Roberta Lagoteta La sera azzurra Lettere Animate ISBN: 978-88-6882-663-5 copyright Lettere Animate 2015 www.lettereanimate.com
A mia madre
Prologo
In questo libro riconoscerete pezzi di persone e persone a pezzi, nella terra che non è di nessuno che non le appartenga; ché non si può tagliar radice senza un po’ dentro sanguinare.
Compresi la specifica valenza della caduta dei gravi a nove anni, quando una mattina, di ritorno da scuola, lo zainetto blu in spalla e un fiocco sciatto a soggiogarmi il collo, afflitto da un eritema pruriginoso, vidi gli ultimi istanti della vita di quella ragazza, gettatasi dal quarto piano del palazzo di fronte casa mia. 4,3,2,1, l’impatto con il brecciato della stretta aiuola, dove il signor De Vito portava ogni giorno a orinare il suo mastino dal muso impudente; 1,2,3,4 i frettolosi, due zoccoli in legno consunti si gettarono a cavalcioni del corpo mesto e sfasciato; 1,2,3,4 lacrime collose, una mamma raccolse con cura nel grembiule ciò che restava di una figlia triste.
Lo sgomento fluttuava nelle mie orbite peste dalle precoci occhiaie perlacee. Il rumore secco dell’impatto del manichino di carne con la ghiaia rimbombava duro e durevole. Quel tuffo brutto e scoordinato si ripeteva mille volte nella mia testa, con medesimo finale. 4,3,2,1, il pranzo era pronto! Dovevo affrettarmi a mangiare e finire i compiti…
Che ne sapeva la maestra Ilde del tempo e dello spazio che ruzzolano avanti e indietro, incontrandosi nell’ululato roco di una donna che, specchiandosi nell’unico occhio aperto di un cadavere caldo, notò due rughe nuove sovrapposte, la croce che accompagna i marinai del Sud.
Capitolo I
Erano gli anni in cui ognuno di noi assumeva la propria piega vitale; ciascun bozzolo spigoloso e basculante, appeso a un cordoncino elettrificato, si modellava con fatica per schiudersi in un'estate svogliata. Maree buie sottopelle mandavano segnali a ritmo di samba, dilatando ogni poro a cratere ricettivo e suscettibile. Erano i lunghi giorni del soleacquaventograndinate nelle ossa, a botte di sconfitte, divenendo più forti.
La cucina con camino dei nonni materni era piena di gatti di polvere. Nonna Rina aveva perso quasi del tutto la vista e si accaniva con lo scopettone a tirar via una serie di ragnatele inesistenti, mentre malloppi di capelli crespi, cenere e lanugine indefinita albergavano placidi sotto le sedie in vimini. Ero troppo pigra per aiutare nonna nelle faccende domestiche e poi mi piaceva molto
quella sfocatura diffusa fissata sui pavimenti trascurati. Mi pareva a tratti di camminare sulle nuvole. Ceci, pane scuro con butirro e ricotta impastata con miele d’arancio a chiudere regalmente il pasto consumato davanti alla telenovela di grido… una squadra di ninfomani portoricane che fanno il cambio campo con una dozzina d’amanti villosi e burberi. Fughe d’amore e una eredità (l’unica cosa che sei sicuro rimarrà di te, quando sarai morto) contesa. Furibonde copule rimirate tra una cucchiaiata e l’altra, ingoiando, bofonchiando e stuzzicando a più riprese con la lingua un minuscolo canino scheggiato. Da fuori, giungeva ipnotica l’eco dei richiami salmodianti delle madri dei bimbi attardatisi a giocare a palla avvelenata nel cortile racchiuso tra le palazzine giallo marcio di via delle Selci: l’invito alla preghiera di un muezzin dal minareto. Era il dicembre del 1991 e, nel pomeriggio fosco, una luna grassa e cieca non ce la faceva a penetrare le serrande abbassate della stanzetta dove un po’ studiavo e un po’ cianciavo, la bocca schiusa, la mascella puntuta abbandonata, una goccia di saliva a solleticarmi il profilo svagato. Macchinavo alla luce di una abatjour arrugginita, sospirando e grattandomi di tanto in tanto un polpaccio foderato di finissima peluria bionda e tra un sogno lucido e l’altro, animavo ghirigori sul quaderno a righe larghe unto di focaccia. Pensavo alla morte. Se quando uno muore, a esempio, si dissolve in parte dentro le persone che ha amato, così che queste ne prendono le abitudini, o se sono le persone che hanno amato chi è morto che si disfano pian piano, perché s’avvicinano sempre più alla morte, e acquisiscono le abitudini del caro scomparso, perché questi manca loro così tanto. Pensavo all’amore. Cavalleresco ed esasperato, privo di zone buie, zuccherino eppure sensuale, mai pacchiano, mai fiacco. Un amore da romanzo classico, e io ero una paladina temeraria, mascolina, che con poteri magici sorprendenti eludeva le circuizioni dei malvagi espugnando, infine, un etereo tesoro. A tirarmi giù, talvolta per le orecchie, dai miei castelli in aria, ci pensava nonna Rina. Ero solita sostare, nei pomeriggi tediosi, a casa dei nonni; i miei genitori
erano legati alle rispettive occupazioni, soprattutto mamma, mattina e pomeriggio in negozio, e non potevano badare a me. Nonna Rina, invece, rimasta vedova prestissimo, ancora trentenne, aveva piacere a tenermi con sé, le ero di gran compagnia. Il nostro quartetto famigliare si riuniva alla sera e prima della cena – i surgelati dai nomi vezzosi imperavano –, dovevo superare l’esame pignolo dei compiti per casa. Ero brava e solerte, ma disattenta e a ogni piè sospinto capitava che scambiassi i compiti per il giovedì con quelli per il sabato e la maestra Ilde, paranoica arpia, credeva che mi pigliassi gioco di lei quando genuinamente ammettevo le mie lacune mnemoniche. I pettegoli raccontavano che fosse sempre così astiosa perché era stata abbandonata, praticamente sull’altare, dal fidanzato che, si era poi scoperto, aveva messo incinta una minorenne. Per evitare dunque dissapori e complicazioni, mio padre, soprattutto, giornalista per un quotidiano locale, ava in rassegna con scrupolosità i miei quaderni, e di frequente si trovava a rimproverarmi per le barocche cornici di svolazzi con cui ingentilivo le pagine dapprima smorte. Era una guerra ad armi impari, perché mai avrei rinunciato ad abbellire con ostinazione tutto ciò che reputavo e reputo amorfo, mondandolo della caratteristica mestizia. Fantasticare era, per me, l’estremo rimedio per salvare la ghirba. Nonna Rina era sostenitrice accanita di detti popolari che snudavano l’arma della malinconia – La felicità è quella distanza tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere. Più è lunga, meno siamo felici – o rimarcavano con veemenza la rilevanza dello studio, della precisione e della puntualità – Fai oggi presto e bene, ché domani ti conviene – ma più spesso sbottava in improperi meno specifici e più efficaci. “Azzurra, non fare la scema ché le prendi! Tuo padre ha detto che fino alle sei devi stare qua a studiare e non intendo sorprenderti ancora con la bocca appesa che conti le mosche sul muro… Azzurra! Sono stata chiara?! Non voglio tornare per beccarti un’altra volta a cincischiare!” “Ti basterebbe non tornare un’altra volta!” Sgobbavo crudelmente per contrastare quel serico sbuffo che mi portava via, fulmineo e a intervalli precisi, dal mio mondo e dalle sue suppellettili, dai fogli di carta, dalle penne profumate, dalla gommina rosa a forma di ippopotamo, dal vetro appannato che dava sul vicolo di sampietrini, da quel poster gonfio d’umidità, accollato al muro verde acqua, figurante un giovane cantante platinato, inequivocabilmente poco talentuoso.
Non praticavo molto sport, mia madre mi aveva iscritta a ginnastica artistica ma era risultato subito palese, dato che mi era impossibile finanche saltare il cavallo, l’arrampicata sulla fune si fermava al primo step e i miei tentativi di fare la ruota si riducevano a buffe capriole con conclusioni distinguibili sulle ginocchia maculate di lividi, che non era l’attività sportiva più adatta a me. Poi, il costo della retta, in palestra, era esorbitante, così i miei genitori, i nonni e svariati zii, in concerto, mi convinsero che, sì, di sicuro, slanciata e robusta com’ero, sarei diventata una vera campionessa di nuoto. Potevo allenarmi liberamente a mare. D’estate. Gratis. Presi quell’invito sul serio e, per almeno cinque anni, trascinai i miei genitori, dalla chiusura delle scuole alla riapertura in settembre, ogni sacrosanto giorno a mare. Ogni quarto d’ora, poi, invocavo la mamma, alle prese con un olio abbronzante dall’aroma agrumato, con l’ineluttabile locuzione preadolescenziale… “Maaaammaaaaaa, guarda che so fare!” e giù sotto i cavalloni, col sentore di sale e alghe sulle gengive e i polpastrelli tumefatti dai lunghi bagni. Il mio corpo cresceva in fretta, robusto, e ammorbidito dal peso di qualche chilo in più. I miei familiari sono sempre stati “malati di cibo”. Un timore enorme tutto concentrato sul mangiare. E, tre volte al giorno, a ogni pasto, l’angoscia sfociava a fiotti. Ricordo che a scuola ero l’unica a non portarmi dietro la merendina per l’intervallo. Mi vergognavo già. Associavo il cibo al nascondimento, a piaceri da gustare da sola, pena la derisione, l’avvilimento, le gridate di qualcuno che forse mi voleva più magra, per volermi più bene. Da settembre a maggio, a ogni modo, i pomeriggi colavano pigri e placidi, solo con un po’ di paura, alla sera, per le potenziali interrogazioni del giorno dopo. Latte caldo con pane, la zuppa della buonanotte, latte freddo con pane, il croccante buongiorno; un giorno dopo l’altro, con la Barbie Regina delle Nevi e il suo abito di piume bianche e cristalli sempre nella tasca dello zainetto blu, a vigilare sugli occhiali dalla montatura fucsia di celluloide e dalle spesse lenti che non volevo più indossare. Una visione offuscata di me e del mondo, poi, trovavo che mi si addicesse maggiormente. Bambina, ti accorgi di esserlo quando ti regalano una borsa e non hai niente da
metterci dentro, e te l’appendi al collo come una sciarpa. Nel mio caso, già dai sei anni, giravo come un mulo da soma, tirandomi dietro ovunque volumi di storie a fumetti e svariati romanzi, scatoline contenenti piccole reliquie di carta o di zucchero, cambi d’abito e spazzolino e dentifricio (alla fragola) per ogni evenienza. Di sicuro non mancavo di spirito d’avventura, vagabonda per le strade del centro. Ed era una cittadina, la mia, di tornanti incastonati di fiori di plastica. In quelle curve storpie, gettate su terribili dirupi, molti corpi avevano attraversato il guado e, solo un istante prima, avevano levato gli occhi a un sole che spillava nel mare. Nella parte più vecchia del paese, profumato di salvia, vino rosso zuccherino e lavanda, anziani dai musi grigi, stropicciati, giocavano a carte con la morte, sul tavolino sghembo del bar Delizia. Se avi, straniero, cinquecento paia di occhi ti tagliavano a fette; occhi ingordi di assimilare la tua diversità per studiare un antidoto. Ragazzetti appresso a bici sferraglianti giù per la ghiaia che portava alla chiesa, bambine che tessevano crini di bambole con un’orbita vedova. Il parroco e il sindaco, nella piazza maggiore, all’ombra del monumento ai caduti. Questo rimaneva, i caduti e le loro effigi glassate d’escrementi di colombi, di una guerra che aveva sancito la nostra estraneità dall’Italia, da noi stessi. E poi c’era il panico. Oppure, era solo inquietudine. Voglia di scappare, lontano, che scattava indifferibile quando i miei genitori litigavano. I motivi mi erano oscuri ma, tra un urlo e una pausa silenziosa, intuivo che il lavoro a mio padre non stava andando bene e, certo, solo con i soldi di mamma non ce l’avremmo fatta. Temevo sempre il peggio. Così piangevo, forte, fortissimo. Correvo per la stanza sbattendo come un birillo contro i muri, la scrivania, il lettino, le sedie. Colpivo forte le pareti color crema con i palmi delle mani, come a dare degli schiaffi. E con le mani mi pestavo la testa, volevo coprire quegli strepiti. Ne conseguiva che mia madre, Giorgiana, esasperata e rossa in viso, mi veniva a schiaffeggiare per farmi rinvenire da quella trance violenta. Poi diceva “Fai così perché vuoi attirare l’attenzione di tuo padre, eh? Poi la colpa è tutta mia, no? E se la prende con me!” e un ricciolo bruno, fuggendo alle fauci della molletta, le spioveva sulla fronte sudata. Quindi, chiudeva il discorso tappandomi la bocca con un ceffone bruciante. Il rapporto tra me e mia madre era più o meno così: qualsiasi angoscia le confidassi, qualsiasi problema, lei sospirava con un mezzo sorriso che mi lasciava intuire che i miei crucci erano bazzecole e che lei, al posto mio, li avrebbe risolti con uno schiocco di dita. Perché lei era più forte, più grande, più in gamba. La mia reazione era ambivalente: da un lato, mi sentivo protetta in toto da una madre inflessibile che mi avrebbe salvata da ogni
pericolo, dall’altro sentivo che, da sola, mai avrei potuto andare avanti perché, soprattutto, ero così sciocca da angosciarmi per inconvenienti veniali. Mio padre, Ludovico, aveva invece sempre in punta di labbra una soluzione, la esponeva con tono arrogante, come a dire “Io faccio meglio di tutti”… Io lo prendevo in giro, o mi arrabbiavo per le sue ingerenze e, in quei momenti, mia madre guardava la scenetta divertita ma, appena terminavo lo sfogo, mi rimbrottava lesta intimandomi di non parlare a quel modo a mio padre, che non era rispettoso. La confusione in me cresceva, soprattutto in merito alle mie potenzialità e ai miei limiti. Quella distanza dalla felicità, di cui parlava nonna Rina, chissà quanto era lunga, per me. Mio padre, Ludovico, che alle prime manifestazioni di pianto accorreva per alleviare il mio panico, nei mesi e negli anni diradò sempre più le incursioni nella stanzetta dai colori pastello, fino a turarsi le orecchie e il cuore. Sviluppò, a discapito del suo temperamento, di base mite e tenero, degli atteggiamenti secondo tradizione attribuiti al “padre padrone”. Alzava la voce, insultava, si ammutoliva poi con crudeltà, o forse solo impotenza. Mia madre, in un circolo vizioso, mi mandava da lui, che si chiudeva nella loro stanza da letto, per cercare di farlo rinsavire. Non cedeva. Era mostruosamente frustrante, mi sentivo di troppo, di disturbo. Peggio era averlo intorno mentre eseguivo i compiti di matematica. A ogni errore, mi dava della stupida, la faccia gli diventava paonazza, e io, ormai, piegata da spasmi di sgomento, davo soluzioni a caso ai problemi e alle operazioni, attirandomi altre offese e punizioni. Ancora oggi, se mi trovo davanti a un calcolo, anche semplice, nella testa mi si forma una nebbia compatta, e non ragiono più. Dall’infanzia all’adolescenza il aggio fu come clandestino… preferivo non badarci. Credevo che troppi “ti ricordi” rovinassero il presente. Maturai a rilento, in sordina, il bacino si dilatava in fuseaux stampati di cattivo gusto, il naso si acuminava denudando una personalità tenace, plausibilmente strampalata, i brufoli galleggiavano e affondavano, scarlatti e meravigliosi, sulla pelle delicata e sempre arrossata, per il caldo, per il freddo, per l’impiccio, per la rabbia, sicché le mie emozioni indistinguibili mi conferivano un’aura di mistero. I miei capelli, delle deliziose stelle filanti color ambra, erano un impalpabile sipario che mi difendeva dagli sguardi sconvenienti dei coetanei, dei parenti, degli insegnanti e dei ragazzi più grandi che incominciavano a individuarmi come preda ecosostenibile nel loro rigido schema motorino/palestra/pub/liceo. Il filo conduttore
che tenne insieme le mie età dai sei ai quindici anni era costituito dalla vasta produzione di diari dalla massa spropositata, nutriti di appunti, poesie, bigliettini d’ogni sorta, scontrini, inviti a mosce feste di compleanno, carte di caramelle alla cola, foto ritagliate e ricordini vari, persino un assorbente con l’involto lilla fregiato dalla dedica della mia compagna di banco, che mi augurava di usarlo in tempo in caso di necessità. Vapori di birra doppio malto si attaccavano alle costellazioni di polistirene appese al soffitto della cameretta da bambola, un rifugio post atomico congegnato per proteggermi dalle incursioni nemiche. La rabbia degli anni Novanta, quel patetico, ibrido decennio, caratterizzato dall’affermarsi di produzioni artistiche di bassa lega, consumismo in aumento, B E A U T Y una linea piatta dietro l’angolo e l’insidia delle droghe già dissolte nei liquidi corporei delle vecchie generazioni, evadeva dalle mie iridi carbone. La colonna sonora dei miei giorni la pescavo nel ato; intrighi di chitarre elettriche sbrecciate e bassi lugubri mi si solidificavano sulle tempie lungo le notti insonni, abbracciata a un coniglio di stoppa, regalo di Giorgiana in un epico slancio d’amore da diecimila lire. I Led Zeppelin regnavano …There's a feeling I get/When I look to the west,/And my spirit is crying for leaving… – e nella laguna ormonale proliferavano eccessi di masturbazioni malfatte, sulla punta di dita inanellate dallo smalto nero sbucciato. Sabina, compagna di banco e di ombretto bianco perlato, che “se non lo si a tre volte tanto vale non metterlo”, tentava con apprezzabili sforzi di presentarmi giovanotti in tiro che, immancabilmente, si palesavano delle parodie del re di cuori che speravo di incontrare. “Azzù, ma che diamine ti sei messa oggi? Poi ti lamenti che non trovi un ragazzo… la collana di vetrini blu infilata nei anti dei jeans dà quel tocco di raffinatezza alla tenuta da garzone disperato…” “Mi domando che ne sarebbe stato di Pollock se tu avessi schiantato le sue opere con uno dei tuoi sobri commenti tipo: ‘bella minestra di vernice’!” Sabina era più matura di me, aveva un corpo di donna fatta, attirava già gli sguardi del maschio adulto, che la spogliavano e la ghermivano. Formosa, ciglia folte, capelli lunghi e assai curati, dimostrava a sua volta di conoscere gli
uomini, i loro modi, i loro capricci, e, sicura del proprio potere su di loro, li stuzzicava con un broncio, una parola lesinata, uno scatto civettuolo. Spesso, non doveva neanche sforzarsi di parlare: un cenno della testa e “il pollo” era suo. Io, testimone pura delle sue conquiste, giocavo, ingenuamente, al grande amore, mentre i miei coetanei volevano solo fagocitare il mondo, “bruciare le tappe”, apparire più grandi, senza il sacrificio delle responsabilità. Fumavano sigarette nei bagni della scuola, prendevano lezioni di guida e soprattutto cercavano spasmodicamente il primo rapporto sessuale per affrancarsi dal marchio d’infamia che rappresentava la verginità. Le loro voci si inspessivano, con brevi corti circuiti di acutezza di un’infanzia che cercavano di strozzare. Il primo bacio, morbido approccio elargito sorridendo nel cortile del liceo, era legato al nome di Aldo, mani ferine, chioma impillaccherata di elastici e palline variopinte e un manifesto tic che connetteva l’occhio destro alla fossetta sinistra, in un tira e molla indecoroso. Quello sbaciucchio liquido sapeva di gomma da masticare center fresh gusto lungo, una rivoluzione indispensabile per amanti maldestri. Di quel bacio, nessuna conseguenza sentimentale. Avevo appagato uno sfizio di quel ragazzo per poi ripiombare in un’ombra anonima. Ma non soffrii molto, perché ero tutta presa dal conto alla rovescia per un importante evento. La Festa della Musica delle scuole superiori era l’appuntamento più atteso, più del pretenzioso ballo di fine anno, con relativa e imbarazzante elezione della miss più scollacciata che veniva insignita di fascia in lamé… alla stregua di una Madonna (Louise Veronica Ciccone) – addolorata – nelle vesti di una qualsivoglia cheerleader in un qualunque telefilm americano. Per dei ragazzini tirati su in un paesino in riva al mare del Meridione, da genitori troppo premurosi per essere attenti ai loro effettivi bisogni, la Festa della Musica era equiparabile a Woodstock: musica scatenata, atmosfera rovente ed effluvi psichedelici. Imitavano tutti qualcuno che copiava qualcun altro, in un domino a perdere. Io navigavo goffa in un camicione carta da zucchero innaffiato di candeggina che mi conferiva un’aria più sudicia che alternativa, come se avessi appena guerreggiato in paludi fetide e bollose con un essere deforme che mi aveva, inoltre, stracciato parti essenziali della capigliatura, col risultato di una calotta frastagliata e malefica. In quell’imperdibile ricettacolo di arte povera, conobbi chi mi avrebbe per primo devastato l’equilibrio emozionale, già viandante alticcio su una cordicella di lino. Eccolo, Teo Messina. Sembrava piombato fuori da un poema epico cavalleresco. Con un’armatura intessuta di scaglie di drago, sarebbe stato un perfetto cavaliere delle Lande della
Depressione post Boncompagni. Occhi a mandorla verde bottiglia, labbra inesistenti, guance incavate e puntinate di una barbetta acerba ma già ingrigita, ciuffo rossiccio che guadava il suo sguardo ottuso come una cicatrice sbieca. Gli occhi di brodo primordiale spalancatisi sull’asfalto sbriciolato del piazzale del concerto cozzavano in sonori corrugamenti contro i suoi stivaletti col rinforzo in acciaio. Marciava come un monaco compunto, un’anca secca appresso all’altra, lungo il cammino della saggezza. Lo pedinavo domando con difficoltà i gridolini, confidando il mio patire incompreso a Teresa, che faceva le veci di Sabina quando le incombenze si spostavano in luoghi fisici o metafisici che la mia compagna di banco bollava come bislacchi. “Terè! Ferma, fermaaa! Dove mi stai portando? Non posso andare da lui così e salutarlo… dal nulla! Ascoltami! Non ci riesco, se solo provo a salutarlo mi stramazza la mano in terra!” “Mi fai davvero ridere Azzù! A parte che il bel tipo, lì, non mi sembra del tutto un genio. Facile che lo saluti ed equivoca il cenno prendendolo per un gestaccio… E magari gli piace, eh! Mai trascurare la componente masochistica in un seguace dei Joy Division.” “No, ti sbagli, la verità è che non potrà mai interessarsi a me. Secondo te che dovrei fare?” “Lascialo al suo male oscuro…” Teresa aveva il pregio di recidere sul nascere tutti i miei deliri autodistruttivi. Con rozzezza, forse, ma con intrinseco spirito pratico. ava dalla logica più grezza alla mera astrazione quando, insieme, imbottite di morbido fumo marocchino dall’aroma pungente, inanellava soliloqui sulla teoria della finestra rotta, sul nim, sul protopianeta e sul punto cieco nello schema di Johari, con la padronanza di un filosofo salace. In quelle occasioni, la fissavo abbacinata, gli occhi due boccini da cui emergeva a sprazzi e singulti uno stupore solenne, la boccuccia penzoloni, un kajal spuntato a reggermi il mento come un leggio per non sbracare in una risata che potesse offendere e lanciare in paranoia la mia amica. Fisicamente, Teresa era tutto ciò che desideravo essere e che non sarei mai divenuta: una silfide dalle spalle minute, con gambe lunghe e sparute e una pelle candida dalla grana finissima, per di più naturalmente profumata di vaniglia.
Parlava e rideva con generosità, gorgheggiando lussuriosamente. Io, invece, così com’ero florida e brillante nella mia solitaria interiorità, nello stesso modo diventavo inetta nell’esprimermi in presenza d’altri. Pensavo alla forma che stava assumendo la mia bocca per ciascuna vocale, le rughette che incorniciavano le labbra nelle U, la muta aggressiva che vestivano gli zigomi a ogni A. Pensavo al mio naso, quel becco d’aquila che mi era spuntato in faccia con presupponenza, scalzando il predecessore tondo e tenero che aveva regnato bonario per tanti anni. “L’adolescenza – mi diceva mio padre – è il periodo più bello di tutta la vita: delicato, esuberante, incolpevole e traboccante di speranze.” Da qualche tempo, ogni volta che apriva bocca, sembrava preparasse un articolo. Aveva sempre un’inflessione sognante nella voce. Al contempo, era, in un certo senso, molto più freddo. Con lui sembrava sempre di star seduti su una polveriera. Lo guardavo interrogativa, come se avesse smarrito il senno insieme alle chiavi di casa. Ludovico, infatti, possedeva un talento raro per lasciare in giro per il mondo i nostri modesti averi. Giorgiana lo rincorreva, quando usciva la mattina presto di casa per andare in redazione, con una cartelletta, un ombrello o una risma di fotocopie abbandonate in luoghi impossibili. “Mi farai secca con la tua negligenza!” “Giò, lo sai bene come sono fatto… per fortuna, tu sei tanto garbata!” e guardava un punto fisso poco più in alto degli occhi di mia madre. “Svelto, che devo andare in negozio!” lo scuoteva mamma. Il bazar di mia madre, “Millefiori”, era un piccolo magazzino pieno di detersivi per la casa e saponi, creme e candele aromatiche d’ogni sorta e misura, un pinzimonio di profumi esotici che rintronavano i clienti per poi riesumarli in celestiali voli. Avevo trafugato dagli scaffali un barattolo di crema rosa compatta come maionese, dal profumo di fichi e cannella, e sotto la doccia ne avevo consumato una buona metà sul mio corpo provato dalla dieta terminale, fatta per somigliare a qualche icona del momento – o almeno era l’alibi che mi davo – che sorrideva al mondo con avvenenza assassina.
