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Silvia Licetti

JONATHAN E GLI ALTRI,

RACCONTI DISEGUALI

Ispirazione, Improvvisazione, Riflessione sulla vita in forma di racconto più o meno lungo

Piccola Raccolta Privata Offerta al Pubblico

1984-2013

Titolo Originale: Jonathan e gli Altri

Autore: Silvia Licetti

Anno produzione: 2014

ISBN Nr.: 9788891143495

Editing: LICET ET DOCET (www.licetetdocet.blogspot.it)

Le storie qui narrate, se non esplicitamente derivate da spunti letterari, sono frutto della fantasia e invenzione dell’autrice. Ogni riferimento a fatti o persone reali è puramente casuale.

La riproduzione anche parziale in cartaceo, digitale o la rielaborazione in altra forma artistica non autorizzata o utilizzata a qualsiasi fine o scopo è severamente vietata.

I diritti sono di proprietà esclusiva dell’autrice

RINGRAZIAMENTI E CREDITI

Tante sono le persone che mi hanno ato più che sopportato in questa mia impresa:

Valeria, mia primissima insegnante di creativa, che con i suoi sempre amari e sfiducianti commenti mi ha avviato a questa attività; Patrizia che invece mi ha fatto scoprire segreti e misteri, ma anche la bellezza e il piacere di trasporre sulla carta idee, ispirazioni, storie; mia sorella che finalmente crede in quello che faccio; i miei amici che, anche se più bravi di me, qui mi ascoltano; i parenti che per fortuna hanno di che spettegolare… sul positivo.

Ma più di tutti il mio gatto che, in disparte, mi guarda sornione lavorare ogni giorno al computer salendo sulle mie ginocchia solo all’ora di pappa.

Un grazie di cuore al mio sempre fedelissimo e disponibilissimo amico Danilo Simoni (www.simonidanilo.blogspot.it) per il suo contributo professionale da esperto di piattaforme di self-pubblishing, ma soprattutto per i commenti di prima lettura, favore che volentieri ci scambiamo.

Note per la lettura

Il mio raccontare è filosofico come e quanto il mio carattere, riflessivo e introspettivo, motivo per cui spesso il personaggio o l’azione sono simbolo per dire altro.

Il mio stile è intimo e spesso derisorio della pesantezza del mondo, il che mi porta a sfoggiare qualche tono di ironia.

Le vicende prendono corpo dalla mia sensibilità di trovare nella vita questioni quotidiane e regolari a cui dare voce.

Nello scegliere i brani per questa raccolta ho innanzitutto seguito 3 criteri: l’animale, l’uomo inteso come maschio e la donna di oggi. In ciascuna di queste poi ho inserito i pezzi migliori.

Ce ne sono alcuni – in special modo l’Urlo di Giada e Un pomeriggio per una svolta – che io considero delle pietre miliari poiché l’uno è il primo uscito dalla mia stampante durante il corso di creativa del 2011, l’altro perché il primo racconto in assoluto, scritto con carta e penna nell’ormai lontano 1984, posti qui per diritto d’affezione, ma anche come esempio della mia evoluzione.

Scete quindi la “rudità” degli impianti o la fatica a trovare il significato recondito. Non stupitevi: farvi pensare e riflettere è proprio il mio intento.

Comunque sia:

BUONA LETTURA A TUTTI

Parte Prima

LA NATURA “UMANA”

INSEGUENDO JONATHAN

Racconto ispirato da

“Il Gabbiano Jonathan Livingston”

di R. Bach

2011

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI JONATHAN

Andava eggiando tra il triste e il pensoso Jon quel tardo pomeriggio, nell’ora tra il tramonto e l’oscurità. Si guardava ad ogni o i piedi palmati toccare la sottile linea di separazione quasi immaginaria tra la sabbia e le onde. Lui non si considerava un gabbiano come gli altri, a cominciare dal nome prestigioso che i suoi genitori gli avevano imposto in dote, un nome che tra i suoi consimili era già da tempo una leggenda: Jonathan. Era come un marchio per lui, per il confronto con l’immagine in parte ormai distorta del personaggio originale che aveva saputo affrontare tante difficoltà – persino l’esilio sulle Scogliere Remote e l’umiliazione pubblica di venir dichiarato reietto – per sconvolgere poi la società dei suoi contemporanei. Quei miglioramenti erano stati davvero epocali e in onore del suo iniziatore il popolo dei gabbiani aveva saputo sempre onorare chi avesse in qualche modo ricordato quella figura.

Il nostro Jon si sentiva quasi una nullità contro la personalità del suo predecessore. Pur riconoscendogli tutto il merito delle migliorie nello stile e nella filosofia di vita dei gabbiani, affrontate con coraggio e determinazione nella coscienza della loro utilità, non si sentiva degno del nome che portava. Di corporatura piuttosto piccola e tarchiata, dal piumaggio sempre scomposto e le ali non troppo forti, non era di certo quell’ideale di figurino che potesse librarsi in evoluzioni acrobatiche nel cielo. Inoltre aveva un grosso difetto: la sua vista non gli permetteva di vedere da lontano, il che limitava sia gli spostamenti che la possibilità di sopravvivenza, nonché la gioia di potersi innalzare al di sopra di ogni cosa.

Nonostante fosse costretto a guardare le cose sempre dal basso o da vicino, aveva acquisito con gli anni una certa saggezza ed intelligenza. In molti si rivolgevano a lui, infatti, per farsi consigliare sulla risoluzione di qualche problemuccio familiare o a volte solo per un suo personale commento. Controbilanciava così Jon le sue pecche fisiche facendo leva sul carattere mite, ma socievole e generoso, che lo contraddistingueva da sempre.

La sua occupazione più amata era il eggiare filosofando da solo, di solito al tramonto di calde giornate, rimuginando un po’ sui fatti del giorno o sui racconti dei suoi consimili. Questa attività gli consentiva di tenere in allenamento le esili gambe, sempre sotto sforzo per sorreggere il peso del corpo. La stessa però aveva anche il fine di eliminare le tensioni e la rabbia che covava quasi giornalmente contro le sue sventure, il suo mondo, se stesso.

L’attività di pesca – per lui possibile solo in certe condizioni di mare calmo, a bassa quota e sempre sotto costa - era comunque ridotta al solo scopo di procacciarsi la quantità di cibo sufficiente a soddisfare la propria fame se nessun compagno gliene avesse offerto o se lo avesse ricevuto come ricompensa per qualche suo consiglio. Non aveva quindi altro da fare, ovvero da poter fare, dal momento che comunque non poteva esercitare alcun mestiere, categoria sviluppatasi nell’era del nuovo volo.

Andava rimuginando quella sera sugli effetti che la rivoluzione iniziata tanti anni prima dal suo omonimo aveva apportato allo stile di vita dei gabbiani. Certo innalzarsi librandosi nello spazio azzurro per il solo piacere di volare era stata una gran cosa. Soprattutto il volo in se stesso aveva preso un nuovo sapore da allora, liberandosi dalla schiavitù della sola ricerca di cibo. La conquista di nuovi spazi e nuovi orizzonti allargò la loro visione della vita e di conseguenza anche della loro mente.

Il coraggio e la determinazione dell’ormai divenuto mito Jonathan erano stati sicuramente provvidenziali nel raggiungimento di quella meta, benché conditi da molta cocciutaggine. Lui non si era mai lasciato fuorviare da quello che la gente diceva o pensava di lui e gli unici momenti di scoramento con pericolo di abbandono dell’impresa furono sicuramente dettati dall’inesperienza e dalla stanchezza di un fisico non ancora del tutto allenato. Il nostro Jon si era sempre immaginato grandi cose seguendo i racconti di chi aveva avuto l’onore di conoscerlo personalmente. Solo grazie a quello tutti potevano indistintamente trarre profitto dal nuovo volo, fare acrobazie, andare oltre la costa, la loro

spiaggia. Il maggior merito era stato però quello di aver abolito le punizioni, le segregazioni, gli esilii: mai più isolati da tutto e da tutti, per sempre.

Nulla da eccepire. Dal beccarsi per un tozzo di pane lanciato da un peschereccio al guardare le cose della vita da lontano e dall’alto era stato un gran bel salto. Il primo Jonathan lo aveva fatto con spirito generoso e benevolo verso i suoi consimili, stanco lui stesso di dover assistere a quella miseria. ati i primi tempi in cui bisognava per forza insegnare le nuove tecniche a tutti, bisognava che queste rimanessero come impresse nel DNA del genere Gabbiano. Fu questo il compito della prima generazione. Il nostro Jon però cominciava seriamente a dubitare che il popolo dei suoi consimili, discendenza che non aveva conosciuto il prima, portasse avanti il progetto originario in maniera corretta costruendo un dopo di duratura persistenza. Infatti sempre più spesso gli veniva riferito di scaramucce o litigi tra chi riuscisse a fare quella o quell’altra acrobazia con maggior grazia o abilità; altre volte veniva a conoscenza che qualcuno, di nascosto, si era messo a studiare nuove evoluzioni, nuove tecniche, solo per emergere dal gruppo.

Quello che più lo amareggiava era il fatto che questi componenti della tribù si impegnavano non per il bene della comunità, ma per il proprio tornaconto, nascondendosi dietro la facciata dell’emulazione di gesta ormai leggendarie. Questo disturbava assai la buona armonia tra la popolazione, spesso impegnata a sostenere i deboli o coloro che avessero evidenti difficoltà.

Guardava in alto di tanto in tanto Jon per cercare di vedere se qualcuno ancora fosse in pista, a quell’ora. Gli sembrava sempre che chi si attardasse, dovesse per forza o essere figlio diretto del Grande Gabbiano o non riuscire proprio a progredire di livello, nemmeno esercitandosi fino allo stremo. Gli sembrava che quelli lassù non la smettessero mai, come aveva fatto ai suoi albori “il grande mito” e volessero così onorarne la memoria. Però gli sembrava anche che proprio quelli si accanissero a provare e riprovare cose che non avevano né senso né utilità – e talvolta nemmeno grazia.

Così se ne andava rimuginando il ato il nostro Jon, sul perché si fosse arrivati a quel punto e come potesse ora accadere che tanti non avessero chiaro in mente il principio iniziatore. Pensava e scuoteva il capo in segno di rassegnazione. Certo lui non conosceva la potenza di quel volo, di quelle acrobazie: lui non ci aveva nemmeno provato, date le sue scarse doti fisiche. Lui quindi era il meno adatto a poter giudicare quei movimenti ed emettere verdetti sul loro valore morale o etico.

Scrollava il capo, quasi sconsolato, mettendo una zampa davanti l’altra, senza una meta, nell’ora tra il tramonto e l’oscurità. Si sentiva stanco, spossato non solo nelle membra e quindi decise, dopo una breve pausa, di riavviarsi verso il suo nido, in quell’angolo riparato da onde e vento che da anni ormai era la sua casa. Ritornò amareggiato dal suo rituale notturno, ripromettendosi però di approfondire alcune tematiche nei giorni a seguire, avviando una sua inchiesta.

Chiuse gli occhi con l’esile speranza di poter, un giorno, esporre la situazione davanti alla Grande Assemblea, rendendo onore e giustizia a quel dono che il suo omonimo predecessore aveva un giorno fatto a tutti loro.

ALLA RICERCA DI UN METODO

Alle prime luci dell’alba seguente il risveglio di Jon fu più pesante del solito: dovette forzare i suoi occhi ad aprirsi, sbattendo più volte le palpebre e il suo corpo stentò a lungo a riprendere il ritmo normale. Lui non si poteva proprio dichiarare un uccello mattutino e solitamente si alzava con comodo, prendendosi tutto il tempo necessario per svegliarsi prima di alzarsi e iniziare una nuova giornata. Quella mattina, però, il rito mattutino gli era diventato molto difficile. Non solo il suo corpo si opponeva, ma ci si metteva di mezzo pure la mente. Anche la sua coscienza si era messa in sciopero. Pensò addirittura che il suo animo, pregno dei pensieri non proprio positivi della sera prima, si fosse alleato contro di lui e i suoi buoni propositi formulati prima di addormentarsi. Anche il sonno era stato pesante e difficile, con frequenti risvegli e questo traspariva con strascichi che si leggevano in profonde occhiaie e pesantezza fisica. Eppure Jon era convinto delle sue idee e delle sue impressioni sullo stato delle cose. L’unica cosa che ora gli mancava era un metodo appropriato per avere conferma, ma eventualmente anche smentita, di quanto concluso e percepito durante la eggiata sulla riva.

Quello più idoneo gli sembrò subito il metodo del sondaggio, raccogliendo i dati attraverso interviste. Prima di tutto quindi doveva stendere un elenco dei punti da chiarire ovvero delle tematiche sulle quali porre delle domande. Poi doveva cercare di individuare i soggetti da “intervistare”, quelli che gli avrebbero dato risposte sincere, oneste e veritiere, senza paura di dover qualcosa a qualcuno. Tra questi bisognava includere anche qualche protagonista, per avere testimonianza diretta su quello che stava accadendo. Quest’ultima cosa non sarebbe stata un problema, dato che di soggetti corrispondenti a queste caratteristiche gliene erano stati indicati molti.

Decise quindi di non uscire quella mattina rimanendo a mettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri e nei suoi progetti. Per raggiungere la calma necessaria fece spargere la voce che il suo nido si era riempito di parassiti e che quindi aveva bisogno di tempo per la disinfestazione, peraltro condotta solo a colpi di acqua

salmastra e alghe di palude. L’isolotto sul quale viveva Jon era fortunatamente situato vicino una palude salmastra, quindi ricca degli elementi necessari a questa operazione. Qualcuno impaurito allertò la squadra di sorveglianza, ma Jon seppe allontanarli prontamente facendo capire che stava letteralmente distruggendo il suo nido, immolandolo alla salute pubblica.

Fu solo verso mezzogiorno che riuscì finalmente a farsi una idea precisa dei temi da trattare: i principi ispiratori, la tecnica usata, gli usi e i costumi, l’organizzazione sociale. Si accorse, durante il lavorio mentale che produsse questo elenco, che non si poteva stilare una scaletta per valori, importanza o sequenza, ma che tutti erano stranamente intrecciati tra di loro. Per Jon non tutto era come sarebbe dovuto essere, ma lo voleva assolutamente scoprire, chiarire, capire.

Accanto a domande generiche che potevano indurre l’interlocutore a parlare liberamente ed esporre qualche esempio o aneddoto, sarebbero state necessarie anche richieste di precisazioni o puntualizzazioni. Qui il pericolo si sarebbe trovato nell’esporsi, nel denunciare qualche fatto che forse sarebbe meglio tenere nascosto o segreto, ma Jon si riprometteva di restare sempre sul generico o di promettere l’anonimato alla sua eventuale fonte.

Come inizio di progetto sembrava non mancare nulla riguardo gli elementi basilari per la raccolta dati. Trovando poi situazioni favorevoli alle confidenze avrebbe forse terminato in settimana la prima fase. Quindi non rimaneva che cercare il luogo adatto e darsi da fare.

Tutto era pronto. Mai prima d’ora era stato così attivo in qualcosa che per di più era, almeno nelle sue intenzioni e speranze, per il bene della comunità. Si sentiva giovane e in forze per affrontare qualsiasi ostacolo o avversità si fosse posta sul suo cammino. La sua vita stessa prendeva nuova luce, ora che si apprestava a questa impresa. La stanchezza iniziale era scomparsa come per magia.

In tutto questo si accorse di aver realmente distrutto il suo nido, compagno di tante notti e riposi felici, in quell’angolo riparato da venti e pioggia. Lo guardò così con gli occhi di chi lascia una casa dove ha ato momenti non sempre positivi ed è lieto di lasciarla per ricominciare da qualche altra parte. Sì, si trattava di iniziare qualcosa di nuovo non solo per se stesso, ma per tutto il genere dei Gabbiani. Se da questo poi ne derivasse una nuova rivoluzione pacifica come quella del suo predecessore, non gli sarebbe potuto essere riservato che pari onore.

S’incamminò dando un’ultima occhiata al suo ato, non dimenticando di indirizzare una preghiera a chi lo aveva preceduto, per ingraziarsene il sostegno.

CHI BEN COMINCIA ….

In quel meriggio il sole scaldava la sabbia e gli animi più del solito. Alla spiaggia del Grande Gabbiano, non lontana dal rifugio notturno di Jon, c’era insolito tumulto: viavai di giovani che volteggiavano in pazzesche acrobazie, mamme apprensive che cercavano di trattenere i loro piccoli dall’emulazione, adulti insegnanti che seguivano da terra, ma anche in aria le evoluzioni dei loro allievi. In tutto questo il solito traffico aereo per il cibo, abbondante per il aggio di molte navi e pescherecci al largo. C’era molto rumore, ma i versi striduli lanciati durante le picchiate a tutta velocità sembravano gridi di gioia per un’attività svolta per il proprio piacere in piena libertà.

Ad ammirare quella moltitudine c’era un gruppetto di anziani appollaiati sugli scogli, quelli che ormai avevano smesso da tempo di fare gli insegnanti, ma che non avevano di certo smesso di criticare le acrobazie degli altri. Ecco da chi cominciare, pensò Jon e si diresse verso di loro, tentando di schivare le planate folli dall’alto e relitti o conchiglie a malapena affioranti in basso, nonché ponendo la massima attenzione a non scivolare sugli scogli battuti dalle onde che si trovavano numerosi in quel punto.

Tra il pubblico radunatosi si accorse che c’erano due conoscenti di vecchia data, Fletcher Lynd e Sullivan, una volta personalmente molto vicini al capostipite creatore del nuovo volo e a loro volta suoi insegnanti di teoria del volo. Egli si disse fortunato di incontrarli proprio lì e, avvicinatosi, prese quasi in sordina a parlare dei vecchi tempi. I suoi due interlocutori furono molto felici di poterli evocare. Anzi dissero che ormai erano gli ultimi diretti rappresentanti di quella generazione di reazionari che contribuirono, grazie alla guida e agli insegnamenti di Jonathan, a cambiare il mondo dei gabbiani. Loro riconoscevano negli esercizi dei giovani che stavano osservando, la tecnica, i movimenti basilari introdotti tanto tempo prima e si meravigliavano a ogni aggio che si riuscisse ancora a inventarne di nuovi, di più belli, di più spettacolari, quando già all’epoca si credeva che la perfezione fosse già stata raggiunta. Tutti dovrebbero sapere che la perfezione è un’ideale, una meta da raggiungere, non un livello di

bravura! E non c’è limite alla creatività, se questa segue solo le leggi di natura e non quelle imposte, fu la precisazione di Jon ai suoi maestri. “Certo, - risposero all’unisono Fletcher e Sullivan, - le leggi della natura non sono costruite con la logica come quelle imposte per regolare la vita della comunità, ma si possono comporre in svariati modi per rendere vario il comportamento di ognuno.” Jon ribattè: “Se però ognuno si comporta in modo sempre diverso, trovando sempre nuove vie di composizione di leggi naturali, c’è forte rischio di anarchia. Ed è per questo che esistono le leggi imposte.” A questo proposito i tre ripercorsero quella diatriba che aveva scosso il popolo dei gabbiani, soprattutto quelli anziani, per quanto riguardava cosa si dovesse più seguire. Il Gran Consiglio al completo si era riunito per settimane al fine di stabilire un accordo sociale. A conclusione fu deciso di dover armonizzare le leggi imposte per permettere al singolo gabbiano di potersi esprimere al meglio di se stesso, cercando di salvaguardare anche una certa tradizione.

Jon aveva sempre pensato che in questo ci fosse una contraddizione: come si può permettere a ciascuno di esprimersi in libertà e salvaguardare al tempo stesso la tradizione? Se si è liberi, si possono superare tutti i limiti – tranne quelli della natura, se non con mezzi e modi appropriati – ma si dovrebbe rispettare anche le leggi imposte per continuare la tradizione. La tradizione è bella se è segno di qualcosa acquisita con onore, è solida se condivisa, è forte se dà a tutti un senso di appartenenza. Se però la tradizione rimane fissa o fissata da leggi, diventa un macigno in mano a ognuno, che prima o poi viene sicuramente gettato in mare.

La conversazione si arenò su punti come questo ai quali nessuno dei tre avrebbe saputo dare né soluzione né risposta. Al diavolo l’inchiesta con questi due, pensò Jon, rimasti ancora con il cuore e la mentalità dei tempi ati. Forse non ne verranno mai fuori, nonostante tutta la loro abilità ed esperienza nel nuovo volo. “Dispiace, ma vi devo lasciare, miei cari, al vostro destino di vecchi sopravvissuti e reduci. Rimanete pure nel vostro mondo ancora incompleto, anche se vi ringrazio per ciò che avete fatto per me e tanti altri”.

Quasi sconsolato come la sera prima Jon si ritrovò sulla spiaggia a eggiare a

testa bassa, filosofando sulle prime risposte ricevute. Era dunque stata colpa di quelli che come Fletcher e Sullivan non erano stati capaci di insegnare che la nuova tecnica di volo?

