Il libro si libera 66
sco Mariano Marchiò La ragazza del mio caro amico
ISBN 9788891195845
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Ogni riferimento a persone, luoghi o avvenimenti è puramente casuale. Le situazioni citate dall’autore hanno semplicemente lo scopo di conferire veridicità al racconto.
sco Mariano Marchiò
La ragazza del mio caro amico
Dedicato a Brunella
I
Era una di quelle lunghe giornate calde e afose che alla fine di Luglio sembrano beffare chi, per impegni vari o per lavoro, non può lasciare la città e godersi una meritata vacanza ai monti o al mare.
Io avevo già interrotto la mia attività perché i corrieri erano da giorni in ferie e le ordinazioni non venivano più evase, ma non potevo ancora partire per la montagna: dovevo aspettare la fine del mese quando tutti noi, agenti di vendita, saremmo stati invitati in un qualificato ristorante della città, alla cena conviviale dell’azienda e, prima del brindisi finale, il presidente, tutto lustro e con voce di circostanza, si sarebbe alzato dal suo posto di capotavola e, chiedendo un po’ di attenzione, avrebbe preso la parola per complimentarsi del lavoro svolto e ricordarci che le ferie devono servire per riposare e tornare tonificati e pieni di voglia di fare al fine di raggiungere gli obbiettivi di fatturato prestabiliti.
La forte umidità di quel pomeriggio rendeva il caldo veramente insopportabile, da Quarto non si riusciva a vedere il vicino promontorio di Portofino tanto l’aria era diventata opalescente per l’afa; io stavo disteso nudo a gingillarmi sul letto e avrei fatto a meno di prepararmi benché, essendo in estate, la cosa fosse abbastanza sbrigativa.
Peggio d’inverno, quando mi capitava di uscire di casa già stressato, per usare un termine in uso. Nella così detta vita cittadina, mi pesava ancor prima di iniziare la giornata, ottemperare a tutti quei piccoli obblighi come radersi, lavarsi viso, collo, denti, pettinarsi e se hai dormito sulla parte sbagliata i capelli non ne vogliono sapere di stare a posto, vestirsi, farsi il nodo alla cravatta: un mio collega se la toglieva lasciandola già annodata e poi giacca, cappotto, sciarpa, cappello.
E come fai a presentarti in ufficio con le scarpe impolverate!
Mi andava di bighellonare con la voglia di tirare a perder tempo, felice di non avere impegni immediati e orari da rispettare, ma non era un ozio vero e proprio, stavo meditando sulle possibili soluzioni ai problemi della mia vita inframmezzando gli stessi con allegri ricordi, pensieri spiritosi ed anche erotici: sì, perché stando nudo a pancia all’aria, mi tenevo l’uccello in mano!
Più che altro, come diceva mia madre, mi attardavo a pensare al latte versato!
Ero entrato in quell’età che non arrivava mai e, per raggiungerla, mi era sembrato che fosse trascorso un secolo poi, da quel momento, gli anni avevano incominciato a correre anche troppo veloci e me ne stavo accorgendo.
Ti dispiace constatare che ti hanno detto addio per sempre gli anni spensierati dell’adolescenza e che stanno correndo al galoppo quelli della tua giovinezza. Già mi capitava di ripensare con nostalgia agli anni della fanciullezza che, per quanto fosse stata tribolata, rimaneva nei miei ricordi come l’età più bella. Per legge di natura, i ricordi brutti, nella maggior parte delle persone, col tempo svaniscono e rimangono quasi esclusivamente quelli belli che ti fanno sembrare meraviglioso anche un periodo che magari, ragionandoci a mente fredda senza sentimentalismi, non lo era stato affatto!
Ti restano solo ricordi buoni per un diverso metro di giudizio che usavi e la tua vita era condita dalla speranza del raggiungimento di una meta, nella fantasia giovanile, sempre migliore della realtà.
Nei miei ripensamenti comunque venivo alla conclusione che, potendo tornare
indietro nel tempo, tante cose le avrei fatte diversamente e, in varie occasioni, avrei anche assunto atteggiamenti diversi.
Mentre mi consolavo pensando che attorno a me, chi più, chi meno, tutti avevano qualcosa da rimproverarsi, seguivo il percorso di una mosca che camminava attaccata al soffitto e mi chiedevo come fe e studiavo cosa avrei potuto fare di meglio da grande, senza calcolare che, in quel senso, grande lo ero già!
Abitavo al terzo piano di un palazzo della prima periferia nel levante di Genova da dove ha inizio la riviera e avevo lasciato spalancata la porta finestra del balcone per creare un po’ di corrente: non entrava un filo d’aria, ma saliva, intenso e gradevolissimo, il profumo che si sprigionava dalle foglie di un albero di fichi al contatto dei raggi caldi del sole e mi riportava indietro con gli anni, a quando ero bambino.
Mi è sempre piaciuto quell’odore forte!
I rintocchi argentini delle campane della vicina chiesa dei Padri Cappuccini mi trasportava di colpo al Groppo, una frazione nella lontana montagna emiliana, così come l’abbaiare dei cani pastori mi hanno sempre fatto venire in mente un tenente tedesco che, in tempo di guerra, ebbi occasione di ascoltare mentre impartiva ordini ad un drappello di soldati schierati davanti a lui. Sembrava che abbaiasse!
E a volte basta un profumo, l’accenno ad un motivo musicale, anche solo fischiettato, lo sferragliare di un treno sui binari, o semplicemente una parola, un’inflessione dialettale, per risvegliare il ricordo di un’epoca, di un luogo, di una persona amata o indesiderata, la memoria di fatti avvenuti e provare anche la sensazione di aver già vissuto quel preciso istante, magari, chissà, in precedenti
vite, nell’involucro corporale di un’altra persona!
Più volte, in un luogo assolutamente mai visto prima, dove mettevo piede per la prima volta, mi sono trovato a pensare di esserci già stato in uguali, precise circostanze.
Avevo provato, con un certo piacere, le medesime sensazioni in diverse situazioni, trasportato in uno stato di distacco dal tempo reale: è un lampo di luce di pochi secondi che ti avvolge, come un flash che squarcia il buio e illumina la memoria e provi quasi la certezza di aver già avuto quell’esperienza in un’epoca lontana, oltre la vita, in un mondo dai rumori ovattati, le parole bisbigliate, i colori sfuocati dal tempo.
Quel fico in cortile c’era nato per caso, nessuno ce l’aveva piantato né si era accorto che stesse crescendo, era uscito da un piccolo spazio di terreno lasciato scoperto dalla mancanza di poche piastrelle della pavimentazione andate rotte, eppure era sano e vegeto, tanto che neppure l’amministratore del caseggiato aveva avuto poi il coraggio di farlo sradicare.
Forse a titolo di ringraziamento, con le sue larghe innervate foglie dava un po’ d’ombra nel cortile assolato e parecchi fichi che raramente arrivavano ad essere dolcissimi perché sempre colti in anticipo furtivamente da chi ava pensando di non essere visto.
Col tempo si era fatto strada spingendo le radici in profondità e si protendeva verso la luce, come meglio poteva, simile a quei ragazzi che nascono per caso, non desiderati, forse proprio non voluti e si fanno da parte sui marciapiedi al aggio degli adulti per non intralciare, non dar fastidio ma, sgomitando, riescono ugualmente a farsi strada.
Ripercorrevo a ritroso una parte della mia vita e mi era suggestivo il giungermi, come un suono, l’allegro schiamazzo dei ragazzini che sotto stavano giocando a mosca cieca dopo aver fatto la conta, come facevo anch’io da piccolo, con la recita delle solite filastrocche: “L’uccellin che vien dal mare, quante penne può portare, può portarne ventitre, questa volta tocca a te” e, con quell’ultima battuta, la mano, guarda caso, finiva sempre sui seni, ancora immaturi, delle ragazzine che stavano al gioco e, fingendo di ritrarsi, ridevano divertite come se provassero solletico.
C’era una conta che i miei dicevano che non stava bene in bocca ad un bambino e, combinazione, era la mia preferita: “Povero me, m’è morto il mulo, m’è rimasta la sonagliera, me la sono messa su per il culo, povero me, povero mulo, un, due, tre, tocca a te.” E ridevamo tutti proprio di gusto.
Erano tante le cose che non dovevamo fare e dire da ragazzi, più le proibite di quelle permesse, ci raccontavano anche delle storie assurde: Davide, già adulto, mentre mangiava faceva molta attenzione a non far cadere dal tavolo delle briciole, perché gli era rimasto il timore che ogni frammento di pane non raccolto, dovesse poi andarlo a cercare nel buio del purgatorio con un dito a mo’ di candela.
Davide era il mio amico preferito, quello che da ragazzi ognuno ha in esclusiva e non gli fa neppure piacere che sia amico anche di altri e la cosa è reciproca. Eravamo cresciuti assieme a Mulinetti dove abitavamo vicini e giocavamo e andavamo a scuola assieme ed eravamo anche nati nello stesso quartiere di Genova a pochi mesi di distanza uno dall’altro. Lo scoprimmo dopo anni che ci frequentavamo.
Sua nonna proveniva dallo stesso paese della mia e quando scoppiò la guerra e incominciarono a bombardare le città, ci ritrovammo sfollati dove le nostre
nonne avevano conservato la casa nativa.
Senza la certezza di due pasti giornalieri, qualcuno neppure di uno, crescevamo felici e aspiravamo a riuscire in qualche cosa che allora non sapevamo ben identificare e intanto, strada facendo, ci lasciavamo alle spalle un’epoca tanto diversa da quella che ci veniva incontro.
Non vestivamo alla moda né calzavamo scarpe di marca, solo i diari avevamo firmati: dalle mamme perché i papà ce li avevano mandati, quasi tutti, a far la guerra.
La scuola distava circa un chilometro dalle nostre abitazioni, la raggiungevamo sempre correndo non tanto per non arrivare in ritardo, quanto per non trovarci a mezza strada nel caso fosse suonato l’allarme. Dentro alla cartella portavamo un quaderno a righe, uno a quadretti e due soli libri: quello di matematica e quello di lettura, noi maschi indossavamo il grembiule nero col fiocco azzurro, le femmine bianco col fiocco rosa e ogni giorno facevamo tesoro di piccole esperienze, spicciole conquiste e di un sacco di informazioni che oggi il parere di tanti cervelloni, usando la parola nozionismo in senso dispregiativo, ha liquidato come superflue, inutili e invece, nell’arco degli anni, si sono dimostrate di grande o.
Ci inventavamo i giochi e ci costruivamo anche dei giocattoli.
Davide, la bicicletta che gli aveva ato il padre, una Bianchi nera da eggio, con le rifiniture cromate, pesantissima, voleva trasformarla da corsa e, ogni volta che la smontava, gli avanzava un pezzo. L’aveva ridipinta di giallo, le aveva sostituito il sellino, tolti carter e parafanghi, rigirato il manubrio, le aveva dato un aspetto grintoso: il peso era sempre circa lo stesso, ma nelle gare che facevamo, ci metteva l’anima per dimostrare che la sua bici, da corsa, era
più veloce!
Io mi chiudevo per ore nella legnaia e mi dedicavo a lavoretti manuali che mi davano grande soddisfazione. I miei compagni mi avevano dato una mano a costruire una slitta: ci stavamo sopra anche in tre e scendevamo lungo una larga strada chiamata via dell’Impero.
Ci sembrava di volare!
A quei tempi cadeva tanta neve che non la spalavano neppure da quanta ne veniva e, arrivando in fondo a quella strada a forte velocità, se non riuscivamo a fermarci in tempo, andavamo a sbattere contro la porta della signora Tina che, tutta imbacuccata, usciva per vedere se avevamo provocato dei danni, controllava eventuali segni che non vedeva, miope com’era e comunque non se la prendeva più di tanto: era la figlia del maestro del paese che insegnava da quasi mezzo secolo e tutti avevano imparato a leggere e a scrivere da lui!
Negli ultimi anni della sua lunga vita si era un po’ rincoglionito, ma la gente gli voleva bene, lo capiva e non ci faceva caso, lui salutava tutti, per tutti aveva una frase gentile, sempre la stessa: “Ma bravo! Benedetto! Ma bene. Bene.” E a chi gli dava la notizia della morte di un proprio caro, lui rivolgeva le solite parole: “Ma bene, bene!”
Quando morì, dopo la guerra, alla via dell’Impero, che tanto l’avevamo perso, fu dato il suo nome.
Meglio lui, buonanima, di quel disgraziato di supplente che un giorno per redarguirmi per aver perso il segno durante la lettura, mi colpì il libro, mirando
alle mie dita, con una botta di righello tanto forte che se non avessi ritirata in tempo la mano, oggi sarei monco!
Il righello di ottone, finì sulla pagina numero trentatre e sotto ne forò altre diciotto.
Il paese non offriva molto, anzi proprio niente eccettuando l’aria sana, l’acqua pura e fresca e la bellezza del paesaggio, ciò nonostante riuscivamo a tirar tardi, sempre affaccendati, indaffarati, sudati e davvero la noia non sapevamo cosa fosse! Sta di fatto che noi accettavamo di buon grado, con grande indulgenza, anzi con entusiasmo, tutto ciò che era attinente alla vita di quel paesino che ci aveva ospitati.
Succedeva, non di rado, che all’ora di cena i genitori ci venissero a cercare chiedendo ai anti se ci avessero visti: eravamo tanto presi dai nostri interessi che non sentivamo neppure lo stimolo della fame.
L’unico pallone per giocare a calcio l'aveva Paolo: di quelli con la camera d’aria a losanghe di pelle, chiuso da una stringa di cuoio che, se ci davi di testa in quel punto, ti facevi un male da cani e anche una cicatrice. Dovevamo stare attenti, calciando, che non finisse troppo lontano da non poterlo ritrovare o s'incastrasse tra i rami di un castagno molto alto, dal tronco eccessivamente largo per potercisi arrampicare.
Paolo a calcio era una scarpa, ma il pallone era suo e se volevamo giocare, dovevamo metterlo in squadra nel ruolo di mezz’ala destra, che poi lui era sinistro, ma voleva giocare a destra!
Le nostre partite duravano per ore dato che nessuno di noi aveva l'orologio e facevamo che vinceva la squadra che arrivava prima a segnare dieci reti, qualche volta c’era anche la contestazione verso chi ne teneva il conto. Questo compito per lo più toccava al più scarso nel gioco, a lui davamo il privilegio di fare l’arbitro continuamente rimbrottato e bonariamente offeso, spesso, per paura di buscarle, costretto a rimangiarsi le decisioni prese specie in tema di rigori!
Io veramente l’orologio l’avevo, me lo avevano regalato i miei per la prima Comunione quando avevo già dodici anni, ma non me lo lasciavano portare: era di marca, così dicevano e me lo tenevano chiuso, come un gioiello, nel primo cassetto del comò in camera loro. Ogni tanto, quando uscivano, andavo ad ammirarlo, me lo allacciavo al polso e lo portavo all’orecchio per sentirne i battiti dopo qualche giro di carica. Una volta il babbo, aperto il cassetto, si accorse che l'avevo toccato perché la lancetta dei secondi camminava, credevo che mi sgridasse perché avevo curiosato dove non dovevo, ma, con mia grande meraviglia, non lo fece.
Giocavamo in Vallona, un grande spiazzo pianeggiante di un castagneto bellissimo, tra alberi secolari e tanta polvere dovuta al nostro continuo scalpiccio; ci avevamo creato anche un efficiente poligono di tiro a segno con un vecchio scuro da finestra affisso al tronco di un albero, con dentro disegnati in rosso dieci cerchi concentrici numerati da uno a dieci a partire dal più esterno. Aldo, sempre un po' sbadato, mentre, con l’arco teso, cercava gesticolando dove mirare, una volta si lasciò sfuggire una freccia che andò a conficcarsi in un polpaccio a Davide. Nonostante l’antitetanica, gli fece infezione e il medico dovette relazionare l’accaduto ai carabinieri che lo convocarono in caserma, assieme ai genitori.
Per un certo periodo i grandi additarono Aldo come un monello da evitare. Mi faceva pena! Si teneva tutto dentro, ma lo vedevi che era mortificato e non finiva mai di scusarsi con Davide che davvero non ce l’aveva con lui.
Realizzavamo le frecce con stecche di ombrelli sfasciati dal vento e gli archi con dei rami di salice: ce n’erano tanti, cresciuti tra i sassi bianchi nel letto del fiume.
Renzino con delle cassette da buttare nel fuoco, aveva costruito due piccole automobili monoposto complete di volante, freni e quattro grossi cuscinetti a sfera per ruote.
Quando proprio non sapevamo come ingannare il tempo, ci inventavamo qualche scherzo barbino, si fa per dire, ai danni di chi sapevamo che s'incavolava facilmente, diversamente non ci sarebbe stata soddisfazione. Verso l’imbrunire andavamo a rubar la frutta dagli alberi: spesso toccava a Faustino che, in contrapposizione al suo nome, era soprannominato Sciandron perché era grande e grosso, e sempre mal concio nel vestire e sudava molto, tanto che a volte in chiesa non gli si resisteva vicino per la puzza e si era costretti a cambiar panca, un tipo particolare e, con tutto il rispetto dovuto, solo a guardarlo, ti faceva ridere, le mele non riusciva mai a coglierle mature, ma neppure acerbe: ci arrivavamo prima noi e lui, cacciatore, la domenica, in piazza, all'uscita dalla Messa, faceva sapere, a voce alta, che aveva caricato a sale una doppietta e, prima o poi, l’avrebbe scaricata nelle chiappe di chi sapeva!
Lo diceva buttandola là come per dire chi ha orecchie per intendere, intenda, ma brancolava nel buio: non riuscì mai a coglierci sul fatto.
Sciandron aveva una faccia indecifrabile, ma era una brava persona e, forse per questo, non so come, la natura era stata buona con lui e gli aveva dato una figlia bellissima, dai modi gentili e raffinati.
Una sera, un po' troppo su di giri, decidemmo di donare la libertà alle sue galline e gli spalancammo la porta del pollaio. Più che uno scherzo fu una cattiveria perché lui ci teneva molto a quelle galline e, oltre tutto, ci si era affezionato e le
chiamava per nome. L'aiutavano a non far la fame e quando, ogni tanto, per far contenti i suoi, a una doveva tirare il collo, incaricava un suo amico, perché a lui faceva impressione e quasi gli veniva da piangere. Preferiva cibarsi delle loro uova che cucinava in mille modi: al tegamino, alla coque, all'ostrica, in frittata, in camicia, ci montava la maionese, ci faceva l'omelette, lo zabaione, le metteva nella sfoglia, nella pasta, nelle torte!
D’inverno, come ho detto, cadeva tanta neve, impianti di risalita non ce n’erano all'epoca, ma qualche sciata la facevamo lo stesso nel campo grande, sopra la via nuova, poi con gli sci di legno in spalla, ci divertivamo a far la gara a chi tornava prima in cima.
La diga della centrale elettrica formava un grande lago, artificiale ma bellissimo, dove si specchiavano il verde dei boschi circostanti e l’azzurro intenso del cielo, era pieno di trote: te ne accorgevi perché, qua e là, ogni tanto il lago ribolliva, erano i pesci che saltavano per acchiappare qualche insetto sul pelo dell’acqua e la luce dei lampioni, disposti sulle grandi chiuse, quando la notte era calata, formava riflessi tremuli e azzurrognoli. Mi piaceva osservarli dal parapetto del ponte romano che, nei pressi della località detta La Luna, attraversa il fiume Scoltenna: avevo la sensazione di trovarmi nuovamente al mare, dove sono nato.
Con la fantasia vedevo le barche dei pescatori al largo della scogliera, intenti alla pesca delle acciughe con le lampare.
Lo stesso provavo nelle mattine autunnali guardando, dal vicino paese di Sestola, la sottostante vallata immersa nella nebbia che riempiva la vasta conca e si stendeva liquida e livellata negli anfratti dei monti facendone apparire le protuberanze simili a dei promontori lambiti da un’acqua immobile, grigia, profonda e misteriosa: un mare fumoso, invernale, come in un film in bianco e nero.
Allora provavo il richiamo della salsedine, della solita spiaggia di cui, a fine estate, i gabbiani reali riprendevano il possesso. Erano bellissimi, bianchi, enormi e volavano alti, maestosi, a larghe ruote.
Tutto attorno, a ferro di cavallo, si snodava la scogliera davanti a dirupi di faglia rocciosa rotta da strette fenditure verticali da cui sporgevano enormi agavi dalle foglie verdi, grasse e puntute, aggrappate da decenni con le radici in pochissima terra e pareva che dovessero cadere da un momento all’altro.
I vecchi dicevano che, a conti fatti, alcune di quelle piante erano lì da quasi cent’anni. Sono belle alla vista, ma hanno la specifica caratteristica di fiorire una sola volta nella vita: quando stanno per morire. Il loro fiore è particolare, sboccia a grappoli su di un gambo lungo anche più di tre metri, assomiglia ad un albero, è ricco di nettare di cui si nutrono tanti insetti, ma è un fiore che nasce annunciando la morte di chi gli ha dato la vita!
Col mare appena mosso, i gabbiani più giovani allineati lungo la battigia, con apparente titubanza, si avvicinavano all’acqua per immergerci il capo fino al collo frugando nella trasparenza e lasciarsi cullare, poi si ritraevano sbattendo le ali.
Quelli che abitano le coste liguri sono un compromesso tra i gabbiani reali e gli Albatro dell’oceano lunghi anche più di un metro e mezzo con un’apertura alare che può raggiungere i cinque metri, ma assomigliano a loro in tutto ed hanno le stesse abitudini. Sono voracissimi con una vista acutissima e, grazie al formidabile becco, sono pronti a ghermire qualsiasi preda, perfino piccoli uccelli. Volano per intere giornate a grandi altezze anche in mezzo alla bufera, sfruttando sapientemente le correnti ascensionali di aria più calda.
A Mulinetti il tratto sottostante corso Garibaldi, proprio accanto al chiosco dove
si affittavano le sdraio e gli ombrelloni, era esclusiva proprietà di questi uccelli che anche nel periodo estivo, talvolta si posavano tutto attorno a fissare i bagnanti distesi al sole. Sembravano contrariati e, abitudinari ed affezionati al loro territorio, avrebbero anche attaccato un uomo che si fosse avvicinato troppo ai loro nidi.
Al termine della bella stagione la spiaggia tornava libera e i gabbiani si appollaiavano nuovamente tra gli scogli e le rocce dove, tra novembre e dicembre, nidificavano e li vedevi poi con al seguito i piccoli nati ancora inesperti nel volo.
Io e Davide, seduti su una panca nel giardino della Nadia prospiciente il mare, stavamo a lungo ad osservarli.
Alcuni, sfruttando le correnti ascensionali di aria calda, si lasciavano trasportare ad altezze impossibili continuamente emettendo quel loro verso, a seconda del tuo stato d'animo, a volte tanto simile ad una risata e, a volte, al pianto, senza batter le ali che poi accostavano al corpo per buttarsi in precipitosa picchiata sul mare anche quando le onde assumevano la forma di enormi cavalloni che si infrangevano, con fragore, contro gli scogli formando altissimi spruzzi bianchi.
Nel risucchio che si formava, mentre l’onda si ritirava abbassandosi, ghermivano i pesci sul pelo dell’acqua. Lo facevano anche sulla cresta dell’onda stessa ed era straordinario vedere come evitassero, con precisione millimetrica, la possibilità di essere travolti.
Quei gabbiani, bianchi come la schiuma del mare, non si confondevano nelle discariche con piccioni e taccole o sui muretti dei ponti, a beccare briciole di pane o chicchi di miglio, alla mercé di qualche buona donna! Erano molto dignitosi.
Davide, durante i nostri discorsi a tempo perso, diceva che, nell’ipotesi di dover scegliere un animale nel quale reincarnarsi, avrebbe scelto un gabbiano.
Con lui ero affiatato più che con altri pur cari amici. Non frequentavamo la scuola perché c’era la guerra e dove eravamo sfollati, non si andava oltre le elementari, perciò studiavamo solo il miglior modo di tirar sera e dedicavamo tanto tempo a noi stessi per divagare, scambiarci opinioni, le più varie e sui più svariati argomenti, pieni di curiosità e di entusiasmo per qualsiasi iniziativa.
Che ci fossero i tedeschi a noi ragazzi non importava, non avevamo paura, ci prendevamo anzi confidenza quando li seguivamo nelle esercitazioni con le mitragliatrici e raccoglievamo i bossoli inesplosi, li scimmiottavamo anche cantando al loro indirizzo, con parole modificate, una canzone in voga allora: “Camerata, camerata, quanto costa la marmellata? Costa cinquanta lire! Io nix capire!” Alludeva al fatto che fingevano di non capire e si prendevano quel che volevano senza pagare.
“Comportatevi bene, non andate a far danni, non state tra i piedi a quei crucchi che non si può mai sapere cos’abbiano in testa.” Queste erano le solite raccomandazioni che i genitori ci facevano quando prendevamo la porta di casa, ma non successe mai che fossero ostili verso noi ragazzi o che ci allontanassero in malo modo, spesso anzi, in un italiano stentato, si fermavano a parlare con noi dei loro figli e dei paesi da cui venivano.
II
Poi finì la guerra e, chi più chi meno, tutti si leccarono le ferite benché lassù in montagna non fosse finita disastrosamente come in altre parti d’Italia.
D’allora incominciò a cambiare tutto.
Quel momento l’avevano atteso con ansia, da cinque lunghi anni, vincitori e vinti, ma per noi, nati negli anni trenta, finiva un periodo che non sarebbe più tornato: la nostra fanciullezza e forse era lecito che provassimo un senso di rammarico non perché fosse finita la guerra, s’intende, ma per il ritorno alla normalità.
Quelli che ne avevano le possibilità, ripresero gli studi. I grandi incominciarono a darsi da fare per ritrovare un lavoro.
Per scarso potere di valutazione, a noi ragazzi dispiaceva rientrare in determinati canoni legati ai doveri quotidiani, all’abbandono della precarietà e provvisorietà della vita, tipiche del periodo bellico.
Durante la guerra ci era permesso ciò che i genitori non concedevano normalmente per il fatto che correvano tempi grigi e tutti ci lasciavano fare pensando che non si sapeva che futuro potessimo avere, a cosa andassimo incontro noi “poveri figlioli,” così dicevano e, in un opinabile controsenso, noi stessi temevamo ciò che non conoscevamo.
Dove, nonostante il caos, le scuole avevano continuato a funzionare, appena il suono delle sirene dava l’allarme, le lezioni venivano sospese e scappavamo tutti, chi a casa, chi nel più vicino rifugio e questo succedeva molto spesso: nelle città anche tutti i giorni. Quante volte, quando abitavo ancora a Recco, interrogato alla lavagna o mentre non riuscivo a risolvere un problema in classe, mi ero augurato che suonasse l’allarme!
Il suono delle sirene, lo scoppio delle bombe, lo scappare nei rifugi, i tedeschi, i partigiani, le incursioni aeree, i soldati più volte ci avevano spaventati, ma per noi, nell’età dell’incoscienza, erano state occasioni di emozioni forti e avventurose, eroiche fantasie tipiche dei maschi della nostra epoca.
La guerra era finita! si, inglesi e soprattutto gli americani con i bombardamenti avevano ridotto le nostre città in cumuli di macerie, alcune erano state letteralmente rase al suolo con centinaia di migliaia di morti.
Provai grande mortificazione quando sul giornale lessi che tanti avevano inneggiato ai vincitori.
Ancora oggi penso che almeno per amor di patria, quegli applausi e quei fiori offerti ai vincitori, se li sarebbero potuti risparmiare, se non altro, per un dovuto rispetto verso i nostri soldati caduti eroicamente nei vari campi di battaglia, dei reduci coperti di silenzio e dei civili morti durante i bombardamenti.
E dopo la guerra civile che seguì l’armistizio, ci furono disoccupazione e crisi degli alloggi. La ricostruzione tardò a cominciare e non si avviò l'auspicata pacificazione tra opposte fazioni che, a tanti, non fa comodo che avvenga neppure ai nostri giorni.
Eravamo rimasti in braghe di tela. I soliti denigratori dicono che c’eravamo anche prima della guerra, ma non è vero.
I poveri ci sono sempre stati, nel periodo del dopo guerra ce n’erano e se ne vedevano molti di più perché tutte le leggi promulgate nel periodo fascista erano di fatto abrogate, anche quella che vietava l’accattonaggio e tanti stendevano la mano agli angoli delle strade e all’uscita delle chiese.
Ho il ricordo di uno che veniva a bussare alle porte ogni quindici giorni circa, era un uomo sulla sessantina, dignitosamente vestito, pulito e sbarbato, che si esprimeva in un italiano corretto: non avresti detto che andava a chiedere l’elemosina. Lo si vedeva da Aprile a Ottobre, poi non si faceva più vivo per tutto il periodo del freddo che in montagna dura parecchio. Arrivava da una zona povera, di là dal o delle Radici, la Garfagnana e si annunciava come fosse stato una rondine che portava la primavera, declamando alcuni versi leggermente modificati:”Primavera vien danzando, vien danzando alla tua porta, sai tu dirmi che mi porta?”
Quando incominciava a far freddo, commetteva un piccolo reato in modo da farsi arrestare e stare al fresco, ma al coperto, nei mesi invernali, diversamente non avrebbe saputo come sbarcare il lunario!
Conosceva bene il codice penale e calcolava con una certa precisione il periodo di detenzione al quale sarebbe andato incontro. Chiaramente i processi avevano tempi diversi da quelli attuali!
Iniziò in quel periodo una grande trasformazione nel modo di essere, di vivere, di pensare, ma intanto navigavamo nel buio più assoluto perché ad una guerra succede sempre un periodo di transizione, prima ancora che di evoluzione, nel quale nascono grandi flussi migratori e chi era scampato alle bombe, ai
rastrellamenti, alle vendette, alla stessa guerra civile, era costretto a spostarsi dove c’era possibilità di lavoro o inventarsi qualcosa per non morir di fame: i politici pensavano alle prospettive future, a patti di convivenza civile, ad aiuti umanitari, economici e abitativi, nel mentre però bisognava mangiare tutti i giorni.
Tanti optarono per la vecchia soluzione dell’emigrazione e contemporaneamente, specie dal meridione, si verificò un grande flusso di mano d’opera verso le città industriali del nord Italia che ospitavano la maggior concentrazione di stabilimenti. Non amo definire emigranti quei meridionali che si trasferirono al nord in cerca di occupazione. E’ un termine che trovo appropriato per chi andava a cercar lavoro all’estero.
Non tutti per la verità si trovarono in condizioni economiche disagiate: parecchi con la guerra si erano arricchiti con la borsa nera e speculazioni varie anche illecite, tanti erano riusciti a rimanere a casa e avevano fatto i soldi alle spalle di chi era stato spedito al fronte, altri, tramite conoscenze, si erano fatti dichiarare non abili al servizio militare ed altri ancora erano stati impegnati in attività di produzione bellica o ritenuti indispensabili alla conduzione di aziende di pubblico interesse.
È risaputo che per mantenere un soldato in trincea ne occorrono altri nove nelle retrovie, resta da vedere chi sia giusto che rimanga indietro e chi debba andare avanti, magari a farsi ammazzare.
I soliti sciacalli che disponevano di capitali, avevano acquistato, a prezzi di realizzo, le abitazioni di chi, con l’acqua alla gola, era stato costretto a disfarsene per sopravvivere o perché, sfollato, temeva di perdere l’unico bene sotto i continui bombardamenti .
Durante la lotta partigiana successe di tutto e di quel periodo se ne dissero di cotte e di crude, anche a sproposito.
Alcuni che vi avevano aderito, tornarono dalla montagna con gradi di molto superiori a quelli ricoperti nell’esercito regolare ed altri che neppure avevano fatto il militare si erano dati gradi e fantasiosi nomi di battaglia e si erano fatti crescere folte barbe e baffi tanto che non si riusciva quasi a riconoscerli.
Diversi che si autodefinivano patrioti, forse non proprio a buon diritto, erano andati nelle case armati e, vestiti da partigiani, si erano fatti consegnare denaro, generi alimentari, oggetti e quanto poteva far loro comodo e successe che qualcuno, che non aveva niente, dopo quel periodo, ostentasse notevoli disponibilità finanziarie.
In zone e ad ore stabilite, gli americani dagli aerei avevano paracadutato, assieme ad armi e munizioni, grosse somme di denaro che dovevano servire ai partigiani per finanziarsi in clandestinità, senza nulla dover requisire ad inermi cittadini che già faticavano a trovar di che sfamarsi.
Approfittatori del momento si erano impossessati di quei pacchi di soldi e se li erano spartiti tra loro per privato uso e consumo che nulla aveva a che fare con la lotta di liberazione.
Si raccontava poi, con ricchezza di particolari, che molti ebrei deportati nei campi di sterminio nazisti, avevano concordato una vendita fittizia delle loro case a persone di razza ariana, per non farsele requisire. Si trattava di vendite pro forma che, a guerra finita, soppresse le ignominiose leggi razziali, avrebbero comportato la restituzione degli immobili, ma la maggior parte di loro non fece ritorno e i finti acquirenti rimasero padroni degli immobili senza l’esborso di una lira. E anche quei pochi che ce la fecero a ritornare, si videro negare quanto
avevano pattuito.
Ci fu chi, prima di essere deportato, aveva affidato a vicini di casa o a persone che erroneamente stimava di fiducia: denaro, oro e gioielli, ma neppure chi ebbe la fortuna di tornare riuscì a far valere i propri diritti.
E nacquero in breve tanti nuovi ricchi che ostentavano ricchezza e si dimostrarono di razza di gran lunga inferiore a quelli di antica data.
Molti, a guerra finita, tornarono nei paesi dai quali erano stati allontanati perché considerati nemici in seguito alle ostilità, altri, già in possesso di cittadinanza e pertanto non respinti, arrivarono in Italia per constatare cos’era successo alle proprietà lasciate e riabbracciare i parenti.
Quelli che provenivano dagli Stati Uniti, avevano la pancia piena, indossavano l’abito buono della festa con la presunzione di insegnarci come si sta al mondo, esaltavano il loro modo di vivere, le loro possibilità, raccontavano che andavano a lavorare in auto, quando per noi farci un giro sopra era come andare alle giostre, che mangiavano bistecche tutti i giorni e dolci a profusione, con l’aria di chi ce la metteva tutta per farti sentire un verme.
Ci portarono la carne in scatola, quella congelata, la gomma da masticare, babbo Natale che, a poco a poco, sostituì Gesù bambino, la pasta di burro di arachidi. Le nostre polpette lasciarono il o ai loro hamburger con cipolla e formaggio. Dissero che non era salutare cibarsi di pastasciutta e di polenta e si vantavano perché non spremevano il succo dai limoni, ma ne usavano la polvere liofilizzata inscatolata in piccoli contenitori di plastica gialla a forma di limone.
Al termine di uno spettacolo, per esprimerne il gradimento, invece di applaudire, imparammo a fischiare, magari con l’aiuto di due dita in bocca per far risultare più alto il sonoro, comportamento da noi tenuto impietosamente per precisare il non gradimento o, in altra sede, per sollecitare i cani pastori a far rientrare le pecore rimaste indietro negli spostamenti del gregge.
A colazione consigliavano uova al tegamino, pancetta affumicata soffritta, affettati vari, fagioli in umido quasi sempre in scatola, come se fossimo tutti guardiani di mandrie e non pasteggiavano a vino, ma con whisky, Coca Cola o addirittura col latte.
La predisposizione esterofila di tanti italiani, l’atteggiamento ivo nei confronti del vincitore, facilitarono l’introduzione di usi e costumi in netto contrasto con le nostre radicate abitudini: iniziò l’epoca del consumismo e del rifiuto del risparmio che ci portò un po’ tutti a vivere al di sopra delle nostre possibilità.
Incominciammo a pretendere tutto e subito, a meravigliarci esclamando uao e a ridere, come facevano loro, per le più demenziali battute!
La cinematografia, la musica, i nuovi balli e i barbarismi influenzarono il nostro pensiero, l’usuale comportamento, il linguaggio, il modo di vivere e di concepire la vita: persuasioni occulte di cui non tutti si accorgevano se non provando una frustrazione derivata dalla sensazione di non appartenere più alla propria cultura.
III
Per ovviare ai nuovi momenti difficili che si erano creati, quelli che ne erano in grado, lasciarono il paese sia per cercar lavoro che per far proseguire gli studi ai figli.
Ognuno s’incamminò per la propria strada, ma noi ragazzi continuammo a tenerci in contatto ed a ritrovarci lassù ogni anno per le vacanze estive.
I miei, in quel momento, non avevano possibilità di trasferirsi in città e fui costretto a studiare in vari collegi.
Finiti gli studi, dopo alcuni anni trascorsi a Milano, tornai a risiedere a Genova e al paese tornavo per le vacanze e per le ferie quando incominciai a lavorare.
Ero felice tra i miei monti a respirare l’aria frizzante che profumava di muschio e ritrovavo i miei amici, ma dopo un certo periodo di permanenza, mi assaliva la nostalgia del mare, il desiderio di assaporare l’odore della salsedine e ascoltare il respiro del vento quando soffia e fa esplodere le onde contro la costa. Avevo sempre vivo in me il ricordo del mare in burrasca che personalmente mi spaventava e nello stesso tempo mi attirava, sembrava che mi sgridasse per essermene allontanato e mi ammonisse di non prendermi troppa confidenza, che mi dicesse che non è una palestra senza obbligo di frequenza, anche quando appare calmo e c’è il sole.
Quando poi ero a Genova, non vedevo l’ora di tornare in montagna e questo contrasto, a volte, assumeva i caratteri di una vera sofferenza.
Non si trattava di capricci adolescenziali o di una preferenza alternata nel tempo, mi piace il mare e mi piace la montagna, così come adoro il lago e, diversamente dalla maggior parte della gente, anche la pianura.
Ho sempre negli occhi i campi biondi di grano maturo che ondeggiava al vento, simile alle criniere di cavalli al galoppo, quelle enormi estensioni di terra bruna, arata a grosse zolle, che spesso attraversavo in auto recandomi a Milano, i ciuffi verdi del riso che spuntava dall’acqua e le distese di granturco e di girasoli che sembravano addormentarsi quando reclinavano il capo, al tramonto, verso una luce pallida nella incipiente nebbiolina serale.
Ricordo con dolcezza il riflesso di un cielo rosa smorzarsi lungo il corso del Po attraverso la campagna pavese, i filari di pioppi dalle foglie verdi, appena tinte, che parevan tremare e così gialle in autunno da sembrar finte.
Amare la natura per me significa affezionarmi a ciò che vedo e mi riempie l'anima e lo spirito e di conseguenza alle cose e, come i gatti, ai posti dove ho vissuto, ho lavorato, dove magari ho anche sofferto e agli amici e alle persone che vi ho conosciuto.
Chi da eventi diversi non è stato costretto a lasciare i luoghi che l’hanno visto bambino, non può capire quel senso di angoscia che prende alla gola chi invece ha dovuto dire addio ai compagni di scuola, alla piazzetta dove si ritrovava con loro, alle familiari stradine, ai visi conosciuti. Tale distacco può anche psicologicamente arricchirti fino a farti sentire cittadino del mondo ma, pur non pensando, manzonianamente, alle case bianche sparse sui pendii come branchi di pecore pascenti, provi una fitta al cuore ricordando gli amici di un tempo che non vedrai più e rappresentavano la roccia sulla quale si posavano le fondamenta della tua futura vita di società.
Da adulto il tuo nuovo stato di persona impegnata, responsabile, il lavoro e i doveri verso la famiglia ti condizionano anche nelle scelte di nuovi amici.
Tutto rientra nel gioco della vita, ma col are degli anni molte cose cambiano e non sempre in meglio.
Sta a noi prendere poi atto che occorre costruire ogni giorno qualcosa, giocare una partita che può essere sfida anche verso se stessi per realizzare un sogno, il sogno della vita: la vita che abbiamo ricevuto e che desideriamo possibilmente trasmettere mettendo al mondo dei figli o semplicemente seminando un campo, piantando dei fiori o permettendo al tuo cane di riprodursi.
Anche questo è un atto di amore per la vita: la vita che ti sorride quando vedi un bimbo gattonare per la prima volta, quando mette il primo dentino, ascolti le sue prime parole o guardi il cielo trapunto di stelle, un fiore che sta per sbocciare o un campo appena arato, la vita che ti sorride se ti siedi sotto un grande mandorlo in fiore o ti stendi in un prato ricoperto di viole e assapori i primi raggi del sole in una tiepida giornata di primavera.
Non sono necessarie grandi cose per sorridere: puoi farlo anche in una giornata fredda e umida quando, rincasando, trovi sulla tavola una gustosa fumante minestra.
E la vita, pur cambiando, può sorriderti anche quando ti trovi davanti a una montagna sassosa da scalare o devi studiare cento libri per poi, stanco morto, trovare un letto con le lenzuola fresche, dove riposare.
Nel rovescio della medaglia mi viene da pensare che la vita, per lunga che possa esserti data, sia sempre troppo corta e, a questo proposito, a suo tempo, a consolarmi di questa constatazione, avevo una tesi che mi era stata suggerita da alcune elucubrazioni mentali per le quali intavolavo vere discussioni.
Da ragazzi non parlavamo solo di sciocchezze: discutevamo molto di politica e di problemi esistenziali.
Pensavo che per chi è venuto alla luce negli ultimi tempi la vita, anche se dovesse spegnersi molti anni prima rispetto alla media, risulterebbe sempre molto più lunga di quella di chi è vissuto a lungo, ma nato anni o secoli prima e ti spiego il mio punto di vista. Oggi noi possiamo conoscere e rivivere i fatti e gli anni di chi ci ha preceduto tramite l’informazione, lo studio degli eventi storici, delle religioni, dei costumi, con le documentazioni, gli organi di informazione, le letture, la cinematografia, i racconti. Mi è capitato più volte di immedesimarmi, rivivere e addirittura commuovermi alla lettura della vita di personaggi e di storie di secoli scorsi. Praticamente ho vissuto migliaia di anni sconosciuti a chi non li aveva alle spalle perchè venuto alla luce in tempi precedenti agli accadimenti.
Queste affermazioni si possono proiettare in tutti i rami dello scibile, dalla tecnica, alla letteratura, alle scienze, alla medicina, fino all’arte.
Correnti di pensiero e scoperte destinate a stigmatizzare una sola epoca, scandiscono i vari periodi così, chi è nato dopo, ha conosciuto e perciò vissuto il pensiero ed il sapere non solo della propria epoca, ma quello espresso in tutte le precedenti.
Bisogna anche capire cosa s’intende quando si parla di vita vissuta, se abbia importanza vivere a lungo, magari vegetando o se sia più auspicabile vivere
meno, ma raggiungere determinate mete e poter dire che non siamo vissuti inutilmente.
La vita è conoscenza.
Cesare si faceva obbligo di imparare ogni giorno qualcosa di nuovo e, alla fine della giornata, pronunciava il suo proverbiale: “Diem non perdidi”, diversamente aveva la sensazione di aver sprecato il tempo.
Sì, il traguardo per taluni può semplicemente consistere nel vivere a lungo senza impegno e conoscenza del ato, del presente e del futuro, senza interrogativi sulla nostra provenienza o destinazione, è una questione di punti di vista alquanto soggettiva.
Il tempo intanto a inesorabile e ti accorgi che quello che da ragazzi ti faceva spanciare dal ridere per le stupidaggini che raccontava e che combinava, non ti va più bene: la tua vita è cambiata anche se, una volta, eri anche peggio del tuo amico!
Certe rimpatriate te le puoi concedere, una tantum, se non coinvolgono la tua famiglia sempre che il tuo concetto di famiglia non si rapporti a quelle che ne hanno solo il nome.
La vita cambia, rimangono i ricordi che assumono un valore essenziale per ognuno.
Ricordo che mio padre, ogni tanto, diceva di sentire la necessità di respirare l’atmosfera della sua giovinezza e faceva una capatina a rivedere la casa dove aveva abitato all’Ardenza, in quel di Livorno e i bagni Pancaldi che frequentava da ragazzo.
A prescindere dalla mia appartenenza fisica e sentimentale alla terra che mi ha visto nascere e ai posti dove sono cresciuto, ho frequentato molto, per lavoro e per diletto, la Versilia e l’alto Monferrato e, sovente, provo una vera nostalgia di quei posti e non posso fare a meno di tornarci, magari per un solo giorno.
Non è per la bellezza dei luoghi indubbiamente privilegiati dalla natura!
Amo camminare sul molo, rivedere le antiche strade, la bottega di un mio affezionato cliente, il vicolo nel quale si affacciano ancora le botteghe di artigiani dai più disparati mestieri, il cibicotti che sul bancone di marmo, ingombro di teglie, torte e farinate, continua ad esporre le pere cotte che, affogate nel loro rossiccio lucido sciroppo, sembrano di cristallo.
Mi fermo a osservare i ferri battuti di quel vecchio mangia fuoco dalle braccia pelose più grosse delle mie cosce, che incute timore quando alza il martello per battere con forza il ferro rovente sull’incudine, ma ha un cuore grande come una casa.
Mi piace saltare sugli scogli bianchi che scottano sotto il sole, annusare l’odore forte del mare, delle alghe essiccate sulla battigia e altrove il profumo della lavanda, del pane appena sfornato che invade l’aria lungo le strade al mattino presto, delle graspe acidule di uva Barolo ammucchiate a fermentare, pronte per essere distillate.
Ciò che mi attrae è l’anima dei posti e quel profumo di vissuto e di vecchio che ogni vicolo ed ogni piazzetta ha suo caratteristico e, a volte, l’avverto in posti diversi e improvvisamente vengo trasportato distante centinaia di chilometri e mi sembra di ascoltare addirittura le voci ed i richiami dialettali di chi ci abitava.
Non amo le luci sfavillanti della città moderna, le pareti di cristallo, le strade sopraelevate, i grattacieli illuminati, il frenetico accendersi e spegnersi delle insegne pubblicitarie che reclamizzano prodotti di consumo.
Prediligo i muri che si portano addosso la memoria della storia di chi ci ha abitato, del sudore e del sacrificio di chi ci ha lavorato, i bassorilievi scolpiti sull’ardesia o sulla pietra serena sovrastanti antichi portoni inscuriti dal tempo e quelle pareti di tutti mattoni che da secoli sono lì a sfidare il tempo e tutti quei muri a secco costruiti a forza di braccia per reggere le terrazze che hanno reso coltivabili gli scoscesi pendii di almeno metà delle nostre terre.
Siamo fatti di polvere e ci affezioniamo alla terra da cui viene la nostra polvere, quella che ci ha dato i natali e quella che ci ha nutriti con i suoi frutti così diversi da terra a terra, tanto che ognuno di noi assume caratteristiche diverse.
I vecchi dicevano: dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei, ma ho l’impressione che sia un proverbio superato. Oggi, per lo più, mangiamo carne se, grano ucraino, pompelmi israeliani, patate tedesche, nespole spagnole e l’elenco sarebbe troppo lungo.
I funghi vengono spesso dal Marocco, te ne accorgi dalla sabbia finissima che, anche se li lavi, ti scricchiola sotto i denti, le uova e i polli dalla Cina e i pesci, quasi tutti di allevamento anche se ti dicono che sono di scoglio, quando va bene dalla Grecia, diversamente dall’oceano Indiano e che tu mangi branzini, orate o trote è lo stesso, tanto hanno un identico sapore di plastica, anzi non sanno di
niente, perché sono nutriti tutti con lo stesso mangime insapore e con l’aggiunta di antibiotici per evitare le morie!
Hai notato che i pomodori apiscono, ma non marciscono più!
Queste cose le dico per sfogarmi perché non le condivido!
Se ne fossi all’altezza, lo farei dipingendo come Ambrogio Lorenzetti nei famosi affreschi che illustrano gli effetti del buon governo in città ed in campagna. Dipingerei meravigliosi paesaggi dove le costruzioni rispettano le distanze, le strade pulite, i muri non imbrattati, le torrette merlate ornate di fiori e tante eleganti dame felici e cavalieri sorridenti tra loro, gentilmente inseriti nel contesto di una campagna circostante ben curata, ricca di abbondanti messi. Poi, con un pennello sporco, imbratterei tutta quella falsa documentazione pittorica.
Sarebbe un gesto di protesta.
Vorrei riuscire a farlo in sintesi, esternando tutti i sentimenti che provo, ma troppe idee mi ano per la testa. Come pittore ho provato a mescolare il verde della serenità e della speranza con l’azzurro del sogno ed ho aggiunto il bianco della purezza e il rosso dell’amore, ne è scaturito un brutto colore opaco inaccettabile anche per un semplice fondo.
Non si possono mescolare odio e amore, bontà e crudeltà, onestà e imbroglio.
Occorre fare chiarezza. A tutti sono necessarie scelte di vita maturate in base alla
formazione ricevuta, così come vanno rispettate le prerogative di ogni individuo nelle diverse stagioni della vita.
Ognuno dovrebbe, per tempo, avere la possibilità di crearsi un ambiente adatto a sviluppare la propria personalità, senza escludersi dal mondo. La cosa non è facile a farsi come a dirsi perché in gioventù si è portati a pensare che di tempo davanti ce ne sia sempre tanto e che la giovinezza sia più lunga di quel che in effetti dura! Spesso si ha l’abitudine di rimandare scelte e impostazioni di vita. Tanti non accettano il are del tempo, si aggrappano alla gioventù, si vestono da giovani a volte rendendosi ridicoli, magari non hanno saputo vivere la loro giovinezza, hanno aspettato troppo a farlo e, di conseguenza, non più giovani, non si adeguano agli anni della maturità avanzata che possono anche essere meravigliosi proprio se vissuti come tali.
E’ sempre molto difficile adattarsi a cambiamenti, diventa arduo e poco costruttivo accettare nuovi stili di vita, modi nuovi di esprimersi e ciò che maggiormente pesa è dover vivere in un ambiente non consono alla nostra formazione, tollerare le diverse educazioni, l’appiattimento culturale, l’arrogante disinteresse di tutti nei confronti del prossimo e te ne accorgi ad ogni piè sospinto.
Sarebbe auspicabile vivere in un ambiente creato su misura per noi. Come dire: vivere in un’utopia!
I vecchi stanno in piedi, i giovani seduti, alcuni fanno lo sgambetto alle donne incinte, le tredicenni urlano sconcezze e fanno arrossire gli scaricatori del porto, lo studente spacca la faccia al professore che gli ha rifilato un brutto voto!
Non è ancora proprio così, ma ci stiamo arrivando e le giovani mamme, intanto, dicono che si rompono i coglioni.
Ma da quando ce l’hanno!
Noi eravamo meno sfrontati, le parolacce le dicevamo, ma con un senso di vergogna, cercavamo almeno di non farci sentire da chi aveva più anni di noi: non era ipocrisia. Era educazione!
Sciocchezze ne combinavamo anche noi, ma semplicemente fine a se stesse. Forse eravamo più ingenui, meno maliziosi. Ti voglio raccontare di un gioco che, da ragazzini, ci divertiva moltissimo e che, per noi, era già molto trasgressivo!
Tutti in riga, con le spalle al muro, tiravamo fuori l'uccello e al via facevamo a chi pisciava più lontano. Vinceva quasi sempre Giorgio che beveva molto e l'aveva meno grosso, ma più lungo!
Se capitava che asse qualcuno, in special modo una ragazza, finivamo per pisciarci addosso l’un l’altro perché avevamo la delicatezza di voltarci, eh diamine, ma non riuscivamo ad interrompere di colpo la minzione. Oggi a una ragazza che a da sola, specie in strade periferiche, c’è spesso chi glielo vuol far vedere e non a scopi didattici inerenti l'educazione sessuale!
Le ragazze oggi sono molto libere. E' cosa buona indipendentemente da ciò che di meglio desideriamo per le nostre mamme, zie, sorelle, figlie, ma i maschi si sentono intimoriti, non prendono più iniziative, sono diventati complessati di fronte alla loro sicurezza. Per certi aspetti sono più maturi di quanto potevamo essere noi alla loro età, ma sembrano già stanchi, avviliti con alle spalle tutte le esperienze possibili e immaginarie e mancano di curiosità e stimoli.
Forse hanno già tutto e troppo a portata di mano.
Per noi le ragazze erano uno scopo, un miraggio, un’idea fissa, tutto.
Erano la nostra droga!
Certo viviamo meglio di un tempo. Il progresso in parte ha fatto il suo corso: quello economico!
C'è stato un miglioramento. Nelle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie, negli edifici pubblici e sui pianerottoli degli ospedali, non vedi più collocate quelle sputacchiere di smalto bianco col bordino azzurro che poi toccava alle donne delle pulizie vuotare. Ed era anche compito delle donne lavare i fazzoletti che usavano vecchi e malati col raffreddore. Non so come questo lavoro avesse potuto ispirare una canzone! Qualcuno se la ricorda ancora: “La bella lavanderina.” Ti ricordi, pochi decenni fa quando non esistevano ancora gli articoli usa e getta, le lavatrici, i telefoni portatili, i televisori, i cervelli elettronici? Ben, non c’era neppure la carta igienica e a me sono rimaste impresse le pareti di certi gabinetti pubblici affrescate da geroglifici a forma di ditata dai colori che andavano dalla terra di Siena all’ocra gialla e non di rado, in questi luoghi, leggevi una scritta in un cartello attaccato al muro che invitava a cagare bene e duro per non lasciare virgole sul muro!
Tra i atempi insulsi c’era quello di ridere alle spalle di qualcuno che magari balbettava o prendere in giro chi aveva qualche difetto fisico o provocava ilarità per particolari tratti somatici o per la mimica facciale. A farne le spese era quasi sempre chi, spesso a torto, forse troppo buono e paziente, veniva definito lo scemo del paese e in ogni posto, volendo, ne trovavi uno, o chi era un po'
claudicante o addirittura aveva la gobba e, senza che se ne accorgesse, si cercava di toccargliela. Dicevano che portasse fortuna! In tutto questo c'era dell'immaturità, ma anche della cattiveria.
Oggi la televisione inventa tanti personaggi: noi ce li creavamo, li analizzavamo con i nostri cervelli, non con il metro di giudizio di altri.
Spesso faceva visita in paese un certo Ignazio, un ragazzo di Pieve che si dava molta importanza, camminava col naso per aria, la testa leggermente inclinata a sinistra, il fondo schiena un po’ in fuori e si pettinava all’indietro con un gran ciuffo per aria che gli allungava ancor più il profilo. Arrivava in bicicletta e la posteggiava a sinistra della Chiesa parrocchiale in una specie di navata sempre aperta, adibita a magazzino. Pensava che fosse al sicuro.