Camminavo facendomi largo a spallate, senza che ce ne fosse veramente ragione, tra la folla di studenti invasati, sulle note di una cover stridula di “Anarchy in the UK”. Ma se siamo sotto la suola fradicia dell’Italia – pensavo – e a tutto possiamo aspirare tranne che all’anarchia… bah, ma incoerentemente mi dimenavo scuotendo la testa come una bruta, giusto per non dare nell’occhio con una fissità colpevole. Scrutavo Teo mimetizzata dietro le spalle di un cinquantenne fuori posto e fuori forma, costretto in una camiciola a quadri con pretese grunge, fetente e infeltrita. Su una distorsione da turarsi le orecchie, il mio sguardo, complice la luce radente di un faretto viola, si incontrò con quello fatuo del bel gitano underground. Un guizzo fece per un attimo tremare il cosmo – o almeno così credetti –, mentre oscillavo sulla dogana tra lo svenimento e la frenesia. “Guarda chi c’è, la sorella di Teresa!” Mi sta parlando? Sì! Mi sta parlando! “Non siamo sorelle, sia…” “Va bo’, dai, ce l’hai due, tre monete che ti offro una birra?” “Ce l’ho du… ma co…” “Ah… giusto, tu sei un’intellettuale, magari pure astemia! Se hai i soldi la prendo per me… Ci vieni al chiosco?” Fulminata da quell’ondata bifolca, non ebbi forza di negarmi, troppa era la soddisfazione nel farmi vedere dalle compagne di classe infilarmi nella mano di quell’estraneo alto due metri per svicolare tra le ombre della piazza. “Salute! Come ti chiami?” “Cin! Azzurra.”
“Come il colore?” Perspicace, come no… Teresa, avevi ragione! “Sì, be’, e tu… sei Teo… Alla tua.” “Alla nostra!” Il patto di sangue era stato ratificato: superbo, infinito, per almeno tre anni. Furono anni di sfrigolii di succhi gastrici, di guance rubiconde e fiatoni fischianti, di mani appiccicose di approcci scomodi in automobili di terza mano, di nascondimenti e fandonie, di voltafaccia esistenziali, di luci smorzate e porte sbatacchiate per far dispetto a se stessi. Alla grossolanità giovane e colma. Volai agli esami di maturità precipitando impreparata e spaurita; avevo perso tempo e guadagnato esperienze, rasentato l’anoressia e poi la bulimia prima di una scudisciata di depressione inesprimibile, fumato almeno un migliaio di spinelli e perso una ventina di autobus. La scuola, che mi era sempre piaciuta, era divenuta per me solo un tana di cretini che eseguivano una balorda raccolta punti senza premio finale. Lo scopo era obbedire. A chi? Perché i professori poppavano i dettami del preside come fossero nettare squisito e il preside rispondeva a comandi di chissà chi o chissà cosa, un kaiser venusiano, forse, che ci avrebbe schiacciati tutti con un colpo di zampa palmata. Solo la professoressa Russo, insegnante di educazione fisica, seguiva con gran trasporto i miei angosciosi scossoni, mentre mi reinventavo nella peggiore forma possibile, con slanci azzardati fuori tempo massimo. La scuola era praticamente finita ed era troppo tardi per le prediche, ma Giulia Russo, Giulietta per i colleghi e gli amici, Fiorellino per il marito defunto da tre anni a causa di un tumore che gli galoppava nell’addome, ci provava ugualmente a scambiare due parole con me che le ero apparsa arrogante e arrabbiata al ginnasio e poi, quando avevo deciso di perdere la sfrontatezza buttandola nel vestiario ed ero rimasta una fanciulla indolente, afasica e scompensata, le avevo fatto un’enorme tenerezza. Le ricordavo sua sorella Ines – scriteriata e appariscente, la definiva – che non aveva voluto sposarsi, con massima costernazione della madre, che aveva pronto per lei un corredo all’uncinetto straripante, perché sosteneva a muso duro di bastare a se stessa. Giulia a tratti la commiserava: da sola, poveretta, in quel buco umidiccio al centro storico, a badare a un’infida gatta sempre gravida! – Ifigenia la chiama, ah! Quanta grazia per una boccia molle di
peli! – ma più spesso provava invidia: Ines, davvero, si bastava. “… Serra, ci siamo?” “Uh? Che vuol dire, prof.?” “Azzurra… sei con noi in squadra? O non giochi neanche oggi?” “Ho le mestruazioni.” “Non hanno mai impedito a nessuna di vivere, anzi…” “Sì, prof., ma oggi non ce la faccio…” “Non ce la faccio, non ce la faccio, che cantilena! Hai diciassette anni e ti arrendi senza combattere! Forza, Serra! Forza! Alzati, dai, e vai in segreteria, su, fammi ‘sto piacere, recuperami la circolare importantissima con cui mi inseguiva prima la bidella… Solo rogne… SOLO ROGNE, ragazzi miei!” Mi piaceva, la Russo; non si rivolgeva mai a un alunno come se fosse uno tra i tanti, assimilabile a una potenzialmente infinita schiera di portatori d’acne terribilissima che aveva potuto conoscere in venti o più anni di malpagato mestiere. Non alzava mai la voce. Non era arrogante. Se parlava con te, parlava di te e di nessun altro, e mai sminuiva i tuoi problemi, non ti canzonava, non ti tiranneggiava. Al massimo, cercava di farti ridere. Geografia Astronomica… ripieghiamo sulla Filosofia; Filosofia e Storia, figura di merda cosmica; Letteratura italiana, fallimento matematico; Analisi Matematica: ermetismo ungarettiano! Impreparata, mi sentivo paurosamente impreparata! Racimolai a ogni modo una valutazione positiva, avevo pur sfacchinato per anni, anche se ero inciampata nella fettuccia del traguardo senza capire bene se mi ero fatta più male per la caduta o per la vergogna della capitolazione. Disfatta: quella repentina percezione di lava negli occhi, un pizzicore che frizza e sforacchia i bulbi piliferi delle ciglia inferiori fino a tracimare e reclamare in uno starnuto d’animo vinto. Leggero. Come un refolo, volteggia e s’innamora delle tenebre di una vita senza pace.
A casa, poi, si distingueva netta un’inquietudine nuova; avrei dovuto iscrivermi all’università, era chiaro… Dopo il liceo che altro vuoi fare… andare a vendere candele con tua mamma? Studia! Fatti dottoressa! Corona d’alloro e ghirlande d’aromi vari, poi a mollo nel paiolo dei disoccupati d’alto bordo, con più motivi di attaccarsi alla canna del gas degli altri. Mio padre non si dava pace. Non aveva mai accettato il fatto che mia madre non avesse avuto ambizioni professionali e che, finita la scuola dell’obbligo, avesse preferito, utilizzando i soldi lasciatile dal padre, aprirsi un negozio. Per me, vedeva un futuro da intellettuale, da professionista, ma i tempi stavano mutando. In peggio. Ludovico e Giorgiana non lo vedevano, era solo un puntino sull’orizzonte rosa pesca, un neo, un moscerino attaccato allo schermo della TV nuova, con l’antenna parabolica, una visione mistica sul cornicione affumicato, presa con gli straordinari. Io intanto ero indecisa fra due o tre facoltà, nessuna delle quali convinceva i miei genitori che, da quando avevo stabilito, o forse no, di vivere un’adolescenza lunga e fino in fondo, temevano che se mi fossi troppo allontanata da casa e dalla loro stretta sorveglianza, mi avrebbero persa per sempre, com’era capitato allo zio Luca, il fratello di mamma, che del figlio, Gianmarco, un trentenne alla deriva, non sapeva più niente e non voleva comunque sapere… Tanto c’era Vittorio, il piccolo di casa, un dodicenne saccente e pingue, che gli dava tante soddisfazioni. Tipo le lodi untuose dei professori riuniti della scuola media statale “Falcone e Borsellino” e la vista indecente della catechista Maria Gabriella, nota peripatetica, che tra un sussulto e l’altro faceva sgusciare fuori dallo scollo della maglietta una porzione di mammella giallastra e rigonfia come un caciocavallo. Gianmarco, intanto, chissà dove dormiva.
“…Bologna, Firenze… mmm, non lo so! Tu che ne pensi? Lettere moderne, forse, oppure l’Accademia… Mi ci vedi? Indirizzo pittura! No, no! Ci sono: voglio fare la stilista!” “Mmm, però! E Archeologia no? Azzurra Jones e il tempio maledetto!” “Sabì, per favore! Chiudi quel buco indisponente che hai in faccia… ridi proprio come una foca!” “Le foche non ridono!”
“Eh, appunto… loro ancora lo conservano un po’ di contegno!” “Bando alle ciance… quel che penso io è che non ti daranno mai, e dico mai, l’ok per nessuna di queste mete… Prova… ma sento di aver ragione, chiamami pure Cassandra!” “Cassandra!” “Ahah. Già sentita.” “Almeno hai smesso di smascellarti!”
“Oh… mammaaa…” “Tesoro! Sono in cucina, vieni! …Ma cos’è quella faccia?” “Mà… secondo te quante possibilità ci sono che io possa frequentare l’università via da questa landa infelice? Ho pensato che forse potrei iscrivermi a Milano…” “Parla con tuo padre…” “Ma papà non mi ascolta! Ogni tanto si sveglia e dà direttive, come se, magicamente, dal suo faro invisibile, sapesse quello che io posso e devo fare, molto meglio di quanto io possa immaginare!” “In un certo senso… è così!” “Non iniziare anche tu!” “Abbassa la voce, Azzurra! Ci manca solo che quella linguacciuta della signora Grande si lamenti che facciamo chiasso… certo non prima di aver origliato per una buona mezz’ora! Ma non ha niente da fare, mi chiedo?! Dico io, andarsi a fare una eggiata, guardare un film?! No! Da quando è in pensione sta sempre in agguato dietro le tende. L’altro giorno mi ha fermata per le scale… mi fa: ‘Signora, come va col maritino?’, che svampita! Ah! Aja, aja! Tesoro mio… ami la presina, che sta andando a fuoco la parmigiana! Nomini la Grande e capita sempre qualcosa!”
“Ma io sto parlando del mio futuro, che me ne importa della parmigiana e della signora Grande?” “Cara… abbi pazienza… Tieni, uff… reggi la forchetta… Non possiamo commettere uno sbaglio del genere, con te. Hai visto Gianmarco… Poi non si torna indietro. Hai dato netti segni di squilibrio, sai, in quest’ultimo ann… Aaaaaaajaaaaaj! Mi sono scottata! Chissà che saresti capace di combinare a Milano… oppure altrove… Scordatelo! E mangia un po’ di più, mi fai preoccupare… ma… quanto pesi?” “Io… io…” Battagliavo per reprimere una lacrima caustica che, vinta finalmente da un sonoro risucchio, mi colò giù nel naso e poi nella gola tesa. “Tu non sai nemmeno che vuoi!” “Non è vero… io lo so cosa voglio: me ne voglio andareee!” “E invece resterai. Scegli tra le facoltà che ci sono qui… insomma, non è mica una tragedia, prendi l’autobus la mattina e vai… Ti svegli presto e stringi i denti… se vuoi studiare. Tua nonna lo dice sempre… chi non sta bene a casa sua, non sta bene da…” “Da nessuna parte… e blablablà! Ma che significa? Niente significa! Non si possono mica adattare queste sentenze a ogni situazione!” “Voce di popolo…” “Mam…” “Voce di Dio!” “No, va be’… Ciao, esco con Teresa…” “Non mi piace questa Teresa! Proprio no! Ma si può sapere chi sono i genitori di questa… di questa…” “Amica, mamma. È una mia amica! Io vado.” “Azzurra… il pranzo!”
Le dipendenze sono monotone, escludono dal proprio raggio qualsiasi altra attività, svaporano l’iniziativa, offendono ed effondono se le tue forze ai venti contrari, senza criterio. La più infida è la dipendenza affettiva.
Capitolo II
Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. SYLVIA PLATH La campana di vetro
Diciotto anni e scarpe rotte e puzzolenti, testimoni della condensa degli anni. I lacci arrocciolati intorno ai polpacci che assomigliavano a salumi frollati. Rombi di pelle secca che scorrevano sotto le dita intozzite dalle cuticole divelte con una spilla d’argento. Con leggiadria e nervosismo, incrociavo le cosce intirizzite di un bianco cinico. Il filtro della sigaretta sottile mi si era incollato al centro del labbro inferiore, fenduto e carnoso, e una microscopica goccia di sangue macchiava la cartina. Un tocco compatto e lieve di cenere mi cadde preciso nella scollatura della canotta in cotone bianco, bagnata di sudore. Mi guardavo intorno agitata, come se avessi smarrito l’orientamento. Il mio riflesso, sull’anta del frigorifero verdognolo lucidata, aveva almeno cinque differenze considerevoli con la mia reale sagoma. Sembravo un personaggio intrappolato nell’algido dipinto di Edward Hopper “La sera azzurra”, soverchiata dalla società moderna e dalle sue creature di plastica, impossibilitata a confrontarmi con gli altri che, come me, vittime ricurve e laide per le quali nessuno riesce ad avere pietà, si eclissavano tra ombre e spigoli, rifuggendo la vita. Quando le poche amiche rimaste, qualcuna per l’università, qualcuna per fare la commessa in un negozio di abbigliamento – insipido avvenire toccato in sorte a
Sabina, che nell’impiego di venditrice trovò comunque appagamento per il suo spirito salottiero –, mi venivano a trovare, ruotando leggermente il profilo a sinistra per dissimulare, rendendola ancor più manifesta, un’affettata apprensione, appena si chiudevano la porta metallica del condominio alle spalle, cominciavano a deridermi, infiocchettando i fatti con voce acuta e stereofonica, ingoiando due strati di smalto prugna glitterato coagulatosi male sulle unghie che rosicchiavano. Sogni… sogni lontani, sogni vicini… Sogni di uno zotico con la Volvo che le conducesse via lontano, sgommando, dal paese. Sogni di lotteria, di pupazzi di sabbia con telline al posto degli occhi, di autoreggenti e macramè, e di colazioni indigeste da Tiffany. “… Meravigliato da luoghi meno comuni e più feroci,/tipo ‘Come ti senti amico, amico fragile,/se vuoi potrò occuparmi un'ora al mese di te’…” cantava un piacente ragazzotto dagli occhi blu, imitando l’immenso Faber, sulla melodia fievole di “Amico fragile”, riarrangiata con trascuratezza in un talk show su RAI 2. Lacrimavo e buttavo in gola, senza quasi sentirne il sapore, panini imbottiti di confettura di amarene, pizzette tonde guarnite con origano, blocchi di cioccolata al pistacchio tuffati in panna spray King, fette d’ananas sciroppate con amaretti duri come cemento; ciancicavo popcorn senza sale e melanzane gocciolanti d’olio al pepe nero; succhiavo mandarini cinesi e uva sultanina. Leccavo burro d’arachidi dalle dita e dal dorso delle mani, fino a conciarmi la pelle arrossata e gonfia. Il buco in pancia non si riempiva. La fame vera restava. Allora via in bagno, a scorticarmi le nocche con i dentini candidi, a buttare la vita in filamenti di moccio giù negli acquedotti di una cittadina sorda e stronza. Quando mi chiedevo perché mai mi fossi innamorata di Teo, non trovavo risposta. Non l’aspetto, i suoi folti capelli rame, non il (miserabile) carattere, non una dose particolare (o particolarmente originale) di intelligenza. Teo era diventato mio, sin da subito. In barba a chi sostiene che non esiste possesso o che non può esistere possessività. Teo era come la mia bambola da pettinare, la mia collezione di libri, il mio stesso, fragile corpo. Con lui, sentivo di combaciare, due organismi interdipendenti: cuore, gola, intestini, vibrazioni vocali e fluidi materiali e immateriali. L’odore delle nostre epidermidi era il medesimo: metallico, dolcissimo, come caramello bollente, confortante e arrotondato da note di talco. Ci leccavamo per ore e per ore dormivamo, crepuscolari e invadenti come pipistrelli. In effetti, non facevamo niente di interessante, insieme, ma l’idea che
il tempo fluisse lentissimo, a volte noioso, sprecato, vischioso, mi dava quel porto che avevo disperatamente agognato per mari e per anni. Non esiste un tossico in preda all'ansia per l'astinenza che si preoccupi di cosa farà l’indomani. E Teo era un tossico da manuale. “Teo, come mai ti piace così tanto… l’eroina?” “La nera… l’ho provata per la prima volta con mio fratello. Lui la fuma e la vende. In quel periodo, avevo scoperto che mia madre aveva un amante, forse due, e che mio padre, per vendicarsi, se l’era fatta pure lui, l’avventura. Io non sapevo chi tradire… così… bah, diciamo che ho tradito me stesso. E tu?” “Non lo so. Era tutto troppo poco. Le altre droghe, le altre… tutto, tutto troppo poco! La roba mette a tacere ogni domanda. Dormo: sono felice. Felicissima. Non so se a te fa questo effetto, ma io, appena la tiro, mi sento come un petalo di margherita. Profumata, allegra, leggera, senza paranoie... Per ore, senza capire, e dopo ore accorgermi che non ci sono ore, che il tempo non esiste; perché lo senti che… No. Sbagliato. Lo sai con certezza, con la roba, che il tempo non esiste. E non c’è differenza tra ciò che sei e ciò che desideri. Io… io sono un angelo. Poi, a l’effetto e ruzzolo. Ma non mi faccio male. Tutto sommato… la realtà non mi dispiace. Ho te.” “Amore… Quando è scoppiato il putiferio, a casa mia, e Amedeo, mio fratello, s’è rotto le palle ed è andato a convivere con la fidanzata… Alessia, quella che ogni tanto espone dipinti in galleria a via Dei Monti, hai presente?” “Sì, Alessia… come no, ho capito, una volta mi voleva scannare col coltellino per il fumo perché credeva che le avessi fregato una bustina. Girava per il parco esagitata, con quel dalmata che si porta sempre dietro, Lillo, come si chiama? e cercava pure sotto le pietre, come una pazza. E diceva di sentire gli elicotteri della polizia… gli elicotteri! Ti rendi conto! Secondo me se l’era sparata tutta e le aveva fatto pure male.” “Sì… Be’, io stavo a casa tutto il giorno, nessuno mi veniva a trovare, solo Marco, il mio vicino, mi portava dei DVD porno, di tanto in tanto…” “Teo!” “Dicevo… chiudevo la porta a chiave e mi affacciavo alla finestra della mia stanza e guardavo la città e poi oltre, la pianura, spolverata di nebbia sottile,
giardini e case perfette, cubiche, grigie, delle zollette di cemento… Insomma, io mi chiedevo se ci fosse, per me, una persona ad attendermi, a sognarmi… e già con la mente ti venivo a cercare, avevo urgenza di te.” “Questo è… molto…” “Ssshhhh. Resta immobile. Questa luce ti divide in due il viso… La sorpresa e la gioia più candida. Sei perfetta, Azzurra. Bella da piangere…” Fu la prima volta che lo sentii parlare a quel modo, usando quei termini delicati. Aveva, infondo a sé, un mondo dipinto, ma con difficoltà lo lasciava emergere. Temeva che lo invadesse e lo ponesse di fronte a una scelta definitiva. Me, la tranquillità, la vita.
L’autoradio scaracchiava “Five years” di Bowie, lato A della cassetta, e Teo guidava con le ginocchia, mentre con le mani rollava una canna. “Piaaanoooooo!” “Che… non ti piace la canzone?” “Sì, ma vorrei aver vita a sufficienza per sentirla tutta!” Approdavo sconfitta, famelica, presa da un allarme malinconico. Risate fracassanti mi tappavano le orecchie, mentre un indistinto pericolo si aggirava percorrendo triangoli chilometrici su quel cruscotto stinto dal sole. Dove mi trovavo? E perché? Attimi affogavano nella sicurezza di un movimento celere, con battiti pesantissimi su un rottame di macchina concava ai lati. Rotatorie che non portavano alla sorgente, l'ansia di solitudini, l’infelice zibaldone prima dello scatto sul gradino più alto del podio. Riflessioni lasche come pasta scotta si sfibravano sui muri verde trifoglio del centro, mentre addensamenti di sospiri congelavano la perfezione. Parole ricorrenti come sintomi dettavano moda, SVOLTIAMO UNA STORIA UN QUARTINO
con definitiva scelta di non scegliere. Quando mi inalberavo, dai lineamenti del mio volto affioravano quelli di mio padre, anche i miei colori mutavano, ero più scura, ombrosa. Riemergevo più lucida e spaventata. E la radio andava da sé. Lato B, Emilia Paranoicaaaaaaaa! E_ MI_ LIA_ PA_ RA_ NO_ oioioioioi_ CA_ Posso essere uno stupido felice un prepolitico un tossicomane quello che se ne va nelle storie d'amore… Chiedi a Settantasette se non sai come si fa! “Vai piaaanooo! Abbassa il volume, poi! “… La senti l’indifferenza?! Azzurra! La puoi sentire, l’indifferenza?” “Ma cosa blateri?! Rallenta e basta.” “Ha fatto la fortuna di Ferretti questo pezzo.” “Fortuna…” “Dai di matto, se capisci come lui.” E poi sbadigli… Sul bus che porta al campus, in fila per la mensa, sbadigli in volute spesse, su, su, fino al soffitto guasto della segreteria studenti. Psicologia: un rifugio per futuri schizzati con la licenza di reprimere. Sbadigli e sbagli. La foto sul libretto era una miniatura ottocentesca di una principessina bizzosa. Psicologia Generale, Psicologia Clinica, Psicologia dello Sviluppo e dell’Età Evolutiva… prendevo un 28 dietro l’altro senza toccare libro. Il livello medio era scarso e io ne approfittavo. Non ero motivata, volevo solo che finisse presto. Seguivo le lezioni rinverdendo la vecchia abitudine di disegnare arzigogoli sul blocco degli appunti, specialmente quando la professoressa Brunilde Gozzi, una sciantosa in collo di pelliccia volpina, intrisa di una mistura orientaleggiante di Toscanello Speciale e Chanel Allure, si perdeva compiaciuta in monologhi su Freud e l’Es, clandestina in un’arnia di rughe. Mi confidavo con Teo, il più delle volte senza che ciò servisse a consolarmi. “Ci sono degli insegnanti (molti insegnanti) che non immaginano affatto che uno dei loro alunni (o più di uno, perché no) potrebbe diventare (che so) una stella
del cinema, un Nobel per la pace o per la letteratura, o la punta di diamante della nazionale (per dire) di pallamano. No, no… Mediocrità! Questa è l’aspettativa, che molto spesso coincide col risultato. Alunni medi, neanche troppo alti o troppo grassi, capelli castani, scarpe da ginnastica all’ultima, scontata moda e jeans… blue jeans (direttamente dalla serie di romanzi di Ian Fleming… Ah… no… quello era Bond, James Bond, con doppio zero e amante esotica)! Insegnanti anche bravi, bravissimi… con letture raffinate e corsi di aggiornamento validi sui curriculum che diffidano delle proprie capacità di comunicare e formare e del fatto che forme d’intelligenza qualsiasi possano manifestarsi nelle classi a loro affidate… Mortificazioni preventive, interrogazioni a tappeto tanto per confermare, dentro di sé, l’idea che no, non c’è un buon domani, no, non c’è niente da fare… Ma… mi ascolti, Teo?” “Mmm?!”
Amara fatalità quella di nascere una persona sensibile, perché certe cose, sì, le più fraudolente, ce le hai conficcate nei geni. Ci nasci, inutile lavorarci su. Se, poi, questi geroglifici permanenti si tessono col cascar male in mezzo a persone che non sono, ci si può scommettere, dotate della benché rude, flebile, sensibilità, la maionese impazzisce e si tira dietro l’inimmaginabile. La tua vita gira l’angolo buio, mutandosi in un grattugiare di morsi e mostri notturni, un digrigno perenne, un’ulcera sanguinolenta, maligna, un’impellenza imbarazzante di distruggere tutto e/o di rivelarsi, sviscerarsi, cioè portar fuori le proprie viscere, sbatterle sul tavolo del macello e poi ritirarle e pulire tutto, per la vergogna di essersi esibiti, nuovamente sbagliando, nell’identico modo, aspettandosi dagli altri ciò che non ci potranno mai dare, una buonanotte che faccia tacere tutto quel masticarsi le emozioni.
A lezione, mi sedevo sempre nella fila centrale, quell’Equatore morale che divide i lecchini dai disamorati e permette ai miopi di vederci e capirci qualcosa. Che poi i posti s’erano già decisi il primo giorno, secondo ispirazioni arbitrarie eppur precise. Ciascuno sapeva già, mosso da un fuoco interiore, dove collocarsi, a chi rivolgere o non rivolgere la parola, se scegliere il tramezzino con pomodoro o con tonno. Scelsi il tramezzino con pomodoro. E Dafne Barbieri.