Poco più in là scorse un gruppetto di giovani gabbiani intenti a fare dei segni sulla sabbia. Quasi di soppiatto si avvicinò per capire. Era un gruppetto di allievi della scuola, quelli considerati più bravi e più adatti al nuovo volo e che, a detta dei loro insegnanti, avevano compreso benissimo le regole basilari ed erano anche pervasi dalla ione. Insomma si trattava degli esemplari migliori per continuare la tradizione. Si intrufolò tra di loro che, riconosciutolo, ebbero la compiacenza di mostrargli i loro disegni sulla sabbia. Questi altro non erano che gli schemi di volo chiamato “a stormo”. Jon non ci capiva molto tra tutte quelle linee e quei numeri, ma si persuase che poteva essere aggraziato e bello in aria. “Bene, - disse loro, - vedo che anche la tecnica si è evoluta molto e mi compiaccio che voi ne faccite buon uso non solo per personale tornaconto”.

“Certo - rispose uno di quelli che sembrava essere il capo – noi ci esercitiamo sempre tutti assieme e partecipiamo alle figure tutti uniti. Noi siamo una squadra”.

Jon si sentì un po’ sollevato al sentire queste frasi, segno che non tutto era stato sbagliato, almeno nella scuola. Volle però saggiare gli animi anche sul campo della vita in comune. Gli fu risposto che anche nelle altre attività lavoravano compatti e, ciascuno con il proprio compito, contribuivano al sostentamento e alla sicurezza della squadra che aveva assunto già dal primo momento della costituzione uno stile di vita sobrio, ma sempre autosufficiente in tutte le attività. Un dubbio percorse Jon come un fremito: come avevano risolto la questione “capo”? Una squadra che si rispetti o comunque un gruppo ha sempre bisogno di un capo, non sia altro che in funzione di portavoce. Per sua meraviglia gli venne risposto che, appunto come squadra, ognuno era responsabile per tutti gli altri, ma era vietato porsene a capo o imporre la propria volontà, visione, opinione. Qui si entrava a far parte solo se in grado di porre la propria perfezione al servizio degli altri e comunque non si ponevano questioni al di fuori di quelle

tecniche, risolvibili con modelli matematici. In più non accoglievano mai un insegnante nelle loro attività extra scolastiche poiché perfettamente in grado di gestire da soli la configurazione dei piani e delle evoluzioni, composte da mosse semplici e basilari. Di questo ne andavano fieri.

Era dunque tutta questione di tecnica? Lo stava diventando, dato che di squadre come quella ne cominciavano a sorgere sempre di più. Concorrenza non ce n’era, dato che tutti dovevano rispettare la tradizione di esprimere al meglio solo le proprie capacità.

Dopo un breve saluto e un augurio di poter continuare sempre col sereno le attività intraprese, Jon si staccò anche da questo gruppetto, cercando il modo migliore per riassumere quanto gli era stato detto. Si stava dirigendo verso il suo vecchio nido, quando dopo pochi i incrociò un suo coetaneo, uno che non aveva perso tempo a mettere su famiglia. Si salutarono cordialmente, come due vecchi compagni di studi e il suo amico, con grande orgoglio, gli raccontò delle sue, ma soprattutto delle imprese acrobatiche del primogenito. Quest’ultimo, esemplare di perfetta costituzione per il volo e le acrobazie, fu subito notato dagli insegnanti e lui, il padre, non badò a sacrifici per dargli la migliore tecnica. La cosa ebbe così grande successo e dopo pochi anni non si sentiva parlare che del figlio, autore di acrobazie e imprese importanti. Egli ne andava orgoglioso e non lo nascondeva. “Bravo, - pensò Jon, - così aiuti il popolo dei gabbiani e tuo figlio! Buona pubblicità fai ai comportamenti fuori dal comune. Attento, sei tu quello che fai apparire una miglioria una cosa che solo tuo figlio sa fare. Prima o poi arriverà anche quello che lo supera!”. Lo stette ad ascoltare per un poco, ma dato che il discorso verteva esclusivamente sulla bravura del pargolo, Jon si allontanò con la scusa di dover cercare almeno un riparo prima della notte.

Jon riprese i suoi i con un po’ di confusione in testa. Cercò di riassumere quanto aveva visto e sentito, ma non gli fu facile. Da una parte la tecnica, ormai oggetto da manuale, era diventata patrimonio di tutti, dall’altra c’era chi effettivamente stava lavorando per un suo tornaconto e non solo per migliorare le figurazioni. D’improvviso qualcosa lo fece sobbalzare sulle sue esili zampette:

nessuno parlava di orizzonte. Era mai possibile che ci si stesse così tanto concentrando sui singoli movimenti e che ci si dimenticasse tutti di porsi una meta comune? D’accordo, lui non poteva fisicamente vedere al di là del suo becco, ma gli altri, perché omettevano nei loro propositi quel tempo e quello spazio che vanno ben al di là della singola azione? Questa la nuova questione da chiarire al più presto.

… È, FORSE, SOLO A METÀ DELL’OPERA

Al risveglio, dopo aver vagato per un certo tempo tra luoghi e pensieri, Jon si ritrovò in un posto a lui ancora sconosciuto e nuovo, non ricordando come e quando vi ci fosse arrivato. Si guardò intorno per capire per lo meno se quella potesse essere la spiaggia del Nuovo Volo, ribattezzata così dallo stormo dei Buonappetito alla quale aveva appartenuto il mito Jonathan, in suo ricordo. Solo qualche particolare nella memoria di Jon fece riaffiorare per qualche istante i ricordi che egli aveva di quel posto ai vecchi tempi, quando, lui ancora cucciolo, tutto era tra il vecchio e il nuovo. Si sentiva strano e capiva che non dipendeva solo dalla notte ata tra incubi e vento di tempesta, che fortunatamente andò a sfogarsi altrove. Con difficoltà fece spazio nella sua mente per i veri pensieri che avrebbero dovuto tenerlo occupato. Non quelli della fame, né quelli per rifarsi un nido, ma quelli su quanto raccolto fino a quel momento. Eppure la situazione contingente esigeva una soluzione ben più prioritaria.

Provò a sgranchirsi le zampe facendo qualche o nei dintorni, per capire dove o come vi ci fosse finito e che cosa significasse essere in quel posto a quell’ora per lui. Si doveva trattare di un luogo isolato o non abitato, per lo meno non da gabbiani. La vegetazione costituita da cespugli era ricca ma non tropo folta, ma a Jon sembrava una giungla e il mare era calmo e limpido come mai lo aveva visto. Sembrava un posto dove tutto era in armonia, anzi dove tutto era armonia. Era un luogo reale, ma sembrava il paradiso.

In quel momento gli avrebbe proprio fatto comodo potersi elevare al di sopra degli alberi per poter avere una visione panoramica più ampia e capire dove fosse capitato. D’un tratto capì che era proprio quello il nodo della questione che lo tormentava da un certo tempo: se i gabbiani levandosi in volo, si potessero accorgere che c’è all’orizzonte un posto dove regna l’armonia proprio come quello in cui si trovava lui in quel momento, allora si sarebbero impegnati molto di più per il bene e per uno scopo comune, senza dover far ricorso a tante leggi e leggine per mantenere l’ordine sociale.

Fu come una visione, paragonabile a quello del suo famoso predecessore. Egli aveva capito che con la costanza, l’intelligenza e la caparbietà si superano i limiti mentre il fine ultimo delle proprie azioni deve essere l’amore e la dedizione. Se prevale l’egoismo o l’interesse di qualche gruppetto rispetto agli altri, si genera conflitto e malessere sociale. Ecco perché ci si era dovuti di nuovo organizzare con capi e sottocapi, limitando di molto la libertà appena conquistata. Ora il popolo dei gabbiani aveva necessità di un nuovo orizzonte da raggiungere, quale appunto l’armonia.

Ancora tutto disorientato, nel fisico e nella mente, Jon tentò di riassumere in un elenco di punti generali lo stato dei fatti per fare il punto della situazione. Della tecnica molto progredita rispetto agli inizi, nulla si poteva dire. Anche la sicurezza era stata migliorata e integrata alla tecnica. Ormai solo pochissimi esemplari, quelli con qualche tara fisica, non riuscivano mai nella loro vita ad apprezzare il dono delle ali e la capacità, insita in questo, di elevarsi. Ogni altro riusciva, chi più chi meno, a eseguire qualche volteggio o vere e proprie acrobazie, ora anche in gruppo o stormo.

Per quanto agli usi e costumi il cambiamento poteva a malapena essere notato. Tutti avevano continuato la propria caccia al cibo, coltivato la propria volontà di crearsi una famiglia e di appartenere a quel determinato gruppo, legandosi a un certo territorio. Le giornate erano scandite e spesso condizionate dal tempo atmosferico e gli anni scorrevano quasi uguali nel susseguirsi delle stagioni.

Forse solo l’organizzazione sociale aveva ricevuto un grosso scossone dal nuovo volo: la libertà concessa al singolo di una propria visione del mondo impediva ai capi di soggiogare facilmente ogni resistenza o contrapposizione. Non si poteva però nemmeno correre il rischio di anarchia portato dall’estremizzarsi di certi comportamenti liberalisti o libertari. Nonostante la società si fosse aperta a quella come ad altre successive sperimentazioni, si era sentito quasi subito il bisogno di darsi delle regole, anche se meno forti di prima. Si era poi cercato di impostare una scala sociale basata non più sul potere, ma sull’esperienza e la

conoscenza, dando a tutti la possibilità, secondo le proprie capacità di imparare – e non solo la tecnica. A capo di tutti, ma con soli compiti di saggio ausilio nelle decisioni societarie veniva eletto pubblicamente un Gran Consiglio, i cui membri venivano scelti tra i gabbiani più anziani e ai quali venivano affiancati alcuni tra coloro che avevano dimostrato le loro capacità in grandi imprese riconosciute valide dalla maggioranza. Questo era stato stabilito per premiare i più meritevoli, ma anche per dare uno stimolo a ognuno per migliorarsi. Tutti gli altri venivano considerati alla pari facenti parte del popolo, che, unito, era chiamato di volta in volta a decidere di tutte le questioni che esulavano il territorio delle leggi.

C’era stato un periodo in cui tutto questo aveva avuto la sua giustificazione e la sua motivazione tra i gabbiani. La vita in quel periodo si stava riorganizzando con la giustificazione che tutti vi dovessero partecipare. Poi forse per disinteresse o per colpa di qualcuno che aveva visto in questo la possibilità di imporre un’unica visione delle cose - la propria, naturalmente – per tornaconto egoistico, si era improvvisamente quasi tornati ai vecchi tempi. La saggezza accorta degli anziani del Gran Consiglio aveva dovuto più volte porre rimedio a errori di valutazione, essendo stati fuorviati da certe tecniche retoriche e dimostrative.

Nonostante la sorveglianza continua di tanti, la situazione era sempre più pericolosa e il popolo non aveva ancora il coraggio di contestarla.

L’unico problema ora era però quello di tornare dai suoi consimili e l’unica cosa da fare parve proprio quella di sbattere le ali e tentare di ritrovare il cammino. Con sforzo e fatica estremi Jon riuscì a sollevarsi quel tanto per capire che era finito dall’altra parte dell’isola, quella opposta a dove abitavano tutti.

Ripresosi, Jon si meravigliò proprio del fatto che quel posto, in direzione opposta a quella dei suoi consimili, fosse così perfetto e corrispondente a quello che forse lui solo andava cercando. Continuava con sua stupore a non scorgere nessuno e se ne chiese fortemente il perché. Possibile che quel lato dell’isola – o

della vita – fosse rimasto inesplorato o non considerato? Nessuno, oltre lui, se ne interessava? Erano tutti così tanto immersi in altre faccende da non riuscire proprio a ritagliarsi del tempo per la contemplazione, la meditazione, la filosofia? Queste attività non sono di certo di sola pertinenza a una categoria particolare, ma praticabili da ciascuno. Era solo pigrizia quella che li tratteneva o c’era bisogno di risvegliare di nuovo le coscienze?

Messo a punto anche questo pensiero, Jon si diresse verso il territorio dei gabbiani. Non era più triste, ma nemmeno più esultante per le sue scoperte. Decise di provare ad attraversare a piedi quel pezzo di boscaglia che lo separava dalla vita normale anche perché fare il giro della spiaggia gli sembrava uno spreco di energia. Possibili pericoli? E chi mai avrebbe pensato che un gabbiano trovasse il coraggio di camminare in mezzo a quei cespugli? Ebbene sì, Jon ce l’aveva quel coraggio, ma era per lui una scusa di voler prendere tempo per trovare in solitudine un modo per capire quale via sarebbe stata poi quella giusta.

VERSO UNA NUOVA SVOLTA

Ancora una volta Jon si trovava a camminare tra il triste ed il pensoso, attività che evidentemente accompagnava il suo stato d’animo con solerte corrispondenza e alta frequenza. Il suo percorso seguiva un zig zag che avrebbe voluto descrivere un cerchio. Così come i suoi pensieri, il tracciato però non sembrava volersi chiudere.

Si sentiva perso e non sapeva che direzione scegliere. Era chiaro che la soluzione ovvero la decisione che lui e nessun altro in quel momento doveva prendere non sarebbe stata facile. E ancora non aveva nessuna idea di dove egli stesso sarebbe andato a parare.

Si fermò e si guardò attorno per raccogliere ispirazione. Percepiva solo qualche cespuglio che gli sfiorava il corpo e la vicinanza di uno specchio d’acqua dallo sciabordio delle onde. Forse valeva la pena andare di nuovo vicino al mare, che offriva una certa idea di libertà – anche se colma di nostalgia – a quell’ora del giorno.

Si ritrovava così di nuovo solo con i suoi pensieri che non riusciva a sbrogliare. Aveva proprio bisogno di una scossa, di una svolta nella vita. Continuava a posare un piede dietro l’altro senza meta.

Aveva in testa ben presenti tutti gli elementi raccolti e quelli estrapolati fino allora. Perché non sapeva come proseguire? Aveva ormai preso coscienza di dove era finito. Come mai non riusciva a tornare?

Concentrato su quelle domande, si guardò dentro e poi in alto. Dal profondo saliva come una specie di vocina e dall’alto gli pareva giungere una fortissima luce bianca, pura, splendida. Si ritrovò come d’incanto, per magia – senza però ombra di spavento – di fronte a qualcosa di inatteso: Jonathan in persona ovvero il Grande Gabbiano, l’essere perfetto, l’Idea.

Solo per timore Jon rimase in silenzio. Continuava a fissare quella luce o almeno quello che pareva essere il punto di origine di questa. Lo raggiunse una voce che lui sentiva come familiare:

“Non aver paura, Jon. Non ti biasimo per il tuo stupore alla mia apparizione, né ti voglio rimproverare per la situazione creatasi. Non ne abbiamo colpa, né io né tu, credimi. Hai fatto bene a ritirarti qui per venire a capo di quanto hai visto e scoperto. Non ti avrei scorto in tutto quel trambusto che domina oramai la quotidianità.”

“Jonathan, - disse con un fil di voce Jon, quasi per scusarsi – o devo chiamarti Grande Gabbiano”.

“Tranquillo, anche se abbiamo lo stesso nome, non possiamo confonderci: siamo due entità diverse, ma come vedi io non bado alle formalità. Così come ero da vivo sono rimasto. Comunque ora possiamo comunicare direttamente e nessuno se ne accorge.” Continuò la voce.

“Jonathan – riprese Jon – dimmi: se sono qui e ci possiamo sentire e possiamo comunicare, vuol dire che…”

“No, tranquillo, non è ancora la tua ora. Prevedo ancora qualche compito

importante per te, per il quale vedo che hai bisogno estremo del mio aiuto e così…” La voce si palesò ancora più vicina e familiare.

“Esatto. E’ vero: tu vedi tutto e se vedi, provvedi. – Jon non avrebbe saputo cos’altro dire, ma era certo che Jonathan avrebbe compreso. Poi continuò – Sono qui, ora, perso forse senza ritorno, come tutta la nostra comunità. Credo di aver visto la verità, almeno quella che si nasconde nella realtà; credo di aver capito cosa significhi e cosa si potrebbe fare, ma ho bisogno della tua illuminazione per capire quale via percorrere”.

“Ecco, Jon, io so quello che tu stai ando ora e capisco come ti senti. Anche io ho provato una cosa simile e nemmeno per me è stato facile fintanto che altri non si sono accorti di quello che stava succedendo. Pur se ora sono il Grande Gabbiano non ho consigli diretti da darti, mi dispiace. So che il tuo caso è molto più complicato del mio e anche che tu vorresti poter accorciare i tempi facendo apparire chiara l’intuizione che hai avuto. Io ho potuto incantare e convincere molti con uno show, ma tu hai davanti, temo, molte vie intricate per arrivare a un minimo di successo. Il modo migliore per giungere alla tua meta è quello di crederci e di mettere le tue idee in pratica. I gabbiani sono un popolo che si deve ancora evolvere per certe cose. Non credono che a quello che vedono, soprattutto se si tratta di cose o atteggiamenti tangibili. Fai leva su questo.” La luce e la voce si affievolirono fino a scomparire.

Jon rimase ancora qualche secondo ammutolito. Era proprio vero: se Jonathan ovvero il Grande Gabbiano vede, poi provvede. Nessuno però gli aveva detto che spesso si deve sapere come raccogliere i suoi consigli e si deve poi saperli anche mettere in pratica.

Si riprese scuotendo penne e piume, come per scrollarsi la pioggia o l’umidità della notte. Si accorse che la sua vista non era più quella di prima. Forse folgorato o miracolato da quella luce o da quella visione, riusciva a guardare lontano, ad arrivare dove prima non si sarebbe neppure sognato di pretendere.

Aprì le ali che gli apparvero grandi e meravigliose e decise di proseguire volando il suo viaggio.

Atterrò perfettamente e maestosamente come mai gli era successo prima proprio in quella striscia di terra dove quel pomeriggio si era radunata la maggior parte della comunità per una ragione che a lui volle sempre rimanere sconosciuta.

Forte fu la meraviglia di chi, vedendolo così, ma riconoscendolo, non si capacitava di quel cambiamento. In verità nemmeno Jon riusciva ancora a rendersi ben conto di quello che gli era successo.

Molti gli si avvicinarono, cosa che lo fece intimidire. A poco a poco lo spazio attorno a lui si fece sempre meno ampio, quasi soffocante. Si sentiva osservato da troppo vicino e ne soffriva. Necessitava una rapida soluzione, una via di uscita da quel senso di oppressione. Necessitava pure un momento di calma per riprendere lui stesso fiato da quanto appena successo e per ragionare sul prossimo o.

Un idea improvvisa: la Grande Assemblea. Sì, si doveva cominciare da lì. Ovvero ri-cominciare.

Chiese dunque ad alta voce che fosse indetta una riunione plenaria del popolo dei gabbiani per la mattina seguente, all’alba, davanti al Gran Consiglio al completo.

Molti ne furono sorpresi, ma la notizia ovvero l’appello raggiunse rapidamente

ogni angolo del territorio. La curiosità serpeggiò sottolineando l’attesa.

IL CERCHIO SI CHIUDE A ZIG ZAG

Non appena intravide una possibilità, Jon cercò di divincolarsi da quella morsa di gente nella quale si era venuto a trovare. Aveva bisogno di spazio, poiché il tempo che gli rimaneva per prepararsi all’evento da lui stesso voluto non era poi così abbondante. Si rammentò che non aveva nemmeno dove are la notte, non possedendo più un proprio nido, ma questo era l’ultimo dei suoi pensieri.

Si diresse a piedi, dimenticando di avere ora un paio di ali possenti, verso il boschetto che nascondeva a tutti la vista della spiaggia dell’Armonia, quella dalla quale era tornato, così da lui stesso battezzata non sicuro che fosse quella del Nuovo Volo. Aveva bisogno di solitudine più che in tante altre occasioni, ma sentiva forte anche la mancanza di un amico, di un buon amico, quello che lui stesso era stato per tanti, ma, chissà perché, non era mai riuscito a trovare per se stesso.

Zampettava come al solito stando ancora più attento a non farsi male, immerso nei suoi pensieri, quando ad un tratto si sentì chiamare. La voce proveniva da dietro le sue spalle e sembrava volergli comunicare qualcosa di importante per cui decise di fermarsi e di farsi raggiungere. Si accorse dopo poco che si trattava di Linda, una gabbianella con una sua storia particolare alle spalle, una quindi, a dirla con Jon, che aveva fatto esperienza di vita onorando la sua giovane età.

Si diceva anche che questa nutrisse certi sentimenti nei suoi confronti, ma che pubblicamente aveva sempre smentito ogni addebito. Linda si era sempre tenuta in disparte e Jon quindi non aveva avuto occasione né motivo di notarla se non indirettamente. Di corporatura magra, ma non esile, il suo profilo fisico lasciava trasparire quel po’ di ingenuità giovanile aggraziata che non la faceva di certo sfigurare nelle sue movenze.

I due si trovarono faccia a faccia, ognuno intimidito dall’altro, ognuno per una ragione diversa. Rimasero qualche secondo in silenzio guardandosi negli occhi. Jon aveva avuto fino a quel giorno la vista corta, ma uno sguardo così intenso non l’aveva mai provato su di sé.

