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Claudio Paganini

La grotta

Serie “5 piccole ombre”

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La grotta

Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6578-218-7 In copertina: Immagine Shutterstock.com

La grotta

Ho sempre avuto una ione per tutto ciò che riguardava le avventure incredibili e i viaggi fantastici e, vista la mia giovane età, forse, è stata proprio questa sete di evasione dalla realtà il punto di partenza della vicenda che sto per raccontare.

Iniziò tutto in biblioteca, davanti a un libro lasciato stranamente aperto alla pagina riguardante le caratteristiche geografiche dell’entroterra di Chiavari: bellissime fotografie di boschi e ruscelli facevano da cornice a capitoli sulla storia geologica e sugli aspetti caratteristici della Val Graveglia. Subito un titolo mi balzò agli occhi, così carico di fascino e di mistero: “La grotta del serpente tra miti e leggende”. Non so perché, ma quella frase d’effetto, sicuramente messa in bella vista proprio per catturare l’interesse del lettore, continuava a rimanermi in testa; decisi di prendere il libro in prestito per poterlo leggere con calma a casa. arono alcuni giorni prima di avere un po’ di tempo libero da dedicare alla lettura ma, quando finalmente ripresi quel volume in mano, mi sentii prendere da un’agitazione incomprensibile, quasi un sentore che qualcosa di

indefinito stava per accadere.

Il capitolo riguardante la grotta, oltre a descriverne a grandi tratti la forma e le dimensioni, ne raccontava la storia; anticamente lo sviluppo della caverna era diverso da quello attuale: aveva, infatti, un’entrata superiore posta sul lato nord della collina, abbastanza ampia da poter essere visitata stando in piedi. Fu utilizzata per molti secoli come rifugio e ricovero per il bestiame; i pastori, però, si limitarono a utilizzarne solo la parte più vicina all’entrata in quanto girava voce che le parti più profonde erano abitate da spettri e animali mostruosi. I venti di tramontana, infatti, penetrando dall’entrata superiore percorrevano i cunicoli interni fuoriuscendo poi da un’altra apertura più piccola, posta molto più a valle, creando suoni molto simili ai lamenti strazianti di uno spirito inquieto.

Quella sera mi addormentai immediatamente e, quasi subito, iniziai un sogno molto diverso dal solito, più vivido e pieno di particolari, di suoni e di odori. Mi sembrava di essere vicino al luogo descritto dal libro e indossavo un vestito dalla foggia molto antiquata; quello che, però, mi sembrava più strano era un altro particolare: nel sogno io ero un adulto e stavo per entrare nella grotta del serpente per fare un’esplorazione approfondita dei cunicoli interni. Avevo appena appoggiato la mia sacca a un albero e stavo controllando per l’ultima volta la mia attrezzatura: corde, sei torce ben incatramate e pronte all’uso, acciaino per accenderle e la borraccia dell’acqua. Ero allegro e, mentre pregustavo il brivido dell’avventura che stava per cominciare, ripensavo a quando, il giorno prima, ero partito da Chiavari, lasciandomi alle spalle la spiaggia assolata e il mare calmo del mio golfo per dirigermi nell’entroterra, verso i monti, oltre la località di Pian di Fieno, per un’esplorazione speleologica in piena regola. Ero deciso, una volta per tutte, a dimostrare l’esistenza di una seconda entrata che causava gli strani rumori, lamenti come li definiva la gente del posto.

«Sciocchi superstiziosi» mormorai tra di me mentre attendevo i primi raggi del sole; era quasi l’alba ormai e il cielo nero stava diventando blu scuro, segno che una bella giornata stava per incominciare. Accesi la prima torcia ed entrai nella caverna: non avevo paura e la luce della fiaccola scacciava il buio che mi circondava e il senso di oppressione che stavo provando man mano che m’inoltravo in profondità.

Ricordo poco del primo tratto di gallerie, tutto preso a segnare la strada del ritorno; un susseguirsi di sale, a volte enormi, a volte minuscole, piene di stalattiti che gocciolavano lentamente con un suono ritmico, quasi assordante nel silenzio totale che mi circondava: la sensazione di far parte di un paesaggio quasi magico, surreale era così forte e tangibile da farmi quasi perdere la testa.

Poi un boato greve, cupo, che saliva dalle viscere della terra e che diventava ogni istante sempre più forte: fu una scossa breve ma violenta che fece crollare l’ingresso e buona parte dei cunicoli che avevo appena percorso; la paura e il