A noi, che non eravamo né carne né pesce, dava fastidio che venisse a trovare una ragazza che aveva poco più della nostra età. Arrivava pedalando, ma tornava regolarmente a piedi: gli foravamo le gomme.
Isidoro era un tizio che se la tirava da intellettuale, non ricordo se di destra o di sinistra: non ci facevamo caso. Era una specie di sacrestano sulla trentina, al suo paese suonava le campane, accendeva le candele dell’altare e, finita la funzione, le spegneva togliendo l’ossigeno allo stoppino con un cono rovesciato fissato in cima a una lunga asta.
Era originale, curioso, se non ci fossimo trovati in montagna, l’avrei definito un tipo da spiaggia.
Prima di aprir bocca abbozzava un sorriso e assumeva un’aria tra il serafico e
l’ironico e parlava come se stesse esprimendo delle verità assolute; invece raccontava tante coglionate.
Che parlano con questo atteggiamento, ce ne sono tra i religiosi e i politici, ma lui non era né l’uno né l’altro. Non so se ti è mai capitato di conoscere uno di questi individui che ti parlano come se tu fossi un povero scemo e ogni tanto si rivolgono a te dicendoti” Caro” e ti verrebbe voglia di prenderli a pedate nel culo. Sono peggio di quelli che quando parli non ti ascoltano, non ti lasciano finire il discorso e attaccano subito a dir la loro.
Aveva anche una piccola deviazione al setto per cui la sua voce risultava nasale e un po’ridicola.
Si fermava volentieri con noi che, appena lo vedevamo, lo attorniavamo per farci raccontare i suoi fantastici e fantasiosi trascorsi. Gli davamo corda incoraggiandolo, lodandolo e fingendo di ammirarlo e lui si gongolava e rincarava la dose. Avevamo scoperto che era pauroso e visionario al punto che credeva ai fantasmi e, a questo proposito, ci aveva raccontato di forme vaganti che improvvisamente gli erano apparse svegliandosi nel buio della notte e immediatamente erano scomparse lasciando scie di fumo e acre odore di bruciato.
La deviazione al setto nasale se l’era procurata da ragazzo, cadendo nelle scale di casa sua perché una sera soffiava un vento tremendo e qualche folata, infilandosi tra le fessure del tetto di piagne un po’ sconnesse, faceva cigolare la porta di uno stredo che, nel dialetto dell’appennino emiliano, sono quelle spaziose, poco illuminate, ampie soffitte, dalle travi scoperte e il pavimento di tavole grezze, dove , se non fosse per le ragnatele, ci si starebbe anche in piedi: spesso fungono da ripostiglio e deposito di mobili che non si utilizzano e dimora di ghiri, a volte anche di topi.
D’estate, nello stredo sopra la mia camera da letto, sembrava che ci eggiasse qualcuno. Salivo di corsa le scale con la torcia e perlustravo ogni angolo, ma non c’era verso di scoprire il mistero di quei rumori che, a volte, assomigliavano a dei i svelti tanto che quasi incominciavo a dar ragione a mia nonna che pensava potessero essere degli spiriti, anche perché aveva raccolto le voci di alcune vecchie sdentate secondo le quali, un tempo, nella nostra casa ci si sentivano dei rumori strani inframmezzati da voci! La nostra casa anticamente era denominata la Cà e dicevano: “In cla cà, ig sentane!”
D’inverno non avvertivamo più alcun rumore.
Col tempo chiarimmo il mistero: ci si erano insediati dei ghiri che d’inverno andavano in letargo. Erano inquilini che arrecavano disturbo solo nella stagione estiva e comunque sfrattarli non fu cosa semplice perché al ghiro, animale protetto, era proibito tendere trappole mortali.
Il padre, con l’intento di fargli vincere il senso di paura, quando udiva un rumore sospetto, mandava in soffitta Isidoro perché potesse rendersi conto che non c’era di che aver timore.
Fu proprio mentre controllava, con la pila accesa, da dove proveniva quel cigolio che, sfiorandolo, svolazzò sulla sua testa un pipistrello e lui, scappando a rotta di collo giù per le scale, era inciampato e aveva dato una nasata in uno scalino.
In seguito a questa deviazione del setto gli si era cronicizzata una rinite, divenuta poi anche allergica e gli era comparso il vezzo, più che il vizio, di tagliarsi spesso i peli nel naso ai quali dava la colpa del prurito e dei suoi ripetuti starnuti, ma guai se uno gli avesse detto che gli spuntavano dei peli dalle narici, l’avrebbe presa come un’offesa. Peli e capelli gli facevano l’effetto dei vermi in genere.
Da bambino era stato colpito da una leggera forma di infiammazione della materia grigia del midollo spinale che gli aveva lasciato una gamba leggermente più corta; ciò nonostante le ragazze le cercava con le gambe perfette e le cosce lunghe, sguardi languidi, capelli lucenti, forme proporzionate, non si accontentava di mediocri bellezze perché nel suo codice genetico possedeva un esasperato senso estetico e lo rifletteva in ogni sua scelta e attività anche al di fuori della sfera artistica. Così riponeva nel vestire e nell’atteggiarsi, l’amore per il bello e l’armonia delle forme.
Lo disturbava, a pelle, scrivere un numero formato da un tondeggiante otto accostato ad un angoloso quattro, o un sette vicino ad un sei e allora ne arrotondava gli spigoli ma, nonostante queste sue fisime, era intelligente, forse anche troppo, divertente e, paradossalmente, fisicamente prestante.
Era solo pauroso e temeva in particolare le malattie e i morti.
Se costretto a far visita ad un malato all’ospedale, respirava quanto più debolmente poteva, quasi tratteneva il fiato per non introdurre possibili batteri nei polmoni; gli si riempiva la bocca di saliva e incominciava a sputare cercando di non farsene accorgere.
Non andava neppure a portare un fiore sulla tomba di sua madre, tanto gli facevano senso e paura il cimitero, le tombe, i defunti.
Più che altro gli facevano impressione, ma ribadisco: Isidoro non era scemo, era solo un po’strano.
Si dava anche arie da Casanova vantando conquiste dappertutto. A sentir lui in tutti i paesi del Frignano, c’era una femmina che l’aspettava a braccia aperte, o meglio, a gambe aperte!
Con noi si perdeva a chiaccherare per ore: forse eravamo gli unici a dargli ascolto e gli davamo anche corda.
Le donne, diceva, lo trovavano troppo virile per il bellissimo, come lui lo chiamava, “cardellino” che madre natura gli aveva messo in mezzo alle gambe, diceva che cantava tutti i giorni e noi di rimando:
“Sei un illuso, i nostri cantano dalla mattina alla sera e anche di notte, a tutte le ore!” E ci scompisciavamo dal ridere vedendo come s'incazzava!
Comunque una donna ce l'aveva, infatti, come incominciava a venir buio, lo vedevamo avviarsi su per la scorciatoia che portava alla frazione di Castello, dove e da chi si fermasse non lo scoprimmo mai dovendoci mantenere a debita distanza in modo che non si accorgesse della nostra presenza ma, poco prima della mezza notte, ne ritornava fischiettando ripercorrendo la stessa strada con l’aria di chi era veramente soddisfatto. Camminava a o svelto e cantava anche, con la sua voce nasale, forse per darsi un tono o meglio coraggio e andava ancor più spedito mentre ava davanti al cimitero a quell’ora di notte da dove, a volte, provenivano dei fruscii e dei rumori di là dal cancello arrugginito che non si chiudeva da tempo e gli si rizzava non più il cardellino, ma il ciuffo: bastava un alito di vento per far tintinnare le croci di lamiera contorte, sciupate dal tempo e dalla neve o un animale che camminava sulle foglie secche per fargli pensare allo scricchiolio delle ossa di uno scheletro in libertà tra le tombe, ma è proprio vero che tira più un pelo di fica che due paia di buoi!
Una sera gli facemmo la posta io, Giancarlo, Mauro e Pippo.
La luna, al primo quarto scarso, sembrava corresse per quanto andavano veloci lassù le nuvole che a tratti la coprivano e il buio diventava quasi totale.
Appostati dietro al muro di cinta del piccolo cimitero, aspettammo che asse e, quando fu all’altezza del cancello in ferro battuto, sbucammo fuori tutti assieme all’improvviso, ognuno con un lenzuolo bianco in testa, emettendo versi disumani simili a danteschi ululati, lo rincorremmo fin quasi all’altezza del mulino vecchio, ma non riuscimmo a raggiungerlo da tanto che scappava veloce, nonostante la gamba più corta.
Il giorno dopo in paese si diceva che qualcuno nella notte aveva visto dei fantasmi inseguire un tale che correva tanto veloce che nessuno era riuscito a capire chi potesse essere. Diversi raccontarono che in fin dei conti non era la prima volta che lo si sentiva dire e che qualcosa di vero ci doveva essere.
Avevamo un’età media che non ci qualificava giovanotti benché ci sentissimo già uomini, ma la gente in genere non ci considerava tali e tanto meno le ragazze che guardavano quelli un po’ più grandi.
Dicevano che avevamo ancora il latte sulle labbra.
A dire il vero io il vino lo bevevo già anche se figlio di un padre completamente astemio. Sotto questo aspetto ho preso da mia mamma che, anche quando stava poco a compiere novant’anni, all'ora di pranzo o di cena, se non c'era un bicchiere di buon vino, non si sedeva neppure a tavola.
Fu proprio quando ancora avevo il latte sulle labbra che presi la mia prima e, se ben ricordo, unica sbronza. La presi bevendo Albana liquorosa, troppo buona, assieme a Carlo e Giorgio che erano più grandi di me di alcuni anni: facevamo a chi resisteva di più a bere e io non volevo essere da meno.
A quell’età presi anche una cotta per una ragazza più grande. Non ero proprio innamorato, ma mi davo da fare per avere le prime esperienze e quando per la prima volta la baciai, inesperto com’ero, mi ritrovai la sua lingua in bocca e incominciai a sputare tanta saliva che lei ebbe fin paura che stessi male e mi venisse da rimettere. E a tutte le fontane che trovavo, chiedevo scusa e mi fermavo a fare sciacqui e gargarismi!
Eravamo capaci di tirar le quattro del mattino a raccontar barzellette e a recitar litanie: per la verità un po’diverse da quelle del Santo Rosario o delle Rogazioni in mezzo ai campi.
Uno di noi recitava i misteri, sempre gaudiosi, perché riferirci a quelli dolorosi sarebbe stato troppo blasfemo, ma non c’era intenzione offensiva, era una forma di goliardia, anche se universitari davvero non eravamo.
Tra il serio e il faceto Gigi faceva la parte del prete. Era figlio di un ingegnere bianco che era stato a lavorare in Abissinia e lì si era sposato con una signora del posto: l’inflessione dialettale modenese un po’ strascicata, in bocca a lui di pelle scura, già di per se, metteva di buon umore e ci faceva ridere.
Incominciava col primo mistero gaudioso nel quale si contemplava frate Cirillo che col cazzo fatto a spillo si fotteva i microbi, nel secondo mistero si contemplava papa Sisto con gli occhiali che s’inculava i cardinali, seguiva il
terzo nel quale suor Agnese asciugava i piatti con le pezze del marchese e via di seguito fino al decimo che evito di ripetere per non cadere nel volgare e ad ogni mistero seguivano i nostri cori: cinq e tri ott, ott e du desg! Cinq e tri ott, ott e du desg! Al posto delle Ave Maria, s’intende.
Poi cantilenavamo quella delle osterie: osteria numero uno. In quella non c’era mai dentro nessuno, ma nelle altre sì e non ti dico chi ci fosse sempre per non cadere nel volgare.
Una delle più spiritose era quella numero cento che narrava di un frate che si chiedeva chi fosse a suonare al suo convento, con quell’acqua e quel vento e il frate guardiano lo informava che era una povera verginella che voleva confessarsi e lui allora non si negava, la confessava e le imponeva per penitenza di baciare il suo cordone, ma la povera verginella, che forse era vergine, ma certamente non scema, gli rispondeva:” Padre sì, ma non sono orba, questo è cazzo e non è corda!”
Queste arie facili le cantavamo in coro a gola spiegata, nel silenzio della notte inoltrata, con le vene del collo gonfie e bluastre, rompendo i coglioni alla gente che dormiva. Nel nostro peregrinare notturno senza meta, ci capitava di trovarci sotto alle finestre di qualcuno che si svegliava innervosito e non ci pensava due volte a tirarci in testa una secchiata d’acqua che, da quelle parti, non è fresca: è sempre gelata!
E con queste facezie ci divertivamo, consolidavamo la nostra amicizia e la sera volava con noi sempre in attesa di qualcos’altro che non ci era concesso e che, accontentandoci, rubacchiavamo qua e là da quelle ragazze un po’ meno virtuose che qualcosa concedevano, ma sempre stringendo quel che tenevano in mezzo alle gambe. E come stringevano!
Erano comunque tempi diversi sotto tanti aspetti: le donne, oltre al resto, circa una volta al mese, facevano il bucato usando la cenere al posto del sapone: ponevano la biancheria sporca in un grosso mastello di legno o di lamiera zincata, sopra stendevano un telo di lino che funzionava da filtro e sul telo tanta cenere, non di legna di castagno però che, contenendo il tannino, avrebbe macchiato i panni. Usava anche aggiungere del turchinetto che dava alla biancheria un tenue colore azzurro, versavano sulla cenere tanti paioli di acqua bollente, così si formava la lisciva che, colando sui panni sporchi, li lavava. Il mastello sul fondo aveva un tappo che si toglieva per far defluire l’acqua versata da sopra.
Nessuno aveva l’acqua in casa e a sciacquare le donne andavano, quasi sempre, sulla riva del rio di Castello, dove ognuna riconosceva il suo sasso preferito, piatto e levigato sul quale appoggiarsi e le lenzuola le stendevano poi delicatamente ad asciugare sull’erba del prato di Parigini, fermandole ai quattro lati con le belle pietre arrotondate dall’acqua.
Sì, non eravamo ricchi.
Eravamo poveri senza saperlo!
Una tiritera che dà la misura di una certa indigenza diceva: tiribiralla corpo sodo, ierne in sette a ber un ovo e me, chi era fora dall’uscio, em toccò d’alcare e guscio! Un po’ esagerato: per tanti neppure troppo, ma non ci sentivamo poveri, eravamo dei signori senza soldi perché allora le persone, tutte molto dignitose anche se indigenti, godevano di considerazione più per l’educazione, la cultura e le doti morali che per il portafoglio più o meno gonfio.
IV
Molte famiglie avevano ancora una struttura patriarcale anche se poi, in definitiva, le donne comandavano già, come sempre, ancor prima di aver raggiunto la così detta parità.
La mia famiglia non è mai stata patriarcale perché mia madre non sopportava autoritarismi, era già lei autoritaria e, a mala pena, tollerava i consigli di sua madre, figurarsi della suocera che una volta venne a trovarci e, dopo alcuni giorni di permanenza a casa nostra, mia mamma le raccontò il proverbio dell’ospite che, come il pesce, dopo tre giorni, puzza.
Il giorno seguente a questo eloquente abboccamento, la nonna paterna, con gran disappunto del babbo, fece la valigia e se ne tornò a casa sua.
Questo fu motivo di vivace discussione tra i miei genitori.
Anche le usanze erano diverse.
Il mattino del primo dell’anno i ragazzini, a frotte, facevano il giro del paese augurando buon anno. Arrivavano sotto casa, ai cancelli o ai portoni, suonando le raganelle e cantando:” Codan codan, l’è e prim ed l’an, bondé, bondé, dadamne anc’a me!” Tutti regalavano qualcosa: noci, caramelle, biscotti, frutta secca, quella fresca non era gradita e poi c’erano solo mele e pere e quelle tutti l’avevano nell’orto.
Le raganelle erano strumenti in legno di fabbricazione artigianale locale e, più che un suono, emettevano un rumore prodotto con una manovella che, girando, faceva urtare un rotore bucherellato contro diverse mollette poste internamente ad una specie di cassa armonica.
Oggi i bambini fanno il giro degli abitati per la festa di Halloween, suonano alle porte, non augurano niente, praticano anzi un piccolo ricatto, si attaccano ai citofoni intimando un’alternativa: dolcetto o scherzetto. È un’usanza d’importazione.
Oltre alle nostre, che poi non erano tanto vuote come ci dicevano, noi le zucche l'avevamo nell’orto. Svuotate, con dei fori al posto degli occhi, del naso e della bocca, messa dentro una candela accesa, di notte, appese agli alberi, incutevano paura, sembravano teschi, ricordavano la morte. Anche noi nel medio evo abbiamo avuto le streghe, così dicono e le abbiamo arse vive!
Tante serate, d’inverno, le trascorrevamo attorno al camino mentre un ciocco, crepitando, sprigionava scintille che volavano su per la cappa nera di caligine e fuori le strade erano rese impraticabili dal vento e dalla neve. In una di quelle occasioni ricordo di aver ascoltato la storia di una donna vissuta in un paese a poca distanza, da tutti ritenuta una specie di fattucchiera.
Vestita perennemente di nero, con gonne e sottogonne multiple lunghe fino alle caviglie, si avvolgeva le spalle in scialli bordati da frange. Gli occhi di un grigio freddo e il suo sguardo magnetico, che istintivamente eri portato ad evitare, creavano turbamento, sembravano forieri di disgrazie tanto che la gente era convinta che portasse male e desse il malocchio specie a chi le entrava in antipatia o destava la sua invidia.
Gli uomini, come l’incontravano o se solo dovevano are davanti alla sua
abitazione, si toccavano i coglioni, le donne non li avevano ancora e toccavano ferro.
C’era anche chi, dopo averla incrociata per strada, si recava da una vecchia che dicevano avesse la capacità di togliere gli influssi negativi e malefici. Questa versava delle gocce d’aceto su di un piattino dove precedentemente aveva formato una chiazza d’olio d’oliva e se le gocce, fatte cadere a forma di croce si spargevano, era segno della presenza del malocchio.
Allora si faceva il segno della Croce e pronunciava sottovoce una formula mistica alla luce di una candela benedetta pregando il Signore di rimandare a chi li aveva tirati gli accidenti arrivati alla persona interessata, poi buttava il tutto e ripeteva le stesse funzioni nello stesso piatto senza sciacquarlo, con altro olio ed altre gocce d’aceto: se queste rimanevano compatte, provavano che l’influsso negativo era stato allontanato.
Quella strega, ancor molto bella benché non più giovane, di quegli occhi di ghiaccio si era anche servita per ammaliare gli uomini, specialmente quelli sposati, con una vera predilezione per i mariti delle amiche. Era stata una sorta di ninfomane sempre vogliosa, mai soddisfatta, insoddisfazione che le era rimasta nonostante il trascorrere degli anni e si vociferava che avesse stretto un patto col demonio per cui, se necessario, fosse in grado di trasformarsi istantaneamente in una gatta, nera s’intende, con gli occhi gialli e che di sera, sotto le lunghe gonne, non indossasse le mutande.
Usciva sempre all’imbrunire e s’incontrava con gli uomini in luoghi sicuri, tranquilla perché, all’occorrenza, avrebbe assunto sembianze feline e sarebbe rientrata a casa, non vista, attraverso la gattaiola tagliata sul fondo del portone.
Aveva adescato anche il sindaco del paese la cui moglie, spinta dai sospetti creati
da quanto aveva inteso vociferare, una volta si nascose nei pressi della casa di lei e attese che rincasasse per affrontarla. Ad una cert’ora la vide dirigersi verso la sua abitazione, ma quando, girando l’angolo, avrebbe dovuto trovarcisi di fronte, al suo posto le sgattaiolò tra le gambe il felino al ché pensò di aver trovato conferma alle chiacchiere che le erano arrivate all’orecchio e, prima che la gatta fosse riuscita ad infilarsi con tutto il corpo dentro al portone, fece in tempo a vibrargli, all’improvviso, una bastonata che la colpì alla zampa destra posteriore e la povera bestia miagolò come impazzita per il dolore.
Il mattino seguente la nostra Messalina uscì per andare a far la spesa, ma zoppicava vistosamente dalla gamba destra, che quasi non ce la faceva a camminare neppure con l’aiuto del bastone!
Questi racconti li ascoltavo con curiosità benché fuori dalla sfera delle mie convinzioni personali e religiose, ma mi ha sempre toccato una forma di superstizione e non sono del tutto convinto che non possa esistere davvero un’influenza negativa da parte di determinate persone, specie quelle che ti invidiano anche se non hai nulla più di loro. L’invidia è una brutta malattia e puoi essere invidiato perfino da chi ha tutto e molto più di te.
Anche certi sogni condizionano, soprattutto il superstizioso: porta male sognare gli uccelli e anche l’acqua sporca. Quella limpida porta bene. Così dicono. Sognare di pestare uno stronzo molle e immerdarsi tutte le scarpe nuove, magari appena comprate, porta bene sempre che non ti svegli per lo schifo e non riesci più a riaddormentarti. Se ti capita nella realtà, si dice che porti ancora meglio: porta male al padrone del cane, ammesso che sia di cane, per gli accidenti che gli arrivano!
Ma certi sogni, che poi si sono rivelati veramente premonitori, entreranno nella casualità, ma mi fanno pensare e mi creano ansia.
Mia nonna, povera donna, era vissuta di lavoro senza mai grandi divagazioni e, specie negli ultimi anni di sua vita, anche con privazioni ma, per il bene che mi voleva, se avesse potuto, mi avrebbe coperto d’oro.
“Quando sarò morta, verrò a portarti i numeri del lotto, lascia sempre un foglio e una matita sul comodino in modo ch’io possa scriverteli e tu non debba dimenticarli.”
“Nonna ti ringrazio, ma da morta dovrai pensare a riposarti in pace e non dovrai disturbarti a dare i numeri in giro. Già li danno i vivi!”
Poi la nonna un giorno mi lasciò davvero e mi ricordai ciò che mi aveva promesso diverse volte quand’era in vita.
Da quel giorno recitai in suffragio della sua anima, tanti Requiem aeternam, di cui peraltro non aveva bisogno, lo feci per mia pace e tranquillità, ma mi guardai bene dal lasciare sul comodino penna e carta, nel dubbio anzi, mi rialzavo da letto per controllare di non averne dimenticate in giro. Se al mattino, svegliandomi, avessi trovato scritti i numeri del lotto, mi sarebbe venuto un colpo.
Povera nonna! Ci sarà anche rimasta male, chissà quanto avrà tribolato al buio a cercare dove potessi aver messo la matita e il foglio! Ma mi avrà capito, ne sono certo.
Al suo funerale c’era tutto il paese. Non pensavo che le volessero così bene.
Fiori ce n’erano pochi perché la gente allora negli orti più che a coltivar fiori pensava a seminar cavoli e fagioli, ma recitarono tante preghiere e furono accese tante candele e la sua bara la portammo a spalla con dietro un serpentone di gente che la seguì fin dentro al piccolo cimitero del paese che distava circa cinquecento metri dalla chiesa.
La strada era tutta in salita e la cassa aveva un peso impossibile perchè la nonna era una donna alta e corpulenta benché mangiasse poco, me lo ricordo ancora. La portammo in quattro, ma io ero più alto rispetto agli altri tre e, reggendola da dietro, sulla spalla sinistra, avevo su di me la maggior parte del peso. Emilio, un mio amico, a un certo punto, vedendomi in difficoltà, mi dette il cambio.
Ho un lugubre ricordo di quell’Hodie mihi, cras tibi ricamato, a enormi lettere nere bordate d’oro, sul drappo che copriva la cassa deposta sul catafalco e mi provocò un effetto deleterio quel Dies Irae intonato nel coro degli uomini, dietro all’altare, dalla voce cavernosa di Pilade, bravissima persona che però sembrava uscire da un girone dantesco: lui e la sua voce.
La morte è già di per sé una cosa triste e non vedo perché la si debba rendere ancora più tetra.
Ben diverso fu il funerale che ebbe mio padre a Genova: il carro funebre che trasportava il suo feretro correva davanti a diverse macchine e, ad un semaforo, ò col giallo, mentre noi e il seguito dovemmo fermarci perché era scattato il rosso.
Più che un funerale, fu un inseguimento per riagganciarci al corteo e, se dentro a quella cassa non ci si fosse trovato mio padre, mi sarebbe venuto anche da ridere.
Quando morì il secondo marito di mia madre invece la cosa fu meno funerea.
Vennero a Riolunato, dove era deceduto in seguito ad una crisi cardiaca, una ventina tra colleghi ed operai dell’impresa edile del cantiere di Torino di cui era contabile, quasi tutti piemontesi e mia madre, dopo la cerimonia religiosa, li pregò di rimanere con noi a pranzo.
Era il minimo che potesse fare per ricambiare la gentilezza d’animo avuta nei confronti dell’estinto.
Aveva sistemato, nella cucina grande, tanti tavolini in fila, uno accanto all’altro, in modo da creare un’unica tavolata e aveva cucinato in abbondanza sapendo che gli operai, in genere, sono di buon appetito. E’ risaputo, tra l’altro, fin dai tempi antichi, che il cibo è un potente antidoto capace di alleviare ansia e dolore.
Alla fine del pranzo recitammo tutti assieme un mezzo Rosario e tutto filò liscio, ma suonò alla porta un tale, non ricordo chi fosse di preciso e quando fu entrato chiese cosa stessimo festeggiando! Sulla tavola erano allineate ventisei bottiglie di Lambrusco: vuote!
Meno male che seduta a tavola con noi c’era anche suor Pierina, sorella del defunto.
Sono gli equivoci della vita che spesso danno ossigeno alle male lingue!
Il più bel funerale ch’io ricordi, bello si fa per dire, fu quello riservato al comandante del mio manipolo quando ero balilla. Era morto in una esercitazione e la cerimonia fu in veste ufficiale. Il nero dominava non tanto per il lutto, quanto per il colore delle camice.
Eravamo inquadrati sull’attenti quando comparve la bara sul piazzale della Chiesa. Un cadetto, dopo alcuni fatidici squilli di tromba, ruppe il silenzio ordinando il presentat arm e urlò: “Camerata Pinco Pallino,” non ne ricordo più il nome e tutti, con voce stentorea, virile, risposero in coro: “Presente” e chi non era armato di moschetto alzò il braccio nel saluto fascista. Io fui pervaso da un brivido di emozione che mi fece venir freddo lungo la schiena e tra me pensai come fe ad essere presente se era morto!
“Noi ne suppliamo l’assenza rispondendo in sua vece,” mi spiegò il capo squadra con fare saputo, ma intanto lui non c’era più.
In chiesa di preti a celebrare la Messa per il defunto ce n’erano quattro e le preghiere non finivano mai.
Non credo che tutte queste manifestazioni abbiano un senso di fronte a Dio e sono anche convinto che le funzioni in suffragio per le anime dei morti non abbiano molto valore, forse
valgono per i parenti che, così facendo, pensano di tener buone le anime dei congiunti scomparsi e di farsi perdonare eventuali colpe nei loro confronti oppure, addirittura, per far sapere alla gente che il loro parente defunto non l’hanno dimenticato.
Non è possibile che l’anima di un peccatore ricco, cui gli eredi fanno celebrare una Messa tutti i giorni, vada in Paradiso prima di quella di un povero Cristo che di sante Messe nessuno gliene fa mai dire!
Noi italiani abbiamo comunque il vizio delle raccomandazioni. Anche per i morti!
Alla mia mente affiorano sempre molti ricordi e, mentre ne racconto uno, me ne viene in mente un altro: cose ovvie vissute un po’ da tutti.
Mi ci perdo spesso e a cicli le stesse mi ritornano diverse nella forma, ma uguali nella sostanza, anche se col mio giudizio mutato. Ma in fin dei conti la vita è piena di avvenimenti scontati, di tutti i giorni, comuni a tante persone, magari non a chi vive continuamente nelle nuvole. La vita di per sé è ripetitiva e ovvia. O siamo noi ovvi! E molte buone parole ascoltate con sopportazione sono ovvie solo perché l’abbiamo sentite ripetere mille volte e, così definendole, non abbiamo mai considerato l’importanza del loro contenuto.
Ti viene da rifletterci in un resoconto che può essere giornaliero nel momento in cui il frastuono della giornata lascia il posto a un po’ di silenzio, quando la corsa ha un momento di sosta e, prima di spegnere la luce dell’abatjour sul comodino, rimani sveglio con gli occhi aperti e mille pensieri ti si affollano nel cervello, preoccupazioni, insoddisfazioni, fantasmi che poi svaniscono al mattino, ma che di notte s’ingigantiscono e a volte non ti fanno prendere sonno. E allora ti può capitare anche di accorgerti che faresti bene a far ritinteggiare il soffitto che stai fissando.
Ti capita?
Consolati, succede a tutti, ma il tempo è galantuomo, strada facendo si aggiusta la soma e tanti problemi, con calma, si risolvono anche da soli.
Ma la vita cosa sarebbe senza problemi! Una cosa troppo ovvia, tutto è scontato: si nasce, si vive, ci si ammala, si muore, lo sappiamo da quando nasciamo anche se facciamo di tutto per non pensarci. Anche gli animali, le piante, perfino le pietre hanno una vita più o meno limitata.
Ci diamo da fare per vivere al meglio, ognuno a modo proprio, anche il barbone cerca il marciapiede più sicuro e sceglie, per appoggiare la testa, lo scalino meno scomodo, lui che ha dato un calcio a tutti gli assilli e, senza volerlo, se ne è creato altri maggiori.
V
Con i miei vecchi amici mi ritrovavo quasi sempre in montagna per le vacanze, dove avevamo la casa: molti ricordi ci tenevano legati al paese e continuò così anche quando, più adulti, chi prima chi dopo, incominciammo a lavorare.
La famiglia di Paolo si era stabilita a Modena.
I suoi finanziariamente non se la cavavano male; niente di trascendentale, ma avevano un mutuo e si erano comprati quattro vani più servizi, al quinto piano di una strada abbastanza centrale. L’unico difetto dell’appartamento era che il palazzo non disponeva di ascensore, ma l’incaricato dell’agenzia aveva loro assicurato che, in seguito, l’avrebbero installato e comunque erano giovani e le scale non rappresentavano un problema.
Il padre, muratore, durante le feste e appena riusciva a ritagliarsi un po’di tempo libero, si dedicava alla ristrutturazione dell’appartamento che, a ragion veduta, risparmiando sul prezzo, avevano acquistato con diversi lavori da ultimare.
La madre non era molto simpatica! Un tipo laconico, mai che si fosse persa a scambiare una parola in più del necessario o a dispensare un sorriso, sembrava covare rancore verso il mondo. Il suo matrimonio era stato contrastato dai genitori non per classismo, non per i segni del duro lavoro che le mani di lui portavano, ma perché in famiglia, erano tutti laureati e temevano per il divario culturale e la diversa estrazione sociale. L'aveva conosciuto ad una gara di ballo liscio nelle vacanze estive e le era bastato frequentarlo durante le prove per innamorarsene. I suoi non riuscirono mai a capire quell'unione ma lei era orgogliosa della sua scelta e aveva fatto di testa sua. In breve tempo le fatiche avevano segnato il fisico di lui che non era più il bell’uomo di un tempo e non
gli erano rimaste neppure grandi speranze.
“Un uomo d'oro” lo definivano tutti.
Per recarsi al lavoro usciva di casa vestito come un impiegato di concetto, giacca, cravatta e calzoni con la piega. In una cartella portava gli abiti per cambiarsi perché non sopportava l'idea che la moglie potesse subire una qualsiasi umiliazione nei confronti delle sue vecchie amiche , ciò nonostante, come previsto, pian piano, perse tutti i contatti di un tempo, i vecchi amici vivevano chiusi nel loro ambiente scambiandosi visite, ritrovandosi a feste, a teatro o nei luoghi di villeggiatura. Coloro che per caso incontrava andando per commissioni o a far la spesa, le dispensavano larghi sorrisi, andavano a ritroso nel tempo col ricordo dei loro trascorsi durante quei pochi minuti che sostavano con lei, ma da loro non riceveva mai un invito.
Paolo invece frequentava le case di tutti e questo le dava soddisfazione, la inorgogliva.
Bisogna anche dire che in lei era nata una forma di complesso d’inferiorità che l’aveva costretta a chiudersi in se stessa assumendo quasi un’aria di disprezzo verso il prossimo come se volesse dimostrare che star sola era una sua scelta, che la gente non le piaceva, che si sentiva superiore e forse lo era davvero, ma tutto questo la rendeva antipatica a pelle, istintivamente, appena la vedevi. Era poco simpatico anche il suo cane, un volpino bianco e nero che, nell’insieme dell’espressione, le assomigliava e stava sempre a bocca aperta come se ridesse, ma con gli occhi sprizzava rabbia e camminava nervosamente con fare stizzito. Se fosse stato di taglia maggiore, avrebbe avuto il coraggio di mordere qualcuno. Abbaiava a intermittenza, ma continuamente e si quietava solo quando si leccava il didietro o il davanti con gli occhi semichiusi.
Dopo le scuole medie, Paolo s’intende, non il cane, l’avevano iscritto a ragioneria. Non gli andava tanto secondo i suoi convincimenti, ma geometra non ci si vedeva e neppure maestro e, d’altra parte, all’università non avrebbe avuto modo di mantenersi e comunque fin da ragazzino gli avevano dato del ragioniere per quel suo meticoloso prendere nota con precisione e pazienza certosina delle spese, senza mai farsi sfuggire neppure una virgola e ricordarsi tutte le scadenze delle bollette di casa. Mi ricordo le risate che si facevano i suoi vedendolo annotare sotto la voce uscite quanto aveva speso per le caramelle e sotto le entrate: le caramelle!
Non aveva grandi aspirazioni carrieristiche, però nell’ufficio dove, dopo poco che si era diplomato, aveva trovato lavoro, non so come avesse fatto, ebbe la botta di fortuna di far innamorare una collega che diventò sua moglie, ragazza, oltre che bella, molto brava e piena di iniziative.
Era stata lei a sposare lui.
Da ragazzo con le donne non ci aveva mai saputo fare, tra l’altro gli capitava sempre di incocciare in tipi che preferivano l’uomo audace, che non chiede e lui era tutto il contrario e siccome ci raccontava le sue esperienze, lo prendevamo per i fondelli.
Povero Paolo!
Era tutto per benino, non allungava mai le mani, alle ragazze gliela chiedeva verbalmente, come se avesse chiesto mille lire in prestito e si sentiva sempre rispondere di no, anzi una volta, mentre ballava, prese anche una sberla. Meno male per lui che erano ancora aperte le case chiuse. Quelle le conosceva tutte.
D’inverno, con gli amici più stretti, andava a tirar tardi, facendo propaganda politica, in un casino ben riscaldato dove una scopata costava cinquecento lire. Lui pagava la doppia che non significava che scoe due volte: faceva solo le cose con meno fretta, tirandosi su le braghe in camera anziché per le scale! Quando la madama lo vedeva entrare si metteva le mani nei capelli. Creava casino nel casino. Trovava sempre da attaccare briga con qualche comunista e discuteva animatamente. La tenutaria con forte accento emiliano li apostrofava: “Andate bene a far politica da qualche altra parte!” E faceva finta di mandare via tutti. “Andate ben via che si chiude, razza di smidollati” e spegneva le luci che riaccendeva poi subito, tanto non usciva nessuno.
Aveva una ione per una ferrarese molto richiesta, e si arrovellava l’anima mentre aspettava che fosse libera. Si era messo in testa di redimerla, anche se lei non ne voleva sapere di essere redenta.
Quando si sposò fu sdoganato in una dimensione diversa e meno male!
Al suo matrimonio c’eravamo in tanti. Dopo la cerimonia e il pranzo, li accompagnammo in stazione perché, in viaggio di nozze, andarono in treno, erano tempi diversi e quando si affacciarono al finestrino dello scompartimento per salutarci, issammo un cartello su di un manico di scopa con la scritta: “Finalmente gratis!”
In poco tempo si misero in proprio e aprirono un ufficio di consulenze fiscali: paghe, contributi, dichiarazioni dei redditi, conciliazioni e la burocrazia che si era creata attorno ai palazzi delle imposte, dette loro una mano a sviluppare un enorme giro di lavoro per cui dovettero assumere diversi dipendenti.
I genitori di Renzino erano di bell’aspetto, di alta statura, non ricchi, semplicemente dei veri signori, non facevano eleganza, vestivano decorosamente
e sobriamente , molto attenti però all’abbinamento dei colori. Si distinguevano per il timbro della voce, il modo di incedere, di porgersi, di gesticolare.
Non mi capitò mai, neppure arrivando a casa loro senza preavviso, di trovarli in disordine, lei spettinata o lui con la barba non rasata o i calzoni senza piega. Mi chiedevo come fero ad essere sempre così a posto.
Suo padre, il signor Ernesto, che era ingegnere e prima della guerra, lavorava in ferrovia, nel taschino del gilet portava una cipolla, come la chiamava lui, un orologio d’oro a doppia cassa, con il carillon, glielo avevano regalato i colleghi di Bologna quando era stato promosso capo stazione.
Ce ne faceva ascoltare il suono e, per noi, era strabiliante che da un orologio uscisse quella melodia.
Conversava pacatamente per metterci a nostro agio, ci trattava come persone adulte per cui ci sentivamo importanti. Era sua convinzione che noi ragazzi, ancor più degli adulti, fossimo in grado di esprimere grandi personalità in quanto non ancora totalmente condizionati dagli insegnamenti e dall’ambiente esterno e che, seguendo le nostre buone inclinazioni, avremmo potuto diventare famosi.
“Signor Ernesto,” obiettò un giorno Andrea “diversi di noi non hanno possibilità finanziarie per essere seguiti e frequentare determinate scuole”. E lui con una battuta scherzosa: “Anche Dante, se non avesse avuto carta e inchiostro, non avrebbe potuto scrivere la Divina Commedia!” Comunque tutti i ragazzi per lui erano già persone degne di considerazione a prescindere dal sesso, dal colore della pelle, dalle appartenenze religiose e sostenere una simile tesi a quei tempi, capisco che fosse indice di grande apertura mentale.
Non assumeva mai posizioni estreme, col tono di chi enuncia verità assolute, non amava la discussione e in ogni argomento lasciava un margine di dubbio per cui all’interlocutore rimaneva la possibilità di sostenere, con dignità, la propria opinione e, quando riportava una notizia, infiorava le sue frasi inframmezzandole con parole del tipo: forse, anche, può darsi, non per insicurezza, anzi, troppo sicuro di quel che diceva, lasciava appigli per non trovarsi mai in posizione totalmente antitetica, il che l’avrebbe reso poco simpatico come quelli che hanno sempre ragione. Era uno di quei gentiluomini che, quando hanno la certezza documentata di come stia una faccenda, non scommettono perché riterrebbero disonesto il farlo.
Il figlio era molto diverso da lui specie nel linguaggio. Volentieri gli uscivano dalla bocca parolacce e aveva modi che poco si addicevano ad un signorino come l’avrebbe voluto suo padre che lo redarguiva, sempre però senza alzare la voce.
Tra me ed il papà di Renzo c’era una simpatia reciproca e parlava con me come ad un coetaneo. Mi intratteneva ore a raccontarmi curiosità ed esperienze vissute, forse per parlare con qualcuno e perché nella forzata inoperosità, non gli ava mai il tempo. Mi spiegò che il movimento della terra, dei satelliti, degli astri, del mondo gira tutto nello stesso verso. Immaginando i punti cardinali proiettati su un piano ortogonale, il moto è sempre destrorso e, con questo stesso movimento, si svolge il ricambio del mare nel Mediterraneo.
Non me l’ero mai chiesto.
La massa d’acqua che entra dallo stretto di Gibilterra non s’infrange contro le sponde della Spagna, ma si dirige verso le coste nordafricane, poi continuando il suo corso, verso la Turchia, la Grecia, in parte, risalendo lungo lo stivale, s’introduce nell’Adriatico, a attraverso lo stretto di Messina e lambisce tutte le coste italiane poi la Francia e la Spagna e ritorna nell’Atlantico in superficie perché si è riscaldata attraversando il Mediterraneo. Il canale di Suez non ha
influenza sul ricambio del mare essendo a comparti chiusi per via del dislivello da colmare. Lo stesso movimento seguono i pesci, i delfini e le balene.
Vedendomi incredulo mi invitò a provare in una vasca piena d’acqua. Togliendo di colpo il tappo si formò un gorgo col movimento descritto, provai, con una mano, a cambiarne il senso della rotazione, ma dopo un momento mi accorsi che era tornato come prima.
Era un bolognese che amava la vita di mare e conosceva tante curiosità inerenti la pesca, le navi, i porti e ne parlava volentieri con me e Davide che venivamo dalla Liguria.
Prima della guerra, durante le ferie, si univa ai pescatori di una cooperativa che, con la barca a motore, prendevano il largo e una volta nel golfo di La Spezia, presso l’isola Palmaria, vide col binocolo, che poco distante l’acqua ribolliva. Decisero di avvicinarcisi pensando alla presenza di un branco di pesci e, a poco a poco che si avvicinavano, il movimento aumentava dando la sensazione che fossero grossi tonni. Poi ad un tratto davanti ai loro occhi, non più distante di cento metri, incominciò ad affiorare, grondante d’acqua, una massa scura che diventava sempre più grande. Temettero la presenza di una balena che non è aggressiva, ma per la mole stessa, con una semplice codata, avrebbe rovesciato la loro imbarcazione. Presi da timore, virarono di bordo e alle loro spalle videro emergere un sommergibile.
Erano finiti nelle acque riservate alle esercitazioni della Marina Militare.
Per nulla al mondo avrei desiderato genitori diversi dai miei, ma l’ingegner Ernesto mi era molto simpatico.
Il nonno, molto anziano, abitava con loro e, quando andavo a trovarli, si metteva subito in dozzina e prendeva parte alla conversazione, facendo in modo che il discorso cadesse sugli argomenti a lui cari: la guerra e le battaglie che aveva combattuto al comando del suo reggimento di Cavalleria. Era un colonnello in pensione e aveva partecipato alla prima guerra mondiale, quella iniziata il ventiquattro Maggio del millenovecentoquindici, come dice la canzone del Piave. Mio padre, che a combattere c’era andato volontario, commuovendosi, ricordava che mentre marciavano per raggiungere la frontiera, cantavano: “Il ventinove Maggio, quando al sol matura il grano, è nata una bambina con una rosa in mano.” E andavano incontro alla morte, portando nel cuore un’enorme tenerezza per una bimba che forse non avrebbero mai più vista!
Durante il racconto, il colonnello s’infervorava, si esaltava a quei ricordi e si alzava in piedi tutto rosso in faccia. “Stai calmo papà! Lo sai che ti sale la pressione e poi sono dolori.” Lo pregava la figlia, ma lui non sapeva controllarsi.
Una sera mi stava rievocando una carica a cavallo che aveva guidato contro gli austriaci al grido di “Avanti Savoia” e, preso dall’entusiasmo, si alzò di scatto e, nello sforzo per tirarsi su dal divano, veramente troppo basso per lui, gli scappò una scoreggia talmente rumorosa e prolungata per cui pensai che si fosse cagato addosso e che, se gli fosse successo durante la carica, gli austriaci si sarebbero arresi subito.
Finite le ostilità anche loro si erano trasferiti in città, non più a Bologna, da dove erano sfollati e avevano perso la casa, ma a Modena dove l’ingegnere aveva ottenuto nuovamente un posto importante in ferrovia.
Renzo lo avevano iscritto come interno nel nobile collegio convitto San Carlo dove indossava una divisa di panno scuro, con il berretto a visiera e sembrava un piccolo ufficiale di carriera.
Mia madre diceva che le faceva pena e che, così vestito, assomigliava a uno di quei poveri orfanelli che sono ospitati negli istituti appositi.
Non ci stava volentieri, ma ce lo fecero rimanere tre anni, un po’con le buone e anche con le cattive, il tempo di apprendere, oltre alle materie scolastiche, le belle maniere e quel modo di fare che ti distingue nella vita sociale.
Paolo andava spesso a trovarlo nelle ore di visita e ciò faceva piacere ai genitori di Renzo che avevano molta stima del suo papà muratore anche se non si peritarono mai di invitarlo in una qualsiasi occasione, ma erano felici che l’amicizia col figlio continuasse nel tempo. Gli erano affettuosamente vicini e certi che avrebbe fatto strada.
Renzo si laureò poi in ingegneria civile e diventò uno stimato professionista e di lavoro ne ebbe sempre molto. Con la ripresa dell’edilizia il cemento dilagò per anni, anche troppo.
VI
Aldo, più vecchio di noi di due anni, era il più matto della compagnia, viveva sempre sopra le righe e, con scherzosa ironia, prendeva tutte le cose, anche le più importanti, in ridere, continuamente di fretta, in movimento come se la terra gli scape sotto ai piedi, alla ricerca di qualcosa che non trovava mai. Forse neppure lui sapeva cosa andasse cercando.
La sua famiglia non aveva le possibilità economiche di trasferire in città baracca e burattini, per questo motivo, dolente e nolente, era dovuto andare a studiare in Seminario che, dopo le elementari, era l’unica scuola esistente nei dintorni, dove, tra l’altro, le spese erano contenute rispetto ad altri enti scolastici, ma era obbligato a fingere di avere la vocazione a farsi prete, partecipare a tutti gli impegni giornalieri di culto e preghiera che erano veramente molti e presentarsi poi agli esami presso istituti legalizzati o parificati, perché il Seminario non aveva il riconoscimento del Ministero della Pubblica Istruzione.
Era dura per lui!
Non sopportava la disciplina e non aveva assolutamente intenzione di diventare sacerdote, anzi, quando vedeva are un religioso, pur con tutto il rispetto dovuto ai ministri di Dio, senza farsene accorgere, faceva gli scongiuri.
Era proprio allergico all’incenso, all’acqua benedetta e, per altro verso, ai canti gregoriani espressi da quelle voci stereotipate, quasi sempre un po’ nasali.
A sedici anni già si radeva la barba, ma era ancora in quarta ginnasio.
Una bella mattina l’assistente, recandosi nella camerata, al momento di dare la sveglia, accese le luci, battè le mani e, mentre iniziava le preghiere del mattino, notò che Aldo non si alzava.
Preoccupato che non si sentisse bene, si avvicinò e gli scrollò il letto senza avere risposta; allora alzò le lenzuola e scoprì che sotto non c’era lui, ma un cuscino con una coperta arrotolata.
Era scappato.
Erano evidenti le orme dei suoi scarponi chiodati stampigliate nella neve fresca caduta in nottata. Era salito sul muro di cinta con l’aiuto di una scala ed era saltato giù, la neve gli aveva attutito la caduta sul marciapiede che correva lungo tutta la recinzione poi, atteso il aggio della corriera, era tornato a casa.
A nulla valsero le suppliche di suo padre e di sua madre, le raccomandazioni, le promesse di premi a fine anno: in quel posto non ci avrebbe rimesso piede per tutto l’oro del mondo, ma non poteva neppure permettersi di perdere altro tempo. Era già rimasto indietro di almeno un anno con la scuola.
L’anno seguente lo iscrissero all’istituto tecnico per geometri e andò a studiare a Pavullo dove gli erano concesse due ore di libera uscita tutti i giorni e l’intero pomeriggio nei giorni di festa. I frati Cappuccini avevano aperto un convitto con annesso istituto scolastico e, per quanto mi era dato di sapere dalla sua corrispondenza e dai risultati di fine anno, non si comportò davvero male.
Mi scriveva che, di domenica, andava a ballare con la giovanissima professoressa di disegno che aveva un debole per lui.
Diversi anni dopo, lo incontrai a Genova.
Non mi aveva informato della sua presenza in città e bonariamente lo rimproverai, ma penso che avrebbe preferito non avermi incontrato: aveva un banco da cocomeraio in via dei Mille e comunque mi fece un sacco di feste.
Io fui tanto felice di aver visto quel mio caro amico, un po’ strano, ma di una simpatia unica che ti metteva addosso la gioia di vivere, di ridere, di vedere la vita da un’angolazione un po’ diversa dalla solita. Anche in occasione di quel nostro incontro, dette un saggio della sua estrosità. Voleva per forza offrirmi un aperitivo, ma non sapeva a chi affidare il chiosco per il tempo di andare al bar.
Fermò un tipo sbucato da via Tabarca, che sembrava appena uscito dalla galera, malconcio, barba non rasata, orecchino al lobo sinistro e, senza tanti salamelecchi, gli disse: “Senti, tu mi sembri una brava persona.
Vero che sei una brava persona?
Ti chiedo un favore! Mi guardi il banco per un quarto d’ora? Devo assolutamente assentarmi.”
“No problem, sciù bacàn!” Sciù bacàn in genovese vuol dire signor padrone. Così gli rispose quel tale ed io mi tastai per vedere se c’ero o se stavo sognando,
ma strada facendo, mi spiegò che si fidava di quel tipo di disoccupato volontario tuttofare, come l’aveva classificato, per due motivi: in primo luogo i cocomeri erano molto pesanti e scomodi da portare e chi non ha molta voglia di lavorare non va a rubar cocomeri, per cui, al massimo, gliene poteva fregare uno per suo uso e consumo! Inoltre spesso se a certi diseredati dalla vita, dai fiducia e un po’ d’importanza, si comportano meglio di altri che si presentano in miglior maniera.
Non era cambiato per niente.
Quando tornammo era lì che intratteneva i anti mostrando una vipera tatuata in verde sull' avambraccio destro. La muoveva facendo il muscolo aprendo e chiudendo il pugno. Gli regalò un melone e il tizio si allontanò ripromettendosi di tornare il giorno dopo a vedere se aveva bisogno di lui.
La stagione a vendere cucurbitacee gli rendeva bene. Gli servivano soldi per raggiungere un signore in Israele che gli aveva prospettato grossi affari in società. Di quello sapeva praticamente solo che era ebreo, ma così a pelle gli era rimasto simpatico e lui andava molto a istinto. Era nel suo temperamento accettare l’imprevisto e la sfida verso la vita.
Il diploma che aveva conseguito non gli serviva, preferiva trafficare e ci sapeva fare da commerciante nato.
I cocomeri li pagava, all’epoca, circa cinque lire al chilo e li vendeva a centocinquanta a fetta. In un cocomero di fette ce ne faceva uscire anche più di dodici il che voleva dire che guadagnava sul prodotto il quattrocentocinquanta per cento!
A chi si lamentava che le fette erano piccole e care, assicurava che i prezzi erano andati alle stelle per colpa della scarsa produzione in seguito alla siccità dell’annata. In effetti non pioveva mai!
Con quell’uomo d’affari voleva farsi are per ebreo: tale gli aveva detto di essere, sapendo che, preferibilmente, trafficano tra loro e si sposano anche tra loro, incuranti del fatto che finiscono per ghettizzarsi, ma non sembra che desiderino poi tanto integrarsi nei paesi in cui vivono. La loro patria è sempre Israele, anche se anagraficamente appartenenti fin da prima della nascita, ad altre nazioni.
A questo scopo aveva studiato le sacre scritture, si era informato sul significato del pane azzimo, dei boccoli lasciati crescere sulle tempie dagli ebrei più osservanti, della cena che si celebra le prime due sere della Pasqua ebraica, del bagno rituale, aveva imparato a salutare dicendo: sholom aleichem e a rispondere alek hem shalom e tante altre nozioni poi, non contento, si era recato in un ambulatorio a Bologna e si era fatto tagliare il frenulo e tutta la pelle attorno al glande, insomma si era fatto circoncidere e, in seguito a quella operazione, diceva di essere sempre scappellato e più pronto che mai e sosteneva che la circoncisione rendeva meno possibili le malattie veneree.
“Cos’hai paura che quello ti guardi l’uccello? Non sarà mica un maniaco!” Gli dissi scherzando e lui di rimando: “Sai non si può mai sapere; magari ci fermiamo in un autogrill e andiamo a pisciare in quegli orinatoi che sono in fila uno accanto all’altro e, anche senza volere, con la coda dell’occhio, potrebbe vedermelo ed accorgersi che non sono ebreo.”
Erano trascorsi alcuni anni quando seppi da comuni amici che, dopo essersi portato in medio oriente, dietro direttive e per conto di un uomo d’affari di Gerusalemme, aveva abitato per un periodo in Brasile dove aveva guadagnato soldi a palate e tornato in Italia si era comprato un esteso appezzamento di terreno in provincia di Reggio Emilia realizzandoci un campo da golf a diciotto
buche con annessi albergo a quattro stelle e ristorante molto qualificato.
In provincia di Modena possedeva un palazzotto di tre piani, lui abitava quello nobile, ma non ci viveva tranquillo perché a San Paolo non si era comportato molto bene e aveva dovuto tagliare la corda. I soci in affari si erano ripromessi di fargliela pagare.
Lo rintracciai e ai a salutarlo. A mezzogiorno era ancora assonnato, ma stava bene.
Dal Brasile aveva condotto con se una bella figliola, la pelle color bronzo, capelli lunghi lucidi e ondulati, una fila di denti bianchissimi. Discendeva da un’antica famiglia di indios del rio delle Amazzoni, cacciatori di teste, di quelli che ai nemici, dopo avergliele tagliate, le teste, gliele mummificavano, anzi le incartapecorivano dopo averle disossate e miniaturizzate riducendole a circa un quarto del loro volume senza cambiarne i connotati e così, terrificanti ed inquietanti, le infilzavano poi in cima ad un palo come quelle piccole zucche che in Toscana usano da decorazione sulle mensole dei camini o sulle cappe nelle vecchie cucine con i fornelli a carbonella.
Quali trofei di guerra stavano lì a dissuadere chi si fosse avvicinato con cattive intenzioni.
Iraseima, dopo una bella nuotata nella piscina condominiale, si era seduta vicino a me tutta sorridente e non faceva che farmi domande in un italiano inframmezzato da parole che, per la cadenza, mi ricordavano il dialetto genovese.
Preparò un aperitivo ghiacciato e parecchio alcolico, poi Aldo propose di raggiungere una trattoria che conosceva sulla riva del Panaro dove, sotto ad un pergolato di uva fragola, pranzammo divinamente bene innaffiando il cibo con un ottimo graspa rossa di produzione della casa che non aveva nulla da invidiare al Lambrusco di Castelvetro.
La ragazza, mentre lui si docciava, per non lasciarmi solo, mi condusse in camera sua, mi fece accomodare in una agrippina ai piedi del letto e, mentre continuava a parlare, si spostò di alcuni metri pregandomi di non guardare. Senza complessi, si tolse accappatoio e costume e finì di farsi toilette.
Io fingevo indifferenza per sembrare di mentalità moderna, ma era una bella figliola dalle misure piuttosto abbondanti e, pur non volendo travisare la sua forma di confidenza, forse naturale per lei di un paese diverso, mi sentivo molto imbarazzato. Ero amico del suo fidanzato e perciò anche suo, ma non mi aveva mai visto e tutta quella confidenza mi sembrava eccessiva.