Dafne… come l’amante sventurata di Apollo, un nome che, nel pronunciarlo, compromette le labbra, i denti, il palato, la lingua; breve e turbante, come il nostro primo incontro. Si presentò colante di foga e rugiada, ottenebrata da un’alzataccia mattutina che le era costata una caviglia gonfia, tre ciglia smarrite per sempre sulla federa e un alito approssimativo. Il limbo dei ricordi censurati le galleggiava in fronte e le colorava le iridi di un giallo più comune tra i felini. Con voce roca, pronunciò il proprio nome, lampeggiante dietro una sfilza di grugniti indecifrabili. “Oh… è libero qui?” Senza far caso al mio annuire irresoluto, si piazzò sulla seggiola cigolante e aprì un quaderno sciupato appuntando qualcosa con l’urgenza nelle mani piccole e cianotiche. “Che freddo! Ma i termosifoni zero, eh? Meh! Risparmiano… i nostri soldi! Senti un po’ Rinaldi, lì, come pontifica… e chi lo regge?! Quello mi boccia… lo so, lo so già! Inutile stare ancora qui! Vado a fumare, tu vieni? Ooooh! Mi senti?” “Sì, ma… dopo, magari. Devo prendere appunti, poi non ho il tempo per studiare. Sono pendolare…” “Boh, ok, allora… a dopo... Ti chiami?” “Azzurra… sono Azzurra. Come il colore!” “Sì, certo… Azzurracomeilcolore! Bella… Sei davvero bella… Dai, ci becchiamo qua fuori.” Bella? Io? Ma… ma… che mal di testa feroce! Voglio morire… pensai, ma sogghignavo senza posa. Al secondo anno di università, avevamo deciso di andare a vivere insieme. Amiche indivisibili. Due spiriti inquieti che avevano trovato pace solo in un avvitato abbraccio. La mia famiglia aveva un po’ mollato la presa, visti i risultati eccellenti che riportavo, e quella di Dafne, dedita a qualche rigido culto subcattolico, preferiva
pregare per un ravvedimento piuttosto che educare i figli. Eravamo libere. “Grazie a Dio, Dafne,” ripeteva spesso suo padre, “i ricchioni sono di meno dei normali!” “Che ne sai, hanno fatto una statistica? Non ci sarà mica il censimento gay?!” “Sono… sono pervertiti! Quel tuo ex compagno di scuola, là, Vattelappesca… hai capito! Se l’è trovata una ragazza?” “Ma no! A Cesare non piacciono le ragazze…” “Magari ha cambiato idea… Comunque almeno lui ci viene in chiesa, la domenica. Tu perché non vieni? Ti senti superiore a noi, perché studi, perché parli bene… Ma l’anima? Dovrai superare l’esame col Signore, un giorno!” “…Cesare lo obbligano… E poi non si può cambiare idea… ma che dici?! Comunque, se vogliamo parlare di pervertiti, a essere violentate sono in prevalenza le donne, anche le bambine… E a violentarle sono uomini… e di certo non sono gay…” “Ma in che mondo viviamo, dico io! Ahhh! – Pausa. Sospiri angosciosi e angoscianti – Sia fatta la volontà di Dio!” Nella casetta dickensiana (una vecchia profumeria adibita a monolocale) che avevamo affittato, Dafne, una Dalila androgina, potava pericolosamente le mie chiome, finché per terra non s’era formata un'Atlantide di capelli. Ma la questione non erano i capelli. Con un look da ultimo mohicano si potevano ancora confondere le acque, negli anni in cui per due ditate di rosso sangue sulle occhiaie, a mo’ di correttore, si gridava allo scandalo e la gente ti fermava per chiederti che significavano quei segni dipinti sulla tua felpa. Gli anni delle Bestie di Satana, delle tute blu con le bande bianche, da carabiniere scolorito, e delle cassiere che davano caramelle dure all’arancia e al limone come resto. E tu eri felice che gli spiccioli fossero finiti. Due caramelle potevano far bene al cuore. Il mio patetico soliloquio epistolare con Teo ricordava “Le tue lettere hanno occhi”, quando Boris Pasternak non rispondeva ad Ariadna Efron, per lunghi periodi. Eppure, la deportata in Siberia era lei. Gli scrivevo, da quando avevamo litigato, in modo più grave del solito, apionate lettere che, non appena le
imbucavo, avevo sempre la sensazione di spedire a me stessa. Se l’amore ha la miccia corta, prima o poi, nello scoppio, ti fa volare le mani e la faccia. E le mani volano a coprire quel vuoto dove prima c’erano i tuoi occhi. E la faccia è caduta a terra, un piatto rotto, come quando Teo mi umiliava. Stessa condizione: faccia a terra e piatti rotti. Sottomessa e inutile. Io che gridavo la mia indipendenza, non sapevo nemmeno cosa fosse. Degli anni con lui, ora mi ricordo le sue spalle. Girato a guardare dalla finestra della cucina – non più cercando me – le tegole d’amianto solcate dai gabbiani. Faceva così lui, a un certo punto non parlava più, piovesse pure giù la cupola affrescata a nuvole; le labbra bugiarde inspessite di livore, morsicate nella mucosa interna, al comparire di un pensiero violento. Pensiero che, allattato nella vile penombra, cresceva in pugni ai muri, coiti feroci e calci nel mio stomaco già provato. La cosa più bella dei cimiteri è che sai che le persone che hai amato e sono morte stanno lì e tu puoi andarle a trovare quando vuoi, o non andare; puoi mancare la visita per anni, puoi are di sfuggita a posare un fiore finto, una fotografia, un peluche, un laccio per capelli, una sigaretta. Non andranno più via, non ti negheranno più l’ascolto, un sostegno per le ginocchia quando cadrai frazionandoti in lacrime. Non ci sono più, eppure non ci sono mai state così tanto, così profondamente. Teo morì all’età di venticinque anni, uno svolazzo goffo dal motorino. Strafogato di roba, sfrecciava sull’asfalto fregandosene dei semafori… Una macchina addosso… Un boato. Una frenata fumante. Sulle ginocchia, sul torace. La faccia una pustola di catrame. Silenzio. Spaventoso, ridicolo silenzio.
Quando il nostro oggetto d’amore è presente, tutte le nostre attenzioni ed energie sono focalizzate in quel punto. Ma non siamo distratti, non siamo fuori dalla realtà, la nostra concentrazione è spasmodica, riusciamo invero ad afferrare anche il più piccolo dettaglio. È come se, ineluttabilmente, tutto lo spazio intorno collassasse in un solo istante. …Caro Teo, non ce l’ho fatta a metterci in salvo. Ora, devo aprire gli occhi, e affrettarmi, non è più età di camminare al tuo o. L'amore è come un simposio; non si offre.
Se si è li, è per nutrirsi insieme. Mi sveglio e lo sguardo gira in tondo e questo mondo stretto è l’unico che m’appartiene. Devo uscire. Senza le tue mani, afferro le mie, l’una avvinta all’altra. Vieni al riparo, nel mio nido di dita, nessuno potrà più ferirti. Sono un reame sotto il tuo potere e ti celebrerò, ostinatamente, come un bimbo sprovveduto, anche se questa pace inventata, scesa su di me, mi lascia debole. Ora comprendo che cos’è la fine di un amore. Perché le onde si spezzano sulla battigia? Non sanno davvero che oggi è la fine… la fine del nostro mondo? Perché i miei occhi non versano lacrime? Ogni volta è una violenza, ogni volta che domanderanno di te, per abitudine, ogni volta che saprò di te, dovrò rintracciare le mie radici, buttarle al cielo e inghiottire, come un flutto marino, sabbia e sogni. Tra le increspature, sono ancora una donna intera.
Finito di scarabocchiare la mia ultima lettera per lui, pensai che era una vita che vedevo esseri umani tentare di sollevarsi in volo come aquile per poi rovinare al suolo come moschini. E io sempre là, svigorita e inetta, a tormentarmi… Avevo avuto un solo punto debole e ora si era dissolto come guazza ai primi raggi di sole.
Capitolo III
Le pistole non sono legali; i cappi cedono; il gas puzza da morire; tanto vale vivere. DOROTHY PARKER
Il capodanno l’avremmo ato a casa dei genitori di Dafne. I suoi erano in Puglia da parenti rumorosi e religiosi. Da sole, io e Dafne: due murene dal morso velenoso. Contente solo se insieme. Apprezzavo oltremodo il tragitto in ascensore. Quella grande incubatrice mobile rappresentava un perfetto mediatore tra il formicolare rintronante della strada e la collisione, sempre un po’ ansiogena, con una nuova casa, una nuova faccia, una nuova voce. Allo scoccare della mezzanotte, haaaaaaappy new yeeeeeeaaar e baci regolamentari, in girotondi con in mano il pandoro Bauli. Dafne minacciava di salutare il nuovo anno piroettando con un fischietto da stadio stretto tra le natiche avviluppate in pantacollant a strisce bianche e nere. Io mi consumavo in risate volgari, dal balcone della cucina. Fumavo una sigaretta di tabacco Golden Virginia verde e guardavo i primi timidi fuochi d’artificio, delle bocche di leone sfolgoranti che si ingrossavano in cielo. Davanti a me, più vicino, tre file di panni stesi da giorni. L’istintivo gesto, tra una boccata pastosa e acre e l’altra, con il quale rigiravo i panni umidicci sul filo, appendendoli in modo che finalmente s’asciugassero, aveva qualcosa d’arcaico, triviale eppure
spirituale che incantò per un attimo Dafne, che mi osservava. “My darling, ora si esce! Cosa credi, che stiamo qui a fare il bucato? Infilati la giacca che fuori si gela. Ce ne andiamo al Camelot!” “Scema. Ad estrarre la spada dalla roccia?” “Animooo, vitaaa! Ho una sorpresina per te!” Due eroine di un film pulp, carponi, nel bagno confettato di mattonelle bianco sporco (il ventre umidiccio di una meringa assassina) del Camelot, una discoteca senza preteste se non quella di troneggiare abusiva sulla spiaggia del lido Villa Monica. Dafne tirò fuori un involto di stagnola. Dentro il cartoccio, una pellicola trasparente. Dentro ancora, un mix di pasticche colorate tritate. Gli occhi di entrambe brillavano di gioia. Le mani di Dafne tremavano come al solito, un po’ per davvero e un po’ per atteggio. Somigliava a una sposa, l’abitino di organza bianco le solleticava le ginocchia depilate con la lametta. “Ci siamo, è fatta!” strillò, dopo un’abbondante tirata. “Dammi qua… – feci una piccola, sacrale pausa prima di chinare il capo e inalare la poltiglia rossastra – Ahhh, che schifo! Ma è amara da vomitare! Mi brucia la gola… non è che ci sentiamo male?” “Senti un po’, Woody Allen, non è mica zucchero a velo!” Dafne era raggiante, rideva di gusto. Fuori, un vento torrido pettinava le palme e la sabbia umida. Una ragazzetta dai capelli vaporosi prendeva a calci la porta con furia. “Echecàzzo, oh! Vi muovete? State dentro da mezz’ora!” “Dafne, alzati… usciamo! Tra un po’ ‘sta fusa butta giù la porta!” “Oi, eccomiiiiii… Aiutami!” chiocciò. Il colorito anemico di Dafne contrastava nettamente con le sue occhiaie, due arcobaleni spenti che le cullavano le orbite lacrimose. Le labbra languide, pizzicate da una perla di muco cristallino che le gocciava dal naso, vibravano di paura ed eccitazione. “Alloraaa, la aprite la portaaaaa? Cristodiundìo, mi sto pisciando addossooo!”
La porta unta di salsedine cedette con uno scrocchio alla mia manata secca. Uscimmo a testa alta dalla bicocca, sguardi superbi e movenze schive e furtive da gatte. Come gatte, davvero, di solito di giorno sonnecchiavamo placide su cuscini di gommapiuma. Sbracate davanti a una stufetta a gas, raccogliendo energie in attesa del tramonto. Allo sbocciare della mite notte di quartiere, diventavamo potenti, ebbre di possa deflagrante, bellissime nei quattro stracci muffiti che ci coprivano. Delle valchirie in alti anfibi di pelle nera, con uguali cinture puntellate di borchiette. Non ci scalfiva il vento, non ci guastava il tempo, non ci turbava lo sguardo un po’ di biasimo e un po’ d’invidia della gente. Credevo potessimo stare in equilibrio per sempre, su quella pazza gioventù. E, semplicemente, fluire. In un documentario una volta ho sentito dire che le gatte, quando i cuccioli hanno appena quattro settimane, portano loro la prima preda viva… è una specie di iniziazione. Poi, a cinque settimane, gli insegnano i fondamenti della caccia. I gattini sono indipendenti tra le otto e le dodici settimane, ma il distacco avviene già all'età di otto settimane, quando le madri scacciano seccamente i cuccioli.
Aizzate dalla notte e dalle paste, corremmo leggere fino al bagnasciuga. Uno sguardo d’intesa, una risata affannosa e poi il tuffo. Giù, dentro l’acqua poco salata e fresca dello Ionio. Le luci del lido Villa Monica, appannate nel riverbero della spuma contro le ciglia pesanti di mascara, formavano una mappa misteriosa. Luce rossa, luce viola, pausa. Un’esplosione coronarica e via, su nel cielo pece… Ormai Dafne mescolava droghe e disparati psicofarmaci ottenuti con facilità in farmacia con prescrizioni false e la farmacista non batteva ciglio nemmeno quando le domandava una siringa da insulina. Affondavamo l’amarezza con il gin lemon (molto gin, poco lemon). Avevamo alle spalle lunghi peregrinaggi in mete distrofiche. La mattina del primo gennaio ci destammo sudate e stordite nel lettino intatto della stanza di Dafne. Il lenzuolo turchese, un po’ ragnato, aveva vegliato teso e altero come una guardia svizzera sotto i nostri corpi magri e spossati e i capelli
chiari e lucenti. Mi tirai su aiutandomi con i gomiti. La mandibola dolente, il collo rigido e la schiena fiacca mi suggerirono che il nostro riposo era stato breve e scomodo. Indosso, avevo solo una felpa, aperta sul davanti, nera, con delle scritte rosse in inglese. Non ricordavo di averla indossata né di averla mai vista prima. La annusai a fondo: sapeva di buono, di ammorbidente. I miei vestiti invece eccoli, appoggiati su una sedia, grondanti d’acqua, avevano formato per terra una pozzanghera. Alzai le spalle come a dirmi “va be’” e pensai di richiamare l’attenzione di Dafne, persa di nuovo in un problematico dormiveglia, perché ormai, a giudicare dai fasci di luce che, penetrando le veneziane, spezzavano la stanza in aree asimmetriche come in un quadro di Kandinskij, doveva essere molto, troppo tardi. Ricordo con limpidezza che Dafne, come se dal limbo avesse percepito la mia premura, disserrò di scatto gli occhi affossati ma sempre belli. Come me, anche lei, pur possedendo un selvaggio fascino, era estremamente insicura. La sua paura di non essere all'altezza, però, la faceva sempre salire di un gradino. All’improvviso un tonfo, uno scalpiccio, uno srotolìo di i, una botta metallica che annunciava guai e poi una luce accecante, intollerabile. “Dafne! Stupida… puttana!” Ero terrorizzata. Non poteva essere… “Vieni fuori dal letto! Subitoooo!” Un ceffone rovinò sulla guancia sinistra di Dafne. Poi la mano ostile si avvicinò al mio viso, ma si ritrasse sussultando. Negli occhi di suo padre, solo disgusto e furore.
Ci sono clessidre che ci impiegano più tempo del dovuto a girarsi e ti lasciano svuotato a metà. Ma poi, basta un solo granello a fare la differenza; così la vita riprende a fluire mansueta, disposta a lasciarsi alle spalle i CC e la DC, i segreti di Twin Peaks e quelli di Fatima, il mascara blu per capelli, e notti calme, giorni belli, Filtrofiore Bonomelli. E c'era tutta un'altra letteratura, omnia munda mundis! La tolleranza dovrebbe poi essere una fase di aggio. Dovrebbe portare al rispetto. Tollerare è offendere. Le amicizie con tutte quelle che la chiamavano
“tesoro”, appellativo che le aveva sempre provocato l’orticaria, erano colate a picco. Un braccio attorno al collo la faceva sentire sottomessa. Un abbraccio era troppo carnale se dato al di fuori di un film di Truffaut. Dafne era così, rispettava l’altrui libertà e non accettava omelie. I suoi più intimi contatti sentimentali erano le batoste del padre, Diego Barbieri, un gigante calvo dagli occhi celesti sempre in cerca di una ragione per incollerirsi. La compagna, Tamara Ozols, non era la madre di Dafne. Tamara era una donna lettone di trentacinque anni che Diego, dopo undici mesi e ventiquattro giorni di caste, gelide tenebre dalla scomparsa della moglie, Arianna (non era morta, era stata assunta come segretaria part-time a Coreglia Ligure, nello studio commerciale del dottor Moretti, ex amante e attuale compagno), aveva conosciuto al bocciofilo, durante un torneo regionale. Lei serviva bruschette profumate di basilico ai tavoli dell’angolo bar e lui giocava peggio del solito.
Capitolo IV
Non avrebbe mai dimenticato quella breve stagione. Mai avrebbe ritrovato esattamente quel genere di piacere. Ci resta sempre in fondo al cuore il rimpianto di un'ora, di un'estate, di un fuggevole istante in cui la giovinezza si schiude come una gemma. IRÈNE NÉMIROVSKY
Sembra così barbaramente scontato che l’emulazione di personaggi cosiddetti “negativi” possa modularsi sugli stessi ingranaggi dell’emulazione dei positivi che si tende a escludere questa coincidenza. Invece è come enuncia la teoria della finestra rotta. L’incidenza, quanto in profondo scava il malessere, sta proprio nella coincidenza. Tu diventi la tua memoria e le cose non le decidi più. Ti capitano. Cose come: L’INCRESCIOSO MOMENTO DELLA PERQUISIZIONE Una volontaria nasona, pelosa e sovrappeso, con negli occhi le rinunce che aveva fatto o subito per via di quel suo aspetto repellente incasellate a raggiera in un rosario di malignità e rimpianti nelle iridi, mi cingeva con avambracci penduli e mi soggiogava infine con l’acido tanfo ascellare. “Spogliati!”
Doveva sentirsi proprio ganza, una camicia nera nata con un po’ d’anni di ritardo, una mistress pacioccona alle prese con una vittima da stuzzicare. “Piegati. Divarica di più le gambe.” Chi glielo aveva mai detto, a quella lavatrice parlante, di denudarsi… O forse sì, ma troppo presto, quando ancora lei non sapeva cosa farsene del bacino, se non reggere e spingere l’hula hoop catarifrangente. Questo si diceva di Nadia. Studiava giurisprudenza da tempo immemore, la sua concentrazione era puntualmente ammazzata da cicliche fasi di pesante depressione. Quando lo venni a sapere, non me ne meravigliai affatto. Una donna priva di interessi e di energie, senza un pizzico di forza di volontà che la distogliesse, se non altro per il problema di comprare ogni tre, quattro mesi, abiti sempre più larghi, dal mangiare così tanto, non poteva che essere una depressa cronica. La compresi, ma odiai il fatto che si fosse cimentata, con nonchalance, nella missione di aiutare gente che, forse, anche se chiusa in una comunità per tossicodipendenti, stava meglio di lei, o che se non altro aveva le palle, alla fine della partita, di dire “Ok, ho chiuso, basta così, non ho più nulla da dare o prendere, mi faccio fuori”. Nadia si ostinava, con lo zelo di una badessa, a inculcare in quei virgulti inquinati, nell’atmosfera ovattata dell’isolamento terapeutico, perle imbevute di qualunquismo che li aiutassero – “Poverini, sono i più sensibili che ci cadono!” – a, letteralmente, “riprendere in mano la propria vita!”. Che porcheria. Non vedeva come, con i suoi aforismi all’olezzo d’acquasantiera, metteva tutti all’angolo. Quella mattina, a ogni modo, con mani guantate, perlustrò le mie cavità più intime, sospirando d’un piacere sadico e infame. Il aggio in comunità era avvenuto dopo un episodio accidentale e violento. Colte da obnubilamento letargico da Lormetazepam, io e Dafne avevamo nottetempo trafugato, senza validi motivi, un capitello corinzieggiante in gesso dal giardino di una bella villa sul corso. Avevamo poi trascinato il pesante fardello per qualche chilometro fino a posizionarlo nella nostra amata tana. Nel completare l’assurda missione, avevamo prodotto un frastuono poco gradito dal proprietario del monolocale, che abitava proprio di fronte. Quando, il giorno seguente, di buon mattino, i doppioni delle chiavi alle mani, irruppe deciso a invitarci ad abbandonare l’alloggio, si trovò davanti uno scenario da conflitto bellico. Un paio di mobili erano rovinati da disegni realizzati con la vernice spray verde, spazzatura e bustone piene di vestiti e
oggetti vari occupavano tronfi ampio spazio sul pavimento. Dafne russava a pieno ritmo, seminuda, accoccolata su una poltroncina. Io ero incantata, seduta su uno sgabello con in braccio un cucciolo di cane puzzolente che da qualche giorno gironzolava nei paraggi. Insieme al proprietario, entrò in scena ronzando una creaturina volante corazzata, di un blu scuro e opalescente… una specie di scarabeo o, chissà, un oscuro presagio compattatosi in insetto. Il cagnolino, individuata all’istante la potenziale, vulnerabile preda, le balzò lì per lì addosso, trattenendola, inerme, sotto le zampe anteriori, massicce e ungulate. Il ronzio, sempre più rauco, si spense. Il cucciolo, lo sguardo intenso e interrogativo, fissava quel corpo indifeso, cercando di sollecitarlo, con delicati movimenti di una zampa, a risollevarsi per giocare ancora. Nulla. L’insetto era già come rinsecchito, le zampe ritirate in sé e le alucce iridescenti sciupate. Il cagnolino prese a guaire, richiamandomi alla realtà. Da lì a che il proprietario allertasse le nostre famiglie il o fu breve. Ogni accordo era stato infranto. Ogni limite superato. Tra gli utenti della struttura c’era Dorotea, parrucchiera-estetista agli arresti per sfruttamento della prostituzione. Alta un metro e cinquanta al massimo, era così magra che le costole le si contavano e i pantaloni le stavano tesi da un’anca all’altra; la si poteva prendere e tirar su con una mano sola. Anche io ce l’avrei fatta. Era di Cavriago, il paesino emiliano con il busto di Lenin. “Il aggio più difficile, quando fai la cera, è leggere la risposta sul viso. Poi, in base alla reazione, devi indirizzare i tuoi gesti. Ma già dall’inizio si deve avere ben fisso in mente l’obiettivo. Ciò che ci si deve chiedere sempre è perché, altrimenti si è dei semplici manovali che eseguono gli ordini, quindi non si è liberi. Ahhh! A fa chêld incō!” “Eh?!” “Eh!” “Che dici, Dora?!” “Fa caldo… è dialetto reggiano!” Meditavo che ognuno, quando si trova a discorrere di ciò che veramente ama, parla con la bocca di un poeta.