Linda si accorse dal canto suo di avere per la prima volta l’occasione di parlare a tu per tu con il suo eroe, come lei lo aveva soprannominato. Si accorse di dover dire qualcosa, di dover spiegare quella rincorsa, ma improvvisamente anche di avere una specie di black-out logico e sensoriale. Balbettò biascicando incomprensibilmente qualche monosillabo, mentre la sua voce stentava a uscire.

Jon si accorse del suo disagio. “Ciao, Linda. Anche se non ci siamo mai incontrati personalmente, ti ho sentita arrivare da lontano. So chi sei grazie alle descrizioni che gli altri mi hanno fatto di te. Tutte comunque positive e talune anche ben al di sotto della realtà che mi compare qui oggi. Tu, però, sembri avere qualcosa di importante da dirmi. Vieni, sediamoci qui e raccontami tutto. Ho sempre avuto sì la vista corta, ma le orecchie sono sempre state ben aperte, per tutti e non smetterò di certo ora”.

Linda si sentì rincuorata e si calmò un poco. Cominciò così un dialogo tra i due che si scoprirono molto più simili di quanto non avessero creduto. Linda era una gabbianella che serbava sempre molta curiosità, molta voglia di sapere e apprendere, senza peraltro apparire mai pedante o invadente e pose le più svariate domande a Jon, su cosa gli fosse successo, sul perché si aggirasse tutto solo e quindi anche su quello che lui aveva in mente di fare e dire il mattino seguente davanti a tutti.

Si sentivano come due vecchi compagni, due amici, due che si conoscevano da tanto tempo e che erano avvezzi a raccontarsi tutto. Anche Jon si sentì rincuorato e si lasciò andare a confidenze forse ben al di là del limite dell’amicizia. Sentiva di potersi fidare di Linda, perché anche lei aveva vissuto ai margini della società, causa vicende personali alquanto sgradevoli. Per colpa dei genitori, giudicati

spregevoli e cattivi, era stata relegata al limite della boscaglia assieme al fratello che, per volontà di vendetta e nel tentativo di riscatto personale, aveva intrapreso una vita poco accettabile dagli altri gabbiani. Solo la bontà e l’altruismo di Linda erano riusciti a salvarli dall’essere emarginati totalmente.

Il tempo scorreva inesorabile e per Jon si avvicinava il momento di prendersi cura sia del suo stomaco che delle sue membra. Linda, generosa com’era, gli offrì ospitalità almeno per quella notte, condividendo con il fratello di lei cibo e riposo. Jon la ringraziò e voleva sinceramente starsene da solo per trovare la massima concentrazione possibile, ma cedette alle lusinghe di lei che prometteva massimo rispetto risolvendo per lo meno le questioni più incombenti.

Ormai le basi per un certo rapporto solidale, se non addirittura solido e duraturo a Jon sembravano essere state gettate e si sentì ancora più sollevato quando, all’arrivo al nido di Linda e del fratello situati lì vicino, si trovò in un ambiente benevolo, tranquillo e apparentemente lontano da occhi e orecchie indiscrete. Difatti nulla di ciò che sarebbe potuto accadere il mattino seguente doveva trapelare anzitempo per non sminuirne gli effetti e Jon era convinto che di curiosi, al di là di Linda, ce ne fossero ben altri.

Nella dolce ora del tramonto si ritrovava quindi a cena assieme a sconosciuti, ma per la prima volta si sentiva completamente a suo agio e quello non era di certo merito dell’avvenuto suo cambiamento.

Solo dopo il pasto Jon ricordò le sue nuove condizioni. Aveva avuto altri pensieri che avevano scacciato quello di provare effettivamente e coscientemente il brivido del volo, quello vero. Chiese perdono ai suoi ospiti e, approfittando del timido raggio di luna che rischiarava la notte, si volse verso il mare per fare almeno un tentativo.

Terminato di rassettare e preparare il giaciglio per tutti Linda alzò gli occhi verso la volta scura: lungo la linea dell’orizzonte due ali di gabbiano descrivevano con grazia mai vista volteggi e archi in splendide acrobazie eseguite con assoluta naturalezza. Quelle ali non potevano essere che di Jon, alzatosi da terra in volo acrobatico per la prima volta nella sua vita. Le sensazioni che provava erano uniche, a lui sino allora sconosciute.

All’improvviso tutto gli apparve chiaro: il modo, la via, il metodo, persino le parole da pronunciare. “Non occorreva pensarci tanto, - si disse Jon, - se la verità è questa. Finalmente tutti i gabbiani riavranno la loro libertà, la loro dignità, il loro senso e valore nella vita. Soprattutto, e sarà quello che più conta, avranno di nuovo un obiettivo comune nel quale unirsi, un nuovo orizzonte”.

TUTTO DECISO

A Jon bastarono solo un paio d’ore di riposo quella notte per ritrovare le forze e la serenità necessarie per affrontare nel modo migliore gli avvenimenti che incombevano a causa sua. Si alzò sbattendo le ali e se ne andò per qualche minuto verso il punto dal quale pareva arrivare il sole, anche esso curioso di come sarebbero andate le cose di lì a poco. Compì qualche evoluzione giusto per provare a se stesso che le capacità acquisite non fossero svanite durante la notte.

Già a quell’ora molti si erano radunati alla spiaggia del Grande Gabbiano, luogo convenuto per la riunione plenaria, ma nessuno sembrava essersi accorto che nel loro cielo volteggiava una specie di strano essere solitario. I membri del Gran Consiglio si raggrupparono in silenzio e presero posto con poca solennità, attendendo l’arrivo di colui che aveva evidentemente qualcosa da dire a tutti.

Il giorno era ormai iniziato e tutto era dunque pronto. Anche il tempo sembrava essersi fermato nell’ attesa. Un’ altro evento storico nell’esistenza del popolo dei gabbiani stava per aver luogo e nessuno ancora aveva sentore di quali ne sarebbero state le conseguenze.

Jon planò di nuovo solennemente e, neanche a farlo a posta, proprio nel bel mezzo della folla. La grazia nell’atterraggio fu notata da tutti con gran meraviglia e stupore. Tutti gli fecero largo formando attorno a lui una specie di cerchio. Da un lato poi apparivano i membri del Gran Consiglio ormai al completo. Jon si guardò intorno e si schiarì la voce, senza attendere che il capo in carica proferisse la formula di rito per l’apertura delle riunioni plenarie. In quel momento Jon aveva fretta di iniziare il suo discorso e si rendeva conto che era arrivato il momento.

“Gabbiani, fratelli, e voi membri del Gran Consiglio – la sua voce echeggiò in modo chiaro e possente come mai prima, tanto che lo stupore si fece ancora maggiore. Il popolo radunato però stette in silenzio ad ascoltare il prosieguo – Vedo meraviglia e stupore nei vostri occhi e nel vostro animo al vedermi così. Ne avete ben ragione e ve ne spiegherò i motivi in seguito. Non è per questo però che vi ho fatto venire qui questa mattina. Lasciatemi, confratelli, introdurre ciò che mi sta a cuore condividere con voi, ritornando per un attimo a quello che capitò al mio, ma anche vostro, antenato Jonathan, il Grande Gabbiano. Egli aveva notato le nostre lotte per il cibo, l’incapacità nostra a causa di queste di elevarci in volo e di godere delle nostre capacità e di farne, cosa che ebbe a scoprire poi, un gioco meraviglioso e divertente al contempo, di acrobazie e volteggi. Note sono anche le sue vicende per la sua caparbietà a voler perseguire da solo e contro tutte le regole un progetto che gli costò l’esilio da reietto.

Nonostante tutto Jonathan continuò nei suoi tentativi, nelle sue ricerche tecniche con costanza, dedizione, ione. Non si lasciò incantare da nessuno e non tenne mai in grosso conto l’opinione altrui, sicuro che un giorno ciò che stava sperimentando sarebbe andato a tutto pro del suo popolo, apportando grandi migliorie alla nostra vita. Ormai è riconosciuto che è stato lui l’iniziatore dell’era del nuovo volo, dell’innalzamento dei gabbiani verso mete e orizzonti più alti. É stato quindi così che mediante la tecnica facilmente insegnata e appresa, ci siamo liberati dal nostro stato di sudditi dediti solo al mangiare e all’obbedire. Siamo riusciti più o meno in poco tempo a raggiungere mete fino ad allora impensate rendendo il clima per un certo periodo pacifico e sereno.

Ciò che più ha contato è che ognuno ha guadagnato la libertà di potersi esprimere secondo le proprie capacità, ma anche di imparare a usare i propri mezzi con padronanza di tecniche che possano sottolineare le caratteristiche proprie di ciascuno. Purtroppo, e questo forse Jonathan non l’aveva previsto, si svilupparono tra di noi dei soggetti che tutt’ora e sottolineo tutt’ora, primeggiano in una o nell’altra tecnica, in quello o quell’ altro genere di acrobazie. Questo significa che lo spirito degli insegnamenti di Jonathan è stato da noi tradito: lui voleva il bene del popolo dei gabbiani, mentre tra di noi ci sono ben più di un paio di esemplari che vogliono emergere solo a proprio vantaggio. Jonathan era notoriamente un leader, mentre questi sono sì e no dei capigruppo. Taluni, a

quanto ho visto e sentito, credono di essere chissà chi, pavoneggiandosi di loro prodezze non certo grandiose.”

“Come fai ad asserire tutte queste cose, Jon. Come sei arrivato a queste conclusioni” Lo interruppe così proprio quel suo vecchio amico incontrato durante una delle sue eggiate in cerca di conferme, che aveva tanto vantato le imprese sue e di suo figlio.

“Proprio tu poni questa domanda, mio caro – rispose Jon – proprio tu che, se ben ricordi, mi parlasti qualche giorno fa delle tue imprese e di quelle di tuo figlio. Forse quella volta avevi solo voglia di riferirmi della tua evoluzione e quella dei membri della tua famiglia, ma io che me ne andavo in giro a fare interviste su queste tematiche per mia iniziativa personale, ho letto fin troppo orgoglio personale nei tuoi racconti e non ho notato una così grande bravura da non poter essere superata un giorno da qualche altro rampollo nelle evoluzioni di tuo figlio. Certo che dobbiamo tutti collaborare affinché il progresso continui, ma, ed è quello che Jonathan voleva indicarci, dobbiamo farlo non a unico nostro pro, bensì a quello di tutta la comunità. Certo non è facile poiché la tentazione come le occasioni di poter imporre la nostra opinione, le nostre idee o la nostra visione delle cose sono molteplici e spesso ben celate”

“Eppure in questo abbiamo delle regole precise” ribatté qualcuno tra la folla.

“Esatto. E’ proprio per questo che ci siamo dati delle leggi che come intento hanno quello di dire cosa si dovrebbe fare e non di limitare l’azione. Se è vero e valido che ognuno è libero di esprimersi secondo le proprie capacità rimanendo all’interno della comunità, per il bene di questa e per il progresso fondato anche sulla tradizione, non possiamo e non dobbiamo mettere troppi freni né troppi ostacoli a questa nostra libertà. Ricorderete senz’altro la disputa arrivata poi fino ai massimi livelli della nostra gerarchia e nonostante ciò non ancora definitivamente risolta tra tradizione, legge di natura e regole di comportamento. Ecco, qui sta uno dei punti sul quale dovreste tutti riflettere: debbo io come

singolo continuare a sottomettermi alle regole e alla tradizione uniformandomi ai comportamenti dettati dalle leggi di natura o posso anarchicamente decidere da solo, da reietto in patria, come gestire la mia vita? Lo so, lo so: questo è un interrogativo basilare per ognuno e ognuno dovrebbe trovare la sua risposta, cercando di esserne poi il più possibile fedele.

Se poi, andando avanti con le nostre riflessioni, guardiamo alla vita della nostra comunità, è cambiato veramente qualcosa? Ci siamo levati in volo al di sopra della nostra voracità, ci siamo staccati dal suolo della lotta per i bisogni primari, cioè cibo, terra, per girare su noi stessi a piacimento. Ci siamo elevati, ma abbiamo visto veramente cosa c’è al di là del nostro territorio? Come abbiamo percepito le cose che ci sono apparse dall’alto? Siamo veramente degni di poterci librare in aria liberamente se poi nel nostro cuore non c’è orizzonte? E cosa significa qui orizzonte se non uno scopo comune, una meta da raggiungere insieme, qualcosa da realizzare per portare avanti un progetto di vita e di civiltà?

Io credo che Jonathan abbia avuto sempre davanti agli occhi il panorama offerto dal nostro comportamento volto solo a soddisfare i nostri appetiti personali ed è stato quello che lo ha sostenuto in tutte le sue battaglie. Quello più di qualunque altra cosa.

Non siamo molto lontani da quelle immagini, credetemi, e anche se fino a ieri avevo la vista corta che mi impediva ogni grossa azione, ho visto molto di più di quello che un’aquila potrebbe permettersi se capitasse da queste parti. Io, soprattutto, e ve lo dico con franchezza e in assoluta umiltà, ho saputo vedere con gli occhi dell’anima. Ho ben presente quello che potrebbe capitare a tutti noi se continuiamo a essere ciechi, sordi o muti di fronte alla situazione in cui ci troviamo ed è per questo che mi permetto di parlarne oggi qui, davanti a tutti, anche davanti al Gran Consiglio. Mi permetto di esprimere ciò che taluni solo intuiscono o tal altri addebitano come caso isolato poiché ho condotto le mie ricerche e le mie verifiche, in nome del mio ruolo di consigliere minore, di filosofo della quotidianità, di saggio storpio – ormai ex storpio – che non aveva altro da fare che dare ascolto a tante vicende piccole e personali. Fino a ieri ero

limitato da una fisicità non idonea ad altro che alla riflessione, oggi mi ritrovo con due ali possenti e una vista da lince, ma continuo a pensarla alla stessa maniera di prima.

Ho visto naturalmente la vostra curiosità di sapere cosa o chi mi abbia trasformato in quello che oggi sono. Ebbene, stavo rimuginando da solo su cosa si potesse fare per risolvere le questioni di cui vi ho accennato quando mi apparve lui, Jonathan, il Grande Gabbiano (qui la meraviglia e lo stupore riecheggiarono tra i presenti). Si proprio lui, il nostro più illustre antenato, che come si sa, quando vede, provvede. Non c’è stato bisogno di raccontarci alcunché poiché lui sapeva perfettamente quello di cui io necessitavo in quel preciso momento.

Mi ha detto congedandosi che noi gabbiani dobbiamo ancora evolverci per certe questioni e che crediamo ancora soltanto a quello che vediamo. Non so perché, ma quando se ne fu andato mi sono ritrovato così, con ali e vista, le cose che mi mancavano per essere uno di voi, uno normale. No, all’inizio neanche io ci credevo e fino a ora non mi ero nemmeno posto il pensiero di quale fosse il motivo o la giustificazione di questo regalo. Ora vi dico: Ali e Vista servono a me, come servono a voi che li avete buoni dalla nascita, per innalzarmi e vedere l’orizzonte, vedere le cose dall’alto, per capire e guardarle per quelle che sono.”

Ci fu un attimo di pausa nell’esposizione di Jon, che si guardò intorno per leggere le varie espressioni sui volti dei suoi consimili. Infatti dallo stupore e la meraviglia si era ati alla vergogna, al pentimento, alla mestizia di chi sa di avere qualche colpa. Prima che Jon potesse riprendere il suo discorso, a parer suo giunto quasi alla fine del resoconto di quanto da lui riscontrato prese la parola il capo del Gran Consiglio:

“Ti ringrazio anche a nome di tutti per queste tue belle parole e per aver sollevato questa questione che mi sembra davvero fondamentale in questo nostro tempo. Davvero non potevi essere che tu quello che avrebbe aperto gli occhi a

tutta la comunità, tu che fino a ieri non arrivavi al di là del tuo becco. Mi fa personalmente piacere che il Grande Gabbiano ti abbia concesso il dono di Ali e Vista, ma anche che tu continui a essere te stesso, quello di sempre, colui che ragiona sulle cose e le vede per quelle che sono. Servirebbe veramente questa qualità a ben molti tra di noi. Condivido anche le tue conclusioni sulla mancanza di un orizzonte, di un fine comune, qualunque esso sia, per il nostro popolo tutto. Come hai ben detto, ci stiamo perdendo, ci stiamo distruggendo nel tradimento dei principi primi della nostra vita comune. Sono d’accordo: dobbiamo assolutamente fare qualcosa, ma cosa. Oggi forse tanti hanno preso coscienza di questa situazione, ma se continuiamo a pensare solo a noi stessi non riusciremo certamente a trovare una soluzione comune. Certo, oggi la meta non è così chiara come lo fu ai tempi di Jonathan..”

Il capo non fece in tempo a finire la frase quando dalla folla si levò una nuova voce, quella di Linda. “Signori del Gran Consiglio e Popolo dei Gabbiani, anche io ho visto qualcosa in tutta questa faccenda e vi giuro che non si tratta solo della saggezza di Jon – dicendo questo si fece largo tra i suoi consimili per raggiungere il suo eroe –. Anche io ho vissuto come saprete al margine della società e con tanta amarezza non ho potuto condividere molti eventi, ma ho anche imparato a osservare così, come da dietro le quinte, la vita degli altri. Non è magari più il cibo quello che ci fa lottare a beccate feroci, ma continuiamo a beccarci per ben più futili motivi ed esperienza personale me lo ha provato.

Dovremmo per primo cominciare da qui, osservando un poco più di rispetto per gli altri che a loro volta e di riscontro ne avranno per noi. Abbiamo la libertà, ma la usiamo male, perché non sappiamo porci noi stessi dei limiti, affinché sia salvaguardata non solo la nostra, ma anche l’altrui identità e serenità. A mio parere non dobbiamo subito cercare un nuovo obiettivo, ma cercare in noi stessi un po’ più di tolleranza e altruismo per permettere a ognuno di viverci accanto senza disturbarci a vicenda e in continuazione”

“Ben detto – giunse secca la risposta dal mezzo della folla – Perchè non ne hai mai parlato prima?”

“Vedete, non sono l’unica a pensarla in questo modo, ma mi sento solo oggi in diritto di levare la mia voce. Lo faccio per voi, per quelli che si sentono ancora troppo deboli per affrontare cotanta platea. Dò voce a queste parole affinché nessun altro come me venga relegato al confino senza processo né possibilità di appello per colpe non direttamente commesse. Non mi ci sono trovata per mia volontà nella situazione di quasi clandestina nella quale ho dovuto arrangiarmi per tutta la vita, ma siete stati tutti voi ad avermici condannato. E’ stato il fato che mi ha voluta figlia di genitori non graditi e so anche che loro ne avevano di colpe. Credo però di aver anche dimostrato di essere diversa e di aver sempre voluto cancellare ogni torto con il mio comportamento per riscattarmi personalmente. Ogni mio sforzo è stato quasi vano, perché comunque mi avete “bollata”. Vorrei che pensaste a un mondo migliore, senza odio né vanità e che metteste poi sinceramente in pratica questa vostra idea. Forse qui, e credo che sarai d’accordo anche tu Jon, troveremo facilmente il nostro nuovo orizzonte”.

Ci furono alcuni attimi di silenzio, di quelli in cui una comunità riunita si fa, ognuno per sè, un esame di coscienza dopo una dura predica. Nel frattempo Linda si era avvicinata a Jon e lui a lei. Si guardarono negli occhi, si strinsero l’uno all’altra per dirsi tutto il loro affetto e tutta la loro reciproca gratitudine per quegli interventi.

Il primo mormorio provenne dal gruppo del Gran Consiglio. Tutti quei discorsi avevano scosso e di molto le coscienze dei vari membri. La questione andava affrontata sicuramente con la dovuta cautela e la massima sorveglianza, decretando sin d’allora che erano state gettate le basi per una nuova evoluzione.

Jon sentiva invece che la riunione nonché tutto il popolo riunito avevano bisogno di una degna chiusura, una di quelle che rimangono nella storia perché hanno veramente qualcosa da insegnare, come una morale svelata al termine di una fiaba. C’era bisogno di un gesto eclatante, di quelli che aveva avuto in mente il Grande Gabbiano al termine del loro incontro con le parole: “I gabbiani sono un popolo che si deve ancora evolvere per certe cose. Non credono che a quello che

vedono, soprattutto se si tratta di cose o atteggiamenti tangibili.“ Con Linda accanto rivolse un ultimo appello ai suoi consimili:

“Gabbiani, andiamo tutti assieme a cercare la nostra nuova armonia. Apriamo le ali a una nuova era!”

Un grandioso stormo si levò in volo quella mattina e i componenti furono milioni. Si diressero tutti verso un solo punto: l’Orizzonte. Tutti seguirono Jon e Linda, che improvvisamente però sparirono per atterrare sulla spiaggia della Nuova Armonia, quella che solo Jon conosceva.

LA STANZA NERA

Ispirato da un esercizio di creativa: iniziamo dalla fine.