Forse le mie erano elucubrazioni erotiche: ero io il diavolo e lei, non proprio l’acqua santa ma, nella sua spontaneità, magari era migliore di me.
E a volte ti formi un giudizio su ragazze con minigonne vertiginose e scollature che, a mala pena, coprono i capezzoli, che poi ti accorgi che sono migliori di altre che vedi circolare coperte come mussulmane e ne fanno di cotte e di crude, peggio di quelle che si prostituiscono perché ci sono costrette e siccome non sanno dove battere la testa, battono per strada.
Iraseima, mentre mi enumerava le doti di Aldo, per la verità a me un po’ sconosciute, si piegò le ciglia con l’apposito apparecchietto, fece uno sputino di bianca saliva in una scatolina contenente una pasta nera, ci sfregò dentro un minuscolo spazzolino e se lo ò, dall’interno verso l’esterno, sulla parte
convessa delle lunghe ciglia, specchiandosi con attenzione.
Aveva molta cura dei suoi occhi da cerbiatto.
Restando girata di schiena, si allacciò un reggicalze color carne attorno ai fianchi e indossò reggiseno e mutandine di seta ricamata dello stesso colore. Io, facendo lo gnorri, la vedevo di dietro e, riflessa nello specchio, davanti. Non so se ne fosse accorta, forse sì.
Non volevo continuare a fingere di non accorgermi di lei e obiettai che, con quel caldo, poteva fare a meno di infilarsi le calze.
“Una signora non va mai senza calze, neppure in Agosto,” mi precisò.
Stavo facendo la figura del cretino lì fermo e composto: la pressione mi era salita oltre il tollerabile e mi venne la tentazione di dimostrarle la mia virilità, ma mi trattenni per rispetto ad Aldo.
Nel frattempo aveva cambiato idea: si era sfilata il reggiseno e, tolta il reggicalze, aveva indossato un bustino beige che le ridusse la circonferenza in vita come fosse stata una vespa e le compresse il seno facendolo debordare verso l’alto. Senza sottoveste, s’infilò un fresco abitino con stampati disegni geometrici dai colori pastello chiaro, che ricordavano molto dei lecca-lecca alla menta, all’arancia, al tamarindo e salì su dei sandali Chanel dai tacchi di almeno dodici centimetri.
S’incamminò verso la veranda. La luce che filtrava dai vetri colorati le rese trasparente la gonna per la gioia di tutti quelli che si sarebbero girati vedendola per strada, ma si vede che ad Aldo andava bene.
Tornata sui suoi i si spruzzò abbondante profumo dietro alle orecchie, ai lati del seno e alla base del collo, un po’ troppo dolce per i miei gusti. Terminando di prepararsi mi disse: “Ti farei uno spogliarello, è la mia professione e sono molto brava, ma Aldo è molto geloso” e si avviò verso l’uscita divertita, come se si fosse raccontata una barzelletta. Ed io pensai: “Meno male che ride!” Ma lei era veramente innamorata tanto che aveva lasciato il suo paese e la famiglia per seguirlo in Italia.
Aldo ci raggiunse in giardino. Mi accorsi che era ingrassato e un po’ imborghesito. Notai la sua eleganza sportiva. Non si pettinava più all’indietro, si faceva la riga in mezzo e s'impomatava i capelli con brillantina solida.
Al ristorante ci servirono cibi un po’ grassi, ma gustosissimi e devo dire che con l’allegria di Iraseima, neppure i sassi sarebbero risultati pesanti, nonostante l’afa che a quell’ora ristagnava sul letto del fiume e tutto attorno tra le foglie immobili dei pioppi dove, nascoste, frinivano le cicale.
Verso la fine del pranzo, mentre lei si era assentata un attimo per recarsi al bagno, Aldo se ne uscì con una frase un po’ infelice che mi guastò l’atmosfera della bella giornata: “Se rimani a dormire te la puoi scopare. Non farti scrupoli tanto mi sono stancato di lei, ho un’altra nell’albergo di mia proprietà e Iraseima me la voglio scaricare.” Non so se corrispondesse a verità ciò che mi aveva detto o se volesse, per non smentirsi, dare conferma del suo spirito libertino di cui si era sempre vantato, comunque, la cosa non mi andava e trovai la scusa che dovevo rientrare a Genova in serata per non rimanere e me ne andai nel tardo pomeriggio.
Lei era dispiaciuta per la mia partenza. Mi fece tenerezza. Lui per contro, in un orecchio, mi fece una delle sue solite battute: “Non sarai mica diventato come quelli che non scopano per paura di sporcarsi?”
VII
La famiglia di Davide stava attraversando una difficile situazione: i suoi dopo la guerra avevano incontrato effettive difficoltà economiche e dovevano privarsi continuamente di cose che non fanno la felicità, ma aiutano molto a vivere.
Per far studiare i figli si erano trasferiti a Varazze, in provincia di Savona, dove avevano dei parenti alla lontana. La vita lì era più cara che nel paese in montagna e, per giunta, avevano l’affitto da pagare.
Denari in casa ne entravano pochi e senza soldi non puoi fare progetti, non hai prospettive e anche se due si vogliono bene, a un certo punto è inevitabile che incomincino i malumori e anche piccoli screzi.
I suoi genitori discutevano spesso e lui ne soffriva.
La madre cuciva per conto di un negozio di abbigliamento: piccole riparazioni, allargava e stringeva gonne, faceva gli orli ai pantaloni e ogni tanto le capitava di confezionare qualche vestito per signora.
Era un lavoro che svolgeva in nero e non ci pagava tasse , ma il guadagno era poco perché allora tante signore possedevano la macchina per cucire: una Pfaff a pedale o una piccola Singer a manovella, la sapevano usare e tanti lavoretti, per risparmiare, se li facevano da sole.
Sulle sue spalle pesava anche l’andamento della casa: il marito non era tagliato
per dare una mano. Un aiuto glielo dava la figlia, ma data la sua giovane età, non sapeva fare molto e un gran tempo non l’aveva, impegnata com’era nello studio. Ambiva a quel pezzo di carta indispensabile per non doversi accontentare di un lavoro manuale.
Non era neppure di quelle che si prestavano per qualche lavoretto di poca importanza, a tempo perso, per guadagnare qualche lira per le sue spese spicciole benché le sarebbe piaciuto anche indossare degli abitini alla moda, cosa nella quale sua madre non era all’altezza di accontentarla pur cercando di ritagliare i modelli dalle riviste e si lamentava del tenore di vita che erano costretti a condurre.
Fisicamente aveva preso dal padre, di media statura e, nella realizzazione in chiave femminile, con occhi generosi, la si poteva vedere anche bella, così graziosamente minuta e proporzionata nelle forme.
Era dotata di carattere che in una persona vuol dire tanto! Quando voleva, sapeva rendersi accomodante e simpatica a prima vista, ripeto: quando voleva e, piena di vita, accettava gli scherzi dando confidenza quando e a chi le pareva.
Elena desiderava che le cose andassero nel verso giusto, cioè come le vedeva lei, convinta, in buona fede, di essere sempre dalla parte della ragione.
Era affettuosa specie col papà che ne andava orgoglioso, si sa come sono i padri nei confronti delle figlie e glielo si leggeva in viso quando ne parlava.
Di rimando l’affetto che provava per i suoi genitori glieli faceva apparire degli idoli. Avrebbe desiderato gratificarli e farsi apprezzare facendo qualcosa di
grande, di importante!
Le intenzioni, a volte, sono destinate a rimanere tali se vanno al di là delle proprie possibilità: Elena era molto intelligente, ma più di quel tanto non riusciva a realizzare per il suo sistema nervoso che la portava ad impegnare in modo non ortodosso le sue energie e perché non aveva impostato in maniera ottimale il suo iter studentesco, non si era creata solide basi col risultato che, da un po’di tempo, andava avanti a rincorse.
Sua aspirazione era iscriversi a chimica industriale e riuscire ad inventare dei fari fendi nebbia per le auto. Questi fari le lampeggiavano nella mente fin da bambina da quando accompagnava i suoi a far visita a uno zio in quel di Volpedo e suo padre spesso guidava senza neppure vedere il ciglio della strada , procedeva a o d’uomo, ma rischiavano continuamente di finire nei canali che fiancheggiavano le strade.
Gli antinebbia, nel suo progetto, dovevano funzionare emettendo dei raggi particolari che avrebbero fatto precipitare istantaneamente le micro gocce di umidità per una gittata di circa cento metri cosicché, procedendo ad una velocità limitata, il conducente avrebbe avuto davanti continuamente cento metri di ottima visibilità.
Depositato il brevetto, avrebbe ottenuto, tramite il ministero dei trasporti, un prestito agevolato per realizzare un grande stabilimento in un’area industriale della valle padana dove la nebbia è di casa e il suo brevetto sarebbe stato di grande applicazione.
Pensava di produrre i suoi fari, dare lavoro a tanti operai e fare enormi guadagni per la felicità sua, ma soprattutto dei genitori.
Quando ne parlava gli occhi verdastri le brillavano: vedeva già la gigantesca insegna luminosa splendere sul tetto a spicchi del capannone.
Non altrettanto chiaramente sapeva impostare la sua vita sentimentale, non aveva ancora trovato un’anima gemella, i ragazzi li pescava sempre fuori dal suo ambiente. Si fermava con tipi non adatti a lei che, come si suol dire, non avevano né arte né parte, nulla alle spalle e neppure belle speranze.
Ci aveva messo quasi due anni a capire che non andava la sua relazione con un savonese che al secondo anno di università era andato in officina ad aiutare il padre, ma dopo soli tre mesi, quel lavoro l’aveva già lasciato per fare l’agente di commercio per conto di una fabbrica di radiatori e condizionatori di Vicenza e il risultato era stato un buco nell’acqua.
Non tutti sono adatti a svolgere il lavoro del rappresentante come spesso erroneamente si crede. Occorre costanza, una certa dose di psicologia, presenza per lo meno simpatica, perfetta conoscenza dell’articolo e tanta voglia di darsi da fare a tutte le ore.
Non le era mancato un buon partito, un ragazzo di buona famiglia, senza problemi, con disponibilità finanziarie, anche bello, ma subito lo bollò figlio di papà che, per lei, voleva dire buono a nulla.
Aveva una vera idiosincrasia per chi possedeva due soldi in più e una bella macchina, attratta da chi si portava dietro storie difficili, situazioni famigliari strane, esperienze sbagliate, tribolazioni in genere. A questo tipo di ragazzi si apionava subito, ma penso che non provasse amore, forse un sentimento simile, solo una sorta di affetto, un po' più di ciò che si prova per il proprio cane.
Con l’anima di una missionaria laica, ce la metteva tutta per trasformare il prossimo e farlo ragionare e vivere come voleva lei, così si trovava continuamente in situazioni di contrasto psicologico a discutere con gente di impostazione morale, mentale, politica e religiosa, diametralmente opposta.
Non pensava minimamente a cambiare se stessa e questo, per un certo verso, era un bene perché almeno non rischiava di scendere lei ad un più basso livello, non riuscendo a far salire gli altri. Si trovava sovente a dover fare la triste constatazione di aver preso l’ennesima facciata, ma continuava a non ascoltare consigli da nessuno e ad opporre infinite argomentazioni infarcite di presunzione e polemica.
Suo padre, disoccupato da parecchi mesi, non si adattava a lavori che non fossero di suo completo gradimento, non si rendeva conto delle impellenti necessità della famiglia. Era una brava persona che però non riusciva a trovare un lavoro confacente alla sua personalità anche perché non riusciva a porsi nei confronti del prossimo in maniera simpatica. La sua mentalità all’antica era frutto del lavoro che, per anni, aveva svolto in qualità di brigadiere dei carabinieri.
Dopo l’otto Settembre 1943, quando le forze armate furono lasciate allo sbando, si era schierato dalla parte dei fascisti non tanto per ideologia: ci si era trovato e aveva aderito alla Repubblica Sociale Italiana.
Per questa sua scelta, a guerra finita, era stato radiato dall’arma in base ad un progetto di epurazione che aveva colpito anche negli impieghi civili ed amministrativi quasi tutti quelli che avevano optato per quella parte politica.
Nella costretta inoperosità dovuta alla disoccupazione, aveva messo su pancia e, nonostante i tanti anni trascorsi in alta Italia, non aveva perso la marcata pronuncia siciliana. Sarebbe andato volentieri ad abitare a Malano, come diceva lui e a Davide che lo pregava di sforzarsi di pronunciare correttamente le parole, rispondeva: “Che minchia vuoi!” Aveva il vizio di toccare le persone con cui parlava, non ce la faceva a non dare qualche colpetto di mano sulla guancia dell'interlocutore e, forse volutamente, non interpretava quasi mai per il verso giusto la gentilezza di alcune signore.
La testa quasi pelata, portava i segni di cicatrici che non si abbronzavano neppure con il sol leone, ricordi di quando da ragazzo, al suo paese, faceva a sassate con i coetanei.
I figli comunque gli volevano bene e ridevano volentieri alle barzellette un po’ spinte che ogni sera rincasando raccontava. Ne portava sempre delle nuove, ma non se ne ricordava mai bene il finale e s’incazzava perché non otteneva l’effetto voluto.
Per i discorsi che scambiava al bar, l’avevano soprannominato “comandante.” La moglie per tutti era la signora Margherita, ma la figlia e Davide erano individuati come “i figli del comandante” e questo li mandava in crisi.
In attesa di qualcosa di meglio, a forza di sentirsi dire, si decise ad accettare il posto vacante di guardia giurata a Savona e venne a percepire uno stipendio medio con ferie pagate, tredicesima mensilità, auto blindata con lampeggiatore e sirena sul tetto e una divisa blu notte che lo faceva sembrare un generale di corpo d’armata di un esercito inesistente.
Aveva le mostrine argentate, il berretto con la visiera lucida, una P 38 nella fondina e i gambali neri con le fibbie cromate laterali.
Avrebbe preferito gli stivali!
Davide non era felice quando incontrava suo padre così combinato, ma gli tornava meglio che saperlo a casa a discutere con sua mamma.
Per mantenersi all’università il mio amico si mise a lavorare da cameriere nell’orario serale.
A Varazze i ristoranti aperti anche in bassa stagione, si sprecavano. Imparò bene il mestiere, serviva ai tavoli e nel mentre, in cucina, carpiva segreti e ottime ricette. Diceva: “Impara l’arte e mettila da parte.”
Incominciarono così a tirare un respiro ed a permettersi una sera in pizzeria, un cinema e, ogni tanto, un fine settimana nelle vicinanze.
Acquistarono anche una Seicento a rate. La usava lui che era iscritto a legge a Genova e, quando ero in città, verso le tredici, lo vedevo arrivare nella trattoria dove sapeva che andavo io.
Mangiava qualcosa, seduto al mio tavolo, in fretta e furia parlando col boccone in bocca, mentre io stavo per finire.
Si era fatto un ragazzone di bell’aspetto, ben piantato, occhi scuri come il padre, ma fisico asciutto e alto come sua madre.
Quando c’incontravamo ci veniva sempre in mente il periodo trascorso spensierati in montagna e pensavamo ad una possibile data per una rimpatriata con gli amici reperibili: un ponte o un fine settimana, ma ultimamente parlavamo più di cose serie inerenti il nostro futuro, io del mio lavoro, lui dei suoi studi, per la verità mai con eccessivo entusiasmo.
Aveva preso legge, più che altro, per far felici i suoi.
Per loro avere il figlio maschio avvocato, rappresentava una rivalsa nei confronti della vita, un punto di orgoglio e pensavano già alla festa di laurea quando avrebbero invitati i parenti di Caltanissetta da parte di babbo e quelli, alla lontana, della bassa padana da parte di mamma. Il padre non escludeva neppure la possibilità che, una volta laureato, Davide diventasse magistrato o prefetto oppure entrasse in polizia e arrivasse ad essere questore che, ai suoi occhi, rappresentava il massimo della carriera.
Immaginavano l’invidia che avrebbe provato la zia Suntina, la vedevano già fare gli occhi, come suo solito, un po’schizzati fuori dalle orbite, come hanno quelli che soffrono di ipertiroidismo e la bocca impegnata in esclamazioni di stupore, con le labbra unite a “U” a culo di gallina, tutta scossa da numerosi ticchi, frutto del suo sistema nervoso e poi correre in bagno, per l’emozione avrebbe detto lei; per la rabbia avrebbero pensato loro!
Forse gli sarebbe risultata meglio adeguata una facoltà più consona al suo animo poetico, fantasioso e un po’ artistico. Adorava le poesie che recitava a memoria e stavamo tutti ad ascoltarlo nel massimo silenzio.
Allora a scuola si studiavano a memoria tante poesie.
Ne ricordo una imparata a mo’ di tarantella, girando attorno al tavolo di cucina: mia madre mi suggeriva mentre impastava la sfoglia sul tagliere e con un occhio seguiva il libro che finiva per infarinarsi, parlava del prode Anselmo partito per le crociate con la lancia in resta, con l’elmo sulla testa ed era arrivato ad un lago che invece, assaggiatolo con un dito, si accorse che era il mare e il sultano, come l’aveva visto arrivare, aveva mandato ad aguzzare un palo!
Un senso doveva averlo se la facevano studiare a scuola. Io non ce l’ho mai trovato!
Quella che maggiormente mi è rimasta nel cuore è “Davanti San Guido” che parla delle emozioni che provava il Carducci quando ava in treno davanti ai cipressi che l’avevano visto ragazzo e mi commuovo ancora ricordando il o in cui narra di sua nonna, che mi fa venire in mente la mia e al racconto dell’asino bigio che rosicchia un cardo e non si accorge del conflitto di sentimenti che il poeta prova e qui, a volte, un po’ ritrovo me stesso, non nell’asino: modestamente nello stato d'animo del poeta. Alcune poesie mi sono sempre state di grande, edificante aiuto e, con grande soddisfazione, a volte me le ripeto in solitudine mentalmente congratulandomi con me stesso per la memoria. E’ costruttivo confrontarsi con chi della vita ha una visione poetica.
Anche le filastrocche sono importanti.
Quando ti capita di ascoltarle ti riportano ai giorni in cui pensavi solo a giocare ed eri contento anche se, correndo, cadevi e ti sbucciavi un ginocchio e ti viene in mente com’eri stato felice quando ti regalarono quel piccolo carro armato di latta, con i cingoli di gomma che sputava scintille dal cannoncino e quei bellissimi soldatini di gesso e la penna stilografica madreperlata, col pennino d’oro e la pompetta da riempire d’inchiostro verde.
Essenziale sarebbe mantenere e coltivare in noi quel famoso fanciullino tanto caro al Pascoli, la divina poesia che tutti dovremmo avere nell’anima e forse abbiamo anche quando non ce ne accorgiamo.
È dentro di noi e da piccoli confonde la sua voce con la nostra.
Quando cresciamo, desideriamo cose diverse mentre lui rimane piccolo e conserva la sua antica meraviglia e mentre noi arrugginiamo la voce egli, ogni tanto, si fa sentire come a risvegliarci da ciò che ci tiene sempre occupati a perorare le cause della nostra vita e a badare a quell’angolo di anima dove lui risiede.
Il suo suono è semplice: è quello che ti fa avere paura del buio perché al buio vedi, o credi di vedere e, alla luce ti fa sognare, o credi di sognare, ricordando cose mai viste. Questo fanciullino che è in te, ti fa parlare ai sassi, agli animali, alle nuvole. È lui che popola le ombre di fantasmi, che ti fa piangere e ridere a volte senza un perché e ti rende tollerabili la troppa felicità e la sventura e ti fa sciogliere in lacrime e così ti salva nel dolore della perdita di una persona amata.
Per alcuni direi che si tratta di una dote naturale.
Quando acquistai una delle prime radioline portatili provai una gioia immensa, così come quando finalmente mi permisi un’auto di un certo prezzo con il condizionatore di serie. La prima volta che la guidai non faceva per niente caldo, ma il mio entusiasmo era tale e tanto, che tenni l’aria condizionata aperta per tutto il pomeriggio mentre gelavo dal freddo e, chiaramente, mi beccai un bel raffreddore, ma ero felice! Voi direte: un po’ infantile e anche poco furbo! Certamente, ma felice.
Determinati ricordi poi ti creano una sorta di nostalgia dolce e sognante per i posti che hai dovuto lasciare, ma l’anima dei luoghi la porti con te e non hai neppure bisogno di rivederne le foto.
È uno stato d’animo, un desiderio a volte intenso, altre nascosto, comunque sempre sereno e costruttivo. Poi subentra la razionalità che non sempre è nemica delle emozioni: certamente contrasta quelle negative.
Non bisognerebbe concedere eccessivo spazio alle emozioni, spesso occorre, anche a malincuore, imporre la razionalità.
Non sempre le cose si svolgono come vorremmo e, col are degli anni, si fanno più marcate quelle differenze che, da ragazzo, non ti davano alcun fastidio forse perché neppure le notavi. Sei portato a delle scelte.
Piero era un caro amico nel periodo in cui di sera frequentavo il bar sotto casa, quante ore ho perso attorno al tavolo del bigliardo a giocare a stecca e quante battute e allegre risate! Era diventato quasi un appuntamento fisso assieme ad altri amici che tifavano un po' per me e un po' per lui. Chi perdeva pagava da bere e il tempo. Avevo imparato a gessare molto bene in punta la stecca e a mantenermi calmo, ma lui era più forte, era una questione di geometria e io in geometria sono sempre stato scarso. Sono stato felice di vederlo, ma mi c'è voluto poco a cambiare idea, a capire che non era il caso che ci frequentassimo ancora, che non avevamo più niente in comune e mi sono chiesto come potessi essergli stato amico per tanto tempo.
Le nostre idee non collimavano su nessun argomento.
Non dico che per essere amici e frequentarsi sia necessario pensarla allo stesso modo, ma occorre almeno il rispetto delle convinzioni altrui, pur esprimendo le proprie magari con un po’ di tatto, diversamente si arriva ad un punto di scontro e di non ritorno per cui è inutile continuare una conversazione e, per conto mio, anche un’amicizia.
Ce l’aveva con tutti, ma in special modo con la religione, i credenti, Gesù Cristo e si esprimeva con un sorriso di sufficienza sulle labbra che mi infastidiva per l’ insofferenza che dimostrava verso le opinioni altrui.
Non sopporto l’ironia gratuita di chi mi si rivolge come se parlasse col privilegio esclusivo di possedere la verità assoluta.
Aveva un atteggiamento insolente.
Assolutamente convinto assertore delle teorie di Darwin, non ammetteva che potessi non concordare in tutto e per tutto sull’argomento che aveva forzatamente fatto entrare nella nostra conversazione. La creazione non esiste: tutto si basa esclusivamente sulla evoluzione della specie.
Bene! Mi son detto, ammettere l'evoluzione non significa negare la creazione e posso convenire che l’uomo provenga dalla scimmia e, guardando certi individui, mi viene proprio da pensarlo, non capisco, anzi, perché Darwin, per rendersi conto di quanto poi avrebbe affermato, sia andato fino alle isole Galapagos.
Ma se non sei in grado di darmi una convincente ed esauriente spiegazione che non ammetta dubbi, permettimi almeno di dissentire in qualche punto da questa teoria. La scimmia chi l’ha creata? Da chi è derivata? Tu pensa pure al caso, ma lasciami credere diversamente.
E se le scimmie si trasformarono in uomini, come mai ne esistono ancora e non continuano, almeno ogni tanto, in migliaia e milioni di anni, nella loro trasformazione!
Perché, pur ammettendo l’evoluzione della specie, vuoi per forza escludere che la stessa sia stata preordinata da una superiore forza creativa intelligente che chiamiamo Dio o che il momento di quel mutamento sia stato voluto o accompagnato da un afflato divino? Perché dovrei credere che la materia potenzialmente sia sempre esistita? E perché l’intelligenza dovrebbe essere il frutto della materia inanimata?
Anche politicamente mi ha dato molto fastidio che esponesse le sue idee a senso unico senza possibilità di alternativa e senza neppure preoccuparsi di come potessi pensarla io.
Lo ascoltavo abbastanza spazientito, mentre lui, come nulla fosse, mi ha voluto anche raccontare, con virile orgoglio, di aver lasciato la famiglia per mettersi con una molto più giovane di lui.
Quando mi sono permesso di chiedergli come pensasse di costruire qualcosa di buono sull’infelicità di sua moglie e delle due bambine, mi ha risposto che di vita ce n’è una sola e bisogna godersela.
Anche con Alberto non mi trovo più, ha mantenuto il modo di fare scanzonato di un tempo, fuori luogo alla nostra età. Mi ha visto al bar da Luigi, che non è molto, c’ero per un aperitivo mentre trattavo un affare con un cliente importante e ci sono rimasto male perché, appena entrato, dall’altro capo del bancone, mi ha salutato a voce alta come faceva quando avevamo diciotto anni: “Ciao pirla, che cazzo ci fai qui?!”
Fabio con quel chiodo fisso che ha per la politica, lo incontro, lo saluto, gli chiedo come sta e, come gli inglesi, senza rispondermi, chiede a sua volta a me come sto e non aspetta che glielo dica, intavola subito il discorso sulla politica. Parla a ruota libera e parla, parla e parla sempre dello stesso argomento come se fe un comizio. Una settimana fa ce l’aveva con un deputato sempre stato filopalestinese e, andando in visita a Israele, si era recato al muro del pianto con lo zucchetto in testa.
“È un diplomatico, Fabio, un arrivista e, in politica, se non fai così non arrivi da nessuna parte.” Volevo dirglielo, ma non mi ha lasciato parlare. Parlava sempre lui.
È diventato veramente pesante!
VIII
Con Davide invece sono sempre andato d’accordo e, in linea di massima, abbiamo sempre avuto identità di vedute. Solo in ato, in alcune occasioni mi ha lasciato perplesso il suo comportamento nei confronti di gente che non conosceva. Mi sono trovato anche a far finta di non conoscerlo e me ne vergogno e una volta ho dovuto trascinarlo via da una discussione che si era fatta troppo accesa.
Lo spirito di contraddizione, ereditato da sua madre, lo portava ad assumere posizioni diametralmente opposte agli interlocutori del momento. Trovava il modo, sempre in bella maniera e col dovuto garbo, d’introdursi nei discorsi degli altri sostenendo punti di vista provocatori tutto il contrario di ciò che pensava. In un simposio dove s’inneggiava all’amor di patria, sosteneva che era sbagliato nutrire quel sentimento, che per patria ognuno doveva intendere il posto dove viveva meglio con la sua famiglia, dove guadagnava di più e pagava meno tasse.
Se un tale si esprimeva positivamente nei confronti di chi si atteneva a principi morali e religiosi, secondo come gli girava, era capace di sostenere che erano tutte fandonie, che non aveva senso la fedeltà coniugale, che era bene non privarsi dei piaceri anche non leciti che la vita poteva offrire, che diversamente ci si ritrovava a vivere sotto una cappa opprimente, che la religione non doveva confondersi con la fede e che tutte le regole morali non erano altro che invenzioni imposte, create ad arte per tener buona e sottomessa la gente.
Si divertiva a saggiare le reazioni dei benpensanti e sondare fino a che punto le loro convinzioni erano salde e fondate. Non gli interessava tanto la realtà in cui si trovava, quanto quella in cui avrebbe voluto vivere comportandosi secondo le sue idee perché, anche se giuste, faticava ad accettare quelle degli altri.
Con un signore conosciuto al ristorante sostenne che era cosa lecita rubare ai ricchi perché la ricchezza è un furto e non può essere condannato chi ruba a chi ha rubato alla collettività, al che, quel tizio, sapendolo figlio di un carabiniere, disse che s’immaginava quanto dovesse essere rattristato suo padre con un figlio che la pensava in quel modo.
Poi, con una risata, in due parole, smontava tutta l’impalcatura del suo castello e si dichiarava d’accordo con le idee degli interlocutori.
Intanto si era laureato in giurisprudenza con centodieci e lode, nel tempo minimo previsto e subito si era dato da fare per trovare un posto per i due anni di praticantato necessari all’esame da procuratore e iniziare la carriera che, nelle intenzioni, doveva permettergli di aprire uno studio in proprio.
Aveva trovato l’impiego presso un così detto, principe del foro, famoso per aver difeso con successo personalità illustri della città, che frequentava i salotti della gente bene, dove allacciava relazioni utili con possibili clienti che non discutevano sugli onorari. Era di quelli che ti mandavano a casa la parcella da pagare se solo ti ricevevano un attimo per dirti se intentare o meno un procedimento legale o penale che fosse. Era un vizio di famiglia, si comportava così anche il fratello medico e, se lo incontravi per strada e ti chiedeva come stavi, non dovevi informarlo sullo stato della tua salute perché ti faceva sentire in debito di una visita.
Lo studio era spazioso e molto luminoso, al diciottesimo piano di un grattacielo nel centro di Genova, arredato con mobili autentici, quattrocento fiorentino, in noce nazionale inscurito dal tempo, le poltrone ricoperte di pelle scura con frange rosse e borchie bronzate, tappeti persiani e quadri d’autore. L’aveva ereditato dal padre già illustre avvocato. Il pavimento dell’ampio ingresso era in marmo bianchissimo di Carrara con, nel centro, un intaglio di diverse pietre colorate che formavano un disegno raffigurante un grande grifone e, in una enorme vetrina di cristallo, numerose bellissime piante davano l’impressione di
entrare in una serra più che in uno studio legale. Il lampadario centrale, con cento pendenti in cristallo, illuminava l’ambiente.
In quell’ufficio avrei giurato che tutti lavorassero volentieri se non altro per la vista che si godeva di lassù. Quattro grandi finestroni si affacciavano sulla parte di città distesa ai piedi di quella alta costruzione che vedeva il mare da punta Chiappa a Capo Mele e potevi osservare i movimenti nel porto, le gru, le navi che attraccavano ai moli e quelle che partivano e tutte le strade sotto che brulicavano di auto in movimento e sembravano piccole, colorate macchinine di bambini.
Ci lavoravano un giovanotto appena laureato, il così detto giovane di studio e tre signorine di bell'aspetto, molto efficienti che, con grande disinvoltura, indossavano audaci minigonne e camicette dalle generose scollature: sedute alla macchina da scrivere l’occhio, anche senza volere, arrivava fino ai capezzoli e all’orlo delle mutandine.
In controtendenza una di loro vestiva sempre pantaloni attillati di lana leggera o di raso, ma di taglio quasi maschile, con la risvolta in fondo: li portava magnificamente per come cadeva quel tipo di stoffa e perché certamente aveva un bel paio di gambe lunghe e ben tornite.
Lui curava le pratiche di minor conto, le impiegate battevano a macchina, stenografavano e svolgevano mansioni di archivio. Il giovane di studio si dava arie da primo della classe e cercava di non lasciare spazio a nessuno.
Anche l’avvocato non dava modo che altri imparassero molto. Davide in tribunale svolgeva poco più che le funzioni di un porta borsa, ma era sempre compito suo scrivere le raccomandate perché possedeva una tal forza di penna ed era talmente incisivo e persuasivo che le controparti, al solo ricevere la sua
corrispondenza, rinunciavano spesso ad adire a vie legali contro i clienti da lui patrocinati.
La stoffa c’era, ma lo stipendio era da fame.
Si chiedeva se fosse valsa la pena studiare tanto: un autista di mezzi pubblici guadagnava più di lui.
In compenso era il gallo della Checca: gli faceva gli occhi dolci la Rita benché il fidanzato tutte le sere venisse a prenderla con la moto e l’accompagnasse a casa, previa sosta all’angolo del suo isolato, prima di sbucare sotto casa sua. Lì, senza pericolo di essere visto dai suoi, se la sbaciucchiava e se la palpeggiava tutta abbondantemente tra il muretto di delimitazione e un albero del viale.
Le attenzioni di Davide erano maggiormente catturate da Sandra, quella che vestiva semplicemente pantaloni e camicette non troppo sbottonate.
Alta, slanciata, tacchi bassi, un po’ di fondo tinta e un leggero segno di matita lungo le ciglia ad esaltare la bellezza degli occhi.
o svelto e sciolto e spigliatezza nel modo di fare: sarebbe potuta apparire mascolina se non avesse avuto quei due accentuati rigonfiamenti sul petto che non permettevano dubbi.
Delle tre impiegate quella che dava meno confidenza era lei e forse non era neppure un mostro di bellezza, ma in amore è così: se fuggi ti inseguono. Il suo
notevole fascino scaturiva più dalla personalità che dalla bellezza fisica, però i suoi occhi erano lucenti, il viso aperto, l’espressione onesta e chiara e, come succede in presenza di una bella ragazza, attorno a lei si creava una piacevole atmosfera semplicemente grazie alla pura luce che la circondava.
Nell’ambiente del lavoro accade anche che la collega, dopo qualche mese, la si veda più bella di quanto in effetti possa essere, ma non era questo il caso suo.
Alla fine dell’orario di ufficio, si ravviava la fluente chioma ramata, si dava un’occhiata rapida allo specchio e, infilatasi, in tutta fretta, la giacca del tailleur pantaloni, scappava come se non volesse arrivare tardi ad un appuntamento.
Davide non ne faceva parola, ma fremeva per sapere se avesse un fidanzato e incominciò a spiarla di nascosto, specie quando era richiesta al telefono dalla solita voce maschile.
Me ne aveva parlato con entusiasmo e, curioso di vederla, un giorno che mi trovavo nei pressi dell’ufficio, ero ato a salutarlo col secondo fine di conoscerla.
“Ti posso presentare la mia collega Sandra?” Mi porse la mano e trattenne la mia in una bella stretta, non con la solita manina priva di nervatura e ci ricordammo, in quel momento, di esserci già conosciuti ad una festa in casa di un mio cugino ed io, interessato ad un’altra ragazza, non le avevo dedicato molta attenzione ma, nella compagnia che si era creata, ci eravamo poi frequentati alcune volte.
Rivedendola, mi chiesi come mai non le avessi fatto la corte e mi detti del cretino: effetto forse dell’erba del vicino!
Mi rispolverò la memoria su alcuni particolari ed ebbi la sensazione che a lui avesse dato un po’ fastidio che lei si fosse ricordata tante cose di me.
Dodo, così lo chiamava sua madre, un vero amore non l’aveva ancora provato non perché non gli fosse congeniale: a volte decide il caso, in altre non cogli l’occasione a tempo o non ti accorgi che ti sta ando accanto la persona della tua vita.
Quelle con cui si era fermato, per un motivo o per l’altro, non avevano mai avuto il benestare di sua madre e lui, che non aveva voglia di sorbirsi i soliti fervorini, aveva lasciato perdere.
Sandra riassumeva i requisiti principali che desiderava in una ragazza ed era venuto nella determinazione di idee di farle il filo e di guardarsi bene dal presentarla a sua madre del cui parere, in caso negativo, questa volta si era riproposto di non tenere conto ed era un segnale alquanto significativo.
Da quando l’aveva conosciuta si ritrovava a pensare a lei, con la testa tra nuvole rosa, in ogni momento, mentre lavorava perché gli era vicina, ma anche mentre guidava o cenava e si distraeva quando leggeva il giornale o era intento a tutt’altro. E gli succedeva di vederla dappertutto.
Gli sarebbe piaciuto invitarla una sera in un ristorantino sul mare. Ce n’era uno ad Arenzano dove si cenava in terrazza, sul bordo della piscina illuminata e, sul tardi, si ballava con l’orchestra dal vivo. Colpo di figura! Ammesso che lei avesse accettato! Ma si era informato e gli avevano riferito che gli sarebbe partito mezzo stipendio!
Qualcosa di meno impegnativo poteva essere un cinema ma, quando era a tu per tu con lei, perdeva la sua consueta sicurezza e l’innata simpatia che gli sarebbe stata utile e l’avrebbe fatto apparire magari un po’ scanzonato, come piace alle ragazze.
Il caso volle che il sovrintendente al teatro Carlo Felice, cliente dello studio, fe dono agli impiegati di due biglietti per il Boris Godunov, un’opera cui nessuno era interessato all’infuori di Sandra che, a sorpresa, si disse amante della lirica e, sconsolatamente, accennò al proposito di recarvisi da sola. Dodo, si dette coraggio e disse: “Non sia mai! Io amo l’opera” e si accordarono per andarci assieme.
In verità non apprezzava il melodramma, preferiva i concerti per soli strumenti, specie per violino e orchestra o per solo pianoforte. Sosteneva che il canto andava a disturbare la musica che non necessita di parole e da sola riesce ad esprimersi, a dar gioia o malinconia, a commuovere e ti strappa il cuore, ti fa piangere, ti risveglia i sentimenti assopiti. Gradiva la voce se inserita nell’orchestra come strumento musicale, quasi come un vocalizzo senza la precisazione delle singole parole. E per lui il massimo era ascoltare musica in piena solitudine.
In questo eravamo diversi.
Io amavo tutta la musica, quella buona s’intende, dalle canzoni all’opera e amavo l’ambiente dei concerti e l’atmosfera teatrale delle prime, gli abiti eleganti delle signore profumate, gli smoking degli uomini.
Trovavo che andare eleganti a teatro fosse una forma di rispetto verso chi si
esibiva dopo anni di conservatorio, studio e sacrifici. Mi affascinava tutto ciò che formava il contorno della musica stessa, l’esplosione di prolungati, scroscianti applausi al termine degli assolo, accompagnati da voci che si levavano qua e là dalla platea e dalla galleria, invocanti il bis e quei “bravo” o “brava” pronunciati alla se, accentati sull’ultima vocale che bucano l’ovazione e raggiungono, come fuochi d’artificio, gli artisti sul proscenio.
Davide non credo avesse mai ascoltato opere, forse la Tosca in un’edizione minore al Chiabrera di Savona o al Cantero di Chiavari, non ricordo bene, ma non voleva perdere una buona occasione per stare con lei.
Indossò il doppio petto fumo di Londra con la camicia bianca a polsi doppi, i gemelli d’oro con le iniziali, regalo per la maturità e la cravatta bordeaux.
Il Boris è un’opera russa, pesante come in genere è il carattere dei russi, cantata da un alternarsi continuo di bassi e baritoni. Lei la rese accettabile e comprensibile al suo orecchio ineducato, spiegandogli a priori la trama dell’azione e parlandogli della figura di Petrovich Musorgskij, che l’aveva composta e musicata nel 1869, lavorando sulla tragedia scritta da Puskin.
La serata non gli andò liscia come avrebbe desiderato perché a metà del primo atto, Davide incominciò ad accusare gonfiore e forti gorgoglii nella pancia come se dentro gli ribollisse qualcosa. Solo l'orchestra e i vocalizzi dei cantanti in scena coprivano quel rumore che lo imbarazzava non poco e nel secondo atto, per non rischiare di fare una gran brutta figura, si recò in bagno facendo scomodare, per are, una decina di spettatori seduti nella sua fila: senza considerarne le conseguenze, aveva mangiato un piatto di radici di Chiavari, senz'altro ottime condite con olio sale e aceto, ma eccessivamente ventose!
Comunque l’eleganza del pubblico, la cornice sfarzosa del teatro, l’ovattato
ambiente e il fatto che fosse la prima volta che uscivano assieme, gli resero la serata, nonostante tutto, piacevole ed ebbe modo di constatare che Sandra conosceva bella gente e contraccambiava i saluti di frequentatori del teatro, signori dall’aspetto distinto, fatto che lo rese orgoglioso di essere in sua compagnia.
“Ho trascorso una serata meravigliosa, Sandra. Non so come ringraziarti!”
Da perfetto gentiluomo, scese ad aprirle la portiera, l'accompagnò fin sotto casa e attese ad andarsene che fosse oltre il portone. Se ne allontanò con o leggero, quasi sollevato da terra.
Nel salutarla, ebbe un attimo di titubanza, avrebbe desiderato baciarla, ma quella sera non aveva senso un bacio, neppure sulla guancia, benché una complice luna bianca splendesse in cielo: era un bacio ben diverso quello che desiderava e preferì rimandare ogni approccio del genere.
Il giorno dopo la mamma disse a Sandra: “Ieri sera ti ha vista a teatro la Mariuccia; mi ha detto che eri con un bel ragazzo e che assieme facevate proprio una bella coppia”!
Sandra non commentò, ma si sentì avvampare.
Qualcosa tra loro era nato e se ne erano accorte soprattutto le colleghe che ridacchiavano tra loro quando lui stava tutto orecchi cercando di capire chi potesse essere che la chiamava quasi ogni giorno al telefono.
Una sera la seguì senza farsene accorgere e la vide entrare in un palazzo di vico Falamonica , si avvicinò al portone, dopo che l’aveva vista richiuderlo dietro di sé e notò che nella targa in ottone lucido, a fianco dei camli, non c’era il suo cognome: solo diversi altri col seguito di nomi maschili e la ragione sociale di una pensione a due stelle al terzo piano.
Da chi era salita!
Sapeva che abitava dalla parte opposta rispetto a piazza De Ferrari.
Trascorsi due giorni non ce la fece più a star zitto e, prendendola alla lontana, le chiese se avesse dei parenti in quel vicolo.
“Ci abita mio padre.” Gli spiegò fissandolo con sguardo indagatore e anche un po' contrariata.
“I miei vivono separati e quasi tutte le sere, o a fargli un salutino. Mia madre non è stata capace di perdonargli una scappatella, avrebbe potuto far finta di niente, di non aver saputo, invece non l’ha più voluto in casa. Una sera si era lasciato trascinare dagli amici e sai com’è, si dice che in compagnia anche il prete prenda moglie, ma è sempre stato anche troppo serio e non ha mai trascurato la famiglia! Spero che ci ripensino a mente fredda, che ragionino e che tornino assieme quanto prima. Quando io mi sposerò, sarà per sempre!”
Davide si vergognò in silenzio del pensiero che gli era ato per la testa e si limitò a dire: “mi dispiace!”
In altre occasioni, sull’argomento, espresse parole costruttive suggerite dall’esperienza vissuta in famiglia quando i suoi, per motivi diversi, bisticciavano spesso.
Lei era preoccupata per il padre che, dopo la separazione, si era chiuso in se stesso e l’accaduto l’aveva escluso dal contesto di tutte le amicizie che la famiglia aveva stretto in ato, gli erano rimasti amici solo alcuni coniugi che forse nutrivano più simpatia per lui che per sua moglie.
Dario aveva l’impressione che lo evitassero e non gli andava di essere commiserato.
Tanto per are qualche ora in compagnia, aveva provato a tornare al Circolo della Vela, dov’era iscritto da anni, ma non ci si era più trovato bene, era come traumatizzato e lo si poteva capire, dopo una vita trascorsa, giorno e notte, accanto alla moglie. Al circolo erano quasi tutti pensionati però, almeno a parole, volevano fare i giovani o sembrare tali e parlavano sempre di donne e di sesso. Per lui era come parlar di corda in casa dell’impiccato.
Lo facevano apposta proprio perché si scucisse e potessero curiosare nella sua vita privata, scoprire come e se era stata sua moglie a trovarlo con un’altra e con chi o se glielo avevano riferito le amiche e chi era stata.
Certi uomini sono più maligni e pettegoli delle perpetue!
Allora si schermiva: “Perché vogliamo parlare sempre di sesso che siamo ormai tutti in andropausa!”
“Non dire coglionate, Dario, ti vorrei vedere se rimanessi bloccato solo con la Silvana in un rifugio di montagna con fuori un metro di neve!”
“Con la Silvana, la moglie di Lanfranco?”
“Ma no, cosa vai a pensare: la Mangano!”
“Bisognerebbe sapere, piuttosto, cosa ne direbbe lei!”
Questo poteva essere uno spezzone di una tipica conversazione tra soci, a suon di battute, oppure l’argomento erano le malattie, specie se c’era Giovanni che era medico, ma non esercitava più da anni e dicevano che fosse stato radiato dall’albo per motivi che nessuno era mai riuscito a scoprire, forse per aver procurato degli aborti. Allora parlavano di ipertensione, di esami del sangue, di sangue nelle feci e, benché la cosa fosse di dominio pubblico da tempo, tutte le volte che andavano in argomento saltava su il Mario, che era di Milano e portava la notizia: “A proposito lo sapevate che al Nanni è venuto il diabete e così la moglie, che ha vent’anni meno di lui, ce l’ha in quel posto, si fa per dire, perché col diabete non gli tira più?”
A questo punto chi aveva fatto le analisi il giorno prima proprio per il controllo della glicemia, cercava di cambiar discorso o coglieva l’occasione per portare via i tacchi.
“Vi lascio, devo assolutamente are dalla lavanderia prima che chiudano. Se non ci arrivo a tempo, mia moglie stasera non me la dà!” E tutti ridevano.
E alcuni parlavano dei viaggi compiuti a Praga, a Mosca, alle Bermuda e lo facevano diventare nervoso, gli facevano rabbia perché non avevano mai visto né Roma, né Firenze o Venezia e ce n’erano altri, i più feroci, il cui argomento fisso era lo sfottimento, neppure tanto sportivo, tra genoani e sampdoriani.
Il papà di Sandra aveva altro per la testa!
Si era scoperto la ione per la pittura: non se la cavava male e questo atempo gli riempiva diverse ore del giorno e a volte anche della notte perché, se gli veniva un’idea che era già a letto, si alzava, andava al cavalletto e la buttava giù, come meglio poteva e sapeva, ma con grande soddisfazione.
Stava invecchiando in maniera diversa dai suoi amici che non sapevano mai come ingannare il tempo: amici poi per modo di dire! Fossero stati veramente tali avrebbero potuto evitare certe domande indiscrete che altro scopo non avevano se non di soddisfare la loro curiosità. Lo capiva, ma cercava di scusarli per non scontrarsi e perdere anche quel contatto umano.
Dario, spesso un po’ fuori dal coro, aveva un gran rispetto del suo prossimo e avrebbe desiderato che anche gli altri ne avessero per quelli come lui. Amava il confronto costruttivo, mai lo scontro.
Anche lui aveva dei difetti, beninteso. Difetti che potevano rappresentare anche pregi. Tutte le medaglie hanno un rovescio.
Era esageratamente abitudinario. Non derogava mai dalle consuetudini e non
c’era verso di fargli cambiare idee. Lo rifletteva in quella mezz’ora di lettura pomeridiana collegata ad alcuni minuti con gli occhi chiusi, cui non rinunciava neppure se, in concomitanza, avesse avuto un impegno importante!
Il medico gli aveva consigliato di non fumare, ma era come se gli avesse ordinato di aumentare la dose e le sigarette se le accendeva coi fiammiferi di legno, quelli da cucina, sparsi nelle tasche della giacca che sfregava sotto la suola di cuoio della scarpa destra: la sollevava all’altezza della mano, restando in equilibrio su quella sinistra, cosa che per moglie e figlia non stava bene e, per ovviare, gli avevano regalato un bellissimo accendino laminato in oro con le sue iniziali.
Il giorno dopo l’aveva già riposto in un cassetto. Si rifiutava anche di usare cerini e svedesi: i Minerva diceva che erano pericolosi.
Il rispetto per le tradizioni era quasi una mania e quando si avvicinava il Natale, si ripeteva nelle abitudini dei suoi vecchi: sei fratelli, nonni, nipoti e zii, quel giorno, si riunivano tutti in casa sua.
I doni, da porre sotto l’albero a fianco dell’immancabile presepe, rimanevano nascosti, chiusi a chiave in un armadio, per settimane, fino alla notte di Natale.
In Liguria era usanza che, ai bambini buoni, li portasse Gesù Bambino, dopo la mezzanotte e, quando arrivava, doveva trovarli addormentati diversamente non li avrebbe lasciati. Per l’eccitazione, il sonno a volte sopraggiungeva molto tardi, allora dormivano con un occhio solo, come i delfini e scoprivano la verità, ma continuavano a fingere di crederci, almeno fino ai regali dell’anno dopo.
Era una bella tradizione che voleva porre l’accento sul fatto che ciò che riceviamo nella vita ci viene da Dio in base anche ai nostri meriti, non c’era l’intenzione di falsificare la realtà: i bambini si sono sempre nutriti di fantasia che spesso rappresenta la realtà nella quale, inconsciamente, preferirebbero vivere. E non solo loro.
La realtà è sovente più sgradita. La fantasia, l’immaginazione, la fiaba rappresentano la parte più creativa della nostra personalità.
La preparazione del pranzo durava almeno dieci giorni e occupava per quel periodo tutte le donne di casa. Non doveva mancare niente: antipasti, crostini, il capun magro, salmone affumicato, i tortellini, le lattughe ripiene, i maccheroni, quelli lunghi, in ottimo brodo di cappone, l’oca con le fagiolane bianche, il tacchino ripieno, gli arrosti, il panettone milanese e il pandolce genovese, quello basso, la frutta secca, i canditi, il panforte di Siena, i vari torroni rigorosamente di Cremona, l’uva, la torta che faceva la nonna e tutti gli anni raccoglieva l’applauso e se c’era anche la zia Celestina che abitava a Bavari, Bavari Hylls diceva lei, non potevano mancare gli struffoli col miele perché, per un periodo, era vissuta a Napoli e a Natale non poteva farne a meno! E guai se fossero mancati i datteri.
La tavola era apparecchiata con la tovaglia che la nonna aveva ricamato quando era giovane e i piatti del servizio buono, quello col bordino dorato, cifrato con tre lettere perché la nonna ci aveva sempre tenuto al suo cognome da signorina e non mancavano le raccomandazioni ai più piccoli di fare attenzione ai bicchieri di cristallo!
La zia Celesta, che tutti chiamavano Cilla, suggeriva saggiamente di mettere ai bambini i bicchieri di tutti i giorni, ma Dario non voleva stonature in tavola e quei poveri piccoli a volte rinunciavano a bere per evitare sguardi ossessionatamente preoccupati.
Al momento di sedersi, il vecchio chiudeva a doppia mandata la porta di casa e non avrebbe aperto più a nessuno, neppure se avesse bussato il Papa, come diceva lui, per tutto il pranzo che durava fino a sera tra chiacchiere, risate, qualche pausa, discorsi vari e applausi.
I nipoti leggevano le letterine di Natale nelle quali esprimevano i buoni sentimenti verso i genitori, i nonni e i propositi di essere buoni, di studiare e di fare l’ubbidienza. I più grandicelli recitavano poesie imparate a memoria: non mancavano mai quelle di Angiolo Silvio Novaro, poeta che allora nelle scuole in Liguria, andava forte perché, nato a Diano Marina, scriveva con ricchezza di delicati sentimenti elegiaci che si adattavano molto all’atmosfera natalizia.
In sala le sigarette a una cert’ora avevano formato una cortina fumogena simile a quella abituale negli scompartimenti ferroviari dell’epoca e la nonna, preoccupata per la salute dei piccoli, indolenzita sulle gambe anchilosate per l’età e un po’ per la prolungata sedentarietà, andava alla finestra ad aprire uno spiraglio costretta a richiuderlo immediatamente da un coro generale di proteste.
A frequentare il circolo c’era anche Armando, il vecchio amico di Dario, che in vita sua un calcio al pallone non l’aveva mai dato, ma trascorreva ore al bar a parlare del Genoa. Consumava ogni tanto un caffè. Piazzato in un angolo del bancone, attaccava discorso con tutti quelli che arrivavano. Chi lo vedeva in anticipo, conoscendolo cambiava strada, ma lui non demordeva: aspettava e, quando arrivava un amico, palesava la sua contentezza con una risata che echeggiava anche nelle altre sale del circolo. Rideva in “i” e sembrava che nitrisse.
Ernestino, per la pancia che aveva, se fosse stato donna, sarebbe sembrata incinta al nono mese. Il suo argomento fisso era la buona tavola.
“Quanto pesi Ernesto?”
“Completamente nudo centoventi!”
“Dovresti cercare di dimagrire.”
“Sto benissimo con i miei centoventi chili di salute!”
La sua risata esplodeva in una “A” aperta, contagiosa, comune a quasi tutte le persone soprappeso.
Non amava la nouvelle cusine per le porzioni troppo scarse. Gli interessava la qualità, ma soprattutto la quantità e preferiva la fondina piena di trenette al pesto con tanto aglio, possibilmente fresco, quello di Vessalico, il migliore d’Italia. Le arrotolava nel piatto aiutandosi col cucchiaio come fanno i tedeschi che non sanno mangiare gli spaghetti.
Nino per mangiarli si aiutava col pane e per pulirsi le labbra, usava la mollica e poi si metteva in bocca anche quella.
Da un po’ di tempo il suo interesse si era allargato ai vini e aveva scoperto che col pesce è preferibile un buon rosso, poco corposo e giovane.
Donne e vino gli piacevano giovani, peccato che avesse settant’anni!
In definitiva il suo interesse per la conversazione era dato dalla necessità di parlare e parlava di cucina perché la gola gli suggeriva quell’argomento che era poi l’unico nel quale potesse sostenere una conversazione e parlava, parlava, parlava senza neppure ascoltare.
Per dare più forza e veridicità alle sue parole inframmezzava il discorso con frasi in dialetto genovese. Molti non gradivano.
Di duecento soci iscritti, erano si e no cinquanta quelli che frequentavano il circolo alternati nei vari giorni della settimana, assidue frequentatrici sei anziane signore che giocavano per ore a Scala quaranta e quattro signori, in vistose colorate bretelle. Filippo, il comandante, sempre attorno al tavolo del bigliardo, lo chiamavano comandante per il berretto che portava, ma in verità non aveva mai navigato e, in casa sua, comandava la figlia che, pur annoverando svariate storie d’amore, si avviava velocemente a rimanere zitella.
In tutto il pomeriggio consumava un bicchiere di minerale gasata, non troppo fredda, con scorzetta di limone. Era tirchio più di un ebreo genovese, sempre in maniche di camicia per non consumare la giacca e gli amici più velenosi rincaravano la dose dicendo che accantonava denaro per la figlia con la speranza che trovasse marito.
Verso sera rischiava un bianco secco, frizzantino, con una spruzzata di amaro e un’oliva greca infilzata in uno stecchino che conservava per stuzzicarsi, dopo cena, gli incisivi troppo affollati. Erano i pochi denti veri salvati dalla piorrea che, con l’aiuto di due molari, reggevano i ponti igienici, ad arcata unica.
Mario invece, in Svizzera, si era sottoposto ad uno dei primi impianti. Gli era costato un occhio del cuore, ciò nonostante si capiva che i denti non erano i suoi proprio perché troppo bianchi per la sua età. E in testa si era fatto trapiantare dei capelli tolti dalla nuca e sulla pelata aveva dei solchi come se ci fosse ato un aratro.
Dario raccontava a Sandra come trascorreva il pomeriggio e ci rideva, per non piangere: “Almeno fossero un po’ meno tardone quelle che giocano sempre a Pinacolo!”
“Papà, pensa alla mamma e non essere velenoso.”