In comunità non si poteva né leggere né scrivere, non si poteva ascoltare musica o guardare liberamente la TV. Ogni stimolo esterno doveva essere filtrato, decodificato, per poi arrivare, eventualmente, a noi reclusi sotto forma innocua. Non potevamo neanche sentire i familiari. I parenti che ne avvertivano l’esigenza – e non tutti l’avvertivano – potevano telefonare agli operatori ogni giovedì, per avere notizie sull’andamento del programma. Le visite erano limitate alla prima domenica di ogni mese, e non tutti riuscivano a raggiungere quella piccola località immersa fra le montagne. Punto 10 del Regolamento del Progetto Terapeutico residenziale per pazienti affetti da disturbi correlati a sostanze e disturbi psichiatrici (doppia diagnosi): “La comunità non prevede che gli operatori accettino regali da o intrattengano rapporti personali con gli utenti e con i familiari degli stessi”. Almeno, nessuna preferenza. È che mi mancava tanto scrivere il mio diario. Scrivere, in generale. Quando si trascrive qualcosa, il gesto stesso di buttare nero su bianco quell’incorporea scheggia le conferisce un senso. Tutto, quando viene scritto, diventa plausibile, addirittura vero. La frase che più odiavo era “sii te stessa”, ma che senso ha? Ero me stessa anche quando fingevo, una me stessa bugiarda, una me stessa in divenire ma, comunque, nient’altro che me. Fausto Anania era il mio operatore di riferimento. Trentadue anni, biondo, alto circa due metri. Ipocrita come quelli che si dicono in difesa dei diritti delle donne (poveri panda in via d’estinzione) e poi sparano locuzioni come: “le donne fanno più degli uomini, perché lavorano, poi staccano e devono badare ai figli e alla casa!”. Certo, perché i condottieri etici di quella crociata proparità non possono proprio preparare un piatto di minestra per sfamare la prole! E così, di generazione in generazione. Amen. Alla figlia femmina insegniamo a igienizzare impeccabilmente la tazza del water e a non mischiare i bianchi con i colorati in lavatrice; al figlio maschio, a parcheggiare in retromarcia… e a non piangere. Mai. “E quella è una donna con le palle, eh!”, le vogliamo fare un complimento! Peccato che le sacche del vigore morale (o almeno ciò che vorrebbero
rappresentare) siano qualcosa di completamente estraneo al corpo femminile. Così la donna forte, quella con le palle, per intenderci, non diventa che una triste creatura munita di buffe protesi. Riviste, spot pubblicitari, enciclopedie di cucina ed encicliche papali l’hanno educata a essere la mamma sessuata per ogni maschio sulla terra. Spaghetti e libido, coccole e ferro da stiro, teste chine e ciglia truccate. Un Bambi transgender, con la bocca sempre aperta, ma senza emetter suono. Quell’immagine claustrofobica mi perseguitava anche di notte. Vedevo donne dotate di ali nere, pronte a scagliare mute maledizioni. Si spostavano vigili, negli occhi dei lampi di ghiaccio, e le bocche spalancate, smaniose. “Risuona il tristo presagio dell'infausta strige” mi sussurrava una voce rantolando pietosamente. “… Azzurra, la sveglia è alle 7:00, la buonanotte alle 23:00. Oggi è lunedì, perciò abbiamo il gruppo di autoaiuto, che i ragazzi si divertono a chiamare ‘AIUTOAIUTO’! Ahhhhhah!”. Fausto rideva compiaciuto, singhiozzando, di quella battuta imbarazzante. Lo fissavo rigida, stomacata. Avrei voluto sputargli in un occhio, che allegria! “Chi ride sempre, ha sempre ben poco da ridere”, avrebbe commentato nonna Rina. Giulia Russo vagava da circa due ore, da sola, nel centro commerciale EuroGiardino (vieni a vederlo da vicino, dai, dai! EuroGiardino, piace al nonno, piace al piccino! suggeriva il jingle, con una musichetta che mi ricordava “Profondo rosso” e risvegliava in me gli stessi incubi), un escremento monumentale sorto in pochi mesi nella verde periferia, in una posizione talmente favorevole da trovarsi a quindici minuti di macchina dalla casa di chiunque in città. Luci al neon, festoni, strass, commesse su pattini a rotelle, pizza, Mc Donald’s, scarpe, erboristeria, bon bon, luci della ribalta per animatrici ceree tutte prese a intrecciare palloncini per bambini dall’aria aggressiva, la volontà di potenza pulita e precisa nello sguardo. Giulia non era certo il tipo di donna che ama are pomeriggi a far compere o a sottoporsi alla pedicure sotto le mani esperte di una pulzella incolta; considerava entrambe le occupazioni uno schiaffo alla dignità personale. Eppure, c’era qualcosa in quella giostra di luci/suonisuoni/luci, spendi, spandi, corri, tocca, annusa, indossa, che l’attirava enormemente. Come narcotizzata,
procedeva con o dondolante, mettendo in continuazione le mani prima in tasca, poi in borsa, poi tra i capelli platinati cortissimi, per dar l’idea, a chi incrociava la sua persona, di essere assorta in qualche pensiero profondo e legittimo, o di essere di fretta, concentrata a far compere per la famiglia per poi tornar di corsa al focolare. Una dimora sterile e dimenticata. Si sentiva in colpa, stava perdendo tempo. Eppure, quel perdere e perdersi sembrava restituirle luminosità. Aveva bisogno di svagarsi, di ciondolare un po’ senza meta per poi tornare alla frenesia della quotidianità. Di infilarsi in un cinema, senza averlo programmato, per vedere un film stupido. In questo, si sentiva simile a me, la sua alunna difficile, e spesso mi pensava con affetto e apprensione. Nel carrellino pieghevole dall’aspetto countryurbano che trainava, cinque buste dai colori sgargianti. In una, dei reggiseni dal taglio audace (“Carioca”, aveva denominato la giovane commessa il modello; nel dirlo si era succhiata le labbra cariche di lucido appiccicoso color cacao. Giulia era arrossita, sperando che nessuno nel negozio l’avesse riconosciuta); in un’altra, della bigiotteria scadente e costosa, ma di gran moda; nella terza, delle caramelle al gusto panna, puffo e melone, nelle ultime due buste, più grandi e già sgualcite, maglie, pantaloni e sciarpette ricamate che aveva comperato cercando di imitare il look delle sue alunne. Camminava. Camminava e sospirava. A tratti, le veniva da ridere, e strozzava quei gemiti sconvenienti con un’espressione contrita che, tanto era forzata, tanto pareva più ridicola di una risata arbitraria. Quella tristezza spiazzante, spossante, da batterie scariche, insomma, che ti prende dopo l’euforia scatenata che assapori quando desideri acquistare qualcosa… Ah! Qual perdita dei sensi. Guardi i prodotti, li studi, li godi, li senti tuoi, valuti i prezzi, fai dei calcoli, poi te ne freghi e ammassi tutto quanto nel carrello. Ti sorprende puntuale il calo umorale. Stai già malissimo. Ti fa schifo tutto, ti fai schifo tu. Ti senti squallido per quello spreco. Non ti serviva niente, non ti serve niente... Forse camperesti anche con pane, acqua e due vestiti. Invece no, hai ancora ammassato roba! Dei deliziosi e fugaci appagamenti di ogni sorta. E ti senti più inutile e scemo di prima, però con meno soldi. Che siano i soldi ad affliggerci? Dei numeri che ci inventariano la vita e tentano sgraziatamente di attribuirle un valore. “Niente soldi niente guai!” diceva sempre nonna Rina.
Tornava a casa, nel quartiere Palazzi Vecchi (che crudele ironia, erano già cadenti, infatti, quegli stabili appena edificati), saliva tre piani a piedi con le mani tagliate dalle buste sempre troppo pesanti per una donna sola, invecchiata male, che nessuno s’offriva (o soffriva) più d’aiutare. Sbatteva il portoncino in legno chiaro alle sue spalle (se non lo si sbatteva, esso, tracotante, non si degnava di chiudersi), appendeva l’impermeabile amaranto col risvolto avana, sciupato da certuni autunni ventosi, di quando faceva la supplente a Trieste, sfilava le due fedi d’oro dall’affusolato anulare sinistro, calzava le adorate pantofole sdrucite che avevano però preso la forma specifica del suo piede, e s’accasciava sul divano davanti alla TV. Non l’accendeva subito. Fissava lo schermo grigio e bombato con una velatura rassicurante di polvere che scoppiettava all’avvio e rifletteva sulla sua modesta vita. Quella sera, mandò al diavolo se stessa, sua madre, sua sorella Ines e pure il buon marito defunto, che l’aveva abbandonata nelle braccia dello sconcerto e della nausea. Sola, sola! Ma dove siete andati tutti! Si recò in bagno, si denudò in fretta, accigliata, le mani scattose. Batté col fianco destro contro lo spigolo vivo del mobiletto bianco smaltato, non si fermò un secondo per massaggiarsi il bozzo ululante. Tirò indietro i capelli col pettine bagnato, ò la matita verde perlata sulle palpebre, abbondante rossetto ruggine sulle labbra sottili e indossò l’intimo succinto appena acquistato. Si sedette a cavalcioni del lavandino, lasciò un bacio da diva sullo specchio appesantito di vapore acqueo e si accarezzò a lungo, con rabbia, fino a mugolare per quell’angoscia che s’andava slegando per fondersi con il godimento.
Capitolo V
L'aspetto individuale, ciò che ci rende riconoscibili, in verità è un fatto puerile. Al di sotto, tutto è buio, deformato, insondabilmente profondo; ogni tanto riaffioriamo in superficie, e così veniamo riconosciuti. VIRGINIA WOOLF Gita al faro
“Sembrerei strana se andassi in giro con un registratorino… notare l'affettuoso diminutivo… premendo REC quando mi a per la testa qualche ghiribizzo da buttar giù su carta? Ripostulo la domanda... Sembrerei più straanaaa?” “No, Azzurra!” “Davvero?” “Eh.” “Eh?” “Dai… smettila, mi fai diventar matta!” “E se premo PLAY?”
“Se premi PLAY sei figa!” “No, Dorothy, davvero… è che mi viene l'ispirazione quando mi corico, la sera, e, ti giuro, non ce la faccio a sollevarmi in cerca di calamaio e penna d’oca… Ahah! Poterla avere una dannatissima penna… mi toccherà fregarla in ufficio!” “Ah… quindi il registratore, per esempio, tu lo poggeresti sul comodino e inizieresti a sussurrare di notte da sola in stanza?” “Ehhhh… shhhiiiii... tipo: trrrrrrrrr (rumore della cassetta che gira) SPRRRANG (porta che si apre) ‘AZZURRAAAAA, CHE CASPITERINA! (Nadia che invade l’aere con la sua erre moscia e analizza basita la situazione)… Mmm, sì: poetico!” “Un po' sì… Capisco come ti senti. Io senza i miei ferri del mestiere mi sento persa… Signora, le faccio un taglio? Signoraaa… shampoo e piega o anche la tinta? Come li facciamo? Cioccolato fondente? Magari verde rame… come faceva la canzone? Ah… sì! Salame… non piangere… qualcosa del genere! Ma senti questa… ieri sera Totò Il Cravatta, quello con la panza sempre in fuori… lo strozzino che s’è rovinato con la nera… e ha lasciato la moglie piena di debiti e con la paura che qualcuno la prenda a mazzate al posto suo… ma… hai capito chi?” “Sì, Doraaa! Dai… stringiii!” “Insomma, ieri mi ha illuminato la serata con una massima… Io provo a ripeterla, anche se detta da lui, credimi, è tutta un’altra roba… Eehm, eeehm… eccola: solo quando raggiungerai il pieno controllo di te stesso, te ne fregherai della comione!” “Hai capito Il Cravatta… guardalo, si è fissato con il biliardino. Gioca da solo?” “No, non hai capito un figh? Gioca con il suo amico immaginario!” “Naaaaaaaaaah! Sto per morireeee! Sto piangendo dal ridereee!” “Sì… che ne so! Un lavōr acsé an l'îva mìa mai vést! Ma… secondo me lo fa apposta! E el sa che i sold en gh'farann mai difet! Vuole salvare capra e cavoli… e farsi perdonare da quella scema della moglie!”
“Questa comunità sta diventando un santuario di cazzate deliranti tra te e Il Cravatta... stasera camomilla doppia con latte e Seroquel… e buonanotte mondo!”
Vivevo la scrittura come la prova della mia impotenza. Quei silenzi sbigottiti, quelle sentenze idiote. Un mulinello interiore che richiama e macella le capacità intellettive. L’emotività traditrice giocava a distrarmi da me quando mi intrecciavo con gruppi di altri individui. In comunità non mi era dato di esprimermi nero su bianco, dunque non mi era dato di esprimermi. Nel vuoto della stanza, nel silenzio della tundra psichica, nell’abisso del rancore, solo in quei templi incontaminati potevo riparare il meccanismo, riannodare il filo, far suonare la mia storia.
Un’immeritata fuga, lontana e amara, come una sorgente nel deserto per il viandante successivo... Giorgiana doveva affrontare tutto da sola, Ludovico aveva scelto di rimanere a casa. Aveva detto di avere da fare. Il difficile è iniziare, disse il dottore al paziente, il maestro allo scolaro, l’allenatore allo sportivo, il boia al condannato, la madre al bambino. Aprire uno spiraglio è l’essenziale, poi dal pertugio che permette di respirare aria salina, si possono incuneare la volontà, la fantasia, il desiderio... Giorgiana sentiva come una filastrocca fiduciosa nella testa. Occhi dipinti si scioglievano languidi sui suoi zigomi lividi e spigolosi. E poi… Ne abbiamo abbastanza! Aveva ripetuto quella frase all’infinito, una formula magica, a cacciare il male. Col are degli anni, aveva imparato a scoprire le parti giuste; e solo quelle. Un polso, il collo, quello del piede, soprattutto, era una visione fatale. I riccioli bruni, appesi sulle scapole magre. L’intercity che la portava da me, russando copioso, ripartì. Leggeva sul suo libro “appena usciti dalla galleria…” e uno schiaffo di luce la portò di riflesso a guardare fuori. Come il protagonista del romanzo che ospitava sulle ginocchia, anche lei veniva al mondo ancora una volta, nel sole estivo delle 17:00 che acceca. Dopo mezz’ora di stallo nella gola di una collina, i eggeri si guardavano smarriti, affidando al vicino la miccia dell’impazienza. Tu, che mi siedi davanti, quanto è lontana la tua casa?
Un groppo in gola e ancora luce. Dal finestrino, una palla fluorescente a irradiare di arancione le colline. Gli alberi affastellati sui fianchi dell’altopiano poco d’appresso sembravano setole morbide di un tappeto orientale. Esorcizzava paure, in quelle fantasie di morte, ormai inconsce perché sovrane delle sue ore di sonno. Paura che l’incanto si infrangesse, monofobia, paura di un declino privo di scopo, paura di non donarsi abbastanza. Sognava incidenti paradossali, cadaveri maciullati perversamente, rivedeva in sequenze lente cortei funebri fastosi e folli. Era tanto forte il suo rinnovato attaccamento alla vita che temeva di lacrimare ogni qualvolta si riconosceva felice… Traboccava vita, non la teneva tra le gambe, la eliminava in orgasmi sofferti. “Utero retroflesso…” aveva evidenziato tempo addietro una rozza ostetrica, partorirai con dolore. Voleva, ora, vivere a ogni costo. Nonostante papà. Nonostante me.
Nella rabbia, Dafne aveva un muro alle spalle, nero, gocciolante. In quel muro trovava la forza di scatenare i venti del Nord, di scaraventarli contro i campi estesi, di straziare, con una steccata secca, corpi e case come fossero bacchette cinesi. Sola, seduta in macchina, livida in viso, sentiva amplificarsi la potenza, alimentata da quell’odio innocente di chi succhia vendetta dagli schiaffi accolti mollemente. Nel godurioso istante dell’apice dell’ira, percepiva un’energia mefistofelica, scogli morali insabbiati nello scontro, una folgore astrusa, solo istinto e frenesia. Poi, acqua piatta. Una pera. Il rumore fuori, un gorgo, la roba dentro. Bozzi da fuori vena. Le mie braccia… Di sicuro, pensò Dafne, quest’estate non potrò andare al mare. Giorgiana analizzava i tratti grossolani della matrona seduta di fronte a lei nel vagone che ticchettava furiosamente da un’ora col pollice destro su una massiccia fotocamera digitale, per scorrere delle fotografie, e pensava irritata: s’è persa quell’intimità di andare dal fotografo a sviluppare un rullino, sancendo con lui un patto… potrà guardare quegli scatti nei loro minimi particolari ma non farà parola con alcuno dei loro segreti. Come un medico che tiene il segreto di una patologia scomoda, pudore e paura si tengono per mano. Ora le nostre fotografie galleggiano come superstar in una piscina comunale, scintillanti e grottesche, pretenziose… e sciocche. Nessuna confidenza, bovi al macello, sorriso stampato sul grugno. Si sorprendeva di quei pensieri. Lei, che non aveva
studiato, che da anni pensava solo al negozio, alla famiglia. Forse il, dolore scava cunicoli, che poi brulicano di domande… Dai finestrini calati, odore di resina di ginepro e di foglie d’arancio; le sue dita affabili e unte, ancora lisce, giovani, pescavano e portavano alla mutria inasprita perle di riso legato con miele. La carnosità interna delle guance si sfaldava come un frutto molle, sfranta tra lingua e gengive, nella bocca lucida a forma di cuore. Uno spuntino per spolpare i pensieri. Per rinsavire. Rotaie su rotaie: un giradischi snodato e scontato trainava sonorità basilari dall'intreccio grigiastro, levando ponti ideali. Crescevano, di chilometro in chilometro, legami superbi tra colori scombinati, plastiche modellabili filtravano colore dai tetti dei paesi stretti per mano che specchiavano le nuvole nella testa di Giorgiana. Dribblando le funi che ti sgambettano per la via, impari a rimbalzare agli urti della severità. Un appiglio si può incarnare per caso nella sedula mano di fianco… quella che porge le vivande su un carrello argentato. “… Signora? Mi sente, signora?” “Sì… No, scusi… Grazie, signorina… non ho più appetito.” Non ho più appetito. Non ho più appetito. Creste di libera funzione espressiva solleticavano il palato del cielo. Superata Napoli e il suo golfo, fari a pioggia sbaragliavano il campo visivo, nella caccia al tesoro di trovare del tempo utile. Azzurra, figlia mia, la tua mamma sta arrivando… “Ci chiamate depressi, in realtà siamo gli unici ad aver afferrato la puerile inutilità di tutto questo. Di cosa? Di tutto questo affannarsi alla ricerca di un senso. Non esiste quel senso, non esiste una direzione. Il vostro vuoto lo chiamate Dio, o Denaro, o Dio Denaro… o magari Donna, o ancora Destino... Attenzione, ora: quel tappo che usate per riempire il vuoto genera altre vacuità malate, pericolose. Fedi, idee, fatalismo e superstizioni. Tutti questi fronzoli di
cui siete ingordi non fanno che dividervi. Che dividerci… Il punto è: ci siamo drogati perché non aveva alcuna importanza. Se farlo o non farlo, intendo. Un lento suicidio? Forse. Ma allora, quando abbiamo iniziato, era l’unica valida risposta.” “Azzurra, non fingerti cinica, tu sei una sentimentale! Per essere più precisa… – prese a sfogliare con urgenza un raccoglitore blu scuro ad anelli – … il tuo lo chiamano, scrive il dottore… ecco: ‘stato depressivo a impronta disforica accompagnato da atteggiamento orale incorporativo, bassa tolleranza alle frustrazioni e irritabilità aggressiva’…” “Certo…” “Non ho finito… qui leggo ancora ‘sublimazione della libido, con tendenza a comporre versi e a distaccarsi dal reale fino a provare il rapimento dell'estasi. Cattivo umore, disgusto nei confronti della vita’...” “Finito?” “Per ora, così pare.” “Cara, cara, Nadia… L’evoluzione ha andamenti variegati. Non è tutto bianco e nero come quegli appunti sul tuo quaderno. L’eterno ritorno è fatto di una successione di parabole, ognuno di noi è una parabola, un picco d’esaltazione e poi un cedimento senza riparo, e poi la risalita, attraverso un’altra vita. Ci si scopre, ci si realizza, si arriva al proprio culmine vitale e poi si cala. Natura non è, natura e congiunzione. Riceve, include, muta ma permane. Nonostante ciò, il massimo dell’evoluzione è proprio il suicidio. E farsi, cara Nadia, è suicidarsi con un tocco di pigrizia borghese. L’uomo arriva al vertice della parabola ascendente e decide di non declinare, di non apire; ecco l’oltreuomo.” Nadia seguitava a fissarmi frastornata, ma si vedeva bene che mai ciò che riteneva una delirante provocazione avrebbe scalfito le sue marmoree certezze. Era una donna dai polpacci imponenti e dal collo tozzo, Nadia, l’ombelico peloso e le occhiaie di chi s’è levato all’alba per sbrigare mille faccende, prima d’uscire per andare a lavorare. Le occhiaie di mia mamma, le occhiaie delle donne. In comunità, di notte, si sognavano gioie semplici: una eggiata al parco, un abbraccio dei genitori, un piatto di spaghetti al pomodoro e basilico. Al mattino,
appena si aprivano gli occhi, subito ci si riprometteva che, appena fuori, si sarebbe andati davvero al parco, al mare, in montagna, ovunque, insieme ai cari, e poi mano nella mano a mangiare bene e tanto fino a scoppiare. Poi la giornata scremava, e non si pensava più a fuori, né si aveva più fame. E i mesi scorrevano così: una visita, per i più fortunati, la prima domenica del mese, niente telefonate, talvolta una eggiata per raccogliere asparagi o funghi e, in sottofondo, lo scamlio delle capre. In camera e in bagno non ci si poteva chiudere a chiave; le lenzuola, tutte bianche, le si doveva cambiare ogni settimana e la doccia si doveva fare un giorno sì e un giorno no, in cinque minuti. Non uno di più. Mentre ci si lavava, qualcuno a rotazione contava il tempo, come per una prestazione sportiva. Il piano terra, spazio comune, si doveva pulire a turno. E così via per tutti gli altri lavori: cucinare, lavare piatti e cucina, fare il bucato, detergere i bagni con la candeggina, occuparsi dell’orto, et cetera. In sala c’era anche una TV, ma si poteva accendere solo per venti minuti, alla sera. Sabato, serata film, si guardava insieme, obbligatoriamente, un DVD scelto in una lista proposta dagli educatori. Una volta, al TG, avevano detto che in Italia e in generale in Europa una discreta percentuale di adolescenti è a rischio suicidio. L’età della sofferenza, che sfocia in sfide estreme per il corpo e per la mente. “…Così, in questi gridi selvaggi di libertà – spiegava l’inviata in un carcere minorile – germoglia la prigione per sé e per chi sta intorno…” La psicologa della struttura di contenimento, intervistata: “Da quindici anni mi occupo di questi ragazzi – viso grave, un sospiro che fa sudare la telecamera – per chi rimane fuori da qui. Perché un ragazzo che uccide, ruba, delinque nel peggiore dei modi è come un fantasma che tormenta la famiglia e gli affetti. Che sia con loro o che sia in carcere è sempre lì, una presenza che disintegra la casa, la famiglia, le certezze. Tanti giovani percepiscono questo peso e si tolgono la vita. E allora si fanno eterni. Per liberarsi e liberare, invece, costringono per sempre chi ruota intorno a loro a pensarli, a sostare in un limbo velenoso. E allora arriviamo noi. Per chi resta, per chi resiste.”
“Dafne?” “Papà…” “Dafneee!”
“Papà!” “Dove…? Ma cosa st…! Aaaahhhhhhh! Figlia mia!” Bianco. Rosso. La ceramica. Il sangue. Le fughe tra le piastrelle inondate come arterie. Un mosaico di sgomento. Una lametta minuscola, smozzicata, arrugginita, lì, sul bordo levigato della vasca. Vapore. Capelli. Dafne. “Dafne…” “Pa’…” Lacrime. “Ma che hai fatto?!” Diego stava cenando, aveva ancora appiccicate agli angoli delle labbra delle briciole di pane, e un boccone gli faceva su e giù in gola. “Tamaaaraaa! Tamaraaaaaaa, vieni quaaaa! Subitooo! Chiama un’ambulanza! Mia figlia… sta male.” Bianco. Arancio. Blu. L’ambulanza. “Non scaricare, Azzurra!” Scaricare… che buffona… Fissavo Nadia, arcigna. Scaricare, nel gergo “comunitese”, stava per “buttare addosso ad altri proprie responsabilità o frustrazioni”. Una minzione emotiva, ecco. Mi sentivo rispondere spesso così, sia da Nadia che da Fausto.
“Mi fai tristezza… con quelle cosce elefantiache che, pudica – chi l’ha detto che il pudore è dei corpi grossolani? – copri con la cartelletta!” Nadia divenne paonazza, lo sguardo affilato come un’accetta pronta a crollare sulla mia nuca. “Piccola, depressa, arrogante figlia di papà! Io… io… io…” “Tu tu tu vorresti offendermi ma non ne hai le competenze lessicali.” “Io… ti spedisco, io ti… ti…” “Questo tartagliare mi dà in testa! Basta! Odio questi interventi che vuoi far are per candida e ammirevole voglia di salvarmi, di salvarci. Alleluuuja! Salvaci, nostra redentrice… Abbi pietà di noi! Le tue favolette, le tue domande retoriche del cazzo… Dio, le domande retoriche, che odio! Mi fanno tristezza quasi quanto le camere da letto matrimoniali assediate dall’iconografia sacra… Madonne di qua, croci di là… A scoraggiare qualunque amplesso non finalizzato alla procreazione.” “Basta, io me ne vado! Fausto! Faustooo!” “Cosa c’è? Cos’è successo? Azzurra, basta. Ma fai un po’ di silenzio… Guarda… guarda Nadia… Nadia?! Ma… piangi?! Va’ a bere un bicchiere d’acqua, e poi mi spiegate!” Accesi una sigaretta, ridendomi soddisfatta. Avevo la situazione in pugno. “La vedi quella, la grassona senza spina dorsale? La droga l’avrebbe salvata. Mi fate davvero morire… uno show irresistibile! Valla a consolare, forza!” “Dammi quella sigaretta! Basta! E per una settimana non fumi. Chiuso. E niente caffè.” “Sto veramente, ma veramente… tremando!” “Vedrai, tra un paio d’ore, quando avrai voglia di fumare e di spruzzarci contro tutto quel veleno che ti porti in corpo!”
“Che hai intenzione di fare?” “Dirò al gruppo di non rivolgerti la parola finché non vorrai smetterla di fare… la stronza!” “Ahahahaha! Fantasticoooo! Mi trovi pienamente d’accordo!” “Niente caffè e niente dolce!” “Achtung!” “Fatti dare straccio e secchio da chi è di turno e lava per bene il salone. Ora.” Sfigato… A ogni azione corrispondeva una punizione. Più o meno. La più ingegnosa era “pulisci il sole”. Consisteva nello scartavetrare il nulla, in direzione del sole, appunto: occhi fissi in cielo, fino a vedere fosfeni e meduse immortali, braccio destro, o sinistro (possibilità di scelta) teso in aria, panno umido in mano e “spolverare… spolverare”! Movimenti circolari, ancora e ancora! Poi c’erano le erbacce da estirpare. E in campagna, sul serio, ce n’erano tante. Per ore (cinque, sei, fino all’accavallamento del nervo sciatico) chini a cogliere la gramigna. Un guanto da cucina tagliato affettando il pane? Niente pane! Una rissa con i compagni? Mezz’ora nella stanza del rimprovero urlato… una sorta di mobbing. Chiudevano il malcapitato di turno in una stanzetta con un operatore che, mentre il primo stava immobile e a testa bassa, si sgolava in un florilegio di improperi mirati ad affossare l’autostima e a provocare. Ad oggi, l’utilità di tale trattamento, non è stata provata.
Luci al neon, bzzz bzzz bzzzzz, attiravano noia e insetti, bzzz bzzz, bzzzzz nella congerie di malati e malattie che è l’ospedale. Dafne era intontita, le avevano appena iniettato un sedativo; doppia razione, giornata fortunata. Cercava di tenere lo sguardo fisso su un punto, una macchia, qualcosa sul soffitto che però non stava ferma… No, si spostava, fremeva e andava. Un moscone. Bzzz, bzzz, mosconi e luci al neon. Flebo e saliva cagliata agli angoli della bocca. Attorno a lei sagome, biancastre e azzurrine, avvolte da un alone lampeggiante. Il padre, una donna robusta in verde e un giovanissimo infermiere, con le mani
tenere e traballanti. Ago, filo. “Stai immobile, ora, dobbiamo cucire!” “Avete disinfettato bene?” “Sì, caposala, certo.” “Va’, caro. Procedi.” La donna sorrideva magnificamente. Un sorriso che stonava col dramma in corso. Denti perfetti, candidi e montatura degli occhiali dorata, decorata da filettature in madreperla. Dafne si sentiva svenire. Lo stomaco una spugna secca. Aveva sete. No, non sete… Sonno. “Cuoricino! Bellissima! Ma che cosa abbiamo combinato qui, eh? Eh?” Incredibile, era la caposala a parlare. Dev’essere una fottuta pazza, pensava Dafne. Intanto cercava con occhi nervosi un secchio, una busta… Qualcosa dentro cui vomitare. “Bellaaaa! E allooora? Fammi un sorriso!” Dafne era allucinata. Si accasciò sui due guanciali esausta e si lasciò cucire mansueta da quell’infermiere, per carità, grazioso, ma davvero incompetente. Il padre di Dafne era sgomento. Sudava pillole di ghiaccio. “Tesorooo? Tesorooo! – era grottesca – Allora… ti spiego la situazione… tu rimarrai con noi per qualche giorno… diciamo una settimanuccia e ti farai rimettere in sesto, ok?” La montatura dorata sfavillava a ritmo, sottolineando le parole della proprietaria con brilluccichii più intensi.