2011

A Valeria, …

A occhi aperti non si riusciva a vedere nulla, anzi nulla si distingueva in quel nero assoluto che dominava quei pochi metri quadri. Nero il pavimento che non risuonava né di piastrella né di parquet, neri i muri, come pure le finestre con i vetri oscurati, nere anche tutte le porte, l’arredamento e anche le suppellettili che non si lasciavano notare nascondendosi dietro sfumature del medesimo colore.

Quel posto non sembrava affatto abitato e nulla era indice di presenza umana: niente cibo, il letto completamente senza coperte e lenzuola, in bagno nemmeno un asciugamano appeso, gli armadi vuoti. Quella casa assomigliava al regno degli spiriti assenti, e nulla pareva essere fuori posto. Dal di fuori sembrava un luogo a riposo, come qualcosa deposta in qualche cassetto o su una mensola in attesa di tempi migliori. Dal di dentro solo una cosa dimenticata, una di quelle che non si possono nemmeno adattare ad altro scopo, ma che non si ha la forza o il coraggio di buttare via.

Per una ragione sconosciuta la porta di entrata principale, anche essa molto nera, era stata da tempo lasciata aperta, ma nessun umano aveva più potuto o voluto mettere piede in quei locali. Così tutta la casa era diventata rifugio di animali, di

quelli che non hanno padrone e nemmeno lo cercano perché troppo odiati in ato o addirittura cacciati o maltrattati. Quel posto era per tanti la mitica arca di salvezza in giorni e notti di solitudine o solo di ripresa dopo battaglie o viaggi estenuanti. Era comunque un riparo, un nido, a modo suo una casa, un posto dove nascondersi dagli altri ma anche da se stessi.

Da tempo lui dimorava lì perché di colore nero, un’anomalia nella sua specie. Vì ci era arrivato da solo, girovagando per il mondo in solitaria. Quel posto fuori luogo e tempo gli era parso subito adatto ai suoi intendimenti, quello soprattutto di are il resto dei suoi giorni senza dover combattere contro i pregiudizi. Si sentiva a suo agio proprio perché tutto era come lui, a cominciare dal colore di penne e piume.

La sua vita scorreva comodamente senza scossoni quando una notte di luna piena, in ottobre, improvvisamente tutta la casa fu percossa da un evento spaventoso che cambiò per sempre quel luogo.

Nessuno seppe mai come, ma tutti gli occupanti furono svegliati di soprassalto da forti rumori intorno a mezzanotte. Ci volle del tempo per capire da dove quel trambusto provenisse. In men che non si dica tutti però si trovarono di fronte alla causa di tutto e fu enorme spavento. Una creatura grossa o così sembrò alla luce della luna, a forma di gatto, tutto nero dalle orecchie alla coda, dai baffi lunghissimi e nerissimi, gli occhi quasi fuori dalle orbite e che emanavano una strana luce rossa strillava a più non posso agitandosi ferocemente vagando di stanza in stanza. Gli strilli sembravano muggiti misti a ringhiate, come se la creatura entrata a disturbare quella quiete non fosse proprio un gatto. Dava più l’idea di essere una creatura ibrida, un lupo o cane lupo impazzito, ma forse anche un licantropo o qualcosa di peggio. Quella bestia aveva un che di diabolico e appariva reale solo in virtù del fatto che si manifestava a molti contemporaneamente, negli stessi luoghi e nelle stesse forme.

Ognuno in quel frangente poi aveva subito cercato riparo, nascondiglio e stava

fermo con gli occhi sbarrati per la paura.

Quello strano intruso sembrava avercela in particolare contro tutto ciò che aveva ali, poiché saltava alto, verso muri e lampadari, luoghi dove si proiettavano le ombre di creature nascostesi negli anfratti più reconditi, in attesa che quella furia si calmasse o che se ne andasse. Le ombre nere sui muri neri della stanza si riuscivano a distinguere quella notte contro il luccicore creato dalla luna e quindi nessuno era fuori pericolo.

Nessuno tranne quella creatura che si agitava rumorosamente muoveva un muscolo per timore di tradirsi. Stavano lì tutti incerti, spaventati mentre la belva inferocita si dimenava di qua e di là, urlando inferocita. Sembrava stesse lottando contro qualche cosa di non reale: forse dei fantasmi lo tormentavano in quella notte di luna piena di ottobre. Questi forse stavano solo nella sua mente e nella sua anima, ma si palesavano attraverso quella strana luce rossa nei suoi occhi quasi fuori dalle orbite. La potenza del bagliore rosso contro quello della luna rappresentava il potere di quegli spiriti che ora muovevano come forze occulte e incontrollabili quella strana creatura.

Quegli spasmi così come le urla non volevano cessare né diminuire. Nessuno degli astanti, spettatori loro malgrado, si poteva permettere azione alcuna, pena la morte sicura. Meglio per tutti non ingaggiare battaglia.

D’improvviso la luce della luna forse per un gioco di radiazione e di fessure tra gli infissi si tramutò in bagliore che invase tutte le stanze. Per qualche secondo tutto ammutolì. Silenzio pervase corpi e anime e tutti rimasero immobili come sospesi nell’aria. Tutto il nero di cui era composta la casa si illuminò e sia cose che animali presero contorni definiti.

Poco dopo apparve a tutti un’altra creatura strana, bianca, alata, maestosa,

circondata da un’aura ancora più lucente che si irradiava da tutto il corpo. Aveva le fattezze di una colomba, gentile e buona. Apparve in tutto il suo splendore appoggiandosi al davanzale di una finestra, entrata misteriosamente attraversando muri e pareti come uno spirito. Si mostrava altera, dallo sguardo fiero, come il comandante supremo prima della battaglia decisiva, al comando di un grande esercito agguerrito.

Tutta la scena aveva lasciato attoniti e meravigliati i presenti, sempre ben nascosti e immobili, per nulla intimoriti da quella luce abbagliante, forse perché consapevoli che portasse del buono. Tutti tranne la belva-gatto che dopo i primi attimi riprese con ancora più forza il suo tormento. Sembrava volersi scagliare contro quella creatura bianca apparsa all’improvviso con assoluta veemenza. L’uccello bianco rimaneva fisso e immobile nella sua posizione, irradiando sempre il suo biancore, ma ora con un occhio rivolto a seguire le mosse della creatura nera a forma di gatto che si faceva sempre più minacciosa.

Dal suo nascondiglio lui aveva forse l’angolo di osservazione migliore: con le spalle coperte dal muro, dietro una vecchia teiera di porcellana, annerita di polvere e posta sulla credenza nera, poteva godersi al meglio la scena. In quegli istanti tutti stavano con il fiato sospeso in attesa della prossima mossa.

Per un misterioso impeto, dall’altro angolo della stanza, un piccione che pretendeva di aver trovato riparo dietro il catino di ferro verniciato, appoggiato malamente al treppiede che doveva reggere anche la brocca di ceramica, si levò in volo proprio nell’attimo in cui gatto nero e colomba bianca iniziavano la loro lotta al centro della stanza. Fu così che la povera e al contempo impavida bestiola si trovò coinvolto in quello strano litigio, un po’ preda per il gatto e un po’ oggetto da difendere per la colomba. La stanza si riempì di urla, di penne, di pelo, di una massa informe aggrovigliata su se stessa. Ancora più grande fu lo spavento e il terrore per tutti.

Il piccione sbatteva le ali nervosamente e volava da un muro all’altro come

impazzito. Le altre due creature, quella bianca e quella nera quasi non si distinguevano all’interno della stanza. Queste continuavano a lottare tra di loro beccandosi e usando i propri “artigli” come arma. Anche le loro grida si distinguevano a malapena.

Il povero piccione si trovava veramente in serie difficoltà, ma per caso fortuito riusciva sempre a are indenne l’impatto fra i due lottatori. Pareva disorientato cambiando spesso traiettoria. Anche gli altri animali si meravigliarono di questo e cominciava a serpeggiare l’idea che quella lotta fosse solo una illusione comune, un qualcosa di surreale, anzi di irreale, gestita da qualche spirito in vena di scherzi di cattivo gusto.

Furono per tutti attimi di panico poiché l’esito della battaglia non si poteva né prevedere né prognosticare, dato il groviglio e le urla. Nella stanza penne e piume tutt’intorno, sangue e lacrime sporcavano ogni cosa nera, sudore colava a cascate dalle fronti dei poveri astanti. Altro sporco si andava ad aggiungere al nero della stanza.

Poi d’improvviso tutto tacque. La lotta terminò senza lasciare né vincitori né vinti. Le urla terminarono e il chiarore che era parso irradiarsi dalla colomba sbiadì fino a che non rimase solo una flebile luce lunare. Il piccione si voltò e spiccò qualche salto ricadendo alfine stremato sul pavimento.

Fu solo a quel punto che piano piano tutti uscirono dai loro nascondigli per avviarsi fuori da quella casa. Se ne andarono, disperdendosi ai quattro angoli del mondo, abbandonando per sempre quel luogo al proprio destino. Uscendo per ultimo da quell’inferno lui si guardò intorno come per sincerarsi se veramente tutto fosse cessato. Non riuscì a vedere fino in fondo al corridoio, la luce abbagliante della finestra gli impediva la vista. Proseguì quasi senza timore, attraversò il riquadro di luce e rientrò nella penombra. Il corridoio era completamente libero. Anche il piccione era scomparso. Non una penna, non una piuma che tremolasse.

Parte Seconda

STORIE DI UOMINI

DONO DISATTESO

Dal mio callendario del’Avento

2012

Ascoltare per lo meno una volta la Messa è d’obbligo a Natale o almeno lo dovrebbe essere. In questo periodo gli animi cercano la compagnia, la solidarietà, la vicinanza del prossimo e la Chiesa ne offre possibilità migliori e maggiori di qualsiasi altro luogo.

L’atmosfera è calda e lo spirito si eleva tra l’incenso e l’eco del coro. Melodie quasi soffuse si spargono tra le arcate maestose o nelle piccole cappelle dove devoti si inginocchiano a chiedere grazia con una preghiera silenziosa.

Anche Aldo era entrato con l’intento di raccogliersi davanti all’altare o vicino al Presepe in allestimento. Aveva bisogno di calma e di uscire dal trambusto del centro per riflettere su se stesso, sulla vita in generale. Si era seduto nei primi banchi, quelli che fin da piccolo aveva creduto riservati ai parenti nelle cerimonie importanti della famiglia, alle suore alla domenica, alle autorità nelle feste nazionali. Lo aveva fatto apposta per capire cosa si provasse o cosa si vedesse di così speciale da quella postazione.

Stava lì come in attesa, guardandosi attorno di tanto in tanto. La gente arrivava mezza contrita, se non dal freddo sicuramente da qualche pensiero cupo e pesante. Tutti cercavano qualcosa: la vicinanza a Dio, a colui che tutto può, ma che poi, non si sa come, spesso non interviene. Facce senza speranza e troppo

dolore giunti forse già all’ultima spiaggia.

Anche Aldo era preso dai pensieri ai quali cercava risposte.

Le navate si ergevano maestose sopra di lui, l’arco ad ogiva rendeva la profondità di un cielo irraggiungibile. Si sentì perso, solo, ma gli era chiaro che gli mancava qualcosa.

Le file di banchi erano ormai tutte occupate da fedeli, la funzione sul punto di iniziare. Aldo si guardò di nuovo attorno, spaesato. Si sfregava le mani intirizzite, batteva leggermente i tacchi sul pavimento infastidendo le pie donne sedute accanto a lui con il rosario in mano. Era entrato per cercare se stesso o il vero spirito del Natale, con tanto di cori soffusi e strette di mano per gli auguri. Cosa ci faceva lì in mezzo a gente che neppure lo degnava di uno sguardo?

Si alzò e andò verso il Presepe. Le statuine c’erano già tutte, disposte come in bella mostra in un paesaggio improbabile, artefatto. Eppure avevano tutte un’espressione gioiosa e il viso rivolto verso quel pagliericcio, una specie di culla. Mancava il bambinello, per tradizione deposto solo in occasione della messa di mezzanotte del 24, ma quell’assenza per Aldo era più che simbolica. Era la sua mancanza di ideali, di speranza, di coraggio, di forza, ma anche quella di una fede, di un credo nelle proprie o altrui capacità di sollevarsi, di creare un futuro migliore.

Quel vuoto non sarebbe stato facile da colmare, nemmeno se fosse tornato a Natale stesso o a Santo Stefano davanti a quella rappresentazione. Il solo fatto di aver riconosciuto ciò di cui aveva bisogno gli doveva bastare per indicargli la via da percorrere.

Uscì di corsa, verso la folla noncurante di tanto dolore e indifferente ai bisogni altrui. Si perse tra le vie illuminate da frivoli simboli della festa.

UNA BANALE DOMENICA

Nel bagno l’aria era pregna del vapore che si sprigiona da una lunga doccia calda, una di quelle di cui si ha bisogno per lavare via stress e pensieri.

Luca era in piedi accanto al lavandino, con addosso l’accappatoio di ciniglia e si accingeva come ogni domenica a dedicare un po’ di tempo alla cura di se stesso. Si era chiuso a chiave, come al solito, anche se tutti gli altri componenti della famiglia rispettavano quel rito e sapevano di non aver diritto ad entrare in quella stanza in quei momenti se non per motivi più che gravi e urgenti. Infatti lui, con la scusa di fare un bagno e di radersi in santa pace, si ritirava dai suoi doveri e dalla vita di famiglia, che continuava tranquillamente al di là della porta.

Con un lembo dell’asciugamano creò una striscia riflettente sullo specchio appannato, quel tanto da potersi guardare in faccia. Stava lì di solito qualche minuto prima di prendere in mano sapone, crema e rasoio e togliere il superfluo cresciuto durante la settimana. Si compiaceva di vedere che sul suo viso, nonostante i suoi 35 anni, non fossero molto visibili i segni che la vita imprime ad altri talvolta molto velocemente.

Si guardava e riguardava nello specchio come se gli paresse che qualcosa fosse cambiato. Tra i capelli folti e ondulati era spuntata da qualche tempo qualche ombra chiara. Qua e là qualche filo cresceva come stinto, ma si sapeva confondere bene nella mischia. Questo non lo inquietava, anzi lo aveva atteso giusto per cominciare a darsi un po’ di arie da “vissuto”. Eppure quella domenica c’era qualcosa sul suo viso apparso fino ad allora e lui non sapeva da cosa dipendesse.

Nel frattempo al di là della porta i due gemelli di otto anni continuavano a

giocare tra di loro, facendo un po’ di chiasso nel corridoio; sua moglie era in cucina intenta a preparare il pranzo, il cui profumo aveva ormai invaso tutta la casa; la primogenita, adolescente, terminava i compiti tra uno sguardo ad internet ed una telefonata con qualche amica. La vita famigliare era dunque quella di sempre, quella di tutte le altre domeniche.

Luca aprì la finestra per fare entrare un po’ di aria fresca che potesse disappannare completamente lo specchio. Respirò qualche boccata profonda che gli diede una nuova sensazione: si sentì subito più forte e più sveglio. Stette qualche secondo immobile a guardare il tempo di quella giornata. La nebbia non si era ancora alzata del tutto e il quartiere gli sembrava ancora più grigio del solito. Anche fuori dunque lo accoglieva quella sensazione di poca chiarezza ambientale che lo opprimeva in bagno. Decise così di richiudere la finestra e continuare nel suo intento di radersi.

Meticolosamente preparò l’impasto, o meglio l’impiastro di sapone e crema usato quasi da sempre per proteggere la sua pelle sensibile e lo stese sulle guance, sul collo. Prese poi in mano il rasoio da barbiere, quello regalatogli dagli amici per il suo diciottesimo compleanno e tenendo bene a portata di mano un piccolo asciugamano si mise all’opera.

Lasciava scivolare l’attrezzo con sicurezza verso l’alto e verso il basso, eseguendo quel contropelo deciso che non avrebbe lasciato scampo a nessun residuo. Con maestria comprovata ava e riava ogni angolo, rimirandosi compiaciuto dell’effetto che la pelle liscia faceva rimbalzare dallo specchio di fronte a lui. Alla fine, al tatto, nulla pareva essere sfuggito.

Eppure anche dopo la rasatura c’era qualcosa che non lo convinceva. Luca si avvicinò ancora di più allo specchio, per cercare di carpirne l’origine o per lo meno trovare il punto in cui quella sensazione era più chiara, forte, visibile. Spostava lo sguardo a destra e poi a sinistra analizzando entrambi i profili. Nulla, nulla di lampante.

L’inquietudine di Luca cominciava a crescere, ma anche a confondersi con qualche stimolo di fame, nonostante l’abbondante colazione che solitamente la famiglia consumava ogni domenica o festa comandata. Lo specchio era ormai limpido, a parte qualche gocciolina di condensa che scivolava verso il lavandino, ma l’immagine riflessa non era del tutto chiara. Luca prese così dei pezzi di carta igienica e diede un’ulteriore ata per asciugare tutta la superficie. Nemmeno quello fu di utilità e ormai era pervaso da un certo senso di ansia.

Chiuse allora gli occhi cercando di imprimersi nella memoria quella che lui credeva la sua immagine riflessa. Scattata quella foto interna e messa in archivio sensoriale, riaprì gli occhi per iniziare il confronto con il suo volto fisico, cosa che gli parve essere il metodo migliore per arrivare al punto. Si ò più volte le mani sul volto, tastando centimetro per centimetro per tentare di costruirsi in qualche modo la faccia che in quel momento si sentiva. Ecco, di certo era quello il punto in cui si annidava quel malessere: le due immagini non coincidevano! Quella archiviata come riflessa dallo specchio apparteneva ad un uomo di 35 anni, ben curato nell’aspetto, tranquillo, appena rasato; quella che aveva appena ricostruito al tatto apparteneva invece ad un padre di famiglia, che lavora come capo reparto nell’azienda dove già aveva operato suo padre, di un uomo che è consapevole di avere buona esperienza e buone doti di leader da far valere.

Si spaventò quasi, Luca. Come potevano essere quelle due facce così distanti? Chi o cosa le aveva fatte allontanare l’una dall’altra? Come mai non se ne era accorto prima? Si guardò di nuovo allo specchio, ma sentì che quella sensazione che poco prima gli aveva creato disagio non era affatto sparita, anzi era aumentata a dismisura. Dovette appoggiare entrambe le mani sul lavandino, per tenersi in piedi, lasciando cadere il rasoio sul pavimento. Richiuse gli occhi come per scacciare l’immagine di un brutto sogno. Niente, nulla riusciva a riportarlo alla condizione di sempre, di uomo tranquillo e, a modo suo, sereno.

Attese qualche secondo per darsi una sciacquata con dell’acqua fresca. Si ò il dopobarba senza asciugarsi il viso, il che aumentò quel certo pizzicore che

normalmente percepiva sulla pelle al contatto con profumi. Ancora non si rendeva conto di quello che la sua scoperta potesse significare e soprattutto di quali conseguenze potesse avere. Decise così di andare a vestirsi in camera, rinunciando al prosieguo delle cure che di solito riservava a se stesso. Si sdraiò sul letto spossato e stanco. Non riusciva a pensare ad altro, né a scacciare le mille immagini che si stavano sovrapponendo a quelle due. Per un attimo gli sembrò che anche la stanza girasse vorticosamente.

Il rumore dei bambini che dal gioco erano nel frattempo ati al bisticcio per futili motivi non riusciva ad arrivare alle sue orecchie. Persino il telefono aveva squillato – la solita chiamata della suocera -, ma lui non se ne era accorto, nonostante l’apparecchio secondario fosse posizionato proprio sul suo comodino; ormai l’odore del pasticcio di carne quasi cotto non stuzzicava che le narici e gli stomaci degli altri componenti della famiglia; la biancheria e i vestiti puliti da indossare stavano stesi sulla poltrona in camera. Luca però non aveva né voglia né forza di fare nulla.

Era rimasto immobile forse per un quarto d’ora quando qualcosa scosse i suoi sensi, ma non proveniva dall’esterno. Cercò di smuoversi da quella specie di torpore. Pensò che per prima cosa, avendo ormai capito di cosa si trattasse, doveva accettare il divario tra quello che sentiva di essere e quello che traspariva dal suo volto. All’inizio un po’ d difficoltà l’avrebbe avuta, ma in seguito la sua intelligenza lo avrebbe di sicuro aiutato nel delineare i punti salienti e quindi individuare le mosse per tornare in equilibrio. Difatti il secondo o sarebbe stato proprio quello di trovare un modo per reagire a quella situazione, per ritrovare l’armonia personale tra spirito e corpo. Infine non poteva e non doveva mancare un metodo o il riconoscimento di segnali d’allarme per non ricadere nella medesima situazione.

Era ancora sdraiato sul letto quando la moglie, intenta a separare i gemelli sempre più litigiosi e monitorare le attività della primogenita, entrò in camera e lo esortò a vestirsi per il pranzo. Di lì a pochissimo sarebbero arrivati anche gli suoceri, autoinvitatisi durante la telefonata di poco prima.