buio totale erano le uniche sensazioni che ricordo, oltre al panico di essere rimasto sepolto vivo e al gusto acre di polvere in bocca. Durante il sonno, una parte del mio subconscio cercava di capire come potesse essere possibile percepire tutte quelle sensazioni in un normale sogno notturno, mentre l’altra non riusciva a staccarsi da quell’avventura onirica, legata indissolubilmente alle vicissitudini di quell’uomo. Tornai al mio incubo, cercando di tornare indietro, ma la strada era irrimediabilmente bloccata da enormi massi franati durante il terremoto; l’unica via di scampo era riuscire a trovare l’altra uscita, quella che, ero certo, doveva trovarsi molto più in basso. Non fu facile ma alla fine, dopo mille difficoltà raggiunsi l’ultima sala; era piccola e tortuosa, piena di detriti sparsi un po’ ovunque. Avevo consumato quasi tutte le torce che mi ero portato e, dopo aver l’ultima, mi misi a cercare qualche indizio che indicasse l’esistenza di una possibile via di fuga. Al centro dell’angusta caverna, un rivolo d’acqua scorreva rapido senza creare pozze, segno inequivocabile che esisteva un percorso scavato dall’erosione che ancora non avevo trovato. Seguii, fin dove fu possibile, il ruscello ma la sorpresa che ebbi non fu per nulla positiva: l’acqua si insinuava in uno stretto cunicolo, troppo piccolo per poter anche lontanamente sperare di poterlo utilizzare.

La luce della torcia stava ormai per esaurirsi ed io ero allo stremo delle forze; l’illusione di poter uscire da quella tomba di roccia si faceva sempre più tenue ma un improvviso, tremulo movimento della fiamma riaccese per un istante la speranza: un refolo d’aria aveva appena ravvivato la torcia che tenevo in mano, segno che, in un punto imprecisato della parete di fronte a me, si stava producendo una piccola corrente. Il varco si rivelò anch’esso troppo piccolo per poterlo attraversare, ingombro di fango e detriti. Cercando di non cadere preda dello sconforto, cominciai a scavare nell’argilla nel vano tentativo di allargare l’apertura quel tanto da poterla utilizzare come via di fuga: ma fu tutto inutile. La torcia, unica fonte di luce che avevo, si stava lentamente estinguendo, condannandomi a una tetra penombra; per poter ritrovare l’apertura anche in quella fioca luce, incastrai il mio bracciale d’oro in una fessura vicino all’improbabile uscita: il metallo lucente rifletteva le ultime fiammelle della fiaccola dandomi così la direzione verso cui indirizzare le mie fatiche. Fu tutto inutile e la cosa peggiore di quegli ultimi istanti fu la consapevolezza di non avere più scampo: ripensai alle persone care che non avrei più rivisto e, mentre il viso di Luisa, la mia futura sposa, si materializzava nel buio, mi misi a piangere.

Stavo ancora singhiozzando quando mi svegliai nel mio letto, nel cuore della notte: il cuore batteva forte e, nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a calmarmi; ai la notte a ripensare al sogno, rivivendo attimo per attimo tutta la tragedia di cui ero stato involontario testimone.

La mattina successiva raccontai immediatamente ai miei genitori l’incubo che avevo avuto la notte precedente; notai subito, sul viso di mio padre, un turbamento e un’agitazione che non avevo mai visto prima: mi fece sedere vicino a lui, sul divano e, con un filo di voce, mi disse di ascoltarlo in silenzio.

«Voglio raccontarti una cosa: quando eravamo ragazzi, io e tuo zio, per gioco e in gran segreto, siamo andati a esplorare la grotta di cui parli, quella che hai visto nel tuo sogno. Eravamo incoscienti e stupidi e ci siamo infilati in quella stretta apertura senza pensare ad attrezzarci bene. Giunti nell’unica caverna raggiungibile, abbiamo perso tempo a guardarci intorno e, solo troppo tardi, ci siamo accorti che la luce della torcia elettrica che avevamo portato stava diventando sempre più fioca. Nella penombra non riuscivamo più a distinguere quale fosse la parete dove si apriva l’uscita e, presi dal panico, abbiamo cominciato a puntare la pila in ogni direzione. Fortunatamente, un riflesso dorato attirò la nostra attenzione conducendoci proprio all’imbocco del cunicolo che stavamo cercando; trovammo un braccialetto tutto incrostato, incastrato in una fessura, proprio vicino all’apertura e, felici per lo scampato pericolo, tornammo velocemente in superficie, portando con noi quello strano souvenir. Da allora quell’oggetto è diventato il mio portafortuna e per nessun motivo me ne separo mai».

Detto ciò, tirò fuori da un taschino del portafoglio un braccialetto rotto, tutto consumato e me lo mostrò. Con mano tremante presi quell’incredibile oggetto e con infinita delicatezza lo girai per vedere meglio la parte sottostante; ricordavo benissimo l’esistenza di un’incisione che ora si vedeva appena ma ero cosciente del suo significato ancor prima di leggerla: la scritta si riduceva ad un nome e una data: Luisa 10/10/1888.

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L’autore

Claudio Paganini, professione guardia giurata, è nato a Genova nel 1963. Il suo primo libro di genere fantascientifico, "Quarta dimensione. Avventura ai confini del tempo", è stato pubblicato nel 2007 con la casa editrice Gammarò. Nel 2012 pubblica il suo secondo libro con 0111 Edizioni: "Pandemia", un fantathriller sulle contaminazioni batteriologiche.

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