Dafne si tirò un po’ su strisciando sulle lenzuola rigide, cacciò fuori dalla coperta le gambette nude e notò una grossa protuberanza viola vicino al ginocchio destro. Prese a tastarla, ad affondarvi i polpastrelli. Non si capacitava di quella straordinaria reazione del corpo alle botte. Una macchia cupa, un cuneo di carne calda… Ahi, che male… La memoria del dolore lì, sotto i tuoi occhi, chiaramente visibile. Il corpo può perdonare ma ricorda, conserva. Che schifo i materassi… tutti i materassi del fottutissimo mondo… ma in particolare questi… i materassi degli ospedali! Chi cazzo ci ha dormito prima… e che malattie aveva? Ulcera sanguinolenta? Pidocchi? Aaaaaahhh, potrei urlare, già mi prude tutto! “Dafne! Ferma!” Era il padre, questa volta. Le bloccava il polso mentre lei cercava disperatamente di grattarsi via i punti freschi dalle braccia. “Tesorooo? Amoreee! Hai capito, allora? Rimarrai…” “No! Voglio tornarmene a casa.” “Mettiamo le carte in tavola… o rimani di tua spontanea volontà, oppure mi dovrò muovere per un T.S.O., sai che vuol dire? – divenne in fretta, troppo in fretta, serissima – Vuol dire che dovrai trattenerti lo stesso, ma con un sacco di scartoffie in più per tutti quanti e… Da brava…” di nuovo quel sorriso nauseabondo. “Se la mettiamo così…” “Saggia decisioneeeeee! – strillò euforica – Mi complimento con te, bellissima… Ora ti lasceremo un po’ riposare. L’infermiere di turno verrà dopo a somministrarti qualche altra goccia e dormirai come un angioletto!” Scintillio prolungato della montatura. Poi, silenzio.
Capitolo VI
Non vediamo le cose come sono, ma vediamo le cose come siamo ANAÏS NIN
Quando parliamo, o interrompiamo il fluire delle parole con studiati silenzi, presi dal controllo sulla mimica, non ci rendiamo conto di ciò che sfugge tra le ciglia. Un lampo stretto nel cerchio della pupilla, una lacrima sottile che pende e vacilla, un guizzo di gioia, una carnalità velata. Chi ci legge, ha potere su di noi. Siamo tutti scrittori. La carta sono i nostri occhi, l’inchiostro, indelebile, sono le nostre esperienze. E uno scrittore altro non è che un sorvegliante: sorveglia il mondo e se stesso. Un meraviglioso gioco in cui si viene scagliati lontano, in paesaggi vergini, e poi si torna come boomerang nel centro di sé. Un romanzo ne contiene molti altri che si sono persi per strada. E ogni personaggio è l’anima nuda di più persone. E più personaggi sono un’anima sola. Fra osservatore e osservato non c'è differenza morale, ma solo una differenza tecnica. Sottrarsi allo sguardo dell’osservatore non significa meramente nascondere la verità, bensì mettersi in condizione di impadronirsi di un potere incontrollato. Difatti, spesso, l’amore è una fandonia, istigata dagli occhi di chi brama la nostra bocca. E non sempre basta eclissarsi per sfuggirgli. Dicono che per essere degli efficaci bugiardi si debba avere la memoria lunga… è il contrario, vi dico. Tenere a mente i particolari, le correlazioni, gli innesti, le proprie stesse menzogne e vergogne non fa che logorare e avvilire il mentitore. Un bugiardo dalla memoria corta (come le gambe dei parti della sua bocca, avrebbe pensato nonna Rina) può incorrere in contraddizioni, può essere avventato e sfacciato, ma convincerà, proprio per quella vacuità, quella castità
dello sguardo, fisso sul presente. La verità perde rigore, sfumano i contorni; la volontà di cambiarla si propaga e getta la sua eco nell’altrui coscienza. Cosa credi? Credi credi credi… Più per meno: meno. Vince l’assenza. Gli efficaci bugiardi, tuttavia, sono anche efficaci amanti. Ci piace ciò che coincide con un’idea che abbiamo di bello. E il bello va inseguito e conseguito, pena l’infelicità. Mi piacevano i disadattati perché solo loro riuscivano ad accettare e camuffare quella diversità che percepivo strisciare dentro. D’altronde, la devianza – quel miscuglio eterogeneo d’attitudini umane meno comuni – risulta da sempre più eccitante del conformismo. Alle scuole superiori, ricordo, chi esibiva uno stile preciso – copiato e assimilato –, chi si era schierato, ce l’aveva a morte con chi era ancora indeciso. Si ostentava un’identità a discapito dell’identicità. Più tardi avevo pensato a questo: chi si drogava, rispondeva alla spinta contraria, cercava di diluire l’identità e riassorbirsi nella crosta opaca delle cose. Diversi, senza bisogno di palesarlo. L’inquietudine che suscita quel dissociarsi delle strutture tonifica come un soffio vitale. Il conformismo non è forse la devianza vera – quella intesa negativamente come forza buia che fa deragliare il cammino dell’uomo in sapienza e beltà – nonché la vera causa dell’arresto dello sviluppo dell’individuo e dell’umanità? Le aspettative sociali, relative al tipo di società, calata in un preciso periodo storico, fanno la differenza. La delusione di tali aspettative, l’ambiguità che trapela da un comportamento o da un modo di essere sono sempre da contestualizzare. Come a dire, non c’è buono o cattivo, giusto o sbagliato. Avevo compreso tutto ciò, certo in maniera più rudimentale, da bambina. Coglievo e accettavo le antinomie e disconoscevo il senso dell’agonismo, dell’ambizione. Ero indulgente con chiunque, qualsiasi fosse il suo pensiero. Intuivo l’inutilità del voler cambiare le cose e le persone e la vanità della vita stessa: niente aveva un fine, tutto aveva una fine. Questa certezza mi restituiva un’inestimabile serenità.
“Io lo sentivo, davvero… era nell’aria… Avevo fatto anche un brutto sogno che…” “Tamara… zitta… per pietà. L’unico presagio plausibile è la sirena dell’ambulanza. Ora devo parlare con i dottori… sentiamo che ne pensano.” “Dafne come sta ora?” “Dimmelo tu, che senti le cose nell’aria! Io sento solo puzza di ammoniaca.” “Ma ce l’ha un pigiama, almeno?” Il suo braccio beveva una sorta di liquore rosato, mucoso. Stillava a goccioline nella vena verdognola, dandole il ritmo del sonno. Si facevano strada memorie rampicanti: il ricordo del mio profilo le si mostrava simile a quello di una creatura Silvana, un elfo, con una bocca di leone tra i capelli; le mani di suo padre, le mani, le mani di uno sconosciuto. I ricordi si frammentavano e deperivano nella pancia. Dafne li proteggeva con le mani, li tastava, dall’esterno; avvertiva la pelle tesa e sudata. Non dovevano andar via, quelle immagini – Non so perché, non so perché! – come confessioni di un ubriaco; non se ne dovevano andare, mai. Aiutami, Azzurra… Dove sei? Servivano a bilanciare, con la loro bianca perfezione, una natura dissonante, decisa ad andare a male sotto le tegole di un ospedale umido, sotto l’amore che provava per me. – Sei un’arma atomica nella bocca! – La televisione sembrava appollaiata come una beccaccia sopra l’armadietto del pronto soccorso, chiuso a chiave. – E se la chiave non si trova? – Un’ansia brutta le infiammò la bocca dello stomaco. Ci sono esperienze che possono strozzare una vita. Il pavimento la raggiunse e Dafne smise di fluttuare. Il pavimento l’accolse senza cerimonie. Le faceva spazio tra i bollini verdi del linoleum e uno strato di sporcizia appiccicosa come marmellata di more. “Da quando siamo nati, abbiamo iniziato a morire”. Parlava Alviero, era ricoverato nello stesso reparto, il reparto dei pazzi. Fece rotolare un’arancia che, atterrando, esalò un rumore che le diede i brividi: il tonfo di una testa che si spappola. Alviero, sosteneva, quando aveva nove anni era in macchina coi genitori e il fratello maggiore. Paride, il fratello, fece distrarre il padre. Il padre si distraeva facilmente, diceva Alviero. La strada si curvò, il volante no. Sangue sui vetri, vetri nella carne, vetri sull’albero, a bordo strada, vetri ovunque. Paride, la mamma, il papà distratto inchiodati sul guardrail. “Alviero è magro, Alviero a attraverso il
finestrino!”. Talvolta, parlava di sé in terza persona. Depersonalizzazione, gli avevano detto, al Centro di Igiene Mentale – “Igiene”, dicono così –: il male minore. Dafne non lo capì subito, non capiva di chi o cosa stesse parlando. Poi ci pensò: è solo un pazzo. Un pazzo che vuole scroccare una sigaretta o mettermi le mani addosso. Mostriciattoli di cotone e capelli complottavano agli angoli della stanza, sfidavano il battiscopa con cipigli di bave di garza. Acari e sabbia si conficcavano nelle suole delle ciabatte ortopediche delle inservienti. Cambio di lenzuola… Stava quasi per scivolare in un sonno assoluto, adamantino. Le giunse alle orecchie un acciottolio di stoviglie, di rotelle scardinate. Ore 18:00, cena: ditali con ceci e pomodoro; purea di patate; un’arancia; un panino. La luce scese gradatamente sui contorni dei palazzi, dietro i vetri umidi; inciampando, le strappava l’energia dagli occhi; colava sulle insenature e sulla nuca della montagna, sull’elettrocardiogramma, sui microbi e, in ultimo, sulle sue labbra secche e violacee. “Alviero vuole scalarti la spina dorsale e fare la cuccia fra le tue scapole…” Alviero s’appressò con due buffi balzi alla finestra con le sbarre laccate di bianco panna. Le gocce dell’ultima mano di vernice s’erano cristallizzate sgraziatamente, dando l’impressione che la grata si stesse sciogliendo per il caldo. Chiuse gli occhi, strizzandoli forte, quasi a spremerne un desiderio. Pressò le gote pigmentate da ragnatele di couperose su quelle aste gelide; prima la destra, poi la sinistra, con maggiore forza, e alla fine, con lentezza solenne, ficcò la bocca in un interstizio e succhiò una gran quantità d’aria, fino a infarcirsene le guance. “Che fai, scemo?”. Era Mario – un infermiere di mezz’età, con un riporto grigio ingrassato di brillantina e l’alito sempre carico di caffè espresso – a parlare. “Ti devo spedire nel tuo letto a calci in culo o ci torni da solo?” e intanto s’avvicinava, torvo e imponente, lento ma sicuro come una tartaruga.
“Alviero voleva solo respirare un po’ d’aria… di fuori!” disse il ragazzo. “Cammina, idiota, ma come parli… non ho tempo per le tue baggianate!” Invece sembrava che di tempo ne avesse a dismisura; avanzava così placidamente, la pancia gonfia e pendula, che tirava, con una potenza invisibile, i bottoni in madreperla della sua casacca d’infermiere.
“Azzurra è una ragazza sboccata. Il linguaggio è un prolungamento del suo animo furioso…” annotava Fausto sul diario di bordo della comunità, nello spazio squadrato, razionale, destinato a me, la sua pupilla. Poggiò la biro nera sulla scrivania, tamburellò qualche secondo, con aria finto distratta, sulla superficie liscia, pulita. Con circospezione, tirò fuori uno specchietto da una tasca dei jeans chiari. Si trattava di un “5x”, cioè uno di quei malefici specchi che ingrandiscono per cinque volte le dimensioni reali di ogni difetto. Brufoli faraonici, sopracciglia sconvolte, come ragni elettrizzati. Di solito, Fausto evitava gli specchi. Negli ultimi tempi, invece, amava sorprendersi in quel riflesso parabolico. Studiò ogni dettaglio del proprio viso, alla ricerca di un indizio, la radice, forse, di un male bizzarro che l’attanagliava. Poi rise di quelle sciocche fantasie. Fece un paio di smorfie. Puntò le pupille contro il suo gemello, imprigionato dietro quell’oblò di vanità; lo voleva mettere a disagio, ricacciarlo negli inferi inquinati da cui proveniva, dove tutto era vago e sospeso.
La pelle calda di sole, una lacrima di sudore salato colava sul mio labbro superiore. L’assaporai con soddisfazione mentre dalla cucina della comunità arrivava un profumo come di casa. Dev’essere domenica, sì… domenica… pensai. La terapia che stavo assumendo mi ammazzava. Non mi rimaneva energia per fare quasi nulla. Al mattino, mi levavo dal letto con difficoltà. All’inizio, ci avevo provato a coricarmi vestita, con tutte le scarpe. Forse era, anche, per rievocare quei tempi ati con Dafne, in assoluto caos. In mancanza di una
reale igiene. La doccia, in effetti, non la conoscevamo bene. Usavamo le salviettine all’aloe vera, quelle per detergere i bebè. Non erano affatto male. Avevo voglia di mare, del mio mare, negli ultimi tempi sempre meno cristallino. Pure il mare, ci avevano tolto. “Sai chi riesce a perdonare? Solo coloro ai quali le cose, poi, sono andate bene… Pure Gesù Cristo, quando ci ha perdonati (che poi questa storia non mi è chiara. Uno viene sulla Terra, dice fate così e colà, dà ordini, deliri d’onnipotenza da schizofrenico, s’immola, ma poi chi gliel’ha chiesto, tra l’altro, e se non ubbidiamo anche all’inferno andiamo… boh!) sapeva insomma che poi sarebbe andato in paradiso!” “Ahahhah! Non sapevo fossi cattolica, Azzurra…” “No, Ernesto, è che, piuttosto, questi assiomi della fede non li mando giù… Tutto questo parlare di sensi di colpa… di coscienza…” Ernesto era lo psichiatra della comunità. Mi sfogavo spesso con lui, dopo stavo molto meglio. Mi aveva fatto da subito simpatia. Alto quasi due metri, un sorriso pulito, educato. “Tu di ogni cosa ti chiedi il perché… non ti accontenti. Noto, a tratti, sai, forse per questo motivo, la tua sofferenza nelle relazioni con gli altri. Essere al centro dell'attenzione ti mette a disagio… ma sai trovare il coraggio per sopravvivere agli stati emotivi che t’invadono. Mi rendo conto che non ti è sempre facile. Ma anche la terapia ti aiuta… Gli operatori scrivono che oscilli tra la tentazione di evitare le occasioni più difficili e quella opposta di sfidare le tue paure. Grazie alla tua determinazione, Azzurra, al tuo valore e alla tua voglia di metterti alla prova, riesci già a essere più forte delle tue paure! Non lo vedi? Sei qua, e non in mezzo a una strada o in un qualche giro criminale… Io ci credo in te. Quando avevo la tua età, ero spaurito, debole, molto più di te, e ora eccomi qua, un professionista con una posizione rispettabile, col privilegio di dare una mano a chi me la chiede. Ora, ascolta: devi coltivare i tuoi punti di forza! Quella che a tratti ti si presenta come dolorosa coscienza, di te, del mondo, può divenire la tua arma migliore: la consapevolezza. La tua straordinaria attenzione per ciò che ti circonda, la tua ipersensibilità alle reazioni degli altri possono diventare empatia. Prova a considerare la possibilità di mutare il modo in cui ti presenti… Tendi ancora a confondere l’apertura con l’esibizionismo. La devi smettere di esibirti,
Azzurra! Inizia a manifestarti!” “Già. Dolorosa coscienza… Mi descrive bene. Ho una perenne sensazione di autocoscienza... Non riesco a mai a dimenticarmi di me stessa. Ma non è esattamente quell’attenzione di cui parli… sono sempre allerta e vigilo su come appaio, questo sì… su come mi muovo, su quello che sto dicendo, su come gli altri intorno a me possono reagire alla mia presenza. Se sono narcisista? Non so, questo me lo saprai dire tu… Il fatto è che mi sento come se fossi sotto un microscopio: tutti mi osservano, come io osservo me stessa. Anche respirare può diventare faticoso… Non mi parlare di empatia… è lontana da me… Quest’autocoscienza dolorosa è come una seconda personalità, malvagia. Mi impedisce di spostare la mia attenzione all’esterno, nonché di vivere il momento presente... e di godermi… oh mio Dio… di godermi la vita!” “Dio ritorna nei tuoi discorsi, Azzurra!” “Vietato sfottere!” “Sboccata, proprio come scrive il buon Fausto… che, detto tra noi, mia cara, non ha tutte le rotelle a posto!” “Lo dicevo, io!”
In ospedale, ognuno aveva il proprio posto assegnato. Un lettino con su scritto nome e cognome, un pasto sottovuoto con la targhetta, una cartella clinica piena di onde e chiaroscuri e, per finire, un infermiere vicino giorno e notte. Un guardiano, un custode, un demone. Dafne ciancicava, supina, una barretta al cacao e arachidi presa al distributore. La dieta in bianco, prescrittale per riabilitare lo stomaco dopo lunghi periodi di miscugli chimici, non prevedeva certo Snickers, Twix, Kinder Maxi e Galak. Ma il cioccolato, in ospedale, è una mano di madre su una spalla, un conforto che allarga triti viluppi nel petto, un cucchiaino di felicità. Nella stanza era sola. Il letto, tre sedie, un tavolino bianco con una gamba ossidata e claudicante, un orologio da parete – tac tac tac tac tac – e un Cristo arrampicato su una croce monca. L’aria era calda e pesta di un odore di cloro e di
succhi di vesciche febbricitanti. Una festa giunta a conclusione: del aggio degli amici, una macchia sulle piastrelle, o sul cuore, è uguale. La bocca marrone di cacao, persistente soprattutto nelle crepe di un herpes germogliato di fresco. Escogitava una contromossa cinematografica, una fuga con pugnale tra le labbra e archibugi spianati. Polvere da sparo e gli ululati del commodoro. “…Dafne? Dafne Barbieri?” Era l’angelo, il silfo, la sentinella dei letti sfatti. Divisa bianca e cartellino plastificato pinzato sul cuore. “Dafne… come stai?” “Mmm…” Il sudore le si gelava sul petto, anche se nella stanza c’erano almeno trenta gradi. Mario. Il demone in tuta bianca. MarioMarioMarioMarioMario, gocciola nella flebo. Tìn tìn tìn. Un lampo famelico nei suoi occhi. “Ti vedo agitata… Forse è meglio se ti faccio una punturina… Vedrai, bella, ti sentirai più leggera.” Dafne era contenta. Qualcuno finalmente era venuto a saziare la sua voglia di oblio. Il panico non fa sconti. Ti strozza con un laccio sempre più risicato. È abile, esperto, e soprattutto conosce i tuoi punti deboli. Mentre l’apatia le scendeva in gola, con una esalazione amara, e la siringa si vuotava obbediente dietro una fulminea pressione, Mario accarezzava la fronte fresca di Dafne, poi il suo collo spruzzato di nei. Dafne lo guardava. Era quello che si dice un uomo di mezz’età, di media altezza: anonimo. “Non dovresti trascurarti in questo modo, anche se sei in ospedale. Pettinati, fatti una doccia… sei tutta sudata…”
L’ultima sillaba vibrava ansimante nella sua gola, roteava sospinta da quella voce sabbiosa che mal celava brame criminali. Le sue mani erano rigide in una posa innaturale, come artigli. “Ma adesso che ti ho dato un piccolo aiuto… e ho cacciato anche quel pazzo, che ti dava fastidio… – esitò – con questa iniezione… – sbuffò – mi dovresti anche tu, sai, un piccolo gesto d’affetto!” Le fece dondolare davanti alla faccia un ciondolo d’oro, una rosa spinata. Glielo voleva donare, un pegno d’amore. La sua voce sempre più lontana, Dafne sempre più preda di un sopore artificiale. Metastasi di tavolini s’arroccavano sulla piazza prospicente la stazione; turisti rumorosi e allegri, con telefonini e borse e zainetti e macchine fotografiche e buste griffate e valige in plastica e valige in pelle e valige in tessuto fluorescente trottavano in ordine sparso diffondendosi come un’infezione. Un nugolo di giapponesine ventenni indicava divertito un trio di ragazzotti muscolosi che si esibiva, per qualche moneta e un po’ di gloria, in un’affannata breakdance davanti al bar “Cosmopolitan”, il più zozzo della città. Immaginavano amanti priapeschi, gladiatori, occhi neri di gelosia. Non sono forse tutti così gli uomini italiani? Dalla pensilina tra il bar e l’edicola “Mario”, Giorgiana avrebbe dovuto prendere un autobus che l’avrebbe condotta da me. Quel cuore pazzo, pazzo e generoso che ora pulsa a venti chilometri da me. Quel cuore pazzo. Quel cuore, il mio cuore, lo sentiva pungere in pancia, come quando mi portava dentro anni prima – quanti erano? Così pochi, madre mia! – e fiaccata entrò nel “Cosmopolitan PANINI BIBITE TABACCHI” a bere un caffè macchiato che sapeva di lavastoviglie e prese tutte le informazioni sul pullman. Avrebbe dovuto aspettare un’altra mezz’ora, lì. Tanto valeva acquistare un giornale e capire che succedeva fuori, dalla sua testa, dalla sua pancia. “Buongiorno. La Repubblica, per favore.” “Ecco a lei! Ed ecco il resto… Buona giornata!” “Sì… anche a lei.”
Aggrottò la fronte e, con lo stomaco che le bruciava per la tensione e il caffè risciacquato, si andò a sedere sulla panchina metallica verniciata d’un bel verde trifoglio. Un chiacchiericcio acuto e spasmodico le soffiava contro l’orecchio destro. Si voltò curiosa. Due ragazze, due liceali probabilmente, si raccontavano tra una pernacchia e una risata le bravate della sera precedente. “… E poi Giorgio m’ha tipo infilato un bigliettino nella tasca dei jeans e con la scusa m’ha tipo sfiorato il sedere!” “Ahahahha! Nooooo! Maddài!” “Aspetta, aspetta… non è finita! Poi mi fa, ‘che profumo usi?’ e m’annusa tipo dietro l’orecchio e (ti giuro Francy, c’ho ancora i brividi) dice: ‘vieni con me in via Marconi, io abito tipo là. Già che ci sei, sali da me’! È stato tipo pazzesco! Non puoi capire!” “Nooooo! L’avete fatto!” “Sì. Però un po’ m’ha delusa: è tipo un imbranato… Pare tutta ‘sta roba e invece... Poi suda tipo maratoneta, ma che schifo! M’è toccato anche chiedere un aggio a suo fratello maggiore, che stava uscendo… che vergogna, ti giuro… stavo tipo morendo…” “Noooooo!” “… E sbruffando m’ha portato in piazza della Libertà dove stavano la Fede e gli altri tipo a fare niente!” Che sensazione strana provava Giorgiana ogni volta che sentiva le persone nominare le vie della loro città, le piazze. Come stavolta: impermeabile al turpiloquio e allo slang ossessivo, si lasciò rapire dalla eco dei posti che facevano parte di quelle ragazze, che citavano con il loro accento, un unico amalgama che la faceva sentire estranea, presa da un’invidia mista a esaltazione. Una gioia, forse, che l’attraversava ma che non era la sua. Da quando aveva scelto che nessun luogo le apparteneva e che in nessuno avrebbe trovato pace, perché la sua vita sarebbe stata un continuo brulicare di luoghi e parole.
Secondo Platone, c’è un paradiso prima della vita terrena. In questo paradiso, si forma il nostro destino, nonché il nostro temperamento. Heidegger vede quel destino come un piano inclinato; scivoliamo, scivoliamo senza capire. Ogni qualvolta ci guardiamo indietro, riconosciamo la nostra stoltezza nell’aver affrontato i giorni senza comprendere. Dunque seguitiamo a declinare senza ancora coscienza, se non forse di quel paradiso che vive dietro i nostri occhi. Chi è fragile non sarà mai indifferente. La fragilità è incrinata dal dolore. L’indifferenza è l’assenza del dolore e non tiene conto della fragilità degli altri. Un fragile non sarà mai un dittatore. La fragilità è la vera forza. Fragile è il nostro aguzzo Paese.
In solitario silenzio, intuivo i percorsi circolari dell’universo, che i corpi che ascendono posso tornare indietro, a recar messaggi a quelli rimasti giù, e che il tempo, talvolta, ebbro, si sposta in avanti per poi arretrare e poi ancora in avanti, svelando fantasmi ati e iridescenti ombre future, e ti fa perdere il controllo.