Luca faticò per farsi trovare pronto per andare in tavola con tutti gli altri, ma nessuno ebbe nulla da ridire – e nemmeno il tempo – poiché il pranzo fu subito servito e molto apprezzato da tutti. Dopo il lauto pasto decisero di andare a bere il caffè dagli altri suoceri, accompagnando nel tragitto la primogenita al luogo di incontro con le amiche per il cinema. Fu un pomeriggio diverso per Luca che, forse di nascosto dagli altri, si sorprese più volte ad osservare i suoi parenti. Non li osservava per carpire qualche segreto dalle loro azioni o comportamenti, ma per capire cosa loro leggessero nel suo volto, cosa che lo tenne in quasi assenza di conversazione per gran parte del pomeriggio Quel comportamento era insolito per lui che chiacchierava volentieri con tutti in quelle occasioni.

C’era ancora della nebbia nella sua mente e più cercava di schiarirsi le idee, più questa diventava molesta e insidiosa. Rientrati a casa e nella vita di sempre Luca tornò in bagno. Stette a lungo a fissare la propria immagine allo specchio per capire se veramente qualcosa stesse cambiando. Si era fatto convinto durante quel pomeriggio che, al pari del suo aspetto, anche il suo comportamento dovesse cambiare.

Gli nacque così l’idea che forse troppo si era dedicato alla cura del proprio corpo e di se stesso, lasciando il vero piacere della vita al di fuori della porta per molto – forse troppo – tempo, anzi molto di più della sola domenica mattina. Decise di provarci, di fare a meno di specchiarsi solo per vanità. E di cominciare già da quella domenica. In verità quello non era l’unico giorno in cui Luca spendeva del tempo alle cure del corpo. Di corporatura media, mai troppo grasso, abbastanza di buona salute, si considerava “un tipo”. Stava sempre attento al mangiare, ma non disdegnava la buona cucina, andava quasi regolarmente in palestra o in alternativa partecipava volentieri a qualche amichevole di calcetto con i colleghi, amava fare lunghe eggiate con tutta la famiglia di tanto in tanto in occasione di scampagnate al mare o in montagna in compagnia di amici. Non eccedeva nel bere e non aveva mai toccato sigarette, avendo avuto disgusto di quelle che consumavano i consuoceri in casa, impregnando ogni ambiente, nonostante le proteste delle relative mogli. Si reputava una persona tranquilla, senza grandi ambizioni, certo, ma consapevole di sapere il fatto suo nel lavoro e

di mettere nel migliore dei modi la sua esperienza al servizio degli altri. Amava sua moglie e la sua famiglia, che guidava sempre con giudizio e cautela, lasciando spazio ad ognuno secondo le proprie capacità. Non si tirava mai indietro nelle difficoltà e non prendeva mai decisioni azzardate, rischiose o troppo impulsive, senza opportuna riflessione e ponderazione.

Era stato però proprio il suo fine savoir-faire con clienti, fornitori e capi basato sulla sua esperienza e sulle sue conoscenze tecniche di materiali e macchinari a portarlo avanti negli anni. Ci sapeva fare anche con il personale, dimostrando sempre doti e capacità da leader che sa valorizzare idee e proposte dei sottoposti, quando queste siano valide.

Tutto questo ora a Luca non bastava più. Nella sua immagine riflessa aveva visto il corpo, nella famiglia, l’uomo e nel lavoro la persona. Ora doveva trovare il modo per far combaciare tutte quelle cose in una sola faccia. In quel momento avrebbe volentieri consultato qualche indovino per sapere come e se e quando ci sarebbe riuscito. Poi si disse che semplicemente era questione di vivere la propria vita giorno per giorno, attimo per attimo, attività per attività, sicuro che un giorno la meta sarebbe arrivata.

Forse era solo questione di darsi i giusti obiettivi e le giuste priorità in ognuno dei settori. Giorno per giorno, domenica dopo domenica, quello specchio indicò la via da seguire.

LA MIA OMBRA

Da una suggestione sull’incipit

2013

A Patrizia, …

LE PRESENTAZIONI

All’improvviso una mano tesa mi incontrò nella Hall e il sorriso che l’accompagnava si allargò in un: “La conosco da sempre”.

Stupito l’ho guardato come si osserva il proprio sosia incontrato casualmente per strada. Era uguale e identico a me e mi stava di fronte.

Parlava, ovvero apriva la bocca, nello stesso attimo in cui lo facevo io, ma la sua voce era la mia. Sbatteva le palpebre proprio come se fosse affetto dal mio stesso tic. Camminava e si muoveva nella stessa mia direzione. Provai a scostarmi ma lui non mi mollava. Provai a girarmi, e lui con me, forse solo di qualche grado in più o in meno.

Sotto la luce delle lampade scompariva sotto ai miei piedi per riapparire poco più in là. Allungai il o, ma lui non demorse. Mi fermai e lui subito dietro a me. Non ci scontrammo né pestammo i piedi. Era diventato subito il mio compagno, fedele e malandrino proprio come me.

Solo nel buio scompariva e io ne temevo la sorte. Allora pensai di dover lasciare la luce accesa per averlo accanto. Ne pativa soltanto il sonno.

Quella presenza con il tempo non mi infastidiva più e anzi lo consideravo come un amico parlandogli di tanto in tanto di cose che vedevo o sentivo. Lui ascoltava sempre senza commentare, solitario testimone del mio tempo, delle mie azioni, del mio sentire.

Avevo preso l’abitudine di controllarlo il che mi obbligava a fermarmi quasi ogni due i. La gente guardava stupita per quel mio vezzo, credendomi con qualche rotella a ritroso.

Una sera però percepii nettamente la sua presenza. Seduto sul divano intento a leggere mi assalì un calore improvviso di cui non seppi lì per lì dare spiegazione: era la sensazione di avere qualcuno accanto, una persona fisica che ti sfiora di lato, spalla a spalla, coscia a coscia ti si appiccica centimetro per centimetro, quasi per appropriarsi della tua essenza. Era lì ne ero sicuro, ma non riuscivo a vederlo. Lo chiamai e cercai sulle pareti, sul soffitto, sul pavimento, negli armadi e tra i tavoli, sulle sedie o le poltrone. Persino tra le tazzine del tè appena servito.

Nulla, nessuna traccia: solo le solite facce un po’ scocciate degli astanti che si ritirarono in buon ordine nelle stanze adiacenti.

La sera stessa mi venne incontro il direttore dell’albergo che mi chiese cosa mi stesse succedendo. Evidentemente qualcuno gli doveva aver riferito di miei strani comportamenti. Gli risposi con garbo che non avevo nulla, ma che forse l’aria umida e la lunga inattività non giovava al mio carattere.

Certo un qualche disagio lo percepivo, ma preferivo minimizzare la cosa, giusto per calmare gli animi. Mi consigliò quindi lunghe eggiate o visite a teatro. Giusto in quei giorni in città veniva rappresentata una commedia curiosa dal titolo “L’Uomo senz’ombra”. Mi disse di avere occasionalmente proprio qualche biglietto per la sera successiva ricevuto in omaggio dalla direzione artistica e di essere disponibile ad accompagnarmi, avendo interesse pure lui a quello spettacolo.

Dopo una notte frequentata da incubi consumai la prima colazione sull’ampio terrazzo con vista sul mare dal quale potevo godere della vista sull’infinita distesa d’acqua e la spiaggia sottostante sulla quale eggiavano mollemente signore, ragazzine ed educatrici svizzere. I rumori delle onde e i gridi dei gabbiani mi giungevano come da lontano, ovattate e soffici, mentre un timido tepore tardo primaverile mi cullava la mente.

Mi decisi a sgranchire le sofferenti membra sul lungomare, più adatto a delle scarpe nuove appena lucidate. La mia promenade si interrompeva spesso per lasciar are chi mi veniva incontro senza tendermi la mano, fatto non inconsueto per un camminamento poco più largo di un metro, un metro e mezzo.

Rispettare la distanza di cortesia, questo il mio motto. Di cortesia e di rispetto mi suggerì il mio compagno. Sì, anche lì non poteva fare a meno di seguirmi, anzi di perseguitarmi, togliendo al mio aggio lo spazio vitale. Quella mattina la nostra coesistenza pacifica fu duramente messa alla prova per cui decisi di rientrare immantinente.

Rimasi il pomeriggio tranquillo, in compagnia dei miei libri e di qualche fresco giornale dall’estero, tanto per tenermi aggiornato.

E venne l’ora di prepararsi per la serata. Non mi sentivo agitato nè tantomeno eccitato all’idea, ma sapevo che uscire mi avrebbe fatto bene.

Presi un bagno caldo, poi mi sottoposi alle cure del barbiere e infine dei suffumigi, preziosi per la pelle e i polmoni. Vestito di tutto punto scesi le scale verso le 19.30, orario convenuto con il direttore.

Il mio compagno deve essersela presa per quel pomeriggio, poiché se ne stava sempre dietro a me, facendo capolino di tanto in tanto per vedere chi ci stesse ammirando in quel preciso momento. Poverino, forse si vergognava di non poter profumare di violetta o vestire con frac parigino. Ma lui era solo una sagoma e fatto di poco. A lui non servivano vestiti e in quanto ad odori gli bastavano quelli raccolti via via.

Il direttore mi fece presente che saremmo stati in 5, avendo invitato anche una coppia olandese con figlia.

La cosa non mi dispiaceva, poiché l’Olanda sarebbe dovuta essere la mia prossima tappa. Li avevo già incrociati nella hall o nella sala da pranzo e quando ci presentarono mi porsero tutti il loro sorriso.

Salimmo sulla carrozza grande, quella da sei posti trainata da tre cavalli sontuosamente bardati. Offrii di ospitare la ragazza sul sedile tra me e il direttore, lasciando così più spazio alla coppia, già avanti con gli anni. Mi sorrisero con compiacimento della mia gentilezza, ma temetti che pensassero a un mio approccio alla giovane donna.

Il cocchiere fece schioccare la frusta e partimmo. Nella penombra della vettura dimenticai quasi il mio compagno. Lo sentivo distante, ma sapevo che mi seguiva, magari a cassetta. Rimasi intento a osservare dal finestrino lo scorrere delle vie, della gente comune che a piedi rincasava portando con sé la fatica e il sudore della giornata. Erano per lo più visi anneriti, stanchi, deturpati da lavori a cottimo o sottopagati. I loro abiti non erano di certo di sartoria e men che meno di lavanderia. Le strade stesse piene di polvere e maleodoranti di fogna e salsedine.

Forse il mio compagno ne sapeva qualcosa, dato che amava rasentare il

pavimento, noncurante dei pericoli. Lui non me ne aveva mai parlato. O forse non glielo avevo ancora chiesto.

Arrivammo al teatro fuori dal quale la gente attendeva ancora l’ammissione. Un lungo striscione rosso scendeva gli scalini d’entrata. La carrozza si fermò proprio in sua corrispondenza e fummo invitati a scendere. Ai lati del portone due lacchè in divisa reggevano fiaccole ardenti e si inchinarono al nostro aggio. La fioca luce che proveniva dal foyer non raggiungeva quasi la porta.

Fummo accolti da camerieri in uniforme e guanti bianchi, dai modi gentili e garbati, ma dal sorriso di circostanza. Gente abbastanza curata, ma che portava con sé un alone sinistro di sotterranei cupi e maledetti.

Porsi il mio mantello e il cilindro a una giovane dai capelli ribelli a qualsiasi acconciatura che spuntavano arricciandosi da una buffa cuffietta bianca slacciata, ma composta. Trattenni il bastone come segno di una mia regalità nobiliare che al di là dell’apparenza risiedeva solo nel portamento.

Il mio compagno mi seguiva furtivo, forse già in cerca di avventure con qualche signora o sedicente tale.

Ci dirigemmo poi tutti al nostro palco: un piccolo androne chiuso tra colonne poco lontano dal palcoscenico che si poteva ammirare senza uso di dispositivi di ingrandimento.

Tutt’attorno altra gente che, come noi, in mise da sera si guardava di lato come in cerca di un punto d’appiglio. Presi tutti da strana frenesia ci si faceva la conta accostando questo a quello o contrapponendo lei a essa.

D’improvviso la luce calò furtiva seguita da tre colpi di campana. Il parterre si acquietò. Lo spettacolo stava per iniziare.

Ma dov’era il mio compagno?

IL GIOCO

Al levarsi del sipario lo vidi, nettamente e chiaramente seduto in una posa plastica a bordo proscenio mentre guardava verso di me con una moina di derisione.

Cercai nelle tasche, nei pantaloni, sotto la sedia con enorme disagio mio e disturbo dei presenti che cercavano la loro concentrazione. Nulla che mi potesse riportare il fedele accompagnatore a sedermi accanto.

Lui d’altronde era ben felice di godere di quello spettacolo da bordo campo, così vicino agli attori, alle luci, all’arredamento, alle quinte e dietro di loro dove un centinaio di operai facevano lo straordinario ogni sera.

Ero geloso di quella sua postazione e pensai di trovare una scusa per raggiungerlo. Mi fu interdetto dal servitore in lacchè appostato di guardia dietro la porta. “Non si può girovagare tra i palchi quando la scena è aperta” mi disse respingendomi. Solo loro avevano il permesso di farlo, sempre che la motivazione fosse forte e nell’esporre questo mi tese la mano a cucchiaio.

Lì per lì non capii cosa intendesse e sinceramente ero intento a trovare quel qualcosa che avrebbe potuto trascinarmi fuori da quel luogo così buio. Non amavo starmene lì per molte ragioni e così addussi di dover trovare subito la toilette.

Gentilmente mi accompagnò fino alla porta dei servizi, ma una volta dentro vidi che altre guardie, da me sorprese in relax, si erano radunate in quel luogo.

Sapevo che solitamente era riservata loro una stanza separata, lontano da quelle per i veri gentlemen, ma forse, da uomini, soffrivano per la stessa mia fobia ovvero quella psicologica nei riguardi del buio.

Con sforzo entrai nel separé ed espletai a fatica la funzione urinaria. Nel lamentarmi dell’età, mi accorsi che il mio compagno mi aveva seguito, forse pure lui in preda a impellenze. Con la solita moina irriverente mi salutò scivolando furtivo.

Lo stupore di saperlo di nuovo con me mi rincuorò, ma venne letto sulla mia faccia dagli astanti che non avevano ancora avuto la pudicizia di allontanarsi.

Dovetti rientrare al mio palco di cui avevo scordato la posizione, aiutato però dal solito lacché che mi fece tutti gli onori e convenevoli della situazione. Percepii una nota di derisione occulta nel suo comportamento, ma non me la presi. Avevo riguadagnato la presenza del mio fedelissimo, di certo la miglior condizione per continuare la serata.

Le mie sensazioni di gioia però ebbero breve durata. Infatti dalla mia sedia lo vedevo di nuovo lì, in scena, in quella medesima posa nella quale lo avevo trovato all’inizio. Se però mi guardavo intorno lo ritrovavo giusto dietro di me. E così via ogni volta io volgessi lo sguardo. Poi ancora tra i palchi, in platea o loggione e perfino nel palco reale, di fronte alla scena che pareva non interessargli. Un gioco, una magia, illusione ottica ed ecco lo spirito malignamente in gioco. Il turbinio mi prese, vicino e fortissimo.

Caddi senza fare rumore, creando scompiglio e tumulto. Mi soccorsero prontamente mettendomi sdraiato su un divanetto nel corridoio. La luce fioca delle candele mi apparve come mille soli abbaglianti. Sentivo il loro calore avvamparmi dentro, prendersi tutto il mio corpo. Giacevo inerme, nella speranza

di rivederlo guizzare tra qualche fiammella e sorridermi ancora una volta.

Tutti si diedero un gran da fare per rianimarmi, ma nel farlo non si accorgevano di togliermi l’aria, l’ossigeno, già raro al cospetto di quelle lucciole. Mi diedero da bere, mi sollevarono le caviglie, mi sventolarono un carnet de bal. Nulla, nessuna reazione. Ero come inebetito a godermi tanta sollecitudine e non me ne volevo staccare.

Lui frattanto chissà in quale androne si era posato. Forse già sul corpetto di qualche attricetta o sartina, senza avvisarmi, senza concedermi lo stesso piacere. Con lui ero stato equo e mi sembrava giusto che ricambiasse, qualunque cosa fosse o avesse voluto. Lo sgomento mi assalì quando, ripresomi a sedere in posizione eretta, lo cercai sulle pareti. La sua assenza mi inquietava moltissimo.

Lo cercavo negli sguardi di quei pochi rimasti ad assistermi, ma anche loro mi dicevano che non l’avevano visto. Non volevo andarmene senza di lui. E se lo perdevo per sempre? E se lui se ne approfittasse per scappare, magari con la troupe?

La desolazione mi colse al solo pensiero di non avere opportunità di chiamarlo, tormentato dal destino di dover di nuovo attendere il suo ritorno spontaneo, chissà dove, chissà quando.

LA RICERCA

Non appena fuori dal teatro mi accorsi della necessità di rientrare.

Approfittando di una sosta per un intralcio al traffico scesi dalla carrozza che mi avrebbe riportato all’hotel e sgusciai in un vicolo poco distante, cieco e buio, ma proprio sul retro dell’edificio che volevo raggiungere.

Nel trambusto nessuno si doveva essere accorto della mia sortita poiché riuscì con un piccolo obolo a farmi are come comparsa.

Ed eccomi lì, anche io, accanto a molti altri che fingevano di conoscermi. Ma lui dov’era? Dietro di me, sotto i miei piedi o di nuovo al mio posto, su quel palco che non ero riuscito a reggere?

Proprio sotto l’enorme lampadario in vetro e ottone, lucidato a dovere, mi trovai in mezzo alla scena senza una battuta e senza udire il suggeritore, sparito per caso alquanto sfortunato dalla sua buca.

Rimasi imperterrito e senza appiglio finchè una giovane donna non mi venne incontro offrendomi un calice spumeggiante. Improvvisammo una danza, gli occhi negli occhi, le braccia intrecciate, il o lento e armonioso. Lei iniziò a declamare alcuni versi che mi parvero familiari, un tono ironico che voleva forse contraddire la mia fama. Avrei desiderato controbattere, ma fui tacitato da sguardi corrucciati e da altre donne di età diversa, in serio abito da sera e guanti eleganti fin oltre il gomito.

Un leggero turbinio di voci e luci mi sconvolse di nuovo la mente. Cercavo un punto, cercavo lui. L’angoscia di quell’assenza che sembrava essere presente solo per deridermi mi fece perdere l’orientamento e quasi nuovamente i sensi.

Mi ritrovai a continuare la danza, da solo. Puntando lo sguardo agli attori, guardingo e inquisitore; ai e riai almeno tre volte sulle stesse tavole. Non un cenno, non una musica, non un respiro mi vennero incontro.

D’improvviso una voce dall’alto, dal proscenio, grave e imponente, sentenziò:

– Vuoi riavere la tua ombra? Eccoti gli indizi per capire dove si trovi.

Ne seguì una sequenza di immagini proiettate sul fondale. Tutta la mia vita scorreva ora di fronte al pubblico, mentre dietro il fondale una sagoma si aggirava di nuovo furtiva. Era a qualche o da me, ma non dimostrava ragione di volermi raggiungere.

Frastornato, non riuscivo a comprendere quali fossero gli indizi, se le immagini o la proiezione della sagoma. Non potevo e non volevo muovermi, inebetito e con il calice ancora mezzo pieno in mano. Attendevo, da buon Don Giovanni, l’entrata del convitato di pietra, del mio giustiziere, mentre una lieve sofferenza faceva capolino sul mio petto, dal lato sinistro.

Deglutii, senza riuscire a scacciare quelle mosche fastidiose che mi annebbiavano la vista. Attorniato da sempre più gente, mi sentivo di nuovo come nel deserto, accalorato e madido, ma tremebondo per forti brividi.

Calò il sipario prima di arrivare alla fine dello spettacolo. Qualcuno evidentemente aveva recepito qualcosa che non stava sul copione.

A forza fui portato nei camerini dove il solito lacchè mi servì da bere. Stavolta però mi versò l’intera brocca d’acqua fontanile, ghiacciata, sulla giacca del frac parigino così meravigliosamente conservato tra bauli e armadi. Mi risvegliai come da un incubo, con l’assoluta certezza che fosse tale.

Il cambio di scena non mi fu propizio: ancora gente accalcata sulla mia persona, ma nessun viso amico. Per l’appunto tutti estranei al mio presente e al mio ato, tutte comparse dell’attimo e non delle immagini scorse davanti a tutti.

Mi sovvenni dei miei intenti e non feci domande. Mi alzai e corsi fuori, nel corridoio, angusto e buio. Percorsi le scale verso il basso poi verso l’alto e ancora in giù e verso altri lati dell’edificio. Come in preda a convulsioni, il mio stomaco reclamava vendetta con una voce che si espanse sino al loggione.

Mi venne incontro la ragazza dai riccioli ribelli che pareva ora aver perso la cuffietta. Mi porse il mio bastone ricordandomi chi fossi. La guardai per un istante, stupito di quella gentilezza. Sembrava mia madre, ma molto più accomodante.

Alle mie spalle il conducente della carrozza mi indicò con i suoi guanti impeccabilmente bianchi una via di uscita, facendo segno che potevo salire. Seguì i suoi ordini e mi ritrovai in un ampio salone con il tetto a cupola. Ero di nuovo solo e non mi sentivo in salvo.

