settimana che non la sentivo né la vedevo, era stata quella la mia vera punizione. -In verità sono un evaso…- le dissi con un mezzo sorriso. -Che stupido che sei- mi prese la mano e ci accompagnò in casa. La musica, le luci, l'euforia ci avvolsero quando varcammo la soglia. Anastasia ci parlava entusiasta e volle mostrarci la casa che non avevamo mai visto. Jack mi lasciò appena entrammo. Che maleducato, pensai. Chissà cosa doveva fare. -...e qui c'è il salotto che stasera sarà la nostra pista da ballo- mi indicò sorridendo una grande stanza illuminata da delle luci colorate che si accendevano ad intermittenza sulle pareti e sul soffitto. Da un impianto stereo si diffondevano a tutto volume i pezzi dei Blasterjaxx, di Afrojack, di Martin Garrix e di molti altri DJ che erano in voga in quel periodo. Su un lungo tavolo era stato preparato un ricco buffet che Luca stava già pregustando. Rividi Jack con Anna, probabilmente avevano chiacchierato in terrazza. -Eccolo il prigioniero!- gridò il Rosso correndomi in contro. Mi vennero a salutare tutti, come se quella settimana fosse stata un anno. -Il prigioniero evaso!- precisò Jack mentre salutava Chiara. Qualcuno chiese il perché e raccontai la mia fuga, ovviamente romanzandola un po’.

Ero davvero sorpreso. Di solito ci trovavamo in case modeste, dove parlavamo e mangiavamo qualche trancio di pizza. Ania aveva stupito tutti. -Almeno facciamo qualcosa di diverso dal solito... - dissi fra me e me.

Arrivò Luca, correndo allegramente verso di noi. Teneva sotto braccio due misteriose bottiglie su cui richiamò la nostra attenzione più volte. Una era vodka, l’altra sambuca e le aveva comprate da un minimarket in centro. Non so che marche fossero, non me ne intendevo, ma non feci a meno di notare come alcuni di noi si eccitarono subito alla vista delle bottiglie. -Non fare la spugna…- ammonii scherzosamente il Rosso che mi spintonò ridendo. Anna e Ania erano in pista a improvvisare qualche stupido balletto, Chiara era con alcune della compagnia a chiacchierare, Giacomo intratteneva altri amici mentre io raggiunsi Luca che stava versando dei cicchetti. Me ne allungò uno di sambuca con sguardo complice. Portai il bicchiere alla bocca. Il liquido mi bagnò le labbra e scese giù, nella gola, tutto di un fiato. Era corposa, fragrante, con un intenso gusto di anice. Ne presi un altro e raggiunsi Chiara e un gruppetto che parlavano della fine della scuola e delle vacanze, di una festa ata e di un bacio trattenuto, di una litigata con il ragazzo e di una nuova amicizia con un gay. -Ma dai, che schifo i gay!- dissi, senza pormi freni alla lingua, forse perché ero arrivato al quinto bicchiere. Non ero mai stato un grande bevitore. Pochi erano d'accordo con me mentre in molti ribattevano, cercando di farmi cambiare idea. -Perché, scusa?- mi chiese Ania, guardandomi fisso. Subito volli rimangiarmi quello che avevo detto per fare bella figura con Anastasia ma ribadì con decisione la mia opinione. -Sono dei malati- spiegai sbuffando. -Guarda che l'OMS ha tolto l'omosessualità dalle malattie mentali- precisò Anna. –Ignorante-Hanno fatto un grosso errore!- era la voce di Jack che veniva in mio aiuto.

-Oh, anche Jack è omofobo!- arrivò il Rosso. -Secondo me, per natura, un uomo non può stare con un altro uomo. Lo stesso vale per le donne- aggiunsi. -Esatto. Inoltre, l'omosessualità alla nostra età è solo un modo per mettersi in mostra, per dimenticare storie ate con il sesso opposto e per essere sicuri di avere una relazione stabile- mi appoggiò ancora una volta mio fratello. -È comunque amore- ribatté Anastasia. -Amore?- le chiesi. -Quando t’innamori di una persona, t’innamori dei suoi abbracci, del suo sorriso, dei suoi occhi. T’innamori del suo modo di camminare, delle sue mani che ti accarezzano, dei suoi difetti. Quando t’innamori di una persona, t’innamori delle storie che ti racconta, delle sue lamentele, delle sue labbra. Non importa se quella persona è uomo o donna. Non importa cos'ha tra le gambe. Se è amore, sei felice di stare con lei. Questo basta e avanza- terminò Ania che si alzò tornando in pista. Io ero piuttosto perplesso, ma non volendo continuare la discussione, raggiunsi Cecilia, una ragazza vispa e loquace, che ci insegnò vari i di hiphop per comporre in seguito una buffa coreografia. Poi fu il turno di balli di gruppo. Chiara li conosceva bene e noi la imitavamo facendo ridicoli i e inciampando nei nostri stessi piedi. Improvvisamente qualcuno cambiò il genere musicale. Dalle casse uscirono brani di musica classica come Einaudi e Yiruma. Era stato Luca, che scherzosamente s’inginocchiò davanti a mio fratello chiedendo se poteva concedergli questo ballo. Jack s’immedesimò perfettamente in una bella principessa e accettò. Noi ci eravamo seduti e ci godevamo divertiti la scena. Non sapevo che Jack fosse così bravo a ballare.

Sentii il pavimento vibrare. -Cazzo, ho bevuto troppo!- soffocai una risata ma alzai d’istinto lo sguardo e vidi il lampadario oscillare pericolosamente. Mi guardai intorno: l’armadio che conteneva l'argenteria si muoveva, l'acqua nelle bottiglie ondeggiava e il pavimento sotto di noi tremava. Ci bloccammo. Guardai Luca, Jack, Anna, Ania

e tutti gli altri e nei loro occhi vidi disegnata la paura. Tutto si placò dopo alcuni secondi. Cercai ancora lo sguardo dei miei amici che osservavano in silenzio il costoso lampadario oscillare lentamente. Non era stata una forte scossa ma non eravamo abituati. Modena era nota come un'area di basso livello sismico, ma subito il mio pensiero andò altrove. Guardai Jack: se papà avesse sentito la scossa, sarebbe corso in camera mia per svegliarmi. La paura mi travolse. Ero più terrorizzato di essere scoperto che del terremoto. Presi subito il cellulare di Giacomo e chiamai Agata che era rimasta a casa. -Papà si è accorto della scossa? È andato a chiamarmi?- chiesi con ansia. -No, no. Sta dormendo... russa come un orso. Voi state bene? Vi vengo a prendere?Molti di noi stavano già chiamando a casa e allora dissi a mia sorella di venire. Prima di entrare in auto, ringraziai Ania dell'ospitalità e della serata speciale. -Stammi bene, Ania- le dissi abbracciandola e baciandola sulla testa. Annuì e si chiuse la porta alle spalle.

La luna splendeva alta nel cielo e molte luci degli appartamenti erano accese. Grazie alla radio scoprimmo che il terremoto aveva avuto epicentro nel nostro comune con una magnitudo di 4.5. L'epicentro non era proprio a Modena ma nei paesi limitrofi che probabilmente l'avevano avvertita abbastanza forte. Entrammo in casa e papà stava ancora dormendo. Era tutto tranquillo e ogni cosa era al suo posto.

ESTATE

Non si sazia l'occhio di guardare, né l'orecchio è mai sazio di udire. (Qoèlet, 1,8)

XIII

Il giorno dopo non si parlava d’altro. Il terremoto non aveva causato nessun morto ma aveva provocato solo lievi danni a delle chiese e degli edifici storici. La scossa non mi aveva fatto paura e non mi aveva traumatizzato, com’era successo ad alcuni. Mi aveva fatto vivere una sensazione che mai avevo provato, aveva liberato nel mio corpo divertimento misto a terrore. -Papà l'hai sentita? Io non mi sono svegliato…- mentii spudoratamente. -Anch’io. Stavo dormendo come un ghiro- rispose sbadigliando. Guardai fuori dal finestrino bagnato dalla pioggia e notai che stavamo per arrivare. La chiesa che frequentavamo non era molto distante da casa nostra e lì avevamo molti amici. Non avevo la stessa fede dei miei famigliari, preferivo credere fermamente in me stesso. Dio non m’interessava più di tanto. Avevo capito che la sua presenza nella mia vita era indifferente. Poteva esistere come poteva non esistere. A me non cambiava, intanto sapevo che dovevo cavarmela sempre da solo.

Mi stravaccai sulla panca mentre Jack, che mi stava accanto, guardava di nascosto il cellulare. Non stavamo attenti alla celebrazione e di solito ci perdevamo in lunghe chiacchierate insieme ad alcuni amici. Ci raccontavamo gli ultimi pettegolezzi, come quando Davide si era lasciato con la sua ragazza dopo una tremenda litigata oppure quando raccontai di quella volta che, mentre andavo al galoppo, ero ruzzolato a terra, rovinandomi la schiena e tagliandomi un gomito. Non ero il solo tra i miei amici a pensare che la religione fosse uno spreco di

tempo e che non c'era bisogno di inginocchiarsi davanti a Dio per recitargli delle preghiere. -Intanto non fa mai niente... - mi dicevo sempre. Quando ero bambino, pregavo spesso e credevo ciecamente in Dio. Seguivo la celebrazione con attenzione e prima di andare a letto avevo l’abitudine di parlargli, come se fosse un vero amico. Mio padre a volte mi ricordava quando avevo fatto tenerezza a tutti durante il funerale di mia nonna. Avevo sei anni e mi ero avvicinato lentamente alla sua tomba. Il mio sguardo era fisso sulla sua foto e avevo gli occhi lucidi, forse perché tutti piangevano. Mi ero chinato sulla tomba, avevo sussurrato una breve preghiera e avevo baciato il coperchio lucido. E mai dimenticherò quando mio nonno, avendo visto il mio gesto, era corso ad abbracciarmi come se volesse con quell’abbraccio sostituire per un attimo l’assenza di sua moglie. Poi ero cresciuto. L'adolescenza mi stava cambiando e mi confondeva le idee. Frequentavo nuove amicizie, avevo sempre più problemi e mi pareva assurdo credere in un Dio quando vedevo così tanta merda nel mondo. Dio per me aveva perso significato e lo ritenevo solo una grande sacca bucata di tutti i nostri sogni. A lui si dicono preghiere, si celebrano messe, vengono costruite chiese ma non dà alcun segno di vita. Resta nel suo mondo, nascosto, a vedere noi esseri umani che ci ammazziamo per delle stupidaggini, ci nascondiamo sotto le coperte a piangere, anneghiamo nei nostri errori, quando magari è proprio lui che si diverte a rovinare i nostri progetti.

Continuavo a fare battute con Giacomo e gli altri. Molte volte papà si girava gettandoci occhiate minacciose e quando i miei occhi incrociavano i suoi, facevo finta di seguire la messa. Era ancora imbestialito per la sospensione.

XIV

La professoressa era girata alla lavagna e stava scrivendo delle formule per me senza senso. La voglia di vacanze si avvertiva sempre di più mentre la scuola stava pian piano perdendo d’interesse. Il mio vicino di banco era impegnato a creare degli origami di ogni tipo: unicorni, uccelli, navi e si perdeva tra le sue costruzioni di carta. Leonardo chattava su WhatsApp, nascondendo il cellulare nell'astuccio. Luca invece guardava l'orologio appeso alla parete e ogni volta che ava un minuto, muoveva leggermente la testa a sinistra. L'insegnante continuava a parlare, spiegando concetti complicati. Io guardavo le sue labbra ma niente mi entrava nel cervello. Davanti a me Nicola scriveva al computer, forse prendeva appunti. Mi sporsi dal banco per leggere cosa stesse scrivendo e notai che Talpa non stava seguendo la lezione. Scriveva senza sosta, senza mai mostrare i suoi pallidi occhi e si lanciava nel pigiare i tasti neri. Le idee gli venivano immediatamente e lui le proiettava sullo schermo. Era affascinante. Non si fermava un secondo, pigiava sempre più velocemente i pulsanti, senza pensare, senza farsi venire dubbi e perplessità. Andava avanti. Lo chiamai. -Nico, Nico- sussurrai. Nicola si girò verso di me. Fui colpito dai suoi occhi che non avevo mai visto da così vicino: erano una lastra di ghiaccio, sbiaditi e vuoti. Tristi. Non erano vivaci come quelli di Anna o Anastasia, i suoi erano spenti, non dicevano niente se non “salvatemi”. La sua prof, che comprendeva benissimo i giovani, ci diede il permesso di parlare, anzi mi consigliò di sedermi vicino a lui. Mi alzai senza dar fastidio e mi sedetti vicino a Nicola. -Cosa stai scrivendo?- chiesi guardando lo schermo del PC. -Il mio libro... - rispose con noncuranza, come se fosse la cosa più normale del

mondo che un ragazzo così giovane scriva un romanzo. -Vedo che sei molto preso- dissi guardandolo. -Almeno tu vedi... - concluse con una smorfia e ritornò a scrivere. Non sapevo cosa fare. Una parte di me voleva tornare al mio posto, nelle file di dietro; l'altra, invece, voleva farsi amico il povero Talpa. Ero piuttosto imbarazzato. Mi avvicinai di più e gli dissi che amavo leggere e mi sarebbe piaciuto avere il suo libro appena lo avesse finito. Lui rispose con un largo sorriso e incominciò a interessarsi a me. Senza esitare, lo intrattenni parlando della mia famiglia, degli amici, degli scout e delle feste a cui ero andato. -Mi piacerebbe andare a una festa- sospirò. -Sai, non ci sono mai andato, né a feste di compleanno né a serate in discoteca. Nessuno mi ha mai invitato, ma li capisco benissimo...- aggiunse. -Se vuoi, puoi venire alla nostra prossima serata- gli lanciai questa proposta, senza pensarci. Lui non mi rispose, probabilmente perché gli avevano fatto molte promesse e nessuna di queste era mai stata mantenuta. In quel momento ricordai quella fatta a Tigella: dovevo conoscere al più presto Nicola. Perfetto, questo era già un ottimo inizio. -Perché scrivi?- chiesi, tanto per parlare di qualcosa, visto che un imbarazzante silenzio era sceso tra noi. Nicola rimase zitto, con la testa verso lo schermo, poi si girò verso di me dopo aver riflettuto un attimo. -Perché vivo davvero solo con la scrittura. Non me la cavo bene a parlare, a raccontare le mie esperienze e a fare il bravo intrattenitore. A parole non riesco neanche a descrivere i miei sentimenti. No, non fa per me. Mi esprimo come meglio posso solo attraverso la scrittura. Solo attraverso qualche scarabocchio su un foglio bianco- fece una breve pausa. -Sai qual è il segreto di un bravo scrittore?- chiese smorzando un sorriso. Gli dissi che non lo sapevo.

-I libri che scrive devono essere la canzone che ascolti prima di andare a letto. Devono essere un urlo nella notte più spenta, un’onda su uno scoglio, un pugno in un occhio. Devono essere una notte ata a fare l’amore, il tuo idolo che ti saluta, il bicchierino di troppo- fece una pausa -Devono stravolgere i lettori-Stravolgere i lettori?- feci l’eco, non capendo. -Esatto. Un bravo scrittore deve rendere i suoi libri veri, anche quelli inventati di sana pianta- Continuavo a non capire: un racconto fantasy non può essere assolutamente vero! -Noi cerchiamo nei libri ciò che in vita non abbiamo, giusto?. Cerchiamo un sogno irraggiungibile, una storia d’amore, un amico essenziale. Un padre più comprensivo del solito, un’avventura che ci segna, un posto magico. Cerchiamo addirittura un altro “io”, magari non così grasso come ci vediamo ogni mattina davanti allo specchio o senza le mille piccole imperfezioni che odiamo, ma che nessuno nota. Cerchiamo un “io” non in quel mondo di merda che siamo abituati a vedere e non triste e solo come crediamo di essere- pian piano stavo capendo: i libri veri sono quei libri che hanno come pagine un paio di ali invece di fogli sporchi d’inchiostro. -Tu cosa cerchi?- gli domandai incuriosito. Rispose senza pensarci. -È scontato: un paio di occhi- si bloccò, deglutì, poi riprese -Un paio di occhi per non vedere l’oscurità che mi avvolge. Non voglio più vivere al buioUn lungo silenzio piombò su di noi. Quell’eterna oscurità lo spaventava. Si vedeva chiaramente che per lui era una fatica vivere. -Anche per questo scrivo. Per avere il paio di occhi che non ho mai avuto. Per vincere la paura del buio, per avere una compagna che non si tirerà mai indietro quando avrò bisogno. Per sognare di essere un ragazzo qualunque, che esce con gli amici, che usa una penna come fanno tutti, che ha una ragazza con cui dorme insieme e gioca ai videogames. Che sfreccia sulle strade di campagna in

motorino e che cammina senza l’aiuto di un insopportabile bastone che gli ricorda quanto è diverso dagli altri- vidi la mano di Nicola stringere il bastone che teneva appoggiato al banco, come se lo volesse spezzare. -Voglio essere una rondine. Voglio essere libero, andare lontano, svernare in spiagge e lidi, fuggire dai miei disordini. Voglio che le persone, quando mi vedono, dicano che è tornata la primavera e che l’inverno è finito-E non la sei?- chiesi, pur sapendo già la risposta. -La scrittura mi aiuta a esserlo, ma sono solo una rondine ferita, una rondine in gabbiaIo pendevo dalle sue labbra. Quel ragazzo mi ricordava molto me stesso: due grandi sognatori. A quel punto dissi che era meglio se tornavo al mio posto e lui, non so per quale motivo, mi ringraziò. Probabilmente perché lo avevo considerato e fatto sfogare in qualche modo, chissà. Mi sedetti sulla sedia dietro Talpa. Il suo amore per la scrittura mi aveva affascinato. In quel momento guardai fuori dalla finestra: su un ramo era appollaiata una rondine.

XV

Stavo aspettando Nicola fuori da scuola. Quella breve ma intensa chiacchierata mi aveva molto colpito e mi sollecitava ancor di più a conoscere il ragazzo cieco. Lo intravidi tra la folla di studenti che usciva freneticamente, con il solito bastone rosso che lo accompagnava e gli scuri occhiali da sole che gli coprivano gli occhi. Mi avvicinai a lui e, prendendogli una mano, lo condussi fuori da quella confusione. Spesso si voltava indietro, attirato probabilmente dai suoni, rivolgendo il suo viso alla folla. -Ti devo presentare una persona- gli dissi. Arrivò Giacomo che si presentò toccandogli il braccio per indicargli dove fosse. Nicola allungò le mani e sfiorò tutti i lineamenti del viso di mio fratello, poi mi chiese di che colore avesse gli occhi. -Neri- risposi guardando la mano che ora toccava i capelli. Jack era immobile e anche lui seguiva con gli occhi il movimento di quella mano. Quando Talpa la rimise in tasca, Jack incominciò a parlargli con vivacità e simpatia; lo accompagnammo volentieri verso la sua auto, dove un signore in giacca e cravatta lo stava aspettando impettito. Nico ci salutò quando suo padre (l'uomo in giacca e cravatta) lo condusse dentro l’auto scura. Guardai Jack con un sorriso amaro, poi inforcammo le biciclette e ci avviammo verso casa. -Poveretto... - sospirai. -Già- rispose Jack perso nei suoi pensieri. ammo il resto del viaggio in un silenzio riflessivo, capace di urlarci nelle orecchie, un silenzio impossibile da rompere, che faceva male. Prima di entrare in casa appoggiai la cartella nel grande portico e m’incamminai verso il giardino. Mi sdraiai per terra e chiusi gli occhi. L’erba era mossa da un vento leggero, i fiori mi circondavano e sentivo qualche ape ronzare lì vicino. Il profumo della menta mi entrava nelle narici, l'acqua della fontana scorreva vivacemente e le

nuvole, che parevano osservarmi, si muovevano lentamente cambiando forma. Il ciliegio che mi sovrastava lasciava are i luminosi raggi del sole tra i suoi rami. La natura mi circondava. Gli uccelli ripresero a cantare ed io, qualche volta, imitavo i loro allegri cinguettii. Viaggiavo da fermo, sdraiato nell'erba, ma sentivo che mancava qualcosa.

-Ahahaha!- rise mamma guardando Jack che faceva strane mosse cercando di andare a ritmo con la musica. Papà ci guardava dal portico, battendo le mani e cambiando continuamente la canzone diffusa dallo stereo. Io correvo intorno a mamma, immedesimandomi in un cavaliere. Lei si trasformò in una principessa capendo immediatamente che volevo giocare. Poi arrivò Jack, che interpretava sempre l'eroe e mi affrontava valorosamente. Le nostre piccole spade di legno cozzavano tra di loro e mamma, che si era alzata, correva scalza in giardino. Jack intanto gridava -Combatti fifone!- e mi costringeva alla ritirata. Papà osservava divertito la scenetta e faceva il tifo per me. Mi ero nascosto dietro un cespuglio e stavo organizzando un nuovo attacco mentre mamma adulava mio fratello che si era messo in una posizione eroica, puntando la spada verso il cielo. Ritornai all'attacco e mamma ritornò a gridare scherzosamente. Jack tentò un colpo laterale ma mi abbassai agilmente, placcandolo e bloccandolo a terra. Afferrai la spada e finsi di conficcargliela nel petto. Giacomo si contorse dal finto dolore e invocò aiuto (era la prima volta che succedeva). Arrivò mamma da dietro che mi sollevò in alto facendomi roteare. Io ridevo divertito e là, tra le sue braccia, mi sentivo protetto e forte, audace e imbattibile: il guerriero migliore di tutti. Mentre mi faceva girare sospeso nel vuoto, la guardavo intensamente. La luce del sole si nascondeva nella notte dei suoi capelli, il suo sorriso era come un albero in fiore e riuscivo a specchiarmi in quel lago addormentato dei suoi occhi. Era bellissima. Quando mi ripose a terra, le accarezzai una guancia e le dissi in un orecchio. -Ti voglio bene, mammaLei mi abbracciò, fortissimo. Quanto può essere forte un abbraccio? Se fatto con il cuore, può essere il

cavallo di battaglia dell'amore. Quella volta mi aveva letteralmente stretto l'anima in una morsa, come se tutto il suo amore si fosse immagazzinato dentro di me, togliendomi il respiro per pochi secondi. Ero diventato uno scrigno per la sua felicità, per il suo amore, per la sua bellezza. Uno scrigno di cui solo io avevo le chiavi. Uno scrigno che dovevo proteggere. Ci sdraiammo per terra con i piedi scalzi che sfioravano l’erba, guardando il cielo. Lei era la mia cometa, il mio pastore, il mio piccolo tesoro. Soprattutto dopo quell'abbraccio. Ma ero troppo piccolo per capire che quel gesto significasse addio. E lo scrigno diventò sepolcro. In quel giardino mancava un pizzico di magia che mamma riusciva a creare. Le rose erano magnifiche, ma senza mamma non sprigionavano tutto il loro profumo. I gerani erano candidi, ma senza mamma erano diventati più opachi e il ciliegio era colmo di vita, ma senza mamma si potevano scorgere le ferite sul tronco. -Che cosa fai lì sdraiato? Vieni che si mangia!- gridò papà. -Arrivo- risposi, ma non mi alzai. Restai lì, senza averne la forza. Quella forza l'aveva portata via mamma.

XVI

-Cosa stavi facendo in giardino?- chiese papà, senza neanche guardarmi. Pensai un attimo prima di rispondere. Papà detestava parlare di mamma, soprattutto quando eravamo a tavola, ma dissi comunque che stavo pensando a lei, come se lo volessi sfidare. Pure io non lo guardai, ma mi sembrò che papà avesse alzato gli occhi dal giornale per osservarmi. -E perché pensi a mamma?- domandò continuando a leggere. -Perché a questo posto manca-Se n'è andata!- papà alzò la voce e questa volta ci guardammo dritti negli occhi. I suoi non evitarono che io sbirciassi nel suo cuore: anche a lui mancava. Non risposi e continuammo a mangiare. Jack e Agata tacevano.

Ero sdraiato sul letto a leggere, quando papà entrò in camera mia. Mugugnò qualcosa, poi mi porse una scatolina impolverata e mal ridotta. -Ho qualcosa per te- disse con aria disinteressata. Presi la scatola e alzai il coperchio. Su un cuscinetto ancora pulito c’era una catenina d'oro a cui erano appese due piccole croci. -Quella è la croce di Gerusalemme- precisò papà indicando la più rovinata. Incuriosito, chiesi a chi appartenesse la collana. -Era di mamma. La indossava sempre. Te la regalo- e se ne andò, lasciandomi sul letto con la catenina fra le mani.

Papà era fatto così. Parlava poco, non stava molto in casa, teneva il suo dolore incatenato al petto, ma si vedeva chiaramente che era un uomo stanco, distrutto da un amore volato via. Papà era sfiorito da quando mamma non era più tra le sue braccia. Papà, che era l’uomo più forte al mondo, quello che mi aggiustava i giochi quando si rompevano, che mi aveva letto il GGG, La Fabbrica di Cioccolato, La Storia Infinita, che mi aveva insegnato a cambiare una ruota di una bici, a usare il martello, a cavalcare, a sciare e ad aiutare sempre gli altri, si era completamente svuotato. Era rimasto senza sentimenti, desideri, ioni, si era spento come si spegne una televisione quando c’è un blackout. Di colpo, senza nessun avviso. Mi ricordai il suo primo compleanno dopo che mamma se ne era già andata. Stavamo per alzarci da tavola quando Agata aveva tolto il coperchio da una deliziosa torta gelato che aveva attirato la nostra attenzione. Ci aveva sopra qualche candelina, giusto per creare l’atmosfera adatta. Tutto, quel giorno, sembrava molto più lento e fragile come se, da un momento all’altro, il mondo potesse crollare e rompersi. Per tutta la serata papà aveva stampato sulle labbra un sorriso ebete, segno che voleva finire presto i festeggiamenti e andarsene a letto. -Prima di soffiare, esprimi un desiderio!- gli avevo ricordato dall’altro lato del tavolo. A quel punto anche il sorriso ebete era scomparso. Aveva lo sguardo perso, fisso sulle fioche fiammelle delle candele, si bagnava le labbra con la lingua e non riusciva a stare fermo con le mani. Eravamo rimasti in silenzio per qualche secondo, che mi erano parsi delle ore. -Tagliamo la torta- aveva aggiunto con freddezza nostro padre impugnando il coltello e ritornando tra noi. -Hai espresso il desiderio?- aveva chiesto Giacomo curioso di sapere quale fosse, ma papà non aveva risposto. Aveva cominciato a tagliare quella stupida torta e a darci delle fette tagliate così male che erano diventate poltiglia. Da quel giorno non avevamo più festeggiato nostro padre, solo quest’anno Giacomo voleva ritentare. Ormai la risata contagiosa di papà era solo un lontano ricordo perché l’aveva sostituita con un debole sorriso e un’espressione severa e quando lo

abbracciavamo era come appoggiarsi a un muro che aveva bisogno di un sostegno. Era totalmente assente, era perso, tutto il resto per lui non contava più niente. Una barba incolta ora ricopriva il suo viso che era sempre stato glabro, la salda presa che aveva un tempo era diventata tremante e debole, gli occhi color cielo d’estate erano diventati una fredda lastra di ghiaccio. Ogni volta che guardavo quel cadavere vivente, avevo sempre più paura degli effetti dell’amore.

Indossai subito la collana e da quel giorno non me ne liberai più. Spesso ci giocherellavo, facendola girare intorno al collo o mettendo tra i denti le due croci. Ci tenevo a quella catenina e frequentemente controllavo se fosse ancora appesa al mio collo.

Uscii di casa verso le sette di sera. I miei fratelli stavano ancora studiando mentre papà era andato a letto prima di cena. Quando varcai la porta, la mia attenzione fu attirata dal cielo: una miscela di rosa, azzurro, rosso e viola era rovesciata su un'unica tela. Quei colori, misti tra l' e il freddo, sembravano caderti addosso. In lontananza, si vedeva il sole che stava lentamente tramontando ed era di un rosso così e brillante che sarei rimasto a guardarlo per ore, se solo i miei occhi non avessero iniziato a bruciare. Attraversai il giardino fino al ciliegio con il capo rivolto verso l’alto. Amavo il cielo, mi dava un senso di libertà che sulla terra non potevo provare. Arrivai ai piedi dell'albero che guardai dal basso verso l'alto. Era bellissimo. La chioma era rosa perché era stagione di fioritura ed emanava un profumo trascinante. Rimasi a bocca aperta per gli incredibili colori che aveva e per quella vita che sprigionava tutto in un fiato, ricordandomi che il mondo non faceva poi così tanto schifo come molti pensavano. Da piccolo salivo spesso su quell'albero e, giunto tra i rami più alti, guardavo in basso sentendomi più grande dello stesso ciliegio. Poi smisi di salirci, era troppo infantile per un ragazzo di sedici anni, ma quel giorno volevo riprovare la sensazione di vedere il mondo da un altro punto di vista, dietro i rosei rami, tra l’odore dei fiori e della corteccia.

Afferrai saldamente un ramo e mi tirai su. Appoggiai i piedi sopra un altro ramo e mi alzai ancora. Ormai ero già in cima mentre da piccolo l’arrampicata mi sembrava molto più lunga. Sentivo il fiato della brezza estiva che mi accarezzava le guance. Scoppiai a ridere, non so perché ma ero felice. Per un attimo mi parve di vedere anche un nido su un ramo più alto ma purtroppo era solo un'illusione. Mamma aveva portato via anche quelli da quel povero giardino.

Avevo un vuoto ma un vuoto non incolmabile. Un vuoto che Jack, Anna, Anastasia, Luca, Davide e il resto del Club potevano riempire. Potevano riempire con le loro stupide battute, con messaggi alle due di notte, con le loro stupende pazzie. Solo loro potevano salvarmi. I loro volti apparirono davanti ai miei occhi e restai a guardarli a lungo. Intanto il sole era già tramontato. -Basta- mormorai. A volte bisogna avere le palle di sbattere fuori dalla propria vita le persone che ci fanno soffrire, anche quelle che si amano. Dovevo andare avanti. Non dovevo più pensare a mamma, era ato, la dovevo dimenticare e ce l’avrei fatta se il Club avesse preso il suo posto. I suoi sorrisi, gli abbracci calorosi, gli sguardi, le risate insieme, un suo possibile ritorno erano solo cenere. Non dovevano essere braci, non potevano riaccendere il dolore della mancanza. Dovevo uscire da quella merda. Dovevo girare pagina, anzi, strapparla e darle fuoco.

XVII

Ero già sceso dall'albero e, dopo una cena silenziosa, ero andato a sdraiarmi a letto, quando il cellulare incominciò a vibrare. Apparve sul display il numero di Ania e risposi immediatamente. -Ciao Ania! Come stai?- domandai eccitato. -Bene, grazie- chissà se diceva il vero, pensai. -Tu invece?-Da Dio- risposi. -Ti ho chiamato perché pensavamo di organizzare qualcosa questo sabato. Per te va bene?-Io ci sono sicuramente, baby!- risposi entusiasta. -Perfetto! Allora ti saprò dire dove ci troviamo. Adesso mi tocca avvisare gli altri-Ma non puoi scriverlo sul gruppo di WhatsApp che fai prima?-Preferisco sentirle le voci delle persone- rispose ed io, dall’altre parte del telefono, arrossii. Prima di terminare la chiamata le chiesi se potevo invitare un mio amico. -A me va bene e penso anche agli altri- e ci salutammo. Avrei invitato Talpa questo sabato, come desiderava da tempo. Mi giravo e rigiravo nel letto, senza riuscire a dormire. La voce di Ania mi metteva di buon umore e non mi faceva chiudere occhio. Inoltre ero a un o dall’esaudire il desiderio di Nicola che sarebbe stato sicuramente al settimo cielo. Molti hanno l’impressione che la propria vita non abbia uno scopo; la mia invece

lo aveva ed era anche abbastanza chiaro: rendere felici gli altri. Fine. Quella sera mi addormentai con il sorriso.

La camla era appena suonata e mi stavo per sedere quando Nicola entrò con il suo fedele bastone. Subito lo fermai. -Ciao Talpa! Oddio, cosa hai fatto in faccia?- gli chiesi stupito, guardando un brutto livido sulla sua guancia sinistra. -Stavo tornando a casa e mi sono schiantato contro un palo della luce- rispose ridendo. Anch'io risi perché era piuttosto divertente e m’immaginai la scena. Lui naturalmente non si offese e continuammo a parlare finché la professoressa non entrò in aula. -Oh già! Nico sei libero sabato?- chiesi frettolosamente, visto che la prof era già seduta alla cattedra. -Sì. Perché?- rispose incuriosito. -Mi trovo con qualche amico e, se vuoi, puoi venireSul suo viso si accese una luce che mai avevo visto da quando era nella nostra classe. La prof invitò a sederci ma io avevo già avuto una risposta. Quella luce era un “verrò sicuramente”, quella luce era un “grazie”, un “almeno tu ci provi a considerarmi”, un “mi rendi felice”, “mi stai cambiando la vita”. Era quel genere di luce che appare solo sui volti di pochi, di quelli che hanno conosciuto a fondo la sofferenza e da tempo non escono più dal tunnel, tanto che lo hanno reso la propria camera da letto. -Spero che un giorno quella luce compaia anche sul volto di papà- mi dissi aprendo il libro di storia. A metà lezione, Nico si girò e con un po' di difficoltà, appoggiò sul mio banco

un biglietto. Lo aprii, c'era scritto “grazie”. Le lettere erano storte, troppo o poco calcate, piccole e grandi ma non importava come fosse scritto, quanto il significato. Talpa era uno dei pochi ragazzi che sapeva dire le parole “grazie” e “scusa”. A volte le diciamo solo per cortesia o per accontentare gli altri mentre i suoi erano sinceri e gentili. -Quanto ho da imparare da questo ragazzo- pensai.

Il telefono vibrò nella tasca dei pantaloni. La prof era girata verso la lavagna, sicuramente non mi avrebbe visto se lo avessi estratto e letto di nascosto il messaggio. Era Ania: ci saremmo trovati per cena a casa di Anna. Riposi il cellulare in tasca e lo comunicai subito a Luca. -Alla fine ci troviamo a casa di Anna-Ah. Perfetto- sussurrò facendo finta di seguire la lezione. -Ma hai invitato anche Talpa?- riprese fissandomi. -Sì. Perché?- chiesi guardando, appunto, Nicola. -Niente. Così per sapere…- rispose con noncuranza. -Non ti sta simpatico?-Non so. Non lo conosco- borbottò a bassa voce. -Non lo conosci o non lo vuoi conoscere?Luca tentennò un attimo, si morse il labbro e rispose. -Non è che non lo voglio conoscere… Solo che m’imbarazzo quando lo vedo-Ti imbarazzi?- gli chiesi non capendo. Luca pensò un attimo prima di continuare la discussione. Strano, non era da lui. Quel ragazzo di solito faceva le cose senza pensare.