Filippa, si chiamava Filippa. Quella ragazza che, una mattina, vidi precipitare dal balcone di casa sua, fino a terra, alla superficie. Attraversava i cieli per poi giungere alla superficie, alla concretezza, a una logica e incontestabile putrefazione. Uno slancio di coraggio, di paura, comunque uno slancio e poi… non le fu dato volare, ma, con più onore, di palpare l’essenza. La poesia è nelle cose, come per Pascoli, Montale, ma viene deformata dalle idee. Idee che ci allontanano, infelici, dalla superficie e però ci rendono più “superficiali”, vanesi. Filippa. Lo scoprii molti anni dopo il suo nome. Il nome e poco altro. Quando sua madre cambiò appartamento, esausta di rivivere ogni giorno la tragedia, portò con sé l’essenziale, e tanta roba la lasciò accanto ai bidoni sotto casa, abiti e cianfrusaglie appartenuti alla figlia. Avrà pensato, forse, che potessero servire a qualche povero. Quella sera, mi avvicinai di soppiatto, eludendo lo sguardo della signorina Rosa Turco, fornaia del panificio accanto, e arraffai lesta e guardinga una busta da uno dei cartoni. Era blu, ne ricordo la consistenza untuosa sotto i polpastrelli, conteneva qualcosa di acuminato. Mi graffiai. La cacciai dentro la giacca di pelle e m’infilai nel portone di casa mia. Tremante, sciolsi il nodo in plastica, le mani, goffe e doloranti, sembravano star compiendo un’impresa complicatissima.
Mi sentivo in colpa, ma ero troppo curiosa. Quella ragazza mi doveva qualcosa, non una spiegazione, forse solo un ricordo diverso da quello che mi aveva lasciato, un ritaglio in più, che reggesse in piedi quello scempio, che mi dicesse: sì, può andare così, può succedere a tutti, può succedere anche a te, io ero “normale”. Nella busta, alcune scatole di medicine, forse scadute, degli scontrini stropicciati, un righello di plastica spezzato, un temperino, due penne macchiate d’inchiostro fuoriuscito, un rossetto, una carta di merendina, una spillatrice scassata, un dépliant di un hotel a cinque stelle dove si celebrano matrimoni in grande stile, degli appunti scritti a penna, lezioni universitarie, forse Geologia, una busta da lettera vuota, sempre dall’università, il destinatario in stampatello, lei, Filippa Garofalo. Poi, un diario. Mi stupii che si potesse buttare un diario, ma sfogliandolo mi resi conto che era impersonale, gelido, una serie di appuntamenti segnati in bella calligrafia inclinata a destra con orari e nomi delle persone da incontrare, dei posti dove recarsi. Ogni due tre pagine una sigla, una specie di elle attorcigliata. Di lei, non una notizia, fino a quando vidi sbucare, come se mi salutasse col suo angolo bianco, una stampa. Era una foto. Filippa, seduta in punta sulla sedia di una cucina, il viso tra le mani, gli occhi puntati a terra, sempre quella crosta con cui ricongiungersi. Lo scatto si poteva osservare da molte angolature, ma risultava sempre modesto, discreto e impersonale come i suoi appunti. La fissità dell’attesa, in una luce gialla ma fredda, artificiale, metafisica. A cosa pensavi, Filippa? Il tuo pensare ti portava a qualcosa non contenuto nella scena, straboccante dai bordi della fotografia, forse qui, nelle mie mani palpitanti che ora scrivono questa storia. “L’immagine è una realtà senza resti e la realtà un divenire senza centro”, lessi su un libro d’arte. Filippa mi regalò il silenzio. Nel mio corpo, l’amore, l’aria e persino il cibo si muovevano in maniera circolare, tanto che spesso non ce la facevo ad amare, neanche a trattenerne il ricordo, dell’amore, non ce la facevo a inghiottire aria o cibo, per timore che mi guastassero incontrovertibilmente il soffio vitale. E un’anima ossidata, si sa, è pesante, e non può più volare. Un’anima integra, all'opposto, fa di ogni sogno una verità tangibile. Non si rassegna, la realtà si può cambiare, bisogna convincersene. Un’ostinazione commovente mi rendeva dura, un nucleo purissimo come pietra.
Ma non ero eterea, non ero fatta di fibre impalpabili, le mie armi erano i viaggi, fisici o psichici, e le parole. La scrittura mi aiutava a mettere ordine nei miei percorsi, a placare il frastuono. Nel rileggermi, però, essendo una donna capace di cambiare in fretta, così fluida, come linfa rosso rubino, come il sangue della Terra, mi accadeva di non ritrovarmi più, di non capirmi più. Ciò che mi era stato svelato si era dissipato scivolando tra le righe, saltellando di vocale in vocale, fino alla fine della pagina, dove la parola fine, però, non era scritta. Io, fatta di contrasti, – Paul Valéry diceva che finché si è inquieti si può star tranquilli – che voglio controllare l’incontrollabile, che voglio credere nelle cose che vivo e vivere nelle cose in cui credo, mettere al bando l’apatia, la cupezza, accendermi in merletti di fiamme, oscillando al ritmo di una melodia silenziosa, dettata da segni e sogni, da un’agenda proveniente da un altro mondo, dove la musica forse si può danzare con le ciglia, a mani giunte. Filippa… cosa vuoi da me?
Capitolo VII
Se io potrò impedire a un cuore di spezzarsi non avrò vissuto invano, se allevierò il dolore di una vita o guarirò una pena o aiuterò un pettirosso caduto a rientrare nel nido non avrò vissuto invano EMILY DICKINSON
“Assorbivamo quell’ansia tutta americana di immaginare catastrofi, di figurarsi in situazioni di pericolo imminente, come si reagirebbe… Guardavamo intorno a noi con occhi stranieri, come se avessimo dovuto ambientarci, mentre gli altri, quelli diversi da noi e tutti uguali tra loro, puntavano le pupille su di un orizzonte che, cieco, non li ricambiava e, come trainati da uno spago ante per i loro ombelichi, cordone di Madre Terra, procedevano altezzosi e inconsapevoli, puzzolenti di sigaro e soldi. Nel rollio delle onde, rotte di spuma cenerina, emergevamo e immergevamo i visi, i capelli chiari, come lampi, si disponevano in un cielo capovolto. I pesci erano uccelli e gli uccelli pesci. Stelle marine cadenti spaccavano desideri. Io e Dafne, allora, aspettavamo che la spiaggia si svuotasse, via i colori pacchiani degli ombrelloni da mercatino, via i bambini molesti e maleducati, via le creme solari e gli occhiali all’ultima orrida moda, i tatuaggi all’henné e i CD taroccati. Strisciavamo come ladre, timorose che suo padre ci scoprisse. Ci saziavamo di fumo, fumo e sale, poi ciondolavamo a riva, ridendo, dormendo a occhi aperti. avano due ore, o forse tre, poi ci giravamo
di scatto, a guardarci, sì, scosse da uno spiraglio di realtà, e ci accorgevamo che il tempo ava, a… è ato.” “Alla tua età si tende a pensare di essere i detentori unici di problemi mastodontici, irrisolvibili. Poi, credimi Azzurra, arriva un giorno, e si scopre non solo che non è così, ma che quei problemi, quei tratti caratteriali che ci delineano come esseri romantici, avulsi dalla realtà, fanno parte di prototipi diffusissimi e facilmente individuabili. Sei uguale a tanti altri… per tua e mia fortuna, così sarà più facile per me capirti e aiutarti… Sono uno psichiatra, non un mago! Ma tu, cara, promettimelo, non devi aspettare di avere trent’anni… ti darò un piccolo aiuto nel raggiungere un certo grado di coscienza. Già la vita ti ha messo davanti a diverse prove e tu… te la sei cavata, a volte un po’ per sfortuna sfacciata, ammettilo! Sai, nel momento della consapevolezza, sopraggiungeranno per mano sollievo e delusione. Allora ricomincerà una nuova guerra, per autodeterminarti, per dirti che no, non sei quell’adulta con poca fantasia e un pacco di noia che s’inasprisce per ogni contrattempo… Forse sto divagando, ma per te dovrebbe essere finita l’era del non ho chiesto io di nascere… no?” “Mah… Sarà che la mia mente va al ato… e si crea uno sfasamento che la forza se la porta via.” “Parlami di Teo.” “Cosa?! Ma… ma… ti pare così, a bruciapelo! Io… non mi va, ecco. Non ne parlo volentieri.” “Ti invito a fidarti di me...” “Teo… io credo di pensarci troppo. La sua faccia, alcune scene… mi vengono agli occhi di continuo. Cioè, non di continuo, ma più volte al giorno. Non posso farci niente, è una maledizione…” Mi si allargarono le pupille, spostai leggermente lo sguardo, che si fece più violento, quasi potesse toccare tutto ciò che avevo di fronte. Mai più che in quei momenti ero lontana, invece, dalle stanze, dall’aria che si attaccava alle mucose, dai latrati del traffico, dalla polvere, dalle ossa. Mai. Mi ritiravo in un guscio, sospettosa. Scattava un interruttore e… CLAC. Spariva tutto, tutto ciò che è solido, colorato, apprezzabile coi sensi terreni. Si avviluppava un rullino mentale e si dipanava solo davanti a me. Nitido, clinico, di vita propria.
“…e lui è come un fantasma. Ogni tanto penso che sia morto apposta, per metterci tutti in gabbia. Che lui s’è liberato, forse, e… chissà se lo meritava. Ma noi, noi che restiamo, ce lo meritiamo di stare così male?! Senti questa: a volte sono in bagno, nuda, e ho paura che mi spii. La cosa mi farebbe ribrezzo. Era repellente. Un mostro, un efferato bastardo... No… non so, forse son tutte frottole, non era un mostro… era un poveraccio… IO NON LO SO! Ohhh! So che m’ha fatto are anni di schifo, e io lì, ad accudirlo. Era come stare con un condannato a morte… NO, peggio! Con un suicida! Ogni giorno s’uccideva tra le mie mani. Poi è morto davvero. Ed è colpa sua! E non c’è giustizia, nessuna giustizia. Né pace o riconoscimenti. Sono stata una santa devota… un… un… sono stata tutto quello che non ha mai avuto, che non ho mai avuto neanch’io… come l’ha voluto, come mi ha voluto. E in quegli anni tremendi per me c’era solo lui… Teo e nient’altro. Come una stupida ho preso a trascurare tutto ciò che mi piaceva, tutto ciò che sapevo fare. Riprendere sarà dura…” “La risalita è faticosa… meglio non calarsi troppo giù, al buio.” “… Come vivete voi che, al mondo, nulla vi tocca? Con le vostre certezze… Come dei forti, pazzi, inutili… – ero fuori di me dal dolore – Lo vuoi sapere cos’è la droga? È qualcosa che, quando c’è, quanto ce l’hai tra le mani, e la gusti, la inietti… o l’abbracci… non esiste altro. Perché droga è una sostanza chimica o una persona, o il lavoro… o il cibo… Ognuno ha la sua. Non se ne riesce a fare a meno, contro ogni logica e interesse. Stai male tu, stanno male le persone che ti sono vicine, ma tu non ti separi dalla sostanza letale. Ti scagli contro chi ti vuole allontanare da essa e la tua parte di cattiveria cresce, si nutre di ciò che non possiedi.” “Azzurra…” “Non ti inquietare più di tanto… tu sei l’unico intelligente qua dentro.” “No, Azzurra. Ognuno ha la sua intelligenza.” “Ahahah! Tu sei un democratico.”
Ogni mattina, in comunità, si ripeteva quella che chiamavamo “la filosofia”: Siamo qui
perché non c’è alcun rifugio dove nasconderci da noi stessi. Fino a quando una persona non confronta se stessa negli occhi e nei cuori degli altri, scappa. Fino a quando non permette loro di condividere i suoi segreti, non ha scampo da essi. Timorosa di essere conosciuta, non può conoscere se stessa né gli altri: sarà sola. Dove altro se non nei nostri punti comuni possiamo trovare un tale specchio? Qui, insieme, una persona può, alla fine, manifestarsi chiaramente a se stessa, non come il gigante dei suoi sogni né il nano delle sue paure, ma come un uomo parte di un tutto con il suo contributo da offrire. In questo terreno noi possiamo mettere radici
e crescere, non più soli, come nella morte, ma vivi a noi stessi e agli altri. Mi immaginavo in compagnia di Dafne, quando abitavamo insieme. Nella testa, una lentezza asfittica. Là fuori, invece, tutti di fretta, eppure annoiati, tutti con i minuti contati, ma disoccupati. In TV (accesa, con sollievo, non appena si entrava in casa, come a dirle “ora parla tu, stordiscimi di cazzate, io non ce la faccio più”) un serpeggiare continuo di spot che promuovevano prodotti tutti volti a far “risparmiare tempo”. Per farci cosa? E non c’era più bisogno di cucinare, volendo, né di uscire per determinate commissioni… ed era solo l’inizio, l’abbozzo di una legione di esseri umani che non crede più (finalmente), e non chiede più.
Il motivo e lo scopo non sono la stessa cosa, nel linguaggio comune spesso usiamo i due termini uno in vece dell’altro senza starci troppo a pensare, ma vi dico che fu il motivo, e non lo scopo a condurre mia madre da me tanti anni fa. E il motivo era il suo amore. Volevo solo piangere, e piansi soltanto. Me ne volevo solo andare, via, basta. Avrei fatto tutto quello che voleva, tutto quello che dovevo, ma non potevo star più lì in quella periferia irreale. Non mi volle portar via, non poté portarmi via, capii. “Coraggio, Serra, coraggiooo!”, mi risuonavano in testa gli incitamenti della mia prof., che a lungo mi aveva spronato e solo allora, capivo, non inutilmente. Ce l’avrei fatta. Sì, dovevo tornare a essere Azzurra, dovevo tornare al mio mare e tuffarmi spensierata come quand’ero piccola e, dall’acqua, chiamare mia madre e dirle: guarda che so fare! In tutto, restai lì due anni della mia vita.
Mario aveva in parte conquistato la fiducia di Dafne; paterno, affettuoso, l’unico del personale ospedaliero che le rivolgesse delle attenzioni speciali. Certo, c’era sempre la caposala, la Marini, ma Dafne, dopo la prima sviolinata ai piedi della barella, non l’aveva più vista. Era, sul lavoro e nella vita, una di quelle persone che si mostrano disponibili quando non si ha bisogno di loro, che
offrono cerimonie esagerate per inezie e viceversa, quando ci si aspetterebbe il loro intervento, si eclissano. Un pomeriggio, Mario si comportò in maniera più affettuosa del solito. Chiese a Dafne un bacio. “Un bacio sulla guancia, dai! Fammi contento.” Dafne, che era stata educata rigidamente e alla quale sembrava sempre scortese dire di no, accettò con massima ingenuità… Certo, Mario era ambiguo, ma era anche molto furbo. Sapeva ben scegliere le sue vittime.
“Questa notte ho fatto un sogno, Ernesto… All’inizio era tranquillo, solare. Incontravo, per le vie soleggiate del paese, percorrendo i giardinetti puntinati di trifoglio vicino alla stazione, un cagnolino. Minuto, allegro, mi scodinzolava con calore. A guardarlo più da vicino, mi accorgevo che era spelacchiato, scabbioso. Dopo qualche o, ne comparve un altro, entrambi mi trotterellavano dietro ed entrambi erano macilenti e con chiazze glabre sul dorso. Erano una presenza simpatica, tenera, ma, sentivo, ingombrante per dove stavo andando, anche se ancora non sapevo dove stessi andando. Mi si parò dinanzi un bar, una porta di legno scalcinata, posticcia, sigillata da un chiavistello. Rimasi colpita, non ricordavo così quel posto. La porta si aprì e ne uscì un gruppo di uomini, ragazzi… Con loro, un cane più grande, bellissimo. Dagli occhi sadici degli uomini e dallo sguardo ferito del grande cane capii che gli avevano fatto del male. Ciò mi fece ribollire il sangue, e scattare dentro una rabbia violenta, inaudita, forse sproporzionata. Dentro di me però sentivo che quegli uomini avevano fatto del male anche a me, a lungo, profondamente. Il mio furore si mutò in azione e cominciai dapprima ad agitarmi, sbraitare, additarli come colpevoli. Ogni fotogramma imbevuto d’angoscia. Uno tra loro era il più forte, il più cattivo, si intuiva dall’espressione dominante. Mi si avvicinò minaccioso, la sua fame di efferatezze non era paga. Mi afferrò dalla collottola e mi tirò su senza difficoltà. Io, con lo sguardo fisso su di lui, spoglia ormai di qualsivoglia paura e determinata, gli sferrai contro un pugno, poi un altro e un altro ancora. Mi davo lo slancio saltando, come appesa a un elastico. Poi, un baleno di lucidità ha rotto per un millesimale segmento il filo del sogno. Forse mi sono resa conto di sognare… Virai di nuovo nel tessuto onirico con riconquistata potenza e con aggiunta volontà semicosciente. Sferrai contro il mio assalitore una serie di calci spietati e mi impadronii della sua pistola… Il conscio mi ha salvato dall’inconscio. Chissà perché la realtà talvolta ci salva dai sogni? Non dovrebbe essere il contrario? Perché questa censura, questa protezione razionale? Non
sono una psicoanalista ma, da profana, posso dire che a volte ho la sensazione che l’estensione onirica sia concreta e legittima quanto la veglia. Perciò, un mondo salva l’altro, si avvicendano per permetterci sempre di sopravvivere, di non impazzire, e noi sbuchiamo da un mondo all’altro come pavide talpe. Il mio sogno continuava, ero di nuovo completamente addentro a esso. Sapevo che dovevo seguire la musica, la scia di una sonata classica che mi avrebbe guidato come uno spesso nastro di incenso verso coloro che dovevano pagare. Per tutto. Per Dafne, per me, per chi non si era saputo difendere. Con scaltrezza e mosse silenziose mi introdussi nel loro covo, dove si erano rintanati. Il primo che ammazzai fu il loro capo. L’esalazione del suo gemito mortifero fu liberatoria, mi infuse serenità e coraggio. Guidata dalla musica, li uccisi uno a uno, un colpo di pistola ciascuno. Nessuna titubanza o senso di colpa. Era importante finirli tutti, era il mio dovere. Eravate tutti, tutti colpevoli.” Appresi di Dafne, di quello che le era successo in ospedale, di quello che era capitato ad altri pazienti, donne e uomini, dal telegiornale. Io stavo in comunità e, come ogni sera, potevamo vedere il TG. Davano la notizia addirittura sul nazionale. Uno scandalo, una vergogna per il personale medico e paramedico. Erano tutti, o quasi, coinvolti. Per più giorni, in TV e sui giornali si parlò del caso: infermieri e medici – forse anche il giovane primario, un certo Neri –, ancora non si era stabilito quanti, a turno molestavano, picchiavano e violentavano pazienti del reparto di psichiatria dell’ospedale della mia città. Da anni. Tantissimi casi. Dopo la prima denuncia, fu capovolta la pietra e sotto era piena di vermi. Voci di corridoio dicevano che la Marini e Neri fossero perfettamente a conoscenza della situazione e che camuffassero, con la complicità di altri, anche le tabelle di turnazione, per destare meno sospetti, per confutare le tesi di chi denunciava. Non si seppe mai se era vero, furono scagionati per amicizie politiche, pare. Dafne, però, un giorno, durante il ricovero, vivificata da un bagliore di lucidità, fece finta di prendere la terapia extra che Mario le somministrava e, presente a se stessa, si recò da una giovane infermiera, molto garbata e professionale, Lucia, e, piangendo, scoppiò raccontando tutto. Allora non poteva conoscere l’importanza del proprio gesto. Ma fu una vera eroina. Era stata la prima a parlare, a far vacillare quel castello di losche carte. Dopo di lei, altri ne avrebbero trovato il coraggio. Fatto sta che la dolce Lucia, scossa, si recò seduta stante dalla Marini per segnalare la situazione, mano nella mano con Dafne. La caposala rispose, occhi freddi e sorriso deformato dal disprezzo: “E tu, credi a quello che ti dice una paziente psichiatrica?!”
Incubi come quello che riferii a Ernesto, la mattina dopo che seppi del reparto degli orrori, mi braccano da allora.
Capitolo VIII
Un giorno un'adolescente, un'altra me stessa, avrebbe bagnato con le sue lacrime un romanzo in cui io avrei raccontata la mia propria storia. SIMONE DE BEAUVOIR
La corrente ci portava a riva. Molli, immense, in quel bagno, in quella notte. Le luci viola dell’insegna del lido, filtrate dallo Ionio, ci si poggiavano sulla pelle. Era appena iniziato un nuovo anno, da tre ore, l’acqua era un liquore ghiacciato. I sassi, rotondi e duri sotto le nostre cosce, erano delle gemme preziose. Seppi, all’improvviso, come si sa di stare al mondo, senza averne piena padronanza, senza averlo scelto, che di Dafne avrei potuto fidarmi. Per sempre. Mi disse: “Non avrei voluto dirtelo così. Ti avrei scritto una lettera... Ma non c’è un modo, il mio di sicuro non era questo, ma lo è adesso, che è diventato necessario. Mi spoglio di tutto, anche la pelle è sparita. Vicino a te, io sento le scosse, confluiscono in un raggio paralizzante. La forza della tua pelle la penso, la respiro… e ha un odore… qualcosa che non avevo mai conosciuto. Se ne fossi capace, mi ritirerei in esilio, a scolpire teste di te per tutta la vita. Quando il cielo, come in questa notte, scurendosi esplode in tutti i suoi misteri, io ricordo immagini che ho sottratto al tempo, assetata, e le bevo dalle tue onde.” Mi commosse, tanta devozione. Aprì un debito di sangue lungo una vita. Invasa dal suo chiarore, dalla sua intima nudità, mi sottrassi alle dinamiche spaziotemporali. Accolsi la sua gioia, la sua paura, le sue labbra, il suo bisogno
di me. Il nostro essere al mondo è un difficile percorso, liquido e rapido fra due argini, meglio denominati vita e morte. Prendere coscienza del fluido che ci contiene può portarci alla completezza, alla salute psichica, o all’anomia, alla follia. Una volta lessi in un saggio che le persone che uccidono e quelle che sono uccise si somigliano più di quanto si pensi. Ma il mondo stava cambiando, lo percepivo e, ormai, si uccideva con lentezza, per logoramento, ed eravamo tutti vittime. Ma la colpa non è insita nell’azione, bensì nel valore che si dà all’azione. Bisogna perciò essere assai cauti, un valore attribuito può diventare un sentimento. Perciò, se si stabilisce che chi compie la tale azione è colpevole, spesso accade che chi la completa nutre un senso di colpa. Ma la colpa ha sfumature e declinazioni. C’è anche chi si sente in colpa senza sapere perché – come se si trattasse di un sentimento primario, di una predisposizione innata – e, a un certo punto, si tormenta per trovare un’azione che lo macchi concretamente e che lo etichetti infine come colpevole, facendo combaciare l’idea che ha di sé con ciò che fa. Ci puniamo e poi affidiamo ad altri il potere di assolverci, sia dalla colpa che dalla pena. È il dolore che comanda.
Sarà sciocco ma, uscita dalla comunità – avevo perso tutti i contatti con Dafne, non sapevo dove trovarla, non avevo più il mio cellulare, non avevo il suo numero, non ci si poteva ancora avvalere dei social network –, me la immaginavo nella métro de Paris, a suonare pezzi di Modugno al violino…
Il derubato che sorride ruba qualcosa al ladro, ma il derubato che piange ruba qualcosa a se stesso, perciò io vi dico: finché sorriderò tu non sarai perduta…
mentre era stata inviata anche lei dal S.E.R.T. prima in una comunità e poi, su decisione del personale del centro, in un “gruppo appartamento”, cioè in una struttura residenziale per soggetti a rischio, nel caso specifico per donne che avevano subito violenze e con altre problematiche complesse. Non crediate che sia facile rifarsi una vita, anche se ci ripetevano sempre che ciò che è ato non conta niente, conta il futuro.