Il bagnino posizionava le sdraio proprio sul molo e loro in due pezzi prendevano il sole per togliersi di dosso quel bianco latte che ad una certa età, fa tanto convalescenza alla fine della brutta stagione.
Un sano color bronzo ti ringiovanisce subito di almeno cinque anni!
“Devi vederle! Hanno le gambe piene di capillari rotti come se si fossero tatuate delle cartine geografiche. Sembrano tutte nobili con quelle varici blu e quei sederi piatti, le smagliature e la ciccia penzolante al loro gesticolare!”
E come gesticolano, al circolo, le donne quando conversavano!
“Certo la mamma è molto diversa. Vive in un altro mondo!”
Gloria, la moglie del veterinario, si lamentava con l’amica perché il marito non la considerava più come una volta e non la guardava quasi più in faccia.
Gli amici ridevano per quel modo di esprimersi e sapevano che il marito la guardava sempre in faccia, proprio per non guardarle il resto e, quando poteva, senza farsene accorgere, guardava il culo, il davanti e le tette eccome, ma alla figlia del suo amico farmacista.
E se avesse potuto, l'avrebbe palpeggiata e avrebbe fatto anche dell'altro, ammesso che ce l'avesse fatta!
Dino invece le sue ore migliori le ava a parlare con la barista, la Norina tanto cara e bellina che, bontà sua, lo stava ad ascoltare per paura di perdere il cliente.
“Lei non ci crederà, ma io da giovane ero aitante e bello, sa?”
E lei conveniva: “Ma si vede che doveva essere stato un gran bell’uomo, signor Dino e lo è ancora, mi creda!”
IX
Il fatto è che, da sempre, se a noi uomini viene a mancare la nostra metà del cielo, siamo persi, finisce tutto, ambizione, scopo della vita e tante volte la vita stessa. Succede, purtroppo, quando ci si vuol bene veramente e gli effetti sono traumatici con riflessi sulla salute fisica e mentale di chi prova la sensazione tipica dell’abbandono. È molto difficile per l’uomo vivere solo, più che per la donna, infatti, dopo poco, si può notare che il letto è lasciato sfatto, che sulla tavola da sparecchiare rimangono gli avanzi. I piatti sporchi della sera prima sono rimasti da lavare nel lavandino e inizia per lui una crescente chiusura verso il prossimo che non interessa più di tanto.
Quando invece due persone sono legate dal solo desiderio della soddisfazione istintiva della concupiscenza, gioiosa, ma fine a se stessa, appena il desiderio del piacere si assopisce, altro non resta che un senso di vuoto, ma è certamente meno doloroso dirsi addio senza rimpianti e facile aprirsi a nuove esperienze.
Tanti vivono sempre proiettati verso l’esterno, cercando negli altri il completamento di se stessi, senza introspezione, senza interessi personali, troppo presi dal lavoro e dagli impegni quotidiani che non danno tregua se non quando ti ritrovi vecchio e anche solo.
Si può essere soli in mezzo a tanta gente ed al contrario non sentirsi tali quando non si ha nessuno vicino, ma si è in compagnia di se stessi, delle proprie idee, dei ricordi, dei progetti, sempre che siano legati alla certezza di godere dell’amore e dell’affetto di qualcuno o di averne il ricordo o almeno la speranza.
Sono tante le riflessioni fattibili, ma questo qualcuno, gira e rigira, per un uomo è sempre riassunto nel nome di una donna sia che si chiami moglie, fidanzata,
mamma, figlia o sorella, ed anche quel qualcuno, che si dice orgoglioso di essere diverso, spesso si veste da donna o va a cercare chi ci si è travestito.
Oggi le donne le hai al tuo fianco dovunque: nelle banche, alle poste, nei bar. Negli ospedali, a parte il primario che non c’è quasi mai, sono tutte dottoresse, le assistenti sociali sono donne, il corpo insegnanti, al novanta per cento, è formato da professoresse e maestre, ora, oltre alle crocerossine, interi reparti dell’esercito sono formati da ragazze, ce ne sono perfino tra i paracadutisti della Folgore e so per certo che alcune ragazze stanno addestrandosi nella squadriglia acrobatica delle frecce tricolori.. Commissari di polizia e direttori di carceri sono quasi tutte donne nella realtà e non solo nei romanzi televisivi a puntate.
Anche per strada, di sera, ne vedi tante, mezze nude, sui marciapiedi e, da un po’di anni, ci sono anche uomini, ma vestiti da donna!
Personalmente ho il piacere, se piacere può definirsi, di avere come dentista una signora: è molto brava. Non so se ce la farebbe nel caso dovesse cavarmi un molare con doppia radice ricurva perché è piuttosto mingherlina, ma eventualmente potrebbe darle una mano il marito che, in compenso,è un pezzo d’uomo! Il mio avvocato, il commercialista e il mio medico di base sono donne e non potrei trovarmi meglio.
Devo darmi da fare per trovare un' urologa per i controlli della ipertrofia prostatica. Una donna, se non altro mi metterebbe il dito in quel posto con un po’ più di garbo!
In parlamento le donne sono poche, ma già qualche onorevole, per ovviare alla lacuna, aveva incominciato a vestirsi da donna!
A me piace questo mondo al femminile; peccato non fosse così quando avevo vent’anni.
Le ragazze ti davano del lei, si ava al tu e non sempre, quando già era subentrata una sorta di confidenza, sessualmente erano represse, sempre sulla difensiva come se temessero di essere stuprate da un momento all’altro che, anche se l’intenzione non ti fosse ata neppure per l’anticamera del cervello, te ne facevano venire la tentazione!
Si scandalizzavano, o fingevano, alle parole spinte, non come tante che oggi , per una malintesa emancipazione, usano per prime un linguaggio da caserma. Camminavano, come infibulate, a chiappe strette su scarpe terribilmente a punta e tacchi altissimi, con etti veloci e corti e guardavano avanti, con i paraocchi, come i cavalli; a volte inciampavano e, se per caso ti trovavi nei pressi, eri in dubbio se aiutarle ad alzarsi o lasciare che si arrangiassero.
Non potevi immaginarne la reazione!
A scuola le femmine avevano le loro sezioni e in chiesa, a capo coperto, sedevano nella navata a sinistra, gli uomini andavano in quella di destra. Non eravamo nel medio evo, erano gli anni cinquanta.
Preferisco la donna di oggi, sportiva, lavoratrice, libera da tanti orpelli nel vestire, che sa ciò che vuole, almeno si spera, che progetta il proprio futuro, che non pensa al matrimonio o a farsi suora come possibili sistemazioni economiche, che con l’uomo cammina parallelamente sui binari della vita.
C’è stata una vera rivoluzione.
E di rivoluzioni ne occorrerebbe una ogni tanto, magari incruenta, che raddrizzasse le curve pericolose che il mondo finisce sempre per imboccare.
È inaccettabile, attualmente, la disparità tra i diversi ceti sociali: c’è gente che non riesce a spendere la rendita del capitale, pur quotidianamente buttando denaro in abiti, gioielli, amanti, viaggi, ville, hotels da mille e una notte dove un solo pernottamento costa più dello stipendio annuo di un comune lavoratore e altri tirano la cinghia. Gli onorevoli percepiscono stipendi che gridano vendetta al cospetto di Dio e vanno in parlamento solo nel tardo pomeriggio, non al mattino quando avrebbero le idee più chiare. Nelle ore precedenti si fanno gli affari loro.
Sono lì, a spese del contribuente, senatori a vita, parlamentari europei, nazionali, regionali, provinciali e consiglieri di quartiere creati appositamente per la moltiplicazione di posti di sottogoverno della politica, per ampliare la rosa delle poltrone da assegnare per accontentare tutti. Posti inventati con la scusa di assistere meglio il cittadino in modo più ramificato ed interlocutore, ma che non servono a niente.
Sono favori elargiti in cambio di consensi elettorali.
Manteniamo un esercito dislocato un po’ dappertutto mentre, per arginare la marea di delinquenti di casa nostra e di quelli giunti da ogni parte del mondo, avremmo necessità di aumentare continuamente il numero dei poliziotti.
Anche i vigili urbani mi viene da pensare che siano pochi perché lavorano velocissimi tanto che non riesci mai a vederli nell’esercizio delle loro funzioni. Sosti un attimo in divieto, il tempo di comprare il giornale, torni alla macchina e
ti accorgi che ti hanno infilato la contravvenzione sotto al tergicristallo, ti guardi attorno, non c’è un cane, nessuno ha visto il vigile e ti viene perfino il sospetto che la multa te l’abbia appioppata lo Spirito Santo! E non trovi un rappresentante della legge neppure quando lo cerchi perché ti hanno dato del figlio di puttana o ti hanno bloccato il aggio davanti al cancello.
Devolviamo miliardi a paesi in via di sviluppo come se da noi italiani e non piuttosto da inglesi e spagnoli, fossero sempre state sfruttate le loro terre. Alla Libia versiamo denaro per averla colonizzata cento anni fa, sperando che Gheddafi non ci chieda un indennizzo per le guerre puniche, ma non disponiamo di entrate sufficienti per aumentare le pensioni da fame.
Prima o poi arriverà qualcuno dal pugno di ferro: forse è ciò che ci meritiamo. Siamo opportunisti, individualisti, poco democratici, sempre alla ricerca del privilegio, felici quando riusciamo ad eludere le leggi a discapito della collettività.
E allora ci lamenteremo del re travicello caduto ai ranocchi!
X
Dalla serata trascorsa a teatro, tra Davide e Sandra, si era creata una forte complicità, che si esprimeva con atti di gentilezza e sorrisi. Lui aveva voluto conoscerne il padre col quale era entrato in confidenza e una sera, dopo cena, simpaticamente in compagnia, giocando a carte, tra una mano e l’altra, buttavano là dei discorsi col sottinteso di convincerlo a fare non il primo o, che di i ne aveva già fatti parecchi, ma un gesto o inventarsi qualche iniziativa per riavvicinarsi alla moglie.
“Sono preoccupata per mio padre, non tanto per la mamma. Lo vedo solo, indifeso, l’altra sera l’ho trovato molto giù di corda, potrebbe sentirsi male e poi credo che il doversi fare la spesa, cucinare, ordinare la casa, oltre ad essere per lui inusuale, sia anche umiliante. Tu sai parlare meglio di me: mettici una buona parola!”
La stessa opera di convincimento si erano ripromessi di svolgerla nei confronti della madre: una tattica che messa in atto dalla sola figlia non avrebbe funzionato, ma appoggiata da un amico che, tra l’altro, come avvocato, disponeva di una suadente dialettica, poteva dare buoni frutti.
Sandra ci sperava e istintivamente anche Dodo, se non altro per vedere felice quella che considerava la sua futura ragazza anche se un bacio non glielo aveva ancora dato.
E a questo proposito, capiva che non doveva aspettare ancora a farsi avanti per non correre il rischio che lei finisse per considerarlo un amico affettuoso e pensare che non fosse poi così attratto verso di lei e la vedesse solo come una cara collega, non come una donna da corteggiare e amare.
Che lei nutrisse simpatia per lui, ormai gli era chiaro e questo sentimento nasceva non tanto dal suo bell’aspetto, quanto da quel groviglio di bontà, intelligenza e calore che Davide custodiva dentro se stesso benché non riuscisse ad esternarlo come avrebbe voluto, ma l’istinto femminile intuiva.
La sua timidezza, in certi approcci, era l’effetto che aveva su di lui il temperamento forte della madre.
In casa il vero carabiniere era lei. Si comportava in quel modo un po’ duro e troppo autorevole forse perché era stata costretta a supplire l’assenza del padre quand'era in guerra, atteggiamento che tante madri di quel periodo avevano assunto anche senza volere, ma il risultato era che lo bloccava, nel vero senso della parola, nei rapporti con le ragazze di cui lei si affrettava a chiedere informazioni in giro appena sapeva che ne aveva conosciuta una.
Non doveva perdersi con delle sciacquette, come le chiamava lei, doveva studiare, pensare a farsi una posizione, mirare in alto e per questo gli aveva tanto asciugato l’anima, che aveva lasciato la Gloriana che magari non era adatta a lui, ma comunque gli piaceva e ci si divertiva anche!
Avevano incominciato a fare flanella quando frequentavano lo stesso liceo, prendendosi e lasciandosi a fasi alterne. Si era infatuato della sua freschezza e, siccome erano tanti a farle la corte, ci si era messo d’impegno per conquistarla.
In seguito se l’era portata a letto ma gli era sorta dentro una specie di rancore da quando si era accorto che aveva già avuto delle esperienze.
Incominciò a corteggiare altre ragazze, mentre lei, inizialmente farfallina, si era veramente innamorata di lui e teneva un comportamento serio e maturo. Tutti pensavano che il loro rapporto sarebbe continuato.
Era diventata invece una ione amara che lo portava ad usarla in maniera animalesca e a trattarla quasi con disprezzo, non riusciva ad averne stima e fiducia, mai a un cinema, ad una scampagnata assieme agli amici, mai una volta in pizzeria. Tutti quelli che la salutavano, nella sua testa, erano stati suoi possibili amanti.
Questo condizionamento glielo aveva creato sua madre con i soliti apprezzamenti poco edificanti sulle donne. Ci mise molto a troncare quella storia che lo faceva star male, non si decideva mai a farlo, forse non aveva il coraggio delle sue azioni.
Rino, per liberarsi da un rapporto diventato soffocante, aveva escogitato uno stratagemma che, in verità, non gli aveva fatto troppo onore: disse alla ragazza che si era scoperto una propensione all’omosessualità!
Non so se lei ci avesse creduto.
Non riusciva a scrollarsela di dosso e, tutte le volte che decideva di farle un discorso chiaro e definitivo, succedeva qualcosa per cui era costretto a rimandare: così fu quando, investito da un auto, lei gli rimase accanto per mesi con commovente dedizione e nuovamente quando mancò suo padre.
Come poteva contraccambiarla dicendole che tra loro era finita!
Forse era un buono e non voleva farla soffrire!
La ragazza abitava in provincia di Alessandria e Rino era tranquillo circa la sua discrezione.
Dodo, a casa, non era padrone di niente e mi confidava che spesso aveva la brutta sensazione di essere un ospite.
Neppure in camera sua dove, in un angolo, aveva la scrivania, poteva disporre gli oggetti in maniera a lui congeniale, sistemava la calcolatrice a sinistra e sua madre, quando spolverava, gliela posizionava a destra. “Non sei mica mancino, vero?” Gli diceva e lo stesso succedeva per il telefono e i fogli lasciati, per comodità, sparsi sul piano del tavolo: se li ritrovava tutti impilati nell’ordine che piaceva a lei, non più con la sequenza delle pagine da lui ordinate.
Se una sera rimaneva a casa, doveva sorbirsi il programma televisivo scelto da sua madre che non poteva mai perdere il romanzo a puntate e il seguito. Solo se giocava la nazionale di calcio si sacrificava, ma lo faceva pesare esprimendo sempre le sue perplessità sul come potessero interessare quei ventidue stupidi super pagati che correvano dietro a una palla per darle un calcio e riusciva in tal modo a creare agli altri un senso di colpa.
Era senz’altro una donna che scaricava in famiglia le sue insoddisfazioni, così ava in rassegna il marito quando usciva in borghese e non c’era volta che non trovasse da dire sull’accostamento dei colori di ciò che aveva indossato. Lui col tempo si era creato una bella corazza, rustico com’era, sapeva scrollarsela di dosso e tirare diritto per gli affari suoi. “Rompi balle” mormorava sulla porta, a denti stretti in modo che lei non capisse, poi per strada continuava, parlando da
solo: “Ho due coglioni soli! Che cazzo vuole. Porca puttana!” E si sfogava. e, a volte, andava oltre snocciolando esclamazioni che non erano proprio delle giaculatorie!
Non era religioso, diceva di credere solo a ciò che vedeva, ma io ero convinto che si trattasse di una posa e fosse invece credente, senza saperlo.
Quando proprio perdeva le staffe, nella sua ignoranza, qualche bestemmia la tirava ed è proprio per questo che penso, per assurdo, che ammettesse l’esistenza di qualcuno al di sopra di lui, con cui sentiva il bisogno di prendersela, riconoscendo, alla fine, con chi doveva fare i conti!
Di sua moglie assicuravano che da giovane fosse stata bellissima e, non si sa da quale fonte fosse scaturita la maldicenza, ma alcune voci mormoravano che un tizio, di abbastanza bell’aspetto, che aveva avuto una sartoria a Carpi, albergasse a Varazze di tanto in tanto e il portiere dell’hotel sembrava che avesse detto che era venuto nella cittadina ligure proprio per incontrarsi con la mamma di Davide ed Elena.
C’era da non crederlo vedendola recitare il Padre Nostro la domenica mattina alla prima Messa, tutta compunta col capo coperto dal velo nero, le braccia protese verso il cielo con le palme delle mani aperte, ad imitazione degli apostoli.
Parlavano di un sarto di origine veneta, conosciuto prima di sposarsi, che, rimasto vedovo, aveva cambiato città e aperto un negozio di amaneria a Genova.
Un pomeriggio Davide era andato al campetto dei salesiani a giocare una partita con gli amici, ma si era messo a piovere troppo forte e avevano dovuto sospendere il gioco. Rincasato prima del previsto, non aveva suonato il camlo, come suo solito: aveva le chiavi.
A questo punto tu stai pensando che l’abbia trovata a letto con il sarto!
No assolutamente, niente di tutto ciò ma, dalla sua camera, appena lo sentì dopo ch'ebbe girato la chiave nella toppa, la mamma, con voce che a lui parve un po’ eccitata, lo pregò di aspettare ad entrare perché il signor Giacomo stava prendendo le misure per la mantovana ed era sulla scala posizionata contro la porta. In effetti l’ingresso della camera matrimoniale era d’angolo rispetto alla porta finestra.
“Spostiamo la scala e ti faccio entrare.” Ma a riaprire la porta, a Dodo sembrò che avessero impiegato molto più tempo del necessario e altre volte lei era rimasta fuori casa tutto il pomeriggio senza una giustificazione plausibile.
Davide e sua sorella avevano colto suoi strani atteggiamenti che producevano in loro un inconscio fastidio, in particolare quel vezzo che ogni tanto aveva di umettarsi lentamente il labbro superiore con la punta della lingua a bocca socchiusa assumendo un’espressione dall'apparenza vagamente equivoca come se erotiche fantasie stessero occupando il suo pensiero. Lo faceva specie se si trovava in compagnia, come se si fosse trattato di un effetto nervoso provocato da un insieme di desideri e sentimenti repressi nell’inconscio. Suo padre non ebbe mai dubbi sulla serietà della moglie e, d’altra parte, eventualmente, come marito, sarebbe stato l’ultimo a raccogliere allusioni maligne.
Ma anche sul comandante si raccontava qualcosa: non che avesse un’amante, ma che fosse un po’ puttaniere e che godesse dei favori di alcune prostitute
sfruttando il fatto che, quale guardia giurata, permetteva loro di sostare al riparo, specie di notte e quando pioveva, negli androni dei palazzi da lui sorvegliati, esclusi agli estranei, dove il portone doveva rimanere sempre ben chiuso.
Di lui avevano parlato, in certi ambienti, delle signore che si inserzionavano sul giornale come massaggiatrici, ma che, in verità, facevano tutt’altro.
Dicevano che le andasse a trovare e perentoriamente le avvisasse che, nel palazzo, non potevano esercitare quella professione e che sarebbe stato obbligato a riferire a chi di dovere, ma lasciava capire che se fossero state carine con lui, avrebbe potuto chiudere un occhio: anche tutti e due.
Ebbe sentore di qualcosa di strano Davide che, un giorno, premuto erroneamente il tasto ripetitore di chiamata del telefono di casa, sentì una voce femminile, tanto per cambiare con accento bolognese che, senza neppure chiedere chi era all’apparecchio, gli aveva detto:” Sei ancora tu, maialone!”
Quella risposta, pur non confermando voci che, magari, erano solo calunniosi pettegolezzi, gli aveva creato dubbi e perplessità; non ne aveva fatto parola con la sorella, ma gli era nata dentro una forma di diffidenza verso la vita e il prossimo, anche qualche momento di tristezza e una certa mancanza di sicurezza.
I genitori li aveva sempre visti, o voluti vedere, come degli esseri superiori, al di sopra delle miserie e delle debolezze umane, li considerava degli esseri asessuati, errore che spesso l’affetto e la stima porta i figli a commettere.
Per Sandra, Dodo aveva sempre pensieri gentili: i cioccolatini suoi preferiti,
quelli di Viganotti con la menta piperita dentro, un cofanetto di viole candite di Romanengo, un mazzetto di fiori di campo che teneva in macchina e glieli offriva quando uscivano dall’ufficio perché non gli andava di farsi vedere dai colleghi e la pregava di metterli subito in un bicchiere d’acqua per farli riprendere perché si erano apiti.
Camminavano tenendosi per mano, lui la guardava con occhi dolci e penetranti e lei si lasciava frugare dentro come fosse stata acqua limpida, trasparente.
Una sera arono dalla mamma di Sandra.
L’accompagnò a piedi, appena usciti dal lavoro, con la scusa di riprendere un libro imprestato.
Abitava al numero tredici di via Ettore Vernazza, poco distante dall’ufficio. Suo padre, a suo tempo, non c’era andato a stare volentieri: pensava che quel numero non gli avrebbe portato fortuna!
Si misero a parlare del più e del meno, ma quando Davide incominciava era peggio dell’orbo di Bologna che per farlo suonare ci voleva un soldo ma, per farlo smettere, ce ne volevano due e così la conversazione si era protratta oltre il previsto avendo intavolato anche l’argomento che si erano prefissi. La mamma volle trattenerlo a cena, aveva cucinato il baccalà alla livornese, prima fritto e poi ato in umido col pomodoro.
Davide non l’aveva mai assaggiato: non gli andava l’odore né del baccalà, né dello stoccafisso, ma sul gusto dovette ricredersi e, con molto garbo, forse per dimostrare quanto avesse gradito quel piatto, ne chiese ancora.
Per l’occasione brindarono a Rossese, una vera prelibatezza.
Alla madre di Sandra riuscì subito simpatico oltre ogni previsione ed ascoltò con interesse le argomentazioni che inseriva sapientemente nel discorso, senza dar da vedere che capiva dove volevano arrivare.
Era quasi mezzanotte quando si accomiatò da loro e, appena uscito, la mamma commentò che i genitori di Davide dovevano proprio essere felici di avere un figliolo come lui e si augurava di rivederlo ancora.
XI
A palazzo reale a Milano, in quei giorni, era allestita una mostra di Sironi, pittore che piaceva molto a Sandra, amante dell’arte in genere ed in particolare della pittura contemporanea.
Per la sintesi con cui esprimeva i suoi concetti, lo stile e la tavolozza personalissimi e i motivi originali, il maestro aveva avuto una vera rivalutazione dopo anni di silenzio forzato creato volutamente attorno a lui per il fatto che, nel ventennio, era stato considerato pittore del regime fascista.
In effetti nella sua pittura si ritrovava quella retorica tipica di quel periodo, ne erano permeate le raffigurazioni dei fabbricati, i prominenti muscoli pettorali e addominali dei nudi maschili, le ciminiere delle fabbriche, ma non si poteva continuare ad ignorare il grande valore della sua pittura, riconosciuto nel mondo fin dal tempo della sua appartenenza, con Balla, al movimento futurista.
Una simile epurazione l’aveva subita anche Gabriele D’Annunzio alla fine della guerra, poi dopo diversi anni, fu riabilitato nei testi scolastici con l’espediente di dire che, in fin dei conti, era stato fascista, ma in maniera critica nei confronti del Duce stesso e finì per lui quel periodo di eclissi quasi totale.
Con tutte le raccomandazioni del caso, Sandra salì sulla Seicento di Dodo che era felice come una Pasqua e a San Pier d’Arena imboccarono la camionale.
La giornata era splendida ma, anche se fosse piovuto, il sole l’avevano nel cuore e l’andare a Milano, già di per sé, era motivo di gioia.
Milano: la città per eccellenza, capitale del lavoro, della moda, della vita, dell’emancipazione e delle novità che a Genova arrivavano in media un anno dopo.
Una bella domenica! Un bel cielo limpido non permetteva a nessuno di pensare che a Milano ci venisse la nebbia! Cosa c’è di più bello di una giornata di sole! Ti mette di buon umore e ti fa vedere con ottimismo il futuro anche se, inconsciamente, sai che tanto non cambia niente.
Non tralasciarono di fare una capatina in via Montenapoleone e dintorni, Sandra interessata ai negozi che esponevano abiti dei sarti più famosi e le gioiellerie, non perché desiderasse qualcosa per vanità femminile: le piaceva osservare cose belle.
Davide rimase incollato ai cristalli di una vetrina che metteva in bella mostra piatti di insalata russa e di carne in gelatina, composti in maniera degna di un artista.
Percorsero tutta via Manzoni, attraversarono piazza della Scala, galleria Vittorio Emanuele e raggiunsero il Duomo in tempo per la Messa.
Usciti di lì, entrarono a Palazzo Reale dove, ordinate nel percorso di nove saloni comunicanti dalle volte preziosamente stuccate e decorate, ebbero modo di ammirare più di cento opere di Sironi, tutte molto interessanti e convennero che ne era valsa la pena.
Secondo i loro calcoli, sarebbero dovuti arrivare verso le venti a Genova dove lei era attesa per cena, ma all’altezza di Serravalle Scrivia , l’auto incominciò a procedere a singhiozzi; fortuna volle che si trovassero proprio vicini all’uscita del casello e poterono fermarsi nello spiazzo evitando di essere tamponati.
Dalle fessure del vano motore uscivano getti di calore e di fumo bianco e l'auto era scossa da tremori convulsi, ma sia per lui che per lei era nebbia assoluta.
Con grande cautela per non ustionarsi lui incominciò a scrollare tutti i fili per controllare che non ce ne fosse uno staccato. Poteva dipendere dai livelli, pensò all’usura delle spazzole, il tappo del radiatore non si fidava ad aprirlo e intanto si era conciato le mani e i polsi della camicia.
“Ci rinuncio” disse sconsolato.
A spinte e bocconi, parcheggiarono in una stradina subito dopo lo svincolo dell’autostrada.
“È inutile cercare un’officina aperta di domenica e per di più di sera! Non ci rimane che aspettare domani.”
Ne convenne anche Sandra con un po’ di titubanza e in attesa del lunedì mattino fissarono due camere nell’unico albergo aperto.
Avvicinandosi l’ora canonica, s’infilarono in una trattoria che li aveva particolarmente ispirati: da mezzogiorno con un panino e una spremuta
d’arancia, avevano una fame da lupi. Si rifecero cenando con fonduta spolverata di tartufo bianco di Alba su crostini abbrustoliti, bollito misto fumante al carrello con aggiunta di lingua e maschetta di vitello, salsina al rafano e l’immancabile mostarda di Cremona, il tutto innaffiato da un ottimo Dolcetto di Ovada, corposo e morbido, di notevole bouquet e, per finire, una fetta di torta di mele renette, appena sfornata dalla moglie del cuoco.
Si sentivano euforici e completamente a loro agio.
La nebbia salita in paese dal sottostante fiume Scrivia, rendeva ancor più intima l’atmosfera serale e le strade deserte davano loro la sensazione di essere padroni del mondo.
La sera, bisogna ammetterlo, come scrisse qualcuno, mi sembra un mio collega mancato da parecchio tempo, forse perché è l’immagine della quiete, possiede un fascino speciale; nelle sue ore succede ciò che non accade di giorno.
Dopo una giornata movimentata, a volte convulsa è facile fermarsi ad osservare le nuvole che corrono o il sole che sta per tramontare. La sera, anche se il cielo è minaccioso, riesce sempre a ispirarti dolci pensieri: non è lo stesso se all’inizio della giornata guardi fuori e ti accorgi che il cielo è scuro.
Quella sera esistevano solo loro. Forse si erano sempre cercati.
Neppure un bar aperto!
L’insegna dell’unico cinematografo spenta e il proprietario dell’albergo li aveva avvertiti che il portiere era in malattia e a mezzanotte avrebbe chiuso il portone.
Sandra aveva avvisato del contrattempo la mamma che non sapeva fosse partita sola con Davide. Un’amica si era prestata al gioco ed era tranquilla di quella tranquillità che sanno, o vogliono darsi le mamme quando credono che assieme alla figlia, in gita con un ragazzo, ci sia un’amica a reggere il moccolo!
D’altra parte non aveva mai dovuto constatare che la figlia avesse messo in atto scappatelle di qualsiasi genere.
Con l’umidità portata dalla nebbia, le strade illuminate dalla luce gialla che, a stento, pioveva dai lampioni, luccicavano tanto da far pensare che fosse piovuto.
Serravalle è un paesone che offre ben poco: ci si può anche ammalare di depressione, ma lo si può vedere poeticamente bello, con quelle vecchie case a ridosso della ferrovia.
In autunno le foglie degli aceri canadesi, lungo i viali, si colorano di un bel rosso e creano un alone che riesce ad avvolgere in un’atmosfera che quasi stordisce chi proviene dalla città e ti permette di ascoltare il rumore del silenzio.
Non trovi alcun elemento di distrazione e sei portato ad un’immediata introspezione che lascia molto spazio ai sentimenti e valorizza i rapporti interpersonali specie tra sessi diversi, ancor più se c’è una corrente di simpatia.
Percorrevano uno di quei viali dirigendosi verso l’albergo, lei silenziosa, stretta a lui, sembrava volesse farsi portare: Davide, quasi tremando, le cinse la vita, Sandra alzò il viso e protese la bocca verso di lui che la baciò apionatamente, stringendola a sé tanto forte da toglierle il respiro.
Quanto aveva desiderato quel bacio!
Si baciarono lungo il viale, tra un albero e l’altro, sotto ai lampioni, appoggiandosi ai muri delle case.
Mentre la baciava avrebbe voluto dirle di amarla, ma non ci riusciva un po’ per scaramanzia e per pudore e un po’ perché, mentendo, l’aveva detto a tante ragazze per cui la parola “ti amo” non aveva per lui un significato vero.
Si baciarono contro il portone, nel corridoio dell’albergo finchè ognuno entrò nella propria camera. Davide avrebbe avuto tutta l’intenzione di continuare la serata, ma l’atteggiamento di lei, davanti alla porta dell’attigua sua stanza, non ammetteva tentativi d’intrusione o interpretazioni di possibili cedimenti. Sembrava dicesse: ecco, abbiamo trascorso una serata bellissima, fermiamoci qui.
Non avendo previsto contrattempi, non disponevano di un pigiama, lui neppure di un rasoio, ma l’albergo, benché classificato con due sole stelle, offriva nei bagni tutti gli oggetti usa e getta necessari al pernottamento, mancavano solo le pantofole e Dodo, per non appoggiare i piedi nudi sull’impiantito, usò le scarpe a mò di ciabatte schiacciandone il forte, poi s’infilò tra le lenzuola a fiorellini, nudo come un verme.
Si distese con la pancia in su e stette a guardare il soffitto con le mani sotto la testa per aumentare il volume del cuscino di piume d’oca, troppo basso per come era abituato.
Al ristorante, a forza di goccetti, si erano scolate quasi due bottiglie di Dolcetto, ma lei ne aveva bevuti al massimo tre onesti bicchieri nonostante lui cercasse continuamente di versarle; tutto il resto se l’era tracannato Davide.
Quei baci l’avevano stordito, si sentiva esaltato. Pensava a Sandra che nella stanza accanto certamente dormiva tutta nuda o al massimo con le mutandine, forse di pizzo nero!
Non poteva soffrire gli slippini rossi ma l’idea del pizzo nero sulle cosce bianche gli scatenava di colpo un aumento dei valori pressori accompagnato da una ferrea erezione.
Ebbe la sensazione che stesse sciupando una meravigliosa occasione e stesse facendo la figura del fesso. Gli venne il dubbio che si aspettasse un comportamento più ionale, forse più virile, dubitò di averci saputo fare, avrebbe dovuto comportarsi in maniera più maschia e quei baci, quasi silenziosi, non accompagnati da parole d’amore, temeva l’avessero delusa.
L’aveva baciato con trasporto, ma era stato, per caso, l’effetto del vino?
Mille pensieri si agitavano nella sua mente e improvvisamente s’impadronì di lui la solita istintiva gelosia e incominciò a pensare che Sandra potesse avere già amato un altro e si chiedeva a quanti ragazzi avesse messo la lingua in bocca e se qualcuno poteva averle messo le mani in mezzo alle gambe o peggio se lei
l'avesse preso in mano a qualcuno.
Sì, proprio così, le immagini che gli venivano in mente erano esattamente, molto prosaicamente e concretamente, queste. Non era tanto il lato affettivo sentimentale che gli procurava tormento, quanto l’immagine di certi atti consequenziali che, anche senza volere, andava immaginando.
Se ne stava lì a fissare il soffitto mezzo infreddolito perché il riscaldamento non era ancora in funzione.
Cosa stava facendo Sandra nella sua camera!
Si era già addormentata?
E se un cliente dell’albergo si fosse introdotto in camera sua!
Ma perché gli avrebbe aperto!
E se avesse pensato che fosse stato lui a bussare?
L’avrebbe sentita urlare, li divideva solo una sottile parete.
E se impaurita e disorientata non avesse reagito?
In definitiva, cosa sapeva di Sandra!
Come mai, bella com’era, non aveva un cane che le si strofinasse alle gonne?
Poteva essere stata l’amante di un uomo che ci si era divertito e poi, stanco di una doppia vita, aveva preferito tornare dalla moglie.
Di casi come quello ipotizzato, ne aveva sentito raccontare tanti da sua madre.
L’ipotesi formulata gli provocò un senso di vergogna di se stesso, ma anche un vero tormento e addossò all’alcol la colpa di quei dubbi che, però, erano per sua natura insiti nel suo animo geloso e insicuro.
Mentre era in preda a questi tormenti, sempre a pancia in su, si accorse che i quattro putti alati, color carnicino, dipinti agli angoli del soffitto celeste, avevano assunto una smorfia ironica come se stessero ridendo di lui, lo guardavano e sembrava che avessero preso il volo e svolazzassero in tondo attorno a lui e incominciò a veder girare anche l’armadio e le pareti. Pensò ad un attacco improvviso di labirintite provocato dall’umidità, ma si ricordò che, oltre al vino, prima di sedersi a tavola, aveva bevuto un Bellini e, dopo cena, una grappa bianca di moscato.
Il cameriere poi gli aveva lasciato sul tavolo una mezza bottiglia di Lacrima Cristi e, a forza di “ancora una lacrima,” avrebbe fatto piangere anche Gesù Cristo!
Incominciò ad avere nausea e, da leone, ò a sentirsi coglione.
Impugnata la cornetta, digitò il numero interno della camera della collega: “Sto molto male Sandrina, puoi venire da me, ti prego, la porta è aperta.”
“Stavo addormentandomi, ma indosso qualcosa e sono subito da te.”
Aprì la porta che lui stava vomitando anche l’anima, questa volta a pancia in giù, con la testa a ciondoloni giù dal letto, non aveva neppure fatto a tempo ad arrivare in bagno.
Aveva schizzato il letto, il comodino, il lembo della coperta, il tappetino e per la stanza aleggiava una puzza di succhi gastrici misti a vino che per poco non venne da vomitare anche a lei.
In mezzo a quello schifo c’erano pezzi di bollito neppure tanto masticati che, goloso com’era, aveva trangugiato quasi interi.
Aveva gozzovigliato!
Nello sforzo per vomitare aveva persino bagnato di urina il letto.
Dar di stomaco era il disturbo più atroce che conoscesse, gli strabuzzavano gli
occhi, gli si chiudeva il naso, aveva la sensazione che gli si staccasse qualcosa tra la faringe, l’esofago e lo stomaco.
La poverina si prese la briga di pulire tutto come meglio poteva e lo consolò con parole dolci e affettuose, minimizzando l’accaduto in modo che non gli pesasse la brutta figura, rassicurandolo che poteva capitare a tutti, anche solo per un colpo di freddo e gli rimase vicino fin che non lo vide addormentarsi. A quel punto se ne ritornò in camera sua con la speranza di poter chiudere gli occhi per qualche ora in attesa delle luci del mattino.
XII
L’elettrauto di fiducia, al quale l’albergatore li aveva indirizzati, sostituì candele e spazzole e, soprattutto, aggiunse l’acqua nel radiatore e rabboccò l’olio.
Rientrati in ufficio, almeno di fronte all’avvocato, finsero quasi di ignorarsi, non una parola a commento di com'era andata, ma quella gita aveva lasciato il segno. D’allora, aveva incominciato a chiamarla molto confidenzialmente Ale e lei spesso gli si rivolgeva col vezzeggiativo: Diddy.
Per quanto cercassero di tener nascosto il loro sentimento, quando s’incontravano con lo sguardo, destavano l’invidia dei colleghi che, nei loro confronti, andavano creando, istintivamente pur non volendo, un’atmosfera ostile che non giovava al lavoro.
Non era vista di buon occhio la sua eccessiva gentilezza rivolta esclusivamente verso Sandra e che intervenisse sempre e solo in suo favore, coprendo i suoi errori e appianandole qualsiasi problema.
Senza accorgersene incominciarono ad isolarsi dagli altri, anche nella pausa pranzo si ritrovavano soli e questo andazzo non era ben accetto all’avvocato che temeva venissero propalati i segreti di ufficio.
Tutto era nato in sordina, ma Diddy stava accorgendosi quanto gli fosse diventata importante, indispensabile quella ragazza lentiginosa dai capelli ramati e avvertiva ogni giorno sempre più pressante il desiderio di starle vicino, di conoscere le sue ansie e i suoi più reconditi angoli dell’anima e, diciamolo pure,
anche del corpo.
Provava un impulso quasi incontrollabile a congiungersi con lei totalmente, spiritualmente e fisicamente e formare con lei una sola carne e una sola anima.
Non gli andava neppure più di metter piede nelle sale da ballo dove prima, appena poteva, faceva le ore piccole.
Sandra preferiva ascoltare buona musica, magari classica e possibilmente dal vero.
Il massimo per lui era diventata la cosa più semplice: stare con lei, anche seduti su un muretto a guardare il mare, le barche, le nuvole o raggiungere una trattoria in campagna dove cucinavano in maniera semplice.
Sandra amava la campagna, in particolare l’alto Monferrato, le antiche trattorie dove poteva trovare piatti tipici di una volta, la bagna cauda, quella con l’aglio sciolto a bagno Maria nel latte anziché nell’olio che, per i vecchi piemontesi, era un lusso che un tempo non potevano permettersi.
Apprezzava le tradizioni, le allegre feste paesane, le riunioni di famiglia e sognava di farsene una con almeno tre figli.
Erano trascorsi alcuni mesi ma, nonostante si ritenesse uno che con le donne ci sapeva fare, non riusciva ad andare oltre le carezze e i baci, lei, sempre presente a se stessa, si riprendeva a tempo dal suo dolce abbandono e lui, con la
sensazione di essere respinto, si ammutoliva e andava elucubrando le tesi più assurde.
Pensava che non fosse abbastanza innamorata per darsi completamente o che avesse convinzioni religiose tanto radicate da esserne condizionata!
Cercava di capirla tormentato dalle sue paturnie che lo facevano sentire come se fosse preso in giro, tradito o usato e questo non dipendeva dal comportamento di Sandra, ma da quel modo di giudicare le donne appreso da sua mamma che non faceva mistero dei suoi scarsi apprezzamenti nei confronti delle ragazze moderne reputate troppo libere, proiettate verso la carriera, con poca propensione a mettere al mondo dei figli che, per lei, erano il cemento dell’unione famigliare.
“Stai attento Davide, non farti infinocchiare da quelle scimmiette. Cercano tutte il merlo che le sposi, prima ti fanno vedere rose e fiori e poi ti accorgi che sono solo spine!”
Mancavano pochi giorni alla Pasqua e a Sandra avrebbe fatto molto piacere che Davide la trascorresse con lei e i suoi genitori, riuniti in casa di sua madre che glielo aveva fatto capire perché aveva incominciato a chiederle a quale titolo lo frequentasse e avrebbe voluto, per sua tranquillità, conoscerlo meglio e, magari avrebbe smesso di farle tante domande!
Il giovedì santo Sandra e Dodo si accordarono per andare assieme a confessarsi in parrocchia, in previsione di fare la Comunione la domenica di Pasqua.
Lui si sbrigò in pochi minuti a snocciolare le sue solite mancanze, le sapeva a memoria, non gli era neppure necessario far l’esame di coscienza, tanto erano
sempre le solite: qualche Messa saltata, qualche dubbio sulla fede, desideri illeciti, fantasie erotiche su donne anche sposate che spogliava con gli occhi specie quando le vedeva un po’ scollate camminare ancheggiando, qualche rapporto consumato con una prostituta, dato che l’uomo non è di legno e lui, non solo non era di legno, ma neppure sposato e la sua ragazza non concedeva più di tanto.
Erano tutti peccati che non riteneva né gravi né mortali, benché in dispregio dei dieci comandamenti e, a riprova del suoi convincimenti, se la cavava sempre con una penitenza di tre Ave Maria da recitare in ginocchio davanti alla statua della Vergine.
C’è da dire che non pensava di fare una cosa tanto sgradita a Dio andando a scopare con quella signora che dava comodo in casa sua: era vedova con un figlio da mantenere agli studi in un collegio della riviera, almeno così diceva.
Con quei pochi soldi che le dava, pochi perché a lui, giovane e bello, faceva lo sconto, in fondo, gli sembrava di fare un’opera buona e altre mancanze le riteneva talmente veniali da non doverne parlare col prete. Così taceva di quando, talvolta, non avendo il denaro per la vedova, che gli faceva sì lo sconto, ma non credito, si masturbava e di quando mandava a quel paese sua madre. Suo padre non si permetteva perché ne temeva la reazione.
A questo proposito mi viene in mente il nonno di Paolo che, con lo spirito tipico del buon emiliano, raccontava sempre qualche storiella amena a scapito di nostro Signore o di qualche buon prete di campagna, ma lo faceva bonariamente senza voler mancare di rispetto. Anzi in un certo senso rendeva più a portata di mano e vicine ai poveri mortali, cose di più alto spessore.
Gli emiliani, anche se rossi o anarchici per tradizione, a modo loro, sono devoti;
magari bestemmiano, ma in chiesa ci vanno, poco, ma ci vanno!
Raccontava di un tale che era andato a confessarsi però, pur ammettendo di aver dei torti, ci teneva a far sapere che, in fondo, era una brava persona e vantava anche dei meriti a bilanciare i demeriti. E al prete diceva: “Ho rubato, ma ho anche regalato e fatto l’elemosina e aggiungeva: pari e patta, ho bestemmiato, ma ho recitato tante giaculatorie, pari e patta, ho fatto del male, ma anche del bene, pari e patta, ho picchiato qualcuno, ma qualche volta le ho buscate, pari e patta, ho ammazzato quando ero in guerra, ma ho messo al mondo sei figli, pari e patta.” Il confessore a questo punto lo interruppe e gli disse: “Figliolo, il Signore ti ha creato e il diavolo ti porterà via, pari e patta!”
Ma Dodo era un gran bravo figliolo.
Non si pentiva mai sinceramente, questo sì e non riusciva neppure a formulare il proposito di non peccare più, come dice l’atto di dolore, tanto sapeva che non ci riusciva, un po’ perché era giovane e gli bolliva il sangue e poi in lui si era radicato proprio il proposito di sedurre Sandra. E ci pensava notte e giorno.
Era il suo chiodo fisso.
Pertanto non era pentito dei suoi peccati e non avrebbe meritato l’assoluzione, ma in confessionale fingeva il pentimento perché, dentro di sé, sapeva di aver peccato non per offendere Cristo, ma per sua debolezza carnale e nello stesso tempo non voleva rinunciare a comunicarsi nutrendo verso Gesù un vero sentimento affettuoso.
Lei, inginocchiata al confessionale, non finiva più di parlare col sacerdote e lui,
che aspettava da un pezzo, si lambiccava il cervello.
Ma quanti peccati aveva e con chi li aveva commessi?
Lo infastidiva anche il fatto che il prete sapesse gli affari della sua ragazza. Temeva che incontrandolo potesse riconoscere in lui il cornuto che inconsciamente temeva di essere.
Don Piero, celato dietro alla grata che lo separava da chi si confessava, sapeva riconoscere dalla voce i parrocchiani. Lui non era di quella parrocchia, ma ci bazzicava con Sandra per delle iniziative benefiche che stavano a cuore a lei.
Decise che, per l’avvenire, sarebbero andati a raccontare le loro mancanze in una parrocchia a mezz’ora di strada.
Neppure a me sono mai piaciuti quei confessionali dove chi aspetta sta lì, o sembra che ci stia, ad origliare a non più di un metro.
La Chiesa, non recepisce pienamente un problema che poco incoraggia ad avvicinarsi ad un sacramento, già di per se, abbastanza ostico.
Alcune cose dovrebbero cambiare.
Vorrei vedere più contenute quelle sfilate, se vogliamo un po’ carnevalesche fuori stagione, di vescovi, arcivescovi, cardinali, intabarrati in piviali, mitre
dorate, pianete e stole ricamate, casule e rocchetti rossi.
Ridurrei le enormi croci pettorali, eliminerei gli anelli, abolirei le sciarpe rosse in vita, le mozzette e i berretti color porpora.
Il significato liturgico dei paramenti potrebbe essere espresso più modestamente, in maniera meno appariscente, più consona alla persona di Gesù che era povero e non indossò mai vesti preziose!
Lasciamo l’abito bianco al Papa, ma ai vescovi per distinguersi potrebbe bastare una piccola Croce argentea all’occhiello della giacca nera o grigia e i cardinali potrebbero portarla dorata.
Il venerdì pomeriggio suonò alla porta della signora Nora, mamma di lei, con il proposito di sondare il terreno allo scopo di trascorrere con loro la Pasqua. In casa ci trovò per caso anche suo padre.
Lo accolsero con semplicità, come uno di famiglia: il signor Dario, per il suo carattere, non per altro, tenne un comportamento più distaccato: parlarono di calcio, del più e del meno. Il vecchio era sampdoriano! Davide quei tifosi li vedeva con un leggero fastidio, ma non ne fece un dramma. Sarebbe stato solo dispiaciuto se anche Sandra avesse scodinzolato per quella squadra.
In genere si comportava con equilibrio e accondiscendenza, pur non abdicando dalla sua linea.
La natura era stata prodiga con lui: gli aveva dato una bella voce, un orecchio musicale, un bell’aspetto, versatilità per diverse discipline di studio. Sarebbe riuscito anche in politica perché si esprimeva in bella maniera e sapeva farsi accettare anche da chi aveva idee del tutto diverse.
In contrasto con questo apprezzabile comportamento, a volte per farlo rabbuiare e chiudere in se stesso, bastava che gli suonasse storta anche una sola parola.
In quello che gli stava a cuore s’impegnava nel migliore dei modi nei tempi dovuti e, in questo modo, riusciva a crearsi delle pause per pensare e spaziare ad occhi chiusi in voli immaginari attraverso l’infinito nei quali diceva di sentirsi libero come un angelo.
Certamente coltivava dentro di se doti non comuni.
Noi amici lo vedevamo come un modello cui far riferimento, al quale avremmo voluto assomigliare e più per ciò che diceva che per come si comportava, nella sua scia, riconoscevamo la necessità di ritagliare un po’ di tempo da dedicare all’introspezione ed a questioni non prettamente materiali. A volte, però, pensando alle vistose sue contraddizioni, rimanevo perplesso e dubitavo che in realtà, riuscisse a raggiungere la maturazione cui aspirava.
Sono tanti i principi che reputiamo importanti e che poi, all’atto pratico, accantoniamo, specie in gioventù, pur continuando ad enunciarne gli irrinunciabili valori.
Sandra con gli studi non era andata oltre la terza liceo scientifico ma, per la sua intelligenza, non era da meno di lui di cui riusciva a capire nel giusto verso il
carattere e il modo di fare.
Politicamente le sue idee erano simili a quelle di Davide e, come lui, non trovava una coalizione politica che esprimesse completamente il suo pensiero, avrebbe dovuto fondarsi un partito.
Ciò che maggiormente la impensieriva era che, in nome della democrazia e della libertà, si andasse perdendo il senso del rispetto verso le autorità, le istituzioni, le leggi e ne addossava la colpa a chi ci governava.
Servire la cosa pubblica doveva rappresentare un onore, un privilegio riservato a chi ne era degno oltre che capace.
Non sopportava che il pubblico denaro fosse sperperato in inutili enti creati appositamente per produrre clientelismo e quegli uffici dove troppi fingevano di lavorare. Trovava scandalose le pensioni di generali, deputati, senatori, e di tutti coloro che senza averne diritto, fruivano di esagerati emolumenti, solo per essersi arruffianati a personaggi intrufolati in ambienti da cui traevano vantaggi e non tollerava che funzionari incapaci coprissero cariche pubbliche e che altri, solo per raccomandazioni, occuero posti che non meritavano.
Quando s’infervorava in questi argomenti, le si coloriva il viso e sembrava una rivoluzionaria!
Le leggi, insite nella coscienza di ognuno, dovevano essere rispettate non per imposizione e timore della pena, perciò era imperativo per lei agire sulla formazione dei singoli fin dalla primissima infanzia.
Teorizzava una società dove si rispettassero le idee e la fede religiosa di ognuno e nessuno cercasse di imporre le proprie convinzioni.
Imperativo per lei era far scomparire la povertà eliminando gli egoismi, convinta che fosse possibile se è vero che un ricco può esistere solo se altri cento rimangono poveri; aspirazioni tipiche di una giovane idealista che fortunatamente credeva ancora nella giustizia umana e desiderava un mondo migliore.
Sandra si arrovellava su questioni del genere e Davide, che l’ascoltava ammirato, a un certo punto, accompagnando le parole con un applauso scherzoso, le gridava con enfasi: “Brava!” E finiva per abbracciarla e baciarla: “L’amore, solo l’amore, può migliorare il mondo!”
Ma non tutti sanno amare, non tutti sanno cosa sia l’amore, tanti cercano solo il possesso egoistico di ciò che credono di amare.
L'alto concetto che Davide, fresco di studi, aveva dell’ordi-namento di Roma antica, gli faceva auspicare una forma di governo amministrativo, un sistema nel quale tutte le categorie di arti, mestieri e professioni fossero rappresentate direttamente alla camera e al senato da elementi provenienti dal mondo del lavoro affiancati da un ristretto numero di politici liberamente, percentualmente e democraticamente eletti dal popolo. Non condivideva il sindacalismo di colore politico: tutti i lavoratori dovevano godere degli stessi doveri e diritti. Avrebbe volentieri accettata una forma, riveduta e corretta, del vituperato corporativismo.
Al centro del sistema il benessere dell’uomo nella sua individualità senza discriminazione di sesso, religione, età e razza, con scopo precipuo la felicità di
ogni individuo perché una società felice è composta da tanti individui felici.
“Ma come fai Davide a non tener conto delle opposte ideologie!”
E lui convinto: “Le ideologie rovinano il mondo, creano gli scontri tra i popoli e i più esaltati, che non rispettano le idee altrui, scatenano guerre addirittura per diverse credenze religiose. I governi devono amministrare la cosa pubblica per il bene dei cittadini che, tutto sommato, sia di destra che di sinistra, vogliono le stesse cose: pane, lavoro e libertà di stare in pace.”
“Avrai anche ragione, ma a me è capitato di conoscere persone con cui andavo simpaticamente d'accordo tanto che eravamo diventati amici, poi è successo che non ci siamo quasi più frequentati quando abbiamo scoperto di avere opposte idee politiche.”
“Vedi, è chiaro, la politica strumentalizza le persone e i politici non cercano altro. Quasi sempre ostacolano la collaborazione e favoriscono lo scontro nel quale trovano motivo di esistere. Se i ministri fossero più tecnici e meno politici, andrebbe tutto molto meglio.”
“Effettivamente a volte anch'io mi chiedo perché ministro della difesa debba essere un riformato che perciò non ha fatto il militare, ministro dell'agricoltura con annessa zootecnia uno che non sa se la gallina ha due o quattro zampe o se le patate crescono attaccate ai rami degli alberi, alla pubblica istruzione un tale che abbiamo sentito parlare da sculturato e non sapeva neppure coniugare i congiuntivi e magari, per contro, ti mettono a fare il ministro della giustizia uno che davvero è stato in galera!”
Davide aveva belle idee, gli sarebbe piaciuto entrare in politica, ma capiva che avrebbe dovuto accettare compromessi per lui non sempre accettabili.
Laureandosi aveva pensato a una bella carriera, ad una posizione di prestigio, suo papà poi, l’aveva sognato tante volte avvolto nella toga con tutte quelle nappine dorate ciondolanti dalle spalle!
La madre non nutriva voli pindarici, più che altro desiderava vederlo felice accanto a una moglie adeguata, con dei bambini: i suoi nipotini ai quali si sentiva di voler bene anche più che ai figli.
XIII
Per Pasqua, nonostante i buoni propositi, finirono per trovarsi soli perché la mamma di Sandra la riappacificazione col marito l’aveva procrastinata nel tempo. Non le andava, in definitiva, di cedere, così su due piedi.
Per non far torto a nessuno Sandra disse che erano invitati dai genitori di Davide, ma lui non volle andarci per quei dubbi che lo tormentavano sul comportamento dei suoi.
Con i genitori di lui s’inventarono un invito presso amici e se ne andarono per loro conto in una trattoria evitando così di sorbirsi i soliti discorsi di convenienza per tacere dei problemi che diversamente sarebbero affiorati. E arono una Pasqua bellissima.
Sul lavoro l’andazzo era sempre il solito.
Tra cartelle di pratiche e fogli impilati sulla scrivania che gli coprivano il panorama ed anche la visuale, gli sembrava di essere diventato un topo d’ufficio.
Lo stipendio non aumentava di una lira e non vedeva prospettive di miglioramenti.
Quando, a fine mese, ritirava la contribuzione dovutagli, si sentiva umiliato. Con quel denaro, vivendo per conto proprio, non sarebbe andato oltre al quindici del mese; con famiglia a carico, peggio ancora.
Per chi lo studio non lo riceveva già avviato dal papà avvocato, crearsi una clientela e farsi conoscere, non era cosa facile e, come stavano le cose, vedeva molto lontana la possibilità di formarsi una famiglia, pur facendo affidamento anche sullo stipendio della futura moglie e non poteva chiedere aiuti ai suoi che si erano già molto sacrificati per farlo studiare.
Avrebbero dovuto abitare un appartamentino in affitto in una di quelle zone popolari della città dove i palazzi facevano a gomitate per farsi spazio sulla strada tanto erano uno addosso all’altro, i panni stesi ad asciugare sui fili tirati tra un palazzo e l’altro e le donne a chiamarsi dalle finestre.