Mi guardai attorno nel fioco lampore delle torce ai quattro lati: non un mobile, non una presenza se non stampata abilmente sui muri, a imperitura memoria di gesta eroiche, le mie gesta.

Ancora la voce del palco si palesò sentenziando:

– Allora, hai ancora voglia di ritrovare la tua ombra? Guarda e conta e se partirai dal punto giusto, troverai da te la porta.

Un nuovo arcano mi stava perseguitando, stringendomi nelle sue spire mentre nella clessidra del mio tempo la sabbia scivolava via leggera. Dubbi e domande si infittivano nei meandri della mente e dello spirito: Soluzioni o risposte incrociavano il mio cammino come il canto delle sirene.

Provai ad appoggiarmi al bastone. Di lato, poi di fronte. Un ginocchio si sottomise alla pressione dei miei pensieri e così mi ritrovai quasi accovacciato al cospetto di qualcosa che non osava ancora palesarsi per intero. Quel mistero mi affascinava e mi impauriva al contempo.

Le mani, l’una sull’altra, ora si erano intrecciate in atteggiamento di supplica. Preda del destino mi ritrovavo di fronte alla scelta, che benevola mi offrì da sé una possibilità. La colsi e vi andai incontro.

La porta si spalancò per un‘improvvisa folata. Salii i due gradini che mi separavano dall’ignoto e lì lo rividi. Sornione come sempre mi attendeva seduto a terra intento forse a guardare le stelle.

LA RICONCILIAZIONE

Che gioia! Riabbracciare la figura che più ti somiglia e che ti ha seguito fedelmente per tutto questo tempo è impagabile.

Lui dice che ora non scapperà più, che si è sentito solo e perso. Io lo so: si è divertito a farsi rincorrere, a cambiare abito e forma e scherzare con il suo essere. Lo ha fatto per vedere le reazioni, per movimentare la routine quotidiana. Si è forse anche cacciato nei guai e fortunatamente si è fermato prima del baratro.

Mi ha fatto penare, ma anche pensare. Ho riflettuto su me stesso e mi sono cercato. Dentro, fuori, ovunque e in svariate persone. Ho visitato luoghi che non volevo vedere e ho visto cose che non avrei mai guardato. Ho camminato in vie malfamate e sono corso incontro al pericolo. Tutto per colpa sua.

Lui mi ha portato su questo terrazzo senza che io lo volessi e ora mi sta mostrando la realtà che avevo cancellato dentro di me. Mi sta insegnando a camminare, a parlare, a ridere, di questo stesso mondo e soprattutto di me. Mi prende per mano e mi trascina ancora una volta verso la meta che lui ha scelto per me.

Ho poco da oppormi: lui è da sempre il più forte. Non ci sono ragioni che tengano, né motivazioni che lo possano far desistere. Ha lui il potere e io ne ho la colpa. L’ho seguito e ora mi è padrone.

Mi indica qualcosa, laggiù in basso. L’atmosfera si fa scura, buia come in una

sala poco illuminata. Stiamo tornando al punto di partenza, mi dice, lì dove tutto è iniziato.

Mi ritrovo infatti al palco del teatro, allo stesso punto dello spettacolo dove ci eravamo separati. La scena è ancora da terminare, gli attori fermi in un fotofinish. Manca qualcosa. O qualcuno. Io o il copione.

Vedo il suggeritore riappropriarsi della sua buca ando dal palcoscenico e la tranquillità si riaffaccia alla mia mente. Posso sedermi di nuovo al mio posto.

Un ultima prova mi attende: arrivare a vedere la fine. Non è ancora facile. Il buio mi spaventa. So che lui è lì, dietro di me ora e mi sta osservando. A tratti mi inquieta, a tratti mi rassicura. E’ con me, anche se non vicino. Mi salverà ancora, alla bisogna, a modo suo.

Non sono sicuro che la gente qui nel palco sappia chi sono veramente e cosa mi sia accaduto. Forse è stato tutto un mio sogno vissuto troppo intensamente. Sono qui e guardo. Sento il mio respiro e guardo. Ascolto il battito del mio cuore e guardo. Rovisto tra i miei ricordi e guardo. Guardo, ma non so se le visioni diverranno ricordi. Non conosco questo tempo che mi trascina con sé, non conosco queste persone che mi circondano, non conosco me stesso. Per un certo lasco di tempo sono rimasto solo in mezzo a tutto e tutti. Avevo perso la mia ombra ovvero ho provato a fare un tratto di strada senza. Non è stato facile.

Lo guardo e mi chiedo se mi riservi ancora qualche sorpresa. Lui non mi dice più nulla. Dovrei scoprire da solo la verità.

AVEMANIA

Suggerito dal tentato omicidio di Bergamo per futili motivi “religiosi”

“…Buon Giorno, cari cristiani. Diamo inizio alla nostra giornata con l’ascolto della Santa Messa …”

Ecco, ogni mattina questa è la mia sveglia: Messa e dopo Rosario e poi il Vespro …

Quando ero piccolo le preghiere le dicevano le donne che in casa non avevano niente da fare, andandosene in Chiesa per tutti, lasciando lavorare gli altri in pace.

Mia moglie invece prega anche quando stira! Per fortuna camicie e pantaloni vengono sempre perfetti. Sarà forse per abitudine o pratica anche…

Non ho un minuto di silenzio e sono obbligato a isolarmi con dei tappi nelle orecchie come una bottiglia di quello buono.

Il prete dice la domenica: ”andate in pace che la Messa è finita”, ma se sapesse che da me la pace non c’è più proprio per le sue funzioni!

Almeno la pregasse in silenzio! Forse i frati la saprebbero indottrinare, ma lei non vuole andare in convento. Mi risponde che non ha peccati da scontare. E intanto a l’Ave Maria a ogni ora dalla radio, dalla televisione…

E allora tocca pregare a me il Padre ‘terno che se la prenda, ma mi sa che quello non la vuole e me la lascia proprio perché ha paura che anche lassù… e dato che ci starebbe per l’eternità, quella sarebbe benissimo capace di continuare indisturbata.

Mi tocca restare qui, prigioniero di questa mania. Sono in pensione, ma al bar non ci posso andare che le voci girano. Ma non poteva prendere l’Alzheimer o altro? Per lo meno avrebbe un’attenuante, o rimaneva insemenìa per una ragione.

Ogni altro giorno poi in pellegrinaggio: al Santo a Padova, al Monte Berico, a Praglia una domenica sì e l’altra anche. E io non posso stare a casa che “devo” andare con lei!

D’estate, quando si potrebbe godere di un po’ di sole, anche solo a Sottomarina, via a Medjugorie. Ogni anno! Ho chiesto al parroco se fosse possibile almeno cambiare destinazione, ma lui, inflessibile:

“Non si può, che siamo convenzionati”

Avrei provato con Lourdes che forse lì la Madonnina mi faceva diventare storpio, scemo o … sordo.

Ma cosa avrei fatto io per…

Mi hanno sempre detto di non sposarla, quella lì, strega e matta. Adesso mi liquidano con “hai voluto la bicicletta, Bepi, allora adesso pedali!”

Non riesco a sopportarla e venderla non si può.

Ammazzarla! Ah, quanto lo vorrei… ce ne sono tanti che lo fanno, perché non io! O mandarle qualche fattura… no poi arriva a me il conto, e giù soldi!

“AVE MARIA, PIENA DE GRASSIA…” No, di tante preghiere nemmeno una è stata esaudita. Anche i Santi in Paradiso fanno orecchie da mercante?

Così siamo ridotti in questa famiglia.

Sono andato all’Amplifon, ma mi hanno detto che il mio udito è quello di un giovanotto. Ho provato pure all’Enel, ma mi rispondono che se non ci sono fondati motivi, la corrente non la staccano. Allora sono andato da mio nipote che con le radio ci traffica da un po’. Lui mi ha detto che Radio Maria si prende anche in Streaming. Cosa? Stremi?

“Con il computer, nonno! - mi ha gridato dietro - E comunque nei negozi le radioline a pile non costano tanto, poco più di un caffè.“

Quando siamo stati a Roma che era morto da poco l’altro Papa, mi ha fatto

vedere una scatoletta parlante che ripeteva il rosario.

“È per quelli che stanno a letto o non si reggono in piedi o non possono andare in chiesa. Solo Pater e Ave, purtroppo”

Anche troppo dico io. E per fortuna non gliela ho comprata perché altrimenti la teneva accesa anche di notte… e addio sonno. Certo meglio del russare, ma…

Veramente non so più cosa fare. È il mio inferno, la mia croce.

E poi se me ne vado prima io?

“AVE MARIA, AVE MARIA, FA’ CHE QUALCUNO SE LA PORTI VIA!”

Via, via, ah quanto vorrei che la andasse…! Aspetta un po’: in bagno mi par di aver visto qualcosa.

Ecco, questo. No è per le verruche. Staltro: mal di testa. Sto qui: aspirina. Queste invece? Cialde di carbone. Effetto astringente. No, ma queste gliele nascondo subito. Niente: mi tocca proprio andare in farmacia, ma non avrò problemi, che quel disturbo lì può venire a tutti. Basta che non abbia odore o sapore forte tipo ricino.

Poi qualche goccia al mattino nel caffèlatte, aumentandone l’effetto. A mezzogiorno nella minestra e la sera nella verdura. Lei si lamenta sempre…. Di

certo non le farà troppo male

Si, questa è la soluzione, la via breve verso la libertà. Non se ne accorgerà nessuno. Ma se lei volesse il medico? No, da quello ci vado io e resto fuori due ore; poi aspettiamo la bulansa e ne a ancora una. Dopo al pronto soccorso, sempre che la prendano.

Sì dai, almeno lì è sorvegliata. E gliele dico io le cose come stanno. Magari le prescrivono anche pillole: sonniferi, tranquillanti…

E se non basta, giù col bastone.

Se non basta… dovrebbero bastarle una notte o due in penitensa sul cerchio a cantare le sue litanie. Poi di cosa vuoi che mi accusi: di averla mandata a…. ?

Dopo, dopo… niente rimorsi. E’ giusto così, se la merita.

E per farla stare buona la chiudo dentro al cesso e stacco pure la corente che non funsioni manco la ventola.

A cose fatte a el Gigi, il mio amico: col suo tratore va sempre in serca di concime biologico. E più bio di quello! Tanto quelle pompe le dovevo far venire lo stesso che è un po’ che non svuotiamo. Ecco, così sistemo proprio tutto e tutti.

Alora:

Ave Mania, Madonina mia, fa che sia la spussa a torla via!

Parte Terza

DONNE DIETRO L’ANGOLO

L’URLO DI GIADA

(2011-2012)

Ad Anna, Aurora, Stefano e Alessandro

L’URLO DI GIADA

Nel cuore della notte un urlo, fortissimo, straziante, vicinissimo, soffocato dentro la camera. Giada si ritrovò col busto eretto, battito a mille, con la mano sinistra che cercava nervosamente l’abat-jour e gli occhi nel buio.

E’ seccante svegliarsi di soprassalto nel mezzo della notte: non si può fare rumore. Eppure da qualche tempo Giada ava lo stesso sogno, lo stesso incubo. Non ricordava nulla appena sveglia ovvero non appena spalancati i suoi occhi cerulei e grandi fissi sulla parete bianca di fronte al letto. Accesa quella flebile luce giallastra si sentiva già meglio, ma da lì in poi il suo stomaco rimandava indietro tutto il suo contenuto con grande sforzo, cosa che di solito le impediva il riaddormentarsi fino all’alba.

Quella notte fu diverso: le era nettamente sembrato che l’urlo provenisse dalla stanza accanto o al massimo dall’appartamento sottostante, dove in effetti viveva Giorgio, un quarantenne single, conosciuto sulle scale un week end e divenuto poi un caro amico. Un dubbio: era nel suo incubo o era stato reale? C’era dunque qualcuno che aveva bisogno di aiuto?

Il silenzio della notte continuava a sommergere la stanza. Le finestre chiuse non lasciavano percepire nemmeno il raro traffico di quell’ora notturna. Giada sentì il panico avventarsi sulla sua anima ancora intontita da quel risveglio repentino. Stette un attimo ad ascoltare in attesa di altri rumori insoliti. Nulla, a parte il camion della spazzatura proveniente dalla via principale. Nulla, a parte il suo cuore ancora a mille.

Si decise ad alzarsi. Infilò la vestaglia appoggiata sulla sedia e le pantofole lasciate vicino al muro. Con o felpato, ma incerto, si diresse verso la porta d’ingresso del suo appartamento. Restò anche qui in ascolto, ma nulla proveniva dall’esterno o dal vano scale. Nonostante ciò le prese una specie di tremore, di quelli che nascono dal di dentro. Diresse i suoi i verso il bagno, per prendere le gocce di ansiolitico. A metà percorso si fermò di scatto: il rumore del portone d’ingresso del condominio. Dopo qualche secondo dei i sulle scale di marmo. Chi poteva essere? Sentì un rumore di chiavi e poi una porta chiudersi. Quel rumore proveniva dal pianerottolo sottostante. Sì, era Giorgio che rincasava. Che fortuna! La sua presenza era per Giada sempre rassicurante. Di nuovo silenzio. Di nuovo in attesa. Tornò quindi all’ingresso, forse per accertarsi che proprio non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Silenzio, cupo, misterioso, pieno di pensieri.

Se continuo così, domani chi mi sveglia, pensò Giada e si diresse di nuovo verso il bagno. Quel malessere proprio non voleva finire. Prese dall’armadietto le gocce e tornò in camera dove teneva il bicchiere con l’acqua. ”Una, due, tre…. dieci; no forse meglio altre cinque. Poi domani chiamo il dott. Salvi.” Ancora con un po’ di tremore in corpo mandò giù la medicina in un solo sorso.

Non doveva che attendere l’effetto che non tardò, anche se si scoprì a girare senza senso e senza meta per tutta la casa per quasi dieci minuti in cerca di un qualcosa, nella speranza di calmarsi. Il suo stomaco aveva cominciato a brontolare, ma non per fame. Cercò tra i suoi pensieri uno che la distraesse, ma la situazione peggiorava di minuto in minuto.

Tornò barcollando in camera e si sedette sul bordo del letto. Deglutì in fretta l’aria che le saliva dal profondo, cercando di rimandare indietro pensieri e sensazioni. Rimase lì per qualche secondo, combattendo contro un respiro affannoso. Ebbe qualche momento di smarrimento al limite dello svenimento, fortunatamente di breve durata.

Credette fosse giunto il momento di provare a stendersi sul letto. Gli occhi erano aperti, ma la mente era ancora in disordine. Attese ancora qualche istante per assumere la sua posizione preferita per tentare di addormentarsi. Non volle spegnere subito la luce.

Si girò e rigirò sul letto più volte prima di decidersi a prendere in mano il romanzo che aveva appena iniziato a leggere. Lo aprì alla pagina dove aveva posizionato il segnalibro. Gli occhi non riuscivano ancora a mettere a fuoco le righe stampate. Effetto delle gocce. Normale. Richiuse il libro e lo posò sul comodino. Iniziò gli esercizi di rilassamento appresi al corso di Yoga. Concentrandosi sul respiro, piano piano quella sensazione di tremore cominciò a scemare e le ritornò anche un po’ di calore corporeo.

Non fece a tempo a portarsi le coperte fino sotto il mento che si assopì.

La sveglia suonò anche la mattina successiva alla solita ora, le sette, e il risveglio fu meno drammatico di quello della notte appena trascorsa. Giada si sentiva molto stanca, ma meno in apprensione. Mentre si preparava la colazione un pensiero le sconvolse distrattamente e per un attimo la mente: Era stato tutto vero o se lo era solo sognato?

Non lo sapeva, né poteva più sincerarsene. Era stato forse qualche cosa che,

come la cena, le era salito dal profondo, come una specie di mostro inconscio, che si poteva rivelare solamente a lei? Cosa significava dunque quell’urlo? Altre simili domande tennero occupata la sua mente durante la colazione, ma si dispersero poi nel nulla.

Durante quella mattina Giada telefonò al Dr. Salvi, suo psicoterapeuta, che la invitò a are nel suo studio nei giorni successivi. Nel corso di quella seduta il dottore ascoltò con attenzione il racconto di quella notte e le prescrisse delle gocce meno pesanti, ma anche di avere più fiducia in sè stessa.

Quella sera stessa Giada aveva concordato con Giorgio una di quelle cene che sempre più spesso li teneva amichevolmente stretti intorno ai fornelli e poi proseguiva sul divano in chiacchierate notturne quasi interminabili, talvolta del più e del meno, ma talvolta anche di cose intime. Era sicura di avere tutti gli ingredienti per sperimentare quella nuova ricetta vista in un programma del sabato per un piatto che avrebbe soddisfatto i gusti di entrambi. L’occasione era forse poi anche quella giusta per indossare quell’abitino corto che aveva acquistato, ma che non aveva ancora avuto il coraggio di mettersi.

Rientrata a casa si fece una doccia, si vestì, si truccò ed andò in cucina a raccogliere l’occorrente. Si sentiva bene quella sera, proprio con tanta voglia di are un po’ di tempo con la persona che ultimamente le era stata più vicino. Si sentiva tranquilla e serena, piena di fiducia in quell’amicizia.

Stava cercando il foglio su cui aveva trascritto la ricetta quando squillò il telefono. Era Giorgio che le annunciava di essere ancora in ufficio, preso da un mucchio di carte da dover smistare dopo una riunione fiume durata l’intero pomeriggio. Si scusava così per non poter arrivare come previsto e anzi non sapeva nemmeno se gli sarebbe stato possibile giungere a una ora decente. Amareggiata, Giada gli rispose di non preoccuparsi, che ancora non aveva incominciato a preparare nulla e che poteva are da lei più tardi, se ne avesse avuto voglia. Avrebbero potuto chiacchierare sul divano sorseggiando del buon

vino o semplicemente accordarsi di persona per un’altra data. Anche Giorgio era assai dispiaciuto per quel disguido, ma proprio non poteva ancora prevedere come la sua serata sarebbe andata a finire.

Riappesa la cornetta Giada smise di cercare il foglio e si sedette su una delle sedie della cucina, appoggiando i gomiti sulla tavola e la fronte sulle mani. Le prese una specie di scoramento e avrebbe quasi voluto mettersi a piangere. No, si disse tra se e se, è solo una serata rimandata, non una finita male! Non vale la pena disperarsi. E nemmeno c’è bisogno delle gocce.

Si tenne occupata per una mezz’oretta con la preparazione di un piatto di spaghetti aglio e olio, che accompagnò poi con un’insalata e una banana, tipo di cena che preferiva in quel periodo. Si sedette poi a mangiare al tavolo in salotto davanti alla televisione.

Dopo aver riportato in cucina piatto, posate e bicchiere e averli infilati nella lavastoviglie, tornò in salotto accucciandosi sul divano. I suoi pensieri girovagavano nella sua vita senza meta. Come sarebbe stato bello avere Giorgio al suo fianco e are la serata a chiacchierare invece di sorbirsi insulsi talk shows alla TV! Invece, di nuovo, si ritrovava sola, e non per colpa sua.

Si era versata un po’ di quel vino destinato alla cenetta a due e ne sorseggiava dal calice a stelo di tanto in tanto. Nel profondo della sua mente era rimasto ancora il pensiero di quell’urlo, quello che misteriosamente l’aveva fatta sobbalzare nel cuore della notte qualche giorno prima. Ancora non era stata capace di trovarne né l’origine, né tantomeno la motivazione. Nemmeno l’intervento del Dr. Salvi le aveva facilitato la soluzione.

Aveva quindi puntato quasi tutto su Giorgio e la sua capacità di tirarle fuori tante cose che spesso lei nemmeno s’immaginava di possedere, nel suo animo.

Giorgio era un caro ragazzo al quale lei confidava molte cose e con il quale condivideva volentieri misteri e segreti. Ma quella sera le aveva dato buca e questo la faceva innervosire. Era la prima volta da quando si conoscevano e non sapeva ancora se credere a quella specie di scusa o meno. Certo: non erano legati che da fraterna amicizia e conducevano vite separate. Non esisteva obbligo per nessuno dei due.

Giada si fece forza e tentò di recuperare i ricordi di quella sera per farne una nuova ricostruzione. Spense la TV e accese lo stereo con un CD di musica soft a basso volume. Sarebbe stato l’ideale per un dopo cena tra amici, ma a lei conciliava il sonno più che la concentrazione. ò quindi ad ascoltare la radio, ma sfortunatamente nessuno dei canali su cui si sintonizzava trasmetteva la musica adatta al suo stato d’animo.

Non era tranquilla, ma ripeteva a se stessa che tutto era sotto controllo. eggiava per la stanza tamburellando con le dita sul bicchiere ancora mezzo pieno. Non riusciva a stare ferma, mentre mille pensieri le ronzavano nella mente, confondendola.

Cercò quindi di ricostruire quello che aveva fatto, rovistando tra i ricordi per scovare un motivo di inquietudine o qualche cosa che l’avesse turbata particolarmente. Si ricordava a questo proposito che, parlando con il Dr. Salvi, gli aveva accennato del senso di solitudine e inadeguatezza che provava – di sottofondo anche in quel momento – di fronte ad estranei. Non era paura né diffidenza, ma proprio un sentirsi sola e indifesa. La situazione si aggravava quando l’ansia non le permetteva di fidarsi di nessuno, talvolta nemmeno di se stessa.

Continuava a girare per la stanza con il bicchiere in mano ripetendosi che non c’era nessun motivo di preoccupazione, che tutto era tranquillo … Si fermò di scatto davanti allo specchio grande, quello della nonna, annerito dalla muffa degli anni, ma intonato con il mobilio in stile anticato.

Dalla sua faccia riflessa un’espressione di stupore: stava riprovando le stesse sensazioni di quella notte, del dopo risveglio a causa dell’urlo, con l’unica differenza nell’essere cosciente del fatto che tutto ciò che stava vivendo era gran parte dovuto a qualcosa dentro di lei.

Forte era un certo sommovimento che partiva dalle viscere, saliva poi su su per lo stomaco e sembrava voler uscire dalla testa. Come appreso al corso di Yoga, aprì la bocca e tentò un urlo. Ne venne fuori solo un colpo di tosse soffocato. Nemmeno in quel modo riuscì a sentirsi meglio. Bevve un sorso dal bicchiere che teneva ancora in mano. Tentò una specie di acuto, di quelli che lanciano le soprano alla fine di un melodramma. Ne uscì solo un vano tentativo, stonato e mezzo afono. Il nervosismo non si acquietava.

Tornò a sedersi sul divano, anzi si sdraiò come dal dottore. Riprese gli esercizi di rilassamento concentrandosi anche questa volta sul respiro. Questo tentativo ebbe quasi subito effetto. Riprese forze e colorito, e piano piano anche tranquillità. Si riportò seduta, per riflettere meglio su quello che ancora una volta aveva ato. Ancora scossa da quello che aveva provato, si disse: “Ecco il punto. Quando mi sento sola, anche se non lo sarei, di fronte a situazioni che non riconosco o che mi sembrano insormontabili, dentro di me nasce una fortissima richiesta di aiuto, non rivolta ad alcuno in particolare, ma chiede a me stessa di raccogliere le forze, per ragionare, capire, trovare una soluzione o semplicemente per accettare.”

Appena ebbe formulato dentro di sé questi pensieri si sentì veramente molto più sollevata, quasi serena. Svuotò il bicchiere brindando a se stessa. Adesso aveva capito cosa intendesse il Dr Salvi con la raccomandazione di ritrovare almeno un po’ di fiducia in se stessa.

Poco dopo suonò il camlo. Giorgio si era liberato dai suoi impegni ed era

ato per vedere cosa Giada intendesse fare con il resto della serata. Decisero di uscire. Da quella sera Giada non fu più sola.

SEVEN SECONDS AWAY

Sul letto la sua camicia da notte è una macchia bianca contro il patchwork scuro della coperta. Lei la ignora e va a sedersi davanti allo specchio. Le più piccole azioni quotidiane che fino a ieri erano insignificanti ed eseguite in maniera automatica, oggi diventano ingigantite da quell’atmosfera piena di ricordi. Eppure sono ate poco meno di 12 ore.

Come si era trovata in quella situazione? Perché si era lasciata prendere da quella persona?

Si era messa quel giorno il tubino nero solo per presenziare degnamente alla firma di quel contratto difficile, ma conclusosi favorevolmente per lei e per l’azienda dove lavorava. Si era dovuta vestire in quel modo già dalla mattina perché sapeva di non avere il tempo per tornare a casa a cambiarsi, essendosi assunta il ruolo di interprete per il gruppo di cinesi in visita. Poi la cena che suggellava il tutto. Chiaramente rientrò a ora tardissima. La macchina l’aveva lasciata in garage: ci si trova a bere sempre oltre il limite in quelle occasioni. Quindi taxi fino sotto casa. Nei dintorni tutto tace e c’è pochissimo traffico, ma Giada prosegue il suo cammino. A un tratto da dietro le spalle sente qualcuno, dei i. Improvvisamente, proprio mentre infila la chiave nella toppa del portone del palazzo, quel qualcuno la afferra e la strattona fino a farla cadere, lì sul marciapiede davanti casa. Non le lascia tempo di reagire, la tiene stretta e la minaccia con un coltello o comunque con una cosa tagliente tenuta a raso pelle. Giada non può muoversi, ovvero deve stare attenta alle proprie mosse. Non può gridare per chiedere aiuto: una mano le tappa la bocca e la paura le toglie la voce. Sono sotto casa, la chiave è nella toppa ma la porta è ancora chiusa. Non a nessuno. I rumori che sente sono comunque di sottofondo, lontani, ovattati. Giada tenta di divincolarsi anche per provare a capire gli intenti della persona che la tiene in ostaggio. E’ sola e indifesa. Si sente sola e indifesa. La borsa con il cellulare è caduta troppo lontano dal suo corpo. La persona non parla, ma continua a tenerla stretta e a minacciarla. Interminabili secondi che sembrano un’eternità. La mancanza di ossigeno le toglie le forze. Sviene. Buio

totale anche nella sua mente.

D’improvviso una voce amica la chiama con insistenza, due braccia la sollevano e la cingono per sostegno. Sono quelle di Giorgio. Una sirena, le luci intermittenti blu, la polizia. Ora tanto rumore e mille finestre aperte dalle quali si affacciano mille curiosi. Ormai tutto è ato.

“E’ stata fortunata signorina,- le sussurra quasi a consolarla l’agente donna che l’accompagna alla volante per andare a fare la denuncia in centrale – se il suo vicino come lei è rientrato tardi stasera”.

Seguì una notte da incubo, tra scartoffie, ricostruzioni, identikit. Seguirono notti tormentate da quell’incubo. Si dice che il tutto non sia durato molto, forse solo pochi secondi.

Seguirono giorni in attesa di qualche notizia, ati a piangersi addosso, lei vittima di pochi secondi. Seguirono periodi di malattia, di ferie anticipate, di lunghi periodi trascorsi in campagna dalla mamma, senza poterle dire il vero motivo, per non spaventarla. Seguirono notti in chat con le amiche, sempre pronte a condannare i fatti degli altri, ma poi anche a sparlare alle spalle. Seguirono mesi di terapia, di dubbi, di sconforto. In tutto questo Giorgio, l’unico che l’aveva seguita col cuore: le aveva trovato un buon avvocato e le aveva consigliato un corso di Yoga. Si frequentarono da buoni amici condividendo spesso serate trascorse tra discorsi e discussioni anche intime, ma fu per un corso di autodifesa un week end, in un agriturismo in Toscana che la loro amicizia si trasformò in qualcosa di più profondo. In quell’occasione riuscirono entrambi a far emergere i loro veri sentimenti.

Quella mattina risvegliarsi e trovarsi cambiata, quasi irriconoscibile, non le è parso strano.

Giada aveva sempre creduto di conoscersi a fondo, di essere sempre ben cosciente delle proprie azioni e quindi anche delle loro conseguenze.

Rimane lì davanti allo specchio che le rimanda in tempo reale l’immagine del tumulto dei suoi pensieri e delle sue sensazioni che continuano a stampare espressioni mutevoli sul suo volto. La distanza tra lei e Giorgio non è grande quanto vorrebbe oggi e lei si sente indispettita, anzi ricolma di odio nei suoi confronti.

Sta seduta senza la minima voglia di continuare a prepararsi per la giornata. Il tempo le a accanto, ma né la sua mente né il suo corpo se ne accorgono. Non riesce ancora a capacitarsi di quello che le è successo. L’urlo liberatorio, cosciente, non vuole uscire; Giada non riesce proprio a reagire. Le indagini della polizia, dopo mesi, hanno ricondotto le tessere del piccolo puzzle da romanzo giallo a Giorgio, sulle cui spalle pendono molteplici sospetti. Perché? Perché avrebbe organizzato quell’aggressione? Solo per fare colpo su di lei? In fondo, chi era Giorgio? Nascondeva altro dietro quella facciata di buon amico che aveva sempre mostrato? Lei credeva di conoscerlo, di avere una certa confidenza con lui, di potersi fidare e di poter credere ciecamente ai suoi racconti. Non si era mai sognata di “prendere informazioni” su chi frequentava, soprattutto se li reputava importanti.

Ora si amareggia alquanto per essere stata così superficiale e credulona. Rimpiange di non aver seguito i saggi consigli di chi è rimasto in campagna, ma che le vuole veramente bene. Ha evitato di incontrare Giorgio, ma non ha voluto subito sporgere denuncia, nonostante le insistenze e i consigli di avvocati, polizia e datore di lavoro. Ha voluto e dovuto prendersi del tempo per far luce dentro di sé. Non è stato facile vincere le resistenze interiori andare a fondo di certe esperienze, scrutare i luoghi più bui del proprio animo. Ieri sera, carica di energia o solo di rabbia, Giada ha finalmente trovato il coraggio di affrontare quel Giorgio che da amico le ha rovinato la vita. La serata è stata orribile, ata a discutere e a parlare, a sviscerare ancora gli eventi, faccia a faccia,

senza alcun testimone anche questa volta. Interminabili i dubbi di lei e le risposte di lui che apparivano sempre più menzognere; le carezze abbozzate per tentare di riavvicinarsi, lui perorando il perdono e lei con la voglia di mandarlo via o di andarsene di corsa urlando quanto male le avesse fatto tutto questo. La loro amicizia oggi non c’è più, così come l’autostima e la fiducia di Giada nel prossimo.

Oggi Giada è sola nella stanza come tante altre mattine, ma tanta è la sua voglia di avere qualcuno accanto, qualcuno con cui condividere sinceramente i ricordi e i pensieri, qualcuno che la ami per quello che è ora; qualcuno che non la consoli, ma che voglia veramente costruire un futuro comune assieme a lei, con il quale ricominciare a vivere

C’è ordine nella stanza, come d’abitudine.

Silenzio pervade la sua anima, silenzio angoscioso. Lei sente un abisso, un vuoto dentro. Silenzio. Quei pochi secondi le hanno spezzato l’anima. Quei pochi secondi sono ati ormai da molti mesi, ma sembrano ora di nuovo solo sette secondi fa.

UN AMICO NON E’ SEMPRE UN TESORO

Un tesoro non cela sempre un amico, se quell’amico si dimostra tutt’altro che un tesoro. Questo credeva Giada, ripensando agli avvenimenti che le avevano sconvolto la vita.

Si era rimboccata le maniche e aveva preso in mano se stessa, cominciando col ridarsi per lo meno un minimo di normalità, anche se questo voleva dire nascondersi dietro un po’ più di trucco, vestiti nuovi, meno impegni al di fuori del lavoro.

Qualcosa nei racconti bugia di Giorgio l’aveva profondamente turbata e cominciò veramente a dubitare di se stessa ovvero della sua capacità di interpretare quello che gli altri le raccontavano. Dopo numerose e svariate riflessioni si decise, per fugare dubbi ed incomprensioni prima di archiviare la vicenda definitivamente, a leggere i verbali degli interrogatori e tutte le altre scartoffie dell’indagine sul suo caso. Fu un lavorio enorme, immane, non privo di difficoltà primariamente di lettura di quel gergo che allontana qualsiasi non addetto che tenti l’impresa. Furono di grande aiuto il suo avvocato, la di lui assistente, ancora praticante, ma molto sveglia e al contempo sensibile, come anche quella poliziotta che l’aveva seguita persino oltre il termine del proprio turno in quella terribile notte.

Dalle carte nessuna novità, nessun elemento utile. I dubbi non potevano quindi essere chiariti in quella maniera. Essendo ancora in contatto con il Dr. Salvi, si tentò l’esperimento di rivivere sotto ipnosi proprio l’aggressione. Giada non si sentiva ancora psicologicamente pronta ad affrontare quel ato e infatti arrivò molto tesa e nervosa all’appuntamento, fatto aggravato dall’impedimento impostole di non prendere alcuna medicina nei giorni direttamente precedenti. All’appuntamento ci dovette arrivare pure da sola poiché non si fidava più di nessuno tra amici e conoscenti e i parenti non erano ancora stati messi a

conoscenza dell’accaduto. Questo poteva essere considerato un lato positivo poiché, nonostante Giada fosse stata molte volte sul punto di lasciar perdere, qualcosa in lei la spinse comunque a varcare la soglia dello studio del Dr Salvi quel pomeriggio. Affrontare qualcosa di cui si ha paura con le proprie forze, le fece notare lo psicoterapeuta, è un grande o verso la guarigione.

Non fu facile: anche se portata in stato di semi incoscienza, Giada rivisse pienamente con il proprio corpo quegli eventi. Fu girato un video dell’esperimento e su quel video furono improntate le successive sedute. Giada piano piano prese confidenza con quanto accadutole, lo trasformò in un film, in un tele-film dove lei aveva la parte principale. Si disse che le scene viste e riviste non erano quelle vissute, ma quanto rappresentato era solo il racconto di una storia tra le tante. Il Dr Salvi le disse che ciò rappresentava un buon livello di riappacificazione con se stessi e con le proprie capacità razionali e percettive. Le disse anche che stava iniziando a sdrammatizzare quell’episodio relegandolo a racconto le cui pagine potevano ora essere archiviate o per lo meno posizionate in qualche quaderno o file dell’anima. La congedò da una seduta rammentandole che era sì sulla buona strada per riprendersi, ma che doveva stare attenta alle ricadute e quindi bisognava trovare un metodo che, riducendo le paure, desse quella forza nelle proprie capacità difensive che parevano essere mancate in quella famosa occasione, sia a livello razionale che emotivo.

Tra tutto questo Giada ritornava spesso e volentieri su una sensazione che le dava da pensare: le mani che l’avevano presa e trattenuta le erano sempre sembrate diverse da quelle che poi l’avevano sostenuta. La diversità stava solo nell’intento che avevano avuto o si trattava di una diversità soprattutto genetica? Come aveva fatto poi il suo corpo ad accorgersi di questa sottile differenza, se un paio di mani vestivano guanti di velluto neri? Questo particolare le era rimasto nella mente poiché le aveva scorte, non sia altro che per qualche istante, mentre l’aggressore la “in-tratteneva” prima di svenire.

Riferì la cosa al Dr. Salvi che purtroppo anche in questo frangente non fu molto d’aiuto. Certo le emozioni possono ingigantire o imbrogliare le sensazioni e i

ricordi. Quindi da un certo punto di vista in questa differenza non sussisterebbe né una prova né un indizio da seguire, almeno a parere del medico.

In quei giorni Giada si incontrava spesso con quella che cominciava a considerare amica, ovvero la poliziotta che prontamente si era messa a sua disposizione. Sinceramente poi per Paola, così il suo nome, questo era un servizio non solo reso alla comunità per scorgere eventuali responsabili o complici da segnalare al comando, ma la cosa aveva preso una piega molto personale ossia anche lei si era affezionata a Giada cominciando a considerarla quasi una sorella. Fu così che per la fiducia riconquistata verso il prossimo, Giada le confidò i suoi sospetti a che ne fece motivo di indagine un po’ più accurata, sempre sotto l’egida e il consenso dei suoi superiori. Fu eseguito un nuovo sopralluogo in casa di Giorgio che purtroppo non diede risultato. I guanti e l’arma da taglio del ricordo di Giada non furono trovati e fu concluso che, sempre che questi fossero mai esistiti, potevano benissimo essere stati eliminati. Il tempo trascorso tra l’aggressione e l’affiorare dei sospetti su Giorgio avrebbero eventualmente permesso di disfarsene facilmente. In chiaro: nessuno ci credeva e ormai Giorgio, assillato da numerosi e interminabili interrogatori aveva finito col cedere e si era accollato tutte le colpe. Ora non restava che attendere il processo.

Non ancora soddisfatta, ma sempre più intenzionata ad andare in fondo alle sue sensazioni come se queste fossero delle premonizioni, delle percezioni forti che le cose non stessero come nei verbali della polizia, Giada chiese a Paola di cercare tra i contatti di Giorgio una persona che per qualche motivo potesse avercela con lei. E così venne fatto. Nei giorni che seguirono vennero spulciati i tabulati telefonici di Giorgio; vennero interrogati amici e parenti, soprattutto quelli incontrati o chiamati poco prima del misfatto. Tutte le speranze di Giada, ma anche quelle di Giorgio, informato dal su avvocato, furono riposte in questo sviluppo delle indagini.

Ancora una volta l’ansia riempiva l’attesa e l’attesa rendeva Giada sempre più nervosa. Questo la fece ritornare a notti insonni o interrotte quasi sempre da

quell’urlo che ormai sembrava accompagnare la sua esistenza. Ora sapeva da cosa dipendeva e sapeva porvi riparo senza troppe medicine, ma comunque sempre con grosso dispendio di tempo ed energie. Tutto questo era indispensabile, certamente, e sarebbe terminato solo con la soluzione definitiva della vicenda. Non rimaneva che attendere e fortunatamente questa volta Giada aveva un sostegno: Paola.

Ci vollero solo poche settimane per capire che all’ aggressione aveva partecipato un’altra persona. Si era trattato di Simona, la sorella di Giorgio, a lui morbosamente legata. Giorgio non aveva mai parlato della sorella a Giada proprio perché se ne voleva staccare, la voleva tenere lontano dalla sua vita, soprattutto quella sentimentale, che lei aveva sempre ostacolato con tutti i mezzi.

I due fratelli furono messi a confronto e interrogati a lungo da magistrati e polizia. Venne dato fondo a tutte le ipotesi possibili del caso e si formulò, sulla base delle poche ammissioni dei due, la seguente ricostruzione:

Simona, non sopportando né la lontananza né l’essere stata abbandonata dal fratello, era riuscita a rintracciarlo nonostante questi non le avesse detto dove si era trasferito. Venne a sapere che stava frequentando una donna, Giada per l’appunto, di cui si era innamorato. Simona, divenuta morbosamente gelosa, si era finta persino malata per tentare di attirare su di sé tutte le attenzioni del fratello, che purtroppo una sera, durante una cena che avrebbe dovuto essere chiarificatrice, si lasciò scappare qualche particolare di troppo sulla sua relazione. Simona, presa anche dallo sconforto di perdere in questo modo l’affetto del fratello, intraprese delle sue indagini personali sulla donna che si stava frapponendo tra di loro. Riuscì a sapere dove lavorasse e che tipo di vita conducesse. Fu solo per caso che venne a conoscenza del suo indirizzo, ma fu da qui che scaturirono i suoi pensieri criminali. Confidando nella somiglianza genetica della conformazione delle mani dei due fratelli, entrambi con dita affusolate e palmo “leggero”, ebbe l’idea di sorprenderla una sera e di spaventarla, facendole credere che fosse stato proprio Giorgio e quindi con l’intento di allontanare l’intrusa. Mise in atto il suo piano vestita di nero e con il

volto coperto, ma tenendo stretta Giada dopo essere cadute entrambe sul marciapiede e sentendo arrivare qualcuno, che poi si rivelò proprio il fratello, lasciò perdere ogni ulteriore intento scappando via, presa da una specie di rimorso. Giorgio, arrivando quella sera, non si era accorto solo dell’aggressione, ma anche che la macchina della sorella era parcheggiata nel vicolo vicino, in sosta vietata davanti a un portone. Dichiarò durante l’interrogatorio che seguì il fermo di Simona che fu il suo cuore che gli dettò di prendersi subito cura di Giada, trovandola stesa a terra e chiamare la polizia piuttosto che inseguire quella che anche dalla corsa sembrava, sotto i lampioni, proprio sua sorella. Non disse nulla dei suoi sospetti prima di allora perché voleva affrontare Simona e le sue colpe prima delle forze dell’ordine. Prese tempo anche dando una descrizione non del tutto veritiera e conforme di ciò che aveva visto subito dopo i fatti e poi assumendosene tutte le colpe per tentare di salvare la consanguinea. Questa dichiarazione lo scagionò sì dall’accusa di aggressione e violenza, ma lo investì di quella per falsa testimonianza e intralcio alle indagini. Il GIP non ritenne idonea la richiesta del PM anche per un’accusa di complicità nei suoi confronti, ma si riservò di rimandare la decisione al giudice del tribunale in sede di processo.

Quando Giada fu convocata in questura per comunicazioni urgenti, non pensava di essere di fronte alla vera conclusione delle indagini. Con grande sollievo ascoltò il riassunto di quanto riscontrato e la ricostruzione dei fatti che per lei ora risultava molto più verosimile. I suoi dubbi sulla vicenda svanirono anche grazie al fatto che i guanti come l’arma da taglio furono trovati a casa di Simona.

Le venne chiesto poi un ultimo sforzo e cioè quello di sottoporsi a una verifica concedendo a Simona e a Giorgio di ripetere il gesto di metterle le mani sul collo e confrontare così le due “prese” anche con i suoi ricordi e sensazioni. Giada rifiutò motivando la sua decisione con il fatto che rivivere un'altra volta quelle sensazioni e quella situazione e non solo in modo virtuale, come durante la seduta con lo psicoterapeuta, anche se attorniata da giudici, avvocati, poliziotti pronti a intervenire come anche con il sostegno del suo medico, non le sarebbe di sicuro stato di aiuto. Personalmente non riteneva quella prova necessaria poiché a suo parere, soprattutto la vera colpevole avrebbe potuto barare.