-Proprio non riesco a farmi avanti. È come se ci fosse un muro che mi ostacola. Sai, ho provato a parlarci ma ho trovato sempre quel fottutissimo muro. Ho pensato a come superarlo, ma quando sono in cima… puff!- sobbalzò sulla sedia -Cado giù e devo fare di nuovo tutto da capo. Diventa una bella fatica dopo un po’…-E cosa ti fa cadere?- soffocai una risata. Luca diventò paonazzo. -È che…- fece una pausa di riflessione prima di completare la frase. Oggi mi stava proprio stupendo. -È diverso- concluse. -Okay, non ha pensato abbastanza…- mi dissi prima di rispondergli -No Luca, non è diverso. Come sempre, apri la bocca per dire cavolate- lo rimproverai, ma senza cattiveria. -Non ci vede, e allora? A me non interessa. M’importa invece se ha un cuore. E lui ce l'ha. Forse più grande del nostro- guardai il mio amico negli occhi. -Ecco il filosofo! Che palle... - sbuffò girandosi dall’altra parte.

XVIII

Finalmente sabato, la salvezza per ogni studente. Ci saremmo trovati per cena a casa di Anna e Agata ci lasciò davanti al suo cancelletto ramato, sempre aperto. Salutammo mia sorella e raggiunsi la porta. Bussai e Anna corse ad aprirmi, entusiasta come sempre. -Come stai?- disse lanciandosi al mio collo. Proprio non capivo come Anna fosse sempre così vivace, carica e affettuosa. Mai l’avevo vista giù di morale, stanca o annoiata e mai avevo visto una lacrima scalfire la sua bella espressione radiosa o degli occhi spenti ingrigire il suo sorriso. Mai. Sembrava che Dio avesse creato quella ragazza apposta per sorridere e quando sorrideva (ah, quando sorrideva!) il mondo aveva qualcosa di stupendo per cui vantarsi. Era una pazza sedicenne che viveva in una realtà tutta sua. Quel giorno indossava una maglia molto colorata, probabilmente proveniente dall'Africa, su cui era ricamata la coda di un pavone. I pantaloni, invece, erano a tinta unica, ma a cavallo così basso che toccavano praticamente terra. -Ma come ti sei vestita?- le chiesi guardando un braccialetto di cuoio che aveva al polso. -New style, baby! Molto originale, vero?- poi aggiunse -Sai perché questi pantaloni hanno il cavallo così basso?- scossi la testa -Te lo dico subito- si sedette sul divano a gambe incrociate e mi guardò fisso negli occhi. -Una tribù asiatica, ora non ricordo quale, crede che il suo Dio possa nascere da un uomo o da una donna in qualsiasi momento! Forte, vero? Quindi hanno fatto il cavallo dei calzoni così basso per permettere al Dio di uscire senza cadere a terra-Sì. Molto strano... - dissi con una smorfia immaginandomi la scena ripugnante. Il camlo suonò ancora ed entrarono Luca, Chiara, Ania, il Rosso, Davide e gli altri membri del Club. Talpa non era ancora arrivato.

Ormai erano le otto ate e ci sedemmo intorno alla tavola per mangiare. -Sto morendo di fame- esclamò Luca mentre si allungava per prendere un pezzo di pizza. Chiara spettegolava ad alta voce, ricordandoci tutti i (soliti) “gossip” di Modena e noi l’ascoltavamo o facevamo finta di ascoltarla. Luca poi (avevo perso il conto dei bicchieri di Lambrusco che si era sgolato) si alzò e brindò ad Anna per averci ospitato. Alzammo tutti i bicchieri facendoli tintinnare tra loro. Talpa non era ancora arrivato. La pizza fumante era al centro tavola e mangiavamo mentre qualcuno prendeva la parola e gli altri si zittivano e lo ascoltavano. Chiara naturalmente fu la prima a parlare. -Avete sentito di Gianluca Serafini? Ha scopato con Alessia. Alessia Riccardi, avete presente chi è Alessia, no?- nessuno aprì bocca perché preferivamo mangiare -Dai raga’, una di quelle popolari a Modena che se la tirano sempre: tette in fuori, tacco dodici per andare a scuola e ogni sabato sera in discoteca. Infatti, adesso arriva la chicca, l’hanno fatto nel bagno di una discoteca. Non ricordo quale…-Davvero?- chiesi. -Così ho capito da alcune amiche- rispose mentre prendeva il cellulare, probabilmente per guardare snapchat. -Amiche ciozze come te!- scherzò Luca che era tornato tra noi di colpo. -Bella merda... - mormorò il Rosso. Tutti noi eravamo d'accordo con lui, anche Luca che stava per addormentarsi sulla sedia rischiando di cadere. Ci fu un attimo di silenzio quando Anna disse che doveva andare a prendere lo smartphone per leggerci qualcosa. Jack l’accompagnò.

-È qualcosa di sconcio, visto che “siamo in argomento”?- era sempre Luca che faceva stupidi commenti. Intanto i due non tornavano, chissà perché ci mettevano così tanto.

-Scusate ma non trovavo il telefono- si giustificò Anna quando ritornò insieme a mio fratello. -Allora: ieri sera, cazzeggiando su Facebook, ho trovato questo racconto. Mi ha colpita molto e ve lo vorrei leggere visto che siamo in argomentoCi sedemmo attorno ad Anna e la ascoltammo con interesse. Si schiarì la voce e iniziò. -Mai aveva donato il suo cuore a un'altra, mai aveva messo il bene degli altri prima del suo e mai, e vi dico mai, si era interessato veramente a una persona. Amare era troppo impegnativo, così pensava. Amare era troppo faticoso. Amare era una grandissima perdita di tempo e portava solo dolore. Lui aveva paura dell'amore e non lo voleva, ma vi rivelo un segreto: lui non aveva paura di amare, no, aveva paura di non essere amato. Ecco cosa lo tormentava: la paura di non essere ricambiato. E poi, chi lo voleva uno come lui? Così deviante, diverso, spiritato, stronzo? Chi lo voleva? Nessuno, pensava, ma in realtà aveva molte ragazze che gli sbavavano dietro per il suo bell'aspetto e per il suo carattere. Vi assicuro che ne aveva molte, di ogni razza. Le ragazze serie, quelle che si facevano incantare dai suoi occhi scuri, dai capelli biondi e da quella faccia da bravo ragazzo che si portava sempre addosso, con cui ingannava tutti. Le bimbeminkia, quelle che ano ore a fotografarsi davanti a uno specchio, di lato per immortalare il lato B, e postano le loro foto su Facebook con qualche cazzata sull'amore o sulla vita, pur non capendola. Le popolari, che vestono firmato, si danno arie per i “likes” e per loro conta solo il paio di scarpe con cui vai a ballare o che sigarette fumi. Ma lui purtroppo non se ne rendeva conto di avere così tante ragazze attorno: chi vive nella merda, solo merda continua a vedere. Per nascondere la sua filofobia, la maschera migliore da usare era solo quella del sesso. Sesso e basta. Non l'amore, per Dio! Lui voleva solo scopare. Voleva, dopo noiose serate in discoteca, portarsi a casa la prima ragazzina un po' brilla e sbattersela sul letto. Voleva sentire i suoi gemiti riempire la stanza buia, sentire le sue unghie

graffiargli la schiena, il letto cigolare vorticosamente e voleva baciarle tutto il corpo. Voleva fare sesso gratuitamente e rubare la verginità a una sedicenne. Lui voleva trovare la ione con le ragazze che si portava a letto, stringerle nude, sentire il calore dei loro corpi, consumarle le labbra e violare tutti i limiti di un amore sincero. Voleva con il sesso dimenticare la paura di amare ma, in realtà, il nostro ragazzo si stava semplicemente castrando da solo. Tutto quel sesso gli stava tagliando le palle, vi dico. Tutto quel sesso gli stava rovinando la vita. E così, scopando ogni notte, non avrebbe mai imparato l’amore. Per lui, le ragazze erano utili solo per sfogarsi, per realizzare i suoi sogni erotici, per soddisfarlo e per ricordargli che amare è una grandissima cazzata. Le ragazze erano solo delle prostitute in giovane età che lavoravano gratis. Bello schifo, vero? Non avere nessuno per cui vale la pena svegliarsi alla mattina, non avere nessuno da fare sorridere, da accompagnare sul lungo mare, da stringere forte, da portare nei propri sogni e non in uno sporco bagno di discoteca. Nessuno da amare. Ma purtroppo, il nostro ragazzo non lo capiva, anzi, secondo me, si costringeva a non capire. Si sforzava a non amare per paura di soffrire, per paura di essere lasciato, per paura di perdere qualcuno. Ma, cazzo, se non hai paura, vuol dire che non hai nulla da perdere. Se si ama qualcuno, si deve avere la paura di essere lasciati e se ce l'hai, devi sbatterti affinché la persona che ami resti al tuo fianco. Lo sapete cosa è successo dopo al nostro ragazzo? Si ritrovò solo, nella sua casa di campagna, a morire su un letto polveroso, senza nessuna donna che gli stringesse la mano, fino all’ultimo battito del suo cuore marcio. La volete anche voi questa merda? La volete? Non credo. Non rifiutiamoci di amare, non reprimiamo le emozioni che proviamo per le persone, non scopiamo, facciamo l'amore. Non siamo degli animali! Abbiate giudizio su chi vi deve spogliare, vi deve stringere forte, vi deve vedere nudo o nuda, facendovi sentire la bellezza di amare e di essere amati. Fate l'amore, non il sesso. Amate, non fingete di amare. Riflettete prima di gettarvi nel vuoto, non è bello deludere. Amate con la testa e con il cuore, non con gli ormoni in circolo. Fine- concluse. Il camlo suonò, interrompendo i nostri discorsi. Nicola aspettava sulla soglia toccando con il rosso bastone il pianerottolo. Mi alzai e lo aiutai a entrare. Tutti bisbigliavano e guardavano Talpa con grande stupore. -Attenzione gente! Questo è l'amico di cui vi parlavo- annunciai Talpa che fece un o avanti sorridendo imbarazzato. Tutti si presentarono a Nicola che

rispondeva con un sorriso accennato. -Ciao Nico, come stai?- gli chiese il Rosso. Lo guardai meravigliato ma m’ignorò. -Ma sei proprio tu, Tommi?- disse Talpa cercando la fonte da cui proveniva la voce. -Vi conoscete?- domandai stupito guardando i due. -Eravamo alle medie insieme!- disse Tommi dando una pacca sulla schiena di Nico. Ci risedemmo a tavola. Io vicino a Nicola per aiutarlo. -C'è della pizza?- domandò toccandomi con la mano. Gli presi una fetta e gliela misi nel piatto. -Hai qualche fratello o sorella?- chiese Chiara a Talpa che rispose scuotendo il capo. Gli facevamo delle domande per provare a integrarlo nel gruppo, per conoscerlo e per fare amicizia e così Talpa incominciò a parlare di sé, raccontando la sua storia, quello che era e quello che voleva diventare, i suoi sogni e le sue ioni. -Oltre a scrivere, amo camminare sotto la pioggia-Sotto la pioggia?- era Davide che era stato zitto per tutta la serata. -Esatto. Fare lunghe eggiate, di sera, quando ormai la città si sta spegnendo e tutti rientrano in casa. Mi piace sentire il silenzio in strada, l’odore di asfalto bagnato, il rumore della pioggia che si spegne per terra formando le prime pozzanghereTutti ascoltavano attentamente e spesso Chiara lo interrompeva facendo altre domande. Mentre Nico parlava, i miei occhi erano fissi su Anastasia. I capelli erano sciolti e spesso ci giocava ascoltando il racconto di Talpa. Era proprio davanti a me, il suo braccio era steso sul tavolo e avrei voluto tanto prenderle la mano e sentire il calore della sua pelle. Era lì, a pochi centimetri ma io non potevo fare altro che osservarla di nascosto. Fu come se stessi morendo di sete e potessi bere soltanto con un bicchiere bucato.

-Ma scusa- lo interruppe d’un tratto Anna -Come vivi la cecità?- questa volta anch'io mi voltai verso Nicola, spiazzato un po' dalla domanda impertinente ma importante, dalla quale noi tutti aspettavamo una risposta. -Ma fatti i cavoli tuoi!- esclamò Luca additando l’amica, ma Nicola non esitò a rispondere. -Io... - fece una lunga pausa e riprese -Affronto questo “problema” accettandolo, anche se con fatica. Cerco di andare avanti, di dare tutto quello che posso agli altri. Non potrò donare la vista. Peccato, ho perso molto. Voi non sapete quanto vorrei averla per qualche minuto solo per vedere come siete, di che colore avete i capelli, gli occhi, come siete vestiti e cosa state facendo in questo momento. Non immaginate quanto lo desideri ma, purtroppo, Dio ha voluto complicarmi la vita ed io dovrò accettarla. Donerò agli altri qualcos’altro, magari un “grazie”, un timido sorriso, un consiglio- abbassò il capo, forse perché si sentiva osservato. -Ma non mi fermerò mai, anche se, qualche volta, rallento, arranco e rischio di cadere. Ma non voglio fermarmi, non posso. Mi fermerò soltanto quando avrò realizzato i miei sogni e non quando sarò stanco. Mi fermerò quando avrò vinto e non quando sarò sconfitto. Tutto è possibile ed io, come tutti voi, posso vincere questa guerra, la guerra della vita, la guerra più bella che sia mai scoppiata-Cavolo che guerriero!- disse Luca con ironia, ma allo stesso tempo con ammirazione. -Adesso raccontiamo un po’ di noi, se vuoi!- propose Chiara che incominciò immediatamente a farlo.

-Com'è la casa?- mi chiese Nico mentre giocavamo a un gioco di società. -Mi piace. È molto spaziosa e le pareti sono vivaci, di azzurro accesso che è il colore preferito di Anna. Le ha ridipinte insieme ai suoi genitori e ci ha appeso alcune foto- Nico mi seguiva attentamente. -Qual è quella che ti piace di più?- mi domandò. Lo guardai ed era come se sentissi il suo dolore. Gli avrei donato anche per intere giornate la mia vista per fargli recuperare tutto quello che aveva perso, ma sapevo di non poterlo fare.

Presi fra le dita la collana che portavo al collo. -C'è Anna che ride, sul divano e... -Com’è il divano?- m'interruppe Talpa. -È rosso e ci siamo seduti sopra- presi la sua mano e la feci scorrere sulla stoffa che lo rivestiva. Continuai a descrivere la scena. -Anna tiene in braccio il suo gatto. È bianco e nero, il pelo corto e spesso dorme con lei. Si chiama Gigio- e, come per magia, arrivò il gatto che balzò sul divano strusciandosi su Nicola, che fece un balzo per lo spavento. -Ah! Eccolo qua!- e incominciò a coccolarlo.

XIX

Col are del tempo, Talpa ed io avevamo stretto una bella amicizia. Nicola mi aveva insegnato molto, io lo avevo scoperto. Ora pure lui faceva parte della mia vita e non era un peso, anzi, era un piacevole arricchimento. Quel ragazzo mi aveva insegnato a mettere da parte l’orgoglio, a rincorrere i miei sogni per non essere uno dei tanti, a confidarmi perché, diceva, che scoppiamo se teniamo nascosto troppo a lungo il nostro dolore. Mi aveva insegnato a non sprecare tempo con gli stupidi, a impegnarmi in famiglia, a scuola, con gli amici, a guardare il mondo con diversi punti di vista e non solo con il mio. Mi aveva insegnato la parola “grazie” e “scusa”, la voglia di imparare nuove cose, mi aveva insegnato che l’intelligenza non è un otto nella versione di latino, che la felicità non è l’Iphone ultimo modello, che la bellezza non è la tartaruga o un paio di stuzzicadenti al posto delle gambe. Nicola era cambiato da quando eravamo diventati amici. Non era più quel ragazzino paffutello che teneva gli occhi bassi, che diventava rosso quando gli si rivolgeva parola e che sorrideva a stento, come se fosse faticoso. Non era più insicuro, non si nascondeva con il silenzio, non era più il fragile alberello che avevo conosciuto. Aveva capito che la vita era una gran cosa, che non si può vivere nell’ombra ma bisogna uscire alla luce del sole, che gli amici esistono e non sono una favola, che sorridere non è alzarsi il lunedì mattina ma uscire il sabato sera e che è meglio accenderlo il fuoco piuttosto che soffrire il freddo. Infatti, ricordo che non spiccicava parola con nessuno, a volte fingeva di non aver sentito e non manifestava mai i suoi pensieri quando invece aveva tanto da dire. Prima di conoscermi, la sua espressione era sempre la stessa, fredda, dura, triste. Mi ricordo che, quando ci parlavo le prime volte, teneva una certa distanza di sicurezza, tipica di quelle persone che avevano ricevuto solo dei gran schiaffi dalla vita e che adesso temevano anche le carezze. Un giorno lo avevo invitato a casa mia ed eravamo stati seduti per ore su un argine ad ascoltare l’acqua scorrere sotto di noi e a farci baciare dal sole. Quel giorno mi ero reso conto che Nicola era cambiato perché era sempre lui il primo ad aprire la bocca, a rompere il silenzio, a fare stupide battute e a parlare senza essere incitato da qualche domanda. In quell’occasione gli avevo svelato il mio amore per Ania, i problemi in famiglia, la storia di mia madre e il prezioso legame con mio fratello e con il

Club. Nicola, mentre ascoltava, non guardava per terra ma il suo pallido sguardo erano fisso su di me. Capii in quel momento che era diverso: si era sciolta la lastra di ghiaccio nei suoi occhi e adesso brillava la notte del dieci Agosto.

Mancavano due settimane alla fine della scuola. Il sogno di ogni studente stava per avverarsi: le vacanze erano imminenti. Luca tracciava con un gessetto delle linee sul muro, ogni giorno, aspettando quel sei giugno che desideravamo arrivasse presto. Ormai anche i professori si sentivano in vacanza e i compiti e le interrogazioni erano diminuiti parecchio. L’insegnante d’italiano iniziava spesso la mattinata con noiose spiegazioni, poi ci coglieva di sorpresa con qualche domanda provocatoria e ben studiata, da cui partivano lunghe ma emozionanti discussioni a cui tutta la classe partecipava. Era il tipo di lezione che Nico amava ma quel giorno era assente. -Avrà preso un vicolo cieco... - scherzò Leonardo. Oggi discutevamo su un libro che avevamo letto durante le vacanze di Pasqua, intitolato Ogni Giorno di David Levithan. Non l’avevo mai sentito e lo stesso valeva anche per i miei compagni di classe, forse perché, come mi aveva fatto notare una mattina Nicola, per vendere milioni di copie dovevi essere un genio o scrivere delle porcate. -Tranquillo, io sfonderò perché sono un pezzo di genio- aveva ironizzato quel giorno con un sorriso. Ogni Giorno lo avevo “mangiato” ed era entrato nella lista dei miei libri preferiti. Mi ero innamorato di quel romanzo: una storia semplice che, in trecento pagine, si era rivelata una gran storia. -Come ti è sembrato?- mi aveva chiesto la professoressa sapendo che ero un ottimo lettore. -Levithan è riuscito a rendere una storia banale, come il classico amore tra due adolescenti, in una storia avvincente e con un protagonista, per me, eccezionale-Secondo me è troppo scorrevole, lo può leggere pure mia sorella che ha dodici

anni- si sentì da un angolo della classe. -Ragazzi, avete colto la metafora del libro?- domandò la prof a tutta la classe. Alzai la mano e risposi -La metafora potrebbe essere: riusciresti ad amarmi se, per esempio, pesassi cento chili di più o se avessi un bitorzolo sotto l’occhio? Secondo l’autore “sì”. Infatti, eleva al massimo grado l’amore, quello che tutti noi vorremmo, quello basato sull’incontro di due anime nude e non di due corpi vuoti-Non sono d’accordo- era Leonardo. Mi stupii che partecie alla lezione. -Se due persone si amano, si devono piacere sia fisicamente che interiormente. Almeno, così la penso io. È inutile continuare a fare i finti moralisti e dire che l’aspetto esteriore non importa, che l’amore va oltre e che conta solo la bellezza interiore delle persone. Perché? Semplice. Perché non è vero. Sono certo che molti di noi, tra un cervello e un bel sedere, sceglierebbero la seconda opzione-Grazie per la tua opinione, Leonardo- disse l’insegnante facendo una smorfia di disappunto mentre tutta la classe scoppiò a ridere. All’improvviso qualcosa infranse quel vaso di risate. Qualcosa distrusse quella pace che si respirava in classe dopo giorni di richiami, lunghe spiegazioni e verifiche. I vetri vibrarono facendo risuonare nell'aria uno stridio terribile e inquietante, il pavimento sembrava quello di una giostra: su, giù, a sinistra, a destra. La mia penna, appoggiata sul banco, schizzò via. Tutto tremava, come un corpo infreddolito. Ero rimasto seduto sulla sedia, fissando impietrito alcune crepe che correvano sul soffitto, i muri che si aprivano e dei calcinacci che si staccavano e rischiavano di colpire qualcuno. Continuavo a restare lì, seduto, a sentire il rumore delle tubature che si muovevano, la prof che urlava di stare sotto i banchi, alcune mie compagne di classe che scoppiavano a piangere e il boato del terremoto. L'orologio appeso alla parete cadde e si frantumò in mille pezzi. Dal corridoio si sentivano le grida di ragazzi terrorizzati che coprivano l’invito dei professori a stare calmi. Ero sempre sulla sedia, anche se qualche calcinaccio cadendo mi aveva sfiorato. Non so per quale motivo non mi mettevo al riparo ma ero certo che non sarei morto quel giorno. Ero sicuro che tutto sarebbe finito bene. Leonardo non smetteva di recitare bestemmie, Luca era in silenzio, gli

occhi sbarrati, le mani che stringevano le gambe del banco ed io, mentre guardavo la scena, pensavo che l’assenza di Nicola fosse una fortuna. Finalmente la scossa terminò. Era durata qualche secondo ma quei secondi era sembrati interminabili e avevano iniettato paura e adrenalina nelle vene di tutti. Terminata, uscimmo contemporaneamente dalle aule. Alcuni piangevano, altri erano terrorizzati, mentre io ero tranquillo. Non avevo avuto paura, anche se quella potenza mi aveva sovrastato e oppresso, dandomi la sensazione che tutto tremasse ancora. Lunghe e profonde crepe tagliavano le pareti, alcune mattonelle erano saltate via dal pavimento e parecchio intonaco era caduto a terra. Correndo per i corridoi guardavo fuori dalla finestra, in strada, dove la gente era uscita dagli uffici e dalla propria abitazione. -Perché non ti sei messo sotto il banco, idiota!- disse Luca scendendo velocemente le scale antincendio. -Non lo so. Non ho avuto paura. Sono tranquillo- infatti, ero calmissimo. Arrivammo in cortile e le insegnanti fecero l'appello. Noi c'eravamo tutti. Cercai con lo sguardo Jack e lo trovai con la sua classe. Per fortuna stava bene. -Non vanno i cellulari!- si lamentavano alcuni. -È stata fortissima!- esclamavano altri. Io mi sedetti tra l'erba sentendo delle sirene in lontananza e qualcuno che invocava aiuto o sbraitava. Jack si sedette di fianco a me. -Paura?- chiese. -Per niente- risposi. -Tu, invece?-Un po'… ma veramente non hai avuto paura?- chiese Giacomo incredulo. Tacqui per un istante. -Adesso che ci penso ho avuto paura, ma paura per gli altri- mi resi conto dopo di ciò che avevo detto. Il cuore mi sobbalzò in gola, dei brividi mi percorsero la nuca e mi dovetti alzare per sembrare il più calmo possibile.

E se fosse successo qualcosa ad Anna o a Nico? E Ania come stava?

Papà stava bene ed era venuto a prenderci. La casa non aveva subito danni, erano solo caduti alcuni vasi e oggetti appoggiati sugli scaffali. I cellulari non funzionavano ancora. Eravamo tutti a casa: Agata, papà, Jack ed io. Una delle poche volte che eravamo tutti insieme. Le sirene delle ambulanze e dei pompieri si sentivano frequentemente in lontananza, ricordando a tutti noi che in quel momento qualcuno rischiava la vita. Per distrarmi accesi la TV. -Scossa di 6.1 gradi sulla scala Richter!- leggeva il presentatore -Linee telefoniche completamente interrotte e danneggiati soprattutto edifici storici, ma anche capannoni industriali! Ci sono dispersi e feriti. Al momento due mortiLa terra tremò nuovamente. La televisione oscillò e così tutto ciò che mi circondava. -Un’altra scossa! Tutti fuori!- papà e gli altri corsero in giardino mentre io rimasi incollato al divano guardando il presentatore fuggire dallo studio. Vidi l'armadio che avevo di fianco oscillare nella mia direzione, ma per miracolo ritornò al suo posto. Sentivo fuori che urlavano il mio nome. Finì la scossa e spensi la TV. Due nell'arco di un'ora, come il numero dei morti. Papà entrò e mi disse che ero uno scemo e che sarei dovuto uscire immediatamente con loro. -Smettila di fare l’eroe- mi disse Jack ma non lo ascoltai. Non avevo notizie di nessuno. Di Anna, di Luca, di Nicola, di Ania, del Rosso. Di nessuno.

Per fortuna stavano tutti bene. Le linee telefoniche erano state riattivate e i miei amici stavano bene.

Avevamo molto da raccontarci. Le scosse di assestamento continuavano a seminare il panico perché non erano di bassa magnitudo, ma si aggiravano tra i quattro e i cinque gradi Richter. I comuni vicini a Modena erano i più colpiti. Le vittime erano salite già a una decina ed erano crollati numerosi edifici come scuole e chiese. -Cosa significa?- pensai. Se Dio esistesse, lascerebbe distruggere le sue stesse case? Presi la collana e iniziai a giocare con le due croci. Il lampadario continuò a oscillare: un'altra lieve scossa. Nella mia mente scorrevano le immagini apparse in TV, i volti dei miei compagni, la voce in lacrime di Ania.

XX

-Posso invitare il Club per una serata insieme e per distrarci un po'?- chiesi a papà mentre osservava con occhi sgranati la televisione. Molte case di campagna erano crollate, alcune facciate di chiese si erano sbriciolate sulla strada e il centro storico era stato chiuso per motivi di sicurezza. La protezione civile e i pompieri erano già all'opera organizzando accampamenti per i senzatetto. -Poveretti... dovranno are tutta l'estate dentro dei container- disse papà facendo finta di non aver sentito la mia richiesta. Non me la presi ma apprezzai quel gesto. La protezione civile aveva dichiarato agibile la nostra casa, ma mio padre voleva che dormissimo in tenda e assimo la serata con lui, senza i nostri amici di mezzo. Allora anch'io mi rilassai sulla poltrona, davanti alla televisione. -Le vittime ammontano a quindici. I dispersi sono parecchi, così anche i feriti e i senza tetto. Le scuole di tutta la provincia sono state chiuse perché seriamente danneggiate, come molte fabbriche hanno dovuto interrompere i lavori a causa crolli. La polizia ha consigliato ai cittadini di are la notte in tenda e la protezione civile ha completato i controlli in gran parte delle abitazioni... - noi seguivamo ammutoliti -Molti volontari sono arrivati da tutta Italia per dare una mano e hanno contribuito all'allestimento di più campi attrezzati per i senza tetto. Dopo la scossa di 6.1, uno sciame sismico ha colpito il nostro comune. Le più forti dopo quella di questa mattina sono rispettivamente: 5.8 un'ora dopo la scossa di 6.1. Poi... - e papà spense. -Allora, chi mi dà una mano per la grigliata?- propose con uno strano tono vivace.

Jack aveva piantato le tende, Agata cucinava bistecche sul barbecue, papà suonava la chitarra allegramente come non faceva da tempo e io mi godevo questa scena famigliare dondolandomi sull'altalena. Era da tempo che non eravamo così uniti, così legati e belli insieme. Agata, in genere, ava la sua

giornata all'università, papà al lavoro, Giacomo ed io con gli amici o con le attività sportive. Quel giorno era davvero diverso dagli altri, ero abituato ai tristi pranzi da solo, ai pomeriggi dove ognuno stava per i fatti propri e a vedere papà scorbutico come sempre e Agata stressata per gli esami finali. La terra tornò a tremare nuovamente ma noi non ci facemmo caso. -A tavola!- gridò Agata portando delle bistecche. Ci sedemmo e iniziammo a mangiare. Pure la cena fu completamente diversa. Papà non leggeva il giornale o fumava una sigaretta, Agata non era incagabile e Jack non era al campo da calcio per allenarsi. Mancava solo mamma ma non era il momento di tirarla in mezzo. -Buona vero?- disse Agata riferendosi alla carne. -Sei un'ottima cuoca- affermò papà baciandola sulla fronte. -Sei stanco?- mi domandò Jack notando che ero perso nei miei pensieri. Scossi la testa e la serata proseguì nel migliore dei modi: papà ci raccontò qualche suo aneddoto, giocammo a carte e a pallavolo nel giardino e guardammo le stelle, che erano già alte e brillavano illuminando quel cielo che sembrava tanto triste e cupo. Ci sdraiammo nell'erba a osservarle. Papà, che conosceva alcune costellazioni, parlò della volta celeste e narrò delle leggende sulle stelle. -...e quella è Cassiopea- e con il dito la indicò. Io facevo continuamente delle domande poi restavamo qualche minuto a guardare il cielo in silenzio -Ok, è tardi. Tutti nelle tende e buonanotte. Attenti ai mostri... - scherzò papà prendendoci in giro, come se fossimo ancora dei bambini. -Era da tanto che non vedevo papà così... - dissi a Giacomo che si stava infilando nel sacco a pelo. -Pure io. È stata proprio una bella serata- risposi prima di addormentarmi.

XXI

-Dai papi, posso?- glielo chiesi parecchie volte, finché cedette. -Ok ma comportati bene. E soprattutto: testa e cuore!-Vai tra!- lo rassicurai. Ero al settimo cielo. Era ato qualche giorno dal terremoto che ci aveva colpito. Ero riuscito a convincere mio padre a lasciarmi andare con la parrocchia a fare volontariato in un centro estivo di Finale Emilia, una delle zone più colpite. Una corriera ci avrebbe portato là, dalle otto di mattina alle quattro di pomeriggio per tre giorni di fila. -Sarà fantastico!- esclamai entusiasta sedendomi vicino a Davide, che avevo raggiunto quando ero salito sull'autobus. -Speriamo... - rispose quasi senza muovere le labbra. -Dai, cazzo! Allegria!- lo incoraggiai. Per gran parte del viaggio guardai fuori dal finestrino. Sotto il sole c'erano macerie, resti di chiese, edifici storici e abitazioni. C’erano tende azzurre e gente che si preparava a portare aiuto.

Arrivammo. Il bus si fermò e osservai costernato i brandelli di case che erano rimasti. -Guardate la torre- esclamò una voce sorpresa. La torre era in gran parte crollata. Si era riversata sulle abitazioni a fianco, danneggiandole ulteriormente. La zona era transennata ed era vietato l'ingresso al personale non autorizzato.

La città sembrava la tipica città fantasma dei film western: era un piatto deserto. Gli scuri delle case agibili erano chiusi, le porte sbarrate, le strade si erano svuotate e non si sentivano le coppie di vecchietti parlarsi in dialetto da una panchina all’altra. Tutti avevano raggiunto i parenti in posti più sicuri, si erano spostati fuori città o nei campi attrezzati. Si poteva sentire in lontananza solo il rumore delle ruspe in azione, ma la vita cittadina si era spenta. C’era silenzio, un triste silenzio.

Arrivammo nella nostra area di competenza, dove erano stati issati grandi capannoni e gazebo e dove si respirava tanta voglia di ricominciare, anche se tutto attorno sembrava morto. La città, che non avevo visto prima, si era spostata lì. C'erano bambini che disegnavano, giocavano a pallone e si rincorrevano tra di loro. Sorridevano, non so con che forza lo fero. La loro spensieratezza mi stupiva. La paura era volata via, come volano via le stagioni, e aveva lasciato tanta speranza. Ci organizzammo nel migliore dei modi per metterci subito al lavoro. Un gruppo andò a spostare le macerie, un altro preparò i pasti in cambusa e l'ultimo, di cui io facevo parte, stava con i bambini, intrattenendoli con giochi e attività. Per fortuna ne conoscevo molti grazie agli scout e i momenti morti erano praticamente assenti. Giacomo era nel mio stesso gruppo e aveva preso i bambini più piccoli per insegnarli dei bans. Io, invece, chiamai alcuni ragazzi per giocare a calcio, ma mi seguì una fiumana imprevista di bambini che non vedevano l’ora di fare una partita: c'erano maschi e femmine, grandi e piccoli, amanti del calcio e non. Era incredibile. Alcuni di questi probabilmente non avevano più una casa o un parente, forse i loro immensi scatoloni con i giocattoli erano sotto delle macerie, la cameretta ridotta in polvere e la finestra, da cui si sporgevano sempre sognando di volare, era sparita. Probabilmente avevano perso tutto ma, tuttavia, riuscivano a donare quel poco che gli restava: un sorriso, un semplice gesto, voglia di giocare e di stare insieme. Una bambina mi si avvicinò e, strattonandomi per la maglietta, mi disse. -Io non so giocare a calcio... - sorrideva. -Tranquilla, t’insegno io- le dissi prendendola per mano e ci avviammo verso il campo da gioco.

Quei tre giorni arono in fretta, forse troppo. Tornato a casa, riflettei a lungo sull’esperienza appena vissuta e che mi aveva segnato. Più volte ripensavo a quello che avevo fatto, a come mi ero messo in gioco di mia spontanea volontà e rivedevo nella mia testa i sorrisi dei bambini conosciuti. Avevo imparato che la vita può prenderci a calci, ma che anche noi possiamo fare lo stesso con lei. Quei bambini erano la prova: il terremoto gli aveva tolto tutto eppure avano le loro giornate a ridere e a giocare. -Mi mancheranno quei cinnetti!- esclamai a Giacomo. -Idem- disse preparando la valigia. –Ma ci divertiremo anche in montagna!aggiunse tirandomi una pacca sulla schiena.

XXII

Mancava ancora qualche ora per arrivare in Abruzzo, precisamente a Rocca di Mezzo, un piccolo paesino dove i nostri genitori si erano conosciuti e sposati. Nostro padre aveva insistito tanto per mostrarci la chiesa dove era stato celebrato il loro matrimonio che, purtroppo, era durato solo qualche anno. Papà non spiegò per quale motivo volle portarci là. Probabilmente perché quell’anno avrebbe dovuto celebrare le nozze d’argento e voleva lasciarsi trasportare in una dimensione fatta di ricordi e lontane sensazioni. Agata si era lamentata per tutto il viaggio perché aveva dovuto rinunciare ad alcuni giorni con le amiche e, per la rabbia, aveva sbottato prima di partire. Non capiva come papà non avesse ancora dimenticato una “puttana” (così l’aveva definita) come mamma.

-Se n’è andata, papà. La puoi ricordare in tutti i modi ma non tornerà mai- gli aveva rimproverato prima di salire in auto. Lui non aveva risposto e aveva fatto cenno di salire, senza discutere. Era abituato a questi attacchi d’ira di mia sorella che aveva risentito molto della scomparsa di nostra madre. -Lo sai perché non sei più felice? Perché ti è faticoso lasciar andare qualcosa che ti ha distrutto- aveva detto sbattendo la portiera.