Sarebbero stati costretti ad aspettare a mettere al mondo un figlio ed a condurre per anni una vita di rinunce e privazioni come avevano fatto i suoi, in attesa di sfondare, cosa di cui non era neppure sicuro di riuscire.
Queste soluzioni si rifiutava di metterle in inventario anche per un pur breve periodo.
Non voleva buttare denaro in affitti, ma nello stesso tempo non disponeva di una somma da anticipare e i mutui non andavano oltre il settanta per cento del valore dell’immobile.
Anche a prescindere dagli anni della guerra, per tutti restrittivi, gli erano rimasti davanti agli occhi i rapporti tesi tra i suoi genitori in susseguenti periodi ed era convinto che, se in famiglia fossero entrati un po’ di quattrini in più, si sarebbero potuti evitare tutti quei nervosismi e tante giornate grigie.
Delle difficoltà finanziarie suo padre non si era mai reso pienamente conto anche se, in definitiva, oltre a cercare il lavoro che non trovava, non avrebbe saputo come porci rimedio.
È facile che se fai mancare il denaro in famiglia, tua moglie, o prima o poi, per quanto ti voglia bene, diventi nervosa e, per tanto che tu abbia un bel carattere, a lungo andare, scema anche la tua allegria, perdi prestigio, diventi anzi proprio un incapace di fronte ai suoi occhi e non catturi neppure più il rispetto degli amici che, pian piano, prendono le distanze da te temendo che prima o poi tu possa chiedere qualche prestito.
È triste, ma purtroppo è così!
Il 25 Aprile, quell’anno, cadeva di martedì e aggiungendo il lunedì, che poi veniva scalato dalle ferie, aveva la possibilità di godersi un ponte di quattro giorni durante il quale gli sarebbe piaciuto raggiungere con Sandra una località accogliente, ma senza troppe distrazioni che influissero negativamente sull’intimità del rapporto che voleva creare con lei in quei giorni.
Per avere il permesso a Sandra bastava che dicesse che andavano le sue amiche e che c’era anche Elena.
Quando Dodo andò a parlare a Giovanni, s’infilò dietro Sandrina. Nanni, come lo chiamavano loro, non capì che era intenzionato ad avere le chiavi del monolocale di Varigotti, fece finta di non capire o non capì veramente i suoi ammiccamenti e disse:” Anch’io, con Piera e i miei cognati, facciamo il ponte. Andiamo nella villa dello zio a San Martino, venite anche voi!”
Allo zio faceva piacere che la casa fosse abitata: desiderava solo che chi ci andava si portasse la biancheria e la lasciasse in ordine.
Tutto sommato l’idea di visitare il Casentino parve brillante a Sandra: era tanto che se l’era ripromesso e anche Davide accolse l’invito con entusiasmo.
Io mi accodai dietro insistenza di Giovanni perché subito non ero convinto di andare, ero solo, avevo litigato con Carla e mi sentivo anche stanco.
La bella giornata rese piacevole il viaggio nonostante quell’unico troncone di autostrada esistente tra Viareggio e Lastra a Signa, per il resto si superavano i soliti i e poi su per la salita della Consuma, tra le meravigliose colline della zona del Chianti, solcate da interminabili filari di vite. Qua e là, apparivano, strada facendo, le indicazioni delle fattorie dei Frescobaldi, dei Ricasoli, di Antinori e tanti altri nobili, tutti, caso strano, con la ione per il vino!
La villa si ergeva, in pietra rosa a vista, tipica della zona e vi si entrava tramite un grande cancello che si apriva sul viale diretto al garage.
Viburni, vegelie e forsythie costeggiavano una stradina in salita verso un bel porticato ad archi che, sulla sinistra della facciata principale, occhieggiava sulla vallata degradante ai suoi piedi, punteggiata da tetti ricoperti di coppi che s’intravedevano qua e là, tra gli alberi, come ritagli di buccia d’arancia, in mezzo ad appezzamenti di terra dai diversi colori a seconda delle semine. Gli uni dagli altri, erano separati da filari di cipressi e siepi le cui foglie, appena spuntate, non coprivano ancora i rossi cinorrodi che avevano resistito al freddo dell’inverno.
La costruzione si svolgeva su tre piani in mezzo ad una grande distesa verde:
non era un prato all’inglese, era molto più bello, ricoperto quasi totalmente da margherite e da fiori gialli di tarassaco.
Era bellissimo e dove la parte adibita a giardino terminava, iniziava un enorme frutteto con peri, meli, ciliegi dai bellissimi fiori bianchi che, in parte già caduti, avevano creato, tutt’attorno, l’effetto di una nevicata.
Con la primavera erano arrivate tante rondini quell’anno, avevano ritrovato, sotto ai tetti, i nidi lasciati in autunno e non facevano che andare e tornare, volando svelte, con pagliuzze e stecchi nel becco e riempivano l’aria profumata di allegria.
Il posto incantevole, noi molto affiatati: una bella compagnia ed eravamo tutti simpaticamente a nostro agio, anch’io che ero solo, ma in particolare Davide che, per la gelosia che aveva sempre in corpo, non si sarebbe trovato se ci fossero stati di quegli elementi che si prendono troppa confidenza con le ragazze degli altri e fanno battute spinte fuori luogo.
Era una malattia di cui soffriva e non riusciva a liberarsene nonostante notevoli sforzi e buoni propositi e non ne avesse assolutamente i motivi.
Quella gelosia poteva imputarsi ad un eccessivo egocentrismo che lo voleva signore assoluto della vita della sua ragazza di cui non conosceva il ato, ammesso che, alla sua giovane età, potesse averlo.
Era malpensante e diffidente al punto che se qualcuno la salutava per strada, a seconda del sorriso che le rivolgeva, gli si annuvolava il cervello, l’assaliva il dubbio che tra loro ci fosse stato qualcosa: un bacio, una carezza.
Quando gli si affacciava l’immagine di lei tra le braccia di un altro, soffriva e cambiava espressione benché fe di tutto per non farsene accorgere.
In quell’atmosfera di paese i suoi pensieri erano invece piacevolmente sereni, volti a considerare solo il bello e il buono della vita.
L’aria odorava del fumo bianco di legna arsa che, verso sera, si sprigionava dai camini delle case e ripioveva in strada. Lungo le scarpate dei viottoli e nei prati, ciuffi di viole e di primule gialle spuntavano tra il verde tenero della prima erba.
San Martino in Tremoleto è una piccola frazione di Poppi, con un unico negozio che vende prodotti del posto: la finocchiona, il Chianti, quello prodotto, alla maniera antica, dal titolare dell’unica rivendita, le uova fresche di giornata che ogni mattina consegnano i contadini dei poderi vicini, i fagioli zolfini, i ceci rosa di Pratomagno, il cavolo nero per la ribollita e il prosciutto da maiali locali che si nutrono di ghiande. Non si tratta di quei suini rosati importati a suo tempo dall’Inghilterra.
Da quelle parti i contadini allevano ancora i maiali dalla pelle scura chiazzata da macchie nerastre. Sono di razza mora romagnola che i toscani chiamano balugani.
Ad un chilometro di distanza, una piccola trattoria apparecchiava in tutto sei tavoli con tovagliette a quadri rossi e bianchi, i bicchieri comuni senza gambo, i così detti sini e, sul tavolo, il fiasco di tosco, al consumo.
Le sedie impagliate, quelle della nonna.
Ci andavamo la sera in bicicletta risalendo poi la china dopo cena, quando era già buio pesto. Nanni che conosceva la strada pedalava davanti con Sergio che sul manubrio aveva il fanale e dietro, ben attenti, noi tutti senza dinamo. La via era totalmente sprovvista di lampioni.
Nei pressi di Poppi vidi il raro, vero lupo italiano dal manto fulvo, molto più alto degli altri. Visitammo l’eremo dei Camaldoli risalente al milledodici ed il santuario della Verna dove erano a disposizione dei bigliettini sui quali era uso chiedere per iscritto una grazia.
Sandra ne riempì uno, lo piegò e lo depositò ai piedi della statua di San sco. Davide, fingendo di attardarsi in preghiera, fece in modo di are per ultimo, ma io che ero rimasto dietro, senza che se ne fosse accorto, vidi che era andato a curiosare cosa avesse scritto: colto sul fatto mi confidò che chiedeva che i suoi si riappacificassero!
Visitammo il castello duecentesco dei conti Guidi e tutto il lunedì lo ammo ad Arezzo incantati dalla bellezza della città vecchia, dei suoi palazzi e delle chiese.
A Stia lavoravano il panno tipico del casentino e il fratello di Piera regalò a sua moglie un montgomery bianco. Donava moltissimo a lei mora e un po’ abbronzata.
Ne avevano uno verde acqua che sarebbe stato a pennello a Sandra, rossa di capelli, ma né lei, né Dodo avevano i soldi sufficienti. Fui tentato di offrir loro
un prestito, ma qualcosa mi trattenne dal farlo.
Era evidente la differenza di possibilità tra noi e chi ci ospitava, ma non c’era invidia: la gioventù è bella proprio per questo e certi confronti servono da sprone.
A sera benché veramente stanchi, non rinunciavamo al momento di maggior so quando ci riunivamo per lo scopone scientifico con un impegno degno di miglior causa. Giocavamo come se ci fossimo giocati la villa dello zio, attenti a che nessuno fe segni che comunque riuscivamo a scambiarci lo stesso: bastava un attimo di disattenzione degli uni o degli altri e, nella fretta, succedeva che strizzassimo gli occhi invece di mandarli al cielo e così invece del re di denari sembrava che il compagno avesse in mano il sette bello e i malintesi generavano discussioni a non finire!
Sandra ed io, in coppia, eravamo imbattibili. Ci intendevamo anche senza segni, come se trasmettessimo telepaticamente.
Più tardi lei, attizzava il fuoco nel camino della sala, strimpellava qualche nota sulla chitarra e sprofondava con i suoi pensieri, a fianco del suo Diddy nel divano di cuoio bulgaro. A quell’ora il silenzio era rotto solo dal canto stridulo della civetta che non è molto apprezzata ma, nella stagione degli amori, canta anche lei.
Trascorremmo dei giorni veramente indimenticabili.
La sera prima del ritorno, già si allungava il muso a tutti: l’umore non era più lo stesso.
Giovanni, al pensiero di tornare in città a lavorare, avvertiva già un leggero cerchio alla testa e sosteneva che, creando un’attività adeguata, sarebbe vissuto volentieri in campagna.
Lo diceva poco creduto per quel fare troppo cittadino e raffinato che esternava e la pronuncia tipica di certi genovesi, che parlano chiaro anche a denti stretti, ma attingono dalle corde vocali toni bassi, un po’ cavernosi che danno alla voce una dizione elegantemente ricercata, in lui ancor più ingentilita dalla erre strascicata presa dalla madre che era di Parma.
A Parma, per colpa della dominazione se, hanno tutti l'erre moscia.
E la moglie Piera: “Giovanni, prendiamo in affitto la villa e sistemiamoci qui! Ci diamo a curar la vigna, mettiamo su un allevamento di polli, vendiamo le uova e la carne, Dora è bravissima a fare i dolci, vendiamo torte a tutte le trattorie e ai ristoranti della zona. Potremmo anche aprire un ristorantino!”
A proposito la crostata che fine ha fatto?
Carbonizzata!
Tutti convenivamo che, con una cerchia di amici, la vita in paese sarebbe stata più che accettabile. La gente molto aperta rendeva facili i rapporti, non ti sentivi un estraneo.
L’entusiasmo che crea la vacanza portava a valutazioni d’uso corrente, un poco riduttive se vogliamo, come dire che a Genova potevi andare a teatro, ad un concerto, ma che in definitiva non ci andavi quasi mai e che anche lì, volendo, a una trentina di chilometri, trovavi cinema e teatri e, tra arrivare in centro, l’inevitabile coda, cercare il posteggio, non era poi molta la differenza di tempo, senza calcolare che nei fine settimana andavamo sempre fuori città, ma per chi ci è nato al mare, è molto difficile allontanarsene. È una specie di mal d’Africa, per Davide poi la riviera, la sua spiaggia, il volo dei gabbiani, erano la vita.
Non se la sarebbe sentita, quando soffiava lo scirocco, di non udire più il suono delle sirene delle navi in rada, pur apprezzando l’aria della campagna, la vista del verde, dei prati in fiore che compensavano in parte e ben disponevano verso il prossimo e la vita che sarebbe una cosa semplice se non fimo di tutto per complicarcela.
Glielo diceva il suo amico Vittorio che aveva preso i voti e, in effetti, aveva risolto tutti, o quasi, i problemi spirituali e materiali: barba lunga, rapato a zero, calzava gli stessi sandali in tutte le stagioni e il saio che indossava era marrone, poco sporchevole, ma pur avendo una bella vocazione, qualche complicazione neppure lui era riuscito ad appianarla perché era palese che non fosse completamente libero dalle ioni della carne. Lo si capiva da come gli brillavano gli occhi quando gli capitava di vedere una bella ragazza e come ci si fermava volentieri a parlare! Benché cercasse di schermirsi con un fare indifferente, certamente era ancora sensibile al fascino femminile e non poteva essere diverso per quel suo temperamento impetuoso, la voce tonante, lo sguardo fiero, il modo di gestire e di esprimersi così diverso da certi suoi confratelli che parlavano quasi in falsetto, lo sguardo sfuggente e si sfregavano spesso le mani che spuntavano dalle larghe maniche, come se stessero lavandosele a secco!.
Quando lo conobbi, mi fece venire in mente il fra’ Cristoforo dei Promessi sposi.
Mi ero detto che un giorno avrei voluto lui a celebrare il mio matrimonio.
Aveva quattro fratelli: Benito, Bruno, Edda e Vittorio! Penso che i suoi genitori fossero stati fascisti!
Davide, in vena di confidenze, mi aveva raccontato che, fra i travagli spirituali e le molteplici inclinazioni giovanili aveva provato quella di farsi prete: gli sarebbe piaciuto portare nel mondo la parola di Cristo, ma non gli andava l’idea di dover rinunciare all’amore, alle donne, alla famiglia e non si sentiva abbastanza forte per ascoltare, con distacco e senza partecipazione morbosa, le ragazze che gli confessavano i peccati commessi, però mi diceva che gli sarebbe piaciuto confessarle.
Quando mi metteva a parte di queste sue trascorse aspirazioni, conoscendolo, finivo per farmi delle sane risate e il bello è che ci rideva anche lui e rincarava la dose delle esternazioni.
Mi ricordava Walter, quell’amico di Milano, che si era dato alla pittura non tanto per amore dell’arte, quanto per portarsi in studio belle figliole a posare nude per lui. Il suo atelier era pieno di tele raffiguranti donne nude nelle posizioni più svariate: sdraiate, inarcate sulla schiena, inginocchiate col culo per aria bene in mostra, lunghe cosce aperte, enormi vagine, sguardi erotici e nel suo studio vidi anche un dipinto che raffigurava un amplesso tra una giovane corpulenta e un maschio mingherlino, dal petto e la schiena villosi, gli occhi libidinosi, quasi spiritati e due corna ricurve, come quelle del montone, dietro alle orecchie appuntite.
Nella sua artistica immaginazione, aveva accoppiato la donna con questa specie di fauno bestiale che la penetrava con violenza mentre lei, con gli occhi socchiusi, sottostava con l’espressione di una vittima che subisce, ma che contemporaneamente, con le gambe divaricate addossate alle sue, lo tratteneva a se.
Mi spiegò che, in quella tela, aveva voluto simboleggiare il contrasto psicologico della donna combattuta tra virtù ed erotismo!
Le ragazze le sceglieva inserzionando l’offerta di lavoro nel quotidiano locale. Nell’annuncio precisava: “Pittore cerca modella formosa, impegno saltuario ben retribuito, gradita foto.” Gli rispondevano casalinghe, impiegate, studentesse disponibili dopo cena e alcune allegavano anche le loro fotografie in costume adamitico.
Walter ci sapeva fare e se le ava quasi tutte. Almeno così diceva! Quando si erano completamente spogliate, per spiegar loro la postura da assumere, si avvicinava, accennava a toccarle prima col manico del pennello, con molto garbo, chiedendo scusa, permesso, pardon, poi con la mano, per far ritrarre una gamba o alzare di più un braccio e intanto le studiava e, siccome non mancava di fascino ed era un attento e profondo conoscitore della psicologia femminile, ci provava per lo meno con quelle di cui capiva le inclinazioni, le debolezze ed era certo che non gli avrebbero detto di no senza creargli complicazioni.
Intanto, nel primo pomeriggio di martedì, avevamo lasciato a malincuore San Martino ed eravamo arrivati a Genova in serata, con due sole soste lungo la strada per sgranchirci le gambe.
Davide recriminava che per la continua presenza di noi amici e perché, in casa d’altri, aveva dovuto tenere un certo contegno, non era riuscito a creare quella intimità che, con l’occasione, avrebbe desiderato e la stessa Alessandra, comunque sempre affettuosa, era continuamente in movimento, in dozzina, ridendo e scherzando con tutti più che con lui in particolare.
XIV
A Genova, alle sette del mattino, nei giorni feriali, la gente è già tutta in movimento e il traffico congestionato.
Le auto arrivano a frotte dagli svincoli delle autostrade di Nervi, di Genova est, dell’uscita ovest, di Bolzaneto e tutte le strade cittadine, dalla vecchia Aurelia a corso Europa, s’intasano e la circolazione diventa caotica per non dire impossibile.
Tutti procedevano a o d’uomo verso il centro.
In una di quelle code c’era Davide che fremeva perché avrebbe desiderato arrivare in ufficio per parlare con Sandra che, abitando nelle vicinanze, aveva in consegna le chiavi per l'apertura e raggiungeva l’ufficio a piedi, sempre in anticipo sull'orario e prima degli altri.
Le colleghe, risultarono assenti perchè influenzate, l'avvocato e il giovane di studio si erano precedentemente accordati per raggiungere il tribunale di Chiavari direttamente, senza are dall'ufficio: dovevano difendere un tizio che era stato derubato del portafogli contenente, oltre ai documenti, centomila lire.
Dietro indicazioni raccolte con molta fatica, questi aveva riconosciuto il ladro e l' aveva affrontato intimandogli di restituirglielo. Nell’alterco che ne era scaturito nella trattoria dove l’aveva raggiunto, a un certo momento l’aveva minacciato di spaccargli la faccia e gli aveva dato anche del figlio di puttana. Questo, punto sul
vivo, perché veramente sua madre faceva quel mestiere, l’aveva denunciato e il derubato rischiava di fare la fine dei pifferi di montagna che andarono per suonare e rimasero suonati.
Sandra stava tutta sola alla scrivania quando arrivò Davide che prese una sedia e si accomodò vicino a lei e, come suo solito, quando voleva intavolare un argomento importante incominciò, in modo scherzoso, un discorso che voleva essere molto serio. Aveva l’abitudine di girare attorno al nocciolo delle questioni scherzando perché a volte sono proprio i sentimenti più sinceri quelli su cui amiamo scherzare, forse per un certo pudore: “In questi quattro giorni ho avuto la sensazione che stessi più volentieri con gli amici che con me!”
“Diddy, non capisco cosa tu voglia dire e neppure cosa io sia per te. Dove vuoi arrivare! A volte mi chiedo se faccio bene a comportarmi come se fossi la tua fidanzata.”
“Ale, ascoltami! Forse, ma non ne sono ancora sicuro, so pronunciare un’arringa in tribunale e saprei fare assolvere un imputato, ma non so difendere me stesso dalle schermaglie di una ragazza. Non ho parole per descriverti il mio stato d’animo quando ti sono vicino o anche solamente ti penso.”
Lei lo ascoltava senza interromperlo, guardando ora lui negli occhi, ora per terra e Dodo continuò: “Riassumerei tutto ciò che nei giorni scorsi avrei voluto dirti, in una giusta atmosfera, in una parola che non dice niente se non tradotta nei fatti, ma è l’unica che conosco ed esprima quello che provo per te, Sandra ti amo con tutto me stesso e ti voglio mia per sempre.” Ma lei non lasciò che continuasse a parlare, gli si buttò tra le braccia e si baciarono apionatamente.
“Era quello che volevo sentirti dire, anch’io tesoro sono innamorata di te. Tu sei tutto il mio mondo e voglio dividere con te tutta la vita”.
In quel momento sentirono squillare il camlo della porta dell’ufficio e Sandra andò ad aprire tutta rossa in faccia e col respiro alterato.
Era un cliente che stava per andarsene perché aveva già suonato più volte, ma proprio non l’avevano sentito.
Tra loro era nato un grande amore e la felicità era talmente palpabile che anche i muri avvertivano la loro complicità. Era edificante vedere come si guardavano e s’intendevano senza parole, tanto erano fatti uno per l’altra.
La prima domenica di Giugno, Davide si recò a casa dei genitori di lei, si presentò con un mazzo di narcisi per la signora Nora ed evitando cerimonie, le disse che amava sua figlia e che la voleva sposare. Poi, siccome Sandra era a Messa con suo padre, pregò lei di dirlo a suo marito perché lui, avvocato, non era fatto per quel genere di discorsi e non sarebbe tornato su quell’argomento.
Nora non sapeva che comportamento tenere all’insolita richiesta e ci mancò poco che scoppiasse a ridere e, nello stesso tempo, a piangere, ma seppe assumere un contegno adeguato.
Dandogli istintivamente del tu, gli rispose: “Avevo già avuto sentore di qualcosa d’importante tra di voi e sono veramente felice per ciò che mi hai detto!”
Era stata la dichiarazione spontanea, senza troppi giri di parole, del più bel sentimento del mondo: l’amore che bilancia il peso della terra e fa sì che non s’inclini mai troppo da una parte e ci faccia precipitare tutti.
Sandra incominciò a frequentare la famiglia di lui, si fece amica della sorella, meno della futura suocera che, come capita spesso, vedeva la fidanzata del figlio un po’ come una rivale. Le voleva bene ma, per il suo primogenito avvocato, forse, avrebbe preteso qualcosa di più di una semplice impiegata.
Suo marito Bruno, in famiglia scherzosamente soprannominato “orso bruno”, vide invece subito in lei un’altra figlia e glielo dimostrava con gentilezze e piccoli pensieri che, di riflesso, facevano felice Davide e forse ingelosivano, in senso buono, la moglie.
Difficilmente arrivava a casa con dei fiori o un profumo. Era all’antica e certi pensieri gentili li giudicava debolezze; a sua moglie portava più facilmente un paio di scarpe che, pur avendole comprate del numero giusto, quasi sempre le facevano male e lei finiva poi per portarle per non offenderlo. Riusciva a camminarci senza rimpianti quando ormai erano sformate e doveva andare dalla pedicure per qualche callo maledetto che le si era formato.
Quando tornava dalla riviera di ponente, quella dei fiori, era più facile che le portasse dei carciofi, una gallina o una cassetta di asparagi: sapeva che lei adorava il violetto d’Albenga in pinzimonio e piaceva molto anche a lui con l’uovo al tegamino, fritto in abbondante olio con sopra un po' di sale, pan grattato e pepe bianco.
Bruno non condivideva la festa di San Valentino e neppure quella della donna. Le considerava promozioni consumistiche. Provava un senso di pena per tutte quelle donne che, con un mazzetto di mimosa, la sera dell’otto Marzo uscivano senza uomini per cenare tra loro e dopo si recavano in un locale ad assistere ad uno spogliarello maschile.
Oltre tutto non sopportava la mimosa che gli procurava decine di starnuti allergici consecutivi, ma per non esser da meno di alcuni amici incontrati davanti al chiosco del fioraio, per la festa della donna, quell’anno, aveva acquistato un mazzo di rose rosse. Se l’era fatte fasciare bene in modo che entrando nel portone, nessun condomino eventualmente incontrato, potesse notarle. In questo era uguale a suo figlio, non gli andava che lo vedessero con i fiori in mano e il fioraio gliele aveva avvolte tanto bene che entrando in casa la moglie gli disse: “Il pane posalo pure sulla tavola che tra un minuto scolo la pasta.”
Il pane s’era dimenticato di comprarlo e sua moglie odiava le rose rosse, gradiva solo quelle gialle e così fu l’ultima volta che gli venne l’idea di farle un omaggio floreale, ma alla futura nuora regalava volentieri, ogni tanto, un mazzetto di fiori di campo e glieli offriva con un bel sorriso: si fa per dire!
Erano trascorsi alcuni anni da che si erano trasferiti a Varazze.
Elena ce l’aveva fatta: si era laureata in chimica industriale col massimo dei voti ed era stata subito assunta alla Marconi di Sestri Ponente.
Momentaneamente accantonato il vecchio progetto dei fari antinebbia, pur continuando nei suoi studi di ricerca, si era data molto da fare per suo padre smuovendo alcune, ben mirate, pedine.
Davide aveva fatto bene a tener per sé i dubbi sul periodo in cui il babbo era stato guardia giurata. Non aveva trovato nessuna conferma alle maldicenze, che, a quel punto, tali dovevano essere considerate.
A Roma, tramite l’esame di tutti i relativi incartamenti, gli era stato ricostituito lo
stato di servizio ed era stata accolta la domanda presentata, dietro pressione dei figli, per la riammissione all’arma, ragion per cui Bruno tornò ad indossare l’onorata divisa col grado di brigadiere. Gli fu riconosciuta l’anzianità e fu assegnato ad una stazione del centro di Genova.
Furono così in grado di compiere un salto di qualità stabilendosi a Pegli alta, in un appartamento di sette vani con un giardinetto poco più grande di un fazzoletto, ma pur sempre un polmone di sfogo: ci tenevano un tavolo col piano in ardesia, sei sedie e un dondolo, spesso ci mangiavano e, anche se da lontano, si godevano la vista del mare.
Il mutuo l’avevano con tasso fisso. Insomma, anche considerando che, prima o poi, i figli se ne sarebbero andati per le loro strade, dormivano sonni tranquilli e avevano smesso di buttare denaro in affitti.
La mamma continuava a cucire, però con minore ansia e senza oberarsi di lavoro, ma a Bruno, data l’età, era subentrata come una specie di pensiero fisso l’incognita per il suo prossimo futuro da pensionato. Se ne preoccupava non avendo amicizie e nel distretto dove era di stanza non riusciva ad allacciare rapporti con la gente del rione, specie i negozianti che non ambivano a troppa confidenza con un brigadiere di spiccato stampo meridionale.
È risaputo che i genovesi siano piuttosto chiusi nei confronti dei forestieri. Ognuno vive nella sua ristretta cerchia, più con parenti che con amici. Si aprono a conoscenze, difficilmente a nuove amicizie.
Bruno aveva conservato quell’atteggiamento tipico di certi siciliani di non troppa cultura e conservava la tipica pronuncia sicula con la “o” aperta e la “t” strascicata all’inglese, come diceva lui: ne andava fiero, ma la gente non è che l’apprezzasse molto. Andando in pensione non avrebbe saputo come are le
giornate e il fatto lo impensieriva.
Temeva di dover trascorrere tutto il giorno tra i piedi a sua moglie impegnato in lavori domestici, a far la spesa o, tanto peggio, a spolverare.
Andar per negozi o al mercato non gli pesava, era anzi un diversivo e conosceva bene i tagli di carne adatti a seconda che servissero per il bollito, l’arrosto o il vitello tonnato, sapeva scegliere frutta e ortaggi preferendo sempre i prodotti di stagione sia per la freschezza che per il prezzo,ma non sopportava di are l’aspirapolvere: ne odiava anche il rumore e quello stridio prodotto dallo spostamento delle poltrone senza feltrini che sua moglie non voleva perché li riteneva ricettacolo di lanugine polverosa.
Nell'appartamento di Pegli, Margherita ava la cera sui pavimenti e avrebbe preteso che usassero le pattine: le teneva pronte dietro la porta d’ingresso. Bruno l’aveva spuntata a non usarle con l’appoggio dei figli che la pensavano come lui e scherzosamente dicevano di non amare lo sci di fondo.
Se la cavava benino in cucina, l’estro però gli veniva una tantum e doveva essere lui, sua sponte, a dire che quel giorno voleva far da mangiare.
Cucinava bene il pesce spada alla sicula con i capperi di Pantelleria e la pasta alla Norma con le sarde, piatti però che lui stesso gradiva una volta ogni tanto. Sarebbe vissuto invece a tortellini in brodo e lasagne al forno con la besciamella, cucinati da sua suocera di origine modenese. Il brodo gli piaceva di carne di manzo, ben schiumato, non di gallina, con una testa intera d’aglio vestito ed una grossa cipolla rossa di Tropea infilzata da tanti chiodi di garofano.
Seduto alla scrivania nell’ufficio della tenenza dell’arma, a volte fantasticava di aprire una piccola trattoria per una trentina di coperti al massimo. S’immaginava, gilet e farfalla neri sulla camicia candida, aggirarsi tra i tavoli, col tovagliolo sul braccio, tutto sorridente sotto i baffi grigi, felice di non dover trattenere il respiro per nascondere la pancia. In quell’ambiente ci sarebbe stata a proposito.
Gli incominciava a pesare prestare servizio allo stadio quando c’era la partita di calcio e controllare gli scalmanati che insultavano le forze dell’ordine facendo di tutto per provocare scontri in nome di un qualcosa che non riusciva a capire.
Preferiva andare di pattuglia lungo l’Aurelia, formare un posto di blocco e ogni tanto fermare una macchina per controllarne i documenti. Incappava quasi sempre in conducenti in regola, felice di non dover appioppare contravvenzioni a chi gli dava la sensazione di essere un povero Cristo!
Solo una volta gli era capitato che un ragazzo non si fosse fermato allo stop impostogli con la paletta.
Durante l’inseguimento aveva temuto una revolverata e gli sarebbe proprio dispiaciuto a così breve distanza dall’andare in pensione. Poi tutto si risolse per il meglio, si trattava di un figlio di papà che aveva preso di nascosto l’auto del padre e guidava senza patente.
Quando guardava quei vecchi pensionati che giocavano a bocce dietro al poligono del tiro al piccione, provava tanta tristezza: teste bianche che si scaldavano per un punto perso, che se la prendevano per una bocciata sbagliata, così lontani dal suo modo di vivere.
Ne vedeva altri sempre in fila lungo la recinzione del cantiere edile sotto casa, con le dita infilate nei rombi della rete metallica, rimanevano per ore in piedi ad osservare e a criticare il lavoro degli operai e, in particolare, dell’escavatorista e tutti a darsi arie da capomastri e geometri. Gli ricordavano i detenuti nel campo di concentramento dove era stato prigioniero per un periodo e gli sarebbe dispiaciuto andare ad aumentarne la schiera.
Non trovava divertimento neanche quando vinceva a briscola al bar e beveva gratis il caffè o un grigioverde. Non giocava volentieri a carte con gli estranei, solo con sua moglie si divertiva davvero.
La bocciofila aveva di bello che era in riva al mare e disponeva di bar e di tavola fredda! Ma perché era definita fredda se distribuiva pastasciutte e minestroni caldi?
Non era neppure sicuro di essere ben accetto in quella compagnia perché una sera, osservando chi giocava, aveva notato la presenza di due che, qualche mese prima, aveva fatto arrestare!
Dei loro progetti e di tutto ciò che succedeva a casa sua, Dodo m’informava nei minimi particolari perché mi vedeva come un fratello ed ero il suo confidente. Anch’io lo consideravo tale: di fratelli ne avevo due più giovani, ma con loro avevo meno confidenza.
Mi chiedeva pareri e consigli di cui non sempre ero all’altezza, si rivolgeva a me forse per il motivo che avevo incominciato a cavarmela da solo molto prima di lui che frequentava l’università e pensava che avessi più esperienza.
Prima che conoscesse Sandra, una volta, mi telefonò che la ragazza con cui usciva allora, era disperata per un ritardo di quasi venti giorni e mi chiedeva come dovesse comportarsi. Oltre tutto quella vedova che ogni tanto si scopava, gli aveva messo la paranoia che il bambino sarebbe nato con delle macchie rosse in faccia perché quando avevano fatto l’amore, la ragazza non aveva ancora terminato il ciclo mestruale!
Aveva chiesto lumi a quella signora pensando che su certi argomenti nessuno fosse informato meglio di lei. Per fortuna, dopo poco, mi comunicò il cessato allarme. Non avrei saputo cosa dirgli!
Verso la fine di Aprile ero stato via un po’ di giorni.
Quando mi assentavo, in ufficio ed ai clienti, dicevo che andavo a Rio e mi invidiavano non poco pensandomi in volo verso le spiagge bianche del Brasile, ma ero semplicemente diretto in un paesino dell’appennino toscoemiliano che, solo per brevità, chiamavo Rio, tanto nessuno sapeva dove si trovasse. Era lì che ci eravamo stabiliti in tempo di guerra.
Era un piccolo comune con quattro frazioni e pochi abitanti. Il paese è rimasto piccolo, ma ora non manca di niente! C’è il sindaco, il parroco, il medico condotto, la farmacia, un campo da tennis e quello di calcio dove in primavera, seduto in tribuna, hai tutt’attorno viole e primule e, se ti distrai un attimo dalla partita, puoi ammirare la vetta del monte Cimone bianca di neve. Ora sono sorte tante ville e nuove costruzioni, ma il bellissimo centro storico è medioevale.
Oltre ai negozi di alimentari c’è l’ambulatorio, la banca, addirittura un istituto di bellezza, l’edicola, un bell’albergo, diversi buoni ristoranti, la biblioteca, il teatro e persino un piccolo museo nel quale sono raccolte le documentazioni che ripercorrono la storia del “Maggio delle ragazze,” una simpatica antica usanza
del posto secondo la quale, all’inizio della buona stagione, un gruppo di bravi canterini, in costume tipico del paese, a a porgere un saluto cantato detto “rispetto”.
Il poetico nome di questo paese è Riolunato e deriva dal fatto che è posizionato in mezzo a due corsi d’acqua che, tra il biancheggiare di enormi sassi, scendono a valle formando pozze, salti, cascate e schiuma e, confluendo, si distendono alle spalle della diga: il più importante è lo Scoltenna, che si getta nel Panaro, a sua volta affluente di destra del Po’, l’altro, con minore portata d’acqua, ma più rapido è il rio di Castello che si butta nello Scoltenna. I due fiumi formano un semicerchio che cinge il paese in un affettuoso abbraccio, creando il disegno di una mezza luna.
Nelle notti che vanno dalla luna nuova all’ultimo quarto, l’acqua nei due corsi, assume l’aspetto di una lastra d’argento che incornicia il paese.
Ci sono altre interpretazioni sull’origine del nome, ma io prediligo questa.
Ero andato a far visita a mia madre che si era strapazzata di lavoro a causa del rifacimento del tetto della nostra vecchia abitazione.
Rifare la copertura ad una casa del millecinquecento comporta un lavoro immenso, la polvere s’infiltra dappertutto e bisogna affrettarsi perché in montagna il tempo può cambiare da un momento all’altro e allora sono guai: i teli di nylon, se ci si mette il vento forte, non servono a niente.
Trovai che qualcosa, in paese, incominciava a cambiare.
Avevano lottizzato il castagneto della Vallona e questo mi spiacque non poco. Era lì che giocavamo a pallone e avevo tanti ricordi di quel posto. In compenso iniziavano a costruire appunto le nuove case e l’albergo che quelli esistenti più che altro ne facevano le veci! Anche le persone stavano cambiando: non so dire se in meglio.
Peccato che si andassero perdendo tante belle abitudini!
Un tempo, tre giorni prima dell’Ascensione, per propiziare un buon esito delle semine e del raccolto, la gente del paese usava andare in processione nei diversi poderi recitando le litanie. Erano le rogazioni. Si raggiungeva una edicola con l’effige della Madonna a Casa di Nogà, poi un agglomerato di case coloniche chiamato La Luna, più avanti, la tenuta del Medale e spesso, a breve distanza, in località detta Calvario, una Croce posta su di un obelisco in pietra serena di epoca feudale che, purtroppo, attualmente gli alberi cresciuti attorno, quasi nascondono. Si camminava lungo sentieri e stradine sterrate tra siepi di rosa canina, rovi di mora selvatica, prugnoli e olivello spinoso. Si cantavano inni sacri, il parroco indossava la cotta bianca e con l’aspersorio benediceva i campi dove potevi vedere quei curiosi spaventaeri fatti con due legni in croce vestiti da un paio di calzoni rotti, una giacca da buttare, la sciarpa rossa e un cappello alla atore in testa ad un sacchetto impagliato con gli occhi dipinti. Spaventavano gli uccelli che avrebbero beccato le sementi.
Oggi gli spaventaeri girano per le strade delle città con braghe dal cavallo bassissimo che sembra se la siano fatta addosso, le teste mezze rasate con creste colorate di rosso, di giallo, di blu e anelli tintinnanti alle orecchie e al naso.
Più che i eri allontanano la gente!
Come dicevo, ero andato a trovare mia madre che viveva lassù per vari condizionamenti che la vita le aveva imposto.
A Rio, spesso mi veniva tristezza nel constatare che le stanze non erano più impregnate del profumo delle sigarette che mio padre fumava e anche in bagno era ormai svanito quel suo odore personale: una mescolanza tra sapone da barba al mentolo e tabacco biondo.
La mamma mi cucinava piatti appetitosi che mi ricordavano la mia infanzia: il pancotto, riso e latte, la polenta di farina di castagne e, quando ripartivo, si sarebbe offesa se avessi rifiutato di portarmi via ciò che mi aveva preparato: un vaso di miele, la sua composta di pomodori verdi che lassù tali rimanevano quasi sempre perché il freddo ne bloccava la maturazione, le frappe e la sua famosa crostata alla marmellata di albicocche. Temeva che soffrissi la fame.
Mangia, mi raccomando, nutriti!
E pensare che ero sovrappeso e pranzavo sempre in ottimi ristoranti!
Mi sarebbe piaciuto riunire la mia famiglia, ma era essenziale per farlo che i miei firmassero una specie di armistizio, cosa che non avvenne mai, per questo, quando sentivo il bisogno di trascorrere qualche ora in famiglia, andavo a casa di Davide a Pegli dove, quasi sempre, trovavo Sandra che si dimostrava felice di vedermi, stava volentieri in mia compagnia e a volte mi metteva in imbarazzo. Diceva che le sarebbe tanto piaciuto avere un fratello come me!
Anch’io sarei stato felice di avere una sorella, ma non avevo mai idealizzato lei come tale. Seppi un giorno da mia madre e la cosa mi provocò un vero
dispiacere, che due anni dopo la mia nascita, aveva avuto una bimba, ma era nata morta.
La stagione era cambiata velocemente, di colpo si era ati al caldo e si usciva a eggiare di sera, quando l’aria era più respirabile.
Le varie circoscrizioni della città avevano tante iniziative, i fuochi d’artificio al primo posto e tutti i paesi della provincia facevano a gara a chi li sparava più belli.
Quelli di Rapallo duravano tre giorni ed erano, almeno per noi, i preferiti: raffiguravano l’attacco dal mare dei saraceni e i razzi erano sparati dalle barche verso riva, la seconda sera i rapallini mimavano il contrattacco sparando razzi da terra verso il mare, ma la sera dopo, gli arabi riuscivano a sbarcare e incendiavano il castello a ridosso della scogliera. Questo era l’epilogo: una scena meravigliosa che provocava l’applauso accompagnato dall’ovazione di migliaia di persone che vi avevano assistito con il naso in su.
Centinaia di girandole prendevano fuoco contemporaneamente e sprigionavano scintille di colori diversi che si riflettevano in mare mentre nel cielo s’intrecciavano, a non finire e sembrava cadessero sulla testa degli astanti, razzi che esplodevano e disegnavano meravigliosi arabeschi, lasciando piovere milioni di filamenti luminosi e di stelle colorate bianche, gialle e rossastre: effetti fantastici tra nuvole di fumo.
Prima dei fuochi, lungo la eggiata a mare e le vie adiacenti, si snodava la processione in onore della Madonna di Montallegro che, secondo la tradizione, aveva salvato Rapallo dal saccheggio.
Diecine di enormi Crocifissi, ce n’erano anche due neri, pesanti più di un quintale, erano portati in difficile equilibrio, imbragati sul davanti dentro a dei i di cuoio chiamati crocchi, da uomini rudi, tarchiati, neppure tanto giovani, ma dalla forza erculea. Indossavano camici bianchi e provenivano da tutte le confraternite della città e dei dintorni. Procedevano a stento, ondeggiando, a tratti si fermavano con le gambe divaricate per riequilibrarsi e sembrava che non ce la fero più e che le pesanti Croci tintinnanti stessero paurosamente per cadere, poi il timore rientrava e la processione ripartiva tra i canti dei fedeli e il suono dei componenti la banda cittadina, tirati a lucido con gli ottoni, i piatti, la gran cassa e le divise ben stirate per l’occasione. “Noi voglian Dio che è nostro padre…” cantavano le donne dietro al baldacchino con su la Madonna impreziosita da tanti ori, catenine, collane, medagliette, cuori d’argento, ex voto per grazie ricevute, seguivano i gonfaloni di tutti i comuni, una schiera di chierichetti con le cotte di pizzo candido e i parroci di tutta la diocesi precedevano il vescovo di Chiavari che, con la mitra in testa e il pastorale nella sinistra, con la destra benediceva la folla assiepata lungo le transenne.
Se non c’erano i fuochi, andavamo alle sagre nei paesini dei dintorni. L’imbarazzo era nella scelta tra quella del pesce, quella delle frittelle, la sagra delle lumache, dei ravioli, ma in definitiva erano scuse per are la serata in compagnia e fare quattro salti: la musica non mancava mai.
Non sempre potevo accodarmi a causa del lavoro che mi costringeva ad assentarmi anche tre, quattro giorni e pernottavo fuori, ma appena tornavo mi univo agli amici. Avevo una ragazza sempre allegra, di compagnia, amava cantare e ballare e mi voleva bene. Se dovessi essere sincero, non so dire neppure ora se fossi stato innamorato; so che stavo bene assieme a lei anche se era più facile che certi miei pensieri preferissi confidarli a Sandra.
Comunque mi sentivo leggero, allegro e pensavo allora di aver raggiunto un alto grado di felicità, tanto alto che di notte mi sognavo di volare.
Era bellissimo! Prendevo il volo dandomi una spinta, un piccolo slancio da un rialzo del terreno, dal terrazzo o addirittura dal tetto e sorvolavo, a braccia aperte a mo’di uccello, le case, le strade, le persone che stavano a guardarmi col naso all’aria, meravigliate per il prodigio cui assistevano.
Una notte feci anche un sogno meraviglioso nel quale mi vedevo, in tuta bianca, mentre sciavo in cielo lungo la via lattea; andavo ad una velocità folle facendo slalom tra boe luminose che mi accorsi che erano stelle e brillavano di una luce azzurrognola e intermittente. Io le schivavo spigolando sulle ginocchia senza neppure usare le racchette, ma più che sciare, volavo per la velocità che mi era stata impressa dalla lunga discesa.
Lo raccontai a Carla che incolpò qualcosa di piccante con cui potevo aver cenato la sera prima. Io, fuori del normale, avevo solamente bevuto dello sciroppo per la tosse e forse avevo esagerato perché ne avevo bevuto mezzo flacone ritenendo che se un cucchiaio poteva farmi bene, berne di più mi avrebbe fatto meglio.
Poi, sentendomi in generale un po’ stanco, ma non di volare, un giorno mi decisi a recarmi da un medico mio amico che mi chiese se dormivo sonni tranquilli. Gli risposi che riposavo benissimo, che facevo anzi dei sogni meravigliosi nei quali volavo e lui mi deluse non poco, spiegandomi che la causa delle mie trasvolate e delle mie sciate, erano sbalzi notturni della pressione arteriosa e mi dette delle pastiglie da assumere prima di coricarmi.
Smisi di far quei sogni e, in quell’occasione, scoprii di essere iperteso.
Davide incominciava a dare segni d’impazienza: il misero stipendio non gli era sufficiente per realizzarsi come avrebbe voluto, alla sua età sentiva la necessità di avere la sua indipendenza, era stanco di abitare in casa dei suoi e non poter disporre di nulla e tanto meno della sua camera, o meglio del suo letto con chi
avrebbe voluto.
Voleva trovare qualcosa di più remunerativo anche se di minor prestigio e non gli andava neppure la monotonia di quell’impiego. A questo proposito io cercavo di rabbonirlo: “Sai Dodo, le professioni, con l'andare del tempo, finiscono tutte per essere ripetitive. Non credere che per un architetto la cosa sia diversa perché quando avrà realizzato il suo stile personale, tutto ciò che andrà a proporre rientrerà nello stesso schema e se vorrai qualcosa di diverso dovrai cambiare architetto. Non sgarra neppure il comportamento di un pittore che dovrebbe esprimersi al massimo dell’estrosità e della libera ricerca eppure, quando deciderà di campare con i proventi della pittura, le sue tele saranno tutte ripetitive e volutamente simili alle meglio accolte dal pubblico, più facilmente vendibili e, da quel momento, non dipingerà più per se stesso in nome dell’arte, ma per gli acquirenti.”
In fin dei conti, diceva, ho studiato legge più per far felici i miei che per me e vorrà dire che la cultura che mi sono fatto, mi servirà per la vita anziché per il lavoro.
Mi guardai bene dall’assumermi la responsabilità di esprimere un parere, farlo mi era molto difficile. Lo pregai solo di pensarci bene.
Intanto si avvicinavano le ferie che quell’anno noi amici di vecchia data, avevamo deciso da tempo di trascorrere assieme. Scartammo l’idea iniziale dell’isola del Giglio causa l’affitto troppo caro che ci chiesero per una casa adeguatamente comoda nella zona sovrastante l’Arenella: spararono una cifra inaccettabile, allora Paolo, il ragioniere sempre un pochino parsimonioso, per non dire tirchio, propose di andare in campeggio dalle parti di Vieste, ma alcuni di noi c’erano già stati e ancor più ci scoraggiò il pensiero del viaggio, la distanza e il caldo e non eravamo neppure intenzionati alla vita di campeggio.
L’idea vincente fu per un paese ai confini con la Francia: Dolceacqua, nell’entroterra di Vallecrosia che dista pochi minuti da belle spiagge pulite e mare limpido. In fin dei conti avevamo tutti bisogno di riposarci dopo un anno di lavoro e in quanto a viaggi ne avevamo già fatti anche troppi sia in Italia che all’estero.
C’era anche il vantaggio che di notte si dormiva nel fresco il che, dopo una giornata di sole, non era l’ultima cosa da augurarsi. Siccome spesso andavo da quelle parti per lavoro, toccò a me l’incarico di trovare l’alloggio adatto, ma farlo non era semplice come a dirlo.
Solo per Paolo e Renzo e le rispettive mogli, occorrevano due matrimoniali, poi sarebbero venuti Davide e sua sorella Elena col ragazzo, la Sandra, la Carla, quella che pensavo mi fe volare e sarebbe venuto anche Aldo, ma non sapevamo con chi filasse in quel momento.
Era assodato però conoscendolo, che avrebbe voluto dormire assieme alla sua ragazza e questo rappresentava già motivo di contrarietà; era da escludere comunque che Sandra dormisse in camera con Dodo, neppure in letti separati e così Elena con Giorgio e la Carla con me, se non altro per salvare le apparenze.
Esclusi gli sposi e la coppia convivente, avremmo dovuto dormire nella stessa camera io, Davide e Giorgio e in un’altra Sandra, Elena e la Carla.
La casa ero riuscito a trovarla, anche accogliente, a due i dal centro, in bella posizione panoramica, ma l’idea di tutto quel trambusto, il pensiero di dormire in tre uomini in una stanza e le ragazze nelle rimanenti, con a disposizione un solo bagno, con annessi e connessi, perché c’è sempre quello che russa, quello che si alza, quello che non è ancora rientrato, mi faceva andare in paranoia.
Che vacanze sarebbero state?
D’accordo con Davide che la pensava come me, feci finta di non essere riuscito a scovare un alloggio adatto e rimandammo la rimpatriata collettiva.
A Dolceaqua ci andammo io, la Carla, Dodo e Sandra e ognuno con una propria stanza.
Il paese era a due i dalla nostra abitazione, comodo anche per la spesa, benché a mezzo giorno consumassimo qualcosa in spiaggia e, la sera, le ragazze, quasi sempre, cucinavano in terrazzo il pesce che compravamo direttamente dai pescatori all’arrivo delle barche.
Se preferivamo cenare fuori, lungo la costa si sprecavano le trattorie che ti servivano la Buridda, il Capun magro, i muscoli ripieni e bastava percorrere due chilometri verso l’interno per trovare lumache al verde, coniglio alla ligure, trippa alla genovese e un’infinità di piatti che vanno ben oltre il solito pesto o il fritto misto.
La cucina ligure, a torto poco conosciuta, è varia ed unica, come il paesaggio: chi abita in Liguria non si rende neppure conto del privilegio di cui gode, non ci fa caso per l’assuefazione alla bellezza dei posti.
È un susseguirsi continuo di angoli incantevoli, tutti diversi uno dall’altro, immersi nella più varia vegetazione mediterranea con panorami mozza fiato: insenature, scogliere, spiaggette di sassolini bianchi e neri o di sabbia finissima,
promontori, santuari e fari bianchi qua e là aggrappati a dirupi sul mare, misteriosi di notte con i loro grandi occhi rotanti e luminosi.
Ce la savamo tutto il giorno in costume nel tratto di mare delimitato alle spalle dai giardini Hambury tra capo Mortola e Latte, al di là della foce del Roia, riparati dalla scogliera e da un boschetto di canne di bambù.
Da quelle parti era ancora conservata la caratteristica selvaggia della Liguria di un tempo, diversa da quella oltre Bordighera, dove le spiagge sono occupate da stabilimenti balneari alla moda e invase, fino alla battigia, da ombrelloni, sdraio e troppa gente.
Un pescatore davanti al suo chiosco, a mezzo giorno, ti poteva servire, si fa per dire, una spaghetti al dente ai frutti di mare o un bel fritto di paranza su di un pezzo di carta gialla da pane. Un tubo in acciaio zincato, lungo un po’ più di due metri, usciva dalla sabbia verticalmente e, sotto a due soffioni avvitati lateralmente, ci docciavamo con acqua fredda che però, appena aperta, scottava.
Sandra aveva finalmente smesso i pantaloni e in due pezzi esponeva un fisico perfetto. Non l’avresti mai detto vedendola vestita anzi, considerando che non indossava mai la gonna, potevi ipotizzare delle brutte gambe e invece le aveva da far girare gli uomini per strada.
Davide non le toglieva mai gli occhi di dosso, seguiva ogni suo o con lo sguardo fisso come fanno i cani quando il padrone si allontana, gli dava piacere vederla camminare con quell’ancheggiare armonioso appena percettibile. La notavi non per l’esuberanza fisica, ma per la classe che sprigionava dai suoi movimenti.
La baciava sotto la doccia con l’acqua che le stirava i capelli ramati e a quel contatto, si sconvolgeva in tutto il corpo. Lei gradiva il suo amplesso come in un gioco, poi si sottraeva alle sue braccia, scivolava via abbassandosi sulle ginocchia e tornava a sdraiarsi sulla sabbia calda, spesso vicino a me. Mio malgrado, mi accorgevo di non rimanere indifferente al suo fascino strano, anche se Carla obiettivamente fosse più bella. Fingevo di non vederla: i miei convincimenti mi impedivano di guardare la ragazza del mio più caro amico ma, a volte, mi turbavano idee che me la facevano pensare nell’intimità di un rapporto amoroso nel quale cercavo di immaginare che pulsioni potesse provare lei, dall’apparenza sempre così seria, ponderata nei gesti, nelle parole, presente a se stessa e proprio queste sue doti le creavano un alone di mistero che destava la mia curiosità.
Davide non nascondeva il fatto che si sentisse ribollire il sangue. La voleva sua, voleva il possesso totale del suo corpo, la completezza del suo amore: nei baci perdurava il desiderio insoddisfatto di lei.
Spesso rimanevamo fino a tardi e camminavamo lungo la battigia fino a quando un sole enorme si immergeva a poco, a poco, sotto la linea dell’orizzonte, oltre l’iniziale profilo delle alpi marittime. Poi il cielo, dopo essersi tinto di rosso, di turchese e di viola intensi, quasi all’improvviso, diventava grigio e l’acqua prendeva il colore dell’inchiostro.
Più tardi una bianca luna piena rischiarava nuovamente il cielo, sembrava che gettasse in mare una lunga iera argentata e le nostre ombre allungate ci facevano apparire e sentire giganti.
Avevamo scoperto un locale ricavato da un terrazzamento sugli scogli, alle Rocce del Capo, dove facevano buona musica. Un pianoforte bianco, a coda, era posto su una roccia piatta, le luci riflettevano in mare e si ballava fino a notte inoltrata, sempre accarezzati da un leggero, asciutto vento di ponente che non ti lasciava sudare. Sandra, non era una patita delle sale da ballo, ma quel locale le
era ambitissimo e fu una strana scoperta vederla muoversi: sembrava avesse frequentato una scuola. A volte mi chiedeva di farla ballare, con Dodo non faceva che inciampare. Lui e Carla, al contrario di noi, preferivano ascoltare la musica rimanendo seduti.
Ballavo con piacere con lei che mi seguiva eccezionalmente leggera intuendo naturalmente i miei i e nel contempo cercavo di essere molto corretto, specie nei lenti quando mi si accostava con la guancia. Non avrei mai voluto creare problemi al mio amico che era già anche troppo geloso di tutti e di tutto.
Una sera a cantare venne Fred Bongusto. Il locale sembrava fatto apposta per le sue canzoni. Ballai più del necessario con Sandra che si stringeva a me forse troppo.
La musica era dolce, carezzevole, lei aveva un po’ esagerato con le bevande alcoliche e, nei lenti, gettava indietro il viso e le spalle nude e mi fissava continuamente con uno sguardo estatico pressandosi a me col bacino.
Tornando al tavolo notai che Dodo parlava con grande interesse con Carla di qualcosa che a me non interessava affatto, ma non era del migliore umore.
Non avevo nulla che potesse invidiarmi eppure, nei miei confronti avevo la sensazione che provasse un po’ di gelosia: è un sentimento questo che non ti lascia mai sereno e non dipende neppure dalla stima o dalla fiducia che riponi nella persona amata. Potresti avere accanto una santa e provare egualmente questo tormento.
L’appartamento che avevamo in affitto, era a tetto di una casa di soli due piani,
situata poco sopra al misterioso castello dei Doria e tramite una scaletta si accedeva al tipico terrazzo ligure con gazebo in ferro battuto a forma di pagoda, stile liberty, cintato da una ringhiera, tutto coperto da una vite di uva fragola dal lunghissimo tronco che, da terra, si era arrampicata fin lassù e si era avvinghiata ai montanti e alle traversine.