Tutto quello che sei, con la droga, quando smetti di usarla non lo sei più. Appena ti disintossichi, se mai ci riesci, torni a essere quello che eri prima di cominciare a drogarti, e cioè una persona che sente di avere tutti i motivi per iniziare. In più, hai perso anni, e se ci provi più volte, a smettere, ogni volta è la stessa agonia. Io smisi di punto in bianco. Volutamente non scrivo spesso di Teo, anche se mio malgrado ci penso ogni giorno. Io sono una fedele, e non ho mai dimenticato nessun amore. Ricorrono nei pensieri e nei sogni. Evito di aprire l’argomento Teo perché temo mi si squarci qualcosa dentro. Centellinando le esternazioni, però, in questo tempo da quando lui è morto – … è morto, infine! – sono riuscita a far sgocciolare via quasi tutto il sangue dalla ferita aperta. Ora fa meno male. Quando toccò a me, smettere, dicevo, decisi di farlo di botto, e fu grazie a Teo. In pratica, già da tempo andavo al S.E.R.T…. All’inizio mi davano il metadone. Ogni mattina, dal lunedì al sabato, mettevo la sveglia prestissimo, perché poi c’era una gran fila. Saltavo dal letto, facevo pipì e mi infilavo le prime due cose per poi fiondarmi in strada, mi aspettavano almeno venti minuti a o svelto per raggiungere l’ospedale. Quel percorso lo sapevo a memoria, e lo odiavo. Ogni casa, ogni negozio, il bar dell’angolo, poi il piccolo parco, le scale, la salita, su, su, fino alla piazzetta e poi imboccavo a gambe levate il lungo vialetto alberato fino alla meta. Stanziavano davanti allo sportello e nella sala d’attesa decine e decine di persone. Molti erano giovani, per ovvi motivi. Nel corridoio, le scaffalature mostravano raccoglitori giganti con le cartelle dei deceduti negli ultimi anni. Forse era un monito. Alcuni ragazzi, diversi di loro anche più piccoli di me, venivano accompagnati da un genitore. Li vedevo avvolti in look estremi, catene, piercing, capelli blu e simili, anche se ormai, in terapia assistita, magari uscivano solo accompagnati e non avevano più la libertà di frequentare la solita “compagnia”. Dovevano, dovevamo salvaguardare un rigore, un’identità messa su giorno dopo giorno, strato dopo strato, un’immagine cattiva, a difendere un fulcro fragile, caldo. Ricordo un paio di colloqui, forse tre, uno dei quali con uno psicologo che chiamavamo “Il Polveroso”. Dava l’idea che, dandogli una pacca sulla logora giacca a quadretti, avrebbe cacciato nuvole di polvere. Era facile da prendere in giro. Nonostante la veneranda età e, quindi, la lunga esperienza, ancora del comportamento del tossico non sapeva niente. Una volta mi chiese: “… Ma… dopo che ti droghi, che fai?” Mi venne da rispondergli “Salto sui cornicioni e cavalco arcobaleni!” ma, una volta tanto, rifuggii il sarcasmo e confessai: “Cose normali… dormo, mi alzo, esco, cucino…”, ormai avevo bisogno di fumare la roba per non stare male. Di tanto in tanto mi è capitato di iniettarmela. Non posso dimenticare che la prima volta fu Dafne a farlo a me, eravamo in macchina, parcheggiate poco distante da casa mia, una strada
centrale, le luci dei negozi, la gente che ava, la frenesia degli acquisti, le risate. Noi dentro, le sicure abbassate. Con Teo, invece, iniziò che ci bucava Salvo, un amico del fratello. A ripensarci, mi attraversano dei brividi gelidi. Poi, via via, imparai il sistema… anche se mi faceva paura. Quindi, Teo procurava la sostanza e io mi occupavo della fase meccanica. Una volta sul suo braccio si formò subito uno sfogo terribile, chiazze rosse, di un rosso violaceo, e gonfie. Fui un tutt’uno col panico, avevo sentito di persone alle quali erano stati amputati arti andati in cancrena per inconvenienti simili. Temevo anche che potesse morire di overdose. Si sporgeva pericolosamente dalla finestra di casa sua e agitava il braccio fuori come a fargli prendere aria. Io, in mente, pregavo divinità di tutte le religioni, e già avevo allucinazioni di Padre Pio e Veneri (in pelliccia). Anch’io mi sentivo a rischio, sono alta un metro e sessanta e pesavo trentasei chili. Sarebbe bastato pochissimo a spazzarmi via. Vomitai. Era più che vomitare, mi sembrava di partorire l’intero cosmo dalla bocca. Spasmi violentissimi mi vessavano l’addome. Teo non mi aiutava, continuava a guardarsi il braccio. Raccolsi da sola il mio vomito e pulii tutto. In quel momento, giurai che non avrei più toccato roba in vita mia. La mattina seguente aprii gli occhi, che avvertivo tirati, gonfi, ingordi d’altro sonno. La sera avevo abbassato con cura la tapparella, ma non era bastato quel sottile divisorio tra me e fuori. La luce mi veniva a cercare, a soffi, tra gli interstizi. Candida, cullava corpuscoli di materia e mi svelava la sua potenza, di render viva cosa morta e di conferirle bellezza, leggiadria. I grani di polvere ballavano cangianti, angeli di sole, e mi invitavano a uscire, a schiarirmi la voce, a domandare aiuto. Teo, naturalmente, non mi accompagnò nella decisione. Dicono che per le donne è più facile smettere, non dicono invece che è difficile allo stesso modo, ma che noi siamo più avvezze a star male. Così che abbiamo assimilato la sofferenza come condizione naturale. E ce la andiamo anche a procacciare, di frequente facendo coincidere il volto dell’amore con quello di un compagno sbagliato, meglio ancora se ci ricorda i difetti di nostro padre. Teo faceva finta di non farne uso, ma poi mancava sempre più spesso, per giorni, e quando si rifaceva vivo in pratica mi dormiva addosso. Prima dell’incidente, ho affrontato un lungo calvario, con lui. Prima ancora ci fu il calvario personale, però. In quel particolare periodo, ero ata alla Subutex, ne ricordo ancora il sapore amarissimo sotto la lingua. Mi faceva star male. Non riuscivo a mangiare. Bevevo latte scremato e mandavo giù a stento crostini di pane bianco. Decisi tutto io, praticamente. Feci domanda al S.E.R.T. di are dal meta alla
buprenorfina. Intimai al Polveroso di dire che ero pronta. Il fatto è che di meta mi davano un dosaggio altissimo, come se mi drogassi quanto Mick Jagger. Non ero davvero pronta. Infatti, spossata, di giorno non facevo niente, con Teo guardavamo la TV, tanti film, facevamo l’amore e ascoltavamo musica e dormivamo. Poi ci sballavamo, anche. Sì, noi e molti altri ci facevamo sul metadone. Le sensazioni, ora, sono così confuse nei ricordi che non so dire se era meglio o peggio, comunque non ci bastava. Niente. Funziona così: prima, l’oggetto della dipendenza colma un fondo sterile, dà appagamento, poi il tuo fondo sterile si dilata, perciò lo stesso riempitivo non basta. La voragine è sempre ingorda, ricucirla è una guerra interiore. E poi eravamo costretti… Al S.E.R.T. devi andare tutti i giorni, non devi mancare un appuntamento, oppure poi devi fare le urine e non è detto che, alla lunga, continuino ad aiutarti. Era come andare a scuola, ogni mattina. Di recente, avevano montato delle telecamere nei bagni. Avevano scoperto che molti si facevano direttamente là, lo ritenevano un posto tranquillo, pulito. Altri, invece, quando dovevano sottoporsi al regolare controllo urine, versavano nel contenitore, da una bottiglietta che tenevano a contatto col corpo, per conservare la temperatura – o in un thermos, i più attrezzati – l’urina di qualcuno pulito, certi usavano quella di un amico, del partner o di un figlio. Poi, il sabato, il “metano” ce lo davano da portar via, in boccette di vetro. Loro mi sembravano degli spacciatori, niente di più. Noi, in un circolo vizioso, ogni tanto lo rivendevamo o scambiavamo con una bustina. Stavamo a mantenimento, sempre dopati. E c’era davvero un noi e un loro. Il personale sapeva cosa era giusto e sbagliato, noi no. Alcune giovanissime tirocinanti, poi, erano le peggiori. Ancora all’università o fresche di laurea, si davano arie da maestrina. Le più infide erano le finte umili, che quando si riunivano, in pausa sigaretta, parlavano male di questo o di quello, come se fossimo personaggi di una telenovela. Alcune ci provavano con i più carini, solo dopo aver controllato in cartella che non avessero epatiti o HIV. In quel contesto, così come in comunità, non ci sentivamo degli esseri umani a tutti gli effetti, ma delle scimmie ammaestrate. Con la Subutex finalmente mi sentivo più sveglia, e la cosa mi faceva paura. Feci il o da un farmaco all’altro perché dicevano che col secondo era più facile smettere, che non potevi prenderlo e farti insieme. Io, comunque, non ci provai mai più. Almeno, con l’eroina, avevo chiuso per sempre. La vicinanza con Dafne, il continuare a vivere insieme a lei che, comunque, consumava di tutto davanti a me non fu facile. Cedevo occasionalmente a uno spinello, ai superalcolici o al vino rosso e, quel capodanno, presi delle pasticche.
Avveniva per inerzia, avevo sempre accesso alle sostanze e non avevamo alcuno stimolo esterno. Io avevo lasciato l’università e non facevo niente, lei aveva pure accantonato gli studi ma lavorava part-time in una fabbrica di caramelle. Quando tornava dal lavoro, spesso con dei doni gommosi per me, mi trovava con lo stereo a tutto volume – gli Scorpions, The Smashing Pumpkins e i Guns N’ Roses, in quel periodo – che facevo le pulizie per far are più in fretta la lunga mattinata da sola. Poi mangiavamo – una sola cosa ciascuno, una mela, uno yogurt, una scatoletta di tonno, o i Grancereale con fave di cacao… non ci preoccupavamo molto di fare la spesa – e ci buttavamo sul divano-letto in pelle colmo di cuscini, la stufetta a propano accesa, stanziale, davanti a noi. Una sigaretta dopo l’altra e lo stereo sempre in sottofondo. A ripensarci ora, non mi capacito di come quei pomeriggi, che chiunque avrebbe giudicato noiosi, infiniti, per noi erano meravigliosi e fuggevoli. Saltuariamente, Dafne portava a casa qualche collega della fabbrica; venivano a vedere un film, a fumare uno spinello – ricordo con vergogna e un po’ di tenerezza quando un gruppo di loro si offrì di portarci del cibo e due giacche invernali, tanto ci vedevano trascurate – io feci colpo su un paio di loro e si crearono strane dinamiche ionali, di gelosia, competizione. Vedevo entrambi, non me ne fregava niente, di nascosto da Dafne, che era diventata più guardinga, quasi gelosa. Io non mi innamoravo più ormai. Lo avevo deciso. Per proteggermi? È probabile, di sicuro il risultato era che scindevo la corporeità di ogni uomo dal suo animo, erano niente più che oggetti, superflui, frivoli, divertenti, ma sempre oggetti. Rivisitavo il vecchio modello di sottomissione della donna all’uomo. Una sera, Dafne mi trovò con uno di loro due e io ero un po’ brilla, ridevo come una scema. Lui cercava di imboccarmi a forza dei dolcini di pasta di mandorle, diceva che ero anemica, anoressica. Dafne prese a pugni i mobili, ululò cacciandolo via, quasi lo prendeva a calci. Mi fece paura, ma non riuscivo a smettere di ridere. La scena era surreale. Con un calcio robusto, spinse il divano da un lato all’altro della casa e questo, sbattendo contro il mobile a cassetti, fece cadere con un fracasso le pile di CD che stavano poggiate sopra. Un’altra volta, venne a trovarci il suo amico, Cesare. Disse che era un periodo difficile per lui, aveva perso il lavoro e litigato con la famiglia. Il fratello, venuto a conoscenza delle inclinazioni sessuali di Cesare tramite lo sfottò di alcuni amici, si era infuriato a tal punto da prenderlo a pugni; i genitori non lo avevano difeso e, anzi, il padre gli aveva tolto anche il saluto. Si rivolgeva a lui solo per
chiedere: ”Dov’è tua madre?”. Era il suo nuovo nome “Dov’è tua madre?”. E basta, fine del dialogo. Cesare, non sopportando tale umiliazione, aveva giurato di vendicare quell’ingiustizia e di non mettere più piede nella loro casa. Era molto femminile, adorava i nostri vestiti, avrebbe voluto nascere donna. Ambiva a mettere da parte un sacco di soldi per poi operarsi. Nel frattempo, lasciava che testassimo su di lui piccoli trattamenti di bellezza: gli depilavamo le sopracciglia, gli facevamo delle maschere sul viso e sui capelli, gli dipingevamo le unghie e lo truccavamo, gli occhi bistrati e il mio rossetto profumato di cocco. Lui si beava ma poi, guardandosi allo specchio a risultato finito, piangeva e non voleva uscire di casa. Si malediceva e malediceva il mondo intero. Rimase con noi un mese, poi fece le valige e partì per Milano, dove aveva degli zii e sperava di trovare una mentalità più aperta, un lavoro, un amore. Prima che il proprietario ci cacciasse di casa, altri episodi ci avevano dato degli scossoni. Per ben tre volte, ci furono improvvisate della polizia. In una di queste, ci infilarono nella volante, spingendoci giù la testa, come nei film americani, e ci portarono in questura. Mi beccai anche uno schiaffo, e dovemmo ascoltare le loro prese in giro mentre rovistavano tra le nostre cose. Scuotevano le mani con fare schizzinoso, come se stessero frugando in una latrina. Uno di loro, aveva più o meno trent’anni, lesse il mio libretto universitario, e trovò molto divertente il mio 30 e lode in Psicologia Dinamica. “Ma come, una come te?” Un altro, sempre giovanissimo, assunse un’aria un po’ paterna e un po’ marpiona. Da una parte, mi riempiva di consigli e ammonimenti, dall’altra sembrava mi volesse invitare a cena. Ce la cavammo sempre, comunque, e non ci trovarono mai niente di compromettente addosso. Non avevamo mai spacciato e anzi si stavano molto accanendo contro di noi, esagerando, spinti forse da sospetti per le nostre frequentazioni. Alcuni di quelli che all’epoca consideravamo nostri amici furono arrestati, altri morirono, per overdose, suicidatisi o ammazzati da qualcuno che avevano cercato di fregare. Un paio sparirono dalla circolazione senza che nemmeno i familiari ne sapessero nulla. A ricordarcelo, le foto stampate in bianco e nero con sotto la scritta SCOMPARSO appiccicate in stazione. Queste cose non accadono solo nei film. Si svolgono proprio sotto il nostro naso, nella nostra via, nella nostra vita.
Quando Dafne entrò in comunità, stava per compiere vent’anni. Rimase sei mesi e poi emerse che la sua problematica poteva meglio essere gestita in un diverso tipo di struttura. Così, ò alla “Terra nuova”, un centro d’accoglienza che
gestiva due o tre gruppi appartamento in diverse province. Dal primo giorno, si attaccò come un anatroccolo spaurito alle gonne di Josy, una trentenne che era lì perché aveva avuto problemi d’alcool e, in quel contesto protetto, le lasciavano tenere anche la bimba avuta col suo ex ragazzo, pure lui alcoolista. Graziella, la piccola, aveva diversi problemi di salute, tra cui una sofferenza cardiaca, perciò, in struttura, poteva essere seguita da un pediatra che veniva spesso per controlli. Al gruppo appartamento avano, a rotazione, anche delle volontarie, che aiutavano con la cucina, le pulizie e con lo studio, se c’era qualcuna che voleva riprendere le scuole e, perché no, l’università. Tra le volontarie, seppi tempo dopo, Giulia Russo, la mia professoressa di educazione fisica delle superiori. Prese a cuore Dafne, le portava libri presi al mercatino dell’usato, dispense e talvolta testi nuovi, lucidi, profumati di carta e colla che comprava spendendo dalle sue tasche, tanto teneva a che lei ricominciasse a credere in sé. Giulia si era risposata. Aveva vissuto un lungo periodo di crisi e poi aveva deciso di affrontare un viaggio. Un’estate, così, libera dalle solite incombenze, si persuase, su consiglio di Ines, a unire il suo bisogno di staccare la spina, visitare luoghi sconosciuti e incontrare facce nuove con l’utilità di donarsi in un progetto di volontariato. La UNITED WORLD ONLUS, nella persona del presidente Gustavo De Marco, la inviò, per le sue attitudini e la sua esperienza nel lavorare coi giovani, a fare l’operatrice di strada in Catalogna, per l’esattezza a Barcellona. I colleghi barcellonesi la accolsero con grande simpatia e umiltà, e così le ragazze provenienti da situazioni a rischio del centro diurno FAMÌLIA con cui aveva quotidianamente a che fare. La sera, si fermava nelle varie piazze, nelle larghe vie zeppe di locali, con un furgoncino, a fare prevenzione, a distribuire preservativi, siringhe e a parlare con chi ne sentisse la necessità. Ad aiutarla nei colloqui, sebbene dopo il primo mese masticasse un catalano elementare, fu Alberto Macrì, un italiano anche lui volontario in Spagna. Alberto, laureato in lingue e grande sportivo, apionato di pallacanestro, la chiese in sposa dopo dieci giorni dal suo arrivo, durante una escursione sulla montagna del Tibidabo, sotto un sole cocente, la mano destra poggiata sul cuore e un giuramento sincero negli occhi nocciola. Più giovane di lei di dieci anni, non appariva meno maturo di tanti uomini più vecchi. La convinse e trascinò a forza di baci nella vegetazione lussureggiante. Tornarono insieme in Italia alla fine del mese di agosto e si sposarono con un pranzo in grande stile e fiumi di bollicine e balli sfrenati. Una fiaba inattesa. Ripresa la scuola, Giulia decise di continuare quella meravigliosa, edificante
esperienza e, tornando alla U.W.O., si documentò su come avrebbe potuto rendersi utile in patria. L’affabile Gustavo la mise in contatto con la Terra nuova e di lì a poco scattò il suo immenso affetto per Dafne. Ciò, insieme alla presenza angelica di Josy, risollevò Dafne nell’umore e nel corpo. Al contrario di me, proseguì con gli esami di Psicologia e si laureò con 95 e una bella tesi sulla memoria emotiva. Quando seppi della Russo, commossa dal suo dolce, vitale intervento, piansi al pensiero di quanto spesso avevo pensato a quella donna sempre ottimista, volitiva, che in momenti di debolezza era stata come un faro che m’illuminava la rotta.
Capitolo IX
Il sacrificio è la sola, vera perversione umana. ELSA MORANTE L’isola di Arturo
Il signor De Vito, anche quella mattina, portava il cane a eggio. Lo vedevo dalla finestra stretta del bagno, la tapparella quasi tutta abbassata e uno spiraglio infondo che mi consentiva, non vista, di controllare quel microcosmo. Decisi di scender giù per appurare se era rimasto ancora qualcosa, nell’immondizia, della roba di Filippa. Ora che si era aperto uno spiraglio sul suo piccolo mistero, mi sentivo ancora più morbosamente curiosa. Nel suo diario, che avevo poi spulciato ancora con ligia attenzione, non avevo trovato nulla che mi illuminasse, l’unico indizio era quella strana sigla ripetuta per pagine e pagine. Il sogno di lei, la sua presenza eterea eppure asfissiante mi logorava da anni. Il suo volo, il suo lascito di dolore. Con un gesto, compiuto in pochi secondi, ma chissà da quando pensato, aveva cambiato più vite. Per lei, la madre era andata via. Quanti altri ancora stavano male e avevano rivoluzionato il loro quotidiano? Personalmente, la avvertivo come una spina nella pancia, qualcosa di duro si era saldato lì e doleva quando i miei moti interiori si facevano violenti, grandi. Ma non era solo il reiterarsi del suo salto nella memoria a sconvolgermi, a inglobarmi nel suo ato, era il prima che mi attirava con tenacia, la brama di sapere perché lo avesse fatto, perché in quel modo, perché lì, coinvolgendo tutti noi, che eravamo rimasti. Pur non essendo fedele ad alcun credo religioso – i miei genitori sono dei miti atei – mi sono sempre interrogata sull’esistenza di un aldilà, ove tutto è armonia… un non luogo, stato sublime della coscienza, a cui siamo legati da sempre, pur senza conoscerlo. Filippa era il mio aldilà, l’antenna che mi lanciava il segnale e mi connetteva con parti di me così profonde e così buie da non essere palesali. Mi infilai di fretta le scarpe di tela blu e scivolai fino in strada, schiva, prudente. Era mattina e non volevo dare troppo nell’occhio, specie dopo i fatti accadutimi. Vivo in una cittadina, e le indiscrezioni, talvolta travisate e ingigantite, girano
con facilità. ai davanti al panificio “Turco” furtiva, il colletto alto della tuta a coprirmi il mento. Rosa era china sui sacchi di farina. Continuai indisturbata a camminare. Attraversai la strada con due balzi e raggiunsi i cassonetti. La mia foga impaurì un gatto che ava in rassegna i sacchetti alla ricerca di un boccone. Feci due i indietro e, lasciatolo defilarsi, mi avventai sulla medesima scatola, dove avevo pescato il diario. La scostai seccamente con un piede, in modo da rimestarne il contenuto, nella speranza di lasciar venire a galla il cimelio o la formula che mi avrebbero potuto portare la pace. Niente di rilevante. Quell’agenda, scrigno dello foto di una solitudine, doveva essere l’unica traccia significativa a mia disposizione. Mi tirai la felpa ancora più su – era quella di Dafne, poi diventata mia, nera con le scritte rosse, mi faceva sentire protetta, coccolata – sicché solo gli occhi sbucavano dal collo, e sgattaiolai di nuovo a casa, ripromettendomi di dare una ulteriore lettura al diario, la chiave doveva essere lì, forse andava solo decodificata. Le scale mi sembrarono più faticose del solito, come se una forza misteriosa mi stesse brucando i polpacci. Raggiunsi la mia stanza e, ancora col fiatone, spinsi la porta con un braccio e la richiusi dietro le mie spalle. Non ero sola, mio padre stava in piedi vicino alla scrivania. Vidi la sua schiena, attraversata da scatti convulsi. La maglia attaccata alla pelle, come se il suo corpo, lì dentro, fosse sottovuoto. Stava piangendo. Preso dal suo stato d’animo, non mi aveva neanche sentita entrare, gli occhi puntati contro la finestra. “Papà?” Silenzio. Continuava a scuotersi e a domare singhiozzi. Mi avvicinai a lui, non lo avevo mai visto in quello stato. Gli poggiai una mano sulla spalla e mi accorsi che era molto sudato. Lo invitai con un gesto a sedersi e finalmente potei guardarlo negli occhi. Da anni non guardavo in quegli occhi verdi screziati di marrone. La sua bocca provava a fare uscire parole che si portava dentro da tempo. Corsi in cucina a prendergli da bere, stava forse male? Era il caso di chiamare il medico di famiglia? Mentre facevo sgorgare l’acqua dal rubinetto e mi bagnavo i polsi per riconquistare un po’ di freddezza, sentii invocarmi con voce spezzata. Mi catapultai di nuovo nella mia stanza, quel corridoio era sempre più stretto, impraticabile, o forse il mio animo si stava gonfiando di paura. Mi accovacciai vicino a mio padre e gli poggiai il mento sulle ginocchia. Mille pensieri mi traghettarono in testa, mi chiedevo se ce l’avrei fatta a reggere quello
che stava per succedere e mi girai di scatto a cercare il telefono, considerando di chiamare mia madre, che in quel momento era al Millefiori. “Nooo!” mio padre forse comprese la mia intenzione e mi trattenne con una mano. “Azzurra, ascoltami… devo dirti una cosa. Ti ho vista dal balcone della cucina che frugavi tra le cose di quella ragazza…” “Scusami. Ma…” “Aspetta, lasciami finire. Sono entrato nella tua stanza per vedere meglio, dalla tua finestra, cosa stava succedendo e… ho trovato questo diario… il suo diario…” “Mi dispiace, è che ero…” “Non ho finito. Siediti.” Avvicinai un’altra sedia e mi posizionai di fronte a lui. “C’è qualcosa che devi sapere… è accaduto anni fa, tu eri ancora una bambina…” “Sì, papà, lo so… lei si è buttata…” “Tu non sai niente! È colpa mia… è tutta colpa mia. Io e Filippa avevamo una relazione e lei… voleva che lasciassi tua madre, che lasciassi te e andassi via con lei… a rifarci una vita. Confesso che fui tentato da quella proposta. Filippa era tanto bella, con quei capelli così morbidi, le guance rosa, come la pasta di zucchero… Mi faceva provare dei brividi. Ogni volta che la vedevo ero così emozionato, uno slancio fortissimo mi rinverdiva e portava tra le sue braccia... e lei… oh, lei sapeva sempre quello che volevo… Forse non puoi capire… lei mi leggeva nel pensiero. Ed è stato così fino alla fine. Era l’unica conclusione possibile. La sua morte. Io non vi avrei mai lasciato. Ero tormentato, con tua madre era un continuo litigare ma… non potevo andar via. Questo Filippa l’ha sempre saputo. Ancora una volta ha guardato più avanti, di sé, di noi… fino al giorno in cui ci ha visti insieme… io e te, Azzurra. Eravamo al mare, sulla battigia, e tu mangiavi una ciambella, col muso coperto di zucchero. Eri una bambina così simpatica… socievole… tanto che facesti subito amicizia con
quelle ragazze sedute sotto l’ombrellone accanto al nostro. Una di loro era Filippa. Capì. Non mi chiamò più, non ci vedemmo più per un mese e poi… quella mattina…” Le lacrime gli appannavano gli occhi e prolificavano in nuove rughe sulla fronte. Com’era possibile, come si poteva avere tutta quella vita e quella morte intorno senza mai rendersene conto? Quel senso di debito dentro di me, quel legame invisibile che mi aveva portato a frugare nelle sue cose, quella mancanza, che aveva superato gli anni, più viva dei vivi. Quel pungolo in pancia, quella notte stellata, blu e viola, a capodanno, quel primo bacio, quella corsa per raggiungere Teo all’ospedale… l’ultimo saluto. In tutto, in tutto questo c’era lei, Filippa. In ogni cellula dei miei giorni era mancata e riemersa, come un’onda cocciuta, temeraria. Ci aveva tenuti insieme e divisi, con un solo tuffo. Silenzioso come quella foto nella stanza con la luce fredda. Pensavo tutto questo e pensavo anche che vedevo incrinata quella mia idea di perfezione, di una famiglia felice, senza ombre, ma insieme apprezzavo che il nostro stare ancora uniti e volerci bene fosse frutto di una lotta folle che aveva mietuto, nel consumarsi, anche delle vittime. Vissi un lampo di gioia crudele, ero paga del fatto che quella ragazza non ci fosse più, che si fosse tolta di mezzo. In modo inspiegabile mi venne in mente la mia amica Teresa, la bella, bellissima Teresa. Una candida, soffice crisalide. Pensai al suo stile, sempre un po’ provocante, anzi, a ogni costo provocante; lei, attenta alle nuove mode in fatto di vestiario, toilette e biancheria intima. Esibizionista, ma con ingenuità; meglio: con purezza. Cercava ansiosamente l’approvazione del maschio, ma voleva soprattutto scatenare i suoi istinti più bassi, rappresentare l’icona di donna sessualmente desiderabile, oggetto ionale, una bambola da usare come meglio si preferisce. Con purezza, dicevo, perché non vedeva il male in questo, ma solo un diletto, di cui ridere, da cui trarre legittimo piacere. Mi aveva raccontato di come, durante una gita in Sicilia con sua cugina, un paio d’anni più grande, avevano circuito due ragazzi affacciati alla finestra di una pensione e si erano fatte, in un battibaleno, invitare su trascorrendo con loro quarantotto ore di giochi sessuali. Credeva fosse questa l’idea di donna prediletta dagli uomini, ma non capiva che era solo l’idea di donna prediletta dagli uomini che aveva incontrato lei. E da suo padre. L’avevo conosciuto, il padre, attraverso i suoi racconti e lo avevo visto una volta sola, quando l’aveva accompagnata a casa mia in macchina un pomeriggio a studiare latino. Era un uomo alto e magro, sfuggente, con un’aura grigiastra intorno di dopobarba aspro e costoso. Teresa mi confessò, quel pomeriggio, che lui aveva un’amante, giovanissima, attraente,
un’universitaria, e che sua madre lo sapeva e faceva finta di niente. Ne fui sconcertata ma evitai di commentare per non ferirla. Ora, capivo un po’ di più lei, sua madre, suo padre e anche il mio, di padre. Quante volte avevo visto nello sguardo di Ludovico una noia, una recita smorzata. Quasi vedesse concentrato nel corpo di mia madre, nei suoi ricci bruni, nei suoi piedi piccoli, nella sua vita affusolata e nel suo seno appena accennato tutto ciò che non gli piaceva delle donne. Come se la amasse per farle piacere, perché lei ne aveva bisogno. Così, anno dopo anno, per lei, per me, si era inventato un amore, si era ritenuto così forte da poterselo permettere. In uno strappo di fragilità, era stato egoista: si era innamorato davvero. Ecco che cos’erano quelle elle sull’agenda di Filippa, segnava gli appuntamenti con Ludovico, durante i quali lo avrebbe risollevato con il suo brio incontaminato, la sua prodigalità nel donarsi e nel donargli piacere. Tutto tra loro era stato profondo eppure leggero. Per una volta, mio padre poteva non pensare alle conseguenze, a un futuro da costruire, alle bollette, alla malattia, ai giorni mesti. Con Filippa tutto era eccitazione e incontro. Ma non aveva previsto che, per lei, l’amore sarebbe diventato possesso e, nel non esaudirsi di questo, cieca autodistruzione. Teresa, come Ludovico, viveva per piacere. Non ai ragazzi con i quali spesso si accompagnava, ma a suo padre. Gli voleva urlare, con quei suoi vestiti, con quel trucco eccessivo, “io sono più importante di quella ragazza, pensa a me, pensa a mamma”. Gli occhi di mio padre, il marrone e il verde, fissavano un punto dietro di me, per poi tornare ai miei occhi, alla mia gola, ai miei piedi. Si stava pentendo, ora, forse, della sua tenebra svelata. Ma a me non importava. Ora avevo una risposta.