Eravamo già in viaggio da parecchie ore e Modena era ormai lontana. -Facciamo un gioco, per are il tempo- propose stranamente papà continuando a guidare. -Che stronzata…- disse Agata a denti stretti e scuotendo la testa. Si stava per mettere le cuffie ma Jack gliele strappò di mano. -Dai, Agata! Come quando eravamo piccoli!- aggiunse entusiasta. Lo appoggiai e dissi a papà di spiegarcelo.

Fu strano vederlo sorridere. -Allora: io inizio a raccontare una storia e, dopo un minuto, mi dovrò fermare. Un altro (per esempio Giacomo) aggiungerà altri pezzi per un altro minuto. Concluso quel minuto partirà Agata, e così via... - ci spiegò e, dopo essersi schiarito la voce, iniziò a narrare. -Anno 2135. Una bella famiglia decise di andare in vacanza. Prepararono frettolosamente i bagagli e partirono. Sfrecciavano veloci sulla loro auto volante attraversando quasi tutto il continente e arrivando, senza intoppi, alla meta prevista. Prima scese il padre: un signore corpulento, con un bel paio di baffi sotto il naso. Dopo di lui scesero i suoi tre figli e infine... -Stop... - disse Agata annoiata che controllava il cronometro. Guardai papà: ero certo che l'ultimo personaggio fosse stata la mamma. -...E infine scese il loro fedele cane- aggiunse Giacomo che continuò nel silenzio degli ascoltatori. Sentii papà sbuffare. -Dovevano proseguire per una tortuosa via tra i boschi. La natura li circondava: farfalle colorate svolazzavano sfiorando il naso del figlio più piccolo, alte querce coprivano il cielo con la loro chioma e il cane si divertiva a scavare buche per il sentiero. Il tragitto fu abbastanza lungo e finalmente la famiglia arrivò su una scogliera solitaria-Le onde s'infrangevano sugli scogli...- aggiunse Agata svogliatamente, cominciando la sua narrazione -E su un promontorio sorgeva una bianca casetta. Entrati, il padre incominciò a preparare la cena mentre i bambini giocavano in sala allegramente- si fermò. –Devo proprio continuare?- lanciò un’occhiata a papà che le fece segno di proseguire. Sbuffò e ripartì. -Il più grande guardava i cartoni animati, affascinato da tutti quei colori e movimenti. Il secondo, invece, amava fare puzzle perché moriva dalla voglia di scoprire l'immagine che sarebbe apparsa appena completato. Il più piccolo disegnava. In quella casetta la famiglia trascorse giorni felici. Finito, finalmente- riprese le cuffie e s’isolò dal mondo. La detestavo quando faceva così. -Vai!- m'incoraggiò papà. -...facevano bagni nell'oceano, lunghe eggiate nella foresta e di sera

guardavano le stelle. Ma un giorno quella felicità che si respirava in casa sparì di colpo. Come quando arrivi a casa tardi, magari dopo una festa, e non fai tempo a svestirti che stai già dormendo. Il telefono squillò più volte finché il padre non rispose. Restò al telefono per qualche minuto, poi riattaccò la cornetta. Rimase lì, in mezzo alla stanza per lunghi e interminabili secondi prima di correre fuori dalla porta in lacrime. Il primogenito restò a guardare la TV, il secondogenito a fare il suo puzzle, mentre il più piccolo, lo seguì senza farsi vedere- mi ascoltavano in silenzio, anche se il minuto era già terminato. Continuai -Il piccolo, nascosto dietro alcuni cespugli, scorse suo padre sullo scoglio più alto. Enormi onde si abbattevano sulle rocce e un forte vento ululava. Il papà di quei tre bambini si rigirò l'anello che portava all’anulare sinistro... Papà sorò un'auto -Si tolse la fede e, senza pensarci, la scagliò tra le onde. L'anello fu inghiottito dalle enormi fauci del mare e scomparve dal mondo. Il padre si allontanò, sempre piangendoPapà accelerò e sembrava piuttosto nervoso. Giacomo mi squadrò e mi fece segno di darci un taglio ma proseguii il mio racconto -Erano seduti a tavola. Il padre non parlava, teneva tutto il suo dolore dentro di sé, soffrendo ancora di più. Il più grande si sedette e così fece anche il secondogenito. Mancava solo il più piccolo. Allora il padre, allarmato, andò subito a cercarlo. Ormai la notte era scesa e la forza delle onde continuava inesorabilmente a schiantarsi sulla costa. Il padre, sconvolto dalla paura, arrivò sullo scoglio più alto, dove qualche minuto prima aveva scagliato tra le acque l'anello. Gridò più volte il nome del figlio: nessuna risposta. Gridò di nuovo: niente. Dopo ore di ricerca notò qualcosa che strisciava sulla spiaggia. Scese dagli scogli e, correndo più velocemente che poteva, giunse sulla battigia ormai scura. Il figlio era steso sulla sabbia, completamente bagnato e stringeva tra le mani un oggetto luccicante: era l'anello-Arrivati!- esclamò papà rompendo quella magica ma fredda atmosfera che si era creata. Scendemmo dall'auto e ci incamminammo verso l'albergo. -Come finisce la storia?- mi bisbigliò Jack avvicinandosi.

Riflettei un attimo e ricominciai la narrazione. -Il padre s'infilò di nuovo l'anello al dito. Condusse il figlio in casa e, sotto le coperte, gli diede un bacio sulla fronte. La mattina dopo il piccolo sembrava allegro e giocava tranquillamene, come se il giorno precedente non fosse successo nulla. Il più grande ricominciò a guardare la TV mentre il secondo figlio riuscì a finire il puzzle: l'immagine composta era una fede nuziale. Il più piccolo riprese a disegnare: prese il blu, il grigio, il nero e realizzò il cielo. Era perfetto. Poi intinse il pennello nel grigio e sulla tela disegnò gli scogli, la spiaggia e, in primo piano, alcuni pini. La tela da bianca era diventata scura, triste e cupa. Prese il blu oceano e disegnò le onde. Sembravano enormi artigli che afferravano gli scogli nelle vicinanze, sommergendoli per qualche secondo prima di ritirarsi. Il quadro era quasi finito, la tela era completamente fredda. Il piccolo si guardò un po' intorno, allungò il braccio e prese un grande barattolo di rosso. Intinse il pennello e fece due puntini, uno più grande dell'altro, su uno scoglio. Erano lui e suo padre, luci del mondo- -È la prima volta che ti sento parlare seriamente!- mi prese in giro Jack dandomi uno scappellotto.

XXIII

Finalmente ci sdraiavamo su comodi letti invece che sui duri seggiolini dell'auto. Papà aveva prenotato due camere in un ostello molto carino, ma probabilmente più vivace durante la stagione invernale. La mensa era abbellita con teste imbalsamate di cinghiali, cervi e falchi. Lunghi tavoli di legno erano al centro e da un bancone la clientela si serviva. Noi eravamo capitati nel giorno giusto: subito dopo cena, per chi avesse voluto, artisti di strada davano spettacolo sotto le stelle per intrattenere i clienti appena arrivati. Alcune sedie erano disposte in cerchio e, proprio al centro, ardeva un fuoco vivo che illuminava la sera. Il fuoco scoppiettava e attirava a sé i turisti che si volevano riscaldare. Alcuni bambini lanciavano nel focolare sassolini e foglie, mentre gli adulti parlavano a bassa voce aspettando gli artisti. Noi quattro guardavamo le fiamme del fuoco, ammutoliti. Ognuno era immerso nei suoi pensieri, stanchi dopo il lungo viaggio. Mi guardavo continuamente attorno e vidi i miei fratelli che osservavano pensierosi la legna che bruciava, mentre papà seguiva con gli occhi il salire delle scintille verso il cielo. Due individui con uno strano abito, un pezzo unico a righe grigie e bianche, entrarono facendo balzi e capriole. Erano un uomo e una donna, portavano una maschera bianca e, scalzi, saltellavano tra l'erba. Tutti si girarono quando un violinista (anch'esso con la maschera) incominciò a suonare un’aria vivace. I due acrobati si muovevano a ritmo della musica eseguendo complicate figure e attirando l'attenzione dei presenti. L'uomo afferrò la donna che agilmente si arrampicò sulle sue spalle, salendoci in piedi. Ci scrutava dall'alto, come un’aquila che punta la sua preda. L'uomo intanto reggeva il suo peso, era saldo, non barcollava e i piedi erano ben fissi per terra. Alzò le mani che la donna afferrò saldamente e s’issò in verticale su queste. Erano completamente immobili. Si levò un “Ohhhhhhh.... ” generale dal pubblico e poi un fragoroso applauso. L'uomo sosteneva ancora la sua compagna. Se lui avesse ceduto, lei sarebbe caduta a terra e se lei non si fosse fidata abbastanza, l’effetto scenico non sarebbe riuscito. Vedendoli, pensai che anche noi siamo come questi acrobati.

Non ci possiamo permettere di far cadere gli altri. Non possiamo. Dobbiamo fare in modo che si possano fidare di noi. Dobbiamo prenderli se scivolano giù, nel vuoto. Se li facciamo cadere, li perdiamo.

-...C’era un mago che faceva dei trucchi di prestigio da paura! Ah, c’era anche un bravissimo giocoliere che prendeva al volo bastoni in fiamme e li faceva girare sulle nostre teste!- mi raccontò Jack. Io, infatti, mi ero addormentato sulla sedia perdendomi gran parte dello spettacolo. Eravamo in auto e papà ci stava portando nel luogo che ci voleva mostrare da tempo. Annoiato per il viaggio, stuzzicavo con un foglio mio fratello che si girava di continuo per strapparmelo dalle mani, ma senza successo. Agata invece si era addormentata con le cuffie nelle orecchie mentre papà guardava fisso la strada e, man mano che ci avvicinavamo alla meta, accennava un sorriso e gli brillavano gli occhi. -Basta!- mi disse Jack esasperato, prendendo con rabbia il foglio e stropicciandolo. Avevo messo a dura prova la sua pazienza: era durata per ben cinque minuti.

Eravamo arrivati. -Coraggio ragazzi, gambe in spalla- disse papà prendendo uno zaino che conteneva alcuni panini per il pranzo. Agata si trattenne dal lamentarsi con lui perché non voleva rovinargli la giornata, ma non era abituata alle scampagnate in montagna, preferiva di gran lunga la vita oziosa che si fa al mare. Ci avviammo per uno stretto sentiero che ci portò dentro un faggeto. Il terreno era ricoperto di fogliame e per fortuna la camminata sarebbe stata tutta all’ombra delle chiome degli alberi. L’aria era fresca, i massi erano ricoperti di muschio e si sentiva un forte odore di legna verde. Alcune lucertole correvano sulle cortecce e si poteva ascoltare un picchio che faceva il nido in un tronco. Non c’era silenzio in quel bosco ma tutti i rumori sembravano ovattati.

Presi un mucchio di foglie e di soppiatto mi avvicinai a Jack che si guardava in giro, godendosi quella tranquillità. Era inconsapevole di quello che gli stavo per fare. -Ehi Jack!- lui si voltò. Gli lanciai addosso tutte le foglie che avevo raccolto e gli entrarono nella felpa, nel cappuccio e alcune s'impigliarono pure nei suoi capelli. -Ma che cavolo fai!- esclamò mio fratello. Ridemmo tutti insieme, anche Giacomo che mi costrinse ad aiutarlo a ripulirsi. -Che scemo che sei!- esclamò papà sorridendomi. Riprendemmo a camminare, quando attirò la mia attenzione uno scoiattolo che ci osservava su un ramo fuori dal sentiero. Non dissi niente a nessuno e mi avvicinai, sperando di fargli una foto. Avevo già tirato fuori la reflex, quando pestai un ramoscello caduto che si spezzò sotto il mio peso. L’animale drizzò le orecchie e scappò subito, considerandomi un possibile pericolo. Dispiaciuto, ritornai sul sentiero, ma non c'era più nessuno. Eravamo solo io e il bosco. -Dove sono andati?- dissi tra me e me, avvicinandomi al luogo dove li avevo appena lasciati. C'erano solo gli alberi e qualche innocuo insetto che svolazzava. Loro non c'erano più. Incominciai a chiamarli ma nessuno rispose. -Ehi, dove siete?!- mi spazientii, ma continuavo a non vederli. -Dove cavolo sono finiti? Non sono stato via a lungo- pensai. Nessuno rispondeva. Cominciavo a preoccuparmi. Possibile che non si fossero accorti che mancavo? Fin da piccolo, mamma mi aveva insegnato a stare fermo quando mi perdevano di vista e così feci. Mi sedetti, aspettandoli dove li avevo persi. Non mi piaceva l'idea di restare solo in quel bosco sconosciuto. Prendevo continuamente bastoncini da terra e li spezzavo, per scaricare la tensione. -Ma che cazzo…- imprecai nella mia mente. -Ahhhhhhhhhhh!!!!!Mi voltai spaventato e una cascata di foglie mi piombò addosso. Papà, Agata e

soprattutto Giacomo ridevano così tanto che gli lacrimavano gli occhi e le loro risate rimbombavano in tutto il bosco. -Mi avete fatto una paura cane!- gli rimproverai ridendo. -Sei un cagasotto!- mi disse Giacomo piegandosi in due dalle risate.

Finalmente, dopo più di un'ora di cammino, raggiungemmo la meta. Una piccola chiesa di montagna era in cima a una collina che si affacciava su un lago. Sembrava molto vecchia: le pareti erano state erose dal vento, le tegole erano sconnesse, il portone della facciata principale era marcito e la croce, sul punto più alto della chiesa, stava per cadere. Un cartello avvertiva “Pericolo di crollo” ma papà si avvicinò lo stesso e accarezzò i mattoni della chiesetta. Dove tutto aveva avuto inizio, papà sembrava rinato. Aveva proposto il gioco durante il viaggio, aveva riso con noi nel bosco ed era stato meno silenzioso del solito. La sera precedente, ci aveva portato ancora una volta a guardare le stelle, svegliandoci a notte fonda e zittendo le continue lamentele di mia sorella.

-Ma papà, sono le due di notte…- gli sussurrò piagnucolando. -Le stelle si vedono meglio in montagna. Coraggio, alza quelle chiappe- rispose con entusiasmo mettendosi un cappotto. Di solito papà non ribatteva mai, stava in silenzio e ti lanciava severe occhiate. Invece adesso rispondeva con simpatia, canzonava spesso e le sue risposte sfoggiavano un sorriso tenuto nascosto troppo a lungo. Prese delle coperte avanzate nella camera e ci accompagnò in un prato dietro l’albergo. -Copritevi bene e…ammirate- ci consigliò prima di sdraiarsi per terra. Seguimmo tutti e tre il suo esempio, pure Agata, anche se malvolentieri. -E se venisse qualcuno? O peggio, un lupo? In Abruzzo sono stati avvistati…disse nostra sorella. -Non fare la scema e non rovinarci il momento- l’avvertii prima di sprofondare nel silenzio più totale.

Che bello che era il cielo quella notte! Ti sentivi impotente tanto era meraviglioso e mozzafiato. Pure Agata aveva chiuso la bocca. -Se ci pensate, il cielo è il mare per chi non sa nuotare. Guardatelo: ha milioni e milioni di coralli luminosi, di tutti i tipi, da quello più grande a quello più piccolo. Da quello che attira di più l’attenzione a quello che sta in disparte, da quello più che si pavoneggia tra gli altri a quello più spento, che aspetta solo un’occhiata veloce. Ha le onde, color abisso, mare in tempesta, che s’infrangono sull’orizzonte e ti affogano. Ha i suoi abitanti, numerose varietà che sono le costellazioni. Il Piccolo Carro è un cucciolo di delfino che nuota insieme a suo padre, il Grande Carro. C’è lo squalo che è il Drago, Pegaso un cavalluccio marino…- papà iniziò a raccontare. -E la costellazione dei Pesci cos’è?- provocò Agata. Le diedi una spinta con il gomito per farla tacere. -Se ci fate caso, viene attraversato anche da delle navi che di notte tengono accese delle luci lampeggianti. Viaggiano lontano dalle correnti, che sono impetuose e fredde, come la Via Lattea. E guardate là: il Faro celeste- indicò la Stella Polare. -E la luna cos’è?- gli domandò Giacomo. Non era la prima volta che papà ci portava a guardare le stelle. Ero certo che un segreto riguardo al cielo lo avesse profondamente segnato, infatti, non riusciva ad addormentarsi senza averlo osservato qualche minuto. -La luna…- ripeté, accennando un sorriso. Quel giorno era piena, alta, in mezzo al cielo, come se fosse la regina e le stelle la sua luminosa corona. -Sai, Giacomo, ogni gruppo ha un capo, ogni città ha un sindaco, ogni Stato ha un governo… La luna, ecco, è una sirena. È la regina del mare. È lei che detta legge, lassù- concluse. Agata si alzò. -È una regina che piange di continuo- disse sbadigliando. -Che piange di continuo?- le chiesi, non capendo cosa intendesse. -Non potrà mai unirsi al suo amato, il Sole- mi rispose. -Sole e Luna non stanno mai insieme: uno è padrone del giorno, l’altra della notte-

In quel momento un’intuizione mi balenò in testa: f orse Agata aveva svelato inconsapevolmente il segreto. Papà era il Sole, mamma era la Luna.

-È bello vedere papà felice- ricordai le scene di quella sera mentre scendevo dalla collina e mi avviavo verso il lago. Era veramente grande e l'acqua era limpidissima tanto che si potevano vedere alcuni pesci nuotarci dentro e ci si poteva specchiare. Jack mi chiamò. -Cosa c'è?- chiesi vedendolo eccitato. -Guarda là- e con il dito indicò un’area pianeggiante e al centro un vecchio faggio. Jack ed io ci incamminammo. Mi avvicinai all'albero e di colpo si levò in volo uno stormo di uccelli. Il tronco era nodoso ma non rovinato e i rami erano ancora forti e robusti. C'era ancora l'altalena. Le corde erano logore e l'asse aveva parecchie crepe. La sfiorai con le dita e mi sembrò di accarezzare mamma. -Bello, vero?- disse papà guardando l'albero. -Stupendo... - dissi sedendomi sotto l'ombra del faggio. -Papi, chiudi gli occhi- gli ordinò Jack e papà, sorpreso, abbassò le palpebre. Quando gli dissi di riaprirli, si ritrovò Agata davanti che teneva tra le braccia il nostro regalo. -Auguri papà... - disse e glielo porse. Papà lo scartò, chissà cosa pensava che fosse. -Grazie... - gli uscì solo un “grazie” tanto era contento. Aprì l’album e proprio in prima pagina c'era quella foto che avevo osservato a lungo in soffitta: il matrimonio di mamma e papà. Papà, sfogliando le pagine, si soffermava su ogni singola foto e ci spiegava perché e in che occasione era stata scattata.

-Ah, qui siamo io e i miei fratelli. Foto di famiglia: ci siamo tutti e sette. Qui, a lato, c'è vostra madre che si divertiva a fare stupide smorfie e a rovinare la foto. L’avremo fatta almeno dieci volte!Nostra sorella si era seduta in disparte, in silenzio, facendo finta di non sentire i racconti di papà. -Agata, vieni! C’è una foto dove mamma ti tiene in braccio- le dissi. Quando si girò aveva gli occhi gonfi ed era rossa in viso. -Che hai?- le domandò papà chiudendo l’album e alzandosi. Sembrava preoccupato. -Stai bene?Non rispose. Stette lì, immobile, sulla riva del lago. Le braccia erano stese lungo i fianchi, il corpo rigido, come se avesse freddo, e lo sguardo era basso. -Agata?- la chiamò Giacomo. Lei scosse la testa. -Non ci sei mai stato in questi ultimi dieci anni…- sussurrò. –Non ci sei mai stato e adesso fai tanto il simpaticone e il padre che tutti vorrebbero. Non ti sopporto- fece una pausa e si asciugò una lacrima. -Come fai ad amarla ancora?- gridò sforzandosi di non piangere. Papà si accigliò e ritirò indietro la mano che le aveva allungato. -Come fai a non averla dimenticata?- ora piangeva di rabbia, grosse lacrime le scorrevano sulle guance e il mascara si scioglieva. Del nero le colava dagli occhi, come se tutte le emozioni che si era tenuta dentro fino a quel momento dovessero uscire sotto quella triste forma. -Come fai a parlare ancora di lei? Come fai a non odiarla? È lei che ti ha ridotto così. È lei che mi ha ridotto così, papà- s’indicò allargando le braccia. Papà era tornato a sedersi e la sua espressione era diventata di piombo. Giacomo ed io stavamo seduti in silenzio, senza intervenire. Non avevo mai visto Agata perdere le staffe in quel modo. -È andata via! Ci ha lasciati! Ti ha lasciato! È inutile continuare ad aspettare, a sperare in un suo possibile ritorno. Non ritornerà, papà. Tu meriti di essere felice- gli disse con uno strano stridio nella voce e stropicciandosi gli occhi. -Io la amo- sussurrò papà, guardando per terra. Quell’uomo non lo capivo: non

aveva il coraggio di guardare sua figlia in faccia quando piangeva, ma lo aveva per amare una donna che non lo amava più. -Come? Come?- sbottò Agata. -Ti ha distrutto! Ti sei distrutto! Guardati, papà! Guardati!- gridò sbattendo i piedi per terra. -Non impicciarti. Non sono fatti tuoi, Agata- adesso alzò lo sguardo. Quelle occhiate dicevano tanto, forse troppo. Erano pugnalate, cazzotti, calci e sputi. Quando lo rimproveravamo riguardo mamma, papà dimenticava che noi fossimo suoi figli. C’era dell’odio nei suoi occhi, c’era un “lasciami in pace”, “fatti da parte”, “levati di torno che la vita e mia e tu non c’entri”. -Sono tua figlia…- disse mia sorella con la voce spezzata decifrando quello sguardo. Papà si alzò, si mise a posto il colletto della maglietta e disse. -Quando t’innamorerai di qualcuno, capirai- Agata scosse la testa, soffocando una risata isterica. -Tu mi hai fatto schifare l’amore- fece un lungo respiro, per calmarsi, anche se sapeva che non sarebbe servito. Un sospiro non l’avrebbe svuotata di tutte quelle parole che aveva dentro. -Lo sai il perché? Lo sai?- i suoi occhi si bagnarono ancora e non accennavano a smettere. Papà scosse la testa, in silenzio. Tutto il resto sembrava fermo. Il vento che soffiava si era placato, l’altalena non cigolava più, era immobile come le foglie del faggio e l’acqua del lago. Una cinciallegra aveva smesso di cantare, probabilmente per tendere le orecchie e ascoltare quelle lacrime amare, quelle domande che non riuscivano a trovare una risposta, quella figlia stanca che aveva perso, insieme alla madre, anche il padre. -Mi sono spaventata a vederti così. Mi sono chiesta: dov’è finito mio padre? Dov’è finita la persona che mi ha insegnato a suonare il violino? Dov’è finita la persona che mi veniva a prendere quando uscivo da scuola, che mi ha portata al concerto di Ligabue, che mi teneva compagnia quando litigavo con un’amica? Dov’è finita la persona che mi ha preso in braccio a lungo per tranquillizzarmi, che mi ha sempre detto di sorridere, che veniva in camera mia per darmi il bacio

della buonanotte? Dov’è finita, mi sono chiesta. E la risposta l’ho trovata subito. L’ha portata via quella puttana!-E due…- pensai, scambiandomi un’occhiata con mio fratello. Papà si girò di scatto. -Non chiamarla più puttana!- esplose. Gli si gonfiò una vena sulla fronte, sbarrò gli occhi, diventò rosso in faccia e si avvicinò pericolosamente ad Agata. Erano a pochi centimetri l’uno dall’altro. -Abbi rispetto per tua madre! È lei che ti ha messo al mondo!Agata scosse la testa, si morse il labbro inferiore e aveva smesso di asciugarsi le lacrime che le tagliavano le guance. -Mi ha anche ammazzata ma tu non te ne sei accorto. Sei un egoista, sei solo concentrato sul tuo di dolore- papà non riuscì a sostenere lo sguardo di Agata e si voltò per andarsene. Aveva già fatto qualche o, a pungi stretti, quando Agata gli urlò. -Non siamo una famiglia! Avete fallito il vostro ruolo da genitori! Hai fallito il tuo ruolo!- papà si fermò, chiuse gli occhi e non ribatteva. -Basta Agata- Jack intervenne, si stava per alzare ma lo trattenni. -Basta un cazzo- gli sibilò nostra sorella prima di continuare. -Sai una cosa? Grazie. Grazie per non esserci mai stato in questi ultimi dieci anni. Grazie per avermi chiesto, ogni fottutissimo giorno, come era andata a scuola o cosa facevo il sabato sera, ma mai come stavo, se andava tutto bene, se avevo bisogno di qualcosa. Grazie, per avermi fatto cambiare idea-Su cosa?- pensai ma papà anticipò i miei pensieri. -Ti ho fatto cambiare idea?- provò a riguardarla, ma non ci riuscì. Si voltò nuovamente, dandole le spalle. Agata aveva smesso di piangere, si era asciugata gli occhi e sembrava essersi calmata. -Un giorno, alle elementari, la maestra ci aveva chiesto quale fosse il nostro idolo. C’era chi scriveva qualche comico del cazzo, chi diceva qualche giocatore

di calcio strapagato, qualche personaggio dei cartoni e così via. Io avevo risposto con il tuo nome. Strano, vero? Ma all’epoca non eri un cadavere innamorato del suo assassino. No, eri tutt’altra persona. Eri mio padre- terminò. -E ora?- le chiese papà con un groppo alla gola, come se sapesse già la risposta. -So a chi non voglio assomigliare- concluse Agata.

XXIV

-Finalmente a Modena…- sospirai. L’atmosfera in Abruzzo era diventata di marmo, mi aveva oppresso e mi aveva rovinato la vacanza. Era stato come scendere sul fondo di una piscina, così profonda da dover risalire in fretta e furia in superficie, per prendere una boccata d’aria. La sensazione era stata la stessa. Avevo bisogno di tornare a respirare. -Vacanza di merda, come la famiglia- aveva ribadito Agata prima di salire in macchina per il viaggio di ritorno. Appena arrivati, aveva preparato la valigia e aveva raggiunto le sue amiche a Forte dei Marmi, senza dir niente a nessuno. Papà aveva ricominciato a lavorare, più intensamente di prima, come se non volesse are del tempo a casa e con noi. Eravamo rimasti Giacomo ed io, soli come sempre. Tutto sembrava essere tornato alla schifosissima normalità. -Invitiamo il Club?- propose Jack. -Ci sta- risposi. -Così potrò rivedere anche Ania- pensai prendendo l’Iphone e lanciando l’invito sul gruppo di WhatsApp. Era da parecchio tempo che non ci vedevamo con il Club. Questo era l'unico lato negativo dell'estate: ognuno di noi partiva per le vacanze, andava all'estero o a trovare parenti e per ritrovarci non c'era mai un’occasione, ma stasera ci sarebbe stato il Club al gran completo e finalmente avrei rivisto Anastasia di persona. Non so per quale motivo ma ero agitato: le persone, infatti, cambiano in poco tempo, ano da una carezza a uno schiaffo, da una casa a una mina vagante. Le persone che credevi fossero il meglio per te, possono diventare presto il peggio, e le perdi di conseguenza. Avevo paura che Anastasia fosse un’altra. -Ma che problemi mi faccio…- mi dissi preparandomi per la serata. L’avrei amata comunque. Il Club sarebbe arrivato tra qualche ora e niente poteva negarmi di rilassarmi prima del loro arrivo.

Mi sdraiai sul letto. Misi le cuffie nelle orecchie. La musica m’invase il cervello. Chiusi gli occhi. Sognai.

Erano arrivati. Jack era corso a chiamarmi perché mi ero addormentato come un bambino. -Dai, scemo! Sveglia!- gridò entrando in camera e strappandomi le cuffie dalle orecchie. -È arrivato Babbo Natale?- chiesi stupidamente strofinandomi gli occhi. -Sì, è giù idiota. Vuole che lo aiuti a scaricare i regali per tuo fratello!- scherzò Giacomo. Mi preparai e lo raggiunsi. Quando scesi in sala mi balzò il cuore in gola. Era bello vederli di nuovo.

Ogni essere umano ha bisogno di qualcuno. Ha bisogno di qualcuno che lo abbracci senza dirglielo, che gli rompa i coglioni con i suoi problemi, che venga sotto casa sua per chiedergli scusa. Che gli porti un bombolone alla crema quando ha i suoi sbalzi di umore, che gli sorrida ogni volta che lo vede, che se ne vada ma che poi torna sempre. Ha bisogno di qualcuno che gli metta le ali ai piedi, che lo faccia sfogare, che lo venga a prendere a scuola quando meno se lo aspetta. Ha bisogno di qualcuno, questo è chiaro ormai. Qualcuno che ci sia sempre. Io ero fortunato perché avevo loro.

-Come state raga’, vi siete scannati durante le vacanze?- esclamai rivolgendomi a tutta la compagnia. C’eravamo messi a mangiare nel portico, dove Luca raccontava le sue vacanze da sballo, Ania aveva già iniziato a progettare le prossime, Anna faceva la scema divertendo tutti e Chiara ci aggiornava sulle ultime news. Stavamo bene insieme, anche Talpa che quella sera era di ottimo umore e aveva tanta voglia di scambiare due chiacchiere. -Come stai, fra’?- lo abbracciai. -Alla grande!- rispose -ate belle vacanze?- chiese. -Carine... - mentii ripensando al viaggio in Abruzzo. -Le tue, invece?-Non lo so. Non ho visto tanto- entrambi ridemmo. Talpa aveva iniziato a prendere sul ridere il suo problema, ci scherzava spesso facendo battute o raccontando barzellette sui ciechi. -Giacomo mi ha detto che siete andati dove si sono sposati i vostri genitori. Bello?- domandò facendomi segno di sedermi. Sembrava piuttosto interessato. -Sia bello che triste. Vivace ma solitario- mormorai. -Ti manca?Esitai prima di rispondere. -Sì, ma la devo dimenticare- dissi in tono brusco. Non so per quale motivo ma al solo pensiero di mamma tiravo fuori gli artigli. -E fai male a dimenticare- detto questo, Nicola si alzò ma gli afferrai un braccio e lo invitai a risedersi. -Perché?-Penso che tutto quello che abbiamo vissuto vada ricordato. Non possiamo cestinare gli incubi, vanno nello stesso cassetto dei sogni- mi spiegò. -Ma non ha senso, Nico! Vorresti ricordare tutti gli episodi brutti della tua vita?

Perché dovrei ricordare mia madre che se n’è andata senza dire un cazzo a nessuno?- gli dissi con grinta, senza farmi sentire dagli altri che erano impegnati a farsi dei gavettoni con le bottiglie. Dovevo dimenticarla, pensai. Dovevo cancellare i bei ricordi con lei, dovevo smettere di credere in un suo ritorno, farla uscire dalla mia vita per non farla più rientrare. Mi aveva fatto soffrire troppo e questa era l’unica cura per cicatrizzare la ferita. Nicola fece un sorrisetto, scuotendo la testa. -Intanto non ce la fai a dimenticarla- mi sfidò. -Questo è quello che credi tu- gli risposi con decisione. -Le persone che ci fanno soffrire non si dimenticano. L’uomo è fatto così: è più facile che si ricordi di chi gli ha rubato una caramella, invece di chi gliel’ha offerta. Guarda tuo padre: non l’ha dimenticata-Perché lui è un debole- ribattei alle sue parole. -Oppure perché ne è stato profondamente scosso. Perché lo ha stravolto, gli ha scombussolato la vita, gli ha fatto male, gli ha fatto paura-Mio padre la riprenderebbe subito in casa se ritornasse. Ci sbava ancora dietroaggiunsi. -Beh, si vede chiaramente che la ama ancora- fece una pausa. -Ti ha regalato la sua collana, vi ha portato nella loro chiesa, avete guardato insieme il loro album…- elencò. -Vuole mantenere ancora viva l’immagine di vostra madre dentro di voi. Ha paura che la cestiniate e penso che si sia pentito di aver tolto le sue foto in casa. Crede ancora in un suo ritorno- aggiunse meravigliandosi delle sue stesse parole. -È un coglione se crede in un suo ritorno. È da anni che è lontana da casa, che non abbiamo sue notizie, potrebbe essersi risposata o emigrata in Australia a pulire i denti ai koala-No, non è un coglione. La ama e basta. Alla fine amare è questo: desiderare con

tutto se stessi qualcosa che non ci appartiene. Sperare, sperare e sperare di averla, a tutti i costi-Beh mio padre si sta dando proprio da fare per “riaverla”…- aggiunsi con ironia. -Pensi che aspettare non sia tanto? Pensi che sperare in un suo ritorno, quando la dovrebbe cacciare via, non sia abbastanza?- con Nicola non riuscivo mai a parlare, aveva sempre ragione. -Se la dimenticasse farebbe prima. Si rimetterebbe a posto- gli dissi sconfortato. -I ricordi peggiori vanno conservati per crearne di migliori- mi diede una pacca sulla spalla e raggiunse gli altri.

-Taboo?- gridò Luca che aveva la scatola in mano. Ringraziai Nico e andammo a giocare. -La ama ancora…- continuai a ripetermi più volte mentre gli altri preparavano il gioco. Luca pescò una carta, quindi Anna girò la clessidra. Aveva un minuto di tempo per fare dei punti. -Le indossate ora!- suggerì Luca guardando la sabbia della clessidra che scendeva vertiginosamente. -Mutande!- dissi. -No! Sono più in basso!-Scarpe!- esclamò Ania. -Esatto! Altra carta! Veloci! Veloci!- incitava Luca, prendendo una carta e guardando le parole vietate. -Allora... - mormorava -Fa paura quando arriva!-Bolletta?- tentò il Rosso

-No! No! Arriva a voi- disse Luca mentre agitava le mani. -Pagella!- esclamò Cecilia che mi sedeva accanto. -Esatto! Grande!- e il gioco continuò. Le squadre erano competitive, ma non mancavano i momenti in cui si scherzava assieme. -Ha un’ottima vista!- disse Giacomo e tutti noi facemmo delle proposte. -Una cosa è certa- silenzio- Non è Talpa!- esclamò Luca.

Era il mio turno. Presi una carta colorata e lessi la parola. “Amore”. -Cavolo, è difficile... - dissi leggendo le quattro parole che non potevo dire alla mia squadra. -Muoviti!- m'incitavano. Non sapevo come spiegarla. -Scartala e pescane un’altra!- mi consigliò Davide. No, non volevo, ce l’avrei fatta. Alzai lo sguardo e i miei occhi s’incrociarono con quelli di Ania. Deglutii, forse ero pure arrossito, e incominciai. -Tutti la sognano... -La patente!- esclamò Chiara sbattendo la mano sul tavolo. -Ma no!- pensai a come andare avanti. Il tempo intanto ava. -Come dire…è qualcosa di speciale, ti cambia la vita- nessuno aveva un’idea da proporre -Tutti ne hanno bisogno, diciamo che è indispensabile. Senza, è come avere un libro bianco, è come avere un paio di cuffie rotte- silenzio -Dai, raga’!li incoraggiai -Si scopre soltanto quando incontri la persona giusta. Se ti prende, sei spacciato. i notti in bianco, lasci perdere la scuola, dimentichi le altre sei miliardi e novecentonovantanove milioni e novecentonovantanove mila e novecentonovantanove persone. Ti senti incompleto, la vuoi a tutti i costi- vidi Talpa sorridere. Aveva capito ma non diceva nulla perché era dell’altra squadra.