Anche l’avvocato di Giada, arrivato in ritardo, fu della stessa opinione e disse che le prove a carico di Simona erano sufficienti per evitare alla propria mandante ulteriori inutili sofferenze. Infatti l’infrazione al codice della strada della macchina di Simona parcheggiata in sosta vietata era stata rilevata attraverso le telecamere che probabilmente lei non aveva scorto ed era in via di notifica.

Paola, avvertita da un collega, si fece trovare nel corridoio proprio quando Giada uscì dallo studio del GIP e l’accompagnò all’uscita. Le due donne scesero le scale senza dirsi una parola. Paola in quel momento non si sentì una poliziotta, ma un’amica, una sulla quale contare. Si strinsero in un abbraccio forte davanti al taxi che Giada aveva fermato per tornare a casa. In quel preciso momento Giorgio e Simona uscivano scortati per essere tradotti in carcere, l’uno per fermo convalidato e l’altra per arresto per aggressione, dato che Giada questa volta volle fare subito denuncia contro di lei. Giorgio, prima di salire sulla volante guardò in direzione di Giada e sul suo volto si aprì un timido sorriso. Paola, alla quale la scena non sfuggì, disse a Giada: “Forse è anche meglio così.” Anche Giada sorrise un po’ rasserenata, ma quell’espressione era rivolta a Paola. “Sì, forse, ma è un peccato che una relazione così sia andata sprecata” commentò salendo sul taxi.

Giada di certo non rivide Giorgio che al processo e anche in quell’occasione solo alle udienze alle quali fu indispensabile la sua presenza. A lui fu imputata poi solo l’accusa di falsa testimonianza e se la cavò con una grossa ammenda in denaro, mentre a Simona fu comminata una pena detentiva tramutata in trattamento sanitario obbligatorio all’interno di una struttura di riabilitazione.

I due fratelli condussero in seguito vite separate, mentre Paola ebbe l’onore di fare da testimone alle nozze di Giada a tre anni dalla fine del processo.

L’amicizia tra le due donne continua ancora oggi.

UN POMERIGGIO PER UNA SVOLTA 1984

Era un pomeriggio come tanti altri in una cittadina di provincia. Lei, una ragazzina simpatica e intelligente, era distesa sul suo letto accanto allo stereo . In testa tante idee e fantasie, ma nessuna voglia di togliersi da quella posizione. Era sola in casa e poteva finalmente fare quello che voleva. Zia Molly con la quale viveva, zitella arzilla ma adeguata ai tempi e all’età, ma comunque in cuor suo sempre zia, non sarebbe rientrata che verso sera, anzi forse ad ore piccole…. Lei invece non aveva preso impegni per quel pomeriggio e quindi si trovava ad avere un sacco di tempo a disposizione. Per provare a decidere sul da farsi aveva dimenticato anche di pranzare e di far merenda, lasciando in frigo le leccornie preparatele appositamente. Neppure la fame che la colpiva con forti crampi allo stomaco era riuscita a smuoverla. Nella sua mente c’era un pomeriggio pieno di folla, di avventura, di vita vissuta intensamente, un vortice, una tromba d’aria che forse l’avrebbe trascinata naufraga su una spiaggia, stanca ma felice per aver usufruito della sua esistenza, lasciandole solamente un ricordo, un’ombra sul mattino seguente, quando, risvegliandosi, avrebbe puntato i suoi occhi verde intenso sul poster gigante della Foresta Amazzonica appeso alla parete di fronte al suo letto. Cominciava già a immaginare qualcosa di più preciso e particolare: un viaggio velocissimo su una fuoriserie sportiva per andare fino in centro, dove a quell’ora la gente camminava tra le vetrine dei negozi ignara di sè e degli altri. Le sarebbe piaciuto rimanere li un poco tra quel traffico, seduta o in piedi poco le importava, semplice spettatrice dello scorrere delle cose, del progresso civile e morale della nazione. Non si sarebbe mai mossa per mettersi in mostra: sarebbe rimasta lì come a inseguire un fantasma, senza meta su una strada senza fine e senza luogo. Tutto questo le avrebbe alla fine lasciato il sapore di una fiaba, dolce, roseo, delicato. Avrebbe poi volto lo sguardo al tramonto e guardando l’orologio, si sarebbe forse accorta di essere in procinto di perdere l’occasione per tornarsene a casa. Non sarebbe di certo andata a chiedere asilo ad amici e parenti che abitavano in città, preferendo semmai di continuare a camminare anche tutta la notte. Questa volta non desiderava nessuno accanto, anche se tante altre volte la compagnia le aveva fatto piacere. Si sentiva strana negli ultimi tempi: nonostante avesse vissuto molte esperienze, diverse tra loro, tra le quali anche l’improvvisa perdita di entrambi i genitori in un grave incidente stradale, si era fatta convinta di non conoscere il mondo e la vita le era fascinosamente estranea. Avrebbe voluto solo

curiosare negli affari degli altri, senza risultare troppo indiscreta per poi ritirarsi in buon ordine nella sua placida normalità. Il sole non era più allo zenith del mezzogiorno, ma se si fosse affrettata sarebbe forse ancora riuscita a raggiungere il suo sogno. Non prestava orecchio né allo stereo né tantomeno all’odioso ticchettio dell’orologio a pendolo che proveniva fastidiosamente dal soggiorno. Anche il telefono aveva suonato con insistenza più volte, ma la sua mano non aveva la forza di sollevare la cornetta, anche se l’apparecchio era scivolato accanto a lei sul letto. Se avesse continuato, però, forse sarebbe anche riuscita a strappare la spina dalla presa. I suoi pensieri vagavano nell’infinito dell’immaginazione e, come volendo mescolare varie pellicole già viste, proiettava la didascalia con il suo nome scritto a caratteri cubitali nei titoli di coda, quasi a eliminare l’immagine di sfondo. La scena cambiava continuamente, quasi ad ogni fotogramma, ma la protagonista incontrastata era sempre Lei, accanto a una voce fuori campo il cui commento verrebbe poi premiato con l’Oscar per la miglior interpretazione. Non avrebbe avuto scrupoli o dubbi sulle sue azioni solo se in quel preciso istante si fosse trovata li, in un posto qualunque, magari a intralciare il aggio del destino o della fortuna, propria o altrui. Poi con fare da diva, avrebbe chiesto il silenzio stampa per non turbare la quiete meditativa acquisita. Sarebbe partita all’istante e senza pensarci, così com’era, ma c’era qualcosa che la tratteneva. Forse era stato il gatto, annoiato, distesosi a sua insaputa sui cuscini ai piedi del letto che ora la guardava con aria stupita, incredulo e indifferente a quello che lei stava provando. Non esisteva altra attrattiva che l’andarsene, ma non era di certo il viaggio a spaventarla, poiché conosceva già come raggiungere il luogo prestabilito dalla sorte. L’avrebbe riconosciuto con sicurezza? Forse spostandosi l’avrebbe anche trovato, prima o poi. Mentre il sole continuava a precorrere il suo cammino, lei si reimmergeva nelle sue fantasticherie assurde. La stanza e gli oggetti che la circondavano non esistevano più, spariti come sotto un grandissimo lenzuolo. I pensieri si facevano man mano più fitti e le immagini correvano all’impazzata: le sembrava di essere salita su un treno senza più fermate che accelerava a ogni traversina. Poi improvvisamente un lampo. Tutto divenne grigio, o almeno quella era l’impressione. Quando finalmente si decise ad aprire gli occhi, tutta la stanza pareva essere divenuta un’altra. Piano piano distingueva nella luce fioca e soffusa del neon il soffitto, la lampada, l’armadio, lo scrittoio, la sedia, la finestra, lo specchio, il poster, l’attaccapanni, lo scaffale libreria, lo stereo, i cuscini in fondo al letto, il gatto…. se stessa.

La porta d’ingresso si chiuse subito dietro zia Molly, rientrata dalla sua partita settimanale a Bridge, e lei andò subito a salutare sua nipote, rimasta tutto il pomeriggio sul letto. Baciandola le sussurrò “Ciao, bambina” quasi a non volerla destare da quel sogno. “Che ore sono?” biascicò in risposta, ancora mezza frastornata.

“Oh., è tardi. Buona notte e…sogni d’oro.”

UNA DONNA COMUNE (2014)

Lucia camminava sul lungomare chiusa nel suo paltò di lana e nei suoi pensieri di fine d’anno. Era arrivata lì senza quasi accorgersene dopo l’ennesima dura giornata lavorativa. Voleva solo rilassarsi un po’, distrarsi dai tanti problemi che la crisi aveva arrecato a lei e a tanti altri suoi amici e conoscenti.

Quello che andava a terminare era un periodo di rinunce, di sacrifici che non andavano solo a intaccare le risorse economiche, ma anche quelle psicologiche e spirituali. Lucia se ne rendeva conto ogni giorno e non sapeva se avessero un senso o una utilità effettiva.

La gente attorno a lei era piegata al destino e alla fatica di esistere e resistere. Eppure nessuno aveva ancora il coraggio di alzare veramente la testa e le piccole proteste quotidiane finivano sempre per non fare nemmeno notizia.

Lei aveva ancora nella mente certi racconti di orrore e terrore che la sua nonna le aveva narrato a mo’ di favola dei tempi della guerra e del dopo. All’epoca la sofferenza aveva un’origine ben precisa e le condizioni erano diverse. Difatti poi la ripresa, sia pur sviluppatasi durante più di un decennio, ebbe risvolti su larga scala.

Ora invece l’origine era stata in un paese lontano e con sviluppi ancora oscuri. Magari sì c’entrava anche il governo o qualche affarista di “larghe vedute”, ma la miseria non era solo economica. I volti tristi erano grigi e spenti che nemmeno i ceri alla Madonna riuscivano a rischiarare. All’ultima messa il parroco aveva ricordato le tante vittime: coloro che hanno perso il lavoro, quelli che hanno dovuto chiudere e quelli che non sono riusciti a sopportare. Tanti, troppi per l’indifferenza generale.

Lucia un lavoro ce l’aveva, da tanti anni, ma si chiedeva già per quanto ancora. Eppure aveva sempre cercato di collaborare, di dirimere questioni, di trovare soluzioni e idee. Si era sempre comportata da brava madre di famiglia, lei che di sua non ne aveva e che per questo veniva invidiata o denigrata dalle colleghe a seconda dei casi.

Aveva sempre cercato un sistema di economia sostenibile, nel rispetto delle leggi e anche della concorrenza. L’innovazione l’aveva sempre saputa portare sugli aspetti pratici del prodotto, pur mantenendo un segno distintivo esteriore. Aveva cercato fornitori adeguati e affidabili, che mettessero il loro know-how a disposizione anche per il confronto.

Aveva cercato di valorizzare ogni collaboratore nelle mansioni a ciascuno più congeniali, pur mantenendo sempre una buona base di fondo, onde poter sempre far fronte alle emergenze.

Ora sentiva che il mondo le si era fatto stretto, come un maglione infeltrito per un lavaggio sbagliato. Non si riconosceva più e sempre più spesso litigava con il padrone, suo diretto superiore. Poi da quando le avevano affiancato sco, il giovane rampollo con tanto di laurea e master, i suoi nervi venivano quotidianamente messi alla prova. Aveva l’incarico di “tirarlo su” e farlo diventare un vero manager, mentre quello si credeva solo il figlio del padrone. Lui non aveva mai conosciuto né la vera meritocrazia né la concorrenza sleale. Anzi sleale lo era stato con tanti suoi compagni di studio.

Lui girava da sempre con macchinine dai 200 cavalli in su e ogni week end se ne andava a so con qualche nuova conquista da discoteca. Durante la settimana poi in ufficio, tra Facebook e SMS ava le ore a rispondere e chattare a tutto spiano.

Lei avrebbe dovuto insegnargli i segreti, i trucchi, le buone maniere. Sì sco era anche burbero e arrogante, tanto da far piangere negli ultimi tempi tutte le stagiste che aveva imposto al padre.

Lei avrebbe voluto usare il metodo antico dell’esperienza, ora denominato learning by doing, ma l’unica cosa che sembrava apionarlo era la macchina del caffè, ma per berlo a tutte le ore.

Lucia era stanca: non ne poteva più di stargli dietro come a un bambino di tre anni, capriccioso e sempre impaziente. Di quasi vent’anni più vecchia poteva benissimo essere sua madre, ma su di lui nessuno aveva potere.

Si fermò un attimo a guardare in lontananza: delle piccole luci sembravano avanzare all’orizzonte come in una processione. Erano forse le barche dei pescatori che rientravano anche loro dopo una dura giornata in mare. Lei avrebbe preferito a quel punto fare un lavoro faticoso pur di tornare l’indomani a battagliare contro quel mulino a vento.

Eppure lo doveva, con impegno e perseveranza, anche se i risultati erano e sarebbero stati ancora scarsi, insufficienti e insoddisfacenti. Si capiva benissimo che quello era un modo per metterla alla prova definitiva. Un dopo anche diverso sarebbe stato assai difficile e improbabile. Quale l’alternativa? Cercare un altro posto, magari presso la concorrenza? O da qualche fornitore in cerca d’aiuto? Tutti comunque con un futuro dipendente da quell’azienda che nelle mani di sco sarebbe sicuramente finita in breve tempo.

Alzò ancora di più gli occhi, attirata da un sospetto, da un’idea: nel cielo stellato un aereo sfrecciava sulla sua rotta verso chissà quale destinazione esotica. Si

muoveva di fretta, mentre lei iniziava a sentire sul collo la fredda brezza della sera, umida e penetrante.

Il suo desiderio era quello di potersi lasciare tutto alle spalle, di correre sul bagnasciuga come d’estate, dietro ai gabbiani o agli aquiloni. E invece se ne rimaneva lì ferma in preda alla rabbia e allo scoramento.

Sua madre e sua nonna non avevano mai avuto di quei momenti, mai dovuto are quello che lei stava vivendo. Loro una soluzione non gliela avevano tramandata come le tante ricette di famiglia, fatte di cibo ancora genuino, biologico, o anche solo di una convivenza per lo meno civile. Loro avevano vissuto la guerra e l’invasione e la resistenza. Lei solo le varie piccole crisi, le stagioni estive e i due anni di baby sitter all’estero, per imparare la lingua e… a vivere.

A cinquant’anni ati non aveva voglia di troppa avventura, ma sempre più l’idea di rendersi indipendente, di crearsi da sé qualcosa, magari con l’aiuto delle uniche due amiche fidate, stava ai primi posti della sua personale hit-parade delle soluzioni da adottare. Se qualcosa andava storto non avrebbe esitato a metterlo in pratica. No stavolta doveva proprio rimboccarsi le maniche.

Piano piano e senza quasi accorgersene Lucia aveva messo i piedi sulla sabbia. Si sentiva non più così stabile nei suoi i, ma sapeva che poteva andare avanti. Il terreno avrebbe avuto altri avvallamenti o insidie nascoste, ma anche solo il debole lumino del cellulare le avrebbe permesso di non mettere il piede in fallo.

Decise allora che avrebbe camminato fino alla riva e che si sarebbe concessa qualche minuto per ascoltare la risacca.

Sempre avvolta nel paltò ora erano altri i pensieri che si erano attivati. Erano anzi piuttosto fantasie sul proprio futuro che le riscaldavano il cuore. Camminava a tentoni, con lo sguardo fisso al terreno, ma piano piano raggiunse la sua meta personale, appiattita dalle onde e molto più fredda.

Le piaceva essere lì, al mare, in una sera d’inverno. Al diavolo anche l’umidità che sicuramente le avrebbe causato mal di gola e dolori influenzali. Prendersi poi una o due giornate di malattia sarebbe stato un toccasana, alla faccia di colleghi e sottoposti. Era bello respirare e quell’aria le sembrava avere il sapore della libertà, quella vera, quella “a pieni polmoni”. Sarebbe rimasta lì volentieri o ne avrebbe messo un po’ in borsa tirandola fuori nei momenti più bui e grigi. Si sentiva forte, si sentiva se stessa.

Continuava a fantasticare non curandosi né dell’ora né del cammino. Di certo sarebbe dovuta rientrare prima o poi. Le luci del lungomare le davano la distanza da calcolare. Ma lei non era lì per allenarsi alla maratona.

Nemmeno l’essere sola la spaventava; era in salute e conosceva quel posto sin da quando era bambina. Altri pericoli per lei non esistevano a eccezione del ricadere nello sconforto.

Tante cose però dipendevano dalla volontà altrui che lei raramente era riuscita a cambiare in suo completo favore. Raramente cioè solo in alcuni casi le era riuscito con un colpo solo di portare dalla sua gente che la pensasse in maniera diversa. Forse quelli si erano schierati con lei solo dopo aver valutato i pro e i contro o forse avevano riconosciuto che la sua versione era quella più compatibile con la verità.

Il quesito ora era quello di migliorare la sua situazione. Lei era una donna comune, come tante altre. Il suo nome non era noto se non in cerchie ristrettissime, ma sapeva che la sua fama di persona onesta e sincera la accompagnava da sempre.

Eppure era proprio questo il problema: l’onestà e la solidità di principi. Nel mondo Lucia era scesa a pochi compromessi e si era trattato di questioni marginali. Ora si trovava di fronte a scelte ben pesanti. Non compromesso ma sottomissione e fedeltà al padrone su tutti i fronti. E quel o Lucia non l’avrebbe mai fatto perché significava perdere la dignità.

Lei era in fondo una donna comune, senza troppe aspettative o ambizioni. Aveva vissuto e il suo ato non le pesava, se non sulle ossa logorate dalla fatica. Portava la sua età con onore e saggezza, senza lasciarsi toccare troppo dai segni evidenti di decadenza biologica. Potevano forse sostituirla con qualche ragazzotta rampante molto più disponibile o con più diplomi da esibire, ma il guadagno a lungo andare non ne sarebbe valso la pena.

Non era appariscente, ma la sua bellezza sgorgava da dentro, dolce e delicata come solo lei sapeva essere. Non era né una perdente né una debole; aveva solo un approccio soft alle situazioni difficili o complicate. La fatica non la spaventava, ma dovevano esserci risultati alla fine. Aveva tenuto sempre i piedi per terra e alle lodi o le lusinghe preferiva di gran lunga un sentito ma semplice grazie.

Le strade ora erano due: o dare uno strappo o accettare. Sapeva che parlarne o discuterne l’avrebbe esposta a troppi rischi, soprattutto perché poteva venir interpretato come una messa in discussione di certe decisioni da parte della proprietà.

Una cosa era certa in cuor suo: se accettava, il gioco lo avrebbe condotto lei, senza darlo troppo a vedere. Sarebbe una prova di forza, ma per lo meno se ne uscirebbe a testa alta. E sapeva già come fare.

Il suo piano era preciso e richiedeva tutta la sua esperienza e forza. Non doveva avere né dubbi né ripensamenti, ma nemmeno andare avanti sia quel che sia.

Avrebbe affrontato il problema alla radice e posto le sue condizioni. Non che ne avesse autorità, ma solo diritto. In definitiva le era stato assegnato un compito preciso e data carta bianca per raggiungere quello scopo.

Doveva soltanto abbandonare le maniere dolci e comprensive, parlando chiaro insomma. Non sarebbe stato facile, ma era l’unica soluzione possibile.

Ci aveva pensato anche prima, ma le era sembrato troppo rischioso. Ora era l’alternativa al rischiare il posto senza battersi.

Magari poi se ne sarebbe andata lontano per qualche tempo, ma avrebbe mantenuto la testa alta.

Si guardò attorno. Poi indietro. Il mare continuava stanco il suo andirivieni che l’avrebbe accompagnata fino a casa.

Ferma nei suoi propositi continuò la sua strada, come da bambina nei momenti poco felici. Solo il mare, il suo posto speciale, la poteva consolare e anche quella sera esserci andata le era servito.

INDICE

Parte prima LA NATURA “UMANA”

INSEGUENDO JONATAN

L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI JONATHAN

ALLA RICERCA DI UN METODO

CHI BEN COMINCIA …

… È, FORSE, SOLO A METÀ DELL’OPERA

VERSO UNA NUOVA SVOLTA

IL CERCHIO SI CHIUDE A ZIG ZAG

TUTTO DECISO

LA STANZA NERA

Parte Seconda STORIE DI UOMINI

DONO DISATTESO

UNA BANALE DOMENICA

LA MIA OMBRA

LE PRESENTAZIONI

IL GIOCO

LA RICERCA

LA RICONCILIAZIONE

AVEMANIA

Parte Terza DONNE DIETRO L’ANGOLO

L’URLO DI GIADA

L’URLO DI GIADA

SEVEN SECONDS AWAY

UN AMICO NON E’ SEMPRE UN TESORO

UN POMERIGGIO PER UNA SVOLTA

UNA DONNA COMUNE