Era piacevole, cenare in terrazzo. Da quella posizione si scorgevano lontane, sparse lungo tutto l’arco costiero, le luci fino a Mentone e quelle in basso della cittadina ai piedi del castello. Dalla gola del torrente Nervia, saliva sempre una bell'aria fresca.
Facevamo le ore piccole scherzando e conversando dei più svariati argomenti anche di un certo impegno e Carla esibiva, oltre ad una brillante intelligenza, una bella preparazione culturale, qualità che unite alla bellezza, formavano un binomio allora pressoché introvabile. Ebbi modo ancora una volta di convincermi che bellezza e intelligenza non erano necessariamente in antitesi tra loro com'era luogo comune pensare. Forse molte belle ragazze si atteggiavano per posa a oche giulive: pensavano che dimostrarsi intelligenti intimorisse il così detto sesso forte.
Oggi c’è pieno di donne belle e intelligenti: è anche vero che donne brutte non ne esistono più.
Quelle con qualcosa in meno se la tirano da tipi, magari strani, ma valorizzano ciò che potrebbe rappresentare un difetto trasformandolo in pregio.
Alcune allora si davano arie da diva, tipo la sorella del ragazzo di Elena: in famiglia, era molto vezzeggiata ed aveva finito per credersi davvero bella, questa convinzione le dava sicurezza. In effetti, in mezzo a tante befane, era la bella di famiglia! Succede nelle migliori famiglie.
Anche Giorgio esteticamente era piuttosto scarso, ma rientrava nella casistica dei ragazzi di Elena.
“Hai mai pensato al probabile aspetto dei tuoi eventuali figli?” Le chiesi una volta.
XV
I discorsi di Davide erano continuamente conditi di insofferenza per il suo lavoro, era il suo chiodo fisso anche in ferie. Profondamente insoddisfatto, lo ripeteva ad ogni piè sospinto al limite della noia.
Ragionando su questo argomento bisognerebbe convenire che nelle tappe principali della vita, negli studi, nella carriera, nel matrimonio, nel mettere al mondo dei figli, bisognerebbe che la spinta per le proprie scelte individuali fosse mossa da una precisa motivazione.
Ma da dove può scaturire questa motivazione?
Sembra banale la domanda, eppure non è facile rispondere.
Può nascere anche dal sogno, non necessariamente dalla realtà, spesso, più che vivere con i piedi per terra, è importante sognare, staccarsi dalla banalità della vita quotidiana per raggiungere qualcosa di superiore, di impegnativo, sempre che la volontà stia a surrogare la fantasia.
Un tempo sognavo ad occhi aperti. Fantasticavo di essere alla testa di uno squadrone a cavallo tra due ali di folla che mi applaudiva, mi vedevo concertista sul palco di un famoso teatro e, a volte, complimentato dal sindaco di una grande città di cui mi donava le chiavi.
Forse ero semplicemente megalomane. Può anche darsi che abbia sbagliato
carriera e avrei fatto meglio a studiare recitazione! Mi sarebbe piaciuto avere la possibilità di rappresentare diversi personaggi ed esprimerne le viarie personalità, possibilmente a modo mio ed anche poter stringere e baciare tutte quelle belle attrici che calcavano le scene: quelle belle s'intende!
Ho ancora tanti sogni in un cassetto, ma per ora non l'apro, non perché temi che con l’aria svaniscano: ho proprio paura ad aprirlo e, nello stesso tempo, non vorrei domani trovarlo vuoto! Da che motivazione era stato spinto Dodo a prendere la facoltà di legge? Fu certamente il desiderio di far felici i genitori, ma lui istintivamente si rifiutava di difendere un colpevole e, se reo di una grave colpa, avrebbe sofferto di una crisi di coscienza a perorarne la causa e allora, che sogno avrebbe potuto rincorrere? Quello del denaro?
Può anche rappresentare un sogno se finalizzato ad un uso superiore. In ogni caso, se nella vita non ti proponi una meta, non ti metti neppure in cammino!
Evitando di cadere nella schiavitù del denaro, ci si può ritenere realizzati se questo diventa il mezzo per creare qualcosa in positivo, diversamente rimane la realizzazione di un sogno banale, materiale che non riesce a farti volare alto, che non ha il colore del cielo sereno o, se piove, di un bell'arcobaleno.
Dodo non sognava ricchezze, ambiva ad una buona posizione economica per poter coronare il sogno di sposare Sandra, formare una famiglia e avere dei figli, un focolare nel quale esprimersi e realizzarsi con tutta la potenzialità del suo essere, non per chiedere e ricevere, ma per dare. Aveva molto da dare. Era ricco dentro.
Gli piaceva la vita all'aria aperta che facevamo lì in vacanza, avrebbe fatto anche il pescatore pur di non tornare alla tristezza dell’ufficio, otto ore al giorno alla scrivania per quattro soldi.
Fu così che gli venne in mente di tentare la fortuna al casinò! Non ci aveva mai messo piede, la curiosità era tanta e una sera ci trascinò in quello della vicina Sanremo.
“Non si sa mai, per una volta potrebbe andarmi bene!”
La sontuosità del locale, lo sfavillio dei lampadari, l’eleganza della gente facoltosa che nel privé puntava forte, ci mise tutti un po’ in soggezione: già il contatto con quell’ambiente era per noi motivo di rispettoso imbarazzo. Ad ogni tornata, piovevano sui tavoli centinaia di migliaia di lire.
Alcuni puntavano sul tappeto verde, in una sola mano, somme ben superiori all’intero stipendio mensile di un impiegato medio e non battevano ciglio se perdevano.
Appena seduto stette a guardare con l’aria di chi si annoia, non voleva far la figura del pivello che non conosce la roulette, poi giocò una piccola somma sul rosso e vinse, puntò una cifra un po’ più importante su tre numeri che aveva in testa e perse. Si rifaceva a numeri suggeritigli dalle date di nascita dei suoi.
Si fermò perché non disponeva di molto e riordinò le idee.
Stabilì una cifra ben precisa oltre la quale, se avesse perso, non avrebbe giocato altro e colse il suggerimento di un tale che commentava che il sette era tutta la sera che non usciva. Preso il coraggio a due mani, puntò ventimila lire su quel numero che, tra l’altro, era il suo preferito. Non uscì, ma volle insistere e ci
puntò la stessa cifra altre tre volte.
Alla quarta, quando il croupier disse “Rien ne va plus,” gli sudavano le mani e il cuore gli andava in tachicardia, la pallina girava veloce poi rallentando, incespicò e cadde proprio nel sette.
Aveva vinto settecentomila lire. Noi avevamo smesso di giocare: stavamo a vedere lui.
A quel punto Sandra piantò una gnola, come diceva sua mamma: voleva che ce ne andassimo. Per lei era andata anche troppo bene così!
Carla voleva restare perché l’ambiente le si confaceva . Si perdeva ad osservare le toilettes e i gioielli delle signore e quei commendatori panciuti che perdevano soldi giocando addirittura contemporaneamente su due tavoli verdi.
Uno, un po’ d’età, non si ricordava mai cosa avesse giocato e, ad ogni mano, discuteva con qualcun altro che pretendeva la sua vincita, ma forse era lui che voleva quella degli altri.
Per me rimanere o andare era indifferente purchè non si andasse subito a dormire.
Per accontentare Sandra decidemmo di smettere, ma qualcosa fece tornare sui suoi i Davide quando già era nel corridoio diretto verso l’uscita.
Occupò una poltrona libera ad un altro tavolo e ricominciò a giocare: puntava, perdeva, rigiocava, vinceva una terzina, un pieno, nuovamente perdeva, prendeva un carré e, dopo quasi un’ora, era sempre con la stessa posta vinta inizialmente. Sandra si era rotta di stare ad aspettare, voleva assolutamente andarsene e allora, per chiudere la serata in bellezza, decise di giocare tutto quello che aveva davanti. Aveva avvertito un impulso segreto, come se qualcuno gli avesse sussurrato all’orecchio che voleva aiutarlo, una voce che lo invitava a puntare sul numero trentadue tutte le fiches che gli rimanevano.
Gli parve di ricevere un suggerimento paranormale.
Aveva sbirciato la ruota accanto e l’occhio gli era caduto sul trentadue, dall’altro lato e sul tavolo a fianco, nuovamente la sua attenzione era stata catturata da un unico numero: il trentadue. Questo era anche il numero della camera dove, all’ospedale, era mancata sua nonna, quella cui era stato tanto affezionato. Sandra gli ò una mano sulla testa a mo’di carezza: la tensione gli aveva imperlato la fronte di sudore.
Neppure il tempo di chiedergli cosa avesse in mente di fare, che aveva già puntato tutto su quel numero. La pallina sembrò cadere nello zero ma, compiuto ancora un giro, scontrò nello sprone accanto e il croupier disse: “Trentedeux, rouge, pair, e!” Con l’esclamazione corale dei presenti, aveva vinto trentacinque volte la cifra giocata, per la precisione, esattamente ventiquattro milioni e cinquecentomila lire!
Non ci rimaneva che costringerlo a venir via, prima che avesse altri ripensamenti e rischiasse di perdere tutto.
Capita spesso che chi mette piede per la prima volta al casinò, subito vinca ma, immediatamente dopo, il banco si riprenda tutto.
In direzione cambiò le fiches in assegni non trasferibili e l’indomani, in una agenzia della sua banca, versò il tutto trattenendo una oculata somma per una doverosa bisboccia nei giorni successivi.
Quella sera raggiungemmo le Rocce del Capo, l’aria era asciutta e dolce come non mai, soprattutto per lui e brindammo a champagne fino al mattino. Avrebbe voluto interrompere le vacanze, ma riuscimmo a fargli cambiare idea e il giorno dopo ci raggiunsero Elena e Giorgio.
Dodo e Sandra fantasticavano ad occhi aperti e non finivano più di far progetti. Se pensiamo che, in quegli anni, con venti milioni si comprava un appartamento di circa sei vani in una zona residenziale di Genova, è facile capire che aveva vinto una somma rispettabile con cui si potevano realizzare veramente dei sogni.
Elena gli consigliava di portare a termine il praticantato e aprire poi lo studio in proprio. Era un salto nel buio che non avrebbe comunque portato subito gli utili sperati. Carla gli faceva invece notare che con quella somma avrebbe potuto darsi ad una attività per la quale si sentiva veramente portato perché nella vita, di un uomo specialmente, è molto importante svolgere un lavoro che piaccia nel quale ci si possa realizzare.
L’idea di aprire un ristorante gli martellava in testa, ma intelligentemente allontanò la conclusione di qualsiasi decisione affrettata e pensò freddamente a godersi le belle giornate di sole.
Prolungammo la vacanza di una settimana e, neanche a farlo apposta, una sera, appena seduti al ristorante, come se ci fossimo dati appuntamento, vedemmo entrare Aldo, il più matto dei nostri amici che ci sapeva da quelle parti. Era
diretto in costa Azzurra, ma avendo tardato a causa del traffico, aveva deciso di fermarsi a cenare a Bordighera.
La serata volò via in allegria.
Dietro consiglio di Aldo, ordinammo lo stoccafisso alla Brande de cujun, specialità della casa e non ti dico le risate che ci facemmo, per non piangere, quando ci portarono il conto perché, argomentando sul nome di quel piatto, ci era venuto il dubbio, abbastanza fondato, che quel nome si riferisse a chi l’ordinava!
Era venuto a bordo di una Ferrari rossa fiammante, con una donna, ma cosa dico: con uno di quei pezzi di fica che quando l’incontri ti lasciano col fiato mozzo, non puoi non rimanere a bocca aperta e, se stai guidando, rischi di andare a scontrare.
Australiana, alta, formosa, occhi verdi come l’acqua di un lago alpino, capelli nerissimi, fianchi larghi, vita snella, penso quarta misura di seno!
Sandra era disposta a scommettere che il seno se l’era rifatto, Elena avrebbe messo la mano sul fuoco che le labbra le erano state ritoccate da un ottimo chirurgo plastico, Carla, senza scomporsi, sentenziò che era bella, ma mancava di classe.
Io ricordo che, a parte la indiscutibile bellezza, quella ragazza incantava per il tono dolce della voce e per la dizione particolarmente gradevole che lei, australiana, esibiva quando cercava di parlare italiano.
Senza farsi sentire dalle nostre ragazze, Aldo ci disse che era diretto in un villaggio di nudisti, nei pressi di Cap Martin, ci sarebbe rimasto una settimana con Jane, così si chiamava la tipa che aveva con sé. Faceva un ritorno alla natura vivendo un po’ di giorni tutto nudo come l’aveva partorito la mamma. Ci prospettò di raggiungerli il giorno dopo.
Potevamo andare al mattino, trascorrere là tutto il giorno e, prima di sera, fare ritorno.
Non eravamo mai stati in una spiaggia per nudisti e l’idea ci stuzzicava! Con Giorgio non ne facemmo parola, non eravamo ancora troppo affiatati. Certamente si sarà immaginato qualcosa, ma non indagò più di tanto. Con le ragazze, trovammo la scusa di portare l’auto di Davide all’assistenza Fiat di Porto Maurizio per revisionarne i freni e invece ammo il confine.
Il villaggio aveva un nome che già di per se era tutto un programma:” Sans feuille de figue “. All’ingresso facemmo chiamare Aldo che garantì per noi che non eravamo conosciuti: ci venne incontro sorridente, nudo come un verme, trotterellando in modo buffo, l’uccello gli sballonzolava da destra a sinistra e viceversa, con un testicolo molto più basso rispetto all’altro.
Lasciati allo spogliatoio gli indumenti, un po’ titubanti, ci dirigemmo al bar fingendo indifferenza, dandoci un tono e confondendoci tra gli altri, tutti assolutamente nudi. Quelli brutti, a dir la verità, facevano un po’schifo. Mentre camminavo verso il bar, davanti a me, una culona tedesca dalla pelle rosata, per raccogliere il secchiello caduto al bimbo, si chinò in avanti mostrandomi completamente il buco. Alcuni seduti su alti sgabelli sorseggiavano, dalla cannuccia, bibite ghiacciate in flutes ornati da bandierine, spicchi di arancia e ombrellini colorati e si grattavano i genitali, come le scimmie e parlavano senza particolari emozioni davanti a ragazze nude, bellissime che ostentavano grande
disinvoltura e, dalla forma a pera delle tette, sono convinto che fossero indiane.
Quelle sdraiate sugli scogli, come iguane al sole, mostravano un’ abbronzatura perfetta ed integrale anche in mezzo alle natiche, senz’altro erano lì da molto tempo! Quasi tutte avevano la pelle lucida e brillante per le abbondanti creme che si spalmavano e, a seconda di come si muovevano, mettevano in vista le parti più intime e nascoste. Sono convinto che lo fero apposta a muoversi in un certo modo! Mi sentivo spaesato come fossi stato un pinguino al polo nord in mezzo a decine di foche e leoni marini distesi in riva al mare. C’era chi aveva il pelo a ciuffo e chi a mo’ di minuscolo tanga nero. Alcune non più giovanissime, dal pelo leggermente rado, sinceramente avrebbero fatto miglior figura vestite.
Io e Davide un po’ ci vergognavamo: si capiva lontano un miglio che non eravamo naturisti, la nostra pelle, all’altezza dell’inguine e dei glutei, solitamente coperta dal costume, era bianca come il latte e facevamo la figura dei guardoni.
Dodo aveva incominciato a camminare in modo strano perché non voleva mettere in evidenza l’incipiente erezione che la vista di tutte quelle donne nude gli stava provocando, cercava di tirare indietro l’uccello ed era costretto a camminare col culo in fuori. Per evitare una figura del cavolo e qui sarebbe più appropriato dire del cazzo, si era sdraiato, con la pancia in giù, sulla sabbia che, tra l’altro, scottava.
Io, seduto su uno scoglio rivolto verso il mare, guardavo i gabbiani per distrarre la mente da tutte quelle ere e soprattutto non vedere tutti quegli uccelli senza penne!
Ma non potevo rimanere più di tanto su quello scoglio: il sole picchiava forte a quell’ora e rischiavo un’insolazione, come minimo un colpo di calore. Se poi mi
avessero dovuto portare all’ospedale avrei fatto veramente una brutta figura e tutti avrebbero detto: “Toh! Sembrava una persona così seria, per bene e corretta e invece era un porco!” Che poi non è detto che un nudista sia un porco, ma vai a farlo capire!
Fui costretto a tuffarmi nell’acqua fredda per rinfrescarmi le idee, in un punto dove, tra l’altro, bisognava evitare i molti ricci disseminati qua e là tra le scivolose alghe aggrappate agli scogli.
Anche a tavola ci sedemmo in costume adamitico.
A Jane davanti a noi, alla fine del pranzo, era caduto un cucchiaino di mousse di cioccolato sul seno destro, proprio vicino al capezzolo; Aldo premurosamente, con l’indice, gliela tolse e se la mise in bocca. Io e Dodo ci guardammo, credo pensando la stessa cosa!
Nel pomeriggio, nuotammo in lungo e in largo in un mare limpido e verdastro, appena un po’ mosso. Aldo nuotava e parlava, parlava e nuotava, praticamente sempre di se stesso, dei suoi viaggi, dei suoi investimenti.
Jane sembrava una sirena e Aldo, con le sue solite battute, la metteva in guardia: “Tappati davanti, tienici una mano contro, che se ti vede una murena ti s’infila dentro. Lo sai che non voglio, che sono geloso!” E rideva come un matto. Poi si girava a nuotare sul dorso battendo i piedi velocemente e lasciando una scia di schiuma come se asse un motoscafo. Con l’uccello ritto a novanta gradi, che gli spuntava da sotto il filo dell’acqua, sembrava un sommergibile quando, in immersione, naviga con fuori il periscopio.
Devo ammettere che nuotare a culo nudo dà una meravigliosa sensazione di libertà, forse ti risveglia il ricordo ancestrale del ventre materno, inconsciamente il tuo corpo è come se si sentisse riportato a dopo il concepimento, nel liquido amniotico.
Devi provare!
Non c’è bisogno di andare tra i nudisti.
Lo puoi fare a fine stagione quando c’è poca gente in spiaggia: ti togli il costume in acqua, lo appoggi ad uno scoglio e te lo rinfili, prima di uscire, dopo una bella nuotata, sempre che qualche bello spirito non te l’abbia allontanato o un’onda anomala non se lo sia portato via.
Questo scherzo l’avevamo comminato al fratello di Fabio, un caro amico che purtroppo non è più tra noi.
Eravamo andati a fare il bagno verso mezzanotte nella spiaggetta dei bagni Cava, sotto al muraglione di via Aurelio Saffi, quando ancora il mare arrivava fin lì. Filippo faceva il gradasso, nuotava al largo tutto nudo e urlava, scherzando, che sott’acqua qualcosa ce l’aveva col suo pisello, che doveva essere una Sirena innamoratasi di lui a prima vista! Gli portammo via il costume e i vestiti, anche le mutande e scappammo.
Povero Filippo! Abitava in via Gavotti non lontano dalla scogliera, ma doveva comunque attraversare l’Aurelia e percorrere almeno cento metri prima di entrare nel suo portone. Aspettò le ore piccole quando per strada, come si dice a Genova, incontri solo “rumenta e sin.”
Gli spazzini in effetti lo incontrarono e si sbellicarono dal ridere nel vederlo nudo correre per strada, con una mano davanti e una di dietro, ma arono anche i poliziotti col cellulare e volevano portarlo in questura assieme a dei travestiti e ad alcune prostitute prese in una retata che dal mezzo gli lanciavano lazzi e sberleffi mentre lui argomentava e cercava di dare spiegazioni. Non so come fece a convincerli dello scherzo subìto, so solo che lo fecero sedere davanti con l’autista e un altro agente e l’accompagnarono al suo indirizzo.
Gli abiti glieli avevamo lasciati appesi alla porta di casa.
A rientrare non aspettammo la sera. Il villaggio “Senza foglia di fico” non era fatto per noi. Bisogna esserci abituati a camminare nudi in mezzo alla gente e a vedere tutto quel pelo, allora non ti scomponi più di tanto! Aldo rimase.
Avrebbe poi proseguito per Cap d’Antibes con la sua ragazza.
Al ritorno fingemmo di essere incavolati neri con il meccanico che non aveva fatto bene il suo lavoro! L’auto chiaramente, era rimasta tale e quale e frenava poco, come prima.
Davide se la rideva sotto ai baffi: “Eh la Fiat, la Fiat!” e Giorgio, che aveva mangiato la foglia, disse che di nomi ne aveva tanti, ma non l’aveva mai sentita chiamare Fiat!
XVI
Due sere prima che le ferie, purtroppo, volgessero al termine, aspettavamo Davide e Sandra per cenare in terrazzo. Si erano allontanati dicendo che andavano a fare un giro per negozi a Ospedaletti. Cenavamo sempre tardi, ma al campanile di fronte erano già scoccate le nove e noi cominciavamo ad aver parecchio appetito. Non era mai successo che tardassero. Normalmente arrivavamo tutti puntuali.
I negozi avevano già chiuso. Pensai che veramente si fosse guastata l’auto e decisi di andare loro incontro lungo la strada, ma non vidi nessuno e non c’erano neppure incidenti, allora ebbi l’idea di dare un’occhiata verso la marina e l’intuito mi dette ragione.
Non erano andati per negozi. La loro auto infatti era posteggiata lungo il marciapiede, non potevano essere molto lontani. Forse si erano diretti verso la solita spiaggetta, a quell’ora deserta.
M’incamminai da quella parte e da dietro ad un grosso scoglio, a pochi i dalla battigia, mi arrivarono all’orecchio dei bisbigli indistinti misti a respiri affannosi.
Mi avvicinai quel tanto per accorgermi che erano loro, praticamente nudi, uno sopra l’altra. Tornai sui miei i immediatamente e riuscii a fare in modo che non si accorgessero della mia presenza, ma in quel momento avvertii che il mio cuore era andato in tumulto. Entrai in un bar e bevvi un Negroni.
Perché m’importava di quel che stava facendo Sandra?
Non era mia sorella e neppure la mia ragazza: era la ragazza di Davide, il mio più caro amico!
Uscii dal bar e raggiunsi l’abitazione senza far parola di quanto avevo visto. Dopo poco arrivarono loro. Lei, rossa in volto, mi dette un’occhiata di sfuggita e mi parve anche strana, si attardò in bagno e ci fece attendere ancora. Io cenando rimasi quasi muto per tutto il tempo: acciughe nostrane a cotoletta, infarinate e fritte, innaffiate da un ottimo Pigato, fresco di cantina.
La vincita al gioco, senza che se ne accorgesse, aveva incominciato a produrre i suoi effetti, gli stava modificando il modo di fare e di vedere il prossimo. Era più attento in strada, meno oculato nello spendere, almeno per sé, si sentiva sacrificato e insofferente nell’abitacolo della sua Seicento, ma soprattutto sembrava cambiato nel modo di fare con Sandra.
Tornato in città, fece celebrare cinque sante Messe in suffragio dell’anima di sua nonna, convinto che fosse stata lei ad aiutarlo e, comunque, regalò dei bellissimi pendenti con acque marine alla Ale, che, felice di mostrarli, adottò un taglio di capelli che le lasciasse scoperte le orecchie.
Provvide ad alcune spese importanti che i suoi desideravano fare da anni, saldò alcuni conti e incominciò a permettersi un tenore di vita parecchio sopra le sue possibilità precedenti. Al meglio ci si abitua facilmente: è a dover tornare indietro che è dura.
Quel denaro facile gli aveva creato una continua apprensione ed era sempre con
il timore che potesse accadergli qualcosa di brutto.
Gli sembrava strano fosse capitato a lui che non aveva mai vinto neppure un castagnaccio alla lotteria benefica della parrocchia e i suoi, quando parlavano di qualcuno che aveva vinto al lotto o alla Sisal, li aveva sempre sentiti commentare che sì, era vero che quel tale era stato fortunato, ma in definitiva gli erano capitate tante disgrazie che, sinceramente, sarebbe stato meglio se non avesse vinto e che la fortuna più grande, secondo loro, era la salute che poi, a dire il vero, di una grande salute neppure godevano. Bruno soffriva di bronchite, cronica, ostruttiva, a fondo asmatico e spesso aveva tosse e raffreddore dovuti, diceva lui, ai turni di servizio notturno, la moglie ribatteva: dovuti alle sigarette, ma anche lei soffriva di qualche colichina e, ogni tanto, di cistite a volte anche emorragica e di un po’ d’ipertensione dovute alle preoccupazioni, diceva lei, al troppo lavoro e, a volte, le veniva qualche fitta al sedere, ma proprio dentro, quando le s’infiammavano le emorroidi, per il troppo peperoncino, diceva lui.
Insomma, so che, per un motivo o per l’altro, ne avevano sempre una, però non rinunciavano a niente.” Toglietemi tutto, ma non il peperoncino” e lui, di rimando,”Toglietemi tutto, ma non il salame di Sant’Olcese”.
Si affettava un intero cacciatorino mentre aspettava che gli altri si sedessero a tavola.
Il papà del mio amico, per alcuni doloretti avvertiti, pensava lui, al fegato, si sottopose a degli accertamenti. Temeva di avere un calcolo nella cistifellea invece l’ecocolordoppler gli evidenziò un aneurisma all’aorta addominale e, con urgenza, dovette subire un' operazione che non è proprio come fare una eggiata, lo ammettono gli stessi medici che minimizzano sempre tutto, tanto mica si operano loro.
Con tutti gli annessi e connessi, tra preparazione, anestesia e convalescenza, ricovero in ospedale e riposo a casa, dopo sei mesi non era ancora tornato ad essere quello di prima. In parole povere gli tagliarono un pezzo di aorta e glielo sostituirono con un tubo di dacron tramite un taglio sul fianco sinistro che necessitò di quarantadue punti esterni più tutti quelli interni.
Ma il dramma per Bruno che, a parte i disturbi menzionati, non se la cavava male, era stata l’anestesia. Ne aveva sempre avuto il terrore. Aveva temuto di non risvegliarsi più, tanto che aveva fatto testamento, esprimendo tutte le sue ultime volontà e precisando che, nel caso fosse morto, voleva essere cremato per timore che il medico ne constatasse il decesso e, magari, non si accorgesse che la sua morte era apparente e potesse risvegliarsi quando era già stato sepolto.
Questo incubo gli era rimasto da quando, per servizio, tanti anni prima, in seguito alla decisione comunale di spostare l’ubicazione di un vecchio piccolo cimitero di un paesino della Fontanabuona, aveva dovuto assistere alla riesumazione di diverse salme che, nelle casse lignee mezze sconquassate dal tempo e dagli assestamenti del terreno, erano state trovate in posizioni strane, diverse da come normalmente vengono deposte. Alcune avevano le braccia rivolte verso la testa ed altre le gambe rannicchiate in fondo alla bara. Si era creato la convinzione che quei poveracci fossero stati sepolti ancora vivi e a nulla erano valse le parole dei necrofori che gli avevano spiegato il motivo di quelle strane posizioni: le abitazioni in quel paese, tutto salite e discese, erano raggiungibili tramite rampe di scalini ripidissimi e quando uno moriva, la cassa nel trasporto, per scendere le scale, veniva obbligatoriamente inclinata in maniera eccessiva, provocando lo scivolamento del defunto verso il punto più basso.
Aveva perfino elencato per iscritto quelli che non voleva assolutamente al suo funerale che tanto sarebbero venuti solo per curiosare, fingendo cordoglio.
In guerra, al fronte e nelle missioni varie come carabiniere non si era mai
dimostrato né codardo, né pauroso, ma di fronte al bisturi era diventato fragile come un bambino ed ebbi anche conferma alle mie vecchie convinzioni in quanto, il miscredente, prima di essere portato in sala operatoria, chiese all’infermiera di chiamargli quel frate scano che al mattino circolava sempre per le corsie dell’ospedale con in tasca, chiuse in uno scatolino, le Ostie consacrate e volle confessarsi e far la Comunione. “Ha paura di morire eh!” gli disse l’infermiera e lui rise, ma gli tremavano le gambe anche da sdraiato.
Andai a fargli visita dopo alcuni giorni dall’operazione: era in una stanza a tre letti per niente male che non aveva nulla da invidiare alla camera di una clinica, non lo trovai male fisicamente, ma si commuoveva continuamente e piangeva.
Era contento di avercela fatta, gli sarebbe dispiaciuto proprio tanto morire perché al mondo, nonostante le tribolazioni, ci stava bene e soprattutto non avrebbe voluto dare quel grande dispiacere ai suoi figli e neanche a sua moglie perché, nonostante tutto, era consapevole che avrebbe lasciato un grande vuoto. Gli faceva male il pensiero di vederli piangere dietro alla sua bara. Sotto quella apparente scorza dura, c’era tanta sensibilità e gentilezza d’animo.
Si era anche un po’ avvicinato a Dio, senza peraltro capire ancora il senso della vita. Ma quanti lo capiscono? Troppi muoiono senza neppure sapere cosa ci sono stati a fare al mondo!
Si chiedeva che giustizia ci fosse nel dover morire dopo avercela messa tutta per imparare a vivere, mandando in fumo un bagaglio di conoscenze, formazione, nozioni e cultura immagazzinato in tanti anni e perché per morire si dovesse soffrire e perché anche nascere comportasse sofferenza.
Nella notte aveva avuto un incubo.
Centinaia di piccolissimi esseri, non più alti di pochi centimetri, dalla pelle blu e altri viola, lo avevano attorniato minacciosi, strani nanetti, orrendi mostriciattoli, cagnolini che ringhiavano e in una animazione spasmodica, ogni tanto gli si scagliavano contro sghignazzando e gli dicevano di voler rapire Davide. Lui non riusciva a scacciarli, si sentiva impotente a difendere suo figlio che scappava a nascondersi tra le gonne di sua moglie.
Dei ragni volevano pungerlo per inoculargli un virus mortale e i cagnolini cercavano di morderlo, dicevano per vendicarsi. Nel sogno aveva fotografato quei mostri per appurare se si trattasse di realtà o di fantasia e le fotografie li avevano ripresi con i colori che il suo cervello aveva visto. A questo punto mi confidò, con imbarazzo, che non sapeva più se li avesse fotografati nel sogno o sul serio nel dormiveglia e mi chiese di controllare se nel comodino ci fossero delle fotografie o una macchina fotografica. Al suo strano comportamento non volli dare troppa importanza, ma mi lasciò perplesso.
Si era convinto che il suo sogno avesse avuto la forza di condizionare la realtà delle cose.
Gli dissi che non mi ero mai accorto che fosse un filosofo e lui si mise a ridere tenendosi una mano sul fianco per il dolore perché, ridendo, gli tiravano i punti.
Aggiunse che anche da sveglio, ad occhi semichiusi, continuava a vedere quegli orrendi esseri blu e viola stampigliati nella parete di fronte.
Dai medici, durante la visita collegiale del mattino, seppe che l’anestesia poteva dare allucinazioni e il primario scherzosamente aggiunse che doveva essere contento perché tanti, per avere quelle visioni, fumavano della roba che poteva
costare anche parecchio!
Prima che mi accomiatassi volle farmi sapere che sua figlia Elena aveva una simpatia per me e che sarebbe stato felice di avermi come genero.
Io non mi ero mai accorto di Elena che comunque a me non diceva molto e non mi sarebbe neppure piaciuto lui come suocero!
XVII
Ai primi di Settembre, trovandomi dalle parti di Viareggio, feci un salto a trovare mia madre. Raggiungevo il paese tramite il o dell’Abetone tutto curve e tornanti, ma non impiegavo molto tempo.
La mamma mi metteva al corrente delle novità: nati, morti, sposati e mi riportava, oltre alle notizie, qualche pettegolezzo. Anche a distanza mi piaceva seguire la vita del paese.
Lungo la strada, tre curve prima di entrare in paese, incominciò a grandinare. Cosa mai vista in quel periodo!
Una volta, appena iniziava, il parroco mandava qualcuno a suonare la campana di San Bernardino che aveva un bellissimo suono argentino e dicevano provocasse l’intercessione del santo facendo smettere in modo che non andasse perso il raccolto. In ato ci riusciva, ma ormai non la facevano neppure più suonare, tanto raccolti da salvare non ce n’erano. Nessuno seminava più a parte qualche cavolo e un po’ di radicchio nell’orto.
Nelle campagne, alberi e arbusti selvatici avevano preso il posto del frumento e del granoturco.
L’unica cosa da preservare dalla grandine erano i tetti delle auto che incominciavano, già allora, ad essere troppe per le strade di un paese di epoca medioevale.
Come arrivavo abbracciavo mia madre che appena mi vedeva, povera donna, le si inumidivano gli occhi. Facevo il giro della casa e tutte le stanze mi rievocavano ricordi belli e brutti e mi si riempiva il cuore di dolce malinconia o di malinconica dolcezza: questo binomio mi è sempre stato caro. Sembra esprimere lo stesso concetto, ma c’è una sottile differenza tra le due espressioni.
Salivo alle soffitte e curiosavo in mezzo a scatoloni impilati, il prete per il letto, un baule, che per richiuderlo era necessario sedercisi sopra in due, pieno di libri e giornali ingialliti, in parte risalenti al periodo fascista, la bandiera tricolore con lo stemma dei Savoia che era proibito esporre da quando era caduta la monarchia, gli scarponi chiodati che nessuno calzava più.
Dentro a una vecchia valigia di cuoio, decorata da tante decalcomanie di diversi alberghi, era conservato, nella naftalina, la cuffietta di pizzo e il corredino tutto ricamato di quando mi avevano battezzato, poi c'era il grammofono a tromba con diversi dischi incisi dal nonno tenore e tanti vasi da notte e catini smaltati, alcuni bianchi con un righino blu sul bordo, altri color grigioverde marmorizzato, di dimensioni diverse, serviti in ato a raccogliere le gocce che, piovendo di vento, cadevano dal vecchio tetto prima che fosse stato rifatto e non servivano più, ma la mamma voleva conservarli per la sua eterna mania di non buttare via mai nulla.
Appoggiati alle pareti della soffitta più alta, quella di mezzo, i ritratti dei miei antenati, la mia trisavola da parte paterna, con gli orecchini e la collana di perle che sembravano vere e l’espressione arcigna, poco simpatica. Quello del nonno lo preferivo agli altri per l’ imponenza fisica che gli donavano il cappello a falde larghe e il collo di volpe rossa al cappotto.
Erano dipinti ad olio che, diciamo così, raccontavano un po’ di storia della nostra famiglia. Gli ultimi due mio padre li aveva fatti eseguire ad una quotata ritrattista
che li aveva realizzati egregiamente desumendone lineamenti ed espressione da alcune fotografie, ma alla mamma davano fastidio appesi alle pareti di casa: gli occhi erano tanto ben dipinti da apparir vivi e possedevano un effetto strano per cui sembrava che la seguissero mentre ava. Erano inquietanti, le creavano una sorta di timore specie di notte, quando rimaneva sola in casa e, ad una cert'ora doveva salire in camera al piano superiore. Lungo le scale, poco illuminate, le sembrava di avvertire invisibili presenze ma, soprattutto, era convinta che portassero male!
In effetti molto fortunati non eravamo stati, ma si può anche ipotizzare che poteva esserci andata peggio, noi ci accontentavamo, comunque le persone fortunate erano certamente diverse da noi.
Non possedevamo più la villetta in quel di Recco e la nonna aveva perso l’appartamento a Genova ma, se non fossimo sfollati, magari ci avremmo rimesso la pelle!
Mio padre viveva solo, inizialmente per l’impossibilità di trasferirci in città poi perché vivendo lontani uno dall’altra, i miei si erano riabituati alla loro indipendenza, si erano disamorati e preferivano vivere ognuno per conto proprio, ma dal fronte il babbo era tornato sano e salvo, mentre di tanti suoi commilitoni, non si sapeva neppure dove riposassero le ossa.
Direttamente su quei ritratti, dall’abbaino, filtravano fasci di luce che accendeva i loro sguardi e, col sole, quei coni luminosi davano vita a una danza di microscopici corpuscoli di polvere forse sollevata dai miei i.
Sembravano minuscoli moscerini dorati.
Io ne uscivo abbassando la testa, ma mi sentivo ugualmente prudere in faccia come se mi si fossero posate addosso delle ragnatele invisibili. Più in alto, dal soffitto, ne pendevano certe che sembravano stracci sporchi.
Nella legnaia, assieme alle fascine, c’era una croce di rami di salice, residuo di una antica usanza: il parroco, per la festa della Primavera, ne benediceva tante addossate al muro dell’oratorio di Santa Filomena e tutti quelli che avevano l’orto se ne prendevano una e ce la piantavano con in mezzo un ramoscello d’olivo. Ai primi d’autunno, quando s’incominciava ad accendere il camino, quelle croci si bruciavano. Buttarle era considerato un gesto non sacrilego, ma irrispettoso e così si faceva per le palme e l’olivo benedetto e per qualsiasi immagine sacra.
Lassù respiravo un’atmosfera più intima e confacente al mio modo di essere, era un mondo diverso da quello della città e mi chiedevo se avessi fatto bene, a suo tempo, a cercare lavoro e possibilità di realizzarmi lasciando il paese.
Se lo chiedeva anche Davide che mi poneva il quesito se fosse meglio essere primi tra gli ultimi o ultimi tra i primi, come diceva lui. Io gli facevo notare che non mi era chiaro chi fossero gli ultimi e chi i primi nella società e neppure se fosse più apprezzabile essere di città anziché di paese.
D’altra parte per noi era inutile porsene il problema: a farci lasciare il paese, non era stato l’amletico “essere o non essere,” bensì “mangiare o saltare i pasti!”
Lassù lavoro non ce n’era! Avrei vissuto più tranquillamente, magari avrei potuto darmi alla pittura sperando in un buon gallerista oppure scrivere libri e trovare un editore. Ma: “Campa cavallo che l’erba cresce”! E mia mamma a questo proverbio aggiungeva: “E quando l’erba fu cresciuta, il cavallo non c’era più!”.
E scrivere cosa! Ciò che piace alla gente o per far sapere come la pensi sperando di trovare degli estimatori e dire qualcosa di costruttivo che solo una ristretta cerchia di persone poi si perita di leggere! Ma per camparci, se non sei conosciuto, puoi essere bravo quanto vuoi, ma non trovi editore che pubblichi i tuoi lavori a meno che non ti dedichi alla pornografia più sfrenata, lanciando a briglia sciolta la fantasia e fregandotene del male che puoi seminare e dell'opinione del prossimo: allora puoi diventarci anche ricco!
Oggi, forse potrei scrivere dei racconti. Ho tanti ricordi curiosi, magari a qualcuno potrebbe far piacere leggerli. Chissà!
L’estate scorsa, un mio amico di vecchia data, mi ha ricordato un fatto che si riferiva al periodo in cui in paese c’erano i tedeschi: da una parte loro, dall’altra gli americani. Era la linea gotica.
Nello stalletto tenevamo ad ingrassare un maiale che aveva raggiunto il peso di circa centotrenta chili. Era il momento di macellarlo, ma bisognava che il maiale non strillasse troppo perché, se i tedeschi se ne fossero accorti, ce l'avrebbero requisito per mangiarselo, poi avrebbero rilasciato una ricevuta per il rimborso a guerra vinta, ma tutti sapevano che ormai l’avevano vinta gli altri tanto che molti, parafrasando il motto mussoliniano: “Vincere e vinceremo,” dicevano di aver l'impressione che stesse vincendo Romolo!
Avevamo chiamato Pietro molto esperto anche a salarlo e speziarlo.
Per ammazzarlo senza troppo casino, aveva deciso di dargli un colpo ben assestato in mezzo alla testa in modo da tramortirlo, poi gli avrebbe infilato lo stiletto dritto nel cuore: in quel modo l’animale sarebbe morto in fretta e
soffrendo molto meno.
Con una pesante scure, entrò nello stalletto e il maiale grugnì come per salutarlo, forse aveva pensato che fosse entrato a versargli della broda nel trogolo.
Pietro, per sferrargli un bel colpo, afferrò la scure con due mani e l’alzò tenendo la parte della lama verso l’alto ma, anche uccidere un maiale è un fatto sconvolgente perché si tratta pur sempre di togliere la vita ad una creatura di Dio, forte e di grosse dimensioni e, nell’agitazione del momento, non aveva fatto caso che il soffitto era basso. Scontrandolo, l’attrezzo gli si girò con la parte della lama verso il basso, così il colpo di rimando, oltre tutto non preciso, tagliò netto un orecchio alla povera bestia che incominciò a lanciare degli urli, peggio che se l’avessero scotennato vivo e aveva pienamente ragione.
Ci andò bene perché i tedeschi, quel giorno, erano tutti impegnati in un’azione di contrattacco oltre l’Abetone.
XVIII
Al mio ritorno da Riolunato, Davide mi mise a parte della rappacificazione dei genitori di Sandra. Lei ne era felicissima e fui contento anch’io. Le buone notizie fanno sempre piacere, riempiono l’aria di profumo.
Mi parlò anche di un’offerta di lavoro da parte di un cliente dello studio, una piacevole attività secondaria, senza impegno di capitale. Tale cliente, certo cavalier Garofalo, gli aveva fissato un appuntamento al suo indirizzo, in tarda serata, per spiegargli di cosa si trattasse. Ne era incuriosito, ma preferiva non andarci solo, per questo mi chiese di accompagnarlo, così al termine del lavoro, raggiungemmo la villa del tizio in collina, alle spalle di Bogliasco.
Apertoci automaticamente il cancello da dentro all’abitazione, c'incamminammo verso una porta color verde inglese, lungo un viale totalmente ricoperto di sassolini bianchi dove le nostre scarpe, ad ogni o, sprofondavano leggermente, scricchiolando con un rumore infernale.
Il camminamento era costeggiato, per tutta la sua lunghezza, da due filari di alberi di limoni carichi di frutti verdi e gialli.
Due cani enormi, senza muola, ci vennero incontro senza abbaiare. Dalla coda mozza non si capiva bene se scodinzolassero o che intenzioni avessero.
Dovevano essere mastini napoletani, non ne sono sicuro, comunque erano dei molossi: non avevamo paura dei cani in genere ma, per prudenza e alquanto impietriti, ci fermammo ed io pregai Davide di non guardarli negli occhi e di non
cercare di svignarsela mentre, cosa già poco simpatica, incominciarono ad annusarci il sedere.
Sbucò fuori da una porticina laterale un cameriere, una specie di incrocio tra un cinese e una filippina che ci venne incontro, con un sorriso enigmatico, assicurandoci:” Essele buoni come pane, stale tlanquilli.” Cosa ne sapeva della bontà del pane lui che mangiava riso? Ma il fatto in sé già mi aveva dato fastidio perché, annusandomi, mi avevano macchiato di bava i calzoni appena usciti dalla tintoria.
In base a quale principio, educazione a parte, i proprietari di cani si permettono di imporre agli altri l’amore per le loro bestie, non lo capirò mai!
Il filippino dopo averci annunciati, ci fece accomodare e, guardandoci con due occhietti a mandorla, al di sopra degli occhialini senza montatura, ci riferì che il poeta sarebbe stato subito da noi.
“Il poeta!” Esclamò Davide.
Lo sapeva pittore ed io di rimando: “Sarà un poeta della legge,” come dicevamo da ragazzi “di quelli che acchiappano al volo le scoregge” e scoppiammo in una grassa risata.
Ma come fa uno a definirsi poeta? Al massimo scrittore!
Che poi uno scrittore possa essere poeta, può darsi, ma che si definisca tale
perché scrive dei pensierini in rima, non è accettabile.
Ci vuole altro!
Il cavalier Garofalo, ci stava ricevendo in babbucce dorate con ricami e vestaglia damascata; non si era vestito per non farsi attendere, disse, ma aveva fissato lui l’appuntamento a quell’ora e, pertanto, sapeva che sarebbe arrivato Davide.
Con una punta di stizza mal celata si meravigliò della mia presenza.
Fumava tramite un lungo bocchino d’oro e avorio con l’aspetto di un D’Annunzio da strapazzo e non sembrava, a detta di Davide, la stessa persona che frequentava lo studio legale.
A me fece subito brutta impressione con quella pronuncia strascicata e quel suo sguardo libidinoso e viscido che però non rivolgeva mai a me.
Chiaramente non gli dovevo essere simpatico.
Dio mi perdoni per la maldicenza, ma era la tipica persona alla quale non avrei mai dato da tenere in braccio un bambino!
Ci fece visitare la villa magnificando e decantando i mobili autentici, i soprammobili, gli oggetti preziosi e commentava tutto mettendoci a conoscenza dei prezzi: “questo lampadario è un pezzo raro, viene da Murano, era destinato a
Galeazzo Ciano che non lo ritirò mai, per ovvi motivi” e rideva e non capivo cosa ci fosse da ridere. “Questo cassettone del settecento toscano è appartenuto ai principi Pacelli e l’ho pagato un occhio del cuore, il bagno l’ha progettato l’architetto Jo Ponti e mi è costato un patrimonio”.
Davide mi disse: “Copriti bene che con tutte le arie che si da ci buschiamo un raffreddore”.
Poi, con grande maestria dialettica, spostò il discorso sulle devianze sessuali e incominciò a parlare di quei giovani che, fin da epoca antica, venivano educati come i femminielli napoletani e disse che, ai tempi dei romani, dopo i sessant’anni, l’omosessualità non era punita e che tutti i patrizi, oltre alla moglie e all’amante, amoreggiavano con un ragazzo efebo. E sempre per rimanere in argomento, tirò fuori, tutto da verificare, che in Grecia i ragazzi, fino ad una certa età, non si masturbavano: si sodomizzavano a vicenda.
Il poeta, sempre spostandosi gradatamente, fece in modo di appartarsi con Davide davanti ad una statua in bronzo, posta su di un piedistallo, che raffigurava un giovanetto armato, una specie di copia, in piccolo, del Davide di Donatello.
Non li raggiunsi perché non volevo essere intrigante e sembrare ficcanaso: pensai che gli esponesse il motivo per il quale aveva preso appuntamento e le condizioni economiche, ma mi accorsi che gli stava molto a ridosso e gli parlava con la bocca ad una distanza minima dalla sua.
Ce ne sono che hanno questa brutta abitudine e non ci feci caso più di tanto.
Rivolto verso il giardino, di là dai vetri della porta finestra, guardavo i cani che giocavano. Erano due maschi, ma uno, pur giocherellando, cercava con le zampe anteriori di salire sul posteriore dell’altro che però si girava ringhiando.
Mentre stavo, in un certo senso, meravigliandomi non avendo mai avuto occasione di notare quel tipo di comportamento nei cani, Davide, con o svelto,mi arrivò alle spalle, mi prese per un braccio e trascinandomi disse: “Sbrigati, andiamocene in fretta. Ma dove siamo capitati!”
Poi, fuori dal cancello, continuò: “Lo sai ? Mi ha detto che pensava da tempo a me come modello per un suo dipinto, mi ha chiesto di posare nudo per lui e i suoi amici pittori, mi ha offerto mezzo milione a seduta e, mentre mi diceva queste cose, ha allungato una mano e, ansimando, mi ha tastato i coglioni! Non gli ho mollato una sberla perché, oltre che schifo, mi ha fatto pena.”
“Per chi mi aveva preso?”
“Non te la prendere, in quella casa ho l’impressione che siano invertiti anche i cani e, mi sa tanto, anche il filippino.”
Il mio amico non aveva davvero nulla che potesse farlo pensare omosessuale e tanto meno uno sporcaccione, ma di gente strana al mondo ce n’è tanta!
Ci aveva provato.
A proposito di gente strana, in quel di La Spezia, avevo un cliente che, per
ordinarmi del materiale, mi dava sempre appuntamento a casa sua, dopo cena, perché di giorno, in ufficio, non trovava mai tempo da dedicare ai rappresentanti e, tutte le volte che andavo a visitarlo, veniva ad aprirmi sua moglie in vestaglia semitrasparente e si scusava per il fatto di ricevermi non adeguatamente vestita, ma a una certa ora della giornata, diceva che non poteva fare a meno di togliersi la guepier e mettersi in libertà.
Era sempre la solita storia! Mi avvisava che il marito si era dovuto assentare e avrebbe tardato un’oretta.
Nell’attesa mi offriva il caffè, un liquorino fatto con le sue mani e, per farmi compagnia, si accomodava sul divano davanti a me che sedevo in poltrona e incominciava ad accavallare le gambe e sospirava che la vita era tutta una noia.
Dopo un po’ di volte che ci andavo, eravamo entrati in confidenza. Ero diventato il suo confessore. Si fidava perché non ero del posto e di ciò che mi raccontava non avrei potuto far parola con altri. La gente del paese, secondo il suo parere, era maligna e nessuno culturalmente alla pari con lei. Mi confidava ansie, problemi e scendeva in particolari troppo intimi come quando mi disse che nei rapporti non sopportava l’uso del preservativo!
Sapevo cosa voleva!
Il marito una volta, parlando di figli, mi aveva detto di non poterne avere in seguito ad un intervento chirurgico alla prostata non andato per il verso giusto.
“Mia moglie la farei montare anche da un toro pur di avere un erede!”
Ricordo proprio queste precise parole.
Avrei fatto volentieri la parte del toro con sua moglie, non era una bellezza, ma da giovani non è che si vada troppo per il sottile, però conoscendo l’antifona, ero sospettoso e temevo complicazioni, inoltre ero già molto impegnato a soddisfare altrove i miei appetiti sessuali. A costo di far la figura del fesso, fingevo di non capire. L’idea di un mio figlio in una altrui famiglia, non mi era gradita, non condividevo quel genere di inseminazione!
Diversi anni dopo, seppi che la signora aveva dato alla luce un bel maschietto. I soliti bene informati avevano sparso la voce che il postino le recapitasse sempre delle raccomandate con ricevuta di ritorno da firmare!
Quanti figli di idraulici e di fattorini si credono figli di stimati professionisti!
Mi spiace per i lattai: da quando non recapitano più a domicilio, se n’ è persa notizia.
XIX
Dodo, al termine della giornata di lavoro, si appartava in auto con Sandra raggiungendo qualche posto al riparo dal traffico e da occhi indiscreti per lo più nello spiazzo del Righi o in una stradina senza sbocco sulla collina di Megli e, sui sedili ribaltabili della nuova Millecento, consumavano un rapporto abbastanza frettoloso per il timore di essere spiati da qualche maniaco e, nella foga della ione, le lasciava dei segni che a fatica lei nascondeva ai genitori con delle sciarpine o dei foulards annodati come se avesse avuto mal di gola o adottasse una nuova moda.
La stringeva da farle male, le succhiava il collo, a volte glielo mordeva come fanno i gatti in amore e quando Sandra rincasava, succedeva anche che fingesse di non avere appetito per il mal di testa e se ne andasse direttamente a letto per evitare di sentirsi chiedere cosa avesse fatto da essere tanto stralunata e sconvolta.
La situazione, contrastante le sue convinzioni morali e religiose, le faceva vivere un grande travaglio interiore, avvertiva un senso di colpa, conscia di tradire la fiducia che i suoi le avevano sempre accordata.
Oltre tutto temeva di essere giudicata come la sua amica Floriana, che non frequentava più.
La Floriana non sapeva mai dire di no! Ultimamente andava con uno che di bello non aveva proprio niente, ma l’attraeva sessualmente. La gente diceva: doti nascoste! Ma lei questa pulsione la provava per parecchi uomini. Ne aveva lasciato uno sposato perché la moglie, incinta, l’aveva affrontata a viso aperto in un negozio pieno di gente.
Fu una scena penosa.
In seguito si era messa con un senegalese e le dicevano dietro che l’aveva fatto perché i neri hanno la fama di avercelo grosso e di saperci fare! Insomma, tutti erano a conoscenza di che pasta fosse Floriana e a farsi vedere in sua compagnia, c’era solo da perderci in reputazione.
Per lei non esisteva altro bene che il piacere e altro male che il dolore, intesi in senso fisico e, con questa filosofia di vita, pretendeva di far apparire per bene tutto ciò che faceva comodo a lei.
Se avesse sbagliato con consapevolezza, se avesse percepito la sua immoralità e che quel comportamento potesse rivolgersi anche a suo danno, già sarebbe stato un dato positivo, ma in lei si era proprio falsata la coscienza.
Si poteva concederle la scusante che, senza voler giudicare nessuno, gli esempi ricevuti erano stati sempre deleteri: sua mamma se la faceva con un ragazzo di vent’anni più giovane e il padre era corso dietro alla sottana di un’avventuriera argentina, ancor più sfacciata di sua moglie.
Lui si giustificava raccontando che con la moglie non aveva mai avuto una vera confidenza sessuale e certi suoi desideri era costretto a cercare di appagarli con delle prostitute.
A Davide il conto in banca, frutto della vincita al gioco, si era già troppo assottigliato, spendeva, faceva regali costosi ai suoi, a Sandra e, ogni fine
settimana, se ne andavano in costa Azzurra, in quella Smeralda, a Montecarlo, a Cortina o a Saint Moritz. Sandra era riluttante, ma finiva poi sempre per seguirlo.
Prima che il denaro finisse del tutto, spingeva perché aprisse uno studio in proprio: le avrebbe fatto da segretaria. L’idea non gli dispiaceva, ma quando uno deve prendere delle decisioni, non dovrebbe mai ascoltare troppe campane, dovrebbe agire secondo il proprio istinto e non andar dietro al parere di amici, parenti e neppure dei genitori.
Se credi in ciò che vuoi fare, perché farti condizionare da chi non ha neppure conoscenza del tuo lavoro!
Gli furono messe di fronte tutte le difficoltà, senza minimamente accennare alle prospettive positive: il caro affitto per l’ufficio in centro, lo stipendio ad un’impiegata, una cifra per Sandra, almeno pari a quanto già guadagnava, mesi trascorsi senza utili in attesa di possibili clienti. Il fatto che non fosse conosciuto né per tradizione di famiglia, né per l’attività svolta presso altro avvocato, l’avrebbe posto in una posizione di partenza poco felice.
Decise ancora una volta di rimandare qualsiasi decisione e continuare a far praticantato nello studio dell’avvocato cercando, intanto, di accaparrarsi la simpatia di alcuni clienti importanti e di migliorare ancor più la conoscenza della professione.
Comunque ciò che maggiormente gli urgeva non era tanto il miglioramento del suo impiego quanto sposarsi al più presto per emanciparsi dalla famiglia e soprattutto per realizzare la sua vita, ma le due cose erano strettamente legate tra loro nel senso che senza un lavoro redditizio si trovava con le mani legate e non poteva prendere iniziative.
Quei rapporti amorosi in auto erano un controsenso oltre che scomodi ed umilianti, avrebbe preferito andare in albergo, ma lei non voleva saperne.
Il pensiero di trovarsi di fronte al portiere mentre aspettavano le chiavi di una camera , immaginare le malignità di chi la vedeva e il timore che si venisse a sapere, le faceva scattare quel senso di pudore che la bloccava.