Dovevo provare con altre parole, fare un paragone che aiutasse i miei compagni. Guardai la clessidra e per fortuna avevo ancora tempo. Osservai Ania e nel suo sorriso trovai l’ispirazione giusta. Mi schiarì la voce e continuai. –Penso che non sia un sentimento come credono tutti ma una persona che è entrata nella tua vita. Una persona che ti scrive “buongiorno” ogni mattina e “buonanotte” ogni sera. Ti sorride senza nessun motivo, ti fa una sorpresa, a volte ti evita, ma vuol dire soltanto che gli manchi. Una persona che scoppia a piangere tra le tue braccia, ti chiede consigli, ti si attacca al collo e non ti vuole più lasciare. Scherza sui tuoi difetti, ti affibbia stupidi nomignoli e ha fatto a pugni per diventare il tuo mondo- presi fiato –Una persona che riesce a contenere i mostri che ti porti dentro e a tirare fuori la parte migliore di teconclusi guardando uno a uno gli occhi degli invitati, ma sapendo che nella mia testa c'erano solo i suoi, quelli di Ania, che mi avevano conquistato. Avevo parlato freneticamente, probabilmente ero paonazzo e sapevo che ero sotto lo sguardo di tutti. Ma non m’importava. Avevo detto ciò che pensavo veramente, non m’interessavo del giudizio degli altri. -Allora, cos'è?- chiesi nuovamente. -L’amore- disse Anastasia ricambiando il mio sguardo.

AUTUNNO

Allora presi in odio la vita, perché mi era insopportabile quello che si fa sotto il sole. (Qoèlet, 2,17)

XXV

Sedici Settembre. “Che palle.” era l’esclamazione di ogni studente al suono della sveglia. Nessuno aveva voglia di ricominciare la scuola, di fare compiti in classe, ascoltare lunghe spiegazioni e rivedere professori che ti considerano solo come un povero allievo deficiente e non come persona. Nessuno voleva lasciarsi alle spalle le spiagge bianche, le serate con gli amici e la possibilità di uscire ogni giorno, ma la scuola iniziava per tutti. Quando varcai la soglia, mi piombò addosso una grigia sensazione, pesante, che mi metteva le catene ai polsi e alle caviglie. -Si inizia…- mi dissi con un falso entusiasmo mentre sentivo i miei compagni di classe che rimpiangevano le vacanze in Sicilia e la vacanze-studio a Londra. -Ohi!- salutai con un cenno Luca che aveva già iniziato a lamentarsi dell’intransigenza degli insegnanti. -Ma è il primo giorno di scuola e già ti preoccupi?- gli chiesi stupito. -Meglio essere pronti alla merda che ci aspetta!- disse nervosamente. È incredibile come la vita di ogni adolescente sia così attaccata alla scuola. Siamo continuamente stressati dai voti intorno ai quali gira tutto, dalla severità dei professori, dai compiti a casa, dalla quantità di materiale da studiare e dal suono della sveglia. La scuola diventa il nostro ombelico del mondo e non le nostre ioni, non le amicizie, non le cose che ci piacciono fare. La scuola ci vincola, muta il nostro umore e quello dei nostri genitori che ci chiedono più spesso com’è andata la verifica di matematica piuttosto che come stiamo. E da persone, come se fossimo toccati da una bacchetta magica, ci trasformiamo in studenti. Studenti che ci investano l’anima e poi si sentono dire “potevi fare meglio.” Studenti che rinunciano al calcetto con gli amici, all’appuntamento con la ragazza, a qualche ora in più di sonno perché c’è Aristotele da studiare e un concetto di chimica da capire. Studenti che non riescono a trovare il tempo per le amicizie e l’unico modo per tenersele ancora vicine è sentirle su WhatsApp o uscire solo il sabato sera. Studenti che devono stare seduti per ore dentro quattro

mura quando fuori il sole spacca le pietre, che non riescono ad affrontare la scuola e si fanno prendere da crisi d’ansia e attacchi di panico. Studenti che imparano cose che non gli interessano e che gli viene detto che senza la scuola non si è nessuno.

Entrarono in classe anche Leo e la sua compagnia che non erano cambiati di una cifra dall'ultima volta che li avevo visti. Arrivò anche Talpa che aiutai, insieme a Luca, a sedersi nel suo solito posto. -Come stai, Nico?- domandammo all'unisono. -Alla grande, gente!- rispose con una solarità inaspettata. Incominciò così il primo giorno di scuola.

Ultima ora. Quando la porta si aprì, ci alzammo in piedi per salutare la nostra solita insegnante d’italiano, ma al suo posto entrò una figura maschile sulla mezza età che, senza dir niente, si sedette sulla sedia dietro la cattedra. -Complimenti prof per l’intervento, è venuto davvero bene!- esclamò Leonardo prendendo già in giro il nuovo arrivato. Il professore sorrise massaggiandosi la barba incolta e aprendo il registro. -Leonardo, giusto?- chiese guardando Leo che sghignazzava nell'ultimo banco. Quando l'insegnante lo chiamò per nome, si zittì subito non capendo come avesse fatto a riconoscerlo. -Come fa a saperlo?- gli chiese stupito. -Leggo nella mente... - scherzò il prof, alzandosi per andare incontro a Leo che sembrava intimorito. Arrivò al suo banco e si tolse gli occhiali. Lo guardò dall'alto verso il basso e ritornò al suo posto. La classe osservava divertita la scena. Il prof si risedette, aprì nuovamente il registro e segnò qualcosa. -Scusi, mi ha già dato una nota?- domandò Leonardo, chiaramente preoccupato.

Lui scosse la testa. -Ho messo un “più” per la battuta, mi è piaciuta- si levò un brusio di sottofondo. -Ma anche un “meno”... - lo avvisò. -Perché prof ?- ribatté Leonardo. -Non chiamarmi prof, non mi si addice. Io sono Dante, Dan per gli amici!-Ci sta prendendo per il culo o è serio?- sussurrai al mio vicino. -Allora ragazzi!- disse il nuovo arrivato -Avete ato delle belle vacanze?prese una sedia che posizionò al centro dell'aula, si sedette e ci osservò, uno per uno. –Dai, ragazzi, avvicinativi! Capisco che sia l’inizio della scuola, ma vi voglio un po’ più entusiasti!- Ci avvicinammo all'insegnante che incominciò, sorprendendo tutti, a raccontare le sue vacanze. Poi “ò la palla” (così diceva) a Luca e a me e a Leo e dopo molti altri arrivò anche il turno di Talpa. -Come ti chiami?- chiese Dante a Nicola, rivolto da tutt'altra parte. -Nicola. Talpa per gli amici- rispose Nico volgendosi verso il professore, che sicuramente aveva notato la sua disabilità. -Perfetto Talpa, piacere di conoscerti! Raccontaci le tue vacanze!- lo spronò. -Sono andato in Israele per due settimane, prof, tutto qui- si fermò, non aveva voglia di parlare, ma Dante lo pregò di raccontare il viaggio in Terra Santa nei minimi particolari. -Sei entrato in Palestina?- Nicola annuì. -È stata un’esperienza fortissima, anche se non ho visto molto- ci furono risate di sottofondo. -Coraggio, racconta! Hai un quarto d'ora tutto tuo- esclamò Dante mettendosi rilassato a braccia conserte. Nessun insegnante aveva mai interagito in quel modo con Nicola. Gli altri erano

molto distanti, volevano solo fare lezione e andare avanti nel programma. I contatti umani erano vietati. Anche la prof di sostegno di Nico, che si limitava a fare le cose indispensabili, non era mai stata in buoni rapporti con lui. Dante, invece, era diverso. Era strano, simpatico, diretto, vicino al nostro mondo tanto che a volte gli scappava qualche parolaccia. Gesticolava spesso, il suo tono di voce era allegro e non era la solita mummia alla cattedra a cui eravamo abituati. Si alzava dalla sedia, ci girava attorno, si perdeva nei suoi racconti e tirava uno scappellotto amichevole a chi non seguiva. Avevo capito fin da subito il suo obiettivo: lasciare un segno nei suoi studenti e forse era proprio per questo che aveva scelto di fare l’insegnante. -La Palestina è veramente una tristezza. I miei genitori mi raccontavano di ciò che vedevano ed io, solo a immaginarmi quello schifo che mi circondava, restavo a bocca aperta. Mi descrivevano case distrutte, intere famiglie che dormivano sui cigli della strada e, alla frontiera, palestinesi che si dovevano letteralmente spogliare per poter entrare in Israele. Noi siamo stati in una zona piuttosto tranquilla, ma un giorno è accaduto qualcosa di terribile e a cui mai avrei creduto di assistereNicola non mi aveva detto niente, chissà cos’era successo. -Ero già a letto, quando ho sentito una discussione tra due uomini in strada. Le loro parole erano incomprensibili, ma capivo dai loro toni che non era certo una discussione amichevole. Tutt'altro. Sono bastati pochi secondi, prof. Uno sparo. Un urlo nella notte. Una vita umana che si è spenta, che è andata in fumo, lasciando amici, figli e parenti- Nicola lo raccontò con molta leggerezza, come se non lo avesse smosso per niente. -Un uomo che non ritornerà più dalla sua donna- concluse. -Un uomo. Un uomo ucciso da un altro uomo- precisò Dante. -Esatto prof. Come se uno fosse il leone e l'altro la povera antilope indifesa- c'era intesa tra i due. -La preda…- aggiunse il prof -Ma sappiamo che non è così. Che l’uomo non uccide per mangiare- ci guardò alzandosi dalla sedia. -Uccide per egoismo, per follia, per saldare conti in sospeso, ma penso che nessun uomo abbia il diritto di uccidere un altro uomo, di puntargli una pistola in

testa, di bastonarlo o di prenderlo a calci. Siamo la peggiore specie animale, prof. Uccidiamo per cosa? Soldi? Potere? Vendetta?- concluse Nicola. Ci fu qualche secondo di silenzio. -Sai Nico, hai degli occhi bellissimi- gli disse l’insegnate. Alcuni della classe risero considerandola una battuta, ma lui sembrava serio. -Non sei come molti ragazzi della tua età con due fette di prosciutto sugli occhi. I tuoi sono ben aperti, vigili e guardano a fondo- concluse e la camla che segnava la fine dell'ora suonò.

XXVI

Stavo uscendo di fretta da scuola, quando m'imbattei in Leo che mi salutò come se fossimo in confidenza da tempo. -Ciao vez! Come stai?-Alla grande!- risposi allo stesso modo, anche se era strano questo suo comportamento. -Ti posso chiedere una cosa?Annuii. -Che ne dici di venire al Kyi sabato prossimo? Sarà una serata SPET-TA-COLA-RE!- esclamò entusiasta. -Sabato prossimo al Kyi?- ripetei. -Esatto, così ti faccio entrare un po’ nel giro e diventi popular come me!scherzò, ma non mi fece per niente ridere. Anche in una cittadina di circa duecentomila abitanti come Modena, dei ragazzi della mia età godevano di una certa fama. Ogni volta mi chiedevo per cosa fossero “famosi” e la risposta era sempre la stessa: erano famosi perché avevano tanti “mi piace” su Facebook, erano PR di qualche discoteca, avevano fatto una cavolata che poi era girata per mezza città. -Perché mi vuoi invitare?- gli domandai. Lui si avvicinò e mi rispose sussurrando -Più gente viene, più io ci guadagno. Allora?L’idea di dare dei soldi a Leonardo non mi piaceva affatto, ma era da tempo che volevo trascorrere una serata in discoteca. Non c’ero mai andato e Luca me ne parlava come un posto stupendo, pieno di giovani e divertente con tutta quella musica, le luci e i balli improvvisati in pista.

-Mi aggrego a te se ci vai!- era proprio lui che mi era piombato addosso. Sembrava un cane da tartufo: quando c'era la possibilità di divertirsi, la coglieva subito. -Allora veniamo- dissi a Leo che mi allungò le prevendite.

-Perché Leonardo ti ha fermato?- mi chiese Giacomo mentre sfrecciavamo sulle nostre biciclette in via Emilia. Gli dissi che sabato prossimo sarei andato con Luca in discoteca e, a queste parole, mio fratello mi guardò con la faccia di chi non condivide affatto la tua scelta. -Guarda che avevamo pensato di trovarci con gli altri…- protestò Giacomo. -Lo so Jack, ma questa volta preferisco fare una serata diversa dal solito. Secondo me mi diverto anche!- replicai riprendendo tra le mani la prevendita. -Fai come vuoi... - cedette sconfortato. –Ricorda che è stato lui a farti sospendere- lo sapevo bene, ma sapevo anche che non sarei stato con Leonardo ma con Luca.

Arrivati a casa, ai il resto della giornata con mio fratello, a cavalcare e a parlare di Dante e del suo metodo d’insegnamento. -Mi piacerebbe avere un professore così- disse mentre eggiavamo sui nostri rispettivi cavalli. Accarezzai la criniera di Chocolate e ripetei a mio fratello che Dante era un personaggio strano, di cui non potevo ancora tracciare un ritratto definitivo. Spronammo gli animali e galoppammo per qualche minuto. Quando ci fermammo, Giacomo discusse ancora riguardo l’invito inaspettato di Leo, come se non gli fosse andato giù che quel sabato sera non sarei stato con lui. Stroncai immediatamente la discussione, seccato delle sue lamentele e ritornammo nella stalla in silenzio e persi nei nostri pensieri. -Metti a posto la sella- mi sibilò Jack mentre strigliava Moon che raspava il terreno con gli zoccoli anteriori. -Perché ridi?- mi chiese quando la presi. Non mi ero accorso di aver sorriso.

-Mi ricordi mamma, quando diceva a papà di mettere a posto l’attrezzatura e lui obbediva immediatamente- Giacomo m’ignorò e mi fece segno di andare. Mamma restò fuori dai nostri discorsi per il resto della giornata ed entrambi ce ne accorgemmo, tanto che ci sentimmo più alleggeriti del solito, senza troppe domande in testa e mille pensieri. Non parlammo di lei neanche nei giorni successivi, come se fosse sparita una volta per tutte, ma non era così e lo sapevamo bene. -Saremo davvero liberi quando scomparirai non solo dalle nostre parole, ma anche dalle nostre teste-

I giorni arono in fretta e il sabato arrivò presto. Il Club aveva deciso di trovarsi a casa di Chiara e Ania mi tormentava chiedendomi perché non sarei stato con loro quella sera. -Ho voglia di andare là e basta- terminai la discussione. -Bah, va bene- ribatté con una smorfia. Salutai tutti, tranne Jack e Anna che erano spariti. -Andiamo!- mi disse Luca. Lo raggiunsi con tante aspettative per quella sera.

Scendemmo dalla macchina, poco distante dalla discoteca. -Non fate gli scemi…- ci raccomandò il papà di Luca prima di andarsene. Quando arrivammo davanti all’ingresso, sentii gli occhi di tutti posarsi su di noi, ma sapevo che non era così. Luca ed io non eravamo nessuno, ci andava bene se tra quelle persone trovavamo due amici. Da un ingresso illuminato si allungava una lunga fila che aspettava di entrare. I ragazzi erano la maggior parte, ma non mancavano gli universitari e qualche adulto poco cresciuto. Ci accodammo e aspettammo pazientemente il nostro turno. Intanto, incuriosito, studiavo la gente che mi circondava: alcuni fumavano tranquilli e ridevano chiassosamente, altri chiacchieravano tra di loro, altri ancora scendevano da dei taxi.

-Quando entriamo devi tenere con te il , pagare il guardaroba…- mi spiegò Luca che era più esperto di me in queste cose. Mentre lo ascoltavo, continuavo a guardarmi attorno: era una realtà diversa da quella in cui vivevo e aveva qualcosa di affascinante che avevo sempre ignorato.

Finalmente entrammo. Le luci, la musica, le urla, l’odore di alcool, fumo, sudore, la folla che ballava, le risate, un forte senso di libertà mi travolse. Era una bolgia ma era fantastico perché era diverso. Diverso dalla solita pizza con gli amici, dal solito giro in centro, dalla solita serata a guardare un film. Era qualcosa di nuovo, che non avevo mai provato prima. C’era chi ballava su dei divanetti, chi spingeva, chi beveva seduto ai tavoli e chi si baciava sotto la console. Luca, che indossava la sua solita camicia a scacchi, quella che teneva per le occasioni speciali, mi fece segno di seguirlo. Gli appoggiai la mano sulla spalla e ci facemmo spazio fra tutti. avo tra centinaia di ragazzi che saltavano, indicavano il cielo, cantavano, improvvisavano i ridicoli, sfoggiavano il loro miglior vestito e gridavano a squarciagola. Notai due ragazzi che si stavano scambiando il numero di telefono in un angolo, probabilmente si erano appena conosciuti dopo aver ballato in pista. Un gruppetto usciva per prendere una boccata d’aria e per fumare mentre un altro stava seduto su un tavolo aspettando da bere. Bodyguards massicci stavano agli angoli della sala e tenevano sotto controllo la situazione: quando notavano che qualcuno esagerava in mezzo alla folla, intervenivano e lo portavano fuori. Il locale non era tanto capiente e per muoversi bisognava aprirsi un varco a forza. A fatica seguii Luca che mi fece sedere su dei divanetti con altri amici, tra cui Leonardo e la sua compagnia, che ci salutò con un cenno. -Non andiamo a ballare?- urlai più volte nelle orecchie al mio amico. -Adesso arriva da bere, vez!- gridò entusiasta mettendosi a posto i capelli e salutando un’amica. -Fate casino per Thomas Newson- annunciò il vocalist e la folla esplose all’ingresso del DJ, ondeggiando da una parte all’altra, allargando le braccia e intonando cori. Ci portarono delle caraffe che seccammo in pochissimo tempo.

-Più bevi, più ti diverti!- mi disse qualcuno prima di scomparire nella bolgia. -Dai Luca, andiamo!- lo presi per un braccio e lo portai in pista. La musica a tutto volume iniettava un'energia tale che liberavi soltanto ballando, urlando, salendo sui tavolini e facendo lo stupido. -Ragazzi ragazzi, pogo!- mi avvertì Leo allargando le braccia. Si formò un piccolo cerchio e, al momento del drop, ci buttammo al centro facendo a spallate, cantando e gridando puttanate. Qualcuno era pure caduto per terra ma era riuscito a rialzarsi sotto le offese amichevoli di tutti. -Ci spacchiamo!- gridai in mezzo alla folla, sulle spalle di Luca da cui scesi subito notando lo sguardo minaccioso di un bodyguard. La musica ci accompagnava e ti faceva dimenticare il resto che lì dentro non contava più niente. -Chi viene a figa?- propose Luca sculettando -Chi mi ama mi segua!- esclamò con un drink in mano. Lo seguimmo, anche se io non avevo le sue stessi intenzioni. Vagammo per un po’ in mezzo alla pista, quando Luca s’imbatté in una ragazza che, come diceva, “rientrava nei suoi standard”. -Guarda come si fa!- mi disse con un sorrisetto malizioso e facendomi l’occhiolino. Io scoppiai a ridere e lo incitai. –Dai fammi vedere, playboy!- gli lanciai la sfida. Lui le si avvicinò, ondeggiando, con un sorriso da ebete stampato sulle labbra. Le andò dietro e le fece sentire la presenza, sfiorandole i fianchi con le mani e sussurrandole qualcosa all’orecchio. -Le sta recitando una poesia?- pensai mentre non smettevo più di ridere e ballavo in modo piuttosto goffo. Vidi la ragazza sorridere, girarsi, prendere un po’ di tempo e poi, spinta anche dalle amiche, dargli un bacio.

-Ma che le hai detto?- gli domandai.

L'aria in quella sala era diventata pesante, faceva caldo e avevamo bisogno di riposare i piedi e guadagnarci dello spazio vitale più ampio. Insieme a Luca, raggiunsi Leo e i suoi amici al bancone. -Le ho detto: “Ehi, scusa. Hai per caso fatto un incidente?”- mi raccontò Luca sedendosi. -Un incidente?- ripetei sorridendo. Era tutta sera che non smettevo di ridere, mi si era bloccata la mascella. -Lei ha scosso la testa e quindi le ho detto “Ah no? Allora perché sei uno schianto?” Ed ecco il capolavoro- mi rispose con aria soddisfatta e mostrandomi addirittura un succhiotto. Mi piegai in due dalle risate e mi complimentai con lui. Erano le due e ancora in pista si ballava e si beveva. Leo ci venne incontro, puzzava terribilmente di alcool e fumo, mi abbracciò ed esclamò. -Una figata, vero?- sorseggiò qualcosa che aveva in mano. -SPET-TA-CO-LA-RE!- gli ricordai eccitato. -Sei cicchetti di sambuca- chiese Leonardo al barmen. -Offro io!Il barista prese dei bicchierini, ci versò dentro un liquido trasparente e ce li servì. -Vi insegno una cosa- esclamò deciso Leonardo, cercando di sovrastare la confusione. Bagnò con della sambuca un suo indice, lo infiammò con l'accendino e se lo infilò velocemente in bocca. -Ma che cazzo fai?- lo rimproverò Luca. Leo lo tirò fuori, si sgolò alla goccia il cicchetto, posizionò l'indice (a cui prima aveva dato fuoco) perpendicolarmente alle labbra ed ispirò velocemente.

-Booom! Ecco a voi il “sospiro”!- si pavoneggiò. -Ma non ti bruci?- gli chiesi incredulo. -Tranquillo, brucia l'alcool, però lo devi fare in fretta! Coraggio, prova!Affascinato, lo feci più volte anch’io. Bagnavo l'indice e gli davo fuoco. Lo mettevo in bocca e poi lo tiravo fuori, sentendo la gola in fiamme. Bevevo il cicchetto, mettevo l'indice come se volessi zittire qualcuno ed ispiravo. Lo feci fino a quando la testa iniziò a girarmi e a diventare pesante. Annebbiato, proposi di rigettarci in pista, spinto dall’alcool. Era come se avessi le ali ai piedi, l'adrenalina scorreva nel mio corpo e non facevo caso a chi mi urtava, mi chiamava o chiedeva di are. Ballavo a occhi chiusi, la musica mi sembrava lontanissima, barcollavo e venivo spinto da altre persone, come se fossi la pallina di un flipper. -Vienimi ancora addosso e ti butto per terra!- mi urlò nell’orecchio un ragazzo troppo muscoloso per rispondergli a tono. Mi allontanai senza dir niente e decisi di salire sopra un divanetto, dove sicuramente avrei guadagnato più spazio. -Gran bel casino, vero Luca?- dissi ad alta voce. Lui non rispose. Mi voltai e in quel preciso istante mi resi conto che ero da solo in mezzo a una mischia di persone. Luca era sparito. -Ma non era con me?- mugugnai. Non lo vidi da nessuna parte, neanche Leonardo e i suoi amici. Probabilmente c’eravamo lasciati in pista, la folla ci aveva dispersi ed io non mi ero accorto di nulla. Mi sarei dovuto preoccupare, invece scoppiai a ridere, come se non lo avessi fatto per tutta la serata. Una ragazza mi guardò divertita, vedendomi solo, in piedi sopra un divanetto, con la camicia un po’ sbottonata e con la risata facile sulle labbra. Interruppi l’amplesso comico quando incominciai a vagare per la discoteca, convincendomi che dovevo trovare assolutamente il mio amico. In realtà giravo a ufo perché mai mi sarei accorto di lui, anche se mi fosse ato a pochi centimetri di distanza. Ero piombato in un mondo senza sensi, non adatto al mio corpo che sembrava un telecomando mal funzionate. Sentivo soltanto la mia voce dentro la mia testa che mi diceva che stavo bene e che ero io in quel corpo. Ero terribilmente felice, avevo il sorriso stampato in faccia, anche se facevo figuracce e non trovavo i

miei amici. Salutavo persone che non conoscevo, m’intromettevo in foto di gruppo e rischiavo di inciampare nei miei stessi piedi. A volte mi fermavo per prendere fiato e intanto facevo strane smorfie per provare a riprendermi e per rilassare i muscoli facciali, in continua tensione. Ero ai bordi della pista, esausto ma contento quando qualcuno mi afferrò per il braccio e mi trascinò dentro la bolgia: era Luca che mi accompagnò da Leo e i suoi compagni che stavano organizzando un altro pogo. -Ma dove cazzo eri finito?- mi disse mentre saltavamo e ci davamo spallate. Non gli risposi, ma gli risi in faccia, come da copione. Ma quella risata fu fatale: mi distrassi e rovinai a terra, tra le gambe di tutti. Adesso anche Luca si piegava in due dal ridere e non si preoccupò neanche di aiutarmi. Mi alzai a fatica e mi feci spazio tra la folla. Dovevo assolutamente sedermi. -Ho di nuovo perso Luca- mi dissi con un tono divertito e senza farne troppo una tragedia. La testa era diventata troppo pesante per sostenerla e avevo le gambe molli. Per fortuna non ero stato calciato quando ero caduto, ma avevo solo un gran mal di testa. Sfinito, mi lasciai cadere su un divanetto lì vicino. Ero così stanco che non mi accorsi che era bagnato fradicio. Qualcuno probabilmente ci aveva rovesciato sopra dell’alcool. -Che spreco- mi dissi, ma restai comunque seduto. Gettai un occhio in pista e trovai Leo che tentava di rubare un bacio a qualche ragazza, ma senza successo. Un bacio in discoteca è come una partita a scacchi. Muovi la regina, il fante, il cavallo e quando fai scacco matto ti guadagni il bacio. Se lo subisci, devi solo sperare che nessuno dei tuoi amici ti veda ed evitare la figuraccia. È così che funziona: se sei bravo a muovere le tue pedine sei un figo, altrimenti ci ridi su e basta. È un gioco diffuso, com’è diffusa la briscola nelle bocciofile. È un modo per divertirsi, per sfogarsi, per risanare le proprie ferite che invece si allargano sempre di più. L’immagine di Ania mi balenò per un istante in testa a vedere tutte quelle ragazze che si lasciavano usare in quel modo. Mai avrei violato le sue belle labbra, anche se, in quell’inferno di persone che si scatenavano in pista,

mi avrebbero aperto le porte del paradiso.

Luca mi raggiunse al divanetto e mi scrollò. Mi ero incantato. -Ci sei?- mi chiese. -Certo che ci sono, sono qua- gli risposi prima di scoppiare ancora a ridere. -Okay, andiamo- mi prese per un polso e mi trascinò fuori dalla discoteca. Suo padre era poco distante dall’ingresso, nella sua Audi metallizzata e con una sigaretta in bocca per tenersi compagnia. Era tardissimo, sicuramente aveva aspettato lì dentro per almeno mezz'ora. -Divertiti?- ci chiese quando salimmo in auto. Non sembrava arrabbiato, oppure non voleva sgridare suo figlio davanti a un amico. -Tantissimo!- rispose convinto Luca mentre cercava di tenermi sveglio. Mi appoggiai al finestrino e non aprii bocca per tutto il viaggio di ritorno. Mi lasciai cullare dalla voce dei 1975 che usciva dalla radio, mentre la notte mi scorreva affianco. La luna era piena, luminosa e così vicina da riuscire a vedere i crateri sul suo suolo. Mi ricordò il fondo di un bicchiere e soffocai una risata. Il cielo invece era punteggiato da migliaia e migliaia di stelle, sfavillanti e distanti anni luce, ma i chilometri non mi faceva paura. Avrei preso quelle stelle per fare una collana da regalare ad Anastasia, così mi dissi. Qualche aereo attraversò silenzioso il cielo nero. Una folata di vento gelido e le punte degli alberi oscillarono. Un altro soffio e alcune foglie, già secche perché la stagione autunnale era arrivata, si staccarono, volando via, lontano sulla scia degli aerei.

XXVII

Era la mattina dopo, una soleggiata domenica autunnale. Non avevo mai dormito così bene e mi ero alzato con il piede giusto e con una terribile voglia di acqua fresca. Mi attaccai al rubinetto della cucina. -Ben svegliato!- esclamò papà alle mie spalle. Sussultai quando sentii la sua voce e l’acqua mi andò di traverso. Tossii più volte, prima di salutarlo. Pensavo non fosse a casa: anche di domenica, papà usciva la mattina presto, senza neanche avvertirci. -Jack e gli altri si sono divertiti?- gli chiesi ritornando a bere. -Credo di sì. C'erano tutti, mancavi solo tu e Luca- mi rispose guardandomi insospettito. Ci raggiunsero pure Agata e Giacomo che non smettevano di sbadigliare e di stropicciarsi gli occhi. Anche loro avevano fatto le ore piccole. Era strano vederli tutti lì insieme. Agata di solito non si alzava prima delle dieci per poi studiare o andare a correre con le amiche. Restavamo Giacomo ed io, da soli, come sempre. Il profumo di brioche usciva dal forno, sulla tovaglia c’erano alcuni biscotti al cioccolato e dei cereali. Papà aveva tagliato del pane in piccole fette su cui aveva spalmato della nutella che non poteva mai mancare in casa nostra. La luce del sole entrava dalla finestra e si respirava un’aria diversa dal solito, come se fosse quella fresca e pulita di montagna. -Come è andata la tua prima serata in discoteca?- mi chiese Agata, anche lei di ottimo umore. -Alla grande! Ma perché è “così” stamattina? C’è qualcosa da festeggiare?chiesi.

-“Così” come?- era Jack che mi guardò con occhi stanchi ma vivaci. Le pareti della casa mi sembravano più calde e colorite e una nostalgica armonia aleggiava su di noi quella mattina. Mi lasciai scivolare sulla sedia, pensieroso, con davanti una tazza di latte fumante. -Beh, è diverso dalla solita merda- risposi, senza pormi freni. M’immaginai la reazione di papà ma mi sorrise soltanto. -Si festeggia il ritorno di mamma- mi annunciò. Mi fermai, con la tazza a mezz’aria che feci cadere quando mollai la presa. Il latte bollente mi si rovesciò addosso, ma non avvertii nessun bruciore e nessuno si preoccupò dell’accaduto. La porta della cucina si spalancò. -Mamma?- domandai.

-Sì scemo, alzati che siamo in ritardo- era la voce di Jack, appena svegliato e con poca voglia di andare in chiesa. -Jack?- non ci credevo. -No, il lupo mangiafrutta- rispose con sarcasmo e aprendo la finestra. Era una triste domenica di Settembre che annunciava sicuramente pioggia. -Ma non è tornata mamma?- gli chiesi incredulo. Scosse la testa. -E papà e Agata?-Papà è uscito mentre Agata sta ancora dormendo. Perché?- mi domandò. -No niente, era solo un sogno…- gli risposi dispiaciuto. -Dai, preparati che andiamoEravamo soli, come sempre.

-Andata bene ieri sera?- mi chiese quando mi alzai dal letto. Esitai prima di rispondere. La testa aveva smesso di girare e le risate avevano lasciato il posto a una profonda stanchezza che mi sarei trascinato dietro per tutta la giornata. -Alla grande…- dissi, ma senza troppo entusiasmo. I miei pensieri erano altrove. Era stato tutto un sogno, uno stupido sogno che mi aveva soltanto illuso. Mamma non era tornata, non c’era il profumo di brioche che riempiva la casa e papà e Agata non erano con noi. Non c’era né il sole né un’aria migliore, ma la solita pesante e inquinata. Imprecai nella mia mente. -Ma che cazzo- adesso mamma entrava nei miei sogni solo per andarsene quando mi svegliavo, lasciandomi un saporaccio amaro in bocca. Lo faceva apposta. Andai a bere, l’alcool di ieri sera mi aveva prosciugato la gola. Non c’era papà che mi dava il buongiorno, non c’era Agata che mi chiedeva com’era andata la serata e Jack era solo stanco e non aveva voglia di parlare. -Dai, muoviti!- mi urlò dalla tromba delle scale. E anche quella giornata fu la solita merda.

La mattina seguente, entrai in un grande tendone che sostituiva alcune classi della nostra scuola, ancora inagibili dopo il terremoto di quell’anno. Delle sedie erano disposte al centro, formando più file e rivolte verso la cattedra dove sedeva Dante. Dopo di me, entrarono i miei compagni di classe che presero posto a sedere. Salutai Leo con un cinque, come se la serata ata insieme ci avesse fatto diventare grandi amici. -A secco quindi sabato?- lo punzecchiai, riferendomi al fatto che non era riuscito a farsi nessuna ragazza. -Tu invece sobrissimo!- ribatté sorridendo. Dante aspettò che tutti fossimo seduti prima di iniziare la lezione. Quel giorno decisi di non prendere appunti e preferii are l’ora a guardarmi attorno e a fantasticare. Il sogno della scorsa notte tamburellava i miei pensieri, ma non

quanto la serata in discoteca. Ancora ci pensavo: quell'esperienza mi aveva scombussolato, stravolto perché sicuramente un me stesso di qualche anno fa non sarebbe stato felice di come mi ero comportato. Mai avrei pensato di andare in discoteca e di bere fino al limite, di ridere per nessun motivo, di fare dei poghi e di tornare a casa alle tre di notte. La società in cui vivo mi ha sempre detto che è sbagliato. È sbagliato l’alcool, le discoteche, i tatuaggi, le sigarette e i dilatatori. È sbagliato fare sesso prima del matrimonio, skabottare la scuola, dire le parolacce e indossare una maglietta troppo scollata. Mi ha detto che noi adolescenti siamo sbagliati, siamo una “gioventù bruciata” che a il suo tempo a sfondarsi di erba, a scrivere sui muri, ad ascoltare più la musica che i genitori. Ma non penso che siamo sbagliati, siamo solo liberi e la nostra libertà per noi è tutto. Vogliamo gli after, l’amore dei grandi e le fughe da casa. Vogliamo fare ciò che ci rende felici, are tutto il pomeriggio con la compagnia, non studiare e andare al McDonald’s. Vogliamo correre sotto la pioggia, ridere fino alle lacrime, gridare contro il mare, come se ci liberasse dai nostri problemi. Vogliamo i videogames, Facebook, le sigarette, i tatuaggi e la moda. Vogliamo chattare su WhatsApp fino alle due di notte, provare la prima volta di tutto, fare i succhiotti e rincorrere i treni. Vogliamo i cappellini girati, gli occhiali con le lenti a specchio, la foglia di marijuana sulla maglietta e fare le cazzate. E sì, vogliamo anche sbagliare, perché ci hanno sempre detto che sbagliando s’impara. Ma a fare cosa? Questo invece non ce l’hanno mai spiegato, ma penso che sia a vivere.

-Che cosa ti ho detto di fare, dolcezza?- mi colse di sprovvista il prof. Ritornai di colpo in classe, sussultai sulla sedia e cercai negli occhi dei miei compagni un aiuto che non arrivò. Non risposi alla domanda e, istintivamente, feci spallucce. Dante mi fulminò con lo sguardo e mi pentii subito del gesto che avevo fatto. Si alzò e si sedette a gambe incrociate sulla cattedra. Nessun altro insegnate lo avrebbe fatto. Si mise una mano in tasca e tirò fuori una sigaretta. Se la portò alle labbra e l’accese, come se niente fosse. -Dante, non può fumare qui dentro- gli ricordai. Adesso fu lui a fare spallucce. -Invece tu non dovresti fare quello che ti ho chiesto?- indicò un foglio su cui c’era questa consegna: “Siamo la generazione che…” e sotto, ognuno di noi aveva detto qualcosa. C’era chi aveva scritto che amiamo trasgredire, che non

sappiamo lottare, che abbiamo tanti sogni, forse troppi. Qualcuno aveva scritto che siamo una generazione imprigionata nei giudizi degli altri e che segue la corrente. Altri che siamo ambiziosi, vogliamo l’impossibile e non sappiamo goderci i momenti. -Adesso lo faccio, scusi- dissi a Dante che scosse la testa e spense la sigaretta. -Fallo ora. Dimmi cosa ne pensi. “Siamo la generazione che…”- m’incitò. Non mi veniva in mente niente, avevo bisogno di riflettere per più tempo. -Così su due piedi non so cosa dire- mi scusai. -“Non sai cosa dire...”- ripeté -È triste avere il dono della parola e non saperlo usare- mi sfidò mentre tornava a sedersi. Lessi di nuovo cosa avevano scritto i miei compagni. -Sono d’accordo con Pietro: una generazione spenta e superficiale e che…-No, no! Voglio qualcosa di tuo!- m’interruppe l’insegnate. Sbuffai, non sapendo cosa dire. -Allora?- mi spronò. -Non ci muoviamo finché non dici qualcosa- guardai i miei compagni per trovare l’ispirazione giusta quando attirò la mia attenzione un cartellone su cui erano scritti i trecento vocaboli fondamentali della lingua latina. -Persona, -ae: maschera- lessi. Dante si accigliò. Mi si accese una lampadina. -Siamo la generazione che…- esitai –Siamo la generazione “maschera”. Siamo la generazione che nasconde tutto: copriamo i tagli sui polsi con le maniche lunghe e i succhiotti con le sciarpe. Teniamo i pacchetti di sigarette nei posti più assurdi, raccontiamo bugie per poter uscire di casa, facciamo tacere il nostro dolore con un sorriso. I brutti voti ce li teniamo per noi, degli insuccessi non vogliamo parlare e se ci chiedono come stiamo rispondiamo “tutto bene grazie” quando invece il mondo sta andando a rotoli. Siamo la generazione che i septum li nasconde, che mette il fondotinta sui tatuaggi, che teme sempre di essere giudicata per quello che fa o per quello che è- presi fiato -Siamo la generazione che nasconde tutto, che si tiene tutto dentro, ma che si crede forte, invincibile

come un dio- Dante mi guardò soddisfatto. -Allora hai anche tu una testa ben fatta!- esclamò contento. Si riferiva a una frase di Michel de Montaigne, un filosofo se, il quale affermò che è meglio una testa ben fatta che una testa ben piena. In una “testa ben fatta” il sapere è ben organizzato, in modo da collegare le proprie conoscenze e dar loro un senso. In una “testa ben piena” il sapere invece è accumulato, non sistemato organicamente. -Infatti, è proprio bella tonda- ironizzò il solito Leonardo.

XXVIII

Ero soddisfatto per la figura che avevo appena fatto e rimasi attento per il resto della lezione. -Allora ragazzi!- esordì Dante avvicinandosi alla lavagna. Prese un gessetto e scrisse questa frase. -It’s better to burn out than to fade away. Non mi ricordo chi lo disse, ma sono d’accordo con lui-Ma non è di Kurt Cobain? Cosa c’entra?- precisò a bassa voce Luca. Gli feci segno che non lo sapevo. -Mi chiedo quante canne si sia fumato da giovane, sono preoccupato per luitornò a sussurrarmi. -“È meglio bruciare che spegnersi lentamente.”- mormorò il professore davanti alla lavagna nera. Federica, una ragazza che mai ero riuscito a conoscere a fondo, alzò timidamente la mano e chiese che senso avesse la frase. Mi stupii del suo gesto perché non partecipava mai alle lezioni e stava sempre per i fatti suoi. Dante accennò un sorrisetto prima di girarsi verso di noi. -Significa che la vita prende a calci. E quando parlo di calci, sono calci in culo. E fanno male- camminava tra i banchi e ci guardava uno a uno –E ve lo dico senza troppi preamboli: vi smonterà, la vita. Si prenderà gioco di voi, vi dirà che non ce la farete- adesso indicò la lavagna –Ma voi non dovete spegnervi lentamente. Al contrario: dovete bruciare come brucia il sole a mezzogiorno. Dovete resistere- sbatté una mano sulla cattedra per richiamare ulteriormente la nostra attenzione. -Le strade sono due: o lottate o vi lasciate vivere. O bruciate o vi spegnete. Fine-

-Ma nessuno ci pensa più, prof. Noi ragazzi viviamo e basta, senza troppe domande, come ci capita- ribatté Luca. Dante esitò prima di rispondergli. -Se la pensate così, il mio lavoro con voi è finito- disse, facendo su le sue cose. Stava per uscire mentre un mormorio di sottofondo si era levato dalla classe. -Ragazzi, aprite gli occhi! Dovete chiedervi chi siete veramente, cosa volete dalla vita! Non può essere tutto un lasciarsi vivere. Non può- pendevamo dalle sue labbra. Pure Leonardo aveva messo da parte l’Iphone per ascoltare. Dante ritornò in classe e riappoggiò le sue cose. -Una vita senza sogni, è morta. Un sogno senza vita è irraggiungibile. Una vita ricca di sogni e un sogno ricco di vita faranno in modo che il tuo domani ti sorrida- lo ripeté più volte come se ce lo volesse piantare in testa. La classe era muta. -E adesso, ragazzi, tocca a me: questa, a mio parere, è una generazione di brontoloni. Una generazione già sconfitta, già triste in partenza. Una generazione che non combatte, di falliti, di pigri- ci credeva davvero in quello che diceva, gli brillavano gli occhi. -Siete spenti come un fuoco stanco di bruciare- ci stava provocando. Sorrisi. -Ci hanno spento, prof- era Nicola che aveva avuto il coraggio di rompere l’atmosfera che si era creata. –Il mondo ci ha cresciuto come dei deboli che si credono troppo forti, quando invece crolliamo per un messaggio alle due di notte e per un bacio non ricevuto. Siamo così fragili che il nostro umore dipende da tanti fattori, dalle persone che ci circondano, dai voti a scuola, dal tempo che fa. Basta che qualcosa vada storto che la nostra giornata si ribalta. Siamo deboli perché, invece di risolvere le situazioni, ci limitiamo a cambiare lo stato di WhatsApp, a fumare di più, a stare da soli. Diciamo “adesso lo faccio”, ma poi rimandiamo tutto al giorno dopo. Vogliamo correre, ma rimaniamo sempre al punto di partenza. Vogliamo essere leoni, ma restiamo delle pecore.- terminò. -Nessuno vi ha spenti, Nico, ma vi siete lasciati spegnere-

-E cosa possiamo fare?- chiesi. Mi guardò. -Dovete bruciare- fece una pausa. -Son solo dei gran paroloni. Bruciare in che senso?- intervenne Leonardo. -Dovete smettere di lamentarvi, di piangervi addosso, di nascondervi nell’ombra. Di non concludere mai niente, di impegnarvi quel poco che basta senza mai dare il massimo. Di accontentarvi della cenere che avete tra le mani. Di sprecare tempo, di non cogliere le occasioni. Dovete reagire, vivere, combattere, impegnarvi- fece una pausa. Dante non riusciva a stare fermo, gesticolava, alzava la voce, camminava tra i banchi. Dalle sue parole si vedeva che era rimasto ancora attaccato al mondo degli adolescenti. -Avete sedici anni, ragazzi. Fate della vostra vita il più bel capolavoro su questa terra bruciata-terminò. Tutti noi eravamo persi nelle sue parole, eravamo annegati. La camla che segnava la fine delle lezioni suonò. -Il prossimo lunedì affronteremo un altro tema, ora potete andare- e ci salutò, scomparendo tra gli studenti che si riversavano in corridoio. -È bello strano, ‘sto qua- commentò Luca. -Si, hai ragione, ma a me piace- ribattei. -Almeno lui ci insegna a vivere-

XXIX

-Papi, esco!- urlai dalla tromba delle scale a mio padre che stava mettendo in ordine la mansarda. Non ricevendo nessuna risposta e stanco di aspettare, uscii. Quando avevo la fortuna di finire i compiti presto, andavo a fare lunghe camminate nei campi dietro casa. Mi allontanavo dal mondo. Camminavo, camminavo, camminavo. Lontano dalle preoccupazioni di ogni giorno, lontano dalla mia famiglia e da tutto il resto. Mi tranquillizzava e la mia vita sembrava andare bene. Camminavo lungo i vigneti e osservavo il cielo autunnale, quel giorno limpido e desertico. Nessuna nuvola, neanche un aereo che lo attraversasse tagliandolo a metà. Durante queste eggiate riflettevo sul ato, pensavo al presente e sognavo il futuro. Camminai lungo un fosso, dove un’acqua melmosa scorreva lentamente, trasportando foglie e piccoli rami caduti dagli alberi. Mi fermai a osservare tutto ciò che mi circondava: l'erba era alta, verde, interrotta da qualche fiore scoperto da folate di vento e interminabili file di pioppi correvano lungo le sponde del fosso, ostruendo il aggio all'altra parte. Le loro foglie erano di colori accesi e liberavano tutte le sfumature possibili del rosso. Qualche insetto si appoggiava sull'acqua limacciosa e sporca lasciandosi trasportare dalla corrente, mentre altri sfioravano la superficie con le loro sottili zampe. Rivolsi la mia attenzione di nuovo agli alberi sull'altra sponda. Sembravano impenetrabili tanto erano fitti ma presi una decisione. Mi allontanai dalla riva prendendo una lunga rincorsa, pronto a saltare dall’altra parte.

Jack l’aveva già fatto. Si era catapultato sull'altra sponda del canale, aggrappandosi ai fili d'erba per non scivolare nell'acqua acquitrinosa. Si era arrampicato fin su, arrivando sull'altro argine, poi si era avventurato tra i fitti pioppi. Era scomparso nel nulla, senza dir niente, come se io non esistessi.

Avevo osservato la scena seduto tra l'erba e, quando era entrato nel bosco, mi ero alzato gridandogli di aspettarmi, ma lui non si era fermato. Ero spaventato, lì da solo, con mio fratello perso chissà dove e mi veniva da piangere. Avrò avuto circa sette anni. Ogni volta che i fili d’erba si muovevano, m'irrigidivo e alzavo le mani in posizione di guardia. Qualcosa vicino a me si mosse. Feci un balzo indietro, gridando e rischiando di cadere dentro l'acqua. Mi avvicinai ai fili d'erba che si erano mossi e li scostai con il piede scoprendo che non c'era niente. Un altro rumore. Questa volta proveniva dagli alberi sull'altra sponda. -Giacomo!- urlai piagnucolando. Tutto taceva. Ero terrorizzato. Qualcosa si era sicuramente mosso tra le fronde. Quando un ramo si ruppe all’improvviso, mi sdraiai per terra, tappandomi le orecchie e chiudendo gli occhi. -Dai fifone. Sono io- aveva risposto Giacomo in modo piuttosto seccato. -Salta! È facilissimo!- m'incitava a saltare quel piccolo fosso che, ai miei occhi, appariva grandissimo. -Poi però non mi lasci solo come prima!- lo rimproverai trattenendo le lacrime. -No... - rispose condiscendente. -Non mi lascerai mai più solo, vero?Borbottò. -Lo prometti?- insistetti alzando il mignolo. -Va bene- affermò perdendo la pazienza. -Ma devi saltare!Presi una lunga rincorsa. Le tempie mi pulsavano. Arrivato sul bordo, staccai i piedi: il vuoto. Avevo chiuso gli occhi per non vedere quello che mi sarebbe successo quando toccai terra. Ero salvo. -È stato difficile, bamboccio?- mi prese in giro. -Adesso seguimi!- e ci avventurammo tra i fitti alberi. Jack spostava i rami per farmi are e procedeva davanti a me che lo seguivo, come un cane segue il suo padrone. La traversata fu piuttosto difficile perché i rami bassi erano molti e sottili e a volte mi graffiavano le guance o mi finivano in un occhio. Camminavo lentamente e mi capitò più volte di inciampare e finire a terra, ma Jack si fermava ad aspettarmi, anche se avrebbe potuto raggiungere la fine del bosco in pochi

minuti. Stava mantenendo la promessa. Continuammo la nostra camminata, rannicchiati per evitare quei rami fatali. Quando uscimmo da quell’intrico, mi buttai a terra, esultando. -Siamo due perfetti esploratori!- ma Giacomo non mi ascoltava. -Alzati- mi ordinò severo. Mi alzai non capendo. Seguii il suo sguardo e rimasi senza parole. Davanti a noi si stendeva un vastissimo campo di pannocchie, altissime, mature e pronte per il raccolto. Sembrava infinito. -Entriamo?- sogghignò Giacomo che si avvicinò al campo. Io naturalmente lo seguii senza obiettare. Eravamo dentro. Le piante creavano una sorta di labirinto ed era complicato orientarsi. Intanto raccoglievo alcune pannocchie mature che papà avrebbe bollito al nostro ritorno con il burro. Sentivo già il mais caldo e morbido sciogliersi in bocca. Camminammo per una mezz’oretta, addentrandoci sempre di più nel campo. Il terreno era friabile e spesso si scivolava a terra, le foglie mi graffiavano e molti insetti finivano accidentalmente nei nostri occhi. -Jack, sono stanco!- mi lamentai e mi sedetti a terra giocherellando con una formica. -Riposiamoci qualche minuto, poi ricominciamo- concesse sedendosi accanto a me. Eravamo tanto stanchi da non rivolgerci parola, guardavamo ognuno un punto fisso. -Ok. Ripartiamo- disse Jack alzandosi. Quando si alzò, una rauca voce arrivò alle nostre orecchie. -Via dal mio campo! Via, ladruncoli!Un vecchio contadino spostava con rabbia le piante per raggiungerci. Era a pochi metri di distanza e le pannocchie mi caddero dalle mani tremanti. Jack ed io impallidimmo di colpo e incominciammo a correre il più velocemente possibile, fuori da quel campo. Rompevamo le piante, le foglie ci graffiavano il viso, pannocchie cadevano a terra e il vecchio contadino s’imbestialiva ancora

di più. -Aspettami!- gridai a Giacomo che mi aveva distanziato. Si fece raggiungere quando dietro di noi non c'era più nessuno. Le alte piante erano ferme e nessun vecchio bestemmiava e ci rincorreva per bastonarci. Il cuore mi batteva a mille e ansimavo più per la paura che per la stanchezza. Silenzio. Solo il nostro respiro rompeva quell'atmosfera gelata. Guardammo a destra: niente. A sinistra: nulla. Davanti a noi, oltre le alte piante di pannocchie: neanche qui. Dietro: nessuno. Nonostante questa insolita tranquillità, eravamo pronti a scappare via tanto che i nostri muscoli erano rigidi e i nostri occhi erano spalancati. -Seminato... - ansimai sollevato, mettendo la mano sul cuore che batteva ancora, velocissimo. -Eccovi qua!- il contadino spuntò da dietro con una bastone nodoso in mano pronto a colpire. Se Giacomo non avesse fatto istintivamente un salto a sinistra, lo avrebbe colpito in testa, ma io non ero agile quanto mio fratello e mi colpì di striscio la spalla. Ricominciò l’angosciante corsa tra le pannocchie. Sentivamo il bastone che fendeva l'aria e i i del contadino che si facevano sempre più vicini. Giacomo ed io non ci girammo mai indietro e continuammo a correre, anche se eravamo sul punto di esaurire le forze. -Ecco l'uscita!- urlai. Finalmente fuori ma il vecchio non mollava. Entrammo di nuovo nel bosco, ma il contadino continuava a inseguirci. I rami ci graffiavano le braccia e le gambe e piccoli sassi entravano nelle nostre scarpe pungendoci, come spine, la pianta del piede. Non rallentammo, anche se Giacomo non avevo più fiato e a me doleva la spalla. Quando uscimmo, saltammo il fosso, senza pensare. Jack arrivò senza problemi sull'altra sponda, spinto probabilmente dalla paura. Io, invece, caddi in un campo di ortiche e scivolai giù, finendo nell'acqua melmosa, dolorante e spaventato. Il vecchio non provò a saltare, ma continuò a sbraitare minacciandoci. -Se venite di nuovo, carico la carabina con il sale!Giacomo mi aiutò a risalire sulla sponda sicura, dove notai che le mie piccole mani erano piene di bolle rosse e bruciavano tremendamente. Bagnato fradicio e

piangendo ritornai a casa.

-Non ci sono più tornato da quell’avventura- pensai. -Vediamo un po' cos'è cambiato, dall'altra parte!- saltai e atterrai sulla riva opposta. Attraversai facilmente il boschetto e, uscito, rimasi a bocca aperta.

XXX

Dov'era finito il campo di pannocchie? Il ruvido terreno? E il vecchio, che fine aveva fatto? Ora al posto del campo c'era una strada asfaltata che si diramava in più direzioni: una parte portava lontano, verso case di campagna, un'altra conduceva a un distretto industriale e l'ultima finiva in un grande parcheggio di un residence in costruzione. Il cemento aveva sostituto il campo di pannocchie, distruggendo un mondo e costruendone un altro, com'è solito fare l’uomo quando vuole guadagnare qualcosa. In silenzio e osservando ogni nuovo piccolo particolare m’incamminai verso il cantiere, poco distante da dove mi trovavo. Transenne vietavano l'accesso ai non addetti ma, scavalcandone una senza troppi problemi, entrai nella zona. Non c'era nessun operaio e gru, furgoni, asfaltatrici erano spente. L'edificio era alto, quasi otto piani, e imponenti colonne reggevano una struttura ancora spoglia e instabile. Entrai: attrezzi da lavoro erano appoggiati a terra, sacchi di sabbia erano allineati presso una parete e lunghe lamine d'acciaio, lastre di vetro, mattonelle e tegole erano abbandonate in una vasta stanza. Proprio da lì iniziava una lunga scala che portava fino all'ultimo piano. Nessuna ringhiera proteggeva il lato scoperto, come alle Ex Fonderie, e finalmente arrivai all’ultimo piano. Mi affacciai da una finestra, ma mi ritirai velocemente all'interno, scuotendo la testa. Era davvero alto. Il piano era spazioso e diviso in vani destinati a diventare veri e propri appartamenti. Avevano costruito solo lo scheletro del residence e c’era ancora molto lavoro da fare. Gironzolai all'ultimo piano, curiosando nelle stanze e divertendomi a lasciare impronte con la mano nel cemento fresco di alcuni muri. Annoiato, decisi di riaffacciarmi e affrontare di nuovo l’altezza e fu come arrivare sull'orlo di un profondo burrone. Salii sul davanzale e mi sedetti con le gambe a penzoloni. Mi formicolavano le mani, il terreno sotto di me girava e sentivo la testa cedere. Bastava poco per volare di sotto, un piccolo sbilanciamento e mi sarei sfracellato sull’asfalto. Incominciai a sentire la nausea, ma qualcosa mi tenne lì seduto, sul filo di Cloto, forse quella piacevole sensazione di poter spiccare il volo da un momento all’altro. Socchiusi gli occhi e mi appoggiai a una parete che avevo a fianco. Nella mia testa incominciarono a scorrere, come una pellicola di un film, scene di tutta la mia vita, da quando ero un bambino fino a quel giorno. Alcune immagini si fermavano e le ricordavo con precisione. Erano dei ricordi bellissimi.

-Grazie Jack- balbettai. La bici era a terra, la ruota si era storta e il mio ginocchio sanguinava dopo aver strisciato sull’asfalto. Ero sul punto di piangere, ma avevo dieci anni quella volta e dovevo dimostrare a mio fratello che ero diventato “grande”. Giacomo era corso ad aiutarmi, immaginandosi il peggio, ma quando mi vide in buone condizioni, mi allungò una mano ed esclamò divertito -Hai fatto proprio un bel volo!- Avevo preso in velocità una curva troppo stretta e, per evitare di schiantarmi contro un muretto, mi ero buttato a terra, sbucciandomi gomiti e ginocchia e rompendo la bici. Dopo vari piagnistei, proseguimmo a piedi e raggiungemmo nostro cugino sco alla base segreta. Era poco distante da cosa nostra, in un boschetto in mezzo alla campagna. L’avevamo costruita con delle assi di legno prese dal cantiere dello zio, dei tetti prefabbricati in plastica e sfruttando gli alberi vicini. Non era un capolavoro, ma eravamo soddisfatti perché ognuno di noi aveva fatto qualcosa. -ami un wurstel!- gridai a mio cugino che mi mise nel piatto un wurstel succulento e ben cotto. Verso l'ora di cena accendevamo un falò in una piccola buca e cucinavamo il cibo che ognuno di noi rubava dalle rispettive case. Quella sera sco aveva portato una scatola di wurstel che avevamo cotto con avidità. Era lì che avamo le nostre estati.

Un’altra immagine. Sorrisi. Ero sdraiato a terra, sopra di me tutto il Club e il mare ci faceva da sfondo. Pian piano la scena prese vita e incominciai a ricordare.

Il mare era mosso ma il caldo torrido ci spingeva a fare il bagno. Jack ed io c’eravamo tuffati per primi e, dopo qualche minuto, ci avevano raggiunto anche gli altri. -Pronti ad affrontare l'ira del mare?- gridai, incitando i più timorosi. Un'onda s’infranse su di noi, sommergendoci. Chiusi gli occhi e non sentii più niente, neanche le urla dei miei compagni sott’acqua. Riemersi con i miei amici che scoppiarono a ridere, si schizzarono a vicenda e facevano stupidi scherzi. Davide mi ò sotto le gambe e riemerse di colpo, prendendomi sulle spalle.

-Combattimenti di cavalli!- lanciò la sfida. Si formarono coppie di cavalli e cavalieri e ingaggiammo una furiosa battaglia. Luca, sorretto da mio fratello, rischiava di esser sconfitto da Anna che combatteva accanitamente e voleva assolutamente vincere. -Onda!- gridò qualcuno e un'immensa massa d'acqua si abbatté su di noi, facendo cadere i cavalieri dai rispettivi cavalli. Quando fui completamente sommerso, incominciai a nuotare verso la costa, più velocemente che potevo e senza farmi notare. Uscii dall’acqua e mi sdraiai sulla sabbia, sfinito. Vidi Jack e tutti gli altri cercarmi in mare, preoccupati perché ero sparito sotto l'onda e non mi avevano visto riemergere. Mi godetti la scena per qualche minuto, poi gridai i loro nomi. Si voltarono verso di me, imprecando e iniziando a corrermi incontro, non certo con buone intenzioni. Alcuni inciampavano in acqua, altri si fermavano a metà strada, altri ancora mi raggiunsero senza fiato. -Brutto scemo!- mi rimproverò Chiara. Io non smettevo di ridere. Anna fu la prima ad arrivare e mi saltò addosso, come se mi volesse punire per lo scherzo. Dopo di lei la seguirono tutti gli altri, nessuno escluso.

Una nuova immagine, piuttosto recente. Eravamo a casa di Chiara e, ricordo, fu la prima serata a cui aveva partecipato anche Ania. Non lo dimenticherò mai.

-Come ti chiami?- chiese Chiara ad Anastasia che si presentò graziosamente. Eravamo un gruppo aperto e i nuovi arrivi ci emozionavano ogni volta, perché da sempre le persone erano i nostri miglior film. Quella sera, Ania era la nuova arrivata e da quel giorno non si staccò più da noi. -ioni?- chiesi. -Scalpare gli avversari a scoutball– scherzò. –Oltre a questo, mi piace

disegnare- rispose senza esitazioni. -E che disegni?- domandò Davide. -Quello che mi a per la testa- arrossì –Ma in particolare paesaggi-Ho sempre amato saper disegnare... ma questo è il risultato- Chiara indicò un suo autoritratto, decisamente orrendo. Tutti ridemmo, compresa Ania che quando rideva era la fine del mondo. La serata continuò e dopo aver chiacchierato e giocato a Just Dance, Luca propose di guardare un film. -Il lato positivo!- esclamò Anna. -Sì, ci sta!- approvammo e il disco fu inserito. Mi sedetti al mio solito posto sul divano, quello che occupavo ogni volta che andavo a casa di Chiara. Anastasia mi si sedette accanto e del film vidi ben poco. Quando Luca, che aveva sempre bisogno di qualcuno con cui parlare, mi bisbigliava -Ma si suicida?- io annuivo, anche se avevo gli occhi puntati su Ania. In quel momento capii che se il cuore fosse stato un puzzle, lei era il mio pezzo mancate. Ormai il film stava per terminare quando Anastasia si voltò, probabilmente sentendosi osservata. I nostri occhi s’incrociarono, il cuore mi saltò in gola, distolsi immediatamente lo sguardo per l’emozione e mi s’infiammò la faccia. Finsi di guardare il film, mi scompigliai i capelli, mi stampai sulle labbra un sorriso ebete e provai a trattenermi dal far vedere i miei sentimenti. -Che ridi? Hanno appena litigato!- mi rimproverò Chiara che si faceva molto prendere dai film. -Niente... - risposi, con la testa tra le nuvole. Mi stava guardando, non ci potevo ancora credere. Ero pazzo di quella ragazza, l’amavo. La volevo, volevo essere felice.

Mi alzai. Ormai si stava facendo buio e scesi in fretta le scale dell'edificio. Me ne andai da quel posto con la certezza che per la prima volta amavo davvero una ragazza. Per me, Ania era tutto, chissà se lo stesso valeva anche per lei. Sulla strada di casa, mi balenarono in testa tristi pensieri che mi fecero più volte distrarre, rischiando di inciampare nei miei stessi i. E se lei non mi amava? Stavo solo sprecando tempo. Forse le piaceva ancora Leonardo ed io le servivo per tirarsi su di morale. O magari mi teneva come seconda scelta, ma io volevo essere la prima. Rallentai, fino a fermarmi. -Se mi amasse, correrebbe qua ad abbracciarmi, giusto?- e invece ero solo come un cane e lei chissà dov’era. Mi sedetti per terra, dovevo tranquillizzarmi e farmi meno problemi possibili. Erano solo stupidi pensieri, non ci dovevo pensare. Queste sciocchezze mi avrebbero rovinato, lo sapevo. Mi alzai a fatica, con la testa pesante e il cuore spento. Arrivai a casa stanco morto, come se non avessi dormito per gironi. Non cenai e a nessuno importò, se non a Jack che non capì il mio comportamento. Mi sdraiai a letto, completamente vestito e con lo stomaco in subbuglio. A posto delle farfalle, avevo delle spine. Guardai lo schermo del cellulare, ma Ania non mi aveva inviato nessun messaggio. –Se mi amasse, mi scriverebbe tutti i giorni- pensai, ma mi ricordai che l’avevo sentita ieri e mi aveva detto con voce stanca e arrabbiata che la scuola la stava massacrando, anche se era iniziata solo da poco. Aprii la nostra conversazione su WhatsApp, iniziai a digitare un messaggio, stavo per cliccare invio quando maturò nella mia testa l’immagine di papà: un uomo distrutto, superficiale, depresso e con una maschera di dolore con inciso il nome di sua moglie. Non volevo diventare come lui. Spensi l’Iphone e lo lasciai sulla scrivania, con la scusa che non la volevo disturbare, anche se forse non aspettava altro che un mio messaggio. Quella notte faticai a dormire. Avevo provato sulla mia pelle che l’amore non era tutto rose e fiori, ma poteva mordere e fare male.

Lo stomaco mi si strinse ancora, in una morsa di dolore. -Non voglio ridurmi come papà- pensai. Provai a dormire, ma non ci riuscii. Mi mancavano le certezze, la forza, il coraggio di rischiare. Mi mancava lei. In quel momento la volevo nel mio letto, sotto le coperte, rannicchiata vicino a me. Volevo accarezzarle i capelli, sentire il profumo della sua pelle e consumarle le labbra. Volevo guardarla dormire per tutta notte, mi sarebbe bastato. Volevo, ma non potevo fare altro se non sognarla. Mi rigirai più volte nelle lenzuola, non trovavo una posizione comoda e non riuscivo ad addormentarmi, anche se le palpebre erano diventate pesanti. Rimasi a guardare il soffitto. In quel momento capii cos’è davvero l’amore. Capii che non è fatto solo di baci sotto la pioggia, di “ti amo” inaspettati, di abbracci interminabili. Non è fatto solo di un “noi”, di mani intrecciate, di messaggi fino alle due di notte. Non è fatto solo di sguardi, di letti disfatti, di stelle guardate e poesie lette. No, l’amore può farti a pezzi, può mangiarti lo stomaco. Non è una favola come tutti pensano, ti rende terribilmente fragile perché dipendi da qualcuno senza cui non puoi stare. L’amore è fatto anche di mancanze, lacrime trattenute, brutte parole. È fatto anche d’indecisioni, i importanti, litigate per delle stupidaggini. Scordatevi l’amore di Shakespeare, delle canzoni di qualche autore innamorato e dei cartoni animati. Scordatevi le belle immagini sul web, l'amore di Paolo e sca e le frasi dolci che sentite dire. Sono tutte cazzate. L’amore è un guerriero. O ti protegge con lo scudo o ti trafigge con la spada. E in quel momento, steso a letto, mi sentivo trafitto. Non ero certo che mi amasse. Non ero felice.

XXXI

-Buongiorno, ragazzi! Come state? Vi voglio attenti e partecipi per la lezione di stamattina!– esordì Dante sedendosi in mezzo alla classe, come faceva sempre. -Hai dormito poco?- mi chiese. Non avevo una bella cera, ero pallido e con due grandi occhiaie sotto gli occhi. -Una notte travagliata... - risposi con voce stanca. Non ero riuscito a dormire per quegli stupidi pensieri e adesso le ore di sonno perse si facevano sentire. -Cosa facciamo oggi?- chiese qualcuno al professore. Io mi sdraiai sul banco. Ero distrutto. -L’altro ieri abbiamo letto la vita e la filosofia di Leopardi. Oggi inizieremo con una sua poesia che affronteremo e analizzeremo insieme. Aprite il libro di testo a pagina 154, Giacomo Leopardi, La sera del dì di festa- automaticamente estraemmo il libro e sfogliammo le pagine fino a quella indicata. Dante iniziò a leggere lentamente, con una voce inebriante, tanto che ogni singolo rumore in quella stanza scomparve, come se non ci fosse niente di più bello che sentire la sua voce recitare quei versi. Era un abile lettore ed era un piacere sentirlo leggere. …Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro non brillin gli occhi tuoi se non di pianto…

Si soffermò al verso quindici e lo rilesse più volte, a bassa voce, interrompendo la sua lettura. Quando alzò lo sguardo, notai uno strano luccichio nei suoi occhi, come se quelle parole gli avessero ricordato qualcosa di familiare. Chiuse il libro e si

lasciò cadere sulla sedia in mezzo a noi. Sfoggiava un sorriso da sognatore, di chi ha la testa da tutt’altra parte. Restò in quella posizione per qualche minuto mentre tutta la classe lo studiava ammutolita. -Dobbiamo chiamare un medico?- mi sussurrò Luca. Non gli risposi perché Dante si era alzato lentamente dalla sedia e aveva scritto sulla lavagna “NEVER SURRENDER”, a caratteri cubitali e spezzando più volte il gessetto per l’emozione. Nessuno di noi capì a che punto volesse arrivare e ci fu un rapido scambio di occhiate. Avevo solo voglia di dormire, ma lottai contro la stanchezza per vedere come si evolveva la lezione. Dante era ritornato in mezzo a noi e giocava con un gessetto fra le mani, sporcandosele di bianco. -È la mia filosofia di vita. Il “Never surrender”- enfatizzò sgranando gli occhi. La classe non si mosse. -Mai arrendersi... - disse Luca a voce troppo alta. Dante annuì e ci studiò oltre le sue lenti. -Esatto. Voi, ragazzi, non vi dovete mai arrendere- e indicò con un cenno la lavagna. Ci guardò uno per uno, come se volesse capire dai nostri occhi se lo stavamo seguendo. Io lottavo contro il sonno e trattenevo gli sbadigli. -Quel grande ottimista di Leopardi pensava che la vita fosse spietata con lui. Leggete ancora il verso quindici: la Natura gli nega la speme (speranza) e i suoi occhi possono solo brillare di pianto. Leopardi è disperato, ha il cuore spezzato, si è arreso alla vita, ma voi, ragazzi, non dovete farlo-Never surrender... - feci l’eco, colpito da quelle parole. Dante mi squadrò con sguardo fiero e i suoi occhi brillavano alla luce del sole che entrava dalle finestre. Si alzò dalla sedia e si tirò su una manica della camicia. -Questo significa la fine di un periodo difficile della mia vita. Un periodo che ho superato perché non mi sono mai arreso- ci mostrò un tatuaggio sull’avambraccio. Era una semplice riga nera che lo avvolgeva e, ci disse, se la fece fare una decina di anni fa, per ricordarsi di com’era e di quanto fosse stato difficile cambiare. -Un giorno mi sono alzato e mi sono detto: basta, non si può continuare così. Ho fissato un appuntamento con il tatuatore della mia zona e mi son fatto disegnare

un tatuaggio che segnava la mia voglia di vivere. Non mi sono arreso, per la miseria! E pensate che avevo pure il terrore degli aghi!- teneva la testa alta, orgoglioso e sfoggiava un sorriso simpatico. Quell'uomo era davvero felice. -Combattete, combattete, combattete! Al massimo verrete sconfitti, ma non arrendetevi! Chi lascia perdere è una mezza calzetta- ci credeva davvero. La classe pendeva dalle sue labbra, le sue parole erano magiche. –L’essere umano è fatto di sogni, ragazzi. Qual è il vostro?- ci spronò. -Scopare di più- ridacchiò in ultima fila Leonardo. -Quello è un po’ il sogno di tutti- gli rispose il prof, lanciandogli un’occhiata d’intesa. Riprese il filo del discorso –Non dovete fermarvi davanti agli ostacoli. Dovete superarli, dovete migliorarvi. Se non ce la fate la prima volta, ce la farete la seconda! La vita è solo una ed è meravigliosa, non potete sprecarla piangendovi addosso- un attimo di silenzio quando si levò, dalle prime file, una voce spezzata e poco familiare. Sorpresi, drizzammo le orecchie. -Mi vergogno del mio corpo- era Federica, la ragazza timida e di poche parole che non ero mai riuscito a conoscere, chiusa sempre in se stessa, come se l’esterno le fe troppo paura per viverlo. Veniva chiamata la “senza voce”, mentre Leonardo e la sua compagnia la soprannominavano “il tonno”, per il suo fisico grasso e per niente attraente. Spesso faceva intere settimane di assenza a scuola tanto che rischiava la bocciatura ogni anno e i prof non sapevano come venirle incontro. Dicevano che si chiudeva in casa a piangere, a ingozzarsi di cibo, a litigare con i suoi genitori e, così era venuto a sapere Luca, a leggere versi dell’Apocalisse che trascriveva sulle pagine del suo diario. In classe era come avere un fantasma, non dava segni di vita, neppure quando veniva interrogata. I professori allora si erano messi d’accordo per farle soltanto delle verifiche scritte, in modo tale da non compromettere la sua media scolastica che, quando voleva, era eccellente. Finalmente quel giorno, dopo anni di scuola insieme, la sentivo intervenire. -Ho smesso di andare in piscina, di indossare maglie strette e abiti troppo corti. Ho smesso di guardarmi allo specchio e di farmi vedere troppo in giro- teneva la testa bassa, era rigida, paonazza in viso e le parole le uscivano a fatica. L’atmosfera era diventata di cristallo, poteva frantumarsi da un momento

all’altro. Un brivido mi percorse la schiena. -Vedo ragazze con gambe chilometriche, pancia piatta e un bel sedere. Io invece sono... sono... - esitò, non riusciva a finire la frase. -Un mostro... - lo disse con un filo di voce, coprendosi la faccia con le mani. – Ma non voglio più esserlo... - crollò perché si era tenuta dentro troppo a lungo quelle parole. La sua rivelazione ci aveva scioccati. Ecco perché Federica si chiudeva in quel modo, catapultandosi in un altro mondo, senza parole e autostima. Aveva paura di se stessa. Gli occhi di tutti si gettarono su di lei che si fece ancora più piccola, trattenendo a fatica le lacrime. -Testa alta, Fede- Dante le si avvicinò. Era incredibile come quel professore ci venisse incontro. Era riuscito a strappare una rivelazione che nessuno conosceva e a far parlare una ragazza di cui la voce era più o meno sconosciuta. Quello non era un insegnate, ma era un amico. -Va tutto bene- la rassicurò. Lei scosse la testa coprendosi ancora la faccia. -Testa alta- le ripeté con dolcezza. Lentamente la ragazza alzò lo sguardo. Aveva gli occhi rossi e le tremavano le mani. Sicuramente si era già pentita di aver aperto bocca. -Non c'è bisogno di disperarsi. Consulta qualcuno e inizia a migliorarti. Non si possono vivere i sogni solo di notte. Testa alta e inseguili. Ce la farai. Never Surrender- sembrava che fossero amici da tempo. La abbracciò, come un padre abbraccia un figlio. La rassicurò, le disse qualche parola nell’orecchio, le sorrise. La lasciò in quel banco freddo con una fiamma di speranza nel cuore. Dante era sicuramente il primo ad accendergliela. -Quando qualcosa non vi va bene, dovete tirare fuori le palle per cambiarlacamminava tra i banchi e guardava quella scritta bianca sulla lavagna – Svegliatevi, non siate dei dormienti! Dovete smettere di non concludere mai niente e di soddisfarvi della cenere che avete tra le mani. Dovete smettere di sprecare tempo, che è già troppo poco, di non cogliere le occasioni, di dire tanto,

ma non fare mai nulla.L’incoerenza è la peggior malattia dell’uomo. Dovete credere in voi stessi perché nessuno, al giorno d’oggi, lo farà per voi. Combattete o sarete dei falliti!- fece una pausa per prendere fiato. -Dovete cambiarla la vita se vi fa schifo. Non potete stare male per sempre, non potete soffrire per i calci in culo che vi daranno gli insuccessi. Vi assicuro che ne prenderete tanti, ma voi non arrendetevi. Mai. Siete giovani, siate giovani! Dovete vincere questa battaglia che si chiama vita. Dovete aprire gli occhi e godervi il mondo- si lasciò cadere sulla sedia e chiuse gli occhi. Nessuno aprì bocca, neanche Nicola che era solito intromettersi nei suoi discorsi. Non avevo sentito da nessuno parole del genere. Nessuno mi aveva mai motivato così tanto come quell'uomo. Ero affascinato. -Fatemi una promessa, ragazzi- parlava con gli occhi chiusi e la sua voce si era abbassata di colpo. -Non buttate nel cesso questi anni, vi garantisco che sono i migliori- si alzò e riprese il libro di testo in mano -Adesso riprendiamo ad analizzare la poesia-

Stavo per uscire dall'aula dicendomi che papà doveva assolutamente seguire le lezioni di Dante. Gli avrebbero cambiato la vita, ne ero certo. Quel professore era eccezionale. Mi ero fermato per salutare Luca in corridoio quando Nicola mi fece chiamare. -Eccomi Talpa, cosa c'è?- lo apostrofai in modo seccato perché avevo bisogno di dormire e morivo di fame. -Ti ho già parlato della mia casa al mare, a Lido di Spina? È libera per qualche giorno! Volevo invitare il Club a trascorrere là una notte. Il bagno non ce lo faremo per il freddo, ma le spiagge sono libere e potremmo trascorrere lì il tempo. Ci staresti?- lì per lì volevo rispondergli di “no”. Ero stanco, il ritmo della scuola era sempre più frenetico e vari impegni si stavano via via accumulando, ma, nonostante ciò, accettai l’invito, sfoggiando un sorriso raggiante.