Quando rividi Dafne era la vigilia di Natale, lo ricordo come se fosse oggi. L’aria fredda sapeva di limone e di menta, sferzava la faccia con un impeto insolito per la nostra accogliente cittadina. Mi trovavo all’EuroGiardino, a fare le ultime compere. Mi mancava il regalo per mia madre e tentennavo da giorni ricacciando la scappatoia dell’usuale, triste accoppiata sciarpa-guanti. Volevo che le brillassero gli occhi, per una volta, nello scartare il pacchetto. Presa da questi pensieri, mi infilai in una gioielleria, pronta a spendere una generosa somma. Mi costrinsi ad arretrare all'istante. Davanti a me, distratta da una
bambina che le tirava con forza la lunga treccia di capelli castano chiaro, Dafne, mano nella mano con un uomo distinto, schiena dritta, ventre prominente, un sorriso affidabile, fiero. Rideva come mai l’avevo vista ridere prima, con una serenità negli occhi, una fermezza nella nota più acuta del riso da farmi dubitare per un istante della sua identità. Chi erano le persone con lei? Si era dunque sposata? Aveva addirittura una bambina? Dov’era stata per tutti quegli anni? Chi era, davvero, Dafne? Scossa e in imbarazzo, mi rifugiai nel negozio accanto, una gigantesca e affollata profumeria. Ad affollarla erano soprattutto donne, di tutte le età, alle mani trousse, rossetti, tester di profumi, cofanetti regalo e creme corpo d’ogni tipo. Spingevano, spruzzavano colonie, si tiravano l’una con l’altra per provare ora questo, ora quel trucco. Nella baraonda colorata e ubriacante, trovai pronto sollievo. Avevo bisogno di sentire che il mondo intorno a me era frastornato come lo ero io. Cosa dovevo fare? Cosa potevo dirle? Dovevo avvicinarmi a lei e, noncurante della gaia famigliola, ricordarle i tempi in cui ci ammazzavamo a vicenda, iniettandoci del veleno? Dovevo rammentarle le parole che mi aveva confessato quella notte, le scosse sotto pelle, il raggio paralizzante, la mia effigie in pietra che avrebbe scolpito in eterno? Mi sentivo stupida e confusa. Lei ora aveva tutto ciò che si poteva normalmente desiderare, era chiaro, e io ero solo uno scarabocchio su un manoscritto dalla bella calligrafia, qualcosa da nascondere e, infine, mettere da parte. Chiusi gli occhi e rivisitai l’immagine di quell’uomo che la teneva per mano, i suoi movimenti quieti, di chi si sente approvato, amato. Di chi ama se stesso. Come si erano conosciuti? Con fastidio, sentii che montava in me un’invidia di quella felicità, di quel nucleo perfetto che abbatteva il mio esclusivissimo trittico famigliare, l’unico che conoscevo e possedevo, formato da me e dai miei genitori. Non potevo più specchiarmi nella sua infelicità. Per la prima volta, forse, mi sentii veramente sola. Per tutto quel lungo tempo, non avevo fatto altro che immaginarla, ora a Parigi, ora a New York, ora a Tokyo, cartoline di lei mi volavano sul cuore e mi sentivo così buona nell’augurarle il meglio che la vita le potesse concedere: viaggi emozioni, successo. Tra tutte le ipotesi, avevo scartato quella più semplice, che potesse infine farsi una famiglia e trovare un lavoro, una certa pratica felicità, fatta di giorni uguali e visite al centro commerciale. Nelle mie fantasie, Dafne era sempre come una bambola, un mio fantoccio, come lo era stato Teo, e io potevo gestirla, controllarla. E invece no. Aveva sbaragliato tutte le mie ipotesi, aveva deciso per sé, si era liberata di me. Mi sentivo impotente, ferita e la mia piccola, meschina famiglia, con le crepe che in
essa si insediavano e allargavano non mi piaceva più, volevo la sua. Volevo Dafne di nuovo mia. “Sai chi riesce a perdonare? Solo coloro ai quali le cose, poi, sono andate bene…”, l’avevo detto un giorno a Ernesto, lo psichiatra della comunità. E ora le cose non mi stavano andando più bene, avevano smesso di migliorare. Mi ero tirata fuori dai guai, dalle brutte compagnie, ma la mia ascesa si era fermata. Era forse rimasto dentro di me quell’impeto distruttivo? Avevo bisogno di continuare a trasgredire, corrompere, corrompermi per sentirmi viva? Fui sopraffatta da quei pensieri e rimasi torpida e muta finché una commessa, con fare seccato, mi chiese se mi poteva essere utile. Levati dai piedi, pensai. “No, grazie, do solo un’occhiata” risposi. Accantonai l’idea di andare a parlarle. Non sarebbe stato il momento giusto. Ma non potevo neanche perderne le tracce e incontrarla chissà quando, chissà dove, o mai più. Per prima cosa, uscii dalla profumeria e mi guardai intorno. Era venti metri più in là e si stava avvicinando verso l’uscita con la bambina e quello che ora sapevo essere il suo compagno. Uno sguardo all’orologio: avevo ancora un paio d’ore prima di dovermi presentare a casa di zio Luca per il cenone. Sul cellulare, due chiamate perse, mio padre mi stava cercando. Le chiavi della Ka nella mano destra, accarezzai un pazzo pensiero: dovevo seguirla. Mantenendo la distanza, li tenni d’occhio nel parcheggio del centro commerciale. Avevano lasciato la macchina, un’utilitaria rossa, poco distante dalla mia. Li lasciai montare sui sedili e mi misi al volante. Ingranai la prima e, dopo una manovra sgangherata, fui subito dietro di loro. Guidava lui, andava molto piano e mi fu facile tenere il o. Temevo solo che Dafne si potesse accorgere di qualcosa ma mi disfai subito di quell’idea con un gesto circolare della mano. Non avrebbe mai immaginato cosa stavo facendo. Dovevo essere fuori di testa, non avevo un piano. L’unica ragione che alimentava i miei movimenti era il timore di perderla e di vivere altri anni in compagnia di fantasmi. Filippa… Dafne… non mi avrebbero più tormentato con la loro incorporeità; dovevo tirarle giù, anche con la forza, nell’emisfero della concretezza, del causa-effetto. Accesi l’autoradio e mi lasciai calmare dalla voce pacata di un giornalista che ricapitolava le notizie del giorno. La macchina rossa svoltò e si infilò in una stradina privata. Mi accostai poco
prima dell’imbocco e guardai il numero civico, stampigliato sul muro. Memorizzai la via e, con un’inversione a U, riconquistai la carreggiata. Avevo fatto qualcosa di deplorevole, un groppo mi tappava la gola. Dafne aveva tanto sofferto e, dopo la violenza subita in ospedale, chissà con quanti sforzi era riuscita a costruirsi una relazione stabile, equilibrata. Temetti che si avverasse in me una maledizione, che la vittima, incattivita dal mondo, si mutasse in carnefice. Anche se così fosse stato, non poteva essere Dafne la mia preda, non lei… Incontrai un traffico terribile, i clacson impazzavano stupidamente. Il regalo! Ancora non avevo un regalo per mia madre. Sul sedile posteriore, gli altri pacchetti mi ammiccavano dai loro nastri rossi e dorati… ne mancava solo uno. Trovai uno spiraglio tra via delle Giare e vico san Paolo. Parcheggiai di traverso, come una teppista, il muso della Ka viola sul marciapiede, e mi lanciai nel negozio di accessori che aveva aperto da poco. Uscii con una busta rosa, non avevo neanche il tempo per far fare una confezione, contenente una sciarpa nera e un paio di guanti dello stesso colore.
Dafne si era laureata in Psicologia. La mattina della discussione, temporeggiava nel cortile davanti all’ingresso dell’università fumando una sigaretta dopo l’altra per abbassare la tensione. Era ata alle sigarette sottili, che riteneva le dessero un’aria sofisticata. “Le sigarette dei ricchioni” le chiamava il padre, con sarcasmo. Si guardò le mani, morbide e curate, e poi i piedi, costretti in décolleté con plateau e tacco da quindici centimetri in raso nero. Barcollava come un simpatico pinguino, riando in mente i punti principali della tesi. Doveva essere impeccabile. Giulia Russo, accorsa come spalla, la aspettava già in sala con la videocamera per riprendere ogni singolo istante di quella lunga mattinata. Schiacciò la cicca della sigaretta nel grande posacenere in ferro battuto e si avviò un po’ pattinando e un po’ ancheggiando verso l’aula. L’avevano già chiamata e lei, sbadata, non aveva sentito. S’affrettò alla cattedra e, non avendo subito individuato i gradini a destra del rialzamento, si tirò su la gonna di qualche centimetro e scavalcò frontalmente la pedana, sotto lo sguardo esterrefatto della relatrice e della commissione. Illustrò le slide che riportavano i risultati delle ricerche di un gruppo di neuro scienziati statunitensi che, partendo dallo studio
del comportamento dei topi, avevano trovato che è possibile invertire artificialmente le emozioni collegate a un luogo con una tecnica che agisce sul modo in cui sono rappresentati nel cervello i ricordi. Una serie di esperimenti dimostrava com’è possibile manipolare la raffigurazione di alcuni ricordi in due aree del cervello degli animali. Da queste premesse, arrivò a un discorso a metà tra la filosofia e la fantascienza sulla potenzialità di ogni individuo di gestire frangenti dolorosi della memoria e riportarli a nuova luce, attraverso molteplici sistemi, tra cui la programmazione neuro linguistica, ispirata in parte da tecniche scientificamente riconosciute come l’ipnosi ericksoniana. L’argomento era molto interessante, e gli spettatori in sala tacevano attenti. Dafne sottolineava – in equilibrio sul tacco sinistro, la punta della scarpa destra a grattarle l’altro polpaccio – come, quando viene normalmente riattivato, un ricordo si trova esposto a numerose influenze esterne. La memoria emotiva è quella che ci consente di contenere le emozioni ate e ha sede nell’amigdala, “cuore” del cervello. Anche nella fase della memorizzazione, il ricordo si impregna di una peculiare colorazione soggettiva. Dunque non facciamo altro, per natura, che ingannare noi stessi. Da qui, vagliò il concetto di menzogna funzionale e l’ipotesi di benefici dall’abitare luoghi che ci hanno provocato del dolore associando a essi, grazie a un intervento professionale esterno, situazioni emotivamente gratificanti. Riuscì a carpire anche l’attenzione della professoressa Gozzi che, pur con muso burbero, la lodò davanti a tutti per la sensibilità delle ricerche svolte e per la vasta documentazione portata in esame. Finita l’enunciazione, Dafne s’affrettò a scendere dalla pedana, questa volta per i gradini, e si sciolse in lacrime fra le braccia di suo padre, di Tamara e, spente le riprese comprensive delle effusioni familiari, di Giulia, anche lei umida di pianto. Dopo la proclamazione, il gruppetto raggiunse Alberto, il marito della Russo, nel ristorantino greco vicino all’ateneo. Alberto aspettava i quattro elegantissimo, con in braccio un immenso mazzo di strelitzie e, accanto a lui, pacificamente allegro, un giovane alto e dalle spalle larghe. Lo presentò come Niccolò. In quell’occasione, già così felice da non poter aspettare nuove gioie, da non poterle nemmeno desiderare, Dafne incontrò l’uomo che avrebbe sposato.
Capitolo X
Alfine mi riconquistavo, alfine accettavo nella mia anima il rude impegno di camminar sola, di lottare sola, di trarre alla luce tutto quanto in me giaceva di forte, d’incontaminato, di bello; alfine arrossivo dei miei inutili rimorsi, della mia lunga sofferenza sterile, dell’abbandono in cui avevo lasciata la mia anima, quasi odiandola. Alfine risentivo il sapore della vita, come a quindici anni. SIBILLA ALERAMO Una donna
Il giorno del matrimonio, il Comune subissato di strelitzie, a celebrare il loro primo incontro, Niccolò e Dafne firmarono il loro impegno d’amore. Dafne angelica, con una corona di roselline bianche in testa. Niccolò fiero e commosso. Giulia e Alberto i testimoni. Diego Barbieri, in prima fila, con un abito grigio fatto fare su misura e accanto a lui Tamara, in verde smeraldo, i boccoli biondi tenuti insieme con uno spillone incrostato di strass. In seconda fila, insieme agli amici degli sposi, Arianna, la madre di Dafne, in rosso dalla testa ai piedi, ruminava la gomma da masticare. Tutto questo mi ero persa, e avvertivo acuto il dolore di esserne stata esclusa
senza motivo. Avrei desiderato condurla per mano al momento più romantico della sua vita, avrei applaudito e pianto al loro primo bacio da sposi, avrei abbracciato Niccolò e avrei sussultato di contentezza nel vedere spuntare, dal suo vestito rosa cipria, una pancia accennata, casa di una bambina in arrivo. Sarei stata una damigella perfetta. Ma lei non mi aveva voluta, oppure, peggio, mi aveva dimenticata.
arono due mesi prima che tornassi vicino al ponte della ferrovia, dove abitava ora Dafne con la famiglia. Scelsi un giorno preciso per ritrovarla. Il 25 febbraio era una data particolare per noi: ricorreva una giornata che avevamo trascorso insieme, al giardino botanico, un giornata semplice, felice, assolutamente perfetta, prima che la vita ci strape via l’una dal cammino dell’altra. Parcheggiai la Ka nel vialetto e scesi, riavviandomi i capelli e lisciandomi la gonna. Temetti il giudizio di Dafne, volevo apparirle al meglio, dimostrarle che anch’io stavo bene, che ero cambiata, e invece mi vedevo sciatta e brutta. Nessun tratto felino mi era rimasto sul viso o sul corpo. Mi ero ammorbidita, sembravo più bassa, più tozza. Una signora. Odiai le scarpe che avevo scelto, dei mocassini in ecopelle… mi avrebbe presa per una venditrice di aspirapolveri e mi avrebbe chiuso la porta in faccia. E invece la porta di casa sua si aprì, proprio in quel momento, e ne uscì una donna esuberante, truccatissima, i seni prosperosi ben visibili dalla scollatura di un elegante top di seta nera. Mi gelai e spezzai i miei i. Aspettai che la porta si richiudesse ed ebbi un ripensamento. La donna vistosa stava venendo verso di me. Strizzai gli occhi per inquadrarla meglio, il suo viso aveva qualcosa di familiare. Quelle labbra, quegli zigomi ossuti, quegli occhi profondi, la forma del viso squadrata… Ma sì, che sciocca… era… “Oddio!” “Azzurra! Ma sei tu?!” “Cesare?” “E no, cara! Sono Colette adesso!”
“Co… co…” “Cara, stai facendo l’uovo?” “Ahahaha! Ma sei bellissima!” “Lo so, lo so! Il laser fa miracoli… tutti quei pelacci, bleah! E poi gli estrogeni! Wow! Mi è saltato subito fuori il seno, non ce la faceva più a stare imprigionato in quel corpo di scimmione! All’inizio un po’ la libido mi è calata… ma poi, sai, tutto si aggiusta! E un po’ di buon silicone ha ravvivato il tutto!” “Sei uno splendore, davvero, sono contenta di vederti così… così in forma, ecco!” “Oh… non avere paura di dire la cosa sbagliata, cara. Anche Dafne all’inizio è stata un po’ cafoncella… Ah! A proposito! Dafne! Ma… sei venuta qui per lei vero?” “Sì…” “Sei sicura che vi farebbe bene rivedervi? Ora ha una bambina, lo sai… e Niccolò, lui, be’, è un caro ragazzo, ma non sa niente del ato di Dafne… ha preferito non spaventarlo, sai…” “Immagino…” “E tu? Ti sei fidanzata, sposata…” “Niente di tutto ciò, Cesare…” “Ma allora è un vizio! Ripeti con me: Cooolette!” “Devi scusarmi, è che, sai, tante emozioni tutte insieme…” “Lo so, avresti dovuto vedere mio fratello, oh! Ahahahah! Una sincope gli è presa! Tiè! – e fece il gesto dell’ombrello – Ma non me ne frega niente, io mi piaccio così, e piaccio anche al mio uomo, anche se ho attraversato un periodo di lesbismo, sai, solo che a Giovanna non andava giù che non le dessi…” “Shhh! Abbassa la voce, che già hai visto come ci guardava il tizio che è
ato?” “Ma mi guardava il fondoschiena, cara!” “Sei matta. Ma allegra, finalmente. Una volta avevi un muso... Chissà quante ne hai ate…” “Tante, cara, tante… ma per fortuna la zia a Milano, zia Carolina, mi è stata accanto. E mi ha prestato anche un sacco di soldi! Mi ha pagato un super corso di grafica e ora lavoro per una grossa azienda. Il mio ragazzo è un collega. Si chiama Pietro! Oh… dovresti proprio vederlo, è adorabile.” “Me lo devi fare conoscere davvero un giorno di questi, sant’uomo!” “Certo, certo. Ma torniamo a Dafne, cara, che cos’hai deciso, allora? Entri?” “Vieni, seguimi con la macchina e andiamo nella pasticceria qui vicino. Quella dei fratelli Arco, ci vado sempre… Fanno dei macarons pazzeschi… devi provare quelli al lampone, sublimi.” “Sarebbe un no in risposta alla mia domanda, cara?” “Esatto, Colette. No, non entro. Cercavo di stemperare quest’amarezza…” “Hai ragione. Andiamo, su!” Consumammo le nostre cioccolate calde, che in quel febbraio aspro mitigarono il pizzicorino che ci ghiacciava le mani e il petto. Divorammo un macaron dietro l’altro e parlammo per due ore, da buone amiche di vecchia data. In realtà con lei era diverso, più bello ragionare. Nessun argomento obbligato, nessuna frivolezza da donnicciole, da sussurrare all’orecchio. Solo cuore. Fu un gran sollievo potermi finalmente sfogare con qualcuno. Le raccontai tutto, della comunità, del mio disagio nell’affrontare una nuova storia d’amore, di Filippa, di mio padre… “Come si è giustificato Ludovico?” “Oh… era così mortificato, quel giorno non ce l’ho fatta a infierire. Ma dopo di allora la rabbia in me è montata su secondo dopo secondo sempre più cattiva, voleva uscire e incenerirlo. Ho mediato con i miei primi sentimenti e sono riuscita, un pomeriggio, a fargli delle domande… Posso ammettere, ora, che ho
sentito anche un grande astio nei suoi confronti! È un essere spregevole. Fa schifo. E io pure… ho avuto invidia di mio padre! Di tutto l’amore, la ione che ha vissuto e ricevuto, mentre io qua… a marcire… Non esiste un naturale buon sentimento che lega genitori, figli e fratelli tra loro… Ci si odia, ci si ferisce allo stesso modo che fra estranei, a volte con più impegno. E poi ero sconcertata dalla sua capacità di tenere una doppia vita, tanto da riuscire a essere un marito accondiscendente, un padre presente, anche nei momenti per me più duri e poi… responsabile della morte di…” “Non dire così. Quella ragazza ha scelto…” “Perché, secondo te si sceglie in questi casi?” “Certo. Lei ha riconosciuto un proprio limite. Vi ha fatto i conti. Ha capito che ciò che di più voleva non poteva averlo, che l’unica persona che la rendeva felice non era sua, era di qualcun altro, non voleva più umiliarsi aspettando che lui si liberasse un’ora, un pomeriggio, un fine settimana. Già… Si era stufata di aspettare. La conosco questa sensazione… Io, a esempio… non ce la facevo più a trascinarmi dietro un corpo maschile… dovevo uccidere necessariamente quell’uomo per far nascere la donna che sono. E che donna! – rise, con gli occhi lucidi – Filippa ha ucciso la donna che era per far vivere l’uomo che ora è tuo padre. Un uomo libero!” “Ma questo non è amore… non posso accettarlo!” “Non lo so, cara. Di sicuro non è il mio tipo d’amore, né il tuo… ma ci sono infiniti modi d’amare… e questo era quello di Filippa!” “Mio padre mi ha detto che io non posso capire cos’è un matrimonio, che sono ancora una ragazzina. Che all’inizio vuoi che l’altro sappia tutto di te, i tuoi segreti più intimi e poi, a un certo punto, è proprio questa cosa che allontana. Come un profumo. Anche il più squisito, una volta che lo si ha indosso, non lo si sente più.” “Spiegati meglio, cara.” “Mi ha detto che, dopo un po’ di anni, succede che l’altro ti conosce così bene che sa già cosa penserai, come reagirai, che cosa ti piace e cosa invece non faresti mai. E così, ti trasformi in un essere prevedibile. Mentre all’inizio eri un tesoro da svelare, diventi un cumulo di noia. E non solo per tua moglie, tuo
marito… ma anche per te stesso. Rifuggi le novità, ti accomodi su quell’eterno presente apparecchiato, simmetrico, senza venature di novità. Smetti di evolvere. Invecchi.” “Così tuo padre ti ha voluto dire che ha sentito il bisogno di rompere la routine, di guardarsi allo specchio e vedersi diverso, più giovane, capace di cose che tua madre non avrebbe mai immaginato?” “Credo di sì.” “Per quanto io creda nella libertà di amare, non accetto che si possa usare una persona così. Se le cose stanno a questo modo, Filippa è stata usata.” “Lui non solo le ha negato l’amore, ma le ha anche impedito di amarlo. Lo stesso fa con me… Non voglio comportarmi come mio padre…” “A cosa ti riferisci?” “Mi riferisco a Dafne… Mi hai raccontato del suo matrimonio, della sua laurea… di quanto ora è felice, realizzata. Una donna. Io non posso, per una mia necessità di chiudere un cerchio, scombussolarle la vita con la mia intromissione. Ci troveremmo a parlare di ciò che è stato, incagliate in un ato che abbiamo messo via, per sopravvivere.” “Non puoi sapere se andrebbe così!” “La sola possibilità che si verifichi mi impedisce di rientrare nella sua vita. Già lei, suo malgrado, rientrando nella mia, con quell’apparizione al centro commerciale, mi ha portato via il sonno. Mi rigiro e sento voci velate nella testa. Si sganciano domande, come bombe. Tutto il tempo che abbiamo perso, gli anni che abbiamo buttato via, autodistruggendoci, lasciandoci corrompere da laidi individui, mentre i nostri coetanei studiavano, lavoravano, viaggiavano. Noi cosa abbiamo fatto? La odio, Colette, la odio!” “No, cara, tu non la odi… Sai, i protagonisti di una storia non sono le persone più obbiettive che possono raccontare ciò che è successo.” “Forse hai ragione. Forse è solo il mio modo d’amarla.”
CENNI BIOGRAFICI PRESENTAZIONE AUTRICE
Roberta Lagoteta è nata a Roma nel 1984. Dopo la maturità classica, ha conseguito la laurea in Scienze del Servizio Sociale presso l’Università Magna Græcia di Catanzaro e successivamente l'abilitazione alla professione di Assistente Sociale e poi i titoli di Mediatore Familiare, completando il corso biennale in Mediazione Sistemica, di Animatore per l’infanzia e di Insegnante per Club di Alcoolisti in trattamento. Ha esperito nel campo delle professioni dell’aiuto, con particolare attenzione al mondo dell’infanzia a rischio, anche fuori dall'Italia, a Vilnius, Lituania. Attualmente vive e lavora in Calabria.
*Il titolo si ispira alla nota tela di Hopper, Sera azzurra (gioco di parole, poiché la protagonista del romanzo si chiama Azzurra).