Se il denaro ancora a disposizione l’avesse impiegato per la cerimonia, affittare casa e ammobiliarla, non gliene sarebbe rimasto a sufficienza per una qualsiasi operazione commerciale e incominciò a farglisi strada l’idea che già a suo padre e a Sandra stessa frullava in testa da tempo.
Per alcuni giorni non ne fece parola con nessuno.
Non sapeva né dove aprire, né quale cucina proporre e neppure che genere di ristorante inventarsi, se di lusso o a carattere familiare, però l’istinto gli diceva che con la ristorazione avrebbe fatto i soldi.
Quando doveva prendere una decisione importante era solito stare alcuni giorni in solitudine per schiarirsi le idee e valutare, senza interferenze, le iniziative da prendere, così disse ai suoi che si sarebbe assentato una settimana: Sandra subito non la prese bene, poi si convinse a non tenergli il muso tanto sapeva che quando si metteva in testa qualcosa non c’era verso di fargli cambiare idea. Gli era chiaro che la professione intrapresa, non gli avrebbe dato grandi possibilità e lasciava volentieri al collega la qualifica di avvocato delle cause perse.
Aveva necessità di denaro senza dover troppo aspettare.
Non andò nella sua casa di montagna; la stagione volgeva al freddo e avrebbe dovuto far accendere la caldaia almeno due giorni prima del suo arrivo.
Non intendeva cucinare e neppure girare per ristoranti: si ritirò in un rifugio del lago Santo sopra Le Tagliole nell’appenino modenese con un maglione e un romanzo di Cronin che da tanto voleva leggere e non ne trovava mai il tempo: “E le stelle stanno a guardare.”
Il rifugio, posto sul bordo del lago di origine glaciale, a circa millecinquecento metri di altezza, guarda in faccia il monte Giovo che, tra balzi e dirupi a precipizio, appoggia i giganteschi piedi morenici proprio nell’acqua del lago e ai bordi, tra pietroni ricoperti di muschio e licheni, come un miracolo, si ergevano faggi secolari dalle foglie ormai ingiallite, per la stagione autunnale avanzata, sorbi dell’Uccellatore, con pendule bacche rosse e arancioni e, dato il freddo, già intenso di notte a quell’altezza, qua e là, piazzole di piantine di mirtilli color vinaccia e cardi argentei che luccicavano tra ciuffi di felci ancora verdi.
Ci trovò un sacerdote e un’escursionista svizzera che avevano avuto la sua stessa idea.
All’inizio della permanenza si salutavano con un sorriso ossequioso ogni volta che s’incontravano e scambiavano solo qualche parola di convenienza quando si sedevano a pranzo o a cena, rimanendo ognuno ad occupare il proprio posto di fronte al camino , in tre tavoli separati.
Nelle camere non c’era riscaldamento, solo una grande stufa in terra cotta a
diversi piani, sempre accesa, mitigava, da sotto, la temperatura notturna a tutto il rifugio. Un tubo marrone in lamiera smaltata che terminava fuori dalla finestra con una curva a gomito sormontata da un camino detto triestino, da dov’era sistemata la stufa a legna, attraversava tutta la sala da pranzo ed espelleva il fumo infilandosi in un foro del vetro, ma il tiraggio non era dei migliori e, se il vento che soffiava era di tramontana, data la posizione a nord della facciata, un po’ di fumo si spargeva egualmente nella sala da pranzo. Il padrone era costretto allora ad aprire un’altra finestrina per qualche minuto e i tre, con gli occhi arrossati, senza fiatare, s’infilavano in fretta la giacca a vento.
Per nulla contrariata la signora svizzera, con fare indagatore ed una punta d’ironia, osservava i due uomini sopra le spesse lenti rotonde degli occhialini dalla montatura nera, tipica degli intellettuali di sinistra.
Il sacerdote, farfugliando sottovoce, diceva che qualcosa bisognava pur soffrire per meritarsi il paradiso e imperterrito continuava a gustarsi una bella trota del lago, cotta alla griglia e tutto il resto che gli veniva proposto fino al dolce, la zuppa inglese, sapientemente inzuppata di Alkermes e Sassolino, di cui era ghiotto.
Davide iniziò poi a scambiare qualche parola su argomenti generici, mentre continuava, a spizzichi e sbalzi, a mangiare la quotidiana polenta condita a burro e formaggio grana del posto, sfogliando contemporaneamente le pagine del suo romanzo per portarsi avanti nella lettura.
Il terzo giorno si erano fermati al rifugio, per un panino, due ragazzi che avevano fatto motocross lungo il sentiero che porta al lago Turchino. Il fracasso dei loro motori, per buona parte della mattinata, aveva rotto l’incanto dei boschi e Davide trovò gli altri d’accordo nell’affermare che non ama la montagna chi ci va a fare motocross, come non ama il mare chi ci va tra cento ombrelloni e motoscafi vari.
Con la signora Michelle e don Santino, aveva programmato di compiere una scarpinata fino al lago Baccio ed arrivare sotto al monte Rondinaio dove si udivano e, con un po’ di fortuna si vedevano, le marmotte. Queste appena avvertivano l’arrivo dell’uomo, anche solo sotto vento con l’olfatto, lanciavano fischi d’allarme che, con l’eco, si ripetevano più volte tra le gole dei monti riempiendo la vallata di un effetto magico, ma dovettero rinunciare per l’improvviso temporale che si abbatté sulla zona: fulmini accecanti e scrosci d’acqua che, ad intervalli, non lasciavano vedere più in là di un metro dai vetri della piccola finestra.
La pioggia e il vento increspavano le acque del lago che si gonfiava e dai fianchi dei monti circostanti, lungo i canaloni rocciosi, si erano formati numerosi ruscelli e bianche spumeggianti cascate che scendevano con impeto a congiungersi con l’acqua del lago.
Davide guardava ammirato quello spettacolo e si rammaricava di non aver vicino la sua ragazza, ma era convinto che in solitudine avrebbe meglio capito che strada dovesse prendere.
Don Santino non era tranquillo e confidò i suoi timori.
Data la sua età avanzata, avrebbe potuto non sentirsi bene, avere un malore e con quel tempaccio, l’elicottero non si sarebbe alzato per raggiungere il rifugio e non ci sarebbe stata possibilità di soccorso.
Esprimeva la sua malcelata paura: “Sembra la fine del mondo.”
La signora Michelle, per distrarlo, gli chiese come pensava che avvenisse la fine
del mondo, ammesso che il mondo sia destinato a finire.
A tale proposito cosa diceva l’Apocalisse?
Il tutto sarebbe stato inghiottito nel nulla?
Saremmo ritornati al vuoto assoluto?
E come immaginava l’assenza di tutto! Buio o luce accecante?
Ma anche il buio e la luce sono qualcosa!
Saremmo tornati ad un’epoca precedente alla creazione, quando esisteva solo il Creatore che era pure un qualcosa e da chi proveniva se prima non esisteva nulla!
Avrebbero gradito una risposta dal prete, ma era un povero parroco di campagna in vacanza per convalescenza e neppure lui, pur avendo studiato, in qualche modo, teologia, era in grado di dare una esauriente spiegazione. Si limitò a dir loro che la fede è un dono, non una conquista razionale, che Dio non è tangibile, è una pura forza creativa, un puro spirito, al di fuori del tempo e della materia, che si tratta pur sempre di un mistero che il cervello umano non può recepire e solo dopo la morte, quando saremo al Suo cospetto, ci sarà dato capire e vedremo la luce della verità.
Raccontò un aneddoto riguardante la vita di Agostino Aurelio, poi diventato Sant’Agostino, il quale, prima di essere santo era un peccatore come tanti, ma da grande studioso e filosofo, universalmente riconosciuto, avrebbe voluto capire i misteri della fede quali per esempio quello della Santissima Trinità e il fatto che non ci riuscisse, nonostante la sua intelligenza, era per lui motivo di grande tormento spirituale.
Di lui si narra che un giorno, ando a cavallo presso la riva del mare, vide un bimbo che, con un secchio, ne raccoglieva l’acqua e la versava in un incavo scavato nella sabbia. Incuriosito si era fermato e gli aveva chiesto cosa intendesse fare. “Voglio far stare tutta l’acqua del mare in questa fossa.” Agostino, sorridendo, obbiettò che non era possibile ed a quel punto il bimbo gli disse:” E tu avresti la pretesa, col tuo intelletto, di capire tutto ciò che è nella mente di Dio?”
E, così dicendo, il bimbo, che era un angelo, scomparve.
Il temporale intanto era diminuito d’intensità, smise di piovere e un barlume di sole, come una enorme scheggia di specchio luccicante, rischiarò ancora la superficie del lago prima di sparire oltre il monte Giovo e don Santino tirò fuori, da una tasca della veste nera, un mazzo di carte napoletane e si misero a giocare a briscola in tre, col morto!
E dopo la partita Davide rimase a conversare con quel sacerdote: gli dava beneficio, era in qualche modo edificante ragionare e parlare di questioni e argomenti di cui raramente, per motivi vari, entrava nel merito come se esistessero solo problemi materiali e così distaccato da tutto, in quell’oasi di silenzio, ebbe modo di constatare ancora una volta, la grande differenza di impostazione e visione della vita, tra uno che ha la fede o si sforza di cercarla e chi nega, a priori, l’esistenza di un ente superiore.
Si prefisse di approfondire le sue conoscenze teologiche e di dare, per il momento, non priorità, ma almeno più importanza alle problematiche inerenti la sua vita spirituale.
In questa luce avrebbe forse risolto qualche problema che l’assillava lasciando in primo piano l’urgenza di crearsi una famiglia, di svolgere un lavoro che per lui fosse anche pane per lo spirito e non unicamente un noioso mezzo di guadagno.
Il lavoro è fatto per l’uomo, non l’uomo per il lavoro.
Avrebbe privilegiato un’occupazione che gli avesse lasciato il tempo di dedicarsi ad attività diverse quali una ricerca artistica, l’ascolto di buona musica, il compiere qualche opera di bene e godere anche delle bellezze che la natura offriva, i bei tramonti colorati e non incupirsi per tutta la vita dietro ad una scrivania.
Il terzo giorno di permanenza il sole spaccava le pietre fin dal primo mattino e l’aria si era fatta eccezionalmente più calda. Con il suo libro, che ad ogni pagina si era fatto sempre più interessante e l’inseparabile cerata sotto al braccio per potersi sistemare dove voleva al riparo dell’umidità del terreno, si era andato a sedere su una panchina, in riva al lago, posta sotto ad un enorme faggio dai molteplici tronchi.
Lo raggiunse Michelle, unica presenza femminile che, dopo tre giorni, incominciava ad apparirgli interessante, quasi bella. Gli parve di notare che anche il prete, benché anziano, conversasse con lei piacevolmente.
Brutta non era: era svizzera!
E come tutte le svizzere aveva un taglio di capelli non troppo ricercato, li portava corti, quasi spettinati. Indossava calzoni di velluto a coste larghe, calzava pedule dalla suola di carro armato e calzettoni al ginocchio, ma aveva seni prominenti, ben distaccati tra loro e un corpo che, immaginandosela nuda, concludeva che doveva essere sodo e davvero non male con quella carnagione chiara, nonostante una cinquantina d’anni che, all’apparenza le si potevano dare.
Gli si sedette vicino chiedendo se disturbasse e incominciarono a conversare. Lei si stava curando per uscire da un esaurimento nervoso in seguito al quale il marito, che non la reggeva più, questo era il motivo poco encomiabile e molto opinabile, l’aveva lasciata per una più giovane: la segretaria.
Era già trascorso un paio d’anni, ma lei non sapeva farsene una ragione e d’allora non aveva più avuto un rapporto con un uomo. Non che il tradimento le avesse causato un’idiosincrasia per il sesso maschile: non gliene era più capitata l’occasione ma, messa vicino al fuoco, si capiva che si sarebbe facilmente incendiata come paglia.
Dodo, la cui carne era debole, molto debole, quelle parole le interpretò come una profferta amorosa, si sentì incoraggiato e incominciò a pensare che, dopo tutto quella tardona, poteva dimostrarsi un bellissimo diversivo per qualche ora nel buio della notte, nel silenzio del rifugio dove si udiva solo il canto di qualche rapace notturno e lo stormire delle foglie mosse dal vento che, quando aumentava di forza, sembrava un lamento proveniente dal fitto del bosco.
E poi, gallina vecchia fa buon brodo! Vecchia per modo di dire: forse per lui.
È proprio vero che l’occasione fa l’uomo ladro e la donna puttana infatti Dodo,
tralasciando un attimo di parlare di Frida, non provava remore neppure pensando a Sandra. Non era, d’altra parte, molto convinto della necessità della fedeltà fisica da parte maschile, anzi, decise che avrebbe giovato al loro amore una piccola scappatella, che tradimento non era secondo la sua logica morale, perché si sarebbe trattato solo di un rapporto epidermico, senza coinvolgimento sentimentale, come aveva affermato, in una requisitoria, il famoso avvocato Carnelutti, suo illustre collega.
Lo preoccupava solo il fatto che la camera della signora, aveva la porta accanto a quella del sacerdote e i pavimenti di tavole, con la pressione del peso di chi ava, scricchiolavano.
Davide fece appello a tutte le sue doti di seduttore e incominciò gli approcci che lei accettò di buon grado, sempre un poco fingendo e mal celando la sua bramosia di femmina, sola, inappagata da tempo. La portò ad un punto di esasperazione sensuale per cui, raggiunta una piazzola in mezzo ai faggi, senza che anima viva potesse vederli, disteso per terra il telo, nonostante i calzoni alla zuava, il fondo sconnesso e l’aria che, pur fattasi più calda era sempre piuttosto fredda, la spogliò quasi completamente e fece l’amore con lei che friniva come una cicala e, dalle brevi esclamazioni nelle quali, ogni tanto, si esprimeva sottovoce in lingua tedesca, sembrava addirittura che soffrisse.
Poi pianificò la nottata.
Sarebbe andata Frida in camera di Davide, in fondo al corridoio, distante da quella del prete. E quella notte, con la sua totale complicità, dette sfogo a tutta la ionalità e a tutti gli appetiti strani e fantasiosi che non aveva mai osato esternare con le ragazze che aveva avuto e che, in cuor suo, comunque non avrebbe gradito che Sandra avesse accettato.
Me le raccontò tutte le scopate che aveva fatto.
Non pensava che una svizzera fosse tanto caliente e anche, se vogliamo, depravata. Non ne aveva mai abbastanza e avrebbe voluto trattenerlo per un’altra settimana. Lui per sostenersi il giorno dopo, mangiò come un lupo e don Santino gli si complimentò facendogli notare che era il frutto dell’aria di montagna che mette appetito e, chiaramente, gli faceva bene.
XX
Nei pomeriggi seguenti, non contenti delle notti, si rividero alla luce del sole, sempre svolgendo lo stesso tema.
L’ultimo giorno, di buon mattino, si appartarono ancora, per un ultimo saluto, in una piazzola ben nascosta da dove si udiva solo, ogni tanto, lo svolazzare di qualche uccello e il tipico verso di un cuculo.
Lei sembrava che non avesse mai visto un uomo, scambiava le sue effusioni con un ardore a lui sconosciuto e più consono ad una spagnola che ad una svizzera, ma all’improvviso, forse al culmine del piacere e perché un po’ debilitata per le notti insonni e il superlavoro cui aveva sottoposto il suo corpo, dopo aver digrignato i denti, si afflosciò, peggio che se fosse svenuta, con gli occhi sbarrati. Era diventata rigida e non respirava più.
Davide che le era sopra, in uno stato di semi estasi, di colpo, si sentì letteralmente raggelare dalla testa ai piedi, il cuore gli era andato in gola e terrorizzato si staccò da lei.
L’aveva colpita un’improvvisa totale perdita di coscienza! Una sincope.! Non dava segni di vita.
Era morta!
Per lui era morta.
In un attimo le pensò tutte: cosa faccio ora, ha avuto un infarto, chiamo soccorsi e, da pusillanime, si preoccupò anche di come si sarebbe giustificato se si fosse risaputo. E non erano neppure a due i dal rifugio e, se si fosse allontanato per chiedere aiuto, non avrebbe ritrovato il punto in cui si trovavano in mezzo al bosco.
Incominciò a tirargli degli schiaffi e gli dispiaceva anche perché, ammesso che fosse morta davvero, non erano bei gesti da farsi ad una defunta. Gli venne l’idea di far riferimento ad un piccolo rigagnolo di cui gli sembrò di sentire il rumore in linea orizzontale al punto in cui si trovavano e si diresse a prendere dell’acqua, riempiendo il berretto di lei. L’acqua era gelata e gliela buttò con violenza in viso, ma continuava a non riprendersi.
Temette che l’avesse morsa una vipera, la rigirò e le guardò attentamente il culo, le gambe, la schiena, ma non trovò segni di morsi nelle parti del corpo scoperte e poi, normalmente, oltre i millecinquecento metri di altezza, le vipere non vivono. Tornò correndo e ansimando a prendere altra acqua, che in parte, strada facendo, il berretto perdeva e quando la raggiunse gli apparve ancora più cadaverica. Le aprì le palpebre e vide solo il bianco degli occhi che aveva rovesciato indietro.
Era andato avanti e indietro, di corsa, tre volte, alla quarta, quando sembrava che avesse fatto il bagno, tanto l’aveva scolata da capo a piedi, per grazia di Dio, stava riaprendo gli occhi. Si fece il segno della Croce e si buttò esausto, sdraiato per terra. Stava per svenire lui.
“Scusami Davide se te l’ho taciuto, credevo non mi capitasse più, ma in certi momenti, non sempre, ma a volte, mi capita che perdo i sensi, mi s’irrigidiscono i muscoli e casco in uno stato di catalessia. È lo strascico del grave esaurimento nervoso per cui sono venuta in montagna. Mio marito lo sapeva e in questi casi, quando ancora eravamo assieme, mi praticava immediatamente un’ iniezione.
Non avrei voluto provocarti questo spavento.”
Alle tredici circa, prima che Davide lasciasse il lago, pranzarono tutti e tre seduti allo stesso tavolo.
La presenza del sacerdote avrebbe potuto metterli a disagio, invece erano curiosamente tutti disinvolti come se nulla fosse successo e Tonino, il padrone, che li vedeva così affiatati dopo una sola settimana, sosteneva che la montagna produceva sempre quegli effetti anche tra persone tanto diversamente assortite.
Mangiarono, appena pescata nel lago, una trota bollita di quasi due chili, con la maionese preparata magistralmente dalla moglie di Tonino. Il prete, alla fine del lauto pranzo, si fece il segno della Croce e ringraziò Dio del cibo ricevuto e tutti scoppiarono a ridere e scappò da ridere anche a lui.
Tonino affacciandosi dalla porta della cucina disse: “Ridete, ridete, vedrete come riderete quando vi porterò il conto!” E don Santino con insospettabile ironia, di rimando: “Vedrà come riderà lei quando le diremo che non abbiamo i soldi per pagare!”
Tornando dalla montagna invece di ripercorrere la stessa strada, decise di are da Modena e poi imboccare l’autostrada della Cisa.
Volle fermarsi a salutare Renzo che non vedeva da tanto. A Paolo inviò un saluto per telefono perché abitava da tutt’altra parte della città e non voleva far tardi, ma lui lo pregò di non andarsene senza essersi incontrati: insistette perché ci teneva troppo a vederlo e si dettero appuntamento davanti al teatro Storchi per le sedici precise.
Le giornate si erano già parecchio accorciate, veniva buio presto e pur non avendo bisogno degli occhiali, mal sopportava incrociare tutti quei fari abbaglianti che non tutti abbassavano.
Renzo non era in casa, ma doveva stare poco a rientrare. Gli aveva aperto un suo nipotino che era a fare i compiti da lui per stare più tranquillo. In casa sua, il fratellino nato da poco, piangeva sempre!
Seduto con la testa tra le mani al tavolo di cucina, con due libri di matematica aperti davanti e una pagina a quadretti ancora bianca, era alle prese con un problema che non riusciva a risolvere. Dodo, per ingannare l’attesa, si offrì di aiutarlo e al ragazzino non parve vero.
Si trattava di trovare in quanto tempo una massaia sarebbe riuscita a riempire una vasca per lavare che conteneva centoquaranta litri d’acqua, col getto di un rubinetto che dava venti litri al minuto, tenendo presente che la vasca aveva un buco e perdeva quindici litri ogni dieci minuti.
Davide ci si era messo d’impegno, aveva estratto dal taschino interno del giaccone la calcolatrice e riempito di numeri una pagina, ma quando Renzo rincasò, era ancora lì a spremersi le meningi. Preferì buttarla in ridere e disse al bimbo che era meglio mettere un tappo al buco della vasca. “Fatti aiutare dallo zio ingegnere che, più di me certamente, ha propensione per la matematica!”
Fece quattro chiacchiere con Renzo da cui seppe che era mancato suo nonno, quello che raccontava con enfasi i suoi trascorsi di guerra. Era molto vecchio, ma se lo ricordava con affetto e ne fu sinceramente dispiaciuto. Il signor Ernesto stava bene, la moglie invece, con gli anni, era stata colpita da una specie di
demenza senile e quando sentiva lo stimolo di fare pipì, usciva di nascosto di casa e andava a farla sullo stoino di qualche inquilino nei pianerottoli ai piani superiori del palazzo. Dodo me lo raccontò al suo ritorno e la notizia mi rattristò non poco perché mi ricordavo la signorilità di quei due coniugi, mi venne da pensare alle sorprese che ti può riservare la vita e immaginai in quale stato d’animo l’ingegnere vivesse la malattia della moglie.
Per il resto: le solite cose che si dicono tra vecchi amici, i discorsi di sempre per tenersi informati delle novità ed esprimere il desiderio di rivedersi con calma e programmare qualcosa assieme e scappò in tempo per non far tardi con Paolo. A parte il buio che sarebbe sopraggiunto, la puntualità era una sua prerogativa.
Non lo trovò molto in forma, anzi piuttosto giù di corda. Si vedeva che aveva bisogno di parlare. Sedettero al bar per un caffè e Davide lo mise a suo agio, lo lasciò andare a ruota libera, ascoltandolo con interesse.
Ce l’aveva con Vera, sua moglie che, da quando era nato il bimbo, era cambiata, non era più la stessa. Riusciva a capire che quella leggera depressione post partum, rientrava nella casistica per quanto aveva sentito dire e ammetteva che potesse anche essere ogni tanto stanca per il doppio lavoro cui era sobbarcata: quello dell’ufficio e le faccende di casa, ma lei, da un po’ di tempo, cercava di evitarlo.
In parole povere trovava tutte le scuse per non dargliela!
Una volta perché temeva che il bimbo si svegliasse, una volta perché aveva mal di testa o mal di schiena, un’altra perché era appena stata dal parrucchiere e, proprio la sera prima, perché avevano fatto troppo tardi con degli amici venuti in visita.
Il suo vecchio problema tornava a galla!
Davide cercò di buttarla in ridere e non poteva fare altrimenti anche perchè non sapeva cosa dirgli. Raccontargli una delle sue ricche scopate, sarebbe stata una cattiveria troppo grossa!
Forse il fatto stesso di averlo lasciato sfogare gli era stato di aiuto, poi si sa che tra due giovani, certi problemi si appianano.
La permanenza di quella settimana in montagna, non gli aveva certo schiarito le idee e neppure l’aveva riposato, ma gli aveva aumentato la sicurezza in se stesso e fatto capire che non sbagliava a seguire l’istinto.
Se con il denaro che gli era rimasto avesse dato un acconto per un appartamento e un mutuo, non gli sarebbe rimasta possibilità di aprire l’attività commerciale che, a parer suo, era l’iniziativa che gli avrebbe permesso di dare una svolta alla sua vita e l’avrebbe tolto dalla solita routine.
Fece le tre di notte con Sandra ad esporre i suoi progetti della validità dei quali lei stessa si convinse per l’entusiasmo con cui glieli aveva esposti.
Meritava fiducia.
Decisero di comune accordo di aprire un ristorante e, fin dall’indomani, incominciarono a girare, in lungo e in largo, per scovare la zona della città più
adatta al tipo di esercizio che avevano in mente, il rione con maggiore densità di popolazione di una certa tipologia con buone disponibilità finanziarie. Il locale necessitava anche della possibilità di ampio parcheggio.
Per una intera settimana, appena usciti dall’ufficio, si dettero a scandagliare le strade e, tutto sommato, si convinsero che la più adatta per quello che avevano in progetto, fosse la zona di Albaro, reputata per eccellenza la migliore di Genova, abitata da professionisti, commercianti, industriali, da tutta gente comunque di un certo livello sociale, che poteva spendere.
Salendo da piazza Tommaseo verso l’alberata piazzetta Leopardi, che ricorda tanto un angolo della Parigi vecchia, a metà di via sco Pozzo, proprio di rimpetto ad un’antica villa patrizia genovese, si apriva un grande cancello ed un largo spiazzo tutto pavimentato di ciottoli di mare bianchi e rossastri che disegnavano uno stemma araldico.
Entrando, sulla destra un cartello avvisava: “Affittasi uso commerciale “ed ebbero la netta impressione di trovarsi davanti a ciò che andavano cercando.
Davide telefonò all’agenzia per un appuntamento sul posto il giorno dopo.
Nella piazzetta privata antistante si affacciava la vetrina della bottega di un orafo che, negli orari dei pasti, rimaneva chiusa pertanto oltre a non intralciare l’afflusso delle auto, avrebbe dato lustro al posto con l’esposizione dei suoi preziosi gioielli.
Con un po’ di emozione incominciarono a visitare attentamente il locale.
Esternamente, ai lati della porta d’ingresso, stavano due enormi otri in terra cotta, con bellissimi gerani rossi cascanti lungo le pareti.
Appena entrati in un ampio e lungo corridoio, due porte dirimpettaie immettevano in altrettante stanze di grande metratura nelle quali, immediatamente, s’immaginarono due sale da pranzo attigue. Sul retro un altro vano spazioso poteva ospitare la cucina e sulla sinistra di questa altri due locali: un grande bagno divisibile in due e un magazzino. In fondo al corridoio, prima di arrivare in cucina, una larga scala, coi scalini in ardesia, di agevole pedata, portava al piano superiore con altre due stanze relativamente più piccole.
Sandra ci vide subito due salette ognuna adatta a due soli tavoli da quattro posti, per chi preferiva un po’di riservatezza o per coppie desiderose di cenare a lume di candela.
Le porte rettangolari che al pian terreno immettevano nelle due sale potevano essere modificate con l’arco a tutto sesto: lo permettevano i soffitti molto alti e il fatto che le pareti non erano portanti pur trattandosi di un palazzo d’epoca. Tutt’al più, per maggiore tranquillità, avrebbero rinforzato il soffitto con due putrelle d’acciaio.
A lei piacevano molto le porte ad arco.
Nell’ingresso, data l’ampiezza, era possibile installare una porta doppia in cristallo infrangibile, che stava tanto a cuore a Dodo.
Per l’uso cui volevano adibire il locale mancava la canna fumaria, ma il geometra, incaricato dell’agenzia, spiegò che non ci sarebbe voluto molto ad immetterne una in acciaio inossidabile nella camera d’aria di cemento che saliva al tetto esternamente, predisposta a suo tempo, non sapeva per quali usi e sarebbe risultata a norma delle vigenti leggi. Bastava forare il muro perimetrale della cucina e nella stessa parete potevano aprire una porta di servizio.
Era quello che faceva al caso loro. Trattarono il prezzo dell’affitto e fissarono la data del contratto.
La settimana dopo si licenziarono contemporaneamente dallo studio dell’avvocato.
Io li indirizzai presso un’ impresa di ristrutturazioni, mia cliente, che praticava prezzi concorrenziali e sapevo come lavorava.
Per quanto premessero sui tempi, essendo sulle spese senza utili, i lavori durarono tre mesi. Le pareti le vollero tutte bianche e così i soffitti attraversati dalle travi di castagno riportate al naturale. Alcune nicchie furono intelaiate con mattoni rossi impastati a mano e chiuse da ante in cristallo con luce rosa soffusa all’interno. Riuscirono a realizzare tre bagni con lavabi colorati incassati in spesse lastre di marmo verde antico di Tessaglia , cassette di risciacquo sotto intonaco, accessori e rubinetteria dorata con funzionamento a fotocellula.
Nell’ingresso: da un lato, incassato nel muro, il guardaroba con ante scorrevoli e illuminazione soffusa dal controsoffitto.
Ciascuna sala a pian terreno conteneva quattro tavoli tondi in noce, stile barocco
veneziano, tre da otto posti e due da quattro. Nello stesso stile, due tavoli da quattro coperti, erano nei due vani al piano superiore. In totale il ristorante offriva una potenzialità di ottanta coperti.
Curarono in ogni dettaglio la ristrutturazione e l’arredamento senza rivolgersi all’architetto perché volevano realizzare il progetto che avevano in mente da tanto tempo. Da anni sognavano quel ristorante!
Lavastoviglie, forno, fornelli, lavelli e piani di lavoro li vollero in acciaio inossidabile del maggior titolo.
Ai cassettoni delle finestre lunghe tende ricamate, sui tavoli tovaglie di fiandra, posate non d’argento, ma comunque di alpacca argentata in stile barocchino e bicchieri in cristallo trasparente a calice tondo. Niente lampadari: solo luce soffusa e di sera, sui tavoli, piccole graziose abat-jour accese, volute da Sandra perché le aveva osservate in un ristorante di lusso dove aveva cenato con suo padre e le erano rimaste impresse.
I tavoli Dodo li volle non più alti di ottanta centimetri in modo che, seduti sulle poltrone imbottite, i clienti dominassero i tavoli e non viceversa.
Nella sala a sinistra entrando, al pian terreno, sopra un cassettone antico, in armonia con l’ambiente, posizionò un bellissimo enorme vaso in ceramica bianca che aveva acquistato a Roseto degli Abruzzi, adatto a contenere sempre fiori freschi di stagione. Sandra fece sistemare, in un angolo dell’altra sala, il pianoforte che aveva in casa.
Ripavimentarono completamente il locale in parquet di ulivo e, alle pareti,
appesero molti quadri di bravi pittori genovesi postimpressionisti.
Si ritrovarono stanchi, provati, ma alle stelle per il risultato ottenuto.
All’inaugurazione presenziarono oltre centocinquanta persone: in parte parteciparono solo al cocktail, altre alla cena, tra queste l’assessore al turismo, due giornalisti, tre importanti uomini politici, diversi giocatori del Genoa, l’avvocato rimasto in ottimi rapporti, tante eleganti signore, il cancelliere della corte d’appello con sua moglie e non mancarono da Modena Paolo e Renzo con le rispettive consorti.
Aldo non venne.
Fece sapere che era preso da questioni troppo importanti che non poteva trascurare e comunque aveva formulato, con un telegramma, i suoi migliori auguri per la nuova attività.
Il cocktail, fissato per le diciotto, orario un po’ in anticipo rispetto alla consuetudine, fu offerto in piedi a tutti gli intervenuti, invitati e non.
C’era di tutto: sandwiches, salatini, pasticcini, pizzette calde, vol au vents e il bar offriva un assortimento che spaziava dallo champagne al Martini e poi grapefruit e non mancava neppure il succo di pomodoro!
Camerieri, in giacca bianca e farfalla , si aggiravano continuamente tra gli ospiti con vassoi colmi, altri addetti, dietro ad un bancone finemente apparecchiato,
servivano dolci al cucchiaio e mescevano le bevande richieste.
Per la cena, esclusivamente per gli invitati, erano stati spediti mirati inviti con molto anticipo e con preghiera di risposta..
Il cuoco aveva lavorato tre anni al ristorante“Au pied de couchon” di Parigi, lo coadiuvavano la signora Margherita e la mamma di Sandra, che in ato, per ione, aveva frequentato i corsi di cucina presso la scuola “Alto palato” di Milano dove aveva conseguito un diploma e, in seguito alla partecipazione alle lezioni di Sarcina, sui vini e relativi abbinamenti, sapeva tutto o quasi, ma alla cantina e a dar una mano in generale, veniva anche il ragazzo di Elena.
Tutti mobilitati eccetto Dario, che non si sentiva tagliato per quel genere di lavoro, ma soprattutto non gli avrebbe fatto piacere che amici di un tempo l’avessero visto all’opera, in un ristorante non suo.
Tutto era stato predisposto in maniera ottimale, senza tralasciare alcun particolare, in modo che il cliente uscisse dal ristorante con la voglia di tornarci quanto prima! Al personale erano richiesti professionalità, massima gentilezza e atteggiamento sempre sorridente.
Ciò che maggiormente li meravigliava erano lo spirito organizzativo e la stoffa da imprenditori che proprio non pensavano di possedere, anche Bruno, in pensione anticipata per il fatto che con la testa non c’era più molto, assolveva al compito assegnatogli e dirigeva il parcheggiare delle auto nel piazzale, in giacca amaranto e berretto con visiera, in linea con l’abbigliamento suo preferito, tipo ufficiale dell’armata rossa.
Sandra raggiante, fasciata in un lungo abito di taffetas verde acqua, faceva gli onori di casa e alcuni clienti, che riceveva davanti alla doppia porta dell’ingresso, al suo benvenuto le facevano il baciamano.
Gli uomini in abiti gessati o in doppio petto fumo di Londra, alcuni in smoking, molte signore in lungo. Si sprecavano le lontre, le volpi argentate, i visoni, indossati non certo per il freddo. La temperatura, quella sera, non consigliava neppure il cappotto!
Il menù comprendeva capesante alle verdure croccanti, crepes ai carciofi, taglierini alle barbine rosse con salsa di asparagi e parmigiano, zuppa di patate ai tartufi, filetto di rombo chiodato ai grani di senape, granseola in gelatina di champagne, anatra all’arancia, plum cake glacé.
I vini bianchi, a scelta, andavano dal Verduzzo di Ramandolo ai Regaleali, poi i rossi di Montepulciano, il Brunello, Sassicaia e chi preferiva quelli si poteva scegliere tra i Beaujolais, i Bordeaux, i vini di Bourgogne. Il dessert era accompagnato da Sauternes.
Lo champagne rigorosamente Dom Pérignon!
Anche nelle sere a seguire, oltre ai piatti tradizionali della cucina ligure e italiana in genere, servivano ostriche, escargots della Borgogna, zuppe di cipolla, aragostelle e un’infinità di piatti che variavano il menù ogni giorno.
Due allievi dell’ottavo anno del Conservatorio, uno al piano e l’altro col violino, allietarono la serata in maniera molto raffinata: la musica non dominava la sala e il tono basso della conversazione non disturbò mai l’esecuzione di famose,
piacevoli melodie.
Io c’ero con Carla che, per l’occasione, era elegantissima, quasi irriconoscibile perché il parrucchiere aveva applicato ai suoi capelli corti, altri molto lunghi identici ai suoi, con un nuovo curioso sistema denominato: “estention”.
Fu un susseguirsi ininterrotto di complimenti, rallegramenti ed auguri.
Dopo alcuni giorni ci capitò il sindaco con la famiglia ed altri non paganti. Il sindaco veramente insistette per pagare, ma Sandra non glielo permise; l’assessore al traffico invece, il conto non fece neppure l’atto di chiederlo: porse la mano ai titolari e prese la porta ringraziando e non presentarono il conto, per diverse volte, neppure a quel geometra del comune tramite il quale avevano ottenuto, in pochissimo tempo, tutti i permessi vari e la licenza, ma intanto del nuovo locale si era interessata la stampa e il quotidiano locale, in special modo, aveva dato risalto all’inaugurazione del nuovo elegante ristorante e se ne era sparsa la voce, per cui le prenotazioni incominciarono a fare il pieno tutte le sere.
Trascorsi neanche due mesi dall’apertura, era necessario prenotare almeno dieci giorni prima perché a Genova le cose vanno così: se un locale incomincia ad essere frequentato da gente che conta, anche se non s'intendono di buona cucina, tutti fanno a gara per andarci, per timore di rimanere indietro! Guai dover far la figura di non aver messo piede dove altri erano già stati!
Nonostante i prezzi salati, diversi clienti erano diventati abituali ed erano entrati in confidenza con i proprietari al punto di chiamarli con i diminutivi Ale e Dodo e, per quella familiarità, si sentivano al settimo cielo.
Io che ero come di famiglia, mi ci attardavo e chi usciva prima di me, di riflesso, mi salutava con larghi sorrisi, quasi con invidia. I clienti erano più complimentosi di quanto lo fossero i proprietari nei loro confronti.
Sandra ci sapeva fare col pubblico: “Buon giorno avvocato, ben tornato cavaliere, la signora come sta? La vedo in forma smagliante, l’ho vista in televisione col ministro! Non era lei? Ma impossibile, l’avrei giurato” e volteggiava tra i tavoli, sempre sorridente.
E chi desiderava far colpo con degli ospiti, li invitava a cena a La Broche, sicuro di far bella figura e felice di dimostrare come fosse conosciuto e riverito. Sandra sapeva bene quanto fosse importante, all’ingresso, salutare con deferenza, pronunciando molto chiaramente cognome e titolo di chi entrava.
Per non incorrere nell’increscioso contrattempo di dover rifiutare un cliente importante, tenevano sempre un tavolo libero da prenotazione, poteva capitare che arrivasse qualcuno all’ultimo minuto, senza aver telefonato.
Lei aveva anche il suo da fare con chi ci andava per il piacere di vederla e non erano pochi e questo faceva immusonire Dodo.
Usava diplomazia, ma non poteva essere scortese e, a volte, scambiava due parole in più o rideva a qualche battuta scherzosa, magari appena un po’ spinta e, se ciò capitava con uno accomodatosi solo, in una saletta al piano di sopra, Davide andava in paranoia e chiudeva la serata discutendo con Sandra.
XXI
Il lavoro li obbligava spesso a far le ore piccole e, anche quando avrebbero desiderato una breve pausa per estraniarsi un attimo dalla solita routine, erano costretti a stretto contatto di gomito come fossero già marito e moglie. In effetti il ristorante dopo un po’ stava diventando una galera e di tempo per loro stessi ne ritagliavano ben poco, dovevano pensare al menù, alla spesa, agli acquisti, al personale, all’amministrazione, a controllare i cuochi, al funzionamento di tutte le macchine, alla pulizia delle sale, alle tovaglie, il tutto finalizzato al momento culmine del lavoro, quando arrivavano i clienti.
Erano comunque sulla strada di risolvere i problemi finanziari ed ora, che i soldi incominciavano ad arrivare, non riuscivano a trovare il tempo per realizzare il progetto di sposarsi.
Si erano ripromessi un matrimonio di un certo prestigio, in un locale diverso dal loro: agli occhi della gente sarebbe parso un sistema per risparmiare. Non potevano però ancora concedersi un periodo di ferie: avevano aperto da pochi mesi e specialmente Dodo, voleva far le cose come aveva sempre sognato, con tutti i parenti e gli amici, la cerimonia religiosa celebrata dal suo amico frà Vittorio, a mezza costa sul monte di Portofino, nella chiesetta della Madonna Bambina cui erano devoti e, in viaggio di nozze, pensava di volare a Mauritius. Non gli sarebbe neppure dispiaciuto viaggiare fino a Istanbul con l’Orient express, partendo da Vienna.
Non avrebbe voluto sposarsi con la casa da arredare, come i suoi che, per tutta la vita, avevano buttato denari in mobili provvisori, in attesa di potersene permettere altri di maggior pregio. Non avevano mai potuto fare il o più lungo della gamba e si erano privati, fino ad età avanzata, di tante comodità e di ciò che veramente desideravano perché ogni volta che preventivavano una spesa velleitaria, dovevano rinunciarvi in quanto se ne presentava sempre una più
importante ed impellente.
Fino a che non avesse finito di coprire le spese di ristrutturazione e di arredamento del ristorante, non avrebbe potuto disporre di denaro come voleva e pertanto era costretto a procrastinare la data del matrimonio.
Agli occhi di Dario però lui appariva come uno che non voleva assumersi responsabilità nei confronti della figlia e, dato che era palese che Sandra stesse con lui a tutte le condizioni, non brillava neppure di altruismo, mettendola nella situazione di sostenere con loro discussioni certamente non piacevoli ed esporla alle critiche della gente.
Con tutto questo i rapporti continuavano ad essere buoni tra Dodo e la mamma di Sandra che continuava ad aiutare il cuoco quasi gratuitamente.
Dario invece, non ci ava neppure dal ristorante e ogni giorno scopriva nel futuro genero lati negativi.
Era geloso della figlia, ma tutti i padri, infondo, lo sono e mi sembra naturale. Dai la vita e ti allevi una bambina che adori, che è l’oggetto di tutto il tuo affetto e delle tue cure, l’accompagni dappertutto e per lei daresti la vita, ti alzi di notte per controllarne il respiro poi, tutto ad un tratto, arriva un tizio, che magari non ti è neppure simpatico e te la porta via!
Non condivideva che Sandra figurasse comproprietaria nell’insegna del locale e in realtà non lo fosse. Gli sembrava che il fidanzato si approfittasse di lei che non era sua moglie e quel ruolo non le competeva.
Sotto un certo profilo, aveva ragione e si sfogava dicendo che non aveva avuto la sensibilità di regalarle un anello di fidanzamento o spiegarsi con lui e in questo Dario avvertiva una mancanza di rispetto, non solo verso la figlia, ma anche nei confronti della famiglia.
Sandra ne prendeva le parti, sapeva che era oculato e parsimonioso, che aveva le idee chiare, che voleva essere sicuro di poter far fronte agli impegni, che tra loro c’era un perfetto accordo e che presto si sarebbero sposati e faceva notare a suo padre che i tempi erano cambiati e non usava più che il fidanzato andasse dal padre a chiedere la mano della figlia e che comunque l’aveva fatto rivolgendosi alla madre.
Intanto aveva cambiato auto e questo Dario proprio non lo digeriva, benché la solita Sandra trovasse che aveva fatto bene, lei stessa gli aveva consigliato una macchina più prestigiosa necessaria al titolare di un ristorante di lusso e faceva piacere anche a lei che ci saliva e a volte la guidava.
Il millecento, a parer suo, troppo seduto l’aveva dato indietro e si era preso una Maserati che, a parte il prezzo d’acquisto, pagava un bollo salato e beveva come un alcolizzato.
Della vincita al casinò, tra una spesa e l’altra, non era rimasto nulla. Pensava di tornarci, ma prudentemente seguì il consiglio di chi gli diceva di non metterci piede per un po’ se non voleva rimetterci.
Le critiche per l’acquisto della nuova auto, a dir il vero, gliel’avevo riportate io anche se ebbe a dirmi che gli erano già arrivate all’orecchio. Si scusava come se si fosse sentito in colpa dicendo che doveva far vedere che gli andava a gonfie
vele e non era proprio così. Molti impegni e troppe spese a parer suo.
Il cuoco gli costava una fortuna e i prezzi non poteva alzarli oltre se non voleva perdere i clienti.
Insomma, voleva farmi capire che non era tutto oro quello che luccicava!
A me poteva dirlo, ma non poteva non essere ottimista perché l’investimento stava dando i suoi frutti, ciò nonostante si era messo in testa di abbinare al lavoro di ristoratore un’attività di importazione di vini californiani, whisky scozzesi, bourbon canadesi e champagne. L’idea gliel’aveva data un rappresentante di cioccolato svizzero che vendeva in tutta Europa e guadagnava un sacco di soldi, diceva lui. La conduzione del ristorante sarebbe pesata maggiormente sulle spalle di Sandra.
Per far questo aveva necessità di un fido bancario e doveva presentarsi in maniera prestigiosa a fornitori e banche.
Tirando l’acqua al suo mulino raccontava di quando a Sarzana aveva conosciuto un imprenditore che, in fase di confidenze, una sera, dopo aver brindato più del solito, l’aveva messo a parte delle difficoltà economiche incontrate in ato, in concomitanza alle quali le banche, nonostante presentasse bilanci falsi, gli avevano sospeso il fido, il denaro l’aveva tutto impegnato e i fornitori incominciavano ad esigere i pagamenti alla consegna.
La situazione l’aveva risolta gettando fumo negli occhi!
Con la scusa dell’anniversario del suo matrimonio, questo tizio aveva organizzato una riuscitissima festa nella sua villa e aveva rivolto gli inviti, tra gli altri, al direttore della banca con cui lavorava, a quello dell’agenzia della vicina Lerici, dove aveva un piccolo conto, al dirigente della USL locale e a quello del consorzio agrario, inoltre aveva invitato un esponente di partito, suo amico, in grande confidenza con loro e un po’ di gente che contava del posto.
Nel giardino, il servizio catering raccomandatogli, oltre ad altri piatti, aveva organizzato un barbecue all’aperto sotto grandi ombrelloni bianchi e al girarrosto un cuoco, con tanto di cappello bianco a cilindro, seguiva la cottura di un mezzo vitello da latte.
Aveva posizionato in bella mostra la lussuosa auto nuova, acquistata con un pacco di farfalle, l’aveva posteggiata in giardino in modo che tutti fossero obbligati a notarla e, nel caso qualcuno avesse malignato, un amico era lì per far correre la voce che poteva permettersi quello che voleva perché sapeva per certo che gli affari gli andavano a gonfie vele.
Pochi giorni dopo gli fu concesso un prestito bancario per la cifra che gli occorreva e, per caso, mentre sorseggiava un caffè al bar, ascoltò un discorso tra due che parlottavano senza far nomi, ma lui capì che il soggetto del loro discorso era lui.
Uno diceva all’altro che se, per sbaglio avesse prodotto dei cappelli quadrati, i bambini non sarebbero più nati con la testa rotonda, tanto era fortunato e l’altro, commentando, in sarzanese stretto, asseriva che “a chi nasse fortunà, ghe piove sur culo, anco stando sentà.”
Davide non era nelle condizioni di quel tizio, non aveva la villa e Genova non era Sarzana. Ci provava incominciando dalla macchina!
Si sa che è più facile nel bel mondo della provincia dove, pur non essendo nessuno, puoi essere ritenuto qualcuno, mentre in città sei un illustre sconosciuto non certamente in grado di invitare a casa tua il sindaco ed altre personalità, a meno che tu non sia già del loro giro.
A volte, ed ecco che si ripresenta il dilemma, è meglio essere il primo tra gli ultimi che l’ultimo tra i primi! È una scelta di vita che andrebbe fatta in tenera età. Poi diventa difficile.
“Ma tu, da adolescente, sapevi cosa avresti voluto nella vita?” Mi chiese una volta un tale. “Io no davvero, a parte il fatto che non è nemmeno sempre possibile scegliere ciò che si vuole.”
Però c’è chi lo sa fin da piccolo.
Un giorno salivo, assieme ad alcuni amici, lungo un sentiero di montagna che da una località chiamata Le Polle porta ad un’altra denominata o del Lupo e, strada facendo, raggiungemmo un papà con due figlioli che avevano la stessa direzione.
Ci salutammo educatamente come si fa quando ci s’incontra in quei sentieri e siccome i ragazzini erano alquanto loquaci, camminando appaiati, scambiammo alcuni pareri.
Non ricordo su quale argomento fosse caduta la conversazione, ma so che chiesi loro cosa avrebbero voluto fare da grandi, al che il più alto di statura, mi sembra
fosse sui dodici anni, molto esplicitamente mi rispose: “Io ho le idee molto chiare, da grande voglio essere ricco.”
“Ma caro non è facile esserlo da grandi se non lo si è già da piccoli. Diventare veramente ricchi è difficile, occorre svolgere un lavoro molto proficuo; che studi vorresti intraprendere?”
E il bimbo:
“Lo studio non c’entra e neppure si diventa ricchi col lavoro! Bisogna sfruttare ogni occasione, buona o cattiva che sia e la possibilità di ogni affare, di qualsiasi genere purché redditizio, senza guardare in faccia nessuno, ma soprattutto bisogna essere avari, non dare mai e cercare sempre di prendere.”
Ebbi l’impressione di parlare con un mostro tanto più che, come ho detto, non doveva avere più di undici o dodici anni e perché riferiva dei disvalori che erano tutto il contrario di ciò che i miei mi avevano inculcato durante tutta la mia infanzia.
Mi avevano insegnato che bisognava essere altruisti, aiutare il prossimo, che prima di immischiarsi in qualsiasi operazione occorreva ben valutare con chi si aveva a che fare e quale fosse la natura dell’affare stesso, sempre facendo bene attenzione a non danneggiare qualcuno.
Il loro papà ascoltava compiaciuto, con un mezzo sorriso sulle labbra, per nulla imbarazzato. Pensai con me stesso che se la società non andava a dovere, un po’ di colpa era da attribuirsi anche ai genitori che non sanno trasmettere valori, che vogliono per i figli tutto e subito, anche senza che abbiano fatto qualcosa per
meritarselo, che non danno un buon esempio e, per essere moderni, si atteggiano ad amici dimenticando il loro compito. È più comodo essere accondiscendenti che severi.
XXII
L’andamento del locale, spese a parte, non procedeva male, era Davide che, dopo quella vincita al gioco, era cambiato, aveva una diversa valutazione del lavoro, del denaro e del modo per procurarselo, pretendeva utili maggiori come se far soldi fosse stato un gioco o una scommessa, senza considerare il tempo necessario al raggiungimento degli scopi.
I lavori eseguiti, in parte erano ancora da pagare e occorreva aver la pazienza di ammortizzare le spese sostenute, ma i clienti crescevano ogni giorno, merito dell’originalità del menù e del fare gentile e confidenziale di Sandra, mai oltre il limite che avrebbe infastidito particolarmente le mogli, l’unico a non apprezzarla come avrebbe dovuto era Davide che, senza motivo, andava ogni giorno ad incrementare quell' irrazionale gelosia che, a lungo andare, uccide il sentimento.
Il vero motivo dell'insoddisfazione di Davide stava nel fatto che non era contento di se stesso, anche quella specie d'insofferenza nei confronti della gente del sud, non era certo dovuta al loro colorito modo di esprimersi, trovava in se quelle caratteristiche, come l'esser geloso che, per luogo comune, sono attribuite a loro e lui avrebbe voluto, con tutte le sue forze, essere diverso, lui che, in quanto a gelosia, era più siciliano di suo padre e di altri suoi conterranei che, tutto sommato, temono e soffrono il tradimento più al pensiero che qualcuno possa venirne a conoscenza che per le corna che portano.
La bellezza di Sandra, la capacità d'immediata sintonia con la gente, lo disturbavano eppure lei, nella sua modestia, coi gesti e con gli sguardi, sembrava volesse scusarsi col mondo di essere nata privilegiata dalla natura.
Per assurdo, l'avrebbe desiderata meno bella!
Quando lo baciava lei gli dava se stessa più che se fe l'amore e lui soffriva pensando che a baciare aveva imparato da un altro. Sandra creava simpatia, aria di festa e il buon umore si tramutava in maggiori introiti per il locale, ma, se dalla sala gli rivolgeva lo sguardo cercando compiacimento, incontrava un'espressione di disapprovazione che smorzava la luce ingenua dei suoi occhi. Era geloso anche delle amicizie, del suo successo, non considerava che la fidanzata potesse avere una sua personalità, vita e idee proprie.
Quando un uomo e una donna si guardavano, per lui, nelle loro intenzioni, c'era sempre un figlio! Lo infastidiva anche la promiscuità dei sessi se riguardava Sandra, ma a lui piaceva fare il beato tra le donne eppure non era maschilista e, in tante sue valutazioni, a parer mio, era anche encomiabile: voleva la salvaguardia dei diversi ruoli che la natura stessa aveva assegnato e non accettava che la donna potesse essere arbitra unica della procreazione con la facoltà di togliere la vita ad un bimbo che doveva essere ritenuto, fin dal momento del concepimento, pienamente in diritto di vivere. Non riuscivo a capirlo invece quando diceva che, una volta sposato, avrebbe escluso dalla sua famiglia qualsiasi intrusione di amici o parenti, che chiudendo la porta di casa voleva lasciare fuori tutto il resto del mondo. Viveva in cuor suo un tumulto di contraddizioni e provava una sorta di rancore senza spiegarsi verso chi e che cosa al contrario di Sandra che non vedeva l'ora di far tenere in braccio a sua mamma un bimbo e affidarlo, qualche volta a suo padre perché lo portasse ai giardinetti e gli raccontasse quelle favole tanto belle che, quando era piccola, aveva raccontato a lei. Desiderava conservare gli amici, scambiarsi visite, programmare vacanze assieme.
Col are del tempo Sandra soffriva di piccole manie che avevano incominciato a condizionarla da quando recepiva la disapprovazione ed i timori, anche se non espressi, dei suoi genitori per i quali nutriva un profondo affetto. Cose di poco conto come il camminare sul marciapiede di casa a mattonelle rosse e marroni, calcolando attentamente la lunghezza dei i in modo da evitare di calpestare quelle rosse. Ma il fatto che maggiormente denunciava il suo disagio era la necessità continua di cambiarsi gli indumenti intimi per cui
metteva a lavare in un solo giorno anche tre paia di slip e due camicette.
A Davide, che aveva voluto il ristorante, era sorta la sensazione di esserne parzialmente escluso: se ne sentiva estraneo, certamente non bene inserito nell’ambiente. Il cuoco non ammetteva interferenze e non voleva saperne di realizzare le ricette che Dodo era riuscito a carpire quando lavorava seralmente come cameriere.
I parenti, benché pagati, col loro comportamento, sembrava che dicessero: “Senza di noi, non ce l’avresti mai fatta!” E questo gli dava enormemente fastidio.
Si sentiva spesso con Elena che alla Marconi stava facendo carriera. Gli era simpatico Giorgio che con la sorella stava superando il record di durata dei ragazzi precedenti, merito senz’altro di una buona dose di pazienza. Non gli andava a genio invece il di lei futuro suocero: il signor Calogero che, dopo cinquant’anni di residenza a Genova, infiorava il suo linguaggio menzionando sempre Bitonto, il suo sole, il suo mare e magnificava le orecchiette con i broccoli che a lui proprio, quel tipo di pasta e quel condimento, non piacevano.
E i fichi d’India, dei quali Calogero decantava sempre le virtù, non gli piacevano e non capiva cosa ci trovasse giacché gusto proprio ne avevano ben poco ed erano difficoltosi da mangiare.
Fra l’altro ne aveva un ricordo doloroso.
Durante un viaggio in Sicilia, aveva provato un improvviso ed irresistibile stimolo a svuotare l’intestino e, non esistendo, a parer suo, lungo la strada che
portava da Gela a Caltanissetta, la possibilità di usare un bagno né in un bar, né presso un distributore, si fermò, al riparo da eventuali anti, in una macchia di fichi d’India.