Non riuscivo a dire di no a Nicola. Gli dovevo molto, era un grande amico. -Ci sto Nico, ci divertiremo!-

XXXII

-Sei una lumaca Agata! Dai che siamo in ritardo!- la rimproverai mentre entravamo in autostrada. Fece finta di non avermi sentito e non accelerò, anzi rallentò apposta. Non la sopportavo quando faceva così, era come se la mancanza di mamma l’avesse fatta diventare cattiva. -È incredibile come i comportamenti delle persone ci possono cambiare- pensai guardando il paesaggio scorrere fuori dal finestrino. -A che pensi?- mi chiese Jack. Scossi la testa sorridendo. Chissà cosa avremo fatto. Saremo andati al molo, a guardare l’alba sulla spiaggia e a bere vino sotto le stelle con una chitarra e un falò . Non stavo più nella pelle, ci saremo sicuramente divertiti. Lido di Spina si avvicinava sempre di più e con lei il Club al gran completo. Papà era stato titubante perché non c’era nessun adulto a controllarci, ma Giacomo ed io, dopo ore di discussione, l'avevamo convinto. Lido di Spina non era distante da Modena, ma avevamo deciso di partire di prima mattina per goderci un’intera giornata di mare. Agata non voleva alzarsi così presto per portarci, ma papà l'aveva obbligata la sera prima, discutendo pesantemente con lei che ora non parlava per protesta. -Ci devi venire anche a prendere... - la informò Giacomo mentre superavamo un camion. -Che palle... - sbuffò Agata dalla rabbia.

Eccoci arrivati. Scesi dall’auto e fui inebriato dal profumo di pino marittimo. Lido di Spina era la tipica città di mare, ma non grande come Rimini o Riccione. Non c'erano palazzi e centri commerciali, ogni casa aveva un piccolo giardino e

il profumo e la voce del mare invadevano il paese perché la spiaggia distava solo pochi minuti dalla piazza principale. C’era una piccola chiesa, qualche negozio e una pineta dove eggiare. Quel giorno la città era completamente abbandonata perché non era stagione estiva e si poteva vedere solo qualche anziano scappato dalla confusione cittadina. Agata ripartì subito verso casa, non appena fummo scesi dall'auto. -Che stronza, non ci ha neanche salutati!- si lamentò Giacomo. -Era piuttosto arrabbiata... - osservai prendendo le valigie che mia sorella aveva scaraventato sul marciapiede. -Ciao raga’!- tutti i membri del Club erano già arrivati e Nico non esitò un secondo per mostrarci la casa. Alcuni l’avevano già vista mentre ci aspettavano ed erano corsi a prepararsi per andare in spiaggia. -Sempre in ritardo voi due!- sottolineò Anna. -Le star si devono fare attendere... - scherzai. -Un bagno è qua, l’altro in fondo al corridoio!- c'informò Talpa. Sapeva tutti i luoghi a memoria, da quanti erano i gradini della scala per arrivare al primo piano a dove erano i biscotti nella credenza. Il suo bastone era abbandonato in un angolo della sala, solo come un cane che aspetta il suo padrone. In quel luogo, Talpa riacquistava la vista. -Nico, cos'è questo?- chiesi prendendo fra le mani uno strano oggetto. Era un piccolo quadro con una classica cornice in legno. Tra le due sottili lastre di vetro non c'era una tela, ma dell'acqua in cui galleggiava della sabbia colorata. Ogni volta che si girava il misterioso oggetto, la sabbia scendeva lentamente, appoggiandosi sull'altro lato e mescolandosi. Quando la sabbia cadeva, assomigliava a una cascata e rivelava colori nascosti come l'azzurro o il rosso. -Dov'era?- domandò Nicola. -Su una mensola, tra due modellini di navi-Ah, sì!- esclamò e rispose semplicemente che era un ricordo di quando era piccolo.

-Ce lo racconterai stasera, Nico, ora tutti in spiaggia!- esclamò Luca correndo fuori dalla porta. Il sole era alto nel cielo e un forte vento ci scompigliava i capelli. La voce del mare risuonava fragorosamente su tutta la spiaggia e alcuni gabbiani coraggiosi volavano nell'azzurro per poi planare delicatamente sulla sabbia alla ricerca di cibo. Il bagno era completamente deserto, c’eravamo solo noi che giocavamo a beach volley e ridevamo fino alle lacrime, soprattutto quando Luca andava alla battuta. Giocavamo tutti assieme, nessuno escluso, pure Nicola provava a stare in campo e a prendere la palla seguendo i nostri suggerimenti. -Palleggia Nico, palleggia davanti a te!- e ci piegavano in due dalle risate perché il pallone gli arrivava dritto sul naso. Volevo stare lì per delle settimane, il Club mi faceva solo del gran bene. Eravamo una famiglia, la mia seconda famiglia. -Chi perde si fa un bagno!- lanciò la scommessa Jack. -Se perdiamo ti ammazzo!- lo minacciò Anna. -Lanciate la palla su Nicola- bisbigliò Luca alla sua squadra facendo un occhiolino. -Ehi, guarda che ti ho sentito! Sono cieco, mica sordo!- esclamò Talpa sorridendo. Non eravamo dei campioni, ma ci divertivamo lo stesso, anche se la palla ava a fatica la rete. Davide improvvisava qualche tuffo scenico, Chiara non riusciva a mandare la palla in campo e Jack usava la testa e i piedi per fare punto, come un vero calciatore. Eravamo imbarazzanti, ma non ci importava. L’importante era divertirsi, diceva tra le risate Ania. -Match point!- urlò Davide. Luca andò alla battuta e pulì il pallone dalla sabbia. -Con Luca alla battuta, abbiamo già perso- dissi, ma il ragazzo smentì le mie previsioni. La palla superò magicamente la rete, sotto lo stupore di tutti. Jack fece un grande salvataggio con la punta del piede, la palla si levò in aria, in direzione di Talpa. -Palleggia, palleggia Nico!- gli urlò il Rosso. Nico fece un palleggio a caso, ma riuscì a colpire il pallone e a dargli una strana parabola, facendolo cadere nel

nostro campo. -Vinto!- esultò il Rosso andando ad abbracciare Talpa –E adesso il mare vi aspetta!Malvolentieri, io e il resto della mia squadra ci avvicinammo all’acqua. La toccai con un dito del piede: era freddissima. Mi sedetti sulla sabbia, indeciso sul da farsi. -No ragazzi, è da pazzi- disse Ania dopo aver sentito la temperatura, ma gli altri non volevano sentire proteste. Una scommessa è una scommessa. Mi feci coraggio e mi alzai da terra. Ania era poco distante da me e in costume da bagno era più attraente del solito. La pelle era ancora abbronzata, notai una piccola voglia sulla coscia, le curve erano più evidenti e le clavicole ben visibili. Era ferma in riva al mare e non voleva assolutamente farsi il bagno. Un’idea mi balenò in testa, ma non ero sicuro di realizzarla. Chissà cosa avrebbe pensato. -Se ti rende felice, fallo- mi dissi. Non ci pensai un secondo di più. La presi di sorpresa in braccio e mi tuffai con lei nell’acqua gelida. Il resto della squadra e chi aveva vinto ci seguì, gridando e schizzando da tutte le parti.

Ero perso nei miei pensieri e guardavo un punto fisso sull’orizzonte. Quel punto mi ricordava mamma, lontanissimo e perso chissà dove. Stavo per andarmene, quando Ania mi piombò alle spalle facendomi cadere sulla sabbia. -Questa è la mia vendetta!- disse sorridendomi. -Che forza bruta!- la presi in giro ridendo. –Ma mai quanto la mia!- e riuscii a liberarmi in un batter d’occhio. Anastasia incominciò a correre e la rincorsi sul lungo mare. -È bellissima... - continuavo a ripetermi nella mia testa. La luce del sole le faceva luccicare la pelle dorata, la schiuma delle onde le bagnava le caviglie e il suo sorriso era una bianca conchiglia sul fondo del mare. -Guarda che ti prendo! E quando ti prendo, sono guai...- la minacciai.

Ania continuava a ridere e niente quel giorno avrebbe gelato quelle risate. Quando la raggiunsi, la abbracciai e incominciai a farle il solletico, ruzzolandoci nella sabbia. Il mio cuore batteva all’impazzata, poteva scoppiare da un momento all’altro. Continuai a farle il solletico, a lottare sulla spiaggia, a farla ridere perché quella risata era la mia salvezza. Poi Ania si fermò, stesa sulla sabbia ed io sopra di lei. Si lasciò contemplare, la spogliai con gli occhi. Le nostre mani s’intrecciarono. Non la volevo più lasciare. I nostri sguardi s‘incrociarono, ma questa volta non li distogliemmo, anzi, continuammo a guardarci, dritti, in fondo alla pupilla, come se dovessimo cercare qualcosa in quell'occhio, magari dei sentimenti corrisposti. Avvicinai la mia mano al suo viso e le accarezzai una guancia. Avevo Ania tra le mani, finalmente. Ci studiammo per lunghissimi secondi, senza parlare perché parlavano già quei profondissimi sguardi. Una leggere brezza autunnale le scompigliava i capelli e alzava piccoli granelli di sabbia portandoli lontano. Insieme a quei granelli, sullo stesso vento, c'eravamo anche noi, finalmente soli ma insieme. Non so perché tremavo. Sembrava che il mio cuore volesse uscire dalla cassa toracica per unirsi al suo. Lentamente mi avvicinai al suo viso. Entrambi socchiudemmo gli occhi. Sentivo il suo respiro appoggiarsi sulle mie labbra. Ci baciammo, delicatamente, leggeri come una goccia di pioggia che si spegne sull’asfalto. Mi fece un sorriso malizioso e si riavvicinò. Mi osservò le labbra e le baciò nuovamente, con più ione. Ci baciammo a lungo, con la voce dei gabbiani di sottofondo, la schiuma del mare che ci bagnava e il sole che ci guardava dall’alto. Ci baciammo ancora e ancora e ancora, come se non riuscissimo più staccarci da quelle labbra. Quei baci avevano un non so che di speciale, qualcosa che non provavo seriamente da tempo: sapevano di felicità.

XXXIII

Ordinammo delle piadine in spiaggia e pranzammo all’ombra del nostro ombrellone. Per me e Anastasia non era stato facile raggiungere gli altri mano nella mano, scambiarci un timido bacio in mezzo a loro e prendere il sole ascoltando la stessa musica e viziandoci a vicenda. Ci sentivamo fuori luogo, come se lì non ci fosse più spazio per noi due. Era la prima volta che mi sentivo in quel modo, ma non era per colpa nostra. I nostri amici non sapevano come comportarsi, io e Ania sembravamo degli sconosciuti. Ci sentivamo osservati, ma ero certo che era solo questione di abitudine. Il tempo gli avrebbe insegnato che adesso non c’ero solo io e lei, ma c’era un noi. Ci impegnammo a isolarci il meno possibile e a vivere il nostro amore con gli altri. ammo con loro tutto il pomeriggio, a rilassarci sotto il sole, fare costruzioni con la sabbia e partite a biglie. La sera la trascorremmo in un simpatico ristorante in riva al mare, a mangiare fritto misto e a bere vino. Luca aveva portato da Modena dello yeager maister e dell’amabile che portò la sera stessa in spiaggia. -Grande simposio stanotte!- esultò con l’alcool nello zainetto. -Sei una schifosissima spugna- lo presi in giro abbracciandolo. Arrivammo in spiaggia verso mezza notte. Il mare era mosso e il rumore delle onde ci accompagnò per tutta la notte. Jack prese la chitarra che aveva tenuto a casa di Nicola e incominciò a suonare qualche stupida canzone e a cantare a squarciagola. Chiara, Ania, Davide e il Rosso avevano un fuoco vivo e così alto da sembrare che volesse raggiungere le stelle. Io ero a riva, con una bottiglia di vino stappata in mano, i piedi in acqua e la felpa sulle spalle. Il mare tuonava ancora e il cielo si confondeva con le sue acque. Raggiunsi gli altri che cantavano intorno al fuoco e lasciai a Luca la bottiglia mentre un’altra la teneva avidamente il Rosso. -ate lo yeager!- disse Jack che voleva bagnarsi la bocca dopo aver cantato a lungo. Mi sedetti con loro e iniziai anch’io a cantare nonostante Anna mi dicesse

che ero negato.

Erano già tutti addormentati, solo io e Ania eravamo seduti in riva al mare a guardare le stelle. Erano le tre di notte. Anastasia appoggiò la testa sulla mia spalla e tracciava con l’indice dei segni sulla sabbia. -Che scrivi?- le sussurrai. Mi rispose con un sorriso. Le diedi un bacio e la contemplai: neanche le stelle potevano competere con lei. Feci un lungo sospiro e mi sdraiai. Lei appoggiò la testa sul mio petto e mi accarezzò gli addominali. -Ti batte fortissimo il cuore- osservò Anastasia. -Con te mi sento più vivo- le dissi accarezzandole una ciocca di capelli. Lei si voltò e mi diede un bacio. Le presi la testa e la baciai più avidamente, spingendola sulla sabbia. Le tolsi la parte superiore del costume mentre le nostre lingue danzavano seguendo il ritmo dettato dall’amore. Quei baci ci consumavano le labbra, ce le stancavano. Lei si avvicinò e mi morse il lobo dell’orecchio e incominciò ad accarezzare ogni centimetro del mio corpo. Scesi verso il seno e glielo baciai delicatamente. Un bacio, due baci, tre baci mentre sotto le mie dita il capezzolo s'inturgidiva. Sentivo dei brividi percorrermi la schiena, come se un cubetto di ghiaccio scorresse sulla mia pelle. Sorrisi e alzai lo sguardo verso di lei. Ci guardammo per lunghi minuti, sembrò quasi che il tempo si fosse fermato e tutto il resto, la scuola, la famiglia, mamma, gli amici fossero spariti. In quei minuti contavano solo i suoi occhi cangianti e lei che mi sussurrava -Sei bellissimo- mentre con l’indice mi sfiorava le labbra. Scesi nuovamente, ritornai al seno e iniziai a succhiare forte la sua pelle. La tiravo, la inumidivo con la lingua, la sfioravo con la bocca e volte la mordevo delicatamente. Marchiai la sua pelle con il disegno di qualche galassia sconosciuta. Spiccavano sfumature di viola, rosso e marrone che si mischiavano formando una macchia proibita. Ero felice: ogni volta che avrebbe guardato quel disegno, si sarebbe ricordata del suo artista.

Furono i due giorni più belli della mia vita. Avevo trascorso momenti

indimenticabili, ma ormai Modena mi aspettava e a malincuore partii da Lido di Spina. In quel posto lasciai un pezzo di me, come Nico aveva lasciato lo strano oggetto con la sabbia colorata. Al momento dei saluti ci promettemmo di rivederci in settimana e, prima di salire in auto, baciai Ania che mi sussurrò all’orecchio -Mi mancherai... Le risposi che ci saremo visti presto.

-Vuoi venire davanti, con Agata?- chiesi a Jack che era già seduto nei posti di dietro dell'auto. -D'accordo- rispose. -Vi siete divertiti?- chiese nostra sorella. Sfrecciavamo su una stradina che costeggiava il mare. Giacomo ed io non rispondemmo, entrambi eravamo assorti nei nostri pensieri. Io guardavo fuori dal finestrino il mare blu che pian piano scompariva in lontananza. Nessuno parlava. Solo la voce di James Blunt, che usciva dalla radio, ci accompagnava durante il viaggio.

Goodbye my lover. Goodbye my friend. You have been the one. You have been the one for me.

Ma qualcosa di più forte e fragoroso sovrastò quel silenzio in un attimo. Un pazzo.

Un pazzo che andava contromano. Un pazzo che distrusse il mio mondo, ribaltò la mia vita. Un pazzo che mi fece precipitare nel tunnel. Lo schianto fu inevitabile.

Goodbye my lover. Goodbye my friend. Quando riaprii gli occhi, non credevo a ciò che vedevo. Ero sdraiato sull’asfalto, scaraventato fuori dall'auto. Rottami e sangue erano sparsi sulla strada. Mi alzai barcollando e mi avvicinai a una delle due auto. Non riuscivo a mettere a fuoco e la testa girava, girava, girava come una trottola. Vomitai e ricaddi a terra. Mi sanguinava la fronte, sudavo freddo e la nausea non mi dava tregua. Faticavo a muovere il braccio sinistro, probabilmente lo avevo sbattuto contro qualcosa al momento dell'impatto. Mi portai una mano alla testa. Sangue caldo colava, sporcandomi la faccia. Ero terrorizzato, mi sentivo morire da un momento all’altro. Mi rialzai faticosamente. Zoppicavo. La schiena mi bruciava, terribili fitte mi percorrevano il fianco e ogni volta che facevo un movimento brusco mi dovevo fermare, paralizzato dal dolore. Arrivai a una delle due auto incidentate. Il davanti d’entrambe era distrutto, sembravano due fisarmoniche. Guardai all'interno della macchina. Un uomo si dimenava per liberarsi dalla cintura che lo soffocava e intanto borbottava bestemmie. Continuavo a vedere sfuocato, ma non feci a meno di notare alcune birre vuote sui seggiolini dietro. Frammenti di vetro erano conficcati nella sua pelle e da un profondo taglio sulla pancia usciva molto sangue. Vomitai ancora, più per la scena ripugnante che per il dolore. Mi allontanai dall'auto. Ricaddi. Gridai quando toccai l’asfalto ruvido. -Jack... Ania... Mamma... - deliravo. Mi rialzai facendo uno sforzo sovrumano. Il dolore era così forte che vomitai di nuovo. Avevo lo stomaco in fiamme. Mi avvicinai alla nostra auto. Agata si copriva il viso con le mani e singhiozzava. Sembrava stesse bene, aveva solo un piccolo taglio sulla spalla. Guardai Giacomo. Aveva gli occhi chiusi ed era appoggiato sul cruscotto. Non si muoveva.

-Jack... Jack... - sussurrai. Dissi il suo nome più volte con le poche energie che mi rimanevano quando caddi nuovamente a terra perdendo i sensi.

Ero sdraiato su un letto dalle lenzuola azzurre, la luce del sole entrava dalle finestre e la stanza era accogliente e calda. Provai ad alzarmi ma non riuscii a muovermi. Continuavo a vedere sfuocato e ritornavo sul luogo dell'incidente quando chiudevo gli occhi. Li dovevo tenere aperti, non volevo rivivere quell’incubo. Cercai di alzarmi ancora una volta ma non ce la facevo. Forse mi ero rotto la spina dorsale o ero troppo stanco per compiere quel genere di sforzo. Mi limitai a osservare ogni particolare di quella camera cercando di ricordare cosa fosse successo. Avevamo fatto un terribile incidente e Jack era svenuto a causa dell’impatto. Mi girai. Su uno scaffale c'era uno strano apparecchio che, notai, era collegato al mio corpo. Emetteva un misterioso suono, sembrava un metronomo. Scandiva il battito del mio cuore, riempiendomi di speranza. Ero attaccato a un monitor cardio-respiro-grafico. L’avevo visto solo nei film, in particolare quando succedeva qualcosa di grave, come il nostro incidente. In quel momento capii che ero in terapia intensiva. Rimasi a guardare quell'aggeggio per lunghi minuti, come se mi avesse ipnotizzato. Il battito del mio cuore sembrava regolare. Feci un respiro di sollievo. Più tardi mi accorsi di un altro suono nella stanza. Non era a intermittenza come il mio, anzi, era un suono acuto, piatto, piuttosto fastidioso. Mi girai verso la fonte di quel rumore e vidi Giacomo steso nel letto a fianco. Aveva ancora gli occhi chiusi. -Ehi Jack! Come stai?- chiesi con un filo di voce. Non rispose. -Allora? Dai svegliati!- adesso il tono era più alto e concitato. Niente. Sempre quell'odioso, lungo, interminabile suono che proveniva dal monitor di mio fratello. Era insopportabile e stavo perdendo la calma. -Cazzo Jack rispondimi!- adesso urlavo. Gridai più volte il suo nome, lo

offendevo, lo rimproveravo, gli dicevo di rispondermi, di svegliarsi e di non fare questi scherzi. Nessuna risposta.

Degli infermieri spalancarono la porta della stanza. Sussultai vedendoli entrare di tutta fretta e con un’espressione preoccupata. -È in arresto, prendi il carrello dell’emergenza!- gridò il rianimatore iniziando un massaggio cardiaco. Provarono più volte a rianimare Jack, tutto sotto i miei occhi, finché un infermiere non si accorse che ero sveglio e mi nascose dietro le tende. Mio fratello e i medici erano scomparsi. Guardai il soffitto, paralizzato dagli occhi dell’infermiere e da quelle grida. -Riproviamo!- -È in arresto, è in arresto!- -Uno, due, tre!- sentivo dall’altra parte. Il mio corpo si era irrigidito d’un tratto. Nella mia testa c’erano solo quegli occhi pieni di comione. Era stata un’occhiata veloce, ma avevo capito tutto. All’infermiere erano tremate per un istante le pupille, come se volesse dirmi che mio fratello era in pericolo di vita e che non potevo assolutamente assistere. Una lacrima mi rigò la guancia. Era impossibile, Jack non mi poteva lasciare solo, me lo aveva promesso.

-Poi però non mi lasci da solo come prima!- piagnucolai. -No... - rispose condiscendente. -Non mi lascerai mai più solo, vero?Borbottò. -Lo prometti?- insistetti alzando il mignolo. -Ok- affermò lui. -Però devi saltare!-

-Jack! Jack!- gridai preso dal panico, mentre dall’altra parte della tenda mio fratello lottava contro la morte. Odiavo quel suo silenzio. Scoppiai a piangere.

XXXIV

Jack era morto. Quando me lo annunciarono, le lacrime mi salirono nuovamente agli occhi, ma cercai in tutti i modi di trattenerle. Jack non c'era più e non sarebbe mai tornato. Mi era stato strappato via.

Salii a testa bassa le bianche scale che portavano all’ambone e, forse per disprezzo, non m'inginocchiai davanti al crocefisso. Mi allacciai il colletto della camicia e guardai i presenti. Tirai fuori dalla tasca dei jeans un foglio che dispiegai sul leggio. Feci un lungo respiro e iniziai a leggere la preghiera scritta da mia sorella. -O Dio, che vedi il dolore nella mia famiglia... - la mia voce era già rotta e volevo andarmene il prima possibile. Tutta l'assemblea mi guardava tra singhiozzi, fazzoletti fuori dalle tasche e abbracci di sostegno. Nella navata principale, poco prima dell’altare, c’era la bara di mio fratello. Continuai a leggere. -Ti preghiamo affinché Giacomo... - mi fermai ancora. Guardai i partecipanti della celebrazione. Papà era in piedi, in prima fila, in giacca e cravatta. Era da anni che non lo vedevo così elegante. Si era sbarbato, aveva messo a posto i capelli e guardava il soffitto della chiesa, sussurrando qualche preghiera e accarezzando la bara bianca. Si vedeva chiaramente che tratteneva le lacrime. Agata era al suo fianco e non smetteva di piangere, riversa sulle ginocchia. I banchi dietro erano riempiti da parenti, amici, conoscenti e dalla squadra di Giacomo, in tuta sportiva. La chiesa era piena. C'era anche Dante che sfogliava la Bibbia in un angolo nascosto. Vicino all’ingresso principale, il Club si era riunito per dire addio a un suo membro. Luca coccolava Anna che era scoppiata in lacrime. Era la prima volta che la vedevo piangere.

-Sia accolto al tuo cospetto... - mi rifiutai di leggere. Dio aveva ben altro da fare che ascoltarmi. Accartocciai il foglio e lo rimisi in tasca. L’avrei buttato appena fossi uscito. Guardai i presenti ancora una volta, forse per ricevere sostegno, ma nessuno si mosse. Restarono lì, ad aspettare qualche bella preghiera da dire al Signore. -Dentro quella bara ci sono anch'io- le parole uscirono senza che me ne accorgessi, spinte da chissà che cosa, forse dalla rabbia. -Sì. Dentro quella bara ci sono anch'io!- diedi un pugno all'ambone. Non dovevo fare una preghiera perché Dio accogliesse mio fratello in Paradiso, non serviva. Dovevo parlare di Giacomo, di lui che mi era stato sempre vicino ed era stato per me sia un padre che una madre. -Giacomo era una persona eccezionale. Era sempre felice perché dagli altri non si aspettava niente, mentre da se stesso si aspettava tutto. Quando avevo bisogno di una mano, lui c’era sempre. Diceva che in due i problemi si affrontano meglio perché, alla fine, i problemi sono fatti per trovargli delle soluzioni. Era eccezionale- il mio tono di voce si era alzato, incrinandosi. -Giacomo non si lasciava mai mettere i piedi in testa da nessuno, non permetteva che la sua autostima e i suoi sogni venissero abbassati. Quando litigavamo, io ero il primo ad alzare la voce e a urlargli contro, ma lui non ribatteva, diceva che le offese erano per i deboli e per chi non ha ragione- feci una pausa. Mi luccicavano gli occhi. -Giacomo la vita se l’è goduta. Sapeva che era breve e l’ha amata sfoggiando sempre il sorriso e trasmettendo grande ottimismoguardai di nuovo i presenti e mi scappò una lacrima. -Voi siete la prova che Giacomo era amato da molti e vi ringrazio di essere venuti qua per lui- papà mi osservava, chissà che colpo deve essere stato per lui. Prima mamma, adesso suo figlio. Lo avrebbe distrutto completamente. -Ma perché dobbiamo credere in un Dio che permette tutto ciò? Perché dobbiamo credere in un Dio che ha cancellato il futuro di Giacomo? Perché dobbiamo credere in un Dio che ci fa soffrire? Perché?- esclamai e afferrai la mia collana, come per strapparla. La strinsi forte e la rabbia che ribolliva dentro di me mi spingeva a romperla. Volevo cancellare quella fede che avevo coltivato fin da piccolo, farla sparire dalla mia testa, dimenticandola. Chiusi gli occhi. Strinsi più forte la collana come se riuscissi in qualche modo a trasferire il mio

dolore su quelle piccole croci. Mi morsi il labbro inferiore. Sudavo. -Perché... Perché sono certo che se Giacomo ha terminato questa vita, forse ne deve vivere un’altra eterna. Prima di morire, Giacomo ha vissuto davveroAlzai gli occhi al cielo. Per un attimo mi parve di vedere il volto di mio fratello. -Se la vita è davvero una recita, come disse qualcuno tanto tempo fa, Giacomo l’ha recitata davvero bene. E di questo posso solo esserne felice- mi allontanai dall'ambone e mi avvicinai alla bara. Dentro c'era mio fratello, lo sentivo. Dentro c'era il suo sorriso, chiuso, intrappolato dal legno. Dentro c'era la sua simpatia, la sua gentilezza e il suo ottimismo che mai più avrei potuto rivedere. Dentro c'ero anch'io. Mi faceva male il cuore, era come se una mano d'acciaio lo avesse preso e avesse incominciato a stringerlo fino a farlo smettere di battere. Una lacrima cadde sul coperchio bianco. Sorrisi. La bara rappresentava alla perfezione Jack. Era bianca, colore della purezza e della luce. Mi chinai e ne baciai il coperchio come avevo fatto molti anni fa con mia nonna. Percorsi tutto il lungo corridoio della chiesa fino all'uscita. Sentivo lo sguardo di tutti addosso, ma non mi fermai. Ania si avvicinò. -Siamo con te... - sussurrò. Non volevo loro, volevo mio fratello. -No- risposi cupo. –Non voglio nessunoMi allontanai da Ania e per sbaglio mi scontrai contro una signora. Era molto bella, indossava un lungo vestito nero ed emanava un buonissimo profumo. Petali di rosa rossa, lo stesso profumo che avevo sentito nel sogno di molto tempo fa. La guardai. -Mamma... - sussurrai sconcertato. Lei annuì con le lacrime agli occhi. Mi prese tra le sue braccia e mi baciò più volte la fronte. Mamma era tornata e mi stava baciando. Era tornata dopo tutto questo tempo, dopo aver distrutto una famiglia. La mia rabbia aumentò. Volevo respingerla, gridarle perché fosse scappata in

quel modo, perché era tornata proprio ora, dopo tutti quegli anni. Volevo gridarle che era una stupida, che non l'avremmo mai perdonata e tutti la odiavano dopo quello che ci aveva fatto. Ma rimasi in silenzio, muto, imibile. Mamma mi strinse forte, singhiozzando. Non l’avevo mai vista piangere oppure non me lo ricordavo. Era ato davvero tanto tempo e non avevo mai avuto sue notizie. Non si meritava di tornare. Non volevo che le sue braccia mi avvolgessero, non volevo la sua pelle liscia a contatto con la mia, non volevo le sue labbra sottili sulla mia fronte. -Lasciami- le dissi con freddezza. Lei esitò prima di lasciarmi. Stavo per uscire quando aggiunsi. -In prima fila vedi meglio invece di restare nascosta come hai fatto per tutto questo tempo- uscii dalla chiesa. La vidi andare in prima fila, vicino alla bara bianca.

Mio piccolo gabbiano che non sapeva volare... Sei pronto per questo tuo ultimo volo? Sono tornata per vederti in cielo per l’ultima volta.

XXXV

Ormai ero arrivato a casa. Avevo corso per tutto il tragitto, gridando dentro di me e fermandomi a volte per vomitare. Avevo lo stomaco in subbuglio e non mi sentivo bene. Entrato in casa, sbattei la porta alle mie spalle e afferrai la prima cosa che mi capitò tra le mani. La scagliai a terra, con forza, non preoccupandomi di cosa fosse. Sentii il rumore di vetro spezzato. Alcune lacrime mi bagnavano il viso. Restai fermo nella stanza per qualche minuto, cercando di trattenermi. Non dovevo rompere niente. Feci qualche piccolo respiro e contai fino a dieci per tranquillizzarmi. Dovevo stare calmo. Avevo scagliato a terra una cornice. Il vetro si era frantumato al contatto con il pavimento. Era ridotto in briciole, mi ricordava la mia vita. Guardai la foto incorniciata, dove Jack ed io correvamo in giardino. Le mani mi tremavano. -Jack è morto- mi dissi e guardai per l’ultima volta quella fotografia, prima di strapparla. Corsi fuori di casa, verso i campi, dovevo scappare da quella merda. Anche se mi mancava il fiato, continuai a correre, come se dietro di me ci fosse qualcuno da cui dovevo scappare. Senza pensare saltai il fosso e arrivai sull'altra sponda. Entrai nella boscaglia. Non mi fermai un secondo, anche se i rami mi graffiavano il viso e le gambe, facendomi bruciare la pelle. Non sapevo dove stessi andando, ma l’importante era scappare e basta. Jack non poteva essere morto. -Jack! Jack! Jack!- gridai più volte il suo nome. Raggiunsi una radura, dove era cresciuta una grande quercia e qualche albero attorno. Non c’ero mai stato, magari a Jack sarebbe piaciuto come posto. Se l’avessimo scoperto prima, avremo potuto costruire lì la nostra base segreta. La quercia era davvero grande, strano che non l’avessi mai notata. Era imponente e svettava in mezzo agli altri alberi che formavano un muro di rami e di foglie. Mi sedetti per terra, coprendomi il viso tra le ginocchia. Jack non c’era più.

D’un tratto il cielo tuonò e le nuvole cambiarono velocemente forma e colore, diventando grandi e grigie. Si alzò improvvisamente un forte vento e scoppiò un acquazzone, senza alcun preavviso. La pioggia cadeva violentemente, sferzandomi il viso. Mi riparai sotto i rami della quercia aspettando la fine di quel diluvio. I tuoni rimbombavano nel cielo come tamburi. Alcuni uccelli cantavano spaventati. La voce del vento scuoteva le chiome degli alberi. I lampi illuminavano quello spettacolo. Gli alberi oscillavano a destra e a sinistra, cercavano di toccarsi come se volessero prendersi per mano. Scuotevano le loro foglie che cadevano e venivano trascinante dal vento, lontane. I rami sembravano volermi afferrare e portarmi chissà dove, forse al sicuro. Piccoli animali cercavano rifugio nelle loro tane. Correvano da tutte la parti, strusciavano, squittivano e gracidavano. Alcuni uccelli si alzarono in volo tentando di allontanarsi da quell'inferno, ma il vento e la pioggia non gli permise di scappare. Restai sotto la quercia, sperando che finisse presto di piovere. Le gocce di pioggia scivolavano lentamente sulla mia pelle, fino a cadere per terra, confondendosi con le mie lacrime. Gli alberi sembravano spezzarsi da un momento all’altro, gli uccelli gridavano e i tuoni rimbombavano come botti d'artificio che illuminano il cielo. Un grosso ramo cadde ai miei piedi con un grande boato. Il cielo era arrabbiato e cupo e non smetteva di piangere. Tutto quello che vedevo era una danza in mio onore. Era la danza del dolore.

L'acquazzone era finito e il bosco era tornato tranquillo. Era addirittura spuntato il sole dietro le ultime nuvole. Io ero bagnato fradicio e tremavo per il freddo. Starnutivo in continuazione, mi sentivo accaldato e stanco, tanto che non mi volevo alzare.

Pensai che non fosse stanchezza, ma un grandissimo dolore che non avevo mai provato. Un dolore così forte, grande e lancinante che mi aveva ucciso, sconfitto, schiacciato. -Jack... dove sei?- invocai sommessamente. Ero caduto in un baratro da dove non sarei mai più uscito. Squillò il cellulare. Era papà. Non risposi. Restai immobile, con la suoneria del telefonino che riecheggiava nel bosco. Contemplai il cielo cercando di convincermi che Giacomo era partito per un lungo viaggio, magari per la Cina o l'Australia, da cui comunque sarebbe tornato. -Sì. Jack è partito. È soltanto partito per un lungo viaggio. Posso stare tranquillomi dissi per convincermi ma senza successo. Ricominciai a piangere. Odiavo quelle lacrime, mi ricordavano di quanto fossi debole. Non sapevo più cosa fare quando una perversa idea mi balenò in testa. -È finita. Stop. Fermo. Posso darci un taglio. Mi basta prendere una corda, un coltello o restare qui per l'eternità, senza mai muovermi. Posso finirla qui e raggiungerti, Jack- mi alzai e corsi verso casa.

XXXVI

Entrai dalla porta sul retro per non farmi notare. Papà era sicuramente tornato. Quando varcai la soglia, sentii la sua voce e quella di una donna provenire dalla cucina. Mamma era qui. -Mio figlio... - diceva piangendo. -Perché? Perché me lo avete strappato via?-Sei tu che lo hai lasciato andare- la rimproverò papà, alzando la voce. -Perché te ne sei andata?- le chiese sbattendo la mano sul tavolo. Lei lo guardò con gli occhi lucidi -Avevo paura...- mormorò prima di nascondere il volto tra le mani.

Chi ero? Chi sono? Chi sarò? Solo la paura può dirmelo perché è l'unica che conosce veramente i miei limiti. Rimasi a origliare la loro conversazione per alcuni minuti, poi salii le scale senza far rumore. Primo gradino. Mi fermai. Secondo gradino. Mi fermai di nuovo. A ogni gradino chiudevo gli occhi, facevo un respiro profondo e bei ricordi fiorivano nella mia mente. Quante volte ero sceso di corsa da quelle scale, scappando da Giacomo che mi voleva picchiare perché gli avevo rotto un giocattolo! Quante volte ci sedevamo sui gradini a parlare dei nostri problemi, a

consigliarci a vicenda o semplicemente a riposarci, senza parlare! E quante volte, scivolando incautamente sulla ringhiera, ero caduto, facendomi del gran male che scompariva quando Jack veniva a darmi una mano! Ma ora quella mano non c'era più. Lui non c'era più. C'era il vuoto. -Avevi promesso che saresti rimasto sempre con me!- sussurrai arrabbiato. Bugiardo! Jack, sei un bugiardo!- sferrai un debole pugno al muro. Rimasi su quei gradini per qualche minuto, cercando di scacciare dalla mia testa il viso sorridente di mio fratello, ma non ci riuscii. Stavo impazzendo. Dolore, rabbia, angoscia, sofferenza, paura, vendetta avevano formato una strana miscela che scorreva dentro il mio corpo. Ma dov'era finita la mia felicità? I miei sorrisi? La solarità che tanto mi caratterizzava? Bruciati. Dimenticati. E, con loro, il resto.

Ero arrivato in mansarda. Cercavo tra la polvere e gli scatoloni quella robusta corda che avevamo trovato un tempo in soffitta, quando cercavamo l’album da regalare a nostro padre. Quella corda mi avrebbe portato da Jack. -Dov'è? Dov'è?- borbottavo freneticamente cercando dentro gli armadi, i cassetti e negli angoli della stanza. Avevo messo a soqquadro la soffitta, senza trovare nulla. -Jack, dove l'hai messa? Dove l'hai nascosta?- mi chinai per cercarla sotto un grande armadio e, magicamente, eccola lì. Era impolverata come tutti gli oggetti in quella stanza, era lunga, non rosicchiata dai topi e molto robusta. Era perfetta. La toccai più volte, la accarezzai, come se fosse preziosa. Presi uno sgabello e lo posizionai sotto una trave del soffitto, dove avevo appeso la corda. Feci un cappio ed ecco che tutto il mondo all'esterno di quel nodo assomigliava alla mia soffitta: un mondo sporco, abbandonato, senza nessuna speranza. Un mondo morto, pieno di ragnatele, polvere, oggetti ammassati l'uno sull'altro. Nessun segno di vita, un mondo dove non avevo un futuro. Un mondo triste e monotono,

noioso e spento. Era il mio mondo, ma io non lo volevo così. Volevo il mondo all’interno di quel nodo, dove vedevo la salvezza. Un mondo completamente diverso dal mio. Volevo tuffarmici dentro. Era colorato, , vivo! Scappavo dalla vita con la morte! Bastava mettere la testa dentro il cappio e il gioco era fatto. Mi portai la corda alla gola. Ero felice. Mi veniva quasi da ridere. -Sto arrivando, Jack!- piangevo. Salii in piedi sullo sgabello e scoppiai definitivamente a ridere e a piangere insieme. Mi accorsi che non era la mia solita risata, contagiosa e luminosa. No, era una risata ruvida, senza senso, troppo forzata. Una risata spenta come quella soffitta. Mi feci paura da solo. Portai le mani alla gola come per soffocare quella terribile risata. Piangevo, ridevo, piangevo di nuovo. Era meglio mettere fine a tutto ciò. Mi sbilanciai sullo sgabello e sentii il cappio stringermi la gola. Dovevo solo lasciarmi cadere, questioni di attimi. Guardavo la corda che mi avvolgeva il collo con soddisfazione quando notai la collana d'oro che portavo sempre con me. Non me ne ero ancora liberato. Per quale motivo? Non l'avevo ancora strappata via e gettata in un tombino. Ero ancora legato alla vita. Le due minuscole croci tintinnarono tra loro. Si liberò l’unico suono vero e vivo in quel luogo. Mi sentii per un attimo ancora vivo. Mi portai la collana alle labbra e socchiusi gli occhi.

Cosa dovevo fare? Impiccarmi o andare avanti? Morire o vivere? -Impiccati- pensai. Se non fossi morto, non ce l’avrei mai fatta a continuare. In quel momento, su quello sgabello, sull'orlo della morte rividi i momenti più significativi della mia vita: gli anni felici con mamma, l’aspetto solare di papà, il torneo di Scoutball, il terremoto, Jack ed io che scappavamo dal vecchio, l’arrivo di Dante, la vacanza in Abruzzo e la serata in discoteca. Rividi Luca che mi si confidava, Chiara che parlava di continuo, il Rosso, Davide, Anna e la notte ata con Ania. Ma i miei amici dov’erano ora? Non erano lì ad aiutarmi, a dirmi di stare immobile, di non fare scherzi e di stare tranquillo. -Se ne sono andati, quei bastardi- ero furioso.

-Vuoi venire davanti, con Agata?- chiesi a Jack che era già seduto nei posti di dietro dell'auto. -Ok- rispose lui.

Gridai, più forte che potevo, come se avessi ricevuto un pugno nello stomaco. Era tutta colpa mia. Se fossi stato nel posto davanti avrei salvato mio fratello. Se non gli avessi proposto di far cambio, tutto questo non sarebbe successo. Era tutta colpa mia. -Scusa, Jack. Non pensavo che finisse così-

La porta si spalancò all'improvviso e mia madre entrò tutta trafelata e piangendo. Probabilmente aveva sentito il mio urlo e si era insospettita. -Fermati! Fermo!- gridò e corse per togliermi il cappio dalla gola. Mi lasciai

cadere tra le sue braccia, abbracciandola e scoppiando a piangere sulla sua spalla. Entrambi ci chinammo sul pavimento, abbracciati, piangendo insieme e accarezzandoci a vicenda. Mi portò la testa al seno e riuscii a sentire il suo cuore che batteva a mille, come se avesse corso per chilometri e chilometri, senza mai fermarsi, solo per raggiungermi. Sentivo le sue mani che mi accarezzavano le guance, avano tra i miei capelli e percorrevano i miei lineamenti. Le sue lacrime cadevano insieme alle mie sul pavimento ed entrambi tremavamo per lo spavento. -Non farlo... - mi sussurrò all'orecchio. -Mai piùIo annuii. Era da anni che non parlavo con mamma. Da anni che le sue mani non mi accarezzavano. Da anni che non vedevo i suoi occhi e i suoi lunghi capelli. -Perché te ne sei andata?- le chiesi piangendo. Shhhh. Silenzio.

La vita è troppo breve per sciuparla ed è troppo bella per buttarla via. È troppo preziosa per non viverla fino in fondo, sarebbe uno spreco terminarla subito. Fa finta che sia come una sacca piena di stelle: la getteresti nell’oceano?

INVERNO

Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. (Qoèlet, 4,10)

XXXVII

Erano ati diversi giorni dall’accaduto e la voce si era sparsa. I miei amici avevano saputo del mio tentato suicidio e avevano provato in tutti i modi a starmi vicino, ma io li avevo respinti con cattiveria. Mi sentivo oppresso, con lo sguardo di tutti addosso, ma io non volevo nessuno. Volevo soltanto starmene da solo e spegnermi pian piano, senza far rumore. Non chiedevo molto.

Da quando Jack era morto, la mia vita era cambiata. Avevo smesso di leggere, non andavo a scuola da diverse settimane, mi ero chiuso in casa e evitavo i miei amici. Avevo chiuso con il mondo esterno. Adesso pensavo solo al mio, quel mondo che trovavo quando oltreavo la soglia di casa. Quel mondo in bianco e nero, triste e spento. Accendevo la musica, chiudevo gli occhi, mi sdraiavo sul letto e sprofondavo nelle coperte. In quei momenti pensavo a Giacomo e al mio futuro che sarebbe stato infelice e solo. Ma cosa dovevo fare? Quell'energia che tutti m’invidiavano era svanita. Puff! Volata via come uno stormo di uccelli che emigra verso il Sud. Il telefonino squillava tutti i santi giorni ma non rispondevo mai, neanche alle migliaia di messaggi su Facebook e WhatsApp. Quando chiamavano a casa, dicevo a papà che doveva riattaccare e lui non insisteva e si andava a fumare una sigaretta. Almeno lui aveva trovato qualcosa con cui sfogarsi. Le volte in cui mamma veniva a casa nostra e bussava alla porta di camera mia, fingevo di dormire o diventavo scorbutico e la cacciavo immediatamente. Volevo stare solo. Più volte Agata mi aveva proposto di farmi una eggiata come facevo di solito, magari in compagnia di Ania o di Tigella, ma io le rispondevo che non volevo più uscire e che stavo meglio in casa. Ero caduto nel tunnel e lì volevo stare: mi sentivo al sicuro.

La sera, prima di andare a letto, prendevo il telefono e scrivevo a Giacomo sperando di avere una risposta.

10 Ottobre “Come stai?” e aspettavo una sua risposta fino a tardi, finché non mi addormentavo davanti allo schermo.

13 Ottobre “Per piacere torna.” ma non è mai tornato.

20 Ottobre “Ti prego.” avo la notte a piangere.

21 Ottobre “Dove sei?” stavo per giorni chiuso in camera, ad ammuffire.

30 Ottobre “Mi avevi promesso che non mi avresti lasciato mai più solo.” e invece se n’era andato.

7 Novembre “Ti ho visto mentre andavo a scuola, vicino alla biblioteca. Eri tu?” non mi ha

mai salutato. Era un altro.

10 Novembre “Cazzo, dove sei? Ti vedo e ti sento ovunque, sto impazzendo.” vedevo Jack da tutte le parti.

12 Novembre “Auguri Jack. Papà ha fatto la torta ai Mars. Ti aspettiamo.” ho conservato quella torta per giorni sul tavolo. Vietavo a tutti di toccarla finché papà non la buttò nella spazzatura. Ero scoppiato a piangere.

Mamma diceva che stavo peggiorando e decise con Agata di accompagnarmi, una volta a settimana, dal dottor Bertoni, uno psichiatra che mi teneva sotto controllo. Detestavo andarci, non avevo bisogno di nessuno, neanche di uno strizzacervelli che mi chiedesse come stavo. Quando entravo nel suo studio, il mio cattivo umore aumentava, soprattutto per quell’odioso canarino che si teneva vicino alla scrivania. Mi sdraiavo su uno scomodo lettino mentre il dottore mi faceva stupide domande. –Scrivi ancora a tuo fratello?- -Come ti senti oggi?- -La senti ancora Anastasia?più domandava, più mi sentivo male e intanto quel suo canarino spennacchiato cantava nella sua gabbia. Sembrava che ridesse di me, era odioso. Mi ricordava il suono che emetteva il monitor cardio-respiro-grafico di Jack quando ero in terapia intensiva.

15 Dicembre “Tra dieci giorni è Natale. Non sarà la stessa cosa senza di te.” mamma il giorno dopo mi ritirò il telefono, su raccomandazione del dottor Bertoni.

Dovevo dimenticarmi Giacomo, come succede prima o poi a tutti i morti. Poi venne il 17 Dicembre, quando capii che il dottor Bertoni era un gran figlio di puttana e che non faceva altro che peggiorare la situazione tenendomi imprigionato a quel lettino.

-Come stai oggi?- mi domandò quando entrai. Il pennuto iniziò a cantare, come per darmi un caloroso benvenuto. Gli lanciai una severa occhiata. -Come gli altri giorni- risposi con freddezza sdraiandomi sul lettino. Il dottor Bertoni prese nota, dietro la sua scrivania di noce. Il suo studio era davvero bello. Una libreria ricopriva una parete ed era stracolma di grandi classici e di trattati di Freud. Sotto il lettino c’era un bel tappeto sui cui erano ricamati motivi colorati e figure geometriche. Una grande finestra dava su un parco e sulle pareti erano appese copie di alcuni quadri quattrocenteschi. Un modellino di un veliero era su uno scaffale e un grande mappamondo occupava un angolo della stanza. Un vecchio lampadario pendeva dal soffitto e la testa imbalsamata di un falco era appesa sopra un orologio. Adesso che ci penso, detestavo anche quella testa, mi sentivo troppo osservato. -Hai fatto quello che ti avevo chiesto?- mi domandò il dottore. Era un uomo sulla settantina, sordo, puzzava di alcool e di fumo e aveva spesso le unghie sporche. Mia madre l’aveva conosciuto tanto tempo fa, quando si faceva vistare da lui, non so per quale motivo, ma non m’interessava. Più volte avevo litigato con mamma perché non volevo andarci, ma lei era irremovibile: diceva che rischiavo la depressione, che parolone. Papà, invece, ribadiva di lasciarmi in pace, anche se non faceva mai niente di concreto per non farmi andare dallo psichiatra. -No, dottore- dissi. Il canarino cantava ancora, stavo per scoppiare. -Se non collabori non ne uscirai mai fuori- mi rimproverò alzandosi e girando per la stanza. -Ma fuori da cosa?- risposi con insolenza. Il canarino cinguettava allegramente.

Era davvero fastidioso, mi stavano per saltare i nervi. -Dalla depressione. Guardati: non ti sembra di aver toccato il fondo?- m’indicò con un’aria di disprezzo che non mi piacque affatto. Quello era matto: non ero depresso. -Mi risolleverò in qualche modo e senza il suo aiuto- feci per andarmene quando il dottor Bertoni mi afferrò un polso. -Non fare lo stupido: lo sai che non andrai da nessuna parte da solo. Tu hai bisogno di me- mi sorrise mostrando i denti gialli e storti. Il canarino cantava ancora, come se per lui la vita fosse fantastica. Giuro che lo avrei ammazzato. -Credo di potermela cavarmela anche da solo, dottore. Infondo, mi reputo l’uomo più coraggioso su questa terra: nessuno avrebbe le palle di vivere una vita come la mia- mi liberai dalla presa e aprii la porta per uscire. -Non uscire!- urlò –Non uscire perché la vita non è più fatta per te- il canarino cantava. Chiusi la porta e rimasi in silenzio. -Bravo. Ora risiediti e ripartiamo- mi ordinò. L’uccello cantava. Mi controllavo a fatica. Mi avvicinai al lettino. Davvero la vita non era più fatta per me? Non ero più adatto? Mi dovevo togliere di mezzo? Dovevo ritentare il suicidio? Ripensai a quel giorno, a mia madre che mi aveva salvato, ad Agata in lacrime e a tutti i miei amici che si erano preoccupati per me. -La vita non è più fatta per te- mi ripeté il dottor Bertoni. Il pennuto sembrava più arzillo del solito, ma non sapeva che si stava condannando da solo. -Posso vedere l’uccellino?- chiesi al vecchio. Mi fece un cenno di approvazione e mi avvicinai alla gabbia. Il canarino cantava ancora, ignaro di tutto. Aprii la porticina e non la richiusi quando il dottore mi ordinò di farlo. Quel cazzo di pennuto non smetteva di cantare. Non so per quale motivo, forse perché stavo davvero impazzendo, ma presi il canarino tra le mani. -Lascialo subito! Lascialo! Lucia! Lucia!- il dottor Bertoni chiamava la sua

assistente. Strinsi la presa e sentii le ossa dell’animale spezzarsi. Un rivolo di sangue gli uscì dal becco. Aveva smesso di cantare, questa volta per sempre.

Il giorno dopo ero barricato in casa per ordine di mia madre. Diceva che avevo complicato ulteriormente la situazione. Le visite dal nuovo psichiatra si erano triplicate e ora dovevo assumere anche dei farmaci come la fluoxetina e la duloxetina. Papà controllava sempre che ne prendessi la giusta dose al giorno ma, quando riuscivo, evitavo di prenderla. Mi causavano nausea e insonnia e mi sembrava un’assurdità star male per guarire. Volevo solo essere lasciato in pace come papà, che se ne stava per i fatti suoi a fumare e a lavorare. Un giorno mi chiesi perché lui non doveva are tutto quello che subivo io, infondo eravamo simili: tristi e soli. Una coppia perfetta. Ebbi la risposta qualche giorno più tardi, quando vidi mamma e papà ridere davanti a un caffè, ricordando alcuni momenti felici. Ecco perché papà non aveva bisogno di un approccio psicoterapico e farmacologico: aveva rifiutato tutte le medicine possibili, tranne la donna che amava.

Ormai Natale si avvicinava. Mamma aveva deciso di restare per un po' a casa nostra ad aiutare papà e a tenermi sotto sorveglianza. Avevo ripreso ad andare a scuola, ma non facevo mai niente. Non partecipavo alle lezioni, consegnavo le verifiche in bianco e non facevo i compiti a casa. Pure quel 23 Dicembre ci andai e ai la mattinata a guardare fuori dalla finestra e a far finta di niente. Stavo uscendo dalla classe quando Luca mi fermò. -Dobbiamo parlare- esclamò. Sembrava arrabbiato e preoccupato allo stesso

tempo. -No. Mi dispiace- risposi senza fermarmi. Lui rimase imibile, guardandomi mentre mi allontanavo verso l'uscita. Stavo giusto per aprire la porta quando Dante mi si parò davanti. -Seguimi- disse perentorio. -No. Mi dispiace- scossi la testa aprendo la porta che il professore richiuse. Osservai la porta chiusa per qualche secondo, poi la riaprii. Dante la richiuse. -Prof, devo andare a casa- riaprii la porta, ma l’insegnate l’accostò di nuovo. Guardai Dante dritto negli occhi. Non avevo mai guardato un professore con così tanto odio quanto quel giorno. Lo fissai così intensamente che lui distolse lo sguardo. -Cazzo, si può spostare!- gli urlai in faccia. Aprii violentemente la porta e la sbattei con forza alle mie spalle. Mentre mi allontanavo, sentii Dante uscire imperterrito. -Non puoi nasconderti nel dolore per tutta la vita. Non puoi isolarti dagli altri in questo modo. Ascoltami!- la sua voce riecheggiò alle mie spalle. Mi fermai. -Ti ricordi? “Never surrender”. Non arrenderti. Non chiuderti in camera a mandare a fanculo tutta la tua vita. Ti stai distruggendo da solo. Stai perdendo tutto-Tra cui le amicizie- questa era la voce di Luca. -Non puoi farci niente, ormai. Tuo fratello è morto. Non può tornare indietro e spero che tu non voglia raggiungerlo- fece una breve pausa. Sapeva anche lui di ciò che avevo fatto. –Sei caduto, ma adesso ti devi alzare- mi avvertì. In quel momento persi le staffe. Che ne sapeva lui di come stavo? Di come bisognava reagire, che ne sapeva? Era solo un gran chiacchierone, ma della vita non sapeva proprio nulla.

-Lei non ha il diritto di dirmi cosa devo fare!- sbraitai contro Dante e corsi via.

XXXVIII

Mentre correvo, le parole di Dante mi risuonavano in testa.

-Ti ricordi? “Never Surrender”Dovevo rialzarmi? Ma come? Non ce l’avrei mai fatta, ormai mi stavo abituando al dolore. L'idea di aver ucciso mio fratello ritornava spesso e m’incatenava alla solitudine. Ma ero stato davvero io a ucciderlo? Ero stato io? O era stato l'ubriacone che andava contromano? -Sono stato io... sono stato io... - ripetevo all'infinito questa frase, come se volessi farmi del male da solo. Mi sedetti sul marciapiede per prendere fiato. Nascosi la testa fra le mani, non smettevo di ripetermi che ero un mostro e che dovevo restare io in quel posto maledetto. Giacomo non si meritava tutto questo. -Sono un mostro, un mostro...-Perché?- una voce arzilla squillò alla mia destra. Mi voltai. Anna era seduta accanto a me e giocherellava con un sasso. Notai subito che non portava l’anello al dito. -Allora?- chiese guardandomi con i suoi occhi vispi. Non risposi. Volevo scappare via anche da lei, ma non lo feci. -Perché sei qui?- le chiesi con il viso nascosto nelle mani.

-Stavo facendo un giro e ti ho visto qua da solo- fece una pausa. –Proprio dove si ferma l'autobus numero sette- rispose. Cercava di far entrare il sassolino in un tombino. -E allora?- chiesi. -Mi piace quell'autobus. Fa il giro di tutta la città e a davanti alle case di ogni membro del Club. Qui vicino c'è la casa del Rosso- e indicò una casetta. Vuoi farci un salto?Scossi il capo. -Va bene- disse alzando le spalle e sorridendo. Mi veniva da ridere. Amavo come Anna si atteggiava e il suo modo di parlare metteva allegria. -Merda!- esclamò la ragazza. -Mi è venuta in mente una cosa! Ti devo parlare!-Ma Anna, stiamo già parlando- precisai seccato. -In effetti... Comunque! Quattro parole: ritorna, quello, di, prima!- mi prese le mani e mi guardò dritto negli occhi. -Ritorna il ragazzo che sorrideva, che parlava sempre, che amava stare in compagnia e non smetteva mai di scherzare!- scossi la testa e distolsi lo sguardo. Lasciai le sue mani. Mi guardò con aria avvilita. -Ti ricordi di “dispetti time?- chiese con un sussurro. Nascosi un sorriso e vidi che se ne accorse. Lei sapeva leggere molto bene le persone. -Eravamo in montagna e stavamo facendo una lunga camminata. Io ero distrutta, forse è stata l’unica volta in cui mi hai visto così sfinita-Eri diventata insopportabile- le dissi. -Grazie- e fece l’offesa prima di riprendere. –Ti sei avvicinato di nascosto e hai incominciato a darmi fastidio in qualunque modo possibile: il solletico, gli

sgambetti, leggere spinte, erba nei capelli. Di tutto! Ti divertivi e anch'io incominciai a tormentarti. Ti feci pestare anche una merda di mucca!- scoppiò a ridere. -Ed è nato così “dispetti time”. Lo facevano dappertutto, per tirarci su il morale a vicenda- mi fissò con gli occhi che le luccicavano. -Amavo farti sorridere... - mormorai. -E io odio vederti in questo stato- ribatté. Si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia. Quel bacio m’infiammò. mi sentii protetto e al sicuro. Quel semplice gesto fece scattare in me una scintilla. -E non è forse da una scintilla che le fiamme divampano?- pensai. Non è forse dalle piccole cose che si possono fare grandi cose? C’era qualcuno con me e questo qualcuno era Anna che aveva sigillato con quel bacio la nostra amicizia. Mi sentii pieno di vita, non succedeva da tempo, ma la magia terminò quasi subito. Il mio cuore era troppo freddo e restai imibile, immobile, reprimendo ogni emozione. Anna si stupì e scosse delusa la testa. -Cos'hai?- chiese. Il suo tono era serio. -Anna, Jack se n’e andato e non tornerà. Mi ha spezzato il cuore-Chi ci spezza il cuore, ci ricorda che ne abbiamo uno- e salì sul primo autobus che ava. Ero di nuovo solo. Restai fuori per tutto il giorno, a girovagare senza una meta precisa.

XXXIX

Ero arrivato sul lungo stradello che portava a casa. Dovevo solo percorrerlo tutto, ma era strana quella volta. Avevo percorso quel tratto di strada sempre con Giacomo, ma ora che non c'era, mi sembrava che non stessi tornando a casa. -Jack!- gridai nel vuoto. La mia voce echeggiò, fino a spegnersi all'orizzonte. -Hai bisogno di noi- riconobbi subito queste parole. Era Ania. Mi voltai di scatto. Era lì, in mezzo alla strada, e mi studiava con i suoi bellissimi occhi. I capelli castano chiaro erano come spine di grano al vento, il suo viso era una perla lasciata sulla spiaggia e i suoi occhi erano stelle di una notte d'estate. Si avvicinò, lentamente. Mi parve un angelo. -Mi manchi... - disse e cercò di abbracciarmi, ma la respinsi. Non so perché, ma le mie mani avevano agito senza che le controllassi. Le guardai senza capire e adesso mi sembravano dei coltelli. Le misi in tasca, vergognandomene. Anastasia scoppiò a piangere. -Non ci puoi trattare in questo modo! Siamo i tuoi amici!-Non ho bisogno di nessuno- le risposi voltandomi. Silenzio. -E invece sì- continuava a singhiozzare. -Noi siamo qui apposta per te, lo vuoi capire? Per piacere, guardami- la guardai, ma distolsi lo sguardo. Non ero degno di tale bellezza. -Ania, lasciami solo!- la implorai. Non volevo che mi vedesse in quelle condizioni. Non volevo mostrarmi in quel vergognoso stato. -No. Non ti lascerò dentro questa merda. Ti aspetto- disse, abbassando gli occhi. -Te ne sei già andata, come tutti gli altri. Cosa vuoi aspettare?- ribattei, anche se

sapevo che non era vero. Volevo solo seminare altro male attorno. Non riuscivo più a vedere le cose belle. Stavo per esplodere di rabbia. Ero convinto che mi avessero abbandonato e che non c'erano mai stati quando avevo bisogno di loro. Erano scappati via come dei conigli, così la pensavo. -Non mi aspetti perché te ne sei già andata. Dov’eri quando imploravo aiuto per soccorrere mio fratello? Dov’eri quando ho tentato di suicidarmi? Dov’eri?- ero andato su tutte le furie, ma per quale motivo? Sapevo, dentro di me, che nessuno aveva colpa. Forse l’unico ero io, nessun altro. Ma avevo bisogno di sfogarmi, dovevo cercare un pretesto per litigare con qualcuno e, purtroppo, ero inveito contro Ania. Fissò il suo sguardo su di me, come se avesse capito che quelle parole erano spinte dal dolore. Si asciugò le ultime lacrime e mi disse. -Devi reagire. Non ce la farai mai da solo, per questo ci siamo noi. Per questo esistono gli amici, per questo ci sono io. Non c'è bisogno di mandare tutto a puttane, c'è già troppo casino- aggiunse a bassa voce. –Sei sparito, non so più chi sei. Ci hai dimenticato- si guardò le vans ai piedi. –Sai che Anna si è chiusa in casa per giorni, proprio come stai facendo tu? Ha skabottato la scuola più volte, ha offeso chi le stava vicino e ava i pomeriggi a piangere. Lo sai quanto era legata a tuo fratello e quando parlava di lui le brillavano sempre gli occhi...- guardò il cielo, per trattenere le ultime lacrime. –Poi sappiamo cos'è successo... -Jack è morto. Lo puoi dire perché Jack è morto- le dissi gelido. Annuì. -Anna non faceva altro che piangere e stare da sola. Era sconvolta, proprio come lo sei tu da mesi. Tanto sconvolta che il suo anello è sparito, come Giacomo. Sparito, per non essere più indossato. Sparito perché le faceva ricordare tuo fratello- si fermò per prendere fiato. Ero perplesso: cosa c’entrava quell’anello con Jack? Era stato lui a regalarglielo? Ania vide che non riuscivo a rispondere alle mie domande e mi spiegò, con cautela. -È un regalo di tuo fratello. Anna e Giacomo- si strofinava le mani -stavano insieme- scossi la testa, non ci credevo.

Com’era possibile? Jack non mi aveva mai detto niente e neanche Anna. -Che cazzata!- sbuffai. Jack e Anna non sono mai stati insieme, è impossibile. -Anna mi ha detto che tempo fa hai fatto una scommessa con Jack. Per che cosa? - mi provocò. Provai a ricordare.

-Dai, dimmi chi è!- lo supplicai. Fece finta di non avermi sentito. [...] -Dai Jack, come si chiama la ragazza che ti piace?- ci riprovai. -Lo devi scoprire- rispose. -Mi rigioco l’euro che ho vinto in soffitta- gli proposi con un sorriso malizioso. Lui accettò la sfida. Era lei la ragazza: era Anna. Perché me lo aveva tenuto nascosto? E Anna? Perché non me lo aveva mai detto? Non ci capivo più niente. -Nessuno lo sapeva, è vero. Me lo ha svelato Anna dopo la tragedia…- fece una pausa. -Ripensandoci: non hai mai notato che quando eravamo in compagnia, loro scomparivano all’improvviso?-Perché non hanno mai detto niente?- chiesi. -È stata una loro scelta. Avevano deciso di amarsi in silenzio, senza smuovere le montagne e fare i salti mortali. L’importante infondo è restare e loro sono restati. Avevano tanto amore da darsi, tutto qui- mi riferì. Ero sconcertato. -Adesso Anna come sta?- chiesi con un filo di voce.

-Ho provato a chiamarla quando ho saputo che Jack era...- deglutì. -Morto- completai la frase. -E mi ha risposto, dopo alcuni giorni, una voce rotta dalle lacrime. Anna che piange, te lo immagini? L’ho ascoltata. Le ho detto che adesso bisognava rialzarsi. Non si può stare male per sempre e Jack non lo avrebbe mai volutocercò il mio sguardo -Ascoltami, tu non ne hai colpa- si avvicinò e mi accarezzò una guancia. Mi stava per baciare, ma mi voltai dall'altra parte. -No, Ania…- mormorai. Si morse un labbro. -Ti amerò in silenzio, come tu, in silenzio, te ne sei andato- detto ciò, se ne andò anche lei.

XL

Ero arrivato a casa. Come sempre entrai dalla porta sul retro e come sempre sentii mamma e papà che discutevano in cucina. Mi sedetti sulle scale per origliare. -Dimmi perché sei scappata via in quel modo- era la voce di papà e sembrava arrabbiata. -Ero alla ricerca della felicità. Non mi trovavo bene in questa famiglia. Volevo la libertà. Volevo buttarmi tutto alle spalle e ricominciare da capo, in un posto nuovo, con un nuovo lavoro e nuovi amici- queste le parole di mamma, le parole di una vigliacca che non voleva assumersi le sue responsabilità, ma sentivo che qualcosa non andava in quelle parole. Qualcosa tradiva il loro vero significato e, secondo me, erano solo delle gran balle. -Quanto sono stupide le donne! Siete impossibili da capire!- si lamentò papà alzando gli occhi al cielo. –Hai lasciato la tua casa, i tuoi amici, i tuoi figli e un marito che ti amava per la felicità? Apri gli occhi, anzi, spalancali! La felicità era proprio sotto il tuo naso! I tuoi figli erano la tua più grande felicità!- un attimo di pausa, poi papà continuò. -Ho ancora il biglietto che lasciasti quella mattina sul tavolo. Ce l'ho ancora, in un cassetto in soffitta-Perché l'hai conservato?- domandò mia madre. -Perché speravo che tu tornassi. Non ho mai perso le speranze. Volevo che tu tornassi-Ma mi ami ancora, dopo tutto quel che è accaduto?- chiese mamma. Papà non rispose. -Volevo soltanto che tu tornassi per il bene dei nostri figli e ora, ti chiedo di restare-

Mamma restò immobile.

Il futuro è nelle mie mani. È in mani che non devono tremare, che devono essere forti. In mani che devono avere coraggio di sognare, d’imparare, di restare e ricominciare. Ogni sole infondo ha la sua alba. Ogni primavera ha la sua rosa che sboccia. Ogni storia sembra avere una fine, ma in realtà ha solo un nuovo inizio.

Salii velocemente le scale. Non volevo sapere la risposta di mamma. Aveva detto che sarebbe partita a gennaio per motivi di lavoro. Avevo paura di perderla di nuovo. Mentre salivo le scale, stranamente chiedevo al Signore di farla restare a casa. Lo pregavo, forse perché non avevo più nessuno, neanche me stesso. -Ti prego... Ti prego... Ascoltami almeno per questa volta!- lo implorai tenendo fra due dita la collana. Continuavo a salire e senza accorgermene giunsi in soffitta. Papà aveva nascosto la corda e aveva riordinato la stanza. Sembrava nuova. La polvere era scomparsa, gli scatoloni erano impilati uno sull'altro in modo ordinato e non c’erano più le ragnatele. La luce della sera entrava dal lucernario che era stato pulito e il vetro crepato era stato sostituito da una nuova lastra. La curiosità mi spinse a cercare il biglietto che papà aveva custodito in questi anni. Sapevo che era lì e fu piuttosto facile trovarlo. Era dentro un cassetto insieme alla sua fede nuziale. Non l'avevo mai più rivista da quando mamma ci aveva lasciati. Nonostante fosse dicembre, in quella soffitta c'era caldo e decisi di trascorrere lì la notte. Portai il mio materasso e, sdraiandomi sotto le coperte, lessi la lettera.

Me ne vado, scappo via, lontano da qui. Svanisco nel nulla senza darti l'ultimo bacio, senza abbracciare i miei figli e senza salutare questa casa. Non voglio

scrivere perché vi abbandono, mi prenderesti per pazza, ma ti assicuro che non è per un altro uomo. Il mio cuore l'ho donato solo a te. Sembra un paradosso: ti amo, ma ti lascio. Ti voglio baciare, ma mi trattengo. Voglio coccolare i miei figli, ma mi chiudo in me stessa. Voglio rivedere per l'ultima volta ogni stanza di questa casa, ma corro via. Voglio camminare scalza in giardino, ridere tra le tue braccia e respirare il profumo delle rose che abbiamo cresciuto insieme, ma non lo faccio. Mi sento soffocare. Devo andare, non ho più tempo. Sappi che non ti dimenticherò mai perché siamo legati da questo anello. Mi sento colpevole di tutto ma tu, ti prego, perdonami. Un bacio, il tuo amore.

Rilessi più volte la lettera di mamma, come se dovessi capire il vero significato di quelle parole. Era scappata perché si sentiva in gabbia. -Vigliacca... - mi morsi il labbro inferiore. Era riuscita a trovare una via di fuga, era evasa. Si era nascosta per tutto questo tempo, senza mai farci avere sue notizie. Chissà dov’era andata e cosa aveva fatto. Lasciai cadere la lettera sul pavimento e in quel preciso istante, mi sentii come mamma: un vigliacco. Mi stavo nascondendo nel mio dolore, senza reagire. Stavo tradendo i miei amici come mamma aveva tradito papà e tutti noi. Ripresi la lettera e mi accorsi che qualcuno aveva scritto dall'altra parte.

Non andare, ti prego. Se te ne vai, ti porti via tutto. Toglierai il sorriso dalle nostre labbra, la vivacità dai nostri occhi, l'energia dal nostro corpo. Porterai via la vita da questo luogo. Le rose apiranno, le foglie degli alberi cadranno, l'erba del giardino si seccherà. Non pensi ai bambini? Non pensi alle loro facce quando sapranno che sei scappata via? A loro non pensi? Non credevo fossi così egoista. Mi hai deluso, mi hai ucciso. Stai rovinando il nostro matrimonio, mandi all’aria tutti i nostri progetti. Ci spegneremo come automi che hanno finito la batteria. Pensi che il carattere dei tuoi figli non ne risentirà? Cancellerai le loro certezze e i loro sogni. Torna indietro, guardami, ascoltami, corrimi incontro. Baciami.

La lettera della disperazione. La calligrafia era di papà e quelle parole sembravano essere indirizzate anche a me. Ero inciampato come mamma e non mi ero più tirato su. Come mamma aveva rovinato il suo matrimonio, io stavo rovinando la mia vita. Stavo facendo soffrire persone care, come mamma aveva fatto soffrire tutti noi. Non ero un mostro perché avevo ucciso mio fratello, ma perché stavo perdendo i miei amici. Non volevo fare lo stesso errore di mia madre. Dovevo girare pagina. In quel preciso istante mi vennero in mente le parole di Dante.

-Fatemi una promessa, ragazzi- parlava con gli occhi chiusi e la sua voce si era abbassata di colpo. -Non buttate nel cesso questi anni, vi garantisco che sono i migliori-

Io invece li stavo bruciando. Mi addormentai con la certezza che domani sarebbe stato un nuovo giorno.

XLI

Mi svegliai quando la porta della mansarda si aprì di colpo. Stupito, vidi entrare Nicola con il suo bastone. Cercò un posto dove sedersi ma, non trovando niente, decise di accovacciarsi per terra. Era la vigilia di Natale, non so perché scelsi quel giorno per iniziare la mia nuova vita. -Ciao Talpa!- lo salutai. -Come stai?- gli dissi mentre pensavo a quella notte. Avevo sognato mio fratello che m’incoraggiava ad andare avanti senza guardare indietro, ma a proseguire a testa alta. Nel sogno, ero seduto su una sedia, in mano tenevo la lunga corda con cui avevo tentato di impiccarmi e ascoltavo le sue parole

–Tu puoi essere chiunque. Un perdente, un leader, un egoista o un vero amico. Devi solo scegliere chi vuoi diventare. Se sogni di ricominciare, ricomincia! Se sogni di naufragare nel dolore, naufraga! Ma io sarò sempre con te, non ti lascerò mai. Te l’avevo promesso!-

Appena mi ero svegliato, mi ero sentito completamente diverso, come se avessi capito che, prima o poi, anche chi cade rivede le stelle. Talpa mi salutò e mi chiese come stavo. Sembrava imbarazzato. -Sto bene, grazie- risposi. Pensai a quante volte diciamo che stiamo bene per nascondere il nostro dolore, a quante volte sorridiamo per non piangere e mi dissi che erano troppe. In realtà non ero ancora in pace con me stesso. Da quando Jack era morto, avevo respinto Talpa e l'avevo trattato male. Un giorno era venuto a parlarmi, ma io, come se fossi accecato dal dolore, l'avevo spinto con tale forza da farlo cadere a terra ed ero corso via. Me ne accorsi solo in quel momento di cosa gli avevo fatto.

Talpa prese un pacco dallo zaino che aveva con sé e lo appoggiò ai miei piedi. -Tieni. È il mio regalo di Natale- disse e uscì dalla stanza, senza dire altro. Un suo regalo era l’ultima cosa che mi aspettavo. Era rigido e non tanto grande e una carta rossa lo avvolgeva. Un biglietto diceva “Aprilo a Capodanno. Firmato: il tuo amico Nicola”. Ero tentato di scartarlo immediatamente ma decisi di aspettare. I miei genitori erano andati a messa mentre Agata dormiva ancora. Ormai era mezzogiorno e c'era parecchio freddo. Guardai fuori dalla finestra: aveva nevicato tutta notte. Mi feci coraggio e uscii per la prima volta non per andare a scuola ma per vedere il mondo. L’aria fredda mi entrò nei polmoni e mi sentii d’un tratto vivo. La neve mi arrivava alle ginocchia, ma provai a correre per il giardino. Mi buttai a terra e feci un lungo e profondo respiro per poi buttare fuori in qualche modo il veleno che avevo dentro. Quando arrivarono i miei genitori, si sorpresero nel vedermi sdraiato sulla neve. Mamma mi abbracciò e mi accompagnò in casa.

Quel Natale fu diverso dagli altri. Si sentiva troppo la mancanza di Jack. Era sempre lui il primo a svegliare tutta la casa, a preparare una colazione abbondante e a scartare i regali. Lui il Natale lo amava, quel giorno dava il meglio di sé. Accendeva il camino, cantava canzoni natalizie e voleva far star bene tutti. Anche papà si sentiva meglio grazie a lui. Ma quell’anno, Giacomo non c'era e mi sembrò che non ci fosse neanche il Natale. Si vedeva chiaramente che ci sforzavamo di vivere quella magica atmosfera che di magico non aveva più niente. Era diventato un giorno qualunque.

Tra pochi giorni sarebbe stato Capodanno. A tavola, mamma, che non parlava più della sua partenza, mi propose di organizzare una festa, ma rifiutai categoricamente. -Ho paura- le dissi. -Di chi?-

-Dei miei amici- risposi, vergognandomi. -Li ho trattati male in questo periodo e ho paura della loro reazione. Dopo settimane che non mi faccio sentire, proprio ora devo farlo?- Mamma si avvicinò. -Non commettere il mio stesso errore. Se sono davvero tuoi amici, capiranno. Loro ti vogliono ancora bene, ne sono certa- e si alzò, per andarsene. –Infondo gli amici sono una seconda famiglia!-

Sono qua, piccolo mio. Sono qua perché prima non c'ero. Sono qua per consigliarti, per vederti camminare. Sono qua per farti felice. E starò qua per sempre. È questo quello che voglio.

Riflettei sull'ultima frase detta da mamma e mi ricordai che un tempo lo credevo anch'io.

XLII

Avevo inviato a ogni membro del Club un messaggio su WhatsApp per festeggiare Capodanno insieme, a cui tutti avevano risposto con entusiasmo. Avevo organizzato la festa alla perfezione: quel giorno avrei messo sul tavolo del vino, alcune bevande, prosecco, panini, torte e altri snack. Sarebbe stato una bella serata. In sala avrei la musica e avrei organizzato dei balli di gruppo e dei giochi di società. In quei giorni avevo costruito un enorme fantoccio, che chiamiamo “Il Vecchione”, a cui avremo appiccato fuoco verso mezzanotte. Ero anche andato a comprare dei botti d'artificio, dei petardi e alcuni bengala. Volevo un Capodanno indimenticabile. Ero contento perché, dopo mesi, avevo fatto qualcosa di mia spontanea volontà, mettendomi in gioco.

Finalmente il 31 Dicembre. Le otto di sera si avvicinavano e mi preparai ad accogliere gli invitati. Mi allontanai lungo lo stradello per vedere chi fosse arrivato per primo. La neve cadeva fitta, senza interrompersi e il gelo non dava tregua. Nonostante il meteo non fosse dalla mia parte, rimasi lì ad aspettare, sotto un ombrello e vestito di tutto punto. Guardai il cielo. Era grigio e c'era una strana luce. Otto e dieci. Niente. Neanche un faro di un’auto in lontananza. Restai comunque in piedi, al freddo, aspettando fiducioso. Otto e venti. Ancora niente. Ogni minuto che ava guardavo l'orologio che sembrava sempre fermo, ma non perdevo le speranze. -Tardano a causa del brutto tempo- cercai di persuadermi.

Otto e trenta. Nulla. Non avvertivano neanche per telefono che non sarebbero arrivati. Mi sedetti sulla neve con lo sguardo perso tra la miriade di fiocchi che cadevano. -Adesso arrivano- mi feci coraggio. Otto e quaranta. Ormai la fiamma che bruciava dentro di me si stava spegnendo. Era come soffocata da una campana di vetro. Mi appallottolai per sconfiggere il freddo infernale che si conficcava nel mio corpo come spine. -Non mi potete abbandonare... - mi veniva da piangere. Otto e cinquanta. Provai a riscaldarmi un po', camminando su e giù per la strada. Adesso i miei occhi erano fissi sul cellulare e sull'orologio. Avevo tentato di chiamare più volte Luca o Anna ma non rispondevano. E se gli fosse successo qualcosa? Se avessero fatto un incidente per colpa delle strade ghiacciate? Questo pensiero mi tormentava. Avevo già perso mio fratello, non volevo perdere i miei amici. Ogni minuto che ava, l’angoscia aumentava. Forse erano usciti dalla carreggiata e io li stavo aspettando lì senza far niente. Nove in punto. Iniziai a piangere. Dov’erano finiti? Mi avevano abbandonato? Per loro non ero altro che spazzatura, un vecchio peluche lasciato sopra uno scaffale impolverato! Bestemmiai. Per la prima volta in tutta la mia vita, bestemmiai. Mi sentii un vortice di emozioni dentro che placai velocemente. Cosa m’importava? Niente, come non m’importava niente dei miei amici. Potevano starsene anche da soli, io non li volevo più. Potevano starsene con un pugno di polvere in mano perché se prima eravamo tutto, adesso non eravamo proprio niente. Erano solo dei conigli, ecco cos’erano. -Meglio così. Se ne sono andati. Meno persone da mandare a fanculo- dissi con

rabbia. Ritornai in casa, tra le lacrime e le imprecazioni ma, quando varcai la soglia, un’ondata di calore mi travolse. Erano tutti lì seduti, vicino al camino , a chiacchierare e a scherzare. Li guardai, immobile, con le lacrime agli occhi. Non mi avevano abbandonato. Loro c'erano sempre stati. Luca mi suonò una trombetta nell’orecchio. -Da dove siete entrati?- chiesi. -Dai campi dietro casa tua per non farci vedere ed entrare tutti insieme dalla porta sul retro, scemo!- rise il Rosso. Mi coprii il volto con le mani, scuotendo la testa. Non ci credevo. Tutti mi guardavano, ridevano, facevano stupide battute. Anna mi piombò alle spalle e mi abbracciò. Portava l'anello al dito. -Felice?- mormorò. Annuii, trattenendo le lacrime. Anna sorrise e mi diede un bacio sulla guancia. Per la prima volta, dopo quell'incubo, ero davvero felice. Finalmente. -Grazie Anna. Grazie perché ogni volta mi fai star bene- e la abbracciai. Luca, il Rosso, Chiara, Davide, Ania e tutti gli altri mi abbracciarono. Questo, era il calore che amavo, il calore che distrugge quel gelo che uno si porta dentro. Quel calore capace di scrivere una pagina della tua storia. Il calore degli amici.

C'erano tutti. Il Club al gran completo. Erano venuti per strapparmi un sorriso e per riempire il vuoto che avevo intorno. -Vieni Talpa! So che non ci vedi più dalla fame!- scherzò Luca prendendolo sottobraccio. Anna ballava con Chiara e Davide le stava facendo un video su snapchat. Io stavo vicino alla finestra a guardare il cielo quando qualcuno mi abbracciò alle

spalle. Non mi girai per scoprire chi fosse perché il mio cuore sobbalzò per un istante. Era Ania. Non ci rivolgemmo parola, restammo abbracciati, vicino alla finestra, a cercare qualcosa nelle stelle. Erano bellissime. Uno strano silenzio regnava tra noi e ci urlava che non dovevamo più perderci. Adesso eravamo io e lei, luci del mondo come nella storia che avevo raccontato in Abruzzo. La sua testa era appoggiata sulla mia spalla, le sue braccia mi cingevano la vita e il suo fiato si appoggiava dolcemente sul mio collo. Entrambi guardavamo lontano, oltre la finestra, e sceglievamo una stella da raggiungere insieme. Ero immerso nei miei pensieri, quando sentii una sua lacrima cadere sul mio collo: restò per un istante ferma poi scivolò giù, lungo la mia schiena. Ania piangeva. Appoggiai la mia testa sulla sua. Restammo abbracciati, davanti alla finestra, in silenzio. -Quale stella vorresti raggiungere?- le chiesi dolcemente. Si stropicciò gli occhi prima di indicarne una. Ne scelse una della costellazione di Cassiopea. -Spero di andarci con te un giorno- le dissi. –Sarà la nostra stellaLei annuì in segno di approvazione. Mi girai e la guardai intensamente negli occhi. -Non senti? Sta dicendo qualcosa?- Ania tese le orecchie e mi sorrise. -Cosa dice?- era vicinissima alle mie labbra. -Ti amo- e la baciai. Ci baciammo a lungo finché non finimmo l’ossigeno nei polmoni. Era il modo più bello per soffocare. Volevo morire così, di baci.

-Venite! È quasi mezzanotte!- Luca gridò e tutti ci avvicinammo alla televisione che, come ogni Capodanno, trasmetteva il conto alla rovescia in diretta. Presi per mano Anastasia e ci sedemmo sul divano. - Meno cinque... meno quattro... meno tre... meno due... meno uno... Buon Anno!- e Luca stappò una bottiglia di champagne. Brindammo all'inizio dell’anno nuovo. -Che anno!- esclamò il Rosso. -Un anno davvero particolare!- replicò Chiara alzando il calice al cielo. -Non un anno... Ma L'Anno!- gridai e brindammo di nuovo.

Ora la casa era deserta. Tutti erano ritornati nelle proprie abitazioni. -Che scemo che sono stato... - mi dicevo continuamente mettendo in ordine. Il Club non mi aveva mai lasciato. Loro erano il mio “secondo” Giacomo, erano i miei fratelli. -Grazie- non facevo altro che sussurrarlo a fior di labbra. D'un tratto mi ricordai che dovevo scartare il regalo di Talpa. Corsi in camera dove presi il misterioso pacchetto e mi chiusi in soffitta. Scartai il regalo. Trovai un’altra carta su cui era appiccicato un biglietto.

Sai che non sono bravo con le parole e quindi ho deciso di scriverti. Volevo solo dirti grazie, tutto qui. Volevo ringraziarti perché mi hai aperto gli occhi e con il tuo aiuto ho raggiunto il mio sogno: avere degli amici e tu sei riuscito a darmeli. Sei riuscito a realizzare ciò e a far scomparire la mia cecità. I miei occhi ora sono come i vostri, posso vedere. Grazie ancora, ma adesso è il mio turno.

Voglio aprire i tuoi che sono malati di cataratta. Vedi sfuocato, i tuoi pensieri sono offuscati, hai confusione in testa. Non perdere del tutto la vista. Riapri quegli occhi e goditi la vita! Vivila perché è solo una, una soltanto come ha detto il nostro prof. Vivila tutta, respirala a pieni polmoni, prenditene cura. La depressione è inutile e anche il suicidio. La vita terrestre è un ponte per raggiungere Giacomo, ma se lo stronchi subito, non lo raggiungerai mai. Lui non vuole questo. Lui non vuole che il tuo ponte scricchioli perché può farti cadere in un mare in tempesta. E la potenza del mare è incredibile. Affoghi. Sei pesante. Il tuo cuore è pesante. Troppo dolore, troppa solitudine da sopportare. Attraversa questo ponte con il sorriso, insieme ai tuoi amici e arriverai alla fine. Arriverai come Jack vuole. Bisogna essere felici. Il tuo ponte siamo noi.

Se scarterai ancora, troverai il mio romanzo che il compagno di mia madre è riuscito a far pubblicare. Lì dentro c’è tutto: ci sono i miei pensieri, c’è Nicola, le lezioni di Dante, le serate con il Club, la nostra amicizia e quello strano oggetto di Lido di Spina che mi avevi chiesto cosa fosse. Purtroppo non ho mai avuto occasione per dirtelo e quindi lo faccio in questa lettera: voglio che tu conosca il motivo per cui scrivo.

Stavo giocando sulla spiaggia, ero molto piccolo. Mi piaceva fare delle palle di sabbia e lanciarle in mare. Facevano un bel rumore. Mi stavo divertendo quando qualcosa attirò la mia attenzione. Mi voltai verso gli ombrelloni da cui provenivano due voci inconfondibili, quella di mia madre e di mio padre. Tesi l'orecchio per sentire, ma forse era meglio continuare a giocare. Era meglio stare tranquillo a farmi i fatti miei, ma se Dio ha voluto che ascoltassi quelle parole ci sarà stato un motivo, non credi? Mio padre si era scagliato contro

mamma. Parlavano di me, della mia malattia. Papà non riusciva ad accettare l'idea che fossi cieco, che non sarei riuscito ad avere una vita come la sua: amici, divertimento, una splendida donna, soldi. Papà voleva che diventassi come lui: un importante industriale, ma non lo sarei mai stato. Come avrei potuto gestire azioni, trattare, contare soldi senza la vista? Non era possibile e non mi piaceva affatto. Sentivo mamma che cercava di difendermi, di spiegare, ma papà non le dava retta. Poi qualcosa fu scagliato a terra, su una stradina di sassi che portava verso il parcheggio. Quell'oggetto, a contatto con la strada, si ruppe. Sentii i i di mio padre allontanarsi in fretta. Scoppiai a piangere, mi ero immaginato tutta la scena. Sapevo che quell’oggetto era il mio portafortuna, un ricordo di mio nonno, a cui ero legatissimo. Aveva viaggiato per mezzo mondo e ogni volta che tornava a casa, metteva della sabbia di diverso colore dentro quell'oggetto. È un semplice “scacciapensieri”,che mia madre riuscì a riparare e a salvare la sabbia colorata. Ogni volta che lo prendo fra le mani, la mia mente si libera e mi sento inspirato. Mi aiuta a scrivere. Lo porto ovunque, anche quella volta che abbiamo fatto il tema in classe. Ce l’avevo appoggiato sulle ginocchia, nascosto da occhi indiscreti. Quel giorno che siamo andati al mare lo avevo messo tra quei due velieri e te ne sei incuriosito subito. Quello scacciapensieri mi ricorda il giorno in cui mio padre mi lasciò. Mi ricorda che con la scrittura lo posso far stare ancora vicino a me.

Ti auguro un buon anno, il tuo amico Talpa.

Tolsi la carta che avvolgeva il volume. La copertina era lucida, probabilmente era la prima copia. L’immagine che Nicola aveva scelto era una spettacolare aurora boreale. A Nicola piaceva molto, anche se naturalmente non l'aveva mai vista. L'aurora boreale per lui era un simbolo. Una fonte di luce che danza nel cielo notturno. Un pozzo di speranza nell'oscurità, una fontana di gioia che illumina le tenebre.

Lessi il titolo: “L'Anno”. Aprii il libro e iniziai a leggere.

EPILOGO

Ecco le lacrime degli oppressi e non c'è chi li consoli. (Qoèlet, 4,1)

PRIMAVERA

Andai in giardino e mi sdraiai fra l’erba. Il cielo quella sera era spettacolare, le stelle si vedevano benissimo ed era da tempo che non le osservavo. Sentivo i fili d’erba sui piedi, mi facevano il solletico. Ero sola, erano già tutti a letto. Sorrisi, avevo fatto bene a restare in quella casa. Tutto sembrava essersi aggiustato. -Manchi solo tu... - sussurrai. Mi sarebbe piaciuto avere una sua risposta, magari trasportata dal vento primaverile o scritta nelle stelle. Restai a studiare il cielo per delle ore mentre ricordavo i bei momenti che avevo vissuto con Jack. -Eri solo un bambino, non ti ho visto crescere e affrontare i problemi della vitami s’inumidirono gli occhi –Non ti ho mai conosciuto fino in fondoNella mia testa fiorirono i ricordi di quando era una piccola peste che combinava un disastro dietro l'altro, faceva i dispetti a suo fratello o, senza dir niente, spariva a giocare chissà dove. -Ma ero certa che saresti tornato. Ero sicura che stessi bene perché eri perso nei tuoi pensieri e giocavi solo come tu sapevi fare- non mi accorsi di sorridere. -Questa volta, invece, non sei più tornato da questo viaggioIl sorriso di Jack era veramente speciale. Quando sorrideva, liberava una luce tale da far invidia a un campo di girasoli. Era questo il suo grande dono: sorridere e far star bene gli altri. La vita se la voleva tenere stretta, tanto che fin da piccolo ne aveva capito il valore e ne sapeva cogliere l'attimo. –Eri un bambino intelligente, sapevi stare al mondo, mentre io l’avevo rifiutatoricordai. -Eri positivo, tanto che la tua positività ti faceva circondare da molti amici. Trasmettevi serenità. Io, invece, ho combinato solo dei gran casini- continuai. Eri forte. Cavolo quanto eri forte! Piangevi in silenzio, di notte, per evitare sguardi curiosi e facevi scivolare le tue lacrime fino a spegnersi per terra, soltanto per gustare il sapore del dolore. Rispondevi sempre con un sorriso, nonostante ti fossi fatto male. Rifiutavi gli aiuti perché, quando cadevi, volevi

alzarti da solo- mi piaceva parlare con lui, era come se ce lo avessi a fianco. Jack aveva imparato a convivere con le sue paure, mentre io ne ero stata oppressa, tanto che ero scappata via. -Ma ora ho imparato a vivere, a sorridere e ad accettare i miei limiti. E questo è solo merito tuo, Jack- mi asciugai una lacrima. In quel momento ripensai a quando Giacomo aveva imparato a camminare e gli recitavo sempre una filastrocca di cui ricordo ancora le parole. Sei un gabbiano che non sapeva volare. Guarda: devi sbattere le ali e non smetter di sognare. Continua ad andare avanti, mio piccolo gabbiano! Devi avere paura così potrai andare lontano. Dovrai toccare l'infinito orizzonte, dovrai sfidare la morte. Sbatti, sbatti le ali, mio piccolo gabbiano! Non voltarti, altrimenti lo sforzo sarà vano. Sotto di te il mare è infuriato, i suoi artigli ti vogliono intrappolato. I venti soffiano e ti fanno cadere, ma tu resisti, sempre lontano devi vedere. Eccolo! All'orizzonte stai per arrivare, mio piccolo gabbiano che non sapeva volare.

Quando la sentiva, correva verso di me e lo prendevo tra le mie braccia. -Eravamo solo noi, immersi in quel calore infinito- sorrisi ancora una volta. Forse stavo impazzendo, ma parlargli mi faceva star bene. -Tutto si è aggiustato, Jack. Agata ha cominciato a lavorare e ha trovato anche un fidanzato. Tuo padre è tornato quello di una volta, ha smesso di fumare e ha sempre la battuta pronta. Tuo fratello è andato un giorno a trovarti insieme ad Anna. Ha detto che doveva darti un euro per una scommessa, non so quale- feci un profondo respiro. Si alzò un forte vento ma restai stesa sull’erba. Sorrisi ancora una volta. -E io, dici? Vuoi sapere cosa ho fatto in tutti questi anni? Sono scappata senza dir niente, nascondendomi nell'ombra e lacerandovi il cuore, ecco cosa vi ho fatto. Ho detto a papà di essere scappata perché volevo la libertà, perché non avevo il coraggio di starvi dietro e di avere una famiglia. Ma la storia è un'altra e noi due la conosciamo bene.

Finalmente si era conclusa una dura giornata di lavoro: avevo firmato tanti di quei fogli che la mia mano era pesante come un pezzo di marmo, avevo risposto così tante volte al telefono che le tempie mi pulsavano e avevo subito i rimproveri del capo che mi facevano sentire completamente inutile. Sfinita, entrai in auto. Proprio quel giorno, il traffico sembrava impazzito: c'era chi suonava il clacson, chi perdeva la calma sbraitando e chi tollerava tutto quel pandemonio in silenzio. La testa continuava a farmi male e tremavo, come se avessi freddo, anche se il caldo torrido non dava tregua. Dopo ore in auto, riuscii ad arrivare a casa. Quando entrai, mi sentivo già più tranquilla e la testa incominciò a svuotarsi di tutto lo stress accumulato, ma la giornata non era finita. Papà disse che sarebbe tornato tardi e quindi dovevo preparare la cena, stirare e portare Agata a casa di un’amica. Ero distrutta. Rientrando in casa, trovai tuo fratello che piangeva e strillava. Aveva circa quattro anni all’epoca e gli avevi rotto un giocattolo nuovo. Cercai in tutti i modi di tranquillizzarlo, dicendogli che lo avremo aggiustato o ne avremo comprato uno più bello, ma lui non mi diede retta. Persi le staffe. Non ascoltai il mio cuore, ma affogai in un mare di rabbia e follia. Lo sollevai con forza e lo sbattei violentemente contro il muro. Tutta la

mia collera si era rovesciata su tuo fratello che, dopo il colpo ricevuto, aveva perso i sensi. Ricordo perfettamente quella scena: ero in piedi e, sdraiato per terra, c’era corpo inerme di mio figlio. L’avevo scaraventato contro il muro, l’avevo quasi ammazzato. Io, sua madre. Subito le lacrime mi salirono agli occhi e inorridita di quello che avevo fatto mi lasciai cadere sul divano. Tremavo terribilmente. Toccai la ferita che gli avevo provocato sulla testa. Mi sporcai le mani del suo sangue. Cosa avevo fatto? Nascosi il volto tra quei petali rossi e il fiato mi veniva a mancare, quando d’un tratto sentii qualcuno che mi chiamava con un filo di voce. Quando alzai il capo, ti vidi: eri sempre stato in salotto e avevi assistito a tutta la scena. Avevi visto cosa tua madre aveva fatto a tua fratello e probabilmente pensavi che anche tu fossi in pericolo. arono interminabili secondi, dove ci guardammo dritti nelle pupille perdendoci nel terrore dell'altro ma, nonostante avessi paura, ti avvicinasti e mi sfiorasti i capelli. Eri tale uguale al gabbiano della filastrocca: avevi paura, ma andasti avanti. È la paura, infatti, che ci aiuta a compiere i da gigante. E tu, un piccolo bambino impaurito, hai fatto un o così grande che cambiò le nostre vite. Mi hai dato una carezza e mi hai detto di non piangere, a me, tua madre che aveva quasi ucciso tuo fratello. Quando mi toccasti, mi scossi per un momento e nascosi nuovamente il mio viso. -Non piangere mamma…- mi dissi e mi apristi le mani con le tue. Aiutammo tuo fratello e, quando si riprese, gli facemmo credere che era caduto dalle scale. Ma io non potevo vivere con la paura di poter uccidere i miei figli. Il mio cuore si era spento di colpo. Mi consultai con il dottor Bertoni che non riuscì a convincermi a restare. Pensai fosse la cosa giusta: abbandonarvi a vostro padre, così non vi avrei più fatto del male. Presi il primo aereo per l'Argentina, dove abitava una mia cara amica, che mi aiutò ad iniziare là una nuova vita. Ma fu triste, vuota e tormentata. Una vita inutile, spoglia di ogni emozione e immersa nel dolore. Una vita nuda, ma soprattutto perseguitata da quella scena:

mio figlio che aveva perso i sensi dopo un mio inutile attacco d’ira. In Argentina, la vita fu dura e la voglia di tornare a casa era tanta ma, ogni volta che decidevo di ripartire, un muro mi bloccava la strada. Era altissimo, sembrava interminabile. E se avessi fatto di nuovo male a qualcuno? E se avessi ucciso? E cosa avrei fatto, appena tornata in Italia? Ma la vita non può essere tutto un “se” o un “ma”, bisogna prendere in mano la situazione e seguire ciò che dice il nostro cuore. E finalmente lo feci. Tornai a Modena perché avevo capito che il mio posto era con voi, ma tu eri già partito per un altro lungo viaggio.

-Questa è la mia storia. Questa è la nostra storia e mi scuso per tutto quello che vi ho fatto. Mi scuso con tuo padre perché l'ho abbandonato, con Agata, con tuo fratello, ma soprattutto con te perché ti ho privato di tutto. Scusami. In questi giorni, tuo padre mi sta raccontando ogni singolo momento che mi sono persa. Ci sediamo in giardino, io tra le sue braccia, sotto il ciliegio. Lui mi racconta e io non faccio altro che piangere e pentirmi perché ho perso la parte migliore di me: la mia famiglia. Mi ha raccontato del torneo di Scoutball, del terremoto, delle vostre feste e anche del viaggio in Abruzzo. Ed io, vostra madre, non c'ero. Ero in Argentina a vivere una vita morta. Ma adesso, ho deciso di restare. Ho deciso di ricominciare, di vivere. Il sole ha sempre la sua alba. Vuoi sapere cosa mi ha spinto a fare ciò? Sei stato tu, Jack, con la tua morte. Sembra assurdo, ma resto perché vi amo e voglio riparare i miei errori. E questo me lo hai insegnato tu, morendo. Ho imparato che il mio ruolo è importante e che, se non fossi tornata, probabilmente tuo fratello si sarebbe impiccato per raggiungerti- deglutii. -Voglio che tu sappia che vi ho sempre amato. Anche se ero lontana, sentivo dentro di me le vostre voci, vedevo i vostri sorrisi e toccavo la vostra pelle. Ho

sempre amato tuo padre, ho sempre amato tua sorella, ho sempre amato tuo fratello. Ti ho sempre amato Jack e continuerò a farlo- mi alzai guardando il cielo per l’ultima volta. -Un tempo mi perseguitava per tutte le notti un incubo: le mie mani, sporche del sangue di mio figlio, che mi toccavano e mi scuotevano. Non si voleva cancellare dalla mia mente, ma ora, nel letto con tuo padre, questo incubo si trasforma: tu mi asciughi le lacrime e mi aiuti a soccorrere tuo fratello. E l'incubo diventa speranza, diventa insegnamento. E l'incubo diventa sogno, perché solo i sogni ci aiutano a sbattere le ali e a raggiungere l'orizzonte infinito, mio piccolo gabbiano che non sapeva volare-

LORENZO GUARALDI

Lorenzo Guaraldi nasce a Modena il 15 Aprile del 1998 ed è il secondo genito di una famiglia piuttosto numerosa. Attualmente frequenta la seconda liceo classico presso l’istituto “L.A. Muratori” e ha tanti sogni nel cassetto, tra cui quello di diventare uno scrittore. Lorenzo scriveva storie fin da piccolo e oggi esercita la scrittura in brevi racconti e sul suo tumblr blog Never5urrender. Ha scritto L’Anno all’età di quattordici anni e, dopo tre anni di riletture, aggiunte e correzioni, ha scelto la strada del self-publishing con la piattaforma Narcissus.

Ringraziamenti

Ringrazio personalmente tutte le persone che mi circondano perché, anche se inconsapevolmente, mi hanno incoraggiato e aiutato.

Li ringrazio tutti: a partire dai miei amici perché loro sono la mia aurora boreale, sono la mia seconda famiglia e questo libro è dedicato in particolare a tutti loro che sempre mi hanno fatto sorridere e mi sono stati vicini. Grazie.

Ringrazio la mia famiglia, in particolare i miei genitori e mio zio Maurizio perché sono stati i primi a incoraggiarmi e a farmi stare con i piedi a terra. Grazie.

Inoltre ringrazio la mia professoressa di lettere Annalisa B., mio zio Mario e chi ha saputo consigliarmi per esaudire un mio sogno. Grazie.

Voglio anche ringraziare tutti i miei personaggi, da Ania a Leonardo, da Anna a Giacomo, fino ad arrivare a Dante e Luca e tutti gli altri perché mi hanno accompagnato in quest’avventura, vivendo la mia storia. Grazie.

Infine voglio ringraziare anche te, caro lettore, che sei arrivato fino a questa pagina e che hai speso del tempo per leggere questa storia. Grazie mille, ti auguro il meglio.