Grazie a Dio non gli capitò come a compare Turiddu che gli spararono, ma non disponendo di carta igienica a portata di mano, usò un mezzo foglio di giornale che aveva notato, ingiallito dal sole, un po’ più in là di dove, calati i pantaloni, si era accovacciato.
Piccolissime, quasi invisibili spine, gli si erano conficcate nel buco del culo per cui, oltre ad accusare dolore, non riusciva a sedersi e fu costretto, per tanti giorni, a grattarsi continuamente come se avesse avuto gli ossiuri o le emorroidi infiammate.
Dopo quasi un mese dal fatto, ogni tanto, avvertiva ancora qualche maledetta puntura nonostante i molti bidet con acqua fresca e le appropriate pomate che il farmacista gli aveva consigliato di spalmarsi.
Intanto, ad intervalli più o meno lunghi, perduravano gli alti e bassi nel menage tra Sandra e Davide e se è vero che qualche dissapore cementa le unioni, è pur assodato che senza si può anche vivere meglio. Le divergenze, i contrasti, i sospetti creano umore cupo, l'atmosfera pesante.
L’occasione di abbinare, nei tempi liberi, un reddito extra che al tempo stesso fosse un diversivo all’ambiente del ristorante, gliela offrì Marco che s’interessava d’arte e, nei viaggi in Francia, aveva conosciuto un certo Jean Marceau che gli faceva da Cicerone nei musei di Parigi e l’accompagnava negli ateliers di ottimi pittori non ancora conosciuti dalla critica e non quotati come avrebbero meritato.
Copiavano in maniera perfetta gli impressionisti si e famosi pittori moderni italiani.
Ora, si dà il caso che di questi artisti il grosso pubblico ne conosca solo una ventina, ma sono molti, molti di più e se l’incaricato di una qualsiasi galleria venisse ad offrirti, in occasionale offerta speciale, tele del tipo “Donna con fiore” di Gauguin o “Sulla spiaggia” di Manet, o “Le lavandaie” di Guttuso, per sprovveduto che tu possa essere, capiresti subito che sono rubate o false! Ma se lo stesso, senza nulla togliere al valore dei pittori che elenco, ti offrisse paesaggi di Cascella, bottiglie di Morandi, tramonti del Natali o case di Rosai, le testine di Bueno e aggiungiamo anche i fiori di Lilloni, puoi tranquillamente scambiarli per autentici e, se non lo fossero, sarebbe difficile anche per un perito giudicarli falsi.
Esiste un mercato fiorente attorno alle riproduzioni d’arte e ci sono anche falsificazioni perpetrate da alcuni conosciuti pittori con scuole di pittura che firmano come originali i lavori prodotti dagli allievi migliori.
Non molto tempo fa, un maestro che privilegiava il blu di Prussia, fu smascherato dalla Guardia di Finanza: firmava tutti i quadri dipinti dai suoi studenti ai quali dava piccole somme e li vendeva come se li avesse dipinti lui.
Normalmente i ” falsi d’autore “portano falsificata anche la firma sul davanti del quadro, ma nel retro hanno una scritta che precisa trattarsi di una copia. I quadri che Marco gli aveva proposto di collocare a clienti da lui selezionati lungo la riviera, erano copie e, volutamente, non portavano nel retro tale precisazione. Si potevano vendere a prezzi molto vantaggiosi rispetto agli autentici con grande margine di guadagno.
C’è da dire che, in fatto di pittura, troppe persone non capiscono molto e appendono alle pareti di casa quadri che neppure apprezzano, ma portano firme prestigiose e possono mostrarli orgogliosi facendo notare che quello è un De Pisis e quell’altro è un Casorati: l’essenziale è che si sappia che si tratta di opere molto costose, poi che non siano autentiche o non piacciano a questo genere di collezionisti poco importa..
Col tempo, finiscono per convincersi della loro autenticità anche se, al momento dell’acquisto, dato il basso prezzo, qualche dubbio l’avevano messo in preventivo.
Su ogni tela Davide poteva guadagnare, mediamente, non meno di mezzo milione di lire, senza difficoltà: gli indirizzi degli interessati glieli forniva Marco che gli aveva proposto quell'intrallazzo, con tanto savoir faire e tatto che Dodo ne era rimasto entusiasta ed aveva accettato.
Così, spesso, verso sera, lasciava il compito di far la chiusura del ristorante e se la svignava con scuse diverse che Sandra si beveva ingenuamente.
Gli andava bene! Ad un signore che possedeva una villa nei pressi di Rapallo, lungo la strada per Zoagli, vendette cinque pezzi in una volta. Parecchie tele le piazzò in città, in appartamenti di Quinto e di Nervi, ma il grosso del lavoro lo svolgeva in provincia, specialmente nel Novese.
In pochi mesi i suoi utili erano arrivati a superare quelli del ristorante, al netto di spese e tasse dato che, per forza di cose, come si usa dire, lavorava completamente in nero! Sandra era diventata nervosa, non condivideva le continue assenze e le scuse di Dodo che non sempre reggevano. Non sprecava comunque tanto tempo! Marco era psicologo: tra le molte sue conoscenze, che contattava prima telefonicamente, andava a colpo sicuro.
Ad un tale offriva l’occasione di un Guttuso, ad un altro raccomandava un Maccari di cui s’inventava che era una vera occasione perché una vedova, poverina, se ne voleva disfare per sopraggiunte difficoltà finanziarie! E la lista si allungava sempre di più e c’era chi, indirizzato da un amico, faceva richiesta di una precisa firma: “Se le capitasse una buona occasione di un Marchiò, me lo faccia sapere perché la sua pittura mi tocca in modo particolare e sarei interessato all’acquisto di un pezzo!” Gli impressionisti andavano a ruba.
arono diversi mesi con questo andazzo e sembrava che Davide non volesse più interessarsi del ristorante.
I rapporti interfamiliari subirono un peggioramento nonostante gli sforzi di Sandra per tenere in equilibrio la situazione. Ogni tanto, se mi trovavo nelle vicinanze di via Pozzo, mi fermavo a cena da lei e, quando i clienti erano usciti, veniva a sedersi al mio tavolo e si sfogava. Non capiva cosa stesse capitando a Dodo, perché l’avesse colto quel disinteresse per il lavoro e, come sempre, esprimeva le sue perplessità per la gelosia che lo divorava.
È difficile capire chi ci sta attorno e soprattutto sbagliato voler giudicare: certe persone non si conoscono veramente, neppure dopo una vita che si frequentano. Istintivamente mi sentivo protettivo nei confronti della Ale, avrei voluto aiutarla, ma non sapevo come. Tra l’altro mi pregava di non far parola di ciò che mi raccontava, intuiva che lui non avrebbe gradito sapere che si confidava con me.
Le si andava spegnendo il meraviglioso sorriso e la dolcezza dello sguardo che era la sua prerogativa. Anche nei movimenti era diventata meno armoniosa.
Il corpo in tante donne è il vero strumento espressivo della personalità e ne
riflette il pensiero, il temperamento, lo stato psicofisico meglio di quanto possano farlo le parole.
Leggevo in lei l’inquietudine che aveva dentro, un senso di nostalgia del ato, di incertezza per il futuro, pur apparendo allegra a chi non la conosceva come la conoscevo io. E l’allegria che esprimeva col linguaggio era ben diversa dalla gioia che in altri momenti scaturiva dalla sua persona.
Dalle parole mi sembrò di capire che si sentisse sola. Non le mancava solamente la presenza fisica di Davide, sentiva lontana la sua anima ed è questa la solitudine che, a lungo andare, ti debilita e ti fa ammalare nello spirito, spegnendoti gli entusiasmi e allora sembra che tutto ciò in cui hai creduto e ti ha dato la gioia di vivere, stia per crollare e temi di scoprire che la persona, con la quale hai sognato di condividere ogni istante della tua vita, non sia più quella che avevi conosciuta.
Ti chiedi se è sempre la stessa per la quale ti tormentavi e stavi in ansia se solo tardava qualche minuto ad un appuntamento.
La settimana dopo quelle confidenze, non ce la feci a tener fede a quanto promesso, chiamai Davide al telefono con la scusa di chiedergli se mi faceva compagnia a far delle commissioni in città.
Lo sentii con la voce strana, un po’ nasale.
“Sei raffreddato Davide? Peccato, volevo offrirti un aperitivo in centro!”
“Ci vengo volentieri. Pensavo proprio che è un po’ che non ci vediamo. Sto benissimo!”
C’incontrammo al caffè Mangini e con tatto venni all’argomento che mi premeva.
Lo feci col cuore in mano e lo trovai ben disposto ad ascoltarmi, anzi mi fornì delle spiegazioni, davvero non richieste e non dovute, in merito al lavoro dei quadri di cui pensava che non fossi al corrente. Il mondo è più piccolo di quel che sembra e, come al solito, il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi.
Tanta gente lo portava per bocca e si chiedeva cosa gli girasse per la testa.
Avevo fin paura che ad un certo punto mi chiedesse di cosa mi stavo impicciando e perché lo fi, invece mi assicurò che si sarebbe dato una regolata, che capiva che doveva cambiare registro e avrebbe accantonato quel lavoro che gli rubava del tempo prezioso e sentiva il bisogno di dedicarsi di più a Sandra. Oltre tutto doveva appianare una grana: un tizio che gli aveva acquistato un Patuzzi, aveva telefonato a Marco dicendo di aver notato una tela dello stesso pittore, in una galleria di Varese, che gli era parsa uguale, identica a quella comprata e gli era venuto il sospetto che una delle due fosse falsa.
Aveva già pensato come cavarsi d’impaccio, ma viveva nella paura di una denuncia e neppure lui si spiegava cosa gli fosse venuto in mente quando si era andato a cacciare in quel traffico.
XXIII
Incominciavano ad allungarsi le giornate e l’aria a farsi tiepida. L’inverno era volato via che non ce n’eravamo accorti: la temperatura non era quasi mai scesa sotto lo zero.
Era Febbraio e la mimosa addirittura era già tutta fiorita.
Davide e Sandra preventivarono di sposarsi a fine Maggio o, al massimo, ai primissimi di Giugno pertanto incominciarono a darsi da fare e impegnarono tutta la famiglia a cercare un alloggio confacente alle loro necessità.
Il sorriso riaffiorò sul viso di Sandra e anche suo padre, di quando in quando, ava dal ristorante e una domenica addirittura arrivò con i biglietti di tribuna numerata e se ne andò alla partita col futuro genero.
Quando il Genoa segnò si abbracciarono per la gioia.
L’appartamento lo volevano con un po’ di verde, in una zona residenziale nel levante della città, ma a detta di Bruno, un pian terreno con giardino non era consigliabile perché dai balconi piove sempre qualcosa ed è un costante pericolo per chi ci sta sotto, specie per i bambini.
In via Vernazza, dov’era cresciuta, il giardino lei se l’era sempre sognato, ma per lui, vissuto tra Riolunato, Varazze e la collina di Pegli, adattarsi in un appartamento senza un polmone verde, sarebbe stato un sacrificio.
Davide desiderava un alloggio senza costruzioni a ridosso, per avere la possibilità di godere le aurore e i tramonti che per lui erano parti integranti delle sue giornate. Sandra di vedere l'alba ne faceva volentieri a meno e, per sua natura, sarebbe stata portata a svegliarsi un po’ dopo anche se avesse abitato in una zona aperta al verde, da un’altra parte della città.
Dalla finestra della sua camera però, quelle rare volte che le era capitato di svegliarsi prima del sorgere del sole e non riuscire a riprender sonno, se non doveva uscire, alzava la tapparella e vedeva una grande massa scura: era la facciata del palazzo di fronte che, pian piano, prendeva forma mentre il cielo andava rischiarandosi e le finestre, a breve intervallo di tempo una dall’altra, si spalancavano: per prime s’ illuminavano quelle al quinto piano, poco dopo le due attigue del secondo dove abitava la sua ex professoressa di liceo che si alzava di buon’ora per raggiungere la scuola. La luce di quelle al terzo piano traspariva dai buchi delle tapparelle per tutta la notte perché la signora Adalgisa, da quando era rimasta vedova, dormiva con la luce accesa e la spegneva solo quando incominciava a far chiaro. Poi si accendeva una lampadina bianchissima alla finestra isolata del sesto piano, dall’ingegnere e, via via, tutte le altre, alcune leggermente azzurrognole, altre di luce calda, appena rosata. Le ultime erano sempre quelle del secondo piano dove la vecchia ostetrica, da quando era andata in pensione, dormiva fino a tardi.
In via Vernazza non sentiva l’allegro cinguettare degli uccellini che salutavano il sorgere del sole; tutt’al più le capitava di ascoltare il canto dei canarini della vicina, quando li appendeva fuori dalla finestra nella loro gabbietta con l’immancabile osso di seppia e una foglia di lattuga infilata tra le piccole sbarre.
Così, ogni mattino, incominciava la vita nella sua strada, con i rumori delle prime auto che lasciavano il posteggio, degli scappamenti e il fastidioso grattare del solito motorino d’avviamento del furgone che non ne voleva sapere di mettersi in moto al garzone del fornaio.
Questa, quando faceva bello, era l'alba della sua giornata, ma, tutto sommato, era contenta di abitare in quel palazzone, se vogliamo un po' popolare benché in centro. I suoi avrebbero desiderato traslocare in una zona residenziale diversa in prospettiva della vita futura della figlia, ma il trasferimento comportava notevoli difficoltà, non solo economiche e, quando sua madre sosteneva che in un ambiente diverso avrebbe potuto trovarsi meglio e innamorarsi di un bravo giovane magari con quattro soldi, lei cambiava registro: “Importante è volersi bene, mamma, i soldi non fanno la felicità e un ragazzo povero, ma serio e che mi vorrà bene, lo preferirò sempre ad uno ricco, ma disonesto.”
“Nessuno sostiene il contrario Sandra, dico solo che frequentando un ambiente migliore, in quello troverai contemporaneamente l'amore e la prospettiva di una vita più facile e rosea e non è detto che quello ricco debba essere per forza disonesto!”
Poi a smentire questa teoria, aveva conosciuto Davide e, comunque, neppure i genitori di lui erano convinti che a due cuori bastasse una capanna e sua madre aggiungeva che dalla tavola dei ricchi può anche cadere qualcosa, da quella dei poveri mai niente, che la gente umile non ha l'esclusiva dei buoni sentimenti e che il denaro escluda l'amore, ma in questa direzione si erano sempre espressi senza incontrare il favore dei figli, specie di Elena che normalmente faceva il contrario di ciò che le consigliavano.
XXIV
I rapporti tra Dodo e Sandra erano senz'altro molto migliorati tanto che gli argomenti dei loro discorsi erano continuamente le persone da invitare al matrimonio, la chiesa, i testimoni, i fiori, le bomboniere, gli abiti e le spese relative a tutte quelle innumerevoli formalità esteriori che su di me avevano effetto deleterio, ma non avvertivo attorno a loro quell'atmosfera che, a parer mio, dovrebbe avvolgere due prossimi sposi e, anche senza volere, ogni tanto mi capitava di andare indietro col pensiero a quel periodo in cui il mio amico si comportava tanto stranamente da farmi quasi pensare che si fosse stancato di Sandra, ma, mi dicevo: in quel caso, non sarebbe stato tanto geloso e non riuscivo a darmi una risposta. Di una persona di cui non sei più innamorato, puoi essere geloso? È colei che ami che desideri tutta per te e ti urta anche che altri la guardino! O no! Qualcosa di Sandra doveva avergli dato fastidio, a parte la sua solare disinvoltura con i clienti che non poteva esser causa di malintesi.
Sembrava che, ad intervalli, gli comparissero dei fantasmi e questo cambiamento avevo l’impressione che fosse avvenuto in lui da quella sera che li avevo visti seminudi, uno sopra l’altra, dietro a quello scoglio, benché, dal ritmo dei suoi movimenti, non mi veniva da pensare ad una prima volta!
Mi venne da credere che, allora, si fosse accorto di una storia che lei poteva aver vissuto con qualcuno prima di lui. Nei discorsi che facevamo da ragazzi, durante le serate trascorse a tirar tardi, quando ci confidavamo i nostri pensieri, si diceva convinto che, per quanto potesse essere innamorato, non avrebbe mai sposato una che fosse già stata di un altro. Me lo ricordo benissimo, ma era un argomento troppo personale perché, ormai uomini, potessimo tornarci sopra e poi sinceramente non so perché dovesse interessarmi, comunque il pensiero di lei che faceva l’amore con lui o, peggio ancora, con un altro, inconsciamente mi creava una sorta di imbarazzo, era come se ne fossi stato geloso io e, quando stentavo a prendere sonno e stavo, ad occhi aperti, a fissare quelle piccole luci che, dalla tapparella, filtravano in camera, mi succedeva anche di pensare che, forse, avevo sbagliato a non corteggiarla quando l’avevo conosciuta a quella
festa, tanto tempo prima.
Perché non mi ero accorto di lei!
I miei occhi vedevano sempre ciò che destava meraviglia senza accorgersi della vera bellezza che, come diceva qualcuno che non ricordo chi fosse, può are per le più diverse strade anche non codificate: il problema è avere occhi non per guardare, ma per vedere.
Lei era ata e gli occhi di Davide, vedendola, si erano riempiti di infinito desiderio.
Nel mentre mi convincevo sempre più che la mia storia con Carla non poteva avere un futuro, tra noi non mancavano intesa e complicità, ma non c’era l’amore che intendevo io che doveva coinvolgermi l’anima.
Una sera, al ristorante, ne parlai con Sandra perché era la persona che più mi sapeva ascoltare, la sola con cui potevo confidarmi e si accorgeva subito se qualcosa mi turbava.
Convenne che, se non avevo intenzione di arrivare ad una conclusione seria di vita con lei, era ora che deponessi il mio egoismo e mi decidessi a dare un taglio a quella relazione di comodo con Carla.
Sapevo che l’avrei fatta soffrire, ma pensai che col tempo sarebbe riuscita a capirmi e un altro, meglio di me, l’avrebbe saputa amare.
Io non ero neppure ancora convinto di volermi creare una famiglia.
La mia attività mi costringeva fuori città per diversi giorni alla settimana e non mi sorrideva l’idea di stare lontano da una moglie, talvolta dal lunedì al venerdì, per tornare a fine settimana o farmi raggiungere dove mi trovavo.
Il lavoro mi dava parecchie soddisfazioni sul piano umano ed economico, però avrei voluto svolgere un’attività in proprio che mi permettesse un buon tenore di vita evitando di ridurmi come mio padre che non si era mai goduto la famiglia perché sempre in viaggio.
Presi il coraggio a due mani e parlai a Carla con parole ponderate, analizzate, appropriate. Le parole non sono semplici espressioni orali o scritte, hanno una grande importanza, possiedono addirittura un’anima e bisogna saperle dire e pronunciare al momento e col tono giusto. A seconda di quando e come ti esprimi, il loro significato può cambiare o essere diversamente interpretato. Le parole possono ferire, consolare, scusare, pregare o lasciare il tempo che trovano, possiedono l’anima di chi le scrive e di chi le pronuncia, possono valorizzare quella di chi le legge o di chi le ascolta, per questo, dico io, vanno lette o ascoltate con calma, lentamente, capite e assimilate, diversamente sono buttate al vento.
Mi ero preparato un bel discorso: le avrei chiesto di perdonarmi, ma non immaginavo che reazione potesse avere dopo tutto il tempo che le avevo rubato!
Come mi vide, quel giorno, capì, dalla mia espressione, che avevo qualcosa da dirle.
“Sputa il rospo!” Mi conosceva bene ormai.
Eravamo seduti sulla sponda del letto e mi lasciò parlare senza interrompermi.
Poi appoggiò la testa di riccioli sulla mia spalla e scoppiò a piangere e piangeva con il singhiozzo, tanto che io non sapevo più cosa fare e in quel momento fui tentato di dirle che non era vero che volevo lasciarla, che era tutto falso quello che le avevo appena detto, che desideravo solo constatare se veramente mi voleva bene e vedere la sua reazione, ma lei, come iniziai a balbettare qualche stupida parola, si dimostrò più matura di me. Si asciugò gli occhi, si soffiò il naso e: “Non dire nulla, ti scongiuro, avevo capito che qualcosa non andava più tra noi”.
Finito lo sfogo di pianto mi pregò di aspettarla: si sarebbe sbrigata e saremmo usciti assieme. Non voleva rimanere sola. Mi chiese uno strappo fino a casa dei suoi ed entrò nella doccia.
Io rimasi seduto sul bordo del letto, lei, lasciando la porta del bagno aperta, entrò nel box doccia in cristallo, proprio di fronte a me; aprì l’acqua e, nella trasparenza, la vedevo mentre con la spugna s’insaponava il collo, le braccia, il prosperoso seno sul quale indugiò parecchio, poi ò all’inguine e in mezzo alle cosce, prima dal davanti e poi dal dietro.
Non finiva più, forse era sopra pensiero e l’acqua calda le scivolava addosso con fragore e le lisciava i capelli. Per il vapore acqueo che si era formato, dopo un po’ non riuscivo più a vederla e, dato che stava lì dentro da ormai troppo tempo, mi venne da pensare che si fosse sentita male.
Per un attimo, nella mia subconscia presunzione, ebbi il timore che si fosse tagliata le vene e che, complice l’acqua calda si stesse dissanguando. A quel pensiero mi si gelò il sangue lungo la schiena e, con un senso di colpa, provai addirittura un attimo di insano orgoglio: non pensavo di essere amato al punto che la mia ragazza avrebbe tentato il suicidio per me. Non capitava a molti: grazie a Dio!
E mi vergognai subito di ciò che avevo pensato! Ma sai, è inutile scandalizzarsi, sono quei lampi che, anche contro la tua volontà, a volte, all’improvviso ti attraversano il cervello, se non ce l’hai piatto!
Mi alzai di scatto, entrai nel bagno e aprii la porta battente del box. Lei mi guardò seria e, con mia grande sorpresa, mi disse: “Vieni, ti prego, facciamo l’amore un’ultima volta”.
Qualcosa mi diceva che non dovevo, che era tutto sbagliato, ma a vedermela lì, nuda e insaponata, non seppi resistere.
Neppure Fregoli sarebbe stato tanto veloce!
Mi spogliai in un attimo e fui con lei sotto la doccia.
Chiarite le mie intenzioni, senza la possibilità di interpretazioni errate su presunti impegni matrimoniali, continuammo a vederci ogni tanto, quando ce ne veniva voglia, lasciandoci liberi entrambi da obblighi di fedeltà e, per un po’ di tempo, quella formula non mi dispiacque affatto.
Il lunedì il ristorante rimaneva chiuso per turno settimanale.
Dodo mi telefonò per chiedermi se facevo una scappata con lui a Mentone: sapeva che il casinò di quella cittadina della Costa Azzurra, era una sala da gioco piccola ed accogliente, uso famiglia e voleva farci una capatina.
Scaramanticamente parlando, siccome non ci aveva mai messo piede, avrebbe dovuto trovarci fortuna secondo quanto dicevano i giocatori.
“Torniamo in serata, come guido io non ci mettiamo molto,” rideva e aggiunse: “Vieni con me, ti prego, ti offro il pranzo al Gambero Rosso!” Ma quel giorno proprio non mi era possibile.
A prescindere dal fatto che dovevo trovarmi a Novi per un affare che mi stava troppo a cuore da tempo, sinceramente mi dava pensiero andare in macchina con lui perché, da quando aveva la Maserati, correva come un matto.
Poco tempo prima l’avevano inseguito due motociclisti della Stradale lungo ail tratto della via Aurelia che scende, tutta curve, verso Rapallo e, quando lo raggiunsero, con non poca difficoltà, gli appiopparono una multa salata, per eccesso di velocità. Il milite più anziano, che, per l’età, poteva essere suo padre, in quella veste, gli si raccomandò, per il suo bene, di andare più piano. “Va chiù chiane, guagliò!” Glielo disse come se fosse stato suo figlio. Aveva capito la frase in dialetto napoletano, ma non volle cogliere il lato umano del lavoro di quel milite e, quasi con arroganza, l’aveva pregato di verbalizzare l’infrazione, ma di evitargli la predica che quella, andava ad ascoltarla in chiesa!
Era dispiaciuto che non potessi accompagnarlo e mi disse: “Peccato! Verrei con te a Novi. Da quelle parti ho dei bei ricordi, ma ormai ho deciso di andare a puntare su tre numeri che ho sognato la notte scorsa.”
Davide era andato senza dir nulla a nessuno. Forse pensava di tornare entro breve tempo, ma si era attardato oltre il previsto e Sandra, non avendolo visto are durante il giorno, mi chiamò per vedere se sapessi dov’era. Ero appena tornato dal Piemonte.
“Non può essere già di ritorno a quest’ora!” le dissi.
“Di ritorno da dove?”
“Ma come, non te l’ha detto? È andato a Mentone.”
Forse mi ero tradito, ma non mi aveva detto di non dirlo!
Lui, dopo poco, appunto per non farla stare in pensiero, la chiamò per avvisarla che avrebbe fatto tardi, che forse non sarebbe rientrato in serata e si sentì dire di tutto.
“Sapevo che non saresti stata d’accordo, per questo non ti ho detto dove ero diretto, diversamente saremmo andati assieme. Ho perso dei soldi, voglio rifarmi e perciò farò tardi, può darsi anzi che dorma fuori.”
Ma lei era incavolata come non mai: “Guarda di non farmi quella di dormire fuori perché te la faccio pagare!” E gli buttò giù la cornetta.
Alle ventuno e trenta ai da Sandra per sapere come gli era andata al casinò.
Dodo però non era ancora tornato e lei era in pensiero e nervosa, per questo scambiai due chiacchiere con i suoi, anche loro poco tranquilli e me ne andai: ero stanco, non vedevo l’ora di coricarmi.
Al mattino presto chiamai la mamma di Davide che mi parve sull’orlo di una crisi di nervi. Non era tornato: “Signora, non faccia così. Sa com’è suo figlio! Avrà conosciuto una bella se. Beato lui! Piuttosto non so come se la metterà con Sandra.” Avevo cercato di buttarla in ridere, ma lei temeva che gli fosse successo qualcosa e voleva telefonare alla Stradale.
Non era trascorsa neppure mezz’ora quando Elena mi chiamò per pregarmi di accompagnarli a Savona: erano stati avvisati che Davide aveva avuto un incidente nel tratto di strada tra Varigotti e Spotorno ed era stato trasportato all’ospedale di Savona in condizioni piuttosto gravi.
Insieme lo raggiungemmo che era ancora in sala operatoria.
Quando l’autoambulanza della Croce verde l’aveva soccorso era privo di conoscenza, non sembrava grave, non presentava neppure vistose e profonde ferite: solo diverse escoriazioni; gli esami radiologici però, in ospedale, avevano evidenziato un vasto ematoma nella regione occipitofrontale. Nello scontro aveva battuto violentemente la nuca.
L’intervento, tecnicamente riuscito, aveva bloccato l’emorragia ed eliminato l’ematoma.
Sandra arrivò poco dopo di noi.
Nella ricostruzione dell’incidente dissero che, a causa della forte velocità e dell’asfalto reso viscido dalla pioggia caduta in nottata, la sua auto era sbandata in una curva ed era finita contro il muraglione a monte della strada. Un’auto, proveniente in senso contrario, non aveva potuto evitarla e vi si era sfasciata contro.
I ricoverati infatti erano tre, ma lui era il più grave.
Le sue condizioni, dopo un certo miglioramento, si mantennero stazionarie e i medici si mostrarono ottimisti: di un ottimismo che durò poco perché nel tardo pomeriggio ci dissero che si era prodotta una nuova emorragia e che non era possibile un ulteriore intervento chirurgico date le condizioni del paziente.
Non ci restava che sperare!
Il mio amico, nonostante le cure prodigategli, spirò verso sera senza aver ripreso conoscenza.
Fu per tutti un dolore immenso: i suoi erano disperati, la sorella sembrava impazzita e sua mamma ebbe più di uno svenimento.
Non potrò mai dimenticare il pianto convulso che Sandra non riusciva a frenare.
Il suo modo di fare, a volte problematico, ma schietto, i difetti che non riusciva a mascherare, avevano reso Davide ancor più umanamente simpatico e tutti quelli che l’avevano conosciuto gli volevano bene.
Avevo perso il mio amico più caro e non mi sapevo perdonare di non essere andato con lui. Mi dicevo che forse avrei potuto fare in modo che tornasse ad un’ora più decente, a convincerlo a non estenuarsi nel gioco fino alle prime ore del mattino, forse sarebbe stato meno stanco e sarei riuscito a non farlo correre in quel modo!
Al funerale c’erano compagni di università, clienti, i ristoratori presso i quali aveva lavorato a Varazze, colleghi concorrenti, fornitori e tutti gli amici con gli occhi arrossati e gonfi. Anche Dario aveva gli occhi rossi, ma io penso che avesse pianto non tanto per Dodo quanto per il dolore che provava sua figlia e per il fatto di per sé tragico.
Il rito funebre fu officiato, nella chiesa di Albaro, dal suo amico scano che, nell’omelia, cercò di spiegare il senso della morte cui tutti, o prima o dopo, siamo destinati ma, come dice il Vangelo, arriva come un ladro di notte, spesso quando meno ce l’aspettiamo e per questo bisognerebbe essere sempre preparati.
Continuamente, sale verso l’infinito una scia invisibile di anime che, liberate dai loro involucri, volano verso una meta luminosa, ma noi non ce ne accorgiamo e facciamo di tutto per non pensarci.
Aldo si era chiuso in un dolore che non ammetteva consolazione, la perdita dell’amico l’aveva colpito in modo diverso da come comunemente succede quando viene a mancare una persona cara; sembrava che non avesse mai riflettuto sull’ineluttabilità della morte e che la disgrazia gli avesse fatto aprire gli occhi sul senso della vita. Non mi ero mai accorto che il suo sentimento per l’amico fosse tanto profondo e sincero, gli avevo sempre attribuita una buona dose di superficialità che pensavo lo fe vivere in maniera distaccata anche dagli affetti.
Incominciò a chiedersi che senso avessero le questioni puramente materiali alle quali aveva sempre attribuito molta importanza: la carriera, il denaro, la vita stessa, tutta quell'affannosa corsa per raggiungere un obbiettivo qualsiasi, perdevano significato se non finalizzati ad uno scopo che travalicasse il fine a se stesso.
La vita di Davide, come per tanti di noi, nati negli anni trenta, non era stata facile. Aveva lavorato per mantenersi agli studi e solo da poco, a ventisette anni, incominciava a raccogliere qualche frutto.
Pur non cercando di voler interpretare i disegni divini, cosa peraltro molto ardua, era lecito chiederci il perché della predeterminazione in tal senso del corso della sua vita: ce lo domandavamo tutti, ma in modo particolare Aldo che non aveva mai affrontato problematiche del genere. Lo faceva senza acredine, lasciando spazio alla possibilità dell’esistenza di un progetto, difficile da capire.
Nei giorni seguenti mi adoperai, come meglio sapevo, per esser loro d’aiuto. Elena era ancora troppo giovane, Sandra troppo abbattuta e i vecchi, chi più chi meno, tutti un po’ mal messi perché, quando uno raggiunge una certa età, per quanto possa essere in forma, di acciacchi ne ha sempre più di uno e, in circostanze del genere, è meglio che corrano i giovani per non aggravare ancor più la situazione.
Quando se ne va al Creatore qualcuno non c’è tempo solo per le lacrime: le pratiche da espletare sono molte e molto tristi.
XXV
Dopo una settimana di chiusura per lutto, il ristorante riaprì i battenti alla clientela e quelli che non erano a conoscenza della disgrazia che aveva colpito la proprietà, scherzavano e ridevano e brindavano alla vita senza far caso alle occhiaie di Sandra che, a volte, sembrava trascinare le gambe, si sentiva stanca e, appena il lavoro glielo permetteva, si sedeva.
La sera, se ero in città, cenavo da lei.
Come al solito, quando il grosso del lavoro era sul finire, veniva al mio tavolo e mi metteva al corrente di tutto ciò che aveva fatto e pensato, dei suoi dubbi, delle sue ansie.
arono così, in un soffio, due mesi.
Una sera mi dette una notizia che proprio non mi sarei mai aspettato.
Ero io il primo a ricevere quella confidenza, non ne aveva fatto parola con nessuno, neppure con sua madre.
A Davide non aveva fatto a tempo a dirlo, voleva aspettare di esserne veramente sicura: era incinta!
Non so quale ridda di sentimenti, in un attimo, si fossero scatenati nel mio cuore a quella notizia, ma mi vennero le lacrime agli occhi e mi meravigliai per le parole che, istintivamente, mi uscirono dalla bocca benché non avvezzo a circostanze del genere.
Una nuova vita si affacciava al mondo che, per brutto lo si possa dipingere, è pur sempre bellissimo.
Ogni giorno sbocciano fiori, nascono bambini, ogni mattino sorge il sole anche se il tempo non è buono: al di sopra delle nuvole splende sempre!
Mentre le parlavo scoppiò a piangere e mi abbracciò. Io continuavo a sciorinare tutto il repertorio di frasi affettuose e costruttive che mi venivano in mente perché capivo il motivo di quel pianto e che, per bella che fosse la notizia, non c’era solo da complimentarsi, ma da far coraggio. Tanto coraggio!
La notizia meravigliosa era anche fonte di grosse preoccupazioni.
Contrariamente a quanto qualcuno si era permesso di consigliarle, forse non conoscendone a fondo i convincimenti, portò avanti la sua gravidanza serenamente, nel migliore dei modi e con vera gioia, lavorando fino a tre giorni prima del parto, nonostante le difficoltà e i commenti che, più che altro, immaginava, sempre presente a se stessa sul lavoro tra cucina, sala e cassa e amò quella bimba ancor prima che nascesse, proprio a sopperire la mancanza dell’amore del papà.
Sono convinto che neppure lontanamente l’abbia mai sfiorata l’idea di abortire, tanto le era dolce la consapevolezza di portare dentro e perpetuare la vita di
Davide.
L’antivigilia di Natale dette alla luce una bella creaturina di tre chili e mezzo, sana e vispa, coi capelli rossi.
Quel Natale, per tutti noi, la bimba di Sandra rappresentò Gesù bambino e, scherzando, dicevamo che, quell’anno, per la prima volta, la Madonna aveva partorito una femminuccia!
Non le fu concesso di darle il cognome del padre nonostante avesse tentato tutte le strade possibili: la legge non lo permetteva allora.
Le dette orgogliosamente il suo e così, diceva, era ancor più sua.
La bimba diventò la cocca delle due famiglie che facevano a gara ad accaparrarsela, a coprirla di carezze e colmarla di regali. Sandra si comportava come una tigre: la lasciava ai nonni, ma se ne allontanava mal volentieri. Era gelosa della sua bambina, la cosa più bella che le fosse capitata nella vita.
Quell’orso di Bruno, con grande sensibilità, volle che il ristorante fosse subito intestato a Sandra che, almeno economicamente, non ebbe preoccupazioni. Lei continuò a vivere con i suoi, diversamente non avrebbe saputo come conciliare maternità e lavoro.
Io, che, quasi certamente, sarei stato testimone alle sue nozze, ebbi la gioia di fare da padrino di Battesimo a Gaia: così volle chiamarla come augurio.
arono diversi mesi, lei sempre indaffarata tra casa, ristorante e questioni varie che nascevano ogni giorno. Qualche volta l’accompagnava Elena e se doveva andare dal pediatra le davo uno strappo io. Suo padre non si sentiva sicuro alla guida e non voleva la responsabilità di portare in auto la bimba.
Un giorno mi disse che voleva parlarmi, ma non come al solito al ristorante dove i camerieri origliavano pensando che nessuno se ne accorgesse.
Ci trovammo nel pomeriggio per un tè da Klainguti e portò anche Gaia. Sembravamo una famiglia felice, tanto che il cameriere ci fece i complimenti per la bella bambina che avevamo!
Desiderava mettermi a parte di un suo progetto, sapere cosa ne pensassi : voleva cedere il ristorante e andarsene da Genova, troppi ricordi belli le erano diventati dolorosi. Tutto l’ancorava al ato e lei era molto determinata a non chiudersi in un guscio e a rifarsi una vita.
Alla sua età aveva ancora tanto futuro.
Il rappresentante dei vini che forniva il ristorante le aveva prospettato un acquisto che, secondo la sua ottica, rappresentava un affare: una casa colonica, con annesso oliveto di circa due ettari, in vendita a mezza costa nella collina alle spalle di Viareggio, a San Macario, verso il o del Quiesa.
Nei pressi si trovava un locale famoso perché ci si era fermata a cena la principessa Margaret d’Ighilterra e, a questo proposito, non ho mai capito perché
un ristorante diventi ambito solo perchè c’è stato a pranzo un blasonato che, magari, non è neppure un buongustaio e non ha pagato neanche il conto.
Mi chiese di accompagnarla spiegandomi che aveva intenzione di realizzare un agriturismo con alcune camere da affittare uso bed and breakfast con abbinata produzione e vendita di suoi prodotti alimentari, una forma di attività che iniziava a prender campo in quel periodo.
La zona, a mezza strada tra Viareggio e Lucca, le piaceva e di lì, quando l’avesse desiderato, avrebbe potuto facilmente raggiungere con Gaia la casa della nonna di Dodo oltre il o dell’Abetone.
Era convinta, per quanto aveva sentito dire dal pediatra, che tre settimane in montagna portavano grande giovamento a chi abitava tutto l’anno al mare.
Lasciò la bimba a sua mamma per non sottoporla ad uno strapazzo inutile e arrivammo in Versilia sul mezzogiorno in quasi quattro ore di strada obbligata: la vecchia Aurelia con tutte le curve ed i tornanti possibili e immaginabili.
Sul o del Bracco la nebbia a banchi, ci veniva incontro all’improvviso dietro alle curve e vicino a La Spezia ci prese un diluvio che mi sembrava di guidare un motoscafo anziché un auto e, mentre scendevo lungo i tornanti della Gira, guidavo muto come un pesce, per quanto ero preoccupato. Da quelle parti, oltre a piovere molto, quando piove sembra sempre che diluvi. Ad ogni curva l’acqua incanalata lungo la strada aumentava di volume e di forza per quella della carreggiata superiore che si univa alla sottostante.
Nei pressi di Massa, fulmini e saette zigzagavano per il cielo che si era fatto di
piombo e a Viareggio sembrava che fero i fuochi d’artificio, ma era giorno e non era Carnevale.
Una tromba d’aria aveva abbattuto parecchie cabine e fatto volare molti ombrelloni negli stabilimenti balneari della zona nonché divelto diversi pini marittimi secolari.
Costretti in un bar, senza luce, per quasi un’ora, ne approfittammo per mettere qualcosa sotto ai denti, intanto il temporale ava e incominciò a spiovere.
Le cortecce degli alberi fumavano come quando da un paiolo cade dell’acqua fredda sulle braci, le nuvole però avevano preso ad allontanarsi veloci e il cielo si rialzò.
La casa colonica non ci fece una grande buona impressione e, pur considerando i due ettari di terra piantumati ad ulivi, la richiesta era esorbitante.
Erano di notevole importanza architettonica il porticato, il pozzo in pietra davanti all’enorme portone d’ingresso in legno antico di castagno e la torretta in mattoni a vista sovrastante la facciata con una campana di bronzo che mi ricordava le fattorie nelle pampas argentine, viste anni addietro in qualche film di gauchos.
Non so neppure a cosa servisse quella campana! L’avrei sostituita con un grande orologio. Però non ci stava male!
Quel nubifragio certamente ci fece apparire le cose meno belle.
Un bel sole accende i colori, li estrae dalla materia, senza sole tutto appare opaco, decisamente meno allegro, sempre che di allegria non se ne abbia molta dentro, ma non era il caso di Sandra. Comunque non ci sembrò neppure un affare come aveva ventilato quel rappresentante. Ringraziammo della cortesia usataci la proprietaria, ci scusammo per il disturbo arrecato, ma non se ne fece nulla.
Stava venendo buio.
A Forte dei Marmi nugoli di gente, per il mio carattere troppo chiassosa, dopo il temporale, aveva rioccupato le strade e quasi si faticava a are tra una persona e l’altra.
Tra i tanti negozi illuminati Sandra si era incollata alla vetrina di una rosticceria che offriva un’infinità di insalate russe e capricciose, con una presentazione da concorso.
Io stavo immaginando che anche Davide ci si sarebbe fermato e, mentre si avvicinava parlando, constatai che aveva pensato la stessa cosa.
Non cenammo al Forte, non voleva tardare troppo a tornare dalla bimba.
Dopo quella specie di gita, di quando in quando, prese a chiedermi di accompagnarla e mi venne il dubbio che fosse una scusa per trascorrere qualche ora assieme a me.
Per strada mi prendeva a braccetto e si stringeva e, quando mi salutava, mi si avvicinava con tutto il corpo per baciarmi sulle guance. ando da una guancia all’altra, con la bocca mi sfiorava le labbra e mi chiedevo se volesse farmi capire qualcosa.
Una sera l’accompagnai fin sotto casa sua e mi fermai a parlare con lei in macchina, più del necessario. Prima di scendere dall’auto, nel salutarmi, mi si accostò con un’espressione strana negli occhi che non le avevo mai notato. C’era sulla destra un lampione dalla luce gialla e più in là due ragazzini che, saltellando e ridendo, cantilenavano una filastrocca e cercavano di calpestare le loro ombre lunghe sotto la luna piena.
Per un attimo ebbi la netta convinzione di aver già vissuto quel momento in quello stesso luogo e in eguale situazione, come se si fosse trattato di un segno del destino.
Fui preso come da un raptus emotivo: la baciai e lei mi contraccambiò con ione.
“Tempo fa, ho desiderato tanto che tu mi baciassi, ma tu non ti sei mai accorto di me.” Mentre mi diceva queste parole, scese svelta dalla macchina, quasi scappando.
Ero stordito e mi venne istintivo rimproverarmi, ma non seppi dire una parola appropriata per trattenerla e almeno spiegarle il mio comportamento, ammesso che una spiegazione occorresse o meglio esistesse.
A casa rimuginai quella frase e pensai a quel bacio per diverse ore, prima di riuscire a prendere sonno.
Devo ammettere che Sandra mi piaceva e, volendo essere sincero, benché fosse la ragazza di Davide, era da tempo che la vedevo con occhi diversi da quelli di un semplice amico.
Per non permettermi di guardarla in diversa maniera, facevo violenza su me stesso, ma la vedevo!
Capivo che avrei finito per innamorarmene e contemporaneamente pensavo che non era ancora trascorso sufficiente tempo dal lutto che l’aveva colpita e mi creai la convinzione che quel bacio me l’avesse ricambiato solo per non dispiacermi, per paura che potessi offendermi.
Avevamo molto in comune, forse troppo, ma non volevo che diventasse una storia nata sulle braci ardenti di un’altra. In breve ci saremmo bruciati.
In diverse occasioni provai la sensazione di non essere mai solo con lei, percepivo continuamente la presenza di Dodo tra noi.
Gaia era contenta di vedermi, mi correva incontro con le braccine aperte e mi sorrideva scoprendo i dentini bianchi. Era proprio una bella bambina con quella testina di riccioli ramati e il visino pieno di efelidi: trotterellava già benino con portamento fiero.
Una sera me ne ero andato a ballare al Lido e avevo rimorchiato una bella figliola. Usciti dal locale, in una di quelle strade adiacenti, ci eravamo baciati con grande trasporto e in quel momento si mise a piovere a dirotto. Una sensazione meravigliosa!
Lo raccontai a Sandra, volevo sondarne la reazione: “Certamente è la tua anima gemella!” Me lo disse con espressione di sufficienza, senza esternare una minima contrarietà e senza batter ciglio.
XXVI
Nel secondo anniversario della morte di Davide, Sandra volle riunire i vecchi amici per una specie di commemorazione. Fra’ Vittorio, col permesso del parroco, celebrò una Messa in suffragio nella chiesina di Polanesi, ci andavano ogni tanto di domenica, posteggiavano l’auto al bivio con l’Aurelia e percorrevano a piedi la bellissima carreggiata che, per circa due chilometri, si snoda tra invidiabili ville, olivi, corbezzoli, limoni, pini marittimi, siepi di rosmarino e piante in genere della tipica macchia mediterranea. La percorremmo a piedi tutti assieme. Aldo era entusiasta dei posti così ridenti e diversi dalla pianura dove abitava. Caso strano: era venuto solo.
Non ci vedevamo da due anni, ma era come se il tempo non fosse trascorso, ancor più legati tra noi dalla perdita del comune amico, accusavamo però chiaramente che con Dodo se ne era andata una parte della nostra vita.
Dopo la funzione, Sandra ci ospitò al ristorante che aveva conservato il vecchio nome e tirammo sera tra ricordi, emozioni, confidenze, resoconti per qualcuno, progetti per altri. Succede quando ci si ritrova a distanza di tempo.
Aldo aveva pernottato in un alberghetto di Recco. Con fare sobrio e distinto, quasi distaccato, sembrava un’altra persona, totalmente cambiato e, parlando, esprimeva concetti di grande spiritualità.
Non più battute frivole, solo discorsi molto ponderati, costruttivi, direi edificanti che in ogni occasione lasciavano intravvedere il lato buono e positivo della questione in argomento. L’espressione dei suoi occhi era diversa: quando iniziava a parlare, incominciavamo ad ascoltarlo con un mezzo sorriso sulle labbra aspettando la solita conclusione frivola e scherzosa, poi cercavamo di
intuire dove volesse arrivare e infine ci prendeva alla sprovvista e dovevamo ricrederci.
Era come se il periodo vissuto unicamente alla ricerca di piaceri e denaro, l’avesse disgustato e ne avesse provato rigetto.
Cosa avesse combinato in Brasile e quali peccati dovesse scontare non ci era dato saperlo ma, con la maturità acquisita e il trascorrere del tempo giudicava sbagliata la vita condotta nella sua prima giovinezza.
Era rimasto estasiato dalla bellezza della natura ammirata lungo la cornice percorsa da Polanesi a Megli e lo diceva con Sandra che lo ascoltava con attenzione dato che palesava l’intenzione di acquistare un casolare con della terra e trasferircisi dalla bassa modenese dove la nebbia e il clima, da un po’ di tempo, gli davano addosso.
Aveva in mente di aprire un agriturismo dove far lavorare dei ragazzi che reputava meno fortunati, ma meritevoli e quello gli era sembrato il posto adatto.
Sandra era molto interessata alle sue idee e si scusò di privilegiare lui nella compagnia: sapeva che Aldo, se credeva in un progetto, riusciva anche a realizzarlo.
Durante una conversazione, riscontrando il persistere delle nostre valutazioni scherzose nei suoi riguardi, ci disse chiaramente che non dovevamo più vederlo come la testa di cavolo che era sempre stato.
In altri tempi si sarebbe espresso diversamente!
Aveva abbracciato la religione evangelico luterana ed era diventato Pastore.
Con lui le sorprese erano all’ordine del giorno, ma quella volta rimanemmo tutti a bocca aperta, ci lasciò proprio di stucco.
L’aveva spinto verso il protestantesimo, l'improvviso quanto insopprimibile impulso verso una vita ascetica: voleva predicare, fare dell’apostolato, ma non avrebbe potuto come cattolico, senza rinunciare all’amore di una donna e ad avere dei figli. La sua scelta, comunque, rientrava nello spirito ecumenico atto a riunire cattolicesimo, protestantesimo e chiese orientali.
Concepiva la religione come un rapporto del singolo direttamente con Cristo e senza necessità di intermediari, aveva stabilito un rapporto interiore con Lui.
Con proprietà di linguaggio e grande conoscenza degli argomenti, spiegava come avesse imparato a pregare senza chiedere e come, in tal modo concentrato, sentisse di parlare col Signore e ne ricevesse risposta.
In base a questo interiorismo presupponeva che Dio si rivelasse direttamente ad ogni singolo.
Per raggiungere questo stato di grazia aveva lavorato a lungo su se stesso, per rendersi degno di essere almeno ascoltato, convinto di non poter trovare spazio senza un serio progetto di vita e il proposito di non ricadere negli errori del
ato.
“E allora Aldo, addio agli affari, ai tuoi averi, alle belle donne!”
Lui ci spiegò che certamente la sua vita era cambiata, ma non gli era proibito amare una donna, la più bella creatura di Dio, gli era permesso sposarsi, avere dei figli e per quanto riguardava le sue proprietà, che un giorno sarebbero andate ai suoi eredi, tratteneva quanto gli era necessario per vivere decorosamente e il rimanente del reddito lo devolveva in opere di bene.
D'altra parte la vita voleva guadagnarsela e non avrebbe accettato di vivere con le elemosine dei fedeli che destinava invece ai poveri.
Con l’occasione si fermò a Genova più del previsto e volle recarsi in alcune chiese evangeliche della città per conoscerne i responsabili.
Quella era la sua nuova vita.
Tenne una conferenza nella sala evangelica della Foce e volli andare anch’io ad ascoltarlo. Non mi sembrava di fare nulla di male: gli evangelici non sono cattolici, ma sono pur sempre cristiani.
Quella che definiva chiesa era in sostanza un grande stanzone con tante sedie. Addossato ad una parete era sistemato un cassettone di legno scuro con sopra un Crocifisso e, in un angolo, degli strumenti musicali che avrebbero accompagnato alcuni canti religiosi e un proiettore per le diapositive che ci andò poi a mostrare.
La stanza si riempì in breve e lui fu presentato all’assemblea dei presenti come fratello Aldo. L’osservavo incredulo con la Bibbia in mano e, così vestito di grigio scuro e l’espressione mistica, mi parve anche molto dimagrito.
Non avrei mai pensato di andare un giorno ad ascoltare la sua buona parola! Ero quasi incredulo mentre, senza enfasi prese a parlare di Gesù, affettuosamente, amichevolmente. Mi meravigliai per la conoscenza che aveva del Vangelo con i continui riferimenti ai precisi numeri dei versetti.
Loro non dicono Messa. Si riuniscono per ascoltare la lettura e la spiegazione del Vangelo.
Per Comunione intendono trovarsi tutti assieme nel nome del Signore perché Gesù disse: “Ogni volta che vi riunirete in mio nome, io sarò tra di voi”.
I presenti lo seguivano con molto interesse, in genere più attenti e composti di noi cattolici quando assistiamo alla Messa e ogni tanto c'era chi rompeva il silenzio con parole di assenso esclamando Amen o Alleluia!
Il suo cambiamento spirituale era incominciato da molto tempo, non l’immaginavo, infatti a un certo punto proiettò delle diapositive nelle quali lo si vedeva in una missione, nella regione della Beciuania, nel cuore dell’Africa del sud e fece ridere tutti commentandole: secondo il rito evangelico, battezzava i neri che si erano convertiti, immergendoli con tutto il corpo e la testa totalmente sott’acqua, ma doveva farlo in fretta perché avevano il terrore dei coccodrilli che infestavano il fiume.
Poi ci invitò a chiudere gli occhi raccogliendoci in religioso silenzio a capo chino e disse: “Ecco! Ora state percorrendo un sentiero in mezzo al bosco. È l'imbrunire. Immaginate di scorgere in lontananza un uomo che cammina verso di voi. Si avvicina sempre più. Ora lo vedete bene, lo riconoscete: è Gesù che vi viene incontro. Come lo salutate? Cosa vi sentite di dirgli?”
Il momento fu toccante.
Sandra lo rivide in occasione di altre sue venute a Genova: lo ascoltava con grande interesse ed io capii che stavano volentieri assieme, lui l’ammirava e, nella sua nuova veste, la sentiva vicina, proprio perché era stata provata dalla vita. Non riuscivo a capire l'intensità del sentimento che li univa, sempre molto controllati nei gesti, nel comportamento, ma dall'espressione e dall'intensità dei loro sguardi, era chiaro che qualcosa d'importante era nato tra loro. Aldo aveva mantenuto vivo il senso dell’umorismo e le sue visite portavano allegria e serenità a lei e alla bimba. Trovava in Sandra grande simpatia, ma anche spiritualità, formazione ed una visione della vita molto al di sopra dei frivoli atteggiamenti abituali delle ragazze che aveva sempre frequentato.
Cominciarono a vedersi spesso e fu felice di affidarle poi la conduzione del complesso agrituristico che, in breve tempo, aveva realizzato nella collina a lui cara, dando lavoro a diversi ragazzi che avevano commesso dei grossi errori, ma avevano pagato sulla loro pelle e volevano reinserirsi onestamente nella società.
Lei, con valide collaboratrici, si adoperava, anima e corpo, per la buona riuscita di quella nobile iniziativa e contemporaneamente non trascurava il lavoro del ristorante.
Bruno e Margherita conoscevano Aldo da quando portava i calzoni corti e lo vedevano volentieri, quasi come se fosse un altro figlio. Accompagnava Sandra
a portare i fiori al cimitero sulla tomba di Davide e alla bimba raccontava di quando, da ragazzo, giocava col suo babbo, che era stato un suo amico buono e simpatico e Gaia un giorno gli disse che credeva che il suo papà fosse lui e a lui venne quasi da piangere.
Non sapevo prevedere se si sarebbero sposati. Da come erano andate le cose, per il bene che volevo a loro tre, me lo auguravo.
Lei stava riconquistando la gioia di vivere, erano sereni, era chiaro che tra loro era nato un sentimento profondo e mi rendevo conto di quanto Aldo fosse felice e di come avesse capito il senso della vita più di chi l’aveva più volte criticato, me compreso.
Quando il tempo lo permetteva, Sandra portava Gaia al mare a Mulinetti.
Da via Garibaldi scendeva le scalette che portano al lungomare Italia e andava a sedersi, con le spalle al muraglione, rivolta verso l’orizzonte.
Nella spiaggetta, ai suoi piedi, la bimba giocava col secchiello e la paletta.
Il mare lambiva la riva e, col suo moto ora calmo, ora più affannoso, ma continuo le dava il senso della vita che continuava.
Con lo sguardo pieno d’amore, osservava la sua bambina, le sue piccole fragili spalle, il visino che le ricordava tanto suo padre.
I gabbiani reali avevano ricominciato a posarsi negli spazi lasciati liberi dai bagnanti, alcuni si appollaiavano sugli scogli adiacenti e uno in particolare andava a posarsi sul culmine di quella roccia dove, da ragazzo, si arrampicava sempre Dodo. Rimaneva qualche minuto lassù a curiosare, sembrava timoroso di recar disturbo, poi allargava le ali e riprendeva il volo verso il cielo.
Lei rimaneva lì per ore e, quando scendeva la sera e il sole diventava una enorme sfera arancione e spariva in mare, formulava in segreto un desiderio.
Ascoltava lo sciabordio dell'acqua contro gli scogli e provava la sensazione che le onde sussurrassero parole che venivano da lontano, da molto lontano, che parlavano al suo cuore e solo lei poteva capirne il significato.
Indice
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI